Introduzione a Fenoglio
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GLI SCRITTORI Introduzione

a

FENOGLIO di Francesco

De Nicola

Editori Laterza

© 1989, Gius. Laterza & Figli Prima edizione

1989

POTETE

INTRODUZIONE

A

FENOGLIO FRANCESCO

EDITORI

DE NICOLA

LATERZA

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari

Finito di stampare nel gennaio 1989 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari

CL 20-3325-9 ISBN 88-420-3325-1

BEPPE FENOGLIO

AVVERTENZA Nelle citazioni ci si richiama alle più recenti edizioni e ristampe in commercio pubblicate da Einaudi delle opere di Fenoglio e cioè: I ventitre giorni della città di Alba (1986), La malora (1986), Primavera di bellezza (1985), Una questione privata (1986), Il parti giano Johnny (1982), La paga del sabato (1981), Un Fenoglio alla prima guerra mondiale (1973), La voce nella tempesta (1974), Opere (1978), L'affare dell'anima (1980) e Un giorno di fuoco (1988).

Per le traduzioni si cita da S.T. Coleridge, La ballata del vecchio marinaio (1966) e K. Grahame, Il vento nei salici (1982).

I.

LA

MASCHERA

E LO

SCRITTORE

Alla vigilia della pubblicazione del Partigiano Jobnny (estate 1968) e ormai a cinque anni dalla morte di Feno-

glio, Italo Calvino tracciava un ritratto dello scrittore piemontese perfettamente coerente con la sua più diffusa immagine: Beppe Fenoglio riuscì a essere un uomo appartato e silenzioso in un’epoca in cui gli scrittori cadono facilmente nella trappola di credersi personaggi pubblici. Seppe così bene difendersi, che oggi di lui uomo non ci resta che una immagine dai tratti risentiti e alteri, ma in fondo solo una maschera dietro alla quale si cela qualcuno che continua a restarci sconosciuto.

Calvino, che pure con Fenoglio aveva intrattenuto costanti e cordiali rapporti di collaborazione dal 1950 fino ai suoi ultimi giorni (testimoniati da alcune decine di lettere conservate presso l’archivio Einaudi a Torino), ammetteva dunque, con evidente rammarico, che il vero volto dell’uomo Fenoglio rimaneva ancora sconosciuto, con ciò implicitamente tenendo nascosti anche i tratti compiuti dello scrittore. In realtà, le note biografiche su Fenoglio erano scarne ed elusive, ma proprio l’inconsueta assenza

di dati rilevanti e i rapidi accenni ad una vita tranquilla ed appartata, trascorsa quasi per intero nella provincia pie3

montese e segnata da esperienze piuttosto comuni per gli

uomini della sua generazione, erano di fatto gli elementi che avevano determinato un'immagine di lui invero singolare e controcorrente, in un ambiente letterario italiano segnato da protagonisti o da scrittori che spesso vantavano

trascorsi umani e culturali straordinari. E tuttavia una verifica dei rari dati biografici ufficiali di Fenoglio porta sorprendentemente all’accertamento della loro frequente inesattezza: lo scrittore, ad esempio, non era « dirigente d’industria », come si leggeva sulla copertina di Primavera di bellezza, né il servizio militare e la lotta partigiana gli avevano imposto « lunghe assenze » da Alba, come si leggeva sulla copertina di Un giorno di fuoco, né ancor meno egli eta stato « soldato dal ’41 al ’43, poi partigiano fino al °45 », come aveva scritto Vittorini nel suo risvolto per La malora.

Questi (ed altri) « ritocchi » apportati sui dati reali della biografia di Fenoglio miravano evidentemente a sottolineare il carattere singolare dello scrittore di Alba e in particolare a mettere in risalto la sua ‘irregolarità’ rispetto all'ambiente letterario italiano, con ciò implicitamente favorendo e motivando con spunti legati alla sua biografia, scarna ma eloquente, un generico orientamento critico suggestionato da probabili schemi di una narrativa un po’ zaif, o « barbara » (per usare una definizione cata a Vittorini, che della creazione dell'immagine di Fenoglio fu del resto il primo artefice). Il 6 febbraio 1952 Calvino, per conto dell’editore Einaudi che stava per pubblicare il primo libro di Fenoglio, aveva chiesto all’autore alcune notizie biografiche per il risvolto di copertina. Fenoglio aveva risposto telegraficamente: Circa i dati biografici,

è dettaglio che posso

sbrigare in

un baleno. Nato trent’anni fa ad Alba (1° marzo 1922) — dente (Ginnasio-Liceo, indi Università, ma naturalmente

stunon

mi sono laureato) — soldato nel Regio e poi partigiano: oggi, purtroppo, uno dei procuratori di una nota Ditta enologica. Credo che sia tutto qui. Ti basta, no?

4

Poco propenso ad esibirsi (tanto da aver firmato con lo pseudonimo Giovanni Federico Biamonti i dattiloscritti delle sue prime opere inviate in lettura agli editori), Fenoglio si era limitato ad una risposta stringata e veritiera, che poi però Vittorini, direttore della collana « I gettoni » che avrebbe ospitato il libro fenogliano, ridusse ulteriormente, evitando di riportare sia la notizia degli studi universitari interrotti « naturalmente », sia il « purtroppo » anteposto dallo scrittore alla sua qualifica di procuratore in un’azienda vinicola. Con la non insignificante caduta di due avverbi, espressioni di inconfessata insoddisfazione, si inaugurava così la serie delle violazioni e delle manipolazioni della biografia fenogliana, sempre più volta alla rappresentazione di un ‘personaggio’ in grado di incutiosire i lettori e, possibilmente, di catturarne la simpatia, in virtù, soprattutto, della sua estraneità ad un ambiente (quello dei letterati) che nell’opinione pubblica non godeva di considerazioni troppo positive per i diffusi sospetti di intrighi e di giochi di parte, che favorivano affermazioni clamorose di autori dai meriti piuttosto dubbi. In

tale contesto, Fenoglio veniva presentato invece come scrittore appartato, isolato nella sua tranquilla cittadina e attivo al di fuori di ogni suggestione e interferenza; ma neppure questo aspetto della biografia fenogliana era veritiero. Se infatti, per una naturale difficoltà emotiva nei rapporti diretti con persone non familiari, Fenoglio era poco propenso a frequentare nuovi ambienti, egli tuttavia mantenne contatti epistolari tutt'altro che radi con editori, registi, scrittori e critici, e in talune occasioni partecipò ad incontri di letterati (nel dicembre 1953, ad esempio, fu a Roma per il Convegno Nazionale dei Giovani Scrittori e nell’autunno 1962 fu presso Massa al premio Alpi Apuane). Non si trattava certo di un pieno coinvolgimento nella vita

culturale italiana, ma parrebbe comunque improprio ritrarre Fenoglio del tutto isolato da essa e confinato nella sua città di provincia, con ciò implicitamente conferendo alla sua preparazione e al suo aggiornamento caratteri occasio-

nali e di periferia. Peraltro è da sfatare anche la leggenda di un Fenoglio più o meno volontariamente confinato nel D

cuore delle Langhe perché, da brevi accenni di sue lettere e da altri documenti, risulta che egli aveva diverse occasioni per spostarsi: per tre volte almeno fu in Svizzera (1958, 1959 e 1960), quasi regolarmente in estate trascorreva le vacanze sulla riviera ligure di Ponente e, per ragioni di lavoro, andava spesso a Roma (dove frequentava i ministeri per agevolare le pratiche di esportazione dei vini prodotti dalla ditta presso la quale era impiegato), e

non meno spesso circolava per uffici e consolati a Milano e a Torino; e in queste città, quando anche non aveva il tempo per frequentare personaggi dell’ambiente letterario italiano (come si rileva da lettere a Calvino, Gatzanti e Spagnoletti nelle quali si rammaricava per non essere riuscito a vederli pur essendosi trovato appunto a Torino, Milano

e Roma),

Fenoglio

aveva

tuttavia occa-

sione di incontri e di frequentare librerie certo più fornite di quelle della sua cittadina. Solo così, del resto, si può spiegare la sua tempestiva conoscenza di autori e testi che difficilmente potevano raggiungere la provincia e che comunque un ‘isolato ’, quale era dipinto Fenoglio, non avrebbe mai avuto tra le sue letture se non fosse stato in grado di aggiornarsi sistematicamente sulla produzione letteraria (e non solo italiana).

All’immagine di Fenoglio scrittore isolato si accompagnava il suo presunto disinteresse per la critica, a ribadire una posizione di imperturbabile estraneità rispetto all’effimera fama. Neppure questo atteggiamento però, tanto più singolare in tempi nei quali i premi letterari più prestigiosi già accendevano appetiti votaci e dichiarati e quando le buone e possibilmente numerose recensioni segnavano l’ingresso ufficiale nel mondo delle lettere, corrispondeva comunque a verità:

rammaricatosi con Vittorini, in una let-

tera del 6 dicembre 1952, per non aver fatto l’abbonamento all’« Eco della Stampa » per l’uscita del suo primo libro, egli in seguito provvide a procurarsi questo servizio, i cui ritagli sono

conservati nell’archivio dello scrittore, a riprova che, come del resto ogni scrittore, anche Fenoglio seguiva gli atteggiamenti della critica nei confronti

della sua opera con molta attenzione e, tenendo conto di 6

una annotazione segnata sul suo diario dopo la pubblicazione della Malora (« è uscita il 9 di questo agosto. Non ho ancora letto una recensione »), con grande trepidazione. Del resto proprio quella conclamata indifferenza alla critica (in qualche misura avallata dallo stesso Fenoglio con alcune dichiarazioni, come quella del 1960 rilasciata ad Elio Filippo Accrocca per il volume Ritratti su misura di scrittori italiani) determinò un altro luogo comune su Fenoglio, del tutto infondato e tuttavia ancora oggi assai ben radicato: la iniziale scarsa attenzione della critica nei riguardi della sua opera. Ma anche questa affermazione pare difficilmente sostenibile, se si tien conto che sui libri di Fenoglio pubblicati finché egli fu in vita si erano pronunciati

in pratica quasi tutti i più autorevoli

critici italiani, da Bo a De Robertis, da Falqui a Citati, da Piccioni alla Banti, da Pasolini a Montale, da Salinari a Ferretti, i quali, pur in una ampia gradazione di valutazioni,

avevano

dichiarato

un’attenzione

ed un

interesse

comunque costanti e tali da additare tempestivamente l’apparizione di uno scrittore di valore nel panorama natrativo italiano. L’immagine di Fenoglio, tanto accattivante quanto infedele, aveva verosimilmente acquistato nel tempo una sua credibilità, ma proprio la considerazione finale di Calvino — che peraltro seguiva un ritratto disegnato secondo gli schemi convenzionali — indicava che in realtà lo scrittore di Alba era ancora uno sconosciuto, come nascosto dietro una maschera; e sottinteso era l'auspicio che quanto prima questa inascherà, fatta di inesattezze e reticenze, di luoghi comuni e di fraintendimenti, potesse cadere per mostrare finalmente il vero volto di Fenoglio.

La pubblicazione del Partigiano Johnny e poi di altre opere postume seguite da un acceso dibattito su alcuni problemi filologici acuì notevolmente l’interesse pet Fenoglio che, da scrittore reso ‘ personaggio ’ con alcuni interventi suggeriti da normali esigenze di promozione edito‘ riale, si trovò ad essere protagonista di uno dei più clamorosi ‘casi’ letterari della seconda metà del Novecento 7

in Italia. In complesso però la maschera non venne rimossa, sia perché l’immagine dell’uomo continuava a ricalcare le precedenti inesattezze, ora aggravate da testimonianze di amici e parenti ovviamente orientati sul versante

dell’agiografia e comunque spesso imprecisi nel ricordare episodi e situazioni ormai sfumate nel tempo, sia perché talora troppo frettolosamente si sono lette le sue opere in chiave autobiografica attribuendo allo scrittore azioni compiute invece dai suoi personaggi.

Le ormai consolidate inesattezze dei primi risvolti di copertina, le testimonianze imprecise e tendenziose, le stesse interviste rilasciate dall’autore con dichiarazioni palesemente errate e rimaste prive di smentita (sul « Corriere albese » del 12 giugno 1952 lo scrittore aveva ricordato una sua inesistente cattura avvenuta nel marzo 1944

e sul « Giorno » del 19 gennaio 1960 aveva affermato di aver rinunciato all’insegnamento dopo essersi laureato) non rappresentano dunque neppure oggi un corretto punto di partenza per l’individuazione dell’uomo Fenoglio, sicché in questo compito il solo contributo costruttivo può derivare dagli scarsi documenti conservati, dai carteggi e dalle stesse testimonianze sottoposte al vaglio della verifica incrociata. Se quest’ultima strada può essere praticata in termini complessivamente costruttivi, il decisivo contributo offerto dalle lettere di e a Fenoglio è tuttavia per ora ridotto da alcune limitazioni, sia perché sono ancora complessivamente scarse quelle pubblicate (e qui si esprime l’auspicio che i carteggi fenogliani possano essere quanto prima rac-

colti e debitamente resi pubblici), sia perché 'in realtà la massima parte delle lettere è stata sottoposta da parte dei diversi editori ad arbitrarie scelte di passi da render noti e di passi da lasciare in ombra, i primi quasi sempre accolti fuori del loro contesto come pezze d’appoggio nell'ambito delle dispute sui problemi filologici. Naturalmente neppure le lettere consentono di far luce in modo definitivo, non solo perché talune risultano palesemente reticenti su episodi accettabili per altre vie (come la lettera di Fenoglio a Calvino del 29 settembre 1959, nella 8

quale lo scrittore albese cercava di evitare ogni accenno ai suoi recenti rapporti con l’editore Garzanti), ma anche perché talora Fenoglio offriva notizie differenti a differenti corrispondenti su uno stesso argomento e in uno stesso momento. In tal senso il caso più evidente riguarda una lettera del 7 marzo 1960 indirizzata a Gina Lagorio nella quale, a proposito di un suo nuovo romanzo, Fenoglio affermava di trovarsi « appena al tetzo capitolo » su un impianto che ne prevedeva « minimi venti »; il giorno seguente invece, scrivendo all’editore Garzanti sempre a proposito dello stesso lavoro, Fenoglio dichiarava di aver già scritto « circa un terzo del romanzo ». È questo probabilmente un caso limite in un epistolario nel quale Fenoglio — con uno stile spesso burocratico e impersonale, che certo non lascerebbe immaginare un autore invece tanto ostinatamente teso ad un linguaggio ben individuale — appare propenso ad una essenziale e precisa esposizione di fatti e problemi altrimenti non accertabili; ed è per questo che, per ricostruire l’ossatura storica della mia ricognizione sull’opera di Fenoglio, mi servirò spesso dell’ausilio insostituibile offerto dalle lettere (e mi è gradito a tal proposito ringraziare la casa editrice Einaudi che mi ha concesso la consultazione dei suoi archivi). Utili dunque per le notizie sull’uomo, le lettere sono indispensabili anche per seguire gli itinerari dello scrittore; non sempre però gli studiosi hanno cercato in esse risposte precise ai molteplici quesiti sollevati dalla pubblicazione delle opere postume fenogliane, preferendo invece affidarsi ad ipotesi ingegnose e magari anche seducenti, ma talora prive di fondamento reale. Un esempio eloquente in tal senso si lega alla pubblicazione, avvenuta nel 1980 presso la casa editrice torinese Stampatori, del volumetto comprendente il racconto per ragazzi Una crociera agli antipodi attribuito a Fenoglio; Maria Corti però, sistematrice dell’archivio dello scrittore e quindi direttrice dell’edizione critica delle sue Opere, subito avanzava il « fortissimo sospetto » che quel testo fosse in realtà una traduzione; più tardi, in occasione dell’incontro di studio su Fenoglio svoltosi a Lecce nel novembre 1983, tornava sul9

l’argomento per dichiararsi ora convinta che Una crociera agli antipodi fosse una traduzione, e questo sebbene nel frattempo nessuno ne avesse individuato l’eventuale originale inglese e sebbene Simonetta Simonis Clerici, curatrice della collana « Il cerchio » della casa editrice Stampatori, avesse nel frattempo informato che il racconto originariamente faceva parte « di una raccolta di storie per ragazzi richieste a vari narratori italiani da Giovanni Arpino pet conto dell’editore Einaudi e in vista di una progettata e poi non pubblicata antologia ». Ora, di un progetto di racconto marinaro, quale è appunto Una crociera agli antipodi, Fenoglio aveva già parlato sia nel corso di un’intervista di Renzo Massobrio uscita sul numero di gennaio 1959 del mensile albese « Il bandolo », sia in un’altra intervista di Alberto Bevilacqua uscita su « La Fiera Letteraria » dell’8 marzo 1959;

ma sono soprattutto le lettere dell’archivio Einaudi a sciogliere il facile enigma, da quella nella quale lo stesso editore (il 18 dicembre 1959) invitava Fenoglio ad essere presente con un racconto in una nuova iniziativa editoriale rivolta ai giovani con pagine « di scrittori veri non specializzati per ragazzi », a quella (del 24 dicembre) nella quale Fenoglio accettava l’invito, ricordando appunto il suo vecchio progetto di scrivere « una terna di racconti fantastici »; da quella ancora di Fenoglio scritta a Calvino il 1° luglio 1960 nella quale, a proposito della promessa fatta ad Einaudi, ammetteva di non averci ancora lavorato pur avendoci pensato contando « fermamente di mantenere » l'impegno, per finire con quella (del 28 luglio 1961) inviata dalla casa editrice Einaudi in accompagnamento di un assegno di L. 50.000 come compenso

« per il racconto

da includere nell’Antologia di racconti per bambini che sta curando Arpino ». A meno che non si voglia sostenere che Fenoglio abbia fatto passare per un proprio racconto una sua traduzione, i documenti dell’archivio Einaudi consentono di confermare la paternità fenogliana del racconto Una crociera agli antipodi e di stabilirne con sufficiente precisione la datazione tra il luglio 1960 e il luglio 1961, con ciò smentendo inoltre l’affermazione di un altro esperto 10

conoscitore delle opere fenogliane, Lorenzo Mondo, che nella sua recensione al racconto aveva sostenuto che Fenoglio « si era provato a scrivere questa favola in giovanile età ». Naturalmente il problema relativo a Una crociera agli antipodi è marginale rispetto a quelli ben più complessi attorno ai quali ruota da tempo un vivace e ancora aperto dibattito, ma certa scarsa attenzione ai documenti, certa frettolosità nel sostenere non già ipotesi, ma convinzioni

infondate indicano quanto sia ancora lunga la strada per giungere ad una conoscenza reale e corretta di Fenoglio e della sua opera. In tal senso tuttavia un'impresa davvero ragguardevole è stata compiuta, al termine di un lavoro di équipe protrattosi a lungo sotto la guida di Maria Corti e con la

collaborazione di un gruppo di filologi formato da Maria Antonietta Grignani, John Meddemmen, Carla Maria Sanfilippo e Piera Tomasoni (e con Bruce Merry nel ruolo di traduttore in italiano di pagine fenogliane in inglese): l’allestimento dell’edizione critica delle Opere di Fenoglio, apparsa nel 1978 presso Einaudi (e con il contributo del CNR). L’obiettivo

di aumentare

in misura

considerevole

la quantità dei testi fenogliani pubblicati è certo stato raggiunto da questa iniziativa che, con le sue circa tremila pagine, ha portato alla luce l’intero materiale conservato nell’archivio dello scrittore, con l’eccezione delle traduzioni. Purtroppo è stato invece mancato l’obiettivo di presentare, come si sarebbe aspettato, l'Opera omnia fenogliana, poiché ai curatori dell’edizione critica non è stato possibile recuperare tutti gli scritti consetwati al di fuori dell’archivio di Fenoglio, tanto che con onestà e rammatico (e polemica) nella Premzessa al ponderoso lavoro Maria Corti ha annotato: Vive cioè fondatamente il sospetto che altro scritto fenogliano (racconto o fogli e blocchi di fogli ora mancanti per la verità bussato in questi anni tutte si sono aperte. [p. Ix] ski

dell’esistenza sia di qualfavola o che so io) sia di ai testi qui editi. Si è a varie porte, ma non

In seguito (nel già richiamato incontro leccese di studi fenogliani) Maria Corti è ritornata sull’argomento, ricordando sia le sparizioni di materiale che in un primo momento era a disposizione di chiunque lo richiedesse, sia i diversi spostamenti del materiale superstite che si è progressivamente ridotto di dimensioni; eppure, concludeva

la studiosa, « qualcosa c’è in giro, e quando quel qualcosa sarà disponibile, avremo altri elementi utili ». E così, oltre al materiale preparatorio che lo stesso Fenoglio aveva probabilmente cestinato dopo aver approntato le redazioni definitive dei suoi primi libri (I racconti della guerra civile, La paga del sabato, I ventitre giorni della città di Alba e La malora), mancano pure dall’edizione critica delle Opere, che appare dunque forzatamente incompleta e provvisoria, le pagine fenogliane tuttora conservate presso amici e parenti dello scrittore. E così, riprendendo una felice imma-

gine coniata da Maria Corti per descrivere il disordine nel quale versava il fondo Fenoglio al suo primo approccio, quando i dattiloscritti di un’opera furono paragonati a « carte mescolate come in un mazzo da gioco », si può dire che ora le carte sono state rimesse in ordine, ma il mazzo è rimasto incompleto e pertanto una vera partita non è ancora possibile: la maschera cui alludeva Calvino ricopre dunque ancora in qualche misura il volto dello scrittore.

Sebbene sia forzatamente incompleta, l'edizione critica delle Opere ha comunque aumentato la quantità delle pagine fenogliane pubblicate correttamente; occorre però rilevare che le novità portate da questo infpegriatiyo lavoro presentano di fatto carsi motivi di înteresse per i lettori, trattandosi per lo più»di abbozzi, di stesure provvisorie e mutile, di prove d’autore ancora molto lontane da una elaborazione definitiva e quindi rivolte essenzialmente ad un pubblico specializzato. Prova di ciò si ha indirettamente dalla situazione editoriale dei testi fenogliani dopo la pubblicazione delle Opere (apparse nel 1978 al prezzo non certo incoraggiante di 90.000 lire e a tutto il 1986 vendute in 1.600 esemplari, come m’informa gentilmente l’ufficio amministrativo dell’Einaudi): da allora è uscito, nel 12

1980, solo un nuovo volumetto di pagine fenogliane (L’affare dell'anima e altri racconti) desunte dall’edizione cri-

tica, ma in buona parte già pubblicate su riviste (compreso quel racconto Alla langa uscito anonimo nel 1954 sul mensile « Il Caffè » e poi risultato una parodia della prosa fenogliana allestita dai redattori della rivista). Ma oltre a L’affare dell'anima e altri racconti (che non ha comunque fatto registrare un grande successo di pubblico, con le sue 8.416 copie vendute) i testi fenogliani hanno continuato ad essere ristampati secondo le versioni anteriori al 1978, compreso quel Partigiano Jobnny che l’edizione critica ha dimostrato essere l’esito di un’operazione filologica insostenibile e che tuttavia nell’edizione originaria del 1968 curata da Lorenzo Mondo, e da lui stesso in seguito definita provvisoria, continua ad essere il libro fenogliano più fortunato e più venduto (circa 135.000 copie tra l’estate 1968 e la fine del 1986). Priva di significativi vantaggi per una aumentata cono-

scenza di testi fenogliani presso i lettori (e ciò mi induce a desumere le citazioni che appresso si faranno dalle loro recenti edizioni più facilmente reperibili), l’edizione critica delle Opere ha invece offerto agli studiosi abbondanti materiali per affrontare e tentare di risolvere il complesso problema del percorso creativo di Fenoglio, centrato principalmente attorno alla datazione del cosiddetto Partigiano Johnny, ideato e composto almeno nella sua prima redazione secondo alcuni studiosi nell'immediato dopoguerra, e secondo altri attorno alla metà degli anni Cinquanta. Il dibattito critico attorno a questi problemi si è sviluppato ampiamente negli anni successivi alla pubblicazione delle Opere, con la conseguenza di lasciare in ombra scritti, come ad esempio La malora, più compiuti e significativi ma estranei alle complesse problematiche filologiche, sicché non pare davvero si possa dar torto a Gian Luigi Beccaria che, nel suo saggio fenogliano La guerra e gli asfodeli (1984), osservava che la più recente critica sullo scrittore di Alba aveva « finito per diventare spesso impraticabile, 13

e nel complesso noiosa, salvo che per pochi intendenti: deprimente per il lettore medio oltre che per l’autore Stesso ».

Se pare almeno doveroso proporsi di evitare tali limiti nel corso di questo studio e di dedicare perciò attenzioni prevalenti alle opere fenogliane pubblicate quando l’autore era ancora in vita (e quindi da lui approvate) e a quelle postume compiute o comunque tali da aver conseguito una discreta notorietà circolando ormai regolarmente da anni tra i lettori in versioni definitive anche se filologicamente non attendibili, sembra comunque opportuno prendere una posizione sul complesso problema della cronologia delle opere fenogliane, del quale è necessario tener conto trattando in particolare del Partigiano Johnny e di Una questione privata. Naturalmente non mi propongo di

riesaminare la questione nella sua totalità, ma mi varrò principalmente degli esiti delle ricerche degli studiosi che si sono occupati in precedenza di tali argomenti, ad essi aggiungendo, come modesto contributo personale al dibattito, alcune notizie ed osservazioni. a) Sulla base di due testimonianze da me recentemente

acquisite (del fratello dello scrittore e della sua collega di ufficio Maria Paola Campanello) ho accertato che Fenoglio cominciò ad adoperare la macchina per scrivere solo dopo la sua assunzione come impiegato presso la ditta Marengo di Alba, che avvenne nel maggio 1947. Pertanto ogni suo dattiloscritto rinvenuto nell’archivio deve essere considerato successivo a tale data; escluso dunque che Fenoglio abbia dattiloscritto materialmente nell’immediato dopoguerra un’ampia opera autobiografica in inglese sugli anni 1940-1945 (della quale si sono trovati nell’archivio nove capitoli, composti di 96 fogli dattiloscritti pubblicati in Opere come Ur Partigiano Jobnny), o la sua successiva stesura in italiano individuabile nei 305 fogli dattiloscritti superstiti della prima redazione del Partigiano Johnny, sembra difficile ipotizzare che Fenoglio, nel giro di poco più di tre. anni (tra il maggio 1947 appunto e la prima metà del 1950) abbia composto o anche solo trascritto quelle diverse centinaia di pagine (« Beppe non era affatto un dat14

tilografo veloce [....] scriveva con quattro dita », ricordava la signorina Campanello) e abbia anche composto le stesure definitive dei Racconti della guerra civile e ‘del romanzo La paga del sabato, i cui dattiloscritti (rispettivamente di 112 e di 109 fogli) vennero approntati con ogni probabilità entro la prima metà del 1949 e del 1950, ma dei quali, conoscendo l’abitudine di Fenoglio a riscrivere le sue pagine, è lecito supporre l’esistenza di almeno una precedente stesura. Ora, a parte la difficoltà materiale di svolgere una mole di lavoro tanto ampia in tempi piuttosto stretti (è ovvio che l’impiegato Fenoglio, almeno inizialmente, non poteva dedicarsi in ufficio alla letteratura se non per brevi momenti), non pare sostenibile che possano

essere

contemporanee

pagine

stilisticamente

tanto

lontane quali quelle della prima stesura del Partigiano Johnny, contrassegnate tra l’altro da frequenti anglismi e da un linguaggio ricco di inventiva, e quelle dei Racconti della guerra civile, segnate da una scrittura ancora priva di spiccati elementi di originalità; e se poi questo era stato l’esito di un lavoro stilistico parallelo a quello svolto per l’incompiuto Partigiano Johnny, Fenoglio avrebbe allora dovuto scrivere altre stesure provvisorie dei racconti che però l’esiguità del tempo disponibile farebbe ritenere impossibili, se precedute dal lavoro assai impegnativo (e allora inspiegabilmente accantonato) sul Partigiano Johnny. b) Nel pubblicare (opportunamente) i testi integrali di due lettere di Fenoglio a Livio Garzanti, Gina Lagorio aveva dato notizia di un duplice incontro tra i due, ma solo di uno, quello del luglio 1958, poteva dare una collocazione cronologica; anche a questo proposito una testimonianza da me recentemente acquisita consente di far luce in modo indiretto su molti problemi. L’accertato incontro con Garzanti del luglio 1958 fu il secondo, preceduto da un altro avvenuto il 20 giugno 1957, come ricordano i signori Ugo e Luciana Cerrato di Alba, amici dello scrittore, che con la loro « Topolino » accompagnarono a Milano Fenoglio al suo primo incontro — preparato dall’altro amico dello scrittore, Pietto Chiodi — con l’edi- tore milanese; a sostegno della testimonianza dei signori 15

Cerrato esiste una cartolina da loro stessi conservata, datata appunto 20 giugno 1957 e firmata da loro e da Beppe Fenoglio, indirizzata alla famiglia Sarotto di Alba da Moncalvo, dove i tre si erano fermati per far colazione nel viaggio verso Milano. Risale dunque a quel giorno l’avvio dei rapporti di Fenoglio con l’editore milanese, al quale lo scrittore si presentò, come ricordano i signori Cerrato, con una borsa gonfia di dattiloscritti. Che cosa riguardassero quelle numerose pagine gli amici dello scrittore non sono in grado di riferire, ma escludono, per averlo appreso da Fenoglio, che si trattasse di racconti; e, ancora sulla base dei ricordi dei signori Cerrato, Fenoglio avrebbe lasciato in lettura all’editore solo una parte del copioso materiale che aveva portato con sé a Milano, ricevendola indietro dopo poco meno di due mesi con la raccomandazione di Garzanti di prepararla per la stesura finale in vista della pubblicazione. Questa testimonianza acquista credibilità sulla base di alcuni riscontri: nel gennaio 1957 Fenoglio aveva scritto a Calvino di essere impegnato a lavorare a un «libro grosso » del quale non aveva ancora terminato la prima stesura e pet la cui redazione definitiva prevedeva che sarebbe occorso « un sacco di tempo »; e allora pare cre-

dibile che, conclusa appunto la prima redazione nella seguente estate, con quella si fosse presentato al potenziale editore pur essendo consapevole della sua provvisorietà. Nell’archivio dello scrittore erano state trovate da Eugenio Corsini (nel 1970) alcune cartelline sulle quali erano segnate delle date relative ad un lavoto di revisione compiuto da Fenoglio su un testo che era stato individuato nella prima redazione del Partigiano Johnny: ebbene, le date riportate sono 21 agosto, 18 settembre e 26 settem-

bre 1957 e coinciderebbero dunque con la testimonianza dei Cerrato, secondo la quale Garzanti avrebbe restituito a Fenoglio il suo dattiloscritto circa un paio di mesi dopo l’incontro milanese con la richiesta di una revisione in vista di una prossima pubblicazione; ma, probabilmente insoddisfatto per i risultati conseguiti con questo lavoro, Fenoglio ne iniziò una nuova redazione. c) Fenoglio ha raccontato in due occasioni la conqui16

sta e la successiva perdita di Alba. da parte dei partigiani: nel racconto I ventitre giorni della città di Alba, la cui prima stesura già si trovava nei Racconti della guerra civile completati nel 1949, e nel romanzo I/ partigiano Johnny. Sebbene in questa seconda opera le vicende fossero riferite all'osservazione del protagonista e complessivamente la narrazione

avesse un andamento

schi del racconto, in nuto ad una comune ferendo ad essi orta caso però il romanzo

estraneo

ai toni grotte-

entrambi i testi Fenoglio si era atterappresentazione dei fatti, pur conmaggiore, ora minore rilievo. In un differiva vistosamente dal racconto,

e cioè nell’assenza dell’episodio che, di fatto, aveva favorito l’avvio della facile riconquista di Alba da parte dei fascisti e che nel racconto era stato così presentato: I repubblicani avevano passato il fiume sul ponte sospeso di Pollenzo con tutta fanteria e vicino al punto dove presero terra, una pattuglia di quattro partigiani, stanca di far la guardia su e giù, s’era ritirata in un casotto di pesca e stavano col lume acceso a far dei giri di poker. Arrivarono loro, non corsero spiegazioni, li ammazzarono colle carte in mano. [p. 18]

Questo episodio aveva avuto una certa diffusione sin dall’autunno del 1944, in seguito alla relazione sulla difesa di Alba redatta dal comandante partigiano Enzo Bramardi, detto « Fede », responsabile di quell’operazione militare, che infatti aveva annotato: Cattuta di un gruppo di uomini, probabilmente di una pattuglia di sicurezza sul fiume, intenti a giocare a carte al pianterreno di una casa. Informazione avuta da un btigatista nero.

In seguito, però, il fatto venne ricostruito secondo l’effettivo suo svolgimento e si appurò che i quattro partigiani di guardia, appartenenti alla 48% brigata garibaldina, distaccamento « Rupe », per la pioggia battente si erano riparati nel recinto della cappelletta di Roddi e - Toetto, ma, scoperti dai militari della X* Mas che, con il 17

favore dell’oscurità e del fragore del vicino canale in piena si erano avvicinati, furono sorpresi: due vennero subito uccisi, un terzo riuscì a scappare ed il quarto, catturato perché rivelasse la dislocazione delle truppe partigiane, venne infine fucilato dopo essere rimasto pstinatamente in silenzio. La versione dei fatti proposti nella relazione di Fede, fondata oltretutto su una testimonianza di parte e quindi poco attendibile, era dunque del tutto infondata, e se pare tuttavia possibile che Fenoglio l’avesse fatta propria quando ancora non eta stata definitivamente smentita,

cioè al tempo della stesura del racconto I ventitre giorni della città di Alba sicuramente anteriore al 1949, ben si comprende come, tornando a trattare lo stesso episodio in

altra opera, avesse allora evitato di riproporlo: Il partigiano Johnny, sulla base di questo accertamento, sarebbe dunque posteriore al racconto, e lo sarebbe in entrambe le due redazioni pervenuteci, nelle quali non si trova alcun accenno a quell’episodio. Queste considerazioni contribuiscono a far ritenere che con molta probabilità Fenoglio abbia redatto le pagine superstiti del grande progetto incompiuto — ruotante attorno al personaggio di Johnny negli anni cruciali 1940-45 — nel pieno degli anni Cinquanta, senza che ciò debba far escludere una riutilizzazione di pagine scritte sullo stesso argomento

in tempi precedenti.

Per la verità però una

delle testimonianze più spesso citate a sostegno di questa tesi (quella del generale Piero Ghiacci, compagno di Fenoglio durante la Resistenza, che ricordava di aver appreso dall'amico nel 1947 del suo impegno a scrivere un libro sulla guerriglia nella Langa) non sembra tra.le più credibili per la evidente difficoltà dei ricordi di Ghiacci a collocarsi esattamente nei tempi. Ciò risultava dalla comunicazione tenuta al convegno fenogliano di Alba del 1973, dove Ghiacci aveva sostenuto di aver trovato il futuro scrittore tra i partigiani all’inizio dell’estate 1944 e di aver partecipato con lui all’occupazione di Alba e di Torino

nell’aprile

1945,

notizie

entrambe

smentite

però

dal « Foglio notizie » rilasciato a Fenoglio dal Corpo Vo-

lontari Libertà il 28 maggio 1945, dal quale risulta che 18

il suo arruolamento tra i partigiani badogliani era avvenuto nel settembre 1944 e che nell’aprile 1945 egli aveva partecipato all’occupazione di Asti e di Casale. Non sempre, insomma, le testimonianze, pur disinteressate e animate da sentimenti generosi, hanno aiutato e aiutano a

risolvere i numerosi problemi legati all'opera e alla personalità di Fenoglio, oggi certo un po’ meno sconosciuto di venti anni addietro, quando Calvino aveva, con rammarico, patlato di lui come di uno scrittore nascosto da una maschera, ma comunque tuttora piuttosto lontano da una identificazione piena e non soggetta ad ipotetiche, agiografiche e fantasiose interpretazioni.

II.

LA

FORMAZIONE

E

L’APPRENDISTATO

LETTERARIO

Nell’ottobre del 1922, pochi mesi dopo la nascita di Beppe Fenoglio, il comune di Alba veniva occupato da squadre di fascisti provenienti dalle città vicine, che imposero le dimissioni al sindaco, il cattolico Giovanni Vico. Questi però respinse la prevaricazione e, fatta proseguire per alcuni mesi l’attività del consiglio comunale nella propria abitazione, il 2 novembre firmava un ordine del giorno nel quale appunto « il consiglio comunale dichiarava di non voler sottostare alla violenza degli avversari e di voler di conseguenza mantenere il proprio posto; invitava perciò la giunta a non rassegnare le dimissioni, dichiarandosi pienamente solidale con essa». Questo risoluto atteggiamento, reso possibile anche dall’indifferenza della popolazione albese nei confronti del fascismo, fece di Alba l’ultimo centro del Piemonte ad essere piegato dalla dittatura, che solo nel novembre 1925 sciolse d’autorità l’amministrazione comunale locale, dando il via alla serie delle nomine di commissari prefettizi e di podestà. Queste vicende aiutano a comprendere la realtà politica di Alba nel periodo tra le due guerre, quando il fasc -smo vi fu accolto tiepidamente, anche se mancarono sia dig

i clamorosi episodi di ribellione al regime (con l’eccezione di alcuni atti di contestazione in ambito scolastico), sia un'efficace azione clandestina di opposizione. Se è pur vero che nel 1914 proprio ad Alba era sorto, sotto la guida del conte Gastone di Mirafiori, il primo movimento nazionalistico della provincia di Cuneo che avrebbe trovato sbocco in un diffuso interventismo, altrettanto vero è che la diretta partecipazione alla Grande Guerra di migliaia e migliaia di contadini delle Langhe strappati alle loro terre, aveva accelerato il declino di quella classe politica (e dirigente) liberale legata ad una solida tradizione laica e anticlericale che aveva avuto il suo uomo più rappresentativo in Michele Coppino: figlio di un calzolaio di Alba, era stato eletto deputato della sinistra e fu autore, con Depretis e Crispi, della legge laica del 1877 sull’istruzione elementare obbligatoria. AI tracollo politico dei liberali seguì la sempre più netta affermazione dei cattolici popolari che, alle elezioni del 1920, aumentando i consensi già registrati a partire dal 1912, ottennero ad Alba un notevole successo, mentre nelle campagne i favori dell’elettorato toccarono soprattutto ai socialisti. Strumentalizzando le preoccupazioni dei grandi proprietari per questi risultati elettorali e per il sorgere, nel 1921, dell’imprevedibile Partito dei contadini, i fascisti tentarono di sfruttare in proprio favore l’incerta situazione; ottennero però consensi inferiori alle loro aspettative, oltre che per la diffusa indifferenza della borghesia cittadina anche per la sempre più decisa opposizione del movimento cattolico, guidato dal 1890 al 1933 dal vescovo mons. Francesco Re (che favorì la fondazione della Società San Paolo) e dal 1933 al 1948 da mons. Luivi Maria Grassi, che diverrà l’avversario più irriducibile dei fascisti. Il regime dunque non riuscì a diffondersi ad Alba — dove, tra l’altro, neppure fu costruita la casa del fascio pure in tempi di notevole sviluppo urbanistico — e la sua popolazione, formata prevalentemente da commercianti ed artigiani « lontani per spirito e tradizioni da fermenti e umori eterodossi » (V. Castronovo), assunse un atteg20

giamento di estraneità e di sostanziale salvaguardia dei propri interessi. Centro agricolo di notevoli dimensioni, che raccoglieva

i prodotti delle circostanti colline (coltivazioni di frumento e granoturco, viticultura, allevamenti di bestiame e di bachi da seta) che alimentavano anche alcune aziende vi-

nicole e seriche, Alba conobbe negli anni tra le due guerre un notevole progresso economico. Superata nelle Langhe la crisi successiva alla decimazione del patrimonio zootecnico e inctementatasi considerevolmente la viticultura, il grande mercato del sabato raccoglieva ad Alba contadini e commercianti dell’intera regione che, con l’afflusso del loro denaro, favorivano l’arricchimento delle classi medie locali, dai negozianti ai ristoratori, e naturalmente dei professionisti, dai medici agli avvocati attivi in una città che era sede di tribunale e di pretura. Un teatro (chiuso per ragioni di agibilità nel 1932), due cinema, diverse sale da ballo, lo sferisterio, due case di piacere, grandi negozi, numerose locande e trattorie testimoniavano la vitalità di una città (di circa 15.000 abitanti) dall'economia piuttosto florida, che risaliva a tradizioni ben solide (Alba era stata la sede di una delle prime casse di risparmio della provincia di Cuneo) e che riceveva ulteriori spinte da nuove iniziative (come l’istituzione negli anni Trenta della Fiera

del Tartufo e poi del Palio degli Asini), tendenti ad attirare sempre più numerosi ospiti facendo leva sulle risorse enogastronomiche locali e avviando così una tempestiva politica economica sensibile ai possibili benefici del turismo. In questa situazione generale favorevole, anche un garzone di macelleria poteva nutrire speranze concrete di migliorare la propria condizione; e Amilcare Fenoglio, nato a Monforte nel 1882 ma da anni ad Alba garzone. nella macelleria Rabino, con i sacrifici compiuti anche con l’aiuto della moglie, Margherita Faccenda, sposata il 16 dicembre 1920, riuscì ad acquistare un’altra delle diverse macellerie di Alba, quella di piazza Rossetti, accanto al duomo, con la quale avrebbe potuto assicurare ai tre figli Beppe, Walter - e Marisa (nati rispettivamente nel 1922, 1923 e 1933) 21

un avvenire almeno decoroso. Calata nella realtà cittadina, la famiglia Fenoglio non aveva però dimenticato le proprie origini paterne che riconducevano alle alte Langhe, dove appunto in estate i ragazzi trascorrevano le vacanze presso i parenti. E lassù, a Murazzano e a San Benedetto Belbo, la vita movimentata ed economicamente se non agiata certo tranquilla di Alba appariva lontana e quasi impensabile; su quelle colline avare che non producevano né grano né uva, suddivise in numerosi ed esigui appezzamenti di proprietari negati per tradizione allo spirito associazionistico e che traevano i soli magri benefici dalla raccolta delle nocciole e da una stenta pastorizia, era la miseria a impetversare ovunque. Unica via d’uscita era rappresentata non tanto dal pure frequente ricorso ai prestiti (con conseguenti interessi da usurai) o dalla speranza in un colpo di fortuna nei praticatissimi giochi d’azzardo (nei quali peraltro le vincite grosse toccavano sempre ai « sola », i bari di professione), ma più avventurosamente dalla risorsa offerta dall’emigrazione, anche solo provvisoria, verso Torino o verso la Liguria; e così venivano spesso abbandonate quelle povere colline e le loro modeste possibilità di sopravvivenza. La duplice realtà economica e culturale della città e della campagna, aspetti contrastanti e complementari del volto delle Langhe, fu direttamente sperimentata negli anni della sua formazione da Beppe Fenoglio che, oltre tutto, proprio all’interno della sua famiglia si vedeva ripropotre quello stridente contrasto nelle stesse figure dei suoi genitori: originario appunto di un paese delle alte Langhe il padre e proveniente invece da un borgo della pianura, Canael, la madre, espressioni non solo di due diverse realtà ambientali, ma anche di altrettanto differenti culture e mentalità che non mancavano di agitare interrogativi e problemi nell'animo del giovane Fenoglio, come si legge in alcuni passi chiaramente autobiografici del racconto Ma il mio amore è Paco: Mia madre veniva dal più clericale dei clericali paesi dell’Oltretanaro, da una gente che aveva per bandiera proprio 22

quello che i Fenoglio,

secondo lei, si mettevano facilmente sotto i piedi: il timor di Dio e l’onore del mondo. [...] Quanto a me, debbo dire che quella miscela di sangue di langa e di pianura mi faceva già da allora battaglia nelle vene, e se rispettavo altamente i miei parenti materni, i paterni li amavo con passione, e quando a scuola ci avvicinavamo a parole come « atavismo » e « ancestrale » il cuore e la mente mi volavano subito e invariabilmente ai cimiteri sulle langhe. [Ur giorno di fuoco, pp. 25-26]

I periodi estivi trascorsi sulle alte colline offrivano l'opportunità al giovane Fenoglio di conoscere dall’interno quell’arcaica società contadina, anche attraverso i racconti

ascoltati dalla voce dei parenti che lo ospitavano; ma erano certo i giorni cittadini dei restanti periodi dell’anno che rappresentavano per lui l’occasione di realizzare la sua formazione culturale. Nell’autunno del 1928 era cominciata la sua carriera scolastica, alunno (con altri quaranta bambini) della prima classe della sezione B della scuola elementare « Michele Coppino » di Alba capoluogo, affidata alla maestra Silvia Teresa Ferria, che ancora fu sua insegnante in seconda; in terza la classe passò al maestro Chiaffredo Cesana che, alla conclusione della quarta (nella cui pagella finale Fenoglio aveva i giudizi di « lodevole » in geografia, scienze fisiche e storia e di « buono » nelle altre materie), convinse i suoi genitori a fargli sostenere l'esame di ammissione alla I ginnasio. Si era trattato certo di una scelta coraggiosa e controcottente, in un tempo (primi anni Trenta) in cui esistevano ancora rigide divisioni di classe riflesse anche dalle scuole frequentate dai figli delle diverse famiglie della città; e in virtù di queste tradizionali scelte scolastico-sociali, il ginnasio-liceo era l’approdo naturale dei figli dei professionisti e dei proprietari, mentre gli altri giovani — non troppo numerosi — che dopo la licenza elementare intendevano continuare gli studi si suddividevano tra l’istituto magistrale e l’avviamento professionale. Contro questa tacita regola si indirizzò invece la scelta dei Fenoglio, resa possibile peraltro anche dalle buone condizioni economiche nelle quali po- teva vivere allora anche un commerciante 23

e non solo i

rappresentanti dei ceti tradizionalmente più abbienti, sicché l’iscrizione di Beppe Fenoglio al ginnasio-liceo « G. Govone » di Alba (l’esame fu brillantemente superato il 23 giugno 1932), seguito l’anno successivo dal fratello Walter, era anche la prova di un avvenuto livellamento economico delle diverse classi sociali di Alba. Rimanevano tuttavia le preclusioni classiste in alcune famiglie dell’aristocrazia e naturalmente i Fenoglio non mancarono di avvertirle e, soprattutto nel caso del più sensibile Beppe, di soffrirle. Egli comunque affrontò gli studi superiori con grande impegno e serietà, come era nel suo carattere, e il secondo anno di ginnasio compì la scoperta che segnò la sua vita culturale: la lingua e la letteratura inglese, al cui studio venne avviato dalla professoressa Maria Lucia Marchiaro. Per approfondire le sue cognizioni in proposito, Fenoglio poté servirsi dei libri della ricca biblioteca degli studenti del liceo che, in tempi di sempre più opprimente autarchia, oltre ai soliti testi propagandistici e di storia rivisitata in chiave nazionalistica, acquistava numerosi libri di letteratura inglese in versione italiana e in lingua originale (come una discreta serie di testi della Collection of British and American Authots delle edizioni Tauchnitz, comprendenti tra l’altro Jare Eyre di C. Bronté, The Call of the Wild di J. London, The Prince and the Pauper di M. Twain, Oliver Twist di C. Dickens e Tales from Shakespeare di C. and M. Lamb); di Shakespeare abbondavano, in versione italiana, le tragedie, le commedie ed erano presenti anche i sonetti. L’interesse di Fenoglio per l’inglese, del resto comune anche ad altri compagni, continuò a rimanere vivo anche dopo la V ginnasio, quando lo studio di questa materia non rientrava più nei programmi d’insegnamento; evidentemente egli in quella lingua e nella civiltà che essa esprimeva aveva individuato un modello culturale e morale al quale sentiva di aderire, sia per superare la grettezza dell’ambiente cittadino nel quale predominavano interessi materiali ed esteriori, sia per costruirsi un aristocratico mondo ideale che riducesse il distacco naturale — e pro24

babilmente non solo apparente — da lui avvertito nei riguardi dei compagni di scuola figli dell’aristocrazia cittadina. La carriera scolastica di Beppe Fenoglio, prima al ginnasio e poi al liceo, fu complessivamente assai positiva, con alcuni ottimi risultati nelle predilette materie umanistiche ma anche con sufficienze faticose nelle materie scientifiche, nonché con due sorprendenti rinvii ad ottobre in educazione fisica e in scienze, rispettivamente in IV ginnasio e in II liceo e sempre con il cinque. Questi singolari insuccessi erano da porre in relazione con la forte componente emotiva del suo carattere, che giungeva fino a farlo balbettare quando si trovava di fronte a persone con le quali non riusciva a sentirsi a proprio agio; e tanto era disinvolto e sicuro con i suoi insegnanti che meglio erano riusciti a comprenderlo, quanto era invece scontroso e taciturno con quelli più burberi e meno dotati di comunicativa. In ogni caso, Fenoglio ebbe alcuni docenti che incisero profondamente in senso positivo sulla sua formazione culturale e umana, dalla già ricordata Maria Lucia Marchiaro a don Natale Bussi, professore di filosofia in I liceo e in seguito sempre a lui molto vicino, dallo stesso temutissimo Umberto Perazzo, professore di matematica per tutti gli otto anni del ginnasio e del liceo, a Leonardo Cocito e a Pietro Chiodi, che gli furono insegnanti rispettivamente di italiano e di filosofia per periodi però piuttosto brevi (per pochi mesi della V ginnasio e in III liceo il primo e solo in III liceo il secondo), tutti professori di alta statura culturale e, sia pure attestati su differenti posizioni ideologiche, accomunati anche da una visione democratica della società e da una decisa avversione al fascismo. Ma negli anni tra le due guerre non solo all’interno della scuola si offrivano ai giovani di Alba occasioni di arricchimento culturale; in un’intervista di Gino Nebiolo, uscita sulla « Gazzetta del Popolo » del 6 ottobre 1962, Fenoglio ricorderà infatti che « prima della guerra vi erano insegnanti che distribuivano cultura anche fuori delle aule scolastiche. Il professor Petronio, oggi ordinario di «cattedra universitaria, ci insegnò a leggere Proust, Svevo ZO

e Melville. Il professor Chiodi, massimo studioso di Heidegger in Italia, anch’egli oggi ordinario di cattedra universitaria, sapeva parlare ai giovani a scuola e nelle sale dei caffè e spalancava menti e coscienze ». E l’accenno alla conoscenza di Proust e Svevo appare assai significativo per rilevare che non c’era solo la letteratura di lingua anglosassone al centro degli interessi del giovane Fenoglio, tanto più che un’eco delle letture del romanziere triestino si troverà nella prima redazione di Primavera di bellezza, dove la studentessa albese Edda verrà appunto definita « lettrice di Svevo e Schnitzler » (Opere, I, 3, p. 1273) in una vicenda ambientata nel 1940. I risultati conseguiti al liceo da Fenoglio (il 10 giugno 1940 superò l’esame di maturità con nove in italiano, otto in latino, greco, storia, filosofia e arte, sette in cultura

militare e educazione fisica e sei in matematica

e fisica),

determinarono la decisione di proseguire gli studi, e il 4 novembre egli si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università di Torino. E proprio a questo periodo risale una lettera indirizzata da Fenoglio al suo ex-compagno di liceo Giovanni Drago che, a tutt'oggi, costituisce lo scritto fenogliano più antico di datazione pressoché sicura (autunno 1940); e perciò mi sembra opportuno citarne ampiamente il testo (di recente pubblicato per intero da Mark Pietralunga in appendice ad un suo volume) per le numerose indicazioni che esso può offrire: [...] Ho appreso la maggior parte delle notizie — la salute tua, dal torinesissimo eloquio di tua zia. [....] Inconsistente è la tua scusa per la mia attesa, come inconsistente è stata la mia nota: antidoti infallibili sono stati la loquela di tua zia e la personale conoscenza di tua madre, di cui rechi

nel volto più di una

impronta.

[...] M’informi

di avete

ter-

minato una dissertazione filosofica sull’arte. Ascoltami: erro pensando che è stata una reazione del cervello contro il cuore che ha tante cose da dire, ma non sa, e forse non può, espri-

mere?

Tu sei più portato alla poesia che alla critica, ami

troppo il sentimento, gica, concordi

troppo

per sostituirlo

con

me

durevolmente

nell’affermare

colla lo-

che la pensosa

disquisizione critica non vale il più microscopico briciolo di 26

poesia vera. [...] Mi richiedi notizie dell’ultimo mese di scuola? Non si è avuta la cena, bensì una serata al circolo: molto elegante, molto dignitosa e... spaventosamente fredda. Congedati professori e compagne, la serata è continuata, petò sulla rotonda del Tanaro, fino alle cinque del mattino. È stata una cosa molto triste, ad onta delle provviste bacchiche e i tentativi eroici di alcuni per alleggerire la pesantissima atmosfera [...]

Nella parte finale, Fenoglio riferiva di un ricevimento in casa di un compagno, nel corso del quale aveva avuto luogo «una disputa in lingua inglese sulla valutazione critica di Typee di Melville », protagonisti una compagna, Longo, ed un anglo-italiano, Mr. Gavuzzi, « dal magnifico accento londinese e dalla crassa ignoranza ». Proprio queste ultime notazioni sono utili per inquadrare i giorni dell’ex-liceale Fenoglio che, senza denunciare preoccupazioni pet la guerra, era assorbito da discussioni letterarie, su testi di lingua inglese naturalmente, e dimostrandosi addirittura in grado di apprezzare l’accento londinese; il suo modo di esprimersi per iscritto, però, dell’inglese non pottava alcuna traccia, mentre il suo italiano appariva chiaramente « libresco, scolastico » (M. Corti, 1970) e in perfetta sintonia con gli studi classici compiuti: questo era dunque lo stadio di partenza della ricerca linguistica compiuta da Fenoglio, che farà di lui un « grande solitario dello stile », rivolto a « modelli non della prosa d’arte, né neorealisti, nella tradizione umanistica, ma nel lontano biblico e omerico, attraverso la letteratura anglosassone » (G. L. Beccaria, 1984).

Il primo anno della facoltà di Lettere e Filosofia presso l’ateneo torinese prevedeva la frequenza di nove insegnamenti — uno dei quali libero — affidati ad alcuni docenti di grande prestigio e notorietà come Francesco Pastonchi (Letteratura italiana), Augusto Rostagni (Letteratura latina), Nicola Abbagnano (Storia della filosofia), Andrea della Corte (Storia della musica) e Federico Olivero (Letteratura inglese). E proprio in Letteratura inglese Fenoglio sostenne (il 17 maggio 1941) il suo primo esame universitario, peraltro superato con un esito piuttosto deludente (24/30) 27

che avviava una serie di risultati alterni e comunque non troppo positivi, sia nel primo anno di corso (superò anche gli esami di Storia della musica con 27, Geografia con 22, Storia della filosofia con 24 e Storia romana con 30), sia nel secondo (quando sostenne gli esami in Storia moderna con 27, Filologia romanza con 27 e Storia medievale con 26, affrontati questi ultimi nell’ottobre 1942 a conclusione dei suoi interrotti studi universitari).

La scarsa penetrazione del fascismo nell’Albese, identificato dal giovane Fenoglio per lo più nei suoi aspetti appariscenti costituiti dalle cerimonie e dalle sfilate e, in modo più diretto, negli obblighi premilitari a cui anch’egli era richiamato al pari dei suoi coetanei nell’ambito del tentativo compiuto dal regime per amalgamare i diversi strati della popolazione giovanile, non aveva impedito in lui il manifestarsi di una netta e istintiva avversione, certo incortaggiata sia dai sentimenti dei due genitori (cattolica praticante la madre e di orientamento socialista il padre, che

aveva notoriamente rifiutato di prendere la tessera del partito, senza peraltro subirne gravi conseguenze), sia dagli atteggiamenti dei suoi professori del liceo più dichiaratamente antifascisti. Il rifiuto fenogliano del fascismo aveva alle sue radici ragioni essenzialmente morali, senza risentire peraltro di eventuali implicazioni politiche: ad Alba erano pressoché inavvertite le tensioni sociali, sebbene le distanze tra i giovani studenti e i giovani operai, così come tra i figli dei professionisti e quelli dei commercianti fossero ben precise e spesso invalicabili. Tuttavia il crescente e sempre più diffuso benessere valeva ad attutire i possibili conflitti, an-

che per l’influenza stabilizzante della Chiesa locale che normalmente tendeva a smorzare eventuali urti tra i diversi ceti che pure costituivano il suo vasto esercito di fedeli,

accomunati soprattutto nel negare consenso al fascismo. Maturtata dunque da Fenoglio negli anni giovanili trascorsi ad Alba e sulle alte Langhe un’avversione al regime di natura morale e semmai estetica più che ideologica, quando nel 1943 dovette lasciare gli ambienti familiari e, come soldato dell’Esercito Regio, fu prima nella vicina 28

cittadina piemontese di Ceva per l’addestramento e poi a Roma, il suo atteggiamento ostile nei confronti del fascismo ricevette una nuova e più consapevole spinta. Reso

esperto dello - sfascio del Paese dalle esperienze vissute nella capitale sia il 25 luglio, sia 1'8 settembre, tornato ad Alba Fenoglio visse dapprima nei pressi della città gli ultimi mesi del 1943 e all’inizio dell’anno seguente, trovandosi per un matrimonio presso i parenti di Murazzano e avendo saputo che nei dintorni operava una delle prime bande partigiane attive sulle Langhe, quella del capitano Zucca (di orientamento comunista, ma in sostanza ideologicamente poco definita), si arruolò in essa e visse così la sua prima esperienza partigiana. L’esito negativo della battaglia di Carrù (3 marzo 1944) seguita dallo sbanda-

mento dei reparti dei patrioti, indusse Fenoglio a tornare presso i parenti di Murazzano e quindi ad Alba; in settembre si arruolò di nuovo tra i partigiani, questa volta nelle formazioni badogliane « azzurre » di « Mauri » (Enrico Martini), assegnato ad un reparto attivo a Mango d’Alba sotto il comando di « Poli » (Piero Balbo). Rimasto alla macchia sulle Langhe anche dopo il proclama Alexander, vagando di cascina in cascina per qualche tempo insieme con il fratello Walter e con i fratelli Costa e Rabino, alla ripresa delle attività collettive Fenoglio svolse negli ultimi mesi di guerra compiti di collegamento e interprete con le missioni alleate paracadutate nelle Langhe. Negli anni cruciali 1943-1945 Beppe Fenoglio aveva dunque vissuto la stessa esperienza toccata a migliaia di altri giovani dell’Albese che, più fortunati dei coetanei della divisione « Cuneense » dispersa in Russia, si erano ritrovati a casa nell’autunno 1943 decisi a non rispondere alle

chiamate della repubblica sociale di Salò e inevitabilmente calamitati dalle formazioni partigiane, che gradualmente si organizzarono sino a divenire operative nei primi mesi del ’44 e ad ingrossare le loro file, pur nella articolazione in reparti « garibaldini », « badogliani » e di « Giustizia e Libertà » e con una formazione « Matteotti ». Attestati prevalentemente sulle colline e nei piccoli paesi, i pattigiani delle Langhe assommarono a diverse migliaia nei 29

periodi più favorevoli al movimento (estate 1944 e ultimi mesi prima del 25 aprile 1945) poiché, a differenza dei padri chiamati da un governo estraneo a combattere la guerra ’15-’18 in regioni lontane e per motivi incompren-

sibili, essi vedevano invece materialmente il pericolo che incombeva sulle loro terre, e dunque avvertivano con vigore la spinta a combattere quegli stessi nemici nazifascisti che bruciavano i loro paesi e che commettevano tante violenze contro le loro popolazioni. Queste in genere ebbero nei confronti dei partigiani atteggiamenti favorevoli e protettivi, pur nella consapevolezza dei rischi che si assumevano; talora però l’inevitabile presenza nelle bande partigiane di profittatori e di delinquenti comuni, rei di furti e di arbitrarie requisizioni (peraltro regolarmente puniti con rigore dai comandanti dei vari reparti), determinò

anche taluni comportamenti

agnostici, soprat-

tutto da parte dei contadini più poveri, per natura diffidenti e quindi poco propensi ad aiutare chi li spogliava di grano e bestiame senza credibili contropartite. Quanto più però il movimento seppe organizzarsi ed acquistare prestigio, tanto più i civili aiutarono in misura decisiva 'î partigiani, e l’esperienza vissuta da Fenoglio nel difficile inverno 1944-45 ne diede la riprova. Superati ormai i cruciali problemi politici della nazione e quelli essenziali del vivere e del morire degli individui, la fine della guerra aveva portato però altri nodi di difficile soluzione alla collettività, ed in essi natural mente si trovò coinvolto anche Fenoglio. Rimasta a lungo chiusa la macelleria, il dopoguerra portò alla sua famiglia una difficile situazione economica; il padre, componente in rappresentanza dei commercianti della consulta comunale nominata il 12 maggio 1945 dal CLN, riaprì il negozio e riprese però stentatamente la vendita delle carni, genere certo di scarso commercio in quei tempi ancora difficili. In questa situazione, aggravata da un periodo di non buona salute della madre, Beppe non riprese gli studi universitari (contrariamente al fratello) pur continuando a pagare regolarmente le tasse di fuoricorso all’ateneo tori30

nese fino al 5 novembre 1946. Al termine di un lungo periodo inquieto e non privo di conflittualità all’interno della sua stessa famiglia, accantonato ormai il proposito di laurearsi per diventare poi insegnante di inglese, Fenoglio fu assunto come impiegato, nel maggio 1947, dall’azienda vinicola Marengo di Alba, produttrice in prevalenza di vermouth e con circa 25/30 operai e otto impiegati come dipendenti. Mettendo a frutto la sua conoscenza delle lingue (oltre all’inglese aveva imparato per proprio conto il francese), Fenoglio era incaricato di curare la corrispondenza con i clienti stranieri e di seguire le pratiche per le esportazioni; retribuito non troppo lautamente e impegnato con un orario di lavoro non certo leggero (8-12 e 14-18 tutti i giorni feriali, compreso il sabato), Fenoglio tuttavia non abbandonò più questo lavoro e, conquistata la fiducia della proprietà, verso la fine degli anni Cinquanta diventò procuratore della ditta, pur conservando ancora la qualifica di impiegato (e il relativo modesto stipendio). L’esperienza resistenziale e la fine della guerra avevano portato a Fenoglio anche problemi ed interrogativi

di ordine politico; tra la Liberazione e il voto del 2 giugno 1946 egli aveva abitualmente partecipato alle discussioni tra i coetanei e gli amici reduci dalla guerra, che per lo più si incontravano al Circolo Sociale di Alba, il club privato dei « signori » (professionisti, ufficiali, professori) che nel dopoguerra aveva accettato le domande di iscrizione anche di giovani studenti e che, grazie a questi nuovi apporti, svolse da allora anche una discreta attività culturale che coinvolse lo stesso Fenoglio, per qualche tempo incaricato di svolgere corsi di inglese per i ragazzi e più avanti, verso i primi anni Cinquanta, autore di traduzioni dall’inglese che venivano lette durante le riunioni del Circolo. Di radicata fede nell’istituzione monarchica (dopo la caduta di Mussolini aveva scritto una cartolina al padre con queste parole: « A mio padre, vecchio alpino, viva il re! »), al referendum istituzionale Fenoglio aveva dato la sua preferenza alla monarchia, uniformandosi così alla ‘maggioranza dei suoi concittadini (6.707 voti, contro i 31

3.328 per la repubblica) che, anche per l’elezione della Costituente, confermarono come Alba (con i 5.016 voti per la Dc, 1.705 per i socialisti, 1.090 per il partito dei contadini e 886 per i comunisti) fosse una roccaforte delle forze cattoliche e conservatrici, per le quali anche Fenoglio aveva votato, ma nelle quali in seguito sempre meno si sarebbe riconosciuto. Non è possibile determinare con esattezza quando Fenoglio abbia cominciato a scrivere, anche se talune testimonianze indicherebbero una notevole precocità: il compagno di scuola Carlo Prandi ricordava che a dodici anni Beppe aveva scritto un’opera sugli arcieri di Sherwood, suggeritagli sia dalla suggestione del mondo anglosassone appena scoperto in II ginnasio, sia dall’entusiasmo per la figura di Robin Hood, personificazione dello spirito egualitario; la professoressa d’inglese Maria Lucia Marchiaro ricordava che il suo allievo le portava in lettura racconti che aveva iniziato a scrivere quando frequentava l'università e ormai era prossima la sua partenza per la guetta; questa testimonianza, recata da una fonte solitamente precisa e attendibile, verrebbe suffragata da alcuni passi della prima redazione di Primzavera di bellezza, dove dapprima il protagonista Johnny, studente albese e universitario a Torino nei primi anni Quaranta,

sospendeva

a vantaggio del tradurre lo « scrivere in proprio » non avendo « ancora imparato a finite quel che cominciava » (Opere, I, 3, p. 1278) e poi, « seduto davanti a una pagina bianca senza riuscire a stendervi una sola parola », e ormai prossimo all’inizio della vita militare, considerava con rammarico che, se non fosse tornato dalla guerra, «non avrebbe lasciato niente di sé, nemmeno un racconto » (ivi, p. 1319).

Piero Ghiacci, commilitone di Fenoglio durante la Resistenza, lo ricordava accompagnato da un suo « insepa-

rabile libretto d’appunti » dove annotava, come era suo compito, « gli ordini di servizio e la contabilità del re-

parto », ma forse « anche le sue sensazioni sulle vicende partigiane », appuntando delle « brevi note nelle serate di 32

calma, anche senza appartartsi, e lo faceva quasi sempre con una certa aria di maliziosa segretezza e compiacimento ». Questo atteggiamento era del resto assai diffuso tra i partigiani che avevano un qualche grado di cultura e che erano anche i naturali redattori e collaboratori dei numerosi giornali pubblicati presso i diversi reparti di combattenti sulle Langhe; su questi fogli (come « La Gazzetta Piemontese » e