La letteratura italiana. Storia e testi. Scritti d’arte del Cinquecento [Vol. 32.3]

Table of contents :
Binder2.pdf......Page 0
Ricc32.III 0418-0835-Ricercabile-redu......Page 425
Ricc32.III 0836-1252-Ricercabile-redu......Page 843
Ricc32.III-01-01-A4......Page 1
Ricc00-02-Sovra-2-Piatto Post e Dorso-A4......Page 2
Ricc32.III-02-01-A4......Page 3
Ricc32.III-02-02-A4......Page 4
Ricc32.III-02-03-A4......Page 5
Ricc32.III-03-01-A4......Page 6
Piatto ant-A4......Page 7
Contropiatto ant-A4......Page 8
Contropiatto post gen-A4......Page 1259
Piatto post-A4......Page 1260

Citation preview

LA LETTERATURA ITALIANA STORIA E TESTI DIRETTORI RAFFAELE MATTIOLI • PIETRO PANCRAZI ALFREDO SCHIAFFINI VOLUME 32 • TOMO

III

SCRITTI D'ARTE DEL CINQUECENTO TOMO 111

SCRITTI D'ARTE DEL CINQUECENTO TOMO III

A CURA

DI PAOLA BAROCCHI

RICCARDO RICCIARDI EDITORE MILANO · NAPOLI

TUTTI I DIRITTI RISERVATI • ALL RIGHTS RESBRVED PRINTED · IN ITALY

SCRITTI D'ARTE DEL CINQUECENTO TOMO III

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

XI

XIV L,INVENZIONE LEONARDO

2403

GIORGIO VASARI

24 1 5

MICHELANGELO BIONDO

2431

ANNIBAL CARO

2441

ANTON FRANCESCO DONI GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2469 2482

GIOVAN BATTISTA ARMENINI

2530

IACOPO ZUCCHI

26o5

xv LE GROTTESCHE SEBASTIANO SERLIO

2621

VITRUVIO E DANIELE BARBARO

2629

GABRIELE PALEOTTI PIRRO LIGORIO

2639 2666

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2692

GIOVAN BATTISTA ARMENINI

2698

XVI I RITRATTI GIORGIO VASARI

2707

LODOVICO CASTELVETRO

2712

GABRIELE PALEOTTI

2715

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2737

GIOVAN BATTISTA ARMENINI

2749

VIII

SCRITTI D'ARTE DEL CINQUECENTO

XVII IMPRESE PAOLO GIOVIO

2759

GIROLAMO RUSCELLI

2762

SCIPIONE AMMIRATO

2771

ANTON FRANCESCO DONI

2785

BARTOLOMEO TAEGIO

2793

LUCA CONTILE

2798

GIOVANNI ANDREA PALAZZI

2801

SCIPIONE BARGAGLI

2805

GIROLAMO RUSCELLI

2813

TORQUATO TASSO

2834

ANDREA CHIOCCO

2843

ERCOLE TASSO

2858

XVIII COLLEZIONISMO MARCANTONIO MICHIEL

2867

ANTON FRANCESCO DONI

2892

PAOLO GIOVIO

2904

SABBA CASTIGLIONE

2919

LETTERE A NICCOLÒ GADDI

2938

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2952

XIX VITRUVIANA RAFFAELLO

2969

BALDESAR CASTIGLIONE E RAFFAELLO

2971

CESARE CESARIANO

2986

ANTONIO DA SANGALLO

3028

SCRITTI D'ARTE DEL CINQUECENTO

IX

GIANGIORGIO TRISSINO

303:z

CLAUDIO TOLOMEI

3037

DANIELE BARBARO

3049

MICHELANGELO

3087

MARTINO BASSI

3089

xx LA CITTÀ LEONARDO

3III

CLAUDIO TOLOMEI

3123

ALVISE CORNARO

3134

ANTON FRANCESCO DONI

3162

FRANCESCO PATRIZI

3177

PIETRO CATANEO

3185

ANDREA PALLADIO

3232

LUDOVICO AGOSTINI

3275

VINCENZO SCAMOZZI

3283

XXI LA VILLA ANTON FRANCESCO DONI

33:zr

ANDREA PALLADIO

3358

FRANCESCO DE' VIERI DETTO IL VERINO SECONDO

34oo

VINCENZO SCAMOZZI

3421

XXII LA FORTIFICAZIONE PIETRO CATANEO

3435

GIOVAN BATTISTA DE' ZANCHI

3449

GIROLAMO MAGGI

3468

X

SCRITTI D>ARTE DEL CINQUECENTO

GALASSO ALGHISI

3506

VINCENZO SCAMOZZI

3525

NOTA AI TESTI

3541

INDICE

3S93

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

AcKERMAN

= G. M. AcKERMAN, The Structure of Lomazzo's Treatise

on Painting, Michigan 1964. Acta Mediol. = Acta Ecclesiae Mediolanensis, tribus partibus distincta, quibus concilia provincialia, conciones, synodales, synodi diocesanae, instructiones, litterae pastorales, edicta, regulae confratriarum, formulae et alia denique continentur, quae Carolus S.R.E. Cardinalis Tit. S. Praxedis, Archiepiscopus egit, Mediolani, apud Pacificum Pontium, 1583. AnRIANI = Lettera di messer G10VAMBATISTA DI ~SER MARCELLO ADRIANI a messer Giorgio Vasari, in G. VASARI, Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Firenze, Giunti, 1568, 11, pp. sgg. AGOSTINO DEL R1cc10 = AGOSTINO DEL RICCIO, Storia delle pietre, ms. 2230 della Biblioteca Riccardiana di Firenze. AGRIPPA = HENRICI CoRNELII AGRIPPAE AB NETTESHEYM De inI

certitudine et vanitate omnium scientiarmn et artium liber [1530], Lugduni Batavorum 1543. ALAM&"mI = V. ALAMANNI, in Composizioni di diversi atltori in lode

del ritratto della Sabina scolpito in marmo dall'eccellentissimo M. Giovanni Bologna ... , Firenze, Sennartelli, 1583. ALBERTI = L. B. Al.BERTI, Della Pittura, a cura di L. Mallè, Firenze 1950. ALBERTI, Architettura = L. B . .Al.BERTI, L'Architettura [De re aedificatoria], testo latino e traduzione a cura di G. Orlandi, introduzione e note di P. Portoghesi, Milano 1966. ALBERTI, Della Statua = L. B . .Al.BERTI, Della pittura e della statua, traduzione di C. Bartoli, Milano 1804. R. ALBERTI = Trattato della nobiltà della pittura. Composto ad

instantia della venerabil Compagnia di S. L11ca et nobil Academia del/i pittori di Roma da ROMANO Al.BERTI della città del Borgo S. Sepolcro, Roma, F. Zanetti, 1585, in Trattati d'arte del Cinquecento, pp. 195-235. ALBERTI-ZuccARo III,

= Origine et progresso dell'Academia del Disse-

gno de' pittori, scultori et architetti di Roma. Dove si contengono molti utilissimi discorsi e filosofici raggionamenti appartenenti alle suddette professioni et in particulare ad alcune nove definizioni del dissegno, della pittura, scultura et architettura, Pavia, P. Bartoli, 1604. ALBERTIN I = Memoriale di molte statue et pieture sono nella inclyta

ciptà di Florentia per mano di sculptori et pictori excellenti mo-

XII

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

derni et antiqui tracto dalla propria copia di Messer FRANCESCO ALBERTINiprete Fiorentino anno Domini ISIO [1510], Firenze 1863. ALDROVANDI = U. ALDROVANDI, Avvertimenti al Card. Paleotti sopra alcuni capitoli della pittura, in Trattati d'arte del Cinquecento, li, pp. SI 1-7. AI.DROVANDI = U . .Al.DROVANDI, Modo di esprimere per la pittura tutte le cose dell'universo mondo, qui I, pp. 923-30. ALGHISI == Delle fortificationi di M. GALASSO AI.GHISI da Carpi, architetto ali' eccellentiss. signor Duca di Ferrara, Venetia 1570. AMMANNATI = Lettera di Messer BARTOLOMEO AMMANNATI, architetto e scultore Fiorentino, agli onoratissimi Accademici del Disegno, Firenze, B. Sermartelli, 1582, in Trattati d'arte del Cinquecento, III, pp. 115-23. AMMIRATO == Il Rota overo delle imprese, dialogo del signor SCIPIONE AMMIRATO, Napoli, Scotto, 1562, secondo l'edizione Fiorenza, Giunti, 1598. AN. MAGLIAB. = Il Codice Magliabechiano cl. XVII. I7 contenente notizie sopra l'arte degli antichi e quella de' Fiorentini da Cimabue a Michelangelo Buonarroti, scritte da Anonimo Fiorentino, a cura di K. Frey, Berlin 1892. Archiepiscopale Bononiense = Archiepiscopale Bononiense, sive de Bononiensis Ecclesiae administratione, auctore GABRIELE PALAEOTO S.R.E. Cardinali, Romae 1594. AREs1 == Imprese sacre con triplicati discorsi illustrate et arricchite ... di Monsig. PAOLO AREsI chierico regolare Vescovo di Tortona, Venezia, Pasquardi, 1629. ARETINO = Lettere sull'arte di PIETRO ARETINO, commentate da F. Pertile, a cura di E. Camesasca, Milano 1957-60. ARISTOTELE = Primum [-decimum] volumen Aristotelis, Apud Iuntas, Venetiis 1552. ARISTOTELE, 1562 = Primum [- decimum] volumen Aristotelis, Apud Iuntas, Venetiis 1562. A.RMENINI = De' veri precetti della pittura di M. Gro. BATIISTA ARMENINI da Faenza, libri III: ne' quali con bell'ordine d'utili e buoni avertimenti, per chi desidera in essa farsi con prestezza eccellente, si dimostrano i modi principali del disegnare e del dipignere e di fare le pitture che si convengono alle conditioni de' luoghi e delle persone, Ravenna, F. Tebaldini, 1586. A.RoN = Lucidarlo in musica di alcune oppenioni antiche e moderne con le loro opposizioni e resoluzioni, con molti altri secreti appresso e questioni da altrui ancora non dichiarati, composto dall' eccelle11te e consumato musico PIETRO ARoN de l'ordine de' Crosachieri e della città di Firenze, Venezia, G. Scotto, 1545.

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

Xlii

AYALA-CITIADELLA = Istruzioni al pittore cristiano, ristretto dell'opera latina di Fra GIOVANNI INTERIAN DE AYALA, fatto da LUIGI NAPOLEONE CITTADELLA, Ferrara 1854. BALDINUCCI

= Notizie de' professori del disegno da Cimabue in qua,

per le quali si dimostra come e per chi le bell'arti della Pittura, Scultura et Architettura, lasciata la rozzezza delle maniere greca e gotica, si siano in questi secoli ridotte all'antica loro per/ezione. Opera di FILIPPO BALDINUCCI Fiorentino, distinta in secoli e decennali [1681-1728], a cura cli F. Ranalli, Firenze 1845-47. BALDINUCCI, Vocabolario = F. BALDINUCCI, Vocabolario Toscano dell'arte del disegno [1681], Verona 1806. BARBARO = I dieci libri dell'architettura di M. VITRUVIO, tradotti e commentati da mons. DANIEL BARBARO, eletto Patriarca d'Aquileia, da lui riveduti et ampliati et hora in più commoda /orma ridotti, Venezia, Franceschi e Chrieger, 1567. BARGAGLI = S. BARGAGLI, La prima parte dell'imprese, dove, dopo

l' opere così a penna, come a stampa, eh' egli ha potuto vedere di coloro che della materia dell'imprese hanno parlato, della vera natura di quelle si ragiona, Siena, Bonetti, 1578, secondo l'edizione Venezia, Franceschi, 1594. BAROCCHI, Trattati d'arte

= P. BAROCCHI, in Trattati d'arte del Cin-

quecento,/ra manierismo e controriforma, I-III, Bari, Laterza, 1960-62. BAROCCHI, Vita di Michelangelo = G. VASARI, La Vita di Michelangelo nelle redazioni del ISSO e del z568, curata e commentata da

P. Barocchi, Milano-Napoli 1962. BARoCCHI-BETIARINI = G. VASARI, Le Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, nelle redazioni del I 550 e I 568, testo a cura di R. Bettarini, commento secolare e indici a cura cli P. Barocchi, Firenze 1966 sgg. BATTELLI = L. DOLCE, L'Aretino. Dialogo della Pittura, con l'aggiunta di varie rime e lettere. Introduzione e note di G. Battelli, Firenze 1910. BATTISTI, A11tiri11ascimento = E. BATTISTI, L'antirinascimento, Milano 1962. BATTISTI, Imitazione = E. BATTISTI, Il concetto d'imitazione nel Cinquecento ... , in «Commentari», VII (1956), pp. 86-104, 249-62. BATTISTI, Rinascimento e Barocco =E.BATTISTI, Rinascimento e Barocco, Torino 1960. BERTI = L. BERTI, Il principe dello Studiolo. Francesco I dei Medici e la fine del Rinascimento fiorentino, Firenze I 967. BESSONE AURELI = A. BESSONE AURELI, Dialoghi michelangioleschi di Francisco d'Olanda, Roma 1953.

XIV

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

BHR - «Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance », GenèveParis. BtLLI = Il libro di ANTONIO B1LLI enstente in due copie nella Biblioteca Nazionale di Firenze, a cura di K. Frey, Berlin 1892. BIONDO = M. BIONDO, Della nobilisnma pitt11ra e della sua arte, del modo et della dottrina di conseguirla agevolmente e presto, Venezia, [B. l'Imperadore], 1549. BLUNT = A. BLUNT, Artistic Theory in Italy, I540-I600 [1940], Oxford 1956. BoccHI = F. BoccHI, Eccellenza della statua del San Giorgio di

Donatello, scultore fiorentino, posta nella facciata di fuori d'Or San Michele . .. , Firenze, Marescotti, 1584, in Trattati d'arte del Cinquecento, 111, pp. 125-94. BocCHI = Opera di M. FRANCESCO BoccHI sopra l'imagine miracolosa della Santisnma Nunziata di Fiorenza, Firenze, Sennartelli, 1592, qui I, pp. 1005-10. BoccHI-CINELLI = Le bellezze della città di Firenze, dove a pieno di pittura, di scultura, di sacri templi, di palazzi i più notabili artifizi e più preziosi, si, contengono. Scritte già da M. Fa. BoccHI ed ora da M. GIOVANNI C1NELLI ampliate ed accresciute, Firenze, G. Gugliantini, 1677. (R.) BoRGHINI

= Il Riposo di

RAFFAELLO BoRGHINI, in cui della pit-

tura e della scultura si, favella, de' più illustri pittori e scultori e delle più famose opere loro si fa menzione; e le èose principali appartenenti a dette arti si insegnano, Firenze, Marescotti, 1584. V. BoRGHINI = V. BoRGHINI, Selva di notizie, qui I, pp. 611-73. C. BORROMEO = Instructionum fabricae et supellectilis ecclesiasticae libri Il, Caroli S.R.E. Cardinalis tituli S. Praxedis Archiepiscopi iussu, ex provi.nei.ali decreto editi ad provinci.ae M ediolanensis usum, Mediolani 1577, in Trattati d'arte del Cinquecento, III, pp. 1-113. F. BORROMEO = F. BORROMEO, De Pictura sacra [1624], a cura di C. Castiglioni, Sora 1932. BoTTARI = Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura

scritte da' pii, celebri personaggi dei secoli XV, XVI e XVI I, pubblicata da M. G10. BoTTARI e continuata fino ai nostri gionzi da S. T1cozz1, Milano 1822-25. BoTTARI, Lettere = vedi BoTTARI. BRIZIO = A. M. BRIZIO, La prima e la seconda edizio11e delle Vite, in «Studi Vasariani. Atti del Convegno Internazionale per il IV centenario della prima edizione delle Vite del Vasari», Firenze 1952, pp. 83-90. BRIZIO, Leonardo = Scritti scelti di LEONARDO DA VINCI, a cura di A. M. Brizio, Torino 1952.

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

xv

BRIZIO, Vasari = Vite scelte di GIORGIO VASARI, a cura di A. M. Brizio, Torino 1948. BRONZINO =A.BRONZINO, Lettera a B. Varchi, in Trattati d'arte del Cinquecento, 1, pp. 63-7. BRUNO = De imaginibus liber D. CoNRADI BRUNI iureconsulti, Cancellarii Landeshutensis in Bavaria, catholica Germaniae Provincia, adversus lconoclastas, in D. CoNRADI BRUNI iureconsulti opera tria nunc primum aedita: De Legationibus libri quinque; De Caeremoniis libri sex; De lmaginibus liber unus, Moguntiae, apud S. Victorem, 1548. CALLI = Discorso de' colori di ANTONIO CALLI, Padova, Pasquati, 1595. CALMO = Le lettere di Messer ANDREA CALMO [1552], a cura di V. Rossi, Torino 1888. CAMESASCA = P. PINO, Dialogo di Pittura, a cura di E. Camesasca, Milano 1954. CAMILLO = L'opere di M. GIULIO CAMILLO, Venezia, D. Farri, 1579. CAMPI = B. CAMPI, Parere sopra la pittura, in A. LAMO, Discorso i11torno alla scoltura e pittura, dove ragiona della vita et opere .. . fatte dall' Eccell. e Nobilis. M. Bernardino Campo, Cremona, C. Draconi, 1584. CAPACCIO = Delle imprese, trattato di GIULIO CF.SARB CAPACCIO. In tre libri diviso. Nel primo, del modo di far Clmpresa da qualsivoglia oggetto, o naturale o artificioso, con nuove maniere si ragiona. Nel secondo, tutti ieroglifici, simboli e cose mistiche in lettere sacre o profane si scuopro110, e come da quegli cavar si ponno l'imprese. Nel terzo, nel figurar degli emblemi di molte cose naturali per l'imprese si tratta, Napoli, Carlino e Pace, 1592. CAPPONI = PIERO DI GHERARDO CAPPONI, in Composizioni di diversi autori in lode del ritratto della Sabina scolpito in manno dall' eccellentissimo M. Giovanni Bologna . .. , Firenze, Sennartelli, 1583. CARAMELLA = Dialoghi d'amore di maestro LEONE medico HEBREO, a cura di S. Caramella, Bari 1929. CARTARI = V. CARTARI, Le in,agini, con la spositione de i dei de gli antichi [1556], Venezia 1647. CASTELLANI = IULn CASTELLANII Faventini de imaginibus et miraculis, Bononiae, A. Benacci, 1569. CASTELVETRO = Poetica d'ARISTOTELE volgarizzata e sposta per LODOVICO CASTELVETRO, Basilea 1576. CASTELVETRO = Opere varie critiche di LODOVICO CASTELVETRO, gentiluomo modenese, non pi,~ stampate, colla Vita dell'au.tore scritta dal Sig. Proposto Lodovico Antonio Muratori, Bibliotecario del Ser.mo

XVI

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

Sig. Duca di Modena, Berna-Lione-Milano 1727, qui I, pp. 106 sg. CASTIGLIONE = Il libro del Cortegiano, del conte BALDESAR CASTIGLIONE, a cura di V. Cian, Firenze 1947. CASTIGLIONI-MARCORA-C. BORROMEO, Arte sacra, versione e note a cura di Mons. Carlo Castiglioni e Carlo Marcora, Milano 1952. CATANEO = I quattro primi libri di architettura di PIETRO CATANEO, Vinegia, Aldo, 1554. CATARINO = De certa gloria, invocatione et veneratione sanctorum disputationes atque assertiones catholicae adversus impios F. AMBROSII CATHARINI POLITI Senensis, Lugduni 1542. CELLINI = B. CELLINI, Lettera a B. Varchl del 28 gennaio 1546 (st. fior.), in Trattati d'arte del Cinquecento, I, pp. 80 sg. CELLINI, Disputa = B. CELLINI, Disputa infra la Scultura e la Pittu-

ra, avendo il nostro luogotenente, datoci. da sua eccellenza illustrissi.ma, preso la parte dei pittori e nel mirabile essequio del gran Michelangelo di propria potenzia posta la Pittura a mano destra e la Scultura a si.nistra, in Oratione o vero Discorso di M. GIOVAN MARIA TARSIA fatto nell' essequie del divino Michelagnolo Buonarroti, Firenze, Sermartelli, 1564, e in P. CALAMANDREI, Sulle relazioni tra Giorgio Vasari e Benvenuto Cellini, in cc Studi vasariani. Atti del Convegno Internazionale per il IV centenario della prima edizione delle Vite del Vasari», Firenze 1952. CELLINI, Sonetti = B. CELLINI, Opere, a cura di B. Maier, Milano 1968, pp. 881 sgg. CELLINI, Trattati = B. CELLINI, Due trattati, uno intorno alle otto

princi.pali parti dell'oreficeria; l'altro in materia dell'arte della scultura, dove si, veggono infiniti segreti nel lavorar le figure di marmo e nel gettarle di bronzo (1568], secondo l'edizione a cura di C. Milanesi, Firenze 1857. CELLINI, Vita = Vita di BENVENUTO CELLINI, testo critico con introduzione e note storiche per cura di O. Bacci, Firenze 1901. CENNINI = Il libro dell'arte o trattato della pittura di CENNINO CENNINI, a cura di G. e C. Milanesi, Firenze 1859. CESARIANO = Di Lucro VrTRUVIO POLLIONE De Arcliitectura libri

dece traducti de latino in vulgare, affigurati, commentati e con mirando ordine insi,gniti: per il quale facilmente potrai trovare la multitudine de li abstrusi e reconditi vocabuli a li soi loci. et in epsa tabula con summo studio exposi.ti et enucleati ad immensa tttilitate de ciascuno studioso e benivolo di epsa opera, Como, G. de Ponte, 1521, secondo l'edizione anastatica a cura di C. H. KRINSKY, Munchen 1969. CHASTEL-KLEIN = PoMPONIUS GAURICUS, De Sculptura, a cura di A. Chastel e R. l{lein, Genève-Paris 1969.

TAVOLA DELLE ABBREVIAZIONI

XVII

Léonard = A. CHASTEL-R. KLEIN, Léonard de Vinci, Traité de la peinture, Paris 1960. CH1occo = A. CH1occo, Discorso della natura delle Imprese et del vero modo di formarle, Verona 1601. CIAN = Il libro del Cortegiano, del conte BALDESAR CASTIGLIONE, a cura di V. Cian, Firenze I 947. CIAN, Colori = V. CIAN, Del significato dei colori e dei fiori nel Rinascimento italiano, estratto da« Gazzetta Letteraria», 1894, nrr. 13 e 14. CIARDI = G. P. LoMAZzo, Scritti sulle arti, a cura di R. P. Ciardi, Firenze 1973-74. CIARDI, Lomazzo = R. P. CIARDI, Struttura e ngnificato delle opere teoriche del Lomazzo, in a i tempii, publici e privati edifizii, come corpo composto d'animali vigilanti e generosi, quali sono l'aquila et il leone»; p. 91: «L'elefante, animale nobile e più d'ogni altro grande, lo ponemo in questo luogo per simbolo della benignità de' principi e signori grandi; della sua benigna natura ne viene a far testimonianza Arist. lib. 9 cap. 46 dell'Historia degli animali ..• E Bartolomeo Angelico Della prosperità delle cose. lib. I 8 cap. 42 dice che gli elefanti sono di natura benigni perché non hanno fele ... Ma noi diremo ch'egli sia benigno non solo perché sia privo di fele ... ma perché la natura lo ha dotato d'un certo lume d'intelletto prudente e sentimento quasi che umano 11; p. 441 : « Aquila, liberalissima tra tutti gli uccelli». 4. Cfr. RIPA, pp. 373 sg.: « La fenice, overo l'aquila, ambedue simbolo dell'eternità per la rinovazione che fanno dell'individuo loro ••. Per la su-

XIV • L'INVENZIONE

prudenza de la contemplazione, che perciò fu dato a Minerva. 1 Ne l'altro un passere solitario, che col nome stesso significa la solitudine.2 Nel terzo un nitticorace, o gufo, o civetta che sia, che ancor essa è dedicata a Minerva, per esser uccello notturno e significativo de gli studi. 3 Nel quarto farei un eritaco, uccello tanto solitario, che di lui si scrive che non se ne ritrovano mai due in un bosco medesimo. Io non trovo ancora com' egli sia, però mi rimetto che 'l pittar lo faccia di sua maniera.4 Nel quinto un pellicano, al quale David si assimigliò ne la sua solitudine fuggendo da Saulo: facciasi un uccello bianco, magro, per lo sangue che si tragge da sé stesso per pascere i figliuoli. Alcuni dicono che questo uccello è il porfirione; e se questo è, arebbe avere il becco e gli stinchi lunghi e rossi. 5 Ne l'ultimo una lepre, del quale animale scrivono che è tanto solitario che mai non si posa se non solo, e per non esser trovato per indizio de' suoi vestigi, nel tempo de la neve, da l'ultime pedate sin al loco dove si posa fa un gran salto.6 Si sono fino a qui date le empiture a tutti i vani. Restano gli ornamenti, e questi si lasciano a l'invenzione del pittore. Pure è ben d'ammonirlo se gli paresse d'accomodarvi in alcuni lochi, come per grottesche, instrumenti da solitari e studiosi, come sfere, astrolabi, armille, quadranti, seste, squadre, livelle, bussole, lauri, mirti, ellere, tane, cappellette, romitori e simil novelle ...7 A li xv di maggio MDLXV.

detta ... divulgata natura sono stati da lei presi bellissimi concetti e simboli di renovazione, resurezzione, eternità, et a' tempi nostri è stata la fenice impresa di papa Clemente Ottavo». 1. Cfr. RIPA, p. 449: u Il serpente c"insegna la prudenza necessarissima a professioni come tutte l'altre, non s'affaticando in altro l'umana industria che in distinguere il vero dal falso e secondo quella distinzione saper poi operare con proporzionata conformità al vero conosciuto et amato. Scuopre ancora il serpente che la logica è stimata velenosa materia e inaccessibile a chi non ha grande ingegno, et è amata a chi la gusta, e morde e uccide quelli che con temerità le si oppongono 11. 2. Cfr. RIPA, p. 125. 3. Cfr. RIPA, pp. 115, 559, e qui la nota 3 di p. 2456. 4. Anche per il naturalismo fantastico il letterato si affida volentieri al pittore; cfr. p. 2454 e la nota I. 5. Cfr. RIPA, pp. 39, 92 sg.: a È uccello che, secondo che raccontano molti autori, per sovvenire i proprii figliuoli posti in necessità, svena sé stesso col rostro e del proprio sangue li nodrisce, come dice diffusamente Pierio Valeriano al suo luogo, e de più moderni nella nostra lingua». 6. Cfr. diversamente RIPA, 111, p. 58. 7. Novelle liminari; cfr. p. 2454 e la nota 1.

ANTON FRANCESCO DONI LA PITTURA DELLA FORTUNA ALL'ILLUSTRISSIMO ET ECCELLENTISSIMO SIGNOR SFORZA PALLAVICINO 1

Tengan dunque ver me l'usato stile Amor, Madonna, il Mondo e mia Fortuna, ch'i' non penso esser mai se non felice. 2

Quasi tutto il mondo si lamenta e pochi si lodano della Fortuna, della Sorte e del Destino, e, come afferma il mirabil Plutarco,3 la contende con la Virtù. Et ancora che nella mente de gli uomini sia un voler dire: « Io non ho bene, ma ogni cosa mi va a traverso»; e che in fatti in questo mondo non ci sia nulla di buono per esso, ma nato povero senza modo d'acquistare e speranza di buona ventura, nientedimeno i savi, o gli stolti, hanno trovato un nome a tutta questa involtura, a quell'accidente, dico, sùbito che sopragiunge all'uomo, o buono o cattivo che si sia: andare a letto povero e levarsi ricco; oggi privato cittadino, domani assoluto principe; nascer di sangue plebeo et esser fatto illustre, o uscir fuori di casa tua padrone e libero e tornare in quella d'altri servo o schiavo. Scipione Asina la conobbe asina, perché la lo fece di consolo prigione de' Cartaginesi e lo messe alla catena, benché ritornasse poi al consolato.4 Questa fantasima venne già in tanto credito, che la fu fatta dea e dedicatole altare e tempio, e coloro che senza arte vivevano, facevano il giorno suo festivo. Marzio, quarto re de' Romani, ne fece Da Pittllre del DONI academico pellegrino, Padova 1564, ff. 9-15. I. Cfr. la lettera dedicatoria al f. 16: «A me ha voluto la Fortuna provedermi ne' cinquanta anni di signore e m'ha fatto servitore della V. Eccellenza, la quale per avere il degno del principe nel sangue e nell'opere, mi fa bere in oro et argento e con tanto amore mi vede e riceve con cortesia tale che io mi lodo della Fortuna, ma molto più della realità de l'animo reale di V. S. Illustrissima, alla quale non avendo ora altro che donarle per segno della servitù mia, le mando un quadro di pittura della Fortuna, come quel signore il quale ha veduto infiniti potenti da lei oppressi et esaltati, onde l'Eccellenza V. conoscerà s'io avrò saputo ben colorirla, ombrarla, dargli il rilievo e far che la paia viva, perché il poeta è un pittore che parla et il pittore è un poeta che dipinge». 2. PETRARCA, Rime, ccxxix, 9-11. 3. Cfr. Quaest. Rom., LXXIV. 4. Cfr. VALERIO MASSIMO, VI, 9, II.

XIV • L'INVENZIONE

fare uno come a dea virile e le donne un altro alla Fortuna donne-sca, e dicono insin che la statua sua ha favellato.• Servo Tullo di-ceva aver tutto da lei, e che seco avea stretta dimestichezza, onde edificb nel Campidoglio un tempio alla Fortuna Primogenia, alla Fortuna maschia un altro, et altri. 2 La grandezza della gloria della Fortuna, dice Plauto, è che quanto meno si spera una cosa, tanto la la fa in un punto apparire con gran maraviglia del mondo, et esseguisce i suoi disegni in fin con dar vigore a bruti animali adoprandogli per mezzani a condure quanto gli piace, come la fece con le papere nel volere salire i Francesi nel Campidoglio. 3 Cicerone vuole non solamente che la sia cieca, ma che la facci tutti coloro ciechi che ella abbraccia.4 I pittori l'ànno poi dipinta, e fra gli altri Apelle, e, come quella che non posa mai, la fece in piedi ;5 già la viddi io in un cammeo antico nello studio del magnifico M. Gabriel Vendramino, molto diligentemente scolpita: una femina senz'occhi in cima d'uno albero, la quale con una lunga pertica batteva i suoi frutti, come si fanno le noci. I quali non erano peri o pine, ma libri, corone, gioghi, lacci, scarselle traboccanti d'oro, e borse piene di danari e gioie, pietre di gran valuta in anelli e di quelle da pochi soldi. Sotto a l'arboro stavano all'ombra un branco di bestie e di persone, a i quali davano adosso tali frutti: e bene spesso a un villano cadeva un libro in capo, a un letterato un giogo in su le spalle, a un nobile una mannaia sul collo, a un porco una ricca gioia in gola et a uno asino scettro signorile in mano; quest'è uno de' suoi modi per discoprire la viltà dell'animo de gli uomini. 6 E però disse Plutarco, la dà tal volta gli imperii a poltroni et a vili le ricchezze.7 Policrate tiranno de' Samii l'ebbe tanto favorevole, che gli venne voglia di I. Cfr. OVIDIO, Fast., VI, 569 sgg., FESTO, 316. 2. Cfr. PLUTARCO, Quaest. Rom., LXXIV. 3. Cfr. PLAUTO, Truc., 193 sgg., L1v10, v, 47, 4, PLUTARCO, Com., xxvn, 2 sgg. 4. Cfr. Phil., XIII, 10. 5. Cfr. STOBEO, Flor., cvi, 60, CARTARI, p. 247: a: [Apelle] dipingendo anco la Fortuna, la pose a sedere, e dimandato perché ciò avesse fatto, rispose ch'ei non l'aveva mai veduta stare; et appresso de i Latini stare significa non solamente esser fermo, ma in piedi ancora, e quindi ne fece egli motto, perché la Fortuna è detta volubile et instabile». 6. Cfr. VASARI, qui pp. 2416 sgg., CARTARI, p. 339, RIPA, p. 271: •Donna con gl'occhi bendati, sopra un albero con un'asta assai lunga percuota i rami d'esso e ne cadano varii stromcnti appartenenti a varie professioni, come scettri, libri, corone, gioie, armi ecc. E cosi la dipinge il Doni•. 7. Cfr. Quaest. Rom., LXXIV, Fo,t. Rom., 4, 5.

ANTON FRANCESCO DONI

2471

scacciarla da sé: però trasse quell'anello a lui tanto caro in mare, per provare qualche dispiacere o cosa contraria; et ella, che è una femina di cervello a suo modo, fece che uno pescatore lo trovò in un pesce et al tiranno lo rendé; ma sdegnata poi, lo fece mettere in croce. 1 Or andate voi stuzzicandola, però disse il Sanazzaro: Rimordendo lor cieco e van desire, digli che in pianto e doglia Fortuna volge ogni sfrenato ardire. 2

I poeti et antichi e moderni l'hanno figurata calva e tutti i capegli posti dinanzi per poterla ciuffare, e cosi in più luoghi si mostra al vulgo nelle tavole, ne' muri, su le carte e sculpita in marmo. Non è molto tempo che io la viddi dipinta alla plebea in una cassa, che la volgeva una ruota, dove s'attaccavano molte brigate per salire in cima, e certi con iscale e con oncini, col martello e chiodi per fermarla in vano s'affaticavano; e da queste baie viene che la sciocca gente l'ha in considerazione per una cosa, che abbia potere in sul mondo, sopra gli uomini, nelle ricchezze et in tutte le signorie. Quello allega il caso di Tiranone, che solo fra tanti scampò a quella cena, dove egli, voltatosi alla Fortuna, disse: «Tu ne hai salvato a peggior caso»; e fu indovino.3 Certi altri mostrano che Dionisio giovane, quando Filippo gli domandò perché aveva lasciato torsi il regno dal padre acquistato, rispose: cc Perché non mi diede la sua Fortuna con esso».4 Cosi da questo credere, o buono o cattivo che si sia, e' si vanno lamentando in diverse vie, con affanno, per diversi accidenti. «La Fortuna m'è contro» dice quello; quel1' altro, al quale vanno prosperi gli anni e felici i giorni, canta: « Io ne ringrazio la Fortuna; il mio buon Destino cosi ha voluto. Benedetta sia la Sorte mia». E chi sta di mezzo, che non ha questi 1. Cfr. ERODOTO, III, 39 sgg. 2. Nella canzone Incliti spirti a cui Fortuna a"ide, vv. 120-2. 3. Cfr. le indicazioni di CARTARI, pp. 247 sg.: « Gli antichi ..• la fecero [la Fortuna], come scrive Eusebio, sedere sopra una gran palla, e le aggiunsero l'ali che velocissimamente la portano mo' da questo, mo' da quello: onde Orazio cosi canta di lei, tirando i versi suoi in nostra lingua: "L'instabile Fortuna / a un crude! gioco attende, / e scherza sempre a danno de' mortali; / senza regola alcuna / muta le cose e rende / onor a questo, a quel dà gravi mali; / e poscia quelli, quali / eran pel suo favore / prima lieti e contenti, / fa miseri e scontenti / e, mutandosi quasi a tutte l'ore, / a l'un dà a l'altro toglie, / cui sian benigne o averse le sue voglie. / Però ringrazio lei / quando per me si ferma, et i suoi beni godo volentieri ... "».Vedi anche RIPA, p. 272. 4. Cfr. PLUTARCO, Dion., 6, DIODORO SICULO, XVI, 6, 2.

XIV · L• INVENZIONE

romori nel capo o che non gli toccano di queste sorbe mal mature, dice: (< La sua disgrazia ha voluto così». In modo che, cianciando di Sorte, di Fortuna e di Destino, è forza disegnare in figura qualche cosa, per isprimere l'animo tuo. Chilone non voleva che l'uomo si ridessi degli sfortunati, conoscendo la instabilità della Fortuna, perché sopra chi ride può venire e far peggio che a colui di cui si ride. 1 « Sempre non si può avere buona sorte, l'è stata una disgrazia»; e quell'altro che ha veduto ricco un tempo uno e poi lo vede povero, come avenne a Crasso, 2 ancora lui cicala: «Ogni ritto ha il suo rovescio, la Fortuna s'è voltata». Disse l'Ariosto: Non comincia Fortuna mai per poco, quando un mortal si piglia a scherno e a gioco,3

«La non dona mai» disse Bione filosofo, «ma presta solamente; però

le cose non istanno sempre a un modo ». 4 Quando che pensa la Fortuna il volto lieto gli mostri, gli volge le rene e della rota giù con furia lassa cader che fino al centro il tomo passa. Il vulgo, quando vede tal mutazione, esclama: «E' non ha più la Fortuna per i capelli». E chi non sa dir Destino, Fortuna, Sorte o Fato, dice: «Am? am? Sempre non ride la moglie del ladro». E, secondo i popoli, i casi, gli accidenti, le faccende et i tempi, ciascuno dice sopra di sé e sopra gli altri qualche proverbio, detto, motto o sentenza, come : « Ben gli torna, ventura Dio che poco senno basta»; e « Chi non ha ventura non vadi a pescare»; e «Nacque vestito»; antecessori savi, acciò che vedendogli si ricordassero dell'opere loro e ne pigliassero essempio. Altra sorte di gente adunque (per quanto si legge) non si poteva far ritraere appresso gl'antichi, che i prìncipi et i virtuosi. A tutti gl'altri era proibito, tutto che richissimi fossero. 2 E questo uso credo io che durasse sino che Constantino trasportò l'Imperio e l'onor d'Italia a Bizanzio; perciò che prima, se leggiamo appresso gli Asirii di Belo, di Nino e di N embrot, troviamo che le imagini loro furono fatte solamente per ordine di Semiramis regina di Babilonia; et appresso gl'Egizzii de i re loro non si ritrovano se non i famosi come Simandio, Amasi, Arsinoe et alcuni altri pochi; e de i virtuosi meno, come Mercurio Trimegisto, il qual soleva dire che quando la pittura nacque, nacque ancora la religione.3 Perciò che lo studio de i pittori è intorno alle sacre

I. Cfr. diversamente PALBOITI, pp. 316 sg.: «Vedendosi dunque che da gli antichi erano conservate queste memorie per iudicio di nobiltà et eccitamento de' posteri alla virtù de' suoi maggiori, non intendiamo noi ora di dannarle, potendo elle apportare servigio al vivere bene, ma solo vogliamo avvertire questo popolo che, sì come nelle monete si dà il suo grado a ciascuna, né tutte ascendono ad egual valore, così vorressimo che di queste niuno si invaghisse più di quello che si conviene, poiché questi tali, se bene sono stati uomini famosi di lettere et eccellenti per valore dell'armi o del governo de' popoli, o in altre virtù morali, nientedimeno, se alcuno di essi non sia stato specialmente aiutato dalla grazia divina, essendo essi stati infedeli, sono conseguentemente condennati alle perpetue tenebre. E però il frutto principale che pareria a noi dovesse cavare il cristiano da quelle, seria il considerare che, se questi, senza particolare aiuto e celeste favore, ma solo con quelle forze naturali et industria che lddio sparse nella natura umana, hanno potuto cosi eggreggiamente resistere ai contrasti del senso et ai fieri impeti dell'alterezza, della cupidigia e delizie carnali, molto maggiore testimonio de' meriti e di valore si deve aspettare da un petto cristiano armato di fede, cinto di grazia, fortificato da' sacramenti, guidato dagli angeli et erede del ciclo». 2. Cfr. PALEOTTI, pp. 314 sgg. 3. Cfr. PALEOITI, pp. 186 sg.: «S. Tomaso dice anch'esso essere stata opinione d'alcuni che la idolatria fosse ritrovata dalla seconda età, e da Nembroth, che sforzava gli uomini ad adorare il fuoco, o da Nino,

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2 739

imagini, et appresso i Greci vi era un editto che soli i nobili usassero la pittura, 1 tanto è lontano il pensare che permettessero a uomini plebei e vili il farsi ritraere dal naturale; anci questo assolutamente era riservato solamente a principi e savi. Cosi appresso ' Romani altre statove non si veggono che di consoli valorosi, d'imperatori e simili a principi, o almeno d'uomini pregiati e singolari in qualche parte, come di donne o giovani belli. Onde si vede la statova d' Antinoo, bellissimo giovane fra tutti gl'altri che furono amati da Traiano; o d'uomini forti, come d'Ercole e di Milone Crotoniate. 2 Per il che comprendiamo in quanto pregio fosse tenuta da tutti i popoli quest'arte del ritraere dal naturale, massime perché non era se non da eccellenti pittori, scultori et incavatori essercitata; ancora che a tempi nostri si sia divulgata tanto che quasi tutta la sua dignità è perduta, non solamente perché senza alcuna distinzione si tolera da' prìncipi e dalle republiche che ognuno con ritratti cerchi di conservare la memoria sua eterna et immortale, ma anco perché ogni rozzo pittore che a pena sa che cosa sia empiastrare carta, vuol ritraere. E questi sono poi onde vengono i ritratti de' ciurmatori su per le bandiere e d'altri uomini sordidi et infami. 3 E se bene questo abuso almeno appresso a gl'intendenti non ha scemato in parte alcuna il pregio a questa arte, né macchiato punto la sua candidezza, non è però che non abbia apportato qualche danno in questo, che 'I giudicio in parte si viene a confundere, talché a pena si scorge qual sia la propria ragione del ritrarre secondo la qualità delle genti che si ritranno, e secondo che vuole et insegna l'arte.4 Perché doppo che è entrato questo abuso, se alcuno vuole far un ritratto con quelle ragioni e parti che richiede l'arte et il grado di colui che si fa ritraere, non gli è se non da pochissimi concesso, et è astretto posporre le regole e precetti dell'arte al che fece adorare l'imagine di Belo suo padre, dal quale dicono che molti nomi d'idoli derivarono, come Baal, Belzebub, Beelfegor et altri simili; al qual Belo parimente Semiramis moglie di Nino eresse statue di smisurata grandezza, come scrive Diodoro, ancor che altri hanno voluto che Baal fosse il nome del dio degli Assirii, e da quello poi denominato Belo». 1. Cfr. PLINIO, xxxv, 77, ALBERTI, p. 80, VARCHI, qui I, p. 525. 2,. Cfr. PAUSANIA, VI, 14; VIII, 9, 4. 3. Anche il Lomazzo riconosce, ma in chiave prevalentemente laica, l'invadente abuso dei ritratti. 4. A differenza del Paleotti, il Lomazzo si preoccupa di un decoro non solo iconografico, ma anche figurativo.

XVI · I RITRATTI

capricio di chi ritrae. Per questa cagione di rado il buon pittore esprime il suo concetto, senza cui non è possibile che alcuna buona cosa riesca, tanto più a pittori goffi e materiali. Sl che in vece di ritratti si veggono, come a dire, metamorfosi. 1 Ciò non ostante ho tuttavia voluto io raccogliere qua alcune cose necessarie alla vera composizione del far ritratti, acciò che in parte vengano a conoscere, quelli che non sanno, in quanto errore si trovino ritrando over facendosi ritrarre. 2 Primieramente adunque bisogna considerare la qualità di colui che si ha da ritrarre 3 e, secondo quella, dargli il suo particolare segno che lo dia a conoscere, come sarebbe ad uno imperatore la corona di lauro, come si vede osservato nelle statove antiche e come giudiciosamente ha osservato Tiziano ne' Cesari eh' egli dipinse al Duca di Mantova con lauri appresso e con bastoni in mano che denotano il suo dominio, come lo denota ancora lo scettro e le armi all'antica ;4 ma con certa discrettezza per levar la bruttezza de l'abito, acciò che sempre il ritratto resti bello. 5 Per la qual cagione gl'antichi imperatori volsero nelle statove e figure essere rappresentati così armati. Talvolta anca si facevano ignudi per accennare che l'imperatore deve esser libero e mostrare apertamente quello che è a' popoli, e cosi che debbe essere riverito per la bontà sua e temuto per la giustizia che ministra.6 Secondariamente l'imperatore sopra tutto, sl come ogni re e principe, vuol maestà et aver un'aria a tanto grado conforme, sl che spiri nobiltà e gravità, ancora che naturalmente non fosse tale. 7 Metamorfosi. negative rispetto al ritrarre di naturale e ben diverse dalle fantasie di un Arcimboldi; cfr. CoMANINI, pp. 257 sgg. 2. La distinzione delle varie responsabilità riecheggia PALEOITI, qui pp. 2715 sgg. 3. Lomazzo si impegna nell'esporre un suo prontuario per il ritrattista, nel quale egli abbozza una interessante iconologia civile. 4. Cfr. DOLCE, p. 206: cr Né voglio tacere che Tiziano dipinse in Mantova al duca Federico la effigie dei dodici Cesari, traendogli parte dalle medaglie e parte da marmi antichi. E sono di tanta perfezzione, che vanno infiniti in quella città solamente per vedergli, stimando di vedere i veri Cesari e non pitture», VASARI, 1550, p. 890, e 1568, 11, p. 811 [vn, p. 442]. Ne restano solo copie; quelle, ad esempio, di Bernardino Campi, al Museo di Capodimonte, e le incisioni di E. Sadeler. 5. Il dato iconografico deve dunque assumere validità stilistica. 6. Spunto simbolico affine ai traslati vasariani (cfr. qui pp. 2707 sgg.). 7. Contrariamente al PALEOTTI, qui pp. 2723 sg., il Lomazzo insiste sulla necessità di idealizzare l'immagine, rifacendosi alle tradizionali indicazioni dell'antichità; cfr. ALDERTI, p. 93: « Dipignievano gli antiqui l'immagine di Antigono solo da quella parte del viso ove non era mancamento dell'occhio; e dicono che a Pericle era suo capo lungo e brutto e per questo I.

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

Conciosia che al pittore conviene che sempre accresca nelle faccie grandezza e maestà, coprendo il difetto del naturale, come si vede che hanno fatto gl'antichi pittori, i quali solevano sempre dissimulare et anco nascondere le imperfezzioni naturali con l'arte; sl come fece ne i ritratti delle dee Zeusi, et Aurelio in quello di Pericle, dove lo rappresentò con l'elmo in testa, perché l'aveva acuta; e leggesi d' Apelle che, ritrando Antigono, gl'ascose l'occhio diffettoso.1 E queste parti vogliono esser osservate accuratamente da gl'intendenti. Perciò Alessandro Magno per editto publico commandò che niuno ardisse di ritrarlo fuor che Apelle in pittura e Pirgotile di cavo e Lisippo in scoltura.2 Con tal arte si vengono gentilmente a dissimolare e ricoprire le imperfezzioni et i mancamenti della natura et accrescere et ampliare le buone parti e le bellezze. Le quali parti non osservò l'antico pittor Demetrio, che fu più curioso di rappresentar la simiglianza che la bellezza. 3 Onde gl'antichi espressero la stabilità in Catone, lo studio in Socrate, la penetrazione in Pittagora, la crudeltà e fierezza in Nerone, la clemenza e nobiltà in Ottavio, la lascivia in Eliogabalo, la durezza in Mario, la maestà in Cesare, e così in tutti gl'altri usarono sempre di far risplendere quello che la natura d'eccellente aveva concesso loro. 4 E cosi vedesi c'hanno osservato molti moderni in alcuni ritratti di poeti, come fece Giotto il qual espresse in Dante la profondità,5 Simon Sanese nel Petrarca la facilità,6 frate Angelo la dalli pittori e dalli sculptori, non come li altri, era col capo armato ritratto. E dice Plutarco, li antiqui pittori dipigniendo i re, se in loro era qualche vizio, non volerlo però essere non notato, ma quanto potevano, servando la similitudine, l'emendavano». 1. Per Zeusi cfr. PLINIO, xxxv, 64, RAFFAELLO, qui Il, p. 1530, PINO, p. 99, DOLCE, qui I, p. 297, GILIO, pp. 106 sg.; per Pericle cfr. PLINIO, XX>..'V, 137, PLUTARCO, Pericl., 3, ALBERTI, p. 93 (citato nella nota precedente), VARCHI, qui I, p. 266 e la nota 2; per A11tigo110 cfr. ancora ALBERTI, p. 93 (citato nella nota precedente), VARCHI, qui I, p. 266, GILIO, p. 78, PALEOTTI, qui III, p. 2724. 2. Cfr. VARCHI, p. 46, PINO, p. 110, DOLCE, p. 157. 3. Cfr. QUINTILIANO, XII, IO, ALBERTI, p. 107: « A Demetrio, antiquo pittore, mancò ad acquistare l'ultima lode che fu curioso di fare cose adsimilliate al naturale molto più che vaghe». 4. Dalla discrezio11e delle immagini, cioè dalla loro temperata idealizzazione, si passa ad una tipologia simbolica, i cui contenuti sono più soggettivi. 5. Cfr. VASARI, 1550, p. 140, e 1568, 1, p. 119 [1, p. 372]: 11 [Giotto] fra gl'altri ritrasse ..• nella capella del palagio del podestà di Firenze, Dante Alighieri, coetaneo ed amico suo grandissimo e non meno famoso poeta ». 6. Cfr. VASARI, 1550, 1, p. 175, e x568, 1, p. 171 [1, p. ss x]: 11 [Nel capitolo di Santa Maria Novella] Messer Francesco Petrarca, ritratto pur di naturale, il che fece Simone per rinfrescar nell'opere sue la fama di colui che l'aveva fatto immortale».

XVI · I RITRATTI

prudenza nel Sannazaro, 1 e Tiziano nell'Ariosto la facundia et ornamento2 e nel Bembo la maestà e l'accuratezza. 3 Circa gl'abiti di grado in grado si hanno da sminuire secondo le genti ;4 ancora che io lodi che si debbano ritrare se non prìncipi virtuosi e bellissimi giovani e femine. In questa parte di distribuire gl'abiti, o per ignoranza, o per poca avvertenza, si veggono grandissimi errori; come per essempio gl'imperatori con le berrette in testa che gli fa rassembrar più tosto mercatanti che imperatori, cosa che tanto più disdice e spare quanto che all'aria loro imperiale par che si confacciano solamente le armi. E però il Carlo Quinto di Tiziano5 e quell'altro di bronzo di Leone Aretino, 6 i ritratti di marmo di Lorenzo e di Giuliano di Medici, duci di Fiorenza, posti nella sacristia loro insieme con altre figure di mano del Buonarotto, si veggono armati col bastone in mano e con gl'abiti tanto accommodati all'antica, che di più eccellente per nobiltà et artificio non si può vedere. 7 Il che si dee parimenti servare ne' geneProbabile allusione alla « testa ... ritratta dal vivo » da Giovanni Agnolo Montorsoli nella tomba napoletana del Sannazaro (cfr. VASARI, 1568, n, p. 615 [vI, pp. 641 sg.]). 2. Partendo da una incisione del ritratto dell'Ariosto (tratta da un disegno di Tiziano) nell'Orlando Furioso del 1532, si è supposto che il dipinto fosse quello già nella collezione Oriani a Ferrara (cfr. G. GRONAU, Titian's Ariosto, in «The Burlington Magazine», LXIII, 1933, pp. 194 sgg). 3. Cfr. VASARI, 1568, II, p. 809 [vn, p. 455]. Dipinto perduto. 4. Anche gli abiti sono un seg110 e devono rispondere alla tradizionale esigenza di decoro e di conve11ie11za; cfr. DOLCE, GILIO, qui I, pp. 792 sgg., 854 sgg. 5. Cfr. VASARI, 1568, n, p. 810 [vn, p. 440]: «Dicesi che l'anno 15301 essendo Carlo V imperatore in Bologna, fu dal cardinale lpolito de' Medici Tiziano, per mezzo di Pietro Aretino, chiamato là; dove fece un bellissimo ritratto di Sua Maestà tutto armato, che tanto piacque che gli fece donare mille scudi ». Il dipinto è oggi al Prado. 6. Cfr. VASARI, 1568, 11, p. 840 [vu, p. 536]: « Divenne [Leone Leoni] in pochi anni in modo eccellente, che venne in cognizione di molti prìncipi e grand'uomini, ed in particolare di Carlo quinto imperatore, dal quale fu messo, conosciuta la sua virtù, in opere di maggiore importanza che le medaglie non sono. Conciosiaché fece, non molto dopo che venne in cognizione di Sua Maestà, la statua di esso imperatore tutta tonda di bronzo maggiore del vivo, e quella poi con due gusci sottilissimi vesti d'una molto gentile armatura, che gli si lieva e veste facilmente e con tanta grazia, che chi la vede vestita non s'accorge e non può quasi credere ch'ella sia ignuda; e quando è nuda, niuno crederebbe agevolmente ch'ella potesse cosi bene armarsi giamai•. 7. Cfr. diversamente VASARI, 1550, pp. 976 sg., e 1568, n, p. 740 [vn, pp. 195 sg.]: a Vi son fra !'altre statue que' due capitani armati, l'uno il pensoso duca Lorenzo, nel sembiante della saviezza con bellissime gambe talmente fatte che occhio non può veder meglio, l'altra è il duca Giuliano si fiero con una testa e gola con in1.

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2 743

rali d'esserciti, nei colonelli e capitani o soldati, minuendo per ordine de i loro abiti, e cosi anco ne gl' ecclesiastici. Per incontro poi i mercanti e banchieri che non mai videro spada ignuda, a quali propriamente si aspetta la penna nell'orecchia con la gonella intorno et il giornale davanti, si ritraggono armati con bastoni in mano da generali, cosa veramente ridicola e manifestamente accusa il poco senno e giudicio, cosi del dipinto, come del dipintore. Nelle femine maggiormente va osservato, con esquisita diligenza, la bellezza, levando quanto si può con l'arte gli errori della natura; e cosi imitar i poeti quando cantano in verso le lodi loro. 1 Cotali sono gl'avvertimenti del comporre i ritratti in generale e particolare, i quali quanto siano necessarii massime nel rappresentare gl'ornamenti, gl'atti e gesti convenienti a' principi, a' virtuosi et alle femine che si ritranno, si può comprendere ne' ritratti fatti da gl'eccellenti pittori, per altro ancora famosissimi, e da' celebri scoltori.2 Fra quali si veggono quelli di mano di Leonardo, ornati a guisa di primavera, come il ritratto della Gioconda e di Mona Lisa, ne' quali ha espresso tra l'altre parti maravigliosamente la bocca in atto di ridere, 3 e le faccie delle lor donne amate in vaghissima maniera abbellite, come quelle di Raffaello, di Andrea del Sarto, di Giorgione da Castelfranco e di altri che nel ritrarle sono stati mirabili, come il Palma, Sebastiano, il Mazolino, il Tinto-

cassatura di occhi, profilo di naso, sfenditura di bocca e capegli sl divini, mani, braccia, ginochia e piedi; et in somma tutto quello che quivi fece è da fare che gli occhi né stancare né saziare vi si possono già mai. Veramente chi risguarda la bellezza de' calzari e della corazza, celeste lo crede e non mortale». Ma vedi anche la interpretazione più idealizzante di N. MARTELLI in una lettera del 28 luglio 1544 al Rugasso, in BAROCCHI, Vita di Michelangelo, III, pp. 993 sg.: e [Michelangelo] non tolse dal Duca Lorenzo né dal Sig. Giuliano il modello appunto come la natura gli aveva effigiati e composti, ma diede loro una grandezza, una proporzione, un decoro, una grazia, uno splendore, qual gli parea che più lodi loro arrecassero, dicendo che di qui a mille anni nessuno non ne potea dar cognizione che fossero altrimenti, di modo che le genti in loro stessi, mirandoli, ne rimarrebbero stupefatti 11. I. Il riferimento ai poeti vuole evidentemente valorizzare la loro imitazione; cfr. CASTELVETRO, qui pp. 2,712, sg. e le note relative. 2. Dalla precettistica alla esemplificazione di casi nobili e vari. 3. Evidente lapsus, sul quale vedi C. PEDRETTI, Studi Vinciani, Genève 1957, pp. 137 sg.: •La congiunzione e può essere veramente un errore di stampa da sostituirsi con un o. La frase risulterebbe allusiva ad un solo soggetto•.

2 744

XVI • I RITRATTI

retto, il Bordoni, e de' Germani il Durero, il Dionatense, Girolamo Cocco, il Bertano, 1 l'unico Giacomo da Trezzo nelle medaglie, tra le quali sono miracolose le due d'Isabella Gonzaga, principessa di Malfetta, e di Donna Ippolita sua figliola, alla quale diede gl'abiti e l'aria di Diana, e fece nel roverscio della prima una donna in abito matronale appresso un altare sopra cui arde un fuoco che avampando dilegua le nubi, e nella seconda l'Aurora nel schiarir dell'alba, che sparge fiori sopra il carro con la facella ne l'altra mano, tirato dal cavai Pegaso,2 con cui va di par Alessandro Greco, il quale espresse di cavo in acciaio papa Paolo Terzo con tanta maraviglia di Michelangelo, che giudicava tanto incavo non essere possibile di farsi ;3 e de' scultori Agosto Zarabalia, Alfonso Lombardi, frate Guglielmo dal Piombo, Tomaso Cavaliere e Giacobo da Val Solda ;4 e de' moderni pittori Scipione Gaetano, massime nel ritratto di Gregorio XIII e del Cardinal Granvela, dove vediamo tutto il più bello della natura, come la dignità del volto in quello, et in questo la magnificenza ;5 di Giovanni Monte cremaI. Evidente lapsus. Sul mantovano Giovanni Battista Bertani cfr. «Mantova. Le Arti», 111, Mantova 1965, pp. 3 sgg. Su Hieronymus Cock cfr. VASARI, 1568, II, pp. 309 sgg. [v, pp. 436 sgg.]. 2. Cfr. VASARI, 1568, II, p. 292 [v, pp. 387 sgg.], e MILANESI, v, p. 388 e la nota 2. 3. Cfr. VASARI, 1568, II, p. 291 [v, pp. 385 sg.]: «Molto ... ha passato innanzi a tutti in grazia, bontà et in perfezione, e nell'essere universale, Alessandro Cesari, cognominato il Greco, il quale ne' cammei e nelle ruote ha fatto intagli di cavo e di rilievo con tanta bella maniera, e così in coni d'acciaio in cavo con i bulini ha condotte le minutezze dell'arte con quella estrema diligenza, che maggior non si può imaginare, e chi vuole stupire de' miracoli suoi, miri una medaglia fatta a ·Papa Pavolo terzo del ritratto suo che par vivo, col suo rovescio dove Alessandro Magno che, gettato a' piedi del gran sacerdote di lerosolima, lo adora, che son figure da stupire e che non è possibile far meglio, e Michelagnolo Buonarroti stesso guardandole, presente Giorgio Vasari, disse che era venuto l'ora della morte nell'arte, percioché non si poteva veder meglio•· 4. Su Alfonso Lombardi cfr. VASARI, 1568, 11, pp. 175 sgg. [v, pp. 83 sgg.]; su Guglielmo della Porta cfr. VASARI, 1568, II, pp. 843 sgg. [vu, pp. 544 sgg.]. 5. Sul Pulzone cfr. BoRGHINI, p. 578: « Nella medesima città [Roma] è Scipione Pulzone da Gaeta, molto eccellente nel fare i ritratti di naturale, e talmente sono da lui condotti che paion vivi. Laonde gli è bisognato ritrarre tutti i signori principali di Roma e tutte le belle donne, che lunga cosa sarebbe a raccontare tutti i suoi ritratti; ma basti dire particolarmente che egli ha ritratto Papa Gregorio XI II, il Cardinal Farnese, il Cardinal Granvela, il Cardinale Ernando Medici et il sig. Don Giovanni d'Austria, che per esser ritratto da lui il fece andare a posta a Napoli, di dove egli ne riportò utile et onore. Et in somma nel far ritratti è tenuto Scipione da tutti maraviglioso ».

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2 74S

sco e Gioseffo Arcimboldi milanese ne' ritratti di Massimiliano Imperatore, ove si vede risplendere la maestà imperiale, 1 si come nel Catolico Re Filippo, nel ritratto del Principe suo figliuolo di mano di Sofonisba Angosciuola, 2 di Antonio del Moro e di Alonso Sanchio3 riluce nell'una la grandezza e gravità, e nell'altro l'altezza dell'animo; e finalmente quello di Carlo Emanovello duca di Savoia di Georgia Solerio, d'Alessandro Ardente lucchese e del Decio, dove parimenti si vede osservato questo decoro,4 per non dire per ora di molti altri che in questa parte sono dignissimi di grandissima lode: fra i quali non sono de' secondi, in cosl fresca età, Ambrogio Figino, come si vede nel bellissimo et artificiosissimo ritratto ch'à dipinto dell'eloquentissimo padre Panigarola minore osservante di Santo Francesco, e Girolamo Ciocca, tutti due milanesi e miei discepoli. 5 Per il che non ci dee parere giamai alcuna 1. Cfr. B. GEIGER, I dipinti ghiribizzosi di Giuseppe Arcimboldi, Firenze 1954, pp. 35 sg.: « L' Arcimboldi eseguì ..• i ritratti degli Imperatori ... dei quali lodatissimo quello di Massimiliano II .•. nonché quelli di molti personaggi della corte, resi alle volte illusionisticamente, o in caricatura. I ritratti veri e propri, conformi, per modo di dire, al naturale, eccezion fatta per l'autoritratto, non si son conservati, oppure non vennero, se ancora esistono, identificati fin ora». 2. Sulla fortuna dei ritratti di Sofonisba Anguisciola cfr. VASARI, 1568, II, p. 562 [vI, pp. 498 sg.]: « In Piacenza sono di mano della medesima, in casa del signor archidiacono della chiesa maggiore, due quadri bellissimi: in uno è ritratto esso signore e nell'altro Sofonisba: l'una e l'altra delle quali figure non hanno se non a favellare. Costei essendo poi stata condotta ••. dal signor duca d' Alva al servigio della reina di Spagna, dove si truova al presente con bonissima provisione e molto onorata, ha fatto assai ritratti e pitture che sono cosa maravigliosa ». Vedi anche MILANESI, VI, p. 499 nota 1 : • L'andata in Spagna di Sofonisba fu nel 1559 ... Essa fu accolta cortesemente in quella Corte; e poco dopo il suo arrivo fece il ritratto del re, il quale per ricompensa le assegnò un'annua pensione di 200 scudi ... Ritrasse anche la regina e l'infelice principe don Carlo; ma quello della regina perl nell'incendio del Prado, dove si vedeva tuttavia nel 1582». 3. Cfr. VASARI, 1568, II, p. 859 [vn, pp. 585 sg.]: «È anco stimato assai Antonio Moro di Utrech in Olanda, pittore del re Catolico; i colori del quale, nel ritrarre ciò che vuole di naturale, dicono contendere con la natura et ingannare gl'occhi benissimo». 4. Giorgio Solerio, Agostino Decio e Alessandro Ardente (faentino e non lucchese) furono operosi in Piemonte negli ultimi deceruù del secolo. 5. R. P. C1ARDI, Giovan Ambrogio Figi110, Firenze 1968, p. 74, commenta: • Abbondanza di superlativi indiscriminatamente attribuiti al ritrattista ed al personaggio ritratto, genericità di aggettivi; si tratta più che altro di un omaggio (quanto dettato da sincera stima e quanto dovuto ad affetto di maestro verso il discepolo non so). L'abilità del Figino è qui già rilevata soprattutto nel campo della ritrattistica e ne ricaviamo l'affermazione precisa che Ambrogio fu discepolo del Lomazzo. Più in-

XVI • I RITRATTI

fatica troppo grave per apprendere quest'arte, essendo di tanto diletto et ornamento, facendo espressamente vedere tante diverse fisionomie d'uomini e di donne, che ravvivando ne gl'animi nostri la memoria delle virtù de gli antecessori grandi et illustri, ci ven-gono a servire non solamente per essempio, ma anco per uno stimolo d'emulare i fatti e le imprese loro, caminando per i vestigi ch'egli ci hanno lasciato segnati et impressi. 1 Onde abbiamo principalmente d'essere grandemente obligati a rendere continovamente grazie singolari a Cristo nostro Signore, che volle esso medesimo esser pittore, stampando la sua sacratissima effigie nel velo di Santa Veronica, acciò che restasse a' posteri per uno essempio singolare di lui che gl'inchinasse ad amarlo è riverirlo vedendola, come si vede in Roma. 2 E doppo Cristo abbiamo da riverire Santo Luca Evangelista, che ci abbia lasciato scolpito di sua mano il ritratto della Vergine Maria col suo figliuolo in braccio in Roma, 3 di cui si crede che siano ancora le effigie di Santo Pietro e Paolo; oltre molti ritratti di pontefici santissimi èt altri santi, come Santo Tomaso d'Aquino e altri infiniti, i quali oltre il diletto che ci apportano nel vedergli, non è dubio che ci edificano assai. 4 Oltre le sacre effigie si vede anco di quanto ornamento siano a gl'imperatori, re e prìncipi il veder le statove, medaglie e pitture de gl'altri famosi, poi che ne fanno i musei, come ha l'Imperatore,

teressante e problematico può apparire quell'accenno al Figino, che sarebbe stato allora in "cosi fresca età". Anche correggendo l'inesatta data di nascita tradizionale [in 1554-57], il Figino doveva essere, aWatto della pubblicazione del Trattato del suo maestro, ormai trentenne, e nella piena maturità di pittore, quando si pensi come fossero precoci nel sec. XVI le prime prove degli scolari di pittura. Può darsi che il passo sia stato scritto assai prima della pubblicazione, ma può anche darsi che si tratti (l'accomunare insieme i due discepoli, Figino e Ciocca, quest'ultimo figura quasi insignificante ed assai meno importante del primo) di un accenno generico fatto più per mettere in risalto la bravura degli scolari nominati di "cosl fresca età" che di una notazione documentaria esattamente rispondente alla realtà. Se cosi fosse, il passo in esame, già di per sé assai generico, si sfumerebbe maggiormente, acquistando il solo valore di obbligato elogio di maniera, secondo gli schemi diffusi del tempo•· Sul disperso ritratto del Panigarola cfr. anche l'elogio di CoMANINI, pp. 254 sg. I. Diversamente dal PALEOTTI, qui pp. 2715 sg., Lomazzo accetta con entusiasmo il fine didascalico dei ritratti, senza sottoporli a classificazioni. 2. Si torna ai ritratti di santi; cfr. PALEOTTI, qui pp. 2731 sgg. 3. Cfr. PALEOTTI, qui p. 2733. 4. Cfr. PALEOTTI, qui pp. 2731 sgg.

GIOVAN PAOLO LOMAZZO

2

747

il Re di Francia a Fontanable6, il Re di Spagna, il Duca di Savoia, il Gran Duca di Toscana, il Duca di Baviera, Paolo Giovio vescovo di Nocera et in somma molti altri principi e signori. 1 Nel che si vede tutto quello di cui la nostra mente non può più desiderare di vedere; eccetto se non si vedessero i grandissimi musei e le pitture inestimabili di quelli antichi imperatori e principi eh' erano pittori ancora, come di Nerone, Valeriano, Alessandro Severo et ancora dei Manilii, Fabii, Turpilii et Emilii e parimenti de gl'altri che non solo la usarono, ma se ne delittarono grandemente, come fu Demetrio Falereo, al quale furono fatte trecento sessanta statove parte a cavallo, parte in carette, parte in cocchi, in termine di quattrocento giorni. 2 Per non dire delle grandissime statove e pitture di Silla, di Lucullo, d'Ottavio e di Semiramis appresso a' Babilonii, la quale, come racconta Diodoro Siculo, nel circuito dell'una delle due corti regali avendo fatto fabricare in Babilonia il ponte che attraversava l'Eufrate, vi fece dipingere diversi animali ciascuno del suo colore al naturale per il circuito di trenta stadii. D'onde possiamo argomentare che la pittura era allora in più uso e stima ch'adesso; sì come le statove erano medesimamente di molto maggior bontà e grandezza che le moderne, come n'appare da una statova che l'istessa Semiramis fece intagliare in un sasso alto diecisette stadii, et un'altra di metallo con i capelli da una banda I. Dalle effigie sacre a quelle degli uomini potenti ed illustri; cfr. PALEOTTI, qui pp. 2723 sg. Sul collezionismo del Giovio, che nel 1546 pubblicò la descrizione del proprio museo, cfr. la nostra sezione XVIII. 2. Per Nerone cfr. SVETONIO, Nero, LIII, TACITO, A11n., Xlii, 3, per Valentiniano (e non Valeriano) cfr. A. MARCELLINO, xxx, 9, 4, per Alessandro Severo cfr. LAMPADIO, ~11. Per i 1.\llanilii cfr. PLINIO, xxxv, 23, per i Fabii cfr. PLINIO, xxxv, 19, per i Tllrpilii cfr. PLINIO, xxxv, 20, per gli Emilii cfr. PLINIO, xxxv, 23. Per Demetrio cfr. PLINIO, XXXIV, 27. Per tutti cfr. ALBERTI, p. 79: « Molte cose raccolse Plinio, per le quali tu conoscerai i buoni pittori sempre stati appresso di tutti in molto onore, tanto che molti nobilissimi ciptadini, philosafi ancora e non pochi re, non solo di cose dipinte ma e di sua mano dipignierle assai si dilettavano. Lucio Manilio, ciptadino romano, e Fabio, uomo nobilissimo, furono dipintori; Turpilio cavaliere romano dipinse a Verona ••. Nerone, Valentiniano et Alessandro Severo imperadori furono studiosissimi in pittura. Ma sarebbe qui lungo racontare a quanti prìncipi e re sia piaciuto la pictura et ancora non mi pare da racontare tutta la turba delli antiqui pictori, quale quanto fusse grande vedilo quinci, che a Demetrio Falerio, figliuolo di Fanostrato, furono, fra quattrocento di, trecento sessanta statue parte ad cavallo parte su i carri compiute•. Vedi anche VARCHI, qui I, pp. 52,5 sg., PINO, pp. 107 ag., DOLCE, pp. 158 sgg.

XVI · I RITRATTI

sciolti e dall 1altra intrecciati. 1 Potrebbesi andar ricordando d'altri musei ancora d'antichissimi re, prima e doppo di Egitto, come al tempo dell'antichissimo Mennone e de gl'altri famosi pittori de gli ieroglifici e sacre pitture, delle quali ne furono disegnate al sepolcro di Simandio grandissimo re d'Egitto, oltre che vi erano grandissime figure e ritratti dei giudici e di tutti li dèi d'Egitto coi doni che si gl'offerivano conformi alla lor natura, et in altre con tutti gl'animali atti a' sacrifici, i quali ascendevano verso la sepoltura del corpo di detto re; dove si vedeva dipinto ciascun giorno dell'anno, il nascere et il tramontare delle stelle et il lor significato (secondo la dottrina d'essi Egizzii), particolarmente in ciascuno de li 365 spazi di un brazzo l'uno di grossezza; il qual loco tutto era circondato da un grandissimo cerchio d'oro massiccio, che fu levato poi da Cambise re di Persia. Né è da tacere il gran ritratto che volse fare ad Alessandro Magno Dinocrate nel grandissimo monte Atos, nel quale voleva che nella man sinistra avesse tenuto una città capace di diece milla persone, si come racconta Vitruvio ;2 benché molti maggiori sono i ritratti intellettuali, i quali dalle mani de gl'artefici sono posti in forme naturali all'occhio, esprimendo il concetto della sua mente over idea. 3 Per il che non ho mai ritrovato che alcuno pittore o scultore, cosi antico come moderno, abbi già mai tenuto ne' suoi secreti studi altri disegni o rilievi, fuor che quelli da i quali potessero ritrovare contento e satisfazzione ne i loro studi e concetti .. .4 r. Cfr. DIODORO, Bibl., III, 4, ERODOTO, I, 184, e PALEOTTI, p. 187. Cfr. VITRUVIO, 11, 1, 2: « Conspexit [Dinocratem] Alexander. Admirans ei iussit locurn dari, ut accederet, interrogavitque quis esset. At ille: "Dinocrates," inquit "architectus Macedo, qui ad te cogitationes et formas adfero dignas tuae claritati, namque Athon montem formavi in statuae virilis figuram, cuius manu laeva designavi civitatis amplissimae moenia, dextera pateram, quae exciperet omnium fluminum, quae sunt in eo monte, aquam, ut inde in mare profunderetur" 11 (FERRI, pp. 67 sgg.: « Alessandro lo vide [Dinocrate], lo ammirò e comandò che si lasciasse avvicinare. Interrogatolo chi fosse, "Sono Deinokrates," egli rispose "architetto macedone e ti porto progetti e cose belle degne della tua fama. Ho ideato infatti il monte Athos in figura di statua virile, nella cui mano sinistra ho tracciato le mura di una grandissima città e nella destra un gran piatto ove confluiscano tutte le acque del monte per poi cadere in mare"»). 3. Cfr. L. GRASSI, Lineamenti per una storia del concetto di ritratto, in II Arte antica e moderna n, IV (1961), p. 482: «Ne consegue [dal precedente ragionamento del Lomazzo] ... la superiorità dei ritratti intellettuali, che riflettono il concetto e la idea dell'artefice, su quelli che tali non sono». 4. Il ritratto intellettuale può dunque favorire anche lo studio di particolari soluzioni formali. 2,.

GIOVAN BATTISTA ARMENINI DE' RITRATTI DEL NATURALE, E DOVE CONSISTE LA DIFFICULTÀ DI FARLI BENE, E DA CHE PROCEDE CHE LE PIÙ VOLTE QUELLI CHE HANNO MAGGIOR DISSEGNO E CHE SONO PIÙ CELEBRI DEGLI ALTRI, LI FANNO MEN SOMIGLIANTI DI QUELLI CHE SONO MEN PERFETTI DI LORO

Sono molti uomini veramente, i quali grandissima meraviglia si fanno e di soprema eccellenza tengono quel pittore, che nel fare un ritratto dal vivo s'accosta così al vero, che a essi paia esserli riuscito troppo simigliante. L'opinion de' quali io stimo non derivar tanto da l'esser essi di ciò ignoranti, quanto dalla condizion del soggetto, il quale in sé stesso è desiderabile quasi da ognuno, conciosia cosa che, contrafacendosi l'effigie vera con quelle materie le quali siano per durar qualche tempo, si provede in gran parte al nome et alla posterità di quelli, perch' egli è tale che per ciò si conoscono e si manifestano le virtù loro per molti secoli; e perché nel così vederli non solamente si rappresenta l'imagin sua vera, ma si ritorna in memoria ancora tutte le sue virtù e prodezze che sono per il mondo sparse, sl come intraviene de' sepolcri in dar notizia ai posteri delle cose passate; e di più gli accresce ancora in confermazion del creder loro il conoscimento, ch'essi hanno ivi presente, del vedere il finto et il vero ad un tratto, il che li causa che in altre pitture più difficili, e fatte con maggiore studio, non gli pare da un pezzo di cosi gran magistero. 1 Ma sappiasi di certo ch'in materia de' ritratti non è da spenderci tempo a mostrarvi le vie, poiché da mediocre ingegno può esser posseduto a bastanza, tuttavolta ch'egli sia prattico ne' colori e che per lungo uso egli tenga in mente le tinte vere; anziché fra i valenti pittori, considerando essi le cose difficili che veggono esser nell'arte, non vi mettono l'animo volontieri, percioché discorrendo alla perfezzion dell'arte, essi ben sanno quello che pochi conoscono e che dal volgo e da' bassi ingegni a più poter si fugge. Et è certo Da De' veri precetti della pittura, Ravenna 1587, pp. 189-92. I. Gli ef.. fetti esteriori del ritratto inducono a falsi giudizi, simili a quelli relativi al colore-materia (cfr. ad esempio ARMBNINI, qui II, p. 2281, III, p. 2700.

XVI · I RITRATTI

che altro studio, altra industria, altra intelligenza et altra fatica è di mestieri intorno a fare uno overo più ignudi della grandezza del naturale coloriti, i quali siano con tutti i muscoli e con tutti i sentimenti posti a' lor proprii luoghi, e che appresso siano ombreggiati e lineati in maniera che si mostrino uscir fuori di dove essi stanno dipinti; e perciò io dico essersi per prova veduto più volte che, quanto più gli uomini sono stati profondi nel dissegno, essi tanto meno han saputo fare i ritratti :1 il che procede, per quanto io conosco, percioché consiste tutta la difficultà del farli che rassomigli, a dissegnarli talmente, che punto non si muti, né con linee né con colori, del proprio esser suo, il che da quelli di mediocre ingegno con molta pazienzia si conduce con osservar tutte le variazioni delle carni e le minutezze nel modo che in quello che essi imita[n] si scuopre. E questo è che li predetti pittori patiscono troppo male, per essere usati nelle opere loro ad esser maestrevoli, facili et ispediti; il che aviene per cagion della loro buona maniera antica, con la quale essi esprimono tuttavia ogni loro cosa, e perché, per esser perfettissima fra l' altre, essi sono sforzati af'atto torsi da' termini di quel goffo e debole che nelle faccie si trova tuttavia ne' naturali: onde il più delle volte i ritratti, i quali son fatti per mano degli eccellenti, si trovano essere con miglior maniera e con più perfezzion dipinti che non son gli altri, ma le più volte men somiglianti. Il che cosi ci è chiaro.2 Né perciò io niego che non ce ne siano stati de' buoni, i quali hanno fatto benissimo, conciosiacosa che se ne trovano pur molti per mano di Raffaele in Fiorenza, già da lui fatti in Roma al tempo di Leone e di Clemente, ritratti da lui miracolosamente con Bindo Altoviti. 3 lo n'ho veduto ancora alcuni di frate Sebastian dal Piom1. L'artificio pittorico, come quello poetico (cfr. CASTELVETRO, qui pp. 2712 sgg.), supera i limiti della verosimiglianza esterna. 2. Si torna alla distinzione tra imitare e ritrarre; cfr. CASTELVETRO, qui p. 2713 e la nota 1.

Vedi L. GRASSI, Lineamenti per una storia del concetto di ritratto, in «Arte antica e moderna•, IV(1961), pp. 482 sg.: «La situazione del Lomazzo, in seno alla teoretica del tardo Manierismo, si dichiara evidentemente a proposito della sua preferenza per il ritratto intellettuale, rispetto a quello basato semplicemente sulla somiglianza. Questa linea, che del resto .•• è precedente al Lomazzo stesso, conduce poco dopo ... alla decisa svalutazione del ritratto, da parte di un altro trattatista: Giambattista Armenini ». 3. Cfr. VASARI, 1550, p. 656, e 1568, 11, p. 77 [1v, p. 351]: «Et a Bindo Altoviti fece [Raffaello] il ritratto suo, quando era giovane, che è tenuto stupendissimo ».

GIOVAN BATTISTA ARMENINI

bo in Milano appresso al sig. Marchese di Pescara, che invero li trovai miracolosi. 1 Non tralasciarò Francesco Parmegiano, detto di sopra, di cui si vedono bellissimi ritratti, ma particolarmente uno di sé stesso dentro uno specchio, ch'è miracoloso, tenuto oggidi dal Patriarca d'Aquilea, 2 oltra l'Achillino da Bologna et altri. 3 Similmente Luca Longhi da Ravenna, tutto che non fosse quasi mai uscito della sua patria, e nell'altre parti della pittura caminasse tra' primi dell'età sua e nel colorire non avesse forsi chi l'avanzasse, come dimostrano l'opere sue, sl quasi in tutte le chiese di Ravenna, come in Ferrara et in alcune altre principal città d'Italia,4 in questa parte nondimeno de' ritratti è stato si eccellente, che molti signori e prencipi hanno voluto esser ritratti da lui, cominciando fin dalla sua gioventù ... Ma il vero mastro in questo fare è stato Tiziano da Cadoro, il quale per contrafare il naturale d'ogni cosa ha superato ogniuno; 5 1. Cfr. VASARI, 1550, p. 900, e 1568, II, p. 343 [v, p. 573]: 11E per vero dire il ritrarre di naturale era suo proprio [di Sebastiano Viniziano], come si può vedere nel ritratto di Marcantonio Colonna, tanto ben fatto, che par vivo. Et in quello ancora di Ferdinando marchese di Pescara, et in quello della signora Vettoria Colonna, che sono bellissimi. Ritrasse similmente Adriano sesto, quando venne a Roma, et il cardinale Nincofort ... ». 2. Cfr. VASARI, 1550, pp. 846 sg., e 1568, II, p. 232 [v, pp. 221 sg.]: a Per investigare le sottigliezze dell'arte, si mise [il Parmigianino] un giorno a ritrarre sé stesso, guardandosi in uno specchio da barbieri, di que' mezzo tondi. Nel che fare vedendo quelle bizzarrie che fa la ritondità dello specchio, nel girare che fanno le travi de' palchi, che torcano, e le porte e tutti gli edifizi che sfuggono stranamente, gli venne voglia di contrafare per suo capriccio ogni cosa. Là onde fatta fare una palla di legno al tornio, e quella divisa per farla mezza tonda e di grandezza simile allo specchio, in quella si mise con grande arte a contrafare tutto quello che vedeva nello specchio, e particolarmente sé stesso tanto simile al naturale, che non si potrebbe stimare né credere. E perché tutte le cose che s'appressano allo specchio crescono, e quelle che si allontanano diminuiscono; vi fece una mano che disegnava un poco grande, come mostrava lo specchio, tanto bella, che pareva verissima. E perché Francesco era di bellissima aria, et aveva il volto e l'aspetto grazioso molto e più tosto d'angelo che d'uomo, pareva la sua effigie in quella palla una cosn divina: anzi gli successe cosi felicemente tutta quell'opera, che il vero non istava altrimenti che il dipinto, essendo in quella il lustro del vetro, ogni segno di reflessione, l'ombre et i lumi sl propri e veri, che più non si sarebbe potuto sperare da umano ingegno». 3. Non menzionati dal Vasari. 4. Cfr. MILANESI, vn, p. 42.I e la nota r, GRASSI, Armenino, p. 13: a Luca Longhi da Forlì (che il nostro cita per spirito di campanile accanto ai grandi, sebbene sia stato effettivamente buon ritrattista) ... •· 5. Giudizio unanime, colorito talvolta dell'aneddotica antica; cfr. ad esempio V ARCHI, VASARI, qui I, pp. 529, 497, DOLCE, p. 161.

XVI · I RITRATTI

e per essere infinite l'opere et i ritratti fatti da lui cosi per Italia come fuori, tra quali furono quelli di Paolo Terzo Farnese col nipote in un quadro, 1 Carlo Quinto, il sig. Canino, et altri infiniti, che non ci affaticaremo a raccontarli per minuto altrimenti, come non punto necessari i; e di ciò sia detto a bastanza. 2

1. Cfr. ancora VARCHI, VASARI, qui I, pp. 529,497, DoLCE, p. 161, e VASARI, 1568, n, pp. 811 sg. [vn, pp. 443 sg.]. 2. Cfr. LOMAZZO, qui p. 2742 e la nota 5.

XVII

IMPRESE

Mentre le dispute sul primato delle arti (pittura, scultura, poesia) mettevano in luce i loro mezzi espressivi (cfr. la nostra sezione 1v), monsignor Paolo Giovio, applicandosi quasi per «trastullo» ai ,,motti e disegni d'arme e d'amore che communemente chiamano imprese», fu tra i primi a valorizzarne la singolare problematica relativa all'ut pictura poiisis del motto e della figura. Il loro abbinamento implicava condizioni particolari, legate alle prerogative dei vari linguaggi, e d'altra parte imponeva l'esigenza di un sottile ed astratto equilibrio nel quale venivano necessariamente a specchiarsi le varie aspirazioni letterarie, filosofiche e figurative contemporanee. Si apriva, in altre parole, la prospettiva di un avvincente esercizio mentale, nel quale la coerenza fra i traslati in immagini e quelli in parole implicava un rapporto indiretto, cioè dimostrativo, non solo con la realtà sociale, civile e sentimentale dei destinatari, ma soprattutto, ed è ciò che qui importa, con le convinzioni dei pittori e dei poeti. Se i pittori, ad esempio, avevano definito la poesia ,, pittura cieca» e i poeti la pittura e< poesia muta», difendendo entrambi i propri valori conoscitivi (nel senso della universalità e della sintesi del linguaggio figurativo, e della durevolezza e spiritualità del linguaggio poetico), ora le discussioni dovevano placarsi nei concertati giochi di una realtà riflessa e mediata, ben diversi dal semplice rapporto natura-arte della imitazione tradizionale. Nel registro tutto particolare dell'impresa la «giusta proporzione» che proprio il Giovio auspica tra l'anima (il motto) e il corpo (la figura) ci riporta alla distinzione tra la materialità del linguaggio figurativo e la immaterialità di quello letterario ed aspira ad una misurata medietas di espressione, ad una «bella vista» (di e< stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti mecanici, animali bizarri et uccelli fantastichi») che rinvia alla universalità della pittura e in modo particolare a quella delle Loggie di Leone X che Raffaello riempì, a detta dello stesso Giovio, «pari elegantia, sed lascivienti admodum penicillo ... florum omnium ac animantium spectabili varietate ». La stessa ideale con-venienza induce lo scrittore ad escludere dall'impresa la figura umana, che implicava evidentemente ruoli espressivi diversi (storici, allegorici ecc.), e a sconsigliare per il motto l'idioma di colui che fa l'impresa, proprio perché la tenuta espressiva dell'insieme non cedesse ad una / acilità eccessiva.

XVII • IMPRESE

Le stesse preoccupazioni classicistiche inducono il Ruscelli a fissare nel 1556 i limiti di convenienza di luogo delle imprese, riservandole a porte, ritratti, sigilli, medaglie e libri, mentre il legame tra motto e figura si fa cosi stretto che esige norme tutte particolari per una proficua intelligibilità: limitazione del numero delle parole e delle figure e soprattutto una integrazione che non ammette scissioni («ugualmente vi sieno necessarie ambedue queste cose insieme, cioè le figure et il motto, le quali insieme vengano a rappresentare interamente l'intenzione dell'autor dell'impresa»). Da una problematica stilistica si passava necessariamente ad una problematica linguistica che, riducendo l'impresa a segni (cc In quanto a i segni conobbe [chi per primo ritrovò l'imprese] niuno esser più comodo a tal effetto che le figure e le lettere»), si distaccava dalla imitazione per affrontare la e< similitudine», cioè un «singolar concetto d'animo» fatto appunto «con figura d'alcuna cosa naturale ovvero artifiziale, da brevi ed acute parole necessariamente accompagnata» (Bargagli). Si attua cosi l'autonomia dell'impresa, il cui rapporto essenziale consiste nella comparazione degli elementi figurativi e letterari, che vengono sottoposti a controlli sempre più sottili. Si discute, ad esempio, sulla opportunità di usare, superata la gerarchia figurale del Giovio, la figura umana per immagini poetiche (Contile), storiche e favolose (Taegio, Ercole Tasso), e la si pone a confronto con la figura chimerica ( Contile); sulla scelta della lingua per il motto, e si prospettano gli inconvenienti e i vantaggi d'una più o meno agevole comprensibilità; sull'uso del colore, che appare eccessivamente descrittivo nei confronti di una equazione logica (Ruscelli, Taegio ), e se ne prospetta una applicazione simbolica (Capaccio), che viene subito scartata come pericolosa nel necessario contrasto figurativo-letterario (Chiocco ). Si studiano effetti peregrini, raccomandando per il motto voci simili di suono ma dissimili di significato, in modo da vivificare e puntualizzare l'attitudine della figura e suscitare stupore e meraviglia (Ammirato). Il motto appare così sempre più determinante nei confronti della polivalenza dell'immagine e spetta ad esso ogni chiave di identificazione (Contile). Da qui una valutazione sempre più contenutistica o concettualistica dell'impresa: dalla semplice «unione proporzionata di anima e di corpo » ( Giovio) alla «significazione della mente sotto un nodo di parole e di cose », intesa come «filosofia.del cavaliere» (Ammirato), al «simbolo

XVII • IMPRESE

2757

constante di figura naturale overo artificiale ... e di parole proprie o semplicemente transiate» (Ercole Tasso), che implicava non solo «un nombre acero de qualités techniques » (Klein), ma anche affermazioni sempre più soggettive: «A mesure que l'art se compliquait ... au lieu de témoigner du porteur et de son tempérament, elle [l'impresa] témoigne de l'auteur et de son ingegno» (Klein). Anche in una poetica così virtuosa e talvolta irritante, persino per uno spirito bizzarro ma non rigoroso come il Doni, gli aspetti figurativi acquistano un loro particolare significato; non solo nel trapasso dell'ut pictura poesis da naturalistico (contemplato appunto nelle dispute sulle arti) a mentale, ma soprattutto nel rapporto con la più semplicistica simbologia cromatica contemporanea (cfr. la sezione XIII).

PAOLO GIOVIO LE CONDIZIONI UNIVERSALI CHE SI RICERCANO PER FARE PERFETTA IMPRESA

Gio.... Sappiate adunque, M. Lodovico mio, che l'invenzione o vero impresa, s'ella deve avere del buono, bisogna ch'abbia cinque condizioni: 1 prima, giusta proporzione d'anima e di corpo; 2 seconda, ch'ella non sia oscura di sorte ch'abbia mestiero della Sibilla per interprete a volerla intendere, né tanto chiara, ch'ogni plebeo l'intenda ;3 terza, che sopratutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, Da Ragionamento di Mo1is. PAOLO Gmv10 sopra i motti e disegni d'anne e d'amore che commrmemente chiamano imprese, Venezia 1556, pp. 6-11. Gli interlocutori del dialogo sono lo stesso Paolo Giovio e Lodovico Domenichi; cfr. la dedicatoria al duca Cosimo, p. I: 11 Avend'io tralasciata l'istoria, come fatica di gran peso, mi sono ito trastullando nel discorrere col virtuosissimo e gentil messer Lodovico Domenichi, che a ciò m'invitava, sopra }'invenzioni dell'irnprese che portano oggidì i gran signori. Di modo che essendomi riuscito questo picciol trattato assai piacevole e giocondo e non poco grave per l'altezza e varietà de' soggetti, mi sono assicurato di mandarvelo, pensando che vi possa esser opportuno passatempo in cosi fastidiosa stagione ». I. Il successo delle condizioni gioviane è probabilmente legato alla loro concreta problematica espressiva; cfr. KLEIN, p. 128: « Les premières ccrègles" n'étaient, en réalité, que des préceptes de convenance. Giovio en avait formulé cinq, qui sont restées célèbres ». Vedi anche FERRO, p. 6: 11 L'impresa è una invenzione dell'ingegno dell'uomo, composta di giusta proporzione d'anima e di corpo, cioè di brieve motto, diverso dall'idioma di colui che fa l'impresa, e di vaghe figure fuor dell'umana forma, in modo però che né per lo corpo oscura, né per le parole dubbiosa rimanga, per significare parte de' generosi pensieri che in sé egli ritiene. Questa stimo io che possa essere la definizione cavata dalla dottrina del Giovio e dalle condizioni addotte da lui per formarla, alle quali corrisponde ... È alquanto lunghetta, né tocca o dichiara la vera differenza come dovrebbe. Pure per mostrarsi verso lui grati, essendo a noi stato in questa materia primo maestro, non l'anderemo cavillando sopra il numero delle condizioni, come alcuni vanno facendo, né meno il riprenderemo ch'egli mancasse in qualche parte, sapendo ciò esser diffetto non del suo ingegno, ma dell'arti, le quali conforme all'opere tutte di natura s'incominciano sempre dall'imperfetto e vanno poi col tempo riducendosi alla perfezzione ». 2. Naturalmente l'anima è il motto e il corpo l'immagine, come il Giovio spiega subito dopo. L'ut pictura poesis dei due elementi appare come la chiave risolutiva dell'impresa. 3. Il linguaggio dell'impresa, nel suo gioco tra due elementi, prevede dei fruitori particolari, capaci di superare le necessarie difficoltà di collegamento. Si ricordi la ben più semplice esigenza classicista di una espressività facilmente leggibile (cfr. ad esempio DOLCE, qui I, pp. 793 sgg.).

XVII • IMPRESE

arbori verdeggianti, instrumenti mecanici, animali bizarri et uccelli fantastichi. 1 Quarta, non ricerca alcuna forma umana.2 Quinta, richiede il motto, che è l'anima del corpo, e vuole essere communemente d'una lingua diversa dall'idioma di colui che fa l'impresa, perché il sentimento sia alquanto più coperto. 3 Vuole anco esser breve, ma non tanto che si faccia dubbioso; di sorte che di due o tre parole quadra benissimo; eccetto se fusse in forma di verso, o integro o spezzato.4 E per dichiarare queste condizioni, diremo che la sopradetta anima e corpo s'intende per il motto o per il La bella vista delPimpresa sfiora alcune voci della rmiversalità della pittura (cfr. ad esempio PINO, DOLCE, qui I, pp. 764 sgg., 814 sgg.) ma insiste su aspetti più capricciosi e bizzarri. Cfr. M. PRAZ, Studies in Seventeenth-Century lmagery, Roma 1964, p. 63: cr The third requisite is naturally the most interesting when we think how fond they were in the seventeenth century of out-of-the-way notions as being those which supplied the best means of arousing astonishmcnt ». 2. La capricciosa invenzione delle imprese sembra escludere la forma umana per garantirsi una libera fantasia (cfr. FERRO, pp. 70 sgg.). 3. La diversità della lingua doveva favorire l'arditezza del rebus; cfr. FERRO, pp. 121 sg.: cr Il Giovio et altri danno per regola di farlo [il motto] in lingua differente da quella che noi favelliamo e di diverso idioma di colui che forma l'impresa, biasimando l'uso di farlo nella propria lingua, come usano fare gli Spagnuoli, aggiungendo che il cosl fare ha ormai preso forza d'inviolabile legge, dalla quale (scrive il Domenichi) doverebbero avere qualche essenzione i letterati, che sono persone privilegiate, e ciò dice adducendo l'impresa del Piccolomini col motto in lingua toscana. Il Ruscelli interpreta che ciò s'osservi, di fare i motti in lingua diversa, in quella sorte d'imprese che sieno per durare, ma non in quelle ch'hanno a servire per una sol volta et in occasioni giornali di mascherate, mostre, giostre, comedie, nelle quali ricercandosi maggior chiarezza, useremo la propria lingua, per non essere l'altre communemente note ad ognuno. Altri lodano nel motto le spagnuole e !'italiane e lasciano le latine, le greche, !'ebraiche e caldee. Alcuni tutte indifferentemente l'abbracciano, sia quanto si voglia la favella lontana et ignota, e quando da pochi vogliamo essere intesi, useremo la greca, l'ebraica, turchesca, schiavona e simili». 4. Sulla lunghezza del motto cfr. ancora G1ov10, Imprese, pp. 14 sg.: e Furono ancora a quei tempi più antichi alcuni grandi, a i quali mancando l'invenzione di suggetti, supplivano alla loro fantasia con motti che riescono goffi, quando son troppo lunghi, come fu il motto di Castruccio signor di Lucca, quando fu coronato Lodovico Bavaro imperatore et eg1i fatto senatore romano, che allora era grandissima dignità; il quale comparve in publico in un manto cremisino con un motto di ricamo in petto che diceva: Egli è come Dio vuole e di dietro ne corrispondeva un altro: E' sarà quel che Dio vo"à. Questo medesimo vizio della lunghezza de' motti fu anco (ben che sopra assai bel suggetto d'apparenza di corpo) in quello del signor Principe di Salerno, che edificò in Napoli il superbo palazzo, portando sopra il cimiero dell'elmo un paio di corna, col motto che diceva: Porto le corna ch 1og11'uomo le vede et qualch'altro le porta che 1101 crede, volendo tassare un certo signore che intemperatamente sparlava dell'onor d'una dama, avendo esso bella moglie e di sospetta pudicizia». 1.

PAOLO GIOVIO

suggetto; e si stima che, mancando o il suggetto all'anima, o l'anima al suggetto, l'impresa non riesca perfetta ... 1 Può molto bene essere ancor una impresa vaga in vista per le figure e per li colori, che abbia corpo et anima, ma che per la debite proporzione del motto al suggetto diventi oscura e ridicola ;2. come fu quella del duca Lorenzo de' Medici, il quale finse ne' saioni delle lance spezzate e stendardi delle genti d'arme (come si vede oggidì in pittura per tutta la casa) un albero di lauro in mezo a due leoni col motto che dice: lta et virtus, per significare che la virtù come il lauro è sempre verde. Ma nessuno poteva intendere quel che importassero quei duo leoni. Chi diceva che significavano la fortezza e la clemenza che favellano insieme cosi accozzati con le teste, e chi l'interpretava in altro modo; di sorte che un M. Domizio da Cagli, cappellano del Cardinale de' Medici, che fu poi papa Clemente VII, il qual cardinale era venuto a Fiorenza per visitare il duca Lorenzo ammalato di quel male, del quale poi fra pochi mesi si morì, s'assicurò, come desideroso d'intender l'impresa, di dimandarne M. Filippo Strozzi, invitato da l'umanità sua, dicendo:« Signor Filippo, voi che sapete tante lettere et oltre l'esser cognato, siete anco comes omnium horarum et particeps consiliorum del Duca, dichiaratemi, vi priego, che fanno quei due leoni sotto questo albero». Guardò sott' occhi M. Filippo e squadrò il ceffo del cappellano, il quale, ancor che ben togato, non sapeva lettere se non per le feste, e, come acuto, salso e pronto eh' egli era: «Non vi avvedete» disse «che fanno la guardia al lauro per difenderlo dalla furia di questi poeti, che corrono al romore, avendo udita la coronazione dell' Abbate di Gaeta fatta in Roma, acciò che non venghino a spogliarlo di tutte le fronde, per farsi laureati?». Replicò il cappellano, come uomo che si dilettava di far qualche sonetto che andava in zoccoli per le rime: «Questa è malignità invidiosa», soggiungendo: « Che domine importa al duca Lorenzo, che 'l buon papa Leone abbia cortesemente laureato l'abbate Baraballo e fattolo trionfare su l'elefante?». Di maniera che la cosa andò a l'orecchia del cardinale, e si prese una gran festa di M. Domizio, come di poeta magro e cappellano di piccola levatura.3 1. Dopo aver enunciato le cinque condizioni il Giovio passa ad una casistica minuta che abbiamo ritenuto opportuno tralasciare. 2. Si torna ai requisiti della quinta condizione; cfr. la nota 4 a p. 2760. 3. Esempio tipico della ricchissima casistica del Giovio, enunciato con viva e goduta partecipazione.

GIROLAMO RUSCELLI •.. Volendo ora venire a i modi di far !'imprese, dirò primieramente i luoghi ov'elle si convengono. 1 Fannosi dell'imprese sopra le porte delle case, o dipinte, o in scoltura, come è quella del chiarissimo signor Giovan Matteo Bembo, della quale fa così onorata menzione il Giovio. 2 Fansene sopra le porte delle camere o sopra le cornici (ove s'usano) da spalliere, in quadri di tela o di tavole, come i ritratti e gli altri tali. Benché in effetto io non lodo molto il far quadri dell'impresa sola, ma ne i ritratti o nell'altre Dal Discorso di GIROLAMO RUSCELLI intorno all'invenzioni dell'imprese, dell'insegne, de' tnotti e delle livree, pubblicato insieme al Ragionamento di Mons. PAOLO G1ov10 sopra i motti e disegni d, arme ed' amore che communemente chia111ano imprese, Venezia 1556, pp. 185-9, 192-4, 196 sg., 203, 205-9, 211-2. 1. Dopo aver commentato il testo gioviano sulle imprese, il Ruscelli affronta, sponte sua, il problema della convenienza di luogo. 2. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 103 sgg.: « DoM. Io vidi questi giorni passati sopra la tavola dello studio di Vostra Signoria il libro o quaderno de' suoi memoriali, et avendolo tolto in mano, vidi per entro, tra !'altre cose, che su in cima d'una carta erano notate sei tra lettere e sillabe, puntate tra loro, che me le ricordo molto bene, perché io vi fantasticai un pezzo attorno e non le potei mai intendere ... Onde ora che me lo ricordo, la priego che me le dichiari, tanto più essendo elle in materia d'imprese, ché sotto a loro era uno schizzo di disegno, con alcune lettere et alcune parole ... Le lettere erano queste e così puntate che col dito le verrò notando su questa mano e V. S. l'intenderà molto bene ... Un'N, un'O et una B, tutte insieme e puntata l'ultima. Poi un'I et un'O pur insieme e col punto in ultimo. Poi MAT. e B. SEN. e VEN. Et il disegno era un sole e sotto a quello una pianta d'un'erba, che per esser mal disegnata non s'intendeva. Ma V. S. vi avea scritto in greco cx[e](~wov et eravi poi notate P.I. e S.B. lettere sole e puntate et un motto attorno che diceva Dum voltJitur iste. G10. lo vi intesi subito che mi significaste le prime lettere, ma vi ho lasciato finir, godendo di far pruova della vostra miracolosa memoria. Le lettere in cima della carta erano per mio memoriale e dicono Nobilis loannis 1\1atthaei Bemhi, Senatoris Veneti, del quale è quella impresa che voi avete or detta e divisata com'ella stia. L'erba, come dalla parola greca, che molto ben vi siete ricordato, potrete aver compreso, è quella che communemente per tutto chiamano sempre viva. Le quattro lettere puntate, che le stan sotto, sono le prime del nome e cognome mio e di quei di Sebastian Munstero ... DoM. Quei nomi così appuntati, cioè il nome e cognome di V. S. e quello di Sebastian Munstero, credo io che sien quivi collocati da lui per rispetto che l,uno e l'altro di voi ha fatta onoratissima menzione dello splendor suo nelle sue istorie ... L'erba poi che non si secca mai, né per sole né per ombra, e così in greco come in latino, come ancora in lingua nostra, ha nome di sempre viva, mostra col nome e con la proprietà e natura sua l'intenzione dell'autore, e con le parole che le stan sotto Dum volvitur iste vuol inferire che finché il sole s'aggirerà intorno ai poli, sarà sempre viva la memoria e l'obligazione ch'egli e tutta la casa sua averanno all'amorevolezza et alla bontà di V. S. e del detto Munstero ..• •·

GIROLAMO RUSCELLI

sorti di quadri starà bene che o in cima o da basso, o dall'un de' lati nel fregio d'attorno, o in altro modo si faccia accomodar l'impresa in un pezzo o quadretto acconciamente, come si fa ancor del!' arme. Fanno l'Academie le loro imprese sopra la porta principale, sopra la catedra ove si legge, nelle scene, ne i libri che si stampano de' frutti dell'ingegno loro a nome commune dell'Academia; e ne i suggelli non debbono le buone Academie usar altro segno che la loro impresa, si come ancor molti begli spiriti privatamente usano ne i sigilli loro più volentieri la loro impresa particolare che l'arme della casa. Et il Petrarca dicono che solea usar alcuni sugelli non con arme, ma a guisa d'imprese, sl come era quello ov'era intagliato un lauro, con questo verso, che è nel suo canzoniere: L'arbor gentil, che forte amai molt'anni 1

et un altro, ov'era l'imagine di Madonna Laura, con quest'altro: Quel sol, che mi mostrava il camin dritto. 2

I quai due egli usava doppo la morte di lei. E l'altro, nel quale era intagliata l'imagine di lui stesso, che nudo sedeva a piè d'un lauro con una tempia appoggiata sopra la mano destra, e sotto a quel medesimo braccio un'urna che versava acqua di continuo, onde gli facea un lago d'attorno, et avea questo verso pur del suo canzoniere: In questo stato son, donna, per voi.3

Il che tutto scrive il gentilissimo Franco, se non che nel primo egli dice che non era intagliato con un lauro, come ho detto qui di sopra, ma una testa di Madonna Laura, la qual diversità potrebbe per aventura nascere o dalle stampe, o che pur quelle carte antiche, che io n'ho vedute, sieno state altre da quella ch'ei ne vide.4 Il che 1. Rime, LX, 1. 2. Rime, cccvi, 1. 3. Rime, cxxxiv, 14. 4. Cfr. N. FRANCO, Il Petrarchista, Vinegia 1541, in Li due Petrarchisti, dialoghi di NICOLÒ FRANCO e di ERCOLE G10VAi."'lNINI, Venezia 1623, p. 37: u E perché erano di-

versi sigilli [nella casa del Petrarca], è da credere che il Petrarca in varii propositi se ne servisse. Era in un di loro l'imagine di Laura, e di questo tenni per fermo ch'egli servito si fusse in morte di lei, per queste lettere che d'intorno vi stavano: Quel sol che mi mostrava il ca,nin destro. Perché il verbo mostrava significa essere già tramontato quel sole suo e fattogli notte oscura. Ne l'altro sigillo era la medesima testa di Laura, il quale innanzi che ella si morisse è da stimare che il Petrarca tenesse in uso, per lo verso che similmente v'era scolpito intorno: L'arbor gentil che forte amai molt'anni. E ciò prova per essere questo verso tra i sonetti che scrisse in vi-

XVII • IMPRESE

però poco importa, comunque sia. E queste del Petrarca non eran però imprese propriamente, ma io l'ho ricordato per mostrar che ne i suggelli di cose amorose, o leggiadre et ingegnose, è più vago l'usar qualche sua invenzione secondo i propositi, che l'arme della casata, come par che ostinatamente oggi facciano quasi tutti. 1 Ricevono impresa ancor le bandiere, gli elmetti di cimieri, gli scudi e le sopravesti. Percioché sta in arbitrio di ciascuno di volere in tutti questi luoghi usar l'una delle quattro cose, cioè la livrea, come le bandiere, gli scudi e le sopravesti di colori senza figure et il cimiere con penne, come oggi usano molti, o con pennoncelli, sl come portava alle volte Bradamante, o con altre cose sl fatte ...z E per finir questa parte dei luoghi dell'imprese, dico che nelle medaglie che si portano alle berrette, nei pendenti che si portano al collo, et ancor nei riversi delle medaglie, ove sia scolpito il ritratto della testa sua, elle si fanno con molta vaghezza, e vi convengono molto bene. Ne i libri ancor hanno leggiadramente usato i librari a metterle, e vi si ne veggono alcune bellissime, sì come io ne metterò gli essempi a suo luogo, per non lasciar alcuno privato della sua laude e per non perder luogo utile da ridurre a memoria de' begli ingegni. I litterati poi di raro giudicio sogliono far mettere !'imprese loro nei lor libri; non nella prima parte, che è del segno del libraro o dello stampatore, ma o nella seconda facciata, come facea il mio M. Paolo Rosello, padoano, di felice memoria, 3 et altri, o nel fine del libro, come fece l'Ariosto la sua.4 Benché ancora in ta .•• Tra gli altri ve n'era uno ove egli scolpito si vedeva sotto l'ombra d'un lauro, disteso in terra a guisa d'uomo che parli, pensi e scriva. Ignudo per inferire che ne l'amore era già privo d'ogni speranza. Tutto afflitto e sconsolato per mostrare i disfavori che aveva da Madonna Laura e piangendo terribilmente, il che si dimostrava per un'urna che sotto il braccio destro tenea, da la cui bocca uscia un fonte che d'intorno un gran mare gli veniva a poco a poco formando, per figurare quell'onde del pianto, di che sempre parlò. Con altri infiniti segni di miserie e di dolori. Tal che ben ci convenivano le lettere scolpite che diceano: In qllesto stato son, do,ma, per vui ». 1. La fissità dell'arme appare elementare di fronte all'inesauribile creatività delle imprese. :z. Segue una dissertazione sulle imprese delle sopravvesti, che abbiamo tralasciata. 3. Lucio Paolo Rosello, autore di Due dialogl,i, Vinegia 1549, e di Il ritratto del vero goven,o del prencipe, da l'essempio vivo del gran Cosimo, Vinegia 1552. 4. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 95 sg.: • Fece una bella impresa messer Lodovico Ariosto facendo il vaso delle pecchie, alle quali l'ingrato villano fa il fumo e l'ammazza per cavare il mele e la cera, col motto di sopra che diceva Pro bono 111alum, volendo forse che s'intendesse com'egli era stato mal trattato da qualche suo padrone, come si cava dalle sue satire •·

GIROLAMO RUSCELLI

principio si converrà molto bene, quando non si ponga in mezo, ove, come è detto, è il luogo del libraro o dello stampatore, ma in qualche parte del fregio, come con molta grazia ha posto nel bellissimo fregio de' suoi Furiosi la detta dell'Ariosto l'onorato M. Vicenzo Valgrisio. 1 Benché ancora nel mezo della facciata alcuni grandi uomini hanno fatto metter l'imprese loro. Il che però io non laudo, se non inguanto dico sempre che l'autorità de' grandi fa star bene ogni cosa che da loro esca ...2 Il primo e principal precetto che s'ha da avere nel farle regolatamente è questo, che !'imprese non abbiano in alcun modo bisogno di colore alcuno, come sarebbe chi volesse far per qualche suo intento un'aquila con l'ale d'oro o candele col verde in piede, o altre cose sì fatte, ove necessariamente si convenisse per l'intendimento dell'impresa discernere i colori, ché questo sarebbe viziosissimo, dovendo l'impresa esser tale, che in carta, in muro e sopra ogni cosa che si disegni con inchiostro o con carbone, ella si faccia pienamente intendere. Onde non le si ricerca necessariamente altro colore che bianco e nero. Et avvertasi ch'io ho detto necessariamente. Percioché non dico che se quell'impresa, che con bianco e negro si fa pienamente intendere, vorrà poi dall'autor suo adornarsi di colori, non possa farsi e non riceva con essi ornamento e grazia, purché, come ho detto, i colori vi si possan fare per ornamento, ma non vi si ricerchino per necessità, e che senza essi non possa farsi. Come per essempio Oliviero nella sua impresa descritta ne' sopraposti versi dell'Ariosto,3 avendosi fatta la veste d'oro, vi fece far sopra il can d'argento, il qual color d'argento fu per ornamento e per vaghezza, non per necessità, ché se di solo color negro faceva il cane, sarebbe ogni modo stato conosciuto per cane da ciascuno. Il secondo ricordo o precetto è quello che di sopra s'è detto nelle livree e nell'insegne, cioè che nell'impresa non sia molta ma1. Nel suo Orlando, edito a Venezia nel 1556. 2. Dopo aver esaurito la convenienza di luogo il Ruscelli affronta i tempi delle imprese, insistendo sulla loro accidentalità, e passa quindi agli elementi compositivi, riprendendo ed ampliando le condizio11i gioviane. 3. Cfr. RuscELLI, 1556, p. 187: • Allegherò solamente un luogo del nostro divino Ariosto, nel canto XLI, [Jo] : "Pel dl de la battaglia ogni guerriero / studia aver ricco e novo abito indosso. / Orlando ricamar fa nel quartiero / l'alto Babel dal fulmine percosso; / un can d'argento aver vuole Oliviero,/ che giaccia e che la lassa abbia sul dosso, / con un motto che dica: FIN CHE VEGNA. / E vuol d'oro la vesta di sé degna,, ».

XVII • IMPRESE

nifattura d'intrichi di cose e che non passino tre sorti di cose diverse, o quattro al più che sia, benché l'arrivare a quattro io non lodo e quelle imprese con quattro specie di cose diverse io soglio chiamar imprese della quarta bussola. Con due o al più con tre sorti di cose è il vero modo di farle in perfezzione. E questo dico in quanto a quelle cose che necessariamente adoprano nell'intendimento dell'impresa; che se poi per ornamento del disegno vi si voglia far attorno alcuna cosa, che faccia l'officio che fanno i ricami o i fregi sopra le vesti, può farle ciascuno a talento suo, pur che sempre abbia riguardo alla bellezza et al non far confusione. 1 Il terzo et importantissimo ricordo e precetto fermo è questo: che il motto non passi mai per alcuna via tre parole sole et a questo numero ancora egli non arrivi, se è possibile, e se pur vi arriva sia l'una d'esse d'una sola sillaba, si come dum, et, non, nec, in, per, aut, si, cum, ut e qualche altra tale. Et a quattro parole potrà arrivare il motto, quando l'una d'esse sarà di queste minime che ora ho dette e vi sarà replicata o posta due volte, onde le sorti delle parole non verranno ad essere se non tre, come quello Nec spe nec metu, et altre tali. Benché, per dir il tutto ingenuamente, ancor queste sono delle buone o delle comportabili, ma non delle perfette .. :~ Rientrando adunque nel numero delle parole, torno a dire che, se pur si fanno imprese d'una parola sola, ella sia tolta da autor famoso e chiaro. Il che di toglier le parole da autor famoso è una delle principali perfezzioni che riceva l'impresa ... E tutto questo che si è detto, che il motto dell'impresa non vuol passar tre parole, né anco arrivarci se è possibile, s'intende quando il motto sia in altra lingua che nella nostra. 3 Percioché nella nostra lingua si fanno felicissimamente con uno de' nostri versi volgari, il qual verso però sia sì fattamente accomodato, che per alcun modo da sé solo non si faccia intendere senza la figura, perché cosi sarebbe motto, non impresa, e la figura vi saria scioccamente soverchia, come seguirò di dir poco sotto, quando metterò le cinque perfezzioni dell'impresa perfettissima. Questi versi, nella nostra lingua accomodati per motto d'imprese, possono da ciascuno comporsi da sé stesso avoglia sua, pur che sieno di parole regolate di lingua, belle di suono e numerosamente collocate insieme. Ma se sarà d'autor chiaro, 1. L'amato quindi ha lo stesso valore accessorio del colore. 2. Sulla brevità del motto cfr. G1ov10, qui p. 2760. 3. Cfr. ancora G1ov10, qui p. 2760.

GIROLAMO RUSCELLI

come del Petrarca, del Furioso, o ancor di Dante, sarà tanto più bello e di maggiore autorità ... 1 Il quarto e non meno, anzi più forse di tutti gli altri importante ricordo e precetto è che per alcun modo l'impresa non batta nella cifra figurata ... Percioché niuna cosa per certo può ricever l'impresa, che la faccia più goffa, che questo dar nella cifra figurata. E quanto più è vizioso e brutto, tanto più par che alcuni si pavoneggino in darvi dentro ...2 E prima ch'io passi più oltre, dico che !'imprese si fanno solamente di due sorti o generi. L'uno, di figure sole senza alcun motto. 3 L'altro, di figure e di motto insieme. Quelle di figure sole verrebbono ad essere una cosa medesima con !'insegne, se non che vi è 1. Cfr. RUSCELLI, 1556, pp. 219 sg.: «Bellissima ... e di tutta perfezzione è stata quella [impresa] del gran Cardinale de, Medici, che pur mette il Giovio et è notissima a tutto il mondo, non meno per la perfezzion di sé stessa che per lo splendore dell'autore e dello oggetto; dico di quella che in figura ha la stella cometa tra più altre minori stelle, col motto Inter omnes. Ove si veggono pienissimamente osservati tutti i precetti e le regole e raccolte tutte le perfezzioni insieme. Le figure sono solamente di due sorti, cioè le stelle minori e la crinita o cometa. Il motto di due parole sole, che vengono ad essere interamente le due prime da me disopra poste e divisate perfezzioni. E poi il motto tolto da autor famoso, che è Orazio, del quale quelle due parole sono in quella sentenza, parlando pur di detta stella cometa: l11ter om11es micat lulium sydus. Oltre che vi viene a esser felicissimamente accennato il nome della donna per chi mostra che fosse fatta Pimpresa, cioè Giulia, avendo tra' Latini la detta stella cometa acquistato nome di stella Iulia, si come lulium sydus veggiamo che nel qui pur ora posto verso l'ha chiamata Orazio. E questo perché, come scrive Svetonio et altri, quella stella apparve doppo la morte di Cesare, onde fu creduto da' Romani ch'ella fosse l'anima di Cesare deificata e convertita in una stella, come scioccamente di molt'altri credettero gli antichi, accecati nella sceleranza dell'idolatria. Et insomma conchiudo che in detta impresa del Cnrdinal de' Medici sono tutte le bellezze che in una impresa possano desiderarsi e che tenga il principato fra quant'altre se ne sono vedute fin qui». 2. Sulla cifra cfr. RUSCELLI, 1556, pp. 177 sgg.: a Le cifre figurate ... sono cosa usata antichissimamente, se ben non così per sottile, come in questi tempi nostri si fanno. Queste sono quelle che con la forma delle cose non rappresentano né la sostanza, né la qualità loro, ma il solo suono della voce sola. Sì come per uno essempio quella di colui che disegnò un'ala, una fede, due note in musica, che dicevano mi/a, et un mazzo di spiche di grano ritorte in cima, volendo con esse rappresentar queste parole che accusassero la donna sua d'ingiustizia: A la fe' mi fa gra11 torto. Et altre tali se ne fanno così, per vaghezza giovenile. Benché alle volte con esse si dice molto bene l'animo suo e con molta grazia. Et è aiutato ancora con alcuna lettera appresso alle figure, come per dire spero dipingeranno un pero da mangiare con una S d'avanti. E questa, come pur ora ho detto, è profession giovenile ... 11. 3. Tale alternativa non è stata contemplata dal G1ov10, qui p. 2760.

XVII • IMPRESE

questa differenza, che l'insegna è come perpetua e l'impresa è a tempo .•. I Tutte queste imprese senza motto vogliono, per principal ricordo [e] avvertimento di chi le fa, che elle abbiano sempre in sé stesse alcune cose, che quasi propongan subito a i begli ingegni da considerarvi sopra qualche leggiadro misterio nell'intenzione dell'autor suo; e che questo sia tale, che altri goda in venirlo riconoscendo et in saperlo considerare o rintracciar da sé stesso, si come di quella di Marfisa dice l'Ariosto: Marfisa se 11e vien Juor de la porta, e sopra l'elmo una fenice porta; o fosse per superbia, di11ota11do sé sola u11ica al mondo in esser forte, o pur sua casta intenzion lodando di viver sempremai senza consorte. 2

Et una tale molto bella ne disse queste sere passate al magnifico M. Antonio Pizzamano et a me il nostro M. Giordano Ziletti, la qual dice che egli vide in Roma in casa dell'eccellente signor Nicolò Farfara, avvocato fiscale; e questa era un leone che stava assiso et un barbiere gli era da una banda, che gli radeva il volto; e quel leone stava in atto mezo rivolto verso lui, con sembiante che pareva che dicesse a colui eh' ei facesse piano e destramente, se non, che egli se gli alzeria sopra e divorerebbelo. La quale impresa, ancor che cosi senza motto, porgeva subito vago campo a ciascuno di considerarvi sopra più d'una bella cosa; e massimamente avendo riguardo all'officio di fiscale, che il detto signore essercitava in Roma. Et in queste tali l'esser senza motto mostra d'esser fatto a studio; pur che in sé stesse sieno ben fatte ... Ora, non mi restando se non da mettere insieme brevissimamente tutte le cinque perfezzioni che si ricercano nell'impresa, et a met1. Cfr. RUSCELLI, 1556, pp. 136, 204 sg.: «Altro è l'insegna et altro l'impresa ... L'insegna si porta per sempre, l'impresa a tempo, secondo l'occasioni. Era insegna e perpetua d'Orlando il quartiero. Et in quello poi a quella occasione di quell'abbattimento, al quale andava, fece ricamar l'impresa pur ora detta della torre percossa dal fulmine, avendo per aventura con quella voluto come rimproverare ad Agramante la sua gran superbia, che aveva avuto ardire di venir in Francia con animo di soggiogarsela; e profetizargli o annunziargli la sua rovina, come poi gli successe in effetto. La quale impresa è da dire che Orlando, finita quella pugna, lasciasse in tutto. Il che del quartiero non fece mai fin che visse; se non quando alcune volte voleva andare sconosiuto 11, 2. Orl. Fur., xxxvi, 17-18.

GIROLAMO RUSCELLI

terne alcuni essempi, dico che, riducendo in sommario tutto quello che fin qui s'è detto, riman da chiudere che: La prima e principal perfezzione che può aver l'impresa, è eh' ella sia di due cose sole in figura, e che ambedue vi sieno necessarie, e l'una nell'intenzion dell'autore abbia collegamento con l'altra. 1 La seconda, che il motto sia di due parole sole o d'un verso nostro volgare.2 La terza, che le parole in qualunque lingua si sieno, o il verso in lingua italiana, sia tolto da autor famoso. 3 La quarta, che sia di sentimento non del tutto chiaro, né del tutto oscuro, né troppo triviale o commune, né troppo alto e profondo, o cavato da cose o da proprietà troppo lontane.4 La quinta, che le figure senza il motto non vengano in essa, in quanto alla intenzione dell'autore, a dir nulla; e così parimente il motto non venga a dir nulla senza le figure. Ma che ugualmente vi sieno necessarie ambedue queste cose insieme, cioè le figure et il motto; le quali insieme vengano a rappresentare interamente l'intenzione dell'autor dell'impresa. 5 E questa è la più necessaria e più importante condizione che in farle vi si ricerc[h]i; e moltissimi per non saperla vi errano sconciamente, col far imprese, nelle quali le figure per sé sole o le parole per sé sole sieno bastanti a farsi intendere; onde o l'uno o l'altro vi sia del tutto soverchio e vano. Sì come chi facesse un cuore sopra ad alcune fiamme di fuoco, che avesser sotto parole che dicessero: Il cuore ho in fuoco ...6 Mette eziandio il Giovio per precetto nelle regole dell'imprese, che nelle figure non si mettano uomini.7 Il qual precetto è verissimo e buono, quando si venisse a figurare uomini cosi ordinariamente vestiti o nudi semplicemente. Percioché l'impresa vuol sempre dilettare et invaghir con la rarità. Ma quando si pingono corpi in forma umana in qualche rara e nuova maniera, averan sempre • grazia ...8 Cfr. G1ov10, RuscELLI, qui pp. 2759 sgg., 2766. 2. Cfr. G1ov10, RusCELqui pp. 2760, 2766. 3. Cfr. RUSCELLI, qui p. 2766. 4. Cfr. G10v10, qui p. 2760. 5. Cfr. G1ov10, qui p. 2760. KLEIN, p. 128, commenta: «Ruscelli ajoute [rispetto al Giovio] une première règle structurale: les figures et la sentence ne doivent avoir de sens que par leur rapport mutuel». 6. L'autore prosegue l'esemplificazione con il tipico caso di Cupido. 7. Cfr. Gmvm, qui p. 2760. 8. Una particolare inventiva può sfruttare dunque in modo insolito anche la figura umana. Cfr. M. PRAz, Studies in 1.

LI,

174

XVII · IMPRESE

Pone il Giovio per precetto che il motto dell'impresa non debbia farsi in lingua materna o nativa di colui che fa l'impresa. 1 Dico che ... egli s'inganna molto. Percioché facendosi l'impresa, con1e s'è tante volte detto, perché sia come quasi uno specchio, ove far veder ai circostanti l'intenzione di chi l'ha fatta, e dovendo sodisfare a cavalieri et a donne, non so vedere per qual cagione s'abbia da far più tosto in lingua straniera che nella propria, usata et intesa da tutti loro. Anzi dico io di più, che quando ancor l'impresa si fa con motto latino, par che sempre i giudiciosi abbiano avuto risguardo a farlo con parole che, se ben sono latine, non sieno però molto oscure, ma tali che ciascuno, senza ancor saper lettere latine, l'intenda; sl come sono inter omnes, plus ultra et altre tali. Benché però questo non sia di precetto, ma di consiglio, né si possa far molto acconciamente in tutte. Senzaché sono poi alcune sorti d'imprese, ove si ricerca la gravità e la maestà, e si fanno per alcuni intrinsechi disegni o pensieri nostri, che non a tutti, ma ad alcune persone chiare e principali si vogliono aprire. Onde a studio si faranno con motto latino da non così intendersi da ciascuno; o ancor con greco e con ebreo, come di tutte io n'ho vedute alcune bellissime .. :"

Seventeenth-Century Imagery, Roma 1964, pp. 71 sg.: «This quest of the unusual and strange is all that interests us; as for the other rules for the device and debates concerning them, we may agree with Père Menestrier with whom we shall make a closer acquaintance later on, who, finding those discussions 11 longues et fatiguantes" and "ennuyeux les dialogues des académiciens" carne to the conclusion: uces gens là ne considerènt pas que la Devise est un argument poetique et que c'est le propre de la poesie d'animer les estres les plus insensibles" [La Scie,zce de l'Art des Devises, Paris 1686, pp. 37 ff.] ». 1. Cfr. G10v10, qui p. 2760. 2. La casistica delle imprese del Ruscelli appare più ampia di quella del Giovio ed ammette una pluralità di accezioni che presentano esigenze diverse.

SCIPIONE AMMIRATO IL ROTA OVERO DELLE IMPRESE

VES.•.• Chi vuol far un detto che abbia virtù et efficacia d'impresa, io dico eh' egli è di mestieri che vada congiunto col corpo. 1 Ma che è quel che voi dite, che si truovano molte imprese senza anima, come molti corpi, i quali d'anima sono privati? Percioché seguendo il vostro simolacro et imagine data dell'angelo, ch'è spirito da sé stante, e dell'uomo, che è un misto di anima e di corpo, e del corpo da sé solo, che anima non ha; dico che va bene che sia il detto o il motto simile all'anima senza corpo, come gli angeli; e cosi saranno le sentenze d'Ipparco. E appresso, che sia il misto di anima e di corpo, e queste si chiameranno imprese. Ma quel corpo che, essendo senza anima, voi chiamate impresa, mi par che non proceda; percioché l'impresa sta in vece dell'uomo; e tanto noi diciamo alcuno esser uomo, quanto ha in sé anima e corpo; ché dopo morte sapete, secondo voi altri aristotelici, che quel corpo che rimane si chiama cadavero e non uomo. E però quella pittura o imagine o disegno di qual si voglia cosa che sia, la qual è senza motto, si chiamerà pittura e non impresa. Percioché, dicendo impresa, di necessità par ch'ella richiegga al mio giudizio aver l'anima e il corpo. 2 Eccetto se noi non vogliamo dire che sia come l'uomo dipinto, eh' è posto da' logici a differenza dell'uomo vero. lVIA. Monsignore se va a correggere i suoi detti; io dirò ancora che quando dissi che il corpo senza anima era impresa, favellai impropriamente, ché, per confessar il vero, la vera impresa è quella che ha la sua dipintura di erba, sasso, animale, sole, stella, luna e simili in vece del corpo, e il detto o sentenza o motto o proverbio in vece dell'anima. 3 CAM. Or poscia che voi vi sete così pacificamente acquetati, se noi volessimo far una diffinizione dell'impresa, che cosa diremo noi che ella si fosse? Signor Maranta, a voi dico, che sete filosoDa Il Rota ooero delle imprese, dialogo del signor SCIPIONE AMMIRATO, Napoli 1562, secondo l'edizione Fiorenza, Giunti, 1598, pp. 6-12, 18-22. Interlocutori: Nino de Nini, vescovo di Potenza, Bernardino Rota, Alfonso Cambi e Bartolomeo Maranta. I. Il ragionamento del Vescovo segue le riflessioni del G1ov10, qui p. 2760. 2. Cfr. ancora GIOVIO, qui p. 2760. 3. Tornano gli argomenti della bella vista gioviana; cfr. qui p. 2759•. -

XVII · IMPRESE

fo. 1 Né mi curo ch,ella non sia cosi appuntata, come voi fate delle diffinizioni. MA. Impresa per ora non direi che ella fosse altro, che una significazione della mente nostra sotto un nodo di parole e di cose.2 E però quando una impresa fosse di modo oscura, che ella non si potesse intendere, io la chiamerei enigma, più tosto che impresa. 3 CAM. Io credo che questi signori si contenteranno della vostra diffinizione senza andarla molto disputando. Ma imperò che voi ~ite «sotto un nodo di parole e di cose», vorrei intender da voi queste parole di che lingua debbono elle essere, perché mi par che il Giovio non le voglia di quella lingua di colui che fa l'impresa.4 MA. lo vi risponderò, e se vi parrà che io vada un poco vagando, abbiate pacienza, ch'alla fine vedrete non esser niente detto fuor di proposito. CAM. Dite. MA. Sapetemi voi primieramente dire perché un epigramma, per mediocre ch'egli si sia, soglia parer meglio d'un sonetto, per più ch'egli abbia del mezzano e dell'ordinario? CAM. Forse perché l'epigramma è latino e il sonetto volgare, et ogni uomo più volentieri si compiace nel mediocre che ha virtù di nuovo e di forestiere, il qual non è cosi avezzo a star con noi, che con l'ottimo, il quale vediamo tutto dì e con cui abbiamo familiarità e domestichezza ? MA. Questo a punto; e però dice Crizia, eh' egli è più malagevole cosa parlar de gli uomini che degli dèi, percioché l'ignoranza de gli uditori porge, a coloro che dicono, gran commodità di finger le bugie. 5 Ma è una manifattura assai più che non pare, signor Cambi, parlar bene di quelle cose delle quali ciascuno può render giudizio. CAM. Se non dichiarate meglio quel che voi avete in animo di dire, io non v'intendo; ché come mi vedete grande e grosso di corpo, così sono grosso e materiale d'ingegno. MA. Se con queste esche voi attendete d'esser lodato da me, veramente voi vi prendete un errore assai più grosso che voi non s_ete. Dico, dichiarandomi meglio, che se coloro che affermano Si ricordi la sua difesa dell'Annunciazione di Tiziano, qui I, pp. 863 sgg. Ennesima parafrasi della definizione gioviana; cfr. qui pp. 2760 sg. 3. Cfr. G1ov10, RusCELLI, qui pp. 2760 e 2766 sgg. 4. Cfr. Gmvm, qui p. 2,760. 5. Il Maranta condivide i dubbi del RUSCELLI, qui p. 2768. 1. 2.

SCIPIONE AMMIRATO

2 773

non esser buona impresa quella di cui l'anima è del paese di colui che la fa, dicessero esser difficile, ci accordaremmo assai presto, percioché io v'aggiungerei un superlativo di più. Ma dir eh' ella non sia buona, io non vi sto forte; ché sl come è maggior lode, nel parlar ordinario volgare, parlar in modo che si commuova la meraviglia, e per questo conto è più malagevole a fare, così è maggior lode ad un corpo attaccar un'anima paesana, pur ch'ella stia bene e paia riguardevole, che non dargli un'anima tedesca o spagnuola o franzese, o pur greca o latina. È dunque una gran faccenda aver a cavar istupore dalle cose ordinarie; e però ciascuno cerca di esser un altro, e si va trasformando di abito e di lingua. 1 Non vedete voi a punto, Monsignore, colui che va in là, che per parer tedesco ha un par di calze in gamba che paiono due bisaccie o, come suol dire il signor Berardino, due campane? VF.S. A me paiono due valigioni da cardinale, si fattamente son grossi que' cosciali. CAM. Alla fé, ch'a me paiono due barilotti di trebbiano, se non volete dir un par di bigoncie, o due palloni a vento, o, come disse Dionea delle poppe della Nuta, due ceston da letame. 2 MA. Dico dunque in questo non esser del parere del Giovio. Ma colui, a chi non basta la vista, attacchisi dove può; e faccia la latina o greca, pur ch'ella stia aggarbata, o schiavona, o pollacca, che non importerà molto facendosi tra color del paese et avendo a servir per loro. Ben lodare' io sopra tutte la latina, essendo la lingua ch'è comune a tutti. 3 CAM. Benissimo. Ma io vorrei saper un'altra cosa, signor Maranta. MA. lo non voglio esser tavola alle vostre saette, ché so bene che non finireste d'interrogazioni per un pezzo. Qui ci è Monsignore e il signor Berardino; dimandate loro, che ben vi risolveranno di ciò che vi accade. Ro. lo dirò la mia parte al giardino. Domandate pur Monsignore; ma chi sa meglio di voi tutte le cose, signor Alfonso ? VES. Eccomi a quel che saprò. CAM. Disse M. Bartolomeo: «sotto un nodo di parole e di cose». A queste parole, oltre il linguaggio, in quanto alla quantità ecci niuna limitazione? L'esotismo appare all'Ammirato un espediente troppo facile. 2. Cfr. BoccAcc10, Decam., VI, 10, 32. 3. Una soluzione dotta che evidentemente paventa troppo estrosi ghiribizzi linguistici. I.

XVII· • IMPRESE

2 774

VES. Grandissima, perché chi ci volesse far una leggenda sopra, non arebbe né gentilezza né grazia. CAM. Contentarestevi d'un verso ?1 VES. Mal volentieri. Se a me istesse di far la legge, io non vorrei che passassero tre parole o quattro al più. E vorrei, se fosse possibile, che le parole si cavassero d'alcun autor conosciuto. Percioché, sl come ci rallegriamo quando da alcune sentenze ad altro senso dette, come ne' pasquini si vede, se ne cava fuori un altro sentimento, percioché quella novità ci rallegra e ci par di veder i mascherati, che sembrano altri di que' che sono, cosi è dolcissima e piacevolissima cosa con tre o quattro parole di Virgilio, o pur d'Orazio o di Tibullo e simili, le quali eglino a le lor materie proporzionate composero, non palesarne il nostro intendimento e pensiero.2 E se mi date licenza, un altro riguardo vorrei che si avesse nell'imprese, forse di non picciola importanza da chi ben vi riguarda. CAM. Dite pur, Monsignore, ch'a tutti noi ne farete piacere. VES. Non mi accusate per troppo rigido e stretto legislatore; né che io vi voglia indur cose nuove, percioché delle arti niuna fu perfetta in sul principio, ma pian piano si sono andate poi migliorando e racconciando. Disse M. Bartolomeo, et è veramente cosi, che l'impresa costa di anima e di corpo; e che l'anima sono le parole, il corpo quella cotal cosa che si prende come pittura o disegno. Molti con l'anima dichiarano il sentimento del corpo, cioè con le parole esprimono che voglia dire quella cotal cosa che ivi si vede dipinta. Il che a me non piace, ché in questo modo par che l'anima non vaglia ad altro, se non per un dimostramento o significazione della pittura. Et è tanto, come se in un quadro, ove fosse la città di Venezia dipinta, altri scrivesse sopra, come si suol già fare, Vinegia. Vorrei dunque, signori, né so se io mel saprò dire, che l'anima fosse come una proposizion maggiore et il corpo come una minore; dalle quali accoppiate insieme si facesse una conclusione in modo che colui che vedesse la dipintura con quelle parole ivi accoppiate, dicesse: «Costui veramente vuol dir cosi». E in questa guisa né l'anima viene ad esser interprete del corpo, né il corpo dell'anima. Ma dall'anima e dal corpo, insieme congiunti, si interpreta, da colui che vede e che legge, l'occulto pensiero 1.

Cfr. G1ov10, RuscBLLI, qui pp. z760, 2766.

p. 2767 e la nota

1.

2.

Cfr. RuscsLLI, qui

SCIPIONE AMMIRATO

2

775

dell'autore, quasi per ieroglifici sotto il nodo di quelle due cose spiegato.' CAM. Io vorrei sapere onde ebbero origine queste imprese. VES. L'impresa è una filosofia del cavaliere, come la poesia è una filosofia del filosofo. 2 CAM. Queste mi paion parole dell'oracolo, tanto oscuramente mi favellate. VEs. Mi dichiarerò, signor Alfonso, in modo che voi m'intendiate, benché io so che voi mi richiedete più per far prova dell'ingegno mio, che per incapacità del vostro. Fu antica osservanza di tutti i savi guardarsi con ogni studio et ingegno di non palesar le belle dottrine e scienze a tutte le persone, in guisa ch'elle si venissero a profanare dal volgo. E questa fu la cagione che si ritrovassero i fingimenti delle favole: sotto le cui scorze si ricoprivano da quelli antichi savi tutti i segreti delle scienze speculative e delle cose della natura e tutte le utili e necessarie cognizioni che appartengono all'uomo. Di modo che all'ignorante restava la piacevolezza della favola et il savio ne raccoglieva, penetrando più adentro, il frutto di essa. E perché la poesia e la dipintura sono sorelle tutte nate a un parto, sì come la poesia con le parole cominciò a spiegare queste finzioni, cosi cominciò susseguentemente la pittura a dipigner di molte cose che parevano mostruose: le quali però sotto esse rinchiudevano molti belli segreti.3 E ciò fu cagione fra l'altre cose di dipigner due teste a Giano, essendo quel re stato sapientissimo e per ciò, come quelli che facilmente considerava le cose passate e le future, meritò che gli si facessero due volti, l'un davanti e l'altro di dietro. Il medesimo fu causa che alla statua di Giove patrio, la quale era nel palagio di Priamo (che venuta poi nella rovina di Troia in mano di Stenelo figliuolo di Capaneo fu condotta a Corinto) si vedessero tre occhi: due nel luogo ordinario et un nella fronte. Percioché Giove per comune openione si diceva regnare nel cielo, et Omero il chiamò Giove inferno, e da Eschilo figliuolo di Euforione fu appellato re del mare. 4 Questo ancora diede argomento a Tindareo che mettesse i ceppi alla statua di Venere armata, volendo con questa somiglianza 1. Cfr. G1ovro, RuscELLI, qui pp. 2,760, 2769. 2. Affermazioni probabilmente suggerite dalla storia delle imprese, narrata dal G10v10, Imprese, pp. 4 sg. 3. L'ut pictura poesis in funzione della creazione dell'imprese. 4. Cfr. PAUSANIA, II, 45, S; VII, 46, 2.

XVII • IMPRESE

dimostrare con quanta ferma fede dovessero esser le donne legate a i loro mariti. Leggesi ancora che Idomeneo, nipote di Minos per parte di Pasife, figliuola del Sole, avesse nel suo scudo portato per impresa un gallo, essendo il gallo uccello sacrato al Sole, e cosi d'infiniti altri. 1 Quando dissi io dunque che l'impresa era una filosofia del cavaliere, si come la poesia fu una filosofia del filosofo, fu per dimostrare che, si come il :filosofo sotto le favole cominciò a spiegare i segreti suoi maravigliosi e divini per farsi intendere da alcuni e non da tutti, così il cavaliere per ispiegare ad alcuni e non a tutti il suo intendimento ricorse alle finzioni dell'imprese. E l'uno adoperò le parole, e l'altro le cose. E come la poesia in processo di tempo ricevette molti miglioramenti, cosi l'imprese ne ricevettero anco molti altri. E si sono andate ristrignendo fra alcune regole, le quali non è lecito trasgredire, ché si come tra la commedia antica e la nuova è infinita differenza, così tra l'impresa antica e la nuova ve n'è infinitissima, veggendo oggi esservi necessarie le parole, ove prima non erano. 2 CAM. A pieno, Monsignor, m'avete sodisfatto di ciò che io domandava. Ro. Ora che voi, signor Cambi, rimanete sodisfatto, credo che mi darete licenza che dica ancor io quel che mi occorre d'intorno a quel che ha detto Monsignore. CAM. Volentieri. Ro. Quanto alla brevità delle parole io sono con voi, Monsignore. E di vero parmi che in questa materia gran lode se ne porti con seco la brevità, et istimo che vi arebbono assai ben fatto i Laconici, i quali con poche parole si sbrigavano da grandi faccende. Né meno mi dispiace in tutto quel che voi dite, che le parole si cavino da alcun autor conosciuto, pur che non si attribuisca a maggior lode che il farlo da sé, percioché a me pare anzi il contrario. Ché si come l'ingegno merita maggior lode della fatica, e l'ingegno si vede in colui che fa da sé, e la fatica in colui che cava da altri, cosi par che segua di necessità che maggior gloria debbia meritar colui che fa da sé, che non quelli che cava da altri. 3 Che se bene M. Lelio Capilupi fu divino e veramente meraviglioso ne i centoni, et in 1. Cfr. RIPA, III, p. 109. 2. Cfr. Giov10, RUSCELLI, qui pp. 2760, 2769, M. PRAZ, Studies in Seventeentli-Centmy lmagery, Roma I 964, pp. 58 sg. 3. Cfr. diversamente RuscELLI, qui pp. 2766 sg., 2769.

SCIPIONE AMMIRATO

2

777

guisa si servi de i versi di Virgilio, che parea che quel poeta avesse a sommo studio trattato della materia che il Capilupi tenea per le mani, 1 niuno però dirà eh' egli sia stato miglior poeta del Sanazaro, over del Bembo, o del N avagero, che co' lor propri versi e non con quelli d'altrui le lor materie spiegarono. E mi ricordo che quella felice e buona e santa memoria del signor Antonio Epicuro, maestro e principe dell'imprese e precettor mio,2 si solea spesso ridere di questa oppenione, eh' era pur sua, percioché egli mi solea dire: « Berardino, quando a me vien riuscito di far un'impresa a cui stieno ben le parole d'alcun autor antico, io dico che la vera regola è che le parole dell'imprese si cavino da gli autori antichi. Ma quando all'impresa mia stanno ben le parole mie, per dir il vero, a me pare aver meritato doppia lode, e ch'ogni cosa sia mio, non partecipando nella mia fatica altri di me medesimo». Di modo che io non biasimerei, quando ci mette conto, prender le parole degli antichi autori, pur che voi mi concediate che molto maggior lode meriti colui che da sé le ritruova. MA. Parmi, Monsignore, che il signor Berardino abbia detto la verità, né voi medesimo stimo io che terrete il contrario, se ben andrete discorrendo questa questione. Oltre che noi ristrigneremmo questa materia dell'imprese dentro troppo angusti termini e fra certe solennità molto scrupulose e sottili; le quali solennità si come da i moderni legislatori sono state tolte via dalle leggi - le quali gli antichi par che si trastullassero rinchiudere in formule et in certi cerchi di parole, prefissi e limitati, come contra loro sgrida Cicerone-, così a me pare che debba fare il legislatore dell'impresa, che, non curando di certe superstizioni, risguardi al nervo et alla vera e natural sustanza della cosa. Senza che di ciò nascerebbe un inconveniente, che lo Spagnuolo, il Tedesco, il Franzese, l' Alemanno, il Polacco e simili, non avendo autori nelle lor lingue antichi, non potrebbono far imprese, e di necessità bisognerebbe che quelle che s'avessero a fare, fossero tutte latine, o greche, o ebree, percioché queste lingue son quelle che hanno autori. E se voi dite che, quando !'imprese si fanno latine o greche, allor solamente sarebbe di mestieri tener questo riguardo, in questo modo I. Il mantovano Lelio Capilupi (1497-1563) poetò in latino e in maccheronico. 2. L'abruzzese Marcantonio Epicuro (1472-1555), poeta latino e volgare; cfr. M. PRAz, op. cit., p. 74. Vedi anche G1ov10, Imprese, p. 76: « M. Antonio Epicuro, letterato uomo nella Academia Napolitana ».

XVII • IMPRESE

dico che la legge non sarebbe generale et il legislatore verrebbe ad esser tenuto per parziale, altro disponendo in una lingua che in altra. Tal ch'io conchiudo con signor Berardino, che si possan fare e dell'un modo e dell'altro l'imprese. 1 CAM. Qui veramente si potrebbe dir assai, non mancando ragioni per l'una parte e per l'altra, in quanto alla miglioranza; ché di poterlo fare e dell'un modo e dell'altro, non mi persuado che ci si debba far dubbio veruno. Ma per mozzarla, dirò col Petrarca: Piacenzi aver vostre questioni udite; ma più tempo bisogna a tanta lite . . .2

MA. Di grazia. E poi che s'è parlato dell'anima dell'imprese, ragioniamo un poco de' corpi, desiderando io saper, Monsignore, se egli han da esser di cose recondite o pur di cose ordinarie e, come si dice, prese dal mezzo dell'uso delle cose comuni. · VES. Volontieri risponderò alla vostra richiesta, signor Maranta. Ma siami prima lecito domandar alcune cose da voi, perché forse senza ch'io vi dica poi altro, voi da voi medesimo verrete a rispondervi. E in prima vi dimando, perché s'è parlato di poesia, se voi sete d'openione che si abbia nell'imprese a ricercar la meraviglia, come nel poema. 3 MA. Io stimo che la meraviglia vi si abbia a cercar in ogni n1odo. VES. Meraviglia che cosa chiamano i filosofi? MA. Quella che di rado accade et è fuor della natura dell'altre cose ordinarie. VES. Avvertite che io non favello del miraculum, o monstrum, o porten.tum, che è quello che vien contra l'ordine della natura; ma dell'ammirazione, che nasce talora dalla perfezzione delle cose naturale, come di alcuna singolar bellezza, o di gran valore, o di sottile ingegno, o di somma velocità e simili. MA. Meraviglia pure in questo modo non sarà altro se non quella astrazzione che fanno gli uomini per la veduta eccellenza di cosa che innanzi se gli opponga, come dice il poeta: 1. Con tale spirito antirigorista l'Ammirato manifesta la sua fiducia nelle varie possibilità inventive delle imprese, 2. Rime, CCCLX, 156 sg. 3. Cfr. M. PRAz, op. cit., p. 62: a: From the very first the element of wonder was considered by the device-writers to be an indispensable requisite of the device », KLEIN, p. 142: cr Il suffisait de remplacer la théorie aristotélicienne de la poésie par sa théorie générale de l'art, pour passer de Trissino au chevalier Marin ».

SCIPIONE AMMIRATO

2 779

••. e far per meraviglia stringer le labra et inarcar le ciglia. 1

VBS. Di grazia, signor Maranta, poi che par che siano più sorti di meraviglie, vediamo nel poema come si consideri la meraviglia, accioché poi vegnamo a vedere se simile è quella che si ha da considerare nell'impresa. MA. La meraviglia nel poeta si trova e nelle cose, percioché fa gli uomini o buoni o cattivi in maggior virtù o vizio che non son gli ordinari; e nelle parole, percioché usa il traslato, il nuovo, il vecchio, lo straniero, l'improprio, l'accorciato, l'allungato e l'altre figure in maggior numero che non fa l'orazione pedestre. VEs. Se l'impresa et il poema vanno di pari, e nel poema e dalla cosa e dalle parole si richiede la meraviglia, io mi do a credere che nell'impresa e dalle parole, che sono l'anima, e dalla cosa, ch'è da noi chiamata corpo, si debba cavar somigliantemente meraviglia et istupore.a MA. Voi volete dunque, Monsignore, conchiudere, secondo par che dinotano le vostre parole, che i corpi debbano esser di cose lontane e recondite per far maggiore la meraviglia. E però forse il medesin10 volevate poco innanzi conchiuder nelle parole. VEs. Voi non istimate il medesimo, signor Maranta? MA. Non io. VES. Questo par che segua di necessità. MA. Tutte le cose, Monsignore, come sapete, hanno i loro eccessi. Chi molto dona è prodigo. Chi strigne e ritiene assai, avaro. Chi molto ardisce è prosuntuoso e temerario. Cosi nella poesia: chi molto si vuol far intendere, è rimesso et abietto; chi la vuol molto gir assottigliando è oscuro e bisogna portar gli interpreti a cintola per penetrare ne i suoi intendimenti. Il simile aviene nell'imprese. E però dissi, quando parlai della diffinizione, che bisogna avertire, nel far dell'imprese, che non si facesse un enigma; come dice Aristotele, che chi volesse accoppiare in una medesima orazione ogni sorte di figura, egli farebbe un nodo inestricabile. E per risolvere questa cosa sl ch'io mi lasci intendere, dico che la meraviglia nell'impresa non si cava dalla cosa recondita, o dalla parola oscura; ché in questo modo con accoppiar due cose oscure o 1. AR1osTo, Ori. Fur., x, 4, 7-8. 2. La distinzione tra contenuto e forma si adegua perfettamente all'anima e al corpo dell'impresa.

XVII • IMPRESE

lontane un poco, si incorrerebbe nell'enigma; ma la meraviglia consiste nell'accoppiamento di due cose intelligibili, le quali, per cagion che costituiscono un terzo, che non è né l'uno né l'altro delle due cose, ma un misto, quindi è che si generi la meraviglia. 1 Ro. Per questo io credo che da Mercurio Trismegisto e poscia da Platone fu chiamato l'uomo grande miracolo, non in quanto era anima, percioché gli angeli erano anime e spiriti et intelletti senza corpo, che le pietre, la terra, l'acqua e simili cose erano corpo senza anima; né perché si moveva e cresceva e scemava, perché l' erbe, le piante e gli arbori facevano il medesimo; né perché era corpo animato, perché i cavalli, i buoi e gli asini erano di questa maniera composti: ma perché in questo nodo umano vi si vedeva la natura angelica e quella degli animali irrazionali con tanto mirabile artificio, che quel nodo non era più né pietra, né erba, né cavallo, né angelo, ma uomo. MA. Cosi veramente io giudico dell'impresa, percioché ella non è più quel motto o proverbio o sentenza che si prende; né più quel corpo che si adopera; ma quel misto, o terzo, che risulta e nasce dalla sentenza e dalla cosa o imagine ricevuta.2 E però ancor ch'io m'intenda un poco dell'erbe e truovi molte nature di erbe bellissime atte a ricever un soggetto d'impresa, nondimeno se elle fussero in guisa fuor della cognizion comune degli uomini, che senza Dioscoride non si potessero intendere, io le lascierei stare. E così dice degli animali; percioché se essi non s'intendessero senza l'aiuto d'Aristotele o d'Alberto Magno, io me ne farei leggiermente passaggio, e cosi sia detto de' pesci e d'ogn'altra cosa. E chi non sa che in cercar queste fiere e quest'erbe tanto remote et astratte si commuove meraviglia nelle persone dotte? Ma perché l'impresa è come la comedia, che ha da pascer gli occhi d'ogn'uomo, come quella ciba gli orecchi e del volgo e di coloro che sanno, è necessario ch'ella sia di cose intelligibili e comuni et ordinarie.3 E pur che non incorriamo, come si è detto, nell'altro vizio delle cose plebee et abiette, e non prendiamo la caldaia, la tegghia, la mestola, lo schidone e gli altri fornimenti della cucina o della bottiglieria o della dispensa, io crederei che non si potesse errare con questo avvertimento.4 1. Cfr. G1ovio, RusCELLI, qui pp. 2.760, 2.769. 2. Il miracoloso equilibrio dell'uomo si ripropone nell'anima-corpo dell'impresa. 3. L'esigenza dell'intelligibilità supera gli allettamenti dell'enigma; cfr. G1ov10, RuscELLI, qui pp. 2760, 2769. 4. Le cose troppo ordinarie rischiano di non poter comunicare alcun significato.

SCIPIONE AMMIRATO

Ro. Cosi a me pare di fermo che sia e cosi ho sempre tenuto esser vero senza alcun dubbio. Anzi io ci soleva aggiunger di più, ché il medesimo mi pareva aver fatto il Petrarca nel nominar la donna sua, chiamandola orsa, cerva, tigre, fenice, colomba e di simili nomi senza andar cercando animali o cose altre molto esquisite, se non in quella canzone ove, per dimostrar la grandezza dell'amor suo, a sommo studio, volendo un poco uscir dell'ordinario, l'andò assomigliando a cose strane e meravigliose. 1 CAM. E però talora io grido con un mio grande amico, il cui divino et alto ingegno non potendo in niun modo appagarsi di cose ordinarie e comuni e sudando con ogni diligenza e fatica di trovar le sublimi e le nuove e grandi e magnifiche, sl mi par che alcuna volta incorra nell'estremo dell'oscuretto e del duro. MA. Tutti dunque par che concorriamo in una medesima cosa. E perciò sia stabilita e conchiusa questa legge senza parlarne più oltre. VES. Poi che voi l'avete conchiusa, io non intendo guastarla, ma forse ne parleremo un'altra volta prima che andiamo a casa, ché la bisogna non procederà così di piano, come altri si crede. Pure seguasi ciò che s'à a dire. CAM. Parmi che si sia detto del corpo semplicemente e dell'anima semplicemente, con somma diligenza. Ma a me sorge un'altra difficultà circa l'accoppiargli insieme; imperoché accade molte volte che ci si dà una ricetta da far una composizione, e noi sapremo i semplici e la quantità e qualità con ogni altra circostanza ch'a questo componimento o mescolamento si conviene, e non però ci riuscirà quella composizione cosi ben fatta, come altri farà, le medesime et istesse cose osservando; il quale con un certo non so che di più, in guisa l'acconcia et ordina che niuno mancamento, niuno difetto se gli può imputare, et a gli occhi de' riguardanti et al gusto porge diletto e piacere inestimabile. Ro. Ma chi poria tacer quando altri il chiama? Ancora ch'io m'abbia serbato di dir la mia parte al giardino, pur non credo che mi accuserete d'avervi indebitamente usurpato le vostre ragioni, se dirò ancor io quel che sento d'intorno a ciò. Il che è però di quella chiara e felice memoria del mio buono e santo Epicuro, che tanto più volentieri stimo vi piacerà d'udirlo. 1.

Allusione alla canzone Chiare, fresche et dolci acque (Rime,

CXXVI).

XVII · Il'\'IPRESE

VES. Dite di grazia, signor Berardino. Ro. Diceva l'Epicuro, dannando la dichiarazione, come disse Monsignore del quadro ove fosse dipinta Vinegia, 1 che l'accoppiamento riusciva bellissimo con la comparazione. CAM. In che modo ? Ro. O dal simile, o dal più, o dal meno, o dal contrario. CAM. Dichiarate di grazia queste parti, ché a punto con finir questo ragionamento ci troveremo poter ritornar al giardino. Ro. Di grazia, avvertendo molto bene che simile non solo chiamo io quello che si fa con quella particella che fa la comparazione, come quell'impresa dell'Epicuro d'un mazzo di diverse piume, tra le quali è una penna d'aquila con queste parole, Sic alias devorat una meas; ma ancor quella che senza essa particella da sé medesima tacitamente se l'assomiglia, come quell'altra della papera che svelleva una radice, con queste parole, Deficiam aut effidam. VES. Signor Berardino, noi non vogliamo che voi così seccamente vi passiate di raccontarci queste imprese; anzi, spiegandole a noi tutte, più agevolmente vi farete intender nel resto et i precetti si riterranno da noi con maggior memoria. Ro. Volentieri. Amendue queste imprese furon fatte al signor Marchese del Vasto, e nell'una volea egli dar ad intendere che la sola cura e sollecitudine amorosa o militare eh' egli avea, vinceva e superava in sé tutti gli altri pensieri; nell'altra, ch'egli era risoluto o metter ad essecuzione il suo intendimento, o morire. Dice Plinio natura esser delle penne dell'aquila, che, poste in fascio con altre piume, elle sole, consumandosi tutte !'altre, rimangono salde et intatte. A punto le parole di Plinio, che assai ben mi sovvengono, sono queste: «Aquilarum pennae mixtas reliquarum alitum pennas devorant »." E la papera dice esser in guisa ostinata, che o svelle la radice ch'ella ha preso a tirare, o vi si spezza il collo. 3 CAM. Bellissime due imprese certo. Ro. Basta dir che siano dell'Epicuro. Ma in quelle parole: Deficiam aut effidam, un'altra cosa si dee notare, ch'è bellissima nell'imprese. Ma forse mi prenderò più di quel che mi tocca. VES. Di grazia non più cerimonie, che in ogni modo con noi altri, de' quali chi è cortigiano e chi filosofo, non bisognano. Diteci dunque ciò che vi occorre. I.

Cfr. p. 2774.

2. PLINIO,

x, IV, 15.

3. PLINIO, X, LXXIX, 163.

SCIPIONE AMMIRATO

Ro. Parmi nell'imprese esser bellissimo sopra tutte le cose quello scherzo che si fa delle voci simili in suono, ma dissimili in significato: Deficiam aut efficiam. Come fu quell'altra impresa: Efferar aut referam. MA. Non vi scordate cosl presto della promessa. Ro. Queste parole fece l'Epicuro per lo signor Conte di Cerreto, alle quali era congiunto per corpo il tempio dell'Onore, posto in uno stendardo quando egli fu fatto capitano di gente d'arme; volendo significare che, o veramente egli sarebbe andato a sepelirsi in quel tempio, cioè che egli sarebbe morto combattendo, o veramente eh' egli arebbe fatto in guisa che arebbe riportato Io stendardo in quel luogo, come fanno i vincitori quando attaccano le bandiere ne' tempi. Non vi ricordate, Monsignore, di quel che dice Simone di Crisi de ? Effertur. VES. Sl bene, ch'io me ne ricordo, e parmi a punto che sia quel che noi diciamo : « Si porta a sepelire ». Ro. A punto. Ora de i simili, che tacitamente si fanno, sono infiniti esempi, che riferire sarebbe forse soverchio. lVIA. Voi, signor Berardino, ci avete in guisa mosso l'appetito con queste tre, che parrebbe che fossimo di troppo delicato stomaco se ci acquetassimo a così poca vivanda. Proseguite pur oltre con alcun'altra. Già questo è giorno d'imprese. E chi sa se alcuno di noi raccontando questa giornata all'Ammirato, a lui venisse poi voglia di farvi sopra un dialogo, da che egli con la lezzion platonica è tutto dato ne' dialoghi. 1 Ro. Alla fé, che di leggieri potrebbe essere, e però io ne dirò alcun'altra ... VES.... Ma seguitiamo il nostro ragionamento. Ro. Voi avete udito in che guisa procede il simile. Or, prima ch'io vada più innanzi, non lascierò di dire che si fanno ancor dell'imprese che parte stanno in sul simile e parte sopra il dissimile, che hanno del bello assai. Mi ricordo ch'egli fece ancora, dico l'Epicuro, un'impresa bellissima al signor Marchese del Vasto dell'asbesto; e le parole erano: Par ignis, accensio dispar. Dice Solino che l'asbesto è una pietra, la qual una volta accesa non si spegne mai più.2 Volendo egli inferire, che in quanto allo spegnersi giva di pari; che in amendue il fuoco era eterno, ma l'accendimento era dispari, J.

Cfr.

AMMIRATO,

p. 4.

2.

Cfr.

SOLINO, VII, 13.

XVII • IMPRESE

perché non così egli con quella fatica penava ad accendersi, come faceva l'asbesto. E tutto ciò che si è detto, basti in quanto al simile. VF.S. A gli altri. Ro. Il contrario è quando nelle parole diciamo il contrario di quel che si vede nell'impresa. E non tanto chiamo io contrario qui quel che dirittamente alla natura d'alcuna cosa s'oppone, come al dolce l'amaro o al bianco il nero, ma eziamdio il diverso, se ben non è contrario. Non avete udito far le meraviglie di quella impresa del tempio di Diana d'Efeso, che ardeva, con quelle parole: Nos aliam ex aliis? VES. A chi fu fatta questa impresa, signor Berardino? Ro. Al signor Ferrante mio fratello. E voleva inferire, ch'egli sperava altra fama da altre fiamme. CAM. E questa non fu pur impresa, o per dir meglio corpo d'impresa, del signor Luigi Gonzaga, con quelle parole: Alterutra clarescere fama ?1 Ro. Di questa io non so che dire; so bene, che avendola mio fratello fatta far in oro da Geronimo Santa Croce parecchi anni innanzi ch'egli morisse, e già son più di trenta ch'egli morl,2 e poi data in dono dal signor Alfonso, pur mio fratello, al signor Marchese del Vasto, fu alla fine, già sono molti anni, da Sua Eccellenza donata a Carlo Quinto imperatore. So ancor questo, che il signor Vespesiano, figliuolo del signor Luigi, dice star meglio con le prime parole: Sive bonum si.ve malum, fama est, che con l'altre già dette, trovate dal Giovio. 3 Ma non è gran meraviglia che i corpi si possano accozzar insieme, essendo luoghi comuni. Ben in questo si può dire: «Beati primi . . . » • • •

1. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 77 sg. 2. Cfr. VASARI, 1550, pp. 783 sgg., e 1568, 11, pp. 179 sgg. [v, pp. 93 sgg.]. 3. Cfr. ancora G1ov10, Imprese, p. 78.

ANTON FRANCESCO DONI Poiché i Cieli mi sono, la loro mercé, stati sempre cortesi nelle imprese mie, più che non arebbon voluto molti uomini maligni, vo' seguir di scrivere all'onor di Dio ed a confusion loro un libro d'imprese e dipingerne ancora una per me, non per levarla in bandiera, in targone o medaglia, come assai scrivani goffi (sia detto con riverenza) senza un proposito o un merito fanno, ma per andare, ancor io, a mostra come i più. A chi non piacerà lo scritto mio o la mia dipintura, gli do licenza che cancelli, stracci, abbai, contraddica e faccia il peggio che può farmi; perché a domare una bestia di più o di manco, poco mi pesa; e dell'altre ho fatto simil servigio, che di natura erano sboccate e bestiali. Ma innanzi che a far la impresa mia io m'avventi e la chiami mia, e voglia, come mia, che la corra il campo fra l'altre imprese, penso d'aggirarmi un poco con qualche preambulo di piacevolezza intorno a quelle d'altri, scherzando in briglia con sì fatti umori, non con parole piombate, di bronzo, o con le macini scritte, ma di sughero, di galluzza e con piuma, e farmi, come fae l'ortolana de' Bacci quando piove al suo prezzemolo, da capo della porca, e mondarla ben bene con mano; lasciando stare quei principii che si fanno in cima dei campanili, che si fracassan poi in un tratto negli abissi, ma starommi a mezz' aere, perché cadendo non mi facci molto male. So che parrà a molti soffioni una cosa grande che io entri con un sacco di novelle nel teatro della Fama, la qual par che abbi serrato l'uscio e posto fuori le insegne di molti grandi scrittori e dotti uomini, al giudizio di chi non ha tanto che basti, e che il corno della sua signoria suoni per tutto che il primo luogo è stato occupato tanto degnamente quanto ragionevolmente. Se la trombettiera non vorrà ch'io stia nel suo casamento in bigoncia o in seggiola, starò in deschetto o in piedi, e, come avrò fatta la mia renga, caccimi fuori, ché poco alla fine del fatto suo mi curo: a ogni modo il tempo nella tela degli anni fa tutto il filo eguale, così grosso come sottile. Il pitaffio attaccato al muro del suo palagio so che per qualche settimana lasciar vogl 1io e che vi stia a suo dispetto, perché il privilegio della libertà, ch'io tengo in serio, me lo concede come agli altri, del dire: e perDa Nuova opi11ione sopra le imprese amorose e militari di ANTON DoNI, Venezia 1858, pp. 9-15, 48-9, 59, 68-71. 175

FRANCESCO

XVII • IMPRESE

ché no lo debbo usare ? Tanto più che in libertà vivo e in terra cli libertà. Il mondo, che è una gabbia di matti ed un matto da gabbia, sa far di queste imprese; perché oggi fa, dimani disfà, qui loda, là biasima, leva e pone, dove ha disfatto rifà, dove biasimò empie di lode, e dove pose leva via, quando gli vien bene, se dirittamente anderete considerando i fatti suoi fondati in fumo ed ombra. Il Serafino, che fu goffo d'oro in oro, ed il Tibaldeo, 1 che pareva la meraviglia de' suoi tempi, corsono ancor loro una lancia a questa giostra della Fama, ed il mondo gli tenne per valenti armeggiatori. Come gli tratta oggi ? Dio ve lo dica per me. E innanzi che venisse l'Ariosto, stupor del mondo, il Boiardo stava a galla, dove ora e' par che gli abbia dato un tuffo. Se gli avvenisse così a un altro, che ve ne parrebbe? Io sento rispondermi che l'è cosa difficile, essendoci all'incontro sl gran parapetti d'imprese. Sarebbe il primo granchio forse, che s'è preso a' nostri giorni ? In effetto, la vi parrebbe cosa strana: dico a voi, regolatori delle imprese. Dovette ancor parere strano (l'anno 1316 ai 25 di gennaio all'ora di vespro) al campanaio di S. Marco a Vinegia, quando il terremoto dimenò tanto il campanile, che le campane sonavano senza sua licenza e senza che egli le tirasse: e s'accorse poi d'essere un cappone, perché ancora altri che campanai sanno sonare il vespro. Il Doni, quale egli si sia, trarrà nel nome del Signore il bolzone della sua balestra e metterà la mira a tal segno, che vi arrivi; se darà in brocca, lo lascierà giudicare a chi s'intende del vino quando gli è dolce, e dell'aceto quando gli è forte; or vedete s'io m'acconcio alle cose del dovere ed a patti ragionevoli. Voi dovete sapere che tutti gli uomini, e se non tutti, due volte mezzi, se lo beccano, il cervello dico, e che c'è tal farfanicchio, poltron nell'armi, il qual leva impresa, come se fosse Salomon di Brettagna, che portava lo scacchiere per mostrare che era per ogni battaglia buono ed ogni giostra. Ed ecci tal profumato scalzacane, che non vorrebbe nel!'amore per suo compagno Narciso; e ciascuno al suono della sua tarantola salta, e vogliono questi fatappii, o a traverso, spogliati o vestiti, a cavallo, a piedi, e vivi o morti farsi innanzi e dimostrare il loro animo. Favello in questo caso della matassa delle imprese, le quali si chiamano in più modi, fannosi in diverse fogge ed in molte cose pazze si dimostrano, e a torto per molti s'usano. Io, in quanto .I.

Naturalmente Serafino dall'Aquila e Antonio Tebaldeo.

ANTON FRANCESCO DONI

alla mia logica, fo pensiero di battezzar cosa per cosa, senza l'autorità de' compari regolatori e delle comari regolatrici, come leggendo voi l'udrete dire nel miglior modo che potrò. Dimostrazioni' di cose fatte ed accidenti accaduti per imprese vere: imprese di cose da fare, parte ascoste e parte manifeste per segni: segni di cose fatte e da fare per via di lunghe bugie e corti contrassegni: contrassegni di cose non fatte né da fare in materia di sogni e frascherie: frasche delle cose immaginate in aria ed alla grottesca, che con si stravaganti chimere si dipingono e si scrivon per tutto. 1 Quando Mosè ebbe da Dio l'impresa di condurre tanti popoli, non credo che facesse tanta moltitudine di bandiere, confaloni, stendardi, né trofei con insegne, e se pure fosse stato tempo da usar imprese in que' tempi come oggi, conducendo le genti sempre più innanzi di giorno in giorno, poteva figurar quella colonna di fuoco, che la notte li guidava e faceva lor lume, con il motto Plus ultra, e sarebbe stata una bella insegna con quelle ardenti fiamme in aria, e propria, dappoiché continuamente camminavano più oltre con tanta difficultà e fatica. «Nunquam defuit columna nubis per diem, nec columna ignis per noctem coram populo », Exodi cap. XIII. Ma delle imprese sue, che veramente furono magne, la maggior fu la legge ricevuta da Dio, e però l'unione de' secoli gli ha dato per contrassegno due tavole di pietra, e cosi si può dire che l'impresa sia propria. 2 Quella di Giuditta non fu una impresa stupenda? Se l'avesse levato un testone con una scimitarra per sua insegna con il motto mirabile: Opera manuum mearum, sue parole, non sarebbe stata vera, sua, bella? se bene vi era figura umana?3 Ma che si dirà di costoro, oggi, che mettono in mostra infiniti animali ed altre tresche, che non han da fare con l'impresa che fanno nulla, hanno fatta o voglion fare? Davidde, il quale fece l'impresa d'ammazzare Golia, poteva levarne una e per chiara dimostrazione dipingere una scaglia con la frombola e il motto tolto da, suoi salmi, se già non fosse tenuto lungo: Benedictus dominus deus meus, qui docet manus meas ad praelium, et digitos meos ad bellum.4 Credo che 1. Definizioni satiriche che giocano sulle parole per ironizzare la terminologia corrente. 2. Ovviamente tali affermazioni sono del tutto contrarie a quelle della trattatistica specifica. 3. Evidente allusione al G1ov10, qui p. 2760. 4. Psalm., 143, 1 (« Benedetto il signore lddio mio, che addestra le mie mani alla battaglia e le mie dita alla guerra •).

XVII · IMPRESE

bisogni farlo tanto lungo, o corto tanto, che sodisfacci a ciò che tu vuoi nell'animo tuo inferire per ciò che t>è accaduto, per quel che tu pensi di fare o vorresti, per quello che fatto hai, ed altri umori; e chi lo fa più breve dà manco fatica a chi legge. Fate pure che sia buono e bello, ché non sarà mai lungo, ed ogni cosa sarebbe di Davidde, e l'impresa ed il motto. 1 Ma tutti non posson far cosi; però è da comportare che l'uomo s'accomodi dell'universale quando il particolare gli manca, e di quello ancora che si son serviti gli altri, pur che si lasci stare quello a punto ed a sesto compassato che gli altri investiti si sono, come per molte imprese seguenti voi potrete considerare e vedere, e di poi darne giudizio. Messer Paolo Crivello fece un,impresa, un vaglio, il quale separa il cattivo dal buono, conservando il grano e gittando fuori il loglio. Avendo il Cristiano in sé il vizio e la virtù, dee cacciar l'uno, e l'altra ritenere. Uno, che non avesse il cognome di Crivello, o non fosse della casata de' Crivelli, lo potrebbe usare ancora, vero è che così proprio non sarebbe, e mutare il motto, non dicendo: Bonum et malum, ma Malum eiicio, o altro. Chi avesse un'innamorata, che tenesse il nome di Giulia, non potrebbe stellare e cometare anch'egli con quel lulium sidus ?2 Giannone da Imola, quando vide la cassa funerale del reverendissimo con quello: Inter 01mzes, disse; stato sventurato, come dire, infra tutti i cardinali. Ancora a si fatto proposito fu questo motto scritto sotto l'armi d'un avarissimo signore, che fra tutti i miseri era illustrissimo ed eccellentissimo nel cavare, cioè pelare i popoli, e chi usasse questa medesima, tanto si leverebbe di quel d'Ippolito, quanto Ippolito levò d'Orazio.3 l\tlancano coloro che usano una medesima cosa per insegna e per impresa? Quanti dipingono la fenice? Marfisa se ne vien fuor della porta, e sopra l'elmo la fenice porta.

E per insegna in campo verde il raro e bell'augel che più d'rm secol dura.4

E ciascuno a suo proposito la tira in diversi concetti e fantasie ... Ancora una protesta contro le regole correnti; cfr. Gmv10, RuscELLI, AMMIRATO, qui pp. 2760, 2766, 2769. 2. Probabile allusione al Giovio e al Ruscelli; cfr. qui p. 2767 e la nota x. 3. Cfr. G10v10, Imprese, pp. 35 sg. 4. ARIOSTO, Ori. Fur., xxv, 97, XXXVI, 17, e cfr. RuscELLI, qui p. 2767. 1.

ANTON FRANCESCO DONI

Voi vedrete quelle imprese che dicono le bugie dipinte; quelle che le dicono da dovero; quelle che si convengono e disconvengono; proprie ed improprie; vive e morte. Dipinte: perché un tristo ed un ignorante si fa un'impresa da buono e da litterato. Quelle che le dicono da dovero: che un gaglioffo, non se n'accorgendo, la fa propriamente gaglioffa. Che si convengono: a chi ha fatto cosa degna e l'ha posta veramente. Disconvengono: che il piccolo la fa grande, e grande il piccolo e sproporzionata. Proprie : che nessun si può servir di quella sua. Improprie: che né l'impresa, né colui che la porta, hanno convenienza nessuna. Vive: che hanno spirito, ingegno, son belle e ben tirate a filo, che investano appunto. Morte: che a nulla son buone. E così vedrete le parti che si ricercano nelle imprese, e come son fatte le belle, le brutte, le cattive e le buone; e ve lo prometto, riprometto e ve lo manterrò, replicandovi che le imprese sono mille, come hanno già veduto cento uomini da bene. E se il libro non si stamperà, come mi hanno promesso a Lione,1 con il tempo si vedrà, quando piacerà a Dio, ce ne saranno tante copie a penna, che un diluvio appena le spegnerebbe. Ognuno che ha bisogno di ringraziare chi gli ha fatto e fa bene, utile ed onore, e di vituperare coloro che cercano di fargli danno e vergogna, sa trovar la strada ••• Deh ! vedi ritrovato sottile che l'insegna abbia da dire mezzo in pittura e mezzo in motto, come dire: quello che non può significare la pittura, le parole lo spianino. 2 Noi non vogliamo star forti a coteste batoste. Chi sete voi? L'impresa o l'insegna fu sempre libera e larga, ed è una pittura che favella dimostrando l'animo tuo, ed il motto vi si pone di sopra o di sotto o intorno, per mostrare la bella invenzione del parlare con significato di figure (e l'ho per imperfetta quella pittura che non dice tutto), perché si pasca la mente e la 1. Dove nel 1549 l' Alciato aveva pubblicato le Diverse imprese tratte dagli emblemi, nel 1559 Paolo Giovio il Dialogo delle imprese militari e nel 1560 Gabriele Simeoni Le se11tenziose imprese. 2. Cfr. G1ovm, RusCELLI, qui pp. 2760, 2766.

XVII • IMPRESE

vista. Questo disse non Aristotele, ma il piovano Arlotto, quando fece fare la sepoltura nello spedal de' preti, dove si vede su 'l chiusino un albero che ha tagliato un ramo e un altro ne rimette, col motto: Uno avulso non deficit alter. Che voleva inferire: muore oggi uno (idest tronca la morte), e la vita ne rimette un altro; questo muore e quello nasce, tanto che la generazione umana si man• tiene ... I Io sono poi ancor contento che questa materiuola bassa, la quale spandete per cosa alta e stupenda, voi la chiamiate impresa, poiché l'uso ed il volgo spende siffatta moneta, ma in ricompensa non me la mettete cosi in piega, in isquadra ed in sesto, vi prego, lasciando dire a modo di ciascuno come gli piace, e fare e motti lunghi e bibbie corte, in greco, per lettera, in ispagnuolo, nella materna e paterna lingua.2· Vorrò poi, signori leggiai, che le SS. VV. si contentino ancora di non metter questa professione del far !'imprese cosl alta sopra i sette cieli, conciosiaché ci basta l'animo di tirarla giù in terra, e, quante voi ne farete chiamate regolate, le sregoleremo spianandole con una pialla, che voi vedrete, ser saccenti, una cosa sregolata, che s'è usata da altre barbe che le vostre, in dipintura sola e non dipinta, in motto solo e senza motto, e con l'una e l'altra girandola, ne' secoli de' secoli, alla sfilata. La sarebbe ben bella che voi ce la voleste or mettere in istrettoio e spremerla. Non vi vergognate or voi a usurparvi tanta autorità? Chi diavol sete voi? arreste forse l'anima di Licurgo in corpo? o il manto d'Alessandro nella cassa? Chi v'ha dato cotesta autorità? A dirvi il vero in due parole, le SS. VV. passano per formiche, sl che tenete il naso indietro, perché voi penserete di fare d'una mosca un elefante, e farete d'una lancia un zipolo; credete a me, so ben io ciò che si dice de' vostri rappezzamenti, e va un certo bu, bu, attorno, il qual non vi farà punto di buon servigio, se le SS. VV. non lascieranno correr l'acqua all'ingiù. 1\1:'è parso un galantuomo colui che ha stampato il Furioso in Lione, grande in foglio, con un carattere bello, ben corretto, con somma diligenza d'ogni cosa, e n'ha fatti solamente per donare certo numero a persone elette. 3 1. La ironica opposizione tra Aristotele e il piovano Arlotto tiene a convalidare la satira dei dotti. 2. Cfr. G1ovio, RuscELLI, qui pp. 2760, 2766. 3. Probabile allusione all'edizione in due volumi in quarto, stampata da Guillawne Rouille (G. Rouillio) nel 1556.

ANTON FRANCESCO DONI

M 1 è parso galante, dico, perché nella dedicatoria ad Enrico: «Io ho, Sacra Corona, stampato le bellezze del Furioso sole, pure, candide e leggiadre, le quali cominciano con quel verso dove dice: Le domie, i cavalier, l'arme , gli amori

e finiscono in quell'altro mirabil verso: Che fu si altiera al mondo ed orgogliosa. 1

In questo mezzo, dic' egli, sacra lVIaestà, sono tutte le bellezze dell'Ariosto, né leggerà uomo mai verso di questo celeste libro, vuoto di somma bellezza, anzi pien di leggiadria e sapere, e non v'è per entro né postilla d'avvisamento sciocca, che lo imbratti, né allegoria goffa, che lo storpi, o avvertimento ignorante, il qual lo crocifigga, sì con gli esempi ladri, come con le similitudini mal messe: tutto il suo componimento è netto e limpido». L'impresa che v'ha fatta costui innanzi, è stato un libro da una nube quasi tutto coperto, e sopra la nube è un chiaro sole; il motto intorno il volume dice: Post tenebras. Credo che a questa non faranno ceffo i regolatori, ché s'intenderà: avrò la luce. Sarebbe una bella cosa, diceva lo Scalandrone arrotarasoi, che ciascuno stesse ne' suoi piedi e non volesse appoggiarsi a dosso di questo e di quello. Come costoro veggono un autore, che abbia non1e illustre, credito mirabile e buona fama, e' fanno il can di Bultrigone, il quale andava sempre addietro a' ben vestiti. Se dovessino essere svergognati, come sono, forz'è che ci dian di naso dentro con una fredda lode, con due affumicate rime, con una fanfalucola di chiacchiere o una impastata di fritelle, e non sentono se non la vii generazione e bassa plebe che gli lodi, qualche adulator mendico, o altro meccanico, che utile ne tragga o qualche fumo. Se l'ossa de' poveri scrittori e poeti morti riavessero, in questa età, i nervi, la polpa, lo spirito e la pelle, credo che caverebbono gli occhi a dieci fatappi, che gli scopano continuamente, or con una ed or con un'altra granata, le reni. Fate del vostro, animali selvatichi, che ci avete oggimai stomacati. Questa sarebbe impresa, e lasciare stare di dare impaccio a chi non ne dà a voi. Una gloriosa impresa certamente far del suo, e non si vestir di quel d'altri. Le mille imprese, che dar fuori io voglio, non sono 1.

Ori. Fur.,

XLVI, 140.

XVII • IMPRESE

state tolte in prestanza da questo o da quello, ma sono mie invenzioni. E se mi rispondeste, non mi basta l'animo, non son da tanto, statevi addietro come i fantaccini e non vi mettete innanzi per capi di squadra; or lasciamo questa impresa del mostrare gli errori di altri, perché l'insegna, che teneva Gianni Gobbo intagliatore in bottega, erano scarafaggi che voltavano pallottole, ed il motto era in tedesco: Non faticar per questo, o scarafaggio, ché ben ce n'è per tutti e d'avvantaggio.

BARTOLOMEO TAEGIO IL LICEO DOVE SI RAGIONA DELL'ARTE DI FABRICARE LE IMPRESE CONFORMI A I CONCETTI DELL'ANIMO

V1sc.... Ora che siete vagato un pezzo per l'ampio campo delle imprese imperfette, 1 vorrei che oggimai, venendo al discorso delle perfette, mi deste qualche bello ricordo in questa materia delle imprese. G10s. Ancora che forse meglio di me intendiate questo nobile artificio, nondimeno, per esser voi parte dell'anima mia, non posso mancare a me stesso col non dirvi liberamente il mio parere intorno a quello che mi ricercate. Saranno adunque dieci ricordi, ch'io vi darò come primi principii, sopra de' quali si fonderà questa nuova arte di fabricare le imprese. VIsc. Perché dite voi nuova arte di fabricar le imprese, se già avete conchiuso che quasi dal principio del mondo infino ad ora si usò sempre il portar delle in1prese? G10s. Io ho detto che l'uso delle imprese è cosa antichissima, ma che l'arte di fabricare una perfetta impresa è cosa nuova e trovata a nostri tempi, e che d'essa gli antichi non avevano alcuna notizia, sì come non ebbero ancora cognizione dell'artificio de l'artigliarie. 2 V1sc. Quanto più parlo con voi di queste imprese, tanto maggiormente si accende nell'animo mio il desiderio d'intender l'arte di fabricarle; però, s'avete caro farmi piacere, cominciate quanto prima a darmi questi vostri ricordi. GIOS. Il primo ricordo sarà che 'l concetto dell'auttore dell'impresa sia nobile, solo e particolare. 3 Il secondo, che così i motti separati dalle figure, come le figure dai motti, non vogliano dir nulla, e che da sé non abbiano significato alcuno, ma congionti insieme rappresentino l'intenzione dell'auttore dell'imDa Il Liceo di M. BARTOLOMEO TAEGIO, Melano 1571, II, ff. 9-11, 20-2. Interlocutori Cesare Visconti e Giuseppe Giossani. I. Il Giossani all'inizio del dialogo si è intrattenuto a lungo sui ieroglifi, cioè «imagini delle cose dimostrate altrui con figure», sugli emblemi, proverbi e ctscntcnziosi ricordi illustrati». 2. Paragone che vuole sottolineare in modo inequivocabile l'originalità delle imprese moderne. 3. Il Taegio promuove delle riflessioni morali estranee al G1ov10 e al RUSCELLI, qui pp. 2760, 2766 sg.

2 794

XVII • IMPRESE

presa in quel modo che l'acqua chiara d'una fontana suole rappresentare l'imagine del suo oggetto. 1 Il terzo, che si fugga non solamente l'intricata moltitudine di concetti, ma di parole e di figure ancora, e che si cerchi di accostarsi all'unità più che si puote.2 Il quarto, che i corpi delle imprese sieno conosciuti senza aiuto esteriore di parole o di colori. 3 Il quinto, che 'l soggetto dell'impresa sia nobile, vago, d'illustre apparenza, che non sia di cattivo augurio, né troppo usitato.4 Il sesto, che !'imprese abbiano significati non del tutto chiari, né del tutto oscuri, né troppo triviali o communi, né troppo alti o cavati da proprietà troppo lontane. 5 Il settimo, che i corpi favolosi et istorici, ch'intrano nelle imprese, possano avere forma umana6 e che gli altri non la possano avere se non mostruosa,' e che le figure sopra al tutto non apportino seco alcuna disonestà.8 L'ottavo, che l'impresa sia tale che non dia materia a maldicenti di motteggiare contra l'auttore d'essa.9 Il nono, che il nome delle figure sostanziali delle imprese non entri nel motto. 10 Et il decimo, che tra le parti principali dell'impresa vi sia la debita proporzione. 11 Ora queste sono le avvertenze e regole da fabricare le imprese, le quali se infallibilmente si osservaranno, le imprese riusciranno meravigliose e tali eh' elle, quasi a viva forza, rapiranno gli occhi et indi gli animi de' riguardanti, facendogli ad amendue una vaga e leggiadra semitria. V1sc. Se volete ch'io mi possa valere di questa vostra dottrina, bisogna che si venga agli essempi e che s'applichi la teorica alla prattica, e prima che si passi più avanti, vorrei sapere da voi quai sieno quei concetti che meritamente si possano chiamar nobili, poi che la nobiltà del concetto ci avete dato per primo ricordo. G10s. La vertù et il vizio sono quelli che determinano la nobiltà dalla ignobiltà, e per questo, in tutte le imprese, bisogna che vi sia il fondamento d'alcuna vertù morale; onde quei concetti che non x. Cfr. G1ov10, RuscELLI, .AMMIRATO, qui pp. 2760, 2769, 2780. GIOVIO, RUSCELLI, AMMIRATO, qui pp. 2760, 2766 sgg., 2776 sgg.

2. Cfr.

3. Cfr. qui pp. 2765 sg. 4. Ripete in parte il primo ricordo. 5. Cfr. G1ovio, RuscELLI, qui pp. 2760, 2766. 6. Cfr. G1ov10, RuscnLLI, qui pp. 2,760, 2769. 7. Cfr. ancora RUSCELLI, qui p. 2769. 8. Cfr. la nota 3 di p. 2,793. 9. Alla responsabilità verso terzi si abbina quella verso sé stessi. 10. In modo da evitare una coincidenza tra immagine e motto; cfr. RuscE1.LI, AMMIRATO, qui pp. 2768 sg., 2781. 11. Cfr. G1ovm, RuscnLLI, AMMIRATO, qui pp. 2760, 2,769, 2781. RUSCELLI,

BARTOLOMEO TAEGIO

2 795

hanno del superbo, ma più de gli altri si avicinano alla modestia, saranno più lodati e per conseguente più compiute le imprese che saranno fabricate sopra sì sodo e fermo fondamento, e quelle invenzioni che saranno fondate sopra concetti pieni di vanagloria, di temerità e di superbia, oltre l'infamia che apporteranno a gli auttori d'esse, inviteranno ancora le persone a motteggiare contra di loro .•.1 V1sc. Vorrei che mi diceste se le parole del motto possono eccedere il numero di tre. G10s. Credo di no, salvo se per motto non venisse a proposito qualche verso intero o spezzato, e cosi è sempre stato osservato da dotti e giudiciosi scrittori. E se le parole del motto saranno tolte da qualche auttore famoso, le imprese reusciranno più eccellenti e saranno di maggior pregio.2 E quando pur il motto si faccia di sua testa, bisogna avvertire bene che le parole sieno regolate di lingua, belle di suono, e numerosamente collocate insieme. 3 V1sc. Perché avete voi detto, che i corpi delle imprese dovrebbono esser conosciuti senza l'aiuto esteriore di parole o di colori? G10s. Perché l'impresa, la quale per sua intelligenza avesse bisogno di tale aiuto, peccarebbe di troppo oscurezza, vizio di non poca importanza, e per questo bisogna avvertir bene di non mettere nelle imprese cose incognite o conosciute da pochi di quei paesani, ove s'hanno a usare. E sopra al tutto fa di mestier guardarsi dal metter cose nelle imprese, le quali col dissegno non si possano fare chiaramente conoscere; come sono molte sorti d' erbe e di uccelli, che per la gran somiglianza ch'ànno tra loro, dissegnandosi non si conoscerebbe più citronella che ortica, o storno che tordo.+ V1sc. Ora circa al ricordo che mi date, che i soggetti delle impre• se abbiano ad essere di bella vista, come l'intendete voi? G10s. Io m'intendo che nelle imprese entrino cose di bella apparenza, come soli, lune, stelle, folgori, archi trionfali, acque, scogli, piante, animali bizzari et uccelli fantastichi, e cose ancora fabricate dall'arte, come sfere, mapamondi, astrolabi, orioli et altre cose simili. 5 E qui bisogna avvertire bene in elegere i corpi delle 1. Seguono numerosi esempi, che per la loro accidentalità abbiamo preferito tralasciare. 2. Cfr. RUSCELLI, qui pp. 2766 sg. 3. Cfr. AMMIRATO, qui pp. 2773 sgg. 4. Cfr. AMMIRATO, qui p. 2782. s. Cfr. GIOVIO, qui p. 2760 e la nota I.

XVII · IMPRESE

imprese nobili e tali che non movano riso in altrui, più tosto che meraviglia, 1 come fece colui che per soggetto d'una in1presa fece dipingere un dio d'amore con uno archibugio in mano. V1sc. Perché avete detto che i sentimenti delle imprese dovriano essere non del tutto chiari, né del tutto oscuri, né troppo triviali o communi, né troppo alti o cavati da cose troppo lontane ? G10s. Avete a sapere che come per riverenza davanti alle cose sacre si sole ponere spesse volte qualche sottilissimo velo o trasparente cristallo, cosi per reputazione della nobiltà de' generosi concetti mostriamo alle volte i pensieri nostri sotto il trasparente velo delle similitudini tolte da qualche rara e notabile natura di quelle cose che pigliamo per soggetti delle imprese; ma questa maniera di scoprire l'intrinsico dell'animo nostro non dovrebbe però essere talmente coperta che gli occhi della mente non la potessero vedere, perché, oltre che le imprese verebbono in fastidio a chi le considerasse, ne seguirebbe ancora effetto contrario all'animo dell'auttore d'esse, perché con questa via non farebbe chiaro al mondo la qualità del suo concetto. 2 Né dovrebbe parimente il significato dell'impresa essere tanto chiaro ch'ogni plebeo alla prima occhiata lo conoscesse per vederlo ignudo e senza il velo della allegoria. Troppo chiaro intendo ancora che sia il sentimento dell'impresa, quando viene dimostrato per similitudini di cose troppo vulgari, triviali e conosciute, sì come è troppo oscuro quando l'intenzione dell'impresa si fonda sopra la natura e proprietà di cose troppo lontane. Sempre i corpi delle imprese deono dilettare et invaghire con la rarità così della forma come della natura loro, la quale rarità non partorirebbe questo diletto, se rendesse l'impresa talmente oscura che non potesse essere intesa se non da persone più che mediocremente dotte. 3 Avete ancora avvertire che le imprese peccano di soverchia oscurezza e di troppa chiarezza quando sono tanto larghe che ricevono infiniti sentimenti, o tanto strette che non lasciano a chi le vede qualche cosa d'andare vagamente investigando col pensiero a che fine possano esser fatte ... G10s.... Il formare delle imprese, Visconte mio, è quasi come una ventura d'un capriccioso cervello, e non è in nostra mano col longo pensare inventar cosa degna del concetto e del padrone e dell'auttore dell'impresa. E per questo non è da meravigliarsi se Cfr. AMMIRATO, qui pp. 2778 sgg. 2. Cfr. G1ov10, 2760, 2765 sg. 3. Cfr. AMMIRATO, qui p. 2781. 1.

RUSCELLI,

qui pp.

BARTOLOMEO TAEGIO

2797

pochi riescono in questo nobilissimo artificio ... 1 Alcuni hanno detto che i motti per sua maggior dignità e reputazione dovrebbono esser in lingua forestiera, ma io fui sempre d'altra opinione, perché, se l'imprcse furono ritrovate per accennare altrui qualche nostro particolare intento, fariano effetto contrario al lor fine, se i motti venissero fatti in lingua che non fosse intesa. E presuposto che i motti avessero più del buono in lingua forestiera che nella nativa, e che cosi si osservasse ancora, vi dico che questo non dovria aver luoco nelle imprese che per amore si fanno nelle giostre, ne' torniamenti et altri giuochi militari, perché in simili occasioni le imprese non solamente per causa dell'idioma, ma per qual si voglia altro rispetto, dovriano essere tanto chiare, che potessero essere intese senza troppo discorso, sì per mancarvi il tempo di poterle considerare, come per commodità delle donne, che spesse volte non hanno cognizione d'altra lingua che della sua materna}'

I,

Cfr.

AMMIRATO,

qui pp. 2775 sg.

2.

Cfr.

AMMIRATO,

qui pp. 2771 sgg.

LUCA CONTILE SOPRA LA PROPRIETÀ DELLE IMPRESE

... E perché da molti sono state publicate l'imprese senza motti, tenendole alcuni per parlamento con silenzio, alcuni per parlamento con cenni, però è bene, per tor via cotali openioni, di tener per cosa ragionevole e giusta che l'imprese deono esser con l'anime, cioè con i motti, tanto più che quante figure si prendono in simil conto, per la maggior parte hanno l'anima di loro natura, o sensitiva o vegetativa, solamente all'altre in tutto inanimate si applica l'anima, o per qualità naturale, o per qualità accidentale o artificiale, con le quali anime li nostri disegni hanno particolare confacevolezza, la quale viene a esser contenuta et espressa da brevi et oscure parole che motti chiamiamo. 1 Essendo cosa chiara ch'una impresa senza motto può esser sinistramente interpretata e contra la buona intenzione del suo inventore, con ciò sia che qual si voglia figura contenga in sé diverse qualità e buone e cattive, laonde è in arbitrio de' maligni applicare a quelle sinistri e disonesti sentimenti e biasmevoli interpretazioni ;2 per ischifare adunque cosi evidente pericolo è stato saggiamente e forse divinamente aggionto il motto alle figure, e tanto è da credere che facessero gli antichi ritrovatori di questo gradito testimonio de' generosi disegni, per il qual motto (pur che ben si confronti con la figura) si leva via a' maledici sì temeraria professione, et a loro mal grado danno onorato sentimento a degni et illustri propositi. E perché si è detto che qual si sia figura eletta per impresa ha le sue qualità e naturali e altrimenti, delle quali qualità altre (come si è detto) sono buone, altre non buone, però le buone sieno in considerazione di chi si elegge la figura che rappresenta cosa essenziale (salvo chi si elegge i colori)3 e da quella tragga la somiglianza della sua intenzione, la qual somiglianza viene a essere, col senso del motto, anima particolare di qual si voglia figura, dico particolare a Dal Ragionamento di LUCA CONTILE sopra la proprietà delle Imprese, Pavia I 574, ff. 29-31. I. Sul rapporto motto e immagine, cioè anima e corpo dell'impresa, cfr. G1ov10, RuscELLI, AMMIRATO, TAEGIO, qui pp. 2760, 2769 sg., 2772 sgg., 2793 sgg. 2. La stessa polivalenza delle immagini può indurre ad una equivoca interpretazione. 3. Cfr. RuscELLJ, qui p. 2765.

LUCA CONTILE

2 799

differenzia di quanto dice il Giovio, cioè che 'l motto sia assolutamente anima d'ogni perfetta impresa ..• 1 Intenderemo adunque l'anima particolare non atto, non forma, non tutta in tutto, ma particolare per particolare qualità e proprietà delle figure, dove si truovino le particolari similitudini delle nostre intenzioni espresse con qualche oscurità dal motto, anima particolare, la quale oscurità dà veramente maraviglia e porge credito e riverenzia,2 e per somiglianti cagioni sono state ritrovate le favole, con le metafore, le metonimie, le parabole, le prosopopeie, le parasiopesi, le omeosi et altre ch'allegoricamente, moralmente, istoricamente, divinamente s'interpretano, certamente maravigliosi velami della sapienzia, usati in confusione delrignoranzia e della profanità; conciosia che le viziose nature sieno d'intendere i concetti divini lecitamente indegne. Furono ancora per tal cagione ritrovate le profezie, le quali erano annonzii o per visioni o per rivelazioni, ch'in parole et in figure contengono misterii della eterna et infallibile providentia ...3 Si prepongono da noi per regola cinque capi, questi da essere imitati, quella da esser communemente mantenuta nella elezzione delle figure, le quali deono rappresentare et imitare: la natura, overo l'arte, overo il caso, overo l'istoria, overo la favola. Escludendosi ragionevolmente qual si sia figura chimerica, mostruosa, umana et impropria, impercioché nelle chimere e nei mostri, come difetto o superfluità di natura, non può convenevolmente ritrovarsi veruna certa e degna similitudine di vertuoso et illustre pensamento, se non sono però chimerichi e mostruosi gli animi et i desideri de gli uomini, desideri (dico) non d'altra radice produtti che dal vizio e dagli sfrenati appetiti,4 similmente la figura umana non debbe per impresa accettarsi, conciosiaché grandemente disdica per due ragioni: l'una, che l'uomo ha proprietà e non similitudine con Paltro uomo, perché sono d'una medesima spezie; 5 l'altra, che la figura umana sarebbe stimata di lineamenti simile all'inventore di essa impresa, per il che saria medaglia, oltra cli ciò sarebbe confusione in deliberare in che attitudine si dovesse dipingere, o nuda, o vestita, o dritta, o a giacere, o a sedere, o in 1. Cfr. G1ovm, qui p. 2760. 2. Cfr. AMMIRATO, qui pp. 2777 sg. 3. Cfr. AMMIRATO, qui p. 2775. 4. Si ripropone il solito limite delPenig,na; cfr. G1ov10, RuscELLI, AMMIRATO, TAEGIO, qui pp. 2760, 2766, 2772, 2794. 5. Cfr. G1ov10, RuscELu, TAEGIO, qui pp. 2760, 2769, 2794.

2800

XVII • IMPRESE

qual si voglia modo et abito, si che confonderebbe i riguardanti et ancora faria di mistieri di considerare se avesse a esser giovane, o vecchio, o di mezo tempo, onde io tengo che più ragionevolmente s'avrebbe da admetter la figura chimerica e mostruosa che l'umana, 1 salvo però le figure poetiche, come Marte, Venere, Mercurio, Pallade, Ercole, e simili. Parimente non è da accettar per in1presa figure d'improprietà e fuori dell'abito loro ordinario: come Saturno con un martello in luogo di falce, Giove con un balestro in vece di fulmine, Marte con uno spiedo in cambio di framea, Apollo con una fromba in luogo dell'arco e del turcasso, Mercurio con un boccale in mano e non col caduceo, Nettuno con una sferza e non col tridente, Pallade con la ronca e non collo scudo di Medusa, Bacco con una lanterna e non col tirso, Ercole con spada e brocchiere e non con la mazza, Amore sbendato con uno archibugio e non con arco e strali; le qual improprietà fanno ancora improprii i disegni de gli animi nostri. 2 È ancora la verità che molte figure sono tenute per imprese che non convengono, delle quali a miglior proposito parlaremo, dovendo io per ora seguir, con la regola proposta, quale definizione più conforme dar si. debba alla impresa vera e propria, perché varii sono degli uomini i pareri, per onde giudico cosa giovevole se pongo qui in scritto tutte le definizioni le quali molti belli intelletti stimano per buone e per necessarie, ancora che con diversi generi a una sola conclusione concorrino. La prima è che l'impresa sia imagine di quanto altri onoratamente disegnano; altri, che l'impresa sia una espressione d'onesto e lodevole desiderio; altri, che l'impresa sia concetto o pensiero di quanto si dee ben operare; altri, che l'impresa sia un proposito di conseguir con l'opere onore e laude; altri, che l'impresa sia indizio d'animo vertuoso e nobile; 3 altri, che l'impresa sia segno di concetto, il quale è nell,anima. Molte altre definizioni potrei scrivere pur volte et intente a un medesimo fine ..•

I. Cfr. TAEGIO, qui pp. 2794 sg. 2. Proprio gli attributi tradizionali di tali figure poetiche consentono loro dei chiari contenuti. Su C1,pido con l'archibugio cfr. TABGIO, qui p. 2796. 3. Cfr. TAEGIO, qui p. 2794.

GIOVANNI ANDREA PALAZZI

... Mi era quasi rissoluto di cosi dire: l'impresa una composizion essere di poche parole e di figure che non è zifra, non livrea, non emblema, non insegna, non cimiero, né roverscio di medaglia, che i nostri concetti manifesta; parendomi che in cosa tanto difficile esser conceduto quello mi potesse che in una molto più agevole et ampia già fu conceduto a Porfirio, che disse: «Accidens est quod nec genus, nec differentia, nec speties, nec proprium est». 1 Ma essendomi aveduto poi che per precetto de' filosofi tutte le vere e buone diffinizioni esser debbono affirmative et il lor genere e la lor differenz'avere, come dice Boezio nel libro delle diffinizioni, ove molte e molte sorti, che lungo sarebbe a dire, ne racconta; e che quella dell'accidente di Porfirio più tosto ch'altro una discrizzione et una conseguenza è delle cose eh' egli aveva dette; ho fatto rissolutione, mutando proposito, di affermativamente dire: l'impresa esser un modo di esprimere qualche nostro concetto, principalmente affettuoso, con l'imagine di cosa c'abbia con quello, per sé stessa, convenienza, necessariamente accompagnata da un breve motto di parole, a questo atte.2 Ma perché l'intenzione mia meglio sia intesa, voglio di questa diffinizione le ragioni addurvi e chiaramente farvi conoscere che non vi manca, né vi è cosa veruna di soverchio, convertendosi col suo diffinito, come da voi stessi potete vedere, et avendo il genere con le sue differenze. Il genere esprimo, quando io dico essere di troppe parole, si vede chiaramente che il motto per sé stesso senza la figura s'intende; come, perché senza figura s'intendesse, lo scrisse Orazio, del quale è il verso. Ché per far imprese di questa guisa, a quasi tutte le sentenze si potrebbe metter figure e dar nome d'imprese, se si volesse dipinger in figura quello stesso che si dice con le parole. E sarebbe alla guisa de' calendarii ... che stampano in Alemagna, che nel margine sta dipinto un santo passato da molte frezze o un altro con gli stizzi ardenti, e cosi tutti i santi, et al dritto loro è poi scritto Sanctus Sebastianus, Sanctus Antoniru e così di tutti. Questo stesso vizio, che la fa bruttissima, anzi non essere impresa altramente, ebbe quella che pur mette il Giovio, che era un camino con molte legna che ardevano, ove si vedea gran fuoco e gran fumo et il motto era Dov'è gran fuoco è gran/umo ..• •. I. Cfr. RusCBLLI, TAEGIO, qui pp. 2.765, 2.794. 2. Condividono la stessa preoccupazione di comunicabilità AMMIRATO, BARGAGLI, qui pp. 2781, 2806 sg. 3. Alle difficoltà conoscitive si alleano le visive.

XVII • IMPRESE

riescono bellissime quelle imprese che si traggono o si formano dall'arme o dall'insegne proprie della casa o di colui stesso da chi si fanno, aggiungendovi o togliendone e mutandole secondo il bisogno dell'intenzion sua, accomodandovi le parole regolatamente e con leggiadria. Delle quali cosi tratte o formate dall'insegne o dall'arme proprie, si averanno alcune bellissime per questo libro. 1

SE NELLE IMPRESE SI POSSANO USAR FIGURE

DI PERSONE UMANE

Con non poco mio dispiacere veggio et odo che ancora in qualche persona di considerazione sia penetrata questa e fuor d'ogni ragione opinion vana, che per niuna cosa del mondo non si debba nell'impresa usar figura umana. 2 Et andando io lungamente considerando, onde ciò sia cosi caduto nelle menti di questi tali, ho potuto finalmente giudicare al sicuro, non essersi fatto altronde, che dalle parole di lVlonsignor Giovio nel principio del Ragionamento suo dell'Imprese, ove, come qui avanti nel primo capitolo s'è veduto, mettendo le condizioni che lor si ricercano, mette pur quest'una, cioè che elle non vogliono o non ricercano figure umane. 3 E ristrettomi poi a considerar parimente, onde questa così strana opinione sia nata in esso Monsignor Giovio, persona cosi rara et eccellente, sono stato :finalmente costretto a risolvermi di credere che ciò sia avenuto perché in effetto egli, tutto impiegato in altri suoi continui studii e principalmente in quello dell'Istorie, che l'han fatto veramente immortale, si mettesse a trattar questa cosa dell'imprese come per uno spasso d'ore straordinarie e di fuggir il caldo di quei giorni che le raccolse, sl come egli stesso dice nel suo principio.4 E che ciò sia vero, che egli attendesse a raccorre o narrar !'imprese usate fino a i suoi tempi da questo e da quello, più che a farvi studio e considerazion sopra, si vede che ei ne mette molte di persone assai vili, molte ne loda per bellissime che non vaglion nulla, et in molte contradice egli stesso alle regole sue e particolar1. Cfr. anche RusCELLI, 1556, pp. 154 sgg. 2. Cfr. G1ov10, TAEGI0, qui pp. 2760, 2794, 2799, 2805 sgg., FERRo, p. 70. 3. Cfr. G10v10, qui p. 2760. 4. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 1 sg. e la nota iniziale della nostra p. 2759. CoNTILE, BARGAGLI,

GIROLAMO RUSCELLI

2825

mente a questa delle figure umane; vedendosi che non solamente ne narra, ma ancora ne lauda per bellissime alcune, le quali pur sono con figure umane, si come è quella di Lodovico Sforza, che era un moro il quale scopettava una donna.1 Cosi quell'altra, che egli dice essere stata ritrovata da lui per un signor suo amico, la quale era un imperatore in un carro trionfale et appresso gli andava un servo, col motto Servus curru portatur eodem. 2 E supremamente lauda per bellissima quella del gran Cosimo de' Medici, la qual dice essere stata una donna, che rappresentava la città di Fiorenza, assisa Cfr. G1ovm, Imprese, pp. 28 sg.: u Fu ben molto erudita e bella in vista, ancor che alquanto presuntuosa, quella [impresa] che ebbe il Duca Lodovico .•. senza motto, il quale per opinione di prudenza fu tenuto un tempo arbitro della pace e della guerra d'Italia e perciò portò l'albero del celsomoro per impresa, la quale, come dice Plinio, è riputata sapie11tissima omnium arborum perché fiorisce stando per fuggire il gelo e le brine e fa frutto prestissimo, intendendo di dire che con la saviezza sua conosceva i tempi futuri; ma non conobbe già che il chiamar Francesi in Italia per isbattere il Re Alfonso suo capitai nemico, fosse cagione della rovina sua .•. Facevasi eziandio chiamar Moro per sopranome ... e •.. avendo fatto dipingere in castello l'Italia in forma di reina, che aveva indosso una vesta d'oro ricamata a ritratti di città, che rassimigliavano al vero, e dinanzi le stava uno scudier moro negro con una scopetta in mano. Perché dimandando l'ambasciator firentino al Duca a che serviva quel fante negro, rispose che scopettava quella veste e le città per nettarle d'ogni bruttura, volendo che s'intendesse il Moro esser arbitro dell'Italia et assettarla come gli pareva». 2. Cfr. Gwvm, Imprese, pp. 8 I sg.: « Fu un gran signore, nostro padrone, innamorato d'una dama, la quale per propria incontinenza non si contentava de' favori del nobilissimo amante e praticandole in casa un giovane di nazion plebea, ma per altro assai disposto della persona e non brutto di volto, sì fattamente di lui s'invaghì, ch'ella (come si dice) ne menava smanie e per ultimo indegnamente lo riputò degno del suo amore. Venne assai tosto la cosa alle orecchie di quel signore, forse palesandosi per sé stessa la donna per gl'inconsiderati e poco onesti modi suoi, di che egli estremissimamente si scandalizò e comandommi (ché ben comandarmi con ogni sicurtà poteva) ch'io gli facesse un'impresa dell'infrascritto tenore: ch'egli veramente si teneva beato, essendo nel possesso di cotanto bene, ma accortosi poi d'esser fatto compagno di persona sì vile, li pareva che da un som■mo bene fosse ridotto in estrema miseria e dispiacere. Io sopra questo soggetto feci dipingergli un carro trionfale tirato da quattro cavalli bianchi e sopra vi era un imperator trionfante, con uno schiavo negro dietrogli, che sopra il capo gli teneva la laurea all'antica romana, essendo lor costume per ammorzar la superbia e vanagloria dell'imperatore, di mettergli appresso quello schiavo. Era di sopra il motto, tolto da Giuvenale, cioè servus cuml portatur eodem, volendo dire: ben ch'io abbia il favore da questa gentil donna, non mi aggrada però, essendomi commune con sì ignobile e infimo servo. L'impresa ebbe bellissima vista in pittura et a quel gentilissimo signore grandemente sodisfeci; la feci poi scolpire in una medaglia d'oro e fu anco tolerata l'effigie dell'uomo da chi è scropuloso compositor dell'imprese, essendo in abito straordinario». I.

XVII · IMPRESE

sopra una sedia, col giogo sotto i piedi. 1 Nel che si può veder chiaramente, quanto si debbia dar poca o nulla fede all'autorità d'una legge, la quale si veggia poi, non una volta sola, ma molte rotta o non osservata da colui medesimo che l'ha data.2 Ma perché potrà pur avenire che qualcuno darà qualche regola, la qual sarà veramente buona e tuttavia, se egli non l'osserverà, sarà colpa sua e non però la legge resterà d'esser buona, per questo in sì fatti casi si deve andar discorrendo con le ragioni, per vedere se tal legge in se stessa sia buona o no. Il che volendo noi qui far ora sopra questa regola o precetto o legge del Giovio, di non mettere nell'imprese figura umana, convien primieramente dire che egli l'avesse detto o per autorità et essempio altrui, o per chiara e manifesta ragione, che movesse il giudicio suo. Per autorità d'alcuno, che in ciò fosse degno di credito, non è dubbio che egli non lo poté dire, percioché gli Egizzii nei loro ieroglifici e i Greci e i Romani nelle lor medaglie si vede che non fuggirono in alcun modo il metter figure umane, anzi più se ne veggiono con figure umane che con altre.3 Ragione poi non so né considerar io stesso, né udir da altri, per Cfr. G1ov10, Imprese, p. 30: «Il gran Cosimo •.. quando fu richiamato dall'esilio alla patria, figurò in una medaglia Fiorenza assettata sopra una sedia col giogo sotto i piedi, per dinotare quasi quel detto di Cicerone Roma patTem patriae Ciceronem libera dixit, e per la bellezza fu continuato il portarlo nel pontificato di Leone e meritò d'essere stampato nelle monete di Fiorenza». 2. Cfr. diversamente FERRO, pp. 70 sg.: «Il Giovio ... dando ... per condizione che l'impresa non ricerca alcuna forma umana, viene quasi in un certo modo a dire che senza quella possono starsi !'imprese, che non cosi senza altri corpi di natura o d'arte: ma non ch'egli le rifiuti affatto; onde quando ne racconta alcuna fatta da lui con figura umana, non doverà essere ripreso ch'ei apporti esempio contra suoi dogmi, overo che faccia impresa contra le sue regole, percioché faccio gran differenza tra il ricercare e tra il negare o non ricercare. La fonna anco di sedia non richiede pietra, bronzo o simile altra materia, perché si fonda o fassi commodamente di legname: ma però anco di quella materia si può formare; cosi dunque con quella maniera di dire non viene il Giovio ad escludere affatto l'umana forma: ma dapoi che gli scrittori fanno lui primo autore di cotale opinione e si hanno persuaso e creduto con quella tal forma di dire ch'ei l'abbia voluto rimuovere in tutto e per tutto, noi, cui torna conto d'avere cotal autore, la cui autorità stimiamo per molti, ci sottoscriviamo alla loro opinione di buona voglia, asserendo ch'ei cosi volesse insegnare et intendere e ch'abbia usato quel modo di favellare per sua modestia, non volendo con regola determinar quello ch'era a' suoi tempi forse dubbioso e che per anco non è chiaro, e per ciò per conformarsi all'uso et all'opinione o piacimento d'altri alcune tali ne fece, se bene non mi sovviene se non di quella del carro trionfale .•. ». 3. Cfr. p. 2816. 1.

GIROLAMO RUSCELLI

la quale possiamo farci capaci che si convenga usarci figure di piante, d'animali d'ogni sorte, di pietre, di cose fabricate per le mani umane, e la figura umana dell'uomo e della donna, che senza alcuna controversia sono più belle, più degne e più eccellenti d'ogni altra figura che possano rimirar gli occhi nostri, non sia lecito usarvi.1 Laonde si può conchiudere che Monsignor Giovio volesse dir chiaramente, e tutto in una volta, quello che in più egli disse in quel libro, o più tosto accennò, nell'esposizione d'alcune di quell'imprese che egli narra con figure umane, cioè che nell'imprese non si convenga metter uomini o donne cosi ordinariamente vestiti come vanno di continuo, ma che quelle figure umane che vi si mettono sieno in qualche modo d'abiti e d'abbigliamenti o di forma strana et alquanto rara da quella in che di continuo gli veggiamo.2 E la ragione che in questo, cosi da lui come da altri, potesse dirsi o considerarsi, non potrebbe esser certo se non quest'una, cioè che !'imprese ricercano qualche cosa di raro e non tanto commune, che non ci partorisca niuna vaghezza per averla di continuo come ne gli occhi. 3 E di quante cose sono sotto il cielo noi possiamo sicuramente considerare che niuna a gli uomini è più di continuo ne gli occhi, che gli uomini stessi. E però mettendosi in una impresa gli uomini cosi con la cappa e con la spada, o con altro di quegli abiti con che continuamente noi li veggiamo, verrebbono quelle figure a non aver alcuna cosa di raro e per questo a non esser molto vaghe. Il che non solo nelle figure, ma ancor nelle persone loro gli uomini stessi conoscono molto bene. Onde quando vogliono apportar vaghezza alle donne et a gli uomini, usano di travestirsi o mutarsi d'abito strano, sl come nelle comedie e nelle giostre e nelle mascherate, che per fuggir quella commune forma o figura de gli uomini et ancor delle donne, che ad ogni momento d'ora et ovunque ci volgiamo è continua ne gli occhi di ciascheduno, vanno trasformandosi in abito et in forma strana.4 E però conchiudo che in effetto volesse dir il Giovio e debbia dire e tener ogn'altro, che queste figure umane cosi communi, cioè gli uomini o le donne, nell'abito ordinario non si debbian porre; ma che, se si mettono, sieno in qualche abito o maniera strana. Benché delle donne io non so se legassi né me né altri a questa 1. Sul tradizionale primato della figura umana cfr. soprattutto DANTI, qui II, pp. 1569 sgg., 1766. 2. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 28, 81 sg. 3. Cfr. RUSCELLI, 1584, p. 204. 4. Cfr. RUSCELLI, 1584, p. 209.

XVII • IMPRESE

strettezza di regola, essendo cosa certissima che, nuda e vestita et in qual si voglia guisa, niuna forma si possa veder qui fra noi più vaga, più lieta, più gioconda e più bella, che quella delle donne belle. 1 Cosi poi gli dèi, le ninfe, i satiri, i termini et altre forme tali, si come sono rare et insolite a gli occhi nostri, così si mettono con vaghezza e con molta grazia nell'imprese e di tali si trovano non solamente nelle medaglie e ne gli scritti de' Greci e de' Romani, ma ancora nei moderni, sì come ne gli emblemi dell'Alciato e del Bocchio e del Costalio ;2 ché, quantunque gli emblemi sieno in qualche cosa differenti dall'imprese in quanto a i modi et alle regole, non è però da dire che se le figure umane si disconvenissero nell'imprese, non si disconvenissero ancor in essi. E dell'imprese ancora veggiamo che con figure umane ne mette molte belle il Paradino, e molte bellissime con figure umane ne ha date nuovamente fuori d'invenzion sua il Simeoni in Lione, come molte parimente ne mette il Costalio Francese e Giovan Sambuco, uomini tutti di eccellente giudicio. 3 E molte ancora bellissime in ogni parte se ne son poste in questo volume, fatte da persone chiarissime et in niuna parte inferiori di giudicio e d'autorità al Giovio, né ad alcun altro.

1. Torna il mito letterario della bellezza femminile; cfr. ad esempio NIFO, qui II, pp. 1646 sgg. Vedi anche in FERRO, p. 77, le opinioni successive: uAlla ragione del Ruscelli risponde Ercole Tasso e la ritorce verso di lui, dicendo che s'egli rifiuta gli uomini nelPabito loro ordinario, perché, come soliti ad esser veduti, diletto alcuno non recherebbero, per l'istessa ragione la donna si dovrà dall'impresa levare che ci sta altresi sempre innanzi gli occhi; o se pur quella per cagion di beltà s'accetta, altretanto e più è bella la figura dell'uomo, dunque si dovrà anch'ella parimente porre in impresa. L' Aresi risponde che, se vera fosse questa ragione, i cani, i gatti e tanti altri animali e strumenti che tutto giorno veggiamo non averebbero luogo in impresa, per non essere cose insolite, estraordinarie e rare». 2. Cfr. Viri clarissimi D. ANDREAE ALCIATI iurisconsultiss. l\tJediol. ad D. Chonradum Peutingerum Augustanum Jurisconmltmn Emblematuni liber, Augustae Vindelicorum 1531, A. BocCHI, Symbolican,m quaestionum de universo genere quas serio ludebat libri quinqlle, Bononiae 1555, PETRI CosTALII Pegma, cum narrationibw: philosophicis, Lugduni 1555, e M. PRAZ, op. cit., pp. 29, 48, 104, 123. 3. Cfr. C. PARADIN, Devises Heroiqlles, Lyon 1551, Le imprese heroiche et morali, ritrovate da M. GABRlBLLO SvMEONI fiorentino, al Gran Conestabile di Francia, Lyone 1559, pp. 20, 23 sgg., 28, 33, 39, 46 sgg., 49, PETRI CosTALII Pegma cit., J. SAMDUCUS, Emblemata cum aliqi,ot nummis antiqui operis, Antverpiae 1564.

GIROLAMO RUSCELLI

DE I MOTTI O DELLE PAROLE DELL'IMPRESE

Nei motti o nelle parole dell'imprese si ricercano quelle due cose principali, che di sopra si son ricercate nelle figure, cioè la chiarezza e la brevità, di che le cagioni si sono dette di sopra distesamente. 1 Et avanti che in questo passiamo più oltre, poi che, trattandosi ora dell'accompagnatura de' motti con le figure, si viene a trattar di tutta l'impresa interamente, convien ricordare che in quanto alla chiarezza si ha principalmente da considerare la natura dell'impresa e l'intenzion dell'autor suo, cioè che, se l'impresa si fa per servirsene a tempo con qualche particolar donna o signore o nemico o altri, come in giostre, in mostre, in mascherate, in comedie o in altre sì fatte occasioni, ove l'impresa dal signore o ancor dalla donna e da altri non abbia da esser veduta, se non forse una volta et in una sola fissatura d'occhi, allora si deve procurare che di figura e di motto sia quanto più chiara è possibile a farsi.2· Ma se l'impresa si fa come per durar sempre e che si abbia da poter da ciascuno veder comodamente e farvi sopra considerazione e studio, allora le si aggiungerà grazia e gravità e maestà grande, levandola dalla communanza del volgo e facendola alquanto sequestrata et alta d'intendimento, che non così da ciascun basso ingegno possa arrivarsi a toccar nel vivo dell'intenzion sua. Avvertendo però che quest'altezza o lontananza sia tale che vi si possa arrivar con gli occhi della mente e che ci lassi veder chiaro e conoscere la forma de' membri suoi, e non sia tanto lontana che la vista della mente non possa penetrarvi di nulla a conoscere se quella tal cosa sia città, o monte, o falcone, o aquila, o ippogrifo che voli per l'aria. Voglio dire che ancor queste di sentimento cosi remoto et alto, o misterioso, debbiano aver tanto di chiarezza o luce che, come ben dice il Giovio, non abbian bisogno in tutto della Sibilla per dichiararle. 3 Dell'altre poi all'incontro, o amorose, o militari, o morali, o di qual si voglia altra qualità, non è da approvar molto l'opinione di esso Giovio, il qual non vuole che elle siano tanto chiare che ognun l'intenda.4 Percioché, se elle non son facili ad esser intese, I. Cfr. pp. 2818 sgg., TAEGIO, qui p. 2794. Vedi anche RuscELLI, 1556, pp. 193 sgg. 2. Argomentaziorù di convenien%a di tempo e di luogo; cfr. pp. 2816 sg. 3. Cfr. G10V10, qui p. 2760. 4. Cfr. ancora G10v10, qui p. 2760, ma anche RuscELLI, TAEGIO, qui pp. 2769 sg., 2793 sg.

XVII • IMPRESE

saranno fatte come invano, e principalmente l'an1orose e quelle che hanno da vedersi come in corso et una volta sola, che, se ben ancor queste tali si conservano da chi vuole e si usano di continuo, si ha tuttavia da aver la primiera intenzione a quella prima e principal volta et occasione in cui si fanno, ché, se allora elle non si lasciano intendere, vengono ad esser come fatte invano; se però qualcuno non le fa per volerle accolte ad ogn'altra e palesi e note alla sola donna sua, o a qualche altro in particolare, che allora per qualche cosa nota fra essi particolarmente l'impresa si farà intendere da lor soli, essendo oscura a tutti gli altri, si come ancora delle parole stesse e de' versi suol farsi, cioè che con sonetti o canzoni noi molte volte usiamo modi di non farci intendere, se non da chi non vogliamo. Onde in tali occasioni si legge in esse: A tutt'altri celato, a voi palese; et: Altri che voi so ben che non intende; J,itendami chi può, ché m'intend'io. E più altri. Et in tal intenzione di non farsi intendere se non dalla donna o da chi altri in particolar noi vogliamo, se ancor si fa l'impresa in modo che per allora ella non sia ben intesa ancor dalla donna stessa, o da gli altri a chi abbiamo il pensiero, non è per questo che non possa l'autor suo farla intender poi in altro tempo. Et in tutti i modi, ancor queste chiarissime debbon farsi in maniera che, oltre al sentimento esteriore, il qual altri ne può trar da sé stesso, elle abbiano altri sentimenti ascosi, che l'autore a talento suo ne possa discoprir alla sua donna o al suo signore, o a chi altri gli sia in grado. 1 In quanto poi a quello appartenente alla chiarezza et alla brevità insieme, che il Giovio disse, cioè che i motti si dovessero far di lingua diversa da quella di colui che fa l'impresa,2 è da dire che in effetto questo stia bene, ma con due condizioni aggiunte: l'una, che ciò si faccia in quella sorte d'imprese che sieno per durar o mantenersi dall'autor suo, ove s'è detto che non si ha da procurar tanta chiarezza quanta in quelle che hanno da servire in giostre, in mostre, in mascherate, in comedie et in altre sì fatte, come momentanee o almeno giornali occasioni. 3 E queste posson farsi di lingua latina, greca, ebrea, francese, spagnuola, tedesca, e chi ancora le volesse come per sé stesso e perché non parlassero senza la turcimannia di lui medesimo, le potrebbe far turchesche, schia1. Cfr. FERRO, p. 58. 2. Cfr. G1ov10, qui p. 2760. pp. 2769 sg., FERRO, p. 122.

3. Cfr.

RuscELLI,

qui

GIROLAMO RUSCELLI

vone e d'ogn'altra lingua straniera a lui o alla sua patria. 1 Ma questo avverrà assai raro di usarsi, se non in certe profondissime intenzioni di qualcuno che più le faccia per sé solo che per altrui. Ma le amorose, che hanno da servir principalmente con le donne, è da lodar che si piglino maniera e legge in tutto diversa dalla condizione data loro da Mons. Giovio e che non si facciano se non nella lingua stessa che è propria e nativa alla donna per cui si fanno. 2 Tuttavia, chi pur anco in questo avesse vaghezza d'usar lingue straniere, potrà valersi della latina e della spagnuola principalmente, le quali per la più parte, e massimamente in poche parole et accompagnate con figure, son facilissime ad intendersi così dall'italiane come dalle francesi e per aventura da altre nazioni, per la molta communanza che hanno con la lingua latina. 3 Et in ciascuna lingua nostra propria, in che noi facciamo i motti dell'imprese, riescono bellissime quelle che si fanno con parole d'autor chiaro in quella nazione, sì come a noi il Petrarca e l'Ariosto, e così ne hanno tutte raltre nazioni i loro.4 1. Cfr. FERRO, pp. 121 sg.: « Ancora che addurre noi non possiamo rilevante ragione (come scrive Camillo Camilli) che il motto si faccia più in una che in altra lingua, italiana o straniera, nientedimeno stimarono alcuni il contrario e lasciarono scritto una sorte di lingua avere più convenevolezza o conformità, o per pronunzia o per dolcezza o per asprezza di favella, con uno che con altro concetto; che per ciò lodarono ne' motti amorosi, cioè d'impresa amorosa, la lingua spagnuola; ne' festevoli e giocondi, cioè d'impresa fatta in segno d 1allegrezza, la toscana; ne' severi, come d'impresa contenente concetto di giustizia e severità, la tedesca; ne' vezzosi, come nell'imprese fatte per piacevolezza, la francese; ne' simulacri e finti, come in quelle che si fanno per iscoprire finto concetto ed inganno, la greca; et in tutte poi ammettono la latina, ma molto più ne' concetti gravi, anteponendo ad ogni altra l'ebrea, sì perché può avere il motto diversi sentimenti, sì ancora perché ogni concetto potrebbe con una sola parola essere agevolmente spiegato». 2. Cfr. FERRO, pp. 121 sgg. 3. Cfr. la nota I di questa pagina. 4. Cfr. RuscELLI, AMMIRATO, TAEGIO, qui pp. 2765 sgg., 2773, 2793 sg., FERRO, pp. 147 sg.: a Molti sogliono ricercare se il motto si debbia da gli scrittori pigliare o pure da sé formarlo, e qual di due modi sie maggiormente lodato. È fuor d'ogni dubbio che il concetto dell'impresa e la proprietà del corpo si dee scoprire con quella maggior eleganza, proprietà di lingua e leggiadria che sia possibile, che poi ciò si faccia più ad una che ad altra via, più con parole da sé ritrovate che prese da qualche autore, pur che sieno scielte, pure e numerose e adempiano l'ufficio a loro spettante leggiadramente, poco monta, n'è condizione dn farne molta stima. Non voglio restar di aggiungere che ad alcun.i piace il contrario e vogliono essi che le parole tolte da qualche famoso autore, le quali s'aggiustino all'intenzione nostra, facciano più eccellenti e più ingegnose l'imprese. Di modo che pare al Domenichi che allora si dia nel segno, quando spieghiamo il nostro o l'altrui concetto con versi e parole di alcuno illustre autore istorico o poeta.

XVII • IMPRESE

Ora venendo all'altra parte, cioè alla brevità, dico che questa ha da aver quasi tutte le considerazioni che si sono dette della chiarezza, dipendendo la chiarezza le più volte dalla brevità o lunghezza delle parole, et essendo cosa veramente d'ingegno divino il saper usar la brevità che serva a far la cosa chiara e non tronca et oscura. Di che si sgomentava quel valoroso poeta che diceva: BretJis esse laboro, obscurus fio. 1

La brevità, che disopra s'è detto e qui si replica, ricercasi principalmente cosi nelle figure come nelle parole dell'imprese; non è alcun dubbio, da quanto se n'è già mostrato, che quasi non ad altro fine si ricerca che per conseguir da essa questa chiarezza, poi che le molte figure e le molte parole in sì breve spazio di tempo non danno pur comodità di potersi conoscere o leggere, non che considerare et intendere. E però quando questa brevità si facesse in modo che da lei nascesse più tosto scurezza, sarebbe un usar le virtù per vizio e le cose buone in cattivo fine. Avendo dunque questa considerazione e questo risguardo, potremo agevolmente saper discernere che il migliore et il più lodato modo d'accompagnar il motto con le figure, è di farlo di due parole. 2 Percioché d'una sola è molto duro il farla in modo che possa aver sentimento chiaro. Tuttavia, chi lo fa bene, è molto bello ancor questo. Cosi poi avendosi a passar due, quanto meno si va innanzi o quanto meno si passa tal numero, tanto meno si allontana dalla bellezza e perfezzione, fuor che se il motto sia d'un mezo verso o ancor d'uno intero, cosi greco come latino o italiano o d'altra lingua, per aver il verso una certa vaghezza et armonia in sé, che si fa leggere con facilità e ritener con piacere. 3 Quelle poi che si fanno come per durar sempre e che lasciano spazio da vedersi e da considerarsi, non avendo a servir solamente in mostre o in giostre, o in altre occasioni come in corso, possono E cosi giudica meglio farsi che altramente, stimando artificio maggiore tirare a suo senso la sentenza d'antico scrittore, quasi ch'egli scrivesse perché m'avessi io a servire di sue parole, che da me stesso inventarle. A favor della cui opinione si può aggiungere che si mostra non so che più d'ingegno nell'acconciare gli altrui detti a nostro dosso, e d'aver letto qualche cosa, e pare ancora che l'altrui motto dia non so che più dtautorità all'impresa, per la fama dello scrittore donde fie tolto». I. ORAZIO, Ars poet., 25 sg. 2. Cfr. RuscELLI, AMMIRATO, TAEGIO, qui pp. 2765 sgg., 2773, 2793 sg. 3. Cfr. FERRO, pp. 145 sgg.

GIROLAMO RUSCELLI

allungarsi alquanto nelle parole. Ma in tutti modi non è da lodar che in numero sciolto o in prosa elle arrivino a quattro, o almen le passino, e massimamente se elle son parole lunghe di più d'una sillaba o due. Et inquanto alla collegazione che le parole hanno da far con le lor figure nell'imprese, resta da replicar solo quello che già copiosamente s'è detto avanti, cioè: che sopra tutte le cose si avvertisca che le parole non sieno per dichiarazione delle figure e che per se stesse non possano far sentimento finito, ma che sien tali che, tolte via da quel luogo ove sono o dalla compagnia di quelle figure, elle non vengano ad aver alcuna sentenza finita, 1 si come per essempio, in quella del Duca di Ferrara, ou-rCll, 2. Cfr. MORELLI, pp. 190 sg.: «Andrea Odoni, di civile famiglia ed assai doviziosa, trasportatasi da Milano a Venezia sulla fine del secolo quindicesimo, qui grand'onore si fece colla splendidezza e nobiltà di trattamento, impiegando pure sue ricchezze nell'acquistare anticaglie e pitture e nel far eseguire opere da artefici di disegno. Ci rappresenta la casa di lui in Vcnezia, posta nella contrada del Gaffaro detta, Pietro Aretino scrivendogli cosi nell'anno 1538: "Simigliarei le camere, la sala, la loggia ed il giardino della stanza che abitate ad una sposa che aspetta il parentado che dee venire a darle la mano: e ben debbo io farlo; sl è ella forbita e attapezzita e splendente. Io per me non ci vengo mai, che non tema di calpestarla coi piedi; cotanta è la delicatura de' suoi pavimenti. Né so qual principe abbi si ricchi letti, si rari quadri e sl reali abbigliamenti. Delle sculture non parlo, conciosiaché la Grecia terrebbe quasi il pregio della forma antica, se ella non si avesse lasciato privare delle reliquie delle sue scolture. Perché sappiate, quando io era in corte, stava in Roma e non a Venezia; ma ora che io son qui, sto in Venezia ed a Roma" >•. Vcdi anche VASARI, 1550, p. 810, e 1568, II, p. 196 [v, p. 135]. 3. Cioè Antonio di Giovanni Minelli de' Bardi, operoso soprattutto a Padova.

MARCANTONIO MICHIBL

mani, è antica, e solea esser in bottega de Tulio Lombardo, ritratta da lui più volte in più sue opere. El busto marmoreo incontro in terra senza testa e senza mani, par al naturale, è opera antica. Le altre molte teste e figure marmoree, mutilate e lacere, sono antiche. El piede marmoreo intiero sopra una base fu de mano de Simon Bianco.1 El nudo, senza mani e senza testa, marmoreo, in atto de caminar, che è appresso la porta, è opera antica. Nel studiolo de sopra. La tazza de porfido fu de man de P(ietr)o Maria Fiorentino,a et è quella avea Francesco Zio. La tazza de cristallo intagliata fu de man de Cristoforo Roman, qual solea aver Francesco Zio.3 La tazza de radice de legno petrificata fu de man de Vettor di Arcanzoli. Li 4 principii de l'officiol fo de mano de Iacometto, i qual solea aver Francesco Zio.4 El Davit nel principio de l'altro officio} fo de man de Benedetto Bordon. 5 Li vasetti de gemme ornati d'oro sono moderni: solean essere de Francesco Zio. E cusì ancora vasi e piadene de porcellana e vasi antichi e medaglie, e cose naturali, zoè granchii, pesci, bisse, petrificadi, un camaleonte seco, caragoli picoli e rari, crocodili, pesci bizarri.6 La figuretta de legno a cavallo fo de mano de ..• El cagnol picolo de bronzo fo de mano de •..

s

Opera perduta; cfr. F. PERTILE-E. CAMP.SASCA, in ArurrINO, III, 2, p. 299. Cioè Pietro Maria da Pescia (MORELLI, p. 195), sul quale vedi VASARI, 1568, 11, p. 286 [v, p. 370]. Vedi anche pp. 2885 sg. 3. MORELLI, p. 195 nota 105, ricorda la citazione lomazziana: «Alzar Tullio Lombardo e Agostin Busto / con Giovanni e Cristoforo Romano / la pittura a tal colmo entro Milano/ che poi diede di sé mirabil gusto•. 4. Cfr. p. 2885. 5. Cfr. MORELLI, p. 195 nota 106: «Non si erra riputando questo miniatore quel medesimo Benedetto Bordone padovano, di cui lavori simili ne' libri liturgici del monastero di Santa Giustina di sua patria, sono già indicati dallo Scardeone (Antiq. Patav., p. 2s4) e dal Cavacio (Hùt. Coenob. D. justin., Lib. VI, p. 267 ed. 1696); alcuno de' quali ancora porta il suo nome•. 6. Per i caratteri di un simile collezionismo da e studiolo» cfr. AGOSTINO DEL Ricc10, qui II, pp. 1249 sg. 1.

2.

2880

XVIII • COLLEZIONISMO

In la camera de sopra: El quadro delle due meze figure de una giovine et una vechia da driedo, a oglio, fu de man de Iacomo Palma. 1 El retratto de esso M. Andrea a oglio, meza figura, che contempla li fragmenti marmorei antichi fu de man de Lorenzo Lotto.2 El quadro della Nostra Donna nel paese, cun el Cristo fanziuollo e S. Giovan fanziullo e S(anta) ... fu de mano de Tiziano. 3 Le casse in ditta camera, la lettiera e porte furono dipinte da Stefano discipulo di Tiziano.4 La nuda grande destesa da driedo el letto fu de man de leronimo Savoldo Bressano. 5 Le molte figurette de bronzo sono moderne de man de diversi maestri. In portego: La tela della giovine presentata a Scipione fu de man de Gierolimo Bressano.6 La trasfigurazione de S. Paulo fo de man de Bonifacio Veronese.7 1. Opera perduta; cfr. G. C. WILLIAMSON, op. cit., p. 99 nota 1. 2. Ora nella Raccolta reale di Hampton Court: cfr. P. ZAMPETTI, Mostra di Lorenzo Lotto, Venezia 1953, p. 107: «Il ritratto di Andrea Odoni, firmato e datato (1527), è indubbiamente uno dei più belli eseguiti dal Lotto. Il dipinto era stato visto a Venezia in casa Odoni dal Michiel. Fu in seguito portato in Inghilterra, dove, dimenticandosene rorigine, ebbe diverse attribuzioni (Giorgione, Correggio) fino a quando (nel 1863) non furono scoperte la firma e la data». 3. Un tempo identificata con la Madonna n. 635 della National Gallery di Londra, prima che se ne chiarisse la provenienza; cfr. R. PALLUCCHINI, op. cit., 1, pp. 264 sg. 4. Cfr. la nota 2 di p. 2876. 5. Identificato da Longhi (1926-1928) con la Venere dormente della Borghese (cfr. A. BoscHETTo, Giovan Gerolamo Savoldo, Milano 1963, tav. 3). 6. Identificato in un dipinto in raccolta privata fiorentina; cfr. A. BOSCHETTO, op. cit., p. 224: « Le indubbie qualità savoldiane del dipinto ... dicono che si tratta di un'opera molto vicina all'originale citato dal Michiel, in ogni caso, molto più prossima a Salvoldo che non il vero pasticlie con varianti .•. pubblicato dal Coletti (1960-61) e oggi in raccolta privata milanese: probabilmente è lo stesso già nella collezione Foresti a Carpi, che il Gilbert (1955) riproduce come copia di un Savoldo perduto». 7. Cfr. MORELLI, pp. 196 sg. nota 108: «È questa la più autorevole testimonianza che ci resti per fissare la patria di Bonifacio; di maniera che va creduto al Lomazzo (Indice del Trattato ec.), al Sansovino (Cose notabili di Venezia, Lib. I, ed. 1561 e Descriz. di Ven., p. 74, t. 84 ec.), al Biancolini (Supplem. alla Cronaca di Verona del Zagata, t. n, p. 204), al Bartoli (Pitture di Rovigo, p. 268) ed agli altri che di Verona nativo lo fanno; e rimane insussistente l'asserzione del Vasari, del Ridolfi, del Zanetti e degli altri principali

MARCANTONIO MICHIEL

2881

L'inferno cun el Cupidine che tiene l'arco fu de man de Zuan de Zanin Comandador, 1 et è la tela avea Francesco Zio.2 L'istoria de Traiano, cun le molte figure e li edificii antichi, fu de mano de Pinstesso Zuanne del Comandador; ma li edificii furono dissegnati da Sebastiano Bolognese. 3 La tela delli monstri et inferno alla Ponentina fu de mano de ... El San leronimo nudo che siede in un deserto al lume della luna fu de mano de ... ritratto da una tela de Zorzi da Castelfranco. 4 La statua marmorea del Marte nudo che porta l'elmo in spalla, de dui piedi, tutto tondo, fo de man de Simon Bianco. 5 In la camera de sopra: El retratto de Francesco Zio, meza figura, fo de mano de Vicenzo Cadena. El retratto picolo de l'instesso Zio armato e fatto fin alli zenocchii fu de mano de l'instesso Cadena.6 El ritratto del fanzullo picolo bambino, cun la baretta bianca alla franzese sopra la scufia et li paternostri in mano, fu de mano de ... et è el retratto de ... acquistato da soldati nostri nel fatto d'arme dal Taro tralla preda regia. 7 Li quadretti . . . picoli a guazzo furono de mano de ... La Cerere nella porta a meza scala fu de man de Iacopo Palma, et è quella avea Francesco Zio nella porta della sua camera.8 scrittori intorno ad esso, i quali veneziano lo dicono», FRIZZONI, p. 160: u Ulteriori indagini però hanno portato a conoscenza esservi stata un'intiera famiglia di Bonifazii pittori, il primo e più distinto de' quali, che va noverato fra gli scolari di Palma il Vecchio, fu realmente di patria veronese, gli altri, per essersi trasferiti alla capitale della Repubblica, vanno considerati quali Veneziani». 1. Cfr. MORELLI, p. 197 nota 109, e FRIZZONI, p. 161: "Quando questo pittore non sia Giannetto Cordegliaghi [cioè Andrea Previtali, detto Cordegliaghi] altrimenti detto Cordella, scolare di Giovanni Bellino, mentovato con lode dal Vasari nella Vita del Carpaccio [1568, I, p. 522 (111, p. 647)] e conosciuto per opere dal Boschini e dal Zanetti riferite, io non veggo chi egli si fosse». 2. Cfr. p. 2884. 3. Cioè Sebastiano Serlio, sulla sua attività pittorica cfr. Rosei, Serlio, p. 16 nota 15. 4. Opera perduta. 5. Opera perduta; cfr. F. PERTILE-E. CAMESASCA, in ARETINO, III, 2, pp. 299 sg. 6. Opera non identificata; cfr. G. RoBERTSON, op. cit., p. 82. 7. Cfr. MORELLI, p. 197 nota I I I : « Copioso spoglio di preziose suppellettili del re di Francia Carlo VIII fecero li nostri nel fatto d'arme al Taro l'anno 1495 ». 8. Cfr. FRIZZ0NI, p. 164: « L'abate Morelli nel 1801 vide questa Cerere presso l'abate Alvise Celotti; ora non ci consta dove si trovi ». 181

XVIII • COLLEZIONISMO

In portico el ritratto de Misser Pollo Trivisan dalla drezza colorito e molte figure dorate, tutte de terra cotta, furono de man de diversi maestri. IN CASA DE M. TADDEO CONTARINO, 1525

La tela a oglio delli 3 filosofi nel paese, dui ritti et uno sentado che contempla gli raggii solari, cun quel saxo finto cusi mirabilmente, fu cominciata da Zorzo da Castelfranco e finita da Sebastiano Veniziano. 1 La tela grande a colla de l'ordinanza de cavalli fo de mano de Ieronimo Romanin Bressano.:z La tela grande a oglio de l'inferno cun Enea et Anchise fo de mano de Zorzo da Castelfranco.3 El quadro de ... fo de man de Iacomo Palma Bergamasco. El quadro delle 3 donne retratte dal naturale insino al cinto, fo de man del Palma.4 El quadretto della donna retratta al naturale insino alle spalle fo de mano de Zuan Bellino. 5 El quadro del Cristo cun la croce in spalla insino alle spalle fo de mano de Zuan Bellino.6 El retratto in profilo insino alle spalle de Madonna .•. fiola del

1. La fomosa tela I tre filosofi di Vienna, che nel I 6 59 erano nella collezione dell'Arciduca Leopoldo Guglielmo e passò poi nelle collezioni imperiali d'Austria. Cfr. P. ZAMPEITI, Giorgione e i giorgio11esclii cit., p. 38: 11 In merito alla collaborazione di Sebastiano del Piombo, di cui parla il Michiel, è ben difficile dire in che cosa essa consista e problematico rintracciarne con sicurezza gli elementi: l'opera infatti appare ammirabilmente unitaria». 2. Opera perduta; cfr. M. L. FERRARI, Il Roma,iino, Milano 1961, p. 315. 3. Dai più identificato con il cosiddetto Tramonto in collezione privata londinese; cfr. P. ZAMPETTI, Giorgio11e e i giorgionesclzi cit., pp. 68 sgg. 4. Cfr. Fa1zzoN1, p. 165: «Quest'ultimo quadro, una fra le più celebri opere di Palma Vccchio, denominato delle Tre sorelle, trovasi registrato •.. nella R. Galleria di Dresda ••. Fu acquistato per detta Galleria a mezzo del poeta Algarotti nel 1743, coll'appellativo di quadro delle Tre Grazie, presso la Procuratessa Comaro della Ca' Grande, per 600 ducati d'oro». 5. Opera perduta. 6. Identificato con il Cristo portacroce nel Museo di Toledo (Ohio); cfr. S. BoTTARI, Tutta la pittura di Giovanni Bellini, Milano 1963, II, p. 30. Una replica o variante nella Pinacoteca di Rovigo (cfr. FRIZZONI, p. 166, P. ZAMPETTI, Giorgione e i giorgionesc/ii cit., pp. 90 sg.).

MARCANTONIO MICHIEL

signor Lodovico da Milano, maritata nello Imperatore Maximilia-no, fo de mano de . . . Milanese. 1 La tela del paese cun el nascimento de Paris, cun li dui pastori ritti in piede, fu de mano de Zorzo da Castelfranco e fu delle sue prime opere.2 La tavola del San Francesco nel deserto a oglio fo opera de Zuan Bellino, cominciata da lui a M. Zuan Michiel, et ha un paese propinquo finito e ricercato mirabilimente. 3 IN CASA DE M. IERONIMO MARCELLO A $. THOMADO, 1525

El ritratto de esso M. Ieronimo armato, che mostra la schena insino al cinto e volta la testa, fo de mano de Zorzo da Castelfranco.4 La tela della Venere nuda, che dorme in uno paese cun Cupidine, fo de mano de Zorzo da Castelfranco, ma lo paese e Cupidine forono finiti da Tiziano. 5 La tela della donna insino al cinto, che tiene in la mano dexI. Cfr. FRIZZONI, p. 166: o: Intende, probabilmente, qui •.. il quadro che da tempo vedesi conservato nella Galleria Ambrosiana in Milano, erro• neamente indicato per ritratto di Beatrice d'Este, moglie di Lodovico il Moro, e ritenuto senza sufficiente fondamento quale opera di Lionardo da Vinci. Risulta invece, da opportuni confronti, che questo ritratto raffigura Bianca Maria Sforza, seconda moglie di Massimiliano I imperatore e nipote (non già figlia ...) di Lodovico il Moro. Quanto alla pittura in se stessa non rivela per nulla il fare del sommo Leonardo, si bene di un accurato artista lombardo, milanese, del tempo, lo che concorderebbe pure colla qualifica generica dell'anonimo [il Michiel]. Il Lermolieff .•• trattando del ritrattista milanese Ambrogio De Predis ... crede ravvisarvi ••• la mano del suddetto». Su tale attribuzione concordano tra gli altri Berenson e Siren (cfr. O. S1REN, Uonard de Vinci, Paris 1928, p. 121). R. LoNGHI, Officina ferrarese, Firenze 1956, pp. 142 sg., propone l'attribuzione a Lorenzo Costa. 2. Opera identificata da alcuni studiosi con un discusso frammento del Museo di Budapest; cfr. FR1zzoN1, pp. 167 sg., T. PIGNATTI, Giorgione, Milano 1969, p. 143: « Che ad un esemplare giorgionesco convenga risalire è credibile anche per il fatto che il Michiel cita l'opera come "una delle prime cose" di Giorgione 11. 3. Identificato con le Stimmate di S. Francesco nella Collezione Frick di New York. Cfr. FRlZZONI, p. 168, F. HEINEMANN, Giovanni Bellini e i Bellinia11i, Venezia 1963, p. 65. 4. Identificato col problematico Gt1errie,o del Kunsthistorisches Museum di Vienna; cfr. FR1zzoN1, p. 169, P. ZAMPETTI, Giorgione e i giorgioneschi cit., p. 78. 5. Identificata con la Venere di Dresda; cfr. FR1zzoN1, p. 169: o: È da riconoscere qui di nuovo il merito di Lermolieff che riusci a scoprire il quadro menzionato come tuttora sussistente ed esposto alla R. Galleria di Dresda ».

XVIII • COLLEZIONISMO

tra el liuto, e la sinistra sotto la testa, fo de Iacomo Palma. 1 El ritratto de M. Cristoforo Marcello, fratello de M. leronimo, arcivescovo de Corfù, fo opera de Tiziano. 2 El S. Ieronimo insin al cinto, che legge, fo de mano de Zorzo de Castelfranco. 3 El ritratto picolo de M. lacomo Marcello suo avo, Capitano generai de l'armata, fo de man de Zuan Bellino.4 La Nostra Donna cun el puttino fo de man de Zuan Bellino, fatta già molti anni. El retratto de l\tladama ... Marchesana de Mantoa e de Madonna ... sua fiola, forono de man de Lorenzo Costa, mandati a Venezia al signor Francesco, allora che l'era preson in torresella. 5 IN CASA DE M. FRANCESCO ZIO, 1512 6

La tela del Cupidine che siede cun l'arco in mano in un inferno, fo de man de Zuane del Comandador.7 La tela del Cristo che lava li piedi alli discipuli, fo de man de Zuan Ieronimo [Bressan].8 1. Cfr. FRIZZONI, p. 170: « A detta dell'ab. Morelli, trovavasi in principio del nostro secolo nella Galleria del Conte Gerolamo Manin n, Più tardi ad Alnwick Castle; pone qualche dubbio attributivo; cfr. G. lVIARIACHER, Palma il Vecchio, Milano 1968, p. 90. 2. Cfr. MORELLI, pp. 200 sg.: • Ora s'aggiunge per la prima volta questo ritratto alli tanti altri di Tiziano già conosciuti, sebbene non è cosa insolita il trovarne di quei che siano stati dimenticati .•. Di Cristoforo Marcello Arcivescovo di Corfù molto e bene ha scritto il Zeno nelle Dissertazioni Vossiane, ma più diffusamente poi fra Giovanni degli Agostini, che la vita ne fece nel tomo terzo degli scrittori veneziani; il quale, come accennai del Beazzano scrivendo, inedito se ne rimane». L'opera è perduta. 3. Opera perduta. 4. Cfr. MonELLI, p. 201 nota 116: « Anche questo ritratto è opera di Giovanni Bellino; prima d'ora non ricordata». 5. Opere perdute; cfr. MORELLI, pp. 202 sg. nota 117, FRIZZ0NI, pp. 170 sg. 6. Cfr. MORELLI, p. 207 nota 122: « Fa memoria il Sansovino nella Descrizione di Venezia ..• come di cosa notabile che nella chiesa di Santa Maria delle V crgini "v'è in aria un bellissimo sepolcro di marmo di Francesco Giglio, che ne' suoi tempi si dilettò molto della scoltura e della pittura, nelle quali due professioni fece per lungo tempo conserva di rare cd esquisite cose". Questo è il possessore ... qui nominato, ma nell'indicazione dell'anno 1512 sembra esservi errore». FRIZZONI, pp. 176 sg., condivide il dubbio del Morelli e propone come data attendibile il 1528. 7. Cfr. la nota I di p. 2881. 8. MORELLI, p. 208 nota 123, pensa a Giovanni Girolamo Bresciano; FmzzoNI, p. 178, e G. C. WILLIAMSON, op. cit., p. 110 notar, al Savo]do. Cfr. C. GILBERT, The Worlu of Girolamo Savoldo, Michigan 1955, p. 197: «No painting related to Savoldo exists of this subject ».

MARCANTONIO MICHIEL

La tela a guazzo de ... fo de l'instesso. La tela della summersion de Faraon fo de man de Zuan Scorel de Olanda. 1 El quadretto de Musio Scevola, che brusa la mano propria, finto de bronzo, fo de mano de Andrea Mantegna. 2 La tela del Cristo che assolve l'adultera fo de mano de lacomo Palma. 3 La tela de l'Adamo et Eva fo de l'instesso. 4 La Ninfa nella porta della camera fo de mano de l'instesso Iacomo. Li quattro principii de uno officiolo in capretto inminiati sottilissimamente e perfettamente forono de mano de lacometto, andati per diverse mani d 'antiquarii longamente, ma fatti al p(rim)o per iVI. Zuan Michiel, stimati sempre almeno d(ucati) 40. 5 El dio Pan over Fauno de marmo che siede sopra un tronco e sona la zampogna, de grandezza de dui piedi, è opera antica. El tronco della figura che caminava, de marmo, è opera antica. El frizo de mezo rilievo a figure, de marmo, è opera antica. Le teste ... de marmo sono antiche. La tazza de porfido cun li 3 maneghi et el bocchino fu de mano dc Pietro lVIaria intagliatore de corneale, Fiorentino, la qual ascose in Roma sotto terra alla intrata de re Carlo cun molte altre sue 1. Fn1zzoN1, p. 177, dubita della data 1512 proprio perché lo Scorel aveva allora «se non 17 anni di vita e si trovava ancora allo studio in patria•· Opera perduta; cfr. G. C. \VILLIAMSON, op. cit., p. 110 nota 2. 2. Identificato con la dubbia tela della Graphische Sammlung di l\1onaco; cfr. G. PACCAGNINI, op. cit., p. 72: «Non sappiamo se si tratta dello stesso piccolo dipinto visto nel 15 I 2 da Marcantonio Michicl •· 3. Cfr. FRIZZONI, p. 1 So: « Da I. Lermolieff riconosciuta per quella oggi esistente nella Galleria del Campidoglio sotto la denominazione erronea di Tiziano e da lui addotta come esempio della sua prima maniera», G. MARIACHER, op. cit., pp. 57 sg.: «Si è discusso presso gli studiosi se il dipinto sia da identificarsi in quello ricordato dal Michiel .•• Tale provenienza non è quindi assolutamente certa; comunque la tela attuale pervenne verso la metà del Settecento al Comune di Roma assieme alla raccolta Pio di Savoia ••. Anche accettando però la identificazione del Morelli non sarebbe plausibile la data 1512, segnata nel manoscritto». 4. Cfr. FRIZZONI, p. 180: «Questa tela colle figure grandi al vero sopra un fondo di boscaglia, come è noto trovasi da tempo nella Ducale Galleria di Brunswick in Germania. Entrambe le soprannominate opere di Palma hanno sofferto assai per incaute puliture e restauri». 5. Cfr. MORELLI, p. 208 nota 125: « Di bell'ingegno e di costumi gentili fu Giovanni Michele, che qui ed altrove fautore dell'arti nobili apparisce ».

2886

XVIII • COLLEZIONISMO

cosse, ove si schiappb alquanto, sicché fu bisogno cingerla d'uno cerchio de rame, la qual è stata venduta più fiate per opera antica a gran precio. 1 La tazza de cristallo de 5 pezzi legati a uno cun regule d'argento dorato, tutta tagliata cun istorie del testamento vechio, fo de man de Cristoforo Romano né è opera molto perfetta, ma ben operosa.a El specchio de cristallo fu opera de Vettor di Anzoli. El specchio de azzal lavorato da l'una e l'altra faccia. El vaso de allabastro ... Le due cassellette e più vasetti de diaspro ... Li molti vasi de porcellana ... Li molti vasi de terra sono antichi, sicome le molte medaglie. IN CASA DE M. ZUANANTONIO VENIER,3 1S28

La tela della Santa Margarita poco menar del naturale fo de man de Rafaelo d'Urbino, che fece a don ... abbate de San Benedetto, che la donb ad esso Misser Zuan Antonio. Et è una giovine ritta in piedi cun panni apti et eleganti, parte delli quali tiene cun la man dextra; cun un acre bellissimo, cun l'ochii chinati in terra, cun la carne bruna, come era peculiar a l'artefice, cun un crucifixo picolo in la man sinistra, cun un dracone che gira attorno a lei in terra, ma si discosto perb da lei, che la si vedde tutta insino alle piante, né l'ombra pur del dracone la tocca, per esser el lume e lo veder alto, cun una grotta da driedo che aiuta la figura a rilevarsi; et è opera insomma irreprensibile.4 1. Cfr. FRIZZONI, p. 181: • Di questa tazza medesima, opera di Pietro Maria da Pescia, se male non m'appongo, nascosta all'entrata del re Carlo VIII di Francia l'anno 1495, torna a far menzione brevemente ... ritrovandola tra le cose appartenenti, come vedremo, ad Andrea Odoni •· 2. Parimente citata fra i tesori artistici dell'Odoni. 3. Cfr. MORELLI, p. 209 nota 127: a Giovannantonio Veniero, mentovato come uomo eloquente dal Paruta, da Pietro Giustiniano e da altri storici nostri, s'adoperò con lode di prudenza singolare e di splendidezza in ambascerie al Re di Francia, presso cui fu due volte, ed a Carlo V imperadore, due volte parimente, prima alla sua residenza, poi quando venne nel Veronese per portarsi all'impresa d'Algieri. Dopo andò Luogotenente a Udine e di là passò ambasciatore a Roma, dove grande onore si fece». 4. Cfr. Fn1zzoN1, p. 183: a Corrisponde appieno alla descrizione sovra esposta il quadro della Santa Margherita posseduto dalla galleria imperiale di Belvedere in Vienna, salvo che è dipinto in sulla tavola anziché sulla tela, e che viene già da tempo giudicata opera di Giulio Romano; mentre l'originale di Raffaello,

MARCANTONIO MICHIEL

La testa del Cristo in maiestà, delicata e finita quanto è possibile, fo de man de Zuan Bellino. 1 El soldato armato insino al cinto ma senza celada, fo de man de Zorzi da Castelfranco.2 Le due meze figure che si assaltano forano de Tiziano.3 El quadretto delli animali de chiaro e scuro fo de man de Iacometto. La tela della cena del Nostro Signore, a colla, è opera ponentina. Li dui pezzi de razzo de seda e d'oro, istoriati l'uno della conversione de S. Paulo, l'altro della predicazione, furono fatti far da papa Leone cun el dissegno de Rafaelo d'Urbino; uno delli qual dissegni, zoè la conversione, è in man del patriarca d'Aq[ui]leia, l'altro è divulgato in stampa. 4 Item vi sono moltissimi vasi de porcellana. IN CASA DE M. ANTONIO PASQUALINO, 1S29

El quadretto del S. Ieronimo che nel studio legge, in abito cardinalesco, alcuni credono ch'el sii stato de mano de Antonello da· Messina. Altri credono che la figura sii stata rifatta da Iacometto Veniziano, ma li più e più verisimilmente l'atribuiscono a Gianes fatto per la collezione di Francesco I di Francia (forse con allusione alla sorella Margherita di Valois), pare passasse direttamente in Francia, dove si sa che già nel 1530 fu sottoposto ad una pulitura, affidata al Primaticcio», L. DussLER, Raphael, London 1971, p. 51: «Michiel states that the work was painted on canvas, but this may well be the result of an oversight, especially as be repeatedly made such mistakes. The work [Santa Margherita] passed from Venier to the Priuli Collection in Venice and then to England, whence it carne into the possession of Archduke Leopold Wilhelm in Brussels ... and was moved with the rest of his collection to Vienna after 1657 ••• The Vienna painting is generally attributed to Giulio Romano». 1. Opera perduta; cfr. F. HEINEMANN, op. cit., pp. 58 sgg. 2. Cfr. T. P1CNATTI, Giorgione, Milano s. d., p. 157: cr Il soggetto concorda con la pittura di Vienna, che però il Suida tende ad identificare in quella che si trovava in casa di Gerolamo Marcello•· 3. Identificato con il Bravo di Vienna; cfr. R. PALLUCCHINI, op. cit., p. 256. 4. Cfr. FRIZZ0NI, pp. 186 sgg.: «Non vi è dubbio che i due arazzi summenzionati appartenevano al novero di quelli ordinati da Leone X perché servissero di decorazione alla parte inferiore delle pareti della Cappella Sistina ••. Quanto alla composizione della Predicazione di S. Paolo, divulgata in stampe, ciò va riferito al bell'intaglio in rame, che già da qualche anno doveva aver dato fuori il celebre Marcantonio Raimondi •· Per il cartone della Conversione di S. Paolo, cfr. p. 2890.

2888

XVIII • COLLEZIONISMO

(over al Memelin), pittor antico ponentino; e cusl mostra quella maniera, benché el volto è finito alla italiana, sicché pare de man de Iacometto. Li edificii sono alla ponentina, el paesetto è naturale, minuto e finito e si vede oltra una finestra et oltra la porta del studio. I vi sono ritratti un pavone, un cotorno et un bacil da barbiero expressamente. Nel scabello vi è finta una letterina attaccata aperta, che pare contener el nome del maestro, e nondimeno, se si riguarda sottilmente appresso, non contiene !etra alcuna, ma è tutta finta. E pur fuggie, e tutta l'opera per sottilità, colori, dissegno, forza e rilevo è perfeta. 1 IN CASA DEL CARDINAL GRIMANO, 2 1521

El retratto a oglio insino al cinto, menor del naturale, de Madonna Isabella de Aragona, moglie del duca Filippo de Borgogna, fo de mano de Zuan Memelin, fatto nel 1450. 3 El retratto a oglio de Zuan Men1ellino ditto e di sua mano istessa, fatto dal specchio; dal qual si comprende che l'era de circa anni 65, più tosto grasso che altramente, rubicondo. 4 Li dui ritratti pur a oglio del marito e moglie insieme, alla ponentina, furono de mano de l'istesso. 5 1. La dettagliata descrizione consente di identificare il dipinto con il San Gerolamo della National Gallery di Londra, riferito recentemente alla giovinezza di Antonello; cfr. M. DAVIES, The Earlier ltalian Schools, London 1951, p. 31. 2. Cfr. FRJZZ0NI, pp. 189 sg.: «Dalle Iscrizioni Veneziane, voi. 1, p. 45 (Venezia 1824) di Emanuele Cicogna si rileva che questo insigne uomo, Domenico Grimani, figlio del doge Antonio e di Caterina Loredano, nacque nel 1461. Fece gli studi in Firenze e vi strinse amicizia coi celebri umanisti Angelo Poliziano e Pico della Mirandola. Nel 1493 fu creato Cardinale e il 13 febbraio del 1498 (ossia 1497 secondo lo stile veneto) Patriarca di Aquileia ... Mori in Roma il 27 agosto 1532 li, Sulla sua ricca collezione di sculture antiche, di pitture, soprattutto fiamminghe, e di manoscritti cfr. MORELLI, pp. 215 sgg. 3. Cfr. MORELLI, p. 220: « Isabella, figliuola di Giovanni I, re di Portogallo, passò in matrimonio con Filippo il Buono Duca di Borgogna l'anno 1429 e morì nel 1472ll. FmzzoN1 1 p. 194, nota: « Se si pone mente che la nascita del pittore sunnominato viene posta dagli eruditi del giorno d'oggi, in base a dati storici, fra il 1430 e il 1440, si vedrà con quanta riserva vada presa la notizia surriferita li, 4. Opera perduta; cfr. K. B. McFARLANE, op. cit., p. 30 nota II: « The fairly strong evidence that Memling Jived only to the age of about 54 ... does not necessarily discredit the writer. In judging the age of a Northern face, portrayed in a Northern painting of an earlicr period, an Italian might excusably err by ten years li, 5. Identificati col Ritratto di TJeccliio degli

MARCANTONIO MICHIEL

2889

Li molti altri quadretti de Santi, tutti cun portelle dinanzi, pur a oglio, furono de mano de l'istesso Zuan Memelino. Li quadretti pur a oglio, nelli qual sono collonette et altri ornamenti, finti de zoglie e pietre preciose felicissimamente, furono da mano de leronimo Todeschino. Le molte tavolette de paesi per la maggior parte sono de mano de Alberto de Olanda,' del quale ho scritto a c(art)a 96.2 La tela grande della torre de Nembrot, cun tanta varietà de cose e figure in un paese, fo de mano de Ioachin, e(arta) 113. La tela grande della S. Caterina sopra la rota nel paese fu de mano del detto Ioachin. El S. Ieronimo nel deserto è de man de costui. 3 La tela de l'inferno cun la gran diversità de monstri fo de mano de leronimo Bosch. C{arta) 105. La tela delli sogni fo de man de l'instesso. La tela della Fortuna cun el ceto che ingiotte Giona fo de man de l'instesso.4 Sono ancora ivi opere de Barberino Veneziano, che andò in Alemagna e Borgogna, e presa quella maniera fece molte cose, zoe' ... s Staatliche Museen di Berlino e col Ritratto di vecchia del Louvre; cfr. G. T. FACGIN, 1vlemli11g, Milano 1969, nn. 91, 92. 1. Cfr. E. H. GoMBRICH, Norm a11d Form. Stlldies in tl,e Art of the Renaissance, London 1966, p. 109: « It is in Venice, not in Antwerp that the term "a landscape" is first npplied to any individuai painting. To be sure, the painters of Antwerp were far advanced in the development of landscape backgrounds, but there is no evidence that the collectors of Antwerp had an eye or a word for the novelty ... Mare' Antonio Michiel uses the expression "a landscape" quite freely in his notes. As early as 1521 he noted molte tavolette de paesi ..• Vi/e do not know if they were pure landscapes - probably they were not - but for the ltalian connoisseur they were interesting as landscapes only ». 2. Cfr. MORELLI, p. 221 nota 133: 1t Le varie citazioni di carte numerate, che fa l'autore descrivendo le pitture del Cardinal Grimani, mostrano che opera maggiore sopra cose di disegno egli aveva composta, alla quale la notizia presente ha relazione». Alberto d'Olanda è Albert van Ouvater di Harlem, del quale non si conoscono opere. 3. Cfr. MORELLI, p. 221 nota 134: «Giovacchino Patenier di Dinant nel Liegese, che riusci felicemente ne' paesaggi, vissuto sul cominciare del secolo decimosesto». 4. Cfr. MORELLI, p. 221 nota 135: «Applicossi sovente [Bosch] a rappresentare terribili e mostruosi soggetti ... Stanno perciò nel suo carattere li tre quadri qui riferiti, anzi l'Inferno di sua mano è cosa solita a trovarsi ... Opere due di lui si veggono in una stanza che serviva già al tribunale de' capi del Consiglio de 1 Dieci». 5. Cfr. FRIZZONI, p. 197: «Nessun altro è inteso qui, coli 'appellativo di Barberino Vene-

2890

XVIII • COLLEZIONISMO

Sonovi ancora de Alberto Durer. 1 Sonovi de Girardo de Olanda, c(arta) 105.2 El cartone grande de la conversione de S. Paulo fo de mano de Rafaelo, fatto per un dei razzi della capella. 3 L'officio celebre, che Messer Antonio Siciliano vendé al cardinal per ducati 500, fu inminiato da molti maestri in molti anni. lvi vi sono inminature de man [de] Zuan Memelin, carta ... de man de Girardo da Guant, carta 125, de Livieno da Anversa, carta 125. Lodansi in esso sopratutto li 12 mesi, e tralli altri il febbraro, ove uno fanciullo, orinando nella neve, la fa gialla et il paese ivi è tutto nevoso e giacciato.4 IN CASA DE M. ZUAN RAM, 1531, A S. STEFAN05

El ritratto de Rugerio da Burselles pittor antico celebre, in un quadretto de tavola a oglio, fin al petto, fo de mano de l'instesso Rugerio fatto al specchio nel 1462.6 ziano, se non Jacopo de' Barbari, ora artista abbastanza noto per le vicende della sua vita e per un certo numero di opere di disegno, di stampa e di pittura, munite frequentemente del suo monogramma, il caduceo •.• •· Vedi anche qui I, pp. 66-70. 1. Cfr. FmzzoNI, pp. 199 sg.: a:È da credere, stando alla maggiore verosimiglianza, che con questa frase tronca lo scrittore abbia voluto rammentare una serie di stampe del Durero .•• Solo sembra da rammentare in questo punto come egli [Dilrcr] segnalò in una delle sue lettere l'onore toccatogli di una visita del Doge e del Patriarca, il quale ultimo non era altri se non lo stesso Domenico Grimani •· 2. Probabilmente Gerardo di Harlem; cfr. MORELLI, pp. 225 sg. nota 138, FRIZZONI, p. 200, G. C. WILLIAMSON, op. cit., p. 119 nota 4. 3. Il cartone (per l'arazzo menzionato a p. 2887), probabilmente acquistato nei Paesi Bassi, dove era stato mandato per eseguire l'arazzo, è perduto; cfr. FRIZZONI, pp. 200 sg., G. C. WILLIAMSON, op. cit., pp. 119 sg. nota 5. 4. Il celebre Breviario Grimani, ora alla Marciana, opera di collaborazione di vari miniatori (tra i quali Jean Gossaert, Gerard di Ghent), databile tra il 1490 e il 1510, che ebbe una notevole influenza sulla scuola di Bruges; cfr. D. DIRINGER, TJ,e llluminated Book, its History and Production, London 1958, p. 451. 5. Cfr. MORELLI, p. 229: •La famiglia Ram è spagnuola, di cui fuvvi Domenico cardinale creato da Papa Martino V; e Gasparo e Domenico veggonsi annoverati fra gli scrittori da Niccolò Antonio nella Biblioteca Spagnuola Nuova. Giovanni, forse per oggetto di mercanzia a Venezia s'era trasferito, dove si raccoglie che magnifica abitazione teneva•. 6. Cfr. M. DAVIES, Rogier van der Weyden, London 1972, pp. 189 sg.: • The Anonimo Morelliano [Michiel] .•. records in the house of Zuan Ram at Venice a portrait of 1462 claimed as a self portrait of Rogier •.• Sometimes identified as a portrait of 1462, assigned to Bouts in tbc National Gallery in London no. 943 ••

MARCANTONIO MICHIEL

2891

El ritratto di esso istesso M. Zuan Ram fo di mano de Vicenza Cadena a oglio. La testa dell' Apolline giovine che suona la zampogna, a oglio, fo de man de l'instesso Cadena.1 La pittura della testa del pastorello che tien in man un frutto, fo de man de Zorzi da Castelfranco? La pittura della testa del garzone che tien in man la saetta fo di man di Zorzo da Castelfranco. 3 La pittura picola della Nostra Donna che va in Egitto fo de man de Zuan Scorel.4 Li dui altri quadri picoli alla guisa della Nostra Donna ditta, sono de man de ... ponentini. Le molte teste e li multi busti marmorei sono opere antiche. Le molte figurette de bronzo sono opere moderne. Li molti vasi de terra e trall' altri uno grande integro sono opere antiche. Le molte medaglie de mettalo, d'oro e d'argento sono opere antiche. Item porcellane et infinite altre galantarie. La tavola del S. Zuanne che bapteza Cristo nel Giordano, che è nel fiume insin alle ginocchia, cun el bel paese et esso M. Zuan Ram ritratto fin al cinto e cun la schena contra li spettatori, fo de man de Tiziano. 5

I. Cfr. G. RoeERTSON, op. cit., p. 82: «The picture cannot be identified but the record is of particular intercst as providing incontrovertible evidence of the existence in Cntena's amvre of a type of humanist painting which one would infer from his social connections but of which no examples have been identified. One would imagine this to bave been Catena's variation of the theme of Giorgione's S/iepherd at Hrunpton Court, standing to it in a relation somewhat similar to the Boy roith an A"ow in Vienna•· 2. Opera perduta. 3. Cfr. p. 2876 e la nota 3. 4. Opera perduta. Cfr. anche la menzione di VASARI, 1568, n, p. 858 [vu, p. 583]. 5. Identificato con un discusso dipinto nella Galleria Capitolina; cfr. FR1zzoN1, p. 209t R. PALLUCCHINI, op. cit., p. 243.

ANTON FRANCESCO DONI LETTERE I A MESSER IACOPO TINTORETTO ECCELLENTE PITTORE

Como m'è paruto bellissima città, il lago divino, buoni i pesci, ottimi i vini, e m'ha confortato l'aere freschissimo. Et avendoci trovati tanti buoni compagni musici, scrittori, litterati e d'ogni sorte, e sovra tutto fuori di cerimonie, io vi sto molto volentieri. O belle colline piene di tutti i frutti che sia possibile! l\1a lasciamo andare queste cose; ch'io non sono a bastanza a scriverle. Io sono stato accarezzato dal S. Gio. Antonio Volpe 1 e mi ficcai in gola tanta frutta, ch'io ne starò bene un anno, oltra ch'era buona e fresca. Dell'altra minutaglia de' pesci non degno adesso di guatar sì basso. M'hanno poi menato a processione sopra 'I lago e traghettatomi al Museo del reverendissimo S. Giovio. 2 Ch'al corpo non vo' dire io son molto stupefatto e maravigliatomi. Alla tornata io vi dirò i detti, !'imprese, l'istorie e tutti i begli uomini e le bellissime cose che vi sono intagliate, scritte e depinte. Io morrei, se ora ora burlando io non ve ne dessi una menata di penna. 3 La porta del palazzo è nel muro e s'apre e serra com'uscio e com'una fenestra. E quando voi entrate dentro ne l'androne, un uomo con certe setole nelle penne e nelle canne l'ha impiastrato con tanti colori,4 che le mura mi parevano come i tapeti di quegli che vengono di quel I. Nelle Lettere di ANTON FRANCF.SCO DONI, Venezia 1544, ff. 45 sg., questa lettera è indirizzata a Lodovico Domenichi, mentre in Tre libri di lettere del DoNI, Venezia 1552, pp. 75-9, compare come diretta a Iacopo Tintoretto (cfr. R1coTTINI, p. 381, PEPE, pp. 96 sg.). 1. Cfr. PEPE, p. 97 nota 2: a Di questo personaggio - non altrimenti noto - può solo dirsi che il Doni accompagnò una lettera a lui diretta da Venezia del 15 aprile 1544 [DONI, Lettere, pp. 222 sg.J con l'invio di alcune sue musiche». 2. Cfr. pp. 2904 sgg. 3. Allude al tono scherzoso di questa lettera, che scandalizzò A. L[u]z[m], Il Museo Gioviano descritto da A. F. Do11i, in «Archivio storico lombardo•, XXVIII (1901), p. 149: «Nella lettera al Tintoretto il Doni, con spirito di dubbia lega, ripete la sua descrizione, infilando marchiani spropositi, quasi fosse diventato uno zotico che, davanti ad un'opera d'arte, fraintende il soggetto e storpia i nomi n. 4. Il Doni ironizza sull'J,nmascherato; cfr. G1ov10, qui p. 2911.

ANTON FRANCESCO DONI

paese che c'è tante miglia sopra l'acqua. E slanciatomi più inanzi sotto un soppalco, che si posava sopra certi sassi lunghi come botte da carri, mi vedeva intorno tanti visi, tanti ceffi e tante maschere, con le mani del medesimo uomo lisciati sulla calcina, ch'io mi sguazzavo tutto. O v'era pure una bella cosa: una donna sotto un altro solaro dura come un marmo; ch'aveva più poppe assai ch'una cagna, e in capo una paniera di frutte, come la venisse dal mercato. Ma ella non aveva né mano né piedi e per le sue tettine belline bianche com'una rugiada, la pisciava acqua in un catino grande; e due donne che parevano che si volessero lavare si cavavano la camicia. O l'erano belle bianche, rosseP O Dio se l'erano vive eh? poi v'era dipinto in sei pezzi di qua e di là. Il primo mi pareva un San Bartolomeo; ma non aveva la pelle sulla spalla, ch'uno uomo che portava la ribeca, l'appiccava a un albero; e poi gli era legato come un San Bastiano. 2 Che domine era egli? Poi v'era un fanciullino ch'era morto in terra sopra un prato per una sassata. 3 Et eravi un altro che parca vivo; poi un certo minchioncello, che sonava a le pecore la vi vola; ma e' non era quel ch'andò a casa il diavolo per le donne in malora. 4 Et andando di lungo vidi una fanciullaccia che pareva un cerro o una rovere con le mani e co' capegli, et uno uomo la voleva brancicare. 5 Poi là in un cantuccio v'era un bordelletto d'un raggazzino con una benduccia a gli occhi, che tirava una balestrata a quell'uomo, perché non abbracciasse quella donna.6 Che domine direste voi s'aveste veduto un serpente ch'era pieno di freccie ch'un uomo gnene aveva tratte adosso con un saeppolo per amazzarlo.7 Ora qui è il bello: che v'era ultimamente una montagna. O l'era galante! Perché in cima v'era una fonte con tanti uomini intorno: chi a bere, chi a ruzzare, altri a leggere. Eranvi di quegli che si mettevano in capo de le girandole di frasche. Eravi un cavallo, s'ella non era una cavalla, bianco come latte, che zappava con un piè fra' sassi per far andar l'acqua in quella fontana; ma egli aveva l'ale come i cherubini e serafini.8 1. Cfr. DONI, qui p. 2899. 2. Marsia e Apollo; cfr. DONI, qui p. 2899. Si noti come l'ironia del Doni giochi tutto nel traslato dal registro mitologico a quello cristiano o realistico. 3. PEPE, p. 98 nota 11, interpreta: « Apollo che uccide involontariamente col disco Giacinto». 4. Allusioni ironiche ad Apollo ed Admeto e ad Ercole e Alceste. 5. Apollo e Dafne; cfr. DONI, qui p. 2899. 6. Probabilmente Cupido. 7. Pitone; cfr. DONI, qui p. 2899. 8. Naturalmente il Parnaso con Pegaso; cfr. DONI, qui p. 2899.

XVIII • COLLEZIONISMO

A piè dc la montagna saliva sopra una bestia a cavalcione uno uomo ch'era medico, detto Fra Castrone. 1 Ma gl'erano inanzi due grandi uomini con le palandre pagonazze a mula, il Vidia e 'l Giobbi. 2 O egl'erano saliti più sù due altri con le cioppe rosate pur a mula, o muli: il Lembo, il Sadoletra3 e due altri uomini a piè, che se n'andavano passo passo. O v'era il bravo uomo a cavallo foderato di ferro per tutto. Ma quel cavallo pareva che venisse da mietere, ché gli era ricamato a covoni di grano. Dicevano che egli era il Diavalos. 4 Inanzi v'era il maestro dell'Arcadia pettinato la zazzera, raso la barba, con un saion di damasco, salito su una chinea candida sopra l'erba. 5 Il Fottano sopra una mula; il Marullo inanzi a lui, che pareva un unghero ch'andasse a la guerra.6 Dove ch'inanzi era trappassato un frate bianco e tanè. 7 Il Barcagerio, l' Alamando e 'l Mozza ;8 questi l'un dopo l'altro. Eravi inanzi uno ch'aveva molto del galante uomo a mula, mastro de le donne, i cavallier, l'arme e gli amori ;9 ch'accompagnava una carretta, dov'era una donna vedova. Et inanzi a lei v'era un'altra a cavallo, pur nel medesimo abito: mi dissero che l'una era quella de' gambari, l'altra quella de le pesche. 10 Et il Tibaldeo zoppo faceva la moresca con molti altri. 11 Poi mi tirarono in una sala, dov'eran de le donne a torno a torno. 12 Chi sonava il pifaro, qual leggeva; altre avevano e maschere e diversi stromenti per le mani. I nomi erano: Ragna, Serpe, Pottinia, Chio, Tessiquore, e 'l polmone del resto andatelo a cercare.13 Perch'io corsi sopra un terrazzo, dov'erano tre donne grandi e ben fatte come me, tutt'ignude. O l'erano quelle di Parigi, o le tre disgrazie. 14 Io voleva fare una marmoria luogale,1 5 ma e' v'era un fracasso di r. Dalla satira mitologica a quella letteraria; Fra Castrone per Fracastoro, e cfr. DONI, qui p. 2900. 2. Cioè Vida e Giovio; cfr. DONI, qui p. 2900. 3. Cioè il Bembo e il Sadoleto; cfr. DONI, qui p. 2900. 4. Cioè Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto; cfr. DoNI, qui p. 2900. 5. Iacopo Sannazaro; cfr. DONI, qui p. 2899. 6. Pontano e Marullo; cfr. DONI, qui p. 2899. 7. Il carmelitano Battista Spagnoli; cfr. DoNI, qui p. 2899. 8. Il Navagerio, l'Alamanni e il Molza; cfr. DONI, qui p. 2899. 9. Naturalmente Ludovico Ariosto; cfr. DONI, qui p. 2899. 10. Cioè Veronica Gambara e la Marchesa di Pescara; cfr. DoNI, qui p. 2899. II. Antonio Tebaldi; cfr. DoNI, qui p. 2895. 12. Cioè le Muse; cfr. DONI, G1ov10, qui pp. 2897, 2912. 13. I soliti nomi storpiati: ad esempio, Ragna per Erato, Serpe per Erlterpe, Potti11ia per Polimnia, Chio per Clio, Tessiquor, per Terpsicore. 14. Le tre Grazie; cfr. DoNI, qui p. 2898. 15. Quella appunto che offre nella più seria lettera ad Agostino Landi; cfr. pp. 2895 sgg.

ANTON FRANCESCO DONI

lettere ch'io non ho potuto bermele col cervello. V'è poi l'acqua, come alle case di Vinegia, dalle due parti del palazzo, piazza, orto, cacatoio, lavatoio, forno, cucina, stalla, camere, anticamere, scrittoi, con imprese, arme, nomi, cappelli, mittre turchesche, sforzesche, moresche, ducali, papali, occhiali e mille altre galanterie, 1 Ma volendo io andare a pappare, ch'ogni cosa è in tavola, mi vi raccomando. Alla venuta vi dirb il tutto a bocca. Di Como alli XVII di luglio MDXLIII. Il DONI. Il

AL MOLTO ILLUSTRE S. CONTE AGOSTINO LANDiz

Una infinità di palazzi ho veduto a' miei dl, Signor mio, ma questo ch'io vi disegno mi piace più assai che tutti gl'altri. Il reverendissimo Giovio in un bel sito sopra del lago s'ha eletto fabricare un lVluseo, cosi da lui chiamato,3 in sl leggiadro luogo che gli pare che la dilettazion l'abbia formato con le sue mani.4 Prima vi si pub gir per acqua e per terra, con miracoloso spasso all'uno e l'altro viaggio; e come voi cominciate a scoprire il loco con l'occhio, vi genera una allegrezza estrema per le prospettive, per la fabrica, per la pittura e per l'essere bene inteso.5 Appresentavasi subito un andito pulito, che dal destro lato è la porta del palazzo e dal sinistro quella del giardino. In fronte della facciata v'è una pietra con diligenza intagliatovi dentro lettere, e sopra una loggetta, che serve al passare da l'una e l'altra fabrica. 6 Sotto gli è una porta, la qual vi conduce in ampio spazio. Nella sopra detta pietra vi si legge cosi: Paulus lov. Epis. Nucer. ob eruIl Doni si diverte ad abbinare i canonici servizi della villa alle galanterie esotiche, godendo del loro pasticcio sonoro. - II. Da Lettere di ANToN FRANCESCO DONI, Venezia 1544, ff. 47-51, e Tre libri di lettere del DONI, Venezia 1552, pp. 80-6 (cfr. RICOTTINI, p. 381, PEPB, pp. 98 sgg.). 2. Cfr. PEPE, p. 100 nota 1: «Agostino Landi, conte piacentino, principe di Val di Taro, cultore di lettere ed arti, fu inviato del Duca Pier Luigi Farnese presso la Repubblica di Venezia. Coinvolto poi nella congiura contro il Duca, partecipò attivamente alla sua uccisione». La dignità del destinatario induce ora il Doni ad una seria descrizione, nella quale egli registra puntualmente le iscrizioni. 3. Cfr. pp. 2904 sgg. 4. Cfr. più ampiamente G10VIO, qui pp. 2906 sgg. 5. Progressione tradizionale più incline alla quantità che alla qualità, con conclusione piuttosto empirica. 6. Cfr. G1ov10, qui p. 2911. 1.

2896

XVIII • COLLEZIONISMO

diti inge11ii foec,,,,ditatem maxx. Regu,n atqr,e Pontt. gratiam libe,·alitatemq11e promerit,u, c11m i,i patria Como sibi 'lJi'lJe,u suor11ni tempor,mi l1istoriam co11deret muscum cum pere1111i fonte amoenisque porticibus ad Larium publicae hilaritati dedic. MDXLIII. 1 E nello spazio che viene a essere da Paltro canto pur sopra la porta, in una altra pietra è scritto: M1ueo hoc spatium adiecit Far11esi,u haeros." Entrando poi dentro al palazzo, vi si vede dal destro lato una fiamma, la quale abbruscia alquanti libri, con un motto in questa forma: Recedant 'lJetera, 3 multo diligentemente dipinto in un quadro pure in fresco, con un'altra a canto, dove si vede un monte tutto pieno di diamanti col suo verso che dice: Naturae 110n artis opus,4 e dal sinistro lato pur distinto in due quadri un'altra impresa, la quale è un mazzo di miglio con un breve attorno che dice: Serva,i et seroare meum est ;5 e nell'altro un'altra impresa di alquante dia-

1. «Paolo Giovio, vescovo di Nocera, dopo aver conquistato il favore e la liberalità dei massimi re e pontefici con la fecondità del dottissimo ingegno, ritiratosi nella patria Como a scrivere la storia dei propri tempi, offrì alla ricreazione dei concittadini, sulle rive del Lario, nell'anno 1543, questo Museo adorno di ameni portici e di una fonte perenne 11, G1ov10, qui pp. 2909 sgg., non riporta né questa, né le iscrizioni successive. 2. « Questo spazio il duca Farnese ha aggiunto al Museo,,. Cfr. G1ov10, qui p. 2908, PEPE, p. 101 nota 4: «Riferimento ad Ottavio Farnese (1503-1586), secondo duca di Parma e Piacenza, padre di Alessandro, prefetto di Roma, cui il Giovio aveva dedicato il volume degli Elogia [cfr. pp. 2904 sgg.] ». 3. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 26 sg.: «Avendo dunque il Re Federico preso il possesso del regno, conquassato per la fresca guerra e contaminato dalla fazzione angioina, per assicurare gli animi de' baroni della contraria parte si fece per impresa un libro da conto legato in quella forma, con le corregge e fibbie, che si vede appresso de' banchieri, ponendovi per titolo Mccccxcv e figurando molte fiamme ch'uscivano fuora de' fogli per le margini del libro serrato, con un motto tolto dalla sacra Scrittura, che diceva Recedant tJetera per palesare il nobile decreto dell'animo suo, che a tutti perdonava gli errori e peccati di quell'anno, e ciò fu proprio a imitazione degli antichi Ateniesi, i quali fecero lo statuto de l'amnestia, che significa oblivione di tutto il passato». 4. Cfr. G10VI0, Imprese, p. 26: u Bella [impresa] ... fu quella del Re Ferrandino ... il quale avendo generosi e reali costumi di liberalità e di clemenza, per dimostrare che queste virtù vengono per natura e non per arte, dipinse una montagna di diamanti, che nascono tutti a faccia, come se fossero fatti con artificio della ruota e della mola, col motto che diceva Naturae non artis opus». 5. Cfr. GIOVIO, Imprese, p. 73: « Ve ne dirò un'altra [impresa] ch'io feci alla elegantissima signora Marchesa del Vasto, Donna Maria d'Aragona, dicendo essa che sl come teneva singolar conto dell'onor della pudicizia, non solamente lo voleva conservare con la persona sua, ma ancor aver cura che le sue donne, donzelle e maritate, per

ANTON FRANCESCO DONI

deme col suo verso: Valer. 1 Attorno a questa in tratta, sotto il cielo per fregio, vi si leggono queste lettere: Labor f ortunam conciliat ,· 'VÌrtus invidiam frangit. 2 Entrato poi dentro in un cortile dove sono duo portici, sotto dc' quali si vede molte pitture, nel primo è un verso per architrave e scritto in belle maiuscole: Tempore, ordine, loco, numero, modo, mensura, pondere; sotto i quali detti si stanno appiccate certe maschere con un breve per una; il qual risponde o si conviene a' sopradetti motti. Il primo comincia cosi: Saluti co1uulere. 3 Cosi ogni uno ha il suo seguitando, i quali son questi: Dignitatem tueri,4 censum respicere, lite carere, 5 libertate frui, 6 immortalitati studere;1 con altri adornamenti di figure, di prospettiva et altri fregi di frondi, frutti e fiori. In testa di questo lato è una sala molto miracolosa con tutte le Muse dipinte a torno con suoi stromenti, prospettive, animali, fregi e figurette mirabili. Questa si adomanda proprio il Museo. 8 Ecci una porta la qual risponde sopra il lago, et oltre che l'uomo v'ha glorioso spasso a pascer l'occhio per la sala, lo ciba anco nel riguardare una legione di pesci, et ultimo si sazia nel vedere le colline, il lago, la città e le valli, monti e piano. Vedete in molti luoghi l'impresa del Marchese del Vasto, la quale è certe spi che di grano con questo detto: Finiunt pariter

stracuraggine non lo perdessero. E perciò teneva una disciplina nella casa molto proporzionata a levare ogni occasione d'uomini e di donne che potessero pensare di macchiarsi dell'onore e dell'onestà. E cosi le feci l'impresa che voi avete vista e lodata nell'atrio del Museo, la quale impresa è due mazzi di miglio maturo legato l'un a l'altro, con un motto che diceva Servari et servare mellm est, perché il miglio di natura sua non solamente conserva sé stesso da corruzzione, ma ancora mantiene l'altre cose che gli stanno appresso, che non si corrompono, sl come è il reubarbaro e la canfora, le quali cose preziose si tengono alle scatole piene di miglio, alle botteghe de gli speziali, acciò ch'elle non si guastino 1. I. Cfr. GIOVIO, Imprese, p. 26: «Ne portò ancora il Re Alfonso •.. una brava [impresa], ma molto stravagante, come composta di sillabe di parole spagnuole, e fu che approssimandosi sopra la guerra il giorno della battaglia di Campomorto sopra Velletri, per cssortare i suoi capitani e soldati, dipinse in uno stendardo tre diademe di santi insieme con un breve d'una parola in mezo Valer; significando che quel giorno era da mostrare il valor sopra tutti gli altri, pronunziando alla spagnuola Dia de mas valer, la quale impresa forse avrete vista dipinta nell'atrio del nostro IVIuseo 1. 2. • Il lavoro porta fortuna e il valore frena l'invidia». 3. Cioè: «Bisogna provvedere alla salute». 4. « Bisogna difendere la dignità». 5. « Considerare il censo, evitare le liti•· 6. • Godere della libertà•· 7. « Tendere all'immortalità•. 8. Cfr. G1ov1O, qui p. 2911.

2898

XVIII • COLLEZIONISMO

renooantque labores. 1 Sopra una porta, la qual va in una loggia molto piacevole, è dipinta l'arme de' Medici con due regni; e sotto gli sono queste parole, ad ogni mitria un detto: alla destra Mag11a11imo, all'altra Moderato. 2 Poi v'è l'impresa di quel gran Cardinale, principe della magnanimità, della liberalità e della realità, con quella cometa et il suo verso: Inter omnes. 3 Entrasi poi sotto quella loggietta; dove son dipinte le tre Grazie con mille belle imprese et altri detti notabili, e vi si vede il Marchese dipinto in una facciata. 4 E ritornato che l'uomo è nella sala, da l'altro capo gli è una camera, dove son dipinti uomini famosi, e uno studio, nel quale v'è un Mercurio e lo mette in mezzo il ritratto del Giovio e del suo fratello messer Benedetto a naturale, 5 e molte imprese: infra l'altre certi libri et una lumiera con il suo verso: Profecto vita vigilia est. Poi altrove: Cum naturae necessi.tas ad interitum ducat, sola ingenii gloria vitam extendit.6 Fui menato per altre camere: tutte hanno il suo titolo. Ne la camera della Sirena erano questi versi: Sapiens voluptate non ca1. Cfr. G10v10, Imprese, pp. 75 sg.: « Ora queste spiche [dell'impresa] del Signor Teodoro [Trivulzio] mi riducono a memoria l'impresa ch'io feci al Signor Marchese del Vasto, quando doppo la morte del signore Antonio da Leva fu creato Capitan Generale di Carlo Quinto Imperatore, dicend'egli che appena eran finite le fatiche ch'egli aveva durate per esser capitano della fanteria, che gli era nata materia di maggior travaglio, essendo vero che il generale tiene soverchio peso sopra le spalle. Gli feci dunque, in conformità del suo pensiero, due covoni di spiche di grano maturo, con un motto che girava le barde e funbrie della sopravcsta e circondava l'impresa nello stendardo. Il qual motto diceva: Fi1liunt pariter renovantque labores, volend'io esprimere che, appena era raccolto il grano, che nasceva occasion necessaria di seminarlo per un'altra messe e veniva a renovare le fatiche de gli aratori; e tanto più conviene al suggctto del signor Marchese, quanto che i manipoli delle spiche del grano furono già gloriosa impresa guadagnata in battaglia di Don Roderico d'Avalos, bisavolo suo, gran Contestabile di Castiglia, e questa tale invenzione ha bellissima apparenza, come l'avete vista in molti luoghi del Museo, e perciò la continuò sempre fin alla sua morte, come niente superba e molto conforme alla virtù sua e de' suoi maggiori». 2. G1ov10, Imprese, pp. 10, 30 sgg., non riporta questa impresa tra quelle dei vari prìncipi medicei. 3. Cfr. G1ov10, Imprese, pp. 35 sg., citato nella nota 4 di p. 2819. 4. Cioè il Marchese del Vasto, 5. Cfr. PEPE, p. 101 nota 12: «Benedetto Giovio (Como 1471-1545), fratello di Paolo, notaro e cancelliere della Curia vescovile e del Comune di Como, fu autore di varie opere latine, tra le quali si segnalano per importanza i due libri della storia di Como (Historia patria), editi per la prima volta a Venezia nel 1629 ». 6. 11 Certamente la vita è una vigilia•; • Poiché la natura conduce necessariamente alla morte, la sola gloria dell'ingegno prolunga la vita•· G1ov10, qui pp. 2911 sg., non riporta alcuna di queste iscrizioni.

ANTON FRANCESCO DONI

2899

pitur, tiec sùze ea vita iocunda est. 1 Ancora certi altri: In tenebris lucent, erra11tes dirigunt.a Poi nella camera imperiale era scritto pure in altro luogo a basso: bzermes vulgus despicit, armatos timet. M elt"or est certa pax quani sperata victoria. 3 Cosi si gustano molte belle cose, oltre che vi sono mille antiquità, poi vi sono altre accomodate stanze e luoghi mirabili. Et uscito fuori e ritornato nella corte o loggia tutta dipinta, dalle colonne sostenuta, si passa all'altro portico: nel quale è una fontana che in gran copia getta acqua per il petto d'una figuretta di pietra come la natura. 4 Ci sono certe donne dalle sponde dipinte, le quali traendosi la camiscia fingon voler lavarsi, con assai altri adomamenti e figurini. Poi ci sono in sei quadri distinti molte favole sotto la detta loggia: come Marsia, che Apollo gli leva la pelle da dosso (forse perché sudava) per averlo vinto a sonare; Dafne; Pitone con altre favole, ma nel più bel luogo che vi fosse con molta maestria v'era dipinto il monte di Parnaso, in cima del quale era il cavallo pegaseo alato, che con il suo piè faceva uscir fuori acqua d'una pietra, la qual discorrendo perveniva ad un fonte, dove era una moltitudine di poeti laureati, i quali facevano diverse cose, varie attitudini allegramente et una selva di lauri et altri arbori, facendo ghirlandette e coronandosi l'un l'altro. 5 Salivano per una bene intesa strada molti uomini ritratti a naturale. Lascio Dante, Petrarca e Boccaccio, che erano i padroni del luogo, ma saliva il Tibaldeo, 6 la signora Veronica Gambara e la signora Marchesa di Pescara, una in carretta, l'altra a cavallo.7 Seguivale l'Ariosto sopra una mula, pur ritratto a naturale, il lVlolza, a dietro al quale era l' Alamanno,8 il Navagiero, il Frate Carmelita.9 Con buon passo un corsiere seguitava dietro il Marullo10 et il Pontano.n Venivane il Sanazzaro e dopo lui il lVlarchese del

1. u Il

sapiente non si lascia prendere dal piacere, né senza di esso la vita è gioconda•· 2. « Nelle tenebre risplendono e orientano i viandanti». 3. « Il volgo spregia gli inermi, teme gli armati. Meglio una pace sicura che una speranza di vittoria». 4. Cfr. la ben diversa descrizione di p. 2893. 5. Cfr. ancora p. 2893. 6. Antonio Tebaldi detto il Tibaldeo, che tra il 1498 e il 1535 pubblicò nwnerosi sonetti, egloghe e capitoli, a Modena, Milano e Venezia. 7. Cfr. p. 2894. 8. L'antimediceo Luigi Alamaruù; cfr. p. 2894. 9. Andrea Navagero e Battista Spagnoli, autori, tra l'altro, di versi latini e italiani. 10. Michele Marullo detto il Tarcaniota, autore di epigramnù, inni, nenie in latino. 11. Oltre che poeta, segretario di stato di Ferrante di Aragona; cfr. PEPE, p. 1oz nota z3.

XVIII • COLLEZIONISMO

Vasto armato sopra un cavallo tutto bardato et adornato della sua impresa. 1 Eravi M. Benedetto Giovio, 2 e vestiti da cardinali, sopra due mule, o muli, il Sadoletto et il Bembo. Più a basso, a piè del monte, il Vescovo Vida3 et il Giovio et il Fracastoro. Tutti questi salivano, et altri che non si potevan discernere per non essere a naturale. Io puoti ben guardare e rivedere diligentemente s'io gli era: ma non vi fu mai ordine, quasi quasi che mi veniva voglia d'esser quel carrettone che guidava la Marchesa,4 o per dir meglio, i cavalli; pure cosi ascosamente mi scrissi in un di quelli cantucci, non a maiuscole, perché gli altri poeti non mi \I vero latine faber, quasi princeps seu magister fabrorum ac principalis architecturae vel conservationis. Dici potest etiam architectus a "t'tuXCI>, quod latine significat fabrico. Tectonicos idest fabrilis. TéKTCl>\I autem dicitur faber lignarius, soto la quale arte si supponeno quasi tuti li artìfici e cerdoni a l'uso di nostra humana vita. b Il che quisti excellenti meritano come dice Aristotele nel primo de la Politica: 11 Homines ratione et intellectu vigentes naturaliter domini sunt et rectores aliorum ». e Cum sia che regens naturaliter dignius est recto, quia regere est divinum. E perhò questo me pare cosa eligenda per essere meliore la virtù che l'arte. Ma perché quello si è optirno che non solamente usa la virtù a si medemo, ma anche ad altri, et e converso, sicut habemus 8 Phisicorum: 11 Sciens peccat quandoque, quando utitur sua scientia perverse»; e perhò essendo l'homo animale rationale e politico e da la natura adotato di molte intelligentie e doctrine et arte, è necessario che ogniuno naturalmente se inclina a qualche operatione in questo mundo per qualche suo effecto, vitando lo ocio et a supplemento de la naturale defficientia usando vita per vita observare, non solum per noi presenti, ma per li sucessori, corno è a) La eccellenza dell'architettura avvalora, ancora una volta, l'eccezionale prestigio dell'architetto; cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 6 sgg., citato nella nota b di p. 2992. b) La passione per l'etimologia era largamente diffusa a Milano; lo stesso PACIOLI tra le fonti più autorevoli cita spesso le Etymologiae di Isidoro. e) Cfr. Poi., 11, 1260b sgg.

CESARE CESARIANO

2 995

sta' sempre ab aetemo. a N am II Methaphisice: «Actio intellectus est vita[e] ». b Aduncha Vitruvio in speculando con ogni excogitatione la scientia de l'architectura essere oportuna a l'uso de la vita commune, maxime de li homini e de tuti li animanti e cose a noi grate, questa con gran ratione fidelmente ha voluto scribere. E con quale discipline et eruditione ella sia ornata, quivi diligentemente ha tractato. E perhò voi non solum mechanici, ma ogni professori de le bone scientie, e precipue voi Signori de l'arte militare, non siate immemori né tardi a intendere questa scientia, aciò non restati ineruditi da la ingeniosità, qual certamente supera le forze (se pur voleri conseguire molti effecti e mirande operatione), et etiam si aptamente altrui populi a voi volete subiicere. e E così, se sareti diligenti problematori, consequireti la vera ratiocinatione, cioè parlamenti disputativi con ratione vel con bona calculatione numerabile e compartitione: licet etiam ratiocinatio pro dialectica habeatur. Perché così dice Aristotele, De moti bus animalium: « Quecurnque non ratiocinantes operamur, velociter operamur », cioè imprudentemente e senza verificata cognitione. d Aduncha, si con ratiocinatione operariti e ve speculari ti in la corporea clarità de la ratione, e non in la idea de l'umbra, sapendo con veri argumenti probare, potran le vostre opere darve famosa auctoritate e sareti amati et existirnati da li egregii e doctissim.i hom.ini. E parereti, sì corno li veri militi aut athleti, essere ornati de tute le arme, quale a voi serano li occurrenti termini de l'arte per essere la vera ratione de le cose factibile, quale sono al proposito de la formatione de la cosa che intenderiti senza dubio fare per causa de la pratica e scientia. E perhò voi con bone ratione li sermoni consonanti a le operatione aceptarite, ma li dissonanti evitareti.e 3. Vitruvio quivi brevemente explica questa preposita ratione, quale per certo è pertinente a la architectura. Ma anchora più magnamente si potemo extendere, e cwn sia quello che se dice bisogna significarlo in effecto corno si usa in prepositione de l'architectura, ma considerando anchora che tute le cose de l'universo mundo pareno etiam loro significate per queste due cose: idest per natural figura la loro idea, aciò con lo graphito schema vel con altri modi, si corno continge al patiente da l'agente. Sì corno habiamo ancora da Vitruvio nel fine dii sexto libro, dove dice: «Namque omnis homines, non solum architecti, quod est bonum possunt probare etc. ».f Anchora a) Cfr. ARISTOTELE, Poi., 1, 1261b. b) Cfr. ARISTOTELE, J.\1et., n, 993b. e) Cfr. PACIOLI, qui I, pp. 61 sgg. d) Cfr. Physìc., VIII, 256b sgg. e) Si torna cosi alle definizioni iniziali. f) Cfr. VITRUVIO, VI, VIII, 10: a:Namque omncs homines, non solwn architecti, quod est bonum, possunt probare, sed

XIX • VITRUVIANA

per altri modi, corno si vedeno li siti terrestri e maritimi, vel li aspecti de li animanti de tuto el mundo, quali soto al celo si tegeno; e quisti, cosl operati e significati da la natura, noi li cercamo intendere e significarli ad altri.• · Aduncha Vitruvio ha dicto maximamente in la architectura gli insono queste due cose: idest quello che è significato, hoc est dimonstrato con expressa manifestatione, corno è a designare una ignographia et ortographia di qualche cosa fienda, aut significare explicatamente per archetipale dimonstratione, quale ha più forza del significare che le cose designate in plano. E perhò lo agente architecto si è quello che significa, perché Aristotele primo Poetriae sic ait: « Exemplis utimur in docendo, ut facilius intelligatur quod dicitur »; ma lo patiente si è la cosa che se dimostra vel che de' essere dimonstrata. Consimilmente la doctrina ven significata de l'uno omo all'altro secundo le operatione qual il discipulo ha dal preceptore, e perhò da la cosa proposita quando è collecto il cogitato suo con ratione alhora si po significare e dimonstrare. Per la qual cosa appare dovere essere exercitato in l'una e l'altra: idest lo architecto conven habia la cogitatione de la scientia e la experientia con la practica del fabricare vel operare a le sue opportuni tate. b E cosl quello bisogna essere ingenioso e docile a la disciplina: idest essere corno Dedalo architecto et operatore acutissimo e prompto in sapere variare le cose de li artificii e sapere din1onstrare ;e questo è proprio lo vero indice de li perfecti e periti di qualunque scientia e disciplina che sia nel mundo .•. Aduncha è da considerare che quilli che non sano ingeniosamente dimonstrare, vano corno ciechi opinando e corno inscienti remaneno senza effecti ridiculosamente. Vede aduncha, lectore mio candido, d che il sapere è dimonstrato da chi veramente intende, e cosi la scientia pare sia in quilli che san far la dimonstratione, de le quale dimonstratione de le scientie vede

inter idiotas et eos hoc est discrimen, quod idiota, nisi factum viderit, non potest scire, quid sit futurum, architectus autem, simul animo constituerit, antequam inceperit, et venustate et usu et decore quale sit futurum, habet definitum »(FERRI, p. 243: n Ognuno, infatti, e non soltanto gli architetti, può aver la nozione di ciò che è bene; ma tra il privato e l'architetto la differenza è questa, che il privato, se non vede l'opera compiuta, non può sapere ciò che verrà fuori; l'architetto invece ha nel cervello l'opera anche prima che sia incominciata, e ha già stabilito con precisione come sarà e per bellezza, e per l'uso, e per il decoro»). a) Il Cesariano interpreta il passo di Vitruvio puntando sulla im,nagine e la sua comunicativa. Cfr. diversamente BARBARO, qui pp. 3059 sg. b) Si torna alla distinzione di teoria e pratica; cfr. p. 2992 note a-b. c) Cfr. VIRGILIO, Aen., VI, 14, SILIO ITALI• co, XII, 102. d) Cfr. PINO, qui II, p. 1353 e la nota 2.

CESARE CESARIANO

2 997

Strabone nel primo libro, dove el parla de poetarum gestis. Cosl Valerio Maximo e Plynio et altri scriptori clarissimi. • 4. In questa institutione Vitruvio intende dimonstrare le doctrine che aperteneno ad ornare et armare di molte scientie opportune a quilli che voleno essere veri architecti. E prima dice corno el si deba essere litterato; b poi sucessive procedendo ordinatamente a le altre disciplinabile scientiae, corno da esso medemo haveremo ultra questa nostra expositione che al presente poneremo, aciò li poveri indocti posseno, legendo, erudirse e pervenire boni; cosa che pare altro non vogliano tute le lege de l'universo mundo, se non che siamo boni e docti, s'el è possibile, per salute nostra. Questo precepto di essere litterato essendo di maxima importantia, perché Vitruvio ha dicto nel sexto prooemio: « Non potest esse probata vita sine litteratura », e e corno vederai nel nono prooemio et in esse capo 3. d Aduncha questo essendo il fundamento et origine de tute le universale scien-

a) Cfr. STRADONE, I, 2, 3 sgg. e 16 sgg., VALERIO MASSIMO,pa.uim. b) Cfr. per simili affermazioni ALBERTI, p. 103 (qui II, p. 1291 nota 1), GAURICO, PINO, qui II, pp. 1303, 1352. e) Cfr. V1TRuv10, VI, pr., 4: • ltaque ego ma.xirnas infinitasquc parcntibus ago atque habeo gratias, quod Atheniensium legem probantes me arte erudiendwn curaverunt et ea, quae non potest esse probnta sine littcratura encyclioque doctrinarum omnium disciplina. Cum ergo et parentium cura et praeceptorum doctrinis auctas haberem copias disciplinarum, philologis et philotechnis rebus commentariorumque scripturis me delectans eas possessiones animo paravi, e quibus haec est fructuum summa: nullas plus ha bendi esse necessitates eamque esse proprietatem divitiarum ma.~ime, nihil desiderare• (FERRI, p. 221: • Sono pertanto gratissimo e obbligatissimo ai miei genitori, che, seguendo le leggi degli Ateniesi, curarono attentamente di istruirmi nell'arte e proprio in quella che non può incontrare approvazione senza cultura letteraria e senza una conoscenza enciclopedica di tutte le discipline. Avendo dunque io raccolto abbondante copia di cognizioni e per cura dei genitori e per la dottrina dei maestri; e dilettandomi io di cose letterarie e tecniche, nonché di speciali monografie, apparecchiai al mio spirito un corredo di ricchezze, dei frutti delle quali questa è la somma: "non aver alcun bisogno di possedere di più; e questa esser la specifica proprietà della ricchezza mia, il non desiderar niente"»). La citazione del Cesariano, sostituendo vita ad arcliitectura, vuole evidentemente riferirsi al senso di tutto il brano. d) Cfr. V1Tauv10, IX, pr., 3: • Cum ergo tanta munera ab scriptorum prudentia privatim publicequc fuerint hominibus praeparata, non solum arbitror palmas et coronas his tribui oportere, sed etiam decemi triumphos et inter deorum sedes eos dedicandos iudicari • (FERRI, p. 279: a Pertanto, dal momento che gli scrittori preparano per gli uomini, in pubblico e in privato, tante utilità, penso che non basti concedere loro palme e corone, ma che bisogni decretar loro anche il trionfo e giudicarli degni di seder tra gli dèi 11). Commentando questo passo il CESARIANO, f. CCXXXII v., propone il suo caso personale.

XIX • VITRUVIANA

tie e littere de li boni studii disciplinabili, perché appare certamente che nulla scientia si possa sapere senza litteratura, né li homini possano ascendere ad maiora, né agere in le cose altissime, né de philosophia vel di lege aut civile negociatione et contractorie vel altre annotatione, né mediocre né minime, senza lo auxilio litterario, corno si dirà opportunamente nel septimo prooemio. • Aduncha questo è facile da credere, quod non potest esse perfecta vita sine litteratura; né si potriano cosi commodamente sapere le cose antefacte e diete, se questo elemento litterario non fusse stato. Quia preteriti ratio scire ac illuminare intellectum et animam facit. Aduncha bisogna che siano queste che aut per noi medemi vel da chi le ha nostra animata intelligentia sia instructa, ché quanto più ne saperemo, tanto più optimi e divini saremo.b s. Questo vocabulo yplicp latinamente significa non solum seribere ma etiam pingere et a le volte sculpire. e Aduncha lo architecto convene sapia legere e scribere e designare seu afigurare, corno si usa a depingere, perché, si corno habiamo dieta, si havessemo tute le scientie opportune e non le sapiamo dimonstrare, parerano nulla vel che consequamo enigmatamente vel ambagineamente essa umbra de la cosa e non lo effecto. E perhò è talhora meglio sapere la cosa significare che dire. d Ma è cosa scienda per tal proposito : li Greci in le loro institutione proposeno che li puti ingenui, e non li libertini vel servi, avante ogni altrae disciplinae voleano imparasseno la antigraphida scientia, idest la pictura, e questo a ciò meglio havesseno la a) Cfr. VITRUVIO, vn, pr., I: « Maiores cum sapienter tum etiam utiliter instituerunt, per commentariorum relationes cogitata tradere posteris, ut ea non interircnt, sed singulis aetatibus crescentia voluminibus edita gradatim pervenirent vetustatibus ad summam doctrinarum subtilitatem, itaque non mediocres sed infinitae sunt his agendae gratiae, quod non invidiose silentes praetermiserunt, sed omnium generum sensus conscriptionibus memoriae tradendos curaverunt 11 (FERRI, p. 245: « I nostri vecchi stabilirono, saggiamente e utilmente, di tramandare per iscritto ai posteri le loro esperienze e conoscenze, in modo che non si perdessero, ed anzi, via via accresciute attraverso le generazioni, acquistassero la mole di volumi pubblicati, pervenendo gradualmente col tempo al più alto grado di sottigliezza scientifica. Bisogna quindi aver gratitudine infinita a costoro, d'aver curato la trasmissione ai posteri, colla scrittura, dei risultati di ogni genere di scienza, anziché invidiosamente ed egoisticamente tacerne»). Cfr. CESARIANO, ff. cvv.-cvr. b) Cfr. CF.SARIANO, f. CVI: «E per tanto non mediocre, ma infinite sono per epsi scriptori praeclarissimi da agcre al Omnipotente Dio et ad epsi le gratie, perché non invidiosamente, cioè corno fano li avarissimi et invidiosissimi, quali non voriano che altrui sapesse, né avesse bene se non epsi •· c) Cfr. GAuR1co, qui II, p. I 167. d) Cfr. pp. 2986, 2996.

CBSARE CESARIANO

2 999

cognitione de le cose universale a saperle exprimere, et etiam a ciò loro ingenui sempre potesseno essere più boni di anima e di honesta-te corporea. E perhò questo in lo ludo litterario si insegnava, corno diremo, de molti praeclarissimi in le inferiore lectione, e cossi essen-do amaestrati in questa, quale era posita nel primo grado de le arte liberale, perché iudicava e representava poi con facillima compre-hensione più le altre scientie liberale aut factive, unde per questo è pervenuto che essi Greci, quali erano in le bone scientie fundati, sono apparsi corno dèi fra li homini doctissimi: il testimonio sono le loro opere lasate a la posteritate.• Aduncha a questa scientia sempre gli è sta' facto honore e grandissimi precii, mentre che è stata in li in-genui e studiosi diligentissimi. b Ma dopoi, sì corno è anchora adesso in maxima quantità, per essere sta' insignata a li servi e villis~ima gente è talmente vituperato li bon professori per li idioti et ignavi, che quasi sono reputato pegio che li operanti cerdoni aut di fabricanti muratori. Unde non appare più alcuno che con vero studio la voglia aquistare, sì corno feceno molti praeclarissimi, non solum philosophi ma primarii Romani et imperatori, se a Valerio Maximo et a Plynio crcdemo. e

6. Erudito in geometria, perché tute le cose del mundo universal-mente e generalmente sono affigurate e comprehense superficial-mente e corporalmente per linea de diverse qualità e proporzionale quantitate. Vitruvio apresso a la graphida questa scientia substantiva ha voluto subsequire, imperò che quilli, sì corno li diligenti pictori, benché la geometria, sì corno alcun vole, sia producta con la arithmeticale doctrina. Licet Aristoteles in primo Posteriorum dicat: «Non contingit ex aliquo genere in aliud descendentem dimonstrare, ut geometria in arithmetica etc. ».d Questo po essere per volere solum dimonstrare le proprie figure per le quantità continue e non discrete vel numerabile. Unde in li loro exemplificatori potrà essere tanto zelo che perlinearano quelle cose da la natura tanto ben imitate, che quasi parerano corno essa natura concordante, così de qualità e quantità, quanto etiam di essentia motiva, corno diremo altrove. E perhò non solum simpliciter intenderai bisogna sapere exemplare con mane, ma sapere intendere exquisitamente esse prepositione per exempli date da Platone, da Aristotele e Pythagora e da a) Per simili argomentazioni sulla nobiltà estrinseca del disegno cfr. soprattutto PALEOTTI, qui I, pp. 152 sg. b) Cfr. ARISTOTELE, Poi., VIII, 1337b sg., citato anche da PALEOTTI, qui I, p. 153. Cfr. anche PACIOLI, qui I, p. 63. e) Per i riferimenti a Plinio cfr. ancora PALEOTTI, qui I, p. 153. d) Cfr. PACIOLI, qui I, p. 63, GAURico, qui Il, p. 1315.

3000

XIX • VITRUVIANA

molti altri clarissimi e precipue da Euclide, quale Platone dixe essere in essa scientia di sé più experto, si corno da Valerio Maximo habiamo.• 7. Anchora Vitruvio, ultra le predicte, quale si quelle con lineae recludeno le superficie e base iacente in plano, subiunge aduncha questa scientia optica, quale latinamente diceno prospectiva. Nam 6,r-r,xci venit a verbo greco an-rc.> seu gn-ro(J,«L • • • , quod est video, seu b1t-r,x6t;, quod est visivus. Questa scientia proprio è quella per la qual rectamente si eleva ogni superficie in corpo e gli indica il rectissimo antivedere et ogni distantiae et il parerga in fino in tuti li orizonti et in ogni corpi coelesti e terrestri et aquatili; questa è la vera socia de la graphida e che indica il colorire a li veri pictori et umbre e lumi; questa tandem in ogni bone scientie liberale si po complectere e precipue in le mathematice. b 8. Anchora instructo di arithmetica: cum sia che la arithmetica, idest lo numero seu abacho, pervenuta da li Arabi si è una propria e certissima conclusione per auxilio non solum de l'architecto, ma de ogni operatore e mottore e contractore, perché senza questa mai potrà calculare né sapere il valore aut il potere d'altrui, e che fa li periti mercadanti non existimano de fortuna né per terra né per mare li pericliosi casi, né che li signori o altri populi temano il combatere etc. Così aduncha bisogna sapere lo architecto le numerabile quantità discrete aut continue, corno sono etiam del fluxo de le aque per li emissarii o asai o pocha, corno si conduce aut per fistule o tubuli aut altri vasi aquiductorii, anchora de le altre cose apertinente a l'operare de l'agrimensura e terrestre motione et effossatione vel de li aedifficii, vel altre cose ch'el intenda producere al vero effecto performabile.c Questa scientia è potente per sé a star separata da le altre arte e scientie liberale, ma le altre liberale pare non possano senza compagnia. Vitruvio ha lassato questa sia posteriore de le supradicte, perché etiam lei conven studiarla con summa diligentia, aciò sapiano componere ordinariamente con le numerabile serie le symmetrie proportionabile a le cose che intendeno perfigurare, non solum con il numero la computatione dire praecisamente epse importantie superficiale e corporeae, e più ultra anchora, si 'l bisogna, saper dire la sua ponderosa quantità e le potentie che le pon substentare, sì corno in lo decimo libro haveremo. d E per tale exemplo, corno acade de la noa) Cfr. VALERIO MASSIMO, v111, 12, Ext. 1. b) Cfr. LEONARDO, qui I, pp. 479, 480, 733 e le note relative. e) Constatazioni elementari rispetto alle ben più sollecitanti osservazioni di LEONARDO; cfr. ad esempio I, pp. 477 sgg., 731 .sg. d) Cioè nel libro De le machine.

CESARE CESARIANO

3001

stra archiepiscopale e sacra aede de Milano, la pyramide seu il tholo hecubale futuro, quale tuto marmoreo dovendo epso collocarlo sopra la octogona arcuatione distrata da le quatro pille erecte da le substructione terrene, validissimamente bisogna sapere si epsa hecubale pinaculo seu tholo po haver perpetuitate vel non per causa dil gravissimo pondo marmoreo.• Anchora, per essa arithmetica sapere dire ogni opportuna spexa de ogni sorte di materiatura e manifactura, aciò non paia ignaro; cosi de molte altre accidentie de motu e repercussione in potentia etc. sapia rendere le ratione, uti in alio loco dicemus. 9. Questo precepto è de magna importantia, imperhò che li architecti aut altri che hano il prompto studio de le historie certamente a li occurrenti casi sano antivedere e providere, e quisti precognitori sono optimi consiliarii non solum de le republice per tempo di pace, ma anchora di guerra. E quisti doveriano meritamente da le sue repu blice, etiam da li gran prìncipi, dignamente tuto il tempo di sua vita essere premiati. b Vitruvio quivi ha dato lo adiectivo al substantivo, di magna consideratione a l'architecto, vel altrui, dicendo che diligentemente habia audito li philosophi; imperò che quilli che vano audire le Iectione non solum de ogni sorte, ma precipue a quelle de philosophia, debeno stare conticui et intenti con gran diligentia, ché si altramente fano, non aquistano né reportano fructo alcuno de epsa scientia. E perhò chi vole suscipere epse lectione, non bisogna habia distracta la mente intellectiva né Ii altri sensi corporei occupati da epse audientie. Perché la animata voce e le digne demonstratione de Ii eximii lectori sono quelle che se infundeno in l'anima de li auditori e chi li vivifica promovendo la loro anima et intellecto secundo la cosa che se tracta; e così la disposita mente le assumme a si, corno fa il sano corpo li delectabili cibi, et uti scriptum est ab Aristotele in libro De sensu et sensato. Et è cosa scienda che si lo architecto se non ha intelligentia de le philosophice scripture, certo el mancha de le naturale cognitione.c 10.

Anchora el bisogna che lo architecto sapia la musica, perché quelle proportione talhora che non se sano trovare in le symmetrie geoI I.

a) Si affacciano i primi esempi lombardi, tra i quali prevale, naturalmente, il Duomo milanese. b) Mentre per i pittori la storia era un incitamento a variare le invenzioni, per gli architetti vitruviani si risolve in una esperienza quasi suppletiva. e) Una filosofia dunque prevalentemente aristotelica in funzione dell'abbinamento natura-architettura.

XIX • VITR UVIAN A

3002

metrice vel arithmetice promptamente, si corno sono quelle del commune uso, questa al beneficio de l'architectura le insegnarà, e non solamente saperà commodulare le proportione de li aedificii, ma le loro intonantie e nominatione de ogni complexo e proportionabile numero, e da le quantità magiore distrahere le minore, si corno da Euclide potrai avere. Anchora quello ch'el venerabile Franchino Gaffuro in la sua musicale commentatione ha dicto per la Euclidiana et altra lectione et ivi da le simplice proportione magiore e minore de equalitate et inegualità precisamente composite de una quantità e discomposite per un'altra poi la productione; anchora corno saria de una tripla over quadrupla et sic de omnibus simplicibus: quando sono poi pervenute in una magna multiplicatione subduplate sesquialteratamente, pono dopo etiam pervenire a le altre magiore submultiplicate sopra il particulare de le loro specie e de tante varietate sono in le loro compositione, che non solamente pono pervenire da le productione de le multiplice proportione de le proportione, corno è le radice de radice de li numeri, ma anchora sopra li particulari de le proportione usque ad infinitum •.•• Aduncha così sapendo de le musicale proportione eurythmiate, non solum la corporatura de ogni magna aedificatione, ma ogni sua membratura particulare, principale e subsequente saperà collocare dopoi in epse; ancho• ra collocare ogni altri membriculi minori facti per epsa distributa e comm.unicante symmetria, et anchora ornarli, perché le superlectilie mobile, quando uno loco è picolo, non è licito a collocare una gran

GAFURII ••• De Harmonia musicorum instrumentorum ff. Iv. sgg., e cfr. WITTKOWER, p. 121: « La certezza, che è fattore insito nella deduzione matematica, era stata sempre la base della teoria musicale. Franchino Gafurio, il famoso teorico musicale del Rinascimento, ne fece oggetto del frontispizio del suo De Harmonia ..• del 1s18, dove è raffigurato come un maestro che tiene lezione ai suoi allievi; sulla sinistra si hanno tre canne d'organo di differente altezza, segnate 3, 4, 6, che illustrano i rapporti dell'ottava divisa dal medio armonico 4 in quarta e quinta. Sulla destra compaiono tre lince, che ripetono i rapporti 3, 4, 6 e un compasso, indicando così che rarmonia musicale non è che geometria trasferita nel suono. Nello stesso tempo la figura ripropone l'antica tesi che l'armonia risulta non dall'accordo di due toni, ma da consonanze ineguali, che sono figurativamente rappresentate da proporzioni dissimili (vale a dire 3:4 e 2:3, quarta e quinta che insieme formano un'ottava). È questo il motivo per il quale Gafurio insegna ai suoi allievi: Harmonia est discordia concors, frase che appare scritta in un cartiglio vicino alla sua bocca. Gafurio accettava la definizione pitagorica data da Filolao, che ebbe cosi vasta influenza sul pensiero rinascimentale, e considerava, con spirito veramente platonico, questo principio armonico come base del macrocosmo e del microcosmo, di corpo ed anima, di pittura, architettura e medicina•.

a) Vedi FRANCHINI

opus, Milano

1518,

CESARE CESARIANO

3003

cosa che occupa et impedissa quello.• Ma tu dèi cognoscere che non minore proportione è sapere occupare lo aere e terrestre superficie per la sanità e commoda expeditione et utilità, quanto sono le distantie proportionabile de una voce ad una altra armonicamente collocate et annotate, ché se anchora quelle minime e serni[mi]nime voce che pareno fragmenti de le proportione non fusseno ben complexe, in uno canto non si potria bene bavere la armonica e gaudente concinità. Cosi aduncha li nostri utensilii supelectilii posi ti in una casa per nostro uso humano, si'l non è de armonica symmetria proportionato al nostro motivo effecto, poco vel nulla venustà saria; sl che vede aduncha quanto è bene per ogni rispecto lo architecto a sapere la musica, quale per altro modo nel quinto libro tractaremo. b Questo precepto anchora è molto opportuno, perché, ben sia necessario a l'architecto sapere cognoscere li aspecti coelesti e le sue regione, sl corno haveremo da Vitruvio, nondimeno la physicale doctrina dimonstra sapere temperare non solum le contrarietà de li elementi, ma etiam de li coelesti influxi etc. Questa artista scientia si dice fu trovata da Appollo secundo li graeci scriptori, poi sucessa nel suo figlio Esculapio, il quale con le laudabile et operate experientie la ampliò e posela in grande estimatione, talché fu chiamato dio de la medicina; quale, dopoi fu morto non dal fulmine, corno alcuno hano scripto fabulosamente, ma di sua natural morte, si dice che stete interdicta e corno dal mundo oblita questa arte dil medicare per annos circa quingentos, che parse che insiema con lo auctore mancasse l'arte. Dopoi Artaxerse pare la producesse a la luce per Hypocrate figlio di Esclepio ... e Aduncha a lo architecto serà grande beneficio per sé e per altri, quando el sapia la qualità de le terrestre situatione cognoscere, e le specie de l'aere e de l'aqua, e li coelesti climati similmente, corno ti dirà Vitruvio, la proprietà de li pascenti animali e li fructi che ivi la terra e le aque procreano, e per qual cause concipeno le egritudine e sanità per naturale temperie, e così de molte altre cose quale lassamo per non molto prolissare, poi che in le vitruviane lectione sono explicate.d 12.

13. Questo precepto serà de grande utilitate, perché el saperà non

solum la pratica de li statuiti officii civili de epse civitate, quali, ove farà il bisogno, per sé medemo lo architecto potrà operare in li occurrenti termini de l'architectura, tanto per li aedificii quanto etiam a) Una proporzionalità che da astratta diviene quasi empirica. b) Soprattutto nel capitolo IV, dedicato all'armonia. e) I soliti riempitivi enciclopedici; cfr. pp. 2999, 3oox. d) Un pro/issare piuttosto generico; cfr. p. 3000.

XIX • VITRUVIANA

per le limitatione de vicini a vicini, cosi civilli quanti rurali e campestri, vel aquiductivi, per le possessione aut per le republice civile vel oppidane aut de particulari, aut etiam le distantie de le case proxime a le fortilitie de li prìncipi; vel de le acquisitione de li alluvione et insule date da li fl.umini: si corno ha etiam scripto de quisti occurrenti casi da lo preclarissimo doctore legale Bartholo de Saxo Ferrato in li tractati De fluminibus et Tiberiadis 0 et De alluvione ac de insula et etiam de alveo etc. b Quale cose mi acadeteno lo anno I s18, essendo in la cità di Asta Pompeia in compagnia de li clarissimi doctori Alberto Bruno, Hyeronimo Buzo e il locotenente de meser Ioanne de Verasiis doctore; e divissemo lo alluvione dato dal fiume Tanaro già molti anni son preteriti, e quelle geometrice lectione le apersemo e terminassemo quello che più dimonstrava la impressa figura terrestre: quasi era circulare, che havea congionto a li predii primo de l'hospitale de epsa republica e de molti altri gentilhomini, tandem quello del nobile doctore Ioanne de Verasiis. e Per le qual geometrice divisione facte diligentemente entra il plano e li boschi e prati, complantare facessemo li pali directi a la linea amussia del pixidale aeneo, entro la qual pixide in li oblunge e subtilissime perforatione inspiciendo, sl corno la figura ho demonstrato in lo octavo libro con la chorobate, el signo de la quale ha disopra la greca littera [ ].d E così essendo, tuti quilli a chi sedete le portione di epso alluvione stando sopra il loco con li doctori, tolsemo via le antefacte questione et homicidii, chi per epso aluvione iniustamente era diviso per la loro voluntà e non ratione. Aduncha vede di quanta claritate e pace è lo architecto, quale sa cognoscere le legale nonne e le responsione date a chi ha proponute le sue cause a li iurisconsulti. V itruvio ha dicto responsione e non sententie, perché meglio è

a) Cfr. BARTOLUS DE SAXOFERRATO, Tyberiadis. Tractatru de fluminibus, Bononiae, apud I. Roscium, 1576, poi tradotto nel 1587, La Tiberiade, Roma, G. Gigliotto. b) Di numerose altre pubblicazioni periodiche fu autore Bartolo di Sassoferrato; ricordiamo tra le altre Consilia, Venetiis 1485, Questiones disputate, Venezia 1471, e Tractatus de tabellionibus, Roma [1475]. e) Parallelamente alle divagazioni enciclopediche (cfr. p. 3003), le solite esperienze dirette (cfr. pp. 3000 sg.). Sulla data 1518 cfr. C. H. KRINSKY, in CF.SARIANO, p. 9: ..-1, indumentum significat, sed usque ad imos pedes. 4 Ennius in Teleopho: Cedo et caveo cum vestitum squalida septum stola. b Varro in Cosmorone: Mulierem aliam coercens cum stola obsida.c Idem in Eum.: Partim venustam muliebres omat stolam.d Hoc ait Nonius; Papias autem ait: Stola gratiae dieta quae super mittatur.c Idem et recinium latine appellatum, eo quod dimidia eius pars retro reiciatur a dextro latere in levum humerum, quod vulgo mavortem dicunt, quasi signum maritale. Matronale enim operimentum est etc. Etiam idem ait: Stola genus candidi vestimenti, super caput et scapulas dimielia eius pars reiicitur, il quale habito era quasi corno se pingeno le matrone apostolice; e corno le done vidue venetiane e ferrariense, vel romane. f Ovidius: Et quidquid ab hac omnes rigidas submovimus artes, quas stola contigui sumptaque vita vetat.B Sed etiam quid sit stola vide Herodotum, uhi loquitur de Amazoniis. h 27. Contumelia dicitur contemptio seu vituperium, quod fit verbis iniuriosis, ut plurimum ;i praesse, idest gravate seu condemnate e constricte perpetuamente a la servitute etiam, ut dicemus.

28. Pende,,-e la pena, idest patire la pena, intrinseco dolore innatum sufferre. Perché è da sapere che apresso de quilli primi antiqui nulla pena fu sanguinea né corporale, sì corno è annottato per Servio sopra Virgilio, libro sexto, ma erano condemnati tantummodo in pecullio, idest in qualche grege de armenti. Poi, adinventa che fu la pecunia, le poene tute fumo condemnate et absolte per la ponderata

Infatti in greco inferiore; niente di meno pochi si danno alla fatica, pochi vogliono adoperarsi et uscire delle pelli dell'ozio, e perciò non fanno giudicio e per conseguente non pervengono al fine dell'architettura, ma solo si vanno gloriando di esser chiamati architetti di questo principe e di quello et allegano non le ragioni, ma le opere loro, dicendo: « Così feci io, così ordinai nel tal palazzo e nella tal chiesa», e non vogliono considerare che non hanno geometria né aritmetica, né intendeno la forza delle proporzioni e la natura delle cose. 3

s

1. Cfr. CESARIANO, qui pp. 2986 sgg. DE Fusco, pp. sg., commenta: « Interessante l'interpretazione del Barbaro del brano citato. Egli traduce

i due termini suddetti con/abrica e discorso. Ci sembra opportuno notare che il secondo termine di Vitruvio ratiocinatio, intesa come un'attitudine che può spiegare e dar conto delle opere fatte secondo dei prindpi, possa associarsi all'attuale definizione di critica architettonica, col duplice ufficio ermeneutico e di giudizio. Cosicché se, come vuole la gran parte degli studiosi di oggi, la facoltà critica sia da connettere al grafico operare in un processo unitario, risulta evidente il carattere attuale di questa concezione vitruviana ». 2. Cfr. CESARIANO, qui p. 2986. 3. Il patriarca di Aquileia indugia sulla responsabilità civile del discorso architettonico, secondo la corrente opposizione albertiana tra pratica e scienza; cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 6 sgg., PIRRO LIGORIO, qui II, p. 1445 e la nota 1.

3o54

XIX • VITRUVIANA

Egli bisogna adunque avere essercizio e fabrica; bisogna discorso. Il discorso come padre, la fabrica è come madre dell'architettura. La fabrica è continuato pensiero dell'uso. Ogni artificioso componimento ha lo esser suo dalla notizia del fine, come dice Galeno. Volendo adunque fabricare, fa di mestieri avere conoscimento del fine. Fine intendo io quello a cui s'indrizza la operazione; et in questo lo intelletto considera che cosa è principio e che cosa è mezo, e truova che il principio si considera in modo di presidenza e nel principiare il fine è prima dello agente, perché il fine è quello che muove all'opera; lo agente è prima che la forma, perché lo agente induce la forma, e la forma è prima che la materia, imperoché la materia non è mossa se la forma non è prima nella mente di colui che opera. Il mezo veramente è il soggetto nel quale il fine manda la sua simiglianza al principio et il principio la rimanda al fine: però non è concordanza maggiore di quella che è tra 'l principio e ~I fine. 1 Oltra di questo egli si comprende che chiunque impedisce il mezo, leva il principio dal fine, e che il mezo per cagione del principio s'affatica e rispetto al fine si riposa. Volendo adunque fabricare, bisogna conoscere il fine, come quello ch'al mezo impone forza e necessità. Ma per la cognizione del fine è necessario lo studio et il pensamento; e sì come il saettatore non indrizzarebbe la saetta alla brocca, se egli non tenesse ferma la mira, così l'artefice non toccarebbe il fine se con la mente altrove egli si rivolgesse. 2 L'uso adunque è (come s'è detto) drizzare le cose al debito fine: come abuso è torcerle da quello. Ma per avere questo indrizzamento delle cose al fine, fa bisogno d'avere un altro uso, il quale vuol dire assuefazzione, la quale non è altro che spessa e frequentata operazione d'alcuna virtù e potenza dell'anima o del corpo. Onde egli si dice esser usato alle fatiche, esser usato, posto in uso, usanza e consuetudine. Bisogna adunque esser uso di continuamente pensare al fine. E però dice Vitruvio fabrica esser continuo et essercitato e, come via trita e battuta da passaggieri, frequentato pensiero d'indrizzare le cose a fine conveniente. E da queste parole si dimostra la utilità, che era condizione dell'arte.3 Ma perché con tanta sollecitudine di pensiero affaticarsi, a I. Si noti la trascrizione in logica formale quasi scolastica, di un ben più semplice pensiero albertiano; cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 18 sgg. 2. Anche il paragone aspira ad una sua dignità classicistica. 3. Cfr.

VITRUVIO, I, III, I.

DANIELE BARBARO

che senza intermissione pensare? certo non per altro, che per manifestare in qualche materia esteriore la forma che prima era nel pensiero e nella mente; e però dice Vitruvio, dando fine alla diffinizione della fabrica, quella essere operazione manifesta in qualche materia fuori di noi, secondo il pensiero che era in noi. Vero è che fabrica è nome commune a tutte le parti dell'architettura e molto più abbraccia di quello che communemente si stima, come si dirà poi. Discorso è quello che le cose f abricate prontamente e con ragione di proporzione può dimostrando manifestare. Il discorso è proprio dell'uomo e la virtù che discorre è quella che considera quanto si può fare con tutte le ragioni all'opere pertinenti; e però erra il discorso quando lo intelletto non concorda le proprietà delle cose atte a fare con quelle che sono atte a ricevere. Discorre adunque l'uomo, cioè applica il principio al fine per via del mezo; il che, come s'è detto, è proprio della umana specie. Avenga che gli antichi abbiano a gli altri animali concesso una parte di ragione e chiamati gli abbiano maestri dell'uomo, dicendo che l'arte del tessere è stata presa dalla ragna, la disposizione della casa dalla formica, il governo civile dalle api; ma noi trovamo che quelli sono instinti di natura e non discorsi dell'arte: e se arte si deve chiamare la loro naturale e non avveduta prudenza, perché non si potrebbe similmente arte chiamare la virtù che nelle piante e nelle pietre si truova? come l'arte dello elleboro purgar il furore, l'arte della pietra ne i nidi dell'aquile, detta aetite, rilasciare i parti? Perché anche non si potrebbe dire essere un'arte divina che regge e conserva il mondo ? una celeste, che regola i movimenti de i cieli ? una mondana, che tramuta gli elementi? Ma lasciamo la tralazione dei nomi, fatta per la simiglianza, e pigliamo la verità e la proprietà delle cose. 1 Discorso adunque è come padre, secondo che detto averno di sopra, dell'architettura, nel quale vi bisogna solerzia. Solerzia non è altro che sùbita e pronta invenzione del mezo. E quello è mezo che, avendo convenienza con gli estremi, lega quelli ad uno effetto, e però nella solerzia si può dire che sia la virtù del seme. Laonde Vitruvio usa quella parola prontamente, che nel latino dice solertia. 2 Il Barbaro ama soffermarsi su ben note considerazioni aristoteliche. ~- Solerzia che deriva dalla esperienza; cfr. BARBARO, p. 4: u Quanto alla forza e alla efficacia dell'operare, gli esperti fanno effetto maggiore che 1.

XIX • VITRUVIANA

Ma non è a bastanza lo esser pronto a ritrovare il vero, però che potrebbe esser quel vero poco atto a concludere; per questo soggiugne con ragione di proporzione. Che cosa sia proporzione egli si dirà nel seguente capo. 1 Vitruvio ha parlato in modo che quelle parole che dicono: prontamente e con ragione di proporzione si possono riferire a quella parola / abricate. Et il sentimento sarebbe che il discorso potesse dimostrare, cioè rendere la ragione delle cose fabricate con solerzia e proporzione, essendo l'ufficio dello architetto approvare le cose ragionevoli. Ma sia quale si voglia il senso, tutto è conforme al vero. Più secreta intelligenza si tragge ancora dalle cose dichiarate: e prima, che lo artefice rispetto ali' opera tiene doppia considerazione; poi tiene doppia affezzione a quelle considerazioni rispondente. La prima considerazione è una semplice notizia universale, per la quale si dice che l'uomo sa quanto si richiede affine che l'opera riesca, e niente più vi aggiugne. L'altra è una notizia particolare e prossima all'operare, che considera il tempo, il modo, il luogo, la materia. Da questa particolare cognizione nasce una affezzione che muove l'uomo a comandare et ad operare, come secondo la prima considerazione l'uomo si compiaceva et in universale abbracciava non l'opera, ma la cognizione, e però non è sufficiente questa sola considerazione - sola del discorso, sola dell'universale -, ma si richiede quella seconda notizia e quella seconda affezzione, la quale è riposta nella fabrica. 2 Dichiarita la diffinizione dell'architettura e dichiarito il nascimento di quella, ora viene Vitruvio a formare lo architetto, cosa molto quelli i quali hanno solamente la ragione universale delle cose; e però spesso adviene che lo artefice inesperto, avvenga Dio che egli abbia nella mente la ragione de gli artificii, erra però e pecca bene spesso, non per non sapere, né perché la ragione sia men vera, ma perché non è essercitato, né conosce i difetti della materia·, la quale molte fiate non risponde alle intenzione dell'arte». I. Cfr. BARBARO, pp. 33 sgg.: u E perché ogni proporzione è nata dai numeri, però egli si ha servato il nome predetto [euritmia] in ogni cosa dove sia proporzione; e perché la larghezza, altezza e lunghezza delle opere deve esser grata all'aspetto, e questo non si fa senza proporzione, e dove è proporzione è necessario che si truovi numero, però il nome di eurithmia è stato pigliato». 2.. Per la affermata unione difabrica e discorso cfr. BARBARO, p. 4: «L'arte è più eccellente e più degna della isperienza, perché è più vicina al sapere, intendendo le cause e le ragioni delle cose, là dove l'isperienza opera senza ragione. Appresso, lo intelligente artefice è più pronto a risolvere e dar conto delle cose, che il semplice e puro esperto. Laonde l'arte è alla sapienza, che è abito nobilissimo, più vicina».

DANIELE BARBARO

ragionevole e conveniente, come si vedrà dal seguente. Dice adunque: Dalle dette cose ne segue che quelli architettori i quali senza lettere tentato hanno di affaticarsi et essercitarsi con le mani, non hanno potuto fare che s'abbiano per le fatiche loro acquistato riputazione,· quelli che ne i discorsi e nella cognizione delle lettere solamente fidati si sono, l'ombra, non la cosa, pare che abbiano seguitato. Ma chi l'una e l'altra di queste cose hanno bene appreso, come uomini di tutte armi coperti et ornati, con credito e riputazione hanno il loro intento fad/mente co11seguito. 1

Sì come alla natural generazione si richiede l'uno e l'altro sesso e senza uno cli loro niente si concepe, cosi allo esser architetto, che è una artificiale generazione, unitamente il discorso e la fabrica si richiede. E se alcuno si persuadesse esser architetto con la fabrica sola, overo col discorso solo, egli s'ingannerebbe e sarebbe stimato cosa imperfetta. E di grazia, se uno avesse il sapere solamente et usurpare si volesse il nome di architetto, non sarebbe egli sottoposto alle offese de gli esperti? non potrebbe ogni manoale (dirò così) rimproverargli e dirgli: Che fai tu? Dall'altra parte, se per avere un lieve essercizio et alquanto di pratica, di sl gran nome degno esser si credesse, non potrebbe uno intelligente e letterato chiudergli la bocca, dimandandogli conto e ragione delle cose fatte ? E però bisogna esser ornati et armati di tutte arme per acquistare la vittoria et il vanto d'architetto.2 Bisogna esser coperto per difesa, armato per offesa, ornato per gloria, maneggiando la isperienza con l'artificio. Perché adunque i puri pratichi non hanno acquistato credito? perché l'architettura nasce da discorso. Perché solo i letterati? percioché rarchitettura nasce da fabrica. E però dice Vitruvio Dalle dette cose: cioè dal nascimento dell'architettura, che viene da fabrica e da discorso, cioè opera e ragione, ne segue quello che egli dice. Ma in questo luogo potrebbe alcuno dubitare e dire: Se veramente l'arte è nello intelletto e nella mente, per che cagione ha detto Vitruvio che quelli, i quali nel sapere si sono fidati, l'ombra, non la cosa, pare che abbiano seguitato? Rispondo che le cose dello intelletto alla più parte ombre paiono, et il volgo Cfr. CESARIANO, qui pp. 2986. 2. Il tema dà l'avvio ad una compiaciuta trascrizione delle prerogative dell'architetto. 1.

192

XIX • VITRUVIANA

stima le cose in quanto che a i sensi e a gli occhi sottoposte sono, e non in quanto non appareno. E questo avviene per la consuetudine, perché le genti non sono avezze a discorrere. E però raccorto Vitruvio non afferma che i letterati abbiano seguitato le ombre, ma dice pare, dinotando che il giudicio de gli imperiti è fatto sopra le cose apparenti. E però mi pare che molti vaneggiano nel decidere qual sia più nobile, o la scultura o la pittura; imperoché vanno alla materia, al tempo et a molti altri accidenti, che non sono delrarte. 1 Perché l'arte è nello intelletto, là dove tanto è pittore e scultore il divino Michiel Angelo dormendo e mangiando, quanto operando il pennello o lo scarpella; però egli si doveria considerare, quale è più degno abito nello intelletto, la pittura o la scultura.2 E così lasciati i marmi, gli azurri, i rilievi e le prospettive, la facilità o la difficultà delle dette arti; et allora egli si potrebbe dire qualche cosa che avesse del buono, ma ora non è tempo di decidere questa quistione. Dice adunque Vitruvio che l'arte non deve esser ociosa, ma con essa lei esser necessarie le mani; e questo approva con altre parole, dicendo: Perché se in ogni altra cosa, come speda/mente nell'architettura, queste due parti si truovano: doè la cosa significata e quella che 1. Cfr. qui I, pp. 465 sgg. 2. Cfr. VARCHI, qui II, pp. 1322 sgg., BARBARO, p. 3: I[ Ma perché il vero nelle cose diversamente si truova, però d'intorno al vero nelle cose molti sono gli abiti dello intelletto. Dico adunque nello intelletto umano esser un abito del vero che di necessità adiviene et un altro abito di quel vero, che non è necessario, detto da filosofi. vero contingente. Il vero necessario è quello che per vera e certa ragione si conchiude et, oltra di questo, vero necessario è quello che per prova de alcuna cosa si piglia. E finalmente vero necessario è quello che della prova e della cosa provata è composto. Laonde dalla predetta divisione tre maniere di abiti d'intorno al vero necessario ci sono manifeste. La prima è nominata scienza, che abito è di conclusione per vera e necessaria prova acquistato. La seconda è detta intelletto, che è abito dei principii e delle prove e ritiene il il nome della potenza dell'anima, nella quale egli si truova: laonde è nominato intelletto, imperoché allo acquisto di quello non vi concorre altro abito precedente; ma conosciuti i termini, cioè sapendosi la significazione dei nomi, di subito l'intelletto senza altra prova, solo da divini raggi illustrato del lume naturale, conosce e consente esser vero quello che gli è proposto •.. Per sapere adunque conchiudere molte cose da i proprii principii (che altro non è che avere scienza) bisogna prima acquistarsi lo intelletto, cioè l'abito che conosce i principii, che io in questo luogo chiamerei intendimento, per non confondere i vocaboli delle cose: perché intelletto è nome di potenza e di virtù dell'anima che intende, e intendimento è operazione overo abito di quella potenza •·

DANIELE BARBARO

3o59

ngnifica; la cosa significata è l'opera proposta, della qllale si, parla, quella che significa è la prova et il perché di quella, con maestrevole ragione di dottrina espresso e dichiarito. 1 Tra le arti ne sono alcune, il fine delle quali non passa oltra la considerazione delle cose a quelle soggette, come sono le matematiche. Alcune sono che, oltre la considerazione, vengono alla operazione, ma cessando l'operazione niente resta di fatto; come è l'arte del suonare e del saltare e altre simiglianti. Sonovi alcune che dietro a sé lasciano alcuna opera o lavoro, come è l'arte fabrile e l'arte del fabricare. Appresso ve n'ha che a prendere et acquistare si dà, come la caccia delle fiere, l'uccellare e la pescagione, in fine altre non a considerare, non a finire, non a pigliare intente sono, ma correggono et emendano gli errori et i danni delle cose fatte e quelle racconciano; come forse è la medicina, secondo Galeno.z Con tutte le predette arti, anzi sopra tutte è l'architettura, come giudice ch'ella è di ciascuna.3 Laonde è necessario che in essa si consideri alcuna cosa fatta o da esser fatta e la ragione: e però due cose sono, l'una è la significata e proposta opera, l'altra è la significante cioè dimostrativa ragione. Tutti gli effetti adunque, tutte le opere o lavori delle arti, tutte le conclusioni di tutte le scienx. Cfr. CESARIANO, qui p. 2986. Per l'interpretazione del passo vitruviano cfr. FERRI, p. 34: « Secondo il testo di Vitruvio il valore di questo binomio è semplice in quanto è ripetizione, sotto altra forma, difabrica-ratiocinatio ..• Ma il valore lessicale e storico della frase è un altro, e assai più complesso. Ed è un concetto greco maturatosi evidentemente durante il corso del V secolo per opera dei sofisti. I quali da un lato insegnavano che la parola ben coltivata, bene espressa, ben collocata può uguagliare se non superare il manufatto descritto, statua o tempio o altro (auvt~oµotoua&at); dall'altro e questo lo sappiamo direttamente da Platone e Aristotile - nell'investigare l'origine del linguaggio e stabiliti per via di somiglianza i vari nomi alle varie cose, consideravano equivalenti e per sé stanti le due quantità, il nome (individuante la cosa) e la cosa (individuata dal nome), sicché era possibile, cambiando ed amalgamando e separando e congiungendo, articolare un linguaggio. Abbiamo quindi nei filosofi e nei critici letterari greci .•• un costante fluttuare antinomico dei due termini, uno dei quali si riferisce a una data cosa, l'altro al concetto di quella cosa n. Vedi anche DE Fusco, p. 7 : ,e Quando si afferma che i due tennini di cui parliamo sono l'uno la costruzione e l'altro quello che oggi chiamiamo 11 relazione tecnica", significa attribuire a Vitruvio una concezione troppo estrinseca dei due fattori del binomio, ossia negargli che, almeno intuitivamente, egli ab .. bia inteso che essi costituissero due aspetti d'uno stesso fenomeno. Significante e significato per Vitruvio non sono due momenti distinti, ma un rapporto intrinseco presente in tutte le cose». 2. Per simili distinzioni delle arti cfr. VARCHI, qui I, pp. 135 sgg. 3. Cfr. VARCHI, qui I, p. 140.

3060

XIX • VITRUVIANA

ze sono le cose significate; ma le ragioni, le prove, le cause di quelle sono le cose significanti. E questo è, perché il segno si riferisce alla cosa significata, lo effetto alla causa, la conclusione alla prova. Ma per dichiarazione dico che significare è per segni dimostrare, e segnare è imprimere il segno, là dove in ogni opera da ragione drizzata e con disegno finita è impresso il segno dello artefice, cioè la qualità e la forma che era nella mente di quello, percioché lo artefice opera prima nello intelletto e concepe nella mente e segna poi la materia esteriore dello abito interiore. Specialmente nell'architettura: percioché ella sopra ogni arte significa, cioè rappresenta, le cose alla virtù che conosce e concorre principalmente a formare il concetto secondo la sua intenzione; e questo è proprio significare. Ma l'esser significato è proprio esser rappresentato al sopra detto modo. 1 Dei segni alcuni sono cosi adentro, che veramente sono come cagioni delle cose. Altri fanno una soperficiale e debile istimazione di quelle. Lo architetto lascia questi ultimi segni all'oratore et al poeta et insieme con la dialettica, che è modo dello artificioso discorso, abbraccia quelli, perché sono necessarii, intimi e concludenti.2 Donde a diviene che chi fa professione di architetto pare che nell'una e ne l'altra parte esser debbia essercitato.3

Ogni agente nel grado che egli tiene deve esser perfetto, accioché l'opera compita e perfetta sia. Tre sono gli agenti: divino, naturale, I. Cfr. DE Fusco, pp. 8 sg.: «Riprendendo i precedenti termini, tradotti dal Barbaro confabbrica e discorso, si ricava anzitutto che l'architettura implica un discorso composto di segni significanti. Vitruvio, pur testimoniando con questi due termini che la componente semantica è tra i primi attributi dell'architettura, li usa per rafforzare il binomio precedente di teoria e pratica in una accezione particolare. Significato per lui sembra essere non ciò che un segno denota, ma piuttosto un tema ... Significante è la dimostrazione di questo tema. L'interpretazione del Barbaro è, come al solito, assai più acuta .•. Discostandosi da quel "tema" cui sembra alludere Vitruvio, intende, con cosa significata, effetto ovvero forma, con cosa significante, causa, ragione, ovvero contenuto d'una data opera». 2. Cfr. ancora DE Fusco, p. 9: « L'architetto, secondo Barbaro, a differenza dell'oratore, del poeta, che usano dei segni linguistici, non aventi le stesse proprietà di ciò che significano, opera essenzialmente con quei segni necessari, intimi e concli,denti, cioè strettamente legati a ciò che denotano. Non è chi non veda, oltre il già citato limite dualistico nel testo vitruviano e nel commento del Barbaro, l'origine della moderna semiologia, o almeno la parte che di essa riguarda l'architettura». 3. Cfr. C~ARIANO, qui p. 2986.

DANIELE BARBARO

3061

artificiale: cioè Iddio, la natura, l'uomo. 1 Noi parleremo dell'uomo. Se adunque l'architettura è cosi eccellente, che ella giudica l'opera delle arti, bisogno fa che lo architetto sia in tal modo formato, che egli possa far l'ufficio del giudicare; e però direi che le infrascritte cose gli sono necessarie. Prima, che egli sia di natura docile e perspicace, cioè che, dimostratagli una cosa, molto agevolmente e presto l'apprenda. E benché di natura divina è colui che da sé trova et impara, non è però di poca lode chi presto s'ammaestra: come è d'infima condizione chi né da sé stesso né per opera de' maestri apprende. 2 Queste buone condizioni sono da Vitruvio nelle dette parole comprese: Donde adiviene che chi fa professi.one d'architetto pare che nell'una e l'altra parte esser debbia essercitato, cioè nella cosa significata e nella significante. Poi segue: Dove ingenioso e docile bisogna che egli si.a, percioché né lo ingegno senza lo ammaestramento, né lo ammaestramento senza lo ingegno può fare l'uomo eccellente. 3

Lo ingegno serve et alla invenzione che fa l'uomo da sé stesso et alla dottrina che egli impara da altri. Rare fiate adiviene che uno sia inventore e compito fattore d'un'arte, cioè che ritrovi e riduca a perfezzione tutto un corpo d'un'arte. Però ben dice Vitruvio che senza lo ingegno lo ammaestramento e senza lo ammaestramento lo ingegno non fa l'uomo eccellente.4 La seconda condizione dello architetto è la educazione e lo essercizio da' primi anni fatto nelle prime scienze; prime chiamo l'aritmetica, la geometria e !'altre discipline. Queste ebbe Vitruvio per opera dei suoi progenitori, come egli confessa nel proemio del sesto libro. 5 La terza condizione è l'avere udito e letto i più eccellenti e rari uomini e scrittori, come fece Vitruvio, il quale attesta nel proemio del secondo libro quello che io dico, dicendo: lo esponerò seguitando gli ingressi della prima natura e di quelli Per simili enunciazioni aristoteliche cfr. VARCHI, qui I, pp. 99 sgg. 2. Sui requisiti dell'architetto cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 6 sgg., PIRRO L1GORIO, qui II, pp. 1445 sgg. 3. Cfr. CESARIANO, qui p. 2986. 4. Sullo stesso valore tradizionale dell'i11gegno e dell'apprendistato cfr. LEONARDO, qui II, pp. 1267 sg., 1270, 1279 sg., 1285 sgg., GAURICO, VARCHI, PIRRO LIGORIO, qui II, pp. 1303 sgg., 1323 sgg., 1447 sgg. 5. Cfr. VITRUVIO, VI, pr., 4, citato nella nota e di p. 2997. 1.

3062

XIX • VITRUVIANA

che i principii del consorzio u,na110 e le belle e fondate invenzioni con gli scritti e regole dedicaro,io, e però come io sono da quelli a,nmaestrato dimostrerò. 1

E questo è quanto appartiene a gli scrittori et alla lezzione de i buoni; ma quanto alla presenza et all'udita dice nel proemio del sesto libro avere avuto ottimi precettori.2 La quarta condizione è la toleranza delle fatiche et il continuo pensiero e ragionamento delle cose pertinenti all'arte. Difficilmente si truova ingegno elevato e mansueto. Vitruvio ebbe acuto ingegno e sofferente, però dice: E dilettandomi delle cose pertinenti al parlare et alle arti e delle scritture de' commentan·i, io ho acquistato con l'animo quelle possesn·oni, dalle quali ne viene questa somma di tutti i frutti, che io non /io più alcuna necessità e che io stimo quella esser la proprietà delle ricchezze, di disZ:derare niente più. 3

La quinta condizione è di non desiderare altro che la verità, né altro avere dinanzi a gli occhi, e per meglio conseguirla evvi la sesta condizione, che consiste nello avere una via ragionevole di ritrovare il vero, e quella via poco ci gioverebbe senza la settima condizione, che è posta nell'uso della detta via e nell'applicazione di essa. Che Vitruvio fusse studioso del vero, che egli avesse la regola di trovarlo e che finalmente sapesse usare la detta regola, molto bene appare nel suo procedere ordinatamente, nel significar le cose, nel dar forma e perfezzione a tutto il corpo dell'architettura. Le dette condizioni si deduceno da i principii detti di sopra, cioè dalla diffinizione dell'architettura e dal suo nascimento, come si può considerando vedere.4 Ma noi a Vitruvio, il quale narra quante cose fanno bisogno all'architetto e quali e per che cagione et in che modo: Appresso bisog11a che egli abbia lettere, perito sia nel disegno, erudito nella geometria, non ignorante della prospettiva, sappia l' aritmetZ:ca, conosca molte istorie, udito abbia con diligenza i filosofi, di musica, di medici1ia, delle leggi, delle risposte de' iureconsulti sia pr., 5. 2. Cfr. la nota s di p. 3061. di p. 3061. 4. Cfr. pp. 3049 sgg.

1. VITRUVIO, II,

nota

s

3.

Cfr. ancora la

DANIELE BARBARO

intelligente, e finalmente rozo non sia nel conoscere la ragio11e del cielo e delle stelle. 1

Poi che Vitruvio ha detto quante e quali cose sono necessarie per formare un eccellente architetto, dice per che ragione cosi bisogno sia e partitamente di ciascuna ne rende conto dicendo: Ma pe,·ché così bisogno sia, questa è la ragione. È necessario che lo architetto abbia lettere, accioché leggendo gli scritti libri, commentari nominati, la memoria si faccia più /erma. 2

Il giudicare è cosa da prudente; la prudenza compara le cose seguite con le instanti e fa stima delle seguenti. Le cose seguite per memoria si hanno, però è necessario a quell'ufficio di giudicare che apartiene allo architetto, avere memoria ferma delle cose, e la memoria ferma si fa per la lezzione, perché le cose stanno fermamente ne gli scritti. Però bisogna che lo architetto abbia la prima arte, detta cognizione di lettere, cioè del parlare e dello scrivere drittamente. 3 Egli si ferma adunque la memoria con la lezzione de' commentarii ; il nome istesso lo dimostra, percioché commentario è detto, come quello che alla mente commetta le cose, et è breve e succinta narrazione di cose ;4 là dove con la brevità sovviene alla memoria. Bisogna adunque leggere, e le cose lette per la mente rivolgere; altrimenti male ne avverrebbe dalla invenzione delle lettere (come dice Platone), percioché fidandosi gli uomini negli scritti, si fanno pigri e negligenti. 5 Vitruvio ebbe cognizione di lettere greche e latine; usò i vocaboli greci e confessa avere da' Greci molte belle cose nei suoi commentarii traportate. In questo modo io dichiaro avere cognizione di lettere: perché più sotto pare che Vitruvio cosi voglia, esponendo cognizione di lettere esser la grammatica. Altri intendono !'arti scritte; ma io vedo che !'arti scritte senza grammatica e letteratura non si hanno. E forse dal non intendere le lettere è nata la difficultà di intendere Vitruvio e la scorrezzione de i testi. 6

1.

Cfr. CF.SARIANO, qui p. 2986.

2. Cfr. CESARIANO, qui pp. 2986 sg.

3. Ta-

li apprendimenti risultano necessari per tutti gli artisti; cfr. ALBERTI, p. 103, GAURICO, PINO, Am,.1ENINI, qui II, pp. 1305 sgg., 1352, 1484 sgg. 4. Didascalie tipiche del nostro patriarca. 5. Cfr. Theaet., 203 sg. 6. Cfr. S&"llGALL0, TOLOMEI, qui pp. 3028 sgg., 3037 sgg.

XIX • VITRUVIANA

Appresso abbia disegno, acciocl1é con dipinti essempi ogni maniera d'opera che egli faccia formi e dipinga. 1 Tutte le matematiche hanno sottoposte alcune arti, le quali, nate da quelle, si danno alla pratica et all'operare. Sotto l'astronomia è la navigazione. Sotto la musica è quella pratica di cantare e di suonare diversi instrumenti, sotto l'aritmetica è l'abaco e l'algebra. Sotto la geometria è la perticazione e l'arte di misurare i terreni. Sono anche altre arti nate da più di una delle predette, come è la pratica della prospettiva. 2 Vitruvio vuole che non solamente abbiamo quelle prime e communi, che rendeno le ragioni delle cose, ma anche le pratiche e gli essercizii nasciuti da quelle. E però quanto al disegno vuole che abbiamo facilità e pratica e la mano pronta a tirar dritte linee, e vuole che abbiamo la ragione di quelle: che altro non è che certa e ferma determinazione concetta nella mente espressa con linee et anguli, approvata dal vero, il cui ufficio è di prescrivere a gli edificii luogo atto, numero certo, modo degno et ordine grato. Questa ragione non va dietro alla materia, ma è la istessa in ogni materia: perché la ragione del circolo è la medesima nel ferro, nel piombo, in cielo, in terra e nell'abisso. Fa dunque bisogno avere la perizia dei lineamenti, che Vitruvio chiama peritiam graphidos, che è perizia de i lineamenti che serve a pittori, scultori; intagliatori e simiglianti. 3 La quale in quel modo serve alle arti predette, che le matematiche serveno alla filosofia. Questa perizia contiene la dimensione e la terminazione delle cose, cioè la grandezza et i contorni. La grandezza s'ha per le squadre e per le regole, che in piedi et once distinte sono. Il contorno si piglia con uno instrumento del raggio e del finitore composto, del quale ne tratta Leon Battista ;4 e da quello si piglia le comparaCfr. CESARIANO, qui pp. 2987, 2998 sg.

Per una simile gerarchia delle arti cfr. VARCHI, qui I, p. 137. 3. Mentre il Cesariano puntava sulla nobiltà estrinseca del disegno (cfr. p. 2999 e la nota 1), il Barbaro orecchia definizioni albertiane e vasariane (cfr. II, pp. 1912, 1915 e la nota 1), con modeste aspirazioni speculative. 4. Cfr. ALBERTI, Della Stat11a, pp. 122. sgg.: cr Per sapere adunque far questa cosa [il porre i termini] bene, abbiamo bisogno di un instrumento, il quale instrumento è di tre parti, o membra, cioè che egli è fatto di un orizzonte, di una linda e di un piombo. Lo orizzonte è un piano disegnatovi sopra un cerchio diviso in tre parti uguali e contrassegnate con i loro numeri. La linda è un regolo diritto, che con una delle sue teste sta fermo nel centro del detto cerchio e l'altra si gira I.

2.

DANIELE BARBARO

zioni di tutte le membra alla grandezza di tutto il corpo, le diffe.. renze e le convenienze di tutte le parti tra sé stesse, alle quali la pittura aggiugne i colori e le ombre. Bisogna adunque che lo archi-tetto abbia disegno. Il che si vede per le cose dette nel quinto libro al sesto capo, della conformazione del teatro. 1 Similmente all'ottavo del detto libro, dove si tratta della discrizzione delle scene. 2 Et al quarto del sesto et in molti luoghi,3 dove si può vedere quanto necessaria sia la pratica del disegno, la qual pratica è presa dalla geometria, come quando bisogno è di pigliare una linea a piombo sopra un'altra, formare gli angoli dritti, partirgli e misurargli e fare le figure di più lati, trovar il centro di tre punti, partire un piano, e simili altre cose che giovano a far le piante et i rilievi e misurare i corpi regolari et irregolari, le quali tutte cose alla data apritura della sesta con ragione e con opera si possono dimostrare e fare. 4 E però dice Vitruvio che:

La geometria giova molto allo architetto, perché ella insegna l'uso della linea dritta e circolare, dal che poi agefJolmente ne i piani si fanno i disegni de gli edificii e le dritture delle squadre, dei livelli e dei, lineamenti. 5 L'arte del misurare è detta geometria, e benché il soggetto delle matematiche sia la quantità intelligibile, il che se non fusse, bisognarebbe per ogni quantità naturale fare una scienza di nuovo, nonintorno a voglia tua, talmente che ella si può transferire a ciascuna delle divisioni fatte nel cerchio. Il piombo è un filo, o una linea diritta che cade a squadra dalla cima della linda sino in terra, o su il pavimento sopra il quale posa la statua ovvero figura, nella quale si hanno a determinare ed a porre i termini delle membra e delle linee già dette. E questo instrumento si fa in questo modo: pigliasi una tavola piana ben piallata e pulita et in quella si tira un cerchio, il diametro del quale sia tre piedi, e la circonferenza di detto cerchio, nella sua estremità, si divida in parti uguali, simili a quelle che gli astrologhi disegnano negli astrolabi, le quali parti io chiamo gradi ... Questo cerchio così fatto ed ordinato si chiama orizzonte. Ed a questo cerchio accomodo la linda mobile •.. A questa linda attacco io un filo sottile con un piombinetto: e tutto questo instrumento fatto dello orizzonte, della linda e del piombo io lo chiamo il diffinitore, ed è tale quale io l'ho descritto». 1. Cfr. BARBARO, pp. 247 sgg. 2. Cfr. BARBARO, pp. 256 sgg. 3. Cfr. BARBARO, pp. 288 sgg. 4. Il complesso rapporto geometria-disegno sembra qui tradursi in una prassi empirica nella quale vengono meno quelle aspirazioni razionali che prevalgono non solo nel dettato albertiano (cfr. ALBERTI, Architettura, 1, p. 18, citato nella nota I di II, p. 1915), ma anche in CESARIANO, qui p. 2999. 5. Cfr. CESARIANO, qui pp. 2987, 2999 ..

3066

XIX • VITRUVIANA

dimeno la geometria giova al disegno et alla pratica per la sua virtù e forza, come si vede nella voluta del capitello ionico, nel compartimento delle metope e triglifi nell'opera dorica et in molte proporzionate misure. 1 Oltra di questo perché egli adiviene che è necessario livellare i piani, quadrare e drizzare i terreni, però bisogna avere la geometria; come si vede nel livellar delle acque nell' ottavo, 2 nella divisione delle opere nel primo, 3 nel misurare i terreni nel nono,4 e finalmente in ogni parte, dove egli si può dire che la geometria è madre del disegno et è la ragione di quello, la quale è posta in sapere la cagione de gli effetti fatti con la regola e col compasso, che sono le linee dritte, le piegate, gli archi, i vòlti, le corde e le dritture, per usare i nomi della prattica. 5 La geometria adunque dal punto procede, le linee distese, le torte, le pendenti, le traverse, l'equidistanti, gli anguli giusti, larghi e stretti, le punte, i circoli intieri, imperfetti e composti. Le figure di più lati, le soperficie, i corpi regolari et irregolari, le piramidi, le sfere, !'aguglie, li tagli et altre cose che alle colonne, a gli architravi, alle cube, tribune, lanterne et a molte altre parti appartengono.6 Et a questo modo la geometria è necessaria allo architetto e questa ebbe Vittruvio, come appare in molti luoghi e specialmente nel VI et VIII libro.7

I. A proposito di questi esempi di proporzionate misure cfr. BARBARO, p. 149: «Tira una linea che sia tanto lunga quanto è grossa la colonna da piedi. Questa dividerai in parti dieciotto e ne aggiugnerai una di esse, sl che sarà in tutto parti diecinove. Ora tutta questa sarà la lunghezza e larghezza del capitello. Ma l'altezza con le volute sarà per la metà, cioè parti nove e mezo: dico con le volute, perché la grossezza del capitello è un terzo della grossezza delle colonne e le volute sono ornamenti e non parti del capitello e vanno più in giù del capitello. Manderai dunque a basso de gli estremi di questa linea i cateti, cioè linee a piombo, tanto lunghe quanto sono le nove parti e meza, cioè la metà della lunghezza. Queste linee ci serviranno poi. Restino però segnate le nove parti e meza, ma scancellati i primi segni delle divisioni della linea della lunghezza e larghezza del capitello: perché si deve dividerla in venti parti e retirarsi in entro dalle estremità della linea detta una parte et un quarto delle venti e mandar giù de gli altri cateti di pari alli primi. Con le istesse divisioni, in queste linee ritirate sarà il centro dell'occhio, si fermeranno le volute e si regolerà tutto il restante del capitello». 2. Cfr. BARBARO, pp. J4I sgg. 3. Cfr. BARBARO, pp. 54 sgg. 4. Cfr. BARBARO, pp. 348 sgg. 5. Il dotto patriarca risale dagli effetti alle cause, sulle quali cfr. CESARIANO, qui p. 2999. 6. Traducendo la geometria astratta in struttiva il Barbaro punta su elementi componibili. 7. Cfr. VITRUVIO, VI, II, 1; VIII, VI, e BARBARO, pp. 277 sg., 343 sgg.

DANIELE BARBARO

Per la prospetti'lJa anche nelle f abriche si pigliano i lumi da certe e determinate parti del cielo. Prospettiva è nome del tutto e nome della parte. Prospettiva in generale è quella che dimostra tre ragioni del vedere: la dritta, la riflessa, la rifranta.' Nella dritta si comprende la cagione de gli effetti che fanno le cose visibili mediante i lumi posti per dritto; la riflessa è la ragione del risalimento e rinverbero dei raggi, che si fa come da gli specchi piani, cavi, ritorti, riversci et altre figure. La rifranta è la ragione delle cose che appareno per mezo di alcuna cosa lucida e trapparente, come sotto l'acqua, per lo vetro, oltra le nubi; e questa prospettiva si chiama prospettiva dei lumi naturali, speculativa e di grande condizione tra le parti della filolofia, perché il suo soggetto è la luce giocondissima alle viste et a gli animi de' mortali.2 Là dove essendo noi nelle stanze rinchiusi per difesa del freddo e del caldo, necessario è che abbiamo la dilettevolissima presenza della luce e del lume, sia egli o dritto o riflesso: e però è necessario che lo architetto abbia la prospettiva.3 Ma quando questo nome è nome di parte, egli riguarda alla pratica, e suol fare cose meravigliose, dimostrando nei piani politi i rilievi, le distanze, il fuggire e lo scorcio delle cose corporali ;4 però nel terzo libro al secondo capo vuole Vitruvio che le colonne dei portici, che stanno su le cantonate, sieno più grosse che quelle che nel mezo traposte sono: percioché lo aere circonstante diminuisce e leva della vista e mangia dirò cosi della grossezza delle colonne angolari. 5 E nel Definizione in termini ottici, affine a quella data da VITRUVIO, I, II, 2 nei confronti della scenografia: • Item scaenographia est frontis et laterum abscedentium adumbratio ad circinique centrum omniwn linearum responsus • (FERRI, p. 55: « La scenografia è lo schizzo della facciata e dei lati in iscorcio, colla convergenza di tutte le linee al centro del compasso 11). 2. Sulla possibile matrice aristotelica per una simile definizione cfr. G. Fm>na1c1 VESCOVINI, Str1di sulla prospettiva medievale, Torino 1965, pp. 215 sg. 3. Dalle considerazioni speculative il Barbaro trapassa spesso, come in questo caso, alle contingenti esigenze funzionali dell'architettura. 4. Con la parte si torna alla casistica della prospettiva pittorica; cfr. ad esempio LEONARDO, VASARI, DOLCE, LOMAZZO, qui I, pp. 477,480,496 sg., 812, 968, 972 sgg. 5. Cfr. VITRUVIO, 111, 1u, 11: « ltaque generis opcris oportet persegui symmetrias. Etiamque angulares columnae crassiores faciendae sunt ex suo diametro quinquagesima parte, quod eae ab aere circumciduntur et graciliores videntur esse aspicientibus. Ergo quod oculus fallit, ratiocinatione est exaequandum »; FERRI, p. 113 : «Bisogna quindi sempre applicare le simmetrie proprie di ogni tipo di edificio. Anche le colonne 1.

XIX • VITRUVIANA

fine del detto libro comanda che tutte le membra sopra i capitelli, come sono architravi, fregi, gocciolatoi, frontispicii, siano inclinati per la duodecima parte ciascuno della fronte sua, e questo solo per la veduta, come si dirà. 1 Vuole altrove che le colonne canellate apparino più grosse che le schiette; et in somma la pittura delle angolari, del resto, devono esser ingrossate di un cinquantesimo del diametro comune, perché l'aria tomo torno le mangia e le smagra; e (se fossero uguali alle altre) sembrerebbero alla vista più sottili. Dunque l'errore degli occhi deve esser corretto, in senso eguale e contrario, col raziocinio». Vedi anche BARBARO, p. 132: «Dove trovaremo tra le colonne essere spacio maggiore, dovemo a proporzione fare più grossa la colonna; e la ragione è questa, perché se fussero le colonne sottili dove sono i vani maggiori, molto si levarebbe dello aspetto, imperoché lo aere è quello che toglie della grossezza delle colonne e fa parere quelle più sottili, come la isperienza ci dimostra. Dove adunque è più di vano e di spacio, ivi entra più l'aere, il quale essendo d'intorno taglia del vivo, E però con buona ragione la distanza de gli intercolumnii regola la grossezza delle colonne». 1. Cfr. VITRUVIO, 111, v, 13: cr Membra omnia, quae supra capitula columnarum sunt futura, id est epistylia, zophora, coronae, tympana, fastigia, acroteria inclinanda sunt in fronte suae cuiusque altitudinis parte XII, ideo quod, cum steterimus contra frontes, ab oculo lineae duae si extensae fuerint et una tetigerit imam operis partem, altera summam, quae summam tetigerit, longior fiet. lta quo longior visus linea in superiorem partem procedit, resupinatam facit eius speciem. Cum autcm, uti supra scriptum est, in fronte inclinata fuerint, tunc in aspectu videbuntur esse ad perpendiculum et normam,, (FERRI, p. 131: «Tutti i membri che si troveranno sopra i capitelli delle colonne e cioè gli epistilii, i fregi, le cornici, il timpano, i fastigi e gli acroteri, devono essere inclinati in avanti, ciascuno un dodicesimo della propria altezza; e ciò perché, stando noi contro il fronte del tempio, se si tiran due linee dall'occhio e una tocchi la parte più bassa dell'edificio, una la cima, quest'ultima sarà più lunga. Pertanto coll'allungarsi della linea visuale nella parte superiore, la facciata sembra rovesciarsi indietro; ma quando, come qui è prescritto, tutti i membri saranno inclinati in avanti, allora essi parranno alla vista perpendicolari e a squadra ,, ). Vedi anche BARBARO, p. I s9: • Bella ragione di prospettiva è questa, che adduce Vitruvio nel presente luogo, per la cui intelligenza bisogna prima porre la sua intenzione come una conclusione, dapoi provarla con le ragioni della prospettiva. Dice adunque che ogni membro che sopra i capitelli si pone, deve nella sua fronte esser partito in dodici parti e ciascuno piegare verso la fronte sua una parte delle dodici. E la ragione è fondata nella prospettiva, che vuole che i raggi del vedere eschino da gli occhi per dritta linea e che tra quelli ci sia una certa distanza e che la figura da quelli compresa, con quelli sia come una piramide et un conio, la cui punta sia nell'occhio e la basa contegna i contorni overo i termini della cosa veduta. Ora stando questo, ne segue che gli anguli, sotto i quali si vede alcuna cosa, saranno ora minori, ora maggiori, perch~ una istessa cosa avvicinandosi all'occhio farà l'angulo maggiore et allontanandosi lo farà minore; il simile segue dell'altezza de gli anguli, del sito destro e sinistro e della egualità, là dove quelle cose che si vedeno sotto anguli maggiori appareno minori, e quelle minori, che sotto minori si vederanno, e sotto gli alti alte, sotto bassi basse e sotto destri destre, sotto si-

DANIELE BARBARO

3069

scene tutta è posta in questa parte di prospettiva, dal che ella ne prende il nome e si chiama scenografia, come si dirà nel quinto libro. 1 Per queste cose si comprende e che la prospettiva è necessaria allo architetto e che Vitruvio di quella non è stato imperito. Col mezo della ari'tmetica si fa la somma delle spese, si. dimostra la ragione delle mt'sure e con modi e vie ragionevoli si trovano le difficz'li questioni delle proporzionate misure. 2

Il vulgo stima quelle pratiche nasciute dalle matematiche, che noi sopra dicemmo, esser vere arti et eccellentissime virtuti; il che non è, percioché non rendeno le ragioni delle cose, benché dimostrino effetti dilettevoli e belli. 3 Vitruvio (come ho detto) abbraccia e la principale e la meno principale, come si vede nella aritmetica e nelle predetta ragione della geometria e del disegno.4 L'abaco prima è venuto dalla vera aritmetica, e questo è necessario per far conto delle spese, imperoché vano sarebbe il disegno, vana la fatica del principiare, se l'opera per alcuno impedimento non potesse andar inanzi; e tra gli impedimenti la spesa è il maggiore. Però nel proemio del decimo libro loda Vitruvio la legge de gli Efesii, della pena degli architetti che facevano spendere ai conduttori molto più di quello che avevano affermato e promesso. 5 Ma nistri sinistre, sotto eguali eguale e, sotto più anguli vedute, si vedeno meglio. Però considerando Vitruvio che se i membri fussero dritti a piombo, la parte disopra sarebbe più lontana dalla vista che quella di sotto, e parrebbe che l'opera desse in drieto; il che si vede tirando dall'occhio due linee, perché la linea che va alla parte di sopra è più lunga che quella che va alla parte di sotto, e però l'opera ci parrebbe più stesa e più rivolta al di sopra, per vedersi sotto raggio più lontano; però vuole egli che piegamo in fuori la parte di sopra la duodecima parte dell'altezza dei membri che vanno sopra i capitelli, perché la linea del vedere si farà più vicina all'occhio, l'angulo ci sarà maggiore e l'opera ci parerà più dritta». 1. Cfr. VITRUVIO, v, VIII, 1 sgg., BARBARO, pp. 256 sgg. 2. Cfr. CF.SARIANO, qui pp. 2987, 3000 sg. e le note relative. 3. Cfr. p. 3049. 4. Cfr. pp. 3064 sgg. 5. Cfr. VITRUVIO, x, 1, 1-2, CESARIANO, qui p. 2993 e la nota a. Vedi anche BARBARO, p. 439: « Quella legge, ndunque, che dice Vitruvio esser stata in Efeso con dura condizione, ma con giusta ragione ordinata, staria bene ai nostri giorni et in quelle cose onco, dove è più subita occasione di spendere, più pericolo di deliberare e men commodità di vederne il conto, come è negli apparati de le feste e dei giuochi publici, nelle scene e ne i concieri che si fanno a tempo, nei quali i Romani del publico spendevano gran quantità di denari, dove è necessario avere fedeli et ingeniosi ministri, svegliati inventori et essercitati architetti delle cose, che trovino -la facilità e non vadino per la lunga ».

XIX • VITRUVIANA

benché agevolmente si faccia il conto, non però agevolmente si conosce sopra che egli si debbia fare; e però Vittruvio nel predetto proemio dice che solamente quelli farebbono professione di architetto, i quali con sottigliezza di dottrine fussero prudenti. 1 Ma più adentro penetrando, oltra la pratica del numerare, che consiste nella rappresentazione dei numeri, nel raccogliere, nell'abbattere, nel moltiplicare, nel partire, nello raddoppiare, nello smezare, nel cavare le radici sì degli intieri come dei rotti, et anche in una certa et ordinata salita di raccogliere, che si chiama progressione, utile è l'aritmetica a dimostrare le ragioni delle misure et a sciorre le dubitazioni che per geometria sono insolubili, come nel nono libro ci dimostra avere e Platone e Pitagora et Archimede ritrovato molte cose mirabili. 2 Et in vero, vero è quello che dice Platone, che gli uomini di natura aritmetici sono atti ad ogni disciplina, come quelli che in sé abbiano prontezza et altezza di spirito.3 Ma per che cagione Vitruvio tocca di queste cognizioni e le speculative e le pratiche? Certo non per altro, che per dimostrare esser vero quanto egli ha detto di sopra, cioè che si ricerca discorso e fabrica, e che in ogni arte è. la cosa significata e la significante.4 La cognizione della istoria fa che si sa la ragione di molti ornamenti che sogliono fare gli architetti nelle opere loro. 5

Vitruvio è chiaro per gli essempi che egli dà, dicendo: Come se alcuno posto avesse in luogo di colonne le statue f eminili di marmo, quelle che cariati sono chiamate, vestite di abito lungo e matronale, e sopra quelle posto avesse i modigli"oni et i gocciolatoi, così di tal opra, a chi ne dimandasse, ne renderebbe ragione. Caria, città della Morea, si, congiunse con Pers1:ani contra la Grecia. I Greci, con la vitton·a gloriosamente dalla guerra liberati, di commune consiglio si, mossero contra i Cariati e, presa la loro fortezza, uccisi gli ilomini e spianata la terra, per i.schiave levorno le matrone loro, non sopportando che quelle deponessero gli abiti e gli ornamenti di matrone, accioché non in uno solo trionfo condotte fussero, ma con eterno essempio di servitù da grande sconio oppresse, per tutte le città loro paressero portare la pena. Gli architetti de que' tempi nei publici 1. Cfr. V1TRuv10, x, II, BARBARO, p. 439. 2. Cfr. V1muv10, IX, pr., BARBARO, pp. 347 sgg. 3. Cfr. Resp., vn, 522c-526c. 4. Cfr. p. 3060 e la nota 1. 5. Cfr. CESARIANO, qui pp. 2987, 3010 sg.

DANIELE BARBARO

3071

edificii posero le imagini di quelle matrone per sostenimento dei. pesi, accioché alla memoria dei, posteri la conosciuta pena de gli errori de' Cariati commendata fusse. 1

Noi adunque dalle parole di Vitruvio prenderemo argomento di ornare gli edificii con la memoria di que' fatti che grati saranno a que' prìncipi overo a quelle republiche, le quali noi vorremo onorare, et onorandole a noi grate rendere e favorevoli. Come stessero sotto i pesi quelle matrone Vitruvio non dichiara. Prendesi argomento da Ateneo, dotto e dilettevole scrittore, che stessero col capo sottoposto e con la sinistra mano levata al sostenimento dei pesi.2 Ma non ci dovemo obligare a credere che solamente le cariati stessero in quella maniera. Ben lodaremo lo ingegno di Vitruvio, che, dimostrando la istoria esser necessaria allo architetto, egli abbia voluto narrare con forma et idea istorica questo fatto de' Greci et il seguente de' prigioni persiani: Similmente i Lacedemotzii, sotto Pausania figliuolo di Egesipolide, dopo il fatto d' arme di Platea, avendo con poca gente superato il numeroso essercito de' Persi"ani e con gran gloria trionfato, dei, dinari tratti delle spoglie e della preda f abricorono in luogo di trofeo della vittoria il Portico Persiano dimostratore della lode e della virtù de i cittadini, e in quel portico posero i simulacri de i prigioni con l'ornamento barbaro del vestfre, che sostenevano il tetto, avendo con meritato dispregio la loro superbia castigato: affine che i nimici cagione avessero di temere impaun"ti della fortezza loro, e i cittadini guarda1zdo in quello essempio di virtù, dalla gloria sollevati, alla difesa della libertà protlti fussero e preparati. Là dove 1ze gli anni seguenti molti cominciorno a porre le statue persiane che sostenevano gli architravi et i loro ornamenti, e d'-indi trassero argo1ne11to di accrescere nelle opere maraviglz"osa varietà di maniere. Di simiglianti altri ne sono, delle quali bisogna che lo architetto se ne sia bene informato·. .•3

Dalle istorie adunque lo architetto prende occasione di adornare le opere sue, come anche Vitruvio in molti luoghi adorna i volumi suoi, come nel sesto capo del primo,4 nel nono del secondo,5 nel I. Cfr. CESARIANO, qui pp. 2987, 3010 sg. 2. Deip11os., VI, 241d. 3. Cfr. CESARIANO, qui pp. 2987 sg. 4. Cfr. VITRUVIO, r, VI, 1, BARBARO, p. 54. 5. Cfr. V1Tauv10, 11, IX, I sgg., BARBARO, pp. 89 sgg.

XIX • VITRUVIANA

primo del sesto1 e nei proemi dei suoi libri e altrove è pieno di bellissimi ammaestramenti tratti dall'istorie.2

La filosofia fa lo architetto d'animo grande, senza arroganza, piacevole, giusto e fedele, non avaro, il che è cosa grandissima; là dove senza fede e castità niuna cosa veramente si può fare. La filosofia oltra di questo non lascia entrare la cupidità, né permette che l'animo sia occupato in n'cever doni, ma fa che con gravità si difenda la propria dignità e se ne riporti buon nome.3 La filosofia dimostra allo architetto il modo di vivere accostumatamente, perché nella filosofia, che è amore e studio di sapienza, cioè del bene e del vero, è la speculazione delle cose e la regola delle azzioni: l'una e l'altra è necessaria allo architetto. Quanto alla regola delle azzioni, dice Vitruvio che la filosofia è necessaria allo architetto, perché la filosofia va facendo l'architetto d'animo grande, si per abbracciare le grandi imprese, come per non temere le gravi offese. Ma perché pare che la grandezza dello animo apporti il disprezzo altrui et una certa severità et arroganza, però sia lo architetto di grande animo senza arroganza, che è vizio opposto alla verità che oltra il debito attribuisce a sé, sia piacevole si nell'udire e satisfare alle dimande degli imperiti, si nel sopportare i loro difetti.4 Ma perché la facilità di natura e la piacevolezza può piegare alla ingiustizia; però come maestro di proporzione sia egli giusto et eguale ad ognuno e nella egualità sia fedele nel consigliare; non sia avaro nel pigliar doni, né cupido nel desiderargli. Con queste condizioni lo architetto conserverà il grado, resterà onorato, e con sua fatica vivendo accomodato, dopo sé lascierà fama immortale. 5 E però Vitruvio, avendo conosciuto in sé stesso quanto sia l'ornamento delle predette virtù e brutta la macchia degli opposti errori, dimostra in molti luoghi dell'opera sua stimare più la verità che le ricchezze, più la gloria che l'utile, e biasima gli adulatori, arroganti et avari architetti, come dai proemi dei libri 1. Cfr. VITRUVIO, VI, pr., BARBARO, pp. 172 sgg. 2. Cfr. ad esempio VITRUVIO, v11, pr., 2, o VIII, pr., 1 sgg. 3. Cfr. CESARIANO, qui p. 2988. 4. A differenza del CESARIANO, qui p. 3019, che si sofferma soprattutto su-

gli aspetti negativi dell'avarizia, il patriarca di Aquileia preferisce sottolineare gli effetti morali della conoscenza. 5. Gli accenni ad un comportamento civile e sociale dell'architetto concordano con le aspirazioni del PINO, qui II, pp. 1354 sgg.-

DANlELE BAR-BARO

3~73

suoi si può vedere, i quali veramente se fussero uno proemio solo a tutti i volumi si deono leggere inanti e molto bene considerare. 1 La filosofia adunque ci giova alla virtù dei costumi, similmente ci giova quanto alla parte posta nella cognizione del vero, come dice Vitruvio: Appresso la filosofia ci esplica delle cose naturali, che da' Greci i detta physiologia, la quale è necessario che lo architetto con studio maggiore abbia conosciuto, come quella che in sé contenga molte e diverse dimande naturali; come anche si, vede nel condurre le acque, percioché nei corsi, nelle volte e nelle sboccature et uscite nei piani livellati gli spiriti naturali a molti modi si fanno, a i danni e difetti delle quali cose niuno potrà rimediare, se non chi dalla filosofia awà preso i principii dalla natura delle cose. Oltra di questo chi leggerà i volumi di Ctesibio o di Archimede e de gli altri che hanno lasciato ne gli scritti precetti di questa maniera, non anderà nella loro opinione, se prima di cose tali non sarà da filosofi ammaestrato.2

Una parte della filosofia naturale è chiamata istoria naturale e l'altra scienza naturale. L'istoria è simplice narrazione degli effetti di natura. Lo essempio si può dagli scritti di Plinio commodatamente pigliare, percioché egli narra semplicemente tutto quello I. Si rilegga ad esempio VITRUVIO, 111, pr., 3: « Nec tamen est admirandum, si propter ignotitiam artis virtutes obscurantur, sed maxime indignandum cum etiam saepe blandiatur gratia conviviorum a veris iudiciis ad falsam probationem. Ergo, uti Socrati placuit, si ita sensus et sententiae scientiae• que disciplinis auctae perspicuae et perlucidae fuissent, non gratia neque ambitio valeret, sed si qui veris certisque laboribus doctrinarum pervenissent ad scientiam summam, eis ultro opera traderentur, quoniam autem ea non sunt inlustria neque apparentia in aspectu, ut putamus oportuisse, et animadverto potius indoctos quam doctos gratia superare, non esse certandum iudicans cum indoctis ambitione, potius bis praeceptis editis ostendam nostrae scientiae virtutem ••• • (FERRI, p. 93: « E tuttavia non ci sarebbe troppo da meravigliarsi, se per ignoranza i meriti dell'ar• te vengono oscurati; è invece deplorevole se - come spesso è - il facile favor del convito da un giusto ed equanime giudizio tragga per adulazione a lodi ingiuste. Dunque, se come voleva Socrate, i pensieri e le scienze sperimentali fossero visibili e trasparenti, non avrebbero valore né il favore, né rambizione, né la concorrenza; ma a coloro che fossero arrivati a somma scienza con evidenti titoli di lavoro, ad essi sarebbero affidate le opere automaticamente. Ma poiché la scienza non è in luce, né appare alla vista come dovrebbe essere - e poiché vedo che prevalgon nella fama gli ignoranti sui dotti; penso che, non essendo il caso di gareggiare cogli indotti per far valere il proprio merito, io mostri piuttosto in questi libri il valore della nostra scienzia ... »). 2. Cfr. CESARIANO, qui p. 2988. 193

3o74

XIX • VITRUVIANA

che si trova delle cose fatte dalla natura, cominciando dal mondo e dalle sue parti principali, come sono i cieli e gli elementi. Viene poi al particolare delle parti della terra, delle pietre, dei metalli, delle piante, degli animali e de l'uomo, che è fine di tutte le cose. La scienza naturale è cognizione delle cause e dei principii di tutte le predette cose, della quale con ordine e con dottrina mirabile il buon Aristotile ne tratta. 1 Tanto l'istoria quanto la scienza naturale è utile allo architetto; Vitruvio ebbe l'una e l'altra quanto faceva al bisogno, come si vede nel quarto capo del primo libro, dove si tratta dei principii delle cose;2 e nell'ottavo libro e nel secondo prima3 e finalmente per tutta l'opera, dove egli parla degli alberi, delle pietre, delle minere, de gli animali, della voce, dell'udito e del vedere e di molte opere di natura, le cagioni delle quali sono a molti propositi ricercate e specialmente nella materia delle acque, come si vederà nell'ottavo libro. Della musica esser deve intelligente lo architetto, accioché egli conosca la regolata ragione e la matematica et accioché dirittamente caricare e temprare sappia gli instrumenti da pietre o saette dette baliste, catapulte e scorpioni.4

Dimostra Vitruvio che e quanto alla pratica e quanto alla ragione la musica è utile allo architetto per quelle parole: regolata, che nel latino si dice canonica, e matematica. 5 La canonica appartiene alle 1. Cfr. Phys., II, 194b sg. 2. Cfr. BARBARO, p. 41: •Vitruvio comincia a dire della regione, cioè della elezzione de i luoghi sani, percioché gran forza e virtù è posta nella natura dei luoghi e dello acre, come quello che da noi non si puote separare; et il luogo è come padre della generazione, in quanto egli è affetto dalle qualità celesti e però le cose naturalmente si conservano più dove nasceno, che altrove n. 3. Cfr. VITRUVIO, VIII, pr., BARBARO, p. 328: • Replica Vitruvio le cose dette nel secondo libro, al primo capitolo, circa i principii materiali delle cose, ma con diversa intenzione, perché nel secondo egli avea animo di dimostrare gli effetti che vengono dalla mescolanza dei principii nelle cose, come nella calce, nei mattoni, nell'arena, nelle pietre, negli alberi; ma quivi ha intenzione trattare della natura e dell'uso dell'acque n. 4. Cfr. CBSARIANO, qui p. 2988. 5. Diversamente da CESARIANO, qui pp. 302x sg., il Barbaro si interessa particolarmente alla terminologia vitruviana. Sulla speculazio,ie dei numeri sonori cfr. ancora BARBARO, pp. 227 sg.: • Alla musica appartiene e considerare et operare d'intorno a que' numeri che ad altri si riferisceno, aggiuntovi il suono, per il che divideremo la musica principalmente in due parti, delle quali una sarà tutta posta nel giudizio della ragione, e di quella poco ne dice Aristoxeno, come di quella che considera la natura, la differenza e la proprietà d'ogni proporzione e d'ogni consonanza e pone distinzioni tra quelle

DANIELE BARBARO

3o75

orecchie, come la prospettiva agli occhi, et è presa da musici pratichi come fondamento della loro arte usitata; et è quella che misura le altezze e le lunghezze delle voci. L'altezza delle voci da' Greci è detta melos, cioè canto, e la misura del durare e del tenere la voce è chiamata rithmus, cioè numero, che è misura del tempo. Tiene la canonica un'altra parte che è detta metrica, che è arte del misurato componimento e legato alla quantità delle sillabe; onde a differenza del parlar sciolto è detta arte di far versi. Canonica vuol dire regolata o regolatrice, come afferma Boezio; percioché egli non si deve dare tutto il giudicio ai sensi umani, fallaci et alterabili per ogni minima offesa, benché siano principii, cioè occasioni delle arti, e ci facciano avvertiti di molte cose; perb la perfezzione e la forza del conoscere è posta nella ragione, la quale con certe regole registra, dirb cosi, gli instrun1enti musicali. La matematica veramente lascia affatto il senso e s'inalza alla speculazione dei numeri sonori e dei modi e delle idee e maniere delle canzoni e dei mescolamenti possibili dei tempi delle sillabe, e forse più alto salendo la umana e mondana convenienza dei cieli e l'armonia delle anime e dei corpi va considerando. Nel quinto libro ne ragionaremo alquanto, dichiarando quanto si dirà dei vasi detti echei e delle machine che egli chiama hydrauliche 1 dicendo poco di sotto : Que' vasi di rame che nei teatri sotto i gradi nelle celle con matematica ragione si fanno et il resto.

Ma prova prima quanto egli intende delle tempre e carcature de gli instrumenti predetti, e dice: Imperoché nei capitelli dalla destra e dalla sinistra sono i buchi de gli omotoni, per li quali con naspi o molinelli sono tratte le torte fune di nervo, i quali non si serrano o legano se prima non mandano fuori certi et eguali suoni alle orecchie de gli artefici. Percioché le braccia, le quali nel tirare et in quelle carcature si se"ano, quando cose, le quali per la loro sottigliezza non possono essere giudicate dal senso. L'altra, consumandosi nelle operazioni e praticando in diverse maniere, si con la voce come con gli instrumenti e componimenti, diletterà il senso de' mortali affaticato e porgerà gentile ammaestramento della vita (come si vede nella poesia), la quale è una parte di questa musica delle principali. Musica adunque è ragione et essercizio della natura armonica•. 1. Cfr. BARBARO, pp. 243 sgg.

XIX • VITRUVIANA

poi si rilasciano e si stendeno, egualmente deono e parimenti mandar fuori la percossa. Là dove se non saranno di pari tuoni, impediranno il tirare drittamente. 1

Certo è nella musica che la egualità del suono mostra egualità di spazio, e quella proporzione che è tra spazio e spazio, si truova anche tra suono e suono, e però essendo il suono eguale dall'uno e l'altro braccio, seguita che 'l nervo, il quale tirato rende il suono, dentro le braccia sia eguale; dal che nasce la bontà dello instrumento, la giustezza della carcatura e il dritto e certo tiro di quello, come provano gli arcieri et i balestrieri tutto il giorno et a noi sarà manifesto nel decimo libro, a i diciotto capi. 2 Que' vasi anche di rame, che nei teatri sotto i gradi nelle celle con ragione matematica e le differenze dei tuoni, che da' Greci. echea dette sono, si compongono a i dolci. e soavi risvegliamenti musicali a cella per cella in que' giri con quelle consonanze che da' musici. diatesseron, diapente e diapason nominate sono: accioché la voce de i suoni scenici. nelle disposizioni convenienti, quando toccherà l'udito, più chiara e più soave pervenga all' orecchie dei spettatori. 3

Oscuro è Vitruvio per la brevità sua, perché in poche parole vuole esprimere la forza delle cose; ma noi nel quinto libro faremo, quanto per noi si potrà, chiara ogni parola di Vitruvio.4 Le machine hydrauliche et altre che simili a questi organi si fanno, senza ragione di musica non si potranno fare giamai. 5

Hydraulica è una machina che con acqua move gli spiriti a far sanare un organo, della quale ingeniosamente ne tratta Vitruvio nel decimo Iibro.6 I. Cfr. CESARIANO, qui p. 2988. 2. Cfr. BARBARO, p. 476, che cosi commenta il passo di Vitruvio sulle u tempre e carcature delle baliste e delle catapulte": •

',. \ ' •

'

/ .· ..

'

•;~-✓.:

\

I

t·. ·.

I

' -.. /-q;l'

!\ /

-



/

\

i

~>

'

>:1'

·.

·,

L. /-~ J·:- ~ -··_ r. , ·, . ··.

I,

I

•• , ,

.,.

'. .

.,

J

..•

•t ., ~:,'I>,, •

\

V

I

-·~-~-

••

I

I

'

~

i .; -··

i/TI.

_,

• ', ... • . '

~·\ •:~ ·- .·1 ' . . ,. ·1/.· I ·,. I

I

·' i1

-._;

-.

'I: .-· .

; _

~ ~ •:•:;...

' !.- /' I

j



I ·.

\f

/'··i,,:.. .,. \ .. .\ '·: .,

\

,,

~

' • ·'" • I

'

fr ... .'A!i . -l~:l

. ·\ ' j(

.

• ......:..

I

I

I

f

I

t



'

f

'

~_ r i'..

I \~

j, .

'I

.. t

I

:·1 .:'.;:·)~, -~, 1 ~ \

f

I

.. .

·..I

··'· :~·-. ·.1~·~~\: i-•· .,.. , ., i .

~._'., .

f· 1--·r~·-\ .

.. i'/t~·:~•:-·.. },.·. •

j

:

.":..-.- •..:,:;-:--- .

;f /!,'_on:;;_.·.:

: . . .- ·

'l · /

--

. .. ··:-..,,-. -x-r~ . . ----'·' . ..;;',~, .·: ··-, ,,:' . :. -~ t I ._ . ---··- ... ;~ ·-·

1

,,,.

\,

:\ ·=-" "":"' .. . :,

.

·.,

·1

'~,

--:- a.:,!.: ~

.

_.,_~.i

MARTINO BASSI

3103

Sjlo dif[egno ddBat!Jl~rio .rimJt a juello mrjlro

C"f-1, ~ Pe~ino

H

congli in.aitena:TMnti do. lui nou.tl~ /;imente rttoruii rtdDI'° meffi i11

r~-

e d

e

A

]\. Tù1ntt1. B Jntarollunio Ifrt)rrtum.ato D Ptz.{{ di pidrp. ru}r}jljl,·· E Jr':j;,t_àijtrro alli[D/Qr,rzt T d1.1(1.Ua. d(farra da ~Ila à CPlcma G· Fronlifpit,"o à tuttr

ftfauic .

H Piramide .

J[ nma11'nte è per

Jt

ch,·ara.

VI

xx LA CITTÀ

Nel rinnovato interesse per gli aspetti utopici (Firpo) e simbolici (Marconi) della cinquecentesca città ideale, anche le testimonianze più tecniche e specifiche - in questo caso quelle architettoniche ed urbanistiche - postulano una più attenta lettura storica, grazie alla quale sia possibile verificare e caratterizzare il gioco culturale delle fonti nei vari centri italiani e le loro alterne fortune. Ne ha dato prova esemplare Eugenio Garin che, affrontando le ben note riflessioni strutturali e civiche di Leonardo, ha dimostrato come Alberti prima di tutti, e Lucrezio, Machiavelli, Matteo Palmieri ecc. fossero ben presenti ali' artista, ma subordinati ad un abito sperimentale che ha sempre optato per soluzioni particolari e ben definite. In tal modo il Vinci «indifferente sul piano di ogni presa di posizione ideologica, pronto a servire prìncipi e tiranni per realizzare le sue "macchine", nella logica rigorosa delle sue costruzioni fa esplodere contraddizioni e ingiustizie e vuol creare secondo ragione non l'isola Utopia, ma la città dell'uomo, con buone stalle e impianti igienici puliti, con case abitabili e luminose, con edifici pubblici maestosi e chiese solenni. Il resto non lo riguarda». Si trattava comunque di un caso limite: le investigazioni ardite e sottili di Leonardo non erano destinate, soprattutto in campo architettonico, ad avere un seguito; lo testimoniano, tra gli altri, a Milano i vitruviani Cesariano e Martino Bassi (cfr. la nostra sezione xix). In Toscana, intanto, la tradizione dell'Architettura albertiana, confermata dalla versione italiana di Cosimo Bartoli, riusciva ancora a potenziare la generica prassi del testo vitruviano con una sollecitante attenzione alle caratteristiche naturali. In una lettera del 1544 Claudio Tolomei descrive un sogno vitruviano ed albertiano che identifica il sito della sua città ideale nell'amato Argentario, mentre il più scolastico Pietro Cataneo, infaticabile trascrittore di Vitruvio (Parronchi), di Francesco di Giorgio Martini e del Filarete, non dimentica mai la sua Siena e la Maremma. Egli descrive, ad esempio, i requisiti albertiani della ubicazione e suddivisione della città (strade, edifici pubblici e religiosi), ripete persino gli esempi di Leon Battista, ma, grazie all'esperienza dei lavori di fortificazione di Orbetello (1543-1546), insiste sui vantaggi di una ubicazione marina, di cui Venezia appare il prototipo. A tali preferenze (di matrice ancora albertiana) si alleano quietamente esigenze diverse. Quelle simboliche, ad esempio, rela-

3108

XX • LA CITTÀ

tive alle chiese a croce latina, suggerite dal Filarete, o quelle storico-archeologiche, centrate sui monumenti romani, per i quali è fonte preminente la Roma del Palladio. La buona informazione di Cataneo, la sua duttilità nell'accogliere suggerimenti diversi, che ne attutisce le istanze mentali e conoscitive (quelle dell' Al berti, ad esempio) per assumere una più facile e umana comunicazione, erano destinate ad una larga fortuna. Cataneo, pur nei suoi limiti, fu l'unica mediazione delle grandi voci del Quattrocento e poté quindi essere facilmente assimilato anche in aree non toscane, come il Veneto, dove non erano mancati i censori degli eccessi teorici della tradizione vitruviana e albertiana. Ne era stato massimo esponente Alvise Cornaro, i cui scritti - resi noti da Giuseppe Fiocco - costituiscono una delle più singolari testimonianze della letteratura artistica del Cinquecento. Abbiamo qui raffrontate le due redazioni del Trattato di architettura, proprio perché le varianti consentono di seguire più da vicino il profondo travaglio di questo concreto riformatore di terraferma. Nella prima egli si oppone decisamente alle astrazioni di Vitruvio e dell' Alberti, e alle loro regole degli ordini, legate ad una architettura pubblica che non interessa il privato cittadino. Questi ha bisogno di procurarsi fabbriche oneste, partendo da materiali accessibili, e deve quindi conoscere ed usare una terminologia ed una metodologia elementari. Vengono cosi eliminati tutti gli ornamenti superflui (stipiti, aggetti, colonne), i materiali pregiati (cotto e non pietra), e si mira soprattutto ad una soddisfacente funzionalità ottenuta con i mezzi più economici. Nella seconda redazione lo scrittore rimane fedele a tali esigenze fondamentali, ma attenua la contrapposizione censoria nei riguardi di Vitruvio e dell' Alberti, inserisce qualche topos (sulle componenti della bellezza architettonica, ad esempio) e si fa più discor-sivo, pur opponendo ancora alle preoccupazioni formali dell'anti-chità e del Quattrocento la funzionalità dei camini, l'economicità dei soffitti a stoia e, sul piano storico, la semplicità strutturale del Sant' Antonio di Padova e di San Marco. L'invito ad una architettura privata, legata ad una classe media di limitate possibilità finanziarie e vincolata quindi alle condi-zioni di una realtà contingente, rispondeva del resto in quegli anni alla nuova importanza che nella Repubblica Veneta veniva ad assumere il retroterra con i suoi problemi agrari. Questi furono ben

XX • LA CITTÀ

3109

presenti anche al Palladio, il quale tuttavia non volle rinunciare ad alcuna delle possibilità creative, favorite dalla sua conoscenza del mondo antico (si ricordino ancora la sua Roma e soprattutto i disegni della edizione vitruviana di Daniele Barbaro) e di quello rinascimentale (grazie ai numerosi viaggi, ad esempio, a Roma). Nella scansione delle vie egli segue la soluzione compromissoria (tra la speculazione albertiana e la favolosa funzionalità del Filarete) proposta dal Cataneo, mentre per le piazze preferisce rivalutare gli elementi più monumentali (portici, archi di trionfo ecc.), illustrati nel commento a Vitruvio del Barbaro. Anche per l'edilizia privata il Palladio si ripropone il rapporto vitruviano tra la convenienza e la comodità, che però devono realizzarsi in un equilibrio interno, la cui problematica non può esaurirsi nell'elemento economico. Da qui r esigenza classicistica di rinobilitare la casa in senso antropomorfico e organico, la difficoltà cli «accomodarsi» in città «secondo l'occasione dei siti». In questo difficile rapporto tra il caos contingente e l,armonia razionale del progetto architettonico, la eccezionale esperienza palladiana ha ragione di esemplificarsi in proprio, proponendo difficoltà sempre diverse e suscettibili di ulteriori soluzioni. Per questo i disegni che accompagnano le singole descrizioni spesso non corrispondono all'edificio reale, proprio perché non sono dei progetti, ma dei ripensamenti (Zorzi, Barbieri) che rielaborano «Paccidentale e il transeunte nella fissità di paradigmi astratti» (Barbieri). Un gioco così complesso di soluzioni sociali e funzionali non ha riscontro nell'edilizia religiosa, la cui maggiore autorevolezza - legata alla sua destinazione - richiede cure selettive: una ubicazione privilegiata (relativamente alle adiacenze ed al piano di veduta) ed una dignità simbolica e psicologica. Da qui i particolari problemi della visibilità, della forma regolare (preferibilmente rotonda), della cromia, per i quali il Palladio mostra anche nel trattato grande attenzione, prospettando sempre la possibilità di soluzioni diverse, sia pure legate alla grande speculazione albertiana ed alla cultura storica e religiosa cli Daniele Barbaro. Comunque, la casistica potenziale di Palladio, che vivifica le sue convinzioni ed appare continuamente in fieri non solo nel rapporto progetto-fabbrica, ma addirittura in quello più inconsueto fabbrica-trattatistica, non poteva rimanere che un caso individuale. Lo attesta, proprio a Venezia, Vincenzo Scamozzi, che nella sua

3110

XX • LA CITTÀ

Idea della architettura universale ama affrontare i problemi tradizionali al di là di ogni contingenza, in una casistica di varia entità che possa soddisfare ogni quesito. L'autorevolezza di Vitruvio e dell' Al berti, l'ampia informazione e disponibilità del Cataneo gli sono particolarmente utili per fissare i termini essenziali di una immutabile visione enciclopedica, alla quale soccorrono anche le informazioni sui maggiori centri italiani ed europei, raccolte in numerosi viaggi e negli scritti locali. Lo Scamozzi quindi si impegna in una illustrazione schematica che cerca di classificare le esigenze e le soluzioni (le piazze dei vini e dei grani, ad esempio, sono identificate come rispondenti a necessità annuali, mentre le piazze dei frutti e degli erbaggi servono a necessità giornaliere), rivelando solo raramente una più diretta partecipazione; ad esempio, nella lunga illustrazione delle sale d'armi e dell'arsenale, che evidentemente lo sollecitano attraverso i riferimenti veneziani, o nelle censure dei «cortili melanconici» o dei giardini a tappezzeria amati dai Fiorentini. Nonostante tutto ciò, è stato giustamente osservato che «la stessa curiosità che induce lo Scamozzi, unico fra gli architetti italiani del '500, a portarsi nei paesi europei per allargare la propria esperienza artistica, è il limite della sua empiria: la riduzione al classicismo da lui operata nel suo taccuino di schizzi, dal gotico francese o germanico, è l'indice del suo apriorismo, che trae origine da un'operazione intellettuale inversa a quella palladiana» (Tafuri). L'universalismo scamozziano sembra concludere la grande tradizione linguistica e storica della trattatistica architettonica cinquecentesca, i cui parametri non furono neppure sfiorati dalle trattazioni utopiche contemporanee. Piuttosto avvenne talvolta il contrario: quando il Doni sogna una favolosa città stellare con cento porte e cento strade, con le arti distribuite in particolari vie, egli sembra adattare alla propria visione comunista soluzioni suggeritegli soprattutto dal Filarete, mentre il Patrizi e l' Agostini, patrocinando l'uno uno stato oligarchico e Paltro uno stato teocratico, si limitano a trasferire su un piano ideale le proprie particolari esperienze della Repubblica Veneta e dei centri adriatici. Ne consegue la necessità per l'utopia di valersi di linguaggi eterogenei e al tempo stesso dissentire da quelli più accreditati, necessità per cui, nel nostro caso, le affinità si esauriscono nella tendenza ad una razionalizzazione collettiva.

LEONARDO I

Una pietra nova.mente per l'acque scoperta, di bella grandeza, si stava sopra un cierto loco rilevata, dove terminava un dilettevole bosschetto sopra una sassosa strada, in compagnia d' erbette, di vari fiori di diversi colori ornata, e vedea la gran somma delle pietre che nella a·ssé sottoposta strada collocate erano. Le ven(n]e desiderio di là giù lassciarsi. cadere, dicendo con seco: «Che fo io qui con queste erbe? lo voglio con queste mie sorelle in compagnia abitare ». E giù lassatosi cadere, infra le desiderate compagnie fini suo volubile corso. E stata alquanto, cominciò a essere da le rote de' carri, dai piè de' ferrati cavalli e de' viandanti in continuo travaglio; chi la volta, quale la pestava, alcuna volta si levava alcuno pezo, quando stava coperta dal fango o·ssterco di qualche animale, e invano riguardava il loco donde partita s'era, inel loco della soletaria e tranquilla pace. Cosi acade a·cquelli che della vita soletaria e contemplativa vogliano venir a abitare nelle città, infra i popoli pieni d'infiniti mali. 1

I. Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 175v., RICHTER, 11, nr. 1272. La favola è generalmente datata 1494; cfr. L. FIRPO, LeonaTdo aTchitetto e uTbanista, Torino 1963, p. 64, E. GAR.IN, La città in Leo11ardo, Firenze 1971, pp. s sg. 1. Cfr. L. FIRPO, loc. cit.: «Sui mali dell'urbanesimo Leonardo ci ha lasciato un'allegorica favoletta venata di malinconia», e diversamente E. GARIN, loc. cit.: u Direi di più. Innanzitutto, cosa che nessuno finora ha sospettato, si tratta di una imitazione abbastanza fedele, e a volte di un'esatta trascrizione, da Leon Battista Alberti. Delle relazioni fra Leonardo e Alberti molti hanno trattato, e fra gli altri lo Zoubov che nel '60 osservava come la questione fosse ben lungi dall'essere esaurita. Qui Leonardo si rifà ad una deliziosa pagina albertiana intitolata Lapides, dove alcuni giovani sassi si gettano dall'alto della riva di un torrente per raggiungere i compagni e nuotare con loro, e vengono invece sbattuti e travolti ucum luto et limo ... , squalentes, in sordibus immersi" - termini che puntualmente corrispondono al "fango" e allo usterco" di Leonardo. Ma ben più importante la simmetria esatta dei concetti chiave. L'Alberti oppone due modelli di vita: "in antiqua ripa •.. per otium et quietem consenescere in libertate", da un lato; dall'altro "per corruentem amnem .•. agitati, •.• nullam iniquissimorum laborum .•. requiem" .•. Il riferimento al modello ricolloca il testo di Leonardo in una discussione assai ampia, di cui la polemica sull'urbanesimo è solo un aspetto».

3112

XX • LA CITTÀ

II

Dammi alturità, ché, sanza tua spesa, si farà tutte le terre obbediscano ai lor capi. La prima fama si fa etterna, insieme colli abitatori della città da lui edificata o acressciuta. Tutti i popoli obbedisscano e so' mossi da' lor magnati, e essi magnati si collegano e costringano co' signori per due vie: o per sanguinità, o per roba sanguinata; sanguinità, quando i loro figlioli sono, a·ssimilitudine di statichi, 1 sicurtà e pegno della lor dubitata fede; roba, quando tu·ffarai a ciasscun d'essi murare una casa o due dentro alla tua città, della quale lui ne traga qualch' entrata. E trarra' di dieci città cinquemila case con trentamila abitazioni, e disgregp.erai tanta congregazione di popolo, che a·ssimilitudine di II. Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 65v., RICHTER, n, nr. 1203. Note per una lettera a Ludovico il Moro, databili 1497; cfr. L. FIRPO, op. cit., p. 66: cr Per far sì che le più facoltose famiglie del ducato erigano in Milano un palazzo tale da costituire, oltre che un abbellimento della metropoli, anche un ostaggio patrimoniale nelle mani del Duca, Leonardo pensa ad un grandioso piano coattivo, le cui componenti urbanistiche - per il poco che trapela dalla minuta di lettera a Ludovico il Moro che ce l'ha conservato - si riducono alla ricerca della "bellezza" o signorile decoro e alla particolare cura per una ricca rete di canali d'acque vive destinata a permeare il tessuto urbano. Ecco il testo degli appunti per il memoriale, dal quale balena, in tema specificatamente politico, un lampo di durezza machiavellica•, E. GARIN, op. cit., pp. 16 sg.: « Insistere sul machiavellismo di questo testo è d'obbligo: lo fece con energia Corrado Maltese che arrivò a dire che "l'accentuato carattere realistico e pratico della proposta stessa (indurre i magnati a investire capitali in case d'abitazione a Milano per tenerli legati al potere centrale) sembra inconcepibile senza l'influenza delle idee del Machiavelli, del cui stile sembra persino di sentire l'eco nella formulazione della proposta", nonostante la ferrea necessità cronologica che lo esclude. Più cauto, ma non meno deciso Luigi Firpo ... Io credo che tutto il discorso sul rapporto Leonardo-Machiavelli, che è un vecchio discorso, vada ripreso. Per quello che qui importa, la durezza e la freddezza di Leonardo sono quelle a lui consuete; di una razionalità inesorabile - ragioni di cose, ragioni che legano la realtà, logica di un processo: necessità di certi mezzi per giungere a certi fini. Leonardo ingegnere, Leonardo architetto, Leonardo scienziato, è sempre l'uomo che insegue il nesso ferreo delle cose: il macrocosmo uguale al microcosmo significa anche che il microcosmo si risolve nel macrocosmo - il risvolto della umanizzazione del mondo, se non si vuol finire in retorica, è In naturalizzazione dell'uomo - il riconoscimento dovunque di leggi, strutture, ragioni universali obbiettive. Qui, ma solo qui, Leonardo e Machiavelli si incontrano: non utopia, ma scienza». 1. Cioè ostaggi.

LEONARDO

3113

capre l'uno addosso all'altro stanno, empiendo ogni parte di fetore: si fanno semenza di pestilente morte.• E la città si fa di bellezza compagna del suo nome, e a·tte utile di dazi e·ffama eterna del suo accresscimento. Quel forestiero che arà la casa in Milano, spesse volte accaderà che, per istare in più magno loco, esso si farà abitatore della sua casa; e chi mura ha pur qualche ricchezza; e con questo modo la poveraglia sarà disunita da simili abitatori; e se essi, e' dazi cresceranno e la fama della magnitudine; e se pure lui in Milano abitare non vorrà, esso sarà fedele, per non perdere il frutto della sua casa insieme col suo capitale. I fondi dell'acque, che sono dirieto alli orti, sieno alti come il piano delli orti e colle spine passino dare l'acque ogni sera alli orti, ogni volta che s'ingorga, alzando l'incastri uno mezzo braccio; e a questo sien tenuti li anziani. E niente sia gittato ne' canali, e che ogni barca sia tenuta a portare fuori tanto loto del Navilio, e po' gittato all'argine.2 Fa da seccare il Navilio e nettare i canali. La comunità di Lodi farà la spesa e trarrà il premio ch'una volta l'anno dà al duca.3 lii

Le strade M sono più alte che· Ile strade P S bracci sei, e ciascuna strada de' essere larga bracci venti e avere mezzo braccio di calo dalle stremità al mezo, e in esso mezo vi sia, a ogni braccio, uno braccio di fessura largo uno dito, dove l'acqua che piove deba scolare nelle cave fatte al medesimo piano di P S; e da ogni stremità della larg[h]eza di detta strada sia uno portico di larg[h]eza di bracci sei in su le colonne; e·ssapi che chi volessi andare per tucta la tera 1. Cfr. E. GARIN, op. cit., p. 7: e Il bisogno di isolamento e di distacco si traduce, nella progettazione della città, in larghezza di piazze e di strade, in fiumi e canali, in una disponibilità di spazio che consenta la lontananza•· 2. L. FlRPO, op. cit., p. 67 nota 3, com.menta: «Un appunto di poco anteriore (cod. Forster III 23 v.), accanto ad una pianta di edificio sommaria e sbiadita, ricorda: ceche ne' canali niente si gitti e vadino essi canali direto alle case"•· 3. La spesa della manutenzione implica l'esenzione dal tributo annuo (cfr. L. F1nro, op. cit., p. 67 nota 4). - Ili. Institut de France, B, ff. 16r., I 5v., R1CHTER, n, nrr. 741, 742. Il foglio è stato datato, come l'intero codice, 1487-1490; cfr. C. PEDRE1TI, A Chronology o/ Leonardo da Vinci,, Architectural Studiu afte, :1500, Genève 1962., p. 175, E. GARlN, op. cit., p. 13.

3114

XX • LA CITTÀ

per le strade alte, potrà a·ssuo anconcio usarle, e chi volessi andare per le basse, ancora il simile; per le strade alte no de' andare cari né altre simile cose, anzi sia solamente per li gentili òmini; per le basse deono andare i cari o altre some a l'uso e comodità del popolo.1 L'una casa de' volgere le schiene a l'altra, lassciando la strada da basso in mezo, e da li usci N si mettino le vettovaglie, come legnie, 1. Cfr. L. FIRPO, op. cit., pp. 78 sgg.: « ••• l'idea più originale di Leonardo è quella della selezione del traffico in sedi distinte su duplice piano: qui la lettura malcerta dei disegni ha dato luogo a qualche equivoco, perché s'è parlato addirittura d'una città a tre piani, quasi che sotto le strade "basse" corresse una terza rete di canali e questi serbassero le funzioni di vie d'acqua per il trasporto delle merci, costringendo i plebei a faticare in umidi cunicoli, tra miasmi di fogna, in un'oscurità appena rotta dal lume degli spiragli aperti nelle volte. S'è detto perciò che Leonardo non si proponeva di risolvere problemi, al tempo suo inesistenti, di smistamento delle correnti di traffico e di snellimento della circolazione, e mirava invece alla discriminazione gerarchica dei ceti, mosso dalla sua repulsione di sensitivo verso la promiscuità e da una ricerca di isolamento e di aristocratico decoro. Incapace di assurgere ad una vera considerazione etica dell'eguale dignità dell'uomo, schiavo di convenzioni sociali correnti, Leonardo avrebbe concepito un progetto freddo e disumano, una città a compartimenti stagni artificiosi ... Dissolta l'immagine fosca degli infelici condannati a faticare sotto terra, il piano delle strade "basse" non serba nulla di umiliante o di malsano: è semplicemente il piano dei servizi, dei trasporti, del lavoro, che si differenzia dal piano del passeggio, dello svago, del culto, della conversazione. Non è neppur detto che una parte del popolo debba abitare ai piani bassi: la gerarchia rimane, ma è gerarchia di operazioni, non di caste, e la discriminazione, svuotata di ogni pretesa aristocratica, riprende il suo genuino significato funzionale. Resta tuttavia il fatto che quella che Leonardo concepisce è una città signorile, una giustapposizione di palazzi nobiliari destinati a far corona ad una reggia principesca, o almeno un'accolta di residenze d'una borghesia agiata, senza rilevanti sperequazioni censuarie, forse interessata ad una rete di trasporti capillare ed efficiente, che ne agevoli l'attività mercantile, ma che aspira soprattutto alla quiete, all'agio, al decoro di una forma superiore di convivenza umana», E. GARJN, op. cit., pp. I s sg.: • A parte l'articolazione su due piani, la città di Leonardo non ha nulla di eccezionale o avveniristico, nulla di utopistico. È solo un tentativo di soluzione razionale di problemi di precisa ristrutturazione il "murare" di cui tanto si parlava nella Firenze di Cosimo - quali si vennero proponendo in molte città italiane fra il secolo XV e il XVI. Né gran costrutto sembrano avere le discussioni, che non sono mancate, sulla separazione di classe fra i due piani, e sulla collocazione al piano basso della plebe che lavora e al piano alto dei gentiluonùni. Si è cercato di scagionare Leonardo, sostenendosi che il piano basso non ha nulla di umiliante ..• In verità Leonardo è molto categorico: il piano alto, prescrive "sia solamente per li gentili òmini". Funzionale, sia pure, la distinzione, ma le funzioni sono distribuite per casta. Giustamente Maltese sottolineò il clima lombardo ancora feudale, e la situazione storica diversa da quella toscana .•. ».

LEONARDO

3115

vino e simili cose. Per le vie socterane si de' votare destri, stalle c·ssimile cose fetide. Dall'uno arco all'altro de' essere bracci trecento, cioè ciascuna via che riceve il lume dalle fessure delle strade di sopra; e a ogni arco de' essere una scala a lumaca tonda, perché ne' canton dc le quadre si pis[ c]ia, e larga; e nella prima volta sia un uscio eh' entri in destri e pisc[i]atoi comuni; e per detta scala si di-

scenda dalla strada alta alla bassa; e le strade alte si comincino fori delle porte e, giunte a esse porte, abbino composte l'alteza di bracci sei. Sia facta decta tera o presso a mare o altro fiume grosso, a ciò che le bructu re della città, menate dall'acqua, sieno portate via. 1 IV

Tanto sia larga la strada, quanto è la universale alteza delle case. 2 I. Sul valore purificatore dell'acqua cfr. pp. 3 IIJ, 3 u6 sgg. e le note relative. - IV. lnstitut dc France, Il, f. 36r., RICHTER, 11, nr. 746. La didascalia si riferisce ad un disegno di un palazzo signorile, che si affaccia sulla via con portici e che, nello spaccato del fianco, mostra anche vie sotterranee. 2. Cfr. le osservazioni più attente all'urbanistica di ALBERTI, Architettura, I, pp. 304 sgg.: ,, Cum ad urbem applicuerit, si crit civitas clara et praepotens, vias habere directas amplissimas condecet, quae ad dignitatem maiestatemquc urbis faciant ... Etenim et quanti erit hoc, ... ut cuiusque

3116

XX • LA CITTÀ

V

Vuolsi tòrre fiume che corra, a ciò che non corompessi l'aria alla città; e ancora sarà comodità di lavare spesso la città, quando si leverà il sostegno sotto a detta città, e con rastrelli e recisi removerà il fango in quelle moltiplicato, che si mischierà co l'acqua, facendo quella torbida. E questo si vorre' fare ogni anno una volta. Sia il piano delle cànove più alto che la superfizie dell'acqua de' canali braccia 3, e pendino inverso i canali, aciò, se qualche inondazione venissi, che l'acqua si parta insieme co l'altra e lassi le cànove nette. 1 VI

Sempre uno edifizio vole essere ispicato dintorno a volere dimostrare la sua vera forma. 2 domus egressio et prospectus ex media viae ipsius amplitudine dirigatur; ut, cum alibi nimia laxitas indecora sit et etiam insalubris, hic ipsa quoque vastitas conducat » (ORLANDI, ivi: «Quando si giunge in una città, se questa è famosa e potente esigerà strade diritte e molto ampie, confacenti al suo decoro e alla sua dignità ... È infatti cosa di non poco conto ... che l'ingresso e la facciata d'ogni abitazione si affaccino direttamente in mezzo alla strada; e che la stessa ampiezza sia qui giovevole, mentre altrove un eccessivo allargamento riesce spiacevole e malsano»). - V. Institut de France, B, f. 38r. Cfr. L. FIRPO, op. cit., pp. 68 sgg.: u Il "sostegno" o chiusa a valle, cui il testo accenna, deve consentire il rapido spurgo di tutti i canali, evitando ristagni malsani e permettendo l'asportazione dei depositi melmosi e dei rifiuti, preventivamente staccati dal fondo con "rastrelli 0 e rami "recisi". Questo igienico lavacro può essere reso più energico aprendo la "conca" prevista a monte della città, con duplice funzione di bacino di regolazione del livello e di riserva per l'immissione subitanea di masse d'acqua impetuose e purificatrici». 1. A proposito del valore vitale delle acque in Leonardo cfr. E. GARIN, op. cit., pp. 10 sg. - VI. Institut de France, B, f. 39v., RICHTER, Il, nr. 753. 2. Cfr. E. GARIN, op. cit., p. 7: u Della larghezza delle strade e delle piazze, dell'ampiezza degli interni, delle sale e delle scalinate, della necessità di far spiccare gli edifici e di dar loro quasi respiro, v'è traccia ricorrente». Di fronte alla esigenza visiva di Leonardo cfr. le diverse considerazioni di ALBBRTJ, Arcl,itettm·a, 1, pp. 356 sg.: u Larem quidem familiarem habebit quisque similcm buie, cui sese pro vitae instituto esse velit similem, aut regi aut tyranno aut demum privato. Sunt tamen aliqua, quae buie hominum generi apprime debeantur. Praeclare Virgilius: secreta - inquit - erat patris Anchisae domus, arboribusque obtecta recesserat. lntellexit quidem primatum aedes et sui et familiae gratia a vulgi ignobi1itate et fabrorum tumultu longe abesse convenire» (ORLANDI, ivi: •L'abitazione della famiglia dovrà essere confacente al tipo di vita che il padrone intende condurre: da re, da tiranno o da

LEONARDO

3117

VII

Cosi deono stare li 8 tiburi del tempio visino. Qui non si pb né·ssi debe fare campanile, anzi debe stare separato, come ha il domo e·sS. Giovanni di Firenze, e cosl il domo di Pisa, che mostra il campanile per sé, dispiccato in circo, e cosi il domo, e ognuno per sé pb mostrare la sua perfectione. 1 E chi lo volesse pure fare co la chiesa, faccia la lanterna scusare campanile, come è la chiesa di Chiaravalle. VIII

A nessuna chiesa sta bene veder e' tetti, anzi sia rapianato; e per canali l'acqua dissienda ai condotti fatti nel fregio. 2 IX

Per dodici gradi di scala al magno tempio si saliva, il quale ottocento braccia circundava e con octangular figura era fabricato; e sopra li otto anguli otto gran base si posavan, alte un braccio e mezo e grosse e·llunghe 6 nel suo sodo, coll'angolo in mezo, sopra delle quali si fondava 8 gran pilastri, sopra del sodo della basa si levavano per ispazio di 24 braccia; e nel suo termine erano stabiliti 8 capitelli di 3 braccia l'uno, e largo 6; sopra di questi seguiva architrave, fregio e cornice, con alteza di 4 braccia e ½, il quale per retta linia dall'un pilastro all'altro s'astendea; e cosi con circuito privato. Vi sono in particolare talune caratteristiche proprie anzitutto di quest'ultima categoria. Ottimamente narra Virgilio che la casa del padre Anchise era in luogo appartato e circondata da alberi: evidentemente si rendeva ben conto che le abitazioni dei maggiorenti per rispetto verso essi medesimi e verso i loro familiari dovevano tenersi ben discoste dal popolino ignobile e dal confuso brusio degli artigiani»). - VII. Ms. Ashburnham 2037 1 f. 5v., RICHTER, I, nr. 754, L. FIRPO, op. cit., p. 42. Le notazioni si riferiscono a un disegno di un grande tempio circolare. 1. Anche per i templi Leonardo preferisce corpi di fabbrica staccati. VIII. Institut de France, B, f. 18v., RICHTER, I, nr. 755. La notazione (relativa ad una complessa chiesa a pianta centrale) risolve subito l'esigenza estetica in modo funzionale. 2. Cfr. E. GARIN, op. cit., p. 8: «A parte il ricordo di una analoga prescrizione dell' Alberti, a parte ogni più sottile analisi dei moduli geometrici ricorrenti nei molti disegni di queste strutture, domina costante in Leonardo il senso del grande spazio ». IX. Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 285r., RICHTBR, I, nr. 759. Descri-

3118

XX · LA CITTÀ

d'ottocento braccia il tempio circundava infra l'un pilastro e l'altro. Per sostentaculo di tal membro era stabilito dieci gran colone dell'alteza de' pilastri e con grossezza di 3 braccia sopra le base, le quali eran alte un braccio e ½Salivasi a·cquesto tempio per 12 gradi di·sscale, il quale tempio era sopra il dodecimo grado fondato in figura ottangulare; e sopra ciascun angulo nasceva un gran pilastro, e infra·lli pilastri era inframeso dieci colonne colla medesima alteza de' pilastri, i quali si levavan sopra del pavimento 28 braccia e ½; sopra di questa medesima alteza si posava architrave, fregio e cornice, che con lung[h]eza d'ottocento braccia cingea il tempio, a una medesima alteza circuiva. Dentro a tal circuito, sopra il medesimo piano, inverso il centro del tempio, per ispazio di 24 braccia, nascea le conrispondenzie delli 8 pilastri delli angoli e delle colonne poste nelle prime facce, e si levavano alla medesima alteza sopra detta; e sopra tal pilastri li architravi perpetui ritornavano sopra li primi detti pilastri e colonne. 1 X

La corte de' avere le pariete per l'alteza la metà della sua larg[h]eza: cioè, se la corte sarà braccia 40, la casa deve essere alta 20 nelle pariete di tal corte; e tal corte voi essere larga la metà di tutta la facciata. 2

zione di un antico tempio a Civitavecchia, databile 1514. 1. Cfr. E. GAop. cit., pp. 8 sg.: «È un testo celebre del Codice Atlantico ..• di cui si è molto discusso; Richter osservò che nessuna mole di cosi enormi dimensioni si trova in Italia o in Grecia. E cosi se ne è cercato il modello in Oriente, in India, per concludere, alla fine, con l'ipotesi di una rovina presso Civitavecchia. Qui importa non il modello, se pur vi fu, ma il concetto su cui Leonardo insiste nella doppia descrizione. Non meno impressionanti i disegni del Manoscritto B ... dei "teatri per uldire messa" e del "teatro da predicare" ... Converrà probabilmente orientarsi ..• cominciando col tenere ben presente l'indizio offerto proprio da quel termine teatro che Leonardo ripete più volte, non dimenticando Vitruvio e le variazioni vitruviane del Cinquecento, per puntare appunto sul motivo del "teatro del mondo" e sulla corrispondenza, anch'essa sottolineata da Leonardo, uomo-mondo, microcosmo-macrocosmo». - X. Windsor, Royal Library, nr. 12585v., RICHTER, I, nr. 760, databile 1489; cfr. L. F1RP0, op. cit., p. 76. 2. Per simili problemi proporzionali cfr. pp. 3143 sg. RIN,

LEONARDO

XI PER FARE UNA POLITA STALLA

Modo come si de' componere una isstalla. Dividerai in prima la sua larg[h]eza in parte 3, e la sua lung[h]eza è libera; e le 3 dette divisioni sieno equali e di larg[h]eza di braccia 6 per ciascuna e alte I o; e la parte di mezzo sia in uso de' maestri di stalla, le 2 dacanto per i cavagli, de' quali ciascuno ne de' pigliare per larghezza braccia 3 e lunghezza braccia 6, e alte più dinanzi che dirieto ½ braccio. La mangiatoia si' alta da terra braccia 2; il principio de la rastelliera braccia 3, e l'ultimo braccia 4. Ora, a volere attenere quello ch'io prometto, cioè di fare detto sito, contro allo universale uso, pulito e necto, in quanto al disopra della stalla, cioè dove sta il feno, debe detto loco avere ne la sua testa di fori una finestra alta 6 e larga 6, donde con un facil modo si conduca il feno su detto solaro, come apare nello strumento E; e·ssia colocata inn·un sito di larg[h]ezza di braccia 6 e lungo quanto la stalla, come apare in K p. L'altre 2 parti che mettano i' mezzo questa, ciascuna si' divisa in 2 parti: le dua di verso il feno siano braccia 4, p s, solo allo ofizio e andamento de' ministri d'essa stalla; l'altre 2, che confinano con le pariete murali, siano di braccia 2, come apare in s R; e·cqueste sieno allo ofi.zio di dare il feno alle mangiatore per condotti strecti nel principio e larghi su le mangiatore; e aciò ch'el fieno no' si fermi infra via, sieno bene intonicati e politi, figurati dov'è segnato 4/ s. In quanto al dare bere, siano le mangiatore di pietra, sopra le quali sia Passi, che si possino scoprire le mangiatore come si scoprono le casse, alzando i coperchi loro.1 XI. lnstitut de Frnnce, B, ff. 38v.-39r., RICHTER, 1, nr. 761, databile 1490

circa; cfr. L. F1RPO, op. cit., p. 90. 1. Sulla genesi della stalla leonardesca cfr. L. FIRPO, op. cit., pp. 88 sgg.: «Nessuna incertezza, grazie al copioso corredo di appunti e schizzi variamente elaborati, sussiste invece per quanto riguarda il più famoso di questi progetti leonardeschi: quello relativo alla stalla modello. Una prima notazione sembra rappresentata dallo spaccato delineato sommariamente nel cod. Trivulziano 27 v., che mostra un ampio cunicolo sotterraneo per gli spurghi e una sorta di bassa galleria che corre sopra le rastrelliere. Nella carta 21 v. dello stesso codice il progetto appare ormai delineato in tutti i particolari: si noti il pavimento delle due corsie, che s'inclina verso il passaggio mediano per assicurare lo scolo del liquame nella condotta sotterranea, e la precisata funzione delle gallerie ai fini dell'alimentazione dall'alto delle mangiatoie. Il disegno più minuzioso, sulla destra del foglio, mostra chiaramente l'intercapedine a sezione crescente praticata nelle pareti esterne per la discesa del foraggio,

3120

XX · LA CITTÀ

.

T'"



*-· ...- ~ ~ .-. --=,:-. ~ --:

- - - - "'=" .

\

./

.\._

.

' ''

/ ,/

.....,..,...

I

. - -----J

-- -.

· .,....·

--

--

XII

Il palazo del principe de' avere dinanti una piazza. 1 Le abitazioni dove s'abbia a·bballare o·ffarc diversi salti o van movimenti con moltitudine di gente, sieno terrene, perché già n'ho vedute ruinare, colla morte di molti. che vien trattenuto in basso dalle rastrelliere delle mangiatoie, sotto alle quali scorre un canaletto per l'abbeverata. Nell'alto del foglio sono disegnati dei cardini a scivolo per la chiusura automatica degli usci ... Un'ulteriore elaborazione grafica dello stesso progetto, accompagnata da schizzi sussidiari e da un'ampia didascalia, si incontra - sempre in data prossima al 1490 - nel codice B (38 v.-39 r.). La veduta d 'insieme (39 r.) mostra un'elegante struttura a tre corsie alzata su esili colonne ed archi a pieno tondo; il canale sotterraneo appare sostituito da due cunicoli minori; la zona centrale del piano superiore accoglie il deposito dei foraggi, mentre gli abbeveratoi di pietra, collegati con un pozzo esterno, accennato sulla destra, risultano coperti da un tavolone ribaltabile, che consente di far bere i cavalli solo a tempo opportuno». - XII. Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 76v., R1c1-ITER, 1, nr. 748, databile 1517-1518; cfr. L. FIRPO, op. cit., p. 120, C. PEDRETTI, Tlze Royal Palace at Romormztin, Cambridge Mass. 1972, pp. 79 sgg. La didascalia si accompagna a progetti di un castello reale ad Amboise; cfr. L. FIRP0, op. cit., p. 120: ,1Lo stesso castello [del f. 294v. del Codice Atlantico], cinto da canali, con vasta piscina per naumachie, cortile d'onore porticato e fabbricati annessi per stalle e servizi appare [qui] illustrato con copia di particolari ». 1. L. Fmro, op. cit., p. 120, ricorda 11 l'asserto che Leonardo stesso aveva notato in margine a un esemplare del Trattato di architettura di Francesco di Giorgio: "I palazzi dei signori ovvero principi devono innanzi avere un'ampia piazza, intorno libera ed espedita" ».

LEONARDO

3121

E·ssopra tucto fa che ogni muro, per sottile che sia, abbia fondamenta in terra o·ssopra archi ben fondati. Siano li mezanelli delli abitacoli divisi da muri fatti di stretti mattoni e sanza legnami per rispetto del fuoco. Tutti li necessari abbino esalazione per le grosseze de' muri, e in modo che·sspirino per li tecti. Li mezanelli sieno in volta, le quali saran tanto più forti, quanto e' saran minori. · Le catene di quercie sien rinchiuse per li muri, acciò non sien offese dal foco. Le·sstanze d'andare a' destri sieno molte, che entrino l'una nell'altra, acciò che il fetore non isspiri per le abitazioni; e·ttutti li loro ussci si serrino colli contrappesi. 1 La massima divisione della fronte di questo palazzo è in due parti, cioè che la larghezza della corte sia la metà di tutta la predetta fronte. [disegno della pianta e dintorni del palazzo, con a,znotazioni] Cocine - Dispense - Stalla in terreno larga braccia 80 e lunga braccia 120 - Giostre colle nave, cioè li giostranti stieno sopra le nave - Fosse braccia 40 - Strada da basso - In A angolo stia la guardia della stalla. XIII

La sala della festa vole avere la sua collezione in modo che prima passi dinanti al signore e poi a' convitati. E sia il camino in modo che esso possa venire in sala, in modo non passi dinanzi al popolo più che l'omo si voglia, e sia dall'opposita parte situata a riscontro 1. Cfr. ALBERTI, Arcliitettr'1a, 1, pp. 430 sg.: « Hoc praetereundum non censeo. Nam quid hoc mali est? In agro sterquilinia ponimus loco abdito atque excluso, nequid familiam rusticam offendat fetoribus; sub tectis vero et prope sub pulvinari cellis primariis, quibus alioquin integras captamus quietes, latrinas habere privatas, hoc est, apothecas pestilentissimi fetoris volumus » (ORLANDI, ivi: « Né mi par giusto trascurar di biasimare una grossa sciocchezza. In campagna abbiamo cura di sistemare i letamai in luoghi separati e nascosti, affinché la famiglia del fattore non sia appestata dal puzzo; e poi proprio alrinterno di casa nostra, fin quasi sotto il letto nelle stanze principali ove siamo soliti riposarci, apprestiamo latrine private, ricettacolo di esalazioni dannosissime»). - XIII. Ambrosiana, Codice Atlantico, f. 214r., R1CHTER, 11, nr. 748 A, databile 1506-1507 in relazione alla villa di Carlo d'Amboise a Milano; cfr. C. PEDRBTTI, op. cit., p. 51. 196

3122

XX • LA CITTÀ

al signore la entrata della sala, e le scale commode in modo che sieno amplie, in modo che le genti per quelle non abbiano, urtando gl'immascherati, a guastare le loro [f]oggie quando uscissi[...] la turba d'omini, né con tali immasche[rati ...] vole tale sala avere due camere per testa, suoi destri doppi [...] di questi un uscio le tiene e uno per li ma[scher]ati. 1 XIV

Mutazione di case. Le case sieno trasmutate e messe per ordine; e·cquesto con facilità si farà, perché tali case son prima fatte di pezzi sopra le piazze eppoi si commettano insieme colli lor legnami nel sito dove si debbono stabilire.2 Facciasi fonti in ciascuna piazza. Li omini del paese abitino le nuove case in parte, quando no v'è la corte. El fiume di mezzo non riceva acqua torbida, ma tale acqua vada per li fossi di fori della terra, con 4 molina nell'entrata e 4 nella uscita; e questo si farà col ringorgare l'acqua di sopra a Romolontino.3 L'acqua sia ringorgata sopra il termine di Romolontino in tanta altezza, eh' elle faccino poi nel suo discenso molte molina. II fiume di Villafranca sia condotto a Romolontino.4 El simile sia fatto del suo popolo; e li legnami che compongano le lor case, sien per barche condotte a Romolontino; el fiume sia ringorgato in tanta altezza che l'acqua si possa con comodo discenso riducere a Romolontino. Anche per le scale della sala delle feste Leonardo si preoccupa della loro particolare (unzionalità. - XIV. British Museum, nr. 270b, R1CHTER, u, nr. 744, databile 1517-1518 in relazione con i progetti per il palazzo reale di Romorantin; cfr. C. PEDRETTI, op. cit., pp. 91 sgg. 2. Cfr. L. FIRPO, op. cit., pp. 124 sg.: « Coloro che si sono estasiati di fronte all'anticipazione leonardesca delle case prefabbricate e smontabili sembrano non aver inteso che egli intendeva trasportare delle case già esistenti e affatto comuni, e che l'impresa era senz'altro possibile, visto che le abitazioni popolari erano allora costruite in gran parte di legno, cioè con un materiale naturalmente smontabile e ricuperabile in larga parte"· 3. Per le stesse preoccupazioni cfr. pp. 3113 1 3115 sg. 4. Cfr. L. FIRPO, op. cit., p. 124; Leonardo intendeva trasferire a Romorantin le case di Villefranche e il suo stesso fiume, cioè lo Cher. 1.

CLAUDIO TOLOMEI LETTERA A M. GABRIEL CESANO 1

Aspettavamo tutti quanti che veniste in Roma insieme con l'Illustrissimo Cardinal vostro,2 e 'l disegno (come si dice) non c'è riuscito. Avete fatto molto bene, percioché in questa stagione e in questa forma di venire, non era il fatto vostro a muovervi. Noi abbiamo oggimai più bisogno d'agio che di travaglio: µ.~&' òyt&Cl)t.; Ti}c.; nepl a6°>µ.' dµ.éÀtt~v lx_eLv x_p~, come disse quel valente uomo. 3 Sempremai ch'io odo questi volontorosi d'andar girando per il mondo, mi ricordo di quel terzetto de l'Ariosto, quando disse: Chi 'Vuole andare attorno, attorno vada, 'lJegga Inghilterra, Ongaria, Francia e Spagna, a me piace abitar la mia contrada.•

Ma poi ch'io non ho potuto godervi presente, né ragionar con voi di molte cose ch'io avevo disegnato, voglio almen ristorar questo danno col guadagno di scrivervi talvolta e costringermi, o per amore o per importunità, o per fuggir ozio, a rispondervi. Cosi ora vi mando con questa quel ragionamento fatto sopra il monte Argentaro, di cui io per una altra mia letteruzza v'avvisai. 5 Non vi s~a grave leggerlo e riscrivermi quel che ve ne pare: ché ben sapete quanto io mi fidi e de l'amor vostro e del giudizio, de' quali l'un m'assicura che vorrete, e l'altro che saprete avvertirmi e correggermi. Vi dico dunque come tutti coloro che vogliono edificare nuove città, intra le prime cose debbeno avere avvertenza a la buona elezzion del sito, perché da questo nascono spesse volte le felicità e l'infelicità de le città edificate ;6 e però i Calcedonesi furono da l'oracolo stimati ciechi, perché potendo pigliar per lor sito il luogo dove ora è Da Delle lettere di M. CLAUDIO TOLOMEI libri sette, Venezia, Giolito de' Ferrari, 1547, ff. 151-7. 1. Allo stesso destinatario il TOLOMEI, op. cit., invia varie lettere e di argomento diverso (ad esempio sulle male lingue). 2. Cioè il cardinale di Ferrara. 3. Nella «Tavola d'alcune cose greche che sono sparse per il libro» l'autore dà la traduzione e la fonte: «È male non aver cura della sanità del corpo suo. È un verso cli Pitagora». Cfr. PSEUDO-PITAGORA, Carmina Aurea, 32: µ'1}&1 uy1.d11ç njç mpl altro libro indrizzato.4 E perché commoda si deverà dire quella casa, la quale sarà conveniente alla qualità di chi l'averà ad abitare, e le sue parti corrisponderanno al tutto e fra sé stesse, 5 però doverà l'architetto sopra 'I tutto avertire che (come dice Vitruvio nel primo e sesto libro )6 a, gentiluomini grandi e massimamente di republica si richiederanno case con loggie e sale spaziose et ornate, acciò che in I. Sui precedenti bresciani di questa citazione elogiativa cfr. L. PuPPI, Andrea Palladio, Milano s. d., II, p. 348. 2. Cfr. DE Fusco, pp. 610 sgg.: cr Palladio non intende dimostrare come ristrutturare un complesso urbanistico, ma illustrare un singolo, eccezionale edificio in un contesto preceduto da capitoli sulle piazze dei Greci e dei Romani e sulle basiliche antiche. Ma oltre le esigenze del trattato, il significato della fabbrica vicentina va individuato nella sua logica interna, nelle relazioni fra le sue parti ..• Nel caso della Basilica non ci troviamo evidentemente in presenza di un sistema urbanistico, ma, coerentemente all'intera poetica palladiana, di un sistema architettonico». 3. Cioè nel primo. 4. Cfr. PALLADIO, I, pp. 5267. 5. Cfr. CATANEO, qui pp. 3214 sgg. 6. Cfr. VITRUVIO, I, vu, I sgg., VI, III, I sgg., e BARBARO, pp. 279 sgg.: cr Molto ragionevolmente Vitruvio ha voluto replicare nel sesto libro quelle cose che nel primo ha voluto per introduzione della architettura proporre; perché l'architetto aver deve le istesse idee nell'ordinare gli edificii privati che egli ha nelle cose publiche e molto bene avvertire alla disposizione, al decoro, alla bellezza, alla distribuzione, al compartimento».

ANDREA PALLADIO

32 43

tai luoghi si possano trattenere con piacere quelli che aspettaranno il padrone per salutarlo o pregarlo di qualche aiuto e favore. Et a' gentiluomini minori si converranno anco fabriche minori, di minore spesa e di manco adornamenti. A' causidici et avocati si doverà medesimamente fabricare, che nelle lor case vi siano luoghi belli da passeggiare et adorni, accioché i clienti vi dimorino senza loro noia. Le case de' mercatanti averanno i luoghi, ove si ripon .. gano le mercantie, rivolti a settentrione et in maniera disposti che i padroni non abbiano a temere dei ladri. 1 Si serberà anco il decoro quanto ali' opera, se le parti risponde.. ranno al tutto, onde ne gli edificii grandi vi siano membri grandi, ne' piccioli, piccioli, e ne i mediocri, mediocri, ché brutta cosa certo sarebbe e disconvenevole che in una fabrica molto grande fossero sale e stanze picciole, e per lo contrario in una picciola fossero due o tre stanze che occupassero il tutto.2 Si deverà dunque (come ho detto), per quanto si possa, aver risguardo et a quelli che vogliono fabricare, e non tanto a quello che essi possano, quanto di che qualità fabrica loro stia bene; e poi che si averà eletto, si disporranno in modo le parti, che si convengano al tutto e fra sé stesse, e vi si I. Cfr. VITRUVIO, VI, v, I : « lgitur is, qui communi sunt fortuna, non necessaria magnifica vestibula nec tabulina, neque atria, quod in aliis officia praestant ambiundo neque ab aliis ambiuntur. Qui autem fructibus rusticis serviunt, in eorum vestibulis stabula, tabemae, in aedibus cryptae, horrea, apothecae ceteraque, quae ad fructus servandos magis quam elegantiae decorem possunt esse, ita sunt facienda. Item feneratoribus et publicanis commodiora et speciosiora et ab insidiis tuta, forensibus autem et disertis elegantiora et spatiosiora ad conventos excipiundos, nobilibus vero qui honores magistratusque gerundo praestare debent officia civibus, faciunda sunt vestibula regalia alta, atria et peristylia amplissima, silvae ambulationesque laxiores ad decorem maiestatis perfectae »; BARBARO, p. 296, traduce: «A quelli, adunque, i quali sono di sorte commune, non sono necessarie l'entrate magnifiche, né i tablini, né gli atrii, perché questi prestano a gli altri quelli officii cercando, che dagli altri sono cercati. Ma quelli che servono alla utilità e frutti della villa, nelle entrate delle loro case deono avere gli stabuli e taverne e nelle case l'arche e i granai, le salvarobbe e le dispense, che possono più presto esser per servare i frutti, che a bellezza et ornamento. Cosi a publicani, a banchieri, overo cambiatori si fanno le case più commodc e più belle e più sicure dalle insidie. A gli uomini di palazzo et agli avvocati più eleganti e più spaziose, per poter ricevere et admettere la moltitudine delle genti. A nobili, che ne i magistrati e ne gli onori deono a' cittadini non mancare d'officio, si deve fare le entrate regali e gli atrii alti et i portichi o loggie amplissime e gli spazii da caminare più larghi perfetti all'ornamento e decoro•· z. Si torna ai problemi della ordinatio, dispositio ecc.; cfr. CATANEO, qui pp. 3225 sg.

XX • LA CITTÀ

applicheranno quelli adornamenti che pareranno convenirsi. 1 Ma spesse volte fa bisogno all'architetto accommodarsi più alla volontà di coloro che spendono, che a quello che si devrebbe osservare. 2 DEL COMPARTIMENTO DELLE STANZE E D'ALTRI LUOGHI

Accioché le case siano commode all'uso della famiglia, senza la qual commodità sarebbono degne di grandissimo biasmo, tanto sarebbe lontano che fossero da essere lodate, si deverà aver molta cura non solo circa le arti principali, come sono loggie, sale, cortili, stanze magnifiche, e scale ampie, lucide e facili a salire, ma ancora che le più picciole e brutte parti siano in luoghi accommodati per servigio delle maggiori e più degne, percioché sì come nel corpo umano sono alcune parti nobili e belle et alcune più tosto ignobili e brutte che altramente, e veggiamo nondimeno che quelle hanno di queste grandissimo bisogno, né senza loro potrebbono stare; così anco nelle fabriche deono essere alcune parti riguardevoli et onorate et alcune meno eleganti: senza le quali però le sudette non potrebbono restar libere e così perderebbono in parte della lor dignità e bellezza.3 Ma sì come Iddio benedetto ha ordinati questi membri nostri, che i più belli siano in luoghi più esposti ad esser veduti, et i meno onesti in luoghi nascosti; così ancor noi nel fabricare collocheremo le parti principali e riguardevoli in luoghi scoperti, e le men belle in luoghi più ascosi a gli occhi nostri che sia 1. Non si tratta dunque di un problema meramente economico; cfr. Dn Fusco, pp. 547 sg. 2. Cfr. lo stesso Palladio nel v frammento del Codice Cicogna n. 3617 del Museo Civico Correr, in G. G. ZoRZ1, I diseg11i delle antichità di Andrea Palladio, Venezia 1958, p. 183: «Ma prima che io venga ai disegni è conveniente ch'io faccia una giusta escusazione mia appresso i lettori, la quale è che in molte delle seguenti fabriche mi è stato bisogno obedire non tanto alla natura de i siti, quanto alla volontà dei padroni, i quali parte per conservare in parte le fabriche vecchie in piedi, parte per altri rispetti e voglie loro mi hanno sforzato [poi corretto in hanno fatto ch'io mi sia partito] in qualche parte da quello ch'io ho avertito che si debba osservare e che averei fatto, benché mi sia sforzato sempre appressarmeli più che abbi potuto». 3. L'analogia del corpo umano (cfr. CATANEO, qui p. 3228) presenta la casa come un organismo valido nella piena funzione di tutte Je sue parti. Anche in tal senso va intesa l'equivalenza tra casa e città (cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 398 sgg., BARBARO, p. 65, PALLADIO, qui p. 3364).

ANDREA PALLADIO

32 4S

possibile: perché in quelle si riporranno tutte le brutezze della casa e tutte quelle cose che potessero dare impaccio et in parte render brutte le parti più belle. 1 Però lodo che nella più bassa parte della fabrica, la quale io faccio alquanto sotterra, siano disposte le cantine, i magazini da legne, le dispense, le cucine, i tinelli, i luoghi da liscia o bucata, i forni, e gli altri simili che all'uso quotidiano sono necessarii; dal che si cavano due commodità: l'una, che la parte di sopra resta tutta libera, e l'altra, che non meno importa, è che detto ordine di sopra divien sano per abitarvi, essendo il suo pavimento lontano dall'umido della terra, oltraché, alzandosi, ha più bella grazia ad esser veduto et al veder fuori. 2 Si avertirà poi, nel resto della fabrica, che vi siano stanze grandi, mediocri e picciole, e tutte l'una a canto a l'altra, onde possano scambievolmente servirsi. Le picciole si amezeranno per cavarne camerini, ove si ripongano gli studioli o le librarie, gli arnesi da cavalcare et altri invogli, de' quali ogni giorno abbiamo di bisogno; e non sta bene che stiano nelle camere, dove si dorme, mangia e si ricevono i forestieri. 3 Appartiene anca alla commodità che le stanze per la estate siano ampie e spaciose e rivolte a settentrione; e quelle per lo inverno a meriggie e ponente, e siano più tosto picciole che altramente: percioché nella estate noi cerchiamo l'ombre et i venti e nell'inverno i soli, e le picciole stanze più facilmente si scalderanno che le grandi. Ma quelle, delle quali 1. Cfr. ALBERTI, A.rchitettr,ra, I, pp. 424 sgg., 430 sg., CoRNARO, qui p. 3155. 2. Distribuzione tipica delle case venete·; cfr. ad esempio SERLIO, vn, pp. 2, 36. Vedi anche DE Fusco, p. 549: «Con questi pochi cenni Palladio ci fornisce un'idea assai chiara della tipica struttura delle sue case, siano esse in città o in villa. Il piano interrato che spesso, per le esigenze dei luoghi, egli tiene in parte fuori terra, oltre a sgombrare dei servizi gli spazi migliori dell'alloggio, pone la costruzione su un basamento che ne migliora la visuale tanto dall'interno che dall'esterno». 3. Per distinzioni affini cfr. ALDERTI, Architettura, I, pp. 426 sgg. Si noti la nuova preoccupazione della spartizione interna verticale; cfr. DE Fusco, p. 549: « Altrettanto concatenato, funzionalmente ed esteticamente, risulta il criterio per cui gli ambienti più piccoli sono ammezzati, sia per ricavare più locali, sia per risolvere il problema del rapporto dimensionale fra piante ed altezze dei singoli vani, eliminando con questo espediente il divario fra grandi e piccoli ambienti. L'involucro murario esterno, dove non evidenzia quelle parti ritenute più belle e significative, racchiude in realtà questa complessa struttura spaziale interna che, oltre ai cortili, le logge, le sale illuminate dall'alto etc., è costituita in gran parte dall'accostarsi di cellule (è proprio il caso di chiamarle così) grandi e piccole, ognuna però rispondente ad una propria organizzazione dimensionale».

XX • LA CITTÀ

vorremo servirci la primavera e l'autunno, saranno volte all'oriente, e riguarderanno sopra giardini e verdure. A questa medesima parte saranno anca gli studii o librarie, perché la mattina più che d'altro tempo si adoperano. 1 Ma le stanze grandi con le mediocri e queste con le picciole deono essere in maniera compartite che (come ho detto altrove) una parte della fabrica corrisponda all'altra, e cosi tutto il corpo dell'edificio abbia in sé una certa convenienza di membri, che lo renda tutto bello e grazioso. 2 Ma perché nelle città quasi sempre, o i muri de' vicini, o le strade e le piazze publiche assegnano certi termini altra i quali non si può l'architetto estendere, fa di bisogno accommodarsi secondo l'occasione de' siti :3 al che daranno gran lume (se non m'inganno) le piante e gl'alzati che seguono, i quali serviranno per esempio delle cose dette anca nel passato libro.4 Sulla distribuzione delle stanze in relazione alle stagioni, cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 414 sgg. 2. Cfr. PALLADIO, I, p. 52: «Le stanze deono essere compartite dall'una e l'altra parte dell'entrata e della sala: e si deve avertire che quelle dalla parte destra rispondino e siano uguali a quelle dalla sinistra, accioché la fabrica sia cosi in una parte come nell'altra: et i muri sentano il carico del coperto ugualmente. Percioché se da una parte si faranno le stanze grandi e dall'altra picciole, questa sarà più atta a resistere al peso per la spessezza dei muri e quella più debole: onde ne nasceranno col tempo grandissimi inconvenienti a ruina di tutta l'opera. Le più belle e proporzionate maniere di stanze e che riescono meglio sono sette; percioché o si faranno ritonde, e queste di rado, o quadrate, o la lunghezza loro sarà per la linea diagonale del quadrato della larghezza o d'un quadro et un terzo o d'un quadro e mezo; o d'un quadro e due terzi; o di due quadri». Vedi anche N. CARBONERI, Spazi e planimetrie nel palazzo palladiano, in « Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio•, XIV (1972), p. 170. 3. Cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 400 sg.: cr Urbanis aedificationibus evenit, ut vicinus paries, stillicidium, publica area, via et eiusmodi pleraque omnia impediant, quo minus ipse tibi satisfacias. Id in rusticanis non evenit11 (ORLANDI, ivi: «Nel costruire una casa in città, infatti, un muro vicino, uno scarico d'acqua, un terreno pubblico, una strada, e molte altre cose del genere, ostacolano Pattuazione completa del nostro progetto. Ciò non succede invece in campagna•). 4. Sul significato dei disegni del trattato palladiano e il loro rapporto con gli edifici corrispondenti cfr. G. G. ZoRZI, I disegtzi delle opere palladiane ne «I quattro libri» e il suo significato rispetto alle opere eseguite, in «Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio», III (1961), pp. 12 sgg., che li considera cc delle rielaborazioni fatte dallo stesso architetto (e dai suoi figli sotto la sua direzione) secondo il suo gusto al momento della pubblicazione del trattato». Vedi anche DE Fusco, p. 550: a Quando Palladio tratta nei Quattro Libri diedifici antichi e moderni, e delle sue opere in particolare, l'intento didascalico, il rispetto degli schemi vitruviani, la mancanza dell'ordine cronologico, la 1.

ANDREA PALLADIO

32 47

DE I DISEGNI DELLE CASE DELLA CITTÀ

Io mi rendo sicuro che appresso coloro che vederanno le sotto poste fabriche, e conoscono quanto sia difficil cosa lo introdurre una usanza nuova, massimamente di fabricare, della qual professione ciascuno si persuade saperne la parte sua, io sarò tenuto molto aventurato, avendo ritrovato gentiluomini di cosi nobile e generoso animo et eccellente giudicio, ch'abbiano creduto alle mie ragioni e si siano partiti da quella invecchiata usanza di fabricare senza grazia e senza bellezza alcuna ;1 et in vero io non posso se non rappresentazione ideale e cccorretta", i "pentimenti" che i disegni mostrano rispetto alle fabbriche, talvolta costruite diversamente per motivi contingenti etc., sono tutti fattori che svincolano i progetti illustrati dalla vera storia degli edifici rendendoli un "corpus,, autonomo, ancorato prevalentemente alle esigenze del trattato. Cosicché mentre in una monografia storica dell'opera palladiana il discorso va incentrato sugli edifici, costituendo i disegni del trattato solo uno storico documento, sia pure utilissimo ed autentico, che serve a spiegare con analogie e differenze il processo architettonico d'ogni singola fabbrica, qui, viceversa, sono i disegni al centro della nostra attenzione; il richiamo agli edifici dev'essere ad essi subordinato, ed insieme, progetti e fabbriche vanno studiati nel contesto dei limiti e dei termini propri del trattatoD, F. BARBIERI, Il valore dei Quattro libri, in «Bollettino del Centro Internazionale di Studi d'Architettura Andrea Palladio», XIV (1972), pp. 65, 72: «Ad onta delle dichiarazioni palladiane in contrario, le tavole raccolte nel volume non appaiono quali progetti, antecedenti le realizzazioni, ma quali ripensamenti su situazioni già superate; peggio, nessuna di queste proposte ha l'aria di essere eseguibile se tolta dalla astrazione della pagina e calata nella realtà effettuale della situazione concreta»; « Nelle pagine del Trattato il Palladio ... nega tutta la validità della esperimentazione precedente e ripiega entro i limiti di una rielaborazione fantastica, dove i contatti con gli elementi naturali e le esigenze umane che condizionano il fare architettonico, diventano aleatori fino ad infrangersi del tutto ..• In realtà, la filologia vien dimostrando ogni giorno di più che i progetti palladiani, quando si recuperano, hanno ben poco a spartire, come s'è visto, con le successive "invenzioni" del Trattato: le quali sopravvengono a posteriori, rielaborando l'accidentale e il transeunte nella fissità di paradigmi astratti. Questi si direbbero davvero quasi pensati in funzione della pagina in cui si campiscono: ogni pianta regolarissima, con sotto il corrispondente alzato, il tutto esattamente calibrato alla superficie del foglio ed in perfetto equilibrio con le lettere delle didascalie». 1. Cfr. VASARI, 1550, p. 121, e 1568, I, p. 76 [1, p. 233]: dl medesimo [decadimento] avvenne dell'architettura, perché bisognando pur fabricare et essendo smarrita in tutto la forma e il modo buono per gli artefici morti e per l,opere distrutte e guaste, coloro che si diedero a tale esercizio, non edificavano cosa che per ordine o per misura avesse grazia, né disegno, né ragion alcuna. Onde ne vennero a risorgere nuovi architetti

XX • LA CITTÀ

• P.

~

• P .



:,

?.



'I.

...

~

{ ù.,-,i,11 &)

Q

I che dalle loro barbare nazioni fecero il modo di quella maniera di edifizi ch'oggi da noi son chiamati tedeschi, i quali facevano alcune cose p1u tosto a noi moderni ridicole che a loro lodevoli; finché la miglior forma e alquanto alla buona antica simile trovarono poi i migliori artefici, come si veggono di quella maniera per tutta Italia le più vecchie chiese, e non ::mtiche, che da essi furon edificate».

ANDREA PALLADIO

32 49

sommamente ringraziare lddio (come in tutte le nostre azzioni si deve fare) che m'abbia prestato tanto del suo favore, ch'io abbia potuto praticare molte di quelle cose, le quali con mie grandissime fatiche per li lunghi viaggi ch'ho fatto, e con molto mio studio ho apprese. 1 E perché, se bene alcune delle fabriche disegnate non sono del tutto finite,2 si può nondimeno da quel che è fatto comprendere qual debba esser l'opera, finita ch'ella sia, ho posto a ciascuna il nome dell'edificatore et il luogo dove sono, affine che ciascuno, volendo, possa vedere in effetto come esse riescano. Et in questa parte sarà avertito il lettore, che nel ponere i detti disegni io non ho avuto rispetto né a' gradi, né a dignità de' gentiluomini che si nomineranno, ma gli ho posti nel luogo che mi è venuto meglio, conciosiaché tutti siano onoratissimi. 3 Ma veniamo ormai alle fabriche, delle quali la sottoposta è in U dene, metropoli del Friuli, et è stata edificata da' fondamenti dal signor Floriano Antonini, gentiluomo di quella città.4 Il primo ordine della facciata è di opera rustica; le colonne della facciata, della entrata e della loggia di dietro sono di ordine ionico. 5 Le prime 1. Tra i viaggi più importanti, quelli a Roma nel 1541, 1547, 1554. Cfr.

J. S. ACKERMAN, Palladio, Middlesex 1966, p. 25: « So Palladio became a traveller, from the time he joined Trissino on his first trip to Rame in 1541 (there wcre others in 1547 and 1554), until the 1570s when age and the burden of work restricted his movement, he frequently was on the road through Italy from Naples to Piedmont and into Provence». 2. Affermazioni come queste hanno fatto credere che tra i disegni del trattato e i relativi edifizi ci fosse una stretta corrispondenza: cfr. F. BARBIERI, loc. cit., p. 64: « Il Palladio ... nel presentare le singole tavole, le indica sempre come espressione fedele non soltanto delle sue intenzioni ma di situazioni esistenti di fatto o quanto meno attuabili in un immediato futuro; nonché quali esempi di adattamento alle più diverse situazioni ambientali». 3. Cfr. DE Fusco, p. 552: « Dopo un'ulteriore premessa, nella quale, tra l'altro, Palladio avverte di avere illustrato gli edifici secondo un loro ordine ... confermando cosi la loro autonoma trattazione rispetto alla cronologia e al prestigio sociale dei committenti, egli entra nel vivo del suo tema». 4. Cfr. VASARI, 1568, 11, p. 839 [vn, p. 530]. Sulla cronologia e le caratteristiche di Palazzo Antonini cfr. L. PUPPI, Palladio, cit., u, pp. 306 sgg. Vedi anche DE Fusco, p. 552: « Il palazzo Antonini del 1556, che presenta analogie col palazzo Pisani di Montagnana, è in realtà assai dissimile dal progetto originario. Le maggiori varianti sono l'assenza del corpo di fabbrica laterale con la cucina, l'apertura di balconi barocchi e soprattutto la sostituzione del timpano con una copertura a forte spiovente». 5. Cfr. DE Fusco, p. 553: « Rientrano nei precetti generali, enunciati nel I libro, il discorso sugli ordini, sulla destinazione degli ambienti, sul loro tipo di copertura e sul loro dimensionamento. Questo tema sarà presente in tutti gli altri esempi illustrati».

XX · LA CITTÀ

stanze sono in vblto, le maggiori hanno raltezza de' vòlti secondo il primo modo posto di sopra dell'altezza de' vòlti nei luoghi più lunghi che larghi. Le stanze di sopra sono in solaro e tanto maggiori di quelle di sotto quanto importano le contratture o diminuzioni de' muri et hanno i solari alti quanto sono larghe. Sopra queste vi sono altre stanze, le quali possono servire per granaro. La sala arriva con la sua altezza sotto il tetto. La cucina è fuori della casa, ma però commodissima. I cessi sono a canto le scale e, benché siano nel corpo della fabrica, non rendono però alcun cattivo odore, perché sono posti in luogo lontano dal sole et hanno alcuni spiragli dal fondo della fossa per la grossezza del muro, che sboccano nella sommità della casa ...1 In Vicenza, sopra la piazza che volgarmente si dice l'Isola, ha fabricato, secondo la invenzione che segue, il conte Valerio Chiericato, cavallier e gentiluomo onorato di quella città. 2 Ha questa fabrièa nella parte di sotto una loggia davanti, che piglia tutta la facciata; il pavimento del primo ordine s'alza da terra cinque piedi, il che è stato fatto si per ponervi sotto le cantine et altri luo~ ghi appartenenti al commodo della casa, 3 i quali non sariano riusciti se fossero stati fatti del tutto sotterra, percioché il fiume non è molto discosto, si anco accioché gli ordini di sopra meglio godessero

I. Cfr. DE Fusco, p. 553: « Nel caso del palazzo Antonini l'eccezione è indicata nella cucina fuori della pianta quadrata e in quella descrizione particolareggiata dei cessi [ma cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 431 sg., LEONARDO, CORNARO, qui pp. 3121 e 3155], argomento che tuttavia egli affronta qui una volta per tutte, tacendolo negli altri esempi di questo III capitolo 11, 2. Sul rapporto tra i disegni del trattato, le loro varianti (nella loggia del piano superiore) e il palazzo vi sono pareri contrastanti: cfr. R. PANE, Andrea Palladio, Torino 1961, p. 164, DE Fusco, p. 554, e G. G. ZoRZI, Le opere pubbliche e i palazzi privati di Andrea Palladio, Venezia 1965, p. 201. L. PuPPI, op. cit., 11, p. 284: «Il materiale edito nel I 570 ... , in ogni modo, non fa testo: nel senso che presenta, secondo il solito, un'elaborazione successiva, in riga con l'atteggiamento espressivo e stilistico di quel tardo momento e con le finalità didascaliche del trattato, dei materiali approntati vent'anni avanti: caratteristica è, per esempio ... , la sovrabbondanza decorativa, nell'alzato parziale della facciata "in forma maggiore", che contrasta con la soluzione verisimilmente ad alternanza di spazi parietali caricati e lisci, giusta l'esito sperimentato in Palazzo Porto .•• Non è dubbio che la stesura del progetto abbia costituito l'approdo, in coerenza con l'attitudine di Andrea, già sovente constatata, di una ricerca indefessa e di scadenze intermedie». 3. Sulla distribuzione delle cantine ed altri servizi cfr. PALLADIO, qui p. 3245 e la nota relativa.

ANDREA PALLADIO

del bel sito dinanzi. 1 Le stanze maggiori hanno i vòlti loro alti secondo il primo modo dell'altezze de' vòlti; le mediocri sono involtate a lunette et hanno i vòlti tanto alti quanto sono quelli delle maggiori. I camerini sono ancor essi in vòlto e sono amezati. Sono tutti questi vòlti ornati di compartimenti di stucco eccellentissimi di mano di messer Bartolameo Ridolfi scultore veronese; e di pitture di mano di messer Domenico Rizzo e di messer Battista Veneziano, uomini singolari in queste professioni. 2 La sala è di sopra nel mezo della facciata, et occupa della loggia di sotto la parte di mezo. 3 La sua altezza è sin sotto il tetto, e perché esce alquanto in fuori, ha sotto gli angoli le colonne doppie; dall'una e l'altra parte di questa sala vi sono due loggie, cioè una per banda, le quali hanno i soffitti loro over lacunari ornati di bellissimi quadri di pittura, e fanno bellissima vista.4 Il primo ordine della facciata è dorico et il secondo è ionico. s I disegni che seguono sono della casa del conte Iseppo de' Porti, famiglia nobilissima della detta città.6 Guarda questa casa

Sul gradevole effetto del rialzamento cfr. ancora PALLADIO, qui p. 3245. Cfr. F. BARBIERI-R. CEVESE-L. MAGAGNATO, Guida di Vicenza, Vicenza 1956, p. 172: « Il Palladio ricorda qui operosi Bartolomeo Ridolfi stuccatore, Domenico Rizzo detto il Brusasorci - di cui è evidentemente l'affresco con Diana ed Apollo e la costellazione dello zodiaco -, Giambattista Zelotti, di cui sono gli affreschi della Sala del Concilio degli dèi 11. 3. Vedi PALLADIO, I, p. 52: «Le sale servono a feste, a conviti, ad apparati per recitar comedie, nozze e simili sollazzi: e però deono questi luoghi esser molto maggiori de gli altri et aver quella forma che capacissima sia, acciò che molta gente commodamente vi possa stare e vedere quello che vi si faccia. Io son solito non eccedere nella lunghezza delle sale due quadri, i quali si facciano dalla larghezza: ma quanto più si approssimeranno al quadrato, tanto più saranno lodevoli e commode », e cfr. N. CARBONERI, loc. cit., p. 169: a Possono [le sale] sovrastare più di un ambiente {palazzo Chiericati) o una loggia (palazzo Valrnarana Braga) 11. 4. Sulle loggie vedi PALLADIO, I, p. 52: a Si sogliono far le loggie per lo più nella faccia davanti et in quella di dietro della casa: e si fanno nel mezo, facendone una sola, o dalle bande facendone due. Servono queste loggie a molti commodi, come a spasseggiare, a mangiare et ad altri diporti: e si fanno e maggiori e minori come ricerca la grandezza e il commodo della fabrica », e cfr. N. CARBONERI, loc. cit., pp. 166 sg.: u Le logge sono elemento primario della sua [di Palladio] architettura; consone, è vero, precipuamente alle ville per la naturale apertura panoramica; utili però anche all'ambito concluso dei palazzi, quali mediatrici tra esterno ed interno». 5. Cfr. la nota I di p. 3249. 6. Cfr. VASARI, 1568, 11, p. 837 [vn, p. 527]: «Il medesimo [Palladio] ha fatto un palazzo molto bello e grandissimo oltre ogni credere al conte Ottaviano de' Vieri, con infiniti ricchissimi ornamenti. Et un altro simile I. 2.

XX • LA CITTÀ

sopra due strade publiche: e però ha due entrate, le quali hanno quattro colonne per ciascuna, che tolgono suso il vòlto e rendono il luogo di sopra sicuro.X Le stanze prime sono in vòlto. L'altezza di quelle che sono a canto le dette entrate è secondo l'ultimo modo dell'altezza de' vòlti. Le stanze seconde, cioè del secondo ordine, sono in solaro, 2 e cosi le prime come le seconde di quella parte di fabrica eh' è stata fatta sono ornate di pitture e di stucchi bellissimi di mano de' sopradetti valentuomini e di messer Paolo Veronese pittore eccellentissimo.3 Il cortile circondato da portici, al quale si va da dette entrate per un andito, averà le colonne alte trentasei piedi e mezo, cioè quanto è alto il primo e secondo ordine. Dietro a queste colonne vi sono pilastri larghi un piede e tre quarti e grossi un piede e due oncie, che sostenteranno il pavimento della loggia di sopra. Questo cortile4 divide tutta la casa al conte Giuseppe di Porto, che non può essere né più magnifico, né più bello, né più degno d'ogni gran principe di quello che è». Il palazzo, probabilmente commissionato nel 1550, ha subito varie manomissioni; cfr. soprattutto L. PuPPI, op. cit., II, pp. 279 sgg. 1. Cfr. W. PRINZ, La «sala di quattro colonne» nell'opera di Palladio, in « Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio», XI (1969), p. 374: «È certo che la sua ricostruzione della "sala di quattro colonne" risale al testo vitruviano .•. Palladio aveva concepito l"'atrio di quattro colonne" verso la fine del quinto decennio, nel giovanile palazzo per Iseppo da Porto in Vicenza; ma dei due corpi progettati ebbe modo di realizzarne uno soltanto, con atrio coperto da volta. Le due volte a botte indicano le due direzioni lungo le quali si può percorrere l'atrio: cioè, dalPingresso verso il cortile, o da una sala alt>altra adiacenti all'atrio. Il Palladio dà due giustificazioni delle quattro colonne collocate nella sala: una giustificazione estetica ... e una giustificazione statica ... E questa "sala di quattro colonne", cosi importante nella sua opera, diverrà, a cominciare dal sesto decennio, il motivo dominante per un certo tipo di pianta per palazzi e ville. Va tuttavia notato che anche l'"atrio di quattro colonne" venne usato dal Palladio con una funzione assai simile». Vedi anche PALLADIO, II, p. 27. 2. Cfr. DE Fusco, p. 558: « Fra i caratteri dell'edificio, sottolineati dallo stesso autore, troviamo la suddivisione di esso in due corpi di fabbrica simmetrici separati dal cortile quadrato, l'accenno ai due atri con quattro colonne ••• e il ricorrente discorso sulle coperture delle stanze con il relativo proporzionamento. In questo caso Palladio prescrive per le stanze adiacenti all'atrio d'ingresso "l'ultimo modo dell9altezza de' volti" ossia il rapporto 6 :8: 12 detto proporzione "armonica". Specificatamente, applicando la sua formula alle due dimensioni ch'egli segna nella pianta 20 X 30, l'altezza risulterà di 24 piedi,,. 3. Cfr. G. G. Zoaz1, Le opere pubbliche e i palazzi privati di Andrea Palladio, cit., pp. 194 sg. il quale, oltre Veronese, cita Domenico Brusasorci e Bartolomeo Ridolfi. 4. Sulla validità del cortile cfr. N. CARBONERI, loc. cit., p. 169: « Oltrepassato l'ingresso, talora al di là di un andito o di una loggia, riappare uno spazio a

ANDREA PALLADIO

32 53

in due parti: quella davanti servirà ad uso del padrone e delle sue donne, e quella di dietro sarà da mettervi i forestieri; onde quei di casa et i forestieri resteranno liberi da ogni rispetto, al che gli antichi e massimamente i Greci ebbero grandissimo riguardo. 1 Oltra

di c10 se rvirà anca questa partizione in caso che i discendenti del sudetto ge ntiluomo volessero avere i suoi appartamenti separati. 2 H o voluto poncr le scale principali sotto 'l portico, che rispondano a m ezo d el cortile, accioché quelli che vogliono salir di sopra, siano ciclo lib ero : è il cortile (o corte) nel quale, se si erge un colonnato, aleggia il ricordo del peristilio classico; ma nel testo palladiano non affiora il nome aulico a sostituire il termine più consueto, consacrato dall'uso». 1. Cfr. PALLADIO, 11, p. 43: Era questa usanza appresso quei popoli [greci] che, venuto un forestiero, il primo giorno lo menavano a mangiar seco e poi gli assegnavano uno alloggiamento in dette case e li mandavano tutte le cose necessarie al vivere, onde venivano i forestieri ad esser liberi da ogni rispetto et esser come in casa sua propria». 2. Si noti come alle riflessioni dotte se ne alleino altre di saggia amministrazione. r(

32 54

XX • LA CITTÀ

come astretti a veder le più belle parti della fabrica; et anco accioché essendo nel mezo possano servire all'una e all'altra parte. 1 Le cantine e i luoghi simili sono sotterra.2 Le stalle sono fuori del quadro della casa et hanno l'entrata per sotto la scala ...3 La fabrica che segue è in Verona, e fu cominciata dal conte Gio. Battista dalla Torre gentiluomo di quella città, il quale, sopravenuto dalla morte, non l'ha potuta finire; ma ne è fatta una buona parte.4 Si entra in questa casa dai fianchi, ove sono gli anditi larghi diece piedi; dai quali si perviene nei cortili di lunghezza ciascuno di cinquanta piedi e da questi in una sala aperta, la quale ha quattro colonne per maggior sicurezza della sala di sopra. 5 Da questa sala si entra alle scale, le quali sono ovate e vacue nel mezo. I detti cortili hanno i corritori o poggiuoli intorno, al pari del piano delle seconde stanze. Le altre scale servono per maggior commodità di tutta la casa.6 Questo compartimento riesce benissimo in questo

1. Sulle scale cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 88 sgg., CoRNARO, CATANEO, qui pp. 3155, 322,8 sg., PALLADIO, I, pp. 60 sgg.: «Tre aperture nelle scale si ricercano: la prima è la porta, per dove alla scala si monta: la quale quanto meno è nascosta a quelli ch'entrano nella casa, tanto più è da esser lodata; e molto mi piacerà se sarà in luogo, ove avanti che si pervenga, si vegga la più bella parte della casa, perché ancor che picciola casa fusse, parerà molto grande, ma che però sia manifesta e facile da trovarsi. La seconda apertura è le finestre che a dar luce a i gradi sono bisognevoli e deono essere nel mezo et alte, accioché ugualmente il lume per tutto si spanda. La terza è l'apertura, per la quale si entra nel pavimento di sopra. Questa deve condurci in luoghi ampii, belli et ornati. Saranno lodevoli le scale, se saranno lucide, ampie e commode al salire: onde quasi invitino le persone ad ascendere. Saranno lucide s'avranno il lume vivo, e se, come ho detto, il lume ugualmente per tutto si spargerà. Saranno assai ampie, se alla grandezza e qualità della fabrica non pareranno strette et anguste; ma non si faranno giamai meno larghe di quattro piedi: accioché se due persone per quelle s'incontrassero, possano commodamcnte darsi luogo. Saranno commode quanto a tutta la fabrica, se gli archi sotto quelle potranno servire a riporre alcune cose necessarie: e quanto a gli uomini, se non averanno l'ascesa loro difficile et erta)). 2. Cfr. PALLADIO, qui pp. 3121 e 3250. 3. Cfr. LEONARDO, qui p. 3119, ma soprattutto ALBERTI, Architettura, I, pp. 406 sgg. 4. Il palazzo, rimasto incompiuto ed oggi quasi completamente distrutto, fu probabilmente progettato nel 1551; cfr. G. G. ZoRZI, Le opere pubbliche e i palazzi privati di A11drea Palladio, cit., p. 213, L. PuPPI, op. cit., u, p. 287. 5. Cfr. p. 3252 e la nota 2. 6. A proposito delle varie soluzioni di scala cfr. PALLADIO, 1, p. 61: « Le scale o si fanno diritte o a lumaca. Le diritte o si fanno distese in due rami o quadrate, le quali voltano in quattro rami. Per far queste si divide tutto il luogo in quattro parti; due si danno a" gradi e due al vacuo di mezo: dal quale, se si lasciasse discoperto, esse scale avrebbono il lume. Si possono

ANDREA PALLADIO

32 55

sito, il quale è lungo e stretto et ha la strada maestra da una delle facciate minori. 1 I disegni che seguono sono di una fabrica in Vicenza del conte Ottavio de' Thieni, fu del conte Marcantonio, il qual le diede principio. 2 È questa casa situata nel mezo della città, vicino alla piazza,

.... .P . ,~



,.

.

fare col muro di dentro et allora nelle due parti, che si danno a' gradi, si rinchiud e :mco esso muro; e si possono fare anco senza. Questi due modi di scale ritrovò la felice memoria del l\tlagnifico Signor Luigi Cornaro, gentiluomo di ecce llente giudicio ... Le scale a lumaca, che a chiocciola anco si dicono, si fanno altrove ritonde et altrove ovate: alcuna volta con la colonna nel mezo et alcuna volta vacue, nei luoghi stretti massimamente si usano , perché occupano manco luogo che le diritte: ma sono alquanto più difficili da sa lire. Benissimo riescono quelle che nel mezo sono vacue, perciò che panno avere il lume dal di sopra, e quelli che sono al sommo della scala veggono tutti quelli che saliscono o cominciano a salire, e similmente sono da questi veduti». I. La esemplarità storica dell'esperienza palladiana è sempre legata al superamento delle difficoltà contingenti; cfr. qui p. 3246 e la nota 3. 2. Cfr. gli appunti palladiani nel Codice Cicogna 3617, f. 14.v., in G. G. ZoRzr, I disegni dell'antichità di Andrea Palladio, loc. cit., p. 83, e VASARI, 1568, II, p. 838 [vu, p. 527]: ull medesimo [Palladio] ha fatto un palazzo molto bello e grandissimo oltre ogni credere al conte Ottavio dc' Vieri, con infiniti ricchissimi ornamenti».

XX • LA CITTÀ

e però mi è parso nella parte eh' è verso detta piazza disponervi alcune botteghe, percioché deve l'architetto avertire anco all'utile del fabricatore, potendosi fare commodamente dove resta sito grande a sufficienza. 1 Ciascuna bottega ha sopra di sé un mezato per uso de' botteghieri e sopra vi sono le stanze per il padrone.~ Questa casa è in isola, cioè circondata da quattro strade. La entrata principale, o vogliam dire porta maestra, ha una loggia davanti, et è sopra la strada più frequente della città. 3 Di sopra vi sarà la sala maggiore, la quale uscirà in fuori al paro della loggia. Due altre entrate vi sono ne' fianchi, le quali hanno le colonne nel mezo, che vi sono poste non tanto per ornamento, quanto per rendere il luogo di sopra sicuro e proporzionare la larghezza all'altezza.4 Da queste entrate si entra nel cortile circondato intorno da loggie di pilastri nel primo ordine rustichi e nel secondo di ordine composito. 5 Negli angoli vi sono le stanze ottangule, che riescono bene, si per la forma loro, come per diversi usi, a' quali elle si possono accommodare. 6 Le stanze di questa fabrica eh' ora sono finite, sono state ornate di bellissimi stucchi da messer Alessandro Vittoria e messer Bartolomeo Ri-

I. Sul rapporto architetto-committente cfr. qui p. 3244 e ALBERTI, Architettura, 1, pp. 434 sg.: 11 Jntra urbem sub

la nota 1. 2. Cfr. aedibus tabernam quaestuariam habere quam triclinium apparatiorem, id demum ad suas spes et cupiditates conducere arbitrabitur; captabitque in trivio angulurn, in foro frontem, intra militarem viam perspicuum inflexum; neque alla ferme sollicitus erit cura, quam ut expositis venaliurn illecebris aucupetur. Intestinis operibus non indecenter utetur crudo latere craticiis creta acerato materia; in extimis autem illud putabit non perpetuo dari, ut vicino frugi et commodo utatur: ea re circuet domurn pariete contra hominum ac temporum iniurias firmiore 11 (ORLANDI, ivi: «Annessa alla casa di città, se la cosa è confacente alle nostre aspirazioni, si sistemerà una bottega, da tenersi meglio provvista della stessa sala da pranzo. La posizione migliore per essa è l'angolo di un crocicchio, la fronte di una piazza, una svolta bene in vista di una strada militare; ma soprattutto bisogna mettere ogni cura nel ricercare tutte le attrattive possibili per le proprie merci. Per l'arredamento interno si può, senza sminuire il decoro, far uso di mattoni crudi, graticci, argilla, fango con paglia, legna. Ma per quanto riguarda l'esterno, si tenga presente che non sempre i propri vicini sono persone oneste e gentili; si cinga pertanto la casa con muri ben resistenti ai danni producibili dagli uomini e dalle intemperie»). 3. Cfr. DE Fusco, p. 560: « L'autore pone l'accento sulla situazione urbanistica dell'edificio occupante un intero isolato e avente, oltre l'entrata principale, due altre disposte simmetricamente sulle strade laterali». Sulla loggia cfr. p. 3250 e la nota 5. 4. Sulla sala cfr. p. 3250 e la nota 4, sulle entrate a colonne cfr. p. 3252 e la nota 1. 5. Cfr. p. 3252 e la nota 4. 6. Non avendo le stanze ottangule una delimitazione precisa, servono per integrare le adiacenti.

ANDREA PALLADIO

32 57

dolfi, e di pitture da messer Anselmo Cancra e messer Bernardino India veronesi, non secondi ad alcuno de' nostri tempi. 1 Le cantine e luoghi simili sono sottoterra, perché questa fabrica è nella più alta parte della città, ove non è pericolo che l'acqua dia im• 2 pacc10. Hanno anco nella sopradetta città i conti Valmarana, gentiluo-

."•~.

Ll LI LI

..P .

7f

.,._

L

~

0Pn

D [] ~

P . .f5

a a a;l]

I. Su tali partecipazioni cfr. L. MAGAGNATO, Palazzo Thiene, Vicenza 1966, pp. 50 sgg., L. Purr1, op. cit., II, p. 254. 2. Cfr. pp. 3245, 3250 sgg.

.3258

XX · LA CITTÀ

mini onoratissimi, per proprio onore e commodo et ornamento ,-1 L-·-1 L - • ._, • •. I della loro patria fabricato se... ~ ,Y - condo i disegni che seguono : 1 nella qual fabrica essi non mancano di tutti quegli ornamenti che se 1e ricercano, come stuc(1i11nlino 1 chi e pitture. È questa casa di! /tM9~sa rU JitrdMO ~ ~.-..~ "".. "! .... r Ji lorsr,j6o . visa in due parti dalla corte di mezo; intorno la quale è un corritore o poggiu olo che porta ,\ : ~~ ,. ~ ,. I dalla parte dinanzi a quella di dietro. Le prime stanze sono in vòlto, le seconde in solaro, e sono queste tanto alte quanL.,:;;::. to larghe. Il giardino, che si r •• trova avanti che si entri nelle stalle, è m olto maggiore di quel ch'egli è segnato, ma si ha fatto così picciolo perché altramente il foglio non saria stato capace di esse stalle, e così di tutte le parti. E tanto basti aver detto di questa fabrica, essendo che, come anco nelle altre, ho posto nei disegni le misure della grandezza di ciascuna parte.:z Fra molti onorati gentiluomini vicentini si ritrova monsignor Paolo Almerico, uomo di chiesa e che fu referendario di due sommi pontefici, Pio IIII e V, e che per il suo valore meritò di esser fatto

r:·:-1 -.o

I

h~n-"7'1

r m.______. t ~

I. Cfr. VASARI, I 568, 11, p. 837 [vu, p. 527]: cc Similmente, ai conti di Valmorana ha già quasi condotto a fine un altro superbissimo palazzo, che non cede a niuno dei sopradetti [palazzi] in parte veruna». z. Cfr. D E Fusco, p. 562: r, Il testo che accompagna le illustrazioni del palazzo Valmarana, ossia una delle sue [di Palladio] opere pit1 discusse, si riduce ad una semplice didascalia che, dopo il cenno di omaggio ai committenti, sembra voler soprattutto avvertire delle difficoltà di resa grafica relative ad alcune parti della pianta. Evidentemente l'autore vuole affidare ai disegni, come al solito, quelle indicazioni architettoniche più significative».

ANDREA PALLADIO

32 59

cittadino romano con tutta casa sua. Questo gentiluomo dopo l'aver vagato molt'anni per desiderio di onore, finalmente, morti tutti i suoi, venne a repatriare e per suo diporto si ridusse ad un suo suburbano in monte, lungi dalla città meno di un quarto di miglio: 1 ove ha fabricato secondo l'invenzione che segue; la quale non mi è parso mettere tra le fabriche di villa per la vicinanza ch'ella ha con la città, onde si può dire che sia nella città istessa. Il sito è de gli ameni e dilettevoli che si possano ritrovare, perché è sopra un monticello di ascesa facilissima et è da una parte bagnato dal Bacchiglione, fiume navigabile, e dall'altra è circondato da altri amenissimi colli, che rendono l'aspetto di un molto grande teatro e sono tutti coltivati et abondanti di frutti eccellentissimi e di buonissime viti. Onde perché gode da ogni parte di bellissime viste, delle quali alcune sono terminate, alcune più lontane, et altre che terminano con l' orizonte, vi sono state fatte le loggie in tutte quattro le faccie ;2 sotto il piano delle quali e della sala sono le stanze per la commodità et uso della famiglia. La sala è nel mezo et è ritonda e piglia il lume di sopra. I camerini sono amezati. Sopra le stanze grandi, le quali hanno i vòlti alti secondo il primo modo, intorno la sala vi è un luogo da passeggiare di larghezza di quindici piedi e mezo. 3 Nell'estremità dei piedestili, che fanno poggio alle Anche in base a questi riferimenti - il pontificato di Pio IV durò dal 1559 al 1565 e quello di Pio V ebbe inizio nel 1566- è stato possibile datare il progetto della Rotonda 1567-1569; cfr. L. PuPPI, op. cit., II, pp. 381 sg. 2. Cfr. DE Fusco, p. 568: 11 Nel descrivere la Rotonda sembra [Palladio] legare alla sola condizione paesistica la conformazione centrale della villa, mentre, com'è noto, il tema della centralità è ricco di numerose altre intenzioni e significati» e, diversamente, L. PUPPI, op. cit., II, p. 383: a Com'è stato osservato, l'interno della Rotonda vive, in più distese cadenze di ritmo e in più lievi penombre, una sorta di prospettiva ampliata e irraggiata, priva di gerarchie: ma è amplificazione che assorbe, ricanta e si trasmette attraverso la mediazione calcolata e straordinaria dei piani esterni di base (dal terrapieno al piazzale ai pronai) su cui la villa cresce sino alla curvatura, alternativa a quella interna, delta copertura che chiude, assecondando, il discorso ... al paesaggio intorno, catturandolo e subordinandolo al proprio imperio formale». 3. A proposito dei dissensi tra la descrizione e i disegni cfr. R. PANE, op. cit., p. 188, DE Fusco, p. 568, e L. PuPPI, op. cit., II, p. 383. Sui caratteri dei disegni del trattato cfr. soprattutto L. PuPPI, op. cit., II, p. 383: « È tempo di tirar le somme, una volta di più denunciando la plausibilità documentale delle tavole dei Quattro libri che escono dal "laboratorio tipologico" palladiano i cui principi informatori e le finalità son distinti da quelli della progettazione compiuta ... della quale offrono un'"immngine allontanata" funzionale ... all'impegno didascalico. Il disegno di cupola proposto nel 1570 offre un modello astratto, coI.

XX · LA CITTÀ

.p.

~~.

p

~

jJ

:, "

.P .

>

o

.p.

t..:.______J~(~~

e

e:

•. ,

struito su una ricca stratificazione culturale (magari erudita), ma estraneo ai problemi concreti di un impegno costruttivo concreto. La Rotonda attuale non è tanto l'esito di una riduzione, dettata da considerazioni pratiche esterne ... , di un progetto che sarebbe stato affidato ai posteri nel trattato ... quanto quest'ultimo è la restaurazione astratta di quell'esito 11.

ANDREA PALLADIO

scale delle loggie, vi sono statue di mano di messer Lorenzo Vicentino, scultore molto eccellente. 1 Feci al conte Montano Barbaranoz per un suo sito in Vicenza la presente invenzione, nella quale per cagion del sito non servai l'ordine di una parte anco nell'altra. Ora questo gentiluomo ha comprato il sito vicino, onde si se rva l'istesso ordine in tutte due le parti; e sì come da una parte vi so no le stalle e luoghi per servitori (come si vede nel disegno) , così dall'altra vi vanno stanze che serviranno per cucina e luoghi da donne, e per altre commodità. Si ha già cominciato a fabricare e si fa la facciata secondo il disegno che segue in forma grande. Non ho posto anco il di segno della pianta, secondo che è stato ultimamente concluso e secondo che sono ormai state gettate le fondamenta , per non avere potuto farlo intagliare a tempo che si potesse stampare. 3 La entrata di I. Cioè Lorenzo Rubini, scultore vicentino, autore delle statue che fiancheggiano le scalee. 2. G. ìVlARZARI, La Historia di Vicerzza [1591], Vicenza 1604, II, p. 160, lo ricorda come cultore di lettere e di musica. Cfr. DE Fusco, p. 571: cc Notiamo anzitutto che manca il consueto omaggio al committente, che viene citato soprattutto per il programma edilizio ancora da definire ». 3. Cfr. DE Fusco, p. 571 : (( Quanto alla descrizione della pianta, l'autore prima parla di uno sviluppo simmetrico della parte disegnata e poi dichiara di non aver pubblicato la versione definitiva per motivi contingenti ... In sostanza, di fronte alla realtà d'un edificio vincolato da un suolo irregolare e probabilmente dall'esigenza del committente, Palladio pubblica due soluzioni: quella primitiva e quella che intanto veniva costruendosi; di quest'ultima tuttavia egli dà alle stampe solo il prospetto e trova una scusa per non mostrare la nuova pianta che giudica troppo ir-

XX · LA CITTÀ

questa invenzione ha alcune colonne, che tolgono suso il vòlto per le cagioni già dette. 1 Dalla destra e dalla sinistra parte vi sono due stanze lunghe un quadro e mezo, et appresso due altre quadre, et oltra queste due camerini. Rincontro all'entrata vi è un andito, dal quale si entra in una loggia sopra la corte. Ha questo andito un camerino per banda e sopra mezati, a' quali serve la scala maggiore e principale della casa. Di tutti questi luoghi sono i vòlti alti piedi ventiuno e mezo. La sala di sopra e tutte l' altre stanze sono in solaro, i camerini soli hanno i vòlti alti al paro dei solari delle stanze. Le colonne della facciata hanno sotto i piedestili, e tolgono suso un poggiuolo, nel quale si entra per la soffitta; non si fa la facciata a questo modo (come ho detto), ma secondo il disegno che segue in forma grande. 2 DI ALCUNE INVENZIONI SECONDO DIVERSI SITI

Mia intenzione era parlar solo di quelle fabriche, le quali overo fossero compiute, overo cominciate e ridotte a termine che presto se ne potesse sperare il compimento; ma conoscendo il più delle volte avenire che sia di bisogno accommodarsi ai siti, perché non sempre si fabrica in luoghi aperti,3 mi sono poi persuaso non dover esser fuori del proposito nostro lo aggiugnere a' disegni posti di sopra alcune poche invenzioni fatte da me a requisizione di diversi gentiluomini, le quali essi non hanno poi eseguito per quei rispetti che sogliono avenire. Percioché i difficili siti loro et il modo c'ho tenuto nell'accomodar in quelli le stanze et altri luoregolare per rappresentare un esempio del suo stile. La reticenza, o se si vuole, la bugia è in parte giustificata dall,intenzione didascalica, dal valore esemplificativo che questi edifici assumono nel contesto del trattato 11. I. Cfr. p. 3252 e la nota I. 2. Cfr. L. PUPPJ, op. cit., n, p. 395: a Proprio, radozione di un differente tipo di prospetto (affrettatamente e senza giustificazione inserito nel trattato) prova una svolta radicale, di cui ci sfuggono le ragioni. È solo ipotesi pensare che lo spirito d,emulazionc di Montano avesse rifiutato, a un certo momento, l'intento del maestro, per chiedergli un,invenzione che riproponesse lo schema bramantesco romano, illustrato dal vicino Palazzo di Iseppo da Porto ... ; ed è anche probabile che le spese cui le demolizioni per la realizzazione del primo progetto avrebbero costretto, inducessero a ripiegare, poi, su una manipolazione della struttura edilizia preesistente e sul suo rivestimento, com'era accaduto, fino a un certo punto, nella vicenda del tanto più alto Palazzo Valmarana ». 3. Cfr. p. 3246 e la nota 3.

ANDREA PALLADIO

ghi ch'avessero tra sé corrispondenza e proporzione, saranno ( come io credo) di non picciola Utilità. 1 Il sito di questa prima invenzione è piramidale ;2 la basa della piramide viene ad esser la facciata principale della casa, la quale ha tre ordini di colonne, cioè il dorico, il ionico e 'l corinzio. La entrata è quadra et ha quattro colonne, le quali tolgono suso il vòlto e proporzionano la altezza alla larghezza ;3 dall 'una e l'altra parte vi sono due stanze lunghe un quadro e due terzi, alte secondo il primo modo dell'altezza de' vòlti; appresso ciascuna vi è un camerino e scala da salir nei mezati. In capo dell'entrata io vi facea due stanze lunghe un quadro e mezo et appresso due camerini della medesima proporzione, con le scale che portassero nei mezati; e più oltra la sala lunga un quadro e due terzi con colonne uguali a quelle dell'entrata. Appresso vi sarebbe stata una loggia, nei cui fianchi sarebbono state le scale di forma ovale e

-....

1. La loro esemplarità è dunque empirica, ma non per questo meno importante. 2. Cfr. R. Pru'l'E, op. cit., p. 269: 11 La prima invenzione per un'arca "piramidale" è a tre ordini. La piramide sarebbe semplicemente determinata da un taglio che annulla un'ala sulla destra del cortile di servizio; ma come sempre, la simmetria si spinge fin dove è possibile e perciò il taglio si presenta come un puro e semplice accidente». 3. Cfr. p. 3252 e la nota 1.

XX • LA CITTÀ

più avanti la corte, a canto la quale sarebbono state le cucine. Le seconde stanze, cioè quelle del secondo ordine, avrebbono avuto di altezza piedi venti, e quelle del terzo XVIII. Ma l'altezza dell'una e l'altra sala sarebbe stata fino sotto il coperto; e queste sale avrebbono avuto al pari del piano delle stanze superiori alcuni poggiuoli, ch'avrebbono servito ad allogar persone di rispetto al tempo di feste, banchetti e simili sollazzi. 1 Feci per un sito in Venezia la sottoposta invenzione: la faccia principale ha tre ordini di colonne, il primo è ionico, il secondo corinzio et il terzo composito. La entrata esce alquanto in fuori; ha quattro colonne uguali, e simili a quelle della facciata. Le stanze che sono dai fianchi, hanno i vòlti alti secondo il primo modo del1' altezza de' vòlti; oltra queste vi sono altre stanze minori e camerini e le scale che servono a i mezati. Rincontro all'entrata vi è un andito, per il quale si entra in un'altra sala minore, la quale da una parte ha una corticella, dalla quale prende lume, e dall'altra la scala maggiore e principale di forma ovata e vacua nel mezo, con le colonne intorno, che tolgono suso i gradi ;2 più oltre per un altro andito si entra in una loggia, le cui colonne sono ioniche, uguali a quelle dell'entrata. Ha questa loggia un appartamento per banda, come quelli dell'entrata; ma quello eh' è nella parte sinistra viene alquanto diminuito per cagion del sito. Appresso vi è una corte con colonne intorno, che fanno corritore, il quale serve alle camere di dietro, ove starebbono le donne e vi sarebbono le cucine. La parte di sopra è simile a quella di sotto, eccetto che la sala, che è sopra la entrata, non ha colonna e giugne con la sua altezza sino sotto il tetto et ha un corritore o poggiuolo al piano delle terze stanze, che servirebbe anco alle finestre di sopra: perché in questa sala ve ne sarebbono due ordini. La sala minore avrebbe la travatura al pari dei vòlti delle seconde stanze, e I. Cfr. R. PANE, op. cit., p. 269: «Si può affermare che la mancata esecuzione di questo progetto e di quello successivo, anch'esso concepito secondo un'analoga progressione spaziale, rappresenti una delle maggiori perdite, fra tutte quelle che abbiamo ragione di rimpiangere; infatti, le due invenzioni esprimono il senso di una graduale transizione, una osmosi che non è presente nei consueti interni delle altre opere palladiane. La eccezionale altezza, corrispondente a tre ordini sovrapposti, e la gradinata davanti all'ingresso, fanno supporre che anche il sito piramidale fosse in Venezia, insieme con quello che segue». 2. Cfr. p. 3254 e la nota 6.

ANDREA PALLADIO

sarcbbono questi vòlti alti ventitré piedi; le stanze del terzo ordine sarebbono in solaro di altezza di diceotto piedi. Tutte le porte e finestre s'incontrerebbono e sarebbono una sopra l'altra, e tutti i muri avrebbono la lor parte di carico. Le cantine, i luoghi da lavar i drappi e gli altri magazini sarcbbono stati accommoclati sotto terra. [ Feci già, richiesto dal conte Francesco e conte Lodovico fratelli de' Trissini, per un loro sito in Vicenza la seguente invenzione:~ secondo la quale avrebbe avuto la casa un'entrata quadra divisa in tre spacii da colonne di ordine corinzio, accioché il vòlto suo avesse avuto fortezza e proporzione. Dai fianchi vi sarebbono stati due appartamenti di sette stanze per uno, con1putandovi tre mczati, a' quali avrebbono servito le scale, che sono a canto i camerini. L'altezza delle stanze magg1on sarebbe stata piedi ventisette; e

o

,, " 1.

• ., '?:

o

o

Cfr. R. PANE, op. cit., pp. 269 sg.: La nostra attenzione è sollecitata a percorrere i passaggi interni e ad immaginare, in rapporto alla luce che giunge nella corticella e nella loggia, i complessi effetti chiaroscurali che avrebbero accompagnato il visitatore nei suoi diversi percorsi. In nessun'altra invenzione come in queste due ed in quella per il secondo palazzo della Torre in Verona si può dire che, appunto, in conseguenza della continuità spaziale, il legame tra colonne e muri si presenti svolto in forme altrettanto variate ». 2. Cfr. L. Purr1, op. cit., II, p. 323:

o

C'

(.)



o.

o 1..

P.

(i)

J (I"

I(..

~

c..,

•o

~

'(a

o

0

•• o (l)

u

0

0

.... '1.' "...

0

o

0 0' 00

0

½

':: .

f.·

o -.ao

".....

o

()

(."I

o

ANDREA PALLADIO



,!



e,







• •

"' I

• •









delle mediocri e minori deceotto. Più a dentro si sarebbe ritrovata la corte circondata da loggie di ordine ionico. Le colonne del primo ordine della facciata sarebbono state ioniche et uguali a quelle della corte; e quelle del secondo corinzie. 1 La sala sarebbe stata tutta libera, della grandezza dell'entrata, et alta fin sotto il tetto; al pari del piano della soffitta avrebbe avuto un corritore. Le stanze maggiori sarebbono state in solaro, le mediocri e picciole in vòlto. A canto la corte vi sarebbono state stanze per le donne, cucina et altri luoghi; sotterra poi le cantine, i luoghi da legne et altre commodità. 2 La invenzione qui posta fu fatta al conte Giacomo Angarano per un suo sito pur nella detta città. 3

Cfr. pp. 3263 sgg. 2. Cfr. R. PAcit., p. 270: « Un vivo interesse desta l'interno e specialmente il cortile in cui Palladio non esita a tracciare un braccio più ampio di portico, in maniera che le colonne siano allineate con i muri delle due scale e, nel tempo stesso, si determini un più ampio accesso agli appartamenti padronali. È ancora da notare che l'effetto delle colonne accostate sugli angoli trae pretesto da quella maggiore saldezza che nel cortile di Palazzo Thiene è stata espressa per mezzo dei pilastri >i, L. PurPI, op. cit., II, p. 324: « Palazzo Trissino appartiene ... al momento di ricerca critica sul tema del palazzo urbano e, in concreto, s'inserisce in una traiettoria avviata con le invenzioni di Palazzo Pisani a Montagnana e, soprattutto, di Palazzo Antonini ad Udine ... ma già pervenuta ad un punto abbastanza avanzato, vicino alla invenzione, parimenti non realizzata, di Palazzo Della Torre alla Brà di Verona». 3. Cfr. L. Purr1, op. cit., II, p. 354: « Palladio ... non precisa né la sede eletta né le conseguenze del progetto. Possiam specificare su1.

NE, op.

3268

XX • LA CITTÀ

Le colonne della facciata sono di ordine composito. Le stanze a canto rentrata sono lunghe un quadro e due terzi; appresso vi è un camerino e sopra quello un mezato. Si passa poi in una corte circondata da portici: le colonne sono lunghe piedi trentasei et hanno dietro alcuni pilastri da Vitruvio detti parastatice, 1 che sostentano il pavimento della seconda loggia; sopra la quale ve ne è un'altra discoperta al pari del piano dell'ultimo solaro della casa et ha i poggiuoli intorno. Più oltre si ritrova un'altra corte circondata similmente da portici: il primo ordine delle colonne è dorico, il secondo ionico; et in questa si ritrovano le scale. Nella parte opposta alle scale vi sono le stalle, e vi si potrebbono far le cucine et i luoghi per servitori. Quanto alla parte di sopra, la sala sarebbe senza colonne et il suo solaro giugnerebbe fin sotto il tetto; le stanze sarebbono tanto alte quanto larghe e vi sarebbono camerini e mezati come nella parte di sotto. Sopra le colonne della facciata si potrebbe fare un poggiuolo, il quale in molte occasioni tornerebbe commodissimo ...2 PROEMIO [DEL QUARTO LIBRO] AI LETTORI

Se in fabrica alcuna è da esser posta opera et industria, accioché ella con bella misura e proporzione sia compartita, ciò senza alcun dubbio si deve fare nei tempii, ne' quali esso Fattore e Datore di tutte le cose, Dio O.M., deve essere da noi adorato et in quel modo che le forze nostre patiscono lodato e ringraziato di tanti a noi continuamente fatti beneficii. 3 Per il che, se gli uomini nel bito che, in realtà, il disegno non fu mai posto in esecuzione e che la situazione topografica prescelta si trovava nella contrada di S. Faustino•· 1. Cfr. VITRUVIO, IV, 11, 1. 2. Cfr. L. PuPPI, op. cit., 11, p. 354: « Il progetto palladiano proponeva, nella soluzione dell'alzato della facciata, una nuova, libera alternativa allo schema di matrice bramantesca, impostata su un compartimento di dieci semicolonne giganti di ordine corinzio, ergentesi su alto basamento continuo spezzato all'altezza centrale per lasciare luogo alla porta, e reggenti una spessa trabeazione sopra la quale doveva alzarsi un attico coronato da statue ... Giusta la pianta ••. il compartimento doveva iterarsi sui fianchi, secondo un'egual scansione orizzontale, sino all'attacco della seconda corte interna: il palazzo, all'evidenza, doveva sporgere dall'agglomerato urbano destinato a conoscerne l'inserimento», 3. Cfr. CATANEO, qui p. 3224 e la nota 1. Cfr. anche BARBARO, p. 109: «La somma di tutto quello che dice Vitruvio, cerca le fabriche pertinenti alla religione, è che prima egli dimostra la necessità di conoscer la forza delle proporzioni e delle commensurazioni che si chiamano simmetrie da' Greci, da poi dichiara donde è stata presa la ragione delle misure e tratta della

ANDREA PALLADIO

fabricarsi le proprie abitazioni usano grandissima cura per ritrovare eccellenti e periti architetti e soffi.denti artefici, sono certamente obligati ad usarla molto maggiore nell'edificar le chiese.' E se in quelle alla commodità principalmente attendono, in queste alla dignità e grandezza di chi ha da esservi invocato et adorato devono riguardare; il quale essendo il sommo bene e la somma perfezzione, è molto convenevole che tutte le cose a lui dedicate in quella perfezzione siano ridotte che per noi si possa maggiore. 2 E veramente, considerando noi questa bella machina del mondo di quanti meravigliosi ornamenti ella sia ripiena e come i cieli col continuo lor girare vadino in lei le stagioni secondo il natural bisogno cangiando, e con la soavissima armonia del temperato lor movimento sé stessi conservino, non possiamo dubitare che, dovendo esser simili, i piccioli tempii che noi facciamo, a questo grandissimo dalla sua immensa bontà con una sua parola perfettamente compiuto, non siamo tenuti a fare in loro tutti quelli ornamenti che per noi siano possibili, et in modo e con tal proporzione edificarli, che tutte le parti insieme una soave armonia apportino agli occhi de' riguardanti, e ciascuna da per sé all'uso al quale sarà destinata convenevolmente serva.3 Per la qual cosa, benché di molta lode siano degni coloro i quali, da ottimo spirito guidati, hanno già al sommo Dio chiese e tempii fabricati e fabricano tuttavia, composizione dei tempii ... Dice adunque che per edificare i tempii bisogna conoscere la ragione del compartimento e questo dover essere con somma diligenza da gli architetti conosciuto. Di questo la ragione è in pronto, perché, se bene ogni fabrica deve esser con ragione compartita e misurata, niente di meno, considerando noi quanto la divinità eccede la umanità, meritamente dovemo quanto si può di bello e di raro sempre mai operare, per onore et osservanza delle cose divine. E perché di divina qualità participa in terra l'umana mente, però dovemo con ogni studio essercitarla, accioché onoriamo i dèi ». 1. Cfr. ancora CATANEO, qui p. 3224. 2. Cfr. M. FAGIOLO, Palladio e il significato dell'arcliitettura, in a Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio,,, XIV (1972), p. 35: « Il più ampio squarcio simbologico del trattato si trova non casualmente nella introduzione al problema dell'architettura sacra, in cui la funzione non è meramente pratico-estetica come nell'architettura civile (ideali di bellezza e comodità), bensì semantico-psicologica (ideali di dignità e grandezza)». 3. Cfr. M. FAGIOLO, loc. cit., p. 35: • Palladio, che sembra qui confermare la teoria di una architettura fatta a immagine e somiglianza del destinatario, sostiene quindi che il tempio, come dimora di Dio ccFattore" o Grande Architetto dell'Universo, debba essere in modo particolare "compartito con bella misura .••". Dove il concetto di armonia non è soltanto estetico, come Palladio fa credere, ma mistico-filosofico, in senso pitagorico e neoplatonico».

XX • LA CITTÀ

nondimeno non pare che senza qualche poco di riprensione debbiano rimanere, se non hanno anco studiato di farli con quella miglior e più nobil forma che la condizion nostra comporti. 1 Onde perché gli antichi Greci e Romani nel far i tempii ai lor dèi posero grandissimo studio e con bellissima architettura li composero accioché essi con que' maggiori ornamenti e con quella miglior proporzione fossero fatti, che allo dio al quale erano dedicati si convenisse; io son per dimostrar in questo libro la forma e gli ornamenti di molti tempii antichi, de' quali ancora si veggono le ruine e sono da me stati ridotti in disegno, accioché si possa da ciascuno conoscere con qual forma si debbiano e con quali ornamenti fabricar le chiese/· E benché di alcuni di loro se ne vegga picciola parte in piede sopra terra, io nondimeno da quella picciola parte, considerate anco le fondamenta che si sono potute vedere, sono andato conietturando quali dovessero essere, quando erano intieri. Et in questo mi è stato di grandissimo aiuto Vitruvio, percioché, incontrando quello ch'io vedeva con quello eh' egli ci insegna, non mi è stato molto difficile venire in cognizione e de gli aspetti e delle forme loro.3 Ma quanto agli ornamenti, cioè base, colonne, capitelli, cornici e cose simili, non vi ho posto alcuna cosa del mio, ma sono stati misurati da me con somma considerazione da diversi fragmenti ritrovati ne' luoghi ove erano essi tempii. E non dubito che coloro che leggeranno questo libro e considereranno diligentemente i disegni, non siano per prendere intelligenza di molti luoghi che in Vitruvio sono riputati difficilissimi, e per indrizzar l'intelletto al conoscer le belle e proporzionate forme de' tempii, e per cavarne molte nobili e varie invenzioni, delle quali a luogo e tempo servendosi possano far conoscere nelle opere loro come si debba e possa variare senza partirsi da' precetti deWarte e quanto simil variazione sia laudabile e graziosa. Ma avanti che si venga a' disegni, io brevemente, come son solito, dirò quelle avertenze che nell'edificare i tempii si devono osservare, avendole tratte anch'io da Vitruvio e da altri uomini eccellentissimi, i quali di si nobil arte hanno scritto.4

I. Cfr. p. 3235 e la nota 5. 2. Cfr. soprattutto i capitoli 1v sgg. di questo stesso IV libro. 3. Grazie, naturalmente, anche a Daniele Barbaro. 4. Cfr. BARBARO, pp. 110 sgg.

ANDREA PALLADIO

DELLE FORME DE' TEMPII E DEL DECORO CHE IN QUELLI SI DEVE OSSERVARE 1

I tempii si fanno ritondi, quadrangulari, di sei, otto e più cantoni, i quali tutti finiscano nella capacità di un cerchio; a croce e di molte altre forme e figure, secondo le varie invenzioni degli uomini: le quali ogni volta che sono con belle e convenevoli proporzioni e con elegante et ornata architettura distinte, meritano di esser lodate. 2 Ma le più belle e più regolate forme, e dalle quali le altre ricevono le misure, sono la ritonda e la quadrangulare; e però di queste due solamente parla Vitruvio e ci insegna come si debbano compartire, come si dirà quando si tratterà del compartimento de' tempii. 3 Ne' tempii che ritondi non sono, si deve osservare diligentemente che tutti gli angoli siano uguali, sia il tempio di quattro o di sei o di più angoli e lati. Ebbero gli antichi riguardo a quello che si convenisse a ciascuno de' loro dèi, non solo nell'eleggere i luoghi ne' quali si dovessero fabricare i tempii, come è stato I. Palladio affronta il problema delle fonne dei templi dopo aver chiarito nel precedente capitolo le esigenze della loro locazione: «Eleggeremo quei siti per i tempii, che saranno nella più nobile e più celebre parte della città, lontani da' luoghi disonesti e sopra belle et ornate piazze, nelle quali molte strade mettano capo, onde ogni parte del tempio possa esser veduta con sua dignità et arrechi divozione e meraviglia a chiunque lo veda e rimiri. E se nella città vi saranno colli, si eleggerà la più alta parte di quelli. Ma non vi essendo luoghi rilevati, si alzerà il piano del tempio dal rimanente della città quanto sarà conveniente, e si ascenderà al tempio per gradi, conciosiaché il salire al tempio apporti seco maggior divozione e maestà. Si faranno le fronti de' tempii che guardino sopra grandissima parte della città, accioché paia la religione esser posta come per custode e protetrice de' cittadini. Ma se si fabricheranno tempii fuori della città, allora le fronti loro si faranno che guardino sopra le strade publiche, o sopra i fiumi, se appresso quelli si fabricherà: accioché i passaggieri possano vederli e fare le lor salutazioni e riverenze dinanzi la fronte del tempio» (Iv, p. 5). 2. Cfr. CATANEO, qui pp. 3220 sgg. e le note I sgg. 3. Cfr. PALLADIO, IV, pp. 9 sgg.: « Benché in tutte le fabriche si ricerchi che le parti loro insieme corrispondano et abbiano tal proporzione che nessuna sia, con la quale non si possa misurare il tutto e le altre parti ancora, questo nondimeno con estrema cura si deve osservare nei tempii, percioc:hé alla divinità sono consacrati, per onore et osservanza della quale si deve operare quanto si può di bello e di raro. Essendo adunque le più regolate forme de' tempii la ritonda e la quadrangulare, io dirò come ciascuna di queste si debbano compartire e porrò anco alcune cose appartinenti ai tempii, che noi cristiani usiamo».

XX • LA CITTÀ

detto di sopra,1 ma anco nell'elegger la forma: onde al sole et alla luna, perché continuamente intorno al mondo si girano e con questo lor girare producono gli effetti a ciascuno manifesti, fecero i tempii di forma ritonda, o almeno che alla rotondità si avicinassero; e così anco a Vesta, la qual dissero esser dea della terra, il quale elemento sappiamo ch'è tondo. 2 A Giove, come patrone dell'aere e del cielo, fecero i tempii scoperti nel mezo co, portici intorno, come dirò più di sotto. 3 Negli ornamenti ancora ebbero grandissima considerazione a qual dio fabricassero; per la qual cosa a Minerva, a Marte et ad Ercole fecero i tempii di opera dorica, percioché a tali dèi dicevano convenirsi per la milizia, della quale erano fatti presidenti, le fabriche senza delicatezze e tenerezze.4 Ma a Venere, a Flora, alle Muse et alle Ninfe, et alle più delicate dee, dissero doversi fare i tempii che alla fiorita e tenera età virginale si confacessero, onde a quelli diedero l' opra corinzia, parendo loro che l' opere sottili e floride, ornate di foglie e di volute, si convenissero a tale età. 5 Ma a Giunone, a Diana, a Bacco et ad altri dèi, ai quali né la gravità de' primi, né la delicatezza de' secondi pareva che si convenisse, attribuirono l' opere ioniche; le quali tra le doriche e le corinzie tengono il luogo di mezo. 6 Cosi leggiamo che gli antichi nell'edificare i tempi i si ingegnarono di servare il decoro, nel quale consiste una bellissima parte dell'architettura. E però ancora noi, che non abbiamo i dèi falsi, per servare il decoro circa la forma de' tempii eleggeremo la più perfetta e più eccellente; e conciosiaché la ritonda sia tale, 1. Cioè in PALLADIO, IV, p. 5. 2. Cfr. CATANEO, qui pp. 3220 sg. e la nota r. Vedi anche PALLADIO, 1v, p. 52: «Dicono che egli [il tempio di Santo Stefano di Roma] fu edificato da Numa Pompilio e dedicato alla dea Vesta, e lo volse di figura ritonda a simiglianza dell'elemento della terra, per la quale si sostiene la generazione umana e della quale dicevano che Vesta era dea». 3. Cfr. PALLADIO, IV, p. 8: 11Questi tempii nella parte di dentro avevano altri portici con due ordini di colonne uno sopra l'altro et erano queste colonne minori di quelle di fuori, il coperto veniva dalle colonne di fuori a quelle di dentro, e tutto lo spazio circondato dalle colonne di dentro era scoperto: onde l'aspetto di questi tempii si dimandava Hipethros, cioè discoperto. Si dedicavano questi tempii a Giove come a patrone del cielo e dell'acre, e nel mezo del cortile si poneva l'altare. Di questa sorte credo che fosse il tempio, del quale si veggono alcuni pochi vestigi in Roma sopra Monte Cavallo; e che fosse dedicato a Giove Quirinale [cfr. PALLADIO, 1v, p. 41] e fabricato dagli imperatori, perché ai tempi di Vitruvio (come egli dice) non ve ne era alcuno 11. 4. Cfr. BARBARO, pp. 144 sgg. 5. Cfr. BARBARO, pp. 155 sgg. 6. Cfr. BARBARO, pp. 149 sgg.

ANDREA PALLADIO

32 73

perché sola tra tutte le figure è semplice, uniforme, eguale, forte e capace, faremo i tempii ritondi, a' quali si conviene massimamente questa figura, perché essendo essa da un solo termine rinchiusa, nel quale non si può né principio né fine trovare, né l'uno dall'altro distinguere; et avendo le sue parti simili tra di loro e che tutte participano della figura del tutto; e finalmente ritrovandosi in ogni sua parte l'estremo egualmente lontano dal mezo, è attissima a dimostrare la unità, la infinita essenza, la uniformità e la giustizia di Dio. 1 Oltra di ciò non si può negare che la fortezza e perpetuità non si ricerchi più ne' tempii che in tutte le altre fabriche, conciosiaché essi siano dedicati a Dio O. M. e si conservino in loro le più celebri e le più degne memorie della città; onde, e per questa ragione ancora, si deve dire che la figura ritonda, nella quale non è alcun angolo, ai tempii sommamente si convenga.2 Devono anco essere i tempii capacissimi, acciò che molta gente commodamente vi possa stare ai divini officii; e tra tutte le figure che sono terminate da equale circonferenza, niuna è più capace della ritonda. 3 Sono anco molto laudabili quelle chiese che sono fatte in forma di croce, le quali nella parte che sarebbe il piede della croce hanno l'entrata et all'incontro l'altar maggiore et il coro, e nelli due rami che si estendono dall'uno e l'altro lato, come braccia, due altre entrate, overo due altri altari; perché essendo figurate con la forma della croce, rappresentano agli occhi de' riguardanti quel legno, dal quale stete pendente la salute nostra.4 E di questa forma io ho fatto la chiesa di San Giorgio Maggiore in Venezia. 5 Devono avere i tempii i portici ampii, e con maggior colonne di quello che ricerchino le altre fabriche, e sta bene che essi siano grandi e magnifici (ma non però maggiori di quello che ricerchi la grandezza della città) e con grandi e belle proporzioni fabricati. Imperoché al culto divino, per il quale essi si fanno, si richiede ogni magnificenza e grandezza. Devono esser fatti con bellissimi ordini di colonne e si deve a ciascun ordine dare i suoi proprii e convenienti ornamenti.6 Si faranno di materia eccellentissima e della più preciosa, accioché con la forma, con gli ornamenti e con la materia 1. Cfr. CATANEO, qui p. 3220 e la nota 1. 2. Cfr. CATANEO, qui p. 3220. 3. Convinzione soprattutto simbologica. 4. Cfr. CATANEO, qui p. 3221 e la nota 1. 5. Si noti la brevità dell'autocitazione. 6. Cfr. PALLADIO, IV, p. 9.

XX • LA CITTÀ

si onori quanto più si può la divinità: e se possibil fosse, si doveriano fare ch'avessero tanto di bellezza, che non si potesse imaginare cosa più bella; e cosl in ogni loro parte disposti, che coloro che vi entrano si meravigliassero e stessero con gli animi sospesi nel considerare la grazia e venustà loro. 1 Tra tutti i colori niuno è che si convenga più ai tempii, della bianchezza, conciosiaché la purità del colore e della vita sia sommamente grata a Dio. Ma se si dipingeranno, non vi staranno bene quelle pitture che con il significato loro alienino l'animo dalla contemplazione delle cose divine; percioché non si dobbiamo nei tempii partire dalla gravità e da quelle cose che, vedute da noi, rendano gli animi nostri più infiammati al culto divino et al bene operare. 2

I. La bellezza del tempio ha anche una sua efficacia psicologica. 2. Si ribadiscono il decoro e la simbologia; cfr. R. WITTKOWER, p. 27 sg., R. AssUNTO, Introduzione all'estetica del Palladio, in « Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio », xiv ( 1972), p. 1 s: • Negli edifici pubblici la eccedenza della rappresentatività si attua nella monumentalità autorappresentativa ed autocelebrativa con la quale la destinazione dell'edificio esibisce se stessa: una armonia della varietà e del numero degli ornamenti. Se l'edificio sacro ha il proprio più degno ornamento nella chiarezza e semplicità che rappresenta l'Uno oltre il molteplice, la Luce bianca oltre i colori, l'edificio pubblico richiede maggior copia e vistosità di ornamenti sensibili, che in pari tempo lo differenzi dalle costruzioni destinate al culto e dagli edifici di privata abitazione».

LUDOVICO AG0STINI LA REPUBBLICA IMMAGINARIA

Ora, per non edificare la città di questa nostra republica in sito tale, che per difetto d'aere ne volti in brevità di tempo tutti gli abitanti sotterra, faremo elezione del luogo propporzionato alla sanità cosi naturale come accidentale: e dando mano alla naturale, che è la più sicura e la meno soggetta agli accidenti, non uscendo d'Italia (secondo la commune opinione degli uomini la più temperata regione del mondo) e dell'Italia scegliendo il megliore, lasciando la rivera del mar Tirreno, come troppo sottoposta all'Austro e per conseguenza alla corrozione dell'aria per la comistione dell'umido e del calido, che in putredine suole terminarsi; non si volendo estremare in alcuno de' duo lati per non sentir gli estremi di lor mali, né ci volendo discostar dal mare, né in mare abitare per non incorrere nei difetti dei troppo lontani e degli altri che, isolati vivendo, vivono sempre a discrezione de' vicini di terra ferma; aderendo alla più salutare spiaggia del mare Adriatico, dove framezzandosi fra molti deliziosi colli molte feraci pianure, gli uni e l'altre copiose di finezza d'aria, di temperate stagioni, d'acque purgatissime così di fiumi come di fonti, di pozzi e di cisterne: poi abondantissime di bianchi frumenti, di saporitissimi vini, di preziosissimi frutti per tutti i tempi dell'anno per varietà infiniti, compartite d'arbori cosi domestici come di silvestre roveri, che per uso necessario de' fuochi riescono i più utili legnami FINITO. 1

Da L'Infinito di LUDOVICO AGOSTINI da Pesaro, cod. 193 della Biblioteca Oliveriana di Pesaro, libro II, parte II, ff. 77-78, 86v.-87v., secondo l'edizione La Repubblica immaginaria di LUDOVICO AGOSTINI, a cura di L. Firpo, Torino 1957, pp. 82-6, 106-8. La precisazione del titolo risale a C. Curcio, che l'ha tratto dal testo stesso, ove si accenna all'«immaginaria repubblica D sognata dall'autore (cfr. C. CuRCIO, Utopisti italiani del Cinquecento, Roma 1944, p. 115). 1. Sui due interlocutori Finito e Infinito cfr. L. FIRPO, Lo stato ideale della Controriforma. Ludovico Agostini, Bari 1957, p. 263: • Infinito è la Sapienza divina, "propria creatura increata", arbitra di tutte le questioni proposte, e non a caso da lui l'intero scritto prende nome; l'altro, Finito, è la ragione umana, la terrena limitatezza, "un pezzo di terra, una bolla d'acqua, un puoco di polvere agitata dal vento, un sogno e quasi ..• un niente": l'uno è lo spirituale, il divino, il necessario, l'altro il corporeo, il terreno, il contingente•·

XX • LA CITTÀ

che si abbruscino: non vi mancando quivi cosa che si desideri quando cosi ti contenti - non vagaremo altrove per cercar meglior sito di quello ov'al presente ci troviamo; 1 maggiormente poi che l'aria di questi paesi suole per natura produrre uomini temperati ne' vizi, docili in ogni sorte di scienza, forti nella guerra, civili nella pace, amici d'ogni uomo, nimici di niuno e per longa abitudine così bene avezzi all'obedienza, ch'i prencipi loro si son sempre così bene di loro gloriati, com'essi fatti gloriosi del principato e reggimento di quelli, fra tutt'i prencipi dell'universo tutto esempi singolarissimi di religione e di giustizia ...2 Ora, per tornar noi a dar legge e forma al regimento della sanità della nostra republica, avendo divisato del sito abastanza per quanto si aspetta alla naturalità del viver sano, cominceremo ora per le sue parti accidentali a discorrere, e per ciascuna formeremo quelle leggi, che più oportune ci pareranno per conservazione di essa sanità, distinguendo esse parti per le maniere che communemente usano gli uomini per vivere distinti dagli animali bruti in decoro dell'imagine ch'interna portano a somiglianza del sommo creatore lddio, che in somma sono: gli alloggiamenti, i cibi, i riposi, i trattenimenti e gli antidoti così preservativi come medicinali. 3 E dalle case principiando, perché il povero non s'infetti, segregato [dai] nobili vivendo in vile albergo, nella feccia della città4 e sottoposto a mille disagi di umidità, di fetori e di angustie (onde, sì come l'isperienza n'insegna [che] dal contagio del povero commin-

1. Pesaro e dintorni, già esaltati da Bernardo Tasso e dallo stesso Ludovico Agostini nelle Giornate soriane; cfr. L. FIRPO, op. cit., pp. 72 sg. 2. Per una simile esaltazione ideale della propria terra cfr. TOLOMEI, qui pp. 3127 sgg. 3. Sono questi gli argomenti tipici degli utopisti (cfr. ad esempio DONI, PATRIZI, qui pp. 3164sgg., 3177 sgg.), che mirano a definire le vitali funzioni collettive. 4. Dalla villa di Soria, dove si era rifugiato sin dal 1582, l' Agostini sembra riprendere la contrapposizione degli orrori della città alla felicità della campagna (cfr. LEONARDO, qui p.3111 e la nota 1). Cfr. anche la sua lettera a Lucrezia Panezia Monaldi, senza data ma probabilmente del 1582, in L. FIRPO, op. cit., p. 145: u E quivi [a Soria appunto] vo io talora contemplando gli infortuni del genere umano, che, per la tranquillità instabile di questo mondo solcando, non si avvede dei suoi pericoli, se non quando ad un soffio di Borea o d'Austro vien posta la somma di tutte le cose a discrezione di fortuna. E conciosiacosa che nei tempi de' miei vani sospiri, da gelosia sospinto, ad imitazione dei miei confusi pensieri, vi feci fare un labirinto di perpetua verzura, di variate fronde intessute, dove buona parte delle mie poesie composi; di questo oggi servendomi in memoria de' perduti tempi ••• maledico il mio destino ».

LUDOVICO AGOSTINI

3 2 77

ciando sempre la peste, per tutti gli ordini serpendo, non lascia poi cosa intatta, si che in breve il tutto non sotterri): in rimedio però di questo ordineremo che le case siano tutte dal publico edificate e con tale architettura poste e distinte, si che ogni casa almeno da due parti resti aperta, perché senta il sole e i venti che la purghino e perché gli abitatori possino ristorarsi di tempo in tempo cosi per l'estremità de' caldi come de' freddi; e ne' piani e ne' mezzati di queste case voglio io locare tutta la plebe della città. 1 INFINITO. Come rimedierai tu all'ambizione di quelli che vogliono i palagi e non le case abitare? FINITO. Diranno questi le voglie loro al senato con la spesa che far vi vogliono, oltre a quella del publico; poi l'architetto della città sarà quegli che, al publico e al privato servendo, con istruttura proporzionata eseguirà sinceramente il tutto.a INFINITO. Se la qualità delle strade a luogo a luogo ripugnasse a questa foggia di fabrica, come farestù perché il tutto riuscisse secondo la tua prescritta legge? FINITO. Nel compartimento della città si affileranno le strade di maniera che fra l'una e l'altra vi nascerà un vano propporzionato alle corti e ai giardini di ciascuna casa; e chi vorrà maggior che gli altri averla, ciò potrà egli fare pel lungo e non pel largo del suo sito e, volendo uscir da' termini degli altri, potrà far la sua caminata dall'una strada all'altra e sopra le due strade due facciate avere. INFINITO. Non sarebbe meglio usar del severo e istatuire che per 1. Cfr. L. FIRPO, op. cit., p. 273: Cl Finito bada a sistemare le abitazioni urbane: tutte le case han da essere costruite a spese pubbliche, con due facciate almeno esposte all'aria e al sole, fornite di fognature e di cantine, e tutto il popolo vi abiti insieme, nei piani bassi la plebe, nei superiori la nobiltà. Questa discriminazione residua, concessa in omaggio al rango sociale, mostra che il provvedimento non si ispira all'egualitarismo, bensì ad una considerazione utilitaria», TAFURI, pp. 222 sg.: Cl Nella Repr,bblica in11nagi11aria . •• la radicalizzazione politica è attenuata, ma l'eliminazione della miseria e delle disparità economiche è ancora posta in primo piano, mentre si sviluppa l'interesse per le istanze igieniche e funzionali, per la strumentazione di una corretta politica urbanistica - egli prescrive, fra l'altro, non solo limitazioni di altezza e profondità, ma anche il diritto di proprietà dello Stato sulle abitazioni e un costante controllo edilizio e patrimoniale dell'autorità - oltre che per la regolamentazione, per i servizi pubblici ecc.». 2.. Eliminando, cioè, le ostentazioni individuali; cfr. L. F1aP0 1 op. cit., p. 273.

XX • LA

CITTÀ

quantità di famiglia e non per qualità d'uomini si potesse or grande e or picciola casa avere r si com'anco che tutte le case fossino della republica e nessuna fosse privata r FINITO. Come tu mi levi gli effetti dell'ambizione, mi togli eziandio la gloria sua, mediante la quale la metà del mondo si regge: poiché l'onore e l'utile sono quelli che reggono tutta la machina della prudenza umana; e nel particolare delle fabriche disse il Filosofo conoscersi per quelle la grandezza degli animi dei loro autori. 1 INFINITO. Chi vuole l'unione de' cittadini, levi quanto più può le preminenze private, lasciando ai soli magistrati le differenze di quelle. FINITO. Le abitazioni più e meno magnifiche non forono avute mai in considerazione di preminenze d'ordini. INFINITO. Non però mi negherai tu non essere una delle principali cagioni d'invidia la splendidezza de' suntuosi palagi; e come non mi levi le occasioni dell'invidia, tu mi concedi la conseguenza degli odi e delle gare; che se per publico decoro hanno le republiche passate trascurato questa limitazione de' privati edifici, volendo tu il tutto dalla tua republica edificarsi, cesserà l'occasione dell'eccezione non senza scandalo infin qui comportata. FINITO. Non mi spiace questa considerazione, venendomi approvata da un termine legale il quale vieta l'altezza delle fabriche private sopra l'usitato modo dell'altre simili fabriche della città.2 Che volendo noi ad ogni cosa dar modo e misura, cercherà altrove l'ambizioso fondar le torri della sua vana pazzia, da me per altro pur troppo dilettissima. E seguitando il principiato discorso, perché la plebe, che viverà nelle parti inferiori delle case, non senta nocumento alcuno d'umidità, ordineremo che tutte siano infin ai fondamenti cavate e voltate: il che eziandio servirà per la conservazione e freschezza de' vini ; facendo che per la soperficie delle corti passino tutte l'acque piovane e che tutte le brutture siano da quelle per condotti guidate fuori della città e spinte in mare: e, in tempo di secche, per forza di rampolli del fiume, che, compartiti per quartieri e per istrade, tre o quattro volte il mese e più e meno, x. Cfr. L. AcosTINI, La Repubblica immaginaria, cit., p. 85 nota I: «Sembra alludere ad ARISTOTELE, Moralia magna, 1, 3 (1184) ». 2. La gara dei cittadini rinvia al prestigio delle torri; cfr. FILARETE, I, pp. 131 sgg.

LUDOVICO AGOSTINI

3279

secondo che farà bisogno, correranno in ispurgazione di detti condotti e fogne. 1 INFINITO. Alessandria in Egitto e Bologna in Romagna forono cosi dai loro fondatori edificate. FINITO. I condotti di Bologna sono in qualche parte in essere> ma quelli d'Alessandria sono stati dalle ruine riempiti. INFINITO. A me basta averti così detto per chiarirti non essere tua questa invenzione. FINITO. O mi sia io l'inventore di cosa buona, o l'imitatore degli autori di essa, pur ch'io faccia bene, non crederò io venirne . npreso. INFINITO. Benissimo parli, purché in gloria non ti risenti. FINITO. Se in questa parte non averò gloria d'ingegno, averolla nondimeno di prudenza, sì come hanno tutti quelli che la via de' buoni e de' scienti attendono ...2 Questo sempre sia per inteso fra noi. 3 Ora, dando principio alla forma delle forze della nostra città, presupposto come da prima dicemmo ch'ella sia in sito atto a ricevere una ragionevole fortificazione di recinti di mura terrapienate,4 di belloardi, di case matte, di fosse, di piazze commode a far reti rate, di contramine e di pozzi e di cisterne a sufficienza pel bisogno de' cittadini e de' soldati, non facendo conto d'acquedotti, di fontane, per essere in potere de' nemici cosi d'essere tagliati come avvelenati, verrò a dire di que' provedimenti che a far si hanno perché la fortezza abbia forza cosi alimentale come armale per tutti gli accidenti de' suoi bisogni. 5 Si come, verbigrazia, ch'ella sia abondantissima di munizioni frumentarie e di tutte le grascie che per tempo mantenere si possono senza pericolo di corrozioni; che vi siano molini da vento e da mano e da bestie all'uso di Guascogna, che a mio giudizio si potriano eziandio per contrapesi reggere, in tanta quantità, che basti anzi da vantaggio che scarsamente per triturare il quotidiano bisogno della città, quando fossero smaltite le farine, che in FINITO.

1. Sulla nettezza idrica delle città cfr. FILARETE, I, pp. 167 sgg. 2. A questo punto l'Agostini affronta i cibi (cfr. p. 3276) - per i quali prevede l'istituzione di un rigido calmiere, tenendo presenti soprattutto le esigenze degli indigenti - e poi i riposi, i trattenimenti e gli antidoti. 3. Cioè la distinzione tra forza e fortezza, l'una riferita al corpo, l'altra all'animo dei cittadini. 4. Cfr. pp. 3275 sgg. 5. Anche per le fortificazioni, t>Agostini insiste sulle esigenze non solo tecniche della cittadinanza.

3280

XX • LA CITTÀ

gran quantità deeno essere. Che abbia abondanti conserve di legne, d'aceti, di solfi e di salnitri; che sia copiosa d'armi, come che di artiglierie, d'archibugi, di balestre; poi di corsaletti, di picche, di rotelle e cosi d'ogni altro genere d'arme da offesa e da difesa; che abbia mille cavalli com partiti fra poderosi cittadini, atti a questa disciplina equestre o che per sustituti possano ad ogni occorrenza servire con osservato ordine di rasegnarsi una volta il mese con tutt'i suoi finimenti di cavalleria. E questi voglio che vivano esercitati alle lance, con spessi giuochi militari, così per servizio de' soldati, come che per esempio e per allettamento de' giovani che s'incaminano alla professione di quest'arte di guerra. Che quelli che non possono tener cavalli, o che atti non si sentono all'esercizio di cavalleria, debbiano stare proveduti di quell'armi da fant'a piedi, alle quali il genio e la disposizione della vita gli fa più inclinati; e a questi, cosi come ai cavalieri, voglio dare luogo e mastri, perché a certi ordinati tempi si possano ridurre insieme ad esercitarsi all'ordinanze, alle scaramucce e alla ubidienza de' capi; non permettendo alcuno esente, eziandio togato, sicché ai dovuti tempi tutti quelli che vivono sani e forti, ancorché vecchi, non abbiano a ragunarsi almeno in ischiera con gli altri suoi pari, acciocché (come Giustiniano disse) in tempo di pace e di guerra la republica, armata di scienze e ornata d'armi, rettamente possa venire per giusto e forte governo mantenuta;" cantando col Poeta: N ec tarda senectus debilitat TJires animi mutatque TJigorem; caniciem galea premimus. 2 INFINITO.

Nisi Dominus custodiverit civitatem, frustra vigilat qui

custodit eam. 3 FINITO. Che vuoi tu per ciò dire ? Cfr. L. AcosTINI, La Repubblica immaginaria, cit., p. 107 nota 1: «Si riferisce alle prime parole del proemio alle lnstitutiones giustinianee: "Imperatoriam maiestatem non solum armis decoratam, sed etiam legibus oportet esse armatam, ut utrumque tempus et bellorum et pacis recte possit gubernari" »("Bisogna che la maestà dell'imperatore non solo sia ornata delle anni, ma anche armata delle leggi, in modo che sia in pace che in guerra si possa governare con giustizia»). 2. VIRGILIO, Ae11., IX, 610-2 («La tarda vecchiaia non indebolisce la forza dell'animo, né muta il vigore; copriamo la canizie con l'elmo 11). 3. Psalm., 126, 1 (• Se il Signore non protegge la città, invano vigila chi la custodisce•). 1.

LUDOVICO AGOSTINI

Dir voglio che maggior forza di quella che infin qua hai divisata tu converrà che abbia questa nostra immaginaria republica, cosi ad esempio delle esistenti fra noi stessi formata, se vorremo che salda si difenda dall'armi nimiche degli invisibili e de' visibili suoi contrari; poiché, gli uni dagli altri suggestati, pongono in atto le potenze contaminate degli animi reprobi loro. 1 FINITO. Io ho detto quello che so e che mi sovviene: aggiungi mo' tu ciò che ti detta l'infinito tuo avvedimento. INFINITO. Non in gladio nec in asta salvat Dominus.2 Perciò meglio ti sarà l'usare ogni diligenza che i recinti delle muraglie siano di soda pietra di ferma giustizia drittamente tirate; che le case matte siano gli uomini savi che la republica governino; che i belloardi, di bombarde pieni, siano i monasteri di bonissimi religiosi, che con le orazioni ributtino i nimici; che le fosse sia la profonda umiltà de' cittadini; che le cisterne siano le continue lagrime de' peccatori, stillate per le spugne della contrizione e per le arene della penitenza con li dovuti mezzi de' sacramenti della confessione, ristorati poi all'immortale e indeficiente granaio della gran munizione del Verbo di Dio, fatto pan celeste e salutare per coloro che non indegni lo ricevono e trasustanziato in vera carne incorottibile, che d'uomini fa dèi coloro che la mangiano, anzi fa l'istesso Dio in mansione perfetta. I molini voglio che siano le buone conscienze, ove a triturare si abbiano del continuo le quotidiane operazioni, sì che alcuno non vi sia che dell'altrui porti in coscienza dalla mattina alla sera pur tanto che vaglia una minuta scaglia di farina. La munizione delle legne pel fuoco sarà l'ardente fiamma della carità; l'acceto la fortezza e l'acrimonia contr'agl'incentivi carnali, mediante l'orazione e l'astinenze della superfluità de' cibi; il solfo sarà l'attitudine della disposizione per ricevere le scintille infiammate dell'amor di Dio; e il salnitro la forza e l'empito che spinge la debolezza dell'uomo alla superiorità delle cose intellettuali. Quali debbiano essere poscia l'armi del Cristiano, Paolo te lo insegna, dicendo agli Efesi: State succincti lumbos vestros in veritate, et foduti lorica,n iustitiae, et calceati pedes in praeparatione evangelii pacis, in omnibus sumentes scutum fidei, in quo possitis omnia tela nequissimi ignea extinguere; et galeam salutis assumite, et INFINITO.

Dalla forza materiale a quella spirituale, suffragata da citazioni bibliche. z. J Reg., 17, 47 (•Il Signore non salva colla spada né colla lancia•). 1.

zo6

XX · LA CITTÀ

gladium spiritus, quod est verbum Dei, 1 con quello che seguita in propposito di che ragioniamo. FINITO. Non è dubbio alcuno essere più forti le armi di Dio che quelle degli uomini, e più acuta e più pungente la parola sua che qualsisia ben rotato pugnale. Ma non commanda egli però che gli uomini in difesa degli altri uomini debbiano stare con le mani piegate e schiettamente orare e senza punto difendersi cosi lasciarsi uccidere, come già ferono gli Ebrei da Antioco, dicendo: Mor1:amur omnes in simplidtate nostra, et testes erunt super nos coelum et terra ;2 il perché meglio considerato dagli altri che restarono arando e combattendo senza distinzione di tempi (ancorché dedicati in onore di Dio), si liberarono vittoriosi dall'insolenza de' nimici, concordemente dicendo: Quicumque venerit ad nos in bello die sabbatorum, pugnemus adversus eum; et non moriemur omnes, sicut mortui sunt fratres nostri in occultis. 3 INFINITO. Quando la tua forza sarà primieramente fondata in Dio e delle sue armi cosi armata come delle tue vestita, non solo non ti biasmerò, ma come provvido prudente ti loderò; poiché allora potrai con l'armato David a Dio cantare: In te inimicos nostros ventilahimus cornu, et in nomine tuo spernemus insurgentes in nobis.4 E percioché l'ardire militare suole le più volte far superbi e temerari coloro che da Dio non riconoscono le grazie gratis date dell'umana forza e valore, però soggiungerai col medesimo profeta: Non enim in arcu meo sperabo, et gladius meus non salvabit me, 5 acciocché di forte non diventi debole e di vincitore perditore.

1. Ephes., 6, 14-17 (« State saldi cingendo i vostri lombi nella verità e indossando la corazza della giustizia e calzando i piedi nella preparazione che dà il Vangelo della pace; in ogni cosa impugnando lo scudo della fede, su cui possiate spegnere tutti i dardi infocati del maligno. E prendete sù anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito che è la parola di Dio»). 2. I Mach., 2, 37 («Moriamo tutti nella nostra lealtà ed il cielo e la terra saran testimoni di noi»). 3. I Mach., 2, 41 («Chiunque venga ad assalirci in giorno di sabato, combattiamo contro di lui, e non morremo tutti come son morti i nostri fratelli nelle caverne >>). 4. Psalm., 43, 6 (« Con te sbaraglieremo i nostri nemici, e nel nome tuo calpesteremo i nostri aggressori»). 5. Psalm., 43, 7 («Non spererò nel mio arco, né mi salverà la mia spada»).

VINCENZO SCAMOZZI DELL'IDEA DELLA ARCHITETTURA UNIVERSALE DELLA FORMA UNIVERSALE E RECINTO DELLA CITTÀ E DEL SUO PIANO INTERNO ET ASPETTO E COMPARTIMENTO DELLE STRADE DENTRO E FUORI

Poiché siamo ispediti del trattar delle città in generale e de' porti e delle altre cose che ci hanno parse più necessarie cosl all'une come gl'altri, perciò par convenevol cosa che in questo luogo ragioniamo del compartimento intorno della città (come in parte fece anco Vitruvio, e Platone ne toccò molto sottilmente nel fine dell'ottavo dialogo}, 1 delle strade, piazze e della situazione de' tempii, del palazzo del prencipe e per governo, come per aministrar ragione, e di tanti altri edifici publici, acciò che siano collocati a' luoghi loro convenevoli, cosi per la propria convenienza dell'uso, come anco per ornamento e bellezza della città.2 Or posto che la città (per non dare in uno eccesso) fusse di xn lati o bellovardi3 di 180 passa da gola a gola, onde il suo circuito a lungo alle cortine verrebbe presso a tre miglia e 160 passa (come dimostraremo altrove)4, e questa sarrebbe assai convenevole grandezza ad una città in fortezza e per residenza del prencipe, alla quale si potesse dare un ramo d'acqua derivata da due rami, acciò non potesse esser levata dal nemico in occasione di guerra, e per navigare e far mulina et altri edifici più necessarii, senza i quali malamente può far una città ben ordinata in tutte le sue parti. 5 In questa città deputaremo cinque piazze :6 cioè la prima e prinDa L'idea della architettura ,miversale di VINCENZO SCAMOZZI architetto TJeneto, Venetiis 1615, 11 pp. 164-74, 240-3. 1. Cfr. VITRUVIO, 1, v, e PLATONE, Polit., 287 sg. 2. Le vitruviane fir-mitas, utilitas e TJenustas restano programmatiche (cfr. ad esempio CATANEO, qui pp. 3185 sgg.). 3. Si ricordino le più modeste dimensioni delle città quadrate e poligonali del CATANEO, pp. 10 sgg. 4. Cfr. SCAMOZZI, 1, p. 184: «La fortezza di XII lati eguali, di 180 passa per uno, averebbe di circonferenza 2160 passa circa, 360 passa di semidiametro, di modo che tutta la sua area sarebbe 376470 passa superficiali». 5. Sulle esigenze idriche della città cfr. ad esempio FILARETE, 1, pp. 167 sgg., CATANEO, qui pp. 3215 sgg. 6. Cfr. FILARETE, 1. p. 166, CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3201 sgg., 3277 sgg. Anche per le piazze, come già per i baluardi, lo Scamozzi propone entità rilevanti.

XX • LA CITTÀ

cipale della Signoria là nel mezo, e la sua lunghezza andasse da greco levante a ponente libeccio; 1 e più là a parte destra, con una strada diritta con botteghe da ambe le parti si pervenisse alla piazza del mercato de' grani e vini e cose da mangiare annualmente, 2 e dall'altra parte un'altra strada parimente con botteghe, che conducesse alla piazza giornale, cioè de' frutti et erbaggi e pescaria et ove fusse il macello o beccaria. 3 Poi là, in faccia della piazza maggiore, vi fusse il palazzo del prencipe o regente, e là [a] destra e sinistra i luoghi da governo e gli offici civili e criminali, e camerlenghi e dogane, e più là l'armamento e l'arsenale e simiglianti cose; e dietro al palazzo del principe fosse la strada che passasse alla piazza per negozio de' mercanti; e nell'altra faccia della piazza maggiore fosse situato il domo, o chiesa catedrale, et il vescovado e simiglianti cose, e più a dietro al domo, verso ostro sirocco, la piazza da legne, bestiami, fieni e paglie.4 Poi tra questa piazza e la maggiore si potrebbe fare scorrer l'alveo del fiume, per mandar ruote d'edifici e per l'arti de' tintori e pelatarii et altre molte (come dicemmo altrove) ch'hanno di bisogno d'acque correnti5 e con i loro ponti da passare; e perché tutte le piazze averebbono le strade in croce, però là negli estremi delle loro strade sarebbono luoghi per otto monasterii et ospitali e luoghi pii, e poi i luoghi da monizioni e vittovaglie a lungo il fiume, e gli allogiamenti de' soldati, e guarnigioni dispensati all'intorno, ove tutti averebbono siti comodi, ampii e fuori del concorso della città, et a questo modo tutti i luoghi publici sarebbono collocati a' luoghi loro, né alcuna strada, né meno le piazze, né palazzi o monasterii sarebbono fuori di squadro, né pur offesi da alcuno de I. Cfr. ad esempio CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3202 sg., 3277 sgg. 2. Anche la distinzione dei generi di vendita acquista una razionale gerarchia; cfr. diversamente FILARETE, 1, pp. 166 sg., CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3202 sg., 3277 sgg. 3. Cfr. CATANEO, qui p. 3212. 4. Per simili riferimenti preferenziali cfr. CATANEO, qui pp. 3206, 3239. 5. Cfr. SCAMOZZI, 1, p. 13 I : « Gli edifici sopra all'acque possono esser di molte sorti, come per bisogno del vivere e per comodo delle città, fra quali noi giudichiamo questi: le macine da grano, i pistrini da oglio e valanie, quelli da arruottarc e brunire l'armi, le fucine e magli da ferro e da rame e pestar polvere d'artigliarie, i foli e garzadori da panni di lana e le cartere da carte da scrivere. I filatoi da sete e che torcono le funi et altre materie, i tornitori e brunitori per lavori di rame et ottoni e stagni (come usano a Norimbergo) e finalmente per far ruote da levar acque in alto in varie maniere e per adacquare giardini, et altre utilità de quali ne parlaremo longamente altrove».

VINCENZO SCAMOZZI

gli otto venti principali; alla qual cosa si dee avere grandissimo riguardo per sanità de gli abitanti. 1 E questo è quanto all'universale.2 Quando la città averà il piano di dentro talmente situato eh' egli sia di natura alquanto più alto e rilevato nel mezo, senza dubbio alcuno egli sarà più facile da tenere netto et asciutto che ogn'altro; perché il tutto si potrà scolare verso alla circonferenza, dove sono i luoghi vicini alle strade militari et al di fuori del recinto. Né per questo gli edificii alti et eminenti, che saranno nel mezo (oltre alle torri e simili altri), vi potranno esser colpiti dalle artigliarie in tempo di guerra e da nemici che fussero in campagna piana; perché, dovendo passar di sopra a' parapetti delle cortine et a gli altri corpi da diffesa, converranno dal basso all'alto andar a ferrir in aria e di sopra ad essi edifici. 3 Et essendo poi il piano della città uguale e come a livello, si averebbono, in occasione di guerra, queste e molte altre sicurezze, ma molto maggior difficultà nel scolare l'acque, come diremo poco appresso, e portar via le torbide e fanghi e l'altre immondicie delle strade;4 come Ferrara5 e tante altre, e però sono di verno sempre fangose e sporche e lorde, e massimamente quelle ove transitano le carra e gli animali da soma, come in parte è Milano.6 Non si lodano però quelle città ch'hanno molto sconvenevol pendio, come Bergamo, Genova, Napoli e Siena in Italia, e tante altre di là da' monti; perché, oltre che rendono molto incomodo al salire e scenI. La buona esposizione e lo regolare collocazione assicurano, in tal modo, ai più importanti edifici pubblici un adeguato rilievo urbanistico. 2. A proposito di tmiversale cfr. SCAMOZZI, I, p. 19: • Specialmente nell'architettura si dee più tosto aver riguardo alla sostanza et al suggetto della cosa e che i concetti siano ordinati et espressi con proprietà di parole: onde sit candidus sermo, non con molta esquisitezza di voci et affettazione•· 3. Il problema è affrontato dal punto di vista igienico (cfr. FILARETE, 1, pp. 167 sg.) e da quello bellico. 4. Cfr. SCAMOZZI, 1, pp. 179 sgg. 5. Cfr. SCAMOZZI, I, p. 108: «Ferrara ..• da pochi anni in qua ha perso la navigazione per le torbide del Po, che a• giorni nostri giovenili abbiamo veduto molto profondo e con grossi navilii; onde le campagne si vanno riducendo in paludi per l'acque del Rendi Bologna, che se le scaricano sopra, il quale, come abbiamo osservato sino dalle sue fonti. scende tra monti e valli dirupate; onde se ne viene torbidissimo, aggiuntole anco il fiume Ghironda et altri, che si scaricano dalla Valle Padusa. già antichissimo letto del Po. Dalle quali tutte cose •.. si può considerare quanto importi la bontà delle regioni et eccellenza de' paesi et il saper bene collocar le città et altri luoghi». 6. Sulle cui caratteristiche cfr. SCAMOZZI, 1, p. 161.

3286

XX · LA CITTÀ

dere de' carri e cavalli et a' pedoni, elle accrescono anco bruttezza a gli edifici, posciaché paiono zoppi e bistorti. 1 Dove si può, si faccia il piano della città alto convenevolmente dalla soperficie dell'acque de' fiumi e massimamente de' torrenti, che portano ghiara e torbide ;2 parimente le strade e gli edifici publici e privati si elevino da terra, perché giornalmente i letti dei fiumi si vanno alciando con le immondizie che ricevono da gli altri fiumi: e dicalo Ferrara, che in 20 anni ha perso la navigazione per le torbide del Rhen di Bologna, e dalle campagne, trattenute dalle roste delle mulina et anco dalle sporcizie de' bestiami et animali che transitano e da' terreni e calzestruzzi de gli edifici, e dalle case de' privati, e per mille altri accidenti, e, molte volte, per le arsioni, guerre e destruzzioni ...3 Le strade, cosi dentro come fuori della città, sono di ragion del principe tanto in tempo di pace, quanto di guerra; e perciò alcuno (come dice Frontino) non le dee occupare né impedire, se non con permissione sua, la onde vi fu quella sentenza: N emo quemquam ire prohibet publica via. Le strade o sono reggie, o militari; overo principali, o pur ordinarie, o finalmente minori. Le strade reggie si possono dir quelle per dove passa la pompa et i trionfi, e fannovi passaggio i prencipi e personaggi grandi in tempo di solennità, e poi militari quelle dentro da' terrapieni delle fortezze. 4 E perciò e quelle e queste deono esser diritte, ampie e spaciose, per dar luogo alle file delle ordinanze de' soldati e della cavalleria, e per il condurre dell'artiglierie, e finalmente per poter fare comodamente le retirate e tante altre cose che possono occorrere in tempo di guerra ;5 e perciò in questi estremi della città deonsi lasciar terreni vuoti, si anco perché quelli di fuori in campagna né con 1. Effetto spesso in contrasto con l'amenità delPambiente: su Napoli cfr. SCAMOZZI, 1, p. 117. 2. Cfr. LEONARDO, qui p. 3116. 3. Cfr. p. 3285 e la nota 5. 4. Cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 304 sgg., FILARETE, 1, pp. 167 sgg., CATANEO, qui pp. 3204 sgg., PALLADIO, qui pp. 3232 sgg. 5. Cfr. Al.BERTI, Architettura, I, pp. 302 sg.: « Sunt quidcm militares [viae], qua in provincia proficiscimur cum exercitu atque impedimentis. Ergo militarem non militaribus multo esse spatiosiorem oportet. Et adverti assuesse veteres ponere, ut essent cubitos nusquam minus octo» (ORLANDI, ivi: "Sono strade militari quelle che permettono di passare attraverso le province con l'esercito e le relative salmerie. Quindi tali strade devono essere assai più ampie di quelle non militari. Ho notato in proposito che gli antichi non le facevano mai meno larghe di otto cubiti»). Vedi anche PALLADIO, qui pp. 3234 sgg.

VINCENZO SCAMOZZI

trincee né con cavallieri elevati non possino vedere né offendere con l'artegliaria gli edifici che fussero quivi di dentro; per la qual cosa non si possono lodare come Trevigi et alcune altre città, le quali hanno chiese e palazzi di molta importanza quasi a canto alle mura. 1 È molto da avvertire che le strade et anco le piazze, e gli edifici publici e parimente i privati, per quanto si può nelle città siano volte a gli aspetti migliori; acciò i cittadini e quelli che transitano per esse venghino meno offesi, e chiara cosa è, come dicemmo altrove, che l'aere di levante tiene una certa qualità temperatamente calda, perché viene accompagnato da' raggi del sole; e perciò i venti che spirano a questa parte risolvono le umidità ne' corpi animati et anco ne gli edifici, onde per questo è ottimo l'abitarvi. 2 Ma que' luoghi che sono volti all'aspetto di sirocco, hanno non poco l' aere umido e talor accompagnato di caldo; laonde quando le porosità de' corpi sono aperte, allora egli distempera la natura nostra e corrodono le mura de gli edifici. Le strade ch'hanno l'aspetto loro verso ostro senz'altro ricevono l'aria calda et umida buona parte del giorno e quasi in tutti i tempi dell'anno per le cagioni già dette: e perciò viene ad essere dannoso così a' corpi animati, come a gli edifici. 3 1. L'argomentazione tradizionale si avviva spesso di una personale esemplificazione locale. 2. Affrontando il problema dell'orientamento delle varie parti della città, l'autore si vale di tutte le fonti più accreditate, a partire da Aristotile e Vitruvio. Sul vento di levante cfr. SCAMOZZI, 1, p. 144: « Levante è il primo vento, così detto dal levar del sole nel tempo dell'equinozzio. Da' Latini fu detto Subsolanus, Oriens et Ortus e da' Greci Apeliotes per In medesima cagione, e però si vede a levare e tramontare sempre equidistante 90 gradi da un polo all'altro•; 1, p. 149: «Il vento di Levante è di natura or secco et or umido e tiene alquanto del crasso e però umeta et aggrava qualche poco tutti i corpi; si tiene anco che egli sia più caldo che quello di ponente, e la ragione, secondo noi, è perché il sole ferisce la terra, venendo verso noi, onde attrae molti vapori D, 3. Cfr. SCAMOZZI, 1, p. 144: « Ostro sirocco da' Latini è detto Leuconotos, cioè bianco, e Phaenitias venendo dalla parte della Fenicia con termine alla Giudea, i quai popoli furono de' primi che navigarono. I Greci lo chiamano Euronotos, perché è posto tra questi duoi venti»; I, p. 149: • Sirocco in queste nostre parti dell'Italia non è molto temperato, né del tutto amico della natura, poiché alle volte è freddo e tallor caldo et umido, onde or restringe et or apre, di modo che con tante inegualità distempera la natura e tra tutti i venti qui in Venezia è umidissimo, poiché viene quasi per diritta linea di questo Golfo Adriatico; onde s'empie di umidità, la quale tinge e lascia sopra a' marmi et alle pietre dure e metalli, e quando spira move grandemente il cataro ».

3288

XX · LA CITTÀ

E passando più là, migliore condizioni ricevono quei luoghi rivolti a garbino, essendo l'aere più piacevole, benché in varii tempi e specialmente l'autunno spirino da questa parte venti instabili, ma però senza qualità dannose. Le strade che riguardano verso ponente, ancora che abbino l'aere temperato per la maggior parte dell'anno, e grattissimo nel tempo della primavera, onde conduce bellissimo tempo, tuttavia nel tempo dell'estate, nel declinare il sole a' monti, egli dà ne gli occhi et offende non poco la vista, e viene alquanto riscaldato: onde per ciò egli infervera grandemente e l'aere e le mura de gli edifici. 1 Quelle strade che riguarderanno verso maestro parteciperanno dell'aere asciutto, benché di primavera spirino venti assai continovi, i quali tengono del freddo e perciò conferiscono non poco alla complessione de gli uomini, perché uniscono il calar naturale. 2 Si come dalla parte di tramontana le piazze e le strade ricevono l'aere freddo e secco, ma sottile, e talor spirano venti molto gagliardi e potenti, intanto che penetrano et asciugano e restringono tutte le cose animate o artificiali. 3 Cfr. SCAMOZZI, I, pp. 144 sg.: «Ponente è chiamato cosi, quasi perché egli venghi d'ove si ripone o asconde il sole, nel tempo dell'Equinozzio; da' Latini è detto Favonio perché favorisce le piante con la sua piacevolezza. I Greci lo chiamano Zephyrus, quasi ch'apporti vita e serbi le cose nascenti, come dice Plutarco», I, pp. 149 sg.: « Sì come il vento di Ponente è men caldo che quello di Levante, perché (come si è detto) il sole ferisce la terra et il mare occidentale nell'andare, onde non fa le sue attrazioni verso noi, ma tuttavia lo stimiamo molto insalubre alle abitazioni de gl'uomini nel tempo dell'estate; perché essendo di già l'acre del giorno riscaldato, egli si conserva buona parte della notte e nelle mura e nelle stanze. Questo vento alle volte è caldo et umido e massime qui in Italia, et alle volte umido e freddo et acquoso, perché viene - come si è detto - di sopra al Mar Oceano e da' paesi bassi pieni di umidità,,. 2. Cfr. SCAMOZZI, 1, p. 145: a Maestro è chiamato da' marinari perché è, come mastro, favorevole alle loro navigazioni verso Levante: i Latini lo chiamano Caurus o Corus; i Greci lo nominano Argestes »; I, p. 150: « Il vento di Maestro spira molto di genaro e febraro, in modo che !'acque vanno gagliardamente alle basse, ove presta grandissima comodità al palificare le fondamente per gli edifici qui in Venezia e cavare i canali della città; onde è molto favorevole alle navigazioni da Venezia verso le parti di Sirocco e Levante». 3. Cfr. SCAMOZZI, 1, pp. 150 sg.: c1 Mentre spira il vento di Tramontana apporta serenità, perché rompe e dissipa le nubi col servir all'insù e quando soffia fa cessare tutti gli altri venti; poiché egli viene da cause maggiori e più potenti, e (come disse Vitruvio) si risanavano i Mitileni allo spirar di esso. In questa parte si deono collocare le stanze per abitare nel tempo dell'estate e parimente tutte le officine della casa e le cantine e granari e salvarobbe, perché si conservano meglio tutte le cose». 1.

VINCENZO SCAMOZZI

E finalmente verso greco e borea l'aere è freddo e sottile, e però è reputato molto sano, e massime a que' luoghi che sono sottoposti al caldo; posciaché per ordinario spirano venti gagliardi, i quali condensano et induriscono.' Vero è che l'aere va molto variando secondo la differenza delle regioni et accidenti che si ritrovano or qua et or là, a' quali l'architetto dee avere grandissima considerazione e riguardo ... Le strade reggie e principali si deono intendere quelle che vanno da una città all'altra, overo ad altro luogo famoso, le quali vogliono esser disposte in modo che apportino comodo alla città, e cambievolmente altrove, per facilità di quelli che v'hanno a condurre o merci et altra cosa, e rendino anco bellezza a tutti i forestieri che transitano per esse, e deono esser diritte, ampie e rilevate, accioché in tutti i tempi dell'anno vi si possi transitare a piedi et a cavallo. 2 Or le strade maestre sono poi quelle ch'hanno capo dalle strade militari e conducono per la più nobil parte della città: come alle piazze, al palazzo del prencipe et alle principali chiese, e però deono esser diritte et ampie, e quanto più si può senza pieghe e svolte, perché a questo modo rendono la città sempre riguardevole e bella e risultano di maggior comodità. Di modo che i forastieri che passano per esse, quasi in una sola occhiata veggono buona parte della città, o almeno delle cose più gradite e belle che sono in essa; e perché le strade nelle città sono a simiglianza delle vene del corpo umano, perciò ve ne deono esser e di reggie e di principali e I. Cfr. SCAMOZZI, I, p. 145: 11 Il vento Greco, detto farsi per esser proprio a qualche parte prestante della Grecia, o più tosto che gracchia col suo strepito e rumore, da' Latini fu detto Aquilo, quasi che, come dice Festo, con la sua fierezza venghi come aquila a volo 11; I, p. I 51 : « Il vento Greco, che i Latini chiamano Aquilone, è tanto potente che ruppe l'armata de' Medi ne' scogli Sepiadi - come racconta Pausania -, onde allora si salvò, per modo di dire, tutta la Grecia; e parimente rovinò la machina grandissima de' Lacedemoni, con la quale erano per prender Megalopoli nell'Arcadia. Nell'Italia è sanissimo tra tutti i venti, perché restringe e indurisce e condensa e, molte volte, nella primavera egli inasparisce la voce e massime venendo dopo qualche altro vento caldo, e move la tosse e indurisce il corpo, ritiene l'urina, fa orrore et aporta dolore a' fianchi et al petto (come dice Ippocrate), fa novi lampi e folgori spesse fiate: come avvenne due volte in pochi giorni, l'anno 1581, ove scantonò quasi da alto a basso il campanile di San Marco, qui in Venezia». 2. Tenendo conto di tutti gli inconvenienti meteorologici, l'architetto deve trovare soluzioni adeguate; cfr.. CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3204 sgg., 3235 sg.

XX • LA CITTÀ

di maestre e di ordinarie e di minori, l'une differenti dall'altre secondo il servizio che deono prestare. 1 Poi le strade ordinarie sono quelle che conducono a lungo et a traverso per la città; e perciò si dee aver riguardo che non ricevino in faccia i venti gagliardi e potenti e di cattive qualità, la qual cosa raccorda anco Vitruvio, 2 perché (come abbiamo detto altrove) fanno grandissimo nocumento, essendo che allora passando per luoghi ristretti et angusti si uniscono e si rinforzano maggiormente, e quindi è che in alcune provincie e parti della Francia et altre simiglianti si doverebbono far le strade più brevi e curte, e con qualche edificio che le osti ali' entrare et all'uscire; le quai cose giovarebbono non poco anco nelle regioni fredde, come nell'U ngaria e Polonia e nella Germania, e tante altre. E per lo contrario alle città poste nelle regioni e paesi molto caldi si deono far le strade diritte e continovate, accioché nel tempo del caldo ogni poco d' aere e venticello possi pigliar forza e gagliardia e render l'aere temperato; 3 ma in qualonque regione o clima che si ritrovi la città, o temperato o freddo o caldo o ventoso, non è da lodare le strade tortuose e con molte svolte e fuori di squadro: perché di primo tratto rendono bruttezza alla città e [tolgono] la comodità che, stando alli poggioli e fenestre de' palazzi e delle case private, si possi vedere tutto oltre da lontano a tempo delle processioni e trionfi e feste, e godere l'un l'altro; e perciò le strade hanno a incrociarsi ad angoli retti l'una con l'altra, perché allora recano maggior comodità e grazia e bellezza, onde gl'edi:fici, e publici e privati, riescono in squadro e con maggior corrispondenza.4 E finalmente le strade minori vengono poi a esser quelle che conducono a traverso delle ordinarie e communi, e là dove possono esser giardini e luoghi da delicie et orti e terreni vacui de' particolari, ne' quali sono anco le case più basse e di manco importanza; di modo che queste strade ragionevolmente possono esser alquanto più ristrette delle altre, ma perciò non molto in tanto che disdica, essendo che vengono a esser anco più brevi e curte delle sodette, et a servizio particolare de' cittadini. Cfr. ancora CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3204 sgg., 3:.1.32 sgg. e le note relative, con i rinvii ad Alberti e Filarete. 2. Cfr. VITRUVIO, 1, v1, 1, e ancora CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3204 sgg., 3235 sgg. 3. Cfr. ancora CATANEO, qui pp. 3204 sg. e le note relative. 4. Scamozzi condivide e ribadisce le preferenze di CATANEO e PALLADIO, qui pp. 3204 sgg., 3232 sgg. I.

VINCENZO SCAMOZZI

E se bene nelle arcioni' di Roma sotto Nerone fu riputato di molto beneficio il ridur le strade strette e con molte svolte e pieghe, come dice Cornelio Tacito,2 e con gl'edifici di qua e di là molto alti, tuttavia quello che è di beneficio una volta per qualche accidente non dee esser preso per legge e regola generale a tutti gl'altri, perché in vero, a non s'ingannare, le strade molto anguste e ristrette e gibbose indubitatamente apportano melanconia universalmente a tutta la città e rendono oscuro l'abitar delle case, oltre che l'acre, cosi permanente e quasi fermo, diviene di qualità più grossa e men sana, alle quali cose si ha da avere grandissima considerazione. E perciò ne' paesi temperati, come per lo più nella nostra Italia, le strade vogliono esser larghe convenevolmente, perché le molto larghe portano via molto spacio di terreno, laonde fuori di proposito fanno il corpo della città molto più grande del dovere e vi resta poco per l'abitare; per le quali cose fa poi di bisogno di maggior guardia e numero di soldati, in tempo di guerra, o con sospetto di dover esser assaltati da' nemici. 3 La larghezza delle strade (dica chi vole) si dee cavare da quelle bisogne che v' hanno a transitare, come carri, carrozze, cavalli e simiglianti cose, che si usano più in una regione e paese che non si fa altrove, et anco dalla qualità de gli edifici, e perciò dove essi saranno maggiori et alti, allora si facciano anco le strade che corrispondino ad essi, ma non più larghe della loro altezza; la qual cosa è stata avvertita a' nostri tempi a Roma, ma non cosi bene a Napoli, a Genova et anco Fiorenza.4 Perché in queste nostre parti, e massime qui in Venezia e per la Lombardia, nel tempo dell' equinozio il sole verrà a dare a tutta l'altezza delle facciate le quali guarderanno a mezo di, e da questa regola si potranno far anco le altre strade proporzionate.5 Sono alcuni, che non vorrebbono molto diritte né tanto ampie le strade, quando sono vicine alle porte della città e massime in tempo di guerra, acciò che l'inimico non potesse scorrere, come è intervenuto più volte, e ne' tempi passati fece temerariamente un I. Cioè arsioni, incendi. 2. Per lo stesso esempio cfr. CATANEO e PALLADIO, qui pp. 3204 sgg., 3235 sgg. 3. La soluzione delle strade non può quindi prescindere da una proporzionalità urbanistica. 4. Scamozzi concorda ancora con CATANEO, qui pp. 3201 sgg. 5. Il criterio proporzionale sarebbe quindi ancora legato all'orientamento dell'edificio.

XX · LA CITTÀ

Turco a Vienna; onde egli audacemente vi lasciò la vita. 1 Il che si potrebbe vietare con catene di ferro e sbarre di legnami e stipiti fitti in piedi e carri attraversati e finalmente con le rovine de gl'edifici; perché mentre i Lacedemonii furono per prender la città di Messenia nel Peloponnesso, le donne la diffesero valorosamente col gettarli adosso le tegole de, tetti et altre cose simili (come dice Pausania), e Pirro re de' Macedoni nella presa d'Argo fu parimente amazzato all'improviso da un tegolo gettatoli da alto.2 E molte altre cose possono servire, le quali si mettono ad un tratto, e poi nel rimanente del tempo di pace aver le strade lunghissime e belle e fuori d,impaccio, come si è detto. E perciò queste strade deonsi fare molto ampie e spaciose, perché in esse vi ha da esser il transito maggior di tutte le cose; laonde è convenevol cosa che si possino dar luogo i carri e cavalli et anco i pedoni, senza che gli uni impedischino gl'altri cosi nell'andare, come nel ritornare; e sì ancora perché i tempii e gl' edifici publici e privati che saranno in esse, abbino i loro aspetti convenevoli, e ricever que' lumi che le saranno bisognevoli.3 In qualunque luogo che saranno le strade, elle deono esser di terreno sodo e fermo per natura, overo con l'arte, ma specialmente le principali e militari, cosi per il calpestro di cavalli e dell'aruotar delle carra, come per il maneggiar dell'artigliarie grosse e minute, le quali si conducono in tempo di bisogno in un istante da luogo a luogo; laonde si è veduto tante volte che per l'affondar delle strade le artigliarie in tempo de' maggior bisogni sono rimase colà e pervenute alle mani de' nemici con pregiudicio grandissimo; per la qual cosa molte volte da tai disordini le città medesime sono state in molto pericolo di perdersi. E perciò noi potiamo se non lodare sommamente la diligenza e cura de quelli che conducevano l'artigliarie nell'esercito imperiale mentre il Turco venne sotto Strigonia:1 Non sempre le strade si deono selicare di pietre e massime le militari, perché oltre al sdrucciolare le pietre rendono suono e rimbombo col calpestro de' cavalli e molto più ancora col condurvi I. Dalla problematica generale si passa a quella accidentale, abbinando episodi del passato e del presente. 2. Cfr. PAUSANIA, I, xn1, 8, PLUTARCO, Py"h. XXXII. 3. Scamozzi torna ai problemi generali con gli argomenti di CATANBO e PALLADIO, qui pp. 3202 sg., 3231 sgg. 4. Una nota laterale indica l'anno 1599. Per simili preoccupazioni tecniche cfr. PALLADIO, III, pp. 9 sg.

VINCENZO SCAMOZZI

32 93

l'artigli arie; onde ne' stretti assedii e ne gl' assalti, et in altri simili tempi ne' quali si combatte alla ristretta, i nemici di fuori possono ad ogni picciolo moto d'aria sapere quello che si fa di dentro, e massime in tempo di notte; e perciò et anco poi per risparmio della spesa pare convenevol cosa che esse si deono lasciare di buona terra forte e bene assodate. Vero è che quando fusse debole et atta allo arendersi sotto a' pesi, allora sarà bene a selicarle de' sassi o ciottoloni non molto duri e sonori, overo sternarvi sopra ghiara o sabbia grossa, o altra materia asciutta, perché cosi si leverà il rimbombo e suono che potessero fare; ma di queste cose se ne parlerà altrove particolarmente. 1 DELLA SITUAZIONE DELLE PIAZZE, TEMPII, PALAZZI REGGI

E DE' LUOGHI PER· MAGISTRATI ET ALTRI DA RISPETTO

Ora a differenza degl'antichi (come dice Vitruvio e Pausania e Strabone e tanti altri) ragionaremo delle piazze.2 Nelle città mediocri si convengono almeno 3 piazze. La prima, come centro, sia nel mezo ad uso della nobiltà e ragunanza de' cittadini, e perciò si chiama piazza della Signoria, e dee esser la maggiore e più ornata e comoda de portici e botteghe onorevoli e cose civili, dell' altre; alla quale principalmente ha da esser congiunto il palazzo del prencipe e per amministrazione delle cose publiche e private, e le altre cose che cadono per conseguenza, come si dirà altrove. 3 Poi non molto scosto vi sia la chiesa catedrale, così per divozione del populo come per comodità et ornamento di essa; delle quali parti ne toccò anco Platone.4 La seconda piazza doverà esser per ridursi i mercanti e persone di negozio e che tratta di cambii e maneggio e traffico della maggior parte delle facende della città. Et essa dee esser da un lato della prima piazza, overo come l'abbiamo situata di dietro al palazzo del prencipe et al luogo da aministrar ragione, e per conseguenza anco 1. Cfr. SCAMOZZI, u, pp. 356 sgg. 2. Cfr. V1TRuv10, v, I, I: « ltaliae vero urbibus non cadem est ratione faciendwn, ideo quod a maioribus consuetudo tradita est gladiatoria munera in foro dari» («Nelle città d'Italia non dobbiamo procedere allo stesso modo [dei Greci], perché il costume di dare spettacoli gladiatorii nelle piazze è stato tramandato dagli antichi»). 3. Cfr. CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3202, 3277 sgg. con le note relative. 4. Cfr. Polit., 269 sg.

32 94

XX · LA CITTÀ

in sito assai nobile. E quando non fusse tanto congiunta a questi luoghi, non sia però incomoda alla maggior parte di quelli che vi hanno a negoziare. E questa piazza abbia d'intorno, e per le strade che conducono dall'una all'altra piazza, botteghe di varie merci di seta e pannine con i loro magazeni da serbare le robbe. 1 La terza piazza si potrà collocare dal lato destro della piazza maggior, acciò e questa e quella siano come braccia della prima piazza, nella quale si farà il mercato generale due e tre volte alla settimana, secondo che comporterà il bisogno e l'uso del paese. E vi concorreranno le persone del contado, per vender le cose necessarie ad uso cotidiano, secondo le stagioni e varietà de' tempi; e perciò vi deono esser le cose aderenti. 2 Ma nelle città metropoli e molto grandi si potranno aggiunger due altre piazze ;3 onde la quarta sarà per uso de gl'erbaggi e pescaria e macello principale, essendo che in molte città per comodo de' cittadini si vendono anco queste cose in più luoghi, e perciò vi deono esser all'intorno le botteghe da vender di continovo le grassine et agli e simiglianti cose bisognevoli alla giornata, e parimente vi siano botteghe a lungo alle strade, che conducono da questa alla piazza maggiore. E perché l'uso di queste cose è al medesimo fine e tempo, perciò tutte queste merci stanno bene congiunte o vicine l'una all'altra, e non è dubbio alcuno che questa piazza dee avere un luogo coperto dal sole e vicino all'acqua per la pescaria et immondicie del macello e delle altre cose, e perciò l'abbiamo posta a sinistra della piazza maggiore e vicina all'alveo del fiume. Poi la quinta piazza ha da esser quella del vino e legna e fieni e paglie, per uso delle famiglie e de gl' animali che si tengono nelle città, e perché questa piazza non ricerca luogo tanto nobile né verso al mezo della città, perciò l'abbiamo collocata oltre al fiume, accioché l'andar innanzi et indietro tante carra e calpestro d'animali non sia con incomodo della città e noia e disturbo de' cittadini.4 Inoltre in queste piazze et anco ne' campi alle volte vi si possono far le mostre de' soldati e rassegne e simiglianti cose, secondo che comporterà l'occasione et il tempo. Tutte le piazze già dette saranno molto bene situate quando averanno la loro lunghezza da levante a ponente, perché da gl'edi1. Cfr. FILARETE, 1, pp. 236 sg., CATANEO, PALLADIO, SCAMOZZI, qui pp. 3202 sgg., 3277 sgg., 3283 sg. 2. Cfr. p. 3284 e la nota 2. 3. Cfr. p. 3284. 4. Cfr. pp. 3284 sg.

VINCENZO SCAMOZZI

32 9S

fici che le sono da' lati esse vengono coperte dal mezo giorno e dalla tramontana, che ambe le possono danneggiar; onde nel tempo dell'estate sono men dominate dal sole e dall'aere caldo et umido, et il verno dalla furia de' venti boreali; e quando fussimo in qualche regione e paese molto dominato dall'acre noioso e grave, allora si deono situar le piazze et anco i tempii e gl'altri edifici publici e di maggior importanza in modo che abbiano l'aere e tali e quali venti violenti non in faccia, ma per angulo, come disse anco Vitruvio. 1 E noi abbiamo situate le lunghezze delle piazze da greco levante ad africo ponente, perché a questo modo si viene a romper l'impeto e la forza loro, e non possono venir rettamente a dar in fronte o ne' lati, così per apunto, ma di sbriccio. Gioverà anco se a quella parte più noiosa si faranno gl' edifici di mediocre altezza e continovatamente; ma della grandezza delle piazze e di loro ornamenti convenevoli ne parlaremo altrove ne gl'edifici publici.2 Sì come, senza alcun dubbio, i primi onori si deono dare supplichevolmente alla maestà del grande lddio, cosl il tempio o sia la chiesa catedrale pare che si convenga in luogo conspicuo e principale della città. 3 E perciò se ella fusse o tutta o parte in colle, il tempio si collocherà in luogo alto e rilevato, e però non incomodo all'andarvi; ma s'ella sarà in piano, come abbiamo presupposto noi, allora se le dee dare luogo vicino alla piazza maggiore e non molto scosto al palazzo del prencipe et a quello del governo e della ragione, acciò ad un tratto, dopo reso grazie a lddio, ognuno possi attender a quello che più le bisogna.4 E là d'intorno abbia diverse strade principali, che conduchino qua e là, non solo per comodo de' cittadini, ma ancora per i forestieri che capitano nella città. 5 Vicino, e più tosto congiunto al domo, vi dee esser il palazzo episcopale e le canoniche, con tutte le loro comodità aderenti, delle quali se ne parlerà altrove. Oltre alla chiesa catedrale ve ne deono esser dell'altre e collocate ne' luoghi convenevoli si per dignità loro, come anco per il comodo dell'andarvi il populo; ma con tutto ciò noi non lodiamo che Sulle caratteristiche dei venti e l'orientamento urbanistico cfr. pp. 3287 sg. Sulle soluzioni vitruvinne cfr. VITRUVIO, I, VI, 3 sgg., CATANEO, qui p. 3203. 2. Cfr. SCAMOZZI, qui pp. 3304 sgg. 3. Cfr. Al.BERTI, Architettura, I, pp. 358 sgg., CATANEO, qui pp. 3208 sg. 4. Più che della confJenienza (CATANEO, qui p. 3208) lo Scamozzi sembra preoccuparsi della funzionalità pratica. 5. Cfr. CATANEO, PALLADIO, SCAMOZZI, qui pp. 3205 sg., 3235, 3289 sg. I.

XX • LA CITTÀ

elle siano tanto nella frequenza della città e nel strepito e rumor delle arti, che possino ricever disturbo et impedimento quando si celebra in esse; e perciò le chiese e monasterii deono esser discosti dalla frequenza del populo, acciò abbino anco maggior spacio per le loro abitazioni e claustri e stiano con manco rispetto e pericolo di quelle cose che le possono dar alcuna macchia. 1 Laonde si doverano situare distanti l'una dall'altra secondo i gradi e la loro precedenza di chierici e monaci, et anco dall'un sesso all'altro, perché a questo modo si averanno chiese e monasterii per tutte le parti della città; e perciò noi abbiamo collocato VIII monasterii a duoi a duoi, quasi ne gli estremi della città e tra le piazze minori, la qual cosa rende comodo universale e particolarmente alle donne di qualità, alle quali non si conviene ogni giorno allontanarsi molto dalle lor case. 2 E questo è quanto alla situazione generale de' tempii et altri luoghi pii, perché delle loro forme e grandezze se ne parlerà nel quinto libro. Si come i luoghi sacri tengono i primi luoghi di riverenza e dignità, così il palazzo del prencipe lo dee avere per maestà e decoro; e perciò dopo ch'abbiamo parlato di quelli, ora toccaremo qualche cosa di questo. Il sito per il palazzo del prencipe o casa reale, che possede pacificamente il suo stato, e per conseguenza osservato e riverito grandemente dal suo populo, dee esser vicino alla piazza principale, così per maggior decoro, come anco per comodo universale; essendo che il prencipe dee risieder nella città, come a punto fa il core nel mezo al corpo dell'animale, affine di poter vedere e signoreggiar il tutto,3 come l'anima per tutte le parti del corpo, e perciò si dee elegger non solo il più bel sito, ma ancora se le dee aggiungere la sicurtà e la fortezza, perché così sarà molto più da lodare; e perciò si sogliono far i castelli e le cittadelle, per le molte occasioni di tumulti e simili casi che sogliono occorrere tra il populo per varii et inopinati accidenti. 4 Onde Marziale disse: Nam vigilare leve est, pervigilare grave. 5 E perciò il palazzo del prencipe non dee in alcun modo esser signoreggiato da alcuno, anzi egli dee vedere e signoreggiare o tutta o buona parte della medesima città. Questo luogo dee esser adunque in qualche bello aspetto di piazza principale (come si è 1. Cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 362 sgg., CATANEO, qui, pp. 3209 sg. 2. Sul numero dei monasteri cfr. p. 3284. 3. Cfr. FILARETE, I, pp. 224 sgg., CATANBO, qui p. 3206. 4. Cfr. CATANEO, f. 18. 5. MARZIALE, IX, 69.

VINCENZO SCAMOZZI

3297

detto), o strada reggia et ampia, o altro luogo grande e spacioso all'innanzi, che l'accresca maestà et apporti grandezza. Egli dee esser tutto isolato e con corte nel mezo e, quando si potesse, anco giardini et altri simili luoghi per qualche delizie, a' quali si potesse andare con corittori secreti e gallerie, come [a] Fiorenze a Pitti, a Pariggi alle Hotellerie et a Roma Belvedere, e tanti altri che non nominamo, ed intorniato da strade, in modo che egli sii separato da qual si voglia altro edificio; salvo se egli non fusse congiunto in qualche parte alle sale da consiglio et al palazzo della ragione, o ad altra cosa publica, come suo membro e parte' dipendente da esso. 1 E perché ne' capitoli seguenti noi trattaremo delle fortezze e delle loro diffese, 2 perciò non sarà disdicevol cosa che in questo noi ne toccamo anco qualche cosa delle sale delle armi e luoghi da monizioni e simiglianti cose per esse. 3 Sì come le armi ad uso delle guerre campali si sogliono tenere ne gl' armamenti, come si dirà, 4 cosi gl' armamentarii, secondo che cavamo da Erodiano, 5 erano più tosto da riporre l'armi da pompa che quelle ordinate per uso della guerra, e perciò le più segnalate si deono custodire vicine al palazzo del prencipe, o nelle cittadelle, overo castelli et altri luoghi sicuri e forti e con buona guardia, si per le sedizioni che alle volte sogliono occorrere improvisamente nelle città, si anco perché l'inimico straniero in caso di guerra non se ne possi iinpadronire; e perciò molto saviamente questa Serenissima Signoria di Venezia ha nel palazzo dove risiede il prencipe alcune sale con titolo del Consiglio di X, nelle quali sono riposte le più famose armi ch'hanno usato i serenissimi prencipi e generali da mare e capitani et altri personaggi, e molte altre tolte a' nemici in tempo di guerra, che forsi a nostri tempi non si possono vedere altrove. 6 E perché siamo meglio intesi, questi luoghi deono esser talmente disposti, che vi si possi andare ad un tratto, e si fanno più corpi di sale l'uno distinto e separato dall'altro. Il numero e la grandezza loro dee esser tale che siano capaci della quantità e più tosto d'avantaggio del bisogno; la forma sia lunga tre e quattro volte più della loro larghezza, e vi capischino almeno sei ordini o rasteliere, cioè 1. Cfr. F1LARETB, 1, pp. 224 sgg., CATANEO, qui p. 3206. 2. Cfr. SCAMOZZI, 1, pp. 175 sgg. 3. Cfr. CATANEO, qui p. 3206. 4. Cfr. SCAMOZZI, 1, pp. 183 sgg. ·S· Cfr. ERODIANO, vn, 8. 6. Cioè le Sale d'anni del Consiglio dei Dieci; cfr. G. LoRENZETTI, Venezia e il .suo estuario, Roma 1956, p. 263. 207

XX • LA CITTÀ

due a canto alle mura della lunghezza, e due altre mani doppie per dentro, che facciano tre andari fra gl'uni e gl'altri. I lumi, se è possibile, siano da' capi delle sale e de gli anditi da levante e da ponente, acciò il lume e l'aere passi da un capo all'altro; perché la temperie loro conserva meglio dalla rugine e dalle tignole et altre cose nocive, essendo all'armi nemicissimo l'umido d'ostro et il freddo di tramontana. Queste sale deono più tosto esser in vòlto per sicurezza del foco e d'ogn'altra violenza e sedizione, ma foderate tutto intorno di legnami dolci e di natura stabile e secchi, acciò l'armi siano diffese dall'umido e dalla rugine, i quali sono i maggiori nemici che le danneggiano. Siano di bella altezza e fatte con proporzione, ma però che con scale secrete o mobili vi si possi andare comodamente a metter e levar l'armi quando sarà il bisogno; e deono esser collocate a' luoghi propri secondo il genere loro, acciò non abbino a reccar confusione, e con questa distinzione: che le armi lunghe et inastate stiano più tosto nelle prime sale, e poi le più curte e facili al maneggio si riponghino di sopra; ma e l'une e !'altre siano fuori dell'umido e del fumo e della polve, perché tutte queste cose li nuocono grandemente. E questo è quanto s'aspetta a noi, perché della custodia che si dee avere a queste cose non è materia dell'architetto.1 È molto ragionevol cosa che dopo il palazzo del prencipe e quelle cose ch'abbiamo per conseguenza, noi trattamo della situazione del palazzo ad uso del governo delle cose publiche et anco di quello per amministrar ragione al populo, perché, come dice il Savio: Ars gubernandi civitates tenet principatum inter omnes artes. 2 E cosi de gl' erarii e delle zecche et altri simili luoghi: i quali per ogni ragione deono essere congiunti o non molto scosti alla piazza maggiore e principale, e per conseguenza neanco molto distante al palazzo dell'istesso prencipe, così per comodità universale di tutto il populo, come anco affine che vi sia l'occhio e l'orecchio et anco la mano dell'istesso prencipe, e massime per il governo delle cose publiche. 3 Le sale per far i consigli e le reduzzioni per il governo delle cose publiche deono esser molto vicine e quasi congiunte al palazzo del 1. L'insolita ARISTOTELE,

digressione ha, evidentemente, una matrice locale. 2. Cfr. Eth. Nic., VI, 8. 3. Cfr. CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3206 sg., 3~39 sg. e le note relative.

VINCENZO SCAMOZZI

prencipe o reggente della città, acciò vi si possi trasferire ad un tratto, overo andarlo a ritrovare i medesimi senatori; e siano di quel numero e grandezza e con quella distinzione che comporteranno gl' ordini et il bisogno, et anco fatte con quella dignità che si conviene. Il palazzo della ragione dee esser collocato in buono aspetto, secondo che comporterà il clima e la qualità del paese, o freddo, o caldo, o temperato, acciò i magistrati, e parimente i negoziatori, non siano offesi molto da' raggi ardenti del sole, né meno dalla forza e violenza de' venti. Questi luoghi deono esser di quella grandezza che comporterà le f acende et il bisogno delle cose che si hanno a trattare, 1 cosi civili come criminali, e là vicino deono esser le pregioni per i delinquenti, delle quali cose ne trattò anco Vitruvio. Gli erarii e le camere publiche, dove vengono portati i danari de' tributi et estimi e tanse e decime e dazii della città e luoghi, et altre simili cose che aspettano al prencipe, e però non deono esser molto scosti al palazzo et abitazione sua per maggior comodità e sicurezza, e perciò vi si tengono buone guardie. Vero è che in alcune città non disdice alle volte quando sono visivi o congiunti alla piazza da negozio, e dove si riducono i propri mercanti, overo non molto lontano alla camera dell'armamento; perché nell'uno e nell'altro di questi luoghi si fanno gran pagamenti publici. La grandezza dee corrisponder al bisogno e forma loro et anco aver molto riguardo alla loro sicurezza.2 Le zecche deono ancor esse aver luogo vicino alla piazza principale, e per conseguenza non molto lungi al palazzo del prencipe: si perché a questo modo apportano maggior dignità et anco perché ricevono sicurezza dalle guardie della piazza e del palazzo.3 Non deono però esser tanto iniusta e nella frequenza, che venghino a occupare il luogo di qualche cosa più nobile. Questi edifici vogliono esser del tutto isolati e soli da per loro, sì per vietare l' occasioni de' fuochi, come anco per potervi far la guardia intorno di giorno e di notte. Siano di grandezza convenevole e di forma comoda all'uso de' magistrati che vi doveranno essere; con i luoghi da riserva del denaro publico cuneato e riposto. Inoltre vi sono le dogane e simili altri luoghi, e tutte .queste cose le abbiamo situate a x. Cfr. CATANEO, qui pp. 3207 sg. 2. Cfr. V1muv10, v, 11, x, FILARETE, I, pp. 275 sgg., BARBARO, p. 221, PALLADIO, qui pp. 3238 sg. 3. Cfr. CATANEO, qui p. 3206, PALLADIO, qui p. 3239 e le note relative.

3300

XX • LA CITTÀ

destra e sinistra del palazzo del prencipe e su i canti della piazza maggiore, e questo è quanto alla prima considerazione de tai luoghi nel dividere e compartire la città; ma de' particolari di tutti essi, molti altri che cadono per conseguenza ne trattaremo poi altrove, come luogo più convenevole. 1 Ora ch'abbiamo fatto la divisione e colocazione generale delle strade publiche e delle piazze e de' tempii e delle cose pertinenti al prencipe, cosi per propria abitazione, come per governo o per aministrazione, segue la situazione di tutti i luoghi da rispetto e riserbo; e questi intendiamo gli arsenali e luoghi d'armi campali, e quelli dalle monizioni e vittovaglie, a' quali seguiranno poi gli alloggiamenti de' soldati e le guarnigioni d'uomini d'armi e le stalle publiche e simiglianti cose; e perché elle appartengono alle città e fortezze, però ne trattaremo in questo luogo a parte a parte per non averli a replicare altrove. L'arsenale, che i Latini dicono navale e navalia, cioè quel luogo per fabricar le navi e galee et altri vascelli da mare o da fiumi grandi e molto piscosi, come il Po in Italia et il Danubio in Ungaria e tanti altri, e per riporli quando hanno fatto i lor viaggi, acciò non periscano o si guastino nello star fuori, egli dee esser in sito comodo, ma in parte men dannosa alla città, e più tosto verso il porto di mare o di fiume che lontano da esso, e con acque e canali ch'abbino bon fondo, per poter cavar e rimetter i vascelli comodamente.2 Questo luogo dee esser di forma bene appropriata al bisogno e distinta in parti. Onde la forma quadrata torna molto a proposito, 3 poiché è molto capace; essendo che, come dicemmo altrove, la forma quadrilunga abbraccia molto spacio con spesa maggior e le I. Intendeva trattarne nel libro 1v (capp. 4 e 5), che non compare nell'edizione a stampa dell'Idea. 2. Sull'arsenale cfr. ALBERTI, Arclzitettr1ra, I, pp. 330 sg., CATANEO, qui p. 3219. 3. Cfr. SCAMOZZI, I, p. 41: « Indubitatamente la forma quadrata perfetta riesce molto più concertata e commodn a gli edifici publici et anco a' privati, che alcun'altra che sia delle già dette; poiché ella chiude molto sito, con risparmio non poco della spesa, e riesce anco molto comoda per la disposizione de' compartimenti delle cose interne e fa corrisponder alle facci e et a' lati di fuori; e perciò delle forme quadrate o alquanto più lunghe che larghe noi si siamo serviti molte volte nelle chiese e ne' monasterii et anco nelle altre cose publiche; come eziandio nelle case private, tanto nella città quanto ne' suburbani et in villa; nd essempio degli antichi Greci e Romani, come abbiamo cavato da molti autori e compreso nelle vestigie rimase de' loro edifici ».

VINCENZO SCAMOZZI

3301

parti estreme sono lontane e le altre forme di più lati et anguli non tornano a proposito. 1 La grandezza sua dee esser capace al bisogno di vascelli e delle altre cose che vi accadono e d'avantaggio; et in modo che si possi aggrandire qualunque volta che si volesse. Gli arsenali vogliono esser circondati non solo del tutto o dalla maggior parte dall'acque, ma ancora da buone et alte mura; cosi per sicurezza ordinaria come per gli accidenti che possono accadere all'improviso. E quanto al compartimento di dentro, prima vi deono esser i luoghi dove si riducono i proveditori et altri signori sopra ali' arsenale e quelli ch'hanno ufficio e carico di tener conto delle cose che entrano e si addoprano et escono della casa, come si dice qui in Venezia, e tutti questi luoghi deono esser vicini all'entrata. Nel rimanente vi siano poi canali d'acqua, che conduchino qua e là ne' luoghi spaciosi e grandi da metter all'ordine e ricever dentro i vascelli, e molti e gran coperti dove si riponghino in squero et alti da terra. Poi le botteghe e luoghi da lavorare tutte le maestranze deputate all'arti loro, e magazeni a pè piano e sale ad alto, da riporre e custodire tutte le cose secondo i loro sortimenti, acciò non si guastino o siano portate via.a Queste fabriche deono esser ben fondate e fabricate di buonissime materie e benissimo coperte e per la maggior parte fatte in vòlto; e massime dove è bisogni di resistenza di fuoco (come accenna anco Vitruvio). 3 Vero è che le sale dell'armi lustre e brunite (come si è detto) stanno meglio con i piani e suoli ad alto, e con travamente, e foderate de' legnami, acciò non rendino umidità; e perciò tutte queste cose si deono fare delle migliori materie che comporterà la regione et il paese.4 L'aspetto dell'arsenale (se cosi lo comporterà il luogo) sia più 1. Cfr. SCAMOZZI, I, p. 41: «Poi la forma quadrilunga, cio~ di due e tre et anco quattro volte più della larghezza, non chiude molto spazio rispetto alla quantità delle mura, che se le richiedono per circondarla; oltre che non torna cosi bene e comoda a disporre i compartimenti di dentro, perché s'obligano l'un l'altro, e perciò non la lodiamo se non in caso di bisogno e di necessità di far braccia o aie di qua e di là dalle corti; e se bene pare ad alcuni ch'ella faccia maggiore aspetto della quadrata, ella non ha poi fianco proporzionato, né corrispondente al bisogno; e se vi si faranno stanze, elle saranno dominate da ambe le parti o dal sole o do' venti, o finalmente dalle ingiurie de' mali tempi•· 2. L'esperienza veneziana induce lo Scamozzi a precisare le varie esigenze funzionali. 3. Cfr. V1Tauv10, VI, v111, 1 sgg. 4. Cfr. p. 3297.

3302

XX • LA CITTÀ

tosto da levante a ponente: perché a queste parti l' aere et i venti sono molto temperati, et anca molto più atti alla conservazione delle armi e de, legnami e delle altre cose, essendo che ostro e sirocco riscalda et inumidisce, 1 e cosi si guastano e si corrompono grandemente, e la parte di tramontana per la sua violenza li restringe molto e nel tempo del verno tutti i maestri che lavorano là dentro rimangono molto più offesi; le quali cose non sono state bene avvertite nell'arsenale qui in Venezia.2 Della custodia che si dee avere all'arsenale et a tutti que' luoghi e simiglianti cose tocca ad altri che a noi, e perciò le tralasciamo. Nelle città principali di Germania, come Vienna nell'Austria e tante altre e nella Francia et in altre parti, abbiamo veduto arsenali di qualche importanza ;3 ma fra tutti quelli che si ritrovano oggidì, cosi di grandezza come di numerosità di vascelli forniti, e per il mirabil ordine come sono tenuti in pronto, non sappiamo alcun altro che si possi paragonare a questo di Venezia, nel quale di continovo vi lavorano poco meno di mezo migliaia di persone e si spendono per ordinario 50 in 60 milla ducati all'anno, e molto più nelle occasioni estraordinarie e tempi da guerra.4 Appresso a gli antichi Greci fu l'arsenale Pireo d'Atene e per grandezze e proporzione incomparabile in que' tempi: perché (come dice Plinio) era capace di mille legni marittimi, 5 benché Strabone et altri dicono quattrocento (come dicemmo altrove); e Cartagine ebbe anca il suo arsenale.6 Appresso a' Romani si fa menzione dell'arsenale o navalia, e dell'armilustro o armamentario. L'arsenale fu al Tevere, nella quartadecima regione, e Dione dice che Catone minore condusse l'armata nell'arsenale senza salutar il populo Romano, per la qual cosa egli fu rimproverato d'alterezza, e Varrone dice che la navalia era appresso alla porta Romana, e che per la vicinità sua egli diede nome alla porta, Navale.7 Ma tuttavia da essi auttori né da Vitruvio non si può cavare la forma né la grandezza di questo luogo. Cfr. p. 3287. 2. S'impone ancora l'esperienza in loco. 3. Cfr. V. Taccuino di viaggio da Parigi a Venezia, a cura di F. Barbieri, Roma-Venezia 1959, pp. 62, 73 sg.: 11 Nell'arsenale [di Nancy], il quale è acanto le mura, alle porte di Garbino, ci sono molti pezzi de artiglieria, cannoni, mezi cannoni e simili»; « Vi è [a Basilea] l'arsenale in un canto della città, il quale ha convenevole quantità d'artegliaria et arme tenute .co' bellissimo ordine e nette».. 4. Cfr. la nota 2. 5. Cfr. PLINIO, IV, VII, 24. 6. Cfr. STRADONE, IX, 15. 7. Cfr. De li11g. lat., v, 128. 1.

SCAMOZZI,

VINCENZO SCAMOZZI

33o3

All'arsenale segue l'armamento, cioè il luogo dove si tengono l'armi ad uso delle guerre campali e terrestri, come anco marittime. L'armilustro, secondo varii auttori, era nell'Aventino, non scosto dove fu prima il sepolcro di Tito Tazio re de' Romani. Questi edifici si deono collocare o ne' castelli, o nelle cittadelle, overo in qualche parte della città principale e che sia forte e sicura e non molto scosta all'istesso prencipe per maggior decoro e sicurezza: il luogo sia cinto di buone et alte mura, e la sua forma abbia del quadrangolare, e ridotto con gravità e magistero; abbia uno o più cortili, e con più ordini di saloni, qua e là tutti isolati all'intorno, ne' quali si passino tener l'armi distinte e separate l'una specie dall'altra, con l'ordine che dicemmo poco fa, acciò in tempo di bisogno si possino levare senza confusione. 1 In Europa specialmente non è alcun regno o provincia, né per dir così alcun principato, che non abbia il suo armamento; ove sono riposte molte quantità d'armi da diffesa et offesa, così grosse come minute, e noi potiamo accertar d'averne veduti molti qui in Italia et in Francia et in Germania e ne' Paesi Bassi et altrove, 2 che sarebbe cosa lunga a volerli descrivere. Ma tra tutti i prencipati del mondo, non è alcuno di certo, e massimamente fra cristiani, ch'abbia né maggior sortimento né quantità d'armi che la Serenissima Signoria di Venezia, cosi ad uso di mare come di terra, avendo artigliaria grossa e minuta di varii metalli, senza numero e per armar grossissimi eserciti di fanteria e cavalleria grave e leggiera ad uso di varii tempi; le quali si conservano parimente nel1' arsenale, compartite qua e là in molti e gran saloni a questo effetto, e tanto ben custodite et ordinate, e con pulizia tale, che è cosa mirabile a vederle. 3

QUELLO CHE SI ASPETTA IN GENERALE A' PALAZZI

DE' PRINCIPALI SIGNORI D'ITALIA, COME ROMA, NAPOLI, GENOVA, MILANO ET ANCO QUI IN VENEZIA

Poiché abbiamo discorso delle case degli antichi Greci e Romani,4 par ragionevol cosa che in questo capo debbiamo trattare delle case 1. Cfr. p. 3297. 2. Cfr. V. ScAMozzr, Tacc11i110, cit., pp. 62, 73 sg. 3. Il campanilismo si svela ora chiaramente. 4. Nei capitoli immediatamente precedenti; SCAMOZZI, I, pp. 226 sg., 236 sgg.

3304

XX • LA CITTÀ

e palazzi de' nostri tempi per abitazione de' principali signori, secondo l'uso di varie provincie e città, acciò che si faccino condecenti al grado loro. Prima, al condottiere e personaggio da guerra et a quello di governo di Stato, e che tenghi corte e numerosa famiglia, la casa dee esser molto ampia, in modo che mostri non so che del grande e del palazzo; et abbi entrate e sale magnifiche e molti appartamenti di stanze separate e per gli uomini e per le donne e per figliuoli e congiunti; et anco per alloggiare forastieri, affine che e gli uni e gli altri passino abitare senza incomodo e rispetto, ma con quella gravità che se le conviene; né manchino luoghi per alloggiar una numerosa famiglia e l'altre cose che cadono per consequenza.1 Il sito dee esser, come si disse,:z in luogo molto bello rispetto ad alcuna strada principale, sopra qualche piazza o veduta di fiume, o altra cosa notabile, ma non molto congiunto né tanto vicino alle piazze principali, acciò che si possi avere ampiezza di terreno per la fabrica e per corti et anco per giardini et altre delizie da trattenersi nobilmente :3 perché questi personaggi per loro gravità et affari si fermano non poco in casa. Oltre che, non è necessario punto che siano cosl vicini alle piazze et al frequentar della città, perché chiara cosa è che la molta frequenza disturba l'animo e travaglia l'abitare della casa. L'invenzioni di queste case deono esser artificiose,4 e tenghino del grave e del nobile. 5 Et il genere di questi edifici sarà sotto a quello I. Comodità e dignità sono le prerogative tradizionali dei palazzi e vanno proporzionate al ruolo dei loro proprietari; cfr. CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3226 sgg., 3242 sgg., e SCAMOZZI, I, p. 223: « Gli edifici deono esser fatti in tutte le parti che siano convenevoli al fine, che è propriamente per l'abitare, e però a' principali della città debbonsi far le case grandi e magnifiche con ampie entrate e sale e ch'abbino molti appartamenti di stanze l'una nell'altra, così per comodo dello stanziare, come per onorevolezza di poter ricevere parenti, amici e forasticri, onde siano corti, giardini et altre delizie e fatte nobilmente». 2. Cfr. SCAMOZZI, I, pp. 223 sgg. 3. Cfr. SCAMOZZI, I, p. 225: « Dovemo aver grandissimo riguardo alle strade maestre e principali o qualche altra bella veduta o naturale o artificiata, purché e dall'une e dall'altre riceviamo comodità e piacere alla casa; e se bene l'aere di mezo di ••• non sia di perfetta bontà, quale alle altre parti, a questo aspetto si fanno l'entrate, le loggie, le sale, i salotti e simili luoghi, ne' quali non si abita del continovo, ma servono per trattenersi qualche ora del giorno». 4. Cfr. SCAMOZZI, 1, p. 225: «Lodiamo bene che l'architetto ricerchi sempre nuove e belle invenzioni e forme eleganti, perché di tutto questo non ne sarà mai ripreso da gli uonùni di giudicio». 5. Secondo le prerogative dei loro proprietari.

VINCENZO SCAMOZZI

33°5

del prencipe, affine che si conosca la dignità dell'uno a differenza de' gradi de gli altri; e possono esser di maniera assai delicata e con qualche grazia, in modo che qual ci sia de' casamenti de' primati non le precedi innanzi. 1 Siano questi edifici d'aspetto tale che tutto il corpo loro, alla prima vista, rendi maestà e bellezza, sl che appaghino al giudicio degli intendenti; e questa sarà la maggior lode che potrà ricevere l'architetto e l'opera insieme.2 La qual cosa si otterrà proporzionando la lunghezza di tutto il corpo alla larghezza et all'altezza, in tanto che non vi siano eccessi o della molto grandezza overo della troppo picciolezza. Il compartimento delle loro parti abbino corrispondenze in modo che l'una tenghi correlazione con l'altra; e parimente i luoghi loro convenevoli, non premutati né confusi. E siano di forme e di grandezze convenevoli, di maniera che rendino concerto, né parino fatte a caso, ma con proporzione e moduli, né appari cosa superflua, né vi manchino le più necessarie et importanti. 3 Gli ornamenti siano più tosto pieni di grazia e di leggiadria che di lavoro troppo sottile e delicato,4 in tanto che si conoschino inferiori a quelli del palazzo del proprio prencipe e superiori a tutti quelli de gli altri cittadini, e con questa avvertenza: di ornar sempre più le faccie principali et i luoghi maggiori e quelli che sono in vista d'ognuno, a differenza de gli altri che sono poi riposti et 1. Scamozzi si preoccupa sempre di un equilibrio gerarchico; cfr. ad esempio il passo di I, p. 225: «Le case de' privati non deono esser fabricate, né ornate con tanta finezza di materie, né esquisitezza di lavoro, in modo che possi a ragione esser tassato di superbo e che pari in tutte le cose a voler concorrere o andar del pari a quelle de' principali della città o dell'istesso prencipe ». 2. Cfr. SCAMOZZI, p. 225: «L'aspetto dell'edificio si intende propriamente quella maestà, che si rappresenta a gli occhi nostri della sua figura, come i-aspetto della faccia dell'uomo o di qualche altro corpo individuale, e la bellezza dell'aspetto procede dal compartimento de' moduli; per la qual cosa tutte le parti vengono corrispondenti tra esse, o rade o folte, overo tra queste e quelle; cosa stata sempre molto difficile da poter conseguire, come mostraremo altrove». 3. L'invenzio11e si qualifica dunque nella vitruviana disposizione e distribu::io,ze; cfr. SCAMOZZI, I, p. 8: «La disposizione s'intende secondo l'ordine delle parti, avendo rispetto alle qualità del sito, della forma e della materia et anco del tempo; perché intorno al sito si considera la collocazione di tutto l'edificio e che le sue parti siano a' luoghi loro convenevoli .•• La distribuzione si considera intorno alla qualità del sito, della materia e del tempo; acciò che il tutto convenevolmente si dispensi ne' proprii luoghi, secondo il bisogno, e non profusamente, ma con debito risparmio della spesa, avendo l'occhio che l'opera rieschi solo per quel fine destinato e che si conviene». 4. Cfr. la nota 1.

3306

XX · LA CITTÀ

ad uso d'abitare, e meno di tutti quelli che sono ascosi e per serbare; imitando la natura, la quale nel corpo umano adorna mirabilmente la faccia et il petto nella parte di fuori, et il core et il cerebro e la lingua nella parte di dentro, e men di tutti gl'intestini et il sedamento. 1 Questi edifici deono avere fondamente e mura molto sodde, acciò che siano durabili e si rendino come eterne; e nella collegazione loro i maestri non tralascino alcuna diligenza et artefi.cio, affine che l'opera rieschi conforme alla volontà dell'architetto e bisogno del padrone. 2 E ne' finimenti si raddopii tutto il possibile dell'arti; per conseguenza non meno la diligenza che la bellezza. 3 E perché il fine per il quale si fanno questi edifici principalmente è per abitare, non solo con molta comodità et onorevolezza, ma ancora per maggior dignità; e perciò si adoperino tutti i mezi convenevoli et atti per conseguire questo fine, il quale sì come è primo in intenzione, et ultimo in esecuzione, così è molto più nobile di ogn'altra parte, che risulti dall'edificio.4 I palazzi de' principali signori e persone illustri si possono cavare in gran parte dalle case che noi abbiamo descritto de' Greci e de' Romani e da quello che si è sinora detto, togliendo alcune di quelle cose che paiono più a proposito, e permutando et aggiugnendo alcune altre, le quali possono servire secondo l'uso delle provincie e città. 5 In questi palazzi vi siano appartamenti e stanze per uso dell'estate: ampie, alte e spaciose e che guardino a tramontana o greco o maestro, poiché dove è molta quantità d'aria, là dentro si mantiene molto più il fresco e difficilmente egli si riscalda (come l'acqua posta al fuoco in un gran vaso). 6 Le stanze del verno siano di forme mediocri, alquanto ristrette e più basse, con gli ammezati sopra e verso le parti del sole; perché presto si tepidiscono e si riscaldano col tenervi chiuse le vetriate e le porte, e facendovi del fuoco. 7 Le stanze della primavera e dell'autunno siano di I. Per lo stesso paragone cfr. la nota 2 di p. 3305. 2. Sui modi di fondare cfr. SCAMOZZI, 11, pp. 280 sgg. 3. Sui finime11ti cfr. SCAMOZZI, 1, p. 7: a Il finimento e la espolizione s'intende tutto quello che si fa all'edificio per condurlo al suo intiero compimento e fine per poterlo abitare». 4. Cfr. CATANEO, PALLADIO, qui pp. 3228 sg., 3242 sgg. 5. Sulle case dei Greci e dei Romani cfr. SCAMOZZI, 1, pp. 226 sgg. 6. Sulle stanze estive cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 414 sgg., PALLADIO, qui pp. 3245 sg. 7. Sulle stanze invernali cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 414 sgg., PALLADIO, qui p. 3245.

VINCENZO SCAMOZZI

grandezza tra queste e quelle, e riguardino più tosto a levante che ad altra parte del cielo. 1 Oltre alle stanze da abitare, vi si ricercano luoghi da serbare e conservare le supelletilli e robe da mangiare giornalmente, come le dispense, o per tutto l'anno, come le cantine, granari e simili luoghi, i quali sono communi non solo a questi palazzi, ma a tutte le case di gentiluomini e persone ricche.2 E parlando de' palazzi ad uso de' principali signori d'ltalia,3 incominciando a Roma se vi convengono palazzi, sopra qualche piazza, per poter trattenirsi molti cocchi e carozze, con entrate ampie e nobili, e cortili nel mezo e loggie all'intorno per trattenire la molta quantità de' servitori e staffieri nel tempo delle visite, le quali si fanno molto frequenti. Nel primo piano, oltre alle officine sotterranee, sianvi le stanze amezate, per uso della famiglia del signore, et a destra e sinistra le scale principali ampie e comode al salire con gravità. E nel piano di mezo, come più comodo e sano all'abitare, vi siano le sale alla parte dinanzi spaciose e grandi e di bellissima altezza, e qualche loggia, che conduchi da l'una all'altra scala; e poi da un lato e dall'altro e tutto intorno alla corte appartamenti di stanze doppie di varie grandezze, e salotti framezo (per assister i cortegiani e quelli che vengono per far le visite e dimandar favori), con le scale secrete, che ascendono da alto a basso nelle officine sotterranee. Questi palazzi vogliono alla parte di dietro avere qualche veduta de' giardini, e massime quando sono alla larga e fuori del tumulto della città. Fra tutti i palazzi di Roma noi abbiamo riputato sempre degno quello dell'illustrissima casa Farnese, così per grandezza di fabrica, come per la comodità dell'abitare, e giardini di dietro per delizie, e finalmente per magnificenza d'ornamenti e statue e pitture.4 A Napoli, ove sono molti signori e baroni titolati, desiderano i palazzi di mediocre architettura, ma che apparino grandi con luoghi spaciosi, e perciò fabricano alla larga su qualche bella strada e fuori del frequente della città. 5 Osservano d'aver alcune sale e gli appartamenti principali per abitazione de' signori a piano terra, per maggior comodità di far i loro congressi ove siano portici e Sulle stanze primaverili e autunnali cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. sgg., PALLADIO, qui pp. 3245 sg. 2. Cfr. PALLADIO, qui pp. 3244 sgg., 3252 sgg., 3258 sgg. 3. L'ufficiale esemplificazione dello Scamozzi sembra contrapporsi a quella personale del Palladio. 4. L'esempio concreto dà ragione della tipologia, che di per sé non potrebbe avere giustificazioni specifiche. 5. Per il desiderio di effetti particolarmente vistosi. 1.

414

3308

XX • LA CITTÀ

loggie da trattenersi e passeggiare. Di sopra sono gli appartamenti delle signore e tutte le donne di rispetto, e di dietro corti e giardini con fontane e belle verdure d'aranci, cedri e limoni, per la qual cosa in tutto il tempo dell'anno si sente da' frutti e da' fiori grandissima fragranzia d'odori. L'abitar loro nella città s'intende la metà del tempo dell'anno, perché nel gran caldo si retirano alle loro castella e luoghi di giuridizzione. 1 A Genova, per la stretezza della città et angustezza delle strade, ove non transitano se non giumenti, et il sito assai pendente alla marina, convengono più tosto avere i loro palazzi più tosto lunghi allo indentro e ristretti nelle facciate, et anco di due e tre ordini in altezza: il primo alla rustica, e gli altri ornati di colonne e pilastri, e simiglianti cose fatte con garbo e di pietre nobili. Le loro entrate riescono nelle corti non molto grandi, con loggie o semplici o dupplicate in altezza, e le scale in fronte o da' lati, assai varie e bene intese e comode al salire, le quali riescono in qualche loggia e prestano adito alle sale e salotti et appartamenti delle stanze di qua e di là, e talor anco di dietro, che guardano sopra a' giardini overo alla destra e sinistra con fontane e belle verdure, che per l'aspetto del mezodi verdeggiano tutto il tempo dell'anno, anco l'inverno; come se ne veggono alquanti in Strada Nuova et altrove, fatti da Alessi perugino.2. Il maggior palazzo, invero, è riputato quello della illustrissima casa Doria, fuori della porta che serve alla Lombardia, cosi per gli appartamenti delle stanze e loggie e passeggi per signori, come anco per tutti i ministerii della casa e servitù a parte e poi verso alla marina per allogare tutta la ciurma d'un galera: ove è un ampio giardino con corritori, che signorezza il mare, e fontane artificiate et uccelline di grandissima spesa, e finalmente per una vigna ornata di pergolati ch'ha dietro alle spalle e su per la costa del monte; ove poco più là è un altro palazzo fatto di nuovo. 3 Cfr. CATANEO, qui p. 3191 sg. 2. Cfr. VASARI, 1568, 11, p. 847 [vn, pp. 553 sg.]: cr Il medesimo (Galeazzo Alessi] ha fatto la strada nuova di Genova, con tanti palazzi fatti con suo disegno alla moderna, che molti affermano in niun'altra città d'Italia trovarsi una strada più di questa magnifica e grande, né più ripiena di ricchissimi palazzi, stati fatti da que' signori a persuasione e con ordine di Galeazzo; al quale confessano tutti aver obligo grandissimo, poiché è stato inventore et esecutore d'opere che, quanto agl'edifizii, rendono senza comparazione la loro città molto più magnifica e grande ch'ella non era». 3. Cfr. VASARI, 1568, 11, p. 617 [VI, pp. 645 sg.]. 1.

VINCENZO SCAMOZZI

33o9

A Milano per lo più usano i palazzi che tengono del soddo e con poca architettura nel di fuori, e di dentro piccioli e semplici corti, 1 e con scale e sale e salotti di mediocre grandezza, e gli appartamenti delle stanze tutte all'intorno di due ordini in altezza, e le cantine et altri luoghi sotterranei: laonde fra tutti i palazzi di quella città abbiamo estimato quello che fece Tomaso da Merino duca di Terranova, per esser tutto isolato all'intorno a tre strade, e la faccia principale e lato sinistro ornato di colonne, con i loro ornamenti tutti di pietra, triplicati in altezza, e con corte interna, con portici e loggie all'intorno, e le scale principali alla destra, tanto ampie e piane al salire sino in cima, che in un medesimo tempo ascendono gli uomini et i giumenti, e più là della corte una gran sala terrena al traverso, alla quale si entra anco per il fianco del palazzo, et al di dietro della sala è un giardino, e tutto a lungo alla sinistra sono appartamenti di stanze e salotti e scale secrette, et altre sono più oltre alle scale già dette.2 A Fiorenza sono diversi palazzi de' principali signori: come è quello de' Pitti, pervenuto nella serenissima casa de' Medici, al presente molto più ampliato ;3 così quello de' Medici et il vecchio et anco il nuovo di Strozzi, di nostra invenzione,4 e tanti altri, i quali nel di fuori per la maggior parte sono fatti a bozze e nel cli dentro hanno corti nel mezo, con portici all'intorno assai melanconici,5 con scale di qua e di là che ascendono di sopra e fanno adito alla sala e salotti, da' quali si entrano ne gli appartamenti delle stanze per il verno, perché di estate a gran ragione abitano a piano terra; e con pochi lumi, per resistere alla freddezza dell'aria del verno, e la estate per il soffocato caldo che reflete la valle e monti quasi tutto all'intorno; e sotto al primo piano dispongono le cantine e le officine della casa. Alcuni d'essi, benché ne l'abitato della città, procurano di avere per loro delizia qualche giardinetto con verSoluzioni, cioè, del tutto diverse da quelle napoletane. 2. Cfr. VASARI, 1568, II, p. 847 [vu, p. 555]: « In l\1ilano con ordine del medesimo Galeazzo [Alessi] s•è fatto il palazzo del signor Tommaso Marini duca di Terranuova ». 3. Cfr. VASARI, 1568, n, p. 835 [vu, p. 522]: « Il medesimo Ammannato, come architetto, attende con suo molto onore e lode alla fabbrica de' Pitti, nella quale opera ha grande occasione di mostrare la virtù e grandezza dell'animo suo e la magnificenza e grande animo del duca Cosimo». 4. Cioè il Palazzo Nonfinito di Borgo degli Albizi, iniziato nel 1593 da Bernardo Buontalenti e Matteo Nigetti. Per il progetto scamozziano cfr. SCAMOZZI, I, pp. 247 sg. 5. Evidentemente troppo severi per un veneziano. 1.

3310.

XX · LA CITTÀ

dure tanto ben tenute, che paiono tappezzarie, si come alla larga se li fanno ampii e spaciosi, e con fontane d'acque vive e spruzzanti, et uccelliere; e questi e quelli poi con spalliere di lauri, morte1le e gelsomini et altre delicatezze, secondo che comporta il sito e la volontà e diletto de, signori. 1 Poiché abbiamo tocco qualche cosa delle abitazioni de, principali signori all'uso d,ltalia, ragionevol cosa è che trattamo anco di queste de' nobili di Venezia, le quali in molte parti, come si vedrà, sono differenti dalle altre posciaché i siti di queste case non possono esser molto grandi per due ragioni: la prima, perché la città è molto abitata e ripiena di palazzi publici e piazze a Rialto e S. Marco, l'arsenale e grannari, tutte cose del prencipe. Poi tante chiese e monasterii e luoghi claustrali, i quali ne occupano una gran parte; e nel resto sono molti canali e rii d'acque e strade e calli e fondamente, che servono per la città; e perciò rade sono quelle case che possono aver ampiezza di terreno e far corti e giardini, se non alla larga. 2 La seconda ragione è perché quasi tutti i padroni de' siti cercano di tenir il suo, né vogliono ceder l'un l'altro, tenendosi tutti eguali di nobiltà benché differenti di ricchezza; e così comporta una ordinata republica. Oltre che ne sono molti sotto strettissimi fideicomissi; e però in Venezia sono infinite case di mediocre grandezza, ma pochissime quelle che precedino di molto all'altre, perché le facoltà sono spartite in molti e non in pochi, come si vede nelle città di terra ferma. 3 Le case di Venezia per lo più hanno due entrate: la principale è nella faccia della casa sopra a' canali, e l'altra di dietro o da' lati per uso di terra; et ambedue dano di capo in un ampio luogo, che qui si chiama sottoportico, di bell'altezza, e di qua e di là (perché non si osserva a cavar sottera) vi sono le cantine e gli altri luoghi, che chiamano magazeni, per uso delle officine di casa. Sopra a questi luoghi sono gli ammezati, cioè stanze di mezana altezza, a' quali 1. Sulla artificiontà del giardino toscano cfr. ad esempio la descrizione, senza riserve, del labirinto di Castello in VASARI, 1568, u, p. 403 [v1, p. 74]: « È nel mezzo di questo giardino un salvatico d'altissimi e folti cipressi, lauri e mortelle, i quali girando in tondo fanno la forma d'un laberinto circondato di bossoli, alti due braccia e mezzo e tanto pari e con bell'ordine condotti, che paiono fatti col pennello. Nel mezzo del quale labcrinto ••• fece il Tribolo una molto bella fontana di marmo». 2. Si ricordino le difficoltà del sito cittadino, già delineate da PALLADIO, qui p. 3246. 3. Il frazionamento della proprietà veneziana risale quindi a ragioni naturali ed economiche.

VINCENZO SCAMOZZI

3311

si perviene col primo ramo delle scale principali, overo con scale secrete; in questi ricevono le visite, sl trattano le cose famigliari della casa. E questo è quanto al primo piano.' Alla destra o alla sinistra di questo sottoportico, dove sia più facilità di cavar lume, o da qualche calle di fuori, o da qualche corticella propria, si fanno le scale principali, ampie e comode,2 le quali col primo ramo salgono al piano de gli ammezati, e col secondo alla sala, che qui si chiama portico, di bellissima altezza e larghezza; ma che per lo più si estende in lunghezza quanto tutta la casa, pigliando lume dalla faccia e dal di dietro et anco da qualche corticella da' lati, ove nella faccia fanno pergoli per comodità del prender aere fresco e potersi affacciare ne' tempi de' concorsi della città. 3

Usansi i portici grandi per poter ricevere i parentadi nel tempo delle nozze e far conviti e feste, ove concorre tutta la nobiltà e la maggior parte della città; poi di qua e di là dalla sala sono tre e quattro stanze per parte, le quali hanno lume dalla faccia e dal di dietro, e tal volta anco da' lati. Alcune di queste stanze, per uso de' senatori e per i parti delle moglie, si lasciavano dell'altezza della sala, e l'altre poi, per uso de' piccioli figliuoli e per le balie e talor delle cucine, si fanno amezate. E quello che si dice di questo piano s'intende anco del terzo nelle case maggiori, overo d'un mezo ordine per stanze da serve o altri impedimenti della casa: E questo è l'uso più regolato delle case di Venezia.4 Sì come la forma delle case di questa città è assai differente da quelle delle altre raccontate, così l'uso del vivere della nobiltà e de' cittadini non si confà con altrove, né è meraviglia se non invi-. tano nelle case loro i forastieri, se non di rado o molto famigliari: il che fu costume de' Greci per maggior gravità e per farsi conoscer neutrali e non parziali ad alcuno; oltre che ne conseguono maggior quietezza e libertà a tutta la casa, et anco un loro ordinato e regolato modo di vivere. 5 I servi non vano mai ne gli appartamenti delle donScamozzi generalizza le caratteristiche dei suoi stessi progetti per palazzi veneziani. Cfr. ad esempio SCAMOZZI, 1, pp. 244 sgg. 2. Cfr. PALLADIO, qui p. 3254. 3. Cfr. SCAMOZZI, I, p. 244. 4. Cfr. ancora SCAMOZZI, J, p. 244. 5. Cfr. PALLADIO, II, p. 43, citato nella nota I di p. 3253, e SCAMOZZI, I, p. 227: « A destra e sinistra di questa grandissima casa, oltre alle strade di molte larghezze dette Mesaule, i Greci facevano alcune case minori per uso degli amici forastieri, nelle quali erano le loro proprie entrate, gli Oeci e le stanze per abitare, le quali venivano assegnate dopo che erano stati I.

3312

XX • LA CITTÀ

ne, intanto che non sano di certo se in quella casa vi siano le figliuole dongelle; e parimente le serve giovani non comparono, se non di rado, alla presenza de' loro padroni, ma servono ne gli appartamenti delle loro padrone, anzi i ministerii di questi sono separati da quelle, e vi si va per scale secretissime. 1 La pulitezza delle case de' nobili, che non ha altretanto il mondo, nasce prima dalla nettezza della città, e perché anco non vi capitano animali e bestiami grossi: onde rare volte vi regnano mosche; e poi tutte le strade e fondamente et i campi e le piazze sono lastricate di pietre cotte, pendenti qua e là, di modo che la materia asciuga e scorre, e però non vi è fango: oltre che nelle pioggie e mali tempi si osserva di andare nelle gondole. I terrazzi nelle case si nettano ogni tratto dalle serve, di modo che paiono pietre lustre; onde nella pulizia e nelle supelettili non so se gli antichi Greci et i Romani passarono di gran fatto ad essi.2 Perché altrove si parlarà e dimostrarà i disegni delle case de' Senatori, d'invenzione et ordine nostro fatte nella piazza maggiore di San Marco, ora compendiosamente diremo alcune comodità et appartamenti. Prima, esse hanno le entrate da terra, che da' portici rispondono nelle loro proprie corti, e quelle da acque verso il rio. Il loro aspetto principale, e di qua e di là, guarda a maestro sopra la piazza di San Marco, ove è la sala maggiore, gli appartamenti de' signori, con stanze grandi e mezane e camerini. Nella parte di dietro sopra al rio a sirocco vi è un'altra sala e gli appartamenti delle donne, con tutte le loro comodità. Tra gli uni e gli altri appartamenti vi sono due loggie, tanto lunghe quanto la larghezza delle corti, le quali uniscono insieme questi appartamenti, e fra le loggie sono le scale principali, che salgono l'una sopra e contraria all'altra, in modo che in un sito solo servono a due piani, separati l'uno dall'altro, ampie e comode; oltre alle scale secrete fra i camerini, per servizio de gli appartamenti ammezati e ministerii della casa. Le quali cose sono disposte tutte ne' luoghi convenevoli, onde rendono la casa comodissima e convenevole al grado et alla dignità; il qual modo d'abitare si può convitati una o più volte, onde a questo modo la casa del padrone rimaneva libera et essi fuori d'ogni servitù, essendole provisto di tutte le cose opportune e necessarie et ad un tratto potevano andare e contrattare col padrone et essi parimenti esser visitati da molti•· 1. Dalle consuetudini struttive a quelle sociali. 2. Il paragone con il decoro dei Greci e dei Ro• mani ai applica anche alla manutenzione.

VINCENZO SCAMOZZI

33 1 3

assimigliare a quello de gli antichi Greci, e per l'abitar liberi gli uomini dall'impedimento delle donne. Ognuna di queste case, per non dir palazzi (come si è detto), ha due entrate, una corte di onesta grandezza, cinque magazeni, cinque ammezati, una sala principale e quattro secrete, tre loggie (cioè una a terra, e le due che uniscono gli appartamenti dinanzi de gli uomini a quelli di dietro delle donne), due sale, dieci stanze grandi e mezane, compartite tanto a destra quanto a sinistra al piano delle sale, delle quali ne sono sei altre ammezate; oltre a tante altre comodità ad alto in soffitta. E quello che è di grandissima considerazione, tutti i luoghi raccontati sono luminosissimi o dalla piazza o sopra alle corti o verso il rio. Ancora sono talmente disposte le comodità ad uso de un senatore a quelle dell'altro, che vengono a esser del tutto separati quelli del primo piano con li altri del secondo, e quando si volesse sarebbero unitissimi, perché si possono aprir porte alle scale che sboccano, di piano in piano, su le loggie, e così sarebbe de' ministerii delle case. 1

I. L'esemplificazione si presenta 1ui generis nel suo particolare decoro e nella particolare disposizione del sito. 208

XXI

LA VILLA

Superato l'antico dissidio morale e letterario tra i valori della città e della campagna, del quale non fu impartecipe lo stesso Leonardo (cfr. la sezione xx), la villa cinquecentesca assume nei primi decenni del secolo, e specialmente nel Veneto, una complessa problematica (legata anche a ragioni economiche e politiche), che si è imposta soprattutto agli studiosi di Palladio, stimolandoli ad indagare testimonianze precedenti e posteriori ai Quattro libri del'architettura. La recente pubblicazione di scritti inediti di Cornaro, Serlio, Doni consente infatti di valutare più precisamente una situazione in via di sviluppo, nella quale maturano le nuove esigenze dei committenti e dei progettisti. Se l'attenzione del Cornaro ad una edilizia privata, adeguata alle limitate possibilità finanziarie della classe media, richiamava ad una realtà contingente e ad efficienti soluzioni funzionali che prescindessero da anacronistici e costosi formalismi, un tale richiamo non bastò a indurre i prevalenti fautori del classicismo ad abbandonare le loro scelte tradizionali, ma a tentare piuttosto un compromesso con le innegabili sollecitazioni del presente. È questo il caso del romano Sebastiano Serlio, che nel suo trattato Delle habitationi, rimasto inedito sino al 1966, propone una complessa tipologia (edifici da contadini, artefici, mercanti, gentiluomini, prìncipi), nei cui possibili livelli (povero, mediocre, ricco) vengono assunti i problemi coraggiosamente avanzati dal Cornaro (Rosei). Solo che, giustificando l'istanza innovatrice del «dilettante» veneto con le esigenze dei vari ceti, Serlio risolve la polemica antivitruviana in una universale e quindi antipolemica casistica. Risorgono, in altre parole, anche in architettura i generi letterari, quelli stessi con cui, contemporaneamente, si cerca di giustificare tanto il (eccelso pino, l'ombroso faggio, il fragile tamarisco, l'incorruttibil tiglia, l'orientai palma, il funebre cipresso, il durissimo cornio, l'umil salcio, l'amenissimo platano et altri bellissimi alberi». Ma vedi anche il più tardo Trattato d'agricoltura sperimentale e teorica di AGOSTINO DEL RICCIO, ms. Targioni 56 della Biblioteca Nazionale di Firenze, ff. 54v. sg.: « ••• piante che tengono le fronde sempre vemo e state, come son queste, cioè: cipressi, lauri regi o lauri di Trabisonda, pini, sugheri, corbezzoli, ginepri di due sorti ... ». 2. Anche la fonta11a, come le siepi sempre verdi, è un topos del giardino (cfr. ad esempio B. TAEGIO, op. cit., pp. 67 sgg.) che assume una notevole estensione anche in AGOSTINO DEL RICCIO, op. cit., ff. SIV. sg.

ANTON FRANCESCO DONI

33 2 9

coltivati paesi in quei monti alpestri si trovano. E del piano della spelonca partendosi in diversi rami, la debba ultimamente arrivare in duo belli vivai e chiari: uno di minute e varie pescherie e l'altro di grandi e buoni pesci ripieni, i quali sien fatti con quel modo artifizioso che si usa migliore. 1 Sotto la grotta mi piacerebbe che ci fossero nascoste parte di tal acque, che al battere d'un piede in terra le saltassino due e tre braccia in alto per i minuti zampilli, e da duo parte, così de' muricciuoli da sedere come da gli altri luoghi da stare in piedi, sieno immollate le brigate che in un sifatto luogo si ritrovassino per diletto: lasciando certi rifugii nell'arbitrio di chi saprà i segreti de' condotti dell'acque, che a posta sua fuggendo all'asciutto e gli altri seco, possi, quando si tengono più sicuri, esser molto più bagnati e rinfrescati. 2 Il giardino, o orto che io mi voglia dire, ha da esser diviso in duo parte, una in erbe dimestiche da mangiare, Paltra in semplici piante da vedere e medicare, non lasciando mancar né all'uno né all'altro orto frutti incalmati ottimamente, de' più bei nesti che trovar si possino, con quelle belle vie larghe tirate a filo compartitamente. Alcune siano benissimo lastricate, come sarebbon quelle attorno, certe erbose et altre stiano nette del continuo e rase; con ispalliere et addornamenti mirabili così di gelsomini, monticelli e de' dimestichi, come di melagrane et ellera, come oggi in molti luoghi si usa fare. E questo è quanto io voglio scrivere dell'orto in questa villa. 3 Imprese, motti o arme non mi pare che ci stiano bene, se non la propria del signore. Dipinture in muro nulla dentro, ma quadri e tondi a olio di mano d'Andrea del Sarto fiorentino, di Raffaello da Urbino e di Tiziano da Cadore, per addornar le sale e le camere; ma le volte sopra tutto lavorate di stucchi dal Tebaldi bolognese, 1. Sui ruscelli e i canali cfr. B. TAEGIO, op. cit., pp. 67 sg.: «Taccio mille risposti recessi delramenissimo giardino, intorno al quale acanto alla siepe con soave mormorio discorre un ruscello d'acqua procedente da una chiara fontana, che sorge nel mezzo d,una grotta che giace dal canto sinistro del giardino ..• ». 2. Cfr. VASARI, 1568, 11, pp. 405 sg. [v1, pp. 78 sg.]: « Poi prese [il Tribolo] t>acque d'Arno e Mugnone, e ragunatele insieme sotto il piano del laberinto con certe canne di bronzo che erano sparse per quel piano con belPordine, empié tutto quel pavimento di sottilissimi zampilli, di maniera che, volgendosi una chiave, si bagnano tutti coloro che s'accostano per vedere la fonte; e non si può agevolmente né così tosto fuggire, perché fece il Tribolo intorno alla fonte et al lastricato, nel quale sono i zampilli, un sedere di pietra bigia sostenuto da branche di leone tramezzate da mostri marini cli basso rilievo». 3. Cfr. B. TAEGIO, op. cit., p. 168 citata nella nota I di p. 3328.

209

333°

XXI • LA VILLA

pittore eccellente, tocchi d'oro come fosse di bisogno. 1 Un camerino vorrei io in un cantone, tutto - sotto, sopra e le quattro faccie - di specchi de' più gran quadri che trovar si potessino, da due finestre grandi onestamente illuminati, ne' quali si vedrebbe i lontani e da presso per tutti i versi.2 Le logge sempre bianche vorrei vedere e pulite, con l'ornamento solo di rari conci delle porte e de le finestre, de gli archi, delle colonne, base e capitelli bellissimi, e sopra-tutto un bel pavimento. 3 Di sopra a queste volte e sopra tutte l'altre stanze, fatte pure in volta, ci sieno le camere et abitazioni della famiglia, sì delle donne come de gli uomini, ma, come sotto, stien separate.4 Sopra di loro, fatto con degno modello et addorno di balaustri, ci voglio un terrazzo scoperto, che la campagna allegra con una occhiata signoreggi: tutto cinto intorno intorno d' orticini, e le estremità delle muraglie grosse, piene di vasi ben fatti e qualche figuretta di marmo per compartimento, o veramente qualche bel satiro o termine di pietra, lavorato con eccellenza; e questo orto penso sia pieno di erbe universali e vasi di frutti nani particolari, e che d'ogni stagione ritrovar vi si possino fiori, per mano della diligenza governati, ancora che ve ne fossero assai senza odore. 5 Dall'altra parte dell'ampio spazio della piazza facciasi una fabbrica rozza, lavorata alla rustica ma bella, con quella proporzione e comodo che sia bisogno alla famiglia servitrice et a le cavalcature. In questa ci si faranno le stalle, con un lago da guazzare, truogoli da beverare i cavalli e luogo da maneggiargli, da ripor fieni, paglia, biada e grano. Là vi sieno le colombaie, i pollai, forni et un quoco che gli maneggi, padrone d'un barchetto di salvaticine da far pasticci, orto e cose grosse da famiglia, non si scordando il pallatoio da corda, et spazio da fare altri giuochi, come si costuma signorilmente a i luoghi di spasso, di contento e d'allegrezza.6 Di questa sorte di ville nuove se ne farebbe uno onorato libro, Anche per le pitture il Doni combina i nomi più illustri della Toscana e del Veneto, ai quali ora si aggiunge quello del bolognese Tibaldi, ben noto in ambiente milanese. 2. I soliti giochi visivi; cfr. ad esempio VASARI, 1568, II, pp. 332 sgg. [v, pp. 539 sgg.]. 3. Semplificazione degli clementi di probabile ispirazione palladiana. 4. Cfr. la nota 2 di p. 3327. 5. Un terrazzo-orto il cui arredo si fa sempre più complicato; cfr. AGOSTINO DEL R1cc10, op. cit., ff. 48v. sgg. 6. Sulla distribuzione degli ambienti di servizio e da gioco cfr. SERLIO, Delle habitationi, ff. 4v. sgg., e PALLADIO, qui pp. 3364 sgg. I.

ANTON FRANCESCO DONI

333 1

chi si volesse distendere a varietà, e crederei, un poco poco più ch'io passassi il sette, ancora ch'io non fosse dotto, cicalarne qualcosa senza far d'ogni erba fascio; ma la riserbo al secondo trattato, dove io darò il maggior giudizio de gli altri e mio. Quivi farò vedervi l'ordine da immollare le genti non se ne accorgendo, il modello de' laberinti diversi, la nuova chiusura de gli uccegli, mai più posta si fattamente in opera, talmente grande che, sotto il ciel d'una rete di rame, vi possino star le piante dimestiche, le macchie salvatiche, caverne bizzarre, i cespugli dilettevoli e monticegli fioriti pieni di frutti; tutti dico vi rnostrerrò in pittura e disegno, e sopra tutto la pianta de le fabbriche e la prospettiva, ne, quali luoghi d'ogni sorte animale che voli vi fa nido e figliuoli, e ciascun altro che camini in terra, che da principe sia, vi cova et allieva figliuoli; cosa rara e stupenda da vedere. Io desidererei bene che questa fabbrica, o una si fatta, apresso alla Valle delle Donne, la quale, per quello che si racconta da chi l'ha veduta, è cosa più tosto di manifattura celeste che d'artifizio di natura. 1 Egli vi s'entra per una via assai stretta, dall'una de le parti della quale un chiarissimo monticello corre suavemente. Elr è tanto bella e dilettevole, e spezialmente nel tempo eh' egli è il caldo grande, quanto più l'uomo sa divisare. Il piano della valle è cosi tondo, come se a sesta fosse stato fatto, quantunque artifizio naturale e' sia e rnanual industria apparisca. Egli è di giro poco più di mezzo miglio, intorniato di sei montagnette di non troppa altezza, et in su la sommità2 [ di ciascuna si vedeva un casamento, quasi in forma fatto d'un bel palagio. Le piagge delle quali montagnette così digradando verso il piano discendevano, come ne' teatri veggiamo dalla lor sommità i gradi insino all'infimo venire successivamente ordinati, sempre ristringendo il cerchio loro. Et erano queste piaggie (quelle dal mezzo giorno) tutte di vigne d'olivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d'altre maniere assai d'alberi fruttiferi piene, senza spanna perdersene. Quelle le quali il carro di tramontana guardava, tutte erano boschetti di quercioli, di frassini e d'altri alberi verdissimi e ritti quanto più esser potevano. Il piano appresso, senza avere più entrata che una, era pieno di abeti, di cipressi, d'allori e d'alcuni pini, 1. Pur conoscendo gli argomenti della trattatistica architettonico, Doni ama proiettarli in una dimensione fantastica. 2. A questo punto nel codice Reggiano manca una carta, che abbiamo integrato dal citato ms. Correr.

3332

XXI • LA VILLA

si ben composti e sl bene]1 ordinati come se chiunque è di ciò il migliore artefice gli avesse piantati, e fra essi poco sole o niente entra in fino al suolo; il quale era tutto un prato d'erba minutissima e piena di fiori purpurini e d'altri. Et oltre a questa (quel che non meno di diletto che altro porgeva) era un fiumicello, il qual d'una de le valli che dua di quelle montagnette dividea, cadeva giù per balzi di pietra viva; e cadendo faceva un romore ad udire assai dilettevole e spruzzando pareva da lungi argento vivo che d'alcuna cosa premuta minutamente spruzzasse, e come giù al primo corso del picciol piano perveniva, cosi quivi in un bel canaletto raccolto, insino a mezzo del piano velocissimo correva et ivi faceva un piccolo laghetto, quale talvolta per modo di vivaio fanno ne' lor giardini i cittadini che di ciò hanno destro. Et era questo laghetto non più profondo che sia una statura di uomo, insino al petto lunga, e senza avere in sé mistura alcuna, chiarissimo il suo fondo mostrava esser d'una minutissima ghiara; la qual tutta, chi altro non avesse avuto che fare, avrebbe volendo potuta annoverare. Né solamente nell'acqua vi si vedeva il fondo riguardando, ma tanto pesce in qua e là andar discorrendo, che oltre al diletto era una maraviglia. Né da altra ripa era chiuso, che dal suolo del prato, tanto d'intorno a quel più bello, quanto più dell'umido sentiva di quello. L'acqua la quale alla sua capacità soprabondava, un altro canaletto ricevea, per lo qual fuori del valloncello uscendo, alle parti più basse se ne correva quietamente. 2 In una suo villa, poco men bella di questa, ritrovai io un principe, il quale spendeva quattro o sei volte l'anno otto giorni di tempo come udirete. 3 La domenica mattina nell'arrivare al suo viiI. Termina a questo punto l'integrazione. 2. Il ms. Correr, s. f., prosegue: In questo laghetto v'entrava talvolta la Fiammetta dentro con alcune bellissime e graziosissime donne nude, le acque del quale 110n altrimenti gli lor corpi candidi nascondeva, chefarebbe una vermiglia rosa un sottil vetro; le quali essendo in quello, né perciò alcuna turbazion d'acqua nascendone, come potevano correvano in qua e là dietro a' pesci, i quali male aveano dove nascondersi, et con le mani ne pigliavano. E poi che in cosi fatta festa con le bellissime sue donne aveva passato il tempo un pezzo, vestendosi, verso casa con la preda, con soave passo, molto allegra e contenta se 11e tornava. E qui facendo fine alla Villa Civile, villa da signore, prego Iddio che ne co11ceda una sì fatta e tale al mio signore. Per il motivo cfr. la novella 6 della giornata X del Decamerone. 3. Dall'ambiente ideale si passa alla sua funzione, secondo un galateo accreditato, che rifugge dalle iperboli. La piacevole descrizione, presente solo nel codice Reggiano, si affida ad un tono medio, aderente ad una realtà di costume.

ANTON FRANCESCO DONI

3333

laggio faceva onoratamente cantare una messa solenne, con musiche, stromenti et ornamenti mirabili; alla qual concorreva tutta la villa. Dopo questa scorreva la villa; si provano al corso cavalli, et a saltare con altri maneggi a giannetti e bravi fregioni, come aveva il mastro di stalla a suoi cavalcatori ordinato. In questo mezzo tempo s'aparecchiava la tavola sotto la loggia colonnata, in prospettiva della piazza; e con trombe, pifferi e musiche il signore entrava a tavola, rallegrando, con la buona cera sua e con tutta la corte ridente, tutto quel paese. Né sì tosto era venuta la prima imbandigione, che voi vedevi comparire tutta la villa con presenti di cervi, caprioli, lepri, uccellami, frutta et altre cose, tutte cordialmente presentategli. Dove con lieta fronte le riceveva, e ringraziandogli di parole allora e lodando i presenti, con agio gli ristorava, perché un principe non si debbe, né un signore o un gentiluomo, mai di cortesia lasciarsi vincere. Dopo pranzo, la lotta de' contadini era in piedi, insino che uno restava vinci tor di tutti: bella cosa certo a vedere la fierezza e la destrezza di quegli uomini robusti. Correvano un palio le fanciulle et un altro i giovani; tanto che gli arrivava l'ora di dar principio a una comedia, la quale, secondo i tempi, si faceva ora dopo et ora innanzi cena; e con musiche e balli si finiva quel dì lietamente scorso in allegrezza e festa. Il lunedì mattina per tempo - e già era ordinato per i deputati s'andava alla caccia delle salvaticine, cignali, cervi, caprioli. Et il desinare era ordinato in qualche amena collina d'una bella veduta, avendo ritrovato sito capace e bello per un tal principe e signore, o in cima di qualche allegra montagnetta in un'ombra folta di rami in un bosco, dove sorgessi qualche fonte degno e di acqua delicata e fresca, onde tutta la giornata si spendeva in gran caccie, tra reti, lacci e cani. E la sera, ritornatisene con molta preda, contentati tutti i cuori dal diletto del corso e da la presa delle salvaticine, ragionando delle ardite prove de' cacciatori con gli spiedi, della feracità de' cani e delle difese che le fiere avevan fatto, con una tranquillità d'animo la cena godevano al palazzo con molto appetito, e con riposo, per l'esercizio fatti stracchi, il letto suavemente godevano. L'altro giorno questo degno principe attendeva alla coltivazione, faceva di suo mano de' calmi e ne ordinava; piantavasi frutti diversi e viti; faceva dirizzare strade, adornar giardini, e tutta la giornata in agricoltura dispensava, salvo che dopo desinare, dove in qualche

3334

XXI · LA VILLA

gioco il tempo un pezzo si dispensava. La mattina del mercoledl i falconieri avevano apparecchiati gli uccegli et insino all'ora debita si facevano caccie da re veramente, con un piacere estremo delle zuffe in aria e del volo de' salvatichi e de gli amaestrati animali; e certo il maggior contento non si può provare. Il restante del giorno le giostre, il correre all'anello sempre erano in essere: e la sera una brava partita d'un pallon grosso non mancava mai, alla quale concorrevano i primi giocatori d'Italia; e con questo la giornata aveva allegra riuscita. Un giorno aveva la villa aparecchiato, che era il giovedl, e con bracchi e con levrieri faceva caccia minuta di lepri, volponi, e davano al signore quello spasso che fosse possibile; et il dopo pranzo il signore, passato i giochi, trattenimento del caldo, la palla al trespolo, trarre il palo, saltare, o un pallone al calcio e talvolta tutte queste cose si ponevano in essecuzione. Questo giorno di riguardo circa a i piaceri il signore usava per tempo far molte grazie, segnava le suppliche, dava molte limosine. Di poi cavalcava per la villa a vedere se i fiumi danneggiavano il paese, e con prudenti ingegneri, con ordinare se bisognavano ponti, cavar fosse, nettare scolatoi, se ne tornava a casa e desinava ritirato. Intanto gli uomini e le reti s'aparecchiavano per una pescagione (secondo i luoghi) più bella che si potesse: alla quale il signore era presente e tutta la corte, con quel diletto che si sa, maggiore di tutti gli altri diletti di villa, in quanto al parere di molti; perché, al pescare, solamente s'affatica l'occhio, che alla caccia ci va tutta la vita; et a chi non piace tanto questa quanto la caccia o l'uccellare, usi qual più gli sodisfa, che io volentieri gli dò le prese, e tanto credo e voglio quanto particolarmente a ciascuno utile, onorevole e comodo torna bene et a proposito. [ SECONDA VILLA] PODERE DI SPASSO

Questa seconda villa s'appartiene a' gentiluomini. 1 In questa si va a caccia, a pescare, riducesi a trebbio con molti galanti uomini, e, se tu vuoi, puoi starti alla libera, talvolta mangiando cibi grossi; e brevemente, tutti pensieri della città si gettano dietro alle spalle. Questo è quel podere che fa per i dotti, di questa maniera se lo 1.

Cfr. p. 3324.

ANTON FRANCESCO DONI

3335

eleggono i letterati, e vuole essere una mezza giornata, e non più, lontano dalla città, e non avere in tutto in tutto del salvatico, ma misto. Come mirabilmente si terminò in Reggio nel bel giardino del R.do Signor Jacopo, uomo degno e leale, Proposto Zoboli; nel quale erano questi illustrissimi ingegni et onoratissimi gentiluomini: il Signor Orazio Malegucci,1 Giulio Bebbi e Gabriello Bambasi;2 dove fu con somma eloquenza dipinto un sl fatto casamento dalla mirabil Signora Virginea, degna consorte del Signor Orazio.3 «Una corte chiusa, con le mura attorno, tutta dipinta di fiaminghi paesi; e sia d'un' ampia e ben posta entrata lavorata di termini, architravi, cornicioni, colonne e basamento; bene intesa, nella quale sien da due parte gli orticegli stretti e tanto alti, che vi si possi sedere sopra l' orlo destramente con la comodità della larghezza delle pietre lavorate; e questi sien piantati di melaranci al muro, il restante accomodato con cedri, fiori et erbette odorifere o altro che diletti più a colui che ne sarà padrone. Due loggette saranno a questo piano: per la state una e per l'inverno l'altra; nel mezzo delle quali sia l'entrata del casamento, in tutte le parte comodo e di tutte le stanze che son Ad Orazio l\1alaguzzi è appunto dedicato il ms. di Reggio F 536; cfr. f. 4: « Allo Illustre Signor il Signor Conte Orazio Malegucci, mio signore osservandissimo. Poi che Reggio, città regale, mi fece sì grata accoglienza, molti anni sono, e la casa di V. S. Illustre mi onorò tanto, sempre ho avuto in memoria come io potessi farne ricordo, se non degno quanto era il merito della città e della nobiltà sua reggiana, almeno come potevano le debil forze del mio rozzo ingegno. Così ho composto cinque libri di ville, i quali stampati si vedranno. Questo ne viene a penna dedicato nelle mani della illustre persona vostra, degna d'ogni riverenza e d'ogni onore, per mostrare al mondo sul titolo de' miei libri il nome del cosi valoroso gentiluomo e degno cavaliere quanto abbia la nostra età, e di questo ne sarà testimonio il merito e la fama degna e chiara che per una bocca universale ne rugiona. Però, Signor mio cortesissimo e nobilissimo, io sono obbligato a farvi riverenza (in quel modo ch'io posso) et inchinarmi alla realità dell'animo tanto virtuoso della Signora Virginea Sua consorte con questo mio dono, quale egli sia: accettatelo per cortesia, perché io sono un de' primi divoti che abbia la casa Maleguccia di Reggio, in segno della mia servitù; e le bacio la mano. Di Padova, a' 111 di novembre MDLXV. Di V. S. Illustrissima servitor di core il Doni». Cfr. U. BELLOCCHI, op. cit., pp. 12 sg. nota 10: « Sul conte Orazio Malaguzzi, personalità di grande rilievo nel mondo reggiano (e non solo reggiano) del Cinquecento, tanto che fu ambasciatore di Alfonso II d'Este presso la corte di Filippo II di Spagna, si veda U. BELLOCCHI, Il Ma11riziano. Gli affreschi di Nicolò dell'Abate nel "nido" di Lodovico Ariosto, Reggio Emilia 1967, p. 46 nota 25 •· 2. Cfr. U. BELLOCCHI, Le Ville di A. F. Doni, cit., p. 17 nota 15: • Gabriello Bombasi, autore della tragedia Alidoro, ritenuta precorritrice del melodramma •· 3. Cfr. nota 1. I.

3336

XXI • LA VILLA

bisognose fornito, e questa fabbrica sia in testa della corte, che nell'entrare abbia apparenza signorile da' conci, da le pitture e dalla architettura, con bel componimento di finestre le quali su la corte guardino con i suoi pergami a balaustri intagliati; e le basse stanze sopra delle loggette rieschino accomodate quanto più si può degnamente di frontispizii e cornici. Orti, frutti, pergole e boschetti attorno alla casa, ne' luoghi loro convenienti, si debbono ordinare. 1 « Questa è, quanto al gusto, universale; però io intendo disegnarvene un'altra secondo che la piacerebbe a me, et è villa già posta in fatti e non in parole dipinta; ora udite. Novale è un castello sul Trevisano, assai ben popolato di uomini agiati e valenti; et è dintornato di belle strade larghe, e di lunghezza un miglio e più diritte. Questo suo sito è d'acque vive e fiumicelli chiari e correnti addorno; di fiorite praterie, d'uve dolci e frutti suavi copioso, et onestamente munito di tutte le cose che al nostro vivere fanno di bisogno. Né vi generi maraviglia che così minutamente io sappia il luogo descrivere, per ciò che nella gita di Vinegia l'anno passato, ch'io feci per veder la Scensa con la Signora Isabella Visdomini, volsi dire Bebbia Fontanella, con la Signora Giulia Zoboli Bombasa e con la Signora Laura Fontanella de' Visdomini, donna rara e mirabile come sapete, noi vi fummo condotte dai nostri signori consorti, da alcuni clarissimi, per Santo Giorgio, giorno che la terra fa gran festa. Dove ci accolse onoratamente la Signora Paola Granza, vedova, una delle nobil gentildonne che io praticassi mai, magnifica e leale, il ritratto della quale ha fatto sì divinamente il Signor Alessandro Ardenzio in medaglia, e bella di tal sorte che la può far paragone alle buone antiche et alle illustri moderne ben tirate. 2 Là un podere hanno i magnifici Morisini, bello e buono. Questo luogo è di entrata rozza ma ampia e bella sopra un ponte; dove in uno spazioso cortile si arriva, dalla parte destra del quale è una loggia colonnata posta al mezzo giorno, dove la state con infinite comodità e mirabil fresco si cena. 3 « Da una parte in testa son due finestroni volti a tramontana, e I. Diversamente dalla villa reale, il podere di spasso promuove una particolare attenzione agli ornati pittorici e scultorei. 2. Cfr. U. BELLOCCHI, op. cit., p. 17 nota 15: •Anche le signore citate spiccano per nobiltà e bellezza nel mondo aristocratico dell'epoca, tanto che le troviamo ricordate nel rarissimo poemetto a stampa, in terza rima, Triomplio di Reggio, alle donne reggiane dedicato, in Parma, appresso di Seth Viotto l'anno 1551, pp. 54 n. n .... , nonché nel poema manoscritto in ottava rima I tre ca11ti della descritione del Giardino Amoroso, 1562 ». 3. Cfr. p. 3327.

ANTON FRANCESCO DONI

3337

quegli la veduta della via ti porgono, per la quale continuamente cocchi e carrette con varie e diverse persone corrono, cosi gentiluomini come altri, e passano. Nel mezzo di detta loggia, v'è la entrata di casa, poi una comoda e breve scala da salire nelle onorate stanze, nelle quali vi potrebbe alloggiare ogni onorata corte; per cib che le camere di sopra et a mezzo vi son benissimo accomodate per quanto a gentiluomo si conviene: con portichi, loggette, e pergami dintornate. «A questa parte serve una cucina notabile, di quelle rare che si possin vedere, doppiamente finita di lavori faenzini, bianchi e figurati, con tanta abbondanza di stagni e di rami, eh' egli è uno stupore a vederla; canova, guardaroba et alloggiamento per la famiglia appartato, ben disposto e ben disegnato, con pozzi e quante comodità fanno di bisogno. 1 Dalla sinistra parte vi sono appartamenti per i forestieri, per il castaldo e famiglia sua, con le stalle, magazzini e luoghi agiati per tenere le cose per uso di tutta la casa.3 Nel mezzo di queste stanze v'è un luogo aperto per il desinare, che ha una tonda, alta e ben composta pergola di uve rare, la quale vi conduce con l'ombra a una porta dove gli corre innanzi un'acqua, e vi mostra lieta e suave veduta. In questo luogo vi è un quadro d'orto, dove d'ogni tempo sono erbe e fiori d'ogni sorte per uso e per diletto di chi vi abita, e nell'ultimo termine v'è fabricata una loggetta quadra in volta, da tutte le parte di finestroni aperta, e si può serrare per comodità del fuggire e sole e venti. Questa è chiamata Apolline, con ciò sia che in quella si adunano i giovani della terra, e qual suona di clavecembalo, qual di viola, tal di liuto, certi di flauto, altri cantano et altri di diverse cose ragionano, onde tutte quelle ore calde noiose in virtuoso essercizio si dispensano, scacchi, tavole, trucco et altri onesti e dilettevoli giochi non vi mancano.3 «Alla porta principale di casa, dove s'entra in corte, ne risponde al mezzo un'altra, che nel brolo (o giardino) vi conduce: nel quale son le vie attorno da ogni banda addorne di rosai, cotogni, nespoli, nocciole, melagrane, fichi e vite: et il mezzo è tutto verde prato, pieno di meli, peri, susini, ciriegi et altri frutti, d'ogni bella e buona sorte che in Italia sia.4 Onde dall'una primavera all'altra, tra 1. Cfr. la più sommaria descrizione dei servizi della villa principesca, qui pp. 3326 sg. 2. Cfr. p. 3330. 3. Tutta la descrizione ha un ritmo più discorsivo di quello della illustrazione della villa principesca. 4. Anche la vegetazione è più modesta ed utilitaria di quella della villa regia; cfr. qui pp. 3327 sgg.

3338

XXI • LA VILLA

il giardino e Porto, avete quasi sempre frutti e fiori. In testa di questo mirabil sito corre sempre il chiaro fiume Marzinigo, alle dolci ripe del quale fanno verdi sponde alte piante d'ontani, frassini, salci, tiglie, quercie et olmi, nelle intrecciate radice de' quali tu hai, a ogni tuo piacere o bisogno, dugento grossi gamberi; e con le reti lucci, tinche, reine e nel corrente anguille bellissime si pigliano. E per ultimo diletto tiene il gentiluomo (il magnifico M. Francesco) una barchetta accomodata, da scorrere lo spazio di mezzo miglio fra le ombre fresche de' rami e tra i rivi cristallini e correnti, e per poter talvolta sopra dell'acqua limpida cenare, con variate musiche et altri piacevoli diletti. E per non vi fastidire con il lungo ragionare, finisco». Tanto disse la Signora Virginia illustre. 1 Ond'io soggiunsi:« Certo cotesta è onorata villa e bella quanto si sia quella la qual donò il mirabile Lorenzo de' Medici a Marsilio Ficino ;2 ancora quella del Boccaccio a Certaldo a suoi tempi doveva esser bellissima, come ne mostrano le sue reliquie. Il Petrarca ad Arquà la volle utile, come oggi si vede, più tosto che pomposa: ma quella di Cafaggiuolo ha l'una parte e l'altra». 3 Queste e simili mi paiono ville da dovero da gentiluomini e da letterati, perché affastidito un nobile da' travagli della sua republica, mentre che nel suo luogo governa un altro, cerca qualche spasso quieto due e tre volte l'anno per qualche mese, per poter meglio sopportare i noiosi fastidi e intollerabili travagli che ne' governi Io affliggono bene spesso. L'altro, stracco da libri soffistici, accioché non lo consumino cosi tosto, sale una collina, passeggia per una pianura e ripiglia fiato con un libretto piacevole in mano, et alla verzura d'un boschetto vago ristora sé e la vista, quasi stracca dalla lunga lettura di tante e tante sorte di libri. E l'una e l'altra maniera di persone hanno da dilettarsi di far nesti begli, piantar frutti buoni, o far qualche poco di giardinetto addorno, con quella fatica però che non passi il principio del sudore: altrimenti l'ha del contadino a tutto pasto. 1. L'intervento della signora Virginia è stato soppresso in DONI, Ville, 1566, f. 8v. 2. Allusione un po' approssimativa alla villa medicea di Careggi, dove Marsilio Ficino fu ospitato a lungo, fino alla morte. 3. Cfr. VASARI, 1568, 1, p. 343 [n, p. 442]: «Fece ancora Cosimo de' Medici col consiglio e disegno di Michelozzo il palazzo di Cafaggiuolo in Mugello, riducendolo a guisa di fortezza coi fossi intorno; et ordinò i poderi, le strade, i giardini e le fontane con boschi attorno, ragnaie et altre cose da ville molto onorate».

ANTON FRANCESCO DONI

3339

E se paresse, a chi legge queste Ville et a qualch'un altro che le ode leggere, che i re antichi e questo e quel cittadino facessino di lor mano e dicessino da la mattina alla sera, io rispondo che, se gli scrittori passano il termine del verisimile, che non si debbe credere loro; non vo' dire che fossero d'un'altra razza, più che i nostri moderni, perché fu sempre uova e pippioni. 1 Credo che fosse allora come ho veduto oggidì de' nostri, che tal fa e tal mostra di fare. Un duca piglierà una leggiadra e diritta pianta, trovandosi cosi in umore in quei luoghi culti e begli: fatto prima far la fossa dal contadino e dal fattore, datogli ancora il nesto in mano, lo metteranno in terra; e poi veramente può dire il signore, quando gli vengono portati i frutti in tavola: «Questi son de' miei allievi, e questi piantai e feci coltivare». «Bisogna avere un poco di giudizio (disse il magnifico M. Bernardino Polani) nello scrivere, e nello intendere qualche discrezione. Sì fatto modo comodo dovevano usare una gran parte di quei magni antichi; quei Cincinnati degni, quei re bravi e que' Cirri stupendi. La villa di Servilio Vatia, quella che Seneca chiamava sepoltura di Vatia; e non doveva esservi nulla di man del padrone, né piantata né acconcia, poi che in quella oziosamente viveva. Né si legge altro, per memoria di bello e di buono, che le due ben situate spelonche, una data alla fresca ombra continua, e l'altra esposta sempre alla spera dell'ardente sole, con quel corrente rivoletto in mezzo di due fioriti pratelli. Però, stando alla villa oggi, il galante intelletto e mirabile non debb'esser nulla ozioso, poi che, dove egli entra, apre la porta a tutti i vizii ». Queste due notabil ville son il capo illustre delle altre: e chi usa per costume, abita per quiete, gode per diletto, o si ritrae in villa per istar remoto dallo errante vulgo, non pare a me che meriti biasimo alcuno; né so come si possi cadere in animo a un uomo il quale sia civile di costumi e d'opere cortese, a biasimare colui che in tal luogo a suoi tempi debiti si riduce.2 Se già non vi fosse qualche notabil tacca da segnare 1. Si riaccende la polemica nei confronti della nobiltà degli esempi antichi: cfr. p. 3324. 2. Soluzione mediatrice della polemica tra città e campagna (cfr. ad esempio LEONARDO, qui p.3111) pienamente concorde col PALLADIO, qui pp. 3364 sgg. Vedi anche i versi inseriti dal Doni tra la seconda e la terza villa nel Cod. 15 della Biblioteca Trivulziana, s. f.: «Doni, talor, pensando al vostro stato / e a quella vita libera che fate, / conchiudo che voi sete un uom beato./ Al vostro poderetto ve ne state,/ in quei ameni colli con piacere, / cosl d'inverno come ancor di state. / Costi non vi pa-

334°

XXI · LA VILLA

su la taglia della vergogna; come sarebbe starsi in villa per avarizia publica, taccagneria secreta et altri mali umori indigesti, de' quali sotto qualche altra villa io ne farò quel registro ch'io potrò. Ora entriamo ne' confini delle ville de' mercatanti, il titolo delle quali sarà Possessione di recreazione. LA TERZA VILLA

[POSSESSIONE DI RECREAZIONE]

[Eccomi alla terza spezie, come scrisse il Pico della Mirandola nel Rudente di Plauto, che è ristorativa delle fatiche; nella qual possessione di villa si ripiglia fiato delle faccende all' ombre de gli olmi, sotto le pergole, e in certe stanze fresche propriamente fatte per ristoro della vita]. 1 Possessione mercatantile non avrà molta cura di fabbricare, perché, come ho al principio detto, le vengon loro di stra balzo in mano, come uomini danarosi; e bene spesso con un picco! prezzo da cittadino comprano cose da re. Ora, come le trovano, cosi se le godano; e come due o tre feste appariscano sul calendario, i galanti mercatanti si riducono insieme a far certe compagnie garbate, uniche cene e desinari: giocando a tavole, scacchi, pallamaglio, qualche primierona et altri passatempi usano. 2 Cosi, scapest[ r]ando per quelle fiorite praterie, si rifanno di quei giorni che travagliati hanno spesi in fastidiosi cambi che gli hanno mezzi intisichiti i corpi loro; così si scordano i conti de' grossi libri doppi, i contratti leciti, e presso ch'io non dissi altrimenti; le proposte e risposte di lettere, saldi, rimesse, tratte e copie di liste, bazzarri e diavolerie con fondo e senza. Chi non ha moglie vi conduce a spasso la femina, e chi non l'ha se la provede ;3 et anticamente si trovavano de' mercatanti che a onore delle loro imprese fabricavano ville stupende, come si veggono ancora per una gran parte di vestigie; ma scete di chimere,/ come facciam ognor noi cortigiani, / ch'andiamo col cervello a sparaviere. / Gli inchin, le sberrettate e i baciamani / con mille spagnolate e fizzioni / ci tengono in faccende ognor le mani. / E, quel ch'è peggio poi, spesso i padroni /sugli occhi d'un gentil buon servitore / quel ch'a lui si dovria danno a' buffoni/ ..• Voi con le vostre Muse vi godete/ l'ozio tanto bramato da' scrittori/ e sol con quelle ognor vi trattenete 11. 1. Il ms. Reggiano presenta a questo punto una lacuna che abbiamo colmato ricorrendo al ms. Correr. 2. Cfr. i ben diversi spassi dei prìncipi (pp. 3323 sgg.) e dei gentiluomini e letterati (pp. 3334 sgg.). 3. DONI, Ville, J 566, f. 10, ferma la trattazione della terza villa a questo punto.

ANTON FRANCESCO DONI

334 1

quella che ha il R.do Canonico, il Signor Paolo Barisoni illustre, nel Frioli, quasi è tutta in piedi, e fu antica manifattura, oggi modernamente ristaurata, et è stata in questo modo ne' passati secoli. Ora udite. 1 Fra i molti paesi, vaghi, dilettevoli e begli, che ha il Frioli, la Barisona, che da Cesare ebbe il titolo, ha un tenitorio il quale è bellissimo, conciò sia eh' egli ha tanto della collina e del bosco quanto del monte e della pianura. È tutto il gran luogo cinto dall'acque correnti, né ha vicino che lo molesti, per ciò che il fiume da ciascuno altro lo difende. Lo spazio suo son molte miglia e contiene boscaglie alte e folte, piene di caccie, praterie verdi e liete, vigne abondanti e dolce, e terre lavorative di gran frutto. La fabbrica è in quadro, posta nel mezzo d'un ampio e spazioso piano; e da un cantone all'altro vi e un tiro d'una buona balestra, di loggie in volta tirate a uso di chiostro intorno intorno. Tutte le facciate nuovamente son dipinte in fresco, con istorie vaghe e rare, di mano di eccellentissimi maestri, del Francia e del Pordonnone. 2 Le volte antiche lavorate a stucchi, grottesche e festoni; e gira tutto con colonne mirabili, capitegli e base stupende. Quattro piedistalli sono alla scoperta bellissimi, e dalla parte di levante v'è la Primavera di candido marmo ;3 a mezzogiorno, d'una pietra rossa bella, v'è la State ;4 alla tramontana uno Inverno di pietra di macigno dura; 5 all'altro cantone un Autunno di bronzo;6 scolture tutte antiche stupende, ma sopratutto un pavimento di quadri in pittura invetriata,7 che la più ricca e bella cosa non si può vedere, e chi due o tre volte passeggia questo luogo, può dir d'aver fatto assai buono esserc1z10. Quattro appartamenti ha questa stupenda villa, tutti a quel piano delle logge, dove agiatamente quattro corti possono alloggiar, come 1. Diversamente il ms. Correr, s. f.: e per 11na femina d'un ricchissimo gentiluomo mercata11te fu edificata una villa già 11el Frioli, la quale è pervenuta poi trelle mani al s. Simone et il signor Giovanni Mauro Pupaiti, e fu questa et è così fatta: è ben vero che il tempo alcuna particella n'ha disconcia et invecchiata. 2. Diversamente il ms. Correr, s. f.: del Francia, del Pordonnone e di Giorgio da Castel Franco. Tali dati come quelli successivi dimostrano che l'esemplificazione è del tutto ideale. 3. l\ils. Correr, s. f.: Primavera di ca11dido marmo, figura di 1110110 di Donatello. 4. Diversamente il ms. Correr, s. f.: a mezzo gior110 la State d'11na pietra rossiccia, molto delicata opera del Montorsoli. 5. Ms. Correr, s. f.: alla tramontana v'è uno Inverno di pietra di macig110 dura del J\tlo11telupo, et è ben fatta. 6. Il ms. Correr, s. f., aggiunge: fatto dal Sansovino. 7. Ms. Correr, s. f.: in pitt11ra invetriati, di 111a110 di Jacopo La,ifra11chi da Pesero.

3342

XXI • LA VILLA

più volte hanno fatto. La fabrica è svelta et alta e saglie nove scaglioni per potere per tutto entrare sotto i portichi, o logge che chiamar gli vogliamo. Cosi da ogni parte son camere ricche, sale addorne, cucine finite, et ogni altra stanza bisognosa a uso e comodo de gli abitatori, quanto si può parata e bene acconcia. 1 Ma nel gran quadro del mezzo v'è un'opera di grande spesa e da grande ingegno condotta: un largo pozzo tondo, il circuito del quale scende a scalino a scalino, ma a ogni dieci gradi v'è un piano largo e spazioso per potere comodamente stare a tavola e passeggiare. E poi si va stringendo di cerchio in cerchio, tanto che a la fine giù nel basso si riduce all'ordinaria larghezza d'un pozzo; e scende, mi credo, cinquantacinque gradi in circa.2 E nel centro v'è fondata una grossissima colonna, di terra cotta dentro e di fuori di vive pietre lavorate a figure, animali et altre belle fantasie, e con molta diligenza murate e commesse. La colonna è vota in mezzo, d'un cannon grosso, quanto può allargarsi un uomo nelle braccia largo. Per mezzo di questa macchina passa l'acqua da molte vene, tutte unite e vive, nel fondo ristrette insieme da la diligenza de' fabbricatori, onde, sforzate dalla lor caduta naturale, salgono alla cima, che poco manco arriva che al piano di sopra, passando fuori per varii mostri e maschere che zampillano abondantemente, e da la cima per artifiziose figure esce e nel profondo ricade con dolcezza strepitosa, facendo lago attorno alla colonna e suo basa; il qual lago tien sotto acqua da dodici o quindici scalini, tutto pieno di pesci, et al colmo per doccioni si spande in diverse parti. Cosa rara, d'ingegno, di grande spesa, et ha del principe, del reale e della maestà a vederla. Intorno al cerchio, al piano della terra di questa fonte e pozzo, girano balaustri, e vi son appresso la più bella sorte d'alberi diritti e begli che si passi l'uomo imaginare, e tutti posti a misura nel piantargli, e son variati di foglia e di rami; onde ti fanno una allegra e dilettevol veduta. Ma tutte le consolazioni son nulla, salvo che il goder la state sl fatto luogo: perché scendendo giù quanto ti pare ali' ombra e ti fa bisogno, nel sentire che tu fai del fresco temperato a modo tuo, gusti per quello, e per le acque della fonte stupenda, quella consolazione che ricever passi la più agiata persona del mondo. 3 1. Distribuzione chiara e funzionale secondo gli ideali palladiani. 2. Il ms. Correr, s. f., aggiunge: e chi riguarda di quel basso insù, gli par vedere un Coliseo. 3. La capricciosa fantasia del Doni è riuscita cosi a combinare i giochi ideali della fonte con quelli più peregrini del pozzo.

ANTON FRANCESCO DONI

3343

Il restante del luogo infino a' gradi delle loggie, che è assai campo, è tutta prateria, piena con ordine e bel componimento di giuste misure, di frutti miracolosi d'ogni sorte e per ogni stagione. Allo entrare del grandissimo cortile si va al piano per una porta fatta con figure di termini et una degna architettura; e si passa sotto al piano della loggia, dove la loggia del ]androne è lavorata di stucchi con putti, grottesche e festoni, ogni cosa tocca con oro dove bisogna; e come tu sei passato dentro, tu vedi dall'altra testa la rispondente porta bellissima, la quale esce in uno spazio d'altrettanto piano quanto è tutta la fabbrica (fuori), dove è una montagnetta artifiziosa, fabricata a gradi, che par proprio la forma cavata del pozzo di dentro, sopra della quale sono a grado per grado posati vasi di terra cotta fatti a posta, pieni di cedri, aranci, limoni, mortine, viole, perse et altre diverse cose, fatte a figure, navilii, uccegli, pesci et alberetti acconci a uso di bossoli con artifizioso modo, 1 i quali dentro a' gradi del pozzo per l'estremo freddo si conservano da diligente mano ben mantenuti. Onde io giudico questa villa, per il diletto dell'alta montagna, dilettevole e bella; per il profondo della fonte, grata e fresca, e per gli alloggiamenti comodi, spaziosi e lieti una delle cose rare e ricche che veder si possino. Fine della terza villa. [LA QUARTA VILLA] CASA DI RISPIARMO

[La quarta villa è chiamata di rispiarmo, una possessione da artigiano, la quale gli dà vino per casa, grano, legne, et il resto le braccia del poveretto fanno con la sua arte il tutto].2 Con i soldi contanti si provvede il vestire e calzare, la carne due volte la settimana, a Ogni Santi il pan pepato, il pecorino a Pasqua, et il carnesciale con un paio di galline sguazza e trionfa. Questi tali omicciatti mandano qualche settimana le mogli e la brigatina fuori, onde vi vanno con una allegrezza inestimabile et avanzano mezze le spese del companatico della famiglia. Ingrassanvi un porcellino a mezzo con il lavoratore, il quale poi insalato tutto l'anno gli sostenta. Talvolta la donna pone una chioccia per far tessere una tela Sulla varietà dei vasi cfr. p. 3328 e la nota 1. 2. Abbiamo ancora una volta colmata la lacuna del ms. Reggiano con il ms. Correr, s. f. I.

3344

XXI • LA VILLA

(col guadagno de' pulcini) o da camicie da fanciulle, o da bambini per far benducci, o altri corredi da povero artefice; ché le insalate, le rape e gli agletti sono il ristorativo delle sue genti. E quando in quel tempo le contadine del podere e i lavoratori vanno alla città, la buona femina manda al marito un panierino di frutta, un mazzolino di roselline con quattro altre novelle, et una insalatina di cicerbita salvatica; onde l'uomo, buon poveretto, ne riceve una consolazione mirabile. 1 L'allegrezza poi che la brigatina ha quando il sabato sera aspetta il babbo, non ha pari; il quale, avendo serrata la bottega un poco a buon' otta, se ne va fuori alla villa, dove trova i suoi figliuolini su la via con la moglie ad aspettarlo. E qua si vede, come egli apparisce, rasserenare il cuor di tutti, e con la corsa di dieci passi, che fanno i figliuoli maggioretti, et i più piccoli per la mano della madre son condotti; e qua si abbraccia e quivi si bacia con tanta festoccia quei bambolini, che tutti sangui si muovono. Alla fine il padre ha portato a quello che si porta in braccio le scarpettine d'oro; a quell'altra le pianelline et all'altro un tocco di scarlatto salvatico con una penna bianca; un fistio et altre zaccherette da fanciulli, che fan star poi tutta la settimana allegra la casa. Quando tornano, fatto il mosto, dalla villa, le donne vengano cariche di penzoli d'uva, di canne di sorbe, di panieri di nespole, di sacchetti di noce et una provisione di civaie per la quaresima, pieni i grembiuli di palle d'uva secca, da dispensare nel vicinato a' fanciulli. Hanno fatta la sapa, lavato il bucato e pongono insino a quattro rocche e due granate per soprasello dell'asinino, il quale porta nelle ceste i lor bambini. Così si godono la villa, che non se ne perde nulla, e gli anni menano in tranquillità. La fabbrica di tali case è senza alcun modello: conciosiaché una stanza per la state vi fece l'avolo, una stalletta per un cavallo il bisavolo, la colombaia la nonna vecchia, alla quale piacevano i pippioni; un forno, una capanna et un sottotetto di più fa parer si fatta casa povera un ricco alloggiamento, avendovi però il suo olmo su la via da ridursi all'ombra et al cicaleccio de' suoi lavoratori e con il vicinato a novellare. 2 Ma poi che questi artigiani non hanno Si noti la quarta gradazione di costumi; cfr. pp. 3323 sgg., 3334 sgg., 2. DONI, Ville, I 566, f. I I, si ferma a questo punto. Cfr. le ben diverse indicazioni di SERLIO, Delle habitatio11i, f. 3v.: « Ora io comincerò a trattare delle abitazioni di citadini fuori delle cità: cominciando dal più I.

3670 sgg.

ANTON FRANCESCO DONI

3345

villa che sia da vedere, io ne voglio dar loro una, che da un artigiano fu fabricata, il quale aveva tre figliuoli, e so che la piacerà per villa d'artefice, né credo che molti l'abbino veduta come l'ho veduta io. Credo che molti abbin letto nel mio Dialogo della musica il nome della Rustica. 1 Costei ha una villa la quale, ancora che la sia piccola di dominio, l'è cosa degna da esser disegnata in scrittura; e la fece fabricare un bottaio milanese, cugino del nipote che fu cognato del padre d'un zio dell'Arcivescovo Giovanni.2' Questa è posta nel più bel sito che abbia la Lombardia, in un luogo detto la Collina Falcona.3 La non ha molto tenitorio di piano, ma monticelli e colline debitamente. Da una parte si scende giù in un piano che è assai spazioso, dove nasce in mezzo uno stagno d'acque sorgenti, tanto grande quanto la Rustica di suo mano tira un sasso, con il quale arriva al mezzo. In questo lago ella vi tiene una navicella salda e ben fatta, per potere per ogni mal tempo varcarlo, per arrivare a un gruppo di lauri, che nel mezzo, a sesto, vi fanno folta e verde selvetta, tanto piacevole e bella che non si desidera, quando l'uomo v'è dentro, d'uscirne mai; e nel più ombroso luogo v'è ridotto in volta un luogo reale, dove dentro vi si ricovera al fresco: questo è dintornato da certi begli scogli, i quali gemono acque, e nel distilpovero artefice, lo quale abbia un puoco di terreno, sopra del quale sarà necessario che vi sia tanto di coperto che, volendo dimorare talvolta alla villa, ch,ei stia commodamente. Questa stanza sarà piedi xv in longhezza e sarà larga piedi XIII; nella quale si farà il fuogo e lo letto, et è segnata B. E s'egli sarà alquanto più agiato, potrà agiunger[v]i una cucina; la sua larghezza sarà piedi Vili et è segnata C. E benché vi sia una scaletta per montare dissopra, non si minuisse però la cucina, perché sotto la scala sarà vacuo. Se ancora, o per più beni o per maggior famiglia, vi acaderà più stanze, potrà davanti la casa farvi una loggia; la sua larghezza sarà piedi IX per lo meno e sarà longa quanto la casa, et è segnata A; sopra la quale si potrà salire per la scala della cucina, per non occupare altro luogo, e saravi dissopra una saletta sopra la loggia, una camera et un camerino. L'alteza delle stanze da basso sarà piedi Xl, e quella dissopra piedi 1x; e s'el luogo comportnrà che si cavi sotto terra, si cavarà piedi 111 e mezzo, et altro tanto si levarà la casa sopra terra; dove sotto essa si potrà fare la cucina, oltra la cantina, e se 'I padrone si vorà contentare delle stanze da basso, potrà collocare il tetto sopra la prima cornice». 1. In realtà nel Dialogo della musica, Vinegia I 554, il Doni nomina una Rusticana, donna di Simaco, e una Selvaggia, interlocutrice della seconda parte; cfr. A. F. DONI, Dialogo della musica, a cura di G. F. Malipiero, Venezia 1965, pp. 98 sgg., 21 1. 2. Diversamente il ms. Correr, s. f.: la fece fare Giova11batista Asinelli, e11gillo del nipote clie fu cognato del padre d'un zio chefece fare la to"e di Bolog11a. Si tratta, ancora una volta, di riferimenti scherzosi. 3. Diversamente il ms. Correr, s. f.: Questa è posta in Lombardia, in un luogo detto la Collina de' Cammegli. 210

XXI • LA VILLA

larle giù per quei rozzi sassi che hanno un disegno rustico eccellente, vi fanno certi muschi con erbe e varietà di cose, che è uno stupore a vederle: e cosi solitario e sicuro, leggendo o ragionando, se hai la compagnia grata e bella, sei sicuro che nessuno mai ti noia, né senti cosa che ti dia fastidio. In questo luogo è dipinto a fresco, per mano del Parmigianino, Diana in una fonte con sei ninfe ignude, la più dolce cosa che si possi vedere, le carne delicate, i visi celesti, le attitudini dilettevoli; le sono insomma pastose e vive. Il paesino poi, gli arbuscegli, l'acque et alcuni animaletti, non ve ne dico nulla; basta dirvi che stando per diletto in quel luogo, di propria volontà le dipinse. In quella piccola isoletta, cerchiata dalle limpide acque, vi sono leprette, conigli, spinosi e testuggini. Là si sentono degli uccelli diversi ben mille canti; quivi si pesca con gran piacere all'amo. Vi si bagna l'uomo ascosto e la donna, e con sicurezza e comodità. 1 Attorno a questo lago fabricò il bottaio tre casette ben piccole, ma comode, fatte per mano d'un sol maestro, e con un modello medesimo e misura. Onde stando nell'una, egli è come esser nell'altra; e tutte guardano sopra il lago, ma lontane da quello un buono spazio di cammino. E si scende poca collina all'acqua per una diritta strada, dall'un lato e dall'altro piena d'alberoni carichi di viti, e da principio alla fine spalliere di rosai ; cosl si gusta primavera in fiori e l'autunno in frutti. 2 In questo ameno luogo cenai io una state fra quei lauri con il Signor Cavalier Zoboli et il Signor Lodovico suo padre, con varie musiche buone. Eranvi sei gentildonne da Reggio: la Signora Antonia Gaddi, la Signora Laura Sessi de' Boiardi, la Signora Diana Strozzi Fontanelli, la Signora Ersilia Canosa de' Castelli, la Signora Isabella Fontanella Bebbia e la Signora Paola Zoboli de' Fontanelli, 3 la quale recitò alcuni mirabil versi in lode della villa, i quali riserbo al secondo libro, 4 e ne vengo al prologo dell'altra villa nominata Capanna, dove udirete molte cose piacevoli dal principio, nel mezzo et alla fine.

r. Si noti il profondo divario tra l'esemplificazione e la precedente descrizione dei costumi della famiglia dell'artigiano. 2. Nel ms. Correr manca la parte successiva. 3. Cfr. la nota 2. di p. 3336. 4. Non compaiono nemmeno nel ms. Trivulziano n. I 5.

ANTON FRANCESCO DONI

3347

[LA QUINTA VILLA] [CAPANNA DE L'UTILE] [PROLOGO]

In tutte l'imprese gli estremi son viziosi; però quando si scrive; bisogna con discrezione farsi intendere da chi legge, et il lettore per giudizioso farsi conoscere; perché ne' trattati di tutte le cose si debbe riguardare alla condizione dell'autore, di ciò che egli tratta, e considerare la misura di sé medesimo. Poniamo caso (disse il mio villano) che mi venga per le mani un libro di sonetti fatti su la statua dell'Aurora di Michelagnolo. So io che questo soggetto è unico, perché si trova solamente una si miracolosa statua. Subito rn'imagino per tutto quel corpo le bellezze estreme che imaginar si può da me, e do la tara a traverso a quelle poesie. Ma bisognerebbe che io mi mettessi insieme nella mente che questo scultore è il primo e che, quando si sarà detto e ridetto della vivacità del posare, dell'attitudine, della veduta de' membri miracolosi, che non si arriverà alla cognizione dell'arte del maestro. 1 Perché credete voi che pochi sappino render ragione del suo Giudizio di Cappella in Roma? Non per altro, se non che non intendono e non sono capaci del profondo disegno e della altissima arte che vi è dentro. :i Bisogna dire che le rime del Guidiccione sono stupende a canto al Borra;3 quelle [di Monsignor] Della Casa miracolose al pari delle mia; e quelle del Molza più belle un gran pezzo delle Brugiantine. La discrezione, il giudizio et il conoscere sé et altri (nel nome di Dio) acconcia il tutto. Però io voglio che tutti si lodino, ma più uno dell'altro, perché ciascuno nel suo grado ha fatto quanto ha saputo, e meglio; e chi vuol biasimare, biasimi con far altrettanto. L'oro è speso per unica moneta per tutto, ancora i piccioli di 1. La citazione di Michelangelo ha sempre per il Doni un valore superlativo. 2. Interessante allusione alle censure dell'ARETINO, del DOLCE e del GILIO (cfr. qui I, pp. 818 sgg., 840 sgg. e le note relative) che il Doni rifiuta. 3. Su Luigi Borra cfr. La libraria del DONI Fiorentino, Vinegia 1558, secondo l'edizione a cura di V. Bramanti, Milano 1972, pp. 135 sg.: • Poeta che si dava facilissimamente col dir bemiesco, fece alcuni capitoli della galea per forza, dove gli uomini si dolevano di quel tormento peggio che essere nell'Inferno, ma non l'ho veduto stampato, e fece alcune Rime•. In realtà il parmigiano Borra pubblicò L'amo,ose rime, Milano, Castiglioni, 1542.

XXI • LA VILLA

rame non si gettano via; e se non fanno per gli scrigni, e' son buoni per le borselline et i poveri gli usano. E però non faccin ceffo certi che si reputano Aristotili e Platani, che paia che, dalle lor frittelle in fuori, che ogni cosa puzzi; né scaglino via ogni libro, se bene non v'è dell'etica per ogni carta, ricordandosi che insino a oggi si son venduti più Serafini e Piovani Arlotti che Danti et Senichi. Se non piacciono a' petrarchisti gli Olimpii, lascingli stare, ci saranno ben di quegli che lo impareranno a mente, per cantarlo su le cetere con far le serenate alla druda. E mi sovviene in questo punto una piacevolezza alla memoria, e fu questa: l'anno mille DL egli era in Firenze il Verina filosofo,' il qual leggeva Aristotile Dell'anima in cattedra, nel mezzo di tutti i popoli; e perché lo leggeva vulgarmente, si facevano per tutto cerchi di ragionamenti sopra questa benedetta anima di mortale e non mortale: chi negava, chi credeva, e tale restava ambiguo. Questa lezzione fu ascoltata da quattro artigiani di buon nerbo, i quali da' vespri, dalla messa e dal mattutino infuori della compagnia, non passavano più inanzi. Erano costoro compagni a desco molle bene spesso, e si deliberarono andare insieme a udire. Usciti dallo studio disse il più vecchio: « Io voglio che noi ci divezziamo da questa pratica». « O perché?» risposono gli altri. Disse allora il risoluto bottegaio: «Quell' Aristotile per farsi eterno mandò tant'alto il suo cervello che, quando lo rivolse, non lo potette ritirare a segno. Costoro lo vogliono ora mettere in sesto, per accomodarlo nel capo a noi: e non si avveggano che il loro se ne va dietro a quell'altro. Il primo dì io ebbi una mala scossa al capo. Il secondo mi ci appiccarono un cerotto di diaquilonne: un voler tirarlo fuori per accompagnarlo con il loro. Oggi con il rottorio che egli mi ha fatto logicalmente, io sento di averci un buco. Io per me non ci voglio tornar più, ché tosto e' diventerebbe una finestra, e se ne andrebbe il mio povero cervello in fummo e per aria dietro a quello degli altri. Tanto quanto tiene la Santa Romana Chiesa credo io, la quale sa più del Verina, di me e d' Aristotile; ritorniamo pure a' nostri soliti cicalecci e spassi ordinarii n. E cosi d'accordo lasciarono le sottilità a1 cervegli sottili. Non misurerete adunque le mie leggende con gli altri scritti di villa, perché, non avendo villa per ora in essere, mal ne credo saper 1. Cfr. I, pp. 113 I sg. Nella Libraria, cit., p. 329, il DONI cita solo Gio-

vanni Battista Verino.

ANTON FRANCESCO DONI

3349

favellare; loro che più di quattro, a un bisogno, ne posseggono, molte e molte cose ne possono dimostrare. Ieri, che pur lessi certi begli scritti della villa, considerai l'autore, il fine suo di scrivere e la invenzione. Compassi ora me chi vuole e le mie parole, che l'andrà di pari; e per serrar la bocca al sacco, dico che io vorrei uomini vivi e non pecore dipinte, e per uscir di enigmi vorria vedere sul libro del1' Andreasio Onagrio villano la canzona del gentiluomo, e non una macchina di carne con due occhi. 1 Bisogna coprire gli orecchi lunghi con la cortesia, 2 e non si far novella d'avarizia a star in villa, e mal de la villa scrivere.3 Sapete come son fatti i villaiuoli? come il Signor Aniballe Testa, nobile bolognese, il quale è tutto crtesia et usa alla villa i degni atti e modi da principe.4 Tavolaccio Oste dice che conosce un certo, ch'io non mi ricordo del nome (lo dirò un'altra volta), che si sta in villa e più tosto rifiuterebbe sei amici che donar tre noci. Io dubito che la strada di questa mirabil vita sia stata guasta, conciosiaché gli stolti ricchi hanno voluto far fare alla castagna datteri e convertire il pruno in melarancio. E sl come la villa e la vita pastorale è stata corrotta per volerla ingentilire, così la città è diventata bosco per invillanarsi. 5 Leggendo potrete intenderla, ma meglio con lo essempio che tutto dì avete su gli occhi veder la verità. Non si discerne senza occhiali un mar di 1. Diversamente il ms. Correr, s. f.: e non un disegno di tJillano, il quale abbia quattro dita larghe le costole, e DONI, Ville, 1566, f. 13: e per uscire di enigmi io vorrei leggere sul libro de' villaiuoli (di alcuni dico) la canzona del gentile in fatti accompagnata con le lor ciancie, e non un segno o disegno di villa110, il quale abbia quatro dita larghe le costole. 2. Diversamente il ms. Correr, s. f.: Bisogna coprire - disse Lodovico Bosso a rm villano in Milano quegli orecchi lunghi . •. , e DONI, Ville, 1566, f. 13: Bisogna coprire- disse il Sig. Fan:::ino a J.11ilano, a u,i vii/aio - quegli orecchi l1lnglii discortesi . .• 3. Diversamente il ms. Correr, s. f.: e non si far novella dell'avarizia, imitando i gaglioffi clze la stiracchiano insino i11 rm fiasco di vino; perché da una volta Ì1l /àfam,o mutar ca11nella, quasi che si cavi loro un occhio. No11 risponda qui per i taccag11i 11essu,ro con dire: « E' n1anda1io quattro e sei volte 11. Sferratevi prima e poi parlate; perclzé dieci e venti guastade di vino, quando uno è gelltil1lomo, non gli fanno male. Una bigoncia se ne spande per l'amico; u,ra botticella ne dette il Cisti fornaio, e DONI, Ville, J 566, f. I 3. 4. Diversamente il ms. Correr, s. f.: Sapete come voglio110 esser fatti dadovero i villaiuoli? Splendidi come il signor Anibal Testa, 11obil bolognese, alla città (cosa clze non ha pari), et il signor Alberto Lo/lio da Ferrara alla sua Lo/liana; se voglion tenere il grado della vita onorata e senza n1e11da poterne scrivere, e DONI, Ville, I 566, f. 13: Sapete come vogliono essere in fatti i villaiuoli? Splendidi come il signor Annibale Testa, nobil bolog11ese, se vogliono tenere il grado della tJita onorata e senza menda poterne scrivere. 5. Cfr. p. 3339 e la nota 2.

335°

XXI • LA VILLA

dottori che stanno a giudicare nelle città, che son villani di natura e d'arte?1 Oh povera età, la più parte de, medici si fanno di carne villana, e tutti i pedanti di pelle di villano. Le case de' ricchi avari tengono per non ispendere in pugno si fatti falchetti, i quali per famigli, per cappellani, per fattori e bene spesso per istalloni servono. Oh che bella invenzione per dar creanza a figliuoli di gentiluomini! Or vadia in precipizio si fatta nobiltà di casate, poi che le vogliono andare. Io mi ricordo, perché non son molti anni, che in casa un gentiluomo nacque un villano; et il gentiluomo si vendicò perché fece nascere un nobile d'una villana: si vi giuro per la capezza dell'asinità dell'uno e dell'altra. Or non più, no, di questo; entriamo nella villa alla reale, gentile, bella, nobile, degna e cortese.a Il Signor Bartolomeo Zanne ha una villa lontana tre miglia da Bologna, sopra una bellissima collina, dalla sua diligenza, industria et ingegno fatta miracolosa, perché per forza di picconi, di scarpegli e con grossi muri, spesse siepi, posticci monticegli artifiziati, e con grossi muri attorno attorno, ha fatto un paradiso terrestre. Quivi si sta egli quasi continuamente praticando et accarezzando la civilità che vi concorre, cosi del continuo vi vanno a spasso virtuosi d,ogni professione e letterati d'ogni qualità, i quali son ricevuti con quel modo che sa mostrare un animo reale come il suo. Le camere son atte et adorne per alloggiare un Duca. E la provisione sua all'improviso è suffiziente da ricevere qual si voglia conte, e de' buoni. Chiesa, logge, sale, portico, orto, giardino, prato, piazza, I. Le solite iperboli per contrasto, accentuate nel ms. Correr, s. f.: Spesso tu vedi un be/l'asino che sta in dottoreria a giudicare,· guarda chi egli è: un contadino,· un medico si fa di carne villana, un pedante di pelle di villa110. 2. La digressione è molto più estesa nel ms. Correr, s. f. (come anche in DONI, Ville, 1566, ff. 13v. sg.): O bei maestri da crear figlirtoli di genti/110mini! Or vadia in precipizio d fatta nobiltà di casata, poi che la vuol cosi e che cosi gli piace. lo mi ricordo, perché non son nrolti a71ni, ritrova,zdomi al mondo nuovo, che egli se ne a,idava per i palazzi della ragione il re di Messico visitando gli uffici, con ricordare a' suoi catafalchi che era110 11el magistrato, che tenessino le bilancie della giustizia pari, perché gli ve11ivano de' richiami assai delle ingiustizie che facevano. Onde una mattina Alcantara catJalieri, che era galante uomo, n,a era un contadino Tijatto, cosi avendo av11to ,ma sentenza contro, se gli fece inanzi ginocchioni e porgegli la scrittura, con 1'n dirgli: •Messer lo Re, non vi rompete il capo per conto di giustizia, conciosia che questi vostri dalla città non la sanno fare, si come noi altri dalla villa non sappiamo più i campi lavorare: e da questo viene che voi non vedete né giustizia pari qua dentro, né là fuori noi ricolta buona ••• ».

ANTON FRANCESCO DONI

335 1

con alcune colline, vallette e monti da pigliarne diletto assai. Sonvi anticaglie da lui raccolte, vasi, scolture, pitture, tra le quali v'è la celeste Madonna di man del Parmigianino, la quale è tanto divina, che un castello di danari non la pagherebbe. 1 Testimoni ne sieno i magnifici Messer Ieronimo e Messer Francesco Fava, che a tal luogo mirabile mi condussero. Questo illustre villaiuolo è vero agricoltore di nobiltà; ha una accoglienza grata, un aspetto allegro et un procedere cordiale, pieno di amorevolezza, come ricerca un tanto dilettevol luogo, i frutti diversi e i calmi varii e rari che vi sono, che null'altro agricoltore l'avanza. Questa si può chiamare una villa magnifica; oh questo è villaiuolo da dovero!a E l'accompagneremo onoratamente.3 La villa del Prioli illustrissimo alle Tre Ville è molto stupenda; l'è tale che ogni gran signore si doverrebbe partire a posta del suo stato per andare a vederla e considerare l'animo di quel gentiluomo. Là vi son ricevuti d'ogni sorte forestieri et accarezzati, et io che per prova lo posso dire, ne -fo piena fede. Questa si gode molto et in molti modi. Tu sei là I. Cfr. p. 3346. 2. Cfr. diversamente il ms. Correr, s. f.: Questo illwt,e villaiuolo, adrmque, e vero agricoltore di nobiltà, lza una accoglienza grata, un aspetto allegro et un proceder cordiale pie110 di amorevolezza, come ricerca un tanto dilettcvol luogo. I frutti diversi et i calmi rari che vi sono, son tanti e tali che qual si voglia principe non gli avanza. Questa sì che è una villa magnifica; questo è un villaiuolo stupe11do; e questo è il paragone a' taccagni, che solamente stanno alla villa per avarizia e per coperta della miseria che eglino ha11no nell'ossa. Lodano tma vita rl ritirata come fanno loro, trovando scuse goffe e difese magre: Io effetto continuamente lo dimostra. Percioché, andate loro alla sprovista adosso, voi gli trovate fasciati in panni da ferrooecchio, in ciabatte calzati e da berrette di stufaiuoli coperti. O veramente, serrandoti l'uscio ml viso, ti fan110 aspettare tanto che si sien ri11piu111ati, e quando adosso ti si scuopro110, in soppresso come i cia11bellotti paiono stati, tanto hanno nuooe le doghe de' lor panni, che pirì nella cassa che indosso si stanno. E qua metton ma110 alle scuse, con certe cagnesche guardature dicendo: •lo son qui al bosco, la S. V. mi ha colto all'improviso sproveduto; se voi non sarete trattato come meritate, perdonatemi! Si dura fatica ad aver cosa buo11a in queste quasi selve; quest'anno non ci son frutti, i vi11i poco buoni, e quando son forzati a dar del buono, la botte è al fondo». E che la tempesta gli ha rovinato quasi mezzo il luogo, i diacci poi tutta l'ortaglia; e così freddamente ti raccoglie, e svilandoti tifa fuggir la voglia che mai pitì tu gli capiti a casa. Il ridere è poi quando alla città tu gli odi f avei/are della lor villa con chi non gli ha per la pertica: e' se ne sta11no con trionfo e 11011 manca loro latte di cappone, a caponi,· ma se qualch'uno dicesse «Io voglio venire a stare con esso voi•, •lo 11011 ci saròdiranno - perché mi convien cavalcare». Ma dove e' possono scantonare, tu tocchi per n'sposta 11.No11 ci ve11ite • •• ». Vedi anche DONI, Ville, 1566, ff. 15v. sg. 3. Il ms. Reggiano è più rapido delle altre redazioni, non soffermandosi in questo caso sulle divagazioni di costume.

3352

XX I • LA VILLA

primamente in un camerone stupendo, dove ogni cosa ti dà contento.1 I pavimenti sono specchi, i palchi d'oro e d'intagli, con quella varietà di pitture e colori che gusta il tuo animo, i fregi di rara invenzione; i quadri di Tiziano, i paesi di buon mastri fiamminghi coloriti a fresco, son mirabili e vaghi. 2 Le spalliere, i panni d'oro e seta, i padiglioni, i cortinaggi ricamati e lavorati a ago, le lettiere intagliate con oro, pitture e scolture, passan tutte le altre. I tappeti in suprema eccellenza, i rensi - delle cose di lino non ne parlo-, origlieri et altri superlettili son tanto degni, quanto sanno far di degno tutte le mani industriose. Ecco che bene spesso vi si riducono intelletti mirabili: chi canta, chi suona, chi ragiona, tal legge; e da le finestre lontano tu vedi venire carrette di gentil donne, uomini onorati a cavallo, solamente a vedere il bel luogo, e cosi in una vista tu hai bellissime donne, paesi, giardini, conviti, balli e tutti i piaceri uniti, insino all'armonia de' fonti e degli uccegli dimestichi e salvatichi, con l'odorato de' fiori degli orti naturali e de' profummi di casa artifiziati. E se io fossi stato là un mese, sempre nuovi siti da desinare trovati si sarebbono, ma la cena sempre su la montagna colonnata si poneva. 3 Parmi che di queste e d'altre sorte di ville nostre si debbino vedere: la villa di Lorenzo de' Medici, Poggio a Caiano (è da re, se ben da un privato cittadino fu fatta) ;4 Castello, Careggi ;5 e cosi 1. Cfr. il ms. Correr, s. f. (e anche DONI, Ville, 1566, f. 17v.): La villa che fu del magnifico signor Federigo Prioli alle Tre Ville è molto str,penda,· l'è tale (disse il signor Galeazzo Brancorso da Rimini, qua11do la vedde, come uomo di giudizio buono) che ogni gran signore si doverrebbe partire aposta del suo stato per andare a vederla e considerare l'animo di quel gentiluomo. Là vi sono ricevuti d'ogni sorte forestieri et acarezzati, et io, che vi fui condotto dal magnifico messer Rocco Granza in compagnia della sua nobilissima e gentilissima consorte madonna Paula e messer Romeo suo figliuolo, tante cortesie vi /10 provato, che poco più se ne può ricevere. 2. Si tratta delle solite indicazioni ideali; cfr. pp. 3329 sg., 3346. 3. Cfr. diversamente il ms. Correr, s. f.: E se io fossi stato padrone, mi sarei voluto cavare un capriccio di fare un bag110 sopra quella montagna colonnata, e DONI, Ville, 1566 1 f. 18: E se io fossi stato padrone, mi sarei voluto cavare un capriccio, di dar diletto ad un tratto con onestà alla maggior parte de' sentime11ti. 4. Cfr. VASARI, 1550, p. 621: «Avendo egli [Lorenzo] volontà di fabbricare al Poggio a Caiano, luogo tra Fiorenza e Pistoia, avendone al Francione fatto più volte fare insieme con altri architetti modelli e disegni, pensò che Giuliano ancora facesse il medesimo; il che egli fece volentieri e lo trasse tanto de la forma solita e consueta, che Lorenzo cominciò subitamente a farlo mettere in opera, come il migliore di tutti, et accresciutogli grado per questo, gli dette per sempre provisione•. 5. Cfr. VASARI, 1568, 11, pp. 402 sgg. [v1, pp. 7a sgg.]; 1, pp. 343 sg. [11, p. 442].

ANTON FRANCESCO DONI

3353

andar ricercando il bello, e poi fare stupire il mondo, perché lo aver veduto l'orto del Saladino fatto di cera in una palla di vetro, non rilieva nulla per scrivere. Or passiamo innanzi alla capanna, la quale fa intendere d'essere stata prima del palazzo reina della villa e re. VILLA QUINTA

Il padre di famiglia contadino, fatto il suo primo sonno profondo e sodo di tre ore, con rivoltarsi su l'altro lato ne dorme altre tante; e svegliato eh' egli è, dà due sbavigliate e una fregata d'occhi, sa che tempo gli bisogna a levarsi, ode i suoi galli e sente ruminare il suo bestiame in quel silenzio della notte e, rizzatosi con il segno della croce, si mette la prima gonnella et esce del letto, et alla finestra fattosi, dà un'occhiata al cielo; e nel ringraziare Dio con la mente della conservazione de' suoi beni e della sanità, vede le stelle, che sono il suo oriuolo, a che segno le sono arrivate, e con il cominciare il paternostro se ne va al cammino, dove è apparecchiato il carbone coperto, la faccellina con il zolfanello da accenderla, e fatto il lume con la sua lanterna da frugnuolo, rivede i suoi buoi, dà loro asciolvere e fa che si rizzino, e cosi ristora tutte l'altre mandre. Quivi gli sono accanto le gatte e i cani attorno, onde, dato di piglio nella madia a certi orlicci di pane, attuta quel desiderio del loro appetito, et intanto lo conoscono, in sino agli animali, padrone. E cosi vestitosi al fresco o al fuoco (secondo i tempi) e con l'acqua fresca rinfrescatosi le mani e 'l viso, va poi adagiando l'aratro, cercando attorno se v'è guasto nulla o vi manca cosa bisognosa; il pungolo, le corde, gli oncini frontali, la nettatoia e quanto gli fa bisogno mette 1ns1eme. In questo la sua vecchia ha cominciato a farsi sentir desta, onde la brigata, sorrecchiando, mezza nel sonno (ché pur la gioventù è alquanto difficile a svegliarsi) sente qualche baiata di cane e rovigliamento di casa, e viene svegliata dal credere o che sia otta delle faccende, o che qualche cosa gli abbia a far levare: e tutti, disotto e di sopra, saltano in piedi: alla fine vestiti se ne vanno a' campi con i buoi giunti, con una grande allegrezza cantando, et allegrandosi del bel sereno, provano la vera felicità. Là veggono il lor frumento crescere, le lor viti empiersi di }icore, i lor frutti condursi a bene e le biade stagionarsi. Oh che cordiale allegrezza hann'eglinol

3354

XXI · LA VILLA

«Ecco le nostre vigilie et i nostri sudori, che pascano con la grazia di

Dio tutto il mondo. Noi siamo i re eletti da la sorte e dal destino coronati; noi gli imperadori siamo veramente del mondo, che con la virtù nostra della forza, da la vanga seguita e da la zappa (mercé dell'ingegno che Dio ci ha dato), sostentiamo la vita de' re lavorando il terreno. Gli uccegli, le formiche, che più? ciascun vivente da noi vien mantenuto». E così ringraziano il Signore que' savi vecchioni, datore di tutti i beni, che gli ha fatti nascere nella libertà della villa e non nella servitù della città. 1 Conoscono ancora che gli ha fatti padroni di tutti gli altri e di tutte le cose della terra prime. Non son costoro in una così bella sala quanto in ciascuna città sia? Il pavimento vivo d'un prato verde, ricamato a fiori vermigli, azzurri, purpurini e misti; un palco d'azzurro oltramarino, lavorato dalla più dotta mano a stelle d'oro; non hann' eglino tappezzate tutte le mura attorno a così gran salone, di spalliere tessute da la maestra natura? Come si può dipingere e ricamare meglio? Che più bel quadro d'una mirabile aurora? qual miglior artifizio? qual miglior maestro? Oh stupenda cosa a vedere un chiaro levar di sole! oh che bei raggi, ombre e riflessi! Montagne, colline e pianure vaghissime, con chiari e scuri, e quante sorte di lumi sanno e non sanno fare i pittori. L'attitudini belle delle succinte contadine, pulite e naturalmente addorne, muovono i tuoi spiriti a dolcezza; il garbo de' giovani arditi, gagliardi, che si affaticano con i pennati, con le pale, con le zappe e con le scure, ti danno la vita; e l'une e gli altri insieme fanno bellissimo vedere. Quando eccoti poi, rasciutta la rugiada, che i pastori e le figliuole, al suon de' rosigniuoli che su per i verdi rami cantano, si conducono a' pascoli con le desiderose pecorelle dell'erbetta. Chi coglie fragole (secondo i tempi), chi scorza castagne, quel fa un arco di tiglio, quell'altro un baston di sorbo monda; e tal volta, intrecciando un cappelletto, saltano al suono d'una zampognetta e scherzano per dolcezza della gioventù. Intanto la casa vien mondata da la vecchia e dal famiglio rassettata; e posto in ordine lo asciolvere, lo conduce al campo. Oh che appipitol Oimè con che gusto mangiano eglino! Oh che vino in si calda stagion diacciatol Deh vedi bel cacio fresco! guardate che panoni bianchi miracolosi I Oh la buona carbonata! quel forte aceto ha uno odore tanto suave, -I.

La solita opposizione, sulla quale cfr. LEONARDO, qui, pp. 31 II sgg.

ANTON FRANCESCO DONI

3355

che mi ravviva. Oh la bella e vaga cestella di fruttai E' mi vien l'acqua in bocca a ragionarne solamente. Deh vedete con quanta grazia si posano su quella verde tavola all'ombra d'una fronzuta quercia, considerate (vi prego) quel bianco mantile, dove la Ginevra ha sparso senz'arte ma naturalmente gelsomini e rose! E quella tovaglietta vergata si candida, che ve ne pare? Oh come fa ben quella rugiadosa scorza a quelle susine fresche! Alla barba de' puzzolenti tinelli che si apparecchiano a' virtuosi. Vedete la cristallina bellezza di questa acqua che la Cammilla ha portata dalla fontana. Da' qua quella ciotola da Faenza, cosi candidamente invetriata;' questa è tazza da cavar la sete (dice il vecchione capo di tutti), rinfrescamela! Oh Dio, che chiaro vino e limpido esce egli di quel barlottol Togliete, lettore, poneteci le labbra! Oh che rubino, e brilla in quel tazzone, che ve ne pare? Saporito, delicato, odorifero, ottimo e prezioso. Questa è una botte manimessa ieri, la qual tiene trenta e più some, e per durar tutta questa battitura 1566; mentre che ve ne sarà, mandate a torne sera e mattina un fiasco, che io ve lo do volentieri. Oh ringraziato sia Dio, che ho pur trovato una volta uno che non mi ha dato per il capo: al comando della S. V., anzi mi ha imposto ch'io ne pigli. Or vadinsi a riporre quei fiaschi lordi e sciloppi cortigianeschi. Oh vita della villa, felice, libera e bella, vita tranquilla e quieta! Io non voglio dipingervi mille secreti di quella per ora; perché io vi colmerei di voglia a venir a veder la mia villa Dolfina ;'- e certo io vi farei, dicendovi tutti i miei contenti - tra uccelli, coltivazione, caccia, uccellaia, pescagione, balestra e vischio -, vi farei dico venir voglia, e grande, di lasciare (o letterati, o spiriti gentili, schiavi de la maggior parte ignoranti) i romori de' palazzi, e fuggirvene nel silenzio delle amene solitarie e riposte selve, o in una villa come mi disegnò il Signor Afonso Ruspagliari, tanto degno, presente il Signor Ridolfo Arlotti, virtuoso e gentile. Per la stradella, quale si camina a traverso, è un lago, come vedete, e quello che non si può vedere cercherò di descrivere; e piacesse a Dio che tutti ne fussimo in fatti padroni, e non di parole [...].3

1. Cfr. p. 3337. 2. Cfr. p. 3323. 3. Questa volta la lacuna non è colmabile facendo riferimento agli altri manoscritti, dato che entrambi si fermano prima.

XXI • LA VILLA

[.•.] ridurre quel luogo, il quale è stato assai anni da bestie, in giardino da uomini, et hanno fatto fare vie diritte, comode assai e belle; con archi di verdura stabile, con ispalliere di gelsomini, rose e melagrane, le quali più d'un mezzo miglio caminano; certe poi che vanno al gran lago, a biscia ma agiate e belle, dove nella scesa si trovano isolette di lauri, scogli pieni di ramerini, pianure di mortine, cespugli di frutti selvaggi che la terra produce in certi luoghi che si distendono come una lingua in acqua: quali son nespoli, sorbi, meli e peri. Dove costoro hanno ordinato comodità di sedere e coperti da fuggir pioggie per un bisogno, e con molta spesa vi son cavate nel sasso vivo stanze da posar ben sei et otto persone comodamente. E così ora dall'una et ora dall'altra parte con dotti, sani e santi ragionamenti diversi, musiche degne e varii spassi lodevoli, spendono quelle ore che son convenienti, facendo nesti, nettando diritte vermene et intrecciando piante per novità del sito molto vaghe da vedere. Chi volesse ritrarre in pittura l'amenità de' campi Elisi, potrebbe da la parte di levante torne la copia; e dal mezzo giorno, dove i cedri gli aranci et i limoni fanno bosco, vagamente servirsene. Ma a chi piacesse dipingere gli alpestri eremi de, Girolami, degli Antonii e delle Maddalene, disegnasse quelle caverne, quelle balze orrende, dirupamenti, quelle rovine naturali e quei precipizii che il carro della tramontana percuote con il timon de' venti. Là si veggono i lastroni diacciosi, ronchiosi, con le intrecciature di barbe d'arboracci, e tronconi dal vento scoscesi e spezzati, i quali mettono paura nel rimirargli, terrore e maraviglia. E la Penitenza par sempre che in quel silenzio mirabile si riposi. In questo monte si tendono lacci a cignali, a cerbi, a caprioli; e se ne piglia. Le caccie delle lepri son per quelle praterie molto belle, ma ingegno e pratico vi bisogna d'essere. Gli uccellamenti d'ogni sorte d'uccegli vi son comodi: perché, oltre a le reti del passaggio de le quaglie infinite, potete usare le panie, pareti, frasconaie, ragne et archetti sempre. Pescagioni ne avete di qual maniera vi piacciono, scendendo al lago. Et oltre al pescare e l'uccellare, vi sono i salvatichi colombi a centinaia, in certe caverne alte lungo l'acqua, che per barchetta l'uomo vi si conduce, nel più tranquillo stato delle onde: cosi, tesa una rete grande alla bocca di quegli aperti, con lo strepito d'una tromba o d'un corno gli cacci di quelle buche che la natura meglio che l'arte per le colombaie ha fatte. Onde i sacchi se ne pigliano. Questa villa ha comodità di far

ANTON FRANCESCO DONI

3357

gran fuochi, et ha da fabricare quanto gli fa bisogno, senza molta gravezza, per difesa dell'orrido verno e della cocente state, la quale è in quel più che in tutti gli altri luoghi di villa amena, dolce e dilettevole. Fine della Capanna, libro quinto delle Ville del Doni. Consacrata allo illustre Signore il Signor Conte Orazio Malegucci, splendor della città di Reggio. 1

1.

Cfr. la nota

I

di p. 3335.

ANDREA PALLADIO DEL SITO DA ELEGGERSI PER LE FABRICHE DI VILLA

Le case della città sono veramente al gentiluomo di molto splendore e commodità, avendo in esse ad abitare tutto quel tempo che li bisognerà per la amministrazione della republica e governo delle cose proprie ;1 ma non minore utilità e consolazione caverà forse dalle case di villa, dove il resto del tempo si passerà in vedere et ornare le sue possessioni e con industria et arte dell'agricoltura accrescer le facultà; dove anco per l'esercizio, che nella villa si suol fare a piedi et a cavallo,2 il corpo più agevolmente conserverà la sua sanità e robustezza; e dove finalmente l'animo, stanco delle agitazioni della città, prenderà molto ristauro e consolazione e quietamente potrà attendere a gli studii delle lettere et alla contemplaziozione. Come per questo gli antichi savi solevano spesse volte usare Da I quattro libri della architettura di ANDREA PALLADIO, Venezia 1570, II, pp. 45-66. Sul rapporto di questo capitolo con i frammenti de I quattro libri dell'architettura del Museo Correr (Codice Cicogna n. 3617, cfr. G. G. ZoRZI, I disegni delle antichità di Andrea Palladio, Venezia 1959 1 pp. 184 sg.) cfr. E. FoRSSMAN, «Del sito da eleggersi. per le f abriche di villa», interpretazione di un testo palladiano, in (( Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio», Xl (1969), pp. 149 sgg., 153 1 il quale conclude: « Il manoscritto [del Correr] è di mano di Silla Palladio. Perciò si è supposto che Palladio lo abbia dettato a suo figlio, e che pertanto sia stato concepito solo tra il 1561-1567. Ma poiché i pensieri sul sito per le fabbriche di villa senza dubbio erano per lui attuali già dal tempo nel quale collaborava con Daniele Barbaro, e da lui seguiti nelle fabbriche di villa molto prima del 1561, si deve piuttosto credere che il manoscritto di Silla altro non sia che una bella copia fatta ben 10 anni dopo che il testo era stato concepito dal padre. Le tre pagine sul si.to in tal caso avrebbero già fatto parte del suo secondo progetto per un libro di architettura, menzionato dal Barbaro già nel 1556 ». 1. Allo splendore e commodità delle case cittadine si contrappongono la consolazione e contemplazione delle case di campagna, secondo la tradizione letteraria (Petrarca, Alberti, Leonardo); cfr. ancora E. FoRSSMAN, loc. cit., p. 153, ed E. GARIN, La città di Leonardo, Firenze 1971, pp. s sgg., nonché qui pp. 3u I sg. e le note relative. 2. Cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 402 sg.: « Est apud Xenophontem ad villam eundum pedibus exercitii gratia, redeundum equo» (ORLANDI, ivi: «Secondo Senofonte è bene recarsi in villa a piedi, per esercitarsi al moto, e tornarne a cavallo»). Vedi anche E. FORSSMAN, loc. cit., p. 153: «Una dichiarazione simile si trova anche presso l' Al berti ... Ma la frase palladiana si differenzia in modo essenziale da quella albertiana: Palladio pensa alla villa rustica, dove si lavora e si attende alle opere agricole a piedi e a cavallo. Alberti invece pensa alla villa suburbana, dove non si lavora e perciò il proprietario deve fare qualcosa a vantaggio della salute •·

ANDREA PALLADIO

3359

di ritirarsi in simili luoghi, ove visitati da' vertuosi amici e parenti loro, avendo case, giardini, fontane e simili luoghi sollazzevoli e sopra tutto la lor vertù, potevano facilmente conseguir quella beata vita che qua giù si può ottenere! Per tanto, avendo con l'aiuto del Signore Dio espedito di trattare delle case della città, giusta cosa è che passiamo a quelle di villa, nelle quali principalmente consiste il negozio famigliare e privato. Ma avanti che a' disegni di quelle si venga, parmi molto a proposito ragionare del sito o luogo da eleggersi per esse fabriche, e del compartimento di quelle, percioché non essendo noi (come nelle città suole avenire) dai muri publici o de' vicini fra certi e determinati confini rinchiusi,2 è officio di saggio architetto con ogni sollicitudine et opera investigare e ricercare luogo commodo e sano, standosi in villa per lo più nel tempo della estate, nel quale ancora nei luoghi molto sani i corpi nostri per il caldo s'indeboliscono et ammalano. 3 I. Cfr. E. FoRSSMAN, loc. cit., pp. 153 sg.: « Questa frase si basa in parte sulla descrizione che fa Plinio delle sue ville e in parte sulla tradizione veneziana. I nobili che abitavano a Venezia o in qualche città della terraferma, non erano contadini; ma depositari di una civiltà urbana che essi portavano con sé, quando in estate soggiornavano in campagna per sorvegliare le loro aziende», 2. Cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 400 sg., PALLADIO, qui p. 3246 e la nota 3. Vedi anche ALBERTI, Architettura, u, pp. 788 sg.: « In urbanis multa ex vicini perscripto modereris necesse est, quae villa liberiori iure prosequemur o (Orlandi, ivi: « Nella casa di città occorre regolare molti particolari tenendo conto della conformazione degli edifici vicini, mentre nella villa ci si comporta con maggiore libertà»), pp. 790 sg.: « At villa, ut altera imponat alteris aedificia, nulla cogit necessitas. Nam fusiorc quidem la.'i:amento sibi spatia decentissima vendicabit, quibus aequali gradu alia ex aliis subveniant; quod ipsum mihi etiam in urbibus, modo id liceat, vehementer perplacebit 11 (ORLANDI, ivi: « Ma, quanto alla villa, non v'è in essa alcuna necessità di sovrapporre costruzioni a costruzioni, giacché la maggiore estensione del terreno consente alle diverse membrature tutto lo spazio sufficiente a disporsi su di un medesimo livello integrandosi a vicenda. Lo stesso criterio consiglierei caldamente di adottare in città, purché sia possibile 11). 3. Cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 400 sgg.: « Sed prius pauca brevissime repetamus, quae ad summas villae rationes faciant. Ea sunt huiusmodi: caelum calamitosum, terram cariosam fugiendum; medio in agro ad montis rndices aquosa aprica salubrique in regione et salubri parte regionis aedificandum. Triste et insalubre caelum praestare arbitrantur cum caetera incommoda, de quibus libro primo transegirnus, tum et silvas densiores, praesertim arboribus refertas, quibus amarum sit folium, quando illic nec ventis nec sole pertactus aer incrudescat; tum et solum etiam sterile atque insalubre, a quo tandem, siquid capias, erunt silvae 11 (ORLANDI, ivi: «Prima di procedere oltre, tuttavia, richiameremo in succinto alcuni princìpi che concernono la villa in generale; sono i seguenti. Si eviti un territorio dal clima sfavorevole

3360

XXI • LA VILLA

Primieramente adunque eleggerassi luogo quanto sia possibile Commodo alle possessioni e nel mezo di quelle, accioché il padrone senza molta fatica possa scoprire e megliorare i suoi luoghi d'intorno; e i frutti di quelli possano acconciamente alla casa dominicale esser dal lavoratore portati. Se si potrà fabricare sopra il fiume, sarà cosa molto commoda e bella, percioché e le entrate con poca spesa in ogni tempo si potranno nella città condurre con le barche, e servirà a gli usi della casa e de gli animali, oltra che apporterà molto fresco la estate e farà bellissima vista, e con grandissima utilità et ornamento si potranno adacquare le possessioni, i giardini e i bruoli, che sono l'anima e diporto della villa. 1 Ma non si potene dal terreno franoso; si scelga preferibilmente, per costruire, una zona posta in mezzo alla campagna, al riparo delle alture, ricca d'acqua e di sole, situata in un territorio salubre e nella parte più salubre di esso. Si pensa che un clima inclemente e malsano provochi, oltre agli svantaggi menzionati nel primo libro, un addensamento delle foreste, soprattutto di quelle ricche d'alberi a foglie amare, originate dall'inasprirsi dell'atmosfera nel sottobosco a causa dell'assenza di vento e di sole. Inoltre il terreno ne vien reso improduttivo e malsano; se ne potrà ricavare soltanto legname»). r. Cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 402 sgg.: «Villam ea parte agri habendam puto, guae urbanis cum domini aedibus bellissime condicat ... Ergo erit non semota penitus ab urbe, eritque via non difficili non impedita, sed hibernis aestivisque itionibus et subconvectionibus apta atque peroportuna, seu id reda seu pedibus seu etiam navi fortassis iuvet; conferetque, si erit non aliena a porta urbis sed proximiore, qua commodius expeditiusque sine maiore vestium apparatu et sine populo interprete possis cum coniuge et liberis urbemque villamque frequens ad arbitrium repetere. Villamque habuisse condecet ea, qua matutini radii oculis proficiscentium sint non infesti, ut vespertini soles domum redeuntes non molestent. Rursus habenda villa est loco non usque destituto neglecto ignobili, sed eiusmodi, ut illic et fructus spe et caeli amoenitate illecti habitent cum rerum copia et vitae iocunditate et sine periculo. Et ne item habenda quidem villa est loco nimium celebri, aut ad urbem ad viam militarem et ad portum adiuncta, uhi navium numerus applicet; sed collocabitur apte, ut istarum rerum voluptas cum non desit, tum et res familiaris praetereuntium hospitum frequentia haud multo infcstetur,, (ORLANDI, ivi: « La villa, a mio giudizio, dev'essere situata in quella parte della campagna che meglio si confaccia alla posizione dell'abitazione urbana dello stesso padrone ••. A questo fine essa non dovrà essere troppo lontana dalla città; e la strada che vi conduce sarà agevole e senza ostacoli, facile e conveniente a percorrersi a piedi e con mezzi di trasporto sia d'inverno che d'estate, e magari anche con imbarcazioni; meglio ancora se tale via passerà in prossimità della porta della città attraverso la quale si possa, nel modo più agevole e diretto, senza doversi cambiare d'abito né passare sotto gli occhi della gente, andare e venire molte volte a piacer proprio tra città e villa con la moglie e figli. Si conviene inoltre aver la villa in posizione tale che il sole al mattino non dia noia alla vista di chi vi si reca, né molesti alla sera chi se ne torna in città. Ancora, una villa non

ANDREA PALLADIO

do aver fiumi navigabili, si cercherà di fabricare appresso altre acque correnti, allontanandosi sopra tutto dalle acque morte e che non corrono, perché generano aere cattivissimo: il che facilmente schiveremo se fabricheremo in luoghi elevati et allegri, cioè dove l'aere sia dal continuo spirar de' venti mosso e la terra per la scaduta sia da gli umidi e cattivi vapori purgata, onde gli abitatori sani et allegri e con buon colore si mantengano, e non si senta la molestia delle zenzale e d'altri animaletti che nascono dalla putrefazzione dell'acque morte e paludose. 1 E perché le acque sono necessarissime al vivere umano e, secondo le varie qualità loro, varii effetti in noi producono, onde alcune generano milza, alcune gozzi, alcune il mal di pietra et alcun' altre altri mali; si userà grandissima diligenza che vicino a quelle si fabrichi, le quali non abbiano alcuno strano sapore e di niun colore partecipino, ma siano limpide, chiare e sottili, e che, sparse sopra un drappo bianco, non lo macchino; perché questi saranno segni della bontà loro.2 Molti modi da sperimentare se !'acque sono buone ci sono insegnati da Vitruvio :3 imperoché quell'acqua è tenuta perfetta che fa buon pane e nella quale i legumi presto si cuoceno, e quella che bollita non lascia feccia alcuna nel fondo del vaso. Sarà ottimo indizio della bontà dell'acqua, se dove essa passerà non si vedrà il musco, né vi nascerà il giunco, ma sarà il luogo netto e bello con sabbia o ghiara in fondo è ben situata in una zona abbandonata, senza attrattive, spregevole; il suo terreno dovrà invece attrarre la gente ad abitarvi col dare a chi vi abita abbondanza di prodotti, dolcezza di clima, un'esistenza agiata, piacevole, senza rischi. D'altra parte non bisogna scegliere un luogo troppo frequentato, ad esempio situato nei pressi di una città, di una strada militare o di un porto ove attracchino molte navi; bensl un luogo che permetta il piacere di tali cose senza tuttavia gravare sul bilancio familiare a causa dell'obbligo di ospitalità verso troppi conoscenti di passaggio 11). I. Cfr. ALBERTJ, Architettura, 1, pp. 38 sgg., II, pp. 878 sgg., e vedi anche qui III, pp. 3187 sgg. e le note relative. 2. Cfr. ALBERTI, Arcliitettura, I, pp. 38 sgg.: «Atqui aquam dicemus esse sapore optimam, guae saporem habeat nullum, et colore commodissimam, guae omni sit colore penitus vacua et libera. Tum et aquam esse optimam referunt, quae limpida perlucida et tenuis sit, quae in candidum linteum infusa non commacularit, quae fervefacta fecem non dimiserit, guae muscosum alveum, quo perftuat, et praesertim saxa coinquinata non reddiderit 11 (ORLANDI, ivi: a: L'acqua avrà il miglior sapore quando non ne abbia affatto, e il colore più conveniente quando ne sia del tutto priva. Dicono pure che l'acqua migliore è quella provvista di chiarezza, trasparenza, limpidezza; versata sopra un panno candido non deve lasciarvi macchia, bollita non deve lasciare depositi; scorrendo in un alveo non deve renderlo muscoso e sopra tutto non imbrattare i ciottoli»). 3. Cfr. VITRUVIO, vin, 1, I sgg. ZII

XXI • LA VILLA

e non sporco o fangoso. Gli animali ancora in quelle soliti bevere daranno indizio della bontà e salubrità dell'acqua, se saranno gagliardi, forti, robusti e grassi e non macilenti e deboli. 1 Ma quanto alla salubrità dell'aere, oltra le sopradette cose, daranno indizio gli edificii antichi, se non saranno corrosi e guasti; se gli arbori saranno ben nodriti, belli, non piegati in alcuna parte da' venti, e non saranno di quelli che nascono in luoghi paludosi; e se i sassi o le pietre in quei luoghi nate, nella parte di sopra non appareranno putrefatte; et anco se 'l color de gli uomini sarà naturale e dimostrerà buona temperatura.2. Non si deve fabricar nelle valli chiuse fra i monti, percioché gli edificii tra le valli nascosti, altra che sono del veder da lontano privati e dell'esser veduti, e senza dignità e maestà alcuna, sono del tutto contrarii alla sanità, perché dalle pioggie che vi concorrono fatta pregna, la terra manda fuori vapori a gli ingegni et a i corpi pestiferi, essendo da quelli gli spiriti indeboliti e macerate le congiunture et i nervi; e ciò che ne' granari si riporrà, per lo troppo umido corromperassi. Oltra di ciò, se v'entrerà il sole per la riflessione de' raggi, vi saranno eccessivi caldi, e se non v'entrerà per l'ombra continua, diventeranno le persone come stupide e di cattivo colore. I venti ancora, se in dette valli entreranno, come per canali ristretti troppo furore apporteranno, e se non vi soffieranno, l'aere ivi amassato diventerà denso e mal sano. Facendo di me1. Palladio segue ancora ALBERTI, Architettura, 1, pp. 40 sg.: aAddunt aquam percommodam esse, in qua legumina decocta bene mitescant, et bonam, qua bonum efficias panem » (ORLANDI, ivi: e, Ancora, sarà assai raccomandabile quelPacqua che farà bene ammollire i legumi con la cottura, e con la quale si faccia del pane buono 11). Cfr. anche CATANEO, qui pp. 3187 sg. e le note relative. 2. DalPacqua all'aria; cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 44 sgg.: a Neque ab re erit, si a corporibus reliquis, quibus vitae vigor extinctus est, inditia sumpserimus aeris atquc ventorum. Nanque ex proximis aedificiorum structuris ea didicisse possumus: guae si erunt facta scabra et cariosa, inditio crit adventitia inde mala confluerc. Arbores etiam in unam aliquam partem quasi communi consensu proclinatae aut refractae infestis ventorum motibus cessissc ostentant. lpsaque rediviva saxa locis innata aut posita, si summotenus plus satis putria facta sunt, variam loci intemperiem nunc ardescentis nunc torpentis aeris attestantur • (ORLANDI, ivi: • Né sarà fuori luogo dedurre utili indicazioni circa il clima e i venti anche dai corpi inanimati. Si potranno ricavare, ad esempio, dalle murature delle case più vicine; se saranno divenute scabre e consunte, sarà segno che la zona soffre di particolari mali. Gli alberi piegati o spezzati tutti quanti in una sola direzione mostrano di aver ceduto alla violenza del vento. Cosi pure le pietre vecchie, originarie del luogo

ANDREA PALLADIO

stieri fabricare nel monte, eleggasi un sito che a temperata regione del cielo sia rivolto, e che né da monti maggiori abbia continua ombra, né per lo percuoter del sole in qualche rupe vicina quasi di due soli senta l'ardore: perché nell'uno e nell'altro caso sarà pessimo l'abitarvi. 1 E finalmente nell'eleggere il sito per la fabrica di villa tutte quelle considerazioni si deono avere che si hanno nell'eleggere il sito per le città,2 conciosiaché la città non sia o quivi trasferite, se sulla sommità tendono a disfarsi più del normale, indicano che l'atmosfera è sottoposta a forti sbalzi di temperatura•· I. Cfr. ancora ALBERTI, Architettura, I, pp. 36 sg.: 11 Scd nullo ponetur loco aedificium, utcunque ipsum sit, incommodius atque indecentius, quam cum intra convallem abditum sit: nam - ut caetera omittam, quae in promptu sunt: ea sine ulla dignitate delitescere et prospectus amocnitate intcrcepta nullam habere gratiam - quid illud, quod brevi fiat, ut imbrium ruinis obruatur et circumfluentibus aquis infundatur et immodico imbibito humore continuo madescat et terrenum vaporem valitudini hominum vehementer noxium assiduo effumet? Non illic valebunt ingenia hebetatis spiriti bus, non illic durabunt corpora commaceratis compagibus; putrescent libri; arma, et quaecurnque in horreis erunt, marcescent, denique vitiabuntur uliginis exuberantia. Tum si eo ingreditur sol, undique reciprocatis radiis torrebuntur; si non excipient soles, crudescent umbra atque torpebunt. Adde bis, quod ventus, si eo penetrat, quasi canalibus coarctatus durius et molcstius furit, quam par est; si non ingreditur, fit ut concretus illic aer, ut ita dicam, lutescat. Convallem enim istiusmodi possumus non indccenter lacunam stagnumve putare aeris • (ORLANDI, ivi: u In ogni caso nessun edificio, qualunque esso sia, sarà peggio collocato, in rapporto alla comodità e al decoro, di quando lo si celi nel fondo di una valle. Giacché - tralasciando motivazioni ovvie, come l'essere la costruzione nascosta e quindi priva di decoro, e il non potersi dilettare di un panorama all'intorno, che le toglie ogni gradevolezza - accadrebbe ben presto che essa verrebbe continuamente battuta da violenti rovesci di pioggia e invasa dalle acque che le scorrono dattorno; sicché per l'eccessivo assorbimento di liquido progressivamente s'infradicerebbe, esalando di continuo quei miasmi della terra che tanto nocciono alla salute. In tali condizioni per l'infiacchirsi dello spirito non si esprimeranno gli ingegni; né resisterà il corpo per l'indebolirsi delle giunture; i libri si guasteranno; gli attrezzi e tutto quanto sia riposto nei granai, deteriorandosi per l'eccesso di umidità, andrà infine in rovina. Se poi vi giungesse la luce solare, produrrebbe un riscaldamento eccessivo con il moltiplicarsi dei raggi riflessi dappertutto; se invece non vi giungesse mai, l'oscurità continua abbrutirebbe e renderebbe torpidi. Ma non è tutto: il vento che vi soffiasse, costretto a un percorso obbligato, risulterebbe più violento e fastidioso; se poi non vi arrivasse, l'aria del luogo per l'immobilità stagnerebbe; giacché si può dire giustamente che una vallata di questo tipo sia come una laguna o uno stagno d'aria»). Sul rapporto Alberti-Palladio cfr. E. FoRSSMAN, loc. cit., p. 157. 2. Cfr. ancora ALBERTI, Architettura, I, pp. 36 sgg., e qui pp. 3360 sgg. A questo punto il citato ms. Correr, f. 17r., reca: le quali avertenze ci sono insegnate da Vitr. al cp.1111 del I libro e dall'Alberti ne•

suoi Libri dell'Architettura.

XXI · LA VILLA

altro che una certa casa grande, e per lo contrario la casa una città picciola. 1 DEL COMPARTIMENTO DELLE CASE DI VILLA 2

Ritrovato il sito lieto, ameno, commodo e sano, si attenderà ali' elegante e commoda compartizion sua. Due sorti di fabriche si richiedono nella villa: l'una per l'abitazione del padrone e della sua famiglia; l'altra per governare e custodire l'entrate e gli animali della villa. Però si dovrà compartire il sito in modo che né quella a questa, né questa a quella sia di impedimento. 3 L'abitazione del Cfr. ALBERTI, Architettura, I, pp. 398 sgg. citato nella nota I di p. 3226, BARBARO, p. 65: « La città è come una grandissima casa, come si può dire che la casa sia una picciola città; il savio architetto deve donare alcuna cosa alia usanza dei paesi, non però deve egli errare, né abbandonare la ragione, ma non lasciare la usanza e tenersi alla scienza, altrimenti la cattiva usanza non è altro che la vecchiezza del vizio, dal quale animosamente l'uomo si deve discostare e dare buon esempio ai successori». Per le varie interpretazioni di questo passo famoso cfr. E. FoassMAN, loc. cit., p. 158, ma soprattutto M. TAFURI, Committenza e tipologia nelle ville palladiane, in 1< Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Pnlladio », Xl (1969), pp. 124 sg.: (( Ci sembra che fino ad oggi la critica palladiana abbia preso troppo alla lettera le parole dell'architetto, considerando come un'autentica elaborazione teorica ciò che molto probabilmente non è altro che un omaggio reso all'autorità dell' Albcrti », e M. FAGIOLO, Palladio e il significato dell'architettura, in (( Bollettino del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio», XIV (1972), p. 30: « L'equazione proposta da Palladio tra città e casa non è un omaggio esteriore alr Alberti, ma rivela una concezione globale in cui non si dà soluzione di continuità nel passaggio dal particolare all'universale, e in cui si pongono differenze prevalentemente quantitative fra i diversi gradi dell'essere. La mediazione fra microcosmo e macrocosmo mi sembra data, come nell' Alberti, da un'area che potrei definire "mcdiocosmo" o regno del giusto mezzo della Virtù. La teoria organica dcll"'cssere nello spazio" non ammette quindi salti nel passaggio dall'uomo alla casa, dalla casa alla città, dalla città al cosmo». 2. Per il testo di questo capitolo il citato codice Cicogna n. 3617 non presenta varianti. 3. Cfr. ALBERTI, Arcl,itett11ra, I, pp. 404 sg.: a Sed cum villarum tecta alia sunt, quae ingenui, alia quae adscriptitii glebae incolant, horumque altera emolumenti causa in primis consti tuta, altera fortassis animi gratia adducta videantur; de his, quae agrum apprime spectant, transigamus. Horum tecta non longc ab hcrilibus esse oportet, quo in horas guae quisque agat et guae facto sint opus intelligant. Huius quidem partis tectorum proprium est, ut per cam fructus, qui ex agro possint capi, parentur colligantur atque serventur, ni postremum hoc, idest collecta ut serves, herilium urbanarumque esse munus aedium putas magis quam praedii rusticani. lsta perficies hominum manu, instrumentorum copia, et in primis villici industria et diligentia 11 (ORLANDI, ivi: « Diverse sono le case di campagna abitate dagli uomini liberi e quelle I.

ANDREA PALLADIO

padrone deve esser fatta avendo risguardo alla sua famiglia e condizione, e si fa come si usa nelle città; e ne abbiamo di sopra trattato. 1 I coperti per le cose di villa si faranno avendo rispetto alle entrate et agli animali, et in modo congiunti alla casa del padrone, che in ogni luogo si possa andare al coperto accioché né le pioggie, né gli ardenti soli della state li siano di noia nell'andare a vedere i negozii suoi: il che sarà anco di grandissima utilità per riporre al coperto legnami et infinite altre cose della villa, che si guasterebbono per le pioggie e per il sole; oltra che questi portici apportano molto ornamento.:z. Si risguarderà ad allogare commodamente e senza strettezza alcuna gli uomini all'uso della villa applicati, gli animali, le entrate e gli istrumenti. Le stanze del fattore, del gastaldo e de' lavoratori deono essere in luogo accommodato e pronto alle porte et alla custodia di tutte !'altre parti. Le stalle per gli animali da lavoro, come buoi e cavalli, deono esser discoste dall'abitazione del padrone, accioché da quella siano lontani i letami; e si porranno in luoghi mol..; to caldi e chiari. I luoghi per gli animali che fruttano, come sono porci, pecore, colombi, pollami e simili, si collocheranno secondo le qualità e nature loro; et in questo si ALTRA PRESSO PADOVA

Le case suburbane et in villa possono esser di molte sorti, ma per ora le redurremo in tre specie: cioè communi, onorevoli e magnifiche ;1 le prime saranno di mediocre grandezza, dove possi capire una convenevol famiglia; le loro forme potrebbono esser quadrate o poco più in faccia, in quattro pioveri, e possono avere la sala nel mezo, con qualche loggia dinanzi o di dietro, e poi le stanze da ambe le parti, et anco con qualcheduna alla destra et alla sinistra, onde sono d'onesta capacità e di mediocre spesa. Le case molto onorevoli possono esser chiamate dalla grandezza loro, e perché abbino molti appartamenti di stanze e separati l'uno dall'altro, con belle sale e più loggie e scale ampie e comode e fatte con belli compartimenti et altezze, che tenghino del grave e del nobile.2 E finalmente le case magnifiche et alla granda possono avere una corte con appartamento di stanze da tre parti, overo da tutte quattro, con portici tutto all'intorno, ne' quali riferiscano l'entrate principali, le quali vengono dalla faccia dinanzi; e così parimente quelle de' salotti et appartamenti delle stanze da' lati et anco di dietro, e quelle delle scale principali, che ascendono ad alto e descendono a basso ne' luoghi sotterranei: e l'une e raltre di queste case per maggior grandezza e maestà loro si possono ellevare dal piano commune, e salirvi con una ascesa alla romana là in fronte molto piacevole, e dal piano principale in giù accomodarvi le cantine in vòlto, e sotto a' portici e sotto a' salotti et altre stanze d'intornoDa L'idea della architettura universale di VINCENZO SCAMOZZI architetto veneto, Venctiis 1615, 1, pp. 271-81. 1. Cfr. le diverse classificazioni di SERLIO, Delle habitationi, ff. 1 sgg. (citato nella nota 3 di p. 3321), DONI, qui III, pp. 353 sgg., nonché F. BARBIERI, Le ville dello Scamozzi, in « Bollettino del Centro Internazionale di Studi d'Architettura Andrea Palladio 11, XI ( 1969), p. 223 : « [Scamozzi] classifica le ville indipendentemente dalla loro funzione agricola cd a prescindere dalla presenza o meno delle costruzioni utilitarie che vi si possono eventualmente aggregare 11. 2. Da uno schema essenziale, di tradizione palladiana, si passa ad una moltiplicazione degli elementi.

3422

XXI · LA VILLA

via le cucine e tinelli e dispense e salvarobbe et altri luoghi per comodità della casa, conforme al stato del padrone. 1 Le case che tengono dell'onorevole e del magnifico possono esser ornate, nelle facciate e nelle loggie e nelle sale et altre parti di dentro e verso le corti, con colonne o pilastri, et i loro ornamenti sopra, e con frontespicii là nel mezo della faccia; altre con fenestroni arcuati e frontespicii sopra, e talor le volte delle sale e salotti e stanze ornate di stucchi e pitture nobilissime. Alle case magnifiche e palazzi principali, oltre alle comodità dell'abitare nobilmente, per signori con tutta la loro servitù e per le officine e stalle da cavalli et altre consequenze, si convengono giardini e cedrare e gallerie, e luoghi da passeggio e da giuocare per agilità del corpo, così al coperto come allo scoperto, e fonti d'acque vive e peschiere e parchi da animali, et altre cose per onesti trattenimenti et anco per qualche delizie. 2 Quando si volesse la casa dominicale e quella per l'entrate della villa unite e come annesse insieme, elle si potranno disporre a questo modo: la casa del padrone (come più nobile) fusse nel mezo d'un ampio cortile e la sua faccia guardi a mezodi; nel dinanzi abbia la corte principale compartita a quadri con le strade per il mezo et all'intorno, perché le verdure dell'erbe conferiscono alla vista et .il sole non imprime caldo né fa reflesso, come farebbe la terra semplice et anco i selicati. 3 Di dietro sia posto il giardino compartito a quadri con belle piante et erbe e fiori odoriferi, con alcune strade a lungo alle mura, le quali abbino l'om.bre di verdure da poter passeggiare, e nel mezo vi sia qualche bella fonte d'acqua che salga e spruzzi ad alto; e là di capo del giardino, che sarà l'aspetto di mezodì, vi si potrà fare una cedrara a spalliera o pergolato, che sarà l'ultima vista del giardino, e più oltre potrà esser il bruollo piantato de viti et arbori fruttiferi, con qualche peschiera, e queste saranno le parti che debbono servire alla casa del padrone. 4 A' fianchi della corte et a linea della faccia della casa del signore saranno le corti et i coperti per 1. Scale, portici sono come gli elementi qualificanti; cfr. PALLADIO, qui pp. 3365 e la nota 2, p. 3254 e la nota 6. 2. Dalla struttura si passa agli annessi, che nella villa hanno sempre un ruolo primario; cfr. ad esempio qui pp. 3580 sgg. 3. Per le strade e il loro diletto cfr. PALLADIO, qui pp. 3234 sgg. 4. Scamozzi compendia tutti i temi del giardino padronale; sulle fonti, i canali e le peschiere cfr. DONI, qui pp. 3327 sgg., FRANCESCO DE' VIERI, qui pp. 3405 sgg.

VINCENZO SCAMOZZI

342 3

uso delle cose di villa: l'uno a parte destra e verso ponente, come più solivo, e questo servirà per le barchesche e per la castaldia et altri serventi ad uso delle biade e de' vini e simili cose. Al lato sinistro e verso ponente saranno i coperti per le stalle da cavalli e bestiami grossi e per gli aratri e carra e per la casina et altri simiglianti.1 Dinanzi ad ambi questi coperti et a' lati della corte del padrone saranno le corti una di qua e l'altra di là, all'aspetto di mezodl per delle cose di villa, ove a canto alle mura di questi tre cortili passerà tutto a lungo la strada maestra, benché in fronte della faccia e casa dominicale si potrà fare una strada lunga e molto ampia e con le piante di olmi di qua e di là per poter andar all'ombra, e da quelli che vengono di là passi esser veduta di lontano la fronte e l'aspetto delle fabriche. Questa casa et i coperti e le corti e giardini e tutte le cose siano fatte l'una corrispondente all'altra, alla qualità del padrone et all'uso delle entrate, perché a questo modo egli abitarà nobilmente e non sarà impedito da alcuna cosa, posciaché per la vicinità averà tutte le cose comode, intanto che sarà congiunto il diletto e piacere de' giardini et anco delle fonti e delle cedrare, con l'utilità del far governare le proprie entrate.2· Noi non lodiamo molto che si facciano le case suburbane et in villa de due piani reali e molto meno di tre, perché sono difficili al salire le scale con tanti gradi, onde stancano la servitù ch'hanno a portare su e giù le cose necessarie; ma inoltre si perdono le vedute orizontali e de' giardini e delle fonti e de gli alberi e l'altre cose che dilettano la vista: oltre che sono di grossa spesa. 3 Onde noi ne abbiamo vedute molte, le quali nella parte di sopra o non si abitano mai o di rado, ancora che per altro si potrebbono lodare e comendare assai ; e perciò non si dee seguire cotal uso. Quando la casa del padrone guardasse a levante, overo a ponente, e dinanzi avesse o piazza o corte, e di dietro giardino, si potrà far la corte et i coperti ad uso delle entrate a fianco del giardino, e guardino a mezodi, e dall'altro fianco la corte e coperti per le cascine; perché, oltre ch'aveDistinzione delle varie zone agricole molto affine a quella delle varie piazze della città; cfr. CATANEO, PALLADIO, SCAMOZZI, qui pp. 3198 sgg., 3237 sgg., 3293 sgg. 2. Per tale funzionalità economica cfr. ad esempio CATANEO, qui pp. 3226 sg. 3. Le argomentazioni economiche, funzionali ed estetiche assumono pari valore; cfr. ad esempio PALLADIO, qui pp. 3364 sgg. J.

XXI • LA VILLA

ranno i loro buoni aspetti, e lascieranno liberissima veduta alla casa del padrone, e per la vicinità loro apporteranno comodo e non poco ornamento. 1 Il clarissimo signor Vettor Pisani, fu del clarissimo signor Zuanne, gentiluomo di molto giudicio e generosità d'animo al pari d'ogni altro, tutto ch'avesse fabriche in fraterna ne' poderi di Bagnoli, volse nondimeno edificar da sé, per aver luogo presso Lonigo per diporto in aria più sana; egli è posto sopra un colle detto la Rocca, della quale erano fino allora alcune vestiggi; questo colle è molto grazioso da vedere, per esser di forma quasi rotonda e piacevolissimo al salire dalla costa d'altri minori colli, et è spiccato quasi all'intorno. 2 Alla parte di levante ha i vicini monti alquanto alpestri e però pieni di salvaticine; a mezodì altri colli molto bene piantati d'arbori e di viti, dove si fanno que' vini delicatissimi di Monticello; a ponente ha una picciola schiena di colli assai depressi al salire, a' piedi de' quali è il Castello di Lonigo molto popolato, e più oltre una fruttifera campagna che si estende sino a Verona. Ma a tramontana oltre al piede di questo colle passa la strada maestra che viene da Vicenza, e vi scorre il fiumicello, e per onesta distanza di pianura ha poi un aspetto di continovati colli, che di grado in grado vanno sino al piede delle Alpi, onde ha di rincontro una bellissima prospettiva della valle di Trissino; e per dirlo in una parola, questo sito si può paragonare ad ogni altro per le bellissime vedute e per i frutti preciosi, onde si fanno que' vini tanto delicati dalla Rocca. 3 La forma di questa fabrica n~lla parte di fuori noi la disponemmo d'un quadrato perfetto, e nello interno ha una sala rotonda con quattro gran nicchi negli angoli, la quale con la sua cupola sopraavanza al tetto delle stanze, che sono allo intorno. Il suo aspetto è a mezodì, dove è una loggia interna d'ordine ionico al piano delle stanze de' padroni, al quale si perviene con una piacevolissima ascesa. Ne' due angoli della parte dinanzi sono le stanze maggiori, che arrivano con i loro vòlti sino sotto al tetto. Da' lati sono due salotti, nel mezo uno per parte e le scale interne da alto a basso, ne gli angoli di dietro sono le stanze quadre et alla Cfr. PALLADIO, qui pp. 3358 sgg. 2. Cfr. PALLADIO, qui pp. 3368 sg. e le note relative. 3. Mentre PALLADIO, qui pp. 3360 sgg., tratta a lungo dei requisiti del sito come essenziali per la villa, Scamozzi preferisce esemplificarli in concreto. 1.

VINCENZO SCAMOZZI

schiena un salotto nel mezo e due camerini; e questi luoghi minori sono tutti ammezati di sopra per uso delle serve. 1 Questa fabrica è talmente concertata che, stando nel mezo della sala, si hanno le quattro vedute in croce da quattro gran portoni e dalla loggia e da' salotti, d'ove viene il lume orizontale nella sala, et anca dal disopra, e la maggior parte delle apriture d'una faccia incontrano quelle dell'altra: la qual cosa si dee osservare, e massime ne' luoghi da diporto, cosi per le vedute come per il purificar dell'aria.2 A piano terra sono alcune stanze per uso commune e tutte le officine della casa; e sotterra le cantine cavate nel puro sasso. 3 I primi vòlti sono col lastricato sopra, ma i secondi e terzi furono ordinati di materie leggieri, di modo che non vi è altro legname che quello de' coperti delle stanze, essendo anco la cupola in vòlto e coperta di tegole alla romana. Tutte le colonne et ornamenti di questa fabrica sono di pietre cavate nell'istesso colle; e però non si meravigli alcuno se per la facilità di esse si compiacque non meno il padrone che l'architetto di tali ornamenti.4 Poco più a basso di questa fabrica e di giardini, alla parte di mezodì è la castaldia e granari e stalle da cavalli. 5 Segue il disegno della pianta et impiedi di questa fabrica. 6 I. Sia nella descrizione che nel disegno lo Scamozzi si interessa soprattutto alla tipologia planimetrica, mentre PALLADIO, qui pp. 3820 sgg., si era preoccupato soprattutto del rapporto proporzionale e funzionale; cfr. diversamente F. BARBIERI, op. cit., pp. 224 sg.: «Anche qui [nelle tavole dello Scamozzi] sembra si polemizzi con le magari più seducenti ma certo vaghe e generiche indicazioni del testo palladiano, insistendo invece sulla completezza di progetti pronti alla realizzazione». 2. La stessa geometrizzazione della planimetria dà il senso di queste preoccupazioni visive, che sembrano astrarsi dalle caratteristiche del sito e dal rapporto con gli edifici circostanti. 3. Cfr. PALLADIO, qui pp. 3358 sgg. 4. Scamozzi accenna in tal modo alle soluzioni tecniche amate da CoRNARO, qui pp. 3134 sgg., e da PALLADIO, qui pp. 3368 sgg. 5. Cfr. ancora PALLADIO, qui p. 3369. 6. Cfr. il ben diverso disegno di PALLADIO, qui p. 3850, e vedi F. BARBIERI, op. cit., p. 225: « Di conseguenza può spiegarsi, da parte dello Scamozzi, in questo diverso significato assunto dalla fabbrica di villa a gelosa difesa della privacy del signore, il recupero della chiusa compattezza di modelli più arcaici, cui, d'altro lato, lo avvicinavano i suoi studi, la sua formazione giovanile, la sua personalità insomma, già così permeata di austerità controriformistica. Pensiamo soprattutto a quella interessante catena di soluzioni planimetriche a blocco compatto entro i limiti di un quadrilatero ..• che, movendo da disegni di Giuliano da Sangallo per "ville alla romana", giunge, tramite il Falconetto dell'Odeo Cornaro e, soprattutto, mi sembra, i progetti serliani per ville, proprio fino allo Scamozzi della Rocca Pisani». 215

XXI • LA VILLA

VJc.sc.M.

L'illustrissimo signor Nicolò Molino cavaliere, fu del clarissimo signor Vincenzo e fratello del reverendissimo Alvise, già vescovo di Treviso, di quelle onorate maniere che sono palesi a n1olti che

VINCENZO SCAMOZZI

r hanno praticato, fabricò secondo questi nostri disegni ad un suo luogo detta la Mandria: il sito è in piano due miglia fuori di Padova, et altretanto scosto da' monti. L'aspetto della fabrica guarda a sirocco; dinanzi le passa la strada maestra e scorre il Bacchiglione, fiume molto navigabile che viene da Vicenza, il quale va al Cataio e poi, piegando alla sinistra, va a scaricarsi presso a Chioza. 1 Al lato destro vi è un delicioso e gran giardino e si ha la veduta de' monti Euganei, nel sinistro lato vi sono le corti et i coperti ad uso della castaldia, e nella parte di dietro ha tutto oltre un bruolo di buona grandezza pieno di fruttari eccellentissimi, e si veggono di lontano i piacevoli colli e monti del Vicentino. Tutti questi luoghi sono cinti di mura, oltre a' quali sono terreni da coltura, onde è congiunto insieme il comodo et il piacere della villa. La pianta di questa fabrica è di forma quadrata perfetta di 70 piedi per quadro, con una loggia dinanzi d'ordine ionico, la quale esce all'infuori; e sotto ad essa e da ambe i lati, come per delicie, vi è una peschiera d'acqua viva suministrata dal fiume soddetto. 2 Questa fabrica è di duoi piani in altezza: il primo si elleva alquanto da terra (al quale si entra da tutte quattro le parti); è fatto a quadri bozzati e vi sono alcune stanze ordinarie e la cucina e dispense et altre officine della casa e fatte in vòlto, affine che tutto il piano di sopra resti sicuro e libero ad uso de' padroni. Nel mezo è una gran sala di forma quadrata, e per ogni faccia le risponde un salotto ;3 in tanto ch'ha quattro vedute, e presta gran passeggio, così per il lungo come per il traverso. Su gli angoli sono collocate le stanze maggiori, le quali hanno i camerini a canto: onde fanno quattro appartamenti separati, ognuno de' quali può avere un salotto. La sala è ampia e spaciosa e d'una riguardevole altezza, poiché con la sua volta giunge al secondo tetto, e così riposta da' raggi del sole, che nel ten1po dell'estate ella è oltre modo fresca et aerosa, avendo lumi superficiali da' salotti et anca da tutte quattro le faccie ad alto. 4 Questa sala è ornata d'alcuni pilastri a canto alle mura, i quali reggono alcuni modiglioni con una cornice; e sopra ad essa gira un corritore balaustrato, il quale rende una graziosa vista e per via 1. Ancora indicazioni di sito che attraggono la costruzione scamozziana nell'astrazione tipologica. 2. Si noti la evidente derivazione dalla precedente pianta palladiana. 3. Cfr. la nota 6 di p. 3425. 4. Le doti del sito artificiale sembrano gareggiare con quelle del sito naturale.

XXI • LA VILLA

delle scale secrete presta comodità d'andare ad otto camerini per uso della servitù, i quali riescono sopra a' salotti e camerini già detti. Le stanze maggiori sono di bellissima altezza e le loro volte arrivano sotto al primo tetto. A sinistra sono le scale secrete, che ascendono internamente da alto a basso, ma di dietro vi abbiamo collocate le maggiori, le quali come due braccia scoperte, l'uno di qua e l'altro di là, rendono maestà alla fabrica; le misure particolari si possono cavare dalla scala. 1 Mentre questo signore godeva con animo tranquillo questa bella fabrica, et era apparecchiato ogni cosa per dar compimento alle fabriche della nuova castaldia et altri luoghi che andavano traportati, allora inaspettata morte troncò il stame di sua vita, essendo ancora di fresca età e passava al colmo de' suoi onori, essendo stato più volte savio del Consiglio et in diverse ambasciarie. Segue la pianta et ellevato di questa fabrica.

x. Dalla tipologia alla descrizione, che si farà sempre più dettagliata e frammentaria, passando dalle ville comuni alle onorevoli e mag11ifiche.

VINCENZO SCAMOZZI

B?uo!c,.

.

7 I

'@o

J

r__

Gia d1no·P.

I

'

I

10,-

P. ,oc. e orte. -

f

f

Publica.

~

~-·· ·

Il fa111c

-

,..__ ......

fABlllCHEDEG4n!SIG!MOllNI PRESSO PADOVA. Viac.:s,.111 '1.

XXII

LA FORTIFICAZIONE

La genesi della fortezza cinquecentesca, i cui aspetti funzionali sono stati particolarmente valorizzati dai recenti studi - storici e semiologici - sulla città ideale (Horst de la Croix, Tafuri, Marconi, Fiore), può offrire, da Machiavelli a Galileo, una singolare accezione del rapporto arte-scienza. Pietro Cataneo, ad esempio, giustamente considerato l'ultimo interprete di una unitaria visione umanistica, capace di affrontare tutti gli aspetti (civili e militari) della città, accoglie, in tale direzione, gli insegnamenti di Francesco di Giorgio Martini a proposito del rapporto fortezza-sito e di Leon Battista Alberti a proposito della cittadella intesa come piccola città, ma al tempo stesso partecipa, senza menzionarne la fonte, ai dubbi di Machiavelli sulla cittadella stessa, illustrandone la bivalenza politica in senso positivo e negativo. La tensione del rapporto città e roccaforte veniva cosi a compromettere la stessa validità della fortificazione e ne risolveva l'idealità formale in un platonico problema di buongoverno. Simili interrogativi, se probabilmente contribuirono alla scissione dei problemi civili da quelli bellici, facilitarono il passaggio graduale da forme urbane antropomorfe e simboliche (ad esempio il cerchio) a più funzionali soluzioni radiali. La tecnica strutturale delle fortezze prendeva in tal modo il sopravvento e, liberandosi dai legami della politica e della storia, diveniva un caso di sperimentazione scientifica che sollecitava prontuari, come quello dello Zanchi, nei quali il ricordo del passato (le preferenze, tra l'altro, per forme affini alla circolare) si subordinava alle esperienze balistiche recenti (priorità degli angoli ottusi, per la loro maggiore resistenza). Su questa via l'architetto delle fortezze non è più un uomo universale (Horst de la Croix), ma deve soprattutto conoscere geometria, aritmetica, prospettiva e l'uso della milizia, essendo ben consapevole, come appunto lo Zanchi, della inutilità di casistiche generiche. Nasce in tal modo la polemica tra gli ingegneri e gli architetti (cfr. Horst de la Croix, Tafuri) la quale stimola varie soluzioni. Giovanni Maggi, ad esempio, pubblica nel suo trattato Della fortiji.cazione della città gli scritti del Capitano Castriotto e cerca di arricchire le annotazioni tecniche con un ricco apparato enciclopedico, nel quale offre i riferimenti più vari. Per le mura, egli si rifà agli opposti pareri di Platone e di Aristotele; per la rocca, alla interpretazione antropomorfica di Martini e agli interrogativi di

3434

XXII • LA FORTIFICAZIONE

Machiavelli e Cataneo, che non accetta. La sua fede specialistica, disponibile per i registri più vari, è condivisa a più alto livello da Galasso Alghisi - antico collaboratore, a Roma, di Antonio da San Gallo -, il quale rifugge da formule accidentali ed aspira ad una tipologia assoluta, di fondamento soprattutto geometrico. Per questo, a differenza dello Zanchi, egli è un fautore del disegno, pur riconoscendo che esso non può essere valido se non parte da una pratica consapevolezza. Con tali presupposti l'architetto militare riacquista dignità e salva la validità oggettiva delle proprie opere, riconosciuta, in tal senso, anche da Galileo, mentre i prontuari dello Zanchi e di molti suoi colleghi vengono assunti nella trattazione universale dello Scamozzi. Un rapporto così inquieto tra arte e scienza attesta un profondo mutamento di valori, per il quale la città evita, se non per sicurezza bellica, di rinchiudersi in un circuito sia pur razionale. Proprio allora Venezia, difesa naturalmente dalle acque, appare sempre più una città ideale (Cataneo, Maggi), nella quale la trattatistica civile ha una incontrastata fortuna.

PIETRO CA T ANEO DELLA CITTÀ POSTA NEL PIANO, E SB IL PIUME LE PORGERÀ O TORRÀ DI SANITÀ; E DOVE A QUELLO BISOGNERÀ DARE O TÒRRE RIVOL TURE, E COME LA COVERTA DELLE SUE MURA SIA PIÙ LAUDABILE DI MATTONI

Parlando ora più particolarmente delle parti che si deveno ricercare nei siti delle città, mi pare assai a proposito appropriare a ciascun sito le parti sue, dimostrando quel che ricerca la città di piano, quel che si appartenga a quella di monte e quanto si convenga alla città di mare, o per il prencipe o per la republica che ad edificare s'avesse.1 E parlando prima della città di piano et infra terra posta, giudichiamo che si trovi il sito forte, sano, fertile e di ogni commodità atta al vitto et uso umano copiosissimo; et a fortezza e commodità della città2 passi per tal sito un magno e navigabile fiume, col quale non solo si debbe attraversare la città, ma con esso ancora a maggior sua fortezza si convengano recingere le mura di quella. E quando la grandezza del fiume et il sito fuore delle mura lo comportassero, si potrebbe al tempo della guerra allagare la campagna intorno per buona distanza, di che ne risultarebbe non piccola sicurezza. Et ancora per il navigare delle mercanzie, per l'uso del bere e macinare e pesce da lui generato, perverrà da tal fiume utilità grandissime, da quella parte massime che attraverserà la città. 3 E se per causa del sito avesse tal fiume grande caduta o dipendenza, si come interviene in più luoghi del territoDa I quattro primi libri di architettura di PIETRO CATANEO senese, Venezia, Aldus, 1554, ff. 10, I 8 sg., 25. 1. Dopo aver esposti i requisiti del sito ideale (cfr. qui pp. 3187 sgg.), il trattatista cerca di prevedere varie circostanze reali, in modo da adeguare ad esse i bisogni civili e militari della città, ricorrendo sempre ai suggerimenti albertiani e martiniani. Cfr. HoRST DE LA Cao1x, 1.\1ilitary Architecture and the Radiai City Pian in Sixteenth Century ltaly, in «The Art Bulletin», XLII (1960), p. 274: «Pietro Cataneo was the last to write a treatise that dealt with both the civil and the military phase of architecture. Palladio was no longer interested in military construction. On the other band, the numerous writers on fortification of the second half of the century completely ignored the civilian aspects of architecture•, TAFURI, p. 226, F. P. FIORE, in P. MARCONI - F. P. FIORE G. MURATORE - E. VALERIANI, La città come forma simbolica, Roma 1973, pp. 214 sg. 2. Tornano i requisiti del sito ideale; cfr. pp. 3187 sgg. 3. Sulle utilità dei fiumi cfr. MARTINI, I, pp. 22 sg.

3436

XXII • LA FORTIFICAZIONE

rio della città nostra di Siena,1 che per la molta dipendenza e velocità dei fiumi non gli hanno potuto le steccate né i ponti resistere, ancora che bene murati fussero, tal che gran parte ne sono andati in ruina; volendo in parte a ciò riparare, si debbe a quello, massime nell'entrar suo della città, essendo possibile, accioché non venghi a mangiar troppo né fare ruine, torgli per via di rivolture parte della sua velocità e possanza: e sotto tai rivolture, per più sicurezza, i ponti o le steccate si faccino. Ma se il sito fusse talmente piano, che il fiume per la sua poca caduta andasse troppo lento, si converrebbe, per fuggire al tempo delle grande pioggie il sospetto della innundazione, per retta linea non solo dentro alla città, ma ancora fuor di quella per quanta più distanza si potesse, mandarlo. E se il sito della città serà in luogo caldo e secco, quanto maggior serà il fiume, tanto a quella serà più giovevole, sl per la commodità navigabile e sl ancora per il contemperamento, che dal fresco et umidità delle sue acque serà porto, massime in tempo di state, alla siccità e calidità del luogo. 2 E se il fiume verrà di verso oriente, passando per i luoghi temperati o freddi, non porgerà alla città quei nocumenti che farebbe venendo di verso tramontana o di verso mezzogiorno, conciosiaché venendo di verso tramontana, soffiando tai venti ne causeranno alla città la invernata troppo freddo, e da mezzo dì porgeranno troppi umidi umori; ma di verso oriente, per venire i venti col sole, non ne potranno rapportare così tristi vapori. 3 E dallo entrare sino allo uscire che farà il fiume, o parte di quello, della città, sia fatto da ogni suo lato un grosso e bene scarpato muro, presso al quale, a più universale commodità, essendo, come s'è detto, navigabile, venghino più Ioggie e porticati magazzini; e i suoi ponti si venghino a incontrare con le principali strade che per traverso al fiume si riferiscano, avvertendo che i pilastri di essi ponti a guisa Un concreto riferimento locale; cfr. p. 3197 e la nota 1. 2. Cfr. MARTIpp. 22 sg.: «Quando situaremo città sopra alcuno fiume e passando per lo mezzo, in prima da ordenar pare che nell'uscita e entrata del fiume in tal modo che da quelle parti non sia offesa; è da riparare o con chiuse di mura o di legname, palangati o altre materie a tal cosa convenienti, ordenate in modo e fatte che l'empeto del fiume e piene nuociar no li possi. E quella dell'uscita di tale altezza che insino a quella dell'entrata, pelago e ingalazzato tenghi, e massime per la conservazione de' ponti, e che la furia dell'acqua molestar non possi. Anco in essa entrata e uscita due fortezze opposite l'una all'altra costituite seranno, che per tutto offendare e difendare possino ». 3. Cfr. Al.BERTI, A,chitett11ra, 1, pp. 284 sg. I.

NI, 1,

PIETRO CA T ANEO

3437

di rombo si faccino e gli anguli alla corrente s'interponghino. 1 E lassando il sito della città angulato et al dominio suo di conveniente grandezza, cavinsi intorno a quello i fondamenti tanto sotto, che il posamento loro si trovi sodo et in ogni suo angulo un buono baluardo si facci, tra' quali corga equale e conveniente distanza nelle cortine delle mura, non essendo però astretto dal sito di dover far quelle coi baluardi a presso diseguali, il che quanto alla fortezza non importa, pur che da i loro fianchi sia molto bene scoperta e difesa tutta la muraglia coi suoi baluardi insieme.2 E cosi si venga alzando la muraglia co' suoi appartenenti contraforti, e si venga quasi a un medesimo tempo a terrapianare, calcandovi e battendovi bene la terra, armando per più sicurezza il terrapieno con buono legname e frasche a suolo per suolo. E si segua la muraglia con sua appartenente scarpa, secondo gli accidenti o qualità del luogo: e quanto più seranno spaziosi e ben fiancuti i suoi baluardi, tanto più renderanno la città sicura;3 e talvolta si converrà fare intorno alle sue 1. Cfr. ancora MARTINI, I, pp. 26 sgg., 31 sg. 2. Cfr. MARTINI, I, pp. 8 sgg. 3. Sui baluardi cfr. ancora CATAL""'JEO, ff. 10v. sg.: cc È da discorrere che maggiore e minor grandezza e di più e men fianco si richicggono i baluardi a i recinti delle mura delle città o castella, come ancora i forti e similmente i terrapieni dentro alle lor mura di più e meno spazio, secondo che il luogo serà più e meno sottoposto a batterie e che il suo terreno serà di più o meno bontà, peroché, avendo il terreno gretoso, tenace e che facilmente s'appigli e che non sia atto a ruinare, non serà necessario far cosi grandi terrapieni, né così grandi spalle a' suoi baluardi, come se fusse il terreno arenoso o sabbionoso o di altra simil natura, che, per non esser tenace e non si appigliare insieme, fosse atto a ruinare. È molto necessario per tanto, in simili accidenti, non potendosene dare in tutto terminate misure, la buona intelligenza e natural giudicio dello architetto. Onde parlando prima dei più piccoli baluardi che si possin fare, essendo sottoposti o batterie, dico che i fianchi loro, essendo il terreno di conveniente bontà, non vogliono essere meno di canne dieci, dandone canne cinque e mezzo in sin sei alle spalle et il resto alla piazza da basso ... Non si piglieranno i fianchi lontani da gli anguli del recinto delle mura. per piccoli che si voglian fare i baluardi, meno di canne dodici, che sono braccia quarantotto: delle quali braccia diciotto si faranno per la ritirata dell'artiglieria le piazze da basso, e braccia otto si faranno grossi i loro parapetti. che fanno braccia vintisei, e braccia cinque si faranno grossi i parapetti delle piazze di sopra. E volendo far baluardi reali, si faranno di fianco circa di sedici canne: delle quali otto se ne tasserà alle spalle e altre otto ne rimarranno alle piazze da basso per il verso del fianco». !Via vedi anche ZANCHI, qui pp. 3462 sgg., MAGGI-CASTRIOTIO, f. 18v.: « In queste fabriche [le fortezze] occorrono tutte le sorti de' sopradetti corpi, come è a dire un balluardo, il quale assolutamente è capo e principio di tutte queste composte fabriche, per esser corpo grande, capace e reale, come il suo nome dinota, chiamandosi corrottamente balluardo, quasi bellumguardo, do bellum che significa guerra,

3438

XXII • LA FORTIFICAZIONE

mura dentro sopra il terrapieno magni e superbi cavallieri, accioché da quelli al tempo della guerra possa esser visto e giudicato il nemico esercito e mal sicuro si possa accampare, i quali ancora difficulteranno il poter fare a i nemici fuore simili cavallieri. 1 Il parapetto delle mura si farà avanzare sopra il terrapieno per propugnacolo dei difensori circa di braccia due et un quarto. Et a più fortezza del luogo devesi la campagna intorno alla città tener netta e senza arbori, per distanza di un miglio o più, accioché al tempo della guerra si truovi privo il nemico di quelle commodità, per le quali potesse offendere la città. Vietandogli ancora, essendo possibile, che non si possa valere di fiume, mare, palude, fonti, rupi, monti, arbori, casamenti o altro sussidio, dei quali essendo privo, gli difficulterà molto l'offensioni.2 E se la coverta delle mura di fuore della città o castello si farà di mattoni, serà più lodevole che di qual si voglia altra pietra, conciosiaché facendola di pietra tenera e dolce, come tufo o altre simili, che più partecipano della umidità e dello umore della terra, cioè che guarda e difende dalle battaglie. Questo corpo vien fatto negli angoli, che copra e guardi due parti a lui vicine». I. Sui cavalieri cfr. ALGHISI, p. 18: « Quanto ai cavallieri, che come è detto si sogliono edificare fra due belloardi nel mezo delle cortine, fondati sopra le mura di esse per diffendere le faccie de' belloardi e la campagna insieme, i diffetti loro son questi: che non essendo lontani dai belloardi, non possono diffendere le faccie loro, perché essendo eminenti e non molto lontani non tirano al lungo in piano alle faccie de' belloardi, ma di ficco in terra, si che non avendo i belloardi altra diffesa mai non saran guardati, né ben diffesi, essendo poi lontani e più dentro della cortina, è ben vero che non tiraranno così di ficco come gli altri. Ma se averanno a diffendere le faccie de' belloardi, bisognerà di modo formare i belloardi che siano gli angoli loro più acuti, per la qual cosa verranno più deboli e meno atti a resistere a i colpi de l'artigliaria, come è detto, se saran vicini e fabricati sopra il muro delle cortine, facendosi una batteria in quello ch'è sotto a esso tanto basso quanto si può fare, si batterà la cortina et il cavalliero insieme, di modo che a viva forza la cortina andrà in rovina insieme col cavalliero nel fosso per essere di gran peso e carco dal terrapieno, onde per il peso et eminenza sun con gran rovina riempirà il fosso e farà scala a i nimici per salire dentro la fortezza, e restaranno i belloardi senza guardia e diffesa, et in buona parte restano anco per cotale rovina mal guardate le cortine, e non potranno tirare i belloardi da un fianco all'altro a lungo la cortina per diffesa di essa. Questo di buono solo averà il cavalliero, che guarderà la campagna, che i nimici non potranno cosi agevolmente senza suo danno fare altri cavallieri all'incontro per battere dentro alla fortezza dietro le cortine, con il qual battere per cortina si sogliono alcuna volta levare i soldati dalle diffese delle cortine, quando non sian presti a far traverse che da tal offese li cuopra •· 2. Cfr. MARTINI, 11, pp. 367 sg.

PIETRO CATANEO

3439

se bene dalla artiglieria, più che le pietre dure, si difenderanno, seranno nondimeno dalle brine, venti, ghiacci et acque salse non poco maculate; il che benché non possa avvenire nelle pietre dure, come tevertine o altre di natura simili, le quali, per partecipare più del fuoco e dell'acre, allo scoperto quasi eternamente si conservano, nondimento, per essere queste grandemente dall'artiglieria scheggiate, sono meno da usare che le pietre tenere e dolci. Ma se i mattoni scranno di buona terra, a i debiti tempi fatti, e convenevolmente asciutti e cotti, per essere di quelli nel cuocersi uscita l'umidità e l'umore della terra, non solo si difendono da quelle offese, dalle quali non si possono difendere le pietre dolci, ma ancora sono dall'artiglieria molto meno che le pietre dure scheggiati. 1 Potrassi alzar il terrapieno con la muraglia insieme, et in un medesimo tempo si verrà a creare il fosso, al quale sia data ragionevole larghezza e profondità, mandando dentro a detti fossi il fiume, o l'acqua viva, o vero acqua di mare, a i quali sia data certa ragionevole dipendenza col suo esito, accioché più chiara e purificata per il suo correre si conservi. E se per la commodità del fiume, mare o acqua viva, fusse di necessità empire detti fossi d'acque accolte, pluviali, di padule o di stagno, faccisi questo solo in tempo di guerra; ma, quando la città non abbi tale sospetto, sono da tenere detti fossi netti e senza acqua, accioché non passino causare trist'aria.2 Sulla qualità dei mattoni cfr. MARTINI, 1, pp. 104 sgg., II, pp. 314 sg.: a L'arte imitatrice della natura, come afferma Aristotele nel secondo della Fisica, oltre [a] tutte [le] altre naturali ne ha escogitata una della quale si fanno li muri perfettissimi e ciascuna ragione di edifici, per notizia della quale prima è da determinare della materia di quella e dipoi della forma; [e] la materia [di quella] è di più differenzie; la prima è chiamata creta, della quale si fanno li vasi fittili; e questa perché per sé sola troppo si stringe, non è bona se non meschiata con alcuna delle seguenti. La seconda~ nominata cretone, simile alla prima ma più terrestre e dolce. La terza è ditta sabbione maschio: di colore bigio, più grossa che la seconda. La quarta è appellata terra bianca, più dolce e fragile delle altre. La quinta è terra rossa, [et] appellata rubrica, bona quanto la seconda. La sesta et ultima si cava da1le rcsidenzie delli fiumi, in bontà mediocre. l\1a tutte queste predette spezie bisogna che sieno nette, cioè non calcolose, [non] arenose, né cziandio nicchiose, peroché ciascuna di queste mistioni sono cagione di fare le pietre frangibili et indurabili. Dopo questo, a perfezione della detta artificiale pietra, si debba avere avvertenzia che le dette pietre o mattoni si tenghino fatti per non piccolo tempo, e quanto maggiori tanto meglio, prima che si cuocino •· 2. Più che della strategia bellica il Cataneo si preoccupa delle conseguenze sanitarie; cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 296 sg., e diversamente MARTINI, II, pp. 433 sgg. I.

344°

XXII • LA FORTIFICAZIONE

ORDINE DEL FABRICAR LE CITTADELLE E COME AI BALUARDI DI QUELLE O D'ALTRE FORTEZZE PICCOLE, DOVE NON SI POSSINO FAR RITIRATE, NON SI CONVENGA FAR MINOR FIANCO CHE Al BALUARDI DELLE CITTÀ GRANDI; E CHE , NON IN OGNI LUOGO NE AD OGNI PRENCIPE CONVENGA FAR CITTADELLE

Dovendosi or discorrere sopra l'ordine del fabricar le cittadelle, è da sapere che quelle vogliono partecipar dentro e fuore della città, e con quella non solo deveno essere collegate, ma anco nella più forte et alta parte della città convengono esser edificate: le quali si mostrino robuste, superbe, minacciose, 1 e sieno di conveniente recinto, et abbino più entrate o uscite commode et in modo coperte, che non possino esser viste o giudicate dalla banda di fuore; accioché, malgrado de' nimici, si possa mettere e trar gente di quella ad ogni ora che bisogni. 2 E perché molti si danno a credere che ai baluardi di simili cittadelle o altre fortezze e castelletta piccole basti molto minor fianco che a quelli delle città grandi, a me par da tenere in contrario, peroché a simili fortezze e luoghi piccoli che patino batterie, volendo che sieno di qualche ricetto, non si può tra il terrapieno delle lor mura e le case dentro lassare spazioso luogo per le ritirate e bisogna confidare solo nelle prime loro circuizioni e baluardi; ma nelle città grandi, per doversi lassar tra il terrapieno e le lor case dentro spazio da poter far ritirate, si può con quelle sicurarsi da' nemici, ancor che dalle loro batterie fusse ruinata coi baluardi tutta o parte della prima circuizione delle lor mura coi baluardi insieme; onde, per quel che si è detto, alle fortezze e luoI. Sul valore della rocca-cittadella cfr. ALBERTI, Architettura, 1, pp. 350 sg.: • Sed sit ca quidem, uti volunt, operum supremum vertex et urbis nodus, minax aspera rigidaque sit oportet pervicax invicta » (ORLANDI, ivi: e< Comunque la si voglia considerare, il punto più alto delle mura o la chiave della città, la rocca deve essere d'aspetto minaccioso, duro, selvaggio; essere resistente agli assedi ed inespugnabile»). 2. Cfr. ancora ALBERTI, Architettura, I, pp. 348 sg.: