La vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses 9788858695500

Un volume che ricostruisce in modo sorprendentemente realistico la vita di tutti i giorni in un periodo lontano e pieno

993 179 2MB

Italian Pages 321 Year 2018

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD FILE

Polecaj historie

La vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses
 9788858695500

Table of contents :
Indice......Page 321
Frontespizio......Page 5
Il libro......Page 3
L’autore......Page 4
Cronologia......Page 7
Prefazione. di Jean Yoyotte......Page 8
Introduzione......Page 11
I. L’abitazione......Page 18
II. Il tempo......Page 38
III. La famiglia......Page 51
IV. Le occupazioni domestiche......Page 74
V. La vita in campagna......Page 104
VI. Le arti e i mestieri......Page 132
VII. I viaggi......Page 163
VIII. Il faraone......Page 183
IX. L’esercito e la guerra......Page 210
X. Gli scribi e i giudici......Page 236
XI. L’attività nei templi......Page 257
XII. I funerali......Page 281
Abbreviazioni principali......Page 309
Bibliografia......Page 311

Citation preview

Il libro

I

n Egitto al tempo di Ramses II giardini e palazzi dorati si stagliano accanto

a capanne grigie e case di mattoni crudi, dove le pietre e i metalli preziosi vengono imitati con la pittura.

Nei campi il sicomoro dalla vasta chioma e le tamerici abbelliscono con le loro macchie verdi il nero della terra arata; e poi risate, canti e musica riempiono gli appartamenti reali, mentre per le strade si incontrano schiavi con fagotti sulle spalle, artigiani e donne civettuole che amano adornarsi. La storia si intreccia con la leggenda, ma basandosi su reperti archeologici, iscrizioni e antichi papiri, Montet dipinge un brillante quadro della valle del Nilo del tempo, quando il volto di Ramses è scolpito ovunque nella pietra. Dai gesti più semplici ai riti più elaborati, dai costumi ai valori di un popolo solare, amante della vita ed estremamente devoto, che non si tira indietro di fronte al lavoro perché teme la carestia e ben conosce il valore di una terra unica al mondo. Per la prima volta un volume ricostruisce in modo sorprendentemente realistico la vita di tutti i giorni in un periodo così lontano e pieno di fascino: un appassionante viaggio tra i profumi e i colori dell’antico Egitto, all’epoca del suo massimo splendore e del suo faraone più grande.

L’autore PIERRE MONTET

(1885-1966) è stato un noto egittologo francese. Ha partecipato

ed è stato direttore di vari scavi archeologici, contribuendo alla scoperta di numerose necropoli e tombe egizie, tra cui la tomba di Psusenne II a Tani e le tombe regie di Biblo, con una serie di antiche iscrizioni. Nel corso della sua carriera accademica è stato professore di Egittologia presso l’Università di Strasburgo e il Collège de France di Parigi.

Pierre Montet

LA VITA QUOTIDIANA IN EGITTO AI TEMPI DI RAMSES (1300-1100 a.C.)

La vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses

Cronologia

Periodo arcaico:

3100-2700 circa a.C.

Antico regno:

2700-2200 circa

Primo periodo intermedio:

2200-2000 circa

Medio regno:

2000-1750 circa

Secondo periodo intermedio:

1750-1550 circa

Nuovo regno:

1550-1070 circa

• XVIII dinastia:

1550-1295 circa

• XIX-XX dinastia (epoca ramesside):

1295-1070 circa

Terzo periodo intermedio:

1070-745 circa

Età tarda:

745-332 circa

• XXVI dinastia saitica: Epoca tolemaica:

672-525 332-30 a.C.

Prefazione di Jean Yoyotte

Una nuova ristampa di un’opera a quasi mezzo secolo dalla sua prima edizione non è una circostanza molto diffusa, in un campo delle scienze storiche che, come gli altri settori dell’orientalismo, ha conosciuto un enorme arricchimento dal punto di vista della documentazione e un radicale rinnovamento dei metodi e delle problematiche, nella seconda metà del XX secolo. La scelta di pubblicare questa ristampa si giustifica innanzitutto in base al successo grazie al quale L’Egitto ai tempi di Ramses è stato tradotto in una ventina di lingue e ristampato tante volte nel corso degli anni. La relativa «vecchiaia» del manoscritto consegnato dall’archeologo che aveva scavato Tanis, allora (1946) futuro professore al Collège de France ma già stimato per il suo stile, ha prodotto uno scarto sempre crescente rispetto allo stato delle fonti e degli studi. Ciò ha richiesto un notevole aggiornamento bibliografico, a cura di Guillemette Andreu, che permetterà al lettore di accedere a messe a punto e a raccolte di illustrazioni che gli consentiranno di cogliere de visu le immagini scolpite e dipinte della vita quotidiana degli antichi Egizi che le parole di Pierre Montet avevano saputo animare meravigliosamente. Il talento di scrittore di questo egittologo consiste in un’arte di raccontare nella quale abitualmente Montet impegnava tutta la sua scienza multiforme ma anche la sua fantasia, e le sue fantasie hanno segnato una tappa nella storia della divulgazione egittologica come in quella del mestiere di storico dell’Antichità. In campo propriamente scientifico, l’opera di Montet è stata segnata da un elemento di carattere relativamente raro, troppo raro presso gli studiosi: una inclinazione a marciare fuori dai sentieri battuti, che talvolta si spingeva fino alla provocazione. Nei suoi libri rivolti ai profani, come nei suoi articoli specialistici e nei corsi che tenne al Collège de France, che si rivolgesse al grande pubblico come ai colleghi, preferì le esperienze dirette, i luoghi personalmente frequentati, le iscrizioni da lui copiate, i testi letti e riletti sugli originali alla consultazione o compilazione indiretta delle interpretazioni e commentari altrui. I migliori passi – e ce ne sono molti – di una vita in Egitto ai tempi di Ramses da cui l’autore, seguendo il ritmo della sua vita e dei colori delle sue

fonti, parte saggiamente in viaggio verso altri regni e altre epoche sono il frutto in molti casi dell’avventura personale di uno scavatore ed epigrafista appassionato ma anche di un amante delle lettere francesi classiche. La generazione di universitari alla quale appartiene ci ha risparmiato il gergo filosofeggiante o sociologizzante. I suoi gusti spontanei lo hanno dispensato dalle pompe accademiche. I testi egizi sono citati assai spesso. La traduzione parola per parola di solito rigorosamente seguita è attenuata grazie a traduzioni in cui è passato il senso profondo che Pierre Montet aveva della situazione concreta o dallo stato d’animo che egli attribuiva all’autore egizio dell’iscrizione geroglifica o del manoscritto ieratico. È noto che Montet aveva sostenuto la sua tesi di dottorato sulle Scene di vita privata nelle tombe dell’Antico Impero. All’università di Lione era stato allievo di Victor Loret, un altro studioso dai percorsi inconsueti che aveva dedicato molti lavori alla storia naturale: censimento della flora, dei quadrupedi domestici e selvatici, dei volatili da cortile e della selvaggina... Aggiungiamo che Montet era nato dalle parti del Pas-de-Calais e che per tutta la vita possedette e condusse personalmente alcuni ettari di vigneto nel Beaujolais. Le sue pagine sulla vita in campagna, e in particolare sulla vendemmia, e quelle dedicate al cibo, comprese le feste, sono di un’autenticità gioiosa che poteva essere solo sua. Come archeologo eseguì i suoi scavi innanzitutto nelle città di Biblo, la Gebel del Libano, il porto dal quale fin dalle prime dinastie partivano i carichi di legname di conifere delle quali l’Egitto era povero. Da giovane aveva rintracciato nel deserto arabico fra il Nilo e il mar Rosso le iscrizioni lasciate dagli imprenditori e dai viaggiatori egizi lungo i letti dello Uadi Hammama. Il capitolo sui viaggi certamente ha goduto dei ricordi delle spedizioni fuori dall’Egitto. Il cantiere in cui Montet si impegnò per più di un quarto di secolo fu Tanis, nella zona nordorientale del Delta. Vi proiettò e prolungò il suo sogno a proposito delle relazioni epiche che avevano unito l’Egitto e le popolazioni semitiche ipotizzando con entusiasmo che quell’enorme sito nascondesse Avaris, la capitale degli Hyksos venuti dall’Asia e la città che Ramses II aveva fatto costruire per sé. Il lettore deve essere avvertito che gli scavi successivi hanno accertato senza possibilità di dubbio che Avaris e la Casa di Ramses si trovavano altrove (a Qantir e Tell el-Dab-’a) ma anche che quando rievoca il lavoro degli orafi e le parures della mummia, Montet lo fa sulla base dell’esperienza ricavata esumando con

le proprie mani le sepolture intatte dei re taniti della XXI e XXII dinastia. Invitiamo anche il lettore ad apprezzare la messa in scena della vita degli abitanti delle paludi, in quanto Pierre Montet è stato il solo egittologo a risiedere, sportivamente, nel Basso Delta umido e fangoso. Si imporranno verifiche opportune nella bibliografia recente a proposito di dettagli nella documentazione e interpretazioni troppo fantasiose. Ma per sognare intorno al quotidiano dell’Antico Egitto e all’entusiasmo di un egittologo perduto fra i testi, le immagini, i siti e i paesaggi, Le vite quotidiane in Egitto ai tempi di Ramses conserva un’efficacia piena di allegria e di scienza in azione.

Introduzione

Gli antichi Egizi erano esigenti con gli dèi e con i morti più che con se stessi. Quando intraprendevano un nuovo «castello di milioni di anni», quando a Ovest di Tebe edificavano le loro «dimore di eternità» si procuravano le pietre, i metalli e i legnami di qualità a caro prezzo e molto lontano. Niente era abbastanza bello o abbastanza solido. Ma vivevano in case di mattoni crudi dove le pietre e i metalli erano imitati con la pittura. I templi e le tombe sono dunque durati più delle città e le nostre raccolte contengono, perciò, più sarcofagi e più stele, più statue di re e di dèi che oggetti fabbricati per i bisogni dei vivi, più testi rituali e libri dei morti che memorie e romanzi. È possibile, in queste condizioni, cercare di descrivere la vita quotidiana dei sudditi del Faraone o si è inevitabilmente costretti alle osservazioni superficiali e ai giudizi puerili 1 dei viaggiatori greci e romani? I moderni tendono a credere che gli Egizi nascessero già avvolti in bende da mummia. Gaston Maspero è arrivato a scrivere, quando ha tradotto i primi canti d’amore, che non è facile rappresentarsi un Egizio innamorato in ginocchio davanti all’amante. In realtà gli Egizi debordavano di riconoscenza verso gli dèi, signori di tutte le cose, perché era bello vivere sulle rive del Nilo; per la stessa ragione hanno cercato tutti i mezzi per godere i beni di questo mondo anche nella tomba. Hanno creduto di riuscirci coprendo le pareti della propria tomba di bassorilievi e pitture che rappresentavano il personaggio sdraiato nel sarcofago mentre viveva nel suo ambiente, con la moglie e i figli, i parenti, i servi, una legione di artigiani e contadini. 2 Egli percorreva tali spazi a piedi o in lettiga o in barca. Poteva limitarsi a godere dello spettacolo, bene insediato in poltrona, mentre tutto davanti a lui si agitava; oppure prender parte all’azione, salire su un canotto, lanciare frecce contro gli uccelli che si nascondevano fra i papiri, arpionare pesci grandi quasi quanto un uomo, spiare le anatre selvatiche e dare il segnale ai cacciatori, inseguire con le sue frecce gli orici e le gazzelle. Tutti i suoi intimi tengono ad assistere alla sua toilette. Il manicure si impadronisce delle sue mani, il pedicure dei suoi piedi, un intendente gli presenta un rapporto e dei guardiani spingono verso di lui

dei valletti infedeli con gesto rude. Musici e danzatrici si preparano a incantare i suoi occhi e le sue orecchie. Nelle ore calde della giornata gioca volentieri con la moglie a giochi che ricordano i nostri scacchi o il nostro gioco dell’oca. Per accontentare il committente, il decoratore non doveva dimenticare nessuna corporazione. La popolazione che si raccoglieva sulle rive delle paludi si dedicava soprattutto alla caccia e alla pesca. Il papiro forniva i materiali necessari per costruire non solo le capanne ma soprattutto i leggeri canotti, così comodi per inseguire attraverso le piante acquatiche i coccodrilli e gli ippopotami, per raggiungere la macchia dove gli uccelli avevano stabilito la loro repubblica e riconoscere i luoghi ricchi di pesci. Prima di partire per una spedizione, i cacciatori avevano provato i canotti e avevano così avuto occasione di misurare la propria forza e la propria destrezza. Incoronati di fiori e armati di una lunga pertica, si gettavano reciprocamente in acqua insultandosi. Di ritorno al villaggio, riconciliati, costruivano e riparavano le reti e gli altri strumenti da pesca, conservavano il pesce e allevavano i volatili. I coltivatori seminavano e aravano, strappavano il lino dal terreno, mietevano e legavano i covoni che gli asini trasportavano al villaggio. Poi i covoni venivano distesi a terra per essere calpestati dai buoi e dagli asini; talvolta anche dai montoni. Si separava la paglia dal grano. Intanto alcuni preparavano le mole mentre altri misuravano il grano e lo portavano nei granai. Appena terminati questi lavori, l’uva era maturata. Bisognava allora vendemmiare, spremere, riempire e sigillare le vaste anfore. Da un capo all’altro dell’anno, i mugnai pilavano e frantumavano il grano e consegnavano la farina ai fornai e ai panettieri. Gli artigiani lavoravano la terra, la pietra, il legno e i metalli. Siccome il legno era raro, gli utensili che servivano agli agricoltori, ai vignaioli, ai birrai, ai panettieri, ai cuochi erano di terracotta. Il vasellame migliore era di pietra. Si usavano soprattutto il granito, lo scisto, l’alabastro, le brecce. Le coppe di piccole dimensioni erano di cristallo. Gli Egizi amavano adornarsi. Dai laboratori orafi uscivano collane, bracciali, diademi, anelli, pettorali e amuleti. Questi gioielli venivano conservati in scrigni. Le fanciulle della casa li toglievano da questi nascondigli e si adornavano per brevi momenti. Scultori eseguivano l’effigie del padrone di casa in piedi o seduto, solo o con la famiglia, nell’alabastro o nel granito, nel legno d’ebano o di acacia. I falegnami fabbricavano armadi e

cassapanche, letti, poltrone e bastoni. Infine i carpentieri tagliavano e facevano a pezzi gli alberi, costruivano barche, zattere, battelli che consentivano di circolare in tutto l’Egitto, centralizzare i raccolti, frequentare i pellegrinaggi di Abido, di Pé o di Dep. Come dice il naufrago, quando era stato gettato nell’isola del buon serpente, non c’è cosa che non vi si trovi. Manca solo tutto ciò che potrebbe rievocare la specifica attività praticata dal padrone della tomba da vivo. Che essa appartenesse a un militare o a un cortigiano, a un barbiere o a un medico, a un architetto o a un visir, ritroviamo ovunque le stesse scene. Solo diversamente distribuite. Le didascalie geroglifiche che le inquadrano o che decorano gli spazi liberi fra un personaggio e l’altro definiscono quasi negli stessi termini le operazioni e riproducono gli stessi dialoghi, le stesse frasi, le stesse canzoni. Testo e immagine, tutto viene dalla stessa fonte. Esisteva dunque un repertorio a disposizione degli artisti incaricati di decorare le tombe. Da questo repertorio ognuno assumeva ciò che preferiva e lo adattava alle proprie esigenze. Esso appare già costituito agli inizi della IV dinastia ed è stato arricchito in tutto il corso dell’Antico Impero da artisti che non erano privi né d’immaginazione né di umorismo. Un passante approfitta dell’assenza del pastore per mungerne la vacca. Un’agile scimmia afferra un servo che allunga la mano verso un paniere pieno di fichi. Un ippopotamo femmina sta partorendo mentre un coccodrillo aspetta pazientemente che il piccolo sia nato per farne un solo boccone. Un ragazzo tende a suo padre un pezzo di corda lungo come la mano per legare un canotto. Si potrebbe prolungare l’elenco. Gli artisti non hanno mai perso di vista lo scopo iniziale che era quello di rappresentare le opere e i giorni di un vasto territorio. Tale repertorio non fu mai sostituito. Se ne ritrovano i temi principali nelle tombe dell’Impero di Mezzo a Beni-Hassan, a Meir, a El Bersheh, a Tebe, ad Assuan. Era ancora in uso qualche secolo dopo, quando i Faraoni risiederanno a Tebe. Vi fece ricorso anche l’artista che decorò all’inizio dell’età tolemaica l’elegante monumento a forma di tempio in cui riposa un notabile dell’antica città degli otto dèi, Petosiris, che da vivo rivestiva la carica di «grande dei cinque», sacerdote di Thoth e di altri dèi. Queste tombe però non rappresentano l’eterna e fastidiosa ripetizione di una decorazione creata e portata alla perfezione all’epoca delle grandi piramidi. A BeniHassan i giochi, le lotte, le battaglie, il deserto hanno molto più spazio che in precedenza. I guerrieri del nomo si esercitano, assediano fortezze. Era già

stato fatto un primo passo. Alle scene del vecchio repertorio si intrecciava adesso la rappresentazione degli avvenimenti che avevano segnato l’epoca della carriera del personaggio che si voleva onorare. Beduini venuti dall’Arabia si erano presentati al governatore del nomo dell’Orice per scambiare una polvere verde con cereali e per dimostrare le loro buone intenzioni avevano offerto una gazzella e uno stambecco catturati nel deserto. Nella tomba di Khnumhotep questa scena è rappresentata fra la caccia e la sfilata delle truppe. 3 Il governatore della Lepre non ha voluto ricevere visitatori venuti così da lontano. Aveva ordinato a scultori che avevano il laboratorio nelle vicinanze della cava d’alabastro di Hat-Nub, non lontano dalla sua residenza, un suo ritratto statuario alto tredici cubiti. Quando la statua venne completata e poté uscire dal laboratorio, venne posta su una specie di slitta. Centinaia di uomini, giovani e vecchi, disposti in quattro file, la trascinarono lentamente fino al tempio per una strada sassosa, stretta, difficile, fra due siepi di pubblico che ne scandivano il procedere con grida e applausi. 4 Nelle tombe dell’Antico Impero, in verità, si assistette a trasporti di statue che però erano a grandezza naturale e destinate a decorare le tombe. Non era mai stato necessario mobilitare tutti gli uomini validi di un’intera provincia: si trattava di episodi banali del culto funerario. Ma Thuty-hotep ha scelto per stupire tutti coloro che avrebbero visitato la sua tomba un fatto assolutamente eccezionale che desse un’idea particolarmente solenne della sua fortuna e del favore di cui godeva presso il palazzo del re. Durante il Nuovo Impero, i temi che adornano le tombe di privati formano tre grandi serie. Innanzitutto, le scene tratte dall’antico repertorio, aggiornate in base ai cambiamenti numerosissimi intercorsi in un millennio. In secondo luogo, scene storiche. Un visir come Rekhmarê, un primo profeta di Amon come Menkheperrê, un fanciullo reale come Huy erano stati coinvolti in avvenimenti importanti. A Sua Maestà erano stati presentati dignitari stranieri, cretesi, siriani o neri che desideravano essere «nell’acqua del re» o che venivano a implorare il soffio della vita. Avevano levato imposte, reso giustizia, sorvegliato i lavori, istruito le reclute. Un tempo si faceva incidere sulla tomba una narrazione della vita del defunto: adesso la si raccontava con le immagini. Infine, la pietà verso gli dèi fino allora trascurata cominciò a ispirare numerose rappresentazioni. Si diede molto spazio alle cerimonie della sepoltura. Ne vedremo tutte le peripezie, la confezione di mobili funerari che potrebbero riempire un intero magazzino, la formazione

del corteo, la traversata del Nilo, la deposizione nella tomba, la gesticolazione delle prefiche, gli ultimi addii. I templi sono un grande libro di pietra in cui tutte le superfici sono state utilizzate dall’incisore. Le architravi, i fusti delle colonne, le basi, i montanti delle porte sono rivestiti di personaggi e geroglifici come le pareti interne ed esterne. Nei templi più completi, che sono quelli di bassa epoca, i testi e le scenette trattano solo di liturgia. Più anticamente il tempio non era solo la casa del dio ma anche un monumento elevato alla gloria del re. Faraone è figlio del dio. Ciò che ha fatto si è realizzato con il permesso del dio e spesso con il suo soccorso. Ricordare i fatti principali di un regno era dunque un modo per onorare gli dèi. Le scene tratte dalla vita del re si intrecciano quindi con quelle religiose. Si ricorderà soprattutto ciò che il re aveva fatto per abbellire il santuario e compiacere gli dèi, una spedizione al paese degli incensi, gli episodi della guerra di Siria, di Libia e di Nubia da cui si tornava carichi di bottino e preceduti da prigionieri che sarebbero diventati schiavi del tempio. Le cacce reali, le sortite del dio in mezzo a una folla ammirata completavano la collezione di immagini il cui interesse era arricchito da testi che ne davano la definizione e trascrivevano le affermazioni, gli ordini, i canti. Descrivere la vita quotidiana dell’antico Egitto è dunque un’impresa di quelle che possono essere condotte a buon fine anche se saremo sempre condannati a ignorare certi aspetti. I monumenti non ci hanno consegnato solo dei bassorilievi e delle pitture, delle statue e delle stele, dei sarcofagi e degli oggetti di culto, il che è già molto, ma documenti di ogni genere. Certamente al mobilio funerario di Tutankhamon o di Psusennes 5 preferiremmo quello di un palazzo di Ramses: in fondo i bisogni del morto erano ricalcati su quelli dei vivi. Più di una volta, del resto, mani pietose avevano deposto nella tomba oggetti che il defunto aveva portato o utilizzato e ricordi di famiglia. È evidente che non potremo attingere a una documentazione che ricopre più di tremila anni senza certe precauzioni. Le cose erano cambiate, anche se forse più lentamente nell’Egitto dei Faraoni che in altre civiltà. Il Nilo, che portava la vita lungo le sue rive, era un signore imperioso e i suoi comandi non variavano. Ma le tecniche, le istituzioni e le credenze e i costumi non erano rimasti immutati. Questa verità che non è contestata da nessun egittologo è però assai trascurata nella pratica. In alcuni lavori recenti, testi di

tutte le epoche sono citati alla rinfusa. Talvolta si tenta di spiegare le oscurità di un testo antico con citazioni di Diodoro o di Plutarco quando non di Giamblico. Si continua a indicare i mesi dell’anno con nomi che sono entrati nell’uso assai più tardivamente. Così si diffonde l’opinione che l’Egitto sia rimasto uguale a se stesso dall’inizio alla fine di una storia interminabile. Per evitare questo rischio bisogna innanzitutto scegliere esattamente un’epoca. Dopo avere eliminato i due periodi intermedi, la lunga decadenza consecutiva alla guerra degli Impuri, la rinascita saitica in cui l’Egitto era veramente troppo occupato a mummificare animali sacri e a copiare libri di magia e il periodo tolemaico che non riguarda solo gli egittologi, l’autore ha pensato di volta in volta al periodo delle grandi piramidi, a quello del Labirinto, ai tempi gloriosi dei Thutmose e degli Amenhotep, a quello intermedio del disco con i raggi che finiscono con delle mani, alla XIX dinastia e alla XX che ne è il naturale prolungamento. Sono tutti periodi affascinanti. L’Antico Impero è la giovinezza dell’Egitto. Vi figura tutto ciò che l’Egitto ha creato di grande e originale. Eppure, noi abbiamo scelto l’epoca di Seti e dei Ramses che si prestava meglio alle nostre intenzioni. È un periodo assai breve, che inizia intorno al 1320 a.C. con un aumento demografico. Gli Egizi volevano garantirsi una progenitura numerosa che avrebbe posto fine alle contese per la successione e avrebbe introdotto più di un cambiamento. Fino allora i signori delle due terre erano stati menfiti o tebani o erano cresciuti nei nomi del Medio Egitto fra Coptos e il Fayum. Adesso per la prima volta il trono di Horo era occupato da uomini del Delta i cui antenati servivano da almeno quattrocento anni un dio che godeva di cattiva fama perché aveva ucciso il figlio: il dio Seth. L’epoca di cui stiamo parlando si concluse intorno al 1100 a.C. con un altro rinnovamento delle nascite grazie al quale l’Egitto congedò definitivamente sia la discendenza di Ramses sia il suo dio. 6 Questi due secoli sono stati illustrati da tre regni magnifici, quelli di Seti I, Ramses II e Ramses III. L’Egitto aveva già un lungo passato dietro di sé. I suoi nuovi signori assicurarono, dopo una crisi abbastanza grave, la pace religiosa che venne turbata solo intorno al 1100. I suoi eserciti avevano riportato vittorie brillanti. Il paese era stato coinvolto dalle vicende delle altre nazioni più che nelle epoche anteriori. Numerosi sono gli Egizi che vivevano all’estero e più numerosi ancora gli stranieri che vivevano in Egitto. I Ramessidi erano stati grandi costruttori. Gli Hyksos avevano distrutto tutto sul loro passaggio. I re tebani non avevano completato

il rinnovamento delle regioni devastate: avevano lavorato molto a Tebe ma dopo l’eresia la loro opera doveva essere ripresa. La sala ipostila di Karnak, il pilone di Luxor, il Ramesseum e Medinet Habu con altri edifici grandi e piccoli rappresentano, nella città dalle cento porte, il contributo più grandioso di Ramses I e dei suoi successori. Essi non trascurarono nessuna parte del loro vasto impero. Dalla Nubia a Pi-Ramses e a Pitum furono fondate molte città e furono ingranditi, restaurati e anche creati molti edifici. Questi monumenti, queste tombe di re e regine, soprattutto dei contemporanei, forniscono una documentazione molto abbondante. Per completarla abbiamo moltissimi papiri che risalgono ai secoli XIII e XII, romanzi, opere polemiche, raccolte di lettere, elenchi di lavori e di operai, contratti, verbali e, più prezioso di tutti, il testamento politico di Ramses III. Ecco le fonti che abbiamo tenuto continuamente sotto gli occhi nel comporre la nostra opera. Ciò non significa che ci siamo vietati di utilizzare fonti più antiche o più recenti. Protestando contro la tendenza, manifestata in molte opere, di considerare l’Egitto come un blocco unico di tremila anni e di applicare a tutta la civiltà dei Faraoni elementi accertati solo per una data epoca, non abbiamo dimenticato che molti usi, molte istituzioni, molte fedi in Egitto hanno avuto una vita lunghissima. Quando un autore classico è confermato da un bassorilievo menfita abbiamo il diritto di credere che almeno su questo punto gli Egizi dell’epoca ramesside si comportavano come i loro antenati e come i loro successori. Abbiamo dunque attinto a tutte le fonti ogni volta che ritenevamo possibile farlo senza inserire falsi colori nel quadro che presentiamo della vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses. 1. Ad esempio Giovenale, Satira XV; Erodoto, II, 35. 2. Montet, Les scènes de la vie privée dans les tombeaux égyptiens de l’Ancien Empire, Strasbourg 1925. 3. Newberry, Beni-Hasan, I, London 1893, tavv. 28, 30, 31, 38. 4. Griffith e Newberry, El Bersheh, I, London 1894, tavv. 13, 17. 5. Carter, The tomb of Tut-Ankh-Amun, 3 voll., London 1923-1933. Montet, Tanis, Paris 1942, cap. VII. 6. Su quest’epoca, si veda Montet, Le drame d’Avaris, Paris 1941, capp. III e IV.

I

L’abitazione

Le città Le città faraoniche ormai sono ridotte a colline di polvere disseminate di cocci di terracotta e frammenti minuscoli. Non dobbiamo stupircene perché città e palazzi erano costruiti in mattoni crudi. Alcuni di essi erano in condizioni meno deludenti quando gli studiosi che avevano accompagnato Napoleone Bonaparte avevano preso i loro rilievi. Nei tempi moderni, molte distruzioni si sono aggiunte a quelle del passato perché gli indigeni non solo hanno continuato a sfruttare il sebakh fra le rovine e a trarne blocchi di pietra ma hanno preso la cattiva abitudine di cercare antichità. Solo di due città possiamo parlare con conoscenza di causa perché sono due città effimere. Fondate in base a una decisione dell’autorità reale, furono abbandonate altrettanto improvvisamente dopo una breve esistenza. La più antica, HetepSanusrit, fu creata nel Fayum per iniziativa di Sanusrit II e durò meno di un secolo. L’altra, Akhetaton, fu la residenza di Amenhotep IV dopo la sua rottura con Amon. I suoi successori vi rimasero fino a quando Tutankhamon ricondusse la corte a Tebe. Sarà dunque utile parlarne prima di iniziare a descrivere le città ramessidi. La città di Sanusrit, chiusa in una cinta muraria che misurava trecentocinquanta metri per quattrocento, era stata concepita per ospitare molte persone in uno spazio ridotto. 1 Un muro robusto divideva lo spazio in due sezioni, una per i ricchi e l’altra per i poveri. Il tempio sorgeva fuori delle mura. La parte povera era attraversata da un viale di nove metri attraversato ad angolo retto da numerose altre strade più strette. Le case erano raggruppate l’una contro l’altra in modo da presentare la facciata dalla parte della strada. Camere e corridoi erano incredibilmente esigui. Il quartiere elegante era percorso da strade spaziose che conducevano al palazzo e agli alloggi dei grandi funzionari, vasti circa cinquanta volte più di quelli popolari. Le abitazioni e le strade occupavano tutto lo spazio. Gli Egizi hanno sempre amato i giardini. Harkhuf, l’esploratore che condusse dalla Nubia, per il suo piccolo sovrano, un nano danzatore, racconta di avere costruito una

casa, scavato un bacino e piantato alberi. Una dama vissuta all’epoca di Sanusrit ci dice, sulla sua stele, quanto aveva amato gli alberi. Ramses III ne piantò dappertutto. Ma qui non era previsto niente per rendere le passeggiate più gradevoli. La residenza di Akhenaton era una città di lusso. 2 Fra il Nilo e i monti si apriva una vasta zona semicircolare. Un viale parallelo al fiume attraversava la città da un capo all’altro tagliando altri viali che conducevano al fiume, alla necropoli e alle cave d’alabastro. Il palazzo ufficiale, il tempio, gli edifici amministrativi, i magazzini formavano il quartiere centrale. Nelle strade, case modeste si alternavano con altre più lussuose che gli archeologi hanno attribuito ai vari membri della famiglia reale. Vasti spazi erano stati riservati a vivai d’alberi e giardini, sia nelle proprietà private sia nei terreni urbani. Gli operai della necropoli e delle cave erano alloggiati a parte, in un villaggio circondato da un muro. La città è stata abbandonata così improvvisamente che non c’era stato il tempo per modificare quanto avevano fatto i suoi primi abitanti. Nelle città che avevano già un lungo passato – di gran lunga le più numerose – regnava invece un’estrema confusione. Men-Nefer, «stabile è la bellezza» – del re o del dio – che i Greci chiamavano Menfi, si chiamava anche Onkh-taui, «la vita delle due terre», Hat-ka-ptah, «il castello del doppio di Ptah», e Nehet, «il sicomoro». Ognuno di questi nomi poteva essere impiegato per indicare l’insieme dell’agglomerato ma in origine essi designavano sia il palazzo reale e i suoi annessi sia il tempio di Hathor, nota a Menfi come «la dama del sicomoro». Lo stesso si può dire per Tebe, la città dalle cento porte di Omero. Inizialmente essa si era chiamata Iat, come il quarto nomo dell’Alto Egitto che ne dipendeva. Durante il Nuovo Impero si era affermato l’uso di chiamarla Opet, che alcuni traducono con «harem» e altri con «cappella» o «castello». L’immenso insieme dei monumenti che ai nostri giorni viene denominato villaggio di Karnak, a partire dai tempi di Amenhotep III era detto l’Opet di Amon. 3 Un viale di sfingi lo collegava al tempio di Luxor, l’Opet meridionale. Ognuno dei due Opet era circondato da una cinta di mattoni crudi in cui si aprivano numerose porte monumentali di pietra con portali di pino del Libano armati di bronzo incrostato d’oro. In caso di pericolo, le porte venivano chiuse. Piankhi racconta che le porte delle città venivano chiuse al suo avvicinarsi. Ma in tempo di pace i testi che conosciamo non alludono mai alla chiusura delle porte e siamo autorizzati a

credere che si potesse entrarvi e uscirvi liberamente, sia di giorno sia di notte. All’interno, abitazioni, magazzini, depositi oggi scomparsi occupavano buona parte dello spazio compreso fra il tempio e le mura. Giardini e orti allietavano la vista. Greggi di Amon pascolavano nei parchi. Uno di quei giardini è stato rappresentato su una parete della sala degli Annali da colui che lo aveva creato, Thutmose III, con alberi e arbusti importati dalla Siria. 4 Fra le due cinte di mura, su entrambi i lati del viale di sfingi e lungo il fiume, si succedevano gli edifici ufficiali e i palazzi. Ogni re voleva avere il suo. Le regine, i principi, i visir e i grandi funzionari non erano molto meno ambiziosi. Poiché la città continuò a ingrandirsi nel corso delle tre dinastie, è probabile che le case più modeste e quelle della classe più povera si distribuissero in mezzo alle dimore opulente, invece di formare, come a Hotep-Sanusrit, un quartiere separato. Di fronte a Karnak e a Luxor, sulla riva occidentale, si sviluppava una seconda città, Tjamé, che si potrebbe meglio definire una successione di monumenti circondati da case e magazzini, imprigionati da muraglie di mattoni crudi che in molti punti misuravano trecento metri per quattrocento e più. 5 Le mura di Amenhotep III misuravano non meno di cinquecento metri di lato. Queste grandi costruzioni di terra alla base erano larghe una quindicina di metri e potevano superare i venti metri di altezza. Esse nascondevano quasi completamente l’interno lasciando scorgere solo le punte degli obelischi, i cornicioni dei pilastri, le corone delle statue colossali. La maggior parte di queste città sono state trattate spaventosamente, dagli uomini e dal tempo. I colossi di Memnone si innalzano in mezzo ai campi di grano, ma non erano nati per questo splendido isolamento. Essi adornavano la facciata di un tempio grandioso premuto da ogni lato da costruzioni di mattoni dove abitava una numerosa popolazione e stavano ammassate immense quantità di merci. I colossi hanno sfidato i secoli. Il resto si è ridotto a poveri resti. Altrove le statue colossali hanno subito la sorte del resto. Le vestigia portate alla luce in qualche veloce campagna di scavi spariscono altrettanto rapidamente sotto le coltivazioni. Solo il monumento di Ramses III a Medinet Habu, il Ramesseum, più a nord e quello ancora più a nord di Seti I, naturalmente insieme al tempio a terrazze della regina Hatshepsut, ci hanno lasciato resti imponenti. È soprattutto a Medinet Habu che ci si rende conto dell’aspetto che dovevano presentare queste città cintate quando erano nuove. 6 Una barca depositava il visitatore ai piedi di una scala doppia; poi si

varcava, fra due garitte di guardie, una recinzione di pietra piuttosto bassa adorna di scanalature, che un camminamento separava dalla recinzione di mattoni crudi. In quest’ultima si apriva una porta fortificata costituita da due alte torri simmetriche separate da uno spazio di sei metri che precedeva un edificio la cui apertura bastava per il passaggio di un carro. I bassorilievi che decoravano le pareti esaltavano la potenza del Faraone. Teste degli eterni nemici dell’Egitto, Libici, Arabi, Neri, Nubiani, sostenevano mensole. Fra quelle mura ci si doveva sentire abbastanza a disagio. Nelle stanze più in alto i temi trattati sono più gradevoli. Lo scultore ha rappresentato Ramses servito dai suoi favoriti, che accarezza il mento di una bella Egizia. L’edificio comunque era solo un rifugio in caso di eventuali sommosse. Il palazzo e l’harem si trovavano un po’ oltre, accanto al tempio. Di solito vi stazionavano solo le guardie. Varcata la porta, ci si trovava in un cortile spazioso chiuso in fondo dal muro di una terza cinta che chiudeva il tempio, il palazzo, l’harem, cortili e vari edifici. Piccoli alloggi ammassati sui due lati di un viale centrale circondavano da tre lati questa terza cinta di mura. Il clero del tempio e molti laici vivevano stabilmente in questa città dove risiedeva il re, quando si trasferiva sulla riva sinistra con le sue mogli e i numerosi domestici. Di questa natura erano il castello di Ramses, sovrano di On nel territorio di Amon; il Ramesseum; le venti o trenta città reali della riva sinistra. Il loro aspetto esterno era dei più austeri. All’interno, c’era un intreccio abbastanza piacevole di meraviglie architettoniche, palazzi dorati e capanne grigie. Quanto l’Egitto poteva offrire di meglio a proposito di equipaggi, principi e principesse talvolta attraversava come un lampo i cortili e i viali. Le risate, i canti e la musica riempivano gli appartamenti reali. Quando la festa era finita la porta fortificata lasciava ormai passare solo i greggi, le file di schiavi con fagotti sulle spalle o sulla testa, soldati, contabili, muratori, artigiani che, fra polvere e rumore, si distribuivano fra magazzini e laboratori, scuderie e macelli, mentre gli studenti e gli apprendisti andavano a ricevere la loro razione di scienza e di colpi di bastone. 7 Le città del Delta non erano da meno rispetto a quelle dell’Alto Egitto né per l’antichità né per lo splendore dei loro monumenti. Devastate dagli Hyksos, trascurate dai re della XVIII dinastia, furono restaurate, ingrandite, abbellite dai Ramessidi. Ramses II amò molto il Delta orientale. Questa regione era stata la culla della sua famiglia ed egli ne apprezzava il clima

soave, le radure, le grandi distese d’acqua, i vigneti che producevano un vino più dolce del miele. Sulle rive del ramo tanitico, in una radura spazzata dal vento, sorgeva una antica città di teologi, centro del culto del dio Seth e sede di una scuola artistica originale fin dalla più remota antichità. Si chiamava Hat-uârit e gli Hyksos ne fecero la loro capitale. La città vegetava da quando Ahmose li aveva scacciati. Ramses vi si insediò appena ebbe completato le cerimonie dovute a suo padre e immediatamente cominciò le grandi opere che avrebbero ricondotto vita e prosperità alla regione e fatto dell’antica città una incomparabile residenza reale. 8 Come a Tebe, il tempio e altri edifici erano circondati da una grande muraglia di mattoni in cui si aprivano quattro porte da cui strade e canali si dipartivano verso i quattro punti cardinali. Da Assuan erano stati fatti giungere, senza riguardo né per la distanza né per le difficoltà, blocchi di inusitata grandezza per costruire il sancta sanctorum e moltiplicare stele e obelischi tutti perfettamente cesellati. Leoni dal volto umano, dall’espressione spaventosa, di granito nero e sfingi di granito rosa si fronteggiavano lungo i viali lastricati con blocchi di basalto. Leoni sdraiati vegliavano davanti alle porte. Diadi e triadi, colossi in piedi e seduti, molti dei quali rivaleggiavano con quelli di Tebe e superavano quelli di Menfi, erano allineati davanti ai pilastri. Il palazzo splendeva d’oro, di lapislazzuli, di turchesi. Ovunque brillavano i fiori. Strade bene ombreggiate attraversavano una campagna ben coltivata. Merci giunte dalla Siria, dalle isole, dalla terra di Punt si ammassavano nei magazzini. Distaccamenti di fanteria, compagnie di arcieri, carri, equipaggi della flotta erano acquartierati nei pressi del palazzo. Molti Egizi erano venuti ad abitare vicino al sole: «Che gioia risiedere laggiù – afferma lo scriba Pabasa – non c’è niente da desiderare di più. Il piccolo è come il grande [...] Tutti sono eguali quando devono presentare la loro richiesta». Agli Egizi si affiancavano, come nelle altre grandi città, i Libici e i Neri. Ma soprattutto pullulavano gli asiatici, prima dell’Esodo ma anche dopo. Vivevano nel Delta i discendenti dei figli di Giacobbe e altri nomadi che, avendo ottenuto il permesso di risiedere in Egitto, non se ne volevano andare, i prigionieri provenienti da Canaan, Amor, Naharina, i cui figli qualche volta riuscivano a diventare agricoltori o artigiani liberi. Ben presto la città reale si trovò accerchiata da una città molto più estesa dove le case si alternavano ai magazzini. I nuovi quartieri ebbero il loro tempio circondato, come il grande,

da una cinta muraria di mattoni. Fu necessario riservare uno spazio anche al cimitero, 9 perché gli Egizi del Delta non avevano, come quelli del Sud, la possibilità di seppellire i morti nel vicino deserto. Costruivano invece le loro tombe e quelle dei loro animali sacri in città, fuori delle mura o anche al loro interno, a due passi dal tempio. Poiché lo spazio era limitato, non era più possibile innalzare monumenti grandiosi come quelli di Menfi. Le tombe erano piccole sia a Tanis sia ad Athribis, qualunque fosse il rango del personaggio cui erano destinate. Ramses II non lasciò molto da fare ai suoi successori, in tema di costruzioni. Ramses III si era dedicato principalmente a curare e aumentare i giardini e i vivai d’alberi: «Io ho fatto fruttificare la terra intera – diceva – con gli alberi e le piante. Ho fatto in modo che gli umani potessero sedersi alla loro ombra». 10 Nella residenza del suo illustre avo, aveva creato giardini immensi, allestito spazi per passeggiate in campagna, piantato vigneti e oliveti, fiancheggiato la via sacra di fiori splendenti. 11 A On il re aveva fatto pulire bene i laghi sacri del tempio «togliendo via tutte le sozzure che vi si erano accumulate da quando esiste la terra». Aveva rinnovato dappertutto alberi e piante. Aveva creato aiuole in modo da offrire al dio Tum vino e liquori, un uliveto che produceva «il primo olio d’Egitto per far salire la fiamma nel tuo palazzo sacro». Il tempio di Horo, già in pessime condizioni, era ormai il principale. «Ho fatto prosperare il bosco sacro che si trovava all’interno della sua cinta di mura. Ho fatto rinverdire il papiro come nelle paludi di Akh-bit (dove Horo era vissuto da bambino). Era caduto in abbandono dall’antichità. Io ho fatto prosperare il bosco sacro del suo tempio. L’ho messo al suo posto esatto, che era stato raso al suolo. Ho fornito i giardinieri per farlo prosperare in modo da produrre libagioni e offerte di liquori.» 12 Voleva dire unire l’utile al dilettevole. Erodoto ha osservato che il tempio di Bubaste circondato da grandi alberi era uno dei più gradevoli da contemplare di tutto l’Egitto. Non c’è dubbio che nel XII secolo un viaggiatore avrebbe potuto provare, in molte città egizie, la stessa impressione gradevole. L’austerità delle grandi mura di mattoni era compensata dalle macchie di verde. Sulle rive dei rami del Nilo i cittadini gustavano la frescura all’ombra dei grandi alberi. Nelle corti del tempio i fiori valorizzavano la bellezza delle sculture. Per gli animali, le piante e anche gli uomini era necessaria molta acqua.

Non sarebbe stato possibile procurarsela in quantità nel canale fuori dalle mura, anche quando questo canale, come a Medinet Habu o a Pi-Ramses, arrivava nei pressi della porta monumentale. Nella maggior parte delle città murate sorgeva un serbatoio di pietra. 13 Una scala consentiva di accedere al livello dell’acqua in ogni stagione. L’esistenza di pozzi è attestata almeno a partire dal Nuovo Impero. Ne sono stati scoperti nelle proprietà private e nei quartieri urbani. 14 Ce n’erano almeno quattro all’interno delle mura di PiRamses, di pietra e di accurata costruzione. 15 Il più piccolo, a ovest del tempio, aveva un diametro di dieci metri. Vi si scendeva lungo una scala rettilinea coperta di ventitré gradini ai quali, all’interno del pozzo, seguiva una scala a spirale di una dozzina di gradini. Il più grande, a sud del tempio, era di cinque metri di diametro. Vi si scendeva attraverso una scala coperta di quarantaquattro gradini a due rampe separate da un pianerottolo di riposo. Nel pozzo stesso si poteva continuare a scendere grazie a una scala di ferro à cheval e riempire le giare anche nei periodi di secca. Negli altri periodi era più semplice far salire l’acqua tramite una carrucola fino al serbatoio collegato attraverso un canaletto di scolo a un secondo serbatoio di pietra nello stesso tempio. Nella parte orientale della città abbiamo scoperto numerose canalizzazioni di terracotta di diversi modelli profondamente interrate. La più importante era fatta di vasi senza fondo che si intersecavano ed erano accuratamente cementati. Non è stato finora possibile seguire queste canalizzazioni per tutta la loro estensione, né scoprire il loro punto di partenza e di arrivo. Non solo non possiamo datarle ma ignoriamo se servissero a portare l’acqua potabile o a evacuare quelle usate. Abbiamo voluto comunque segnalare l’esistenza di queste opere che dimostrano come l’amministrazione dei Faraoni non fosse indifferente né al benessere degli abitanti né alla salute pubblica. Il dominio reale o divino esercitava intorno a sé una potente attrazione. Nelle epoche di torbidi, coloro che avevano paura forzavano la cinta di mura e non volevano più andarsene. Costruivano le loro case nei parchi e nei giardini, distruggendo le belle prospettive volute dai primi costruttori, e invadevano persino i sagrati dei templi appollaiandosi sulle mura fino a ostacolare lo svolgimento delle cerimonie e la sorveglianza delle sentinelle. Un medico che esercitava sotto il regno di Cambise, Uadj-hor-resné, ebbe il dolore di constatare che un gruppo di stranieri si era insediato nel tempio di Neith, la signora di Sais. 16 Poiché poteva parlare direttamente al gran re,

ottenne che Sua Maestà scacciasse tutti quegli indesiderabili, facesse abbattere le loro case ed eliminare le loro immondizie in modo che si potessero celebrare le feste e le processioni come in passato. Uno stregone di nome Ged-hor che viveva a Hathribis constatò che semplici privati avevano costruito le loro capanne di mattoni crudi sopra le sepolture dei falchi sacri. 17 Ma non aveva relazioni elevate come il medico saitico: fece dunque ricorso alla persuasione e riuscì a convincere gli invasori ad andarsene trasferendosi in una zona vantaggiosa, da lui indicata. Si trattava, in realtà, di una palude ma anche a questo trovò rimedio: abbattere le case degli intrusi per colmare le paludi. Così per la brava gente di Hathribis venne preparato un insediamento ben collocato, pulito e comodo, appena un po’ umido nei periodi di piena. A Tanis, abbiamo personalmente constatato l’invasione del tempio a opera delle abitazioni. Ne abbiamo trovate nei cortili e sulle mura. Un certo Panemerit, un personaggio importante, fece costruire la sua casa nel cortile principale del tempio, addossata al pilastro perché le sue statue beneficiassero delle cerimonie sacre. 18 Panemerit è vissuto in epoca anche più tarda di quella del medico di Sais o dello stregone di Hathribis. Ma l’Egitto è una terra abitudinaria: daremo le prove di questa affermazione. Crediamo che i fatti che abbiamo denunciato in base a documenti tardivi si siano ripetuti più di una volta nel corso dei secoli. Approfittando della disattenzione o della debolezza delle autorità, gli abitanti lasciavano i quartieri più sfavoriti per mettersi al riparo delle alte mura e forse per poter partecipare ai saccheggi, se ce n’era l’occasione. Quando le autorità tornavano a vigilare, i parassiti venivano spazzati via. Il tempio, la città reale riprendevano il loro splendore fino alla prossima occasione. Al tempo di Seti I, del grande Sesostri, di Ramses III, nessuno avrebbe osato insediarsi in un terreno riservato ma ciò poté verificarsi fra i regni di Merenptah e Seti-Nekht e sotto gli ultimi Ramessidi si vide ben di peggio.

I palazzi I contemporanei ammiravano molto il palazzo reale di Pi-Ramses. La loro descrizione però è purtroppo rimasta nel vago: non è nota esattamente nemmeno la sede precisa della costruzione. Gli scavi in proposito non hanno fornito nessuna informazione positiva. È noto che nel Delta sorgevano altre

residenze reali. Tracce di un palazzo sono state trovate a Quantir, un villaggio ombreggiato di bei palmizi a venticinque chilometri da Pi-Ramses in direzione sud. 19 Mentre attendeva la sua fidanzata, la figlia del re hittita che, in pieno inverno, attraversò l’Asia Minore e la Siria per andargli incontro, il Faraone ebbe l’idea galante di far costruire nel deserto, fra l’Egitto e la Fenicia, un castello fortificato dove si recò ad aspettarla. Nonostante la situazione isolata, questo castello rigurgitava di tutto ciò che si poteva desiderare al mondo. Ognuno dei suoi quattro lati era posto sotto il patrocinio di una divinità: Amon sorvegliava l’occidente, Setekh il mezzogiorno, Astarte il levante e Uadjit il Nord. In onore del re d’Egitto e della sua sposa asiatica aveva messo insieme due divinità egizie e due asiatiche, dato che Seth aveva adottato l’acconciatura e il perizoma dei Baal e non somigliava quasi più al dio egizio. Le quattro statue avevano dei nomi come se fossero esseri viventi, Ramses-Miamun, Vita, Salute, Forza, Montu nelle due terre, Fascino dell’Egitto, Sole dei principi sostituivano i termini di dio, araldo, visir e pasha. 20 All’interno della sua città che sorgeva a occidente di Tebe, Ramses III aveva un palazzo che chiamava la sua casa di piacere, le cui tracce sono state salvaguardate e studiate dagli archeologi dell’Istituto orientale dell’università di Chicago. 21 La facciata di questo palazzo si affacciava sul cortile interno del tempio. I bassorilievi che la decoravano e che si scorgevano fra le colonne del peristilio erano stati scelti assai accuratamente per esaltare la potenza del re. Ramses massacrava i suoi nemici con un colpo di mazza. Seguito da una splendida scorta, visitava le scuderie. Assumeva il comando delle sue truppe dall’alto del carro e rivestito delle sue armi da guerra. Infine assisteva insieme all’intera corte alle lotte e alle esercitazioni dei suoi soldati migliori. Al centro della facciata si apriva il balcone delle apparizioni reali, riccamente decorato e preceduto da quattro colonnette papiriformi assai slanciate che sostenevano una cornice a tre piani. Il disco alato planava sul piano inferiore, quello intermedio era occupato da palme e quello superiore completato da urei col disco solare. Da qui il re si mostrava quando il popolo era autorizzato ad ammassarsi nel cortile per la festa di Amon e distribuiva le ricompense. Il balcone comunicava con gli appartamenti reali. Essi comprendevano, al centro, varie sale a colonne una delle quali faceva da sala del trono, camera del re e sala da bagno. Questa parte centrale era isolata, grazie a un vestibolo, dagli appartamenti della regina, che comprendevano parecchie camere e stanze da bagno. Lunghi

corridoi rettilinei facilitavano il transito e anche la sorveglianza, perché Ramses III, ammaestrato dall’esperienza, era diffidente. La decorazione interna della sala del trono doveva essere austera a giudicare dalle tavolette smaltate scoperte più di trent’anni fa e dai frammenti di bassorilievi recentemente scoperti dalla missione americana. Il re è ovunque rappresentato in piedi sotto forma di una sfinge e dai suoi nomi geroglifici. I nemici dell’Egitto sono rappresentati legati dinanzi a lui. Sono vestiti delle loro ricche vesti decorate di ornamenti barbari e rappresentati con cura nelle loro fisionomie, acconciature, gioielli. I Libici sono tatuati, i Neri hanno orecchini, i Siriani portano al collo medaglioni. I nomadi chasu trattengono indietro i lunghi capelli con un pettine. 22 Non è improbabile che le camere del re e della regina fossero decorate con temi più gentili. L’area coperta dall’abitazione reale non era vasta. Era un quadrato con meno di quaranta metri di lato. Certamente il re non vi risiedeva a lungo perché poteva alloggiare dall’altra parte del fiume. Nel Delta non aveva che l’imbarazzo della scelta. Menfi, On, Pi-Ramses, non chiedevano che di accoglierlo. Aveva cominciato a edificare una nuova costruzione fra On e Bubaste, nel luogo che gli Arabi chiamavano Tell el Yahudieh, dove sono state scoperte delle tavolette smaltate del genere di quelle trovate a Medinet Habu. 23 Il tempo ha provocato tali danni al palazzo di Seti e dei Ramessidi che non possiamo fare a meno – se vogliamo farci un’idea meno sommaria del palazzo di un faraone del Nuovo Impero – di trasferirci col pensiero nella residenza di Akhenaton, di poco anteriore. I pavimenti delle sale a colonne rappresentavano uno stagno ricco di pesci, tappezzato di ninfee, su cui volano uccelli acquatici e sulle cui rive sorgono canneti e papiri. Vitelli balzano in mezzo alle zolle e fanno alzare in volo le anatre selvatiche. Sui fusti delle colonne si arrotolano viti e vilucchi. I capitelli e le cornici erano abbelliti da incrostazioni smaglianti. Sulle pareti erano dipinte scene di vita famigliare. Il re e la regina stavano seduti uno di fronte all’altra, Akhenaton su una poltrona e Nefertiti su un cuscino. Sulle sue ginocchia stava un neonato; la primogenita delle principesse circondava con le braccia il collo della sorellina minore. Altre due piccole principesse giocavano sedute per terra. 24 Con una certa esagerazione si è detto che in tutta l’arte egizia non esiste un’altra scena altrettanto incantevole. In realtà, gli stagni, i papiri, gli uccelli, gli animali che trottano o saltano fanno parte del repertorio più usuale. A Medinet Habu abbiamo visto il re circondato da graziose favorite. Ci sentiamo di affermare

con una certa sicurezza che i palazzi dei Faraoni sotto la XIX e la XX dinastia erano decorati con altrettanto lusso. Come ai tempi di Akhenaton, le pareti, i soffitti e i pavimenti, le colonne e i cornicioni dipinti di freschi colori erano una gioia per l’occhio e per lo spirito. La ricchezza del mobilio, il lusso delle vesti e dei gioielli completavano un insieme estremamente elegante.

Le case I personaggi più importanti si sforzavano di imitare il lusso e gli agi delle case dei re. Le loro residenze di città o di campagna, che potevano anche superare un ettaro di superficie, erano circondate, come il dominio divino e reale, da un muro alto e robusto che si varcava attraverso una porta di pietra per raggiungere l’abitazione del signore, mentre porte secondarie, semplici aperture, davano accesso ai giardini e alle zone della proprietà. Così si presentava, a Bubaste, la casa in cui la perfida Tbubui attirò il suo amante. La casa di Apuy assomigliava a un piccolo tempio. La facciata era preceduta da un portico a colonne papiriformi. L’architrave sosteneva un cornicione decorato con motivi di palme. La porta d’ingresso aveva gli stipiti decorati di pietre da taglio e l’architrave decorata a palme. 25 La casa in cui il re Aÿ ricevette e ricompensò la moglie di Neferhotep aveva un portico a colonne che sostenevano un tetto leggero che sporgeva su tutti i lati e si reggeva alle estremità su colonne alte e sottili che formavano un peristilio intorno alla casa. 26 Possiamo farci un’idea dell’aspetto esteriore di queste due abitazioni grazie ai dipinti che Apuy e Neferhotep avevano fatto eseguire nella loro tomba. Per la disposizione interna, bisogna visitare gli scavi di El Amarna. Dal portico d’ingresso si passava nel vestibolo prima di entrare nelle stanze di rappresentanza il cui tetto era sostenuto da colonne. A queste sale pubbliche si accedeva attraverso stanze d’ingresso dove sono state trovate casse di mattoni che servivano probabilmente da armadi per la biancheria e le vesti; accanto si trovavano depositi dove erano conservati provviste e rinfreschi. Gli appartamenti dei padroni di casa con la loro stanza da bagno e i gabinetti occupavano il resto dell’edificio. I muri della stanza da bagno sono rivestiti di pietra. In un angolo è stata trovata una lastra di pietra circondata da una paratia di mattoni, da dietro la quale un servo poteva gettare dell’acqua sul padrone che si bagnava. Questi, dopo il bagno, andava a

sedersi su un sedile vicino per farsi frizionare. Il gabinetto, dietro la stanza da bagno, era imbiancato a calce e provvisto di un sedile forato, di calcare, posato su dei cassonetti di mattone contenenti sabbia. 27 Ogni casa un po’ confortevole era circondata da vari cortili. Uno di essi conteneva i silos a forma di alveare. Le scuderie e i canili erano a nord. A est erano distribuite di solito la cucina, la panetteria e le casette di mattoni dei servi che erano costretti a fare un lungo tragitto per portare i piatti ai loro padroni e raggiungevano le sale di ricevimento da un ingresso di servizio. Le casette di solito erano divise in quattro stanze con un ingresso, un ambiente centrale col tetto sostenuto da una colonna e in fondo la cucina e una camera. La famiglia si ammassava in questo spazio ristretto, che divideva con gli animali. Si poteva salire sul tetto con una scala. Le case degli intendenti, all’estremità del quartiere, erano spaziose e confortevoli. 28 In genere l’acqua potabile era fornita da un pozzo di pietra. I giardini erano divisi in quadrati e in rettangoli da viali che si intersecavano perpendicolarmente, diritti, affiancati da alberi, ombreggiati da vigneti, rallegrati da fiori che gli Egizi curavano molto. Anna aveva raccolto nel suo giardino quasi tutti gli alberi che spuntavano nella valle del Nilo, la palma da dattero, la palma dum, il cocco che veniva chiamato palma da cocco, il sicomoro, il fico, il balanite, il giuggiolo, il melograno, il persea, l’acacia, la tamerice, il salice, il tasso, e alcuni altri che non sono stati identificati, in tutto diciotto specie. 29 Anche Rekhmarê coltivava nel suo giardino circondato da solide pareti tutte le specie di alberi e piante note al suo tempo. 30 Spesso sotto gli alberi si allestiva un chiosco in materiali leggeri ma non privo di una certa eleganza. I padroni vi consumavano i pasti durante l’estate. Ovunque sorgevano baracche di legno dove si tenevano le bevande in fresco, in grandi zirs nascosti sotto le foglie accanto a tavole e scansie dove i servi avevano depositato artisticamente tutte le raffinatezze della cucina egizia. Non si può immaginare un giardino senza stanza per la piscina, che di solito era di forma quadrata o rettangolare e pavimentata a mattoni. La superficie era coperta di ninfee; le anatre vi si bagnavano. Vi si accedeva con una scala e quasi sempre una barca aspettava gli abitanti che vi si volessero allietare. 31 Le case abitate dalla classe media in genere erano a più piani e talvolta avevano dei silos sui tetti. Nessun ornamento rallegrava la facciata. La porta

era inquadrata fra due stipiti e un’architrave di pietra era posta in angolo. Il pianterreno prendeva luce solo dalla porta. Le finestre, di solito due, quattro o addirittura otto per piano, erano piccole, quadrate, provviste di una tenda per proteggere gli abitanti da calore e polvere. Abbiamo trovato a Tanis una cornice di finestra di pietra che non superava il cubito per lato. La tenda poteva essere sostituita da una lastra con aperture a intaglio. Sempre a Tanis abbiamo trovato i due cartigli intagliati del re Merenptah inseriti in una finestra quadrata. Su alcuni dipinti tebani, abbiamo trovato strisce orizzontali tracciate sui muri come se fossero state fatte con delle panche o completate da assi. Ci siamo spiegati l’esistenza di queste strisce a Tanis dove abbiamo constatato che i muratori distribuivano la malta a strati orizzontali mentre i giunti verticali erano riempiti semplicemente di fango. Il muro alla fine appariva rigato orizzontalmente da lunghe strisce bianche. Le stanze a pianterreno di solito erano affittate ad artigiani. Era così, ad esempio, a Tebe, nella casa di un certo Thuti-nefer. Le donne filavano e gli uomini facevano andare il telaio. Nella stanza vicina si macinava il grano e si faceva il pane. I proprietari stavano al primo piano in una stanza spaziosa illuminata da finestrelle poste in alto, sostenuta da colonne a forme di loto. La porta doveva essere decorata da piastre smaltate, a meno che il legno non fosse scolpito direttamente. Sulle pareti non si distingue più niente ma gli Egizi avevano l’abitudine di coprire di dipinti tutte le superfici disponibili. A Tanis in una casa di epoca recente con le pareti interne stuccate ho raccolto delle piastre su cui erano disegnati battelli e danzatrici. Senza dubbio si tratta di una moda più antica e abbiamo ragione di credere che le stanze delle case assomigliassero alle stanze delle tombe tebane sul cui soffitto era dipinta una vigna mentre sulle pareti erano raffigurate una caccia, un viaggio nella città santa di Osiride e altre scene di genere. Il secondo piano aveva il soffitto così basso che gli occupanti non dovevano nemmeno alzarsi sulla punta dei piedi per toccarlo con la punta delle dita. È in una stanza di questo piano che il padrone faceva la sua toilette. Si sedeva su un sedile e i servi gli portavano una brocca e un catino, un ventaglio e uno scacciamosche. Gli scribi gli sedevano vicino per leggere la posta e registrare gli ordini. Altri servi andavano e venivano per la scala e nei corridoi portando in testa fagotti e giare piene d’acqua sospese ai due lati di un bilanciere posato su una spalla. 32

Nella casa di un certo Mahu, la distribuzione dei piani rispondeva agli stessi princìpi. Nel pianterreno erano ammassate delle giare. Al primo piano si trovava la sala da pranzo. Il secondo piano era pieno di scudi, armi e vari utensili. Mahu era capo della polizia, quindi abbiamo ragione di credere che egli passasse la notte in quella stanza in modo da poter correre immediatamente all’assalto dei briganti se veniva convocato all’improvviso in piena notte. In genere i tetti erano piatti e raggiungibili con una scala fissa o mobile. Alcuni, come Thuty-hotep, vi collocavano dei silos per il grano. Altri sistemavano sui lati un traliccio di sicurezza, per i bambini o per proteggersi dagli sguardi indiscreti quando vi passavano la notte all’aperto. Nebamon e Nakhti avevano fatto costruire sui loro tetti delle appendici a forma di triangolo rettangolo che sono state interpretate come bocche per l’aria. Ma anche le case a tetto puntuto non erano ignote in Egitto. In una tomba di AbuRoach, contemporaneo del re Den, che viveva nei pressi dell’attuale Cairo circa due millenni prima dei Ramessidi, ho trovato due pezzi di un gioco d’avorio che rappresentano case con il tetto inclinato formato da due triangoli e due trapezi. 33 Questa copertura decisamente progredita stupisce in un’epoca così antica e poteva essere stata ideata solo in un paese dove pioveva e il legname era abbondante. Ora, in Egitto piove abbastanza solo nella zona costiera, dove ai nostri giorni le case sono coperte da terrazze. È dunque probabile che i giochi di Abu-Roach riproducano un tipo di abitazione straniera rispetto all’Egitto. Non abbiamo alcuna prova che all’epoca dei Ramessidi tale abitazione fosse in uso in nessun punto del territorio. Nemmeno a Tebe le abitazioni erano così ammassate e il terreno così prezioso da impedire di piantare qualche albero, in cortili interni o davanti alle facciate delle abitazioni. Da Nebamon due palme sembravano uscire dal tetto eppure erano cariche di datteri. Una casa molto più alta che larga, rappresentata nella tomba 23 di Tebe, è compresa fra due filari di alberi. Un’altra, nota come tomba 254, è preceduta da tre melograni che escono da cassoni di terracotta decorati con motivi a vari colori e da due palme dum. 34 Gli Egizi, anche di classe modesta, facevano del loro meglio per avere abitazioni comode e piacevoli e per difendersi dai nemici del riposo domestico numerosissimi nel loro paese: gli insetti, i topi, i ramarri e i serpenti. Il papiro medico Ebers ci ha tramandato alcune ricette utili. 35 Per eliminare gli insetti dalla casa bisognava lavarla con una soluzione di natron

oppure cospargerla di un prodotto detto bebit schiacciato su del carbone. Se si poneva all’ingresso di una tana di serpente del natron, oppure un pesce secco, la tilapia nilotica, oppure dei semi di cipolla, il serpente non ne uscirà. Il grasso di rigogolo è eccellente contro le mosche, le uova di pesce contro le pulci. Se si mette grasso di gatto sui sacchi o sulle balle, i topi non si avvicineranno. Se si bruciano escrementi di gazzella nel granaio o si spalma la soluzione su mura e pavimenti della casa i roditori non mangeranno il grano. Ecco un sistema infallibile per impedire i furti dei nibbi. Si piantava per terra un ramo di acacia e si diceva: «Un nibbio ha rubato in città e in campagna... Vola, cuocilo, mangialo». Dicendo queste parole sul bastone di acacia dopo avervi posto una focaccia si impediva al nibbio di rubare. Per purificare l’aria delle stanze guardaroba c’era una fumigazione efficace ma non alla portata di tutti: bisognava mescolare incenso, resina, trementina e altri prodotti esotici ed egizi. Questa ricetta, come le precedenti, attesta il desiderio di tenere la casa pulita e igienicamente sicura. Questo naturale desiderio deve avere indotto le autorità a prendere misure generali per evacuare le acque sporche ed eliminare i rifiuti domestici: ma in mancanza di documenti non possiamo dire niente in proposito.

I mobili Nelle stanze di rappresentanza del palazzo, comprese le case dei ricchi, i mobili consistevano essenzialmente in sedie e sedili. Ce n’erano di assai semplici, simili a una cassa dotata di uno schienale non più alto di una mano. I lati erano decorati da un’incrostazione di scaglie delimitata dalla bacchetta egizia. La ricchezza dei materiali, la qualità del lavoro potevano compensare la semplicità dell’oggetto. Molto più eleganti e confortevoli erano le poltrone intagliate a quattro piedi a forma di leone, con un alto schienale e due braccioli. Per il re e la regina, non bastava ancora. Il diritto e il rovescio dello schienale erano decorati con temi del repertorio della grande scultura, incisi nel legno, nel cuoio o nel metallo sbalzato, in oro, argento, rame e con incrostazioni di pietre preziose. Il re, in forma di grifo o di sfinge, protetto dall’ureo, l’avvoltoio o il falco, lacera con gli artigli un Asiatico o un Nero. Esseri grotteschi come quelli che si facevano venire a caro prezzo da Punt o

dall’Alto Nilo danzavano al suono del tamburello. Il re riceveva dalle mani della regina un fiore che la faceva amare. La regina appendeva al collo del marito una collaretta. Davanti ai braccioli erano poste delle teste di leone, di falco o di donna. Fra i piedi, le piante simboliche del Nord e del Sud spuntavano da una base e si intrecciavano intorno a un grande geroglifico che significava l’unione. 36 Si costruivano due tipi di sgabello. I più semplici avevano i piedi verticali, i più lussuosi li avevano incrociati a X, che finivano a testa di anatra. Anche le sbarre finivano a testa di animale. A terra venivano stese stuoie e ovunque erano sparsi cuscini. 37 Si disponevano cuscini dietro la schiena e sotto i piedi delle persone sedute in poltrona. Quando gli invitati erano più numerosi dei sedili, gli ultimi venuti, i più giovani, si sedevano sui cuscini o anche direttamente sulle stuoie. La sala da pranzo, quando era distinta dalla stanza di rappresentanza, conteneva dei sedili e dei tavolinetti per gli invitati, tavoli e scansie per i cesti di frutta, i piatti di carni e verdure, le giare e i vasi. Erano mobili numerosi ma piccoli. Gli Egizi non hanno mai avuto l’idea di fabbricare grandi tavoli intorno ai quali i convitati potessero radunarsi: mangiavano da soli o a gruppi di due. Nelle epoche più antiche si utilizzavano due tipi di vasellame: il tipo comune era in terracotta, quello di lusso in pietra. Le pietre utilizzate erano soprattutto lo scisto nero o blu e l’alabastro, meno spesso la breccia rossa, il granito per i vasi di grandi dimensioni, il cristallo di rocca per i bicchieri. Con vari materiali si fabbricavano vasi cilindrici o ovoidi, bicchieri piccoli e grandi, coppe, piatti, contenitori a becco, brocche, zuppiere, vasi a piede. Artigiani più ricchi di immaginazione scolpivano nella pancia del recipiente la reticella che sosteneva il vaso o gli davano la forma di una nave o di un animale. 38 Non si smise mai di fabbricare bei vasi di pietra. Le tombe del Nuovo Impero ne hanno fornito serie importanti: ma più spesso si usava vasellame d’oro e d’argento. Si facevano anche acquamanili per uso profano. 39 Si preparavano infusioni calde in bollitori simili alle nostre teiere, dotati di un passino interno appeso davanti al becco. Se si preferiva si poteva versare la bevanda calda attraverso un passino nella tazza del consumatore. Il famoso bicchiere con la capretta del tesoro di Bubaste era adattissimo a contenere del latte. Questi contenitori potevano avere forme assai diverse: bicchieri col

fondo arrotondato e un becco, coperchi rotondi con un’impugnatura e un becco, bicchieri sostenuti da un lungo manico un po’ come i misurini dei nostri lattai. I crateri e le coppe a ovolo erano adatti alla crema e ai dolci. Ramses III non avrebbe mai accettato di partire per una campagna se il suo ufficiale d’ordinanza non avesse portato per lui un contenitore d’oro ad ansa capace di contenere circa tre litri e una caraffa. 40 Quelli che non potevano permettersi questo vasellame di gran lusso si accontentavano di quello di terracotta. Da qualche tempo i vasai si erano messi a produrre dei bei pezzi di vasellame fine sui quali si dipingevano motivi geometrici o floreali o scene vivaci come quelle che vediamo incise su vasi di metallo: un uccello che divora un pesce, animali in corsa. Fin dall’inizio del Nuovo Impero, l’Egitto riceveva dall’estero, dalle isole, dalla Siria e dalla Nubia, oggetti di pura rappresentanza di metallo e pietre preziose, crateri, anfore, tavolinetti assolutamente inutilizzabili che servivano da pretesto per radunare tutta la flora e la fauna reale o immaginaria. I templi raccoglievano la maggior parte di quegli oggetti preziosi ma il Faraone teneva per sé qualche bell’esemplare. Il gusto per gli oggetti esotici si diffuse per tutta la popolazione. Gli orafi egizi si misero a fabbricarne. Il principe Qenamon, preposto alle funzioni superiori, aveva fra i doveri della sua carica quello di presentare al re i doni del capodanno. Nella sua tomba ha fatto disegnare la raccolta completa di quei doni fabbricati nei laboratori reali. 41 In particolare si nota un mobile sul quale spunta una foresta di palme dum e di palmette siriane insieme a ninfee e margherite. Scimmie si arrampicano sui rami per cogliere i cuori di palma. Altri pezzi sono più conformi al gusto tradizionale. Statue d’ebano o d’ebano e oro rappresentano il re e la regina con attributi vari, su un piedistallo, in un armadio, oppure sfingi a testa umana o di falco, oppure capre, gazzelle sdraiate su un tavolo, o ancora cassapanche. Credo che tutti questi oggetti dovessero ammobiliare i palazzi reali e che molti di essi fossero disposti nelle stanze di rappresentanza. Nelle camere da letto il mobile più importante era il letto. Ce n’erano di molto semplici: una cornice di legno che sosteneva un traliccio posato su quattro piedi. I piedi spesso erano scolpiti a forma di zampe di toro o di leone. La tomba di Tutankhamon ha conservato tre letti sontuosi ognuno dei cui quattro lati è formato da un animale completo: una vacca, una pantera o un ippopotamo. La stanza conteneva anche degli armadi di legno arricchiti da

incrostazioni dove si disponevano biancheria e vesti. Gli oggetti da toilette, gli specchi, i pettini e le forcine, le parrucche, si conservavano in scatole e cofanetti di forme diverse; i prodotti di bellezza, gli unguenti, i profumi in cofanetti di ossidiana o d’avorio. Le stanze riservate ai membri della famiglia, ai ragazzi e alle fanciulle potevano contenere strumenti musicali e scatole di giochi. Gli uffici erano ammobiliati con armadi di tipo speciale dove si chiudevano i manoscritti, i rotoli di pergamena e di papiro e i materiali per gli scribi. Quando un papiro era coperto di scrittura lo si arrotolava, lo si legava e sigillava. I rotoli erano legati in pacchi, i pacchi riposti in contenitori di cuoio a loro volta conservati negli armadi. 42 Gli scribi non avevano bisogno di tavoli: si limitavano a distendere il papiro sulle ginocchia. Se necessario, scrivevano in piedi, tenendo il papiro nella mano sinistra senza piegarlo. Quando dovevano uscire, facevano conservare tutto il necessario per scrivere in una specie di sacco rigido a fondo piatto, dotato di una chiusura lampo e di una cinghia a tracolla. I mobili delle cucine comprendevano tavoli a quattro piedi e recipienti di ogni forma e dimensione di terracotta spessa. I fornelli erano di terracotta refrattaria. I fornelli di metallo retti sui lunghi piedi sui quali fiammeggiavano le oche credo non fossero usati nei templi e non facevano nemmeno al caso di un modesto cuoco. Nelle case più povere, in cui un’intera famiglia si ammassava in venti metri quadrati o anche meno, il mobilio si riduceva a qualche stuoia e qualche pezzo di vasellame. In questi ambienti qualche cassa o credenza costituiva una dimostrazione di agiatezza. 1. La pianta si trova in Petrie, Illahun, Kahun and Gurob, tav. 14. 2. Descrizione generale della città e degli edifici principali in Pendlebury, Les fouilles de Tell el Amarna, Paris 1936. Pianta sommaria, 63. 3. Pianta generale di Karnak, Topographical bibliography, II, 2, 98. 4. Wr. Atl., II, 30, 31. 5. Topographical bibliography, II, 112; Robichon e Varille, En Égypte, copertina. 6. The Oriental institute of the university of Chicago, communications, nn. 15, 1, 28; n. 18, frontespizio. 7. Si vedano ad esempio le processioni rappresentate nei templi di Medinet Habu e di Abido (Medinet-Habu, Wr. Atl., II, 184-190). 8. Montet, Le drame d’Avaris, Paris 1941, capp. II e IV.

9. Montet, Tanis, Paris 1942, 9, 23, 107, 128. 10. Papyrus Harris I, 78, 8. 11. Ibid., 6. 12. Ibid., 27-29. 13. Chassinat, Dendara, I, tav. 15; Robichon e Varille, Le temple du scribe royal Amenhotep, fils de Hapou, Le Caire 1936, 35. 14. Pendlebury, op. cit., 114, 140. 15. Fougerousse, Le grand puits de Tanis, Kêmi, V, 71-103. 16. Posener, La première domination perse en Égypte, Le Caire 1936, 15-16. 17. Ann. S.A.E., XVIII (1918), 145. 18. Kêmi, VIII. 19. Ann. S.A.E., XXX, 40, 41. 20. Bibl. aeg., VII, 12; cfr. Drame d’Avaris, 135-136. 21. The Oriental institute of the university of Chicago, communications, n. 7, 1-23. 22. Ann. S.A.E., XI (1910), 49-63. 23. Pap. Harris, I, 29, 8; Montet, Tanis, II. 24. Petrie, Tell el Amarna, 2-4; Davies, Mural painting in the city of Akhenaten, J.E.A., VII, tavv. 1 e 2. 25. Mem. Tyt., V, 28-29. Per la casa di Tbubui, Maspero, Contes populaires, IV ed., 147. 26. Davies, Neferhotep, 14. 27. Pendlebury, op. cit., 127-149. 28. Ibid., 152-153. 29. Wr. Atl., I, 60; Mém. Miss. fr., XVIII, I. Urk., IV, 1046-1047. 30. Wr. Atl., I, 278, Giardino di Min-nekht. 31. Giardino di Rekhmarê: Wr. Atl., I, 3; di Sebekhotep, ibid., I, 222; di Amenemheb, ibid., I, 66; di Qenamon, Davies, Ken-Amun, 47; affresco del museo britannico, 37983, in Wr. Atl., I, 92. 32. Davies, The town house in ancient Egypt, Metropolitan Museum studies, I, maggio 1929, 233255. 33. Uno di questi pezzi è al museo del Cairo, l’altro al Louvre, cfr. Kêmi, VIII. 34. Davies, op. cit., 242, 243, 246, 247. 35. Pap. Ebers., ricette 840, 852, tavv. 97-98. 36. Bei sedili assai ben conservati sono stati tratti dalla tomba di Yuia e Tuiu e da quella di Tutankhamon. Nei templi e nelle tombe, ne sono state trovate graziose rappresentazioni. Ad esempio: Mem. Tyt., V, 5, 9, 25; ibid., IV, 7; Th. T.S., I, 15-16; ibid., V, 41, 43. 37. Affresco del palazzo di Akhenaton, Pendlebury, op. cit., 14; J.E.A., VII. 38. Una straordinaria raccolta di questi vasi estratti dai sotterranei della piramide a gradini può

essere visitata a Saqqarah. Per quelli che provengono da Abu-Roach, si veda Kêmi, VIII. 39. Montet, Vases sacrés et profanes du tombeau de Psousennès, Monuments Piot, XXXVIII (1941), 17-39; Maspero, Essais sur l’art égyptien, Paris 1912, 189-216; Edgar, The treasure of tell Basta, Musée égyptien, II, 93, 108; Vernier, Cat. Caire, Bijoux et orfrèvreries, 104, 106. 40. Medinet-Habu, 38, 55. 41. Davies, Ken-Amun, 13, 20. 42. Montet, Vie privée..., tav. 13 e 145.

II

Il tempo

Le stagioni L’anno per gli Egizi non era il tempo necessario a una rivoluzione solare ma quello necessario a produrre un raccolto. Essi chiamano renpy, «essere fresco, vigoroso», l’anno e renput i prodotti dell’anno. In Egitto il raccolto dipendeva dall’inondazione. Tutti gli anni all’inizio di giugno il paese soffriva della siccità. Il Nilo non trasportava più acqua. Il deserto minacciava di inghiottire la valle. Gli uomini erano colti da estrema ansietà. L’atteggiamento degli Egizi di fronte alla generosità della natura era intessuto di gratitudine e paura. Si temeva di mutilare il dio quando si estraeva una pietra da una cava, di soffocarlo interrando i semi, di ferirlo zappando, di decapitarlo mietendo le spighe. L’inondazione non era mai mancata a memoria d’uomo: talvolta era stata troppo violenta, talvolta era stata scarsa, quasi sempre benefica, ma l’esperienza, mai smentita, non rassicurava completamente le popolazioni rivierasche: «Quando ti si implora per ottenere l’acqua dell’anno, si vede il forte con il debole. Ogni uomo è chiamato con i suoi strumenti. Nessuno resta indietro rispetto al vicino. Nessuno indossa una veste. I figli dei grandi non esibiscono eleganza e non si sente più cantare di notte». 1 La pietà degli Egizi aveva subito schierato il Nilo, Hapi, fra gli dèi. Veniva rappresentato come un uomo ben nutrito dalle mammelle pendule, il ventre pieno di pliche di grasso sostenuto da una cintura e sandali ai piedi: tutti segni di ricchezza. In testa aveva una corona di piante acquatiche. Le sue mani diffondevano segni di vita o sostenevano un vassoio di offerte che scompariva letteralmente sotto le anatre, i mazzi di fiori e le spighe. Molte città portavano il suo nome: era detto padre degli dèi. Non bisognava essere meno generosi con lui che con le altre divinità e Ramses III non mancò a questo compito. A On, per tutto il suo regno, e a Menfi nel corso di tre anni, istituì o rinnovò i libri di Hapi dove erano registrate enormi quantità di viveri e prodotti. Si fabbricavano migliaia di piccoli Hapi d’oro, argento, rame e piombo, turchese, lapislazzuli, porcellana e altre materie ancora, e anche sigilli, pendenti e statuette di Repyt, la moglie di Hapi. 2 Nel

momento in cui si doveva manifestare la piena, le offerte dovevano essere presentate al dio in molti templi e i libri del Nilo venivano gettati in un lago del tempio di Ra-Harakhté a On, che veniva chiamato Qebehu come il Nilo all’altezza della cataratta. Forse vi si gettavano anche le statuette. 3 Si ricominciava due mesi più tardi quando la piena aveva raggiunto l’apogeo. Il Nilo che aveva ricoperto l’intera valle e scorreva fra i due deserti, trasformando le città e i villaggi in isole e isolotti e le strade in dighe, cominciava docilmente a decrescere. Quattro mesi dopo la prima manifestazione della piena, era completamente rientrato nel suo letto. Questo periodo di quattro mesi costituiva la prima stagione dell’anno, akhit, l’inondazione. Appena la terra era emersa dall’acqua, i contadini si diffondevano per i campi e senza lasciare alla terra il tempo di indurirsi seminavano e aravano. Quindi, per quattro o cinque mesi, dovevano semplicemente irrigare. Veniva poi il tempo della mietitura e quindi l’incameramento e la battitura dei cereali e altri lavori. Dopo la stagione dell’inondazione c’era dunque la stagione dell’uscita, perit, poi una della raccolta, shemu. Tre stagioni invece di quattro, come per gli Ebrei e i Greci. Per quanto il fenomeno dell’inondazione fosse regolare, sarebbe stato difficile fissare l’inizio dell’anno solo in base all’osservazione della piena. Ma all’epoca in cui il Nilo cominciava a gonfiarsi, si produceva, sempre alla stessa data, un fenomeno che poteva ben guidare i fondatori del calendario. La stella Sirio, il cui nome egizio era Sopedet, che non era stata vista da lungo tempo, appariva per un istante a oriente appena prima del sorgere del sole. Gli Egizi associarono ben presto i due fenomeni e attribuirono l’inondazione alle lacrime di Iside. La stella appariva così come una manifestazione della dea che divenne in questo modo la patrona dell’anno. Il giorno in cui si levava la stella fu il primo dell’anno. Questa equazione venne consegnata ai libri della casa di vita, una specie di conservatorio delle tradizioni e delle conoscenze che rimase in attività dall’Antico Impero fino alle epoche più recenti. 4 Il calendario che Ramses III aveva fatto incidere su una parete esterna del suo tempio a Medinet Habu specifica che la festa della dea Sopedet, celebrata al sorgere dell’astro, coincideva con la festa di capodanno. 5 In una canzone d’amore l’amante paragona la sua bella alla stella che brilla all’inizio dell’anno perfetto, renpit nefert. 6 Esisteva infatti anche un anno incerto, zoppicante, renpit gab, in cui il dio Shu non si alzava,

l’inverno sostituiva l’estate e i mesi andavano per conto loro. Ma il pubblico non lo accettava: «Preservami – dice lo scriba – dall’anno zoppo!». 7 Gli agricoltori, i cacciatori, i pescatori, gli esploratori, i medici, i sacerdoti tenuti a celebrare la maggior parte delle feste a epoca fissa, in una parola tutti coloro che avevano occupazioni regolate dalla natura, usavano scandire il tempo con l’anno perfetto, un anno in cui i mesi e le stagioni restavano sempre allo stesso posto, in cui akhit può designare solo i quattro mesi durante i quali il Nilo è fuori dal suo letto, perit il tempo della semina che coincide con la stagione fresca e shemu il tempo dei raccolti e delle giornate calde. Per questo, del Faraone si diceva che era un rinfresco durante lo shemu, un angolo riscaldato dal sole nella stagione di perit. 8 I minatori che estraevano le turchesi dal Sinai sapevano che non bisognava aspettare i mesi di shemu perché nella cattiva stagione le montagne erano come incandescenti e ciò alterava il colore delle gemme. 9 I medici e i veterinari sapevano che certe malattie o disturbi tornavano periodicamente, le une in perit le altre in shemu. Essi spingevano la precisione fino a indicare che un determinato rimedio doveva essere impiegato nel terzo e quarto mese di perit e un altro ancora solo nei due primi mesi della stessa stagione. Alcune preparazioni invece erano efficaci per tutto l’anno, in akhit come in perit e in shemu. 10 Per esigenze di comodità, le stagioni furono rese di uguale durata e divise in dodici mesi di trenta giorni che ancora all’epoca dei Ramessidi, come nella più remota antichità, venivano designati in base al loro ordine nella stagione: primo, secondo, terzo, quarto mese di akhit, di perit o di shemu. I nomi tratti dalle feste mensili sono stati in uso solo in epoca saitica. Cinque giorni supplementari furono aggiunti alla fine del quarto mese di shemu per completare il numero di 365 giorni. Come ci si organizzava per mantenere in ordine il calendario e impedire che il capodanno ritardasse un giorno ogni quattro anni? I documenti faraonici non ce lo dicono. Strabone dice un po’ stranamente che si aggiungeva un giorno a intervalli determinati quando le frazioni eccedenti di giorno che avanzavano ogni anno formavano una giornata intera. 11 Quello che c’era da fare di meglio era aggiungere un giorno ogni quattro anni ed è quanto si verificava, indubbiamente, quando l’Egitto aveva la fortuna di essere governato da re come Seti I o suo figlio. È possibile che il giorno supplementare sia stato dimenticato nell’epoca dei torbidi. Allora il disordine travolgeva il calendario fino al momento in cui un Faraone illuminato dai dotti della casa di vita rimetteva il calendario in accordo con la

natura e faceva nuovamente coincidere il capodanno con la festa di Sopedet.

Le feste e le vacanze Il primo giorno dell’anno non era solo la festa della dea Sopedet ma una festa celebrata universalmente. Nel tempio di Up-Uayt, in quel giorno la famiglia offriva doni al padrone. 12 Si dovrà intendere probabilmente che il personale del tempio presentava al dio le offerte portate dagli abitanti del villaggio nei giorni precedenti. Il principe Qenamon ha fatto copiare nella sua tomba i doni sontuosi da lui offerti al re in occasione del capodanno. 13 Basterà questo per sostenere che tutti gli Egizi si scambiavano doni e auguri all’inizio dell’anno? Le feste erano numerosissime, in tutto il corso dell’anno ma soprattutto in akhit, quando i lavori agricoli erano sospesi. La grande festa di Opet cadeva a metà di questa stagione e durava circa un mese. Non mi sento di affermare che tutti si prendessero un mese di vacanza ma è certo che una folla immensa acclamava il grande vascello sacro di Amon e lo scortava dalla riva quando risaliva da sud verso l’Opet. Per assistere alla festa di Bubaste, gli Egizi abbandonavano volentieri le loro occupazioni, salivano sulle barche, le donne con dei crotali, gli uomini con flauti. Fino all’arrivo, non smettevano di danzare e cantare e rivolgere battute a quelli che incontravano. Si diceva che durante la festa si beveva più vino che per tutto il resto dell’anno. La festa di tekhi, un termine che significa «ebbrezza», era celebrata il primo giorno del secondo mese e non si poteva mancare. Il primo giorno del primo mese della stagione delle semine era festeggiato in tutto il paese. In ogni nomo, in ogni città, bisognava festeggiare almeno una volta all’anno il dio che ne era il signore e protettore. Siccome gli dèi egizi erano al tempo stesso buoni viaggiatori e molto ospitali, ogni tempio di una certa importanza ospitava parecchi dèi. Ptah di Menfi aveva un dominio a lui spettante nel tempio di Karnak e Uadjit, signora di Imit, in quello di Tanis. Gli abitanti che non potevano sottrarsi al dovere di festeggiare la divinità locale non potevano nemmeno trascurare gli dèi amici. Vestiti a nuovo e unti d’olio, si recavano al tempio, presentavano qualche offerta e potevano permettersi di bere, mangiare e gridare più del solito. Certe feste erano così venerabili che, anche se il dio non aveva santuari nel tempio vicino, bisognava almeno fare una festa nella sua casa, non intraprendere alcun

nuovo lavoro e astenersi da qualsiasi attività. Il fellah e l’artigiano avrebbero potuto dire, come il ciabattino del proverbio, che il signor curato per ogni predica aveva un santo nuovo. Sembra inoltre che il primo giorno di ogni decade fosse una specie di domenica. Nella stele dell’anno VIII innalzata a On nel tempio di Hathor, Ramses II si rivolge a tutti gli artigiani che hanno abbellito i suoi templi e i suoi palazzi: «Ho riempito per voi i granai di ogni ricchezza, gallette, dolci, carni, sandali, vesti, profumi per ungere le vostre teste ogni dieci giorni, abiti per tutto l’anno, sandali per i vostri due piedi tutti i giorni». 14 Non si poteva pretendere che uomini che avevano fatto una toilette accurata e consumato un pasto più ricco del solito si mettessero subito al lavoro.

I giorni fasti e nefasti Una volta compiuti i propri doveri verso gli dèi e osservato il riposo domenicale, l’Egizio non poteva ancora liberamente darsi ai piaceri o occuparsi di cose utili. I giorni erano suddivisi in tre categorie, buoni, minacciosi e ostili a seconda degli avvenimenti che li avevano contrassegnati ai tempi in cui gli dèi vivevano sulla terra. Alla fine del terzo mese dell’inondazione, Horo e Seth avevano interrotto la loro spaventosa lotta. Al mondo era stata data la pace. Horo aveva ricevuto l’Egitto in piena proprietà. Il deserto in tutta la sua estensione era diventato appannaggio di Seth. Gli dèi erano lieti e davanti agli dèi placati e riconciliati – poiché la contesa si era estesa a tutti gli abitanti del cielo – Horo si era messo in testa la corona bianca e Seth quella rossa. Furono tre giorni felici. E felice fu anche il primo giorno del secondo mese di perit, quando Ra, con le sue braccia potenti, aveva sollevato il cielo, e il 12 del terzo mese della stessa stagione, perché Thoth aveva sostituito la maestà di Tum nel bacino delle sue verità del tempio. Ma Seth non aveva tardato a ricominciare con i suoi misfatti. Il 3 del secondo mese di perit, Seth e i suoi compagni si erano opposti alla navigazione di Shu. Quello era un giorno minaccioso, come il 13 dello stesso mese, quando l’occhio di Sekhmet, la dea che lanciava le epidemie, era diventato terribile. Il giorno 26 del primo mese di akhit era non solo inquietante ma decisamente infausto perché era l’anniversario della grande

battaglia di Horo contro Seth. I due dèi avevano assunto forma umana e avevano cominciato a colpirsi da tutte le parti, poi si trasformarono in ippopotami e passarono tre giorni e tre notti in quelle condizioni finché Iside, madre del primo e sorella del secondo, li costrinse ad abbandonare quella forma grottesca lanciando il suo arpione. Il giorno della nascita di Seth, che era il terzo degli epagomeni, era nefasto. I re lo passavano interamente fino a notte senza occuparsi di niente, nemmeno delle cure personali. Anche il comportamento dei privati seguiva la natura dei giorni. Nei giorni nefasti era meglio non uscire di casa al tramonto o di notte oppure in un’ora qualsiasi del giorno. Poteva essere vietato fare il bagno o salire in barca, intraprendere un viaggio, mangiare del pesce o un qualsiasi prodotto proveniente dal mare, uccidere una capra, un bue o un’anatra. Il 19 del primo mese di perit e in parecchi altri giorni non ci si poteva avvicinare alle donne, se non si voleva essere divorati dalle infezioni. C’erano giorni in cui non si doveva accendere il fuoco in casa, altri in cui era imprudente ascoltare canti gioiosi, pronunciare il nome di Seth, dio litigioso, brutale e licenzioso. Chi pronunciava quel nome – se non di notte – rischiava liti eterne in famiglia. Che cosa informava l’Egizio su quello che poteva fare e quello che doveva evitare a ogni costo? Certamente la tradizione, ma per rinfrescargli la memoria e chiarire i casi dubbi c’erano i calendari dei giorni fasti e nefasti. Possediamo parti estese di uno di questi calendari e alcuni frammenti di altri due. 15 Se avessimo la fortuna di trovare un calendario completo credo che vi leggeremmo in una eventuale introduzione su quale autorità si basano i consigli e i divieti. Gli oracoli non mancavano in Egitto. I calendari dei giorni fasti e nefasti provenivano certamente da templi che ospitavano oracoli; certamente si contraddicevano e ciò consentiva all’Egizio che aveva assolutamente bisogno di uscire, viaggiare, lavorare in un giorno non consentito, di consultare un altro oracolo che riteneva fausti i giorni che il primo classificava come nefasti. Le azioni di Seth avevano lasciato nei luoghi votati a Osiride, a Horo e ad Amon un ricordo odioso ma a Papremis 16 e in tutta la zona orientale del Delta, al centro, nell’undicesimo nomo, nell’Alto Egitto, a Nubit e a Ossirinco, ovunque dove si onorava Seth, quelle stesse azioni erano ritenute gesta gloriose e il loro anniversario non poteva che essere un giorno fausto. Supponiamo dunque che il nostro Egizio non avesse modo di consultare un altro oracolo o che credesse solo nel suo: probabilmente alla fine del calendario gli veniva spiegato come trarsi

d’impaccio, come fare l’amore senza rischi, fare il bagno senza essere attaccato da un coccodrillo, incontrare un toro senza morire sul colpo. Bastava recitare la formula adatta alla circostanza, toccare un amuleto o meglio ancora recarsi al tempio e presentare una modesta offerta.

Le ore Gli Egizi, che dividevano l’anno in dodici mesi, dividevano anche il giorno e la notte in dodici ore. Non sembra invece che abbiano diviso l’ora in unità più brevi. Il termine at, che traduciamo con «istante», non corrisponde a nessuna durata definita. Le ore avevano dei nomi. La prima ora del giorno si chiamava «la brillante», la sesta si chiamava «la diritta», la dodicesima «Ra si riunisce alla vita». La prima ora della notte era «la sconfitta dei nemici di Ra» e la dodicesima «quella che vede la bellezza di Ra». 17 Si sarebbe tentati di credere che la durata delle ore così definite cambiasse di giorno in giorno, ma non era così. Le ore del giorno e della notte erano eguali all’epoca degli equinozi. Il resto del tempo gli Egizi sapevano che il sole era o in ritardo o in anticipo. Ciò non li turbava come noi non siamo imbarazzati dal constatare che le sei del mattino o le otto di sera rappresentano realtà ben diverse d’inverno e d’estate. I nomi che abbiamo citato avevano corso solo fra sacerdoti e studiosi. Ne abbiamo trovato l’elencazione nelle tombe perché la corsa del sole nei dodici territori del mondo inferiore fa parte dei temi abituali delle decorazioni funebri. Gli ignoranti si traevano d’impaccio indicando le ore con numeri. Questa osservazione ci induce a chiederci se gli Egizi fossero curiosi di sapere l’ora e se ne avevano i mezzi. Una certa categoria di sacerdoti era detta unuyt, un termine che deriva da unut, «ora», come se essi dovessero darsi il cambio d’ora in ora per garantire una specie di adorazione perpetua. Un funzionario del re Pepi I afferma di avere calcolato tutte le ore di lavoro richieste dallo Stato come calcolava le derrate, il bestiame, i rifornimenti versati a titolo d’imposta. 18 Nella sua lettera a Harkhuf, il re Neferkara raccomanda all’esploratore che accompagna a corte il nano danzatore di sistemare intorno a quel prezioso personaggio uomini esperti in grado di contare tutte le ore. 19 Sarebbe forse esagerato affermare, in base a questi testi, che gli strumenti per la misurazione del tempo fossero diffusi. Neferkara era

solo un ragazzo quando scriveva a Harkhuf e forse ingenuamente aveva immaginato che gli strumenti che aveva visto a palazzo fossero a disposizione di tutti. Comunque, apparecchi di questo tipo esistevano anche allora: possiamo vederli nei nostri musei, e risalgono a epoche che vanno dalla XVIII dinastia ai periodi più recenti. Di notte, si poteva determinare l’ora osservando le stelle e utilizzando un regolo con una fenditura e due squadre munite di filo a piombo. Bisognava essere in due, l’osservatore e il testimone, che dovevano collocarsi esattamente nella direzione della stella polare. L’osservatore utilizzava un prospetto già fissato e valido per un periodo di soli quindici giorni in cui poteva leggere che una determinata stella nota doveva trovarsi nella prima ora esattamente al disopra di un punto a metà del testimone, che in un’altra ora un’altra stella doveva trovarsi sopra il suo occhio sinistro, o destro. 20 Quando era impossibile osservare le stelle, si utilizzavano dei vasi conici alti circa un cubito, con un buco nel fondo. 21 Il loro contenuto e il diametro del buco erano calcolati in modo che l’acqua potesse uscire dal vaso esattamente in dodici ore. L’esterno del recipiente spesso era decorato con figure astronomiche e scritte suddivise orizzontalmente: in alto le divinità dei dodici mesi, al di sotto i trentasei decani, ancora più in basso la dedica dell’oggetto e infine, in una nicchia, il cinocefalo, l’animale sacro al dio Thoth, il dio degli studiosi e degli scribi. Il buco per l’evacuazione si apriva fra le sue gambe. All’interno, dodici strisce verticali separate da pannelli eguali occupati dai segni della vita, della durata e della stabilità presentavano a intervalli pressoché uguali dei buchi non molto profondi. Ogni striscia doveva servire per un mese. Ma i buchi erano sempre dello stesso numero e quindi li si poteva impiegare indifferentemente in qualsiasi periodo. La clessidra poteva servire giorno e notte, ma in un paese come l’Egitto in cui il sole non si nasconde, era preferibile ricorrere a uno gnomone. Se ne facevano di due tipi. Sugli uni si misurava la lunghezza dell’ombra, sugli altri se ne annotava la direzione. 22 Questi strumenti interessavano ben poco il pubblico. È del tutto eccezionale che ci venga tramandata l’ora in cui si è svolto un avvenimento piccolo o grande. Di una giovane donna leggiamo che suo figlio era nato alle quattro del mattino, ma si trattava della moglie di un sacerdote. 23 La settima ora del giorno era in corso quando Thutmose III raggiunse le rive del lago di Qina in Siria e vi si accampò, ma il cronista non ci dice se tanta precisione fosse stata ottenuta grazie all’uso di uno

gnomone. 24 La semplice osservazione del sole poteva indicare che era stata superata la metà del giorno. Quando il cronista arriva al racconto della battaglia, riferisce semplicemente che nell’anno XXIII, nel primo mese dell’estate, il 31, giorno della festa di Ra, Sua Maestà si era alzato di buon mattino. Nel racconto della fuga di Sinuhit, il narratore si limita a espressioni abbastanza imprecise quali: «la terra si illuminò», «nell’ora del pasto della sera», «all’ora del crepuscolo», che sono adatte alla situazione perché un fuggiasco certo non aveva bisogno neanche del meno ingombrante degli strumenti per misurare il tempo. 25 Ma si incontrano le stesse espressioni, o altre assai simili, nel bollettino della battaglia di Qadesh e nei verbali di interrogatorio riportati nel papiro Abbott che riferisce un’inchiesta giudiziaria. Persino queste sommarie indicazioni mancano nei quadri che rappresentano un visir che riceve gli esattori delle imposte, dei capi di uffici o dei delegati stranieri ricevuti da un re. Spesso si dice che il Faraone riunisce il suo consiglio ma si trascura di annotare l’ora, anche approssimativa. Diodoro afferma che il re si alzava di buon’ora e che il suo tempo era rigorosamente diviso fra il lavoro, la pietà e il riposo. 26 L’affermazione non è necessariamente inesatta ma i fortunati sudditi del Faraone non dovevano avere altrettanta fretta. Essi si fidavano, in definitiva, degli stimoli del loro stomaco e della posizione del sole in cielo per sapere l’ora durante il giorno. Clessidra e gnomone non erano strumenti familiari né a civili né a militari. Facevano parte dell’arredo dei templi in cui i religiosi li consultavano per le minuziose pratiche del culto.

La notte Gli sposi delle classi agiate dormivano in camere separate. C’era una volta un re che non aveva figli ed era molto triste. Ne chiese uno agli dèi del suo tempo che esaudirono la sua preghiera. Passò la notte con sua moglie che concepì. 27 L’autore del «Principe predestinato» non si sarebbe espresso in questi termini se il re avesse avuto l’abitudine di passare la notte con la moglie. Sugli ostraca sono frequenti le scene di gineceo. 28 Il marito è assente. I soli personaggi sono donne e bambini. La donna è di solito sdraiata su un letto e vestita di abiti trasparenti oppure è seduta, occupata a farsi la toilette con l’aiuto di una serva oppure ancora allatta un bambino. Il letto è

l’elemento essenziale dell’arredo. I piedi del letto qualche volta hanno la forma del dio Bes, un dio dal volto digrignante, venuto dai paesi del Sud, che proteggeva dagli incidenti domestici, in particolare dalle cadute. Gli oggetti di toilette stanno sotto il letto, insieme a uno sgabellino. Le travi sono sostenute da colonnette a forma di papiro. Ghirlande di foglie naturali o artificiali si attorcono intorno alle colonne arrampicandosi fino al tetto. La camera del marito era ammobiliata come quella della moglie, con un letto, un tavolinetto e uno sgabello. Cassapanche contenevano le vesti e gli oggetti da toilette. Gli Egizi si preoccupavano molto dei loro sogni e il Faraone era il primo anche in questo. Il principe Thutmose era andato a caccia e si era addormentato, stanco, all’ombra della sfinge: in sogno vide il dio che gli ordinava di sbarazzarlo della sabbia che lo soffocava e gli prometteva di compensarlo con un regno prospero. 29 Il principe non si fece ripetere l’ordine. Nelle circostanze più gravi, il Faraone teneva conto dei sogni. Nell’anno V di Merenptah, i Tirseni, i Sardani, i Lici, gli Achei e i Libici attaccarono il Delta in massa. Il re avrebbe voluto marciare contro di essi ma Ptah gli apparve in sogno e gli ordinò di restare e inviare truppe nei territori occupati dai nemici. 30 Quando il sogno non sembrava chiaro, il Faraone convocava degli interpreti. La fortuna di Giuseppe consistette nel riuscire a interpretare il sogno delle vacche grasse e delle vacche magre e quello delle spighe. Un reuccio etiope – ma l’Etiopia era un altro Egitto – vide nel corso della notte due serpenti, uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Si risvegliò: i serpenti erano spariti. Era un sogno. Gli interpreti decisero che un brillante avvenire fosse riservato al sognatore che, già possedendo l’Alto Egitto, avrebbe ben presto conquistato l’Egitto del Nord ed esibito sulla sua testa l’avvoltoio, simbolo del Sud e il cobra, simbolo del Nord. 31 I privati, che non avevano interpreti ufficiali, potevano consultare un’opera del genere di quella che copre il papiro Chester Beatty III, che è di epoca ramesside. 32 L’opera è divisa in due sezioni. La prima comprendeva i sogni dei seguaci di Horo, considerati l’élite degli Egizi. Sotto Ramses non ci si poteva nascondere che i Setiani erano assai numerosi e influenti perché la famiglia reale discendeva direttamente dal dio Seth e i fondatori della dinastia erano stati suoi sacerdoti. Bisognava dunque fare buon viso a cattivo gioco. I Setiani scambiavano cortesie con i sacerdoti e i fedeli di Amon e di Horo i quali però, in fondo, detestavano i Setiani. Essi dicevano che le contese, le

ingiurie, il sangue erano il loro pane quotidiano e non distinguevano le donne dagli uomini, certamente nel ricordo di quello che questo dio impudente una notte aveva fatto a suo nipote Horo. 33 Un Setiano, anche quando era davvero un «conoscente del re», restava un uomo del popolo. Da morto non sarebbe diventato un abitante dell’occidente, sarebbe rimasto nel deserto a fare da preda ai rapaci. I sogni dei seguaci di Seth erano dunque trattati a parte, nella seconda sezione. Se l’opera fosse completa, disporremmo forse di molte altre sezioni. All’epoca di Erodoto, in Egitto c’erano sette oracoli, ognuno dei quali aveva i suoi procedimenti divinatori. 34 Ma della seconda sezione, attualmente ci resta solo l’inizio. Solo grazie ai sogni dei seguaci di Horo, dunque, possiamo sapere, nonostante numerose lacune del papiro, che cosa sognavano gli Egizi e come interpretavano i loro sogni. In un gran numero di casi l’interprete procedeva per analogia. Un bel sogno annunciava un vantaggio, uno brutto, una catastrofe. Se il sognatore aveva visto che gli si dava del pane bianco, tutto bene: le cose gli sarebbero andate bene. Se si vedeva con la faccia di leopardo, avrebbe fatto il superiore. Se si vedeva con un personaggio più importante, la previsione era buona: era il suo genio protettore che l’avrebbe innalzato. Invece, non era bene sognare di bere della birra calda, perché significava perdere dei beni; se ci si pungeva con una spina, era segno di menzogna, se si avevano strappate le unghie, si sarebbe stati privati del lavoro delle proprie braccia. Se si sognava di perdere i denti, sarebbe morta una persona cara. Se si guardava un pozzo, si sarebbe stati gettati in prigione. Se si saliva sull’albero di una nave, si veniva innalzati da un dio. Se si ricevevano i viveri del tempio, era il dio a inviare la vita. Se si veniva tuffati nel Nilo, si veniva lavati dai propri peccati. Ma non tutti i casi erano così semplici. L’interpretazione sarebbe stata alla portata di tutti e la chiave dei sogni non sarebbe servita a niente. Ecco dunque qualche caso in cui il sogno ha significati imprevisti. Se il sognatore vedeva se stesso accarezzare sua moglie al sole, era brutto segno: il dio gli avrebbe mandato la miseria. Se spezzava pietre, era segno che Dio era cieco per lui, mentre se guardava dal balcone, Dio avrebbe ascoltato la sua preghiera. Fare il pilota in un battello non era, in sé, un fatto sgradevole. Il principe Amenhotep si dedicava spesso a questo esercizio. Ma annunciava la perdita di un processo. Non è facile spiegare come mai vedere degli asiatici in sogno annunciava la protezione dell’amore di un padre defunto. Qualche volta l’interprete si trae d’impaccio con un giuoco di parole. Mangiare carne d’asino significava

presagio di accrescimento della propria condizione perché asino e grande sono omonimi. Ricevere un’arpa è cattivo segno perché «arpa» (boiné) fa pensare a «cattivo» (bin). I sogni osceni, assai frequenti, non annunciano, di solito, niente di buono. Chi si vede in atto di fornicare con un nibbio subirà un furto, probabilmente perché il nibbio è ladro, al punto che esisteva anche una formula per impedire al nibbio di rubare. Non bisognava mai sentirsi troppo sicuri quando si sognavano cose divine. Far bruciare resine per il dio era un atto lodevole ma la potenza del dio si sarebbe rivolta contro chi lo faceva in sogno. L’uomo che aveva fatto un sogno allarmante non doveva disperare. Le vacche magre e le spighe bruciate erano un avvertimento di cui bisognava tener conto, più che l’annuncio di una catastrofe ineluttabile. In casi di questo tipo bisognava invocare Iside che sarebbe accorsa e avrebbe difeso il sognatore dalle sgradevoli conseguenze procurate da Seth, il figlio di Nut. Si poteva prendere del pane con un po’ d’erba verde, o umettarsi con della birra, aggiungere un po’ d’incenso e strofinarsi il volto con questa miscela. Così tutti i brutti sogni venivano cancellati. 1. Maspero, Hymne au Nil, 3, 8, 12. 2. Pap. Harris, I, 37b 1, 41b 6; 54a 2, 56a 12. 3. Moret, La mise à mort du dieu en Égypte, Paris 1927, 10, 13. 4. Decreto di Canope, Urk., II, 138. 5. Medinet-Habu, III, 152. 6. Pap. Chester Beatty, I, verso C I. 7. Pap. Anastasy IV, 10, 1, 3. 8. Inno a Sesostri III. Sete, Lesestücke, 67. 9. Iscrizione dell’ingegnere Horurrê, Kêmi, II, 111-112. 10. Pap. Ebers, 18, 2; 61, 4-5; 61, 65; Papiro medico di Berlino, 11, 12; Pap. Hearst, 2, 17; 10, 11. 11. Strabone, XVII, 46. 12. Siut, I, 278 (secondo contratto di Hâpi-Gefai). 13. Davies, Ken-Amun, 38-39. 14. Ann. S.A.E., XXXIX, 219, 399. 15. Pap. Saltier IV, studiato da Chabas, Le calendrier des jours fastes et néfastes de l’année ègyptienne, Paris e Chalon 1870 e Bibliothèque égyptologique, XII, 127 e Budge, Facsimilé of Eg. Hieratic papyri in the Br. Mus., II, tavv. 88 ss. Griffith, The Petrie Pupyri, 62 e tav. 25. 16. Su Seth (come Ares) a Papremis, si veda Erodoto, II, 59, 63. 17. Sulle ore del giorno: Chassinat, Edfou, III, 214, 229. Le ore della notte in: Bucher, Les textes

des tombes de Thoutmosis III et d’Amenophis II, 8-77. 18. Urk., I, 106 (Uni 36). 19. Urk., I, 130. 20. Erman-Ranke, Ægypten und ægyptisches Leben im Altertum, 399, 402; R.-W. Sloby, Primitive methods of measuring time, J.E.A., XVII (1931), 166-178. 21. J.E.A., XVII, tavv. 19, 22, Kêmi, VIII. 22. J.E.A., XVII, 170-174. 23. Maspero, Études égyptiennes, I, 185-186. 24. Urk., IV, 655. 25. Sinuhit, B, 10, 12, 20; Bibl. æg., VII, 30. Bulletin de Qadesh, 5. 26. Diodoro, I, 70. 27. Pap. Harris, 500, IV, 1, 2. 28. J. Vandier d’Abbadie, Les ostraca figurés de Deir et Medinek, 2337, 2339, 2342, 2344, 2347. 29. Maspero, Histoire, II, 294, 295. 30. Ibid., 433, 444. 31. Urk., III, 61, 62. 32. Gardiner, Hieratic papyri in the British Museum, third series, London 1935, vol. II, tavv. 5, 8. 33. Ibid., vol. I, 20, 21. 34. Erodoto, II, 83. Sourdille, Hérodote et la religion de l’Égypte, Paris 1910, cap. VI.

III

La famiglia

Il matrimonio Ogni capofamiglia possedeva una casa, grande o piccola, ammobiliata con splendidi oggetti o poche stuoie. «Fondare una casa» e «prendere moglie» erano espressioni sinonime. Il saggio Ptahhotep consiglia ai suoi discepoli di fare e l’una e l’altra cosa in tempo utile. 1 Il primogenito dei due fratelli del racconto aveva una moglie e una casa; il minore, che non aveva nessuna proprietà, viveva presso il fratello in condizione servile: si occupava del bestiame e dormiva nella scuderia. Ahmose, prima di segnalarsi nell’assedio di Hauârit, da giovane aveva condotto la dura vita del marinaio, dormendo in un’amaca come un veterano. Approfittò di una sospensione delle ostilità per rientrare nella sua città d’origine, Nekhabit, a fondarvi una casa e prendere moglie. Ma non avrebbe goduto a lungo la pace del focolare. La guerra ricominciò. I reclutatori del Faraone non avevano dimenticato che Ahmose era un valoroso e gli fecero sapere che non si poteva fare la guerra senza di lui. 2 Un personaggio al servizio della regina ci dice che la sua sovrana gli aveva dato in moglie una delle dame del suo seguito e gliene aveva proposta un’altra quando era rimasto vedovo. Non se ne lamentava perché la regina aveva fornito la dote a entrambe le sue protette. 3 Si deve ipotizzare che in molti casi fossero i genitori o i superiori a decidere i matrimoni. Ma i canti d’amore conservati nei papiri di Londra e di Torino suggeriscono che i giovani godessero di notevole libertà. Un ragazzo ha notato una bella fanciulla: «Nera è la sua chioma, più nera della notte, più delle bacche del pruno. Rosse sono le sue labbra, più del diaspro rosso, più dei datteri maturi. I suoi seni sono ben piantati sul suo petto». 4 Ed eccolo «innamorato». Per attirare l’attenzione della bella, inventa uno stratagemma: «Voglio sdraiarmi a casa fingendomi malato. I miei vicini entreranno a farmi visita. Mia sorella sarà con loro. E si burlerà dei medici, lei che conosce il mio male!». 5 L’astuzia non ebbe successo. Il galante si ammalò davvero, come nella celebre poesia di André Chénier: «Sono sette

giorni che non ho visto mia sorella. Il languore è penetrato in me. Mi sento appesantito nella mia carne. Il mio corpo non riconosce più se stesso. Nemmeno i più grandi medici potrebbero placare il mio male con i loro rimedi. I sacerdoti non riuscirebbero a far niente. La mia malattia non è scoperta. Ciò che ho fatto, vedete, è ciò che mi fa vivere. Il suo nome è ciò che mi sostiene. Gli andirivieni dei suoi messaggeri mi risuscitano. Mia sorella mi giova più di tutti i farmaci. È più utile dei libri. La mia guarigione dipende dalla sua visita. Se la vedo, sono in buona salute. Se apre gli occhi, la mia carne ringiovanisce. Se parla, sono forte. Io l’abbraccio e lei scaccia il male da me. Ma non è apparsa davanti a me ormai da sette giorni». 6 La fanciulla non è insensibile alla vista di un bel ragazzo. «Mio fratello ha turbato il mio cuore con la sua voce.» 7 Ma pensa all’avvenire e conta su sua madre. «È nel vicinato della casa di mia madre ma io non posso recarmi da lui. Farebbe bene mia madre ad occuparsene al posto mio.» 8 La ragazza spera che il galante capirà e farà il primo passo: «Se mandasse un messaggio a mia madre! Fratello mio, sono votata alla dea Or come sposa. Vieni a me, che io veda la tua bellezza. Mio padre e mia madre sono lieti. Tutti gli uomini ti acclamano e ti applaudono, fratello!». 9 Il «fratello», da parte sua, è pronto ad amare e invoca a sua volta la dea «Or», la signora della gioia, della musica, dei canti, delle feste e dell’amore: «Adoro Nubit, esalto Sua Maestà, esalto la Signora del cielo. Adoro Hathor e acclamo la mia signora. Le rivolgo un rapporto e lei ascolta la mia invocazione. Mi destina una dama. È venuta di persona per vedermi. Quanto è grande ciò che mi accade! Io esulto, sono felice, divento grande!». 10 Gli innamorati si sono visti e compresi ma le parole decisive non sono ancora state dette. La ragazza è lacerata fra il timore e la speranza. «Passavo nelle vicinanze di casa sua. Ho trovato la porta aperta. Mio fratello stava in piedi accanto a sua madre, con tutti i suoi fratelli e sorelle. Il suo amore ha catturato il cuore di tutti quelli che passavano per la strada. Il galante perfetto che non ha eguali, un “fratello” che ha una natura elevata! Mi ha guardato mentre passavo. Ero sola a rallegrarmi. Come ha esultato il mio cuore nel giubilo, quando mio “fratello” mi ha vista. Dio voglia che mia madre conosca il mio cuore. Ella mi si avvicinerebbe. O Nubit, poni questo progetto nel suo cuore. Io corro da mio fratello e lo annuso [gli Egizi baciavano con il naso, non con le labbra come facevano i Greci e faranno gli stessi Egizi in epoca più recente, per imitazione] davanti ai suoi compagni.» 11 Intanto, gli alberi e

gli uccelli del giardino ricevono le confidenze dell’innamorata che già si immagina padrona di casa, mentre passeggia sottobraccio all’amato. 12 Se le cose non vanno in fretta come vorrebbero gli interessati, nella loro naturale impazienza, se sorgono ostacoli, essi vengono dai giovani stessi. I parenti sono consenzienti, sembrano approvare la scelta dei loro figli e resistono solo formalmente. Un Faraone aveva intenzione di dare sua figlia Ahuri in moglie a un generale di fanteria e suo figlio Nenoferkaptah in marito alla figlia di un altro militare, ma lo fece effettivamente solo quando si accorse che quei giovani si amavano davvero. 13 Il principe predestinato arrivò in una città di Naharina dove dei ragazzi della sua età si erano dati appuntamento per tentare una scalata. Il re del paese aveva deciso di dare sua figlia all’ardito scalatore che fosse arrivato per primo alla finestra della bella che risiedeva su un castello appollaiato su una montagna. Il principe si inserì nei ranghi. Si fece passare per figlio di un ufficiale egizio costretto a lasciare la casa paterna. Suo padre si era risposato. La sua matrigna lo detestava e gli rendeva dura la vita. Vinse il concorso. Il re, furibondo, giurò che non avrebbe dato sua figlia a un transfuga egizio. La principessa non era dello stesso parere. Quell’Egizio, che aveva solo scorso, aveva colpito il suo cuore. Se non le fosse stato dato in marito, ne sarebbe morta. Davanti a quella minaccia, l’opposizione del padre ben presto si attenuò. A questo punto accolse benevolmente il giovane straniero, si interessò alla sua storia, sempre ignorando di avere davanti il figlio del Faraone, subì il suo fascino divino, lo abbracciò teneramente, lo accettò come genero e lo colmò di doni. 14 Nei canti d’amore il giovane chiama l’amata «sorella» e la fanciulla, parlando del suo corteggiatore, dice «fratello». Abbiamo però notato che gli innamorati non abitavano sotto lo stesso tetto e che i parenti del giovane non erano gli stessi della giovinetta. Dopo il matrimonio, l’uomo continuerà a chiamare la moglie sonit e non himit. 15 Questa moda si è affermata alla fine della XVIII dinastia. Non sappiamo quando è finita ma certamente durò per tutto il Nuovo Impero. In tribunale si andava meno per il sottile e si usavano i termini son, hay e himit con il significato che avevano sempre avuto: fratello, marito e moglie. Eppure i Greci e sulla loro scorta molti storici moderni hanno sostenuto che i matrimoni fra fratello e sorella erano normali nell’Antico Egitto. 16 Alcuni Faraoni hanno sposato la propria sorella e anche la propria figlia, ma a questo proposito si potrebbe ripetere quello che i giudici reali dissero a Cambise quando egli chiese loro se la legge autorizzava

chi lo volesse a sposare la propria sorella. Nessuna legge lo permetteva, ma una legge permetteva al re di fare tutto quello che voleva. 17 Fino a ora non è stato possibile avanzare un esempio di un Egizio, nobile, borghese o plebeo, che avesse sposato la propria sorella, né per parte di padre né per parte di madre. Sembra che sia stato permesso il matrimonio dello zio con la nipote, perché nella tomba di Amenemhat la figlia di sua sorella, Baket-Amon, stava seduta a fianco di suo zio come se fosse sua moglie. 18 Nei testi e nei documenti figurativi, comunque, si parla raramente del matrimonio. Quando il Faraone del romanzo di Setna-Khamois decise di unire i suoi figli, disse: «Che si accompagni Ahuri alla casa di Nenoferkaptah questa notte stessa! Che la si accompagni con ogni specie di bei doni!». Così fu fatto e adesso è la giovane donna a parlare: «Essi mi portarono in sposa alla casa di Nenoferkaptah. Il Faraone ordinò che mi si portasse una ricca dote in oro e argento e tutti i componenti della casa reale me la presentarono». 19 Il trasferimento della fanciulla con la sua dote dalla casa paterna a quella del fidanzato costituiva dunque l’elemento essenziale della cerimonia. Immagino che questo corteo non fosse meno pittoresco né meno rumoroso delle processioni di portatori di offerte che avevano luogo nei templi, dei cortei di stranieri che sollecitavano di entrare nell’acqua del re e delle sepolture che gli Egizi concepivano come un cambiamento di domicilio. È probabile che il fidanzato aprisse il corteo, dato che sappiamo che Ramses II andò ad aspettare in un castello di sua proprietà fra l’Egitto e la Fenicia la figlia del re Hattusil la quale aveva attraversato parte dell’Asia Minore e tutta la Siria in pieno inverno per diventare la «grande sposa reale». Gli Egizi tendevano alla burocrazia; dunque è possibile che gli sposi si presentassero anche davanti a un funzionario che registrava i loro nomi e la costituzione di un patrimonio coniugale. Quando una donna sposata doveva presentarsi in tribunale, veniva chiamata col suo nome seguito da quello del marito: Mutemuia, moglie dello scriba dei libri sacri Nesiamon. Un ostracon di Tebe precisa che il marito contribuiva al patrimonio coniugale per i due terzi e la moglie solo per un terzo. In caso di decesso di uno dei congiunti, il sopravvissuto aveva l’usufrutto di tutto ma poteva disporre solo della parte per la quale aveva contribuito. 20 Ad esempio un barbiere cedette a uno schiavo il suo magazzino commerciale e gli diede in moglie sua nipote orfana. Quest’ultima ricevette una dote prelevata dal patrimonio personale del barbiere che in precedenza aveva diviso i suoi beni rispetto a quelli della

moglie e della sorella, facendo registrare tale divisione. 21 Ci sembra impossibile che la religione fosse lasciata fuori da un atto importante come il matrimonio. Quando un uomo sposato andava in pellegrinaggio ad Abido, portava sempre con sé la moglie. Assai spesso gli sposi andavano al tempio insieme. Così Neferhotep, capo delle greggi di Amon, era assistito da sua moglie, la padrona della casa, la lodata di Hathor, dama di Cusa e cantatrice di Amon mentre adorava Ra nel momento in cui il dio saliva da oriente e Harakhté quando scendeva all’orizzonte occidentale. Suppongo dunque, malgrado l’assenza di documenti probatori, che gli sposi e forse tutto il loro parentado entrassero nel tempio del dio locale, gli offrissero un sacrificio e ne ricevessero una benedizione. Quando gli scribi e i sacerdoti avevano svolto il loro compito e gli sposi avevano preso possesso del loro domicilio, gli invitati si separavano. Anche in questo caso ci permettiamo una supposizione, tenendo conto del fatto che gli Egizi amavano i pranzi di famiglia. Prima di lasciare gli sposi a se stessi, probabilmente si faceva festa, si beveva e si mangiava bene, almeno quanto il patrimonio delle famiglie o la loro vanità lo permettevano.

La donna I pittori e gli scultori ci danno un’immagine simpatica della famiglia egizia. Il padre e la madre si tengono per mano o alla vita. I figli, rappresentati tutti piccoli qualunque fosse la loro età, si stringono ai genitori. 22 Sotto il regno di Akhenaton divenne di moda rappresentare le effusioni della coppia reale. Il re e la regina divoravano i figli di baci e questi rispondevano carezzando con le loro manine il mento del padre o della madre. Quest’uso tramontò, insieme all’eresia di cui era stato una manifestazione o un effetto. A partire dalla XIX dinastia l’arte egizia recuperò la sua austerità, ma nelle pitture tombali marito e moglie sono sempre rappresentati uno accanto all’altra, uniti per l’eternità come amiamo immaginare che fossero stati uniti durante la vita. La letteratura non è tenera con la donna egizia. Frivola, civettuola e capricciosa, incapace di mantenere un segreto, mentitrice e vendicativa, naturalmente infedele: i romanzieri e i moralisti hanno visto in lei il ricettacolo di tutti i peccati e di tutte le malizie. 23 Un giorno che il re Snefrui

si annoiava a morte, per distrarlo si pensò di far navigare sullo stagno del parco reale una ventina di giovinette vestite solo di una reticella. Una delle rematrici perse un gioiello di turchese nuovo e smise di remare: «Continua, disse il re, te lo sostituirò. – Preferisco il mio vaso alla copia» rispose la bella. E il re cedette immediatamente. Convocò il suo mago che con un procedimento molto originale – posando la metà dell’acqua sull’altra metà – ritrovò il gioiello perduto. 24 L’Enneade degli dèi scorgendo Bytau solo nella valle dell’Abete ebbe pietà della sua solitudine e gli fece dono di una donna che non aveva eguali perché l’acqua di tutti gli dèi era in lei. La donna gli disobbedì immediatamente e poi lo tradì. Bytau resuscitò e si trasformò in toro. Sua moglie intanto era diventata la favorita del Faraone e ottenne, profondendosi in tenerezze con il suo signore e padrone, che il toro venisse immolato. Egli si trasformò in persea e la donna volle che lo si tagliasse. Quando era un semplice servo di campagna presso il fratello maggiore, Bytau aveva fatto la prima esperienza della malvagità delle donne. Era l’epoca della semina. La terra era emersa dall’acqua e pronta per essere arata. I due fratelli erano andati in campagna, poi erano mancate le sementi. Bytau era tornato a casa da solo a prendere del grano. Tornando dal granaio mentre portava facilmente un peso enorme fu scorto dalla cognata che all’improvviso fu colta da ammirazione e desiderio: «Vieni, passiamo un’ora sdraiati insieme. Ti darò bellissime vesti». Bytau divenne come la pantera del mezzogiorno: «Tu per me sei come una madre e tuo marito per me è come un padre. Ah! Le cattive parole che mi hai detto non le ripeterai mai più ed esse non usciranno mai dalla mia bocca!». E se andò lasciando la colpevole umiliata e piena di rancore. Il marito era un uomo collerico e scriteriato. La malvagia creatura ebbe facile gioco a far credere ad Anupu che suo fratello aveva tentato di sedurla attribuendo a se stessa la ripulsa del virtuoso giovane. E questo non le bastò: si sarebbe sentita placata solo quando il preteso seduttore fosse stato punito con la morte. 25 In tempi antichissimi, la moglie di un maestro di cerimonie ingannava il marito con un giovane che copriva di doni. Anche la moglie di un sacerdote di Ra ingannava il marito: aveva popolato la sua casa di tre figli adulterini e si scusava affermando che il padre di quei fanciulli era il dio Ra in persona che aveva così voluto dare all’Egitto tre re pii e benevoli. 26 La moglie che il sacerdote di Ra aveva scelto, Ruddidit, un giorno si adirò con la sua serva e la scacciò. La serva, che aveva indovinato tutto, avrebbe voluto informarne chi

di dovere ma ebbe la cattiva ispirazione di parlarne prima con il fratello che ricambiò la sua confidenza con una vigorosa punizione. 27 Ed ecco una nobile dama, Tabubuit, che era una ierodula e non una donna di strada, pretendere che il suo amante prima diseredasse, poi uccidesse i propri figli. 28 Un’altra nobile dama, avendo notato Verità, un bel giovane, si diede a lui. Una volta soddisfatto il suo capriccio, si occupò così poco del suo amante da lasciarlo mendicare alla porta di casa sua e lasciò passare del tempo prima di rivelare al proprio figlio che quel mendicante era suo padre. 29 In questi racconti egizi, le donne non valgono molto. È l’uomo a essere affettuoso, fedele, devoto ed equilibrato. Ma gli stessi racconti mostrano anche il Faraone come un essere limitato e balzano, costretto a ricorrere, a ogni piè sospinto, a scribi e maghi. Erano le leggi del genere. In realtà molti re egizi furono valorosi in guerra e abili nel gestire gli affari di Stato, e molte Egizie furono spose irreprensibili e madri tenere. Tale fu la giovane donna di cui conosciamo la storia grazie a una stele del Museo britannico: «O sapienti, sacerdoti, principi, nobili e umani, voi tutti che entrate in questa syringe, orsù, ascoltate quello che vi si trova. L’anno IX, il quarto mese dell’inondazione, il 9, sotto Tolomeo XIII, fu il giorno della mia nascita. L’anno XXIII, il terzo mese dell’estate, il primo giorno del mese, mio padre mi diede in moglie al gran sacerdote Pcherenptah, figlio di Petubasti. Fu molto doloroso per questo sacerdote che io abbia concepito da lui per tre volte senza partorire un maschio, ma solo femmine. Dunque pregai con questo sommo sacerdote la maestà di quel dio benevolo, donatore di figli a chi non ne ha, Imhotep, figlio di Ptah. Egli udì i nostri lamenti perché esaudisce sempre coloro che lo pregano... In ricompensa [delle opere pie del sommo sacerdote] ho dunque concepito un figlio che ho partorito nell’anno VI, il terzo mese dell’estate, il 5, alla prima ora del giorno sotto la regina Cleopatra, il giorno della festa delle offerte che si pongono sull’altare di quel dio augustissimo, Imhotep soprannominato Petubasti. E tutti si rallegrarono. L’anno VI, il secondo mese dell’inverno, il 6, fu il giorno in cui approdai [in cui morii]. Mio marito, il sommo sacerdote Pcherenptah, mi portò nella necropoli. Mi dedicò tutti i riti che si riservano agli esseri perfetti. Mi seppellì in forma eccellente e mi mise a giacere nella mia tomba dietro a Rakoti». 30 Sottoposta alla volontà del padre e ai desideri del marito fin nella tomba, la sventurata Taimhotep perì nel fiore degli anni, rimpianta dal marito che non badò a spese per assicurarle una degna sepoltura.

A confronto con questa commovente storia è istruttivo leggere il lamento che un vedovo rivolge alla moglie defunta su un papiro del Museo di Leyda: «Ti ho preso in moglie quando ero giovane. Sono stato con te. Poi ho conquistato tutti i gradi ma non ti ho abbandonata. Non ho fatto soffrire il tuo cuore. Ecco che cosa ho fatto quando ero giovane e quando esercitavo tutte le funzioni più elevate del Faraone, Vita, Salute, Forza non ti ho abbandonata dicendo, al contrario: “Che tutto sia diviso con te!”. Quando qualcuno veniva a parlarmi di te, io non ne accettavo i consigli dicendo invece: “Io faccio secondo il tuo parere!” [...]. Ora, vedi, quando ho ricevuto la carica di istruire gli ufficiali dell’esercito del Faraone e i suoi equipaggi, li mandai a sdraiarsi sul ventre davanti a te, facendo deporre davanti a te ogni sorta di cose buone. Non ti ho nascosto niente dei miei guadagni fino a questo giorno della mia vita... Non sono mai stato sorpreso a farmi beffe di te come fa il contadino che entra in casa altrui... I miei profumi, i dolciumi con le vesti non li ho fatti portare in un’altra casa, ma ho detto: “Mia moglie è là!” perché non volevo darti dolore [...] Quando ti sei ammalata della malattia che hai avuto, ho fatto venire un medico ufficiale che ha fatto il necessario e ha fatto quello che gli hai detto di fare. Quando ho seguito il Faraone che andava verso Sud, ecco come mi sono comportato con te. Ho passato otto mesi senza mangiare né bere come un uomo delle mie condizioni. Quando ho raggiunto Menfi, ho chiesto un congedo al Faraone, mi sono recato nel luogo dove ti trovavi [alla tua tomba] e ho pianto molto con i miei davanti a te. Ora ecco sono passati tre anni. Io non mi preparo a entrare in un’altra casa, cosa che un uomo come me non era obbligato a fare [...] Ecco, non mi sono trasferito in casa di nessuna delle mie sorelle». 31 Questo marito modello, questo vedovo inconsolabile, fa chiaramente capire che molti al suo posto avrebbero agito diversamente, cioè che avrebbero ripudiato, una volta diventati alti funzionari, la moglie di modeste condizioni che avevano sposato quando erano modesti impiegati, che comunque si sarebbero presi delle libertà e che una volta diventati vedovi non si sarebbero sfiniti per tre anni in pianti e lacrime. Quando si è stati così pazienti, si è anche autorizzati a intenerirsi un po’ su se stessi. I romanzi ci informano che la donna infedele era punita con la morte. Anupu, il maggiore dei fratelli, quando ebbe compreso, un po’ tardivamente, che cosa era successo, prese il lutto per il fratello minore; poi rientrò a casa, uccise la moglie e la diede in pasto ai cani. 32 Baytu, alla fine del romanzo,

intentò un processo contro sua moglie davanti ai magistrati di Sua Maestà, Vita, Salute e Forza. Non possediamo il testo del giudizio emesso ma gli Hathor avevano predetto che la donna sarebbe morta di coltello. 33 La moglie di Ubainer che lo ingannava e lo prendeva in giro fu bruciata e le sue ceneri gettate nel Nilo. Anche il suo complice venne punito: 34 era la legge. «Guardati – consiglia lo scriba Any – dalla donna che esce di nascosto, non seguirla, né lei né una sua pari. La donna che ha il marito lontano, ti manda biglietti e ti chiama tutti i giorni quando non ha testimoni. Se riesce ad avvilupparti nella sua rete, commetterai un crimine che attira la pena di morte appena lo si conosce, anche se non lo avessi consumato fino in fondo.» 35 L’adulterio del marito, invece, non era oggetto di alcuna sanzione, almeno per quanto ne sappiamo. L’uomo aveva diritto a tenere presso di sé delle concubine. Un capitolo funerario si propone lo scopo di riunire tutta la parentela nella necropoli. Vi leggiamo che la famiglia comprende il padre, la madre, gli amici, gli alleati, i figli, le mogli, una creatura indicata con il termine int-hnt, che finora non è stato interpretato, i servi e altre persone care. 36 Sono noti casi di poligamia, anche se non molto numerosi. Uno dei banditi che avevano partecipato al saccheggio delle tombe aveva avuto quattro mogli, due delle quali ancora vive quando il tribunale si occupò di lui, e si fecero sentire. 37 In un paese in cui il bastone aveva un posto di rilievo nei rapporti, il marito aveva il diritto di battere la moglie, il fratello la sorella, ma a condizione di non abusarne. L’insulto era punito. Un individuo venne richiamato dai giudici a promettere di non insultare più la moglie se non voleva ricevere cento colpi e perdere ogni diritto ai beni comuni. Era stato il padre della donna a chiedere la protezione delle autorità a favore della figlia. 38 E fece bene, ma non bisogna dimenticare che Mâruf era egizio e che più di una creatura astuta forse aveva giocato un brutto tiro al marito con il sostegno delle autorità.

I figli Lo scriba Any consiglia ai suoi lettori di sposarsi presto e avere molti figli. Il consiglio era però superfluo. Gli Egizi amavano i bambini. «Raggiungerai il tuo paese in due mesi – annuncia il buon serpente al naufrago –, ti riempirai il petto dei tuoi figli e passerai a miglior vita nel

focolare della tua famiglia.» 39 Chi visiti le tombe di Menfi, Amarna o Tebe e osservi le stele di Abido o i più vari gruppi scultorei vedrà ovunque dei bambini. Un grande proprietario come Ti, visitando i suoi terreni, arriva in un punto dove può vedere delle mietitrici e notare come i suoi terreni vengono lavorati. Subito una stuoia viene stesa a terra e vengono portati dei sedili. La famiglia si raccoglie intorno al suo capo: i bambini tengono in mano la canna del padre. Se a Ti fa piacere salire su un canotto per seguire i pescatori o dimostrare la sua destrezza a spese degli uccelli annidati nelle alte ombrelle o perché è il momento di onorare, in mezzo alle zolle di papiro, Hathor, la bella dea, la signora di Imau e del Sicomoro, la sua gioia non sarà completa se non avrà con sé sua moglie e i suoi figli. I ragazzini si esercitano, con successo, a lanciare il giavellotto e l’arpione. Quando Amenhotep II era ancora un delizioso fanciullo, già si esercitava in prove di forza e suo padre ne era orgoglioso. 40 I figli del pastore accompagnavano il padre nei campi. Se il vecchio aveva sete, il piccolo si issava sulla punta dei piedi per alzare la brocca fino alle sue labbra. I figli degli artigiani andavano di qua e di là per la bottega cercando di rendersi utili. Akhenaton e la regina Nefertiti si facevano accompagnare dalle principesse nelle loro uscite in pubblico. Quando rimanevano a palazzo, le principesse stavano accanto ai loro genitori non solo nelle ore di riposo ma anche quando i genitori si occupavano degli affari di Stato. Si arrampicavano sulle ginocchia del re e della regina non temendo di accarezzare loro il mento. Le più grandi partecipavano alla consegna delle decorazioni. Colti dalla tenerezza, i felici genitori stringevano le più piccole fra le braccia e le divoravano di baci. Lo stesso Ramses II era fiero dei suoi centosessanta e più figli. Strabone osserva con stupore un costume specifico degli Egizi, al quale essi tenevano moltissimo: allevavano tutti i figli che nascevano loro. 41 Questa fecondità delle famiglie, contrastante con la tradizione greca, dipendeva dalla fertilità del paese e dalla clemenza del clima. Come dice Diodoro, i figli praticamente non costavano niente ai genitori. Finché erano piccoli, andavano scalzi e nudi, i ragazzini con una collana, le bambine con un pettine e una cintura. Tutti si nutrivano con poco, di rametti di papiro e di radici crude o cotte. 42 Se tutti i figli erano bene accolti, il desiderio di avere un maschio era universale. Sappiamo già che cosa pensava in proposito il gran sacerdote di Ptah, Pcherenptah. «C’era una volta un re – comincia la storia del principe predestinato – al quale non nasceva un secondogenito maschio. Il suo cuore

ne era attristato. Chiese un figlio agli dèi del suo paese che decisero di concederglielo.» Il figlio maschio aveva il compito di far vivere il nome di suo padre e il dovere, ricordato da cento iscrizioni, di seppellirlo e curarne la tomba. 43 Gli Egizi erano molto ansiosi di conoscere l’avvenire e per prevedere quello dei neonati disponevano di una costellazione di sette divinità che venivano chiamate Hathor. Esse si presentavano, invisibili, al capezzale del neonato e decretavano come sarebbe morto, senza possibilità di appello. «Morrà di coltello» dissero della fanciulla che gli dèi vollero assegnare come compagna a Bytau. 44 Per il figlio che il re aveva desiderato così a lungo decretarono: «Morirà per colpa del coccodrillo o del serpente o anche del cane». 45 Siccome avevano trascurato di dire a che età si sarebbe prodotto il fatale incidente, la vita del povero principino era stata regolata di conseguenza fino al momento in cui, diventato adulto, il giovane fece notare che tutte le precauzioni erano inutili perché era impossibile eludere il destino. Che lo lasciassero agire liberamente! Non sappiamo se gli Hathor si scomodavano per tutti i bambini, ma ogni padre di famiglia era in grado di stabilire l’oroscopo del proprio figlio. «Insieme ad altre invenzioni – disse Erodoto – gli Egizi hanno trovato a quale divinità appartengono ogni mese e ogni giorno e in base al giorno di nascita conoscono la sorte loro riservata, il giorno e il modo della propria morte.» 46 In base al calendario dei giorni fasti e nefasti, chiunque nascesse il 4° giorno del primo mese di perit sarebbe morto a un’età più avanzata del proprio padre. Era un giorno fausto. Era anche molto vantaggioso nascere il 9 del secondo mese di akhit, perché si sarebbe morti di vecchiaia, e ancor più il 29, perché si sarebbe morti circondati dal rispetto. Invece il 4, il 5 e il 6 dello stesso mese non facevano presagire niente di buono. Coloro che nascevano in quei giorni sarebbero morti di febbre o d’amore o di ubriachezza. Chi nasceva il 23 doveva temere il coccodrillo; il 27 non era certo preferibile: in questo caso, bisognava temere il serpente. 47 Le circostanze in apparenza più insignificanti erano gravide di conseguenze. Il papiro medico Ebers registra alcuni casi. Se il bambino dice «Hii» vivrà, se dice «Mbi» vivrà. Se fa sentire una voce d’abete morirà, se volge il viso verso il sole morirà. 48 Gli Egizi sapevano che Osiride, trasportato sulla riva di Biblo, era stato assorbito da un abete miracoloso. Un grido infantile che evocasse il rumore dell’abete, famigliare a chi aveva viaggiato in Siria, era dunque di buon auspicio.

Più o meno rassicurati, i genitori si affrettavano a dare un nome al proprio figlio. Gli Egizi non potevano farne a meno perché non avevano nomi di famiglia. La figlia del Faraone quando adottò il neonato che aveva trovato nel cesto gli diede semplicemente un nome che sarebbe diventato illustre. Molti hanno immaginato, già nell’antichità e poi in tempi più recenti, che questo nome dovesse rievocare le circostanze del ritrovamento e si sono accaniti a trovarne l’etimologia. Moshe però non significa «salvato dalle acque». È semplicemente la trascrizione dell’egizio mose, l’elemento finale dei nomi Thutmose, Ahmose e altri dello stesso genere. La principessa che aveva salvato un bambino che riteneva orfano si era semplicemente sostituita ai genitori dandogli il nome. I nomi degli Egizi talvolta erano molto brevi: Ti, Abi, Tui, To. Talvolta erano composti da un’intera frase: «Ged-Ptah-iuf-ânkh: Ptah ha detto che vivrà». Qualche volta dei nomi comuni, aggettivi o participi, si sono trasformati in nomi propri: Jiâu, il bastone, Chedon, l’otre, Nekhti, il forte, Chery, il piccolo, Ta-mit, la gatta. La maggior parte dei genitori preferivano porre i loro figli sotto la protezione di una divinità. I figliocci del dio Horo si chiamavano Hori, quelli del dio Seth, Seti, quelli di Amon, Ameni. Lo storico Manetone si raccomandava al dio tebano Montu. Il nome poteva indicare che il dio era soddisfatto, il che ha favorito la proliferazione degli Amon-hotep, Khnum-hotep. Pta-hotep (che indica che Amon, Khnum o Ptah precedeva il fanciullo), e Amonemhat (secondo il quale Amon ne era il protettore o il padre). I Sanusert, che i Greci hanno trascritto come Sesostris, erano figli della dea Usert, i Siamon, del dio Amon. Mutnegem significa che la dea Mut è soave. Possiamo così dedurre il credito goduto nella storia dalle diverse divinità. La signora di Biblo nell’Impero di Mezzo divenne madrina di molte Egizie. Fra l’avvento di Ramses I e la guerra degli Impuri incontriamo molti Seth-nekhti, Seth-emuia (Seth nella barca di [Ra]), perché la famiglia regnante era fiera di discendere direttamente dall’uccisore di Osiride. Dopo la guerra, Seth divenne un dio detestabile e nessun bambino ne portò più il nome. Anche il re era un dio e la sua protezione era molto efficace. Sotto la XVIII dinastia sono attestati degli Geserkarêsenb, dei Menkheperrêsenb, dei Nimârênekht. Poi i Ramses-nekht si moltiplicarono per due dinastie. Come si è visto, il repertorio era vasto. La scelta dei genitori poteva essere guidata da una circostanza esterna, ad esempio da un sogno. Setna Khamoîs non aveva figli maschi. Sua moglie passò la notte nel tempio di

Ptah. Il dio le apparve in sogno e le fece una raccomandazione; la donna si affrettò a obbedire e concepì. Suo marito a sua volta sognò che il figlio si sarebbe dovuto chiamare Senosiris. 49 I genitori che avevano scelto un nome per il proprio figlio non dovevano far altro che farlo registrare dall’autorità competente. «Ho partorito questo piccolo che sta davanti a me» dice la principessa Ahuri, moglie di Nenoferkaptah. «Gli fu dato il nome di Merab che venne iscritto sui registri della casa di vita.» 50 La casa di vita di cui avremo occasioni di riparlare più volte era una specie di Istituto egizio dove astronomi, pensatori e storici conservavano tutte le nozioni fino allora acquisite e lavoravano ad accrescerne il tesoro. Queste ambizioni non erano incompatibili con funzioni anche più umili. La casa di vita accoglieva forse, accanto agli studiosi, dei semplici scribi che registravano le nascite, i matrimoni e le morti. Questa supposizione non è stata convalidata e forse potremmo ritenere, sulla scorta di Maspero, che si portassero i bambini alla casa di vita per far fare loro l’oroscopo e sapere quali precauzioni prendere per contrastare il più possibile i cattivi presagi del destino. Infatti Merab, figlio di Nenoferkaptah e di Ahuri, non era un ragazzino qualsiasi. In ogni caso, le autorità civili tenevano certamente un registro delle nascite, dei matrimoni e delle morti. Nei documenti giudiziari, gli accusati e i testimoni sono chiamati col loro nome seguito da quello del padre e della madre e con l’indicazione del mestiere. Se i nomi che si potevano dare a un bambino erano molti, altrettanto numerosi erano gli omonimi. Amenhotep, gran favorito del re Amenhotep III, era soprannominato Huy. C’erano tanti Amenhotep, e anche gli Amenhotep soprannominati Huy erano numerosi. Il favorito di Amenhotep III aveva preso l’ottima abitudine di aggiungere al proprio nome e soprannome il nome di suo padre, Hapu. Queste aggiunte non erano casuali: assumevano carattere ufficiale. Sono un’ulteriore prova che le autorità cercavano di tenere in ordine le registrazioni dello stato civile. Il bambino in tenera età viveva con la madre che lo portava in genere contro il petto, in una specie di bisaccia legata al collo che lasciava le mani libere. 51 Lo scriba Any rende omaggio alla devozione delle madri egizie: «Rendi a tua madre tutto quello che ha fatto per te. Dalle pane in abbondanza e sostienila come lei ti ha sostenuto. Ha retto un peso grave, con te. Quando sei nato, per sei mesi ti ha portato sostenuto alla nuca e per tre anni il suo seno è stato nella tua bocca. Non provava disgusto davanti alle tue

sozzure». 52 Le regine e forse altre donne di alto rango non si davano tanta pena. La madre di Qenamon aveva il titolo di grande nutrice, per ricordare che aveva allevato il dio. Questo dio, che non è altri che il Faraone Amenhotep II, rimase riconoscente per tutta la vita alla sua nutrice: andava a farle visita e si sedeva sulle sue ginocchia come quando era piccolo. 53 I principini spesso erano affidati a dignitari che erano invecchiati al servizio del re. Paheri, principe di Tjeni e governatore di Nekhabit, è rappresentato nella sua tomba in atto di tenere sulle ginocchia un bambinello nudo, che ha la guancia destra coperta da un ricciolo. E il fanciullo reale Uagi-mose. L’importante governatore aggiunge ai suoi titoli quello di nutritore del fanciullo reale. 54 Un veterano delle guerre di liberazione, Ahmose di Nekhabit, racconta: «Ho raggiunto un’eccellente vecchiaia, in mezzo a coloro che vivono accanto al re... La divina sposa, la grande sposa reale Mâkarê ha rinnovato i miei favori. Sono io che ho allevato la sua figlia maggiore, la fanciulla reale Neferure quando era ancora lattante». 55 Il vecchio militare non poté dedicare molto tempo alla bambina alla quale è attribuito un altro padre nutritore, il capo architetto Senmut al quale si deve uno dei più bei templi dell’intero Egitto, Deir el-Bahari, e che ha edificato anche gli obelischi di Karnak. Il grande artista e la fanciulla si intendevano a meraviglia. Questa reciproca tenerezza è stata rappresentata con forza e semplicità dagli scultori. Una statua di Senmut ha l’aspetto di un cubo interamente coperto da geroglifici da cui emergono solo la testa del padre nutritore e, davanti, quella della piccola principessa. Veniva il giorno in cui i bambini non si accontentavano più di una semplice collana come unica veste. Al ragazzo si davano un perizoma e una cintura e alla ragazzina un abito. La consegna di questi attributi era un passaggio importante nella vita dei bambini. Vecchi cortigiani come Uni o Ptah-Chepses non avevano mai dimenticato di avere legato la cintura al re. Quel giorno probabilmente coincideva con l’ammissione alla scuola. Invece i figli dei contadini e degli artigiani restavano a casa, a imparare a sorvegliare il bestiame, a maneggiare gli strumenti del mestiere nel quale erano nati.

I servi e gli schiavi Non è sempre facile distinguere, fra le persone che gravitavano intorno a

un personaggio, quelle che lo assistevano nelle sue funzioni da quelle che erano al suo servizio o appartenevano alla sua famiglia. Gli Egiziani però non li confondevano. Hâpi-Gefai, nomarco di Siut, usava sia i beni della casa di suo padre, cioè la sua fortuna personale, sia i beni che amministrava per conto dello Stato. Con i beni della casa di suo padre retribuiva gli addetti al suo culto funerario. Ma il culto funerario era solo la continuazione della vita presente. Possiamo dunque immaginare che i servi fossero retribuiti da chi li impiegava, con i suoi beni personali. Molti termini della lingua egizia corrispondono ai nostri termini di domestico o servo: gli ascoltatori, quelli che ascoltano l’appello, gli scalchi, ubau, quelli il cui nome è determinato oppure scritto per un vaso, gli shemsu. Quest’ultimo termine si indica con un segno complicato formato da una lunga canna ricurva, da una stuoia o una coperta arrotolata e attaccata a una cintura e da una scopetta. Lo shemsu accompagnava il padrone nelle sue uscite e quando questi si fermava, distendeva la stuoia al suolo, consegnava il grande bastone in mani sicure e di tanto in tanto dava un colpo con la scopetta. Il padrone poteva allora ricevere gli intendenti e ascoltare i rapporti. Un altro shemsu portava i sandali durante la marcia. Nelle fermate, asciugava i piedi del padrone 56 e lo calzava. Gli scalchi, o ubau, erano addetti ai pasti e servivano a tavola. Erano nella migliore posizione per raccogliere confidenze, far scivolare un suggerimento e quindi erano importanti. Gli scalchi del Faraone facevano parte di tutte le più importanti commissioni d’inchiesta. Tutti quelli che abbiamo citato finora erano – se non andiamo errando – dei lavoratori liberi. Potevano lasciare il servizio del padrone, esercitare un mestiere, acquistare una proprietà e se ne avevano i mezzi potevano anche farsi servire a loro volta. Bytau – dopo che il fratello gli ebbe fatto torti particolarmente gravi – dichiarò che non voleva più servirlo. Anupu poteva ormai curare da sé il suo bestiame. In questo caso, signore e servo erano fratelli ma possiamo ipotizzare che anche se fra i due non ci fossero stati legami famigliari, Bytau avrebbe comunque lasciato il posto. La donna che aveva dato alla luce tre re, Ruddidit, in seguito a una lite con la sua serva, l’aveva fatta frustare. La serva se ne andò senza dare spiegazioni. È vero che venne punita, prima dal fratello, poi dal coccodrillo, strumento della vendetta divina, ma perché voleva rivelare al re il segreto di Ruddidit e non per avere lasciato il posto. Naturalmente il padrone poteva licenziare il servo ancor più facilmente.

Invece le persone chiamate hemu o beku, almeno al tempo del Nuovo Impero, potevano essere considerate veri e propri schiavi. Non solo erano trattate duramente, ma se fuggivano venivano inseguite. Uno scriba scrive al suo superiore che «due uomini sono fuggiti davanti al capo della scuderia Neferhotep, che li ha fatti battere. In seguito hanno disertato e non c’è nessuno per arare. Così il padrone deve essere informato». 57 Due lavoratori erano fuggiti dalla residenza di Ramses, o perché erano stati battuti, o per amore della libertà. Il capo degli arcieri Ka-kem-ur, di Tjeku, venne mandato a cercarli. Partendo da Pi-Ramses arrivò al recinto di Tjeku il giorno dopo. I due erano stati visti dirigersi verso Sud. L’ufficiale si presentò alla fortezza in tempo per apprendere che i fuggitivi avevano varcato le mura a nord del migdol di Seti-Merenptah. Si rinunciò a inseguirli ulteriormente e ci si limitò ad archiviare la vicenda. 58 Non tutti gli schiavi avevano tanta fortuna. Nella tomba di Neferhotep, davanti al padrone uno scriba fa l’appello degli schiavi. Uno di essi ha le mani legate ed è tirato con una cavezza. Altri due sono puniti e un guardiano si prepara a legarli. La scena potrebbe essere intitolata: «Il ritorno dei fuggitivi». 59 Quasi sempre gli schiavi erano di origine straniera. Catturati nel corso di una campagna vittoriosa in Nubia, in Libia, nel deserto orientale o in Siria, venivano assegnati dal Faraone o dal suo araldo a colui che li aveva catturati, se si trattava di un atto individuale, oppure suddivisi fra i guerrieri se si era trattato della cattura di un gruppo di nemici. Il valoroso Ahmose nel corso del suo lungo servizio aveva così catturato diciannove schiavi, dieci donne e nove uomini, molti dei quali portavano nomi stranieri: Pa-Megiaiu, Pa-Amu, Istarummi, Hedit-Kush. Gli altri schiavi che portavano nomi egizi forse erano stati donati ad Ahmose in occasione della campagna del Delta a meno che il loro padrone non ne avesse cambiato i nomi cananei o nubiani in nomi egizi, come accadde a Giuseppe. 60 Il padrone poteva affittare o vendere il suo schiavo. Un uomo che avesse bisogno di vesti poteva affittare per due o tre giorni i servizi di una schiava siriana. Non si dice che cosa ci si aspettasse da questa schiava, ma il prezzo richiesto era molto elevato. 61 Un cittadino di Tebe fu sospettato di avere partecipato al saccheggio di tombe perché aveva aumentato improvvisamente il suo tenore di vita. Il giudice interroga sua moglie: «In che modo ha acquistato gli schiavi che aveva con sé?». La donna risponde: «Non ho visto con che denaro li ha pagati. Era in viaggio quando era con loro». 62 Un papiro

del Cairo pubblicato di recente fornisce qualche indicazione su come si acquistava uno schiavo. Un mercante di nome Raia propone al suo cliente l’acquisto di una giovane schiava siriana. Si accordano. Il prezzo viene pagato non in argento o in oro ma in merci diverse valutate in base al valore corrispondente in argento. Si fanno giuramenti davanti a testimoni, che vengono registrati dal tribunale. Lo schiavo diventa proprietà di colui che l’ha pagato e gli conferisce subito un nome egizio. 63 Quando il governo cominciò a reprimere i saccheggi di tombe, molti schiavi furono riconosciuti colpevoli. Il tribunale non li risparmiò, infliggendo loro una duplice o triplice punizione col bastone, ma anche gli imputati liberi non erano trattati meglio. Il padrone batteva lo schiavo ma si potevano battere anche i pastori, gli impiegati, i contribuenti recalcitranti. Pochi erano coloro che, come un certo Negem-ab, vissuto sotto l’Antico Impero, potevano dire di non essere mai stati bastonati dalla loro nascita in presenza di superiori. 64 Chi sa, del resto, se questo fortunato mortale non aveva ricevuto in segreto e senza testimoni più di un colpo di bastone di cui certo non si vantava. Insomma, se si tiene conto degli ostacoli che impedivano alla gente di estrazione modesta di emergere dalla propria condizione, concluderemo che non c’era molta differenza fra la situazione dei liberi delle classi più basse e quella di coloro che chiamiamo schiavi. Abbiamo già citato un documento in cui si certifica che l’ex schiavo di un barbiere ottenne dal padrone un atto di affrancamento, gli succedette nel mestiere e ne sposò la nipote. Gli schiavi che sapevano arrangiarsi riuscivano dunque a emergere dalla loro condizione per fondersi nella massa della popolazione.

Gli animali domestici Il cane, che era compagno e ausiliario dell’uomo a caccia, aveva accesso alla casa del padrone. Si insediava educatamente sotto la sua sedia e dormiva con un occhio solo, come fanno i cani. 65 Il cane da pastore non lasciava mai il padrone che gli ordinava, con la voce e con il gesto, di radunare il gregge e guidarne la marcia. 66 I cani da pastore e i cani da guardia erano tutti del tipo levrieri, con gambe lunghe e lunga coda, il muso allungato, le orecchie abbastanza grandi

e cascanti ma qualche volta erette e puntute. Sotto il Nuovo Impero non si vedono più i levrieri africani con la coda all’insù né i cani da guardia di taglia media con le orecchie diritte e ancor meno i bassotti di moda sotto l’Impero di Mezzo. Oltre ai levrieri era diffusa una razza di taglia piccola chiamata ketket. Un ketket venne presentato al principe predestinato che aveva chiesto un vero cane, rifiutando con indignazione l’animaletto. I levrieri erano spesso portati al guinzaglio ma potevano anche essere lasciati liberi. Un altro animale domestico, la scimmia, si arrogava il diritto di sorvegliarli. Ad esempio in casa di Montu-hir-khopeshef 67 vediamo una scimmia che afferra la corda del cane e la tiene ben tirata. Il gesto non è gradito al cane che si volta per protestare, forse non solo con la voce. I cani avevano dei nomi. Sotto la I dinastia un cane era chiamato Neb, «signore». Venne sepolto accanto al padrone ed è stata recuperata la stele con il suo nome e la sua immagine. Il re Antef aveva dato ai suoi quattro cani dei nomi berberi. Ne era così fiero da farli rappresentare su una stele che si può vedere al museo del Cairo. Egli aveva fatto innalzare davanti alla sua tomba una statua oggi perduta che è descritta in un rapporto dei magistrati sui furti nelle tombe reali. Il cane Bahika, termine che in lingua berbera significa orice, stava in piedi, fra le gambe del re. Ad Abido c’era una tomba di cane, in mezzo alle tombe di donne, arcieri e nani. Ce n’era un’altra a Siut, da cui proviene il cane di calcare del Louvre che non ha l’aria di un guardiano rassicurante, nonostante la campanella che gli pende dal collare. Gli Egizi non hanno rifiutato ai cani gli onori funebri o divini, ma va osservato che gli artisti non hanno mai rappresentato l’uomo nel gesto di accarezzare l’animale o di giocare con esso. Le distanze erano sempre conservate. La scimmia si è forse avvicinata maggiormente al cuore dell’uomo. Era entrata in casa ai tempi dell’Antico Impero. Divertiva tutti con le sue smorfie e i suoi salti e anche con gli scherzi in cui aveva come compari i nani e i gobbi che allora facevano sempre parte del personale di una grande casa. I nani più apprezzati erano quelli che venivano da lontano. Harkhuf conquistò la riconoscenza del sovrano e la celebrità fra gli egittologi portando con sé da una missione nel Sud un nano che danzava il dio. Un simile evento non si era verificato dai tempi del regno di Asesi, un secolo prima. Una delle tombe più lussuose che circondano la piramide di Chefren è quella del nano Senb. I nomarchi di Menat Khufu tenevano ancora presso di sé nani e gobbi ma ai

tempi del Nuovo Impero non se ne incontravano più né alla corte dei re né nelle case dei privati. Invece il favore della scimmia rimane immutato. V. Loret ha trovato nella tomba di Thutmose III un cinocefalo mummificato che vi si trovava più che in rappresentanza del dio della scrittura e della scienza, perché, avendo divertito il re in vita, si sperava che potesse fare altrettanto nel regno osiriaco, come la mummia del cane posta all’ingresso della tomba di Psusennes. Le scimmie erano affezionate alla sedia del padrone. 68 In mancanza di nani e gobbi erano i bambini di casa e i piccoli neri i suoi compagni abituali e talvolta le sue vittime. 69 Quando i frutti erano maturi, le scimmie qualche volta si arrampicavano sugli alberi. 70 Certamente mangiavano più datteri e fichi di quanti non ne cogliessero ma il giardiniere non se ne irritava. L’Egitto era fertile e tutti dovevano pur vivere. Amon aveva creato tutti gli esseri e Hapi offriva le sue acque a tutto ciò che viveva. La scimmia andava abbastanza d’accordo con il cane e con il gatto, meno con l’oca del Nilo che aveva un carattere litigioso e in certe occasioni la puniva. 71 Il gatto non sembra essere riuscito a introdursi in casa fino all’Impero di Mezzo. Si rifugiava nelle paludi e saccheggiava i nidi, come la genetta e altri piccoli carnivori che vivevano a spese degli alati. 72 La concorrenza dei cacciatori non lo disturbava. Intanto che questi scivolavano senza rumore fra i papiri, prima che avessero lanciato i loro boomerang, il gatto era già balzato sulla preda e aveva messo a segno due colpi. Stringeva un’anatra selvatica fra i denti e intanto aveva afferrato una coppia di rigogoli. 73 Senza rinunciare alla propria indipendenza di carattere né dimenticare i propri istinti di cacciatore, era diventato ospite della casa dell’uomo. Cominciò ad accettare di stare seduto sotto la sedia dei padroni poi, più ardito del cane, a saltare sulle loro ginocchia e a farsi le unghie sulle loro belle vesti di lino. 74 Accettò addirittura che gli si mettesse il collare. Questo ornamento non aveva niente di sgradevole ma quando lo si legava al piede della sedia mettendo fuori dalla sua portata una tazza di latte, evidentemente ci si voleva burlare di lui. Allora rizzava i peli, tirava fuori le unghie e tirava il collare con tutte le sue forze. 75 Normalmente andava d’accordo con gli altri animali domestici, con la scimmia come con l’oca smon. Su un piccolo monumento, vediamo un’oca e una gatta che si fronteggiano. La loro calma è impressionante ma non bisogna dimenticare che rappresentavano il potente dio Amon e la sua paredra Mut. Consapevoli del loro ruolo di animali sacri, sapevano comportarsi adeguatamente. Ma erano anche capaci di usare zampe e becco e non è certo

che in caso di lite fosse sempre il gatto a uscire vincitore dal conflitto. 76 Gli Egizi non ignoravano che il gatto era il terrore dei topi. 77 Per legarlo alla casa il padrone sapeva che non c’era niente di meglio che fargli dono di un bel pesce che il gatto divorava sotto la sua sedia. 78 Un giorno Apuy andò sul suo battello, che aveva la forma di un’anatra, a caccia di uccelli acquatici con la moglie e un servo e portò con sé un gatto, lo stesso che abbiamo visto farsi le unghie sulla veste del padrone. Come i suoi antenati selvatici, l’animale si lancia all’assalto dei nidi ma i padroni, al momento debito, riusciranno a richiamarlo e riportarlo a casa. 79 Fra i volatili di cortile gli Egizi individuarono ben presto l’oca del Nilo, smon, che i naturalisti chiamano chenalopex. 80 Invece di allevarle in recinti, gli Egizi le lasciavano entrare in cortile, in giardino e persino in casa. Perciò Khufu quando volle dimostrare il proprio sapere di mago che pretendeva addirittura di rimettere a posto una testa tagliata pensò di far portare innanzitutto uno smon. Con il gatto l’oca divideva lo spazio privilegiato protetto dalla sedia del padrone. Dotata di carattere molto indipendente, essa non abusava di questo privilegio e spesso tornava a divertirsi sulle sponde del Nilo. I suoi misfatti erano numerosi: nella stagione calda rovinava i datteri, in quella invernale i frutti delle palme dum, per il resto dell’anno inseguiva i contadini non permettendo loro di seminare in pace. Eppure gli Egizi, che la chiamavano animale malvagio, che avevano rinunciato a metterla in trappola e a offrirla alla tavola degli dèi, erano indulgenti con essa, erano divertiti dalla sua ghiottoneria, dal suo carattere aggressivo, dal suo verso rauco. 81 Forse in certe occasioni sapeva dimostrarsi una guardiana vigile e incorruttibile quanto il cane. Se poi era il caso di punirla il cane se ne incaricava volentieri, anche a rischio di qualche beccata. 1. Ptah-hotep (ed. Dévaud), massima 21. 2. Urk., IV, 2-3. 3. Urk., IV, 30, 31. 4. Louvre, C 100, Maspero, Études égyptiennes, I, 257, 8. 5. Pap. Harris, 500, Chants d’amour, II, 9, 11; W.-M. Muller, Die Liebespoesie der alten Ægypten. 6. Alan H. Gardiner, The Chester Beatty papyri, n. 1, tavv. 25, 6-26, 2. 7. Ibid., 22, 8. 8. Ibid., 22, 8; 23, 1. 9. Ibid., 23, 2-4. 10. Ibid., 24, 4-7.

11. Ibid., 24, 10-25, 6. 12. Pap. Harris, 500, Chants d’amour, IV, 2; V, 3. 13. Maspero, Contes populaires, IV ed., 128. 14. Ibid., 197, 203. 15. Davies, Neferhotep, 36, 37; Mem. Tyt., IV, 5; V, 5-7. Non bisogna dimenticare che i termini che indicano i rapporti di parentela nella lingua egizia hanno, accanto al loro significato preciso, un senso più esteso. Iôt, padre, significa qualche volta anche antenato. Sn e snt, fratello e sorella, indicano talvolta anche i membri di un gruppo. Il verbo snsn significa essere associati. 16. Maspero, Contes populaires, IV ed., 129, nota I: 1; Moret, Le Nil et la civilisation égyptienne, 110, 318-319. 17. Erodoto, III, 31. 18. Th. T.S., I, 4: A2, XLVIII, 50. 19. Maspero, Contes populaires, IV ed., 130. 20. J. Cerny, La constitution d’un avoir conjugal en Égypte, Bull. I.F.A.O., 1937, 41 ss. 21. Linage, in Bull. I.F.A.O., XXXVIII, 233, 599. 22. Un esempio fra tanti: Mem. Tyt., IV, I. 23. Ptah-hotep, ed. Dévaud, 309, 310. 24. Maspero, Contes populaires, IV ed., 29, 31. 25. Ibid., IV ed., 3, 21. 26. Ibid., 38, 40. 27. Ibid., 43. 28. Ibid., 148, 169. 29. Papyrus Chester Beatty, n. 11, retto 4-5. 30. Br. Mus., n. 1027; Maspero, Études égyptiennes. 31. Pap. di Leyda, 37; Sethe e Gardiner, Egyptian Letters to the dead. 32. Pap. d’Orbiney, VIII, 7, 8. 33. Ibid., IX, 8, 9. 34. Pap. Weaster; Maspero, Contes populaires, IV ed., 28. 35. Papiro morale di Boulaq, II, 13, 17. Maspero, Histoire, II, 502. La stessa minaccia la registriamo nelle Massime di Ptah-hotep, ed. Dévaud, 287-288. «È un momento breve come un sogno. Si guadagna la morte, a volerlo conoscere.» 36. Coffin texts, cap. 146, t. II, 180 ss. 37. Br. Mus., 10052. XV, 4. Anche un altro ladro di tombe risulta poligamo (Peet, Meyer papyri, 13 E, 6); cfr. Erman-Ranke, Ægypten... 177. 38. Bull. I.F.A.O., 1937, 41, 599. 39. Naufragé, 168-169.

40. Bull. I.F.A.O., XLI, 31. 41. Strabone, XVII, 2, 5. 42. Diodoro, I, 80. 43. Si vedano ad esempio le raccomandazioni di Hâpi-Gefai a suo figlio, all’inizio dell’iscrizione dei contratti (Siut, 1, i, 269, 272). 44. Pap. d’Orbiney, IX, 8-9. 45. Pap. Harris, 500, V-IV, 3, 4. 46. Erodoto, II, 82. 47. Pap. Sallier IV (Bibliothèque égyptologique, t. XII, 153, 154, 160, 161). 48. Pap. Ebers, 97, 13, 14 (ricette) 838, 839. 49. Maspero, Contes populaires, IV ed., 156, 157. 50. Gardiner, The house of life, J.E.A., XXIV (1938), 175; cfr. Maspero, Contes populaires, IV ed., 130, nota 1. 51. Bassorilievo di Berlino, 14506, Wr. Atl., I, 387. 52. Papiro morale di Boulaq, VI, 17 ss.; cfr. Maspero, Histoire, II, 502, 503. 53. Davies, Ken-Amun, tav. 51 e 9. 54. Paheri, 4. 55. Urk., IV, 34. 56. Davies, Ken-Amun, 35: gruppo di servi dietro la sedia del loro padrone. 57. Bibl. æg., VII, 3. 58. Ibid., VII, 66, 67. 59. Davies, Neferhotep, 43. 60. Urk., IV, 11. 61. Gardiner, Four papyri of the 18th dynasty from Kahhun, AZ XLIII, 27869. 62. Pap. Br. Mus., 10052, XI, 4, 9. Un’altra accusata afferma di essersi procurata i suoi schiavi con i prodotti della sua proprietà (Ibid., X, 11 ss.). 63. Gardiner, Lawsuit arising from the purchase of slaves, J.E.A., XXI (1935), 140-146. 64. Urk., I, 75. 65. Davies, Five theban tombs, II, 25, 26, 27, 28. 66. Mem. Tyt., V, 34. 67. Davies, Five theban tombs, 4. 68. Miss. fr., V, 547. 69. J. Vandier d’Abbadie, Catalogue des Ostraca figurés de Deir el-Medineh, 2035, 2037, 2038, 2040. 70. Ibid., 2003, 2004. 71. Wr. Atl., I, 123.

72. Newberry, Beni-Hasan, IV, 5. 73. Br. Mus. 37977 in Wr. Atl., I, 423. 74. Mem. Tyt., V, 25. 75. Miss. fr., V, 552, sull’ostracon 21443 di Berlino (Erman, La religion des Égyptiens, tav. 11), un gatto gioca con una scimmia. 76. Archives du Museum d’Histoire naturelle de Lyon, XIV, 21; tomba 217 a Tebe. 77. Ostracon 2201 di Deir el-Medineh. 78. Mem. Tyt., I, 10. 79. Mem. Tyt.,V, 30. 80. Kuentz, L’oie du Nil, archives du Muséum d’Histoire naturelle de Lyon, XIV, 1-64. 81. Bibl. æg., VII, 102 (Pap. Lansing, 3, 5, 8).

IV

Le occupazioni domestiche

La pulizia Gli antichi Egizi erano assai puliti e curavano molto sia il loro corpo sia i loro abiti e le loro abitazioni. 1 Quando Sinuhit rientra in Egitto dopo la grazia una delle gioie che prova è quella di togliersi le vesti di lana multicolore che portava presso i Beduini. 2 Come Ulisse dai Feaci, allontana gli anni dalla sua carne. Si depila, si pettina, si friziona non più con unguenti d’albero ma con incenso di prima qualità, forse contenuto in un vaso di ossidiana e oro come quello che il re di Biblo Abichemu aveva ricevuto in dono da Amenemhat III, e indossa vesti di lino. 3 Ci si lavava più volte al giorno, la mattina appena alzati, prima e dopo i pasti principali. Il materiale per la toilette era composto di solito da un catino e da un vaso a becco che abitualmente si depositava sotto il tavolino dei cibi. Il nome del catino, shâuti, sembra derivato da shâ, sabbia, e quello del vaso, hesmenyt, dal natron, hesmen. Probabilmente si metteva del natron nell’acqua del vaso e della sabbia nel catino. L’acqua per pulirsi la bocca era disinfettata con un altro sale detto bed. Con il nome di suabu, derivato da uâb, «pulito, puro», si indicava una pasta solidificata contenente una sostanza sgrassante e schiumosa, ad esempio della cenere o dell’argilla da spurgo. 4 Dopo un primo lavaggio, gli uomini si affidavano al barbiere, al pedicure, al manicure, le donne al parrucchiere. Il risveglio del re era un avvenimento, a corte. I personaggi più importanti si facevano una gloria di assistervi e un merito di essere puntuali. 5 Anche i visir, gli alti magistrati, i governatori avevano il loro risveglio cerimoniale. I fratelli e i clienti si radunavano intorno al capo. Gli scribi si accoccolavano per registrare gli ordini, con la penna alzata, o dispiegavano un lungo foglio di papiro che conteneva nomi, cifre, lavori fatti o da fare. Pedicure e manicure si impadronivano dei piedi e delle mani. Il parrucchiere radeva la barba e tagliava i capelli. Usava una lama a curve molteplici e a uncino, più comoda del rasoio in uso nell’Impero di Mezzo che aveva la forma di una cesoia da falegname. I rasoi venivano conservati in astucci di cuoio provvisti di un’ansa e gli astucci in eleganti

cofanetti d’ebano dove prendevano elegantemente posto anche le pinze, le lime e le forbici del pedicure e del manicure. 6 Il nostro personaggio usciva ben pulito, con la barba corta di forma squadrata e i capelli rasati o almeno rinfrescati. Era il momento di introdurre altri specialisti, esperti di droghe che portavano essenze e unguenti in vasi di cristallo, alabastro, ossidiana sigillati e, in sacchetti chiusi da un cordoncino, della polvere verde (malachite) e la polvere nera (galena) con la quale si truccavano gli occhi allungandoli secondo il gusto egizio. 7 Così si difendevano anche gli occhi delicati dalle oftalmie provocate dal riverbero solare, dal vento, dalla polvere e dagli insetti. I prodotti di bellezza abbondavano. Per combattere i cattivi odori del corpo nella stagione calda ci si poteva frizionare per più giorni di seguito con un unguento a base di trementina (sonté) e incenso (ânti) che si mescolava con semi non precisati e profumo. Altri prodotti dovevano essere applicati nei luoghi dove due parti del corpo si univano. C’erano prodotti per abbellire e rinnovare l’epidermide, per rassodare le carni e altri per combattere macchie e foruncoli del viso. Ad esempio per rassodare le carni si usava la polvere d’alabastro, quella di natron, il sale del nord mescolato con miele. Altre ricette sono a base di latte d’asina. Anche il cuoio capelluto era oggetto di cure continue. Si trattava di evitare i capelli grigi, di evitare l’ingrigimento delle sopracciglia, di combattere la calvizie, di farsi rispuntare i capelli. Per questa igiene era perfetto l’olio di ricino. Sappiamo anche di una ricetta contro la peluria e i peli superflui e di un’altra a disposizione delle donne che volessero far cadere i capelli della rivale. 8 Un preparato particolarmente interessante, inserito alla conclusione di un trattato di chirurgia, ha un titolo abbastanza ambizioso: «Per trasformare un vecchio in un giovane». Ci si procurano degli spicchi di fiengreco (la helba araba). Quando sono secchi, li si perfora separando gli spicchi dai semi. Con questi semi e una eguale quantità di frammenti di polpa si fa una pasta e si fa evaporare l’acqua restante, si lava, si fa seccare il tutto. Se si impasta la polvere così ottenuta e la si riscalda, si vedrà che sulla superficie si formano delle piccole macchie d’olio. A questo punto si tratta di toglierlo, chiarificarlo e versarlo in un vasetto di pietra dura, ad esempio di ossidiana. Con questo prezioso olio si ottiene un incarnato perfetto; con lo stesso sistema scompaiono la calvizie, le macchie di vecchiaia, gli sgradevoli segni dell’età e i rossori spiacevoli che alterano la pelle. 9

E un prodotto che è stato impiegato con successo milioni di volte. Ha il solo difetto di essere lungo da preparare, di poter essere ottenuto solo in piccole quantità e quindi di costare caro. I poveri andavano da un barbiere che operava all’aperto, sotto gli alberi. In attesa del turno, chiacchieravano o facevano un sonnellino senza nemmeno sdraiarsi, con la schiena curva e la testa fra le braccia, la fronte sulle ginocchia, qualche volta in due sullo stesso sgabello. Quando era il suo turno, il cliente si sedeva su uno sgabello a tre piedi e affidava la sua testa al barbiere che lo mandava via liscio come un ciottolo lavorato dall’acqua. 10 La toilette delle donne agiate era un avvenimento importante, come quella dei loro mariti. Un bassorilievo ci fa assistere a quella di una favorita reale. 11 La dama prende posto su una poltrona confortevole, con schienale e braccioli. Tiene in mano uno specchio composto da un disco di argento lucido con il manico d’ebano e oro a forma di colonna papiriforme. La pettinatrice intanto non rimane inattiva. Con dita sottili e agili confeziona una serie di treccioline, anche se i capelli della favorita sono piuttosto corti. Con una forcina d’avorio ferma le ciocche su cui non sta lavorando. Questo lavoro richiedeva tempo. Per far pazientare la signora, un servo le porta una coppa in cui versa il contenuto di una fiala. «Al tuo ka» le dice mentre la padrona porta la coppa alle labbra. Più modestamente, la moglie di Anupu, contadino piccolo proprietario, si acconcia da sola mentre il marito e il cognato sono nei campi: non ama essere disturbata. Se si alzasse potrebbe scompigliarsi l’acconciatura e dovrebbe ricominciare tutto da capo. 12

L’abbigliamento Mentre si procedeva alla sua toilette, l’uomo stava nella tipica tenuta da mattino, con la testa nuda, i piedi nudi, un corto perizoma e nessuno o pochi gioielli. Una volta completata la toilette, avrebbe potuto tenere il perizoma da mattino anche se doveva uscire, mettendosi però uno o più paia di bracciali, un anello e una collana a cinque o sei fili di perle chiusi da due fermagli a testa di falco. Aggiungendo un pendente di giada o di cornalina appeso a un lungo cordone il nostro Egizio era perfettamente presentabile e poteva andare a visitare le sue proprietà, ricevere uomini d’affari, andare in qualche ufficio. Poteva anche sostituire il perizoma con un gonnellino a sbuffo e calzare

sandali. 13 I sandali erano noti dalla più remota antichità ma si stava attenti a non usarli a sproposito. Il vecchio re Narmer camminava a piedi nudi scortato dai suoi camerieri, uno dei quali reggeva un paio di sandali. Uni prese delle misure per impedire ai soldati intenti al saccheggio di sottrarre i sandali dalle mani dei passanti. 14 Dalle mani e non dai piedi. I contadini quando avevano una commissione da fare portavano i sandali in mano o appesi a un bastone e li indossavano una volta arrivati a destinazione. Durante il Nuovo Impero e in particolare sotto i Ramessidi se ne faceva maggior uso. Si facevano sandali di papiro intrecciato, di cuoio e addirittura d’oro. Dalla punta della suola partiva un cordoncino che passava fra il primo e il secondo dito e si univa, sul collo del piede, ad altre cinghie che formavano una specie di staffa e si annodavano dietro il tallone. Se la suola era d’oro, erano d’oro anche le cinghie. In questo caso dovevano rischiare di ferire chi portava quei sandali soprattutto se li portava solo ogni tanto. 15 I papiri medici ci informano che gli Egizi avevano spesso mal di piedi. 16 Alcuni uomini portavano vesti sostenute da bretelle che andavano dal petto alle caviglie ricadendo diritte e senza ornamenti. 17 A questa tenuta austera, la maggior parte degli Egizi preferiva la veste pieghettata di lino che lasciava libero il collo, modellava il dorso e si allargava verso le braccia. Anche le maniche, piuttosto corte, erano svasate. Al di sopra di questa veste si annodava un’ampia cintura composta di una sciarpa pieghettata dello stesso tessuto disposta in modo che ricadesse formando una specie di grembiule triangolare. La tenuta di gala era completata da una grande parrucca arricciata che circondava bene la testa e dall’esibizione di lussuosi gioielli, collane e gorgere, pettorali a doppia catena, braccialetti ai polsi e ai bicipiti, sandali ai piedi. 18 L’abbigliamento di una gran dama non era molto diverso da quello del marito. Comprendeva una sottilissima camicia e una sopravveste bianca pieghettata trasparente come quella degli uomini che si annodava sul seno sinistro e lasciava scoperto quello destro, aprendosi sopra la cintura e scendendo fino ai piedi. Le maniche adorne di frange lasciavano scoperti gli avambracci lasciando ammirare le mani lunghe e sottili e i polsi carichi di bracciali. Ce n’erano di molti tipi: rigidi con due placche d’oro cesellato unite da una cerniera. Anelli d’oro massiccio, cascate di perle, trecce o nastri d’oro. La parrucca arricciata copriva la schiena e le spalle e i capelli erano adorni di un bel diadema di turchese, lapislazzuli e oro splendente, annodato

posteriormente con due cordoncini decorati da ghiandine. Sull’edificio complicato dell’acconciatura si reggeva in equilibrio, come per miracolo, un cono. Non ne conosciamo la composizione ma riteniamo che consistesse in una pomata profumata. Non era, però, appannaggio delle sole donne: anche gli uomini ne portavano spesso di simili. 19 L’abbigliamento che abbiamo descritto era compatibile soltanto con l’ozio più assoluto. Il popolo dei lavoratori era vestito con abiti più pratici. I contadini, gli artigiani si accontentavano come un tempo di un perizoma semplice tenuto fermo da una cintura larga come una mano senza ricami né ornamenti e senza le ghiandine che abbellivano il perizoma degli Asiatici. Le persone di condizione modesta, però, amavano i gioielli e gli ornamenti come i privilegiati. In mancanza di quelli d’oro, portavano gioielli di ceramica o di bronzo. Le musiciste di professione portavano, come le dame, l’ampia veste trasparente oppure non indossavano niente altro che dei gioielli, collana, bracciali e orecchini e una cintura. Le serve di casa, che spesso è difficile distinguere dai bambini, giravano nude, soprattutto quando i padroni ricevevano degli invitati e all’ammirazione dei quali esse offrivano arditamente il loro piccolo corpo esile e agile.

Il cibo Gli Egizi che conoscevano il valore della loro terra e non lesinavano nel lavoro, temevano la carestia. Sapevano che un’inondazione troppo debole o troppo violenta era seguita da cattivi raccolti. Il dovere principale del governo consisteva soprattutto nel costituire un consistente approvvigionamento che garantisse la sussistenza nel periodo fra un raccolto e l’altro, come Giuseppe consigliò al Faraone dopo avere interpretato il suo sogno delle spighe. Questo elementare dovere fu certamente trascurato negli anni che precedettero la caduta dei Ramessidi. Una donna, interrogata sulla provenienza dell’oro che era stato trovato in casa sua, risponde: «L’abbiamo avuto in cambio dell’orzo, nell’anno delle iene quando c’era la fame». 20 A quei tempi infuriava la guerra degli Impuri. I banditi erano ovunque, nei templi, nei palazzi, nelle proprietà e uccidevano, stupravano, incendiavano. I contadini consegnavano i loro prodotti a peso d’oro. Sciagure di quel tipo facevano rimpiangere l’invasione degli Hyksos. Ma fra questi due spaventosi periodi, gli Egizi avevano vissuto

con larghezza. Sotto Seti e soprattutto sotto i grandi Ramses II e III l’abbondanza era estrema. Sui bassorilievi dei templi e nelle pitture delle tombe private, ovunque si vedono offerte accumulate e personaggi che spingono avanti bestiame. Nel grande papiro Harris che ci offre particolari della generosità di Ramses III nei riguardi degli dèi, si parla di prodotti alimentari almeno quanto di metalli preziosi, vesti e profumi. Tutto ciò dimostra quanto gli Egizi tenessero al cibo e lo dimostravano anche quando erano in viaggio. Sinuhit trova, nel paese di Iaa, in Siria, fichi e uva, più vino che acqua, miele e olio, tutti i frutti, orzo e amidonnier, innumerevoli greggi, cioè tutte le risorse di una ricca proprietà egizia. «Facevo focacce come al solito, avevo vino tutti i giorni, carne, pollame arrosto oltre alla selvaggina che catturavo con le tagliole che venivano sistemate per me, senza parlare di quello che mi portavano i miei levrieri.» 21 In Egitto non avrebbe potuto avere di meglio. Nemmeno il naufrago nell’isola del mar Rosso era finito male: «Trovai là dei fichi e dell’uva, verdure, porri magnifici, cetrioli e angurie e meloni allo stato naturale, pesci e volatili. Non c’è niente che non vi si trovasse». 22 Torniamo in Egitto per fare l’inventario delle sue risorse alimentari. Cominciamo dalla carne. Gli Egizi sono sempre stati grossi mangiatori di carne. Le pareti delle tombe sono coperte di scene di macelleria e di processioni di animali destinati al consumo alimentare. Il bue era il maggior fornitore di carne. Col nome di iua si indicava il bove africano, un animale di grandi dimensioni, veloce e, in genere, con vaste corna. Con una dieta appropriata diventava enorme e pesante e lo si faceva abbattere quando quasi non poteva più camminare, come si vede nelle processioni di Abido e di Medinet Habu. 23 Il conduttore che gli aveva infilata una corda fra naso e labbro inferiore si faceva obbedire facilmente. Il bestiame di pregio era decorato con piume di struzzo fissate alle corna e con nastri doppi. All’ingresso del tempio il corteo era accolto da un sacerdote che tendeva verso di esso un fornello per la resina acceso. La scena era così definita: «Consacrare il bove puro di bocca per la pura macellazione del tempio di Ramses-Miamun che raggiunge Ta-ur». I verificatori accettavano solo bestie sane e ripetevano l’esame dopo la macellazione. Ungiu erano detti dei buoi molto più piccoli e in genere senza corna o con corna assai corte, e nega dei buoi con belle corna, alti ma di carattere più irriducibile degli iua e ribelli all’ingrasso. Infatti venivano rappresentati

sempre magri. Alcune espressioni che indicano categorie di animali da macello sono di difficile interpretazione, come «buoi della bocca delle greggi» o «buoi di quita» (una piccola unità di misura del peso). Il bue detto herysa doveva essere il più bello di tutta la stalla. Qualche volta si citano i buoi da lavoro di Siria e quelli del paese di Kush. 24 Sotto l’Antico Impero un importante contributo alimentare era fornito dal piccolo bestiame del deserto. Gli Egizi vi cacciavano l’orice, la gazzella e le antilopi, ben lieti se le potevano catturare vive per poi cercare di addomesticarle nei loro parchi. Questo tipo di allevamento non era più molto praticato ai tempi dei Ramessidi. Ramses III inviò dei cacciatori nel deserto a catturare degli orici. Nel corso del suo regno offrì al gran tempio di Amon 54 orici, 1 bubalo, 81 gazzelle. In un elenco complementare troviamo la segnalazione di 20.602 buoi, 367 orici, stambecchi e gazzelle. 25 Nella processione di Abido, si nota un bell’orice con corna diritte, stranamente chiamato bue d’orice della stalla di Ramses. Ogni tanto l’orice sostituiva il bue nelle scene di macellazione. Ma non ne ho mai visti nelle scene di macellazione associate alla rappresentazione di un banchetto. Se ne può concludere che degli animali del deserto non si tenesse conto per l’alimentazione ma si ritenesse onorevole offrire in sacrificio agli dèi un orice o una gazzella in ricordo del tempo in cui gli Egizi vivevano di caccia più che di allevamento. Nessun documento che io conosca consente di affermare che si mangiasse la carne di maiale, di capra, di montone, ma nemmeno il contrario è sicuro, perché anche nell’Alto Egitto si incontravano questi animali nelle fattorie. Quando il bove era stato introdotto nel macello, il compito del pastore era finito e cominciava quello dei macellatori. 26 Essi, in quattro o cinque, attaccavano risolutamente il loro avversario e ne venivano a capo con un metodo che non era cambiato dai tempi più antichi. Per cominciare si afferrava il piede sinistro della vittima con un nodo scorsoio gettando l’altro capo della corda sulla schiena. Un uomo afferrava il capo della corda costringendo il piede legato ad alzarsi da terra. L’animale si trovava quindi in una posizione instabile. Un grappolo umano gli si attaccava addosso. Il più coraggioso gli saltava sul collo afferrandolo per le corna e gli tirava indietro la testa, un altro si appendeva alla coda, un altro ancora cercava di sollevargli una zampa posteriore. Appena il mostro era stato rovesciato, lo si metteva nell’impossibilità di rialzarsi legandogli insieme le zampe didietro e quella

davanti già chiusa nel nodo scorsoio. L’altra restava libera ma non poteva essere di alcuna utilità all’animale vinto che ritardava il momento del suo trapasso raggomitolandosi. Un uomo robusto gli afferrava la testa, la rovesciava e la teneva ferma con le corna a terra e la gola libera. I macellai non avevano altri strumenti che un coltello con un solido manico e arrotondato ai due lati per non perforare la pelle, un po’ più lungo di una mano, e una cote attaccata a un lato del loro perizoma. Il macellaio capo salassava la vittima raccogliendone il sangue in un vaso. Se la scena si svolgeva nel macello di un tempio, un sacerdote si avvicinava e versava sulla ferita un liquido contenuto in un acquamanile. Forse il sacerdote era anche un funzionario del servizio d’igiene. Il macellaio gli metteva sotto il naso la mano intrisa di sangue, dicendo: «Ecco questo sangue!». «È puro» rispondeva il funzionario che si era chinato per rendersene conto più esattamente. A questo punto l’animale veniva fatto a pezzi con una rapidità straordinaria. La zampa destra rimasta libera quando l’animale era stato abbattuto era la prima parte tagliata via. L’aiutante la teneva verticale in modo da facilitare il compito del macellaio che tagliava i tendini e introduceva il coltello nelle giunture. La gamba tagliata veniva consegnata intera ai portatori mentre si staccava la testa dal corpo e si fendeva il corpo per scuoiarlo ed estrarre il cuore. Le zampe posteriori venivano fatte in tre pezzi, la coscia, sut, il garretto, iua e il piede, inset. Successivamente si estraeva la carne delle costole facendole in pezzi: il filetto, che era la parte più pregiata, e il controfiletto. Fra le interiora il fegato e la milza erano i pezzi più apprezzati. Il macellaio usava la precauzione di sollevare progressivamente l’intestino per svuotarlo. Il lavoro procedeva fra esclamazioni e ordini: «Sbrigati, compagno! Su, in fretta! Falla finita con quella zampa; falla finita con quel cuore!». Quando si arrivava in un tempio, l’arrivo del maggiordomo o anche il suo solo nome facevano raddoppiare lo zelo: «Su, in fretta, sbrigati compagno, fai uscire questa schiera di costolette prima che il maggiordomo lo debba fare direttamente sulla tavola! Ecco il filetto. Posalo sul tavolino!». L’interpellato rispondeva senza mostrare alcuna impazienza: «Farò come vuoi, farò come vuoi». Qualche volta il macellaio parla fra sé e sé perché l’aiutante l’ha lasciato solo: «È difficile fare tutto da solo!». Il pollo e la gallina non erano ancora noti ma l’allevamento e la

consumazione del pollame erano praticati su larga scala. Il grande papiro Harris ne enumera centinaia di migliaia. In una donazione in cui si registrano 3.029 quadrupedi, i volatili sono 126.250. Nell’elenco figurano 57.810 piccioni, 25.020 uccelli acquatici catturati nelle paludi, 6.820 oche ro, 1.534 oche terp. I volatili ovaioli erano 4.060, quelli detti «grandi bastoni» 1.410, le gru 160, le quaglie pârt raggiungono la cifra considerevole di 21.700 e 1.240. Questo elenco è limitato se confrontato a quello che si può costituire in base allo spoglio delle scene di caccia e di allevamento delle tombe dell’Antico Impero e dell’Impero di Mezzo. Si distinguevano tre specie di gru, giat, âiu e ga, alle quali si aggiungevano le «damigelle» ugiâ. Le oche, anatre, piccioni e alzavole si suddividevano in una quindicina di specie che certamente non erano scomparse ai tempi dei Ramessidi, ma gli allevatori si erano decisi a concentrare i loro sforzi sul piccolo numero di animali più profittevoli. 27 Sulla stele di Piankhi si legge che l’Etiope, dopo avere conquistato l’Egitto, non accettò di ricevere alla sua tavola i principi del Sud e del Delta che erano libertini e mangiatori di pesci, il che per il palazzo reale era cosa abominevole, con l’eccezione del solo Nemarot che mangiava solo pesce forse perché risiedeva in una città di teologi, Shmunu. 28 Il menu del defunto, ai tempi del Nuovo Impero come nell’antichità, prevedeva solo pesce. In certi nomi, in certe città e in certi periodi era vietato mangiare questo o quel pesce. Ciò dimostra che se Piankhi non scherzava a proposito del puro e dell’impuro, la popolazione nel suo complesso, anche nei templi, non esitava a nutrirsi di pesce evitando, io credo, le specie poco gradevoli come il pesce bu, «il disgustoso», il pesce shep, «il rimpianto». Gli abitanti del Delta e quelli che abitavano sulle rive del lago Fayum erano pescatori professionali. Un gruppo di granito trovato da Mariette a Tanis rappresenta due uomini con barba e capelli folti che camminano con lo stesso ritmo di passo recando un tavolo da cui sporgono dei magnifici muggini. Il papiro Harris registra notevoli quantità di pesci fra i viveri distribuiti nei templi di Tebe, On e Menfi: 441.000 pesci completi fra i quali muggini, mormyres, clarias, batensoda, che sono pesci di taglia media, grossi chromis e latès così pesanti che ci volevano due uomini per portarli. 29 Passavano una pertica in mezzo alle branchie e se la mettevano sulla spalla camminando a passo allegro mentre la loro preda spazzava il terreno con la coda. Era cibo sufficiente a nutrire intere famiglie. Le verdure erano comprese nel calendario di Medinet Habu sotto la

denominazione generale di renput, «prodotti annuali». Erano distribuite su tavoli o raccolte in mazzi. A parte si segnalavano le cipolle e i porri, noti dalla più remota antichità. Un mercante dell’Antico Impero dice al suo cliente che si presenta con in mano un pane: «Posalo e ti darò delle belle cipolle (hegiu)». I porri (iaquet) sono citati nel papiro medico Ebers, nella storia di Khufu e dei maghi, e il naufrago ne raccoglie nella sua isola, dove trova comunque di tutto. Anche l’aglio era molto apprezzato. Erodoto afferma che gli operai che lavoravano alla costruzione della piramide di Cheope mangiarono l’equivalente di 1.600 talenti di ravanelli, cipolle e agli. È possibile che l’informazione sia esatta anche se non venne certamente incisa sul monumento come credeva Erodoto. In ogni caso, mazzi d’aglio sono stati trovati nelle tombe tebane. Il nome geroglifico per aglio, khizan, è stato individuato da V. Loret nel grande papiro Harris e nella versione copta della Bibbia. 30 Ramses III ne fece distribuire grandi quantità nei templi. Gli Ebrei in viaggio verso la terra promessa rimpiangevano i cetrioli, le angurie, i porri, le cipolle e gli agli che in Egitto ricevevano in abbondanza. 31 Le angurie, i cetrioli e i meloni compaiono assai spesso sui tavoli da offerta accanto a mazzi di papiro che alcuni studiosi hanno scambiato per asparagi. Gli autori classici hanno creduto che la religione vietasse di mangiare fave e ceci per insegnare agli uomini – come afferma Diodoro – a privarsi di qualche cosa. 32 Invece nelle tombe sono stati trovati fave, piselli e ceci. I sacerdoti di On e di Menfi mangiavano fave sotto il regno di Ramses III. 33 È vero che la pianta del cece ricorda stranamente la testa del falco, in particolare quella che culmina il terzo dei canopi che era detto Qebehsenuf. Non era questa una buona ragione per astenersi dal mangiarne se non, forse, in certe località e in certi giorni. Le lattughe erano coltivate negli orti, vicino a casa, e abbondantemente innaffiate. Era la pianta sacra al dio Min la cui statua spesso figurava accanto alle aiuole di lattuga. Ma il dio itifallico non era il solo ad apprezzare la lattuga. L’autore della contesa fra Horo e Seth racconta che Iside, recatasi nel giardino di Seth, chiese al giardiniere di quali verdure si era nutrito Seth. «Non ha mangiato nessuna verdura qui con me – rispose il servo – a eccezione delle lattughe.» L’indomani Seth tornò nel giardino secondo la sua abitudine quotidiana e mangiò ancora delle lattughe. Seth passava per un libertino ma Min gli dava certamente dei punti. Si era notato che la lattuga aumentava il desiderio degli uomini per le donne e rendeva le donne più feconde. Quindi se ne faceva grande consumo. Sui tavoli delle

offerte le belle lattughe verdi non erano rare. Le si consumava certamente come fanno ancor oggi gli Arabi, crude, con un po’ d’olio e sale. 34 Gli antichi Egizi, meno favoriti dei moderni, non conoscevano né le arance né i limoni né le banane. Pere, pesche, mandorle e ciliege apparvero sui tavoli da offerta solo in epoca romana. Ma in tutte le epoche d’estate poterono saziarsi di fichi, datteri, fichi di sicomoro, più piccoli e meno buoni dei fichi. I datteri non erano di qualità molto buona in Egitto, tranne che nella zona di Tebe. Quelli della palma dum, commestibili, servivano soprattutto per la preparazione di medicine. La noce di cocco era una curiosità molto apprezzata da qualche privilegiato. Il melograno, l’olivo e il melo, introdotti al tempo degli Hyksos, continuarono a essere coltivati e davano buoni frutti. L’olio d’oliva serviva per l’illuminazione il che non significa che non lo si usasse in cucina. Prima di conoscere l’olivo, gli Egizi coltivavano altri alberi da olio, in particolare il moringa bak. All’elenco degli alberi da frutto possiamo aggiungere il mimusops, il balano e il giuggiolo. Non bisogna dimenticare che molti nomi di alberi e piante non sono stati identificati e quindi non possiamo stilare l’elenco completo delle risorse degli Egizi in tema di frutta e verdura. Le classi povere si accontentavano qualche volta di masticare l’interno dei rami di papiro, come si fa oggi con quelli della canna da zucchero, e i rizomi di altre piante acquatiche di cui nelle tombe sono state trovate delle coppe piene. 35 Il latte era un’autentica rarità. Lo si raccoglieva in vasi di terracotta di forma ovale protetti da una zolla d’erba per tener fuori gli insetti, evitando di chiudere completamente l’apertura. Molti termini designano i latticini, crema, burro, formaggio, ma la loro traduzione non è sempre sicura. Si metteva del sale in certe medicine e in certi piatti per diete particolari. Non abbiamo ragione di credere che non venisse usato su larga scala. Per addolcire bevande e cibi si usavano il miele e i semi di carrubo. 36 Il segno nogem, che significa dolce e dolcezza, rappresenta un baccello di questo albero. Gli Egizi si spingevano nel deserto alla ricerca del miele e della cera delle api selvatiche. Era un mestiere specializzato. I cacciatori di miele si accompagnavano con i cercatori di resina di terebinto, frequentatori degli uadi. Il re cercava di proteggerli dai pericoli che correvano avventurandosi lontano dalla valle del Nilo facendoli accompagnare da arcieri. Ma gli Egizi allevavano le api anche nei loro giardini, in giare di terracotta che servivano da arnie. L’allevatore circolava in mezzo alle api senza timore, allontanandole con le mani per

prelevare le cellette. Il miele era conservato in grandi vasi di pietra sigillati. 37

La cucina I materiali per cucinare erano molto rudimentali. Comprendevano essenzialmente dei fornelli mobili in terracotta di forma cilindrica, alti circa un metro, con una porticina in basso che serviva a dare aria e a togliere la cenere. All’interno, una griglia o delle sbarre sostenevano il combustibile. Naturalmente c’era un passaggio per il fumo, ma i disegnatori non hanno mai rappresentato un fornello con un camino. Il tutto era completato da una marmitta a due manici di profondità variabile e dal diametro un po’ maggiore di quello della caldaia. Se necessario, i cuochi facevano a meno del fornello. Posavano la pentola direttamente su tre pietre sotto cui bruciava della legna o del carbone. Esistevano anche bracieri di metallo in forma di cassetta senza fondo, non molto alti. Sulla tavola bucherellata si distribuiva il combustibile. Nella tomba di Psusennes ho trovato un piccolo braciere risalente a Ramses III che corrisponde a questa descrizione. Il tiraggio era necessariamente difettoso. Il cuoco, sorvegliando la preparazione, era costretto a usare continuamente un ventaglio per animare il fuoco. 38 Il carbon fossile non esisteva né in Egitto né nei paesi vicini. I cuochi, come tutti gli artigiani che avevano bisogno di un forno – vasai, ceramisti, bronzisti – avevano a disposizione solo carbone di legna e legname. Il carbone di legna, giâbet, è citato nei contratti di Siut come un genere di valore. Le quantità di carbone registrate nel calendario di Medinet Habu e nel papiro Harris sono più modeste. Lo si trasportava in sacchi o cesti. Per fare il fuoco, gli Egizi avevano quello che chiamavano legno da fuoco. Era un’altra merce rara. Un tempio importante come quello di Karnak disponeva di soli sessanta pezzi al mese, due al giorno. Era noto dalla più remota antichità perché un segno geroglifico appartenente al repertorio più antico ne rappresenta un’immagine rimpicciolita. Era un oggetto composto da due parti, una bacchetta dalla punta affilata e rigonfia alla base da una specie di svasatura. Arrivava dai paesi del Sud. Il naufrago del romanzo, nella sua isola del mar Rosso, ha la fortuna di trovarne uno e subito accende il fuoco, prepara un olocausto per gli dèi e un pasto per se stesso. Nelle famiglie egizie che non partecipavano alle distribuzioni pubbliche probabilmente accendere

il fuoco era un’operazione abbastanza complicata. Non si poteva far altro che chiedere aiuto a un vicino cortese e tenere da parte un po’ di brace accesa. Oltre ai fornelli e ai bracieri, alle provviste di combustibile e di legna da fuoco, il materiale per cucinare comprendeva pentole, padelle, brocche e giare di terracotta, pacchetti e sacchi, cesti e panieri per il trasporto delle provviste, tavoli a tre o quattro piedi per tagliare o macinare la carne o il pesce o per scegliere le verdure, tavoli bassi per lavorare accoccolati, graticci dove si appendevano carne e pollame. In lingua egizia ci sono due verbi per indicare la cottura degli alimenti: psy e acher. Il primo si usava sia per il latte sia per le carni e potremmo tradurlo con «bollire». In certi casi, si posava una marmitta profonda sul focolare. I pezzi di carne affioravano dai bordi, quindi possiamo pensare che galleggiassero nel brodo ma non sappiamo se le carni lesse fossero servite direttamente o a pezzi insieme a verdure e condimenti o trasformate in polpette o inserite in gallette. Gli Egizi non ci hanno lasciato libri di cucina ma ci possiamo fare un’idea della loro abilità in materia attraverso i papiri medici che ci hanno tramandato le ricette contro le malattie e i disturbi intestinali. Non ignoravano che il burro e la crema (smy), il grasso d’oca e quello di vitello erano adattissimi a confezionare cibi. 39 Nella cucina di Rekhmarê, la marmitta posata sul fornello era troppo bassa per preparare un lesso. Quando il cuoco vi pone il grasso, secondo la «didascalia», un aiutante mescola il contenuto della pentola con uno strumento dotato di un lungo manico che non sappiamo se terminasse con una forchetta o con un cucchiaio. Probabilmente si tratta di un umido. Il termine acher si usa per gli arrosti. Il pollame di solito veniva cucinato alla griglia. Il cuoco prima spiumava e svuotata l’oca o l’anatra, poi tagliava la testa, le punte delle ali e le zampe, la infilava nello spiedo e lo sosteneva sopra un braciere basso. Non erano solo i volatili a essere cucinati così, perché il cartiglio definisce acher, «arrostita», anche un pezzo di carne non identificato. Il filetto, il cui nome significa «carne di prima scelta», e il controfiletto, hà, probabilmente erano arrostiti allo spiedo. Ecco che cosa Erodoto ci segnala a proposito del pesce e del pollame. «Essi mangiano certi pesci seccati al sole e crudi, altri salati, che tirano fuori dalla salamoia. Fra gli uccelli, mangiano crudi le quaglie, le anitre e gli uccellini che in precedenza preparano con il sale. Tutto il resto degli uccelli e dei pesci lo mangiano arrosto o lesso.» 40 I documenti figurativi e i testi

confermano la testimonianza. I muggini, i chromis, i mormyres venivano portati in canestri e gettati a terra. Un uomo seduto su uno sgabello di legno afferrava un coltello e li faceva a pezzi per metterli a seccare. Il padrone di casa e sua moglie si interessavano all’operazione senza nemmeno turarsi il naso. Si mettevano da parte le uova del muggine per preparare la bottarga. 41 Grandi quantità di pesci fatti a pezzi venivano inviate ai templi insieme ai pesci cosiddetti completi, che probabilmente erano freschi. I templi ricevevano dei vasi pieni di pesci insieme con del cosiddetto legno di vela, termine che si riferisce a un procedimento di conservazione di cui non sappiamo niente. Qualche volta accanto al luogo dove si fanno seccare i pesci si facevano a pezzi anche degli uccelli acquatici, evidentemente per farli salare e seccare. Gli uccelli acquatici inviati al tempio potevano essere vivi o completi e quindi mangiabili entro un tempo assai breve o invece fatti a pezzi e seccati, e perciò conservabili per un certo tempo. 42

La panetteria Nel vocabolario dell’Antico Impero si possono contare almeno quindici parole che indicavano tipi di pane e di dolci. Altre ne possono essere individuate qua e là nei testi. Non siamo assolutamente in grado di stabilire in che modo questi pani e questi dolci differissero in base alla farina usata, alla forma, al grado di cottura, ai materiali, quali miele, latte, frutti, uova, grassi o burro, incorporati. La farina proveniva da tre cereali, l’orzo, iot, l’amidonnier, bôti, e il frumento, sut. I ricchi tenevano le provviste di grano a fianco della casa o sul tetto. Si poteva macinare il grano e fare il pane a domicilio. Lo stesso si faceva nei templi ma è egualmente possibile che mugnai e panettieri liberi lavorassero autonomamente per una clientela di gente modesta. I grani liberati dalle impurità venivano affidati a un gruppo di lavoratori che comprendeva più donne che uomini. 43 Il primo lavoro spettava agli uomini. Si poneva un po’ di grano in un mortaio di pietra e due o tre uomini robusti lo schiacciavano con gesti cadenzati, con pesanti pestelli lunghi due cubiti. Le crivellatrici prendevano il grano così fatto a pezzi, mettevano da parte la crusca per gli animali e consegnavano il resto alla mugnaia. Non era ancora entrata nell’uso la pietra conica. L’apparecchiatura consisteva in una doccia a due scompartimenti e in una grossa pietra. Il grano

era posto nello scompartimento superiore. La mugnaia piegata in due trascinava la grossa pietra sul grano e cacciava la farina nello scompartimento inferiore. Si setacciava e si ricominciava finché la farina aveva raggiunto la finezza voluta, il tutto cantando: «Che tutti gli dèi di questo paese diano al mio signore forza e salute!». Si preparava soltanto la quantità di farina necessaria al pane della giornata. I panettieri lavoravano sul tavolo a fianco dei mugnai e talvolta in mezzo a loro. Senza perdere tempo, una donna disponeva al di sopra di un focolare degli stampi conici in modo che l’interno fosse lambito dalla fiamma. Con l’aiuto di un ventaglio ravvivava il fuoco e si proteggeva gli occhi con la mano libera. Quando gli stampi avevano raggiunto una temperatura adatta, venivano posti su una tavola con dei buchi rotondi e riempiti con la pasta che intanto era stata preparata con l’aggiunta del lievito. Si infornava e si aspettava. Quando il pane era cotto, lo si toglieva dallo stampo. I pani si contavano, perché in Egitto si contava tutto, e si portavano i cesti pieni ai fortunati che avrebbero mangiato il pane. Questa preparazione era in uso fin dall’Antico Impero. Era lenta e imponeva l’impiego di molte persone che bisognava almeno nutrire, se non le si pagava. Un bambino arriva con la sua scodellina in mano mentre sua madre sta stendendo la pasta con le palme delle mani. La supplica di dargli un dolce perché ha fame. Gli si dà dell’ippopotamo rimproverandolo di mangiare più di uno schiavo del re. 44 Durante il Nuovo Impero si operava nello stesso modo ma con più forni, dove si potevano cuocere più pani contemporaneamente. 45 In ogni tempo, comunque, gli Egizi hanno fatto cuocere delle gallette sottili sulla sabbia calda, come ancor oggi fanno i Beduini.

Le bevande La birra era la bevanda nazionale degli Egizi. 46 Si beveva birra ovunque, a casa, nei campi, in barca, nei ritrovi. Quando Sinuhit, graziato, si reca in barca dai Cammini di Horo a Ity-taui, si riabitua alla vita egizia bevendo birra della quale era privo da tanto tempo. La birra egizia era fatta con orzo o frumento e datteri. La si preparava con macine da mulino analoghe a quelle per il pane ma più grandi, con un cesto e tutto un assortimento di giare e catini di terracotta. Si cominciava col fare dei pani. Come nelle panetterie, si

formava una piramide di stampi intorno a un focolare. Intanto si preparava una pasta detta uagit, «la fresca», che si versava negli stampi arroventati dove rimaneva solo il tempo necessario per dorare la crosta. L’interno doveva restare crudo. Questi pani semicotti erano fatti a pezzi in un grande bacile e mescolati con un liquido zuccherino ricavato dai datteri. Si mescolava a lungo e si filtrava. Subito il liquido cominciava a fermentare. Restava allora da travasarlo nelle giare chiudendo il tutto con un piatto e un po’ di stucco. Le giare così preparate potevano viaggiare. Per il consumo, la birra veniva travasata in caraffe che potevano contenerne un litro o due. I bevitori avevano dei bicchieri di pietra, porcellana o metallo. La birra amara che i Nubiani fabbricavano, più o meno con lo stesso sistema, si conservava poco tempo. Al re defunto si promettevano pani che non si sarebbero spezzati e birra che non sarebbe inacidita. Ciò significa che la birra dei vivi inacidiva spesso. Da quando l’Egitto aveva la fortuna di essere governato da una famiglia del Delta, gli amanti del succo della vite, un dono di Osiride che gli Egizi non avevano mai trascurato, erano più numerosi che mai. A quei tempi si faceva un gran commercio di vino. Un funzionario del palazzo reale incaricato di provvedere all’approvvigionamento raggiunse le dipendenze di Pi-Ramses in tre battelli, il suo e alcune chiatte fornite dal castello millenario di Usirmarê. Imbarcava 21 persone, 1.500 giare di vino sigillato, 50 giare di una bevanda detta chedeh, 50 di un’altra bevanda detta paur, insieme a ceste d’uva e melograno e ad altre ancora di contenuto non precisato. 47 Possiamo supporre che una di queste bevande fosse succo di melograno e l’altra un liquore derivato dal vino. In ogni caso il chedeh è spesso citato accanto al vino. I giovani studenti si inebriavano con l’uno e con l’altro, facendo adirare i vecchi scribi. Nel Ramesseum è stata trovata una gran quantità di giare da vino, naturalmente infrante, che portavano le tracce di una scrittura ieratica vergata con l’inchiostro recante interessanti indicazioni sulla loro provenienza. 48 Quasi tutte le vigne erano nel Delta, soprattutto nella regione orientale. Si legge anche «buon vino dell’ottava volta» o «vino della terza volta» oppure «vino dolce». Credo che il vino dolce fosse vino nuovo e terza e ottava volta indichino rispettivamente la terza e l’ottava travasatura. Le travasature frequenti dovevano impedire l’alterazione del vino; un altro sistema era la cottura. Un dipinto di Beni-Hassan, non molto ben conservato, mi sembra possa rappresentare questa operazione. 49 Ignoro se gli Egizi, come i Greci,

cospargessero di resina l’interno delle giare. Non è probabile, perché del vino apprezzavano soprattutto la dolcezza, superiore a quella del miele.

I pasti Abbiamo completato l’elenco delle risorse principali di cui disponevano le famiglie egizie per alimentarsi nel corso dell’anno. Ci mancano i documenti che ci permetterebbero di descrivere nei particolari un pasto domestico. Una cosa però è certa: gli Egizi mangiavano seduti, da soli o a due, davanti a un tavolinetto sul quale si raccoglievano provviste varie: carni, volatili, verdura e frutta o sistemate in circolo fette di un pane conico alla maniera del kougelhopf alsaziano. I bambini si sedevano su cuscini o sulla stuoia direttamente. La famiglia non si radunava per la prima colazione del mattino. Il padre si faceva servire alla fine della toilette. Prendeva pane, birra, una fetta di carne tagliata dalla coscia e un dolce (chens). Anche la madre faceva colazione mentre si faceva pettinare o subito dopo. Su un dipinto tebano, 50 la serva porge un bicchiere alla padrona la cui mano è ancora occupata dallo specchio. Accanto c’è un tavolino che sostiene un paniere e due vasi. Il menu dei pasti principali comprendeva probabilmente carni, pollame, verdure e frutta di stagione con pane e dolciumi, il tutto innaffiato abbondantemente di birra. Non è certo che gli Egizi, anche di classe elevata, abbiano mangiato carne a ogni pasto. Non bisogna dimenticare che l’Egitto è un paese caldo e che il commercio al dettaglio vi era ben poco sviluppato. Potevano far abbattere un bue solo coloro che erano certi di poterlo consumare in tre o quattro giorni, i grandi proprietari con molto personale, i grandi templi, coloro che davano un banchetto e la gente modesta solo in occasione di feste e pellegrinaggi. Conosco un solo bassorilievo che rappresenti persone intente a consumare il pasto: è nella tomba di El Amarna e i commensali sono Akhenaton e la sua famiglia. 51 Il re addenta una spalla arrotolata e la regina un pezzo di un volatile. La regina madre porta qualcosa alla bocca mentre con l’altra mano tende un boccone a una delle principessine seduta vicino a lei su un cuscino. Accanto ai commensali vediamo tavoli carichi di provviste ma né piatti né coppe né vassoi né caraffe. Ciò è tanto più sorprendente in quanto le nostre raccolte archeologiche comprendono

vasellame numerosissimo che permetterebbe di consumare minestre, puree, piatti misti accompagnati da salse, composte, dolci morbidi e creme. Penso dunque che a un certo momento venissero distribuiti agli invitati non solo piatti ma anche coltelli, cucchiai e forchette perché oggetti di questo genere esistono nei nostri musei, anche se non sono frequentissimi. Il Louvre possiede una bella serie di cucchiai di legno con i manici fantasiosamente decorati che forse non furono mai usati. Ho trovato, nel piano superiore della tomba di Osorkon II, un cucchiaio la cui parte concava era retta da una mano circondata da un tubo di metallo. Notiamo d’altra parte che un servizio da toilette composto da una brocca e una catinella spesso era posato sotto il tavolinetto carico di cibi. 52 Ciò dimostra che gli Egizi a tavola si servivano molto delle dita. Il pomeriggio doveva essere spezzato da una colazione servita verso le quattro o le cinque e seguita da una nuova seduta di lavoro, o di divertimento.

La veglia In autunno e in inverno i contadini rientravano dai campi al calar della notte e si aspettavano di trovare la casa illuminata. Entrando nella sua casa immersa nelle tenebre, Anupu ha immediatamente il presentimento di una catastrofe. Anche i contadini tenevano la luce accesa la sera. Studenti e artigiani nelle giornate brevi continuavano il lavoro alla luce delle lampade. 53 Nelle lampade di solito ardeva olio di ricino oppure olio d’oliva. I nostri musei sono pieni di strumenti per l’illuminazione. In una tomba della I dinastia ho trovato una bella lampada di pietra a forma di una navicella di papiro, provvista di un anello orizzontale per il passaggio dello stoppino. 54 Altre lampade sono a forma di giglio. Al Louvre sono conservate delle piccole coppe piatte e rotonde di terracotta in cui è rimasto un pezzetto di stoppino di corda ancora annerito, probabilmente cosparso di grasso. Sono lampade di tipo comunissimo di cui si servivano anche gli operai delle necropoli per lavorare nelle tombe. Si usavano anche delle candele che si accendevano nei templi, la notte di capodanno, la notte della festa uaga. Erano oggetti di valore perché i funzionari del tempio, incaricati della loro sorveglianza, ricevevano una bella somma per consegnarle, dopo che erano state già usate, al sacerdote del doppio Hâpi-Gefai che ne illuminava la statua

del suo committente. 55 Si augurava ai morti di avere la lampada accesa fino all’alba e gli si offriva, allo scadere dei cinque giorni epagomeni, cinque oggetti di forma conica provvisti di un manicotto di forma un po’ simile a un albero. La parte superiore, cosparsa di cera, poteva essere accesa; queste lampade illuminavano il morto nella sua solitudine ma non esistono prove che servissero anche per i vivi. 56 Queste scarse informazioni non ci forniscono molte indicazioni sui sistemi d’illuminazione delle abitazioni. Le veglie non erano molto lunghe. Gli Egizi si alzavano col giorno e andavano a dormire presto, tranne che nel caso dei sacerdoti e delle guardie del turno di notte. Il re Amenemhat I narrando il colpo di Stato che lo aveva istruito sull’ingratitudine degli uomini spiega che dopo il pasto di mesyt, al calar della notte, si era concesso un’ora di piacere, poi si era sdraiato sul suo letto in preda alla fatica e non aveva tardato ad addormentarsi. 57 Dopo il pasto serale, dunque, gli Egizi restavano un’ora o due a chiacchierare intorno a una lampada fumosa, poi il silenzio calava sulla casa.

I banchetti Le occupazioni di un ricco Egizio gli lasciavano molto tempo libero, che non faceva fatica a impiegare. Poteva farsi tentare di volta in volta dalla caccia nel deserto, dalle passeggiate, dai pellegrinaggi, dalla pesca e dalla caccia in palude, dai pubblici ritrovi. Ma aveva a portata di mano anche altre distrazioni per niente trascurabili, di cui ci occuperemo adesso. Uno dei maggiori piaceri degli Egizi consisteva nel radunare parenti e amici in gran numero per una colazione o un pranzo. Nelle tombe sono spesso rappresentati i banchetti offerti nelle dimore eterne, nei castelli perpetui. I convitati erano ombre ma questi banchetti sono l’immagine di quelli che i proprietari delle tombe avevano celebrato quando erano sulla terra. Questi dipinti e qualche testo di moralisti o romanzieri ci permettono di descrivere un pasto di una casa benestante. Il pasto era naturalmente preceduto da un gran daffare nei ripostigli, in cucina e in tutta la casa. Si era abbattuto un bue, col sistema che abbiamo visto, e lo si era fatto a pezzi. Si erano preparati gli arrosti, gli umidi e le salse e arrostite delle oche allo spiedo. La birra era pronta in giare, come i vini e i

liquori. I frutti erano disposti a piramide nelle ceste e nelle zuppiere, e il tutto era tenuto ben protetto da insetti e polvere. Le coppe d’oro e d’argento, il vasellame d’alabastro e di terracotta dipinta erano stati tirati fuori dagli armadi. L’acqua fresca era negli appositi recipienti. La casa era stata lavata, spolverata, lustrata, i viali dei giardini spazzati, eliminate tutte le foglioline. Erano stati convocati musicisti, cantanti e danzatori dei due sessi. I portieri erano all’erta. Dovevano solo arrivare gli invitati. Se erano attesi dei personaggi di rango, i padroni di casa stavano in piedi vicino all’ingresso e attraversavano il giardino con i loro ospiti. Così facevano i sacerdoti quando il re si recava al tempio. Il padrone di casa stesso, se tornava dal palazzo con gli onori del sovrano, trovava i suoi raccolti alla porta principale. Poteva accadere che i padroni di casa restassero nella stanza di rappresentanza come il Faraone nella sala delle udienze. Gli invitati in questo caso erano ricevuti dai figli del padrone di casa e dai domestici. Gli Egizi erano di una cortesia instancabile e inesauribile. Erano capaci di esaurire, nell’elogiarsi, sulle stele destinate alla posterità, tutte le risorse del vocabolario; nei riguardi del loro ospite gli invitati dovevano usare press’a poco i termini che leggiamo su un papiro di epoca ramesside. «Che la grazia di Amon sia nel tuo cuore! Che egli ti procuri una vecchiaia felice e ti faccia passare l’intera vita nella gioia e raggiungere gli onori più elevati! Le tue labbra sono sane, le tue membra forti, il tuo occhio vede lontano. Sei vestito di lino. Tu possiedi un equipaggio, con una frusta d’oro in mano. Hai delle redini nuove. Hai attaccato dei puledri di Siria. I neri corrono davanti a te secondo le tue indicazioni. Scendi da un battello di abete adorno a prua e a poppa. Arrivi al tuo bel castello fortificato che ti sei fatto costruire. La tua bocca è piena di vino e birra, di pane, carne e dolci. I buoi sono fatti a pezzi. Il vino dissigillato. Un canto soave risuona a casa tua. Il tuo profumiere diffonde le gomme, il tuo capogiardiniere è presente con ghirlande. Il tuo capo delle oasi ti presenta le quaglie, il tuo capo dei pescatori, dei pesci. La tua barca è arrivata dalla Siria carica di cose buone. La tua stalla è piena di vitelli, le tue filatrici prosperano. Tu sei stabile e i tuoi nemici cadono. Quello che si dice di te [di male] non esiste. Tu entri nell’Enneade degli dèi e ne esci trionfante!» 58 Gli ospiti potevano scegliere fra più formule. Potevano, con tono lievemente protettivo, mormorare «benvenuti, benvenuti» o «pane e birra», oppure invocare su chi arrivava la benedizione degli dèi: «In vita, salute e

forza. Nei favori di Amonrasonter. Io chiedo a Pra-Harakhté, a Seth e a Nefti, a tutti gli dèi e a tutte le dee del distretto soave di concederti la salute, la vita e che io possa vederti in buona salute e stringerti fra le braccia!». 59 Ecco un augurio per un cortigiano: «Io chiedo a Pra-Harakhté, dall’alba al tramonto, a tutti gli dèi di Pi-Ramses, il grande ka di Pra-Harakhtén, che ti concedano di essere nei favori di Amonrasonter il ka del re Banrê-Miamun, vita, salute, forza, tuo buon signore, vita, salute, forza tutti i giorni». 60 Quando gli auguri e i complimenti erano esauriti, e ci si erano scambiati gli abbracci, si prendeva posto. I padroni di casa si sedevano su sedili con lo schienale alto incrostati d’oro, d’argento, di turchese, di cornalina e di lapislazzuli. Sedili altrettanto lussuosi erano messi a disposizione di alcuni invitati; gli altri si accontentavano di sgabelli a X o a piedi verticali. Nelle case umili, ci si sedeva semplicemente su tappeti. Il sedile preferito delle giovinette era costituito da cuscini di cuoio decorati e ricamati. Gli uomini sedevano da una parte e le donne dall’altra. 61 Il moralista Ptahhotep, che la sapeva lunga, raccomandava ai giovani e persino agli uomini maturi invitati in una casa amica di non guardare troppo dalla parte delle donne. 62 Ma non era una regola assoluta. Quando donne e uomini si mescolavano, le coppie non si separavano. L’invitato poteva, se voleva, restare vicino a sua moglie. I servi e le serve si mettevano a circolare fra gli invitati distribuendo fiori e profumi. Le serve erano sempre giovani e graziose. Portavano una veste trasparente che non nascondeva niente dei loro fascini. In genere sul corpo portavano solo una collana a gorgiera e una cintura. Ben presto tutte le donne e tutti gli uomini tenevano in mano un fiore di loto e in testa avevano un cono di colore bianco. Le serve li confezionavano con una crema profumata che attingevano da una grande coppa. I padroni di casa, le fanciulle di casa, le serve portavano tutti in testa questo accessorio indispensabile in un ricevimento. A questo alludevano, nei complimenti che abbiamo prima citato, le parole: «Il tuo profumiere diffonde le gomme». Nessun giorno di festa poteva fare a meno di profumi, necessari anche per dissimulare gli odori della birra, del vino e delle griglie. Le serve che portavano il cono sulla testa non ne sembravano affatto imbarazzate nei gesti. I disegnatori, che non evitavano, nemmeno in una tomba, di rievocare episodi divertenti o grotteschi, non hanno mai mostrato la caduta, che sarebbe stata penosa, di questo accessorio profumato. Mentre lo fabbricavano, le serve, con agili mani, rimettevano a posto la collana di un invitato che mostrava di esserne disturbato.

Ecco finalmente venuto il momento di servire tutto ciò che il cuoco e il pasticciere avevano preparato per il ricevimento. C’era di che soddisfare i più esigenti perché il vecchio Ptahhotep, che pure raccomandava agli invitati di essere discreti negli sguardi e nelle parole, consigliava di accontentare i visitatori al meglio dei propri mezzi. Così ci si meritavano le lodi degli dèi e una buona reputazione. Per ottenere questo risultato alle gioie del palato doveva associarsi il piacere delle orecchie. Nello stesso momento che i convitati si accomodavano i musicisti entravano con i loro strumenti. In ogni tempo gli Egizi hanno amato la musica. L’amavano già prima dell’invenzione di qualsiasi strumento, quando sapevano solo battere le mani per sostenere la voce. Il flauto, l’oboe, l’arpa erano già comparsi all’epoca delle piramidi. Li si combinava a due o a tre: si poteva associare l’arpa con uno degli altri strumenti o usare tutti e tre gli strumenti insieme con la voce o con la mano. A partire dal Nuovo Impero e in parte seguendo l’esempio dei popoli vicini, le risorse strumentali sono in netto progresso. Le arpe diventano più voluminose, il corpo sonoro è raddoppiato di volume e le corde sono più numerose. Si cominciano a costruire delle arpe portatili, arpe di grandezza media a un piede e arpe monumentali che sono vere e proprie opere d’arte coperte di ornamenti floreali o geometrici, arricchite da una testa di legno dorato che si adatta alla base o è infilata all’estremità superiore. La cetra è d’importazione asiatica. Gli Amu nomadi si presentano a Menat Khufu dal governatore del nomo dell’Orice suonando la cetra. Musici stranieri suonano talvolta una cetra a piede di grandi dimensioni. Le cetre portatili, spesso molto eleganti, sono a sole cinque corde. Il flauto doppio non era più, come in passato, formato da due canne parallele sistemate l’una contro l’altra, ma si componeva di due canne poste ad angolo acuto. Il liuto è composto da una scatoletta lunga dove sono praticati sei oppure otto buchi, piatta da ambo i lati e dotata di un lungo manico adorno di nastri su cui erano tese quattro corde. I tamburelli erano rotondi o quadrati ma servivano soprattutto nelle feste popolari e religiose, come gli altri strumenti a percussione, i crotali e i sistri, anche se la dea Hathor alla quale erano dedicati proteggeva i banchetti e la musica. I crotali, in egizio menat, erano composti da tue tavolette uguali, d’avorio o di legno, legate a una collana. I sistri consistevano in una testa di Hathor piantata su un manico. Le corna erano sostituite da due appendici molto lunghe, di metallo, fra le quali erano stati tesi dei fili di metallo che attraversavano dei piccoli cembali, sempre di metallo. Agitando i sistri si

producevano delle note tenute e delle altre brevi adatte ad accompagnare o ritmare il canto. I crotali corrispondevano alle nostre nacchere. Coloro che ai nostri giorni applaudono con entusiasmo l’«Argentina» o un’altra ballerina spagnola possono facilmente immaginare gli effetti che gli Egizi ricavavano dai sistri e dai crotali. Le cantanti potevano anche accompagnarsi da sole con il battito delle mani. La danza completava le attrazioni. Qualche volta interveniva anche un’acrobata; rovesciandosi all’indietro e spargendo a terra i capelli. 63 Quando l’appetito era appagato, i canti, la musica e la danza prolungavano ulteriormente la riunione. Si consumavano nuove delizie con più gioia perché si trattava ormai solo di soddisfare la ghiottoneria. I cantanti talvolta improvvisavano versi che celebravano la generosità dell’ospite e la bontà degli dèi. «[...] La sua perfezione è in tutti i cuori [...] Ptah ha fatto questo con le sue proprie mani per l’unzione del suo stesso cuore. I canali sono pieni di acqua nuova. La terra è inondata dal suo amore.» «È un giorno felice – diceva un altro – quello in cui si pensa alla bellezza di Amon. Com’è soave lanciare un’acclamazione fin nell’alto dei cieli!» Era importante ringraziare gli dèi ma nessuno ignorava che è per un tempo molto breve che noi godiamo dei loro beni. Bisognava dunque approfittare di un bel giorno in cui la clemenza degli dèi e la generosità dell’ospite si completavano armoniosamente. L’arpista di Neferhotep ricordava queste verità in occasione di un banchetto: «I corpi vi si recano fin dal tempo del dio e le giovani generazioni ne prendono il posto. Finché Ra si alzerà la mattina e Tum scenderà a Manu, i maschi genereranno, le donne concepiranno, i nasi respireranno, ma ciò che oggi è nato un giorno scenderà nello stesso luogo. Dacci un giorno felice, oh sacerdote. Si spargano profumi di prima qualità, essenze per il tuo naso, ghirlande e gigli per le tue spalle e per il petto della tua amata sorella seduta al tuo fianco, che di fronte a te si diffondano il canto e la musica dell’arpa. Trascura tutti i mali e pensa solo ai piaceri finché arriverà quel giorno in cui bisogna approdare alla terra dell’amica del silenzio. Dacci un giorno felice, Neferhotep, giusto di voce, eccellente padre divino dalle mani pure. Ho udito tutto ciò che è accaduto [agli antenati]. Le loro [mura] sono state distrutte. Le loro fortificazioni non esistono più. Essi stessi sono come colui che non è mai esistito dal tempo del dio. Le tue mura sono solide. Tu hai piantato i sicomori sulla riva del tuo bacino. La tua anima resta sotto di essi e beve la loro acqua.

Segui il tuo cuore con decisione finché sei sulla terra. Dà del pane a chi non ha proprietà, in modo da conquistare una buona fama per sempre. Dacci un giorno felice... Immagina quel giorno in cui sarai condotto al paese che unisce gli uomini. Assolutamente nessun uomo vi ha mai portato i suoi beni. Non se ne può far ritorno». 64 Un altro arpista insiste sull’inutilità degli sforzi umani per vincere la morte. L’Egitto già ai tempi di Ramses era un paese antico e tutti già potevano vedere quale sorte era stata riservata alle piramidi! «Gli dèi che sono stati qui in passato e adesso riposano nelle loro piramidi, le mummie e i mani che sono sepolti anch’essi nelle piramidi, che hanno costruito castelli, non esistono più, non esistono più nemmeno le loro roccaforti! Che cosa è stato di loro?... Ho udito le parole di Imhotep e di Hardidif che si cantano in canti in gran numero. Le loro mura sono state distrutte, le loro fortezze non ci sono più, come se non fossero mai esistite. Nessuno celebra più le loro qualità, i loro beni.» «Segui il tuo cuore finché esisti. Metti incenso sulla tua testa. Vestiti di lino. Ungiti di ciò che c’è di più meraviglioso fra le essenze del dio [...] Segui il tuo cuore e la tua felicità finché starai in terra. Non dar pena al tuo cuore finché venga anche per te quel giorno in cui si supplica ma il dio il cui cuore non batte più non ascolta coloro che lo implorano...» 65 In epoca più recente non ci si limitava a contrapporre, con le parole, le gioie della vita alla tristezza del regno dei morti e a esortare i convitati ad approfittarne. Secondo gli autori greci, che questa volta sembrano bene informati, nei banchetti delle case più ricche, alla fine del pasto, si mostravano delle figurette di legno scolpite e dipinte in una bara, che imitavano con estrema precisione un morto, mummificato naturalmente, non in forma di scheletro come potrebbero immaginare i moderni. A Tanis ho trovato io stesso, in una casa privata, delle statuette rappresentanti delle mummie, che intatte dovevano essere lunghe circa un cubito e che forse erano servite per quest’uso. L’ospite mostrava dunque la statuetta agli invitati dicendo loro: «Guarda e bevi, e cogli il piacere perché una volta morto sarai anche tu così». Così facevano gli Egizi quando si trovavano insieme a bere. O almeno così affermano Erodoto e Plutarco. Luciano, che parla da testimone oculare, afferma che i morti presenziassero addirittura ai banchetti. Di bene in meglio. Niente però dimostra che Neferhotep avesse invitato dei morti a sedersi fra i vivi o fatto circolare una piccola mummia e ancor meno uno

scheletro d’argento mobile, come quello dell’opulento Trimalcione. 66 Del resto i convitati obbedivano volentieri all’esortazione delle melodiose arpiste. Col pretesto di celebrare un giorno felice, talvolta la riunione di famiglia si trasformava in un’occasione di grandi bevute. Ecco ad esempio il racconto di un ricevimento da Paheri e sua moglie. 67 I padroni di casa stanno seduti l’uno di fianco all’altra. Una scimmia arrampicata sulla gamba della sedia di Paheri prende dei fichi da un canestro e li sgranocchia. I servi stanno indietro. Su dei bei sedili, l’uno di fronte all’altra, stanno seduti i genitori di Paheri. Gli zii, i cugini, gli amici stanno seduti sulle stuoie, ma non sono dimenticati. I servi circolano fra loro portando delle coppe di forma ovale e altri passano in mezzo alle signore invitate. «Al tuo Ka – dice uno di essi tendendo una coppa piena – bevi fino a inebriarti. Abbi un giorno felice! Ascolta quello che ti dice la tua compagna.» La quale aveva appena detto al servo: «Dammi diciotto misure di vino. Ecco! Ne voglio fino all’ebbrezza». Un altro servo è altrettanto insinuante: «Non ti preoccupare. Ecco, te la lascio [la brocca di vino]». La vicina che aspettava il suo turno interviene dicendo: «Bevi, dunque, non fare la difficile. Permetti che il bicchiere arrivi fino a me? Ecco, è il principe del bere». Più in là, due invitate dimenticate dai servi fanno il gesto di respingere un’offerta immaginaria. Da Paheri ci troviamo a Nekhabit, alla fine della guerra di liberazione. Questi provinciali si divertivano un po’ rozzamente. Ma a Tebe non si praticava maggiormente quella moderazione che secondo Plutarco era sempre necessaria. Non è raro vedere nelle scene di banchetto un invitato che per il troppo bere e mangiare ha il mal di testa e la nausea. 68 Dalla bocca gli esce un liquido disgustoso. I vicini, non troppo impressionati dall’incidente, reggono la testa del malato o della malata. Se necessario, lo stenderanno su un letto. Le tracce del malessere saranno immediatamente eliminate e la festa potrà continuare.

I giochi Certo non tutti i giorni si celebravano banchetti. Quando erano soli, il padrone e la padrona di casa amavano soggiornare in giardino sotto un chiosco leggero e bere bevande fresche respirando il dolce vento del nord, oppure facevano un giro in barca nel loro lago dandosi ai piaceri della pesca con la canna. Una distrazione molto apprezzata dagli sposi era il gioco della

dama. Si giocava con una scacchiera rettangolare divisa in trenta o trentatré caselle. Le pedine nere o bianche avevano press’a poco la forma del pedone del nostro gioco di scacchi. I giocatori si accomodavano sugli sgabelli con un cuscino sotto i piedi. Spesso gli sposi giocavano l’uno contro l’altra. Il padre è assistito dalla figlia che gli mette un braccio intorno al collo. Petosiris gioca con gli amici dopo pranzo aspettando il momento di rinfrescarsi nella sala della birra. I Tebani non aspettavano quel momento e preferivano bere mentre giocavano a dama. 69 Non sappiamo come il gioco fosse regolato, ma dovevano contare i lanci di dadi e non le manovre libere come nella nostra dama. Nelle età più antiche i giochi erano più numerosi e vari. Il più apprezzato era il gioco del serpente mehen che si giocava su un tavolino su cui era inciso o intarsiato un serpente arrotolato su se stesso, con la testa al centro e il corpo diviso in parti. I giocatori disponevano di tre leoni, di tre leonesse, di palle bianche e rosse. Quando la partita era finita, tutto il materiale era riposto in uno scrigno d’ebano. Questo gioco non è più attestato dopo l’Antico Impero. 70 Non possiamo nemmeno affermare che fosse stato abbandonato. Due tombe della I dinastia ci hanno tramandato le più belle serie di leoni e leonesse d’avorio e anche degli strani pezzi di un gioco d’avorio che rappresentano ad esempio una casa composta di tre edifici col tetto a punta oppure somigliano al re e alla torre dei nostri scacchi. I pedoni sono dei cilindri con l’estremità superiore arrotondata completata da un bottoncino. È difficile credere che gli Egizi, che erano dei giocatori, abbiano dimenticato tutti i giochi inventati dai loro ingegnosi antenati per adottarne solo uno o due. Le coppie di sposi e gli amici giocavano per divertimento, ma anche i nemici potevano, con il gioco, risolvere una contesa. 71 I giochi dei bambini non richiedevano grandi impianti. I ragazzi se erano in molti si dividevano in due campi. In ogni campo ogni giocatore passava il braccio intorno al corpo del compagno che lo precedeva. I primi due si affrontavano con i piedi incrociando le mani e cercavano di farsi cadere. Quelli che stavano indietro incoraggiavano il capofila: «Il tuo braccio è molto più forte del suo. Non cedere!». Gli altri rispondevano: «Il campo è più forte di te. Abbattili, compagno!». Il gioco del capretto a terra era una specie di salto degli ostacoli. 72 Due ragazzi si sedevano a terra uno di fronte all’altro, con le braccia e le gambe

tese, le dita della mano bene allargate, il tallone sinistro sulla punta del piede destro e formavano un ostacolo che gli altri giocatori dovevano cercare di saltare senza farsi prendere. I giocatori che formavano l’ostacolo naturalmente cercavano di afferrare la gamba del saltatore e di mandare «il capretto per terra». Il saltatore non era autorizzato a fare delle finte e annunciava la partenza dicendo: «Tienti bene! Eccomi, compagno, arrivo!». Altri ragazzi gareggiavano in velocità ma correre sui piedi sarebbe stato troppo facile! Correvano sulle ginocchia, a gambe incrociate, tenendosi i piedi con le mani. Si giocava anche al lancio del giavellotto su un bersaglio disegnato a terra. Questo bersaglio portava, non sappiamo perché, il nome del dio Sechemu, il dio della spremitura, che era un dio molto rispettabile. Ci si sarebbe potuto aspettare che portasse quello del dio uccisore di Osiride. Anche la lotta era apprezzata. Se si era in numero sufficiente, una parte dei giocatori formava una specie di torre e ognuno stendeva le braccia sulle spalle del vicino. Gli altri dovevano saltare sulla torre senza farsi prendere dal guardiano. Qualche volta il gioco provocava degli incidenti. Il ragazzo maldestro o baro era punito a pugni e calci o addirittura legato come un delinquente. I suoi carnefici lo colpivano con bastoni che finivano con una mano. Le ragazze preferivano i giochi di destrezza e abilità. Le piccole salivano sulla schiena delle più grandi e si lanciavano delle palle. Lottavano anche a prendersi per la vita. Ma il passatempo preferito era la danza. Ogni giovinetta doveva saper danzare, non solo quelle che sarebbero diventate delle professioniste. Si appendevano una pallina alla treccia e impugnavano uno specchio o un bastone scolpito preso a prestito dai ragazzi. Così adorne, saltavano e si contorcevano in mezzo alle compagne che facevano cerchio intorno cantando e battendo le mani. Una canzone, che non abbiamo interpretato completamente, invoca Hathor, la patrona di tutti i piaceri. Ecco un tipo di danza non privo di imprevisti. Due ragazze grandi si mettono una contro la schiena dell’altra e allungano le braccia a destra e a sinistra. Altre quattro ragazze premendo i piedi contro i piedi delle due afferrano le quattro mani tese e si alzano irrigidendo il corpo. A un comando, tutto l’insieme ruotava almeno tre volte, finché una caduta non interrompeva il gioco. Nelle stanze dell’harem si trovavano quasi sempre delle arpe, delle cetre, dei liuti e dei tamburelli. 73 Non a caso. Credo che dopo il pasto serale la sera trascorresse in famiglia rallegrata dal canto, dalla musica e dalla danza. E

anche dai racconti. Un papiro del museo di Berlino detto papiro Westcar mostra Cheope distratto, poi, prodigiosamente, interessato dalle storie di maghi che i suoi figli raccontano a turno. Possiamo pensare che questo passatempo reale fosse condiviso da tutti. 1. Erodoto, II, 37. Qualche volta sono rappresentate delle lavandaie: Wr. Atl., I, 57. Farina, La pittura egiziana, 165. 2. Sinuhit B., 291-292. 3. Ibid., 293-295. Montet, Byblos et l’Égypte, 610. 4. Jéquier, Les frises d’objets. 5. Ad esempio, il visir Ptahmose, stele 88 di Lione, pubblicata da Varille, Mélanges Loret, Bull. I.F.A.O., 1930, 497. 6. Quibell, The tomb of Hesy, tav. 21. 7. Jéquier, op. cit.; Lucas, Ancient egyptian materials e Pap. Ebers, 65, 10-11, ricette 453-463; 66, 7-9, industrie, II ed.; 79-84, ricette 464-465; 66, 15, ricette 468. 8. Pap. Hearst, 10, 4-11, ricette 144-148; Pap. Ebers, 86, 4, ricette 705; 87, 3-16, ricette 714-720. Pap. Ebers, 67, 3. Pap. Hearst, 10, 15, 15, 1, ricette 157-158. 9. V. Loret, Pour transformer un vieillard en jeune. Mélanges Maspero, I, 853-877. 10. Wr. Atl., I, 44. 11. Coire cat. gén., Bénédite, Objets de toilette; Erman-Ranke, Ægypten... tav. 17. Analogamente: Farina, La pittura egiziana, 17. 12. Pap. d’Orbiney, 2, 9, 3, 2. 13. Davies, Five theban tombs, 4, 26. Th. T.S., V, 9, 10: IV, 17. Mem. Tyt., 1, 12, 18; IV, 7, 8, 11; V, 30. 14. Urk., I, 102. 15. Due paia di sandali d’oro sono stati trovati nella tomba di Psusenne: Montet, Tanis, 156. 16. Pap. Ebers, 78, 4 ss., ricette 616, 617, 620; 81, 2 ss.; 647, 648. Pap. Hearst, 12, 8, ricette 173205. 17. Davies, El Amarna, IV, 26. Medinet-Habu, 75, 112. 18. Davies, Neferhotep, 36, 37, 41, 50. Th. T.S., IV, 6, Mem. Tyt., IV, 1, 5; V, 1, 9, 25. 19. Davies, Neferhotep, 15, 36, 37, 50, 52. Mem. Tyt., IV, 1, 5; V, 1, 7, 9, 25. 20. Pap. Br. Mus., 10052, XI, 7-8; cfr. Vandier, La famine dans l’Égypte ancienne, Le Caire 1931. 21. Sinuhit, B., 86-88. 22. Naufrago, 47-52. 23. Wr. Atl., II, 185-188. Medinet-Habu, 173. 24. Pap. Harris, I, 13, 7-8; 20a, 3-11; 35b, 8-14; 51a 13. 25. Pap. Harris, I, 20a, 13-15; 71b, 9-10.

26. Montet, Vie privée..., cap. V e per il Nuovo Impero, Wr. Atl., 188, Med. Habu, 173. 27. Med. Habu, 148, 160, 152. Pap. Harris, I, 20b, 53b. 28. Urk., III, 54 (Piankhi, 150-153). 29. Pap. Harris, I, 20b, 12-21a; I, 65c, 7-8. 30. V. Loret, L’ail chez les anciens Egyptiens, Sphinx, 1905, 135-147. 31. Numeri, XI, 5. 32. Erodoto, II, 38; Diodoro, I, 2, 33. 33. V. Loret, La flore pharaonique, n. 152, 128-129, 157. 34. Pap. Chester Beatty, I, II, 10-12; L. Keimer, Die Gartenpflanzen im alten Ægypten, 1-6. 35. Diodoro, I, 34. 36. V. Loret, La flore pharaonique, n. 146. Il visir Rekhmara centralizzava anche la raccolta dei semi del carrubo e del miele (Urk., IV, 1040-1041). Medinet-Habu, 146, 1, 281, 286. Pap. Harris, I, 28, 46, 48. 37. Steindorff und Wolf, Die Thebanische Gräberwelt, Leipzig 1932, 18. 38. Davies, Ken-Amun, 58-59; Wr. Atl., I, 255, 286, 325-326, 356. 39. Pap. Ebers, 6, 14, 10, 12, 13, 13, 20, 20. Pap. Hearst, 2, 12, 3, 12, 32. 40. Erodoto, II, 77. 41. Wr. Atl., I, 84; Mem. Tyt., I, 22, 11. Bull. Inst. d’Egypte, XXI, 215. 42. Pap. Harris, I, 16, 20b, 36a, 65c; Mem. Tyt., I, 26; Wr. Atl., I, 16, 22. 43. Wr. Atl., I, 180, 356; Montet, Vie privée..., 231-236; Davies, Five theban tombs, 38. 44. Th. T.S., II, 11. 45. Pendlebury, Les fouilles de Tell el Amarna, 139. 46. Montet, Vie privée, 242-254: Davies, Ken-Amun, 58; Th. T.S., II, 8-10; Davies, Five theban tombs, 39. 47. Bibl. æg., VII, 41-42. 48. AZ, LVIII, 25. 49. Newberry, Beni-Hasan, II, 6; Bull. I.F.A.O., IX, 8, 9. 50. Farina, La pittura egiziana, 17. 51. Davies, El Amarna, III, 4-6. 52. Th. T.S., III, 6. Bassorilievo della tomba di Haremheb, Berlino 20365. 53. Erman-Ranke, Ægypten..., 218. 54. Kêmi, VIII. 55. Siut I, contratti V, VII e IX. 56. Davies, A peculiar of N.K. lamp, J.E.A., X, 9-14. Cfr. Urk., IV, 117: «Che si possa accendere la lampada per te, durante la notte, finché non ricompaia il sole!». 57. Maspero, Les enseignements d’Amenemhât I à son fils Sanouasrît I, 10.

58. Bibl. æg., VII, 37, 38. Auguri analoghi in: Bibl. æg, VII, 24. 59. Bibl. æg., VII, 5-6; Ann. S.A.E., XL, 605. 60. Bibl. æg.,VII, 7. 61. Le scene di banchetto sono frequenti nelle tombe tebane: Paheri, 6-7; Davies, Neferhotep, 18; Th. T.S., 1, 6, 15; III, 4-6; III, 21; Mem. Tyt., I, 15; IV, 5; Wr. Atl., I, 7; 1, 10; 8, 9, 91. 62. Ptah-hotep, ed. Dévaud, massime 18, 277, 288. 63. Ai richiami della nota 61 si devono aggiungere: Wr. Atl., I, 145; Davies, El Amarna, V, 5 e V. Loret, «Note sur les instruments de musique de l’Égypte ancienne», in L’Encyclopédie de la musique a cura di Lavignac, Paris 1913, 1-34; T. Gérold, Histoire de la musique des origines à la fin du XIV siècle, Paris 1936, cap. I. Un acrobata: Wr. Atl., I, 179. Un’altra: Maspero, Histoire, II, 529. 64. Br. Mus. 37984. Bénédite, Le tombeau de Neferhotpou; Miss, fr., V, tav. 4, 529-531 e Maspero, Études égyptiennes, I, 172-177. 65. Maspero, Études égyptiennes, I, 178 ss. (Leida K 6). 66. Erodoto, II, 78; Plutarco, Iside e Osiride, 17; Luciano, De Luctu, 21; Petronio, Satiricon, 34. 67. Paheri, 7. 68. Davies, Neferhotep, 18; Wr. Atl., I, 392 (Bruxelles E 2877); Wr. Atl., I, 179. 69. Wr. Atl., I, 49, 418; Bull. I.F.A.O., XXVII, tav. 7 (Tomba 219 a Deir el-Medineh); Lefebvre, Petosiris, 50; Piankhi, 133. 70. Montet, Vie privée..., 372-376; Junker, Giza, IV, 37. 71. Maspero, Contes populaires, IV ed., 142 («Setna-Khamoïs e les momies»). Ibid., 2 («Emprise de la cuirasse»). 72. Montet, Vie privée..., 368, 372. Una diversa spiegazione del «gioco del capretto a terra» è stata data da un egittologo egizio, Zaki Saad, che si basa sui suoi ricordi infantili, in «Khasa Lawiza», Ann. S.A.E., XXXVI, 212 ss. 73. Davies, El Amarna, VII, 18.

V

La vita in campagna

I contadini Per lo scriba tutti i mestieri manuali erano spregevoli ma quello di agricoltore era il peggiore di tutti. Le persone vi si consumavano in fretta come gli strumenti di lavoro. Battuti e sfruttati dai padroni e dagli agenti del fisco, derubati dai vicini, dai banditi, ingannati dagli elementi, mandati in rovina dalle cavallette, dai roditori, da tutti i nemici del genere umano: tale era l’uomo dei campi. 1 E sua moglie poteva essere gettata in carcere, i suoi figli presi in pegno. Fanno di lui della sventura la compiuta rappresentazione. Ma i Greci, che venivano da un paese povero dove si otteneva scarso raccolto a prezzo di un duro lavoro, la pensavano ben diversamente. Quando i campi sono stati seminati, diceva Erodoto, il contadino [egizio] deve solo aspettare tranquillamente il tempo della mietitura. Diodoro rincara la dose scrivendo: «In generale presso gli altri popoli l’agricoltura richiede grandi spese e molte cure. Solo presso gli Egizi viene esercitata con pochi mezzi e poco lavoro!». 2 Fra gli Egizi che frequentavano le scuole c’erano dei fautori del ritorno alla terra. Erano i folli all’intenzione dei quali lo scriba ha composto il suo sinistro quadro. Il contadino dell’oasi del sale non ci viene dipinto come uno sventurato. Lungo è l’elenco dei buoni prodotti della terra che ha ammassato sugli asini per venderli a Nennisut. Con il prodotto di quella vendita vuole portare buoni dolciumi a sua moglie e ai suoi figli. Un malvagio, vedendo passare la piccola carovana, si impadronisce degli asini e del carico. Ma in alto ci si interessa a lui. Se avessimo la fine della storia, vedremmo certamente la giustizia del re esercitarsi a suo favore. Nemmeno il maggiore dei due fratelli reso celebre da un altro racconto può dirsi un povero diavolo. Ha una casa, dei campi, del bestiame, strumenti da lavoro, frumento, tutto di proprietà. Sua moglie vive come una signora, sta a casa mentre il marito e il cognato lavorano nei campi e può attardarsi a fare toilette. Ha tutto il tempo per mettere a posto la casa, preparare il pasto della sera e accendere la lampada prima del ritorno del marito al quale presenterà la brocca e il

catino.

L’irrigazione dei giardini Quando abbiamo descritto la casa degli Egizi abbiamo osservato il loro amore per i giardini. In città come in campagna, ogni proprietario voleva averne uno e coltivarvi verdura e frutta. Il lavoro richiesto dall’irrigazione era il più impegnativo e il solo, fra i lavori del giardino, sul quale siamo abbastanza informati. L’orto era diviso in piccole aiuole da canaletti che si tagliavano ad angolo retto. A lungo, ancora durante l’Impero di Mezzo, i giardinieri andavano a riempire nella cisterna le giare rotonde di terracotta che servivano a innaffiare: le portavano sospese a due a due su un bilanciere e le versavano nel canaletto che distribuiva l’acqua nell’intero giardino. Era un lavoro lungo e faticoso. 3 L’invenzione dell’altaleno dovette essere un progresso importante. 4 Si piantava a terra, in riva all’acqua, un grosso pilastro verticale alto circa due volte un uomo. Poteva servire all’uomo un grosso albero, se era sistemato nel posto giusto. Poi si sistemava una grossa pertica in modo che oscillasse in tutte le direzioni. Alla parte più grossa della pertica si attaccava una pesante pietra. A quella più piccola si attaccava un recipiente di latta o di terracotta con una corda lunga cinque o sei cubiti. L’uomo agiva sulla corda per riempire il recipiente e sollevarlo all’altezza di un canaletto dove lo svuotava per ricominciare. Nel giardino di Apuy erano all’opera quattro altaleni contemporaneamente. Il cane del giardiniere sorvegliava con la coda dell’occhio il tragitto dei secchi d’acqua. La resa di queste macchine primitive era soddisfacente, come dimostra il fatto che venivano sempre impiegate. Ma sembra che gli Egizi del Nuovo Impero le abbiano usate solo per l’irrigazione dei giardini. Non abbiamo ancora visto quadri che le rappresentino all’opera nei campi. La ruota da vasi il cui scricchiolio sembra ormai inseparabile dalla campagna egizia non figura invece mai nei documenti faraonici. Non sappiamo quando fu introdotta nella valle del Nilo. Bei pozzi di grande diametro sono stati scoperti nella necropoli dei sacerdoti di Thoth a Ermopoli non lontano dalla tomba di Petosiris, ad Antinoe e nel tempio di Tanis. Il primo era certamente stato scavato per ricevere una saqqieh ma forse è più antico della tomba di Petosiris che a mio parere risale

al regno di Tolomeo Sotere.

La vendemmia Ogni orto conteneva almeno qualche pianta di vite, schierata contro il muro di cinta o lungo il viale centrale. I sarmenti si arrampicavano sui sostegni formando una volta da cui pendevano in piena estate i bei grappoli dai chicchi blu così apprezzati dai cittadini. Nel Delta la coltura della vite era molto più sviluppata, e si trattava di uva da vino più che di uva da tavola. Dalla più remota antichità erano celebri i vini della Palude (meh) di Imit a nord di Faqus, della Peschiera (ham) di Sin nella regione di Peloso, e il vino di Abech che veniva conservato in giare di tipo speciale protette da un cuscinetto di vimini citato nell’iscrizione. Prima che questa iscrizione fosse stata inventata, il prodotto della vite di Seba-Hor-khenti-pet veniva trasportato in giare sigillate fino alla residenza del Faraone tinita. Grandi bevitori di vino, in quanto provenienti da Avaris, fra Imit e Sin, i Ramessidi avevano ulteriormente sviluppato la coltura della vite e il commercio del vino. Al regno di Ramses II risalgono la maggior parte dei frammenti di giare di terracotta raccolti al Ramesseum, a Qantit, in tombe tebane che permetterebbero di stabilire una carta provvisoria della viticoltura egizia se la geografia faraonica non fosse stata ancora a uno stadio infantile. 5 Ramses III così si esprime: «Ti ho fatto dei vigneti da vino nelle oasi del sud e del nord, senza contare altri nella parte meridionale in gran numero. Si sono moltiplicati nel Delta a centinaia di migliaia. Li ho provvisti di giardinieri presi fra i prigionieri dei paesi stranieri come ho fatto con le cisterne che ho scavato e che ho coperto di ninfee; il liquore e il vino sono come l’acqua che si estrae per essere data al tuo volto a Tebe la vittoriosa». 6 Della coltivazione della vite, della vita del suo coltivatore conosciamo solo un episodio: la vendemmia. 7 I vendemmiatori si diffondevano sotto i pergolati. Staccavano con le dita, senza coltelli, i grossi grappoli coi chicchi blu e ne riempivano i cesti senza schiacciarli perché il cesto non era a tenuta stagna, poi andavano, cantando, con il cesto in testa, a gettare l’uva nel tino. Poi tornavano alla vigna. Da nessuna parte, che io sappia, si impiegavano animali per il trasporto dell’uva. Nelle zone dove la vite era coltivata in grande era pratico usare le barche per trasportare i cesti dalla vigna alla

cantina sempre per evitare di schiacciare prematuramente l’uva e perdere il succo prezioso. I bacili per la raccolta erano bassi e rotondi. Non sappiamo di che materiale fossero fatti. Il legno deve essere escluso. Gli Egizi, che non sapevano fabbricare tini, non erano nemmeno capaci di costruire bacili di legno, anche se dopo tutto la costruzione di una barca era altrettanto difficile. Io credo che i bacili fossero di pietra. Lo stucco, la terracotta, la ceramica avrebbero procurato inconvenienti mentre la pietra dura, che poteva essere lucidata come il granito e lo scisto, permetteva di ottenere bacili perfettamente stagni e di facile conservazione. Talvolta i bacili erano posati su un piedistallo alto due o tre cubiti, decorato con un bassorilievo. Da due punti diametralmente opposti partivano due colonnette o due pertiche forcute se il proprietario non aveva pretese di eleganza, che sostenevano una travicella da cui pendevano cinque o sei corde. Quando avevano portato una quantità sufficiente d’uva, i vendemmiatori entravano nel bacile e attaccandosi alle corde, probabilmente perché il fondo non era piatto, calpestavano vigorosamente i grappoli. Nella cantina di Mera, visir del re Pepi I, due musicisti seduti su un tappeto cantavano accompagnandosi con i loro crotali di legno per stimolare i vendemmiatori e farli danzare al loro ritmo. 8 Non c’è ragione perché quest’uso sia stato abbandonato. Tuttavia nel Nuovo Impero questi ausiliari sembrerebbero scomparsi. Dopo tutto i vendemmiatori potevano cantare mentre danzavano nel bacile. Il succo scendeva in un catino sottostante attraverso due o tre aperture. Quando la spremitura aveva dato tutto quello che poteva, i grappoli schiacciati erano messi in un sacco robusto con due pertiche, in alto e in basso. Quattro uomini tenevano l’insieme sollevato sopra un mastello e, facendo girare le pertiche in senso inverso, torcevano il sacco. Questo sistema aveva due inconvenienti. Gli operatori reggevano il peso del sacco e intanto agivano sulle pertiche. Al minimo spostamento, il vino cadeva a terra. Perciò fra i quattro operatori stava un aiutante per impedire le oscillazioni o per fare oscillare contemporaneamente il mastello del vino. Durante il Nuovo Impero, i vendemmiatori usavano un frantoio composto di due montanti solidamente infissi a terra in cui alla stessa altezza erano praticati dei fori dove si introducevano le estremità dei sacchi della vendemmia. Si facevano passare le pertiche in uno strappo praticato a questo scopo e a questo punto si doveva solo stringere. La forza degli operatori veniva impiegata più utilmente e

nessun goccio di vino andava perduto. 9 Raccolto in catini ad apertura larga, il vino veniva travasato in giare a fondo piatto dove subiva la fermentazione, alla fine della quale veniva travasato in giare preparate per il viaggio, lunghe e puntute, munite di due orecchie e di un collo stretto che veniva tappato con dello stagno. Le giare venivano portate a spalla e quando erano molto grandi e pesanti erano sospese a una pertica e sostenute da due persone. L’inevitabile scriba assisteva a tutti i lavori. Contava i canestri di mano in mano che venivano portati dai vendemmiatori e poi scriveva sulla giara le indicazioni (annata, provenienza, nome del proprietario) che riportava sui suoi registri. Il proprietario qualche volta teneva a sorvegliare personalmente vendemmia e spremitura. La sua presenza veniva notata e i vendemmiatori intonavano canti in sua lode. Così nella cantina di Petosiris: «Vieni, signore nostro, vedrai le tue vigne nelle quali il tuo cuore si compiace mentre i tuoi vendemmiatori, davanti a te, spremono l’uva. Abbondante è l’uva sulle viti. In essa c’è molto succo, più che in qualsiasi altro anno. Bevi, inebriati, facendo quello che ti piace. Le cose andranno come tu vuoi. La signora di Imit ha fatto crescere le tue vigne perché vuole il tuo benessere». «I vendemmiatori tagliano le vigne; i loro figli portano la loro parte. È l’ora ottava del giorno, “quella che fa incrociare le braccia”. Viene la notte. Scende sui grappoli un’abbondante rugiada notturna. Dobbiamo affrettarci a spremerla e a portarla alla casa del nostro signore.» «Ogni cosa arriva da Dio. Il nostro signore berrà con soavità ringraziando Dio per il tuo ka.» «Facciamo una libagione a Sha (il genio della vigna) perché egli doni uva abbondante per un altro anno.» 10 Gli Egizi non erano ingrati ma erano previdenti e approfittavano delle buone disposizioni che la loro pietà suggeriva alla loro divinità per chiederle nuovi favori. Talvolta si notava accanto al bacile l’immagine di un serpente con la gola gonfia, pronto all’attacco. Poteva avere in testa il disco fra le corna, come Iside o Hathor, e stare in un elegante naos o nei pressi di una zolla di papiro. Mani pietose avevano posto accanto a esso un tavolinetto con dei pani, un mazzo di lattuga, uno di loto e due calici. Il serpente altri non era che la dea Renutet, dea delle messi dalla quale dipendevano, oltre ai granai, le vesti, l’uva, le cantine. La sua festa principale aveva luogo all’inizio della stagione di shemu, che segnava l’inizio della mietitura. I vendemmiatori la

festeggiavano a loro volta quanto si concludeva la spremitura dell’uva.

L’aratura e la semina 11 La coltivazione dei cereali restava, ai tempi dei Ramessidi, quella essenziale. I campi d’orzo e grano si succedevano dalle paludi del Delta alle cateratte. I contadini egizi erano soprattutto degli aratori. Finché l’Egitto restava coperto dalle acque, per i quattro mesi della stagione akhit, non avevano molto da fare ma appena il Nilo rientrava nel suo letto bisognava approfittare dei giorni in cui la terra, ancora molle per l’inondazione, si lasciava lavorare facilmente. In alcuni dipinti venivano rappresentati i lavori di aratura e pozzanghere d’acqua visibili in secondo piano fanno capire che non si aspettava nemmeno che il Nilo fosse completamente rientrato nel suo letto. Solo a questa condizione si era dispensati dai lavori preparatori che la terra richiedeva in Europa. È il momento scelto dall’autore del racconto dei due fratelli per dare inizio alla sua storia. Il maggiore dice al minore: «Andiamo a preparare le bestie per arare. Ecco che la terra è emersa dall’acqua ed è pronta per essere arata. Tu dunque andrai ai campi con la semente in mollo che cominciamo l’aratura domani mattina». A queste parole, il fratello minore si sentì obbligato a fare tutti i preparativi di cui il maggiore gli aveva parlato. Quando la terra si illuminò l’indomani mattina, essi andarono nei campi con le sementi e cominciarono ad arare. 12 Seminatori e aratori operavano, come si è visto, insieme o piuttosto, contrariamente a quello che accade nelle nostre regioni, prima si seminava e poi si arava per ricoprire la semente di terra e non per tracciare i solchi. 13 Il seminatore riempiva di semi un cesto a due anse alto un cubito e quasi altrettanto lungo. Venendo dal villaggio, lo portava sulla spalla e, arrivato sul campo, se lo appendeva al collo con una corda abbastanza lunga in modo da potere attingere facilmente i semi che spargeva al suolo. Ai tempi di Ramses l’aratro era ancora lo strumento rudimentale messo a punto dai primi aratori. Anche in epoche più recenti non si vide altro. Era in grado di intaccare solo un terreno molto morbido, senza erbe cattive né pietre. Due manicotti verticali tenuti insieme da un altro legno sostenevano un ceppo al quale era adattato il vomere, di metallo o forse di legno. Il timone era fissato fra i due manicotti e spingeva contro il ceppo al quale era fissato

tramite una corda. Una traversa di legno fissata all’estremità del timone era posata sulla nuca dei due animali che trainavano l’aratro, attaccata alle corna. A essere impiegate per l’aratura erano le vacche, mai i buoi. La loro piccola dimensione dimostra che quel lavoro non richiedeva un grave sforzo. Sappiamo che le vacche che lavoravano in campagna davano poco latte. C’erano dunque abbastanza vacche per soddisfare le esigenze dei consumatori di latte e dei contadini. I buoi erano riservati ai funerali: trainavano i sarcofagi e i grossi blocchi di pietra. Se dunque si arava con le vacche, è perché per questa operazione la loro forza era sufficiente. Non si rinunciava al loro contributo perché la diminuzione della produzione di latte era solo transitoria. I conduttori in genere erano due. Il lavoro più faticoso era quello dell’uomo che reggeva i manici. Partiva con il corpo eretto e tenendo il manico con una mano faceva schioccare la frusta con l’altra. Appena le bestie si erano messe in movimento piegava il corpo in due e afferrando il manico a due mani spingeva sul vomere con tutte le sue forze. Il suo compagno doveva solo guidare il tiro ma invece di precederlo camminando a ritroso gli stava a fianco camminando nello stesso senso. Qualche volta questo collaboratore era un ragazzo nudo, con la guancia destra coperta dalla chioma, che portava un piccolo cesto. Non era ancora in grado di maneggiare una frusta o un bastone. Per farsi obbedire poteva ricorrere solo alle grida. Qualche volta era la moglie del contadino a spargere il seme. Non sempre quelle lunghe giornate di lavoro andavano esenti dagli incidenti. I due fratelli del racconto avevano esaurito le sementi. Bytau dovette tornare in tutta fretta a casa. Altrove si era determinato uno di quei fastidiosi incidenti previsti dallo scriba che odiava la campagna. Una vacca inciampa in un ostacolo e cade rischiando di spaccare il timone e far cadere anche la compagna. Il conduttore accorre e libera la povera bestia sollevandola. In un istante, il tiro riparte di gran lena. 14 La campagna egizia era un po’ monotona ma non priva d’alberi, come è ancor oggi. Il sicomoro dalla vasta chioma, i perséas, le tamerici, i giuggioli, i balani abbellivano con le loro macchie verdi il nero della terra arata. Questi alberi fornivano il legname per gli strumenti agricoli. La loro ombra era l’amica dell’aratore che appena arrivato sul campo attaccava ai rami di un sicomoro l’otre che di tanto in tanto andava ad accarezzare, riponeva nel suo tronco il cesto con le provviste e un grande recipiente d’acqua fresca. Poi

bisognava lasciar respirare un po’ le bestie. Intanto gli aratori si scambiavano le loro riflessioni: «Che bella giornata! Fa fresco. Il tiro è forte. Il cielo fa quello che vogliamo. Lavoriamo per il principe». Il principe, Paheri, viene a sorvegliare personalmente il lavoro. Scende dal carro mentre lo scudiero gli tiene le redini e calma i cavalli. Un aratore lo scorge e avvisa i suoi compagni: «Affrettati, primo, comanda alle vacche. Fai fermare il principe per vederle». Nella tenuta dello stesso Paheri non c’erano abbastanza vacche per tutti i vomeri e si temeva che, aspettando un giorno di più, la terra si seccasse troppo. Quattro uomini sostituirono il tiro e afferrarono il timone consolandosi del loro duro lavoro col canto: «Noi facciamo; eccoci. Non avere paura per il terreno. Fa così bello!». Il conduttore, un semita, che potrebbe essere un prigioniero di guerra, come i suoi compagni, contento della sua sorte azzarda uno scherzo: «Come tutto va bene, piccolo mio. Bello è l’anno quando è esente da calamità. L’erba è vivace sotto i vitelli. Tutto va bene!». 15 Venuta la sera, le bestie venivano staccate e riconfortate con parole buone e cibo: «Hu [l’eloquenza] è nei buoi. Sia [la saggezza] nelle vacche. Diamo loro da mangiare, in fretta». 16 Gli animali facevano ritorno al villaggio e gli aratori si prendevano l’aratro in spalla. Se li avessero lasciati sul campo, non erano sicuri di ritrovarli. Come dice lo scriba: «Non lo troverà [il suo tiro] al suo posto. Passerà tre giorni a cercarlo e lo troverà in mezzo alla polvere ma non troverà il cuoio che c’era prima. I lupi l’hanno fatto a pezzi». 17 L’aratro non era il solo sistema per interrare il seme. A seconda dei terreni, si potevano impiegare la zappa e la mazza. La zappa era rudimentale come l’aratro. Era composta da un manico, una pala di legno e una traversa. Componeva una A maiuscola con un lato più lungo dell’altro. La zappa si consumava più facilmente dell’aratro e l’agricoltore doveva passare spesso la notte a ripararla. Questa prospettiva non comprometteva il suo buonumore: «Farò più lavoro del padrone – dice un operaio – Silenzio!». L’altro replica: «Amico mio, affrettati al lavoro. Ci farai liberare in breve tempo!». 18 Nei terreni che erano rimasti immersi in acqua a lungo ci si poteva risparmiare tutta questa fatica, lasciandovi libere delle greggi dopo avere sparso il seme. Buoi e asini erano troppo pesanti. Nei tempi più antichi si usavano le greggi di pecore. Il pastore prendeva un po’ di cibo in mano e lo porgeva alla pecora di testa che lo seguiva docilmente e si trascinava dietro il resto del gregge. Per ragioni che ignoriamo, nel Nuovo Impero si preferì

usare i maiali ed è proprio un gregge di maiali che Erodoto vide in azione. 19 L’interramento dei semi suggeriva agli Egizi delle idee molto serie, o per meglio dire funebri. I Greci avevano notato che nel periodo dell’interramento gli Egizi celebravano cerimonie analoghe a quelle funebri e di lutto. Alcuni ritenevano stravaganti questi usi, altri li giustificavano. 20 I documenti faraonici a noi accessibili e in base ai quali ho descritto i lavori della stagione di perit contengono poche tracce di questi riti. I pastori che arrivavano sui campi con le loro greggi intonavano un compianto che continuavano quando gli animali calpestavano le spighe sparse sul terreno: Il pastore è nell’acqua in mezzo ai pesci. Si intrattiene con il siluro, Si saluta con il mormyre Occidente! Dov’è il pescatore, il pescatore d’Occidente? 21

A. Moret ha ritenuto per primo che queste strofe non fossero uno scherzo di contadini che compiangevano il pastore che sguazzava nel fango. Infatti il fango non era territorio dei pesci e meno ancora lo erano l’aia asciutta e le spighe che vi erano sparse. Il pastore occidentale di cui si parla è l’«annegato della prima volta», Osiride tagliato a pezzi da Seth e gettato nel Nilo dove il lepidottero, il phagre e l’ossirinco avevano ingoiato i suoi genitali. In occasione della semina e della battitura del grano, dunque, si rievocava il dio che ha donato all’uomo le piante utili e che si identificava con tali piante al punto che spesso veniva rappresentato con delle spighe e degli alberi che spuntavano dal suo cadavere. Erodoto credeva ingenuamente che dopo l’aratura e la semina il contadino incrociasse le braccia fino alla mietitura. Se lo avesse fatto, il raccolto sarebbe stato gravemente compromesso perché anche nel Delta non pioveva abbastanza perché si potesse fare a meno di irrigare i campi. Nell’Alto Egitto soprattutto la terra si sarebbe subito disseccata e i cereali sarebbero appassiti come l’orzo nell’orto di Osiride, se abbandonati a loro stessi. L’irrigazione era dunque un compito impellente. E quello che Mosè ricorda al suo popolo quando fa balenare ai suoi occhi i vantaggi che l’attendono nel paese di Canaan: «Perché il paese di cui entrerai in possesso non è come il paese d’Egitto da cui siete usciti in cui gettavi nel campo il seme e lo annaffiavi col piede come un orto, ma il paese al quale passate per possederlo è un paese di

monti e di valli innaffiato d’acqua che piove dal cielo». 22 Da questo passo si ricava che l’acqua era trasportata e distribuita sui campi con una macchina mossa con i piedi ma né i testi né i documenti figurativi ci permettono di credere all’esistenza di uno strumento di questo tipo. È probabile che gli ingegneri che regolavano le chiuse del lago Meris le aprissero quando gli agricoltori avevano bisogno d’acqua. I canali così si riempivano. Grazie all’altaleno o, più faticosamente, con i maiali l’acqua era distribuita nei canaletti. A seconda delle esigenze li si apriva e chiudeva, se ne costruivano di nuovi, si costruivano delle dighe e tutto ciò con i piedi, perché in un dipinto tebano vediamo che il fango utilizzato per la fabbricazione della terracotta veniva calpestato con i piedi.

La mietitura Quando le spighe cominciavano a ingiallire, i contadini temevano che i loro campi venissero invasi dai loro nemici naturali, i padroni o i loro rappresentanti, un nugolo di scribi, agrimensori, impiegati e guardie che innanzitutto si precipitavano a misurare i campi. 23 In seguito si misurava il grano con il moggio e ci si poteva fare un’idea esatta di quello che il contadino doveva consegnare agli agenti del tesoro o agli amministratori di un dio come Amon, che possedeva le terre migliori del paese. Il proprietario o il suo rappresentante era uscito di buon’ora da casa sua, guidando personalmente il suo carro con le redini ben ferme. I servi lo seguivano a piedi portando sedili, stuoie, sacchi e casse, tutto ciò di cui avevano bisogno i misuratori per la loro ispezione e anche molto di più. I carri venivano fermati nei pressi di un gruppo di alberi. Uomini venuti non si sa da dove staccavano i cavalli, li legavano ai piedi di un albero e portavano loro acqua e foraggio, allestendo anche dei ripiani per depositare tre contenitori. Dalle casse traevano pane e cibi vari che distribuivano su vassoi e in ceste e persino il necessario per la toilette. Lo scudiero si sdraiava all’ombra e si addormentava sapendo che poteva disporre di qualche ora di tranquillità. Il signore stava già in mezzo agli agrimensori. Indossava una veste di lusso, parrucca, camicia a maniche corte annodata in vita sopra il perizoma, gorgiera, canna e scettro. Ai piedi calzava sandali e per proteggere i polpacci dalle erbe pungenti portava dei gambali a strisce. Gli aiutanti si

accontentavano di un perizoma, alcuni portavano sandali, altri erano a piedi nudi. Nella proprietà di Menna, gli agrimensori indossavano sopra il perizoma una camicia a maniche corte e un gonnellino pieghettato. Portavano gli strumenti della loro professione, rotoli di papiro, palette, sacchi e cartelle da cui si estraevano calamai e penne, rotoli di corda e paletti lunghi tre cubiti. Quando si operava nella proprietà di Amon, che era il più opulento e il più avido degli dèi egizi, il cordoncino veniva arrotolato su un pezzo di legno che terminava in una testa d’ariete perché l’ariete era l’animale sacro al dio. Il capo degli agrimensori individuava il limite del campo e, invocando il grande dio che stava nel cielo, posava il suo scettro che richiamava l’insegna del nome tebano mentre si distendeva e si tendeva la corda. I ragazzi facevano grandi gesti per allontanare le quaglie che volavano sopra le spighe già piene. Sarebbe sbagliato credere che questa operazione raccogliesse solo gli interessati: accanto a coloro che lavoravano si ammassavano i curiosi e i consiglieri. Gli stessi esecutori sarebbero stati ben presto stanchi se una serva devota non avesse portato una colazione, mentre un pasto consistente veniva preparato sotto il sicomoro. La mietitura e la battitura avrebbero occupato gli operai agricoli per parecchie settimane. La popolazione normale non sempre era sufficiente. Per la proprietà dello Stato e quelle delle divinità principali si reclutavano gruppi mobili che cominciavano il lavoro nei nomi del sud. Quando avevano finito, dovevano solo risalire un po’ verso nord per trovare dei campi pronti per essere mietuti. Quando tutti i cereali erano rientrati nell’Alto e Medio Egitto, la mietitura era appena cominciata nel Delta. L’esistenza di queste corvées che passavano di regione in regione per mietere è attestata da un decreto di Seti I che ne esenta il personale del suo tempio di milioni d’anni di Abido. 24 I mietitori tagliavano le spighe con una falce con il manico corto che si afferrava saldamente con la mano. La lama, piuttosto larga dalla parte del manico, finiva in punta. Non si cercava di tagliare le spighe vicino al terreno. L’operaio si curvava appena, afferrando una bella manciata nella mano sinistra, tagliava appena sotto le spighe e le posava a terra, lasciando sul posto le spighe decapitate. Le donne che seguivano i mietitori raccoglievano le spighe in canestri e le trasportavano alla fine del campo. Alcune di queste donne portavano un piatto in cui posavano il grano caduto a terra. È poco probabile che la paglia sia stata trascurata ma non abbiamo nessuna informazione in proposito. I proprietari sono talvolta rappresentati in atto di

mietere e raccogliere le spighe senza nemmeno togliersi la loro bella veste bianca a pieghe. Si sarebbe tentati di credere che inaugurassero il lavoro per lasciarlo subito ai veri mietitori. In realtà i decoratori hanno rappresentato un episodio della vita futura nei campi di Ialu dove non mancava niente ma tutti dovevano coltivare il loro giardino. 25 In generale i padroni si limitavano ad assistere alla mietitura. Così fa Menna, seduto su uno sgabello a X all’ombra di un sicomoro, con le provviste a portata di mano. Il lavoro iniziava all’alba e finiva la sera. Sotto il sole di mezzogiorno, i mietitori si interrompevano di tanto in tanto riponendo la falce sotto il braccio e vuotavano una brocca d’acqua: «Dà molto per il contadino e dammi l’acqua per placare la mia sete». 26 Un tempo i lavoratori erano più esigenti: «Della birra – dice uno – per chi taglia l’orzo» (l’orzo, besha, con il quale si fabbricava birra). 27 Quelli che si interrompevano troppo spesso venivano subito rimproverati dal sorvegliante: «Il sole brilla, lo abbiamo visto. Non abbiamo ancora ricevuto niente dalle tue mani. Hai fatto un covone? Non ti fermare a bere per questo giorno, prima di avere lavorato». Mentre i mietitori faticavano duramente, qualche uomo restava seduto all’ombra con la testa sulle ginocchia. Chi erano? Operai che avevano eluso la sorveglianza, curiosi o servi del padrone che aspettavano la fine dell’ispezione? Si scopre anche, seduto su un sacco, un musicista che suona un flauto doppio. È una vecchia conoscenza perché nella tomba di Ti che risale all’Antico Impero un musico con un flauto lungo due cubiti seguiva i mietitori. Un operaio stazionava davanti a lui e battendo le mani senza abbandonare la falce cantava la canzone dei buoi, poi un’altra che cominciava con: «Mi sono messo per strada!». Il malumore del sorvegliante era più apparente che reale. Da Paheri non c’era il flautista ma i mietitori improvvisavano un dialogo cantato: «Che bella giornata! Esci da terra. Si alza il vento del Nord. Il cielo lavora per i nostri cuori. Il nostro lavoro è quello che amiamo». Gli spigolatori non aspettavano che tutto il campo fosse mietuto per raccogliere le spighe cadute o mendicarne un supplemento. Erano donne e ragazzi. Una donna tende la mano accompagnando le parole al gesto: «Dammi una sola manciata. Sono venuta la sera. Non farmi la cattiveria di ieri, di giorno!». Un mietitore sollecitato negli stessi termini risponde un po’ bruscamente: «Fuori, con quello che hai in mano. Hai visto che per questo si viene scacciati». Nei tempi più antichi si usava concedere ai lavoratori, alla

fine della campagna, l’orzo o l’amidonnier che potevano falciare in una giornata. Quest’uso continuò in tutti i tempi faraonici. Da Petosiris quando i mietitori lavoravano per conto del padrone dicevano: «Io sono il buon coltivatore che porta il grano e riempie due granai per le annate cattive per il suo padrone con il lavoro delle sue braccia, con tutte le erbe del campo quando viene l’akhit». Adesso era venuta la loro volta: «Due volte felici quelli che oggi fanno prosperare il campo. Abbandonano quello che fanno, i contadini!». In un altro gruppo si dichiara che il salario è modesto ma che vale la pena di essere comunque raccolto: «Un piccolo mannello in un giorno, lavoro per questo. Se tu fai la fatica di mietere un covone, i raggi del sole cadranno su di noi per inondare il nostro lavoro». 28 Per timore dei furti e per non abbandonare agli alati una parte troppo rilevante, si trasportava il raccolto di mano in mano che i mietitori procedevano. Il trasporto nella regione di Menfi si svolgeva a dorso d’asino. Guidata dagli asinai, la squadra degli asini arrivava al trotto sollevando nubi di polvere. I mannelli erano gettati in una bisaccia di corda. Quando le due metà erano piene si aggiungevano nuovi covoni che venivano legati con corde. Gli asini portavano il carico allegramente preceduti da asinelli che galoppavano in tutte le direzioni, di cui nessuno si occupava, e seguiti dagli asinai che scherzavano o recriminavano maneggiando il bastone: «Ho portato quattro bicchieri di birra!», «Io con i miei asini ho sollevato 202 sacchi mentre tu restavi seduto». 29 Nell’Alto Egitto poteva accadere che si impiegassero asini, 30 ma nella maggior parte dei casi erano gli uomini a garantire il trasporto. Forse per non prolungare indefinitamente questa corvée, ci si era decisi a tagliare le spighe molto in alto lasciando la paglia sul posto. I trasportatori disponevano di un sacco a rete, teso su un’armatura di legno e dotato di due anelli di sospensione. Quando il sacco era pieno e non vi si poteva più aggiungere nemmeno un pugno di spighe si infilava negli anelli una stanga lunga quattro o cinque cubiti e si fissava il tutto con un nodo. Due uomini prendevano la stanga in spalla e si dirigevano verso l’aia sempre cantando come se volessero dimostrare allo scriba che la loro sorte non era peggiore della sua: «Il sole arde dietro di noi. A Shu daremo il prezzo dell’orzo in pesci!». Un personaggio particolarmente servizievole finge di credere che se i portatori non vanno più in fretta saranno raggiunti dall’inondazione: «Sbrigatevi, con quelle gambe! L’acqua sta arrivando e raggiungerà le ceste!». Esagerava

perché le prime onde dell’inondazione si sarebbero fatte aspettare almeno due mesi. 31 La coppia era appena partita che se ne presentava un’altra. Un portatore si era caricato del sacco. L’altro che aveva afferrato la stanga sembrava disposto a rallentare il ritmo del lavoro perché osserva: «La stanga non sta sulla mia spalla. Com’è dura, cuor mio!». Le spighe venivano sparse sul suolo accuratamente battuto. Quando se ne era versato uno strato abbastanza spesso, buoi e uomini armati di forcone o di frusta invadevano l’aia. Mentre i buoi calpestavano il terreno gli uomini rimestavano continuamente le spighe con le forche. Il caldo e la polvere rendevano questo lavoro gravosissimo. Intanto il bovaro incitava le bestie: «Calpestate per voi, calpestate per voi. La paglia è il vostro cibo, il grano è per i vostri padroni. Non fermatevi. Fa così fresco!». Ogni tanto un bue abbassava l’enorme testa e si riempiva la bocca di quello che trovava, paglia o grano, ma nessuno trovava da ridire. 32 Con le forche, una volta portati via i buoi, si poteva fare una prima separazione sommaria della paglia dal grano. Le impurità, più leggere del grano, salivano alla superficie e con una scopetta era possibile eliminarne la maggior parte. Per completare la scelta si usavano utensili simili a palette. Gli operai afferravano la paletta per il manico, la riempivano di grano e si alzavano sulla punta dei piedi alzando le braccia quanto potevano per lasciar cadere il frumento. Il vento portava via la pula. 33 Il grano veniva pulito: era il momento in cui si facevano avanti gli scribi con il necessario per scrivere e i misuratori con il moggio. Guai al contadino che avesse nascosto parte del raccolto o che, anche se in buona fede, non potesse consegnare agli uomini di legge tutto quello che le dimensioni del suo campo consentivano di esigere. Veniva sdraiato al suolo e colpito ritmicamente e forse lo aspettavano sventure ancora peggiori. Gli uomini di corvée se ne andavano dall’aia con il loro moggio pieno di frumento, passavano davanti agli scribi ed entravano in un cortile stretto fra alte mura dove si trovavano i silos imponenti fino a minacciare il cielo. Erano costruzioni a forma di pan di zucchero, accuratamente passate a calce all’interno e imbiancate all’esterno. Più tardi tutti coloro che dovevano prelevare il grano si sarebbero serviti di una porticina a pianterreno. Nell’insieme, questi pesanti lavori si svolgevano allegramente. I colpi di bastone venivano dimenticati in fretta. Il fellah c’era abituato. Si consolava

pensando che il bastone nel suo paese non risparmiava molta gente e accarezzava di tanto in tanto anche spalle ben più dure delle sue. Quello che dice il Salmista si sarebbe potuto applicare agli Egizi: «Coloro che seminano con le lacrime mieteranno con canti di allegria. Quello che marcia piangendo quando porta il seme, torna con allegria portando i suoi covoni». 34 Si era pianto sul divino pastore quando si interrava la semente; adesso era possibile rallegrarsi ma bisognava condividere questa gioia con gli dèi. Mentre si mondava il grano ci si metteva sotto la protezione di un singolo idolo che aveva la forma di una mezzaluna rigonfia nella parte centrale. 35 Ai nostri giorni, i contadini del Fayum piantano in cima al tetto o sulla porta di casa, all’epoca della battitura del grano, una specie di manichino accompagnato da spighe, che chiamano aruseh, la fidanzata, al quale offrono una coppa, delle uova e del pane. Si è pensato con una certa verosimiglianza che l’idolo a forma di mezzaluna fosse una aruseh. Ciò non dispensava i proprietari dall’offrire alla dea-serpente Renutet che abbiamo già visto onorata dai vendemmiatori: covoni di grano, pollame, cetrioli e angurie, pane e frutta. A Siut, tutti i mezzadri offrivano le primizie del raccolto al dio locale, Op-uyart. Certamente il dio locale riceveva queste offerte ovunque. Il re stesso presentava un covone di grano a Min, dio della fecondità, davanti a una massa di popolo, nel corso di una festa celebrata il primo mese della stagione di shemu. 36 Dal più grande al più piccolo, tutti ringraziavano gli dèi signori di tutte le cose e aspettavano con fiducia la nuova inondazione che avrebbe riaperto il ciclo dei lavori agricoli.

Il lino Il lino spuntava alto e vigoroso. In genere lo si coglieva in piena fioritura. Sui documenti colorati, nella tomba di Apuy e in quella di Petosiris, gli steli terminano in una piccola macchia azzurra: in mezzo al limo spuntavano i fiordalisi. 37 Per strappare il lino, si isolava una manciata, la si afferrava a due mani, in alto, facendo molta attenzione a non spezzare le fibre. La si girava dall’alto al basso per farla cadere a terra, poi si pareggiavano gli steli in basso. Poi i contadini spargevano le manciate a terra, nei due sensi, ottenendo dei mazzi che culminavano dai due lati con dei fiori e che venivano legati in mezzo con una corda confezionata sul posto con qualche stelo sacrificato.

Sappiamo che le fibre sono più belle, più resistenti se il lino è strappato prima della completa maturazione. Del resto, un testo afferma con estrema precisione che si procedeva così. Bisognava però lasciare da parte una parte del raccolto per ottenere i semi non solo per i futuri raccolti ma anche per le medicine. Gli uomini portavano i mazzi sulla spalla, i bambini in testa. I più fortunati che avevano degli asini riempivano le bisacce e raccomandavano vivamente all’asinaio di non lasciar cadere il carico. Alla fine del trasporto, i portatori trovavano un uomo che protetto dall’ombra già batteva la sua manciata di lino contro una tavola inclinata e gli gridavano: «Sbrigati, non parlare troppo, vecchio, perché gli uomini del campo vanno in fretta». Il vecchio rispondeva: «Quando me ne porterai 1.109 le pettineremo!». La serva di Ruddidit, evidentemente spinta da un diavolo, va a trovare suo fratello proprio mentre stava svolgendo questo lavoro, per raccontargli i segreti della sua padrona. Egli la batte proprio con il necessario per punire gli indiscreti. 38

I nemici delle coltivazioni Già sappiamo che i raccolti erano minacciati da non pochi nemici. Quando l’orzo aveva prodotto le spighe e il lino era in fiore, il temporale e la grandine una volta colpirono i campi di tutto l’Egitto, gli uomini e gli animali. Era la settima piaga d’Egitto, e siccome il cuore del Faraone restò duro, siccome il frumento e il farro che sono tardivi erano stati risparmiati, il vento d’Oriente apportò una nube di cavallette che divorarono quello che la grandine aveva risparmiato: non restò erba nei campi né verde sugli alberi. Contro questi nemici, il contadino poteva solo invocare i suoi dèi e più in particolare il dio cavalletta. Ma poteva difendersi efficacemente contro due ospiti sgradevoli che visitavano gli orti e i giardini in primavera e in autunno: il rigogolo, genu, e la ghiandaia, surut. 39 Questi uccelli utili, poiché distruggevano molti insetti, erano temibili perché ghiotti di frutta. Gli artisti li rappresentano mentre svolazzano sugli alberi da frutta. I cacciatori riuscivano a catturarli stendendo sugli alberi una vasta rete i cui angoli erano sostenuti da paletti. Le reti non impedivano agli uccelli di posarsi sull’albero. Quando gli uccelli si erano raccolti in buon numero, i bambini si avvicinavano

lentamente e facevano cadere i paletti. La rete avvolgeva l’albero e i suoi ospiti. I cacciatori si introducevano in quella leggera prigione, coglievano gli uccelli come se fossero frutti e li mettevano in gabbia. Ciò evitava loro l’impiego di trappole a molla, note dalla più remota antichità e sempre in uso. 40 Le quaglie arrivavano in Egitto a folte ondate nel periodo della migrazione ed erano così stanche da cadere al suolo. Naturalmente si preferiva catturare degli uccelli in buona salute. Un dipinto del museo di Berlino ci mostra un gruppo di sei cacciatori che impiegano una rete a maglie fitte tese su una cornice rettangolare. L’abbigliamento dei cacciatori merita attenzione. Calzano sandali per non pungersi con le stoppie e hanno una sciarpa bianca intorno al corpo. Quando le quaglie passavano in massa sui campi mietuti i cacciatori si mostravano all’improvviso agitando le sciarpe e provocavano il panico nello stormo che smetteva di volare e si abbatteva sulla rete. A molte quaglie si imprigionavano le zampe nella rete e strette dalle loro compagne esse non potevano liberarsi in tempo. Quattro cacciatori sollevavano la rete e altri due compagni afferravano le quaglie che volevano. 41 Le quaglie erano certamente apprezzate dalle famiglie contadine ma non le disdegnavano nemmeno gli dèi. Amon ne ricevette 21.700 durante il regno di Ramses III. 42 Questo numero è all’incirca un sesto del numero totale degli uccelli offerti al dio nello stesso periodo.

L’allevamento degli animali Gli Egizi delle origini hanno esitato a lungo prima di riconoscere gli animali che valeva la pena di addomesticare. L’uomo e il cane si sono alleati in vista della caccia. Il bue e l’asino sono stati riconosciuti adatti al trasporto. La lana dei montoni era apprezzata dai Beduini mentre gli Egizi la temevano per i loro morti e anche per i vivi. Ai montoni preferivano le capre. Oltre a questi animali, ben presto addomesticati come i maiali, gli Egizi catturavano a caccia e poi allevavano nei loro parchi le gazzelle e i cervi, gli orici, i bubali, gli addax, gli stambecchi e persino le odiose iene. 43 Anche sotto l’Impero di Mezzo il governatore dell’Orice allevava nelle sue stalle qualche rappresentante della specie a cui il suo nomo era intitolato. Durante il Nuovo Impero si tornò su questi tentativi. A uno studente viene detto: «Sei più

malvagio del bubalo del deserto che vive correndo. Non impara ad arare e non calpesta l’aia in buon ordine. Vive di quello che fanno i buoi ma non sta con essi». 44 La maggior parte degli allevatori però si limitava a crescere la maggior parte degli animali amici dell’uomo: il cavallo, il bue e l’asino, la capra e il montone, il maiale, le oche e le anatre. 45 Il cammello era ignoto agli abitanti del Delta orientale. Il gallo apparve più tardi. Altri animali erano oggetto di cure attente e addirittura affettuose ma nei templi e per ragioni religiose. Qui parliamo solo dell’allevamento a scopi agricoli. Ai tempi di Ramses il cavallo era stato introdotto in Egitto ancora recentemente, nonostante i tributi di guerra imposti ai popoli asiatici, e non era ancora molto diffuso. 46 Huy possedeva una stalla, distinta dallo stabbio per i buoi e dal locale per gli asini, ma Huy, fanciullo reale di Kush, era un alto personaggio nella gerarchia statale. 47 Era uno di quei privilegiati che quando erano convocati a palazzo o andavano a passeggio o visitavano le loro proprietà arrivavano sul carro. I proprietari di cavalli non osavano montarli. Solo due o tre volte, a nostra conoscenza, un artista egizio ha rappresentato un uomo a cavallo. 48 I Beduini erano più coraggiosi: in battaglia, quando il carro non riusciva più ad avanzare, staccavano i cavalli, ci balzavano sopra e fuggivano al galoppo. Nei pascoli i cavalli non si mescolavano agli altri animali. La stalla per i buoi era posta non lontano dalla casa del padrone e dai silos, all’interno della stessa recinzione. I servi ci dormivano, per proteggere il bestiame dai ladri ed essere sul posto fin dal mattino. In quelle modeste costruzioni di fango, nere dentro e fuori, si scavavano un angolo per prepararsi i pasti e conservare le provviste. Si muovevano portando carichi pesanti davanti o dietro le loro mandrie. Per sentirsi più leggeri, distribuivano il fardello in parti eguali in giare, cesti, panieri che attaccavano a stanghe. Se avevano un solo pacco da trasportare, lo portavano sulla schiena sospeso a un bastone. Bytau conduceva questa vita, ma era un ragazzo robusto. Le donne lo guardavano con occhio di favore. La maggior parte dei pastori, però, erano poveri diavoli sfiniti da una vita di lavoro, calvi e con la barba irsuta, qualche volta panciuti, spesso di una magrezza paurosa e malaticci. In una tomba di Meir, un disegnatore impietoso li ha rappresentati senza alcun abbellimento. 49 Era una vita molto monotona. Quando il pastore amava le sue bestie non si stancava di parlare loro. Sapeva i luoghi dove spuntava l’erba che amavano

e ve le portava. Le bestie approvavano e lo ricambiavano delle sue cure crescendo, ingrassando, partorendo vitelli in gran numero. In certi casi servivano al pastore anche per altre funzioni. La traversata della palude è stato sempre un momento difficile. Un vitello poteva annegare dove uomini e animali adulti si reggevano in piedi. Il pastore se lo caricava in spalla per le zampe ed entrava con decisione in acqua. La madre seguiva lamentandosi, con gli occhi dilatati dall’ansia. Le altra vacche non l’abbandonavano. I saggi buoi, spinti ordinatamente dagli altri pastori, avanzavano in buon ordine. Se l’acqua era profonda, nelle vicinanze dei canneti e dei ciuffi di papiro, c’era da temere la presenza dei coccodrilli. Un tempo i pastori sapevano che cosa bisognava dire per trasformare il nemico in un vegetale inoffensivo o accecarlo. 50 Questa scienza, a mio parere, non era andata persa ma i documenti recenti sono muti in proposito. Una tomba di El Bersheh ci ha tramandato la canzone di un pastore che aveva percorso molti paesi: «Voi avete spinto avanti i buoi per tutti i sentieri. Avete calpestato la sabbia. Adesso passate sull’erba e mangiate piante fronzute. Eccovi sazi. Le cose vanno bene per i vostri corpi». 51 Nella proprietà di Petosiris, il pastore aveva dato alle vacche dei nomi poetici, la Dorata, la Brillante, la Bella, come se fossero l’incarnazione della dea Hathor che possedeva tutti questi epiteti. 52 La monta, la nascita dei vitelli, le lotte fra i tori erano, insieme agli spostamenti, le principali occasioni in cui il pastore poteva dimostrare la sua sapienza e la sua devozione. Se falliva, tanto peggio per lui. Se un coccodrillo afferrava un vitello, se un ladro portava via un bue, se l’epidemia devastava la mandria, non poteva ricorrere a spiegazioni. Il colpevole era sdraiato a terra e bastonato. 53 Un’eccellente precauzione contro il furto era rappresentata dalla marchiatura del bestiame, cui si ricorreva soprattutto nella proprietà di Amon e delle principali divinità e in quelle reali. Vacche e vitelli venivano radunati in un angolo della radura e ogni bestia veniva afferrata con una corda. I pastori le legavano le zampe e la rovesciavano a terra come per abbatterla. Gli operatori arroventavano il ferro su un fornello e lo imprimevano sulla spalla destra. Gli scribi, naturalmente, erano presenti con tutta la loro apparecchiatura e i pastori baciavano rispettosamente la terra davanti a quei rappresentanti del potere. 54 Un gruppo di capre invade una macchia di alberi che sta per essere abbattuta e in un istante la spoglia di tutta la verzura. 55 Le capre si affrettano

ma il boscaiolo arriva immediatamente. Sferra il primo colpo d’ascia senza che le capre pensino a lasciare la partita. I capretti saltano via. I capri non perdono tempo, ma già il capraio che porta fieramente un bastone simile allo scettro di Tebe chiama il gregge a raccolta. Sospende a un palanco il suo grosso sacco per fare da contrappeso a un capretto. Ha con sé anche un flauto ma nessun Teocrito, nessun Virgilio ha mai cantato sulle rive del Nilo gli amori dei pastori e dei caprai. L’allevamento del pollame occupava appositi locali che non hanno cambiato forma fra l’Impero Antico e quello Nuovo. Si entrava in un cortile decorato da una stele e da statue di Renutet. Da una parte c’erano un magazzino pieno di giare e fagotti e una bilancia per pesare il grano, dall’altra uno spazio delimitato da una griglia occupata al centro da una pozza. Le oche e le anatre vi si bagnavano o passeggiavano sui suoi bordi quando il servo portava loro il cibo. 56

Gli abitanti delle paludi Le paludi occupavano gran parte della valle del Nilo. Rientrando nel suo letto, ogni anno, il fiume lasciava al confine delle terre coltivate delle grandi pozzanghere che conservavano l’acqua fino alla stagione di shemu. Queste paludi erano coperte di ninfee, fiancheggiate da papiri e altre piante acquatiche. Le zolle di papiro erano talvolta così folte da non lasciar filtrare un raggio di luce e così alte che gli uccelli annidati in mezzo a esse vi si ritenevano al sicuro. I più agili eseguivano esercizi di acrobazia aerea. Una femmina cova le uova, una civetta, immobile, aspetta la notte. Ma i nemici delle creature alate, la genetta e il gatto selvatico, si arrampicavano lungo gli steli fino ai nidi. Padre e madre lottavano con coraggio contro l’aggressore mentre gli uccellini invocavano disperatamente aiuto e scuotevano le ali implumi. Pesci agili si infilavano fra i papiri: si notano soprattutto i muggini, i siluri, i mormyres, l’enorme latès, il chromis appena meno grosso e il pesce fahaka che la natura, secondo Maspero, ha creato in un accesso di buon umore. Il batensoda nuotava all’indietro: amava quella posizione al punto da avere il ventre scuro e il dorso più chiaro. Un ippopotamo femmina aveva trovato un posto tranquillo per partorire. Un coccodrillo spia ipocritamente e aspetta il momento buono per divorare il neonato in un sol boccone a meno

che il maschio non torni in tempo. Allora si scatenerà una battaglia all’ultimo sangue in cui il coccodrillo non sarà in vantaggio. L’ippopotamo lo afferrerà fra le sue mandibole formidabili e inutilmente il nemico cercherà di mordergli una zampa. Perderà l’equilibrio e il suo corpo sarà fatto in due pezzi. 57 Più si saliva verso nord, più le paludi diventavano estese, e più le zolle di papiro si infittivano. Il nome egizio del Delta, mehit, indica anche una palude fiancheggiata da papiri. Questa lingua, così ricca di sinonimi per designare gli oggetti naturali, aveva altri termini che indicavano la palude cosparsa di ninfee, sha, quella dove crescevano le canne, sekhet, quella popolata di uccelli, iun, e le pozzanghere d’acqua residue dall’inondazione, pehu. Queste paludi erano il paradiso dei cacciatori e dei pescatori. Quasi tutti in Egitto praticavano occasionalmente la pesca e la caccia in palude, anche i futuri scribi. Le signore e le fanciulle applaudivano i colpi più abili, felici di portare a casa un bell’uccello vivo. I ragazzini diventavano molto presto abili nel lancio del boomerang e dell’arpione. Per loro era un passatempo da dilettanti, ma nel nord la popolazione viveva della palude. Ne traeva innanzitutto il necessario per costruire la propria abitazione e praticare il proprio mestiere. Quando si erano strappati abbastanza steli di papiro li si legava in mazzi e si tornava al villaggio chini sotto il fardello, qualche volta inciampando. Poi si spargeva il raccolto e si sceglievano i fusti con cui costruire la propria capanna. Le case di mattoni in questa regione erano sostituite da case di papiro calafate con fango. Le pareti erano evidentemente sottili, lo stucco cadeva facilmente ma era altrettanto facile tappare i buchi. Con le fibre di papiro si fabbricavano corde di ogni dimensione, stuoie, sedili e gabbie che si vendevano alla gente di terraferma. Con corde e fusti di papiro si costruivano le barche eleganti e pratiche senza le quali era impossibile cacciare e pescare. Ma prima di lanciarsi alla conquista della selvaggina, bisognava saggiare il materiale nuovo. Incoronati con fiori campestri e adorni di una collana di ninfee, gli abitanti salivano sulla propria barca e la dirigevano verso una lunga gaffa biforcuta. Il combattimento iniziava con ingiurie spesso violente. Piovevano minacce e colpi. Si poteva temere che il gioco degenerasse ma ognuno cercava solo di far cadere l’avversario in acqua o rovesciargli la barca. Quando restava solo un combattente in piedi sulla sua barca la festa era finita. Vincitori e vinti rientravano al villaggio e, riconciliati, riprendevano il loro mestiere che

secondo il satirico egizio era il più duro di tutti. 58 I pescatori che volevano intraprendere una battuta più lunga salivano su una barca di legno con un albero con corde tese fra le gomene per farvi seccare il pesce fatto a pezzi. Un uccello da preda si posava sull’albero. 59 C’erano molti sistemi di pesca. Il pescatore solitario si stabiliva con delle provviste su una barchetta e quando aveva trovato un posto tranquillo lasciava galleggiare la sua lenza. Un bel clarias ha morso l’amo e il pescatore tira con precauzione e colpisce la sua preda con una mazza. Nelle paludi poco profonde si sistemavano delle nasse semplici a forma di bottiglia o delle nasse a due scompartimenti. I muggini attratti dall’esca trovavano l’ingresso, urtavano contro i giunchi ma non riuscivano a uscire. Ben presto la nassa si trasformava in un vivaio. Il pescatore certo del successo temeva soltanto il suo vicino che lo spiava e che sarebbe stato capace di tornare sul posto per primo. Con il guadino ci volevano pazienza e una mano molto sicura. Il pescatore si fermava in un punto molto pescoso, immergeva il meccanismo e aspettava. Quando i pesci vi erano entrati, doveva sollevare il guadino velocemente ma non bruscamente a rischio di trovarsi la rete vuota. La pesca con la paranza richiedeva una decina di uomini, almeno due barche e un’immensa rete rettangolare provvista su un lato di galleggianti e sull’altro di pesi di pietra. Si tendeva la rete su un lago e vi si catturavano i pesci. Poi la si portava lentamente a riva con il suo carico. L’approdo era un momento delicato perché il sinodonte, che era un pesce agile e vigoroso, saltava spesso fuori dalla rete per tornare nel suo ambiente. Il pescatore doveva afferrarlo al volo. 60 Contro un enorme latès, così grande che la sua coda spazzava il suolo quando due pescatori lo portavano appeso a un remo, l’arma migliore era l’arpione 61 che si usava anche per dare la caccia all’ippopotamo: ma quello del pescatore si sarebbe spezzato come un giocattolo sul corpo del mostro. Bisognava ricorrere a uno strumento solido composto da un uncino di ferro infilato in una lancia di legno, legato con una corda a una serie di galleggianti. Quando l’arpione aveva raggiunto la preda il legno si spezzava e l’uncino penetrava nella carne del mostro che fuggiva. I cacciatori recuperavano i galleggianti e tiravano la corda per abbreviare la distanza. L’ippopotamo girava verso il cacciatore la sua testa enorme, mostrava le mandibole capaci di fare a pezzi un canotto ma era finito a colpi di arpione. 62 La caccia col boomerang era più uno sport da ricchi che un lavoro da battellieri. Apuy sale su una barca di lusso a forma di gigantesca anatra. La

maggior parte dei cacciatori si accontentava invece di un canotto di papiro di tipo comune. Era utile avere a bordo un’oca del Nilo addestrata a fare da richiamo. Il cacciatore lanciava il boomerang che terminava in una testa di serpente. Lo strumento e la sua vittima tornavano al punto di partenza. I compagni del cacciatore, sua moglie, i figli, immediatamente lo afferravano. Un bambino, affascinato, dice al padre: «Principe ho catturato un loriot!». Ma un gatto selvatico da solo ne aveva presi tre. 63 La caccia con le reti permetteva di catturare un gran numero di uccelli vivi in un sol colpo. Era uno sport di gruppo. Principi e persone di alto rango non disdegnavano di parteciparvi come capi o come sentinelle. Si sceglieva, in un terreno piatto, uno stagno di forma rettangolare o ovale, lungo qualche metro. Da entrambi i lati di questo stagno si stendevano due reti rettangolari che potevano, se unite, coprirlo interamente. Bisognava trovare il sistema per calare i due teli all’improvviso e insieme, in modo che gli uccelli posati sullo stagno restassero prigionieri. Si piantavano in terra quattro pali, due a sinistra e due a destra dello stagno. Vi si attaccavano i due lati della rete i cui bordi esterni erano collegati due a un grosso palo posto a una certa distanza sull’asse dello stagno e due a una corda lunga una ventina di metri o più. Quando la trappola era pronta per funzionare, una sentinella si nascondeva in una macchia a poca distanza con le gambe nell’acqua o si sedeva dietro a un paravento in cui erano praticati dei fori. Uccelli ammaestrati complici dei cacciatori passeggiavano sulle rive dello stagno su cui in breve tempo si posavano grandi quantità di anatre. Tre o quattro cacciatori intanto avevano afferrato la corda per la manovra e stavano abbastanza lontani dallo stagno da non spaventare gli uccelli che al minimo rumore si sarebbero alzati in volo. La sentinella alzava un braccio o sventolava una sciarpa. A quel segno, i tiratori si proiettavano indietro bruscamente tutti insieme e mettevano in funzione la trappola. I due teli si sollevavano e afferravano il gruppo di uccelli che veniva fatto prigioniero. Inutilmente i più vivaci cercavano di scrollarsi via la rete dibattendosi. I cacciatori, che per il violento sforzo erano caduti a terra, non gliene lasciavano il tempo: si alzavano e accorrevano con le gabbie. Quando erano piene, se sotto la rete restavano altri uccelli, intrecciavano loro le ali sovrapponendo loro le piume, in modo da trasportarli fino al villaggio. 64 Tutte queste manovre richiedevano abilità, pazienza, talvolta coraggio ma queste qualità sarebbero state inutili se i cacciatori non avessero goduto dei

favori di una divinità che chiamavano Sekhet, «Radura», e che aveva l’aspetto di una contadina vestita de la robe fourreau e lunghi capelli che le coprivano le spalle. Anche la rete era appannaggio di una specifica divinità, il dio «Rete», figlio di «Radura». I lavori che abbiamo appena descritto erano sotto la protezione della dea «Radura». I pesci, gli uccelli erano suoi ma ella non era avara e li distribuiva volentieri ai cacciatori e ai pescatori suoi protetti e amici. 65

La caccia nel deserto La caccia nel deserto poteva essere un passatempo per nobili e principi ma anche un mestiere. Si può dire infatti che non esista tomba decorata il cui padrone non sia stato rappresentato nell’atto di trafiggere con le sue frecce inesorabili le antilopi e le gazzelle spinte in un terreno pieno di ostacoli, come in una riserva. D’altra parte, gli arcieri che garantivano la sicurezza nei deserti, gli addetti alla montagna dell’oro di Coptos quando si recavano presso il gran sacerdote di Amon Menkheperrêsenb a rendere conto della loro missione, venivano scortati da un addetto alla caccia che portava uno splendido bottino: uova e piume di struzzo, struzzi e gazzelle vivi, animali uccisi. 66 Ramses III aveva costituito dei gruppi di arcieri e cacciatori professionali incaricati di accompagnare i raccoglitori di resina e miele e intanto catturare degli orici per presentarli al ka del dio Ra in tutte le sue feste, perché l’offerta degli animali del deserto restava, in piena epoca storica, come ai tempi in cui l’uomo viveva soprattutto di caccia, quella più grata agli dèi. 67 Tutti i cacciatori, amatoriali o professionali, cercavano di risparmiarsi la fatica di inseguire indefinitamente una selvaggina che la natura aveva dotato di buone zampe col rischio di diventare selvaggina a propria volta, per le iene e gli animali da preda. Conoscendo i costumi degli animali, i luoghi dove andavano a bere i cacciatori, cercavano di attirarli in un terreno appositamente preparato per catturarli o massacrarli comodamente. Si sceglieva un fondovalle dove forse un po’ di umidità alimentava un resto di vegetazione e con pareti ripide da cui non si potesse fuggire né a destra né a sinistra. Su dei paletti si stendevano delle barriere di reti separate da una distanza suggerita dall’esperienza ma che non riusciamo a valutare sulla base

dei documenti pittorici. La rete di fondo era continua e vietava la fuga. Dalla parte opposta si lasciava un’apertura per il passaggio degli animali e dei cacciatori. All’interno si deponevano cibo e acqua. 68 Subito il recinto si riempiva. Gli animali si abbandonavano alla gioia di vivere come se la loro vita non avesse i minuti contati. Buoi selvatici saltavano in tutte le direzioni. Struzzi danzavano salutando il sorgere del sole. Una gazzella allattava il suo piccolo. Un asino selvatico allungava il collo per dormire. Una lepre fiutava il vento su un monticello. 69 Un tempo i cacciatori partivano a piedi: il signore era a mani vuote. Gli uomini della sua scorta si distribuivano i viveri, gli archi, le frecce, le gabbie, le corde e i cesti. Un servo teneva al guinzaglio levrieri e iene appositamente saziate e addestrate per la caccia. Da quando si era diffuso l’uso del carro, il signore partiva sul carro, come per la guerra, con il suo arco e le frecce. Gli shemsu seguivano a piedi portando, su un palanco, caraffe, otri pieni e cesti, sacchi e corde. Quando il piccolo gruppo era arrivato a destinazione, il capo scendeva dal carro con le sue armi. Un servo teneva la muta dei levrieri al guinzaglio. 70 Si era da tempo rinunciato alle iene che i cacciatori dell’Antico Impero erano riusciti ad ammaestrare. La selvaggina era sorpresa improvvisamente da una pioggia di frecce e dall’irruzione di feroci levrieri. Gli sventurati animali cercavano invano una via di fuga. Le barriere e le alte pareti li isolavano nel luogo del loro massacro. Ecco che già erano stati colpiti buoi selvatici e cervi. Uno struzzo si difendeva a colpi di becco dal cane che lo assaliva. Una femmina incinta partoriva fuggendo. Un levriero mozzava il capo al piccolo appena nato. Un orice si lanciava in un balzo disperato ma cadeva nelle fauci del suo nemico. Un levriero abbatteva una gazzella e la sgozzava. Secondo un dipinto della tomba di un certo Usir, sembra che nel recinto siano state collocate delle trappole ma il dipinto è troppo mal conservato perché se ne possa descrivere il meccanismo. L’esistenza di queste trappole è però certa. Se il cacciatore non avesse avuto a disposizione altro che le frecce e i cani, come avrebbe potuto portar via tanti animali vivi, come fanno lo stesso Usir e Amenemhat? 71 Di ritorno dalla caccia, essi portano legati per una zampa uno stambecco, una gazzella, un orice, uno struzzo, tutti in grado di camminare. Un aiutante porta a spalla una piccola antilope. Altri tengono per le orecchie delle lepri che sembrerebbero morte. Una iena appesa a una pertica per le quattro zampe, con la testa penzolante, morta lo è di certo. Non avevano perso

tempo, ma altri cacciatori, sdegnosi del profitto o amanti delle difficoltà, non esitavano a inseguire le antilopi col loro carro veloce come il lampo. Così faceva l’infaticabile principe Amenhotep. Anche un certo Usirhat andava a caccia col carro nell’immenso deserto, guidando da solo e tirando con l’arco. Davanti a lui spinge un gregge di antilopi che nella sua fuga trascina con sé delle lepri, una iena, un lupo. Tornerà carico di spoglie. 72 1. Bibl. æg., VII, 104 (Lansing, V, 7; VII, 7); Ibid., VII, 83 (Saltier, I, V, VI, 9). 2. Erodoto, II, 14; Diodoro, I, 36. 3. Montet, Vie privée..., 258-260. 4. Rappresentazioni in Davies, Neferhotep, tavv. 46-47; Mem. Tyt.,V, tavv. 28-29; analisi in Davies, Neferhotep, 70. 5. La maggior parte di questi nomi si ritrovano in Spiegelberg, Bemerkungen zu den hieratischen Amphorinschriften des Ramesseums; AZ, LVIII, 25; cfr. Montet, Drame d’Avaris, 153-154 e Mem. Tyt., V, 19. Nelle Strade di Horo, a est del Delta, si praticava la coltura della vite. 6. Pap. Harris, I, 7, 10, 12. 7. Rappresentazioni in Paheri, tav. 4; Wr. Atl., I, 338, 355, 282, 165; Th. T.S., III, 30; Davies, Neferhotep, tav. 48; Mem. Tyt., I, 22; V, 30, 68, 345, 12, 230. Lefebvre, Petosiris, tav. 12. 8. Montet, Vie privée..., 267. 9. Si può trovare una buona rappresentazione nella tomba di Puyemrê in Mem. Tyt., II, 12. 10. Petosiris, testi 43 e 44. 11. Rappresentazioni della coltivazione dei cereali: Mem. Tyt., I, 18 (Nakht), Mem. Tyt., V, 30 (Apuy); Th. T.S., III, 9; Wr. Atl., 424 (Br. Mus. 37982); Wr. Atl., 231, 234 (Menna); Wr. Atl., I, 9, 51, 193-195 (Khœmhat); Wr. Atl., 1, 83, 385, 422, 261, 58, 279, 366, 20, 11, 14, 142, 61, 112, 19; Paheri, 3. 12. Orbiney, II, 2. 13. Si operava così già durante l’Impero Antico: Montet, Vie privée..., 183 ss. 14. Wr. Atl., I, 112 (Panehsy). 15. Paheri, 3. 16. Petosiris, 13. 17. Bibl. æg., VII, 104 (Pap. Lansing). 18. Paheri, 3. 19. Erodoto, II, 14; Wr. Atl., I. 20. Da Iside e Osiride, 70. 21. Montet, Vie privée..., 191; Moret, La mise à mort du dieu en Égypte, Paris 1927, 33-35. 22. Deuteronomio, 11, 10-11. 23. Scene di misurazione: Th. T.S., III, 10; Wr. Atl., I, II, 191, 232; cfr. Suzanne Berger, «Some

scenes of land measurement», J.E.A., XX, 54 e tav. X. 24. Bibl. æg., IV, n. 4 e J.E.A., XIII, 193 ss. 25. Wr. Atl., I, 14, 19. 26. Petosiris, iscrizione 52. 27. Montet, Vie privée..., 202. 28. Petosiris, iscrizioni 51 e 52. 29. Bassorilievo di Leida, cat. n. 50 (Wr. Atl., XX, I, 422). I bassorilievi menfiti dell’Impero Antico mostrano il raccolto sempre trasportato a dorso d’asino (Montet, Vie privée..., 206). 30. Wr. Atl., I, 61 (Panehsy). 31. Paheri, 3. Rappresentazioni analoghe in Wr. Atl., I. 32. Wr. Atl., I, 193, 346, 231. 33. Mem. Tyt., I, 120 e gli stessi riferimenti della nota 32. 34. Salmo 126, 5. 35. Mem. Tyt., I, 64 e Miss Winifred S. Blackmann, «Some occurrence of the Corn-aruseh», J.E.A., VIII, 235. 36. Gauthier, Les fêtes du dieu Min, 225. 37. Mem. Tyt., V, 30; Wr. Atl., I, 19, 422 (Leiden, cat. n. 50), 193, 346. La raccolta del lino è rappresentata anche nelle tombe dell’Impero di Mezzo a Beni-Hassan, El Bersheh e Meir; cfr. Petosiris, tav. 13. 38. Maspero, Contes populaires, cit., 43. 39. Gaillard, «Sur deux oiseaux figurés dans les tombeaux de Beni-Hassan», Kêmi, II, 19-40. 40. Montet, Vie privée..., 260-265. 41. Wr. Atl., I, 33 (Berlino, n. 18540). 42. Pap. Harris, I, 20b, 8. 43. Gaillard, «Les tâtonnements des Égyptiens de l’Ancien Empire à la recherche des animaux à domestiquer», Revue d’éthnographie et de sociologie, 1912. 44. Pap. Lansing, tavv. 3, 8, 10. 45. Il principe di El Kab, Renny, registra 122 buoi, 100 montoni, 1.200 capre, 1.500 maiali (Urk., IV, 75). 46. Ramses III si era sforzato di aumentare il bestiame egizio: «Ho fatto per te [Amon] delle mandrie nel sud e nel nord, con buoi e pollame e bestiame piccolo a centinaia di migliaia, con degli addetti ai buoi, degli scribi, degli addetti al bestiame cornuto, dei ghafir e numerosi pastori dietro di essi» (Pap. Harris, I, 7, 9). L’orice è sempre un’offerta gradita agli dèi e infatti Ramses III inviò dei cacciatori per catturarli nel deserto (Pap. Harris, I, 28). 47. Th. T.S., IV, 8. 48. Ostracon Deir el-Medineh, 2159; Maspero, Histoire, t. II, 219 (cavaliere della tomba di

Horemheb al museo di Bologna). 49. Maspero, «Égypte», in Ars Una. 50. Montet, Vie privée..., cap. III. 51. Newberry, El Bersheh, I, 18. 52. Lefebvre, Petosiris, testi 46, 48. 53. Mem. Tyt., II, 12 (Puyemrê); Wr. Atl., I, 264 (Anna). 54. Th. T.S., III, 31; Wr. Atl., I, 183 (Userhat). 55. Mem. Tyt.,V, 30 e 34. 56. Wr. Atl., I, 395. 57. Montet, Vie privée..., cap. I; Wr. Atl., I, 433 (Br. Mus. 37977); Wr. Atl., I, 117 (Baki); Wr. Atl., I, 343 (Senemiôt); Mem. Tyt., I, 24 (Nakht); II, 9 (Puyemrê); Wr. Atl., I, 2 (Menna). 58. Montet, Vie privée..., 73; Mem. Tyt., II, 15, 18, 19. Satira dei mestieri, §§ 19 e 20. 59. Wr. Atl., I, 250. 60. Wr. Atl., I, 250 (Horemheb); Mem. Tyt., V, 30 e 35 (Apuy); Mem. Tyt., II, 65 (Puyemrê); Montet, Vie privée..., 23-41. 61. Wr. Atl., I, 354, 117, 40, 343, 70, 294, 2, 183, 77; Mem. Tyt., I, 24; Davies, Ken-amun, 51. 62. Th. T.S., tav. I e 28 (Amenemhat); Wr. Atl., I, 271 (Amenemheb). 63. Mem. Tyt., V, 30: Mem. Tyt., I, 24; Wr. Atl., I, 1, 2, 343, 423. 64. Montet, Vie privée..., 42; Mem. Tyt., V, 30; Wr. Atl., I, 184, 24, 344; Mem. Tyt., I, 22-23; Mem. Tyt., II, 15; Wr. Atl., I, 249. 65. Montet, Vie privée..., 6-8, 66. Nel tempio di Edfu, la dea Sekhet dice al re: «Io ti dono tutti gli uccelli nel loro stagno» (Edf., II, 164). 66. Th. T.S., V, 9. 67. Pap. Harris, I, 28, 3-4. 68. Th. T.S., II, 6-7; Th. T.S., I, 9; Wr. Atl., I, 53; Mem. Tyt., II, 7; Davies, Five theban tombs, 12, 22, 40. 69. Davies, Ken-amun, 48. 70. Davies, Five theban tombs, 12. 71. Davies, Five theban tombs, 23-24; Wr. Atl., I, 53, 32. 72. Wr. Atl., I, 26.

VI

Le arti e i mestieri

La nazione egizia non comprendeva solo agricoltori, scribi e sacerdoti. In questo caso, le piramidi, i templi e gli ipogei non sarebbero mai sorti. La principessa Khnumit non avrebbe potuto porre sui suoi capelli neri un diadema che sembra opera delle fate. Estrarre da una cava una scheggia di granito lunga più di trenta metri, trasportarla da Assuan a Tebe, tagliarla in forma di obelisco, incidervi geroglifici perfetti e infine innalzarla su un piedistallo era uno sforzo durissimo, che pure gli Egizi potevano compiere in sette mesi e che fu ripetuto più volte per ogni regno sotto tutto il Nuovo Impero. Gli scribi ritenevano questi straordinari artigiani molto inferiori a loro. Cercheremo di farci un’idea del loro lavoro e del loro genere di vita.

I cavatori L’Egitto ospitava nei due deserti che fiancheggiavano la valle del Nilo stupende rocce che fornivano agli architetti, agli scultori e ai gioiellieri i materiali per le opere più grandi e per quelle più piccole. Il calcare si trovava dappertutto fra Menfi e Iunyt, a sud di Tebe. Il più fine, il più bianco veniva estratto dalle cave di Roiau, non lontano dalla fonte di Heluan. Anche il calcare delle montagne tebane era di buona qualità. La quarzite rossa, come il legno di cedro mery, veniva dalla Montagna Rossa, dominio di Hathor a nord-est di On. Era una cava già pienamente sfruttata sotto la XII dinastia. Mescolandosi agli operai che si avviavano dal loro villaggio alla cava, il disertore Sinuhit riuscì a fuggire dall’Egitto. Sotto Ramses II vi si lavorava più che mai. Un giorno vi si scoprì un blocco più lungo di un obelisco di granito come non ne erano più stati visti dai tempi del dio, sotto gli occhi del Faraone che si era recato nel deserto di On, negli annessi del dominio di Ra. Tutti credettero che Sua Maestà l’avesse creato personalmente con i suoi raggi. Il re lo fece lavorare dai suoi operai migliori. Esattamente in un anno, il blocco assunse la forma di una statua colossale che ricevette il nome di Ramses il dio. Il direttore dei lavori fu compensato in oro e argento. Tutti

coloro che avevano preso parte ai lavori parteciparono dei favori del re. Sua Maestà vegliava tutti i giorni su di loro. Quindi si lavorava con estremo zelo. Un’altra cava fu scoperta a fianco della prima. Ne furono estratti altri colossi per il tempio di Ptah a Menfi, per i templi di Ptah e di Amon di Ramses. 1 Un’arenaria meno bella di quella della Montagna Rossa ma di buona qualità abbondava nei tre nomi del sud. La regione di Assuan era la regione del granito. Se ne estraevano tre varietà, il rosa, il grigio e il nero a poca distanza dalla città e nelle isole di Abu, Satit e Senmut. Anche un obelisco, un sarcofago, un colosso osiriaco attestano l’attività dei cavatori antichi. Le incisioni preparatorie si vedevano dappertutto. La regione del granito si estendeva ampiamente verso sud. Partendo da un luogo detto Idaber, verso Occidente, si raggiungevano, in tre giorni di marcia, le cave di diorite abbandonate dai tempi dell’Impero di Mezzo. La regione era così desolata, lo sfruttamento imponeva tali fatiche e tali sacrifici che i Ramessidi, che pure non risparmiavano i prigionieri di guerra, non tentarono nemmeno di riprendervi il lavoro. 2 Nell’Impero di Mezzo, potevano procurarsi con minori spese pietre eccellenti, l’alabastro di Hat-Nub, a poche ore dalla capitale abbandonata da Akhenaton e più a sud, nella valle di Rohanu, a tre giorni da Coptos, uno scisto arenoso nero che poteva essere ben lucidato, il bekhen, la breccia verde e la breccia universale. In quasi tutte le cave antiche pullulano le iscrizioni, ma quelle incise nella valle di Rohanu sono le sole che, invece di limitarsi a elenchi di nomi e titoli, sono ricche di particolari pittoreschi. 3 Lo sfruttamento non era né costante né regolare. Quando aveva bisogno di pietra di bekhen, il Faraone inviava una spedizione che faceva epoca nel suo regno perché mobilitava migliaia di uomini. Ramses IV superò tutti i suoi predecessori organizzando una potente spedizione nel corso della quale mobilitò 9.368 uomini. Il re l’aveva preparata minuziosamente consultando i libri della casa di vita e inviando una spedizione preventiva. Lo stato maggiore comprendeva tredici grandi personaggi fra i quali il sacerdote di Amon assistito dai suoi scalchi. Seguivano 20 scribi dell’esercito, dei tecnici di valore ai quali si chiedeva di risolvere problemi quali innalzare un obelisco, elevare un colosso di trenta cubiti, costruire una rampa di mattoni crudi o, d’altra parte, problemi amministrativi organizzando ad esempio una spedizione in Siria. I capi delle scuderie, gli scudieri, gli scudieri degli equipaggi erano in tutto 91, i graduati 50 e i funzionari di varie categorie ancora 50. Notiamo con stupore la presenza di 200 capi delle squadre di

pescatori, che certamente si spiega col fatto che la stazione di shemu in cui era svolta la spedizione non era favorevole alla pesca. Il grosso del gruppo era formato da 5.000 soldati, 2.000 uomini venuti dai templi, 800 ausiliari stranieri (Aperu). 900 funzionari del governo centrale facevano parte degli effettivi ma si limitavano ad accompagnare la spedizione a distanza. Molti carri trainati da buoi scortavano questo vero e proprio esercito. Gli specialisti propriamente detti, un capo degli artisti, tre capomastri delle cave, 130 cavatori e tagliatori di pietre, 2 disegnatori e 4 incisori rappresentavano solo una piccola parte del gruppo. Il grosso dei partecipanti era occupato a trascinare pietre su delle specie di slitte o a portare i viveri. La maggiore preoccupazione dei capi era di nutrire migliaia di uomini in pieno deserto, distribuire a ognuno di essi un po’ d’acqua, un po’ di birra, un po’ di pane, attribuire agli specialisti e ai capi un menu un po’ più saporito e infine ringraziare degnamente gli dèi signori della montagna di bekhen, in primo luogo Min, Horo e Iside, senza i quali la missione sarebbe fallita. Missione che consisteva in quello che gli Egizi, nel loro stile immaginoso, chiamavano cambiare il deserto in una regione coltivata, la strada in canale. Ma che gioia doveva essere poter scrivere su una stele che in quel viaggio nemmeno un asino era caduto, nemmeno una persona aveva avuto sete, nessuno aveva avuto un momento di scoramento. In realtà, quegli uomini sottoposti al lavoro forzato, abbeverati di birra e nutriti di pane come in Egitto nei giorni di festa non avrebbero nemmeno avuto il diritto di lamentarsi. 4 Il metodo di lavoro era estremamente primitivo. Non si faceva la fatica di attaccare un filone roccioso ed estrarne dei blocchi calibrati. Si sceglievano, fra i blocchi staccati, quelli che già avevano le dimensioni desiderate e potevano essere usati per costruire un sarcofago o un coperchio, una statua o un gruppo scultoreo. I primi arrivati portavano via i pezzi che giacevano sul bordo della strada. I successivi erano costretti a scalare le pendici facendo rotolare i blocchi dall’alto al basso. Molto spesso i blocchi si spezzavano e si era costretti a raccogliere dei semplici frammenti. Un direttore dei lavori di nome Mery ebbe l’idea veramente geniale di scavare sul fianco della collina un sentiero in salita per farvi scivolare giù i blocchi. L’invenzione ebbe successo e l’ingegnoso ingegnere ricavò dalla sua impresa dieci statue da cinque cubiti. Una cosa che non si era mai vista. Ma per mettere a punto il procedimento c’era voluta addirittura una decina di secoli. 5 Abili nel cogliere i segni dell’intervento divino, gli Egizi che si erano

avventurati nel deserto erano sempre in caccia del minimo incidente che ai loro occhi assumeva le proporzioni di un miracolo. Mentre i cavatori erravano per la montagna di bekhen alla ricerca di un coperchio adatto al re Nebtauirê, una gazzella li rese guardinghi: «Una gazzella gravida apparve sulla strada volgendo la faccia verso gli uomini che stavano di fronte a lei. I suoi occhi guardavano coloro che cercavano di catturarla ma non si voltò indietro finché non ebbe raggiunto il luogo della montagna sacra dove si trovava un coperchio di sarcofago. Essa partorì su di esso. I soldati del re che avevano visto tutto le tagliarono il collo. Ci si accampò, si offrì un olocausto e si ridiscese in pace. Era la maestà di questo dio venerabile, signore dei deserti, che aveva fatto dono a suo figlio Nebtauirê, che egli viva in eterno, per la sua soddisfazione, perché figurasse vivente sul suo trono per sempre e facesse un’infinità di giubilei». 6 La pietra era stata trovata, trasferita intatta sulla strada, posata su una sorta di slitta e pronta a partire: i capi della spedizione potevano dare il segnale della partenza, dopo avere innalzato agli dèi della montagna di bekhen, il più augusto dei quali era Min, signore di Coptos e di Ipu, un monumento degno di lui. Vi si era tenuti tanto più in quanto dopo quello della gazzella si era verificato un altro miracolo. Si scoprì in mezzo alla valle una cisterna che misurava dieci cubiti di lato, piena d’acqua fino ai bordi. Si presero delle misure allo scopo di impedire alle antilopi di contaminarla e tenerla nascosta ai nomadi. «I soldati dei re precedenti erano andati e venuti accanto ad essa ma nessun occhio l’aveva scorta, nessun volto d’uomo si era imbattuto in essa. Essa si era aperta solo per Sua Maestà [...] Quando coloro che sono in To-mery, i Rekhyt che sono in Egitto, a nord come a sud, udranno questo poseranno la loro fronte a terra. Proclameranno la perfezione di Sua Maestà per sempre ed eternamente.» 7 Per ordine di Sua Maestà, «questa stele fu innalzata per Min suo padre, signore dei deserti di questa montagna sacra, primitiva, prima stazione del sole levante, palazzo divino dotato della vita di Horo, nido divino dove questo dio si rallegra, suo luogo puro di godimento che sta sui deserti della terra divina affinché il suo ka sia contento e che il dio sia esaltato nel suo cuore esercitando la regalità sul grande trono che è in testa ai troni, perché siano innalzati i monumenti del dio perfetto, signore della gioia, grande di paura, grande d’amore, erede di Horo nelle due terre, che ha nutrito Iside, la divina madre di Min, la grande incantatrice, per la regalità dell’Horo delle

due rive, il re del sud e del nord, Nebtauirê, che possa vivere eternamente come Ra». Egli dice: «La mia Maestà ha fatto uscire il principe visir, capo dei lavori che riempie il cuore del re, Amenemhat, con un esercito di 10.000 uomini dai nomi del sud, da Uabut, per portargli un blocco venerabile, una pietra preziosa, la più pura che stia in questa montagna, cui Min ha dato solidità, per essere un sarcofago, rievocando l’eternità più dei monumenti che sono nei templi dell’Alto Egitto, in una spedizione del re, capo delle due terre per portargli dai deserti di suo padre Min l’oggetto dei suoi desideri». 8 Finalmente, venti giorni dopo il suo arrivo, la spedizione ripartiva per l’Egitto portando la bellissima pietra lunga otto cubiti e larga quattro, alta due, dopo aver sacrificato buoi e antilopi e bruciato resina di terebinto in onore del dio benevolo. Gli Egizi cercavano sempre di fare lo sforzo minimo necessario e praticavano questo metodo semplice ovunque fosse possibile. È lecito credere che anche la scoperta del blocco di arenaria più alto di un obelisco nelle cave della Montagna Rossa sia stato un dono di Hathor. Quando era necessario, non esitavano ad attaccare la roccia e a scavarvi gallerie. 9 Il duro lavoro che essi si imponevano per scavare le tombe sotterranee della montagna tebana conseguiva un duplice risultato, procurando ai defunti la loro casa d’eternità e ai vivi pietre di ogni formato. Molti cavatori e tagliatori di pietre erano prigionieri di guerra o condannati, ma sappiamo di molti Egizi che esercitavano questa professione. Quando, sotto l’ultimo dei Ramessidi, tutti questi lavoratori si resero conto che l’Egitto era lacerato dalla guerra civile spezzarono le loro catene, si misero a disposizione dei nemici di Amon e, spargendosi in tutto il paese, commisero delitti e sacrilegi. Il che dimostra che anche in passato erano tutt’altro che soddisfatti della loro sorte.

I minatori L’oro era largamente distribuito fra il Nilo e il mar Rosso. Tre punti sono da segnalare come particolarmente interessanti. Spesso nei testi e nel papiro Harris si parla dell’oro di Coptos. 10 In realtà quell’oro si trovava nella montagna di bekhen. La natura aveva fatto le cose per bene raggruppando nelle vicinanze di una sorgente d’acqua, all’incrocio fra alcune piste nel

deserto, a uguale distanza dal Nilo e dal mare le miniere d’oro e le cave che fornivano una pietra molto apprezzata dagli scultori che poteva servire anche da pietra di paragone. La regione era frequentata dagli addetti alle montagne aurifere di Coptos, dai capi dei cacciatori che catturavano struzzi, lepri e gazzelle, dagli agenti di polizia di Coptos responsabili della sicurezza di coloro che viaggiavano nel deserto trasportando metalli preziosi. Altre regioni aurifere erano molto favorite rispetto alla montagna di bekhen. Un giorno il re Seti, che stava studiando le questioni poste dalle montagne del deserto, provò il desiderio di vedere le miniere da dove veniva l’oro. 11 Dopo avere esplorato i canali che le alimentavano partendo da Edfu, Sua Maestà fece una tappa lungo la strada per consigliarsi col suo cuore. Diceva: «Com’è penosa la strada senz’acqua! Come è possibile camminare con la gola secca? Chi ne estinguerà la sete? La terra è lontana. Il deserto è vasto. L’uomo che ha sete si lamenta sulle alture. Come se la caverà? Troverò il modo di farlo vivere. Essi ringrazieranno Dio nel mio nome lungo gli anni a venire. Le future generazioni trarranno gloria da me a causa della mia energia perché io sono il previdente che si volge verso il viaggiatore». Sua Maestà, dopo aver tenuto questi discorsi nell’intimità del suo cuore, percorse il deserto per cercare dove si potesse scavare un pozzo. Dio guidò i suoi passi per fargli raggiungere quello che desiderava. Un gruppo di tagliatori di pietre ricevette l’ordine di scavare un pozzo nella montagna per confortare lo stanco e rinfrescare chi ardeva di sete in piena estate. Il tentativo riuscì perfettamente, così che il re poté scrivere: «Ecco, Dio ha realizzato la mia richiesta. Ha fatto scendere per me l’acqua sulla montagna. Il cammino spaventoso grazie agli dèi è soave durante il mio regno». Era solo l’inizio. Il re intendeva fondare una vera e propria città dal grande nome di «Menmaatra che distribuisce l’acqua in grande quantità come i due abissi di Abu». Ma non poteva esistere una città senza tempio. Il direttore dei lavori ordinati dal re ebbe l’incarico di costruirne uno. I cavatori delle necropoli si misero al lavoro e ben presto ai piedi della montagna si innalzò un tempio di modeste proporzioni che per la purezza delle sculture e delle iscrizioni non è inferiore alle altre opere di quest’epoca. Vi si adoravano molte divinità, Amon, Ra, Osiride, Horo, l’Enneade degli dèi presenti nel tempio, di cui faceva parte anche il re. Seti lo inaugurò personalmente e rivolse agli dèi questa preghiera: «Onore a voi, grandi dèi che avete fondato il cielo e la terra sulla base delle vostre idee, che mi favorite per la durata

dell’eternità e fate durare il mio nome per sempre. Perché io sono benevolo. Sono buono nei vostri riguardi. Veglio sulle cose che amate [...] Fortunato chi agisce in base ai discorsi del dio, perché i suoi piani non falliranno. Bisogna agire secondo la vostra parola perché siete voi i signori. Ho dedicato a voi la mia vita e le mie forze, a cercare il mio bene in voi. Concedete che i miei monumenti durino più di me e che il mio nome duri su di essi». I minatori d’altra parte supplicavano continuamente gli dèi per il re che, scavando una cisterna e costruendo un tempio in cui gli dèi si sarebbero compiaciuti, aveva realizzato un’opera senza pari. Dicevano l’un l’altro: «Amon, concedigli l’eternità, moltiplicagli la durata. Dèi che siete nella sorgente, gli donerete la vostra durata, perché ci ha aperto il cammino per la strada che era chiusa davanti a noi. Noi ci passiamo e stiamo bene. Quando la raggiungiamo, ci fa vivere. Il cammino che ci era accessibile è diventato un buon cammino. Grazie a lui la marcia dell’oro è come la vista del falco». Il tempio era stato nominato proprietario delle miniere. Tutto l’oro prodotto dalla montagna doveva esservi trasportato prima di andare ad accrescere il tesoro reale. Un comandante e un gruppo di arcieri avevano l’incarico di proteggere il tempio e i suoi lavoratori. Né gli altri cercatori d’oro che circolavano nel deserto, né gli arcieri, né le guardie dovevano cambiare neanche minimamente le disposizioni date dal re. Nessuno aveva il diritto di requisire per qualunque ragione gli operai che lavavano l’oro per conto del tempio o di toccare l’oro stesso «che è la carne degli dèi». I re che avrebbero tenuto conto delle volontà di Seti sarebbero stati fortificati da Amon, Harakhté e Ptah Tatenen. «Essi governeranno le terre con dolcezza. Domineranno il deserto e la Terra dell’Arco. I loro ka saranno duraturi. Essi sazieranno coloro che abitano la terra. Ma guai a tutti coloro, re e persone private, che saranno sordi alle mie parole. Osiride li perseguiterà, Iside perseguiterà le loro donne e Horo i loro figli con l’aiuto di tutti i principi di To-Giuser che collaborano con lui.» La situazione dei minatori che il re inviava in Nubia era ancor meno invidiabile. 12 «C’è molto oro, si diceva, nella terra d’Ikaïta – a Est della seconda cataratta – ma a causa dell’acqua la strada è particolarmente penosa.» Quando alcuni degli operai che lavoravano l’oro si mettevano in viaggio, solo la metà di essi giungeva a destinazione. Gli altri morivano di sete per la strada con gli asini che correvano avanti. Non trovavano la loro razione di bevande né all’andata né al ritorno con l’acqua degli otri. Dunque

non si poteva trasportare l’oro di quel paese per mancanza d’acqua. I re di un tempo, diceva un rapporto del fanciullo reale di Kush, avevano tentato di scavare dei pozzi ma senza successo. Nemmeno il padre di Ramses, il re Menmaatra, che aveva ottenuto successi a est di Edfu, aveva avuto fortuna. Aveva cominciato a scavare un pozzo di 120 cubiti ma aveva dovuto abbandonarlo in corso d’opera prima che l’acqua si facesse vedere. Questo fallimento non scoraggiò gli ingegneri che, agli inizi del regno di Ramses II, sicuri che il sostegno di Hapi, padre degli dèi, non sarebbe mancato al suo figlio beneamato, ripresero il lavoro questa volta con successo. L’acqua che era nella Duat obbedì al re e salì nel pozzo. I minatori non morivano più lungo la strada ma il lavoro restava spaventosamente faticoso. Secondo Diodoro, che siamo costretti a citare in mancanza di testi più antichi, 13 si riscaldava la roccia per renderla più friabile, poi la si attaccava con punte di metallo seguendo la direzione del filone aurifero. I frammenti staccati venivano portati all’ingresso della galleria, schiacciati e lavati finché la polvere non diventava pulita e brillante. Tale polvere, trattata chimicamente, dava un oro molto puro. Ma l’oro dei gioielli egizi di solito era mescolato con argento, rame e altre impurità. 14 Gli Egizi trovavano nel Sinai la preziosa turchese, mafaket, 15 usata dai gioiellieri e altre pietre composte di rame, come la malachite, sechmet. 16 Lo sfruttamento delle miniere era iniziato ai tempi del vecchio re Sanekht e sotto i Ramessidi era più attivo che mai. In questo caso non c’era il problema della mancanza d’acqua. I Beduini che in passato spesso attaccavano i minatori e i trasportatori erano stati repressi o resi docili. Restavano gli inconvenienti del genere di quelli rivelatici da un ingegnere della XII dinastia, di nome Horurrê, dipendenti dalla situazione oggettiva. Questo ingegnere, incaricato di fare ricerche nella miniera, l’aveva raggiunta nel terzo mese di perit, quando la stagione favorevole era già trascorsa. Il giorno successivo al suo arrivo, aveva incontrato i tecnici più esperti che gli avevano detto, unanimemente: «Nella montagna c’è turchese per l’eternità, ma è il colore che deve preoccuparci in questa stagione. Abbiamo sempre sentito dire la stessa cosa: le gemme della miniera si presentano bene in questa stagione ma è il colore che manca loro in questa cattiva stagione di shemu». «Durante il shemu – aggiunge Horurrê – il deserto è ardente. Le montagne sono come incandescenti e il colore ne viene alterato.» L’ingegnere aveva completato il suo lavoro alla fine dell’inverno. Il grande caldo non era ancora giunto ma

non si sarebbe fatto attendere a lungo e avrebbe coinciso con il periodo di lavoro più intenso. Ma il desiderio di servire il re, la fiducia che riponeva nella signora del cielo, Hathor, che era anche la signora delle turchesi e la protettrice dei minatori, preservarono Horurrê dallo scoramento. Tutto il suo personale era arrivato al completo e senza aver subito perdite. Fin dai primi scavi, non si ebbero più preoccupazioni. Tenendo sempre lo stesso ritmo, Horurrê completò il suo lavoro nel primo mese di shemu senza avere notato che il caldo guastasse il colore delle turchesi. E tutto felice concluse: «Avevo raccolto questa gemma preziosa. Avevo avuto successo più di chiunque prima di me e al di là di ciò che mi era stato ordinato. Non si poteva assolutamente chiedere di meglio. Il colore [delle turchesi] era perfetto e gli occhi erano in festa [nel contemplarlo]. La gemma era anche più bella che nella stagione normale [...] Abbiate dunque fiducia in Hathor. Abbiate fiducia. Vi troverete bene. Riuscirete ancor meglio di me. La prosperità sarà in voi». 17 Così, grazie all’attività degli ingegneri, alla tenacia di un personale sperimentato e anche allo zelo dei commercianti, di cui parleremo in un altro capitolo, l’Egitto ammassava nei suoi magazzini grandi quantità di materie utilizzabili per l’industria: pietre, metalli, legname. Vediamo adesso gli operai al lavoro nel laboratorio.

Il lavoro nei laboratori Se si consultano i numerosi dipinti delle tombe del Nuovo Impero che rappresentano il lavoro nei laboratori e le didascalie che li accompagnano, si sarebbe tentati di credere che tutti i mestieri fossero raccolti in un unico locale: scultori su pietra e su legno, vasai, orafi, gioiellieri e lapidari, costruttori di vasi di metallo e di armature, carrozzieri e falegnami. Può trattarsi di un artificio compositivo. Quei lavori così diversi erano sorvegliati da un direttore generale che veniva rappresentato come enorme mentre gli artigiani che si affaticavano sotto il suo sguardo erano dei nani. Una leggenda geroglifica ne chiarisce l’attività. Ecco ad esempio la didascalia di un certo Duauneheh, direttore del dominio di Amon: «Venire per ispezionare il laboratorio, per aprire le due case dell’oro e dell’argento, per organizzare tutti i lavori che dipendono dal direttore ecc. [...]». 18 È lecito supporre che i

laboratori specializzati si aprissero tutti insieme su una strada come nei bazar del Cairo e di Damasco e che il direttore li ispezionasse a turno ma si può notare d’altra parte che una statua di legno o anche di pietra è decorata da intarsi e inserti, che i carri, i mobili, le armi avevano parti scolpite, o arricchite d’oro e di pietre preziose, che un vaso di pietra poteva essere arricchito con oro, turchesi e lapislazzuli. O lo stesso artigiano possedeva più di una tecnica oppure più specialisti lavoravano uno accanto all’altro e cooperavano a produrre lo stesso oggetto fino a completarlo.

Gli scultori Gli scultori su pietra preferivano però isolarsi. Nel laboratorio del già citato Duauneheh, completavano una porta monolitica composta da due stipiti, un’architrave e una cimasa, la facciata di un edificio con aperture a intaglio e una colonna monolitica a capitelli palmiformi come le colonne di Tanis e Ahnas. Alcuni maneggiavano un’accetta, altri uno scalpello, altri ancora uno strumento per levigare e lavoravano in piedi o seduti su uno sgabello o su un pezzo di granito. Senza aspettare che avessero finito, i disegnatori, con un calamo in una mano e la tavolozza nell’altra, tracciavano i contorni dei geroglifici che sarebbero stati poi incisi e dipinti in blu o verde. Nel laboratorio di Rekhmarê, che dipendeva anch’esso dal dominio di Amon, 19 erano in corso di esecuzione un colosso rappresentante un re seduto su un sedile squadrato dallo schienale basso, un colosso in piedi, appoggiato a un pilastro, una sfinge e una tavola per le offerte. Gli artisti si erano sistemati sulle zampe della sfinge o sul tavolo per le offerte o anche su un’impalcatura mobile di legno che permetteva di lavorare il volto e la capigliatura dei colossi. Gli uni roteavano il maglio e lo scalpello, gli altri strofinavano il granito col brunitoio. Il disegnatore tracciava col calamo i geroglifici del pilastro dorsale. Il pittore applicava il colore con un pennello intinto in una boccetta. Ci chiediamo se operazioni così diverse potessero avere effettivamente luogo contemporaneamente. Effettivamente lo scultore che cesellava qualche particolare del volto e l’incisore occupato a vergare i geroglifici del pilastro o del piedestallo non si infastidivano reciprocamente ma la lucidatura poteva essere eseguita solo dopo che lo scultore e l’incisore avessero completato la loro parte di lavoro. Il pittore veniva per ultimo.

L’autore del quadro dunque potrebbe avere raggruppato in uno stesso laboratorio artigiani che vi avevano lavorato successivamente. Ma vedremo lo stesso sistema di lavoro anche in altri casi. Certamente gli Egizi amavano cominciare le loro opere contemporaneamente da varie parti. Veniva certo il momento in cui il brunitoio urtava il bulino o lo scalpello. Partiva un grido. Chi credeva di avere la priorità insultava l’intruso che rispondeva con una battuta. La statua completata a tempo di record era pronta per essere inviata al tempio o al palazzo per attestare davanti alla folla ammirata il favore che il re dedicava al suo servo o l’amore che il dio tributava al Faraone. Il trasporto della statua al tempio era occasione di una vera e propria festa. Era anche un trionfo della tecnica e dell’organizzazione, in particolare quando la statua era colossale e la strada malagevole. Una statua di alabastro alta 13 cubiti doveva essere portata da un laboratorio dei sobborghi della città, sulla strada per le cave d’alabastro, a un edificio chiamato dal nome del suo fondatore «l’amore di Thuty-hotep è durevole a Unit». 20 Era grazie a un inaudito favore del re che l’edificio aveva ricevuto il nome di un singolo e che una statua di quel tipo era stata eseguita e veniva trasportata con tanta solennità. Innanzitutto essa venne posata su una specie di slitta robusta, che consisteva in due grosse assi sollevate da una parte tenute insieme da robuste traverse e da corde. L’alabastro è una pietra tenera e quindi i trasportatori per precauzione avevano posto dei cuscini in tutti i punti in cui lo strofinio delle corde avrebbe potuto danneggiarla. A questa struttura che sosteneva un peso di cinque o sei tonnellate venivano attaccate quattro corde molto lunghe che venivano trainate dai portatori divisi in quattro gruppi, composti rispettivamente da uomini che venivano dall’Occidente della provincia, dall’Oriente, dalla fanteria e dagli uomini del tempio. Due uomini non temevano di aumentare ulteriormente il peso della statua. Il primo, seduto sulle sue ginocchia, faceva oscillare l’incensiere verso il viso d’alabastro e lo circondava di fumo di terebinto. Il secondo diffondeva a gocce l’acqua di un acquamanile come si faceva nei templi davanti alle statue degli dèi. Accanto alla statua vediamo dei portatori d’acqua che gettano acqua sul suolo per renderlo scivoloso. Altri portatori sostengono una robusta asse che sembra servisse a facilitare il traino ma di cui non è chiaro l’uso. Si dà il segnale della partenza. La responsabilità della manovra spettava al direttore dei lavori di costruzione della statua e al suo aiutante che comunicavano i loro ordini a uomini che sapevano parlare, cioè che sapevano

preparare l’attenzione di quell’esercito di addetti al traino, galvanizzandoli con un discorso che si concludeva con un irresistibile haya. La statua si muoveva e si avviava per la strada che i cavatori avevano liberato dalle pietre che la rendevano malagevole. Una folla immensa era accorsa, ammassandosi ai bordi della strada per godersi lo spettacolo. Gruppi di soldati facevano ala, battelli accompagnavano il corteo scivolando lungo il canale parallelo alla strada. Marinai e passeggeri univano le loro voci a quelle della folla. Lungo le banchine erano stati allestiti dei punti di ristoro. Per coloro che dovevano lavorare, come per quelli che si limitavano a urlare e guardare, c’erano provviste che permettevano di riprendere le forze. L’eroe del giorno, Thutyhotep, venuto in portantina, scortato dai suoi figli, da qualche soldato e qualche servo con ventagli e stuoie, assisteva personalmente all’apoteosi. Pensava che mai la sua provincia aveva assistito a uno spettacolo così bello: «I principi che avevano lavorato in passato, gli amministratori che avevano agito per l’eternità all’interno di questa città che ho dotato di altari sul fiume non avevano immaginato quello che ho fatto, che farò per me. Avrò completato la mia opera per l’eternità quando questa mia tomba sarà stata terminata nelle sue opere di eternità, per sempre». La scena che abbiamo appena descritto si è svolta nell’Impero di Mezzo ma è molto meno eccezionale di quanto non pensasse il governatore della Lepre. Se ne svolgevano di simili ogni volta che il re autorizzava un privato a far trasportare la propria statua in un tempio e anche in occasione del trasporto delle statue reali. Gli Egizi amavano questi lavori di massa. Tutti gridavano molto e bevevano anche di più e tutti rientravano a casa contenti della propria giornata. Un certo Qenamon ricevette un favore ancor più grande, dato che le statue portate in corteo erano tre. 21 Una vera folla le accompagnò in mezzo al fumo del terebinto gridando e gesticolando. Gli uomini portavano rami di papiro, le sacerdotesse di Hathor, signora di Tebe, agitavano i loro sistri e i loro crotali e gli acrobati si esibivano in mille salti.

Orafi, gioiellieri e lapidari L’industria dei vasi di pietra, che aveva raggiunto un’autentica perfezione già ai tempi della I dinastia, fioriva ancora all’epoca dei Ramessidi. Dall’alabastro, dallo scisto, dalla breccia si ricavavano giare, brocche, anfore,

bicchieri, coppe e bacili talvolta arricchiti con figure umane o animali. Gli utensili erano assai semplici. Lo strumento più caratteristico era un trapano con il manico di legno foderato di cuoio nella parte superiore. L’artigiano lo ruotava fra le mani tenendo il blocco di pietra stretto fra le ginocchia. Talvolta si producevano dei guasti: a forza di scavare si perforava la parete ma il guaio era riparabile. Si tagliava via la parte deteriorata e la si sostituiva con un altro pezzo. Nella tomba di Tutankhamon abbiamo trovato pezzi che attestano più abilità che gusto, ai quali preferiamo ad esempio la bella anfora rappresentata nella tomba di Puyemrê 22 adorna solo di una breve iscrizione geroglifica. La lavorazione del metallo impiegava un gran numero di artigiani. Il tesoro di Bubaste, con i suoi vasi d’oro e argento, le sue patere, i suoi orecchini e braccialetti, i gioielli della tomba di Siptah, quelli del Serapeum, conservati al Louvre, costituiscono senza dubbio per il periodo dei Ramessidi un insieme meno ricco e vario della straordinaria collezione di Tutankhamon e di quella di Psusennes. Ma se consultiamo il grande papiro Harris che enumera i doni di Ramses III agli dèi ci accorgiamo che a ogni passo si parla di oro, argento, rame e lapislazzuli e turchesi vere. Le porte dei santuari tebani erano d’oro e rame che brillava come oro. Alcune statue erano rivestite d’oro. Certe tavole per le offerte e certi crateri erano d’argento. I decreti emanati a favore di Amon erano incisi su grandi tavole d’oro, argento o rame. Il lusso della grande casa e dell’imbarcazione sacra sfidava ogni descrizione. Il tempio di Tum a On possedeva una bilancia d’oro che non aveva simili dai tempi del dio. Un severo cinocefalo in oro fuso appollaiato sul suo supporto sorvegliava la pesatura. Si parla di statue del Nilo di ventun materiali diversi. Le statue di lapislazzuli e di turchese erano 13.568, quelle d’oro e le altre erano la metà, quantità comunque rispettabile. Non c’era tempio che non possedesse un tesoro. Per farci un’idea dell’attività degli operai del metallo dobbiamo aggiungere tutto ciò che i re e i privati possedevano a casa propria e portavano su di sé. Nei laboratori si cominciava col pesare l’oro e l’argento, poi lo si consegnava a coloro che l’avrebbero lavorato. 23 Le bilance servivano solo a quest’uso, almeno in questo mondo, e poi a pesare l’anima alla presenza di Osiride e degli dèi dell’Amentit. I cereali erano misurati a staia, i lingotti di rame asiatico venivano contati: non erano ritenuti degni della pesatura. La bilancia era fatta di una colonna su cui era infilata la testa di Maat, la dea

Verità, provvista di un coltello di metallo e di un’asta munita al centro di una lancetta alla quale erano appesi due piatti uguali sostenuti da una corda triplice. Al momento di pesare, bastava appoggiare l’asta con tutti i suoi accessori sul coltello e verificare se i piatti erano in equilibrio. I pesi avevano la forma di un bue accoccolato. Il metallo veniva presentato in forma di anello. L’operatore fermava con la mano le oscillazioni dei piatti e con una torsione del corpo controllava la posizione della bilancia che doveva coincidere con la verticale. Lo scriba, che aveva estratto dall’astuccio la tavoletta e il calamo, registrava i risultati alla presenza del capo degli artigiani del tempio, che si impadroniva dell’oro appena pesato e lo consegnava agli artigiani. Questi avevano poi bisogno di fili per le catene, di lastre e nastri per i gioielli smaltati, di grandi lastre per i vasi e le coppe, di tubi per i bracciali e di lingotti. 24 Prima di tutto bisognava dunque fondere il metallo per ottenere quelle diverse forme e introdurlo, a tale scopo, in un crogiolo che veniva posato su un fornello. Gli Egizi fondevano l’oro e l’argento a fuoco vivo. Una mezza dozzina di uomini schierati in cerchio intorno al focolare ne attizzavano la fiamma soffiando in lunghi tubi che terminavano con un manico di terracotta, in cui si apriva un forellino. Scherzavano e si facevano non pochi meriti perché quel lavoro era faticosissimo. Questo metodo, antichissimo, fu migliorato all’inizio del Nuovo Impero. I tubi venivano applicati a degli otri posati a terra e muniti di una corda che apriva e chiudeva una finestra praticata nella parte opposta. Il soffiatore saliva su due otri gemelli. Tenendo una corda in ogni mano, pesava alternativamente sull’una e sull’altra e abbandonava la corda quando si appoggiava all’otre in modo da scacciare l’aria fuori dal tubo. Così due uomini riuscivano a fare il lavoro di sei. 25 Quando il metallo stava fondendo, due uomini che non temevano né il caldo né il fumo, afferravano il crogiolo con due pinze di metallo. Si spezzava l’angolo e il metallo scendeva nelle lingottiere allineate su un tavolo. Se ne ricavavano dei cubi che venivano consegnati a operai i quali operavano con una grossa pietra che serviva da incudine e una pietra maneggevole che faceva da martello. Ottenevano, con questi semplici strumenti, fili, barrette e lastre. La martellatura induriva il metallo anche se esso era purissimo. Lo si rendeva di nuovo malleabile cuocendolo. L’operaio afferrava la lastra con una pinza e ravvicinava a un fornello che ravvivava con una cannuccia a bocca. Si immettevano i fili in una trafila per renderli più

sottili. Questi semplici procedimenti davano luogo a poco a poco a tutte le forme di cui l’orafo poteva avere bisogno. A questo punto restava da tagliare i pezzi e radunarli. L’operaio che doveva costruire una coppa d’oro o d’argento si sedeva su uno sgabello davanti a un servo ben piantato per terra e martellandola abilmente dava alla piastra la forma desiderata. Quando la costruzione era completata, cominciava la decorazione. La grammatica decorativa degli Egizi era di una ricchezza infinita. Potevano rivestire un cratere o un’anfora di motivi geometrici o floreali comprendenti scene di caccia o religiose o limitarsi, in un accesso di sobrietà, a una breve iscrizione geroglifica perfettamente incisa su un vaso di forma purissima. Dopo i ritocchi finali e un’ultima rifinitura, il pezzo finito era esposto su una scansia che alla fine della giornata era coperta degli oggetti più vari.

La lavorazione del legno Il falegname usava l’acacia, il carrubo, il ginepro e altri legni locali non identificati, l’ebano che veniva dai paesi del sud e i legnami siriani, il pino e l’abete ash e un legno che somigliava alla quarzite della montagna rossa mer. Con la sega manuale si sezionavano i tronchi in tavole. I carpentieri con asce dal lungo manico ottenevano le travi. L’accetta, composta da uno scalpello di metallo con un manico lungo da una mano a un cubito serviva allo stesso uso della nostra pialla. Con un succhiello mosso da un archetto si praticavano i fori rotondi. Si scavavano le mortase con scalpello e mazza che servivano anche all’assemblaggio. Il banco da falegname era ancora ignoto. Per segare un pezzo di legno nel senso della lunghezza lo si attaccava a un piolo piantato a terra. I movimenti della sega potevano provocare delle vibrazioni e a lungo andare la rottura del legno. Per ovviare a questo inconveniente si legava la parte alta della tavola e quella del piolo che restavano separati grazie a un bastone al quale si appendeva un grosso peso. Ma se il pezzo non era troppo grosso l’operaio lo teneva fermo a terra con una mano e con l’altra faceva andare la sega. Faceva lo stesso se lavorava con l’accetta, aiutandosi con il piede. Per l’assemblaggio, si preferivano i cavicchi e i tenoni di legno alla colla e ai chiodi di metallo che servivano preferibilmente a fissare sul legno le lastre di metallo. Sempre con l’accetta si facevano sparire le piccole imperfezioni dopo il montaggio. La lucidatura veniva per ultima. Talvolta il

mobile o la cassapanca venivano affidati a un pittore per la decorazione. 26 Due grandi mobili fabbricati sotto la direzione di Apuy per il tempio del re divinizzato Amenhotep I dimostrano a che punto potesse spingersi la ricchezza della decorazione e permettono di spiegare come si lavorava. 27 Sono alti circa due volte un uomo. Il primo è arricchito da un podio che si raggiungeva tramite una scala a cinque gradini. La trabeazione era sostenuta da colonne a forma di papiro e adorna di un ureo. Il tetto aveva la solita forma bombata. Sulla facciata, Horo e Seth annodavano le piante che simboleggiavano il nord e il sud intorno al santo re. L’altro naos era a tre piani. Ogni piano era sostenuto da colonnette e quello inferiore era lasciato vuoto perché vi si potessero sistemare un letto col capezzale e uno sgabello, un tavolo e uno specchio. La facciata degli altri piani era traforata e scolpita. Vi si osservano l’emblema di Hathor, dei cartigli reali, i feticci di Iside e Osiride, dei falchi incoronati, Bes che suona il tamburo, Tueris che si appoggia al suo amuleto. Gli artigiani che costruivano questi naos erano degli autentici acrobati. Coloro che incidevano i geroglifici delle due grandi colonne non avevano bisogno di alzarsi dal suolo ma quelli che operavano sulle trabeazioni dovevano arrampicarsi coi loro strumenti su per le colonne. L’uno posava i piedi su strisce di tessuto legate sotto il capitello, l’altro sul capitello stesso ed entrambi si reggevano con una mano all’ureo della trabeazione usando la mazza con la sola mano restante. Sul secondo naos, l’arrivo inatteso di un sorvegliante aveva colto gli artigiani di sorpresa. In basso, un uomo seduto sul gradino più alto non sembrava avere fretta di afferrare lo strumento. Un altro si arrampicava agilmente aiutandosi con le colonnette per mettere la maggiore distanza possibile fra la sua persona e l’agente dell’autorità. Dalla parte opposta il pittore si divertiva a scarabocchiare il volto del suo vicino che non chiedeva di meglio. Il sorvegliante gli era passato accanto senza vederlo perché tutta la sua attenzione era attratta interamente da un operaio che dormiva sdraiato davanti a un lavoro non completato. Il sorvegliante lo rimprovera, uno degli uomini che si erano appollaiati al piano superiore è talmente impressionato da quell’appello che perde l’equilibrio. Sul tetto due uomini erano già balzati sui loro strumenti. Il primo apre un buco, il secondo lucida il legno, un terzo scuote il compagno addormentato. Nell’Antico Egitto come ai nostri giorni si preferiva il lavoro in gruppo a quello solitario. Se si voleva il rendimento bisognava ricorrere a sorveglianti attenti e numerosi, che disponessero di un

vocabolario molto ricco e non esitassero a servirsi del bastone, e di sorveglianti che sorvegliassero i sorveglianti. Dai tempi del Nuovo Impero fioriva un nuovo mestiere, quello del carrozziere, che rappresentava una specializzazione di quello del falegname. 28 Il carro era fatto essenzialmente di legno. Le ruote non avevano mai cerchi di metallo ma delle lastre metalliche talvolta venivano applicate alla cassa. Le parti del carro erano numerosissime: una composizione poetica ne enumera una cinquantina senza esaurire l’elenco. La cosa più difficile era ottenere delle ruote perfettamente rotonde. Le ruote erano a quattro o sei raggi. Il cerchio era fatto di numerosi segmenti segati da una tavola di spessore adeguato e assemblati. Un’altra specializzazione del mestiere di falegname era la fabbricazione degli archi, delle frecce e dei giavellotti, dei bastoni e degli scettri di ogni genere usati dal Faraone, dai dignitari religiosi, militari e civili, e degli strumenti musicali. 29 Qualche volta era necessario ottenere delle aste perfettamente diritte, in altri casi era necessario conferire loro una curvatura elegante e indeformabile. Nel laboratorio di Menkheperrêsonb un uomo afferra un arco, il suo vicino soppesa una freccia e verifica che sia ben diritta. Per curvare i rami li si riscaldava prima di scortecciarli e li si introduceva in una specie di primitivo banco consistente in un piolo biforcuto piantato a terra le cui due biforcazioni erano tenute insieme strettamente. Il ramo riscaldato veniva introdotto in questa morsa: a questo punto gli operai gli conferivano la curvatura desiderata con l’aiuto di una sbarra. 30 I bastoni, gli scettri, gli strumenti musicali potevano essere decorati come i mobili, con intarsi e placche sovrammesse oppure ancora con una testa scolpita. Una testa femminile in legno, posseduta dal Museo del Louvre, era infilata su un’arpa. 31 I bastoni di Tutankhamon erano arricchiti da impugnature d’avorio o ebano che avevano la forma di un nero o di un asiatico.

La lavorazione del cuoio L’industria del cuoio risaliva all’Impero Antico. Un industriale di quell’epoca, Uta, fabbricava sandali, fogli di pergamena per i funzionari che con un programma in mano dirigevano le cerimonie religiose e profane, portamanoscritti. Si continuava a fabbricare tali oggetti e in più si

producevano caschi, redini, faretre, scudi di cuoio consolidati da chiodi, bordi e lastre di metallo. Si era imparato a sbalzare il cuoio e a decorare le faretre e gli scudi con ornamenti tratti dal repertorio decorativo siriano ma eseguiti con un’eleganza mai raggiunta nei paesi d’origine. 32 Gli Egizi però praticavano solo la conciatura con il grasso che noi chiamiamo scamosciatura. Si tendevano le pelli in tutti i sensi su un banco per poi immergerle in un bagno d’olio. Poi le si ritirava dal bagno e quando cominciavano ad asciugarsi le si martellava per far penetrare l’olio. Così la pelle assumeva le caratteristiche del cuoio, diventava morbida, impermeabile all’acqua e immarcescibile.

La condizione degli artisti e degli artigiani In tutti i laboratori, gli oggetti che di mano in mano venivano completati erano esposti su tavoli o posati su scaffali per essere sottoposti all’approvazione del direttore dei lavori ed essere giudicati degni di approdare nei magazzini del dio o del re. Inoltre esistevano delle esposizioni generali in cui venivano esposti i prodotti dell’industria egizia. Nella tomba di Qenamon è riprodotto una specie di catalogo illustrato dei doni offerti al re in occasione del capodanno. 33 Nel tempio di Karnak si trova un altro catalogo mirabilmente inciso di tutto ciò che il re aveva dedicato ad Amon. 34 La statuaria era riccamente rappresentata da statue reali schierate nel loro naos che si innalzava su una barca di tipo arcaico, statue rappresentanti uomini e donne in piedi, seduti, inginocchiati, da sfingi con teste umane e di falco, con o senza corona; l’animalistica era rappresentata da ritratti di gazzelle, orici, stambecchi. Ai vasi di pietra che ricordavano i tempi più antichi si aggiungevano anfore arrotondate poste su piedi minuscoli. Erano particolarmente apprezzati i crateri e le coppe a piede, con la parte panciuta decorata e l’interno contenente un piccolo giardino artificiale formato da loti, papiri, crisantemi, melograni che circondavano una rana appollaiata su un piedestallo. C’erano anche salsiere a forma di uccello. Qualche volta l’impugnatura era a forma di testa d’anatra rivolta verso l’interno perché il contenuto l’attirava o perché vi galleggiava un anatroccolo. Ancora più straordinari sono i grandi crateri che facevano da piedestallo a una fortezza siriana dotata di difensori o a un edificio in cui delle pantere cercavano di penetrare per afferrare un bell’uccello posato sul tetto. Il mobilio consisteva

soprattutto di cassapanche, poltrone e sgabelli. Gli orefici avevano esposto collane a più fili con il fermaglio decorato da piante fiorite. I fabbricanti di armi e carrozze avevano inviato carri con tutti gli accessori, gualdrappe, redini, archi, spade, fruste, scudi, cotte di maglia, astucci per l’arco, faretre, asce, pugnali, caschi. Fra gli oggetti di uso quotidiano, citeremo specchi, parasoli di piume di struzzo con il manico d’ebano e oro, teste d’uccello col becco lungo e il manico che simula un collo immenso di cui non ci spieghiamo l’uso certamente perché non ne avevano. Infatti si era progressivamente imposto l’uso di mobili di pura rappresentanza con la parte superiore irta di palmizi carichi di frutti dove giocava una famiglia di scimmie. Era davvero una bella mostra. Gli operai del laboratorio reale e di quello di Amon avevano ben meritato le lodi del loro signore umano e divino. A questo punto ci dobbiamo chiedere se questi ammirevoli artigiani, molti dei quali erano artisti, fossero ricompensati secondo il loro merito. Quando Puyemrê, secondo profeta di Amon e direttore generale dei lavori del tempio di Amon, si fece presentare le opere eseguite nei suoi laboratori e ricevette il direttore delle arti e il direttore dei lavori, i suoi subordinati gli dissero: «Ogni cuore è felice di ciò che ti accade», ma Puyemrê non ebbe una parola di ringraziamento. Guardò quelle meraviglie di ingegnosità e di tecnica come guardava i cesti di offerte, i campioni di minerali, i prodotti alimentari raccolti dagli esattori delle imposte. 35 Niente dimostra che abbia avuto una parola gentile, un’espressione di lode per gli operai più abili. Quando visitò il laboratorio del tempio di Amon, Rekhmarê ci fa sapere che nella sua qualità di direttore dei lavori insegnava la strada a tutti i suoi uomini, ma in questa occasione ci ricorda i suoi titoli e qualità, senza pensare minimamente a farci conoscere quelli di coloro che avevano lavorato meglio. Il sorvegliante parla agli artisti come a semplici manovali: «Fate agire le vostre braccia, compagni. Facciamo quello che elogia quel magistrato completando i monumenti del suo signore nella proprietà di suo padre Amon, il cui nome durerà su di essi, per tutti gli anni a venire». 36 Il laboratorio aveva lavorato per la gloria di Amon, del re, del visir o del profeta ma la produzione era anonima e i posteri dovevano ignorare il nome dei maestri ai quali spettava il merito principale. Nessuno sembrava dubitare che un grande scultore è un dono degli dèi. Eppure nell’anno VIII del suo regno Ramses II fece innalzare in un tempio di On, in occasione della sua visita alle cave della Montagna Rossa e

della scoperta di un blocco colossale, una stele in cui si vantava dell’interessamento da lui mostrato per tutti coloro che prendevano parte alla costruzione delle sfingi, delle statue in piedi, sedute, inginocchiate di cui egli popolava tutti i santuari egizi: «Ascoltate quello che vi dico. Ecco i beni che possedete. La realtà è conforme alle mie parole. Sono io, Ramses, che ho creato e fatto vivere le generazioni. Cibi e bevande sono davanti a voi e non resta niente da desiderare [...] Io miglioro la vostra situazione per dire che lavorate per me con amore, per me che sono fortificato dai vostri ringraziamenti. Ricche provviste vi vengono consegnate per i lavori, nella speranza che viviate per realizzarli [...] Ci sono granai di cereali perché non permetto che passiate un solo giorno senza viveri. Tutti voi siete pagati per un mese. «Ho riempito per voi magazzini di ogni genere di cose, dolci, carni, gallette, per nutrirvi, sandali, abiti, profumi vari per ungere le vostre teste ogni dieci giorni perché siate vestiti tutto l’anno, perché abbiate buone calzature ai piedi tutti i giorni, perché nessuno fra voi passi la notte nella paura della miseria. Ho posto uomini di diverse categorie a garantire la vostra alimentazione anche negli anni di carestia, gente delle paludi, per portarvi pesce e selvaggina, altri uomini come giardinieri per fare il conto [di quanto vi è dovuto]. Ho edificato un laboratorio per modellare il vasellame dove la vostra acqua si rinfrescherà nella stagione di shemu. Battelli navigano per voi da nord a sud con orzo, amidonnier, frumento, sale, fave, senza fermarsi mai. «Ho fatto tutto ciò dicendo: “Finché esistete, siete pronti come un solo cuore a lavorare per me”». 37 Il re vuole dunque far durare il suo nome con monumenti che sfidino l’eternità ma vuole anche che i suoi artisti siano ben nutriti e opportunamente vestiti e che siano felici di lavorare per un sovrano generoso. Luigi XIV attribuiva pensioni e cariche. Un Faraone poteva fare ciò che faceva ad esempio Ramses, costituire un’immensa proprietà coltivata da un personale numerosissimo le cui entrate facevano vivere gli artisti di un laboratorio come quello di On. Tuttavia noi elogeremmo ancor più volentieri il più illustre dei Faraoni se avesse individuato, fra tanti buoni artigiani, qualche vero artista e gli avesse attestato la soddisfazione della corte con una di quelle scene di ricompensa i cui protagonisti sono sempre un alto funzionario, un cortigiano, un sommo sacerdote. Lo scriba aveva forse ragione a dire: «Non ho mai visto uno scultore in un’ambasceria, un fonditore incaricato di una

missione, ma ho visto il fabbro al lavoro vicino alla gola del forno. Le sue dita sono come zampe di coccodrillo, e puzza come le uova di pesce!». 38 Potremmo cercare di raggranellare qualche prova di una considerazione rivolta agli artisti più originali. La stele che fece incidere un artista dell’Impero di Mezzo dimostra quale giudizio egli desse di se stesso: «Io conosco il segreto delle parole divine, la conduzione delle feste. Ho praticato ogni magia senza lasciarmi sfuggire niente. Niente di ciò che è in relazione con queste materie mi è ignoto. Io sono il capo del segreto. Io vedo Ra nelle sue manifestazioni». 39 La liturgia, la mitologia, tutti gli attributi reali e divini dovevano essere familiari all’artista. Non era merito da poco. I Fenici, che copiavano abilmente i modelli egizi, a questo proposito commettevano errori che avrebbero certamente urtato il pubblico egizio. Il nostro artista loda poi la sua tecnica: «Del resto sono un artista eccellente nella mia arte, un uomo al di sopra del comune per le mie conoscenze. Conosco il procedimento di una statua [rappresentante un uomo], l’atteggiamento della donna, la statura del [...], la posa di colui che colpisce con il giavellotto, lo sguardo lanciato al proprio secondo, l’aria stanca di chi si sta svegliando, il moto del braccio del lanciatore, l’atteggiamento inclinato del corridore. So fare applicazioni che resistono al fuoco e non si sciolgono nell’acqua. «Nessuno si distingue in queste abilità tranne me e il mio figlio maggiore. Quando il dio ha ordinato, io lavoro, egli lavora e se la cava bene. Ho visto le opere eseguite di sua mano senza ricorso al direttore dei lavori tutte in pietre preziose e poi in oro e argento e persino avorio ed ebano...» Speriamo che meriti così grandi non siano stati riconosciuti solo da colui che li possedeva. Nella tomba di uno dei numerosi Amenemhat a Tebe spicca un quadro che non ha forse eguali nel repertorio a noi noto. 40 Amenemhat invita con la voce e con il gesto quattro uomini seduti su stuoie di fronte a lui a dividersi le ricche offerte esibite alla loro portata, pane, carne, pollame, verdure e frutta, bevande e profumi. Uno di questi quattro uomini è il disegnatore Ahmose, un altro, uno scultore di statue il cui nome non ci è stato tramandato. Questo pasto in immagine veniva offerto agli artisti che avevano decorato la tomba come una ricompensa suprema. Gli artisti dovevano trovarvi gli stessi vantaggi che procurava ad Amenemhat la vista delle ricchezze raffigurate nella sua tomba. Già all’epoca delle piramidi un

maggiordomo di nome Meni si vantava di avere ben remunerato coloro che avevano partecipato alla costruzione e decorazione della sua tomba: «Ogni uomo che ha fatto questo mai se ne pentirà. Artista o tagliapietre, l’ho ricompensato!». 41 Il primo profeta di Nekhabit, Setau, sotto Ramses IX affidò la decorazione della sua tomba a un artista eminente, Meryré, di cui si compiace di proclamare l’originalità e i meriti: «Ha fatto le iscrizioni con le sue stesse dita quando venne a decorare la tomba di Setau [...] Quanto allo scriba dei libri divini, Meryré, non è un [semplice] copista. È il suo cuore che lo ispira. Non ha maestri che gli forniscono modelli, lo scriba abile, forte delle sue dita e intelligente in ogni materia». 42 Si può dunque affermare che i re, i principi, il clero, il pubblico «in una parola», non erano ingrati nei confronti di coloro che lavoravano per la loro gloria. Li pagavano e li ringraziavano secondo le idee e con i mezzi del tempo. Un artista che visse al tempo di Ramses III e Ramses IV ed ebbe modo di decorare una grande tomba di Deir el-Medineh è rappresentato in pieno lavoro mentre dipinge le statue del re Amenhotep I e di sua madre. 43 Abbandonando lo stile un po’ compassato che aveva impiegato per eseguire l’incarico, si è rappresentato in un atteggiamento del tutto naturale, accoccolato su un piedestallo con i piedi nudi incrociati, quello sinistro visto dal di sotto, sopra il destro, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, il pennello in una mano e la tavolozza nell’altra. Questo quadro non passò inosservato. Un allievo ne fece una copia su una scheggia di calcare che è giunta fino a noi. 44 Meno bella del modello, questa copia è preziosissima perché porta, prima del nome dell’artista, i titoli di principe e di scriba. Sembra che artisti contemporanei di Akhenaton come Gehutimosis e Huya siano stati personaggi ricchi e considerati. Alla fine del periodo ramesside un pittore raggiunse una posizione considerabile equivalente a quella del governatore di una provincia.

Muratori e piccoli mestieri Adesso passiamo a mestieri più duri, esercitati soprattutto da stranieri, prigionieri o liberi, o più umili, che non valsero mai a nessuno il titolo di principe. Il muratore egizio era essenzialmente occupato a costruire e assemblare

mattoni crudi. Ogni città era circondata da una cinta di mura profonda una quindicina di metri e alta una ventina. Solo le porte erano di pietra mentre le mura erano di mattoni. Anche gli edifici amministrativi e le case private, come i muri di recinzione, erano composti molto più di mattoni che di pietra. Quando Ramses II intraprese la costruzione della sua città preferita, Ramses, che gli Egizi preferivano chiamare Pi-Ramses, e dei magazzini di Pithom, convocò i figli d’Israele, impose loro dei capi corvées e li costrinse con una dura oppressione a fare mattoni. 45 Era un lavoro sgradevole ma niente affatto difficile. Si prendeva del fango del Nilo e lo si mescolava a sabbia e paglia triturata. Perché la mistura fosse adatta bisognava inumidire questi materiali, calpestarli a lungo e mescolare periodicamente il tutto con una vanga. L’operaio calava questa miscela nello stampo che teneva vicino a sé, lo riempiva con precisione, toglieva l’eccedenza con una paletta di legno, poi sfilava velocemente lo stampo senza rovinare il mattone. Quindi lasciava seccare l’impasto per otto giorni dopo i quali il mattone poteva essere usato. In genere gli operai si mettevano a lavorare vicino a una cisterna. Altri operai li rifornivano d’acqua o andavano nei campi dopo la mietitura per strappare le stoppie con cui fare la paglia da triturare. Quando il Faraone pretese che i figli d’Israele andassero a prendere la paglia senza diminuire il numero di mattoni da tornire tutti i giorni, si trattò di un penoso aggravamento della loro sorte ma le recriminazioni potevano solo attirare sulle loro schiene il bastone dei capi della corvée. I mattoni venivano trasportati su due tavole uguali appese a un’asta. La stessa parola iqdu indica due mestieri in apparenza molto diversi, il muratore e il vasaio. Tuttavia, il primo era chiamato iqdu inebu, «muratore dei muri», e il secondo iqdu negesit, «muratore in piccolo». 46 Entrambi usavano lo stesso materiale, il fango del Nilo, ma la vera ragione è fornita per la lingua egizia. La radice qed significa «rotondo». Le case primitive erano rotonde come dei vasi. Il vasaio impastava la pasta con i piedi, poi poneva il blocco d’argilla sul tornio, un semplice disco di legno che si faceva girare su un perno. Il blocco, sotto le sue dita agili, prendeva la forma di un vaso panciuto, di un bicchiere, di una brocca, di una tazza o di una di quelle grandi giare con il fondo a punta dove si conservavano il vino e la birra o di quelle altrettanto grandi a fondo piatto simili a sacchi. 47 Quando il tornio aveva fatto quello che doveva, il vasaio completava la modellatura con le dita. Si portavano i vasi al forno, una specie di camino rotondo alto all’incirca il

doppio di un uomo e largo due cubiti, almeno secondo i documenti figurativi, ma bisogna ricordare che i disegnatori egizi non tenevano molto conto delle dimensioni relative degli esseri e delle cose. Durante il Nuovo Impero non ci si accontentava di fabbricare vasi di forma più o meno elegante e di colore uniforme. I vasai sapevano dipingere sulle brocche e sulle giare motivi diversi mutuati dal repertorio degli incisori o tratti dalla loro fantasia, fregi con figure geometriche e floreali, pampini, elementi vegetali, un trampoliere che divora un pesce, un toro al galoppo. 48 La clientela modesta poteva permettersi, in mancanza di oggetti di metallo, un vasellame non privo di bellezza. Il barbiere andava in giro di quartiere in quartiere, si metteva a un incrocio, in un punto ombreggiato che subito veniva invaso dai clienti. 49 L’attesa poteva essere lunga ma talvolta l’abbreviavano un cantante o un narratore. Anche litigare era un sistema per passare il tempo. È quello che fanno due uomini seduti schiena contro schiena sullo stesso sgabello ma non sempre la distribuzione dello spazio era eguale. Mentre un cliente era seduto comodamente, il suo concorrente stava sul bordo e rischiava di cadere alla prima spinta. Indifferenti a questa competizione altri clienti preferiscono dormire col mento appoggiato sulle ginocchia e la testa sprofondata fra le braccia incrociate. L’uno dopo l’altro i clienti andavano a sedersi sullo sgabello a tre piedi, con le mani posate educatamente sulle ginocchia, e affidavano la testa al barbiere che li liberava dei capelli e della barba. Una coppa a piede conteneva dell’acqua saponata. Il rasoio aveva una lama un po’ meno lunga di una mano, di forma irregolare, e aveva un dente d’arresto. I barbieri per i ricchi possedevano un assortimento di pinze e pinzette, forbici e rasoi che portavano in sacchi di cuoio e schieravano in eleganti cofanetti d’ebano. Operavano a domicilio e godevano di una condizione rispettabile. Alcuni erano anche medici. Nella corte celeste figurava un dio barbiere. Ma il barbiere per la gente del popolo ispirava più pietà che invidia. 50

Padroni e operai Il gran sacerdote di Amon Rome-Roy merita di essere citato come esempio del buon padrone egizio. «Oh sacerdoti, scribi della casa di Amon,

servi eccellenti delle offerte divine, panettieri, birrai, pasticcieri che entrerete in questo laboratorio che sta nella casa di Amon, pronunciate il suo nome ogni giorno accordandomi un buon ricordo, glorificatemi a causa delle mie buone azioni perché sono stato un brav’uomo. «Ho trovato questa stanza completamente in rovina, le sue pareti cadenti, le parti di legno marce, gli stipiti che erano di legno erano in disgregazione come i dipinti che ne coprivano i bassorilievi. L’ho restaurata interamente, facendola più vasta di prima, più alta e più larga. Ho fatto stipiti di pietra arenaria e ho adattato delle porte di autentico abete. Ne ho fatto un laboratorio confortevole per i panettieri e i birrai che vi stanno. Ho fatto tutto questo lavorando meglio di prima per la protezione del personale del mio dio Amonrasonter.» 51 Un altro gran sacerdote di Amon, Bakenkhonsu, sembra avere meritato lo stesso elogio: «Sono stato un buon padre per i miei subordinati istruendo i giovani, dando la mano a quelli che avevano delle sventure e garantendo resistenza a quelli che si trovavano nel bisogno e facendo cose utili nel suo tempio nella mia qualità di direttore dei lavori a Tebe per conto di [...] Ramses II». 52 Speriamo che i subordinati, se fossero stati interrogati, non li smentissero. La morale corrente vietava di far lavorare gli operai e i servi oltre il ragionevole. 53 Ma è altrettanto vero che il popolo dei lavoratori aveva più volte ragione di protestare. Le sue proteste talvolta assumevano il tono della rivolta. Gli operai ricevevano la loro razione di viveri e vesti in una, o due, oppure quattro volte. Gli imprevidenti, probabilmente senza fare eccessi, esaurivano le provviste prima della nuova distribuzione: «Crepiamo di fame e mancano ancora diciotto giorni al mese prossimo». 54 Gli operai si radunavano, vicino a un edificio, e dicevano: «Non torneremo, ditelo ai vostri capi che sono radunati laggiù». Un impiegato spiega la loro situazione: «Andammo per sentirli e ci dissero parole vere». Gli affamati si portarono in folla verso i magazzini, ma non tentarono di forzare le porte. Uno di loro arringò la folla con queste parole: «Veniamo qui spinti dalla fame, spinti dalla sete, senza più un filo di stoffa, senza più olio né pesce né verdure. Inviate al Faraone il nostro padrone, inviate al re il nostro Signore perché ci fornisca i mezzi per vivere!». Questa rivendicazione venne ripetuta davanti a un magistrato ma i suoi compagni temettero per lui ed erano pronti a dire che tutto sommato le cose andavano bene. Altri rifiutarono di disperdersi se non si fosse fatta una distribuzione immediata. Che i magistrati deliberarono,

convocando uno scriba e dicendogli: «Ecco il grano che hai ricevuto, danne alla gente della necropoli». Si fece dunque venire Pe-Montunebiat e furono distribuite delle razioni di grano ogni giorno! Così la minaccia di sciopero fu scongiurata. La sorte degli operai non doveva essere troppo penosa quando i padroni ritenevano di dover costruire, come Bakenkhonsu e Rome-Roy, alloggi e laboratori comodi e bene aerati, quando i viveri e le vesti venivano distribuiti regolarmente e qualche distribuzione supplementare calmava la preoccupazione degli imprevidenti. I giorni di festa e le vacanze erano frequenti. Non è affatto improbabile che gli operai più seri e abili potessero diventare sorveglianti e capomastri, ammassare qualche bene e finire i loro giorni come piccoli proprietari o piccoli imprenditori. Ma all’epoca dei torbidi, della lotta di Amon contro Seth, gli operai soffrirono prima e più degli altri.

Il commercio e la moneta Nelle proprietà dello Stato e in quelle dei grandi dèi si teneva una contabilità molto precisa delle derrate e dei prodotti che entravano quotidianamente e che venivano consumati dal personale. Formavano un circuito chiuso. I magazzini e i depositi rigurgitavano di merci che però erano destinate all’uso di una frazione soltanto della popolazione. Quando erano soddisfatti tutti i bisogni della popolazione, l’eccedente poteva essere destinato alla commercializzazione. Oppure due grandi proprietà si scambiavano direttamente i loro prodotti, oppure i prodotti di una proprietà erano venduti a negozianti che li smerciavano a loro rischio e pericolo. Accanto alle grandi proprietà collettive esisteva una massa di proprietà private grandi, medie e piccole di allevatori o produttori di frumento, frutta, verdura, che dovevano procurarsi abiti, mobili, oggetti di lusso ed esibizione e che potevano farlo solo vendendo l’eccedenza del loro raccolto e dei loro allevamenti. Esistevano anche artigiani liberi che vivevano di quello che fabbricavano nel laboratorio di cui erano proprietari. Esistevano poi anche dei mercanti che non producevano niente ma acquistavano e rivendevano tutto ciò che non si produceva nel paese. Tutto questo mondo di compratori, venditori e commercianti si incontrava nei mercati. Un contadino aveva caricato i suoi asini di tutti i buoni prodotti dell’oasi del sale. Se non fosse

stato svaligiato lungo la strada, e avesse potuto raggiungere con il suo carico la città di Nen-nisut, avrebbe esibito sulla piazza il suo natron, i suoi uccelli acquatici, i suoi pesci secchi e li avrebbe scambiati con dolciumi, stoffe e abiti. Fu invece straordinariamente sfortunato. In tempi normali, quando la polizia faceva buona guardia tutti arrivavano al mercato senza ammassarsi. Nella tomba di Khaemhat, 55 l’artista aveva rappresentato dei mercanti che esibivano pacchi e cesti gesticolando e gridando, seduti e in piedi. Questi mercanti hanno un aspetto particolarissimo: hanno la testa enorme e una capigliatura abbondante e ribelle. Anche i clienti che arrivavano con il sacco in spalla gesticolavano e certamente disponevano di un vocabolario non meno ricco e salace di quello dei mercanti. L’arrivo di una nave straniera proveniente dall’Alto Nilo o dalla Siria attirava – oltre ai molti curiosi sempre divertiti alla vista degli stranieri dalle vesti multicolori e della loro paccottiglia – i mercanti che aprivano uno spaccio e vendevano le provviste ai Fenici i quali in cambio cedevano un corno decorato o una testa infilata su una zanna d’elefante. 56 Lo scambio delle merci era facilitato dall’abitudine che era stata assunta molto presto di valutare le derrate e i prodotti manifatturieri con una unità di misura detta shât. Su un documento della IV dinastia una casa è valutata in shât. 57 Su un papiro della XVIII, una schiava e i servizi di una schiava per un tempo determinato sono valutati con lo stesso sistema. 58 Questa unità era però soltanto ideale. Negli ambienti ufficiali non si pensò mai a tagliare delle rondelle di metallo di peso uniforme esattamente controllato e punzonarle; ma i commercianti e il pubblico conoscevano il peso di oro, d’argento o di rame che corrispondeva a una shât. Non si poteva dunque scambiare merci contro monete ma chi voleva, per esempio, vendere una casa e si era accordato con un acquirente sul suo valore in shât, riceveva bestiame o grano per un valore equivalente. Questo era il caso più semplice. Se si scambiavano animali o oggetti di valore non equivalente, bisognava valutare la differenza in shât e trovare una merce che una delle parti potesse fornire e l’altra accettare. La cosa spesso provocava discussioni. Sembra che la shât sia caduta in disuso verso l’epoca dei Ramessidi perché non rendeva più facili le transazioni. Non se ne parla mai nel grande papiro Harris dove si annotano esattamente in deben di 90 grammi e in qites di 9 grammi l’oro, l’argento, il rame e le pietre preziose senza indicarne il valore. Su questo documento, come altrove, ad esempio nel calendario di Medinet Habu, si enumerano i

moggi di cereali, i cesti di frutta, i sacchi o panieri di diversa grandezza per altri prodotti. Gli animali, gli alberi sono calcolati per specie. Quando si enuncia il numero dei buoi, dei buoi selvatici, degli orici, dei bubali e delle gazzelle, si sommano questi numeri per fare il totale dei capi di bestiame e lo stesso si fa per il pollame senza però fissarne il valore in nessuna forma. Se qualcuno avesse voluto farlo, avrebbe espresso il valore in base al peso d’oro, d’argento o di rame. Il prezzo di un bue andava da trenta a centotrenta deben di rame, un sacco di amidonnier (bôti) equivaleva a un deben di rame. 59 Ma in generale l’acquirente non era in condizione di fornire del rame, ancor meno dell’argento o dell’oro. Questa transazione commerciale in metalli preziosi ebbe luogo solo sotto gli ultimi Ramessidi quando il saccheggio dei templi e delle tombe ebbe rimesso in circolazione quantità abbastanza grandi di quei tre metalli sepolti da secoli negli ipogei o riservate nei templi. Un ladro impiega un deben d’argento e cinque qites d’oro nell’acquisto di un terreno; per due deben d’argento un altro acquista due buoi. Lo schiavo Dega fu pagato due deben d’argento più sessanta di rame. Cinque vasi di miele vennero acquistati per cinque qites d’argento e un bue per cinque qites d’oro. 60 Prima di questo periodo di anarchia, gli acquirenti, in mancanza di metallo, pagavano con derrate che il venditore accettava e che a loro volta venivano valutate in base al peso in oro, in argento o in rame. Lo scriba Penanuqit aveva venduto un bue valutato centotrenta deben di rame e ricevette una tunica di lino del valore di sessanta deben, dieci sacchi e tre moggia e mezzo del valore di venti deben, delle perle di una collana del valore di trenta e due tuniche da dieci deben. 61 Una tebana che aveva acquistato una schiava da un mercante al prezzo di quarantun deben d’argento enumera davanti ai magistrati diversi articoli alcuni dei quali, come delle pezze di stoffa, aveva fornito direttamente e altri, come oggetti di bronzo e di rame, erano stati forniti da persone diverse. 62 Lo Stato stesso non aveva altri metodi di regolazione del commercio. Unamon andò a negoziare un acquisto di legna dal re di Biblo Zekerbaal e ottenne subito sette pezzi di legno per i quali lasciò la sua nave in pegno. Si fece spedire da Tanis delle brocche e dei bacili d’oro, cinque brocche d’argento, dieci pezze di lino reale, cinquecento rotoli di papiro, cinquecento pelli di bue, cinquecentoventi sacchi di lenticchie, trenta cesti di pesce secco e in un altro invio cinque pezzi di lino reale, un sacco di lenticchie e cinque cesti di pesce secco. 63 La storia non ci dice a quale peso d’oro e d’argento

equivalesse tutta questa mercanzia. Il re di Biblo in apparenza non se ne interessava. Mandava a tagliare gli alberi, li faceva trasportare sulla riva e infine li consegnava all’inviato di Amon, ma in precedenza gli aveva fatto una scena spaventosa. Possiamo certamente credere che l’Egizio come il Siriano avesse a sua volta convertito queste merci in oro e argento e che le due parti fossero equivalenti. In ogni caso l’assenza di una autentica moneta rendeva le transazioni faticose. Ciò spiega la mimica espressiva dei venditori nella tomba di Khaemhat e le interminabili discussioni che avevano preceduto la conclusione del mercato fra il re di Biblo e il suo acquirente egizio. 1. Stele dell’anno VIII trovata a On: Ann. S.A.E., 219. 2. Engelbach, «The quarries of the western nubian desert and the ancient road to Tuskha», Ann. S.A.E., 1938, 369; cfr. Sethe, Die Bau- und Denkmalsteine der alten Agypter und ihre Namen, Berlin 1933, 49. 3. Couyat e Montet, Les inscriptions hiéroglyphiques et hiératiques du ouâdi Hammâmât, Le Caire 1912. 4. Ibid., iscrizioni 231-237, 240, 223, 12, 222, 219 e 87, 1, 10. 5. Ibid., iscrizione 19; cfr. 24. 6. Ibid., iscrizione 110. 7. Ibid., iscrizione 191. 8. Ibid., iscrizione 192. 9. Lucas, Ancient egyptian materials and industries, II ed., London 1934, 63. 10. Th. T.S., IV, 4. Iscrizione di Ameni a Beni-Hassan (Newberry, Beni-Hassan, I, 8); Pap. Harris, I, 12-7. Carta delle miniere d’oro del museo di Torino. 11. Iscrizioni del tempio di Radesieh: Golenischeff, R., Recueil de travaux, XIII, 75 ss. e Bibl. æg., IV, n. 4. 12. Secondo una stele di Ramses II trovata a Kuban, 108 chilometri a sud di Assuan, attualmente al museo di Grenoble: Tresson, La stèle de Kouban, Le Caire 1922. 13. Diodoro, III, 11-13. 14. Le statuette trovate nel sarcofago di Hornekht a Tanis (Kêmi, IX, nn. 94-102) sono evidentemente di oro molto impuro. 15. Lucas, Ancient egyptian materials and industries, 352; V. Loret, «La turquoise chez les anciens Égyptiens», Kêmi, I, 99-114. 16. Lucas, op. cit., 348; Newberry, in Studies presented to F.Ll. Griffith, 320. 17. Loret, op. cit., in Kêmi, I, 111-113. 18. Lepsius, Denkmäler, III, 26, I; cfr. Wr. Atl., 1, 64, 341, 342.

19. Wr. Atl., I, 5. 20. Newberry, El Bersheh, I, 16-16. 21. Davies, Ken-Amun, 38-40. 22. Mem. Tyt., II, 23. 23. Th. T.S., V, 11, III, 8. 24. Vernier, La bijouterie et la joaillerie égyptiennes, Le Caire 1907, II parte. 25. Wr. Atl., I, 316-317; Newberry, Rekhmara, 18. Si veda il seguito delle operazioni nei laboratori degli orafi in Th. T.S., III, 8; V, 11-12; Mem. Tyt., II, 23; IV, 11; Wr. Atl., I, 263, 59, 50, 229. 26. Montet, Vie privée..., 298-311; Wr. Atl., I, 314-315, 420, 384; Mem. Tyt., IV, 11. 27. Mem. Tyt., V, 37. 28. Th. T.S., V, 11-12, III, 10; Mem. Tyt., II, 23; Wr. Atl., I, 307, 227. 29. Th. T.S., V, 12. 30. Montet, Vie privée..., 311-314. 31. Encyclopédie photographique de l’art, «Les antiquités égyptiennes du Louvre», 74-77. 32. Montet, Vie privée..., 315-318; Wr. Atl., 312-313; Newberry, Rekhmara, 17-18. 33. Davies, Ken-Amun, 13-24. 34. Wr. Atl., II, 25; Urk., IV, 626-642. 35. Mem. Tyt., II, 37-38. 36. Urk., IV, 1154. 37. Stele dell’anno VIII di Ramses II: Ann. S.A.E., 1939. Satira dei mestieri in § 111 di Pap. 38. Sallier, II, 3, 9; Pap. Anastasy, VII, 1, 1. 39. Louvre, C 14; cfr. Sottas, in Recueil des travaux, XXXVI, 153. 40. Th. T.S., I, 8. 41. Urk., I, 23. 42. Recueil de travaux, XXIV, 185. 43. Tomba 359, a Tebe, cfr. AZ, XLII, 128-131. 44. Ostracon 21447 di Berlino in AZ, LIV, 78; cfr. Robichon e Varille, Le temple du scribe royal Amenhotep fils de Hapou, Le Caire 1936, 9, dove si contesta che a un pittore rinomato potessero venire attribuiti i titoli di principe e di scriba. 45. Wr. Atl., I, 319-321; Esodo, I, 11-16; cfr. A. Mallon, Les Hébreux en Égypte, Roma 1921, 134138. 46. Satira dei mestieri, § VIII, Wb., V, 75 e II, 385. 47. Davies, Ken-Amun, 59. 48. Th. T.S., III, 1. 49. Wr. Atl., I, 44. 50. Montet, in Kêmi, IV, 178-189; satira dei mestieri.

51. Lefebvre, Histoire des grands prêtres d’Amon de Karnak, 161-162. 52. Ibid., 128. 53. Nella confessione negativa, Libro dei morti, 125 A, frase 6, il defunto dichiara: «Non ho costretto ogni giorno la gente a lavorare oltre quello che poteva fare». 54. Maspero, Histoire, II, 540-541; Pap. di Torino, 42, 2-3, 46-17. 55. Wr. Atl., I, 200. 56. Daressy, «Une flottille phénicienne, d’après une peinture égyptienne», Revue archeologique, 1895, 286-292 e tavv. 14-15; Montet, Réliques de l’art syrien, 12. 57. Urk., I, 157; Sottas, Étude critique sur un acte de vente immobilière au temps des pyramides, Paris 1913. 58. Gardiner, «Four papyri of the 18th dynasty from Kahun», AZ, 1906, 27-48. 59. Gardiner, The Chester Beatty papyri, n. 1, London 1931. 43-44. 60. Pap. 10052 del Br. Mus., tav. 11, 14-30; Pap. 10053, V°, tav. 111, 6-16. 61. Pap. Chester Beatty, I, V° D e 43. 62. Gardiner, «A lawsuit arising from the purchase of two slaves», J.E.A., 1935, 142. 63. Ounamon, II, 40-42 (Bibl. æg., I).

VII

I viaggi

Gli spostamenti all’interno del paese Contrariamente all’opinione generalmente diffusa, gli antichi Egizi viaggiavano molto. Fra i villaggi e il capoluogo del nomo, fra i capoluoghi e la residenza centrale gli andirivieni erano continui. Le grandi feste religiose richiamavano pellegrini da tutto l’Egitto. Alcune città come Coptos, Silè, Sunu, Pi-Ramses, Menfi erano animate in tutte le stagioni da viaggiatori che partivano per miniere e cave, verso le oasi, verso l’Asia e la Nubia e tornavano carichi di prodotti stranieri. I meno privilegiati conoscevano come modo di viaggiare solo il sistema che Jean-Jacques Rousseau riteneva il più gradevole di tutti, andavano a piedi. Sceglievano un abbigliamento leggero: un bastone, un perizoma e dei sandali. 1 Sinuhit non aveva con sé niente di più quando, temendo di essere in pericolo di vita, attraversò il Delta da ovest a est facendo numerosi zig-zag per raggiungere i Laghi Amari. Chiamato dal fratello Anupu, lasciò il suo villaggio con un bastone, dei sandali e una veste e delle armi e raggiunse la valle dell’albero Ash, nei pressi di Biblo. 2 Il contadino dell’oasi del sale che si recava a Nen-nisut camminava a piedi dietro gli asini carichi di ogni specie di prodotti. Avrebbe avuto la risorsa di salire su uno di essi, a rischio di provocare, come il mugnaio di La Fontaine, l’irrisione dei passanti. Ebbe una sorte penosa perché un individuo che abitava in una località isolata e non era alla prima esperienza come bandito lo saccheggiò facilmente. I soldati erano il terrore dei viaggiatori. Quando incontravano un uomo privo di armi, con un sacco di farina e i suoi bei sandali in mano, avevano l’abitudine di derubarlo lasciandolo nudo per la strada. Uni prese delle misure per vietare questi abusi. 3 Un nomarco di Siut sostiene che ai suoi tempi il viaggiatore sorpreso dalla notte poteva addormentarsi tranquillamente lasciando al proprio fianco, in strada, le sue provviste e le sue capre. Gli bastava, come protezione, la paura che ispiravano i suoi gendarmi. 4 Gli crediamo, ma le precauzioni che alcuni amministratori prendevano dimostrano proprio l’esistenza del brigantaggio e dunque dei rischi corsi dai viaggiatori.

Le strade erano numerose, almeno quanto i canali, perché tutte le volte che si scavava un canale, i residui dello scavo permettevano di fare una massicciata di terra alta tanto da non essere sommersa al tempo dell’inondazione. La manutenzione dei canali veniva assicurata insieme a quella delle strade. Occupandosi dei primi ci si procurava la terra per riparare le brecce delle seconde. Queste dighe servivano alla circolazione dei pedoni, agli andirivieni delle greggi e delle mandrie, al trascinamento delle barche. Non conosciamo nessuna parola egizia che significhi «ponte», ma esiste almeno un disegno di un ponte sul bassorilievo che rappresenta il ritorno di Seti I dopo la sua campagna trionfale in Palestina. Gettato su un lago dalle rive coperte di canneti e popolato di coccodrilli, questo ponte collegava due edifici militari, uno sulla riva asiatica e l’altro su quella africana. 5 Doveva essere fatto di pilastri, architravi e tavole. Evidentemente non furono mai lanciati ponti sul grande Nilo e nemmeno sui rami secondari del Delta. Nemmeno sui canali i ponti di pietra o di legno dovettero essere numerosi. Quando si trattava di attraversare un canale o una palude poco profonda bestie e persone non esitavano a entrare nell’acqua. Molti Egizi sapevano nuotare. I Tentiristi si tuffavano nel Nilo e lo attraversavano tranquillamente senza temere i coccodrilli ma non tutti erano in grado di farlo. 6 I cacciatori di uccelli acquatici e i pescatori avevano, secondo la satira dei mestieri, una gran paura del mostro. Per i personaggi più importanti far varcare le acque a chi non aveva una barca era un dovere imperioso come quello di dare pane agli affamati e vestire gli ignudi. A Tebe e nelle grandi città, quello di traghettatore era un mestiere. Un passatore accusato di essere complice dei ladri di tombe venne chiamato in tribunale. 7 Gli dèi che si erano ritirati nell’isola di mezzo ordinarono al passatore, il dio Anti, di rifiutarsi di traghettare Iside. 8 Sinuhit in fuga trovò sulla riva un canotto senza timone e se ne impadronì per attraversare il fiume. Per gli spostamenti brevi, i ricchi utilizzarono a lungo la portantina. Era uno strumento pomposo ma lento, dispendioso e scomodo. I portatori cantavano al ritmo dei loro passi: «La preferiamo piena che vuota»; ma bisognava pagarli, o almeno nutrirli. 9 Durante il Nuovo Impero, il re saliva in portantina solo in occasione di certe cerimonie. Così fece Horonemheb per celebrare il suo trionfo. Normalmente il re, come i privati, preferiva il carro. Carro e cavalli erano articoli abbastanza di lusso ma facevano parte di quel patrimonio che chiunque augura agli amici e desidera per sé: «Tu possiedi un

equipaggio, con una frusta d’oro in mano. Hai delle redini nuove. Hai attaccato dei puledri di Siria. I neri corrono davanti a te secondo le tue indicazioni». 10 Il secondo profeta di Amon, Amenhotep-sisé, si prepara a fare una passeggiata. 11 Il suo carro elegante e solido decorato con figure in bassorilievo e a tutto tondo è trainato da due cavalli, privi di morso e di paraocchi. La bardatura per il cavallo comprendeva principalmente due grandi strisce di cuoio, una applicata in mezzo al collo, molto fastidiosa per il cavallo, l’altra che passava sotto il corpo, e una cavezza alla quale erano attaccate le redini. Amenhotep-sisé guidava personalmente i cavalli, senza scudiero, preceduto da servi. Una squadra di shemsu lo segue senza troppo sforzo portando tutto ciò che sarà necessario al signore quando vorrà riposare e fare un po’ di toilette. Un carro era utile per fare visita al palazzo del re o del visir, per un giro d’ispezione in campagna, per andare a caccia. Non permetteva di spingersi molto lontano in buone condizioni. Il vero mezzo di trasporto nell’antico Egitto era la nave. Il fanciullo reale Dedefhor parte in battello da Menfi, passa per Khentkhetyt, per spingersi nel Nord a visitare un indovino che abita a Dedi-Snefru e sempre in barca lo porta a corte. Quando Sinuhit, graziato, riceve il suo lasciapassare per le Vie di Horo percorre in battello l’intera distanza che separa l’istmo di Suez dalla residenza di Ity-taui a Sud di Menfi. Occupa il tempo del viaggio consumando buoni pasti confezionati sotto i suoi occhi. Quando un Egizio andava ad Abido in pellegrinaggio mobilitava spesso un’intera flottiglia. 12 I passeggeri salivano su una barca di tipo arcaico, molto rialzata davanti e didietro. Lo scopo del viaggio non aveva evidentemente niente di profano. I passeggeri si accomodavano su sedili in una cabina a forma di naos, come in un chiosco di giardino. Davanti alla cabina c’era un tavolino con dei cibi. La parte anteriore serviva da macello e da cucina. Si faceva a pezzi il bue, si preparava la birra per offrire ai viaggiatori il piacere di consumarla fresca. Questa barca che non aveva né remi né vele era rimorchiata da una barca motrice. Il suo equipaggio era composto solo da due marinai, uno preposto al cavo d’attacco di cui regolava l’estensione e l’altro alla manovra dei due timoni di legno dipinto che finivano con una testa di Hathor, signora dei paesi lontani, protettrice dei viaggiatori. La barca motrice era dotata di un albero maestro consolidato da due gomene attaccate davanti e didietro. Il centro era occupato da una grande cabina adorna di una trabeazione, con le pareti coperte di dipinti. Il timone

poggiava su un piccolo albero maestro e su una tacca scavata nella parte posteriore. Il pilota lo manovrava con un braccio. Talvolta sulla pala erano dipinti due occhi, organi molto utili a un timone che doveva evitare gli ostacoli. Quando si scendeva lungo la corrente o si attraversavano grandi distese d’acqua e non c’era vento non si poteva evitare di remare. I rematori potevano essere dieci o dodici, spesso di più. Il capitano, a prua, reggeva una grande picca che gli permetteva di sondare il fondale. Il secondo stava sul tetto della cabina con una frusta con la quale di tanto in tanto accarezzava le spalle dei rematori pigri. Lo stato maggiore era completato dal pilota. Se si risaliva la corrente si alzava la vela unica, una grande tela rettangolare spesso più larga che alta, tesa fra due pennoni, che si manovrava con numerose corde. I rematori restavano sui loro banchi. I capi si arrampicavano su per le corde, per osservare meglio. Finché si navigava sul Nilo si poteva sperare in un viaggio relativamente rapido e senza storia. Se si doveva entrare nei canali, che non erano navigabili in tutte le stagioni, bisognava informarsi. Il re Khufu voleva andare al tempio di Ra, signore di Sakhebu, in una località nel secondo nomo del Delta, ma nel canale dei due pesci non c’era acqua. Il suo amico mago gli promette: «Farò venire quattro cubiti d’acqua nel canale dei due pesci». Uni, che non aveva maghi al suo servizio, era però riuscito a viaggiare in barca nella stagione della secca. Il lago Meris era stato destinato proprio a fornire acqua sia all’agricoltura sia alla navigazione ma ignoriamo con quale meccanismo. Le barche che risalivano il Nilo fino alla Nubia erano vere e proprie case galleggianti. La dahabieh del fanciullo reale di Kush era una lunga barca a forma di mezzaluna che non si immergeva nell’acqua né davanti né didietro. 13 Un solo albero al centro sosteneva una vela immensa tramite numerosi cordami. Invece di un timone sull’asse, qui c’era un timone a babordo e uno a tribordo, non del tutto arretrato, attaccato a un grande palo e contro lo scafo. I passeggeri erano alloggiati in una grande cabina centrale a cui era annesso una specie di box per i cavalli. Due cabine più piccole si trovavano una davanti e una didietro. La proprietà era probabilmente estremamente parcellizzata. I ricchi tebani avevano beni nel Delta. Amon possedeva fattorie e persino città non solo in tutto l’Egitto ma anche in Nubia e in Siria. Il tempio di Abido fondato da Seti aveva proprietà in Nubia. Queste grandi collettività e i ricchi privati disponevano, per centralizzare le loro risorse, importare ed esportare, di una

vera e propria flottiglia composta da grandi barche a fondo piatto anch’esse a forma di mezzaluna dotate di una o due cabine nella parte centrale. 14 I documenti pittorici ci danno solo un’idea incompleta del numero e della varietà delle barche che scendevano e risalivano il Nilo, perché i termini che significano barca nella lingua egizia erano moltissimi. Esistevano chiatte per il trasporto dei grossi blocchi provenienti dalle cave, degli obelischi, delle statue colossali. Una statua di Thutmose III fu oggetto, in occasione del suo trasporto, di riguardi davvero degni di un re. Era ospitata in un naos e incensata. La barca che la conteneva era attaccata a una barca motrice. 15 Chiatte senza cabina servivano soprattutto al trasporto del bestiame. Le barche con cabina centrale servivano al trasporto dei cereali. Le barche erano spinte verso le banchine; poi si sistemava un piano inclinato dotato di traverse distanziate a intervalli regolari. I portatori si schieravano in colonna uno per uno e svuotavano i loro cesti cantando per marciare al passo e ingannare la noia: «Passeremo la giornata a trasportare l’orzo e il bôti? È giorno. I granai sono strapieni. Ci sono dei mucchi pronti per la loro bocca. Le navi sono così cariche che l’orzo scivola fuori. Si vorrebbe che facessimo più in fretta. Davvero, i nostri cuori sono di metallo?». 16 Quando la flottiglia arrivava a destinazione il piano inclinato veniva risistemato. Il bestiame e le merci venivano scaricati sulla banchina. I mercanti arrivavano, allestivano un tavolo o delle scansie, accendevano un fornello e i marinai, bevendo e mangiando, festeggiavano la fine del viaggio.

I viaggi nel deserto Il deserto ispirava agli Egizi paura e rispetto. Essi non avevano dimenticato che i loro antenati l’avevano percorso in lungo e in largo prima di stabilirsi nella valle del Nilo. Una delle loro divinità più importanti, Min, che aveva i suoi principali luoghi di culto a Ipu e a Coptos, regnava su tutta la regione compresa fra questa città e il mar Rosso. La sua residenza preferita era «una montagna venerabile, primordiale, la prima fra le terre degli Akhetiu (l’Akhit era chiamato il paese posto al di là delle terre conosciute dagli Egizi), il palazzo divino dotato della vita di Horo, nido divino dove prospera questo dio, sua fortezza sacra di divertimento che è la regina delle montagne della terra divina». 17 Ogni specie di rischi insidiava il viaggiatore che si

avventurava impreparato in quel territorio sacro: la fame, la sete e i brutti incontri. Il leone, che un tempo si spingeva fin nei pressi della valle del Nilo ad attaccare i buoi, era scomparso, ma il lupo, la pantera, il leopardo, erano ancora presenti, e temibili. Un giorno Horemheb si trovò di fronte una iena di grandi dimensioni. Quel guerriero, per fortuna, ne aveva già viste altre e non era disarmato. Tese il braccio sinistro verso il mostro tenendo la picca con la mano destra e guardandolo fisso lo costrinse a fare marcia indietro. 18 La regione a est di Eliopoli era infestata dai serpenti che si nascondevano nella sabbia. Certi viaggiatori avevano intravisto esseri strani, grifi con una testa umana sulla schiena, pantere alate, ghepardi con il collo più lungo di una giraffa, levrieri con le orecchie quadrate e la coda eretta come una freccia. 19 Si potevano incontrare le tribù beduine, come quella che una volta si presentò al principe di Menat Khufu. Essa comprendeva guerrieri con giavellotti, archi e frecce, donne e bambini, guidati da uno sceicco e da un sacerdote che suonava la cetra. 20 Quella tribù era pacifica e voleva solo scambiare le polveri verde e nera con le quali si fabbricavano ciprie per trucco e colliri con del grano. Ma altri Beduini pensavano solo al saccheggio. Per garantire la sicurezza dei viaggiatori del deserto si era pensato ad allestire delle cappelle. In una di esse è stato scoperto, sul limitare delle piste che vanno da Eliopoli al mar Rosso, un gruppo scolpito rappresentante Ramses III e una dea, coperto di iscrizioni per la maggior parte tratte da una vecchia raccolta dove si parla delle mogli di Horo. 21 I viaggiatori se ne erano in grado leggevano le iscrizioni: forse era sufficiente che le guardassero o le toccassero. Poi continuavano per la loro strada certi di beneficiare degli sguardi che gli dèi tenevano fissi sul re stesso. Talvolta però si perdevano nel deserto: perché non erano riusciti a garantirsi la protezione degli dèi o perché non avevano avuto comunque la mano felice. «Il mio signore – dice un certo Antef, il quale sotto Amenemhat I aveva avuto l’incarico di raggiungere le cave di bekhen – mi aveva inviato a Rohanu per portare indietro questa pietra meravigliosa quale nessuno ne ha trovato di simile dai tempi del dio. Nessun cacciatore ha mai scoperto la sua posizione né è riuscito a raggiungerla. Ed ecco che sono otto giorni che percorro questo deserto e non riesco a trovarla. Mi sono prosternato davanti a Min, Mut la grande maga e a tutti gli dèi del deserto. Per loro ho bruciato del terebinto. La terra si illuminò il mattino e venne un secondo giorno e noi apparimmo su questa montagna del Rohanu superiore.» 22 Il capo aggiunse

che il suo gruppo non si disperse nel corso di quei percorsi erranti e non dovette lamentare nessuna morte. Ma tutti l’avevano scampata bella. Quel bravo ingegnere aveva fatto l’apprendistato alla vita nel deserto a proprie spese. Certi Egizi passavano tutta la vita a fare l’inventario delle risorse e delle vie d’accesso al deserto, probabilmente perché amavano la vita nomade. Un certo Sankh, capo dei soldati del deserto, intendente per l’Egitto, capo degli arpionatori del fiume, dirigeva delle spedizioni nelle quali aveva costituito un tale approvvigionamento in otri, abiti, pane, birra e verdure fresche che parve avere trasformato la valle di Rohanu in una verde radura e la montagna di bekhen in una distesa d’acqua. A sessant’anni, capo di una famiglia che, come quella del patriarca Giacobbe, comprendeva settanta giovani, percorreva ancora il deserto da Taâu a Menat Khufu fino al Grande Verde [il mare] cacciando uccelli e mammiferi. 23 A questi esploratori infaticabili dobbiamo le carte come quella posseduta dal museo di Torino che giustamente sono state definite le più antiche del mondo. Esse sono state disegnate a partire dalla regione delle cave e delle miniere d’oro dette di Coptos. Le terre pianeggianti sono dipinte in rosso vivo, le montagne in ocra scuro. Dei passi disseminati lungo le piste indicano la direzione. Un castello indicava la sede delle rovine dove il re Seti aveva innalzato una stele. 24 Abbiamo parlato degli sforzi di Seti e di suo figlio per trovare dell’acqua in quel paese della sete. Ramses III ricorda orgogliosamente di avere fatto costruire una grande cisterna nel deserto di Ayan facendola circondare da mura solide come una montagna di bronzo... I portali dell’ingresso erano d’abete, le serrature e i catenacci di bronzo. 25 In alcuni uadi del deserto orientale spuntava un albero prezioso, il terebinto, la cui resina, sonté, veniva arsa nei templi, nei palazzi e nelle case. Ma l’incenso, che si acquistava nel paese di Punt, era più gradito agli dèi. Quando finalmente il naufrago si convinse che il serpente che regnava sull’isola dove era stato gettato dalla tempesta era meno malvagio di quanto sembrava, gli promise della resina di terebinto. Ma il serpente, sorridendo di quella ingenuità, gli rispose: «Tu non hai molto incenso, pur essendo entrato in possesso del terebinto. Ma io, sono il sovrano di Punt!». 26 L’incenso non era sempre disponibile ma se questo mancava la resina di terebinto, gettata sulle braci accese degli incensieri, produceva un odore grato alle narici degli dèi e anche a quelle degli uomini. Non era superfluo bruciarla quando si abbattevano gli animali nei cortili dei templi e anche nelle case la si usava per

disinfettare gli appartamenti, lottare contro gli insetti e le infezioni e anche per la toilette. Le api amavano frequentare le radure di terebinto. Due specie di cacciatori si radunavano intorno a esse: gli uni raccoglievano la resina e le talee che sarebbero state interrate nei giardini dei templi, gli altri il miele selvatico di cui si faceva grande uso. Ramses III aveva creato dei corpi di polizia e di arcieri per scortare quelle carovane. Grazie a lui i viaggiatori si sentivano sicuri nel deserto inospitale, come nel To-mery, la terra amata. 27

I viaggi a Biblo Gli Egizi concepivano il mare, iôm, come un dio bramoso. Quando scorse la bella creatura che gli dèi avevano assegnato a Bytau come compagna, questo dio Iôm invase le terre per ghermirla, essi però, che non arretravano davanti ai pericoli del deserto, osavano affrontare anche questo dio terribile. I loro marinai conoscevano bene la riva siriana. Ai tempi in cui gli dèi vivevano ancora sulla terra, la bara di Osiride, gettata nel Nilo da Seth, era scesa lungo il ramo tanitico. Il mare l’aveva respinta fino a Biblo dove un albero l’aveva accolta. Iside si recò in quel luogo miracoloso. Si mise accanto a una fontana nell’ora in cui le serve della regina venivano a riempire le giare, acconciò loro la capigliatura e fece loro sentire l’odore squisito che emanava dalla sua persona. Sedotta da tanta gentilezza, la regina di Biblo rese alla dea l’albero sacro che conteneva il corpo del suo sposo. Le relazioni, iniziate così felicemente, non si sarebbero mai interrotte. Gli Egizi sbarcavano nel piccolo porto di Keben portando offerte per la signora di Biblo e le costruirono un tempio con l’aiuto degli abitanti del luogo. Al re offrivano doni di benvenuto, vasi di alabastro, gioielli, amuleti e se ne andavano con la resina, tavole e assi e persino navi completamente equipaggiate: infatti il termine kebenit, derivato dal nome egizio di Biblo, Keben, indica solo le navi che navigano in mare. Gli Egizi e gli Asiatici si battevano ovunque si incontrassero, sul Sinai come in Palestina, sul Carmelo, nel Retenu superiore, ma in Siria c’era un luogo, uno solo, dove i primi erano bene accolti: era Biblo. Una volta degli Egizi vi furono massacrati, ma gli autori dell’attentato non erano commercianti né marinai del posto ma Arabi, avventurieri delle sabbie, gli eterni e perfidi nemici dell’Egitto. 28 Con il tempo gli Egizi avevano ampliato la loro zona d’influenza. Le loro

spedizioni ai tempi dell’Impero di Mezzo andavano da Beirut a Qatna, a Ugarit e lasciavano in ricordo del loro passaggio statue e sfingi. Ma Biblo mantenne sempre un posto privilegiato. I suoi re erano fieri di detenere il titolo di principe egizio e della loro cultura egizia. Si facevano edificare tombe a imitazione di quelle faraoniche popolandole secondo le idee egizie e in parte con oggetti preziosi direttamente inviati da Ity-taui. Non sappiamo se, durante l’invasione degli Hyksos, gli abitanti di Biblo abbiano tradito i loro amici caduti in disgrazia. In ogni caso, i viaggi marittimi furono interrotti e le persone pie si dovettero chiedere come procurarsi gli abeti âsh il cui legname serviva per fare i sarcofagi dei sacerdoti e la resina per imbalsamarli. Il ritiro dai commerci ebbe altre gravi conseguenze, perché le barche sacre, gli alberi maestri con le banderuole eretti davanti ai templi, che superavano di molti cubiti le trabeazioni dei pilastri, e molti altri mobili e oggetti erano di legno d’abete. Ma quei tempi odiosi lasciarono il posto a tempi migliori. Appena l’Egitto ebbe ripreso possesso del suo territorio, tornò a Biblo. Thutmose III vi fece tappa durante le sue campagne trionfali e ottenne dal suo alleato più legname e più imbarcazioni di quanti gli antichi Faraoni avessero mai chiesto. Più tardi, quando la Siria complottò con i nemici dell’Egitto, Ribaddi restò fedele ad Amenhotep III e al suo successore. Ramses II fece incidere delle stele distribuite lungo il fiume del Cane, fra Beirut e Biblo. Nella valle dell’Ash, dove un narratore del suo tempo aveva ambientato le avventure di Bytau, fondò una città cui diede il suo nome. Nella stessa Biblo, nel tempio, fece innalzare delle stele. A quei tempi il re di Biblo si chiamava Ahiram. Come tutti i suoi sudditi, parlava e scriveva l’egizio e per la sua lingua usava una scrittura alfabetica inventata forse nella stessa Biblo derivata dalla scrittura ieratica semplificata. 29 I Faraoni guerrieri della XVIII dinastia insistettero sul fatto che i loro messaggeri percorrevano la Siria in tutte le direzioni senza essere molestati. Certamente quei messaggeri erano ricevuti amichevolmente a Biblo ma un po’ più tardi, sotto gli ultimi Ramessidi e agli inizi della XXI dinastia, le cose erano molto cambiate. Il re Zekerbaal, lontano successore di Melcandro che era stato così cortese con Iside, non esitò a proporre all’inviato egizio di mostrargli le tombe di numerosi messaggeri di Khaemhat, il decimo dei Ramessidi, che erano morti a Biblo dopo lunga prigionia. 30 Unamon, più fortunato, ottenne, dando prova di pazienza, di lasciare il porto con il suo carico di legname ma dovette il suo successo alla protezione del dio Amon-

del-viaggio che aveva avuto la buona idea di mettere nei suoi bagagli. Il caso di Unamon, bisogna riconoscerlo, era comunque piuttosto speciale. Incaricato dal gran sacerdote di Amon di procurarsi un oggetto di legno per la nave sacra del dio, l’Amonusirhat che, in piena stagione delle inondazioni, navigava sul Nilo fra Karnak e Luxor, fra le acclamazioni di una folla immensa, si era innanzitutto recato a Tanis, presso Smendes e sua moglie Tentamon che non erano ancora riconosciuti come re e regina ma erano già signori del paese. Gli fu data una barca attrezzata comandata dal capitano Mengabuti e meno di quindici giorni dopo egli entrò nel gran mare di Siria. Fece scalo a Dor, la città dei Saccali, e mentre faceva salire a bordo un po’ di provviste, dieci cesti di pane, una giara di vino, una spalla di bue, uno dei suoi marinai disertò con il tesoro, cinque deben d’oro e trentuno d’argento. Sconvolto, Unamon scese e andò a trovare il re del paese, Badil, e lo mise al corrente della disavventura: «Che tu sia di buono o di cattivo umore – gli rispose il Saccalo – non ne so niente del caso di cui mi parli. Se dunque il ladro che è sceso dalla tua nave e ha preso il tuo denaro è un uomo del mio paese, ti rimborserò con il mio tesoro in attesa che trovi il ladro in persona, ma se colui che ti ha derubato è uno dei tuoi, se fa parte del tuo equipaggio, resta qui qualche giorno in modo che io lo possa cercare!». La risposta era onesta ma di lì a nove giorni non erano ancora stati trovati né il ladro né il denaro. Unamon riuscì a prendere in prestito trenta deben d’argento e sbarcò a Biblo su un’imbarcazione che aveva trovato a Tiro. Il re Zekerbaal rifiutò di riceverlo per ventinove giorni. Si decise a farlo solo quando il dio tebano Amon, che si era impadronito di un uomo del seguito, parlò per bocca sua e gli ordinò: «Porta il dio dell’alto. Porta il dio messaggero di Amon che è con lui. Mandalo. Lascialo partire». L’indomani Unamon salì a palazzo e trovò il re assiso sul suo trono che girava la schiena al balcone dietro al quale si frangevano le onde del grande mare di Siria. L’incontro non fu cordiale. I fatti davano torto a Unamon. Invece di arrivare come un messaggero ufficiale in una nave armata da Smendes e di esibire le sue credenziali, era sceso da una nave qualsiasi presa a nolo, senza carte. Unamon riuscì a spiegare che era venuto ad acquistare il legname per la barca sacra di Amonrasonter. Il re rispose: «Un tempo i miei eseguirono questa missione perché il Faraone, Vita, Salute, Forza, mandava sei navi cariche di prodotti dell’Egitto che erano poi venduti nei miei magazzini. Forse che tu mi porterai mai quanto mi è dovuto?». La discussione continuò in questi termini:

«Fece portare il libro di ragione dei suoi padri e lo fece leggere in mia presenza. Sul suo libro si trovarono in tutto mille deben d’argento. Mi disse: “Se il sovrano d’Egitto fosse il mio signore e io il suo servitore non avrebbe mandato oro e argento per dire: ‘Fa’ quel che ti comanda Amon’ senza portare i barakat perché è quello che faceva a mio padre. Ma io, certamente, non sono tuo servitore, non sono il servitore di chi ti ha mandato...”». Unamon rispose esaltando la potenza di Amonrasonter, signore della vita e della salute. «Signore dei tuoi padri», disse al re, «che hanno trascorso la vita a servire Amon. E anche tu – continuò l’inviato – sei servo di Amon. Se tu dici, io farò, io faccio per Amon se ti occupi del suo caso vivrai sano e in buona salute sempre. Sarai il benefattore di tutto il suo paese. I tuoi uomini ti augureranno le cose di Amonrasonter.» Dopo questa conversazione, Zekerbaal caricò su una nave una testa di prua, una testa di poppa, un altro pezzo di legno e quattro travi che inviò in Egitto con una lettera di Unamon. Smendes e Tentamon ricambiarono con merci varie, oro e argento. Unamon, personalmente, ricevette il necessario per vestirsi e mangiare. Il re era soddisfatto. In mancanza delle benedizioni di Amon, di cui il messaggero pretendeva che egli si accontentasse, e senza preoccuparsi molto delle sue minacce, immagazzinò le merci egizie, convocò trecento uomini, altrettanti buoi e diede loro dei capi. Fece abbattere degli alberi e, finito l’inverno, li fece trascinare sulla riva. A questo punto sembrava che Unamon dovesse partire con il suo legname: ma le cose non erano così semplici. Zekerbaal non riteneva di essere stato pagato adeguatamente. Unamon, serissimo, lo sfidò a fare incidere su una stele: «Amonrasonter mi ha inviato un messaggero, Amon-del-viaggio, Vita, Salute, Forza, con Unamon, suo messaggero umano, per il legname della nave sacra di Amonrasonter. Io l’ho tagliato. L’ho fatto caricare. L’ho trasportato con le mie navi e i miei equipaggi. Ho fatto loro raggiungere l’Egitto per ottenere cinquant’anni di vita più di quanti non mi spettassero per destino. Così sia!». «Più tardi – aggiunse l’arguto Unamon – quando un altro Egizio leggerà questa stele, tu riceverai l’acqua dell’Amentit e di tutti gli dèi che ci vivono!» È giusto, concesse il re sconfitto, e Umamon promise che il primo profeta di Amon, dopo un circostanziato rapporto in proposito, gli avrebbe mandato dei doni. I commentatori moderni in genere hanno fatto osservare come questo racconto riveli che l’Egitto era debole e disprezzato ai tempi di Smendes. Anche all’epoca del suo potere, tuttavia, il Faraone non aveva mai ritenuto il

re di Biblo un vinto, uno schiavo costretto a consegnare gratuitamente il suo legname. Il messaggero egizio si presentava con lettere ufficiali, con oro e argento, con merci. Il re di Biblo incassava e consegnava il legname. Poi ci si scambiavano benedizioni e ringraziamenti. Il Faraone aggiungeva dei doni che non gli costavano niente, come degli amuleti o una sua statua. Il re di Biblo, lusingato, riceveva la statua e vi faceva incidere in fenicio l’auspicio che la dea di Biblo gli aumentasse gli anni di regno. Le cose andavano avanti così dai tempi del dio. Uscendo dal porto di Biblo, Unamon sfuggì fortunosamente ai Saccali che gli avevano teso un trabocchetto, poi cadde nelle mani dei Ciprioti che lo volevano uccidere. Il papiro è lacerato verso la fine, quindi non sappiamo come si sia sottratto a quest’ultimo pericolo ma evidentemente ci riuscì. I popoli del mare cominciarono a far parlare di sé sotto il regno di Ramses II. Fin da quei tempi, la loro presenza costituì per i navigatori egizi un pericolo supplementare, anche se i traffici non si interruppero mai veramente. Abbiamo una testimonianza precisa di Ramses III in proposito: «Io ti [ad Amon] ho fatto edificare barche, mezzi di trasporto, battelli con archi e con tutta l’attrezzatura, sul Grande Verde. Li ho riforniti di capi degli arcieri, di capitani accompagnati da numeroso equipaggio, senza lesinare, per trasportare i beni della terra di Fenicia e dei paesi stranieri dalle estremità della terra ai tuoi grandi magazzini in Tebe la vittoriosa». 31 Notiamo che il Faraone non contava solo su Amon. Compagnie di arcieri adeguatamente comandate e bene armate dovevano difendere le navi da ogni aggressione e far rispettare a terra i messaggeri.

I viaggi nel mar Rosso La destinazione dei viaggi nel mar Rosso era il paese di Punt al di là dello stretto di Bab el-Mandeb, sulla costa dei Somali, di fronte alla costa araba. Era il paese dell’incenso. Il buon serpente che conosciamo grazie al racconto del naufrago si proclama sovrano di Punt e signore dell’incenso ânti. Gli Egizi frequentavano Punt fin dai tempi del dio. Avevano anche organizzato, fin dai tempi dell’Impero Antico, una linea di navigazione che collegava Biblo sulla costa siriana alla riva di Punt, gli Scali dell’abete agli Scali dell’incenso. 32 Le navi partivano da Biblo, raggiungevano il litorale egizio,

risalivano il ramo tanitico del Nilo fino a Bubaste, raggiungevano attraverso un canale lo uadi Tumilat che può essere considerato come il ramo più orientale. L’uadi non era navigabile tutto l’anno ma poteva, nelle epoche di piena, trascinare le galere degli Egizi che affondavano assai poco nell’acqua. Attraversando i Laghi Amari, le galere raggiungevano il fondo del golfo di Suez e proseguivano la loro lenta navigazione fino al paese di Punt. I Beduini-che-sono-nelle-sabbie che, per quanto barbari, trasportavano viaggiatori e merci dalla Siria all’Arabia per via di terra, tentarono di impedire il funzionamento della linea marittima. Pepi I inviò varie spedizioni contro i Beduini ma gli attentati ripresero ogni volta. Sembra che dopo il regno di Pepi II i re abbiano rinunciato per un certo periodo ai viaggi, che ripresero sotto l’Impero di Mezzo e furono ancora interrotti durante l’occupazione degli Hyksos. La regina Hatshepsut ne riprese la tradizione che dopo di lei fu mantenuta da Thutmose III, Amenofis II, Horonemheb, Ramses II e Ramses III. 33 Per porre la sua residenza del Delta in collegamento con il mar Rosso, Ramses II restaurò a caro prezzo il canale dei due mari di cui si sono trovate le tracce scavando il canale attuale. Lungo quel canale sorgevano le città di Pi-Ramses, Bubaste e Pithom e stele di granito erette su un alto piedestallo che spiegavano ai meravigliati navigatori la gloria del re e l’ardimento dei suoi disegni. 34 Supponiamo che le navi provenienti dalla Siria scaricassero viaggiatori e merci sulle banchine di Pi-Ramses e ne imbarcassero altri per il paese di Punt. Erano dei Kebenit, cioè delle navi di tipo fenicio, costruite a Biblo e vendute agli Egizi dai Libanesi oppure prodotte nei cantieri navali egizi ma con legnami importati dalla Siria e sul modello delle navi di Biblo stessa. Alcune rappresentazioni che le raffigurano sono giunte fino a noi. La più antica risale a Sahurê, la seconda alla regina Hatshepsut. 35 Ma nell’intervallo di più di un millennio che separa i due sovrani la tipologia delle navi quasi non si era trasformata. Un lungo scafo munito di uno sperone nella parte anteriore, in quella posteriore si innalzava e incurvava per finire in un’enorme ombrella. I posti d’osservazione erano due, uno davanti e l’altro didietro. Due anche i timoni, uno da ogni lato nei pressi della parte posteriore della nave. Un’enorme cordame sostenuto da quattro pali biforcuti collegava le due estremità dello scafo. Un unico albero maestro sostenuto da quattro corde si innalzava non lontano dal centro e sosteneva un’unica vela più larga che alta. L’equipaggio era numeroso perché appena il vento non gonfiava più la vela i

marinai correvano ai remi. Questi marinai erano uomini esperti «che avevano visto la terra, erano prudenti più delle fiere, sapevano prevedere la tempesta prima che scoppiasse». Rappresentanti di Sua Maestà, scribi, soldati viaggiavano con loro. La nave era carica dei prodotti egizi che gli indigeni di Punt apprezzavano di più, oggetti d’abbigliamento di lusso, specchi e armi. La flotta partiva salutata dal re, entrava nei canali, superava Pitum dove gli Ebrei penavano a fare mattoni e raggiungeva il Grande Verde. Sull’una o sull’altra delle due rive della Terra divina una sentinella aveva visto le navi egizie e ne annunciava l’arrivo. Il re, la regina e i capi uscivano dalle capanne costruite su palafitte in una laguna, salivano su asini e andavano incontro ai viaggiatori. Gli abitanti del luogo erano alti come gli Egizi, ma con le spalle larghe e la testa rotonda. Avevano le barbe intrecciate come quelle degli dèi della valle del Nilo e dei Faraoni. La sola differenza era che la loro barba era naturale e quella degli Egizi posticcia. Portavano al collo un medaglione rotondo come quello di moda presso i Siriani. La regina era una persona assai strana: è rappresentata come un ammasso di carni tremolanti di cui ci si chiede come facesse a camminare. Sua figlia, benché giovane, non era molto diversa. I disegnatori egizi guardavano con gli occhi sgranati quel mondo nuovo per loro. Avranno annotato un abbozzo dei loro ospiti su un pezzo di papiro, in fretta, o avranno atteso di essere smontati da bordo per fissare il ricordo della spedizione? È certo, comunque, che ne avevano un quadro vivissimo e che hanno riprodotto con scrupolosa fedeltà tutto quello che meritava di essere annotato, il re, la regina, il villaggio e i suoi abitanti, i pesci e i crostacei. Subito veniva montata una tenda e si scambiavano frasi di benvenuto. Gli indigeni adoravano con rispetto Amon-Ra, il grande e antichissimo dio che si spingeva verso i paesi stranieri; erano lieti di incontrare gli Egizi e sapevano benissimo che cosa volevano. Fingevano però di stupirsi e chiedevano: «Per quale ragione vi siete spinti fino a questo paese ignoto agli uomini? Siete scesi dal cielo? Avete navigato per acqua o per terra? Com’è fertile la Terra divina che adesso calpestate! È Ra, il re di Tomery. Non c’è trono che sia lontano per Sua Maestà. Noi viviamo del respiro che Essa ci dà!». Secondo gli ordini del palazzo Vita, Salute e Forza ai sovrani venivano offerti del pane e della birra, del vino, carne e frutta e tutte le cose che si trovavano a Tomery. Diamo qui di seguito l’elenco delle cose che gli Egizi avrebbero portato

via: non perdevano certamente nel cambio. Tutti i bei tronchi di Tonutir, mucchi di grani d’incenso, alberi per l’incenso verde, ebano e avorio, oro fresco di Amu, tre profumi (tishepses, khasyt e ihmet), terebinto, collirio nero, due specie di scimmie, levrieri, pelli di pantera del sud, servi con i loro figli. Tutti prodotti preziosi ma dopo tutto anche le carovane che venivano dall’Alto Nilo portavano ebano, avorio, pelli di pantera e altri prodotti; ciò che invece esse non trasportavano e che valeva il viaggio, con le sue fatiche e i suoi pericoli, erano i grani d’incenso e soprattutto i trentun alberi da incenso imballati con le loro radici e la terra d’origine. Non ci stupiremo dunque che i fortunati navigatori siano stati accolti con acclamazioni quando sbarcarono ad Apit-esut. I portatori lieti di faticare al servizio del re, si rivolsero agli alberi vivi come a esseri sacri: «Siate felici con noi, alberi da incenso, che eravate nel Tonutir, nella proprietà di Amon che sarà la vostra residenza. Makarê (la regina) vi farà crescere nel suo giardino sui due lati del suo tempio, come suo padre ha ordinato». Gli abitanti di Punt avevano chiesto ai loro visitatori se fossero arrivati per via di terra o per via di mare. Per andare dall’Egitto a Punt effettivamente si poteva scegliere fra due itinerari. Prima dei Ramessidi e anche prima della regina Hatshepsut, sotto l’XI dinastia, un esploratore di nome Henu era andato dall’Egitto a Punt e ne era tornato viaggiando sia per terra sia in nave. Il suo signore l’aveva incaricato di acquistare incenso fresco dagli sceicchi del deserto. Probabilmente aveva sfruttato la paura che incuteva il Faraone. Il suo viaggio aveva dunque un duplice scopo, commerciale e politico: «Io sono partito da Coptos – egli disse – lungo la strada che aveva fissato sua Maestà. I soldati che erano con me appartenevano al sud, nella proprietà di Uabut, da Gebelin fino a Shabit. Tutte le funzioni reali, la gente di città e di campagna riunita marciava dietro di me. Gli esploratori aprivano la strada per abbattere i nemici del re. I figli del deserto facevano da guardie del corpo. Tutti i funzionari di Sua Maestà erano ai miei ordini. Essi corrispondevano con dei messaggeri. Con un unico ordine. Sua Maestà si collegava con milioni». «Partii con un esercito di tremila uomini. Ho trasformato la strada in fiume, il paese rosso in un angolo di radura. Ho dato un otre, un bastone, due giare d’acqua, venti pani a ogni uomo, tutti i giorni. Le giare erano trasportate da asini. Quando uno era stanco, lo sostituiva un altro. Ho fatto dodici cisterne nello uadi, due cisterne a Idahet, che misuravano venti cubiti per trenta. Ne ho fatta un’altra a Iaheteb che misurava dieci cubiti per lato, nel

punto dove le acque si incontravano. «E finalmente sono arrivato al Grande Verde. Ho fatto questa nave e l’ho equipaggiata completamente. Ho fatto per essa una grande offerta di buoi selvatici, di buoi africani e di bestiame piccolo. Dopo essere entrato nel Grande Verde ho fatto quello che aveva ordinato Sua Maestà e gli ho riportato indietro tutti i prodotti che avevo trovato sulle sue rive della Terra divina (Tonutir). Sono tornato passando per Uag e per Rohanu. Gli ho portato pietre magnifiche per le statue dei santuari. Mai cose simili erano giunte alla residenza reale. Mai niente di simile era stato fatto da nessuna persona conosciuta dal re dai tempi del Dio.» 36 Come si è visto, si era trattato di una spedizione molto impegnativa. Henu aveva attraversato il deserto con tremila uomini. Guidato dai figli del deserto e restando in collegamento con la residenza reale, si era diretto verso sud-est invece di prendere la strada più comune che andava diritto a Oriente. Scavando cisterne per la strada, era giunto al punto del litorale dove più tardi sarebbe sorto il piccolo porto di Berenice. Là aveva costruito una nave, a suo dire, certamente con materiali importati dal Libano e giunti via mare. Aveva raggiunto il paese di Punt, aveva visitato le due rive della Terra divina, acquistato incenso e tutti i prodotti di quei paesi. Sulla via del ritorno, la nave lo depositò a Qosseir da dove egli passò nella valle di Rohanu e si fermò non per riposare ma per preparare un carico di pietre destinate ad alimentare i laboratori degli scultori. Henu aveva impiegato davvero bene il suo tempo e aveva meritato che il suo nome fosse citato fra gli esploratori dell’antichità perché il romano Elio Gallo, sotto il regno di Augusto, fece molta fatica a ripeterne le imprese. 37 Approfittando dell’esperienza acquisita, le spedizioni di Punt sotto Ramses III utilizzavano sia la via di terra sia quella di mare. Questo re aveva organizzato le sue spedizioni senza risparmiare i mezzi. La flotta comprendeva molte grandi navi e le barche di scorta. Il personale era composto da marinai, arcieri, con i loro comandanti, e gli addetti all’approvvigionamento. Erano state imbarcate enormi quantità di viveri e di merci, per nutrire l’equipaggio e per facilitare i commerci. Secondo il cronista egizio, questa flotta non partì dal mar Rosso ma dal mare di Muqedi, che può essere solo il golfo Persico perché Mu-qedi, l’acqua del paese di Qede, nel Naharina, è il nome che gli Egizi davano all’Eufrate. 38 È possibile che Ramses III fosse riuscito a trascinare gli abeti del Libano fino

all’Eufrate come un tempo aveva fatto Thutmose III 39 e che avesse costruito una flotta sulle rive di quel fiume. Forse aveva trattato con il re di Babilonia per raggiungere un’intesa in base alla quale i suoi soldati e funzionari, giunti all’Eufrate, poterono imbarcarsi e continuare il viaggio su navi babilonesi. In ogni caso la flotta che portava gli inviati di Ramses III dovette scendere lungo l’Eufrate e circumnavigare l’enorme penisola arabica per raggiungere – senza incidenti, grazie al timore che il nome del Faraone ispirava – il paese di Punt. Le cose tutto sommato andarono come ai tempi della regina Hatshepsut. Gli Egizi presero contatto con gli indigeni, consegnarono loro i doni del Faraone, quindi caricarono le navi e le barche dei prodotti di Tonutir, di tutte le meraviglie misteriose delle sue montagne; soprattutto non dimenticarono l’incenso secco. Poi risalirono lungo il mar Rosso fino al golfo di Suez e raggiunsero la valle del Nilo attraverso il canale di Pithom. Ma nel frattempo i figli dei capi di Tonutir erano sbarcati nella regione di Berenice oppure in quella di Qosseir con i loro prodotti. Formarono una carovana, caricarono le merci sugli asini e anche sugli uomini e giunsero in perfette condizioni fino alla montagna di Coptos, si imbarcarono a Coptos per via di fiume e raggiunsero finalmente Tebe in festa. «Ci fu una sfilata dei prodotti e delle meraviglie – concluse il re – alla mia presenza. I figli dei loro principi salutavano la mia faccia, baciavano la terra, si prosternavano in mia presenza. Io li ho dati all’Enneade di tutti gli dèi di questo paese per soddisfare i loro principi al mattino.» Benché non lo si dica esplicitamente, si può ipotizzare che i carovanieri arrivassero a Coptos o a Tebe insieme a coloro che avevano continuato il viaggio in nave. La decisione di utilizzare due itinerari di viaggio aveva evidentemente lo scopo di aumentare le occasioni di ricevere i prodotti di Punt, perché grandi erano i rischi del viaggio per mare. Molte navi perirono trascinando con sé uomini e beni, senza che un solo sopravvissuto potesse raccontare come il naufrago poeta: «Sopravvenne la tempesta mentre eravamo nel Grande Verde prima che riuscissimo a toccare terra. Si levò il vento e poi raddoppiò. Spingeva un’ondata alta otto cubiti. Mi sono afferrato a una tavola. Ecco che la nave va a fondo. Di quelli che vi si trovavano non ne resta nemmeno uno!». Era un bel viaggio, ma gli Egizi sotto Ramses II ne avevano compiuti di ancor più remoti e più audaci, di cui gli autori classici avevano comunque

sentito parlare. Gli Egizi usavano da sempre la pietra blu, il lapislazzuli, che non si trova nei deserti africani. 40 Tutto il lapislazzuli noto agli antichi è stato fornito da un solo paese, la Battriana, dove si poteva arrivare dalla Siria e dall’Egitto per via di terra e forse ancor più comodamente scendendo lungo l’Indo e seguendo la costa, come dovette fare Nearco, fino alla foce dell’Eufrate. Gli Egizi non andavano in cerca del lapislazzuli nel suo territorio d’origine: si accontentavano di acquistarlo in una città detta Tefrer 41 che, se non m’inganno, è Sippar, città fortificata posta su un canale che collega il Tigri all’Eufrate, che in questa regione scorrono vicinissimi. In Egitto si sapeva che il lapis proveniva da Tefrer e il nome di questa città era dato anche a una pietra della stessa origine ma che non è stata identificata. Ora, un certo anno, il Faraone, che si trovava nel Naharina ed era intento a ricevere l’omaggio dei principi stranieri, vide venire verso di lui il re di Bakhtan, il re di Battriana in persona, che gli offrì la sua stessa figlia e dei bei doni, sollecitandone l’alleanza. Il Faraone accettò e rientrò a Tebe con la principessa. Qualche tempo dopo, un emissario del re di Bakhtan gli chiese udienza e informò il Faraone che la sorella della principessa era malata. Il Faraone mandò nel paese di Bakhtan uno dei suoi medici migliori, scelto dalla casa di vita, ma la principessa non guarì e un nuovo emissario rifece il lungo viaggio dal Bakhtan all’Egitto. Poiché il medico non aveva avuto successo, non restava altro da fare che inviare a Bakhtan un dio. Fu scelto il dio Khonsu, che regge i destini. Questi partì su una grande imbarcazione, scortato da cinque piccoli battelli, e arrivò a Bakhtan in un anno e cinque mesi, il che non è inverosimile se si pensa che la flottiglia dovette attraversare tutto il mar Rosso, circumnavigare l’Arabia, seguire la costa degli Ittiofagi e risalire l’Indo fino a un punto in cui i passeggeri potessero sbarcare per raggiungere la residenza del re di Bakhtan. Il dio vi rimase tre anni e nove mesi. Poi il re, un po’ a malincuore, gli permise di ripartire per l’Egitto con numerosi doni e una forte scorta di soldati e cavalli. Il primo messaggero di Bakhtan era arrivato a Tebe nell’anno XV. Il dio rientrò nella sua dimora nell’anno XXXIII. Nell’intervallo si situano il primo viaggio dell’emissario, il suo ritorno con il medico egizio, il secondo viaggio e il secondo ritorno con il dio e, infine, i tre anni e nove mesi di attesa del ritorno del dio in Egitto. La distanza fra Tebe e Bakhtan era stata coperta cinque volte. La stele del Louvre dove sono narrati questi avvenimenti ha tutto il tono di un documento ufficiale. 42 Esordisce con un protocollo reale i cui tre primi

nomi sono tratti dal protocollo di Thutmose IV, il primo sovrano del Nuovo Impero a sposare una principessa straniera, mentre i due cartigli sono identici a quelli di Ramses II. Non crediamo che questa sia una ragione valida per attribuire al documento una data tardiva considerando la storia completamente inventata. I re dell’antichità si scrivevano molto fra loro e i medici egizi erano molto richiesti all’estero. 43 Il ricordo delle spedizioni di Sesostris nel mare Eritreo era ancora vivo ai tempi di Alessandro Magno. 44 Non è affatto inverosimile che Ramses abbia voluto comunicare direttamente con il paese dal quale l’Egitto riceveva da secoli marmi preziosi e tanto apprezzati dagli scultori e dal pubblico. 1. Coffin texts, I, 10. 2. Orb., XIII, 1. 3. Uni, 19-20. 4. Siut, III, 10-11. 5. Maspero, Histoire, II, 123. 6. Strabone, XVII, 44. Alcuni dèi nuotatori sono rappresentati nella tomba di Merreruka e su una patera del generale di Busennes Undebaunded. 7. Papiro 10052 del Br. Mus., tav. XIII, 1-15. 8. Pap. Chester Beatty, I, V, 3-6 (Horo-Seth). 9. Montet, Vie privée..., 379-380. 10. Bibl. æg, VII, 37. Cfr. più sopra, p. 139. 11. Th. T.S., III, tav. VI. 12. Th. T.S., I, tav. XII; Miss. fr., V, 582, 517; Wr. Atl., I, 308. 13. Th. T.S., IV, tavv. XI-XII. 14. Th. T.S., IV. tavv. XXXII; Wr. Atl., I, 199, 323; El. Am., I, 29. 15. Wr. Atl., I, 129. 16. Paheri, tav. III. 17. Ham., 192. 18. Wr. Atl., 121; Miss. fr., V, 277 e tav. III. 19. Newberry, Beni-Hasan, I, tav. XXX, 11, tav. IV. 20. Wr. Atl., II, tav. VI. 21. Ann. S.A.E., XXXIX, 57. 22. Ham., 199. 23. Ham., I. 24. Riprodurre in Bibliothèque égyptologique, X, 183-230; cfr. Gardiner in The Cairo scientific journal, VIII, 41.

25. Pap. Harris, I, tav. 77-7-8. 26. Naufrago, 149-151. 27. Pap. Harris, I, tav. 28, 3-4, tav. 48, 2. 28. Montet, Le drame d’Avaris, 19-28, 35-43. 29. Montet, Byblos et l’Égypte, 236-237, 295-305. Dunand. Byblia Grammata, Beirut 1945. 30. Unamon, II, 51-52. Il racconto di Unamon si trova tradotto integralmente in Maspero, Contes populaires, IV ed., 217-230. 31. Pap. Harris, I, tav. VII, 8. 32. Montet, Le drame d’Avaris, 26-28. 33. Il documento principale sui viaggi degli Egizi nel paese di Punt si trova nel tempio di Hatshepsut a Deir el-Bahari (Naville, Deir el-Bahari, III, 69-86 e Urk., IV, 315-355). Per questi viaggi sotto Thutmose III, cfr. Urk., IV, 1097, Wr. Atl., I, 334; sotto Amenofis II, Wr. Atl., I, 347-348; sotto Horonemheb, Wr. Atl., II, 60; sotto Ramses II e Ramses III, Pap. Harris, I, 77-78. 34. Montet, Le drame d’Avaris, 131-133. 35. Ibid., 21. 36. Ham., 114. 37. Strabone, XVI, 22. 38. Questa espressione si trova solo nel Papiro Harris I e in una stele di Thutmose I (Gauthier, Dict. Geogr., III, 33). Il termine Muqedi di solito è tradotto con acqua rovesciata, perché gli Egizi avevano notato che l’Eufrate scorreva in senso contrario al Nilo, più o meno da nord a sud. Gli Egizi che amavano i giochi di parole scrivevano il nome del paese di Qede come participio del verbo qdy. 39. Iscrizione di Thutmose III nel Gebel Barkal, AZ, LXIX, 24-39: cfr. C.R. Académie des Inscriptions, 1933, 331. 40. Lucas, Ancient egyptian materials and industries, II ed., 347. 41. Il lapislazzuli di Tefrer è citato già sotto l’Impero di Mezzo nell’iscrizione di un viaggiatore di nome Khety (J.E.A., IV, tav. IX), in un elenco di pietre preziose (Chassinat-Palanque, Fouilles d’Assiout, 108 e 212) e in una di Ramses II (Piehl, Inscr. hiér., I, 145d). Ho trovato nella tomba di Psusennes una collana di lapislazzuli montata su oro che comprende una perla con un’iscrizione in caratteri cuneiformi sulla quale M. Dhorme ha decifrato il nome di un paese vicino a Elam, di un re e di una principessa (C.R. Ac. des Ins., 1945). 42. La stele del principe di Bakhtan è tradotta integralmente nei Contes populaires, cit., di Maspero. Una traduzione più recente e una fotografia della stele sono state pubblicate a cura dell’abate Tresson in Revue biblique, 1933. 43. Tel Ogiahorresne, medico di Sais, che Cambise chiamò presso di sé (Posener, Première Domination perse en Égypte, 1-2). 44. Arrien, L’Inde, V, 5; Diodoro, I, 55; Strabone, XVI, 4, 4.

VIII

Il faraone

Il dovere essenziale dei re L’arte di far vivere gli uomini in società obbediva in Egitto a regole un po’ particolari. Se gli dèi sceglievano come sovrano Vita, Salute, Forza un essere nato dalla loro carne, il paese conosceva pace e prosperità. Un’inondazione generosa faceva spuntare dalla terra l’orzo e l’amidonnier. Le greggi si moltiplicavano. L’oro, l’argento e il rame, il legname prezioso, l’avorio, l’incenso e i profumi, le pietre affluivano dai quattro punti dell’orizzonte. Ma tutto cambiava se la condizione originaria non era più rispettata. La terra d’Egitto andava alla deriva. Non c’era più nessuna autorità perché tutti volevano comandare. Il fratello uccideva il fratello e ben presto – vergogna suprema – lo straniero diventava il padrone. Il Nilo smetteva di inondare le terre. Il popolo non aveva più da mangiare. Non ne arrivava più dalla Siria né da Kush. Non si presentavano più offerte nei templi degli dèi, che distoglievano lo sguardo da coloro che erano stati infedeli. Il primo dovere del Faraone era dunque quello di attestare la sua riconoscenza agli dèi signori di tutte le cose. Un luogo comune che si legge all’inizio di molte stele ufficiali afferma che Sua Maestà si trovava a Menfi, a On, a Pi-Ramses o a Tebe, intento a fare ciò che piace agli dèi, a restaurare ciò che era in decadenza, a costruire nuovi santuari, a renderne più solide le mura, a popolarli di statue, a rinnovarne l’arredo e le barche sacre, a innalzare obelischi, a coprire di fiori gli altari e le tavole delle offerte, a superare in generosità i re precedenti. Ascoltiamo la preghiera e la confessione di Ramses III: «Rendiamo omaggio a voi, dèi e dee, signori del cielo, della terra, dell’oceano, dal grande passo nella barca di milioni [di anni], accanto al loro padre Ra il cui cuore si rallegra quando vede la loro perfezione per rendere il Tomery [...] Egli è lieto, si ringiovanisce a vederli grandi nel cielo, potenti sulla terra, che danno il respiro ai nasi tappati». «Io sono vostro figlio che le vostre braccia hanno prodotto. Voi mi avete posto come sovrano Vita, Salute, Forza di tutta la terra. Avete fatto per me la perfezione sulla terra. Io svolgo le mie funzioni in pace. Non faccio riposare

il mio cuore intento alla ricerca di ciò che è utile ed efficace per i vostri santuari. Con grandi decreti stabiliti in tutti gli uffici preposti alla scrittura costituisco loro dotazioni di uomini, terre, bestiame, navi. Sul Nilo galleggiano le loro zattere. Ho reso la prosperità ai vostri santuari che un tempo erano in decadenza. Ho istituito per voi offerte divine in più di quelle che esistevano davanti a voi. Ho lavorato per voi nelle vostre case d’oro con l’oro, l’argento, il lapislazzuli e la turchese. Ho controllato i vostri tesori. Ho riempito i vostri granai di mucchi d’orzo e di grano amidaceo. Vi ho fatto costruire castelli, santuari e città. I vostri nomi sono incisi per l’eternità. Ho dotato i vostri santuari anche di un gran numero di uomini. Non ho portato via gli uomini né i capi che si trovavano nei santuari degli dèi anche se ci sono stati dei re che l’hanno fatto per iscriverli negli elenchi dell’esercito e degli equipaggi. Ho emanato dei decreti per stabilire [queste volontà] in terra a uso dei re che verranno dopo di me. Vi ho consacrato offerte composte di ogni specie di cose buone. Vi ho fatto dei depositi per le feste, pieni di cibi. Vi ho fatto dei vasi smaltati d’oro, d’argento, di rame a milioni. Ho costruito le vostre barche che sono sul fiume con la loro grande dimora rivestita d’oro.» 1 Dopo questo preambolo, Ramses enumera ciò che ha fatto nei principali templi d’Egitto. Già si era dilungato sulle donazioni che aveva concesso a favore di Amon, signore dei troni delle due terre, di Tum, signore delle due terre di On, di Ptah, il grande, che sta a sud del suo muro, e delle loro paredre. Spogliando se stesso e l’Egitto a favore degli dèi, Ramses III non aveva avuto un comportamento innovativo. Da quando esistevano i faraoni, si poteva dire pressoché di ognuno di essi quello che si legge sulla stele di Amada. «Questo re è un benefattore grazie ai lavori che ha intrapreso per tutti gli dèi costruendo i loro templi, modellando le loro immagini.» 2 Ramses II appena incoronato concepì l’ambizioso progetto di comportarsi come un figlio pietoso riguardo ai suoi padri divini come suo padre carnale Menmaatra Seti-Merenptah, che aveva avviato importanti lavori nella città di Anhur e di Unnefer che da quando erano sospesi la facevano sembrare, in certi punti, un cantiere e in certi altri un ammasso di rovine. I segnali di confine della proprietà divina non erano stati piantati a terra solidamente e chiunque poteva strapparli. Ramses dunque convocò, tramite il sigillatore reale, i cortigiani, i nobili reali, i capi dell’esercito, gli addetti ai lavori e i conservatori della casa dei libri e rivolse loro questo discorso: «Vedete, vi ho fatto chiamare a causa

di un’idea che mi è venuta alla mente. Ho visto le costruzioni della necropoli e le costruzioni che sono in Abido. I lavori che vi sono stati avviati sono rimasti incompiuti dall’epoca del loro iniziatore fino ad oggi. Quando un figlio è salito al posto di suo padre non ha riparato il monumento di colui che l’aveva generato. Allora mi sono detto: “Porta sicuramente buona sorte restaurare ciò che è caduto in rovina. Fare il bene è cosa utile. Così il mio cuore mi spinge a fare cose utili a favore di Merenptah”. Farò dire per l’eternità dei tempi: “È stato un figlio che ha fatto ‘vivere il suo nome’”». Il re prosegue a lungo sullo stesso tono e conclude: «È bello fare monumenti su monumenti, due buone cose in una. Tale è il figlio, tale era colui che l’ha generato». La proposta del re suscita l’entusiasmo dei consiglieri. Dopo averli ascoltati, Sua Maestà diede ordine di affidare i lavori agli architetti. Scelse i soldati, i muratori, gli incisori, gli scultori e i disegnatori, lavoratori di tutte le corporazioni per costruire il santo dei santi di suo padre, per rimettere in piedi tutto quanto era caduto in rovina nella necropoli. E fece una volta per tutte l’inventario dei suoi campi, coltivatori e greggi. Nominò dei sacerdoti con le loro attribuzioni ben definite, un profeta... Poi, rivolgendosi direttamente al re suo padre, Usirmare, ricordò quello che aveva fatto per lui e per il suo tempio: «Tutto andrà bene per te finché io esisterò, finché Ramses-Miamun, che la vita gli sia donata come Ra, il figlio di Ra, vivrà». Il re Menmaatra parlandogli come un padre al figlio gli assicurò che aveva difeso la sua causa davanti a Ra e che tutti gli dèi, Ra, Tum, Thoth e Unnofre e la grande Enneade divina esultavano a causa di quello che Sua Maestà aveva fatto. 3 Nelle affermazioni del grande Ramses c’è un solo aspetto contestabile. Ha avuto torto ad accusare indistintamente i suoi predecessori. Un secolo e mezzo prima di lui, Menkheperrê aveva trovato il tempio di Ptah tebano in uno stato indegno di un dio così importante. Le pareti erano di mattoni, le colonne e le porte di legno, e tutto andava cadendo in rovina. Sua Maestà ordinò di ridisegnare il tempio. Lo fece ricostruire in bella e bianca pietra arenaria. Il muro di cinta fu consolidato per l’eternità. Le porte nuove erano di abete, i cardini di rame d’Asia. «Mai niente di simile era stato fatto prima di Sua Maestà», disse condividendo l’illusione cara a tutti gli Egizi, «l’ho fatto più grande di prima. Ho purificato la sua grande dimora d’oro dei paesi montuosi, tutti i suoi vasi d’oro, d’argento e di tutte le specie di pietre preziose, i tessuti di lino bianco, i profumi di cose divine per fare ciò che gli

piace nelle feste che segnano l’inizio delle stagioni che hanno luogo in questo santuario [...] Ho riempito il suo tempio di tutte le buone cose, buoi, pollame, resina, vino, doni, verdura, quando Sua Maestà tornò dalle montagne di Retenu.» 4 Dopo avere onorato gli dèi, restaurato gli antichi santuari e averne costruiti di nuovi con i prodotti più rari e aver loro assicurato una rendita, il re non aveva ancora fatto abbastanza. Doveva impegnarsi personalmente, sorvegliare l’esecuzione dei suoi ordini e, quando i lavori erano terminati, inaugurare il tempio e dedicarlo agli dèi. 5 Egli lanciava intorno a sé dei semi di besin, colpiva dodici volte con la mazza la porta del tempio, consacrava il naos con il fuoco, correva intorno alle mura con un vaso in ogni mano o, in altri casi, con un remo e una squadra. Oppure a fianco del bue Apis. Inoltre partecipava direttamente ad alcune cerimonie religiose. In occasione della grande festa di Opet, il re non poteva evitare di apparire sulla nave sacra lunga più di cento cubiti che veniva rimorchiata da Karnak a Luxor. La festa di Min, agli inizi della stagione di shemu, era altrettanto popolare. Il re doveva prendervi parte tagliando una manciata di bôti. Ramses III, in particolare, non poteva delegare quel compito a nessuno perché l’anniversario della sua incoronazione cadeva nello stesso giorno. Quando intraprese la conquista dell’Egitto, Piankhi cominciò col festeggiare al suo paese, Napata, la festa del capodanno. Arrivato a Tebe al momento della grande navigazione di Amon, fece la scorta al dio. 6 A partire da questo momento, le battaglie e le cerimonie si alternarono fino alla vittoria finale. Agli abitanti di Menfi, egli fa dire: «Non vi chiudete. Non combattete la residenza di Shu nella sua prima volta. Quando io entro, è lui che entra. Quando io esco, è lui che esce. Non è possibile respingere i miei passi. Io presenterò offerte a Ptah e alle divinità del Muro Bianco. Io onorerò Sokari nel suo scrigno misterioso. Io contemplerò Colui che è a sud del suo muro. E tornerò indietro in pace [...] lasciando il nomo del Muro Bianco intatto senza che i suoi fanciulli piangano. Guardate i nomi del Mezzogiorno. Non vi è stato massacrato nessuno, tranne gli empi che avevano bestemmiato Dio». 7 Dopo averla espugnata, egli purificò la città con sale e profumi, si recò al tempio di Ptah, si purificò nella camera di purificazione, celebrò tutte le cerimonie riservate ai re, entrò nel tempio e offrì a suo padre Ptah Risanbuf una grande offerta. Le cerimonie ripresero dopo On. Dopo avere compiuto vari atti preliminari che dovevano permettergli di presentarsi degnamente nel

santuario interno e avere ricevuto gli omaggi del gran sacerdote e ascoltato la preghiera che allontana dal re i nemici, Piankhi superò la scala della grande balconata per vedere Ra nel castello del Pyramidion. Da solo aprì la serratura, scostò i battenti e contemplò suo padre, la barca di Ra e quella di Tum. Poi richiuse le porte, vi spalmò dell’argilla e vi impresse il sigillo reale. I sacerdoti si prosternarono davanti a Sua Maestà e gli augurarono lunga vita e prosperità. 8 Piankhi voleva dimostrare agli Egizi di essere quanto loro, se non più, rispettoso delle antiche usanze. Ma tutto quello che racconta, l’avevano già fatto i Ramessidi prima di lui. Quando attraversavano una città, i Ramessidi entravano nel tempio e adoravano gli dèi. Ovunque il Faraone era come a casa sua. Ovunque poteva vedere sui muri l’immagine di un Faraone nell’atto di offrire agli dèi l’acqua, il vino, il latte, presentare l’immagine della verità, bruciare grani di terebinto nell’incensiere. Del resto Ramses I e suo figlio erano stati, prima di sedersi in trono, sommi sacerdoti di Seth e legati a vario titolo al culto dell’ariete di Mendes e di Uagit, la dea-serpente onorata nella loro città natale e nelle località vicine. 9 Ramses II stesso all’inizio del suo regno portava il titolo di gran sacerdote di Amon. Ciò non gli impedì di nominare quasi immediatamente un gran sacerdote titolare al quale un re della sua età, così amante dei piaceri, della caccia e della guerra, era certamente ben felice di cedere i minuziosi obblighi connessi alla carica. 10 Ma nemmeno Ramses II, come i suoi predecessori e i suoi successori, evitò mai gli obblighi che ogni Faraone aveva contratto verso gli dèi in forza del suo stesso titolo. In questo modo egli acquistava, certo a caro prezzo, la pace del paese dal momento che il popolo dei lavoratori era tutto sommato incapace di autentiche rivolte e che coloro che avrebbero potuto davvero turbare l’ordine avevano invece tutto l’interesse a conservarlo.

La toilette reale Il risveglio del re era certamente al centro di una cerimonia. Un alto funzionario di nome Ptah-mose ricorda di essersi sempre alzato presto la mattina, tutti i giorni, in modo da essere il primo a salutare il suo signore. 11 Non conosco nessuna rappresentazione del risveglio del re ma nella tomba di Ptahhotep si può osservare come un personaggio importante si facesse

manipolare dal barbiere, dal manicure e dal pedicure in presenza dei membri della sua famiglia e dei suoi dipendenti. Per il re non si poteva certo fare di meno. L’abbigliamento del re non era solo più sontuoso di quello dei principi, dei capi civili e militari, ma doveva indicare la qualità di colui che lo indossava. Il re non compariva mai in pubblico a testa nuda: portava sempre un’acconciatura. Portava i capelli corti proprio per poterla cambiare facilmente. L’acconciatura più semplice era costituita da una parrucca rotonda decorata da un diadema che si annodava didietro e ricadeva sulla nuca. Su questo diadema si attorceva un ureo d’oro la cui gola gonfia si ergeva al centro della fronte. La corona del Sud, quella del Nord, la doppia corona erano già acconciature da cerimonia. La prima consisteva in un alto berretto che si assottigliava in alto e terminava in un rigonfiamento, la seconda era una berretta che posteriormente si assottigliava in uno stelo rigido mentre dalla base di questo stelo partiva un nastro di metallo che si spostava in avanti formando una spirale. La doppia corona era una combinazione delle prime due. Il re indossava spesso, soprattutto in occasione delle parate militari e in guerra, un casco azzurro anch’esso adorno di un ureo, con due nastri sulla nuca. Corone e casco posavano direttamente sulla testa. Il nems era abbastanza ampio da contenere la parrucca rotonda. Si poteva formarlo con un tessuto che cingeva la fronte, passava sotto le orecchie, ricadeva da entrambi i lati del volto sul petto e formava, posteriormente, una tasca che finiva a punta in mezzo alla schiena. Questo tessuto era bianco a righe rosse. Si poteva anche posare sulla testa del re un nems già pronto. Esso era tenuto insieme da una striscia d’oro, particolarmente necessaria quando sopra il nems veniva posta la doppia corona oppure la corona del Nord o quella del Sud. Sul nems si potevano porre anche due piume alte e rigide o un atef composto dal berretto dell’Alto Egitto affiancato da due piume elastiche e posato su due corna d’ariete fra le quali brillava un disco d’oro e che reggevano degli urei a loro volta sormontati dal disco. È evidente che queste acconciature erano riservate alle cerimonie in cui il re restava quasi del tutto immobile. La tenuta da cerimonia prevedeva anche una barba posticcia che imitava la barba a treccioline in uso fra gli abitanti di Punt, la Terra divina, così chiamata perché da essa provenivano molte grandi divinità egizie. Questa barba era collegata tramite due supporti all’acconciatura, qualunque essa

fosse. Il re di solito si faceva radere la barba e i baffi ma qualche volta portava invece una barba corta, di forma quadrata. L’elemento essenziale dell’abbigliamento del Faraone – come degli Egizi di tutte le condizioni – era il perizoma che però il re portava pieghettato e spesso fermato da una larga cintura adorna di un fermaglio di metallo con il cartiglio reale inciso con bei geroglifici. Qualche volta dalla cintura pendeva un gonnellino a forma di trapezio allungato che poteva essere interamente di metallo oppure poteva essere di metallo solo il contorno e l’interno allora era di fili di perle. Alla base oppure tutto intorno a destra e a sinistra di questo gonnellino c’erano degli urei col disco solare. Il re non disdegnava di camminare a piedi nudi ma disponeva di un ricco assortimento di sandali di metallo, cuoio e vimini. 12 I gioielli e gli oggetti decorativi completavano questo abbigliamento sommario. Le collane del re erano le più diverse. Spesso consistevano in fili di pezzetti d’oro forati in mezzo, oppure fili di perle o di palline, chiusi da un fermaglio piatto posato sulla nuca da cui partiva una specie di toson d’oro di grande effetto formato da catene e catenelle. Queste collane erano creazioni relativamente recenti. La collana classica comprendeva più fili di perle sostenuti fra due fermagli a testa di falco che si legavano alla nuca con due cordoncini. Le perle dell’ultimo filo erano a lacrima, le altre rotonde o ovali. Queste collane spesso pesavano alcuni chilogrammi. Come se ciò non bastasse, il re si appendeva al collo, con una catena doppia, un pettorale a forma di facciata di tempio e portava anche almeno tre paia di braccialetti, uno vicino alle spalle, uno ai polsi e uno alle caviglie. 13 Talvolta su tutto questo infilava una veste lunga, leggera e trasparente, a maniche corte, con una cintura analoga, chiusa sul davanti.

Il re al lavoro Diodoro, che si vantava di avere esaminato accuratamente le vicende narrate negli Annali dei sacerdoti egizi, afferma che la vita pubblica e privata dei re era scandita secondo norme severe. Il re si svegliava la mattina presto e leggeva la posta. Faceva il bagno, indossava le insegne della regalità, offriva un sacrificio, ascoltava le preghiere e le esortazioni del sommo sacerdote, storie edificanti; poi il suo tempo era diviso fra le udienze, le sedute di

tribunale, la passeggiata e i piaceri. Doveva mantenersi sobrio e agire in tutto secondo le leggi. Non se ne lamentava ed era lieto della sua sorte, obbedendo a quelli che erano costumi consolidati. 14 Certo il comportamento dei Faraoni non fu sempre così edificante come Diodoro ama credere, ma l’uso del tempo da lui riferito corrisponde probabilmente a verità e i fatti che conosciamo confermano le sue affermazioni. Molti re hanno certamente eseguito il loro lavoro con coscienza e rigore. Si facevano leggere la posta, si informavano sugli avvenimenti, dettavano risposte e se necessario convocavano il loro consiglio. La formula: «Si venne a dire a Sua Maestà...» è presente in moltissime stele ufficiali. Nella maggior parte dei casi i contenuti di queste informazioni riguardano le imprese dei nemici del re. Il re Psammetico II si trovava a Tanis a sacrificare agli dèi del luogo quando venne informato che il nero Kuar aveva preso le armi contro l’Egitto. 15 La guerra e la pace dipendevano dunque da lui ma le questioni tecniche non lo lasciavano indifferente. Abbiamo visto Seti preoccupato di rifornire di acqua i cercatori d’oro che sfruttavano la regione a est di Edfu. Questa questione preoccupava il re a tal punto che andò personalmente a rendersi conto delle sofferenze degli uomini che lavoravano, privi d’acqua, sotto un sole ardente. 16 Ramses IV, che voleva innalzare dei monumenti ai suoi padri, agli dèi e alle dee dell’Egitto, si documentò sui libri della casa di vita a proposito delle vie d’accesso alla montagna di bekhen, quindi percorse personalmente la montagna sacra. 17 La grandezza di Ramses II lo schiacciava: si limitò quindi a studiare nel suo palazzo di Hatkaptah i sistemi per trovare l’acqua nello spaventoso deserto di Ykayta. Si sedette su un trono d’oro, indossò il diadema e le due piume e disse al sigillatore reale che stava al suo fianco: «Chiama i grandi che sono davanti [alla sala perché] Sua Maestà possa informarsi dei loro pareri. Proporrò loro direttamente il problema». Furono immediatamente trascinati di fronte al dio buono come dei malfattori, perché nessuno, nemmeno i suoi consiglieri, potevano contemplare il volto augusto del Faraone senza provare terrore. Baciarono la terra e furono resi partecipi del problema. Avrebbero violato i più elementari princìpi della cortesia se avessero risposto direttamente e cercato di affermare i loro saperi. La gloria dell’operazione che si doveva tentare sarebbe andata tutta al re. Essi risposero dunque come i cortigiani convocati da Ramses qualche mese prima per annunciare loro che voleva completare il tempio di Abido, con un elogio incondizionato di quel re senza pari i cui progetti,

concepiti durante la notte, si sarebbero realizzati la mattina stessa, dopo avere rievocato il fallimento dei tentativi anteriori e recenti: «Se tu dici a tuo padre Hapi, padre degli dèi, di far salire l’acqua sulla montagna, egli farà tutto quello che dici secondo i piani che si elaborano davanti a noi perché tutti i tuoi padri divini ti amano più di qualunque altro re dai tempi di Ra». L’udienza era finita. I tecnici si sarebbero messi all’opera e avrebbero tenuto continuamente al corrente il re. Una stele di granito avrebbe reso eterno il successo dell’impresa. 18 La nomina degli alti funzionari e dei dignitari di rango evidentemente spettava al re. La scelta del sommo sacerdote di Amon era estremamente importante. I Ramessidi non avevano dimenticato il conflitto che aveva contrapposto la monarchia al clero del dio più potente e più ambizioso. Ramses II si era addirittura attribuito, all’inizio del suo regno, il titolo di gran sacerdote. Dopo essersi poi deciso, in breve tempo, a nominare un sommo sacerdote, scelse al di fuori del clero di Amon un personaggio che non poteva comunque essere il primo venuto perché era il sommo sacerdote di Anhur nel nomo Thinita. Il re doveva averlo incontrato quando aveva visitato le costruzioni iniziate da suo padre in quella santissima regione. Prima di decidere, aveva consultato, con una tecnica il cui meccanismo in parte ci sfugge, lo stesso dio. Gli aveva nominato il personale di corte, i capi dei soldati, i profeti degli dèi, i dignitari della sua casa che stavano di fronte a lui. Amon non si mostrò soddisfatto di nessuno di essi e mostrò di approvare solo il nome di Nebunnef: «Siigli benevolo», disse il re concludendo la cerimonia, «perché egli ti reclama». A quelle parole i cortigiani e il gruppo dei Trenta insieme lodarono la bontà di Sua Maestà prosternandosi più volte davanti al quel dio buono ed esaltando le sue anime con lodi che salirono al cielo. Quando il concerto di lodi ebbe fine, il re consegnò al nuovo pontefice i suoi due anelli d’oro e il suo bastone di argento dorato. Tutto l’Egitto fu informato che corpi e beni del dominio di Amon gli erano stati assegnati. 19

Il diritto di grazia I Ricordi di Sinuhit ci riferiscono il solo esempio a noi noto di un colpevole graziato dal Faraone. Ma il narratore spiega lungamente come erano andate le cose. Il re non si era limitato a sospendere la pena di Sinuhit

permettendogli di rientrare nel regno. Volle vederlo. L’avventuriero era arrivato alla stazione della strada di Horos, al confine, dopo avere lasciato i suoi amici Beduini e avere loro distribuito i doni inviati dalla corte e si era consegnato ai soldati che lo accompagnarono in barca alla residenza di Itytaui. Il palazzo era stato informato dell’arrivo. I fanciulli reali si affollavano nella sede del corpo di guardia. I cortigiani incaricati di introdurre i visitatori nella sala delle colonne avevano avviato Sinuhit nella direzione giusta e il suddito giunse davanti al sovrano, che stava seduto sul grande trono nella sala d’argento dorato. Sinuhit si gettò a terra. L’enormità della sua colpa lo invase. «Ero come un uomo afferrato dalle tenebre. La mia anima era venuta meno. Le mie membra trasalivano. Il cuore non mi stava più in petto. Sperimentai la vita insieme alla morte.» Sinuhit fu fatto alzare. Il re, che gli si era rivolto duramente, si addolcì e lo invitò a parlare. Sinuhit non abusò del permesso e concluse il suo breve discorso dicendo: «Eccomi davanti a te. Tu sei la vita, che la Tua Maestà faccia come vuole». Il re fece entrare i fanciulli reali. Mentre si preparavano non poté impedirsi di far notare alla regina come Sinuhit fosse cambiato. A forza di vivere in mezzo agli Asiatici, era diventato simile a loro. La regina lanciò un grido di stupore e i fanciulli reali approvarono tutti insieme l’osservazione del re. «Non è più lui, in verità, mio signore Sovrano.» Poi portarono i crotali e i due tipi di sistri che servivano a segnare il tempo e li presentarono al re dicendo: «Che le tue due mani siano su queste belle cose, oh re, posa gli ornamenti di Hathor. Che la Dorata dia vita al tuo naso, che la Dama delle stelle si unisca a te!». Dopo essersi prodotti in lunghi elogi, chiesero il perdono di Sinuhit, che aveva agito senza discernimento. La dea, alla quale appartenevano i sistri e i crotali, che era detta anche la Dorata e la Dama delle stelle, era la dea della gioia, delle danze e dei banchetti. In questo caso intervenne per preparare la grazia che il re avrebbe concesso al colpevole pentito. Questo intervento doveva essere normale in questi casi. Alla fine Sinuhit uscì dal palazzo non solo graziato ma più ricco: gli vennero assegnati una casa e cibi squisiti donati dal re. 20

Le ricompense reali

Un cortigiano ha definito una volta il Faraone «colui che moltiplica i beni, che sa donare. Era un dio, anzi il re degli dèi, e riconosceva chi lo riconosceva, compensava chi lo serviva, proteggeva i propri sostenitori. Era Ra il cui corpo visibile era il disco e che vive per l’eternità». 21 Durante le guerre di liberazione e nel corso della conquista della Siria, il Faraone dovette attribuire l’oro del valore a più di un coraggioso. Una volta presa l’abitudine, anche i civili ebbero la loro parte. Le ricompense potevano talvolta essere attribuite anche a un singolo, ma di solito si aspettava di convocare a palazzo più personaggi per consegnare loro le ricompense. Allora si indossavano i propri abiti migliori. Quando i premiati uscivano di casa per salire sul carro, i servi e i vicini facevano ala accanto alla porta per acclamarli. Davanti al palazzo, in un parco, si lasciavano i carri. Gli scudieri parlavano fra loro o con le guardie e ognuno esaltava il suo padrone e i favori che lo avrebbero onorato. «Per chi si fa questo festeggiamento, piccolo mio? – Si fa questo festeggiamento per Ay, il padre divino, e per Taia. Eccoli, che sono diventati persone d’oro.» Un altro, che non aveva sentito la risposta, chiedeva a sua volta: «Chi è il festeggiato? – Ecco una bella domanda! Quello che sta facendo il Faraone, Vita, Salute, Forza, è a favore di Ay, il padre divino, e di Taia. Il Faraone Vita, Salute, Forza ha dato loro milioni di cose? Guarda verso la finestra. Vedremo che cosa sarà fatto per Ay, il padre divino». 22 Quando tutti erano arrivati, il re si presentava al balcone delle apparizioni che sporgeva da una sala a colonne. Dall’esterno si scorgevano le stanze in fila degli appartamenti reali ammobiliati con sedili e scrigni sontuosi. I doni erano deposti su tavoli che poi venivano spinti davanti al re e venivano rinnovati appena era necessario. Nel resto del palazzo i servi continuavano il loro solito andirivieni. Altri conversavano tranquillamente. Donne cantavano, danzavano, suonavano l’arpa. Nel cortile, i porta-ombrelli, i porta-ventagli, dei funzionari schieravano i futuri decorati e li introducevano a mano a mano ai piedi del balcone. Il personaggio salutava il re ma solo con il braccio e ne pronunciava l’elogio senza prosternarsi. Il re rispondeva elogiando il suo servo e ne lodava la fedeltà, l’abilità, la devozione. Talvolta gli concedeva un avanzamento dicendo: «Tu sei il mio grande servitore, che ha seguito le istruzioni riguardanti tutte le missioni che hai fatto e di cui sono soddisfatto. Ti consegno questa funzione dicendo: “Tu mangerai il pane del Faraone Vita, Salute, Forza tuo signore nel tempio di Aton”». Poi gli lanciava delle coppe e

delle collane d’oro. I funzionari afferravano al volo quegli oggetti preziosi e immediatamente appendevano al collo del decorato tre o quattro collane. Appesantito ma pieno di gioia e di riconoscenza, questi raggiungeva l’uscita scortato dai funzionari che portavano gli oggetti che non gli avevano potuto appendere addosso. Dei subalterni trasportavano i cibi. Gli scribi registravano il tutto. Fuori dal palazzo il decorato incontrava gli amici, i servi e i subordinati che gli manifestavano la loro gioia. Risaliva sul carro e rientrava a casa scortato da un rumoroso corteo che si ingrossava a ogni passo. Era accolto dalla moglie che alzava le braccia al cielo davanti a tanta ricchezza. Altre donne suonavano il tamburello danzando e cantando. Entravano anche i parenti e gli amici e i festeggiamenti sarebbero durati a lungo, in quella casa. 23 Le cerimonie di ricompensa non erano privilegio esclusivo degli uomini. Ay, il padre divino che abbiamo visto ricompensato da Akhenaton, era diventato Faraone. Adesso era lui a distribuire le ricompense. Dopo avere decorato Neferhotep, scriba e responsabile delle greggi di Amon, aveva deciso di concedere un’onorificenza a sua moglie Meryt-Re. La cerimonia ebbe luogo in una casa di campagna del re, un cubo di mattoni con piccole finestre quadrate sui lati e una finestra grande sulla facciata, preceduta da un balcone a colonne. Il giardino che circondava quella semplice dimora era piantato a vigneti schierati lungo il viale i cui pampini si arrampicavano su colonnette di stile uguale a quelle dell’abitazione. Vasi, cesti, pile di piatti erano allineati lungo il muro. Meryt-Re, bellissima nella sua veste trasparente, con un cono profumato sui capelli, si avvicinò alla facciata e ricevette nelle sue stesse mani una collana che il re le gettò dalla finestra. A questa cerimonia molto intima assistettero pochi testimoni. Una donna applaudiva, un’altra baciava la terra, si portavano fiori, una musicista assoldata per la circostanza beveva senza smettere di agitare il sistro. Due bambini erano riusciti a scivolare all’interno del giardino e guardavano incuriositi la scena, attirando però l’attenzione di un ghafir che li minacciò con il bastone. Terminata l’udienza, Meryt-Re rientrò a casa a piedi dando il braccio a un uomo non identificato, forse il marito o un funzionario incaricato di accompagnarla per volontà del re. Portava ancora al collo le collane del re. Dietro la coppia si era formato un corteo dove rivediamo la suonatrice di sistro, adesso insieme a due fanciulle nude. Dei servi si erano divisi le giare, i pacchi e i cesti che avrebbero permesso di celebrare con un buon pasto un

così gran giorno. I doni più preziosi erano stati riposti in uno scrigno. 24 Queste udienze di ricompensa potevano anche svolgersi all’aria aperta perché il personaggio premiato era troppo importante perché il Faraone si accontentasse di lanciargli qualche collana dall’alto di un balcone, o più semplicemente perché il pubblico era troppo numeroso. In mezzo a un ampio cortile si costruiva, con materiali leggeri, un baldacchino che abili ebanisti trasformavano in uno splendido oggetto di lusso e di gran gusto. Da un piedestallo adorno di bassorilievi che rappresentavano dei Siriani, dei Libici o dei Neri inginocchiati in atto di tendere le mani supplicando o calpestati dal re trasformato in grifone, si levavano quattro colonne papiriformi scolpite e cosparse di incrostazioni dall’alto al basso che reggevano una trabeazione a più piani su cui posava un tetto bombato. Il Faraone saliva la scala protetta da sfingi con la testa di falco e sedeva su un sedile di straordinaria magnificenza. Il personaggio atteso era Horemheb, che sarà a sua volta re e che, come alto comandante militare, aveva dato aiuto a dei Beduini perseguitati da altri nomadi. Aveva catturato tutta la tribù degli aggressori e raggiunto la residenza insieme ai prigionieri e a coloro che aveva difeso e che venivano a chiedere umilmente il favore di passare attraverso il territorio egizio con le loro greggi, come era tradizione secolare. Gli uni e gli altri avrebbero assistito alla glorificazione di Horemheb. Il generale, in alta uniforme, alzava le braccia in segno di esaltazione mentre i funzionari gli appendevano al collo collane e collane e altri funzionari, camminando ricurvi, ne portavano altre su vassoi. I subordinati di Horemheb indicavano la lunga fila di prigionieri. Gli uomini, con barba e capelli fluenti e abbondanti, i lineamenti tesi, facevano smorfie di dolore: avevano le mani chiuse nelle manette. Le donne erano state lasciate libere e avanzavano con dignità. Un soldato teneva per mano una madre di famiglia con una veste a volanti che portava un bambino appeso alla spalla e un altro più piccolo in una bisaccia. Un’altra donna sembrava voler conversare con il soldato che la precedeva. Ancora più interessanti di questi prigionieri che sarebbero stati destinati a fare mattoni o a cavar pietre erano i cavalli che un ufficiale egizio teneva per le briglie. Dopo essere stato ricompensato, Horemheb si mise a difendere la causa dei nomadi che, senza il suo intervento, sarebbero stati spogliati delle loro greggi e di tutti i loro beni. Sempre decorato delle sue collane, tenendo diritto il ventaglio col manico, egli arringò il Faraone esaltandone la potenza e spiegò la vicenda. Poi si volse verso l’interprete il quale spiegò ai nomadi che

il Faraone autorizzava il loro soggiorno. C’erano dei Libici riconoscibili dalla piuma piantata sulla testa e dai capelli piuttosto corti sulla fronte, dalla grande bocca che copre tutto un lato del viso, insieme a Siriani che indossavano una veste a maniche lunghe e un’ampia sciarpa. Essi attestavano la loro riconoscenza con una mimica espressiva alzando le braccia al cielo e tendendole verso il Faraone e gli si prostravano davanti. In un vero e proprio accesso di delirio, si rotolavano nella polvere. 25 Horemheb aveva ben meritato la sua onorificenza. Non ci sentiamo di dire altrettanto del sommo sacerdote di Amon, Amenhotep, che Ramses IX riconobbe suo eguale spogliandosi delle sue ricchezze per consegnarle nelle mani del premiato. La cerimonia ebbe luogo in un chiosco in cui il re e il sommo sacerdote stavano in piedi, faccia a faccia, separati solo dalle scansie cariche di doni. Il sommo sacerdote era a testa nuda mentre il re, con il casco azzurro in testa, posava i piedi su una stuoia; ma l’artista che ha rappresentato la scena a Karnak ha attribuito loro la stessa statura. I doni erano importanti: dieci deben d’oro, venti d’argento, provviste per un banchetto, venti arpenti di terre coltivate. Le concessioni strappate al re valevano molto di più perché Amenhotep si fece concedere poteri straordinari che in pratica sottraevano la ricchissima proprietà di Amon a ogni controllo. Essa diventava così uno Stato nello Stato. Con un lungo e paziente sforzo, i sommi sacerdoti di Amon, perseguitati da Akhenaton e guardati con sospetto da Ramses II, avevano recuperato l’influenza che erano riusciti a conquistare ai tempi della regina Hatshepsut e dei Thutmose. 26

L’accoglimento degli ambasciatori stranieri L’accoglimento degli ambasciatori stranieri era ancor più della distribuzione delle ricompense una cerimonia che permetteva di esibire potere e ricchezza e che blandiva l’orgoglio del Faraone, soprattutto quando si ammettevano in una sola udienza delegati provenienti dai quattro punti dell’orizzonte. I Ramessidi ricevevano sempre Nubiani, Neri, abitanti di Punt, Libici, Siriani, gente proveniente dal Naharina. Non ricevevano più da Creta gli uomini dal perizoma multicolore, i lunghi capelli arricciati che portavano rhyton, vasi a forma di cono, bicchieri ad ansa, crateri con decorazioni floreali e chiedevano di entrare nelle acque del re. Quelle ambascerie erano

cessate ma la fama del re aveva raggiunto, in Oriente, paesi di cui i Thutmose e gli Amenhotep non avevano mai sentito nemmeno parlare: la Media, la Persia, la Battriana, le rive dell’Indo. Per l’accoglienza degli ambasciatori si innalzava un chiosco per il re, in mezzo a una piazza. La guardia, i portaparasole, gli scribi circondavano il chiosco. I delegati si schieravano sui quattro lati, dietro una massa di oggetti preziosi. Gli scribi registravano gli oggetti, poi li facevano portare nei magazzini del vicino tempio. 27 In cambio, il re concedeva loro il soffio di vita e talvolta consegnava doni più ricchi di quelli che aveva ricevuto. Il Faraone si compiaceva infatti di considerarsi come una montagna d’oro offerta a tutti i paesi. Non poteva fare a meno di sovvenzionare i principi indigenti che si volevano alleare alla sua famiglia col matrimonio o con altre proposte ma erano sicuramente pronti, se se ne presentava l’occasione, a passare dalla parte dei suoi rivali.

I piaceri reali: gli sport La grande occupazione di un re era la guerra. I prìncipi vi si preparavano fin dall’infanzia. Sesoosis, detto anche Ramses II, era stato abituato da suo padre a sottoporsi, con i suoi compagni, a esercizi continui e grandi fatiche fisiche. Nessuno di loro aveva il permesso di prendere cibo prima di avere fatto centoventi stadi di corsa. In età virile quindi erano tutti degli atleti. 28 Il poema di Qadesh e molti altri testi vantano la forza fisica del re, la sua resistenza, la sua abilità, il suo coraggio, ma per conoscere i particolari dell’educazione sportiva dei giovani principi dobbiamo ricorrere a una stele di Thutmose III, 29 il valoroso guerriero, e soprattutto a un’altra, del suo figlio e successore Amenhotep II, 30 che fu, secondo i medici che hanno esaminato la sua mummia, un uomo di vigore eccezionale e del quale i contemporanei dicevano: «È un re dal braccio così pesante che nessuno può tendere il suo arco, né fra i soldati né fra gli sceicchi dei paesi stranieri né fra i grandi di Retenu». 31 Ecco dunque come occupava il suo tempo un principe che per nascita era chiamato a occupare il trono di Horo. Egli «aveva raggiunto i diciotto anni ed era nel pieno delle forze. Aveva imparato a conoscere tutte le opere di Montu. Non aveva eguali sul campo di battaglia. Aveva imparato l’equitazione. Non aveva pari in questo numeroso esercito. Nemmeno un uomo sapeva tendere il suo arco. Non poteva essere raggiunto in corsa». In

una parola, un atleta completo che aveva spinto la sua preparazione in tre direzioni: era buon rematore, arciere e cavaliere. «Era duro di braccio e infaticabile quando muoveva il remo e reggeva il timone a poppa della sua nave reale, come capo di un equipaggio di duecento uomini. Al momento di fermarsi, quando questi uomini avevano fatto la metà di un percorso di navigazione non ne potevano più; le loro membra erano deboli e fiacche. Invece Sua Maestà reggeva lo sforzo con il suo remo lungo venti cubiti. Al momento di fermarsi, quando approdava con la barca reale, aveva fatto tre giri di timone senza essersi mai riposato. Tutti si rallegravano a vederlo così operare.» Non bisogna dimenticare del resto che la funzione di pilota era diventata meno dura da quando il timone era sostenuto a un’estremità da un albero e da una mortasa praticata posteriormente nell’asse o sui fianchi quando i timoni erano due. Durante l’Impero Antico i piloti reggevano i remi che servivano da timone a due mani, senza alcun aiuto, e dovevano faticare enormemente per lottare contro la corrente o cambiare direzione. Non c’è davvero ragione per pensare che il principe abbia adottato il sistema antico ma la manovra del timone, anche dopo i perfezionamenti prima indicati, richiedeva comunque forza e tenacia. Un buon arciere doveva conoscere bene il suo strumento: «Tese trecento archi duri per paragonare il lavoro dei fabbricanti in modo da distinguere l’operaio ignorante dal conoscitore». Dopo avere scelto un arco perfetto tale che nessuno, tranne lui, sarebbe riuscito a tenderlo, così fece: «Entrò nel suo padiglione settentrionale e trovò che vi erano stati allestiti quattro bersagli in rame d’Asia spessi un palmo. Venti cubiti separavano un palo dal successivo. «Quando comparve su un tiro come Montu in tutta la sua potenza, Sua Maestà afferrò il suo arco, impugnò quattro frecce contemporaneamente e avanzò tirando sui bersagli come Montu, con la sua attrezzatura. Le sue frecce uscivano dall’altra parte. Allora ne tirava un’altra. «È una prova che non era mai riuscita a nessuno e che non si era mai sentita raccontare, quella di tirare una freccia contro un bersaglio di rame e farla uscire e cadere a terra, tranne che [al] re forte e potente reso vittorioso da Amon.» Il principe Akheperurê si limitava a rinnovare un’impresa di suo padre Menkheperrê che a sua volta aveva perforato con le sue frecce una lastra di

rame. Ma si trattava comunque di una bella prodezza. Se, come Ulisse, Akheperurê avesse dovuto tornare a casa assumendo l’aspetto di un mendicante avrebbe comunque potuto, col suo braccio invincibile e il suo arco incomparabile, punire coloro che saccheggiavano il suo palazzo e insidiavano sua moglie. Ogni valoroso guerriero amava i suoi cavalli, anzi tutti i cavalli, più di se stesso. Il principe Nemarot regnava solo su una parte del Medio Egitto, ma aveva una scuderia nella capitale di Shmunu. Durante l’assedio tutti avevano sofferto, i cavalli come gli uomini. Piankhi, entrando nella città vinta, visitò la scuderia. Vide i granai privi di foraggio e i cavalli affamati. Ne ebbe pietà e si adirò constatando la cecità del suo avversario che aveva ridotto animali così belli in quelle condizioni: «Com’è vero che vivo e amo Ra e che il mio naso fiorisce in vita, l’avere affamato i cavalli è cosa dura per il mio cuore, più di tutto il male che hai fatto con la tua malvagità. Non sai che l’ombra di dio è su di me? Io non ho commesso colpe contro di lui. Sono nato da un ventre divino. Dio mi ha fatto esistere già nell’uovo. Il seme divino è in me. Io attesto secondo il suo ka che non agisco a sua insaputa. È lui che mi ordina di agire». 32 Ramses III non si basava sui suoi funzionari per verificare se i suoi cavalli erano ben tenuti e in condizione di combattere. Egli si recava nella grande scuderia reale in alta uniforme, con la canna in una mano e uno staffile nell’altra, in mezzo ai porta-parasole e ai porta-ventaglio e seguito dai funzionari d’ordinanza. Risuonava lo squillo reale. Le guardie della scuderia balzavano al loro posto e ognuna di esse si precipitava ad afferrare le redini di una coppia di cavalli. Il re ispezionava gli animali uno dopo l’altro. 33 Il principe Amenhotep, fin dalla più tenera età, e molto prima di essere in condizione di iniziare i lavori di Montu, dominava i bisogni del suo corpo. Amava i cavalli e se ne vantava. E amandoli conosceva tutti i modi per addestrarli. I successi che otteneva in questo campo giunsero alle orecchie di suo padre. Il terribile Menkheperrê si sentì fiero e felice di quello che si diceva del suo figlio maggiore e disse ai suoi cortigiani: «Che gli venga dato il più bel tiro di cavalli della scuderia della Mia Maestà che si trova nel [nomo] del Muro [bianco] e ditegli: “Occupatene, addestrali, esercitali, fortificali. Ti scongiuriamo!”». Così incoraggiato e aiutato da Rechef e Astarte, gli dèi del paese da dove venivano i cavalli, il giovane principe si mise al lavoro. Ne fece dei cavalli senza pari, infaticabili, finché ne reggeva le briglie. Non traspiravano pesantemente nemmeno dopo una lunga corsa.

La maggior parte di queste cavalcate si svolgeva nella regione a Occidente di Menfi, nelle vicinanze delle grandi piramidi. Quando l’ureo brillò sulla sua fronte, Amenhotep ordinò di allestire in quella zona un’edicola dove fu eretta una grande stele di pietra bianca che ci ha tramandato il ricordo di queste prodezze. Il figlio di Amenhotep, Thutmose, volle rinnovarle. Egli amava esercitarsi contro i bersagli nei pressi della grande sfinge, poi andava a cacciare gli animali del deserto. Una volta si addormentò fra le zampe del mostro che gli era apparso, gli ordinò di allontanare la sabbia che lo soffocava e di meritare così di sedersi sul trono di Geb. Il principe non poteva evitare di obbedire e nemmeno di raccontare ai posteri un sogno così meraviglioso. 34 Senza la pietà di questi giovani, non sapremmo com’era avvenuta la loro preparazione alla loro funzione reale.

Le cacce reali Tirare su bersagli di rame, cacciare le antilopi nel deserto vicino alle piramidi sotto la protezione di Harakhté: erano questi i divertimenti caratteristici dei principi. Sport più eccitanti attendevano il Faraone che poteva, se lo voleva, varcare l’Eufrate e spostarsi a sud della cataratta a misurarsi con le bestie feroci che non aveva più occasione di incontrare nei due deserti che fiancheggiavano il Nilo egizio. Nella valle dell’Eufrate dunque, in un luogo chiamato Niy, dove il fiume scorreva tra due rocce, il re Menkheperrê e la sua scorta si scontrarono con una mandria di centoventi elefanti. La battaglia cominciò nell’acqua. «Mai il re aveva fatto una cosa simile dai tempi del dio.» Il più grande di questi elefanti venne posto, certamente per volontà di Dio, di fronte a Sua Maestà che si trovò in grande pericolo. Fortunatamente al suo fianco si trovava il suo vecchio compagno d’armi Amonemheb che tagliò la proboscide del mostro. Il suo signore gli assegnò l’oro della lode. Ma passò sotto silenzio la devozione di Amonemheb nel racconto ufficiale che fece incidere sulla stele di Napata, anche se dichiarò: «Ho detto cose senza alcuna simulazione. Qui non c’è nessuna menzogna». Non avremmo mai conosciuto la verità se Amonemheb non avesse scritto a sua volta un racconto, comunque troppo breve, di quella caccia memorabile. 35 Ma chi ci dirà se un soldato di grado più modesto di Amonemheb aveva preso parte all’avvenimento?

I testi a noi noti omettono di dirci se Seti e Ramses cacciassero l’elefante sull’Eufrate e il rinoceronte fra la terza e la quarta cataratta ma il bassorilievo di Medinet Habu rappresenta Ramses III in atto di cacciare il leone, il toro selvatico, l’antilope. 36 Il re è equipaggiato come per la guerra e sta sul carro. Sotto il ventre dei cavalli un leone ferito, steso sul dorso, con gli unghioni tenta di strapparsi la freccia dal petto. Un altro leone, colpito da due frecce e un giavellotto, va a nascondersi ruggendo fra le canne. Un terzo leone balza da una macchia posta dietro al carro ma il re immediatamente si volta con il giavellotto in mano e il nuovo aggressore non potrà evitare il colpo mortale. Mentre cacciava nei pressi di una palude circondata da canneti ed erbe alte, il gruppo del re inseguiva una mandria di tori selvatici. I soldati armati come per una battaglia con archi, picche, spade e scudi erano schierati in riga. Gli animali spaventati, costretti a fuggire in linea retta, venivano raggiunti dal carro del re armato anche lui come per la guerra, con l’arco triangolare e una picca. Un toro cosparso di frecce era caduto sulla schiena in una macchia e percuoteva l’aria con le zampe. Un altro era rotolato sotto i piedi dei cavalli e un terzo con un balzo disperato che gli tendeva la coda tentava di saltare in acqua ma ricadeva sfinito sulle ginocchia. La caccia all’antilope rispetto a questi inseguimenti appassionanti sembra un semplice divertimento. Il re solo sul suo carro si avvia nel deserto senza scorta. Non cerca, come i borghesi di Tebe o i cacciatori professionali, di attirare le gazzelle in uno spazio chiuso, ma se scorge a distanza una mandria di asini selvatici o di antilopi forza l’andatura in modo da raggiungerla.

Il re nell’intimità Quando tornava da un lungo viaggio oppure rientrava da una gita attraverso il deserto, il re poteva ristorarsi molto gradevolmente nei suoi palazzi di Pi-Ramses, 37 Menfi o Tebe. Akhenaton amava talmente il suo nuovo palazzo di Akhetaton da non uscirne quasi mai. Padre tenero, marito fedele, figlio affettuoso, si allietava solo della compagnia della regina e delle principesse. Esse lo accompagnavano nelle passeggiate ed entravano con lui nel tempio, assistevano alla distribuzione delle ricompense, aiutavano il re a ricevere i delegati stranieri e gli preparavano bevande e cibi piacevoli. La regina prendeva la teiera e il passino per servirgli personalmente una tisana

calda. Quando la regina madre faceva visita ai suoi figli, la gioia era completa. Anche la colazione del mezzogiorno e il pranzo serale erano consumati in famiglia. 38 Ma non è certo che tutti i Faraoni si siano comportati così. Akhenaton reagì contro molti usi e molte idee dell’epoca precedente che dopo di lui rifiorirono. All’inizio della XVIII dinastia il re viveva molto meno in famiglia. Il re Ahmose era andato a riposarsi sul suo divano e vi trovò la lodatissima, graziosissima figlia reale, sorella reale, divina sposa, grande sposa reale Ahmose Nefertari. Quali saranno stati gli argomenti di quell’incontro? Il bene che potevano fare a coloro che stavano laggiù, ai trapassati che rivendicavano l’acqua e le tavole delle offerte disposte per tutte le feste del cielo e della terra. Leggermente stupita, la regina, che forse si aspettava qualcosa di più galante, chiese: «Perché questi pensieri? A che proposito facciamo questo discorso? Che cosa ti è entrato in cuore?». Il re le rispose: «Mi sono ricordato della madre di mia madre, della madre di mio padre, la grande sposa reale, la madre reale Teti-Sheri, dalla voce giusta la cui tomba ipogea e il cui monumento oggi sono invasi dalla polvere di Tebe e di Tini. Ti ho detto questo perché la Mia Maestà desidera farle innalzare una piramide e un castello a To-giusir, nelle vicinanze del monumento della Mia Maestà, di far scavare una cisterna, piantare alberi, offrire pani, e dotati di uomini e terreni e gratificati di greggi e in più di sacerdoti, incaricati di eseguire le cerimonie e di uomini che ne conoscono le proprie funzioni». 39 Ammiriamo la pietà religiosa del re, la dignità del suo linguaggio, i riguardi che attesta alla moglie ma non possiamo impedirci di pensare che la regina probabilmente avrebbe preferito parlare d’altro. Ramses II era meno austero. I molti testi che parlano di Pi-Ramses, la residenza da lui fondata sulle rovine di Avari nel Delta orientale, ne esaltano il fascino e la gaiezza. Si mangiava bene, si beveva meglio. Il vino sapeva di miele. Si portavano corone di fiori e si acclamava il re tutti i giorni. Insomma, un paradiso. 40 Anche ad Akhetaton la vita scorreva in mezzo alle feste ma c’era almeno una differenza. Il re eretico praticava le virtù famigliari come noi le intendiamo. I Ramessidi amavano il cambiamento. Sotto Ramses II cinque donne, a nostra conoscenza, si sono fregiate del titolo di grande sposa reale. Non è un numero straordinario per un re che ha regnato sessantasette anni ma i suoi centosessantadue figli dimostrano che non si era sicuramente attenuto soltanto alle mogli ufficiali. L’esiguità dei nostri documenti non ci permette di capire come si formasse l’accordo in tutta questa vasta parentela. Notiamo

soltanto un esempio di galanteria offerto dal gran re. Egli aveva concluso la pace col suo avversario Hattusil, re degli Hittiti, ma le ostilità non erano cessate. Tutte le volte che i soldati egizi incontravano dei soldati hittiti si scatenava la battaglia. Hattusil prese una grande decisione. Si spogliò di tutti i suoi beni e li inviò a Ramses II con la sua figlia beneamata alla testa. Il corteo partì nella cattiva stagione ma il dio Sutekh, che non poteva rifiutare niente a Ramses, suo remoto discendente, su sua richiesta fece un miracolo. Arrivarono delle giornate estive. Un sole radioso illuminò il lungo viaggio della principessa dalla sua capitale al centro dell’Asia Minore fino in Egitto. E non era tutto. Ramses decise di innalzare un castello fortificato fra Egitto e Fenicia, che chiamò Ramses-grande-di-vittoria, e lo pose sotto la protezione di quattro divinità, due asiatiche, Sutekh e Astarte, e due egizie, Amon e Uagit. Vi concentrò delle provviste, vi si recò personalmente ad aspettare la principessa e la sua scorta e l’accompagnò alla sua residenza di Pi-Ramses mentre il popolo manifestava rumorosamente la sua gioia di vedere una principessa così bella e dei soldati egizi che per la prima volta potevano fraternizzare con dei soldati hittiti. 41 I successori di Ramses II non tentarono di sottrargli questo vanto. Lo stesso Ramses III, che pure era spinto dall’emulazione a eguagliare in tutto il suo predecessore, si limitò a tre mogli e una decina di figli, ma amava molto la compagnia delle donne. Giocava spesso a dama con graziose fanciulle svestite che gli portavano fiori, bevande e cibi. I re amavano anche passare il tempo con i compagni d’armi e di caccia e con persone celebri per il loro sapere. Khufu una volta aveva invitato i figli e ognuno di essi a turno gli raccontò una storia. Lo stesso Khufu venne a sapere che ai suoi tempi viveva un sapiente che era anche un operatore di miracoli e mandò uno dei suoi figli a cercarlo. Snefru fece venire a corte un sapiente che leggeva nel passato e prevedeva l’avvenire. Molto più tardi, Amenhotep III confessò a un saggio, che portava il suo stesso nome, le sue ansie e il suo desiderio di vedere gli dèi.

Intrighi da harem Il Faraone era considerato un dio, figlio legittimo di Amon, ma c’erano anche gli empi che complottavano per la sua rovina in modo da abbreviarne il

regno e cambiare il corso naturale delle successioni. Verso la fine del regno di Ramses III, una delle sue mogli che si chiamava Taia meditò di assicurare la successione del vecchio re a suo figlio che il papiro giudiziario di Torino indica con il nome, inesatto, di Pentaur. 42 La donna si accordò con un maggiordomo, Pabakikamun, il cui nome significa servo cieco. Questi fece da agente di collegamento fra le donne dell’harem devote a Taia e le loro madri e sorelle che arruolarono persone disposte a ribellarsi ai loro signori. 43 Pensò di avere reclutato un alleato prezioso nella persona di un direttore di greggi, Pen-hui-bin, e su sua richiesta gli procurò un libro del re Usirmarê Miamun, il dio grande, suo signore Vita, Salute, Forza. 44 Con l’aiuto di questo libro, Pen-hui-bin preparò cartigli e statuette di cera che avrebbero dovuto esercitare effetti miracolosi sul Faraone e sui suoi sostenitori indebolendoli o facendo loro dimenticare i propri doveri. Molti funzionari e donne, infatti, aderirono al complotto. Un congiurato, capo degli arcieri di Kush, fratello di una donna dell’harem che scriveva troppe lettere, sul verbale del processo è indicato con il nome di Bin-m-Yat (Il male è a Tebe). Un altro ufficiale è chiamato Mesed-su-Rê (Ra lo odia). 45 Senza dubbio prima del dramma questi uomini si chiamavano «Il bene è a Tebe» e «Ra lo ama» ma in seguito erano diventati indegni di nomi così lusinghieri. Molte persone vennero a sapere del complotto, e molti parlarono troppo. Il dio Ra non ne permise il successo. Non sappiamo come sia riuscito a ostacolare il complotto dei malvagi, ma siamo informati che i principali colpevoli e i loro complici vennero arrestati insieme a coloro che erano a conoscenza di quelle odiose azioni e non le avevano rivelate. Venne costituito un tribunale che comprendeva due tesorieri, un porta-ventaglio, quattro scalchi e un araldo. Ai magistrati di professione, il Faraone preferì uomini della sua corte. In un discorso preliminare il cui inizio ci è stato tramandato in cattivo stato, li invitò a essere implacabili: «Che tutto ciò che hanno fatto ricada sulle loro teste. Io invece, che sono protetto e tutelato per l’eternità, sto con i veri re che stanno davanti ad Amonrasonter e davanti a Osiride, signore dell’eternità». 46 Il re non ebbe la mano felice nella scelta dei membri della commissione. Due di essi e un ufficiale delle guardie rifiutarono di testimoniare quando seppero che alcune donne erano fuggite e preferirono raggiungerle in un luogo di malaffare. Ma non a lungo: furono scoperti, a loro volta, da persone più serie. Come prima punizione ebbero tagliati naso e orecchie. 47 Così il re Horonemheb puniva i magistrati e i prefetti che abusavano delle loro

funzioni. Lo scriba, per registrare la punizione definitiva dei principali colpevoli usa una espressione singolare. «Li hanno messi sul loro posto. Sono morti da soli.» La frase potrebbe significare che quegli sventurati furono lasciati soli nella sala del giudizio, in compagnia dei loro rimorsi e di un coltello affilato a portata di mano. Probabilmente sapevano che cosa restava loro da fare. Ma Gaston Maspero, sulla base dell’esame di una mummia portata alla luce a Deir el-Bahari e nota come mummia del principe senza nome, ha suggerito una spiegazione più drammatica. È la mummia di un uomo di venticinquetrent’anni, di buona costituzione e privo di lesioni, che era stato sepolto senza avere subito le operazioni che di solito si eseguivano per preparare l’imbalsamazione. La massa cerebrale non era stata estratta e gli organi interni erano intatti. «Mai un volto ha manifestato più fedelmente l’immagine di un’agonia più impressionante e spaventosa. I tratti orribilmente contratti indicano con quasi assoluta certezza che il disgraziato deve essere stato seppellito vivo e quindi deve essere morto per asfissia.» 48 Forse qualche lettore troverà la spiegazione troppo romanzesca, ma alla prima soluzione si può obiettare che non esistono prove che in Egitto si sia mai permesso ai colpevoli di punirsi autonomamente e che comunque per coloro che avevano cercato di attentare al Faraone non poteva essere previsto nessun riguardo.

I pensieri reali Un lungo regno e qualche disavventura del tipo di quella che abbiamo appena raccontato potevano suggerire al Faraone il desiderio di comunicare ai posteri la sua esperienza degli uomini. Molti sovrani hanno lasciato testi di istruzioni, ad esempio il padre di Merikara, Sehotepibrê. 49 Ma né Seti, che era entrato nell’Amentit nel vigore degli anni, né Ramses II, che non si era mai stancato di svolgere il ruolo di dio fra gli uomini, ci hanno tramandato le loro confidenze. Invece ci è giunto quasi intatto il lungo documento che Ramses III ha dettato alla fine della sua vita. 50 Il re è consapevole di avere lavorato bene; ha dedicato le migliori risorse del paese a ingrandire, abbellire i templi del dio, soprattutto quelli di Amon a Opet, di Tum a Iun di Ra, di Ptah a Menfi e delle loro paredre senza dimenticare quelli dei signori meno importanti. Li ha dotati di numeroso personale bene addestrato, di proprietà e

di greggi. In occasione di ognuna delle loro feste ha inviato ai loro santuari bevande e cibi. Ma non ha dimenticato gli uomini. Ha fatto regnare l’ordine e la pace. Ha sconfitto duramente e arruolato nelle sue caserme i Libici che si erano insediati come a casa loro in tutta la zona del Delta fra il Nilo occidentale e il Sahara. I popoli del mare sono stati convinti per molto tempo a evitare di approdare sui lidi egizi. Ha costruito intere flotte, inviato innumerevoli spedizioni in tutte le direzioni per portare indietro incenso, terebinto, turchese, oro, rame, ebano e avorio, abeti del Libano. L’Egitto è diventato un giardino. Nessuno turba più la pace. «Ho fatto vivere la terra intera con i suoi abitanti, Rekhyt, Payt e Henmyt, uomini e donne. Ho strappato l’uomo alla sua miseria. Gli ho dato aria. L’ho protetto contro il forte che l’opprimeva [...] La terra è stata sazia e felice durante il mio regno. Ho fatto del bene agli dèi come agli uomini. Non mi sono appropriato di niente in questo mondo. «Ho concluso il mio regno sulla terra come sovrano delle due terre. Voi siete miei servitori, sotto i miei piedi. Voi siete preziosi, per il mio cuore, come le vostre azioni. Possiate leggere i miei decreti e le mie parole. E ora riposo nella necropoli come mio padre Ra. Io mi accompagno alla Grande Enneade degli dèi del cielo, in terra e nel Duat.» 51 Pur affidandosi ai suoi dèi, il re nutre una preoccupazione per suo figlio che Ra stesso ha generato, il figlio di Amon uscito dalla sua carne, incoronato signore delle due terre come Tatenen. Il mondo era indiscutibilmente sotto i suoi sandali. Davanti a lui gli uomini baciavano la terra. Ma gli Egizi avrebbero seguito il consiglio di colui che adesso si era confuso con gli dèi che l’avevano creato chiedendo di essere seguito in ogni tempo, adorato, esaltato e che la sua bellezza aumentasse come quella di Ra ogni mattino? Il re moltiplica gli appelli a tutti gli dèi in favore di suo figlio, come se indovinasse che i tempi migliori dell’Egitto faraonico erano ormai finiti. Ad Amon diceva: «Ascolta le mie preghiere, mio padre, mio signore. Io sono solo nell’Enneade degli dèi che ti stanno accanto. Fai sorgere mio figlio come re nella dimora di Tum [...] Sei tu che lo hai proclamato re quando era giovane e l’hai scelto come sovrano Vita, Salute, Forza delle terre, al di sopra degli esseri umani. Dagli un regno di milioni di anni [...] Dona la gioventù alle sue membra e donagli figli quotidianamente. Tu sei lo scudo che lo circonda ogni giorno. Poni la sua spada e la sua mazza al di sopra degli Asiatici abbattuti

sotto la paura che ne hanno, come se fosse Baal. Che egli possa a suo piacere allargare le frontiere. Che le terre e i deserti abbiano terrore di lui. Dagli Tomery con le acclamazioni. Allontana il male, le catastrofi, i disastri. Fa’ che la gioia dimori nel suo cuore, che si esclami, si canti e si danzi davanti alla sua bella faccia. Metti l’amore per lui nel cuore degli dèi e delle dee, la tenerezza e la venerazione per lui nel cuore dei Paiti [...] «Fai in modo che ciò che predici si realizzi con sicurezza e solidità. Ciò che tu dici si fa con splendida solidità. Possa attribuirmi una regalità di duecento anni e consolidarla per mio figlio che è sulla terra. Rendi la sua durata più lunga di quella di ogni altro re tenendo conto del bene che ho fatto alla tua persona. Egli farà il re in base al suo ordine perché sei tu a incoronarlo. Non si distoglierà da quello che fai, signore degli dèi. Concedi dei Nili grandi e forti nel tuo tempo in modo da alimentare la sua regalità con provviste numerose. Fai venire al suo palazzo sacro i re che ignorano l’Egitto con il dorso ricurvo...» 52 Il re ripete la sua preghiera in termini altrettanto pressanti a Tum, a Ptah, a tutti gli dèi e a tutte le dee della Grande Enneade. Le ultime righe del documento saranno un appello supremo agli dèi e agli uomini per quel figlio beneamato. Qualche saggio, come l’Egitto ne ha prodotto così generosamente, avrà forse avvertito Ramses III che i flagelli che la sua abilità, il suo coraggio e la sua fortuna avevano tenuto lontani sarebbero ben presto precipitati su Tomery? Anticamente Khufu era stato avvertito allo stesso modo che la sua dinastia sarebbe finita dopo tre generazioni. La dinastia dei Ramessidi aveva solo circa settant’anni davanti a sé e gli ultimi sarebbero stati molto spiacevoli, ma sotto altri signori l’Egitto avrebbe vissuto ancora dei bei giorni. 1. Pap. Harris, I, 57, 3 ss. 2. Kuentz, Deux stèles d’Amenophis, II, 12. 3. Gauthier, «La grande inscription dédicatoire d’Abydos», AZ, XL, VIII, 52-66. 4. Urk., IV, 765. 5. Moret, Du caractère religieux de la royauté pharaonique, Paris 1903. 6. Piankhi, 25-26, Urk., III, 14. 7. Piankhi, 85-86, Urk., III, 27-28. 8. Piankhi, 103-105, Urk., III, 38-40. 9. Montet, Le drame d’Avaris, 108-110. 10. Lefebvre, Histoire des grands prêtres d’Amon de Karnak, 117 ss.

11. Stele 88 di Lione, Mélanges Loret, 505. 12. Rappresentazioni del re in costume da parata si trovano a Karnak, Luxor, Abido e in tutti i templi. Si veda in particolare Medinet-Habu, 123-124. 13. Sulle mummie di Chechanq e di Psusennes a Tanis ho trovato una ricca collezione di costumi reali: Montet, Tanis, 146-157. 14. Diodoro, 1.70. 15. Kêmi, VIII. 16. Iscrizione A del tempio di Radesieh, Bibl. æg., IV. 17. Hammamat, 240 e 12. Alan H. Gardiner, tuttavia, ritiene poco probabile che il re si sia recato personalmente ad Hammamat (J.E.A., XXIV, 162). 18. È la stele di Kuban, attualmente conservata presso il museo di Grenoble e pubblicata da Tresson: La stéle de Kouban, Le Caire 1922. 19. Queste informazioni ci sono state fornite dallo stesso Nebunnef Immite l’iscrizione della sua tomba a Tebe, AZ, XLIV, 30-35 e Lefebvre, op. cit., 117 ss. 20. Maspero, Contes populaires, IV ed., 79-103. 21. Miss. fr., V, 496. 22. Davies, El Amarna, VI, 29-30. 23. Le cerimonie di ricompensa sono spesso rappresentate nelle tombe del Nuovo Impero: Davies, El Amarna, I, 6, 30; III, 16-17; IV, 6; VI, 4-6, 17-2 D; Davies, Neferhotep, 9-13; Louvre C 213; Miss. fr., V, 496; tomba 106 a Tebe (Porter et Moss., I, 134). 24. Davies, Neferhotep, 14-18. 25. Secondo i bassorilievi della tomba di Horemheb a Leida (Beschreibung der ægyptischen Sammlung, IV, 21-24). 26. Lefebvre, Histoire des grands prêtres d’Amon de Karnak, 194-195. Inscriptions concernant les grands prêtres d’Amon Romé-Roy et Amenhotep, tav. 11. 27. Le scene sono state studiate nei particolari nel testo di Montet, Les reliques de l’art syrien dans l’Égypte du Nouvel Empire, Paris 1937, cap. I. 28. Diodoro, I, 53. 29. Stele ritrovata nel tempio di Montu a Erment, Ex oriente lux, 1939, 9. 30. Grande stele ritrovata a Giza, pubblicata da Varille, Bulletin I.F.A.O., XLI, 31 ss. 31. Kuentz, Deux stèles d’Aménophis, II, 6-7. Altri testi esaltano la forza fisica di Amenhotep II: Urk., IV, 976-977, Ann. S.A.E., XXVIII, 126; Medamud, 1326-1327, 145; Bulletin of the metropolitan Museum of arts, 1935, II, 49-53. 32. Piankhi, 64-69, Urk., III, 21-22. 33. Medinet-Habu, 109-110. 34. Così fece sulla stele eretta fra le zampe della grande sfinge, pubblicata da Erman,

Sitzungsberichten pr. AK (philosophish-historischen Classe 1904, 428-444). 35. Secondo la stele di Napata, pubblicata da Reissner, Inscribed Monuments from Gebel Barkal, AZ, LXIX, 24-39 e l’iscrizione di Amenemhat, Urk., IV, 890. 36. Medinet-Habu, 35, 116, 117. 37. Poema di Qadech, ed. Kuentz, 338-339. 38. Davies, El Amarna, III, 30-34, 4, 6, 18, 13; IV, 15. 39. Cairo, Cat. gén. 36002. 40. Montet, Le drame d’Avaris, 116-129. 41. Secondo la stele del matrimonio di Ramses II, Ann. S.A.E., XXV e Bibl. æg., VII, 12; cfr. Montet, Drame d’Avaris, 134-135. 42. T. Devéria, Le papyrus judiciaire de Turin et les papyrus Lee et Rollin, Paris 1868, e Bibliothèque égyptologique, V. 43. Pap. judiciaire de Turin, col. IV, 2-6. 44. Pap. Lee n. 1 e pap. Rollin. 45. Pap. judiciare de Turin, col. III. 46. Ibid., col. III. 47. Ibid., col. VI. 48. Maspero, Momies royales, 782; Histoire, II, 480. 49. Scharff, Der historische Abschnitt der Lehre für König Merikaré, Monaco 1936: Maspero, Les enseignements d’Amenemhait I er à son fils Sanouasrit I er, Le Caire 1914. Anche dei privati, soprattutto durante l’Impero di Mezzo, hanno pubblicato insegnamenti che combinano l’elogio del re con il consiglio di servirlo con assoluta devozione. Cfr. Kuentz, Deux versions d’un panégiryque royal; Studies presented to F.Ll. Griffith, London 1932. 50. È il Papiro Harris I, di cui è stata in seguito pubblicata un’edizione migliore, Bibl. æg. 51. Pap. Harris, I, 79, 1-5. 52. Ibid., 22, 3-23, 4.

IX

L’esercito e la guerra

Vantaggi e inconvenienti del mestiere militare Gli scribi giudicavano la condizione militare molto al di sotto della loro ma i loro allievi talvolta, abbagliati da vane apparenze, preferivano la spada e l’arco e soprattutto il carro trainato da due cavalli scalpitanti al calamo e alla tavolozza. A quei giovani insensati bisognava indicare la miseria della vita del soldato. Fra gli esercizi di stile che l’epoca ramesside ci ha tramandato la descrizione di queste miserie occupa un posto importante. Il futuro ufficiale di fanteria veniva scelto fin dalla culla. Appena era alto due cubiti, veniva rinchiuso in una caserma e sottoposto a un addestramento così duro che ben presto la sua testa e il suo corpo erano cosparsi di piaghe che non guarivano più. Se riposava, veniva battuto come una pergamena. Quando infine era ritenuto pronto a combattere la sua vita diventava un incubo: «Vieni che ti racconto le sue spedizioni in Siria, le sue marce attraverso le montagne. Si porta in spalla il suo pane e la sua acqua, come un asino. Ha le vertebre della schiena tutte storte. Beve acqua salmastra e dorme mezzo sveglio. Quando raggiunge il nemico è come un uccello preso in trappola. Non ha più forze in tutto il corpo. Quando è venuto il momento di rientrare in Egitto, è come un legno roso dai vermi. Sta male e spesso lo coglie la paralisi e deve farsi trasportare su un asino. Le sue vesti sono portate via dai ladri e i soldati d’ordinanza scappano via». 1 Queste fatiche erano risparmiate all’ufficiale che combatteva sul carro. All’inizio questi, quando riceveva due bei cavalli provenienti dalla scuderia reale e cinque uomini d’ordinanza, non stava più nella pelle dalla gioia e correva a farsi vedere in città. Provocava le persone che osavano non mostrargli ammirazione. Ma aveva finanziato il corredo di due dei suoi cinque uomini e adesso doveva acquistare un carro. Il timone costava tre deben d’argento e la cassa cinque. La piccola fortuna ereditata da suo padre e sua madre se ne andava interamente in quelle spese. Provocava nuove liti. Cadeva ed era ferito. I suoi cavalli venivano abbandonati in un fosso proprio mentre i suoi capi passavano per l’ispezione. Veniva condannato alla bastonatura e veniva sbattuto a terra, calpestato e colpito

cento volte. 2 Questo quadro non è sincero: dimostra soprattutto che i letterati non amavano i militari i quali, probabilmente, li ricambiavano. I vecchi soldati che dopo tante campagne in Siria, in Nubia o in Libia potevano rientrare nel loro paese e terminare la loro esistenza in un pensionamento confortevole, come Ahmose, figlio di Abana, o che avevano ottenuto una sinecura a corte come Ahmose di Nekhabit, non avevano un ricordo così penoso del loro servizio attivo: «Il nome di chi è stato valoroso nelle sue azioni – dice il figlio di Abana – non scomparirà mai da questa terra». Il mestiere pagava. Dopo ogni azione vittoriosa si divideva il bottino. Il valoroso il cui nome era stato segnalato all’araldo reale riceveva terreni in città e schiavi dei due sessi in occasione delle confische operate ai danni dei nemici del re. Ahmose ne ricevette diciannove e ottenne più volte l’oro del valore in forma di collane e coppe simili a quella di Thuty sulla quale fu incisa in geroglifici la scritta: «Donata dal favore del re Menkheperrê al nobile principe, padre divino, amato dal dio che riempie il cuore attraverso tutti i paesi stranieri e le isole del Grande Verde, che riempie i magazzini di lapislazzuli, argento e oro, il preposto ai paesi stranieri, quello ai soldati, il lodato dal dio buono, quello cui il signore delle due terre assicura la sopravvivenza, lo scriba reale Thut». 3 Anche un altro soldato di carriera, Didu, che era stato a sua volta preposto ai deserti a Occidente di Tebe, messaggero reale per tutti i paesi stranieri, porta-stendardo della guardia di Sua Maestà, comandante della nave MeryAmon e infine capo della polizia, ricevette in più di una occasione l’oro della lode. Portava, appese al collo con un cordoncino, sopra la gorgiera, delle api e un leone d’oro. 4 Un altro porta-stendardo suo contemporaneo che rispondeva al pomposo nome di Neb-Kêmi (signore d’Egitto) aveva ricevuto un braccialetto d’argento dorato. 5 Ancora più fortunato, il porta-stendardo Nebamon raggiunse la vecchiaia servendo il Faraone con coraggio e fedeltà senza incorrere mai in alcuna punizione o alcun rimprovero nel corso della sua lunga carriera. Sua Maestà, che ne aveva conosciuto i meriti, aveva deciso di procurargli una vecchiaia onorata in una bella casa a due piani, dotata di un cortile interno all’ombra di una palma. Ne dipendevano domestici, greggi, terreni e servi, garantiti da qualsiasi requisizione dei funzionari reali. Gli venne conferito il titolo di amakh. Il Faraone, che non aveva voluto sottrarlo completamente dal servizio attivo, l’aveva nominato capo della polizia nel settore occidentale della città.

Quei titoli e quei beni gli furono conferiti nel corso di una vera e propria presa d’armi. Quando era porta-stendardo, Nebamon si trovava, come Didu, che abbiamo già citato, a bordo di una nave da guerra, la Mery-Amon. Il suo stendardo, del resto, rappresentava una nave con una cabina centrale, un timone e del sartiame. Tutto l’equipaggio venne in barca a vedere la premiazione del suo antico comandante. Gli ufficiali stavano seduti su sgabelli a X. Gli uomini in piedi, gomito a gomito, formavano quattro schiere. Nebamon restituì lo stendardo che aveva portato quando era compagno del signore delle due terre nei paesi stranieri del Sud e del Nord e adorò lo stendardo. Poi un ufficiale, porta-ventaglio del re, gli consegnò un nuovo stendardo rappresentante una gazzella con una piuma di struzzo sulla schiena, caratteristico dei funzionari di polizia operanti a ovest di Tebe, e una colonnetta a forma di palma un po’ più lunga di una mano che forse conteneva la copia del decreto reale riguardante Nebamon. Dopo questa consegna, i Megiaiu sfilarono davanti al loro nuovo capo. Due funzionari, il capitano dei Megiaiu, Teri e il luogotenente Mana gli si presentarono con i gomiti e le ginocchia a terra. Gli venne presentata una serie di bandierine, alcune quadrate, altre a forma di semicerchio, sulle quali senza dubbio erano scritti il nome, il numero o un segno distintivo delle unità che componevano il corpo dei Megiaiu. Infine la tromba suonò a raccolta gli uomini chiamandoli alla sfilata. In testa marciava il porta-stendardo seguito dagli arcieri che precedevano la fanteria pesante armata di picca e scudo. Passando davanti a Nebamon, gli arcieri presentarono l’arco con la mano destra. Poi se l’attaccarono al collo in modo da tenere le mani libere e marciarono stringendo i pugni. 6 Questi uomini indubbiamente non avevano niente da lamentarsi dei loro sovrani. Sappiamo molte meno cose sugli ufficiali subalterni e sui soldati semplici che non avevano i mezzi per farsi costruire una grande tomba e decorarla con immagini che rimandavano agli episodi della loro vita militare. Queste immagini però ci suggeriscono qualcosa anche sulla sorte della truppa. I funzionari superiori, scribi reali e scribi delle reclute, come Tjanuni, Horemheb, Amenemheb, si mostravano molto preoccupati del cibo dei soldati. Il cibo abituale consisteva in pane, carne di manzo, vino, gallette, verdure e ogni specie di buone cose che potessero sostenere i soldati. Guidati dai loro graduati, gli uomini arrivavano in buon ordine, ognuno con una borsa. Varcavano una porta e in una corte trovavano anfore, cesti pieni di

gallette, polpette e pezzi di carne. Uomini anziani, vestiti di bianco, stavano seduti a terra dietro i cesti: erano certamente panettieri e cuochi. Gli scribi progressivamente registravano gli uomini e le razioni. 7 Fra gli incarichi di Nebamon, quando fu promosso comandante dei Megiaiu, c’erano la sorveglianza, l’istruzione e l’addestramento delle reclute. Praticava questa sorveglianza beatamente, seduto su uno sgabello assistito da due ufficiali d’ordinanza che tenevano a sua disposizione un altro sgabello, una sacca, dei sandali e delle canne. In sua presenza degli scribi portavano e registravano provviste, sigillavano giare di vino, marchiavano buoi. 8 È probabile che tutti quei viveri non fossero destinati solo a Nebamon ma alle truppe poste ai suoi ordini perché Nebamon era il responsabile delle reclute. I Ramessidi vollero, come i loro predecessori, che i soldati fossero ben nutriti e bene equipaggiati e fecero ciò che dipendeva da loro perché fossero contenti della loro sorte. Perciò Ramses II rimprovera severamente il suo esercito per averlo abbandonato solo in mezzo ai nemici, col solo aiuto di Amon: «Come siete stati vili, miei carristi! Non ho proprio ragione di essere fiero di voi. Eppure non ce n’è uno solo di voi al quale non ho fatto del bene nel mio paese. Non mi sono forse alzato come un signore? Non eravate poveri? E io vi ho fatti grandi, col mio ka, ogni giorno. Ho assicurato al figlio il bene del padre. Ho allontanato il male da questa terra. Vi ho alleviato delle imposte e vi ho dato altre cose che in passato vi erano state tolte. Placavo il desiderio di chiunque lo esprimesse [...] Nessun signore ha fatto per i suoi soldati quello che la Mia Maestà ha fatto per voi. Io vi ho permesso di risiedere nelle vostre città senza servire per me come funzionari o come carristi. Permettevo a questi ultimi di avviarsi verso le loro città dicendo: “Li troverò comunque sempre in battaglia e all’ora delle marce”». 9 Ramses avrebbe potuto chiedersi se non avesse reso addirittura la vita troppo facile alle sue truppe, ma il terzo della dinastia aveva continuato per la stessa strada. Qualche anno dopo la sua ascesa al potere, il nemico battuto ovunque non osava più mostrarsi. I soldati erano diventati delle specie di redditieri che potevano risiedere in una città di loro scelta con le loro famiglie e disponevano di molto tempo libero: «Ho permesso ai soldati e ai carristi di insediarsi nel mio tempo. I Sardani, i Qahaq (mercenari di origine libica) nelle loro città dormivano sdraiati sulla schiena. Non avevano più niente da temere, né il guerriero nubiano né il nemico siriano. Le armi e gli archi erano

riposti nelle stanze dei magazzini. Essi erano saziati, abbeverati, pieni di elogi. Le loro donne e i loro figli potevano vivere con loro ed essi non dovevano mai guardarsi le spalle. Avevano il cuore tranquillo. Ero con loro come la garanzia e la protezione della loro carne». 10 Insomma, quello che Erodoto dice dell’esercito egizio dell’epoca di Psammetico, era vero per quello dell’epoca dei Ramessidi. C’erano due specie di guerrieri che erano detti calasiri ed ermotibi corrispondenti ai fanti, meshau, e ai carristi, tentheteri, dei Ramessidi. Non imparavano altro mestiere che quello delle armi e se lo tramandavano di padre in figlio. Erano tutti proprietari. Agli uomini della guardia reale spettavano razioni supplementari di grano, di carne e di bue. 11

Il servizio interno Quando i re tebani iniziarono la guerra di liberazione contro gli Hyksos, il loro esercito non comprendeva solo Egizi: pensarono di arruolare anche prigionieri. Nel reggimento comandato dallo scriba reale Tjanuni al tempo di Thutmose I troviamo uno squadrone di valorosi ben diversi dalle reclute indigene. 12 Gli Egizi erano alti e snelli, con le spalle larghe e il ventre piatto. Quegli stranieri erano di membra grosse e avevano i capelli lunghi sul collo. La cintura stretta faceva sembrare enorme il loro ventre, comunque sporgente. Si attaccavano alla schiena e ai polpacci delle code di pantera. Provenivano certamente dai paesi meridionali ma non erano Neri. Nelle esercitazioni avanzavano a grandi passi tutti insieme, portando avanti la mano destra che stringeva un bastone. Akhenaton addirittura preferiva gli stranieri. Nella sua guardia personale, che lo aspettava all’uscita del palazzo e lo accompagnava al tempio, figuravano più stranieri, Libici, Neri che Egizi. 13 Con Horonemheb, comparvero nell’esercito egizio gli Hittiti e, con Seti, i popoli del mare. La guardia di Ramses II era interamente composta da Sardani. 14 Erano uomini robusti, magri e ben fatti. I disegnatori egizi, che erano dotati di molta capacità di osservazione, hanno colto acutamente i lineamenti che li distinguevano dagli Egizi dal volto regolare e dal profilo netto, dai neri col volto più orizzontale, dai Libici ossuti, dai Semiti dal naso aquilino. Dai dipinti di una parete del tempio di Abido si potrebbe supporre che il Faraone avesse irreggimentato contro la coalizione che lo minacciava

anche degli Europei. I successi dell’esercito di Ramses III contro i Libici e i popoli del mare permisero al re di fare molti prigionieri che subito vennero marchiati come bestiame, con il sigillo del suo nome, inquadrati, irreggimentati e sottoposti alla disciplina egizia. 15 L’addestramento consisteva in marce collettive e combattimenti corpo a corpo. Uno dei piaceri del re era lo spettacolo delle lotte e dei concorsi istituiti fra i soldati meglio addestrati, che poi venivano invitati a corte. 16 I principi portavano il ventaglio con il manico. Un pendente, fermato fra i capelli, scendeva sulla loro guancia fino a coprirla. A essi si univano principi stranieri, come farà il transfuga Hadad, il nemico di Davide. I Siriani si distinguevano per la larga sciarpa annodata intorno al corpo, i lunghi capelli trattenuti da un nastro e la barba. I Neri portavano pesanti orecchini e una piuma di struzzo fra i capelli. Gli Hittiti e i Libici avevano indossato le vesti da parata e salutavano il Faraone a una sola voce: «Tu sei come Montu, Faraone Vita, Salute, Forza, nostro buon signore. Amon ha sottoposto a te questi stranieri che venivano contro di voi, da malvagi». I combattenti scendevano nell’arena. Innanzitutto si scontravano due uomini armati di bastone, che indossavano il perizoma militare caratterizzato da un largo panno di forma triangolare con la punta rivolta in basso, che ricadeva sul davanti. L’avambraccio sinistro era munito di una bretella, la mano sinistra era protetta da un guanto di cuoio, il mento e le due guance da una robusta fascia che si attaccava a una fascia frontale. Uno dei campioni si inchinava verso il principe reale, capo supremo dell’esercito, che lo incoraggiava dicendo: «Al mio cuore, al mio cuore, oh combattente». L’altro alzava entrambe le braccia al cielo, poi la lotta aveva inizio. I due avversari si somministravano grandi colpi di bastone proteggendosi il viso con il braccio sinistro e si lanciavano sfide del tipo: «Stai attento, ti farò vedere la mano di un combattente». Agli schermidori seguivano i lottatori. Un egizio sollevava il suo avversario libico che gli mordeva la mano. Il primo urlava: «Attento siriano che mordi con la bocca! Il Faraone Vita, Salute, Forza, mio signore, è con me, contro di te!». Dobbiamo credere che il Faraone avrebbe interrotto la lotta per punire il contendente sleale o semplicemente che quel comportamento scorretto non avrebbe impedito il trionfo del campione egizio sostenuto dagli auspici del suo signore? Adesso i due contendenti si affrontavano e quello di sinistra sollevava la gamba dell’avversario e gli

annunciava in linguaggio militaresco che lo avrebbe gettato a terra davanti al Faraone. Poi un egizio, forse il vincitore del combattimento precedente, si misurava con un nero. L’arbitro egizio incoraggiava il compatriota anche se questo non era molto regolare: «Stai attento, che sei di fronte al Faraone Vita, Salute, Forza, il nostro buon signore!». Il campione sollevava il nero per la vita e lo incollava al suolo unendo al gesto la parola: «Eccoti sollevato, sporco nero! Adesso ti abbatterò a pezzi davanti al Faraone». Terzo tempo. Il nero toccava terra con le ginocchia e le spalle. Certamente aveva rinunciato, perché il suo vincitore si rialzava sollevando le braccia e proclamando la propria vittoria in questi termini: «Amon, il dio verdeggiante, il vincitore degli stranieri, il grande reggimento Orsimarê-è-la-guida ha conquistato tutta la terra!». L’amor proprio degli Egizi era così soddisfatto. Possiamo chiederci come la corte accogliesse il trionfo degli stranieri quando accadeva che fossero i più forti. Ma l’autore del bassorilievo che ha riprodotto questa scena della vita dei soldati non ci informa esplicitamente né delle reazioni del pubblico né delle ricompense concesse ai vincitori. Invece ha accuratamente descritto i principi stranieri che osservano lo spettacolo in seconda fila. La loro espressione impassibile non fa presagire niente di buono.

L’esercito in guerra L’esercito egizio durante la XIX e la XX dinastia ha avuto molte occasioni per mostrare il proprio valore. Secondo i racconti e i bassorilievi ufficiali, in particolare quelli che descrivono le imprese di Seti in Palestina e quelle di Ramses III contro i Libici e contro i popoli del mare, le spedizioni belliche costituivano un dramma in quattro atti: I. Distribuzione delle armi e partenza dell’esercito. II. Una grande battaglia in campo aperto. III. Assedio e conquista di una città. IV. Ritorno trionfale. Sotto i Ramessidi, le cose spesso andavano così. Ma la vittoria non era, anticamente, più certa e costante che nei tempi moderni. Gli Egizi non parlavano volentieri delle loro sconfitte, ma sappiamo che ne subirono di molto amare. Nell’ultimo periodo della XVIII dinastia, i soldati del re hittita Šuppiluliuma sconfissero e inseguirono gli Egizi attraverso la Siria per vendicare l’uccisione del principe che si era

recato in Egitto rispondendo all’appello della vedova del Faraone. 17 Ma il periodo di cui ci occupiamo fu, nell’insieme, glorioso per gli eserciti egizi. Seguiamoli nella loro marcia irresistibile.

La convocazione e la distribuzione delle armi Prima di lanciare il paese in guerra, il Faraone di solito sentiva il parere dei suoi consiglieri anche quando era deciso a fare esclusivamente di testa sua. Così fece Kamose, uno dei liberatori dell’Egitto, quando decise, ispirato da Amon, di attaccare gli Hyksos che occupavano tutto il Delta e i nomi dell’Alto Egitto e avevano recentemente mostrato l’ambizione di estendere il loro dominio e di imporre il culto del loro dio Setekh anche nell’Egitto rimasto indipendente. I consiglieri, persone timorate, avrebbero preferito aspettare e temevano di peggiorare una situazione non certo brillante ma cui si erano abituati. Ma prevalse il parere del re e la guerra fu decisa. 18 Non sappiamo se un messaggero notificò agli Hyksos la volontà del Faraone o se gli occupanti compresero le intenzioni dei Tebani solo vedendone gli eserciti avanzare verso nord. I re dell’antico Oriente si scrivevano molto, si inviavano enigmi, minacce, reclami, denunce, si annunciavano reciprocamente le nascite, i lutti, gli intrighi degli uni e degli altri. Un trattato formulato correttamente, con preambolo, articoli in gran numero e conclusione, constatò la fine delle ostilità fra Hittiti ed Egizi nell’anno XXI del regno di Ramses III. Esso fu creduto a lungo il più antico trattato del mondo. Adesso ne conosciamo alcuni altri ma per il momento non possediamo nessun documento destinato a notificare a un’altra potenza lo stato di guerra. Ritengo però probabile che esso venisse notificato perché durante le ostilità come vedremo gli avversari si scambiavano messaggi. Quando la guerra sembrava imminente, il Faraone preparava la fanteria e il suo equipaggio, i Sardani, che Sua Maestà aveva catturato e condotto via grazie alle sue vittorie, li armava e comunicava loro il metodo di combattimento. I Sardani costituivano un corpo speciale di cui il Faraone si riservava il comando. Il grosso dell’esercito, composto da Egizi, Siriani, Libici e da meridionali, era distribuito in più corpi. I testi del tempo di Seti citano il corpo di Amon, noto anche con il nome di «Arco valoroso», quello di Ra, detto «Il Braccio numeroso», e quello di Sutekh, «Arco potente». 19 Un

quarto corpo, quello di Ptah, per quanto ne sappiamo venne fondato all’inizio del regno di Ramses II. La distribuzione delle armi e dell’equipaggiamento si svolgeva in forma solenne e il re vi assisteva personalmente. 20 Ramses III aveva preso posto su un podio a balconata e appoggiando il braccio su un cuscino riceveva i saluti e ascoltava i discorsi dei suoi ufficiali. Poi prese la parola: «Si estraggano le armi, si espongano le armi per punire con il valore di mio padre Amon i paesi ribelli che non riconoscono l’Egitto!». Era in veste da cerimonia, perizoma di lusso, sandali ai piedi. Il fanciullo reale, lo scriba reale, vari ufficiali superiori erano radunati accanto a lui. Le armi erano schierate per categorie: i caschi che coprivano la testa e la nuca, dotati di visiera e di due cordoncini che partivano dal cimiero e finivano con delle ghiandine decorative, gli archi triangolari, le faretre, le cotte di maglia a maniche corte che proteggevano l’intero busto, le spade a forma di falce con il lungo manico completato da un pomolo che gli Egizi chiamavano «khopesh», braccio. I soldati, che indossavano un semplice perizoma con il pannello triangolare, arrivavano in colonna, in fila per uno, a mani vuote, ricevevano le armi e se andavano mentre numerosi scribi annotavano i loro nomi e le armi. Verso il XIII secolo, gli Egizi avevano finito per adottare le armi dei loro antichi nemici siriani. Non li avevano battuti solo con le proprie armi. I caschi che Ramses III faceva distribuire ai suoi uomini e che sono rappresentati cromaticamente in una stanza della sua tomba, somigliano molto ai caschi dei guerrieri siriani che ben conosciamo dalle scene di battaglia del carro di Thutmose IV, dalle processioni dei portatori stranieri di offerte e infine dalle opere originali siriane. 21 La forma è la stessa. Gli Egizi avevano semplicemente sostituito la coda di cavallo con dei cordoncini completati dalle ghiande. Il dio Seth, che a quei tempi spesso veniva chiamato Sutekh, il più asiatico degli dèi egizi, indossava un casco analogo, adorno di un disco solare sul davanti, due corna affilate e un lungo nastro attaccato alla sommità, completato appena al di sopra del suolo da un fiore triangolare. Sutekh era un dio guerriero e quindi si potrebbe sostenere che il casco dei soldati non era altro che quello del dio, trasformato per uso pratico, ma non bisogna dimenticare che Sutekh si era adeguato alla moda asiatica e assomigliava a Baal coma a un fratello. I guerrieri asiatici usavano da tempo l’arco triangolare. Gli Egizi ne avevano cambiati molti. In origine si servivano dell’arco a doppia incurvatura

che nell’Impero Antico avevano sostituito con uno a una sola curva; ma l’antico modello non era uscito completamente dall’uso. Con un arco di questo tipo Thutmose III e Amenhotep II trapassavano i loro bersagli di rame. A questo punto, l’intero esercito egizio era dotato dell’arco triangolare forse più facile da fabbricare in serie. È poi dimostrato che la spada a forma di falce era di antica derivazione asiatica. 22 Tutti i re di Biblo, nell’Impero di Mezzo, se ne facevano depositare un esemplare di lusso nella tomba. Un gruppo di guerrieri siriani ne presentò alcune al sommo sacerdote di Amon, Menkheperrêsenb. Thutmose III ne raccolse dei mucchi in Siria: gli Egizi si resero conto che si trattava di un’arma pericolosa. Il re l’adottò per sé e tutti ne seguirono l’esempio. Anche la cotta di maglia fu inventata in Siria. 23 Era una specie di giacchetto di cuoio che recava delle placchette di metallo. La maggioranza dei Siriani del carro di Thutmose III indossava la cotta di maglia. Alcuni la sostituivano con delle larghe fasce incrociate sul petto. La cotta non proteggeva i vili soldati di Retenu dalle frecce del Faraone ma gli Egizi avevano osservato che presentava diversi vantaggi. Il carro, che svolgeva un ruolo importantissimo nelle guerre di quel tempo, è un altro importante prestito che gli Egizi mutuarono dalla Siria. 24 Non sappiamo esattamente quando i Siriani conobbero per la prima volta il cavallo né quando fu inventato il carro. Sui documenti dell’Impero di Mezzo, sia siriani sia egizi, non sono citati. Il racconto di Kamose non ne parla ma a partire dagli inizi della XVIII dinastia, il cavallo e il carro risultano usati da entrambi gli avversari. La priorità spetta ai Siriani perché i nomi egizi del carro e delle sue parti, del cavallo e dei suoi finimenti sono tratti dal vocabolario semitico. Anche le decorazioni più frequenti rappresentate sulle casse dei carri, le palmette, gli animali l’uno rivolto contro l’altro, i grovigli di spirali sono di origine asiatica. Ma i carri del Faraone e dei principi, «dove tanto oro sporgeva a sbalzo» esibivano un lusso che anche i personaggi più importanti del Retenu non avrebbero potuto permettersi. 25 Anche i finimenti erano abbelliti da dischi d’oro e rinforzati col metallo. Tanta eleganza e tanta ricchezza, però, non devono far dimenticare che quel lusso non era in sintonia con la funzione pratica dei finimenti che consisteva nell’utilizzare al massimo la forza del cavallo, disciplinandola. I finimenti da testa erano composti dalla museruola e da due montanti che si riunivano in una coccarda, dal frontale, dalla testiera e dai paraocchi. Sulla testa era posata una specie di berretta da

cui sporgevano fiori artificiali o piume di struzzo. Le redini partivano dal morso. Al nostro moderno collare corrispondeva un finimento formato da tre pezzi principali, una striscia piuttosto larga, di forma rotonda, che copriva il garrese, una più sottile che passava sotto il corpo, piuttosto lenta, e una più aderente, appoggiata contro il pettorale. Il resto del corpo era libero. Banderuole attaccate un po’ dappertutto ondeggiavano al vento. Dischi d’oro brillavano sul cuoio. Sui paraocchi era incisa l’immagine di Sutekh, signore dei cavalli. L’equipaggio del carro comprendeva due uomini, lo scudiero e il combattente. Il primo reggeva una frusta che spesso era a sua volta un oggetto di lusso. Il combattente disponeva di arco, frecce, di una decina di giavellotti contenuti in una faretra e un astuccio fissato alla cassa. La piattaforma della cassa distava circa un cubito e mezzo dal suolo ed era posata direttamente sull’asse senza molle interposte. Queste macchine si rovesciavano facilmente sulle strade pietrose della Siria. L’equipaggio però, se aveva potuto prevedere l’incidente, aveva il tempo di balzare a terra perché la cassa era aperta sul didietro. Quando il carro era smontato, gli occupanti potevano staccare i cavalli e balzar loro addosso. Così facevano i Siriani. Anche gli Egizi facevano lo stesso, se era il caso, o almeno così ritengo, perché i loro disegnatori quando descrivevano una scena di battaglia non concepivano nemmeno l’idea che un carro egizio potesse ribaltarsi. I Sardani quando il Faraone li incorporò al suo esercito rimasero quali erano al tempo in cui combattevano contro di lui. Avevano mantenuto il loro perizoma, lo scudo rotondo, la spada a lama triangolare e il casco a forma di scodella rovesciata culminante in un cimiero adorno del disco e della mezzaluna. Lo stesso possiamo dire dei Filistei riconoscibili nell’esercito del Faraone per il loro diadema di piume. I Siriani non disprezzavano l’armamento degli Egizi, perché era molto simile al loro. Alcuni avevano conservato il medaglione e il perizoma decorati da ghiande. Anche i Neri erano rimasti fedeli all’arco a doppia curva che i loro antenati usavano da secoli; molti usavano anche i giavellotti di legno.

L’ordine di marcia Adesso l’Egitto era pronto a battersi. Il suo esercito stazionava nelle

pianure del Delta e ancora una volta si preparava a mettersi ordinatamente in marcia e a varcare, attraverso il ponte di Sile, il lago dei coccodrilli che un disegnatore dei tempi di Seti ha rappresentato su una parete di Karnak. Un reggimento di fanteria apriva la marcia. 26 Gli uomini erano incolonnati uno per uno e avanzavano parallelamente in gruppi di sette od otto. Seguivano i trombettieri, il cui strumento di rame o d’argento, lungo appena un cubito e diritto, poteva emanare solo poche note non molto sonore. Il tamburo era noto ma non l’ho mai osservato in scene di guerra mentre figura nel corso della presentazione delle reclute e nelle feste, il che fa pensare che fosse riservato a uso interno. Poi veniva un gruppo di ufficiali addetti alla persona del re, quindi un primo carro sul quale spiccava l’insegna dell’ariete culminante nel disco che garantiva all’intero esercito la protezione della principale divinità tebana. Questo carro era seguito da un altro gruppo di ufficiali. Preceduto da due porta-parasoli che camminavano a piedi, avanzava infine il carro del re che Ramses guidava personalmente. Un leone avanzava, nelle vicinanze dei cavalli, senza guinzaglio. Tutto l’esercito segnava il passo, i fanti di tutte le categorie, i carri e gli uomini dell’approvvigionamento che guidavano gli asini carichi di pacchi e giare o i carri trainati da sei buoi. Il deserto era vasto. La Palestina era un paese povero. Gli Egizi sapevano, per esperienza, che l’esercito avrebbe vissuto a lungo solo di quello che aveva portato con sé. Guerrieri e carri sfilavano lungamente attraverso le piste e raggiungevano la prima fonte d’acqua detta «Hupana», nei pressi di un migdol e di una costruzione detta «del Leone». 27 Di sorgente in sorgente si raggiungeva, a seconda dei casi, Bir-Sabé e Hebron oppure Gaza, in riva al mare. Le spiagge, le dune, i palmizi si succedevano a questo punto fino alle vicinanze di Megiddo dove il terreno diventava pietroso e mosso. Si profilavano poi i giardini di Tiro e Sidone che permettevano di godere un riposo incantevole. Nella pianura di Beirut si trovavano fonti abbondanti. A quel punto si cominciavano a scorgere le cime innevate delle alte montagne, che dominavano i pendii coperti di pini e abeti. In meno di una tappa si passava nei pressi di un torrente veloce e gelido che scorreva davanti alle stele incise all’inizio del regno di Ramses II e già consumate dal tempo. Dopo avere attraversato qualche villaggio di pescatori, boscaioli, contadini, l’esercito raggiungeva un altro fiume molto simile al primo. Le sue acque ogni anno si arrossavano del sangue di un dio. Era il momento di affrontare la montagna

ma proseguendo lungo la costa si raggiungeva, dopo una breve tappa, la città santa di Kapni, abitata da mercanti avidi e astuti sempre pronti a vendere il loro legname e ad affittare le loro barche agli Egizi. Valeva la pena di fermarvisi e chiedere la protezione della dea dei luoghi, che somigliava come una sorella alla Hathor di Menfi e di Iunit. Adesso l’esercito volgeva le spalle al mare e attraversava foreste spingendosi sempre più in alto per raggiungere il deserto. La montagna innevata, così lontana quando si costeggiava il mare, non sembrava più alta delle piramidi contemplate da Menfi. Finalmente una brezza deliziosa rinfrescava i soldati stanchi. L’altopiano finiva improvvisamente e si apriva su una radura verdeggiante ben coltivata quanto le pianure d’Egitto, cosparsa di borghi altrettanto numerosi, percorsa in tutte le direzioni da freschi ruscelli. Tutti si rendevano conto che Qadesh ormai non era lontana.

La battaglia Il nemico poteva accontentarsi di praticare una guerra difensiva al riparo delle sue roccaforti. Se si sentiva in grado di affrontare l’invasore in aperta campagna, si usava proporre un giorno e un luogo per la battaglia e tener conto delle opportunità dell’avversario. Quando l’Etiope Piankhi inviò il suo esercito verso il nord per attaccare gli Egizi, ricordò all’esercito quest’uso, anzi questa legge, in una famosa istruzione: «Non attaccate di notte ma secondo la regola del gioco, combattete a vista; annunciate la battaglia da lontano. Se [l’avversario] dice che i soldati o la cavalleria di un’altra città è in ritardo, restate finché il suo esercito sia arrivato. Combattete finché lo dirà. Se i suoi alleati si trovano in un’altra città, si ritardi per aspettarli. Ai principi che egli porta con sé come aiutanti, i Libici, suoi combattenti fedeli, annunciate il combattimento dicendo: “Tu, qualunque sia il tuo nome, che comandi le truppe, attacca ai carri i migliori corsieri della tua scuderia, schiera i tuoi uomini in battaglia. Imparerai che il dio che ci manda è Amon”». 28 Questa istruzione di Piankhi non fu sempre accettata, 29 anche se era conforme alla legge della guerra quale l’Antichità e il Medio Evo l’hanno sempre praticata o almeno raccomandata. Montaigne riferisce che in seguito a un’astuzia del legato Lucio Marcio: «Gli anziani del Senato, memori dei

costumi dei loro padri, accusarono quella pratica come nemica del loro antico stile che, essi affermavano, poteva combattere in virtù non di astuzia e di sorpresa e di incontri notturni o fughe organizzate o cariche inopinate, ma entrando in guerra solo dopo averla denunciata e spesso avendo stabilito l’ora e il luogo della battaglia». 30 Dagli Egizi agli antichi Romani, gli usi non erano cambiati. Grazie a Montaigne ci rendiamo conto di che cosa il capo etiope intendesse per «regola del gioco». Gli avversari dovevano prendere posizione l’uno di fronte all’altro senza barare, senza nascondere le loro forze né le loro intenzioni e intraprendere la lotta a eguali condizioni, come i giocatori che hanno lo stesso numero di pedine all’inizio della partita. Dio avrebbe dato la vittoria al migliore. Abbiamo la prova che gli Egizi avessero adottato questa pratica leale ben prima di Piankhi grazie all’epiteto che talvolta è attribuito al dio guerriero Seth: «l’annunciatore della battaglia»; 31 e ancor più chiaramente grazie al racconto della battaglia di Megiddo che l’esercito di Thutmose III combatté contro una coalizione asiatica. 32 L’esercito egizio era arrivato il 16 del primo mese di shemu alla città di Yiehem. Sua Maestà ordinò di chiamare a consiglio i suoi valorosi soldati e spiegò loro che il vile caduto di Qadesh insediatosi a Megiddo aveva raccolto intorno a sé i grandi del paese che in passato si trovavano nell’acqua dell’Egitto a partire dal Naharina e che aveva detto: «Mi preparo a combattere Sua Maestà qui a Megiddo». «Ditemi che cosa pensate», aggiunse il re. I consiglieri fiutarono un’insidia. La strada che portava da Yiehem a Megiddo ben presto si restringeva: bisognava marciare incolonnati, uomini e cavalli. L’avanguardia sarebbe stata impegnata nella battaglia quando la retroguardia non era ancora uscita da Aluna. Sarebbe stato preferibile prendere un cammino più tortuoso, che avrebbe permesso di raggiungere Megiddo da nord e tutti insieme. Questo piano ragionevole fu respinto dal Faraone che esclamò: «Com’è vero che vivo, che Ra mi ama, che mio padre Amon mi favorisce, che il mio naso fiorisce in vita e in durata, la Mia Maestà marcerà per la strada di Aluna. Vada chi vuole per la strada che avete detto. Perché i nemici che aborriscono Ra penseranno: “Sua Maestà va per un’altra strada e si allontana per paura di noi”». Quest’arringa conquistò immediatamente gli oppositori che dissero a Sua Maestà: «Eccoci, seguiremo la Tua Maestà ovunque andrà. Il servo starà dietro al suo signore». Alla luce delle istruzioni di Piankhi la situazione che il consiglio di guerra

doveva esaminare era chiara. Il caduto di Qadesh aveva inviato un messaggio al Faraone per proporgli un giorno e un luogo per la battaglia. I consiglieri diffidavano ma Menkheperrê ritenne indegno di sé e delle divinità che l’amavano e lo proteggevano di adottare una decisione non conforme alle usanze. Gli avvenimenti successivi gli diedero ragione. L’esercito entrò nella valle stretta con il re alla sua testa e la riempì completamente. Sempre diffidenti, gli ufficiali supplicarono il loro signore di dar loro ascolto e non procedere prima che l’avanguardia avesse superato il punto più pericoloso. Ma anche questa precauzione si rivelò inutile. I nemici distribuiti fra Taanakh e Mageddo non tentarono di contrastare i movimenti dell’esercito egizio che poté così prendere posizione per il combattimento a sud di Mageddo verso la metà della giornata e prepararsi tranquillamente alla battaglia che doveva cominciare il mattino dopo. Le regole del gioco erano state rispettate. Anche i consiglieri però rispettavano il loro ruolo invitando il Faraone a mostrarsi prudente. L’esercito che avevano davanti era al comando del re di Mitani ma comprendeva un gran numero di Amu, eterni e perfidi nemici dei quali un re dell’XI dinastia diceva, nelle istruzioni da lui composte per suo figlio Merikara: «Quanto al vile Amu [...] non può restare fermo, i suoi piedi non smettono mai di muoversi. Combatte dal tempo del dio, senza essere né vincitore né vinto. Egli non annuncia mai il giorno della battaglia come colui che si prepara a un tiro mancino». 33 L’Amu, che ben conosceva boschi e montagne, fuggiva la battaglia in campo aperto per cui non aveva forze sufficienti. Egli attaccava lateralmente l’esercito egizio per sparire subito. Le sue armi migliori erano il segreto e la sorpresa. Eppure anche quando gli Egizi avevano un avversario alla loro altezza la sorpresa poteva svolgere un ruolo importante. Avrebbe potuto averne uno disastroso per gli Egizi davanti a Qadesh quando Ramses II e il suo esercito andarono allo scontro con l’esercito hittita. 34 Il vile caduto di Khatti aveva coalizzato contro l’Egitto tutti i paesi settentrionali a partire dall’estremità del mare. Ai soliti avversari del Faraone, che venivano da tutta la Siria fino all’Eufrate, si erano aggiunti i popoli dell’Asia Minore, i Dardani, Ilio, Keshkesh, Qarqesh, i Lici e alcuni popoli europei come i Misi. Il re di Khatti si era spogliato di tutti i suoi beni pur di portarli con sé a combattere. Essi coprivano i monti e le valli: erano numerosi come un’invasione di cavallette. Tutte quelle forze stavano nascoste a nordest di Qadesh. Gli Egizi che credevano i loro nemici ancora attardati nella

regione di Aleppo perché i loro esploratori non li avevano ancora segnalati da nessuna parte, avanzavano senza timore nella valle dell’Oronte. Ramses, che aveva varcato il fiume a guado, apriva la marcia con la sua scorta seguito dal corpo di Amon. Il corpo di Ra attraversava l’Oronte al guado di Shabtun, quello di Ptah aspettava che il guado fosse libero, nella sua postazione di Irnam. Il corpo di Sutekh, buon ultimo, si sforzava di raggiungere gli altri ma si trovava ancora a parecchi giorni di marcia. Mentre il re si trovava a Shabtun, due Shasu, due di quei Beduini che erano il terrore delle carovane che circolavano fra la Siria e l’Egitto e dei coltivatori vicini all’istmo di Suez, si presentarono per dire a Sua Maestà, da parte dei loro fratelli, che si volevano staccare dal re di Khatti per diventare servi del Faraone. «Dove sono dunque i vostri fratelli», chiese il Faraone, «e quali informazioni portate a Sua Maestà?» I Beduini risposero: «Essi sono nel luogo dove si trova il vile re di Khatti perché il caduto di Khatti sta nel paese di Aleppo, a nord di Tunip. Ha troppa paura del Faraone Vita, Salute, Forza per spingersi a sud perché ha sentito dire che il Faraone risaliva verso nord». Mentivano: erano spie agli ordini del caduto di Khatti venute a informarsi della posizione degli Egizi di cui cercavano di allentare la vigilanza con false informazioni. Il re infatti decise di accamparsi a nord di Qadesh sulla riva occidentale dell’Oronte. Nella pianura si tracciò un vasto rettangolo costeggiato da una specie di palizzata di scudi o di elementi a forma di scudo. Al centro, vennero allestite una grande tenda per il re e tre tende più piccole e un po’ ovunque ancora altre tende. Il leone del re, legato per una zampa a un archetto, sonnecchiava sdraiato a terra. I cavalli erano stati staccati per farli mangiare. Gli asini erano stati liberati dai carichi e si rotolavano nella polvere, scalciavano, accennavano dei passi di galoppo. I soldati sistemavano le armi e le bilance mentre entravano nuovi carri trainati da buoi. Gli ufficiali superiori si erano sistemati in baracche di legno con il tetto sostenuto da una colonna e dotate di una porta, come delle case. All’interno, su appositi supporti, c’erano bacili e catini. Gli addetti avevano tirato fuori i fornelli, i tavoli, gli sgabelli e le stuoie. Gli uomini di fatica, diretti da un graduato, toglievano la polvere con una scopetta e pulivano tutto con dell’acqua. Altri andavano e venivano spingendo degli asini, o portando oggetti imballati appesi a un bilanciere. Accanto alle baracche un cavallo tuffava la testa nella mangiatoia. Un garzone di scuderia calmava altri due corsieri che

scalpitavano. Lo scudiero, comodamente insediato sulla cassa del suo carro, dormiva profondamente. Un soldato beveva. Nessuno pensava al pericolo. 35 Ma una pattuglia egizia aveva catturato due esploratori del caduto di Khatti e li aveva portati alla presenza del re assiso sul trono d’oro posto, in suo onore, sul podio. Il bastone era un mezzo infallibile per far parlare la gente. I prigionieri confessarono tutto ciò che si voleva da loro: «Apparteniamo al re di Khatti, è lui che ci ha mandato a vedere dove Sua Maestà si era accampato». «Ma dov’è, il caduto di Khatti? Ho sentito dire che si trova nel paese di Aleppo a nord di Tunip!» «Ecco, il vile re di Khatti che viene con le numerose nazioni che stanno con lui [...] Sono più numerosi della sabbia del mare. Eccoli in posizione, pronti a combattere nei pressi di Qadesh-ilVecchio.» Il re esclamò furioso: «Eccoli nascosti nei pressi di Qadesh-ilVecchio e i miei capi stranieri non lo sanno e nemmeno gli ufficiali del paese dei Faraoni che stanno con loro! E adesso ci dicono che stanno arrivando!». I consiglieri riconobbero che erano stati commessi degli errori: «Non va bene, è stato un grave errore quello che hanno commesso i capi stranieri e gli ufficiali del Faraone Vita, Salute, Forza che non ci hanno informato del luogo dove stava il vile caduto di Khatti nel loro rapporto quotidiano al Faraone Vita, Salute, Forza». Il visir venne incaricato di fare affrettare gli elementi attardati a sud di Shabtun per guidarli nella località dove stava Sua Maestà ma mentre questo riuniva il suo Consiglio il vile caduto di Khatti si avvicinò con i soldati, l’equipaggio e tutti gli alleati. Essi varcarono a sud di Qadesh un guado che era rimasto indifeso. Colti di sorpresa i soldati e i carri egizi fuggirono disordinatamente. I nemici fecero prigionieri persino fra la scorta di Sua Maestà. In quel rischioso passo, Sua Maestà si levò come suo padre Montu e afferrò il suo equipaggiamento da battaglia. Indossò la corazza: era come Baal al suo momento. Lo scudiero Menna quando vide quanti carri circondavano il suo signore si mise a tremare: il cuore lo abbandonò e le sue membra furono pervase dal timore. Disse a Sua Maestà: «Mio buon signore, valoroso sovrano, grande protettore dell’Egitto nel giorno della battaglia, eccoci soli in mezzo ai nemici. I soldati e gli equipaggi ci hanno abbandonato. Come farai a metterti in salvo? Fai che siamo puri. Salvaci, Usirmarê!». Sua Maestà rassicurò il suo compagno: non aveva paura. I soldati l’avevano abbandonato e ammassavano bottino invece di prendere posizione.

Non c’erano più né principi né scudieri né guide né ufficiali ma Ramses non aveva edificato invano tanti monumenti, tanti obelischi a suo padre, riempito di tanti prigionieri i suoi castelli di milioni di anni, spedito navi cariche di prodotti esotici. L’appello del re risuonò fino a Tebe. Adesso aveva un alleato che valeva più di milioni di uomini. Ramses lanciò frecce alla propria destra guardandosi sulla sinistra. I duemilacinquecento carri nemici furono abbattuti con i loro cavalli. I soldati non si trovarono più le mani per servirsene. Il cuore era caduto loro nel ventre: non riuscivano più a tirare né ad afferrare la spada. Il re li spinse in acqua come coccodrilli. Quelli che strisciavano non si sollevavano più. Il vile re di Khatti, che assisteva, in mezzo ai suoi soldati e ai suoi carri montati da tre guerrieri, al combattimento di Sua Maestà volse le spalle tremando. I suoi soldati, i suoi equipaggi, i suoi alleati, il re di Irtu, il re di Mesa, il re di Aluna, il re di Licia, quello di Dardania, il re di Karkemish e quello di Qerqesh, quello di Aleppo e i suoi stessi fratelli, tutti batterono in ritirata impressionati dal valore del Faraone gridando: «Si salvi chi può». Sua Maestà correva dietro di loro come un grifone e li caricò cinque volte, simile a Baal nell’istante della sua potenza. Appiccò il fuoco alla campagna di Qadesh perché il luogo che era stato calpestato dalla loro moltitudine fosse irriconoscibile. I soldati finalmente arrivarono quando la battaglia era ormai vinta dalla forza e dal coraggio del Faraone e anche da qualche altra causa di cui il nostro autore non ha creduto opportuno informarci. Il Faraone li ricoprì di sarcasmi: «Nessuno di voi era presente... nessun uomo si è alzato per metter mano con me mentre combattevo. Io attesto il ka di mio padre Amon... Nessuno di voi è venuto per affermare le sue imprese nella terra d’Egitto... Gli stranieri che mi hanno visto renderanno noto il mio nome fino alle contrade più lontane finora ignote». Docilmente i soldati rendevano grazie al valore del loro signore. I suoi nobili, i suoi equipaggi esaltavano la forza del suo braccio: «Il magnifico combattente dal cuore fermo che tu sei ha salvato il tuo esercito e i tuoi carri. Tu sei il figlio di Amon che agisce con le tue braccia. Tu hai legato la terra di Khatti con il vigoroso braccio. Hai spezzato la schiena di Khatti per sempre!». Il re rispose con nuovi rimproveri: «È bello il nome di colui che ha combattuto bene. Si rispettava l’uomo a causa del suo braccio fin dai tempi più antichi ma io non farò del bene a nessuno di voi perché mi avete

abbandonato quando ero solo in mezzo ai nemici». Questi rimproveri non erano così terribili. L’esercito aveva perso l’occasione di ottenere delle ricompense. Un altro re, Piankhi, ebbe occasione di infuriarsi con il suo esercito, che pure aveva combattuto bene e aveva costretto Tefnakht a fuggire verso nord con gli scarsi resti delle sue truppe ma il re avrebbe voluto catturare o annientare d’un sol colpo tutti i suoi nemici. Quando l’esercito ebbe compreso che il suo capo era deluso, prese tre fortezze difese con accanimento. Piankhi lo venne a sapere ma il suo cuore non ne fu placato. Un giorno Sua Maestà comparve sul suo carro trainato da due cavalli sulla piattaforma della sua imbarcazione. Furioso come una pantera, rinnovò le invettive contro i suoi soldati: «Aspettate il mio messaggero per combattere quelli? Forse dovrà passare un anno intero prima che il mio terrore dilaghi nel Delta?». Tutti i soldati furono colpiti da un estremo dolore. 36 Ma il vile, caduto re di Khatti inviò un messaggero per esaltare il nome del Faraone come quello di Ra dicendo: «Tu sei Sutekh, Baal in persona, la paura che emani è come un fuoco nel paese di Khatti!». Il messaggero portava una lettera che chiedeva l’armistizio: «Il servo qui presente parla e ti dice che tu sei il figlio di Ra in persona. Ti ha dato tutte le terre riunite in una. La terra di Kêmi, la terra di Khatti, eccole al tuo servizio. Sono tutte ai tuoi piedi, oh Prâ, il tuo venerabile padre te le ha date per esercitare in noi la regalità... È bene massacrare i tuoi servi?... Ecco che cosa hai fatto ieri. Ne hai massacrati milioni... Non lascerai eredità. Non fare brigantaggio dei tuoi beni, oh re potente, glorioso di combattere. Concedici un respiro!». 37 Allora Sua Maestà si affrettò a convocare i capi dell’esercito, i suoi equipaggi e i suoi nobili e fece loro comprendere che cosa il vile re di Khatti gli aveva proposto. Senza esitare un solo istante essi dissero a una sola voce: «È una cosa buona, estremamente buona, la pace, sovrano, nostro signore!». Era il grido del cuore; ma subito essi si corressero dicendo: «Non c’è niente di male nella pace, se sei tu a farla. Chi ti saluterà nel giorno della tua ira?». 38 Il re volle dare ascolto a quelle parole. L’esercito egizio mosse in pace verso sud senza avere preso Qadesh di cui aveva potuto scorgere le mura scanalate dietro un’ansa del fiume Oronte. Il Faraone si era sottratto di stretta misura a un disastro totale. Male informato sulla posizione degli Hittiti, privo di esploratori e di protezione ai fianchi aveva lanciato il suo esercito nel cuore del paese nemico. Dovette la

salvezza al coraggio della guardia reale composta soprattutto di Sardani: il lettore avrà osservato, del resto, che i rimproveri del re erano rivolti soprattutto agli Egizi. È possibile che gli Hittiti una volta entrati nel campo del Faraone abbiano pensato solo a saccheggiare e siano rimasti vittime della loro avidità che tramutò un successo in sconfitta. Il loro re comunque era ben lieto di ottenere la partenza di quel grande esercito. Altre campagne militari ebbero un risultato più netto, come ad esempio la grande battaglia vinta da Ramses III contro i Libici. 39 Come il suo avo, il re pagò di persona. Lanciò al galoppo i cavalli del suo carro e si attaccò le redini alla cintura per tendere meglio l’arco. Portava in testa un casco da soldato, braccialetti alle braccia e due collane ai polsi. Sul petto gli si incrociavano due larghe fasce che sostenevano una faretra aperta mentre l’astuccio dei giavellotti era appeso al carro. L’ufficiale che stava dietro al re non combatteva ma reggeva la caraffa e il bicchiere d’oro che abbiamo notato alla partenza dall’Egitto. I Filistei, arruolati nell’esercito egizio, si fecero onore contro i Libici. Il capo libico Meshesher, figlio di Kapuro, si vide perduto. I suoi cavalli erano crollati. Il suo scudiero, trafitto da una lancia, era caduto dal carro. Egli si volse così verso il Faraone e alzando un braccio e tendendo l’indice si riconobbe sconfitto. I suoi soldati si arresero a gruppi interi tenendo la lunga spada verticale come un cero e tendendo il braccio sinistro con la palma della mano girata verso il suolo. 40 I popoli del mare erano venuti, ai tempi di Ramses III, in orde innumerevoli, per mare e per tutte le vie che portavano in Egitto. 41 Le donne e i bambini arrivavano su carri a ruote piene fissate da una bietta, trainati da bufali. Lunghe imbarcazioni adorne a prua con una testa di leone o di uccello e con la poppa rilevata arrivavano stracariche di guerrieri. Lo scontro fu terribile, sia per mare sia per terra. Il re era sceso dal suo carro per prendere meglio la mira con l’arco. Tutto il seguito era sceso con lui: gli ufficiali che portavano l’arco, la faretra, il giavellotto, i servi che si dividevano il servizio da toilette, il cuscino imbottito, le borse da cui sarebbero state tratte le vesti di ricambio e tutto ciò che sarebbe servito per riparare al disordine della battaglia. Quando la vittoria fu sicura, il re salì su un palco per abbracciare con lo sguardo tutto il campo di battaglia. Alcuni tesero dei parasole per fargli ombra, altri schierarono gli stendardi sotto il palco. I principi e i capi dell’esercito vennero a congratularsi con il loro sovrano, mentre iniziavano le lunghe operazioni di censimento che avrebbero permesso di valutare la

vittoria. Come ai tempi di Ahmose, ogni guerriero che aveva ucciso un nemico gli tagliava la mano, e se l’ucciso era un Libico, il membro, e presentava il trofeo agli araldi del re. Tutto ciò veniva ammassato insieme alle armi raccolte sul suolo della battaglia, nei pressi del palco, e pazientemente contato da un esercito di scribi. I prigionieri legati o incatenati per il collo venivano presentati al re. I capi erano riservati ad altre cerimonie. Gli uomini validi venivano marchiati a fuoco: aspettavano a piccoli gruppi e si alzavano quando era venuto il loro turno. Soldati armati fino ai denti erano pronti a schiacciare qualsiasi tentativo di ribellione ma gli sconfitti sembravano rassegnati alla loro sorte. 42 Una volta marchiati a fuoco, Denanei (Dénanaens) e Filistei andavano ad accrescere l’esercito faraonico che progressivamente si svuotava di soldati egizi perché al momento sembrava più comodo far fare la guerra agli altri.

La guerra d’assedio Molto spesso la guerra assumeva la forma dell’assedio perché il nemico non aveva avuto l’audacia di affrontare l’esercito egizio o perché dopo la battaglia in campo aperto gli erano rimasti abbastanza guerrieri per difendere le sue fortezze. Esse di solito sorgevano su un monte scosceso. I primi ostacoli erano costituiti da un fossato pieno d’acqua e da una palizzata. La foresta vicina offriva riparo ai fuggiaschi e a coloro che non avevano avuto il tempo di raggiungere le mura prima della chiusura delle porte. Vi spingevano le loro mandrie di bufali preferendo le zanne degli orsi alle frecce degli Egizi. Le immediate vicinanze della fortezza di solito erano coltivate. Le viti e i fichi coprivano le pendici del monte: arbusti fioriti fiancheggiavano i sentieri. Gli Egizi prima di ritirarsi avrebbero tagliato gli alberi utili come imponevano le usanze. 43 Le fortezze siriane consistevano di alte torri che sostenevano una vasta piattaforma sporgente provvista di feritoie e di lunghe mura che seguivano i contorni del terreno, in cui si aprivano porte e finestre. Non poche città erano difese da due o tre cinte di mura. Qualche volta una torre faceva da piedestallo a un’altra e quest’ultima a una terza. In cima alla torre più alta sventolava una bandiera. 44 Gli Egizi crivellavano di frecce le feritoie e spingevano i fuggiaschi

davanti a sé. Quelli che si trovavano già al riparo si sporgevano tendendo le mani per portare in salvo i ritardatari. I difensori lanciavano frecce, giavellotti e pietre. Altri aspettavano con la spada in pugno. Il sacerdote bruciava della resina su un fornelletto con il manico simile a quelli che gli Egizi chiamavano akh per chiedere aiuto agli dèi della città e teneva la mano alzata come Mosè nel combattimento con Amalec. Talvolta la sporgeva fuori dalle merlature verso i guerrieri del piano inferiore per incoraggiarli. Tutti i mezzi di difesa restavano inoperanti. Le vicinanze della fortezza erano cosparse di cadaveri. I difensori venivano uccisi sul posto di combattimento. Gli Egizi arrivavano ai piedi delle mura, sfondavano le porte a colpi d’ascia e alzavano le scale: la prima linea era subito occupata. Quando le cose erano arrivate a questo punto, agli assediati che tenevano alla vita non restava altro da fare che desistere dalla difesa e addolcire, a forza di doni, la ferocia dei vincitori. Il capo di Amar volgeva il suo braciere per le resine verso Ramses III e con il braccio sinistro accennava un gesto di adorazione: «Dacci il soffio di vita che noi possiamo respirare di figlio in figlio grazie alla tua potenza». 45 I capi uscivano uno a uno. Alcuni strisciavano sui gomiti e sui ginocchi. Altri portavano dei crateri con fiori artificiali, delle anfore decorate a figure di animali a tutto tondo, dei gioielli. Quegli oggetti erano molto apprezzati dal re e dai sommi sacerdoti che li avrebbero raccolti nei tesori dei templi. Altre munificenze interessavano tutto l’esercito, come il grano, il vino e il bestiame o le armi. I soldati erano nutriti ed abbeverati tutti i giorni come gli Egizi normali nei giorni di festa. Le città siriane erano ricche di cavalli. L’élite dei guerrieri si spostava sui carri. Nella sola città di Megiddo, Thutmose III catturò i carri rivestiti d’oro dei vili caduti di Qadesh e di Megiddo e ottocentonovantadue carri. Quei principi avevano raccolto una vera e propria coalizione contro l’Egitto, aggregando alleati persino dal territorio dell’Eufrate. Quei principi lontani, Thutmose li rimandò indietro in sella a degli asini con la testa girata verso la coda della loro cavalcatura. La vittoria aveva messo il Faraone di buon umore. Le pendici del Libano erano coperte di foreste. Dai tempi del dio, gli Egizi andavano a Biblo ad acquistare il legname per le barche divine, per gli alberi maestri che si innalzavano, adorni di banderuole, davanti ai pilastri dei templi, per tanti altri usi sacri e profani. I legni più apprezzati erano quello dell’abete ash, più puntuto della barba delle spighe e diritto come una lancia,

quello rosso del cedro, mer, quello del carrubo, sesnegiem, e un legno non identificato che veniva detto uân, che forse era ginepro. Signori della Siria, gli Egizi intensificarono lo sfruttamento delle foreste. Sotto Thutmose III i soldati percorsero le montagne tagliando gli alberi. I capi siriani trascinavano i tronchi sulla spiaggia con i buoi. Sulle navi, costruite in serie, si facevano salire i principi del Libano con i buoni prodotti della Terra divina. 46 Per gli Egizi della XIX dinastia, la Siria non era altro che una colonia da sfruttare. Gli Hittiti gliela contendevano e gli stessi Siriani cercavano di difendersi ma tutti gli anni enormi quantità di prodotti e merci prendevano la via dell’Egitto. Seti riuscirà a costringere gli emiri libanesi a tagliare abeti per lui. 47

La guerra di Nubia La guerra contro i paesi meridionali dovette avere il carattere di una specie di passeggiata militare. Gli Egizi individuavano gli accampamenti. Gli uomini erano vestiti di pelli di pantera, armati di scudo e di un grande coltello. Le donne, che portavano i piccoli in una gerla, radunavano i figli e correvano a nasconderli fra le palme. La lotta, ineguale, finiva naturalmente a vantaggio degli Egizi, che si preparavano a prelevare un ricco bottino perché i popoli meridionali erano molto industriosi e costruivano mobili barbarici e sontuosi d’ebano, oro e avorio. Nelle loro capanne avevano grandi provviste di piume di struzzo, zanne d’elefante, pelli di pantera, corna e profumi. 48

Il ritorno trionfale Il Faraone aveva mostrato la sua potenza fino ai confini estremi della terra. Tutto ciò che il sole inonda dei suoi raggi era stato testimone dei suoi successi. Aveva fissato la sua frontiera dove voleva. Così avevano decretato suo padre Amon-Ra e tutti gli dèi suoi padri. Non gli restava altro da fare che tornare al suo caro paese di Tomery raccogliendo le acclamazioni del popolo, le adulazioni dei sacerdoti che si preparavano a coprire di nomi e cifre le pagine del loro libro d’ingresso, dedicare agli dèi la parte migliore del bottino, compensare i valorosi e punire i ribelli per dare l’esempio a tutta la terra.

L’esercito si schierava per il ritorno press’a poco nello stesso ordine che aveva adottato alla partenza. I prigionieri di rango precedevano il carro del re con le mani chiuse in manette talvolta modellate a forma di pantera e la corda al collo. Quasi tutti avevano le braccia legate dietro la schiena o al di sopra della testa. 49 I festeggiamenti avevano inizio appena messo piede sul suolo egizio. I profeti, ammassati davanti al ponte di Sile, tendevano mazzi di fiori. 50 Alcuni dei capi prigionieri sarebbero stati massacrati nel corso di una solenne cerimonia. Amenhotep II, simile a Ercole, ne abbatté otto davanti alla sua nave. Sei furono impiccati a Tebe davanti alle mura del tempio e altri due a Napata «in modo da mostrare le vittorie di Sua Maestà per sempre ed eternamente in tutte le terre e in tutte le montagne del paese dei neri». 51 Nel momento estremo i vinti rinnovavano il gesto di sottomissione, i Libici alzando l’indice, gli altri voltando la palma della mano verso il carnefice. Dopo la vittoria di Ramses III, il vecchio re libico Kapuro aveva scritto al Faraone per chiedergli la grazia per suo figlio caduto in mano agli Egizi e proporgli di subire il supplizio al suo posto. 52 Invano. I Libici erano diventati così minacciosi che il cuore del Faraone non volle aprirsi alla clemenza. Disse Ramses III nel suo testamento politico: «Essi avevano preso sede in Egitto, catturando le città della costa occidentale da Hatkaptah fino a Qarban. Avevano raggiunto tutta la riva della grande corrente impadronendosi delle città del distretto e dei buoi per molti anni. Erano in Egitto. Ma io li ho distrutti massacrandoli in una sola volta [...] io li ho costretti a passare la frontiera dell’Egitto. Ho portato via il resto in numeroso bottino, a colpi di pungolo, spingendo come volatili, davanti ai miei cavalli, le loro donne e i loro figli a miriadi, le loro bestie a milioni. Ho irreggimentato i loro principi. Ho dato loro comandanti degli arcieri e capitribù. Li ho marchiati come schiavi col sigillo del mio nome». 53 Quando i nemici scelti per il supplizio erano stati giustiziati, un’altra cerimonia veniva celebrata nei templi, nel corso della quale si decideva la sorte dei prigionieri e si consacrava il bottino. Vennero esposti davanti alle immagini degli dèi i tesori strappati al vile paese di Khatti. Erano crateri e anfore, rhyton e tazze d’oro e d’argento, tutti cosparsi di pietre preziose, analoghi a quelli che i Siriani assediati offrivano ai vincitori consegnando loro la propria città e a quelli che in tempo di pace i delegati di Retenu, Amar o Naharina consegnavano come contributi di guerra o in cambio del diritto a entrare nelle acque del re. A questo punto arrivava il

re trascinando i prigionieri con le mani legate e la corda al collo; erano Neri. Libici, Siriani, genti di Amu, Amoriti e Hittiti. I prigionieri ammettevano la sconfitta. Il Faraone era come il fuoco che corre quando manca l’acqua. Sopprimeva qualsiasi ribellione, qualsiasi bestemmia che uscisse dalla bocca. Levava il respiro dalle narici. Il Faraone riconosceva che suo padre Amon gli aveva concesso la vittoria sui popoli nemici e restituiva agli dèi quello che gli avevano dato facendo dono ai loro templi di una parte dei prigionieri e dei tesori. 54 1. Bibl. æg., VII, 26. 2. Bibl. æg., VII, 27. 3. Urk., IV, 999. La coppa è pubblicata in Vernier, La bijouterie et la joaillerie égyptienne, tav. 20. 4. Champollion, Notices descriptives, 527-528; Urk., IV, 995. 5. Urk., IV, 997. 6. La carriera e le ricompense di Nebamon ci sono note in base ai testi e ai dipinti della sua tomba a Tebe (n. 90); Th. T.S., III, si veda soprattutto tavv. 24-29. 7. Urk., IV, 911; Wr. Atl., I, 186, 280. 8. Th. T.S., III, 21, 31-33. 9. Poema di Qadesh, ed. Kuentz, 172-185. 10. Pap. Harris, I, 78. 11. Erodoto, II, 164-168; Diodoro I, 73. 12. Wr. Atl., I, 236. 13. Davies, El Amarna, III, 31, 39; Wr. Atl., II, 13. 14. Bassorilievo del tempio di Ramses II ad Abido; Kuentz, La bataille de Qadech, tav. 22; Wr. Atl., II. 15. Pap. Harris, I, 76. 16. Ciò che segue è suggerito da Medinet-Habu, 112. 17. Cavaignac, Šuppiluliuma et son temps, Paris 1932, 70-72 (Annales de Šuppil, 27). 18. Tavoletta Carnavon, in J.E.A., III, 95-110; Montet, Drame d’Avaris, 94. 19. Secondo la stele di Seti I trovata a Beisan, Mélanges V. Loret, Bull. I.F.A.O., XXX. 20. Ciò che segue si ispira a Medinet-Habu, 29. 21. Montet, Les reliques de l’art syrien, 32-33; Kêmi, IV, 200-210. 22. Ibid., 34-36. 23. Wr. Atl., II, 1. 24. Montet, op. cit., 37-38. 25. Medinet-Habu, 16, 31, 62. Per i paraocchi decorati con un’immagine di Sutekh, ibid., 25; Wr. Atl., II, 18.

26. Medinet-Habu, 17-31. 27. Wr. Atl., II, 34, 40, 43, 44. 28. Urk., III, 8 (Piankhi, 9-12). 29. J.E.A., XXI, 219-223. 30. Essais, ed. Firmin-Didot, I, 20. Devo questo riferimento a M. Jean Yoyotte. Per altri esempi analoghi, si veda Montet, Drame d’Avaris, 29, 215. 31. Libro dei morti, 125 B, frase 25: «Oh, annunciatore di combattimento [serkheru] che esci da Unes». Unes è una città di Seth. 32. Urk., IV, 649 ss. 33. Pap. 1116 A del museo dell’Ermitage, 91-98; Montet, Drame d’Avaris, 29. 34. Quello che segue è tratto dal Poema; si veda soprattutto il Bulletin di Qadech: Kuentz, La bataille de Qadech, Le Caire 1928; Wr. Atl., II. 35. Secondo un bassorilievo della tomba di Horemheb a Saqqarah, distribuito fra i musei di Bologna e Berlino; Wr. Atl., I, 386 e J.E.A., VII, 33. 36. Urk., III, 14-17. 37. Poema di Qadesh, 295-320. 38. Ibid., 323-330. 39. Medinet-Habu, 18-20. 40. Ibid., 72. 41. Ibid., 32, 37. 42. Ibid., 42. 43. Montet, Les reliques de l’art syrien, 5-10. 44. Medinet-Habu, 95. 45. Ibid., 94. 46. Montet, Reliques, 10-11. 47. Wr. Atl., II, 34-35. 48. Medinet-Habu, 9; Wr. Atl., II, 165-166. 49. Medinet-Habu, 10-11, 24. 50. Wr. Atl., II, 39. 51. Kuentz, Deux stèles d’Amenophis II, 19-20. 52. Medinet-Habu, 85-86 (poema sulla seconda guerra di Libia, versi 26-34). Per la scena: Ibid., 75. 53. Pap. Harris, I, 77. 54. Montet, Reliques, 22-26.

X

Gli scribi e i giudici

L’amministrazione Fin dalle origini l’Egitto godette di un’amministrazione intelligente. Già sotto la I dinastia gli impiegati del re imprimevano sui tappi delle giare, servendosi di un cilindro, i loro nomi e titoli. Tutti i personaggi a noi noti grazie a una statua o a una stele o alla loro tomba hanno almeno un titolo. Alcuni potevano citarne alcune decine. Nel periodo dell’Impero Antico i titoli e i nomi indicanti una funzione erano abbastanza numerosi da riempire un volume. Ci è giunto un manuale egizio per le gerarchie dell’età ramesside. 1 Esso pone ai primi posti gli dèi e le dee, gli spiriti, il re regnante, la sposa del re, la madre divina del re e i fanciulli reali. Seguono i magistrati, il primo dei quali era il visir, e tutti coloro che avevano la fortuna di vivere accanto al sole, i figli reali, i capi principali delle truppe, gli scribi dei libri della biblioteca reale, maggiordomi, araldi, porta-parasole e porta-ventaglio, scribi reali preposti alla casa bianca, lo scriba superiore dei ruoli della corte suprema, gli scribi dei contributi. Una seconda serie comprende i rappresentanti del Faraone all’estero, nelle provincie e nelle città, i messaggeri reali in tutto il paese, l’addetto al sigillo della casa del mare e quello alle foci dei canali. Gli impiegati qualificati formavano un’autentica legione. Ognuno di questi alti funzionari disponeva a sua volta di un numeroso personale. I governatori dei nomi cercavano di vivere nella loro residenza come il Faraone nella sua capitale e vi organizzavano una casa a imitazione della casa reale. Un dio come Amon che possedeva ricchezze immense aveva creato un corpo accuratamente gerarchizzato per amministrarle. 2 Il primo profeta aveva presso di sé un maggiordomo, un capo della casa, un ciambellano, un cameriere, degli scribi, un capo dei marinai e dei servi. Il secondo profeta aveva i suoi funzionari, addetti alla sua persona. Il quarto profeta sarebbe stato il più sciagurato degli uomini se non avesse avuto una piccola corte che l’accompagnava in tutte le sue apparizioni. Bisogna adesso elencare il popolo dei direttori, dei superiori, degli scribi che si distribuivano tutte le operazioni, tutti gli abbellimenti che i membri

dell’alto clero decidevano. I funzionari più importanti di questo gruppo erano i direttori e gli scribi del tesoro, il responsabile del sigillo del tesoro, lo scriba del sigillo divino della casa di Amon. Un dio meno universalmente noto ma tuttavia molto importante come Min, signore di Ipu e di Coptos, disponeva, oltre che di un clero numeroso, di un personale amministrativo considerevole, composto da scribi, direttori dei lavori, addetti alle greggi, alla biancheria, ai trasporti, magazzinieri e contabili. 3 Come in tutti i paesi, l’amministrazione egizia tendeva a dilatarsi più che a ridursi. Ramses III aveva arricchito gli dèi da un capo all’altro del suo regno durato trentun anni. A ogni estensione delle conquiste egizie corrisposero nuovi impieghi. Erano necessari sempre più scribi per esigere le imposte, trasferirle, organizzare gli schiavi, garantire la manutenzione dei canali e dei camini, delle banchine e dei depositi.

Il reclutamento e la formazione dei funzionari Il fondatore della XIX dinastia, Pa-Ramses, era riuscito nel corso di una lunga carriera a cumulare importanti funzioni civili, titoli religiosi e comandi militari nella regione orientale del Delta. Chiamato a Tebe dal re Horonemheb per dirigere i lavori del tempio di Opet, passò a suo figlio Seti che aveva già raggiunto la piena maturità la maggior parte dei titoli e delle funzioni. 4 I funzionari di grado inferiore imitavano i grandi. Un certo Neferperit che faceva parte della scorta reale quando il Faraone si trovava nelle montagne di Retenu aveva fatto venire in Egitto quattro vacche di razza fenicia, due di razza egizia e un toro, tutti destinati al castello di milioni di anni. Ottenne per il fratello il posto di custode della piccola mandria e per il figlio quello di portatore dei vasi da latte. Non solo questi impieghi erano garantiti ai titolari per tutta la vita ma dovevano restare in famiglia ed essere tramandati di padre in figlio, di erede in erede. 5 Nessuno ci trovava niente da ridire. Tutti i padri di famiglia aspiravano a fare altrettanto. In una formula rivolta ai visitatori delle tombe si legge: «Se volete lasciare i posti in eredità ai vostri figli, allora dite [...]». Chi si comportava male in una tomba si sente rivolgere questa grave minaccia: «Egli non sarà. Suo figlio non prenderà il suo posto». La legge prevedeva che il funzionario disobbediente fosse privato dell’impiego e punito severamente e inoltre punito anche nei figli che sarebbero stati ridotti alla condizione di lavoratori manuali o di servi. 6 Da

questi testi non si deve dedurre però che incarichi gravidi di responsabilità, che richiedevano grandi capacità, fossero assegnati automaticamente al figlio del titolare appena questi moriva. I figli dei funzionari entravano nell’amministrazione quando uscivano dalla scuola e salivano di grado in grado a secondo del loro zelo, del loro talento e spesso della potenza del loro protettore. La scuola di solito faceva parte del tempio. Il futuro gran sacerdote di Amon frequentava per dodici anni la scuola delle scritture che si trovava nel tempio della Dama del cielo. 7 All’interno del territorio spettante al Ramesseum, a Tanis, a Deir el-Medineh e in altri santuari, sono stati trovati degli ostraca e dei papiri identificabili come compiti di studenti. Gli studi cominciavano molto presto. Bakenkhonsu aveva solo cinque anni quando venne mandato a scuola ma suo padre, che era un importante sacerdote e nutriva grandi ambizioni per il figlio, forse l’aveva spinto più di quanto non si facesse abitualmente. Comunque non passava molto tempo fra quando i bambini smettevano di circolare completamente nudi, per indossare la loro prima cintura, e il giorno in cui andavano a scuola per la prima volta. Sappiamo già che il futuro ufficiale era sottratto ai genitori da giovanissimo ma normalmente le scuole prevedevano allievi esterni. Il piccolo scolaro portava con sé un cesto di pane e una brocca di birra che la madre gli preparava tutte le mattine. 8 Nel tragitto di andata e ritorno da casa a scuola, aveva tutto il tempo di litigare e battersi con i compagni. Un racconto egizio ci parla di un ragazzo talmente dotato da superare i compagni più grandi i quali riuscirono a scoprirgli un difetto. Un giorno gli chiesero: «Di chi sei figlio? Non hai padre?». Siccome non rispondeva, cominciarono a coprirlo di insulti e di colpi ripetendo: «Di chi sei figlio? Non c’è nessun padre a casa tua!». 9 Prima di tutto il ragazzo imparava a leggere e a scrivere. Il papiro era un materiale troppo prezioso per distribuirlo agli scolari. Per gli esercizi essi ricevevano delle tavolette di calcare accuratamente lucidate sulle quali venivano tracciate delle righe o dei quadretti. A Tebe ci si accontentava di scaglie di pietra tagliate grossolanamente. Erano i loro quaderni dei compiti. Si esercitavano a tracciare segni isolati, geroglifici o lettere corsive, piccoli disegni che copiavano da frammenti più vasti. Avevano anche dei quaderni di appunti per le lezioni. Alcuni avevano delle date. Se fossero state abbastanza numerose e complete, potremmo ipotizzare quanti giorni impiegasse uno

scolaro per studiare, per imparare a memoria, ad esempio, un’opera classica come un inno al Nilo o le istruzioni di Amenemhat. 10 Quando aveva sciupato una sufficiente quantità di quei materiali poco costosi, lo scolaro promosso studente era autorizzato a ricopiare su un bel papiro intatto non una parte di un’opera ma un’opera completa. Il ragazzo, accoccolato, srotolava una parte del rotolo nuovo, largo quanto una pagina del modello da copiare. Dopo aver preparato l’inchiostro rosso e quello nero e avere scelto nel suo astuccio i calami adatti, cominciava a copiare un racconto o una raccolta poetica o morale oppure degli esempi di lettere. I titoli e i capoversi dei capitoli erano scritti in rosso, il testo normale in nero. Ma ogni scriba era anche un disegnatore e un pittore: per delle specie di miniature usava inchiostro verde, azzurro, giallo o bianco. L’educazione non consisteva semplicemente nello studio della grammatica e della scrittura, nella conoscenza dei testi classici, delle storie divine e di un po’ di disegno. I funzionari egizi avevano occupazioni estremamente varie e passavano da un compito all’altro con una impressionante facilità. Uni fu innanzitutto un funzionario di polizia e un giudice, poi si dedicò a procurare pietre, a costruire navi, a garantire la manutenzione dei canali, e allo scoppio della guerra svolse la funzione di capo di Stato maggiore. Bisognava dunque che gli studenti si iniziassero nella conoscenza delle leggi e dei regolamenti, della storia e della geografia e nelle tecniche principali. C’erano concorsi e diplomi? Siamo tentati di crederlo vedendo le domande che lo scriba Hori pone a uno dei suoi confratelli che voleva cogliere in fallo: quale razione spetta alle truppe in guerra? Quanti mattoni sono necessari alla costruzione di una rampa di determinate dimensioni? Quanti uomini ci vogliono per trasportare un obelisco? E per innalzare un colosso? Come si organizza una spedizione militare? E, per finire, pose una serie di domande sulla geografia della Siria. Queste domande delineano un intero programma di studi. 11 L’ardore nello studio naturalmente era estremamente variabile, in tutti questi scribi potenziali. Spesso i maestri si avvilivano nel vederli pigri. «Scrivi con le tue mani», non smetteva di ripetere lo scriba Amenmose, «discuti con quelli che ne sanno più di te [...] Esercitandosi tutti i giorni si diventa forti [...] Se sei negligente anche un giorno solo, sarai colpito. L’orecchio del giovinetto è sulla sua schiena. Ascolta solo chi lo colpisce. Permetti al tuo cuore di ascoltare le mie parole. Ti saranno utili. Si può

insegnare anche a danzare alle scimmie. Si addestrano i cavalli. Si rapisce il nibbio dal suo nido. Si fa volare il falco. Non dimenticare che discutendo si progredisce. Non trascurare gli esercizi di scrittura. Impegnati ad ascoltare le mie parole e le troverai utili.» 12 Questo pedagogo credeva, o mostrava di credere, che i soli nemici dello studio, nel cuore del giovinetto, fossero la pigrizia e la testardaggine. Ma visto che si potevano addestrare ed educare anche gli animali, sperava, facendo appello all’ambizione e al buon senso e soprattutto a energiche punizioni, di ricondurre l’allievo dissipato sulla via trionfale che porta alle funzioni più elevate. Purtroppo i giovani Egizi avevano però anche inclinazioni più funeste: «Mi si dice che trascuri gli esercizi di scrittura», dice un altro maestro, brontolone quanto Amenmose ma più informato, «e che ti dedichi piuttosto alla danza. Passi di osteria in osteria. L’odore della birra accompagna ogni tuo passo [...] Sei come una cappella priva del suo dio, come una casa senza pane. Ti si incontra che sbatti contro i muri. Gli uomini fuggono davanti a te. Se riuscissi a capire che il vino è abominevole, se potessi dimenticare il bicchiere! Ma tu non riconosci la tua stessa grandezza». 13 C’è di peggio. La facilità con cui in Egitto gli uomini potevano introdurre delle concubine sotto il tetto domestico, acquistare o affittare degli schiavi, impediva in una certa misura lo sviluppo delle case di malaffare. Ma comunque esse esistevano e i loro clienti non erano spinti solo a bere più del giusto ma vi incontravano danzatrici, cantanti e musiciste di professione che di solito erano donne facili, anche se erano cantanti di Amon. In queste case si poteva ascoltare anche musica straniera. Si cantava, si recitava con l’accompagnamento del tamburello e dell’arpa, e ci si iniziava ad altri piaceri, per poi ritrovarsi sulla strada in atteggiamento abbietto e rotolare nella spazzatura – nonostante vani sforzi di camminare incespicando – o farsi coinvolgere in sgradevoli contese. 14

Buoni e cattivi magistrati Gli uomini di legge, anche del grado più infimo, erano temuti dalla popolazione degli artigiani e dei fellah. Troppo spesso la loro visita annunciava una bastonatura in piena regola, la confisca di modeste ricchezze. I moralisti raccomandavano agli agenti dell’autorità di usare moderazione e clemenza: «Non frodare sulla esazione delle imposte ma non essere

soprattutto troppo duro. Se nell’elenco dei maggiori arretrati trovi un povero, dividilo in tre parti. Poi lasciane indietro due e chiedigliene una sola». 15 Alcuni funzionari hanno ricordato, sulla stele della loro tomba o su una statua eretta nel tempio sotto lo sguardo del loro dio, di essersi ispirati ad analoghe massime. Dice il visir Ptahmose: «Ho fatto ciò che gli uomini lodano e che gli dèi approvano. Ho dato pane agli affamati. Ho saziato chi non aveva niente». 16 Un altro visir, Rekhmarê, ha accuratamente amministrato la proprietà reale, ha popolato i templi di statue e si è fatto costruire una magnifica tomba ma ha anche protetto il debole contro il forte, difeso la vedova priva di parentela, collocato i figli nei posti che erano stati dei padri. 17 I subordinati del sommo sacerdote di Amon, Bakenkhonsu, non ebbero da lamentarsi del loro capo, almeno a credere a quanto egli ha affermato: «Sono stato un padre per i miei subordinati, ho istruito i loro giovani dando la mano agli sventurati, garantendo l’esistenza degli indigenti. Non ho terrorizzato i servi, sono stato un padre per loro... Ho garantito il funerale a chi non aveva eredi, una bara a chi non aveva niente. Ho protetto l’orfano che mi invocava e ho preso in mano gli interessi della vedova. Non ho scacciato il figlio dal posto di suo padre, non ho strappato il bambino alla madre... Ho aperto le orecchie a coloro che dicevano la verità, ho allontanato quelli che erano carichi di iniquità». 18 Anche Khâemhat, già scriba reale e capo dei granai, scese verso la necropoli dopo essersi discolpato sulla terra. Contro di lui non era stato possibile avanzare accuse... Quando era giunto nella grande sala di giustizia, tutti i suoi atti sacri, in base all’asta della bilancia, erano stati trovati equilibrati dagli dèi che vi abitavano. Thoth l’aveva discolpato davanti al tribunale di tutti gli dèi e dee. 19 Queste affermazioni sono certamente confortanti. Ma un vecchio sovrano che ben conosceva gli uomini mette suo figlio in guardia contro i giudici in questi termini: «Sai bene che non sono clementi, quando si tratta di giudicare i poveri». Horonemheb, vecchio militare che garantì l’interim fra i discendenti di Akhenaton e Ramses I, non si faceva illusioni. Sapeva che negli anni torbidi successivi alla rivoluzione religiosa gli scribi, i collettori di imposte e tutte le autorità anche modeste avevano torchiato indegnamente la gente umile derubando il pubblico e il Faraone. Quando li chiamava a rispondere dei loro atti davanti a un tribunale, coloro che avrebbero dovuto proteggere il contribuente accettavano denaro per assolvere il criminale e condannavano l’innocente troppo povero per corromperli. Horonemheb, che

cercava un’occasione per schiacciare l’ingiustizia e punire la menzogna, promulgò un editto contro i prevaricatori. Ogni magistrato che fosse stato riconosciuto colpevole di avere abusato della sua carica veniva condannato al taglio del naso e alla deportazione in una specie di campo di concentramento situato a Sile nell’istmo di Suez. 20 In un decreto pubblicato abbastanza di recente, Menmaatra si rivolge abbastanza bruscamente ai visir, ai grandi, ai giudici, al figlio reale di Kush, ai capi degli arcieri, agli addetti all’oro, ai principi, ai capitribù del sud e del nord, agli scudieri, ai capi delle scuderie, ai porta-parasole, ai custodi della casa del re e a tutti gli inviati in missione. Si trattava di proteggere contro tutti questi funzionari il tempio di milioni d’anni che il re aveva appena consacrato ad Abido e dotato munificamente di beni, personale e greggi. Il re aveva delle buone ragioni per temere che i pastori, i pescatori, gli agricoltori e gli artigiani fossero vittime di esazioni, che chi non ne aveva il diritto pescasse negli stagni e cacciasse nei terreni di caccia e confiscasse le barche, soprattutto quelle provenienti dalla Nubia, cariche di prodotti del sud. Ogni funzionario che si fosse impadronito dei beni appartenenti al tempio sarebbe stato punito con un minimo di cento colpi di bastone e avrebbe dovuto restituire centuplicato quello che aveva sottratto a titolo di risarcimento con gli interessi. In certi casi, la pena era di duecento colpi e cinque fratture. Si poteva arrivare anche all’ablazione del naso e delle orecchie, o all’arresto del colpevole che veniva consegnato come coltivatore al personale del tempio. 21 Possiamo restare sorpresi nel vedere il re mostrare tanto rigore contro gli agenti della sua amministrazione a favore di privilegiati che formavano uno Stato nello Stato. Bisogna però riconoscere che i funzionari non sempre esibivano un rispetto illimitato per i privilegiati del clero. 22 Ma possiamo legittimamente chiederci se le esazioni contro un artigiano o un coltivatore libero fossero represse con la stessa severità. La storia del contadino dell’Oasi del Sale, per quanto incompleta, dimostra per lo meno che il re desiderava davvero governare con equità.

Il mantenimento dell’ordine Sotto gli ultimi Ramessidi, a Tebe e certamente in tutto l’Egitto si svolsero scene incredibili. Furti, abusi di potere, delitti ce n’erano stati in

tutte le epoche anche sotto i migliori sovrani ma non si erano ancora viste bande organizzate saccheggiare i templi dove giacevano immense ricchezze che tutto sommato erano protette soprattutto dall’ingenuità della popolazione. Fin dall’Antico Impero, gli Egizi avevano l’abitudine di incidere a grandi caratteri e in una posizione adeguata un avvertimento che informava tutti coloro che si comportavano male in una tomba, che danneggiavano o sottraevano le statue, i dipinti e le iscrizioni e tutti gli oggetti dell’arredo funebre che le loro cattive azioni non sarebbero rimaste impunite: «Chi farà qualsiasi cosa contro questi, il coccodrillo lo attacchi in acqua, il serpente sulla terra. Le cerimonie a lui destinate non saranno mai celebrate. Solo Dio lo giudicherà». 23 Molto più tardi un nomarca di Siut che aveva buone ragioni per temere che la sua tomba non sarebbe stata rispettata perché a sua volta aveva usurpato una tomba più antica, vi aveva fatto incidere un avvertimento più circostanziato: «Tutti gli uomini, tutti gli scribi, tutti i dotti, tutti i borghesi e le persone comuni che grideranno in questa tomba, danneggeranno le sue iscrizioni, spezzeranno le sue statue si esporranno all’ira di Thoth, il più acuto degli dèi, apparterranno al coltello dei carnefici del re che hanno sede nei grandi castelli. I loro dèi non riceveranno il loro pane». Invece al visitatore rispettoso vengono inviate benedizioni che gli promettono di diventare un vecchio della sua città, un amakhu del suo nomo. 24 Gli Egizi del Nuovo Impero non avevano perso la fiducia in queste scritte minatorie. Menmaatra trovò dell’acqua nel deserto accanto a delle miniere d’oro e vi costruì un santuario dedicato ad Amon-Ra e ad altre divinità, non solo per ringraziarle ma anche per proteggere coloro che andavano a lavare l’oro e che dovevano consegnarlo al tesoro reale. Ai futuri re che avrebbero rispettato le decisioni di Menmaatra, Amon, Harakhté e Tatenen avrebbero concesso di governare la terra con cuore soave e di abbattere i paesi stranieri e la Terra dell’Arco, ma il re che avesse travolto quei piani avrebbe dovuto risponderne a On, davanti a un tribunale che non viene citato. Al principe che consigliasse al suo signore di requisire i minatori destinandoli ad altri compiti, «la fiamma brucerà le carni. Il fulmine divorerà le sue membra. Ogni uomo che sarà sordo ai suoi ordini, che Osiride gli stia dietro, che Iside stia dietro a sua moglie, che Horo stia dietro ai suoi figli, con i principi di Togiuser che svolgono le loro missioni». 25 Herihor, gran sacerdote di Amon, aveva collocato la sua statua nel tempio perché restasse accanto al dio e lo salutasse quando usciva in processione. Guai a chi l’avesse spostata anche

dopo molti anni: «Egli apparterrà all’ira di Amon, di Mut e di Khonsu. Il suo nome non esisterà più nel paese d’Egitto. Morirà di fame e di sete». 26 Amenhotep III aveva emanato un decreto che regolamentava il castello di ka del suo favorito Amenhotep, figlio di Hapu. La fondazione era posta sotto la protezione di Amonrasonter per tutto il tempo in cui la terra fosse sopravvissuta. Coloro che avessero commesso colpe contro di essa si sarebbero esposti all’ira di Amon: «Egli li consegnerà al fuoco del re nel giorno della sua collera. Il suo ureo vomiterà la sua fiamma sulla loro fronte, distruggerà la loro carne e ne divorerà il corpo. Diventeranno come Apopi la mattina del primo giorno dell’anno. Non potranno nutrirsi delle offerte dei morti. Nessuno verserà per loro l’acqua del fiume. I loro figli non occuperanno i loro posti. Le loro donne saranno stuprate sotto i loro occhi [...] Saranno consegnati al coltello nel giorno del massacro. I loro corpi deperiranno perché avranno fame e non avranno cibo». 27 In ogni paese, tutto deve essere coerente. La paura degli dèi, l’orrore delle punizioni postume hanno difeso i templi e le tombe finché a occidente di Tebe vigilava una polizia onesta ed efficiente. Ma a un certo punto la polizia dimenticò il suo dovere e allora le scritte terrificanti persero tutto il loro potere. I primi atti di saccheggio ebbero luogo, per quanto ne sappiamo, nell’anno XIV del regno di Ramses IX ma non furono certo i primi. Per anni e anni le tombe furono saccheggiate senza che il principe di kher, cioè della necropoli, dalla quale dipendevano la polizia, i Megiaiu e un numeroso corpo di custodi alzasse un dito per porre fine a tali pratiche. Fu invece il principe della città, Paser, che alla fine in queste vicende non era coinvolto direttamente, a denunciare lo scandalo in un rapporto al visir e a una commissione di alti funzionari. Il rapporto era estremamente allarmante. Il principe del kher, Paura, chiamato direttamente in causa, fu costretto a ordinare ai suoi collaboratori della polizia di intraprendere un’inchiesta. Si verificò un gruppo di tombe nel quartiere settentrionale della necropoli, innanzitutto quella del re Amenhotep I, il cui ricordo era caro a tutta la popolazione della riva sinistra. Il principe Paser affermava nel suo rapporto che essa era stata violata. Ma si sbagliava. La tomba del santo re era intatta, come una tomba vicina al tempio di Amenhotep, assai nota perché ospitava una statua rappresentante il re Antef con il suo cane Bahka fra le gambe. I ladri avevano fatto un tentativo decisamente ardito contro altre due tombe ma

non erano riusciti a raggiungere la stanza funeraria. Invece l’operazione contro la tomba del re Sekhemrê-Shedtaui, il figlio del sole Sobekemsaf, aveva avuto successo. La sala dove questo re riposava con la moglie, la regina Nubkhas, fu trovata vuota di tutto il suo contenuto. Altre cinque tombe reali erano intatte ma su quattro tombe appartenenti ai cantori della casa di adorazione di Amonrasonter, due erano state violate. Nel cimitero vicino dove erano seppelliti i cantori, gli avi e la gente del paese, si presentava uno spettacolo riprovevole. Tutte le tombe erano state violate. I banditi avevano strappato le mummie dalle bare di legno o di pietra e le avevano lasciate abbandonate a terra dopo aver strappato via l’oro e l’argento e rubato tutto l’arredo funerario. Alcuni banditi furono arrestati e interrogati. Il principe Paura inviò il verbale del loro interrogatorio alla commissione d’inchiesta. Questi importanti personaggi non avevano proprio niente di che essere fieri. Avrebbero dovuto avere un solo pensiero: mettere le mani sui banditi, revocare, punire tutti coloro che, con la loro negligenza o perché complici, si erano resi responsabili di quegli orrori. Invece mostrarono di irritarsi innanzitutto contro il principe della città, Paser, che li aveva costretti a uscire dall’inerzia e minacciava di inviare un rapporto al Faraone e farli arrestare tutti. Per sbarazzarsi di quel personaggio gli mandarono un falso testimone, un certo Pakharu, un operaio metallurgico che raccontò al principe di avere saccheggiato, insieme alla sua banda, le dimore dei signori. Il principe del kher, che evidentemente sapeva in che conto doveva tenere la fondatezza di quella testimonianza, promosse un’inchiesta che ne concluse l’assoluto mendacio. Poi la Commissione d’inchiesta si riunì sotto la presidenza del visir e convocò l’operaio di cui si è detto e i suoi pretesi complici insieme all’accusatore e a coloro che questi chiamava in causa. Il visir riassunse l’intero caso e rese noti i risultati dell’inchiesta in questi termini: «Abbiamo verificato i luoghi che il principe della città pretendeva fossero stati danneggiati dagli operai del castello di Osirmarê Miamun. Li abbiamo trovati intatti. Abbiamo constatato che tutto ciò che aveva detto era falso». Gli operai furono interrogati e messi a confronto con Paser. Si constatò che effettivamente non conoscevano nessuna delle dimore che sorgevano nella sede del Faraone e che erano state citate nell’inchiesta del principe della città. Paser fu dunque ritenuto colpevole di menzogna e gli operai che dipendevano dal primo profeta di Amonrasonter, personaggio dei più sospetti, furono rimessi in libertà e reintegrati nei loro posti. 28

Per quanto disposti a chiudere gli occhi sulle attività dei banditi, gli agenti di polizia non avevano potuto evitare di arrestare alcuni di quelli che avevano saccheggiato la tomba del re Sobekemsaf. Grazie alle trappole dell’inchiesta che è giunta fino a noi possiamo dunque immaginare come essi operavano. Un muratore di nome Amenpanofer che dipendeva dal gran sacerdote Amonrasonter Amenhotep si era associato con altri sette artigiani, muratori come lui o carpentieri, con un coltivatore e un battelliere, indispensabile perché era necessario varcare più volte il Nilo con i prodotti dei furti senza richiamare l’attenzione dei curiosi. Quei malfattori operavano già da quattro anni quando decisero di attaccare la piramide di Sobekemsaf. «Essa non somigliava affatto alle piramidi e alle tombe dei nobili che saccheggiavamo abitualmente.» Dunque presero i loro strumenti di rame e si scavarono un passaggio nella massa della piramide. L’operazione non durò sicuramente un giorno solo ma essi riuscirono a raggiungere le stanze sotterranee. Accesero quindi le torce, eliminarono gli ultimi ostacoli e si trovarono di fronte a due sarcofagi, quello del re e quello della regina. Ma non erano là per fare dell’archeologia. Senza esitare, sollevarono i coperchi dei sarcofagi, vi trovarono le bare di legno dorato e le aprirono anch’esse. La nobile mummia del re, sdraiata nella sua bara, aveva accanto una spada ed era probabilmente adorna, come quella della regina Ahhotep, di palmette e scene di caccia. Il volto era coperto da una maschera d’oro. Al collo della mummia erano appesi collane e amuleti. Tutta la mummia era coperta d’oro. I banditi ammassarono tutto l’oro, tutto l’argento, tutto il bronzo, tutti i gioielli e incendiarono le bare. L’oro pesava 160 deben (circa 14 chilogrammi). Lo divisero in otto parti e varcarono il Nilo. Ma forse chiacchierarono troppo o non riuscirono a nascondere la loro spedizione a tutti: infatti Amenpanofer venne arrestato dai sorveglianti della città che lo chiusero nell’ufficio del principe Paser. Il ladro radunò i suoi venti deben d’oro e li consegnò allo scriba della banchina che gli rese la libertà senza altra forma di processo. Amenpanofer raggiunse i compagni che, molto onestamente, fecero una nuova distribuzione in cui ogni parte comprendeva purtroppo solo diciassette deben e mezzo. Bisognava dunque risarcirsi: la banda quindi riprese le sue operazioni finché le autorità non decisero di arrestarla. «Ma – aggiunse il ladro – molte persone del luogo saccheggiano le tombe come noi e sono come noi colpevoli.» I ladri vennero trattenuti qualche tempo. I magistrati li costrinsero a confessare e li accompagnarono alla piramide che avevano violato per ricostruire il delitto,

poi decisero di consegnare gli otto violatori al gran sacerdote di Amon, loro capo, ma al momento di effettuare la consegna gli otto erano diventati solo tre, ai quali si aggiunse un individuo appartenente a un’altra banda di diciassette. Gli altri avevano preso il largo. I magistrati scaricarono il compito di ritrovarli sul gran sacerdote. Tre mesi dopo il muratore Amenpanofer, la cui madre era stata relegata in Nubia, venne arrestato e trascinato in tribunale. Dopo una severa bastonatura, fece nuove ammissioni. Disse di avere violato, con i suoi compagni, la tomba di un terzo profeta di Amon. Erano in cinque e avevano portato via il sarcofago di legno dorato abbandonando la mummia in un angolo della tomba. Si erano recati insieme nell’isola di Amonemopet dove avevano diviso l’oro bruciando la bara. Amenpanofer ricominciò, venne catturato, poi rilasciato e ricominciò fino al nuovo arresto che lo portò davanti ai giudici. 29 I banditi che saccheggiavano le tombe dei re e dei privati agli inizi provenivano dalle fila dei cavatori, dei muratori e degli artigiani che lavoravano nella necropoli. Il gruppo ben presto si ingrossò con il contributo di funzionari di grado inferiore che dipendevano dai templi occidentali e dal kher e di membri del clero. Una banda che comprendeva un sacerdote, Penun-heb, e quattro padri divini, Mery il vecchio, suo figlio Paisem, Semdy e Pakharu, si fece la mano spogliando della collana una statua di Nefertum del re Usirmarê Sotepenrê, il sommo dio. Questo gioiello, debitamente fuso, procurò quattro deben e sei qiti d’oro. Fu certamente Mery il vecchio, in qualità di decano, a fare le parti. 30 Un’altra banda di cui facevano parte sacerdoti, scribi e valletti dei buoi aveva derubato la casa d’oro del re Usirmarê Sotepenrê. Non sappiamo che cosa fosse la casa d’oro del re né dove si trovasse. La porta esterna di granito d’Abu aveva la serratura di rame. I portali erano coperti d’oro. Il monumento doveva essere poco sorvegliato. Il sacerdote Kaukaroi e quattro confratelli vi si recarono più di una volta sempre portando via dell’oro che scambiarono, in città, con del grano. Una volta un pastore ebbe una lite con loro e li apostrofò in questi termini: «Perché non mi date più niente?». Essi tornarono alla loro inesauribile riserva e ne riportarono cinque qiti d’oro. Acquistarono un bue contro quei quarantacinque grammi d’oro e ne fecero dono al pastore. Ma lo scriba dei libri reali Setuimose aveva ascoltato i termini della lite e approfittò dell’occasione per dichiarare: «Vado a fare rapporto al primo profeta di Amon». I sacerdoti non se lo fecero ripetere due volte. In due spedizioni si procurarono quattro qiti e mezzo d’oro

con cui acquistarono il silenzio del bibliotecario. Il sacerdote Tutuy, che era uno dei fedeli della casa d’oro, cercò di estendere la zona delle operazioni. Insieme al sacerdote Nesiamon accorse alle porte del cielo e le incendiò dopo aver prelevato tutto l’oro. 31 Una grande quantità di mobili preziosi scomparve nello stesso modo. Un giorno i ladri sottrassero il reliquiario portatile del primo profeta di Amon, Ramsesnekht, morto poco tempo prima. Un’altra volta, un’altra banda sottrasse il reliquiario portatile di Usirmarê Sotepenrê, il sommo dio, e le quaranta case del re Menmaatra Seti, depositate nel tesoro del castello di Usirmarê. 32 I rapporti e gli interrogatori relativi a questi atti di saccheggio formerebbero una cartella di notevoli dimensioni, ma essi citano solo vicende di poca importanza perché non segnalano nemmeno una violazione di una tomba reale. Invece quasi tutte le tombe della valle dei re e della valle delle regine furono violate e saccheggiate prima dell’inizio della XXI dinastia, cioè in meno di trent’anni. Per salvare le mummie dei Faraoni, i visir e i sommi sacerdoti di Amon si rassegnarono a toglierle dai loro sarcofagi e a depositarle senza gioielli né maschere d’oro, semplicemente avvolte in bende, in modeste bare di legno che vennero poi sepolte in qualche nascondiglio. La tomba di Tutankhamon fu quasi la sola a essere risparmiata, insieme a quella della regina Ahhotep che si trovava nella regione dove si erano fatti la mano i primi ladri. Mi sembra improbabile che le tombe degli Amenhotep, dei Thutmose, dei Seti, dei Ramses siano state tutte saccheggiate da pochi artigiani, anche organizzati in bande, che la polizia, in tempi normali, avrebbe facilmente smantellato. Sotto gli ultimi due Ramessidi l’Egitto fu lacerato da una crudele guerra civile che vide lo scontro fra clero e seguaci di Amon e clero e seguaci di Seth distribuiti su tutto il territorio ma particolarmente attivi e numerosi presso Coptos, a Oxirrinco, a Tell Modam e a Pi-Ramses. Nel corso di questa guerra a mio parere le grandi tombe furono saccheggiate dai partigiani di Amon o da quelli di Seth o da entrambi successivamente: ognuno dei gruppi col pretesto di non lasciare tali masse di metalli preziosi all’avversario. L’esempio veniva dall’alto: le persone modeste con i loro mezzi modesti continuarono a prelevare i metalli preziosi dove si trovavano, tanto più che l’anarchia aveva provocato uno spaventoso aumento dei prezzi. Le derrate erano rare e si potevano acquistare solo in cambio di oro o argento. Per un bue ci volevano quarantacinque grammi d’oro. I complici di un certo Bukhâf ammisero che con la loro parte avevano acquistato terreni, frumento,

oppure schiavi. L’acquisto di uno schiavo non poteva passare inosservato perché doveva essere registrato presso un apposito ufficio. Il giudice quindi, quando veniva a sapere che persone di condizione modesta avevano acquistato uno schiavo, le interrogava sulle loro risorse. A una Tebana di nome Ary-nofer lo scriba del tribunale chiese: «Che cosa dici del denaro che tuo marito Panehsy ti ha portato? – Non l’ho visto!». Il visir insistette: «Con quali mezzi hai acquistato i servi che erano con lui? – Non ho visto il denaro col quale li ha pagati. Era in viaggio quando era con loro». I magistrati le posero un’ultima domanda: «Da dove veniva l’argento che Panehsy ha fatto lavorare da Sobekemsaf?». «L’ho acquistato in cambio di orzo nell’anno delle iene, quando la gente aveva fame!» 33 Il tribunale non sentì il bisogno di chiedere all’imputata che cosa intendesse per «anno delle iene». Era un’espressione corrente ma ci pone qualche problema interpretativo. Alcuni egittologi hanno ritenuto che in quell’anno le iene si fossero spinte fino a Tebe, come talvolta in Europa i lupi si sono spinti fino alla periferia delle grandi città. Altri hanno pensato che si trattasse di una similitudine. L’anno delle iene fu forse l’anno in cui i nemici di Amon si erano impadroniti di Tebe e ne avevano saccheggiato i templi e le necropoli. La demoralizzazione era stata grave. Al padre di una donna che faceva parte della banda di Bukhâf un ladro gridò: «Vecchio imbecille, buono a niente, se sarai ucciso e gettato nel Nilo chi ti cercherà?». 34 Non a caso Ramses III insisteva tanto nel raccomandare agli dèi, con toni patetici, di concedere un regno fortunato a suo figlio. Prevedeva la catastrofe che si sarebbe prodotta tre quarti di secolo dopo la sua morte. L’Egitto ne uscì ridimensionato, dopo più di un quarto di secolo di disordini durante i quali si assistette a fatti che non si erano prodotti nemmeno ai tempi degli Hyksos, con artigiani, scribi e sacerdoti che spogliavano gli dèi e i morti.

In tribunale Quando si riuscì a riportare l’ordine, ricominciò la repressione. Già sotto Ramses IX, probabilmente, era stata nominata una commissione d’inchiesta presieduta dal visir – che dopo il Faraone era il personaggio più importante del regno – che aveva accertato l’estensione dei danni. Ci è parsa meno interessata alla verità che desiderosa di impedire che si parlasse dei fatti.

Gruppi di banditi furono arrestati ma acquistarono la libertà con un po’ d’oro e ricominciarono. Approfittavano del trasferimento dalla prigione del principe della città a quella del sommo sacerdote per darsi alla macchia. Ma dopo i nuovi saccheggi che si verificarono negli ultimi anni del regno di Ramses IX si mise all’opera, questa volta con decisione, un’altra commissione d’inchiesta che comprendeva anche il visir, alcuni coppieri reali, un addetto al tesoro, due porta-parasole, scribi e araldi. Spesso i querelanti consultavano la statua di un re santo per ottenere la restituzione di un oggetto rubato o il pagamento integrale di una rendita. Ma la faccenda a questo punto era troppo seria: il re santo venne messo da parte. I giudici fecero ricorso solo a mezzi ben sperimentati per appurare la verità. All’inizio di una seduta dedicata all’interrogatorio dei principali colpevoli di atti di banditismo che avevano saccheggiato le grandi dimore, il visir disse al pastore Bukhâf: «Tu partecipavi alla spedizione con la tua banda quando il dio ti ha catturato e ti ha portato qui. Egli ti ha consegnato in mano al Faraone. Dimmi tutti gli uomini che erano con te nelle grandi dimore!». L’imputato non si fece troppo pregare per denunciare sei dei suoi compagni. Ma al tribunale non bastò: il pastore venne bastonato e giurò che avrebbe parlato. Venne così nuovamente interrogato in questi termini: «Dicci per quale strada sei entrato nelle grandi dimore venerate». Egli affermò che la tomba dove era entrato era già aperta e quindi venne sottoposto a una nuova bastonatura alla quale pose fine dichiarando: «Giuro di parlare». Si riuscì a strappargli tredici nomi, poi dichiarò: «Attesto in nome di Amon, attesto in nome del sovrano che se si scoprirà che ho nascosto qualcuno di coloro che erano con me ne riceverò anche la punizione!». 35 Cominciò allora la monotona sfilata dei complici ai quali si aggiunsero altri individui i cui nomi vennero pronunciati nel corso dell’istruttoria. Gli accusati giurarono di non mentire, con la minaccia di venire relegati in Nubia o mutilati o «messi sul legno». Abbiamo già incontrato questa espressione. Molti di coloro che avevano complottato contro Ramses III furono condannati a questa pena. Alcuni egittologi hanno ritenuto che volesse dire essere impalati ma non si tratta di una interpretazione sicura. L’impalatura è rappresentata su alcuni bassorilievi assiri ma mai su quelli egizi dove sono rappresentate invece, talvolta, persone legate a un palo e pronte a subire la bastonatura. 36 Ritengo dunque che il condannato «messo sul legno» venisse legato a un palo di legno, forse fino a morte. Qualche volta l’accusato, interrogato dal giudice,

rispondeva: «Guai a me, guai alla mia carne!». Senza impressionarsi il giudice poneva la domanda e se non trovava soddisfacente la risposta passava alla bastonatura. Ve n’erano di più tipi perché abbiamo registrato tre termini diversi, per indicarla: bagiana, nagiana e manini. Alcuni subivano successivamente i tre supplizi di cui non sappiamo esattamente in che cosa differissero. La bastonatura veniva applicata sulla schiena ma anche sulle mani e sui piedi. Questo violento supplizio scioglieva molte lingue: spesso ma non sempre. Il cancelliere sovente constatava che dopo due o tre bastonature l’accusato non aveva ancora confessato. Probabilmente egli restava a disposizione della giustizia. Talvolta il giudice, perplesso, non avendo ottenuto né la confessione né le informazioni che si aspettava invitava lo sventurato a esibire un testimone a sua discolpa. Era molto raro che un imputato venisse rimesso in libertà. A un suonatore di tromba di nome Amonkhâu il visir chiese: «Che strumenti hai usato, insieme al bruciatore di resina Shedsukhonsu quando sei penetrato nella grande dimora da cui hai portato via l’argento dopo la spedizione dei ladri?». Questi rispose: «Guai a me! Guai alla mia carne! A Perpatjau, il suonatore di tromba mio compagno di disputa con il quale disputavo, gli ho detto: “Ti uccideranno a causa dei furti che perpetri nel kher...”». Venne interrogato dopo avere subito la bastonatura dei piedi e delle mani e disse: «Non ho visto altri se non chi ho già denunciato». Venne interrogato col nagiana, due volte, e col manini ma insistette: «Non ho visto niente. Quello che ho visto, l’ho detto». Venne nuovamente interrogato il giorno 10 del quarto mese dell’estate. Fu riconosciuto innocente dei furti e restituito alla libertà. Lo sventurato se l’era proprio meritata. 37 Grazie a questi documenti assistiamo a numerosi interrogatori ma i giudizi di solito non ci sono stati tramandati. I disgraziati morirono sotto tortura oppure finirono la loro povera vita nelle miniere e nelle cave.

L’accoglimento dei tributari stranieri Come abbiamo visto, i pubblici ufficiali erano occupati soprattutto a difendere la proprietà reale, a reprimere il banditismo, a giudicare e a esigere le imposte. In tempo di carestia, disponevano l’approvvigionamento della popolazione. Questi erano i compiti più frequenti. Talvolta compiti più

lusinghieri erano distribuiti a pochi privilegiati. Nessun compito ci risulta più ambito di quello di accogliere al loro ingresso in Egitto e accompagnare di fronte al Faraone i delegati dei paesi stranieri che venivano a consegnare i loro tributi di guerra o a esprimere il desiderio di entrare nelle acque del re o di far sapere in alto loco che in un paese lontano una principessa non riusciva a guarire e che il solo modo per restituirle la salute era procurarle un medico egizio o addirittura la presenza di un dio pietoso. I delegati di Retenu, del Naharina, dei più remoti paesi dell’Asia potevano arrivare per via di terra e in questo caso erano accolti dalle guardie di frontiera delle strade di Horo, oppure per mare. Le loro navi somigliavano a quelle degli Egizi, come è naturale dato che avevano imparato a costruirle proprio dagli abitanti di Biblo. Quando arrivavano in un porto, i capi siriani bruciavano incenso ed esprimevano a grandi gesti la loro gioia per avere portato felicemente a termine quel lungo viaggio, poi sbarcavano con le loro merci mentre gli Egizi allestivano sulle banchine dei posti di ristoro con cibo e bevande, e subito incontravano un funzionario egizio che li accompagnava dal visir. Probabilmente una folla si ammassava a vederli passare. Gli artisti, che un giorno avrebbero dovuto rappresentarli nella tomba del visir, li esaminavano con grande attenzione. Gli uomini indossavano perizomi con ricami di lana multicolore e adorni di ghiandine oppure lunghe vesti fissate davanti con un laccio o dei ganci, oppure si erano drappeggiati addosso larghi scialli di lana. Alcuni portavano un medaglione al collo. Le donne indossavano vesti a volanti. I servi spingevano avanti cavalli, orsi, elefanti poco più grandi di un vitello e portavano a spalla giare contenenti resina di terebinto, pece, miele, olio, cesti pieni d’oro e lapislazzuli. Gli Egizi apprezzavano ancor di più i prodotti artigianali come i carri, le armi, gli oggetti di lusso e i vasi metallici. I Siriani eseguivano oggetti di straordinaria perfezione. Non si accontentavano più, come all’inizio della XVIII dinastia, di anfore ad anse floreali, coppe a ovolo e crateri contenenti un mazzo di piante artificiali ma producevano immensi vasi a piede interamente rivestiti di motivi incisi o intarsiati arricchiti da piante, teste umane o animali raccolte intorno al piede o alla pancia o al coperchio. Alcune di queste anfore erano a tre pance o a tre colli. I coperchi avevano la forma di una testa di Bes o di grifone. Altri crateri formavano la base da cui sorgeva un edificio a tre piani oppure una sfinge a testa di donna. A volte, invece, il cratere era sostenuto da due uomini posti

schiena contro schiena. Notiamo anche le teste, di Bes o di donna, inserite su zanne d’elefante naturali o artificiali, rivestite a loro volta da ricche decorazioni. Pezzi come questi non avevano alcuna funzione pratica, servivano solo all’esibizione del lusso. Ma non per questo piacevano meno agli Egizi, che nei loro laboratori facevano copiare i modelli più semplici. L’interesse che gli Egizi nutrivano per questi prodotti stranieri può essere valutato grazie alla cura con cui erano riprodotti, ad esempio nella tomba di Amiseba. 38 I cortei di personaggi meridionali non erano certo meno pittoreschi di quelli degli Asiatici. Avanzavano al suono del tamburello, carichi di collane, di code di pantera attaccate alle braccia e col cranio rasato con tre soli ciuffi di capelli residui. Le loro donne indossavano un gonnellino o una veste a volanti e portavano ognuna quattro bambini in una gerla. Recavano scudi di cuoio, avorio, piume e uova di struzzo, pelli di pantera, giare e involti. Legati con delle corde trascinavano scimmie, ghepardi, giraffe dal lungo collo. Nessuno di questi cortei può essere paragonato a quello che venne presentato a Tutankhamon dal fanciullo reale di Kush Huy. 39 Il viceré, con le collane d’oro donategli dal suo sovrano al collo, ricevette i collaboratori egizi che lo salutarono inginocchiati e toccandogli i piedi o il vestito. La maggior parte dei Nubiani aveva adottato il costume egizio conservando però qualche carattere nazionale. I loro lunghi capelli formavano una specie di calotta stretta in un diadema in cui infilavano una piuma di struzzo. Portavano grossi anelli alle orecchie, si stringevano il collo in una collana di perle e i polsi in braccialetti massicci. Alcuni indossavano sulla schiena una pelle di pantera tenuta ferma da una cintura, una bretella e un panno sul quale si distinguevano dei soli dardeggianti. I principi portavano disinvoltamente la veste trasparente pieghettata e la gorgiera degli Egizi e calzavano i sandali. I loro figli, come quelli degli Egizi, portavano sulla guancia sinistra una grossa ciocca di capelli intrecciati. Alle braccia portavano code di pantera. I portatori di offerte portavano alle orecchie dei semplici anelli con appesi dei dischi d’oro. Il gruppo comprendeva guerrieri che chiedevano, in ginocchio, il soffio di vita, portatori di offerte con sacchetti e anelli d’oro posati su dei vassoi e pelli di pantera, giraffe e buoi sulle cui corna immense figuravano delle mani. Un gruppo di principi precedeva il re del paese che avanzava su un carro simile a quello degli Egizi e degli Asiatici ma provvisto di uno splendido parasole di

piume di struzzo e trainato da due buoi privi di corna. Alcuni prigionieri con le mani strette nelle manette e il collo incatenato seguivano il carro. Chiudevano il corteo nere con i bambini più piccoli in una gerla e i più grandi con la testa rasa secondo la moda del loro paese. Le donne erano nude fino alla cintola. Come gli uomini portavano orecchini pendenti, code di pantera e pesanti braccialetti. Senza essere industriosi come i Fenici, i popoli meridionali erano artigiani molto abili. Si potrebbe credere che i governatori egizi della Nubia, chiamati figli reali di Kush, avessero fatto sforzi per sviluppare le arti indigene quando si osserva con quanta soddisfazione Huy contempla le merci esibite sotto i suoi occhi prima di presentarle a sua volta al sovrano. I Nubiani costruivano non solo oggetti imitati da modelli egizi, sedili, letti, testate di letto, carri, ma anche armi diverse da quelle egizie. I loro scudi di cuoio circondati da un nastro di metallo e rinforzati con chiodi talvolta erano decorati con scene tratte dal repertorio ufficiale. Vi si distingueva una sfinge a testa d’ariete che calpestava i nemici. Il Faraone trafiggeva un Nubiano con la lancia. Ma gli Egizi apprezzavano ancor di più le riproduzioni di villaggi neri eseguite in oro, posate in ceste o su un tavolino. Vi si vedeva una capanna a forma di piramide altissima, all’ombra di un folto di palme da datteri e di palme dum. Ragazzi e scimmie si arrampicavano sugli alberi per coglierne i frutti. Le giraffe e i loro guardiani percorrevano il villaggio alla cui periferia si vedevano dei neri che salutavano. Il piede del tavolino era decorato con dei neri legati a un palo e con sigilli reali. Al tavolo erano appese pelli di pantera e catene. Era il pezzo principale dell’esibizione, il capolavoro dell’oreficeria nubiana di ispirazione egizia. Il figlio reale di Kush, che portava dai paesi del Sud quei tesori, oltre ai lingotti d’oro, all’ebano e all’avorio, e che poteva vantarsi di aver fatto regnare la pace, aveva ben meritato la sua ricompensa. 1. Maspero, «Un manuel de hiérarchie égyptienne», Études égyptiennes, II, 1-66. 2. Lefebvre, Histoire des grands prêtres d’Amon de Karnak, cap. II. 3. Gauthier, Le personnel du dien Min, Le Caire 1931. 4. Si veda la stele dell’anno 400 in Kêmi, IV, 210-212. 5. Urk., IV, 1020-1021. 6. Decreto di Nauri, Bibl. æg., IV. 7. Lefebvre, op. cit., 127-128. 8. Papyrus morale de Boulag, VII (Maspero, Histoire, II, 503).

9. Vérité et Mensonge, Pap. Chester Beatty, II, 5. 10. Maspero, Hymne au Nil, XIII e 19. 11. Pap. Anastasy, I, 13, 5 ss. in Gardiner, Eg. hieratic texts, Leipzig 1911, 16-34. 12. Bibl. æg., VII, 23-24. Testi analoghi in Bibl. æg., VII, 35. 13. Bibl. æg.,VII, 47. 14. Bibl. æg., VII, 47 (seguito del precedente). Pleyte e Rossi, Papiri ieratici di Torino; Pap. moral de Boulag, 3-6, 11. 15. Pap. moral. de Boulag. 16. Mélanges Loret, Bull. I.F.A.O., XXX, 497. 17. Urk., IV, 1044-1046. 18. Lefebvre, op. cit., 127 ss. 19. Ann. S.A.E., XL, 605. 20. Maspero, Histoire, II, 347. 21. Bibl. æg, IV. 22. Bibl. æg., VII, 5. Storia di tre giovani ecclesiastici inviati a far parte dell’esercito. 23. Urk., I, 23. 24. Siut, I, 223-229. La tomba di Puyemrê a Tebe contiene lo stesso avvertimento (Kêmi, III, 4648). 25. Iscrizione del tempio di Radesieh, Bibl. æg, IV. 26. Lefebvre, op. cit., 213. 27. Stele 138 del Br. Mus. in Robichon e Varille, Le temple du scribe royal Amenhotep, fils de Hapou, 3-4. 28. Questi avvenimenti sono noti in base al Papiro Abbott: Moller, Hieratische Lesestücke, III, 16 ss. e a quello Amherst e Leopold, pubblicati da J. Capart e Alan H. Gardiner, Bruxelles 1939. 29. Pap. Br. Mus. 10054, R° 2, 7. 30. Pap. Br. Mus. 10054, R° III, 7-9. 31. Pap. Br. Mus. 10053, V° 111, 6-16. 32. Pap. Br. Mus. 10403, I 6 ss. T. Eric Peet, The Mayer papyri A and B. 33. Pap. Br. Mus. 10052, II, 14-30; XI, 4-9. 34. Ibid., III, 16-17. 35. Ibid., I, 6; II, 16. 36. Nella tomba di Merreruka, A 4 sud. 37. Pap. Br. Mus. 1002, IV, 6-14. 38. Per i cortei di delegati dei paesi del nord si vedano le mie Réliques de l’art syrien dans l’Égypte du Nouvel Empire, Paris 1937. 39. Th. T.S., IV, 23-30. Paragonare Wr. Atl., I, 35, 56, 224 (Amiseba); 247-248 (Haremheb); 265

(Anna); 270-284-285 (Amenmosé); 292, 293, 336, 337 (Rekhmara); Maspero, Histoire, II, 269 (tempio di Neit Uely); Medinet-Habu, 11.

XI

L’attività nei templi

La devozione religiosa Gli Egizi, secondo Erodoto, erano i più religiosi fra gli uomini. 1 Credevano che tutto l’universo appartenesse agli dèi, fonte di ogni prosperità, che essi conoscessero i nostri desideri e potessero intervenire in ogni momento nelle vicende umane. Se Ramses II abbandonato dai suoi soldati e sorpreso dai nemici nelle vicinanze di Qadesh aveva potuto superare il pericolo, è perché la sua voce era risuonata fino a Tebe ed era stata udita da Amon. Se un tempo radioso aveva favorito, durante la cattiva stagione, il viaggio della sua fidanzata, la principessa hittita, è perché Sutekh non poteva rifiutargli niente. Se i cercatori di pozzi trovavano l’acqua nel deserto di Ikayta è perché suo padre Hapi amava Ramses II più di tutti i re che avevano regnato prima di lui. L’idea che gli dèi favorissero certi uomini incoraggiava talvolta i desideri più folli. Si dice che il re Amenofis abbia voluto vedere gli dèi già da vivo. 2 Il principe Hornekht figlio di Osorkon II e della regina Karom pretendeva che il divino avvoltoio lo assistesse quando si univa alle antilopi del deserto e agli uccelli del cielo, 3 evidentemente per comprenderne il linguaggio riservato a pochi iniziati e i messaggi importanti che gli dèi si compiacevano di affidare loro. Molti credevano addirittura che alcuni privilegiati potessero comandare alla natura, al cielo, alla terra, alla notte, alle montagne e alle acque, sopprimere gli ostacoli del tempo e dello spazio. 4 Ma erano follie passeggere. Ramses III quando dettò il papiro Harris agli dèi dell’Egitto, al principale come a quelli di minore importanza, chiese cose semplici e ragionevoli: la felicità eterna per se stesso, per il figlio un futuro di re potente e rispettato, un lungo regno e piene del Nilo generose. Credeva di meritare quei doni perché gli dèi l’avevano posto nella carica che era stata di suo padre come avevano collocato Horo al posto di Osiride. Egli stesso non aveva oppresso e derubato nessuno e non aveva trasgredito agli ordini divini. I desideri dei singoli, ricchi o poveri, erano desideri umili. Le persone che non avevano figli chiedevano a Imhotep di concederne loro uno. Bytau, quando era inseguito dal fratello diventato pazzo furioso, ricordava che

Harakhté sapeva distinguere il vero dal falso. Era noto che il dio si prendeva cura dei poveri. Quando tutto congiurava contro di loro, egli restava un sostegno, il giudice che non accetta doni e non influenza i testimoni. In tribunale il povero che non aveva né oro né argento per gli scribi né vesti per i loro domestici scopriva che Amon poteva trasformarsi in visir per far risaltare la verità e garantire il trionfo del debole sul forte. 5 Gli scribi contavano su Thoth per eccellere nella loro professione. «Vieni a me, Thoth, ibis sacro, tu, dio che Shmunu ama, segretario dei nove dèi, vieni a me, dirigimi, rendimi abile nella tua funzione perché la tua funzione è la più bella di tutte. Si scopre che colui che vi eccelle è fatto principe.» 6 Questa pietà religiosa ardente quanto ragionevole spesso ci sconcerta. Il gusto del lusso dedicato agli dèi è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Ma la ricchezza dei templi dell’Impero Nuovo sfida l’immaginazione. Dall’ascesa al potere di Ahmose in poi vi si ammassavano tutto il superfluo, tutti i risparmi dell’intero paese. Già sappiamo che tutti i re si posero come compito fondamentale quello di creare nuovi santuari, ampliare e abbellire quelli già esistenti restaurandone le mura e le porte, costruendo barche sacre e innalzando statue, sostituendo il mattone con la pietra e il legname locale con legnami esotici, ricoprendo con lamine d’oro le punte degli obelischi e le mura della grande dimora, arredando tutte le stanze con mobili intarsiati d’oro e cosparsi di pietre preziose. Certamente ai tempi di Akhenaton e forse negli anni poco noti che precedettero l’ascesa al potere di Sethnakht ci fu qualche distruzione e una specie di prova generale di quanto sarebbe stato fatto in grande sotto gli ultimi Ramessidi, ma molti regni gloriosi e prosperi si impegnarono con successo a riparare quelle miserie. Come già i Greci e i Romani, anche noi ci meravigliamo del numero e delle singolari forme delle divinità. L’illustrazione di un papiro del Museo del Cairo ci mostra una sacerdotessa, figlia di re, Isitemheb, che si prosterna con un movimento seducente sul bordo di una vasca davanti a un coccodrillo allungato dall’altra parte sotto un salice. 7 Senza alcuna ripugnanza quella sacerdotessa beveva l’acqua della vasca che serviva agli accoppiamenti del mostro che l’osservava tranquillamente. Quel coccodrillo era il dio Sobek, uno dei più diffusi, che aveva due principali centri di culto, uno al Fayum, che i Greci chiameranno Coccodrillopoli, e l’altro a Sumenu, a sud di Tebe, e santuari un po’ dappertutto. Al coccodrillo gli abitanti di Menfi e di On preferivano il toro che i primi

chiamavano Api e i secondi Meruer. Il toro Api era riconoscibile per delle caratteristiche che gli autori greci ci hanno tramandato. 8 Quando veniva identificato, si annotava accuratamente la sua nascita e lo si introduceva solennemente nel tempio di Ptah. Finché viveva veniva nutrito a sazietà di cibi raffinati e coperto di onori. Quando moriva il popolo intero prendeva il lutto. Veniva mummificato e sepolto come un principe in una tomba tutta sua. A Shmunu gli ibis erano considerati sacri. 9 Un ibis privilegiato riceveva onori divini. Dall’intero Egitto si concentravano a Shmunu gli ibis morti e mummificati per essere depositati in un’immensa caverna. I falchi sacri erano venerati ovunque e non solo nella città di Nekhen che i Greci chiamavano Hierakonpoli, ma anche di fronte a Nekhen, a Nakheb e in tutti i luoghi che gli Egizi oggi chiamano Damanhur (città di Horo) o Sanhur (protezione di Horo) e in altri ancora, ad esempio Hathirib, in cui la necropoli è stata ricostruita in tutta la sua integrità da Gied-her il salvatore a Tanis, dove la nostra missione ha recuperato di recente degli scheletri di falco in piccole giare. A Bast era una gatta a raccogliere gli omaggi della popolazione. Ad Amit era il temibile serpente Uagit. I contadini della Tebaide offrivano allo stesso serpente che chiamavano invece Renutet le primizie del raccolto. Gli animali non avevano il privilegio esclusivo di quelle cure devote. Anche i vegetali vi partecipavano. Coppie oppure uomini e donne isolati si avvicinavano con rispetto a un sicomoro con le mani tese per raccogliere l’acqua versata da una dea nascosta nell’albero. Ogni città aveva il suo bosco sacro come aveva il dio locale che però non bastava per estinguere l’ardore religioso. In ogni città anche poco importante al dio locale si associavano altre divinità che un bel giorno erano venute da una città, vicina o remota. Quando Ramses II fondò la sua residenza nel Delta orientale vi raccolse tutta una compagnia divina. Amon affiancava Seth, suo nemico della vigilia e dell’indomani, Tum di On e Ptah di Menfi, gli dèi del Delta e quelli dei Siriani e dei Fenici perché gli Egizi, come se nel loro paese non avessero abbastanza dèi, si erano messi ad adottare quelli dei paesi vicini. L’uccisore di Osiride aveva scambiato la sua testa di levriero con una umana. Aveva adottato la veste e gli attributi di Baal, un casco puntuto dove brillava il disco solare da dove emergevano due corna affilate dalla cui cima ricadeva a terra un lungo nastro, un perizoma ricamato e adorno di ghiandine. La sua paredra era, invece della sorella di Isit, la cananea Anta. 10 Astarte, alla sua venuta in Egitto, aveva ricevuto onori regali da tutte le divinità. 11 Ramses, che aveva

fatto costruire, per attendere la sua fidanzata, un castello fortificato fra Egitto e Siria, non poteva lasciarlo privo di protezione celeste. Scelse due dèi egizi, Amon e Uagit, e due asiatici, Sutekh e Astarte. 12 Dai tempi del regno di Tutankhamon un dio falcone pare aver sostituito quell’antico patrono della monarchia. 13 Menfi, dove un intero quartiere apparteneva ad abitanti originari di Tiro, rappresentava una specie di sintesi di tutti i culti egizi e stranieri. 14 Tebe, la città dalle cento porte, avrebbe meritato di chiamarsi la città dai cento dèi.

Il clero Sappiamo che tutti i templi erano delle piccole città che ospitavano nella loro cinta di mura dei funzionari, una polizia, degli artigiani e dei contadini che vivevano come in una città normale. Dipendevano dal tempio ma non erano religiosi. L’appartenenza al clero era riservata a coloro che erano detti uâbu, puri, agli it neter, padri divini, al servo divino hemneter, all’uomo dal rotolo, kheryhebet, che teneva nelle sue mani il programma della cerimonia scritto su un rotolo di pergamena, ai membri dell’unuyt, il collegio composto da almeno dodici persone poiché il termine unut significa ora. Questi religiosi si davano il cambio a ogni ora in modo da garantire una costante adorazione, giorno e notte. In molti templi un capo dei misteri si occupava di rappresentazioni sacre di cui parleremo più avanti. Il sacerdote serri, ignoto fra il clero di Amon, svolgeva un ruolo importante a On e a Menfi. A Tebe il clero di Amon aveva alla sua testa quattro hemu neteru. Il primo servo divino, nonostante la semplicità del suo titolo, era uno dei personaggi più importanti dell’intero Egitto. A On il capo del clero di Tum si chiamava grande veggente, ur ma, il capo del clero di Ptah a Menfi si chiamava capo degli artisti, a Shmunu il capo del tempio di Thoth era detto il grande dei cinque. In molti templi il personaggio principale era come presso Amon un servo divino. Abbiamo mutuato dai Greci l’uso di chiamare questi hemu neteru «profeti», perché avevano talvolta il compito di interpretare la volontà degli dèi, ma questa non era la loro sola funzione e non siamo nemmeno certi che fosse loro riservata. Qualunque fosse il loro nome, i sacerdoti del Nuovo Impero tendevano a distinguersi dalla massa dei cittadini. Disdegnavano, ad esempio, la veste pieghettata con le maniche e avevano adottato un perizoma

lungo. Andavano a torso nudo e si facevano radere oltre alla barba e ai baffi anche i capelli. Poiché ogni tempio spesso dava ospitalità a più divinità, i membri del clero non restavano per sempre al servizio dello stesso dio. Seti, sommo sacerdote di Seth, era anche il coordinatore delle feste di Banebded e di quelle di Uagit che giudica le due terre. Nebunef, che era stato nominato sommo sacerdote di Amon da Ramses II, in passato non aveva mai fatto parte del clero di quel dio. Era sommo sacerdote di Anhur a Tjiny e di Hathor a Dendera. Un secondo gran sacerdote di Amon, Anen, che non giunse mai al grado più elevato, se ne sentì consolato quando venne nominato veggente principale e sem a On di Mentu, una città del nomo tebano. Al culto partecipava un gran numero di donne. Ogni tempio possedeva un corpo di cantanti il cui compito consisteva nel cantare agitando il sistro o i crotali durante le cerimonie. Queste donne non abitavano nel tempio ma in famiglia perché la loro funzione ne richiedeva la presenza solo in determinati giorni per poche ore. Invece le donne che componevano la Khenerit dovevano risiedere nel tempio perché il termine khener indica sia una prigione sia le parti più interne di un tempio o di un palazzo. Le loro superiori si chiamavano la donna divina del dio, la mano divina o la divina adoratrice. Talvolta si è ritenuto che le donne di questo harem divino costituissero un collegio di cortigiane sacre come quello che esisteva a Biblo, una città interamente permeata dell’influsso egizio. Non è provato però che in Egitto esistesse una istituzione di questo tipo. Le cantanti di Amon qualche volta avevano costumi piuttosto rilassati e frequentavano ambienti malfamati, ma sarebbe ingiusto giudicare tutte le musiciste di Amon solo in base al solo documento fornito dal papiro di Torino, 15 il quale comunque non dimostra che le donne addette al tempio dovessero, come le donne di Biblo durante le feste di Adone, concedersi agli stranieri e consegnare al tesoro del tempio i guadagni che traevano da quel commercio. Come i funzionari erano soprattutto reclutati nelle famiglie di funzionari, così i sacerdoti erano quasi sempre figli di sacerdoti. 16 Bakenkhonsu, figlio di un secondo profeta di Amon, ad esempio, fu mandato a scuola cinque anni in previsione della sua ammissione al clero. I figli e i nipoti del sommo sacerdote Rome-Roy erano tutti membri del clero. Suo figlio maggiore gli restò accanto come secondo. Il figlio minore officiava in un tempio a occidente di Tebe. Il nipote era già padre divino. Talvolta però le intenzioni

delle famiglie e la vocazione dei giovani venivano ostacolate. Una lettera amministrativa ci informa che il visir aveva presentato tre giovani come futuri sacerdoti nel castello di Merenptah, all’interno del tempio di Ptah. Un funzionario poco rispettoso dei diritti dei religiosi, li requisì per inviarli nel nord come ufficiali. Era un abuso di potere. Uno scriba segnalò immediatamente il fatto e chiese il ritorno di quei giovinetti. 17 Gli studenti che intendevano entrare nel clero imparavano, come tutti i fanciulli, la grammatica e la scrittura ma dovevano apprendere molte altre nozioni. Dovevano conoscere le immagini degli dèi, i loro titoli, epiteti, attributi, le loro leggende e tutto quanto riguardava la liturgia: non era cosa da poco. 18 Alla fine degli studi subivano un esame. Colui che era stato giudicato degno di entrare nella corporazione si toglieva le vesti, veniva lavato, bagnato, cosparso di unguenti profumati, poi indossava i paramenti sacerdotali e veniva introdotto nell’orizzonte del cielo. Pervaso del timore della potenza divina, poteva finalmente avvicinarsi al dio nel suo santuario. 19

Il culto Il culto celebrato in tutti i templi dell’Egitto a nome del re e a sue spese era un atto segreto che si compiva senza la minima partecipazione pubblica, nell’oscurità del sancta sanctorum. Il sacerdote qualificato innanzitutto si purificava nella casa del mattino. Prendeva l’incensiere, lo accendeva e avanzava verso il santuario purificando con l’odore del terebinto i luoghi intermedi. Il naos contenente la statua di legno dorato del dio o della dea era chiuso. Il sacerdote spezzava il sigillo d’argilla, tirava il catenaccio e aprendo i due battenti rivelava l’immagine divina. Si prosternava, cospargeva la statua di unguenti, la incensava e recitava inni di adorazione. Fino allora la statua restava un oggetto inanimato ma il sacerdote le restituiva la vita presentandole successivamente l’occhio strappato a Horo dal suo nemico Seth e recuperato dagli dèi e una statuetta di Maat, la Verità, figlia di Ra. Poi il dio veniva estratto dal naos. L’officiante procedeva alla sua toilette come se la facesse al re. La lavava, la incensava, la vestiva, la profumava, la ricollocava nel naos e le posava davanti gli elementi di un pasto che veniva interamente consumato dal fuoco. Dopo le ultime purificazioni con il natron, l’acqua e il terebinto, il culto poteva dirsi completo. Il sacerdote chiudeva il

naos, tirava il catenaccio e apponeva il sigillo, poi si ritirava arretrando e cancellando le tracce dei suoi passi. 20 In cambio di quelle cure e di quei doni il dio donava al re la vita, non solo la vita fisica ma quella in unione con Dio, con un avvenire di giubilo senza fine per l’eternità. Il popolo che non partecipava a quel culto quotidiano si accontentava di sapere che se il Faraone era apprezzato dai suoi padri divini sull’Egitto si sarebbero diffuse ogni sorta di benedizioni. Si prendeva però la rivincita in occasione delle uscite della divinità di cui parleremo in seguito ma, in attesa di quelle giornate di letizia, chi lo volesse, in cambio forse di una piccola offerta, poteva entrare nel castello del dio, attraversare i cortili e il bosco sacro, avvicinarsi al parco dove saltavano liberamente l’ariete o il toro che aveva il privilegio di incarnare il dio e alla vasca dove stava immerso il coccodrillo di Sobek. Niente impediva a un egizio di origine popolare di depositare ai piedi di una statua di Amon, se era tebano, di Ptah se si trovava a Menfi, una piccola stele di calcare sulla quale accanto all’immagine del dio si incidevano una o più orecchie (tre o nove, oppure molte, fino a trecentosettantotto) e degli occhi. Era un sistema ingenuo per costringere il dio ad ascoltare e osservare il supplice che chiedeva le grazie più diverse e si rassegnava solo alla morte la quale non esaudiva chi l’implorava. 21 In tutti i templi si trovavano anche delle statue e delle stele dette guaritrici. 22 Le stele erano decorate sul lato principale con l’immagine del fanciullo Horo nudo, in piedi su un coccodrillo e con dei serpenti in mano e, al di sopra del piccolo dio, con quella di Bes digrignante. Sul verso o alla base della stele si raccontava come il fanciullo divino, in assenza di sua madre, fosse stato morso da un serpente nelle paludi di Akhbit. Il signore degli dèi, udendo le grida della madre, aveva incaricato Thoth di guarire il ferito. Oppure si raccontava come Bastit fosse stata guarita grazie a Ra dalla puntura di uno scorpione, oppure si ricordava come Osiride, gettato nel Nilo da suo fratello, fosse stato salvato con un intervento soprannaturale dai denti del coccodrillo. La statua o la stele venivano poste su un podio. Una vasca piena d’acqua le circondava completamente e comunicava, tramite un canaletto, con una seconda vasca scavata nella parte inferiore del podio. Quando un uomo veniva ferito, si spargeva l’acqua sulla stele o sulla statua che si impregnava così delle virtù delle formule e dei racconti ivi incisi. Poi si raccoglieva l’acqua in basso e la si dava da bere al ferito con queste parole: «Il veleno non entra nel suo cuore, non arde nel suo petto perché Horo è il

suo nome, Osiride il nome di suo padre, Neith la piangente il nome di sua madre». Una volta guarito, il ferito ringraziava con una preghiera il santo che era stato l’agente della sua guarigione, il che non lo dispensava naturalmente dal consegnare un piccolo obolo al puro o al padre divino che aveva sparso l’acqua. Gli autori di quelle umili richieste umilmente presentate, però, non si sentivano affatto a loro agio nelle sontuose dimore divine di Tebe, di Menfi e delle altre grandi città. Avevano fede in Amon o in Ptah ma preferivano incontrare quelle grandi divinità lontano dalle situazioni ufficiali, in santuari a misura d’uomo. Gli operai della necropoli avevano adottato come loro patrona una dea-serpente che chiamavano Merseger, l’Amica del silenzio, che abitava di solito la sommità della montagna che dominava il villaggio e quando si parlava della cima spesso non si sapeva se si trattava della dea o del luogo dove essa abitava. Un impiegato della necropoli di nome Neferabu un giorno invocò a testimoni di quello che diceva Ptah e la Cima. Ma mentiva. Poco dopo, divenne cieco. Allora si accusò del suo peccato davanti a Ptah che gli aveva fatto vedere l’oscurità in pieno giorno. Proclamò allora la giustizia di quel dio che non trascurava nessuna azione. Ma intanto non guariva. Allora si umiliò davanti alla Cima dell’Occidente, la grande e potente. Questa sovrana venne a lui in forma di piacevole brezza e gli fece dimenticare il suo male. «Perché la Cima dell’Occidente è indulgente con chi la supplica.» 23 Il piccolo santuario di Merseger ebbe una fama che possiamo valutare in base al gran numero di stele e di ex voto che vi sono stati trovati. Ma la dea accettava volentieri la vicinanza di altri grandi dèi che avevano il loro santuario nei pressi del suo. Un operaio decoratore si era ammalato e suo padre e suo fratello si rivolsero ad Amon che salvava anche coloro che stavano già nell’altro mondo. Il signore degli dèi venne come il vento del Nord, come una brezza fresca a salvare lo sventurato perché non restava irato nemmeno un giorno intero. La sua irritazione durava solo un momento e non lasciava tracce. 24 Questi operai avevano adottato una patronessa, l’Amica del silenzio, e adottarono inoltre, come patrono, il primo dei sovrani del Nuovo Impero a farsi scavare la tomba nella valle dei re, Amenhotep I. 25 Era stato il primo datore di lavoro e il primo benefattore della popolazione di Deir el-Medineh. Il suo culto divenne rapidamente popolare e molti suoi santuari sorsero a Tebe sulla riva sinistra. Sono state trovate anche le tracce di un tempio

dedicato ad Amenhotep Vita, Salute, Forza del giardino. Conosciamo i nomi di altri tre Amenhotep chiamati rispettivamente «del sagrato», «navigante sull’acqua» e «favorito di Hathor». La festa di questo generoso patrono durava quattro giorni durante i quali gli operai, le loro mogli e i loro figli cantavano e bevevano incessantemente. I sacerdoti che reggevano la statua durante la processione, le facevano ombra, la sventagliavano e l’incensavano erano tutti operai. Gli operai avevano tanta fiducia in lui da chiedergli addirittura di dirimere le loro contese. La sua era una giustizia di pace, più rapida e meno onerosa di quella del visir e degli scribi. Una querelante così si esprime: «Vieni a me, signore! Mia madre con i mie fratelli mi ha fatto causa». Il padre defunto aveva lasciato alla querelante due parti di rame e una rendita di sette misure di grano. La madre aveva trattenuto il rame e le consegnava solo quattro misure. Un operaio aveva fabbricato una bara di cui aveva fornito il legno. Lavoro e materiale valevano trentun deben e mezzo. Il padrone ne voleva pagare solo ventiquattro. Un incisore era stato derubato delle sue vesti. Il derubato depositava la sua accusa davanti alla statua del santo re: «Mio signore, vieni oggi; i miei due abiti mi sono stati rubati!». Uno scriba legge un elenco di case. Quando arriva a nominare quella dello scriba Amonnekht il querelante afferma che i suoi membri erano presso sua figlia. Il dio chiamato in causa risponde affermativamente. A un operaio veniva contestata la proprietà di una casa. Ci si rivolse ancora alla statua che rispose attraverso una forte inclinazione. Forse per imitare la bontà del santo re, le divinità maggiori accettavano di dare ai mortali un parere utile o di risolvere una contesa spinosa. Un capo della polizia assisteva a una processione in onore di Iside. L’immagine divina si inchinò verso di lui dall’alto della sua barca. In seguito la carriera dell’uomo ebbe una rapida progressione. Nella capitale era soprattutto il grande dio tebano a essere consultato. Un intendente di Amon era stato accusato di appropriazione di fondi: il dio venne posto sulla sua barca e trasportato in un punto speciale del tempio. Vennero stesi due scritti contraddittori: 1° «Oh Amonrasonter, si dice che questo Thutmose nasconda le cose che sono scomparse»; 2° «Oh Amonrasonter, si dice che questo Thutmose non possieda nessuna delle cose scomparse». Poi si chiese al dio se voleva giudicare la questione. Il dio disse di sì. I due scritti gli vennero posti davanti e Amon a due riprese indicò quello che scagionava l’accusato.

Thutmose venne immediatamente reintegrato nella sua carica e ne ricevette poi di nuove. Durante una processione, il gran sacerdote chiese ad Amon se si poteva abbreviare l’esilio di alcuni condannati deportati nella grande oasi. Egli fece «sì» con la testa. 26 Se il re degli dèi non disdegnava di rispondere a dei privati, a maggior ragione gradiva di occuparsi dei supremi interessi dello Stato. Quando Ramses II nominò un gran sacerdote di Amon, all’inizio del suo regno, il dio assistette alla riunione del Consiglio in cui furono pronunciati uno dopo l’altro i nomi dei candidati e di tutti coloro che erano in condizione di occupare il posto. Egli fu contento quando sentì il nome di Nebunnef. Il gran sacerdote Herihor consultò Shonsu su numerosi punti. In Etiopia il trono era vacante. I principi sfilarono davanti ad Amon che indicò quello che voleva insediare sul trono. 27 I documenti dei quali disponiamo non descrivono con la chiarezza che sarebbe auspicabile come il dio manifestasse la sua volontà. Alcuni egittologi, forse ricordandosi di un capitolo del don Chisciotte pensano che le statue fossero oggetti meccanici articolati e quindi potessero, senza articolare la risposta, alzare le braccia, agitare la testa, aprire o chiudere la bocca. Il Museo del Louvre possiede probabilmente il solo esemplare noto di statua parlante. È una testa di sciacallo con la mandibola inferiore mobile. Normalmente questo Anubi aveva la bocca aperta ma la chiudeva se si tirava una cordicella. 28 In altri casi la divinità interpellata arrivava trasportata dai suoi sacerdoti. Se oscillava in avanti, approvava, se oscillava indietro disapprovava. 29 Non è sempre chiaro che risultato avessero quelle consultazioni. Quando il dio indicava un candidato possiamo ritenere che la faccenda fosse decisa in anticipo. Quando il dio assolveva un accusato, la causa era chiusa. I derubati dovevano continuare le ricerche in un’altra direzione. Ma che cosa accadeva quando il dio indicava un colpevole? La cosa più opportuna da fare in questo caso, per l’uomo in questione, era di restituire gli oggetti rubati o di pagare la somma richiesta. Ostinandosi nel negare rischiava di essere trattato come un ladro e un mentitore e di subire quindi una doppia razione di colpi di bastone. Quando si trattava di dirimere una contesa, possiamo ipotizzare che le parti avessero promesso di accettare la decisione dell’oracolo, qualunque essa fosse. Nel tempio di Amon c’erano due agenti di polizia e un carcere. Sulla riva sinistra i Megiaiu erano certamente a disposizione del dio per eseguire i suoi decreti.

Le uscite del dio I fedeli potevano quindi in ogni momento entrare in relazione con il dio nel suo tempio, esprimergli le loro difficoltà, le loro angosce, la loro gratitudine. Almeno una volta l’anno in ogni tempio il signore del luogo usciva con grande solennità dal suo riparo e visitava la città e i suoi dintorni. Quelle uscite del dio, attese con impazienza, tenevano tutta la città col fiato sospeso. Alcune di esse avevano il privilegio di attirare la popolazione di un’intera contrada. Erodoto vide delle barche cariche d’uomini e donne recarsi a Bast per le feste di Bastit. Le donne agitavano senza posa i crotali. Alcuni uomini suonavano il flauto. Gli altri cantavano battendo le mani. Quando si attraversava una città, aumentava la vivacità. I pellegrini lanciavano pesanti scherzi in direzione degli abitanti del posto che rispondevano nello stesso modo, e molti, trascinati dall’esempio, lasciavano la loro città e le loro faccende per partecipare alla festa. Ne valeva la pena perché i settecentomila pellegrini, terminati i sacrifici, si davano ai piaceri. Piaceri spesso grossolani e sempre rumorosi: secondo Erodoto – che forse esagerava un po’ – si beveva più vino a Bast in una settimana di festa che in tutto l’Egitto nel resto dell’anno. 30

L’uscita di Min Nella capitale, la presenza del re e della corte dava ad alcune di queste uscite divine la risonanza di una festa nazionale. Sotto Ramses III l’anniversario dell’incoronazione coincideva con la festa di Min, signore di Coptos e del deserto e dio della fecondità, che veniva celebrata nel primo mese della stagione di shemu, quando iniziava la mietitura. 31 Il re era dunque l’eroe della festa allo stesso titolo del dio. Splendente come il sol levante, Ramses III usciva dal suo palazzo di Vita, Salute, Forza. Si recava in lettiga dal palazzo alla dimora di suo padre Min per contemplarne la bellezza. La lettiga era costituita da un ampio sedile posto all’interno di un baldacchino culminante in una specie di cimasa e munito di quattro lunghe braccia. Per portarla ci volevano almeno dodici uomini. I lati del sedile erano decorati da un leone eretto e da una sfinge. Due dee alate proteggevano lo schienale.

Davanti al sedile veniva fissato uno sgabello con un cuscino. I figli reali e i principali funzionari di Stato si contendevano l’onore di trasportare il veicolo reale. Essi facevano ombra al loro signore con ombrelli parasole di piume di struzzo e alzavano all’altezza del suo volto i ventagli. Un gruppo imponente composto di figli reali e dignitari apriva la marcia. I suoi componenti si erano divisi le insegne faraoniche, lo scettro, il flagello, una canna e un’ascia. Fra i membri del clero si individuava l’uomo del rotolo che con il programma della festa in mano l’avrebbe regolata in tutti i particolari. Un sacerdote agitava l’incensiere in direzione del re per tutto il percorso perché doveva celebrare milioni di giubilei e centinaia di migliaia di anni di eternità sul suo trono. Davanti ai portatori marciava il figlio maggiore del re, l’erede presunto. La seconda metà del corteo comprendeva servi e militari. Ritroviamo qui i personaggi che abbiamo già osservato intorno al re quando prendeva la testa dell’esercito, quando si precipitava in battaglia o si lanciava all’inseguimento dei tori selvatici. Uno di essi portava lo sgabello di cui Sua Maestà si servirà per posare a terra il piede. I militari erano armati di mazza, scudo e lancia. Quando il corteo aveva raggiunto la dimora di Min, il Faraone scendeva e si fermava di fronte alla cappella che conteneva la statua per celebrare il rito della resina e della libagione. Poi presentava le offerte a suo padre che rispondeva con il dono della vita. Le porte erano aperte: adesso era possibile ammirare la bellezza del dio in piedi davanti al suo santuario. Il suo corpo e le sue gambe, che Iside non aveva ancora separato, erano stretti in una guaina, il dio indossava una berretta da cui spuntavano due piume rigide e un nastro che scendeva al suolo. Il mento era decorato da una barba posticcia, il collo da un pettorale. Il santuario di Min comprendeva parecchi elementi: una capanna conica a forma di alveare molto simile alle abitazioni degli indigeni del paese di Punt, collegata a un’esile colonna culminante in un paio di corna, un albero maestro sostenuto da otto corde lungo le quali si arrampicavano dei Neri e un’aiuola di lattughe. Min era un dio molto antico che aveva compiuto una lunga migrazione prima di raggiungere Coptos, dov’era arrivato con un bagaglio piuttosto eterodosso. Poi si recitava un inno accompagnato dalla danza, mentre la statua estratta dal naos veniva posta su una lettiga trasportata da ventidue sacerdoti. Non se ne vedevano né la testa né i piedi perché la testa era mascherata da cortine decorate da rosoni fissate alle stanghe. Altri sacerdoti agitavano da tutte le parti dei mazzi di fiori, dei ventagli e degli ombrelli parasole. Altri

trasportavano le casse che contenevano gli attributi canonici del dio. Una piccola squadra sollevava con una piccola lettiga l’aiuola di lattughe. Adesso era il re a prendere la testa della processione. Aveva cambiato il casco azzurro che aveva indossato uscendo dal palazzo con la corona del Basso Egitto, aveva brandito la lunga canna e una mazza. Notiamo la presenza della regina. Una nuova creatura intanto si era unita al corteo, un toro bianco che portava fra le corna il disco solare culminante in due alte piume. Il toro era un’incarnazione del dio che abitualmente veniva chiamato il toro di sua madre. Un sacerdote con la testa rasata e il torso nudo incensava contemporaneamente il re, il toro e la statua del dio. Al seguito di questo gruppo distinguiamo innanzitutto i portatori d’offerte e i porta-insegne. Erano le insegne degli dèi che avevano accompagnato Min durante la sua migrazione e che adesso partecipavano a tutte le sue feste: sciacalli, falchi, un ibis, un bue sdraiato, dei nomi e in particolare il nomo del Basso Egitto, Khem, dove Min era a casa sua, una frusta e una mazza. Poi, in corrispondenza dei vecchi compagni di Min, sfilavano i re antenati le cui statue di legno dorato avanzavano portate a spalla da altrettanti sacerdoti. La prima era quella del re regnante, la seconda quella del fondatore della monarchia, Meni, seguita da quella del restauratore dell’unità, Nebkherurê, e dalla maggior parte dei re della XVIII e della XIX dinastia. In questa compagnia non era stata accettata la regina Hatshepsut che suo nipote Thutmose III aveva buone ragioni di detestare. Erano stati tenuti lontani anche Akhenaton e i suoi successori, sovrani poco gloriosi. La processione si metteva in marcia per fermarsi più volte prima di raggiungere la sua meta, un’edicola. Nel corso di quelle tappe, avrebbe ascoltato un altro inno danzato del quale non capiamo molto ma il cui testo era recitato meccanicamente, come una formula magica, anche dai sacerdoti più dotti dell’epoca ramesside. Non per questo era meno sacro. Ricordiamo solo che gli dèi danzavano per Min seguiti da un nero di Punt. Min qualche volta era detto padre dei Neri e rappresentato col volto nero perché i suoi originari sudditi erano più o meno meticci. La statua e il corteo arrivavano finalmente nel luogo dove sorgeva l’edicola e Min ivi prendeva posto. Due sacerdoti che portavano gli emblemi dei geni dell’Est gli stavano di fronte mentre il Faraone presentava una nuova, grande offerta. Ciò che si svolgeva in quel momento centrale era illustrato da un passaggio di un inno che fu pronunciato più tardi: «Salute a

te, Min fecondatore di sua madre! Quanto è misterioso quanto tu gli hai fatto nell’oscurità» e dal passaggio di un altro inno secondo il quale Min, toro di sua madre, l’aveva fecondata e le aveva consacrato il suo cuore mentre il suo fianco era presso il fianco di lei, incessantemente. 32 Il dio aveva fecondato non solo la sua vera madre ma Iside che avrebbe dato alla luce Horo che sarebbe stato incoronato re dell’Alto e Basso Egitto. In ricordo di questo grande evento il re poteva indossare la doppia corona. L’avvoltoio di Nekhabit adesso lo proteggeva al posto dell’ureo di Uagit. Egli lanciava alcune frecce in direzione dei quattro punti cardinali per abbattere i suoi nemici, quindi avrebbe dato la libertà a quattro uccelli detti figli di Horo Amser, Hâpi, Duamutef e Qebehsenuf che avrebbero annunciato a tutte le terre che il re, rinnovando quello che Horo aveva fatto per primo, aveva posato sulla propria testa la corona bianca e la corona rossa. Quegli uccelli erano ghiandaie che arrivavano dal nord ogni anno in autunno e ripartivano in primavera. L’ascesa al trono di un re pio e amato dagli dèi procurava ogni sorta di benedizioni all’Egitto. Adesso si esaltava la fertilità del paese. Le statue erano state posate a terra. Gli assistenti facevano cerchio intorno al re e alla regina. Un funzionario consegnava al re una falce di rame damaschinato d’oro e una zolla del cereale bôti con tutta la sua terra. Rappresentava i campi che si estendevano a perdita d’occhio dal mare alla cateratta. Il re tagliava le spighe molto alte, come facevano i mietitori della Tebaide mentre un celebrante recitava un nuovo inno a Min-che-sta-sul-campo-coltivato. L’antico signore del deserto, infatti, prima di conquistare Coptos si era stabilito nella valle un tempo fertile che porta da questa città alla valle di Rohanu. Aveva creato le erbe che fanno vivere le greggi. Si presentava un mannello di bôti al dio e al re, che ne conservava una spiga. Si recitava un ultimo inno in cui la madre di Min esaltava la forza di suo figlio, vincitore dei nemici. La cerimonia si concludeva così. La statua veniva riposta nuovamente nel naos. Il re si congedava dal dio presentando l’incensiere, versando una libagione e presentando nuove offerte. Min ringraziava brevemente. Poi il re indossava nuovamente il casco azzurro che aveva all’inizio e rientrava a palazzo. Il dio e il re, i membri della famiglia reale, i sacerdoti e gli alti funzionari erano, secondo le nostre conoscenze, i soli partecipanti alla solenne uscita di

Min. Il popolo è stato dimenticato dagli artisti che ne hanno rappresentato i principali episodi sulle pareti di Karnak e di Medinet Habu. In questo periodo dell’anno, del resto, gli agricoltori avevano molto da lavorare nei campi, ma possiamo pensare che in città ci fossero anche persone libere dal lavoro che potevano fare ala al passaggio di Min e del suo toro bianco.

La bella festa di Opet La bella festa di Amon, a Opet, era, più di quella di Min, la festa di tutto il popolo. Si svolgeva nel secondo e terzo mese dell’inondazione, quando le acque raggiungevano il livello più alto, gli agricoltori non avevano niente da fare e le barche navigavano facilmente non solo nel grande Nilo ma nei canali e anche fuori da essi perché tutte le terre erano sommerse. 33 Non si circolava più sulle dighe minacciate dai flutti ma tutte le barche e le zattere erano impegnate. Il punto di partenza era il tempio di Opet. 34 Contro il suo immenso pilastro si erano sistemati i mercanti ambulanti che offrivano ai passanti angurie, melagrane, uva e fichi di Barbaria, volatili eccellenti pronti per la cottura o già cotti, pani. Nel tempio tutto il personale religioso era all’erta. La prima cosa da fare era andare a prendere, nelle stanze dove giacevano sui loro basamenti, le barche portatili della famiglia tebana. La barca di Amon era la più grande ed era riconoscibile per le due teste d’ariete che ne adornavano la prua e la poppa. La barca di Mut era adorna di due teste femminili che indossavano una spoglia di avvoltoio perché il nome della sposa di Amon si scriveva con il segno di un avvoltoio. La terza barca, caratterizzata da due teste di falco, apparteneva a Khonsu. I portatori reggevano le barche sulle spalle, superavano i cortili e i piloni, quindi entravano nel viale fiancheggiato dalle sfingi a testa d’ariete che portava all’immenso edificio. Indossavano un gonnellino largo sostenuto da una bretella, erano a testa nuda e rasata. Alla loro testa marciava un suonatore di tamburo. Alcuni sacerdoti, con una pelle di pantera sulla spalla, ardevano nell’incensiere della resina di terebinto e lanciavano della sabbia brandendo parasoli e ventagli. Una numerosa flotta era alla fonda davanti alla banchina. La barca di Amon, quella della dea e quella di Khonsu non avevano niente in comune con quelle portatili che erano appena state estratte dai loro ripostigli. Erano

veri e propri templi galleggianti lunghi centoventi o centotrenta cubiti, quindi più lunghi della maggior parte delle barche che galleggiavano sul Nilo, e soprattutto decorati con un lusso eccezionale. Quelle barche erano costruite con autentico abete degli Scali e fatte per navigare nonostante il peso enorme d’oro, argento e rame, turchese e lapislazzuli (quattro tonnellate e mezzo d’oro) che era stato impiegato nella loro costruzione. La chiglia era decorata come le pareti dei templi, con bassorilievi rappresentanti il re che eseguiva i riti che conosciamo in onore di Amon. Al centro del ponte sorgeva la grande casa incoronata da un baldacchino che sosteneva le barche portatili, le statue e gli accessori trasportati ritualmente fuori dal tempio. La grande casa era preceduta, come un tempio vero e proprio, da un paio di obelischi e da quattro alberi decorati da bandierine. Ovunque sorgevano sfingi e statue. Due giganteschi arieti erano appesi a prua e a poppa. Le imbarcazioni di Mut e di Khonsu e la barca reale erano allestite più o meno allo stesso modo. Erano appena un po’ meno grandi. Quelle pesanti imbarcazioni non potevano muoversi da sole. Bisognava innanzitutto rimorchiarle, il che richiedeva la mobilitazione di un intero esercito composto da soldati in uniforme, vestiti del perizoma militare e armati di picche, corte asce, scudi e guidati da un porta-insegne, e da marinai. Prima di cominciare, si recitava un inno ad Amon, poi gli uomini designati per il trascinamento afferravano i cavi incoraggiati dagli ufficiali e ancor più dalla folla che si era data appuntamento sulla banchina. Le donne agitavano sistri e crotali. Gli uomini battevano le mani e suonavano il tamburo per accompagnare i canti dei Libici e quelli dei soldati. Gruppi di Neri danzavano e facevano giravolte. In mezzo alla folla circolavano trombettieri e soldati con una piuma fra i capelli. Finalmente il momento più difficile era superato. Le navi sacre erano state rimorchiate fino al grande Nilo, avanzando legate al rimorchiatore, a vela o a remi, sotto la direzione di un capo che faceva schioccare la frusta. Barche di ogni forma e dimensione scortavano la straordinaria processione. Notiamo un grazioso piccolo battello a forma di uccello dotato di un timone adorno di una testa umana, stracarico di provviste che un uomo metteva in ordine mentre un altro confezionava una piramide di frutta e verdura. Su entrambe le rive del Nilo i cittadini venuti da ogni regione contemplavano lo spettacolo e prendevano parte alla festa a loro modo. Tende e posti di ristoro sorgevano un po’ dappertutto. L’approvvigionamento

scorreva regolare. Arrivavano mandrie di buoi e vitelli, di gazzelle e stambecchi, di orici e volatili, insieme a cesti di frutta e di terebinto per purificare l’aria. Si abbattevano dei buoi che venivano prontamente fatti a pezzi e i portatori dovevano fare solo pochi passi da quei macelli a cielo aperto fino ai piccoli edifici a colonne graziosamente decorati dove erano al lavoro i cuochi. I soldati libici continuavano a percuotere i tamburi. Gruppi di danzatrici con il petto nudo facevano le loro giravolte mentre intorno a esse venivano agitati sistri e crotali. La meta di quella navigazione era l’Opet meridionale. Amon di Karnak per qualche giorno sarebbe stato ospite di Luxor ma non sappiamo niente di preciso sull’impiego del suo tempo. Amon era uno degli ultimi arrivati nella folla degli dèi egizi. Si era insediato a Tebe in piena epoca storica e gli Egizi gli avevano assegnato come compagna Mut e Khonsu come figlio perché era necessario che il più potente degli dèi avesse una famiglia, ma non ci risulta che gli venissero attribuiti dei miti. Amon aveva mutuato da Min alcune attribuzioni e alcuni epiteti: probabilmente mutuò anche qualche elemento della sua leggenda. È possibile dunque che nel corso di queste elaboratissime feste venissero rappresentati episodi di una leggenda più o meno originale riferita ad Amon e che forse in presenza del Faraone venisse rievocato l’efficace aiuto che Amon aveva portato a Ramses II quando i vili soldati del Khatti l’avevano accerchiato. Il ritorno della flotta sacra comunque era l’ultimo episodio della festa. Si toglievano dai battelli le barche portatili per riporle nello scrigno da cui erano state estratte ventiquattro giorni prima. Lo stesso corteo preceduto da tamburini percorreva nello stesso senso, forse con minore lena, il viale degli arieti. Il re poteva essere più certo che mai di possedere tutti i beni che poteva aspettarsi dagli dèi: «La durata di Ra, la funzione di Tum, gli anni d’eternità sul trono di Horo nella gioia e nel valore, la vittoria su tutti i paesi, la forza di suo padre Amon ogni giorno, la signoria regale delle due terre, la giovinezza della carne, monumenti durevoli come il cielo per l’eternità, i Pavoncelli, il cerchio del disco sotto il luogo della sua faccia». Il popolo per quasi un mese aveva bevuto, mangiato, gridato e gesticolato, si era riempito gli occhi di uno spettacolo magnifico e sentiva che la sua prosperità, la sua stessa vita e la sua libertà dipendevano da quell’uomo simile agli dèi che aveva scortato suo padre Amon fra i suoi due grandi santuari.

La festa della Valle La nave sacra di Amon usciva dalla rada per un’altra festa, quella della Valle. 35 Allora essa attraversava il Nilo sospinta dagli dèi. A questo proposito alcuni interpreti hanno pensato che il rimorchio fosse garantito da persone travestite con delle maschere, come nelle cerimonie dell’Africa equatoriale. Questa interpretazione è troppo banale. È come se si supponesse che i medici, le ostetriche, le bambinaie e le nutrici che si occupavano della regina e del suo neonato assumessero l’aspetto delle divinità che vediamo sulle pareti di Luxor e di Deir el-Bahari. Tali rappresentazioni hanno un valore solo ideale e dimostrano semplicemente con quale attenzione gli dèi seguissero tutti gli atti del Faraone e in che misura gradissero la cura che egli si prendeva per abbellire la città di Amon. La festa della Valle, meno lunga della festa di Opet, durava dieci giorni. Il re usciva dal palazzo in tenuta semplice, scortato dai porta-parasole e dai servi. Prima di entrare nel tempio indossava un perizoma di lusso e la più ricca delle sue acconciature che comprendeva insieme il disco solare, le piume, l’ureo, le corna di bue e quelle di ariete: avrebbe così invitato Amon a far visita agli edifici della riva sinistra. La sala ipostila del Ramesseum sarebbe stata il suo principale luogo di riposo. Il re degli dèi vi avrebbe ricevuto la visita degli dèi protettori dei morti. Una statua del santo re Amenhotep I usciva in questa occasione dal suo tempio trasportata in lettiga dai sacerdoti e circondata da flabelliferi che brandivano i ventagli dal lungo manico e i parasoli. Una barca sacra l’aspettava in un canale vicino per raggiungere l’Usirhat. 36 Le cerimonie che vi si svolgevano quando gli dèi vi si erano dati appuntamento erano celebrate in onore dell’immenso popolo dei morti che riposavano nelle tombe ipogee della montagna occidentale.

I misteri Le uscite degli dèi non si sarebbero prolungate per tanti giorni, non avrebbero attirato tanto popolo se l’organizzatore della cerimonia non fosse stato in grado di variare lo spettacolo. Alla lunga era facile stancarsi di contemplare una barca dorata e di danzare al suono del tamburello. Per

ravvivare l’interesse si era da tempo pensato di rappresentare gli eventi più movimentati della vita degli dèi o, ancor meglio, di farli rappresentare dagli stessi pellegrini. Tutti gli Egizi sapevano che Osiride era stato un re benevolo, che Seth l’aveva ucciso e gettato nel Nilo, che il suo cadavere si era arenato a Biblo e aveva fatto ritorno al suo paese. Tutti dunque potevano interessarsi alla rappresentazione di un dramma così grave e molti potevano addirittura farvi da comparse lasciando i ruoli essenziali a dei professionisti. Le rappresentazioni intorno a Osiride si manifestavano in tutto il loro splendore soprattutto ad Abido e a Busiri. I costumi, le scene, gli accessori venivano preparati da funzionari con cura minuziosa. 37 La rappresentazione comprendeva una grande processione diretta dal dio Up-Uayt, l’apritore delle strade. I nemici tentavano di opporsi alla marcia del dio ma la processione vittoriosa riusciva a entrare nel santuario. Nel corso di una seconda festa, o di un secondo atto, si rappresentava – o semplicemente raccontava – l’assassinio del dio. I presenti si percuotevano con grande dolore. Una grande processione si recava alla tomba. In un’altra seduta si assisteva al massacro dei nemici di Osiride e tutto il popolo si rallegrava vedendo il dio risuscitato tornare ad Abido nella barca neshmet e rientrare a palazzo. A Busiri si costruiva un pilastro osiriaco con delle corde intrecciate. La folla danzava e saltava. Gruppi di persone che interpretavano la parte degli abitanti delle due città confinanti, Pe e Dep, si colpivano con pugni e calci annunciando l’arrivo di Horo. A Sais dove Erodoto aveva visto delle rappresentazioni notturne sul lago circolare, probabilmente si mimava l’intera passione del dio, compreso il viaggio miracoloso a Biblo e la metamorfosi del dio in una colonna. Erodoto aveva potuto visitare, a nord-est dell’Egitto, Papremis, una città sacra a Seth, l’uccisore di Osiride. Ivi aveva assistito a una scena dello stesso genere, il che non ci deve sorprendere perché Seth era un dio combattente. La statua del dio era trasportata nel naos fuori dal territorio divino e sorvegliata dai sacerdoti. Al momento di portarla indietro veniva sistemata su un carro a quattro ruote. Più di mille individui armati di manganello aggredivano il piccolo gruppo che proteggeva la statua e che poi riceveva rinforzi. La rissa diventava spaventosa. Alla fine non si contavano gli occhi neri e le teste rotte anche se la gente del posto insisteva nell’affermare che era solo un gioco. Si trattava di rievocare come Seth avesse voluto entrare da sua madre nonostante il rifiuto dei servi che non lo avevano riconosciuto. Respinto, Seth era andato a cercare rinforzi e aveva allontanato coloro che lo avevano

ostacolato. 38 A Ombos, nell’Alto Egitto, Giovenale aveva assistito a una analoga rappresentazione ma, meno chiaroveggente di Erodoto e accecato dal disprezzo che gli ispiravano gli Egizi, pensò di avere assistito a un’autentica battaglia fra due clan nemici. A suo dire un vecchio rancore divideva Ombos e Tentyra perché ognuna delle due città odiava gli dèi dell’altra. Una di esse era in festa. Tavoli e letti erano stati allestiti per sette giorni. Si danzava al suono del flauto. Gli altri irruppero e immediatamente iniziò una battaglia a pugni, poi a colpi di pietra e infine con lancio di frecce. I Tentyriti fuggirono lasciando uno dei loro sul terreno. Gli Ombiti lo fecero a pezzi e lo divorarono crudo. 39 Effettivamente, Ombos, che gli Egizi chiamavano Nubit, era una città di Seth, Tentyra apparteneva a Hathor. Molti luoghi delle vicinanze avevano assistito alle lotte fra la madre di Horo con i suoi amici e il dio libertino e combattente. 40 Era una delle lotte che venivano rappresentate ancora in epoca recente, con più grida che danni effettivi. In tutte le provincie, in tutte le città, la liturgia, le leggende locali fornivano un’ampia materia drammatica. Se pensiamo al lusso dei templi, al numero dei sacerdoti e dei funzionari che partecipavano alle cerimonie possiamo comprendere quanto il popolo egizio fosse amante degli scherzi. Molti racconti ci mostrano il Faraone, il dio al quale ci si poteva avvicinare solo tremando, colpito da cinquecento colpi di bastone, 41 tradito dalle sue mogli, incapace di prendere una decisione da solo, schiavo dei suoi consiglieri e dei suoi maghi, derubato dai suoi architetti. Anche gli dèi mostrano tutti i difetti, tutti i vizi, tutti gli aspetti ridicoli della nostra povera umanità. La loro assemblea doveva decidere se sarebbe stato Horo o Seth a ereditare le funzioni di Osiride. Il problema era aperto da ottant’anni e i due candidati aspettavano ancora la soluzione. La passione di Seth per i piaceri aveva eguali solo nella sua stupidità e credulità. Horo piangeva come un bambino quando veniva battuto. Neith, convocata dal signore dell’universo, non trovava niente di meglio, per indicare quale peso desse alla sue decisioni, di spogliarsi davanti a lui. 42 Il dio Shu un giorno, stanco di governare il mondo, volò in cielo. Geb, che ne aveva raccolto la successione, meditò di mettersi in testa l’ureo che aveva permesso a Shu di riportare tutte le sue vittorie. Il vanitoso allungò la mano per afferrare lo scrigno che conteneva l’ureo. Il serpente, figlio della terra, si eresse immediatamente e lanciò il suo veleno contro il dio che, ferocemente bruciato, corse per ogni dove a cercare

un rimedio. 43 Nei drammi popolari che si recitavano nei templi, nello spazio interno o davanti ai piloni o accanto alle vasche sacre, gli dèi dovevano essere trattati con tono altrettanto famigliare. Si mimavano episodi di leggende divine ma non ci si limitava a questo: si facevano parlare gli eroi e gli dèi. Nessuno di questi drammi egizi è giunto fino a noi. Dobbiamo accontentarci di qualche testo come il papiro drammatico del Ramesseum ricopiato da Sabacon da un originale antico che attesta solo il titolo di alcune scene e alcune repliche o brani di conversazioni scritti accanto alle scene di vita privata soprattutto nelle tombe dell’Impero Antico. Ma l’esistenza di questo teatro può essere ritenuta certa soprattutto da quando l’Istituto francese ha trovato a Edfu la stele di un attore di mestiere che così si esprime: «Ho accompagnato il mio maestro nelle sue tournées declamando senza errori. Ho dato la battuta al mio maestro in tutte le sue declamazioni. Se egli era un dio, io ero un sovrano. Se egli uccideva, io ridavo la vita». 44 Queste rappresentazioni teatrali erano senza dubbio una delle attrattive principali di queste feste che si prolungavano per giorni e giorni senza esaurire la pazienza del popolo egizio.

La casa di vita La maggior parte dei templi comprendeva delle scuole, non solo elementari ma di apprendistato, dove si formavano disegnatori, incisori, scultori che avrebbero messo il loro talento al servizio della gloria del Faraone e degli dèi. Comprendevano anche una biblioteca dove si conservavano gli archivi del tempio e i testi di ogni specie compilati da un esercito di scribi ma anche opere di morale e di letteratura di cui gli scolari potevano avere bisogno e opere tecniche. Il re Neferhotep una volta desiderava consultare i libri di Tum. I cortigiani gli dissero: «Che Tua Maestà entri nella biblioteca e là potrà leggervi tutte le parole sacre». Il re trovò il libro della casa di Osiride Khentiamentiu, signore di Abido. 45 Alcuni templi ospitavano inoltre istituzioni più ambiziose che venivano chiamate case di vita. 46 Si dice che il re Ramses IV fosse assiduo della casa di vita di Abido. Consultando gli Annali di Thoth che vi si trovavano poté apprendere che

«Osiride è il più misterioso degli dèi. È la luna. È il Nilo. È colui che regna nell’altro mondo. Tutte le sere il dio del sole scende verso di lui e forma l’anima unita che governa il mondo e Thoth annota i suoi ordini». Sempre consultando quegli annali che ben conosceva come se li avesse scritti egli stesso, si era reso conto della varietà delle materie che vi erano trattate e delle informazioni che vi si potevano attingere. Desiderando un sarcofago di pietra di bekhen della valle di Rohanu, trovò negli annali i racconti delle precedenti spedizioni che avevano procurato, per la piazza della Verità e per il tempio, tanti sarcofagi e statue. Quando designò i principi, i militari e gli alti funzionari che costituivano lo stato maggiore della sua spedizione, fece in modo di non dimenticare di nominare anche uno scriba della casa di vita. Il Ramses che ricevette l’ambasciatore del principe di Bakhtan, prima di rispondergli ritenne opportuno consultare gli scribi della casa di vita. Sotto Tolomeo Filadelfo era stato scoperto un nuovo ariete sacro. I sudditi di Mendes inviarono al re una petizione con cui chiedevano di sottoporlo all’esame degli scribi della casa di vita. Il decreto di Canopo ci informa che tali scribi si occupavano di astronomia ma anche di politica. Infatti due scribi della casa di vita parteciparono alla congiura contro Ramses III. Da questa e altre testimonianze si può concludere che la casa di vita fosse un’assemblea di dotti, teologi ed eruditi, dove si tutelavano le tradizioni religiose, si redigevano gli annali dei re e dei templi e si registravano le scoperte scientifiche e i progressi tecnici. Nel suo ambito fu inventata la criptografia. Probabilmente in queste case nascevano e si sviluppavano scoperte di questo tipo. Il tempio oggi ci appare come l’autentico centro della vita egizia. Era prima di tutto la casa del dio dove gli veniva reso il culto che i benefici che tributava meritavano. Era anche un centro economico e intellettuale. Il clero aveva creato all’interno dei templi laboratori e magazzini, scuole e biblioteche. Nel tempio e solo nel tempio si potevano incontrare dotti e filosofi, come accadde a Platone. Infine nel tempio sono nate e si sono sviluppate le rappresentazioni che mettevano in scena le leggende e che hanno sostituito, in Egitto, il dramma e la commedia. 1. Erodoto, II, 37. 2. Giuseppe Flavio, Contro Apione, I, 232 e 254-255. 3. Kêmi, IX, 40. 4. Così riteneva il sacerdote che propose a Nenoferkeptah di mostrargli un libro scritto

personalmente da Thoth nel romanzo di Setna (Maspero, Contes populaires, IV ed., 131). 5. Bibl. æg, VII, 16, 17. 6. Bibl. æg., VII, 60. 7. Kuentz, Quelques monuments du culte de Sobok, tav. 11, Bull. I.F.A.O., XXVIII, 113-172. 8. Erodoto, III, 28-29; Strabone, XVII, 1, 31; Plutarco, Iside e Osiride, 43; Ammiano Marcellino, XXII, 14. 9. Erodoto, II, 67. La necropoli degli Ibis è stata recentemente scoperta nel deserto di fronte a Shmunu presso la tomba di Petosiris. 10. Montet, Drame d’Avaris, 140-141 e tav. VI. 11. Alan H. Gardiner, The Astarte papyrus dans Studies presented to F.Ll. Griffith, 83. 12. Montet, Drame d’Avaris, 134. 13. Ibid., 142-143. 14. Bibl. æg., VII, 88-91. 15. Peyte e Rossi, Les papyrus hiératiques de Turin. 16. Hâpi-Gefai di Siut rivolgendosi ai membri del Consiglio del tempio dichiara: «Io sono figlio di sacerdote come tutti voi» (Siout, I, 288). 17. Bibl. æg., VII, 5. 18. Min-mose, che visse sotto Ramses II, era capo dei segreti del cielo, della terra e della regione sotterranea (Louvre C 218). 19. Erman, La religion des Égyptiens, 223. 20. Il rituale ci è noto in base a tre papiri del museo di Berlino e ai bassorilievi del tempio di Abido. Moret, Le rituel du culte divin journalier en Égypte, Paris 1902. 21. H.-P. Bloch, «Remarques sur quelques stèles dites “à oreilles”», in Kêmi, II, 123-135. 22. Lacau, «Les statues “guérisseuses” dans l’ancienne Égypte», Monuments Piot XXV (1922); Erman, La réligion des Égyptiens, 355: Lefebvre, «La statue guérisseuse du Louvre», Melanges Loret, 89 ss. 23. Stele 589 del Br. Mus. e stele 102 di Torino in Erman, Denksteine aus der thebanischen Gräberstadt (Sitz. Berl. Ak., 1911, 1100). 24. Stele 23077 del museo di Berlino, Erman, op. cit., 1088-1097. 25. Cerny, «Le culte d’Amenophis I er chez les ouvriers de la nécropole thébaine», Bull. I.F.A.O., XXVII, 159 ss. 26. Naville, Inscription historique de Pidodjem III. 27. Urk., III, 94-95 (stele dell’incoronazione I, 18-19). 28. Boreux, Catalogue guide (Louvre, Antiquités égyptiennes, 534-535). Cfr. Loukianoff, «Une statue parlante ou oracle du dieu Rê-Harmakhis», Ann. S.A.E., XXXVI, 187. 29. Cerny, «Questions adressées aux oracles». Bull. I. F. A.O., XXXV, 41; cfr. J.E.A., XI, 249-255;

XII, 176-185. 30. Erodoto, II, 59-60. 31. Secondo i bassorilievi di Medinet Habu e di Karnak, cfr. H. Gauthier, Les fétes du dieu Min, Le Caire 1931. 32. Gauthier, op. cit., 230-231, 239-240. Lefebvre, Moret e Gauthier ritengono che il toro venisse sacrificato ma non è mai stata trovata alcuna rappresentazione di questo sacrificio. Il vero ruolo del toro è stato individuato da Jacobsohn, Die Dogmatische Stellung das Königs in der Theologie der alten Æg. Gluckstadt; ci si può riferire anche a Pindaro (Strabone, XVII, 1, 19) ed Erodoto (II, 46) che hanno parlato del toro di Mendes, Banibded. 33. Iscrizione pubblicata da Daressy, Recueil des travaux, XVIII, 181 ss. 34. Tutankhamon ha fatto rappresentare in bassorilievo, sulle pareti del tempio di Luxor, gli episodi principali della festa: Wr. Atl., II, 189-202 (le tavole dispari sono fotografie, quelle pari disegni). Lo stesso tema è stato trattato ai tempi di Ramses III, a Karnak (Ramses III, templi, 86-92). 35. Foucart, «La belle féte de la vallèe», Bull. I.F.A.O., XVIV, 1924. 36. Ibid., tav. 14; Wr. Atl., I, 118-119. 37. Stele 1204 del museo di Berlino, Schæfer, Die Osiris mysterien in Abydos, 11904; scena della tomba di Khereuef a Tebe in Moret, Mystères égyptiens, Paris 1912, 11; stele di Ramses IV, Mariette, Abydos, II, 54-55. 38. Erodoto, II, 63. 39. Giovenale, XV. 40. Nei pressi di Denderah si trovava «il luogo del massacro di Seth, di fronte a questa dea». Brugsch, Dicct. géogr., 38 e Gauthier, Dictionnaire des noms géographiques, V, 84-85. 41. Il faraone Menkheperrê Siamon, nella «veridica storia di Setna» (Maspero, Contes populaires, IV ed., 168-171). 42. La contesa fra Seth e Horo narrata nel Pap. Chester Beatty I. 43. G. Goyon, Les travaux de Chou et les tribulations de Geb Kêmi, VI. 1-42. 44. Stele di Edfu ancora inedita ma segnalata da Drioton, Ce que l’on sait du théâtre égyptien (edizioni della rivista del Cairo, 1938). Probabilmente sono state individuate le tracce delle tribune in cui si sistemavano gli spettatori. 45. Stele dell’anno 2 di Neferhotep (Mariette, Abydos, II, 28-30). 46. Gardiner, «The house of life», J.E.A., XXIV, 1938, 157-179, ha raccolto una sessantina di testi relativi alla casa di vita.

XII

I funerali

La vecchiaia Il saggio Ptahhotep e Sinuhit l’avventuriero ci parlano della vecchiaia senza illusioni. La vecchiaia era l’età della bruttezza, della debolezza fisica e morale. Ci si vedeva male, l’udito faceva difetto, non ci si ricordava più di niente e appena si faceva qualcosa ci si stancava. Si mangiava senza trarre giovamento dal cibo. 1 Ma come tutti gli uomini, anche gli Egizi speravano di arrivare a quella età detestabile. Il vecchio che, a forza di cure, conservava un aspetto giovanile e le sue facoltà intatte suscitava l’ammirazione universale. Il gran sacerdote Rome-Roy proclama di essere giunto alla vecchiaia al servizio di Amon ricolmo dei suoi favori: «Le mie membra sono piene di salute. I miei occhi vedono bene. I cibi del tempio restano nella mia bocca». 2 A corte si era parlato di un «borghese» centenario che mangiava robustamente cinquecento pani, una spalla di bue e beveva cento giare di birra senza precisare se il tutto lo consumava in un giorno, un mese, una stagione o un anno. Il vecchio, inoltre, era un mago colto e potente. Il Faraone dunque pensò di farlo trasferire a palazzo, dove sarebbe stato nutrito dei cibi squisiti offerti dal re e delle provviste destinate alla sua corte in attesa di raggiungere i suoi padri nella necropoli. Il figlio stesso del Faraone, incaricato di porgere l’invito, percorse la distanza in nave, poi in portantina perché non si usavano ancora i carri. Trovò colui che cercava sdraiato su una stuoia davanti alla porta. Un servo gli sventagliava la testa, un altro servo gli strofinava i piedi. Ai complimenti del principe, il vecchio rispose cortesemente: «In pace, in pace, Didifhor, figlio reale amato da suo padre! Che tuo padre Khufu, giusto di voce, ti elogi e ti faccia salire di rango come un uomo maturo. Possa il tuo ka sventare le imprese dei suoi nemici, il tuo ba individuare il cammino segreto che conduce alla porta!». Il principe gli tese le braccia, lo fece alzare, lo accompagnò alla banchina dandogli la mano. In tre battelli i due con la scorta raggiunsero la residenza e subito vennero ricevuti. Il re espresse il suo stupore di non avere ancora conosciuto il più vecchio dei suoi sudditi. Con nobile semplicità esente da adulazione l’invitato

rispose: «Colui che viene è colui che è stato chiamato, Sovrano mio signore! Sono stato chiamato ed eccomi. Sono venuto!». 3 Una vecchiaia felice non era caratterizzata soltanto dall’assenza di malattie. Era necessaria anche la ricchezza o almeno l’agiatezza. Chi era arrivato al grado di amakhu si era assicurato non solo il pane per la vecchiaia ma anche un’eccellente sepoltura. Sinuhit al ritorno dall’esilio ricevette una casa in proprietà degna di un cortigiano. Molti parteciparono alla sua costruzione. La struttura portante fu costruita con legno nuovo e non con legno da demolizione: «Mi hanno portato viveri dal palazzo, tre o quattro volte al giorno oltre a quello che i figli reali continuavano a darmi». Adesso Sinuhit, cui era stata attribuita l’offerta reale funeraria, sorvegliava la costruzione della sua casa d’eternità. Poi l’arredò precisando minuziosamente ogni aspetto del mantenimento della sua tomba e del suo culto funerario. 4 Era un piacere tipico dei vecchi, almeno quando erano amici del re. Il re accordava o rifiutava a suo piacere il bel titolo di amakhu. Ma poiché secondo i suoi panegiristi era buono ed equo quanto onnipotente e informato di tutto, si pensava che non lo avrebbe rifiutato a nessuno di coloro che lo avevano servito adeguatamente. 5 Sul comportamento del re i personaggi più importanti adeguavano il loro comportamento. I governatori delle città e delle provincie, i capi dei profeti, i capi dei soldati disponevano di un personale numeroso. Quando i suoi servi e i suoi impiegati diventavano vecchi ogni signore pietoso assegnava loro un compito adeguato alle loro forze ridotte, il cibo e il tetto, in attesa della sepoltura. Per non privare Sinuhit di quei beni essenziali il Faraone, che non gli aveva perdonato la fuga finché Sinuhit era nel pieno delle sue forze, lo autorizzò a rientrare quando seppe che era ormai alle soglie della vecchiaia. L’Egitto rispettava i vecchi come i fanciulli. Non voglio certo assicurare che mai, in quella terra benedetta, un erede frettoloso abbia mai abbreviato i giorni di un antenato che proclamava con eccessiva insistenza la sua intenzione di arrivare a centodieci anni. Ci furono anche dei re detronizzati. Ma si ricordi che Amenemhat I, il quale aveva affidato la direzione effettiva delle pubbliche vicende dopo vent’anni di regno a suo figlio, visse tranquillamente una decina d’anni nel corso dei quali ebbe il tempo di redigere dei consigli intrisi di disillusione. Apries, vinto e detronizzato, avrebbe conservato la vita se non avesse esasperato gli Egizi con crudeltà inutili. Nel complesso l’Egitto fu un paese dove i vecchi vivevano abbastanza bene.

La pesatura delle azioni Si ingannerebbe gravemente chi credesse che gli Egizi pensassero con piacere al momento di lasciare il mondo dei vivi. Sapevano infatti che la morte non tiene conto di nessuna protesta e non si lascia piegare da nessuna preghiera. Non serviva a niente protestare che si era ancora giovani perché essa «afferra il bambino nel seno di sua madre come l’uomo invecchiato». 6 Del resto «che cosa sono gli anni, per quanto numerosi, che si trascorrono sulla terra? L’Occidente è una terra di sonno e di tenebre fitte, il luogo dove giacciono quelli che stanno là. Dormono nelle loro bende e si risvegliano solo per vedere i fratelli. Non si accorgono né del padre né della madre. Il loro cuore ha dimenticato mogli e figli. L’acqua viva che la terra offre a chiunque l’abiti per me è acqua stagnante. Essa sgorga vicino a colui che sta sulla terra ma è stagnante per me l’acqua che sta presso di me». 7 La cosa migliore che un devoto si sentiva di dire dell’altro mondo è che in esso si era liberi dei rivali e dei nemici e che finalmente si riposava. C’erano anche degli scettici che osservavano come «nessuno sia mai tornato per dire come stiano i defunti, che cosa manca loro per calmare il nostro cuore fino a quando raggiungeremo il luogo dove essi sono andati». Questo saggio diceva anche che tutte le tombe cadono in rovina a un certo momento e che anche quelle degli antichi saggi è come se non fossero mai esistite. 8 Non ne conclude, però, che fosse inutile preparare la propria tomba con tanta cura e pensare alla morte con tanto anticipo. Se l’avesse detto, non avrebbe comunque convinto i suoi contemporanei che ai tempi di Ramses come all’epoca delle piramidi, preparavano minuziosamente il loro passaggio da questo mondo all’altro. Una prova temibile aspettava tutti i defunti al loro ingresso nell’altro mondo. Era la pesatura delle azioni. Il vecchio re che ha redatto le istruzioni per Merikara mette in guardia il figlio contro i giudici che opprimono i poveri. Questo argomento lo induce a parlare di altri giudici: «Non bisogna credere che nel giorno del giudizio tutto sarà dimenticato. Non contare sulla durata degli anni. Essi considerano la vita come un’ora. Dopo la morte l’uomo sopravvive e le sue azioni vengono ammonticchiate accanto a lui. Chi arriverà davanti ai giudici dei morti senza peccato alcuno sarà come un dio.

Avanzerà liberamente come i signori dell’eternità». 9 Setna, figlio del re Usimarê, ebbe la straordinaria fortuna di entrare nell’Amentit da vivo. Vi scorse «Osiride, il grande dio, seduto sul suo trono d’oro fino e incoronato del diadema delle due piume, Anup, il grande dio, alla sua sinistra, il grande dio Thoth alla sua destra, gli dèi del consiglio della gente dell’Amentit alla sua sinistra e, alla sua destra, la bilancia posta a metà di fronte a loro, dove essi pesavano i misfatti e i meriti mentre il grande dio Thoth faceva lo scrivano e Anup li interrogava». Gli imputati venivano suddivisi in tre gruppi. Quelli i cui misfatti erano più numerosi dei meriti erano consegnati alla cagna Amait. Quelli i cui meriti prevalevano sui misfatti erano accompagnati fra gli dèi del consiglio. Colui i cui meriti equivalevano alle colpe avrebbe servito Sokar-Osiride, coperto di amuleti. 10 Gli Egizi sapevano bene che assai pochi si sarebbero presentati al giudice supremo senza alcun peccato. Bisognava dunque ottenere dagli dèi l’annullamento delle cattive azioni e la purificazione del peccatore. Tale speranza era assai diffusa e spesso veniva manifestata nella letteratura funeraria in questi termini: «I miei peccati sono nascosti. Le mie colpe sono spazzate via, le iniquità distrutte. 11 Tu hai deposto i tuoi peccati a Nennisut. 12 «La grande incantatrice ti purifica. Tu dichiari il tuo peccato che sarà distrutto per te, per fare delle cose in ragione di tutto ciò che hai detto. 13 Che sia reso omaggio a te, Osiride, a Dedu [...] Tu senti il suo discorso e cancelli il suo peccato. Tu rendi giusta la sua voce contro i nemici ed egli è forte nel suo tribunale sulla terra. 14 «Tu sei solido e i tuoi nemici cadono. Il male che si è detto di te non esiste più. Tu entri davanti all’Enneade degli dèi ed esci giusto di voce». 15 Il capitolo CXXV del Libro dei Morti è interamente dedicato alla liberazione dei peccatori dalle loro iniquità. Gli Egizi lo copiavano su un papiro che veniva posto nella bara fra le gambe della mummia. Sembra di leggere un resoconto anticipato del giudizio, ma di un giudizio in cui tutto sarebbe andato per il meglio. La sala del tribunale si chiamava, non so perché, «delle due verità». Osiride vi troneggia in una cappella. Le sue due sorelle, Iside e Nefti, stanno in piedi dietro di lui. In fondo sono schierati quattordici assessori. In mezzo si trova una grande bilancia sostenuta da un piede decorato dalla testa della Verità, o dalla testa di Anubi o da quella di Thoth. Un mostro si tiene pronto nei pressi della bilancia. Thoth, Anubi,

qualche volta Horo e le due verità si danno da fare in mezzo alla stanza. Il defunto, che indossava una veste di lino, veniva introdotto da Anubi; salutava il suo giudice e tutti gli dèi presenti: «Sia reso omaggio a te, grande dio, signore delle due verità. Sono venuto davanti a te. Condotto davanti a te ho visto la tua perfezione. Io ti conosco, conosco il tuo nome e conosco il nome dei quarantadue dèi che sono con te in questa sala delle due verità che vivono come guardiani dei malvagi, che si abbeverano del loro sangue in questo giorno in cui si giudicano i caratteri davanti all’Essere buono». Poi pronunciava una lunga dichiarazione d’innocenza composta di frasi negative: «Io non ho commesso peccati contro gli uomini... Non ho maltrattato la mia gente... Non ho fatto lavorare nessuno più delle sue possibilità... Non ho calunniato Dio. Non ho trattato il povero con brutalità... Non ho affamato nessuno... Non ho diminuito il contenuto del moggio... Non ho diminuito la palma. Non ho frodato nella misurazione dei campi. Non ho sottratto niente al contrappeso della bilancia... Non ho tolto il latte dalla bocca dei bambini... Non ho fermato l’acqua nella stagione giusta... Non ho fermato l’uscita del Dio». Dopo avere negato trentasei volte di avere commesso ciò che era considerato male agli occhi dei devoti, il recitante concludeva affermando di essere puro perché aveva il naso del signore dei respiri che fa vivere tutti gli Egizi. Poi, quasi temendo di non essere creduto, ricominciava con le proclamazioni d’innocenza rivolgendosi successivamente ai quarantadue dèi che aveva salutato entrando e che portavano nomi terrificanti: Largo di passo, Ingoiatore d’ombra, Spezzatore d’ossa, Mangiatore di sangue, Urlatore, Annunciatore di battaglia, e dopo ogni nome negava un peccato. Aggiungeva di non temere di cadere sotto il coltello dei giudici non solo perché non aveva insultato Dio né oltraggiato la legge ma perché aveva fatto ciò che dicono gli uomini e gli dèi approvano. «Egli ha accontentato il dio con ciò che ama. Ha dato pane all’affamato e acqua all’assetato, vesti all’ignudo e prestato la sua zattera a chi voleva varcare il fiume. È uno di coloro al quale si dice “Benedetto, benedetto”, appena lo si scorge.» Aveva commesso molte altre azioni pietose e lodevoli, ad esempio quando aveva avuto l’occasione di sentire il dialogo fra l’asino e la gatta, che ci dispiace molto non conoscere. A questo punto si traeva la conclusione pratica della prova. Su un piatto della bilancia si metteva il cuore del giudicato, sull’altro una statuetta della Verità. Ma guai se il cuore parlava per smentire il suo proprietario! Contro questo rischio era stata composta l’invocazione che si legge nel capitolo XXX del

Libro dei Morti: «Oh cuor mio, cuore di mia madre, cuore delle mie forme! Non ti levare contro di me come testimone, non ti opporre a me davanti al signore della bilancia. Tu sei il mio ka che sta nel mio seno, il Khnum che rende integre le mie membra. Non permettere che il mio nome maleodori, non dire menzogne contro di me presso il dio!». Il cuore, così invocato, ascoltava in silenzio le due confessioni. Il risultato era infallibile. Anubi bloccava le oscillazioni e constatava che i due piatti si trovavano in equilibrio; Thoth non doveva far altro che registrare la pesatura dichiarando che il candidato aveva trionfato, che era giusto di voce, maa kheru. Il regno di Osiride aveva un suddito in più. Il mostro, che sperava di nutrirsi del nuovo arrivato, si rimetteva in attesa, deluso. Gli Egizi credevano davvero che bastasse negare i propri peccati in una pagina scritta per cancellarli dalla memoria degli uomini e degli dèi? In alcune recenti opere sulla religione egizia si legge che il capitolo CXXV del Libro dei Morti era un testo magico e il termine «magia» viene usato per spiegare molte cose. Gli egittologi non dovrebbero mai dimenticare che anche il trattato per trasformare un vecchio in giovane è definito «testo magico». Ma quando si è fatto lo sforzo di studiarlo si è scoperto che il trattato era semplicemente una ricetta per nascondere le rughe, i foruncoli, gli arrossamenti e i disagi della vecchiaia. 16 Mi sembra che l’autore delle istruzioni per Merikara, dichiarando che non era possibile ingannare il giudice supremo, esprimesse l’opinione comune. Si potrebbe sostenere che l’Egizio che si dichiarava puro e affermava con tanta convinzione di non avere commesso alcun male si era liberato già da vivo del fardello dei suoi peccati. Era questa convinzione a liberarlo del timore dell’altro mondo. Si trattava, sostanzialmente, per il defunto, di essere proclamato maa kheru, giusto di voce. Si poteva meritare questo titolo solo se si era perorata la propria causa personalmente davanti a un tribunale. Innumerevoli Egizi di cui leggiamo i nomi sulle stele, sui sarcofagi, sulle pareti delle tombe, sono definiti così. Si è pensato che si trattasse di un devoto augurio che i vivi formulavano per se stessi o per i loro parenti e amici ma che dovesse essere esaudito solo nell’altro mondo, dato che maa kheru era praticamente sinonimo di «defunto». 17 Tuttavia sappiamo che ci furono degli Egizi che portarono questo epiteto ancora da vivi. Ad esempio Khufu, che i Greci avevano accusato di empietà, viene detto maa kheru quando ascolta i suoi figli narrare, uno dopo l’altro, storie di maghi. Tale fu Pa-Ramses quando

ebbe da Horonemheb l’incarico di dirigere le grandi opere per la costruzione del tempio di Opet prima di diventare re Ramses I. 18 Lo stesso sappiamo del grande comandante dei Ma Sheshonq, che non era ancora diventato il re Sheshanq I. 19 Il gran sacerdote Bakenkhonsu venne definito giusto di voce quando ottenne da Ramses II il favore di esporre le sue statue nel tempio dove si confusero nel gruppo dei lodati. 20 A quei tempi aveva novantun anni e visse ancora qualche tempo. Anche Ramses-nekht è definito «giusto di voce» nell’iscrizione che leggiamo nello uadi Hammamat e che racconta la grande spedizione inviata da Ramses IV alla montagna di bekhen nell’anno III. Era ancora vivo nell’anno IV di un re che poteva essere solo Ramses IV o Ramses V. 21 Questi esempi mi sembrano sufficienti a dimostrare che gli Egizi diventavano maa kheru quando erano ancora vivi e vegeti. Ma come si conquistava questo bel titolo? Osiride era stato il primo a fregiarsene. Quando la sua devota sposa gli aveva restituito l’integrità e la vita, egli aveva chiamato in causa il suo assassino Seth davanti al tribunale divino presieduto dal dio Ra, facendolo condannare. 22 Iside non aveva voluto che le sue lotte e i segni della sua devozione fossero travolti dall’oblio. Aveva dunque istituito dei misteri santissimi che dovevano consolare e servire da esempio agli umani. In quei misteri rappresentati ancora all’epoca di Erodoto si mettevano in scena le sofferenze subite da Osiride. In tempi molto più antichi si rappresentava la lotta combattuta dai sostenitori di Osiride per ottenere il corpo del loro signore e il rientro trionfale ad Abido. Poi si rappresentava il mistero del giudizio. Il capitolo XVIII del Libro dei Morti ci riferisce anche l’elenco delle città privilegiate dove questo mistero veniva recitato: On, Didu, Imit, Khem, Pé e Dep, Rekhti nel Delta, Rosetau, un quartiere di Menfi, Naref nei pressi dell’accesso al Fayum, Abido nell’Alto Egitto. Gli Egizi devoti pensavano evidentemente di conquistare la salvezza con l’imitazione di Osiride. Si legge alla fine del capitolo CXXV un consiglio che si poteva rivolgere solo a un vivo: «Recitare questo capitolo puliti e in ordine, indossando un abito da cerimonia e sandali bianchi, con gli occhi truccati con polvere nera, cosparsi d’incenso di prima qualità, dopo avere fatto un’offerta completa, buoi, pollame, terebinto, pane, birra e verdure». Il testo sacro aggiunge: «Chi avrà fatto questo per lui sarà verde e verdi saranno i suoi figli. Sarà ben visto dal re e dai personaggi più importanti. Non gli mancherà mai niente e alla fine diventerà la scorta di

Osiride». Adesso possiamo rappresentarci più o meno questo mistero del giudizio nel corso del quale gli Egizi ottenevano di essere liberati dai loro peccati. Quelli che ritenevano di avere i giorni contati o perché vecchi e malati o perché colti da uno di quegli avvertimenti segreti che talvolta Osiride inviava a coloro che sarebbero presto entrati nel suo regno, 23 si recavano in massa in una delle città che abbiamo elencato prima. Prendevano le precauzioni che abbiamo indicato e soprattutto non dimenticavano di sostenere la spesa di un’offerta completa. La lettura del capitolo CXXV ci suggerisce che il mistero del giudizio comprendesse due atti. Innanzitutto Osiride si faceva dichiarare innocente. Rivolto al dio Ra dimostrava con trentasei frasi di non avere commesso del male in nessun momento dell’anno. I fedeli facevano eco a quella dichiarazione d’innocenza e si sentivano confortati dal giudizio che assolveva il dio. Ma non abbastanza. Osiride lasciava il banco degli accusati per sedersi su quello del giudice. I fedeli recitavano la seconda confessione negativa poi, a turno, si avvicinavano alla bilancia. Si poneva su un piatto della bilancia un cuore di lapislazzuli con il loro nome inciso, sull’altro l’immagine della verità e tutti potevano constatare che i due piatti restavano in equilibrio. L’invocante veniva riconosciuto solennemente giusto di voce e registrato. Poteva a questo punto far ritorno alla sua dimora certo che le porte dell’altro mondo si sarebbero aperte davanti a lui.

La preparazione della tomba Con la coscienza finalmente tranquilla, ogni Egizio adesso poteva dedicare le proprie attenzioni alla sua casa d’eternità. I re vi si dedicavano da sempre con grande tempestività. La costruzione di una piramide anche di medie dimensioni non era cosa da poco. Si inviavano autentiche spedizioni che trasferivano sull’altopiano di Giza o di Saqqarah blocchi di granito o di alabastro. Fin dagli esordi del Nuovo Impero la necropoli reale era stata trasportata nella valle dei re a occidente di Tebe. I discendenti di Ramses I, benché originari del Delta, avevano imitato coloro che avevano sostituito e continuarono a far scavare nella montagna tebana gli ipogei, lunghi anche un centinaio di metri, dalle pareti e dalle stanze percorse

da una strana decorazione. Vi si segue il viaggio notturno di Ra nelle dodici regioni del mondo inferiore, la sua lotta contro i nemici della luce ma niente ricorda le imprese del re da vivo. Niente si rivolge direttamente ai visitatori. La tomba reale infatti non era destinata a ricevere visitatori, era un territorio chiuso il cui ingresso doveva restare rigorosamente segreto. 24 Diverso era il caso delle tombe dei privati che di solito erano articolate in due parti distinte. La parte inferiore, scavata in fondo a un pozzo, era riservata al defunto. Quando questi era riposto nel sarcofago e le ultime cerimonie erano state celebrate, l’ingresso della cripta veniva murato, il pozzo riempito e nessuno avrebbe più dovuto turbare la solitudine del morto. Al di sopra della cripta invece sorgeva un edificio aperto ai vivi. La facciata si innalzava in fondo a un cortile dove alcune stele indicavano all’ammirazione delle generazioni future le virtù del defunto e i servigi da lui resi. Talvolta in questo cortile, accanto a una vasca, qualcuno era riuscito a far spuntare un gruppo di palme o di sicomori. 25 Da questo cortile si entrava in una stanza generalmente più larga che lunga abbellita da decorazioni incantevoli. Il soffitto era adorno di motivi vegetali o geometrici dai colori vivaci. Sulle pareti e sui pilastri erano rappresentati i momenti più caratteristici della vita del defunto. Se era un grande proprietario, assisteva ai lavori dei campi, dava la caccia alle antilopi nel deserto, lanciava il boomerang contro gli uccelli acquatici, l’arpione contro gli ippopotami o pescava. Se era un capo dei laboratori di Amon sorvegliava gli scultori, i gioiellieri, gli ebanisti. Se era un magistrato riceveva le entrate della corona. Se era un soldato istruiva le reclute. Lo vediamo ricevuto in udienza dal re, mentre introduce a palazzo lunghe file di delegati stranieri provenienti da paesi che non conoscevano l’Egitto, curvi sotto il peso dei loro tributi, venuti a implorare il soffio di vita. Dopo aver fatto il giro della sala, il visitatore entrava in un’ampia galleria. Da una parte vedeva il defunto che si recava ad Abido in barca, dall’altra episodi di un funerale celebrato secondo le regole. La galleria portava a un’ultima sala in cui l’argomento era la pietà per il defunto che adorava gli dèi, offriva in loro onore libagioni d’acqua, presentava un fornello acceso, recitava inni. In compenso consumava provviste continuamente rinnovate, grazie alla sua pietà e previdenza. 26 Il sarcofago era naturalmente l’oggetto più importante dell’arredo funebre. Da vivo Neferhotep aveva visitato più volte il laboratorio che aveva fabbricato il suo. Aveva visto il suo futuro alloggio posato su due sgabelli e

gli artigiani in piedi o seduti che si occupavano di lucidarlo, inciderlo e dipingerlo. Aveva visto il sacerdote aspergerlo con l’acqua santa. 27 Il re e le persone più ricche non si accontentavano di una sola bara. La mummia di Psusennes già protetta da una maschera d’oro era contenuta in un sarcofago d’argento a forma di mummia che riempiva esattamente un altro sarcofago anch’esso a forma di mummia, in granito nero. Quest’ultimo entrava agevolmente in un ampio contenitore rettangolare decorato all’interno e all’esterno con immagini delle divinità preposte alla sorveglianza della mummia. Sul coperchio convesso era rappresentata l’immagine sdraiata del defunto con gli attributi di Osiride mentre sotto il coperchio stava Nut, la dea del cielo circondata dalle barche delle costellazioni. Il suo corpo minuto e grazioso si allungava pochi centimetri al di sopra del sarcofago di granito nero. Con i suoi occhi di pietra, il re si abbeverava eternamente della bellezza della dea che gli dava un eterno bacio. Così veniva realizzato l’auspicio di tutti gli Egizi: diventare abitanti del cielo, viaggiatori in mezzo alle stelle che ignorano il riposo e ai pianeti che ignorano la distruzione. Sui fianchi dei sarcofagi, del resto, si scolpivano degli occhi grazie ai quali il defunto vedeva Ra oppure Osiride ma anche delle porte attraverso le quali poteva uscire dal suo palazzo e rientrarvi a volontà. La ricchezza e varietà dell’arredo dipendevano naturalmente dai mezzi del defunto. Il mobilio della tomba di Tutankhamon sfida l’immaginazione: letti da cerimonia e da riposo, carri e imbarcazioni, armadi e casse, poltrone, sedie e sgabelli, tutte le armi, tutte le canne note ai suoi tempi, oggetti da cerimonia, giochi, vasellame, oggetti liturgici. Come membro del regno di Osiride, il re avrebbe dovuto ripetere gli atti di devozione che svolgeva da vivo. Come capofamiglia e sovrano avrebbe continuato a ricevere i figli, i parenti, gli amici, i sudditi e a ospitarli. A questo scopo, si preparava abbondante vasellame da tavola. Si mettevano da parte, per depositarli nella tomba, pezzi del vasellame reale e si preparavano pollame, carni, frutta, cereali, liquidi, tutto ciò, insomma, che si mangia e si beve. Il sarcofago era completato da uno scrigno di legno o di pietra e da quattro vasi che noi chiamiamo, erroneamente, canopi. Essi erano destinati ad accogliere gli organi estratti dal corpo durante la mummificazione ed erano posti sotto la protezione di quattro dèi e quattro dee. Uno di questi dèi, Amset, aveva la testa umana, Hapi la testa di un cinocefalo, Duamutef la testa di uno sciacallo e Qebehsenuf la testa di un falco. Il coperchio del primo vaso

rappresentava dunque una testa umana e gli altri tre le teste dei tre animali. Alcuni raffinati pensavano che tutto ciò non bastasse. Facevano costruire piccole bare d’oro e d’argento composte, come quelle vere, di un contenitore e di un coperchio. Vi si collocavano quattro pacchetti mummificati, poi le quattro piccole bare venivano riposte in vasi d’alabastro. I campi di Ialu sui quali regnava Osiride erano come il giardino del Candido di Voltaire, il più bel luogo del mondo, ma bisognava coltivarli come si coltiva una vera proprietà, arare, seminare, sarchiare e mietere, occuparsi dei canali d’irrigazione e compiere altri lavori di cui non ci è chiara l’utilità come trasportare sabbia da una riva all’altra. Questi lavori che un proprietario terriero trovava naturali, parvero invece intollerabili a persone che avevano passato la vita in ozio o esercitato un mestiere diverso da quello dell’agricoltore. Nessun popolo ha mai creduto quanto gli Egizi che l’immagine di una cosa o di un essere ne possedesse, in una certa misura, le facoltà e le proprietà. Il rimedio alla fatica del lavoro nei campi venne subito trovato. Bastava fabbricare delle statuette che potessero lavorare al posto del defunto. Queste statuette, in terracotta verniciata o in bronzo, avevano la forma di una mummia. Il volto qualche volta era fortemente individualizzato. Abbiamo ragione di credere che si trattasse di piccoli ritratti. Se anche non si badava alla rassomiglianza, lo scopo era comunque raggiunto perché l’iscrizione indicava almeno il nome e il titolo del personaggio di cui teneva il posto: «L’Osiride, primo profeta di Amonrasonter Hornekhti». Spesso un testo più sviluppato definiva i lavori di cui la statuetta avrebbe dovuto occuparsi. Ad esempio a proposito dell’Osiride N: «Oh questa statuetta (ushebti) se l’Osiride N è contato, chiamato, designato per fare tutti i lavori che vanno fatti là, nella necropoli, come un uomo fa per far prosperare i campi, irrigare le rive, trasportare la sabbia dall’est all’ovest e viceversa, strappare le erbe cattive come un uomo fa a suo vantaggio, “lo faccio io, eccomi”, così tu dirai». Una volta individuata questa possibilità, gli Egizi moltiplicarono queste statuette per evitare eternamente le corvées incombenti. Tracciarono fra le loro mani o sulla loro schiena utensili e sacchi. Ai lavoratori affiancarono scribi e sorveglianti, perché dietro ogni gruppo di coltivatori si profilava l’indispensabile funzionario. Infine si misero a fabbricare una massa di piccoli oggetti e utensili in miniatura per tenerli a disposizione delle statuette, bilancieri per i portatori d’acqua e sabbia, cesti e gerle. Questo materiale

portava scritto lo stesso nome delle statuette, in modo da non potere essere rubato o utilizzato a scopi diversi da quelli desiderati dal cliente. 28 In base alla stessa idea, si preparavano per il morto delle statuette di donne nude. I re, i principi, avevano delle concubine e non volevano perdere tale buona abitudine nell’altro mondo. Ne abbiamo trovate, ad esempio, nell’anticamera di Psusennes. Alcune portavano scritto un nome regale, altre un nome di donna. Ma saremmo portati a compiangere il re che avesse scelto da vivo le concubine con lo stesso criterio con cui sceglieva le sue bambole. 29 Le mummie amavano gli oggetti di lusso come li amavano i vivi. Spesso la mummia veniva decorata con i gioielli che il defunto aveva portato da vivo, ma altre volte se ne fabbricavano di nuovi. Ecco l’elenco dell’apparato necessario alla mummia di un re o di un personaggio importante: 30 La maschera, d’oro per il re e i principi del sangue, di cartone e stucco dipinto per gli altri. Un collare formato da due piastre rigide d’oro sbalzato rappresentante un avvoltoio ad ali aperte. Una o più collane d’oro, pietre preziose, perle di terracotta formate da più fili di perle o piastrine con uno o due fermagli, talvolta munite di un pendente d’oro e pietre calibrate, qualche volta di terracotta. Uno o più pettorali con catena. Il motivo più frequente era lo scarabeo alato affiancato da Iside e Nefti. Sui lati dello scarabeo si incideva la famosa invocazione al cuore: «Cuore mio, cuore di mia madre, cuore delle mie diverse età, non testimoniare contro di me, non opporti a me in tribunale, non far inclinare il piatto a mio svantaggio davanti al custode della bilancia perché tu sei il ka che è nel mio corpo, il dio Khnum che conserva intatte le mie membra. Non permettere che il mio nome mandi cattivo odore... Non mentire contro di me davanti al dio». Altri scarabei alati e non alati, incisi ma non incorniciati, cuori di lapislazzuli appesi a una catena e con il nome del defunto inciso sopra. Braccialetti flessibili e rigidi, vuoti o massicci, per polsi, braccia, cosce e caviglie. Astucci per le dita delle mani e dei piedi. Anelli per tutte le dita. Sandali. Amuleti e statuette di divinità che si appendevano al pettorale o direttamente al collo. Le divinità incaricate di proteggere i morti erano principalmente Anup e Thoth a causa del loro ruolo durante la pesatura delle azioni ma la scelta non era limitata a loro. Si ricorreva anche al falco, all’avvoltoio con le ali aperte,

alle teste di serpente, perché il serpente era il guardiano della serratura che teneva chiuse le porte delle varie zone dell’altro mondo, ai feticci di Osiride e Iside, all’occhio ugia. A tutti questi preziosi bisogna aggiungere le riproduzioni in miniatura di una massa di altri oggetti come canne, scettri, armi, attributi reali o divini che era bene tenere sempre a portata di mano. Ordinare un materiale così complicato e costoso e sorvegliarne l’esecuzione non era cosa da poco. L’avvenire del defunto, infatti, dipendeva in larga misura, qualunque cosa abbia pensato qualche spirito più problematico, dalla cura con cui aveva allestito la sua casa d’eternità, scegliendone l’arredo e i gioielli. Lungi dall’essere un luogo di riposo e tranquillità, l’altro mondo era un territorio pieno di insidie alle quali si sfuggiva solo se si prendevano tutte le precauzioni necessarie.

I doveri del sacerdote del doppio Il nostro vecchio egizio dunque sorvegliava la costruzione della sua futura casa d’eternità. La decorava secondo i suoi gusti e i suoi mezzi facendo costruire gli arredi da ebanisti e costruttori di carrozze. Dall’orafo si procurava i gioielli e tutta una collezione di talismani e amuleti. A questo punto non gli mancava nessuno degli oggetti necessari nell’altro mondo. Ma non era ancora soddisfatto. Bisognava che i suoi discendenti si occupassero di lui con devozione non solo eseguendo gli ultimi doveri e sistemandolo nella sua nuova dimora ma nel futuro senza interruzione, di generazione in generazione: «Ho trasmesso le mie funzioni a mio figlio – ha detto un nobile egizio, quando era ancora vivo. – Ho fatto per lui testamento come mio padre aveva fatto per me. La mia casa poggia sulle sue fondamenta, la mia campagna è al suo posto. Essa non vacilla, tutti i miei beni sono al loro posto. Mio figlio farà vivere il mio cuore su questa stele. Ha fatto per me un erede da buon figlio». L’idea che il figlio facesse rivivere il nome del padre e di tutti gli antenati è espressa molto spesso nei testi funerari. Hâpi-Gefai, governatore di Siut, aveva designato suo figlio come suo «sacerdote del doppio», cioè, nel nostro linguaggio, esecutore testamentario. I beni che il figlio avrebbe ricevuto a questo titolo erano beni privilegiati che non avrebbe condiviso con gli altri figli. Il figlio a sua volta non li avrebbe divisi fra i suoi

eredi ma li avrebbe destinati in blocco al figlio che avrebbe incaricato di occuparsi della tomba dell’avo e di sorvegliare le cerimonie celebrate in sua memoria partecipandovi personalmente. 31 Tali cerimonie si svolgevano soprattutto in occasione del capodanno e della festa uaga che veniva celebrata diciotto giorni dopo, davanti alla tomba, nel tempio di Up-Uayt signore di Siut e in quello di Anup, signore della necropoli. Cinque giorni prima di capodanno i sacerdoti di Up-Uayt si recavano al tempio di Anup e consegnavano ciascuno un pane per la statua del tempio. La vigilia di capodanno un funzionario del tempio di Up-Uayt dava al sacerdote del doppio una candela che era già stata utilizzata nel tempio. Il gran sacerdote di Anup faceva altrettanto e consegnava una candela che aveva contribuito all’illuminazione del tempio di Anup a un personaggio che veniva chiamato capo del personale della necropoli che si sarebbe recato alla tomba con i custodi della montagna i quali incontravano il sacerdote del doppio per consegnargli la candela. Il giorno di capodanno, ogni sacerdote di Up-Uayt offriva un pane alla statua di Hâpi-Gefai quando l’illuminazione del tempio si spegneva. Insieme si incolonnavano dietro il sacerdote del doppio e celebravano la memoria del defunto. Da parte sua, il capo della necropoli e i custodi offrivano pane e birra ed eseguivano una cerimonia analoga. La sera di capodanno i funzionari del tempio di Up-Uayt che la vigilia avevano offerto una candela ne offrivano una seconda. Il gran sacerdote di Anup faceva altrettanto e la statua del defunto, come la vigilia, veniva illuminata con candele santificate dal precedente uso nel tempio. Le stesse cerimonie si ripetevano con poche varianti per la festa uaga. Nel tempio di Up-Uayt i sacerdoti offrivano ognuno un pane bianco per la statua e formavano una processione dietro al sacerdote del doppio per la gloria di Hâpi-Gefai. Una terza candela ardeva la notte davanti alla statua. Anche i sacerdoti di Anup andavano in processione fino alla scala monumentale che dava accesso alla tomba. Ognuno di essi depositava un pane davanti alla statua che vi si trovava e che veniva nuovamente illuminata. Il sacerdote di servizio dopo aver celebrato le cerimonie nel tempio offriva alla stessa statua pane e birra. Un altro personaggio, il capo della montagna, deponeva altro pane e caraffe di birra per la statua nelle mani del sacerdote del doppio.

Hâpi-Gefai non accettava di essere dimenticato nemmeno in occasione delle feste di inizio stagione, non prive di importanza anche se meno solenni di quelle di capodanno. Il capo della necropoli e i guardiani della montagna si radunavano presso il suo giardino funerario, prendevano la statua che vi si trovava e la portavano al tempio di Anup. Ed ecco l’ultima esigenza del defunto. Da quando era diventato capo del clero di Up-Uayt, Hâpi-Gefai riceveva, tutti i giorni di festa, e sappiamo quanto fossero numerosi, carne e birra e pretendeva che tali cibi fossero portati davanti alla sua statua alla sua morte, sotto il controllo del sacerdote del doppio. Queste prestazioni non erano gratuite. Per retribuirle, Hâpi-Gefai rinunciava a vantaggi in natura di cui avrebbe potuto godere come governatore o come capo del clero di Up-Uayt. Con ammirevole egoismo, riduceva quindi le future prerogative di tali funzioni. Diminuiva le sue entrate perché il suo erede avrebbe dovuto versare ogni anno ventisette giorni del tempio. Un giorno del tempio era la trecentosessantesima parte di tutto ciò che entrava al tempio in un anno. Il tempio di Up-Uayt era un santuario di provincia ma le sue entrate dovevano essere rilevanti e i suoi eredi sarebbero stati costretti a privarsi, a favore del personale del tempio, dell’equivalente di circa un tredicesimo delle entrate di Up-Uayt. Il loro tenore di vita ne veniva decisamente ridotto tanto più che anche il capitale veniva intaccato dalla donazione di non pochi terreni. Il mantenimento della tomba dunque rischiava di essere ancor più oneroso della sua costruzione e l’intero Egitto rischiava di essere schiacciato sotto un fardello che si era caricato volontariamente sulle spalle. Hâpi-Gefai imperturbabile faceva osservare che i futuri principi non avevano diritto di modificare gli accordi che un principe come lui aveva stipulato con i sacerdoti del suo tempo. In realtà, anche le fondazioni funerarie meglio dotate cadevano in disuso nel giro di due o tre generazioni, ovvero i loro patrimoni venivano stornati a favore di morti più recenti. 32 Abbiamo visto come sia i re sia i privati credessero di fare un’opera pia restaurando monumenti funerari e alimentando tavole delle offerte. Ma molte di quelle fondazioni caddero definitivamente in rovina nel corso della guerra degli Impuri. In seguito a questa guerra e all’anarchia che ne seguì, l’Egitto si ritrovò se non in rovina almeno impoverito e del tutto incapace di occuparsi dei morti più antichi.

La mummificazione Niente tratteneva più su questa terra l’Egizio che, avvertito tempestivamente da Osiride, aveva avuto il tempo di terminare la costruzione e l’allestimento della sua casa d’eternità e che aveva stipulato gli accordi che la devozione e il rispetto dei costumi gli ispiravano. Il giorno in cui approdava sull’altra riva, secondo l’espressione degli Egizi che non amavano usare il termine «morire», i parenti portavano il lutto per almeno settanta giorni. Si astenevano da qualsiasi occupazione e restavano in casa prostrati e silenziosi. Se dovevano uscire, si sporcavano il volto di fango come fece Anupu quando pensò di avere definitivamente perduto il fratello minore e si colpivano continuamente la sommità della testa con entrambe le mani. 33 Ma un compito urgente li pressava, quello di consegnare il cadavere agli imbalsamatori scegliendo il sistema di imbalsamazione. I sistemi, secondo Erodoto e Diodoro, erano tre. Quello di prima classe richiedeva molto tempo e molte cure. Si toglievano il cervello e tutti gli organi interni (tranne il cuore) che dovevano essere preparati a parte in quattro pacchetti che sarebbero stati riposti in quattro vasi canopi. Il corpo veniva accuratamente lavato e gli organi estratti venivano sostituiti con aromi. Poi si cospargeva il corpo con il natron, che si trovava in abbondanza nello uadi-Natron, la prateria del sale, a occidente del Fayum e nella regione di Nekheb e che gli Egizi usavano per gli scopi più diversi, in particolare per detergere la casa. Nell’arco di settanta giorni, il corpo veniva lavato, poi avvolto in bende di lino cosparse di gomma. Nel corso dell’intera operazione si usavano non meno di quindici prodotti: la cera d’api per coprire le orecchie, gli occhi, il naso, la bocca e l’incisione dell’operatore, la cassia e il cinnamomo, l’olio di cedro, prodotto in realtà a partire dal ginepro, la gomma, lo henné, le bacche di ginepro, le cipolle, il vino di palma e diverse specie di resina, la segatura di legno, la pece e il catrame e naturalmente il natron che era l’agente essenziale. Molti di questi prodotti erano di provenienza straniera in particolare la pece e il catrame che venivano estratti dagli abeti del Libano, per cui appena i viaggi per mare verso Biblo per qualche ragione venivano interrotti, gli imbalsamatori e la loro ricca clientela precipitavano nella desolazione all’idea di dover trovare prodotti sostitutivi. 34 Quando il lavoro era completato, il corpo era ridotto a uno scheletro rivestito di pelle giallastra ma il volto non era del tutto irriconoscibile

nonostante le guance scavate e le labbra assottigliate. Dopo tanti secoli, la mummia di Seti I ci permette di immaginare i lineamenti e l’espressione di quel grande re. Lo stesso si può dire per molte altre mummie. Era venuto il momento di vestire e adornare la mummia. Al suo collo si appendevano le collane, i pettorali e gli amuleti. Le si facevano indossare gli astucci per le dita, gli anelli, i sandali e i bracciali. Sulla ferita prodotta dall’operatore che aveva estratto gli organi interni si posava una ricca foglia d’oro sulla quale si incidevano o intarsiavano l’occhio ugia che aveva il potere di guarire le piaghe e i quattro geni protettori dei canopi. Fra le gambe della mummia si deponeva un esemplare del Libro dei Morti, l’indispensabile guida per l’altro mondo. Poi il corpo e le membra venivano completamente avvolti in bende di lino. Sul volto si applicava la maschera. Per i privati, la maschera era di latta e stucco, per i re e pochi grandi personaggi, d’oro e talvolta attaccata con dei fili a una veste di perle. 35 Il tutto era tenuto fermo da un ultimo sudario fissato con strisce parallele. Invece che da questo sudario la mummia di Sheshanq trovata a Tanis nell’anticamera della tomba di Psusennes era protetta da una specie di imballaggio sul quale era stato riprodotto in qualche modo, con delle foglie d’oro e dei sottili frammenti di terracotta azzurra, il motivo decorativo inciso o scolpito sul sarcofago d’argento. 36 Se nel frattempo gli ebanisti, i costruttori di carrozze e quelli di armi e tutti gli specialisti che si erano divisi la committenza dell’arredo funerario avevano lavorato con diligenza, era possibile, due mesi e mezzo dopo il decesso, procedere all’inserimento nella bara e all’inumazione.

L’inumazione. La formazione del corteo Una inumazione in Egitto era una cerimonia al tempo stesso lugubre e pittoresca. 37 I membri della famiglia non esitavano a dare spettacolo singhiozzando e gesticolando lungo il percorso del funerale. Si assumevano prefiche e lamentatori professionali, temendo di non riuscire a mostrarsi abbastanza addolorati. Le prefiche erano infaticabili. Col volto cosparso di fango, il seno scoperto e la veste strappata, non smettevano di gemere e colpirsi la testa. Le persone serie che partecipavano alla processione non si abbandonavano a gesti così clamorosi ma camminando rievocavano i meriti del defunto: «Che bella cosa gli è capitata... Riempiva il cuore di Khonsu a

Tebe al punto che questi gli ha permesso di raggiungere l’Occidente accompagnato da generazioni e generazioni dei suoi servi». 38 A partire da questo momento, il corteo funebre somigliava molto a una specie di trasloco. 39 Una prima squadra di servi portava dolciumi e fiori, giare di terracotta, vasi di pietra, scatole appese ai due lati di un bilanciere contenenti le statuette e i loro materiali. Un gruppo più numeroso trasportava il mobilio d’uso, sedili, letti, armadi, senza dimenticare il carro. Gli effetti personali, le casse per i canopi, le canne, gli scettri, le statue, i parasole erano affidati a un terzo gruppo. Gioielli, collane, falchi e avvoltoi con le ali aperte, uccelli con la testa umana e altri oggetti di valore venivano messi in mostra su vassoi esibiti come se non ci fosse niente da temere dai molti sfaccendati che si affollavano a veder passare il corteo. Il sarcofago scompariva in un catafalco trainato da una coppia di vacche aiutate da alcuni uomini. Il catafalco era composto da pannelli di legno mobili o da una struttura a cui venivano appese tende di stoffa ricamata o di cuoio e posato su una barca incorniciata dalle statue di Iside e di Nefti a sua volta trasportata su una specie di slitta.

La traversata del Nilo Il corteo lentamente arrivava sulle rive del Nilo dove lo aspettava un’intera flottiglia. 40 La barca principale, la cui poppa e la cui prua graziosamente curve all’interno terminavano in ombrelle di papiro, ospitava un’ampia cabina tappezzata internamente di tessuti ricamati e strisce di cuoio nella quale si sistemava il catafalco insieme alle statue di Iside e Nefti. Un sacerdote con le spalle coperte da una pelle di pantera bruciava della resina. Le prefiche si colpivano la testa. L’equipaggio era limitato a un marinaio che tastava il fondale con una lunga pertica, perché la barca col sarcofago veniva rimorchiata da un’altra barca il cui numeroso equipaggio era comandato da un capitano che stava nella parte anteriore mentre sul retro il pilota reggeva il timone. Questa barca motrice disponeva di una grande cabina. Le prefiche si radunavano sul suo tetto e volgendosi in direzione del catafalco a seno nudo continuavano a urlare e gesticolare. Ecco un esempio dei loro lamenti: «Andiamo velocemente verso l’Ovest, nella terra di verità. Le donne del battello di Biblo piangono molto, molto. In pace, in pace verso Occidente, oh lodato, va in pace. A dio piacendo, quando il giorno si trasforma in eternità,

noi vedremo te che procedi verso questa terra che confonde gli uomini». Che cosa c’entra in questo caso la nave di Biblo, kebenit, una nave costruita per il mare mentre la barca del catafalco era costruita solo per attraversare il Nilo? Possiamo indovinare un’analogia. Quando era riuscita a farsi restituire l’albero sacro che conteneva il corpo del suo sposo Osiride, Iside l’aveva portato su una nave in partenza per l’Egitto e là lo aveva abbracciato inondandolo delle sue lacrime. Così le donne della famiglia esprimevano il loro dolore, sulla barca, durante la traversata del Nilo. Su altre quattro barche si imbarcavano le persone che avevano deciso di accompagnare il defunto fino alla fine, e tutto l’arredo funebre. Coloro che non volevano spingersi oltre restavano sulla riva e inviavano all’amico un ultimo augurio: «Che tu possa approdare in pace all’Occidente di Tebe» oppure «A Occidente, a Occidente, la terra dei giusti! Il luogo che amavi geme nella desolazione!». Era il momento in cui la vedova faceva sentire la sua voce dolente: «Oh fratello mio, mio sposo, amico mio, resta, rimani al tuo posto, non ti allontanare dal luogo che è la tua dimora! Ahimè, tu te ne vai e ti prepari a varcare il Nilo. Oh marinai, non affrettatevi, lasciatelo! Voi tornerete alle vostre case, ma lui parte per il paese dell’eternità».

La salita alla tomba Il convoglio era già atteso sull’altra riva dove si era raccolto un gruppo di persone. 41 Erano stati allestiti negozietti provvisti di oggetti devozionali a uso di coloro che non ne avevano portati abbastanza dalla città. Un uomo afferrava la parte anteriore del canotto e si affrettava a far sbarcare i passeggeri, il catafalco e tutto l’arredo. Si formava un nuovo corteo un po’ meno numeroso di quello che era partito dalla casa del morto ma secondo lo stesso ordine. Una coppia di vacche trainava una slitta che trasportava una barca di tipo arcaico. Iside e Nefti riprendevano il loro posto. I guidatori erano armati di frusta: con loro avanzava un uomo con un rotolo in mano. Le donne di famiglia, i figli, le prefiche si sistemavano dove potevano. Qualche volta, c’era una donna che suonava i crotali. I colleghi del defunto, sempre molto seri, con una canna in mano, camminavano ordinatamente seguiti dai portatori e continuavano a parlare del loro amico, dei suoi gusti, assaporando i loro ricordi e le loro riflessioni sui colpi della sorte, l’incertezza e la brevità

della vita umana. Il gruppo passava davanti ad alcune costruzioni fatte di materiali leggeri accanto alle quali stavano degli uomini che brandivano dei fornelli accesi. Il corteo superava dunque la zona delle terre coltivate e arrivava ai piedi della montagna libica. Il terreno cominciava a salire e la strada a farsi disagevole. Le vacche venivano staccate. A questo punto erano gli uomini a trascinare il carico e a portare il catafalco se era necessario, preceduti da un sacerdote che non smetteva di aspergerlo con il suo acquamanile reggendo col braccio teso l’incensiere acceso. La dea Hathor in forma di vacca usciva allora dalla montagna e scostava una zolla di papiro miracolosamente spuntato sulle aride rocce per accogliere i nuovi arrivati.

L’addio alla mummia Faticosamente il corteo arrivava davanti alla tomba. 42 Anche là erano stati allestiti piccoli negozi dove gruppi di uomini preparavano dei fornelletti col manico e mettevano dell’acqua a rinfrescare in grandi contenitori. Accanto alla stele, la dea dell’Occidente era invisibile e insieme presente nella forma di un falco appollaiato su una sbarra. Il sarcofago veniva estratto dal catafalco e appoggiato alla stele. Una donna accoccolata accanto a esso lo teneva stretto fra le braccia. Un uomo costruiva sulla testa un cono profumato simile a quelli che si posavano sulla testa degli invitati in occasione dei ricevimenti. Le prefiche, i figli, le persone di famiglia si colpivano la testa più violentemente che all’inizio della cerimonia, ma i sacerdoti avevano un compito più importante da svolgere. Avevano schierato su un tavolo non solo gli elementi di un pasto, pani e caraffe di birra, ma degli strani strumenti, un’accetta, un coltello a forma di piuma di struzzo, l’imitazione di una zampa di bue, una tavolozza che sui lati finiva in due volute. Questi strumenti sarebbero serviti al sacerdote per annullare gli effetti dell’imbalsamazione restituendo al defunto l’uso delle sue membra e di tutti i suoi organi. Avrebbe visto di nuovo, avrebbe aperto la bocca per parlare e per mangiare, avrebbe mosso le braccia e le gambe. Si avvicinava ormai il momento della separazione. Le esplosioni di dolore raddoppiavano. La moglie cominciava a dire: «Io sono tua moglie Merit-Rê, oh grande, non mi abbandonare. È dunque tua intenzione che io mi allontani da te? Se me ne vado, tu resterai solo. Ci sarà qualcuno con te, al tuo seguito?

Tu che tanto amavi scherzare con me, taci e non parli!». Le donne le facevano eco dicendo: «Sventura, sventura! Innalzate, innalzate lamenti senza tregua. Il buon pastore è partito verso il paese dell’eternità. La gente si è allontanata da lui. Adesso tu sei nel paese che ama la solitudine. Tu che amavi aprire le gambe per camminare adesso sei imprigionato, avvolto, fasciato. Tu che avevi tante stoffe fini, adesso dormi nelle tele della veglia!». A questo punto bisognava scendere a sistemare nella cripta il sarcofago e tutto l’arredo funebre. 43 Il catafalco era vuoto. I sacerdoti che l’avevano preso in consegna per la cerimonia lo riportavano nella città dove altri clienti l’avevano già richiesto. Si sistemava la bara a forma di mummia nel bacino rettangolare di pietra che era stato da tempo scavato, scolpito e collocato al suo posto. Tutto intorno venivano sistemati vari oggetti, canne e armi, forse altri amuleti, poi si calava sul bacino il pesante coperchio di pietra. Accanto al sarcofago si collocavano la cassa con i canopi, gli scrigni coi tesori e il resto del mobilio. Soprattutto non bisognava dimenticare i prodotti che sarebbero stati più utili al morto, i cibi e quelli che chiamiamo gli Osiridi vegetanti. Erano delle cornici di legno con un fondo di stoffa grossolana in forma di mummia di Osiride che venivano riempite di una miscela di orzo e sabbia. Si innaffiava regolarmente la piccola zolla e l’orzo germogliava e spuntava vigoroso. Quando aveva raggiunto l’altezza di dodici-quindici centimetri lo si lasciava seccare e infine si avvolgeva il tutto in un panno. Si sperava così di stimolare la resurrezione del defunto perché Osiride aveva reagito così quando era risorto. Nelle età più antiche si otteneva lo stesso risultato depositando nella tomba alcune giare composte di due pezzi. La parte inferiore conteneva acqua, quella superiore aveva il fondo bucherellato dove si depositava un tubero di ninfea le cui radici attraverso i buchi raggiungevano l’acqua e i cui rami che uscivano dal collo, unico o triplo, riuscivano a fiorire. Quest’usanza, assai diffusa durante l’Impero di Mezzo, venne abbandonata a favore dell’Osiride vegetante. Il loto era la pianta di Ra. Quella scelta dunque rappresentava una ulteriore vittoria della religione osiriaca sull’antica religione solare. 44

Il pasto funebre Dopo avere completato la preparazione della cripta, il sacerdote e i suoi

assistenti si ritiravano e un muratore ne murava la porta. I parenti e gli amici che avevano accompagnato il defunto alla dimora d’eternità non si separavano immediatamente, per rientrare a casa. Tante emozioni avevano messo loro appetito. I trasportatori che avevano portato tanto carico per il defunto avevano avuto la precauzione di munirsi anche di qualche provvista per i vivi. Ci si radunava o nella tomba oppure nel cortile immediatamente precedente o addirittura a una certa distanza in chioschi appositi costruiti in materiale leggero. 45 Un arpista si volgeva verso il lato dove riposava la mummia ed esordiva ricordando che dopo tutto quanto si era fatto per lui il defunto si trovava in un’ottima situazione: «Tu fai appello a Ra, Kheper ti ascolta e Tum risponde. Il signore dell’universo realizza ciò che ti piace... Il vento dell’ovest spira diritto verso di te, al tuo naso. Il vento del sud si cambia per te in vento del nord. Si dirige la tua bocca verso le mammelle della vacca Hesat. Tu diventi puro per guardare il sole. Fai un’abluzione nella vasca divina... Tutte le tue membra sono in perfette condizioni. Tu sei reso giusto agli occhi di Ra. Sei durevole davanti a Osiride. Ricevi offerte in buone condizioni. Tu ti nutri come sulla terra. Il tuo cuore si trova a suo agio nella necropoli. Tu raggiungi la dimora in pace. Gli dèi della Duat ti dicono: “Vieni al tuo ka in piena tranquillità”. Tutti coloro che si trovano nell’altro mondo sono a tua disposizione. Sei chiamato a presentare le richieste al grande. Tu fai la legge, Osiride Gianefer, il giustificato». 46 Un altro arpista innalzava in onore del divino padre Neferhotep frasi di tono più malinconico. 47 Non si doveva dimenticare che il defunto era veramente un privilegiato. Tante tombe erano cadute in rovina. Le loro offerte non c’erano più, i loro pani erano contaminati dalla polvere ma «le mura della tua tomba sono solide, tu hai piantato alberi intorno al suo stagno. Il tuo ba resta sotto di essi e si abbevera alla loro acqua». Soprattutto, l’arpista coglieva l’occasione per fare della filosofia dicendo: «I corpi vi si recano dai tempi del dio e la giovane generazione ne prenderà il posto. Finché il tuo Ra si alzerà il mattino e Tum tramonterà a Occidente, gli uomini genereranno, le donne concepiranno e tutti i nasi respireranno. Ma tutto ciò che è nato un giorno raggiungerà il suo posto». Bisognava dunque godere della vita e stranamente l’arpista rivolgeva quel consiglio a colui che giaceva nel sarcofago; ma i presenti ne facevano tesoro. Essi facevano onore al pasto e rientravano in città ancora più rumorosi e soprattutto più allegri di quando erano partiti.

Così si celebravano i funerali degli Egizi ricchi. Naturalmente per la gente di condizione modesta non si facevano tante cerimonie. L’imbalsamatore non si prendeva la pena di aprire il corpo per estrarne gli organi. Si limitava a iniettare dal basso un liquido grasso proveniente dal ginepro e di salare il corpo con del natron. Le famiglie più povere sostituivano l’olio di ginepro con un disinfettante meno pregiato. La mummia così preparata veniva messa in una bara che veniva poi trasportata in una vecchia tomba abbandonata che serviva da tomba comune. Vi si ammassavano le bare fino al soffitto. La mummia però non restava del tutto priva di ciò che le era necessario nell’altro mondo. Nella bara si ponevano alcuni strumenti, dei sandali di trecce di papiro, anelli di bronzo o di terracotta, braccialetti, amuleti, scarabei, ugia, statuette di divinità sempre di terracotta. Ma c’era gente ancor più povera, destinata alla fossa comune. A Tebe un cimitero per poveri sorgeva proprio in mezzo al ricco quartiere funerario dell’Assassif. Vi si gettavano le mummie avvolte in una tela rustica, gettandovi sopra un po’ di sabbia, e si passava in fretta alla successiva. 48 Fortunato era chi, fra quella povera gente, si trovava a essere nominato o rappresentato nella tomba di un visir o di un figlio reale di Kush. Avrebbe continuato a servire il suo signore nell’altro mondo come aveva fatto quand’era vivo e poiché a ogni lavoro spettava un salario, sarebbe vissuto del suo lavoro godendo, in qualche misura, dei vantaggi promessi ai favoriti della fortuna che al tempo stesso erano dei giusti.

I rapporti fra i vivi e i morti Coloro che definivano l’Amentit come un luogo di riposo e di pace se ne facevano un’idea troppo semplice e troppo bella. Il morto era in realtà un essere diffidente e vendicativo. Temeva i ladri attirati dall’oro e dall’argento depositati nella sua cripta, la malevolenza o l’indifferenza delle numerosissime persone che si avventuravano nell’immensa città dell’Occidente e dei funzionari addetti alla gestione della necropoli. A coloro che non prendevano sul serio quelle funzioni minacciava pene terribili: «Li consegnerà al fuoco del re nel suo giorno d’ira... Essi faranno naufragio nel mare che ne inghiottirà i cadaveri. Non riceveranno gli onori dovuti ai virtuosi. Non potranno nutrirsi delle offerte dei morti. Non sarà versata per la loro libagione l’acqua del corso del fiume. I loro figli non erediteranno le loro

cariche. Le loro mogli saranno stuprate sotto i loro occhi... Non udranno le parole del re il giorno in cui è lieto... Ma se, al contrario, sorveglieranno la fondazione funeraria... tocchi loro tutto il bene possibile. Amonrasonter vi concederà una vita lunga. Il re che regnerà ai tempi vostri vi ricompenserà come sa ricompensare. Per voi si moltiplicheranno le cariche che riceverete di padre in figlio, di erede in erede... Essi saranno sepolti nella necropoli dopo aver raggiunto i centodieci anni di età e si moltiplicheranno per loro le offerte». 49 C’erano anche dei morti malvagi, o perché trascurati dai loro discendenti o perché amavano fare del male senza alcuna ragione. Gli dèi avrebbero dovuto impedir loro di nuocere ma essi ne ingannavano la sorveglianza e lasciavano le loro tombe per tormentare i vivi. 50 A quei morti e morte veniva attribuita l’origine della maggior parte delle malattie. La madre li temeva per il figlio: «Se sei venuta per abbracciare questo bambino, non te lo permetto. Se sei venuta per cullare questo bambino, non te lo permetto. Se sei venuta per portarlo via, nemmeno questo ti permetto». 51 Per paura o per devozione, gli Egizi visitavano comunque molto spesso le case d’eternità. Genitori, figli, vedovi e vedove scalavano la collina portando cibo e un po’ d’acqua che posavano su un tavolo per le offerte davanti alla stele o fra le palme che ombreggiavano il cortile d’ingresso e, per assecondare i desideri del defunto, pronunciavano questo augurio: «Migliaia di pani e di caraffe di birra, di buoi e volatili, di grasso e di terebinto, di bende e di corde e di tutte le cose buone e pure che porta il Nilo, che la terra crea e di cui vive Dio al ka del tale, giustificato». Qualche volta chi pregava sulla tomba di una persona cara era turbato da una grave preoccupazione. Abbiamo prima citato la confessione di un marito irreprensibile e vedovo fedele. Ne conosciamo i grandi meriti perché il pover’uomo aveva dovuto superare molte prove. Niente gli riusciva più di combinare, dopo che aveva perso sua moglie. Quindi decise di scriverle una lunga lettera che è giunta fino a noi. Mettendo le cose in chiaro e ricordando tutto ciò che aveva fatto per la defunta anche dopo la sua morte, esprimeva il suo dolore per quei maltrattamenti: «Che male ho fatto per essere caduto nella condizione in cui mi trovo? Che cosa ho fatto contro di te perché tu levi la mano contro di me mentre io non ti ho fatto alcun male? Invoco a testimoni gli dèi dell’Occidente e mi si giudicherà davanti a te in base a questo scritto». 52

L’autore di questa lettera, che era vissuto sotto i primi Ramessidi, obbediva a un antico uso attestato anche in base ad esempi più antichi e dimostra che gli Egizi continuavano a credere all’efficacia di tale pratica. Durante l’Impero di Mezzo si preferiva scrivere al morto sul recipiente che conteneva i cibi a lui destinati per essere sicuri che la lettera non passasse inosservata. Ad esempio si informava un antenato che si era formata una congiura per sottrarre l’eredità a suo nipote. Il morto aveva tutto l’interesse a opporsi a quelle manovre. Doveva dunque chiamare i membri della sua famiglia e gli amici in aiuto di colui che altri voleva spogliare. Infatti il figlio, fondando la propria casa, fondava anche quella degli antenati di cui faceva rivivere il nome. Se la sua famiglia andava in rovina trascinava con sé gli antenati come i discendenti. Ma per quanto grande fosse la devozione degli Egizi per i loro defunti, essa non bastava a mantenere la folla di coloro che riposavano nelle necropoli. Nessuna minaccia, nessuna maledizione poteva costringere un singolo a fare per gli antenati più remoti quello che faceva per i genitori o i nonni. Un giorno o l’altro sarebbe successo quello che prevedeva l’arpista e che un saggio dei tempi antichi aveva annunciato: «Coloro che hanno costruito laggiù con del granito, che hanno costruito una sala in una piramide... le loro tavole per le offerte sono vuote quanto quelle dei miserabili che muoiono sulla paglia senza lasciare eredi». 53 Allora la necropoli tendeva a diventare il luogo di ritrovo dei curiosi che passavano davanti alle tombe leggendone le iscrizioni con indifferenza. Alcuni di essi provavano il bisogno, come i turisti moderni, di lasciare una traccia del loro passaggio precisando però di avere intenzioni devote. Gli scribi tale e talaltro erano andati a far visita alla tomba di Antefoker e avevano pregato a lungo. Altri si dicevano lieti di constatare che la tomba era in buono stato: «Essi hanno riscontrato che il suo interno è come il cielo». Uno scriba dalle dita abili, che non aveva eguali in tutta la città di Menfi, diceva modestamente un certo Amenemhat, aveva visitato il monumento funerario del vecchio re Giusir. Si meravigliava di avervi letto scritte mediocri e timorose il cui autore avrebbe potuto essere una donna priva d’intelligenza più che uno scriba ispirato da Thoth. Precisiamo subito che non criticava le scritte originarie mirabilmente eseguite da artisti che erano anche dei dotti ma i graffiti tracciati ai suoi tempi, senz’arte alcuna, da qualche visitatore ignorante o frettoloso. Sotto Ramses II lo scriba del tesoro Hadnakhti andò a fare

un’escursione e si divertì a occidente di Menfi con suo fratello Panekhti, lo scriba del visir. «Oh, tutti gli dèi a occidente di Menfi e tutti gli dèi che regnano sulla terra sacra, Osiride, Iside e voi grandi spiriti che state a occidente di Onkhtaui datemi un tempo di vita lungo abbastanza per servire il vostro ka. Possa io ricevere una ricca sepoltura dopo una bella vecchiaia, in modo da contemplare l’occidente di Menfi come uno scriba molto onorato e come voi stessi.» «L’eroe di un romanzo composto in età recente ma attribuito all’età di Ramses, Nenoferkaptah, sembrava stare su questa terra solo per passeggiare nella necropoli di Menfi recitando le scritte delle tombe dei Faraoni e le stele degli scribi della casa di vita e anche le scritte che vi erano vergate e a cui si interessava eccessivamente.» 54 Questo Nenoferkaptah aveva un rivale, dotto quanto lui e quanto lui curioso di antichità, SetnaKhamuas, figlio di Usirmarê, cioè di Ramses II, che aveva scoperto a Menfi, sotto la testa di una mummia, le formule magiche contenute nel papiro 3248 del Louvre. 55 Un’iscrizione scoperta di recente sul lato meridionale della piramide di Unuas a Saqqarah ci informa che Ramses II aveva affidato al figlio reale Khamuasit, gran sacerdote di On, il compito di riaffermare il nome del re del sud e del nord Unas che non si trovava più sulla sua piramide perché il figlio reale Khamuasit amava molto restaurare i monumenti dei re del sud e del nord minacciati dalla rovina. 56 Chissà se quel saggio precursore di Mariette e degli studiosi addetti al Servizio delle Antichità egizie sospettò mai che dopo secoli di oblio i discendenti dei Barbari «che non conoscevano l’Egitto» avrebbero esplorato a loro volta le necropoli del sud e del nord per far rivivere il nome dei suoi antenati e dei suoi contemporanei e per conoscerli meglio? Speriamo che coloro che hanno avuto la pazienza di leggerci interamente si facciano del modo di vivere degli Egizi un’idea tutto sommato favorevole. Il popolo egizio non è stato, come pensava Renan, un gregge di schiavi guidato da un Faraone impassibile e da sacerdoti avidi e fanatici. Certamente il numero dei diseredati, sotto i Ramessidi, era molto elevato. Si abusava certamente del bastone. Ma il Faraone e i suoi funzionari spesso ci appaiono come dei padroni tutto sommato umani. La religione rappresentava una consolazione e ritengo comunque che nella vita del popolo minuto i momenti buoni superassero quelli cattivi. 1. Massime di Ptah-hotep, prologo. Sinuhit B, 168-170. 2. Lefebvre, Grands prêtres d’Amon, 148.

3. Maspero, Contes populaires, III ed., 30-34. 4. Sinuhit B, 295-310. 5. Kuentz, Deux versions d’un panégyrique royal. Studies presented to F.Ll. Griffith, 39-110. 6. Pap. moral. de Boulag, III, 16. 7. Stele 1027 del Br. Mus. (Maspero, Études égyptiennes, t. 187-188). 8. Erman, La religion des Égyptiens, 277. 9. Papiro ieratico 1116 A, del museo dell’Ermitage, I, 52-57. 10. Maspero, Contes populaires, III ed., 133-138. 11. AZ, XLVII, 165. 12. De Buck, The egyptian coffin texts, 1 e 13. 13. Coffin texts, I, 146 (cap. 37). 14. Coffin texts, I, 151 (cap. 37). 15. Bibl. æg., VII, 38. 16. V. Loret. «Pour transformer un viellard en jeune homme», in Mélanges Maspero, 853 ss. 17. Erman, Religion égyptienne, 262. 18. Si vedano le due statue di Pa-Ramses trovate a Karnak da Legrain, in Ann. S.A.E., XIV, 29-40. 19. Gauthier, Livre des rois, III, 318. 20. Lefebvre, Grands prêtres d’Amon, 133-134. 21. Hammamat, 12; Lefebvre, op. cit., 264. 22. Erman, Réligion égyptienne, 101. 23. Si veda la lettera di Osiride a Ra in Pap. Chester Beatty I, tav. XV. 24. Anna, che visse sotto i primi Thutmose, racconta di avere diretto l’allestimento della tomba reale in solitudine, senza essere né visto né sentito (Urk., IV, 57). 25. Si veda l’illustrazione pubblicata da Maspero, Histoire, cit., II, 516, sulla base della stele del N.E. al museo del Cairo. 26. Per maggiori particolari, si veda l’introduzione di Th. T.S., t. 1. 27. Davies, Neferhotep, 27; Wr. Atl., I, 124. 28. Speleers, «Les figurines funéraires égyptiennes», Bruxelles 1923, in Kêmi, IX, 82-83. 29. Kêmi, IX, 78-79. 30. Secondo quello che ho constatato nella tomba di Psusennes. Montet, Tanis, 145, 157. 31. Secondo l’iscrizione dei contratti di Siut, Kêmi, III, 52-69. 32. Si veda la storia di un tempio funerario in Robichon e Varille, Le temple du scribe royal Ammenhotep fils de Hapou, Le Caire 1936. 33. Pap. d’Orbiney, VIII, 6-7 e il Commentario di V. Loret in Kêmi, XI, 105-106; cfr. Diodoro, I, 72. 34. Erodoto, II, 86; Diodoro, I, 91; Lucas, Ancient egyptian materials and industries, II ed., cap.

VIII. 35. La maschera d’oro di Sheshanq è una notevole opera d’arte, Kêmi, XI, tavv. 14-15. 36. Kêmi, IX, 62-64 e tav. XIII. 37. Maspero, «Étude sur quelques peintures et sur quelques textes relatifs aux funérailles», Études égyptiennes, I, 81-194. 38. Ibid., 134. 39. Maspero, Histoire, II, 512-513; Wr. Atl., I, 388-421. 40. Davies, Neferhotep, 22-33; Mem. Tyt., IV, 19, 24, 25. 41. Davies, Neferhotep, 20-21; Mem. Tyt., IV, 22. 42. Davies, Neferhotep, 24; Mem. Tyt., IV, 19, 21; Wr. Atl., I, 131, 166, 217. 43. Davies, Neferhotep, 25-26. 44. J.-G. Fraser, Atys et Osiris, Paris 1926, 112-113; Kêmi, IV, 161-168. 45. Maspero, Histoire, II, 523. Le scene di banchetto sono frequenti nelle tombe tebane. ma bisogna distinguere quelle che rappresentano il banchetto successivo alla sepoltura da quelle che riproducono una festa in famiglia. Su questo tema, si veda Gardiner, in Th. T.S., I, 36-41. 46. Varille, «Trois nouveaux chants de harpistes», in Bull. I. F. A.O., XXXV, 155-157. 47. Maspero, Études égyptiennes, I, 172-177. 48. Erodoto, II, 87-88; Erman, La religion des Égyptiens, 316-317; Maspero, Histoire, II, 525-526. 49. Robichon e Varille, Amenhotep fils de Hapou, 4-7. 50. Già all’epoca delle piramidi, il re temeva l’ira dei morti (pir. 63). Questa convinzione sopravviveva ancora nel Nuovo Impero: papiro ieratico di Torino, 124, 13; Libro dei morti, cap. 92. 51. Erman, Zaubersprüche für Mutter und Kind, I, 9, 2, 6. Un’altra formula dello stesso genere si trova in Ibid., II, 7, 12, 3. 52. Pap. 371 di Leida in Gardiner e Sethe, Egyptian letters to the dead. 53. Erman, Gespräch eines Lebensmüden mil seiner Seele, 60 ss. 54. Alan H. Gardiner, «The house of Life», J.E.A., XXIV, 175. 55. Maspero, Contes populaires, III ed., 102, nota 2. 56. Drioton e Lauer, «Une inscription de Khamouas sur la face sud de la pyramide d’Ounas à Saqqarah», Ann. S.A.E., XXXVII, 210 ss.

Abbreviazioni principali

Ann. S.A.E.: Annales du Service des Antiquités de l’Égypte, 39 voll., Le Caire 1900-1939. AZ: Zeitschrift für Ägyptische Sprache und Altertumskunde, 80 voll., Leipzig 1863-1940. Bull. I.F.A.O.: Bulletin de l’Institut français d’Archéologie orientale du Caire, 38 voll., Le Caire a partire dal 1901. Bibl. aeg.: Bibliotheca aegyptiaca, Bruxelles, a partire dal 1931, che contiene in particolare: I. Alan H. Gardiner, Late-Egyptian Stories. V. V.-W. Erichsen, Papyrus Harris I. VII. Alan H. Gardiner, Late-Egyptian Miscellanies. Caire, Cat. gén.: Catalogue général des antiquités égyptiennes du musée du Caire. J.E.A.: Journal of Egyptian Archaeology, London (Exploration Society) a partire dal 1914. Kêmi: Kêmi, Revue de philologie et d’archéologie égyptienne et coptes, 9 voll., Paris 1928-1942. Mem. Tyt.: Robb de Peyster Tytus Memorial Series (New York, a partire dal 1917). Contiene: I. N. de Garis-Davies, The tomb of Nakht at Thebes, 1917. II. III. N. de Garis-Davies, The Tomb of Puyemrê at Thebes, 2 voll., 1922-1923. IV. N. de Garis-Davies, The Tomb of Two Sculptors at Thebes, 1927. V. N. de Garis-Davies, Two Ramesside Tombs at Thebes, 1927. Med. Habu: Oriental Institute of Chicago, Medinet-Habu: I. Earlier Historical Records of Ramses III, by the epigraphic survey. II. Later Historical Records of Ramses III, by the epigraphical survey. III. The Calendar, the Slaughterhouse and Minor Records of Ramses III, by the epigraphic survey. Oriental Institute publications, J.-H. Breasted ed. Miss, fr.: Mémoires publiés par les membres de la missione

archéologique française au Caire, 18 voll., 1884-1896, in particolare, tomo V (varie tombe tebane fra cui ricordiamo Rekhmara studiata da Bénédite, Maspero e Scheil) e XVIII, Boussac, Le tombeau d’Anna. Topographical Bibliography: Topographical Bibliography of Ancient Egyptian Hieroglyphic Texts, Reliefs and Paintings, by Bertha Porter and Rosalind Moss, 5 voll., Oxford 1927-1937. Th. T.S.: The Theban Tomb Series, edited by N. de Garis-Davies e Alan H. Gardiner, 5 voll., 1915-1932. Contiene: I. The Tomb of Amenemhet (n. 82). II. The Tomb of Antefoker, Vizier of Sesostris I, and of His Wife Senet. III. The Tombs of Two Officials of Thutmosis the Fourth (nn. 75 e 90). IV. The Tomb of Huy, Viceroy of Nubia in the Reign of Tutankhamun (n. 40). V. The Tomb of Menkheperrasonb, Amenmose and Another (nn. 86, 112, 42 e 226). Urk.: Urkunden des ægyptischen Altertums, in Verbindung mit K. Sethe und H. Schäfer herausgegeben von G. Steindorff: I. Urkunden des alten Reiches (4 fasc.), Leipzig a partire dal 1902. II. Hieroglyphische Urkunden der griechisch-römischen Zeit (3 fasc.). III. Urkunden des älteren Aethiopenkönige (2 fasc.). IV. Urkunden der 18. Dynastie (16 fasc.). Wr. Atl.: Wreszinski, Atlas zur Altægyptische Kulturgeschichte, 2 Teile, Leipzig a partire dal 1913.

Bibliografia

Il lettore troverà nella bibliografia che segue i titoli delle opere alle quali attualmente può fare riferimento per conoscere i risultati più recenti della ricerca egittologica. A parte abbiamo indicato gli studi sugli aspetti della vita quotidiana e le ricerche storiche sull’epoca dei Ramessidi. Segue un elenco di riferimenti a traduzioni di testi egizi, profani e religiosi, spesso citati da Pierre Montet e per i quali disponiamo di una traduzione recente. La maggior parte delle opere citate in questa bibliografia a loro volta contengono bibliografie assai complete che ci è parso inutile ripetere. Sulla civiltà e la storia dell’Egitto dei Faraoni: Andreu, Guillemette, Images de la vie quotidienne en Égypte au temps des pharaons, Hachette, Paris 1992 (trad. it. Sulle rive del Nilo. L’Egitto al tempo dei faraoni, Laterza, Roma-Bari 2000). Arnold, Dieter, Building in Egypt, Oxford University Press, OxfordNew York 1991. Assmann, Jan, Maât, L’Égypte pharaonique et l’idée de justice sociale, Julliard, Paris 1989. Baines, John e Jaromir Malek, Atlas de l’Égypte ancienne, Nathan, Paris 1981 (trad. it. L’atlante dell’antico Egitto, De Agostini, Novara 1992). Bonhême, Marie-Ange e Annie Forgeau, Pharaon. Les secrets d’un pouvoir, Colin, Paris 1988. Cenival, Jean-Louis de, Le Livre pour sortir le jour. Le Livre des morts des anciens Égyptiens, Musée d’Aquitaine, Bordeaux 1992. Daumas, François, La civilisation de l’Égypte ancienne, Arthaud, Paris 1967. Derchain, Philippe, numerosi articoli sull’antico Egitto in Dictionnaire des mythologies et des religions des societes traditionnelles et du monde antique, a cura di Yves Bonnefoy, Flammarion, Paris 1981 (trad. it. Dizionario delle mitologie e delle religioni, Rizzoli, Milano 1989).

Donadoni Roveri, Anna Maria (a cura di), Civiltà degli Egizi: la vita quotidiana. Museo Egizio di Torino, Electa, Milano 1987. Donadoni, Sergio (a cura di), L’uomo egiziano, Laterza, Roma-Bari 1990. Dunand, Françoise e Roger Lichtenberg, Les momies. Un voyage dans l’éternité, Gallimard, Paris 1991 (trad. it Le mummie, Electa-Gallimard, Milano 1997). Dunand, Françoise e Christiane Zivie-Coche, Dieux et Hommes en Égypte, Colin, Paris 1991. Eggebrecht, Arne et al., L’Égypte ancienne, Bordas, Paris 1986. Erman, Adolf e Herman Ranke, La civilisation égyptienne, Payot, Paris 1963. Fischer, Henry George, L’écriture et l’art de l’Égypte ancienne, Paris 1986. Franco, Isabel, Rites et croyances d’éternité, Pygmalion, Paris 1993. —, Petit dictionnaire de mythologie égyptienne, Entente, Paris 1993. Gardiner, Alan H., Egypt of the Pharaoh. An Introduction, Oxford 1961. Golvin, Jean-Claude e Jean-Claude Goyon, Les bâtisseurs de Karnak, C.N.R.S., Paris 1987. —, e Sydney Aufrère, L’Égypte restituée, 2 voll., Errance, Paris 1991, 1994. Grimal, Nicolas, L’Histoire de l’Égypte ancienne, Fayard, Paris 1988. Harris, John (a cura di), The Legacy of Egypt, II ed., London 1971. Helck, Wolfgang, Eberhard Otto e Wolfhart Westendorf (a cura di), Lexikon der Ägyptologie, 7 voll., Wiesbaden, 1975-1992. Helck, Wolfgang, Zur Verwaltung des Mittleren und Neuen Reichs, Leiden 1958. Histoire des Religions. 1. Religions antiques, religions de salut, Encyclopédie de la Pléiade, Paris 1970. Histoire universelle. 1. Des origines à l’Islam, Encyclopédie de la Pléiade, Paris 1956. Hornung, Erik, Les Dieux de l’Égypte. Le Un et le Multiple, Rocher, Paris 1986 (trad. it. Gli dei dell’antico Egitto, Salerno editrice, Roma 1992). Husson, Geneviève e Dominique Valbelle, L’État et les Institutions en

Égypte des premiers pharaons aux empereurs romains, Colin, Paris 1992. Leclant, Jean et al., Les Pharaons, L’Univers des Formes, 3 voll., Gallimard, Paris 1978-1980 (trad. it. I faraoni, Rizzoli, Milano 19841991). Meeks, Dimitri e Christine Favard-Meeks, La vie quotidienne des dieux égyptiens, Le Grand livre du mois, Paris 1993 (trad. it. La vita quotidiana degli egizi e dei loro dèi, BUR Rizzoli, Milano 2018). Posener, Georges in collaborazione con Serge Sauneron e Jean Yoyotte, Dictionnaire de la civilisation égyptienne, Hazan, Paris 1959 (trad. it. Dizionario della civiltà egizia, il Saggiatore, Milano 1961). Sauneron, Serge, Nous partons pour l’Égypte, Paris, ristampa 1980. — e Jean Yoyotte, La Naissance du monde, Seuil, Paris 1959, pp. 1991. Traunecker, Claude, Les Dieux de l’Égypte, Puf, Paris 1991. Trigger, Bruce G. et al., Ancient Egypt: A Social History, Cambridge 1983 (trad. it. Storia sociale dell’antico Egitto, Laterza, Roma-Bari 1989). Valbelle, Dominique, «L’Égypte pharaonique», in Naissance des Cités (in collaborazione con Jean-Louis Huot e Jean-Paul Thalmann), Nathan, Paris 1990, pp. 257-290. —, L’égyptologie, Puf, Paris 1991. —, La vie dans l’Égypte ancienne, Puf, Paris 1968 (trad. it. La vita nell’antico Egitto, Xenia, Milano 1999). Van der Boom, G.P.F., The Duties of the Vizier, Kegan Paul International, London-New York 1988. Vandier, Jacques, Manuel d’archéologie égyptienne, 6 voll., Picard, Paris 1952-1969. Vercoutter, Jean, L’Égypte ancienne, Puf, Paris 1982 (trad. it. L’antico Egitto, De Agostini, Novara 2005). Vernus, Pascal e Jean Yoyotte, Les Pharaons, MA éditions, Paris 1988. Yoyotte, Jean, «La pensée préphilosophique en Égypte», in Histoire de la Philosophie I, Encyclopédie de la Plèiade, Paris 1969, pp. 1-23. —, Le jugement des morts, Sources Orientales 4, Seuil, Paris 1961, pp. 17-80. —, Les pèlerinages, Sources Orientales 3, Seuil, Paris 1960, pp. 17-74.

Sull’arte egizia: Aldred, Cyril, Le Trésor des Pharaons, Paris 1979 (trad. it. I gioielli dei faraoni, Tecniche nuove, Milano 1979); —, Egyptian Art, London 1980 (trad. it. Arte egizia, CDE, Milano 1989) —, Arte dell’antico Egitto, Rizzoli-Skira, Milano-Genève 2002. Bonhême, Marie-Ange, L’art égyptien, Puf, Paris 1992. Cenival, Jean-Louis de e Henri Stierlin, Égypte, architecture universelle, Office du Livre, Friburgo 1964; —, Architettura egiziana. Epoca faraonica, Il Parnaso, Milano 1964. Donadoni, Sergio, Arte egizia, Einaudi, Torino, 1982. James, Thomas G.H., Egyptian Painting, British Museum, London 1985. —, e William V. Davies, Egyptian Sculpture, British Museum, London 1983. Lalouette, Claire, L’art et la vie dans l’Égypte pharaonique, Fayard, Paris 1992. Lange, Kurt et al., L’Egitto, Sansoni, Firenze, 1957. Lhôte, André, Les chefs-d’œuvre de la peinture égyptienne, Hachette, Paris 1954. Manniche, Lise, L’art égyptien, Flammarion, Paris 1994. Mekhitarian, Arpag, La peinture thébaine, Ginevra 1954. Michalowski, Kazimierz, L’art de l’Égypte, ed. riveduta da J.-P. Corteggiani e A. Roccati, Mazenod, Paris 1994 (trad. it. L’arte dell’antico Egitto, Garzanti, Milano 1994). Robins, Gay, Egyptian Painting and Relief, Shire Égyptology 3, Aylesbury 1986. Saleh, Mohamed e Hourig Sourouzian, Catalogue officiel du musée du Caire, Philip von Zabern, Mainz 1987. Schäfer, Heinrich, Principles of Egyptian Art, trad. ingl. dal tedesco a cura di J. Baines, Oxford 1974. Stevenson Smith, William, The Art and Architecture of Ancient Egypt, II ed. Penguin Books, London 1981. Stierlin, Henri, Trésors de l’art en Égypte, Bibliothèque des arts, Paris 1994.

Vandersleyen, Claude, Der alte Ägypten, Propyläen Kungtsgeschichte 18, Berlin 1975. Yoyotte, Jean, Trésors des Pharaons, Skira, Paris 1968. Ziegler, Christiane, Histoire de l’art. Naissance de l’art. De la Préhistoire à l’art romain (a cura di A. Chatelet e B.-P. Groslier), Larousse, Paris 1988. —, Le Louvre. Les antiquités égyptiennes, Scala, Paris 1990. Sulla vita quotidiana: Andreu, Guillemette, L’Égypte au temps des pyramides, Hachette, Paris 1994. —, Patricia Rigault e Claude Traunecker, L’ABCdaire de l’Égypte ancienne, Flammarion, Paris 1999 (trad. it. Piccola enciclopedia dell’antico Egitto, Rizzoli, Milano 2002). Altenmüller, Hartwig, Jagd im Alten Ägypten, Verlag Paul Parey, Hamburg-Berlin 1967. Andrews, Carol, Ancient Egyptian Jewellery, The British Museum Publications, London 1990. Brewer, Douglas J. e René Friedman, Fish and Fishing in Ancient Egypt, Warminster 1989. Brunner, Hellmut, «L’éducation en ancienne Égypte», in Histoire mondiale de l’éducation, I, Puf, Paris 1981, pp. 65-86. Brunner-Traut, Emma, Der Tanz im alten Ägypten, GlückstadtHamburg-New York 1958. Cerny, Jaroslav, Paper and Books in Ancient Egypt, Lewis & Co., London 1952. Couchoud, Sylvia, Mathématiques égyptiennes, Le Léopard d’or, Paris 1993. Curto, Silvio, Medicina e medici nell’Antico Egitto, Fratelli Pozzo, Torino 1972. Darby, William J., Paul Ghalioungui e Louis Grivetti, Food: The Gift of Osiris, 2 voll., Academic Press, London-New York-San Francisco 1977. Decker, Wolfgang, Sports and Games of Ancient Egypt, The American University of Cairo Press, Cairo 1993.

Desroches Noblecourt, Christiane, La femme au temps des Pharaons, Stock-Laurence Pernoud, Paris 1986. Fischer, Henry George, L’écriture et l’art de l’Égypte ancienne, Puf, Paris 1986. Ghalioungui, Paul, The Physicians of Pharaonic Egypt, Al-Ahram Center for Scientific Translations, Cairo 1983. Gillings, Richard J., Mathematics in the Time of the Pharaohs, The MIT Press, Cambridge, Ma.-London 1972. Hall, Rosalind, Egyptian Textiles, Shire Egyptology 4, Aylesbury 1986. Hope, Colin, Egyptan Pottery, Shire Egyptology 5, Aylesbury 1987. Houlihan, Patrick F., The Birds of Ancient Egypt, The Natural History of Egypt, vol. 1, The American University Press, Cairo 1988. James, T.G.H., Pharaoh’s People, Scenes from Life in Imperial Egypt, The Bodley Head, London 1984. Janssen, Rosalind e Jack Janssen, Egyptian Household Animals, Shire Egyptology 12, Aylesbury 1989. Janssen, Rosalind e Jack Janssen, Growing up in Ancient Egypt, The Rubican Press, London 1990. Jouer dans l’antiquité, catalogo della mostra, Musée d’archéologie méditerranéenne, Centre de la Vieille Charité, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1991. Killen, Geoffrey P., Ancient Egyptian Furniture, vol. 1, Aris and Phillips, Warminster 1980. Parker, Richard, The Calendars of Ancient Egypt, University of Chicago Press, Chicago 1950. Robins, Gay, Women in Ancient Egypt, British Museum Press, London 1993. Scheel, Bernd, Egyptian Metalworking and Tools, Shire Egyptology 13, Aylesbury 1989. Stead, Miriam, Egyptian Life, British Museum Publications, London 1986. Strouhal, Eugen, Vivre au temps des Pharaons, Atlas, Paris 1992 (trad. it. Vivere al tempo dei faraoni, De Agostini, Novara 1993). Uphill, Eric, Egyptian Towns and Cities, Shire Egyptology 8, Aylesbury 1988.

Valbelle, Dominique, La vie dans l’Égypte ancienne, Puf, Paris 1988 (trad. it. La vita nell’antico Egitto, Xenia, Milano 1999). Vandier d’Abbadie, Jeanne, Catalogue des objets de toilette égyptiens, Musée du Louvre, Paris 1972. Wilson, Hilary, Egyptian Food and Drinks, Shire Egyptology 9, Aylesbury 1988. Ziegler, Christiane, Le mastaba d’Akhethetep, une chapelle funéraire de l’Ancient Empire, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1993. —, Les instruments de musique égyptiens au musée du Louvre, Éditions de la Réunion des musées nationaux, Paris 1979. Sull’epoca dei Ramessidi: Bierbrier, Morris, The Late New Kingdom in Egypt. A Genealogical and Chronological Investigation, Aris and Phillips, Warminster 1975. —, The Tomb-Builders of the Pharaohs, British Museum Publications, London 1982. Grandet, Pierre, Ramsès III, Histoire d’un règne, Pygmalion, Paris 1993. Kitchen, Kenneth, Ramsès II, le pharaon triomphant, sa vie, son temps, Rocher, Monaco 1985. Lalouette, Claire, L’empire des Ramsès, Fayard, Paris 1985 (trad. it. L’Impero dei Ramses, Newton Compton, Roma 1998). —, Thèbes ou la naissance d’un empire, Fayard, Paris 1986. Ramsès le Grand, Catalogo della mostra, Galeries nationales du Grand Palais, Paris 1976. Valbelle, Dominique, Les ouvriers de la Tombe. Deir-el-Medineh à l’époque ramesside, Institut Francais d’Archeologie Orientale du Caire, Le Caire 1985. Vemus, Pascal, Affaires et scandales sous les Ramsès, Pygmalion, Paris 1993. Raccolte di testi in traduzione: Barucq, André e François Daumas, Hymnes et Prières de l’Égypte

ancienne, Éditions du Cerf, Paris 1980. Barguet, Paul, Le Livre des Morts des anciens Égyptiens, Éditions du Cerf, Paris 1967. Breasted, James Henry, Ancient Records of Egypt, 5 voll., ristampa Histories and Mysteries of Man, London 1988. Caminos, Ricardo, Late-Egyptian Miscellanies, Oxford University Press, London 1954. Erman, Adolf, The Ancient Egyptians. A Sourcebook of Their Writings, Harper & Row, New York 1966. Goyon, Jean-Claude, Rituels funéraires de l’Égypte ancienne, Éditions du Cerf, Paris 1972. Lalouette, Claire, Textes sacrés et textes profanes de l’ancienne Égypte. I: Des Pharaons et des hommes. II: Mythes, contes et poésie, Gallimard, Paris 1984-1987. Lefebvre, Gustave, Romans et contes égyptiens de l’époque pharaonique, Maisonneuve, Paris 1949. Lichtheim, Miriam, Ancient Egyptian Literature. A Book of Readings, 3 voll., University of California Press, Berkeley 1975-1980. Schott, Siegfried, Les chants d’amour de l’Égypte ancienne, Maisonneuve, Paris 1956. Simpson, William Kelly, The Literature of Ancient Egypt, Yale University Press, New Haven-London 1973. Vernus, Pascal, Chants d’amour de l’Égypte antique, La salamandre, Paris 1992. Wente, Edward, Letters from Ancient Egypt, Scholars Press, Atlanta 1990. Wilson, John, Egyptian Texts in Ancient Near-Eastern Texts related to the Old Testament, James Pritchard, Princeton 1950. Fra gli autori classici si possono leggere: Diodoro, Biblioteca storica, libro I. Erodoto, Storie, libro II. Giovenale, Satira XV. Plutarco, Iside e Osiride. Strabone, Geografia, libro XVII.

Aggiornamento bibliografico Aa.Vv., Museo Egizio, (catalogo ufficiale del Museo Egizio di Torino), Franco Cosimo Panini, Modena 2015. Bresciani, Edda, Letteratura e poesia nell’antico Egitto, Einaudi. Torino 2007. Cimmino, Franco, Vita quotidiana dell’Egitto, Bompiani, Milano 2001. Cortese, Valeria e M. Cristina Guidotti, Antico Egitto. Arte, storia, società, Giunti, Firenze 2017. Germond, Philippe, Il mondo simbolico degli amuleti egizi, Five Continents, Milano 2005. Hagen, Rose-Marie e Rainer Hagen, Egypt: People, Gods, Pharaohs, Taschen, Koln 2016 (trad. it Egitto. Popolo, divinità, faraoni, Taschen, Koln 2016). Hawass, Zahi, Nel regno dei Faraoni, White Star, Milano 2006. Malek, Jaromir, Egypt. 4000 Years of Art, Phaidon, London 2003 (trad. it. Egitto. 4000 anni di arte, Phaidon, London 2003). Piacentini, Patrizia, Lo stato faraonico, Electa, Milano 1998. Russo Pavan, Ada, La via di Iside. Dee e donne nell’antico Egitto, Sassoscritto, Firenze 2008. Tiradritti, Francesco, Pittura egizia, L’arsenale, Venezia 2008. Wilson, Hilary, Understanding Hieroglyphs, Passport Books, 1993 (trad. it. I segreti dei geroglifici, Newton & Compton, Roma 1998).

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.bur.eu La vita quotidiana in Egitto ai tempi di Ramses di Pierre Montet © 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano Pubblicato per BUR Rizzoli da Mondadori Libri S.p.A. Proprietà letteraria riservata © 1946 Hachette Littératures © 1999-2017 Rizzoli Libri S.p.A., Milano © 2018 Mondadori Libri S.p.A., Milano Titolo originale: La vie quotidienne en Égypte au temps des Ramsès: XIII e-XII e siècles avant Jésus-Christ Traduzione di Maria Grazia Meriggi Edizione speciale su licenza di Mondadori Libri S.p.A. / Rizzoli per Corriere della Sera © 2018 RCS MediaGroup S.p.A.Ebook ISBN 9788858695500 COPERTINA || ILLUSTRAZIONE: © ROBERT W. NICHOLSON / NATIONAL GEOGRAPHIC / GETTY IMAGES | ART DIRECTOR: FRANCESCA LEONESCHI | PROGETTO GRAFICO: EMILIO IGNOZZA / | THEWORLDOFDOT

.

Frontespizio Il libro L’autore Cronologia Prefazione. di Jean Yoyotte Introduzione I. L’abitazione II. Il tempo III. La famiglia IV. Le occupazioni domestiche V. La vita in campagna VI. Le arti e i mestieri VII. I viaggi VIII. Il faraone IX. L’esercito e la guerra X. Gli scribi e i giudici XI. L’attività nei templi XII. I funerali Abbreviazioni principali Bibliografia

5 3 4 7 8 11 18 38 51 74 104 132 163 183 210 236 257 281 309 311