La corruzione spuzza. Tutti gli effetti sulla nostra vita quotidiana della malattia che rischia di uccidere l’Italia 9788852079757

Si parla e si scrive molto di corruzione. Forse troppo. Discorsi raffinati e analisi sofisticate rischiano di essere vuo

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La corruzione spuzza. Tutti gli effetti sulla nostra vita quotidiana della malattia che rischia di uccidere l’Italia
 9788852079757

Table of contents :
Indice......Page 269
Frontespizio......Page 5
Il libro......Page 3
Gli autori......Page 4
La corruzione spuzza......Page 6
La corruzione è il «male assoluto»?......Page 7
L’atteggiamento ondivago dell’opinione pubblica......Page 13
I numeri della corruzione......Page 17
Non basta l’indignazione, è necessaria la consapevolezza degli effetti negativi......Page 21
La corruzione peggiora ogni giorno le nostre vite e ruba il futuro ai nostri figli......Page 23
Un Paese civile non dovrebbe avere bisogno di eroi......Page 26
La corruzione genera bruttezza…......Page 28
… e semina morte......Page 31
L’Italia è meravigliosa, ma fragile......Page 33
La terra dei fuochi e l’ecocidio perfetto......Page 37
La difesa del territorio tra repressione, prevenzione e trasparenza......Page 39
Tangenti, donne e stellette......Page 41
I numeri di un fenomeno che ha superato il livello di guardia......Page 42
Dalla corruzione episodica al sistema corruttivo......Page 44
Lo sviluppo dei cartelli illegali......Page 47
L’avvento del «facilitatore»......Page 49
La nuova corruzione: il caso «Mafia Capitale»......Page 50
La mafia uccide meno, ma corrompe di più......Page 52
La corruzione per la corruzione: le opere pubbliche interminabili e inutili......Page 55
Le cause della corruzione negli appalti pubblici e la sfida del nuovo codice degli appalti......Page 58
Avremmo mandato Dante in cattedra?......Page 62
Bologna, città natale della prima università europea......Page 64
Le università italiane bocciate senza appello......Page 65
Un sistema corrotto non investe sul capitale umano e uccide il merito......Page 70
La piaga dei concorsi pilotati......Page 72
I riflettori della magistratura sull’università......Page 75
Un popolo di santi, poeti, navigatori… di figli, nipoti, cognati…......Page 77
Il trionfo del «familismo amorale»......Page 80
Noi siamo cultura......Page 83
Storie di italiani che scappano......Page 84
Più corruzione, meno talenti......Page 88
Un Paese corrotto non attrae investitori stranieri......Page 94
L’Italia, una bellezza sfiorita?......Page 98
Le fauci della malasanità......Page 100
Inefficienza della macchina sanitaria e costi della corruzione......Page 105
Casi emblematici di sanità piegata ai soldi e alle ambizioni......Page 107
Perché la sanità attrae la corruzione......Page 109
Cause e forme della corruzione sanitaria......Page 112
Alcuni fatti valgono più di milioni di parole......Page 116
Il problema nevralgico delle liste d’attesa......Page 117
Farmaci, vite umane e venditori di medicine......Page 119
Il diritto alla salute è davvero un diritto fondamentale dell’uomo?......Page 123
Una storia di corruzione, di morte e di fragilità......Page 125
«Credimi, è stato un momento di follia. Ma non sono un corrotto»......Page 126
Il diavolo fa le pentole, ma non le fotocopiatrici......Page 129
Il tarlo della corruzione insidia anche la giustizia amministrativa e quella tributaria......Page 130
La corruzione aggredisce anche le forze di polizia......Page 133
La giustizia è fede nella giustizia......Page 136
«Corruzione al Palazzo di Giustizia»......Page 137
Due simboli di «Mani pulite»: Bettino Craxi e Severino Citaristi......Page 141
Politica e corruzione: «Nihil novi sub sole?»......Page 144
Il processo Enimont, la madre di tutte le tangenti......Page 147
La politica come fine ultimo della corruzione dei politici......Page 149
Il passaggio alla Seconda Repubblica......Page 153
Le «nuove forme» della corruzione della (e nella) politica......Page 156
La pericolosità della «nuova corruzione»......Page 162
Obiettivi, tempi e ricette......Page 166
Il primo pilastro: la «repressione»......Page 167
Il secondo pilastro: la «prevenzione»......Page 176
Il terzo pilastro: l’«educazione»......Page 194
L’Italia ce la può fare......Page 200
Note......Page 203
Ringraziamenti......Page 267

Citation preview

Il libro

S

i parla e si scrive molto di corruzione. Forse troppo. Discorsi

raffinati e analisi sofisticate rischiano di essere vuote liturgie, incapaci di scalfire un fenomeno che è, a un tempo, un dramma sociale e

un’emergenza etica. Questo libro vuole essere qualcosa di diverso dai molti studi sul «pianeta corruzione» che hanno visto la luce negli ultimi anni. La sua radice è nella storia professionale dei due autori, Raffaele Cantone e Francesco Caringella, che, impegnati da oltre vent’anni come magistrati penali nell’azione di contrasto alla malattia del secolo, proseguono oggi la loro battaglia dalle postazioni strategiche di presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) e di presidente di Sezione del Consiglio di Stato, istituzioni chiamate a vigilare sulla legittimità e la correttezza degli atti e dei comportamenti delle pubbliche amministrazioni.

Gli autori Raffaele Cantone è presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Già sostituto procuratore a Napoli, dove nel 1999 è approdato alla Direzione distrettuale antimafia, è stato poi magistrato addetto all’ufficio massimario, consulente della Commissione parlamentare antimafia e membro della Commissione per la trasparenza e prevenzione della corruzione del ministero della Funzione pubblica. Ha scritto numerosi articoli su argomenti giuridici e alcune monografie in materia di diritto penale. Collabora con «Il Mattino». Da Mondadori ha pubblicato: Solo per giustizia (2008), I Gattopardi (con Gianluca Di Feo, 2010) e Operazione Penelope (2012). Francesco Caringella, già commissario di polizia e magistrato penale a Milano durante «Mani pulite», è presidente di Sezione del Consiglio di Stato. Inoltre, è presidente della Commissione di garanzia presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e giudice del Collegio di garanzia dello sport presso il Coni. Autore di molte opere giuridiche e da decenni impegnato nella formazione di futuri magistrati e avvocati, ha pubblicato anche tre libri di narrativa: Il colore del vetro (2013), Non sono un assassino (2014; vincitore del Premio Roma per la narrativa) e Dieci minuti per uccidere (2015).

Raffaele Cantone Francesco Caringella

LA CORRUZIONE SPUZZA Tutti gli effetti sulla nostra vita quotidiana della malattia che rischia di uccidere l’Italia

La corruzione spuzza

Ai nostri figli, al loro diritto di cercare in Italia la via alla felicità

I

La corruzione fa male a tutti La corruzione spuzza, la società corrotta spuzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, spuzza. PAPA FRANCESCO

La corruzione è il «male assoluto»? Le parole pronunciate da papa Francesco il 21 marzo di due anni fa davanti ai giovani di Scampia, e riportate in esergo, risuonano ancora, con forza e durezza, nelle nostre menti e nei nostri cuori. «Peccatori sì, corrotti no», cioè il peccato si può perdonare, la corruzione no, aveva già detto il pontefice, con ancora maggiore asprezza, l’11 novembre 2013, durante la messa celebrata nella cappella di Santa Marta, puntando l’indice sui corrotti, la cui «doppia vita» li rende simili a una «putredine verniciata». Il messaggio è chiaro: la corruzione è il contrario della cristianità, la negazione dell’altro, il ripudio dell’umanità solidale. È l’antitesi della morale e della coscienza civile, la cancellazione dell’etica sociale e individuale, il tradimento del concetto di Stato. Il papa ci invita all’indignazione, allo sdegno, all’operosa ribellione. Ognuno di noi, cristiano o laico che sia, deve sentire questa spuzza, schifarsi, provare ribrezzo per chi mette le mani nelle tasche di tutti e ruba il futuro ai nostri figli. Non è un caso che il presidente della Repubblica, nell’ultimo discorso di fine anno, abbia bollato la corruzione come un’illegalità che avvelena il corpo sociale, da combattere con fermezza. E non è un caso neppure che, il 26 gennaio 2017, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio abbia denunciato l’inaccettabile forbice fra la drammaticità sociale del «problema corruzione» e il ridotto numero di procedimenti penali relativi a questa tipologia di reati (lo 0,5% del contenzioso totale). In effetti, negli ultimi tempi, leader di partito, politici di ogni

colore ed esponenti a tutti i livelli del mondo delle istituzioni hanno espresso, in modo unanime, sdegno e riprovazione per coloro che si macchiano del reato di «corruzione». Questa presa di coscienza universale, della cui sincerità non abbiamo motivo di dubitare, va però contestualizzata e ricollegata al clima di indignazione diffuso negli ultimi anni nel nostro Paese, dopo l’esplosione di una serie di scandali, con tanto di pagamenti di mazzette, quali quelli dell’Expo, del Mose, di «Mafia Capitale», della «Dama nera». In questa fase storica la questione corruzione l’ha fatta da padrona nei media e nel dibattito pubblico, tanto che molti commentatori si sono affrettati a parlare di una nuova «Tangentopoli». 1 Tutti (o quasi) hanno pronunciato parole durissime, che vanno al di là di una semplice condanna giuridica o politica e contengono giudizi morali, pesantissimi atti d’accusa contro uomini definiti «squallidi», «schifosi», immeritevoli persino del rispetto umano. Sentimenti di indignazione, ribellione, repulsione, non solo espressi a gran voce, ma anche invocati e sollecitati come reazione della cittadinanza; una denuncia della corruzione come «male assoluto»; un dito puntato contro politici e burocrati che usano il potere per arricchirsi ai danni della collettività. Ma è sempre stato così? Cioè, è sempre stato questo l’atteggiamento della nostra classe dirigente (e dell’opinione pubblica) nei confronti della corruzione? Se sfogliassimo i giornali del biennio 1992-93, quando in Italia era in corso l’indagine di «Mani pulite» e ogni giorno i tg annunciavano il coinvolgimento di uomini politici di primo piano in fatti di corruzione, troveremmo certamente espressioni e posizioni molto simili. Se, però, estendessimo la nostra ricerca ad altri momenti storici, per esempio al periodo tra gli ultimi anni Novanta e la fine del primo decennio del nuovo secolo, stenteremmo a trovare non solo frasi analoghe, ma anche denunce più generiche sulla gravità del fenomeno corruttivo. Per provare quanto diciamo, non bisogna nemmeno tornare troppo indietro nel tempo per trovare considerazioni e dichiarazioni

persino di segno opposto, tese a dare un’immagine tranquillizzante della situazione della criminalità dei colletti bianchi nel nostro Paese. E non ci riferiamo a interventi di qualche pur autorevole opinionista avvezzo alla provocazione o a qualche studioso pregiudizialmente anticonformista, ma a un documento di quello che allora era l’organismo che avrebbe dovuto occuparsi di prevenzione e contrasto alla corruzione e che è il progenitore in via diretta dell’attuale Autorità nazionale anticorruzione (Anac), cioè il Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet) del dipartimento della Funzione pubblica. 2 Nel 2010 erano già affiorate alcune vicende di corruzione molto gravi, ma che potevano apparire ancora come episodi sporadici e isolati. Ci riferiamo, in particolare, allo scandalo dei lavori della Protezione civile e alla scoperta della cosiddetta «cricca» che gestiva quelle commesse pubbliche. 3 Funzionari e dirigenti di primissimo piano del mondo dei lavori pubblici erano tutt’uno e si scambiavano favori di ogni tipo con gli imprenditori che avrebbero dovuto partecipare ad appalti ultramilionari che, di fatto, venivano assegnati senza gare vere e proprie. Era poi scoppiato lo scandalo relativo alla costruzione della cosiddetta «Scuola dei marescialli» a Firenze, con il coinvolgimento, anche in quel caso, di «pezzi da novanta» del sistema dei lavori pubblici e del mondo politico, non solo locale. 4 Il terremoto aveva devastato L’Aquila solo l’anno prima e si prefiguravano appalti milionari che, data l’urgenza, sarebbero stati assegnati con procedure necessariamente semplificate. Nessuno (almeno ufficialmente) conosceva ancora il colloquio – che avrebbe scandalizzato l’opinione pubblica – intercorso fra due imprenditori la notte del terremoto: ridevano senza pudore davanti a una città ridotta a un cumulo di macerie e ai tanti morti, fra cui i ragazzi rimasti sepolti dal crollo della Casa dello studente, pregustando gli affari certi che avrebbero potuto concludere grazie agli amici che avevano nei posti giusti. 5 Del resto, gli indicatori internazionali della corruzione non

lasciavano prefigurare nulla di buono: nella classifica dei Paesi per indice di percezione della corruzione stilata da Transparency International, un’importante organizzazione non governativa internazionale impegnata nella lotta a questo fenomeno, l’Italia cominciava a perdere posizioni, passando dal 55° al 69° posto (la scala va da 0, molto corrotto, a 100, per nulla corrotto). Il 30 giugno 2011 il Saet, che aveva ereditato i poteri (quasi inesistenti) del precedente Alto commissario per la lotta alla corruzione e che avrebbe dovuto stimolare il contrasto alla corruzione in Italia, presentò al Parlamento la relazione annuale per il 2010, 6 un documento emblematico di quello che era l’approccio «culturale» di una parte (consistente?) della classe dirigente nazionale e consultabile ancora oggi tra le fonti parlamentari. Esso si poneva in linea di assoluta continuità con quello dell’anno precedente 7 ed è un atto comunque interessantissimo. La relazione, che consta di 124 pagine di testo e oltre 50 di allegati, è ricca di dati e contiene alcune affermazioni incontestabili, ma è tutta protesa a un obiettivo: sminare l’idea che la corruzione andasse considerata il «problema» del Paese. Vale la pena riportarne qui alcuni passi che, anche se meriterebbero di essere letti nel loro contesto, sono certamente illuminanti su quale idea della patologia avesse chi, per funzione istituzionale, avrebbe dovuto contrastarla. A pagina 115, infatti, si afferma: … il «sistema P.A.» non sarà funzionale ed efficiente come si desidererebbe, magari è troppo costoso e poco attento ai reali bisogni del «cittadino cliente», è probabilmente gravato da sprechi rilevanti … ma non appare il luogo del mercimonio della funzione pubblica: piuttosto, sembra vittima due volte, una reale una mediatica, di un ridottissimo numero di delinquenti che sono anche pubblici dipendenti, così come accade in tutte le categorie sociali e professionali, rispetto ai quali l’etica deve lasciare il posto al «tintinnio delle manette». Vittima reale, per le evidenti conseguenze sulla funzionalità degli uffici e sulla serenità operativa che viene evidentemente intaccata quando interviene il sistema repressivo. Vittima mediatica, perché la convinzione, ripetutamente rappresentata, che la

corruzione sia la prassi, finisce con il trasformarla in una sorta di profezia che si auto-avvera, mentre l’immagine del «così fan tutti» finisce con l’attenuare quel senso di colpa che è strategico nel prevenire il fenomeno. Non solo: alla minore deterrenza si aggiunge, così, l’invito ad entrare nei network relazionali giusti, più utili. La corruzione è evidentemente un tema centrale per qualsiasi democrazia e per tutti i governi democratici: con buona pace di tutti, non può essere diversamente, qui in Italia, come altrove. Nessuna sottovalutazione, quindi, di questo profilo estremamente rilevante, ma l’analisi dei dati – ufficiali, completi e assolutamente attendibili – delinea un evidente, chiaro, inequivocabile argomento a favore della complessiva integrità del «sistema P.A.» diversamente da quanto affermato da qualche «professore della questione morale».

Per giungere a queste affermazioni, si consideravano (come spiegato in altra parte della relazione) quali unici numeri attendibili per verificare l’entità della corruzione quelli giudiziari, e in particolare le condanne per i reati di corruzione, e siccome essi erano numericamente poco significativi, si poteva concludere che l’allarme corruzione in Italia era ingiustificato e che il nostro Paese non si trovava in una situazione diversa dagli altri; anzi, vi erano buoni motivi per ritenere che lo stato di guarigione da questa malattia fosse ormai avanzato. Non esisteva, quindi, alcun problema corruzione. Coloro che esprimevano in modo strumentale una posizione diversa erano un certo tipo di stampa 8 e, soprattutto, quelli che venivano sprezzantemente definiti i «professori della questione morale». Oggi sarebbe facile liquidare la relazione citata come poco più di un semplice infortunio, frutto dell’incapacità di leggere quei segnali che, anche allora, lasciavano intravedere quale fosse lo stato reale della corruzione in Italia, e ricordare come i successivi accadimenti l’abbiano (purtroppo) clamorosamente smentita, mettendo quantomeno in dubbio la sostanziale «integrità del sistema P.A.». E forse sarebbe persino banale accusare il Saet di aver adottato la tecnica elusiva del concentrare l’attenzione più sul dito di chi mostra la luna

piuttosto che su quest’ultima, o chiedersi dove è finito il pezzo di classe dirigente del Paese che propugnava le sopra citate tesi «negazioniste», se è vero che oggi alle affermazioni contenute in quella relazione non crede più nessuno. Ma si tratterebbe di un approccio altrettanto sbagliato. La spiegazione più plausibile che si può dare alla radicale diversità di opinioni fra il recente passato e il presente è che la reazione della classe dirigente italiana rispetto alla corruzione diventa molto più vibrante quando le indagini giudiziarie portano alla luce fatti che scandalizzano l’opinione pubblica. Così, il pendolo va in tutt’altra direzione quando tali vicende rimangono nell’ombra: allora prevale l’idea che, anche strategicamente, sia inopportuno mettere l’accento sulla corruzione, e che, invece, sia preferibile contestare che il fenomeno sia davvero così pervasivo e che l’Italia meriti davvero un primato negativo in materia di moralità pubblica. Del resto, chi propugna queste tesi non lo fa perché è amico dei tangentisti, o almeno non necessariamente. La ragione di questo diverso schema mentale va anche (e soprattutto) ricercata nell’idea che denunciare la corruzione nel proprio Paese finisca per darne un’immagine internazionale negativa, con la conseguenza, fra le tante, di deprimere l’economia nazionale. Chi investirebbe anche un solo quattrino in un luogo dove una famelica burocrazia pone ostacoli di ogni tipo? Non è un caso che, molto spesso, il vessillo della battaglia contro la corruzione venga innalzato soprattutto da coloro che sono all’opposizione rispetto a chi governa. 9 Lo scenario cambia, ovviamente, quando i decibel dell’indignazione popolare aumentano. Allora la politica fa a gara per dimostrarsi anch’essa sulle barricate e per propugnare nuovi e risolutivi strumenti per combattere e distruggere il malaffare. È in questa fase, in genere, che vengono adottati provvedimenti e normative che servono (o dovrebbero servire) ad arginare la corruzione. È un argomento su cui torneremo fra poco, limitandoci per ora ad anticipare che un diverso approccio al fenomeno della corruzione –

che rifugga sia dall’idea che essa vada nascosta come la spazzatura sotto il tappeto sia dalla visione apocalittica di chi pensa che essa abbia definitivamente pervaso ogni angolo della Pubblica Amministrazione e che debba essere combattuta con metodi draconiani o con il «carcere per tutti» – è non solo possibile, ma addirittura indispensabile per venirne a capo.

L’atteggiamento ondivago dell’opinione pubblica Abbiamo poc’anzi affermato che una delle variabili che orienta l’atteggiamento della classe politica e istituzionale del nostro Paese è certamente rappresentata dal sentimento dell’opinione pubblica. Con questo non si vuol sostenere che fra i rappresentanti istituzionali non ci siano soggetti che, a prescindere dal sentimento popolare, non ritengano prioritario il contrasto a gravi forme di malaffare amministrativo, ma sicuramente, quando sale la temperatura sociale rispetto a certi argomenti, l’influenza su quella parte di classe dirigente più tiepida, se non disinteressata, si fa sentire in termini oggettivi. Ovviamente, è impossibile che si formi un idem sentire dell’unanimità dei cittadini rispetto a un particolare problema (foss’anche quello ritenuto il più rilevante), giacché in una democrazia pluralista si registrano sempre posizioni diversificate e divaricate. È altrettanto evidente, però, che, all’interno della collettività, si può creare un’opinione maggioritaria su alcuni temi di interesse generale, che si esprime sia attraverso manifestazioni popolari di piazza sia attraverso sondaggi d’opinione, uno strumento sempre più importante nelle moderne democrazie. Fatta questa premessa, possiamo affermare con tranquillità che nell’opinione pubblica il contrasto alla corruzione sia sempre stato considerato una priorità? Le parole di papa Francesco intercettano davvero un sentimento diffuso o vogliono stimolare una reazione per il momento ancora troppo timida ed episodica?

Insomma, la gente prova nei confronti della corruzione il ribrezzo di cui parla, dall’alto del suo magistero morale e religioso, il pontefice? Se dovessimo rispondere guardando il presente, saremmo propensi a esprimerci in termini affermativi, senza però nutrire certezze assolute. 10 Se, invece, volgessimo lo sguardo al passato (come peraltro è necessario per verificare l’esistenza di un sentimento consolidato), la risposta sarebbe molto più dubbia. Quando, agli inizi degli anni Novanta, si svilupparono le inchieste sulle vicende corruttive indicate anche dagli storici con i nomi di «Mani pulite» o «Tangentopoli», l’opinione pubblica, che fino a quel momento era sembrata poco interessata, parve capire quanto fosse diventato intollerabile il livello di corruzione e si schierò in modo netto a favore di un contrasto particolarmente rigoroso a tale fenomeno. Ogni telegiornale serale apriva con le notizie di nuovi arresti o del coinvolgimento nelle indagini di esponenti, anche di primo piano, del mondo della politica, e spessissimo i cittadini si assembravano di fronte al palazzo di giustizia di Milano, divenuto il simbolo delle attività investigative, per manifestare la loro vicinanza e solidarietà con i magistrati inquirenti. Come non ricordare che, per evitare una «sollevazione popolare», il governo ritirò in fretta e furia il testo di un decreto legge che depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti, dopo che i magistrati del pool milanese si erano dichiarati pubblicamente contrari, minacciando le dimissioni dal loro incarico. 11 Eppure, com’era in parte prevedibile, già dopo la metà degli anni Novanta l’interesse dell’opinione pubblica per l’argomento corruzione andò via via scemando, per poi morire del tutto. È arduo (e forse anche poco utile) tentare di individuare le molteplici e complesse ragioni che hanno determinato tale mutamento del comune sentire. Certamente, un sentimento di «stanchezza» maturò nel cittadino medio che, dopo un po’, cominciò a provare sempre meno interesse per le indagini della magistratura, anche e soprattutto perché quest’ultima, dopo essersi originariamente

occupata dei «potenti» della Prima Repubblica, aveva iniziato ad allungare lo sguardo verso fatti corruttivi minori, che coinvolgevano non più soltanto i politici di primo piano ma, in misura sempre maggiore, la classe media. Questo dato è stato rimarcato dagli stessi magistrati del pool milanese, secondo i quali il consenso popolare iniziò ad affievolirsi quando le attività investigative si diressero verso le vicende corruttive relative ai pagamenti di piccole e medie tangenti per «addomesticare» controlli fiscali. 12 L’indignazione, fino ad allora fortissima, si raffreddò e, in alcuni casi, si trasformò addirittura in un atteggiamento di comprensione e giustificazione nei confronti di chi pagava le mazzette, quasi considerato una vittima dell’andazzo generale. Tra la fine degli anni Novanta e la prima metà degli anni Duemila, l’interesse per la questione corruzione cambiò così sensibilmente, anche perché in quel periodo vi furono meno indagini giudiziarie eclatanti. 13 La corruzione, come si comprende bene oggi, non era stata affatto debellata ma si era solo inabissata, diventando sotterranea e meno visibile. La cosa tranquillizzò probabilmente quella parte dell’opinione pubblica che era stata sollecitata dalle indagini effettuate, lasciando che prendesse il sopravvento quell’altra parte che non aveva mostrato la stessa sensibilità. Arrivò così il periodo in cui cominciarono le rivisitazioni critiche di quanto era avvenuto nella fase «acuta» di «Tangentopoli»: fu il momento dei «distinguo», spinti fino al punto di accusare la magistratura e di trasformare in vittime alcuni dei soggetti che erano stati coinvolti nelle indagini. La prova inconfutabile che il sentimento di indignazione era calato è data dal fatto che il ritorno sulla scena pubblica di personaggi che erano stati condannati anche con sentenza passata in giudicato venne digerito senza proteste di alcun tipo. Emblematico, in questo senso, è quanto è avvenuto nel corso delle indagini sulle tangenti pagate per gli appalti del grande evento Expo 2015. Quando nel 2014 la Procura di Milano fece scattare gli arresti per corruzione, risultarono coinvolti due soggetti già condannati durante

l’inchiesta di «Mani pulite». 14 La cosa destò meraviglia, stupore e indignazione. Eppure quei soggetti avevano agito alla luce del giorno, erano entrati in contatto con funzionari pubblici e uomini di partito, e avevano persino fondato un’associazione culturale che operava in pieno centro a Milano. Fino a quel momento la loro «attività» era passata sottotraccia e nessuno degli addetti ai lavori aveva avuto nulla da ridire sul fatto che a discutere di appalti fossero pregiudicati per fatti corruttivi. Ma dalle indagini emerse un dato ancor più grave: uno dei due soggetti condannati per corruzione durante l’inchiesta «Mani pulite» era riuscito a farsi rieleggere in Parlamento (!), malgrado l’interdizione dai pubblici uffici, forse utilizzando un nome di battesimo parzialmente diverso, ed era rimasto in carica anche durante il periodo in cui era stato ammesso a scontare la pena ai servizi sociali. Anche nel caso delle tangenti all’Expo, a risvegliare l’opinione pubblica distratta è stato il «tintinnio delle manette». L’indignazione popolare è poi cresciuta in misura proporzionale all’esplosione di nuovi scandali provocati dalle inchieste sul Mose (dove pure le avvisaglie sullo sperpero di denaro pubblico erano state evidenti) 15 e, soprattutto, su «Mafia Capitale» o «Mondo di Mezzo». A questo punto, sembra indiscutibile l’esistenza di un legame diretto fra interesse dell’opinione pubblica e indagini giudiziarie. Ma c’è un’altra domanda da porsi, e alla quale, in parte, si è già implicitamente risposto: al di là dell’indignazione, cosa pensa davvero il cittadino comune della corruzione, come giudica i corrotti, che impulsi prova nei confronti di chi intasca mazzette o si mette a libro paga della criminalità organizzata? Dando per scontato che si debba evitare un’indebita e semplicistica generalizzazione e un giudizio onnicomprensivo che affastelli tutti i cittadini, non sembra però un’affermazione azzardata quella secondo cui, quantomeno per una parte dei nostri concittadini, i colletti bianchi che incassano tangenti e usano le cariche pubbliche come veicolo di arricchimento personale non sono affatto particolarmente riprovevoli, anzi meritano addirittura di essere guardati con simpatia, alla pari degli evasori fiscali, quali furbi in grado di trovare una soluzione al

problema di fare soldi con facilità. Per alcuni, in verità, la corruzione non solo non fa paura, ma è qualcosa con cui si può convivere, perché non è avvertita come un pericolo per i loro interessi privati e la loro situazione personale. Del resto, molti considerano il furto di un’autovettura un fatto enormemente più grave della tangente pretesa da un burocrate per pilotare un appalto, e un topo d’appartamento molto più pericoloso di un politico che vende la propria carica al miglior offerente, perché pensano che, in entrambi i casi, si tratti di qualcosa di lontano dalla loro vita quotidiana. Così ritengono normale che in galera finiscano soprattutto extracomunitari e diseredati, e non i colletti bianchi che usano il denaro pubblico per l’utilità e i capricci di pochi. Agli occhi di costoro, il concetto di etica pubblica è solo un’idea astratta e lo «scambio clandestino tra due “mercati”, quello politico e/o amministrativo e il mercato economico e sociale», 16 in cui si risolve in pratica la corruzione, un evento troppo lontano dalla vita reale. Non bisogna meravigliarsi, quindi, se in Italia solo lo 0,6% della popolazione carceraria è composto da colletti bianchi, a fronte di una media europea del 5,6%, per un rapporto da 1 a 10. 17 Né può destare stupore la ridotta percentuale, di cui si è detto prima, dei processi di corruzione rispetto al contenzioso penale complessivo (appena lo 0,5%).

I numeri della corruzione C’è un altro elemento che certamente incide su quello che è l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti del fenomeno corruttivo, e cioè l’assoluta difficoltà di una quantificazione precisa dello stesso, a differenza, per esempio, di altri reati di grande impatto sociale. Conosciamo, quasi con certezza, il numero degli omicidi, dei furti, delle rapine, degli incendi: in questi casi, infatti, c’è una vittima che subisce il reato e si rivolge alle forze dell’ordine per denunciare l’episodio, anche quando – come purtroppo succede per i furti – è

molto probabile che i responsabili non verranno mai individuati. Non accade lo stesso per la corruzione, e per una ragione evidente: qui non c’è una vittima, ma due soggetti che si accordano per ottenere un vantaggio reciproco – il corrotto per avere l’utilità, il corruttore per ottenere un atto o un comportamento accondiscendente per lui vantaggioso – e nessuno dei due ha interesse a rendere noto il patto illecito sottoscritto. I giuristi, infatti, definiscono la corruzione un «reato-contratto», proprio per sottolineare la caratteristica del patto che fonda il rapporto; ed è un contratto che, chiaramente, non si stipula davanti a un notaio, ma viene accuratamente occultato. Non essendoci quasi mai una denuncia, i fatti corruttivi vengono spesso individuati in modo casuale e indiretto, ed è un dato di esperienza che quasi nessuna indagine per corruzione nasce fin dall’inizio sulla base di questa ipotesi di reato. Per limitarci alle vicende più recenti, le indagini su Expo 2015 nacquero per verificare possibili infiltrazioni mafiose negli appalti, quelle sul Mose da un’ipotesi di emissione di fatture false per diversi milioni di euro, quelle di «Mafia Capitale» da episodi di usura ed estorsione che riguardavano alcuni soggetti già appartenenti alla nota banda della Magliana. Il primo e più importante episodio che diede avvio alla più famosa inchiesta sulla corruzione, quella di «Mani pulite», nacque dalla denuncia di una donna che, lamentando l’infedeltà coniugale del marito, raccontò agli inquirenti anche dell’abitudine del consorte di pretendere tangenti nell’ambito della sua attività professionale. E non si tratta di un caso isolato. Più di una volta la riscossione di tangenti è stata svelata da coniugi abbandonati o traditi. I numeri dei processi per questi tipi di reato non sono di per sé in grado di fotografare il fenomeno, perché dipendono da una serie di variabili. La corruzione assume, quindi, i tratti di un fiume carsico che, per la parte in cui si inabissa, non consente una valutazione precisa di quale sia l’effettiva portata dell’acqua; solo quando fuoriesce se ne comprende (parzialmente) la forza. In questo senso, di grande interesse sono i dati delle statistiche giudiziarie (riferite a denunce, arresti, condanne), dai quali si ricava,

sulla base delle fonti Istat, che il numero dei reati e delle persone denunciate per corruzione e concussione, in crescita dal 1992, dopo aver raggiunto il picco, rispettivamente, di 2000 e di oltre 3000 nel 1995, si è ridotto nel 2006 a circa un terzo per i reati e della metà per le persone denunciate. Parimenti, con riferimento al numero di condanne per reati di corruzione, si passa da un massimo di oltre 1700 nel 1996 alle sole 239 nel 2006 (quasi un settimo di quelle comminate dieci anni prima). 18 Non essendo, quindi, attendibili i dati giudiziari, bisogna chiedersi se esistano criteri alternativi per quantificare il fenomeno della corruzione. È un tema di grande interesse e, soprattutto, di grande importanza, non solo teorica. Conoscere, sia pure in modo approssimativo, l’incidenza dell’attività corruttiva in un contesto territoriale potrebbe, infatti, orientare meglio le politiche preventive e repressive, e potrebbe influenzare le scelte, per ipotesi, di chi intendesse investire capitali: sapere che un certo luogo è amministrato da una giunta comunale corrotta potrebbe essere un buon motivo per scartarlo come località in cui, per esempio, impiantare un’attività produttiva che richiede contatti con la giunta medesima. Da tempo, quindi, sono allo studio sistemi che possano fornire, se non numeri, quantomeno indicatori precisi e attendibili dell’esistenza di fenomeni corruttivi. Non può essere questa la sede per affrontare in termini più approfonditi l’argomento, ma è utile fornire degli elementi di conoscenza non sempre noti a tutti. Ora, la rilevazione più importante è senz’altro quella volta a fotografare la percezione del fenomeno, effettuata da Transparency International. Il criterio di misurazione in parola si riferisce alla corruzione in un’accezione ampia, comprensiva della deviazione da regole morali comunemente accettate, considerando la percezione del fenomeno anche nella sua dimensione latente, e tende a individuare la «corruzione percepita». In proposito, le ultime rilevazioni del Corruption Perception Index (Cpi) collocano l’Italia al 60° posto, in lieve risalita rispetto al precedente 69°, che aveva rappresentato il punto più basso di un

progressivo aggravamento della corruzione percepita verificatosi negli anni precedenti. 19 Il rapporto internazionale Curbing Corruption quantifica la corruzione percepita in Italia nella misura del 90% della popolazione, a fronte del 10% svedese. Il 70% degli intervistati ritiene che il governo sia portatore degli interessi di pochi: una sfiducia maggiore nell’esecutivo si registra solo in Grecia e Israele (85%). Oggi il nostro Paese è al 50° posto dell’ultimo rapporto Doing Business della Banca Mondiale, al 79° dell’Index Economic Freedom, al 77° del World Freedom Press Index, al 50° del Global Gender Gap Report. Relativamente alla percezione del fenomeno corruttivo, la Banca Mondiale registra un’analoga tendenza attraverso le ultime rilevazioni del Rating of Control of Corruption (Rcc) – basate sulle opinioni di imprese e cittadini –, che collocano l’Italia agli ultimi posti in Europa e con un trend che evidenzia una situazione non positiva ormai stabilizzatasi. Tuttavia, le misurazioni della percezione del fenomeno sono basate su dati non oggettivi e, proprio per questo, prestano spesso il fianco a critiche, anche perché, utilizzando rilevazioni a campione, i suoi risultati sono strettamente legati alla tipologia del campione intervistato. In questo senso, i dati prodotti sono soggetti a rapidi cambiamenti, sia perché non supportati da elementi di carattere oggettivo sia perché destinati a patire il condizionamento, a livello locale, da parte di interpretazioni e schemi culturali diversificati rispetto a ciò che integra o meno il reato di corruzione. Queste rilevazioni, però, hanno anche alcuni pregi. Oltre a consentire la comparazione a livello internazionale, e quindi il riscontro di aspetti di rilievo per le politiche di prevenzione della corruzione e promozione della legalità, permettono di avere sottomano un sensore rilevante di quella che è la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni. Se gli intervistati avvertono, in un modo o nell’altro, l’esistenza di un elevato livello di corruzione, è evidente che essi non attribuiscono un elevato livello di integrità morale alla classe politica o dirigente del loro Paese.

In ogni caso, un dato è certo: i numeri della corruzione sono a oggi, e in attesa dell’individuazione di indicatori più precisi, indeterminabili, e pertanto non si può e non si deve orientare solo su di essi un’attività di contenimento e contrasto del fenomeno.

Non basta l’indignazione, è necessaria la consapevolezza degli effetti negativi Quanto detto sin qui consente di fissare alcuni punti per avviare l’analisi che proveremo a fare nelle pagine seguenti. Nessuno, almeno in linea di principio e in termini astratti, negherebbe mai che la corruzione «è un male», è un grave fenomeno di deviazione rispetto a quei comportamenti che si richiedono per legge, in particolare a chi riveste cariche pubbliche, ed è eticamente censurabile, come dimostrano inconfutabilmente le parole pronunciate da papa Francesco. L’attuale pontefice, inaugurando una politica che non ha precedenti nella storia della Chiesa, sembra aver ingaggiato una vera e propria guerra personale alla corruzione: ne parla di continuo, utilizzando termini capaci anche di colpire l’immaginario collettivo. Malgrado questa condanna venga da un magistero morale così alto e per quanto sia decisiva per orientare l’opinione pubblica più sensibile ai valori etici, non può essere l’elemento fondamentale per un contrasto forte e stabile, e non solo episodico, della corruzione. Abbiamo ricordato, poc’anzi, che una parte consistente dell’opinione pubblica si mobilita solo quando il fiume carsico del fenomeno corruttivo sgorga all’esterno con la sua forza prorompente, mentre un’altra parte resta quantomeno tiepida perché non avverte alcun danno per i propri interessi e la propria vita quotidiana, quasi che la corruzione fosse un problema di altri. Tutto sommato, che danno potrà arrecare a chi non dovrà mai occuparsi di appalti o non dovrà mai chiedere a un’amministrazione pubblica provvedimenti a lui favorevoli? Tutt’al più, lo stesso cittadino si indignerà quando vedrà il politico di turno che si

arricchisce o specula sulle emergenze, ma girerà la faccia dall’altra parte quando questi episodi non saliranno alla ribalta. È questo lo snodo centrale da cui partire per affrontare il fenomeno della corruzione: il contrasto al malaffare corruttivo necessita assolutamente di un positivo coinvolgimento del maggior numero di cittadini, e ciò per varie ragioni, tutte importanti e concomitanti. In primo luogo è indiscutibile che la corruzione sia favorita anche da un certo approccio culturale, evidenziato dai comportamenti di chi ritiene che, per raggiungere un risultato a lui favorevole, sia lecito servirsi di qualsiasi mezzo, dalla semplice raccomandazione fino ad accettare di vendere il proprio voto in cambio di qualcosa. La logica del merito e della concorrenza stenta ad affermarsi, mentre è forte e (purtroppo) radicata l’idea che i personal contacts siano necessari per ottenere migliori collocazioni nella società. Di qui, la diffusione dei tarli del nepotismo, del clientelismo e del «familismo amorale e immorale». 20 Questo humus agevola certamente quel malaffare che è il progenitore diretto anche della corruzione vera e propria. In questo senso è senz’altro nel giusto chi sostiene che, per sconfiggere la corruzione, bisogna avviare (anche) una battaglia culturale. Un secondo aspetto riguarda il ruolo che i cittadini possono svolgere in una società democratica, cioè quello di essere i veri controllori dell’esercizio del potere pubblico, vedette civiche in grado di annunciare e denunciare il malaffare. I Paesi con un tasso di corruzione e indice di percezione della corruzione molto bassi (per esempio, quelli del Nord Europa, che si trovano nelle posizioni virtuose della classifica di Transparency International) sono quelli in cui questo ruolo proattivo dei cittadini è più evidente. Infine, la consapevolezza dei cittadini della gravità del fenomeno corruttivo incide in modo rilevante sulle scelte di chi ci amministra. Lo abbiamo già affermato e qui lo ripetiamo sotto una diversa prospettiva. In particolare, se durante il periodo delle indagini di «Tangentopoli» vennero emanate normative anche draconiane per contrastare la corruzione ed evitare aree di impunità 21 – come già ricordato, vennero impedite riforme legislative che avrebbero potuto

rendere più difficoltoso il contrasto del fenomeno corruttivo 22 –, nel periodo successivo è stata varata una serie di «controriforme» che hanno inciso sull’azione repressiva, finendo per ingrossare quel famoso fiume carsico di cui abbiamo parlato in precedenza. Basti qui ricordare, in estrema sintesi, le «controriforme» dell’abuso d’ufficio, del falso in bilancio, dei reati fiscali e della prescrizione soprattutto per i reati dei colletti bianchi. Riforme approvate anche per ragioni oggettivamente valide, ma i cui effetti negativi sul contrasto alla corruzione non sono stati adeguatamente soppesati, anche per la generale distrazione dell’opinione pubblica. Durante gli anni 1993-94, una modifica della legge sul falso in bilancio come quella passata nel 2000 sarebbe stata digerita senza problemi dalla società civile? Il coinvolgimento dell’opinione pubblica non deve, però, limitarsi a brevi periodi di indignazione, un sentimento che, ancorché fondamentale in una democrazia, prorompe solo a fronte di fatti gravi e clamorosi, e quindi, per sua stessa natura, non può manifestarsi a fronte di fenomeni sistemici, quale è certamente la corruzione nel nostro Paese. Oggi ci indigniamo quando un politico o un amministratore pubblico ruba, forse soprattutto perché proviamo ribrezzo per chi, spesso senza limiti, si arricchisce in modo smodato. Invece, bisogna cercare di far passare anche un altro concetto: «Chi ruba denaro pubblico fa danno a tutti noi». In questo senso, occorre convincersi che la corruzione non «è (solo) un male» ma, soprattutto, «fa (anche) male», e cioè danneggia pure quanti apparentemente non hanno nulla a che spartire con amministrazione pubblica, appalti, politica, affari, ecc.

La corruzione peggiora ogni giorno le nostre vite e ruba il futuro ai nostri figli È questo l’approccio che proveremo a sviluppare nelle pagine seguenti, raccontando, anche attraverso vicende concrete, quali sono i danni «indiretti», ma spesso ancor più gravi, arrecati dalla corruzione

alla collettività. E lo faremo intendendo il termine «corruzione» non in senso restrittivo: non solo, quindi, come pagamento di tangenti, o bribery, per servirci di un vocabolo inglese ormai di uso comune, ma come l’insieme di quei fenomeni che danno luogo a una degenerazione della vita pubblica, in cui gli interessi privati finiscono per condizionare impropriamente l’azione dell’amministrazione pubblica, distorcendone a uso illecito le finalità istituzionali. 23 Ovviamente, in tutti i settori oggetto dell’analisi le negatività e le criticità riscontrate quasi mai derivano unicamente dalla corruzione, sia pure intesa in senso ampio, ma molto spesso da un combinato disposto di varie concause, in cui però la degenerazione amministrativa resta spesso il fattore più rilevante. Se si afferma l’idea che «la corruzione fa male a tutti» e cresce la consapevolezza delle sue conseguenze negative generalizzate, il contrasto potrà probabilmente diventare strutturale anziché episodico ed emergenziale come è stato finora. Immaginiamo quale potrebbe essere la critica a tale approccio: «Siete degli illusi se pensate che questo possa avvenire»; o, peggio ancora, «In Italia questa consapevolezza non ci sarà mai». Forse saremo anche un po’ sognatori, ma su un altro fronte il nostro Paese ha dimostrato come sia possibile cambiare la consapevolezza dell’opinione pubblica. È quanto è avvenuto rispetto alla mafia, e questo mutamento culturale ha consentito di ottenere risultati molto importanti in sede di contrasto. Nessuno pensa che in Italia la mafia sia stata sconfitta, ma crediamo di essere realisti se riconosciamo i grandi passi in avanti che sono stati fatti, anche sul piano culturale, nel contrasto a questo male che affligge da sempre il nostro Paese. Come non ricordare gli atteggiamenti negazionisti che, fino a non molto tempo fa, albergavano spesso anche nella classe dirigente del Paese e portavano ad affermare, più o meno, che «la mafia non esiste» o «è un’esagerazione dei giornali e dei professionisti dell’antimafia», 24 e che oggi possiamo a buon diritto ritenere testimonianze di un’epoca ormai remota?

In realtà, quegli atteggiamenti non avevano solo una valenza squisitamente culturale, ma nel concreto avevano portato a sottovalutare le infiltrazioni mafiose nel Nord Italia, al punto da considerarle, al massimo, frutto del delirio di qualche giornalista o scrittore esaltato. Oggi nessuno, o quasi, si azzarderebbe a negare l’esistenza di mafie potenti al punto da condizionare il mondo della politica e dell’economia; e, soprattutto, la loro presenza non solo nelle regioni di storica appartenenza ma in tutta Italia. E questa consapevolezza ha imposto, per esempio, di tenere alte le asticelle dei controlli quando si sono effettuate o programmate grandi opere non solo a Napoli o a Palermo, ma anche a Milano, Bologna o Torino. Ecco, dunque, il nostro obiettivo «utopico» e, insieme, il nostro sogno e la nostra speranza: tentare anche con la corruzione la medesima operazione culturale realizzata a suo tempo con la mafia, operazione riuscita quando il Paese ha capito che le mafie sono un danno per tutti. Identica consapevolezza potrà ottenersi per la corruzione, se ci convinceremo di quanto i suoi effetti siano disastrosi per la vita di tutti noi. La corruzione, infatti, non è (solo) un reato contro la Pubblica Amministrazione, ossia contro l’interesse pubblico, ma è anche (e soprattutto) un gravissimo delitto contro l’interesse individuale di ognuno di noi, che peggiora in modo sensibile la qualità delle nostre esistenze. I soldi pubblici su cui mettono le mani corrotti e corruttori sono anche nostri, la res publica è una ricchezza comune, e l’immoralità nella gestione della cosa pubblica priva i nostri figli di risorse, prospettive e opportunità. Il denaro che finisce nelle tasche dei corrotti significano opere pubbliche interminabili, edifici che crollano alla minima scossa di terremoto, ospedali inefficienti, cultura al collasso, istruzione in crisi, cervelli in fuga, giustizia drogata, investimenti stranieri lontani, ambiente violentato, immoralità della politica. La corruzione è un furto di futuro, al quale dobbiamo reagire ogni giorno, con tutte le nostre forze.

II

La corruzione uccide il territorio Credo che avere la terra e non rovinarla è la più bella forma d’arte che si possa desiderare. ANDY WARHOL

Un Paese civile non dovrebbe avere bisogno di eroi Trentatré anni, una bellezza semplice, un fiore tra i capelli, voglia di futuro negli occhi puliti. È questa l’immagine trasmessa dalla fotografia più nota di Renata Fonte, l’assessore alla Cultura e alla Pubblica istruzione del Comune di Nardò (Lecce), nipote del mazziniano Pantaleo Ingusci, uccisa da due sicari con tre colpi di pistola il 31 marzo 1984, mentre stava rincasando dopo una faticosa seduta del Consiglio comunale. Fu il primo omicidio di mafia nel Salento con vittima una donna. La fine precoce di un politico coraggioso, capace di declinare la politica al femminile in una terra dai forti retaggi culturali maschilisti. Le indagini individuarono un primo sospettato, un pescivendolo della zona. Balzò subito agli occhi la seria possibilità che il movente dell’omicidio si annidasse nella fiera opposizione della Fonte alla cementificazione dell’oasi mediterranea di Porto Selvaggio. Perché Renata era un politico che sapeva dire «no» e una donna tutta di un pezzo, una salentina forte e dura come gli ulivi secolari di quelle campagne. Alla testa del Comitato per la tutela di Porto Selvaggio, aveva dichiarato con forza, anche sui mass media, l’amore per la sua terra, il desiderio di tutelarne la preziosa bellezza di fronte all’avidità di speculatori e mafiosi, la ferma intenzione di battersi contro qualsiasi ipotesi di lottizzazione cementizia di quel luogo in cui l’azzurro del mare, l’oro della sabbia finissima della costa e il verde della macchia mediterranea si fondono in un dolce e armonioso impasto cromatico. Intanto l’attività degli inquirenti faceva progressi, nonostante il muro di silenzio e d’omertà. Altre testimonianze rivelarono che,

qualche giorno prima dell’omicidio, nelle aule comunali un uomo aveva chiesto apertamente a Renata di votare la delibera che autorizzava l’edificazione di 70 ettari di terreno agricolo attigui al cuore di Porto Selvaggio. Ma la Fonte non aveva piegato la testa e aveva pronunciato un altro dei suoi irremovibili «no». L’ultimo. Il quadro a poco a poco si delineò, acquisendo tinte sempre più nitide e sconvolgenti. Scattarono gli arresti, iniziò il processo. E la verità si fece faticosamente strada, ingombrante come un macigno, con la sua scia di sangue e di dolore. I tre gradi di giudizio permisero di identificare e condannare gli esecutori materiali dell’omicidio, due intermediari e il mandante di primo livello, un collega di partito, primo dei non eletti alle elezioni amministrative, succedutole poi nella carica di assessore. Sullo sfondo, il risentimento di loschi personaggi nei confronti di una paladina della legalità, decisa a difendere a ogni costo l’incomparabile bellezza di un paradiso naturale incontaminato. 1 È grazie al sacrificio di questa donna che Porto Selvaggio oggi non è una cartolina sbiadita dal tempo, ma un parco naturale che offre incanto e meraviglia ai visitatori che abbiano la pazienza di percorrere il sentiero scosceso che s’inoltra nella pineta, per sfociare in una baia in cui i colori del mare non sono mai gli stessi. Un Paese che dimentica un simile esempio di eroismo civile è un Paese che non vuole imparare e non vuole migliorare. La vicenda di Renata Fonte ci mostra, in modo tangibile, i frutti che la sconfitta della corruzione può garantire a noi e ai nostri figli: difesa del territorio dagli scempi edilizi, tutela delle coste e dell’ambiente, valorizzazione della magica bellezza della nostra Penisola. La dimostrazione è ancora più evidente se si volge lo sguardo, pochi chilometri più in là, a un’area ugualmente preziosa, quella di Porto Cesareo, dove una politica e un’amministrazione certamente pigre e, forse, in qualche caso, anche conniventi hanno trasformato la costa in una selvaggia colata di cemento e in una ragnatela senza fine di scarichi abusivi. Se poi si allarga l’obiettivo sull’intero territorio nazionale si scopre che, proprio a causa dell’assenza di un controllo amministrativo trasparente e rigoroso, un quinto della costa italiana è diventato una

lastra di asfalto e di cemento. 2 Renata Fonte è morta, eroicamente, perché è rimasta sola a combattere una battaglia che riguardava tutti. E l’isolamento, si sa, ti espone a critiche e rancori, trasformandoti in un bersaglio troppo facile da identificare e da abbattere. Un Paese civile, però, non dovrebbe avere bisogno di eroi, ma di uno sforzo collettivo in cui la parola «normalità» sia declinata dall’impegno civile di amministratori e cittadini per la difesa del bene comune.

La corruzione genera bruttezza… La domenica del 29 dicembre 1959 fu diversa dalle altre per i palermitani residenti nel quartiere Libertà-Croci, che per tutta la notte avevano dovuto lottare contro rumori e polvere. Nel percorrere il solito tragitto per andare a messa i cittadini ebbero la conferma del terribile sospetto che, con l’infittirsi delle tenebre, si era ingigantito nelle loro menti: davanti ai loro occhi apparve lo scenario spettrale di un edificio inghiottito dal nulla. Di Villa Deliella, infatti, restava solo un cumulo di macerie. Nel corso della notte era stata demolita dalle ruspe di incursori che stavano progettando una nuova Palermo ed erano decisi a rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione della loro personalissima e criminale idea di bellezza. Ma Villa Deliella, forse la più radiosa testimonianza del Liberty palermitano, non fu l’unica vittima della furia distruttrice. Tutta l’area «Libertà» fu rasa al suolo dall’avidità di chi aveva approvato varianti al piano regolatore tese a incrementare a dismisura le volumetrie edificabili. Una corsa contro il tempo, quella dei nuovi vandali, necessaria per eludere il vincolo di salvaguardia che il successivo 31 dicembre sarebbe scattato a tutela delle opere pregevoli. Quelle ruspe demolirono un’idea di città, il perno edilizio attorno a cui ruotava la vita di una borghesia affascinata da uno stile architettonico che combinava cifre neoclassiche, ardite soluzioni Art Nouveau e un sicilianissimo profumo Liberty. 3 Nella seconda metà degli anni Cinquanta, infatti, ha avuto inizio

quel «processo torbido e oscuro» che è stato battezzato «sacco di Palermo» e che ha sottratto alla città bellezza, storia, arte e cultura. 4 In pochissimo tempo, una selvaggia espansione edilizia trasformò la fisionomia di interi quartieri in un ricordo. Sotto gli assessorati ai Lavori pubblici di Salvo Lima e, poi, di Vito Ciancimino (quando il primo divenne sindaco) fu approvato il piano regolatore nelle due versioni provvisorie del 1956 e del 1959, a cui furono apportate centinaia di emendamenti nell’interesse di politici eccellenti e di potenti mafiosi, che furono autorizzati a costruire sulle macerie della città-giardino occupata da residenze Liberty di fine Ottocento. Innumerevoli ville e villini furono così rimpiazzati da palazzoni in cemento di dieci piani. 5 Delle oltre 4000 licenze edilizie rilasciate durante la gestione Ciancimino, 1600 figurarono intestate a sole tre persone: un pensionato, un muratore e un venditore di carbone, con tutta evidenza dei prestanome, il cui unico merito era di essere iscritti nell’albo dei soggetti autorizzati a costruire, stilato in base a un antico regolamento del 1889 che imponeva l’intervento, in sede di licenza edilizia, «di un capomastro od impresario capace ed abile». Nel 1962 fu approvato il piano regolatore definitivo, ma ormai era troppo tardi. Le licenze edilizie rilasciate sulla base della versione del 1959 avevano già sfregiato la città. Il sacco di Palermo poteva dirsi compiuto. All’epoca, in quella città, non ci fu un politico come Renata Fonte, disposto a dare la vita pur di impedire la corruzione del territorio frutto di uno scellerato patto tra mafia, politica e amministrazione. Accadde esattamente il contrario. I politici furono prontissimi, in quello che oggi appare un clima generale di omertà e di connivenza, a inchinarsi agli interessi di mafiosi e speculatori per distruggere il patrimonio edilizio cittadino. Molte delle licenze comunali furono infatti assegnate, direttamente o indirettamente, a un pugno di imprese edili affiliate o contigue a Cosa Nostra. 6 Una rappresentazione assai potente del perverso intreccio fra speculazione edilizia, corruzione e associazioni di stampo mafioso (in questo caso la camorra) è offerta dal regista Francesco Rosi nel film Le mani sulla città, premiato nel 1963 con il Leone d’oro alla Mostra

internazionale d’arte cinematografica di Venezia. La pellicola, attraverso la figura emblematica del costruttore edile e consigliere comunale Edoardo Nottola, ci consegna uno spaccato di un’Italia postbellica in cui le energie positive del boom economico sono vanificate dalle dinamiche collusive fra interessi politici, economici e privati. Dalle parole del protagonista comprendiamo cos’è, in questo contesto, la «speculazione edilizia»: un’azione di cementificazione contro natura di un territorio destinato ad altri scopi, resa possibile da amministratori disposti – per assecondare le richieste di imprenditori e mafiosi pronti a pagare tangenti, ad assicurare voti e a garantire altri vantaggi – ad approvare piani regolatori e varianti agli strumenti urbanistici al solo scopo di rendere edificabili aree comprate a due soldi come terreni agricoli dagli speculatori. «Lo so che la città sta là e da quella parte sta andando perché sul piano regolatore così è stabilito, ma è proprio per questo che noi da là la dobbiamo far arrivare qua … La città va in là? E questa è zona agricola. E quanto la puoi pagare oggi? 300, 500, 1000 lire al metro quadrato. Ma domani questa terra, questo stesso metro quadrato, ne può valere 60, 70.000, e pure di più. Tutto dipende da noi. Il 5000 per cento di profitto. Eccolo là. Quello è l’oro oggi.» Quest’opera di impegno civile e denuncia dimostra, per usare le parole dello stesso Rosi, recentemente scomparso, che «l’aspetto negativo della speculazione immobiliare non consiste soltanto nella distruzione della città e nell’aspetto caotico che essa assume, ma anche nella distruzione di una cultura a vantaggio di un’altra in cui l’uomo non trova più posto». Naturalmente, l’aggressione al territorio non è sempre e soltanto il frutto di infiltrazioni criminali nel tessuto amministrativo. Spesso c’è «solo» la corruzione, la vendita del bene pubblico agli interessi privati, il mercimonio. E talvolta neppure la corruzione penalmente rilevante, ma quella di cui abbiamo parlato nel primo capitolo, quella anche «morale» o «culturale», che comporta la distrazione, il disinteresse, l’omessa vigilanza, il favoritismo, la superficialità, l’ignoranza. Anche la società civile, del resto, ha le sue colpe, visto che la bellezza del

paesaggio e l’armonia del territorio sono beni di tutti. I responsabili non sono soltanto i mafiosi, gli imprenditori criminali e i politici corrotti. La responsabilità appartiene anche a noi, alla gente comune, ai cittadini che non vedono o fingono di non vedere, che si arrendono e sono colpevoli di connivenza e di rassegnazione. Di fronte a chi stupra il territorio, la natura e la cultura, non c’è una comunità di vittime innocenti ma, in molti casi, una moltitudine di complici. Basti pensare al silenzio di troppi di fronte agli ecomostri, «misfatti ecologici esemplari» che deturpano l’ambiente e sono spesso essi stessi figli della corruzione e comunque sintomi del disprezzo per la bellezza. Come per esempio l’hotel Fuenti, divenuto il triste emblema dei mille casi di abusivismo edilizio nel nostro Paese, costruito nel 1971 nei pressi di Vietri, sulla Costiera amalfitana, in totale spregio di ogni vincolo paesaggistico. Una struttura ciclopica (7 piani, 150 metri di lunghezza per 34.000 metri cubi di cemento), la cui costruzione aveva messo a rischio l’integrità stessa della scogliera, e che, grazie all’iniziativa di un combattivo comitato di protesta, è stata parzialmente abbattuta. Un esempio a parte è la cementificazione della Valle dei Templi, in Sicilia, che ha distrutto, a dispetto dei vincoli archeologici di inedificabilità assoluta, uno dei patrimoni dell’umanità censiti dall’Unesco. E così, la terra che vide il mirabile connubio tra la filosofia e l’arte dell’antica Grecia non solo dimentica il valore universale della bellezza, ma offre anche un clamoroso esempio di corruzione, ignoranza, connivenza, mancanza di rispetto della legge e della morale.

… e semina morte «Quel 9 ottobre 1963 gli abitanti della valle del Vajont erano tutti in casa per la cena. Molti davanti al televisore per assistere all’incontro di Coppa dei Campioni Real Madrid - Glasgow Rangers. Altri dormivano, altri ancora si trovavano al cinema a Belluno. Intorno alle 22.30, Giancarlo Rittmeyer, quella notte di guardia alla diga, chiama

l’ingegnere Biadene, rappresentante della Sade [Società adriatica per l’energia elettrica, la ditta costruttrice della diga]. Comunica che la montagna sta cedendo a vista d’occhio. Chiede istruzioni. Biadene cerca di calmarlo, ma lo esorta a “dormire con un occhio solo”. Nella telefonata, si intromette la centralinista di Longarone, chiedendo se ci sia pericolo anche per quel centro. Biadene le risponde di non preoccuparsi e le augura di “dormire bene”.» 7 Alle 22.39 la montagna cede di schianto, un’immane massa d’acqua di 200 metri d’altezza scavalca la diga e si abbatte con furia cieca sui paesi di Longarone, Erto e Casso. Una valanga di fango e detriti travolge gli abitanti della valle. Il bilancio finale è catastrofico: 2000 vittime. 8 Il disastro del Vajont è la storia di una tragedia annunciata. La diga era stata voluta dal conte Giuseppe Volpi di Misurata, ex ministro del regime fascista e presidente della Sade, un colossale monopolio elettrico. Già nel 1925 un primo progetto era stato bocciato dai tecnici, impauriti dal rischio di crollo dei monti Toc e Duranno che dominano il torrente Vajont. Nel 1940 vennero effettuati nuovi sopralluoghi dal geologo Giorgio Dal Piaz e dal progettista Carlo Semenza, che ritennero la valle del Vajont il luogo ideale per costruire la diga più alta d’Italia. La realizzazione ebbe inizio nel 1956, nonostante la netta opposizione dei comuni interessati e le forti perplessità degli organi di controllo; e, quel che è peggio, in mancanza dell’effettiva autorizzazione ministeriale. In seguito ad alcune scosse sismiche registrate nel corso dei lavori, e sulla base di ulteriori rilievi geologici, la Sade riscontrò il concreto rischio di slittamento del terreno verso il bacino artificiale ma, misteriosamente, nessuno ne venne informato. Il 4 novembre 1960 si verificò la prima frana: 700.000 metri cubi di terra e roccia precipitarono nell’invaso. Nemmeno questo assordante segnale d’allarme fu ascoltato: si proseguì e si decise di correre il rischio annunciato. Così la diga, alta 261 metri a doppia armatura, divenne realtà. Fino alla tragica sera del 9 ottobre 1963. Nella tragedia del Vajont non sono stati accertati fatti penalmente rilevanti di corruzione, ma essa sembra incarnare la storia di interessi

economici e politici che, sull’altare di calcoli cinici ed egoistici, non esitano a sacrificare la sicurezza e la vita di un’intera popolazione. È la storia di un’imprenditoria senza regole, di una politica miope, di un’amministrazione connivente. È la storia di una cieca violenza ai danni della natura, di una gestione dissennata del territorio e dell’ambiente.

L’Italia è meravigliosa, ma fragile La corruzione nel senso sopra indicato non genera solo ecomostri, scempi edilizi e diseconomie, ma anche morte. L’Italia è tra i primi Paesi al mondo per perdite umane causate da catastrofi naturali che hanno cancellato città costruite all’insegna di abusi, malaffare, connivenze e criminalità. Dall’Unità d’Italia a oggi, le vittime di terremoti o alluvioni sono state 200.000, mentre dal secondo dopoguerra ai nostri giorni sono stati spesi fiumi di denaro per risarcimenti e ricostruzioni. 9 Nel solo 2014, per esempio, si sono registrate catastrofi in 220 comuni di 19 regioni, che hanno provocato morti, feriti e sfollati. L’Italia è un Paese di incomparabile bellezza e accoglie in sé buona parte degli habitat e degli ecosistemi del pianeta, 10 ma anche estremamente fragile sotto il profilo idrogeologico e ad alto rischio sismico. L’ennesima conferma si è avuta alle 3.36 del mattino del 24 agosto 2016 quando un terremoto di magnitudo 6.0 si è abbattuto su Lazio, Marche e Umbria, con epicentro lungo la valle del Sangro, cancellando la città di Amatrice e causando la morte di circa 300 persone. E due mesi dopo, tra fine ottobre e inizio novembre, con la devastante replica in Umbria e Marche dove scosse sismiche di inaudita violenza (con un picco di magnitudo 6.5 a Norcia, in provincia di Perugia), pur non provocando vittime, hanno causato migliaia di crolli in decine e decine di comuni, oltre che ingenti danni al sistema produttivo e al patrimonio artistico locale. E, per finire, il 18 gennaio 2017, alle ore 17.40, a Rigopiano, alle pendici del Gran Sasso, l’azione combinata delle ripetute scosse telluriche e di nevicate senza

precedenti ha causato una valanga che, a sua volta, ha spazzato via un lussuoso albergo costruito in zona a rischio, cancellando 29 vite umane, mentre 11 persone venivano tratte in salvo dall’azione eroica dei soccorritori. 11 Il primo evento sismico del mondo di cui si ha adeguata conoscenza è quello del 3 gennaio 1117, nove secoli fa, nella Pianura Padana. «Fu un terremoto assai terribile. Per cui crollarono molte chiese coi campanili, e innumerevoli case e torri e castelli e moltissimi edifici, sia antichi che nuovi; per il quale anche i monti con le rupi crollarono e devastarono e in molti luoghi la terra si aprì ed emanava acque solfuree…» Così la cronaca degli Annales Venetici breves registra il terribile sisma, con i suoi 9 gradi della scala Mercalli e i suoi 6.5 di magnitudo. «Per due volte tra il giorno e la notte avvenne un terremoto tanto terribile che gli uomini aspettavano su di sé il manifesto giudizio di Dio» si legge negli Annales Sancti Disibodi. «E all’improvviso, per le spaccature della terra, crollarono città, castelli, ville, con gli uomini che ivi indugiavano. Infatti, anche i monti furono spaccati e i fiumi, la terra inghiottente, si essiccarono, tanto che chi voleva poteva attraversarli a piedi.» Fu il più devastante terremoto nella storia dell’Italia settentrionale. 12 Dal Medioevo a oggi sono stati registrati circa 5000 crolli di edifici di paesi e centri urbani, fra cui quelli di 40 città con una popolazione compresa fra i 30.000 e 1 milione di abitanti, più volte distrutte e più volte ricostruite senza alcun criterio antisismico. Dal 1860 si è verificato in media un terremoto ogni 4-5 anni e i 43 più devastanti hanno provocato oltre 164.000 vittime (quasi 1000 morti all’anno). Circa 150.000 persone sono rimaste sepolte sotto le macerie di due terremoti, quello del 1908 di Messina e quello sulle montagne abruzzesi di Avezzano del 1915. 13 Il terremoto dell’Aquila del 2009 costituisce, come dimostrato dalle successive vicende giudiziarie, un caso drammaticamente emblematico, in cui convivono disastro ambientale, malaffare e corruzione. La distruzione di interi centri abitati, favorita da edifici e strutture edilizie realizzati in spregio alle norme antisismiche e dal mancato adeguamento dell’«edificato storico» alle sopravvenute

norme di tutela, è stata l’occasione per speculazioni illecite sulla ricostruzione attraverso affidamenti senza gara o appalti pilotati da amministratori disposti a favorire «imprese amiche». 14 I recenti terremoti dell’estate, dell’autunno 2016 e del gennaio 2017 sono anch’essi fonte di due pericoli, tutti italiani: la mafia che se ne può approfittare, infiltrandosi nella ricostruzione, e gli appetiti smisurati degli speculatori, favoriti dall’assenza o dalla complicità delle istituzioni. Per questa ragione Parlamento e governo hanno ritenuto necessario applicare anche agli appalti che si faranno il «modello Expo», assegnando agli organi di controllo deputati il delicato compito di una rigorosa vigilanza, volta a garantire trasparenza e legalità. Come sempre, le catastrofi naturali che colpiscono la nostra Penisola portano a galla due Italie inconciliabili: quella dei volontari che arrivano da ogni angolo del Paese e scavano fino allo sfinimento, in una magnifica e virtuosa gara di solidarietà, e quella delle speculazioni, delle corruzioni e degli abusi di potere. E se è vero, come disse il presidente Sandro Pertini dopo il terremoto in Irpinia del 1980, che il miglior modo di ricordare i morti è pensare ai vivi, nella prossima opera di ricostruzione la scommessa sarà far vincere la prima Italia e sconfiggere la seconda. Più in generale, quello che serve è un diverso approccio culturale. Nei giorni successivi a uno degli ultimi terremoti papa Francesco ha pronunciato parole forti, che devono far riflettere: «Terremoti e vulcani hanno costruito il mondo, e in particolare i luoghi emersi dalle acque. Invitiamo tutti a un esame di coscienza al fine di confessare i nostri peccati contro il Creatore, contro il Creato, contro i nostri fratelli e le nostre sorelle, perché quando maltrattiamo la natura maltrattiamo anche gli esseri umani e in particolare i più indifesi, che sono i poveri». La natura non è nostra nemica, ma nostra madre. È necessario quindi trattarla con cura, evitando di considerarla un giardino al nostro servizio, da piegare ai nostri interessi trascurando le sue esigenze. We are what we live, dicono gli americani. Noi siamo il pianeta che ci ospita. Se lo usiamo in modo improprio, violentandolo

con edificazioni incontrollate e sfregi di ogni genere, finiamo per distruggere noi stessi. 15 La bellezza del nostro Paese è, dunque, a rischio. È una bellezza alla quale troppi di noi si sono assuefatti e che, invece, dobbiamo ricominciare a difendere. Altrimenti rischiamo di rivelarci «eredi indegni» di un patrimonio che non appartiene soltanto a noi, ma all’intera umanità. 16 I responsabili delle stragi provocate dai terremoti e da altre catastrofi non sono identificabili soltanto negli eventi naturali, ma spesso hanno altri nomi e cognomi. È il cemento a presa rapida colato in siti fragili, come le coste marittime, i piedi delle montagne, i fianchi dei vulcani, le zone in prossimità di corsi d’acqua inquieti e turbolenti. È la manomissione dell’ambiente che ha rimosso ogni argine a frane, alluvioni, esondazioni e altri fenomeni disastrosi. 17 È la miopia di amministratori, politici e imprenditori pronti a sacrificare il futuro delle giovani generazioni a calcoli elettorali ed economici che si traducono in ecomafie, abusi edilizi, condoni tombali e normative suicide. 18 È il mancato rispetto delle norme antisismiche in zone esposte al rischio di fenomeni tellurici, con colossali lottizzazioni realizzate senza o contro il parere di un geologo, e con l’edificazione di città pronte a crollare come castelli di carta alla prima scossa. 19 È la mancanza di una cultura dell’informazione 20 e della prevenzione proprio nel Paese dei terremoti, in cui 24 milioni di italiani, il 40% della popolazione, vive in 4,7 milioni di edifici a elevato rischio sismico, di cui 2,1 realizzati prima del 1971, quando ancora non esisteva nessuna norma antisismica. 21 È la costante gestione del problema del dissesto idrogeologico con la logica dei «poteri straordinari» e delle «deroghe», senza un’ordinata e ordinaria programmazione, 22 una disciplina rigorosa, controlli «veri» e rigorosi. 23 È un Paese abituato agli abusi e ai condoni, incapace di ordinare la demolizione di edifici non solo costruiti abusivamente, ma pericolosi. 24

È uno Stato che spende fiumi di denaro per gestire le emergenze, e che si sarebbero potuti risparmiare con un adeguato investimento in difesa del suolo. 25 È la cultura della «speculazione edilizia» di cui parlava Italo Calvino già nel 1957, una cementificazione parossistica e disordinata, un impasto di ignoranza, consumismo e affarismo. È la corruzione di una politica e di una burocrazia che tollerano gli abusi, li ignora, non li reprime. È una rete di complicità tra clan, costruttori, uffici tecnici comunali e politici locali. È un settore edilizio permeabile alle illecite interferenze della criminalità organizzata, a causa dell’inerzia se non dell’acquiescenza, dell’amministrazione pubblica. È la pigrizia dei cittadini, che si affidano all’azione pubblica, senza mettere in campo gli interventi privati volti alla «protezione civile individuale». È il colpevole disinteresse verso noi stessi, visto che, come ricorda Gandhi, «un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare sé stesso». È un’Italia troppo spesso capace solo di lamentarsi e sbraitare, senza neanche provare a fare la sua parte. 26

La terra dei fuochi e l’ecocidio perfetto Roberto Mancini era un poliziotto. È morto il 30 aprile 2014, lasciando la moglie e una figlia, ucciso da un tumore, diagnosticato mentre stava conducendo le indagini sullo smaltimento dei rifiuti tossici in Campania. È diventato un eroe, suo malgrado. Lui avrebbe voluto essere un semplice uomo delle istituzioni, ma un Paese distratto ha purtroppo bisogno di eroi che si carichino sulle spalle i problemi e i silenzi di tutti. La storia di Roberto Mancini è la storia di una lotta «impossibile» contro quell’intreccio di mafia, camorra, massoneria e politica che, a partire dagli anni Novanta del secolo scorso, ha avvelenato la «terra

dei fuochi», un’area di 1076 km² tra Caserta e Napoli, con 57 Comuni e 2,5 milioni di abitanti. Mancini era entrato in polizia nel 1980. Nel 1994 iniziò a indagare sui Casalesi, venendo così in contatto con l’ecomafia. Grazie a un manipolo di valorosi colleghi, condusse le sue indagini sull’avvelenamento del territorio, nell’incredulità generale di quanti non avevano alcun sospetto del disastro ambientale causato dai rifiuti tossici sepolti nel terreno su cui milioni di persone camminavano ogni giorno. 27 Il poliziotto scavò nella terra a mani nude, fino a portare alla luce corsi d’acqua inquinati da scorie di ogni tipo. Le sue sconvolgenti scoperte furono esposte nel 1996 in un’informativa di diverse centinaia di pagine, ignorata per molti anni dai superiori e, purtroppo, anche dall’autorità giudiziaria. Forse era presto, la gente non era ancora pronta, le istituzioni neanche; in molti, anche fra i cittadini comuni, avevano visto nel traffico dei rifiuti un affare e sottovalutato le conseguenze devastanti. Dopo oltre dieci anni il pubblico ministero Alessandro Milita riconobbe la giusta importanza al lavoro di Mancini, a quel rapporto rimasto per un tempo infinito in un cassetto. Il poliziotto fu chiamato a testimoniare nel processo per disastro ambientale e inquinamento delle falde acquifere in Campania. Cominciò una seconda vita. Ma era troppo tardi. La sua sorte era già segnata dal tumore diagnosticato nel 2002: l’uomo non poté nemmeno assistere alla condanna di quell’imprenditore casertano, da molti identificato come uno degli inventori delle ecomafie. 28 Quest’ultimo è diventato un neologismo di successo coniato, come «ecomostro», da Legambiente per indicare organizzazioni criminali di tipo mafioso che, con la complicità o il tacito assenso dell’amministrazione pubblica e della politica, hanno scelto come nuovo grande business il traffico e lo smaltimento illecito dei rifiuti, 29 oltre che l’abusivismo edilizio, l’incendio boschivo, i furti di opere d’arte, e le attività di escavazione, e che lucrano enormi profitti arrecando danni all’ambiente e alla salute della collettività. Secondo il rapporto Ecomafia 2016 di Legambiente, nel 2015 sono stati 27.745 i reati accertati, con 188 arresti e 7055 sequestri, per un giro d’affari

superiore ai 19 miliardi di euro. 30

La difesa del territorio tra repressione, prevenzione e trasparenza Negli ultimi anni la sensibilità sociale e politica sui temi della speculazione edilizia selvaggia, dell’ecocriminalità e della «corruzione» ambientale è cresciuta in modo significativo, benché forse ancora insufficiente. Il nostro Paese si è dotato già da tempo di leggi molto più severe (per esempio, le leggi Galasso del 1985) che renderebbero assai più difficili «sacchi del territorio» come alcuni di quelli descritti nelle pagine precedenti. Forse si è arrivati troppo tardi e comunque non si è riusciti ancora del tutto a bloccare il malaffare speculativo sul territorio. La corruzione, infatti, continua, come dimostrato da tante indagini giudiziarie, l’opera distruttiva dell’ambiente, sotto forma di tangenti e di altre utilità intascate da politici e amministratori per adottare strumenti urbanistici di favore, rilasciare titoli edilizi illegittimi, accelerare il corso delle pratiche, chiudere un occhio su abusi grandi e piccoli, non eseguire le ordinanze di demolizione. Non è certo, però, l’unica causa: le farraginose normative, a cui si aggiungono poco comprensibili regolamenti locali, una burocrazia lenta e in molti casi distratta o disinteressata, e la sottovalutazione culturale di chi continua a pensare che distruggere l’ambiente tutto sommato sia un peccato veniale hanno una parte non irrilevante in ciò che è avvenuto e ancora avviene. In questa prospettiva è certamente da salutare con favore l’approvazione della legge 68/2015 sugli ecoreati. Tale provvedimento legislativo ha introdotto nel codice penale cinque «nuovi delitti» contro l’ambiente (inquinamento ambientale, disastro ambientale, traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività, impedimento del controllo e omessa bonifica) e specifiche aggravanti (nel caso di commissione in forma associativa dei nuovi delitti contro l’ambiente),

ma anche riduzioni di pena per chi ripristina lo stato dei luoghi. Si tratta di un importantissimo strumento di contrasto che consentirà alle inchieste giudiziarie di intervenire più energicamente contro il connubio fra corruzione amministrativa e speculazione edilizia. Ma la repressione, pur necessaria, non potrà mai da sola bastare, dovendo essere integrata dalla prevenzione sociale, che richiede una cittadinanza pronta a reagire, con la denuncia e la mobilitazione, a ogni sfregio all’ambiente e al paesaggio, che è anche irrimediabilmente un furto commesso ai danni di ognuno di noi. In questa prospettiva, le campagne di sensibilizzazione – anche culturali – sono indispensabili, ma fondamentale è soprattutto un diverso approccio da parte dell’amministrazione pubblica, capace di mettere in campo procedure partecipate, atti motivati, tempi precisi e, soprattutto, massima trasparenza, che è la condizione indispensabile per trasformare la Pubblica Amministrazione da luogo oscuro in «casa di vetro» e il potere amministrativo da meccanismo segreto in «funzione conoscibile, controllabile e trasparente». Su questo argomento torneremo spesso nelle pagine che seguono.

III

Dalla corruzione nelle opere pubbliche alle opere pubbliche finalizzate alla corruzione Cristo si è fermato a Eboli… per non prendere la Salerno - Reggio Calabria. ANDREA CAMILLERI

Tangenti, donne e stellette Il tenente di vascello Francesca Mola, capo dell’Ufficio contratti della Marina militare di Taranto, è il primo ufficiale donna della storia d’Italia a essere arrestato, nel settembre 2016, per una storia di mazzette. È accusata, fra l’altro, di aver pilotato – insieme al suo superiore Giovanni Di Guardo, capo della Direzione di Commissariato della Marina militare (Maricommi) – l’aggiudicazione, in favore di un’impresa «amica», della gara d’appalto per il servizio di pulizia e sanificazione nelle sedi della Marina militare di Taranto e Napoli. Nell’ordinanza applicativa della misura di custodia cautelare in carcere, il giudice per le indagini preliminari osserva che i due militari hanno dovuto superare un ostacolo di non poco conto: l’offerta di gran lunga superiore sul piano qualitativo presentata dal concorrente rivale. Geniale la soluzione: consegnarla all’imprenditore favorito affinché la copiasse e vi apportasse le migliorie necessarie per aggiudicarsi l’appalto. Ci ha pensato il tenente Mola ad allegarla alla prima proposta, in calce alla quale già figuravano le firme degli altri componenti della commissione. Nel testo dell’ordinanza si rileva che «l’arresto costituisce soltanto un “momento” nell’ambito di una più complessa indagine, dalla quale sono già emersi elementi di prova circa la partecipazione degli indagati ad una vera e propria struttura associativa in grado di “pilotare” numerosi appalti». Non è un caso isolato, quindi. In precedenza erano già stati disposti altri 11 arresti per le «tangenti della Marina militare», di cui 8 a carico di militari e 3 ai danni di impiegati civili. Nel marzo 2014 era stato arrestato in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto Lagioia, comandante del 5° reparto di Maricommi,

sorpreso con in tasca una mazzetta di 2000 euro. L’indagato aveva poi collaborato con gli inquirenti, smascherando il «sistema 10 per cento», così definito dagli investigatori perché da anni, nella Marina militare tarantina, chiunque si aggiudicasse un appalto doveva lasciare il 10% di pizzo, imposto dai militari «in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, come fa la malavita organizzata». Dopo lo scandalo era stato inviato a Taranto, con l’incarico di «fare chiarezza e trasparenza», proprio Giovanni Di Guardo, lo stesso ufficiale scoperto con una mazzetta da 2500 euro, acconto di una tangente da 200.000, e arrestato insieme a Francesca Mola e ad altri presunti corresponsabili. Le indagini in corso tratteggiano un quadro desolante in cui, secondo i giudici, uomini e donne con la prestigiosa uniforme della Marina militare imponevano il pizzo agli imprenditori, alla stregua della criminalità organizzata. Le inchieste, per usare le parole degli inquirenti, «rivelano fatti di concussione continuata di notevolissima gravità, in quanto posti in essere nel corso degli anni, in modo sistematico diffuso, con ferrea determinazione a delinquere, nei confronti di tutti gli imprenditori assegnatari di appalti di servizi e forniture, con conseguenti gravi ripercussioni di carattere sociale ed economico sui destini delle singole aziende». A colpire è il fatto che il terremoto investa, al tempo stesso, le forze armate e il sesso femminile, due «istituzioni» che incarnano, nell’immaginario collettivo, i concetti di rigore e di onestà. Se ha violato santuari intangibili, è segno che la corruzione nel mondo degli appalti ha cambiato pelle e si è sensibilmente trasformata.

I numeri di un fenomeno che ha superato il livello di guardia Secondo il rapporto della Commissione europea sulla corruzione in Italia, presentato il 3 febbraio 2013, gli italiani considerano la corruzione un fenomeno particolarmente diffuso negli appalti pubblici. Gli intervistati ritengono, infatti, che le gare d’appalto pubbliche

siano inquinate dalle seguenti pratiche: opacità dei criteri di selezione o di valutazione (55%); conflitto di interessi nella valutazione delle offerte (54%); abuso della motivazione d’urgenza per evitare gare competitive (53%); capitolati su misura per favorire determinate imprese (52%); partecipazione degli offerenti nella stesura del capitolato (52%); abuso di procedure negoziate (50%); offerte concordate (45%); modifica dei termini contrattuali dopo la stipula del contratto (38%). Istituti come il subappalto, l’avvalimento, le associazioni temporanee, i consorzi, la cooptazione e l’aggregazione, nati per incentivare la collaborazione fra operatori economici, stimolare la specializzazione e agevolare le piccole e medie imprese per evitare posizioni dominanti di oligopolio, sono vissuti come un freno all’effettiva concorrenza a vantaggio dell’impresa più forte o, persino, strumenti per favorire l’infiltrazione mafiosa. Anche nella Relazione annuale al Parlamento dell’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), presentata nel luglio 2016, si evidenziano numerose anomalie e criticità nell’esecuzione delle grandi opere e nel sistema degli appalti e ben oltre 3000 segnalazioni di irregolarità pervenute all’Autorità nell’anno precedente. 1 A conclusioni analoghe giungono anche la Corte dei Conti, che denuncia «una lievitazione strisciante e straordinaria che colpisce i costi delle grandi opere, calcolata attorno al 40%», e il rapporto anticorruzione della Guardia di Finanza del 2014, secondo cui oltre il 30% degli appalti controllati e monitorati sono stati assegnati illecitamente, per un valore complessivo di 1,8 miliardi di euro su un totale di 4,6. 2 I recenti scandali corruttivi saliti alla ribalta nazionale riguardano in massima parte vicende connesse ad appalti in cui sono emerse vere e proprie reti criminali che gestivano le commesse pubbliche. È questo, quindi, il settore oggettivamente più inquinato dalla corruzione, anche perché attraverso di esso si movimentano somme enormi; gli appalti, infatti, rappresentano una quota molto consistente dei flussi commerciali mondiali e una parte significativa delle economie nazionali; nell’Unione europea, l’acquisto pubblico di beni è

stimato attorno al 16% del Pil! Ed è in questo settore che il malaffare si è trasformato maggiormente, ha cambiato veste, è divenuto un male sempre più virulento e aggressivo che, spesso, nemmeno il timore di arresti o di indagini penali riesce ad arginare. Una riprova di tale fatto si rinviene in una vicenda apparentemente minore: nel settembre 2015 gli echi delle eclatanti indagini giudiziarie sulla cosiddetta «Mafia Capitale» (di cui si dirà più avanti) non si erano ancora spenti, quando un funzionario del Comune di Roma viene colto in flagranza mentre si sta facendo consegnare una non certo ingente somma di denaro (2000 euro) da un imprenditore, che aveva anche partecipato ad alcune gare per lavori del Comune e stava provando ad aggiudicarsi quelle connesse al Giubileo. 3 In un momento in cui tutti i riflettori, anche mediatici, erano accesi sul Comune di Roma, quel funzionario non aveva avuto nessuna remora a farsi consegnare una mazzetta per strada! E del resto non sfugge quanto sia pericolosa la corruzione in questo ambito; nessuno potrebbe ragionevolmente sostenere che gli incidenti provocati dalla mancanza o dall’inadeguatezza delle opere pubbliche (come per esempio il disastro ferroviario accaduto in Puglia il 12 luglio 2016, che è costato la vita a 23 persone!) siano imputabili in via esclusiva alla corruzione; dietro simili tragedie c’è, ovviamente, una nutrita serie di concause: errori umani, circostanze imponderabili, casualità, burocrazia, ma esse sono anche conseguenza di un problema atavico del nostro Paese: la difficoltà di realizzare infrastrutture adeguate, difficoltà che dipende anche dal malaffare, che sottrae alle casse dello Stato persino le risorse necessarie per effettuare interventi ormai non più differibili per la vita, per la salute e per i bisogni primari di tutti gli italiani. Cerchiamo di capire quali sono i principali elementi di novità.

Dalla corruzione episodica al sistema corruttivo

Il nuovo assetto della corruzione nel mondo degli appalti pubblici si connota, in particolare, sempre più spesso, come un rapporto stabile di cointeressenza fra imprese desiderose di ottenere gli appalti e servitori pubblici infedeli; non quindi la mazzetta per ottenere una singola commessa, ma un legame stabile tra comitati d’affari e amministratori corruttibili. Lo attesta, con la forza dell’evidenza, una duplice circostanza: da un lato, in molte delle più recenti indagini si contesta anche il delitto di associazione per delinquere, ai sensi dell’articolo 416 c.p. (se non quella mafiosa ex art. 416 bis c.p.), a dimostrazione della fioritura di organizzazioni che vedono nella corruzione il veicolo per il perseguimento di un duraturo disegno criminoso degli associati; 4 dall’altro, è fortemente regredita la fattispecie della concussione (reato con il quale il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio costringe o induce taluno a dare o a promettere indebitamente), a dimostrazione del fatto che, nella nuova fisionomia dei rapporti illeciti fra imprenditori e amministratori, non ci sono burocrati carnefici e attori economici vittime, ma parti di un unico disegno collaborativo, spesso sodali di una vera e propria associazione criminale. Il politico o il funzionario viene spesso corrotto all’origine, e la sua elezione o nomina è geneticamente funzionale al perseguimento dei disegni degli imprenditori destinati a lucrare sugli appalti pubblici. Viene meno, quindi, la diversità delle parti e dei ruoli, sostituita dall’adesione a un’unica organizzazione illecita. Corruttori e corrotti non sono più parti contrapposte di un rapporto negoziale, ma protagonisti di un unico progetto che non si concentra in un unico atto, ma assume spesso i caratteri di un programma indeterminato in cui si mischiano lecito e illecito. 5 La burocrazia e la politica – un tempo egemoni negli intrecci corruttivi – sono di fatto diventate subalterne ai poteri economici, non di rado affiancati da forze della criminalità comune e organizzata; gli amministratori dipendono economicamente dagli imprenditori e, non di rado, delegano agli stessi la redazione di bandi e atti di gara utili per conseguire la vittoria, oltre alla redazione di atti di controllo e contabili. 6

Il giudice per le indagini preliminari del caso Mose – inchiesta che ha portato a 35 arresti, a 100 iscrizioni sul registro degli indagati e al sequestro di beni per un valore superiore ai 40 milioni di euro – scrive, al riguardo, che «il meccanismo arriva al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori, senza che sia possibile individuare sempre il singolo atto specifico contrario ai doveri d’ufficio». 7 Racconta Piergiorgio Baita, imprenditore che ha vissuto in prima persona la vicenda del Mose – opera dalla vita ormai trentennale che ha visto raddoppiare i costi dai previsti 5000 miliardi di lire a oltre 5 miliardi di euro 8 –, che il sistema si fondava sullo stretto rapporto fra i rappresentanti del Consorzio Venezia Nuova e il mondo politico: la politica romana doveva garantire il necessario flusso di finanziamenti, mentre quella locale era chiamata ad assicurare il tempestivo rilascio, previe opportune trattative, della pletora di autorizzazioni (regionali, provinciali e comunali) necessarie per la realizzazione delle opere. 9 Risultato: un impatto corruttivo pari a 1 miliardo di euro sui 5 erogati per la realizzazione delle dighe mobili, una percentuale del 20%, ben superiore al 2-3% dei tempi di «Tangentopoli». 10 Consequenziale a questa logica spartitoria e consociativa è l’avvento di nuove modalità di pagamento. Nasce infatti la figura, pressoché inedita, del burocrate dipendente dell’amministrazione pubblica stipendiato stabilmente da un privato per il servizio in suo favore. La mazzetta tradizionale è sostituita dall’assunzione dei funzionari disonesti a libro paga, anche a prescindere dal compimento di atti specifici. Lo stipendio è un investimento per il futuro e, come tale, sganciato dall’immediata contropartita illecita da parte del pubblico ufficiale. Nell’ambito dell’inchiesta «Mafia Capitale», nell’atto di accusa della Procura di Roma si parla del capo segreteria di un politico pagato 1000 euro al mese, 11 di funzionari che da tre anni percepiscono 3000 o 5000 euro al mese, di un dirigente che riceve una paga mensile di 7500 euro al mese, di un assessore retribuito con 10.000 euro al mese. 12 Non mancano neanche i bonus per i risultati raggiunti, in termini di appalti aggiudicati e di nuovi contatti politici procurati. 13

Le mazzette non sono più nemmeno necessariamente pecuniarie, ma prendono la forma di beni di tutti i generi e di ogni valore: auto sportive, barche di lusso, ville con piscina, notti hard con prostitute d’alto bordo, frequentazione di costosissimi alberghi, feste di compleanno, voli in business class, elettrodomestici, lavori di ristrutturazione, biglietti di teatro, prosciutti, pesce fresco, mozzarelle di bufala, casse di frutta, cesti natalizi, stoviglie per un ristorante, persino interventi per la manutenzione della caldaia. 14 Inoltre, si registra la «smaterializzazione delle tangenti», vale a dire il passaggio all’«economia dei favori»: dalla tangente per il lavoro si arriva al lavoro come tangente. L’ormai antiquata valigetta colma di banconote è sostituita dall’assunzione di figli, parenti e amici dei funzionari collusi, dal conferimento di incarichi professionali e di consulenze all’amministratore corrotto, da sostegni di vario tipo nella campagna elettorale e nell’azione politica del pubblico amministratore vicino, dall’intestazione di quote di società ai parenti dei politici e dall’invenzione di complessi meccanismi finanziari di favore, oltre che da una ragnatela di piaceri, appoggi, intrecci e conoscenze utili per le carriere di politici e imprenditori. 15

Lo sviluppo dei cartelli illegali In questo quadro ramificato ed endemico accade non di rado che le singole imprese non agiscano in concorrenza tra loro, ma si associno per gestire in modo più efficiente il meccanismo grazie alla complicità del funzionario o amministratore corrotto o compiacente. Si assiste così, con sempre maggiore frequenza, alla creazione di cartelli, con la partecipazione attiva di amministratori e imprenditori (e non di rado anche di esponenti della criminalità organizzata) che si spartiscono la torta delle commesse pubbliche predeterminando sistematicamente gli esiti delle gare d’appalto. Proprio sul tema nevralgico dei cartelli è intervenuta nel 2013 l’Autorità Antitrust con un vademecum, allo scopo di aiutare le stazioni appaltanti a «riconoscere le anomalie anticoncorrenziali nelle

gare» e a «intensificare la lotta ai possibili cartelli tra aziende che partecipano alle gare». Si tratta di fenomeni che vanno combattuti con determinazione ed energia perché comportano una lievitazione dei costi di lavori o forniture e, dunque, un danno diretto per l’intera collettività. L’Antitrust suggerisce innanzitutto di valutare il contesto. I cartelli si costituiscono con maggiore frequenza e facilità quando i mercati interessati presentano le seguenti caratteristiche: pochi concorrenti, o concorrenti di efficienza e dimensione analoghe; realizzazione di prodotti omogenei; perdurante partecipazione alle gare delle stesse imprese; ripartizione dell’appalto in più lotti di valore economico simile. All’interno di questa cornice generale, fra le condotte anomale, sintomatiche di un cartello illecito, occorre segnalare: 1) il boicottaggio della gara, finalizzato a prolungare il contratto con il fornitore abituale o a ripartire pro quota il lavoro o la fornitura fra tutte le imprese interessate; 16 2) le offerte di comodo, che nascondono l’innalzamento artificioso dei prezzi di aggiudicazione; 17 3) il ricorso a subappalti e ad Associazioni temporanee di imprese (Ati), strumenti utilizzati dai partecipanti alla gara per spartirsi il mercato o, addirittura, la singola commessa; 18 4) la rotazione delle offerte e ripartizione del mercato, laddove venga in luce una pratica spartitoria, evidenziata dalla successione temporale delle imprese aggiudicatarie o dalla ripartizione in lotti delle vincite; 5) modalità «sospette» di partecipazione all’asta, allorquando gli aderenti a un cartello presentino le domande di partecipazione all’asta con modalità tali da tradire la comune formulazione. 19 Naturalmente, i cartelli violano le norme sulla concorrenza, ma non integrano per forza casi di corruzione. Tuttavia, l’esperienza giudiziaria dimostra che dietro i cartelli spesso vi è un accordo o, addirittura, un’organizzazione che vede la presenza attiva di un rappresentante dell’amministrazione appaltante e, persino, di esponenti del mondo della criminalità organizzata. In ogni caso, il mancato contrasto dei suddetti fenomeni anticoncorrenziali favorisce la loro degenerazione in intese o associazioni di stampo delittuoso.

L’avvento del «facilitatore» Nel suo romanzo Il facilitatore, 20 Sergio Rizzo analizza una nuova figura che emerge naturalmente nelle dinamiche della nuova corruzione consociativa, basata sulle consulenze e sui favori, più che sulle classiche tangenti in denaro. Chi è il «facilitatore»? È colui che sta al centro di una fitta rete di conoscenze, interessi, legami che avvincono il potere legale a quello illegale, l’economia e la politica alle associazioni mafiose e ai poteri massonici. Il «professionista» deve portare ordine nella confusione, creando il collegamento tra chi ha il compito di decidere e chi deve attuare le decisioni, tra chi presenta un’istanza e chi la deve valutare. Per dirla con Rizzo, il suo ruolo è «far funzionare le cose, facendole scivolare lungo il binario giusto». Il facilitatore non è però un’invenzione letteraria, ma un operatore, a cavallo fra il grottesco e il drammatico, che compare sistematicamente nelle più importanti indagini sulla moderna corruzione, quale soggetto che deve agevolare i rapporti tra i diversi mondi che, nella moderna forma assunta dal fenomeno corruttivo, sono uniti da legami stabili e strutturati. Si è già osservato che, nel nuovo contesto, la tangente non è la remunerazione di uno specifico favore, ma una pratica diffusa e preventiva che vede il burocrate o il politico pronto a risolvere problemi, a sbloccare pratiche, ad «aiutare» a tutto tondo l’imprenditore amico nei rapporti con gli uffici della Pubblica Amministrazione. Insomma, non si vende l’atto, ma la funzione o qualità del pubblico ufficiale. Il giuramento di fedeltà allo Stato è tradito alla radice e, con esso, la dignità di chi l’ha prestato. La complessità delle trame e delle relazioni «istituzionali» richiede, quindi, la presenza di un soggetto dotato di un’ampia rete di amicizie e di conoscenze, in grado di intervenire nei procedimenti di formazione della volontà dell’amministrazione e di mettere in contatto politici, burocrati, imprenditori ed esponenti del mondo criminale. È, in definitiva, un «mediatore amministrativo», rigorosamente bipartisan, capace di raggiungere politici e amministratori, di aprire tutte le porte e di avere la meglio sugli infernali meccanismi della burocrazia. 21

Di questa figura riparleremo più avanti, individuando qualche caso concreto di soggetto che ha svolto questo ruolo.

La nuova corruzione: il caso «Mafia Capitale» La corruzione del Terzo millennio è, quindi, sostanzialmente diversa dalla corruzione novecentesca di «Tangentopoli»; lì i potenti si facevano pagare mazzette sugli appalti soprattutto per finanziare il sistema dei partiti e la loro attività politica; oggi la politica non è più il fine delle tangenti sulle commesse ma è spesso ancillare rispetto a comitati di affari, all’interno dei quali pullulano faccendieri di ogni risma e anche esponenti della criminalità. Esemplificazione emblematica di quanto si è detto è «Mafia Capitale» o «Mondo di Mezzo», etichette con cui viene identificata un’associazione per delinquere, che ha operato a Roma a partire dal 2000 e nella quale, da quanto emerge a oggi, ha svolto un ruolo di primo piano Massimo Carminati, persona legata all’estrema destra (considerato il capo dell’associazione), e di cui facevano parte imprenditori, politici, soprattutto ma non solo locali, manager di cooperative considerate per tanto tempo esemplari occasioni per il recupero di persone disagiate. Il gip (giudice per le indagini preliminari) ha accolto, con più provvedimenti emessi nel corso del tempo, gran parte delle richieste della Procura della Repubblica di Roma – che, guidata da un magistrato di grande esperienza e rigore, Giuseppe Pignatone, ha fatto definitivamente dimenticare l’appellativo di Porto delle Nebbie – e ha ritenuto configurabili fra gli altri i reati di associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni e altri reati e ha disposto svariati sequestri di beni e aziende. In estrema semplificazione, l’indagine ha evidenziato una vastissima capacità di influire sugli esiti degli appalti del Campidoglio, in settori fino a quel momento ritenuti (evidentemente a torto) meno infiltrati dal malaffare, quali quelli connessi ai servizi

sociali e all’accoglienza degli immigrati, con la creazione di veri e propri monopoli da parte di alcune cooperative riconducibili all’organizzazione criminale. Questa indagine, del resto, ne seguiva un’altra, meno nota ma non per questo meno significativa, che aveva individuato soprattutto a Ostia un’associazione per delinquere, anch’essa di stampo mafioso, che aveva visto coinvolti anche esponenti della politica locale. 22 Saranno i vari gradi di giudizio a stabilire definitivamente se davvero quell’organizzazione ramificata e in grado di gestire interi settori di gare sia mafia autoctona e se a essa possano riconoscersi, anche tecnicamente, le stimmate di mafiosità. 23 Il processo principale che vede alla sbarra la maggior parte degli imputati è in corso e non finirà prima della primavera-estate del 2017, ma a oggi sono state già pronunciate alcune sentenze di primo grado nell’ambito dei riti speciali che hanno confermato la sussistenza di un’organizzazione mafiosa e, soprattutto, è intervenuta la Cassazione che, sia pure con riferimento all’ordinanza cautelare, ha ritenuto configurabile il delitto di cui all’art. 416 bis del codice penale. Pur consapevoli di apparire eccessivamente tecnici, va sottolineata l’affermazione della Cassazione secondo cui la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l’incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti. L’assoggettamento che ne deriva non deve, peraltro, tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale. La Suprema Corte ha, di conseguenza, sancito il carattere mafioso della struttura organizzata operante a Roma che, avvalendosi della capacità intimidatoria acquisita nel tempo e già collaudata in altri settori criminali «tradizionali», aveva esercitato – attraverso l’uso di prevaricazioni, di una sistematica attività corruttiva e di contiguità politiche ed elettorali – condizionamenti diffusi nell’assegnazione degli appalti, nel rilascio di concessioni e nel controllo di settori di attività di enti pubblici, determinando in tal modo un sostanziale annullamento della concorrenza e soffocando ogni iniziativa di chi non aderiva o non era contiguo al sodalizio. 24

È solo una prima pronuncia, seppure molto autorevole; ma lo scenario che emerge è comunque abbastanza chiaro, mafia o non mafia. A oltre sessant’anni dallo storico titolo di un numero dell’«Espresso» del 1955 – Capitale corrotta, nazione infetta –, Roma e l’Italia intera sono state di nuovo scosse da uno scandalo di enormi dimensioni proprio perché ha coinvolto pezzi della burocrazia e della politica della capitale del Paese, scandalo che ha reso evidente un perverso intreccio di criminalità, politica e Pubblica Amministrazione e una ragnatela di interessi che unisce il «Mondo di Sopra» dei colletti bianchi, il «Mondo di Sotto» dei criminali di strada e il «Mondo di Mezzo», la cerniera che organizza e tiene unito il sistema. Il recente arresto, a fine 2016, dell’ex vicecapo di gabinetto del sindaco di Roma è la conferma di questa ragnatela complessa e ramificata. La corruzione e la criminalità (comune o mafiosa che sia) hanno smarrito i loro confini, fondendosi in un sistema che, nel settore degli appalti (ma non solo), ha avvelenato i palazzi del potere e desertificato i territori dell’economia. E lo ha fatto in tutt’Italia, non solo nelle aree in cui tradizionalmente è radicata la criminalità organizzata di stampo mafioso.

La mafia uccide meno, ma corrompe di più Il paragrafo precedente ha fatto da apripista a un tema centrale nell’analisi che si sta facendo, quello dei rapporti tra mafie e appalti. Sull’onda, soprattutto, delle recenti indagini di «Mafia Capitale», si sono spesso ascoltate da tanti (improvvisati) commentatori affermazioni quasi stupefacenti secondo cui oggi la mafia ha messo al centro dei suoi interessi gli appalti. A costoro basterebbe rileggere il testo del comma terzo dell’ormai famoso 416 bis c.p., che, è bene ricordare, venne introdotto nel 1982 come reazione a due omicidi eccellenti, quelli del parlamentare che aveva proposto la legge, Pio La Torre, e del superprefetto inviato a

Palermo a contrastare le mafie e per questa ragione trucidato, e cioè Carlo Alberto Dalla Chiesa. 25 Quella norma, nell’indicare quali siano gli elementi che caratterizzano un’associazione come mafiosa («quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento che ne deriva»), precisa anche i fini che da essa devono essere perseguiti e fra essi (accanto a «commettere delitti» o «realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri» e «impedire od ostacolare il libero esercizio del voto e di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali») annovera proprio quello di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche di concessioni, appalti e servizi pubblici». Le mafie hanno, infatti, la necessità, per operare e lucrare i loro enormi proventi, di controllare il territorio e di creare, quindi, un consenso sociale che ha bisogno, a sua volta, della gestione delle attività economiche. «Acquisire» gli appalti significa poter gestire risorse pubbliche spesso ingenti e, soprattutto, i posti di lavoro che hanno un valore rilevantissimo in territori ad altissimo tasso di disoccupazione; se dai lavoro a qualcuno, lo leghi a te con un vincolo di fedeltà stretto e duraturo. 26 Questa considerazione era nota all’intelligente legislatore del 1982 ed è emersa in tantissime indagini sulle mafie; basterebbe qui ricordare come nella mafia siciliana vi fosse un affiliato soprannominato «ministro dei Lavori pubblici», proprio perché doveva occuparsi dell’acquisizione e gestione degli appalti; 27 e situazioni non dissimili sono emerse anche con riferimento alla camorra e alla ’ndrangheta, le altre due organizzazioni mafiose che vengono espressamente citate dalla norma del codice penale. Quanto detto, ovviamente, non significa affatto che nulla sia cambiato nel rapporto mafie-appalti. Sicuramente, anche in passato capitava spesso che le organizzazioni criminali irretissero funzionari pubblici infedeli o rappresentanti politici immorali, corrompendoli, soprattutto

attraverso la possibilità di compartecipare agli utili derivanti dagli appalti, utili spesso ancora maggiori di quelli che avrebbe lucrato un imprenditore «onesto». 28 Le mafie, del resto, avevano (e hanno), comunque, un argomento «aggiuntivo» rispetto ai corruttori non mafiosi; possono utilizzare, quale carta di riserva, la capacità di intimidire e di minacciare e, quindi, di «convincere» i funzionari e i burocrati renitenti. Oggi, però, ci sono due novità: le mafie utilizzano sempre più la corruzione, riservando a ipotesi assolutamente marginali la violenza; e, soprattutto, utilizzano gli strumenti corruttivi in luoghi diversi da quelli in cui storicamente hanno operato. In Lombardia, Emilia, Toscana, Piemonte, per esempio, i mafiosi si mimetizzano mostrando il «colletto bianco», perché sanno che gli atti violenti possono attirare l’attenzione delle forze dell’ordine, e avvicinano politici, manager pubblici 29 o imprenditori in difficoltà, 30 attraverso la corruzione consistente, in modo particolare, in offerte di cointeressenze in attività economiche e imprenditoriali. Ma anche al Sud le mafie, dopo i colpi durissimi ricevuti dalle indagini, utilizzano molto meno la violenza e più la capacità di avvicinamento degli esponenti della politica e della burocrazia. Lo ha detto con chiarezza e lucidità il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, quando ha affermato che mafia e corruzione, pur nella loro diversità ontologica e storica, hanno (sempre più) in comune la visione proprietaria e predatoria del denaro pubblico; e quando ha rilevato, nella relazione 2016, che è sempre più evidente un diverso approccio criminale delle organizzazioni mafiose, con il passaggio dal tradizionale strumento della violenza intimidatrice a metodi non cruenti di generazione dell’assoggettamento e del dominio. Il silenzio delle lupare, quindi, appare oggi la conseguenza strutturale del fatto che le mafie stanno mutando pelle e strategia; la mafia uccide meno, ma rafforza la sua presenza nel mondo dei «colletti bianchi», tiene la regia della «criminalità economica», intensifica la sua attività nei settori della corruzione, in particolare nel campo degli appalti pubblici. 31 La mano mafiosa sugli appalti si traduce nell’imposizione di una

vera e propria legge, con tanto di regole, ruoli e gerarchie. Sorprende quindi fino a un certo punto che il superboss latitante Matteo Messina Denaro invochi «trasparenza» nella gestione e nella divisione degli appalti tra i boss mafiosi. 32 Non è un paradosso né un’esagerazione dire, in conclusione, che la mafia uccide meno, ma questa non è di per sé una buona notizia!

La corruzione per la corruzione: le opere pubbliche interminabili e inutili Dalla consultazione dell’Anagrafe delle opere pubbliche incompiute di interesse nazionale, aggiornata al 1° luglio 2016, si ricava che al 31 dicembre 2015 (anno di rilevazione 2015) le opere incompiute erano 838. Per caserme, strade, ponti, ferrovie e impianti sportivi costruiti solo a metà gli italiani hanno speso 10 miliardi di euro. 33 Uno spreco che ha anche un costo su ogni famiglia italiana, pari a 166 euro. Dai tempi della legge obiettivo del 2001 sulle infrastrutture strategiche, solo l’8% delle grandi opere ha tagliato il traguardo. Il fenomeno accomuna il Nord e il Sud del Paese, anche se il record negativo per numero di infrastrutture non terminate sul proprio territorio spetta alla Sicilia (113), seguita da Puglia (91), Campania (90), Sardegna (80) e Calabria (57). Non se la passa molto meglio il Lazio, con 53 opere avviate e mai finite, di cui quasi la metà inutilizzabili. Nella relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario 2015, il procuratore generale della Corte dei Conti Raffaele De Dominicis ha evidenziato che «la Capitale d’Italia è il cimitero delle opere incompiute e che dietro la farraginosità e la doppiezza dei procedimenti amministrativi si trova l’acqua di coltura per illiceità di ogni tipo. Ma le sacrosante preoccupazioni di tutti non possono emergere soltanto dall’incremento degli illeciti penali contemplati nei reati contro la Pubblica Amministrazione». Sulle opere pubbliche, aggiunge De Dominicis, grava, come un macigno, «un dedalo

infernale di disposizioni e sotto-disposizioni che costituiscono il brodo di coltura della corruzione». Ci sono addirittura opere pubbliche neanche iniziate che hanno provocato enormi emorragie di denaro pubblico. Il pensiero va, naturalmente, al Ponte sullo Stretto, opera sepolta e resuscitata un’infinità di volte negli ultimi quarant’anni, ma che non ha mai visto la posa della prima pietra. Il paradosso è che la «Stretto di Messina», società a prevalente partecipazione statale controllata dall’Anas, a fine 2016 ha chiesto allo Stato un indennizzo di oltre 300 milioni di euro a causa della mancata realizzazione dell’opera per cui era stata costituita. Siamo al paradosso, allo Stato che paga due volte un’opera neanche iniziata, allo «Stato che fa causa allo Stato», il tutto a danno dei contribuenti. Una beffa, anzi di più. 34 L’emblema delle «eterne incompiute» è stata comunque, fino al dicembre 2016, l’autostrada «Salerno - Reggio Calabria». Il 22 dicembre 2016 il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha chiuso ufficialmente l’ultimo cantiere, ponendo fine a quello che è stato da qualcuno icasticamente definito «il corpo di reato più lungo d’Italia», costato quasi 76 miliardi di euro. Il premier si è fatto trovare a Villa San Giovanni che era già buio, citando Massimo Troisi (Scusate il ritardo) e annunciando solennemente di voler dichiarare guerra a un luogo comune, il luogo comune della Salerno - Reggio Calabria. Qualcuno ha già avanzato dei dubbi sull’effettivo completamento, ma resta il fatto di una strada la cui costruzione completa ha necessitato oltre cinquant’anni 35 e ha stimolato battute caustiche e felici come quella di Andrea Camilleri citata in esergo, secondo cui Gesù, fermandosi a Eboli, ha potuto evitare almeno il calvario di quella tratta, mentre per milioni di italiani e turisti non c’è stato scampo. E chissà se il ministro abbia deciso di cambiare il nome dell’autostrada (Autostrada del Mediterraneo) proprio per far dimenticare le tante peripezie subite. La storia della Salerno - Reggio Calabria resta comunque una brutta storia, fatta di tante brutte storie. Storie di un pizzo sistematico del 3%, di cosche e famiglie della ’ndrangheta che s’infiltrano, di cantieri controllati con pugno di ferro dai clan, di operai terrorizzati,

di morti e feriti, 36 di lavoro umiliato e sicurezza calpestata, di imprese mafiose, di tangenti regolari, di cordoni ombelicali tra malavita e cattiva edilizia, di violenze sull’ambiente e sul territorio, di rifiuto della speranza e del futuro. Ora, nessuno vuole certo affermare che la corruzione sia l’unica ragione del mancato completamento delle opere pubbliche. Assumono un decisivo ruolo concausale l’inerzia, la superficialità, la burocrazia, la mancanza di fondi, l’opacità del quadro normativo, i contenziosi in sede esecutiva e la presenza di mafie spesso violente e pretenziose, come è accaduto per l’autostrada citata. Tuttavia, le parole del procuratore De Dominicis sembrano accreditare un sospetto che da sempre serpeggia fra chi verifica le troppe incompiute e far, quindi, pensare che possano esserci gare indette al solo scopo di alimentare il mercato della corruzione e del malaffare, stante la consapevolezza dell’impossibilità o inutilità della realizzazione. In questo modo la corruzione si trasformerebbe da mezzo in fine. Questa stessa affermazione è stata fatta anche dal giornalista e parlamentare europeo Curzio Maltese, secondo cui ai tempi di «Tangentopoli» si rubava sulla realizzazione di opere pubbliche necessarie, oggi s’inventano e si progettano opere pubbliche non necessarie per rubare. 37 Per questo qualcuno ha sostenuto la necessità di prevedere un reato autonomo, in aggiunta all’illecito contabile, per perseguire il fenomeno delle opere destinate ab initio a restare incompiute e inutilizzabili. Si è ipotizzata, in particolare, una fattispecie colposa volta a punire «il non aver previsto o realizzato quanto necessario affinché, una volta appaltata, l’opera pubblica sia attuata, realizzata e resa funzionale ai bisogni della comunità nei tempi e secondo le modalità previste». 38 Non sappiamo se un’ulteriore leva penale sia necessaria o utile per contrastare il fenomeno, né ci sentiamo di dare per scontata, in assenza di prove certe, la conclusione del procuratore De Dominicis, ma un punto sembra difficilmente discutibile. Troppo spesso le opere sono state programmate e/o iniziate non perché fossero utili e non perché fosse certo che si concludessero, ma semplicemente perché

consentivano una spesa e un’iniezione di liquidità nel sistema, con conseguenze a volte davvero paradossali che hanno consentito, per esempio, a imprenditori di ottenere risarcimenti miliardari senza aver fatto quasi nulla di lavori che fin dall’inizio sembravano difficilmente realizzabili. 39

Le cause della corruzione negli appalti pubblici e la sfida del nuovo codice degli appalti Perché le opere pubbliche, che dovrebbero migliorarci la vita, ce la rendono impossibile? Perché gli appalti sono funestati dall’illegalità e dalla corruzione? Perché le opere pubbliche necessarie latitano, mentre pullulano quelle interminabili o inutili? Proviamo a dare qualche veloce risposta. Se il sistema degli appalti non funziona, è evidente che il problema riguarda innanzitutto le regole; cattive regole sono, infatti, alla base delle cattive azioni. Negli appalti pubblici si era assistito, almeno fino al 2016, a una iper-regolamentazione, che, al di là delle buone intenzioni del legislatore, aveva impedito l’applicazione uniforme delle norme, complicato l’iter delle gare, dilatato i tempi e reso pilotabili le decisioni. Ogni regola, specie se di carattere formale, può essere letta in modo più o meno favorevole agli interessati: l’interpretazione assume così un carattere troppo arbitrario e imprevedibile, finendo per favorire alcuni a danno di altri. Il codice del 2006 aveva dato luogo, unitamente al regolamento di attuazione emesso a ben quattro anni di distanza dal codice (nel 2010!), 40 a un corpo normativo mastodontico e complesso, oggetto fra l’altro di continue interpolazioni che lo avevano reso scarsamente comprensibile. 41 Corruptissima republica, plurimae leges, «molte leggi, molta corruzione» ammoniva Tacito. «Le troppe leggi non dicono mai nulla» ammoniva George Bernard Shaw. È un’equazione paradossale, ma inesorabile. È la matematica applicata al diritto. La sovrabbondanza di regole significa nessun vero precetto, confusione,

assenza di chiarezza, spazio per l’elusione e per l’arbitrio. Il testo, poi, aveva il difetto di allungare i tempi delle procedure di aggiudicazione e di moltiplicare il numero delle fasi procedimentali. Basti pensare alla necessità di passare dall’aggiudicazione provvisoria prima di giungere all’aggiudicazione definitiva; o all’assenza di un termine certo e perentorio entro il quale l’amministrazione fosse obbligata alla stipulazione del contratto con l’impresa vincitrice della gara. In conclusione, una pletora di norme spesso nebulose e confuse, capaci di creare una nebbia in cui può essere impossibile individuare la singola norma da applicare al caso concreto, l’assenza di regole certe, di tempi precisi e di diritti chiari avevano creato sacche artificiali di discrezionalità, ventre molle per proposte corruttive o per imposizioni concussive. L’altro punto è la pluralità eccessiva delle stazioni appaltanti e dei centri di costo, frutto anche, ma non solo, delle scelte semifederaliste effettuate con la riforma costituzionale del 2001. Prima del codice del 2016, il numero delle stazioni appaltanti era enorme e nemmeno quantificabile con certezza (circa 29.000 stazioni appaltanti e 74.600 centri di costo!). Questo rendeva velleitaria anche soltanto l’idea del possesso di una competenza tecnica adeguata a gestire appalti complessi, ostacolava una reale azione di vigilanza, finiva per rendere permeabile l’amministrazione alle tentazioni corruttive. L’assenza di un sistema di qualificazione, morale e professionale al tempo stesso, faceva sì che importanti centri di spesa venissero gestiti da amministrazioni e personale che non assicuravano competenza e indipendenza necessarie. Un piccolo Comune, con pochi abitanti ed evidentemente pochi dipendenti si doveva occupare di gare complesse (per esempio, una procedura per la gestione dei rifiuti tossici o una gara in materia di servizi socio-sanitari), senza che fosse necessario che esso avesse in dotazione professionalità adeguate. Quelle indicate sono solo alcune delle criticità della normativa pregressa, ma l’elenco potrebbe allungarsi ancora ricordando la scarsa trasparenza delle procedure, l’utilizzo di meccanismi di gara, quali il

massimo ribasso, che apparentemente sembravano far risparmiare l’amministrazione e invece aprivano a rischi enormi, l’abuso delle riserve e delle varianti che facevano lievitare i prezzi a dismisura e allungavano i tempi di consegna e così via. Una normativa ben fatta in materia è, quindi, a differenza di quanto pur autorevolmente affermato da qualcuno, 42 uno strumento indispensabile per contrastare la corruzione. Tutti siamo consapevoli che le leggi da sole non sono di certo sufficienti, ma quelle mal fatte sono certamente un aiuto all’illegalità diffusa. Nel 2016 è intervenuta un’ambiziosa riforma del codice degli appalti che prova a sciogliere alcuni dei nodi problematici del passato. Il nuovo codice degli appalti pubblici, 43 in particolare, ha ridotto drasticamente il numero delle norme, ha provato a rendere più chiare le disposizioni, ha optato per sistemi qualitativi di valutazione delle offerte, ha previsto meccanismi di qualificazione delle stazioni appaltanti che ne comporteranno una drastica riduzione, ha assicurato un controllo su istituti pericolosi come il subappalto, le varianti esecutive e le intermediazioni, e, soprattutto, ha decretato l’avvento di logiche sostanzialistiche che consentono di premiare l’offerta migliore e non più l’offerta meglio confezionata, 44 ha rinunciato a prevedere l’emanazione di un regolamento optando per regole attuative nuove, attraverso strumenti di cosiddetta soft regulation come le linee guida. Viene, inoltre, attuato il principio comunitario secondo cui la tracciabilità e la trasparenza del processo decisionale nelle procedure di appalto sono essenziali e, in questa prospettiva, vengono varate nuove misure per prevenire, individuare e affrontare in modo efficace conflitti di interesse nello svolgimento delle procedure di aggiudicazione degli appalti, al fine di evitare qualsiasi distorsione della concorrenza e garantire la parità di trattamento. Infine, ha ampliato i poteri dell’Anac, che potrà svolgere funzioni di vigilanza molto più penetranti ma anche funzioni di regolazione. È presto, ovviamente, per capire se la scelta pagherà, perché il codice, com’era prevedibile, sta incontrando molte resistenze, anche strumentali, da parte di una burocrazia non adeguatamente preparata

alle nuove sfide. Si tratta comunque di un primo passo; e, come insegna Lao Tzu, «anche un viaggio di mille miglia inizia sempre con il primo passo».

IV

La corruzione ci rende più ignoranti Italiani, questo popolo di santi, di poeti, di navigatori… di figli, di nipoti e di cognati. ENNIO FLAIANO

Avremmo mandato Dante in cattedra? There is no Democrat or Republican way to save a life, non c’è un modo democratico o repubblicano di salvare una vita, dicono gli americani per sottolineare il primato della tecnica sulla politica, in campo sanitario e non. La vicinanza a un partito non rende più o meno bravo un chirurgo chiamato a salvare una vita o un professore che deve insegnare i misteri della medicina ai dottori di domani. Marco Lanzetta è uno dei tanti cervelli italiani scappati all’estero. Specializzatosi giovanissimo in chirurgia della mano all’università australiana del New South Wales, ha diretto la Microsearch Foundation di Sydney e nel 1998, a Lione, ha fatto parte dell’équipe che ha eseguito il primo trapianto di mano al mondo. Al suo attivo, una mole impressionante di pubblicazioni, ospitate dalle più prestigiose riviste scientifiche internazionali. Alla fine del Secondo millennio Lanzetta torna in Italia e, nel 2002, partecipa al concorso per la cattedra di professore ordinario di malattie dell’apparato locomotore, indetto dall’Università degli Studi dell’Insubria. Ebbene, l’uomo che in altre parti del mondo era universalmente considerato un fenomeno, da noi si rivela, all’improvviso, un ortopedico mediocre. Viene bocciato non una, ma due, tre volte. L’autore del primo trapianto di mano non è idoneo a insegnare all’Università dell’Insubria. La ragione è paradossale: è bravo, troppo bravo. E l’iperspecializzazione è un limite, visto che all’ateneo che ha bandito il concorso non serve un grande chirurgo della mano, bensì un professionista magari meno brillante, ma versato anche in altre specialità mediche. Strano, perché per il cittadino comune è scontato

che un grande specialista è, prima di tutto, un grande medico e, ancora più in radice, un grande uomo. E poi, nel bando si richiedeva esplicitamente una particolare conoscenza, teorica e pratica, proprio nel campo della «chirurgia della mano». A quel punto inizia un calvario giudiziario: numerose sentenze del Tar e del Consiglio di Stato annullano i verdetti della commissione esaminatrice. Ogni volta, però, la ripetizione del concorso ha lo stesso esito negativo per Lanzetta che, alla fine di una battaglia estenuante, torna a lavorare in Australia, per poi rientrare una seconda volta in Italia e fondare l’Istituto italiano di chirurgia della mano. Non vogliamo certo discutere, senza avere gli elementi necessari, della bontà dei giudizi espressi dalle commissioni che hanno preferito altri candidati a Lanzetta per quel posto. Dobbiamo prendere atto che l’ennesima bocciatura di Lanzetta ha resistito all’ennesimo ricorso ed è diventata definitiva. Non possiamo tacere, tuttavia, che la vicenda è sintomatica della difficoltà culturale che la nostra accademia incontra nell’interpretare il proprio ruolo secondo un approccio più aperto a logiche di merito e più disponibile al confronto internazionale. Tralasciando il caso concreto, sono molte, troppe, le storie di eccellenze italiane trascurate da un’accademia che non riesce ad abbandonare una concezione «proprietaria» dei concorsi, perpetuando un mondo in cui brillanti energie intellettuali sono imprigionate e soffocate dalla burocrazia e dal familismo. Quasi quarant’anni fa, il 21 settembre 1979, Umberto Eco pubblicò sull’«Espresso» un articolo dall’emblematico titolo Avremmo mandato Dante in cattedra?, in cui sosteneva che oggi le nostre università, diversamente da quelle americane, tedesche e olandesi – ispirate a criteri di decentramento, flessibilità e meritocrazia –, per le cattedre di cosmologia, filosofia morale ed estetica, boccerebbero Dante, Socrate e Vico e promuoverebbero personaggi più affidabili e meno liberi, come Ristoro d’Arezzo, Antistene e Camillo Ettorri. Il grande semiologo sicuramente scherzava con giocosa ironia, ma dietro il divertissement si cela un’amara riflessione sul nostro sistema universitario. 1 Eppure, in Italia le cose non sono andate sempre così.

Bologna, città natale della prima università europea L’Università degli studi di Bologna (Alma Mater Studiorum) è la più antica università d’Europa, essendo nata nel 1088, otto anni prima di quella di Oxford e ottantadue prima di quella di Parigi. La fondò il giurista e glossatore medievale Irnerio (in latino Irnerius o Wernerius, soprannominato anche Theutonicus), che portò in auge, negli studi delle arti liberali, i testi legislativi giustinianei. Per questa sua attività si guadagnò il soprannome di «lucerna iuris» (lume del diritto). Nacque così, all’inizio del Secondo millennio, il primo luogo di insegnamento libero e indipendente dalle scuole ecclesiastiche. La scuola bolognese rivestì subito un ruolo cruciale nello sviluppo della politica europea e nella definizione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Nel 1158 quattro doctores allievi di Irnerio, cioè Bulgaro, Martino, Jacopo e Ugo di Porta Ravegnana, vennero invitati da Federico I Barbarossa alla Dieta di Roncaglia per esprimere un parere sui diritti dell’Impero rispetto ad altre entità politiche, tra cui la Chiesa cattolica. Tranne Martino, gli altri tre si pronunciarono a favore dell’Impero. Federico, per gratitudine, s’impegnò a proteggere dalle intrusioni di qualsiasi autorità politica tutti gli scholares che viaggiavano per ragioni di studio. Si trattò di un evento fondamentale per la storia dell’università, per lo stesso concetto di università e per l’idea di libertà che vi è così profondamente connaturata. L’universitas diventò per legge il luogo in cui la ricerca si sviluppava liberamente, indipendentemente da ogni altro potere, e sinonimo di aria fresca e sguardo limpido. Difficile elencare le personalità che nei secoli hanno dato lustro all’Alma Mater Studiorum: basti citare i nomi di Dante Alighieri, Francesco Petrarca, Leon Battista Alberti, Pico della Mirandola, Niccolò Copernico, san Carlo Borromeo, Torquato Tasso, Carlo Goldoni, Alessandro Volta, Benjamin Franklin, Giosue Carducci e Giovanni Pascoli. L’Università di Bologna ammise le donne all’insegnamento sin dal XII secolo: un altro primato di lungimiranza illuministica, di apertura al domani. La leggenda parla di una donna che insegnò a Bologna tra

il XII e il XIII secolo, Bettisia Gozzadini. La tradizione vuole che tenesse le sue lezioni non solo nello Studium, ma anche nelle pubbliche piazze, di fronte a grandi folle. La presenza femminile divenne evidente nel XVIII secolo. Tra le più celebri donne insegnanti si ricorda Laura Bassi: nel 1732 conquistò la cattedra di filosofia e nel 1776 quella di fisica sperimentale. Si occupò di logica, metafisica, filosofia, chimica, idraulica, matematica, meccanica, algebra, geometria, lingue antiche e moderne. Trasversalità femminile allo stato puro. L’Università di Bologna è stata culla delle grandi menti delle scienze e delle lettere, centro propulsore della cultura mondiale, artefice di avvenimenti storici, simbolo dell’emancipazione femminile, luogo di incontri e sperimentazioni, sinonimo di progresso e di bellezza, emblema dell’eccellenza delle università italiane.

Le università italiane bocciate senza appello Il 1088 è purtroppo lontano, molto più dei quasi mille anni trascorsi dalla fondazione dell’Alma Mater. Ancora nel 2016 l’Alma Mater è al primo posto della classifica degli atenei italiani destinatari di contributi statali secondo criteri di merito che valorizzano la qualità della ricerca e della didattica. 2 Eppure, lanciando lo sguardo oltre i nostri confini, l’eccellenza delle università che hanno contribuito alla grandezza culturale e morale del nostro Paese è sempre più un pallido ricordo, una cartolina sbiadita dal tempo. 3 Lo testimoniano i crudi numeri. Ora, non crediamo affatto che la qualità di un’istituzione culturale possa essere misurata matematicamente, ma non si può ignorare l’allarme suscitato dalle classifiche internazionali che vedono scivolare sempre più in basso i templi del nostro sapere. Lo schiaffo più sonoro è quello assestato dalla classifica annuale redatta dall’Academic Ranking of World Universities (ARWU ), nota anche come «classifica di Shanghai». Viene stilata sempre a metà agosto, quando gli italiani sono in vacanza, e valuta la qualità delle

istituzioni universitarie in base a parametri rigorosi. Anche nella classifica 2015, per trovare la prima università italiana, La Sapienza di Roma, bisogna scendere oltre il 150° posto. 4 In generale, l’Italia piazza 19 atenei fra i primi 500 al mondo, perdendo un’unità rispetto allo scorso anno, in una classifica dominata dalle università degli Stati Uniti (137), seguite dalla Cina (54), in prepotente ascesa, dalla Germania (38) e dal Regno Unito (37). Il nostro Paese è fuori dal circuito delle eccellenze. Il primato di Bologna e la storia della nostra cultura rischiano di diventare luci sempre più fievoli, incapaci di intercettare le sfide della globalizzazione e della rivoluzione tecnologica. Indicazioni non molto più confortanti provengono dalla classifica mondiale degli atenei stilata da «Times Higher Education», settimanale inglese specializzato nella valutazione delle università e degli istituti per l’istruzione superiore. 5 Le 10 migliori università del mondo della classifica 2015-16 sono quasi tutte americane o inglesi. Nessuna istituzione accademica del Belpaese figura tra le prime 100. Il miglior piazzamento è quello della Scuola Normale Superiore di Pisa, che occupa il 112° posto, seguita al 180° dalla Scuola Superiore Sant’Anna e al 198° dall’Università di Trento. Nel range 200-250 si trovano l’Università di Bologna, il Politecnico di Milano e La Sapienza di Roma. Anche la classifica del QS World University Rankings, redatta sulla scorta di sei indicatori (reputazione accademica, giudizio dei datori di lavoro e dei cacciatori di teste, rapporto tra docenti e studenti, numero di citazioni per professore, percentuale di studenti stranieri, percentuale di docenti stranieri), non è tenera con noi, visto che la prima università italiana, l’Alma Mater di Bologna, è al 182° posto. Non mancano altri dati desolanti sullo stato di salute delle nostre istituzioni accademiche. Pensiamo al numero crescente di studenti italiani che disertano le nostre università, preferendo atenei stranieri più attraenti, e – specularmente – al numero decrescente di studenti stranieri che scelgono l’Italia per i loro studi accademici e specialistici. E pensiamo anche al consistente aumento dei diplomati italiani che rinunciano agli studi universitari. Una ricerca della Commissione Ue,

pubblicata nel 2016, mostra non solo che l’Italia registra una delle percentuali di abbandono universitario più alte d’Europa (45%), ma soprattutto che, per la prima volta dal 1945, il numero dei laureati italiani che si affacciano sul mercato del lavoro non sale più. Siamo, insomma, alla «crescita zero dei laureati», un fenomeno deprimente, specie se paragonato al notevole aumento del numero di laureati non solo in Francia, in Germania, in Cina o in Corea del Sud, ma anche in Paesi tradizionalmente meno dinamici, come Polonia e Romania. 6 L’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione del sistema universitario e della ricerca) attesta, dal canto suo, che nel decennio 2003-13 le immatricolazioni di studenti di età inferiore ai 22 anni sono diminuite del 7,6%, e che a rinunciare sono stati soprattutto i più deboli, i figli di nessuno, i giovani senza una rete di sostegno. Negli ultimi cinque anni si è registrato un calo di 130.000 studenti universitari, su un totale di 1 milione 700.000. 7 Aumenta, per converso, il numero dei ragazzi «senza presente», che non studiano, non lavorano e non risultano inseriti in altri percorsi di formazione: i cosiddetti «Neet» (Not in Education, Employment or Training). 8 Si parla, addirittura, di «ritiro sociale», per definire i comportamenti del segmento più fragile dei «Neet». Sono i «corpi in una stanza», in giapponese hikikomori, ragazzi barricati in cameretta, con le tapparelle abbassate, che protestano, con l’autosegregazione e l’isolamento, contro una società che chiede loro competizione ma non offre solidarietà. 9 D’altro canto, l’incidenza degli strumenti economici di sostegno per gli studenti è assai ridotta, se si considera che ne usufruisce solo il 9% della popolazione studentesca, a fronte del 30% di quella tedesca. Altrettanto sconfortanti sono i dati relativi al numero dei laureati (siamo gli ultimi fra i Paesi Ocse, con una percentuale del 24% rispetto a una media del 41), alla durata media del percorso universitario (solo il 27% riesce a laurearsi entro i 34 anni, mentre i fuoricorso sono 700.000) e al numero di ore di lezione assicurate dai singoli docenti (le ore obbligatorie in Italia sono 120 all’anno, in Francia 192 e nel Regno Unito 240). 10 L’università italiana, inoltre, è sempre più un luogo per vecchi. Lo

attesta, insieme all’elevato numero di studenti maturi fuoricorso, anche l’età media dei docenti, notevolmente superiore a quella dei colleghi di altri Paesi con cui competiamo. Da noi, oltre il 25% dei docenti sono ultrasessantenni, mentre in Francia sono il 13% e negli Stati Uniti il 5%. Nel 1965 un professore ordinario saliva in cattedra mediamente a 35 anni, oggi vent’anni dopo. 11 C’è una «palude generazionale» nella quale nessuno dei 13.239 professori ordinari ha meno di 35 anni e solo 15 sono sotto i 40. 12 I dottori di ricerca, categoria nella quale si annidano le energie più giovani e innovative, hanno perso 5000 unità negli ultimi cinque anni, mentre dal 2008 al 2015 il numero dei docenti universitari è calato, complessivamente, di 10.000 unità, su un totale di 60.500. 13 Non inducono all’ottimismo neanche i dati relativi ai rapporti con il mondo del lavoro, alla sintonia con l’evoluzione tecnologica e con i mercati internazionali, alla competitività della ricerca prodotta dalle nostre università e alla ancora troppo rigida distinzione fra ricerca (assicurata da pochi centri d’eccellenza) e didattica (alla quale si dedica, in via esclusiva, gran parte degli atenei italiani). D’altra parte, la nostra performance negativa non può sorprendere, se poniamo mente alle risorse finanziarie erogate per promuovere la ricerca e, in generale, il sistema universitario. Anche sotto questo profilo, le classifiche internazionali qualificano il nostro sistema universitario come un malato serio, bisognoso di una terapia intensiva. La spesa pubblica da noi destinata all’università è, in rapporto al Pil, la penultima in Europa e tra le ultime dei Paesi Ocse. Secondo il rapporto dell’Ocse Education at a Glance, la spesa per l’istruzione terziaria in Italia è inferiore all’1% del Pil (–9,9% dal 2009: 6556 milioni di euro contro 7485), a fronte del quasi 3% degli Usa. I fondi stanziati per l’università sono da noi pari a 109 euro pro capite, rispetto ai 303 della Francia, ai 304 della Germania, ai 331 del Giappone e ai 628 della Corea del Sud. Il quadro non è più roseo se consideriamo le percentuali di spesa per l’istruzione nel suo complesso rispetto al totale degli investimenti pubblici. L’Italia è quello che spende meno per scuola, università e

ricerca: appena l’8,6%, contro una media Ocse del 12,9. 14 L’Italia occupa posizioni di retroguardia anche per percentuale di Pil investita in istruzione: 4,3%, seguita solo da Slovacchia e Turchia (4,1), e Giappone (3,8). 15 Lo stesso discorso vale per la spesa pubblica per ricerca e sviluppo, che vede l’Italia fanalino di coda fra i Paesi dell’Unione europea e del G20, con un misero 1,25% del Pil. 16 Ancora peggiore la performance dei privati, visto che le imprese non spendono più dello 0,69%, molto meno dell’1,45 della Francia e dell’1,95 della Germania, nonché della media europea dell’1,35. 17 E, soprattutto, molto meno degli Stati Uniti, dove i privati, incentivati da significative agevolazioni fiscali, finanziano la ricerca, l’università e i musei in misura di gran lunga superiore. 18 L’ultimo dato è quello geografico. È noto che l’Italia è un «Paese duale», l’unico dell’Occidente avanzato. Siamo un Paese a due velocità, lo siamo sempre stati. Abbiamo un Nord con 40 milioni di abitanti, una concentrazione antropica nella media europea, e un Sud che arranca, con poche culle e molte tombe, solo 20 milioni di uomini e donne, una media da Paese in via di sviluppo. 19 Una spia della nostra «dualità» è lo stato di salute delle università. Anche qui registriamo due Italie, mondi lontani con futuri diversi. Il dato è nitido: se gli atenei italiani non se la passano bene rispetto alla media occidentale, quelli del Sud annaspano in un mare ancora più agitato. I diciottenni meridionali sono sempre più spesso studenti con la valigia in mano, costretti a trasferirsi al Nord per studiare in università che offrano migliori prospettive di inserimento lavorativo. Negli ultimi cinque anni questa tendenza ha assunto le proporzioni di un esodo. Basti considerare i dati forniti dal ministero dell’Istruzione sugli immatricolati nell’anno accademico 2015-16. 20 In Sicilia, Calabria e Puglia la quota di studenti emigrati altrove oscilla fra il 30 e il 40%. Anche in Basilicata, Abruzzo e Molise le immatricolazioni sono calate di circa il 30%. Una fuga: migliaia di ragazzi prendono ogni anno un treno, alla volta di un ateneo lombardo o della capitale. Nel complesso sono quasi 13.000 i giovani diplomati meridionali che si sono immatricolati in università del

Nord, 2500 in più rispetto a cinque anni fa. Un fenomeno che contribuisce a svuotare gli atenei del Sud più di quanto non faccia il calo degli iscritti. 21 L’ondata migratoria è provocata da fattori eterogenei, fra i quali spiccano qualità e ranking dell’università, possibilità lavorative ad ampio raggio, voglia di nuove esperienze, prospettive di futuro, desiderio di crescita culturale e tecnologica. Al Nord ci sono strutture migliori, più motivazioni e opportunità. La fuga dal Sud è quindi frutto di tre cause che si compenetrano: migliore reputazione delle università settentrionali, solide prospettive lavorative, qualità più soddisfacente dei servizi e dell’organizzazione. 22

Un sistema corrotto non investe sul capitale umano e uccide il merito I dati riportati fotografano un sistema universitario in affanno, invecchiato, scarsamente internazionalizzato, poco sintonizzato con le sfide dei mercati e con gli scenari futuri. Viene quindi da chiedersi perché il Paese che ha dato i natali all’università stia fatalmente perdendo terreno. Benché le ragioni siano molteplici, la corruzione – intesa non solo con riferimento agli aspetti penali, ma in senso ampio – riveste un ruolo fondamentale, perché l’immoralità del potere è la radice comune delle due cause strutturali della crisi delle nostre agenzie formative superiori: la mancanza di risorse e il rifiuto del principio del merito. La prima causa l’abbiamo già denunciata: è la mancanza di fondi, la povertà di mezzi, la latitanza dei finanziamenti. Una politica che distrae per fini illeciti e per interessi particolari le risorse pubbliche investe poco sull’istruzione, sulla ricerca e, quindi, sul futuro. Volendo usare una metafora calcistica, è difficile vincere la Champions League con una campagna acquisti da mediocre club di Serie B. Ecco, l’università senza fondi è una squadra destinata a perdere e, soprattutto, a far perdere l’Italia, visto che, senza formazione e ricerca, non ci possono essere crescita, progresso,

competitività, internazionalizzazione. In mancanza dei fondi necessari è impossibile assicurare strutture di ricerca, campus, residenze universitarie e servizi di qualità per gli studenti. I nostri atenei non attirano pertanto gli studenti stranieri e spingono all’estero le più brillanti menti italiane. Tuttavia, il problema non è solo la quantità delle risorse, ma anche i criteri adottati per la loro distribuzione. La penuria di mezzi, infatti, impone, in modo ancora più stringente, una devoluzione ottimale delle limitate energie finanziarie, in funzione dei risultati ottenuti dalla didattica e dalla ricerca, obiettivo ostacolato dalla mancanza di metodi di valutazione condivisi e dal rifiuto culturale di sperimentati parametri di misurazione internazionale. L’incremento incontrollato del numero di università bisognose di fondi e le lungaggini burocratiche delle procedure di assegnazione rendono poi il finanziamento della ricerca un autentico miraggio. A causa della mancanza di mezzi, di progetti e di competitività, l’Italia non riesce ad avere il ruolo che le spetta nel mercato globale del lavoro intellettuale. Ecco il vero nodo: non la «fuga dei cervelli» in quanto tale, ma la mancanza di ricambio di intelligenze, di competenze, di talenti. 23 Ebbene, responsabile di tutto ciò è, in parte significativa, la corruzione. Un potere pubblico sano investe sul futuro, lavora sul domani, valorizza il «capitale umano», mette le nuove generazioni al centro delle proprie politiche, considera la ricerca e la formazione le vere ricchezze di un Paese. Al contrario, una politica corrotta e una burocrazia malata pensano solo al tornaconto immediato e all’utilità egoistica, distraggono i fondi destinati all’innovazione e ai giovani, riducono all’osso le risorse per l’istruzione e, quel che è peggio, le distribuiscono in base a logiche familistiche, partitiche e clientelari. Il punto è proprio questo: una volta giunti alla stretta finale, quando si devono stabilire priorità fra le voci della spesa pubblica, si profila concretamente il rischio che vengano privilegiate erogazioni interessate e investimenti dal ritorno tangibile e immediato, trascurando le opzioni che producono effetti a lungo termine. Ma, così facendo, si finisce per non guardare oltre l’oggi,

affermando che l’università «costa troppo», la ricerca «è uno spreco di risorse», i beni culturali «costano più di quello che producono». Un’altra grave patologia della nostra università, strettamente connessa alla corruzione, è l’assenza della «cultura del merito». La selezione dei docenti, l’ammissione ai dottorati di ricerca, l’attribuzione di borse di studio non seguono sempre criteri premiali, ma troppo spesso sono informate a logiche familistiche, clientelari e amicali, proprie di una società permeabile all’immoralità e alla corruzione. In molti casi si fa addirittura il contrario, si celebra la «mediocrazia», il trionfo dei mediocri, per dirla con il filosofo canadese Alain Deneault. 24 Un’università in cui non ci sia spazio per il merito è però un ossimoro, un paradosso. L’istruzione, la ricerca, la cultura sono per elezione i campi del talento, delle capacità, dell’innovazione, della competizione, del sacrificio, della disciplina. In una parola, l’università è merito. Perciò, un’università senza merito, un’accademia «mediocratica», tradisce sé stessa e la propria funzione, e finisce per trasformarsi in un’istituzione burocratica come un’altra, infeconda e senza vita. 25 Non vogliamo ovviamente sostenere che il sistema universitario sia tutto malato. Ci sono realtà eccellenti, professionalità straordinarie, menti raffinate. Eppure, queste capacità rischiano di essere condannate all’irrilevanza da un sistema che troppo spesso non riesce a premiare i migliori.

La piaga dei concorsi pilotati Il ripudio della meritocrazia affligge in particolare i meccanismi di selezione dei docenti universitari, a tutti i livelli. Si tratta di una questione centrale, perché la qualità del corpo docente è la precondizione e la garanzia primaria del funzionamento del sistema universitario. A tale proposito, occorre dire che le attuali procedure valutative si

sono dimostrate inadeguate rispetto all’obiettivo di premiare il merito. Non di rado i «finti» concorsi sono stati anzi il modo migliore per consentire alle commissioni esaminatrici di scegliere comodamente il vincitore designato. Il più delle volte, infatti, la vera competizione non è quella tra i candidati ma tra i professori che li sostengono, impegnati in un braccio di ferro in cui vince quasi sempre il più potente. Prima della riforma Gelmini (2010), questa grave patologia era favorita dall’istituzione, prevista dalla legge Berlinguer del 1998, di procedure concorsuali bandite dalle singole università, oltretutto sempre più numerose. Era quindi fatale che le commissioni locali, forti della discrezionalità che connota il giudizio tecnico di comparazione fra candidati, premiassero il candidato per il quale il concorso era stato bandito. Abbiamo visto e vedremo più avanti che il decentramento del potere decisionale a favore di entità più vicine o contigue a gruppi di interesse locali aumenta la probabilità di condizionamento e, quindi, di corruzione. E questo vale anche per le commissioni esaminatrici nominate in ambito locale, a forte rischio di collusione con il barone che vuole portare in cattedra il candidato del posto. Si tratta di un’«evenienza fatale» che, secondo Salvatore Settis, non conosce quasi eccezione. «Il meccanismo concorsuale» osserva l’illustre studioso «ha somministrato la dispensa urbi et orbi, incoraggiando l’endogamia [l’usanza di contrarre matrimonio fra appartenenti allo stesso gruppo sociale] e rendendo obbligatorio il successo del candidato locale. Non si va lontani dal vero, se si suppone che queste facili vittorie vanno oltre il 90%. Situazione senza paralleli nei Paesi con cui l’Italia dovrebbe compararsi, rivelatrice di un chiudersi in sé stessa dell’università italiana: insomma, di un’angustia loci intollerabilmente provinciale.» 26 La riforma Gelmini, varata dalla legge n. 240 del 2010, ha inteso scongiurare tali rischi con la creazione di un’«abilitazione scientifica nazionale», in cui il candidato è giudicato da un’unica commissione a livello centrale, per settore concorsuale. L’intenzione è nobile, ma l’attuazione a oggi molto problematica, anche perché il pallino resta in ultima istanza nelle mani delle singole università, che vedono per certi

versi ulteriormente ampliato il proprio potere discrezionale, con conseguente aumento dei rischi di «corruzione localistica» di cui abbiamo detto. Il concorso di abilitazione scientifica nazionale, infatti, non è un vero e proprio concorso (bandito per un certo numero di posti), ma una procedura volta a inserire in un elenco (senza contingenti numerici) di «abilitati» i candidati che abbiano dimostrato di possedere i necessari requisiti di maturità scientifica e didattica. La scelta fra gli aspiranti in possesso dell’abilitazione del docente da nominare viene quindi effettuata ancora dalla singola università, non più attraverso una procedura concorsuale ma in virtù di un più elastico «procedimento di chiamata». Così la meritocrazia viene messa ancor più a repentaglio da un sistema in cui si coniugano «localismo» e «abbandono del concorso», sostituito dalla combinazione di due procedure (l’abilitazione nazionale e la chiamata locale), nessuna delle quali è strettamente concorsuale. La mancata limitazione del numero di abilitazioni conferibili comporta, poi, il rischio di ridurre – se non di eliminare – la competizione fra i concorrenti e di pregiudicare ulteriormente il principio del merito, non essendoci alcun incentivo a garantire la qualità della selezione. Il pericolo è che la commissione nazionale sia generosa nel concedere una promozione che non costa nulla, spostando così ancor di più il baricentro del potere decisionale verso quelle entità locali che, in teoria, si vorrebbe depotenziare. Pur essendo necessaria, non è decisiva, per una reale inversione di rotta, la norma che, istituzionalizzando un sospetto ingenerato dalla pratica, ha fissato il divieto di partecipazione alle procedure di chiamata dei concorrenti che abbiano un rapporto di parentela o affinità sino al quarto grado con i docenti in servizio presso lo stesso dipartimento. L’esperienza applicativa ha, infatti, assistito alla sistematica elusione di tale divieto con chiamate incrociate di figli di docenti operanti in diverse accademie e con la creazione ad hoc di cattedre più o meno inutili. Fin qui le norme e le loro criticità. Sappiamo bene, però, che le regole dei concorsi non sono le cause principali della deriva antimeritocratica. Così come sappiamo che non può essere

ulteriormente differita un’azione riformatrice che elimini ambienti e contesti oggettivamente inclini ed esposti alla corruzione. È necessario, quindi, che il potere di selezione venga allontanato dai centri territoriali più influenzabili dagli interessi dei baroni e dei loro favoriti; che il concorso di abilitazione scientifica nazionale sia un concorso vero e proprio, con un numero ben preciso di posti disponibili; che si selezionino i componenti della commissione nazionale in modo da evitare contiguità e vicinanza con i candidati, privilegiando i commissari più scientificamente accreditati e anche incrementando la presenza di docenti stranieri lontani dai centri di interesse nazionali; che si stabiliscano, con linee guida omogenee e trasparenti, criteri di giudizio e parametri di valutazione, anche internazionalmente condivisi, che limitino la soggettiva discrezionalità dell’organo giudicante; che si potenzi la vigilanza degli organismi di controllo a tutti i livelli; che si metta mano a un sistema di controllo della legittimità delle procedure da parte del giudice amministrativo, capace di assicurare, come negli appalti pubblici, celerità dei tempi ed effettività della tutela.

I riflettori della magistratura sull’università La diffusione del fenomeno e l’indifferibilità della riforma dei meccanismi selettivi sono testimoniate, per i concorsi del vecchio come del nuovo regime, dal numero e dall’importanza delle indagini e dei processi penali riguardanti concorsi universitari truccati. Una vecchia regola della comunicazione (show, don’t tell!) impone a chi indaga sui fenomeni di mostrarli, anziché limitarsi a descriverli. Proviamo allora a illustrare i vari aspetti della casistica. Cominciamo con alcuni casi relativi a concorsi indetti dopo il varo della riforma Berlinguer (1998). Nell’ambito dell’inchiesta «Do ut des», la Procura di Bari ha accusato di associazione a delinquere decine di professori di Diritto costituzionale, ecclesiastico e pubblico. Sono stati coinvolti docenti e studi professionali delle università di Bari, Bologna, Firenze,

Macerata, Messina, Milano, Napoli, Piacenza, Reggio Calabria, Roma e Teramo. A Roma, nel 2013, è stata avviata un’indagine relativa a un concorso truccato per la scuola di cardiologia del policlinico Umberto I. Secondo l’accusa, una lettera inviata al quotidiano «la Repubblica» il 13 giugno avrebbe anticipato i sei nomi che sarebbero risultati vincitori il successivo 7 luglio. Fra i promossi, l’ex autista di un docente. L’elezione del rettore dell’Università di Siena, risalente al luglio 2010, è stata oggetto di un’inchiesta che, a marzo 2013, ha portato al rinvio a giudizio di due componenti di un seggio elettorale accusati di falso ideologico. Nel 2010, a Messina, la Guardia di Finanza ha arrestato due docenti dell’ateneo siciliano per l’inquinamento di un concorso di microbiologia. A luglio 2013 la Direzione investigativa antimafia ha arrestato sei persone, fra cui un docente di Economia, con l’accusa di corrompere i professori per condizionare l’esito degli esami. Fra gli studenti favoriti, i figli di alcuni boss mafiosi. Le cose non sono andate molto meglio con la riforma Gelmini del 2010, a dimostrazione di come il problema non sia solo di regole, ma, anche e soprattutto, di cultura, di mentalità. La nuova abilitazione scientifica nazionale, chiusa nel 2012, è costata oltre 120 milioni di euro, ma ha generato proteste a catena, accuse di favoritismi, migliaia di ricorsi al Tar e numerosi esposti in procura. Fra le contestazioni spiccano quelle di aver promosso candidati palesemente inferiori a quelli bocciati, la falsificazione dei curricula, l’addomesticamento delle commissioni, l’esistenza di legami di parentela e conflitti di interesse d’ogni sorta, l’esclusione di specialisti di fama mondiale, addirittura la nomina di commissari stranieri del tutto digiuni di lingua italiana. 27 Dodici studiosi stranieri si sono associati per inviare al ministro una lettera indignata in cui si dicono «inquietati» dall’esito delle selezioni. 28 Francesco Gazzoni, maestro indiscusso del Diritto privato, ha dedicato all’abilitazione scientifica nazionale un saggio intitolato Cooptazioni: ieri e oggi, dove dichiara: «Il potere accademico è una vera

e propria piovra mafiosa». 29 Le sue parole sono al vetriolo: «Cooptare, in sé, non è un male, lo diventa quando la scelta avviene, come sempre avviene, in base a criteri che prescindono dal merito … I professori di università sono novelli Caligola, con in più il fatto di promuovere, all’occorrenza, anche asini patentati in difetto di cavalli». 30 Naturalmente occorrerà attendere la conclusione delle indagini, gli esiti dei processi, le sentenze definitive. Ogni imputato si presume innocente fino a condanna passata in giudicato, e ogni procedura legittima fino all’annullamento da parte del giudice amministrativo di ultimo grado. Ma, al di là dei casi singoli, la malattia è chiara: un concetto distorto del potere che lo intende non come mezzo per perseguire l’interesse pubblico, ma per avvantaggiare parenti e amici. Affonda qui la radice dell’uso dispregiativo del termine «barone» per indicare i signori delle università. Ce lo ricorda Emiliano Fittipaldi, in un pezzo ironico che prende le mosse da Alessandro Manzoni: «Ah porci!», esclamò Perpetua. «Ah baroni!», esclamò don Abbondio. I lanzichenecchi, che nel 1630 distrussero la Lombardia, Manzoni li chiama proprio così, «baroni» (dal latino baro, baronis, «sciocco, stolto» ma anche «furfante, briccone»). I mammasantissima delle nostre facoltà non hanno portato la peste come i soldati tedeschi che assediarono Mantova, ma di certo il loro dominio incontrastato ha contribuito a devastare l’università italiana. Dove, al netto delle eccellenze e dei tanti onesti, è sempre più diffuso il morbo del familismo, della raccomandazione e del corporativismo, a scapito del merito, delle capacità dei più bravi, della fatica dei volenterosi. 31

Un popolo di santi, poeti, navigatori… di figli, nipoti, cognati… Non è certo un problema nuovo quello dei concorsi universitari addomesticati. Nel 1898, in una cronaca del «Corriere della Sera», si raccontava

che il ministro della Pubblica istruzione del governo Pelloux, Guido Baccelli, «impaurito e seccato dagli scandali occorsi nelle commissioni chiamate a giudicare pe’ i concorrenti alle cattedre vacanti d’università, abbia in animo di abbandonare il sistema adottato quest’anno per l’elezione delle commissioni». Cos’era successo? «Qualche concorrente» spiegava il cronista «non aveva trovato miglior mezzo per riuscire, di domandare la mano di sposa alla figliola di un commissario: il matrimonio si combinava per il dopo concorso; il fidanzato, manco a dirlo, riusciva primo, e festeggiava in un giorno medesimo la cattedra e la moglie.» Insomma, era Parentopoli già allora. Un male antico, apparentemente inestirpabile, un tappo al valore e al merito, che trasforma l’università in un luogo di ingiustizia sociale. Non vogliamo fare demagogia, ma neanche possiamo chiudere gli occhi di fronte a un problema sociale che spegne gli entusiasmi dei giovani senza santi in paradiso. 32 Un documentato libro-denuncia di Nino Luca dimostra che l’università italiana è troppo spesso un «affare di famiglia». 33 È un reportage spietato e spassoso su uno degli aspetti più drammatici dell’università italiana, quello dei concorsi che troppo spesso finiscono con il consegnare la cattedra a mogli, figli, cognati, amici e amici degli amici. Particolarmente interessanti sono le chiacchierate tra l’autore e alcuni dei protagonisti del mondo accademico. Come quella con Augusto Preti, che diventò rettore a Brescia nel lontanissimo 1983 e diceva scherzando: «Io sono il potere assoluto». O Pasquale Mistretta, il rettore dell’Università di Cagliari, secondo il quale «molti figli illustri, proprio a causa dei complessi d’inferiorità verso i padri, a volte si sono smarriti: alcuni sono finiti anche nel tunnel della droga», ragion per cui «quando un padre va in pensione, come un tempo succedeva in banca o all’Enel, è logico che ci sia un occhio di riguardo» per i figli. Il professore Giuseppe Nicotina spiega che il figlio ha vinto il concorso per il posto di ricercatore perché «i figli dei docenti sono più bravi: hanno tutta una forma mentis che si crea nell’ambito familiare tipico di noi professori». Insomma, è una

questione quasi genetica, una «selezione naturale». L’economista Roberto Perotti, in un saggio del 2008 dal titolo L’università truccata, 34 aveva già analizzato il caso barese, «tanto incredibile da raccontare in tutto il mondo». Alla facoltà di Economia, 42 docenti su 176 avevano tra loro legami di parentela: il 25%, record assoluto in Italia. Le dinastie palermitane sono 100, sparse in tutte le facoltà, per un totale di 230 docenti «imparentati». Molto superiori alla media sono anche le omonimie registrate negli organigrammi delle università di Napoli, Caserta, Sassari e Cagliari. Certo, non sempre avere lo stesso cognome significa essere parenti, ma, considerando che spesso molti familiari di professori hanno cognomi diversi, è un’attendibile quantificazione statistica, per approssimazione, della diffusione del nepotismo. Il dato italiano è in controtendenza con il resto d’Europa: quasi ovunque il tasso di omonimia nelle università è minore della media nazionale. Gli atenei, infatti, tendono ad attrarre docenti da fuori, con cognomi diversi da quelli locali. Perotti confronta poi i dati sulle omonimie con le valutazioni del Censis sulla qualità delle università. E, in media, gli atenei con più omonimi sono quelli che producono meno, e viceversa. 35 In un articolo dal titolo Un sistema da svecchiare, Salvatore Settis parla di «incesto»: «Un incesto accademico che talora accade (mariti, mogli, figli, generi e nuore che insegnano la stessa disciplina nello stesso Dipartimento), scandalo estremo che si presta a speciali attenzioni mediatiche, si spiega solo come ulteriore degenerazione di un costume ormai scontato». 36 Naturalmente, chi scrive non può esprimersi sui singoli casi. Essere figli non è e non dev’essere una colpa. È giusto che il figlio talentuoso di un barone faccia carriera, e non è neppure concepibile una discriminazione alla rovescia. Il problema nasce, però, quando fanno carriera solo parenti, amici e amanti di un barone. Perché allora la questione diventa di sistema, e l’università da virtuoso ascensore sociale si trasforma in luogo di perpetuazione del potere. Il nodo è serio, anche nel caso in cui i provvedimenti siano legittimi e non vi sia traccia di reati. La questione, infatti, non è di

diritto penale, ma etica. La carriera universitaria non può essere una questione di geni, di educazione, di ambiente, ma deve tornare un luogo di confronto, di competizione, di competenze. Altrimenti la più prestigiosa agenzia di formazione di un Paese moderno scadrà a bacino di coltura del familismo e del clientelismo.

Il trionfo del «familismo amorale» Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Un’università in cui in cattedra non va il docente migliore ma l’amico o il parente del barone fallisce nella sua funzione di trasmettere il sapere attraverso l’eccellenza di chi insegna. Senza bravi maestri, non c’è insegnamento, non c’è conoscenza, non c’è vera cultura, ma solo nozionismo, ignoranza, sterilità. Sono questi i frutti avvelenati del «familismo amorale», un concetto che merita una riflessione approfondita perché costituisce il volto che assume in genere la corruzione in ambito universitario. Il termine «familismo amorale» (amoral familism) è stato coniato dal politologo americano Edward C. Banfield 37 sulla scorta dell’esperienza maturata in un lungo soggiorno a Montegrano (nome di fantasia per indicare Chiaromonte), un paesino in provincia di Potenza, nella Basilicata arretrata di metà anni Cinquanta. Secondo il paradigma del familismo amorale, alcune comunità sarebbero bloccate nel loro sviluppo da una concezione patologica dei legami familiari che pregiudica la nascita di forme più ampie di associazione e, di conseguenza, della coesione sociale data dall’interesse collettivo. Gli individui sono mossi dal precetto arcaico di «massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo». In questo quadro si registra una sottovalutazione del bene comune, unitamente al disinteresse per ogni fine che vada al di là dell’interesse materiale e immediato della famiglia nucleare. Ecco spiegata, quindi, la locuzione «familismo amorale»: «familismo» perché l’individuo, animato solo dall’interesse della propria famiglia ristretta, trascura i bisogni della comunità, che

richiede la cooperazione tra non consanguinei; «amorale» perché solo tra familiari hanno cittadinanza le categorie di bene e di male, del tutto irrilevanti, anzi inesistenti, verso gli altri membri della comunità. L’amoralità produce allora assenza di ethos comunitario, con effetti inevitabilmente corruttivi sulla gestione del bene pubblico e sulla vita politica. Nessuno perseguirà l’interesse comune, salvo che per tornaconto personale. Illuminanti sono questi passi del libro di Banfield, che spiegano il concetto di illegalità e l’indefettibilità della corruzione. 38 In una società di familisti amorali, si agirà in violazione della legge ogni qual volta non vi sia ragione di temere una punizione. Per questo motivo i cittadini non stipuleranno accordi la cui realizzazione dipenda da procedimenti legali, a meno che non vi siano forti possibilità che la legge venga fatta rispettare, e il costo non ne sia tanto alto da rendere non conveniente l’impresa. … In campo fiscale, è scontato che tutti coloro che possono frodare lo Stato lo fanno. Quanto alla legislazione sul minimo salario e sui contributi assistenziali dovuti dal datore di lavoro per il personale di servizio, essa è universalmente ignorata. Il datore di lavoro paga il lavoratore solo se non può farne a meno. Ognuno preferisce essere proprietario di un fazzoletto di terra da solo, piuttosto che associarsi ad altri o essere mezzadri di terre più estese. … Il familista amorale, quando riveste una carica pubblica, accetterà buste e favori, se riesce a farlo senza avere noie, ma in ogni caso, che egli lo faccia o no, la società di familisti amorali non ha dubbi sulla sua disonestà. … Un maestro disse: «Al giorno d’oggi ci si fa strada solo con mance e raccomandazioni. Tutti gli esami sono fatti così, e quelli che vanno avanti sono quelli che hanno più “spinte”. Io darei qualsiasi cosa per non dover assistere a cose di questo genere». Il commerciante più agiato di Montegrano sta costruendo un cinema. Gli è però necessario uno speciale permesso dalle autorità competenti. La sua richiesta non è stata presa in esame, benché sia stata presentata da molti mesi. «Se prendessi una busta con centomila lire e la infilassi nella tasca giusta, otterrei

l’autorizzazione immediatamente: è la bustarella che fa andare avanti le cose. Piccoli o grossi, vogliono tutti la bustarella.» «E allora perché lei non lo fa?» «Perché non ho centomila lire da spendere.»

La teoria di Banfield assegnava un ruolo decisivo all’arretratezza socio-economica del Sud Italia del dopoguerra, tanto che si è parlato di «familismo amorale arcaico». Ma l’esperienza dimostra che il fenomeno ha resistito indenne alle successive trasformazioni economiche, all’industrializzazione e al generale miglioramento delle condizioni di vita. Oggi si può dire che abbiamo a che fare con il «familismo amorale della modernità», come spiegano in un recente saggio Paul Ginsborg e Sergio Labate, secondo i quali una nutrita serie di fattori – come l’assenza di una pedagogia repubblicana che insegnasse una visione alternativa del rapporto tra amore per la famiglia e amore per lo Stato, una cultura statale improntata al lassismo, l’incapacità di investire in soluzioni collettive – ha consentito al familismo di trovare lo spazio per rafforzarsi e riprodursi non più come fenomeno di una società arcaica ma della modernità. 39 Il familismo amorale, insieme a quella sua propaggine che è il «clientelismo» – imperniato sull’estensione alla «rete amicale» del principio della prevalenza degli interessi particolari su quelli generali –, è alla base della latitanza del principio del merito nelle istituzioni universitarie e della «lottizzazione delle cattedre». 40 La logica dei concorsi pilotati non è la scelta del migliore, bensì la cooptazione «familistica», l’«affiliazione»: un sistema chiuso e fondato sul principio che chi appartiene al gruppo e ha ottenuto il posto grazie a favori personali non può e non deve trasgredire le regole di cui ha usufruito. Le accennate riforme delle procedure concorsuali e l’auspicabile ampliamento dei fondi destinati alle istituzioni universitarie e alla ricerca nulla potranno se non saranno accompagnati dallo sforzo, in primo luogo culturale, di estirpare le radici familistiche e clientelari della crisi in cui versa oggi il sistema universitario italiano.

Noi siamo cultura «L’uomo si caratterizza per il possesso di una cultura. È questo lo specifico della sua natura. Gli animali vivono solo del retaggio della loro evoluzione biologica. Noi vi aggiungiamo una crescita culturale, da intendersi come successione e sviluppo delle fasi della nostra cultura. Viviamo immersi nella cultura, ne condividiamo i trionfi e le cadute, come una sorta di destino, in quanto specie e in quanto individui.» Così prende le mosse il bel saggio di Edoardo Boncinelli, che ci ricorda che noi uomini «non abbiamo cultura», ma «siamo cultura». 41 La cultura è dentro di noi, è una parte di noi che incide sul nostro carattere, sui nostri comportamenti, sulla nostra psicologia. Il passato è cultura, e la cultura è la sola nostra possibilità di avere un futuro. Perché se la nostra vita è scritta in buona misura nel codice genetico, è altrettanto innegabile che le nostre esistenze sono plasmate in modo decisivo dalla pulsione di sapere, dalla libertà che acquisiamo attraverso la conoscenza. «Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate l’ignoranza» ammonisce Derek Bok, storico rettore dell’Università di Harvard. Infatti, la qualità del capitale umano di una società, prodotta dal miglioramento culturale del singolo, ha un’incidenza diretta sulla crescita economica, sui costi del welfare, sull’innovazione, sulla produttività, sull’occupazione, ma anche su altri indicatori sociali, quali una maggiore speranza di vita, una più consapevole partecipazione alla vita democratica, un minor tasso di criminalità, una maggiore impermeabilità alla corruzione e all’illegalità. 42 Ecco allora il vero, gravissimo danno prodotto da un sistema universitario corrotto: inaridire la cultura, non trasmettere il sapere, non aprire le porte al futuro. Se l’università non funziona, i nostri cervelli migliori andranno all’estero a caccia di opportunità, quelli stranieri ci trascureranno. E noi saremo più soli e meno uomini.

V

La corruzione fa scappare i cervelli italiani e tiene lontani gli investitori stranieri Non chiedeteci perché siamo partiti, chiedeteci perché siamo ancora qui. ANNALAURA D’ANGELO

Storie di italiani che scappano Il nome di Roberta D’Alessandro, docente di Linguistica all’Università di Leida, in Olanda, è finito sulle prime pagine dei giornali per un post in cui, qualche mese fa, polemizzava con l’allora ministro dell’Istruzione Stefania Giannini, dicendole che aveva fatto male a vantarsi dei successi di ricercatori italiani nei bandi europei: come la maggior parte dei suoi colleghi, infatti, anche lei lavorava ormai da anni all’estero per colpa dell’opacità del sistema italiano dei concorsi. La sua storia è esemplare. La brillante ricercatrice si è trasferita in Canada e, quindi, in Olanda, dove è diventata professore ordinario a 33 anni, dopo innumerevoli bocciature subite nei nostri atenei. Intervistata dalla giornalista della «Repubblica» Silvia Bencivelli, Roberta D’Alessandro racconta di aver ricevuto spesso i complimenti della commissione: «In molti casi era chiaro, ed era messo a verbale, che ero più qualificata di chi aveva vinto». 1 Le bocciature erano invece motivate con pretesti vari e, talora, fantasiosi: «Una volta scrissero nel verbale che l’attività svolta all’estero non era quantificabile. Diventava un demerito. Quando invece è il contrario. Quindi quando ho sentito la frase orgogliosa del ministro sui “ricercatori italiani” mi è salita la rabbia. Ma come: l’attività svolta all’estero non valeva allora per farmi vincere, e vale adesso per appropriarsi dei miei meriti?». Sono interessanti anche le sue considerazioni sulla ricerca che sta svolgendo fuori dall’Italia: «La competizione per vincere un finanziamento Erc è davvero spietata: ci sono soltanto 300 borse per tutte le discipline in tutta Europa. E ho vinto. Due milioni di euro. Ma i fondi europei vinti da quelli come me non sono “per la ricerca italiana”, ma “per la ricerca fatta da italiani”. Ed è molto diverso. Noi

siamo di nazionalità italiana, ma molti di noi i fondi che l’Europa ci assegna per fare ricerca non li spendiamo in Italia». Roberta conclude esprimendo il sogno di tornare a vivere in Italia con il marito olandese, insieme alla consapevolezza della difficoltà dell’abbraccio con un Paese che non dà spazio al talento e non remunera adeguatamente le alte professionalità. Il tema della mancata valorizzazione dei talenti in Italia è ormai talmente diffuso da aver trovato eco anche nell’omelia pronunciata da papa Francesco nell’ultimo Te Deum di ringraziamento per l’anno trascorso: «Abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati dalla vita pubblica obbligandoli a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono o che non permettono loro di proiettarsi in un domani. … Ci aspettiamo da loro ed esigiamo che siano fermento di futuro, ma li discriminiamo e li “condanniamo” a bussare a porte che per lo più rimangono chiuse». 2 In una significativa concomitanza temporale, poche ore dopo, quello stesso 31 dicembre 2016, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è tornato sull’argomento nel suo messaggio di fine anno. Rivolgendosi ai giovani italiani all’estero, il capo dello Stato ha affermato: «Molti di voi studiano o lavorano in altri Paesi d’Europa. Questa, spesso, è una grande opportunità. Ma deve essere una scelta libera. Se si è costretti a lasciare l’Italia per mancanza di occasioni, si è di fronte a una patologia, cui bisogna porre rimedio. I giovani che decidono di farlo meritano, sempre, rispetto e sostegno. E quando non si può riportare nel nostro Paese l’esperienza maturata all’estero viene impoverita l’intera società». 3 A riproporre con drammatica forza il tema della fuga dei cervelli era stato, pochi giorni prima, l’attentato terroristico al mercatino natalizio di Breitscheidplatz, a Berlino. Come già accaduto per l’attacco al Bataclan di Parigi, dove a perdere la vita era stata Valeria Solesin, anche nella capitale tedesca è morta una giovane e brillante laureata che aveva lasciato l’Italia: Fabrizia Di Lorenzo. «Era una splendida stella, ma è dovuta andare via per riuscire a brillare» ha detto durante i suoi funerali il vescovo di Sulmona, Angelo Spina, per

poi aggiungere, in modo ancora più significativo: «Era andata via da qui per cercare lavoro, ha dovuto lasciare questa terra che non riesce a dare speranza a questi giovani per il lavoro». 4 Fabrizia Di Lorenzo aveva frequentato il liceo linguistico e, dopo la laurea magistrale in Relazioni internazionali e diplomatiche, si era iscritta a un master in lingua tedesca. Può darsi, quindi, che andare a vivere in Germania rientrasse nei suoi piani e che la sua scelta, come forse anche quella di Valeria Solesin, non fosse dettata solo dalla necessità. Insomma, può darsi che non si trattasse necessariamente di due cervelli in fuga, ma di due ragazze della generazione Erasmus che vedevano nella casa comune europea la possibilità di costruire altrove il proprio futuro. Eppure, a prescindere dalle motivazioni personali che possono aver indotto Fabrizia a vivere e studiare all’estero, non si può restare indifferenti davanti al suo ultimo tweet, risalente a qualche giorno prima della morte, che per un tragico destino è finito per diventare una sorta di testamento involontario: una citazione tratta dal film La meglio gioventù, in cui un docente universitario, al termine di un esame, invita il protagonista ad andarsene dall’Italia finché è in tempo, perché «qui rimane tutto immobile, uguale, in mano ai dinosauri». 5 In un articolo sulla «Stampa», Maria Corbi ha analizzato i percorsi e le motivazioni di alcuni di questi giovani che scelgono di allontanarsi dall’Italia già durante gli studi (secondo i dati Unesco, nel 2006 i nostri connazionali iscritti a un corso di laurea in una nazione straniera erano 34.000, numero oggi salito oltre quota 50.000). 6 Alessandro, 19 anni, iscritto al secondo anno di ingegneria meccanica alla University College di Londra, precisa di non sentirsi in colpa: «Perché devo caricarmi sulle spalle la responsabilità di un Paese che non cresce, immerso nella corruzione, che non finanzia le università?». Camilla, 19 anni, frequenta la Westminster University, facoltà di Legge. La sua analisi è chiara: «Voglio prendere la doppia laurea. Prima quella inglese e poi quella italiana, a Bologna. Credo che sia un’opportunità in più per me. Ormai il mercato del lavoro non ha

confini. E l’Italia offre poco, anche per chi come me potrebbe fare la libera professione. È il mio primo anno e sono molto contenta, studiamo molto e siamo molto seguiti, rispetto all’Italia qui l’approccio è più pratico, meno concettuale». Marco, al secondo anno della School of Economics and Finance di Bristol, è spietato: «Non ho intenzione di tornare a tutti i costi. Ero entrato anche alla Bocconi ma ho scelto Bristol, prima di tutto perché è più avanti nei ranking internazionali e poi perché volevo andare all’estero. Tra l’altro in Italia gli aiuti economici sono quasi inesistenti per gli studenti. Mentre qui ho potuto fare un loan con il governo, un prestito d’onore. In pratica non pago l’università che sono 9000 sterline all’anno e onorerò il mio debito solo quando avrò un lavoro che mi garantisce più di 21.000 sterline l’anno. E le rate saranno del 9% sulla differenza tra il mio reddito e 21.000 sterline. Con tassi di interesse vantaggiosi». Il fenomeno assume dimensioni ancor più rilevanti se si considera che la fuga dall’Italia riguarda non solo laureati e ricercatori, ma anche studenti attratti dalla prospettiva di un’esperienza universitaria più ricca e qualificante, giovani in cerca di occupazione e, da qualche tempo a questa parte, persino famiglie, adulti e anziani che desiderano una migliore qualità di vita, una pressione fiscale meno gravosa, una sanità più efficiente e una burocrazia meno ostile e corrotta. Alessandro Castagna, in Come lasciare tutto e cambiare vita, 7 racconta alcune storie dei 400.000 pensionati italiani che hanno abbandonato il nostro Paese. «Qui con 1000 euro si sta benissimo» racconta Ciro Fantini, che si è trasferito in Tunisia, soprattutto per approfittare del regime fiscale. «Pago il 25% di tasse sul 20% del reddito. E questo mi permette di recuperare una parte consistente della mia pensione. Ho il pacemaker e devo tenermi sotto controllo. Grazie a una convenzione potrei accedere agli ospedali pubblici, però mi sono fatto visitare da un primario pagando 50 dinari, 25 euro.» Giuseppe e Maria Grazia Tommasoni hanno preferito la Gran Canaria: «Con 400 euro al mese si mangia, altri 500 si spendono per la casa. C’è una buona assistenza medica europea, insieme a un regime

fiscale privilegiato. Paghiamo il 40% di tasse in meno che in Italia, l’Iva è al massimo al 13,5%, la benzina costa la metà». Storie diverse, quelle che abbiamo raccontato, ma con un denominatore comune: la scarsa attrattività dell’Italia per italiani e stranieri, la sua progressiva perdita di appeal, che lascia intravedere un rischio, sempre più serio e concreto, di «desertificazione». Gli stessi dati sul numero degli abitanti censiti nel nostro Paese sembrano confermare questa impressione. In un anno abbiamo perso oltre 130.000 unità, come se una nostra città di medie dimensioni fosse stata inghiottita dal nulla. E se in passato il massiccio arrivo di stranieri sopperiva al calo demografico, oggi non è più così. In particolare, alla fine del 2015 i residenti nel nostro Paese erano 60 milioni 665.551, di cui oltre 5 milioni di stranieri, con un saldo negativo di 130.061 persone rispetto all’anno precedente. Si tratta della flessione più consistente registrata negli ultimi novant’anni e che riguarda i cittadini italiani (141.777 residenti in meno), in quanto gli stranieri aumentano ancora, sia pur soltanto di 11.716 unità. La fotografia è stata scattata dall’Istat, nel bilancio demografico nazionale del 2015, diffuso dai principali giornali italiani l’11 giugno 2016. 8 Nel 2015 sono nati 485.780 nuovi italiani, a fronte di 647.571 decessi. Più tombe che culle, quindi, con un differenziale negativo di 161.791 unità. Solo nel biennio 1917-18 il quadro era peggiore, ma allora c’era la Grande Guerra. Oggi, invece, la criticità demografica viene registrata in tempo di pace. Il saldo negativo della popolazione italiana (–227.390 persone) è solo parzialmente compensato da quello positivo degli stranieri (+65.599).

Più corruzione, meno talenti La locuzione «fuga dei cervelli» (in inglese, human capital flight o, più sinteticamente, brain drain) viene utilizzata per indicare il fenomeno dell’emigrazione all’estero di persone di particolare talento o alta specializzazione professionale ed è un calco dell’espressione

«fuga di capitali», vale a dire il disinvestimento economico e finanziario da Paesi nei quali sono venute meno condizioni favorevoli all’attività imprenditoriale. Del resto, la fuga dei cervelli ha effetti analoghi a quella dei capitali (in questo caso, di «capitale umano»): rallenta il progresso economico, tecnologico e culturale, ostacolando o addirittura impedendo il ricambio della classe dirigente. Dai dati disponibili è possibile arguire che i laureati che lasciano l’Italia siano in media 3000 all’anno, con una tendenza all’aumento. Secondo una recente indagine Ocse (2015), il tasso di espatrio dei laureati italiani si attesta al 7%, una percentuale che si dilata se si valutano le intenzioni, visto che il 60% dei giovani fra i 18 e i 32 anni riconosce la necessità di lasciare l’Italia per avere migliori prospettive di vita e maggiori opportunità professionali. Le mete tradizionali non sono soltanto i Paesi all’avanguardia nel settore della ricerca, come Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Nord Europa, ma anche quelli che fino a pochi anni fa venivano considerati «in via di sviluppo», come Polonia, India e Indonesia. Ora, che giovani di valore, neolaureati o freschi dottori di ricerca abbiano l’opportunità di crescere in università e centri d’eccellenza all’estero è un fatto fisiologico e auspicabile. Al giorno d’oggi la mobilità dei capitali umani è il frutto della globalizzazione dell’economia e della ricerca. Ed è giusto, anzi necessario, che i cervelli del mondo si incontrino, dialoghino, si nutrano a vicenda, si arricchiscano con la magia della contaminazione. Anche perché la cultura è, per definizione, conoscenza dell’altro, viaggio, esperienza, esplorazione di continenti diversi, ricerca di pianeti lontani. 9 La cultura è diversità, per dirla come Zygmunt Bauman. Il dramma è che le nostre menti più giovani e brillanti, i nostri talenti, non abbandonano l’Italia per arricchire e affinare le loro competenze all’estero, ma, spesso, per non farvi più ritorno. 10 Chi va via dall’Italia e decide di lavorare all’estero lo fa per mille motivi, in primo luogo per un’oggettiva carenza di concrete opportunità di lavoro o per scelte di carattere personale. Tuttavia, dalle interviste e dalle statistiche emerge un denominatore comune:

l’esigenza di vivere in un Paese dove siano realmente valorizzati merito e competenze, a scapito di raccomandazioni e burocrazia. C’è chi è partito perché si sapeva già chi avrebbe vinto i bandi di dottorato. Chi perché ritiene che gli sia stato soffiato il posto da ricercatore dall’amante del professore, dal raccomandato di turno, dal figlio o dal protégé del barone. Chi per competere in modo virtuoso in un sistema di regole chiare ed eque. Chi perché si è arreso di fronte a un Paese in cui, secondo i dati Eurostat, il 70% dei posti di lavoro viene assegnato solo per conoscenza diretta. Chi per avere interlocutori professionalmente competenti. Insomma, ognuno con una motivazione diversa, ma quasi tutti per potersi costruire un futuro migliore di quello che sarebbe probabilmente toccato loro in patria. 11 Ma perché l’Italia è vista come una prigione, un Paese che non ha più nulla da offrire, dai cervelli, dai giovani laureati, dai tanti italiani che cercano altri angoli del pianeta per studiare, lavorare e vivere? Ovviamente, anche in questo caso, le ragioni sono tante, ma una delle principali è senz’altro la corruzione. Lo documenta, numeri alla mano, uno studio pubblicato nel 2013 da due ricercatori italiani (nemmeno a farlo apposta, emigrati all’estero), che mostra l’incidenza del fenomeno corruttivo sui flussi migratori: «La corruzione favorisce le uscite spingendo i cittadini altamente qualificati a trasferirsi verso altri Paesi meno corrotti e ostacola gli ingressi scoraggiando i lavoratori stranieri di talento. I risultati mostrano una significativa correlazione negativa tra corruzione e flussi in entrata, il che significa che maggiore è la corruzione del Paese, minore è l’immigrazione di lavoratori qualificati stranieri. Allo stesso tempo vi è una significativa correlazione positiva tra corruzione e flussi in uscita, che vuol dire che le persone qualificate sono più propense a trasferirsi all’estero se il loro Paese di origine è altamente corrotto». 12 La conclusione degli autori è lapidaria: «Nei Paesi in cui i corrotti determinano l’accesso al mercato del lavoro attraverso legami familiari, denaro o affiliazione politica, l’emigrazione del lavoro altamente qualificato è alta e l’afflusso di talenti stranieri è ridotto,

creando così un deficit». È esattamente quello che accade spesso in Italia dove, al contrario dei principali Paesi avanzati in cui prevale uno «scambio di cervelli», il numero di coloro che se ne vanno non è compensato dal numero di stranieri istruiti in arrivo. Secondo le stime del Cnr, il rapporto fra i ricercatori che hanno lasciato l’Italia e quelli che vi sono entrati registra un inquietante –13%, unico saldo negativo in Europa. 13 Un fenomeno, notava già nel 2011 «The Economist», tipico di un Paese in via di sviluppo più che di un’economia avanzata, 14 e che rappresenta una perdita anche in termini economici: basti pensare ai costi sostenuti per la formazione del capitale umano che migra verso altri lidi. In un saggio scritto nel 2016 a quattro mani da un professore universitario e da un consulente aziendale, dall’accattivante titolo Il vantaggio dell’attaccante, 15 si forniscono dati (risalenti al 2012, ma ritenuti comunque ancora attuali) sui ricercatori italiani all’estero e sui ricercatori stranieri in Italia: ebbene, mentre i primi raggiungono una percentuale del 16,2%, i secondi sono appena il 3%, ed è interessante il confronto con i numeri, relativi allo stesso anno, del Regno Unito (32,9% di ricercatori stranieri a fronte del 25,1 di ricercatori britannici andati all’estero) e della Germania (23,2% di ricercatori stranieri a fronte del 23,3 di ricercatori tedeschi andati all’estero). Le conclusioni che vengono tratte dai due autori meritano di essere qui riprese: «Se per tedeschi e inglesi non è difficile ipotizzare l’interesse a conoscere realtà diverse, per gli italiani molto probabilmente si tratta della mancanza di possibilità nel loro Paese, la stessa ragione che inibisce l’interesse dei ricercatori stranieri nei nostri confronti. Si tratta per gli italiani di push (spinta fuori) piuttosto che di pull (attrazione da fuori). La differenza non è irrilevante». Gli stessi autori, del resto, riportano i dati elaborati dalla Banca Mondiale sulla government effectiveness, cioè sull’efficienza della Pubblica Amministrazione, e quelli elaborati dalla Cornell University sul Global Innovation Index, che misurano la capacità di innovazione, dati secondo cui l’Italia risulta ultima nel paragone con Francia, Germania, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti. 16

Insomma, ci sarebbe di che preoccuparsi seriamente. Invece, ogni volta che se ne parla, una parte della politica sembra reagire con avversione, e talvolta perfino fastidio, allargando ulteriormente il distacco con il Paese reale e dando l’impressione di non avere la benché minima consapevolezza del sentire comune. Ecco, allora, che gli over 30 che vivono ancora in famiglia diventano tout court dei «bamboccioni», e quelli che, sfiancati dal precariato e dai miseri salari, aspirano a un’occupazione stabile, vengono accusati di nutrire l’«illusione» di poter risiedere «nella stessa città e magari accanto a mamma e papà»; e se rifiutano offerte di lavoro, non è perché le ritengono inadeguate rispetto alle loro competenze, ma perché sono «troppo choosy», cioè «schizzinosi». 17 Sorprende ancor di più che, a fine 2016, un ministro della Repubblica dichiari ancora che «bisogna correggere l’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori»: «Se ne vanno 100.000, ce ne sono 60 milioni qui. Sarebbe a dire che i 100.000 bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei “pistola”. Permettetemi di contestare questa tesi. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi». 18 Di quelle parole il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali si è poi scusato, spiegando di essere stato equivocato e, pur volendo credere alla sua buona fede, non si può non notare che esse finiscono per porsi in linea con quelle sopra ricordate di suoi predecessori. Esse denotano, comunque, una scarsa comprensione del problema, dal momento che nessuno pensa che chi va all’estero sia migliore di chi resta. E rafforzano la sensazione che i cervelli in fuga vengano visti da una parte della classe dirigente con malcelato fastidio. A costo di apparire semplificatori e populisti, un commento (forse malevolo) si impone: molti più fortunati «figli di», il posto «accanto a mamma e papà» lo hanno trovato, talvolta nel senso letterale del termine. In Italia, però, non sono solo i giovani ad andar via. Fuggono anche i professionisti, i capitali, le imprese. 19 Perché la corruzione, oltre a essere la concausa del brain drain, è anche un ostacolo all’innovazione, il vero banco di prova su cui oggi si misurano le

economie avanzate. Lo spiega chiaramente una ricerca pubblicata nel 2015 sul settimanale britannico «Nature»: Nei luoghi in cui la meritocrazia non riesce a prendere piede, l’allocazione delle risorse avviene in base a meccanismi di favoritismo piuttosto che etici. In questi contesti, la scienza e la ricerca sono emarginate perché coloro che detengono il potere temono che il merito minacci il loro principale obiettivo: il controllo dell’accesso alle risorse pubbliche e private. I governi che comprano il consenso non investono molto in formazione e nella ricerca, poiché il ritorno è visto come troppo incerto. La costruzione di uno stadio o di un nuovo aeroporto lusinga le aziende scelte per costruirlo (che possono contribuire alla successiva campagna elettorale) e i molti elettori che lo utilizzano. Un migliaio di borse di studio nel campo degli studi scientifici, al contrario, sono molto meno redditizie sotto questo punto di vista, perché non possono essere assegnate a «compari» senza attitudine scientifica. Questo è il motivo per cui i Paesi dell’Ue in cui c’è più corruzione spendono di più su grandi progetti come la costruzione di strade e di treni ad alta velocità piuttosto che su salute, ricerca, istruzione e sviluppo. 20

Si tratta di considerazioni perfettamente in linea con l’esperienza comune di chi è nato e cresciuto in Italia, fra le cattedrali nel deserto della Prima Repubblica – innalzate spesso, più che per effettiva utilità, per ottenere finanziamenti pubblici e blandire il collegio elettorale dell’onorevole di turno – e «Grandi Opere», che non si sono rivelate altro che «grandi mangiatoie» su cui hanno prosperato le più disparate cricche politico-imprenditoriali. Così il cerchio si chiude: la corruzione infetta il libero dispiegarsi del talento, sopprime il merito a vantaggio della mediocrità (la già citata «mediocrazia», come l’ha definita Alain Deneault), spinge le energie migliori alla fuga, crea ulteriori ostacoli all’innovazione, lucra sui cantieri faraonici dalla dubbia utilità sociale. E dai cantieri si torna, ancora una volta, al tema dell’occupazione. In un Paese afflitto dalla corruzione, specie in tempi di crisi, le (poche) opportunità che ci sono non vengono distribuite in base al merito, alla capacità, al talento, a logiche concorrenziali e a dinamiche

competitive, bensì (anche se, per fortuna, non sempre) in funzione della mazzetta, della segnalazione, delle conoscenze, della rete di relazioni di cui si dispone. La pratica della raccomandazione e la sistematica prevalenza degli interessi particolari conducono a un sistema clientelare basato su elargizioni e spartizioni. In un ambiente culturale poco sensibile alla grammatica della moralità, la pratica del favore non ha alcuna valenza negativa, anzi è il modo naturale di andare avanti. 21 Con i concorsi pubblici divenuti un miraggio, i canali di accesso alla Pubblica Amministrazione chiusi dal blocco del turn over e da un mercato del lavoro ingessato, in cui investimenti e ricerca sono spesso ridotti al lumicino, il posto di lavoro è diventato, infatti, una merce di scambio sempre più preziosa. Recenti inchieste giudiziarie hanno dimostrato come ormai le nuove tangenti vengano sempre più «pagate» sotto forma di consulenze o assunzioni di comodo. A fare da bacino collettore non sono più soltanto le società pubbliche (di cui si dirà in altro capitolo), ma anche molte aziende che devono la loro sopravvivenza a commesse pubbliche, innescando in questo modo un circolo vizioso fra pubblico e privato. Fra l’altro, questa equazione – appalti in cambio di posti di lavoro – non solo ha rappresentato l’assunto clientelare su cui si è retta gran parte della Prima Repubblica, ma è tuttora lo strumento principe utilizzato dalla versione imprenditoriale della criminalità organizzata, che impone questo «balzello» alle ditte in cambio della possibilità di operare senza ritorsioni. Ecco perché alla lotta contro la disoccupazione e all’aumento degli investimenti in istruzione e ricerca è necessario associare una seria e agguerrita azione di contrasto alla corruzione, in modo da garantire l’esistenza di un mercato del lavoro leale e meritocratico, capace di trattenere i propri talenti, offrendo a ogni giovane la possibilità di soddisfare le proprie prospettive di carriera. Insomma, bisogna cambiare il Paese per non dover cambiare Paese. 22

Un Paese corrotto non attrae investitori stranieri

Nel libro Perché le nazioni falliscono, Daron Acemoglu e James Robinson spiegano che il discrimine fra sviluppo e sottosviluppo non è, in ultima istanza, la disponibilità delle risorse naturali, né la forza militare e politica, ma la qualità del governo. 23 Il buon governo è un fine in sé, fondamentale per accrescere la fiducia dei cittadini e aumentare la ricchezza prodotta. Nelle differenti epoche storiche emerge così in modo evidente il nesso fra sviluppo economico e buon governo, inteso come assunzione di responsabilità di fronte ai cittadini e limitazione dei fenomeni di cattiva burocrazia. Si tratta di una correlazione difficilmente confutabile: le aziende traggono beneficio da un’amministrazione virtuosa, che non impone alle imprese oneri aggiuntivi, premia il merito ed espelle dal mercato gli operatori scorretti e inefficienti. La corruzione, invece, impedisce alle forze economiche sane di svolgere la propria attività e, soprattutto, di avvalersi dei benefici dell’innovazione tecnologica e di prodotto, ovvero delle forze migliori presenti sul mercato. In un mercato senza regole etiche, l’impresa malata vince su quella sana, l’economia viziosa strangola le energie virtuose, il tornaconto selvaggio dell’oggi soffoca ogni investimento sul domani. A ciò si aggiunga che il malaffare frena il progresso tecnologico delle aziende, spinge a investire nel mercato della mazzetta più che in quello dell’innovazione e della ricerca. Un recente studio della Banca Mondiale, condotto su un ampio numero di Paesi, dimostra che le imprese costrette a ricorrere sistematicamente al lubrificante della tangente crescono in media quasi del 25% in meno di quelle immuni dal virus. Si calcola che, se l’Italia avesse migliorato la propria posizione nella classifica dei Paesi per indice di percezione della corruzione di Transparency International, portandosi al livello di quelli che ne soffrono meno (per esempio, la Danimarca), il tasso di crescita economica sarebbe stato il triplo nel breve termine e circa il doppio nel lungo termine. 24 Se, forse, una tale prospettiva di crescita può apparire eccessivamente ottimistica, va ricordato come, secondo la letteratura più recente, sia ormai accertato il legame di proporzionalità inversa

fra illeciti e sviluppo: la corruzione riduce la produttività complessiva, che dipende in modo significativo dalla qualità delle istituzioni e dalla loro efficienza. In Italia, negli ultimi dieci anni il tasso di crescita medio è stato inferiore allo 0,5%, a fronte di un tasso medio europeo superiore all’1%. La conferma del rapporto esistente fra crescita del Paese e tassi di corruzione viene da un recente studio di un noto economista inglese, autore di vari best seller, Paul Ormerod, pubblicato in traduzione italiana nell’«Indice delle liberalizzazioni 2016». 25 In particolare, Ormerod effettua una correlazione fra l’indice di percezione della corruzione e quello della crescita di 20 Paesi dell’Eurozona negli anni dal 2007 al 2015: il rapporto risulta pari a 0,944, il che, da un punto di vista meramente statistico, dimostra la sostanziale similitudine dei dati: il tasso di crescita appare rapportabile a quello della corruzione percepita. E questo porta il ricercatore a concludere che «una parte considerevole della variabilità dei tassi di crescita nel periodo 20072015 esibita dal campione di 20 Paesi presi in esame può essere spiegata sulla base di due sole variabili, ossia l’appartenenza all’Eurozona e il livello di corruzione nell’economia». 26 Non c’è da stupirsi, quindi, se un Paese infettato dal malaffare non sia in grado di attrarre gli investimenti stranieri. Le ultime stime definitive del Censis riguardano il 2013, anno in cui tali investimenti sono crollati, dai 29,5 miliardi di euro nel 2007, a 12,4 miliardi. 27 Un operatore economico, interessato ad agire in un mercato che premi capacità e meriti secondo logiche concorrenziali, è disincentivato a impiegare il proprio denaro in un Paese in cui l’aggiudicazione di un appalto, il rilascio di un’autorizzazione o la concessione di un finanziamento dipendono, invece, da meccanismi non sempre trasparenti. Emblematica, sotto questo aspetto, è la vicenda della British Gas. Nel corso del 2012, dopo undici anni di attesa delle autorizzazioni, l’azienda inglese ha deciso di abbandonare il progetto del terminal rigassificatore di Brindisi, che avrebbe soddisfatto circa il 10% del consumo nazionale, con movimentazione di gas naturale liquefatto pari a circa 6 milioni di tonnellate/anno, trasformati poi in 8 miliardi

di metri cubi di gas naturale immesso in rete, e costi di realizzazione pari a 800 milioni di euro. L’amministratore delegato di British Gas Italia, Luca Manzella, ha annunciato di aver chiesto la mobilità per i venti dipendenti, precisando che, nonostante i 250 milioni di euro già investiti, «la casa madre, delusa e scoraggiata dall’infinito braccio di ferro con le autorità italiane, ha deciso di riconsiderare dalle fondamenta la fattibilità dell’investimento»: «Noi pensiamo che il governo dovrebbe inviare messaggi chiari e rassicuranti agli investitori industriali, che hanno un enorme bisogno di certezze. Sul piano internazionale, infatti, si ha la netta percezione che l’investimento sia rischioso. Le procedure di autorizzazione di progetti e investimenti devono avvenire in tempi certi; questo già sarebbe un gran passo avanti per il Paese». In questa vicenda non ci sono fatti di corruzione né accertati né presunti, ma l’inefficienza di una burocrazia che, spesso anche a causa di regole contraddittorie e incomprensibili, appare incapace di dare risposte chiare e in tempi certi. Ed è noto come, tante volte, alcuni ostacoli possano essere posti strumentalmente per creare legami corruttivi, inducendo aziende che hanno una reputazione internazionale da difendere a rinunciare anche a prospettive di affari lucrosi, per evitare ogni tipo di contatto illecito. Per designare il fenomeno dell’abbandono dell’Italia da parte degli investitori stranieri è stato usato il verbo inglese to desert. 28 In altre parole, intorno a noi rischia di farsi terra bruciata, desertificata. Oggi, spesso, veniamo evitati, o quantomeno non si consiglia agli investitori di impegnare i loro soldi nel nostro Paese, mentre fino a qualche tempo fa eravamo oggetto dei desideri e meta dei sogni di tutti gli operatori economici del mondo. Le aziende straniere, come detto, vanno via dall’Italia a causa di molteplici fattori, quali la complessità del quadro normativo, la lunghezza e le lungaggini delle procedure burocratiche, la lentezza della giustizia civile, l’inefficienza della Pubblica Amministrazione, 29 l’eccessiva pressione fiscale, il controllo sul territorio da parte della criminalità organizzata.

Le indagini statistiche dimostrano, però, che la corruzione è una concausa rilevante. Ed è questa la seconda e deprimente faccia dell’odioso fenomeno: scoraggiare la scelta dell’Italia quale luogo in cui cercare la propria via alla felicità.

L’Italia, una bellezza sfiorita? Quelli sopra esposti sono una serie di elementi che consentono di comprendere come per l’Italia la corruzione non sia un problema, ma il problema, e che la legalità non è un optional, bensì la spina dorsale di una società veramente civile. Un Paese che perde la bussola dell’etica pubblica e della moralità del potere è un Paese sulla via del declino, o meglio, che ne ha già percorso un buon tratto. La corruzione, come si è visto, soffoca la crescita, aumenta la disoccupazione, uccide il merito, peggiora la qualità della vita, infittisce la giungla della burocrazia, inasprisce la pressione fiscale, fa fuggire i talenti e impedisce che ne arrivino altri. L’Italia non seduce più. Troppa gente pensa, più o meno a ragione, che il nostro Paese non la merita. La nostra nazione viene percepita come in declino, economicamente e moralmente. Molti giovani la rifiutano perché non intravedono concrete possibilità di cambiamento. Un grande passato alle spalle, ma, adesso, sempre più simile a una diva del muto sul viale del tramonto che si trascina tra le foto scolorite dei giorni di gloria e le note di un vecchio grammofono stonato. 30 Non è un caso se, nel Rapporto mondiale sulla felicità 2016 stilato dal Sustainable Development Solutions Network, organismo dell’Onu che riunisce esperti mondiali nei campi dell’economia, della psicologia, della salute e della sicurezza pubblica, l’Italia è solo al 50° posto, dopo Malaysia, Nicaragua e Uzbekistan, e fra i dieci che registrano il maggiore calo di felicità. 31 Dall’indagine si ricava, inoltre, che la felicità non dipende solo dal prodotto nazionale lordo o dal reddito medio pro capite, ma è influenzata anche da fattori sociali e ambientali. Il sorriso non è solo una questione di soldi, ma una magia che ha molto più a che fare con

la qualità della vita, le gratificazioni, gli incontri, le opportunità, che con i listini di borsa e gli indicatori economici. Fattori decisivi per la nostra performance negativa sono la disoccupazione giovanile e la corruzione. 32 Il dato si collega all’idea, che emerge dal Rapporto Giovani 2016, 33 secondo cui i più felici sono quelli che hanno un’occupazione, la prospettiva di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro, e la possibilità di vivere in un ambiente sano. L’Italia «potrebbe essere molto più felice di quanto non sia oggi» ha commentato l’economista Jeffrey Sachs, direttore dell’Earth Institute presso la Columbia University, tra i curatori del Rapporto sulla felicità sopra citato. Basterebbe questa come ragione per battersi fino in fondo contro la corruzione.

VI

La corruzione nella sanità è un omicidio, anzi una strage La salute è il primo dovere della vita. OSCAR WILDE

Le fauci della malasanità Nella sua relazione conclusiva approvata il 22 gennaio 2013, la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali ha dichiarato di aver ricevuto nei quattro anni di attività (2009-12) la segnalazione di 570 casi di presunta malasanità. Distribuendo tali «infortuni» sull’intero territorio nazionale, risulta che 117 si sono verificati in Sicilia, 107 in Calabria, 63 nel Lazio, 37 in Campania, 36 in Emilia Romagna e Puglia, 34 in Toscana e Lombardia, 29 in Veneto, 24 in Piemonte, 22 in Liguria, 8 in Abruzzo, 7 in Umbria, 4 nelle Marche e Basilicata, 3 in Friuli, 2 in Molise e Sardegna, 1 in Trentino. Ciò significa che oltre la metà dei casi (303, ovvero il 53,1%) riguarda le regioni meridionali (Molise, Campania, Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia), le quali peraltro presentano una singolare caratteristica: nelle aziende sanitarie e ospedaliere del Sud e delle isole ci sono più medici (25.532) che posti letto (23.880). 1 Altri dati interessanti si ricavano dal Protocollo di monitoraggio degli eventi sentinella - 5° Rapporto, pubblicato dal ministero della Salute nell’aprile 2015: fra il 2005 e il 2012 si sono verificati 26 episodi di «procedura chirurgica in parte del corpo sbagliata» e 159 in cui «uno strumento o altro materiale è stato lasciato all’interno del sito chirurgico». Si sono registrati, inoltre, 471 casi di pazienti che sono morti o hanno riportato gravi danni in seguito a caduta in aree ospedaliere; 295 suicidi o tentati suicidi di pazienti ospedalizzati; 135 casi di decessi o danni imprevisti conseguenti a interventi chirurgici. E ancora, nel lasso di tempo considerato, 55 casi di malattie gravi o decessi correlati al parto, 79 di morte o gravi alterazioni funzionali per errori nella terapia farmacologica e 72 di reazioni trasfusionali per

incompatibilità di gruppo sanguigno. Ben 753 eventi avversi si sono verificati nei reparti di degenza, 359 in sala operatoria e 130 in bagno. Gli esiti sono stati il decesso (683 casi), traumi maggiori conseguenti a caduta (305) e il reintervento chirurgico (203). Degni di considerazione sono anche i dati diffusi all’inizio del 2016 dall’Associazione Salute e Società Onlus e dall’Ospedale San Giovanni - Addolorata di Roma, dai quali apprendiamo che, negli ultimi venticinque anni, il numero delle denunce per malasanità è aumentato del 300%. Attualmente le cause in corso in Italia per errori in ospedale sono 12.000, con richieste di risarcimento danni che si aggirano complessivamente sui 2,5 miliardi di euro. Infine, la settima edizione di Medmal Claims Italia (9 giugno 2016), il rapporto annuale della multinazionale Marsh sulle statistiche relative agli errori medici e sanitari nel nostro Paese, elaborate su un campione di 59 strutture sanitarie pubbliche, ha verificato che nell’ultimo decennio sono stati registrati 15.600 sinistri, con una media di 30 incidenti annui per ogni ospedale. Gli errori più frequentemente denunciati sono quelli chirurgici (32%), seguiti dagli errori terapeutici e diagnostici (26%), dalle infezioni (4%) e dagli errori compiuti con procedure invasive (3%). Curioso il dato relativo alle richieste di risarcimento per cadute in aree ospedaliere di pazienti e visitatori, quasi l’8%. Le specialità maggiormente coinvolte sono Ortopedia (13%), Chirurgia generale (12%) e Pronto soccorso (11%). I rapporti degli anni precedenti evidenziano, inoltre, che l’8% dei sinistri è sfociato nell’apertura di procedimenti penali, il 10% ha dato origine a cause civili, mentre circa l’80% è stato risolto in via stragiudiziale. La maggior parte delle richieste di risarcimento danni riguarda casi di lesioni personali (82%), quelle per i casi di decesso sono invece il 9%. Volgendo lo sguardo oltreoceano, è interessante analizzare i risultati di una recente ricerca condotta da alcuni studiosi della Johns Hopkins University di Baltimora guidati dal professore di chirurgia Martin Makary, e pubblicata sull’autorevole «British Medical Journal», secondo cui negli Stati Uniti i decessi provocati da errore

medico sono in media 254.454 all’anno e la malasanità è diventata la terza causa di morte (dopo le malattie cardiovascolari, con 611.105 morti, e quelle oncologiche, con 584.881). Ora, la macabra contabilità dei presunti errori sanitari non ci appassiona. Anche perché troppo spesso è inquinata dalla demagogia, oltre che da una buona dose di approssimazione. E poi, soprattutto, non vogliamo correre il rischio di colpevolizzare la classe medica che, in linea generale, si distingue per abnegazione e professionalità, come dimostra l’altissima percentuale di sentenze di assoluzione (oltre il 95%) che caratterizza i processi penali. 2 In questo quadro, la medicina «difensiva» – nella quale fatalmente si rifugiano medici e operatori sanitari per scongiurare lo spettro della responsabilità – è una risposta impropria a un costume che tende a confondere l’incidente con la colpa, a negare il concetto stesso di caso fortuito e a dimenticare l’esistenza di un margine fisiologico e non perseguibile di errore professionale. 3 La legge Balduzzi, varata nel 2012, ha preso atto del fenomeno e ha provato a mettere in campo una manovra di contrasto, di certo ancora insufficiente, con la riduzione dell’area della responsabilità penale per colpa lieve e con regole volte a limitare e parametrare in modo oggettivo la quantificazione del danno civile. In attesa di un più incisivo disegno riformatore, è però inevitabile che la «giurisdizionalizzazione» e la «criminalizzazione» della condotta dei professionisti abbiano ripercussioni negative sull’alleanza tra medici e pazienti, che è il fulcro stesso del concetto di sanità. Le più recenti statistiche indicano infatti che, secondo il 77,2% dei medici, il rischio «responsabilità» incide negativamente sulla qualità delle cure e, secondo l’83%, sul rapporto con il paziente. 4 Quel che interessa rilevare in questa sede è che, in base a tutte le statistiche esposte, la gran parte degli episodi di malasanità non ha a che fare con l’errore diretto del singolo operatore, ma dipende da disservizi, carenze, inadeguatezza del sistema sanitario, inefficienza del servizio di eliambulanza, lunghe attese al Pronto soccorso, difficoltà di trasferimento dei pazienti da una struttura all’altra, infezioni ospedaliere, trasfusioni con sangue infetto. Fino ad arrivare al paradossale caso dello scorso 21 gennaio, quando a Tivoli,

probabilmente a causa del cronico sovraffollamento del Pronto soccorso, due pazienti arrivati in barella con il codice rosso sono stati scambiati e smistati in reparti sbagliati (quello destinato alla rianimazione è giunto in chirurgia, e viceversa), trovando entrambi una morte senza spiegazioni. 5 Insomma, la maggior parte delle morti in ospedale non è provocata dalla mano incapace del medico, bensì dall’inefficienza della struttura sanitaria. Per queste ragioni può capitare che, nel Terzo millennio, venga negato il diritto di morire con dignità. Lo ha scoperto sulla propria pelle Patrizio Cairoli, autore di una toccante lettera al ministro della Salute in cui ha descritto la morte del padre Marcello, lo scorso 24 settembre, dopo cinquantasei ore trascorse al Pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, Capitale d’Italia. 6

Non è un problema di responsabilità individuali, forse non c’era una sola stanza a disposizione. Certo è che, per una questione di sistema, il «Pronto soccorso», deputato a salvare vite, ha accompagnato un malato incurabile alla morte. Il problema della sanità non è quindi un problema di autisti, ma di macchina. Una macchina che spende male e produce poco. Tanto che l’Italia è solo al 21° posto nella classifica dell’Euro Health Consumer Index, che valuta la qualità dell’assistenza sanitaria dei vari Paesi

europei dal punto di vista dei consumatori, e addirittura all’ultimo nel campo della prevenzione, dove la nostra spesa sanitaria è allo 0,5%, rispetto al 3 della Germania e al 5,9 della Finlandia. Il Rapporto Meridiano Sanità 2016, elaborato da The European House - Ambrosetti, ci colloca al penultimo posto nella classifica europea stilata in relazione alla capacità del sistema sanitario di rispondere ai bisogni di salute (ai primi posti i Paesi del Nord Europa, a partire da Svezia e Paesi Bassi). L’anno precedente la stessa classifica ci assegnava addirittura la maglia nera nei settori della gestione dei pazienti anziani e nell’aiuto ai disabili, oltre che nella possibilità di offrire ai cittadini cure di nuova generazione. 7 Siamo quindi inefficienti perché spendiamo in modo inadeguato per la cura dei malati e spendiamo troppo poco per la prevenzione delle malattie. Anche i cittadini, interrogati sul punto, mostrano una crescente insoddisfazione sulla qualità del sistema sanitario e sull’appropriatezza delle risposte che lo stesso è capace di fornire all’esigenza di protezione del bene salute. Ci sono poi forti diseguaglianze sul territorio nazionale, che vedono il Sud arrancare (il primato negativo spetta alla Calabria) dietro il Nord (Valle d’Aosta in testa), in un Paese che si presenta intollerabilmente spaccato in due anche quando in ballo ci sono i beni della salute e della vita delle persone. Proseguendo di questo passo, anche la cura del cancro – che richiede più risorse proprio perché oggi le strategie terapeutiche sono sempre più numerose, efficaci e di lungo periodo – rischia di subire una seria battuta d’arresto. 8 Più in generale, le diseconomie esplodono in un contesto in cui il progresso della medicina garantisce la sopravvivenza a malattie in precedenza letali, aumentando così la consistenza della fascia di soggetti che richiedono cure continue e complesse per molti anni, se non per il resto della vita. 9 La domanda di cure e salute è cresciuta notevolmente negli ultimi anni, al pari del numero e del tipo di prestazioni che il sistema sanitario è chiamato a erogare. I livelli essenziali di prestazione, da ultimo ridefiniti nella conferenza Stato-Regioni del 7 luglio 2016 e firmati dal ministro della Salute il 12 gennaio 2017, sono sempre più ambiziosi e complessi. Ciò è dovuto allo stesso avanzamento della

scienza, allo sviluppo di metodiche, farmaci e tecniche mediche e chirurgiche nuove, in grado di preservare dalla morte per malattia una platea sempre più ampia di individui o di curare in maniera più efficace – ma anche più impegnativa e costosa – patologie prima non trattabili. 10 Il progresso scientifico offre quindi enormi opportunità, ma al contempo impone un significativo aumento di spesa. 11

Inefficienza della macchina sanitaria e costi della corruzione Certamente, l’inefficienza nel settore della sanità non è causata soltanto, né principalmente, dalla corruzione, ma la storia dimostra che inefficienza significa anche corruzione. O, almeno, che l’attecchire della corruzione ostacola una seria lotta al problema della scarsa funzionalità della macchina sanitaria. Infatti, l’esiguità dei fondi utilizzati per la cura dei pazienti non è dovuta solo a problemi di bilancio, organizzazione e competenza, ma anche alla distrazione illecita delle risorse economiche. Dei 111 miliardi di euro (saliti a 113 nella legge di stabilità per il 2017) che compongono la spesa sanitaria pubblica annuale dello Stato italiano (il 14% della spesa pubblica complessiva), 12 la prima voce riguarda gli stipendi del personale, pari a 43 miliardi. Le voci successive più importanti sono, nell’ordine, gli acquisti di prestazioni da cliniche e medici privati (24 miliardi), le forniture di beni e servizi (19 miliardi), gli acquisti di farmaci (17 miliardi). Se togliamo la spesa per il personale, abbiamo a che fare con circa 70 miliardi di spesa pubblica influenzabile da condotte corruttive. L’indagine sulla percezione della corruzione nella sanità, condotta da Transparency International Italia, Censis, Ispe-Sanità e Rissc, ipotizza che nel nostro Paese la corruzione sottragga fino a 6 miliardi all’anno all’innovazione e alle cure ai pazienti, e che negli ultimi cinque anni un’azienda sanitaria su tre (37%) è stata teatro di episodi di corruzione «non affrontati in maniera appropriata», secondo quanto hanno dichiarato gli stessi dirigenti delle 151 strutture

sanitarie che hanno partecipato all’indagine. La gran parte di questi ultimi (77%) ritiene che, all’interno della propria struttura, ci sia il rischio concreto di fenomeni di corruzione. Ed è proprio questa la contraddizione. La sanità italiana gode di professionalità capaci di assicurare elevatissimi standard di qualità delle prestazioni agli assistiti, ma è imprigionata dalla camicia di forza della corruzione, oltre che fiaccata dal tarlo dell’inefficienza. La corruzione nella sanità è quella eticamente più grave, perché ogni euro inghiottito dall’interesse privato è un euro sottratto alla salute di tutti, perché gioca con la vita delle persone, perché acuisce le diseguaglianze tra chi può curarsi a spese proprie e chi deve contare solo sul servizio pubblico, perché genera il drammatico fenomeno della migrazione sanitaria e, soprattutto, perché impedisce di affrontare, con la ricerca, l’innovazione e l’informazione, la sfida strategica della prevenzione di malattie ancora incurabili. 13 Rubare ai malati è, per dirla con Umberto Veronesi, «un atto infame», un reato odioso che aumenta spaventosamente il rischio che nei dipartimenti ospedalieri, ridotti all’osso come personale e come tecnologie, un malato di tumore non trovi lo specialista capace di salvargli la vita, o che un neonato prematuro non abbia a disposizione una culla di terapia intensiva necessaria per regalargli il domani. Si può quindi dire, a costo di apparire un po’ retorici ma senza andare troppo lontano dal vero, che nella sanità la corruzione è un omicidio, anzi una strage. Per ferocia, pervasività e proporzioni, la corruzione è stata definita dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella un «cancro», una metafora utilizzata anche da papa Francesco. Ma quando la corruzione si innesta nel tessuto e negli organi vitali del nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn), si deve parlare di un «cancro al quadrato», «il peggior nemico della Sanità», 14 che mette in discussione lo stesso «universalismo» del sistema sanitario e il nostro modello sociale. E come la lotta contro i tumori ha fatto negli ultimi tempi passi da gigante, derubricando quella che vent’anni fa veniva chiamata «malattia incurabile» a patologia che si può trattare e sconfiggere, la stessa cosa deve avvenire nella lotta al cancro della corruzione.

Casi emblematici di sanità piegata ai soldi e alle ambizioni L’inchiesta «Mani pulite» nacque nel 1992 con un’indagine in ambito sanitario partita dalla scoperta di criteri di gestione delle risorse all’interno del Pio Albergo Trivulzio di Milano a dir poco «allegri», ma venticinque anni dopo sembra che nulla sia cambiato. La corruzione continua a infestare la sanità italiana, e le strutture che dovrebbero occuparsi della salute e della vita di uomini e donne si confermano terreno fertilissimo per gli affari di corrotti e corruttori. Le recenti indagini sugli appalti per le pulizie all’ospedale Santobono di Napoli, culminate in dodici arresti, ci fanno tornare alla mente l’inizio di «Mani pulite», ma ci dicono però un’altra cosa: oggi, anche le mafie stanno mettendo gli occhi sugli appalti nella sanità. Insomma, nulla è cambiato, ma tutto è cambiato. È davvero interessante leggere quello che ha messo a verbale un pentito eccellente, Mario Lo Russo, uno dei fratelli a capo del clan omonimo: «Il clan ha fatto vincere gli appalti del Policlinico all’impresa. In cambio l’impresa ci versava 40.000 euro al mese». Il denaro destinato ai clan, lungi dal rappresentare il frutto di un’estorsione, costituiscono dei veri e propri dividendi, ovvero utili societari che, come in tutte le società che si rispettano, i soci di diritto e quelli di fatto si spartiscono. Quella di Napoli è una brutta storia, perché è una vicenda di appalti pilotati e di associazioni camorristiche, di soldi rubati ai malati nei settori delle manutenzioni, delle forniture, dei servizi; perché si parla di Asl sciolte per infiltrazioni mafiose, di ospedali pubblici divisi tra le imprese camorristiche, di malaffare condito dal folklore di una camorra con i suoi riti per iniziati; perché viene siglato, nel luogo dove è in gioco la vita dei cittadini, un accordo criminale fra imprese private, clan mafiosi, pubblici funzionari e dirigenti ospedalieri. 15 Sempre in Campania si è registrato, nell’aprile 2015, il primo scioglimento per infiltrazioni mafiose di un’azienda ospedaliera pubblica, la Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. Il provvedimento adottato dal presidente della Repubblica, prorogato nel luglio 2016, è

giustificato da una serie di elementi che hanno evidenziato la permeabilità dell’azienda al clan dei Casalesi, in particolare nel controllo degli appalti. La vicenda ha indubbiamente un valore emblematico, in virtù della scoperta di evidenti tracce di «rapporto incestuoso tra politica, affari e criminalità organizzata». 16 Un intreccio non meno inquietante emerge dall’indagine «Onorata Sanità», apertasi a seguito dell’omicidio, avvenuto a Locri il 16 ottobre 2005, di Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale della Regione Calabria, freddato in pieno giorno nel seggio elettorale allestito per le primarie dell’Ulivo. L’azione degli inquirenti ha evidenziato che l’esecuzione aveva il significato sia di una reazione al grave vulnus agli appetiti delle cosche malavitose inferto dalla mancata elezione di un altro candidato alle elezioni regionali (sul quale l’associazione mafiosa puntava per conquistare l’assessorato alla Sanità, piegandolo a logiche di interesse e malaffare), sia di una sorta di riaffermazione di autorità su uno specifico territorio la cui popolazione risultava essersi in larga parte sottratta all’influenza e al condizionamento esercitati da dirette emanazioni di temibili organizzazioni criminali. Sempre in Calabria è emerso un inquietante intreccio fra sanità, politica e giustizia nella sentenza con cui, nel dicembre 2015, il Tribunale di Catanzaro ha condannato a 2 anni di reclusione, per il reato di corruzione, una dirigente del dipartimento «Controlli» della Regione Calabria e moglie di un magistrato finito sotto processo a Milano nell’ambito di un’indagine che riguardava le cosche reggine. L’ipotesi dell’accusa è che il magistrato, attraverso i rapporti con un ex consigliere regionale calabrese, abbia ottenuto dalla giunta nel luglio 2010 la nomina della moglie a commissario dell’Asp di Vibo Valentia. Nell’ordinanza di custodia cautelare si spiega che la dirigente aveva ottenuto «l’attribuzione di un incarico pubblico pagato con soldi pubblici» grazie a «manovre» che sono costate al marito l’accusa di corruzione aggravata. La gestione della sanità a Vibo Valentia in quel dato periodo storico sarebbe stata quindi sacrificata e piegata in nome di disegni «politici» in cui varie caselle di un enorme puzzle si sarebbero, in un determinato arco temporale, incastrate. «Non è

certamente un caso» si legge nel provvedimento «che … abbia occupato un posto di rilievo nell’ambito della sanità calabrese. La sanità è un settore dove avviene la distribuzione discrezionale di servizi che attengono ai bisogni essenziali di ogni persona e pertanto il controllo in campo sanitario si traduce in una forma di potere. Avere un soggetto in tale settore ha un forte impatto nella costruzione del consenso politico ed elettorale, essendo notorio che il mondo sanitario può essere un bacino di voti estremamente importante.» Nel novembre 2015 è stata avviata dalla Procura di Roma un’indagine che prospetta uno scenario non dissimile, pur se a sessi e ruoli invertiti. Questa volta al centro dell’inchiesta c’è il marito di un magistrato. Secondo la ricostruzione investigativa, il presidente della Regione Campania (sulla cui sospensione dalla carica ai sensi della legge Severino era chiamato a pronunciarsi il collegio del Tribunale di Napoli di cui faceva parte il giudice) sarebbe stato indotto a promettere al marito del magistrato un importante incarico dirigenziale nella sanità campana per evitare che la sentenza potesse essere condizionata in senso a lui sfavorevole. Poiché l’indagine è ancora in corso vale il principio della presunzione d’innocenza, ma il fatto che esistano connivenze fra potere politico, gestione della sanità e macchina della giustizia non è certo una novità. Come non lo sono gli appetiti che scatena la prospettiva di ottenere incarichi nella sanità pubblica, visto il vorticoso e difficilmente controllabile giro d’affari che vi è connesso.

Perché la sanità attrae la corruzione La corruzione attacca in massa la sanità perché questa rappresenta un formidabile centro di spesa pubblica. Nella configurazione attuale, plasmata dalla riforma del 1978, il Servizio sanitario nazionale è un sistema pubblico, che garantisce l’assistenza sanitaria a tutti i cittadini ed è finanziato dallo Stato attraverso la fiscalità generale e le entrate dirette, percepite dalle Asl attraverso ticket sanitari (cioè i contributi

dell’assistito alle spese) e prestazioni a pagamento. Il Ssn si articola nei vari servizi regionali, secondo logiche di decentramento, e – come si legge nel Piano nazionale integrato 2015-2018, pubblicato dal ministero della Salute il 16 febbraio 2016 – «le Regioni hanno la responsabilità diretta della realizzazione e della spesa per il conseguimento degli obiettivi di salute del Paese [e] competenza esclusiva nella regolamentazione e organizzazione dei servizi e dei criteri di finanziamento delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere». Tradotto in parole semplici: nella sanità ci sono tanti soldi pubblici, gestiti a livello locale. E questo spiega perché la sanità italiana è il «fulcro» della corruzione e il terreno di scorribanda per delinquenti di ogni risma. Il sistema della tutela pubblica della salute, infatti, significa centri di spesa ricchi e decentrati: una meta quanto mai appetibile per imprese e organizzazioni malavitose, che hanno il pieno controllo – sociale, economico e criminale – del territorio. Parliamo di oltre 110 miliardi di euro annui di finanziamento pubblico disseminati nelle mani di una miriade di centrali d’acquisto, operanti in un campo caratterizzato da oggettive difficoltà di controllo e di programmazione, e di circa 30 miliardi di euro di spesa privata, che, sommata a quella pubblica, supera il 9% del Pil nazionale. E di un numero totale di addetti di circa 1 milione 570.000 unità (pari al 6,4% di tutti gli occupati). Prima di analizzare le statistiche della corruzione nella sanità, un reato sociale che fa più vittime delle armi da fuoco, occorre rispondere alla seguente domanda: di cosa parliamo quando parliamo di «corruzione» e, in particolare, di «corruzione sanitaria»? Ora, la corruzione comprende sia la «grande corruzione» della politica sia la «corruzione burocratica» delle strutture amministrative. Inoltre, accomuna la «corruzione penale», ossia condotte che integrano fattispecie di reato (per esempio, concussione, corruzione propria e impropria, abuso d’ufficio), e la «corruzione in senso ampio», ossia comportamenti di distrazione indebita di risorse pubbliche. Il recente Libro bianco sulla corruption in sanità, pubblicato nel 2014

dall’Istituto per la promozione dell’etica in sanità (Ispe-Sanità), snocciola dati e stimola riflessioni. La corruzione totale è stimata in 23,6 miliardi. L’«indice di corruption», rispetto alla spesa sanitaria totale, supera il 20%. L’effetto inflattivo della corruzione sulla spesa sanitaria, al netto della corruzione, è leggermente superiore, nell’ordine del 21%. 17 Con questi numeri l’Italia si colloca, purtroppo, fra i 28 Paesi dell’Unione europea, agli ultimi posti per indice di corruzione generale percepita (Corruption Perception Index 2013), a pari merito con la Romania, e nella scala dei Paesi Ocse precede solo Grecia e Israele (Global Corruption Barometer 2013). 18 Secondo questa indagine, il 4% degli italiani intervistati ha riferito di aver pagato, nel corso del 2012, una tangente per accedere al Servizio sanitario: è una percentuale più alta di quelle registrate in Belgio, Germania, Spagna e Regno Unito, che si attestano invece tra l’1 e il 3%. Nella percezione dei cittadini, la sanità (in particolare i servizi che seguono le gare e gli appalti) è un settore corrotto. Il 40% degli italiani intervistati – contro il 30% della media Ue – ritiene che la corruzione sia diffusa tra coloro che lavorano nel settore della salute pubblica, una percentuale che sale al 59 per i funzionari che aggiudicano le gare d’appalto (media Ue 47%), superati solo dalla classe politica nazionale (67% Italia, 57% Ue). Il quadro diventa ancor più desolante se si considerano gli effetti economici complessivi della corruzione per la collettività: aumento della spesa pubblica, crescita del debito pubblico, incremento del prelievo fiscale, contrazione dei consumi, crisi dell’imprenditoria sana. La corruzione sanitaria è, quindi, un vento impetuoso e infido che si espande, a raffiche violente e progressive, al di fuori degli ospedali e delle aziende sanitarie, innescando una catena di cause ed effetti che modificano le grandezze dell’economia. Senza contare il danno che provoca all’immagine e alla competitività del sistema Paese. Se l’Italia viene abbandonata dagli stranieri e dagli stessi italiani è anche perché la sanità non funziona. È infatti risaputo che l’efficienza del sistema preposto alla tutela della salute è uno dei parametri che orientano la scelta del luogo in cui vivere. Inoltre, la sfiducia nei

confronti della sanità pubblica alimenta in misura considerevole la migrazione sanitaria tra regioni e, sullo stesso territorio, dal pubblico al privato. 19 Perciò l’inefficienza produce ingiustizia, diseguaglianze e sprechi. Ma, soprattutto, la corruzione incide in modo spietato sulla vita dei pazienti. Tanto più in un contesto come quello attuale, con le ristrettezze economiche e i risicati budget degli ospedali che tendono a esaurirsi fra ottobre e novembre, lasciando scoperte le ultime settimane dell’anno. 20 In tempo di crisi, la corruzione è un reato particolarmente abietto. La sottrazione illegale di soldi destinati alla spesa sanitaria, priva di fondi di riserva, significa diretta negazione delle cure, diminuzione del numero di macchinari e interventi chirurgici, decremento qualitativo delle risorse umane e materiali, riduzione di posti letto e reparti sul territorio, carenza di personale medico e paramedico qualificato. Significa liste d’attesa interminabili per i pazienti che non dispongono dei mezzi, delle conoscenze o anche solo delle informazioni necessarie per rivolgersi a ospedali e medici che possono assicurare terapie d’eccellenza. Significa «povertà sanitaria», cioè rinuncia alle cure da parte di malati incapienti, soprattutto nel Mezzogiorno. 21 Significa impossibilità di imboccare la via della prevenzione di patologie letali. Significa abbandono degli anziani, dei disabili e dei malati terminali. In una parola, significa meno speranze di vita e più rischi di morte.

Cause e forme della corruzione sanitaria Il Libro bianco dell’Ispe analizza anche le cause che rendono la sanità particolarmente esposta alla corruzione. Dal punto di vista della domanda sanitaria, vengono rimarcati l’accentuata asimmetria informativa tra utente e Ssn, il significativo grado di parcellizzazione della domanda stessa e, soprattutto, la fragilità che permea la domanda di servizi di cura. 22 Dal punto di vista dell’offerta sanitaria, i fattori più rilevanti sono l’alleanza non virtuosa tra ceto politico,

dirigenza amministrativa, categorie professionali e industrie farmaceutiche; la massiccia ingerenza della politica nell’azione degli organi tecnico-amministrativi; l’eccessiva complessità del sistema; l’ampia discrezionalità e la difficile controllabilità delle scelte aziendali e ospedaliere; gli standard etici non soddisfacenti; l’asimmetria informativa tra Servizio sanitario nazionale e fornitori privati; la scarsa trasparenza nell’uso delle risorse. Esaminiamo ora in dettaglio le principali cause di un fenomeno che non è solo italiano, ma ha dimensioni europee. 23 In primo luogo, si segnala il potente valore criminogeno di un panorama legislativo confuso e contraddittorio, caratterizzato dalla compresenza di fonti normative statali e regionali e dall’instabilità di apparati regolatori (per esempio, in materia di rimborsi, ticket, prestazioni intra moenia, cure fuori dalla regione di residenza o all’estero, tetti di spesa) costantemente soggetti a mutamenti e rivoluzioni. Corruzione e norme legislative si alimentano a vicenda, perché il corrotto da sempre si muove indisturbato nella giungla di leggi che protegge le sue azioni predatorie. Il quadro normativo che disciplina il Ssn è tuttora quanto mai complesso, uno sterminato mosaico che spazia da norme di rango costituzionale ad atti comunali e provvedimenti «aziendali di diritto privato» delle Asl. 24 Il riparto delle competenze in ordine alla tutela del diritto alla salute rimane confuso, soprattutto in una prospettiva di uguaglianza tra le Regioni. I livelli essenziali di assistenza (Lea), che dovrebbero costituire il parametro di riferimento unitario a livello nazionale, sono applicati in modo difforme nelle varie Regioni, in assenza di criteri chiari e condivisi. Ne consegue che la salute non ha lo stesso valore e non gode della medesima dignità nelle diverse aree del territorio italiano. È da sperare che, con i livelli varati a gennaio 2017, queste anomalie vengano superate, ma la lezione del passato non induce all’ottimismo. Non aiuta neanche la doppia natura delle Asl, che dispongono di personalità giuridica di diritto pubblico, ma beneficiano pure di autonomia organizzativa da esercitare con atti aziendali di diritto

privato. Al comando ci sono direttori generali nominati dalle giunte regionali con criteri vaghi, dotati di poteri ampi ma indefiniti. Insomma, ogni Regione è un mondo a sé, con una proliferazione di ordinamenti giuridici e di rischi di corruzione facilmente intuibile. Il secondo fattore è la polverizzazione dei centri di spesa (Regioni, Asl, strutture territoriali), che dà vita a un sistema regionale e decentrato di regolazione delle prestazioni, facilmente avvicinabile da soggetti forti e aggressivi come grandi imprese, colossi farmaceutici, feroci organizzazioni criminali. Come dimostrano i numerosi episodi di corruzione che vedono coinvolto il personale delle Asl e delle Regioni, direttamente colpevole e, in ogni caso, incapace di vigilare su case di cura private, medici e aziende farmaceutiche. Episodi che rivelano rimborsi facili (per interventi eseguiti senza adeguata comunicazione all’autorità sanitaria), finte sperimentazioni, accreditamenti di strutture esistenti solo sulla carta. 25 Un caso fra tutti merita menzione: lo scandalo della «clinica degli orrori», la casa di cura Santa Rita di Milano. Nel giugno 2008, grazie ad alcune intercettazioni telefoniche, si scoprì che, pur di gonfiare i rimborsi della Regione, alcuni medici si erano dimostrati disposti a falsificare cartelle cliniche, a utilizzare protesi non sterili e, addirittura, a portare inutilmente sotto i ferri pazienti anziani. La regola era semplice: operare il più possibile, a qualsiasi costo, al punto di asportare a degenti completamente sani «pezzi» di polmone. Stando alle indagini, che hanno portato all’arresto di 14 persone coinvolte a vario titolo nella vicenda, erano almeno 20 i casi di morti sospette e ben 86 quelli di lesioni gravi o gravissime. Nel 2014 l’ex primario di chirurgia toracica della clinica è stato condannato all’ergastolo, mentre altri due medici sono stati condannati a 30 e 26 anni di carcere. È evidente, accanto alla responsabilità attiva e diretta dei sanitari, la fragilità di un sistema che ha omesso la necessaria vigilanza e, di fatto, ha avallato la perpetrazione di crimini particolarmente abietti. Il terzo fattore è l’assenza di meritocrazia, in un campo in cui questa mala pratica è particolarmente indegna, in quanto si risolve nella consegna della salute e, quindi, della vita delle persone in mani che non hanno le competenze necessarie per tutelarle. Le nomine dei

vertici delle aziende sanitarie e le procedure di selezione del personale sono caratterizzate da troppi e sistematici fattori devianti, come ingerenza politica, conflitti di interesse, revolving doors, spoil system. L’incompetenza non è solo un problema tecnico, ma pone una questione etica di portata colossale. È noto, infatti, che il sapere è una ricchezza, uno scudo contro la tentazione dell’immoralità e le sirene dell’ambizione. Già la sapienza confuciana aveva scoperto che un’eccellente formazione tecnica può aiutare nella costruzione di una psicologia individuale pronta a recepire gli standard etici necessari per prevenire la corruzione. Il tema è stato di recente oggetto di provvedimenti dell’Anac, volti a sollecitare l’uso, nelle nomine e negli incarichi, di criteri di trasparenza, comparazione e rotazione. 26 Inoltre, nella giusta direzione si incammina il decreto legislativo approvato dal governo il 28 agosto 2016 che, in coerenza con logiche di meritocrazia e di competenza, obbliga le Regioni a nominare i direttori generali delle Asl, delle aziende ospedaliere e degli altri enti del Ssn attingendo all’elenco dei soggetti idonei predisposto da una Commissione nazionale composta da cinque esperti di comprovata competenza ed esperienza, in particolare in materia di organizzazione e gestione aziendale. Il quarto germe patogeno, il più virulento e quantitativamente devastante, è il caos negli appalti nella sanità pubblica. A causa di fattori molteplici e concorrenti – come norme troppo complesse, stazioni appaltanti incompetenti e permeabili, e assenza di autentici controlli – le procedure finalizzate all’acquisizione di servizi (dalle pulizie alla vigilanza, alle prestazioni di cura) e forniture (acquisti di dispositivi medici, apparecchiature, macchinari, farmaci) sono state costantemente il teatro di sistematiche incursioni criminali, anche mafiose. La cronaca ci ha regalato il desolante spettacolo, replicato dalle ultime inchieste in Lombardia, a Napoli e in Sicilia, di gare non necessarie o orientate, procedure non corrette, cartelli, infiltrazione del crimine organizzato, false attestazioni di forniture, inadempienzeirregolarità non rilevate, varianti senza limiti. La corruzione negli appalti è un universo complesso, popolato da

società intermediarie, conflitti di interesse, collusione fra società concorrenti, pagamenti di tangenti immateriali (per esempio, in forma di sponsorizzazione di attrezzature mediche, di corsi di formazione o di strutture di ricerca). È un mondo in cui, in palese violazione dell’obbligo di indire nuove gare, si registra «un utilizzo eccessivo e illegittimo delle proroghe – in molti casi attivate senza che la procedura per l’affidamento avesse avuto alcun inizio –, con opzioni giunte anche a tre volte la durata contrattuale originaria». 27 È anche una galassia in cui, a causa della moltiplicazione delle stazioni appaltanti e del mancato ricorso a centrali uniche d’acquisto, è stato accertato che nella Regione Lazio (ma il quadro nazionale non è molto diverso) lo stesso plantare ortopedico può costare 5 euro a un ospedale e 30 a un altro, e la spesa per lo stesso apparecchio oscillare nelle varie strutture dai 200 ai 600 euro. Più in generale, è «normale» che la sanità pubblica paghi medicinali e attrezzature 3, 5 o addirittura 10 volte più del loro prezzo di mercato.

Alcuni fatti valgono più di milioni di parole Nel corso dell’inchiesta «Smile» sulle tangenti negli appalti dei servizi odontoiatrici in Lombardia, condotta nel 2016 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Monza, sono state adottate misure cautelari per i reati di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, turbativa d’asta e riciclaggio e la gestione degli ambulatori odontoiatrici. Si sono ipotizzate, in particolare, tangenti intascate da un consigliere regionale lombardo in cambio di favori a talune società: 15.000 euro erano nascosti in soffitta e altri 1900 in un congelatore. Nelle intercettazioni riportate nell’ordinanza di custodia cautelare si evidenzia il carattere sistematico, e non isolato, del meccanismo corruttivo. Siamo lontani dalla vecchia tangente episodica, mentre si delinea un rapporto organico e stabile fra imprenditori, politici, funzionari, faccendieri e «facilitatori». Gli accordi sugli introiti che sarebbero derivati al politico dai favori concessi all’imprenditore corruttore prevedevano 120.000 euro

all’anno, 25.000 euro per ogni nuova clinica autorizzata, e una percentuale sulle aggiudicazioni degli appalti. Dalle intercettazioni e dagli altri atti dell’inchiesta emerge altresì che il suddetto politico avrebbe percepito «circa 8000 euro» al mese. A dimostrazione della diretta incidenza del meccanismo corruttivo sulla salute dei pazienti, nel provvedimento cautelare il giudice per le indagini preliminari parla dell’uso, per le forniture, di materiali «diversi e più scadenti» rispetto a quelli utilizzati in genere al Policlinico di Milano, con buona pace per il doveroso controllo della qualità dei prodotti per l’utente e della convenienza per la struttura pubblica. Ma «Smile» non è la prima inchiesta sulla sanità lombarda. Già nel marzo 2013 era stata avviata un’indagine sulle presunte tangenti incassate dal personale sanitario in cambio della concessione a una ditta specializzata dell’appalto per la fornitura di sofisticate apparecchiature mediche a importanti ospedali lombardi. L’aggravante, in questo caso, era che la corruzione non riguardava «semplici» apparecchiature odontoiatriche, ma macchinari da fornire all’Istituto nazionale dei tumori di Milano. Scendendo verso il Sud della Penisola, nel 2016 la Corte di Cassazione ha confermato le condanne per turbativa d’asta a 1 anno e 4 mesi di reclusione a carico di un imprenditore della sanità pugliese e a 1 anno a carico dell’ex vicepresidente della Regione Puglia, per episodi relativi a due gare d’appalto per la fornitura all’ospedale Vito Fazzi di Lecce di tavoli operatori destinati al reparto di neurochirurgia (per un valore di 248.858 euro) e di strumentario chirurgico per il reparto di chirurgia e urologia (441.920 euro).

Il problema nevralgico delle liste d’attesa Uno degli ambiti in cui è più aspro lo scontro tra i bisogni dei cittadini e l’attuale assetto del sistema sanitario è quello delle liste d’attesa, la cui lunghezza è ancora ingiustificatamente e intollerabilmente eccessiva. 28 Fra le prestazioni diagnostiche più difficili da ottenere in tempi

celeri spiccano paradossalmente quelle inerenti all’area oncologica, mentre i settori clinici in cui i cittadini incontrano maggiori difficoltà nell’usufruire rapidamente di una visita specialistica sono l’oculistica, la cardiologia e l’odontoiatria. Attualmente i tempi medi di attesa sono di due anni per un intervento di ernia al disco e per una fecondazione assistita, quattordici mesi per una mammografia, sei mesi per un controllo oncologico. 29 La lunghezza intollerabile delle liste d’attesa produce la fuga verso le prestazioni private, se non la rinuncia alla cura o un pericoloso differimento della cura. Non è un caso che, per far fronte a una situazione ormai insostenibile, la Regione Piemonte abbia di recente sentito il bisogno di sperimentare nuove strade, stringendo un accordo con l’università per avvalersi, già nel 2017, delle prestazioni di giovani medici specialisti, pagati a gettone. 30 In un sistema simile è, infatti, inevitabile che il paziente sia portato a imboccare la scorciatoia di pagamenti illeciti in favore di chi è in grado di assicurare una collocazione privilegiata nella lista. È il trionfo della cosiddetta «sanità di relazione», in cui anche i tempi delle terapie dipendono dalle conoscenze e dalle entrature. Nelle recenti linee guida dell’Anac ci sono analisi e indicazioni molto puntuali, dalle quali si evince, in modo plastico, che dietro il tentativo di superare una lista d’attesa si celano spesso episodi di corruzione o di concussione. Serve allora un sistema rigoroso di controllo al fine di verificare per quali ragioni e in presenza di quali presupposti taluni privilegiati riescano ad aggirarle. La violazione della regola della priorità cronologica è un campanello d’allarme meritevole di adeguata attenzione. Questo tipo di corruzione è stato indubbiamente favorito dall’assenza di norme che impongano la pubblicità delle liste d’attesa, in quanto la tradizionale inaccessibilità dei dati informativi impedisce un controllo sui criteri seguiti nella loro compilazione. 31 Il problema della trasparenza delle liste d’attesa è un tassello importante del più ampio mosaico delle informazioni necessarie al malato per poter scegliere, in modo consapevole, dove e da chi essere curato. A tale scopo sono auspicabili l’adozione, da parte del

ministero della Sanità, di parametri obiettivi per valutare la validità clinica dei luoghi di cura e degli specialisti, la pubblicazione di elenchi e graduatorie di merito per il trattamento delle singole patologie e la conseguente chiusura delle strutture carenti e inadeguate. Solo l’avvento di una sanità trasparente ed efficiente può ridurre il rischio di infiltrazioni criminali e, al tempo stesso, rendere effettivo il diritto fondamentale di ogni cittadino, anche se umile e disagiato, di scegliere le cure realmente migliori per la sua patologia. 32

Farmaci, vite umane e venditori di medicine Un discorso a parte va fatto per il settore farmaceutico, funestato da virus come l’aumento artificioso dei prezzi, l’uso improprio dei brevetti, il comparaggio, la falsa ricerca scientifica, le prescrizioni fasulle o non necessarie, i rimborsi illeciti per vendite gonfiate di farmaci a carico del Servizio sanitario nazionale, la scarsa trasparenza delle procedure volte all’immissione in commercio del farmaco e alla fissazione del relativo prezzo, preferenze anomale a favore di medicinali più costosi, sponsorizzazioni «interessate» della ricerca e della formazione di medici e farmacisti. 33 I rapporti commerciali volti ad agevolare le vendite non necessarie di prodotti farmaceutici e di dispositivi medici sono frutto dell’azione di un’industria particolarmente aggressiva nei confronti di operatori sanitari, strutture di assistenza e di ricerca, farmacisti, medici di base, operatori ospedalieri, liberi professionisti. L’obiettivo è non solo vendere in modo diretto, ma anche promuovere prodotti e creare fedeltà (promozione indiretta), con l’effetto di aumentare i prezzi dei medicinali e di incrementare il consumo degli stessi (iperprescrizioni, ampliamento della gamma dei prodotti, eccessiva medicalizzazione). Le indagini della magistratura hanno consentito di verificare che i regali delle aziende farmaceutiche ai medici fedeli ai loro prodotti sono elargiti in modo proporzionale ai risultati garantiti dai professionisti e appositamente monitorati con criteri scientifici. Per eludere la legge che vieta le donazioni ai medici da parte delle case

farmaceutiche, le «agevolazioni» possono prendere la strada del finanziamento di borse di studio o di convegni più o meno fittizi. 34 Un’indagine condotta dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), pubblicata il 23 giugno 2016, ha accertato che tra il 2014 e il 2015 la spesa farmaceutica pubblica è aumentata dell’8,6%, toccando i 28,9 miliardi di euro. 35 L’uso di farmaci inutili (1 antibiotico su 3 dovrebbe rimanere nella scatola) non produce solo sperpero di soldi pubblici, ma anche seri rischi per la salute dei pazienti, alla luce dei sempre più frequenti allarmi internazionali sulla resistenza dei batteri. L’uso di medicinali non necessari (in gergo tecnico, «impiego improprio» o «inappropriatezza») è causato da un deficit culturale che spinge troppe persone alle diagnosi fai da te, ma anche da un sistema sanitario (composto da farmacisti, medici e aziende sanitarie locali) incapace di resistere alle richieste e alle offerte delle multinazionali farmaceutiche desiderose di imporre l’acquisto dei farmaci. 36 Si profila, quindi, un problema etico, prima ancora che giuridico, poiché il tema dell’etica nella prescrizione dei farmaci è centrale nel discorso sulla corruzione sanitaria. Sono ormai passati ottocento anni dalle Constitutiones con cui l’imperatore Federico II di Svevia separò la professione di medico da quella di farmacista, lasciando impregiudicata la diversità e l’autonomia dei ruoli, 37 ma i servizi sanitario e farmaceutico fanno parte di un unico sistema, che deve avere al centro la salute individuale e collettiva dei cittadini. E se l’apparato farmaceutico non funziona, quello sanitario è destinato all’impotenza. La «corruzione farmaceutica» ha una lunga storia di inchieste e di scandali. Il primo caso, drammaticamente noto, è quello di Duilio Poggiolini, direttore generale del ministero della Sanità, arrestato il 20 settembre 1993 a Losanna, in Svizzera, sulla base di una serie di accuse legate a tangenti e manipolazioni nella gestione del Servizio sanitario, in favore di grandi aziende farmaceutiche. L’addebito riguardava, in particolare, l’adozione di procedure volte ad autorizzare aumenti di prezzo dei medicinali in cambio del

versamento una tantum di somme di denaro a Poggiolini e ad altre personalità del ministero e, in seguito, l’aiuto, concesso dietro compensi e regalie, a favorire l’ingresso di alcuni farmaci nel prontuario sanitario nazionale. Al momento dell’arresto vennero sequestrati oltre 15 miliardi di lire su un conto svizzero intestato alla moglie di Poggiolini; inoltre, nell’abitazione napoletana della coppia furono rinvenuti diversi miliardi di lire in lingotti d’oro, preziosi, dipinti e monete di valore. Durante la perquisizione, la catalogazione completa dei tesori nascosti ovunque (in armadi, divani, materassi e persino pouf) richiese dodici ore. Secondo quanto emerso in sede processuale, gli illeciti erano stati consumati tramite una «società a delinquere», composta da Duilio Poggiolini e dalla consorte: il primo siglava gli atti, la seconda provvedeva a riscuotere i compensi. Poggiolini è stato condannato, in via definitiva, a 4 anni e mezzo di reclusione, con il sequestro di beni per 39 miliardi. Nell’aprile 2012 la Cassazione ha anche confermato la sentenza della Corte dei Conti, che un anno prima aveva condannato Poggiolini a risarcire allo Stato, in solido con l’ex ministro Francesco De Lorenzo, la somma di 5 milioni 164.569 di euro per i reati di corruzione e concussione. 38 A Torino, nel maggio 2008, sono stati emessi otto ordini di custodia cautelare per corruzione e disastro colposo causato dalla commercializzazione di medicinali «non perfetti». Tra le persone il cui operato è stato sottoposto al vaglio dei magistrati spicca il direttore generale dell’Aifa. I prodotti incriminati erano una trentina: antibiotici, psicofarmaci, diuretici, antipertensivi, antinfiammatori e antiasmatici, con princìpi attivi non più protetti da brevetto (i cosiddetti «farmaci generici»), risultati poco efficaci e, in qualche caso, addirittura inutili o nocivi. Nel 2016, a Chieti è stata avviata un’indagine su primari e pediatri abruzzesi, oltre che su sette informatori scientifici, accusati di aver prescritto, in cambio di regalie, vitamine e latte in polvere di quattro marche favorite. In merito a tali tipi di condotta, a partire dal 2012 la Cassazione ha precisato che prescrivere determinati farmaci piuttosto che altri perché «incentivati economicamente» dai rappresentanti

farmaceutici integra il reato di corruzione in atti d’ufficio. Il 9 settembre 2106 il Tribunale penale di Firenze ha condannato a pene severe la presidente e il vicepresidente di un colosso farmaceutico, la Menarini, al termine di un processo per riciclaggio da frode fiscale e corruzione che ha portato anche alla confisca di beni per 1 miliardo 200 milioni di euro. 39 Secondo la ricostruzione della pubblica accusa – che non ha quindi carattere di accertamento definitivo – la Menarini sarebbe diventata un gigante del settore grazie a una colossale e pluriennale frode ai danni del Servizio sanitario nazionale. Usando società estere fittizie per l’acquisto dei princìpi attivi dei farmaci, avrebbe costantemente aumentato il prezzo dei medicinali con un sistema di false fatturazioni. Lo Stato, rimborsando i farmaci con prezzi gonfiati, ci avrebbe rimesso oltre 860 milioni di euro, mentre la famiglia che aveva il controllo della società avrebbe accumulato proventi illeciti per 1,2 miliardi di euro. Dai dati fin qui esposti, relativi solo ad alcune delle ben più numerose indagini degli ultimi venticinque anni, appare con chiarezza che la corruzione «farmaceutica» è una «vera e propria tassa occulta», che incide negativamente sui prezzi e sull’efficacia dei farmaci e, di conseguenza, sulla qualità del Servizio sanitario. E la cosa drammatica è che la nostra salute è legata a doppio filo a questa patologia di sistema. Non è un caso, quindi, che anche il grande schermo abbia puntato i riflettori sull’argomento. Il tema è ben rappresentato, con forte intensità emotiva di immagini e di sguardi, dal film Il venditore di medicine (2013), diretto da Antonio Morabito. La pellicola accende i riflettori sul fenomeno del comparaggio, quella pratica illegale per cui un medico accetta regalie di vario genere e sotto qualsiasi forma per promuovere e vendere un determinato farmaco. Bruno è un informatore medico-scientifico (il venditore di medicine del titolo) di un’azienda farmaceutica che utilizza sistematicamente questa forma di «convincimento» per raggiungere gli obiettivi di vendita in un mercato dove vige una concorrenza spietata e senza esclusione di colpi. 40

Il diritto alla salute è davvero un diritto fondamentale dell’uomo? La corruzione sanitaria e farmaceutica uccide. E uccide nel senso stretto del termine, perché la sottrazione di risorse impedisce una cura efficace e facilita la morte delle persone che di quelle risorse hanno bisogno per tentare di sopravvivere alla malattia. E finché questa patologia del sistema sanitario non sarà affrontata con decisione, il diritto alla salute solennemente enunciato dall’articolo 32 della nostra Carta costituzionale rimarrà solo una nobile formula, ma non diventerà mai, nei fatti, un diritto fondamentale della persona. Per restituire alla salute e alla vita umana il loro valore naturale e costituzionale, è necessario contrastare con vigore il male che affligge l’etica pubblica. Servirà di certo una repressione più efficace, con processi veloci, pene più severe, potenziamento delle sanzioni interdittive (la definitiva espulsione dai pubblici uffici) e materiali (confisca), l’esecuzione effettiva delle sanzioni, la dilatazione dei termini di prescrizione, l’uso di mezzi di investigazione più efficaci. Ma servirà anche altro, soprattutto la prevenzione. Per esempio, la prevenzione amministrativa, da affidare a norme meno numerose e più semplici (oltre che a un più chiaro riparto costituzionale tre le competenze statali e quelle regionali), e che limitino l’ingerenza della politica nelle scelte e nelle nomine, 41 a una razionalizzazione dei centri di spesa, alla garanzia della trasparenza delle liste d’attesa, all’eliminazione di strutture sanitarie inutili e pericolose, all’avvio di una seria spending review che monitori ogni singola voce di spesa secondo parametri di uniformità ed economicità, a procedure amministrative più chiare, veloci e trasparenti, alla razionalizzazione degli appalti, con relativa riduzione delle centrali d’acquisto e fissazione di prezzi di riferimento per farmaci e prestazioni sanitarie. Sarà indispensabile anche una prevenzione culturale, grazie alla diffusione e al consolidamento, nelle strutture sanitarie e fuori, di una cultura dell’etica e della legalità, e alla riscoperta di una sanità autenticamente umana, che superi logiche meramente aziendalistiche e speculative, ponendo al centro il valore del paziente come persona,

riconoscendo a ogni malato la possibilità di essere padrone del proprio destino terapeutico, affermando il diritto degli incurabili a essere curati e, soprattutto, mettendo in pratica il detto francese secondo cui il medico deve «curare spesso, guarire qualche volta, consolare sempre».

VII

La corruzione abita anche nei palazzi di giustizia Sapete caro Erzi – dice ancora Croz – cosa siamo noi poveretti, noi infelici giudici di questa sezione, sicuro, la sezione delle grandi cause? Un piccolo, solitario e malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, blocchi ferrei, manovrati da uomini tremendi… UGO BETTI

Una storia di corruzione, di morte e di fragilità È una storia triste quella del magistrato Giancarlo Giusti. Finisce il 15 marzo 2015, prima del suo cinquantesimo compleanno. È la storia di un uomo che si è tolto la vita, di figli piccoli lasciati soli, di una comunità che non aveva capito fino in fondo il peso che gravava sul suo animo. È una storia di fragilità, di disperazione. E di solitudine, probabilmente. Gli psichiatri e i filosofi insegnano che la causa primaria del suicidio è l’assenza di futuro, la mancanza di speranze, un presente dilatato, piatto, sempre uguale, senza porte aperte verso il domani. Un tempo fermo, congelato. Giancarlo Giusti doveva vivere il presente così, quando ha fatto l’ultimo passo. Quella di Giusti è anche la storia di un giudice per le indagini preliminari che non ha onorato il patto con lo Stato, con la giustizia, con sé stesso, con la propria dignità. Il giudice era stato arrestato anni prima e, da poco, condannato in via definitiva a quattro anni di reclusione per i suoi rapporti con il clan della ’ndrangheta, schiacciato dall’accusa infamante di «corruzione aggravata dalla finalità mafiosa». La Direzione distrettuale antimafia di Milano gli aveva contestato di essere a libro paga della ’ndrangheta, di essere entrato in modo organico nei business delle cosche e di aver ottenuto favori sessuali per appagare una vera e propria ossessione per il piacere e per il potere. Era emersa una vita scintillante, fatta di soldi facili, di donne meravigliose, di alberghi di lusso, di viaggi sontuosi.

Persa la toga e subita la condanna, Giusti ha sentito di non avere più un domani. A vincerlo è stata, probabilmente, quella fragilità umana che spesso il potere nasconde sotto un senso di onnipotenza gratificante quanto fallace. 1

«Credimi, è stato un momento di follia. Ma non sono un corrotto» Se la morte di Giancarlo Giusti è la testimonianza più drammatica del fenomeno della «corruzione giudiziaria», quella di Diego Curtò è senz’altro quella più nota e, per certi versi, paradigmatica. Nel 1993 Curtò era uno dei magistrati più potenti d’Italia. Uomo di legge, giurista raffinato, presidente vicario del Tribunale di Milano, appassionato di letteratura, scrittore. La sua toga finì nella polvere quando fu prima arrestato e poi condannato, in via definitiva, a 3 anni, 6 mesi e 15 giorni di reclusione per aver incassato una tangente di 480.000 franchi svizzeri in cambio della nomina dell’avvocato Vincenzo Palladino come custode giudiziario delle azioni Enimont. In un brutto giorno di luglio 1993, Curtò aveva infangato il giuramento di fedeltà alla Repubblica e alla legge, facendosi consegnare una valigia piena di soldi in una piazza di Lugano. Quando i finanzieri si presentarono nella sua casa milanese per condurlo in cella, Curtò commentò: «Vi aspettavo, ma non così presto. Siete stati rapidissimi». Poi si difese dalle accuse: «Quel denaro l’ho ricevuto, ma l’ho buttato in un cassonetto. Comunque era solo un regalo successivo al fermo delle azioni, che fu legittimo». Tentava di giustificare l’ingiustificabile. Forse era in buona fede, non capiva, o meglio non poteva capire l’immensità del suo tradimento, e cercava di giustificarsi ricorrendo alle stesse motivazioni elaborate dai magistrati della sezione Grandi Cause del dramma di Ugo Betti Corruzione al Palazzo di Giustizia. 2 La colpa non era sua, ma del mondo, delle cose, del destino. Che responsabilità hanno i giudici se la giustizia non è possibile in questo mondo? Il problema non è il

giudice corrotto, ma l’umanità, le sue miserie, le sue fragilità. «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!» si schermiva Curtò, citando forse involontariamente Betti. Il suo legale commentò così la posizione del suo assistito: «Curtò non va demonizzato. Quando gli ho chiesto spiegazioni, mi ha risposto: “Credimi, è stato un momento di follia. Ho perso la testa, ma non sono un corrotto”». Lo stesso alto magistrato, pur reo confesso, non rinunciò a difendersi, invocò imprecisate attenuanti, derubricò il reato capitale di corruzione giudiziaria in momento di debolezza. Dopo due notti passate in una piccola prigione della campagna bresciana, pianse sulle spalle dei parlamentari passati a trovarlo e trovò il coraggio di lamentarsi, forse anche con sé stesso: «Guardate cosa mi hanno fatto, che cosa tremenda, io non mi sono arricchito, io nell’affare Enimont ho fatto solo gli interessi dello Stato». Non si rendeva conto che il suo gesto era senza ritorno, che la vendita della giustizia al miglior offerente è un atto violento contro la società, un crimine morale, il male assoluto. Il caso Curtò non è certo l’unico e neanche il più grave degli episodi corruttivi consumatisi nei palazzi di giustizia. Altre toghe, prima e dopo di lui, hanno insultato la scritta LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI che campeggia nelle aule dei tribunali alle spalle dei banchi occupati dalla corte, magistrati (per fortuna, non tanti) che hanno venduto l’alta dignità della loro funzione in cambio di soldi, vantaggi economici, gratificazioni sessuali, favori personali, aiuti familiari, promesse, raccomandazioni. Hanno messo all’incasso sentenze civili, consulenze, permessi premio, scarcerazioni facili, assoluzioni, pene scontate, informazioni riservate, curatele fallimentari. Molti si sono messi in tasca somme astronomiche, altri si sono accontentati di un tozzo di pane. In Manager calibro 9, Luca Fazzo e Paolo Colaprico riferiscono che Saverio Morabito, noto pentito di ’ndrangheta, ha rivelato che la cosca criminale padrona del mercato milanese della droga aveva comprato i favori di magistrati penali, finiti a libro paga a prezzi stracciati. 3

Non siamo in grado di dire quali di questi fatti si siano poi tradotti in sentenze, ma gli autori del saggio fanno un’analisi psicologica lucida e spietata: il magistrato che si vende una volta, si vende per sempre. Non è più giudice, è marcio, veste una toga sporca. E non vale più nulla, soprattutto agli occhi dell’organizzazione criminale che lo ha comprato. Così finisce per costare sempre meno, per vendersi a un prezzo sempre più basso, perde la libertà di scegliere, non può più rifiutare. E costa poco perché è merce avariata, di seconda mano. Così mette all’asta la sua toga per pochi milioni di lire, per uno stipendio da impiegato delle poste, o addirittura per una cassa di pesce, e neppure di grande qualità. «È come una ragazza vergine che si è compromessa una volta per un miraggio e non può fare più la difficile. Finisce col diventare una donna da poco.» 4 Non ci si deve meravigliare, quindi, che, negli atti relativi a procedimenti a carico di magistrati accusati di corruzione, si parli anche di assoluzioni promesse in cambio della fornitura di stoviglie per un ristorante, 5 o che un giudice manifesti con un poetico sms («grazie per il dolce pensiero») la propria gratitudine per la consegna, da parte del beneficiario del «favore giudiziario», di casse di frutta assortita, ricolme di pesche, pompelmi, ananas, pere, meloni. 6 Alla fornitura di prodotti caseari, oltre che a costosi viaggi in Marocco, si fa invece riferimento nel provvedimento applicativo della misura cautelare di arresti domiciliari disposta il 31 gennaio 2017 ai danni del procuratore aggiunto di Aosta, accusato del reato di induzione indebita a dare o promettere utilità (articolo 319 quater del codice penale). Eppure, la vicenda di Curtò brilla di una luce particolare nel variegato panorama delle toghe sporche. È uno dei magistrati più potenti che sia mai stato schizzato dal fango della corruzione. Ancora oggi resta un simbolo, per certi versi un monito. Lo è perché il suo caso scoppiò nel luogo simbolico della lotta alla corruzione, il Tribunale di Milano, negli anni ruggenti di «Tangentopoli». La bufera di «Mani pulite» investì lo stesso palazzo, gli stessi corridoi che l’avevano vista nascere, il palazzo fascista di corso di Porta Vittoria

diventato in quei mesi un simbolo di riscatto e di speranza. Insegnò a tutti quello che già aveva spiegato Betti con il suo dramma teatrale. Non esistono zone franche, neanche i palazzi sacri della giustizia sono immuni dalla malattia del potere.

Il diavolo fa le pentole, ma non le fotocopiatrici È un caso da romanzo giallo-rosa quello del magistrato napoletano che lasciò la magistratura per uno sgangherato tentativo di alterare i risultati del concorso in magistratura. Siamo nell’ormai lontano 2002. La donna, componente della commissione esaminatrice, si era intrufolata nottetempo nei locali del ministero della Giustizia dove erano custodite le buste con le prove scritte già corrette, per riaprire quella di una candidata-amica bocciata e sostituire alcuni fogli allo scopo di consentire alla candidata di poter fare ricorso al giudice amministrativo, con speranze concrete di vincerlo. Non contenta, aveva deciso di fotocopiarli, decretando così la sua condanna. Per azionare la macchina, infatti, aveva inserito il proprio codice a quattro cifre e, per errore, l’aveva riscritto nello spazio dove si programmano le copie da stampare. La fotocopiatrice aveva cominciato a fare di testa sua, con l’ottusità delle macchine automatiche, sfornando centinaia e centinaia di fogli, fino a passare il migliaio. E poiché i tentativi del magistrato-commissario di arginare l’esondazione cartacea erano stati inutili, la mattina dopo, all’arrivo in ufficio, il primo cancelliere inserì una nuova risma e venne investito da una valanga di fogli protocollo, con tanto di timbro, firme e vidimazioni. Risultato: il giudice fu indagato per i reati di falso e abuso d’ufficio, e il plenum del Consiglio superiore della magistratura ne dichiarò la decadenza per assenza ingiustificata dal servizio per quindici giorni. Una forma di dimissioni volontarie, attuata attraverso una prolungata astensione dal lavoro. Il procuratore generale presso la Cassazione, nell’atto di avvio del procedimento disciplinare, stigmatizzò «la manovra fraudolenta posta in essere dall’incolpata,

particolarmente squalificante per chi è chiamato a svolgere funzioni di estrema delicatezza quali quelle del magistrato, il cui primo e inderogabile imperativo non può che essere l’assoluta lealtà e correttezza di comportamento». La vicenda, non priva di tratti di comicità surreale, è gravissima proprio per questo. I doveri del magistrato di esperienza trentennale hanno ceduto il passo al desiderio di aiutare un candidato amico. L’affetto ha prevalso sul dovere, il familismo amorale ha sepolto l’interesse pubblico e il bene comune. E proprio nel momento cruciale della selezione dei futuri magistrati. È noto che il concorso per l’accesso in magistratura è una prova difficile e complessa, ispirata (per fortuna) a una rigorosa meritocrazia che premia e deve premiare le migliori energie dei giovani giuristi. La serietà della selezione (che questa vicenda non solo non ha intaccato ma ha persino rafforzato) è un bene fondamentale, perché garantisce la competenza dei giudici di domani e, in questo modo, li dota dello scudo che li può proteggere da ogni tentazione o lusinga, facendone un baluardo fondamentale contro la corruzione. È per questo che anche uno sparuto episodio di inquinamento della trasparenza della competizione suscita inquietudine e impone riflessioni.

Il tarlo della corruzione insidia anche la giustizia amministrativa e quella tributaria Il tarlo della corruzione ha investito anche le magistrature speciali. La criminalità giudiziaria ha toccato, quindi, la giustizia amministrativa, con l’arresto di un magistrato per associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio e all’illecito commercio di oro e valuta estera. Un giudice del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio è stato poi condannato, nel 2016, a 8 anni di reclusione per corruzione in atti giudiziari. I giudici penali di primo grado hanno ritenuto fondata l’imputazione di aver raggiunto un accordo criminoso con un noto avvocato amministrativista «per indirizzare le parti processuali presso

il suo studio legale, farla nominare quale difensore in procedimenti davanti al Tar del Lazio e porre in essere in questi stessi procedimenti atti contrari ai doveri d’ufficio di volta in volta utili e necessari ai clienti della donna». Il tutto «in cambio della promessa di dazioni di somme di denaro». Al magistrato sono state contestate, in particolare, «indebite interferenze sui meccanismi di assegnazione, sulle procedure e sui contenuti delle decisioni che interessavano l’avvocato nella redazione di proprio pugno di atti processuali destinati a procedimenti trattati dal Tar del Lazio o nell’ausilio alla redazione degli stessi, nonché nell’esercizio di atti della propria funzione giurisdizionale con modalità dirette a far prevalere le pretese dei clienti del legale». Il magistrato è stato condannato anche al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, lamentati dalla presidenza del Consiglio dei ministri, e all’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici. Qualche indagine ha sfiorato anche la Corte dei Conti: nel 2014 un ex giudice della Corte dei Conti del Veneto è stato arrestato, nell’ambito dell’indagine sul Mose, con l’accusa di aver riscosso dalle aziende veneziane uno «stipendio» da 400.000 euro all’anno per «accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l’erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli di competenza della medesima Corte dei Conti sui bilanci». Il gip di Venezia ha rilevato che una delibera della Corte dei Conti era stata corretta (e ammorbidita) in un computer del Consorzio che elargiva i compensi. Va però precisato, per completezza, che il processo ai danni del magistrato non ha portato a una sentenza che ha fatto effettiva chiarezza sul suo ruolo, poiché si è chiuso con una dichiarazione di prescrizione. Un capitolo a parte è quello della giustizia tributaria, settore nevralgico interessato da tre ondate d’arresti che hanno messo a nudo una rete capillare di accomodamenti dei processi da parte di giudici compiacenti nell’ambito di un sistema «ramificato» di mazzette. Dagli atti delle indagini emergono particolari inquietanti: una tariffa fissa per «giudici da 5000 euro», soldi che passano di mano nascosti in

insospettabili «cesti natalizi», figure opache di «mediatori» e «facilitatori», una contabilità «nera» ma molto rigorosa, cassette di sicurezza dedicate e sempre piene, mani generose, tasche gonfie, sentenze scritte dagli avvocati ricorrenti. Negli ultimi mesi sono stati arrestati il presidente dell’VIII Sezione della commissione tributaria di Catania, a cui viene contestato l’uso in comodato gratuito di un’automobile in cambio di una sentenza favorevole; due giudici della commissione tributaria di Milano accusati di aver intascato presunte tangenti in cambio della chiusura di un contenzioso; il vicepresidente e un magistrato della commissione tributaria regionale della Campania, imputati di concorso in concussione. Per tutti questi casi valgono le parole adoperate nel 2016 dal giudice per le indagini preliminari di Milano per stigmatizzare la condotta di un magistrato tributario che vendeva sentenze in cambio di mazzette: «L’imputato si è proposto a uno studio legale tributario quale parte di un accordo corruttivo con un’improntitudine e una sfacciataggine sbalorditive, che, se guardate al di là della bramosia di denaro, rivelano una malcelata convinzione d’impunità». 7 Il presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, Mario Cavallaro, intervistato nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2016, ha annunciato un piano nazionale di controlli a tappeto e tolleranza zero: «Gli episodi ci dimostrano che la magistratura tributaria non è immune dalla corruzione» ha osservato, aggiungendo, quanto alle cause, che «probabilmente pesa il valore economico dei contenziosi», con la pendenza di «affari per 32 miliardi di euro», questioni enormi concentrate in poche migliaia di ricorsi. Di qui la proposta di «varare un sistema di assegnazione informatizzata dei fascicoli ai singoli giudici, attraverso una procedura tracciata e informatizzata e l’avvio di una serie di ispezioni straordinarie sul territorio». Nel caso della giustizia tributaria, assai rilevante sul piano degli interessi economici e pubblici, la corruzione può essere considerata più diffusa anche per una sua specificità dovuta all’esistenza di una magistratura onoraria, in cui sono presenti non solo giudici togati ma

anche liberi professionisti (avvocati e commercialisti). Questa particolarità – ormai priva di giustificazione per un ramo nevralgico della giustizia, che richiede una magistratura professionale e specializzata e che si spera possa essere oggetto di un’imminente riforma – produce il rischio di pericolose convergenze di interessi tra professionisti nominati giudici e colleghi degli stessi, chiamati a esercitare attività difensiva nell’ambito degli stessi procedimenti.

La corruzione aggredisce anche le forze di polizia Il sistema «giustizia» è complesso. I magistrati ne sono solo una parte, quella più esposta. La vigilanza sul rispetto della legge vede, però, la partecipazione attiva e determinante anche delle forze di polizia, chiamate a operare sul territorio, nell’esercizio di una delicata e ingrata funzione preventiva, prima ancora che repressiva. Ebbene, il seme della corruzione è germogliato anche in queste istituzioni, alle quali il cittadino guarda da sempre con fiducia e rispetto, e che sono sempre ai primi posti di tutte le classifiche di affidabilità. Ci limitiamo, qui, a segnalare alcuni dei casi più recenti, a partire dalla polizia di Stato. Nel novembre 2016 sono stati arrestati quattro agenti della sezione di polizia giudiziaria della polizia stradale di Foggia, con le accuse di corruzione, rivelazione di segreto di ufficio, falso materiale, peculato d’uso e accesso abusivo al sistema informatico: sono stati contestati un illecito scambio di favori fra gli agenti e il titolare di un’autoconcessionaria, contatti illeciti fra alcuni poliziotti e un pregiudicato, e un uso illecito del Sistema informativo interforze. 8 Un mese prima, il dirigente del commissariato di polizia di Giugliano (Napoli) era stato condannato a 3 anni e 4 mesi di reclusione per abuso di ufficio e corruzione per induzione. 9 E, a Palermo, erano scattate le manette per tre agenti della polizia stradale, accusati di aver ricattato per mesi alcuni commercianti e imprenditori, con multe e controlli continui. Per loro, l’accusa è di corruzione,

concussione e falso. Dalle intercettazioni sarebbero emersi pagamenti di «mazzette» e consegna di regali da parte dei commercianti agli agenti della stradale, per cancellare i verbali delle multe. 10 Anche l’«Istituzione» italiana per eccellenza, l’Arma dei Carabinieri, ha conosciuto casi preoccupanti di illegalità. Eccone alcuni. Nell’ottobre 2015 sono stati arrestati l’ex capitano dei carabinieri di Peschiera del Garda e altri due militari. L’ipotesi degli investigatori è di riciclaggio di denaro «sporco» in alcune operazioni poco chiare, che vedevano il coinvolgimento di pregiudicati. I tre carabinieri sono accusati di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e corruzione per atti d’ufficio, in concorso, nonché per aver favorito, con ruolo di garanti, l’erogazione di prestiti ad alcune persone in difficoltà economiche, dietro la richiesta di compensi usurari. 11 Nel giugno 2014, due appuntati scelti sono finiti in carcere a Cervia (Ravenna), con l’accusa di corruzione, falso e furto. Per nascondere il loro consumo di cocaina, secondo l’accusa, gli indagati avrebbero «coperto» gli spacciatori per ottenere gli approvvigionamenti di oro bianco per uso personale. 12 Non manca neanche il carabiniere a libro paga, che riceve soldi nel panettone natalizio per pilotare gli appalti delle forze armate. 13 Pure la terza delle forze di polizie esistenti nel nostro Paese, la Guardia di Finanza, è stata interessata da fatti di corruzione. Si è già accennato come, nelle indagini sulle vicende del Mose, un generale che aveva avuto ruoli di primo piano fu tratto in arresto e poi condannato per corruzione aggravata: gli investigatori trovarono banconote per un valore di circa 200.000 euro nascoste in un terreno limitrofo a una sua abitazione di campagna. 14 E sullo stesso corpo di polizia, a metà degli anni Novanta, il pool milanese di «Mani pulite» fece una grossa indagine su accertamenti fiscali addomesticati che vide coinvolti vari appartenenti alle Fiamme Gialle, fra cui anche ufficiali di rango. 15 Persino le forze armate hanno mostrato di essere vulnerabili alla malattia della corruzione. Nel capitolo sugli appalti sono stati esaminati i casi verificatisi a Taranto che hanno coinvolto il corpo

della Marina militare. Quanto all’Esercito, il 27 gennaio 2016 sono state eseguite ordinanze di custodia cautelare in carcere, emesse dall’ufficio del gip del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), nei confronti di due ufficiali superiori e di un imprenditore casertano. Le indagini hanno accertato, secondo l’accusa, un cospicuo numero di episodi di corruzione tra gli ufficiali e l’imprenditore, destinatario di una serie di appalti banditi dal ministero della Difesa. Il gip ha ipotizzato l’esistenza di un vero e proprio sistema di illecita gestione degli appalti operante all’interno del X Reparto Infrastrutture dell’Esercito italiano. Nell’ambito della stessa inchiesta sono intervenuti altri arresti nel successivo mese di aprile, a seguito del riscontro di ulteriori episodi di manipolazione degli appalti. 16 Nel luglio 2016 la Procura della Repubblica di Napoli Nord ha chiesto e ottenuto l’arresto di sette persone per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, al fine di favorire illecitamente il superamento dei concorsi per il reclutamento di volontari in ferma prefissata nell’Esercito italiano. Le indagini hanno rivelato l’esistenza di un articolato e consolidato sistema di acquisizione di informazioni e atti riservati riguardanti i test di accesso, nonché di «segnalazioni» volte a favorire, sfruttando una fitta rete di relazioni, i candidati prescelti. Il gip parla di «una vera associazione per delinquere finalizzata alla corruzione, un’organizzazione criminale che aveva come punto di riferimento un maresciallo dell’Esercito italiano. … Gli indagati usavano frasi in codice e criptiche tipiche di un’associazione a delinquere che aveva lo scopo di avere contatti con i familiari dei candidati che a loro si rivolgevano per ottenere soldi in cambio delle domande per le procedure selettive e psicoattitudinali per il concorso nell’Esercito». 17 Fin qui alcuni dei casi di corruzione che hanno toccato le forze dell’ordine e le forze armate, per alcune delle quali si deve doverosamente attendere lo sviluppo giudiziario. Ora, non ci sono dubbi che queste istituzioni sono corpi sani, a cui si deve gratitudine e ammirazione per il lavoro quotidiano svolto a

tutela della sicurezza e della legalità. E tuttavia, proprio per l’alto valore ideale delle divise e per la fiducia incondizionata che il cittadino deve riporre in questi simboli dello Stato, anche pochi episodi corruttivi possono produrre un danno d’immagine e rischiano di incrinare l’alleanza virtuosa fra i cittadini tenuti al rispetto della legge e gli uomini che, di quella stessa legge, sono i tutori istituzionali.

La giustizia è fede nella giustizia Abbiamo trattato della corruzione nel sistema giudiziario inteso in senso lato non perché la corruzione in questi ambiti sia sistemica; anzi, essa è oggettivamente e numericamente poco significativa, soprattutto se rapportata ai numeri di appartenenti alla magistratura e alle forze dell’ordine, e certamente meno ramificata ed estesa della corruzione politico-amministrativa. Fra l’altro, i casi che emergono vengono spesso denunciati e portati alla luce dagli stessi colleghi dei soggetti inquisiti; e questo vale per la magistratura e per le forze di polizia, capaci, almeno in gran parte dei casi, di fare pulizia al loro interno e liberarsi delle mele marce. Eppure, questi episodi stimolano alcune riflessioni. La prima è che magistratura e forze dell’ordine, organi di controllo per eccellenza della legalità del Paese, sono istituzioni pubbliche come le altre, e quindi esposte al rischio della corruzione, essendo formate da uomini che non appartengono a una «razza speciale», ma sono uguali a tutti gli altri. La seconda è che i casi di corruzione in questi ambiti sono un fenomeno non solo particolarmente odioso, ma anche oggettivamente più dannoso di tanti altri, perché coloro a cui sono riservati poteri di controllo mercificano il potere per uno scopo diametralmente opposto a quello per cui è stato messo nelle loro mani. L’antitesi fra la missione della giustizia affidata e le ingiustizie perpetrate dai corrotti, pur isolati, provoca un danno di immagine incalcolabile e, soprattutto, rischia di minare la fiducia dei singoli cittadini. Agli occhi di questi ultimi, infatti, le regole e le leggi hanno senso e

valore solo se ci sono uomini capaci di farle rispettare, e la sola idea che, fra costoro, ve ne sia qualcuno che le calpesti produce smarrimento, istilla diffidenza nel sistema giudiziario, impedisce alla gente di percepire l’importanza delle norme, dei doveri e dei divieti, che sono il fondamento di una società civile. E questo appannamento della coscienza sociale della cogenza delle regole finisce per costituire una spinta verso l’illegalità e rischia, persino, di diventare una giustificazione della corruzione altrui. 18 La giustizia si riassume nella fede che la collettività ripone nell’integrità morale del giudice. Lo spiega bene John Grisham nel suo ultimo romanzo, che ha come protagonista un magistrato corrotto: «Ci aspettiamo che i giudici siano onesti e saggi. La loro integrità è alla base del sistema giudiziario. Confidiamo che garantiscano processi equi, che proteggano i diritti di tutti, che puniscano i colpevoli. Ma cosa succede quando un giudice è corrotto?». 19 La domanda è retorica, la risposta è nelle cose: non solo quel singolo processo è falsato, ma, per la devastante forza simbolica del messaggio negativo, crolla la fiducia dei cittadini nella giustizia. 20 E fa quindi benissimo il legislatore a prevedere, quantomeno per i magistrati, un’ipotesi di reato di corruzione molto più gravemente punita di quelle degli altri pubblici ufficiali, non a caso rubricata come «corruzione in atti giudiziari».

«Corruzione al Palazzo di Giustizia» Le vicende raccontate in queste pagine, lontane nel tempo e diverse nelle dinamiche umane, dimostrano che il palazzo di giustizia può non essere diverso dagli altri palazzi del potere, passibile di corruzione morale e di cedimento etico. Viene alla mente il dramma teatrale Corruzione al Palazzo di Giustizia, scritto da Ugo Betti, che prende a pretesto le indagini relative alla morte di Ludvi-Pol, un losco e potente faccendiere trovato cadavere dentro il palazzo di giustizia, per indagare sul palazzo di giustizia stesso, qui rappresentato dalla sezione Grandi Cause, «una

città straniera ai giorni nostri», abitata da custodi del tempio che ne diventano i profanatori, da toghe nere che nascondono anime perse, da giudici che, per allontanare i sospetti, non esitano a diventare calunniatori e carnefici. Sullo sfondo dell’ultima scena si staglia, simbolica e inquietante, una lunghissima scala. Sono i gradini del potere, dell’ambizione, della miseria umana, di irresistibili tentazioni. Il dramma di Betti rivela la stessa verità denunciata dal giudice «sentinella» di Dante Troisi, appollaiato sui rami alti di un albero con il fucile in mano, per decidere chi colpire e chi salvare tra i passanti sottoposti al suo potere e al suo arbitrio. 21 Anche il magistrato, descritto in queste opere letterarie, non è un’entità al di sopra di ogni sospetto, ma un uomo di potere, reso doppiamente vulnerabile dalla fragilità della condizione umana e dalle lusinghe connesse alla sua posizione. Le pagine di Betti vibrano, fra l’altro, come monito universale sui limiti della giustizia umana e sul collasso di legittimazione che nasce, per il diritto e per chi è chiamato ad amministrarlo, dalla perdita del «fondamento etico»: staccate da ogni certezza morale, le leggi restano appese al nulla, all’arbitrio, alla «convenzione». Così i giudici, per riprendere le parole di Betti, fanno giustizia. Cioè essi esprimono il parere che certe azioni siano giuste e altre no. Come una salsiccia è appesa a un’altra salsiccia, così questo parere è appeso a dei codici… ben rilegati… e questi codici… via via, ad altri codici e leggi e tavole… sempre più antiche… L’inconveniente è che manca il gancio principale, l’uncino originale… Mancando il quale… ecco tutta la fila di salsicce per terra! Ma dove, ma come, ma quando? Chi è stato a stabilire che una cosa è giusta e l’altra no? Noi sappiamo benissimo che le cose… sono quelle che sono, tutte uguali. Ecco perché noi giudici siamo tutti ipocriti, tutti pieni di salsicce irrancidite! Ecco qual è la vera corruzione di questo palazzo.

Quello del giudice non è un mestiere come gli altri, è persino più «affilato» di quello del chirurgo: «Ambedue tagliano corpi vivi, ma nel giudizio c’è un investimento in più, un’intromissione sacra e terribile. Non a caso viene comandato all’uomo: tu non giudicherai». 22 Lusinghe

e tentazioni sono sempre in agguato per lui, come per ogni altro uomo che brandisce la clava del potere. 23 Nell’Elogio dei giudici scritto da un avvocato Piero Calamandrei ha osservato che ciò che può costituire un pericolo per i magistrati non è la rara corruzione penale, e neanche le simpatie politiche, di norma assenti o ininfluenti. Neppure l’impreparazione è un rischio serio, visto che, salvo rare eccezioni, il superamento di un concorso particolarmente selettivo assicura il possesso delle qualità tecniche indispensabili per l’esercizio dell’arte del giudicare. Il vero pericolo non viene dal di fuori. È un lento esaurimento delle coscienze, che le rende acquiescenti e rassegnate: una crescente pigrizia morale, che sempre più preferisce alla soluzione giusta quella accomodante, perché non turba il quieto vivere e perché l’intransigenza costa troppa fatica. La pigrizia porta ad adagiarsi nell’abitudine, che vuol dire intorpidimento della curiosità critica e sclerosi dell’umana sensibilità.

E conclude, con un pizzico di amarezza: La peggiore sciagura che potrebbe capitare a un magistrato è quella di ammalarsi del terribile morbo dei burocrati che si chiama conformismo. È una malattia mentale, simile all’agorafobia: il terrore della propria indipendenza; una specie di ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene: che non si piega alle pressioni dei superiori, ma se le immagina e le soddisfa in anticipo. 24

Il grande giurista Francesco Carnelutti ha scritto che «il giudice deve provare orrore per il potere», e Jacob Burckhardt ha osservato che il potere, se non è umanizzato dall’amore e dalla misericordia, «è in sé cattivo, chiunque lo eserciti», perché portato inevitabilmente a istituzionalizzare ingiusti privilegi. 25 Ma i grandi giudici di questo Paese, tra cui coloro che hanno pagato con la vita l’amore per la toga, hanno dimostrato di essere soprattutto grandi uomini, capaci di capire le vite degli altri e di dedicarsi con sacrificio al bene di tutti.

Di fronte a magistrati di questo tipo, appassionati e pieni di umanità, la gente è portata ad avere fiducia nella giustizia e, ancor prima, nella legge. Al contrario, il rischio di deriva burocratica del giudice, sempre più distratto e lontano dal cittadino, sortisce un effetto (indiretto) particolarmente deleterio, alimentando quella sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni che può persino rappresentare una delle cause dell’esplosione della corruzione e dell’illegalità. Perché chi non si fida della giustizia è naturalmente portato a utilizzare «altre strade» per risolvere i suoi problemi, creando una giustizia «parallela» che è la negazione del concetto stesso di giustizia.

VIII

La corruzione politica è un furto di democrazia Gli abiti dei governatori sono fatti solo di tasche. BERTOLT BRECHT

C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti, più o meno, dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati, questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, chiedendoli cioè a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili… 1 ITALO CALVINO

Due simboli di «Mani pulite»: Bettino Craxi e Severino Citaristi Era la sera del 30 aprile 1993, Bettino Craxi usciva dall’hotel Raphaël di Roma ed entrava nell’auto di servizio sotto una pioggia di monetine. E non solo monetine … La sera prima il segretario del Psi era stato «salvato» dai colleghi parlamentari: la Camera aveva votato no all’autorizzazione a procedere per 4 delle 6 imputazioni a suo carico formulate dalla Procura di Milano nell’ambito dell’inchiesta su Mani pulite. … Se quella volta Craxi avesse ascoltato il fido autista Nicola Mansi e fosse uscito dal retro dell’hotel Raphaël, non sarebbe accaduto nulla e Mani pulite non avrebbe avuto la sua scena-simbolo. A differenza di quanto avevano fatto altri, lui uscì dalla porta principale. Il leader socialista aveva il gusto della sfida. Così Aldo Cazzullo ha descritto, sulle colonne del «Corriere della Sera», la pagina più drammatica della parabola politica di Bettino Craxi. 2 Abbiamo scelto questo episodio perché intendiamo avviare la

nostra riflessione sulla corruzione nella politica partendo dalla sua manifestazione più eclatante nella storia repubblicana, conseguente alle indagini avviate e condotte, all’inizio degli anni Novanta, in gran parte dalla Procura di Milano ed estesesi poi a macchia d’olio (o, come qualcuno preferisce dire, «a macchia di leopardo») in quasi tutto il Paese. 3 Si è trattato di una stagione che ha avuto un peso rilevante nella storia italiana e che, secondo tutti i commentatori, ha comportato (o, semplicemente, accelerato) il passaggio dalla «Prima» alla «Seconda» Repubblica, e che è divenuta nota come «Tangentopoli» o «Mani pulite». Bettino Craxi è stato uno dei principali simboli di quella stagione perché era uno dei politici più importanti della Prima Repubblica, segretario del Partito socialista, già presidente del Consiglio, e, soprattutto, un leader di fama internazionale, accresciuta anche dallo scontro con gli Stati Uniti sulla crisi di Sigonella, 4 e una figura centrale della scena politica nazionale, a partire dagli anni Ottanta. E Craxi fu anche uno dei politici colpiti da «Mani pulite». Raggiunto da misura cautelare, davanti al Parlamento che doveva autorizzare l’arresto tenne un discorso durissimo. Fu molto critico nei confronti della magistratura inquirente, a cui contestò eccessi, a suo dire ingiustificati, nell’utilizzo dei provvedimenti cautelari, ma fece anche una vera e propria chiamata in correità dell’intera classe politica italiana, evidenziando come tutte le forze parlamentari avevano beneficiato di finanziamenti illeciti. In quest’ultima parte del discorso, in particolare, affermò: Purtroppo, anche nella vita dei Partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia, talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai Partiti e, ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti trattati provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I Partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli,

giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. … Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. 5

È noto come Craxi scelse di non difendersi personalmente in tribunale anche da altre accuse che gli vennero via via mosse. Le indagini individuarono, infatti, vari episodi di finanziamento illecito e di corruzione, e accertarono, altresì, che alcuni suoi beni, ritenuti di provenienza illecita, erano stati intestati, in qualità di prestanome, a una contessa e al suo compagno. 6 Il 21 marzo 1994 Craxi lasciò l’Italia per Hammamet, in Tunisia, dove da tempo aveva acquistato una villa, confidando che lo Stato nordafricano non avrebbe mai concesso la sua estradizione, e dove è morto il 19 gennaio 2000, senza più essere riuscito a rientrare in Italia. Un’altra figura simbolica, molto diversa dal leader socialista ma a lui accomunata dal coinvolgimento nelle indagini giudiziarie di quel periodo, è quella di Severino Citaristi, politico democristiano di lungo corso, schivo e riservato, prima di allora noto, al più, ai soli addetti ai lavori. Già fondatore di una casa editrice di una certa notorietà (Minerva Italica), era stato sindaco del piccolo comune lombardo di Villongo e presidente della provincia di Bergamo, poi parlamentare e sottosegretario, ma soprattutto era stato il segretario amministrativo (cioè colui che si occupava della «cassa») della Democrazia cristiana, il partito che aveva governato il Paese dall’immediato dopoguerra. Ed era considerato da tutti un amministratore particolarmente serio e rigoroso delle risorse di un partito che aveva spese enormi, alle quali riusciva a far fronte anche grazie al finanziamento illegale. 7 Citaristi è stato il recordman assoluto degli avvisi di garanzia, avendone ricevuti ben 74, quasi tutti per il reato di finanziamento illecito dei partiti. La sua era una sorta di responsabilità di posizione:

era il cassiere e riceveva (consapevolmente) le risorse illegali, erogate in gran parte dal mondo imprenditoriale. Alla conclusione dei processi a suo carico è stato condannato a una pena detentiva superiore a 10 anni, ma ha sempre rivendicato la sua integrità e, soprattutto, la sua estraneità a fatti di corruzione. Intervistato nel 1999 da Bruno Vespa, aveva voluto precisare il suo ruolo: Io ho sempre ammesso il finanziamento illecito al partito [la Dc], ma la gran parte delle condanne mi ha riconosciuto la corruzione. Sa con quale formula? «Per aver concorso con pubblici ufficiali ignoti oppure con pubblici ufficiali da identificare a favorire quella o quell’altra impresa.» Ne avessero trovato uno di pubblico ufficiale. Non era possibile. Io non ho mai corrotto nessuno… 8

Politica e corruzione: «Nihil novi sub sole?» Se «Mani pulite» fosse stata un’ordinaria vicenda di corruzione, e quindi una serie, sia pure ampia, di casi di uso personale del potere politico, potrebbe considerarsi non un problema di oggi, e neanche di ieri, ma un tarlo antico, o meglio atavico. Se volgiamo lo sguardo alla storia, infatti, constatiamo che esso nasce ben prima dell’Unità d’Italia, anzi è da sempre un compagno fedele dell’uomo. Nell’antica Roma, per esempio, l’appuntamento del voto, come racconta Orazio, era una delle occasioni più propizie per esercitare la pratica della tangente e il mercato dei favori. Il console Murena, nel I secolo a.C., fu accusato di aver pagato la folla del suo seguito, e Cicerone, nel suo Manuale del candidato, ritiene normale l’allestimento di banchetti elettorali per strappare il consenso degli affamati con la lusinga del cibo. 9 Si rese ripetutamente necessario il varo di leggi de repetundis, affinché i governatori romani restituissero le ingentissime somme di denaro che avevano sottratto ai provinciali sottomessi alla repubblica. Molti dei protagonisti più illustri della vita politica romana furono processati per brogli elettorali, concussione, corruzione, anche se solo il nome del governatore della Sicilia, Gaio

Licinio Verre, è stato consegnato all’eternità dalle orazioni di Cicerone. 10 In seguito, con l’arrivo dei barbari e con il Medioevo, si istituzionalizzò la corruzione intesa come «reciprocità», cioè scambio di favori con i vicini, mutuo aiuto come cemento delle relazioni sociali. 11 Per la morale pubblica le cose non andarono meglio nel Rinascimento, se si pensa che, per Niccolò Machiavelli, il male è strettamente connesso all’azione politica volta al bene comune: «Il capo politico deve assumere i peccati degli uomini per aumentare il loro benessere, senza timore di camminare sui sentieri del male». 12 E anche per Francesco Guicciardini alla base dell’azione politica ci sono sempre basse motivazioni di interesse e tornaconto personale. Lo stesso discorso vale per l’Ottocento, il Risorgimento e i decenni successivi, profondamente intaccati dal male della corruzione. Di «tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi» parla nel 1824 Giacomo Leopardi nel suo celeberrimo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani. 13 Gli fa eco, qualche anno dopo, il criminologo Cesare Lombroso, il quale nel suo L’uomo delinquente del 1876 concludeva che, dopo Cavour, non vi era più stato «un ministero completamente onesto che potesse reggersi» e considerava la corruzione «vizio divenuto quasi necessario pel governo parlamentare», come lo era la bugia per «specialisti medici, avvocati». Il trasformismo di Agostino Depretis è stato visto come il trionfo dell’opportunismo e delle ambizioni personali. «Se tu sapessi» scriveva alla moglie Massimo d’Azeglio negli anni della destra liberale «che congiura d’imbroglioni e d’intriganti si distende sull’Italia, ne temeresti anche tu.» 14 Agli albori del Novecento la situazione era tutt’altro che migliorata. Anzi, fu proprio allora che iniziarono a stringersi e consolidarsi i rapporti tra il malaffare pubblico e la criminalità organizzata, un abbraccio criminale destinato a prosciugare le energie vitali della nuova Italia. Nel 1900 il governo guidato da Giuseppe Saracco, dopo aver sciolto l’amministrazione comunale di Napoli, istituì una

Commissione d’inchiesta, presieduta da Giuseppe Saredo, che evidenziò l’accresciuto potere politico della camorra. L’indagine scalfì anche la reputazione di Edoardo Scarfoglio, direttore del «Mattino» e coniuge di Matilde Serao, accusato di aver difeso sulle pagine del quotidiano i corrotti in cambio di denaro. Un brano del rapporto conclusivo della Commissione non mancò di sottolineare le responsabilità dei Parlamenti di Torino, Firenze e Roma nel rafforzamento del potere camorrista. 15 Anche il fascismo, al pari degli altri regimi totalitari europei, non sconfisse la corruzione. La piaga dell’immoralità politica, una vera e propria «Tangentopoli nera», 16 fu anzi aggravata dalla sua convivenza con la violenza e con il liberticidio. 17 Neanche nel dopoguerra le cose cambiarono. Alle disincantate parole pronunciate da Luciano Bianciardi in La vita agra (1962) fece seguito la denuncia firmata nel 1963 da Edilio Rusconi con un articolo dal titolo Lo Stato e i malfattori: Lo Stato italiano sta offrendo uno spettacolo di degradazione e disordine, prima il funzionario dell’ente Carta e cellulosa, adesso un tale che è presidente del monopolio di Stato per le banane: si direbbe che rubare, imbrogliare, sopraffare i cittadini sia oggi lo sport nazionale. La gente si domanda sbigottita come mai un alto funzionario può rubare denaro pubblico, senza che, accorgendosene, nessuno dica nulla. Si domanda come è possibile, e per quali fini di interesse. 18

Nel 1977 la Commissione parlamentare inquirente rinviò a giudizio del Parlamento gli ex ministri della Difesa Luigi Gui e Mario Tanassi, accusati di corruzione in relazione allo scandalo delle tangenti pagate dall’industria aeronautica americana Lockheed per l’acquisto di aerei Hercules da parte dello Stato italiano. Il processo dinanzi alla Corte costituzionale si concluse con la condanna di Tanassi e l’assoluzione di Gui. Pochi anni dopo, nel 1981, in una storica intervista rilasciata a Eugenio Scalfari per «la Repubblica», il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer denunciò la degenerazione dei partiti politici, diventati – a suo giudizio – macchine di potere, di

mercimonio e di clientele, senza più ideali né passione civile. 19 Nacque così la «questione morale».

Il processo Enimont, la madre di tutte le tangenti L’inchiesta «Mani pulite» è stata, però, qualcos’altro rispetto ai già citati fatti di corruzione; e per capire cosa, più che riportare le tante spiegazioni fornite nel corso degli anni, può essere utile ricordare quella che è stata universalmente riconosciuta la vicenda simbolo di quella stagione: il processo Enimont. Incentrato sulla più grande «tangente» mai pagata nella storia del Paese, ha coinvolto i più importanti esponenti politici della maggioranza e dell’opposizione del periodo ma, soprattutto, è stato forse il primo caso in cui un dibattimento è stato vissuto in diretta dagli italiani. Le udienze del primo troncone di quel processo – quello che riguardava Sergio Cusani, 20 un consulente del Gruppo Ferruzzi, con un passato da militante nel Movimento studentesco, sconosciuto fino a quel momento ai più, ma divenuto in seguito una figura familiare agli italiani – furono trasmesse in diretta dalla televisione di Stato. In quelle udienze il pubblico ministero che aveva dato avvio all’inchiesta «Mani pulite», Antonio Di Pietro, fece sfoggio, oltre che di una colorita retorica, di un’avveniristica tecnologia informatica per suffragare le tesi accusatorie, ma soprattutto portò dinanzi alla corte (e quindi alle telecamere e all’intero Paese) tutto il vertice della politica italiana. Alcuni interrogatori di leader di partito e di ex ministri, con i tanti e troppi «non ricordo» o addirittura la difficoltà ad articolare frasi di senso compiuto, si trasformarono di fatto nel processo alla classe politica del Paese. 21 La vicenda processuale può essere qui solo accennata. Il Gruppo Ferruzzi, uno dei principali gruppi industriali privati italiani – attivo, fra l’altro, nel settore chimico e titolare del marchio storico Montedison dopo la sua fusione con l’altro polo della chimica, quello

pubblico, rappresentato dall’Eni –, fallito il tentativo di scalare la società, si era ritirato dalla joint-venture e aveva ottenuto una cospicua plusvalenza sulla quale voleva ottenere una defiscalizzazione. Il manager di punta del Gruppo Ferruzzi era in quel momento un imprenditore di successo, Raul Gardini, che aveva sposato la figlia del capostipite, ma si era imposto alle cronache mondane anche e soprattutto per aver lanciato la sfida, con il suo Moro di Venezia, alle imbarcazioni statunitensi nell’America’s Cup, il massimo della mondanità internazionale. 22 Gardini, evidentemente ben conoscendo come funzionavano i rapporti fra potere economico e politica, aveva pensato di «avvicinare» quest’ultima, elargendo a partiti, ministri e leader vari cospicui contributi economici che potessero rendere il Parlamento «disponibile» ad accondiscendere alla sua richiesta. A tale scopo venne architettata una complessa operazione finanziaria, di cui si occupò in particolare, anche se non solo, Sergio Cusani, che passò tramite la famosa banca vaticana dello Ior e si concretizzò con la creazione di una disponibilità in titoli di Stato (in gran parte Cct) per un valore di circa 90 miliardi di lire, ma la somma versata complessivamente si aggirò sulla stratosferica cifra di 150 miliardi. Beneficiari di enormi erogazioni furono i segretari e i leader dei partiti politici che allora rappresentavano la maggioranza di governo, ma non furono esclusi nemmeno i partiti di opposizione. Persino la neoformazione della Lega Nord, nata per contrapporsi alla politica «romanocentrica» della Prima Repubblica, fu coinvolta in una vicenda, dai risvolti fra il comico e il patetico, relativa a una valigia contenente 200 milioni di lire consegnata al segretario amministrativo. 23 A distanza di anni, il processo Enimont si è concluso con la condanna di quasi tutti i politici e gli intermediari, soprattutto per illecito finanziamento dei partiti. 24 Raul Gardini, prima di essere arrestato, si tolse la vita il 23 luglio 1993. Antonio Di Pietro, poco dopo la fine del processo contro Cusani, lasciò la magistratura, dando adito a mille sospetti sulle ragioni della sua scelta, e successivamente si

candidò al Senato, per poi fondare un proprio partito politico.

La politica come fine ultimo della corruzione dei politici La vicenda Enimont, a prescindere dalle sue peculiarità, rende plasticamente evidente quale era diventato il rapporto fra imprenditoria e politica e, soprattutto, come funzionava la corruzione della politica. Qualunque vicenda di una certa importanza – si trattasse di appalti, commesse, finanziamenti o di fissare i prezzi di farmaci, di autorizzare la vendita di bibite gassate o di latte a più lunga conservazione – richiedeva che si avviasse una «mediazione» con la politica, e tale mediazione si concludeva immancabilmente con l’erogazione, più o meno volontaria, di un obolo, e cioè di somme di denaro a favore delle forze politiche. Molti processi di «Mani pulite» hanno fatto emergere questo schema, o qualcosa di simile, e hanno persino consentito di accertare che, in qualche caso, gli esponenti di un partito raccoglievano le dazioni, divise in percentuali che rispecchiavano il peso elettorale, non solo per il proprio gruppo di appartenenza ma anche per altri, spesso senza distinguere fra maggioranza e opposizione, trasformandosi in veri e propri «collettori di tangenti» che consentivano di raggiungere il comune accordo sull’obiettivo da perseguire. 25 Agli imprenditori, e in generale agli operatori economici, questo modus operandi era chiaro, anzi cristallino; se si doveva discutere di costruire un’infrastruttura strategica, ma anche più semplicemente una strada o una metropolitana, tutti sapevano che bisognava cominciare a parlare non tanto con i tecnici competenti, quanto con le segreterie politiche, locali o nazionali. 26 Le forze politiche, sia nelle articolazioni nazionali sia in quelle locali, e le correnti nelle quali i partiti maggiori erano divisi al loro interno, operavano grazie soprattutto a questa forma di finanziamento illegale. Erano spesso organismi pletorici, caratterizzati da una

burocrazia interna numerosa e ponderosa, che aveva bisogno di ingenti somme di denaro, e, se avessero mai pubblicato bilanci veritieri, sarebbero risultati ai primi posti fra le strutture economiche del Paese. Del resto, le campagne elettorali venivano in gran parte finanziate dai partiti, che in quelle occasioni sborsavano ingenti risorse economiche e finanziarie. Come si è detto, «Mani pulite» o «Tangentopoli» sono espressioni che solo per comodità – e ormai per convenzione linguistica generalmente accettata 27 – sono in grado di designare unitariamente una quantità particolarmente significativa di indagini che si sono sviluppate in gran parte del territorio nazionale e che hanno avuto come comun denominatore soprattutto il periodo storico e il coinvolgimento di esponenti pubblici, in particolare della politica, in fatti di tipo corruttivo. Con questa necessaria approssimazione si può provare a individuare una caratteristica comune, o quantomeno prevalente, delle vicende corruttive emerse; e in questa prospettiva si può affermare, anticipando da subito le conclusioni, che la politica era il fine ultimo e l’obiettivo principale della corruzione dei singoli politici e che molti dei singoli comportamenti, anche penalmente rilevanti, finivano per essere funzionali agli interessi dei partiti o delle loro correnti. Sono tanti gli osservatori e gli studiosi che, nel corso degli anni, sono giunti a conclusioni di questo tipo. Di recente vi è approdato anche uno studio particolarmente interessante e innovativo condotto dalla Fondazione Res, diretta da Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia, e curato da un pool di ricercatori coordinati da Rocco Sciarrone, professore di Sociologia generale dell’Università di Torino che, in passato, si era occupato di importanti ricerche sull’impatto delle mafie nel Paese. 28 Nella prima tranche di questa ricerca, non ancora del tutto conclusa, presentata il 16 dicembre 2016 a Roma, è stato prodotto un rapporto dal titolo La corruzione politica al Nord e al Sud. I cambiamenti da Tangentopoli a oggi. 29

La novità di questa ricerca è rappresentata, da un lato, dai dati su cui è stata condotta – e cioè quelli contenuti nella banca dati delle sentenze della Corte di Cassazione e nei casi considerati nelle autorizzazioni a procedere del Parlamento – e, dall’altro, dall’oggetto della stessa, cioè la «corruzione politica», intesa come quella quota dei reati legati alla corruzione che coinvolge direttamente detentori di cariche politico-amministrative a livello locale, regionale e nazionale. L’obiettivo della ricerca è capire, appunto, come il fenomeno della corruzione si è evoluto a partire dalle vicende di «Tangentopoli». Ai risultati di questo studio attingeremo anche più avanti, ma qui, essendo ancora limitata l’attenzione al periodo di «Tangentopoli», possiamo limitarci a dire che l’analisi empirica dei dati attesta inequivocabilmente che, fino alla metà degli anni Novanta, vi è un’ampia politicizzazione della corruzione e un suo massiccio utilizzo in funzione del finanziamento delle formazioni politiche. Lo dimostrano, fra gli altri, il numero molto rilevante – soprattutto se confrontato al periodo successivo – delle condanne intervenute per il delitto di violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti e l’esame delle finalità perseguite nelle vicende penali, oggetto dell’analisi. 30 Allora il 42% dei politici incassava i soldi per il partito, ora lo fa solo il 7%. Negli ultimi tempi, la conclusione che si è raggiunta sulle caratteristiche della corruzione politica fra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta viene spesso ripresa quasi con una vena di sottile nostalgia, come se la corruzione scoperta da «Tangentopoli» fosse persino giustificabile, rispetto ai fini perseguiti. Qualcuno si spinge anche più in là, arrivando ad affermare, più o meno, che «allora non si rubava per sé stessi ma per i partiti», e questo sembra quasi rappresentare, se non una giustificazione, almeno un’attenuante, soprattutto se si confronta la corruzione di allora con quella dei nostri giorni. È un fenomeno interessante da registrare e che sarebbe (forse) troppo semplice liquidare come l’ennesima espressione di un atteggiamento ritenuto abbastanza frequente nella società attuale, costituito dalla mitizzazione del passato, considerato sempre migliore

del presente. È un tale atteggiamento che ha spinto un grande studioso di fenomeni sociali – il teorico della «società liquida», recentemente scomparso, Zygmunt Bauman – a coniare per il titolo del suo ultimo lavoro il neologismo «retrotopia», che vuole indicare un’«utopia retroattiva», un richiamo a un passato mitico, non necessariamente reale, che si presenta come una seducente possibilità di fuga rispetto alle angustie di un incerto presente. 31 In realtà, il tentativo di sottovalutare (o meglio sottostimare) quello che è successo nel nostro Paese e che è stato accertato dalle indagini giudiziarie non ha alcuna possibilità di resistere a un’analisi spassionata dell’oggettività dei fatti medesimi, emersi con assoluta chiarezza. Quand’anche volessimo prescindere da qualsivoglia valutazione etica o morale – e non sarebbe difficile affermare che non è assolutamente giustificabile né considerabile un’attenuante il fatto che si è operata una compravendita del munus pubblico allo scopo di rafforzare il potere di strutture comunque private come i partiti politici 32 – e dai tantissimi episodi accertati di arricchimento personale, 33 basterebbe ricordare il famosissimo caso, già citato nel capitolo VI, del burocrate del ministero della Sanità che si occupava dei prezzi di farmaci e che aveva riempito di lingotti d’oro i divani di casa, ma anche i tanti politici che, accanto alle erogazioni fatte confluire nelle casse dei partiti e delle organizzazioni interne, tenevano per sé grosse somme di denaro, che versavano su conti stranieri o intestavano a prestanome, per rendere inaccettabile ogni tentativo di ammorbidire il giudizio su quel tipo di corruzione. La corruzione che venne accertata era oggettivamente gigantesca, sia in termini di diffusione sistematica in tutti gli ambiti di attività e su tutto il territorio del Paese, sia in termini di quantità di somme pagate, 34 e l’episodio Enimont è stato ricordato proprio in questa chiave di lettura. Soprattutto, quella corruzione è stata una delle cause principali della debolezza strutturale dell’Italia, ha impedito la crescita di un’imprenditoria realmente competitiva, ha inciso sul debito pubblico, rappresentando una zavorra che lasceremo in eredità a figli e nipoti, e ha impedito un reale ricambio della classe dirigente.

Chi aveva in mano i cordoni della borsa, riempitasi illecitamente di contributi illegali, poteva programmare a tavolino carriere politiche di amici e sodali e tenere in vita un sistema clientelare che aveva in primo luogo bloccato il ricambio democratico, 35 creando, soprattutto in alcune aree geografiche, rapporti privilegiati con pezzi della criminalità organizzata di tipo mafioso. 36 Nessuna attenuante, quindi, può essere riconosciuta anche a chi avesse rubato solo per il partito; sempre di furto si tratta, di furto di futuro e, soprattutto – come efficacemente ha di recente affermato l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella –, di furto di democrazia. 37

Il passaggio alla Seconda Repubblica «Tangentopoli» (o «Mani pulite») ha avuto un effetto così dirompente nel Paese da comportare non solo un totale ricambio della classe dirigente (soprattutto politica), ma anche un radicale mutamento degli assetti politico-istituzionali – in parte giustificato proprio dalla necessità di reagire al ciclone giudiziario abbattutosi sulla medesima classe dirigente –, tanto da far ritenere che si fosse passati dalla Prima alla Seconda Repubblica. 38 Il nuovo assetto ha visto, in primo luogo, la scomparsa dei vecchi partiti politici, che per oltre quarant’anni erano stati al governo del Paese, e la nascita di nuovi che assomigliano ben poco ai precedenti e che, in molti casi, si sono persino estinti dopo la partecipazione a una o più tornate elettorali; partiti «leggeri», più deboli, più aperti alle influenze esterne, privi delle strutture organizzative del passato, molto meno ideologizzati, nei quali predomina la figura del leader (spesso il nome del leader è apparso anche nella denominazione o nel contrassegno del partito), 39 con una minore presenza sui singoli territori (dove in genere prevalgono, per le elezioni degli enti locali, le cosiddette «liste civiche») e per questo caratterizzati anche da una grande «mobilità» degli eletti fra i vari gruppi politici presenti in Parlamento e nelle assemblee rappresentative degli enti locali. 40

Sono cambiati anche i criteri di selezione della classe dirigente politica, che oggi non passa più necessariamente da quel complesso cursus honorum di un tempo, ma è regolata da meccanismi nuovi, quali le designazioni dirette da parte dei vertici dei partiti o le investiture attraverso l’istituto di derivazione anglosassone delle «primarie» 41 o, ancora, sistemi più informali, come la votazione a mezzo strumenti telematici. 42 I partiti, del resto, non sono nemmeno più considerati l’unico luogo nel quale viene esercitata l’attività politica, sia perché sono stati in parte sostituiti, di fatto, da strutture nuove e più agili, quali le fondazioni e le associazioni, nelle quali si è trasferito il dibattito politico e, spesso, anche la reale selezione della classe dirigente, 43 sia perché la loro effettiva necessità è oggetto di contestazione da parte di nuovi movimenti che, pur partecipando alle competizioni elettorali e avendo la responsabilità di governo di amministrazioni locali particolarmente importanti, rigettano espressamente l’idea di poter essere equiparati a partiti politici. 44 D’altra parte, si è modificata anche la struttura del potere. Dallo Stato centralistico si è passati a un progressivo decentramento a favore degli enti locali (soprattutto Regioni e Comuni), che sono diventati importanti centri decisionali e, in alcuni ambiti (per esempio, la sanità), centri di spesa, con un ruolo sostanzialmente monopolistico e predominante anche rispetto allo Stato centrale, il che ha favorito anche un «decentramento della corruzione», con l’elevazione di Regioni ed enti locali a habitat privilegiati dei predatori, più vicini e permeabili agli appetiti illeciti. 45 Si è creata, poi, a partire dalla riforma del pubblico impiego del 1993, una tendenziale maggiore distinzione fra amministrazione e politica, con l’attribuzione alla burocrazia, in astratto più autonoma rispetto alla politica, del compito di adottare le scelte di gestione, mentre alla politica spettano, almeno sulla carta, mere funzioni di indirizzo e programmazione. 46 È cambiato anche il modo di esercitare l’attività amministrativa. Accanto, infatti, alla tradizionale attività autoritativa se ne è sviluppata un’altra svolta attraverso strumenti apparentemente

privatistici, e cioè attraverso le cosiddette «società pubbliche». 47 Queste ultime sono entità – nate con l’obiettivo di consentire all’amministrazione di muoversi con maggiore flessibilità e autonomia anche rispetto alla stessa classe politica 48 – che hanno la stessa forma esteriore delle società commerciali private, ma gestiscono anche servizi e attività pubbliche. Tali enti anfibi, con faccia privata ed essenza pubblica, si sono moltiplicati – soprattutto quelli legati agli enti locali – a partire proprio dai primi anni Novanta, fino a sfiorare quota 8000 ai giorni nostri. 49 Queste brevi e tutt’altro che esaustive considerazioni servono adesso per formulare una prima domanda, evidentemente retorica: «Tangentopoli» e i conseguenti mutamenti dell’assetto politicoistituzionale del Paese hanno estirpato o, quantomeno, ridotto in termini qualitativi e/o quantitativi la corruzione nella politica? Uno dei maggiori conoscitori della patologia corruttiva nazionale, Piercamillo Davigo, pm del pool di Milano che si occupò di «Mani pulite», ha tante volte ricordato, con la sottile ironia che lo contraddistingue, come le indagini giudiziarie da loro condotte abbiano avuto un paradossale effetto «darwiniano»: «Noi magistrati svolgiamo la stessa funzione che in natura svolgono gli animali predatori: miglioriamo la specie predata. Eliminiamo i corrotti meno furbi». 50 E analoga percezione l’hanno anche i cittadini. Il recentissimo XIX Rapporto «Gli italiani e lo Stato», curato dall’autorevole istituto Demos per il quotidiano «la Repubblica», presentato il 7 gennaio 2017, ha riportato fra l’altro un sondaggio da cui è emerso che gli intervistati ritengono non solo che la corruzione nella politica non si sia ridotta rispetto al periodo delle indagini di «Tangentopoli», ma anzi sia addirittura aumentata. 51 E, del resto, la riprova indiscutibile che la corruzione nel sistema politico è tutt’altro che eliminata viene dalle indagini giudiziarie, le quali – in particolare alcune relative ai fatti più eclatanti – hanno dimostrato come la politica resti uno dei bersagli preferiti dell’attività corruttiva.

Le «nuove forme» della corruzione della (e nella) politica Una volta accertato che la corruzione nella politica è indubbiamente (ancora) presente nella società italiana, bisogna verificare se e come essa abbia modificato i suoi caratteri e il suo modo di manifestarsi e come, in particolare, si sia adattata al nuovo assetto politico-istituzionale che abbiamo descritto. Occorre dire, innanzitutto, che rispetto al periodo di «Tangentopoli» è oggi certamente meno semplice azzardare una valutazione in termini definitivi ed esaustivi di un fenomeno dai tratti non ben delineati e dalle dinamiche di svolgimento ancora in fieri. Si può, quindi, soltanto provare a individuarne alcuni elementi caratteristici e inediti, ricavandoli dal principale dato empirico a disposizione, e cioè le più recenti indagini giudiziarie. In questa prospettiva, si può partire dall’osservazione del ruolo del politico coinvolto in fatti di corruzione. Accanto al cliché tradizionale (e mai definitivamente tramontato) di colui che, in cambio di denaro, mette a disposizione la propria funzione o confeziona atti e provvedimenti che possano favorire terzi, sembrano imporsi due diverse tipologie che, pur non essendo un’assoluta novità rispetto al passato, tendono a essere predominanti nelle attuali vicende criminali. La prima è quella dei soggetti, un tempo attivi nella politica, che si rimettono in gioco quali «facilitatori» per conto di imprenditori o di gruppi di potere, per consentire loro di ottenere commesse pubbliche, finanziamenti, appalti o agevolazioni normative. L’esperienza politica pregressa si trasforma in una sorta di know how per curare i rapporti con la burocrazia amministrativa, ormai spesso titolare delle decisioni più rilevanti nelle scelte anche di impatto economico. Essa consente di mettere a frutto conoscenze e relazioni per fungere da intermediari e far ottenere, quindi, ai propri «clienti mandatari» commesse pubbliche attraverso il pagamento di tangenti, non necessariamente costituite da somme di denaro ma spesso da promesse di incarichi e altre prebende. Una figura di questo tipo è presente, per esempio, nelle indagini

sugli appalti per il grande evento Expo 2015, nell’ambito delle quali la magistratura milanese ha emesso, nel 2014, varie ordinanze cautelari e in cui sono risultati coinvolti un ex parlamentare e un imprenditore con un passato di funzionario di partito – già condannati entrambi per reati commessi negli anni Novanta e per vicende che avevano riguardato il finanziamento delle rispettive forze politiche – e un ex senatore, eletto in Parlamento nel periodo successivo a «Tangentopoli». Nelle inchieste condotte sugli appalti del grande evento essi fungono da mediatori fra imprenditori interessati alle gare e personaggi al vertice della società Expo, e fanno da tramite per il passaggio di mazzette, promettendo tra l’altro a uno degli esponenti della società Expo, grazie alle loro entrature nel sistema politico, un futuro incarico di prestigio. 52 Anche nelle indagini sugli appalti gestiti dall’Anas (una vicenda divenuta nota mediaticamente come «Dama Nera», perché incentrata su un’importante dirigente donna dell’ente), nell’ambito delle quali la magistratura romana ha emesso, nel corso del 2015, diverse ordinanze cautelari con contestazione di corruzione, è stato coinvolto, con un ruolo di intermediario, un ex parlamentare e già sottosegretario di Stato alle Infrastrutture, il quale, per conto di alcuni imprenditori, avrebbe mediato con una potente burocrate dell’ente nazionale per le strade per far ottenere ai suoi «clienti» appalti e, soprattutto, il pagamento di precedenti commesse, oggetto di lunghe e defatiganti controversie. 53 Infine, in un’indagine relativa a vicende corruttive connesse agli appalti di importanti enti pubblici (indagine nota come «Labirinto»), nell’ambito della quale la magistratura romana nel 2015 aveva emesso una misura cautelare per associazione a delinquere, è emerso il coinvolgimento di un parlamentare e di un ex sottosegretario di Stato. Malgrado i due non siano stati colpiti da provvedimenti restrittivi, le inchieste ipotizzavano che entrambi avessero avuto un ruolo chiave nell’agevolazione di imprenditori interessati alle commesse pubbliche, grazie ai rapporti che erano in grado di intessere con parlamentari, ministri e grand commis di Stato. 54 La seconda figura è quella del cosiddetto «politico a libro paga»,

cioè di colui che viene retribuito, a volte con un vero e proprio stipendio, a prescindere dallo svolgimento di specifiche attività a lui richieste, da imprenditori o da vere e proprie strutture organizzative (illecite o criminali) che si occupano di reperire per i loro adepti appalti e commesse pubbliche. Costui diventa, quindi, a tutti gli effetti parte integrante della struttura, e la sua retribuzione è funzionale alla possibilità di essere chiamato per la soluzione di quei problemi che dovessero verificarsi con l’amministrazione pubblica. È quanto è risultato, per esempio, con riferimento alle indagini condotte dalla Procura di Venezia sul Mose. I vertici del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per la realizzazione delle dighe mobili (divenute note con l’acronimo Mose), avevano stabilito retribuzioni fisse per alcuni esponenti di primo piano della politica, soprattutto locale (al presidente della Regione dell’epoca veniva versato un emolumento fisso particolarmente sostanzioso), il cui compito, in ultima analisi, era quello di contribuire a superare eventuali ostacoli per l’ottenimento dei finanziamenti necessari alla prosecuzione dell’opera. 55 Allo stesso modo, in una recente indagine della Procura di Monza che ha riguardato il sistema sanitario lombardo, e in particolare le prestazioni in campo odontoiatrico, si è accertato che la titolare della società che aveva ottenuto importanti appalti nel settore aveva corrisposto a un consigliere regionale, che si occupava di sanità, un vero e proprio emolumento fisso per garantirsi i suoi servizi, se e quando fosse stato necessario, e una sostanziosa quota societaria nella gestione della sua attività. 56 Del resto, il medesimo sistema sanitario era già stato interessato, anni prima, da un’altra importante e ancora più significativa indagine della Procura di Milano che aveva visto coinvolto il presidente della Regione Lombardia dell’epoca, a cui i titolari di una struttura privata avrebbero versato grosse somme di denaro, o riconosciuto benefit di altro tipo, in funzione della sua disponibilità. 57 Ma l’indagine in cui questo rapporto con la politica è apparso in modo persino eclatante e sistematico è certamente quella di «Mafia Capitale» (o «Mondo di Mezzo») che, come è noto ed è stato già detto,

ha visto raggiunti da provvedimenti giudiziari numerosi politici locali di Roma capitale e dei singoli municipi che la compongono. Secondo le investigazioni, essi avrebbero avuto rapporti con i titolari di fatto di cooperative sociali (che sarebbero state gestite da un’organizzazione mafiosa autoctona) che si sarebbero strutturati non solo attraverso il riconoscimento di veri e propri stipendi, 58 ma anche attraverso la promozione della loro attività politica. Il gruppo criminale, dal canto suo, ha finanziato contestualmente le campagne elettorali di politici di schieramenti opposti, sponsorizzando di fatto le loro carriere nei partiti di appartenenza. 59 E i politici, ottenuta l’elezione o ricevuto lo stipendio, si disobbligano con l’organizzazione fornendo ogni genere di favore loro richiesto, soprattutto esercitando pressioni sulla burocrazia amministrativa per far ottenere ai loro «padrini» appalti pubblici. 60 Pur nella loro diversità, nelle due tipologie descritte sembra potersi individuare un comune denominatore: il politico non è più controparte del corruttore (o del gruppo corruttivo), come nel caso della tradizionale dazione della mazzetta, ma si muove con lui in una chiara comunanza di interessi, che spesso, dal punto di vista giudiziario, si traduce nell’imputazione di partecipazione ad associazioni a delinquere. In questo senso sembra emergere una chiara differenza rispetto al passato. Dalla corruzione dei politici funzionale agli interessi della politica (e, quindi, dei partiti) si è passati alla politica come semplice mezzo utilizzato (sia dai corrotti sia dai corruttori) per raggiungere altri scopi: certamente l’arricchimento personale, ma anche il rafforzamento di vere e proprie organizzazioni criminali che accomunano mondo imprenditoriale, faccendieri e, in qualche caso, soggetti legati a gruppi mafiosi. Dalle indagini giudiziarie emerge un secondo tratto saliente dell’attuale corruzione della politica: la centralità della dimensione locale della stessa, conseguenza dello spostamento sugli enti di prossimità di competenze particolarmente rilevanti anche sotto il profilo economico. Gran parte delle vicende appena descritte sono risultate collegate, infatti, alle attività di Regioni e Comuni. Del resto, negli ultimi anni l’accertamento di fenomeni di uso

illecito di risorse destinate agli enti locali si è moltiplicato. A titolo esemplificativo, si può ricordare come, dopo l’indagine partita dalla Procura di Roma sull’utilizzo indebito dei fondi destinati ai gruppi politici del Consiglio regionale laziale, 61 analoghe iniziative giudiziarie si sono estese a quasi tutte le Regioni italiane e, anche quando sono state pronunciate sentenze di assoluzione, sono risultate acclarate gestioni quantomeno allegre di quei fondi che avrebbero dovuto consentire attività di promozione politica. 62 Il settore della sanità, quello dei servizi sociali, il rilascio di concessioni edilizie e autorizzazioni ambientali e, in genere, gli appalti pubblici hanno visto purtroppo in prima fila, quali indagati per fatti di maladministration, numerosi amministratori locali, spesso raggiunti da provvedimenti restrittivi mentre erano ancora in carica. 63 C’è, infine, un ultimo dato che può essere tratto dalle indagini della magistratura: molti fatti corruttivi, o comunque di cattiva amministrazione, relativi a vicende locali non riguardano nemmeno più direttamente gli amministratori degli enti locali, ma i vertici e i dirigenti di società pubbliche, realtà alle quali sopra si è fatto rapido cenno. Spesso, infatti, tali strutture gestiscono enormi risorse pubbliche, per effetto della prassi ormai generalizzata degli enti locali di devolvere a esse settori anche strategici (per esempio, quelli dei trasporti locali, dei rifiuti, della pubblicità e molti altri), un’opzione motivata sia con la teorica maggiore efficienza che tale strumento dovrebbe garantire, sia con il teorico maggior distacco, nelle scelte da adottarsi, dagli interessi della politica. E invece, per una sorta di eterogenesi dei fini, è avvenuto (spesso, anche se non sempre) il contrario. 64 Le nomine dei vertici delle società pubbliche da parte della politica locale sono divenute (in alcuni casi) uno strumento di clientelismo e lottizzazione utilizzato dalla classe politica medesima; sono il frutto (in alcuni casi) di logiche spartitorie che prescindono dai titoli e dalle competenze dei nominandi e hanno il solo scopo di trovare uno strapuntino per ex politici o per persone di loro fiducia. Forse, ancor meglio che con il linguaggio del codice penale, questo fenomeno può

essere definito con una durissima ma icastica affermazione di un ex presidente di Confindustria, secondo cui «le migliaia di società a controllo pubblico sono le uniche discariche che funzionano in questo Paese; sono discariche per politici trombati». 65 E i dati numerici sembrano addirittura far pensare che molte società siano nate più per attribuire tali incarichi che non per effettive necessità operative. 66 D’altro canto, attraverso le società pubbliche è più facile fare assunzioni di personale, perché non è necessario ricorrere allo strumento del concorso pubblico, 67 essendo sufficienti procedure più elastiche, là dove non è possibile adottare la politica delle «mani libere». Sono poi tantissimi i casi, in questi anni, di assunzioni che hanno risposto a logiche chiaramente clientelari della classe politica locale, anche perché spesso le società pubbliche restano, in presenza dei vincoli imposti dalla finanza statale, l’unico strumento per assumere personale nel comparto pubblico. 68 In questa prospettiva, la scelta dei vertici di una società pubblica può diventare un obiettivo per un gruppo criminale: sapere di poter contare su una propria persona nel gruppo dei dirigenti è un’assicurazione per il futuro che consente di gestire illecitamente affari e commesse di ogni tipo. Quale esempio concreto ed emblematico basta raccontare quanto accertato dalle indagini della Procura di Roma sulla cosiddetta «Mafia Capitale». Uno dei presunti organizzatori dell’associazione criminale, Salvatore Buzzi, si adopera, sfruttando tutte le sue conoscenze nel mondo della politica romana, per ottenere la conferma del precedente amministratore di Ama (la società che si occupa dei rifiuti), Giovanni Fiscon. Sa che il sindaco di Roma, Ignazio Marino, è contrario a questa nomina, ma lui contatta i suoi referenti in Consiglio comunale e riesce a ottenere quanto si era prefisso; e lo comunica a un sodale con un sms che si commenta da solo: «Marino 0 - Fiscon 2». 69 Le conclusioni raggiunte sono in gran parte confortate dai dati emersi dalla ricerca della Fondazione Res che – come abbiamo poc’anzi ricordato – ha analizzato le sentenze penali tratte dall’archivio della Cassazione e le richieste di autorizzazione a procedere avanzate al Parlamento.

In particolare, nella relazione si conferma il mutamento dei caratteri della corruzione della politica e il suo spostamento verso una logica che favorisce organizzazioni non necessariamente politiche. In essa si afferma, segnatamente, che dalla fine degli anni Novanta «il calo del finanziamento illecito ai partiti e l’incremento sensibile dei reati associativi lasciano già intravedere una trasformazione significativa del fenomeno della corruzione politica in direzione di una minore politicizzazione – intesa come ricerca di vantaggi illeciti volti prevalentemente a sostenere i partiti – e di una strutturazione attraverso reti associative volte all’utilizzo per fini privati della corruzione». 70 Allo stesso modo, si evidenzia la centralità degli enti locali nelle reti corruttive e si sottolinea, in particolare, che «il processo di decentramento del potere agli enti locali che si è sviluppato a partire dagli anni Ottanta ha visto una progressiva crescita della corruzione politica a livello locale e regionale». 71

La pericolosità della «nuova corruzione» Non c’è convegno dedicato al tema della corruzione in cui manchi una domanda sul paragone (quantitativo e qualitativo) fra la corruzione della politica di oggi e quella del periodo di «Tangentopoli». È la stessa domanda che l’Istituto Demos ha posto di recente nel sondaggio poc’anzi ricordato a un campione ritenuto rappresentativo; e si è già ricordato come la percezione di un’ampia percentuale dei cittadini italiani propenda per ritenere che la corruzione nella politica sia aumentata e la situazione complessiva in questo settore sia peggiorata rispetto al passato. Per quanto questa posizione sia condivisa da molti commentatori, 72 a noi, come già in parte spiegato, non appare convincente. La corruzione scoperta da «Tangentopoli» aveva raggiunto livelli parossistici, che non si sono mai ritrovati nelle pur importanti indagini attuali condotte dai tanti uffici giudiziari del

Paese; ancora oggi assistiamo a fatti che dimostrano una corruzione sistemica e diffusa, ma qualitativamente e quantitativamente non paragonabile a vicende come quelle degli anni Novanta. Classifiche e confronti, però, lasciano il tempo che trovano, anche perché in materia, per le difficoltà più volte indicate, è difficile avere dati numerici (oltre a quelli investigativi) davvero attendibili che possano essere comparati. Ed è per questo che forse la domanda che ha un senso porsi è non tanto se la situazione di oggi sia peggiore o migliore di quella di ieri, quanto se i tratti della corruzione attuale nella e della politica siano meno, più o ugualmente pericolosi rispetto alla corruzione di vent’anni fa. E seppure anche a questa domanda non è semplice dare una risposta definitiva, si può azzardare una prima conclusione affermando che la corruzione attuale è oggettivamente molto (più?) pericolosa perché, mutuando la felice espressione dell’attuale presidente della Repubblica, essa rischia di diventare un (ancora più grave) furto di democrazia. Vent’anni fa la regia di molte vicende corruttive era in mano a organizzazioni politiche che la gestivano nell’interesse del mantenimento dello status quo e delle classi dirigenti di allora. Oggi, invece, il sistema politico è oggettivamente più debole, e questo rischia di compromettere la sua capacità di porre solidi argini alle eventuali scorribande di gruppi di potere esterno, anche di matrice mafiosa. Senza riprendere integralmente quanto sopra accennato, si può affermare che i partiti politici tradizionali sono in buona parte scomparsi, e quelli che sopravvivono, o i neonati, sono organizzazioni sempre «più liquide», esili, permeabili, con minori strutture e, soprattutto, con risorse economiche che vanno via via riducendosi, anche per effetto dell’ormai imminente eliminazione del finanziamento pubblico. 73 Il fisiologico bisogno di risorse, anche per gestire strutture più leggere, deve essere soddisfatto con finanziamenti privati che, com’è noto, solo in piccola parte vengono da cittadini sostenitori 74 e in larga misura da finanziatori istituzionali, quali imprese o organizzazioni di settore.

Di questa strutturale difficoltà e debolezza possono oggettivamente avvantaggiarsi anche le organizzazioni economiche che utilizzano le «reti corruttive» e che, come abbiamo visto, rappresentano la nuova forma dell’attuale corruzione. Esse tendono, in primo luogo, a orientare le scelte della politica, finanziando i partiti o, ancor di più, quelle entità che operano a latere di essi, come le associazioni o le fondazioni, che non hanno formalmente alcun obbligo di rendere pubblici i loro bilanci e, quindi, il modo in cui si sono procurate i fondi. 75 Il pericolo maggiore sta, però, nella possibilità di ingerirsi direttamente nei meccanismi di scelta della classe dirigente politica, soprattutto quando si servono di strumenti come le primarie o analoghe selezioni, più o meno informali. La mancanza di una loro regolamentazione formale ha in più occasioni già ingenerato preoccupazioni sulla scarsa trasparenza e su possibili illeciti nei meccanismi di voto. 76 Le indagini recenti, però, hanno evidenziato anche come organizzazioni illecite possano utilizzarli per selezionare politici di loro fiducia: è quanto è emerso, per esempio, nelle indagini su «Mafia Capitale», in cui esponenti del gruppo criminale hanno provveduto personalmente a procurare le preferenze a candidati di loro interesse e sembra che siano riusciti nell’impresa, anche perché il numero di preferenze necessario per ottenere la designazione elettorale non è elevatissimo. 77 Il rischio appare persino amplificato negli enti locali, dove alle competizioni elettorali partecipano sempre più, accanto o in sostituzione dei partiti tradizionali, le cosiddette «liste civiche», che, nate per dare voce a esigenze locali, sono divenute in alcuni casi veicolo di operazioni trasformistiche o, persino, di infiltrazioni da parte di organizzazioni criminali. Lo ha affermato senza mezzi termini il presidente della Commissione Antimafia, Rosy Bindi, il 5 giugno 2016, alla vigilia di una tornata di elezioni locali: «Che le liste civiche, fatte nel modo che abbiamo rilevato nei Comuni che abbiamo preso in esame, siano un varco per le mafie è indubbio: non voglio delegittimare i tentativi dei partiti di trovare nelle liste civiche una capacità di riscatto, ma che ci sia il 100% di liste civiche in quasi tutti i

comuni sciolti per mafia qualcosa vuol dire», aggiungendo, fra l’altro, che «i partiti politici nazionali si sono nascosti nelle liste civiche ed è una situazione in realtà condizionata da poteri mafiosi che cementano l’infiltrazione delle mafie attraverso il trasformismo politico». 78 Una politica condizionata da gruppi di potere non solo non è più libera nelle sue scelte – specie quando deve adottarne di economicamente sensibili, che possono favorire qualcuno piuttosto che un altro – ma è oggettivamente meno in grado di fare argine alla corruzione. Il politico che deve a un gruppo di potere la sua elezione non persegue più l’obiettivo del pubblico interesse ma quello di chi lo ha sponsorizzato, ed è certamente molto più disponibile a strumentalizzare il suo ruolo e il suo incarico, a vendere la sua dignità. 79 La differenza di pericolosità di questa nuova forma di corruzione, rispetto al passato, sembra evidente: non è più la politica che, attraverso la corruzione, si rafforza o rafforza una parte della sua classe dirigente, ma è la corruzione che rischia di diventare il meccanismo di selezione di una classe dirigente funzionale agli scopi di gruppi criminali.

IX

Cosa fare? Possiamo sempre fare qualcosa per creare un mondo migliore. GIOVANNI FALCONE

Obiettivi, tempi e ricette Esaminate le modalità con cui opera la corruzione in vari settori del nostro Paese e analizzati i suoi effetti deleteri sulle nostre vite individuali e sul nostro destino collettivo, ora bisogna dedicarsi alla parte più difficile, quella construens. È semplice criticare, soffermandosi sulla metà buia del cielo ed esasperando le tinte negative della realtà che ci circonda. Molto più complicato ragionare sulle iniziative da mettere in campo, partendo da quanto fatto fino a oggi. Prima di addentrarsi su questa strada scivolosa e accidentata, però, è necessario tracciare alcune premesse: sugli obiettivi perseguibili, sui tempi necessari e sui rimedi possibili. Con riferimento ai primi, bisogna essere consapevoli che la corruzione, pur non essendo eliminabile in termini assoluti al pari di gran parte dei reati che affliggono da sempre l’umanità, non è nemmeno una malattia irreversibile. L’esperienza internazionale conforta entrambe le affermazioni: 6 miliardi di uomini vivono in nazioni con problemi di corruzione e anche Paesi ritenuti virtuosi non sono completamente immuni dal morbo; 1 eppure alcuni Stati, in passato afflitti da questo flagello, sono riusciti a risalire la china. 2 Nessun pessimismo, quindi, né tantomeno una resa a priori. Si può e si deve reagire, con forza e con convinzione. L’azione di contrasto, pur se improntata a un sano realismo, è possibile e deve perseguire non solo il semplice contenimento del fenomeno, ma una sua radicale, sistemica e stabile riduzione, in modo da portare il nostro Paese al livello delle democrazie più evolute, ai primi posti di tutte le graduatorie della corruzione effettiva e percepita. Per quanto riguarda i tempi, se quella che abbiamo delineato è

davvero – come noi riteniamo e come ritiene gran parte degli osservatori interni e internazionali – una patologia con radici antiche e profonde, è impensabile che la lotta alla corruzione possa conseguire obiettivi strutturali in tempi brevi: essa richiede, per invertire un trend negativo frutto di modelli sociali e di schemi culturali consolidati, un’azione stabile e costante e, soprattutto, politiche dal respiro lungo, non dettate da logiche emergenziali, da sguardi miopi o, peggio, dalla volontà di dare facili risposte mediatiche agli allarmi contingenti e alle pressanti richieste dell’opinione pubblica. 3 Per quanto attiene, infine, ai rimedi, non esistono ricette semplicistiche, toccasana immediati o bacchette magiche capaci di sconfiggere un fenomeno trasversale, mutevole, invisibile. È necessaria, piuttosto, un’azione duratura condotta da un mix di attori e di funzioni, capaci non solo di operare su piani diversi, ma, soprattutto, di muoversi contestualmente, non in contrapposizione ma in sinergia. In questa prospettiva, è indispensabile agire su tre piani che possiamo considerare i pilastri di una moderna ed efficace strategia di lotta alla corruzione: la repressione, la prevenzione e, last but non least, il cambiamento culturale.

Il primo pilastro: la «repressione» In tutti gli Stati moderni la corruzione è considerata dalla legge, sia pure con le fisiologiche diversità, un reato grave. Non è un caso che in Romania, oceaniche manifestazioni di piazza, a Bucarest e in altre città, hanno imposto il ritiro del decreto governativo di depenalizzazione dell’abuso d’ufficio e di altri reati contro la Pubblica Amministrazione. Le luci dei telefonini che il 13 febbraio 2017, nella capitale rumena, hanno illuminato piazza della Vittoria con i colori della bandiera nazionale, esprimono un sentimento universale di ribellione alla corruzione, simboleggiano il disvalore transnazionale di reati che toccano gli interessi generali dei cittadini e reclamano la giusta repressione del fenomeno corruttivo. La repressione deve essere considerata, quindi, uno dei momenti

principali dell’azione di contrasto. Per «repressione» si intendono le attività poste in essere dalla magistratura e dalle forze di polizia al fine di scoprire i delitti di corruzione e di ottenere le necessarie condanne, con le conseguenti pene di legge (detentive e pecuniarie), le misure patrimoniali (cioè confische) e le sanzioni accessorie (cioè l’interdizione dai pubblici uffici e dalle attività economiche). Il reato di corruzione, rivelando il grave «tradimento» dell’impegno fiduciario assunto nei confronti dello Stato e delle istituzioni pubbliche, comporta anche una forma di stigmatizzazione sociale. Si rende necessaria pertanto, accanto alle sanzioni ordinarie, l’adozione di altre misure che, in funzione del ripristino del prestigio istituzionale ferito, allontanino (temporaneamente o definitivamente) gli autori delle condotte criminose dalle funzioni pubbliche e dal mondo produttivo. L’importanza di un’efficace azione repressiva è intuitiva: come per ogni fatto di reato, l’emersione del crimine corruttivo e l’individuazione dei responsabili servono non solo a infliggere la giusta sanzione ai colpevoli, ma anche a rafforzare la fiducia dei cittadini onesti, che vedono ripristinata la legalità. L’irrogazione della pena resta una delle migliori armi della prevenzione. Lo spettro di misure sanzionatorie severe e incisive è di per sé un’efficace arma di dissuasione da condotte illegali. IL QUADRO DELLE NORME PENALI CHE SANZIONANO I FATTI DI CORRUZIONE

Il nostro codice penale, più volte emendato in questa parte, punisce i fatti corruttivi nel quadro dei delitti dei pubblici ufficiali 4 contro la Pubblica Amministrazione, 5 insieme ad altre fattispecie delittuose, fra cui, per citare i reati più noti, 6 il peculato (art. 314 c.p., che, in estrema sintesi, punisce quel soggetto deputato all’esercizio di pubbliche funzioni 7 che si appropria dei beni dell’amministrazione di cui ha il possesso) e l’abuso di ufficio (art. 323 c.p., che punisce il pubblico ufficiale che, violando norme di legge o regolamento o non astenendosi in presenza di un interesse personale, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio o arreca un ingiusto danno).

I fatti corruttivi sono, in particolare, quelli che si strutturano per la presenza di un rapporto fra un agente pubblico e un privato. Vanno distinte, al loro interno, la corruzione vera o propria – o meglio, «le corruzioni», essendo la fattispecie «spalmata» in più norme del codice penale 8 –, in cui vi è un accordo fra pubblico ufficiale e privato avente a oggetto uno scambio fra un atto e/o una funzione, da una parte, e un’utilità, dall’altra; e la concussione, in cui si registra una pressione di tipo minaccioso (o induttivo) attraverso la quale un pubblico ufficiale vuole ottenere un’utilità. 9 LE CRITICITÀ E LE CARENZE DELLA MACCHINA REPRESSIVA

L’efficacia di questo impianto normativo va, però, accertata non solo sul piano astratto della struttura dei reati, ma anche facendo riferimento alla sua effettiva attuazione. A tale scopo possono soccorrere le statistiche giudiziarie, con particolare riguardo a quelle relative alle notizie di reato e alle sentenze di condanna. Questi numeri devono essere riferiti a un periodo sufficientemente lungo (prenderemo in considerazione un ventennio) per fornire un quadro attendibile e dati realmente rappresentativi. Si può partire – utilizzando i dati di uno studio condotto da Piercamillo Davigo e Grazia Mannozzi 10 – dalle notizie di reato per fatti corruttivi (considerati comprensivi della corruzione propria e impropria e della concussione), relativamente al periodo 1983-2002. Vengono presi in esame tre periodi di massima: un primo, fra il 1983 e il 1991, in cui le notizie di reato (a livello nazionale) sono davvero scarse, fra le 300 e le 500 (e di poco superiori sono i numeri delle persone denunciate); un secondo, dal 1992 al 1996, in cui esse crescono significativamente, raddoppiando o triplicando, e soprattutto aumenta in modo esponenziale il numero delle persone denunciate (che vanno dai circa 1000 nel 1992, a quasi 3000 nel 1994-95 e a circa 2000 nel 1996); e un terzo, dal 1997 al 2002, in cui le notizie di reato diminuiscono di nuovo (poco sopra le 600), anche se sono proporzionalmente numerose le persone denunciate. Il periodo 1992-96 è quello in cui hanno conosciuto l’acme le indagini di «Mani pulite» e la repressione penale ha mostrato

maggiormente i muscoli, dispiegando effetti importanti. Dal momento che, a detta di tutti gli analisti, in quella stagione non si è registrata un’impennata improvvisa dei fatti illeciti, è evidente che gli organi inquirenti dell’epoca hanno mostrato una maggiore capacità nel porre in campo le iniziative necessarie a portare alla luce il mondo sommerso della corruzione. 11 Quanto alle condanne, lo studio di Davigo e Mannozzi contiene un interessante esame, i cui risultati sono (almeno per i non addetti ai lavori) davvero sorprendenti, e non certo in positivo. Prendendo in considerazione i fatti di corruzione – intesi nell’accezione sopra indicata, e quindi comprensivi della corruzione in senso stretto e della concussione – commessi sempre dal 1983 al 2002, per i quali è intervenuta sentenza di condanna definitiva, in relazione al luogo in cui il reato è stato commesso, e raffrontandoli alla popolazione residente nei 26 distretti di Corte d’Appello del Paese, si è individuato il tasso di condanne per 100.000 abitanti. Ebbene, solo in quattro distretti è stato superato, per l’intero ventennio, il numero di 10 condannati su 100.000 abitanti (in particolare Lecce, Milano, Torino e Napoli), un tasso di condanne annuo bassissimo. In tutti gli altri distretti il numero di condannati è inferiore, e in tre (Cagliari, Caltanissetta e Reggio Calabria) addirittura al di sotto della soglia di una sola condanna. 12 L’esame dei numeri, nella loro cruda evidenza, dimostra come l’attività repressiva non sia ancora riuscita ad affrontare la corruzione in modo adeguato alle necessità e alle aspettative; in alcuni momenti storici, certo, lo ha fatto con maggiore incisività, ma (forse) persino in quei frangenti senza rispondere in modo proporzionato alla reale entità del fenomeno. 13 Non sorprende, in questo quadro, il già ricordato allarme lanciato il 26 gennaio scorso dal presidente della Corte di Cassazione, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, in merito alla modestissima percentuale dei processi per corruzione (lo 0,5% del contenzioso penale complessivo) in rapporto all’altissima percezione sociale del radicamento e della diffusione del fenomeno. Nel 2016, solo 273 processi sono stati definiti per fatti di corruzione, un numero davvero modesto rispetto alla sua reale incidenza sui gangli vitali del nostro Paese. Così come non può

non stupire il ridottissimo numero di «colletti bianchi» sul totale della popolazione carceraria italiana: 230 (lo 0,6% dei 54.252 detenuti nel 2015), rispetto ai 7986 in Germania. LE RIFORME PENALI FALLITE E QUELLE NECESSARIE

È, quindi, necessario migliorare l’efficienza dell’azione repressiva, ponendo mano a mirati correttivi, anche di tipo legislativo. Alcuni interventi normativi effettuati nel periodo post «Tangentopoli» sono andati, però, in direzione del tutto opposta a questo auspicio. Pur senza mai toccare direttamente le fattispecie corruttive, tali riforme hanno inciso in modo deleterio sulla capacità di far emergere i fatti di corruzione, ora interpolando alcune fattispecie di cosiddetti «reati spia» 14 – ci riferiamo alle riforme che hanno riguardato l’abuso di ufficio 15 e il falso in bilancio 16 –, ora incidendo sui criteri di computo della prescrizione. 17 La legislazione più recente, anche sull’onda emotiva degli scandali degli ultimi anni, ha non solo imboccato una doverosa retromarcia rispetto ad alcune di queste scelte, ma ha anche intrapreso nuove strade che vanno finalmente nella direzione di una maggiore efficienza dell’azione repressiva, nel duplice senso di consentire una più ampia emersione dei fatti corruttivi e di agevolarne l’accertamento. Nella prima prospettiva si muovono sia alcune innovazioni introdotte sui reati spia del falso in bilancio (che torna a essere un delitto, punito in modo adeguato, che copre, con la medesima fattispecie, quasi tutte le ipotesi di falsificazione dei bilanci in ogni tipo di società) 18 e dell’autoriciclaggio (reato inserito per la prima volta nel codice penale, che punisce chiunque, avendo commesso – o concorso in – un reato, impiega, sostituisce o trasferisce il provento ricavato in attività economiche, finanziarie o imprenditoriali, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa); 19 sia, soprattutto, la previsione di un’attenuante speciale, da tempo invocata dagli addetti ai lavori, a favore di chi collabora per svelare i fatti corruttivi (per chi, in particolare, si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a

conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per l’individuazione degli altri responsabili, ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite), con una significativa riduzione della pena, idonea a stimolare una scelta collaborativa (la pena è diminuita, in particolare, da un terzo a due terzi) e con una struttura, in definitiva, analoga a quella similare prevista in materia di mafia. 20 Nella seconda direzione di marcia, invece, sono da considerarsi particolarmente utili sia l’introduzione di una fattispecie che consente di punire la nuova forma di corruzione (di cui abbiamo parlato nei capitoli precedenti) degli agenti pubblici «a libro paga», a prescindere, quindi, dall’individuazione di un atto oggetto di illecita trattativa, 21 sia gli aumenti delle pene massime per alcune fattispecie, soprattutto per gli effetti indiretti sulla prescrizione, 22 sia, ancora, il rafforzamento delle sanzioni interdittive (che, forse, avrebbe dovuto essere ancora più rigoroso, in particolare ammettendone l’applicazione anche in presenza di sospensione condizionale della pena) 23 e delle misure patrimoniali. 24 Benché (forse) opportuna sul piano metodologico, più problematica è stata, invece, la modifica che ha comportato la scissione fra concussione e induzione indebita, che ha finito, almeno in una prima fase, per creare più di qualche problema alle indagini. 25 Vi sono ancora sul tappeto, e in discussione anche in Parlamento, ulteriori proposte normative che vorrebbero, fra l’altro, provare a esportare nell’azione anticorruzione le regole utilizzate, sul piano processuale e sostanziale, per il contrasto alle mafie. 26 Il travaso completo di quella normativa sembra, però, poco condivisibile, perché non tiene conto della diversità delle situazioni. Le speciali norme antimafia, oggettivamente meno garantiste, hanno visto la luce perché quelle organizzazioni criminali utilizzano l’intimidazione che crea omertà diffusa nel contesto sociale, situazione questa che non necessariamente si verifica con riferimento ai fatti corruttivi. Né, peraltro, può essere un argomento convincente a contrario la circostanza che oggi spesso sono proprio le mafie a utilizzare la corruzione: in questi casi, infatti, non vi è dubbio alcuno che le regole speciali possano essere applicate, senza bisogno di

estenderle anche a fatti corruttivi che non abbiano carattere mafioso. L’equazione mafia = corruzione è suggestiva, ma semplicistica e, quindi, sviante. Allo stesso modo, sembra poco utile estendere il discusso (anche in ambito internazionale) impianto delle misure di prevenzione patrimoniale antimafia alle fattispecie corruttive. Anche a non voler considerare che il codice penale prevede già varie forme di confisca molto efficaci, applicabili all’esito del processo penale, 27 e che, già a legislazione vigente, è possibile applicare, in alcuni casi, le misure di prevenzione patrimoniale alle fattispecie corruttive (e alcuni giudici lo hanno già fatto con successo), 28 restano insuperabili le differenze strutturali fra i due fenomeni criminali. Potrebbero, invece, essere estesi all’azione di contrasto al fenomeno corruttivo altri tasselli del mosaico normativo confezionato dalla legislazione antimafia. Ci si riferisce, in prima battuta, alle disposizioni che consentono un più ampio ricorso alle intercettazioni telefoniche e ambientali, particolarmente utili per consentire l’emersione di reati strutturalmente sotterranei e nascosti come quelli di cui si discute. 29 O alle norme che ammettono l’utilizzo degli agenti infiltrati, che, previamente autorizzati dalla magistratura, potrebbero fornire prove rilevanti, soprattutto in quei casi in cui l’attività corruttiva si struttura attraverso forme associative. Non è, invece, predicabile il ricorso alla diversa figura degli agenti provocatori, e cioè di coloro che fingono di essere corruttori per mettere alla prova l’onestà di un pubblico ufficiale, posto che essi non si limiterebbero in questo caso a scoprire un reato, ma creerebbero un’artificiosa forma di pseudocorruzione. 30 PRESCRIZIONE PIÙ LUNGA O PROCESSI PIÙ BREVI?

Quanto al problema, pure oggetto di dibattito, dell’introduzione di norme speciali sui termini di prescrizione per la corruzione, è indubbio che la riforma del 2005 (nota come ex Cirielli), riducendo i termini di prescrizione, ha sortito effetti negativi proprio sull’accertamento dei reati in esame, 31 riducendo della metà i termini di prescrizione e rendendo ardua la tempestiva definizione dei

giudizi, soprattutto per i fatti caratterizzati da maggiore complessità probatoria. I termini attuali di prescrizione sono evidentemente brevi, se si considera che la scoperta di un reato «nascosto» come la corruzione interviene di norma a distanza di tempo anche significativa dalla commissione del fatto storico. Non è un caso che il 13,7% delle prescrizione riguardi i reati contro la Pubblica Amministrazione, che un processo su dieci per questo tipo di reati vada in fumo ogni anno (dati Istat 2013) e che il 62% dei reati di corruzione transnazionale, secondo l’ufficio studi della Camera dei deputati, non arrivi mai a sentenza a causa di questa tagliola. D’altro canto, si deve convenire che una dilatazione eccessiva dei termini rischierebbe di portare a una definizione del giudizio a tempo scaduto, quando ormai si è affievolito l’interesse pubblico alla risposta di giustizia e il danno prodotto dal fatto corruttivo si è irreversibilmente consumato. Una sentenza passata in giudicato per corruzione che, per ipotesi, intervenisse a vent’anni dal fatto di reato rischierebbe di riferirsi a un dipendente pubblico ormai (probabilmente) andato in pensione o a un amministratore ormai lontano dalla scena politica. La corruzione è una rottura profonda del patto di fiducia che lega la società, gli attori istituzionali e gli operatori economici, un tradimento delle regole del gioco che deve essere smascherato in tempi rapidi per evitare ferite peggiori e per perseguire una seria prevenzione. Si è parlato, efficacemente, di «simonia secolarizzata», per evidenziare, plasticamente, che «come nella chiesa c’è il sacerdote che vende cose sacre, nello Stato c’è il funzionario pubblico che vende le cose che per lui dovrebbero essere sacre, perché ha giurato fedeltà alla Repubblica». 32 E allora, senza tacere il rilievo che alcuni effetti deleteri della riforma sono stati già sterilizzati dagli aumenti delle pene introdotte dalla legislazione recente, una modifica del regime della prescrizione dovrebbe, più che allungare in modo eccessivo i termini, evitare il maturarsi della prescrizione nei casi in cui siano già intervenute sentenze di condanne in primo grado o, addirittura, in appello. In

questo senso, merita adesione la proposta formulata dal Primo Presidente della Corte di Cassazione nella sua relazione dello scorso 26 gennaio. Va nella giusta direzione, almeno in parte, anche il disegno di legge di riforma dei codici penale e di procedura penale, attualmente all’esame del Senato dopo essere stato approvato nel 2015 dalla Camera dei deputati, che, oltre ad aumentare in modo cospicuo i termini di prescrizione per i reati di corruzione, prevede la sospensione, fino a un massimo di due anni, del termine di prescrizione fra la sentenza di condanna di primo grado e la definizione del giudizio d’appello; 33 e analoga sospensione, al massimo per un ulteriore anno, fra sentenza d’appello e conclusione del giudizio in cassazione. Risulta, poi, indispensabile che, anche grazie a scelte organizzative dei vertici degli uffici giudiziari, ai processi per corruzione sia garantita una corsia preferenziale: 34 solo una sentenza definitiva (di condanna) consente, infatti, l’espulsione temporanea o definitiva (a seconda della gravità dei fatti) dalle attività amministrative ed economiche dei condannati (quello che i politici chiamano, con una frase a effetto, il «Daspo» per i corrotti). Più che – e oltre che – allungare la prescrizione, si deve allora accelerare il corso della giustizia. La giustizia lenta è una giustizia gravemente malata. «Giustizia ritardata è giustizia negata» ammoniva Montesquieu. Questo vale sempre, ma vale in modo particolare per i reati di corruzione, che inquinano le arterie vitali del tessuto sociale. La principale conseguenza della lentezza della giustizia è, infatti, l’incremento dell’illegalità e, quindi, del bacino di coltura della corruzione. Kelsen ricorda che «una norma non è una norma se non è sanzionata». Si può aggiungere che una norma non è davvero una norma se la sua violazione non viene sanzionata in tempi brevi. Perché solo il ragionevole rischio di subire una sanzione efficace e rapida costituisce un reale deterrente contro l’illegalità. La lentezza della giustizia italiana è, pertanto, uno dei principali agenti patogeni che danneggiano il tessuto sociale e la coscienza civica, ponendo le premesse ideali per lo sviluppo della corruzione, del malaffare e dell’illegalità.

Il secondo pilastro: la «prevenzione» In Italia, fino alla fine del primo decennio di questo nuovo secolo, la strategia prioritaria messa in campo nella lotta alla corruzione è stata, di fatto, quella repressiva. Del fenomeno corruttivo si sono occupati principalmente i giudici, attraverso le indagini e i processi penali. Ebbene, si tratta di una politica votata al fallimento. LA REPRESSIONE SERVE, MA NON BASTA

Come ammonisce Salvatore Satta, 35 il processo non deve perseguire scopi esterni al processo stesso. Non è compito delle indagini giudiziarie correggere i costumi, moralizzare la società, migliorare l’etica collettiva. I magistrati devono solo giudicare comportamenti specifici, senza educare qualcuno o insegnare qualcosa. I giudici non sono angeli con un compito salvifico, pedagoghi o filosofi. Non sono neanche politici, non devono formulare giudizi universali sulla politica 36 e non sono chiamati a elaborare un sistema di valori e di princìpi da propagare con la forza delle sentenze. Se le cose stanno così, si deve convenire che l’efficacia dell’azione della magistratura può essere misurata in base alla sua capacità di dare risposte rapide, eque ed efficaci alle istanze di giustizia che le vengono di volta in volta sottoposte, non certo con il termometro dei miglioramenti indotti nella società in termini di etica, moralità e, quindi, legalità. Certo, l’eco, anche mediatica, dell’azione giudiziaria può essere una scintilla che accende il fuoco della coscienza sociale, dissuadendo potenziali corrotti e corruttori, ma da sola non può bastare. Lo stesso risanamento della politica deve dipendere dalla capacità della stessa di autoriformarsi e di fare pulizia al proprio interno, in autonomia e in anticipo rispetto ai tempi (anche lunghi) degli eventuali processi penali. Anche la repressione penale più efficiente non può essere, quindi, autosufficiente ai fini di un’azione di contrasto a una malattia sociale

di sistema qual è la corruzione. Si consideri, tra l’altro, che le indagini della magistratura riescono a smascherare solo una parte (modesta, purtroppo) della corruzione penale, senza poter lambire la corruzione in senso lato (non penalmente rilevante), ossia quei diffusi fenomeni di immoralità e malaffare collegati alla violazione delle regole etiche comunemente accettate. Comportamenti e deviazioni che sono il bacino di coltura in cui maturano le premesse per la commissione di reati specifici e, poi, di sistemi criminosi. La repressione penale, lo ribadiamo, deve per sua natura perseguire i reati e individuare responsabilità personali, non risolvere problemi strutturali, come quelli di una corruzione di sistema. Non deve quindi stupire che anche la più importante e capillare indagine svolta in Italia sulla corruzione, ossia l’inchiesta milanese di «Mani pulite» – quella che Indro Montanelli ha definito la «rivoluzione pacifica della società civile» e che ha portato, negli anni Novanta, a 2000 il numero di persone arrestate o indagate e a 1400 sentenze di condanna per corruzione e concussione –, non abbia debellato la piaga sociale e morale di cui stiamo parlando. Lo ha affermato, senza mezzi termini, Gherardo Colombo, uno dei pm dello storico pool di Milano, secondo cui «le indagini di mani pulite hanno … contribuito a svelare un sistema sommerso ma incredibilmente diffuso, rispetto al quale il processo penale può solo dare risposte specifiche su quel che già è successo … [è] impossibile estirpare la corruzione attraverso una indagine penale, per quanto vasta, approfondita ed articolata». 37 Inoltre, un’azione repressiva, pur efficace (com’è stata senza dubbio quella di «Mani pulite»), non è in grado certo di impedire (da sola) che la corruzione riemerga, persino sotto diverse spoglie e in modo più capzioso. Ne abbiamo, del resto, la riprova con quanto sta avvenendo ai nostri giorni, che sembra dar ragione al paradosso (già altrove riferito) della «selezione darwiniana» di cui parla un altro storico componente del pool milanese, Piercamillo Davigo, secondo il quale «noi magistrati svolgiamo la stessa funzione che in natura svolgono gli animali predatori: miglioriamo la specie predata. Eliminiamo i corrotti meno furbi». 38 Infine, non va sottovalutato un

altro aspetto: la delega (di fatto) del contrasto alla corruzione affidata al solo potere giudiziario penale rischia, alla lunga, di produrre una (inevitabile) «stanchezza» nell’opinione pubblica, che si trasforma poi in un distaccato disinteresse. È quanto è accaduto nella fase finale di «Mani pulite», dove si è passati dalle assemblee popolari davanti al palazzo di giustizia di Milano a sostegno delle indagini al disinteresse non solo per ciò che avveniva, ma persino rispetto a riforme governative che rendevano più difficili le indagini o rispetto alle azioni disciplinari (se non addirittura penali), più o meno strumentali, avviate nei confronti dei magistrati che avevano condotto le indagini. 39 LA CULTURA DELLA PREVENZIONE E L’AMPIEZZA DEL SUO SIGNIFICATO: LA «PREVENZIONE INDIRETTA»

Basterebbero queste ragioni a dimostrare che c’è bisogno (anche) di altro per un’efficace azione anticorruzione; in particolare, di un’attività di carattere preventivo. Se la repressione fa riferimento agli interventi sanzionatori sui fatti corruttivi già avvenuti e scoperti, la prevenzione, invece, comprende sia tutte quelle azioni che, in primo luogo, tendono a evitare o a rendere molto più difficile il verificarsi di fatti corruttivi, agendo soprattutto sul contesto dell’attività amministrativa in modo da eliminare l’humus che favorisce lo sviluppo del fenomeno; sia tutte quelle azioni che possono intervenire dopo l’evento corruttivo, per bonificare l’ambiente che ne ha agevolato l’insorgenza. Di prevenzione della corruzione si parla ormai da anni in tutti i simposi internazionali e vi si soffermano le convenzioni internazionali che anche l’Italia ha ratificato negli anni scorsi. Eppure, la scelta di una politica mirata di prevenzione risale solo a pochi anni fa, e precisamente, come diremo, al 2012. Non è facile spiegare questo grave ritardo storico. Forse da noi si è creduto poco alle politiche di prevenzione, sulla scorta del fallace assunto che esse non danno risultati tangibili e facilmente misurabili. Le azioni di prevenzione (sia sul piano normativo che amministrativo), intendiamoci, non sono mancate del tutto, ma non

hanno prodotto effetti significativi, sia perché non sono state percepite dall’opinione pubblica, sia, in particolare, perché non sono state inserite in una logica complessiva di sistema e, soprattutto, hanno difettato del raccordo e del coordinamento necessari per garantire un impatto serio e concreto. Del resto, la scarsa cultura della prevenzione in Italia non vale solo per la corruzione ma anche per altri flagelli, come le calamità naturali o gli infortuni sul lavoro: se questi eventi non si realizzano, nessuno (ovviamente) se ne accorge e non è possibile stabilire se l’assenza di un danno sia l’effetto di una positiva azione preventiva messa in campo o di altri fattori. Solo il verificarsi di eventi traumatici o tragici scuote gli umori dell’opinione pubblica, eccita la caccia al colpevole e scatena un dibattito sulla prevenzione, destinato peraltro a volatilizzarsi con il fluire dei giorni. Dalla prevenzione bisogna allora partire, cambiando cultura e modificando la nostra impostazione mentale. La prevenzione della corruzione copre, tra l’altro, un ambito molto più vasto di quanto si può in prima approssimazione pensare. Se la patologia di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti si innesta, infatti, su tessuti sociali già per altre ragioni compromessi tanto da favorirne la crescita, è evidente che ogni modifica apportata ai secondi può avere effetti (positivi o negativi) sulla prima. Finiscono così per sortire effetti (indirettamente) preventivi anche azioni (normative e amministrative) che si propongono obiettivi specifici (anche molto) diversi. Di tali effetti preventivi indiretti abbiamo già in parte parlato nei capitoli precedenti, ma qui è opportuno ritornarci, a titolo esemplificativo, per chiarire il significato dell’affermazione. Nel settore della sanità, per esempio, interventi finalizzati a evitare la sovrapposizione di competenze e le complessità normative, a eliminare l’ingerenza politica nelle nomine dei vertici amministrativi e sanitari, a regolare meglio il rapporto pubblico-privato e a razionalizzare, anche dal punto di vista economico, il funzionamento delle strutture e degli acquisti potrebbero far conseguire, come obiettivo primario, l’efficienza del servizio per i cittadini utenti, ma, nel contempo, potrebbero rimuovere alcune delle condizioni che

hanno favorito il proliferare del clientelismo e della corruzione. 40 Nel sistema delle società pubbliche, scelte legislative che ne consentano la nascita solo in caso di specifica utilità e necessità, che individuino criteri oggettivi e meritocratici, oltre che requisiti di onorabilità, per le nomine dei vertici e che stabiliscano procedure trasparenti per le assunzioni non solo renderebbero il settore più efficiente e ridurrebbero di molto il carico sulla spesa pubblica, ma prosciugherebbero certamente il clientelismo e il malaffare che lo hanno a lungo funestato. 41 Con riferimento agli appalti pubblici, una regolamentazione chiara, comprensibile, che eviti eccessivi intralci burocratici e renda trasparenti le ragioni delle scelte effettuate avrebbe conseguenze positive nella politica di infrastrutturazione del Paese, creerebbe certamente occasioni di lavoro per le imprese, stimolando una sana concorrenza fra di esse, ma, altrettanto certamente, ridurrebbe le occasioni di corruttela. Una burocrazia che dia risposte ai cittadini e agli utenti, che sia selezionata in base al merito, che non sia inamovibile, che risponda dei risultati e che sia sottoposta, se e quando necessario, a incisive (e garantite) procedure disciplinari, che mantenga la sua indipendenza rispetto alla politica renderebbe l’azione amministrativa efficiente ed efficace, in linea con gli standard internazionali, e, insieme, molto più complicata la corruzione, mettendo il dipendente pubblico nelle condizioni di operare onestamente. 42 Una corretta concorrenza fra imprese, oltre ad avere benefici effetti sul mercato, sulla qualità dei prodotti e dei servizi e su ricerca e innovazione, eviterebbe comportamenti non virtuosi e/o illeciti e aiuterebbe a fare squadra contro chi, commettendo fatti corruttivi, finisce ovviamente per mettere in discussione proprio il principio di sana competizione. 43 Una giustizia che sia in grado di funzionare in tempi ragionevoli e con risultati in astratto prevedibili migliora la qualità della vita dei cittadini e favorisce certamente l’attività economica e imprenditoriale, ma è anche un argine certo al malaffare, perché chi ha subìto un torto sa di potersi rivolgere a essa per sanarlo e chi compie un’attività illecita sa che essa sarà in grado di smascherarlo o di rendere

quantomeno evidente l’irregolarità di una procedura. 44 Una semplificazione normativa che riduca significativamente le norme, che le renda comprensibili a tutti, che consenta a ogni cittadino di avere punti di riferimento certi sul piano delle regole, eviterebbe intralci all’esercizio di diritti e doveri dei cittadini ed escluderebbe che, per superarli, si debba ricorrere al pagamento di mazzette o a intermediazioni illecite. 45 E si potrebbe senz’altro proseguire, anche a lungo, per molti altri settori. I TRE CAPISALDI DELLA «PREVENZIONE DIRETTA» PERSEGUITA DALLA «LEGGE SEVERINO»

Accanto a queste attività che, indirettamente, possono recare effetti di prevenzione della corruzione ve ne è, poi, un’altra che la persegue come specifico obiettivo e che è quella introdotta dalla già citata legge 6 novembre 2012, n. 190 (la cosiddetta «legge Severino», dal nome dell’allora ministro della Giustizia che si spese per farla approvare), che ha istituito, fra l’altro, anche l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). Le linee di intervento di questa nuova forma di prevenzione si fondano soprattutto (e in estrema sintesi) su tre capisaldi: la responsabilizzazione delle amministrazioni, la trasparenza, l’imparzialità dei funzionari pubblici. La responsabilizzazione delle amministrazioni. La responsabilizzazione delle amministrazioni parte dall’idea che le pubbliche amministrazioni non possono, sotto questo profilo, essere considerate soltanto destinatarie di controlli amministrativi (interni ed esterni) o (persino) penali, ma devono, invece, diventare esse stesse attrici dell’azione di contrasto alla corruzione. In particolare, esse devono dotarsi di strumenti di compliance, costituiti dai cosiddetti «Piani triennali di prevenzione della corruzione» (Ptpc), che sono strutturati in modo analogo a quelli previsti per le imprese private dal d.lgs. n. 231/2001. Lo scopo dei Piani è, in particolare, individuare e mappare, per ciascun tipo di amministrazione, tutte le aree di maggior rischio, vale a dire di

annidamento di comportamenti corruttivi, 46 in modo da poter valutare quale sia l’effettiva esposizione al rischio di corruzione e adottare misure organizzative specifiche per prevenirlo o eliminarlo, destinate, cioè, a incidere sulle occasioni e sui fattori che possono favorire l’insorgere dell’evento corruttivo. Nella predisposizione di questi Piani deve essere prestata particolare attenzione ai processi interni, come quelli finalizzati alla rotazione del personale o alla predisposizione di adeguati sistemi di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti nell’ambito del rapporto di lavoro (il cosiddetto «whistleblower»). 47 Le amministrazioni, inoltre, devono individuare un dirigente che assuma il ruolo di Responsabile della prevenzione della corruzione (Rpc), che ha il compito di realizzare, monitorare, implementare e modificare il Ptpc e di verificare il livello di attuazione delle misure di prevenzione della corruzione adottate, nonché di proporre la modifica dello stesso ogniqualvolta siano state accertate significative violazioni delle prescrizioni, ovvero intervengano mutamenti nell’organizzazione o nell’attività dell’amministrazione, diventando, quindi, il garante della legalità all’interno delle singole amministrazioni e il principale interlocutore dell’Anac all’interno delle pubbliche amministrazioni. La Pubblica Amministrazione deve essere una casa di vetro. La trasparenza dell’attività amministrativa è ritenuta, anche a livello internazionale, 48 il più importante dei presidi anticorruzione, perché persegue l’obiettivo di trasformare l’amministrazione pubblica in «una casa di vetro» in cui tutto ciò che accade sia visibile all’intera cittadinanza, consentendo così la forma di controllo più efficace in una democrazia moderna, vale a dire quello civico e diffuso dei singoli cittadini o delle associazioni. È nota la lezione di Norberto Bobbio, secondo cui «la trasparenza distingue gli ordinamenti democratici da quelli autoritari», nei quali il segreto è la regola, la conoscibilità l’eccezione. Un potere invisibile è il contrario della democrazia, mentre un potere trasparente è, già solo per questo, democratico. 49 Un’attività amministrativa ispirata ai princìpi di partecipazione, motivazione, accessibilità e condivisione è

espressione di un potere amministrativo vicino al cittadino e, come tale, democraticamente legittimo e legittimato. Non è un caso se il Primo emendamento della Costituzione americana sancisce il diritto dei cittadini di ricevere informazioni in ordine all’attività di governo. È nota l’affermazione di Thomas Jefferson, nella Dichiarazione di indipendenza, secondo cui «i governi derivano la propria autorità dal consenso dei governati». Ed è per questo che gli Stati Uniti sono considerati il Paese più avanzato in ordine alla disciplina concernente la trasparenza amministrativa, considerata il principale termometro del grado di democrazia e civiltà di un ordinamento giuridico. Si parla, emblematicamente, di open government, ossia di amministrazione aperta ai cittadini, di potere condiviso con i governati, e non imposto a essi in modo unilaterale e con schemi autoritari. Nel nostro Paese, con una normativa attuativa della legge Severino – il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, di recente ampiamente modificato dal d.lgs. 25 maggio 2016, n. 97 –, si è finalmente introdotto un sistema organico di trasparenza che prevede l’obbligo di pubblicità di una serie di informazioni specificamente indicate nella legge; in particolare, di quelle ritenute funzionali a favorire un controllo diffuso sul personale e sull’azione amministrativa, a rafforzare l’accountability delle amministrazioni pubbliche nella gestione finanziaria e a semplificare il rapporto fra privati e Pubblica Amministrazione. L’obbligo di pubblicità grava su ogni ente pubblico, centrale e locale, rendendo necessario pubblicare le notizie indicate in una sezione del proprio sito istituzionale, denominata «amministrazione trasparente», in cui esse vanno inserite come «dati aperti» (open data), cioè con la possibilità di conoscenza, fruizione gratuita, utilizzo e riutilizzo. Il sistema prevede, poi, una sorta di norma di chiusura, rappresentata dal cosiddetto «accesso civico generalizzato» (introdotto di recente dal d.lgs. n. 97/2016, divenuto noto come «Foia» perché riprende l’analogo istituto anglosassone del Freedom of Information Act), che consente ai cittadini di poter ottenere copia di tutti i documenti in possesso della P.A., senza dimostrare l’esistenza

di un interesse specifico, salvo eccezioni collegate a particolari esigenze di riservatezza della materia. Ogni amministrazione, inoltre, deve dotarsi di un programma triennale per la trasparenza e l’integrità, che di norma costituisce una sezione del Piano triennale di prevenzione della corruzione, e deve nominare un Responsabile della trasparenza (oggi, a seguito della modifica introdotta dal d.lgs. n. 97/2016, coincidente con il Responsabile della prevenzione della corruzione), a cui spetta la vigilanza sul rispetto degli obblighi di pubblicità all’interno dell’amministrazione. 50 La tutela del valore primario dell’imparzialità amministrativa. La strategia di tutela dell’imparzialità (prevista da un altro decreto legislativo, il d.lgs. 8 aprile 2013, n. 39, emanato in attuazione di una delega contenuta nella legge Severino) viene attuata riferendola, più che agli atti dell’amministrazione, ai soggetti che per conto di essa operano. Un pubblico amministratore, infatti, che non ha interessi in conflitto con l’ente in cui opera, garantisce meglio, sia dal punto di vista sostanziale dell’essere che di quello non secondario dell’apparire, la correttezza dell’agire pubblico. In questa prospettiva, la legge prevede misure che mirano a prevenire l’accesso o la permanenza in una carica pubblica amministrativa di coloro che, per varie ragioni, sono considerati non adatti alle funzioni (il cosiddetto «pre-imployment»), o misure che tendono a evitare situazioni che, verificandosi durante la carica o dopo la sua cessazione, minano il principio di imparzialità dell’amministrazione (il cosiddetto «post-imployment»), ampliando i casi di incompatibilità già presenti nell’ordinamento (cioè di quelle situazioni nelle quali non è possibile cumulare incarichi) e, soprattutto, introducendo la nuova figura dell’inconferibilità (che non consente, per un determinato periodo di tempo, di assumere alcune cariche pubbliche). 51 In particolare, sono fissate ipotesi di incompatibilità tra i soggetti titolari di incarichi di vertice dell’amministrazione sia con cariche all’interno di enti di diritto privato regolati e finanziati, sia con cariche politiche; e ipotesi di inconferibilità per cariche di vertice

dell’amministrazione sia in conseguenza di una condanna penale per alcuni reati sia per soggetti che provengono da imprese private regolate o finanziate sia per soggetti provenienti da organi politici. 52 Il d.lgs n. 39 affida la vigilanza interna sul rispetto dei princìpi al Responsabile della prevenzione della corruzione e introduce un apparato sanzionatorio che comporta anche sanzioni di natura interdittiva nei confronti di coloro che dovessero nominare soggetti inconferibili. 53 Sempre in funzione di garantire imparzialità e correttezza soggettiva dei funzionari pubblici, la legge Severino ha previsto anche l’adozione obbligatoria di un Codice nazionale di comportamento (adottato con d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62), con cui devono essere precisati i doveri di comportamento dei dipendenti pubblici, compresi i dirigenti, e deve essere necessariamente previsto il divieto di chiedere o di accettare, a qualsiasi titolo, compensi, regali o altre utilità in connessione con l’esercizio delle funzioni, tranne quelli di uso e di modico valore. A seguito dell’adozione del Codice nazionale, tutte le amministrazioni, con procedure aperte alla partecipazione, comprese le magistrature e l’avvocatura dello Stato, devono adottare propri codici di comportamento che integrano il Codice nazionale, 54 e la violazione dei princìpi del Codice nazionale e di quelli adottati da ogni amministrazione non ha solo un rilievo etico o deontologico, ma costituisce un illecito disciplinare. Nella medesima prospettiva, vale a dire quella di evitare che le funzioni pubbliche possano essere strumentalizzate per ottenere un vantaggio privato successivo, è stato, infine, introdotto anche il cosiddetto «pantouflage», cioè il divieto di assumere cariche in imprese private successivamente alla cessazione di un servizio svolto presso amministrazioni pubbliche che ha comportato rapporti con le imprese medesime. 55 L’ISTITUZIONE DELL’AUTORITÀ ANTICORRUZIONE (ANAC)

Una delle novità più significative introdotte dalla legge Severino è stata senza dubbio l’istituzione di un’autorità anticorruzione cui

attribuire il ruolo di vigilanza sull’insieme delle regole sopra citate, in tal modo ottemperando, finalmente, alle indicazioni contenute in specifiche disposizioni internazionali, in particolare nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (art. 6, comma 3) e nella Convenzione penale del Consiglio d’Europa (artt. 20 e 21). In verità, il nostro Paese aveva già visto l’istituzione nel 2004 di una figura solo in parte analoga, quella dell’Alto commissario per la lotta alla corruzione, ma si trattava di un organo privo di reale autonomia, tanto da essere alle dipendenze funzionali della presidenza del Consiglio, e con poteri quanto mai generici e fumosi, fra l’altro non previsti nemmeno da una legge bensì da un regolamento governativo. La sua vita, peraltro, era stata molto breve: era stato, infatti, soppresso dopo appena 4 anni, nel 2008. 56 Con la riforma del 2012 venne, in particolare, attribuito il ruolo di Autorità anticorruzione a un organismo già esistente, la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit), 57 il cui nome è stato successivamente modificato nel 2013 in Autorità nazionale anticorruzione, con una norma che ha richiesto una specifica qualificazione per i membri della governance e, soprattutto, ha garantito la loro autonomia rispetto all’indirizzo della politica e del governo. 58 L’Autorità, fra l’altro originariamente dotata di un limitato contingente di personale nemmeno di ruolo, 59 è stata notevolmente rafforzata nel 2014, a seguito degli arresti per corruzione nelle vicende dell’Expo e del Mose, grazie al decreto Madia (d.l. 24 giugno 2014, n. 90, convertito in legge 11 agosto 2014, n. 114), con l’obiettivo di costituire nel nostro Paese un forte presidio a tutela della trasparenza e legalità nella gestione della cosa pubblica. 60 In particolare, si è soppressa un’altra Autorità (quella della vigilanza dei contratti pubblici, Avcp), il cui personale e le cui competenze in materia di vigilanza di appalti pubblici sono stati trasferiti all’Anac, la quale è stata dotata anche di un potere sanzionatorio nei confronti delle amministrazioni e di altre innovative attribuzioni e funzioni. 61

Fra queste ultime va segnalato, in primo luogo, il potere di vigilanza attribuito al presidente dell’Anac sugli appalti del grande evento Expo 2015, sui quali è stato previsto un controllo preventivo, da effettuarsi a mezzo di un’Unità operativa speciale (Uos), di cui può far parte anche personale appartenente alla Guardia di Finanza. 62 Il sistema di verifica degli appalti strutturato per l’Expo ha avuto positivi riscontri anche a livello internazionale, ed è stato poi esportato agli appalti del Giubileo della Misericordia di Roma 63 e, più recentemente, agli appalti per la ricostruzione delle zone terremotate, 64 ed è divenuto uno strumento applicabile in via generale, grazie al recente codice dei contratti pubblici, attraverso la cosiddetta «vigilanza collaborativa». 65 Pure degne di menzione sono le «misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese nell’ambito della prevenzione della corruzione», divenute note nella pratica come «commissariamento degli appalti» (art. 32 del decreto Madia). In particolare, il presidente dell’Anac può richiedere al prefetto competente per territorio di intervenire su appalti (o su concessioni di lavori pubblici o di attività di contraente generale) 66 conseguiti in modo illegittimo, con misure di vario tipo, 67 che possono anche giungere alla nomina di commissari che gestiscano il singolo appalto o la commessa «incriminata», senza espropriare l’impresa della sua governance ordinaria, ma accantonando gli utili conseguiti in funzione dei possibili risarcimenti o delle eventuali confische. 68 Nel disegno riformatore portato a compimento nel 2016, in definitiva, l’Anac, incarnando il modello che già nel 1891 Benjamin Constant definiva di «pouvoir neutre, modérateur et intérmediaire», è una Multi-purpose agency che unisce le funzioni di controllo e vigilanza sui fatti corruttivi all’interno delle amministrazioni pubbliche e quelle inerenti alla vigilanza (lato sensu intesa) sul settore dei contratti pubblici. 69 PRIME VALUTAZIONI SULLA STRATEGIA DELLA PREVENZIONE

La previsione di un sistema organico di prevenzione è stata, a oggi, salutata da molti commentatori internazionali in modo positivo. A titolo esemplificativo, il Groupe d’États contre la corruption del

Consiglio d’Europa (organismo noto con l’acronimo Greco), nella valutazione contenuta nel quarto rapporto sull’Italia resa nota nel gennaio 2017, ha giudicato molto positiva la creazione di un’autorità anticorruzione, riconoscendole un ruolo cruciale nella politica di contrasto al fenomeno. 70 Analogamente, l’Ocse, con due diversi report, ha considerato i controlli effettuati sugli appalti Expo una best practice e ha tratto da essi gli high level principles per l’integrità, la trasparenza e i controlli efficaci di grandi eventi e delle relative infrastrutture. 71 Dal canto suo, il rapporto 2015 del Service central de prevention de la corruption (Scps), organismo anticorruzione francese, ha dedicato un intero capitolo all’Anac, con giudizi particolarmente lusinghieri. 72 Anche nel panorama nazionale, accanto a legittime critiche sull’impianto della prevenzione e sull’operato dell’Anac, 73 si registrano numerosi commenti favorevoli. 74 Quel che più conta, in uno Stato di diritto in cui il public power non può essere autoreferenziale ma deve trovare legittimazione dal basso nel consenso popolare, l’attività della neonata autorità sta riscuotendo un significativo credito fra i cittadini, che hanno moltiplicato nell’ultimo periodo il numero di esposti a essa inoltrati. 75 La «cultura dell’anticorruzione» si arricchisce così di un dialogo fecondo e di un nutrimento reciproco tra azione dell’autorità e partecipazione attiva dei cittadini. Quelli citati, al di là di ogni altra considerazione, sono esempi che dimostrano la buona accoglienza che sta ricevendo l’avvio di una politica di prevenzione della corruzione. Ovviamente, non mancano criticità di non poco momento, soprattutto nella gestione dei nuovi strumenti anticorruttivi da parte delle amministrazioni pubbliche. Come da più parti evidenziato, i Piani triennali di prevenzione della corruzione sono spesso stati intesi come un mero adempimento burocratico (l’ennesima compilazione di documenti!), più che come un utile strumento di gestione dei rischi interni ed esterni di possibile corruzione. Così, le regole sulla trasparenza e quelle sull’imparzialità dei funzionari hanno ricevuto critiche, anche dure, soprattutto da parte degli enti locali, preoccupati dell’impatto negativo sul piano dell’efficienza dell’azione

amministrativa. 76 Forte è, in definitiva, il timore di una «burocrazia dell’anticorruzione»: montagne di carte e valanghe di adempimenti, perfettamente inutili, se non dannosi, nella prospettiva di un contrasto efficace alla «malattia del secolo». È evidente, quindi, che qualche aggiustamento normativo andrà apportato, soprattutto con riguardo al decreto legislativo n. 39/2013 sull’accesso e sulla trasparenza, che, scritto in modo a tratti opaco e approssimativo, sta creando non pochi problemi nell’ordinaria gestione dell’amministrazione. 77 Ma più che modifiche ulteriori, la normativa dovrà essere applicata e digerita da una burocrazia a cui purtroppo nessuno ha davvero spiegato l’importanza dei nuovi istituti e che non è stata preparata adeguatamente a questa sfida inedita, così come andrà spiegata meglio l’importanza strategica del ruolo del Responsabile della prevenzione della corruzione (che, con il decreto 97, è diventato anche Responsabile della trasparenza) per la gestione della legalità degli enti pubblici. Questa politica di rilancio concreto dell’anticorruzione amministrativa sarebbe oggettivamente più semplice se venisse accompagnata da altre riforme di carattere strutturale che qui si indicano in estrema sintesi. In particolare, urgono: 1.

un’ampia semplificazione normativa (la complessità del quadro delle regole aumenta il tasso di arbitrio e il rischio di abuso da parte del burocrate; la giungla di leggi contorte e contraddittorie rende più agevole lo sviluppo dell’«economia dei favori»; una politica di delegificazione e di deregolazione, che disboschi leggi e regolamenti, anche sperimentando, come ha fatto il nuovo codice degli appalti, la tecnica della soft law); 78 2. uno snellimento dell’azione amministrativa (con misure che velocizzino i tempi delle procedure, eliminino passaggi burocratici pletorici, esonerino i cittadini da oneri eccessivi, evitino il bisogno di una pluralità di autorizzazioni per un’unica attività economica); 3. politiche più incisive di privatizzazione e di liberalizzazione (la presenza pubblica nell’economia e nella vita del Paese genera un

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aumento incontrollabile di centri e duplicazioni di spesa, con connesse occasioni di uso improprio di risorse); una maggiore meritocrazia (nel settore pubblico serve rettitudine, ma urgono anche competenza e capacità professionale, condizioni indispensabili, secondo il presidente della Corte dei Conti Arturo Martucci di Scarfizzi, per combattere la corruzione; e per questo è indispensabile ridurre l’attribuzione alla politica del potere totalmente fiduciario di nomina dei vertici delle amministrazioni); la separazione tra politica e amministrazione (è necessario chiarire in modo preciso ruoli e responsabilità nei rapporti fra burocrazia e politica, in particolare negli enti locali); l’indicazione di precisi confini tra i poteri dell’amministrazione centrale e periferica (il decentramento costituzionale del 2001 ha spostato le leve del potere politico e il controllo dei soldi pubblici verso Regioni ed enti territoriali, ossia in ambiti non solo più avvicinabili dai poteri economici e criminali, ma talora privi anche delle competenze necessarie; sarebbero utili interventi volti a ridisegnare il riparto di competenze tra Stato, Regioni e Comuni; così come azioni dirette a favorire forme di aggregazione e cooperazione tra enti locali, singolarmente inadeguati alla gestione di problemi complessi); un regime di controlli amministrativi intelligenti (la riduzione di essi ha accentuato il senso di irresponsabilità e la spinta della politica e dell’amministrazione verso l’illegalità; occorrono, però, una nuova architettura e una rigenerata filosofia dei controlli, intesi non più come azione interdittiva, bensì come attività schiettamente collaborativa, volta a supportare «amichevolmente» l’azione amministrativa nel perseguimento degli obiettivi di legalità ed efficienza). INTERVENTI PREVENTIVI NEL CAMPO DELLA POLITICA

Abbiamo più volte evidenziato come senza una chiara e netta volontà politica sia molto difficile, e forse impossibile, ottenere risultati decisivi nel contrasto alla corruzione.

D’altro canto, abbiamo anche evidenziato i rischi di permeabilità della politica rispetto ai sistemi corruttivi, sottolineando come oggi tali rischi possano persino considerarsi più accentuati rispetto al passato, a causa della debolezza dell’attuale classe politica. Anche in questo settore, l’utilizzo di una sola strategia repressiva non è assolutamente sufficiente, eppure per la politica non si è messa in campo alcuna attività realmente preventiva. Lo ha evidenziato il Greco del Consiglio d’Europa nella quarta valutazione del 2017, quando ha criticato l’assenza di un’effettiva disciplina del conflitto di interessi. 79 Lo evidenziano da tempo gli studiosi dell’anticorruzione, quando rilevano come tutte le regole messe in campo dalla legge Severino, a eccezione di alcune sulla trasparenza, si indirizzino solo sulla burocrazia ma non si occupino (irrazionalmente) della politica, dove, pure, l’esperienza ha dimostrato che si annidano gravi fatti corruttivi. 80 Una politica che vuole essere credibile nell’affrontare il tema del contrasto alla corruzione deve dotarsi, quindi, di una mirata strategia di prevenzione dei rischi. In questa prospettiva, tenendo presenti le già indicate aree maggiormente esposte al pericolo di attività corruttive e/o di infiltrazioni criminali, possono essere indicate alcune possibili direttrici di intervento. La prima riguarda quanto ci richiede il consiglio d’Europa, e cioè il rafforzamento della normativa sul conflitto di interessi dei politici e dei componenti del governo. Il nostro Paese si è dotato nel 2004 di una legge (legge 20 luglio 2004, n. 215, nota come «legge Frattini»), che ha avuto il pregio di introdurre una prima disciplina della materia e che ha stabilito il principio basilare secondo cui l’imprenditore-politico non può svolgere direttamente attività d’impresa. L’imprenditore che assume incarichi politici deve, quindi, nominare uno o più institori, persone di fiducia cui affidare l’effettiva gestione aziendale, astenendosi da atti di governo da cui possa derivare «un’incidenza specifica e preferenziale sul patrimonio». È però indispensabile rafforzare questa disciplina per regolamentare in modo più preciso e compiuto i casi di ineleggibilità, assicurare l’effettiva estraneità del politico eletto alle scelte gestionali potenzialmente conflittuali e

predisporre un apparato sanzionatorio adeguato. Una seconda direttrice riguarda, invece, il finanziamento ai partiti e a organizzazioni diverse che si occupano di politica. Con il d.l. 28 dicembre 2013, n. 149 convertito in legge 21 febbraio 2014, n. 13, noto come «legge Letta», verrà meno dal 2017, definitivamente, il finanziamento pubblico ai partiti e si dovrebbe avviare, anche grazie a misure fiscali volte a incentivarlo, un sistema di finanziamento proveniente da privati. La legge introduce meccanismi di certificazione dei bilanci dei partiti, regole di trasparenza, nonché un sistema di controllo da parte di una commissione di cui fanno parte magistrati della giurisdizione ordinaria, amministrativa e contabile. La commissione, però, a oggi ha denunciato più volte l’impossibilità di svolgere i controlli per carenza di personale. 81 Un sistema di controlli che non funziona non assicura alcuna effettiva trasparenza su entrate e uscite. L’impianto va quindi modificato, eventualmente prevedendo la competenza di un organismo ad hoc o di una struttura professionalmente attrezzata per i bilanci, come potrebbe essere la Corte dei Conti. Siccome tutte le azioni, anche quelle di vigilanza, camminano sulle gambe degli uomini, è necessario dotare l’organismo prescelto di personale capace e competente, attingendo per esempio alle risorse qualificate della Guardia di Finanza. Occorre inoltre, al fine di consentire il controllo diffuso dei cittadini, rendere il più possibile intelligibili i bilanci dei partiti per capire non solo chi e come versa i finanziamenti, ma anche – viste alcune vicende del passato, come quelle del tesoriere della Margherita che si appropriò di fondi del partito 82 – come vengono spesi i soldi. Siccome, però, molte delle attività politiche dei partiti si sono, di fatto, spostate fuori da essi e si sono trasferite nelle fondazioni o nelle associazioni private, è indispensabile una normativa che regoli tali forme di soggettività giuridica. Le scarne norme del codice civile, nate nel 1930 con ben altre finalità, sono del tutto inadeguate: anche in questo caso dovrebbero essere previste, come per i partiti, regole precise di trasparenza e meccanismi di controlli realmente efficienti.

Una terza direttrice riguarda i partiti intesi come organizzazione. A oggi essi non sono regolati da una legge, malgrado la Costituzione l’avesse auspicata con l’art. 49, e sono considerati semplici associazioni non riconosciute ai sensi del codice civile, con enormi difficoltà di individuazione del regime normativo applicabile in caso di controversie. Sarebbe auspicabile che dette organizzazioni, basilari per la vita delle istituzioni e del Paese, fossero regolate da norme chiare e trasparenti sul funzionamento della loro attività interna, compresi i criteri utilizzati per la selezione della classe dirigente. 83 Ogni partito, inoltre, dovrebbe avere l’obbligo di dotarsi, così come previsto per le amministrazioni pubbliche, di un codice etico per iscritti e dirigenti; e lo stesso dovrebbero fare obbligatoriamente 84 le Camere del Parlamento, le assemblee regionali e quelle comunali, in conformità alla raccomandazione da tempo formulata dal Consiglio d’Europa. Poiché i meccanismi informali utilizzati per la selezione della classe dirigente sono spesso in grado di determinare chi avrà compiti di rappresentanza in Parlamento o in altre assemblee elettive, e dal momento che gli stessi si sono rivelati permeabili a rischi di interferenze, sarebbe auspicabile che tali meccanismi, utilizzabili ovviamente in modo volontaristico, fossero regolati da norme legislative che consentano di garantire la trasparenza su chi partecipa a tali attività di selezione preliminare e, soprattutto, la regolarità del voto. Una quarta direttrice riguarda le lobby. La trasformazione del sistema di finanziamento da pubblico a privato rende, infatti, indispensabile la regolamentazione dell’attività di lobbying, termine inglese con cui si intendono, in senso stretto, gli incontri, diretti e personali, tra decisori pubblici e rappresentanti di gruppi di interesse (lobbisti) e, in un senso più ampio, ogni azione di gruppi organizzati volta a influenzare le istituzioni, con informazioni e risorse, per ottenere decisioni a sé favorevoli. La centralità del finanziamento privato acuisce, infatti, il rischio di interferenze indebite e, di conseguenza, anche le occasioni di

corruzione, perché la vita dei partiti e la carriera dei politici finiscono per essere collegate alle offerte di denaro e sostegno da parte di imprese, potentati, comitati d’affari e intermediari. La legislazione italiana, invece, non prevede alcuna disposizione, malgrado dal 1954 a oggi siano stati presentati, senza successo, oltre cinquanta disegni di legge e malgrado la regolamentazione sia fortemente voluta dai veri lobbisti, portatori di legittimi interessi di categoria, desiderosi di non essere confusi con faccendieri e «facilitatori». Un primo passo è stato compiuto nell’aprile 2016 con l’approvazione, da parte della Giunta per il regolamento della Camera, del Codice di condotta dei deputati e della Regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi, con la previsione di un Registro dei lobbisti presso la Camera dei deputati e di un altro, dal settembre 2016, presso il ministero dello Sviluppo economico. Dovrebbe, però, intervenire il legislatore regolando, secondo princìpi di trasparenza e di rigore, il fenomeno lobbistico, al fine di arginare l’intermediazione illecita fra poteri pubblici e interessi privati, assicurare la tracciabilità dei rapporti fra politica e attori economici e, più in generale, regolamentare i rapporti fra politica, amministrazione e impresa, 85 prendendo anche spunto dall’ormai consolidata esperienza statunitense 86 e dalle indicazioni della Commissione europea. 87

Il terzo pilastro: l’«educazione» Nei dibattiti pubblici, e a volte persino in quelli dei consessi internazionali, discutendo delle cause della corruzione in Italia si indica, in modo più o meno larvato, quello che sarebbe un aspetto del carattere dei nostri concittadini, di cui, in verità, spesso ci si vanta pure: e cioè la furbizia e la scaltrezza italiane, la capacità dell’italiano medio di saltare le code, di evitare le regole, di fare di testa sua nella gestione delle vicende della vita. Cos’è la corruzione, si aggiunge, se non un modo «furbo» e

«scaltro» per aggirare le regole ed evitare inutili lungaggini o impedimenti burocratici di qualsivoglia tipo? Dietro questo argomento, a ben vedere, si nasconde una sorta di inaccettabile pregiudizio dal vago sapore razziale, come se gli italiani fossero per loro natura antropologicamente dediti alle pratiche della corruttela. Un’odiosa e intollerabile qualificazione dell’italiano tipo come uomo disonesto, prevaricatore, anarchico, insofferente alle regole, votato all’illegalità. È un pregiudizio inaccettabile, soprattutto perché non rispondente a verità. La presenza nel nostro Paese di una corruzione sistemica e radicata non è certo il frutto di un modo di essere dei cittadini, di un’antropologia deviata, ma è la conseguenza di un retaggio culturale, di lasciti della storia più o meno recente, di cui bisogna al più presto liberarsi. Ed è il portato di una scarsa consapevolezza del valore collettivo della res publica e dei suoi beni, dell’idea che si possa ricavare un utile aggiuntivo dal ricoprire cariche pubbliche, ma anche dell’altrettanto scarsa consapevolezza dei danni che certi fenomeni provocano a tutti. E la dimostrazione che sia soprattutto l’ambiente esterno a incidere sull’approccio di gran parte degli italiani ci viene dall’esperienza dei nostri tanti concittadini trasferitisi (provvisoriamente o definitivamente) all’estero, che, avulsi dal contesto originario e inseriti in un altro con diverso humus culturale, si adeguano perfettamente a esso e si comportano da cittadini modello. La corruzione, in sostanza, non è soltanto un fenomeno amministrativo, da combattere con le armi della prevenzione nei palazzi della burocrazia e del potere. Essa, invece, è principalmente una malattia sociale, da combattere con l’affermazione di un nuovo modello di cultura, in particolare di un’etica delle regole, del merito e della concorrenza, elementi questi ultimi che diventano uno dei pilastri della strategia per impedire l’insorgenza e la diffusione del morbo. 88 È una svolta che deve vedere protagonisti i cittadini, e quindi tutti noi, perché il contrasto alla corruzione deve essere sentito non come un compito esclusivo di magistrati e poliziotti, ma come un impegno

che spetta a ogni cittadino. C’è bisogno, in altre parole, di un controllo sociale diffuso sulla vita politica e sull’attività amministrativa. Corruttori e corrotti, come dice papa Francesco, sono «uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini», che abdicano al dovere dell’onestà, verso sé stessi e verso gli altri, tante volte predicato con ardore da Sandro Pertini, e devono essere smascherati e, soprattutto, isolati e stigmatizzati socialmente. Il mutamento culturale ha bisogno di tanti attori e richiede per sua natura tempi non brevi, ma non è affatto impossibile, come si è dimostrato per l’antimafia, la cui cultura è ormai entrata a far parte di quel minimo comun denominatore di etica civile proprio della maggioranza del Paese, grazie soprattutto agli interventi nelle scuole e nel sistema sociale in generale. UNA SCUOLA PIÙ APERTA AI VALORI DELLA LEGALITÀ E DELL’ETICA

È più facile iniziare questa lotta con gli uomini del domani, con i potenti del futuro: i bambini delle scuole elementari, i ragazzi delle medie, i giovani delle superiori. Bisogna mettere al centro del processo di riscatto chi non è gravato dalle abitudini, dai vizi e dai pregiudizi, chi ha la vocazione a imparare, chi ha voglia di fare domande. Umberto Eco ha osservato che i bambini sono i primi filosofi perché sono professionisti delle domande, cercatori di verità, navigatori alla ricerca di nuovi continenti. Con questi filosofi in miniatura dobbiamo lavorare, fornendo le giuste risposte agli interrogativi che essi si pongono osservando la società e gli uomini che la popolano. La rivoluzione culturale di cui il Paese ha bisogno deve, quindi, cominciare tra i banchi di una scuola che sia in grado, oltre che di impartire nozioni e saperi, di promuovere i valori della legalità, della giustizia, delle regole, del rispetto dell’altro, del bene comune, della solidarietà. Se la scuola riuscirà a formare cittadini dotati della cultura della libertà e dei valori necessari per governare in modo giusto ed equilibrato il mondo del domani, la corruzione vedrà franare sotto i piedi il terreno sui cui attecchisce e prolifera. In questa prospettiva, da tempo le scuole del nostro Paese si sono

aperte all’esterno, a una cultura meno autoreferenziale, dedicando giornate di studio e di approfondimento alle tematiche della legalità, delle regole etiche e giuridiche, con dibattiti e incontri con intellettuali, magistrati ed esponenti del mondo dell’associazionismo sociale. Queste occasioni, che non devono certo trasformarsi in eventi convenzionali ed eccessivamente istituzionali, servono ad aprire la mente agli studenti e a far loro respirare la cultura della legalità, del merito, dell’aiuto agli altri, dell’attenzione verso il prossimo, dell’importanza dei beni comuni, intesi come valori di tutti e non come cose di nessuno. In questi anni, migliaia di scuole di ogni parte d’Italia, soprattutto superiori, hanno organizzato incontri per sapere del contrasto alle mafie, per conoscere meglio cosa si è fatto e cosa si può fare; e sono state le scuole che hanno partecipato alle giornate palermitane per ricordare gli eccidi di Cosa Nostra e hanno riempito le piazze per ricordare le vittime innocenti delle mafie. Ebbene, accanto e in aggiunta a questa spontanea e non istituzionalizzata formazione antimafia può essere sempre più inserita una formazione anticorruzione che serva a far comprendere agli studenti perché la corruzione non sia una questione lontana dai loro interessi immediati e futuri, se è vero che essa produce fuga dei cervelli, riduzione delle risorse destinate a ricerca e sviluppo, e impedisce di dotare il Paese di una decente rete infrastrutturale. Nell’ultimissimo periodo tutto questo sta lentamente avvenendo. La presenza nelle scuole di magistrati che sono il simbolo della lotta alla corruzione, come Gherardo Colombo, serve a spiegare cosa è accaduto in passato e quali sono i rischi del presente, ma si sta provando a coinvolgerli anche in iniziative che facciano toccare con mano i danni della corruzione. A titolo d’esempio, ricordiamo l’esperienza avviata in molte scuole italiane di una ricerca-questionario destinata agli operatori economici e denominata «Piccolo atlante della corruzione», organizzata dall’associazione Libertà e Giustizia in collaborazione con l’Associazione nazionale magistrati, con l’Anac, con il ministero dell’Istruzione, con l’Università di Pisa e con il quotidiano «la

Repubblica». I risultati di queste interviste-sondaggi fatti dagli studenti sono, anche dal punto di vista scientifico, molto importanti, ma soprattutto aprono uno spaccato fondamentale su un mondo assolutamente sconosciuto come è quello degli effetti indiretti della corruzione. Sempre con la collaborazione dell’Associazione nazionale magistrati, della Procura nazionale Antimafia, dell’Anac e del Csm, è stato avviato nelle scuole un piccolo concorso, che vedrà la partecipazione di tre istituti superiori – uno del Nord, uno del Centro e uno del Sud –, per trovare un nome italiano alla figura del whistleblower; un modo innovativo e intelligente per far capire a tutti quanto sia determinante la partecipazione e la collaborazione dei cittadini nell’opera di contrasto alla corruzione. Iniziative come queste possono e devono moltiplicarsi, e vanno inserite nel quadro di un’offerta didattica che reintroduca l’insegnamento dell’educazione civica, in una visione aggiornata che la consideri, più che come studio delle norme e dei codici, come una riflessione sui valori e sui princìpi che sono alla base della Carta costituzionale e dell’etica collettiva, per formare i cittadini di domani alla cultura dei diritti e dei doveri. PRIMA E DOPO LA SCUOLA: LA FAMIGLIA E L’IMPEGNO SOCIALE DI CITTADINI E ASSOCIAZIONI

Una nuova scuola non può essere tutto; c’è un prima e c’è un dopo. Anche perché la delega alle scuole non può essere un modo per sgravare di responsabilità le altre generazioni, che sono state la causa principale dell’attuale stato di cose. C’è bisogno di maggiore impegno e partecipazione da parte di tutti, anche attraverso altre «agenzie culturali» che hanno il compito di vigilare sulla formazione e la crescita dei cittadini. C’è, innanzitutto, la famiglia, tenuta a preparare e supportare con un progetto educativo basato sull’ascolto, sulla trasmissione dei valori, sulla forza dell’esempio, sulla magia della condivisione. C’è la Chiesa cattolica che, con l’attuale pontefice, sembra aver ingaggiato una battaglia campale contro la corruzione, evidentemente

nella convinzione che corrotti e corruttori non potranno mai essere veri credenti e portatori dei valori evangelici; e il nostro auspicio è che la stessa determinazione venga mostrata da tutte le altre confessioni religiose presenti nel nostro Paese. C’è l’Università, che può svolgere un ruolo fondamentale aprendosi ai nuovi saperi e, soprattutto nelle facoltà giuridiche e sociologiche, preoccupandosi di formare professionalità che siano consapevoli dell’importanza di questa tematica, specie in un Paese come il nostro dove il fenomeno corruttivo è così radicato e sistemico. È davvero ammissibile che gli studenti di giurisprudenza acquisiscano la conoscenza del diritto del passato (della cui indispensabilità, ovviamente, non si dubita) e poco o nulla sappiano delle normative mirate al contrasto alle mafie o alla corruzione? E che quelli di sociologia non (sempre) studino come i sistemi illegali del malaffare siano in grado di incidere sulle dinamiche sociali? Fortunatamente, negli ultimi anni molti atenei si stanno facendo carico di questa esigenza, avviando corsi e master che, oltre a plasmare professionalità, servono a creare conoscenze. C’è il mondo dell’associazionismo sociale, che ha dato un contributo rilevante alla lotta alla mafia, e che può e deve darlo anche alla lotta alla corruzione; da tempo Libera, la più importante delle associazioni impegnate sul fronte antimafia, ha avviato un’attività mirata sui temi dell’anticorruzione dal titolo emblematico «Riparte il futuro»; anche Transparency Italia ha avviato un programma di ascolto dei soggetti che intendono segnalare illeciti, anche stipulando una convenzione con l’Anac; e molte altre associazioni si stanno avviando su questa strada. C’è il mondo delle associazioni civiche, di quelle dei consumatori, che stanno svolgendo (e sempre più potranno e dovranno farlo) una funzione di controllo dell’implementazione della trasparenza delle pubbliche attività. È anche tramite loro che può e deve svilupparsi quel controllo sociale che negli Stati del Nord Europa funziona perfettamente come argine alla corruzione. E, da ultimo, di corruzione si deve parlare di più nei dibattiti pubblici, in televisione, sui giornali, senza temere le possibili ricadute

sull’immagine del nostro Paese nel mondo. Non è nascondendo la spazzatura sotto il tappeto che ci libereremo di questo cancro sociale, ma facendola emergere all’esterno, conoscendola e, soprattutto, spazzandola via definitivamente. In questo senso, la stampa, la televisione e i nuovi social media possono svolgere il principale ruolo di prevenzione della corruzione, informando correttamente i cittadini. In questo modo essi saranno davvero un «quarto potere» virtuoso, centrale nel sistema delle democrazie moderne.

L’Italia ce la può fare La battaglia da combattere è lunga e difficile, ma siamo convinti che l’Italia ce la può fare. Nell’ultimo periodo sono stati fatti enormi passi avanti, e se non si innesta la retromarcia, come in altre occasioni purtroppo è accaduto, i risultati ci saranno di sicuro, perché già si avvertono alcuni timidi ma inequivocabili segnali di ripresa. Il legislatore ha imboccato la strada giusta sia sul piano della repressione sia su quello della prevenzione. Sul primo aspetto, ha corretto, come abbiamo detto, alcune storture degli anni scorsi e ha fornito strumenti certamente utili al contrasto penale; sul secondo, ha introdotto una legislazione innovativa, ampliando e arricchendo la cassetta degli attrezzi che serve per una moderna politica di prevenzione. C’è sicuramente ancora tanto da fare e sono necessari altri importanti interventi normativi per migliorare il tasso di trasparenza e correttezza dell’attività politica e amministrativa. La politica, questa volta, non sembra essersi messa di traverso sulla strada delle scelte coraggiose e, soprattutto, nel dibattito pubblico si sentono sempre meno quelle voci (stonate) che in passato erano solite urlare al complotto delle toghe (di colori diversi, a seconda della necessità) quando le indagini colpivano uomini e palazzi del potere. Ovviamente – lo ribadiamo – la lotta alla corruzione può ottenere

risultati solo se le scelte della politica proseguono nella direzione intrapresa, anzi se procedono con ancora maggiore rapidità e decisione. La magistratura sta agendo con determinazione, ma senza esasperazioni e, soprattutto, senza dare l’idea di essere l’unico argine contro il malaffare. Lo sta facendo un po’ in tutta Italia, con numeri lontani da quelli di «Tangentopoli», ma anche con una diffusione più uniforme sull’intero territorio nazionale e assegnando un ruolo centrale agli uffici inquirenti delle principali città di Italia, Roma in prima fila, che oggi nessuno si permetterebbe di avvicinare a un Porto delle Nebbie. La cultura della prevenzione sta prendendo piano piano piede e, forse per la prima volta, le scelte compiute negli ultimi anni in tema di contrasto alla corruzione stanno incontrando l’approvazione e il plauso internazionali. L’Autorità anticorruzione, che è comunque un organismo giovane e che forse merita, da parte di alcuni addetti ai lavori, un po’ più di benevolenza, sta provando a incidere nei vari ambiti ma senza mai arrogarsi poteri non propri. Grazie al procuratore generale della Corte di Cassazione ha stipulato con numerose Procure della Repubblica protocolli d’intesa utilissimi per evitare ogni invasione di campo; sta collaborando con molte università per sviluppare lo studio delle nuove materie e formare nuove professionalità; sta ottenendo importanti riconoscimenti internazionali e sta firmando protocolli di collaborazione con molti organismi omologhi di altri Stati; sta provando, soprattutto, a far passare l’idea che i suoi controlli sulla Pubblica Amministrazione non hanno come obiettivo primario la repressione, ma l’orientamento e la collaborazione. E tutti questi aspetti positivi hanno ricevuto anche un primo timido, ma importante, riconoscimento da parte degli indicatori di corruzione percepita di Transparency International. 89 È ancora poco, e per di più si intravedono segnali contraddittori (come gli strumentali e pretestuosi attacchi contro l’«anticorruzione che blocca il Paese»), che potrebbero mettere in discussione i delicati equilibri raggiunti in materia.

Questo poco, però, è quanto basta per alimentare quel «coraggio dell’ottimismo» che anima ogni pagina di questo libro.

Note

I. La corruzione fa male a tutti 1. Sono numerosissimi i commentatori e gli studiosi che hanno paragonato le vicende attuali a una «nuova Tangentopoli». A titolo puramente esemplificativo, anche per il carattere emblematico del titolo, vedi l’articolo di N. Tranfaglia, Una nuova Tangentopoli, in «Antimafia Duemila», 12 maggio 2014. 2. Per capire cosa sia il Saet e quali siano i suoi rapporti con l’attuale Autorità anticorruzione bisogna partire un po’ da lontano e fare una breve cronistoria dei fatti. Con la legge 16 gennaio 2003, n. 3, venne istituito l’Alto commissario per la lotta alla corruzione, che era alle dipendenze funzionali della presidenza del Consiglio e i cui compiti erano rimessi a un regolamento governativo adottato nel 2004 (con d.P.R. 6 ottobre 2004, n. 258, poi modificato da d.P.R. 26 giugno 2006, n. 236). L’attività di tale organismo consisteva nell’indagare sull’esistenza e le cause dei fenomeni di corruzione, nell’elaborare analisi sull’adeguatezza del quadro normativo nonché delle eventuali misure adottate dalle amministrazioni per fronteggiare i fenomeni corruttivi e nel monitorare le procedure di spesa e quei comportamenti da cui potessero derivare danni erariali. Criticità e incertezze caratterizzarono la vita di questo organismo (così G. Sciullo, L’Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito nella Pubblica Amministrazione e il Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet), in Etica pubblica e buona amministrazione, a cura di L. Vandelli, Milano, Franco Angeli, 2009, pp. 71 sgg.), tanto che fu soppresso con d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito in legge 6 agosto 2008, n. 133, e le sue competenze assegnate con d.P.C.M. 5 agosto 2008 e 2 ottobre 2008 al Dipartimento della Funzione pubblica. Con l’art. 6 della legge 3 agosto 2009, n. 116 (di ratifica della convenzione Onu contro la corruzione del 2003) il Dipartimento venne designato quale autorità nazionale di cui all’art. 6 della Convenzione medesima. Al conferimento dei compiti anticorruzione al Dipartimento fece seguito la costituzione al suo interno del Saet con decreto del 9 agosto 2008 e a questo Dipartimento vennero attribuiti di fatto gli stessi poteri dell’Alto commissario. Con l’art. 13 del d.lgs n. 150/2009 venne poi istituita la Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche (Civit), a cui venne assegnato il compito di favorire nella Pubblica Amministrazione la cultura della trasparenza anche «attraverso strumenti di

prevenzione e lotta alla corruzione». La Civit venne successivamente individuata dalla legge Severino (legge 6 novembre 2012, n. 190) quale autorità nazionale anticorruzione e, nel corso del 2013, assunse il nome di Autorità nazionale anticorruzione (di quest’ultima e dell’evoluzione dei suoi poteri si parlerà nel corso del testo). 3. L’inchiesta aveva riguardato la gestione di una serie di «grandi eventi» (quali i Mondiali di nuoto, la costruzione degli edifici per il G8 alla Maddalena, il 150° anniversario dell’Unità d’Italia) e, il 10 febbraio 2010, aveva visto l’emissione da parte del gip presso il Tribunale di Firenze di varie ordinanze cautelari a carico di dirigenti del ministero dei Lavori pubblici ed esponenti della Protezione civile. Sulla vicenda, fra i tantissimi che ne hanno scritto, vedi C. Bonini, Favori, appalti e sesso. Lo scandalo protezione civile, in «la Repubblica», 12 febbraio 2010. Sulle indagini che hanno riguardato la Protezione civile, vedi P. Messina, Protezione incivile, Milano, Rizzoli, 2010. 4. Nel corso dell’inchiesta per corruzione, che il 10 febbraio 2008 vide l’arresto di 6 persone, furono indagati, fra gli altri, un dirigente di primo piano del ministero dei Lavori pubblici, l’allora provveditore alle opere pubbliche di Firenze e l’allora capo della Protezione civile, e un parlamentare toscano. Per un riferimento recente agli sviluppi giudiziari della vicenda, vedi F. Selvatici, Scuola dei marescialli di Firenze, Verdini condannato a due anni, in «la Repubblica», 17 marzo 2016. 5. Nell’ambito dell’inchiesta sui «grandi eventi» (vedi nota 3) venne intercettata una conversazione tra due imprenditori in cui, parlando di altri appalti e del ruolo di un importante dirigente del ministero dei Lavori pubblici, si afferma: «Alla F. occupati di ’sta roba del terremoto, perché qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno». «Lo so», e ride. «Per carità, poveracci.» «Va buò.» «Io stamattina ridevo alle tre e mezzo dentro al letto.» Della vicenda si fa cenno anche in P. Messina, Protezione incivile, cit., p. 170. 6. Relazione sull’attività svolta dal Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet), anno 2010, presentata dal ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione, trasmessa alla presidenza del Consiglio il 6 maggio 2011, doc. XXVII, n. 30. 7. Relazione sull’attività svolta dal Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet), periodo: 1° gennaio 2004 - 31 dicembre 2008, presentata dal ministro per la Pubblica Amministrazione e l’innovazione, trasmessa alla presidenza del Consiglio il 2 marzo 2009, doc. XXVII, n. 36. 8. Il ruolo di megafono «negativo» della stampa veniva evidenziato, in modo decisamente non ipocrita, in un altro passo della relazione (p. 65): dopo l’esplicita premessa che «agenzie di informazione e stampa, certamente quella quotidiana, ma anche quella periodica di approfondimento, costituiscono, per una struttura dedicata a incidere sui fenomeni distorsivi della corretta azione amministrativa, un elemento di interazione

irrinunciabile: la corruzione e gli altri reati contro la P.A. sono, infatti, materia per natura intrinsecamente evocativa ed eclatante, che fornisce molta linfa all’informazione e alla comunicazione in senso ampio», più avanti si affermava con altrettanta chiarezza: «L’intento di soddisfare una fame diffusa di conoscenza, connaturata al tempo mediatico che andiamo vivendo, sembra peraltro aver contribuito ad aggravare irrealisticamente, almeno per alcuni toni accentuatamente enfatici, il bilancio del Paese nei riguardi del fenomeno corruttivo tout court». 9. Per dimostrare quanto affermato nel testo, è sufficiente chiedersi, retoricamente, come si sono comportati, quando hanno rivestito ruoli di potere, quegli esponenti del mondo politico che avevano partecipato durante «Tangentopoli» (1992-93) a non edificanti scene di lancio di monetine contro il politico ex potente, raggiunto da un avviso di garanzia, o erano giunti al punto di agitare in Parlamento un disgustoso cappio, evocativo di una giustizia medievale. 10. Sono numerosi i sondaggi che dimostrano come in quest’ultimo periodo l’interesse dell’opinione pubblica per il fenomeno della corruzione sia particolarmente elevato. A titolo puramente indicativo, si ricorda che da un sondaggio condotto nel 2013 da Cittadinanzattiva, e pubblicato su «quotidianosanità.it», risultò che, su 11 temi proposti, oltre il 35% degli intervistati scelse la corruzione come uno dei problemi prioritari. Da un sondaggio svolto nel 2016 da EY a livello mondiale, e di cui ha dato notizia l’AdnKronos il 17 aprile 2016, è emerso che il 56% dei cittadini italiani percepisce la corruzione come particolarmente diffusa, una percentuale molto maggiore della percezione media mondiale, che si attesta al 39%. 11. L’episodio è stato rievocato, sia pur in modo molto critico, da Ernesto Galli della Loggia nell’articolo All’origine dell’antipolitica, apparso sul «Corriere della Sera» del 14 dicembre 2014: «Era il 5 marzo 1993, nel pieno di “Tangentopoli”, quando in risposta all’annuncio di un decreto del Guardasigilli del governo Amato, Giovanni Conso, in cui si stabiliva la depenalizzazione (con valore anche retroattivo) del finanziamento illecito ai partiti, accadde un fatto probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di “Mani pulite” si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese. Decreto legge che a quel punto – caso anche questo fino ad allora unico nella storia della Repubblica – il capo dello Stato Scalfaro, impressionato dalla rivolta, si rifiutò di firmare. E naturalmente nessuno ebbe qualcosa da ridire». 12. In questo senso si è espresso Francesco Borrelli in una famosa intervista rilasciata allo scrittore Antonio Tabucchi, intitolata Sulla giustizia e dintorni e pubblicata da

«Micromega», 1, 2002, p. 35: «Quando il cittadino medio si è reso conto che non era questione soltanto delle teste di segretari e notabili politici, ma che la magistratura cominciava a ficcare il naso nelle questioni delle concessioni edilizie, delle licenze di commercio, delle verifiche fiscali, del Servizio sanitario nazionale, dove l’operatore economico, il cittadino erano complici di fatti di distorsione, di aggiustamento, e quindi di corruzione; e quando si è capito che l’azione dei magistrati voleva entrare più nel particolare della vita quotidiana dell’italiano medio, allora credo che la gente ha cominciato a dire: ma che vogliono? ma ci lascino campare nei nostri affari quotidiani». 13. Più che i freddi numeri delle statistiche giudiziarie, è interessante il dato riportato in una relazione del procuratore di Milano Gerardo D’Ambrosio il quale, nel 2001, segnalava un calo senza precedenti delle denunce per concussione (solo 16) ed evidenziava come nel capoluogo lombardo vi erano state solo 9 indagini per presunti fatti corruttivi (vedi P. Biondani, Cronologia: come è finita [dieci anni dopo], in «Micromega», 1, 2002, p. 286). 14. Sulle indagini penali che hanno riguardato il «grande evento» Expo 2015 e sul ruolo avuto dagli indagati già condannati durante «Tangentopoli», vedi G. Barbacetto e M. Maroni, Excelsior. Il gran ballo dell’Expo, Milano, Chiarelettere, 2015, pp. 105 sgg. 15. Le indagini relative alla vicenda del Mose (vedi p. 219, nota 8) sono state paradigmatiche di una forma di corruzione posta in essere non in violazione di legge, bensì in osservanza della legge; per maggiori dettagli sull’indagine, vedi G. Barbieri e E. Giavazzi, Corruzione a norma di legge, Milano, Rizzoli, 2014. 16. D. della Porta e Y. Mény, «Democrazia e corruzione», in Id. (a cura di), Corruzione e democrazia. Sette paesi a confronto, Napoli, Liguori, 1995, p. 6. 17. G.A. Stella, Reati dei colletti bianchi: solo 230 dei colpevoli sono in carcere, in «Corriere della Sera», 15 febbraio 2015. 18. Dati riportati nella relazione annuale al Parlamento del Saet, maggio 2011. Vedi anche F. Monteduro, La corruzione: definizione, estensione, cause, effetti e politiche di prevenzione, Roma, Università degli Studi di Roma Tor Vergata, 2012, p. 16; G. Gabbuti, Combattere la corruzione si può e si deve, Roma, convegno del 9 luglio 2012, organizzato nell’ambito del Master di II livello in «Procurement Management, approvvigionamenti e appalti» dall’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, in www.masterprocurement.it. 19. Per una critica del concetto di corruzione percepita, vedi M. Bartoloni e M. Perrone, Quando l’Italia fa autogol oltre i suoi demeriti, in «Il Sole - 24 Ore», 2 aprile 2015, ove si evidenzia l’inattendibilità di dati ricavati dalle interviste a 85 manager, ai quali viene delegato il compito di stabilire se l’Italia è meno competitiva di Malta o ha un mercato del lavoro peggiore del Pakistan o, ancora, un accesso al credito al livello di Nigeria e Burkina Faso.

20. Così M. D’Alberti (a cura di), Combattere la corruzione. Analisi e proposte, Soveria Mannelli (CZ ), Rubbettino, 2016, p. 19; R. Brigati, Il giusto a chi va. Filosofia del merito e della meritocrazia, Bologna, il Mulino, 2015. 21. A puro titolo esemplificativo va ricordato come la riforma costituzionale che intervenne, limitandone significativamente gli effetti, sull’immunità parlamentare venne approvata in pieno periodo di «Tangentopoli» (l. cost. 29 ottobre 1993, n. 3). 22. Ci si riferisce alla vicenda del decreto legge sulla depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti politici di cui si è parlato nelle pagine precedenti. 23. Per questo concetto più ampio di corruzione, vedi B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione, in «Giornale di diritto amministrativo», 2, 2013, p. 123 e, in termini non dissimili, M. D’Alberti, «I due nemici da combattere: i corrotti ed il degrado istituzionale», in Id. (a cura di), Combattere la corruzione, cit., p. 13. 24. Giancarlo Caselli, già procuratore della Repubblica di Palermo e di Torino, nella sua introduzione al Dizionario enciclopedico delle mafie in Italia, a cura di C. Camarca, Roma, Castelvecchi, 2013, p. 10, trattando della sottovalutazione in passato del fenomeno mafioso, ricorda come, negli anni Cinquanta, persino un procuratore generale della Corte di Cassazione non solo negava il carattere illecito delle mafie, ma affermava che «nella persecuzione dei fuorilegge e dei banditi essa [la mafia] ha addirittura affiancato lo Stato».

II. La corruzione uccide il territorio 1. Sulla storia di Renata Fonte, vedi C. Bollino, La posta in gioco, Roma, C. De Benedittis, 1988; L. De Matteis, Il caso Fonte. La prima vittima di mafia del Salento, Lecce, Manni, 1986; AA.VV., L’innocenza che insegna, Lecce, Manni, 1986; e il capitolo «L’onore della testimonianza» del libro di A. Mascali, Lotta civile, Milano, Chiarelettere, 2009. Si segnala, infine, U. Ambrosoli, Ostinazione civile, Milano, Guerini e Associati, 2016, pp. 40-42. 2. Questi i dati allarmanti forniti dallo studio L’ultima spiaggia, condotto nel 2016 dal Wwf con l’assistenza del professor Bernardino Romano dell’Università dell’Aquila: negli ultimi cinquant’anni la densità dell’urbanizzazione in una fascia costiera compresa entro 1 km dalla battigia è passata dal 10 al 21%, con punte del 50-60% in alcuni tratti di Liguria, Lazio, Campania per il Tirreno, e di Emilia, Marche e Abruzzo per l’Adriatico, mentre in Sicilia ha raggiunto il 33% e in Sardegna il 25%; inoltre, fra il 2000 e il 2010 sono stati costruiti altri 13.500 edifici. Se il ritmo di edificazione in questa area costiera rimanesse quello registrato nel primo decennio degli anni Duemila, nei prossimi trent’anni avremmo su scala nazionale almeno altri 40.500 nuovi edifici. Al tempo stesso, però, grazie anche a

200 aree protette, 1860 chilometri di costa italiana (il 23% del totale) possono essere considerati integri. Fra i più lunghi tratti ancora vergini si segnalano i 50 km del Delta del Po, i 20 tra Grosseto e Orbetello e i 14 fra mare e lago a Lesina, in Puglia. È vitale che questi tratti, al pari del canale di Sicilia, dell’Alto Adriatico e del canale d’Otranto, vengano salvaguardati, anche perché di fronte a loro si aprono le zone di mare più importanti, dal punto di vista ambientale, del nostro Paese, che garantiscono la sopravvivenza di cetacei, squali, tartarughe e di molte specie ittiche di interesse commerciale. 3. Nel suo primo numero del 1960 «L’Espresso» pubblicò un lungo e magistrale articolo di Bruno Zevi che rilanciava in campo nazionale, denunciandola, la vicenda di Villa Deliella e si concludeva con un beffardo consiglio al sindaco palermitano Salvo Lima, che prometteva di percorrere l’Italia per trovare illustri architetti disposti a sostituire quelli dimissionari della Commissione urbanistica: «Signor sindaco, si risparmi il viaggio». 4. Per un’analisi meticolosa e appassionata del cosiddetto «sacco di Palermo», vedi S. Di Matteo, Palermo. Storia della città dalle origini a oggi, Palermo, Kalós, 2002. 5. Nella seconda metà degli anni Cinquanta, Palermo apparve a Guido Piovene (Viaggio in Italia, Milano, Mondadori, 1957) una città prossima alla fine, forse moribonda. Ed era vero. La vecchia città moriva e la nuova andava occupando spazi estranei, che ne stravolgevano l’identità. 6. A commento di questa dolorosa vicenda Piersanti Mattarella scrisse su «Voce Nostra», organo dell’Azione cattolica di Palermo: «La nostra Palermo è purtroppo non seconda a nessuno, deturpata in questi ultimi anni dalla speculazione edilizia e dall’ingordigia del consumismo» (vedi G. Grasso, Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia, Roma, Edizioni San Paolo, 2014, p. 88). 7. Questo è l’incipit del documentario Rai sul disastro del Vajont (vedi http://www.lastoriasiamonoi.rai.it./puntate/dossier-vajont). 8. In un memorabile reportage per «La Stampa», Scrivo da un paese inghiottito che non esiste più (11 ottobre 1963), Giampaolo Pansa così descrive lo scenario apocalittico che si offre agli occhi del cronista nelle ore immediatamente successive alla tragedia: «Come ai tempi della peste, sui bordi della strada sono allineate decine di cadaveri e le carogne rigonfie delle mucche. Siamo su un piccolo poggio. Di fronte a noi è come un vasto anfiteatro, brullo e piatto. Qui sorgeva Longarone: la diga ha resistito all’urto dell’enorme frana di terriccio, ma qui la gente che è rimasta vive con il cuore in gola. I parenti delle vittime si aggirano impietriti di fronte a tanta rovina. C’è chi piange in silenzio, e chi grida, come una giovane signora che si è gettata di corsa nel fango verso la casa scomparsa del fratello, urlando il suo nome tra le lacrime». 9. I dati sono tratti dalla Premessa del libro di E. D’Angelis, Un paese nel fango. Frane,

alluvioni e altri disastri annunciati. I fatti, i colpevoli, i rimedi, Milano, Rizzoli, 2015. 10. Per una brillante descrizione della bellezza del nostro Paese, vedi E. D’Angelis, Un paese nel fango, cit., p. 22. 11. Nel suo editoriale Non è colpa del destino, pubblicato sul «Corriere della Sera» del 19 gennaio 2017, in prima pagina, G.A. Stella analizza l’azione combinata di terremoti e altri eventi naturali, puntando il dito sulle colpe e l’inefficienza di politici e amministratori, incapaci di una seria azione di previsione e prevenzione. Ricorda antiche congiure fra terremoti e fenomeni atmosferici: «“Oltre a ciò l’inverno fu rigidissimo e seguirono grande carestia, mortalità di uomini e pestilenza di animali…” scrive fra’ Jacopo Filippo Foresti del sisma pauroso del gennaio 1117. E ancora gelo e nevicate si accanirono sugli scampati al grappolo di terremoti del gennaio 1703 in Abruzzo. E poi su quelli del gennaio 1915 nella Marsica. La neve, scrisse il Corriere, “ha come voluto collaborare con il terremoto schiacciando tetti già indeboliti…”. Non bastasse, calarono i lupi, aggirandosi “con particolare insistenza intorno alle macerie”». Uguale congiura fra terremoti, altri agenti naturali e incuria umana si è verificata il 18 gennaio 2017, quando nel Centro Italia 280 scosse di magnitudo superiore a 2 gradi della scala Richter si sono abbattute su un territorio tanto vasto quanto fragile. Quattro di queste scosse hanno registrato una magnitudo fra i 5 e i 5,5 gradi. Dopo una di queste, si è scatenata la valanga che ha travolto l’hotel Rigopiano. In questo caso sono divampate le polemiche e sono state aperte indagini relative alla costruzione di un lussuoso resort in una zona già colpita da una valanga nel 1936, alla mancata assunzione di iniziative adeguate dopo l’allarme valanghe e al ritardo nei soccorsi necessari per liberare, prima della tragedia, gli ospiti dell’albergo intrappolati dalla neve. Per una ricostruzione dell’intera vicenda vedi V. Piccolillo e F. Sarzanini, Terremoto e maltempo, strade, case, soccorsi: cosa non ha funzionato, in «Corriere della Sera», 20 gennaio 2017. 12. La rievocazione è di G.A. Stella, Quell’apocalisse nove secoli fa. Il primo terremoto che fu misurato, in «Corriere della Sera», 20 gennaio 2017. 13. E. D’Angelis, Un paese nel fango, cit., p. 10. 14. Limitando l’esame alle inchieste degli ultimi tre anni, la magistratura abruzzese, nell’ambito dell’indagine «Do ut des», ha adottato numerosi provvedimenti cautelari nei confronti di politici (tra cui l’ex vicesindaco dell’Aquila), funzionari pubblici (tra cui l’ex direttore del settore Ricostruzione pubblica e patrimonio del Comune dell’Aquila, all’epoca dei fatti responsabile dell’Ufficio Ricostruzione) e imprenditori, mettendo in luce un sistema criminale – già emerso in occasione degli interventi di ricostruzione in Irpinia dopo il terremoto del 1980 – in seno al quale l’assegnazione degli appalti per la ricostruzione è guidata dal pagamento di tangenti e dall’elargizione di ulteriori vantaggi economici. I

recenti arresti di trenta persone nell’ambito di due inchieste sulle «grandi opere» dimostrano la drammatica equazione fra opere pubbliche, indispensabili per gli interessi della collettività, e pulsioni individuali verso l’arricchimento personale. 15. Vedi, al riguardo, le belle pagine di C. Doglioni e S. Peppoloni, Pianeta Terra. Una storia non finita, Bologna, il Mulino, 2016, che, nell’ambito di una ricostruzione complessiva delle vicende del pianeta Terra (a partire dal grande evento ossidativo-Geo, che 2,3 miliardi di anni fa ha portato all’aumento dell’ossigeno nell’atmosfera e all’esplosione degli organismi pluricellulari), pone l’accento sul triste primato dell’Italia, che si presenta come uno dei Paesi geologicamente più attivi, incapace di difendersi con efficacia dai periodici terremoti che la scuotono. Per un’analisi su scala planetaria della fragilità della Terra, complici anche il consumo selvaggio delle risorse e l’impazzimento del clima nell’era del riscaldamento globale, vedi S. Gandolfi, La mappa globale del clima impazzito, in «Corriere della Sera», 10 novembre 2016. Secondo il think tank tedesco Germanwatch, a cui si deve l’elaborazione dell’Indice del rischio climatico globale, diffuso a margine della conferenza dell’Onu sul clima tenutasi a Marrakech nel 2016, tra il 1996 e il 2015 si sono verificati nel nostro pianeta ben 11.000 eventi meteorologici estremi, che hanno causato la morte diretta di 530.000 persone e danni per oltre 3300 miliardi di dollari. In questa classifica, l’Italia conquista il poco invidiabile 19° posto: 174 morti nel solo 2015, pari a 0,29 unità per 100.000 abitanti. I Paesi più colpiti sono, peraltro, i più poveri della Terra, per paradosso i meno responsabili del cambiamento climatico. Gandolfi conclude con amarezza: «Ondate di calore, piogge violente e improvvise, alluvioni, frane, uragani. Il pianeta Terra non ha solo la febbre, soffre pure di fenomeni meteorologici estremi e sempre più frequenti, in cui è ben visibile l’impronta umana». 16. Così R. Piano, La terra trema, ecco il mio progetto, in «Il Sole - 24 Ore», 2 ottobre 2016, p. 21. 17. Si rinvia all’analisi svolta da E. Coen, Belpaese dei rischi, in «L’Espresso», 6 novembre 2016, che traccia la mappa dei pericoli che minacciano l’integrità e la storia della nostra Penisola: non solo il pericolo sismico (che si concentra lungo la dorsale che taglia in due l’Italia dall’Umbria in giù, fino alla Sicilia), ma anche quello vulcanico e, soprattutto, idrogeologico. I numeri del dissesto idrogeologico sono contenuti nell’ultimo rapporto (2016) dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), da cui si evince che in sette regioni (Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Basilicata) il cento per cento dei Comuni è a rischio frane e alluvioni. 18. P. Biondani, L’Italia è una Repubblica fondata sul condono, in «L’Espresso», 6 novembre 2016, analizzando insieme i condoni edilizi, fiscali e finanziari, arriva alla desolante conclusione che, dal 1900 a oggi, si contano almeno 63 provvedimenti di «perdono»

pubblico, un colpo di spugna ogni due anni. I condoni edilizi più importanti sono quelli del 1985, 1994 e 2003-04. L’urbanista V. De Lucia, intervistato dal giornalista, mette l’accento sulla gravità concettuale del condono edilizio: «È peggio del condono fiscale e finanziario, di cui con gli anni si perde la memoria. Non è così per la sanatoria edilizia, perché le ferite inferte al paesaggio e alle città sfidano i secoli. Restano sfigurate per sempre le coste meridionali, principalmente di Campania, Calabria e Sicilia, oltre alle periferie di città grandi e piccole». Solo a Roma sono state presentate 600.000 domande di condono (un terzo ancora da esaminare) su 3 milioni di cittadini, per una media di un abuso ogni cinque abitanti, uno ogni due famiglie. 19. Vedi E. D’Angelis, Un paese nel fango, cit., p. 137. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, in un’intervista alla «Repubblica» del 28 agosto 2016, osserva che, in base all’esperienza scientifica e alle acquisizioni giudiziarie, un edificio costruito nel rispetto delle norme antisismiche può lesionarsi o incrinarsi di fronte a un evento drammatico, ma non può polverizzarsi e implodere. L’alto magistrato ricorda anche che, all’ombra dello sperpero dei 9000 miliardi di lire del postsisma del 1980, ci fu, come evidenziato dalla Commissione Scalfaro, una rete illecita che vedeva seduti allo stesso tavolo politici corrotti, boss della camorra e imprenditori collusi. Era così possibile, per le imprese camorristiche, realizzare le ricostruzioni a basso costo, fonti di incommensurabili profitti, usando calcestruzzo scadente, meno sicuro (il cosiddetto «calcestruzzo gettato») e registrando l’uso di materiale più sicuro e compatto («calcestruzzo pompato»). 20. In Italia non è nemmeno obbligatorio predisporre per ogni edificio una scheda tecnica sul rischio sismico, così chi acquista un’abitazione non può sapere con certezza se andrà a vivere sotto un tetto sicuro. Non è ancora in funzione, inoltre, un dipartimento unico che si occupi di prevenzione sismica e monitoraggio degli edifici. Le competenze sono infatti disperse tra ministero delle Infrastrutture, dipartimento per la Protezione civile, Enea, uffici del Genio civile e amministrazioni territoriali. Ne consegue che è difficile trovare un interlocutore unico che sappia rispondere, con dati certi e ufficiali, a semplici domande relative alla mappatura delle zone a rischio, ai soldi spesi per la prevenzione, alle zone interessate e alle tipologie di interventi messi in campo. Sempre sul versante dell’informazione, va segnalato che non è stata data adeguata pubblicità alle norme previste nell’ultima legge finanziaria sugli sgravi fiscali in materia di ristrutturazione. 21. In alcune regioni come la Sicilia, una delle aree a maggior rischio sismico del Paese, i fondi sono completamente fermi. Eppure è assodato che, in Italia, il 70-80% degli edifici pubblici e privati non è adeguato a reggere l’urto di un terremoto. Mauro Grassi, direttore della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico «#italiasicura», stima in 40 miliardi di euro la cifra necessaria per mettere in sicurezza gli edifici pubblici, somma che

sale a 93 miliardi se si considerano anche le case private. Gli interventi sono particolarmente urgenti per le scuole e gli ospedali. Per questi ultimi si segnala che una relazione parlamentare della commissione Sanità denuncia l’esistenza di 500 ospedali a rischio, ossia il 75% di quelli in funzione. Quanto alle scuole, secondo Salvo Cocina, ex ingegnere della Protezione civile, la metà sono insicure e non a norma, e occorrerebbe avere il coraggio di abbattere tutte quelle costruite negli anni Sessanta e Settanta. Nel solo Lazio, il 76,4% degli edifici scolastici non è dotato di certificazione antisismica. Negli ultimi tre anni si sono verificati 117 crolli di edifici scolastici. 22. Il 60% dei Comuni del Lazio non ha adottato, a oggi, il piano per le emergenze previsto dalla legge n. 100/2012 di riordino della Protezione civile. Questo piano, da aggiornare costantemente, consente alla Protezione civile di intervenire in modo rapido ed efficace, grazie all’identificazione di personale, equipaggiamento, competenze e fondi in caso di sismi, incendi, disastri idrogeologici e vulcanici. Pertanto, in ampie zone del Lazio manca il documento necessario per fronteggiare qualsiasi tipo di calamità naturale, a partire dai terremoti. Ancora peggiore è la situazione in Campania, dove i Comuni virtuosi sono solo il 39%. La medaglia d’oro va, invece, al Nord, con il 100% per Valle d’Aosta, Trento e Friuli Venezia Giulia. 23. Dal dopoguerra a oggi, l’Italia ha stanziato 150 miliardi di euro per ricostruire le zone colpite da eventi sismici. La cifra sale a 250 se si allarga l’orizzonte al dissesto idrogeologico. Ma per la messa in sicurezza degli edifici il primo finanziamento è arrivato solo con i 950 milioni del «Fondo per la prevenzione del rischio sismico», creato dopo il terremoto abruzzese del 2009, impiegati peraltro solo in minima parte, soprattutto per la mappatura dei terreni e delle «zone rosse». 24. Delle 46.760 ordinanze emesse dal 2000 al 2011 nei capoluoghi di provincia, solo 4956 sono state portate a esecuzione, spesso solo dopo un estenuante calvario giudiziario. 25. Dai 190 milioni di euro l’anno previsti dalle manovre finanziarie dei primi anni Duemila siamo passati ai 309 milioni del 2014, poi aumentati di 50 e 100 milioni rispettivamente nel 2015 e nel 2016. 26. Vedi la Prefazione di Matteo Renzi al libro di E. D’Angelis, Un paese nel fango, cit. 27. Poco tempo prima che lo scandalo dei rifiuti tossici fosse scoperto dall’agente-eroe, nel 1992 il boss pentito Nunzio Perrella aveva già lanciato un avvertimento agli inquirenti che stavano svolgendo alcune indagini parallele con queste parole: «La monnezza è oro, dottò» e «La politica è una monnezza». 28. Sulla storia di Roberto Mancini, vedi L. Ferrari e N. Trocchia, Io, morto per dovere, Milano, Chiarelettere, 2016, con Prefazione di Beppe Fiorello e Postfazione della moglie Monika Dobrowolska Mancini.

29. Un altro esempio inquietante di «ecodelitti» di stampo mafioso che inquinano l’ambiente e mettono a repentaglio la salute collettiva è il fenomeno delle montagne di rifiuti industriali tossici e pericolosi – tra cui scorie nucleari – smaltite attraverso navi inghiottite dal mare. Ne riferisce Francesco Fonti, un ex trafficante di droga, condannato a 50 anni di reclusione, in un memoriale consegnato alla Direzione nazionale antimafia. Fonti ammette di essersi occupato dell’affondamento di navi cariche di rifiuti tossici e radioattivi: «Era una procedura facile e abituale … Io ne ho affondate tre, ma ogni anno al santuario di Polsi (provincia di Reggio Calabria) si svolgeva la riunione plenaria della ’ndrangheta, dove i capibastone riassumevano le attività svolte nei loro territori di competenza. Proprio in queste occasioni, ho sentito descrivere l’affondamento di almeno tre navi nell’area tra Scilla e Cariddi, di altre presso Tropea, di altre ancora vicino a Crotone». Negli atti di una delle indagini che vedono coinvolte la criminalità organizzata calabrese negli ecodelitti compare un’emblematica conversazione telefonica: «“Basta essere furbi, aspettare delle giornate di mare giusto, e chi vuoi che se ne accorga?” spiegava uno. “E il mare? Che ne sarà del mare… se lo ammorbiamo?” diceva l’altro, per poi sentirsi dire: “Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare: pensa ai soldi, che con quelli il mare andiamo a trovarcelo da un’altra parte”» (vedi N. Gratteri con A. Nicaso, La mala pianta, Milano, Mondadori, 2010, pp. 7576). Anche la letteratura si è interessata al fenomeno. Nel racconto-verità Navi a perdere (Milano, Ambiente, 2008), Carlo Lucarelli mette in fila alcuni fatti realmente accaduti e li fa «parlare». Alla base della fiction, e ancor più della realtà, c’è la considerazione che il traffico delle scorie radioattive e dei rifiuti pericolosi rende più del commercio degli stupefacenti. 30. Le regioni dove si registra il maggior numero di reati ambientali sono, nell’ordine, Campania, Sicilia, Calabria e Puglia, le stesse in cui sono presenti le principali organizzazioni mafiose. Il Lazio primeggia nell’Italia centrale, mentre la Liguria è la prima regione del Nord. Da un’indagine condotta in Calabria si è scoperto che almeno 350.000 tonnellate di arsenico, zinco e piombo, provenienti dagli scarti di un’ex area industriale, sono state utilizzate per costruire parcheggi, strade e persino due scuole, a Crotone e nella vicina Cutro. Ma il fenomeno investe anche il Nord, dove in vetta all’illegalità ambientale c’è il Piemonte. Benché il ruolo giocato dalle mafie «tradizionali» nelle attività ecomafiose sia generalmente molto importante, spesso la responsabilità dei reati ambientali è di reti criminali composte da imprese private, amministratori locali e organi di controllo corrotti; sull’argomento vedi anche N. Gratteri, La mala pianta, cit., p. 78.

III. Dalla corruzione nelle opere pubbliche alle opere pubbliche finalizzate

alla corruzione 1. Vengono messe in luce, inoltre, gravi disfunzioni legate al problema della corruzione, quali: a) la stasi dei lavori relativi ad alcune grandi infrastrutture a causa di carenze nella progettazione e dell’apposizione di numerose varianti e riserve; b) le diffuse anomalie nel sistema di affidamento al contraente generale, come accaduto per l’Alta Velocità a Firenze; c) un utilizzo eccessivo del sistema delle proroghe nell’ambito dei servizi e delle forniture; d) gravi patologie nella gestione dei rifiuti, specie in alcune regioni, come Puglia e Sicilia, in cui gli appalti sono affidati in modo non regolare e, in qualche caso, a imprese colpite da misure interdittive antimafia. 2. I dati sono riportati da G. Valentini, La scossa. Perché l’Italia non ha più scuse, Milano, Longanesi, 2015, pp. 136-137, il quale aggiunge che «è ancora la Finanza a documentare che nello stesso anno, tra frodi al sistema dei finanziamenti pubblici e sprechi nella Pubblica Amministrazione, lo Stato ha subìto un danno di 4,1 miliardi. Sono state oltre 3700 le persone denunciate, con quasi 8000 evasori totali scoperti e 1,2 miliardi di beni sequestrati»; vedi anche, per analoghe conclusioni, A. Galdo, Ultimi. Così le statistiche condannano l’Italia, Torino, Einaudi, 2016, p. 91. 3. Ci si riferisce alla vicenda che ha visto coinvolto un funzionario (E.L.) del Simu, il dipartimento del Campidoglio che si occupa anche di manutenzione delle strade, scoperto dai carabinieri del Noe mentre sta cercando di liberarsi di una somma di denaro, da poco ricevuta da un imprenditore. Le intercettazioni telefoniche in corso rivelano la vicenda corruttiva legata a informazioni passate dal funzionario agli imprenditori per consentire loro di vincere alcune gare connesse alla manutenzione di strade della capitale e consentono l’arresto, oltre che del funzionario, di due imprenditori, titolari di una ditta che si era, fra l’altro, aggiudicata uno dei primi appalti connessi ai lavori del Giubileo, appalto, però, che non era stato definitivamente assegnato in quanto l’Anac, nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza, aveva individuato delle irregolarità. Sulla vicenda vedi R. Frignani e E. Menicucci, Giubileo, allarme tangenti, in «Corriere della Sera», 15 ottobre 2015 e V. Pacelli, Giubileo, primo appalto: tre arresti per corruzione, in «il Fatto Quotidiano», 15 ottobre 2015. 4. A solo titolo di esempio, nell’ottobre 2016, due inchieste separate, condotte dai pubblici ministeri di Roma (operazione «Amalgama») e di Genova (operazione «Arka di Noè»), hanno portato all’arresto di 30 persone in tutta Italia, con l’accusa di associazione per delinquere, corruzione, turbativa d’asta e tentata estorsione. Al centro del mirino degli inquirenti, le grandi opere per l’ammodernamento del sistema viario (tra cui due infrastrutture vitali come le linee dell’Alta Velocità e l’autostrada Salerno - Reggio Calabria) e la figura del «mostro», potentissimo direttore tecnico che chiudeva

colpevolmente un occhio su ritardi, errori e inadempienze, permettendo che «venissero montati cordoli costruiti con calcestruzzo sbagliato» e si lavorasse con «cemento che sembrava colla». Vedi il resoconto di F. Tonacci e G. Scarpa, «Quel cemento è colla»: le grandi opere pilotate con escort e bustarelle, in «la Repubblica», 27 ottobre 2016. Nel novembre 2016 sono stati disposti 16 arresti per gli appalti truccati al Comune di Latina. L’operazione, che vede 50 indagati e annovera tra i personaggi «eccellenti» finiti in manette anche l’ex sindaco e il dirigente del settore urbanistico, ha sollevato il velo su sei anni di illegalità, 152 appalti truccati e la costituzione di un’associazione per delinquere finalizzata alla turbativa d’asta, all’abuso d’ufficio, al falso ideologico e alla truffa aggravata degli appalti pubblici. 5. M. Corradino, È normale… lo fanno tutti, Milano, Chiarelettere, 2016, p. 42. 6. Ivi, p. 46. 7. «Roma.corriere.it», 9 aprile 2009. 8. Il Mose è un’opera molto complessa per un obiettivo molto semplice. Consiste in una serie di paratoie alle tre bocche della laguna verso il mare aperto: quando l’acqua è troppo alta, le paratoie si sollevano, bloccando l’accesso al mare. Basta qualche cifra per capire la portata dei problemi e il grado di complessità dell’intervento, da taluno ottimisticamente definito «orgoglio dell’ingegneria italiana»: le 78 paratoie pesano tra le 168 e le 330 tonnellate, e sono inserite in 35 cassoni di cemento, che a loro volta pesano fino a 20.000 tonnellate. A oggi sono stati posati tutti i cassoni e 21 delle 78 paratoie. Vedi, al riguardo, i dati forniti da R. Oriani, E alla fine l’acqua alta sommerse il Mose, in «Il Venerdì di Repubblica», 18 novembre 2016. 9. P. Baita con S. Uccello, Corruzione. Un testimone racconta il sistema del malaffare, Torino, Einaudi, 2016, p. 63. 10. Ivi, p. 19. Nell’indagine sul Mose è stato messo a nudo un sistema di pagamenti periodici che ha richiesto la creazione di cospicui fondi in nero (oltre 25 milioni di euro) e la costituzione di società «cartiere» e che ha visto beneficiari eccellenti, fra cui il presidente della Regione Veneto (avrebbe percepito 1 milione di euro l’anno), il sindaco di Venezia (avrebbe percepito 560.000 euro per la campagna elettorale), un magistrato della Corte dei Conti, un magistrato delle acque e un alto ufficiale della Guardia di Finanza; sul punto vedi Inchiesta Mose, 35 arresti: Giorgio Orsoni ai domiciliari. Chiesto il carcere per Galan, in «ilFattoQuotidiano.it», 4 giugno 2014. Dei 35 arrestati alcuni imputati hanno chiesto di patteggiare: fra questi l’ex presidente della Regione, il magistrato delle Acque; per il consulente di un ex ministro dell’Economia è stata pronunciata, nell’aprile 2016, una sentenza di condanna in primo grado a due anni e sei mesi di reclusione. I dati sono riportati da P. Baita con S. Uccello, Corruzione, cit., pp. 46-47. 11. M. Corradino, in È normale… lo fanno tutti, cit., riporta il seguente passo di una

telefonata intercettata: «Al capo segreteria mille euro al mese… sò tutti a stipendio». 12. G. Savatteri e F. Grignetti (a cura di), Mafia Capitale. L’atto di accusa della Procura di Roma, Milano, Melampo, 2015; L. Abbate e M. Lillo, I re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di Mafia Capitale, Milano, Chiarelettere, 2015. Vedi anche G. Calapà, Mafia Capitale, Roma, La Nuova Frontiera, 2014. 13. M. Corradino, È normale… lo fanno tutti, cit., p. 45. 14. Ivi, p. 36. 15. P. Baita con S. Uccello, Corruzione, cit., pp. 54, 57. 16. Si pensi ai casi di mancata presentazione di offerte valide, di presentazione di offerte dello stesso importo, di presentazione di un’unica offerta o di un numero di offerte comunque insufficiente per procedere all’assegnazione dell’appalto. 17. I sintomi principali sono: offerte palesemente troppo elevate o diverse da quelle abituali; offerte contenenti condizioni particolari e notoriamente inaccettabili per la stazione appaltante; presentazione di offerte più elevate rispetto ai prezzi di listino. In generale, quando in una sequenza di gare risulta aggiudicataria sempre la stessa impresa, è legittimo il sospetto che i concorrenti presentino offerte di comodo. 18. Possibili indizi sono: 1) imprese, singolarmente in grado di partecipare a una gara, che si astengono in vista di un successivo subappalto o optano per la costituzione di un’Ati; 2) la costituzione di Ati o subappalti perfezionati da imprese accomunate dalla stessa attività prevalente; 3) il ritiro dell’offerta da parte di un’impresa che decide inizialmente di partecipare a una gara e risulta poi beneficiaria di un subappalto relativo alla medesima gara; 4) nei casi di aggiudicazione basata sull’offerta economicamente più vantaggiosa, l’Ati (tra i maggiori operatori) può essere il frutto di una strategia escludente, tesa a impedire a imprese minori di raggiungere il necessario punteggio qualitativo. 19. Si pensi ai casi di comuni errori di battitura, identità di grafia, riferimento a domande di altri partecipanti alla medesima gara, analoghe stime o errori di calcolo, consegna simultanea, da parte di un unico soggetto, di più offerte per conto di differenti partecipanti alla medesima procedura di gara. 20. S. Rizzo, Il facilitatore, Milano, Feltrinelli, 2015. 21. Vedi M. Corradino, È normale… lo fanno tutti, cit., p. 28, dove si cita l’esilarante caso di un funzionario pubblico siciliano denominato «San Salvatore» per la sua straordinaria capacità di far ottenere (dietro compenso) la «grazia» delle facilitazioni nei procedimenti amministrativi della burocrazia regionale. 22. D. Autieri, Economia criminale, o segreti dei clan, http://roma.repubblica.it/cronaca, 26 giugno 2016. Con sentenza del 13 giugno 2016 la Corte d’Appello di Roma ha largamente ridimensionato le precedenti condanne inflitte ai presunti clan di Ostia, escludendo la

sussistenza dell’organizzazione mafiosa per i fatti criminali e corruttivi oggetto di una lunga indagine e facendo contestualmente cadere anche le ipotesi di aggravante del metodo mafioso. A reggere le fila criminali sul litorale romano non era quindi la mafia, ma un’associazione per delinquere «semplice». I primi commentatori hanno osservato che «le cose sono due: o la mafia non esiste a Roma o la mafia ha assunto una nuova e moderna conformazione che rende necessario rivedere il codice penale su questo punto» (Roma, sentenza sui Fasciani: «Assolti dall’accusa di mafia», http://roma.repubblica.it/cronaca, 13 giugno 2016). Una nuova condanna per associazione mafiosa è stata peraltro pronunciata dal Tribunale di Roma il 2 febbraio 2017. 23. A vere e proprie «cordate», utilizzate per lo sfruttamento delle gare d’appalto, soprattutto attraverso il meccanismo del massimo ribasso e, in particolare, attraverso la creazione di pool di ditte che presentano offerte con percentuali di sconto molto simili tra loro, spostando la media delle offerte in modo che ogni appalto sia vinto sempre da un’impresa del gruppo, mentre le altre verrebbero comunque coinvolte successivamente attraverso subappalti o altri contratti, fanno riferimento L. Abbate e M. Lillo, I re di Roma, cit., pp. 13 sgg. 24. Così Cass. sez. VI, 10 aprile 2015, nn. 24535 e 24536. Alla possibilità in astratto di ritenere configurabile di cui all’art. 416 bis c.p. nei casi in cui la forza di intimidazione operi solo in un determinato contesto ha dedicato un intero capitolo di un recente saggio uno dei maggiori esperti sulla configurazione della cosiddetta «contiguità mafiosa»: C. Visconti, La mafia è dappertutto (falso!), Roma-Bari, Laterza, 2016, pp. 18 sgg. 25. Sul contesto che portò all’approvazione della legge 646 del 1982, che introdusse nel codice penale il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., e le misure di prevenzione antimafia, vedi R. Cantone, voce Associazione mafiosa, in «Dig. disc. pen.», Agg. 2011, p. 34. 26. Sulle ragioni per cui il legislatore ha previsto tra le finalità dell’associazione mafiosa anche l’acquisizione degli appalti pubblici, vedi F. Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Milano, Giuffrè, 1995, pp. 201 sgg. 27. Ci si riferisce ad Angelo Siino, definito «ministro dei Lavori pubblici di Cosa Nostra», successivamente divenuto collaboratore di giustizia. 28. Secondo A. Vannucci, La «governance» mafiosa della corruzione: dal sistema degli appalti agli scambi politici, relazione al convegno Sisp su «Mafie e sistema politico», Università di Bologna, 13 settembre 2006, tutti i protagonisti del gioco anticoncorrenziale e «cartellistico» messo in campo dalle mafie sono avvantaggiati: le imprese massimizzano i profitti e hanno la certezza di vincere a turno le gare; amministratori e politici incassano tangenti cospicue, senza correre grossi rischi; i mafiosi lucrano sulla rendita che si genera a danno dei bilanci pubblici, ampliando le offerte di servizi a beneficio di imprese e politici.

29. Sono numerosi i casi emersi negli ultimi anni di politici o burocrati «avvicinati» dalle mafie e, in quasi tutte le indagini che hanno riguardato la presenza di organizzazioni mafiose al Nord, sono stati coinvolti soggetti operanti in pubbliche strutture; forse il caso più eclatante è quello dell’ex direttore della Asl di Pavia, che è stato anche condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa a 13 anni di reclusione. 30. È del 4 ottobre 2016 la notizia di 14 arresti disposti dalla Procura antimafia di Milano, con riguardo a una vicenda di mafia e corruzione originata dall’infelice idea di un imprenditore bergamasco di avvalersi di personaggi legati alla ’ndrangheta per ammorbidire «dipendenti problematici»: così «Corriere della Sera», 4 ottobre 2016, dove si ricorda che l’imprenditore ha perso il controllo della sua azienda permettendo ai «calabresi» di infiltrarsi nei subappalti milionari delle grandi opere, dal collegamento ferroviario fra i terminal dell’aeroporto di Malpensa alla cosiddetta «piastra» di Expo. Le ultime inchieste hanno messo sempre più in evidenza il ruolo egemone della ’ndrangheta nella gestione degli appalti Expo. 31. F. Roberti, Il contrario della paura, Milano, Mondadori, 2016, p. 101. 32. Il dato emerge dagli atti dell’inchiesta giudiziaria che, il 19 dicembre 2016, ha portato a 11 arresti in provincia di Trapani, con il sequestro di tre società e il coinvolgimento di un giornalista freelance che organizzava convegni antimafia. 33. A. Galdo, Ultimi. Così le statistiche condannano l’Italia, Torino, Einaudi, 2016, p. 93. 34. La vicenda è raccontata con colori vivaci da S. Rizzo, Ponte sullo stretto, beffa infinita. Ora siamo allo Stato che fa causa allo Stato, in «Corriere della Sera», 23 gennaio 2017, che analizza i colossali sprechi di denaro legati a quest’opera fantasma. Nel gennaio 2017 la Corte dei Conti, con una relazione, ha chiesto al governo la soppressione della concessionaria, che genera costi annui di 2 milioni di euro, totalmente improduttivi. 35. L’autostrada A3 Napoli - Reggio Calabria ha un’estensione totale di 494,9 km e rappresenta il secondo tronco dell’Autostrada del Sole che collega il Nord e il Sud della Penisola, da Milano a Reggio Calabria. Il primo tratto, tra Napoli e Pompei, fu completato il 22 giugno 1929; il secondo, Pompei-Salerno, il 16 luglio 1961. Nei primi anni Sessanta il governo italiano decise di finanziare la costruzione del tratto finale, per consentire all’Italia di accogliere nel suo seno anche la Calabria, regione fino ad allora considerata l’«Isola nella Penisola» o la «Terza Isola», per via del suo isolamento dovuto agli aspri rilievi montuosi. A differenza del tronco centro-settentrionale dell’Autostrada del Sole, però, l’opera non poté contare sulla partecipazione di capitali privati, cosicché lo Stato dovette farsi interamente carico dell’opera. Il 24 luglio 1961 venne approvata la legge n. 729, che definiva il nuovo Piano di costruzioni stradali e autostradali, e assegnava all’Anas la futura gestione della Salerno - Reggio Calabria, autorizzandola a contrarre mutui per 180 miliardi

di lire, costo iniziale stimato dell’opera. I lavori iniziarono il 21 gennaio 1962 alla presenza del presidente del Consiglio, Amintore Fanfani. Sull’epilogo della vicenda vedi A. Bolzoni, In quattro ore da Salerno a Reggio Calabria. Pronti a un’auto senza pilota, in «la Repubblica», 23 dicembre 2016. 36. Ancora il 18 aprile 2016 la stampa ha dato notizia di «difetti strutturali sulla Salerno - Reggio Calabria» che hanno comportato la chiusura della galleria «Tremisi - San Rocco». Il provvedimento è stato adottato dopo che i tecnici nominati per chiarire le cause di due incidenti in cui sono morte 5 persone hanno evidenziato le seguenti anomalie: conformazione irregolare dell’asfalto e mancanza di illuminazione e di barriere di protezione. Fra le 13 persone indagate dalla Procura di Vibo Valentia con l’accusa di omicidio colposo plurimo, dirigenti dell’Anas, progettisti e rappresentanti legali della società appaltatrice dei lavori. 37. C. Maltese, Storie di ordinaria corruzione in un Paese fuori controllo, in «Il Venerdì di Repubblica», 4 novembre 2016. 38. Vedi F. Tassone e A. Mazzone, Contro le opere incompiute è utile prevedere un reato «colposo» per le Pa, in «Edilizia e Territorio», 14 aprile 2016. Sul «Corriere della Sera» del 23 novembre 2016, S. Rizzo cita il caso dell’enorme buco nel centro di Firenze, costato 774 milioni e finalizzato alla realizzazione di una stazione sotterranea (la cosiddetta «stazione Foster») dell’Alta Velocità, che probabilmente non vedrà più la luce, perché tecnologicamente superata. 39. Una vicenda emblematica è quella che ha riguardato la ricostruzione postbellica di Ancona. Un affidamento (ovviamente senza alcuna gara) di un lotto di lavori a un imprenditore ha fatto scaturire un lunghissimo contenzioso giunto fino ai giorni nostri che ha visto il riconoscimento di un risarcimento enorme (un miliardo e mezzo di euro!) a favore di questo imprenditore attraverso un arbitrato successivamente confermato da una sentenza della Corte d’Appello di Roma, con una vicenda giudiziaria che ha destato per alcune sue peculiarità l’attenzione dei media nazionali. La sentenza della Corte d’Appello è però stata annullata dalla Cassazione e ancora oggi non si sa se e quanto avrà diritto a ricevere questo imprenditore per lavori pubblici connessi alla ricostruzione postbellica. Sull’argomento vedi I. Proietti, Lodo Longarini: la Cassazione salva lo Stato cancellando l’indennizzo da 1,5 miliardi di euro a favore del costruttore, in «ilFattoQuotidiano.it», 18 dicembre 2015. 40. D.P.R. 5 ottobre 2010, n. 207. 41. Per un commento organico al decreto legislativo n. 163/2006 (il previgente codice dei contratti pubblici), vedi F. Caringella e M. Giustiniani, Manuale dei contratti pubblici, Roma, Dike, 2015.

42. Ci si riferisce, in particolare, allo scetticismo di Piercamillo Davigo, magistrato notissimo per essere stato fra i pm che avevano gestito le indagini di «Mani pulite» e presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Nell’intervista all’«Huffington Post» del 14 aprile 2016 ebbe a dire che il nuovo codice degli appalti «è tutta roba che non serve a niente … Da anni si scrivono normative sugli appalti con regole sempre più stringenti che danno fastidio alle aziende perbene e non fanno né caldo né freddo a quelle delinquenziali … non serve fare normative sugli appalti, serve fare operazioni sotto copertura, con agenti infiltrati che fingono di essere imprenditori…». 43. Si tratta del decreto legislativo n. 50 del 18 aprile 2016. Per un primo commento, vedi F. Caringella, M. Giustiniani e P. Mantini (a cura di), Il nuovo diritto dei contratti pubblici, Roma, Dike, 2016; F. Caringella e M. Pretto, Il nuovo codice dei contratti pubblici, Roma, Dike, 2017 (2 a ed.). 44. Sui rischi sottesi ai sistemi del massimo ribasso e alle cordate di imprese che presentano offerte concordate per drogare la gara e spartirsi la torta con il meccanismo del subappalto, vedi F. Roberti, Il contrario della paura, cit., p. 107.

IV. La corruzione ci rende più ignoranti 1. L’articolo è riportato in U. Eco, Sette anni di desiderio. Cronache 1977-1983, Milano, Bompiani, 1988, p. 277. 2. Vedi il decreto 30 dicembre 2016, che ha ripartito il fondo di finanziamento ordinario (Ffo), che assegna la quota destinata al merito tenendo conto di parametri quali la qualità complessiva della ricerca (65%), la qualità della didattica in relazione alla mobilità internazionale degli studenti (7%) e la qualità della didattica in relazione alla quota di studenti in regola con gli studi (8%). In testa l’Alma Mater di Bologna (con quasi 100 milioni di quota premiale) e La Sapienza di Roma (con 92,5 milioni, 5 in più dell’anno precedente). In crescita la Federico II di Napoli (più 9,2 milioni) e Messina (più 7 milioni). 3. Per un esame delle ragioni della crisi del nostro sistema universitario e scolastico vedi il rapporto 2014 della Fondazione Res, L’istruzione difficile. 4. La Sapienza occupa la 163 a posizione con un punteggio totale di 19,23, unica università italiana nel range 151-200 insieme all’Università di Padova, in 183 a posizione con un punteggio di 18,19. Nel range 201-300 troviamo il Politecnico di Milano e le università di Bologna, Firenze, Statale di Milano e Pisa. Gli indicatori adottati dall’ARWU sono rigorosi e comprendono premi Nobel e riconoscimenti accademici ricevuti, qualità della ricerca (papers pubblicati e ricercatori più citati) e le performance rispetto al numero

degli iscritti. In particolare, la classifica è basata su 6 parametri: i premi internazionali ricevuti da ex studenti (10%) o da ricercatori della singola università (20%), citazioni di pubblicazioni scientifiche in Thomson-Reuters (20%), pubblicazioni su «Nature & Science» (20%), pubblicazioni tecnologico-sociali (20%), produttività pro capite (10%). 5. «Times Higher Education» ha stilato una classifica generale e altre classifiche suddivise per aree di insegnamento (materie umanistiche, scienze sociali, medicina e salute, ecc.) sulla base di diversi fattori, raggruppati nei seguenti macroparametri: ambiente di insegnamento, attività di ricerca, citazioni di studi dei docenti, capacità di attrarre studenti e docenti dall’estero, capacità di attrarre fondi dalle imprese per attività di ricerca. 6. I risultati della ricerca sono riportati da F. Fubini, La crescita zero dei laureati, in «Corriere della Sera», 11 settembre 2016. 7. Il dato è fornito dal «Corriere della Sera», 24 settembre 2016. 8. Vedi R. Carlini, Come siamo cambiati. Gli italiani e la crisi, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 99 sgg. 9. Il fenomeno è analizzato da D. Di Vico, I centomila chiusi nelle loro stanze. Ragazzi che si ritirano dalla società, in «Corriere della Sera», 7 novembre 2016. 10. I dati sono forniti da A. Galdo, Ultimi. Così le statistiche condannano l’Italia, Torino, Einaudi, 2016, pp. 17 sgg. Vedi l’indagine pubblicata sull’«Espresso», 27 novembre 2016. 11. S. Settis, Un sistema da svecchiare, in «Il Sole - 24 Ore», 11 novembre 2008. 12. A. Galdo, Ultimi, cit., p. 21. 13. «Corriere della Sera», 24 settembre 2016. Il divieto di stipulare i cosiddetti co.co.co (contratti di collaborazione coordinata e continuativa), a seguito del Jobs Act, rende più difficile l’assunzione di nuovi ricercatori e precaria la vita di 3500 ricercatori in bilico. Vedi S. Ravizza, Noi, 3500 ricercatori in bilico, in «Corriere della Sera», 8 novembre 2016. 14. Una percentuale bassissima rispetto a quella dei leader di questa particolare graduatoria: Nuova Zelanda, Indonesia e Messico, tutti oltre il 20%, o ancora Brasile, Corea del Sud, Svizzera, Islanda e Danimarca, tutti abbondantemente sopra il 15%; ma drammatico è anche il confronto con i Paesi posizionati agli ultimi posti: sotto il 10%, infatti, insieme al Belpaese ci sono solo Ungheria (9,4%) e Giappone (9,1%). 15. In Italia, solo il 24,5% dei fondi per l’istruzione è destinato all’università, mentre la gran parte viene indirizzata alla scuola primaria, secondaria e terziaria non universitaria. Vedi

http://www.corriereuniv.it/cms/2015/04/ocse-italia-fanalino-di-coda-negli-

investimenti-per-listruzione. 16. Sul tema vedi S. Settis, L’università del futuro: il ruolo della ricerca, Unibocconi.it. 17. A. Galdo, Ultimi, cit., p. 51.

18. Oltre Atlantico è radicato il sistema delle grandi fondazioni e donazioni, che hanno reso possibile la nascita e lo sviluppo di tutti i musei americani (anche la National Gallery of Art, unico museo federale, nasce dalla donazione Mellon), oltre al flusso costante di donazioni piccole e medie da parte di decine di milioni di cittadini. Nelle università, una grossa donazione può finanziare l’apertura di un nuovo centro di ricerca; molto più frequenti le donazioni piccole e medie, raccolte anche dalle attivissime associazioni studentesche. Piccole cifre, se prese una per una; milioni, e a volte miliardi, di dollari nel loro insieme. Per esempio, una campagna di fund raising organizzata dall’Università di Harvard, conclusasi nel 1999, raccolse 2,6 miliardi di dollari da 175.000 donatori, in massima parte ex studenti. 19. Vedi G. Tremonti, Mundus furiosus, Milano, Mondadori, 2016, p. 125. 20. Per un commento ai dati ministeriali vedi S. Intravaia, Matricole, addio Sud. Uno su tre si diploma e va a studiare al Nord, in «la Repubblica», 20 giugno 2016. 21. Quello dei siciliani è un drappello nutrito: 6860 su 23.000, quasi 1 su 3. Discorso a parte per la Campania, quasi un’anomalia per il Mezzogiorno, visto che gli studenti che emigrano sono appena il 13%. Altrove, però, le cifre sono molto più elevate. Il record negativo spetta alla Calabria, dove il 40% degli universitari è iscritto ad atenei fuori dalla propria regione. Segue la Puglia, con il 37% di studenti con la valigia. 22. Al Sud, pur rientrando fra gli idonei, il 42% degli studenti – quasi 30.000 nel 2014-15 – non è riuscito a beneficiare della borsa di studio per mancanza di fondi. Al Nord, invece, la copertura è pressoché totale: 96%. 23. Il problema è proprio che, per 1000 italiani che insegnano in America, solo 10 americani insegnano in Italia. 24. Emblematico è il titolo (Mediocrazia) del volume del filosofo canadese Alain Deneault, pubblicato da Neri Pozza nel gennaio 2017. Tra l’umoristico, il surreale e il drammatico, il pensatore celebra la definitiva presa del potere, in ogni campo, da parte dei mediocri. L’autore conclude così: «La mediocrazia ci ha travolto: i mediocri hanno preso il potere». Sulla bocciatura del merito nella scuola si sofferma G.A. Stella, La scuola che boccia il merito, in «Corriere della Sera», 6 gennaio 2017, evidenziando le difficoltà incontrate in sede attuativa dalla legge sulla «Buona Scuola», che prevede l’erogazione di incentivi economici ai docenti più meritevoli. 25. Già nel 1866 Pasquale Villari, nel profetico saggio Di chi è la colpa?, Milano, Zanetti, parlava di una classe dirigente inadeguata, imputabile a un sistema educativo fondato su un vacuo umanesimo. Vedi la lucida analisi di C. Giunta, Un Paese senza élite, in «Il Sole - 24 Ore», 18 dicembre 2016. 26. S. Settis, Un sistema da svecchiare, cit.

27. Sulla procedura, vedi il resoconto di E. Fittipaldi, Concorsopoli: i baroni regnano sull’Università, in «Espresso online.it», 12 maggio 2014. 28. http://www.controtuttelemafie.it/testimonianze%20concorsi%20pubblici.htm. 29. Pubblicato sulla rivista online «Judicium». 30. Il luminare considera l’intera commissione di Diritto privato «inidonea a giudicare, essendo priva di auctoritas sul piano scientifico». I più bravi sarebbero stati scartati solo perché «non avevano un’adeguata protezione accademica e perché non tutti i commissari erano in grado di leggere e capire i loro titoli». Gazzoni ha dedicato al tema anche una favola (La favola della cooptazione e del panettone), in Favole (quasi) giuridiche, Frosinone, Key, 2015. 31. E. Fittipaldi, Concorsopoli, cit. 32. Per una caustica denuncia del problema si rinvia a G.A. Stella, Parenti in cattedra, atenei da vergogna, in «Corriere.it», 19 marzo 2009. 33. N. Luca, Parentopoli. Quando l’università è un affare di famiglia, Venezia, Marsilio, 2009. 34. R. Perotti, L’università truccata, Torino, Einaudi, 2008. 35. La legge Gelmini prevede che «non possono partecipare ai procedimenti per le chiamate coloro i quali, al momento della presentazione della domanda di candidatura, abbiano un grado di parentela o affinità entro il quarto grado compreso con un professore appartenente al Dipartimento che richiede l’attivazione del posto e che effettua la chiamata ovvero con il Rettore, con il Direttore Generale o con un componente del Consiglio di amministrazione dell’Ateneo». L’applicazione dei nuovi precetti è stata tuttavia ostacolata da un ricco contenzioso, motivato in ragione di un’asserita non univocità della formulazione normativa. 36. S. Settis, Un sistema da svecchiare, cit. 37. E. C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata (1958), trad. it. Bologna, il Mulino, 1976. 38. Anche l’economia subisce le conseguenze negative del familismo amorale, in quanto sono pregiudizialmente impedite tutte le attività economiche che richiedono cooperazione, solidarietà e sinergie tra soggetti non appartenenti alla stessa comunità familiare. Un’economia costretta a disporre solo dei mezzi posseduti da consanguinei è inevitabilmente condannata all’arretratezza. 39. P. Ginsborg e S. Labate, Passioni e politica, Torino, Einaudi, 2016, p. 116. 40. F. Froio, Università: mafia e potere. Storia incredibile di una riforma, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 169. L’autore cita le parole del procuratore generale di Messina Aldo Cavallari, pronunciate nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario il 13 gennaio 1969: «L’università è l’ultimo feudo che trascina la sua esistenza come un relitto storico, un

feudo assolutamente ed arbitrariamente dominato dai nuclei di novelli baroni. Si distribuiscono le cattedre e, quando non basta, si creano, al solo scopo di favorire il neoprivilegiato ovvero si distribuiscono assistenti o laute borse di studio, in un nepotismo tanto evidente che potrebbe essere valutato anche alla luce della norma penale che punisce lo sfruttamento della funzione per interessi privati». 41. E. Boncinelli, Noi siamo cultura. Perché sapere ci rende liberi, Milano, Rizzoli, 2016, p. 7. 42. Vedi G. Solimene, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 32-34.

V. La corruzione fa scappare i cervelli italiani e tiene lontani gli investitori stranieri 1. S. Bencivelli, «Caro ministro, l’Italia non mi ha voluto, mi dicevano brava ma poi vincevano altri», in «la Repubblica», 15 febbraio 2016. 2. Il discorso integrale del pontefice è pubblicato nella sezione «Omelie» del sito della Santa

Sede

all’indirizzo:

https://w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2016/documents/papafrancesco_20161231_te-deum.html; sul discorso del papa vedi I. Scaramuzzi, Il Te Deum del Papa: la nostra società sta escludendo i giovani, in «LaStampa.it», 1° gennaio 2017. 3. Per il messaggio completo, vedi la sezione «Discorsi» del sito della presidenza della Repubblica (www.quirinale.it); sull’importanza del discorso del presidente della Repubblica e sulle ragioni anche politiche di tale intervento vedi Sergio Mattarella dà una carezza ai giovani expat sferzati da Poletti: «Meritate rispetto, sempre», in «L’Huffington Post», 1° gennaio 2017. 4. C. Pasolini, L’addio a Fabrizia: «Costretta a emigrare perché qui non c’è lavoro», in «la Repubblica», 27 dicembre 2016; V. Piccolillo, Addio a Fabrizia: «Partita perché qui non c’è futuro», in «Corriere della Sera», 27 dicembre 2016. 5. Il tweet di Fabrizia Di Lorenzo è stato ripreso, fra gli altri, da «Repubblica.it», 20 dicembre 2016; vedi anche L’ultimo tweet di Fabrizia sull’Italia immobile e «in mano ai dinosauri», in «L’Huffington Post», 21 dicembre 2016. 6. M. Corbi, Sempre più giovani scelgono di studiare all’estero, in «La Stampa», 18 gennaio 2016. 7. A. Castagna, Come lasciare tutto e cambiare vita, Roma, Newton Compton, 2012. 8. Vedi, per esempio, l’analisi di V. Polchi, Calano i residenti in Italia: non accadeva da novant’anni, in «la Repubblica», 11 giugno 2016. 9. Sul fenomeno, vedi G. Sanzini, M. Migli e F. Taranto, Cervellini in fuga, Milano, Mondadori, 2015; AA.VV., Cervelli in gabbia. Disavventure e peripezie dei ricercatori in Italia, a cura di Augusto Palombini e Marco Bianchetti, Roma, Avverbi Editore, 2005. Secondo una ricerca condotta nel 2010 dall’Icom (Istituto per la competitività) sui proventi da brevetto, negli ultimi vent’anni l’Italia avrebbe perso circa 4 miliardi di euro. 10. Un primo e importante passo per contrastare questo fenomeno è il «Progetto Natta», intitolato a Giulio Natta, premio Nobel per la Chimica 1963, che prevede lo stanziamento di 36 milioni di euro nel 2016 e di 75 nel 2017 per la chiamata diretta dei cervelli in fuga, con l’assunzione di 500 professori ordinari e associati. Per una vibrante critica alle

«Cattedre del merito Natta», ritenute lesive dell’autonomia universitaria, vedi A. Schiesaro, Così l’Università perde autonomia, in «Il Sole - 24 Ore», 30 ottobre 2016. 11. Vedi E. Serra, Cervelli all’estero (ma non in fuga). Pronti a trasferirsi 6 Millennial su 10, in «Corriere della Sera», 6 aprile 2016. 12. A. Ariu e M.P. Squicciarini, The balance of brains: Corruption and high-skilled migration, Embo Reports 14, 2013. Oggetto della ricerca è la mobilità dei lavoratori laureati di età superiore ai 25 anni (in 123 Paesi tra il 1990 e il 2000) in relazione all’indice di corruzione stilato dall’International Country Risk Guide. 13. Secondo un’accreditata corrente di pensiero, la fuga dei cervelli italiani sarebbe dovuta al fenomeno dell’overeducation, ovvero le nostre università «producono» più dottori di ricerca di quelli che il nostro mercato del lavoro è in grado di assorbire, e così quelli in esubero si trasferiscono all’estero. Anche ammesso che sia unicamente questa la causa e che non concorrano piuttosto altri fattori come la mancanza di investimenti, l’assenza di meritocrazia o le rigidità del sistema, ne consegue comunque la necessità di potenziare un settore tanto cruciale per lo sviluppo. L’alternativa sarebbe perdere o limitare il numero dei ricercatori, ma in entrambi i casi l’Italia si condannerebbe al declino economico e sociale. 14. No Italian jobs, in «The Economist», 6 gennaio 2011. 15. L. Bianco e P. D’Anselmi, Il vantaggio dell’attaccante, Roma, Donzelli, 2016, p. 56. 16. Ivi, p. 49. 17. Per una carrellata di alcune delle più infelici dichiarazioni dei politici in tema di giovani e precariato vedi S. Mattera, I ministri e le parole incaute. Dai bamboccioni ai mammoni, in «Sky.it», 7 febbraio 2012. 18. Sulle dichiarazioni e le successive scuse del ministro vedi E. Bianchini, Poletti: «Giovani italiani vanno all’estero? Alcuni meglio non averli tra i piedi». Poi le scuse. Utenti su Twitter: «Dimissioni», in «ilFattoQuotidiano.it», 19 dicembre 2016. 19. Sull’esodo degli imprenditori italiani vedi A. Pasqualetto, Carinzia, rifugio degli italiani, in «Corriere della Sera», 26 gennaio 2017, che approfondisce le cause della moltiplicazione delle aziende italiane che scelgono l’estero: meno tasse, servizi efficienti, fiscalità più leggera, burocrazia meno ostile. 20. A. Mungiu-Pippidi, Corruption: Good governance powers innovation, in «Nature», 18 febbraio 2015. 21. C.A. Brioschi, Il malaffare. Breve storia della corruzione, Milano, Longanesi, 2010, p. 39, cita la lettera di raccomandazione inviata da Cicerone a Bruto nel 46 a.C. a vantaggio di Lucio Castronio Peto: «In qualunque modo lo favorirai farai certo cosa di cui ti dovrai rallegrare e che a me sarà gradita». 22. Quest’ultima affermazione è tratta dal titolo di un recente, interessantissimo saggio

di G. Daluiso, Cambiare il Paese per non dover cambiare Paese, Bologna, Pendragon, 2016. 23. D. Acemoglu e J. Robinson, Perché le nazioni falliscono, trad. it. Milano, il Saggiatore, 2013. 24. T.S. Aidt, Governance regimes, corruption and growth: Theory and evidence, in «Journal of Comparative Economics», 36, 2008, pp. 195-220. Sul tema vedi anche G. Corrado e L. Paganetto, «L’analisi economica della corruzione nel sistema istituzionale», in M. D’Alberti (a cura di), Combattere la corruzione, Soveria Mannelli (CZ ), Rubbettino, 2016, pp. 75 sgg. 25. L’«Indice delle liberalizzazioni» è una pubblicazione annuale dell’Istituto Bruno Leoni di Torino. 26. P. Ormerod, Corruzione e crescita economica: perché la corruzione rende le crisi economiche più gravi, in «Indice delle liberalizzazioni 2016», a cura di Carlo Stagnaro, Torino, IBL Libri, p. 32; il saggio, tradotto da David Perazzoni, era già stato pubblicato con il titolo Corruption and economic resilience: recovery from the financial crisis in western economies su «Economic Affairs», vol. 36, n. 3, pp. 348-355. 27. Sull’argomento vedi L. Grassia, La corruzione allontana gli stranieri. In sei anni –58% gli investimenti, in «LaStampa.it», 8 giugno 2014, in cui si ricorda come l’Italia si piazzi «appena al 65° posto nella graduatoria mondiale dei fattori determinanti la capacità attrattiva di capitali per un Paese». Sui rapporti fra corruzione e investimenti stranieri vedi anche B. Rosa e R. Cantone, Per crescere serve abbattere la corruzione, in «Limes», 11, 2014, pp. 77-83. 28. Il termine desert indica cancellazione della vita, abbandono di un mondo, morte senza speranza di rinascita, e ha fatto la sua prima comparsa nell’accezione citata in un documento firmato «Eurointelligence Professional Daily Morning Newsbriefing», la più autorevole newsletter europea, redatta da giornalisti e analisti finanziari che forniscono quotidianamente il quadro dei singoli Paesi a imprenditori, politici, professionisti, broker e diplomatici. Vedi Gli investitori scappano via, in www.thecronicle.it. 29. Vedi L. Lippi, Ecco perché gli investitori stranieri stanno alla larga dall’Italia, in www.Intelligonews.it, 10 giugno 2014. 30. L’efficace e suggestiva metafora è mutuata da C. Figini e I. Toffanin, Italiani all’estero: il nostro Paese ormai è una diva sul viale del tramonto, in «il Fatto Quotidiano», 24 febbraio 2016, dove fra l’altro si legge: «Il peggio è che riusciamo a essere ancor più trascuranti in merito al futuro. Temo che l’Italia ami poco i propri figli, benché si vanti del contrario. Non investe in nulla che li riguardi. Non semina ma spera di mietere, un giorno, e di fronte al raccolto scarso allargherà le braccia, come davanti all’inevitabile, e dirà (secondo prassi) che non c’è nulla da temere perché abbiamo il Grande Cuore. Fateci caso: c’è sempre il gran

cuore degli italiani a legittimare la nostra cultura furbetta della toppa provvisoria, dei tappi conficcati nelle crepe della diga, del “però alla fine ce la faremo anche stavolta, perché abbiamo un cuore d’oro”». 31. Vedi L. Gaita, Classifica felicità 2016…, in «il Fatto Quotidiano», 16 marzo 2016: «Il rapporto è fondato sull’indagine Gallup (società statunitense che si occupa di ricerche e sondaggi) e si basa sui dati relativi al triennio 2013-2015. È stato chiesto agli intervistati di dare alcune risposte in merito a come valutassero la propria vita, considerando sei variabili: reddito, libertà nelle scelte di vita, assenza di corruzione, aspettativa di vita in buona salute, qualità della vita di relazioni e generosità. Questi criteri possono spiegare il 75% delle differenze di felicità tra gli abitanti del pianeta. Il risultato? Nell’Eurozona Italia, Grecia e Spagna sono tra quelli con il maggior declino di felicità nel corso degli ultimi anni. Il rapporto fornisce indicazioni utili anche a livello europeo, perché aiuta a valutare i progressi delle Nazioni e a comprendere se le differenze tra i vari Stati si stiano riducendo o meno». 32. Per la prima volta, quest’anno si è dato un ruolo specifico alle conseguenze della disuguaglianza nella distribuzione di tale benessere. 33. AA.VV., La condizione giovanile in Italia: il Rapporto Giovani 2016, Bologna, il Mulino, 2016.

VI. La corruzione nella sanità è un omicidio, anzi una strage 1. Per esempio, in Basilicata i posti letto effettivi sono 490 e i medici 580; in Calabria, 3821 e 4240; in Campania, 7486 e 7541; in Sicilia, 7624 e 9369. A queste Regioni meridionali va aggiunto il Lazio, con 7509 posti letto effettivi e 8486 medici. 2. Nel decennio 2004-14, dei 901 procedimenti contro medici e sanitari per lesioni colpose (pari all’1,64% del totale), di cui 85 relativi alla gravidanza, il 40% è stato subito archiviato, mentre fra i 240 giunti a conclusione si sono registrate 2 condanne, un’assoluzione e il 98,8% di archiviazioni. Dei 736 procedimenti contro medici e sanitari per omicidio colposo (pari all’11,18% del totale), il 35% è stato archiviato prima del processo, mentre fra i 117 giunti a conclusione si sono registrate una assoluzione, nessuna condanna e il 99,1% di archiviazioni. 3. Tipica espressione della medicina difensiva è l’altissima percentuale (26,1%) di parti cesarei in Italia, la più alta tra i Paesi Ocse. 4. Nella prima ricerca nazionale sul fenomeno della medicina difensiva, realizzata dall’Ordine provinciale dei medici-chirurghi e degli odontoiatri di Roma, si legge che «il 53% del campione esaminato di medici dichiara di prescrivere farmaci a titolo “difensivo”

e, mediamente, tali prescrizioni costituiscono circa il 13% di tutte quelle uscite dal ricettario. Il dato s’impenna al 73% con riferimento alle visite specialistiche, ove tali prescrizioni ridondanti diventano il 21% del totale effettuato dal singolo medico». Secondo la citata relazione della Commissione parlamentare sugli errori sanitari, «tenendo conto dell’incidenza sulle risorse dello Stato, si può affermare che la medicina difensiva pesa sulla spesa sanitaria pubblica per oltre 10 miliardi di euro, importo di poco inferiore a quanto investito in ricerca e sviluppo nel nostro Paese, e quasi pari alla quota dello Stato per l’anno 2012 dell’Imposta Municipale Unificata». A prescindere dagli aspetti connessi allo spreco di risorse pubbliche, la medicina difensiva riduce indubbiamente la qualità dell’assistenza sanitaria. E non solo perché ricerche diagnostiche inutili rappresentano un costo umano evitabile e costituiscono un vulnus al rapporto tra medico e paziente, ma soprattutto perché il pedissequo attenersi del professionista apprensivo ai protocolli suggeriti e alle linee guida predefinite impedisce in molti casi di somministrare con serenità il trattamento adeguato, che sarebbe imposto dall’esercizio dell’arte medica, sacrificando la salute del paziente sull’altare dell’incolumità giudiziaria. 5. Vedi R. Frignani, Lo scambio di barelle in ospedale: pazienti morti in reparti sbagliati, in «Corriere della Sera», 1° febbraio 2017. 6. G.A. Stella L’esito già scritto e la fine dignitosa negata a Marcello, in «Corriere della Sera», 6 ottobre 2016. 7. I dati sono riportati da A. Galdo, Ultimi. Così le statistiche condannano l’Italia, Torino, Einaudi, 2016, pp. 75 sgg. 8. È l’allarme lanciato il 19 maggio 2016 dal Collegio italiano primari oncologi medici ospedalieri (Cipomo), riunitosi a Napoli per discutere della sostenibilità dei farmaci oncologici innovativi ad alto costo e della prevenzione futura. Al centro dell’attenzione, l’aumento del costo dei trattamenti delle patologie tumorali, che negli ultimi cinque anni hanno fatto registrare un incremento della spesa su base storica del +5,8%, destinato a balzare nel 2018 a +17% e, nel medio periodo, a straripare a valori stimati intorno al +47%. Curare più persone più a lungo, fino a guarirne il 20% in più rispetto agli anni Novanta, comporterà un incremento di spesa. Il rischio di costi fuori controllo riguarda soprattutto i settori emergenti, come la farmacogenomica e l’immunoterapia, aree di trattamento «personalizzato» sui singoli pazienti su cui si concentrano le speranze di miglioramento, vale a dire migliore qualità di vita, sopravvivenza più lunga e, anche, remissione della malattia. Per evitare l’insostenibilità economica, anche nei Paesi a più alto reddito si devono liberare risorse all’interno del sistema sanitario, ottimizzando la nostra capacità di diagnosi e cura, risparmiando sugli sprechi, riformando la complessità amministrativa e abbattendo il numero di miliardi che vanno in fumo a causa della corruzione.

9. Fra il 1990 e il 2007, in Italia il periodo di permanenza in vita dei malati di cancro, anche a distanza di 10-15 anni dalla diagnosi, è aumentato del 14% fra gli uomini e del 9% fra le donne. La sopravvivenza relativa media a 5 anni dalla diagnosi per i soggetti diagnosticati nel 1997-99 è del 49% fra gli uomini e del 62% fra le donne, mentre per i casi diagnosticati nel 1985-87 era, rispettivamente, del 34% e del 51% (AIRTUM Report 2007). Se consideriamo che, nel corso della loro vita, un uomo su due e una donna su tre hanno la probabilità di sviluppare un tumore, se ne deve dedurre che tra i residenti in Italia ci sia oltre un milione di persone che hanno avuto una diagnosi di tumore nei cinque anni precedenti e sono ancora in vita, a cui occorre aggiungere i pazienti cronici sopravvissuti alla fase acuta di altre malattie. Inoltre, secondo i dati Istat più recenti (2011), il 28,9% della popolazione – oltre 17 milioni di persone, quasi un italiano su tre – è affetto da una malattia cronica (diabete, ipertensione, osteoporosi, artrosi-artrite, malattie cardiovascolari, malattie allergiche, disturbi nervosi). Il dato è assai preoccupante perché, se lo sviluppo della medicina ha allungato la vita dei malati cronici, questo non si traduce necessariamente in un miglioramento del loro stato di salute. 10. Insieme a Portogallo, Finlandia e Grecia, l’Italia ha un’elevatissima percentuale di pazienti over 65, a seguito dell’invecchiamento complessivo della popolazione. 11. In sede di presentazione dei nuovi Livelli essenziali di assistenza (Lea), intervenuti nel 2017 a distanza di quindici anni dai precedenti, il ministro Beatrice Lorenzin ha sottolineato il collegamento al nuovo piano vaccini, che aumenta il numero di quelli gratuiti: «I vaccini saranno gratis per tutti e senza pagamento del ticket, perché non sono da considerarsi una cura ma attengono alla prevenzione collettiva della popolazione». Tra le varie attività che entrano nei Lea ci sono tutte le prestazioni di procreazione medicalmente assistita (Pma), compresa l’eterologa, che già veniva passata da alcuni sistemi sanitari regionali ma non da tutti. Poi viene rivisto profondamente l’elenco delle prestazioni di genetica, è introdotta la consulenza genetica e sono inserite prestazioni di elevato contenuto tecnologico, come la adroterapia contro certi tumori, o di tecnologia recente, come la radioterapia stereotassica. Viene anche interamente revisionato il capitolo delle malattie rare: 110 di queste entrano nei Lea, e dunque le famiglie dei malati vengono sollevate dalle spese per le relative prestazioni sanitarie. Inoltre, vengono spostate tra le malattie croniche alcune patologie già esentate come malattie rare, per esempio la celiachia e la sindrome di Down. Infine, c’è un capitolo dedicato ai disturbi dello spettro autistico, che prevede, nel percorso di diagnosi, cura e trattamento, l’impiego di metodi e strumenti basati sulle più avanzate evidenze scientifiche disponibili. 12. La spesa sanitaria è la seconda voce di spesa, dopo quella dedicata alla «protezione

sociale», che assorbe il 40%. La media europea della spesa sanitaria pubblica è, invece, del 15,2%. La spesa sanitaria globale, comprensiva di quella privata, contribuisce per il 9,2% al Pil italiano, rispetto alla media europea del 15,2%. La spesa sanitaria pubblica annuale pro capite è in Italia di 2227 euro annui, rispetto a una media europea di 2975 e al picco tedesco di 4037, mentre quella privata è di 724 euro. 13. Nel suo rapporto Preventing chronic diseases: A vital investment l’Organizzazione mondiale della sanità ha sostenuto che un’azione globale sulla prevenzione delle malattie croniche potrebbe salvare la vita a 36 milioni di persone in pericolo di morte. 14. U. Veronesi, Abbiamo fatto molta strada. Sillabario laico, Milano, Rizzoli, 2016, p. 41, secondo cui le mazzette intascate sugli appalti, il dilagare di consulenze fasulle, la cresta praticata sull’acquisto di farmaci, di protesi e di strumenti diagnostici svuotano i budget degli ospedali e delle Regioni e, indirettamente, determinano tagli sui servizi e sulle prestazioni. I malati cronici e quelli con patologie più gravi sono le prime vittime di questo cancro, che divora ogni anno oltre 5 miliardi di euro. 15. Vedi D. Del Porto, Camorra: appalti truccati ed estorsioni, così i clan si sono presi la sanità, in «la Repubblica», 15 giugno 2016. 16. R. Cantone con G. De Feo, Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese, Milano, Rizzoli, 2015, p. 90. 17. È da notare che la corruzione si sviluppa in maniera diversa al Nord e al Sud. Al Nord è più organizzata e strutturata, come peraltro lo è la sanità stessa, mentre al Sud è molto più parcellizzata, polverizzata, priva di una regia unitaria e di una logica organizzativa. 18. Nei Paesi europei il settore sanitario rappresenta una quota del Pil che varia fra il 3 e l’11%. Uno studio dell’Ocse ha stimato che la corruzione nel settore sanitario ha un costo di 56 miliardi di euro all’anno, cioè di circa 160 milioni di euro al giorno. Per dare un’idea dell’entità delle risorse economiche sprecate, con la stessa cifra si potrebbero vaccinare 3,2 miliardi di bambini nei Paesi in via di sviluppo, finanziare 5,9 milioni di interventi di chirurgia sostitutiva del ginocchio, o acquistare oltre 180.000 monolocali sul Canal Grande a Venezia. 19. Questo sta emergendo anche dal lavoro degli inquirenti, e il caso Lombardia ne è un esempio. Di fronte a lunghissime liste di attesa arrivava puntualmente l’invito a rivolgersi a strutture private, con conseguente raddoppio dei costi per il sistema sanitario nazionale che, oltre alla spesa per tenere aperto un servizio pubblico sottoutilizzato per sfiducia o discredito, deve provvedere al pagamento delle prestazioni erogate in convenzione nel privato. 20. Continua il lento declino della spesa sanitaria italiana, effetto evidente dell’impatto

della crisi economica sul settore, sia in termini di riduzione della spesa pubblica sia di contenimento dei consumi privati. E questo mentre la percentuale della spesa sostenuta dalle famiglie e dai cittadini italiani di tasca propria rispetto alla spesa totale è salita dal 17,5% nel 2010 al 18% nel 2011, ossia più che in Francia, Germania, Regno Unito (e altri Paesi del Nord Europa), ma meno che in Belgio, Finlandia, Grecia, Islanda, Irlanda, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Spagna e Svizzera. 21. Secondo i dati Istat 2015, la media italiana delle persone che rinunciano a curarsi è del 9%, mentre nel Sud sfiora il 13%. Il problema è in gran parte dovuto all’introduzione di ticket e di quote di compartecipazione alla spesa a carico dei cittadini. Nel 41,7% delle famiglie, almeno una persona ha dovuto rinunciare a una prestazione sanitaria. Inoltre, a fronte di 3 milioni di cittadini non autosufficienti, si contano oltre 1,3 milioni di badanti, con una spesa per le famiglie di circa 10 miliardi all’anno. Sul tema vedi E. Soglio, Povertà sanitaria, assistiti 557.000 italiani, in «Corriere della Sera», 10 novembre 2016, che ricorda il ruolo fondamentale del Banco farmaceutico, nato nel 2000 dalla collaborazione tra il ramo sociale della Compagnia delle Opere e Federfarma per consentire alle associazioni caritative e assistenziali di combattere la povertà sanitaria. 22. Dall’estratto del report Corruzione e sprechi in sanità, pubblicato da Transparency International Italia e Rissc nel novembre 2013. 23. Nel Rapporto 2015 della Commissione europea, a cura di Ecorys e Ehfcn, sulla corruzione e gli sprechi nella sanità nei Paesi dell’Unione europea si prende atto che la corruzione nel settore sanitario si verifica in tutti gli Stati membri, anche se la natura e la diffusione delle tipologie di corruzione variano da Paese a Paese. Il Rapporto ha individuato sei tipologie di corruzione nelle aree di assistenza sanitaria prese in esame: 1) corruzione nell’erogazione dei servizi medici; 2) corruzione nell’assegnazione degli appalti; 3) rapporti commerciali illeciti; 4) uso improprio di posizioni di prestigio; 5) richieste di rimborso ingiustificate; 6) truffe e malversazioni relative a medicinali e a dispositivi medici. 24. G. Rossi, Il capitalismo malato non si cura in tribunale, in «Il Sole - 24 Ore», 21 luglio 2013. 25. M. Corradino, È normale… Lo fanno tutti, Milano, Chiarelettere, 2016, p. 89, cita il caso dei responsabili di un centro clinico privato da accreditare che, nella ricostruzione degli inquirenti, si affrettano a spostare le strutture da un’area all’altra del nosocomio, smantellando e ricostruendo interi reparti. Particolarmente eloquente questo brano delle intercettazioni: «Fàmo un po’ de Cinecittà. Ce tocca sbaraccare tutto». E ancora: «E vabbè, tu pensa a smontare un’altra volta il quinto piano, svuotiamo il più possibile, abbiamo già tolto un po’ di gente… e facciamoci il segno della croce». 26. Ci si riferisce alla Determinazione Anac n. 12 del 28 ottobre 2015, sugli incarichi

sanitari, e alla Parte VIII del Piano Nazionale Anticorruzione 2016. 27. Relazione sull’attività dell’Anac relativa all’anno 2015, presentata in Senato dal presidente dell’Autorità il 14 luglio 2016, nella quale si evidenziano 5694 casi di proroga, ben oltre il 203% delle durate originarie. 28. Vedi i dati del Rapporto PIT Salute 2011, a cura di Cittadinanzattiva. 29. A. Galdo, Ultimi, cit., p. 82. 30. La notizia è riportata nell’articolo Giovani medici in corsia per ridurre le liste d’attesa: il Piemonte sperimenta una nuova ricetta, in «la Repubblica», 3 gennaio 2017. 31. Per tale ragione il Piano Nazionale Anticorruzione 2016, elaborato dall’Anac, analizza in modo approfondito il problema dei tempi e delle liste d’attesa (vedi sezione VII, par. 4). L’esigenza di misure volte a rendere trasparenti, nei limiti compatibili con la preservazione dei valori della privacy, è stata poi – almeno in parte – soddisfatta dal d.lgs. n. 97/2016, che ha sancito l’obbligo di pubblicazione dei criteri di formazione delle liste d’attesa. 32. È una delle proposte più significative del decalogo con cui si conclude il volume di S. Bartoccioni, G. Bonadonna e F. Sartori, Dall’altra parte, Milano, Rizzoli, 2006, pp. 237 sgg. È un libro vibrante, nel quale tre medici raccontano la loro esperienza di pazienti, analizzando i paradossi e le inefficienze del sistema sanitario in una prospettiva ricca e inusuale. 33. Vedi il bel libro di A. Falagario (a cura di), L’etica prescrittiva, Roma, Dike, 2015, con Premessa del ministro della Salute Beatrice Lorenzin. Il volume approfondisce importanti e complessi temi che si riferiscono alla responsabilità penale, amministrativa e disciplinare del farmacista, del medico, del veterinario, dell’informatore scientifico e dell’industria farmaceutica, e analizza i reati del codice penale connessi alla vendita e al commercio di medicinali (comparaggio, corruzione e aggiotaggio), nonché i fenomeni della cosiddetta «vendita online» dei farmaci e dell’iperprescrizione dei medesimi. Vengono altresì approfondite le attività di verifica di studi medici e farmacie e le responsabilità collegate al d.lgs. n. 231/2001 in capo all’industria farmaceutica. 34. Il dato è fornito e analizzato da M. Corradino in È normale… Lo fanno tutti, cit., p. 94, dove si sintetizza bene il rapporto patologico tra informatore scientifico e medico in questa frase detta dal primo al secondo: «Lei dottore più ci soddisfa, noi più la soddisfiamo». Nello stesso testo si cita un’inchiesta nel corso della quale si sarebbero scoperti medici pronti a convincere alcune mamme a non allattare in modo naturale, per «spingere» il latte in polvere sponsorizzato dall’informatore di turno. 35. Ogni italiano spende in media 268,6 euro all’anno per farmaci e 682 per cure

mediche. 36. Vedi M. Bocci, Troppi antibiotici inutili e terapie a singhiozzo: ci curiamo tanto (e male), in «la Repubblica», 24 giugno 2016, p. 27. 37. Ce lo ricorda il senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri nella Presentazione del volume di A. Falagario, L’etica prescrittiva, cit. 38. Sull’ancora attuale scia di morte e dolore seguita alla vicenda delle emotrasfusioni con sangue infetto, vedi S. Lucaroni, Vergogna infetta, in «l’Espresso», 24 dicembre 2016. 39. V.M. Gasperetti, Menarini, linea dura dei giudici. Condanna e confisca di un miliardo, in «Corriere della Sera», 10 settembre 2016. 40. In una sequenza significativa del film, durante una pausa tra un appuntamento presso uno studio medico e la telefonata con la capoarea, un venditore anziano incontrato da Bruno in un bar gli chiede: «La conosci la teoria della doppia impossibilità?». Di fronte alla sua risposta negativa, il venditore anziano gli racconta un esperimento fatto su due topi che devono confrontarsi con una «doppia impossibilità»: da un lato, mangiare il pezzo di formaggio elettrificato e morire, dall’altro non mangiarlo e morire di fame. Dopodiché gli domanda: «Sai come va a finire?». Ricevuto un no, gli spiega: «I topi si mangiano tra di loro». 41. La Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio sanitario nazionale ha sottolineato la necessità di norme che valorizzino l’autonomia dell’azienda sanitaria dalla politica, tramite l’individuazione di criteri di selezione del direttore generale conformi a tale obiettivo e basati unicamente sul merito.

VII. La corruzione abita anche nei palazzi di giustizia 1. È noto il pensiero di Friedrich Dürrenmatt secondo cui il giudice è alle prese con una missione impossibile: comprendere la complessità degli uomini, a partire dalla propria. Fra le sue opere più rappresentative, tutte accomunate dall’impaurito stupore di fronte al mistero del giudicare, ci limitiamo a citare Il giudice e il suo boia, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1960; Giustizia, trad. it. Milano, Garzanti, 1986; Le panne. Una storia ancora possibile, trad. it. Torino, Einaudi, 1972. Il contrasto fra l’immensità del potere giudiziario e la debolezza umana del giudice che lo esercita è denunciato anche da André Gide il quale, in Ricordi della Corte d’Assise, trad. it. Palermo, Sellerio, 1994, racconta in modo vivido la sua esperienza di giurato popolare della Corte d’Assise di Rouen nel maggio 1912. 2. U. Betti, Corruzione al Palazzo di Giustizia, Bologna, Cappelli, 1957. 3. L. Fazzo e P. Colaprico, Manager calibro 9, Milano, Garzanti, 1996. Questa è la sintesi della sua carriera criminale nelle parole del primo pentito che ha rotto l’omertà della

’ndrangheta di Platì migrata al Nord: «Io facevo il malavitoso e cercavo di farlo ogni giorno meglio perché la ritenevo una professione come un’altra, anche se andava oltre i limiti della legalità. E ogni giorno cercavo di perfezionarmi nel mio campo come uno che entra in una grossa azienda da impiegato e negli anni, per la sua bravura, brucia tutte le tappe e diventa amministratore delegato. Ce la fa perché ha saputo mantenere i contatti giusti, ha saputo trattare, non si è tirato indietro di fronte ai problemi». 4. L. Fazzo e P. Colaprico, Manager calibro 9, cit. 5. Sulla «Stampa» del 1° dicembre 2016 si dà conto dell’inchiesta condotta dalla Procura della Repubblica di Roma ai danni del giudice per le indagini preliminari di Tempio Pausania (Sassari), messo agli arresti domiciliari, e di due imprenditori con interessi in Costa Smeralda. L’accusa rivolta al magistrato è di corruzione giudiziaria in ragione dei suoi interventi in procedimenti a carico dei due imprenditori in cambio di «regalini», quali le stoviglie per un ristorante di cui il fratello era socio, l’utilizzo di un’abitazione, il prestito di un furgone e la donazione di un’autovettura. 6. Vedi «la Repubblica», edizione Palermo, 22 ottobre 2016, che riferisce delle indagini in corso a Caltanissetta, anche per il reato di corruzione in atti giudiziari, nell’ambito delle quali è stato emesso dalla Procura della Repubblica un decreto di sequestro preventivo ai danni del presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo. L’accusa contesta una gestione non trasparente, protrattasi per oltre un decennio, di un grande patrimonio sottratto a Cosa Nostra, con il coinvolgimento, tra gli altri, di un alto funzionario dello Stato, di un commercialista e di un avvocato che si accaparrava lucrosi incarichi di amministrazione giudiziaria. 7. Sul «Giorno», 5 luglio 2016, si riportano i brani salienti della sentenza di condanna a 4 anni e 8 mesi pronunciata dal gup milanese, a seguito di rito abbreviato, per il reato di corruzione in atti giudiziari consumato attraverso il sistematico aggiustamento di processi in cambio della dazione di mazzette. Sul «Resto del Carlino» del 20 settembre 2016 si dà conto, poi, di un’inchiesta a tappeto che coinvolge la magistratura tributaria bolognese. L’indagine prende le mosse da un’ipotesi investigativa particolarmente grave. Uno dei giudici avrebbe aggiustato i processi tributari dietro il pagamento di mazzette, veicolate attraverso professionisti compiacenti. 8. «la Repubblica», edizione Bari, 11 novembre 2016. 9. «Corriere della Sera», edizione Napoli, 14 ottobre 2016. 10. «Adnkronos.com», 12 ottobre 2016. 11. «Bresciatoday.it», 2 ottobre 2015. 12. «Ravennaedintorni.it», 11 luglio 2014. Nelle intercettazioni, uno dei militari, che sta consumando con il collega la cocaina appena ricevuta, commenta così: «Che cosa ti sei

buttato addosso? Eri tutto bianco, è stato uno spettacolo vederti. Adesso chiamo i Ris». 13. «la Repubblica», edizione Bari, 6 gennaio 2017. 14. «la Repubblica», 13 giugno 2014. 15. «la Repubblica», 7 luglio 1998. 16. «Rainews.it», 27 gennaio 2016. 17. «Today.it», 19 luglio 2016. 18. Le radici morali e gli effetti perversi della corruzione giudiziaria sono descritti con grande efficacia da Gianrico Carofiglio in La regola dell’equilibrio, Torino, Einaudi, 2014. L’avvocato Guido Guerrieri, resosi conto della colpevolezza del suo assistito, un giudice penale corrotto, reagisce così alla difesa di quest’ultimo, incentrata sull’asserita legittimità dei provvedimenti giudiziari per i quali aveva intascato tangenti: «L’articolo 329 ter del codice penale considera reato qualsiasi percezione di denaro o altra utilità da parte di un giudice, a prescindere dal fatto che il provvedimento per cui è stato retribuito sia o no corretto, sia o no condivisibile. L’idea è che quando ci sono i soldi di mezzo l’intero meccanismo sia alterato, che sia impossibile distinguere decisioni corrette da decisioni scorrette. Sono tutte scorrette perché influenzate dall’interesse personale del giudice che fa mercato della sua funzione» (p. 260). 19. J. Grisham, L’informatore, trad. it. Milano, Mondadori, 2016, che narra la brutta storia di un magistrato a libro paga di un’associazione malavitosa, il quale, con la sua compiacenza, ne garantisce gli affari illeciti connessi alla gestione di una casa da gioco. Sulla stessa falsariga si inserisce il romanzo di S. Martini, Il giudice, Milano, Longanesi, 1997. 20. Nel suo celebre Elogio dei giudici scritto da un avvocato (1935), Milano, Ponte alle Grazie, 1999, Piero Calamandrei insegna che la giustizia ha bisogno di fede, anzi è essa stessa «fede nella giustizia». Sull’importanza di una giustizia sana ed efficiente, non solo come fattore etico ma anche come motore dell’economia, si soffermano A. Giunta e S. Rossi, Che cosa sa fare l’Italia. La nostra economia dopo la grande crisi, Roma-Bari, Laterza, 2017, pp. 150 sgg. 21. D. Troisi, Diario di un giudice, Palermo, Sellerio, 2012, con prefazione di A. Camilleri. 22.

Così

A.

Sofri,

Se

un

giudice

è

corrotto,

http://archivio.panorama.it/archivio/Se-un-giudice-e-corrotto.

La

in

«Panorama»,

commistione

tra

il

giudizio laico e quello religioso o morale è sbagliata, ma inevitabile. Osserva Sofri: «Ci sono religioni che figurano Dio come il Giudice della Corte Suprema. All’ingresso dell’inferno, sta il Procuratore generale di quei regni ultraterreni, orribile e ringhioso, che esamina le colpe nell’entrata». 23. Il romanzo di John Grisham I confratelli (trad. it. Milano, Mondadori, 2001) racconta

di una corte di tre giudici corrotti che vengono smascherati, condannati e incarcerati. 24. Ogni sentenza deve invece essere pensata e scritta con l’entusiasmo della prima volta, perché ogni sentenza deve essere un atto volto al bene dell’uomo che ne è il destinatario. Come ha efficacemente intuito Paul Ricoeur, la giustizia è il medium necessario dell’amore. 25. Sulla delicata funzione del giudice, perennemente in bilico fra legalità ed equità, vedi N. Bobbio, Scienza giuridica tra essere e dover essere, in «Rivista internazionale di filosofia del diritto», 45, 1968, p. 484; J. Habermas, Morale, diritto e politica, trad. it. Torino, Einaudi, 1992, p. 17; P. Grossi, Prima lezione di diritto, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 7. Sul tema della «creatività» del giudice vedi, con toni critici, G. Belardelli, Non sono i giudici a poter rendere l’Italia un Paese migliore, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 2016. Anche Pierluigi Battista, nel suo editoriale sul «Corriere della Sera» del 16 gennaio 2017, dopo aver denunciato lo strapotere della magistratura e la «giuridicizzazione» radicale e totale dei rapporti umani, chiede ai lettori se si sentano tranquilli nel mondo del «totalitarismo giudiziario». L’analisi di Battista è lucida, ma, nei casi da lui citati (legge elettorale, stepchild adoption, testamento biologico), a cui se ne potrebbero aggiungere molti altri (risarcibilità del danno da morte, sussistenza del diritto a non nascere se non sano, validità di una clausola di diseredazione, praticabilità di accordi matrimoniali di regolazione preventiva della futura crisi coniugale), la giustizia è chiamata a supplire alle carenze del legislatore o dell’amministrazione. Il deserto normativo fa sì che i magistrati, garanti delle regole del gioco sociale, siano costretti ad assumere il ruolo improprio di creatori delle regole mancanti. Si dirà: è curioso che un ordinamento come il nostro, affetto da conclamata bulimia legislativa, presenti lacune che necessitano, così di frequente, della stampella giustiziale. Eppure si sa che, spesso, una foresta di leggi, commi e codicilli nasconde gravi lacune sul piano delle scelte di fondo e dei valori di riferimento. La «crisi della legge» – nelle molteplici forme di ipertrofia, vaghezza e farraginosità – crea così l’anomalia di giudice

legislatore

o

co-legislatore,

esposto

alla

tentazione

dell’onnipotenza

e

dell’autoreferenzialità. Se il legislatore, come più volte si è detto in queste pagine, evitasse di disciplinare i dettagli inutili della nostra quotidianità e dettasse, invece, poche regole chiare sui nostri veri problemi, la magistratura potrebbe evitare un’impropria azione di supplenza giudiziaria, a cui è costretta contro la sua vocazione e, soprattutto, contro i suoi desideri. E la lotta alla corruzione sarebbe più semplice ed efficace.

VIII. La corruzione politica è un furto di democrazia 1. I. Calvino, Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, in «la Repubblica», 15 marzo 1980 e

ripubblicato dallo stesso quotidiano il 7 ottobre 1992, in piena «Mani pulite». 2. A. Cazzullo, Quel giorno davanti al «Raphaël» che portò Craxi verso l’esilio, in «Corriere della Sera», 30 aprile 2011. 3. Dall’esame, effettuato ex post, dei numeri delle indagini è emerso come non sia stato affatto uniforme l’impegno giudiziario in tutti i distretti; in particolare, in alcuni di essi nel periodo 1983-2002 sono state condotte pochissime indagini in materia di corruzione (in uno soltanto 2!). Per un’accurata ricostruzione di tali dati vedi P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 66 sgg., secondo cui, in particolare, «la repressione della corruzione in Italia tra 1983 e 2002 – nonostante la portata notevolissima delle inchieste, tale da rovesciare un intero sistema politico (forse l’unico processato mentre era ancora in corso), e la risonanza mediatica senza precedenti che ne è seguita – è avvenuta “a macchia di leopardo”, interessando significativamente solo alcuni distretti di corte di appello e lasciando completamente indenni altri» (p. 72). In termini analoghi si è espresso anche D. Pulitanò, La giustizia penale alla prova del fuoco, in «Riv. it. dir. e proc. pen.», 1997, p. 7, secondo cui «le indagini di “Mani pulite” hanno rappresentato un controllo di legalità di inconsueta ampiezza ed efficacia (ancorché “a macchia di leopardo”) in ambiti tradizionalmente “immuni”». 4. In estrema sintesi, la crisi di Sigonella fu un caso diplomatico scoppiato in Italia, nella base aerea di Sigonella, in Sicilia, nell’ottobre 1985, all’indomani della rottura politica fra il presidente del Consiglio italiano, Bettino Craxi, e il presidente americano, Ronald Reagan, circa la sorte dei terroristi palestinesi che avevano sequestrato la nave da crociera italiana Achille Lauro e ucciso un passeggero americano di religione ebraica. Le divergenze fra i due capi di Stato rischiarono di sfociare in uno scontro armato fra i militari e i carabinieri italiani e i reparti speciali delle forze armate statunitensi. Per una ricostruzione puntuale della vicenda vedi A. Nardini e R. Pennisi, Il mistero di Sigonella. Dal diario del Pubblico Ministero, Milano, Giuffrè, 2009. 5. La citazione è tratta dal discorso del 29 aprile 1993 in cui Craxi riprendeva parte degli argomenti già trattati in un altro suo celebre intervento alla Camera, quello del 3 luglio 1992, quando non aveva ancora ricevuto alcun avviso di garanzia. Sui due discorsi tenuti da Craxi alla Camera e sui loro effetti anche sull’opinione pubblica, vedi A. Polito, Il Cavaliere, Craxi e quel discorso da evitare, in «Corriere della Sera», 20 agosto 2013. 6. Ci si riferisce a Francesca Vacca Agusta, un’ex commessa che nel 1974 aveva sposato il conte Corrado Agusta, industriale e costruttore di elicotteri, nonché titolare dell’azienda omonima. Dopo la morte del marito per cause naturali nel 1989, la donna si era legata a Maurizio Raggio che, secondo le indagini, sarebbe stato in rapporti di amicizia con Bettino Craxi. Nel 1994, sia la Agusta sia Raggio vennero raggiunti da un’ordinanza cautelare in

cui si contestava a entrambi di essere prestanome del leader socialista. Rientrata in Italia dopo un periodo di latitanza in Messico, Francesca Vacca Agusta patteggiò una pena di poco inferiore ai 2 anni di reclusione. Sulla vicenda vedi W. Villi, Da commessa a contessa poi Mani pulite…, in «la Repubblica», 10 gennaio 2011; sui rapporti fra Raggio e Craxi vedi anche P. Colaprico, Da amico d’infanzia a prestanome di Bettino, in «la Repubblica», 24 novembre 1995. 7. Sulla figura di Citaristi vedi il ritratto stilato da G. Buccini, L’omino in grigio con 74 avvisi di garanzia, in «Corriere della Sera», 1° dicembre 1993. 8. B. Vespa, Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia, Roma, Rai-ERI - Milano, Mondadori, 1999, p. 177. 9. C.A. Brioschi, Il malaffare. Breve storia della corruzione, Milano, Longanesi, 2010, pp. 4647. 10. Una rilettura interessantissima della vicenda di Gaio Licinio Verre è quella fornita di recente da L. Fazzo, Il corrotto, Roma-Bari, Laterza, 2016. 11. Vedi E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’impero romano, trad. it. Torino, Einaudi, 1967. 12. G. Prezzolini, Storia tascabile della letteratura italiana, Palermo, Sellerio, 2002. 13. In AA.VV., Alle origini della corruzione, prefazione di O. Diliberto e introduzione di F. Spina, Gorgonzola (MI ), Il Settimo libro, 2014. 14. In C.A. Brioschi, Il malaffare, cit., p. 124. 15. Sulla vicenda vedi F. Barbagallo, Storia della camorra, Bari-Roma, Laterza, 2011. 16. Per un interessante viaggio nella corruzione ai tempi del fascismo, vedi M.J. Cereghino e G. Fasanella, Tangentopoli nera, Milano, Sperling & Kupfer, 2016. 17. M. Murgia (Futuro interiore, Torino, Einaudi, 2016, p. 64) analizza le differenze tra società democratica e Stato autoritario, osservando che anche la prima ha bisogno di «innumerevoli gerarchie d’ambito» e di «infinite burocrazie». La gerarchia non democratica ha una logica assoluta e incontestabile: il potere discende dall’alto per diritto di sangue, diritto divino o forza, e quando lo si esercita, lo si fa in progressione verso il basso. La gerarchia democratica, invece, è fondata sul paradosso secondo il quale è l’ultimo gradino della scala sociale, il cittadino con il suo voto, a conferire il potere che subisce. In quest’ultimo modello si formano però infinite burocrazie in cui i liberi cittadini ridiventano sudditi un numero di volte pari a quello dei decisori sociali di cui occorre attendere le deliberazioni. 18. Così riportata da E. Marcucci, Giornalisti grandi firme. L’età del mito, Soveria Mannelli (CZ ), Rubbettino, 2005, p. 425.

19. E. Berlinguer, La questione morale. La storica intervista a Eugenio Scalfari, prefazione di Luca Telese, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016. 20. Un interessantissimo ritratto di Sergio Cusani è quello fatto da G. Turani, Il re delle tangenti, in «la Repubblica», 9 febbraio 1993: «Uno che invece nella “Milan connection” aveva un ruolo a parte, molto defilato, quasi più di Larini, è Sergio Cusani. Bel giovanotto, ex tesoriere del Movimento Studentesco di Mario Capanna, autentico (pare) barone napoletano, allievo del mitico commissionario di Borsa Aldo Ravelli, da sempre vicino ai socialisti (gli si accredita anche una “love story» addirittura con Stefania Craxi) e alla Montedison, ha avuto un ruolo discreto, ma importante, di collegamento fra questi due potentati e più in generale fra il mondo della finanza e il Psi». Sulla figura di Cusani vedi anche P. Colaprico, Ed ecco la storia di Cusani commercialista d’affari, in «la Repubblica», 11 aprile 1993, che lo descrive in questi termini: «“Commercialista d’affari”, questa, ufficialmente, la professione di Sergio Cusani, 44 anni, discendente di una nobile famiglia napoletana. Come commercialista, probabilmente, non ha mai compilato nemmeno un 740. Di affari, invece, ne ha sempre fatti molti. Ha appoggiato Giuseppe Cabassi nel suo tentativo di scalata al “Corriere della Sera”; ha giocato un ruolo di rilievo nel passaggio della Standa dalla Montedison a Berlusconi; è stato gran consigliere di Gianni Varasi e di Salvatore Ligresti. Sempre muovendosi all’ombra del Garofano, visto il vecchio rapporto che, attraverso Sergio Rastelli, lo lega a Claudio Martelli». 21. Di «sistema che salta in diretta televisiva» parla P. Biondani, Cronologia; come è finita, in «Micromega», 2002, 1, p. 265. 22. Nel 1992 Il Moro di Venezia, con al timone Paul Cayard, si aggiudicò la Louis Vuitton Cup, acquisendo il diritto a contendere l’America’s Cup all’imbarcazione statunitense America 3 e diventando così la prima imbarcazione di un Paese non anglofono a poter aspirare al trofeo in 141 anni di storia della Coppa. Nella finale, la barca italiana venne sconfitta da quella statunitense per 4-1. Quell’edizione dell’America’s Cup fu seguita in tv da un vastissimo pubblico, anche di non esperti di vela, proprio per il successo ottenuto dal Moro di Venezia. 23. Sulla vicenda dei 200 milioni versati alla Lega Nord vedi G. Di Feo, Così diedi 200 milioni alla Lega, in «Corriere della Sera», 5 gennaio 1994. 24. Fra i soggetti condannati definitivamente nel corso dei vari tronconi del processo, il consulente del gruppo Ferruzzi, Sergio Cusani (5 anni e 10 mesi), i vertici del Gruppo Ferruzzi, Carlo Sama (3 anni) e Giuseppe Garofano (3 anni), il già segretario amministrativo della Dc Severino Citaristi (3 anni), il già segretario politico della Dc Arnaldo Forlani (2 anni e 4 mesi), il già segretario politico del Pli e ministro della Sanità Renato Altissimo (8 mesi), il già segretario della Lega Nord Umberto Bossi (8 mesi), il già

segretario amministrativo della Lega Nord Alessandro Patelli (8 mesi), il già segretario del Pri Giorgio La Malfa (6 mesi e 20 giorni), il già ministro democristiano del Bilancio Paolo Cirino Pomicino (1 anno e 8 mesi), il già ministro socialista degli Esteri Gianni De Michelis (6 mesi), il già ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli (6 mesi), il consulente Luigi Bisignani (2 anni e 6 mesi) e altri esponenti della politica e del mondo economico; per il leader socialista Bettino Craxi la condanna definitiva non fu mai pronunciata a causa della sua morte. 25. Sono numerosi i casi accertati durante «Mani pulite» di soggetti che, pur appartenendo a una determinata forza politica, avevano raccolto somme di denaro anche per conto di altri partiti. Vedi, per esempio, A. Carlucci, 1992. L’anno che cambiò tutto, Milano, Baldini & Castoldi, 2015, p. 125, che ricorda la vicenda di Luigi Carnevale, consigliere di Metropolitane Milanesi per conto del Pds, il quale aveva riferito ai magistrati milanesi come ogni somma incassata, pari al 3% dell’importo degli appalti assegnati, veniva suddivisa secondo percentuali ben precise: il 50% al Psi, il 25% al Pci e alla Dc; somme minori venivano versate anche al Pri e al Psdi. 26. In termini analoghi, G. Colombo, Stato di diritto e corruzione. I risultati delle indagini milanesi sui reati contro la Pubblica Amministrazione, in «Cassazione penale», 1994, p. 2263, secondo cui «il più delle volte, e comunque per i contratti più importanti, l’accordo illecito è stato concluso tra imprenditori ed esponenti politici, piuttosto che tra imprenditori e pubblici funzionari, i quali erano completamente sottomessi al volere dei politici (traendone regolarmente benefici personali o di carriera)». 27. Il termine «Tangentopoli» compare nel Vocabolario della Lingua Italiana - Il Conciso Treccani, 1998, che ne dà la seguente definizione: «Termine coniato nel 1992 per indicare il sistema di corruzione nel mondo politico e imprenditoriale basato sul versamento di tangenti, e, quindi, lo scandalo conseguente e le relative inchieste giudiziarie». 28. In particolare la Fondazione Res ha pubblicato, a cura di R. Sciarrone, Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Roma, Donzelli, 2011 e Mafie nel Nord. Strategie criminali e contesti locali, Roma, Donzelli, 2014. 29. Del rapporto, pubblicato in www.resricerche.it, dà ampiamente conto S. Di Feo, La mappa della corruzione: ora sono Comuni e Regioni l’habitat dei predatori, in «Repubblica.it», 16 dicembre 2016. 30. Nel rapporto citato (p. 9) si evidenzia come dall’esame delle sentenze della Cassazione i reati di corruzione in senso stretto restano tendenzialmente stabili nel tempo, mentre cala sensibilmente quello del finanziamento illecito ai partiti: in particolare, dal 29% fino al 1994 al 7% nel periodo successivo al 2005. Questi dati vengono altresì confermati (p. 10) dall’esame delle finalità prevalenti delle attività illecite vagliate: le finalità di

finanziamento dei partiti erano pari al 42% nel periodo di «Tangentopoli» e scendono a poco meno del 7% nel periodo successivo. Da questi dati la ricerca trae la conclusione che «le reti che veicolano gli scambi appaiono sempre più “privatizzate”, cioè orientate al perseguimento di vantaggi personali». 31. Per questa definizione di «retrotopia» vedi W. Goldkorn, Viaggio al termine della democrazia, in «l’Espresso», 24 dicembre 2016. 32. Interessantissime e pienamente condivisibili, in questo senso, sono le considerazioni di P. Davigo che, in un’intervista rilasciata a Giuliano Ferrara (Obbedire ai potenti, in «Micromega», 2002, 1, p. 143), ebbe testualmente a dire: «In un sistema di corruzione diffusa … non esiste una reale differenza fra la corruzione a fini personali e la corruzione a fini di lotta politica, perché il denaro investito in tessere false è come se venisse investito in azioni: più denaro dà luogo a più potere, che dà luogo a cariche maggiori, che danno luogo a maggiori entrate di corruzione, in un circuito di investimento economico criminale». 33. Lo afferma testualmente G. Colombo, Stato di diritto e corruzione, cit., p. 2263, secondo cui «gli ammontari complessivi delle tangenti sono stati destinati in parte all’arricchimento personale e, in parte, al pagamento delle spese sostenute dai partiti politici per la gestione ordinaria e per le campagne elettorali». 34. In un’Ansa del 2 febbraio 1999, dal titolo Tutti i numeri di Mani pulite, redatta a sette anni dalla scoperta di «Tangentopoli», si legge testualmente: «Sono 3200 le persone che sono state indagate dal pool di Milano, che ha chiesto 2575 rinvii a giudizio, 1200 rinvii ad altra autorità, ha emesso 577 condanne, di cui 153 definitive, con una gran parte di patteggiamenti e riti abbreviati. Ammontano a 382 le richieste di rogatoria internazionale. (Dati in parte di fine ’96 e in parte del ’98.) La Guardia di Finanza ha accertato (al 31 dicembre ’97) che per reati fiscali legati a “Tangentopoli” sono stati sottratti al fisco 3609 miliardi [di lire], pagati in tangenti o incamerati in fondi neri. Il solo processo “Cusani” riguardava circa 150 miliardi [di lire] in nero che costituivano la “madre di tutte le tangenti”». E si tratta di un riepilogo che riguarda solo le indagini milanesi. Interessanti sono anche i dati forniti da un ricercatore di politica comparata che sta acquisendo il dottorato alla University of California di Los Angeles, R. Asquer, Tangentopoli, «l’inchiesta del secolo» per la politica, in www.linkiesta.it, che ha evidenziato come nell’undicesima legislatura (1992-94) ben 222 fra deputati e senatori furono indagati per reati di corruzione, pari al 23% del totale, e la Procura di Milano, da sola, indagò il 7% dei parlamentari. 35. Ad analoghe conclusioni è giunto P. Davigo, La giubba del re. Intervista sulla corruzione, a cura di D. Pinardi, Roma-Bari, Laterza, 2004, che sottolinea come la corruzione scoperta da «Tangentopoli» abbia provocato un’«alterazione del gioco democratico» e un «devastante effetto per la democrazia».

36. Secondo E.U. Savona, Oltre il diritto penale. Note in materia di lotta alla corruzione, in «Politica del diritto», XXVI, 1995, pp. 570 sgg., il binomio corrotto-corruttore, tipico delle aree geografiche del Centro-Nord, si trasforma, nelle regioni del Centro-Sud, in un sistema di corruzione triangolare, in cui il terzo attore è costituito dalla criminalità organizzata. Sul «patto» stretto fra politica e ’ndrangheta per gestire i fondi europei destinati ai poveri, vedi G. Bianconi e C. Macrì, in «Corriere.it», 3 febbraio 2017. 37. Durante la Giornata mondiale per il contrasto alla corruzione del 9 dicembre 2015, il presidente Sergio Mattarella ha testualmente affermato: «La corruzione è un furto di democrazia. Crea sfiducia, inquina le istituzioni, altera ogni principio di equità, penalizza il sistema economico, allontana gli investitori e impedisce la valorizzazione dei talenti»; la dichiarazione è riportata in «Repubblica.it» in un articolo dal titolo Giornata mondiale contro la corruzione. Mattarella: «Furto di democrazia». 38. Nel discorso del 21 aprile 1993 alla Camera dei deputati, l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato fece specifico riferimento a un cambio di regime in corso, affermando:«È perciò un autentico cambio di regime, che fa morire dopo settant’anni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale». 39. Sui mutamenti intervenuti nella struttura dei partiti politici vedi M. Calise, La democrazia dei leader, Roma-Bari, Laterza, 2016, e G. Galli, I partiti politici italiani (1943-2004), Milano, Rizzoli, 2004. 40. Il fenomeno della «mobilità» degli eletti fra le varie forze politiche viene qualificato dagli osservatori come una nuova forma di «trasformismo». Interessanti in questo senso le considerazioni, sia pure con riferimento ai soli «cambi di casacca» dei parlamentari, di G.V. Lombardi, Il trasformismo alimenta l’antipolitica, in «Il Sole - 24 Ore», 3 agosto 2015, secondo cui «il fenomeno ha assunto, negli ultimi tempi, proporzioni abnormi. In meno di due anni si sono registrati ben 235 cambi di “casacca” (altri se ne profilano) con un’incidenza di quasi il 25% sul totale dei parlamentari eletti … Oggi si parla molto di riforme e di legge elettorale, ma il trasformismo non sembra oggetto di attenzione. Eppure è in gioco la coerenza, nonché la funzione dell’elettore, che conta zero se il suo eletto scappa nel campo avversario, magari per convenienze esclusivamente personali. Non ci si deve meravigliare, poi, se la gente non va più a votare». Per un’analisi complessiva del fenomeno vedi anche I. Diamanti, L’eterno ritorno del trasformismo, in «Repubblica.it», 20 settembre 2010. 41. Le primarie sono una competizione attraverso la quale gli iscritti o i militanti di un partito politico scelgono, esprimendo una preferenza in elezioni organizzate dal partito stesso, chi sarà il candidato del partito (o della coalizione di cui il partito fa parte) a una successiva elezione di una carica pubblica. Si tratta di un istituto nato nel sistema politico

americano (la prima volta in cui si sarebbero svolte le primarie risalirebbe al 1847) e importato in Italia soprattutto dalla coalizione di centro-sinistra a partire dal 2005; sull’istituto, in generale, vedi G. Pasquino e F. Venturino (a cura di), Le primarie comunali in Italia, Bologna, il Mulino, 2009. 42. L’individuazione delle candidature da parte del Movimento 5 Stelle (vedi nota 44) avviene attraverso un voto espresso nell’ambito del blog BeppeGrillo.it; lo specifica chiaramente il punto b) dello statuto del Movimento (in www.beppegrillo.it) che, fra i diritti degli iscritti, indica esplicitamente quello «di partecipare, esprimendo il proprio voto, alle votazioni in rete indette per le decisioni di indirizzo e di rilevanza politica, fra le quali, in particolare, la scelta dei candidati alle elezioni e la determinazione del programma politico da perseguire». 43. Sul ruolo delle fondazioni vedi le interessanti considerazioni di M. Scacchioli, La giungla delle fondazioni politiche: sono 60 quelle attive ma sui conti non c’è trasparenza, in «la Repubblica», 16 aprile 2015, che evidenzia come esse hanno sostituito le correnti interne ai partiti i quali, nel frattempo, hanno cessato di essere i terminali della politica. Le fondazioni, fra l’altro, sono dotate di una regolamentazione «inadeguata», che impedisce di monitorare i finanziamenti ricevuti e le spese effettuate e, soprattutto, da chi arrivano e verso chi viaggiano quei soldi. Sono ben 60 le fondazioni e i think tank nati in Italia dal 1950 a oggi e tuttora operanti, un numero che supera di gran lunga quello dei partiti politici presenti in Parlamento; la metà ha visto la luce fra il 2000 e il 2009, mentre un ulteriore quarto (cioè altre 15) è stato partorito a cavallo dell’ultimo quinquennio. 44. Il Movimento 5 Stelle, organizzazione politica che alle elezioni politiche del 2013 ha ottenuto circa il 25% dei voti e che oggi governa molte amministrazioni comunali, fra cui anche Roma, respinge l’idea di essere qualificata come un partito politico. Nel sito www.beppegrillo.it, nella parte dedicata al «non statuto», si legge (art. 1) che il movimento è una «non associazione» e, come tale (art. 2), non ha alcuna durata prestabilita; e si aggiunge (art. 5) che «non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro. Esso vuole essere testimone della possibilità di realizzare un efficiente ed efficace scambio di opinioni e confronto democratico al di fuori di legami associativi e partitici e senza la mediazione di organismi direttivi o rappresentativi, riconoscendo alla totalità degli utenti della Rete il ruolo di governo ed indirizzo normalmente attribuito a pochi». 45. Il trasferimento di poteri e funzioni dallo Stato centrale agli enti locali (che ha fatto ritenere a qualcuno che il Paese stesse trasformandosi in un sistema federale) si è avviato all’inizio degli anni Novanta, prima con il riconoscimento di una centralità dei Comuni anche attraverso la creazione di un sistema elettorale che ha visto l’elezione diretta dei sindaci, poi estesa, sia pure con alcune differenze, anche ai presidenti delle Province e delle

Regioni, e infine culminata con l’ormai famosa riforma del Titolo V della Costituzione (legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3), che ha modificato soprattutto il riparto di competenze fra Stato centrale e Regioni, ma ha anche ulteriormente riconosciuto il ruolo di Comuni e Province. 46. Sul principio di distinzione fra politica e amministrazione introdotto nel nostro sistema a partire dal 1992 e sul suo collegamento, sia pure indiretto, alle vicende di «Tangentopoli» vedi F. Merloni, Istituzioni di diritto amministrativo, Torino, Giappichelli, 2014, pp. 122 sgg. Sul tema vedi anche E. Galli della Loggia, Dov’è finito il principio d’autorità, in «Corriere della Sera», 7 gennaio 2017. 47. Con l’endiadi «società pubbliche» (o con il suo sinonimo «società a partecipazione pubblica») si indica in modo molto generico qualunque partecipazione di un ente pubblico, primario o derivato, nel capitale di una società; in questo senso, vedi M. Cammelli e A. Ziroldi, Le società a partecipazione pubblica, Rimini, Maggioli, 1999, p. 22. Per un commento al testo unico n. 175/2016, vedi M. Meschino e A. Lalli, Le società partecipate dopo la riforma Madia, Roma, Dike, 2016. 48. G. Napolitano, La logica del diritto amministrativo, Bologna, il Mulino, 2014, p. 83, che, pur non tacendo sull’esistenza di aspetti critici e problematici, evidenzia come l’utilizzo della forma societaria consenta di svincolarle dalla maggior parte delle restrizioni che l’ordinamento pone a carico dell’amministrazione operante in forma burocratica; in termini analoghi, vedi anche F. Caringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, Dike, 2016, pp. 1046 sgg., che evidenzia come la scelta delle forme privatistiche sia dettata dalla maggior efficienza del modello. 49. Il riferimento agli anni Novanta come momento in cui si sviluppa il nuovo sistema delle partecipazioni pubbliche, soprattutto locali, appare concordemente indicato dagli studiosi; vedi G. Napolitano, La logica del diritto amministrativo, cit., p. 81; particolarmente interessanti, in questo senso, sono le considerazioni di F. Merloni, Istituzioni di diritto amministrativo, cit., pp. 154 sgg., che evidenzia come le privatizzazioni e la creazione di società pubbliche siano state funzionali alla logica di aggirare alcuni presidi statali. Secondo i dati indicati dal Mef nel 2014 e riportati nella relazione Patrimonio della P.A. Rapporto sulle partecipazioni detenute dalle amministrazioni pubbliche al dicembre 2012, pubblicata nel sito del ministero, le amministrazioni centrali partecipano, direttamente o indirettamente, in 423 enti, a cui si aggiungono i 17 partecipati dagli enti previdenziali; le amministrazioni locali hanno dichiarato di detenere, direttamente o indirettamente, 35.311 partecipazioni che insistono su 7726 enti, concetto quest’ultimo che fa riferimento a strutture organizzative e modelli giuridici vari e differenziati, in prevalenza, però, società. 50. La frase è esplicitamente riportata, fra i tanti, da L. Fazzo, Borrelli, darwinismo della

corruzione, in «la Repubblica», 7 febbraio 1999; nel medesimo articolo si riporta anche un’analoga frase dell’ex capo del pool milanese, Francesco Saverio Borrelli, secondo cui «attraverso le difficoltà, la specie si rafforza e sopravvivono quelli che sono in grado di resistere alla selezione naturale». 51. In particolare, dal sondaggio emerge che il 42% del campione intervistato ritiene che la corruzione nella politica sia più diffusa oggi, mentre il 44% ritiene che essa sia diffusa allo stesso modo; sommando i due dati, si ottiene che l’86% ritiene che la corruzione nella politica non sia affatto arretrata. Per un esame complessivo del Rapporto, vedi I. Diamanti, Italiani più impauriti e stanchi dei partiti: «Nella politica c’è più corruzione», in «la Repubblica», 7 gennaio 2017; e per un esame dei dati in materia di corruzione, vedi M. Giannini, Se Tangentopoli cambia solo forma, in «la Repubblica», 7 gennaio 2017. 52. Per una precisa ricostruzione delle indagini sul grande evento Expo Milano 2015, di cui si è più volte riferito nelle pagine precedenti, vedi G. Barbacetto e M. Maroni, Excelsior. Il gran ballo dell’Expo, Milano, Chiarelettere, 2015, che dedica alla vicenda un intero capitolo intitolato «Manette» (pp. 105 sgg.). 53. Per un riferimento alla vicenda vedi F. Sarzanini, «Solo 10 mila euro, s’è sprecato. E gli ho fatto incontrare il ministro», in «Corriere della Sera», 23 ottobre 2015, secondo cui tra la dirigente Anas e il politico «c’era un vero e proprio accordo. Lui indica le imprese e le persone da assumere e lei cerca di sistemare il fratello». Per delineare il ruolo che avrebbe avuto l’ex politico raggiunto da ordinanza cautelare, nell’articolo viene citata la circostanza nella quale si sarebbe speso per far incontrare a suoi «clienti» un ministro, assolutamente estraneo, però, alle indagini. 54. Sulla vicenda vedi P. Tagliaferri, Quel labirinto di società per ottenere appalti pubblici, in «ilGiornale.it», 6 luglio 2016, secondo cui l’indagine viene denominata «Labirinto» perché «è un labirinto di società quello utilizzato dal sodalizio per accaparrarsi commesse pubbliche (Inps, Inail, Poste, Enel, Consip, ministeri della Giustizia e Istruzione) e arricchirsi con subappalti fittizi a società create ad hoc. Attività agevolata dai contatti del faccendiere … [RP] e di suo fratello … [G], in grado secondo il gip Giuseppina Guglielmi di arrivare ad “altissime cariche istituzionali”». Di «ragnatela di rapporti» intessuta da faccendieri parla A. Custodero, Organizzazione delinquenziale di privati con ramificazione negli appalti pubblici, in «laRepubblica.it», 4 luglio 2016. 55. Sulla vicenda specifica vedi M. Portanova, Mose, «a Galan stipendio da un milione l’anno e villa ristrutturata», in «ilFattoQuotidiano.it», 4 giugno 2014, nel cui articolo si riporta una parte dell’interrogatorio dell’ex segretaria del presidente della Regione Veneto la quale specificava che i pagamenti ricevuti non erano finalizzati a ricompensare un singolo atto amministrativo, ma erano qualificabili come «uno stipendio». L’ex governatore

del Veneto, divenuto poi parlamentare, ha patteggiato una pena a due anni e dieci mesi di reclusione, pena che ha fatto dichiarare nel 2016 la sua decadenza dal seggio di deputato; vedi G. Pietrobelli, Galan. Camera vota la decadenza. Da Publitalia al Veneto e governo: ascesa e caduta del Doge azzurro, in «ilFattoQuotidiano.it», 27 aprile 2016. 56. A. Mincuzzi e S. Monaci, Tangenti sanità Lombardia: 80 mila euro di tangenti già pagate e le altre, in «Il Sole - 24 Ore», 17 febbraio 2016, in cui si ricorda come le indagini della Procura di Monza avevano fatto emergere alcune società facenti capo al politico raggiunto da

ordinanza

cautelare

che,

attraverso

prestanome,

partecipavano

alle

attività

dell’imprenditrice. 57. Sulla vicenda vedi G. Di Feo, Formigoni, tutti i regali di Daccò, in «l’Espresso», 20 aprile 2012, e P. Biondani e M. Sasso, Tour operator Formigoni, in «l’Espresso», 10 agosto 2012. L’ex presidente della Regione Lombardia, oggi senatore, è stato di recente condannato dal Tribunale di Milano a 6 anni di reclusione per corruzione, ma assolto dall’accusa di associazione a delinquere; vedi E. Randacio, Milano, Roberto Formigoni condannato a sei anni: «Favorì la Maugeri in cambio di regali e vacanze», in «Repubblica.it», 22 dicembre 2016. 58. Nell’ordinanza cautelare emessa dal gip presso il Tribunale di Roma il 29 giugno 2015, nel capo di imputazione n. 23 vengono indicati una serie di esponenti politici e dell’amministrazione come «a libro paga». Uno dei principali imputati del processo in corso davanti al Tribunale di Roma, Salvatore Buzzi, nel corso di un interrogatorio reso il 23 luglio 2015 ai pm di Roma ha dichiarato esplicitamente: «Mi ero fatto carico di 5 assessori, 18 consiglieri comunali e 5 presidenti di municipio»; vedi I. Cimmarusti, Buzzi: «Questi i politici a libro paga», in «IlSole-24Ore.it», 7 agosto 2015. Il Comune di Roma è ora interessato anche da un’inchiesta per reato d’abuso in atti d’ufficio e falso in atto pubblico, che vede indagata la sindaca Virginia Raggi, sottoposta a un interrogatorio fiume in Procura il 2 febbraio 2017. 59. Per la ricostruzione di quanto emerso dalle indagini, vedi «Ho 4 cavalli che corrono col Pd e il Pdl», in «IlTempo.it», 3 dicembre 2014. 60. Interessantissima, in questo senso, è la vicenda descritta nel capo 2) dell’ordinanza cautelare del gip di Roma del 29 giugno 2015, sopra citata, che ricostruisce, contestando il delitto di corruzione, l’attività svolta da un consigliere comunale per ottenere la sostituzione del direttore di un dipartimento del Comune ritenuto non disponibile ad assecondare le richieste del gruppo criminale di riferimento. 61. Vedi Regione Lazio, Fiorito arrestato con l’accusa di peculato: rubati 1,3 milioni, in «ilFattoQuotidiano.it», 2 ottobre 2012, che riporta la prima delle vicende emerse nella Regione Lazio nel 2012 e, in particolare, l’utilizzo indebito dei fondi destinati ai gruppi

politici da parte del tesoriere di uno dei partiti di maggioranza, poi raggiunto da ordinanza cautelare per peculato. 62. Sull’estendersi a macchia d’olio delle indagini sull’utilizzo indebito delle risorse date ai gruppi politici vedi P. Fantauzzi, Regioni, l’esercito dei consiglieri indagati: sono (almeno) 521, in «l’Espresso.it», 16 gennaio 2014. 63. Nell’ultimo periodo sono particolarmente numerosi i casi di amministratori locali raggiunti da ordinanze cautelari per vicende corruttive. Senza alcuna velleità di completezza, ci si limita qui di seguito a indicare alcune delle indagini che hanno visto coinvolti sindaci ancora in carica: in particolare, il sindaco di Maddaloni, in provincia di Caserta (Corruzione, arrestato il sindaco di Maddaloni, in «LaStampa.it», 7 marzo 2016), il sindaco di Abano Terme, in provincia di Padova (Corruzione: arrestato Luca Claudio, appena rieletto sindaco di Abano, in «ilmattinodiPadova.it», 23 giugno 2016), il sindaco di Bova Marina, in provincia di Reggio Calabria (C. Macrì, Calabria: arrestato il sindaco di Bova Marina. Aveva appena aderito al Pd, in «Corriere.it», 7 dicembre 2016), il sindaco di Sperlonga, in provincia di Latina (M. Marangon, in «Corriere.it», 16 gennaio 2017). 64. Un’interessante ed esauriente disamina delle deviazioni patologiche del sistema creatosi con le società pubbliche è quella effettuata da uno dei più famosi giornalisti italiani, S. Rizzo, Rapaci. Il disastroso ritorno dello Stato nell’economia italiana, Milano, Rizzoli, 2009. 65. La frase, estrapolata da un discorso pubblico tenuto nel 2008 dal presidente pro tempore di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo, è riportata da S. Rizzo, Rapaci, cit., p. 16. 66. La relazione della Corte dei Conti per il 2015 ha segnalato che sono ben 988 le società collegate agli enti locali con un numero di addetti inferiore ai membri del cda; sono, invece, 2479 le società con un numero di addetti inferiore a 20 unità. 67. Quanto al fatto che le società in questione potessero non utilizzare per l’assunzione dei dipendenti le regole del concorso pubblico vedi F. Merloni, Istituzioni di diritto amministrativo, cit., p. 155, secondo cui, attraverso lo schema societario, si è reso inapplicabile il principio del reclutamento del personale per concorso pubblico e si è aggirato, in tal modo, il principio di imparzialità e buon andamento. Va segnalato che il governo, con d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 (su cui si tornerà più avanti), ha emanato un testo unico per il riordino delle società pubbliche che contiene disposizioni che dovrebbero incidere su gran parte delle degenerazioni indicate; sull’argomento vedi R. Cantone, Prevenzione della corruzione nel sistema delle società pubbliche: dalle linee guida dell’Anac alle norme del d.lgs. 175 del 2016, in AA.VV., I controlli delle società pubbliche, a cura di F. Auletta, Bologna, Zanichelli, 2017, pp. 17 sgg.

68. Senza alcuna pretesa di completezza, si ricordano le almeno 41 assunzioni giustificate da «decisioni arbitrarie e clientelari» presso l’Ama, l’azienda romana dei rifiuti (I. Lombardo, «All’Ama assunzioni clientelari». Il sindaco Marino: ora licenziamo, in «LaStampa.it», 19 settembre 2015); quelle di «amici, conoscenti e parenti assunti a tempo indeterminato … senza avere le conoscenze tecniche più basilari e, in alcuni casi, piazzati in posizioni di punta» presso l’azienda di trasporti regionali del Lazio (Cotral, così assumevano parenti e amici, in «IlMessaggero.it», 6 febbraio 2015); quella dei figli di un assessore e di un dirigente di una società pubblica di Verona (R. Verzè, Parentopoli bis: assunzioni e lavori: a giudizio in 15, in «L’Arena.it», 12 novembre 2015); quelle presso il Cara di Mineo, struttura esistente in provincia di Catania, di alcuni dipendenti legati ai politici locali

(F.Q.,

Cara

di

Mineo,

cinque

indagati:

«Parentopoli

nelle

assunzioni»,

in

«ilFattoQuotidiano.it», 20 luglio 2015). 69. La vicenda è integralmente raccontata da S. Menafra, Mafia capitale, la relazione punta il dito su Ama: «Gare sospette e bilanci. La responsabilità della politica», in «IlMessaggero.it», 27 luglio 2015. 70. La corruzione politica al Nord e al Sud (vedi, qui, p. 155), p. 10. 71. Ivi, p. 12. 72. A questa conclusione è giunto di recente, per esempio, M. Giannini, Se Tangentopoli cambia solo forma, cit. 73. In Italia si è registrata, per effetto della riforma Letta del 2013 (d.l. 28 dicembre 2013, n. 49 convertito in legge 21 febbraio 2014, n. 13), la graduale abrogazione del finanziamento pubblico diretto dei partiti, unitamente a misure volte a regolare e incentivare il finanziamento privato, quali detrazioni fiscali per le erogazioni liberali in denaro, possibilità di destinare il 2 per mille dell’Irpef a favore di un partito politico, disciplina delle raccolte di fondi. 74. La riforma dei fondi volontari alle forze politiche introdotta dalla legge Letta è partita con molti problemi: i primi dati relativi al 2014 parlano di soli 4 cittadini su 10.000 che hanno deciso di destinare il proprio 2 per mille a una forza politica, parlamentare o extraparlamentare. In totale, sono stati 16.518 i cittadini che hanno scelto di dare il proprio piccolo contributo al partito di riferimento, su una platea potenziale di circa 41 milioni di contribuenti, per una somma complessiva di 325.000 euro; vedi Due per mille ai partiti: il contribuente volta le spalle alla politica, in «LeggiOggi.it», 9 aprile 2015. 75. Nel nostro ordinamento, le fondazioni o associazioni che si occupano di attività politica non hanno alcuna regolamentazione autonoma; a esse si applicano le norme del codice civile (varate nel 1930) che si riferivano a strutture ben diverse; in particolare, come si è detto, non hanno alcun obbligo di pubblicità dei bilanci e, quindi, delle modalità con

cui hanno reperito, e successivamente impiegato, le risorse. Sull’argomento, vedi R. Cantone con G. Di Feo, Il male italiano. Liberarsi dalla corruzione per cambiare il Paese, Milano, Rizzoli, 2015, pp. 105 sgg.; A Pitoni, Fondazioni e associazioni: 65 think tank, poca trasparenza e tante poltrone, in «ilFattoQuotidiano.it», 14 luglio 2015. 76. Il sistema delle primarie non è regolato dalla legge, anche se in Toscana e in Calabria esistono due leggi (rispettivamente la n. 70 del 17 dicembre 2004 e la n. 25 del 17 agosto 2009) che consentono formalmente ai partiti di tenere elezioni primarie per la scelta dei candidati in ambito regionale e delle circoscrizioni locali. Recentemente le primarie sono state spesso oggetto di contestazione e ricorsi sulla loro regolarità: spiccano certamente le primarie svolte a Napoli, che in più occasioni sono state oggetto di contestazioni; a titolo puramente esemplificativo vedi D. Del Porto, R. Fuccillo e O. Lucarelli, Primarie Napoli, guerra di ricorsi tra Valente e Bassolino, in «Repubblica.it», 11 marzo 2016. 77. Per la ricostruzione di come il gruppo criminale si fosse intromesso nelle primarie del Pd vedi F. Sarzanini, «L’ho comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici, in «Corriere.it», 3 dicembre 2014, che riporta un’intercettazione emersa dalle indagini fra Buzzi e Carminati in cui il secondo chiede al primo: «Come siete messi per le primarie?» e l’altro risponde: «Stiamo a sostenè tutti e due… avemo dato 140 voti a G. e 80 a C.». 78. Bindi: liste civiche varco per mafie, partiti non si nascondano, in «Affaritaliani.it.», 31 maggio 2016. 79. Vi è anche un ulteriore aspetto che rende particolarmente pericoloso il politico sponsorizzato da reti corruttive; lo evidenziano D. della Porta e A. Vannucci, Un paese anormale. Come la classe politica ha perso l’occasione di Mani Pulite, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 164, secondo cui questi politici, anziché essere espulsi dal circuito politico-rappresentativo, vedono accresciuto il proprio seguito elettorale, in quanto il loro coinvolgimento in scambi illeciti ne rafforza la reputazione di efficaci protettori.

IX. Cosa fare? 1. Lo dimostra in modo inequivoco il più volte citato indice di percezione della corruzione (Cpi), che non riconosce nemmeno al Paese al primo posto della graduatoria il punteggio massimo pari a 100 ma, tutt’al più, 90; in quella del 2016, il punteggio 90 è stato attribuito ex aequo a Danimarca e Nuova Zelanda. Per un esame della classifica Cpi 2016 vedi www.transparency.it. 2. Ci si riferisce a Singapore che, considerato in passato un Paese particolarmente corrotto, nel 2010 è balzato nelle «zone alte» della classifica di Transparency International e da allora vi staziona stabilmente: nella graduatoria 2016 è al 7° posto, con un punteggio di

84. La politica di contrasto al fenomeno corruttivo messa in campo dal governo di Singapore è diventata un caso di scuola; sul punto vedi M. Salvati, Sconfiggere la corruzione, in www.ilmulino.it, 5 marzo 2012, e, soprattutto, lo studio mirato di C. Landi, Corruzione. Il caso Singapore, in «il Mulino», 2012, 2, pp. 338 sgg. Secondo Landi, sono stati questi quattro mezzi a rendere particolarmente incisiva la politica anticorruzione adottata dal governo di Singapore: l’introduzione di norme in grado di definire in modo adeguato il concetto di corruzione; l’istituzione di un’agenzia anticorruzione forte, indipendente, efficace e unitaria; sentenze rapide della magistratura in grado, dal versante penale, di individuare colpevoli e innocenti e, dal versante civile, di far conseguire alle istituzioni un risarcimento del danno subìto; un’amministrazione efficiente, sollecita e trasparente. 3. Negli stessi termini, M. Salvati, Sconfiggere la corruzione, cit., secondo cui «la lotta alla corruzione dev’essere un obiettivo prioritario del governo, dell’intera classe dirigente, per un periodo di decenni, non di anni: storicamente un periodo breve, certo, ma politicamente molto lungo in democrazia, dove i governi possono cambiare ogni quattro/cinque anni e con essi possono mutare i principali orientamenti politici». 4. Nel sistema penale esiste anche una forma di corruzione fra privati che non è punita nel codice penale, ma è rubricata fra i reati societari dall’art. 2635 del codice civile, che punisce (nella massima parte dei casi, a querela di parte) gli amministratori, i sindaci e i vertici in genere di società private che accettano denaro o altre utilità per compiere (o omettere il compimento di) atti contrari ai loro obblighi di ufficio. Di tale forma di corruzione, scarsamente applicata nella pratica, non ci occupiamo in questo libro, riservando la nostra attenzione alla sola corruzione tradizionale, e cioè quella pubblica. 5. La classificazione tradizionale dei reati di corruzione quali reati solo contro la Pubblica Amministrazione è sempre più oggetto di discussione; non è, infatti, più tanto la Pubblica Amministrazione in sé a essere considerata l’oggetto di tutela, ma soprattutto i valori costituzionali espressi dall’art. 97 di imparzialità e buon andamento (così, G. Fiandaca e E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Bologna, Zanichelli, 2012, p. 232); e, più di recente, si tende a individuare il fondamento dell’incriminazione nella «fiducia dei cittadini» nello Stato e in tutti i pubblici apparati (così, G. Forti, S. Seminara e A. Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Padova, Cedam, 2016, p. 773). 6. Fra gli altri reati previsti nel medesimo capo si ricordano la malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis), l’indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter), la rivelazione e l’utilizzazione di segreti di ufficio (art. 326). 7. Il codice penale indica quali soggetti punibili, a seconda delle funzioni svolte, il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio; trattandosi di distinzioni anche molto complesse, nel testo si userà genericamente il riferimento al pubblico ufficiale per far

riferimento a entrambe la categorie. 8. La corruzione era originariamente punita, soprattutto, in tre diversi reati: la corruzione impropria o per atto di ufficio (art. 318, che puniva il pubblico ufficiale che riceveva una retribuzione per un atto che avrebbe dovuto comunque fare o per un atto che aveva già compiuto, così sottodistinguendosi quella «antecedente» e quella «susseguente»), quella propria o per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319, che puniva il pubblico ufficiale che per omettere o ritardare un atto da compiere, o per compierne uno contrario ai doveri di ufficio, accettava denaro o altra utilità) e l’istigazione alla corruzione (art. 322, che puniva colui che offriva o prometteva denaro a un pubblico ufficiale per fargli porre in essere un atto di ufficio o contrario ai doveri di ufficio). Il privato che partecipa al rapporto corruttivo è punito ai sensi dell’art. 321 c.p. attraverso l’estensione delle pene applicabili al pubblico ufficiale. Dal 1990 era stata introdotta la fattispecie autonoma di corruzione in atti giudiziari (319 ter); con la riforma Severino del 2012, di cui si dirà, la corruzione propria è stata abrogata e sostituita da una «macrofattispecie» (sempre posizionata nell’art. 318) che si riferisce alla corruzione per l’esercizio della funzione. 9. La concussione è punita nell’art. 317 c.p. ed è un’ipotesi speciale di estorsione, commessa da pubblico ufficiale e/o dall’incaricato di pubblico servizio; dal 2012, con la riforma Severino, di cui si dirà, la fattispecie è stata scissa e nell’art. 317 è rimasta l’ipotesi di concussione per costrizione, mentre quella per induzione è finita in una nuova ipotesi di reato (art. 319 quater), rubricata come «induzione indebita». 10. P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia. Percezione sociale e controllo penale, Roma-Bari, Laterza, 2007. 11. In questo senso, P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia, cit., p. 31: «Abbiamo ragione di ritenere che l’aumento vertiginoso degli episodi denunciati registratosi nell’arco di tempo che va dal 1992 al 1996 non derivi da una impennata nella realizzazione di questo tipo di delittuosità, quanto dal fatto che la corruzione a un certo punto è venuta alla luce, attraverso una brusca ed energica contrazione della “cifra nera”». 12. I dati sono ripresi da P. Davigo e G. Mannozzi, La corruzione in Italia, cit., p. 25. 13. Una considerazione di questo tipo è tratta anche da G. Colombo, Lettera a un figlio su Mani pulite, Milano, Garzanti, 2015, p. 79, che racconta un episodio, a suo dire, sintomatico: l’incontro in aereo con un inquisito che gli aveva chiesto: «Dottore, secondo lei quanto avete scoperto della corruzione in Italia?»; lui aveva azzardato una percentuale del 40% e il suo interlocutore, con un sorriso di sufficienza, gli aveva risposto: «Se siete arrivati al 20%, è già tanto». 14. Si è già detto come la natura pattizia del reato tende a rendere molto rara la denuncia dello stesso; e altrettanto rara è la denuncia per i fatti concussivi in cui il privato,

ancorché vittima di una costrizione, ritiene spesso di non voler denunciare per evitare indirette possibili ritorsioni da parte dell’amministrazione. Le indagini di corruzione (anche questo si è già detto più volte) quasi mai partono da ipotesi di reato fin dall’origine indicate come corruzione e, al contrario, spesso prendono l’avvio o da fatti del tutto diversi o dai cosiddetti «reati spia», cioè quei reati che sovente sono preparatori dei fatti di corruzione o servono per occultarli: per esempio, le irregolarità amministrative, per le quali è ipotizzabile il delitto di abuso di ufficio, sono quasi sempre prodromiche alla commissione di una corruzione, così come la creazione di «fondi neri», che consente di ipotizzare il falso in bilancio, serve per formare la provvista anche per pagare «mazzette». Partendo da questi reati e grazie a ulteriori acquisizioni probatorie (costituite da indagini patrimoniali, rogatorie, intercettazioni telefoniche e ambientali, dichiarazioni testimoniali e chiamate in correità di soggetti già imputati), spesso si giungeva, per successivi step, a individuare episodi corruttivi. 15. La riforma dell’abuso di ufficio (art. 3232 c.p.) – pur oggettivamente giustificata a intervenire su una fattispecie considerata troppo ampia e, quindi, a rischio di applicazioni eccessivamente discrezionali – venne fatta con la legge 15 luglio 1997, n. 334: oltre a restringere significativamente la portata della precedente fattispecie, soprattutto quella che faceva riferimento al cosiddetto «abuso patrimoniale», essa prevedeva una pena detentiva massima di tre anni (in luogo di quella precedente di abuso patrimoniale di cinque anni) che non consentiva più né l’emissione di misure cautelari né tantomeno la possibilità di effettuare intercettazioni telefoniche. 16. La modifica della fattispecie di falso in bilancio (art. 2621 c.c.) è stata fatta con il d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61, che ha introdotto, in luogo di un’unica ipotesi di falso in bilancio e al fine di diversificare i fatti in relazione alla diversa organizzazione delle società, una pluralità di fattispecie, alcune delle quali punite come contravvenzione e/o a querela di parte, con pene che escludevano la possibilità non solo di emettere misure cautelari ma anche di effettuare indagini attraverso intercettazioni telefoniche. La fattispecie è stata nuovamente e radicalmente modificata nel 2015, tornando in sostanza al testo ante riforma del 2002, come si dirà poco più avanti. 17. La legge 5 dicembre 2005, n. 251 (nota come ex Cirielli, perché il primo proponente, l’onorevole Edmondo Cirielli, ritirò la sua firma quando il testo venne radicalmente modificato dal Parlamento) introduceva criteri completamente diversi di computo della prescrizione rispetto al passato, in particolare prevedendo che il termine di prescrizione fosse fissato in relazione alla pena massima e fossero ridotti i termini in caso di interruzione del computo. Questa normativa (che prevedeva una deroga con termini computati in maniera molto restrittiva per i fatti di mafia) comportava che, soprattutto per

i fatti di corruzione, vi fosse una contrazione della prescrizione, che poteva ridursi, in alcuni casi, da quindici anni a sette anni e sei mesi. 18. La legge 27 maggio 2015, n. 69 ha sostituito l’art. 2621 c.c. nel testo così come sommariamente indicato nella nota 16 e ha ripristinato un testo analogo a quello antecedente la riforma del 2002; viene punita, in particolare, con la reclusione da uno a cinque anni l’esposizione di fatti materiali rilevanti non corrispondenti al vero o l’omissione di fatti materiali di cui è obbligatoria la comunicazione nei bilanci, nelle relazioni e nelle comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico. 19. L’autoriciclaggio è stato introdotto dalla legge 15 dicembre 2014, n. 186 attraverso l’inserimento nel codice penale dell’art. 648 ter. 20. La legge 27 maggio 2015, n. 69 ha introdotto un comma secondo nell’art. 323 bis del codice penale (adesso rubricato «circostanze attenuanti») che prevede l’attenuante per i delitti di corruzione e induzione indebita. L’attenuante analoga prevista per i reati mafiosi è quella di cui all’art. 8 del d.lgs. 31 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203. 21. Le ipotesi di corruzione previste nel codice penale erano strutturate come una sorta di compravendita che aveva a oggetto un «atto» del pubblico ufficiale e, come si è detto nella nota 8, si distingueva fra corruzione propria (art. 319 c.p.), quando l’atto da emettersi o da omettersi era contrario ai doveri di ufficio, e impropria (art. 318), quando l’atto da emettersi era un atto di ufficio non vietato. Nella pratica era spesso avvenuto che si fossero accertati passaggi di somme di denaro da privati a pubblici ufficiali senza che si individuasse uno specifico atto in essere, essendo tale utilità versata per acquisire la disponibilità

del

soggetto

pubblico;

solo

attraverso

una

complessa

operazione

interpretativa queste vicende potevano qualificarsi come corruzione. La legge 6 novembre 2012, n. 190 (la cosiddetta «legge Severino») ha integralmente sostituito l’art. 318, che oggi punisce «il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa». 22. La legge 27 maggio 2015, n. 69 ha aumentato le pene della corruzione per l’esercizio delle funzioni (art. 318), della corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319), della corruzione in atti giudiziari (art. 319 ter) e dell’induzione indebita (art. 319 quater) e dell’abuso di ufficio (art. 323 c.p.). 23. La legge 6 novembre 2012, n. 190 ha modificato l’art. 317 bis c.p., rubricato «pene accessorie», e ha previsto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, oltre che per i delitti di peculato e concussione, anche per quelli di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio e corruzione in atti giudiziari, stabilendo, però, che nel caso in cui venga, per effetto di attenuanti, irrogata una pena inferiore a tre anni, l’interdizione sia temporanea e, quindi,

per la durata di cinque anni. Un’opzione più rigorosa sarebbe stata quella di prevedere, sempre per i due reati di corruzione sopra indicati, l’interdizione perpetua, da escludersi nel solo caso in cui sarebbe stata applicata l’attenuante della collaborazione di cui al comma 2 dell’art. 323 bis c.p. Il limite, però, che incide notevolmente sull’applicabilità delle pene accessorie, è costituito dalla previsione dell’art. 166 c.p. (modificato dalla legge 7 febbraio 1990, n. 19) secondo cui la sospensione condizionale della pena ha effetti anche nei confronti delle pene accessorie; siccome in passato, con i precedenti limiti di pena, spesso le sentenze di condanna venivano emesse nei limiti per la concessione della sospensione condizionale, risultavano inapplicabili anche le pene accessorie. 24. Per le ipotesi di corruzione è prevista nell’art. 322 ter (introdotto dalla legge 29 settembre 2000, n. 300 e ampliato dalla legge Severino) la confisca del profitto o del prezzo per reato, anche per equivalente (cioè per un valore corrispondente a tale prezzo); nell’art. 12 sexies del d.lgs. 8 giugno 1992, n. 306 convertito in legge 7 agosto 1992, n. 356 (come modificato sul punto dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296) la confisca cosiddetta «per sproporzione» (che consente, nei confronti del soggetto condannato, la confisca dei beni di cui non sia in grado di dare giustificazione e che siano sproporzionati in relazione al reddito). La legge 27 maggio 2015, n. 69 ha introdotto anche un’ulteriore misura patrimoniale, indicata «come riparazione pecuniaria», che prevede il pagamento di una somma pari all’ammontare di quanto indebitamente ricevuto. 25. Anche a seguito di indicazioni provenienti da organismi internazionali, l’originaria fattispecie di concussione, che puniva solo il soggetto pubblico per avere costretto o indotto un privato a dare o promettere un’utilità, è stata scissa dalla legge Severino in due; la costrizione resta nell’art. 317 c.p. e punisce ancora solo il soggetto pubblico; l’induzione finisce in una nuova ipotesi di reato, l’induzione indebita (art. 319 quater), che punisce il pubblico ufficiale che induce il privato, ma punisce anche il soggetto che a seguito dell’induzione versa o promette l’utilità. Nella pratica è risultata particolarmente ostica l’individuazione della differenza fra le due ipotesi, e siccome la seconda prevede anche la punizione del reato, questa incertezza ha finito per essere un disincentivo rispetto alle denunce del privato. Su questo aspetto vedi R. Cantone, I riflessi della legge n. 190 sulle indagini in materia di corruzione, in AA.VV., Corruzione e strategie di contrasto, a cura di F. Cingari, Firenze, FUP , 2013, pp. 121 sgg. 26. È l’auspicio formulato da P. Davigo nell’intervista al «Corriere.it», 13 febbraio 2017. 27. Delle forme di confisca applicabili nel processo penale si è già detto nella nota 24. 28. Secondo la giurisprudenza della Cassazione, in verità, le misure di prevenzione personali, anche quelle patrimoniali del sequestro e della confisca, possono essere applicate

nei confronti di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, a prescindere dalla tipologia dei reati di riferimento; così, Cass. sez. V. 8 giugno 2011, n. 26044 e, di recente, anche Cass. sez. Un. 26 giugno 2014, n. 4880. Con riferimento alla possibilità di applicare la misura di prevenzione patrimoniale per fatti di corruzione vedi Tribunale Roma, sezione misure di prevenzione, 12 maggio 2014, n. 13072014D (decisione confermata da Corte di Appello Roma 28 giugno 2016, n. 152/2016D), che espressamente afferma che «in presenza … di una condotta isolata di corruzione siamo al di fuori dell’area della misura di prevenzione patrimoniale, ma se gli episodi divengono reiterati e rappresentano una condotta di vita abitudinaria da cui la persona trae alimento ricorre una tipica ipotesi di pericolosità che richiede l’intervento della misura di prevenzione per contenere detta pericolosità ovvero per aggredire il patrimonio accumulato». Del caso giudiziario hanno riferito anche i media generalisti; vedi, in particolare, Inchiesta G8: confiscati beni a Balducci e famiglia per 13 mln, in «Repubblica.it», 19 settembre 2014. 29. L’art. 13 del d.lgs. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203 prevede che, per le indagini di criminalità organizzata, per autorizzare un’intercettazione bastino «sufficienti indizi di reato» (piuttosto che i gravi indizi di reato previsti dall’art. 267 c.p.p.) e consente la possibilità di effettuare intercettazioni ambientali anche nel domicilio privato pur se in quei luoghi non si stia svolgendo l’attività criminosa (mentre l’art. 266 c.p.p. consente queste intercettazioni solo se vi è fondato motivo di ritenere che nei luoghi di privata dimora si stia svolgendo attività criminosa). 30. A queste stesse conclusioni giunge Marcello Gallo, accademico dei Lincei, professore emerito di diritto penale all’Università di Roma - La Sapienza, uno dei massimi esperti italiani in materia, secondo cui «il punto è capire quando l’agente si limita a osservare, controllare e contenere il piano criminale concepito o portato a termine da altri. Ma se l’agente in qualche modo contribuisce alla realizzazione del piano, diventa quanto meno complice»; dichiarazione riportata da C. Rizzo, Corruzione, Csm propone gli agenti provocatori, in «Tempi.it», 15 gennaio 2015. 31. Su questo punto vedi nota 17. 32. P. Davigo, intervista al «Corriere.it», cit. 33. Atto Senato 2067. 34. In questa prospettiva, sarebbe particolarmente utile anche l’introduzione delle fattispecie corruttive fra quelle ipotesi in cui, ai sensi dell’art. 132 bis disp. att. c.p.p, è prevista la priorità nella formazione dei ruoli di udienza. 35. Salvatore Satta, Il mistero del processo, Milano, Adelphi, 1994. 36. Cosi l’ex procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati, nell’intervista rilasciata al quotidiano «Il Dubbio» del 18 febbraio 2017, e l’ex magistrato e già sostituto procuratore

della Direzione nazionale antimafia, Alberto Maritati, nella sua intervista alla «Gazzetta del Mezzogiorno» del 14 febbraio 2017. 37. G. Colombo, Lettera a un figlio su Mani pulite, cit., p. 78. 38. La frase è esplicitamente riportata, fra i tanti, da L. Fazzo, Borrelli, darwinismo della corruzione, in «la Repubblica», 7 febbraio 1999. Vedi anche l’impietosa analisi dell’attualità della malattia condotta da P. Davigo in Il sistema della corruzione, Bari-Roma, Laterza, 2017. Secondo Davigo, anche «Mani pulite» non scattò grazie a un sussulto civile, ma a causa della fine dei soldi necessari per l’alimentazione del sistema politico-partitico. 39. Su questo aspetto vanno ricordate le pagine molto amare nelle quali G. Colombo (Lettera a un figlio su Mani pulite, cit., pp. 71 sgg.) racconta come a un certo punto, alla fine degli anni Novanta, il clima del Paese cambiò e dall’entusiasmo dei cittadini si passò prima all’indifferenza e, poi, anche a vere e proprie ritorsioni contro i magistrati (fra cui lui stesso) che continuavano a occuparsi dei dibattimenti scaturiti da «Mani pulite». Ed è in quel nuovo contesto divenuto così difficile che Colombo colloca il famoso discorso di Francesco Saverio Borrelli, già capo del pool e divenuto procuratore generale di Milano, che invitava la collettività a «resistere, resistere, resistere». 40. Non è un caso che molti di questi aspetti siano stati considerati fra le aree di rischio nel Piano della prevenzione della corruzione del 2016 (in www.anticorruzione.it), nel capitolo dedicato alla sanità. 41. Con d.lgs. 19 agosto 2016, n. 175 è stato emanato un testo unico (in cui non si fa mai riferimento, quale obiettivo, al contrasto alla corruzione) per il riordino delle società pubbliche che contiene disposizioni che dovrebbero incidere su gran parte delle degenerazioni indicate; sull’argomento vedi R. Cantone, Prevenzione della corruzione nel sistema delle società pubbliche: dalle linee guida dell’Anac alle norme del d.lgs. 175 del 2016, in AA.VV., I controlli delle società pubbliche, a cura di F. Auletta, Roma, Zanichelli, 2017, pp. 17 sgg. 42. Secondo S. Cassese, Una burocrazia del merito, in «Corriere della Sera», 14 agosto 2015, «una burocrazia indipendente e preparata, non scelta dai membri del corpo politico tra i propri fedeli, sarà capace di condizionare il politico di turno, ricordandogli i suoi limiti, e di mettere finalmente in sintonia lo Stato con la società, che lo vede oggi come un nemico, indolente, costoso e invadente». Sull’ importanza della cultura del merito come antidoto (anche) alla corruzione vedi M. D’Alberti, I due nemici da combattere: i corrotti ed il degrado istituzionale, in Id. (a cura di), Combattere la corruzione, Soveria Mannelli (CZ ), Rubbettino, 2016, p. 19 e, per una più ampia riflessione sugli effetti negativi di una scarsa cultura del merito, R. Brigati, Il giusto a chi va. Filosofia del merito e della meritocrazia, Bologna,

il Mulino, 2015. 43. Sul punto vedi F. Giavazzi, Alla radice della corruzione: l’assenza di concorrenza, in www.treccani.it, secondo cui sono i «mercati privi di concorrenza a creare il terreno fertile sul quale si sviluppa la corruzione. Il motivo è il seguente. La scarsa concorrenza è il prodotto di norme e regolamenti che proteggono le imprese che operano in un mercato impedendo ad altre, più efficienti, di entrarvi e produrre con costi inferiori, o, a parità di costi, con una qualità superiore. … Più elevata è la rendita, maggiore è il numero di attori economici che hanno un incentivo a corrompere perché il premio cui si accede tramite la corruzione è particolarmente ricco». Al rapporto fra concorrenza e corruzione ha fatto cenno anche il presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, Giovanni Pitruzzella, nella relazione del 18 giugno 2015, secondo cui «i principali antidoti per combattere il diffondersi della corruzione – vera e propria tassa occulta per il sistema economico – sono una concorrenza effettiva, la certezza del diritto e la sburocratizzazione in modo tale da ridurre i margini di discrezionalità degli interventi dei poteri pubblici nella sfera economica»; la dichiarazione è riportata da P. Pica, Antitrust: «Concorrenza antidoto alla crisi e alla corruzione», in «Corriere.it», 18 giugno 2015. 44. «La mafia e la corruzione si battono anche con una giustizia civile che funziona.» Lo ha affermato l’attuale ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in un intervento al Forum Ambrosetti, a Cernobbio, aggiungendo che «il governo è convinto che il nesso tra giustizia e competitività sia fortissimo. Per questo abbiamo voluto riportare al centro del dibattito il tema della giustizia civile, perché la lentezza dello Stato nel dirimere la controversia dei privati ha dato spazio anche alla mafia e alla corruzione», in www.italpress.com, 7 settembre 2015. All’importanza di «una giustizia efficiente e tempestiva, chiara nelle sue decisioni, efficace nell’esecuzione … in grado di rendere poco convenienti i comportamenti che, violando le regole, tradiscono la fiducia» ha fatto riferimento il presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, Discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2017, in www.giustizia-amministrativa.it. 45. Il collegamento fra semplificazione normativa e corruzione è stato ribadito in più occasioni; in questo senso, vedi M. D’Alberti, I due nemici da combattere, cit., p. 15; vedi anche Assonime (Associazione fra le società italiane per azioni) che, nel suo paper Le politiche di contrasto alla corruzione: otto linee di azione, pubblicato nel marzo 2015 (e reperibile in www.assonime.it), indica fra le principali attività utili a impedire la corruzione quelle di «semplificare la normativa e migliorare la qualità della regolazione». 46.

Le

fasi

principali

da

seguire

sono:

mappatura

dei

processi

attuati

dall’amministrazione; valutazione del rischio per ciascun processo; trattamento del rischio. Dunque,

devono

seguirsi

le

seguenti

fasi:

definizione

del

contesto

(analisi

dell’organizzazione); definizione delle aree di rischio (obbligatorie/eventuali); analisi del «comportamento» dell’organizzazione (mappatura dei processi che rientrano nelle aree di rischio); identificazione dei rischi; analisi (valutazione) dei rischi; ponderazione dei rischi; trattamento dei rischi (adozione delle misure di riduzione/eliminazione degli eventi a rischio corruzione). L’intera procedura di gestione del rischio richiede la partecipazione e l’attivazione di meccanismi di consultazione, con il coinvolgimento dei dirigenti per le aree di rispettiva competenza. Per maggiori dettagli su contenuto e funzioni del Piano triennale vedi F. Di Cristina, I piani per la prevenzione della corruzione, in B.G. Mattarella e M. Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione. Prevenzione e repressione della corruzione, Torino, Giappichelli, 2013, pp. 91 sgg., e M. De Rosa e F. Merloni, Il trasferimento all’ANAC delle funzioni in materia di prevenzione della corruzione, in R. Cantone e F. Merloni (a cura di), La nuova Autorità nazione anticorruzione, Torino, Giappichelli, 2015, pp. 56 sgg. 47. L’istituto, di derivazione anglosassone (come dimostra il vocabolo inglese che lo identifica e che letteralmente significa «fischiatore» o «utilizzatore di fischietto», per indicare l’abitudine del poliziotto di quartiere inglese, il bobby, di richiamare in presenza di un fatto illecito l’attenzione dei presenti fischiando), è stato introdotto con non pochi limiti nel nostro sistema, con l’unica funzione di tutelare la riservatezza nei confronti di chi denuncia ed evitare il rischio di azioni di mobbing nei suoi confronti; sull’argomento in generale vedi R. Cantone, La tutela del whistleblower; l’art. 54 bis del d.lgs. n. 165/2011, in B.G. Mattarella e M. Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione, cit., pp. 243 sgg. Con il d.l. n. 90/2014, destinatario delle segnalazioni è diventata anche l’Anac. Sulle modalità attraverso cui può essere effettuata la segnalazione e sui presupposti per l’applicazione della disposizione, l’Anac ha emanato apposite linee guida, in particolare la determina n. 6/2015, reperibile in www.anticorruzione.it. 48. Secondo M. Savino, La trasparenza amministrativa, in AA.VV., Corruzione e strategie di contrasto, cit., p. 34, «ovunque nel mondo, per i funzionari corrotti, una buona legge sulla informazione rappresenta una minaccia considerevole». 49. N. Bobbio, Il potere invisibile e la democrazia, in Id., Il futuro della democrazia, Torino, Einaudi, 1986, p. 175. 50. L’inosservanza degli obblighi imposti dalle norme comporta sia, soprattutto, sanzioni di natura disciplinare e di responsabilità dirigenziali, sia sanzioni amministrative pecuniarie e accessorie, in caso di omissioni di specifici obblighi di comunicazione e di pubblicazione. 51. L’inconferibilità, per sua natura, non comporta un’esclusione permanente dal conferimento dell’incarico, ma solo per un certo periodo (il cosiddetto «periodo di

raffreddamento»), che si ritiene utile a ripristinare le condizioni soggettive che possono garantire l’imparzialità del funzionario; su questo aspetto vedi F. Merloni, Il regime delle inconferibilità e incompatibilità nella prospettiva dell’imparzialità dei funzionari pubblici, in «Giornale di diritto amministrativo», 8-9, 2013, p. 808. 52. Sulla ratio delle cause di incompatibilità e di inconferibilità vedi G. Sirianni, La necessaria distanza tra cariche politiche e cariche amministrative, in «Giornale di diritto amministrativo», 8-9, 2013, pp. 816 sgg. 53. Sulle funzioni di vigilanza e sull’apparato sanzionatorio previsto dal d.lgs. 39/2013 vedi B. Ponti, La vigilanza e le sanzioni, in «Giornale di diritto amministrativo», 8-9, 2013, pp. 821 sgg. 54. Per maggiori riferimenti alla tematica vedi E. D’Alterio, I codici di comportamento e la responsabilità disciplinare, in B.G. Mattarella e M. Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione, cit., pp. 211 sgg. 55. Sull’istituto del pantouflage vedi B. Ponti, Le modifiche all’art. 53 del testo unico sul lavoro alle dipendenze della p.a., in B.G. Mattarella e M. Pelissero (a cura di), La legge anticorruzione, cit., pp. 185 sgg. 56. Sull’Alto commissario per la lotta alla corruzione vedi, qui, p. 171, nota 2. 57. Sulla Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche vedi, qui, p. 171, nota 2. 58. Con l’art. 5 del d.l. 31 agosto 2013, n. 101, convertito in legge 30 ottobre 213, n. 125, si è cambiata la denominazione dell’organismo in «Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche», con una modifica che, pur simbolica, voleva rimarcare, anche agli occhi dell’opinione pubblica, quale fosse la nuova mission istituzionale dell’ente, e si è intervenuti sui requisiti e sulle modalità per essere nominati componenti del Consiglio. Si è richiesto, in particolare, che i componenti fossero scelti fra esperti di elevata professionalità, anche estranei alla Pubblica Amministrazione, con comprovate competenze in Italia e all’estero, sia nel settore pubblico che in quello privato, di notoria indipendenza e attestata esperienza in materia di contrasto alla corruzione, di management e misurazione della performance, nonché di gestione e valutazione del personale. Per garantire loro maggiore indipendenza si è aggiunto che non dovevano rivestire al momento della nomina incarichi pubblici elettivi o cariche in partiti politici o in organizzazioni sindacali, e non dovevano nemmeno aver rivestito tali incarichi nei tre anni precedenti. Per quanto riguarda il meccanismo di nomina, se ne è individuato uno particolarmente rafforzato e in parte diverso fra presidente e componenti: il primo, nominato su proposta del ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione, di concerto con il ministro della Giustizia e il ministro dell’Interno; i secondi, su proposta

del ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione; per tutti è necessaria una delibera del Consiglio dei ministri e il parere favorevole delle commissioni parlamentari competenti, espresso a maggioranza di due terzi, prima che la nomina venga recepita in un d.P.R. Infine, si è stabilito che i componenti restino in carica 6 anni (e, quindi, oltre la durata massima di una legislatura) e non possano essere riconfermati. 59. L’Autorità nazionale anticorruzione, al momento dell’emanazione del decreto Madia, era senza un ruolo organico e con appena 20 addetti, ma provenienti da comandi di altre amministrazioni. 60. Così, espressamente, M. Clarich, Corruzione: il rischio dei cali di tensione, in «Guida al diritto», 3, 2015, p. 1, che evidenzia anche il collegamento fra le norme del decreto Madia (che si occupava di riforma della P.A.) in materia di anticorruzione e gli scandali Expo e Mose. 61. Con il decreto Madia, l’Autorità cambia ancora il nome, perdendo ogni riferimento alla valutazione e alla trasparenza e assumendo anche l’acronimo ufficiale di Anac; per un esame più approfondito di tutte le varie e significative competenze attribuite all’Anac dal decreto Madia vedi R. Cantone, La prevenzione della corruzione ed il ruolo dell’ANAC , in M. D’Alberti (a cura di), Combattere la corruzione, cit., pp. 25 sgg. 62. L’Unità operativa speciale è stata istituita con la Delibera Presidente Anac n. 101 del 25 giugno 2014, presente sul sito istituzionale dell’Anac nella parte dedicata all’Expo; a essa si rinvia integralmente per individuare le modalità e i criteri di funzionamento. Sul potere di controllo sugli appalti del grande evento Expo 2015 vedi M. Giustiniani, Autorità nazionale anticorruzione, nuove forme di controlli sui contratti pubblici, in F. Caringella, M. Giustiniani e O. Toriello (a cura di), La riforma Renzi della Pubblica Amministrazione, Roma, Dike, 2014, p. 163; per maggiori dettagli su come sono stati articolati i controlli sugli appalti, vedi anche R. Cantone e B. Coccagna, I poteri del Presidente dell’Anac nel d.l. n. 90, in R. Cantone e F. Merloni (a cura di), La nuova Autorità nazione anticorruzione, cit., p. 100. 63. D.P.C.M. 27 agosto 2015. 64. L’art. 32 del d.l. 17 ottobre 2016, n. 189 convertito in legge 15 dicembre 2016, n. 229, all’art. 32 prevede il controllo dell’Anac sulle procedure del Commissario straordinario nominato per il terremoto e richiama espressamente l’art. 30 del decreto Madia sui controlli Expo. 65. La vigilanza collaborativa, originariamente introdotta dall’Anac nel proprio regolamento di vigilanza, è oggi esplicitamente prevista nell’art. 213 del codice dei contratti (d.lgs. n. 50/2016). 66. In sede di conversione del d.l. n. 90, è stato ampliato l’ambito soggettivo della norma

anche ai «concessionari di lavori pubblici» e ai «contraenti generali». Tale inclusione ha consentito all’Autorità di richiedere la misura di straordinaria e temporanea gestione del Consorzio Venezia Nuova con riferimento alla concessione per la realizzazione del Mose. La richiesta e il decreto prefettizio di commissariamento del 1° dicembre 2014 sono reperibili sul sito istituzionale dell’Anac nell’apposita sezione «Misure straordinarie - art. 32, d.l. 90/2014». 67. Nello specifico sono state previste tre tipologie di misure di diversa «intensità». Le prime, regolate dal comma 1 dell’art. 32, prevedono che il presidente dell’Anac, in presenza di fatti gravi e accertati, possa proporre al prefetto competente, alternativamente: di ordinare il rinnovo degli organi sociali sostituendo il soggetto coinvolto e, ove l’impresa non si adegui nei termini stabiliti, di provvedere alla straordinaria e temporanea gestione dell’impresa appaltatrice limitatamente alla completa esecuzione del contratto d’appalto oggetto del procedimento penale; oppure di provvedere direttamente alla straordinaria e temporanea gestione dell’impresa appaltatrice limitatamente alla completa esecuzione del contratto di appalto oggetto del procedimento penale. Ulteriore misura è quella introdotta dal comma 8 dell’art. 32, che prevede una misura di impatto più soft per la governance societaria, ovvero quella del «sostegno e monitoraggio», destinata a trovare applicazione nei casi in cui l’ingerenza nei fatti corruttivi sia stata di minore intensità. In questo caso il presidente propone, sempre al prefetto competente, la nomina di esperti che forniscano prescrizioni operative alla società e che la guidino verso una revisione organizzativa e gestionale improntata alla trasparenza. In ultimo, al comma 10, sono contenute disposizioni nel caso in cui l’impresa aggiudicataria o concessionaria della commessa pubblica sia stata raggiunta da interdittiva antimafia. In tali casi, a differenza che per le misure previste dai commi 1 e 8 dell’art. 32, la norma prevede che il procedimento venga avviato di propria iniziativa dal prefetto, il quale è tenuto a darne comunicazione al presidente dell’Anac, e a disporre una delle misure previste dall’art. 32, ove sussista l’urgente necessità di assicurare la prosecuzione del contratto o il suo completamento; per maggiori dettagli sulla diversa tipologia di misure e sulle applicazioni concrete vedi A. Salerno, Le misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio introdotte con l’art. 32 del d.l. n. 90 del 24 giugno 2014, in «Nuovo diritto amministrativo», 2, 2015, pp. 61 sgg. 68. Sulle ragioni per cui questo istituto può essere applicato vedi Protocollo di Intesa Anac - Ministero dell’Interno sottoscritto il 15 luglio 2014, paragrafo 3, rubricato «Orientamenti interpretativi per l’applicazione delle misure straordinarie di gestione e sostegno delle imprese di cui all’art. 32 del d.l. n. 90/2014», p. 5, consultabile su www.anticorruzione.it. 69. In dottrina, si è parlato anche di una «Super-Autorità specializzata nel contrasto

della corruzione in tutte le sue forme» e focalizzata nel «settore delle commesse di diritto pubblico». Così, M. Giustiniani, Autorità nazionale anticorruzione…, in F. Caringella, M. Giustiniani e O. Toriello, La riforma Renzi…, cit., p. 161. 70.

Il

rapporto

del

Greco

è

pubblicato,

fra

gli

altri,

su

www.dirittopenalecontemporaneo.it; per un commento giornalistico sul rapporto, vedi M. Mongiello, Consiglio d’Europa: troppi conflitti di interessi, in «l’Unità», 20 gennaio 2017. 71. L’Ocse ha predisposto due rapporti sulle attività di controllo effettuate dall’Anac sugli appalti Expo, in particolare del 18 dicembre 2014 e del 30 marzo 2015; entrambi sono consultabili in www.anticorruzione.it. I controlli sugli appalti Expo sono stati ripresi negli High level principles dell’Ocse del 2015, reperibili sia sul sito dell’organizzazione internazionale sia sul sito istituzionale dell’Anac. 72. Vedi Service central de prévention de la corruption (SCPS ), Rapport 2017, La documentation française, 2016, cap. V, pp. 279 sgg. 73. In termini critici, soprattutto sull’eccessivo carico di funzioni affidate all’Anac, vedi S. Cassese, Conoscere la corruzione, in «Il Sole - 24 Ore Domenica», 19 febbraio 2017; e, dello stesso Cassese, l’intervista rilasciata al «Foglio» il 24 gennaio 2017. 74. Giudizi positivi sull’attività di prevenzione dell’Anac sono stati espressi da varie personalità del mondo istituzionale e culturale: dal presidente del Senato, Pietro Grasso (intervento del 15 luglio 2016, introduttivo della relazione annuale Anac), al governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco (Corruzione problema enorme. Anac cruciale, in www.ansa.it, 15 luglio 2015), al ministro dell’Interno, Marco Minniti (che nell’intervento all’Università di Palermo del 16 febbraio 2017 ha definito l’Anac «un’infrastruttura fondamentale del Paese»), al presidente di Transparency Italia, Virginio Carnevali (nelle dichiarazioni rese a margine della presentazione del Cpi 2016), a magistrati autorevoli come l’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati (nella già citata intervista al «Dubbio» del 18 febbraio 2017). 75. Sul punto vedi la Relazione al Parlamento per l’anno 2015, presente su www.anticorruzione.it. 76. Sulle modalità concrete con cui sono stati redatti i Piani triennali di prevenzione della corruzione vedi la Relazione al Parlamento dell’Anac per l’anno 2014, pubblicata su www.anticorruzione.it; sul rischio che questi adempimenti fossero sentiti come meramente burocratici vedi A Payno, Il principio di trasparenza alla luce delle norme anticorruzione, in S. Costantino e A. Cuva (a cura di), Le radici istituzionali della corruzione sistemica e dell’azione di contrasto, in «Sicurezza e scienze sociali», 2016, p. 43. 77. Per tali ragioni, l’Anac, nel corso del 2015, ha predisposto due segnalazioni a

governo e Parlamento ritenendo opportune varie modifiche normative al d.lgs. n. 39/2013; in particolare, Atto di segnalazione n. 4, del 10 giugno 2015, relativo a «Proposte di modifica, correzione e integrazione della normativa vigente in materia di inconferibilità e incompatibilità degli incarichi amministrativi», e Atto di segnalazione n. 6, del 23 settembre 2015, relativo a «Proposte di modifica alla disciplina in tema di inconferibilità di incarichi “amministrativi”, per condanna penale, contenuta nel d.lgs. n. 235/2012 e le antinomie rispetto alle previsioni in tema di inconferibilità, per condanna penale, previste dal d.lgs. n. 39/2013».

Entrambe

le

segnalazioni

sono

consultabili

sul

sito

istituzionale

www.anticorruzione.it, nella sezione «Osservazioni e segnalazioni a Governo e Parlamento». 78. Vedi, da ultimo, M. Ainis, Il circolo vizioso delle leggi (e dei libri), in «la Repubblica”, 21 febbraio 2017, secondo cui troppe norme finiscono per incidere sulle altre norme, disinteressandosi della vita reale. 79. Si tratta della quarta valutazione sopra citata; per un riferimento alla carenza della normativa sul conflitto di interessi vedi SG, Il consiglio d’Europa bacchetta l’Italia: servono limitazioni ai giudici in politica, in «Il Messaggero», 20 gennaio 2017. 80. In senso critico circa la scelta del legislatore di escludere dall’applicabilità delle regole anticorruzione i funzionari politici, vedi F. Merloni, Il regime delle inconferibilità e incompatibilità nella prospettiva dell’imparzialità dei funzionari pubblici, cit., p. 807. 81. A. Pitoni e G. Velardi, Finanziamento ai partiti. Camera vota legge che elargisce fondi senza controlli. M5S protesta, lancia banconote in Aula, in «ilFattoQuotidiano.it», 9 settembre 2015, in cui si legge: «La casta colpisce ancora. E si fa la sanatoria con 319 sì e 88 contrari. In barba alle delibere adottate dagli Uffici di presidenza di Camera e Senato che, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, avevano “congelato” l’erogazione della tranche del finanziamento pubblico che i partiti avrebbero dovuto incassare prima della pausa estiva. Avrebbero, appunto. Perché due mesi fa la commissione che si occupa del controllo dei bilanci – istituita dalla legge del governo Letta che elimina progressivamente il finanziamento fino all’azzeramento nel 2017 – si era dichiarata impossibilitata a svolgere le dovute verifiche sui bilanci 2013 e 2014 per mancanza di personale». 82. Ci si riferisce alle vicende che hanno riguardato l’onorevole Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, imputato e condannato in primo grado per appropriazione indebita dei fondi del suo partito. 83. Un disegno di legge sul funzionamento dei partiti è stato presentato alla Camera dei deputati il 31 marzo 2015 (C. 3004, Fontanelli e altri), approvato in prima lettura l’8 giugno 2016 e inviato al Senato dove, a quanto è dato sapere, non sarebbe stato calendarizzato; sul contenuto di questo d.d.l. vedi Nuova Legge sui partiti: cosa cambia in 7 punti, in

www.altalex.it. 84. La Camera dei deputati ha previsto in via volontaristica un codice etico, approvato il 12 aprile 2016, ma, secondo quanto si apprende dai media, solo una minoranza dei deputati avrebbe fatto le dichiarazioni previste; così, T. Mackinson, Conflitto d’interessi, la Camera ha il Codice etico ma nessuno se n’è accorto: tre deputati su quattro non rispondono, in «ilFattoQuotidiano.it», 25 gennaio 2017. 85. È l’auspicio di M. Corradino, È normale… lo fanno tutti, Milano, Chiarelettere, 2016, p. 141. 86. Ci si riferisce al Foreign Agents Representation Act del 1938 e al Lobbying Act del 1946, riformato nel 1995, oltre a un codice di autodisciplina stilato dalla commissione etica per l’American League of Lobbyist, che regolamentano in modo minuzioso le comunicazioni fra privati e amministratori pubblici volte a ottenere misure o proposte di provvedimenti che favoriscono determinate persone o categorie. Le lobby sono obbligate a rivelare pubblicamente le loro attività, mentre i lobbisti sono tenuti a registrarsi in liste pubbliche, al pari dei loro clienti, e a consegnare rapporti semestrali sulla loro condotta; sull’argomento vedi R. Brancoli, In nome della lobby, Milano, Garzanti, 1990 e Il ministero dell’onestà. Come gli Stati Uniti si difendono dalla corruzione pubblica e come potrebbe farlo l’Italia, Milano, Garzanti, 1993, in cui vengono analizzati gli sforzi prodotti contro la corruzione dalla democrazia americana, che ha adottato rigorosi codici di comportamento per i parlamentari, per i politici con responsabilità di governo e per i pubblici dipendenti, e ha creato una «burocrazia dell’onestà», composta da 9000 funzionari, incaricati di far rispettare i codici e di applicare sanzioni disciplinari a chi li viola. 87. Gli obiettivi indicati dalla Commissione europea sono: 1) l’istituzione di un registro pubblico dei lobbisti; 2) l’apertura al pubblico del processo legislativo; 3) l’obbligo per i parlamentari di rendere pubblici gli incontri con lobbisti e gruppi di interesse; 4) l’introduzione di un Freedom of Information Act che garantisca anche l’accessibilità delle informazioni sull’attività di lobbying; 5) la regolamentazione del fenomeno delle «porte girevoli», con l’introduzione di «periodi di attesa» durante i quali gli ex governanti e burocrati non possono svolgere attività di lobbying presso le istituzioni per le quali hanno operato in precedenza; 6) l’elaborazione di linee guida e codici di condotta dei lobbisti; 7) la promozione di un giornalismo investigativo che consenta la miglior conoscenza del fenomeno; su questo tema vedi Transparency International Italia, Raccomandazioni al Parlamento e al governo italiano per una efficace regolamentazione delle attività di lobbying, in www.transparency.it. 88. In termini analoghi, G. Colombo, Lettera a un figlio su Mani pulite, cit., pp. 81 sgg. 89. Nella classifica Cpi 2016 l’Italia è al 60° posto, con un punteggio di 47, guadagnando

una posizione rispetto al 2015 e ben nove rispetto al 2014.

Ringraziamenti

Ogni libro è il frutto di un lavoro corale, è un respiro collettivo. La scrittura, in sé, è interazione, ricerca, viaggio, conoscenza. E il tempo che accompagna la stesura e la revisione di un libro è fatalmente scandito da incontri, dialoghi, dibattiti che forniscono a chi scrive stimoli, dubbi, riflessioni, in taluni casi anche folgorazioni. Questo libro non fa eccezione. Anzi, l’ampiezza e l’interdisciplinarità del tema «corruzione» – in bilico fra etica e legalità, diritto ed economia, politica e giustizia, prevenzione e repressione – ci ha imposto una costante azione di confronto e contaminazione non solo con molti giuristi di valore, ma anche, e soprattutto, con numerosi esponenti di mondi lontani dal nostro. Sono troppi per pensare di farne l’elenco, che incapperebbe in omissioni imperdonabili. Li abbracciamo tutti, coralmente. Ognuno di loro sa quanto sia stato prezioso il suo contributo, fondamentale il suo incoraggiamento, unico il suo supporto. Desideriamo ringraziare di cuore la casa editrice per aver condiviso con entusiasmo un progetto ambizioso e complesso. Francesco Anzelmo, direttore editoriale della Saggistica Mondadori, è stato un compagno di viaggio meraviglioso, capace di seguire, con competenza e affetto, tutti i passaggi della lunga gestazione. Il suo sorriso british e la sua ironia leggera hanno stemperato problemi e difficoltà, fin da quando, nel corso di un ormai lontano e rovente pranzo estivo, decidemmo tutti insieme di mettere in cantiere il progetto e discutemmo con ardore dell’«anima» della ricerca. Sarebbe meraviglioso se queste pagine fossero succulente come le pietanze romane di quel soleggiato mezzogiorno di fine giugno. L’ottimo Roberto Armani ci ha messo a disposizione, ogni secondo, la sua competenza e il suo rigore nella revisione editoriale del testo. Un ringraziamento speciale va alle nostre mogli, capaci di accettare, con amore e dolcezza, l’insopportabile irritabilità degli scrittori in cerca di ispirazione.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.librimondadori.it La corruzione spuzza di Raffaele Cantone e Francesco Caringella © 2017 Mondadori Libri S.p.A., Milano Ebook ISBN 9788852079757 COPERTINA || ELABORAZIONE DA IMMAGINI © 123RF

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Frontespizio Il libro Gli autori La corruzione spuzza I. La corruzione fa male a tutti La corruzione è il «male assoluto»? L’atteggiamento ondivago dell’opinione pubblica I numeri della corruzione Non basta l’indignazione, è necessaria la consapevolezza degli effetti negativi La corruzione peggiora ogni giorno le nostre vite e ruba il futuro ai nostri figli II. La corruzione uccide il territorio Un Paese civile non dovrebbe avere bisogno di eroi La corruzione genera bruttezza… … e semina morte L’Italia è meravigliosa, ma fragile La terra dei fuochi e l’ecocidio perfetto La difesa del territorio tra repressione, prevenzione e trasparenza III. Dalla corruzione nelle opere pubbliche alle opere pubbliche finalizzate alla corruzione Tangenti, donne e stellette I numeri di un fenomeno che ha superato il livello di guardia Dalla corruzione episodica al sistema corruttivo Lo sviluppo dei cartelli illegali L’avvento del «facilitatore» La nuova corruzione: il caso «Mafia Capitale» La mafia uccide meno, ma corrompe di più La corruzione per la corruzione: le opere pubbliche interminabili e inutili Le cause della corruzione negli appalti pubblici e la sfida del nuovo codice degli appalti IV. La corruzione ci rende più ignoranti Avremmo mandato Dante in cattedra? Bologna, città natale della prima università europea Le università italiane bocciate senza appello Un sistema corrotto non investe sul capitale umano e uccide il merito La piaga dei concorsi pilotati I riflettori della magistratura sull’università Un popolo di santi, poeti, navigatori… di figli, nipoti, cognati… Il trionfo del «familismo amorale» Noi siamo cultura V. La corruzione fa scappare i cervelli italiani e tiene lontani gli investitori stranieri Storie di italiani che scappano Più corruzione, meno talenti Un Paese corrotto non attrae investitori stranieri L’Italia, una bellezza sfiorita? VI. La corruzione nella sanità è un omicidio, anzi una strage Le fauci della malasanità Inefficienza della macchina sanitaria e costi della corruzione Casi emblematici di sanità piegata ai soldi e alle ambizioni Perché la sanità attrae la corruzione Cause e forme della corruzione sanitaria Alcuni fatti valgono più di milioni di parole Il problema nevralgico delle liste d’attesa Farmaci, vite umane e venditori di medicine Il diritto alla salute è davvero un diritto fondamentale dell’uomo? VII. La corruzione abita anche nei palazzi di giustizia Una storia di corruzione, di morte e di fragilità «Credimi, è stato un momento di follia. Ma non sono un corrotto» Il diavolo fa le pentole, ma non le fotocopiatrici Il tarlo della corruzione insidia anche la giustizia amministrativa e quella tributaria La corruzione aggredisce anche le forze di polizia La giustizia è fede nella giustizia «Corruzione al Palazzo di Giustizia» VIII. La corruzione politica è un furto di democrazia Due simboli di «Mani pulite»: Bettino Craxi e Severino Citaristi Politica e corruzione: «Nihil novi sub sole?» Il processo Enimont, la madre di tutte le tangenti La politica come fine ultimo della corruzione dei politici Il passaggio alla Seconda Repubblica Le «nuove forme» della corruzione della (e nella) politica La pericolosità della «nuova corruzione» IX. Cosa fare?

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Obiettivi, tempi e ricette Il primo pilastro: la «repressione» Il secondo pilastro: la «prevenzione» Il terzo pilastro: l’«educazione» L’Italia ce la può fare

Note Ringraziamenti

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