Introduzione a Eduardo
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GLI SCRITTORI

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GLI SCRITTORI 34

© 1992, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 1992

INTRODUZIONE

EDUARDO DI

ANNA BARSOTTI

EDITORI LATERZA

A

Proprietà letteraria riservata

Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nell’aprile 1992 nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari

CL 20-4000-X

ISBN 88-420-4000-2

EDUARDO

DE FILIPPO

Avvertenza. I numeri d’ordine in nero che compaiono nel corso del testo si riferiscono alla Bibliografia. Con le sigle Cop e Con sono indicate rispettivamente le opere di Eduardo Cantata dei giorni pari e Cantata dei giorni dispari. Per la citazione completa cfr. Bibliografia, pp. 185 sg.

I. UN

TEATRO

CHE

COMUNICA

La mia vera casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita sono uno sfollato. [195, p. 148]

In questo paradosso di Eduardo è il senso di un rapporto straordinario, che diventa via via esclusivo sul piano biografico-artistico: vedere e vivere la vita sub specie theatri. Anche quando la vista naturale gli verrà meno, dietro a quegli «occhiali neri» il palcoscenico rimane a fuo-

co: luogo deputato della sua esistenza di uomo e di uomo di teatro. Il «terzo occhio» dell’artista, quello di Otto Marvuglia della Grande magia, quello di Campese dell’ Arte della commedia, gli consentirà fino in fondo di pertcorrere con sicurezza le tavole del theatrum mundi:

[...] quando cammino per le strade e mi capita di battere due o tre volte il piede in terra [...], mi sorprende sempre il fatto che quei colpi [...] non producano lo stesso rumore di quando batto il piede sulle tavole del palcoscenico; se tocco con la mano il muro di un palazzo [...] lo faccio sempre [...] con la sensazione di avvertire sotto le dita la superficie della carta e della tela dipinta. [L'arte della commedia, CGD, vol. III, I, p. 142]

È il teatro la lente della «fantasia comica» che gli permette di guardare le scene, di seguire i ritmi della società e del mondo. Leggiamo aprendo i suoi Capolavori editi da 3

Einaudi: «Occhi e orecchie mie sono stati asserviti da sempre [...] a uno spirito di osservazione instancabile, ossessivo, che [...] mi porta a lasciarmi affascinare dal modo d’essere e di esprimersi dell’umanità». Ma «bisogna vedere l'applicazione di quella battuta o di quella frase = presa ad esempio su un tram — nel contesto dove la vuoi applicare: può diventare realistica, comica, tragica [...] il teatro è sintesi» [10, pp. 35-37].

Dall'inizio alla fine, da quando debutta a quattro anni nella compagnia del ‘padre’ Scarpetta a quando affida a un altro ‘figlio d’arte’, Luca, il compito di proseguire la sua «vita per il teatro», Eduardo svolge la sua commedia umana e artistica sul palcoscenico; ma su un palcoscenico sempre mobile, «sempe apierto» sull’«umanità», sulla «natura», sulla «strada»:

Alla base del mio teatro c’è sempre il conflitto fra individuo e società [...] tutto ha inizio, sempre, da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia e altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche [...], sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono Ia vita dei popoli. [Nota ai Capolavori, p. vil]

Il suo «teatro» è «vita» non in senso mimetico o naturalistico, e neppure soltanto metaforico, ma in quel senso speciale, comune ai grandi uomini di teatro completi, che attraverso il teatro hanno vissuto. Il rapporto fra i due poli è perciò ambivalente: da un lato «solo il teatro è quel.

lo che mi ha dato gioia, [...] che mi ha dato contatto col

pubblico, possibilità di parlare, possibilità di cambiare, di evadere... per me la vita è passata in un attimo» [10, p. 138]; dall’altro, «fare teatro significa sacrificare una vita.

[...] Luca è venuto dalla gavetta, sotto il gelo delle mie abitudini teatrali: quando sono in palcoscenico a provare,

quando ero in palcoscenico a recitare... È stata tutta una

vita di sacrifici. E di gelo: così si fa teatro» [17 settembre 1984, poi in 195, p. 30]. Fra gioia e gelo, lanterna magica ma impegno a tutti i costi, la scena ha consentito al poliedrico artefice, attore-autore-regista in senso antico e

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moderno, di rilevare gli aspetti pregnanti della vita come fenomeno mobile e complessivo. Sala d’aspetto d’un dentista, la terra, in cui si attende di tirarsi «questo dente definitivo»; dove ci sono quelli che aspettano soltanto, quelli che si distraggono per non pensare, e quelli che hanno «il dono» — come lui — di distrarre e di far pensare. «E il dono che abbiamo avuto [...] ha fatto nascere Michelangelo, Picasso, Morandi, che hanno avuto delle sod-

disfazioni... E poi se ne vanno all’altro mondo e ti saluto! E viene la nuova generazione: il punto di arrivo, il punto di partenza...» [10, p. 133].

In questo gioco di staffette artistiche acquistano senso dinamico i rapporti dell’ Autore con i suoi padri-maestri, non importa se naturali o adottivi: Eduardo Scarpetta e Luigi Pirandello. «Il tuo era un padre severo o un padre cattivo?», gli chiede Compagnone; Eduardo risponde: «Era un grande attore» [«Oggi», 21 maggio 1980, 189 bis]. Quanto al rapporto con l’altro ‘padre’, che l'avrebbe iniziato a una diversa cultura, egli replica agli studenti che lo interrogano: «Tutti noi scrittori e anche tutti noi uomini dobbiamo molto al genio di Pirandello. Quando Arthur Miller dice che se non ci fosse stato lui, egli scriverebbe diversamente, dice cosa giusta, ma quando si volesse accusare Miller di pirandellismo, sarebbe inaccettabile!» [1976, poi in 195, pp. 172-73]. Si illumina così anche il «difficile» rapporto con Peppino: consumato a teatro e per il teatro, fino alla scena della collisione, durante le prove. Dramma dell’incomprensione, impostato all’inizio come fra ‘padre’ e ‘figlio’: da una parte il «gelo» delle abitudini teatrali del fratello maggiore, dall’altra l’esuberanza del minore «di carattere allegro, ansioso di vivere fino in fondo la sua stagione di gloria» [I. Quarantotti, in 195, p. 30]. La lacerazione fra «I De Filippo», magnifica «famiglia», perfetta «compagnia», non si risarcirà che in extremis: forse perché, dei due fratelli, il più vecchio non volle rinunciare al ruolo di padre e il più giovane volle ribellarsi a quello di figlio... Episodi esistenziali, ma anche tappe d’un percorso creativo in cui fra ‘mondo del teatro’ e ‘teatro del mondo” 5

si svelano le coincidenze d’una poetica e d’un vissuto globali. All’origine c’è quel «dialogo» fra tradizione e innovazione, fra passato e presente, io-tu e io-mondo, che nel complesso itinerario eduardiano rappresenta uno dei tratti, dei traguardi, forse dei miti salienti. Rapporto «conflittuale» ma dinamico, per essere capace di proiettarsi nel futuro (al di là delle soluzioni che Eduardo ne ha dato nella propria commedia biografica). Nella nostra epoca di crisi del «dialogo» egli da «uomo di spettacolo» si è proposto di rimetterlo in funzione. Dal suo punto di vista straniato o sintetico, i princìpi che informano la vita rel teatro sono divenuti quelli che dovrebbero regolare la vita anche fuori del teatro. La chiarezza indispensabile perché dramma e commedia comunichino col pubblico è anche il mezzo per rifondare la normalità nei rapporti interumani. La necessità che un personaggio (sia pure il protagonista) non soverchi gli altri, o una compagnia proceda di concerto, si trasforma in principio di solidarietà famigliare e sociale. Perciò il dialogo fra tradizione e innovazione, che impedisce al teatro di balbettare soltanto o di morire, si concretizza nel circuito vitale vecchi-giovani. La «tradizione», se saputa intendere e usare, «mette le ali»: i gio-

vani, ‘figli d’arte’ compresi, possono «dare un calcio» alla lezione dei padri solo dopo aver approfondito quell’esperienza, se non vogliono «partire da zero»; ma i vecchi non devono ancorarsi e ancorarli al passato, se vogliono conseguire quell’immortalità «laica» che è la speranza di sopravvivere oltre il loro «ciclo». Una «immortalità umana, quindi limitata, ma all’uomo è stato concesso il dono di sognare, che non è poi piccola cosa» [195, p. 182].

«Non ci dobbiamo occupare di noi stessi: non è un’autoconfessione, la commedia» [10, p. 35]; Eduardo ha potuto uscire da se stesso e attraversare la ‘quarta parete’ (che separa illusivamente la ‘scena dalla platea) grazie al suo osservatorio ambulante di ‘rappresentastorie’. È un grande comunicatore perché il pubblico è il suo grande destinatario: il soggetto, il bersaglio, l’interlocutore creativo al punto che il gioco delle parti possa rovesciarsi. È lo spettatore che, interrogato nel modo giusto, deve dare 6

le «vere risposte» all’inventore di spettacoli; «a braccetto con lui» l’autore deve poter uscire dal teatro, a fine rappresentazione. Lo spettatore «vivo» è inscritto nei suoi testi drammaturgici con la stessa precisione delle battute e dei movimenti dei personaggi («non solo quando recito, ma già quando scrivo il pubblico io lo prevedo», Nota ai Capolavori, p. x). La sua attenzione costante al «personaggio in più» l’ha sottratto a ogni tentazione di dram| maturgia

soggettiva:

incontreremo

sì il personaggio

Eduardo o il suo Autore (il rapporto fra i due è ambiguo e perciò fecondo) come in tante reincarnazioni di una maschera umana; ma l’arte ‘sua’ della commedia si fonda sia

su un lavoro di scavo interiore che su un lavoro d’astrazione e di generalizzazione. Sìk-Sìk, Luca Cupiello, Gennaro Jovine... saranno anche alcune delle diverse personalità che egli avrebbe potuto avere, se il nostro carattere è una scelta che continuamente si rinnovella; ma la sua

ambivalenza di «poeta comico e drammatico» implica l’orchestrazione di molte voci e di molti strumenti. Si hanno, «come si dice in fisica, i suoni armonici del suono fonda-

mentale» (Bergson); ma proprio perché Eduardo è un moderno (pur nell’esercizio di un’arte antica) il suono fondamentale produce anche risposte disarmoniche, e il coinvolgimento del pubblico, entrando a far parte del concerto, può creare musica dodecafonica. D'altra parte, nel teatro il gioco degli apporti comunicativi è più complicato che nella vita: personaggi, non uomini veri, devono comunicare col pubblico; le «parole» create dall’«autore» debbono essere ricreate dall’«attore», che è «il vero confessore spirituale del personaggio» perché può usare anche «gesti, sguardi, movimenti». Il «pubblico» stesso deve indicare «con le sue reazioni» —

all’attore e all'autore — «la vera natura teatrale del personaggio». In questo tiro incrociato il «regista» ha il compito di «armonizzare l’insieme» in uno spettacolo tanto più complesso quanto maggiore è l’impressione di semplicità. «Il vero pubblico vuole applaudire alla fine [...] quando, staccandosi dalla finzione scenica, s’accorge con quanta umiltà abbiano lavorato assieme autore, attori e regi7

sta» [195, p. 151]. La trinità artistica di Eduardo ha agevolato forse questo bel gioco delle parti: ha favorito una più diretta comunicazione fra lui e la «compagnia» come fra l’«insieme» e il pubblico; ma ha consentito soprattutto la corrispondenza fra testo drammaturgico ed evento spettacolare. Perché si produca la «discussione», perché lo spettatore si senta toccato nel vivo dalle provocazioni dell’autore, bisogna che fra testo e spettacolo l’armonia ci sia. Per Eduardo, l’esistenza della commedia in-

comincia dall’alzarsi del sipario-cornice: «non mi portate il copione definitivo — raccomanda ai suoi allievi di drammaturgia — perché nemmeno quando va in prova una commedia il copione è definitivo: nemmeno quando va in scena!» [10, p. 60]. Perciò i suoi testi non sono più

li «scenari» parziali e provvisori dello spettacolo popoCc ma neppure gli «scritti» elaborati «a tavolino» senza tener conto dell'ambiente in cui avrebbero dovuto essere realizzati: Cosa aspetto in questo mio studio [...]: il segnale che dia il «chi di scena», il fatidico «primo... secondo», che manda su il sipario e scopre per il pubblico la realtà costruita, e per l’attore la finzione reale. [...] Con la mia immaginazione cerco di mettere uno spettatore in ogni piccolo REC della mia camera [...]

E se scrivessi? Con il continuo stridio della penna, riuscirò [...] a rivedere i mille volti? [«Il Dramma», agosto 1936, poi in

195, p. 121]

Questa drammaturgica seduta spiritica evoca l’incontro fra oralità e scrittura nel laboratorio eduardiano: fra una cultura che predilige la mimica e il gesto, i valori fo-

nici e sonori della parola, e un’altra che, della parola, pri-

vilegia il significato e l’aspetto letterario. La civiltà teatrale del nostro secolo ha riscoperto sintomatici incroci fra le due culture: a maggior ragione il teatro di Eduardo, perché con un atto drammaturgico globale predispone sulla pagina l’impasto fra testo e rappresentazione. La sua è propriamente una scrittura scenica: può interessare anche «il lettore» (se l’autore «ha saputo esprimersi»), ma, inte-

grando le battute dei personaggi con didascalie che pre5

figurano ambienti e movimenti, gesti, ammiccamenti, al-

terazioni foniche della voce, già traduce in spettacolo la dimensione particolarissima di Eduardo interprete, drammaturgo e regista. Perciò neppure la parola «fine», che sigla l’ultima pagina del copione, suggella compiutamente il suo lavoro: «poi ha inizio la storia del nostro lavoro, quello che facciamo insieme noi attori e voi pubblico...» (Nota ai Capolavori, p. 1x).

C'è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare? [Ditegli sempre di sì, Cc]

Se il teatro di Eduardo è ur teatro che comunica, l’attenzione al linguaggio dev'essere fondamentale: la sua «lingua interna» conta per ciò che esprime, per ciò che crea, ma anche in quanto «universale semantico». Il conflitto base fra «individuo» e «società» diventerà via via, con sempre maggiore consapevolezza, mancanza di incontro, manifestandosi nella divaricazione fra il «codice privato» del Protagonista e la lingua di famigliari, vicini,

amici, di quell’ Antagonista collettivo che rovescia talvolta, dolorosamente, il mito partenopeo della Solidarietà. Di qui l’oscillazione continua e caratteristica fra i poli tematici dell’«io» e del «tu», fra la rappresentazione dell’individuo isolato in un mondo che non lo capisce e la resa dei suoi tentativi di instaurare un rapporto di comunicazione con gli altri. D'altra parte le tecniche della comunicazione teatrale non riguardano soltanto le forme ‘verbali’, che implicano per l'Autore napoletano il problema lingua-dialetto; comprendono anche le strutture dei codici gestuale-mimico, fisio-mimico, spaziale-scenografico. Da questa prospettiva va considerata la trinità eduardiana: scrittura d’attore,

mondo dialettale e teatro in lingua; una «trinità eretica» (Meldolesi), che farà interagire reciprocamente i piani della tradizione regionale, dello spettacolo ‘popolare’ al 9

di là delle sue labili collocazioni di classe, e del teatro ‘colto’ novecentesco, dal mito nazionale Pirandello in poi

ed oltre. Gettato un ponte mobile fra i diversi linguaggi, come tra lingua e dialetto, le «Cantate» non esalteranno certi codici a discapito di altri: la stessa eresia trinitaria sarà capace di autosuperarsi nell’aspirazione a un teatro

del mondo... Neppure l’uso del dialetto è vera scelta all’inizio, per Eduardo, ma continuità con la «famiglia d’arte» in cui cresce anzitutto come attore: la matrice partenopea dell'operazione drammaturgica che egli svolgerà, per più di mezzo secolo, si precisa in quel bagaglio di tradizioni recitative e sceniche che marcano la distinzione fra l’«attore dialettale», specialmente se napoletano, e gli altri attori. Quella «cassetta dei trucchi», che 1’Autore — come poi il suo ambiguo sosia Campese — continuerà a «salvare», contiene abitudini trasformazionali e generative, quali l’imzprovvisazione e la ripetizione, indotte dalla necessità di recitare «due, tre testi la settimana», nei generi

detti «San Carlino, Petito e Altavilla» o nell’ambito del «teatro d’arte voluto da Di Giacomo, Bovio, Murolo», oltre naturalmente ai testi del ‘padre’ Scarpetta. Quando scrive Farmacia di turno nel 1920, per la compagnia del fratellastro Vincenzo, Eduardo già da sedici anni vive sul palcoscenico: solo in questa prospettiva si può parlare del suo «atto unico» d’esordio. Un farmacista filosofo è costretto, da un fatale scambio di flaconi, ad assumere la parte del marito cornuto che vendica il proprio onore: la situazione-limite ha fatto pensare a un «grottesco a teatro» sulle orme chiarelliane di La maschera e il volto (Chello che simmo e chello che parimmo, nella riduzione tempestiva di Vincenzo); ma richiamare Pirandello è troppo. L’opera non oltrepassa la misura e il senso della ‘trovata’; anche se il discorso del protagonista (che ci informa dell’antefatto) prelude ad altri, più significativi, monologhi eduardiani. Tali parentesi aperte nel «dialogo» per dar luogo a «monologhi essenziali» (Szondi) segnaleranno più tardi una media incomprensione fra gli uomini; eppure discendono da un'esigenza pratica della

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tradizione: «a causa della scarsa attenzione del pubblico [...] l’autore doveva continuamente riassumere quanto era stato detto e fatto», affidandosi poi «alla fantasia e all’estro dell’attore» che «recita a soggetto» (Eduardo presenta Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, Einaudi, Torino 1974, p. 4). Un primo esempio di come la scritturalità dell'artista non abbandoni gli apporti dell’oralità, li sviluppi anzi e li valorizzi... Anche il dialetto che il nostro «figlio d’arte» apprende dal «sillabario» teatrale del padre ha subìto un processo di «regolarizzazione». Perché l’epoca di Scarpetta e di Di Giacomo (che non è più quella del grande pulcinella Petito) porta a una «formalizzazione» dello spettacolo partenopeo: è «un periodo di faticosi assestamenti unitari dove il dialetto [...] non è neppure contestativo rispetto a questa linea, ma semplicemente tenta di entrarvi, dandosi [...] una sua ‘civiltà’» (Jacobbi). Il linguaggio del primo Eduardo-nasce da questa koznè stabilita alla fine dell’Ottocento, che implicava l’uso di una dialettalità non più soltanto caricaturale, gergo interno al teatro, ma capace di estendersi sul piano del parlato sociale. D'altra parte la «riforma» scarpettiana non era rivolta soltanto all’aspetto linguistico: l’attore-autore napoletano aveva interpretato la crisi della «maschera» in senso naturalistico, nella prospettiva per cui il fatto teatrale si indirizza verso la «divisione dei compiti». Era personaggio attento ai tempi, e i tempi evolvevano verso l’industria dello spettacolo: il pubblico «voleva ridere, ma vedere attori e non maschere sul palcoscenico, attori ben vestiti che recitassero e non improvvisassero» (si legge nelle sue Mezzorie). Eppure la sua innegabile perizia comica è anche «il limite del suo talento, che è talento combinatorio» (Angelini); in

quanto traduttore di pochades e

vaudevilles o parodista esilarante di modelli «alti» nazionali, non sempre riesce a sollevarsi dal livello di riduttore del «già fatto».

Con Miseria e nobiltà (1888), dove il borghesuccio Fe-

lice Sciosciammocca appare assillato dal pauperismo morale e materiale, l’autore arriva a risultati per cui sapere £1

qual è la fonte non interessa più: realizza il prototipo dello ‘scaduto’ e dell’‘inattuale’ che avrà seguito nel teatro di Eduardo e anche in quello di Raffaele Viviani. Ma neanche nei personaggi più miseri di Scarpetta il rovello dell’«apparenza» risulta inferiore a quello della «fame», perché la sua scelta di campo era stata complessivamente

un’altra. Mettere in scena «uomini e non pupattoli» si-

gnificava per lui rappresentare la borghesia napoletana (dove la comicità prorompe «così vivace e irresistibile dal

contrasto che nasce dall’essere e il voler sembrare e [...]

perfino dal linguaggio, uno strano miscuglio di dialetto e di italiano»); escludere la plebe «troppo misera, troppo squallida e troppo cenciosa per poter comparire ai lumi

della ribalta e muovere il riso» (E. Scarpetta, Cinquan-

t'anni di palcoscenico, Napoli 1922, poi Milano 1982). Era

una scelta di campo orientata, lucidamente, da una scelta

di genere: la «commedia brillante».

Già nel Don Felice Sciosciammocca, creduto guaglione ‘e n’anno di Petito, il Pulcinella «ciabattino» non ride né

fa ridere delle sue disgrazie: la comicità scatta con l’arrivo di Don Felice, irriso perché vuole «apparire» senza «essere» e perfino approfittarsi dell’altrui credulità. Da lì era partito Scarpetta (Felice era stato il suo primo ruolo d’attore); ma proprio nel passaggio dal Pulcinella petitiano

(«contadino inurbato con una subalternità sostanziale ri-

spetto ai modelli alti») al «figurino» scarpettiano si può cogliere una svolta storica e soprattutto un mutamento di obiettivi spettacolari (Angelini). Anche se Napoli è una «metropoli arcaica» dove piccola-media borghesia e proletariato vivono di reciproci sconfinamenti, l’imborghesimento del personaggio-tipo manifesta una trasformazione di prospettive nel teatro partenopeo sul crinale del secolo. In questo senso l’‘eredità’ della riforma paterna è svolta nel Novecento piuttosto da Peppino che da Eduard o. Il figlio minore ne correggerà il tiro verso una comici tà

più sfumata («dal bianco al nero insomma e viceversa») e uno spessore più «umano» dei personaggi; ma il suo rinnovamento della «commedia napoletana» avrà ancora come obiettivo la creazione di un teatro «capace di saper 12

esprimere difetti e valori della Napoli borghese» [194, p. 225]. Il figlio maggiore si sentirà attratto, soprattutto, dagli aspetti formali dell’operazione scarpettiana: «fedeltà al copione scritto, abolizione delle improvvisazioni divenute oramai insopportabilmente lunghe e tediose; disciplina in compagnia e nello scrivere» (come conferma, negli anni Settanta, la sua ricapitolazione ragionata e corretta del teatro del padre). D'altro canto il Pulcinella petitiano, come variante d’una figura-mito che parte da Napoli per diffondersi nel mondo, continuerà ad esercitare su Eduardo un fascino irresistibile. Così come resterà impressa nella sua memoria scenica la singolare struttura «fonetica» dei copioni di Petito, controcanto fecondo alla scrittura teatrale «regolata» perseguita dal padre. L’eredità assunta non si limita comunque alla farsa petitiana e scarpettiana: quando incomincia a intrecciare

il ruolo di attore con quello di autore, Eduardo ha già attraversato i ‘generi’ più diversi della tradizione. Appena tredicenne aveva recitato, nella compagnia di Enrico Altieri, in melodrammi senza musica, copioni storico-so-

ciali a puntate, «sceneggiate», attraversando quel filone popolare-dialettale che trasformava in spettacolo la quotidianità più grama e violenta, i problemi minuti ma assillanti di un sottoproletariato (il proletariato di Napoli)

incapace di prendere coscienza della propria condizione, che si arrangiava piangendo o ridendo della fame e della miseria come di mali endemici da esorcizzare. Quel mon-

do, di cui Mastriani e Stella erano stati il maggiore autore e il principale interprete, sarebbe stato riproposto con ben altra efficacia espressionistica dal teatro novecentesco di Raffaele Viviani. Ma negli anni di guerra (la prima) il nostro aveva pure cantato, ballato, inventato scenette, sketch, bozzetti; quando il «varietà», nel quale avevano furoreggiato le «macchiette» vivianesche, era stato proibito dal * (come «spettacolo poco edificante» per i reduci dal fronte), egli era passato alla «rivista». Anche durante la pausa drammaturgica fra Uomo e galantuomo e Ditegli sempre di sì (1922-27), il giovane Eduardo continua a cucirsi «abiti 13

nuovi», reinventando quelli «vecchi» e provando abiti «diversi». Episodi più significativi: il sodalizio con Michele Galdieri, nell’estate del ’27, per La rivista che non piacerà (cui partecipano anche Titina e Peppino); la scrittura nella compagnia di Luigi Carini (insieme ad attori prestigiosi come Camillo Pilotto e Armando Falconi), che portava sui palcoscenici italiani lavori del «teatro nazionale» in lingua. Ma la sua irrequietezza sperimentatrice non dipendeva soltanto dall’ambizione di misurarsi in quel «teatro di prosa» che era per un attore dialettale «come raggiungere la Mecca: la città santa del teatro italiano» (Peppino); lui aspirava a uscire dalla «napoletanità» come «cosa immobile». Voleva crescere come inventore di spettacoli (l’esperienza con Galdieri), ma anche come autore. Però la compagnia Carini fu una delusione: i testi di Niccodemi e di Forzano non facevano per lui. Se doveva guardare al teatro nazionale, preferiva puntare sul più grande, su Pirandello. Fin da quella sera del «1919», in cui da un «un palco lateralissimo in quarta fila» assiste a Sei personaggi in cerca d’autore al Mercadante di Napoli; restando senza una lira in tasca ma «godendo di una serata indimenticabile». Nel frattempo: meglio rientrare in «famiglia», nella compagnia di Vincenzo, e continuare a farsi le ossa a modo suo! Nella prima tappa del suo itinerario drammaturgico, si susseguono quindi le commedie più legate alla tradizione spettacolare partenopea ‘popolare’ e ‘colta’ — da Farmacia di turno del 1920 a Quinto piano, ti saluto! del 1934 (è del ’33 l’incontro personale con Pirandello) —

com-

plessivamente denotate dall’uso ancora naturalistico o parzialmente farsesco del dialetto: stretto in bocca ai personaggi bassi, italianizzato nell’espressione dei ceti più elevati; per quanto il «bilinguismo», l'alternanza di «toscano» e «dialetto», facesse parte della tradizione stessa, a partire dalla «commedia meditata» di Francesco Cerlone. La «lengua napolitana» offriva al giovane Eduardo più facili occasioni per quel «comico delle parole» che conserva le peculiarità del colore locale; ma già in questa fase

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transitoria e sperimentale, quando può sembrare istintivo o non ancora pienamente consapevole l’incontro fra i due strati culturali dell’oralità e della scrittura, il /eit-motiv

della «comunicazione difficile» si profila nelle vicende e nelle fisionomie di Michele Murri di Dizegli sempre di sì (1927) e di Sik-Stk, l'artefice magico (1929). Sono entram-

be commedie sul «linguaggio»: nei due atti del ’27 il motivo appare concretamente riferito al tema della pazzia, in

‘una contaminazione originale fra tradizione sancarlinia-

na, Scarpetta padre e teatro pirandelliano o «grottesco»; nell’atto unico del ’29 si collega alla problematica dell’i/lusion comique, ma regionalmente incarnata nel vissuto di un artista da strapazzo. Pazzi, fanciulli che non crescono mai o visionari non sono che varianti, nell’antropologia drammatica eduardiana, del primo termine del conflitto fra individuo e società: e a questa genìa di spostati appartiene naturalmente

l’attore, uno che prova sulla propria pelle il «dramma del passaggio» dalla vita al teatro e viceversa. Specialmente l’attore di infima categoria: i/ tipo tradizionale dell'artista guitto, povero, tormentato e filosofo che ci viene innanzi in Stk-Sîk, mascherato nei panni approssimativi del mestiere (CGcP, did., p. 164). L’avevamo già incontrato in Uorzo e

galantuomo del ’22: in quella prima commedia «meta-teatrale» (sebbene l’autore potenzi la famosa scena delle «prove» solo nella Cantata del ’79) i temi della pazzia e dell'attore si riflettevano l’un l’altro in un gioco di specchi e di parole tirato fino all’assurdo; a rilevare come la quiete dei savi comporti l’esistenza dei fo/li, anche se si fingono tali per sfuggire alla fame. Ma in Ditegli sempre di sì c’è un pazzo vero, con l’idea fissa della letteralità linguistica: Michele rifiuta di fatto il dialogo elaborato dalla società, e s'inventa un «linguaggio privato» che è anche un «anti-linguaggio» (Todorov). Di qui il leit-m0tiv verbale — «C'è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?» — in funzione di «formula magica», grazie alla quale il protagonista può sollevarsi da un'umanità che imbroglia costantemente se stessa; eppure lo stesso refraiz, agendo da detonatore comico, smonta i giochetti di vae,

nità, di ipocrisia e di egoismo che si celano dietro l’uso figurato delle «parole» dei cosiddetti «normali». D’altra parte anche Sìk-Sìk si esprime in un anti-linguaggio: egli è un illusionista-illuso, un sognatore e costruttore di sogni (come poi l’infantile-caparbio Luca Cupiello). Risucchiato dai suoi giochi magici, si ostina a identificare la propria personalità in una lingua scenica ‘elevata’ di cui non avverte le storpiature bastarde o dialettali. Però quando si rivolge al suo ‘pubblico ideale’, questo (in quanto ‘pubblico rappresentato’) non gli risponde, gli rispondono soltanto (ma come non dovrebbero) le due ‘spalle’ rivali Ra-

fele e Nicola. L’allocuzione al pubblico diventa inessenziale dal punto di vista della comunicazione, sostituita dal lungo ‘monologo’ del protagonista che invano, ma tenacemente, cerca di salvare con la manomissione ‘verbale’ dei ‘fatti’ la propria illusione. Sia Michele «'o pazzo» che Sìk-Sìk «l’artefice magico» cercano testardamente la comunicazione, il primo con la società dei «normali», il secondo con il «pubblico rispettabile», ma sono costretti a inventarsi un codice privato, incomunicante con i loro destinatari scenici; eppure i loro anti-linguaggi giungono al destinatario meta-teatrale, il pubblico vero. Attraverserà le «Cantate» l’esigenza di superare la rappresentazione dei «temi dell’io» con la resa, più informativa sul piano delle strutture sociali, dei «temi del tu»: per conseguire appunto il rapporto che si stabilisce «nel discorso» fra due interlocutori. Ma vi ricorre anche il leit-m0tv di un linguaggio privato o alternativo: e quando il trovarsi al di qua del linguaggio degli ‘altri’ si mescola, nel carattere del ‘personaggio’, con la pazzia, l'attitudine visionaria o il candore infantile, allora l’effetto di straniamento (oltre a quello di comicità) è garantito, e il cosiddetto dialogo con i sani, i miopi o gli adulti, appare il mezzo più inadatto alla comunicazione. Il protagonista di Ditegli sempre di sì proviene da un mondo diverso, il manicomio («quel» luogo «Ilà» che non dev'essere neppure nominato), e ritorna al suo ambiente piccolo-borghese (di «prima») come a un pianeta ormai sconosciuto. Ma nel coro dei sani, dei «personaggi immo16

bili», si distinguono le voci più inquietanti della sorella Teresa (i cui gesti a scatti fanzo capire che qualche rotella le manca) e del suo inquilino Luigi (che ha occupato provvisoriamente la camera di Michele). Non solo questo poetastro, filodrammatico, ex-studente di medicina, verrà scambiato per il ‘pazzo’ dalla società dei normali, ma, anche quando la ridistribuzione dei ruoli gli riconoscerà la patente di ‘sanità mentale’, il protagonista continuerà a rispecchiarsi in lui. Contro il suo antagonista-sosia si appunta l’ultima tirata di Michele, nella cui serietà maniacale si manifesta in modo grottesco (ma agghiacciante) l’opinione degli ‘altri’: «Vattènne ’o manicomio. Tu sei un pericolo per la società. La gente ha paura di te, hai capito? Gli amici, i parenti, ’a famiglia ti possono compatire, ma a un certo punto si rassegnano e ti abbandonano. Vattènne ’o manicomio...» (CcP, II, scena ultima). I due atti suddivisi in scene brevi (come nella «farsa») rappresentano il viaggio del pazzo fuori del chiuso del manicomio, e il suo approccio prima con la casa (la cui spazialità a Napoli è aperta), poi con la società (A Bellavista in casa Gallucci). La fine della sua grottesca avventura nel nostro purgatorio quotidiano ribadisce l’ermeticità del confine fra i due mondi: solo con l’eliminazione del pazzo vero (Michele) sarà possibile la sopravvivenza del pazzo finto (Luigi) nel mondo dei savi.

Da parte sua Sìk-Sìk, piccolo mago d’avanspettacolo, lotta eroicamente contro le banali — ma per lui tragiche — difficoltà pur di salvare il proprio sogno di grandezza. Arriva tardi per colpa della moglie-partner (incinta, a testa nuda e con un misero cappottino sulle spalle) all’appuntamento col solito compare, ed è costretto a ingaggiare una seconda «spalla». Ma l’irruzione inaspettata della spalla abituale, tipo comicamente losco di avventuriero e di vagabondo, scombina ogni «gioco preparato»: la contesa tra i due falsi aiutanti per «ddiece lire» manda a monte, durante lo spettacolo, i numeri organizzati da Sìk-Sìk. L’opposizione fra illusione e realtà si manifesta nella dialettica spaziale fra ‘retroscena’ e ‘palcoscenico’; una piccola marcia di occasione scandisce le due parti dell’azione e i cam17

biamenti di scena a vista. Su tale bipartizione si innestano il dialogo Sìk-Sìk-Giorgetta, i due incontri-scontro Sìk-Sìk-Rafele e Rafele-Nicola (parte prima), e l’azione

sul palcoscenico che introduce direttamente noi, pubblico reale, ad assistere allo «spettacolo» del «mago» (parte seconda). Il Jeit-motiv recriminatorio di molti sognatori eduardiani verso la con-sorte di turno («Tu si’ ’o guaio mio! Tu sei l'origine di tutte le mie disgrazie!») richiama coppie vivianesche (il Magnetizzatore girovago e la sua donna che fa la Sonnambula di Piazza Ferrovia); ma il fallimento,

iterato tre volte, dei giochi di Sìk-Sìk si pone in un rapporto di doppia similitudine col ‘mondo del teatro’ e col ‘teatro del mondo’. Nella sfera dell’«io» si svolge il dramma del protagonista: il risvolto comico è colto solo da noi, spettatori veri, nel momento in cui l’illusionista-illuso è forzato ad entrare in rapporto con gli «altri». Soltanto noi assistiamo in simultanea allo spettacolo e al retro o contro-spettacolo: alle inadempienze, alle gaffes, ai contrasti dei due aiutanti divenuti antagonisti. La loro combinazione concorrenziale non fa la forza, ma appunto la controforza alla povera magia di un moderno anti-eroe: in quello spazio artistico (prefigurato dalle didascalie) che comprende non solo il sipario, la ribalta, le quinte, /a scaletta che dalla sala conduce al palcoscenico (did., p. 170), ma

anche il sonoro dei rulli di tamburo, beffardo contrappunto ai bisbigli irritati del mago in balia dei suoi caotici aiutanti. Il ‘monologo scenico’ del protagonista diventa sintomo del suo isolamento nello sforzo di illudere il pubblico d’essere non un «prestiggiatore» ma un «mago Vero»; le battute sconclusionate, ma anche dispettose e ironiche, dei due compari evidenziano il vuoto creatosi attorno al ‘bla bla’ pretenzioso di lui (pp. 170-71). In questa commedia-sul-linguaggio (non solo verbale) fa il suo gioco anche il rapporto lingua-dialetto. Mentre in Ditegli sempre di sì l’uso del napoletano rientrava nella prassi naturalistica (è solo il «medico dei pazzi» a parlare italiano), in Sîk-Sk possiamo individuare due codici diversi (dialetto e italiano bastardo ma velleitario), la cui 18

compresenza avvia ad una sperimentazione espressioni-

stica del parlato scenico. Tre persone, o figure, si avvicendano nel protagonista: il marito, l'artista che ingaggia il subalterno, il rz4go che deve affascinare gli spettatori. Da un ruolo all’altro egli muterà d’abito o di costume; ma anche il suo trasformismo verbale lo pone in un campo semantico «mobile», contrapposto a quello degli altri. Mentre Giorgetta, Rafele, Nicola parlano in dialetto, rappresentando i «personaggi immobili» inseriti nella sfera della «realtà», lui parla «naturale naturale» solo con la moglie, perché come «artista» vuole elevarsi, assurzendo un’aria d'importanza e cercando di usare un linguaggio analogo (did., p. 164). Il fatto che tale elevazione rimanga pura velleità, sprofondandolo nei tormentosi labirinti della grammatica, produce il meccanismo comico ma pone anche l’italiano in quella realtà ostile che Sìk-Sìk si illude di sconfiggere. Nonostante il suo immaginario cosmopolitismo, l’«artefice magico» risente del «prestigio della varietà settentrionale dell’italiano sulla lingua parlata meridionale» (De Mauro); non appare certo affrancato dallo storico complesso di inferiorità, che lo accomuna ai suoi conterranei poveri, nei confronti del Nord più ricco e privilegiato. Ma proprio l’essere «attore» lo differenzia costantemente dagli altri poveracci qualunque, giustifica il suo variare di linguaggi e di abiti, conferisce dignità al suo «personaggio».

Mutano dunque dalla commedia del ’27 all’atto unico del ’29 gli strumenti linguistici dell’opposizione fondamentale. Michele oppone all’ambiguità espressiva degli altri un controllo maniacale delle parole, che passa dal significante al significato, dalla fonetica al lessico al senso, dai gesti alle cose. La sua attenzione puntigliosa (e dispettosa) al linguaggio proprio e altrui rappresenta quella speciale «marchiatura» che gli impedisce la comunicazione col mondo circostante. Quando l’amico Ettore afferma di

essersi «servito dei depositi dei suo: clienti», il pazzo lo

mette subito con le spalle al muro: «Ma ’e solde erano d’’e tuoie?»; ETtToRE — «No...»; MIcHELE — «E allora li hai rubati. C’è la parola adatta, perché non la dobbiamo e)

usare?» (I, 6). Certe battute del protagonista sarebbero «spiritose» se non si trattasse di spirito involontario: noi

però ridiamo lo stesso, perché non ridiamo di /ui, ma degli altri, perché egli coglie «una metafora, una frase, un ragionamento e lo ritorce contro colui che li ha fatti [...] in maniera che dice proprio ciò che non voleva dire e viene ‘da sé’ in certo modo a farsi prendere nelle insidie del linguaggio» (Bergson). Sono invece i trasformismi verbali e gestuali dello stesso Sìk-Sìk a focalizzare il conflitto cruciale fra io e mondo che drammatizza quest'opera pervasa di irresistibile comzicità. Perciò la tensione reciproca fra dramma e commedia raggiunge l’acme nella scena di teatro-nel-teatro in cui Giorgetta rischia di soffocare nella «cascia di legno»: il lucchetto «vero» non si apre! Attraverso la didascalia, l’anima dell’artista ci si mostra contrariata dai

bisogni del corpo; ma neppure il futuro padre dimentica d’essere attore, mentre scassa con colpi sordi e disperati il lucchetto, sebbene il risvolto privato della scena pubblica si traduca, quando egli libera finalmente la moglie, nel gesto con cui /4 sua mano si poggia, paterna e timorosa sul

grembo di lei (did., p. 178). La visione del mondo dell'Autore oscilla continuamente fra i due poli opposti della desolazione e della tenacia ricostruttiva (anch’essa oscillante tra illusione e realtà); di qui l’«ambiguità» dei suoi finali come costante strutturale. I ‘finali’ delle opere eduardiane saranno spesso ‘doppi’, tanto che basterebbe la soppressione di una battuta o di una didascalia per mutarne, addirittura rovesciarne, il senso. Anche quando l’ultimo gioco fallisce, e al posto del «culombo» appare da/ cappello a bombetta un nero pollastro, il mago non si avvilisce, ed anche questa volta risolve come solamente lui può risolvere: «Il culombo che vi trovava in quella gabia l'ho fatto sparire, l’ho fatto trovare nel cappello del signore... (Una breve pausa che basta a ridargli la sua abituale audacia) E l'ho fatto diven-

tare pollastro!» (p. 175). Però la didascalia conclusiva in-

sinua consapevoli dubbi, da parte dell’illusionista stesso, sull’efficacia di questa ‘risoluzione’, suggellando l’opera 20

con una nota di amarezza: Se l'orchestra non lanciasse i suoi ironici accordi di tromba si udrebbe il singhiozzo di SèkSîk. Ma la tela, più pietosa, precipita (ibid.). Un movimento analogo del finale si indovina in Ditegli sempre di sì, dopo che lo «stravagante [da] ’o manicomio» (Lugino) diventa il bersaglio dei tiri maniacali del

pazzo vero (Michele): «Povero giovane, sei pazzo... Ma adesso ti aiuto io. (...) La malattia tua addé sta? Nella testa. E quindi [la logica formale nei discorsi del pazzo è sempre ineccepibile!], se ti taglio la testa elimino ’a malattia. Giusto?» (II, p. 133). L’‘arrivo dei nostri’ impedirà l’eliminazione dello scomodo Doppio, ma nella conclusione si manifesta la reversibilità dell’intreccio: il pazzo riparte nell’ultima scena per il suo mondo di provenienza. Se il suo attraversamento del mondo dei normali provoca oltre a diffidenza e paura, per un attimo, anche vergogna (ATTILIO: «Stammo tutte quante sott’ ’o cielo»), tutto su-

bito ricomincia «da capo»: grazie alla trovata farsesca che ristabilisce (amaramente) l'equilibrio della commedia (Di-

cendo queste battute ognuno indossa la sua giacca, nota la mancanza dei bottoni con reazioni a soggetto e cala il sipario: did., II, p. 135). Trovata che l’autore potenzia nella versione del ’32, e da regista riprende nello spettacolo del 1982: la mancanza dei bottoni diventa scambio di bottoni, in modo che i superstiti sani «liberatisi del deviante» possano continuare «ad appiccicarsi... come pazzi leciti» (Chiaretti).

In Michele, Eduardo ha incontrato il suo prototipo di «folle ragionevole», capace di sovrannaturale buon senso: uno che stando o/tre la soglia guarda la terra, e di colpo, in un baleno di luce, vede la verità che noi conosciamo annebbiata; ma in Sìk-Sìk ha trovato il suo personaggiochiave. Da qui in avanti l’artefice magico continuerà a rappresentare il suo sosia geniale e pezzente, specie di mito e di memento insieme: «raggiunto il benessere, l’attore perde la possibilità d’essere»; «se [i miei lavori] andranno male, io dirò che li ha scritti Sik-Sik. Facciamo a scarica barile, io e lui» [195, pp. 147 e 129]. Con l’interpretazione di questo personaggio, l’autore concluderà la sua carriepa

ra di attore (il 15 ottobre 1980 al Quirino di Roma). Pro-

prio perché Sìk-Sìk non è soltanto il prototipo eduardiano del «costruttore di sogni» che si scontra con gli ostacoli della quotidianità (miseria, emarginazione regionale, so-

ciale, linguistica), ma è soprattutto il prototipo dell’«attore», di quell’illusionista universale che i sogni vuole costruirli anche per gli altri, per il pubblico sempre e comunque «rispettabile». I sogni, e forse — se possibile — qualcosa di più. E l’unico discorso meta-teatrale che l’Autore si sente di fare, incarnando i suoi argomenti in personaggi «vivi»: da Gennaro De Sia di Uomo e galantuomo (1922) a Sìk-Sìk dell’ Artefice magico (1929), da Franco Silva della Parte di Amleto (1940) a Otto Marvuglia della

Grande magia (1948), fino a Oreste Campese dell’ Arte della commedia (1964).

Il 1929 segna, d’altronde, una tappa importante nella biografia esistenziale-artistica di Eduardo: in quell’anno si era riunito a Titina e a Peppino nella compagnia Molinari del Teatro Nuovo, per debuttare con la rivista Pu/cinella, principe in sogno... (nel giugno del 1930). «Fu quello, in verità — scrive Peppino — l’inizio della vera fortuna per noi De Filippo [...] Del successo enorme che ottenne quello spettacolo, la parte del leone spettò al SikSik di Eduardo» [194, pp. 238-39]. Ma prima di sviluppare nelle sue potenzialità espressive il carattere «mobile» di quella maschera umana l’Autore continuerà a nutrire la sua drammaturgia di un 57245 che mescola il varietà con la farsa, la sceneggiata con la rivista: come un albero della vita e dello spettacolo che affondi le sue radici in un terreno comune di reale e di fantastico. Ha già sostituito la maschera «impastata di sofferenza agro-dolce, ridanciana e disperata» (Pullini) di Pulcinella,

e anche la «maschera-

senza maschera» di Felice Sciosciammocca, con il personaggio-prototipo dell’uomo. Non l’ha colto però nel campo asociale di quella plebe partenopea che dell’arte di arran-

giarsi faceva la sua misera professione (istintivamente istrionica), né in quel ceto appena elevatosi che della sua precaria promozione portava (negli abiti e nella lingua) i segni vistosi e grotteschi, ma in quel mondo ex lege del 22

teatro che tuttavia aspirava, fra gli assilli del «vitto», a una dignità artistica e sociale. L’andirivieni fra i generi e i sottogeneri dello spettacolo napoletano porterà l’autoreattore a nuovi sondaggi del teatro del mondo, solo apparentemente 4/ di qua del mondo del teatro. Il pianeta piccolo e medio borghese, che aveva subìto in Ditegli sempre di sì i contraccolpi comici d’una «follia ragionevole», in Fi/osoficamente (atto unico del 28) è ri-

preso da un’ottica minore ma funzionale: immerso in una luce uguale, senza lampi sinistri, ma neppure bagliori di verità. La comicità di Eduardo è acre e perfino crudele, quando raffigura la mentalità dell’Italietta fascista fra il °20 e il 30 nel «conformista» per rassegnazione, il «borghese piccolo piccolo» Gaetano Piscopo, o per vocazione,

il «piccolo possidente» oculatamente agiato di Chi è cchid felice ‘e me! (1929). Il leit-motiv del secondo sarà: «Io aggio preveduto tutto, che me pò succedere a me?» (Cop, I, 4): in un tran-tran economico e coniugale mai arrischiato

egli ha riposto il proprio ideale di «felicità». Perciò l’Autore inserisce in questo contesto di mediocrità provinciale il meccanismo beffardo dell’inversione: dopo che l’irruzione dello straniero di città, pericoloso all’ordine pubblico e privato (è la faccia violenta e facinorosa del regime, che si manifesta a sorpresa) ne avrà sconvolto la routine.

L’ordine domestico del primo atto appare nel secondo rovesciato in disordine; quella moglie «assignata, economica» ma «pure bella!», alla fine di una tirata che ristabilisce a parole la legge coniugale fondata sul «rispetto», si getta di fatto nelle braccia del giovane amante: provocando la ridicola costernazione del marito nascosto în osservazione insieme agli amici-spettatori. Anche questo finale doppio o colpo d’ala finale ribalta il serio nel corzico (0 viceversa),

ma il rapporto mistificante tra il dire e ilfare non riguarda soltanto i protagonisti: la solidarietà è assente da questa provincia napoletana ‘falsamente’ sana e conservativa (come sarà anche quella di Bere mi0 e core mio e del Contratto); si manifesta nei ‘discorsi’ soltanto di un coro pettegolo e maligno.

Se d’altra parte i due atti di Chi è cchid felice ’e me! 23

rinnovano la commedia partenopea, Quei figuri di trent’anni fa, atto unico dello stesso ’29, torna a rielaborare i meccanismi della farsa. Infatti l’ambiente di malavita locale (Eduardo fu costretto dalla censura fascista a retrodatarlo di «trent’anni») riemerge come straniato, demistificato rispetto all’epica dei bassifondi di MastrianiStella: in una serie di scenette comiche, secche e veloci, che guardano piuttosto alla riforma scarpettiana. Ma l'Autore dà un altro tocco alla raffigurazione dei suoi «insociabili», focalizzando il candore soprattutto verbale di un «palo», Luigi Poveretti, improvvidamente assunto dal proprietario di una «bisca» clandestina allo scopo di spennare i «polli». Il gioco su/ linguaggio è azionato dal contrappunto comico fra il gergo della malavita e la lingua comune del protagonista. Ma, in un contesto in cui il ‘dialetto’ si trasforma in codice privato, l’‘italiano’ del botghesuccio spaesato diventa lingua di un isolato, intorno al quale gli altri, anche quando italianizzano il proprio linguaggio, parlano in modi lambiccati e grotteschi. Non a caso nella Cantata del ’79 (dove il testo appare variato rispetto a quella del °59) l’azione terminerà in una parossistica «mascherata sociale» che coinvolge anche la «legge» (CGP, p. 242). Come se nella partitura scenica (scar-

pettiana) avesse operato l’influenza vivianesca di quel «ballo» di prostitute, di ladri e di magnaccia, finito nell'accerchiamento di brigadiere e guardie da parte delle donne, ebbre del valzer (Tuledo ’e notte, 1918). Nasce quindi Nazale in casa Cupiello: come «atto uni-

co» (il secondo attuale) che Eduardo scrive nel ’31 per il debutto insieme ai fratelli al cinema-teatro Kursaal di via

Filangieri. Ancora una volta esigenze pratiche-spettacolari e volontà sperimentatrice si incontrano sul terreno della creazione drammaturgica: ogni lunedì, a ogni cambiamento di programma cinematografico, «Ribalta Gaia» doveva rappresentare «un atto» nuovo. E proprio in questi atti unici, attesi da un pubblico misto, sia popolare che appartenente ad ambienti culturali napoletani, l’Autore approfondisce aspetti diversi della sua ispirazione: ecco Gennareniello e Il dono di Natale (1932), poi Quinto pia24

no, ti saluto! (1934). Per gli ultimi due si è richiamata l’in-

fluenza del cosiddetto «teatro d’arte» partenopeo (Antonucci); ma il più importante è indubbiamente il primo, anche per il gemellaggio che lo unisce al Natale. Attraverso corrispondenze fra i due testi-principes del «famigliarismo» eduardiano si possono stabilire relazioni di carattere e di funzione fra i personaggi del suo ‘teatro domestico’ e quelli del suo ‘mondo dell’arte’; come se SìkSìk, il sogn-attore primigenio, provasse a calarsi nella vita comune. Gennareniello è un inventore incompreso: il suo «sistema per evitare le bucature delle gomme delle automobili» ha la stessa funzione, monomaniaca ed esisten-

ziale, del «presepio» per Luca Cupiello. Più concreta e attenta ai problemi del vissuto, la moglie: ma con un punto debole, il figlio diciottenne eternamente bambino, pigro, viziato, famelico, dispettoso con il padre e la zia (o lo zio). Vittimistica, del resto tollerata in casa con fastidio,

la sorella zitella del padre, come il fratello celibe di Luca Cupiello. E nella rielaborazione di Gennareniello (nella Cantata del 71) si introduce una ‘solidarietà artistica’ tra fratello e sorella (Gennaro è anche poeta, Fedora è un’a-

spirante pittrice), che li oppone agli altri anche nel linguaggio (entrambi si sforzano di parlare ‘italiano’); sodalizio che ritroveremo in Sabato, domenica e lunedì, la com-

media che dilaterà nel ’59 l’immagine concreta e simbolica d’una famiglia-compagnia teatrale. Ma il «terzo occhio» della prospettiva scenica è vigile fin dagli inizi a riprendere il mondo: uscendo dal chiuso trasformistico della bisca clandestina (Quei figuri) all’aperto dell’angusto terrazzino fra i tetti, ‘sfogo’ della famiglia di Gennaro che abita all'ultimo piano, si propone un diverso scorcio di quotidianità piccolo-borghese rispetto alla terrazza al quinto piano di Filosoficamente. Forse perché

l'incipit della commedia del ’32 riprende quello di Uomo

e galantuomo: con le donne che stendono il bucato sul terrazzo comune. Anche i fili tesi sulla terrazza di Gennareniello intrecciano esistenze individuali e famigliari come su una piccola ribalta: il «reggipetto» teso ad asciugare

dalla bella dattilografa chiacchierata dal vicinato scatene75)

rà la vena lirica del protagonista e la gelosia di sua moglie. È l'oggetto proibito che rivoluziona l'apparente tranquillità d’una famiglia-tipo eduardiana. Gennaro non si rassegna a sentirsi «un uomo finito», risponde alla provocazione della giovane donna; corre il rischio di «pazzià» una volta. Dopo quel «bacio» tutto si sommuove: la moglie gli dà del «viecchio rimbambito» e lui minaccia di andarsene da casa. Ma quando gli amici incominciano a «sfruculiallo» come un senile buffone, in una magnifica scena di travestimento che sfuma d’amarezza il riso, proprio Concetta caccia via infuriata quelli che hanno ridicolizzato l’«ommo» suo. La soluzione è esemplare, perché riassume gli ingredienti e il senso della commedia. Ancora un lieto fine a doppio taglio: la solidarietà fra i coniugi riscopre la poesia anche nella mediocrità quotidiana; però Tommasino, seduto in fondo a cavalcioni del parapetto, come un maligno Ariel rilancia la nota comica, dissonante, d’ogni piccolo idillio crepuscolare: «Papà... te piaceva ’a signurina, eh?» (CGP, p. 322). La spazialità scenografica del teatro di Eduardo risponderà sempre a significazioni ‘anche’ sociologiche: l’esistenza della borghesia napoletana piccola e media s’apre alla collettività in terrazze, balconi, ballatoi di palazzonialveare, mentre quella del sottoproletariato attraverso fenditure basse, che trasformano la strada nella grande casa all’aperto della gente. Ma l’ex plein air è il luogo deputato di Viviani; la prospettiva del Nostro è piuttosto dall'interno all’esterno. Non si tratta tanto d’una scelta di campo sociale — le «Cantate» investiranno tutte le classi, soprattutto nelle loro sfumature intermedie —, quanto d’una diversa visione del mondo. Alla base del «famigliarismo» eduardiano c’è la convinzione che nei problemi concreti dell’«uomo» si riconoscano i problemi della «società». Lo scorcio dal dentro consentirà all’ Autore di mettere in scena anche la vita fuori: in quella sua Napoli-arnia, mai o quasi mai la città delle ville arroccate e isolate dai giardini, ma comunque la si spacchi, in verticale — i piani alti, i quinti piani — o in orizzontale — i bassi dei ceti più emarginati —, attraversata da odori, profumi o 26

puzze interfamigliari, fiori caffè ragù fritture o mondezze, e collegata dal perpetuo chiamarsi, parlarsi, dimenarsi da un'apertura all’altra, sia finestra o porta o terrazza. Perciò iIA stesi ad asciugare sul terrazzino di Gennareniello diventeranno tutti gli «abiti» o gli stracci del mondo, coprendo di balcone in balcone le facciate delle case, attraverso quei «fili» che intrecciano la vita dell’uzo con quella degli a/tri... Bi, Se io scrivo la commedia in italiano, lei poi la dovrà tradurre. Se invece i dialoghi li scriviamo insieme, il personaggio centrale parlerà con le sue parole, e allora sarà più vivo più reale! [Pirandello, in Eduardo, I/ giuoco delle parti, 174)

Eppure Eduardo, nel 33, è ancora un «attore che scrive», un attore dialettale che vuole e deve considerare le

esigenze della sua Compagnia, ma che aspira a risalire «le vie d’Italia» e a creare una drammaturgia nuova. Quando incontra Pirandello al Sannazzaro di Napoli — antico teatro degradato, che rinasce grazie al «Teatro Umoristico I De Filippo» — ha già due proposte pronte, una più ambiziosa dell’altra: «tradurre» Lio/à, «fare una commedia» da L’abito nuovo. Tradurre nel senso di iniettare, nel cor-

pus «siculo» di Liolà, un flusso «di puro sangue partenopeo» (Savinio), compiere un’operazione registica moderna (la parte del protagonista andrà a Peppino). «Fare» però «una commedia» da una novella, e da quella novella (la più «secca» di Pirandello), investiva il campo della scrittura scenica, e avrebbe segnato l’avvio di un nuovo ap-

prendistato. Inizia allora quella collaborazione fra il Vecchio e il Giovane (dove il «vecchio» rappresenta il «nuovo» teatro italiano) che aiuterà il secondo nella ricerca della propria identità di artista completo.

È significativo che fra la rappresentazione di Lio/à (all’Odeon di Milano nel ’35) e quella dell’Abito nuovo si ZI

insinui l'episodio ‘apparentemente’ casuale e deviante di un’altra traduzione/interpretazione. Proprio durante la loro collaborazione per la stesura dell’ Abito nuovo, Pirandello avrebbe chiesto a Eduardo di mettere in scena I/ berretto a sonagli [«Scenario», aprile 1937, poi in 175]. Poi

se ne lamenterà: non dell’esecuzione («Ciampa era un personaggio che attendeva da vent’anni il suo vero interprete», gli scrive nel febbraio del 36), ma del ritardo che le

repliche del Berretto avrebbero apportato al varo della «nuova» commedia («Ma tu, caro Eduardo, puoi attende-

re; io no!»). Eppure, se la drammaturgia «è sempre stata un oggetto mobile fra autore e attore» (Meldolesi), l’in-

terpretazione che Eduardo offre dello «scrivano» Ciampa costituisce una tappa importante per la sua re-interpretazione, anche drammaturgica, dello «scrivano» Crispucci

di L’abito nuovo. Qual è la lezione di drammaturgia che Eduardo apprende da Pirandello? Egli aveva trovato già il suo personaggio, nell’attore-uomo Sìk-Sìk, ma l’aveva posto nella durata breve dell'atto unico; raccontando la sua storia per «caratterizzazioni» sia simultanee che successive e «per paratattici effetti di scena» (Meldolesi). Fra riuscito a di-

latare l’intimità del personaggio — anche mediante le didascalie — senza rinunciare agli effetti ‘comici’ che, nella compressione del tempo scenico, potevano trasformarsi in accenni di ‘tragedia’. Però nelle opere di più lunga durata il percorso paratattico tradizionale mal si adattava all’interiorizzazione di un percorso tragi-comico. Prima di morire, il maestro italiano (intimamente siciliano) offre

all’allievo napoletano (aspirante alla nazione) alcune lezioni fondamentali di scrittura scenica, ma anche l’occasione per sottrarsi per sempre alla sua influenza. Eduardo

impara a strutturare in tre atti le sue commedie (anche l'insegnamento pirandelliano entra nel suo «bagaglio»), ma restando sempre fedele al suo originale processo crea-

tivo, fondato sulla drammaturgia delle attrazioni (i tre at-

ti recitabili anche in modo indipendente) e sulla relazione di intimità/estraneità dell’attore col personaggio («l’attore deve misurarsi, controllarsi, costringersi ininterrotta-

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mente. Mai immedesimarsi, se il personaggio gli è estraneo, meglio ancora» [195, p. 30)). La traduzione di L’abito nuovo da novella in dramma (con Pirandello che «ogni tanto gli passava dei pezzettini di carta con le battute [...] che davano il via alle scene

principali») rappresenta un banco di prova per il giovane drammaturgo, ma serve anche da cartina di tornasole per distinguere le visioni del mondo dei due autori. Paradossalmente, Eduardo riuscirà a trasformare il Crispucci pirandelliano nel ‘suo’ Crispucci, usando la novella come «scenario». Tanto che Savinio, fra i pochi ad entusiasmarsi dello spettacolo, rilevava in quest'opera «allucinante» proprio il secondo atto, che appare una integrazione eduardiana: «ogni scena andrebbe descritta minutamente: l'ammirazione dei visitatori (scena domenicale da mu-

seo) davanti al manichino della defunta in combinazione; il furore da lebbroso sadico di Michele Crispucci che scaglia sugli ‘onesti’ la biancheria ‘contaminata’»; e del terzo atto lodava (inconsapevolmente, ché non aveva confrontato i due testi) le innovazioni sceniche del napoletano: «il ritorno da Venezia [...]; il racconto della scena nel va-

gone restorante; la morte del cornuto» [«Omnibus», 26 giugno 1937, poi in 103]. Difatti il testo teatrale non solo rende esplicito ciò che è implicito (e voluto tale) nel racconto, ma molto di

più, ciò che nella novella non c’è. Non si tratta soltanto di un ampliamento di proporzioni, dovuto alla trasformazione drammaturgica della rapidissima partitura narrativa. La diversa «composizione» conduce a una diversa interpretazione dell’opera. Nella drammatizzazione rimane il tema di fondo (l’oppressione che la Società esercita sull’Individuo) e anche un certo contrasto fra l'apparire e l’essere; ma vengono allo scoperto i sentimenti, le passioni, e prevalgono sul pensiero. I motivi borghesi dell’orgoglio e dell'onore si mescolano con le insorgenze della carne (nel secondo atto); l’eredità diventa anche un detonatore comico, che fa esplodere (alla fine) una «farsa

tragica» diversa dall’«umorismo tragico» pirandelliano. E

il dramma affonda di più nel sociale: nel contrasto fra DO

ricchezza e povertà, fra il perbenismo ipocrita dei ricchi e la difficile resistenza che i poveri oppongono alla corruzione, l'isolamento del Crispucci scenico risulta donchisciottesco. Nel passaggio dalla zon-vita della novella alla vita-morte del dramma, il protagonista si arricchisce o si carica di umori eduardiani, attraverso la tematica e l’uso del «linguaggio» e il diverso linguaggio degli «abiti». Il racconto di Pirandello inizia letteralmente con l’«abito» («L’abito che quel povero Crispucci indossava da tempo immemorabile») e finisce con l’«abito» («Quell’abito parlava da sé»). Il passaggio dall’abito «vecchio» all’abito «nuovo» è l'avvenimento del testo. La battuta conclusiva — «Wagon-restaurant» — è come un attributo della nuova ‘maschera’ che Crispucci ha dovuto mettere. Ma nell’abito vecchio, «nel suo pelame stinto e strappato», come nel nuovo, «peloso, color tabacco», si riconosce

la stessa maschera da bestiario antropoide che informa

totalmente la sua persona: corpo, volto, espressione, vo-

ce, anzi mancanza di voce. La scrittura narrativa gioca sull’introversione del personaggio, sulle sue «smorfie» grottesche e penose, sull’eloquenza dei suoi «sguardi» e su «quell’abisso di silenzio», da cui stenta e pena a «tirar su» le sue rare, intense battute. È uno di quei «personaggi neri e dai movimenti da automi» che attraversano l’«avventura del secco pirandellismo»: di quando l’autore siciliano «aveva l’aria di farsela con gente che per noi è un magma nero e senza voce» (Savinio). Invece, per il Crispucci eduardiano, l’abito inadatto è soltanto quello «nuovo», che gli si sgonfia da tutte le parti (CcP, did., III, p. 407); quello «vecchio», all’inizio, egli lo rivendica con orgoglio (I, p. 387). Dalla scissione consapevole del rapporto abito-persona scatta la sua risata folle, che ci coinvolge atterriti nel finale; proprio perché pretenderebbe una corrispondenza fra il dentro e il fuori, il «fantasioso becco» diventa un personaggio «mobile» (Lotman) o riserva fino in fondo delle sorprese. A differenza del suo sosia pirandelliano, che fin dal principio è intimamente rassegnato a subire l’«eredità» infamante della moglie, il Crispucci eduardiano esprime con 30

sofferenza il «dramma del passaggio» dal suo ruolo di onesto povero all’a/tro di erede cornuto. La mancanza di voce del primo si trasforma nel secondo in ansia della voce: dall'inizio alla fine egli parla, non solo perché è un personaggio teatrale; sfoga la propria rabbia, la propria passione, difende la propria moralità e quella della figlia «innocente». Contro la sua resistenza, anche ‘verbale’, al passaggio povertà-ricchezza, verità-ipocrisia, si coalizzano le forze di tutti quelli che lo circondano: il principale e i colleghi dell’ufficio, come i coinquilini della sua poverissima casa, solidali col fidanzato della figlia («nu giovinotto serio, figlio ’e n’avvocato»), si adoperano affinché quel «tuosto» di Crispucci ingoi l’eredità e nor parli più. Ma lui «parlarrà, parlarrà!»: quando riappare nel terzo atto con l’abito nuovo, finché nell’ultima scena, davanti alla figlia nei panni della madre fuggita, per diciott’anni «come» morta, e poi morta davvero per la sua dispera-

zione:

Mo ’o muorto songh’io!... E nun avit’’a chiagnere... Avit”°a ridere tutte quante... E muorte nu curnuto! [...] Redite...! Forte, forte! Accussì! [...] (Ride sempre più forte, ad un tratto si arresta come per una improvvisa paralisi cardiaca, piomba a sedere

sulla sedia balbettando) A motte d’’o curnuto. Atterrita sospensione d’animo di tutti. [III, p. 410]

In questo finale la ‘creatura’ di Eduardo rivendica la sua ascendenza nella tradizione antirinascimentale del Deforme, del Grottesco, dell’Irriconoscibile; Savinio ne coglieva il «gioco» del grande attore, condotto per tre atti attraverso uno scambio di «dramma interno» e di «dramma esterno», che nello stacco fra vita e morte, in quel «tac» orrendo, tocca il suo «punto supremo». Il «corpo carnevalesco», la bizzarra clownerie gestuale rappresentano la fase che precede l’immobilità irreversibile (come in

Pirandello e in Rosso di San Secondo); eppure l’impietrimento dell’ultimo Crispucci non è quello di chi s’abbandona, pur con profonda riluttante asprezza, alla parte che la società gli ha assegnato: è la folgorazione di una morte fisica, ma non morale, che colpisce chi a quella parte si DI

ribella fino in fondo. Perciò la commedia va oltre la battuta amaramente sardonica che conclude il racconto («Wagon-restaurant»), e prosegue il ‘calvario’ del poverocristo fino al suo ‘martirio’. L’operazione drammaturgica traduce le due parti della novella in tre atti: attraverso mondi e situazioni diversi. Nel primo, l'ufficio è aggredito dalla strada, dagli echi clamorosi della «processione dello scandalo» e della sua tragica fine (la moglie rediviva, stella di circo equestre, muore «sfracellata» sotto i suoi stessi cavalli «impennacchiati»). Nel secondo, la Villa di Celie Buton, a Posillipo appare animata dal marichino-fantasma della defunta ir una vistosa combinazione di sete e merletti e poi rovesciata dal «furore da lebbroso sadico di Michele Crispucci che scaglia sugli ‘onesti’ la biancheria ‘contaminata’» (Savinio). Nel terzo, lo spaccato del palazzone popolare, in cima al quale la famiglia del protagonista consuma la sua grama quotidianità, è invaso e inquinato dal miraggio della «Fortuna con l’effe maiuscola». È questa successione concatenata di ambienti-atmosfera a simulare la via crucis d’un «povero Cristo» novecentesco, il quale non combatte soltanto con il fariseismo della sua epoca (stazione prima), ma cerca di resistere eroicamente alle concrete tentazioni di Eros (stazione seconda) e di Plutone (stazione

terza). Non a caso lo «scandalo di Posillipo» conclude, nel secondo atto, quella scena di allucinato spaesamento e di tentazione erotica che teatralizza un moto del protagonista appena accennato nella novella: l’attrazione per quelle «calze di seta, su fino alla coscia, finissime, traforate». Nell'incontro col manichino della moglie morta, ma che la

rappresenta come viva, si consuma un «dramma di oggetti»

da interpretare col linguaggio mimico-gestuale. L’opposizione fra la rigidità del simulacro dell’amante morta e la

dinamicità fremente del vivo, a guardar bene, si rovescia:

Crispucci si 7240ve come un sonnambulo... quasi senza saperlo, quasi che l’iniziativa passasse dal vivo al fantasma dell’Eros e agli oggetti che ne evocano la presenza scenica. Il personaggio che si muove nel presente rischia di 32

essere risucchiato dal passato, nel disperato sforzo di riavere «l’Oggetto perduto»: Poi cor due dita solleva un lembo di quei veli e scopre piano piano la gamba più su del ginocchio, più su delle calze, dove appare la coscia e allora con l’altra mano fa per toccare (did., II, p. 392). Usciamo dai

«temi dell’io» del racconto, e stiamo per entrare nelle «reti tematiche del tu»: in una situazione piuttosto da teatro sansecondiano che pirandelliano (dove l’Eros è più frequentemente adombrato o censurato). Ma anche quando Eduardo parte da un caso-limite finisce per risolverlo nella dimensione del quotidiano. Con l’entrata improvvisa della vestale di quel «tempio d’amore», che si propone come valet de chambre, questo «pover’ommo, ... mmiez’a sta ricchezza, ch’è fatta tutte ’e tentazione», è comze se avesse ricevuto una rasotata nella schiena e, ritrovato se stes-

so, trova anche la forza d’una «acerba rivolta morale».

Clara si svela ai suoi occhi una poveraccia che sperava di spremere dall’«erede» qualche goccia delle ricchezze dell’«amica»; proprio perché non è disposto a farsi coinvolgere in un cerimoniale erotico-funebre, lui si aggrappa all’unica certezza che possiede: «io sono un uomo onesto!» (II, p. 394). Perciò spalancherà il «cancello abbascio» ai colleghi con mogli e figlie, per gettare loro addosso, letteralmente, i ‘panni sporchi’ che minacciano l’integrità sua e della sua «figliuola». Quello che il protagonista della novella avrebbe voluto fare e dire («se un resto di ragione non lo avesse trattenuto»), il protagonista della commedia lo fa e lo grida: «(Raccoglie la biancheria a manate e torna a distribuirla) Tenite ccà, pigliate! Io songo pronto a darvela [...] V’aggia a spurcà a tutte quante» (II, p. 396). Proprio perché il suo gesto di rifiuto nasce dalla dispera-

zione della «verità», appare agli ipocriti il gesto di un «buffone», di un «pazzo» (II, p. 397). Dare espressione a ciò che nel racconto apparteneva al campo dell’inespresso non significa soltanto ‘teatralizzare’: ma reinterpretare e perfino rovesciare il senso ultimo di un testo. Dalla novella al dramma la storia degli «abiti» si è complicata, e nell’ultimo atto quella veste di vergogna che sembra perpetuarsi dalla madre alla figlia, d5

con tutte le lusinghe della ricchezza, fa corto circuito con l’abito nuovo che il marito-padre non ce la fa a portare. Avrebbe significato rinunciare a se stesso: quel se stesso

che esiste, nell’antropologia drammatica eduardiana, come esiste e si può conoscere la verità. Il Crispucci narrato . perde, alla fine, la propria identità, il suo sosia teatrale perde la vita: ma c’è paradossalmente più fiducia nella vita nell’annullamento fisico del secondo che in quello morale del primo. La morte che interrompe le sofferenze del ‘misero cornuto’ — come sempre nei finali eduardiani — si presta a una doppia interpretazione: liberazione traumatica dalla morsa sociale, ma anche soluzione estremistica d’un isolato, che non trova altra via per mantenere fede ai propri princìpi e ai propri sentimenti. In tal

senso il Crispucci napoletano può rappresentare un doppio di Luca Cupiello: anche se «alla fine» il loro punto di vista tende ad avere il sopravvento su quello degli altri, ciò significherà per entrambi la sparizione dal teatro del mondo. Ma al fondo di questi personaggi-persone c’è il rifiuto della «maschera», e d’ogni forma di inconoscibilità della «vita», che porterà il loro Autore al rifiuto della concezione pirandelliana dell’«arte»: Io, questo Pirandellismo attribuitomi dai critici non lo capisco [...], a cominciare dalla mia concezione del teatro a finire con i miei personaggi spesso poveri e affamati, spesso maltrattati dalla vita, ma sempre convinti che una società più giusta e umana sia possibile crearla, niente potrebbe essere più ars dall’idea teatrale di Pirandello e dei suoi personaggi. [1976, poi in 195, pp. 172-73]

Anche nelle altre commedie eduardiane fra il ’33 e il °42, che raffigurano per la prima volta il mondo alto-borghesc, la dialettica fra la ‘maschera’ e il ‘volto’ subisce sintomatiche trasformazioni. Sono sempre commedie giocate sull’«età» e sull’«eredità», su abiti «vecchi» che non si possono più gettare e su abiti «nuovi» da inventare. L’apparenza diventa trucco premeditato nel ricco industriale, Gianbattista Grossi, di Uro coi capelli bianchi

34

(1933). Il suo /eit-m0tiv verbale — «Io sono un uomo se-

rio, tengo un'età... tengo i capelli bianchi» — corrisponde alla maschera sociale assunta da quel ceto affluent di sfrontati parvenus, che s’accorda negli anni Trenta col disegno economico fascista; ma rispecchia pure la maschera del pater familias, enfatizzato dal regime, che egli indossa per ingannare quelli che si fidano della sua apparenza. In Io, l’erede (1942), l’«eredità» non riguarda tanto un patrimonio materiale, quanto — come dichiara il sardonico protagonista, Ludovico Ribera — «tutto un patrimonio affettivo e sentimentale» (CGP, I, p. 505). Si demistifica un altro falso valore della società bene e per-bene, la cosiddetta «carità cristiana», ovvero il commercio della beneficenza che la famiglia Selciano si tramanda da generazioni, in funzione di «polizza» assicurativa sia terrena che ultraterrena. Ma lo Straniero venuto dal mare (eco ibseniana o magari sansecondiana) è «informato» (/eit-motiv

minaccioso e sconvolgente) di vita, morte e miracoli dell’ambiente «rispettabile» in cui piomba a riscuotere un’altra polizza: quella ereditata dal padre beneficato. Eppure la soluzione di Uro coi capelli bianchi e di Io, l'erede — come quella dell’ Abito nuovo — è piuttosto di rottura che di rassegnazione. Lo ‘schiaffeggiamento sacrilego’ di quel «tipo» truccato da vecchio da parte del genero «che non si è truccato ancora» conclude una commedia in cui anche l’bumour noir concorre a denunciare un sistema di vita e di rapporti che, sulla maschera degradata fino alla «macchietta», sembra consolidarsi proprio negli illusori «giorni pari» del fascismo. Così, nel gioco delle parti fra vivi e

morti di Io, l'erede, non incontriamo soltanto un eroe pi-

randelliano, reinterprete straniato di un ruolo ‘vecchio’,

ma anche un personaggio ‘giovane’ davvero — Bice, l’ultima beneficata — che, raccolta alla fine la lezione del-

l’altro («le strade inventano gli uomini, infatti spesso portano i nomi degli uomini inventati», III, p. 530), può ancora svoltare strada e forse trovare la propria. Anche nella commedia forse più pirandelliana di Eduardo — per quello Sconosciuto rzisonneur che cavilla, spacca il capello in quattro, con logica, avvocatesca abilità — l'opposizione 3D

fra Immobilità e Movimento che distingue gli esseri umani implica una via d’uscita dal pirandellismo stesso. D'altra parte in entrambe le opere il «protagonista» non coincide col «personaggio mobile»: la possibilità di trasformare la schiavitù in libertà, la ripetizione in creatività, è concessa a un personaggio minore. Perciò il tono

con cui queste due commedie «anteguerra» attaccano la borghesia medio-alta risulta più fortemente polemico che in quelle pirandelliane. Non solo perché Eduardo appartiene alla stirpe degli attori dialettali, outsider in quel mondo che diventa soggetto del suo teatro: c’è nel diverso piglio fra il ‘vecchio’ e il ‘giovane’ soprattutto un divario di Weltanschauung. Nella prospettiva esistenziale pirandelliana, la borghesia del tempo è ur esempio della novecentesca molteplicità dell’io. Invece le radici del tea-

tro del mondo eduardiano saranno sempre più storiche che ‘filosofiche’; il male di vivere, nelle sue trasformazio-

ni epocali, appare prodotto da eventi concreti, famigliari e sociali. Si chiarisce quindi il rapporto stesso fra queste commedie di Eduardo e il contemporaneo percorso del nostro «teatro-inchiesta» di guerra e dell’immediato dopoguerra, il quale prosegue appunto il filone pirandelliano dei «processi morali». Basta fare riferimento a Betti: Frana allo scalo nord è del ’32, Ispezione del ’42, Corru-

zione al Palazzo di Giustizia del *44. Anche l’«Erede» di Eduardo apre un'inchiesta, trasformandola, atto per atto, in un processo in cui egli interpreta la parte del giudice istruttore e del pubblico accusatore, oltre che (beffarda-

mente) del complice; ma neanche la complicità crudelmente rassegnata di questo protagonista coinvolge la prospettiva dell’intero testo. Mentre la dicotomia fra colpevoli e innocenti è ancora etico-esistenziale per Betti, tutti travolgendo penosamente il «peccato», dall’«inchiesta» eduardiana emerge la responsabilità di un ceto sociale (come si è detto) storicamente identificabile. Nel rilevare la cattiveria ipocrita o la debolezza colpevole dei protagonisti, i «drammi borghesi» di Eduardo scoprono sicuramente quell’indice moralistico che è sempre latente nel suo teatro, ma che nelle prove migliori appare dissimulato 36

da una sincera comprensione, nonché superato dalla resa

artistica. In tale prospettiva appaiono comunque più pra-

ticabili (che nelle operazioni di colpevolizzazione-assoluzione universale) alcune scappatoie o ipotesi di fuga: l’«orfana» Bice, la «candida», ha maggiori chances di salvarsi... All’originalità di Eduardo contribuisce pure la sua inesausta sperimentazione linguistica di questi anni. Nella sua ansia drammaturgica, egli guarda a Pirandello come “a un «super-autore»: anche lui era nato provinciale, ma era riuscito a imporsi nel repertorio nazionale, era divenuto anzi l’elemento catalizzatore del nostro «teatro in rivolta» di rispondenza europea; anche lui era partito dialettale ma era riuscito, senza mai rinnegare o soffocare la sua «lingua interna», a coniare un linguaggio «medio» compreso da ogni pubblico, letterario e recitabile al tempo stesso. Perciò l'esercizio di traduzione e reinterpretazione delle opere del ‘maestro’ collabora a sganciare il ‘giovane’ dalla pratica «naturalistica» del dialetto; secondo quel procedimento che non riguarda soltanto la «lingua in scena», ma anche l’italiano «parlato», e che sarà individuato da Bernari negli anni Cinquanta: «Il momento più alto nella formazione della lingua nazionale corrisponderà al momento culminante del dissolvimento dei vari dialetti [...] pertanto è necessario favorirne [...] una circolazione forzata (specie del dialetto napoletano)» (Bernari, 1973, pp. 100-6). Proprio la sua incursione nel

«teatro borghese» — come ambiente e come genere — porterà Eduardo-autore alla elaborazione di un linguaggio diverso da quello in precedenza usato: con sfumature intermedie negli atti unici, dal dialetto fortemente italianizzato di Pericolosamente (1938) all’italiano con inflessioni dialettali di La parte di Arzleto (1940); finché, in Io,

l’erede, la ‘lingua’ s'accampa come colore di fondo, mentre il ‘dialetto’ rileva le battute che coinvolgono emotivamente i personaggi, a segnalare che «la lingua nazionale non è ancora uno strumento capace di esprimere compiu-

tamente tutti i sentimenti e le idee» (ibid.). D'altra parte la stessa sperimentazione linguistica conferma il diverso rapporto dell’autore-attore con i perDI

sonaggi che interpreta; esprime quel mutamento di prospettiva nei confronti del mondo rappresentato di cui abbiamo già avuto avvisaglie con i borghesi medio-piccoli ma integrati di Filosoficamente e di Chi è cchiù felice ’e me!. Anche se il repertorio mostrerà in superficie le solite trovate esilaranti, anche se il pubblico non sempre avvertirà lo ‘stacco’, l'atteggiamento di Eduardo nei confronti della borghesia del tempo, divenuta materia del suo teatro, è privo non solo di solidarietà ma anche di ogni complicità. Gli unici personaggi con cui Eduardo intrattiene, in questi anni, il consueto rapporto sono il povero-cristo di L’abito nuovo e il contro-eroe di Nor ti pago.

33 Niente!... È un parlare speciale. [CGP °59] Niente, niente... è un altro linguaggio! [CGP ’82, Natale in casa Cupiello]

Mentre sottopone a prove un nuovo uso della lingua italiana, il laboratorio di Eduardo non abbandona gli

esperimenti sul dialetto: in Nor ti pago (1940) e nel «parto

trigemino» di Natale in casa Cupiello. Se «il dialetto è il linguaggio caldo e conservatore di una vita accettata, [...] mentre la lingua della più vasta koinè nazionale è il linguaggio che deve affrontare i problemi nuovi, la creazione coraggiosa di una vita al di fuori delle abitudini» (Debenedetti), negli anni che preludono alla bufera bellica l’autore-attore prepara il terreno alla sua invenzione postbellica. Lavorando su entrambi i fronti, del teatro in lin-

gua e del teatro in dialetto, va sondando le possibilità di

una rigenerazione dialettale del teatro nazionale. Per lui la tradizione contiene elementi innovativi (Angelini), mentre per Peppino gli stessi elementi servono a perfezionare un’arte che non vuole superare i suoi limiti: «Sti-

mavo e veneravo Pirandello; però ritenevo sbagliato sacrificare il nostro repertorio. Mio fratello, invece, la pen38

sava diversamente»

(«Gente»,

15 gennaio

1978).

Suo

fratello pensava che tutto potesse coesistere: «Pirandello, la creatività attorica e la tradizione dialettale napoletana»

(Meldolesi). Perciò nella stessa «Cantata» in cui la para-

bola sarcastica di Io, l’erede chiude l’illusione dei «giorni pari» si incontra una fiaba partenopea a «lieto fine».

Anche in Non ti pago è questione di ‘eredità’, ma i giochi fra sogno e realtà, spirito e materia, si organizzano intorno al delirio da gioco del lotto; e questo tipico commercio dei sogni domina l’esistenza di un mondo che comprende, ancora una volta, sia i vivi che i zzorti. Don Ferdinando Quagliuolo ha ereditato il fatale «banco ’e lotto» dal padre, ma il Bertolini vi lavora fin da ragazzo e aspira con le «nozze» a succedergli. Dalla parte dell’«antagonista» staranno la moglie e la figlia del «re», Don Raffaele Console, prete, Lorenzo Strumillo, avvocato, la coppia dei

dispettosi e vendicativi Frungillo; dalla parte del protagonista, Agliatello, uomo di fatica in casa Quagliuolo, e

soprattutto Carmela, donza del popolo. «Aiutanti» più o meno «magici»: ma di quella magia immaginaria, concretamente vissuta a Napoli, che serve a catturare la Fortuna con l’effe maiuscola! Sopra tutti sta infatti l’onnipotente «fantasma» del padre di Ferdinando, la cui apparizione onirica come dispensatore di ‘numeri’ attribuirà a quest'opera la fisionomia paradossale di un contenzioso spiritico-giuridico sulla proprietà dei sogni. FERDINANDO (...) Non ti pago! Non ti pago! (corze impazzito) ’O biglietto è ’o mio! [...] T”°o viene a piglia’ ’ncoppo ’o Tribunale... (Esce per la sinistra lasciando tutti în asso i quali si guardano intorno a loro come allucinati). [CGP, I, p. 461]

È l’«avvenimento» rivoluzionario del testo; con la

battuta del titolo il protagonista chiude, a sorpresa, il pri; mo atto. Doppiamente colpito dalla vincita del suo fortunatissimo impiegato e dalle pretese di questi di sposare sua figlia, egli ruba il fatale biglietto e si rifiuta di pagare: i numeri li ha dati per «errore di persona» al Bertolini (che ha occupato la sua camera) suo padre «in sogno», il biglietto è «suo» di diritto. Incomincia da questo ‘colpo 39

di teatro’ l'avventura individuale e collettiva del sogno conteso; la quale si conclude dopo che l’«anatema» di Ferdinando (altro ‘colpo di teatro”, alla fine del secondo atto) avrà raggiunto colui che tentava di riscuotere indebitamente la vincita, lo stesso Bertolini diventato sfortunato. L’Autore riscopre nei confronti di Ferdinando (della stirpe dei folli raziocinanti) il rapporto di intimità-distanziazione che distingue le sue interpretazioni migliori: il protagonista è «capo tuosto» per la moglie, testardo anche per la didascalia, eppure indubbiamente ‘simpatico’. Il meccanismo iniziale di contrapposizione fra l’eroe e l’antagonista riproduce in ambito partenopeo e apparentemente realistico quello che impregna di amari succhi i comici cartoons sul contrasto Paperino-Gastone; ma l’origine è più antica, si tratta ancora di quegli elementi vivi che nella tradizione passano e si trasformano di tempo in tempo, da un genere popolare all’altro. Dietro l’ostinazione di Ferdinando traspare l’arcaica «paura del genero»: la resistenza del «re» a trasmettere il potere al marito della figlia, l’«estraneo» (Propp). Qui però il vecchio resta in vita e in carica, anche se dovrà condividere col genero il proprio regno (donando in dote alla figlia i quattro milioni della vincita). Sul motivo della «successione» (ripreso

forse inconsciamente) si innestano quelli appartenenti alla sfera folclorica più moderna e tipicamente partenopea: la cabala, i sogni e il lotto, i fantasmi in bilico fra aldilà e

aldiqua; insieme a quelli che riguardano il versante culturale-storico e la Weltanschauung eduardiana (conflittualità famigliare e scontro generazionale).

Fin dall’inizio sappiamo delle scorribande notturne del protagonista e del suo aiutante Agliatello «ncopp’ ’e titte» per trarre dal «costrutto» delle nuvole «i numeri per i terni e le quaterne» (Ferdinando è visionario oltre che testardo). E già apparsa «la buon’anima del padre» (in forma di parodia shakespeariana); ma il «ritorno del morto» non fa più paura, compreso e controllato com’è da una «tecnica magica»: AGLIATELLO — «[...] E quando c’è la persona che conosce il trattato della composizione e della combinazione fumogena, fa la storia perfetta della volon-

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tà dei vivi e dei morti» (I, p. 450). Perciò, nel secondo

atto, il culto cristiano dei morti (l’ethos disinteressato della «cara memoria») entra in contrasto con le primitive visioni pagane, ma in un contesto che conferma la loro av-

venuta contaminazione. Si dà al «morto» ciò che gli è dovuto, affinché riappaia come «alleato e protettore del vivo» (De Martino).

All’origine della «pazzia» del stume pagano dell’offerta votiva se quel costume non fosse ancora (a Napoli) Eduardo non potrebbe zione comica o grottesca. D'altra

protagonista c’è il conon disinteressata: ma parzialmente praticato sottoporlo a deformaparte la pazzia di Fer-

dinando — che vorrebbe portare «in Tribunale l’anima» del padre morto da due anni, e come testimone «don Ciccio il tabaccaio» morto da diciotto — non è che un granello di quella generale di un mondo (avvocato Strumillo compreso) che sostiene legalmente il diritto di Mario Ber-

tolini ad incassare i proventi del proprio «sogno». Perfino il colto e diplomatico prelato, l’unico a riconoscere all’inizio che «Bertolini ha sognato», è pronto a recuperare, insieme alla parlata dialettale, la «serietà» dell’Anatema dopo gli effetti catastrofici prodotti sul Bertolini stesso: «Eh, scusate, voi vorreste distruggere l’Anatematismo? [...] Ih, quanto è bello l’avvocato... E sì, mo levammo n’atu rigo ’a sott’ ’o sunetto» (III, p. 486). I/ bisticcio fra i due si accende sempre di più (did.): perciò inevitabilmen-

te, tra la Chiesa e la Legge, il terzo gode. Il cosiddetto ‘pazzo’ non si perde l’occasione di dare una lezione di logica ai suoi antagonisti ‘savi’, esprimendo nei due differenti linguaggi, il dialetto e l’italiano, le ragioni ‘sue’ e quelle degli ‘altri’: FERDINANDO — [...] si ’o suonno era ’o mio l’he ’a fa’ passà quattro milioni di guai. [...] Allora aggio ragione io? E poi, mi sono rivolto all'anima di mio padre perché la maggioranza crede proprio quello che voi avete creduto. Ma è sempre la fantasia che lavora. [III, pp. 486-871]

Racconta Eduardo: «Mi ero talmente ingarbugliato tra la religione, l'avvocato, le leggi, che alla fine non sa41

pevo più come chiudere la commedia. Eppure ho trovato il modo di uscirne: usando la stessa arma» [10, p. 108]. Usando le stesse argomentazioni dei suoi avversari, il protagonista rovescia la propria situazione iniziale («Sapite che vulite fa’? Pigliate l’anima di mio padre e portatela in tribunale»: III, p. 487).

«Il lotto è la vasta allucinazione che si prende le anime... Un contagio sottile e infallibile e inevitabile la cui diffusione non si può calcolare» (Matilde Serao). Eppure Carmela, la donna del popolo, linda nel vestire e modesta nel parlare, che testimonia con il suo sogno il diritto di proprietà di Ferdinando sul sogno di Bertolini, appartiene a un:campo semantico diverso da quello degli antagonisti dell’eroe: ogni suo gesto franco e leale denota bontà e

spirito altruistico (did., II, p. 471). Si vedrà anche in seguito come il sorriso eduardiano non appaia mai assolu-

tamente incredulo o satirico quando tocca l'immaginario dei suoi personaggi conterranei. Potremmo perfino rileggere il suo ‘romanzo teatrale’ (da No ti pago a De Pretore Vincenzo) come una specie di ambigua epopea della superstizione, in bilico fra distacco critico e compartecipazione culturale. Anche in questa ‘commedia’, sulla cui

‘drammaticità’ di fondo l’Autore continuerà a insistere, il

sorriso e anche il riso non investono tanto la visione del mondo popolare-arcaica dei suoi napoletani veraci, di quelli specialmente che non parlano in italiano (lingua della falsificazione nell’avvocato come nel prete). Il «comico» è provocato piuttosto dal «paradosso della situazione», perché i tre atti di Nor ti pago ampliano e articolano un intreccio farsesco fino a rappresentare una ‘commedia

di costume’. Ma già possiamo riconoscervi quel rapporto

di «doppia similitudine» con la «napoletanità» che nel teatro di Eduardo fa interferire reciprocamente intreccio, personaggi e anche topologia dei luoghi. Ferdinando Quagliuolo con i suoi lati estremi — l’ossessione cabalistica dei numeri e l'invidia maniacale per la fortuna altrui — non impersona soltanto un aspetto di Napoli in una determinata fase storica, ma interpreta anche la metafora del perenne inseguimento da parte dell’uomo dei propri 42

fantasmi. Leit-motiv che attraversa le «Cantate» con varianti significative di registro, di genere e di soluzione: qui il comico e la commedia e dunque il lieto fine; altrove invece il quasi-tragico o il tragi-comico, quando il sogno della Fortuna o la ribellione ad essa porterà altri protagonisti a ricadere, più disillusi, sotto il giogo-gioco delle sue inafferrabili leggi. Ma il nutrimento ‘farsesco’ di Nor ti pago esprime anche la tentazione dell’autore di esorcizzare, con la risata, il disagio di quegli anni Quaranta. Lo si scopre nel ritmo frenetico delle sequenze e dei fenomeni scenici (innumerevoli quasi le entrate-uscite dei personaggi); nell’intelligenza teatrale affinata con cui sono introdotti gli elementi apparentemente incongrui, le mille gags popolaresche giocate sullo slittamento semantico delle parole o sulla ripetizione dei gesti; in quella tecnica eduardiana del discorso diretto che introduce dialoghi nel dialogo o nel monologo. Sedimenti o prolungamenti della ‘tradizione’ si ravvisano anche nella fisionomia dei personaggi. Agliatello appare una nuova specie di Pulcinella: «aiutante magico» più per necessità che per convinzione, nelle controscene mute 4 seconda dei casi darà ragione all'uno ed all’altro (did.); il «figurino» di Mario Bertolini richiama invece lo

scarpettiano Don Felice Sciosciammocca. La coppia dei fratelli Frungillo, oltre a introdurre la «comicità della somiglianza» (Propp), ha la funzione della «spalla» che, nella farsa come nel varietà, dà risalto al «carattere» del protagonista. Eppure queste figure non restano legate a una meccanica tipologia: proprio perché la trovata paradossale subisce, di atto in atto, uno sviluppo conseguente e in crescendo. Agliatello diventa il doppio popolare di Ferdinando, prefigurando il portiere Raffaele di Questi fan-

tasmi!. I Frungillo accentuano il loro profilo di maschere funeree, insinuando il sospetto d’un delitto (l’avvelenamento del «cane di famiglia») che si aggraverà nei «piccoli omicidi» delle Voci di dentro. Bertolini acquista spessore umano nel terzo atto, trasformandosi da persecutore in perseguitato (pallido, capelli un po’ in disordine e col brac43

cio destro ingessato: did., III, p. 487) dopo che la «maledizione» gli ha sconvolto la vita. Il registro della «commedia» consentirà la ricomposizione delle fratture nel goldonismo napoletano dell’epilogo: mentre Agliatello entra dalla sinistra con grande vassoio di maccheroni fumanti, il protagonista farà accomodare tutti intorno alla tavola imbandita, per festeggiare le nozze di sua figlia col ‘fortunato pentito’. Dalla Commedia dell'Arte a Goldoni, «il tavolo funziona da micro-palcoscenico dove la recita si condensa» (Angelini); ma nel-

l’opera di Eduardo il tutto-per-bene è sommosso dalla solita virata finale: FERDINANDO — (mentre si accinge a fare la porzione, di punto in bianco si ferma per seguire una sua idea. Piccola pausa) Bertoli”, però ricordete ca tu l’he ’a fa’ felice a Stella... [...] No, pecché si no... (mostra il ritratto del padre) due paroline a mio padre... (Fa il segno come dire: «Ti spedisco all’altro mondo»). Cala la tela.

UTI, p. 489]

Riemerge nell’ultima battuta il conflitto generazionale già affrontato nell’ambiente più alto di Uro coi capelli bianchi. Ci sarà sempre nei ‘vecchi’ eduardiani, anche nei più ‘simpatici’, una certa protervia come gelosa difesa dei privilegi acquisiti con l’età e l’esperienza: è questa che slitta nella cattiveria, la particolare cattiveria che deriva dalla chiusa ostinazione, nei personaggi più marcatamente borghesi. Qui il «dramma del passaggio», giocato sull'esercizio di un mestiere che presuppone l’evasione nel sogno, è alleggerito dalla vis corzica. Eppure la messa in

scena d’autore premeva sul tasto dell’ambiguità o della cattiveria, se Prosperi scrive nel ’62: «Eduardo ha interpretato Ferdinando Quagliuolo con un’ambiguità prodigiosa, mai lasciando scoprire il limite [...] tra follia e simulazione,

esibizionismo

e. delirio» [122 bis]; mentre

Tian osserva che Eduardo «ha fatto ritrovare al personaggio [...] tutta la sua amara ed incolpevole cattiveria, tutta la sua raziocinante assurdità» [112]. E, per una recente

ripresa di questa «bellissima commedia sui due livelli del puro divertimento e di una nitida metafora», Quadri

44

[171] ringrazia il ‘figlio d’arte’ Luca, proprio perché al suo repertorio «aggiunge la conquista della cattiveria». Tuttavia nel percorso drammaturgico del nostro artista in cerca, che già aspira a «un teatro senza confini» (Meldolesi), è Natale in casa Cupiello a rappresentare il testo-ponte per la sua fase più impegnata o matura. L’ar-

chitettura stessa dell’opera predispone la centralità di un | personaggio che ritornerà in varie metamorfosi sceniche, in un rapporto di identificazione «ambigua» con l’Autore. Si chiami Lucariello e poi Gennaro Jovine o Pasquale Lojacono, Alberto Stigliano o Guglielmo Speranza, è come la reincarnazione di una maschera umana, che soffre in modi progressivamente più coscienti uno stesso dramma della solitudine. Questo dramma oltrepassa la simulazione artistica di una incompatibilità psicologica fra i singoli, per trasformarsi in metafora teatrale d’una media incomprensione fra gli uomini, le cui radici storiche saranno di volta in volta aggiornate. Nel Natale în casa Cupiello l'opposizione semantica fra il protagonista (Luca) e gli altri (moglie, fratello, figli) diventa il fulcro d’una teatra-

lizzazione esemplare della realtà; frantumandosi anche in una serie di opposizioni secondarie che ci offrono il quadro d’una «casa ’nguaiata», in perpetua conflittualità interna. L’avvenimento rivoluzionario del testo culmina nella rivelazione dell’infedeltà di Ninuccia, la figlia, per l’intrusione di Vittorio, l’estraneo; ma i pericoli per l’unità famigliare idoleggiata da Luca non vengono tutti dal fuori. Se il meccanismo della ‘commedia’ è azionato dal contrasto fra quanti sazzo e quanti ron sanno dell’adulterio, la molla intima del ‘dramma’ è costituita dall’ignoranza del pater familias fuori-ruolo. La singolare biografia dell’opera trova significativi riscontri nel suo sistema compositivo e spettacolare: nata nel ’31 come atto unico (il secondo attuale), cresce per

l'aggiunta del primo intorno al 1932-33 (quando Eduardo ha lasciato l’avanspettacolo e ha debuttato al Sannazzaro)

e si sviluppa completamente nel ’43 con l’integrazione del magistrale terzo atto o epilogo. Tre atti scritti in periodi 45

diversi e in una successione non cronologica. Il secondo,

l’atto germinativo (destinato al cinema-teatro Kursaal), è

quello che presenta attributi di maggiore dinamismo melodrammatico e farsesco. La scena della sfida fra il marito

e l'amante di Ninuccia, incautamente «riuniti» dall’ignaro Luca per il pranzo della vigilia, deve molto alle tradizionali «sceneggiate»; e a questa specie partenopea di ‘cavalleria rusticana’ assicura il controcanto comico lo sketch memorabile della «lettera natalizia» di Nennillo alla madre, nella quale il nipote insiste dispettosamente a escludere dalla «nota d’’a salute» lo zio. Ma tali movi-

menti platealmente regionalistici diventano altrimenti funzionali nella complessa e sottile dinamica d’insieme. Nell’organismo drammaturgico completo, l’atto secondo si trasforma nell’episodio-cardine fra il primo e il terzo, fra il prologo e l’epilogo della tragi-commedia di un antieroe, Luca Cupiello, votato fino alla morte alla costruzio-

ne d’un presepio materiale e simbolico, rituale ma anche famigliare e sociale. Ciascuno dei tre tempi simula una «tappa» del viaggio esistenziale del protagonista, compresso in poche, significative giornate: l’antivigilia, la vigilia, tre giorni dopo Natale. Il fattore unitario è costituito prevalentemente dalla «soggettività» di Luca: il succedersi dei fatti sembra inteso soprattutto a definire il percorso di un’anima, dall'illusione alla disillusione cruciale, fino alla separazione definitiva dell’interiorità dal contesto inadeguato del mondo esterno. D’altra parte il primo e il secondo atto hanno una compiutezza che conferma la loro portata di «episodi esemplari», ma che nello stesso tempo riconduce alla loro stesura separata e in momenti diversi. Potrebbero essere rappresentati ancora come testi autonomi: la loro cornice individuale è perfettamente conclusa. Invece l’ultimo atto, elaborato o rielaborato in un clima storico

differente, dirotta il senso complessivo dell’opera verso esiti di simulazione artistica per cui la «fine», la morte del protagonista, «testimonia anche della costruzione del mondo nel suo insieme» (Lotman). Da questa prospettiva, il tragi-comico Natale în casa Cupiello si trasforma nel46

la «rappresentazione epica» (Szondi), via via sempre più esclusiva, del soggettivo «Presebbio» del protagonista: attraverso la diacronia strutturale del testo (antefatto-scontro-epilogo) siamo introdotti prima nel mondo poetico di Luca, poi nel mondo prosaico che lo circonda, la cui reciproca incompatibilità sarà confermata nella conclusione dalla morte del Sognatore.

Ma egli si trova fin dall’inizio in un rapporto di netta differenziazione con l’ambiente. La sua mania per il «presepio» è come un filtro magico che gli impedisce di vedere (per i primi due atti) il confine che separa la poesia dalla prosa, l’infanzia dalla maturità. Come Don Chisciotte, Luca è un costruttore di sogni: in ciò si differenzia dagli altri, da coloro che ai sogni non vogliono credere (Nennillo) o non credono più (Concetta). Gli ostacoli alla sua

impegnativa costruzione appaiono sociali ed economici, ma anche famigliari e intimi; né lo turba tanto l’insofferenza della moglie, o l’isteria della figlia, quanto la distruzione morale del Mito del Presepio minacciata dalla dispettosa indifferenza del figlio. Tutto il primo atto è attraversato e ritmato dal /eit-mz0tiv: LucA — «Te piace ’o presebbio, è ove’?»; NENNILLO (freddo) — «Non mi piace». L'effetto immediato è quello del bergsoniano «diavolo a molla»: tuttavia il contrasto padre-figlio oltrepassa il senso farsesco d’una ripicca fra caratteri ostinati (com'è

quello dei bisticci fra zio e nipote); esprime un’opposizione di codici fondata su diverse gerarchie di valori. A partire dalle battute con cui Luca-Don Chisciotte e Nennillo-Sancho si risvegliano («’O Presebbio...» — «A

zuppa ’e latte!»), la ‘cecità’ estetica e morale del secondo nei confronti del ‘mondo creato’ dal primo appare assoluta. Ma anche il poetico presepio domestico perseguito dal padre tradisce (talvolta) quella protervia dei ‘vecchi’ cui accennavamo per Nor ti pago. L’ostinazione del protagonista a non varcare la soglia che lo separa dal mondo degli altri si può interpretare, in una prospettiva sociologica o antropologica, come attaccamento a una concezione paternalistica e patriarcale per cui la mitica unità fa47

migliare dev'essere assicurata dal predominio dell’anziano. È un tema e un problema eduardiano che ritornerà nella Cantata dei giorni dispari in rapporto alle successive trasformazioni storiche e sociali: subordinato in Napoli milionaria! alla rappresentazione della crisi bellica e postbellica, cruciale nella Mia famiglia anni Cinquanta, aperto a soluzioni nuove solo in Sabato, domenica e lunedì.

Già nel Natale, il protagonista appare escluso dai rapporti intersoggettivi ‘normali’, dalla comunicazione con i suoi ‘prossimi’. Perciò la commedia presenta espliciti rimandi al problema del «linguaggio»; incominciando proprio da quel contrasto fra padre e figlio sul tema del «presepio» che si traduce, sul piano verbale, in una provocazione e nella sua ostinata repressione. La domanda ripetuta ossessivamente da Luca non esprime soltanto uno

sforzo di comunicazione, ma, più in profondità, il continuo tentativo di assimilare gli altri a sé. AI di là della propria strutturale impotenza, il pater farzilias tradisce nei confronti dei suoi una vocazione all’auctoritas che non ammetterebbe autonomismi o diversioni; anche se, disar-

mato dall’impenetrabile «bisbiglio» fra Concetta e Ninuccia, sarà costretto ad ammettere: «Niente, niente... è un

altro linguaggio!» (I, p. 261); o più tardi, esasperato dai

continui misteri del lessico famigliare: «Questa è una so-

cietà...» (ibi4.). E proprio la sua mania per il presepio che lo «distrae» e lo emargina dal mondo circostante, trasformando anche il suo linguaggio in un parlare speciale. Perciò l'esclusione da parte degli altri è subito colta dal capodi-casa frustrato come opportunità di autoesclusione: «Aggia ffa’ ’o Presebbio? E faccio ’o Presebbio! [...] Però, se

succedono guai, da me non ci venite» (ibi4.). Anche dopo lo svenimento di Concetta (paura, parapiglia, grida straziate: «E morta muglierema! Sta murenno muglierema...», I, pp. 263-64), non appena lei si riprende, Luca ferma lo sguardo sul Presepe distrutto e dopo una piccola pausa, dice quasi tra sé: «Mo miettete a fa’ ’o Presebbio n’ata vota...» (I, p. 265). La scissione del personaggio risulta evidente dal passaggio (apparentemente) brusco da un ‘oggetto’ all’altro della sua preoccupazione: la spro48

porzione fra il collasso della moglie e la distruzione del presepio, implicitamente equiparati dalle reazioni del sognatore, provoca il riso dello spettatore. Perché l’Autore isola «nella stessa anima del personaggio il sentimento da deridere» e ne fa «uno stato parassita dotato d’una esistenza indipendente»: come se l’«idea fissa» passasse accanto agli altri sentimenti nell’«anima» di Luca, senza toccarli, senza esserne toccata, «distrattamente» (Bergson). Che questa dissonanza interna al protagonista si traduca in una nuova specie di «anti-linguaggio» si manifesta pure nei due «dialoghi apparenti» del secondo atto, con l'amante segreto della figlia (II, p. 276) e conil genero (II, p. 283). Nel secondo (Nicola ha appena incontrato il rivale

nella casa del suocero) l’«idea fissa» del presepio genera una catena di equivoci che rendono la distonia dei codici stridente e drammatica, anche nei suoi immediati risvolti comici. Ma la spia linguistica per eccellenza dell’alienazione di Luca è nello sforzo articolatorio che egli compie per convincere Vittorio dell’«unità» della propria famiglia: Luca Quando viene Pasqua, Natale, queste feste ricordevoli... Capodanno... allora ci rinuriamzo, ci nuriniamo... ci uriniriamo... (Non riesce a pronunciare l’espressione «Ci riuniamo»; sbaglia, annaspa, ci riprova inutilmente);

poi cambia discorso, diffondendosi sul bel matrimonio della figlia, sulla sua dignità di «uomo di fiducia» nella Tipografia, ma sempre lì ritorna: «Ecco che quando viene Natale, Pasqua [...] ci rinuchiamo... ci ruminiamo (Prova ancora un pato di volte, finalmente spazientito [...]) Vengono e mangiamo insieme» (II, p. 278). Come in S?k-Sk, l’artefice magico, si continua a marcare il divario fra le

pretese italofone del protagonista e la sua inadeguata padronanza della lingua eletta; anzi, nella prima versione del Natale, caratterizzata da una maggiore e diffusa dialettalità, il dislivello risulta più forte, perché in questa scena Luca tenta di parlare «italiano»: l’importanza del discorso, a suo giudizio, lo richiede. Tuttavia «la difficile parola» si carica anche di altri significati: non solo perché il pater si rivolge proprio a colui che gli insidia la figlia, ma 49

perché «ci riuniamo» è la parola simbolo di quell’armonia domestica che il Natale e il Presepio dovrebbero riconfermare, e che egli è impotente a pronunciare per l’avvenuta frattura fra significante e significato. Dopo l’impatto crudele con la ragione degli altri, con il loro rifiuto a riunirsi, ad essere solidali fra loro, è naturale che il protagonista si isoli nell’allucinazione fra il sonno e la veglia dell’epilogo. Come se, dopo l’improvviso filtrare di persone sinistre, di fantasmi del theatrumz mundi, nelle crepe della sua mente colpita dal trauma, egli ritornasse, attraverso il delirio sornione che precede la morte, al suo mondo d’origine, al mondo dei sogni. Ed è significativo che l’episodio della rivelazione non venga rappresentato: quasi una dissolvenza cinematografica separa la fine del secondo atto dall’inizio del terzo. Lasciamo Lucariello grottescamente sorridente (ma lui ron sa), patetico ma tenace regista d’una scena del suo privato presepio famigliare, mentre mascherato da Re Mago offre doni rituali alla ‘madre’, una Concetta semisvenuta; lo ritroviamo «a letto quasi privo di sensi [...] tre giorni dopo quella disastrosa Vigilia di Natale. La realtà dei fatti — secondo la didascalia d’autore — ha piegato [...] il provato fisico del-

l’uomo che per anni ha vissuto nell’ingenuo candore della sua ignoranza» (did., III, pp. 290-91). Il dramma del passaggio è affidato all’immaginazione dello spettatore; perché non si tratta d’un vero passaggio ma d’un ritorno al punto di partenza: da sogno a sogno. Quindi l’epilogo pone di nuovo in relazione il mondo circostante e quello dell'Io; mette in scena un coro di presenze intorno al letto di uno che sta per andarsene per sempre: l’ambiente è rappresentato dalla camera da letto di Luca Cupiello come nell’incipit. Siamo già nell’ambito di una «crisi di cordoglio» (anche se il morto non è ancora

morto) meridionale e specificamente napoletana. Il «rito

del caffè», che avvia e attraversa buona parte dell’atto,

carica la scena di richiami alla quotidianità, umoristici ma non necessariamente grotteschi. E da questo coro animato, mosso e loquace, si distacca ancora una volta la figura del protagonista: immobile (solo qualche gesto essenziale, 50

qualche espressione mimica funzionale ad accentrare sull’attore l’attenzione del pubblico) e balbettante. Eduardo inventa per l’ultimo atto di Luca un’altra specie di anti-

linguaggio e un’altra specie di idea fissa: «Nicculino è venuto?». Sino alla fine il protagonista conserva la sua testarda visione del mondo, a costo di congiungere nel suo delirio terminale la mano della figlia con quella dell’amante, nella convinzione di «riunire», così, la sua famiglia. Ma si tratta immancabilmente di un finale doppio: il senso «mitologico» dell’opera cambierebbe sensibilmente se il testo si concludesse con questo involontario ma grottesco qui pro quo; se mancasse, alla fine, il «sì» del figlio alla provocazione în extremis del padre. Il Natale è anche una commedia sulla memoria e sulla possibilità di trasmettere sentimenti e cultura da una generazione all’altra. Luca resta fissato nella sua a volte patetica, a volte comica, lirico-simbolica mania d’«’'o Presebbio»; nel mondo terrestre egli ha sempre fatto parte di un altro mondo, e con ciò è collegata la sua morte. Ma solo dopo aver ottenuto il consenso di Nennillo, e non un «sì» soltanto pietoso (ché il giovane pare comprendere e accogliere davvero l’inusuale messaggio del vecchio), come tutti i grandi visionari può serenamente «disperdere lo sguardo lontano [...] per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come il mondo...» (did., III, p. 302). Natale in casa Cupiello è una delle prime grandi commedie di Eduardo — scrive Tian [119] —. Rivedendola oggi ci tocca in modo quasi magico (e forse per questo ci mette d’accordo) perché [...]esce dai confini del verosimile e della descrizione per arrivare nel territorio della visione e del simbolo. [...] Poche volte come nel Natale, la ricerca di Eduardo sa far coincidere la carica delle emozioni e la sottile truccatura comica della fantasia.

Si tratta di una «coincidenza» straordinaria, se il rapporto fra la carica delle emozioni e la truccatura comica della fantasia ha posto sempre problemi ai teorici del «riso». Bergson e Propp affrontano la questione da punti di vista diversi, ma soffermandosi entrambi su un personaggio-chiave della letteratura comica o umoristica, un arSi

chetipo anche per il teatro: Don Chisciotte di Cervantes. Don Chisciotte e Luca Cupiello sono entrambi dei

«grandi distratti» proprio perché la loro distrazione è la conseguenza di una qualche concentrazione (Propp, 1988): la passione dell’uno per i romanzi d’amore e di cavalleria,

la visione dell’altro di un presepio «grande come il mondo» trasfigurano la realtà che A circonda. Ma solo riconoscendo il valore universale che assume l’oggetto di tale concentrazione si può capire «quale intensa comicità derivi da uno spirito fantastico» (Bergson)! Luca esce di scena perché inetto a vivere, «cade» perché nel suo presepio continua a vedere «il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si dànno un da fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove [...] un Gesù bambino grande grande [...] palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo»; ma nel punto estremo annuncia il prodigio a se stesso: «Ma che bellu Presebbio! Quanto è bello!» (did., III, p. 302). Altro è

cadere in un pozzo perché si guardava un punto indeterminato, altro è cadervi perché ci si vedeva una stella!

II. REINCARNAZIONI

DI UNA

MASCHERA

UMANA

Anche cronologicamente, Natale in casa Cupiello costituisce l’anello di congiunzione tra le due fasi ‘storiche’ dell’itinerario eduardiano: anteguerra-dopoguerra. È un’opera stratificata, più di altre del laboratorio «I De Filippo»: come dimostrano le varianti fra il testo della sua

prima edizione (CGP ’59), ricostruito ‘a memoria’ dall’autore insieme a Titina, e quello dell’ultima (CP ’79), ri-

scritto dal solo Eduardo. Alla durata e alla qualità della composizione hanno concorso fattori dipendenti dal gioco delle parti dei tre fratelli e fattori interni allo sviluppo della poetica drammaturgica del maggiore. Peppino ci offre un'importante testimonianza del metodo usato durante la loro collaborazione: «alla luce della ribalta, durante DR

la recita, alla prova della magica atmosfera che proveniva dal calore del pubblico, [...] qualche scena intera poteva denunciare la necessità di dover essere rimaneggiata [oppure] da una semplice battuta detta fuori testo, se ne poteva trarre un appropriato /eit-m20tv di sicuro successo». «Nun me piace ’o presebbio» gli era venuta «a soggetto» mentre interpretava Nennillo in una delle repliche dell’«atto» originario: «la battuta divenne poi lo slogan fortunato della commedia, e [...] mio fratello in seguito ne

trasse la conclusione che oggi il testo presenta» [174, pp. 265-66]. Nella rielaborazione eduardiana, l’improvvisazione attorica diventa modulo per un’architettura equilibrata del testo, trasformandosi in /eit-motiv di profonda e complessa significazione. Non è dunque casuale che l’«atto unico» del °31 abbia segnato l’esordio della famigliacompagnia «I De Filippo», mentre con la «commedia in tre atti» si sia concluso il pur fortunato sodalizio fra Peppino e Eduardo. La Cantata dei giorni dispari inizia con una nuova formula scenica: per la rappresentazione di Napoli milionaria! (il 25 marzo 1945) alla compagnia del «Teatro Umoristico I De Filippo» si sostituisce, per la prima volta, «Il Teatro di Eduardo». AI plurale subentra il singolare («con Titina De Filippo»), e nella nuova etichetta manca l’attributo «umoristico». Eduardo non si sente più vincolato alla vocazione da «mamo sui generis» di Peppino, né alle sue aspirazioni di riformatore della «commedia napoletana». L’autore-attore-regista può ora approfondire quel personaggio-prototipo cui aveva già dato vita e interpre-

tazione, da Sìk-Sìk a Luca Cupiello. L’eccezione di Filymena Marturano conferma la regola («scrissi Filumzena per mia sorella Titina. Ella era un po’ avvilita [...], il vero successo alla ribalta, diceva, è sempre riservato all’uomo, al primo attore» [187]). Le diverse situazioni drammatiche del teatro eduardiano sempre più tenderanno a riconoscersi nell’opposizione primaria fra un protagonista maschile e tutti gli altri personaggi nel ruolo di antagonista collettivo. Ma il personaggio centrale diventa interprete e mediatore di una condizione umana che supera i confini DD

geografici, sociali e culturali da cui è originato: pur possedendo specifiche connotazioni, rappresenta un intero modo di rapportarsi all’esistenza; anche perché la focalizzazione multipla degli altri personaggi assicura alla materia scenica un'impostazione dialettica. Solo in questa prospettiva, il «Teatro di Eduardo» significherà anche «teatro del protagonista».

Aggia parlà? Me vuò séntere proprio ’e parlà? E io parlo. [CGD, vol. I, Napoli milionaria!]

Si conclude così il dramma del ’45: «Ha da passa’ ’a nuttata». E dicendo questa ultima battuta, Gennaro Jovine riprende posto accanto al tavolo come in attesa, ma fiducioso (did., III, p. 88). La battuta rievoca quella speranza in una palingenesi morale, non solo storica e sociale, che animava il nostro «risveglio» dagli anni bui del fascismo e della guerra. E dall’attesa del superamento d’ogni «nuttata» prende l’avvio, nei suoi diversi esiti, la trilogia Aa di guerra e dell’immediato dopoguerra: Napoli milionaria! (1945), Questi fantasmi! (1946), Filumena

Marturano (1946). «C'era il fronte fermo verso Firenze. C’era la fame, e tanta gente disperata...»: per il nostro interprete, da sempre — ma ora specialmente — coinvolto nei fasti e nefasti della sua città, non si debbono più esorcizzare i mali endemici e contemporanei con una «risata» puramente liberatoria. Anche se il teatro napoletano, diceva Peppino

[194], «essendo alla base essenzialmente comico e più spesso ‘grottesco’, aveva bisogno [...] di riflessi seri tra quelli buffi», Eduardo vuole comunicare il senso della tragedia sopravvenuta a macerare il ventre di Napoli. Sempre da uomo di spettacolo: «Quasi tutti i teatri erano re-

quisiti. [...] Ottenni il San Carlo per una sera» [111 bis],

per rappresentare appunto Napoli milionatia!.

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Ma quest'opera di grandissimo successo, sia nell’immediato che nel «tempo grande», non offre soltanto una testimonianza tempestiva dei tempi e dei luoghi: il dramma della guerra a Napoli vi è rappresentato piuttosto come storia che come cronaca; e per molti versi si prefigurano, in questa città-teatro della distruzione materiale e della dissoluzione etica, i problemi nazionali del day after. «Dalla catastrofe», scriveva Vittorini nel primo numero del «Politecnico», «bisogna uscire con una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini». Napoli milionaria! trasforma il diritto della memoria in dovere della comunicazione e in viatico di conoscenza: nella consapevolezza che il terreno di coltura per gli errori futuri sarà nella mancata o irrisoria volontà di ricerca sul passato e sul perché della barbarie moderna. Anche nel nostro ‘teatro d’autore’ contemporaneo e successivo c’è

la disperata ricerca d’una colpa e d’una responsabilità che superino lo stadio individuale in una «memoria» collettiva. Ma Eduardo evade dal «realismo lirico e simbolico» di Betti, dalle tecniche innovatrici dei «tempi scomposti» di Bompiani (A/bertina, 1945-48), dalle formule varie di traslazione della Storia nel Mito (Sacrilegio massimo di Ste-

fano Landi, 1953). Il luogo e il tempo dell’opera — scritta e rappresentata prima della conclusione del conflitto — restano ancorati all’hic et nunc, anticipando semmai moduli drammaturgici che saranno propri del ‘neorealismo’ cinematografico. Nella sua sostanziale indipendenza dall'eredità pirandelliana, la ‘commedia nuova’ di Eduardo non porta sulla scena un «fatto diverso», ma l'avventura normale d’una famiglia napoletana investita dalla «bufera»: bufera che la costringe a una trasformazione scioccante e a suo modo rivelatrice. In questo senso va intesa l’allocuzione dell’ Autore al pubblico della rappresentazione romana: non avrebbe più fatto, semplicemente, del «teatro da ridere [...], ogni anno di guerra ha contato co-

me un secolo nella nostra vita di prima» [31 marzo 1945, MLIpelii.

Colpisce anzitutto la «napoletanità» rinnovata del linguaggio. Nella trilogia (Napoli milionaria!, Questi fanta55

smi!, Filumena Marturano) l'Autore torna sostanzialmente

al dialetto: un dialetto, però, più legato alla manifestazione dei sentimenti o alla funzione del dettato che alla rappresentazione naturalistica di un ceto sociale. La lingua in scena eduardiana non è più un codice ereditario o fotografico, ma assume un rilievo espressivo «interno»; e nella sua generale accessibilità, da parte di un pubblico sempre più largo, si riconosce «la volontà consapevole e attiva [da parte del drammaturgo] di comporre per la massa, non a divertirla, ma a comunicarle la propria visione del mondo» [101]. Esempio-chiave, la didascalia iniziale di Napoli

milionaria! ’O vascio ’e donn’ Amalia Jovine. In nessun’altra delle commedie precedenti e in nessun’altra delle successive si trova una didascalia in dialetto. La sua presenza risponde a una precisa esigenza informativa dell’autore, e quasi a un’intrusione epica dell’attore, che dal piano del linguaggio verbale passa nel continuum scenico. La persistenza di un fopos determinato nel teatro eduardiano che

ha come centro drammatico la «famiglia» è confermata dall’ampia didascalia scenografica (in lingua) immediatamente seguente: Ezorze stanzone lercio e affummicato. In

fondo ampio vano arcuato, con telaio a vetri [...], che dà sul vicolo (did., I, p. 7). E la proiezione reale-simbolica di un genere di vita che s’apre costantemente ai rapporti coi vicini: quel perpetuo «traffico» che nella dialettica spaziale chiuso-aperto, e nella dinamica delle entrate-uscite, perfora o rende trasparente l’interno domestico. Qui assume rilievo, necessariamente, il versante sociale di tale costruzione: dalla minuscola e ridicola camera da letto ricavata provvisoriamente col tramezzo, al disagio e la difficoltà di movimenti cui sono sottoposti gli abitanti del basso, alla intetcomunicabilità dell’esistenza di ognuno con quella di tutti, che non ammette privacy (dal vano in fondo si scorgono i due battenti laterali dei bassi dirimpetto). Ma oggetti e suoni assumono un rilievo attorico che supera il dettaglio naturalistico (svelando un’implicita rete di rapporti con le conquiste sceniche del moderno teatro novecentesco). Dal vocîo confuso di persone che litigano, che a poco a poco diventa sempre più distinto e vio56

lento, fino a che se ne distinguono le [...] parole più accese, risulta quella complementarità indissolubile basso-vico intesa a esprimere, fin dall’ixcipit fuori-scena, la dimensione corale della commedia. Eppure l’attribuzione del vascio a donn’Amalia Jovine non corrisponde soltanto a una consuetudine popolare, allude subito alla situazione di questa famiglia: Gennaro Jovine, capo di casa solo per l'anagrafe, non appartiene di fatto all'ambiente che lo circonda, perché neppure il basso gli appartiene. Anche le didascalie di presentazione dei due principali antagonisti non si limitano a darne i connotati psico-fisici: il marito appare sui cinquant'anni, magro, patito, in disarmo anche per l’«abito» con cui entra in scena; ma ha i/ volto chiaro dell’uomo profondamente onesto, che [...] molto ha imparato dai disagi e dalle «malepatenze» (did., I, p. 11). La moglie è invece sui trentotto anni, ancora piacente. Il suo modo di parlare, il suo tono e i

suoi gesti danno subito l'impressione di [...] chi è abituato al comando (did., I, p. 12). Non sarà il solo caso di proce-

dimenti analoghi nella drammaturgia eduardiana: come se l’autore si riservasse un suo «cantuccio» potenzialmen-

te registico nelle didascalie, con una punta di rivalsa «epica» sulla voluta obiettività della rappresentazione. L’antitesi è ancora una volta fra opposte visioni del mondo: da una parte sta Gennaro, ma dall’altra non solo Amalia, anche il resto della famiglia, i frequentatori del basso, gli abitanti del vico. Fuori-dentro lo spazio unico ma permeabile dello stanzone lercio e affumicato si muove una umanità composita, ma socialmente complementare nella sua complessiva emarginazione: tranvieri e tassisti disoccupati, operai del Gas sul punto di essere «mandati a spasso», gente che con la tessera «nun po’ campa’» e allora si arrangia con la borsa nera o peggio. Il basso della piccola spacciatrice di contrabbando riunisce per il rito (pagato a caro prezzo!) del «caffè» anche personaggi di diversa estrazione (Peppinella, signora scaduta, Riccardo, tipo d’impiegato), che si prestano allo strozzinaggio di

donn’Amalia pur di procurarsi «zucchero», «ciuccolata», Da

«pastina bianca» (I, p. 23). Le figure di una città eterogenea, e perciò emblematica, finiscono per affollare il luogo deputato del famigliarismo eduardiano, che può essere paragonato a un grande palcoscenico concentrico. Vi si in-

contra «quella Napoli sempre in lotta con la vita di tutti i giorni, impregnata di mille problemi sociali grandi e meschini. Quella Napoli nella quale popolo e piccola borghesia, l’uno per un verso, l’altra per un altro, ma con l’unico scopo di voler sopravvivere, sapevano di poter andare a braccetto lungo le strade del loro destino... tra un temporale e... una giornata di sole» [194]. Ma qui mancano le giornate di sole, c’è la bufera! Il mondo di tutti quanti è fatto di aggressività oppure di sotterfugi, di piccoli ricatti, di una quotidianità che rifiuta la riflessione e il suo linguaggio. Perciò l’unico a parlare è proprio Gennaro: nel suo improvvisato comizio ‘alla napoletana’, che costituisce il suo ‘numero’ verbale, il mo-

mento centrale e l’unico di sosta dell’atto. É un «monologo» autoriflessivo e autocompiaciuto (l’oratore da sé si fa le domande e da sé si risponde), incorniciato dall’operazione di una rasatura mattutina davanti a un piccolo specchio appeso al muro del tramezzo (I, pp. 16-19); incomincia per scherzo, ma poi si snoda seriamente per il gusto sentenzioso di chi sempre più si appassiona sia al ruolo protagonistico (per una volta interpretato) sia agli argomenti introdotti e sviscerati (la mancanza dei generi, il

calmiere, i professori governanti e il popolo, la guerra). Anche il suo è un parlare speciale: parte del discorso è svolta in lingua, come si conviene a un «trattato». Tuttavia

non si rileva qui la distonia grottesca fra il voler essere e l'essere che caratterizza altrove la pretesa italofona dei parlanti. Il passaggio non è neppure sottolineato: come se l’autore stesso, affrontando temi di carattere generale, eliminasse le difficoltà che il dialetto (sia pure questo dialetto accessibile) avrebbe potuto creare per un pubblico

non partenopeo. Ma che si tratti di un anti-linguaggio, ri-

spetto alla comprensione dell’uditorio scenico, è rilevato

dai commenti scherzosi, dalle sollecitazioni a concludere 58

in fretta, dalla confessione finale di Peppe ’o Cricco:

«Don Genna”, io nun aggio capito niente...». Relegato spazialmente in un angolo «di fortuna» e ricacciato nel passato («site ’e n’ata epoca»), Gennaro non riesce ancora ad opporsi ai giochi di borsa nera organizzati dalla moglie, a cui finisce per fare da «spalla». Ma a modo suo, perché, se non può parlare, il ruolo del «finto morto» è quello che interpreta meglio. Come nella scena finale dell’atto, dove con l’immobilità e il mutismo più assoluti egli riuscirà a vincere la gara psicologica col brigadiere Ciappa, sotto l’infuriare dei bombardamenti (I, pp. 31-36). E il ‘numero’ fisiomimico del protagonista, potenziato da una sapiente regia dell’insieme corale: sce-

na-modello per il suo studiato ma non artificioso equilibrio fra spunti farseschi (parodie, travestimenti, «diavolo

a molla») e situazione drammatica. Al preannunciato arrivo della polizia, il basso si trasforma rapidamente in camera ardente, secondo un copione già collaudato che prevede l’azione d’una «crisi di cordoglio» interfamigliare. Nel grande letto-bara il «cadavere» di Gennaro è attorniato dai parenti in lacrime, dai vicini, perfino da due «monache» (’O pittore e O Miezo Prèvete) le cui orazioni,

però, vanno sempre più assomigliando a «delle bestemmie». La finzione e il travestimento collettivi non rappresentano tanto un omaggio alla «napoletanità» come arte d’arrangiarsi, quanto alla solidarietà soprattutto «popolare» verso il malcapitato di turno. Anche nello strumentale svuotamento parodico, istrionismo e confidenza «regolata» coi morti concorrono a quel ripristino dell’uomo in quanto totalità psicofisica che Eduardo persegue nella direzione opposta a quella pirandelliana. La sua fiducia nel teatro come testimonianza non della ‘finzione della realtà’ ma del ‘realismo esemplare della finzione’ traspare soprattutto fra i sibili ad intermittenza della sirena d’avvertimento e l’uzico suono prolungato della sirena per il «cessato allarme», quando si fa il vuoto e un silenzio terrificante intorno al finto morto e al suo custode legale. L'equilibrio

eduardiano consente allora una comicità gravata da toni

cupi e giocata, simultaneamente, sulla finzione della tra59

gedia e sull’incombere della tragedia reale. All’interno d’un movimento scenico per vis corzica non inferiore alla tradizione sancarliniana, trova spazio la resa d’un comportamento da «eroe non tragico» novecentesco e tipicamen-

te napoletano. La puntigliosa fedeltà di Gennaro al suo ruolo dipende anche da una ineluttabile rassegnazione; ma evitando la retorica del quotidiano, conservando anzi il linguaggio mordente del comico, l'Autore ci restituisce i momenti eroici degli uomini normali. L’evento «rivoluzionario» dell’opera si colloca però fra il primo e il secondo atto: con il primo il sipario si chiude sulla «Cantata dei giorni pari» (aveva detto Eduardo al pubblico), con il secondo si apre sulla «Cantata dei

giorni dispari». Lo sbarco alleato è avvenuto, è avvenuta anche la scomparsa del protagonista. Gennaro Jovine (a differenza di Luca Cupiello) ha passato il «limite» che se-

para il suo «microcosmo» dal «mondo grande». È stato catapultato fuori dal vico e dal vascio, da una Napoli avvezza a destreggiarsi fra pericoli quotidiani e miseria anche in tempo di guerra; ha attraversato l’Italia sconvolta dai bombardamenti come dall’andirivieni degli eserciti stranieri. Perciò il suo «ritorno» è quasi «in incognito» e

si colloca al centro dell’opera: egli riappare travestito, ma il suo abito a pezzi «internazionali» prefigura il sentimento di comprensione per tutte le vittime della guerra, al di là d’ogni schematismo amici-nemici, che l’«uomo nuovo» vorrà esprimere ad ogni costo. Entra in scena come un essere lunare, col suo involto di stracci e la scatola di latta di forma cilindrica, arrangiata con un filo di ferro alla sommità, che gli serve come scodella per il pranzo; non riconosce neppure sua moglie: «Perdonate, signora...» (Ed esce) (II, p. 56). Tuttavia, il suo mondo di partenza appare soltanto trasformato: la Napoli milionaria del secondo atto, rappresentata dalla «sciccheria» fastosa della casa (non più ‘o vascio) di donn’Amalia Jovine, è falsa, più falsa di quella che nel primo recitava «pe’ magnà». Mascherati da condolenti (nella farsa tragica del vascio) i personaggi del vico erano veri; vestiti d’un nuovo vistoso e volgare, sono finti. La commedia che recitano ora è più incosciente e

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pericolosa: soprattutto la famiglia Jovine ha subìto colpi più duri dalla «liberazione» che dai bombardamenti, dall’avventurosa ricchezza che dalla solita miseria. Amalia, resa più avida e «dura di cuore» dalla repentina «fortuna», è sul punto di perdere ogni ritegno morale; Maria Rosaria è rimasta incinta di un soldato americano; Ame-

deo ha messo in pratica la filosofia indotta dalla madre («Arruobbe tu? Arrobbo pur’io! Si salvi chi può!»). L’unico a ostacolare, col suo idealismo irreale, un sistema di valori egoistico e spregiudicato era stato Gennaro, e l’unica vera trasformazione è la sua: nella coscienza del reduce che «’a guerra nun è fernuta». Il suo racconto è epico, pur senza coloriture eroiche, sempre dal punto di vista basso: quelle «mele» perdute durante il bombardamento ancora crucciano il narratore! Ma il colpo ricevuto in testa gli ha fatto perdere il senso dei confini geografici, degli anni che sono diventati «nu sèculo»; ha vissuto fra deportazioni, campi di concentramento, fughe disperate, «paise distrutte, criature sperze, fucilazione» («Che sacri-

leggio, Ama’»), lampi d’ingegno per sopravvivere ed atti di profonda solidarietà umana (come per quel «povero cristiano [che] era ebbreo»). E un monologo che riassume quasi due anni di guerra (II, pp. 60-62): se isolerà alla fine il protagonista dai suoi interlocutori scenici, appare tuttavia marcatamente drammatizzato, un teatro-nel-teatro

verbale e gestuale per comunicare direttamente con gli spettatori.

Passate però la commozione e la curiosità per il ‘redivivo’ e la sua storia, gli ‘altri’ tendono a sottrarsi all’incombere dei suoi flashes-back. L’espediente comico del «diavolo a molla», il costante rifluire del discorso di Gennaro sul /eit-mz0tiv «A guerra non è fernuta... E non è fernuto niente!», ripetutamente troncato dalle proteste insofferenti di tutti («Nuie ce vulimme godé nu poco ’e pace... Oramai è fernuto»: II, pp. 69-70), sottolinea sul piano verbale l'appartenenza a due mondi diversi. Da una parte un’epidermica ansia di godimenti e l’assoluta incapacità di guardare oltre gli effimeri «giorni pari»; dall’altra l’individuo isolato, di nuovo emarginato e zittito co61

me ingombro inutile e «scucciante», ma paradossalmente l’ùnico a possedere — ora che è «turnato ’e n’ata manera [...] ommo overamente» — la capacità di interiorizzare la

tragedia mondiale. Il suo viaggio e le sue avventure sono paragonabili a quelli di un «pellegrino», del testimone possessore di una verità che nessuno sembra intenzionato ad apprendere. Non a caso il /eit-mz0tv del reduce eduardiano sarà ripreso nel ’47 da quello leviano («la guerra non è finita, guerra è sempre») quando si trova, con ancora in dosso i vestiti zebrati del campo di concentramento, al centro di un fitto cerchio di curiosi: «I miei ascoltatori se ne andavano alla spicciolata: qualcosa del genere dovevo aver sognato [...] nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli» (La tregua, 1963, p. 67). Perciò, anche nel secondo atto di Napoli milionaria!, la dislocazione e il movimento dei personaggi traducono lo «spazio scenico» in «spazio etico» (Lotman). Quando ogni sforzo di comunicazione gli

pare inutile, Gennaro si 4/z4 deciso, e abbandonando la farsa del pranzo pantagruelico in onore di Settebellizze (il socio amoroso di Amalia) si rifugia al capezzale della figlioletta che «tene ’a freva forte». Come al solito, però, Eduardo lascia una «maglia rotta» nella catena dell’ottusità generale. Maria Rosaria, col suo atteggiamento di dispettoso mutismo (nei confronti degli altri) ha fatto da riscontro scenico ai tentativi di parlare del padre; e quando lui fa per andare, s'alza decisa: «Vengo cu’ te, papà...» (Gennaro la prende per mano e si avvia) (II, p. 70). La con-

fidenza che si risveglia fra padre e figlia chiude l’atto, ma apre indirettamente all’esito finale... Nel terzo atto si rappresenta la «situazione-limite», che dovrebbe precedere immediatamente la «catastrofe» ma che porta invece alla speranza della risoluzione: una speranza avvertita, circospetta, che rifiuta l’illusione gratuita come la sterile disperazione. Perciò acquista spessore «mitologizzante» la battuta del protagonista: «Mo avimm’ aspettà, Ama”, s'ha da aspettà. [...] Deve passare la nottata»; il /eit-mz0tiv dell’epilogo sostituisce ma integra il precedente «A guerra nun è fernuta». Gennaro non si 62

limita a contemplare la catastrofe come «un dato di fatto

avvenire»: se non può più interpretare l’«eroe tragico» che

lotta attivamente contro il fato, non vuole rappresentare neanche l’«uomo non-libero», nato nell’epoca del determinismo («Mo qualunque cosà damme colpa ’a guerra!»: III, p. 77). La modernità del suo personaggio — eroe non tragico e io che pensa — non conduce all’impotenza raziocinante, bensì a un’osservazione critica, funzionale a una

sospesa ma praticabile trasformazione del dato di fatto. Per questo motivo egli tenta di infrangere la barriera della solitudine con le parole: «Aggia parlà? Me vuò séntere proprio ‘e parlà? E io parlo» (III, p. 85). In tutta l’opera acquistano rilievo i rapporti m20r0/0go-dialogo e parola-gesto: i tre atti sono scanditi da altrettanti discorsi del protagonista, in un crescendo diretto a raggiungere l’altro e a farsene riconoscere. Si passa dal monologo in lingua del primo atto (sul calmiere, i governanti e i professori), incompreso dai personaggi ma indirizzato al pubblico, al monologo del secondo atto (il racconto del reduce), inizialmente accolto dall’uditorio scenico ma inascoltato nel suo /eit-mz0tiv fondamentale (la guerra non è finita), per arrivare alla spiegazione conclusiva con la moglie, ormai vinta, affranta, piangente, come risvegliata da un sogno di incubo (did., III, p. 86). Nel suo ultimo sfogo ragionato, incorniciato dai gesti allusivi di chiudere :/ telaio a vetri e di riaprirlo per rinnovare l’aria (III, pp. 85-86), egli non la inchioda agli errori commessi: tuttavia, una volta compreso, bisogna cambiare. Il discorso stavolta non isola il protagonista, ma lo apre all’intesa con gli altri. Anche le sue ‘pantomime’ cambiano di segno

dall’inizio alla fine: la complicità del ‘finto morto” del primo atto si trasforma, nel terzo, nella silenziosa presenza

di uno ‘spettatore’ che sottintende il ‘regista’. Gerzaro lentamente raggiunge ilfondo e volge le spalle, come per sottrarsi alla scena in cui proprio l’impiegato, ricattato e spogliato da Amalia, porta inaspettatamente la «medicina» per la bimba ammalata, per far capire alla madre «che, ad un certo punto, se non ci stendiamo una mano l’uno con

l’altro...» (III, p. 83).

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Za Con un altro uomo, cu’ n’ommo comm°’a me, nun avarrìa parlato: ma cu’ te sì,

cu’ te pozzo parlà, tu sì n’ata cosa. Tu sei al di sopra di tutti i sentimenti che ci condannano a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro. [Questi fantasmi!, CGD, vol. I]

7 La distanza cronologica fra Napoli milionaria! e Questi fantasmi! è minima; eppure la seconda commedia del dopoguerra, introducendo il «fantastico» nel «quotidiano», prefigura la crisi di quell’«ottimismo della volontà» che apparirà a tutti evidente qualche anno dopo. Nella sua ambigua schermaglia con spettri partenopei ma universalmente inquietanti, Pasquale Lojacono si fa portavoce d’una rifluente situazione esistenziale d’incertezza e di confusione morale. E un piccolo borghese, ma non un «borghese piccolo piccolo» come quelli che sono ‘antipatici’ all'autore. Entra in scena con l’aspetto straniato, fra spaesato e clownesco, che contraddistingue gli alter ego eduardiani: ifoltissimi capelli sfioccano nei punti più incredibili del suo cranio; un altro testardo: ba lo sguardo irrequieto dell’uomo scontento, ma che non si è dato per vinto (did., I, p. 113). Dopo aver tentato tutto il possibile nella continua ricerca d’una soluzione che gli permetta di vivere un po’ di vita tranquilla e di offrire a sua moglie qualche agio, è disposto a credere nell’Impossibile, a sperare che la Ruota della Fortuna incominci a girare nel verso giusto. «Eroe bastonato ma non domato» accetterà una nuova specie di patto col diavolo, stipulando una tregua armata con i propri fantasmi della Passione e della Miseria, oltre che con la propria partenopea «paura dei morti». Trasloca in un palazzo seicentesco, barattando (inconsapevolmente?) le sue disperate speranze con la propria «anima». Il trasloco comprenderà infatti, chiuso in un arzadio e travestito da fantasma principale, l'amante della moglie! L’ambiguità della situazione e del protagonista aziona i meccanismi scenici e verbali d’una comicità «fantastica», i cui procedimenti saranno l’«attesa» o la suspense, le «in64

formazioni» trasformate subito in «falsi indizi», e naturalmente l’«esitazione» (Todorov). «La forza della com-

media sta in questa ambiguità» (Eduardo, «Paese Sera», 6

gennaio 1977). Prima che il ‘fantasma’ svelasse la sua na-

tura umana e banale, il testo-spettacolo non consentiva di

decidere se presenze sovrannaturali si aggirassero nell’an-

tico appartamento oppure scaturissero da allucinazioni collettive e individuali; anche se non mancavano indizi a favore della seconda ipotesi. Come nelle due ‘pantomime’ del primo atto: una imperniata sull’accelerazione-deformazione dei gesti del protagonista (comincia a correre per la stanza scacciando dal suo vestito [...] e specialmente dal didietro della giacca, qualche cosa di invisibile che egli crede lo trattenga nella corsa: did., I, p. 120); l’altra giocata, invece, sul rallentamento dei gesti della sorella «folle» del portinaio (assuzzendo una posa statica [...] si stacca dal suo posto come la figura di una tela antica: did., I, p. 121). Entrambe le scene sono sottoposte a distanziazione comica e, anche per il fatto di coinvolgere la percezione eccitata di Pasquale, inducono il pubblico a dubitare delle «visioni». Chiarito d’altra parte il mistero del fantasma (did., I, pp. 123-24), noi spettatori continuiamo a esitare sulla natura del personaggio principale, fino al termine della rappresentazione e oltre... La specifica ambiguità di Pasquale Lojacono si innesta sull’ambiguità generale del Protagonista eduardiano, che dipende dalla sua facoltà strutturalizzata di entrare ed uscire, quando l’autore voglia, dal ruolo di «io epico».

Proprio la corrente alternata di distacco e di simpatia che caratterizza il rapporto autore-protagonista consente allo spettatore di «ridere» di Pasquale e al tempo stesso «compatirlo», partecipando ai suoi «guai» materiali e morali. I protagonisti eduardiani restano sempre anche personaggi: le loro enunciazioni non possono mai dirsi assolutamente focalizzate e focalizzanti. Ma il caso di Pasquale Lojacono è reso più complesso dalla situazione paradossale e fantastica in cui è collocato; diventa fulcro semantico dell’o-

pera proprio il nostro rapporto di fiducia o sfiducia con il

protagonista: è un ingenuo oppure un profittatore? Nep-

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pure il cruciale dialogo Pasquale-Maria del secondo atto (l’unico dell’intera commedia) ci consentirà di decidere se

il primo creda o finga di credere ai fantasmi: le sue reazioni appaiono sempre oblique rispetto alla «prova della verità». Da un lato egli sembra confermare i sospetti della moglie (I, pp. 134-35), dall’altro la sua provocazione al dialogo (propriamente eduardiana) ci fa propendere verso la sua buona fede: «Campà è difficile, Mari”. A nu certo punto [...] accumenciammo a penzà, ci formiamo un’idea sbagliata [...] Parla Mari’, parla...» (II, p. 133). Questo dialogo che cerca il dialogo è all’insegna dell’incomprensione reciproca, e il «contrasto parodistico e doloroso insieme col vero dialogo» (Szondi) finisce per imprigionare sempre più il protagonista nel suo statuto di ‘ambiguità’. Se ne potrebbe ricavare anche una terza ipotesi, tra le due estreme della credulità e della mistificazione: Pasquale sa e, chiudendo gli occhi, provoca la moglie a parlare. Comunque l’opera vive delle sue contraddittorie segnalazioni, è stata progettata proprio in funzione di esse. Il comico non potrebbe scaturire così naturalmente dalla situazione se fosse chiara la malafede del protagonista; il suo caso sarebbe penosamente grottesco (come nel Ber-

retto a sonagli). D'altra parte, «questi fantasmi» eduardiani non anti-

cipano soltanto una problematica storico-sociale; 1’474bientazione quasi surreale, nel barocco palazzo animato da spiriti antichi e moderni, traduce anche in spazio e in clima scenico il presentimento d’una ricaduta nel passato. L'appartamento toccato a Pasquale è labirintico come un mondo: sessantotto balconi, scalette che vanno in terrazza, finestrini «ad occhio» e passaggi insospettati; immagine forse di Napoli forse dell’Italia intera: andrebbe liberato da ombre più concrete e attuali di quelle leggendarie dell’Antico Cavaliere e della sua Bella Damigella. Invece il trucco escogitato dal Padrone — ospitare gratis uno spostato, uno dei tanti, che s’affacci ai balconi e canti e rida! — si fonda sempre e solo sull’apparenza, non sulla sostanza della «tranquillità». Perciò, al nostro napoletano Faust di un dramma umoresco non resta che ricorrere al 66

gioco di esorcizzare il Male credendolo Bene, tanto che la paura si trasformi in fiducia, il fantasma di un’Anima Dannata in quello di un’ Anima Buona che lo aiuti. Perché «i fantasmi non esistono», li «abbiamo creati noi» (II, p. 147): sono l’incubo e il ricatto quotidiano dell’indigenza che fanno diventare «carogne»; il velo della diffidenza e il gelo dell’incomprensione, fra marito e moglie come fra uomo e uomo, «che ci condannano a non aprire i nostri cuori l’uno con l’altro» (III, p. 155). Ma sono anche

i fantasmi di quella speranza cieca nella Fortuna con l’effe maiuscola, che può sembrare paradossale e invece è il sintomo della «napoletanità» più disperata. Su due nuclei tematici interagenti è fondata questa commedia: la «crisi del dialogo» come difetto di solidarietà fra i vivi, e l’«eterna fralezza dell’uomo proteso a credere vero ciò che desidera» (D’ Amico).

Perciò il linguaggio della commedia è speciale, a partire dall’architettura scenografica: funzionale a un «ambiguo» gioco di specchi fra proscenio, scena e retroscena. Qui il teatro eduardiano sfrutta a pieno tutti i suoi trucchi, in uno scambio calcolato di ruoli fra il Protagonista,

l’Autore-Regista e lo Spettatore. Per la vicenda che mi accingo a narrare, la disposizione scenica d’obbligo è la seguente: Ai due lati del boccascena, tra il proscento e l’inizio delle due pareti [...], fanno corpo a sé due balconi [...] (did., I, p. 109): la «nota di regia» iniziale esprime la volontà di in-

frangere le ‘quattro pareti’ del palcoscenico ‘in interno’; non solo prolungando la distesa del piano mediante i due balconi obliqui, al di là dei quali staranno gli spettatori, ma forando anche la parete di fondo a sinistra con quel finestrino «ad occhio», dal quale è possibile vedere e control-

lare chi sale e chi scende dalla terrazza (ibid.). Il movimento dei personaggi dentro questo spazio artistico, che la fantasia del regista-scenografo apre con l’invenzione di più punti di vista, servirà ad un rapporto rivoluzionario con lo spettatore. Anche perché lo spettatore qui è rappresentato: nel «dirimpettaio» Professor Santanna, col quale il protagonista ‘borghese’ e il suo contrastante doppio ‘popolare’ (il portiere Rafele) parlano dal «balcone». E un’467

nima utile, ma non compare mai (did.), un personaggio in-

visibile e simbolico, eppure curioso e petulante: «nella parte del Professor Santanna sono appunto gli spettatori, ossia l’occhio del mondo delegato a un dirimpettaio» [Eduardo, Montalcino 1983, poi in 162]. L’allocuzione al pubblico dell’attore-personaggio, passata dalla Commedia dell'Arte nella tradizione dello spettacolo dialettale, si manifesta qui in una nuova formula di teatro-nel-teatro: la solitudine del protagonista troverà espressione e sfogo nel simulato dialogo («monologo essenziale») con l’unico personaggio che lo ascolterà fino in fondo, lo spettatore.

D'altra parte nel secondo atto, durante l’irruzione gli altri ‘fantasmi’ — ovvero del «gruppo di famiglia» l'amante (moglie tradita, sgraziati figlioletti e vecchi nitori) — nel grande camerone d’ingresso che disimpegna

dedelgetut-

te le camere dell’antico appartamento, il protagonista stesso

si trasformerà in ‘pubblico’, seguendo la scena come uno spettatore che ha pagato il biglietto dall'esterno del balcone (II, pp. 141-44). La rivista caricaturale e napoletana dei

Sei personaggi

(affettuosamente

esorcizzati)

si interseca

con l’esilarante qui pro quo fra presenze ‘reali’ e apparizioni ‘fantastiche’. Ma ogniqualvolta il protagonista finge o crede di assistere a fenomeni soprannaturali scappa fuori dalla scatola del palcoscenico; passando magari da un balcone all’altro, quasi a cercare un punto di vista uguale a quello dello ‘spettatore reale’: i/ temporale è al suo culmine. Data la conformazione della scena e la funzione dei

due balconi, il pubblico deve avere la sensazione di trovarsi

allo scoperto come Pasquale (did., II, p. 146). Finché, nella conclusione del terzo atto, il riflettore epico eduardiano (dissimulato dal raggio della luna) non focalizza l’azio-

ne proprio su quei due ba/coni sospesi tra la finzione della

scena e la realtà della sala. Sul confine spaziale fra teatro e vita si svolge (da un balcone all’altro) l’incontro cruciale tra Pasquale e il suo Fantasma: specie di «intersezione» montaliana, appena sufficiente a dar luogo a un riconoscimento fra uomini veri. Il «puerile abbandono» del protagonista riesce a vincere «in quell’attimo» il destino no68

vecentesco che ostacola la comunicazione fra i «pochi vi-

venti». Ma «si ripiomba poi nell’unico tempo» (Satura):

Pasquale ottiene, con l’ultimo sussidio, la scomparsa di Alfredo come amante della moglie; eppure la sua risoluzione è affidata a un’attesa e a una speranza assai meno fondate di quelle di Gennaro Jovine. Il protagonista del °46 si confessa non ad un altro uomo ma al suo fantasma, e il suo aiutante-antagonista comincia a parlare come a se

stesso (did., III, p. 154). Per manifestare impulsi di solidarietà o esprimere le proprie debolezze, i vivi sono costretti a travestirsi da fantasmi o a confidare ai fantasmi la miseria quotidiana dell’esistenza (III, pp. 154-55). All’origine c’è sempre il tema novecentesco della «comunicazione difficile»: ma per Montale l’«intersezione» è un inopinato errore, subito corretto dal meccanismo della necessità; per Eduardo è invece l’incomprensione a rappresentare il guasto, e va riparato il meccanismo della «normalità» nei rapporti interumani.

Perciò prevale in

Questi fantasmi! il rapporto dialogico con lo spettatore rappresentato, ponte con lo spettatore reale: a partire dal primo atto in cui è il portiere Raffaele a parlare col Professore (il quale s’imzzzagina sempre che risponda), per arrivare al terzo, in cui l’azione di Pasquale sembra derivare dal piano concertato con il suo confidente esterno (III,

pp. 156-57). Tuttavia il gioco dell’autore-regista col pubblico è meta-teatrale: lo spettatore è contemporaneamente confidente e antagonista. Nel simulato dialogo tra Rafele e il Dirimpettaio, è il primo a informarci dellevisioni soprannaturali, eppure è come se la prova della verità su quanto dice si ricevesse dal secondo, che sta dalla nostra parte («Quando lo dite voi, chi lo può mettere in dubbio»: I, p.

113). Come se Eduardo insinuasse che «questi fantasmi» siamo noi a volerli vedere, noi che crediamo di appartenere senza ombra di dubbio alla realtà e non alla finzione scenica! Anche quell’armonioso ‘dialogo’ col pubblico che il protagonista inventa — nel ‘monologo’ d’apertura del secondo atto — è una partita truccata. Egli cerca di im-

brogliare il Professor Santanna: «in questa casa, posso ga69

rantirvi che regna la vera tranquillità [...] questa casa mi ha portato fortuna [...] ma fantasmi, come fantasmi, è proprio il caso di dire: neanche l’ombra!» (II, pp. 128129). Invece qualche «ombra» continua ad offuscare il suo

ottimistico orizzonte: sebbene lui canti coscienziosamente ogni sera «E lucean le stelle», alla «Pensione Lojacono» non s'è ancora presentato «nu cane»! Eppure lo ritrovia-

mo, dopo gli spaventi e le esitazioni del primo atto, beatamente seduto fuori al balcone mentre attende al suo cerimoniale mattutino del «caffè»; così rilassato da non inquietarsi dei doppi sensi dell’altro sul tema scottante delle ‘corna’: «Sul becco... lo vedete il becco? ([...] indica il bec-

co della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? [...] Vi piace sempre di scherzare». Ma il fantasma benigno, come il donatore magico delle fiabe, non dev'essere nominato: nella realtà non c’è posto per gli ‘oggetti magici’, come quella giacca da casa dalla cui tasca vengono fuori i biglietti da mille! Per lo stesso motivo, alla fine dell’atto, dopo lo «spettacolo fantastico» dei sei fantasmi purgatoriali, Pasquale insisterà a nascondere la propria agitazione al Professore, denunciando tuttavia l’unica «verità» possibile: I fantasmi non esistono, li abbiamo creati noi, siamo noi i fantasmi... Ah... ah... ah... (E mentre quelli che litigano, nell’interno della camera [...] giungono sul limitare dell’uscio di ingresso, per mostrarsi sempre più disinvolto canta) Ah... l’ammore che fa fa’. [II, p. 147]

Il confronto con la problematica pirandelliana finzione-realtà e con certe sue soluzioni sceniche è apparso per quest'opera obbligato; eppure il modo stesso in cui Eduardo gioca la carta del pirandellismo è sintomo di rivisitazione trasgressiva. Per Pirandello l’«umorismo», come sentimento del contrario, è superiore al «comico», istintivo 4vvertimento del contrario; per Eduardo «l'umorismo è la parte amara della risata [...] esso è determinato dalla de-

lusione dell’uomo che per natura è ottimista» («Roma», 31 marzo 1940). La definizione del primo scaturisce da una visione del mondo e della sua rappresentazione che degra70

da.il «riso» a impulso biologico; per il secondo invece istinti-passioni-volontà-pensieri non sono scorporabili nell’uomo intero, che è il suo soggetto fondamentale. Alla base della teatralità pirandelliana c’era forse l’aspirazione, frustrata dalla Storia, a fare la Tragedia (e allora l’autore trova

l’«umorismo tragico»); alla base di quella eduardiana c’è piuttosto la volontà di rappresentare la Commedia, perché il «riso» passa per il cervello, filtrando le eccedenze dei sensi e dei sentimenti in modo ricostruttivo. Quindi anche la vicenda «umana» di Pasquale Lojacono, quest'altro «distratto» concentrato sui «fantasmi»,

può essere orchestrata a suon di risate. La morale della favola è tutt'altro che allegra: il nocciolo è nella «tristezza» d’aver «perza ’a chiave» della comunicazione, in «quanto è triste, per un uomo, nascondere la propria umiliazione con una risata, una barzelletta», in quel «lavoro onesto» che «è doloroso e misero, e non sempre si trova» (III, p. 155). Eppure la risata scatta soprattutto nelle scene in cui il protagonista instaura quel rapporto di ‘coppia comica’ col portiere Raffaele che realizza anche una nuo-

va specie di ‘sdoppiamento’. Appare subito chiaro che l’anima nera del servo mariuolo potrà giocare con facilità l’anima in pena del suo padrone: ma in un interscambio di ruoli che sostanzia la «grande magia» della vita con i più usuali «giochi di prestigio» (II, p. 133). Anzi sono i «giuochi» piccoli a scandire lo svolgimento dei grandi: dalle prime ‘sparizioni’ realizzate dall’illusionista affamato, dal «guardiaporta» inferico, alle corrispondenti ‘apparizioni’ operate dall’«inferico cavaliere» o dal suo banale doppio, fino allo spassoso ma cruciale svolìo delle «carte da mille» su quel «tavolo» truccato al centro della stanza. Anche gli oggetti magici si configurano con le cose più comuni della quotidianità: dalla «gallina» che si trasforma in «pollo arrosto» a quella «giacca da casa» che è «una miniera... Quello che ci vuoi trovare ci trovi». Gli illusionisti-illusi eduardiani fanno sempre capo a quel Sìk-Sìk che cercava di tramutare in realtà le proprie ambizioni: Pasquale ha fatto pure l’impresario teatrale! Di qui anche il consueto wixage di stili: dopo che l’e71

clissi del fantasma, tra il:secondo e il terzo atto, ha pro-

vocato la scomparsa del magico benessere del protagonista, l’autore si sottrae al rischio del patetico ricorrendo ancora al contrasto Pasquale-Raffaele. Nel Portiere di quell’inferno che s’era trasformato, agli occhi del Visionario, nel miraggio del paradiso terrestre, per poi rivelarsi alla fine il solito purgatorio fatto di conti da pagare e di citazioni, lo scalognato padrone indovina l’invidia del servo che gode delle disgrazie altrui: «Tu faresti furti ncoppe Preture pe’ dda’ citazione a me» (III, pp. 150-51). Allo stesso modo, la partenza simulata da Pasquale (per fare la posta al fantasma) non rappresenta soltanto l’occasione scenica per un commiato agro-dolce dalla moglie — «Che tristezza [...] Mesi e mesi senza scambiarsi una parola [...]

Avimmo perza ’a chiave, Mari’» —, ma si presta anche al controcanto marcatamente dialettale di Raffaele: Lui dice la chiave, diciamo di mzascaratura, che è proprio una chiave riale... Lui ha fatto, comme fosse, un corrispettivo di assistenza sociale fra la chiave vera e la chiave che non è vera, che sarebbe poi quella vera. Succede a nu cierto punto, che fra ma-

rito e moglie nasce quella scoccianteria [...] voi le parlate e quella non vi risponde, che è la peggio cosa. ’A bbon’anema di mia moglie pure [...] Ma io ’a facevo parlà [...]. Certe volte ’a struppiavo ’e mazzate, ma parlava... [III, pp. 152-53]

E un esempio classico di «comico della trasposizione» (Bergson); ma l’interpretazione ‘popolare’ del discorso ‘borghese’ del protagonista non si limita alla degradazione o alla parodia: allarga e adegua l’orizzonte della situazione ad altre manifestazioni della ‘quotidianità’...

Ccà sta ’a ggente: o munno [....] ca se defende c° ’a carta e c’ ’a penna. [...] E ccà ce sto io: Filumena Marturano, chella ca a leggia soia è ca nun sape chiàgnere. [...] E io senza chiagnere [...] (Fissando in vol-

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to i tre giovani) Vuie me site figlie! [...] Io parlo napoletano, scusate... [Filuzzena Marturano, CGD, vol. I]

«L’idea di Filumena Marturano [...] mi nacque alla lettura di una notizia: una donna, a Napoli, che conviveva con un uomo senza esserne la moglie, era riuscita a

farsi sposare soltanto fingendosi moribonda. Questo era il fattarello piccante, ma minuscolo: da esso trassi la vicenda ben più vasta e patetica di Filumena, la più cara delle mie creature» (Eduardo in «Oggi», 5 gennaio 1956).

Come per Questi fantasmi!, VlAutore parte da un fatto di cronaca — da una «beffa» —, ma lo rappresenta in forma di «situazione-limite», ricavandone una potenziale tragedia. Pensiamo all’attacco del primo atto: con quella femmina pallida, cadaverica (un po’ per la finzione di cui si è fatta protagonista [...], un po’ per la bufera che, ormai, inevitabilmente dovrà affrontare); e quel maschio offeso, oltraggiato, colpito in qualcosa, secondo lui, di sacro, il quale,

per la paura che «o vico, ’o quartiere, Napule, ’o mun-

no...» l'abbiano a pigliare «pe’ fesso», grida: « O rivòlvere... Dàteme

’o revòlvere!» (I, p. 165). Ma ancora una

volta il procedimento quasi-tragico si arresta sull’orlo della catastrofe, dando luogo a un’altra «commedia umana». Il ‘processo’ che si celebra in scena, subito dopo l’avvenuta ‘resurrezione’, scavando negli antefatti e nelle motivazioni trasformerà l’imputata in accusatrice, i testimoni a carico in testimoni a favore: Rosalia Solimene donza del popolo e aiutante di Filumena, Alfredo Amoroso che riassume tutto il passato del suo padrone. Quindi la «beffa» (che il drammaturgo ha rinunciato a rappresentare) diventa anche più spettacolare. Per la tecnica eduardiana dell’informazione dialogata, la scena appare rivissuta da attori e testimoni «con i propri occhi» e, richiamata nei diversi linguaggi di ciascuno, accresce la sua verità artistica; anche se il gioco è condotto in modo da privilegiare

il punto di vista della protagonista, l’unica, per l'Autore,

ad essere depositaria e portatrice (4 20do suo) di valori autentici. Filumena s’è ‘finta morta’ ma: «appena se n'è 79

ghiuto ’o prevete, me so’ mmenata ’a dint’’o lietto e ll'aggio ditto: ‘Don Dummi’, tanti auguri: simmo marito e mugliera!”’» (I, p. 165). Proprio lei sarà capace di rovesciare la beffa — agli occhi del pubblico — in motivo di rivendicazione della propria e universale identità; attraverso la sua seconda rivelazione del primo atto: «E n’ata cosa che voglio ’a te... e m’’a daie! Tengo tre figlie, Dummi'!» (I, p. 168). Il tema della Maternità, entrando in vi-

brazione la corda personale e civile dell’ Autore, genera il leit-motiv del riscatto della persona umana: FiLuMENA ‘E figlie so’ ffiglie! [...] Hanno ’a sapé chi è ’a

mamma [...] M’hanno a vulé bene! (Infervorata) Nun s’hann’’a mettere scuorno vicino all’at'uommene: nun s’hann’a sentì avvilite quanno vanno pe’ caccià na carta, nu documento: [....] Sann'a chiammà comm’a mme! [...] Simme spusate: Soriano! [isp 176]

L'intreccio dell’opera richiama quello della farsa o della novella burlesca: è la storia di una birbanteria fortunata, che trasforma un povero in ricco, un amante infelice in amante o marito appagato. Si agisce nel campo semantico «povertà-ricchezza», a cui corrisponde, sul piano dei caratteri, la contrapposizione «briccone-sciocco». Dell’antagonista beffato, l’agiato borghese Domenico Soriano, si mettono subito in rilievo l’ipocrisia e l’età avanzata (in rapporto ai suoi capricci); della protagonista, invece, l'origine plebea (esibita con orgoglio) e l’intelligenza. A differenza di tutti gli altri personaggi, l’«eroe» di ogni beffa è fornito di «mobilità»: grazie al suo cervello e alla sua iniziativa, acquista il diritto di superare i divieti morali convenzionali. Anche il meccanismo di questa ‘commedia’ si fonda sull’opposizione fra l’imzmobilità dell’antagonista (ancorato al proprio passato di vitellone napoletano) e il dinamismo della protagonista; eppure il ‘dramma’ di Filumena Marturano è ben lontano dal ridursi allo schema di un genere burlesco, perché la sua origine profonda scaturisce dalla figura di una Medea-Madre partenopea, capace di capovolgere alla fine il suo modello tragico. 74

Filumena s’è adattata sempre, nella sua tormentata esistenza, ai mutamenti di ambiente: dal «basso» della fa-

me alla «casa di tolleranza», all’appartamentino a San Petito «dint’a chelli tre cammere e cucina», fino all’approdo

in «casa Soriano». Non è mai riuscita però a trasformare il proprio ruolo: anche nell’ultima tappa continua a fare la «serva» e la prostituta (di uno solo, anziché di tanti). Si comprende, da questo punto di vista, il senso particolare dell’incipit: l’ex abrupto dal momento in cui Filumena Marturano è riuscita 4 7z0do suo a trasformarsi in Filumena Soriano («Vulevo fa’ na truffa! Me vulevo arrubbà

nu cugnome!»). L’«eroina» entra nel dramma solo quando decide di presentarsi come membro della società, per essere riconosciuta come «moglie» dal suo amante-sfruttatore ‘per bene’ e come «madre» dai suoi figli. Non a caso tutte le sue azioni successive si determinano in una serie di volizioni atte a fare chiarezza, a uscire dal tunnel delle

bugie e della dissimulazione. Dopo la ‘rivelazione’ iniziale — anche per lo spettatore che si trova trasportato di colpo in medias res —, Filumena ‘rivelerà’ a Domenico l’esistenza dei tre figli, e cercherà di riunire nella casa (che spera finalmente) sua i tre «uomini» che ha generati, per ‘rivelare’ ad essi la propria e la loro identità. Ma nel suo sforzo di metamorfosi essa si scontra con il rifiuto a cambiare del suo partner. Fin dalla didascalia di partenza, il rapporto fra i due simula un incontro di pugilato immediatamente prima che suoni il gong: la scena appare delimitata agli angoli (quando va su il sipario) da quattro personaggi in posizione «immobile». Filumena, quasi sulla soglia della camera da letto, le braccia conserte, [...] è în atteggiamento [...] da belva ferita, pronta a spiccare il salto sull’avversario (did., I, p. 162); nell'angolo opposto, e precisamente in prima quinta a destra, Domenico Soriano è in pantalone e giacca di pigiama, sommariamente abbottonati, pallido e convulso come un domatore in attesa dell’aggressione; 4 sinistra della stanza, nell'angolo, quasi presso al terrazzo, Rosalia Solimene segue, ansiosa, imovimenti

di Domenico, senza perderlo d'occhio un istante; nel quarto angolo anche Alfredo Amoroso è in atteggiamento di attesa #3

(did., I, p. 163). La scena sembra bloccata nel suo dive-

nire naturale: fermando il tempo e i personaggi sul punto di agire, il drammaturgo crea la suspense e si mette, astutamente, dalla parte del pubblico; anche per la composizione chiasmica personaggi-ambiente, lo spettatore prova l'impressione di trovarsi «al centro del quadro» (Boccio-

ni). Perciò la fine dei primi due atti segnerà anche il termine d’una ripresa del yz4tch tra Filumena e Domenico: quando cala la tela sul primo, lei canticchia, seduta davanti al pubblico, «Me sto criscenno nu bello cardillo», facendosi beffe del suo avversario che ride sghignazzando per umiliarla; alla fine del secondo, lei è capace di controbi-

lanciare quelle «carte» scritte, «tutt’’e llegge d’’o munno»

che potrebbero soffocarla nella sua ignoranza, con quel «pezzettino» di un «consunto biglietto da cento»: «Ci avevo segnato sopra [...] nu cunticiello ca me serve. Tiene

[...] Pecché uno e chille tre è figlio a te!» (II, pi199)) La protagonista vince sempre ai punti, ma è costretta a ricorrere a un altro trucco, a sottoporre (come Turandot) il

suo antagonista allo scioglimento di un enigma. È la terribile vendetta di questa donna mezza cuore e mezza cervello: per aver voluto (e dato) soltanto l’illusione dell’amore, il suo uomo potrà avere in cambio soltanto l’illusione della paternità. Il meccanismo azionato dallo scontro (che è ancora un’impossibilità di incontro) fra i due personaggi principali sembra corretto dal finale: essi si incontrano, ma solo quando anche Domenico riesce a cambiare e a comprendere le ragioni di Filumena, «la ragione degli altri». D’altra parte neppure il rovesciamento «lieto» del Mito classico condurrà alla soluzione dell’ultimo enigma... La forza del personaggio «Filumena» sta nella sua mescolanza di attributi ‘maschili’ e ‘femminili’, generalmente separati nel teatro dell’Autore: la caparbietà e l’accortezza, l’ostinazione contro tutto e contro tutti (nel perseguire la propria visione del mondo) e il senso della realtà (che non le manca mai). E attraverso le successive varian-

ti del /eit-motiv della protagonista — «E figlie so’ ffiglie!» (I, p. 176); «E figlie nun se pàvano!» (II, p. 198); 76

«'E figlie [...] quanno song’uommene, o so’ figlie tutte quante, o so’ nemice...» (III, p. 209) —

si arriva alla ri-

presa-riconoscimento del suo antagonista: «E figlie so’ ffiglie! E so’ pruvvidenza» (III, p. 221). Ma all’inizio Filumena appare sola, col suo bagaglio di passato, con la sua

ostinazione sorda, senza lacrime, a costruirsi un futuro diverso: una casa diversa dal buco squallido e soffocante della sua infanzia, al cui confronto persino «chella ‘casa’ [là... le] pareva na reggia»; pretenderà una casa il cui «calore» non sia quello asfittico dei corpi accalcati, una famiglia diversa da quella che ha avuto lei, non tanto perché era povera quanto perché non era una famiglia, «a famiglia ca s’aunisce pe’ nu cunziglio, pe’ nu sfogo» (I, p. 176). La sua solitudine è quindi la sua fierezza, d’essere diversa: «(Quasi gridando) Nun Il’aggio accise ’e figlie! A famiglia...! Venticinc’anne ce aggio penzato!» (II, p. 197). Tutto ciò è significato dai potenti monologhi che segnano, atto per atto, lo svolgimento dell’opera, e che esprimono il punto di vista dell’autore allorché aderisce al parlato scenico dei suoi protagonisti. Nel primo atto è un ‘monologo dialogato’: nel flasb-back dell’attimo in cui la madre decide, una volta per tutte, di far vivere i propri figli, la sua recitazione si sdoppia, come se parlasse di nuo-

vo con la «Madonna d’ ’e rrose»: Senza vulé, cammenanno cammenanno, me truvaie dint’’o vico mio, nnanz’ all’altarino [...]. L’affruntaie accussì (Punta i pugni sui fianchi e solleva lo sguardo verso una immaginaria effige, come per parlare alla Vergine da donna a donna). [I, p. 171]

Nel secondo atto è la rivendicazione di fronte ai figli, contro «'o munno [...] cu’ tutt’’e diritte», del proprio diritto alla maternità: (Pi2 aggressiva che commossa) «Me site figlie! E io so’ Filumena Marturano, e non aggio bisogno ’e parlà...» (II, p. 196). Nel terzo è il tentativo di interrompere, finché è in tempo, l’inchiesta del padre sull'identità del proprio figlio: stavolta comzzzossa per il tono accorato e affranto [di Domenico], cerca di raccogliere tutti i suoi sentimenti più intimi per trarne, in sintesi, la formula

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di un discorso persuasivo, che finalmente dia all'uomo delle spiegazioni concrete e definitive (did., III, pp. 208 sgg.). Sono ‘monologhi al femminile’: non comunicano attraverso la disquisizione, il cavillo, le armi d’«'o munno ca se defende c’ ’a carta e c’ ’a penna»; comunicano con la suggestione e la potenza delle immagini. Anche perché Filumena è analfabeta e parla «napoletano»: qui il dialetto assume la bellezza e il senso d’una lingua ‘contro’, d’una lingua vera, nella concretezza espressiva d’una memoria che, perfino nell’incontro mistico con la Madonna, con-

serva la coscienza della realtà: (Con arroganza vibrante) Rispunne! (Rifacendo macchinalmente il tono di voce di qualcuno a lei sconosciuto che, in quel momento, parlò da ignota provenienza:) «E figlie so’ ffiglie!» [...] Forse se m’avvutavo avarrìa visto o capito ’a do’ veneva ’a voce: ’a dint’a na casa c’’o balcone apierto, d’’o vico appriesso, ’a copp’a na fenesta... [I, p. 171]

Il passato ritorna sempre, nel ricordo, intinto nei colori acri d’un vissuto bestiale che spinge uomini e donne alla delinquenza o alla prostituzione: Avvoca’, ’e ssapite chilli vascie... (Marca la parola) I bassi [...] Nire, affummicate [...] Addò non ce sta luce manco a mieziouorno [...] A sera ce mettèvamo attuorno ’a tavula... Uno

piatto gruosso e nun saccio quanta furchette. [...] Tenevo trìdece anne. [Pàtemo] me dicette: «Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magnà, ’o ssaje?». [II, p. 196]

oppure come vezzeggiato dai toni lirici d’una felicità negata, anche a uno di quegli «attori plebei» che s’è ribellato alle «leggi del mondo»: Dummi’, ‘o bello d’’e figlie l’avimmo perduto!... ’E figlie so’ chille che se teneno mbraccia, quanno so’ piccerille, ca te dànno preoccupazione quanno stanno malate e nun te sanno dicere che se séntono... Che te corrono incontro cu’ ’e braccelle aperte, dicenno «Papà»... Chille ca ’e vvide ’e venì d’ ’a scola cu’ ’e manelle fredde e ’o nasillo russo e te cercano ’a bella cosa... [III, p. 209]

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Da questo conflitto intimo fra passato reale e passato ideale deriva l’ossessione «famigliaristica» di Filumena Marturano: proiezione d’un mondo mitico fondato sulla comunicazione e sulla solidarietà, come il presepio di Luca Cupiello. Ma il «presepio» questa donna ha faticato a farselo non con le statuine, la colla e la stagnola, bensì con «criature» di carne: ha lottato per farle nascere e crescere, contro la volontà di Domenico o degli altri uomini come lui; anche rubando a quel padre che «no una, ma ciento volte, me l’avarisse fatto accìdere» (II, p. 199) quel figlio.

L’«idea fissa» della protagonista le fa attraversare una via crucis di umiliazioni e di fatiche; tesa, vigile, pronta ai

cambiamenti d’umore del suo «padrone», ma mai del tutto «sottomessa», senza mai dargli la soddisfazione di vederla piangere. E solo di fronte all’angoscia del suo antagonista ormai vinto e completamente mutato (E diventato mite, quasi umile. I capelli sono un po’ più bianchi, did.,

III, p. 200) la sua vendetta può comprendere anche 1’ affettuosa preoccupazione per la felicità di lui: «Dummi?... e sarebbe la nostra rovina» (III, p. 209). Se compisse l’ul-

tima rivelazione, lui seguiterebbe a rincorrere il passato nel proprio figlio, egoisticamente; invece «la giovinezza della vecchiaia è altruismo [...]. Dare, dare agli altri invece di voler ricevere per forza» (Eduardo, «Corriere della Sera», 13 ottobre 1984 [193]).

Domenico Soriano è «personaggio immobile» finché rifiuta di crescere, di maturare, di invecchiare con sag-

gezza. Quando si dichiara sconfitto e si trasforma, l’Autore (insieme alla sua protagonista) mostra compassione per lui: una compassione non scevra, al solito, di contraccolpi comici. Come nella scena in cui il povero padre in cerca di identità — quell’identità che si illude di riconoscere in un figlio proprio — conduce un’indagine guardinga per scoprire nelle tendenze di almeno uno dei tre ur gesto, un accenno, ricollegabile alla sua giovinezza (did.), e resta infine deluso e irritato dal coretto scordato e inumano di quei «napulitane ca nun sanno cantà!» (III, p. 205). Esempio classico di «fallimento dei propositi» (Propp, 1988); ma già nel secondo atto il gioco di calerzbours sulla 9

mania napoletana del «caffè» e dei «tribunali» che accomuna padrone e galoppino (DomeNICO: «Ma io ricorro in tribunale, in appello, ‘a Corte Suprema!»; ALFREDO, sbalordito: «Don Dummi’, p'ammor’ ’a Madonna! Pe’ nu surzo e cafè?») è capace di provocare, con la risata, la riflessione del pubblico: Domenico Che parlo a ffa cu’ te? D”’o passato... Ma te pozzo parlà d’ ’o presente? [...] Mo me sento finito, senza vuluntà, senza entusiasmo! E chello che ffaccio, ’o ffaccio pe’ dimustrà a me stesso ca nun è overo, ca songo ancora forte, ca

pozzo ancora vencere l’uommene,

’e ccose, ’a morte. [II, pp.

183-84]

Il dialogo equivoco e incomunicante fra Domenico e Alfredo introduce il motivo crepuscolare, forse cechoviano, degli «anni che passano per tutti quanti»: quella malinconia dell’invecchiare che attraversa il teatro di Eduardo (fin da Gennareniello, La parte di Arzleto), talvolta an-

che «con rabbia» (Uro coi capelli bianchi). Ma il tema si coniuga nel finale di questa commedia con il grande motivo della vita che si prolunga oltre la morte stessa, nella speranza d’una rigenerazione terrena attraverso i figli, tutti i figli del mondo: Domenico ‘E cavalle nuoste [...] se so’ fermate [...] (Mostra i giovanotti) Mo hann”’a correre Iloro! [...] Che figura faciarrìamo si vulèssemo fa’ correre ancora ’e cavalle nuoste? [III, p. 211]

Come nel terzo atto di Napoli milionaria! il linguaggio del protagonista, qui virato al femminile, giunge alla comunicazione con l’altro, attraverso la rielaborazione at-

tiva da parte dell’4/tro del dialetto e del suo /eit-mz0tiv fondamentale («'E figlie so’ ffiglie»); «nella mediocre ed egoistica personalità [di Domenico] l’istinto della paternità ha forza redentrice, che, sola, può portare quel piccolo uomo al livello morale della sua antagonista» [31, p. 637]. Solo allora la Donna che riveste concretamente il motivo della 80

Maternità può mostrare anche i suoi piccoli peccati di egoismo (proprio quando prova l’«abito nuovo», III, pp. 205-6), ma soprattutto riesce a sciogliersi in lacrime nel rito catartico della quotidianità: Domenico (Stringendola teneramente a sé) È niente... è niente. He curruto... he curruto... te si mmisa appaura... si’ caduta... te si’ alzata... te si’ arranfecata... [...] Mo nun he ’a correre

cchiù, non he ’a penzà cchiù... Ripòsate! [...] E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte uguale... Hai ragione, Filume”, hai ragione tu!... (E tracanna il suo vino, mentre cala la tela). [III, p. 212]

III. IL PENDOLO

DI EDUARDO:

FRA

REALE

E FANTASTICO

Nel panorama della nostra drammaturgia novecentesca, le didascalie ‘ambientali’ di Eduardo si possono paragonare, per incidenza, soltanto a quelle di Pirandello: dense, accurate, pignole, a nessun regista sarà consentito

di ignorarle, a meno di fare «cosa diversa». I codici spaziali-scenografici dell’uno come dell’altro trasformano la didascalia in progettazione di spettacolo; ma comunicano maniere differenti di «vedere il mondo e il teatro, di conoscerlo e di giudicarlo infine» (Bartolucci). Se il fopos pirandelliano è la «stanza della tortura» (Macchia), dalla

quale il personaggio tenta di uscire come da una «stanza dell’essere», ma che alla fine lo soffoca e lo schiaccia, i luoghi deputati eduardiani manifestano piuttosto una progettazione centrifuga, che suddivide, movimenta, apre ogni «stanza».

Lo stanzone di Napoli milionaria!, per la sua collocazione sociale ‘bassa’, sembra aprirsi naturalmente al gioco comunicativo delle entrate e delle uscite; ma la spaziosa sala da pranzo della ‘borghese’ casa Soriano, in Filumena Marturano, richiede altri accorgimenti per uscire dalla convenzione teatrale fine-ottocentesca. Ogni dettaglio scenografico evoca una rappresentazione del mondo ra81

dicata nella realtà: dallo «stile 900» del mobilio all’ennesimo grande telaio a vetri che taglia l'angolo della stanza e lascia vedere un ampio terrazzo fiorito, mentre a destra la stessa si spazia inoltrandosi profondamente in quinta e lasciando scorgere [...] lo ‘studio’ del padrone di casa (did., I, p. 161). Eppure questo luogo scenico viola insistentemente l’«intimità» di quello naturalistico, e si pone anche in antitesi all’«angustia» carceraria delle sue più recenti «deiezioni» esistenzialistiche. E articolato mediante tramezzi, tende, e altri attrezzi permeabili o mobili, in angoli e in ambienti diversi, e si presta, durante l’azione, a importanti trasformazioni. Nel secondo atto, Filumena si

impadronisce della camera della servetta e del salottino, per fare posto ai suoi figli (II, p. 185); alla fine /a tenda, che divide la camera da pranzo dallo studio, è completamen-

te chiusa, affinché lo «studio», che non è mai stato tale,

possa diventare il luogo intimo della cerimonia nuziale (dI poz10), Tale prospettiva mobile collega, del resto, i diversi ambienti della «trilogia». Il grande camzerone d’ingresso che disimpegna tutte le camere dell’antico appartamento di Questi fantasmi! è progettato in funzione di un gioco fantastico capace di ‘abbindolare’ lo spettatore. Nel primo atto si configura come scenario del disordine e del trasferimento, ma anche della paura, dell’attesa e della meravi-

glia; nel terzo la stessa scena, che nel secondo atto s'era come per magia riempita e organizzata, si è invece svuotata e, come all’inizio, è illuminata da un lume di candela. Siamo di nuovo ‘al buio’: ma nel buio del disincanto e della desolazione. Eppure, come in Napoli milionaria!, anche alla base della finzione scenica di Questi fantasmi! c’è un autentico ‘spaccato napoletano’. Qui con i suoi terrazzi e tetti che appaiono altrettante vie di comunicazione fra dentro e fuori: solo che il gioco delle entrate e delle uscite si complica di illusività e di allusività, come nella sala degli specchi d’uno ‘spiritato’ Luna-park. Là dove la comunicazione fra i personaggi si dimostra particolarmente difficile, il teatro di Eduardo incrementa o approfon82

disce le sue segnalazioni spaziali-scenografiche, per mantenere vivo il rapporto con il pubblico. L’apparato scenico conferma, dunque, l’importanza della «trilogia» nel percorso del drammaturgo: vi si pongono le basi di quella pendolarità fra ‘reale’ e ‘fantastico’, i cui poli di oscillazione non appaiono tuttavia assolutamente divaricati. AI ciclo delle commedie del dopoguerra appartengono anche Le bugie con le gambe lunghe (1947), La grande magia e Le voci di dentro (1948). Nel ’48 il pendolo eduardiano sembra spostarsi verso il fantastico, ma dopo l’o-

scillazione verso il realismo delle Bugie. Che d’altra parte si tratti di un «ciclo» concepito allo scopo di ‘discutere’ problemi scottanti del tempo, lo dice l'Autore stesso a Pandolfi: «Da Napoli milionaria fino alle Voci di dentro c’è un linguaggio preciso. [...] Ricorda che in Napoli milionaria si chiude il sipario su Gennaro che dice: ‘Ha da passa’ ’a nuttata”. Dopo ho scritto Filumzena Marturano». Filumena doveva essere una commedia che «parlasse ai governanti»: «pensavo che avrebbero preso provvedimenti; ma le cose rimasero stazionarie e allora ho scritto Le

voci di dentro, dove il personaggio non parla più perché è inutile parlare quando nessuno ascolta [...]. In quelle cinque commedie lei può trovare la storia dell'umanità» [27, pp. 199-200]. Come un antico poeta della res publica, Eduardo credeva possibile un dialogo diretto non solo con gli spettatori, ma anche con gli uomini del potere. Di qui il suo dispetto o la sua amara disillusione, quando le sue «parole» non ricevono risposta. Molte commedie hanno un andamento che si potrebbe schematizzare in tre tempi: solo i primi due (quello dell’illusione o dell’ideale, quello della delusione) si ripetono puntualmente, mentre il terzo può

dare adito a soluzioni diverse. Restano quasi in tutte la provocazione e il diniego, ma l'esito d’un possibile o impossibile dialogo varia a seconda del tempo ‘interno’ (delAutore) e del tempo ‘esterno’ (della società e della sua

storia) che il singolo testo attraversa...

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Vi voglio far vedere una verità con le gambe corte [...]. Per arrivare, impiega

Dio sa quanto, ma... arriva! [Le bugie con le gambe lunghe, CGD, vol. I] Dopo la soluzione ancora sostanzialmente ottimistica

di Filumena Marturano, gli ambigui rapporti tra verità e finzione diventano comunque fondamentali nelle tre rappresentazioni successive. Anche se, in Le bugie con le gambe lunghe, l'alternativa non è tanto fra verità e illusione quanto proprio fra verità e menzogna: perché la finzione

non è diretta a confortare se stessi ma ad ingannare gli

altri. Qui l’edificio è scenograficamente il «palazzo»: non più l’antico di Questi fantasmi!, bensì un palazzo-alveare stile Novecento, coi balconi uno sotto l’altro, ricoperti e pavimentati con rettangoli di vetro cemento per dare luce al terrazzo sottostante, dai quali si scorgono Je finestre dei due versanti dirimpettai (did., I, p. 217). La prospettiva su questo concreto emblema di vita napoletana (e italiana) anni Quarantotto (lo stesso topos ritorna in Le voci di dentro) ci

è offerta dal più meschino e modesto appartamento della lunga serie, al quinto piano, ir casa Incoronato. Dal ‘punto di vista’ più mediocre sul piano economico, ma non morale e neppure culturale (libri curati un po’ dappertutto), il drammaturgo stabilisce il suo rapporto testimoniale con il ‘quadro del mondo’ da rappresentare: luogo deputato, l'ennesima stanza a tutti gli usi. Ci si mangia, ci si lavora, ci

si intrattiene (ibid.).

Infatti il protagonista di quest'opera, dal nome ‘in-

formativo’, Libero Incoronato, non è un «eroe agente»

bensì un personaggio-testimone. Eppure la sua funzione va oltre quella del «personaggio estraneo» o dello «stra-

niero», che consentiva al «dramma sociale» fra i due se-

coli di presentare «dialetticamente» i personaggi-tipo attraverso il visitatore che ne fa gradualmente la conoscenza. Il procedimento (già usato da Eduardo in Io, l’erede)

appare sintomaticamente invertito: assisteremo alla «ri84

vista» dei personaggi-oggetto mediante la loro penetrazione nel luogo del soggetto-testimone; proprio tale penetrazione comporterà il coinvolgimento, e lo sconvolgimento, dell’estraneo.

Questo piccolo borghese esercita una professione eccentrica cara all’autore, fa il «consigliere» dei clienti in un negozio di francobolli. Qualche illusione ancora la conserva, nella rassegnazione alla propria «insignificanza»: l’illusione che la «guerra», tutto sommato e nonostante tutto, qualcosa abbia cambiato nella vita della gente; che

con la difesa del decoro sia caduta anche l’ipocrisia, il voler «parere» e «apparire»... quel che non si è! Ma proprio contro questa convinzione — corazza protettiva che do-

vrebbe metterlo al riparo da ogni tentazione di sembrare ma anche di essere diverso — cozza il mondo degli altri, costringendolo a riconoscere nei ‘tempi moderni’ non l’epoca del realismo bensì quella delle bugie, delle reti di reciproci inganni che gli uomini non cessano di tessere. Attraverso i tre atti dell’opera, il personaggio-testimone diventa «io che pensa», e soprattutto alla fine si trova ad esprimere al posto dell’ Autore una ‘morale della favola’ rovesciata. Quando finge di offrire al neonato «istruzioni per la vita»: Cumparie”, [...] Se vuoi trovarti bene, saie ch’e ’a fa’? Devi legare l'asino dove vuole il padrone. [...] É l’uomo nero [...], che ti può far paura se non leghi l’asino dove vuole lui. L’asino invece è il tuo orgoglio, il tuo onore, e quasi sempre il tuo diritto. Non devi dire mai la verità [...], e quando dici le bugie, le devi scegliere fra quelle che sono di gradimento al tuo padrone, perché se non piacciono a lui [...] Ile spezza ’e gamme e dice ca so’ ccorte [...]. Se, al contrario, sono interessanti per lui, le aiuta, le fa correre e non le fa fermare più. [III, p. 269]

La commedia è forse la meno riuscita del ciclo: troppi significati seri e un gusto dell’intrigo paradossale la allontanano dal consueto equilibrio eduardiano nel mixage. Il «tutto per bene» finale è più aspro, stavolta, di quello pirandelliano. Quest’altro «eroe bastonato» decide di eva-

dere dal contesto, perché ha «imparato» che la passività 85

implica la complicità; ma riesce a dire la ‘sua’, alle altre

marionette che cambiano le ‘verità’ come gli abiti, solo per antifrasi o attraverso la parabola amaramente comica della «camicia» rivoltata con le due scritte stampate in corsivo inglese: «Madepolan» ed «Excelsior», che lo accompagna come un marchio di fabbrica: «Vi voglio far vedere una verità con le gambe corte (Si toglie la giacca e mostra il didietro della sua camicia arrangiata e rifatta...)» (III, p. 270). Parlare chiaramente — in questa commedia — risulta impossibile, le bugie degli altri hanno gambe troppo lunghe!

Di Se voi aprite la scatola con fede, rivedrete vostra moglie, al contrario, se l’aprite senza fede, non la rivedrete mai più. [La grande magia, CGD, vol. I]

Anche in La grande magia e in Le voci di dentro, il problema sempre più assillante, in questi anni di crisi e di disillusione storica, risulta quello della «comunicazione difficile»: all’interno del rapporto di coppia (come in Questi fantasmi!) e in un più articolato ambito famigliare

(come in Napoli milionaria!). In entrambe l’intesa fra i

personaggi sembra impossibile, pur ricorrendo nell’una alla mediazione di un ‘mago’ e nell’altra alla provocazione di un ‘testimone visionario’. Perciò il liriguaggio scenico attinge al «fantastico»: nel dibattito illusione-realtà della Grande magia, e in quello sogno-realtà delle Voci di dentro; eppure il rapporto di provocazione-comunicazione con io spettatore è garantito. La chiave ermeneutica del primo testo è nella fraseformula pronunziata da Otto Marvuglia: illusionista dal nome ambiguo (meraviglia-arravuglià, imbrogliare), sempre in bilico fra il serio e il comico, tra grandi verità e piccole cialtronerie. Il mito di Orfeo ed Euridice sembra rivivere, infatti, nel caso della ‘coppia borghese” sottopo86

sta ai suoi «giochi di prestigio», ma soprattutto alla «grande magia» dell’esistenza. Calogero Di Spelta si è visto sparire ‘sotto gli occhi’ Marta durante uno spettacolo di illusione (in realtà la donna è fuggita con l'amante), e si aggrappa alla speranza che il mago gli offre: se egli è sicuro della fedeltà della moglie, la riavrà aprendo la scatola che l’altro gli dona, ma se aprirà la scatola dubitando non rivedrà sua moglie mai più. Di fronte all’alternativa: riconoscere la verità e accettarne le conseguenze sociali, sentimentali, esistenziali, oppure rifugiarsi nell’illusione, il marito sceglie la seconda soluzione. Quattro anni dura questo gioco con la vita, e il dramma potrebbe sciogliersi quando Calogero, ormai certo della propria fede e sul punto di aprire la scatola, vede arrivare la moglie in carne e ossa. Ma il ritorno di Marta, in anticipo sul ‘momento magico’, potrebbe rappresentare la sconfitta della fedeillusione a opera della realtà dell’adulterio e della fuga. Non resta dunque che rigettare questa realtà e rinchiudersi per sempre nel mito della scatola: la verità ridurrebbe l’illusione a finzione, la fede a menzogna. Calogero non riconosce Marta: sua moglie è ormai la creatura ideale serrata nella Scatola-simbolo. Il ‘fantastico’ della situazione nasce, ancora una vol-

ta, dal concretarsi di un senso figurato. Il matrimonio di Calogero e Marta era in crisi, i due non comunicavano più: l’illusionista determina il passaggio dell’avvenimento dal piano metaforico a quello reale («Vostra moglie vicino a voi non c’era»). La scomparsa di Marta, fantastica agli

occhi di Calogero, non fa che realizzare quel ron esserci di lei per lui. La «scatola» rappresenta il contenitore in cui il dubbio del marito custodiva gelosamente l’oggetto-moglie («Vostra moglie è in quella scatola»). Anche la sua ri-comparsa (che sembra altrettanto fantastica) è legata al processo di letteralizzazione delle parole del mago («Voi avete fatto sparire vostra moglie e voi dovete farla riapparire»); solo quando il marito le restituirà la sua esisten-

za di soggetto nello spazio aperto della libera scelta, lei potrà riapparire per lui. Ma l’immagine fisica di Marta riappare prima del tempo stabilito dalla «fede» del cre87

dente, risulta falsa ai suoi occhi: appartiene al tempo oggettivo ma non a quello soggettivo, e Calogero la risospinge nel campo delle «immagini mnemoniche». Dunque la grande metafora del «gioco» attraversa l’opera scenica; ma ancora una volta la questione affrontata è «che fare?» della propria vita e della Vita in genere. Ci sono valori in gioco, non solo apparenze: qui non si tratta soltanto della fiducia che uno ha nella propria moglie, bensì del rispetto che uno ha dell’altro da sé. Il procedimento drammaturgico è quello, collaudato dal teatro «comico», della sorpresa iniziale controbilanciata da un’altra finale; ma l’autore ne rileva la «parte amara». Calogero Di Spelta rappresenta un’altra variante del ‘borghese’ eduardiano: anche lui si è formato una corazza prevalentemente verbale («Per me il pane è pane, il vino è vino, e l’acqua di mare è amara e salata»); entro la quale, tuttavia, cova

le proprie frustrazioni. La sua corazza ‘verbale’ s’è rivoltata in ‘non-verbale’, consolidandosi sul ron dire, su quella mancanza di fiducia nell’interlocutore che inibisce la comunicazione autentica delle parole. Così appare la coppia Di Spelta al «pubblico finto», i clienti dell’albergo Metropole, i quali assistono al «vero teatro» di quei due che sono diventati «l’attrazione principale» della stagione: «marito e moglie, senza parlare e senza guardarsi [...] Essa me pare una condannata a morte e lui un funerale ’e terza classe» (I, p. 277). E così ce li presenta la didascalia: sono tutti e due tormentati da un intimo ragionamento che li

tiene immersi in un profondo sconforto. Il loro «dramma» si svolge nella sfera chiusa dell’«io»: per diventare azione ha bisogno che un ‘mago’ lo trasformi in spettacolo, trasferendolo dal ‘teatro del mondo’ nel ‘mondo del teatro’. Quando il «rideau» rivela l'ampio giardino all’inglese con la ricca facciata posteriore dell’albergo (giardino e facciata che sembrano finti come certi esterni pirandelliani), il «grembiule» mostra contemporaneamente la scena, con la scogliera contro la quale si frange, partendo dal centro della platea, un mare immaginario; quel «mare» in cui deve fingersi il pubblico vero, e in mezzo al quale si dondola lentamente 47 piccolo motoscafo. Si denuncia quindi la 88

finzione teatrale, e si attraversa la quarta parete naturalistica con l’artificio di quel «motoscafo» che dalla plateamare arriverà poi a rapire la moglie adultera. Ma nella sua ostentata illusività questa rappresentazione del ‘teatro del mondo’ risucchia lo spettatore in uno spazio artistico che implica la sua partecipazione al Gioco del Teatro e della Vita. All’inizio è come se l’Organizzatore dicesse ai suoi compagni di gioco: fingiamo una scena, voi rappresentate il mare... Il pubblico deve «ricordare» di trovarsi nel mondo della realtà (4/ posto della ribalta ci sarà una ringhiera in ferro tubolare dipinta in blu); ma deve anche provare emo+: zioni «come se vivesse realmente la situazione immaginata» (Lotman): perciò quella ringhiera sorgerà nell’attimo stesso in cui il rideau e il grembiule si levano (did., I, p.

2i5)

E il momento magico, per l’autore e per il pubblico, in

cui l’attore diventa personaggio, in cui l’i/lusion comique è «come se» divenisse rea/tà. Ma in questo dramma del ’48, che esaspera la tematica e incrementa la scenotecnica di Questi fantasmi! (senza raggiungere forse la stessa naturalezza comunicativa),

il ‘teatro del mondo’

è invaso

dal ‘mondo del teatro’: il marito borghese colpito nell’onore si trova di fronte l’attore, un figlio d’arte di Sìk-Sìk. Perciò il protagonista eduardiano si sdoppia: Calogero Di Spelta porta all’estremo il ruolo di Pasquale Lojacono, Otto Marvuglia prosegue l’opera dell’altro ‘artefice magico”, con diversa consapevolezza e arte, «come se» fosse lui l’autore e il regista della favola scenica. D'altra parte, concluso lo spettacolo di illusione, il secondo atto si sposta nella mzisera casa di Otto Marvuglia: il risvolto dell’illusione comica appare sempre nel teatro eduardiano ingombro di vissuto, il retrobottega dell'Arte si mescola al massimo grado con la quotidianità più prosaica (come nel primo atto di Uorzo e galantuomo). Vi ri-

troviamo infatti la solita «donna impossibile» per il marito-partner (ma esuberante, volgare e noiosa anche per la

didascalia) insieme agli altri guitti ‘al naturale’: tanto più realistici dei personaggi del teatro del mondo perché qui si muore davvero. I giochi di prestigio che il mago ‘povero’ 89

è costretto a compiere, nella sua scalcinata corte dei miracoli, fanno tutti riferimento a contingenze ‘normali’ della vita: le corna, i debiti, la morte. Perciò l’Autore attinge con ironia ai generi o sottogeneri del repertorio par-

tenopeo (l’«inchiesta» farsesca, la «sceneggiata»); ma svole su un registro lirico-tragico, digiacomiano, la scena delÈ morte improvvisa, nella stanza accanto, della giovane figlia di un compare del mago. Davanti alla morte gli espedienti dell’illusionista umano (pur se provvisto del «terzo occhio») non bastano più: stavolta Otto Marvuglia, 4ss4-

mendo un'aria sincera quanto sconfortata, ammette che il gioco dipende da un Prestigiatore «più importante», il cui trucco non si può conoscere (II, p. 313). Egli è capace soltanto di riportare Calogero nel mondo delle piccole illusioni, magari trasformando il tempo («il tempo sei tu») e

lo spazio per salvare l’allucinazione di quel «disgraziato di marito» (ma anche la propria credibilità) dai pericoli d’ogni visione oggettiva. Davanti al mago e al suo apprendista stregone si prospetta un miraggio: Otto (A /enti passi costringe [Calogero] ad oltrepassare il limite del boccascena) Hai visto? Se ci fosse il muro saremmo urtati, invece noi siamo passati benissimo. [...] Che cos'è un muro se non un gioco preparato? [...] La pietra è una. (Mostrando ancora la platea) E quello è mare! [II, p. 214]

L’attraversamento del boccascena, come «limite» della

quarta parete naturalistica, richiama la prospettiva aperta con cui il drammaturgo-regista guarda al rapporto col pubblico (tutti quanti facciamo parte di un gran gioco di illusione!). Le due pantomime più significative dell’atto si svolgono quasi in contemporanea: mentre nella stanza angusta e malinconica dove riposa la piccola morta gli ‘attori’ interpretano mestamente il loro popolare cordoglio e tutti

insieme [...] escono muti e compunti (did., II, p. 314), il

protagonista ‘borghese’, rapito dal giuoco magica, siede, guardando la platea, come per godere della visione: «È mare! E mare!» (II, p. 315). Ma nel rispecchiamento oppositivo fra i personaggi del mondo del teatro (che nel loro concreto ambiente di retroscena si trovano solidali a lottare

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contro la fame e la morte) e quel personaggio del teatro

del mondo rizzasto solo (davanti al suo pubblico-mare) c’è

anche un barlume di «pietà» per l’infelice marito che si aggrappa all’illusione pur di continuare a vivere... La grande magia è una «favola in tre atti», ma una «favola ironica»: alla fine l’«eroe» tratterà l’«aiutante magico» come se fosse l’«antagonista»; perché Otto rappresenta anche la coscienza di Calogero, contro la quale egli combatte nel tentativo di rimediare alla mancanza iniziale. La sparizione della moglie dovrebbe concludersi con la sua ri-apparizione; altrimenti il gioco non finisce mai... Perciò l’epilogo riparte tra farsa e tragedia, nell’ezorzze stanzone di passaggio di quella ricca casa in cui il protagonista s'è rintanato come una belva ingrigita, in compagnia di quel servo-spalla che lo asseconda con pulcinellesca ironia. Ma Calogero non è «pazzo» come vorrebbero quei ‘parenti terribili’, livide marionette del teatro del mondo mosse dal filo spastico dell’avidità. Egli mantiene regolarmente il comportamento «a due piani» richiesto dal «gioco»: sa di giocare, anche se prova emozioni «come se» vivesse realmente la situazione immaginata. Da questo rapporto con la realtà — anch'essa «a due piani» — l’ambiguità sia del protagonista che del suo Doppio mago e speculatore. La terapia ludica di Otto Marvuglia potrebbe portare l’altro alla consapevolezza del reale; la creatività attiva del gioco spinge Calogero fino a dire la verità su se stesso, quella «verità» che sola può fargli riacquistare la «fede» nei rapporti interumani: (Mostrando la scatola) Mia moglie sta qui dentro. E l’ho rinchiusa io, in questa scatola! Ero diventato [...] egoista, indifferente: ero diventato «marito»! [...] Io non parlavo. Lei nemmeno. [...] Non eravamo più amanti! [III, p. 327]

Siamo al culmine dell’attesa: il paziente è giunto fino all’analisi e all’autoanalisi. Nel riconoscimento dei loro reciproci torti la coppia Di Spelta potrebbe ricominciare

a vivere un autentico rapporto: infatti Marta, col suo ritorno anzitempo, vorrebbe uscire dalla «scatola» una volta per sempre. Ma la provocazione della moglie resta un 91

‘monologo’, perché il marito rifiuta di ascoltarla: «Chi è questa donna? Che cosa ha detto? Io le sue parole non le capisco!» (III, p. 328). Rifiutare il linguaggio comunicante, per Eduardo, significa rifiutare il mondo: espulsi cor fragore gli altri, anche il «meraviglioso giocoliere» ridotto a «un'immagine», Calogero si sente «il giocoliere più importante». Perciò si rinchiude in quel dialogo privato con la scatola — vaso di Pandora e talismano — che è un zz0z°0logo eterno, elastico, infinito: (dopo una pausa, în silenzio assoluto si sente isolato dal mondo. Stringe più che mai la scatola al cuore e dice quasi a se stesso) Chiusa! Non guardarci dentro. Tienila ben chiusa, e cammina. Il terzo occhio ti accompagna... e forse troverai il tesoro ai piedi dell’arcobaleno, se la porterai con te ben chiusa, sempre! (Rimane estatico nel gesto e fermo nella sua illusione che è ormai la sua certezza) (III, p. 329).

La didascalia finale richiama quella ‘visionica’ di Natale in casa Cupiello; ma il borghese Calogero è senza ‘eredi’, nessun altro uomo può più intenderne il messaggio. Il suo gioco non è più a due piani ma a «uno solo»: egli parla soltanto con la scatola di un palcoscenico che nel teatro di Eduardo non può rappresentare il «vero teatro». Non a caso la conclusione dell’opera coincide, stavolta, con la fantasia solipsistica del protagonista: il ‘finale di partita’ si chiude con l’allucinata vittoria dell’Illusione, divenuta tanto alienante da doversi sostituire alla Realtà. Dì Mo se sono imbrogliate le lingue. Ecco che la notte ti fai la fetenzia di sogni. [Le voci di dentro, Cep, vol. I]

Eppure la morale della Grande magia, secondo Eduardo, è che l’«illusione deve essere alimentata dalla fede»; e

«che ogni destino è legato al.filo di altri destini in un gio92

co eterno: un gran gioco del quale non ci è dato di scorgere se non particolari irrilevanti» [183]. Questa ‘grande magia’ della vita, che subordina la ‘piccola magia’ d’ogni singolo illusionista, diventa nella ‘partita teatrale’ eduardiana fattore di equilibrio instabile fra due esiti: l’illusione è necessaria alla vita dell’uomo, ma per mantenere valenze positive dev'essere sostenuta dalla sincerità di chi vuol credere per vivere e non per strumentalizzare la vita; altrimenti si trasforma nel suo negativo, la finzione. Il gioco di specchi esistenziale può avere soluzioni diverse, a seconda di come lo vivi: può diventare un deformante

trucco da baraccone, usato per portare e imporre una maschera (come nelle Bugie con le gambe lunghe); può portare alla vittoria dell’illusione come immobile e sterile certezza (come appunto in La grande magia); ma potrebbe anche trasformarsi in quella ‘catena dell’amicizia’” non manzoniana, bensì propriamente eduardiana, in cui la solidarietà fra gli uomini conserva la sua funzione di reciproco ausilio e riscatto. Le differenti soluzioni dipendono dall’equilibrio precario in cui si mantiene il rapporto fra la rete tematica dell’«io» e quella del «tu»; con l'opposizione Sogno-Realtà tornano infatti, in Le voci di dentro, i temi dello «sguardo», e vi è anzi esplicitamente affermata la loro incompatibilità con i temi del «discorso». Il titolo è codificante: anche il teatro eduardiano ha avvertito in questi anni «il bisogno di passare dal mondo visibile» e fisicamente udibile «a quello dell’infra», e vi ha trovato quei «corpuscoli psichici» prodotti dall’«esplosione» novecentesca del «personaggio uomo»; ma li ha disposti ancora a prestarsi come personaggi fatti a immagine e somiglianza dell’uomo e «a comunicare i loro segreti di strutture significanti» (Debenedetti, 1977). Anzi l'Autore è riuscito a salvare il

‘suo’ personaggio-uomo, quell’a/ter ego che ci viene incontro in diversi esemplari, capace di mediare e magari di rendere «più praticabile la vita» con il suo «motto araldico»: si tratta anche di te! Alberto Saporito, ‘erede’ col fratello Carlo e il vecchio zio Nicola di un’arte ormai superata, quella tradizio99

nale dell’«apparatore di feste», ha sognato un delitto: l'assassinio da parte d’una famiglia di vicini, i Cimmaruta,

dell’amico Aniello Amitrano. Visionario anche lui, come molti protagonisti eduardiani, scambia il sogno per realtà (l’Amitrano è stranamente scomparso da casa) e denuncia

il delitto al commissariato. La polizia irrompe nella cucina dei Cimmaruta e li porta in questura, ma Alberto scopre durante il sopralluogo che le prove, i documenti, il cadavere stesso mancano. Il fatto-ombra produce tuttavia conseguenze reali, e il sognatore pentito assiste alla sfilata dei vicini (stavolta in casa sua) i quali si imputano a vicenda, di nascosto l’uno all’altro, quel delitto sognato 74 forse no, perché ognuno è pronto a vedere nell’altro il «Mostro».

Come fa l’Autore a far convivere questo personaggio, provvisto di coscienza e di scopo, con quei personaggi-

particella che hanno invaso la letteratura e il teatro contemporanei, anche il suo? Eduardo si serve (come nelle Bugie) del protagonista-testimone con gli attributi dell’«inerme» montaliano, e ricorre al congegno post-pirandelliano del «teatro inchiesta» per condurre il ‘suo’ testimone d’accusa alla scoperta d’una verità profonda, senza approdare d'altra parte alla «necessità dell’Assurdo».

Alberto denuncerà, anche in un mondo di «sordi», l’uccisione della «parola» fondata sulla comprensione e sulla

«stima reciproca» fra gli uomini: «E vi sembra un assas-

sinio da niente?» (III, p. 378). L’Immaginario eduardiano è sostanzialmente polemico, incentrato sul tropo dell’ Antitesi: l’Autore rilanci a in forme moderne la conflittualità in quanto apriori del genere teatrale. Perciò questa specie «comica» di sogno (ma forse no) non dissolve alla fine la realtà: ancora una l'opposizione «fantastica» si rivela una grande trovat volta a teatrale per significare una frattura che non investe la sfera astratta dell’esistenza, bensì quella del nostro vissut o qui e ora. Dopo la prova allucinatoria della Grande magia (dove i riferimenti al dopoguerra erano sintomatic amente scomparsi), ci ritroviamo in quel sistema di rapporti iotu-mondo che appartiene al campo della storia, della so94

cietà, e delle persone che in esse concretamente vivono. Il pendolo di Eduardo oscilla, nella stessa stagione, dal ‘surreale’ al ‘reale’ sul piano spaziale-scenografico; ma anche in questo dramma si procede fra rappresentazione apparentemente naturalistica e simulazione di un universo onirico, così da mantenere lo spettatore in uno stato di «per-

cezione ambigua». All’inizio si crea un clima di attesa: per impostare il suo costante conflitto fra «individuo» e «società» 1’Autore usa la strategia drammaturgica dell’«irruzione» in concomitanza con quella del «ribaltamento». L’irruzione dell’eroe-testimone avviene dentro una situazione cristallizzata sia dall’aspetto del contenitore (la cucina dei Cim-

maruta) sia dalla presenza di figure che comunicano un senso di ripetizione, di durata, di immobilità. Il risveglio della casa sembra avviarsi e procedere sui consueti binari del «famigliarismo» eduardiano; ma per l’artificio del ribaltamento lo spaccato di «realtà», dapprima presentato come autentico, svela via via le proprie «interiora», rovesciandosi in «emblema del trucco e della contraffazione» (Artioli). Già il dialogo d’incipit fra Rosa e Maria, padrona e serva, scopre le crepe che incrinano questa casa, sebbene

la prima si sforzi di salvarne la facciata («mio fratello di-

spiaceri non ne ha»). Intanto il ruolo tradizionale della ‘casalinga’ è svolto dalla sorella nubile del ‘capofamiglia’ (appunto Rosa); la moglie lavora di rotte e ha «a che fare con tutta una clientela di gente stravagante». Non solo lei fa la cartomante, ma il marito «se mette fore ’a sala c’’o turbante ncapo, e fa entrare ’e cliente» (risata della servetta) «Avanti! Avanti!» (I, p. 340). Che siamo introdotti

in un’anti-famiglia è poi confermato dall’entrata in scena dei coniugi; si ripropone infatti quel rapporto di coppia — quasi rituale nel teatro eduardiano dei «giorni dispari» — trascinato avanti solo per la convenzione di ox parlare

o di ron ascoltare. Rapporto che diventa tanto più acre e

acrimonioso quando dietro questa convenzione cova il sospetto delle «corna» (I, p. 342). Ma «Pasquale» Cimmaruta appare subito grottesco, collocandosi su un gradino DI

più basso rispetto al suo omonimo di Questi fantasmi! mentre Matilde porta all’estremo dell’abiezione la costante eduardiana della «donna coi calzoni». Ancora più informativi dell’andamento dell’opera sono gli indizi strutturali, che fanno capo all’opposizione semantica complessiva Sogno-Realtà. Fin dal risveglio della casa, in casa Cimmaruta si parla in continuazione di «sonno» e di «sogni». Nella chiacchierata fra Rosa, Maria e il portiere Michele, l’autore infila il racconto di due incubi tragi-comici e premonitori: ma non tanto Freud, quanto piuttosto l’interpretazione classica e popolare del

Sogno entra nel suo ‘gioco scenico’. Difatti qui si introduce la tirata nostalgica del portiere sul tempo «passato», in cui tutto appare più bello, anche i «sogni», perché si è

giovani:

Quando ero ragazzo mi facevo un sacco di sogni... Ma sogni belli... Certi sogni che mi facevano svegliare così contento che mi veniva la voglia di uscire, di lavorare, di cantare [...] talmente belli che mi parevano spettacoli di operetta di teatro... [I, p. 339]

Michele appartiene a quella categoria di ‘minori’ che, al di là della parte, hanno il ruolo di Doppio (su un registro linguistico più basso) del personaggio-protagonista. Egli si contrappone a Rosa e a Maria nei cui sogni l’uomo mangia l’uomo o ne beve il sangue: lui infatti #07 si sogna

Più niente; ma esprime attraverso un leit-motiv (che ritor-

nerà alla fine) il nesso semantico e polemico che nelle Voci di dentro collega Sogno e Realtà:

Ma allora la vita era un’altra cosa [...] se un amico ti dava un consiglio, tu l’accettavi con piacere. Non c’era, come fosse, la malafede. Mo se sono imbrogliate le lingue. Ecco che la notte ti fai la fetenzia di sogni... libid.; il corsivo è nostro ]

Ed è rilevante in quest'opera sostanzialmente gua, con esplosioni dialettali tanto più significativ in line, che il Doppio ‘popolare’ anticipi nel ‘suo’ linguaggio il discorso del ‘povero borghese” protagonista, anziché viceversa. Il 96

buon senso dialettale coglie istintivamente il nocciolo di un problema che solo dopo lo scavo e l’esplosione del mondo dell’infra si esprimerà in un linguaggio più mediato. Si sono imbrogliate le lingue: le voci di dentro non corrispondono più alle voci di fuori, e quando, come il protagonista, si è incapaci di controllare il meccanismo della divaricazione si rischia di îr2brogliare quella fetenzia di sogni con la realtà. Ma è imbroglio vero? La nota dominante, nel primo come nel secondo atto, sarà quello ‘squillo di campanello’ che di continuo mette in allarme i personaggi, e scandisce per lo spettatore il ritmo di un’attesa, che diventa via via più ansiosa. Fra i due atti si crea un rapporto di inversione (lo stesso procedimento, pur nel diverso clima dell’opera,

che nelle Bugie). Ma il primo serve anche alla presentazione dei personaggi: l’entrata di Carlo (camzzzina a stento, semisvenuto) lo preannuncia come viscido e stinto ‘tartufo’ partenopeo (sempre affarzato e sempre preoccupato

di nascondere la propria fame, scaricando ogni responsabilità sul fratello); mentre l’ingresso di Alberto (piegato sotto il peso dei suoi travagliati cinquant'anni. Pallido, cadaverico. Indossa un abito scolorito e logoro: did., I, p. 346) è tale da scatenare sensi di colpa e impensabili accuse. La coppia dei fratelli Saporito provoca un’impressione com-

plessiva di debolezza fisica e di decadenza economica: «mo è n’ata cosa. Hanno industrializzato anche il mestiere dell’apparatore» (I, p. 345). Ma in Carlo la condizione è integrata da un contegno strisciante e falsamente sottomesso, in Alberto è compensata invece da un’agitazione psichica interna che gli vieta di mostrarsi disinvolto (did.).

Il sogno del protagonista solo nell’ultima scena dell’atto si rivela tale: perciò il nesso fra le allusioni sempre più incalzanti di Alberto e le reazioni di quel Pasquale assonnato e torvo ha dell’assurdo. Tuttavia riconduce al sistema Sonno/Sogno/Insonnia: se il primo non può dormire perché «'a capa penza», il secondo non dorme (sempre per Alberto) «pecché ’e muorte so’ assaie. So” cchiù ‘e muorte ca ’e vive» (I, p. 349)! L'ultimo discorso del ‘testimone invasato’ si riferisce al ‘suo’ sogno, ma gli spet97

tatori come gli altri personaggi in scena non lo sanno ancora: perciò il campanello interno che annuncia l'irruzione della polizia libera paradossalmente gli astanti dall’atzzosfera terrificante creata da Alberto (did.). Il dislivello di informazioni — fra personaggio e personaggi e personaggio e spettatori — crea un gioco di intersezioni comunicative e una possibilità di manovrare l'evento, da parte dell’ Autore, che è una macchina calcolata nei suoi minimi spostamenti: l’atmzosfera terrificante provoca un dispendio di emotività nel pubblico, ma viene corretta subito, e come dislocata, dalla frequente utilizzazione dei meccanismi comici. Con l’arrivo dei poliziotti, le allusioni di Alberto dovrebbero mutarsi in denuncia «precisa e documentabile»: ma l’accusa è gridata su un registro di enfasi dialettale, tra espressioni da codice giuridico e isterismi visionari. L’effetto è ridicolo. Tanto più che le conclamate prove non saltano fuori dal soqquadro della casa: si incomincia, si badi, dallo spostare la «credenza» e si finisce col guardare dentro una «cesta»! ALBERTO

(Siede avvilito, passandosi una mano sulla fronte)

Miche’, io me lo sono sognato [...] Ma così naturale... (Quasi

estasiato dalla visione fantastica, dice beato) Ma che bel sogno...

Hp: 352]

L’assurdo palese di questa fine d’atto sembra completare l’immagine del protagonista: un visionario e capo

tuosto, come il protagonista di Nor ti pago.

L'impressione potrebbe essere confermata dall’incipit scenografico del secondo atto, in casa Saporito: Uno stanzone enorme ingombro di ogni rifiuto e cianfrusaglie (did., II, p. 354). Ci troviamo di colpo in un habitat rovesciato: nell’anti-campo per eccellenza dell’ordinata, luminosa e linda cucina in casa Cimmaruta. Alberto e i suoi sembrano vivere in un mondo fantastico, ingombro di fuochi d’artificio, di trucchi, di réclame pubblicitarie fuori tempo. Ma se consideriamo l’articolazione dello spazio scenico si coglie subito, entro l’ambiente stesso, un «confine» fra mondi diversi: una grezza scala a pioli, costruita alla buona, porta su di un mezzanino, sul quale si troverà un vecchio 98

sgangherato divano dorato che serve da letto a Zi’ Nicola (72772) cona Il primo personaggio che vediamo ‘agire fisicamente’ non è il protagonista, ma il suo Doppio off lizzits: Zi” Nicola, dall’interno del mezzanino, traffica per conto suo. Ogni tanto si affaccia e sputa. Dal suo rifugio ir alto, questa enigmatica figura di saggezza e di giustizia sovramondana continuerà a sparare colpi di fuochista fantasioso e materialissimi sputi; mentre i basso assisteremo alla processione infernale dei Cimmaruta e alla loro sarabanda di accuse e di contro-accuse. Il gerius loci è l’«eroe dello spazio chiuso»; ma incomincia a sputare proprio sul nipote Carlo, mentre questi contratta con un losco individuo («Se succede quello che dico io...») la liquidazione del loro pittoresco mondo. Perciò l’opposizione spaziale altobasso introduce l’antitesi si/enzio-parola, ovvero lingua creativa-lingua stereotipa: CarLo [Zi’ Nicola] dice che parlare è inutile. Che siccome l’umanità è sorda, lui può essere muto. Allora, non volendo esprimere i suoi pensieri con la parola... perché poi [...] è pure

analfabeta... sfoga i sentimenti dell’animo suo con le «granate», le «botte» e le girandole. [II, p. 354]

Alle orecchie di un’umanità che non sa più né parlare né intendersi, Zi’ Nicola risulta muto; ma il suo non è un silenzio radicale: è un linguaggio alternativo, pirotecnico e poetico, che uno solo dei personaggi situati fisicamente in basso può intendere, il nipote ‘visionario’ Alberto («Certe volte si fanno delle chiacchierate talmente lunghe che sembra la festa del Carmine»). Quindi l’attesa che precede l’incursione dei vicini è

gravata dagli avvertimenti in codice dello «sparavierze»; eppure lo spettacolo indecoroso dei Cimmaruta sorprenderà il nipote ‘in buona fede’ insieme agli spettatori: AL-

BERTO (parlando verso il mezzanino) «Zi Nico”, hai ragio-

ne tu, che non vuò parlà cchiù... L'umanità ha perduto ogni ritegno»; al punto da far rinascere il dubbio: «Ma allora io ho veramente fatto la spia a questa gente. Il sogno non esiste? Quello che ho detto è la verità?» (II, p. 99

363). Solo un evento traumatico può allora interrompere la catena dei fatti (o dei misfatti?) che si sono succeduti sulla scena, a ritmo comicamente accelerato. Zi’ Nicola

rompe la consegna di non parlare, per chiedere con voce chiara e pronunciando perfettamente ogni parola: «Per favore, un po’ di pace» (E rientra). Dal mezzanino s’intravede una violenta luce verde (II, p. 368): è il «biancale»

della fine, il segnale di «via libera». Ma neppure alla ‘morte” del vecchio il pubblico inorridisce, perché sa che si tratta d’una finzione scenica, anche se ne è ugualmente emozionato. Eduardo conosce il senso del limite: dopo mancherà la luce, apparirà Maria recando un candeliere con cinque candele accese, mentre Rosa pronuncia l’irresistibile battuta: «Una buona vicina è sempre una benedizione del Signore!». Sul protagonista che guarda atterrito le cinque candele (did., II, p. 369) finisce l’atto, lasciando interdetto (non atterrito) il pubblico. Con appena il distacco di un sorriso, proviamo anche noi il dubbio di esser caduti direttamente nel sogno di Alberto! D'altra parte, al rapporto di sdoppiamento AlbertoZi° Nicola si intreccia quello fra il protagonista e il portiere. All’inizio del terzo atto, proprio da Michele Alberto riceve l'informazione del tradimento del fratello. E ancora Michele traduce nei termini più efficaci le parole del protagonista, nell'altro /eit-mz0tiv dell’opera: «L'uomo è carnivaro: nfaccia *e denare, non guarda nemmeno il proprio sangue» (III, p. 371). Significa che Caino è sempre pronto a saltare addosso ad Abele anche prima di poterlo fare, non appena ne intravede la possibilità. Si determina quindi l’ultimo paradosso della commedia, per la sospettata congiura dei Cimmaruta ai danni di Alberto «Saporito»: non solo siamo ridotti al punto che «uno non si può

fare un sogno», che altrimenti va in galera (II atto), ma il

sognatore rischia di finire ammazzato a causa di quel sogno (II atto). Non per vendetta, perché ha calunniato egli innocenti, ma perché quel delitto è così verisimile

da provocare la realtà. È proprio quest’ultima rivelazione, di un’umanità spietata e feroce al di là d’ogni sua più cupa visione d’incubo, a chiarire una volta per tutte il 100

quadro del mondo del protagonista; nessun pericolo può essere maggiore, per lui, di quello che sta correndo l’«uomo», diventare «carnivaro» senza accorgersene! La sua denuncia resta chiusa tra un’interrogazione sfiduciata («Che parlo a ffa’? Chisto, mo, è ’o fatto ’e zi’ Nicola... Parlo inutilmente?») e la conferma della sordità

altrui. Il protagonista eduardiano perviene, in un breve giro di anni, ad una Weltanschauung lontanissima da quella che animava il finale sospeso di Napoli milionaria!. Inariditasi troppo presto la primavera del ’45, la società non sembra lasciare più spiragli a speranze d’una ritrovata (nella «bufera») solidarietà. L’incomprensione iniziale che

separava il protagonista dagli altri in quella ‘commedia storica’ si è trasformata, in questa, nella rinuncia a parlare di Zi’ Nicola o nel disperato monologo finale di Alberto Saporito: (Esaltato, guardando in alto verso il mezzanino) C’aggia ffa’, zi’ Nico”? [...] Parlami tu... (Si ferma perché ode come in lontananza la solita chiacchierata pirotecnica di zi’ Nicola) Non ho capito, zi’ Nico”! [...] (Silenzio) M’ha parlato e nun aggio capito. (Azzaro, fissando lo sguardo in alto) Non si capisce! [III, pp. 378-79]

Eppure questo interprete delle «voci di dentro», proprio perché parla anche quando gli sembra inutile parlare («Un assassinio lo avete messo nelle cose normali di tutti

i giorni... il delitto lo avete messo nel bilancio di famiglia!»), con la sua denuncia riscatta l’umanità intera. Non

solo perché la commedia comunica, sia pure in modo obliquo, tra personaggio e spettatori; ma anche perché il doppio ‘popolare’ dell’eccentrico ‘borghese’, nel ripetere la sua tirata sul passato scomparso, vi aggiunge una postilla significativa: Fa per andare, poi come ricordando qualche cosa: «Ah! il mezzo portone, poi, l’ho chiuso... E sempre un rispetto...» (III, p. 379). È il mezzo portone «a lutto»

per Zio Nicola, che meritava «rispetto»: Michele dimostra di aver capito «qualche cosa»... E attraverso la didascalia finale della commedia si può supporre un movimento interno delle coscienze che solo

un’adeguata interpretazione scenica può verificare. Dopo 101

lo schiaffo tirato fulmineamente al fratello sorpreso e smarrito, i due sono rimasti soli, l’uno di spalle all’altro. Alberto seduto al tavolo, in primo piano a sinistra, col capo chino sulle braccia. Carlo, accasciato su di una sedia, in fondo allo

stanzone. Il linguaggio eduardiano degli ‘spazi’ e dei ‘piani’ sembra attingere più dal cinematografo che dal teatro, e pur nell’immobilità e nel silenzio già esprime qualcosa, dopo tanto rumore... per nulla! Ma ecco la drammaturgia del ritmo quasi impercettibile dei gesti trasformare la fisionomia dell’interprete, in concomitanza con la drammaturgia della luce, come sempre dissimulata naturalisticamente: dopo che Alberto solleva il capo lentamente, e con uno sguardo pietoso cerca il fratello, anche il sole inaspettatamente, dal finestrone in fondo, taglia l’aria ammorbata dello stanzone e, pietosamente, vivifica le stremenzite

figure dei due fratelli e quelle povere, sgangherate sedie, le quali, malgrado tutto, saranno ancora provate dalle ormai svogliate «feste» e «festicciole» dei poveri vicoli napoletani (did., III, pp. 379-80). Il sole si umanizza come il protagonista, esprimendo «pietosamente» il punto di vista dell’autore-regista-interprete.

IV. IL CORO

FAMIGLIARE

Se il «discorso profetico» — alla fine del secondo «ciclo» del dopoguerra — è angoscioso, non è rassegnato: la delusione non frena l'Autore, lo stimola anzi a ricercare altri punti di contatto col «reale». Siamo alla terza fase del suo itinerario drammaturgico e della sua attività di uomo di teatro: scandita ‘storicamente’ dal passaggio attraverso il 5007 economico, l’egemonia culturale americana, la contestazione e il crollo dei pregiudizi e degli antichi valori famigliari e sociali. I due filoni in cui si articola e si alterna questa fase sono quello della trasformazione traumatica della famiglia (da Mia famiglia del ’54 a

Sabato, domenica e lunedì del °59) e quello della necessit à

102

e problematicità di un impegno civile (da De Pretore Vincenzo del ’57 a I/ sindaco del rione Sanità del ’60, fino a I/

contratto del °67). Ma la prospettiva investe sempre una ‘metamorfosi’ della società che per essere accettata o almeno discussa richiede la ‘comunicazione’: perciò anche la problematica dei due testi centrali del «famigliarismo» eduardiano riguarda la ‘crisi del dialogo’. Nella famiglia | patologica o in trasformazione fra il Cinquanta e il Sessanta, il «silenzio» può generare ansia, fare paura e radicalizzare l’incomprensione (Mia famiglia); però anche le «parole» possono provocare pudori, rancori, rivalse e antagonismi (Sabato, domenica e lunedì IN

Se non pronunziate un nome o per lo meno guardate in faccia alla persona con la quale volete parlare, come facciamo a sapere chi vi deve rispondere? [Mia famiglia, CGD, vol. II]

Le tematiche dell’«io» e del «tu» sono poste nuovamente sui piatti di una stessa bilancia, ma in equilibrio instabile: il motivo della «paternità egoistica» risuona anche in Sabato, domenica e lunedì, ma il possessivo iniziale

connota Mia famiglia fin dal titolo. Alberto Stigliano, il protagonista, è «un uomo [...] che aveva vagheggiato la prole come il suo stesso io proiettato nel futuro: e invece costoro non sono lui, sono due altri» [D' Amico, in 85 bis, pp. 137-39]. L'Autore ritorna «al più antico, eterno tema della commedia universale, il conflitto fra padri e figli, ma trattandolo con una visione sua»: d’una crisi operante

a tutti i livelli, che ha investito non solo la figura delpater

familias ma anche la visione del mondo di chi si trova a

interpretare quel ruolo. La realtà dei giorni dispari è anche conseguenza dell'illusione dei giorni pari. Di qui il dilemma aperto dal testo: se i vecchi non possono più invocare gli idoli del loro passato, traumaticamente rivelatisi falsi, 103

i giovani non hanno nuovi valori in cui credere. Eduardo rappresenta l’antitesi fra due diverse reazioni al quadrodel-mondo che l’improvviso sviluppo economico, l’americanismo diffuso come panacea, la trasformazione d’un famigliarismo tradizionale stanno tracciando con linee provvisorie o confuse «per tutti». L'opposizione semantica è quindi fra «passato» e «presente»; i personaggi appaiono contrapposti in due gruppi: Alberto Stigliano, speaker radiofonico che si è fatto da sé, e suo fratello Arturo, tipico soldato in ritiro, come varianti

del tipo «uomo nostalgico»; Elena (moglie di Alberto), Rosaria (sua figlia), Beppe (suo figlio), ma anche Corrado (fidanzato di Rosaria) e Guidone (amico di Beppe) come

varianti del tipo «attualista». Il «carattere» di ognuno di-

pende dalle «relazioni» dei personaggi di un «gruppo» con quelli dell’altro. Per gli attualisti, Alberto «non s’accorge che la vita è cambiata», ovvero di questa trasformazione «ha fatto la tragedia della sua vita» (Beppe). Perciò «non va d’accordo» con il figlio; «la moglie, come non esistesse;

tratta la figlia come se fosse un’estranea» (Guidone) (I,

pp. 7-10). Egli è un passatista per il figlio moderno e spregiudicato, addirittura un «bestio» per il «sensibile» Guidone. D'altra parte, al fratello, Alberto si confida: «Artu’, la mia casa è un deserto. Mi hanno lasciato solo come un eremita. E allora... andiamo avanti! Ognuno si aggiusta come meglio crede» (I, p. 23). Entrambi vedono nella tra-

sformazione della ‘famiglia’ un fenomeno della crisi della ‘società’: ma il primo si è messo «in finestra, e aspetta », mentre l’altro è ancora convinto della funzione capital e dell’«autorità». E alla chiusura dei passatisti si oppone l’azzardo degli attualisti: ognuno dei personaggi del secondo gruppo ha compiuto o sta per compiere una trasgressione. Beppe vuole fare l’attore cinematografico; Corrado rifiuta il «posto» alla Radio offertogli dal futuro

suocero; Rosaria, prima di incontrare Corrado, ha avuto (pare) una relazione con un uomo sposato; Guidon e è una

trasgressione vivente, in quanto omosessuale. Anche na provoca uno scandalo: le ex-amiche del Circolo Elever104

ranno a rinfacciarle, di fronte al marito ignaro, un grosso debito di gioco. Proprio l’ultimo episodio determina l’«avvenimento», che è anche un magistrale ‘colpo di scena’, alla fine del primo atto: la distaccata rassegnazione del protagonista si estremizza e si concretizza nella perditadella-parola; ma l’afasia che gli altri scambieranno per un male fisico, e che è invece l’espressione di un4 disperazio| ne intima, cattiva, inesternabile (did., I, p. 33), metterà in

moto l’intreccio del dramma. Infatti l’ambiente di casa Stigliano, nell’atto iniziale come invaso dal caos, nel secondo (quattro mesi da quel-

l'avvenimento) è stato completamente trasformato (did., II,

p. 35). Proprio la moglie ha ‘trasformato’ la casa in un piccolo laboratorio di sartoria; lavora, e supplisce così alla «mancanza» economica del marito (lui, speaker radiofonico, non parla più). Ma un altro avvenimento segnerà questo secondo tempo della storia: Beppe, partito per la Francia, viene accusato (innocente) di un delitto; è fuggito, ricercato dalla polizia, braccato dai giornalisti che invadono la casa. Allora il capo-famiglia ritrova, improvvisamente, la parola: Pronto. ([...] tutti si scambiano occhiate di meraviglia per il fatto che Alberto parla). Commissariato di Polizia? [...] C'è da fermare un giovane sospettato di assassinio. Stigliano. Rettifilo 74. Grazie (Riattacca il cornetto). [II, p. 47]

Egli recupera il ruolo di padre-padrone della «sua» famiglia, e rispolvera il suo repertorio di «luoghi comuni», di «frasi più vecchie», di «proverbi più antichi». Alla fine dell’atto sembra che il sistema dei nostalgici abbia la meglio: il catoniano genitore consegna il figlio alla polizia, mentre l’intermittente flash del fotoreporter investe di taglio la figura di Elena, trasformando quell’atteggiamento di madre affranta dal dolore in un'apparizione spettrale (did., II, p. 54).

Ma il terzo atto riserva ancora delle sorprese: ad apertura di scena assistiamo a un ulteriore miglioramento dell’ambiente. Non solo il laboratorio è ormai di esclusiva proprietà della signora Elena Stigliano; ma intorno al tavolo da 105

pranzo [...] si troveranno în cordiale conversazione: Michele Cuoco, Carmela sua moglie [genitori di Corrado], Elena, Alberto e Arturo (did., III, p. 55). Quel «tavolo» è diventato finalmente centro di ritrovo famigliare. Sono i genitori di Corrado a introdurre in casa Stigliano un terzo sistema di valori, formando un «gruppo» nuovo di personaggi. Della stessa generazione di Alberto, essi dimostrano una capacità di comprendere il «presente» larga e generosa. Michele Cuoco in ogni frangente si è sforzato di parlare col figlio: «[...] e venne il periodo più Masio quanno se vuleva suicidà! Don Albe’, ore intere parlavamo del suicidio, io e lui, come due pazzi! [...j Stavamo

fuori al terrazzo, sopra il parapetto camminava una formica». Proprio con l’apologo della «formica», questo semplice provinciale riesce a comunicare a Corrado il senso della «vita»: Certo, ’a furmicola nun fa tanta ragiunamente che putimmo fa’ nuie; ma ‘a vita ’a capisce, nun capisce ’a morte... Pecché ’a morte nun esiste. Se tu ti uccidi, sei tu che rinunzi alla vita. Allora questo che significa? Che ’o Padreterno ha creato la vita, e noi abbiamo creato la morte. [III, p. 56-57]

La «paternità» si manifesta anche come possibilità di continuo rinnovamento: Michele Cuoco ha riconosciuto nel figlio un «tu», e l’ha messo in condizione di vivere un'esistenza anche diversa dalla sua, «senza pretendere

niente in cambio» [193].

Ciò predispone al terzo avvenimento dell’opera: Rosaria, respinta dal marito proprio la notte delle nozze, chiede di parlare a suo padre. Gli confesserà che la sua spregiudicatezza era apparenza, una difesa conformistic a della propria ‘diversità’ (leggi verginità) dall’ironia dei coetanei. Secondo un meccanismo antico, la «palinodia» prepara il pubblico alla «catarsi». Dopo la conversione della moglie, quella del figlio, e la rivelazione della figlia, si conferma sita fine il sistema di valori dei nostalgici? Non del tutto: «Poveri figli! [...] La confusione C'è per loro e per noi. Ma questo non ci deve far credere stata che

se n’è caduto ’o munno»

(III, p. 67). L'ammissione di

106

responsabilità da parte del protagonista indica che anche il suo «carattere» ha subìto una metamorfosi: proprio attraverso quel ‘dialogo’ con la figlia, nato dalla provocazione di lei a dirsi chiaramente le «cose», a non «confondere momenti con momenti e fatti con fatti» (III, p. 62). Infatti Alberto Stigliano ha rifiutato, per primo, la comunicazione. Prevale in tutto il primo atto la partico-

lare attenzione del drammaturgo-regista al ‘mondo degli oggetti’, il cui linguaggio comunica più di quello dei personaggi. Lo «sfascio della casa» concretizza scenicamente la crisi dell’istituzione famigliare: in una continua escalation di informazioni sul suo disordine e sulla sua disfunzione. Eduardo usa anche in questa commedia ‘seria’ procedimenti topici del ‘comico’ (l'accelerazione, la distrazione, il qui pro quo); ma l’effetto appare smorzato, o spostato verso l’ironia, proprio per il «punto di vista» che li assume e che pare coincidere con quello del protagonista. La discordanza fra le parti dipende anche dalle ‘reazioni’ diverse dei personaggi al disordine dell’ambiente: i giovani non sembrano curarsene, mentre la moglie partecipa della «confusione» (come confesserà disperatamente

al marito dopo la ‘sceneggiata’ sul debito di gioco). D'altronde la «coscienza» di Alberto è tale da paralizzarlo, e il suo stesso stare în finestra inibisce o determina il comportamento altrui. Rivediamo nella prospettiva del ‘movimento scenico’ la sua entrata del primo atto: mediante l'indicazione delle didascalie si realizza quel sistema di contrastie di alleanze che più tardi egli stesso definirà «lotta»; non una lotta aperta, ma «una guerra fredda combattuta con l’ironia, la simulazione, il boicottaggio» (II, p. 48). L’arrivo del ‘nemico’ provoca infatti l’insorgere dei «temi dello sguardo» e alcune alleanze strategiche (Rosaria-Corrado, Beppe-Guidone) nel gruppo dei ‘giovani’. Invece l’aggressione delle creditrici, alla fine dello stesso atto, segue una tattica di opposizione frontale, mentre Alberto assiste impotente, dalla parte dello spettatore. Ma proprio perché il dramma investe anche il rapporto di ‘coppia’ («Io e te siamo stati in lotta perché tu non volevi la stessa cosa che volevo io [...] la lotta fra me 107

e te c’è stata e i figli l’hanno avvertita», II, pp. 47-48) il pater familias si rifugia nel mutismo, quando l’ultimo colpo gli viene dalla sua ‘compagna’. Eppure il ‘silenzio’ di Alberto domina teatralmente gran parte del secondo atto. Il protagonista esce ed entra sempre esprimendosi a gesti, a cenni, o avvicina la sedia

alla finestra e siede. Non manca però di sottolineare la battuta di Elena: «E poi, mi credi? Io ’a voce toia nun m’a ricordo. [...] ho l’impressione che quando tu parlavi, io nun sentevo niente»; A/berto annuisce ironicamente (II,

pp. 43-44). Poi sempre a gesti fa capire che vuole andare in camera sua per lavarsi le mani. Ma, dopo l’irruzione rivelatrice di Beppe, rientra restando in ascolto e, durante tutta la scena concitatissima, senza parlare accentra su di sé

l’attenzione del pubblico (did., II, pp. 45-46). La drammaturgia eduardiana, come abbiamo osservato, traduce

dal cinematografo la tecnica dei «primi piani». Il collocarsi stesso del protagonista non più a lato ma rel centro della stanza, e l’attenzione orientata degli altri attori-personaggi sull’attore capace di parlare anche soltanto con la mimica e lo sguardo, dirigono lo sguardo degli spettatori: è la «reazione» di Alberto che tutti attendiamo. Il suo è dunque un silenzio polifonico, che comprende molteplici valori di senso: sintetizzando l'impossibilità del «dialogo», teatralizza la crisi stessa del «dramma» come dinamica e dialettica contrapposizione di punti di vista diversi. Tuttavia il mutismo volontario di Alberto assume anche un preciso valore dinamico; la funzione del «silenzio» non si esaurisce con la riappropriazione della «parola» da parte del protagonista, alla fine del secondo atto. Il dramma continua perché la parola riconquistata non è quella ricercata dall’Autore: è ancora un «linguaggio privato», il «monologo» di un padre-padrone. Si scopre, attraverso la perdurante problematica del ‘linguaggio’, che il motore immobile dell’intreccio è soprattutto nel dramma ‘soggettivo’ di chi soffre anche dentro di sé la tensione fra il desiderio di chiudersi nella rassicurante esistenza di sempre e la spinta verso trasgre ssioni che prima gli sarebbero parse inammissibili. Perciò il sen108

so dell’opera deriva principalmente dal gioco condotto dall’ Autore col suo Protagonista: un gioco come sempre ambiguo, ma ancora diverso dai precedenti. Il carattere di Alberto Stigliano appare via via razionale e passionale, rassegnato e disperato, insieme nostalgico della famiglia tradizionale e avvertito del suo anacronismo. . Il tratto che più differenzia questo pater familias da Luca Cupiello e da Gennaro Jovine sembra rientrare negli attributi ‘economici’ del personaggio. Più ancora della dolorosa consapevolezza del proprio isolamento nel consorzio domestico, distingue Alberto Stigliano all’inizio la sua «funzione attiva» nel contesto sociale. Da questo punto di vista la situazione potrebbe apparire rovesciata rispetto a Napoli milionaria!; eppure in entrambe le commedie «uno degli errori principali è quello di credere ciecamente che si possono fare milioni come se fossero fagioli» (II, p. 48). Là era il rischio continuo del pauperismo che spingeva l’arte d’arrangiarsi partenopea fino all’ubriacatura dei «milioni», qui è l’ebrezza del fatidico 4007 a provocare il «disordine morale» della società (II, p. 51). Il dram-

ma vero, per l'Autore, è che «la gente non crede più a niente, vive alla giornata». Perciò, se l'assunto tematico varia, il ritmo ternario delle commedie «famigliaristiche» eduardiane è scandito dal medesimo percorso del protagonista: serzi/assenza-assenza-ricomparsa. Solo che qui «il protagonista è coinvolto anche lui» (Eduardo): per marcare la sua differenza rispetto al contesto e riportarlo nel campo dell’inettitudine sociale, il drammaturgo ricorre alla geniale trovata del silenzio, che, ancora una volta, è anche un gigantesco equivoco. Ma in questo raisonneur prov-

visto di superiore cultura i peccati veniali dei suoi predecessori si trasformano nel peccato mortale (per Eduardo)

dell’Egoismo: un vizio ‘borghese’ a tutti gli effetti, senza più agganci con quel composito mondo di ‘poveracci’, in bilico tra velleità piccolo-borghesi e condizioni sotto-proletarie, che forma altrove il contesto delle sue commedie.

Eppure Alberto Stigliano resta, strutturalmente e «mitologicamente», un Protagonista eduardiano. Perché non è un personaggio tartufesco; ce lo conferma il /eit109

motiv metaforico della «catena» interumana, di cui soffre e denuncia la dissoluzione (II, p. 47). È un personaggio dimidiato: in ciò l’aspetto più interessante del dramma cui dà vita sulla scena. Il punto è nella lettura eduardiana dei «segni dei tempi»: l'Autore si sforza di guardare e di rappresentare i tentativi di emancipazione dei giovani, ma anche delle donne che sono entrate a far parte della vita pubblica, da una prospettiva non immobilistica, cioè negativa; pur segnalando la crisi, cerca di trarre dal presente motivi di fiducia nel futuro. Compito non facile, specialmente per Eduardo: da sempre attratto sentizzentalmente, più che dalla realtà, dalla poesia del passato, ma pure da sempre inteso a contrastare razionalmente tale disposizione o tendenza. Mia famiglia ha rappresentato senza dubbio per lui un difficile fest psico-drammaturgico. Pur affermando di non essere stavolta dalla parte del protagonista, ripropone quell’andamento di conflitto fra l’individuo isolato e gli altri, che si risolve generalmente con la «ragione» del primo. Nonostante la sua dichiarata «simpatia» per i «giovani», la mano dell’artista va giù dura quando ne schizza il profilo comportamentale. C’è anzi dell’astuzia nel suo farci apparire conformisti gli attualisti e anticonformista il reazionario isolato: un gioco-delleparti un po’ equivoco, che tende a velare o a proporre in modi accettabili per tutti certo moralismo di fondo. Comunque l’Autore mantiene le distanze dal gioco scenico: anche la fine dell’opera conserva o apre margini

di ambiguità. Il silenzio, la chiusura in se stessi, sono ancora una volta gli «sbagli» degli uomini del nostro tempo: di qui la catarsi vera del dramma. Se Alberto ritornerà in famiglia, prima dovrà parlare con la propria amante («Cer-

te situazioni si risolvono proprio con la chiarezza, con la lealtà»). Si può lasciare in sospeso quindi, nell’ultima scena ‘a due’ fra marito e moglie seduti accanto al tavolo l'uno di fronte all'altra (come in Napoli milionaria!), la speranza di una riedificazione famigliare, su fondamenta magari conflittuali, ma diverse da quelle del passato: ELENA [...] Albe’, chesta è ’a casa toia.

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ALBERTO (con un lieve senso ironico, ma con una infinita te-

nerezza) A casa mia... (Poi con un ammiccare degli occhi e un breve cenno del capo che vuole significare un promettente «sò» ripete ancora una volta) Statte bbona! [III, p. 67]

Il ricorso finale al dialetto, in questo testo prevalentemente in lingua, introduce ancora una volta una nota significativa nella musica dell’opera: l’espressione di un rinnovato o rinnovabile «lessico famigliare». 2. Ma perché non vi dite le cose non appena succedono? State insieme da tanti anni e non avete saputo raggiungere un’intimità che vi possa permettere di dire pane al pane e vino al vino, l’uno con l’altra? [Sabato, domenica e lunedì, CGD, vol. II]

AI padre di Mia famiglia non piace il linguaggio falsamente ribellistico dei figli, specchio di un’epoca di superficialità e di consumismo. Egli vorrebbe credere in valori altri da quelli banali e spettacolari del benessere contemporaneo, tuttavia è incapace di esprimerli in parole che ne rinnovino il senso. Il protagonista del «dramma» con cui si apre la seconda Cantata dei giorni dispari ammette alla fine la sua parte di colpa, ma sono ancora i giovani a ricercare nei vecchi quell’appoggio morale senza il quale si sentono soli e sbandati. Quindi il ‘romanzo famigliare’ eduardiano deve continuare: nella «commedia» che chiude la stessa Cantata, Sabato, domenica e lunedì, proprio la figlia aiuterà i genitori a sciogliere il loro nodo di incomprensione reciproca. La trasformazione dei rapporti famigliari, alla fine di questo «ciclo», può divenire motore di crescita per tutti: perciò alla solita accusa del pater eduardiano («voi veramente siete degli incoscienti») Giulianella risponde con una franchezza di linguaggio ancora impossibile per la ‘bruciata’ o fragile Rosaria: «Papà, scusa se te lo dico, ma è la verità. Tu e mammà state diven111

tando davvero ridicoli, tu per conto tuo e lei per conto suo. E noi in mezzo che dobbiamo fare? Vi mettiamo in castigo?» (III, p. 403).

La commedia rappresenta un problema di incomprensione attraverso la quotidianità (marcata dal titolo). I tre atti corrispondono alle tre giornate in cui si sviluppa l’azione: è l’illusione scenica della «vita che continua», col

prevalere delle tematiche del «tu» sulle tematiche dell’«io». La coppia di mezza età che provocherà la «catastrofe domenicale» è vissuta nel «regno della rinuncia», rinuncia al «presente» come possibilità di autentico incontro. Prevale la dimensione ‘corale’: si amplia ulteriormente la misura canonica del famigliarismo eduardiano. Tre generazioni convivono sotto lo stesso tetto, ramifi-

cate come non mai: nonno-padre-madre-tre figli (uno dei quali verrà per il pranzo domenicale insieme alla moglie) - fratello-e-sorella del padre-figlio della sorella. Qui non si riproduce il conflitto fra l'individuo isolato e gli altri: sarà anzi la collaborazione di tutti a riportare l'armonia nell’«insieme». La stessa triplicazione del protagonista, padre-nonno-zio, introduce diversi ma interagenti «punti di vista»: quello di un passato remoto capace di guardare in prospettiva l’eterna trasformazione della vita (il vecchio Antonio Piscopo); quello di un passato prossimo ancora disarmato nei confronti della mutazione in corso (Peppino Priore, suo genero); quello straniato ma pregnante dell'attore, che indovina la teatralità creativa dell’esistenza (Raffaele, fratello di Peppino). Questo trio fondamentale — il cappellaio matto per il «totocappello», l’onesto commerciante impazzito per «gelosia», l'impiegato travolto dalla passione per il «teatro» — presenta un versante di normelità, perfino di saggezza, e uno di originalità: è il secondo versante che, rompendo l’equilibrio, determina i momenti comici o drammatici dello spettacolo. L’originalità della vita interrompe, comunque, la quotidianità di tutti i personaggi della commedia: ognuno dei quali ha la sua maria o la sua passione. Secondo Raffaele, l’attore: «potremmo formare la più grande compagnia di prosa napoletana. La signora Elena prima attrice. Zia Me(2

mè, mia sorella, caratterista comica. Donna Rosa, madre

nobile. Giulianella l’ingenua. Don Federico: attor giovane. [...] Mio fratello generico primario e parti sostenute.

Attilio, mio nipote, il mamo» (I, p. 355). Non a caso que-

st immagine d’una famiglia-compagnia teatrale tornerà alla mente di Peppino alla fine di quello che è stato per lui un «dramma», e per gli altri (egli pensa amaramente) un «grottesco», peggio una «farsa»; ma Giulianella ribatte: «No papà, non è finita a risate: abbiamo continuato a fare quello che facciamo sempre» (III, p. 399). Tutti i personaggi saranno presenti in scena o entreranno e usciranno nel secondo atto (per l'occasione del fatidico «pranzo»), ma già nel primo saremo informati dei caratteri di quelli che ancora non vediamo. Anche le strategie di raggruppamento e di antagonismo si intensificano in modo iperbolico. Al centro, l’antagonismo rituale marito-moglie, di cui solo alla fine saranno chiarite le cause concomitanti: nell’indifferenza del marito per il suo celebrato «ragù», Rosa coglie il segno di ben altre indif-

ferenze; nella premura di cuoca della moglie verso il «ragionier» Iannello, Peppino crede di scorgere i segni di altre premure. Qualche indizio però ci viene offerto fin dal principio. Il ragù assume il ruolo liturgico e sacrale, per Donna Rosa Priore, che ha il «presepio» per Luca Cupiello, il «caffè» per Pasquale Lojacono, la «marmellata» per Luisa Conforto (La paura numero uno). Ma per il marito

sono gli ‘estranei’ nella casa a sconsacrare la tradizione: «Uno aspetta la domenica per passare la giornata in famiglia... nossignore ci vogliono i signori Iannello a tavola» (I, p. 340). Altro tema antagonistico: padre-figlio. Peppino è titolare di un negozio sul Rettifilo, ma Rocco sta per aprirne un altro in via Calabritto, per una clientela più scelta (I, p. 344). Un /eit-motiv accresciuto dalla maggiore articolazione famigliare: anche il nonno («Piscopo Antonio, Cappelleria») è stato a suo tempo scavalcato dal genero; si introduce perciò un nuovo sistema di alleanze: Antonio-Rocco. E l’affetto lega un’altra coppia di alleate: Zia Memè e Giulianella. La zia vede nella giovinezza della nipote la possibilità concreta di scelte negate alla pro113

pria generazione; Giulianella, ansiosa di evadere dalle quattro pareti domestiche, trova nella zia una istigatrice. Eppure la stessa Memè, per la sua «mania di organizzare la vita degli altri», ha ridotto il proprio figlio a un burattino ipocondriaco: di qui un’altra alleanza, fra lo zio Raffaele e il nipote Attilio. Ma vivere in una grande famiglia può significare anche vivere in solitudine, o perfino ricercarla questa solitudine; può esasperare oltre che limitare i desideri dei singoli, può portare alla caccia di angoli riposti in cui isolarsi, per nascondere agli altri i propri sentimenti, le proprie illusioni e disillusioni. Perciò il nonno pretende uno spazio autonomo, dove passare «un’ora tranquilla». Anche Zia Memè si è fatta un «rifugio» sul terrazzo, dove può scrivere il «romanzo» della sua vita; perfino Rosa e Peppino, la «sera», si rinchiudono a chiave in «camera» loro per poter parlare e magari litigare in pace. Solo che non riescono a dirsi le cose che contano davvero: ecco l’incomprensione che avvelena l’aria di tutti, proprio perché ancora una volta nel teatro eduardiano moglie e marito non si parlano. Non a caso il primo atto si conclude con l'ennesima lite fra i coniugi, ma per interposta persona: rivolgendosi ognuno dei due litiganti all’ignara Zia Memè. Però la «regina del ragù» non può permettere che qualcun altro invada il suo campo: quando tutti sono usci-

ti, Rosa entra mogia mogia e riaccende la luce. Poi si VODA cina al fornello e rimette il tegame con il ragà sul fuoco. [...] Il sipario scende lentamente (did., I, p. 361). Il rito, come lo spettacolo, deve continuare... La scena si riapre, naturalmente, nella cazzera da pran-

zo, come si conviene all’atto che deve rappresentare il ‘coro pieno’ dei personaggi nell’occasione ‘preparata’ della mensa domenicale. Vi troneggia quindi il tavolo ovale apparecchiato per dodici, il quale anzi occupa [iperbolicam ente] guasi tutta la stanza (did., II, p. 362). Il passaggio dalla cucina del preludio alla stanza da pranzo dell’o rchestrazione domestica al completo è uno spostamento obblig dallo stesso /eit-motiv del «ragù». Siamo nell’ambito ato di una borghesia commerciale agiata, ma d’origine popolare 114

o piccolo-borghese, che «tiene» la cucina e anche la camera da pranzo e ‘ci tiene’ a figurare. Unico neo, /4 vec-

chia giacca di Antonio gettata su un angolo del tavolo: il vecchio sta provando l’abito nuovo. I personaggi eduardiani ‘venuti dal niente’ non si sentono a proprio agio negli abiti nuovi (ricordiamo Filumena) come nel nuovo status conquistato a fatica. Anche questo /eit-motiv attraverserà il secondo atto, ricollegandosi qui al rapporto nonno-nipote: «Me lo deve vedere addosso Rocco» (II, p. 364). Per Rocco il «vecchio» sente di essere un «punto di partenza»: al di là della rivalsa senile sul genero c’è in Antonio un sentimento più nobile e più vitalistico, perché egli non vuole il giovane uguale a sé, ma rigenerarsi in lui e per lui. Come in Mta famiglia, l’«avvenimento» è distanziato dall’incipit: là però il colpo di scena si realizza in una implosione del silenzio, qui in una esplosione verbale. Di conseguenza la scelta di parlare, anzi di straparlare, rappresenta l’acme della commedia. L’atto procede in un climax di avvisaglie, che devono convergere tutte nello sfogo liberatorio di Peppino: con l’entrata dei convitati si accrescono i motivi sotterranei di contrasto. Due scene

acquistano rilievo in questo intreccio di piccoli equivoci significativi. La prima ha come attore principale Michele, il fratello scombinato della servetta: questo Sansone alla rovescia per «sfogarsi [...] si taglia i capelli a zero [...]. Quando vede un uomo robusto si ferma [...] e lo guarda fisso negli occhi. Quello [...] si mette a ridere... e allora lui lo piglia per la giacca [...] E lo fa nuovo nuovo»; dopo però «se ne va per due o tre mesi al fresco» (I, p. 339). Nel secondo atto il racconto di Virginia dovrebbe tradursi in azione: infatti Peppino Priore vorrebbe sfruttare la vis corporis (che diventa corzica) di quell’eccezionale personag-

gio per vendicarsi dell’odiato ragioniere. Però Luigi non ride: (rimane affascinato da quella incredibile visione. E breve silenzio, ma ansioso per tutti e tre. Finalmente Luigi esclama convinto e con serietà) «Meraviglioso! Quanto è bello!

[...] Dove lo avete preso?» (III, p. 372). Il finale a sorpresa di questo «giuoco preparato» crea un effetto di ‘as115

surdo’ nel ‘quotidiano’, che riconferma la misura origi-

nale, di intersezione fra i generi, della drammaturgia eduardiana. D'altra parte Eduardo non manca di far partecipare lo spettatore reale alla delusione del personaggio

di cui ride: si tratta di quella partecipazione ‘dimidiata’ alla sorte dei protagonisti che, partendo dall’Autore, giunge fino al pubblico. Così per l’altra scena di teatronel-teatro: Raffaele la domenica «recita», è un disertore

del pranzo di famiglia. Attraverso il motivo emblematico

della «maschera», l'Autore mette in bocca al suo Pulci-

nella-travet l'elogio, in dialetto, dell’antico teatro napole-

tano; ma introducendo la nota comica svaria la vena rievocativa: RAFFAELE Guardate. (Si mette la maschera sul volto) Questa piange, ride, ironizza, implora, ama, odia... Luigi Aspettate, ridete. (Raffaele atteggia il volto al riso) Avete riso? [...] Io ho avuto l’impressione che stavate piangendo.

RAFFAELE Non è possibile, questa è la maschera di Petito.

Luigi La maschera sì, ma lui non c’è. RAFFAELE Mbòè, certo... io non sono lui. [II, p. 376]

E una interruzione ma non una profanazione: durante

la funzione liturgica della distribuzione dei piatti e delle porzioni, le didascalie si soffermano a suggerire non solo l'andamento mimico e gestuale della scena, ma anche lo spirito che dovrà animarla. L’autore «epico» fornisce all’esecutore, come per la preparazione di un piatto gustos o e di complessa fattura, gli ingredienti fondamentali: Il regista [...] farà rivivere un pranzo domenicale napoletano, elevandolo, come le famiglie napoletane lo elevano, all'alt ezza di un rito (did., II, pp. 381-82). L’immancabile memor ia dello spettacolo popolare si proietta su un momen to catalizzatore della festa: I piatti fondi passano di mano no come un gioco clownesco da circo equestre, e in mavanno a formare una pila, che mano mano aumenta di proporzioni, davanti a donna Rosa; l’officiante di questo rito maneggia il mestolo d’argento con disinvolta perizia. Nessun o osa opporsi a quella saggia ripartizione. Con un proced imento che

116

spiegherà ai suoi studenti («nelle didascalie si possono trovare spunti di dialogo»), Eduardo ci fa assistere alla scena nel suo farsi, facendo parlare i personaggi tutti insieme, come succede nella vita... Eppure è la reazione del personaggio animato da spirito discorde che l’Autore rileva: quando entra la regina del ragù, tutti, meno Peppino, l’accolgono con una esclamazione di gioia e di ammirazione; quando entra Virginia con l’enorme insalatiera ricolma di maccheroni, tutti meno Peppino si accostano al tavolo per conquistare una posi-

zione più comoda (did., II, pp. 380-81). L’opera sembra strutturarsi secondo la più tipica delle forme musicali: esposizione-sviluppo-ripresa. Siamo nella fase dello sviluppo: passato il fatidico «silenzio del ragù», trovano modo di riaccendersi alcuni dei contrasti precedentemente ‘esposti’. Si riattizza la lite fra Giulianella e il suo fidanzato. La figlia fa anzi da battistrada al padre: si alza în piedi di scatto [...] e quasi singhiozzando si avvia svelta per uscire (II, p. 386). Di lì a poco anche Peppino, a/zandosi deciso («E buon’appetito a tutti»), muove per lasciare la tavola (II, p. 389).

La sua sarà la scena del ‘dramma’ dentro la ‘commedia’, perché egli finalmente parla, dopo il crescendo di informazioni sul suo cupo silenzio. Ma anche questo ‘geloso’ del teatro eduardiano trova difficoltà a tradurre in parole la causa della propria ‘onta’. Le corna sono sempre corna, più facili a sospettarsi (fra sé e sé) che a dirsi: qui corna vere non ce ne sono (è il paradosso della situazio-

ne), ma c’è una ‘tragica’ paura delle corna, che quando esplode magari ‘fa ridere’ perché il linguaggio è enfatico, esagerato, e per i napoletani di Eduardo ‘naturalmente’ infarcito di termini giuridici. Peppino è un «uomo normale» che la gelosia conduce quasi alla «pazzia»: provoca uno scandalo per riente, ma quel niente è divenuto per lui più verisimile della verità. Egli non vede, travede, perciò la donna tutta casa e cucina che ha sposato può trasformarsi ai suoi occhi in una perfida femmina adescatrice: «Eccola là mia moglie, la vedete? Tutta profumata di colonia, tutta ingioiellata [...] Vergogna! [...] E io seduto 117

qua (batte con violenza la mano sul tavolo) fesso fesso, in continua ammirazione di questa tresca schifosa!» (II, p. 392)

L'affermazione infamante di Peppino ha lasciato tutti di sasso (did.): d’altra parte Rosa, dopo il primo smarrimento, forte del suo ruolo di «madre nobile» si appella al tribunale della casa e dei figli, esaltandosi man mano che i suoi sacrifici e i suoi meriti si concretizzano nelle cose

quotidiane (anche se i suoi gesti, ripetuti, diventano inconsapevolmente grotteschi: did., II, p. 393). Eppure in questa scenata corarz populo si insinua una nota di mistero: «Ricordati l’invito a colazione che mi facesti alla Casina Rossa a Torre del Greco [...] (Prorompe în lagrime, e

chiama a sé il figlio) Robe’, bello ’e mammà

[...] io e te

simmo vive pe’ miracolo!» (II, p. 394). Ma la nota si spegne nello svenimento rituale della donna; e in un clima di preoccupazione, non certo di tragedia, si chiude l’atto. Per il solito procedimento della suddivisione spaziale-scenografica, si fa il vuoto attorno a 47 personaggio, senza tuttavia escludere il coro: I/ bisbiglio di Luigi, Elena, Giulianella e Federico, che si spostano per raggiungere il balcone, z0n giunge all’orecchio di Peppino. Egli è rimasto immobile nel suo doloroso avvilimento, con le mani in faccia e i gomiti sulle ginocchia (did., II, p. 395).

La quiete dopo la tempesta in questo ‘teatro famigliare’ napoletano presenta tutti gli aspetti della ripresa. Anche gli oggetti tornano, il lunedì mattina, alla loro dimensione consueta; ma restano le tracce di quanto è avvenuto

la domenica (i/ lampadario acceso, un libro per un terzo sfogliato da un coltello: did., III, p. 396) a significare un movimento di crescita nella routine, che sarà confermato proprio dall’esito del terzo atto. Come avverte la didascalia allusiva, /e prime ore dell’alba lasciano ancora dubbi sull ‘esito favorevole delle condizioni atmosferiche della giornata; però «la febbre» di Rosa «è passata», «quando stenta a parlare non lo fa in mala fede»: «si compiace del fatto che tutta la famiglia è seriamente preoccupata per lei» (Memè). Ancora una volta i traumi nei personaggi eduardiani producono «difficoltà nell’articolare le parole». Ma il sen118

so di diversità, in questo principio di giornata e di settimana, ce lo comunica il personaggio estraneo alla «scena» del giorno avanti: Antonio in pantofole [...] entra e, come di abitudine, gira la chiavetta dell’interruttore per accendere la luce del lampadario. Naturalmente quella si spegne (did., III, p. 398). Incomincia con uno spunto comico la serie

delle ‘sorprese’ che attendono l’ignaro viandante mattutino nell’attraversamento della casa, perché, appunto, stamattina la sua casa è occupata dagli Invasori. L'Autore usa la naturale «distrazione» senile del personaggio per alimentare una specie di monologo interno udibile dallo spettatore, un ‘a parte’ giustificato tematicamente, che informa punto per punto dei mutamenti che hanno sconvolto i ritmi e i luoghi della quotidianità. Anche in questo frangente, d’altronde, il «ragù» conserva il suo ruolo aggregante: il pezzo di carne che è servito il giorno prima a dare sapore «speciale» alla salsa, ora freddo, serve a dare conforto agli stomaci e agli spiriti, un po’ provati dalla nottata, di tutti quanti. Si prepara così una delle scene più importanti di quest’atto «risolutivo»: la spiegazione fra padre e figlia, o meglio della figlia al padre; dopo la quale Peppino si appresta a tre esercizi di sincerità. Nel dialogo con Rocco, compie il primo riconoscimento del figlio come altro-da-sé (III, p. 406); poi restituisce al ragionier Iannello la «patente» di onestà. Stavolta l’uomo apre il suo cuore a un altro uomo: scena toccante e pure plateale (Tutti: «Bravo! bene!»); sempre fra

lacrime e risate: subito dopo la patetica stretta di mano, la retrospettiva tragi-comica dello sparo mancato («Voi facevate una mossa, una risata? E io dicevo: voglio vedere fra poco come ti muovi e se ridi più»: III, p. 409). Solo alla fine comparirà Donna Rosa: ella vuole sentirsi finalmente al centro di una vicenda importante che è veramente tutta sua (did., III, p. 411). Siamo al terzo eser-

cizio di sincerità per Peppino: il più impegnativo, perché vuole ricostruire su basi ‘nuove’ un rapporto ‘vecchio’. Il duetto si svolge in due tempi: il primo dedicato ai chiarimenti del presente, il secondo alle rivelazioni del passato. Tutto portato, spazialmente, in prossimità del bal149

cone; perché si deve fare finalmente il vuoto attorno ai due coniugi, ma il dialogo deve svolgersi in luogo diverso da quello chiuso delle loro «chiacchieratelle» serali. Bisogna parlarsi delle cause e non delle conseguenze o dei sintomi, di quelle «cose serie» che possono trasformarsi in «fissazioni», «magari per un atteggiamento malamente interpretato, per una parola capita male» (III, p. 414). Peppino incomincia col confessare alla sua compagna il proprio «errore»; attingendo dal parlato quotidiano (quello forse che è più bravo a dosare) l'Autore ottiene,

con un lessico povero e poco vario, effetti di profondità magistrali. Questa lingua sostanziata di cose, di sentimenti che si trasfondono nel mondo degli oggetti d’uso, giunge a spiegare le ragioni di lui («la camicia pulita, un fazzoletto, un paio di pedalini...» che lei da quattro mesi non gli prepara più), ma anche le ragioni di lei («Ma m’era sembrato che tutte le cure e le attenzioni che ti facevo non venivano mai riconosciute né apprezzate»: III, p. 416). Rosa non confesserà al marito la ragione superficiale della propria freddezza (l’affronto gastronomico); si terrà quel piccolo segreto ma per rivelargli la motivazione intima della sua indifferenza ‘pratica’: «Io ti posso dire solamente che non ti ho preparata più la camicia per la stessa ragione che te la preparavo prima: perché te voglio bene Peppi» (III, p. 417). In fondo Peppino e Rosa parlano lo stesso linguaggio: il linguaggio delle piccole abitudini significanti rimanda per entrambi agli stessi significati. Ma la sincerità conquistata in questo «dialogo», per essere completa, deve riguardare anche il passato: dov'è nascosto il segreto grande di Rosa, all’origine forse degli equivoci e degli errori del presente. Attraverso quelle rievocazioni eduardiane, che sono racconti teatrali perché dialogati, non si scopre soltanto che questa donna convenzionale,

economica

e assennata,

ha compiuto

a suo

tempo la sua tragressione, ma che un altro fatale «pranzo», quello alla Casina Rossa di Torre del Greco, ha rischiato di precipitare in tragedia. La rivelazione investe, 120

stavolta, sia il destinatario scenico (Peppino) che lo spettatore: Rosa (con tono pacato ma sincero) «Ed ero incinta di Roberto»; PEPPINO «E non mi dicesti niente? E se io, per esempio, quel giorno decidevo per la vedova?»; Rosa «Aprivo ’o balcone e mi buttavo abbasso...» (III, p. 420). Ciascuno, al mondo, ha il suo granello di «pazzia»; ma quella di Rosa era calcolata: «E tu mi avresti sposato solo perché avevamo fatto un figlio. E allora in questa casa tu non ti saresti accorto che io non ti preparavo più la camicia pulita, e forse io non te l’avrei mai preparata» (ibid.). Nella «conclusione» la commedia «si apre»: infatti lo spettacolo della vita ricomincia nell'atmosfera della prosa quotidiana, ma vivificata da un’aria nuova. Rosa, come presa da un’idea improvvisa, pianta in tronco Virginia e corre al balcone (did.). Ricorda le parole del marito: «Una volta,

quando andavo al negozio la mattina, guardavo il balcone e tu stavi affacciata per salutarmi, fino a quando giravo la strada». Quotidianità sì, ma con un po’ di fantasia. Alla solita interferenza dei vicini, dall'alto («Meno male, è finito tutto»), questa moglie può rispondere cor orgoglio allusivo: «No, signo’, io credo che è cominciato adesso». E cala il sipario (III, p. 422).

La morale della favola potrebbe riassumersi nella battuta: «Le cose spiacevoli succedono sempre di domenica», ovvero «le domeniche sono pericolose» (III, p. 410). Il Natale, la domenica, la festa, tutto il mondo è paese, e

certe passioni sono sempre le stesse: «di fronte a Sabato, domenica e lunedì che tratta della gelosia [...], ho visto gli inglesi piangere. Per me è stata una vittoria enorme» [10, p. 117]. Piangere e ridere: in questo equilibrio instabile e creativo è il fascino della commedia. Una concertazione nuova smorza alla fine ogni nota di acredine, di polemica e anche di paradosso, contemperando i recitativi da opera

buffa con i duetti o i cori da melodramma, gli a soli prepotenti e le voci stonate, in un insieme strumentale che

nella sua inevitabile e necessaria varietas raggiunge l’effetto di un’armoniosa dialogicità intersoggettiva. d21

V. LA TRILOGIA

SOCIALE

I cori domestici eduardiani, polifonici e naturalmente dissonanti, sono dunque spie per rappresentare la società; interpretano la speciale «napoletanità» dell’ Autore come «linguaggio che si evolve a seconda dei periodi storici»: «a Napoli sono passati in tanti e per capirci ci si intendeva a gesti. Poi si inventavano le parole. E così è stato nel teatro» («Corriere della Sera», 17 gennaio 1983). La sua pro-

spettiva è sempre quella teatrale: «Napule è nu paese curiuso: / è nu teatro antico, sempe apierto» [Baccalà, in 3 (1975), p. 195]. Basterebbe a confermarlo la spazialità scenografica dei suoi cosiddetti ‘interni’, insieme centripeta e centrifuga, crogiuolo di problemi collettivi, soglia di continuo valicata o profanata. È certo l'osservazione della concreta vita napoletana a suggerire al drammaturgo-regista questa topologia e il dinamismo perpetuo che ne consegue; ma si tratta pur sempre di un «trampolino» per proiettare sulla scena la commedia umana del mondo... La stessa prospettiva si riscontra nella ‘trilogia sociale’, in parte contemporanea in parte successiva alle com-

medie ‘famigliari’ esaminate: De Pretore Vincenzo (195775 Il sindaco del Rione Sanità (1960), Il contratto (1967).

Eduardo credeva nel valore di scambio fra teatro e vita sociale: «teatro significa» per lui «vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male» [195]. Perciò vo-

leva percorrere «quella sottile e difficile linea di confine tra l'invenzione poetica e la vita, immaginando che questa linea [potesse] essere attraversata nei due sensi e che la dura realtà [potesse] essere regolata dall’orologio della fantasia» [77, p. 4]: «nu relogio cumpiacente» che fa «tàtì, tà-tì, nun fa tì-tà» [Fartasia, in 3 Siena

Eppure la morale delle sue favole sceniche è una morale storica, consiste «nella superiore consapevolezza della difficoltà e problematicità del vivere e dell’agire» (Villari). Da tale problematicità di un impegno civile (che non dev'essere tuttavia dichiarato) discendono l'apparente di122

stacco e l'equivalente comicità delle sue investigazioni su personaggi e ambienti. Il distacco gli è servito per tradurre sulla scena «i conflitti interiori e interpersonali, il contrasto fra individui disarmati e la forza del potere (politico, economico, ideologico che sia)» (ibid.). Il linguaggio del comico è diventato nelle sue opere più ‘critiche’ uno strumento di superiore malizia, per porgere al pubblico una materia colpevolizzante nel suo genuino valore, ma con una specie di arguto understatement. Eduardo non vuole infilare «il dito nell’occhio» dello spettatore; preferisce aprirglielo, l'occhio, e magari tutti e due («Io non credo nel tagliare le teste ma nel cercare di farle pensare» [195, p. 176]). Rammenta Chaplin: all’uscita nel ’37 di Modern Times, i critici accusarono «il clo-

wn di volersi atteggiare a uomo di parte e filosofo»; rispose l’artista: «Sono molto sospettoso nei riguardi dei film contenenti un messaggio. Non datemi del propagandista, non lo merito!» (A. Bertolucci, E i/ clown batté l’automa, in «la Repubblica», febbraio 1986). Anche Eduardo rifiuta i «manifesti», ma continuando a far ridere lo spettatore gli comunica un senso di disagio, di «disparità»; sebbene nel profondo del detective-rivelatore di casi umani covi «una speranza quasi elegiaca» nella solidarietà e «nel suo potere di medicazione esistenziale» (ancora Villari). La sua «malinconia» non si riduce mai in rassegnazione o in rinuncia; ma neanche nelle sue commedie più ‘serie’, là dove il riso si gela nell’ironia o nel sarcasmo,

egli ricorre a soluzioni «pedagogiche» o a quelle più dirette del «teatro politico».

«Come sarebbe?!» «So’ di padre ignoto.» «Non capisco. Ma ignoto di che cosa?». [De Pretore Vincenzo, CGD, vol. II]

La «situazione paradossale» di De Pretore Vincenzo trasforma un «caso» da manuale di sociologia: un figlio di L23

padre ignoto, divenuto ladro, fa un patto con san Giuseppe, il padre putativo per eccellenza: se ruberà soltanto ai ricchi avrà la protezione del Cielo. Ma un brutto giorno esagera, e finisce ‘sparato’ dalla vittima di turno. Nel delirio che precede la morte, sogna di andare a protestare in paradiso e di convincere il Padreterno ad accoglierlo. Invece nella realtà muore al pronto soccorso, ignoto a tutti,

tranne che alla povera ragazza, Ninuccia, che gli ha voluto bene. E uno di quegli esempi che risolvono la continua disparità fra ‘privato’ e ‘politico’ liberando «nel fantastico e nel magico le tensioni che inchiodano la microstoria degli uomini [...] alla grande, inarrestabile macchina della Storia, alle ‘leggi’ del comportamento umano» (Villari) o disumano (che dir si voglia). Ma anche nelle opere ‘fantastiche’ di Eduardo sono tanti i segnali politici che denotano, sia pure metaforizzati, il suo impegno nel

‘reale’. Il motivo polemico di De Pretore corrisponde alla

formula — «figlio di N.N.» — che bolla lo status irregolare del protagonista: una di quelle parole «grigio scuro» che i detentori del potere inventano per alterare o na-

scondere la verità. Già nel poemetto del ’48 (da cui ha

origine il dramma) lo stato civile-incivile di Vincenzo

suscita la curiosità del Padreterno; e ancora una volta al

problema famigliare si riconnette quello sociale: «Senza nu pate ca te mann’ ’a scola, / campanno abbandunato mmiez” a via, / [...] se sape ca fernisce p’arrubbà!» [3 (1975), p. 183]. Il problema della paternità mancante incide sul destino dell'Uomo: e l'Autore costruisce su una formula burocratica un «dramma dell’io», per scandagliare il fondo della storia e della società. Anche il ‘fantastico-sociale’ di questa commedia sembra scaturire dall’uso ‘soggettivo’ del linguaggio: l’ingenua battuta di Ninuccia — «Se non trovi un santo che ti protegge, non ti riesce mai niente nella vita» (Parte I, Quadro 2, p. 172) — subisce nella coscienza del protagonista un

processo di letteralizzazione che la trasforma in ‘formula

magica’. Il rapporto paradossale di De Pretore con l’aldilà deriva da un gioco di parole: «Olio vogliono i santi», gli 124

dice Ninuccia, e lui accende lampade sotto la statua di san Giuseppe. Dopo il patto col santo, Vincenzo agisce nella realtà «come se» agisse in sogno, perché contrae quel «patto» con la propria «coscienza». Il ladro galantuomo si sente moralmente giustificato, e quindi in «diritto» di farla franca. Non a caso la sua preghiera-colloquio, «da uomo a uomo», col simulacro di san Giuseppe richiama la «preghiera alla Vergine» di Filumena: la forma del monologo che simula un dialogo esprime l’isolamento del protagonista in una società che lo emargina o lo esclude. A De Pretore non resta, come a Filumena, come a Pasquale Lojacono, che rivolgersi a un’immagine come a un altro essere umano, ma «superiore» al contesto. Alla statua (malridotta come lui!) può confessare le sue speranze di rival-

sa, ricorrendo persino alla finzione di più interlocutori: Dice: «Perché non lavori?» [è l’obiezione della società] E che guadagna Ninuccia? Trecento lire per lavare le bottiglie, e il mangiare, quando sì e quando no. [...] A scuola [...] non mi ci hanno mandato, non scrivo perché mi vergogno, e sono un signore — e tu lo sai meglio diqualunque altro — sono nato signore! [P. I, Q. 2, p. 175]

Il sottoproletario «ignorante», oltretutto «napoletano», appartenente a un popolo che può vantare «patenti

nobiliari» ma che non ha conosciuto neppure l’emancipazione borghese, riesce a configurarsi i rapporti sociali soltanto in termini feudali. Per un gioco di prestigio compensatorio, la sua diversità-inferiorità reale si trasforma in una diversità-superiorità onirica: il «padre ignoto» diventa un «padre nobile». Ma, nonostante lo schermo e il viatico del ‘sogno’, anche De Pretore si tiene al polo del ‘grande realismo”. Il rapporto reciproco fra ‘paradosso’ e ‘quotidianità’ appare basato su un’ambivalenza nella qua-

le gli opposti si legano dialetticamente. I confini fra illusione e realtà sono costantemente violati, ma per essere ripristinati in un movimento incessante di contrapposi-

zione e di fusione. Fin dal primo quadro, entrano in contrasto l’oggettiva povertà della ‘stanza’ e gli sforzi del protagonista per 125

poterla ‘vedere’ o pre-vedere diversa. Anche De Pretore è un visionario: il suo è il tipico «fantasticare dell’uomo del popolo [...], immagina che un fatto sia avvenuto e che

il meccanismo della necessità sia stato capovolto» (Gram-

sci). Egli si chiude in un «mondo privato» che lo isola dagli altri uomini: «perché io sono solo, Ninu’, non parlo con nessuno, parlo solo con me stesso e certe volte mi sembra di uscire pazzo» (P. I, Q. 1, p. 163). Ma neppure a Ninuccia può dire tutto: non le svela prima il suo mestiere di ladro, dopo la vera natura del patto col santo. Con la sua moralità semplice, la sua religiosità magari superstiziosa ma sincera, la ragazza non potrebbe capirlo. E come altri visionari eduardiani Vincenzo resta legato al mondo dell’«infanzia»: il suo passato di trovatello a Melizzano assume i contorni d’un presepio popolare. Il tempo verbale del racconto è sintomaticamente l’imperfetto:

c'era Mammella, Maria, vestita come certe immaginette

della Madonna stinte e sciupate dall’usura; e Don Peppino, il marito falegname («Quant’era bello! Io lo chiamavo

San Giuseppe»). E c’era naturalmente l’anonimo «Signore» del «palazzo», che ritorna ai suoi occhi con i caratteri ambigui del Potere Soprannaturale ma anche del Potere Terreno («Poteva ammazzare galline, capre, pecore, porci, non parlava nessuno...»: P. I, Q. 1, p. 161). Poi Ja fiaba tra il sacro e il profano, con le sue radici storiche e sociali tuttavia evidenti, si trasforma in uno di quei «romanzi d’appendice» che hanno la funzione di «sostituire e favorire al tempo stesso» il «sogno ad occhi aperti l’uomo del popolo»: l’«anello» diventa una marchiaturadeldi nobiltà, un possibile segno di agnizione! D'altra parte il sogzo può tramutarsi bruta lmente in realtà, per l’ambivalenza in cui vive il protagonis ta. Nella scena dello «sparo», l'opposizione spaziale a/to-basso fa emergere la sovrapposizione dei piani: DE PRETORE ([...] si avvicina all ‘impiegato, gli sorride quasi in atto di sfida, e con destrezza s'impadronisce della borsa). IMPIEGATO ([...] pietrificato, non crede ai suoi occhi. De Pretore, sempre sorridendo, si allontana per la scala. L ‘impi egato [...) con gesto fulmineo estrae la rivoltella [...])) Fermati! (Ma Vincenzo non l’ascol-

126

ta. Sempre sorridendo continua a salire le scale...). Due proiettili vanno a vuoto, il terzo colpisce il bersaglio. Vincenzo [...] rotola pesantemente per le scale. [P. II, Q. 3, p. 188]

E come sempre il mondo di Ninuccia a subire i contraccolpi del ‘rotolare giù’ del sovrammondo di Vincenzo: Tutti sollevano il corpo [...] e lo trasportano verso sinistra. [...] Ninuccia mezza trasognata segue il gruppo (p. 189). Ma

è proprio la con-presenza dell’Ingenua a garantire la possibilità d’un ‘caso’ come quello del Sognatore. All’arretratezza della ‘realtà’ che lo circonda De Pretore contrappone la propria ‘fissazione’, ma egli non fa che calare la propria evasione gratificatoria nella visione del mondo caratteristica del suo ambiente. Il piano del fantastico rinvia ancora una volta a quello antropologico, dal quale emergono gli stretti legami tra sfera celeste e sfera terrena espressi dalla candida Ninuccia: «Per i poveri c'è sempre un santo [...], se hai veramente fede [...] la provvidenza ti

aiuta». Mal’ Autore sembra intonare ambiguamente le parole di lei («Una candela ogni tanto, un lumino, na lampa a uoglio»); la provvidenza non appare disinteressata agli occhi dei napoletani poveri come a quelli degli umili manzoniani! Di qui la persistenza di /eit-mzotive, quali il patto con spiriti benigni o maligni e le visioni d’oltretomba, nella tradizione letteraria partenopea sia «colta» sia «popolare». Anche le visioni di De Pretore appaiono sempre fra il lirico e il grottesco: i «santi» si comportano nell’aldilà come i «comuni mortali» nell’aldiqua, azzuffandosi, invidiandosi, o magari vendicandosi di un’offesa. Il travestimento eduardiano del «mondo magico» nei panni del «meraviglioso cristiano» si radica nell’osservazione d’una disponibilità degli strati popolari rappresentati a reinterpretare la dottrina cristiana attraverso l’Immaginario ere-

ditato da una tenace cultura pagana. Ciò provoca da un lato la distanziazione comica dell'Autore e la nostra, dall’altro consente la «simpatia umana» verso questo «popolo» che, in un’attività fantastica ormai anacronistica, continua a manifestare la sua perdurante esclusione dalla concreta e attuale azione storica e politica. A maggior ragione 127

la simpatia va a chi dimostra un’inventiva originale: a De

Pretore Vincenzo che tenta di ‘arrangiarsi’ anche coi san-

ti, figurandosi un aldilà-aldiqua umanizzato ma giusto. Ma sognando se stesso come l’eroe di una fiaba a lieto fine egli diventa il martire visionario di una leggenda terrena: perché la fiaba si svolge soltanto dentro di lui, mentre i suoi antagonisti sono sempre in agguato nel mondo esterno. Antagonisti dietro le quinte, ma che vincono sempre, fuori dai sogni degli emarginati. La struttura della commedia sembra confermare questa ambivalenza di piani: l’azione non procede per atti, ma si suddivide in due parti e si sviluppa «epicamente» per quadri. Sono le parti a segnalare il prizza e il dopo rispetto al ‘patto’ che l’eroe contrae col suo protettore immaginario: rispondono perciò a una periodizzazione interna al protagonista, pur trovando riscontro nella trasformazione della statua (all’inizio della Parte II, il tabernacolo del santo è stato rimesso a nuovo: Q. 3, pp. 178-79). Qui non compaiono soltanto ‘interni’ che fungono da crocicchio o da soglia, ma anche ‘scene all’aperto’ per le azioni corali. La prima parte passa dal chiuso della cameretta di Vincenzo, all’ultimo piano d’una casa dei quartieri popolari di Napoli (Q. 1) all'aperto di ur angolo caratteristico della vecchia Napoli, con la scala che s'arrampica fino a una piccola piazzetta (Q. 2). Nella seconda parte, la stessa scena all'aperto ma ir pieno giorno (Q. 3) si trasforma agli occhi del sognatore in due quadri fantastici: la ridente località di Melizzano, già sospesa nell ‘atmosfera di un’appari -

zione onirica, e la piazzetta di Napoli trasfigurata nel Paradiso;

ma l’azione si conclude nella squallida stanzetta del pronto soccorso (Q. 6). Quindi l’opera è incornici ata da due

ambienti chiusi, mentre i quadri intermedi no tutti all'aperto; il rapporto fra realtà e sogno si svolgosi configura anche come opposizione spaziale, pur conserva ndo nel continuum una suggestiva ambiguità. Si hanno mutazioni a vista, cambiamenti di luce, commenti musicali,

soprattutto nei quadri che rappresentanio il viaggio del protagonista nell’aldilà: occasione per realizzar e due scene di teatro-nel-teatro. Non solo gli attori raddoppiano la 128

propria parte, secondo il copione del sognatore, ma il Paradiso visto in delirio da De Pretore (Q. 5) è un Doppio onirico della piazzetta in cui si ambienta gran parte dell’azione reale. Il sogno trasforma in spettacolo il presepio evocato dalle memorie infantili di Vincenzo: fra quella «retrospettiva» (che potrebbe tradursi in flash-back) e questa «anticipazione immaginaria» (i extrema morte) si

svolge la storia attuale, intrecciando altri fili tra fantasia e realtà... Se De Pretore vive «come se» sognasse e sogna «come

se» vivesse, l'opposizione fra i due mondi non può apparire netta, tranne che nella divaricazione finale. In seguito al ferimento del protagonista, assistiamo prizz4 al suo delirio gratificatorio, poi alla sua morte deserta. L’Epilogo richiama quello di Natale în casa Cupiello, ma l’inversione della sequenza sogno-realtà sposta il senso e l’accento del ‘dramma’ sull’amarezza dell’ultima scena. Eppure anche questo passaggio avviene senza soluzione di continuità: mentre il povero ladro trova finalmente comprensione e accoglienza nel Padreterno, il canto di Natale intonato dai santi nell’aperta piazzetta dell’aldilà si deforma nel ritmo ossessivo delle burocratiche domande del medico, nel tipico luogo dell’indifferenza di fronte alla morte, il chiuso aldiqua del pronto soccorso. E Ninuccia fa ancora da commento desolato alla ‘fine’ del suo uomo;

a quella indifferenza non osa né reagire né piangere: «Te-

neva un anello...»; INFERMIERE «Ma tu chi sei?»; NINUC-

cia «Nisciuno». (Esce) Lentamente, sulla musica, cala il stpario (P. II, Q. 6, p. 207).

Per questo «dramma teneramente fiabesco e cruda-

mente realistico» (Filosa) potremmo risalire anche al Gran

Basile, che nel Seicento aveva riedito il genere ‘fiaba’ in un dialetto certo meno accessibile di quello eduardiano. Il linguaggio di De Pretore è un italiano infarcito di dialettismi: con scene o momenti vernacoli significativi, come

nel sogno del protagonista o nelle battute finali di Ninuccia, quando è «il cuore a parlare». Altro è comunque il fiabesco di Eduardo da quello del narratore del Curto: il rovesciamento del lieto-fine esprime un atteggiamento di129

verso nei confronti del Mondo e della Storia; come nel-

l’altra «fiaba napoletana» del ’63, Tommaso d’Amalfi, commedia musicale dall’esito «tragico». E fra De Pretore e Masaniello si pone I/ figlio di Pulcinella (1958): dove la Maschera eduardiana assomiglia a quegli ‘eroi bassi” del Basile che si adattano come «la palla, che quanto chiù sbatte n’terra chiù sauta»; ma il nostro Napoletano moderno non può certo premiare la tattica del «fare lo fatteciello suio» tanto contraria al proprio utopismo della «catena». Questo Pulcinella servo era e servo resta, con la sua celebre e inutile furbizia, la sua fame e la sua paura endemiche: «Fermati figlio mio! [...] Si vedono lu figlio di Pulcinella senza la maschera... l’accideno». Perciò l’Autore affida al «figlio» la propria speranza nei «giovani»: JOHN — «Meglio nu figlio muorto cu’ la faccia pulita ca nu figlio vivo cu’ la faccia sporca come la tiene tu» (Cep, vol. II, III, p. 308).

Tre personaggi diversi, il ladro (che si crede) protetto

dai santi, l’eterno servo dei potenti (che sotto la maschera

disprezza), il ribelle povero che perde la testa e la causa (per un abito nuovo da Capitan Generale), interpretano altrettanti aspetti e problemi del «napoletano immobile». Il finale già amarissimo di De Pretore contiene almeno due versanti di denuncia: la denuncia delle storture del Potere, ma anche degli errori di chi a quelle storture reagisce

individualisticamente e, in fondo, fatalisticam ente. sentimento per l'abbandono di cui si sente vittim Îl ria polo napoletano non deve portarlo alla presunzione il podi un diritto acquisito: il diritto di un risarcimento gratuito. D’altronde il particolare ‘surrealismo’ eduardiano si manifesta

con maggiore frequenza là dove la polemica civile potrebbe farsi troppo aspra o didascalica. Il precedente di De Pretore fa testo per i drammi fantastico-s ociali fra il 1950 e il 60: I/ figlio di Pulcinella, attualmente in tre atti, fu rappresentato la prima volta in due tempi e diciotto

quadri; nei due tempi e venti quadri di Tomma

so d’Amalfi, musiche e canti si alternano alle parti dialogate, in un mixage sperimentale di stili e di linguaggi. La cultura euFopéa novecentesca viene man mano a suffragate l’origi130

naria matrice partenopea e farsesca (pensiamo a Petito piuttosto che a Scarpetta), ma da questa è vivificata e resa più concreta, più originale; la napoletanità, progressivamente attenuandosi nei suoi referenti naturalistici, diven-

ta occasione e linguaggio per affrontare e svolgere problemi universali. La partitura di queste opere esce dal consueto schema triadico, per scandire le «tappe» di una «rappresentazione» che trova riscontro nelle scene staccate del teatro popolare antico e moderno. Il primo dramma resta comunque il risultato più alto della serie: il suo «viaggio» fra le illusioni di un eroe basso e le disposizioni, tanto dall’alto da apparire sovrammondane, della Storia, procede e si districa armoniosamente

fra tradizione spettacolare napoletana e invenzioni avanguardistiche. D'altronde le segnalazioni sceniche che il nostro drammaturgo-regista reinventa per rappresentare il mondo dell’«infra» non si riallacciano soltanto alle innovazioni del binomio europeo Piscator-Brecht, ma anche al «realismo magico» di Bontempelli, al «regionalismo fantastico» di Rosso,

ai «miti» dell’ultimo Pirandello:

quegli autori italiani che hanno contribuito fra gli anni Venti e Trenta alla sua formazione. Eduardo non è un intellettuale, è un uomo di teatro completo, e pesca dal suo bagaglio composito quello che più gli serve: perciò può coniare senza remore una moneta nuova con gli attributi dell'antica, oppure rappresentare con stilemi moderni il sogno tradizionale di un ladro in paradiso. PE L’unica cosa di questo mondo che quando parla dice la verità: ’o specchio. [...] mi sbaglio: c’è un’altra cosa che non dice mai bugie: ‘a morte. [I/ sindaco del Rione Sanità, Cep, vol. II]

AI realismo «famigliaristico» di Sabato, domenica e lu-

nedì (1959) corrisponde il realismo «sociale» del Sindaco

131

del Rione Sanità (1960). Ritornano i tre atti, si avvia l’a-

zione in medias res e si fa procedere fino alla morte del protagonista. A partire dall’izcipit — nella scena vuota e quasi buia gli attori con «lenta e meticolosa pantomima» apparecchiano una tavola, che si rivelerà un tavolo operatorio clandestino — ricorre la suspense, affinché l’«effetto unico» si raggiunga soltanto «alla fine». Mancano escursioni oniriche o nel soprannaturale: il tempo e lo spazio della rappresentazione corrispondono a quelli della storia, ma con uno scarto significativo fra il secondo e il terzo atto: nel fuori-scena si nasconde il ferimento-sorpresa del protagonista. Infatti anche in questo dramma ‘realistico’, che affronta senza alibi umoristici un problema scottante come quello della camorra, si possono cogliere alcuni sintomatici temi dell’«io»: nella cui rete è impigliato ancora una volta il personaggio principale. Eppure Antonio Barraca-

no non è un debole, ma un forte; non è l’Orfano ma un Superpadre. Egli opera affinché «chi non tiene santi» non vada «all’inferno», ma vada da lui; siccome «la legge non

può essere elastica», e «gli uomini [...] si mangiano fra

loro», lui difende l’ignoranza (II, p. 56), ha sostitu ito la giustizia pubblica con la ‘sua’ giustizia.

Ma anche questo eroe che agisce, e non subisce, è un

visionario, uno cioè che credendo di veder-oltre travede:

un prigioniero del sogno, anche lui. La sua vision e utopica di «un mondo che giri lo stesso, ma un poco meno rotondo e più quadrato» (III, p. 72) lo mette in rapporto, piuttosto che con gli altri uomini, con se stesso . Cataloga difatti gli individui — «l'umanità si divide in gente per bene e gente carogna» — come il due parti: vecchio mafioso di I/ giorno della civetta (1964).

Come

Eduardo è attratto dai «misteri italiani», dalla Sciascia, doppiezza della storia e della società di questo paese. Qui affronta oltretutto un enigma sociale e politico particolarmente oscuro e suscettibile di ambiguità; anche perch é Eduardo è un «napoletano», una parte in causa: «Nec tecum nec sine te vivere possum», potrebbe dire anche poletanità», come Sciascia della «sicilitudin lui della «nae»; amare una 152

città e una gente al tempo stesso criticandole, sentirsi somiglianti e diversi, volere e disvolere, è stato sempre, anche per Eduardo, un bel guaio! Quindi costruisce un eroe che proprio con l’azione dimostra di non agire: laddove sarebbe stato facile creare un idolo polemico, ci offre un personaggio che in buona fede fa il male, un giusto che perpetua l’ingiustizia, un saggio che si comporta da pazzo, uno che mentre fa disfa, «gira a vuoto». In altri termini un ossimoro vivente: uno dei protagonisti più complessi del suo teatro, perché al suo «carattere» è affidato un discorso fra i più ardui a comunicare e che ron dev’essere frainteso. Perciò l'Autore gli affianca una di quelle figure/funzione, fra il «personaggio» e l’«io epico», che servono a dialogizzare il soggetto: il medico dal nome emblematico (Della Ragione), collaboratore e complice per una vita, ma ormai quasi un «ostaggio», proprio perché «stanco di girare a vuoto» (I, p. 26).

Se quest'opera fosse un trattato di filosofia o di politica, si potrebbe suddividere in parti polemicamente contrapposte, e la ragione di una di esse annullerebbe le altre; ma in un’opera artistica tutti i sistemi semantici funzio-

nano contemporaneamente nel complesso «gioco reciproco». Non ci saranno dunque nel Sindaco una funzione «Barracano» e una funzione «Della Ragione», l’una delle quali supererà l’altra alla fine: «la disputa artistica è possibile solo con un oppositore sul quale è impossibile riportare una vittoria totale» (Lotman).

La dinamica dell’intreccio scaturisce infatti dalle relazioni fra i «caratteri»: quello del protagonista si trasforma progressivamente in rapporto agli altri gruppi di personaggi (famigliari, servi, protetti o questuanti, nemici). Questo iperbolico pater farzilias è anche per ciò un grande solitario: governa con generosità sui suoi, ma sempre dal-

l’alto della sua patriarcale infallibilità. Per tutto il primo atto, appare un personaggio chiuso nel dire e nel gestire, anzi nell’accennare; appartiene alla categoria eduardiana degli eroi del silenzio e dello sguardo. Gli «occhi» rappresentano lo specchio della sua anima, da essi dovrà venire il segno che possa chiarire di quale natura sia l'umore della 133

«bestia»; la bestia in cattività (dentro di lui) balzerà fuori

dallo sguardo agghiacciante, dallo sguardo d’acciaio, dallo sguardo tremendo di quegli occhi vigili (did.). Il carattere del ‘primo’ Barracano si costruisce sulla minima evidenza e sulla massima espressività verbale e mimica: un sovrano enigmatico, avvezzo a «concludere», a emettere sentenze

senza discutere.

«Avverte» e non «minaccia»:

perché

«l’ommo ’e niente minaccia», mentre lui ha «deciso». Può

inventare non solo le figure del linguaggio (lo specchio è «O scostumato», «'O parlanfaccia» come «a morte»), ma

anche quelle della realtà. Costringerà infatti quello dei due litiganti (una coppia topica di sciagurati, Vicienzo ’O Cuozzo-Pascale ’O Nasone) che secondo lui ha torto ad accettare la restituzione di una sorzzza immaginaria (I, p. 31); uno di quei giochi di prestigio sul denaro che appartengono al repertorio eduardiano (da Ditegli sempre di sì a Questi fantasmi! alla Grande magia), ma che perde qui ogni sapore comico, perché evidenzia il potere enorme che quest'uomo ha sulle parole e sulle cose, sulle persone. Però al primo Barracano ne subentrano un ‘secondo’ e un ‘terzo’: in rapporto all’«avvenimento» centrale dell’opera. Contro l’impassibilità del Sindaco (venata di ironiche ambiguità anche nel contrasto col medico) cozza improvvisamente un «caso nuovo», rappresentato dalla coppia di giovani Rafiluccio e Rita (I, p. 28). La forza d’urto è in quella battuta di Rafiluccio — «Don Anto’, domani mattina devo uccidere mio padre» — che arresta il padrino 4 un passo dall’uscio (e a un passo dalla fine dell’atto) costringendolo ad accorgersi finalmente di quell'insieme pietoso. In un lungo silenzio ne studia i dettagli: la dolcezza dello sguardo del ragazzo e il tono innocente del lamento di Rita (did., I, pp. 37-38). Ma nel ragazzo rivede soprattutto il se stesso passato all’origine del se stesso presente: Rafiluccio, come lui più di cinquant'anni prima, ha deciso, «e allora discorso è lungo»! Di qui la metamorfosi del protagonista nel secondo atto: il suo passaggio quasi insensibile dal campo semantico dell’Io a quello del Tu, dai temi dello sguardo ai temi del discorso. Don Antonio incomincia a ‘parlare’: attra134

verso il dialogo con Rafiluccio e il contrasto con Arturo Santaniello (suo padre), conosciamo per bocca dell’«uomo» stesso il suo «passato». La «fissazione» del giovane ha scatenato i ricordi del vecchio, di quella «malattia» che non è finita mai, che ha provocato la «mania» del Sindaco per la «giustizia giusta», e provocherà alla fine la sua malattia «mortale»: perché «so’ passate cinquantasett’anne: [...] ultima coltellata

a Giacchino nun nce l’aggio data

ancora» (II, p. 55). Allora, povero e analfabeta, si era fatto giustizia «con le sue mani»; fuggito in America, aveva trovato protezione e, tornato ricco, aveva ottenuto la re-

visione del processo: «Otto testimoni a discarico. Fui as-

solto per legittima difesa [...] I testimoni erano falsi, ma io no. Io ero genuino, avevo ragione» (II, pp. 54-55). Da questo paradosso, dalla convinzione della legittimità del proprio peccato, il particolare senso della giustizia con cui ba sempre affrontato e risolto i casi umani della vita (did., I, p. 22). Tutta la vita di «don» Antonio ha replicato quel gesto antico, rovesciandolo da «fatto di sangue» in fatti per evitare il sangue: perché egli ha visto replicata, in ogni caso che gli si è presentato davanti, la lotta impari fra l’Ignoranza e l’Astuzia. Ma il ‘caso’ di Rafiluccio è abnorme; mette in crisi il principio stesso per cui e con cui il Padrino ha operato, il valore della Paternità: «E tuo padre. Questa è la forza sua [...]! Non lo puoi fare tu, non

ti posso aiutare io» (II, pp. 61-62). Il Sindaco ha cercato di supplire alla paternità mancante di un popolo incapace di difendersi dalla «gente carogna» se non facendosi giustizia da sé. Ma il problema di Rafiluccio è quello d’una cattiva paternità: la tematica famigliaristica eduardiana rispunta sempre, al di là delle circostanze, per dirci qualcosa sulla natura umana e sul suo destino. Alla forza vacillante delle istituzioni il sistema di cui don Antonio fa parte ha opposto quella arcaica dei clan famigliari: agli orfani dello Stato ha offerto come alternativa la regressione nella tribù, nella «tribù» del «Rione Sanità» di cui

egli è il capo e lo stregone. Il parricidio rappresenta dunque l’infrazione di un tabù che Barracano non può accettare né assolvere: perciò si sente doppiamente coinvolto 155

in questa «frattura», come «figlio» ma anche come «padre». Anche l’azione del secondo atto si interrompe con questo finale carico di suspense: BARRACANO Non c'è niente da fare: o isso o tu! Mi hai pregato d’intervenire? E io intervengo! Ma [...] Arturo Santaniello è tuo padre. Come tale deve sapere le tue intenzioni [...] l’offerta può determinare la sua decisione. E poi decidi tu... e poi decido io... Prufesso’, voi guidate la macchina: m’accompagnate?

FABIO Sono con voi. Escono. [II, pp. 63-64]

Il terzo atto riprenderà a ‘sacrificio’ avvenuto, e assumerà come in altre commedie eduardiane la concisione dell’Epilogo. Assistiamo infatti all'ultima metamorfosi del protagonista: da superuomo si è riconosciuto uomo, quindi vuole subire il martirio, come una specie omertosa di Christus patiens. In quell’«ultima cena» da lui stesso concertata prima della morte, attorno alla «tavola imbandita» riunisce i discepoli fedeli e quelli che lo rinnegheranno; seduto alla sua destra, il giuda che l’ha colpito a tradimento. Il regista di questo rito-spettacolo ix extrezzis è la vittima sacrificale, che non ha sparato, non s’è difesa, affinché «la catena dei delitti» non continuasse e sallun. gasse senza fine (III, p. 67). Ma dietro il regista-personaggio c’è il regista-drammaturgo che, per il suo finale, attinge anche dal mondo classico: nella sua mancanza di prospettive ultraterrene, il protagonista assume la forzza mentis dei grandi stoici, che si lasciano morire con distacco, dopo aver disposto ogni cosa quaggiù. Antonio Bar-

racano abbandona la scena riconoscendo i propri limiti,

convinto tuttavia d’aver ragione: «Un Antonio Barracano oggi, uno domani, un altro dopodomani... può darsi pure

che i iigli dei figli dei figli [...] trovano un mondo» in cui

«non vi sarà più bisogno di un Antonio Barracano» (III, pp. 71-75). Di questo paradosso resta prigioniero, sino alla fine, il Sindaco del Rione Sanità; la sua «pazzia» lo consuma e lo annienta. Eppure la conclusione del dramma va oltre la manca ta presa di coscienza del protagonista: siccome nella sua in136

telligenza del mondo si oppongono giustizia privata-giustizia pubblica, ovvero giustizia privata-ingiustizia pubblica, Barracano arriva alla mascheratura ‘naturale’ della propria morte ‘innaturale’. Tuttavia il Dottore, che ha assecondato con pietà e rispetto quella tragica finzione, rifiuta di firmare il referto medico che voleva lui («collasso

cardiaco»); decide di testimoniare come gli «detta la coscienza», costi quel che costi: Usciranno i figli di don Antonio, i parenti di don Arturo, i compari, i comparielli [...]: una guerra fino alla distruzione totale. [...] Può darsi che da questa distruzione viene fuori un mondo come lo sognava il povero don Antonio [...]. E comincio io col firmare il vero referto col mio nome e cognome: Fabio Della Ragione. Scannatemi, uccidetemi, ma avrò la gioia di scriverci sotto: in fede. [III, p. 77)

Si afferma dunque un sistema semantico nuovo, che nega la legittimità di qualsiasi giustizia privata, fondata sulla connivenza e sul silenzio. Questo secondo sistema trascina indubbiamente il senso del testo verso l’ultimo punto-di-vista del Medico (non lo stesso, si badi, del primo atto: allora egli voleva «partire», ora «resta»). Tuttavia, trattandosi di un testo artistico, i due sistemi formano un’unica architettura, a reggere la quale collaborano scambievolmente, elasticamente. Proprio perché il «sogno» di Barracano — la sua «vita intera» spesa «per limitare la catena dei reati e dei delitti» — conserva nell’insieme dell’opera attrattiva e grandezza, la sua negazione finale è significativa e poetica. Tanto più che anche questo «sognatore» è capace di lasciare una traccia del suo attraversamento

della «realtà», e ancora una volta me-

diante il «dialogo». Prima della cena fatale, l'Autore introduce a sorpresa i due giovani che hanno scosso il protagonista dalla sua impassibilità. Ignaro del ferimento avvenuto, Rafiluccio viene a rassicurare il Sindaco: proprio le sue parole — «L'uomo è uomo quando capisce che deve fare marcia indietro e la fa» — l’hanno guarito dalla propria fissazione: «Voglio essere uomo, don Anto”. E vi sono venuto a dire di non preoccuparvi più della faccenda 137

di mio padre» (III, p. 69). Punto di arrivo... punto di partenza: il ciclo vitale di Antonio Barracano può chiudersi.

«Che cos’è un uomo Un morto di fame»; resuscitare»; «Bravo. giusta». [I/ contratto,

senza denaro? [...] «E tu mi hai fatto Questa è la parola CGD, vol. III]

De Pretore Vincenzo, Antonio Barracano, Geronta

Sebezio: tre personaggi-uomo che incarnano altrettante metafore eduardiane: la diversità come natura profonda del teatro, l’illusione come travestimento d’una speranza disperata e, soprattutto, la morte come gioco tra finzione e realtà. Il Commercio con la Morte attraversa gran parte del teatro dell'Autore: da Nox ti pago a Napoli milionaria!, da Filumena Marturano a Questi fantasmi!, da I morti non fanno paura a Bene mio e core mio, da Dolore sotto chiave a Il cilindro. Il motivo arcaico si è mescolato al motivo moderno (o riscoperto dal teatro moderno) della Fin-

zione; e per via il secondo sembra aver fagocitato il pri-

mo, per ragioni sempre più basse. I Lari partenopei di Non ti pago si sono travestiti da Questi fantasmi!, per diventare espedienti di calcolate convenienze in Bere mio e core mi0 (1955); la finzione della morte, teatro collettivo «pe’ campa’» in Napoli milionaria! o rivalsa del debole contro il forte in Filumena Marturano, dopo la farsa ama-

rognola del Cilindro (1965), sembra toccare nel Contratto

il fondo della speculazione umoristica più nera. Pur non avallando mai, a parole, la sua fama miraco listica, Geronta promette di riportare alla vita, gratui tamente, chiunque voglia e possa stipulare con lui un «contratto»: il firmatario deve impegnarsi ad amare il prossimo suo, ad accogliere in casa e beneficiare nel testa mento il parente più odiato (e diseredato). Il protagonista appare dunque un disinteressato apostolo del bene e della carità cristiana; alla prova dei fatti, però, non solo non resuscita 138

uno dei contraenti, ma dimostra di trarre vantaggi eco-

nomici dai contrasti insorti fra gli eredi del defunto. Per rappresentare questa storia paradossale, di un

Santone che intrallazza con la Morte per beffare le istituzioni e la società, l’Autore ricorre nuovamente ai mec-

canismi del «fantastico». Sussiste fino al termine dell’avventura una percezione di ambiguità: in un mondo che è sicuramente il nostro, si verifica un «avvenimento» che

non si può spiegare con le leggi che ci sono familiari. O si

tratta di una «illusione dei sensi», prodotta dall’immaginazione nostra o dall’inganno altrui, oppure il fatto è «realmente accaduto», ma questa realtà dipende da leggi a noi ignote. Dobbiamo mettere in dubbio l'avvenimento o la realtà? Geronta resuscita i morti? Si possono resuscitare i morti? Il fantastico dura il tempo di questa incertezza: ma nel Contratto — a differenza che in Questi fantasmi! e nella Grande magia — non è mai il protagonista ad «esitare», esitano soltanto il lettore o lo spettatore... Nel primo atto l’Autore ci sottopone, anzi, una nuova specie di ‘spettatore rappresentato”: il giornalista Chichignola, che nell’intervista a Geronta esprime gli stessi dubbi dello ‘spettatore reale’: «Da una parte lei mi dice che miracoli non ne fa, dall’altra sostiene che ha il potere di

resuscitare i morti. Con che li resuscita, allora? Con la

bacchetta magica?» (I, p. 312). Mediante il personaggio dell’estraneo-intervistatore, si introduce il pubblico nel mistero dell’opera: anche noi veniamo a conoscenza degli

«antefatti», cioè del «fatto» che ha scatenato la serie di eventi successivi, contrassegnati da un’apparente ‘sopran-

naturalità’. Ma la causa prima è stata la resurrezione di Isidoro, il «fratello» adottivo di Geronta: spalla o mamo affiancato all’ambiguo protagonista. Se Geronta interpreta la figura di un ‘reverendo’ tartufesco e astuto, Isidoro rammenta le tipiche fisionomie del ‘sacrestano’, vittima ingenua ma indispensabile tirapiedi. L’effetto complessivo è sempre comico, secondo le credenziali del varietà e dell’avanspettacolo: come in quella scena concitatissima fra i due, che rompe improvvisamente il silenzio dello

stanzone vuoto (all’alzarsi del sipario) e richiama nella di-

139

namica dei movimenti, dei gesti e delle battute, certi ani-

mati contrasti fra «servo» e «padrone», di repertorio nella tradizione popolare a risalire fino alla Commedia dell’Arte. Ma la funzione dell’abbinamento è anche un’altra: bisognava accostare a un personaggio con pretese di superiorità di natura sullo spettatore un personaggio inferiore, un testimone poco attendibile (dal momento che il protagonista stesso lo chiama «cretino»). La catena degli indizi e dei contro-indizi appare comunque serrata per tutto il primo atto; Geronta appare un uomo sereno che non porta rancore a nessuno, un ‘prodigo’ in passato derubato dalla moglie e interdetto dai fratelli, e ora perseguitato dall’invidia delle malelingue, ma che accetta il suo destino di ricco-povero perché persegue ideali più alti della materiale ricchezza. Il suo comportamento è calcolato, trattenuto: gesti chiari, senza sbavature né enfasi, precisi

come il modo di parlare. Ma nel secondo atto si passa dall’informazione sul ‘passato’ alla drammaturgia del ‘presente’: l'Autore ci immette ex abrupto nella situazione d’una famiglia-tip o, la famiglia Trocina, subito dopo l’improvvisa «mancanza» del capofamiglia, uno dei firmatari del «contratto». E attraverso le reazioni dei congiunti non ci propone soltan to uno spaccato sociale (Gaetano Trocina appartiene a una categoria di contadini arricchitisi ai danni degli antichi proprietari ma anche dei loro braccianti); ci prospetta contemporaneamente una visione pessimistica del mondo (homo hominis lupus). Escogita ancora una volta un’azi one che attualizzi le condizioni esterne: ma, anziché rappresentare il contrasto fra un individuo disarmato e le forze del potere, ribalta i termini del contrasto (almeno apparentemente) e mette in scena un indivi duo armato (dell’unica forza dei deboli, tuttavia, l’astuz ia) che, studiati e compresi i meccanismi con cui il potere gli individui, in modo tangenziale o obliquo sottomette riesce a sottrarre una fetta, almeno, di quel potere. Già De Pretore e il Sindaco avevano tenta to di inserirsi nel «gioco», ma i loro «sogni» li avevano portati a soccombere; Geronta Sebezio, invece, è così privo di il140

lusioni da poter sfruttare a proprio vantaggio le illusioni e le paure degli altri. Infatti sia Gaetano Trocina (il defunto) che i suoi (superstiti) famigliari appaiono chiusi nella paura borghese di dover rinunciare alla pur minima parte del proprio «io». E nella tensione spasmodica di conservarlo nelle forme materiali della verghiana «roba», temono soprattutto la «morte», senza accorgersi di essere già spiritualmente morti, anzi «bestie». Nel vangelo laico eduardiano, l’egoismo è uno dei peccati mortali: l’egoismo onnivoro è la caratteristica fondamentale dei firmatari dei contratti e dei loro eredi. Perciò Geronta inventa per loro una resurrezione carnale, un ‘sogno basso”: in cui la «morte» è solo una «falsa partenza» e dopo il quale, come scrive Gaetano nella lettera privata alla moglie, «i cavalli devono tornare alla stalla e il grano nella botta» (I p.o328).

Fin dall’inizio di questo Contratto, il protagonista sta nel campo della realtà e gli altri nel campo del sogno: ecco perché l’«esitazione», indispensabile per il «fantastico», coinvolge nel secondo atto gli eredi. Il sospetto d’una finzione operata dal defunto li spinge fino alla caricatura del cordoglio. Uniti soltanto dalla volontà di ingannare la giustificata diffidenza del «morto», i «parenti inconsolabili» stravolgono l’antico rito della lamentazione: Fra i quattro incomincia un borbottio sommesso, un gorgoglio di parole incomprensibili che è soltanto il rimasticamento di tutto ciò che hanno affermato, considerato, supposto un attimo prima, ad alta voce e con il «vivo morto» a due passi da loro. Il concertato raggiunge il massimo, poi va scemando e, infine,

st risolve in un «balletto» mimato che dovrà essere tutto una disperazione, quanto mai grottesco (did., II, pp. 330-31). Il «riso amaro» di Eduardo investe questa famiglia terribile sfruttando trovate della comicità tradizionale; ma ne illi-

vidisce i contorni mettendo a nudo l’animo dei personaggi, tutti campioni dell’abiezione egoistica. E nello stravolgimento scenico d’una crisi di cordoglio interpretata da attori fuori-parte, l’Autore esce dal codice naturalistico, alterandone e deformandone voci e gesti. Ma all’espressionismo

comico-grottesco 141

(ottenuto

mediante

lo

straniamento stesso del teatro-nel-teatro) subentra, con l’entrata in scena di Geronta, l’ironia eduardiana. Infatti

lo spettatore continua a nutrire dubbi sulla vera natura del «santo»: i suoi sospetti, anzi, vanno aumentando in quest’atto per il comportamento del protagonista; anche se l'Autore si diverte a mantenerci nell’esitazione. A colpi di esplosioni, contraddizioni e sviluppi parossistici, il pubblico è tratto a chiedersi se e corze farà il Santone a resuscitare il morto! Perché «qualcosa c’è sotto»: qualcosa che ha a che fare con i soliti giochi di prestigio dell’ Autore. Il trucco, anche stavolta, appartiene alla sfera cangiante del «linguaggio», è nella frase-formula magica pronunciata dal protagonista: Gaetano Trocina «s’è rifugiato volontariamente in una sincope che se i suoi sospetti sono giusti, diventerà definitiva, se infondati può avere soltanto carattere di sincope provvisoria. [...] La catena d’amore. Di-

pende tutto da voi. La corrente elettrica siete voi, io sono il filo attraverso il quale passa la corrente» (II, pp. 334 e 342; il corsivo è nostro). Geronta Sebezio sfrutta il lin-

guaggio evangelico per realizzare lo stesso trucco di Otto Marvuglia. Solo l’amore e la fede interumani rendono possibile il miracolo: lui può agire soltanto da medium fra i ‘vivi’ e il ‘morto’. A questo punto sappiamo come finirà l’esperimento della resurrezione! Tanto più che il protagonista assume il comportamento dell’ispirato: grida con

voce tonante, usa gli accenti della recitazione impostata;

tanto che Giacomino, il parente-parassita recuperato alla «famiglia» dopo il «contratto», a quella esibizione esclama: «Del resto qui ci sta la vedova e deve decidere lei se si deve fare questo teatro o no [...] ‘Sorgi Lazzaro!» (II,

p. 336). Ma proprio quando Geronta si trova ‘a solo’ con

lui la distonia fra i due codici del protagonista, uno enfaticamente cristologico e uno freddamente giuridico, produce l’effetto di ambiguità. Infatti l’altro sta subito al ‘gioco’, e il loro dialogo assume ben presto un doppio registro: quello della finzione appunto e quello della verità. Perciò, nel bel mezzo della seduta spiritica per resuscitare il morto, un morto «testardo» che non vuole resuscitare, 142

Giacomino ritorna col pretore a far mettere i «sigilli» alla «roba» di Gaetano Trocina. E la fine d’atto è come al solito magistrale: quasi una ‘dissolvenza’ cinematografica. Mentre gli eredi, sconvolti dall’inaspettata irruzione degli agenti, lo interrogano istericamente: GERONTA (serafico) — Mettono i sigilli? Bè, e che ve ne importa? Appena si determina la catena d’amore, Gaetano Trocina si alza dal letto e si tolgono i sigilli un’altra volta. Siete voi che vi dovete rilasciare, concentrare. Quando siete pronti me lo dite e io lancio il grido. E cala il sipario. [II, pp. 344-45]

Anche nel Contratto il Soprannaturale ha origine da una Figura (come in La grande magia o in De Pretore Vincenzo). Con queste parole, infatti, il taumaturgo giustifi-

cherà (nella prima versione del terzo atto) il fallimento del suo «intervento»: «la catena non si poteva determinare perché in famiglia amore non ce n’era». Ma soprattutto dal ‘dialogo’ cruciale con Giacomino emergerà, nello stesso atto, il trucco manipolatorio grazie al quale Geronta ha potuto acquistare la fama di resuscitare i «morti»: GERONTA I centoquaranta

milioni sono tuoi! [...] (apre la

valigia) Guarda! [...] Sono felice perché ti ho rimesso al mondo. Giacomino

[...] Mi hai salvato!

GERONTA Ti ho ridato la vita [...] Che cos'è un uomo senza denaro? E un corpo senz’anima. Giacomino Un morto. GERONTA [...] Un morto di fame.

Giacomino E tu mi hai fatto resuscitare. GERONTA Bravo. Questa è la parola giusta. [III, pp. 355-56]

Trovata la «parola giusta», fabbricare le «prove» (le gigantografie con dedica) sarà un gioco da ragazzi. Il trucco esige la distrazione momentanea del soggetto. Non è il morto vero, infatti, che Geronta rimette al mondo, ma il morto di fame: indispensabile perché riesca il vero gioco di prestigio. L'ombra di Sìk-Sìk continua a proiettarsi sui protagonisti eduardiani: qui però tutto funziona a mera-

viglia, come in un’operazione finanziaria studiata e realizzata nei minimi dettagli. «La scoperta più grande è sta143

ta la carta», aveva detto Barracano, «perché con la carta si fanno le cambiali, i contratti, la carta bollata [...] biglietti di banca!». Come quei biglietti che si muovono impalpabili, per la sveltezza prestidigitatoria di Geronta, in un percorso (valigetta-cassetto-valigetta) non lineare. Quest’altro illusionista (non illuso) riesce davvero a tra-

sformare lo Spazio e il Tempo. Dall’anticipo dei «trecento milioni» concesso dallo «strozzino» alla famiglia del defunto per liquidare l’erede ‘indiretto’, all’autenticazione dell’atto di rinuncia di Giacomino stesso, alla sua partenza per l’Argentina, non deve quasi passare il tempo se si vuole che nessuno si accorga della sparizione di una parte della somma operata dal consigliere spirituale! Proprio il fattore ‘tempo’ è essenziale affinché tutti se ne escano dalla commedia soddisfatti d’essere stati ‘illusi’: perciò il terzo atto, incorniciato dalla festa di nozze di Napoleone Botta (l'ennesimo ma non ultimo contraente), procede col

ritmo accelerato d’una pochade. I personaggi necessari (lo

strozzino Lanciano, Giacomino Trocina, l’insospettabile donna-notaio) si avvicendano al ‘chi di scena’ del prota-

gonista-regista, introdotti dal candido maestro di cerimonie Isidoro; e attraverso dialoghi sempre più stringenti ci svelano qualcosa, ma mai tutto e tutti insieme, così da «tenere il pubblico fermo, fisso in poltrona fino all’ultimo». «Se ha capito», insegna il «grande giocoliero» Eduardo, «si alza e se ne va» [10, p. 19]. L'arte della commedia dell’Autore si rivela nell’arte illusionistica del protagonista: come in un puzzle, le tessere si incastrano l’una nell’altra e solo alla fine danno il quadro d’insieme. Il contratto appartiene dunque al sotto-genere del «fantastico-strano»: i fatti riferitici nel primo atto sono realmente accaduti, ma si possono spiegare razionalmente; e la spiegazione che riceviamo alla fine dell’opera è

quella del «gioco truccato» (Todorov). La sua struttura

potrebbe anche richiamare il «giallo a enigma»: ma la soluzione di questo mistero non appare doppiamente gratificatoria come in quel genere di letteratura. Il trionfo della «ragione» (lo spettatore comprenderà il trucco di Geronta) non coincide infatti col trionfo della «giustizia».

144

L’Ex lege la fa franca: stavolta e, come lascia intuire il finale, molte altre volte ancora. E ancora una volta l’accento non è posto tanto sulla soluzione, quanto sulle ‘reazioni’ provocate dall’enigma: le reazioni di coloro che, pur di non credere alla propria ‘morte’, si illudono di poter comprare la vita, e di quegli altri che sono disposti a credere o a non credere alla morte dei propri ‘cari’ a seconda di quanto gli convenga. Eppure le reazioni delle presunte vittime — vittime soprattutto della loro subumanità — riescono a coinvolgere il pubblico. Lo spettatore si trova a tratti a reagire come e con i personaggi (anche noi, a un

certo punto, dubitiamo della morte del Trocina!); non perché si identifichi in essi (ce lo impedisce la distanziazione ironica) ma perché appunto, come loro, continua a

dubitare: tutto ciò lo induce, mediante il ragionamento, alla ‘coscienza della colpa’ (come già per Le voci di dentro). Ed è la suspense a catturare l’attenzione del destinatario: perciò caratterizza sia la letteratura fantastica sia il giallo a enigma, sia i testi teatrali di autori che attingono all’uno e all’altro ‘genere’ come Pirandello, Eduardo e Fo. «Bisogna mantenere sempre la suspense [...], è la tattica per arrivare in fondo: i vari punti fermi. Sono tre atti» [10, p. 48]. Ogni atto del Contratto inizia con una scena o una battuta sul «mistero», affinché lo spettatore sia costretto a riprendere in considerazione il leit-motiv dell’opera, approfondendone il senso. Solo il terzo atto mette fine all’ambiguità che ha caratterizzato sia la ‘situazione’ che la natura del ‘protagonista’: se nel secondo abbiamo intuito che Geronta finge, nell’ultimo si svela, con procedimento ‘a sorpresa’, il complicato marchingegno di quest'altro mago partenopeo. Tuttavia la funzione del Protagonista oltrepassa l’immoralità del suo «carattere»: quest’ Angelo Nero assolve a suo modo una funzione riequilibratrice nella ridistribuzione sociale della ricchezza. I firmatari del «contratto», infatti, non solo devono risarcire un parente povero e sfortunato, ma non devono dimenticare nel testamento «chi I[i] ha servit[i] e qualche bisognoso che per il passato [essi hanno] fatto finta di non vedere» (I, p. 305). La pro-

145

blematicità della «giustizia» attraversa l’intera trilogia sociale: in De Pretore la giustizia ultra-terrena, da amministrarsi nell’aldilà, rispecchia i problemi civili dell’aldiqua; il Sindaco tratta della giustizia legale, (male) amministrata dai tribunali terreni; nel Contratto si discute la giustizia economica, da una prospettiva che oltrepassa l’bic et nunc della vita nella sua bestiale materialità. Alla fine l’Autore mette in scena un personaggio ‘negativo’ per fargli assol-

vere una funzione ‘positiva’ (relativamente almeno alla

negatività di tutto il contesto). Ritornano i temi sui quali si sviluppa il tragico: la morte e la roba, la fame e la violenza del potere, nella famiglia e nella società, sullo sfondo di un Sud del sottosviluppo e del benessere che si contaminano a vicenda. La parabola eduardiana richiama il senso «paradossale» di quella evangelica dell’«amministratore disonesto ma astuto» (Luca, 16, 8-9), eppure il

suo risvolto è «comico» e «amarissimo» proprio perché nasce dal «tragico». Infatti il Corvo più furbo smaschera gli altri corvi resi ottusi dall’avidità, soprattutto nel pantagruelico banchetto di nozze, quando ri-distribuisce fra «tutti» la roba accumulata da Napoleone Botta:

Servitevi di questo ben di Dio con cui egli ha voluto riempire la mia casa [...] Napoleone ha conosciuto l’amore [...]. Una catena d’amore che unisce tutti voi e vi tiene cristianamente legati nel rispetto dei comuni interessi. Amore puro, vero, disinteressato... [III, p. 361] Ma (conclude la solita didascalia) gli altri non stanno

seguendo la fine del brindisi: sono febbrilmente occupati a strappare limoni e arance dai festoni, ad ammucchiare a terra, ognuno per suo conto, polli, galline, formaggi. E cala il sipario. Nella grande abbuffata smantellatrice si completa ironicamente il sermone del protagonista; d'altronde il mascherato istrione, dall’alto del suo seggiolone dorato, non rivolge tanto la sua spietata ‘antifrasi’ a quel pubblico di braccianti e coloni ignoranti, avidi o soltanto affamati; provoca piuttosto il pubblico-noi, seduto in sala, a meditare sulla propria dabbenaggine! 146

VI. FRA

MONDO

DEL

TEATRO

E TEATRO

DEL

MONDO

Una sera mio padre mi chiese: «Vuoi fare l’attore, da grande?» Gli risposi: «No.» «E perché?» «Perché sennò non mi mettono nel sillabario». [L'arte della commedia, CGD, vol. III]

L’arte della commedia (due tempi, 1964), come Il teatro comico goldoniano (1750) e i Sei personaggi pirandelliani (1921), è un testo di bilancio-riflessione con aspetti

di pedagogia teatrale. Perciò possiamo isolare, nel percorso cronologico finora seguito, quest'opera «strana, formalmente e sostanzialmente diversa dalle altre» (Eduardo

nella Avvertenza premessa alla commedia, Torino 1965). L'arte della commedia, scrive Stefanile sul «Mattino» all'indomani della ‘prima’, «è proprio la somma di Eduardo uomo di teatro, il quale con risentito orgoglio pone il problema del teatro in quanto funzione primaria della vita sociale» [123]. Il nodo dell’intreccio è rappresentato infatti dalla domanda che il capocomico-protagonista rivolge al prefetto-antagonista: «questo benedetto teatro è di interesse nazionale o no?» (I, p. 220). Un commediante girovago, Campese, dopo l’incendio che ha devastato il suo «Capannone», capita nella prefettura di una città di provincia per domandare aiuto; si trova invece invischiato in una discussione sulla crisi del teatro, alla fine della quale il prefetto De Caro, infastidito dal suo discorso «sofistico, cavilloso, fanatico», vorrebbe metterlo alla porta con un «foglio di via» prepagato. Il

protagonista è svelto però a sfruttare a suo vantaggio lo «scambio di liste» (incautamente provocato dal solerte segretario) e sfida il suo antagonista a riconoscere, nelle persone che dovrà ricevere, gli attori della sua compagnia! Davanti al prefetto, attanagliato da un dubbio che ancora una volta ci coinvolge, sfileranno i «casi umani» di un teatro del mondo sempre in pericolo di precipitare nel mondo del teatro... 147

Proprio nel suo discorso-ponte fra il primo e il secondo tempo il Capocomico-protagonista ci svela il nesso fra i due aspetti complementari della commedia: Non siamo più gli istrioni di un tempo che improvvisavano la commedia dell’arte, abbiamo imparato ormai a recitare con arte la commedia [...]. No, Eccellenza. Pirandello non c’entra niente: noi non abbiamo trattato il problema dell’«essere e del parere». Se mi deciderò a mandare i miei attori qua sopra, lo farò allo scopo di stabilire se il teatro svolge una funzione utile al proprio paese o

no. Non saranno personaggi in cerca di autore ma attori in cerca di autorità. [I, p. 227]

Tali proposizioni, rovesciando entrambe formule accreditate, ripropongono i rapporti di Eduardo con la tra-

dizione scenica, dialettale

o meno, e con l'innovazione,

con il «maestro nazionale» Pirandello e la sua opera. Lo stesso legame di consequenzialità fra polemica rappresentata e azione dimostrativa è introdotto dall’ultima battuta amabilmente ma ironicamente minacciosa di Campese:

«La saluto, Eccellenza, buona giornata e stia attento.

(Esce)» (ibid.). Se il primo tempo si risolve in una nuova specie di ‘monologo dialogizzato’ del protagonista, nel secondo quei personaggi-persone (un medico condotto, un

parroco, un farmacista, una maestra comunale) che si presentano nella stanza della prefettura (come su un palco-

scenico) sono addetti ad esemplare «i problemi di tutti». Perciò anche l’azione dimostrativa, tutta giocata su un colossale equivoco e sull’esitazione (uomini 0 attori?), si conclude con un discorso di Campese, ritornato in scena per accomiatarsi dal suo pubblico finto e da quello vero: Attori o non attori i fatti non cambiano. Se ritiene che i problemi di cui è venuto a conoscenza, siano di tale portata da

richiedere tempestivamente interventi dello Stato, agisca in proposito, indipendentemente da quella che può essere la tità di questi signori. [...] Il Prefetto è lei. [IT :p.257 vera iden]

E stato osservato come l’Autore costruisca commedia ‘critica’ sul punto di vista di un Attor questa e sui ge148

neris: l’«Inattuale» (Giammattei), portatore di una tradizione superata, dunque estrazeo al contesto teatrale di cui si discute in scena. Campese appartiene alla «razza vagabonda dei comici antichi, magnificentissimi; di pane e di

gloria famelici; senza focolare e senza silenzio» (Simoni).

Incomincia la sua «conferenza sul teatro» intingendo nel caffellatte pezzetti di brioches (I, p. 217), ma poi si richiama al maledettismo secolare della sua gente («In Inghilterra ci deve essere ancora una corda che mise fine alle tribolazioni di un Arlecchino»: I, p. 222). Perciò al rosario dei luoghi comuni snocciolati dal prefetto (il «repertorio» è sempre «la stessa zuppa» oppure contiene «oscuri

messaggi», il «pubblico va a teatro per divertirsi» ma «un vero scrittore di teatro non esiste più», «lo Stato ha garantito largamente la dignità dell’attore», c’è un ministero apposta!) il capocomico risponde inizialmente con un leit-motiv circospetto ma sospetto: «Da un certo punto di vista sì». E, provocato a dire finalmente il ‘suo’, mette le mani avanti: «Io sono figlio d’arte [...] e sono a capo di un \ gruppo di comici. [...] Da guitti discendiamo e guitti siamo noi stessi. Sia l'argomento degli scrittori di teatro che quello degli attori [...] mi riguarda soltanto di riflesso» (I, Ip. 216). Eppure la scelta di questo ‘punto di vista’ fa assumere ‘al personaggio, nel vivo dell’azione, la portata (sempre ambigua) d’un Sosia eduardiano: per quel rapporto dia-

logico che l’Autore continua ad alimentare (dentro di sé) fra tradizione e innovazione. Il suo affettuoso attaccaimento al vecchio mondo comico si manifesta anche qui, ‘nel dipanarsi, a effetto, del filo dei ricordi di Campese. Una casta a sé i «figli d’arte»: nati e cresciuti appunto fra ‘quinte e proscenio; la cui esistenza pare scandita dalle stagioni delle compagnie di giro, e dai ritmi di una finzioneconvenzione scenica, oltre la quale la realtà non sembra avere senso. Ma queste memorie di usanze ormai deca-

dute, magari risibili in una prospettiva ‘borghese’ (De Caro: «Più figlio d’arte di così...»), vengono inglobate dallo stesso Campese in una nuova esigenza di «dignità» sociale e giuridica; dal momento che ancora negli anni Sessanta 149

(quelli dell’ Arte della commedia) il prefetto continua a vedere gli «attori» come «uomini originali, un poco matti,

ma brava gente... se ti fanno perdere del tempo, in compenso guadagni un poco di buon umore» (I, p. 212). Se Eduardo parte da una realtà ‘inattuale’ per costruire il ‘suo’ Campese, attribuisce tuttavia al personaggio riflessioni e aspirazioni ‘moderne’, che gli appartengono... Attraverso questo Protagonista-attore (ma anche, nella seconda parte, regista), l'Autore mostra di riconoscere l’innegabile forza persuasiva e il valore di rito del «teatro all’antica italiana», pur rinunciando alle sue pratiche e alle sue convenzioni ormai inadeguate. Il «limite» degli «attori dialettali», che per Eduardo sono gli ‘eredi’ della Commedia dell’ Arte, è «l’ignoranza; possedendo un’esperienza secolare, finora hanno potuto fare a meno della cultura, ma oggi non più» [195, p. 172]. La nostalgia che riaffiora, talvolta, nelle sue dichiarazioni è tesa a preservare le norme di un codice eticamente esemplare: «arte» significa sempre per lui — come per gli antichi comici —

«professionismo teatrale». Perciò la sua sfida culturale si pone anzitutto sul terreno del teatro, per l’innalzamento qualitativo sia degli attori che degli spettatori. Dunque Eduardo assume una prospettiva generale a favore dell’«attore» come professionista consapevole, più freddo forse che nel passato, ma più attento alla cura dei particolari interpretativi che volto a perfezionare «l’arte di arrangiarsi». Non senza quel poco di amarezza che gli deriva dalla coscienza dell'importanza che i ‘figli d’arte’ hanno avuto nella storia del teatro occidentale: «I ‘figli d’arte’ vanno scomparendo; ai superstiti non resta che raccogliere l’irriconoscenza di quelli adottivi» [195, p. 15327

In quanto figlio d’arte e guitto girovago, Campese si dice estraneo al mondo del teatro cosiddetto «regolare» e «stabile». Anche Eduardo si era detto estraneo alla «crisi del teatro», perché le sue opere erano favorevolmente accolte sia in Italia sia all’estero: pure, nella lettera aperta (del ’59) al ministro dello Spettacolo, ne attribuiva la responsabilità alla posizione ambigua dello Stato «tiranni150

co, che per sembrare mecenatesco e liberale non esita a fare il più largo uso dell’ipocrisia e della corruzione» [7, pp. 143-44]. Personaggio e Autore insistono sulla «confusione» che consegue sempre, nel linguaggio del Potere, «dalla

contraddizione che esiste tra il dire e il fare» (>pz215): Quindi i due punti di vista, quello basso e quello 4/t0, finiscono teatralmente e astutamente per coincidere; come

Campese, Eduardo stesso potrebbe dichiarare: «Le mie riserve sulla vita del teatro mi vengono suggerite da un naturale senso critico, ma mai da un interesse preciso o da ambizioni personali» (I, p. 216). D’altra parte, entrambi aspirano a innovare il repertorio secondo la visione di un teatro «specchio della vita umana, riproduzione esatta del costume e immagine palpitante di verità» (I, p. 222). Campese propone al prefetto una commedia nuova, Occhio al buco della serratura, prefigurandola come uno spettacolo «sintetico» («Invece di raccontare una sola vi-

cenda, che a volte si stiracchia per tre atti, [ho] pensato di raccontarne quindici, brevemente, e indipendenti l’una dall’altra»: I, p. 225). E proprio questa la corzzedia-incommedia che si realizza nel secondo tempo dell’opera, secondo un’ottica meta-teatrale che rovescia il convenzionale voyeurismo scenico: i «casi insoliti» presentati dai personaggi-attori fanno tutti riferimento ad azioni che si sono svolte, si svolgono o si svolgeranno fuori, nella strada, nella piazza, perfino in una scuola di montagna. Anche l’opera «strana» di Campese cerca di ristabilire per il pubblico la prospettiva eduardiana dall'interno all’esterno: così che l’«occhio» dello spettatore, dopo aver attraversato la quarta parete della scatola scenica, possa rimbalzarne fuori e rivolgersi su se stesso. Il teatro dei «sei personaggi» che invadono lo stanzone della prefettura (segnatamente caotico e antiquato) solo sul piano della «vita» può e deve trovare conferma della propria «utilità» sociale, se «artistica». Il sacro testo pirandelliano è ancora una volta citato ma capovolto: la «morte in scena» del «farmacista» richiama quella finale del «Ragazzo», ma qui non si tratta del problema dell’«essere e del parere» secondo Campese-Eduardo: «Eccellenza, ma che gliene importa a ID

lei, se si è trovato di fronte a un farmacista vero o a un

farmacista morto? A mio avviso dovrebbe essere più preoccupante un morto falso che un morto vero». Il paradosso è solo apparente, se la finzione del teatro serve a conoscere la verità della vita: Quando in un dramma teatrale c’è uno che muore per finzione scenica, significa che un morto vero in qualche parte del mondo c’è stato o ci sarà. [...] Ecco perché le ho detto stamattina: «Venga a teatro, Eccellenza...». [II, p. 257]

Il teatro di Eduardo non si fonda sulla dialettica fra ‘personaggio’ e ‘persona’, tantomeno assicura al primo il sopravvento sulla seconda; gli manca il filtro intellettualistico attraverso cui passano, per Pirandello, personaggio e teatro. La sua stessa comicità discende da tradizioni remote (o comunque diverse) dell’«umorismo» pirandellia-

no: i suoi protagonisti sono portatori di un «mond è l’envers» anche perché il «riso» conserva, per lui, l’antica funzione aggregante, non solo demistificante. Sembra estraneo, in tal senso, al grande teatro della Krisis europea otto-novecentesca, alla stessa «incertezza della nostra personalità»: laddove l’«umorismo tragico» tendeva a scomporre il carattere del personaggio per mostrarne la vita irta di contraddizioni, quasi accumulando l’imprevisto e

la disarmonia che formano il «male di vivere», non ci sono

nelle commedie di Eduardo delle «maschere nude». Pienamente cosciente del disorientamento dell’Individuo nei confronti del Mondo che lo circonda, egli tenta di salvarne, nella disgregazione generale, il «volto» in quanto essenza «comunicabile» del personaggio come dell’uomo. Forse perché lui stesso non è un attore in cerca di identità, ma un attore già virtualmente autore, ha scavato viadotti nel solco d’una comicità teatrale partenopea venata di malinconia o di tragedia, di razionalità e di assurdo, per raggiungere un pubblico non solo nazionale ma universale; forse perché attraverso la memoria dei generi po-

polari si ricollega alla Maschera della Commedia dell’Arte, il suo personaggio salta l’imzpasse naturalistico e supera

il dualismo novecentesco fra la «maschera» e-il «volto», 152

riproponendo la Maschera come archetipo creaturale dell'Uomo intero. Quindi nell’ Arte della commedia la forma teatrale, ben

lontana dal vanificare la concretezza della ‘persona’, diventa strumento per comunicare quella concretezza allo

spettatore, attraverso ‘personaggi’ casuali ed esemplari. Alla base, sempre, quella tensione al contatto quasi fisico fra attore-personaggio e pubblico, per cui «l’arte continua ad avere il suo valore di scandalo, di unicum, di imprevisto, di violenza, soprattutto l’arte del teatro, la drammaturgia in quanto unico genere (anche letterario) dove il destinatario è presente fin dalle origini» (Jacobbi). Il teatro è utile proprio perché il suo linguaggio «sintetico» è più informativo delle lingue naturali, ha «più forza di penetrazione» e maggiori possibilità di provocare «colloquii» col pubblico. Ogni genere di pubblico: è un’altra utopia eduardiana — «Io scrivo per tutti: ricchi, poveri, operai, professionisti...! Tutti, tutti! belli, brutti, cattivi,

buoni, egoisti. Quando il sipario si apre sul primo atto d’una mia commedia, ogni spettatore deve potervi trovare una cosa che gli interessa» [195, p. 142]. Ma il teatro è utile anche perché ci aiuta a trovare «un po’ di spasso», a vedere nella vita «un mezzo purgatorio» [10, p. 133]. Anche in questa commedia, dopo aver cercato di «far pensare» il prefetto, l'Autore non rinuncia a prendersi gioco un’ultima volta di lui, coinvolgendo naturalmente lo spettatore (sempre vittima e collaboratore) nel godimento perplesso del suo ennesimo ‘razzo’ finale. Proprio quando tutti ci aspettiamo dall’arrivo del maresciallo con gli agenti la soluzione dell’enigma (uomini o attori?), fissando co/ fiato sospeso la porta d’ingresso: CAMPESE Un momento! De Caro (i//urzinandosi) Ah, finalmente hai deciso di venire a miti consigli! : Campese No, Eccellenza. Volevo soltanto farle sapere che fra il vestiario di una compagnia teatrale non è difficile trovare una divisa da Maresciallo dei carabinieri. (Rivolto alla porta) Avanti! Sipario. [II, p. 258]

155

L’arte della commedia, rappresentata al San Carlo di Napoli nel gennaio del ’65, fu poco dopo tolta dal cartellone e sostituita a Roma dalla ripresa di Uorzo e galantuomo, a causa delle reazioni polemiche suscitate «in alto loco». Un caso, più ancora che di censura, di «autocensura»: quella denunciata da Campese nel testo («Eccellenza, se non c’è la censura, c’è l’autocensura, a cui l’autore deve spontaneamente sottostare. Infatti, la gente di teatro muove i propri passi in funzione di [...] un indirizzo obbligato, non verso lo scopo vero, che sarebbe quello di dare al pubblico l’immagine della verità»: I, p. 223). Pro-

prio la ‘vita scenica’ di questa commedia sembra (paradossalmente) prefigurata dal ‘caso’ occorso al suo protagonista: messo alla porta perché ha osato criticare quelle istituzioni che consentono e condizionano il lavoro della «gente di teatro». Il «comico» era andato dal «Signore» non a chiedere sussidi, ma un riconoscimento della propria funzione artistica e sociale (De Caro, sprezzantemente: «Guarda quanta dignità... chissà quante volte ha viaggiato sui carretti»: I, p. 227). Eppure nella «dignità» di Campese restano tracce di quella subalternità al potere politico che appare radicata nella mentalità dei teatranti per ragioni storiche ed economiche. Il capocomico chiede al prefetto di «onorare con la sua presenza» lo spettacolo: «Dalla ribalta le rivolgerei... un indirizzo di omaggio» (I, p. 225). Per dare la sua «commedia nuova» e al tempo stesso soddisfare le esigenze del «vitto», l’attore (secondo

Eduardo) deve ancora oggi (o almeno negli anni Sessanta) «omaggiare» i potenti. E quando i potenti si sentono offesi, la commedia sparisce dal cartellone... «Arte» sì, il teatro, ma fra le più dipendenti, nella prassi, dalle condizioni extra-artistiche, dalle esigenze del

mercato e dalla configurazione della società: e il nostro Autore si conforma, pur prendendosene, come Campese, le sue vendette. Ripropone, al posto della sua commedia nuova, quell’ Uomo e galantuomzo che solo apparentemente «diverte e non fa pensare», affrontando già gli ambigui rapporti fra teatro e potere; dà subito alle stampe L’arte

della commedia, affidando direttamente al destinatario, il

154

«lettore» (se non può esserlo lo spettatore) il compito di valutarla: «Desidero che il lettore [...] si formi una sua idea del lavoro, e decida da solo se la commedia è valida o no, teatrale o non teatrale [...], pericolosa (al punto da

meritare

una

censura

televisiva) o no!» (Avvertenza

L'arte della commedia, 1965).

a

«Che il lettore giudichi con la propria testa» è un /eitmotiv di Eduardo; il quale ha preferito sempre esprimere le proprie «idee» in interviste o a colloquio con gli studenti, «a tu per tu». Eppure lo ‘zibaldone’ dei suoi pensieri (che ha in comune con la commedia l'andamento dialogico) costituisce un sistema di poetica teatrale più organico di quanto non sia apparso ai critici che ancora insistono sul suo «istinto» e sulla sua «mancanza di facoltà critica»; 0 di quanto non sia apparso a lui stesso, nemico

dichiarato di ogni teorizzazione scritta dalle proprie «riflessioni». Egli ha teso il più possibile a evitare il ‘monologo’, a meno che questo non fosse una specie di allocuzione al pubblico, di confessione: come quel bellissimo Primo... secondo. Aspetto il segnale in cui gli spettatori sono evocati, visionariamente, anche nel chiuso del suo stu-

io:

Eccoli seduti sul davanzale della finestra, altri fanno a gomitate per guadagnare il posto migliore; hanno persino tolto gli sportelli della libreria e si sono seduti sugli scaffali al posto dei libri. Senza pubblico! Come può vivere un attore senza pubblico? [...] Con il continuo stridio della penna, riuscirò ad avvicinarmi alla folla [...]? Ci proverò, e nel risentire io stesso quello che penso sarò una volta tanto spettatore di me stesso. [«Il Dramma», agosto 1936, poi in 195, pp. 123-24]

Il passo sembra riecheggiare Co/loguii coi personaggi di Pirandello: là dove quelle «ombre brulicanti nell’om-

bra» spiavano l’autore da un angolo della stanza («Mi

avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro»: Novelle per un anno, II). Ma ai

fantasmi assillanti dei personaggi Eduardo sostituisce quelli degli spettatori: i «mille volti» soltanto possono stimolare l’autore-attore ad «acciuffare» i «suoi» personag155

gi. Anche perciò egli non ha mai voluto lasciare alla speculazione dei posteri un suo scritto teorico, e ha preferito scrivere opere e non discorsi...

VII. LA PAROLA

A TEATRO E IL SUO

DOPPIO,

IL SILENZIO

Col suo discorso teatrale soltanto, Eduardo alimenta il dialogo col pubblico concreto di ogni sera, di ogni spettacolo. Sa che gli spettatori ritorneranno a essere semplicemente «gente» uscendo dal «cerchio magico» palcoscenico-sala: perciò usa e rinnova gli strumenti artistici di cui dispone, per mantenere desta questa conversazione di vita. Una scommessa anche con il tempo: è difficile immaginare un’opera più completa e più sensibile della sua, per chi vorrà riguardare alla nostra epoca. Ma, anziché concludere un discorso, le «Cantate» rappresentano un «punto di partenza» per comprendere l’oggi e il domani: perché lasciano che la memoria personale e collettiva riaffiori, con i suoi complessi di colpa che non vengono rimossi, portando allo scoperto motivazioni e conseguenze dei fatti accaduti. «Il teatro muore quando si limita a raccontare fatti accaduti» [195, p. 151]; solo nelle «conseguenze» è il nocciolo di quella «verità» teatrabile «che abbia dentro pure qualcosa di profetico» (L’arte della commedia, 1).

Eppure il ‘romanzo teatrale’ eduardiano va controcorrente: il suo protagonista intraprende un periglioso e inattuale viaggio attraverso la storia, quando la Storia ha perso ogni privilegio di consequenzialità (o almeno così pare). «La storia gratta il fondo / come una rete a strascico / con qualche strappo e piùdi un pesce fugge. / Qualche volta s'incontra l’ectoplasma/ d’uno scampato e non sembra particolarmente felice» (Montale, Satura I). Il protagonista eduardiano è uno «scampato», che vuole ritornare però da «ectoplasma» «uomo». Mèta ultima — anche di questo viaggio verso un nuovo umanesimo — quel dialogo pieno che è entrato in crisi nella cosiddetta «realtà» 156

come nel suo «doppio», la finzione scenica. Solo con la «parola adatta» l’Uomo del nostro presente può recuperare fiducia o almeno speranza nel futuro: perciò l’Autore, nella sua parabola (apparentemente) eccentrica rispetto al cosmo delle avanguardie, affronta il problema della comunicazione difficile, ma sfrutta il suo «capitale» di soluzioni, espedienti, trovate, per rendere teatrabile anche la crisi del dialogo. Comincia con l’invenzione di un ‘linguaggio privato’ da parte del protagonista (Sîk-S3k, l'artefice magico); ‘antilinguaggio’ che si condensa, talora, in formule ripetute caparbiamente (con effetti comici dirompenti), finché il

loro messaggio non venga ricevuto da chi ascolta. Questa «terapia della parola», che tenta di infrangere la barriera della solitudine propria e dell’incredulità altrui, è impraticabile per il ‘pazzo’ di Ditegli sempre di sì; ottiene un successo solo parziale per il Natale di Luca Cupiello; funziona completamente grazie alla frase-formula di Gennaro Jovine (Napoli milionaria!)). Ma, anche quando il discorso di ‘un’ personaggio non viene inteso dagli ‘altri’, lo spettatore lo comprende: dal delirio lucido di Michele Murri all’incubo rivelatore di Alberto Saporito. La stessa tendenza al «monologo» di molti protagonisti eduardiani

apre canali «essenziali» di comunicazione col pubblico. La difficoltà a parlare insieme risalta di più nelle ope-

re che testimoniano o prefigurano trasformazioni della società, fasi critiche della sua storia e del suo sviluppo: Questi fantasmi! (1946), Le voci di dentro (1948), Mia famiglia

(1954) sembrano scandire le tappe di quell’«età della responsabilità anonima» (Jaspers) il cui rovescio è nella progressiva perdita di identità da parte dell'individuo impotente, in balìa di forme di vita organizzate (o disorganizzate) che richiedono comunque il conformismo. Perciò si passa dal dialogo-monologo di Pasquale Lojacono con il fantasma-uomo al linguaggio dello «sparavierze» Zi’ Nicola (alternativo rispetto alla prosa parlata dagli infidi mortali) per arrivare al silenzio drastico, ma ancora stru-

mentale, di Alberto Stigliano. Se il conformismo è un’arma del potere in grado di condizionare qualunque creati 157

vità e spontaneità del singolo, l'espediente tecnico della sfasatura dei linguaggi sconfina necessariamente nella soluzione del silenzio. Il «silenzio» eduardiano, però, non è crepuscolare o intimista, neppure cechoviano, ma appare concretamente prodotto dalla rinuncia ai compromessi ipocriti della ‘parola parlata’. Il passo dal monologo al mutismo è breve, ma rende più evidente il rifiuto di quei rapporti interumani che (nel dialogo convenzionale) sono divenuti ‘finzione’. Nel rilievo di questa situazione esistenziale, il teatro di Eduardo sembra procedere all’unisono con il teatro colto europeo: da Pirandello a Ionesco a Beckett. Gli manca la portata metafisica del problema, per rappresentare conflitti drammatici irreparabili 0, peggio, l'impossibilità del conflitto drammatico. Eppure tale mancanza si traduce in fattore di grande originalità: le ‘tragedie’ che si consumano nell’esistenza anonima di uomini normali, provocate dall’incomprensione, dalle frustrazioni, dalla volontà di illudersi, non giungono che raramente a uccidere lo spirito della ‘commedia’, perché tendono a risolversi nella consapevolezza. Alla ricerca di tale consapevolezza concorrono insieme ricognizione sociale e invenzione linguistica: in quel ritmo alternato di aggiustamenti e di contraccolpi (tanto più efficace quando divertente), che rappresenta l’apporto dell'Autore alla conoscenza della realtà, si manifesta anche la ricerca contestataria e progressiva del Protagonista. Una ricerca che, se conosce battute d’arresto, non finisce mai...

Nella Mia famiglia anni Cinquanta l’afasia di Alberto Stigliano simula un incidente che costringerà gli altri (e

lui stesso) a riparare e a rimettere in moto la macchina della comunicazione; e in Sabato, domenica e lunedì sa-

ranno i figli a insegnare ai padri un nuovo vocabolario che vada al cuore dei problemi. Anche nel più difficile dei drammi civili degli anni Sessanta, I/ sindaco del Rione Sanità, l'inutile sacrificio di un padre-padrino, convinto che l’omertà conservi una funzione riparatrice in una società dissestata dall’ingiustizia, sarà compensato dalla decisione di un medico «Della Ragione» a parlare «in fede». L’e158

roe eduardiano è un eroe del nostro tempo: «non tragico», «bastonato», ma che raramente si arrende e «impara» (Benjamin), o se non impara lui imparano gli altri! In questo percorso, la banalità diventa casualità e universalità al tempo stesso; e diventa fecondo quel particolare tipo di «ambiguità» per cui possiamo trovare sempre una chiave diversa (o più penetrante) rispetto a quella a portata di mano, a quella fornita dall’ Autore stesso, per interpretare il senso delle sue tragi-commedie.

Il racconto è dolore ma anche il silenzio

è dolore. [Eschilo, Promzeteo]

Eppure, in Gli esami non finiscono mai (1973), la di-

namica «ambiguità» eduardiana sembra irrigidirsi nella «tesi» senile del protagonista. Non a caso l’ultima commedia è preceduta dal melanconico Monumento (1970), che rappresenta un’altra «vita mancata». L’ex maresciallo ausiliario Ascanio Penna è vissuto per più di vent'anni dentro un monumento, immobilizzato dal terrore di so-

pravvivere a se stesso. Si realizza così l’anti-Storia di un Uomo che diventa nella sua simbiosi con l’Oggetto (il monumento) introversione visionaria: Ascanio Io da questo buco non esco. SABINA Ma di notte, chi ti vede? Ascano [...] Io, mi vedo [CGp, vol. III, I, p. 372].

Questo ‘morto vivente’ rappresenta l’estremo paradosso, l’ossimoro più depresso del teatro fantastico eduardiano: all’izizio vediamo nell’alba di un giorno indeterminato «un uomo in carne e ossa» seduto sulla savonarola del monumento, alla fire ritroviamo nell’alba di tre giorni dopo lo stesso uomo nello stesso posto, ma ricoperto da un lenzuolo bianco. Dopo che la violenza del mondo ha interrotto la sua ‘fuga immobile’ nel passato, smantellan159

do il suo tumulo-tana, egli si trasforma in un ‘vivo morto’, che esisterà sempre ma soltanto nel ricordo di chi l’ha amato (SABINA: «Soltanto con me parlava [...]: ‘Per quello che ho dato alla patria [...] un monumento lo dovrebbero

fare a me!”. E te l’hanno fatto. Si toglie il lenzuolo, proprio come lo tolgono quando c’è lo scoprimento di un monumento vero» [III, p. 418]). Le ultime Cantate eduardiane sembrano consuonare con quel «coro di vecchi» che è «la metafora allibita, in chiave drammatica ma prevalentemente grottesca, del teatro di questi nostri anni» (De Monticelli). Nel silenzio

finale e fine a se stesso di Guglielmo Speranza — altro ossimoro vivente, almeno nel cognome — potremmo riconoscere quella riduzione dell’anti-linguaggio al grado

zero che denota l’irrigidimento mentale dei «grandi vecchi» di Beckett. Se l’unico interlocutore di certe coppie senili di Ionesco è un «coro di sedie», l’interlocutore di Guglielmo morente è il «nastro» del registratore, che soverchia il bla-bla del presente con la ripetizione del blabla del passato. Eppure confluiscono negli Esazzi, come in un riepilogo estremo, temi e costanti di fondo del romanzo teatrale dell'Autore; anche se l’«autore» (quello inter-

rogato dal Prologo) sembra riproporre il contrasto fra il protagonista e gli altri nella prospettiva di un’allegoria della condizione umana: Pubblico rispettabile, signore e signori [...]. Non vi stupirete, spero, se questo personaggio, che io stesso farò vivere [...] e che accompagnerò dalla giovinezza fino alla vecchiaia non cambierà mai di abito [...]. L’ho chiesto all’autore e lui mi ha risposto: «L'eroe di questa commedia non è un ‘tipo’, bensì un prototipo di noi tutti, [...] e perciò sarebbe impossibile trovare un vestito che rispecchiasse la sua complessa personalità». [Pro> logo, CGD, vol. III, p. 426]

Per comunicarci l’immagine definitoria della solitudine dell'Uomo, Eduardo assume un personaggio «borghe-

se» e ricorre a una forma mista tra «narrativa» e «visionica». Le scenette interrotte, ma cucite insieme, dal dialogo diretto del protagonista col pubblico, rappresentano le sta-

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zioni della laica via crucis di Guglielmo Speranza, perseguitato dai «falsi esami» della famiglia e della società. I passaggi temporali scanditi dagli «intermezzi musicali» delle diverse epoche, i /lashes-back, i mutamenti ambientali a vista e la ricorrenza scenografica della strada dove ci si incontra per caso manifestano l’esigenza novecentesca di «epicizzare» il dramma. Anche se le tre barbe di colore simbolico sono «di quelle che i comici guitti di un tempo» usavano «per rendere velocissime le loro trasformazioni», lo spettacolo si ricollega ai modi della più avanzata drammaturgia occidentale, da Strindberg a Brecht a Wilder, al teatro dell’ Assurdo. «Non sono Brecht, io, e non vorrei neppure esserlo. Non ammetto comizi a teatro», aveva affermato Eduardo in un’intervista del’72 [187]. Tuttavia il

mutismo in cui si rifugia Guglielmo, prima ancora di approdare alla morte fisica, è un’altra specie di «comizio a teatro»: gestito da quell’attore-drammaturgo-regista che

proprio nell’espressionismo del «silenzio» aveva raggiunto

la più eloquente capacità comunicativa. Il silenzio di questo Protagonista sembra definitivo; perciò acquista la portata di un messaggio che, indipendentemente dalle intenzioni dell’ Autore, potrebbe assumere un significato ‘politicoa Comunque Eduardo non rinuncia neppure qui, tanto meno qui, al suo gioco delle parti. Con quella ‘trovata’ iniziale che ha ricordato il Prologo dei Pagliacci, l’epicità

brechtiana, l’avvio della Piccola città di Wilder, pur riconfermando la sua fedeltà ai generi e sottogeneri del teatro comico (per la chiamata di correo del pubblico come personaggio «comodino»), l’Autore finge di affidare all’attore che recita la parte del protagonista il compito di offrire agli spettatori la chiave interpretativa dell’opera. Con gesto rapido e padronanza del mestiere, Guglielmo Speranza si presenta al pubblico, [...] dopo l’inchino d'obbligo, l’attore si toglie rispettosamente il berretto goliardico ricava-

to da un foglio di giornale e inizia il suo discorsetto introduttivo (Prologo, p. 425): dopo quel gesto che spoglia l’interprete del primo attributo di scena, resta «al centro della ribalta» il tessitore di una storia, i cui meccanismi sente

161

il bisogno di spiegare al pubblico. È anche questo il paradosso dell’opera: una tesi solipsistica è introdotta e commentata in maniera quasi didascalica. Passato però il gioco del Prologo, il «narratore epico» si identifica nel protagonista dei quadri successivi. E un «dramma soggettivo» quello di Guglielmo Speranza, anche se proposto al pubblico come emblematico. Perciò le parti più avvincenti sono quelle in cui l’«attore», nei panni ormai del «personaggio» che si «confessa», interrompe un recitativo drammatico-visionico talvolta un po’ scontato (nei con-

tenuti) per rivolgersi ai ‘suoi’ spettatori «con parole, domande e ammiccamenti dietro ai quali si potrebbe vedere una ricerca di complicità se Eduardo stesso non pronunciasse una parola diversa e più alta: pietà» [116]. E proprio il «monologo silenzioso» di Guglielmo morente raggiunge l’effetto più intenso di comunicazione: quel suo misurato ma amarissimo dosaggio di lazzi e di gags è tragico-farsesco al punto da focalizzare, sul coro in animazione scomposta, il ‘primo piano’ del malato-moribondo immaginario; tutto teso a difendersi, con una immobilità

pantomimica che è anche divertita ironia, dallo spietato e meschino assalto di una «famiglia sbagliata» e di una «società corrosiva». L’Epilogo, con la sua topica crisi di cordoglio, riconduce a quello di Natale în casa Cupiello: nella ‘fine’ il ‘principio’ del teatro di Eduardo? Qui però all’ansia sincera e naturalmente istrionica dei famigliari e dei vicini si sostituisce l'enfasi evidentemente falsa di marionette borghesi, irrigidite in una distratta ripetizione di gesti e di parole; e al coro d’insieme non si contrappone più il balbettio delirante ma ostinatamente utopico di un LucarielloDon Chisciotte, bensì il silenzio dispettosamente scettico di un Guglielmo che non ha più Speranza. Perché al mzilieu popolaresco è subentrato il più ‘criticato’ milieu borghese? O perché l’Autore stesso ha toccato, per una volta, il fondo della «parabola naturale dell’uomo», d’una «vecchiaia» che è «delusione e amarezza»? [195, p. 172]. D'altra parte, anche in quest'opera, Eduardo riesce a comunicare al pubblico quel motivo dell’indignatio che ha 162

salvato altri suoi testi da ipotesi di disperazione o, peggio, di rassegnazione. Quei lampi di ‘nera’ comicità che segnalano le reazioni incongrue del ‘contesto’ fanno scattare sì la risata, ma continuano a provocare nello spettatore un effetto di complice senso di colpa; e neppure stavolta il ‘silenzio’ dell’attore-personaggio rinuncia ad essere tecnica e viatico di spettacolo. L’autore-attore-regi‘sta (sempre presente nel testo con le sue perentorie didascalie gestuali e mimiche) continua a tendere attraverso la ribalta «una mano» al pubblico (nascondendo l’«altra» dietro la schiena). Ce lo conferma l’azione conclusiva del protagonista, il quale ricomincia a muoversi proprio durante il suo funerale. Abbigliato come una «macchietta» da varietà, esce alla fine dai panni di uno sdegnoso Lear, o meglio di un disilluso borghese, per reinterpretare giocosamente davanti al ‘suo’ pubblico vero la parte del ‘finto morto’. Può allora smascherare con lo sguardo quel capolavoro di ipocrisia e di malignità che è l'elogio funebre del suo Sosia persecutorio, Furio La Spina: perché zor avverte il senso di ridicolo che, da vivo, egli temeva gli sarebbe caduto addosso da morto, anzi si diverte, si sente al centro di un gioco talmente infantile da farglielo ritenere uno dei doni più assurdi e affascinanti che la fantasia beffarda dell'umanità abbia concesso all'uomo (did., III, p. 499).

La fantasia magica e bizzarra della creazione scenica consente all’artista di prefigurarsi un aldilà da cui continuare a prendersi gioco della vita e persino della morte. E ancora una volta la prospettiva teatrale risulta profetica; così Dario Fo rievoca, da par suo, i funerali di Eduardo, con l'improvvisa interruzione della diretta Tv al momento del commiato: «un ragazzo del carcere di Napoli avrebbe salutato l’unico senatore della repubblica che si fosse occupato di loro. Ferruccio Marotti dell'Ateneo di Roma [...] avrebbe parlato ancora e, poi, sarebbe toccato a me in rappresentanza dei teatranti». Invece no: «la vendetta dei politici che si erano visti esclusi dal rito. [Allora] io ho visto per aria Eduardo che si faceva matte risate. Era proprio il finale che lui voleva. Non c’era dubbio, se l'era inventato personalmente, se l’era sceneggiato e allestito 163

col permesso del Padreterno, ‘il padreterno dei teatran-

ti» [178, p. 189].

DI Li incanteseme mieje songhe fernute, chellu ppoco de forza ca me rummane è propeta la mia [...]. Cumme a vuje piace d’essere cundunate da li peccate, accusìne ve piacesse con indulgenza liberare mene. [La tempesta, tradotta da Eduardo, Torino 1984, Epilogo]

Con Gli esami non finiscono mai, Eduardo ha voluto scrivere la sua «tragedia moderna»: quella che «fa ridere» ma affondando il dito nella piaga della «tragedia comune», perché «noi ridiamo di tutto in questo momento, perfino della morte!» [10, p. 92]. Così aveva riepilogato «il ciclo della storia vista attraverso la vita di un artista»: «il mio sogno di un mondo migliore è come un pallone in cui, anno per anno, si sono andati a infilare spilli in quantità, sgonfiandolo sempre di più»; ma per ribattere subito dopo, come a se stesso, «rimangono i giovani, la vostra generazione, in cui sperare... Speriamo bene!» [195, pp. 172 e 174].

Anche alla fine del ‘suo’ ciclo, egli è capace di contraddirsi fecondamente. Aveva pur detto: stampa e i tuoi colleghi decidono monia in tuo onore, alla fine della gerai d’esserti prestato a rendere

«Quando le autorità, la d’organizzare una cerimanifestazione t’accorspassosa la prova gene-

rale del tuo funerale» [195, p. 167]; eppure avrebbe accolto il riconoscimento di «una vita per il teatro» con quell’emozione sempre giovane che lo contraddistingue-

va: «Anche stasera mi batte il cuore, e continuerà a battere perfino quando si sarà fermato» [Taormmina-arte 1984, in 163].

La «tesi» solipsistica dell’ultima commedia non può contenere dunque il suo testamento di uomo e uomo di

teatro: Eduardo ha continuato ad affrontare «gli esami»

che «non finiscono mai» per oltre un decennio, assumen164

dosi responsabilità politiche e civili, e potenziando la sua attività di attore e di regista con quella di maestro di drammaturgia. Il suo testamento si riassume in quella pratica del teatro e della vita che il grande vecchio ansioso di ringiovanire considerava fondamentale per non morire mai: «l’uomo nasce vecchio, poi pian piano diventa giovane», eliminando, eliminando sempre più «certe cose

inutili che ci danno l’impossibilità di essere liberi» (RAI Tv, 19 ottobre 1984 [193]). C’è una suprema coerenza

nel suo perdurante gusto del paradosso, se anche l’«arte di [non] invecchiare» è nel superamento dell’egoismo. Il suo spirito di contraddizione e di auto-contraddizione riconduce al mito della «comunicazione»: quella che si raggiunge con lo «spirito di collaborazione», ma anche con la «discussione» [10, p. 31]. In un mondo sempre più frantumato dalle specializzazioni dei linguaggi scientifici, egli continua a porsi l’obiettivo di cercare una «tradizione» e valori comuni di «civiltà». «Qui c’è dentro il gergo teatrale — ripete a una studentessa in crisi — non hai a che fare con un accademico, hai a che fare con una ‘bestia di teatro”. Questo è il punto» [10, pp. 152-56]. Il punto è in quel teatro che è parola di vita proprio perché eccedente

rispetto al reale, capace se non di dominare almeno di riscattare la storia. Ma è utile anche il «lavoro» che il ‘vecchio’ maestro compie con i suoi ‘giovani’ allievi: perché

«pur sapendo che le cose torneranno ad essere quelle che sono, noi abbiamo il dovere di salvare l’avvenire, il futuro», con un teatro «che è fantasia, libertà». Perciò all’intellettualismo un po’ esibizionistico degli studenti contrappone il suo senso creativo, familiare, della letteratura e della storia: e Shakespeare diventa «Guglielmo», quel Guglielmo «Shakespeare» (non Speranza) che egli «se ne andò salutando» [173]. Assume infatti un significato importante la sua traduzione della Tempesta in napoletano, pubblicata pochi mesi prima della sua scomparsa. Attraverso Shakespeare,

Eduardo si ricollega alle sue origini, al solito reinventandole: il «demone» della sua opera non è soltanto l’inafferrabile scugnizzo Ariel, ma la «lingua napoletana. E es165

sa stessa un personaggio misterioso che svolazza fra le immagini e le metafore, nell’universo sconfinato della poesia e nel caos della storia» (ibid.). Partito dalla traduzione

«letterale» di sua moglie Isabella, l'Autore spiega con la consueta semplicità: «ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi»; però, ag-

giunge, «quanto è bello questo napoletano antico, così latino, con le sue parole piane, non tronche, con la sua musicalità, la sua dolcezza, l'eccezionale duttilità e con una possibilità di far vivere fatti e creature magici, misteriosi, che nessuna lingua possiede più!» (Nota del traduttore, in La tempesta, trad. di Eduardo, cit., p. 187). Ricorrono infatti nel lessico della sua Tempesta voca-

boli fiabeschi di sapore basiliano, insieme ad altri di diversa ma spiegabile provenienza. Lo stesso «traduttore»

ci offre un’informazione interessante nell’ambito dell’«esperienza teatrale»: «a diciannove, vent'anni» aveva partecipato alla ripresa di «un genere antichissimo, la Féerie seicentesca che fino a circa metà dell'Ottocento fece parte del repertorio di molte Compagnie». «Vincenzino» Scarpetta aveva adattato la vecchia e celebre I cinque talismani, intitolandola La collana d’oro e aggiungendovi «Felice Sciosciammocca» (ivi, p. 185). Quello stesso Scio-

sciammocca che Vincenzo aveva ereditato dal padre, il quale l'aveva ereditato dal suo maestro d’arte e di bottega Petito. Non a caso fra le opere del primo Scarpetta troviamo Gti spiriti dell’aria, «operetta fantastica» con Prologo e duetti cantabili fra Pulcinella e Don Felice, e 'Nu bastone ’e fuoco, «commedia comico-fantastica» nel cui clima onirico-settecentesco la statua dello «Zi’ Giacomo» rinvia in modo parodico al «Commendatore» mozartiano. Nella sua emancipazione post-petitiana, Eduardo ‘padre’ avrebbe poi teso a ridurre in prosa «senza musica» anche i modelli francesi; invece Eduardo ‘figlio’ è come se risentisse, alla fine, il richiamo di quella tradizione partenopea in cui le distinzioni fra «teatro di prosa» e «teatro per musica» non appaiono sempre giustificate. Nella Temzpesta shakespeariana ritrova la magia, i trucchi di scena, la

musica e il verso, tutti gli ingredienti d’un fiabesco spet166

tacolare che gli erano «rimasti dentro per oltre mezzo se-

colo», influenzando anche la sua «traduzione». Si concludono quindi, con quest’opera, anche gli iti-

nerari propriamente linguistici di Eduardo. Dal «dialetto regolamentato» del padre aveva ritagliato i pezzi comici di una «lingua» sforzata e velleitaria, «quello strano miscuglio di dialetto e di italiano» che rifletteva la cultura deformata dei ceti medi napoletani, assumendolo però nella prospettiva espressionistica del suo Sìk-Sk. Dopo la traduzione partenopea di testi dell’altro suo ‘padre’, Pirandello, affronta l’«italiano» parlato dai ceti più alti della sua città, nei ‘drammi borghesi’ degli anni Trenta-Quaranta; sperimentando anche soluzioni di contaminazione o di contrasto con intenti di parodia sociale. Ma raggiun-

ge i risultati più originali dal dopoguerra in avanti: in commedie dove il linguaggio di volta in volta adottato dipende dalla caratterizzazione dei personaggi e dei loro reciproci rapporti nelle interazioni dell’opera. Una corrente alternata lingua-dialetto contraddistingue le «Cantate» dal ’45 al ’73, con ogni possibile interferenza fra i due registri, impiegati sempre con una flessibilità che risponde a particolari esigenze espressive. Il ritorno iniziale al dialetto è tale da coinvolgere ogni genere di pubblico, mentre l’impiego dell’italiano negli stessi testi focalizza i casi in cui il discorso del protagonista diventa «mitologizzante» (come in Napoli milionaria!). Laddove prevale in seguito un italiano sempre informato di dialettalità (nella sintassi, nelle abbreviazioni tipiche dei nomi e dei vocativi), è il vernacolo a rappresentare la macchia emotiva (come in Le voci di dentro). Insomma la sua «lengua»

scenica diventa via via sempre meno mimetica e più siva: l’eresia dialettale, che fa del teatro di Eduardo detta di Garboli e Pasolini — l’opposto del «teatro liano», consiste proprio nell’aver attivato «la vitalità

allu— a itadia-

lettale in promiscuità con il teatro in lingua, sovvertendo le distinzioni regolamentari» [106, pp. 70-73]. E se Gianfranco Contini ha posto fra i protagonisti del «canone espressivistico» della nostra lingua recente i «mimi più valorosi, da Eduardo al Totò meno compunto», De Monti167

celli ribadisce che «i testi di Eduardo, essendo opera di scrittore, sono anche commedie di lingua e come tali vanno garantite» [135].

D'altra parte, neanche il napoletano antico, che 1’Autore ha voluto recuperare (o reinventare) nella sua ultima fatica, è frutto soltanto della sua vena di raffinato collezionista delle cose belle dell’arte e dell’artigianato partenopeo. Nella sua traduzione shakespeariana egli recupera anche quella tensione a risolvere o a rilevare con la «ma-

gia» le «disparità» della Storia: dopo Gli esami... La tempesta, dopo il disilluso borghese Guglielmo Speranza, il regista dell’illusione scenica Prospero, il quale abbandona però i suoi giochi magici per poter credere, alla fine, in

una rinnovata cultura dell’umano. Eduardo conclude il suo romanzo teatrale con un’opera in versi, tradotta nella sua lingua scenica da quella di un altro poliedrico artefice del passato, ma con il «terzo occhio» rivolto (come sempre) al presente e al futuro. Fra le «ragioni» che gli hanno fatto scegliere La tempesta, «una delle più importanti è la tolleranza, la benevolenza che pervade tutta la storia». Prospero non cerca la «vendetta», bensì il «pentimento» dei suoi nemici: Quale insegnamento più attuale avrebbe potuto dare un artista all’uomo d oggi, che in nome di una religione o di un «ideale» ammazza e commette crudeltà inaudite, in una escalation che chissà dove lo porterà? E [...] tra gli «ideali» ci metto anche il denaro, la ricchezza, che appunto come ideali vengono considerati in questa nostra squallida società dei consumi. [Nota del traduttore, in La tempesta, trad. di Eduardo, cit., p. 186]

CRONOLOGIA

1900 1904 1911-12

DELLA VITA E DELLE OPERE

Il 24 maggio Eduardo nasce a Napoli dalla libera unione fra Eduardo Scarpetta e Luisa De Filippo, da cui era nata Titina (1898) e nascerà Peppino (1903). Debutta nella parodia scarpettiana dell’operetta La Gheisha. Frequenta l’Istituto Chiechia di Napoli, pur continuando a recitare nel periodo estivo. Nella rivista Babilonia (1912) di

Rambaldo (Rocco Galdieri), Eduardo fa il guardia e Titina la figurazione della roulette. 1913-16 Scritturato da Enrico Altieri nelle estati del ’13 e del ’16; entra come «secondo brillante» nella Compagnia di Vincenzo, figlio legittimo di Scarpetta. 1920-21 Presta servizio nella caserma del II Bersaglieri a Roma; nel ’20 scrive l’atto unico Farmacia di turno per la Compagnia di Vincenzo. 1922-27 Ancora per Vincenzo, nel ’22 scrive in tre atti Uomo e galantuomo (poi rappresentato dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» il 23 febbraio 1933 al Sannazzaro di Napoli); compie la sua prima esperienza di regista con Surriento gentile di Ezio Lucio Murolo. Accetta una scrittura nella Compagnia di Luigi Carini; la sua amicizia con Michele Galdieri (figlio di Rocco) si concretizza nell’estate del ’27 in La rivista che non piacerà! (cui partecipano anche Titina e Peppino). Nello stesso anno scrive, per la Compagnia di Vincenzo, Ditegli sempre di sì (due atti, dati poi dalla Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» il 10 novembre 1932 al Teatro Nuovo di Napoli). 1928 Scrive Filosoficamente (atto unico). 1929-30 I tre fratelli De Filippo si riuniscono nella Compagnia di Riviste Molinari del Teatro Nuovo, per debuttare nel giugno 1930 con Pulcinella, principe in sogno...; spettacolo che comprende l’atto unico di Eduardo S%k-Stk, l'artefice magico (scritto nel °29). Nel ’29 egli scrive anche Quei figuri di trent'anni fa (atto unico dato il 2 gennaio 1932 al Kursaal di Napoli) e Chi

è cchiù felice “e me! (due atti che la Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» presenterà il 9 ottobre 1932 al Teatro Sannazzaro di Napoli).

1931-32

Nel dicembre del ’31 i De Filippo sottoscrivono un contratto con il cinema-teatro Kursaal: vi debuttano con l’atto unico di

169

1932-37

Eduardo Natale in Casa Cupiello (il secondo attuale; nel ’32 o nel ’33, dopo aver lasciato l’avanspettacolo e debuttato al Sannazzaro, l’autore vi aggiungerà il primo atto, nel ’43 il terzo). [Per la cronologia dell’opera si veda la lettera di Eduardo del 2 febbraio ’83 pubblicata in appendice al nostro volume Eduardo drammaturgo, 23, p. 511.] Si forma la Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo»; nel ’32, Eduardo scrive altri due atti unici: Gernareniello (rappresentato 1° 11 marzo dello stesso anno) e I/ doro di Natale (andato in scena il 4 febbraio 1934 al Sannazzaro di Napoli). I De Filippo passano al Teatro Sannazzaro, come sede stabile (almeno fino al 1934). Dopo la stagione 1932-33 (a cui risale il primo incontro con Pirandello), ia Compagnia va in tournée in varie città italiane; nel 34, Eduardo scrive Quinto piano, ti saluto! (atto unico rappresentato il 25 giugno 1936 al Teatro Eliseo di Roma); nel ’35, Uro coi capelli bianchi (tre atti an-

dati in scena il 26 gennaio 1938 al Quirino di Roma). Nello stesso anno la Compagnia rappresenta in napoletano Liolè, e nel ’36 Il berretto a sonagli; Eduardo, con la collaborazione di Pirandello, trasforma in commedia L'abito nuovo: tre atti dati il 1° aprile 1937 al Manzoni di Milano. 1938-42 Scrive due atti unici, Pericolosamente (1938, rappresentato dal «Teatro di Eduardo con Titina De Filippo» il 12 marzo 1947 al Carignano di Torino) e La parte d’Arzleto (che la Compagnia «Teatro Umoristico I De Filippo» mette in scena il 19 gennaio 1940 al Teatro Odeon di Milano), e la commedia in tre atti Non ti pago, data l’8 dicembre 1940 dalla stessa Compagnia al Quirino di Roma. Con Io, l’erede (tre atti) debutta il 5 marzo 1942 al Teatro La Pergola di Firenze. 1943-44 Si deteriorano i rapporti fra Eduardo e Peppino: il fratello più giovane abbandona la Compagnia. 1945 La Compagnia «Il Teatro di Eduardo con Titina De Filippo» presenta il 25 marzo al San Carlo di Napoli Napoli milionaria!. 1946 Eduardo scrive, e mette in scena il 7 gennaio all’Eliseo, Questi fantasmi! (tre atti). Scrive anche e rappresenta Filumzena Marturano (tre atti), il 7 novembre, al Politeama di Napoli. 1947 Compone Le bugie con le gambe lunghe (tre atti, che debuttano il 14 gennaio 1948 al Teatro Eliseo di Roma). 1948 La grande magia (tre atti) va in scena al Verdi di Trieste a partire dal 30 ottobre, ma solo per quattro giorni perché prima del debutto Titina si sente male (la stessa commedia si rappresenta con Titina il 28 novembre del ’49 al Teatro Mercadante di Napoli); nel frattempo Eduardo scrive Le voci di dentro (tre atti), rappresentandola l’11 dicembre 1948 al Nuovo di Milano. 1950-52 La paura numero uno (tre atti) debutta il 29 luglio 1950 nel Teatro La Fenice al Festival di Venezia. Eduardo ha comprato il suolo dove sorgeva il Teatro San Ferdinando (distrutto dai bombardamenti) e ha incominciato i lavori di ricostruzione.

170

Per finanziarli, nel 1951-52 non forma Compagnia e fa del cinema. Nel ’51 pubblica la prima raccolta di poesie, I/ paese di Pulcinella. Il 9 maggio 1952, va in scena al Piccolo Eliseo di Roma, per la regia dell’autore, il trittico Arzicizia, La voce del padrone (ribattezzata I/ successo del giorno), I morti non fanno paura (nuovo titolo di Requie all’anema soja del 1926, già rappresentato al Kursaal di Napoli il 12 gennaio 1932). 1953-56 Nel ’53 Eduardo rappresenta al Teatro Mediterraneo di Napoli Miseria e nobiltà del padre; inaugura nel gennaio ’54 il San Ferdinando con Palumbella zompa e vola di Antonio Petito (interpretando la parte di Pulcinella). Compone Mia famiglia (tre atti, 1954), che la Compagnia «Il Teatro di Eduardo» (Titina ha ormai rinunciato alla recitazione) rappresenta il 16 gennaio del 1955 al Morlacchi di Perugia; 111 novembre debutta al Teatro Eliseo Bere rzi0 e core mio (tre atti). Eduardo forma nel ’56 la «Scarpettiana». LODI Nell’aprile va in scena per la prima volta, al Teatro de’ Servi di Roma, De Pretore Vincenzo, con Valeria Moriconi e Achille Millo, scene e costumi di Titina De Filippo. Lo spettacolo viene interrotto dopo tre giorni di repliche in quanto giudicato contrario alla morale cattolica. (Nell'edizione Tv del 2 gen-

naio 1976 l’opera è riproposta con notevoli varianti.) Il 6 novembre Eduardo presenta al Quirino di Roma Sabato, domenica e lunedì, tre atti (poi in scena al Teatro Old Vic di Londra nell’ottobre del 1973, con la regia di Franco Zeffirelli, interpreti Joan Plowright e Laurence Olivier). Con La pietra di paragone di Gioacchino Rossini alla Piccola Scala, inizia la serie delle sue regie liriche. 1960 Scrive I/ sindaco del Rione Sanità (tre atti) e lo rappresenta il 18 novembre [178] e il 9 dicembre (cfr. Di Franco [18]) al Quirino di Roma. 1961-62 La Compagnia incomincia a dedicarsi alla televisione. Nel ’62 Eduardo scrive, con Isabella Quarantotti, lo sceneggiato Peppino Girella (che andrà in onda nel 1963); ma rappresenta anche (in due tempi e diciotto quadri) il 20 ottobre al Quirino di Roma I/ figlio di Pulcinella (datato 1958). Tommaso d’Amalfi di e con la regia di Eduardo debutta al 1963 Sistina di Roma, l’8 ottobre, per la Compagnia di Domenico Modugno (interprete del protagonista e autore delle musiche). Dolore sotto chiave, nato come originale radiofonico nel ’58, 1964 va in scena come atto unico il 3 novembre al Teatro San Fer1959

1966

dinando di Napoli. L’8 gennaio la Compagnia di Eduardo rappresenta (per la prima volta) al San Ferdinando L'arte della commedia (tre atti). Il cilindro (atto unico datato 1965) va in scena il 14 gennaio,

1967

Il contratto (tre atti) debutta il 12 ottobre a La Fenice di

1965

al Quirino, assieme a Dolore sotto chiave. Venezia, in occasione del XXVI Festival internazionale del

171

Teatro di prosa (scene e costumi di Guttuso, musica di Nino Rota). 1970

Il monumento (tre atti) va in scena al Teatro La Pergola di Firenze, il 24 (anteprima) e il 26 novembre (prima).

19ga

Si rappresenta Ogni anno punto e da capo il 5 ottobre al Piccolo di Milano, regia dell’autore, musiche di Nino Rota. Eduardo rappresenta Gli esamzi non finiscono mai (un Prologo e tre atti, scene e costumi di Mino Maccari, musiche a cura di Roberto De Simone) in anteprima il 19 dicembre e in prima il 21 dicembre, al Teatro La Pergola di Firenze. L’opera Napoli milionaria! di Nino Rota (libretto e regia di Eduardo) va in scena il 21 giugno al XX Festival dei Due Mondi di Spoleto. Il 15 luglio Eduardo riceve la laurea honoris causa dall'Università di Birmingham. Apre la Scuola di Drammaturgia di Firenze, con sede in una sala del Teatro La Pergola: lavora con gli allievi fino al 26 giugno. Il 18 novembre riceve la laurea hororis causa dall’Università di Roma «La Sapienza». Incominciano le rappresentazioni della Compagnia Teatrale di Luca De Filippo, di cui il padre cura la regia. Il 4 aprile Eduardo annuncia al Teatro Ateneo dell’Università di Roma «La Sapienza» l’inizio di un suo corso di Drammaturgia. Il 26 settembre è eletto senatore a vita. Compie, insieme a Carmelo Bene, una serie di recital in Italia e all’estero (il ricavato del primo spettacolo va ai ragazzi del Filangieri di Napoli e del Fornelli di Bari). Con una conferenza-spettacolo, L'attore e la tradizione, partecipa il 9 luglio a Montalcino al Seminario dell’Università di Roma (diretto da Ferruccio Marotti). Durante l’estate traduce in napoletano La tempesta di W. Shakespeare. Trascorre luglio e agosto a registrare quasi tutta La tempesta, e progetta di presentare il suo lavoro per mezzo di marionette che avranno tutte la sua voce, tranne Miranda. Il 15 settembre partecipa alla Festa del Teatro di Taormina. Il 31 ottobre muore a Roma.

1973

DO ZH

1980

1981

1982 1983

1984

IL DIBATTITO CRITICO

«Abbiamo appena fatto i primi passi, i primi conti con

Eduardo», scriveva Chiaretti [160] per il Convegno mi-

lanese «I tanti volti di Eduardo». Può meravigliare, se consideriamo il successo di pubblico che ha ripagato sempre, in Italia e all’estero, le proposte sceniche delle «Cantate». Ma il bilancio critico ancora in sospeso dipende proprio dalla «straordinaria cultura» di Eduardo: attore, au-

tore creatore, letterato, regista, traduttore. Se l’Italia è un paese «di lettere e di teatro» [Strehler, 154], i due

aspetti appaiono talora così divaricati, nella nostra cultura, da impedire la comprensione tempestiva dei «fenomeni» che ne manifestano la reciproca integrazione. Ecco perché i volti di Eduardo — che non sono mille, ma tre interagenti nelle sue opere — hanno rappresentato un problema difficile più per lo ‘spettatore critico’ che per lo un spettatore comune. Ogni vero artista istituisce sempre

rapporto col pubblico del suo tempo, anche se si pone in anticipo e crea «forme nuove»; l'impatto fisico dello spettatore col teatro rende più vivo tale rapporto, trasforman-il che dolo talvolta in rissa oppure in idillio. Sappiamo esercitare per magici poteri suoi i usato ha Artefice nostro ma anche un’ influenza che facesse «crescere il pubblico»; critico’? ‘spettatore lo anche ha fatto crescere Se ripercorriamo le tappe della sua ‘fortuna’, ci accordo giamo come il discorso sulla drammaturgia di Eduar Settanta) abbia stentato a decollare (almeno fino agli anni e

fra testo proprio a causa della ricorrente dissociazione letterati dei zio» «silen nel a spettacolo che si è manifestat la» «paro sulla anche re influi di to manca puri ma non ha 173

dei critici teatrali di professione. Dagli anni Trenta fino alla prima metà dei Quaranta, i cronisti qualificati hanno salutato con entusiasmo l’«arte fresca, viva e soprattutto divertentissima» dei De Filippo. E se Eduardo «attore» risulta già «fra i tre il dominatore» (D'Amico), l’«autore» rimane in controluce; solo qualcuno ne intuisce il valore autonomo (Simoni) o indovina l'amarezza provocatoria che cova sotto il «teatro da ridere» del trio (Savinio). Anche quando Flaiano avanza «l’ipotesi che la commedia italiana possa resuscitare passando per Napoli», per il «ponte sospeso [dai De Filippo] tra teatro e letteratura» (1940),

e Palmieri [43] afferma che il loro «non è ‘un teatro da

fare’: ma, paci, pur naggio di spica che

come il repertorio di Viviani, letteratura», Reindividuando l’«umorismo tragico» nel «persose medesimo» realizzato da Eduardo (1940), auegli affronti «il grande carattere al di fuori del

teatro dialettale» (1941).

Solo con la seconda metà degli anni Quaranta, in Na-

poli milionaria! (Vesce e Pandolfi) o in Questi fantasmi! (D’Amico, Simoni, Quasimodo) si rivela il volto di Eduar-

do «autore», almeno agli occhi dei critici militanti. Tuttavia il «Teatro di Eduardo», appena nato, incomincia già a sollevare problemi: alcuni legati al ‘peccato originale’ del «regionalismo-dialettismo», altri invece di nuovo conio. Lo stesso Simoni giudica «inverosimile» il personaggio di Alberto Saporito nelle Voci di dentro (12 dicembre 1948), nonostante D’Amico avverta che «bisogna accettare in blocco la stramba avventura com'è, mista di reale

e di surreale; trasportarsi dalla solita, dialettale stanzetta di soggiorno piccoloborghese [...] alla fantastica scena di

quell’assurda stamberga dove i protagonisti esercitano il loro assurdo mestiere, e dove il dialetto si mescola al lin guaggio degli spari» (5 marzo 1948).

Perciò il decennio successivo sarà attraversato da discussioni anche accese sulle questioni che le perduranti ‘prime’ eduardiane continuano a sollevare: il «pirandellismo» o il «napoletanismo», il «moralismo» o l’«invadenza del protagonista». Su un fronte stanno coloro che criti-

cano il «nuovo» Eduardo, entrato in una fase «intellet-

174

tualistica» o di «polemico moralismo»; donde il recupero (solo strumentale da parte di alcuni) di quei primi lavori considerati, al loro apparire, come «canovacci». Sull’altro fronte stanno coloro che apprezzano la sua apertura verso orizzonti più ampi, ma continuando a vedere nel dialetto un «carcere» dal quale il drammaturgo deve evadere per potersi «superare». Insomma l’opera eduardiana è valutata nel solco della tradizione regionale più ‘realistica’: per un motivo o per l’altro, si giudicano cadute o errori le commedie che da essa si distaccano; anziché segnalare le svolte nel percorso dell’«autore e attore» che «in un teatro realistico ha portato da maestro l’irrazionale». Alvaro è tra i pochi a comprendere che nella Grande magia «Eduardo ci apre il suo dramma di artista che non si contenta dei risultati raggiunti», anche arrischiando di buttar via «la maestria, l’esperienza, la facilità acquisita» (4 febbraio 1950). Eppure, in questi anni Cinquanta, il discorso critico sull’ Autore sembra passare dall’estemporaneità della recensione alla forma riflessiva del saggio o della mo-

nografia: dagli articoli di Silori [44] e di Barbetti [46] ai volumetti di Frascani [11] e di Magliulo [13]. Ma si esa-

minano i testi per lo più dal punto di vista tematico, prescindendo (anche intenzionalmente) dalla loro dimensio-

ne di «teatro rappresentato». Si continua a marcare uno solo dei volti di Eduardo: stavolta quello dello scrittore. E nel decennio successivo gli studiosi appaiono riluttanti a incontri impegnativi con la sua opera (se si eccettuano

Codignola e Chiaromonte); mentre il dibattito che accompagna, su giornali o riviste specializzate, le sue nuove proi poste sceniche parte ora dall’impossibilità di distinguere tale due volti dell'artista (Prosperi, Tian, Stefanile). Ma

‘impossibilità’ serve ad alcuni per dare la preferenza aluno o all’altro o diventa espediente per dichiarare la dipendenza dell’autore dall’attore (Cologni, De Feo). Sebriveli bene nei giudizi sulle singole rappresentazioni si il ritesti, dei composizione alla maggiore un'attenzione Sarione del lievo di «dissonanze» strutturali (nel Sindaco il sennità e nel Contratto) porta raramente a riconoscervi AsRebora). (Schaecherl, sperimentali so di inquietudini 175

sumono comunque importanza, alla fine degli anni Sessanta, le prime sistemazioni dell’opera eduardiana nella storia del teatro napoletano [V. Viviani, 33] o della letteratura italiana del nostro secolo [Pandolfi, 29]. Con gli anni Settanta riappaiono i saggi e le monografie: Il mondo della famiglia ed il teatro degli affetti di Laura Coen Pizer [14]; l’Eduardo rivisto e ampliato di

Frascani [12] e il grosso volume di Mignone [15]; il libro di Fiorenza Di Franco [16]; Eduardo De Filippo poeta comico del tragico quotidiano di Filosa [19]. L'analisi dei testi ora comprende osservazioni sulla tecnica drammatur-

gica (Di Franco, Coen Pizer), ma la focalizzazione di temi

o motivi appare in alcuni studi orientata da pregiudiziali ideologiche, magari opposte fra loro. Intanto i recensori sono impegnati dai bilanci indotti dalle ultime rappresentazioni: Chiaromonte inaugura il filone della «misantropia» eduardiana (Il monumento); per Jacobbi e Ghirelli l’«ultimo Eduardo» coincide con l’«eroe della rassegnazione» Guglielmo Speranza, invece per Lajolo e Savioli la «speranza» dell’autore si distingue dalla «resa silenziosa» del protagonista in G% esazzi non finiscono mai. De Monticelli [130], riepilogando il cammino dell’autore-attoreregista e del suo personaggio verso il «silenzio», rileva come questa tendenza si sia calata progressivamente dalla recitazione nella drammaturgia e vi abbia assunto valori di senso sempre più complessi. Ma è negli anni Ottanta che assistiamo a una vera e propria esplosione di materiale critico. Escono il volume biografico [17] e il repertorio delle Comzzedie di Di Franco [18], la raccolta Polemiche, pensieri, pagine inedite di

Isabella Quarantotti [195], le Lezioni di teatro curate da

Paola Quarenghi, con prefazione di Ferruccio Marotti [10]; la monografia di Antonucci [20] e gli agili profili critici di Bisicchia [21] e di Emma Giammattei [22]. E del 1988 il nostro volume su Eduardo drammaturgo [23]. D’altra parte i pezzi cronachistici seguono passo passo gli eventi pubblici e privati del ‘personaggio’: «Mito» è la parola che pare più «adatta» a definire il «fenomeno

Eduardo». Eduardo è, per Tian [120], «un caso molto a

176

parte di quelle che un tempo si chiamavano personalità di ‘chiara fama’»; per Poesio, egli «da tempo era entrato nel mito» [E l'artefice magico diventò senatore, 137 bis]; Un

nome entrato da anni nella leggenda del teatro [149 bis] intitola De Chiara il suo articolo in morte. Di qui il proliferare di volumi pseudo-biografici, ricchi cioè di testimonianze e aneddoti, o soltanto apologetici: ma «molte delle centinaia di pagine scritte su Eduardo hanno bloccato, invece che incrementato, il discorso critico sull’ Autore.

Magari proprio il loro indiscriminato entusiasmo [...] nella nostra storiografia teatrale ha preso il posto, evidentemente, di qualcosa che non c’era» [22, p. 94]. Dal «silenzio aggressivo» sul drammaturgo «è potuta crescere una bibliografia sterminata ma inefficace, [...] poiché svilup-

patasi in modo difensivo intorno [...] ad una antinomia» (Giammattei). L’antinomia — sempre quella — fra lAt-

tore e l’Autore. D'altronde ci sono cronisti che si attengono alla occasionalità del mestiere, e cronisti che preparano con le loro note la redazione di un discorso più ampio, in prospettiva (così è stato per D'Amico e poi per Pandolfi). Talvolta nell’esercizio più o meno sistematico della cronaca dello spettacolo si versa una teorizzazione estetica che ingloba il teatro, e questa genesi rappresenta un potente fattore di apertura a problematiche sconosciute o misconosciute

dalla mediocultura

corrente

(Savinio,

Flaiano). Ecco perché soprattutto nel quadro della critica

militante si è potuta individuare una linea interpretativa formata da voci diverse eppure più o meno consapevol-

mente ispirate a una concezione non antinomica del rap-

porto testo-spettacolo. Simoni e Savinio negli anni Tren-

ta, Flaiano e Palmieri nella prima metà dei Quaranta,

D'Amico nell’immediato dopoguerra e Alvaro negli anni Cinquanta non hanno collaborato soltanto a individuare motivi fondamentali della drammaturgia eduardiana, ma ne hanno scoperto, ciascuno a suo modo, la forza e l’originalità nel mutuo scambio tra l'attore, erede di una nobile tradizione dialettale, e l’autore, attento osservatore di ciò che accade sulle scene nazionali ed europee. Dagli 177

anni Sessanta-Settanta fino ad oggi, sono stati ancora i cronisti dello spettacolo a offrire gli spunti più interessanti e le intuizioni più felici: da Possenti a Rebora, da Prosperi a Stefanile a Bertuetti, a Chiaromonte a Savioli a Tian, a De Monticelli a Quadri. Ma negli ultimi tempi anche i critici accademici hanno cessato di valutare il teatro eduardiano su un piano di astratta letterarietà. Meldolesi ha compiuto importanti rilievi sulla lingua-in-scena

dell'autore [73; 106]; Franca Angelini, chiarito il problema del «pirandellismo» nel ’76 [36], ha colto le linee del-

l’«innovazione» nella «tradizione» di attori-scrittori come Eduardo, Viviani e Petrolini [79].

Eppure su questo protagonista del teatro novecentesco, uno dei pochi che in epoca post-pirandelliana abbia portato nel mondo il nostro teatro d’autore, continuano a pesare pregiudizi: la napoletanità intesa come «napoletanismo» o la «dialettalità» di cui solo pochi rilevano il connubio polifonico con la lingua, la sua «cultura d’attore» di cui non si coglie l'aspetto innovativo nell’ambito di un teatro italiano talvolta troppo scritto per essere efficace sulla scena. Non a caso uno degli ultimi «esami» che l’«autore» ha dovuto affrontare è stato quello della validità del «teatro di Eduardo senza Eduardo». Sebbene alcune commedie fossero già state interpretate con successo non solo dal figlio Luca (Ditegli sempre di sì alla Biennale Teatro di

Venezia del 1982) ma anche da altri attori (Enrico Maria

Salerno, Io, l'erede; i Giuffrè, La fortuna con l’effe maiuscola), subito dopo la sua scomparsa si crea un’attesa febbrile per l'evento considerato il banco di prova per la teatrabilità futura dell’ Autore: La grande magia al Piccolo di Milano, per la regia di Strehler (6 maggio 1985). E in alcune recensioni del «giorno dopo» si insinua che ciò era apparso attuale sarebbe stato merito del regista, che pace di trasformare un testo debole o un canovacci cao in uno spettacolo di suggestione e di portata universali . Come se i pregiudizi che avevano provocato il parziale successo’ della commedia nel ’49 si fossero paradossa‘inlmente fusi in quelli che hanno marcato il ‘successo’ della riproposta strehleriana. Anche da parte di coloro che va-

178

lorizzano la grande «maschera» di Eduardo-attore, e magari le sue prime prove legate alla tradizione «orale», c'è in fondo un misconoscimento della sua evoluzione come drammaturgo e regista insieme, già sulla pagina, il quale ha via via assunto un respiro decisamente europeo. Perciò, dopo aver detto che il «fenomeno» non si sarebbe ripetuto più, mancando l’attore a incarnare i suoi perso-

naggi, di fronte al successo che si ripete mediante altri attori e altro regista, si doveva per forza dire che nello spettacolo «Eduardo non c’era»! Invece Eduardo continua ad esserci, nel suo teatro,

superando tutte le prove: le ricorrenti riprese del figlio, da Uomo e galantuomo dell’85 (Quadri riconosce «qui c’è

già tutto Eduardo» [56]) al Non # pago dell’89, fino a

Questi fantasmi! del 92; la Filumena Marturano della Moriconi per la regia di Egisto Marcucci (1986); il Sindaco sicilianizzato da Turi Ferro per la regia di Calenda (1987); Le bugie con le gambe lunghe di Tieri-Lojodice per la regia di Sepe (1990); La grande magia portata da Strehler fino in Russia, dove l'entusiasmo del pubblico ha confermato che la lingua è una barriera relativa quando si è in presenza di una grande opera e di una grande regia. Ma i maggiori riconoscimenti della sua perdurante attualità gli sono venuti forse da due ‘giovani’ attori-creatori: Leo De Berardinis, che con la sua fedele riscrittura scenica del

‘romanzo teatrale’ eduardiano (’A dda passà ’a nuttata, Spoleto 1989) ne ha intrecciato i vari fili in profondità, e Carlo Cecchi, che oggi afferma: «Sia i rapporti col Living che con Eduardo sono stati per me due grandi esperienze [anche se] l'accostamento Eduardo-Living può apparire curioso. Ma entrambe mi hanno determinato ad uscire dalla terribile difficoltà che avevo in quegli anni (196366) [...] all’interno del teatro italiano. [...] Per questo mi

sono riconosciuto solo in Eduardo e nel Living» («la Repubblica», 20 dicembre 1990).

BIBLIOGRAFIA

vi

I. BIBLIOGRAFIA

GENERALE

DI RIFERIMENTO

Elenchiamo qui i testi teorici e critici, letterari e teatrali, che

non riguardano Eduardo ma che abbiamo consultato nel corso della stesura del libro. Come per il resto della bibliografia, abbiamo ritenuto opportuno raggruppare, all’interno delle rassegne tematiche, i contributi di uno stesso critico, pur mantenendo il generale ordine cronologico. Ja. V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Einaudi, Torino 1949; Morfologia della fiaba, ivi 1966; Edipo alla luce del folclore, ivi 1978; Comicità e riso, ivi 1988. L. Pirandello, Novelle per un anno, vol. II, Mondadori, Milano 1957-58; L’Umorismo. Saggi, ivi 1960.

P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1963. W. Empson, Sette tipi di ambiguità, Einaudi, Torino 1965. M. Bachtin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 1968.

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II. EDIZIONI

DELLE OPERE

DI EDUARDO

Per un'informazione più completa rimandiamo al nostro volume Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), Bulzoni, Roma 1988, a cui facciamo riferi mento anche per le varianti (si vedano la Nota sulle «Cantate». Edizio ni e varianti in appendice e le note alle singole commedie). Nel presente stu-

184

dio citiamo dall’edizione delle «Cantate» einaudiane del 1982 (Cantata dei giorni pari, abbr. CGP; Cantata dei giorni dispari, voll. Si abbr. Cop), identica alla precedente «riveduta» del

Teatro

Cantata dei giorni pari, Einaudi, Torino 1959, 1982? (presentano varianti le edd. 1962, 1971 e 1979).

Cantata dei giorni dispari, ivi, 3 voll.: I. 1951, 1982"; II. 1958, 1982! III. 1966, 1982? (presentano varianti per ogni volume le edd. 1971 e 1979). Molti testi sono usciti nella «Collezione di teatro» Einaudi, diretta da P. Grassi e da G. Guerrieri (dal n. 34, 1964, al n. 237, 1980).

Alcuni sono raccolti in I Capolavori di Eduardo, 2 voll., Einaudi, Torino 1973, 19837.

Una scelta è in E. De Filippo, Teatro, Prefazione di G. Davico Bonino, Edizione CpE, Milano 1985. La tempesta di W. Shakespeare nella traduzione in napoletano di Eduardo De Filippo, Einaudi, Torino 1984. Poesia

1. Il paese di Pulcinella, Casella, Napoli 1951. 2. ’O Canisto, Edizioni Teatro San Ferdinando, Napoli 1971.

3. Le poesie di Eduardo, Einaudi, Torino 1975, 1982°.

4. °O penziero e altre poesie di Eduardo, ivi 1985. Altri scritti

5. Primo... secondo (Aspetto il segnale), «Il Dramma», XIV, n. 240, 1936 [poi in 195].

6. Colloquio con Pirandello, «Scenario», aprile 1937; poi col

titolo I/ giuoco delle parti [174].

7. Lettera al Ministro dello Spettacolo, in L. Bergonzini, F. Zardi, Teatro anno zero, Parenti, Firenze 1961. 8. Sulla recitazione, in Actors on Acting, a cura di T. Cole e H.K. Chinoy, Crown Publishers, New York 1970. 9. Il teatro e il mio lavoro, chiacchierata all’ Accademia dei Lincei in occasione del Premio A. Feltrinelli 1972 (vedi Nota introduttiva a I Capolavori di Eduardo cit.).

185

10. Lezioni di teatro, a cura di P. Quarenghi, Prefazione di F. Marotti, Einaudi, Torino 1986.

III. BIBLIOGRAFIA

ESSENZIALE

DELLA

CRITICA

SU EDUARDO

Per una bibliografia della critica, non esaustiva ma notevolmente ampia, dobbiamo rimandare ancora al nostro Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo) cit., anche se nel presente libro la rassegna è stata aggiornata. Monografie e biografie dee F. Frascani, La Napoli amara di Eduardo De Filippo, Parenti, Firenze 1958.

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TISI7ATI 148. Id., Da Spoleto il grido di Napoli, ivi, 22 giugno 1977. 149. G. De Chiara, L’avanguardia chiama Pulcinella, «L’ Avantil», 19 ottobre 1975. 149 bis. Id., Ur nome entrato da anni nella leggenda del teatro, ivi, 2 novembre 1984. 150. Id., L'incontro storico tra Eduardo e Strehler, ivi, 7 maggio 1985.

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158. 159. 160.

DE

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po, «Sipario», n. 119, 1956 (ora in Teatro italiano contera-

185. 186. DTA 188.

poraneo cit.). V. Buttafava, Pensa per un anno a una commedia e la scrive în una settimana, «Oggi», 5 gennaio 1956. S. Lori, Intervista con il grande autore-attore napoletano, «Roma», 7 maggio 1969. Id., Intervista a Eduardo, «Il Dramma», novembre-dicembre 1972. R. Tian, Intervista con Eduardo: il teatro, la vita, «Il Mes-

saggero», 13 luglio 1975. 189. M.G. Gregori, Eduardo De Filippo, in Il signore della scena, Feltrinelli, Milano 1979 (pp. 196-201). 189 bis. L. Compagnone, Caro Eduardo hai 80 anni, «Oggi», 21 maggio 1980. 190. R. Nissim, Eduardo: «Come ho scritto una commedia in una settimana», «Il Tempo», 13 luglio 1983. 19 M. Nava, Eduardo: la Napoli dei giorni dispari. (Iniervista al

194

senatore a vita De Filippo sui mali della sua città), «Corriere

della Sera», 17 gennaio 1983. 192. A. Ghirelli, Eduardo: «Tradurrò Shakespeare in napoletano», «Paese Sera», 10 luglio 1983. 193. C. Donat Cattin, Eduardo: «Invecchiate con me» (anticipazione dell’intervista Tv, «Primo piano», 19 ottobre 1984), «Corriere della Sera», 13 ottobre 1984. Testimonianze

194. P. De Filippo, Una farziglia difficile, Marotta, Napoli 1976. 195. I. Quarantotti De Filippo (a cura di), Eduardo, polemiche, pensieri, pagine inedite, Bompiani, Milano 1965. 196. G. Gargiulo, Cor Eduardo, Colonnese, Napoli 1989.

INIROMANIVANKAL 2527

INDICE

EpuarDo DE FiLiPPO

a

Un teatro che comunica

3

II.

Reincarnazioni di una maschera umana

52

III.

Il pendolo di Eduardo: fra reale e fantastico

81

IV.

Il coro famigliare

102

V.

La trilogia sociale

122

VI.

Fra mondo del teatro e teatro del mondo

147

VII.

La parola a teatro e il suo doppio, il silenzio

156

Cronologia della vita e delle opere

169

Il dibattito critico

173

Bibliografia

181

I. Bibliografia generale di riferimento, p. 183 - II. Edizioni delle opere di Eduardo, p. 184 - III. Bibliografia essenziale della critica su Eduardo, p. 186

199

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GLI SCRITTORI Carducci di Antonio Piromalli Lawrence di Silvia Albertazzi Parini di Norbert Jonard De Roberto di Paolo Mario Sipala lbsen di Franco Perrelli Fenoglio di Francesco De Nicola Capuana di Anna Storti Abate Pasolini di Luigi Martellini E SONDE Galilei di Andrea Battistini Calvino di Cristina Benussi Balzac di Francesco Fiorentino Voltaire di Paolo Alatri Salgari di Bruno Traversetti

Joyce

di Franca Ruggieri

Sereni di Alfredo Luzi Goldoni di Norbert Jonard Foscolo di Marco Cerruti Fogazzaro di Antonio Piromalli

Strindberg Catullo

di Franco Perrelli

di Paolo Fedeli

Cervantes

di Franco Meregalli

De Amicis di Bruno Traversetti Nievo di Marinella Colummi Camerino Stevenson di Clotilde De Stasio

Lessing

di Nicolao Merker

Plauto di Gioachino Chiarini Berchet di Alberto Cadioli D’Annunzio di Angela Felice

Proust

Conrad

di Mariolina Bongiovanni Bertini di Richard Ambrosini

Dostoevskij di Fausto Malcovati Belli di Marcelio Teodonio Bachtin

di Paolo Jachia

I FILOSOFI Husserl di Renzo Raggiunti Schopenhauer di Icilio Vecchiotti Berkeley di Mario Manlio Rossi Socrate di Francesco Adorno Lukàcs di Giuseppe Bedeschi Weber di Nicola M. De Feo Hume di Antonio Santucci di Renato Laurenti Talete, Anassimandro, Anassimene Cusano di Giovanni Santinello FILONI SO Heidegger di Gianni Vattimo Schelling di Giuseppe Semerari Hobbes di Arrigo Pacchi Carnap di Alberto Pasquinelli Moore di Eugenio Lecaldano Whitehead di Massimo A. Bonfantini Tommaso d’Aquino di Sofia Vanni Rovighi Wittgenstein di Aldo G. Gargani Dewey di Alberto Granese Sartre di Sergio Moravia Pascal di Adriano Bausola Abelardo di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri Aristotele di Giovanni Reale Rousseau di Paolo Casini Gentile di Aldo Lo Schiavo Parmenide di Antonio Capizzi Leibniz di Vittorio Mathieu Ockham di Alessandro Ghisalberti Feuerbach di Claudio Cesa Platone di Francesco Adorno Kant di Augusto Guerra Epicuro di Domenico Pesce Marx di Giuseppe Bedeschi Labriola di Stefano Poggi Locke di Mario Sina Comte di Antimo Negri Kierkegaard di Salvatore Spera Spinoza di Filippo Mignini Plotino di Margherita Isnardi Parente Vico di Nicola Badaloni Croce di Paolo Bonetti Nietzsche di Gianni Vattimo La Scuola di Francoforte di Giuseppe Bedeschi James di Patrizia Guarnieri Ruggero Bacone di Franco Alessio Dilthey di Franco Bianco Anselmo d’Aosta di Sofia Vanni Rovighi

Il Positivismo di Stefano Poggi Herbart di Renato Pettoello Hegel di Valerio Verra Cartesio di Giovanni Crapulli Procio di Giovanni Reale Newton di Maurizio Mamiani Russell di Michele Di Francesco Il Tradizionalismo francese di Marco Ravera Lo Storicismo di Fulvio Tessitore Cassirer di Giulio Raio

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