Beppe Fenoglio oggi
 8842509019

Citation preview

Civiltà Letteraria del Novecento Mursia

Digitized by the Internet Archive in 2028 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/beppefenoglioogg0000unse

CIVILTA

LETTERARIA

DEL

NOVECENTO

Profili - Saggi - Testi

Direttore: GIOVANNI Condirettori:

GETTO

G. BÀRBERI SQUAROTTI, E. SANGUINETI

SAGGI N. 50

BEPPE FENOGLIO

a cura di Giovanna

Ioli

introduzione di Gian Luigi Beccaria

Mursia

Questo volume che raccoglie gli atti del « Convegno Beppe Fenoglio Oggi », patrocinato dal Comune di S. Salvatore Monferrato, è stato pubblicato con il contributo della Regione Piemonte.

© Copyright 1991 Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A. Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy 3746/AC - Gruppo Ugo Mursia Editore S.p.A. - Via Tadino, 29 - Milano

AVVERTENZA

Questo

libro

è il settimo

della

collana

legata alla Biennale

« Piemonte e Letteratura », istituita nel 1981. Le precedenti pubblicazioni, edite dalla Regione Piemonte e dal Comune di San Salvatore Monferrato, hanno per tema Iginio Tarchetti e la Scapigliatura (1976); Piemonte e Letteratura del ’900 (1980); Piemonte e Letteratura 1789-1870, 2 tomi (1982); Vit-

torio Alfieri e la cultura piemontese fra Illuminismo e Rivoluzione (1984); Da Carlo Emanuele (1987); Cesare Pavese oggi (1989).

I a Vittorio

Amedeo

II

Il presente volume accoglie i testi delle relazioni, degli interventi e delle testimonianze letti nel corso del convegno internazionale Beppe Fenoglio oggi, che si è svolto nei giorni 22-23-24 settembre 1989. La manifestazione è stata organizzata dal Comune

di San

Salvatore

Monferrato,

in collaborazione

con la Regione Piemonte, la Cassa di Risparmio di Alessandria, la Provincia di Alessandria e il Comune della città di Alba,

dove

si è svolta

la giornata

conclusiva

dei lavori.

Al-

l'iniziativa è legato anche il premio letterario per la saggistica « Città di San Salvatore Monferrato - Carlo Palmisano », attribuito, in questa quinta edizione, ad Eugenio Corsini per il complesso della sua attività di studioso, estesa dall’antichità classica alla letteratura contemporanea. Nelle precedenti edizioni, il premio era stato assegnato a Giovanni Getto e Norberto Bobbio, Carlo Dionisotti, Gianfranco Contini e Massimo Mila. Il duplice appuntamento culturale si avvale di un Comitato

formato Franco

scientifico

delle

Università

da Giorgio Bàrberi Contorbia,

Elio

di Torino

Squarotti,

Gioanola,

e di Genova,

Gian Luigi Beccaria,

Marziano

Guglielminetti,

Angelo Jacomuzzi, Stefano Jacomuzzi e Giovanna Ioli, che cura il coordinamento e la segreteria del convegno e del premio. L’indice dei contributi pervenuti per la pubblicazione di questo libro non rispetta l’ordine con cui sono stati letti, ma riflette una traccia tematica e cronologica. Alcuni interventi, inoltre, integrano il piano originario dell’incontro di San Salvatore Monferrato, mentre mancano alcune comunicazioni e relazioni previste nel programma. Ringrazio Giuseppe Beccaria, Sindaco di San Salvatore Monferrato, e tutto l'organico

D

del Comune per la disponibilità e l'entusiasmo, che hanno reso possibile la continuazione e lo svolgimento di questa iniziativa, la cui importanza è testimoniata proprio dalla sua resistenza nel tempo. GIOVANNA

IOLI

SALUTO

DEL SINDACO

Nel dare il benvenuto a tutti i presenti, ringrazio la Regione

Piemonte, la Provincia di Alessandria, la Cassa di Risparmio di Alessandria, attraverso i rispettivi Presidenti, Beltrami, Franzò, Pittatore, che con il loro contributo danno al Comune

di San Salvatore la possibilità di continuare il Convegno biennale di letteratura piemontese, che quest'anno si svolge sullo scrittore Beppe Fenoglio e ha per titolo Beppe Fenoglio oggi. Il Premio di saggistica verrà assegnato a Eugenio Corsini, per la sua

attività di studioso,

che va dall’antichità

classica

alla letteratura cristiana. Mi pare giusto aprire questo Convegno leggendovi un pensiero del compianto Massimo Mila, riportato su «La Stampa » del 29 settembre 1987, a pochi giorni dal Convegno che si svolse qui su Cesare Pavese: « Il Convegno Internazionale organizzato a San Salvatore Monferrato, bella cittadina inerpicata su un bricco tra Alessandria e Casale, che sta diventando una specie di centro di alti studi di cultura piemontese, dacché un gruppo di cattedratici torinesi e genovesi l’ha prescelta a sede di certi incontri biennali sul tema appunto Piemonte e Letteratura, che hanno già prodotto cinque volumi di saggi organici e nutritissimi ». In questo consesso di eminenti studiosi e di celebri rappresentanti del mondo della cultura io rappresento la voce di chi si accosta in punta di piedi, con umiltà, desideroso di imparare di più. Appartengo alla generazione di quelli per i quali la scuola media non era ancora un diritto e lo studio sembrava ancora un privilegio, una conquista tanto più quanto più costava di sacrifici e di rinunce. Quindi per noi, i nomi degli

scrittori,

una

frase,

un

verso,

avevano

un

significato

simbolico e nella memoria lo hanno ancora. Ecco perché sono orgoglioso di aver potuto esercitare il mio mandato di Sindaco nel periodo in cui sono stati trattati gli scrittori Pavese e Fenoglio. Grazie a questi argomenti, che mi ero permesso di suggerire e che la cortesia del Comitato scientifico ha prontamente accettato, mi pareva che il Convegno acquistasse

una

fisionomia

più accessibile

a tutti, senza

perdere

quelle caratteristiche di raffinata specializzazione, dovute all’altissima qualità del comitato esecutore. Parlando di Pavese e di Fenoglio ci sono dei motivi che ci

7

rendono cari questi scrittori. Una dignità, una capacità di tacere di sé, che il mio amico Pino Palmisano, Presidente del Centro culturale, attribuisce a noi sansalvatoresi, che io pen-

so sia dei piemontesi. E cito Gian Luigi Beccaria: « Fenoglio ha parlato poco di sé ». E più avanti parlando dello stesso Fenoglio: « Scrivo per un'infinità di motivi e ci faccio una fatica nera ». Bene, a noi piacciono quelli che fanno « una fatica nera » e non desistono e che — e cito sempre Beccaria — «hanno la capacità di ridurre il mondo all’essenziale ». Questa non è soltanto capacità linguistica o stilistica. È qualcosa di più profondo, appunto di essenziale. Ed ora per non dover contraddire me stesso, cedo la parola a coloro che ci daranno modo d’imparare di più, non senza prima aver espresso un pensiero di gratitudine a tutte le persone che hanno lavorato perché questo Convegno si attuasse. All’assessore Paolo Camurati,

al Vice Sindaco

Spriano,

a cui va il merito

di essere riuscito a suscitare per l'argomento interesse nelle scuole, all'Ufficio Ragioneria e Segreteria con gli amici Gigi Spriano e Giancarlo De Giovanni, sempre molto disponibili. Un saluto e un ringraziamento particolare alle Autorità, che ci onorano della loro presenza. Al Prefetto Pierangeli, al Comandante della legione dei Carabinieri Francesco Delfino, al Capitano Comandante della Compagnia Carabinieri Armando Pugliese, al Provveditore agli Studi, Luigi De ‘Rosa, al Presidente della Camera di Commercio Attilio Castellani, all’On. Giovanni Sisto, alla famiglia di Fenoglio, che è qui con noi. E un ringraziamento sentito a voi che siete qui in questa sala e che con la vostra presenza confermate a questo convegno dignità ed importanza. ì GIUSEPPE BECCARIA Sindaco di San Salvatore Monferrato

INTRODUZIONE

Dai Convegni sarebbe buona norma trarre conclusioni, non premettere pretenziose introduzioni. Più che introdurre voglio invece approfittare brevemente della parola che mi sono dato per ringraziare, con molto calore, e a nome degli amici e colleghi del Comitato scientifico, il Comune di San Salvatore Monferrato

che ancora

una volta, col ritmo biennale

di sem-

pre, ci ospita qui, per il Convegno Piemonte e Letteratura: anch'esso, proprio come l’autore che ci accingiamo a celebrare, è ormai un classico, un tradizionale, piacevole, fruttuoso e

presumo importante incontro, che per molti di noi, al pensare le prime volte che si veniva a San Salvatore (e già sono anni), è folto di ricordi, e si colora talvolta di nostalgia per i momenti, le persone che non sono più, e che molte energie hanno profuso per l’organizzazione e la riuscita di questi incontri

di studio.

Ed

è nostra

ferma

intenzione

continuare,

ogni due anni, ad incontrarci qui. Grande motivo di soddisfazione è ora il vedere allineati gli Atti dei Convegni di San Salvatore. Il loro insieme già costituisce un contributo imprescindibile per la storia culturale e letteraria del Piemonte. Il Comune

di San Salvatore, la Regione Piemonte, e tutti que-

gli enti che hanno dato un aiuto per la realizzazione dell’impresa non possono che andarne fieri. Ed ora, dopo Pavese di due anni fa, tocca all’altro grande delle lettere, Beppe Fenoglio, che ormai, dopo le prime incomprensioni, ha attirato su di sé le attenzioni dei critici più importanti: alcuni di essi parleranno oggi e nei giorni a venire. Non so se Fenoglio avrebbe voluto un Convegno per sé. Nel ’52, a chi gli chiedeva una scheda biografica per presentare I ventitre giorni della città di Alba che stava per uscire nella collana dei « Gettoni » di Vittorini, scriveva: Nato trent'anni fa ad Alba (1° marzo 1922), studente (GinnasioLiceo, indi Università, ma naturalmente non mi sono laureato), soldato del Regio e poi partigiano. Oggi purtroppo, uno dei procuratori di una nota ditta enologica. Credo sia tutto qui. Ti basta, no? Mi chiedi una fotografia. Ora, sono sette anni circa che non mi faccio fotografare.

La sua fu un’esistenza schiva, appartata, lontana dai cen-

9

tri della politica culturale ed editoriale. Difficile il rapporto con gli editori e coi critici dapprima. Sappiamo che quando nel ’49 presenta a Einaudi la sua prima raccolta Racconti della guerra civile, quella non è accettata; e nel ’50, sempre a Einaudi, presenta La paga del sabato, e Vittorini lo consiglia di sacrificare il romanzo e di ricavarne due racconti. Dopo la morte, il sopravvento della lunga diàtriba filologica dilaga al punto da fare dimenticare spesso gli splendori della sua pagina. Ma Fenoglio era come predestinato alla polemica. Molti di noi ricordano le prime grevi recensioni a I ventitre giorni e le etichette incongrue di « neorealista », sapore « barbaro » dei racconti, « neutralità ideologica » nei riguardi della Resistenza. Quanto alla vexata quaestio filologica, non starò a sollevarla ancora, e sin da queste prime battute introduttive. Molti gli interrogativi rimasti. La mia opinione già l’espressi in un volumetto

uscito or sono

cinque

anni. Certo,

Fenoglio è uno scrittore particolare, per il quale la stesura di un testo e la riflessione su di esso si intrecciano, si sovrappongono, spesso si confondono. I suoi manoscritti sono crivellati di varianti, arati come un campo incolto da dissodare, infaticabilmente lavorati. Non mi è mai riuscito di cogliere, come altri hanno fatto, attraverso le varie stesure di un’opera,

un passaggio dal ribollente al quietato in sobrietà stilistica, un movimento dall’effuso al lapidario, quanto piuttosto una eterna variazione dell’identico. Comunque sia, quel che ci si attende piuttosto da questo Convegno non è tanto la soluzione dei forse insolubili problemi di cronologia, quanto una lettura lineare di singoli testi, di singole pagine, di singole opere, di singoli aspetti. Ora

Fenoglio,

a venticinque

anni

dalla

morte,

ci viene

incontro con un tratto già monumentale, ci appare come uno dei massimi prosatori del ’900, il meno

formalista di tutti, ma

in realtà il più di tutti accanitamente teso alla ricerca di una lingua,

di uno

stile. Lontano

tanto

dalla

prosa

neorealista,

dai cronisti di guerra partigiana, quanto dalle altezze squisite della prosa d’arte di tradizione nostrana, di stampo umanistico, lontano da intenti espressionistici-plurilinguistici, Fenoglio guarda piuttosto alle forme della lontananza biblica ed epica,

e ai privilegiati modelli anglosassoni del secolo XVII. Liberatosi dalla preoccupazione, ossessiva in Italia, del bello stile e della buona lingua, muove alla ricerca di un suo personalissimo, inconfondibile stile, compone pagine singolarmente asciutte e scarne,

dal ritmo

teso e concentrato,

splendidamente lapidario. Ma mare il suo tema principale, dal respiro universale. Come mento naturale, il paesaggio

10

rapido e scandito,

soprattutto ha saputo trasforquello della guerra, in un tema del resto ha trasfigurato l’elecollinare delle sue Langhe alte,

che trascende sempre la dimensione reale della descrizione e si trasforma grandiosamente in simbolo. E ha trasfigurato la Resistenza, che non è soltanto quella storica, reale, ma riflette il dramma, la crudeltà dell’esistenza umana nella sua

totalità. Il partigiano si muta in un uomo dimensione

umana,

nella sua assoluta

e la lotta in qualcosa di eterno, una delle

tante lotte da millenni combattute dagli uomini. Vengono a mente passi memorabili, degni di citazione se il tempo permettesse, là dove la guerra diventa l’allegoria della vita e dell'essere, la collina il luogo che impersona la totalità delle ter-

re, un mondo ora splendido e assoluto di sole o di purissime nevi, ora un caos di nebbie di fango e di acque. Ma non intendo anticipare il tema del paesaggio, al quale è dedicata appunto la Relazione di apertura del Convegno, quella di Eugenio Corsini: gli cedo perciò con piacere la parola. GIAN

LUIGI

BECCARIA

11

e

Pao aa

c-bata age Stio pista

si sioedt

Stati

ASI

signore ro

di

\

MT

9

A.

(EBRA

ZEN

(er :I:

Eugenio Corsini

PAESAGGIO

E NATURA

IN FENOGLIO

Riprendo qui, con qualche ritocco, un mio intervento su questo argomento al convegno Beppe Fenoglio 1963-1983, tenuto in Alba nell’occasione del ventennale della morte dello scrittore e pubblicato senza titolo (e, forse per questo, passato quasi inosservato) negli atti del convegno stesso (Beppe Fenoglio 1963-1983,

Letteratura

e mondo

contadino,

Torino,

Sei, 1985,

pp. 163-175). La ripresa dell’argomento obbedisce, almeno in primo luogo, a ragioni di carattere affettivo, essendo l’ambiente geografico e naturale in cui Fenoglio colloca le sue vicende — le Langhe, assurte con Pavese e con lui a dimensione di ben definito luogo letterario — il luogo delle comuni origini, sue e mie, dove è nata e si è sviluppata la nostra amicizia, troppo presto troncata dalla sua immatura scomparsa. Privilegiare nella lettura dei suoi racconti l’aspetto del paesaggio diventa quindi per me un fatto quasi istintivo che mi coinvolge in una forte partecipazione emotiva. Al di là di questo risvolto personale, a orientare la mia lettura di Fenoglio in questa prospettiva sta la convinzione profonda che il paesaggio e la natura abbiano nella narrativa fenogliana una fisionomia e una consistenza che, lungi dall’esaurirsi nella funzione di cornice o di sfondo alle vicende, sembrano configurarli talora nelle vesti di veri e autonomi protagonisti. È una convinzione che vedo condivisa anche da altri. Il primo, forse, a rendersi conto di questo aspetto dell’opera fenogliana è stato Emilio Cecchi. Su «Il Corriere della Sera » del 19 novembre 1963, pochi mesi dopo la scomparsa di Fenoglio, prendendo lo spunto dal volume di racconti intitolato Un giorno di fuoco (uscito nell'aprile di quell'anno presso l'editore Garzanti e che comprendeva, oltre al racconto

che dà il titolo alla raccolta, altri racconti

e il ro-

manzo breve Una questione privata — un volume miscellaneo che Fenoglio aveva ancora, almeno in parte, curato personal. mente per la pubblicazione —), Cecchi scriveva un breve saggio sullo scrittore albese che risulta essere uno dei primi (e dei pochi) apprezzamenti interamente positivi apparsi lui vi| vente o subito dopo la sua morte. Tra gli aspetti dell’opera fenogliana sottolineati dal critico — e che, secondo il suo giudizio, collocano lo scrittore

13

albese in una dimensione solitaria e preminente nel panorama della narrativa italiana del secondo dopoguerra — uno in particolare sembra attirare la sua attenzione e il suo apprezzamento: il paesaggio, appunto. Scrive Cecchi: « Fra le più forti caratteristiche di questi scritti è il rapporto dell’evento e dell’uomo con il paesaggio. Non è esagerazione che, negli autori contemporanei, il paesaggio è invitato a intervenire in maniera troppo spicciola ed abitudinaria. Tante volte esso offre la battuta quando il personaggio non saprebbe proprio che cosa dire. E dietro il paravento di un’ingegnosa descrizione paesistica sovente vengono combinati furbi passaggi di tono e altri giuochi di bussolotto. Nei romanzi e racconti del Fenoglio, le cose hanno una ben diversa serietà. Il paesaggio ha una sua personalità non meno precisa e perentoria di quella delle creature. E sia nelle monotone ed aspre fatiche dei campi, sia nelle necessità e astuzie guerresche degli agguati, delle fughe e degli inseguimenti, il paesaggio e l’uomo si aiutano, si compatiscono o si odiano e tradiscono, come in un appassionato e durissimo giuoco di vita e di morte ». E concludeva con alcuni riferimenti di storia letteraria che davano insieme l’idea del livello assoluto in cui il critico credeva di poter collocare l’opera del giovane scrittore scomparso e del peso che assumeva in questo giudizio di valore la considerazione della qualità del paesaggio nell’opera fenogliana. Scriveva ancora Cecchi: « Se si prescinde dai nostri primitivi

o dal Manzoni

e dal Verga, nella nostra

ietteratura

è

tutt'altro che frequente questa relazione disperatamente fraterna o spietatamente antagonista dell’uomo e della terra ». Il giudizio di Cecchi sulla presenza e la funzione del paesaggio nell’opera di Fenoglio mi pare che abbia colto e definito la questione nei suoi termini essenziali. È un fatto però che, parlando di « terra » come termine di riferimento del rapporto di amore e odio che contrassegna i personaggi fenogliani, il critico aveva l'occhio, in primo luogo almeno, ai racconti di ambiente paesano e campagnolo, dove la condizione umana è più direttamente coinvolta e governata da quel tipo di rapporto. Del resto, nella produzione di Fenoglio che Cecchi conosceva, essendo ancora inedito il grande romanzo che porterà il nome di Il partigiano Johnny, il filone campagnolo rappresentava certamente l’aspetto più noto e discusso della produzione fenogliana, relegando piuttosto in secondo piano la discussione sulla sua figura di scrittore civile la quale, peraltro, già fin dalla prima raccolta di racconti, I ventitre giorni della città di Alba, era emersa dotata di una sua spiccata e inconfondibile personalità, che la pubblicazione di Primavera di bellezza (1959) aveva rigorosamente confermato.

14

Ma, è appena il caso di ricordarlo, la critica aveva dimo-

strato, se non ostilità, un tal quale imbarazzo

dinanzi a que-

st’ultimo romanzo, che rappresentava una rottura non soltanto sul piano formale e stilistico ma anche su quello ambientale della vicenda. Il che ci conferma indirettamente che l'immagine già abbastanza assestata e corrente di Fenoglio era quella di uno scrittore essenzialmente legato a una realtà campagnola piemontese, anzi langarola. Perfino l’esperienza della guerra civile, di cui Fenoglio aveva già dato drammatiche, sia pure episodiche, rappresentazioni, rischiava di stemperarsi

aspro

nello

riduttivo

schema

premessa

al volume

di un

delle Langhe.

ora nostalgico,

garzantiano,

Fenoglio

Ancora

cantore,

ora

la presentazione

sopra accennato,

invitava a

tener presente, come chiave interpretativa privilegiata dell’opera fenogliana, il legame esistenziale intercorrente tra lui e il suo ambiente: « Per comprendere lo slancio e anche la scontrosità di una tale vocazione, bisogna riflettere alle vicende della giovinezza di Fenoglio: egli aveva interrotto gli studi per la chiamata alle armi, poi per combattere nelle formazioni partigiane. Partigiano in quegli stessi luoghi, le Langhe, conosciuti fin dalla nascita e di cui doveva rivelarsi più tardi il cantore

raccolto

e felice, dietro

l'esempio

di Pavese.

E ancora: riflettere allo stato d’animo di lui, rimasto piemontese di campagna, e quindi ben diversamente radicato alla terra di quanto

non

fosse il suo

maestro,

il quale, dentro

le proprie forti implicazioni di intellettuale, aveva spinto il dilemma fra città e campagna sino alle soglie del mito. Questo dilemma non esisteva per Fenoglio, com'erano assenti del resto altri miti degli anni Trenta trasferiti dalla letteratura americana ». Anche il « fascino inalterato » che la Resistenza conserva agli occhi e dentro la memoria dello scrittore è dovuto in gran parte, sempre secondo la presentazione sopra citata, allo scenario naturale, le Langhe appunto, in cui essa si è svolta. Le parole che abbiamo riportato non c’informano soltanto su quella che era l’immagine corrente dello scrittore. Alludono anche ad alcune problematiche che, in connessione con quell'immagine, venivano allora dibattute e in parte lo sono ancora. Una di queste è il rapporto Pavese-Fenoglio, qui esplicitamente risolto nel senso di una dipendenza del secondo dal primo, configurato nei panni del « Maestro ». Si fa tuttavia notare in Fenoglio l'assenza di uno schema interpretativo qual è quello pavesiano del mito, il che è spiegato per un verso

con l’assenza o la minore

urgenza,

nello scrittore albe-

se, delle « forti implicazioni di intellettuale », proprie invece di Pavese, e per l’altro verso con il maggiore radicamento di Fenoglio nella realtà campagnola e contadina da lui descritta.

15

Tradotto in altri termini, questo discorso potrebbe significare l'attribuzione di una patente di maggior realismo alla rappresentazione fenogliana di quella realtà. Il che, se si può anche accettare su un piano assoluto di giudizio, ha bisogno di essere liberato di alcuni equivoci e pregiudizi impliciti sul piano della formulazione.

Per intanto, realismo

non è sinoni-

mo di assenza di implicazioni ideologiche, poiché infatti tale non è, a una più attenta e avvertita lettura, neanche nel caso

di Fenoglio. Né, d'altra parte, per realismo si può riduttivamente intendere una maggiore adesione, anche solo di carattere sentimentale, alla realtà descritta che si tradurrebbe in una maggiore obiettività sul piano della rappresentazione. Sono osservazioni

ovvie, lo so. Ma che il rischio

di confusioni

grossolane di questo tipo gravi sulla lettura di Fenoglio ce lo documentano certe indagini che cercano la chiave d’interpretazione delle sue opere nei dati discontinui e contraddittori della sua biografia, della sua vita di relazione, i tentativi che da qualche parte si fanno di ricostruire il passato, la realtà economica

e sociale delle Langhe sulla base dei suoi racconti,

i pellegrinaggi ai luoghi fenogliani e iniziative varie che finiscono con l'andare a braccetto con lo sfruttamento a fini turistici o peggio. Tutto ciò ha più o meno il senso che avrebbe il tentativo di chi volesse ricostruire la storia della guerra civile sulle Langhe partendo dai racconti e dai romanzi partigiani di Fenoglio. Il compito che egli si era proposto non era quello di stendere una cronaca o una storia di quegli avvenimenti, neanche a livello di memoria autobiografica, come tante ne abbiamo avute. La guerra civile (e non solo la resistenza!) è un po’ come la situazione esistenziale, il dato oggettivo, il punto epocale (il kairòs, come avrebbe detto l’apocalittica antica) in cui l’autore, e con lui l'umanità e la realtà che lo circondano, si trovano come coinvolti in una sorta di giudizio universale (il Doomsday che egli richiama più di una volta). E tutti gli esseri, uomini

e cose,

vi sono

dentro,

in

una ricerca disperata non già e non tanto di spiegazioni, del perché e del percome degli eventi, quanto piuttosto di una via d'uscita verso un tempo e un luogo collocati al di là degli eventi stessi. Il realismo di Fenoglio, in questo caso, non è misurabile sulla base dei dati cronachistici o topografici o dei riferimenti personali più o meno identificabili. Un discorso analogo si deve fare a proposito del preteso realismo di Fenoglio nella rappresentazione delle Langhe per quanto riguarda l’ambiente naturale, il paesaggio, e la vita, i costumi e la mentalità della gente che vi abita. Anche in questo caso, è appena necessario ricordarlo, l’obiettivo che Fenoglio si propone non è la riproduzione fedele e documen-

16

tata della realtà delle Langhe nei suoi vari aspetti. La sua è

la scelta di una

realtà ambientale,

da lui conosciuta

e, per

certi aspetti, a lui congeniale, per collocarvi lo svolgimento di vicende umane che sono però significative in sé e per sé, e, in ogni caso, non in correlazione specifica ed esclusiva con quell’ambiente, quella natura, quel paesaggio. Se cosi non fosse stato, sarebbero state pertinenti le perplessità e le riserve espresse da Vittorini nella presentazione stessa de La malora, alla sua prima apparizione nel 1952. Annoverando, con una buona dose d’incomprensione, Fenoglio « tra questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile », Vittorini gli additava il rischio di finire « tra i provinciali del naturalismo », quali erano per lui « i Faldella, i Remigio Zena, con gli “spaccati” e le “fette” che ci davano della vita, con le storie

che

ci raccontavano,

di ambienti

e di condizioni,

senza saper farne simbolo di storia universale, col modo artificiosamente spigliato in cui si esprimevano a furia di afrodisiaci dialettali ». Per quanto riguarda La malora, sono stati in tanti allora e poi a dimostrarlo, il monito di Vittorini era infondato, e anche un po’ ingeneroso, soprattutto per il giudizio negativo, neanche troppo velato, che sottintendeva. Ma il rischio additato da Vittorini esisteva ed esiste, e una parte almeno degli scritti fenogliani pubblicati postumi, allo stadio pressoché di appunti e di abbozzi (si pensi, soprattutto, ai racconti de Il paese), non

vi si sottrae

del tutto, come

non

vi si sottrae

una certa letteratura d’ambiente langarolo venuta in seguito, spesso con la pretesa di continuare modelli pavesiani e fenogliani, ma che di quei modelli spesso risulta involontariamente la parodia, con la sua sciatteria linguistica e i suoi contenuti improntati a un sociologismo di maniera, che di quell’ambiente tende soprattutto a mettere in evidenza gli aspetti negativi, socialmente o moralmente abnormi. Non si vuol dire, con questo, che nel Fenoglio maggiore questi aspetti negativi non esistano. Sono, anzi, prevalenti, come meglio cercherò di illustrare in seguito. Ciò che qui voglio dire è, semplicemente, che la sua rappresentazione pessimistica o addirittura cupa dell'ambiente e delle vicende umane che vi si svolgono non obbedisce a criteri di riproduzione obiettiva della realtà. La presenza di entrambi, ambiente e vicenda, e la loro connotazione appaiono invece già come

frutto

di una

scelta che è governata,

a sua volta, dal-

l'esigenza di esprimere una visione del mondo e della vita. Realismo anche questo, certamente, ma non nel senso degli epigoni malinconici e meschini, di cui sopra si diceva, e nemmeno nel senso indicato da Vittorini delle « cose sperimentate personalmente » (che non è proprio il caso di Fenoglio, alme-

17

no per quanto riguarda la vita di campagna o di paese) o del naturalismo tardo-ottocentesco, anch’esso evocato da Vittorini,

degli « spaccati » e delle « fette di vita », bensi, semmai, nella logica delle categorie aristoteliche del verosimile e del necessario, il che è come dire in una prospettiva che eleva il tutto, ambiente e vicenda narrata, a « simbolo di storia universale ». Chiunque conosca per esperienza diretta i posti descritti da Fenoglio nei suoi racconti sa che l'apparente minuzia con cui l’autore li descrive è un finissimo gioco d’illusione di cui egli si serve per raggiungere un obiettivo che è chiaramente posto al di là di quella cura descrittiva. I luoghi descritti, come del resto le vicende narrate (anche quelle che partono da fatti

di cronaca

noti

o, comunque,

realmente

accaduti),

appaiono, in realtà, piuttosto come dei collages di elementi descrittivi e narrativi che la fantasia dell’autore traspone, con illimitata libertà, da un contesto

a un altro, senza preoccupa-

zione alcuna della cosiddetta realtà effettiva. Un esempio di quanto si è detto si può trovare, per quel che riguarda la descrizione dei luoghi, nella raffigurazione, ben nota ai lettori di Fenoglio, di quella casa di campagna che si presenta « bassa e storta » (o « sbilenca »), il che suggerisce alla fantasia dell’autore l’immagine di una « tremenda manata » che vi si è abbattuta sopra e dalla quale non si è più rimessa. Tale descrizione, con la medesima immagine, e quasi con le medesime parole, compare almeno in tre racconti diversi: in Pioggia e la sposa (I ventitre giorni della città di Alba, Einaudi, 1952), nella Novella dell’apprendista esattore (pubblicata per la prima volta nell’edizione garzantiana

sopra

citata,

in cui,

secondo

un

ordine

che

sarebbe

stato predisposto dallo stesso Fenoglio, essa viene subito dopo Pioggia e la sposa, sicché la descrizione della casa ritorna a distanza di due pagine), e infine nella terza redazione di Una questione privata (anch’essa presente nel volume di Garzanti). Nei primi due racconti la casa descritta è ubicata nel paese di San Benedetto, ma in due zone specificatamente diverse del paese. In Una questione privata la casa non soltanto non si trova più a San Benedetto ma viene addirittura spostata dall’alta alla bassa langa, sulla collina che da Treiso d'Alba

discende

verso

Santo

Stefano

Belbo

e Canelli,

una

zona in cui le condizioni economiche e sociali degli abitanti rendono piuttosto improbabile la presenza di una casa come quella descritta da Fenoglio. Le cose non vanno diversamente per quanio riguarda la narrazione degli accadimenti. È una caratteristica ben nota del modo di lavorare di Fenoglio il fatto che egli riprende, in tutto o in parte, i medesimi episodi in contesti diversi, aggiungendo o togliendo, in ogni caso rielaborando profondamente la struttura del racconto: un

18

fenomeno la cui interpretazione ha dato il via ad accese ed appassionate discussioni tra gli studiosi al fine di distinguere ciò che vien prima da ciò che vien dopo, ciò che costituisce l’archetipo o l'originale dalla ripresa. Un caso famoso e insieme paradigmatico di questo procedimento fenogliano è la narrazione della conquista e della perdita della città di Alba da parte dei partigiani. La vicenda è narrata da Fenoglio nei Ventitre giorni della città di Alba e poi di nuovo nel vasto affresco che occupa ben quattro capitoli de I! partigiano Johnny (capitoli XX-XXIII della prima redazione). Ho già espresso e cercato di dimostrare in passato che la composizione e le varie rielaborazioni del romanzo partigiano sono successive alla pubblicazione dei Ventitre giorni, e non è questa la sede per riprendere quella discussione, anche perché nel frattempo la mia ipotesi è stata ripresa da altri studiosi, in particolare da Elisabetta Soletti (Fenoglio,

Milano,

Mursia,

1987), a cui rinvio

per una

docu-

mentata e approfondita esposizione della questione. Limitandomi all'argomento qui preso a trattare, aggiungerò soltanto, agli argomenti da me allora addotti, che un altro indizio della recenziorità del romanzo mi sembra di poterlo individuare proprio nell’importanza e nelle connotazioni che in esso assume il paesaggio rispetto all’archetipo, dove si riduce a non frequenti ed essenziali annotazioni di carattere documentario, funzionali alla narrazione della vicenda. Un esempio si può trovare nella descrizione della grande pioggia che in entrambi i testi accompagna la riconquista di Alba da parte dei nazifascisti. Ecco come Fenoglio descrive il fenomeno nei Ventitre giorni: Ma verso la fine di ottobre piovve in montagna e piovve in pianura, il fiume Tanaro parve rizzarsi in piedi tanto crebbe. La gente ci vide il dito di Dio, veniva in massa sugli argini nelle tregue di quel diluvio e studiava il livello delle acque consentendo col capo. Pioveva notte e giorno, le pattuglie notturne rientravano in caserma tossendo. Il fiume esagerò al punto che si smise d'aver paura della repubblica per cominciare ad averne di lui.

Nel capitolo XXII (prima redazione) del Partigiano Johnny l’inizio della grande pioggia che precede l’attacco dei nazifascisti contro Alba è cosi descritto: Il sole non brillò più, segui un’era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso (« la gente smise d’aver paura dei fascisti e prese ad avere paura del fiume ») e macerò le stesse pietre della città.

Che

la descrizione

contenuta

nel Partigiano

Johnny

sia

10

posteriore

all'altra basta

a provarlo,

da sola, l’autocitazione

messa tra parentesi (le virgolette sono nell’originale). Il rinvio fatto dall’autore all’altra descrizione è una spia del modo qualitativamente diverso con cui il fenomeno è avvertito in questo contesto. L’inizio della pioggia non è, come nei Ventitre giorni, semplice registrazione di un evento funzionalmente legato allo svilupparsi degli eventi successivi: contrapposto emblematicamente

all’oscurarsi del sole, esso designa qui alla

maniera apocalittica l'inaugurazione della serie catastrofica e luttuosa. Il cadere della pioggia perde ogni connotazione di carattere cronachistico per assurgere a categoria quasi intemporale e assoluta (« un’era di diluvio »). Anche l’ingrossarsi del fiume, effetto della pioggia, è visto qui soltanto nel suo aspetto

negativo,

con

il rinvio

che si è detto

all'altra narra-

zione, dove invece viene registrata anche l'impressione positiva che il verificarsi del fenomeno produce in un primo momento sugli abitanti della città («la gente ci vide il dito di Dio, veniva in massa

sugli argini [...] studiava

il livello delle

acque consentendo con il capo »: poiché infatti il ponte sul fiume era andato distrutto in un bombardamento, l'aumento del livello e dell’impetuosità delle acque rendeva più difficile una invasione della città per mezzo di barche o di chiatte; ma poi il fiume « esagera » e costituisce esso stesso una minaccia per la città). Inoltre, nella descrizione contenuta nel romanzo, la pioggia ha già quei connotati di elemento corrosivo e distruttore della realtà (« infradiciò la terra [...] e macerò le stesse pietre della città »), che diventeranno preminenti, come vedremo, in altri racconti, soprattutto in Una questione privata. Il romanzo appena citato ci fornisce, attraverso le sue tre redazioni, un esempio tipico del modo di lavorare di Fenoglio quando riprende e rielabora la narrazione di una vicenda. Ne ha fatto una puntuale e acuta analisi Elisabetta Soletti la quale nota, tra gli aspetti salienti dell’evoluzione redazionale sul piano strutturale e formale, anche la metamorfosi del paesaggio e dei suoi elementi, alcuni dei quali (per esempio, la nebbia) tendono ad assumere il ruolo quasi di protagonisti. Esaminando la questione più in particolare, il passaggio da una redazione all'altra conferma quella linea di tendenza già precedentemente notata, per cui la natura e il paesaggio si trasformano da semplice cornice a elementi essenziali nell'economia della narrazione. Nella prima redazione le annotazioni di carattere paesistico sono scarse e generiche (« erano le nove di mattina. Il cielo, bianco sporco dappertutto, non aveva nessuna figura di cielo, dagli argini disboscati tirava un vento gelido e gli alberi erano completamente spogli »). È come se gli esseri umani, tutti presi dai loro giochi crudeli, nutrissero

20

un totale disinteresse nei riguardi della natura e dell'ambiente

In cul vivono, un disinteresse che viene avvertito dallo stesso protagonista. Infatti, nel momento in cui suona il campanello alla porta di casa del suo amico Giorgio, nell’attesa che la porta si apra, « [Milton] si volse a guardare l’autunno tutto intorno, perché da tempo trascurava la natura ». L’estraneità fra l’uomo e l’ambiente e, insieme, la consapevolezza che si tratta di una situazione anormale mi sembrano risultare qui dal verbo « trascurare » usato dall'autore. Nella seconda redazione del romanzo il paesaggio, con i

suoi vari elementi, balza invece in primo piano fin dall’attacco iniziale: la villa di Fulvia, la donna amata, ci viene subito incontro a catturare la nostra attenzione; all’interno della

villa si accampano, mute ma vive presenze, i quattro ciliegi e i due faggi che svettano « di molto oltre il tetto scuro, quasi nero ». E subito dopo, nel momento in cui Milton penetra all'interno della villa, sono ancora i ciliegi ad accoglierlo, quasi severi

custodi

particolare del quale

del luogo

l’ultimo Milton

e dei ricordi

in esso

della fila, il quarto

evoca

la visione

racchiusi,

in

ciliegio, tra i rami

lontana

della

sua

Fulvia,

arrampicata spavaldamente a cogliere le ciliegie più ardue da raggiungere (simbolo indiretto dell’irraggiungibilità di Fulvia). A poco a poco, sotto il fluido della memoria, il paesaggio e i suoi elementi si animano,

dapprima attraverso la proiezio-

ne dei sentimenti del protagonista: «la ghiaia del vialetto impastata di foglie secche e macerate, le foglie dei due autunni di lontananza

di Fulvia »; sulla cresta dell’immensa

collina

verso Mango si erge un albero solitario che strappa a Milton questa

riflessione:

« Se è vero

[se è vero

cioè che

Fulvia

e

Giorgio sono stati amanti], la solitudine di quell’albero sarà uno scherzo in confronto alla mia ». Ma poi la natura sembra assumere quasi una propria personalità ed esprimere attraverso i suoi elementi (vento, pioggia, nebbia) una sorda ostilità nei riguardi del protagonista. Nel trapasso dalla seconda alla terza redazione, mentre vi sono ancora mutazioni sul piano strutturale della narrazione, le annotazioni relative al paesaggio rimangono acquisite, con qualche intensificazione di tono in senso negativo. Cercheremo più avanti di individuare le ragioni profonde di questo dilatarsi progressivo, in quantità e qualità, della presenza del paesaggio nell’opera fenogliana. Per il momento è opportuno aggiungere qualche osservazione conclusiva sul rapporto tra lo scrittore e il paesaggio delle Langhe, scenario dei suoi racconti. Che non si tratti di un rapporto vincolante, legato cioè all'intento di riprodurre realisticamente e in maniera documentaria quell’ambiente, mi sembra risultare da quanto si è detto in precedenza. La disinvoltura stessa con cul

DI

Fenoglio sposta certe descrizioni ambientali da un contesto narrativo a un altro, prima restringe e poi dilata la presenza del paesaggio e dei fenomeni naturali, ci consiglia di essere cauti nell’accettare l'immagine, corrente in passato ma non del tutto superata neanche oggi, di un Fenoglio in simbiosi perfetta, anche se tormentata, con la sua terra d’origine e di elezione. E, a questo proposito, un’altra cosa va detta, con tutta chiarezza, nei riguardi di chi vuole Fenoglio più legato, per esempio, di Pavese alla realtà contadina e campagnola, in favore della quale egli avrebbe risolto il binomio città-campagna. Che le vicende da lui narrate, non soltanto quelle di vita campagnola vera e propria ma anche quelle legate al ciclo della resistenza, si svolgano per la maggior parte in ambiente campagnolo, in particolare langarolo, non basta a fare di lui né un uomo né uno scrittore legato a quella realtà. Egli è e rimane, tanto quanto Pavese (e forse più di lui), legato all'ambiente della città. I suoi protagonisti con risvolti autobiografici (si pensi al ragazzino di Pioggia e la sposa o di Un giorno di fuoco oppure ai personaggi partigiani di Johnny e di Milton) sono per lo più personaggi cittadini che guardano all'ambiente campagnolo e alle vicende che vi si svolgono con l’atteggiamento di chi ha l'impressione di esser capitato in un mondo, le cui manifestazioni in parte lo affascinano e in parte lo atterriscono e che, in ogni caso, gli appaiono come effetti di un meccanismo tutto sommato incomprensibile e indecifrabile. La cosa è anche più evidente nei racconti relativi alla resistenza le cui vicende si svolgono per lo più in ambiente campagnolo. Anche in questo caso molto spesso il protagonista è un personaggio cittadino che tradisce la stessa reazione, d’incomprensione e di rifiuto, perfino nei riguardi della realtà partigiana proprio perché gli sembra fare tutt'uno con l’ambiente circostante, cioè per lo più il mondo della campagna, barbarico e incomprensibile: i suoi compagni (per la maggior parte non cittadini come egli invece è), i contadini, le loro case, le bestie, il paesaggio,

i fe-

nomeni naturali (vento, pioggia, neve, nebbia): si pensi a personaggi come Raoul, Johnny, Milton. Cittadino, dunque, Fenoglio: vale a dire uno

scrittore che

guarda alla realtà della campagna non certo — come credeva di rimproverargli Vittorini — come a cosa « sperimentata personalmente » (sottintendendo con questo una conoscenza e un'adesione profonde), ma al contrario con il distacco di chi vi si trova a contatto non per una sua scelta di qualunque tipo, bensi per caso o addirittura per imposizione di circostanze. In questo senso, l'impatto di Fenoglio con la realtà langarola, natura e ambiente umano, è affatto diverso da quello di Pavese, nel quale esso si presenta come effetto di

22

una scelta di intellettuale, borghese

e cittadino,

che cerca a

ritroso le sue origini, le sue radici oscure nel mondo ancestrale della campagna, servendosi del mito al tempo stesso come schema interpretativo e come filtro esorcizzante nei riguardi di quella realtà. Al di là delle varie considerazioni che si possono fare sull'atteggiamento di Pavese verso il mondo della campagna, resta il fatto che in lui un incontro vero e proprio con quel mondo non avviene. Egli rimane sempre e comunque un intellettuale,

convinto,

al di là di tutti i dubbi,

le oscillazioni possibili, mente e culturalmente stante

tutto, con

e

i cedimenti

di appartenere a un mondo socialsuperiore che egli identifica, nono-

la città. Ma

un incontro

vero

con il mondo

della campagna non avviene neanche in Fenoglio. A impedirlo non è, come in Pavese, il frapporsi di un filtro intellettualistico che rinvia, come ideale punto di riferimento, a una cultura di tipo borghese e urbano. Neanche la città — che poi, non

dimentichiamolo, per Fenoglio è Alba e soltanto Alba — rappresenta per lui, nei confronti del mondo della campagna, un polo positivo, un rifugio ideale, un ambiente culturalmente o moralmente

superiore.

Noia e non-senso,

meschinità

e volga-

rità sono le note dominanti dei racconti fenogliani ambientati nella cornice cittadina: si pensi a certi racconti dei Ventitre giorni (per esempio Nove lune, Ettore va ai lavoro) oppure al romanzo La paga del sabato. Eppure quanta nostalgia per questa città non appena i vari protagonisti, per i motivi più diversi, si trovano fuori delle sue mura! Il ragazzino di Un giorno di fuoco la sogna ogni sera, guardando dissolversi nel vento sul crinale della collina il nuvolone di polvere che accompagna la corsa della corriera che da Savona scende verso Alba. I partigiani che stazionano sulle colline intorno alla città spesso si affacciano, al calar

della

sera,

ai murazzi

che

la dominano

dall’alto,

e

stanno a sognare la vita che là si svolge nel tacito lago nero provocato dall’oscuramento. Ed è, in fondo, proprio per un soprassalto di nostalgia irresistibile, ancor più che per un’azione militarmente razionale e producente, che i partigiani prima desiderano e infine giungono a conquistare la città. Ma quando i partigiani riescono a entrarvi, dopo la conquista, è come se quel luogo tanto sognato e sospirato avesse cambiato i suoi connotati: la festa e la gioia sperate sembrano smorzarsi e spegnersi ancor prima di cominciare. L'incubo grava opprimente, e non è legato soltanto alla prevedibile reazione nazifascista: è come se nell’aria aleggiasse un sentore di pericolo o meglio di ostilità. Scrive Fenoglio nei Ventitre giorni: « I partigiani che in collina riuscivano a dormire seduti al piede di un castagno, sulle brande della caserma non

23

chiusero occhio. Pensavano, e in quel pensare che a tratti dava nell’incubo, Alba gli pareva una grande trappola colle porte già abbassate ». Il pericolo, certamente, arriva da una direzione ben precisa. Ma è come se la sua consistenza fosse accresciuta dall'aggiungersi e cospirare di un’altra forza, la natura appunto, improvvisamente divenuta ostile. L’ostilità traspare dalle metafore stesse usate da Fenoglio nel descriverla che fanno riferimento a comportamenti propri di esseri animati o addirittura umani: il fiume « che di notte ta migliaia di rumori tutti sospetti », che nel suo gonfiarsi prende l'aspetto minaccioso di un essere gigantesco che si leva in piedi (« il fiume Tanaro parve rizzarsi in piedi tanto crebbe »), che nel suo aumentare « esagera », ecc. Anche la città, dunque, non rappresenta per Fenoglio, né in guerra né in pace, il luogo ideale, la dimensione possibile per l’esplicarsi e il realizzarsi dell'essere umano. C'è un momento, anzi — ed è quello dello scoppio della guerra civile —, in cui la quantità di rischio, di disagi e di paura che essa cova nel suo grembo riesce a fare apparire desiderabile, e addirittura « regno arcangelico », quel mondo, pur selvaggio, ignoto e barbarico della collina dove si svolge la vita partigiana. Ma da quell’altro luogo, di nuovo, come

si è accennato,

la nostalgia struggente torna a volgersi verso la città abbandonata perché divenuta inospitale, ma che inospitale si rivelerà di nuovo non soltanto quando sarà conquistata, per i partigiani che la sentiranno come « una grande trappola », ma anche dopo la fine della guerra, per coloro che vi faranno ritorno con il fisico e l'animo a brandelli. Ma non è solo la città ad avere nell’opera di Fenoglio questa valenza ambigua, questo duplice volto, per cui a un tempo si presenta come oggetto del desiderio e del sogno e si rivela come laccio e trappola di morte. Anche la villa di Fulvia in collina ha questo duplice valore per Milton in Una questione privata. Nel momento in cui il protagonista vi s'imbatte, quasi per caso durante una perlustrazione, essa ha l’effetto come di una visione beatifica che lo riporta felice a un tempo dolce nella memoria.

Ma, subito, il tarlo

del dubbio

lo assale

nel

bel mezzo della rievocazione, e lo spinge ansioso, tra mille avventure e pericoli, alla ricerca di una verità insieme desiderata e temuta. E quando la speranza di trovare la verità sarà svanita, di nuovo

quel luogo, la villa dell’amata —

Eden

perduto per sempre e vigilato ormai da arcangeli d'altra natura, malvagi e paurosi —, lo attirerà, rivelandosi ormai per lui una trappola mortale. E anche per Milton, come già si è visto per i partigiani calati in Alba, la rivelazione e la presa di coscienza di trovarsi dentro una trappola (i fascisti appostati intorno alla villa) sono accompagnate dallo scatenarsi

24

della natura in tutti i suoi elementi: vento terribile, pioggia battente e fango che sembrano contribuire, con una punta di ostilità, a rendere ardua la disperata fuga del protagonista verso la salvezza. Per poco che noi proseguiamo la nostra indagine in questa direzione, ci accorgiamo che l’aspetto ambivalente non è proprio soltanto dei luoghi che sono sede o dimora dell’uomo (la città, la villa in collina):

esso

è la cifra connotativa

di

tutto il paesaggio fenogliano, intendendo per paesaggio tutto l’ambiente che fa da cornice e da sfondo alla vicenda: non soltanto,

quindi,

la morfologia

del terreno,

i

la topografia,

fenomeni meteorologici, la vegetazione, ma anche il mondo animale e perfino quello umano. Anche quest’ultimo infatti, soprattutto nelle narrazioni relative alla guerra civile, sembra talora confondersi con l’ambiente circostante. L’estraneità avvertita da certi personaggi partigiani, di estrazione cittadina, verso la realtà campagnola in cui sono venuti a trovarsi riguarda anche la gente che ci vive, la quale, a sua volta, dà spesso l'impressione di esser coinvolta, insieme alle altre componenti della propria realtà ambientale, in una vicenda che riesce a condividere sentimentalmente ma di cui non comprende e non accetta tutti gli aspetti. Il suo rifiuto della violenza, ad esempio, sembra a volte cosi assoluto da non riusci-

re a fare distinzioni tra una parte e l’altra in lotta. Un esempio tipico di tale atteggiamento si ha ogni volta che in Alba e sulle colline, da parte dei fascisti o dei partigiani, ha luogo un’esecuzione: si pensi a racconti come Vecchio Blister o Un altro muro (Ventitre giorni). Il chiudersi di finestre e porte nei paesi attraversati dai partigiani in ritirata o in fuga non è soltanto la spia di un comprensibile timore dinanzi alla rappresaglia prevedibile che attende gli abitanti inermi: è anche e soprattutto una manifestazione di rifiuto nei riguardi di una vicenda di cui quella gente non comprende la logica. Tra la gente e le due parti in lotta c'è un abisso, incolmabile per quanto riguarda i nazifascisti, ma netto e ben percepito anche per quanto riguarda i partigiani. Si pensi alle parole che iniziano il capitolo XII (prima redazione) de /l partigiano Johnny: Johnny si sentiva come può sentirsi un prete cattolico in borghese o un militare in borghese: le armi razionalmente celate sotto il vestito, il segno era sempre su lui: partigiano in aeternum... Era terribilmente diverso da tutta la gente che batteva la grande strada di cresta: rada, sullen, aggricciata gente che batteva la col. lina per bisogni e passioni supremi: il dèmone della borsa nera, la mendicatizia ricerca di legna da ardere, o la chiamata del prete per una estrema unzione. I più, i pigri, stavano a vista e distanza

25

della strada, immobili e tesi sui noti campi, cosi diffidenti da non abbandonarsi a un richiamo o a un fischio dalla strada.

L’estraneità, oscillante di volta in volta tra accettazione e rifiuto, tra adesione e ostilità, che i protagonisti dei racconti partigiani avvertono nei riguardi del mondo umano della cam-

pagna, è la stessa che caratterizza, nella narrativa fenogliana,

il rapporto tra l’essere umano e il suo ambiente o, per dirla in termini più generali, la natura. Anche perché nella rappresentazione di Fenoglio la natura e i suoi elementi tendono spesso, con un crescendo dai primi scritti agli ultimi, ad assumere connotazioni animate. Per cui il loro concorrere agli sviluppi negativi della vicenda è spesso presentato come la manifestazione ostile di una volontà quasi consapevole. Tale è sempre la pioggia nella rappresentazione fenogliana fin dal racconto Pioggia e la sposa che chiude la prima raccolta del 1952. Qui la pioggia e i fenomeni meteorologici concomitanti (nuvole, fulmini e tuoni) appaiono già dotati di una loro personalità malvagia e ostile. Lo scrosciare della pioggia, i fulmini e i tuoni che l’accompagnano sono una manifestazione

di collera, un

« atto

di guerra » del cielo

contro

i tre

protagonisti — la zia, il figlio prete e il nipote — incamminati senza riparo alcuno per una strada che li porta, in vista di un improbabile pranzo di nozze, verso un luogo « sconosciuto » e « barbaro » (« Io domandai cauto alla zia dov'era la casa di questa sposa che ci dava il pranzo. — Cadilù, — rispose breve la zia, e io trovai barbaro il nome di quel posto sconosciuto come cosi barbari più non ho trovati i nomi d'’altri posti barbaramente chiamati »). Tutto il paesaggio all’intorno sembra spirare collera e minaccia: La pioggia scrosciava sul nostro tetto e sul fogliame degli alberi vicini, la mia stanza era scura come l’alba del giorno... Andai semisvestito dietro di lei a guardar fuori anch’io e vidi, in terra, acqua bruna lambire il primo scalino della nostra porta e in cielo,

dietro la pioggia, nubi nere e gonfie come dirigibili ormeggiati agli alberi sulla cresta della collina dirimpetto... Dal margine del bosco guardando giù al piano si vedeva il torrente straripare, l’acqua scavalcava la proda come serpenti l'orlo del loro cesto... Scoccò il primo fulmine, detonando cosi immediato e secco che noi tre ristemmo come davanti a un improvviso atto di guerra. — Comincia proprio sulle nostre teste, — disse il prete rincamminandosi col mento sul petto.

È una collera soltanto apparentemente casuale: almeno due dei protagonisti — la zia e il suo figlio prete — sono convinti che essa ha di mira le loro persone, a causa dei mutui rancori da cui sono divise, e che se essa non può rag-

26

giungere l'effetto distruttivo a cui mira, ciò è dovuto soltanto alla presenza di un essere innocente: : Dietro ci veniva il prete con le mani giunte e pregando forte in latino, ma nemmeno io credevo al buon effetto della sua preghiera, perché la sua voce era piena soltanto di paura, paura soltanto di sua madre. E lei alla fine gli disse: — Se il fulmine non ci ha presi è perché di lassù il Signore ha visto tra noi due questo innocente.

Ancora la pioggia apre la serie negativa e nera de La malora (« Pioveva su tutte le Langhe, lassà a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua sottoterra », sono le parole

iniziali

del romanzo)

e chiude,

emblematicamente,

la vicenda di Una questione privata. Nel capitolo XII, il penultimo, essa è soltanto incombente, come una minaccia: La pioggia visibilmente premeva contro l’ultimo strato di cielo, ma forse, cosi pensava il tenente, la cosa si sarebbe fatta prima che cadesse il primo rovescio.

Ma cosi non sarà. L’ultimo capitolo vedrà la pioggia incontrastata protagonista, quasi dotata di una volontà malvagia, travolgere uomini e cose, salvo forse il protagonista (un innocente anch’egli?), verso il disfacimento e la morte: Pioveva come non mai, a piombo, selvaggiamente. La strada era come una pozzanghera senza fine nella quale egli guadava come in un torrente per lungo, i campi e la vegetazione stavano sfatti e proni, come violentati dalla pioggia. La pioggia assordava.

Anche la villa di Fulvia, la donna amata, apparirà a Milton, il protagonista, sotto i rovesci della pioggia, sfigurata, « decisamente brutta, gravemente deteriorata e corrotta, quasi decaduta di un secolo in quattro giorni ». Attraverso quell’inferno d’acqua e di fango il protagonista, pieno di stanchezza e di nausea (« Sono fatto di fango, dentro e fuori », egli si dice), cerca di aprirsi un varco verso chissà dove, camminando

«con furore, rispondendo al furore della pioggia ». La lotta a questo punto, è chiaro, non è più soltanto tra il protagonista e i suoi avversari umani: entrambi, si direbbe, si trovano a fare i conti con una forza che, quasi fosse stata a

lungo repressa o oppressa, si scatena all'improvviso con indomabile furore. Non è soltanto la pioggia a infierire. Tutta la natura, nei suoi vari aspetti, sembra

agguato e trappola mortale

diventare

ostile, farsi

per l’uomo:

Dietro, davanti e intorno a lui la terra si squarciava e ribol. liva, lanci di fango svincolati dalle pallottole gli si avvinghiavano



alle caviglie, di fronte a lui gli arbusti della riva saltavano crepiti secchi.

con

Ma, in maniera altrettanto improvvisa e misteriosa, quella forza si placa e diventa quasi protettiva e materna. Si leggano, a riprova, le parole conclusive di Una questione privata: « Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò ». Al pari della pioggia anche il vento appare nella rappresentazione fenogliana, soprattutto nel Partigiano Johnny, come

un

essere

animato

e ostile:

« nero », « sinistro », « paz-

zo », « demoniaco » sono gli aggettivi con cui lo qualifica lo scrittore che, per descriverne gli effetti insinuanti e dirompenti, lo paragona talora a un serpente o a un fiume in piena. La parte di protagonista che il vento ha nel romanzo partigiano è esercitata dalla nebbia in Una questione privata: essa influenza in modo decisivo il punto nodale della vicenda, cioè la cattura

di Giorgio, l’amico

di Milton e di Fulvia, che,

a causa della nebbia appunto, incappa in una colonna di nazifascisti. Anche la nebbia è descritta in maniera negativa e con tratti animati e minacciosi: « banchi di nebbia alti al suo ginocchio, che come greggi gli attraversavano la strada »; « la nebbia aveva anche risalito i versanti, solo alcuni pinastri in vetta ne emergevano, sembravano braccia di gente in punto di annegare »; «un immenso e compatto volume di nebbia schiacciava l’altopiano sottostante »; « La nebbia!... Immaginati un mare di latte: fin contro la casa, con delle lingue e delle poppe che cercavano di entrare nella nostra stalla »; « nebbia iniqua ». Ma con la nebbia riappare quell’aspetto bivalente, negativo e positivo, che, con l’esclusione della pioggia e del vento, abbiamo detto in precedenza esser proprio della rappresentazione fenogliana del paesaggio e della natura. La nebbia infatti, fatale a Giorgio, è provvidenziale invece ai suoi compagni che riescono a sfuggire alla cattura, e impedisce alla colonna nemica di piombare sul quartier generale dei partigiani. La stessa cosa vale per la neve. In una pagina famosa del Partigiano Johnny (capitolo XX della seconda redazione) il protagonista quasi l’adora come un’apparizione celestiale che viene a liberarlo dall’incubo dell’inseguimento fascista. Ma in precedenza (capitolo VIII della prima redazione) essa era stata presentata come l’elemento che aveva contribuito in maniera decisiva alla morte « del primo caduto della brigata », che dentro la neve si era trovato piantato « come un alato nel miele, cosi sicura preda ».

Questo aspetto bivalente è proprio anche di altre compo-

28

nenti del paesaggio fenogliano. Pensiamo al fiume Tanaro, il cui ingrossarsi, come sopra si è accennato, è visto dapprima come un evento provvidenziale (« la gente ci vide il dito di Dio »), e che è — in tempi di normalità — « manso come un agnello », ma che rivela d’un tratto un’altra natura, « esage-

ra », « sì rizza in piedi » tanto cresce e appare come una belva, una sorta di dragone apocalittico (« enfiato e teso come un animale dopo preda »), infido come un serpente, « che di notte fa migliaia di rumori tutti sospetti ». Anche la terra si presenta di volta in volta amica e nemica dell’uomo sia in pace sia in guerra. Ai partigiani braccati essa offre —

con i suoi anfratti, forre e calanchi —

luo-

ghi ideali di protezione e rifugio che si rivelano però, al tempo stesso, come micidiali e ineludibili trappole di morte; morbida

e soffice

a chi vi cerca

il riposo

d’un

momento,

essa,

quando la pioggia l’intride e l’infradicia, si trasforma in fango vischioso che frena la marcia verso la salvezza. In tempo di pace è terra aspra e « porca » che spezza la schiena e succhia il sudore di chi la lavora: eppure il sogno supremo di chi su di essa

fatica, come

il Tobia

della Malora,

il suo

so-

gno di ritorno a un paradiso perduto è quello di poterne acquistare un pezzetto tutto per sé, da passarci gli ultimi giorni con negli occhi la visione di stagioni più miti, di una condizione di vita che renda più sereno il rapporto dell’uomo con il suo ambiente. È lo stesso sogno che rende meno gravoso, sempre nella Malora, il lavoro di Agostino, il protagonista che è servo di Tobia. Egli è partito dal suo paese natio, San Benedetto, un posto anche più aspro e selvaggio di quello in cui ora si trova e che, proprio a causa di quelle caratteristiche negative, ha reso necessari il suo esilio e il suo precipitare in una condizione di quasi schiavità. Eppure il ritornarvi rappresenta per lui proprio la liberazione, il recupero della libertà, il ritorno a una sorta di paradiso perduto. E quando, per il verificarsi di circostanze impreviste, il ritorno diventa possibile, l'atteggiamento del protagonista è quello di chi, dopo un lungo e doloroso pellegrinaggio, raggiunge la patria perduta o la terra promessa: Arrivato a veder San Benedetto, posai il fagotto in mezzo alla strada e feci giuramento di non lamentarmi mai anche se dovevo restare fino a morto e sotterrato e viverci sempre solo a pane e cipolla, purché senza più un padrone. E poi scesi incontro a mia madre, che anche per lei quello era il primo giorno bello dopo chissà quanto.

È il raggiungimento dibile:

di un sogno insperato, quasi incre-

29

Le prime mattine, avevo un bel chiodo, la prima cosa che facera cevo da alzato era guardare dalla finestra ; se la mia terra È ancora,

se nella notte una

frana non

me

Le riflessioni fatte in precedenza

l’avesse mangiata...

ci permettono,

forse, di

trarre alcune conclusioni. La prima è che la presenza della natura e del paesaggio nella rappresentazione fenogliana non obbedisce, se non in un primo tempo, a esigenze di carattere documentario e funzionale alla narrazione: si tratta piuttosto di un elemento che tende a svilupparsi, a intensificarsi, e a configurarsi in maniera quasi autonoma, in correlazione con l'evoluzione,

sul piano

formale,

ideologico

e spirituale,

dello

scrittore. Il dilatarsi della presenza della natura e del paesaggio, abbiamo

visto —

e questa potrebbe

essere

un’altra

con-

clusione —, è governato, nella rappresentazione fatta dall’autore, dall’accentuarsi dei toni negativi, per cui il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive si configura spesso come una condizione di estraneità o, per meglio dire, di conflittualità, per cui l’uomo avverte la natura come entità ostile e quasi dotata di una volontà malvagia. Si tratta, evidentemente,

di un atteggiamento

dell’animo

umano che proietta nelle manifestazioni della natura i propri sentimenti di gioia e di dolore, le speranze o i presentimenti di catastrofe. Ma la tendenza costante che si ritrova in Fenoglio ad attribuire agli elementi e ai fenomeni naturali connotazioni animate e quasi personali non è forse da spiegare esclusivamente in chiave metaforica. La contrapposizione tra uomo e natura e il carattere ambivalente di quest’ultima, per cui appare di volta in volta malvagia e benigna, hanno probabilmente il loro archetipo nel racconto biblico della caduta dell’uomo

e della sua cacciata

dall’Eden, un racconto

che Feno-

glio conosceva certamente per lettura diretta della Bibbia ma che gli era familiare soprattutto attraverso la lettura dei suoi prediletti autori inglesi, in primo luogo del Paradiso perduto del grande Milton. Quel racconto parlava di una inimicizia tra l’uomo e la natura, di una maledizione

della natura

a

causa del peccato dell’uomo. Sulla scia di quel racconto la tradizione cristiana, per bocca dell’apostolo Paolo, raffigurava la natura come una creatura sofferente in attesa della liberazione, assimilando il suo dolore a quello di una donna in attesa del parto. ._ Nonè forse impossibile, quindi, vedere nella natura, quale ci viene incontro dai racconti di Fenoglio, con le sue asperità e le sue dolcezze, la sua ostilità e la sua benevolenza, l'eco indiretta di una lunga tradizione che la vuole compagna, nel bene e nel male, dell’uomo

nell'espressione,

30

riportata

e del suo

in apertura,

destino. Se cosi è,

di Cecchi,

che parla

di « relazione disperatamente fraterna o spietatamente antagonista tra l’uomo e la terra », possiamo vedere, per conto nostro, anche in questo caso qualcosa di più di una semplice metafora e dare alle manifestazioni ostili o benigne della natura il valore di una condanna o di un’approvazione nei riguardi dell’uomo da parte di un’entità a lui legata per comunanza di origine e di sorte. Al centro della condanna pronunziata dalla natura contro l'uomo sembra esserci il suo istinto di violenza che, lacerandolo interiormente, lo porta all’esterno a cercare la distru-

zione dei suoi simili e delle cose. Per cui l'atteggiamento ostile della natura si configura talora come la ribellione di una creatura

conculcata,

umiliata

e offesa.

Nel racconto L’andata (Ventitre giorni) — che narra l’agguato teso da un gruppo di partigiani a un sergente della repubblica in un'osteria alla periferia di Alba, agguato finito poi male perché al ritorno il gruppo s'imbatte nella cavalleria fascista che ne fa strage — la descrizione del paesaggio, nel momento in cui il gruppo s’incammina per la sua impresa, spira pace e serenità: Da quella piazzetta si domina un po’ di Langa a sinistra e a destra le colline dell’Oltretanaro dopo le quali c'è la pianura in fondo a cui sta la grande città di Torino. I vapori del mattino si alzavano adagio e le colline apparivano come se si togliesse loro un vestito da sotto in su.

Il capo del gruppo, Negus, non può trattenersi dall’esclamare « come tra sé: — Questo mondo è fatto per viverci in pace ». Ma, dopo l'irruzione nell’osteria, sulla via del ritorno, nel momento che precede l’agguato della cavalleria, è come se l'aspetto del paesaggio fosse all'improvviso mutato: le immagini a cui

Fenoglio

ricorre

nel

descriverlo

dànno,

anche

in

questo caso, l’idea di qualcosa di maligno che collabora alla catastrofe: « Fecero senza tregua due colline, marciando tutti curvi, come se alle spalle avessero un gran vento »; « al loro

passaggio i cani alla catena latravano »; « Negus fece la raffica, il sergente cadde rigido in avanti come se una trappola nascosta nell’erba gli avesse abbrancato i piedi »; « dalla strada saltò sulla ripa e dalla ripa sul pendio, ma appena ci posò i piedi, capi che quello era il più traditore dei pendii, l'erba nascondeva il fango »; « lui era un lucertolone impaniato nel fango ». Il volto maligno attribuito alla natura è dettato evidentemente dal presentimento della catastrofe. Alla fine del racconto infatti, quando anche Negus colpito a morte rotola per il pendio, è come se si ristabilisse un'intesa tra lui e quel mondo di pace che aveva contemplato al mattino, muovendo

31

verso quell’impresa di morte: « Scivolava giù per i piedi, e le sue mani aperte trascorrevano sull'erba come in una lunghissima carezza ». Ma quando l’uomo è in pace con se stesso e con gli altri, allora anche il suo rapporto con l’ambiente in cui vive è improntato a serenità e armonia. La scena finale della Malora, che illumina tutta la vicenda di un barlume di speranza, ha come cornice un ambiente naturale, pacifico e pacificante, che sembra richiamare il giardino dell'Eden: madre e figlio dentro una vigna, in mezzo alla quale un melo (oggetto, come la vigna, delle assidue cure e attenzioni del protagonista) sta per germogliare e coprirsi di foglie e di fiori. E da quel luogo di pace, finalmente, una preghiera piena di umiltà e di fiducia può trovare la via del cielo.

32

Giorgio Bàrberi Squarotti

L'EROE, LA CITTA, IL FIUME

In alcune pagine che si riferiscono a Una questione privata e che sono state pubblicate per la prima volta sulla rivista « Sigma », Fenoglio cerca di dare una conclusione definitiva alle vicende e ai problemi del suo protagonista Milton, che non muore affatto, come (chi sa mai perché) molti hanno detto

parlando dell’ultima, folle corsa dell’eroe inseguito dai fascisti dopo che tutto il suo piano di cattura di un prigioniero fascista per farne lo scambio con Giorgio e sapere cosi come davvero stiano i rapporti fra lui e Fulvia è fallito, perché il prigioniero ha cercato di fuggire e Milton ha dovuto sparargli; anzi, la lunghissima corsa di Milton sulla strada di campagna, nel torrente, attraverso un campo, su verso la collina, poi nella borgata, due volte attraversata per vedere gente e convincersi di essere ancora vivo, si configura come l’epica sfida dell’eroe alla morte, nella quale l’eroe non può morire a opera dei soldati, tanto a lui inferiori per capacità, prontezza, vigore, tanto è vero che, pur sparandogli in tanti, mentre è vicino e poi mentre si trova del tutto allo scoperto, pur avendo perduto la pistola dopo il primo scatto e la prima scivolata nel fango per fuggire, non è colpito e, anzi, nella velocità fantastica e quasi immaginaria della corsa, finisce a distanziare

i fascisti, anzi li cancella

addirittura,

li fa spa-

rire nella lontananza di un'infinita inferiorità di precisione, di decisione, di forza soprattutto nella gara di corsa che è la gara con la morte, nella quale l’eroe non può che riuscire vincitore.

sperare tanto

Correndo,

Milton

che lo colpiscano

ferito,

soprattutto

continua

a pensare

alla morte,

a

subito a morte, che non resti soldopo

che

si è accorto

di aver

per-

duto la pistola e, di conseguenza, di non poter più uccidersi, come da sempre ha deciso di fare piuttosto che essere catturato. La sua corsa è, allora, si la sfida estrema, la scommessa impossibile di salvezza dagli innumerevoli nemici che di colpo sono comparsi da tutte le parti, ma è soprattutto la sfida contro il nemico vero, che è la morte; e l’eroe, se può vincere, sia pure nel modo arduo, fantasticamente avventurato, i nemici, deve provare di essere invulnerabile, come effettivamen-

te si dimostra, dal momento che vede le pallottole tagliare la cima delle erbe, conficcarsi nel fango, proprio vicino a lui,

33

ma come rese vane, smaterializzate, non più portatrici di pericolo: « Due pallottole si conficcarono in terra vicino a lui, morbide, amichevoli ». L’invulnerabilità non è una qualità dell’uomo, ma di quel semidio della guerra che è l'eroe: e Milton a poco a poco si rende conto di non poter essere colpito, perché la sua corsa è al di là delle normali capacità umane, è più veloce di qualsiasi corsa che mai sia stata compiuta da un altro uomo, ha un carattere assoluto, incomparabile, che fa si che fra lui e i nemici e, di conseguenza, anche la morte si apra uno spazio invalicabile,

quello

del suo

trionfo

nei

confronti

dei

li-

miti umani, della natura, fino a raggiungere quella pace che è il segno

dell’essere

egli, Milton,

l'eroe, come

una

divinità

vittoriosa proprio in quella gara di corsa che, invece, in ogni altro caso facilmente la morte vince, dopo aver illuso la vittima predestinata: Correva come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, balenavano come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e

semiciechi. Correva, e gli spazi e gli urli scemavano, annegavano in un immenso, invalicabile stagno fra lui e i nemici.

Lo spazio è vinto: fra l’eroe Milton e i nemici e la morte che sembrava

certa c’è una

distanza immensa

e invalicabile,

uno « stagno », come scrive Fenoglio, mentre davanti ha le creste di vivo acciaio delle colline che mandano balenii di luce. I nemici e la morte sono rimasti implicati nello « stagno » che loro compete, mentre l’eroe è libero e salvo, senza una ferita, trasfigurato, anzi, in un essere semiferino, e divino

proprio per questo in modo ancora più accentuato ed evidente: « Irruppe Milton, come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi ». È una straordinaria metamorfosi, che rileva visivamente il carattere dell'eroe invulnerabile, che

ha trionfato nella sfida con la morte, pur essendo partito dalla condizione più sfavorita che sia possibile immaginare, mentre va alla villa di Fulvia per farsi confermare quello che la custode già gli ha detto dei rapporti intimi fra Fulvia e Giorgio, impreparato a ogni combattimento, per di più ancora con la delusione per il fallimento del piano per liberare Giorgio prigioniero ad Alba con uno scambio. La conclusione della corsa è nella sicurezza completa della collina, del bosco, che è il luogo che gli compete, il rifugio solido come un muro, dove l’eroe solitario può fermarsi, dopo aver definitivamente fuggito non soltanto, allora, la morte, ma anche l’amore, la città, la vita di prima della

34

lotta, le amicizie e i rapporti di un tempo. Non per nulla Milton pensa: « Sono vivo. Fulvia. Sono solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi! ». Fulvia è la morte, in quanto è il non amore, il tradimento, quello che ha fatto si che tutto andasse storto per Milton, dalla cattura inutile del fascista, che, per

di più, provoca l’esecuzione dei due ragazzi Riccio e Bellini che sono prigionieri dei fascisti a Canelli e che il comandante del presidio ordina di fucilare dopo che il cadavere del sergente ucciso da Milton è stato ritrovato, alla pioggia che tutto invilisce e annera nel paesaggio e nella stessa lotta partigiana, col fango che finisce a cospargere di sé luoghi e persone, fino all’agguato dei fascisti proprio presso la villa di Fulvia, una quantità di fascisti là dove non c’era nessuna ragione plausibile che fossero. Se Milton fosse stato ucciso, Fulvia, come egli commenta quando ormai sa di essere salvo, ne sarebbe stata, in realtà, la colpevole: i fascisti non più che lo strumento. Ma l’eroe scampa, quasi perfino sollevato dalla terra come nel miracolo di una corsa sovrumana: « Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati ». Nella lotta partigiana, l’amore è veramente la morte, quella che il nemico è pronto a tradurre in evento, come

è accaduto

al sergente

fascista, uscito

dal suo presidio per andare a trovare la sarta di cui è l'amante, come rischia di accadere a Milton neppure per vedere

Fulvia, per meno,

per molto

meno

ancora,

che, però, è

fondamentale per lui, cioè per sapere se Fulvia e Giorgio sono stati davvero amanti. Dalla prova l’eroe risulta esaltato, fino al punto di volerne la verifica pubblica, ufficiale, quando, dopo aver aggirato la borgata, vi ritorna per avere la conferma del trionfo: di essere vivo, nello straordinario aspetto di un’epifania sovrumana, mitica: Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che era vivo, non uno spirito che aliava nell’aria in attesa di incap-

pare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l'imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C'erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svolta... Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano, presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava.

L’epifania dell’eroe suscita quel grido che ne consacra la vittoria sull’inganno, sul tradimento, sulla morte. È il passaggio dalla condizione di partigiano come gli altri, sia pure solitario, inteso a una sorta di guerra personale, a quella di eroe, che è irraggiungibile e invulnerabile, oggetto di stupore e del grido adulto, quando cosi appare alla gente del borgo sconosciuto dove è arrivato nella sua straordinaria corsa. Al

35

l’inizio del romanzo via, quando

Milton aveva immaginato

l’avesse reincontrata,

cada, nella villa che la ragazza Torino:

di dire a Ful-

è impossibile che ac-

come

ha lasciato per ritornare

a

Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto. Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso.

Allora non è la lotta a trasformare l’uomo Milton, non le esperienze di vita attraversate, non quelle di morte. I pensieri di Milton sembrano racchiudersi in una sorta di riassunto testamentario di tutta la propria vita da consegnare idealmente

a Fulvia,

come

una

delle

molte

lettere

che

un

tempo, prima della guerra civile, Fulvia ha imposto al giovane che ancora non era Milton di scriverle, per una sorta di piacere dell’omaggio amoroso e galante. Ma ciò che trasfigura Milton è l’esperienza assoluta che attraversa: l'agguato dei fascisti, gli spari, la fuga, la corsa meravigliosa, come nessuno mai ha corso, e la cancellazione,

in questo

punto,

di Fulvia

che quasi lo ha ucciso, per rientrare totalmente e in modo salvifico in quella natura delle Langhe che è lo spazio adeguato di lui eroe: Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. Era perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.

Il bosco si chiude come un muro dietro Milton che, pur già salvo, ha continuato a correre al di là di ogni limite umano, in una sorta di corsa assoluta, tanto è facile e irresistibile,

che non è più ormai dettata dalla necessità di sfuggire ai fascisti, tanto

è vero

che

intorno

all’eroe

sono

solitudine,

si-

lenzio e pace, che è una parola magnifica e terribile nel momento in cui è pronunciata da Fenoglio dopo tutto quello che è accaduto nel brevissimo periodo temporale entro cui è racchiuso il romanzo, nella continuità e nell'unità di tempo dettata dal margine infinitamente esiguo che rimane a Milton, dopo la catiura di Giorgio da parte dei fascisti, per cercare di liberarlo e risolvere la sua « questione privata », quella di Fulvia (e la «pace» nella natura rimanda all'episodio de Il partigiano Johnny quando Johnny, dopo la perdita di Alba e la lunga fuga per le colline, inseguito dai fascisti, stremato, si rifugia in una capanna e, quando si risveglia, si trova cir-

36

condato dalla straordinaria pace della neve che è caduta su tutte le Langhe e che ha posto fine a inseguimenti e fughe, alla guerra stessa, in una sospensione che sembra poter essere tanto lunga che i bambini giocano come se la guerra non fosse mai esistita e Johnny si ritrova a pensare al dopo, a quando, cioè, tutto sarà davvero finito). Il bosco è il muro della fortezza dietro il quale l’eroe può crollare, perché li è davvero salvo e sicuro. Gli alberi sembrano chiudersi dietro a Milton che vi è corso in mezzo, come a quella meta a cui aveva teso fin dall’inizio della corsa eroica e invincibile. Non le mura di una città raccolgono Milton salvo, ma quelle di un bosco. Le città, come Alba e Canelli, sono dei nemici, ma le colline, con tutto quello che

contengono, prati, torrenti, vigne, il bosco infine, sono lo spazio del nuovo eroe della lotta contro il male, quale si incarna nel protagonista di Una questione privata. Invano, allora, Fenoglio cerca di far morire il suo eroe, e sceglie, per lui, la glorificazione, in contrapposto a quella morte che ne avrebbe significato, per quanto epicamente potesse essere descritta, la sconfitta davanti al male e la conseguente rinuncia a contrapporvi, non soltanto, allora, nell’ambito della lotta fra partigiani e fascisti, ma per sempre nella storia, l'eroe invulnerabile, immortale, non assoggettato alle regole e ai limiti degli altri uomini

(come Achille, come

Enea, come

Tancredi

o

quel Rinaldo che, per un poco, Milton ha ripetuto in sé, quando l’amore ha prevalso in lui sulle ragioni della lotta e la questione storica ed etica è diventata una questione privata fra lui e Fulvia e, attraverso Fulvia, Giorgio). In uno dei frammenti rimasti fuori del romanzo cosi come è stato pubblicato, Milton viene ucciso sulla riva del Tanaro, o, meglio, l’ufficiale fascista gli spara a tradimento, e Milton cade nel fiume, senza

che espressamente Fenoglio lo dica morto, quasi ancora presentando quest’ultimo salto nel vuoto del suo personaggio, certamente, questa volta, pur colpito, come per lasciargli una eventualità di scampo, un’ultima fuga, che le acque del Tanaro rendano possibile, trascinando via il corpo e sottraendolo in questo modo alla possibilità che i fascisti lo finiscano. Ma in un altro frammento, Fenoglio pensa di poter dare una conclusione adeguatamente epica e mitica alla fine di Milton.

È la scena con i due traghettatori del Tanaro,

verso Asti, che vedono passare nel fiume un corpo e ne commentano il viaggio, che, a questo punto, già è sfumato nella ripetizione del mito del passaggio da parte dei morti del fiume d’Acheronte, e i traghettatori reincarnano allora le figure dell’al di là mitico, incaricate, appunto, di trasportare i morti nel loro regno, tanto è vero che cercano,

loro lavoro, di fermare

il cadavere

con le pertiche

del

e di raccoglierlo. Anche

DT

se perfino a questo punto permane un'ombra di ambiguità sulla sorte di Milton, in quanto l’episodio si arresta prima del ricupero del corpo, tuttavia sembra chiara l'intenzione di Fe-

noglio di dare all’eroe protagonista dell’amplissimo romanzo partigiano una fine adeguata. L'eroe finisce nell’archetipico

fiume dei poemi epici (lo Scamandro, il Simoenta, il Tevere, ecc.), che si trasfigura nel fiume dei morti, con i traghettatori verso l’al di là, e anche con le considerazioni che questi fanno

sui molti corpi che scendono lungo la corrente del fiume e sui tempi che sono cosi crudelmente saturi di violenza e di morte. Ma, infine, Fenoglio sceglie l’altra e, per il suo personaggio, più adeguata strada: quella, appunto, della consacrazione a invulnerabile, che, allora, ricupera anche il finale di Primavera di bellezza, dove la probabile (ma non apertamente detta) morte del protagonista nello scontro con la colonna tedesca che ha bruciato Boves e ha ucciso i primi resistenti, caricandoli, poi, sui camion, è un’imposizione editoriale, sembrando al consulente una conclusione adatta per

un

romanzo

secondo

quella di far morire

lo schema

del romanzo

il personaggio

principale,

« chiuso » a cui, invece, tutta

la grande costruzione narrativa edificata intorno all’eroe, Mil. ton o Johnny che sia chiamato, contraddice chiaramente. L’eroe non muore, né in Primavera di bellezza, né in Una questione privata, né ne Il partigiano Johnny, che, anzi, si conclude con la splendida notizia, che esclude da sé l’eroe,

rimasto «

nella sospesa

riga precedente

con

l’arma

in mano:

Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico

[....].

Due mesi dopo la guerra era finita ». Non è una conclusione casuale: l’eroe è presentato per l’ultima volta con in mano il fucile del compagno di lotta, appena ucciso, nell’atto di alzarsi in piedi, dopo che lo scontro

con

i fascisti è finito con

la sconfitta dei partigiani. È la posizione che gli compete, di fronte

al semiautomatico

dei

nemici,

di cui

non

si sa

più

nulla, dopo, ne resta la sola parola, quella che è già ritornata tante volte nella narrazione

del combattimento,

sempre

come

il pericolo supremo per Johnny stesso, all’inizio, quando si trova a essere il partigiano più avanzato verso le case dove il gruppo di fascisti si è asserragliato, e poi il portatore di morte per i compagni, per Tarzan, che ne viene colpito in pieno (e allora il fatto che con il fucile di Tarzan Johnny si alzi, alla fine, in piedi, quando neppure più pensano a sparare i fascisti vittoriosi, che hanno ricevuto rinforzi, rappresenta un altro aspetto dell’epifania dell’eroe, attraverso il quale passa la continuità dei compagni di lotta). Se mai, in Una questione privata e ne Il partigiano Johnny, la morte costituisce la presenza

costante

tenta o cerca continuamente

38

davanti

all’eroe, quella che lo

di coglierlo, ma dai cui agguati

egli esce sempre intatto. Proprio per questo cosi frequentemente Fenoglio, nella descrizione degli scontri a cui l’eroe partecipa, insiste sulle raffiche nemiche, sulle pallottole che l'eroe ode passargli accanto o piantarsi nel terreno, sui compagni che gli muoiono vicino. Sono modi per rilevare meglio l'invulnerabilità dell'eroe, come la conclusione di Una questione privata dimostra nel modo più chiaro (ma anche lo scontro finale de Il partigiano Johnny). D'altra parte, lo stesso Johnny è ben consapevole della propria impossibile morte: . Johnny

lo segui con

gli occhi finché poté, leggendogli

schiena incurvata tutti gli sforzi ricostitutivi di Némega,

nella

tutto ciò

che avrebbe visto, passato e sofferto in futuro e come sarebbe morto in un particolare scontro partigiano in cui Johnny non sarebbe morto.

Come

eroe, sa delle vicende

degli altri, della loro morte,

della propria invulnerabilità. Giunge fino a vedere il momento in cui la sorte dei suoi compagni partigiani è segnata: nel futuro della lotta, come nel caso dell’ignoto partigiano incontrato a Murazzano,

che vuole

andare

alla Lovera,

dove

sarà la

nuova base del reparto vinto e disperso nello scontro con i fascisti e con i tedeschi, oppure nell’immediatezza della battaglia che sta per svolgersi dopo che i partigiani hanno lasciato Mombarcaro per cercare di sfuggire all’accerchiamento:

Verso mezzanotte, le ultime squadre erano pronte per la partenza. — Abbiamo probabilità, Biondo? —, domandò un uomo. — Fattore campo, — disse il Biondo semplicemente, ma con una serietà sinistra. Allora Johnny pensò che fra un paio d'ore, su quella particolare terra, sotto quella universale luna, sarebbe stato, novanta su cento, morto o prigioniero, e pensò how sorry he ought

to be. L’eroe conosce la sorte degli altri, anzi vede il destino qua-

le già gli dei hanno deciso prima che lo scontro effettivo abbia inizio: e lo vede secondo l’immagine epica di Giove con le bilance su cui ha posto i due contendenti, e l’una, quella dei partigiani, è andata subito in basso, onde Johnny può riconoscere subito che il risultato è segnato in cielo, e non c'è nulla da fare oltre che battersi con onore e poi cercare di sfuggire alla morte, per riprendersi e ritrovarsi un’altra volta alla lotta: Ma

alle nove e mezzo, nel cuore

del buio e della pace, saettò

in cielo un razzo rosso, che per un attimo si spanciò a pallone e poi si volatizzò. Era il segnale di un ufficiale tedesco a un collega per avvertirlo che le cose del programma erano state attuate

39

secondo l'intesa, ma a Johnny parve di vedere pendere la bilancia di Giove.

L’eroe ha in dote anche la capacità della visione profe-

tica, della rivelazione della volontà degli dei, della morte

dei

compagni. È colui che sa, prima che gli eventi accadano, quale ne sarà la conclusione. Anche nella pagina conclusiva de Il partigiano Johnny fin dall'inizio dell'attacco ai fascisti asserragliati nel gruppo di vecchie cascine Johnny sa e dice che i fascisti non si arrenderanno e tutto finirà in un pasticcio: « Molto probabilmente finirà in un pasticcio, — disse Johnny, — ma ha da esser fatto. La ruota dev’esser rimessa in moto, anche se i suoi primi denti macineranno proprio noi ». La stessa immagine della ruota (del destino, della morte, del-

la guerra) appartiene a un parlare epico, come le bilance di Giove; e cosî il linguaggio del destino che ritorna a volta a volta, a rilevare i momenti di più profonda tragicità e di più immediata

consapevolezza

della

sconfitta,

del

pericolo,

dei

morti appena lasciati in qualche parte delle colline: Da una sella ebbe una parziale visione della città, accosciata in una ansa del fiume, sotto la pressura di vapori e destino [...]. E pensò che forse un partigiano sarebbe stato come lui ritto sul. l'ultima collina, guardando la città e pensando lo stesso di lui e della sua notizia, la sera del giorno della sua morte. Ecco l’importante: che ne restasse sempre uno. KS

L'’invulnerabilità, allora, dell'eroe è anche in questa continuità: Johnny, come Milton, rinasce necessariamente dopo ogni morte, sua e dei compagni, per una continuità che, nei confronti della morte in combattimento, ne costituisce la negazione, la vittoria, soprattutto nei momenti più difficili, dopo il rastrellamento di Mombarcaro, quando Johnny è ancora con la Stella Rossa, nella battaglia di Alba, dopo la sconfitta, sul potere che essa sembra avere su tutti gli altri, capi, amici, gregari, compagni. Nel passo citato, Johnny ripete la vana e

disperata contemplazione della città amata e perduta, per la cui difesa egli si è battuto,

senza

risultato, senza

essere

riu-

scito a salvarla. Già prima della battaglia di Alba Johnny ha rivolto, con un indugio maggiore, il suo sguardo alla sua città che sta per essere presa dal nemico e appare nel tramonto fragile e già perduta: ed è lo sguardo del difensore che sa vana la resistenza sua e dei pochi che sono rimasti con lui, ma che soprattutto esprime l’amore disperato per la città, tanto più profondo e più doloroso, in quanto la disperazione nasce dalla certezza che tutto è stato vano e, soprattutto, inutile quanto, tuttavia, doveroso l’estremo gesto d’amore che è il perderla onorevolmente dopo averla difesa:

40

Johnny andò a una finestrella intagliata nel muro nudo e attraverso essa vide le ombre delle mura della città nei vapori bassi danzanti, le torri e i campanili svanivano nel cielo cinerognolo. Mai come in quel momento capi quanto ci tenesse alla città, quanto pericolo essa corresse e quanto poco egli potesse fare per essa. È la situazione di Argante che, nel poema del Tasso, usci-

to da Gerusalemme per il duello finale con Tancredi, nel quale sa che morirà, si volge per l’ultima volta a guardare la città da lui invano difesa e ormai perduta, con la ferma disperazione dell’inutilità di tutto quello che ha fatto e la consapevolezza di non poter fare più nulla per salvarla. E ancora il protagonista di Fenoglio ripete il gesto dell’eroe epico: e, in questo modo, non soltanto precisa la propria prosopopea eroica, ma sublima anche la città che è oggetto della meditazione rapida e dolorosa sulla vanità dell’opera di difesa che l'eroe ha compiuto e che ancora si appresta a compiere nella battaglia che avverrà il giorno dopo, come egli è sicuro da sempre, cosi come è sicuro che non ci sarà nessuna possibilità di resistere e vincere. Alba diviene in questo modo una sorta di nuova Gerusalemme, con tutto quel che di sacro, allora, in lei si incarna. La città è come sollevata sui vapori che salgono dalla terra, nel cuore della lunga pioggia che accompagna l’attesa dei fascisti, i preparativi in vista dell’attacco, la predisposizione delle linee di difesa, tutte inu-

tili prima ancora che la battaglia abbia inizio. È una città sacra, e proprio per questo la prossima e inevitabile caduta ferisce più a fondo Johnny, perché sa che sarà violata, senza possibilità di scampo, e che nulla potrà essere compiuto da nessuno e tanto meno dall’eroe perché la violenza e la dissacrazione siano stornate. Del resto, non si dimentichi come l’altra incarnazione del-

l’unico eroe epico, Milton, finisca, nell'’abbandonarsi alla questione privata invece della lotta storica e comune contro il male, ad avvicinarsi a personaggi del poema epico, e precisamente di quello tassiano, nel contrasto che viene a istituirsi fra dovere e amore: Tancredi e Rinaldo. L’ossessione di sapere se Fulvia e Giorgio sono andati a letto insieme e se, di conseguenza,

egli è stato

tradito

o, per lo meno,

messo

da

parte, nella concretezza del rapporto amoroso, dalla ragazza dopo tutti i discorsi, le letture comuni, gli omaggi letterari ed epistolari di lui, è dello stesso genere della distrazione che allontana dietro ad Armida Rinaldo, fino a fargli abbandonare del tutto la guerra, e dell’altro abbandono del campo e della battaglia che Tancredi compie nel momento in cui vede Clorinda

nel mezzo

del combattimento

o ripensa

a lei, o viene

erroneamente informato che è venuta nell’accampamento

cri-

41

stiano (ed è, invece, come è noto, Erminia). Le conseguenze sono ugualmente disastrose: il prigioniero fascista non catturato nella lotta, ma soltanto per la « questione privata », e ucciso, perché, non credendo

allo scambio, cerca di fuggire,

rendendo vana l'impresa; l’inutile rischio in cui si mette Johnny, avvicinandosi tanto a Canelli dove è il presidio fascista; la fucilazione dei due ragazzi da parte dei fascisti come rappresaglia per l’uccisione del sergente da parte di Milton; infine l'andare a incappare nei fascisti con il pericolo di restare ucciso, non per la causa del bene, ma sempre e soltanto per la faccenda dell'amore di Fulvia e della gelosia nei confronti di Giorgio; lo stesso darsi da fare per trovare un prigioniero fascista da scambiare con Giorgio, con quel particolare partigiano, invece che con uno qualsiasi dei compagni prigionieri dei fascisti e già condannati a morte. C'è, in Una questione privata, non tanto l’ossessione del tradimento probabile di Fulvia nei confronti del protagonista, per di più con l’amico e compagno fra i partigiani Giorgio, quanto piuttosto il rischio che Milton corre di trasformare la lotta contro il male della storia che si è incarnato nei fascisti in una sorta di « questione privata », appunto, dove le ragioni della guerra non contano più, e contano, invece, le motivazioni private dell'agire, la storia d'amore con Fulvia, e neppure, di conseguenza, i tradimenti

della

lotta

(la sarta

che

riceve

il sergente

fascista, lo stesso allontanarsi dai compagni di Milton), quanto i tradimenti

infinitamente

frivoli

di una

ragazza,

banali

per di più, perché a Milton Fulvia preferisce il migliore amico, Giorgio. Le soluzioni del romanzo per questa ragione sono doppie: quella abbandonata da Fenoglio, che prevedeva la punizione di Milton per essersi dedicato alla questione privata, la sorpresa da parte dei fascisti, la morte e, dopo, una sorta, allora, di riscatto nelle parole del traghettatore, che

ne consacra l'assunzione fra i « salvati » dopo la sommersione purificatrice nelle acque

del fiume;

l’altra, invece accolta,

che contempla il passaggio di Milton attraverso la morte nell'inseguimento e fra le raffiche dei fascisti e nella lunghissima, sovrumana corsa per giungere alla salvezza dietro il muro degli alberi, nella riconsacrazione,

prima, della campagna,

del fango, della terra, dello stesso borgo (e allora il grido, che probabilmente è della maestra, non è soltanto quello che nasce dalla vista dell’eroe trasfigurato, quasi metamorfosato in centauro nella sua corsa che prosegue anche fra le case, ma dalla consapevolezza, dalla rivelazione improvvisa che si tratta di una

sorta di resuscitato,

di uno

che viene dal dominio

dei morti e che è ritornato vivo, in quell’aspetto assurdo e orrendo, tanto è vero che se ne sente il galoppo prima che sia possibile vederlo apparire da dietro l'angolo della strada).

42

. . Johnny è ben oltre ogni « questione privata »: ne Il partigiano Johnny l'episodio dell'amico preso dai fascisti, per il quale Johnny cattura un fascista per lo scambio, poi non ne fa nulla, perché il parroco si rifiuta per l’età di farsene tramite, non ha nulla che lo distacchi dalla consueta misura

fatti che costituiscono la narrazione. cascina dove vive con Johnny dopo rastrellamenti dell'autunno del 1944, pedisce di vedere la pattuglia fascista cattura

un

soldato

fascista,

che

dei

Ettore è catturato nella la sconfitta di Alba e i perché la nebbia gli imche si avvicina; Johnny

è non

un

sergente,

ma

un

povero diavolo che non pensa affatto a fuggire, crede a Johnny quando questi gli garantisce che avrà salva la vita e servirà per uno scambio; e Johnny lo porta in paese e qui lo lascia libero di ritornare, se vuole, fra i suoi, ma il fascista non sembra avere l'intenzione di farlo; più tardi si viene a sapere

che

Ettore

è stato

processato

e condannato,

ma

non

a morte. Non c’entra nessuna donna, non c'è nessun problema privato fra Ettore (che è il nome del Giorgio dell’altro romanzo) e Johnny, e l'amicizia fraterna fra i due è quella anche del trovarsi tante volte insieme nei momenti più rischiosi o più rovinosi della guerra. Johnny conclude ogni sua distrazione dalla guerra prima di farsi partigiano, nell’incontro sulla riva del Tanaro con la ragazza che ha una lunga treccia, nell’inizio di rapporto che viene interrotto dagli aerei che bombardano e interrompono il ponte sul Tanaro, presso Alba. Dopo, non ci sarà più che la lotta, senza che nulla di « privato » venga a inserirvisi. Ogni possibile « questione privata » è chiusa nello specifico romanzo che le è dedicato: è, si, per l'eroe

che

si chiama,

in questo

sempre John è), il momento

caso,

Milton

(che,

tuttavia,

di fuga dalla guerra comune nel-

la faccenda personale d’amore che si intreccia con la lotta, ma

perché tali sono i tempi, non perché alla lotta l’amore sia sottoposto, di inferiore importanza. Anzi, l’amore per Fulvia è un'ossessione, che insorge quando Giorgio è catturato. Milton appare molto più condizionato dal suo problema privato che da ogni altra vicenda o faccenda, anche se nel romanzo si inseriscono episodi (come la battaglia di Verduno) o situazioni (il colloquio con i partigiani della Stella Rossa, quello con la vecchia) che non sono affatto remoti da analoghi momenti e storie de I! partigiano Johnny. Il complessivo poema dell’eroe della lotta partigiana si può dire allora che comprenda anche l’avventura, l’amore, la gelosia, la volontà di sapere a tutti i costi che cosa Fulvia e Giorgio abbiano fatto insieme, e attraverso tutto questo Milton deve passare per liberarsene e approdare dietro il muro della fortezza che divieneil bosco non appena l’ha accolto al termine della corsa infinita. Johnny da questo aspetto del protagonista epico è stato

43

liberato per sempre nella sua incarnazione in quanto Milton. Salvo dalle pallottole dei fascisti e dall’infinita fuga, l'eroe può ritornare integro, puro, lontanissimo da ogni questione privata, come appare dalle conversazioni con gli amici di Alba e con i genitori durante i ventitre giorni della presa della città, cioè della conquista che Johnny fin dall’inizio sa che sarà vana e si concluderà con la sconfitta e con l'abbandono. Sono discorsi che insistono sul carattere di gratuità eroica della presa di Alba: e anche sulla sacralità della città, quella che apparirà perfettamente definita nello sguardo di Johnny la sera prima della perdita della città. Dice l’amico Sander a Johnny, durante un colloquio per le strade di Alba liberata: — Johnny, quanto credete di poterla tenere? — Quindici giorni. Quanto basta agli altri per organizzare una controspedizione d'una certa serietà. Ma non dirlo in giro... — E me lo dici cosi. E ci lascerete nel ballo! Nel ballo ci lascerete! — Fatalmente. Beninteso, tutti quei partigiani che non moriranno in difesa. — Bravi, bravi! — bisbigliava in disperazione: — e perché allora l’avete fatto? — Qualcosa di più forte di noi. — Ah! Non avete resistito, alla tentazione! Alba... come la Mecca, insomma! — Forse, ma per molti di noi nel senso religioso della similitudine.

È la religione eroica, quella che spinge i partigiani a prendere Alba; ma è anche una sacralità più profonda, quella che fa pronunciare all'amico restato in città e disperato perché Johnny gli dice che Alba sarà perduta entro un tempo molto breve la parola « Mecca » che Johnny riprende subito, interpretandola nella luce del sacro che è la lotta contro il male e che ha avuto, a un certo punto, bisogno di un simbolo concreto e sublime intorno a cui rapprendersi. Da questa conversazione viene fuori con evidenza quello che è il carattere moderno dell’eroe di Fenoglio: non l’eroe del trionfo,

delle vittorie,

della superiorità

nei confronti

di

tutti i nemici, anche della natura quando questa voglia opporglisi, sfidatore perfino degli dei, ma l’eroe nella sconfitta, che si trova sempre di fronte le condizioni peggiori per lottare, le avversità più penose, quelle che ne rendono faticosa, dolorosa, infinitamente difficile fin dalle più banali condizioni materiali, ogni impresa. Si pensi a Milton: nell’ambigua nebbia, che è, al tempo stesso, protezione per chi si nasconde e favore per chi prepara agguati e sorprese (e Giorgio è catturato proprio nella nebbia, che attutisce i rumori e lascia venire sino al rifugio dei partigiani la pattuglia fascista); nel fango dove è sorpreso dai fascisti, nel torrente, nello scivolare giù per le prode, nel correre nel fango, che lo trasforma a poco a poco nell’apparizione metaumana che giunge fino al borgo e lo attraversa galoppando come un cavallo. L’eroe è

44

chiamato a palesarsi non nel sole, non sul campo aperto e luminoso, non nelle condizioni di clima e di tempo adatte alla sua prosopopea secondo quanto la tradizione epica rac-

comanda (e soltanto il Tasso vi contravviene una volta, nel duello notturno fra Tancredi e Clorinda, ma subito precisando che l’eroicità delle azioni dei due campioni avrebbe meritato la piena luce del sole). Anzi, il gelo, la pioggia, il fango sono gli spazi in cui l’eroe di Fenoglio è costretto sempre a misurare la sua capacità, il suo coraggio, la sua epicità. Il mondo intorno è fondamentalmente degradato nel senso che gli offre ogni volta le condizioni peggiori per l’azione che deve compiere. Egli si deve misurare non soltanto con il male, ma anche con la cornice più sfavorevole, più svantaggiosa, quella dove meno adeguatamente e, in qualche modo, più assurdamente e paradossalmente l’eroismo può presentarsi, dove più è incongruo. Milton deve sfuggire ai fascisti che gli sparano addosso, ma in mezzo al fango che ne rende più problematico l’equilibrio, più faticosa la corsa, mentre le pallottole si infiggono nella terra marcia d’acqua proprio vicino a lui, in modo irridente, quasi a rilevare meglio, col rumore che fanno nel fango, la condizione in cui si trova, di segnato e inseguito dalla morte là dove più è difficile sfuggire, perché la cornice è, appunto, quella più degradata, più bassa, più antifrasticamente opposta a ciò che l’eroe dovrebbe epicamente avere in dotazione per la sua battaglia suprema, quella che lo vede alle prese con la morte. La vicenda di Johnny è, in questa prospettiva, più esem‘ plare ancora. Per lo più, nei combattimenti, negli inseguimen-

ti, nei tentativi di sfuggire ai rastrellamenti tedeschi e fascisti, Johnny si trova a scivolare giù per ritani fangosi, ripidi, rischiosi, impiastricciandosi di fango, cioè subendo la trasformazione radicale da figura pura e sublime (che gli dovrebbe essere appannaggio in quanto eroe) a forma informe, che ha perso o sta perdendo le sembianze umane per ritrovarsi impastato di terra e di acqua, in un modo che lo rende quasi repellente, ma anche più, nel fondo, adeguato alla sua condizione di eroe di una lotta di irregolare, che nulla ha a che

vedere norme,

con

le guerre

di paladino

ordinate di una

antifrastico

essa stessa,

delle divise

confuse

e condotte

causa

del

secondo

bene

che,

tutte

le

in modo

è andata a incarnarsi nel pittoresco

e assurde

dei partigiani,

nel loro arma-

mento ugualmente vario e sconclusionato, nel loro aspetto che li fa rassomigliare molto più a briganti che a combattenti per il bene. Fin dalla prima fuga Johnny si trova a doversi misurare, prima che con il nemico, con uno spazio antieroico,

con una natura che all’eroe prepara tutte le possibili difficoltà e tutti gli ostacoli più fastidiosi proprio nei momenti decisivi,

45

quando il nemico è vicino, lo scontro anzi è in atto, e alla superiorità dei nemici allora si aggiunge l’assoluta refrattarietà del luogo dove la battaglia si svolge, naturalmente per l'eroe, non per quelli che lo inseguono e gli sparano addosso, ché, anzi, i nemici paiono essere sempre al riparo da ogni difficoltà e da ogni sfavore di stagione e di clima (e si ricordi che i fascisti che sparano addosso a Milton sembrano muoversi leggermente e sicuramente, quasi come in un’esercitazione, senza trovarsi di fronte quel fango che, invece, rende cosi difficile la fuga dell’eroe). Durante il grande rastrellamento dell’Alta Langa, quando Johnny è ancora con la Stella Rossa, al primo scontro ecco che subito di fronte all’eroe si presenta la cornice degradata, invilita, antifrasticamente opposta a ogni gesto eroico, entro la quale deve lottare e cavarsela (o morire, come accade ai compagni: il Pinco, il Biondo): Ora sentiva che tutto il fuoco, e più ancora tutto lo scalpitare e il tonfare, era per lui. Si tuffò a occhi chiusi e prese a rotolare giù per l’immenso, gibboso, nauseante pendio verso il lontanissimo crepaccio a sud di Murazzano... Il rotolamento era lancinante e interminabile,

lo faceva vomitare

a secco.

Ma poi una

callosa in-

sensibilità rivesti, smaltò tutto il suo corpo, non avverti più gli impatti terribili con la terra spoglia di neve, non più il terribile impatto del metallo e legno del suo moschetto pressato contro il suo fianco. Rotolava, leggero e anestetizzato, come nuotasse

sospeso in ionosfera. a pensare di frenarsi, nel salto di tufo che e viscida, feriva senza facoltà frenante.

e fosse

Poi si riprese e si destò un poco, cominciò ricordava che il pendio strapiombava netto coronava il crepaccio. Ma l’erba era gelata aiutare, la neve, dov’era, aveva perso ogni

È, fin da principio, la prova suprema per l’eroe: il rotolare come un oggetto o come un cadavere, senza potersi appigliare a nulla, nel disgusto del fango, nel vomito a secco che lo prende, nella nausea

verso

di una

la quale egli deve passare,

potersi salvare

condizione

ma

con

orribile attra-

totale orrore,

per

(e la caduta nel ritano è al di là, ormai, della

necessità della fuga perché i fascisti non si curano più di lui, non gli sparano più: è l'obbligo di misurarsi a faccia a faccia con la condizione radicalmente avversa che è appannaggio dell’eroe di quella guerra senza splendori e senza grandiosità nella quale combatte Johnny: lottare per il bene comporta, nel mondo attuale, non soltanto sangue e sacrifici e rischio di morte, ma anche l’avversità di tutte le condizioni

esterne).

Alla fine de I! partigiano Johnny si ripete una situazione analoga, nell’ultimo scontro con i fascisti asserragliatisi in un gruppo di case, mentre disperatamente i partigiani cercano

46

di costringerli ad arrendersi, avvicinano:

e i rinforzi

nemici,

intanto,

si

Quando una grande, complessa scarica dalle case fulminò la strada, Johnny si tuffò nel fosso a sinistra, nel durare di quella interminabile salva. Atterrò nel fango, illeso, e piantò la faccia nella mota viscosa [...]. Gli arrivò un primo martellare di fucile semiautomatico ed egli urlò facendo bolle nel fango, poi tutt'un’altra serie ranging ed egli scodava come un serpente, moribondo [...]. Si sterrò dal fango e tese le braccia alla proda erta e motosa, per inserirsi nella battaglia, nel mainstream del fuoco. Fece qual. che progresso, grazie a cespi d’erba che resistevano al peso e alla trazione, ma l’automatico rivenne su di lui, gli parve di vedere l’ultimo suo corpo insinuarsi nell'erba vischiosa come un serpe grigio, cosi lasciò la presa e ripiombò nel fosso.

Per partecipare alla battaglia, la prima dopo che i reparti partigiani si sono ricostituiti dopo l’inverno e la dissoluzione seguita ai rastrellamenti dell'autunno, bisogna ficcarsi dentro il fango, sino in fondo. Già prima dell’inizio del combattimento i partigiani, ancora incerti se attaccare o no i fascisti che erano entrati in Mango, il paese del loro presidio, si erano immersi nel gelo superstite del febbraio e nel fango: Raggiunsero gli altri in una conca, il vero albergo del freddo e del diaccio, e sedettero per ore rabbrividendo al vento e alla terra bagnata... Poi alcuni uomini, non potendone più, si levarono,

con larghe applicazioni di fango sulle natiche smunte.

La legge della lotta dalla parte di Johnny e dei suoi compagni è quella di dover affrontare tutti i possibili disagi, di trovarsi sempre nelle condizioni più svantaggiose per combattere e per morire,

con

la faccia nel fango, con

le mani e il

corpo che scivola sull’erba, macchiati e sporchi. L'ultimo combattimento del romanzo è anche il primo dopo l'inverno di sbandamento e di sconfitta. Pierre, che comanda il reparto, e Johnny sanno che non servirà a nulla: non hanno difeso Mango, come sarebbe stato loro dovere, sono pieni di vergogna anche di fronte agli abitanti che vengono fuori lentamente dopo che i fascisti se ne sono andati e che li guardano con irrisione e li interrogano con ironia su che cosa mai vadano a fare « ora » che i fascisti non ci sono più; ma ne va dell'onore se non combattono. Johnny dice: « Molto probabilmente

finirà in un pasticcio [...] ma

ha da esser fatto ». Que-

sto è l’eroismo antifrastico dell’epica di Fenoglio: non la prospettiva della battaglia che sarà vinta, non il trionfo, ma la sicura sconfitta, il « pasticcio », cosi come la perdita di Alba entro quindici giorni, come Johnny dice all'amico di città. Per di più il combattimento avverrà nelle condizioni ambien47

tali peggiori: la morte di Tarzan, di Franco, come quella, all’inizio, del Pinco e del Biondo, avvengono nel fango, nello sporco della terra macera d’acqua, nel continuo sdrucciolare SA i ; per le colline. L’eroe epico di Fenoglio sa che ogni combattimento finirà male:

se lo accetta

e lo conduce

fino in fondo,

è per

quel-

l'impegno d’onore che è connaturato con la scelta della parte del bene contro il male. Se questo è il senso della lotta, non c'è ragione di chiedersi se si vincerà, anzi la prospettiva stessa della sconfitta non fa nessuna impressione particolare, essendo avvertita, al contrario, come

una condizione prelimina-

re all'accettazione stessa della parte scelta. È la parte degli eterni vinti, ma è quella che proprio per questo piace all’eroe (che è eroe morale, anche, come Catone). Fenoglio proprio per questo non arriva sino alla fine della guerra, non racconta la vittoria. Il partigiano Johnny si chiude sul combattimento inutile e perduto, come gli infiniti altri nel corso dell’anno e mezzo di lotta partigiana. Narrare quello che accadrà due mesi dopo, con la disfatta finale dei fascisti e la vittoria dei partigiani, non ha senso nell’ambito dell’eroicità antifrastica che costituisce il senso fondamentale del romanzo di Fenoglio (e non si dimentichi che, in una diversa struttura e intenzione letteraria, anche Uomini e no di Vittorini si chiude sulla scel-

ta della sconfitta e sul rifiuto di rappresentare la vittoria). Nel centro de I! partigiano Johnny è, allora, perfettamente giusto che si collochi la rappresentazione epica della sconfitta più dolorosa e più radicale e totale, che è la vana difesa di Alba. La città è un simbolo: la difesa, che i pochi partigiani rimasti, dei molti che la occuparono,

compiono,

risponde

alla stessa ragione dell’attacco del reparto di Pierre e Johnny contro la colonna fascista che ha ormai lasciato Mango, non difesa dai partigiani, e sta ritornando lentamente verso Santo Stefano Belbo: ciò che conta è battersi per l’onore in sé di combattere, non per la vittoria che ci si possa aspettare dall’azione. D'altra parte anche altri momenti epici riguardano sempre la disfatta, nella prospettiva precisa in cui essa regolarmente appare agli occhi dei partigiani, ogni volta che c'è uno scontro in vista. Durante la ritirata generale seguita alla perdita di Alba Johnny e Pierre sono incaricati di un’ultima dimostrazione: « Un ragazzo disse di conoscere una scorciatoia e molto scrupolosamente la descrisse e raccomandò. Ma era idiotico, sottolinearono gli altri, prendere una scorciatoia verso scontro, imparità, agonia e morte ». Non per nulla il grande, sublime momento epico de Il partigiano Johnny comprende la perdita di Alba e tutta la disastrosa fuga di fronte ai rastrellamenti dei fascisti e dei tedeschi nell'autunno, mentre i reparti partigiani vengono cacciati, distrutti, sbandati, e

48

le forze partigiane si riducono a ben poco. È, insomma, la descrizione

della disfatta

più radicale

e rovinosa,

con

tutte le

vane fughe, le infinite occasioni in cui Johnny e i pochissimi rimasti con lui devono gettarsi giù per i pendii delle colline o correre lungo i campi, sotto gli spari, o nascondersi nel fondo dei ritani, nelle acque ormai gelide, per cercare qualche scampo o, meglio, il rinvio di quella sorte di agonia e di morte che sembra loro riservata. La vana difesa di Alba è il primo momento della disfatta: e subito l'ambientazione è quella adeguata, con la pioggia insistente, tenace, sempre più violenta e costante, che riduce tutta la campagna al solito, ma qui all'estremo enfatizzato, mare di fango, e il Tanaro sempre più grosso e in piena. A malgrado della speranza del sergente siciliano Michele, che si augura che il fiume ingrossi sempre di più per rendere impossibile l'attacco fascista, Johnny con chiarezza e senza illusioni aspetta il per lui sicuro arrivo dei fascisti e la fine: Michele [...] misurò ancora una volta la platitudine dell’opposta riva e l’estensione e la corposità del fiume, e disse: — Ebbene, io credo che non ce la faranno mai. Non passeranno mai —. Johnny non rispose. E: — Noi terremo la città a piacimento, dico. I fascisti non ce la faranno mai a passare questo fiume. E — Johnny, piove molto da queste parti d'autunno? — Normalmente. — E il fiume s’ingrossa bello bello? — Si. — Il sergente gioi di questo fenomeno cosi stranio alla sua esperienza siciliana. Johnny gli si accosciò accanto. — Mi meraviglio che un vecchio sergente abbia dimenticato i ponti di barche. — Voglio vederli lanciarlo sotto i nostri occhi, e sotto le nostre mitraglie. Proprio là vorrei vederli lanciarlo, — e accennava nella mossa tenebra al vasto e piatto arenile proprio a valle del ponte, nei due occhi della città. Disse Johnny: — Mica t’aspetti che i fascisti sbarchino proprio in faccia alla città? — Gli uomini ora serravano, suddenly concerned agli argomenti di Johnny. — Il fiume si sviluppa per chilometri e chilometri, e solo in alcuni c'è la nostra linea, e parecchio magra. Passare in un qualsiasi punto di là non è niente d’eccezionale — .. Speriamo soltanto che attacchino dal fiume perché, se sconfitti, potremo scampare sempre verso le nostre colline. Ma se ci aggirano dalla terra, bene, Michele, ci schiacceranno e ci affogheranno tutti nel fiume che sarà bello bello per le piogge.

Johnny non si fa illusioni, né vuole che altri se ne facciano, neppre dopo il primo attacco dei fascisti, che si risolve in una grande sparatoria senza alcun risultato e che costituisce l’effimera vittoria salutata dagli applausi dei borghesi della città, dal suono festante delle campane, dal ritorno in Alba dei partigiani che hanno sostenuto lo scontro addirittura in parata. È lo spettacolo dell’illusione, come un sogno è stata la conquista e l'occupazione della città, quello di liberarla fi-

49

nalmente dall’oppressione e dalla macchia di degradazione che era la guarnigione fascista. L'attacco frontale sembra dare per una volta ragione all’ottimismo del sergente: ma non è che un rinvio di quella sorte di perdita e di sconfitta che l’eroe dall'inizio sa che sarà la sua sorte. Combattere essendo certi della sconfitta è, appunto, davvero degno dell’eroe moderno, di quello che non ha aureole né corone d'alloro, ma abiti sempre impiastrati di fango, il volto stesso macchiato di fango, non

una

divisa, ma

una

confusione

di pezzi di di-

vise o di altri vestiti rimediati alla meglio. Per la grande sconfitta e la perdita della città sacra la cornice deve essere adeguatamente negativa, quanto più è possibile svantaggiosa, ben peggio di qualsiasi altra pioggia che Michele si augura, e su un fiume infinitamente più grosso di quanto sia immaginabile nell’illusione che possa essere un vero ostacolo per l’attacco fascista: Il sole non brillò, segui un'era di diluvio. Cadde la più grande pioggia nella memoria di Johnny: una pioggia nata grossa e pesante, inesauribile, che infradiciò la terra, gonfiò il fiume a un volume pauroso [...] e macerò le stesse pietre della città.

Fenoglio significativamente parla di « un’era di diluvio », e il termine vuole avere tutta la possibile risonanza biblica del flagello assoluto. Tale ha da essere la condizione in cui l’eroe Johnny e tutti gli altri che rimangono a difendere la loro Mecca e Gerusalemme dovranno combattere. Poiché Alba costituisce il centro della passione del bene, il simbolo più compatto e saldo di esso, peggiore deve essere la cornice della difesa inutile che pure ne verrà fatta, senza speranza. Anche nel col-

loquio con i genitori lucidamente sioni che Alba resterà partigiana giorni:

Johnny ripete senza illuper non più di quindici

. Io dicevo, — riprese sua madre, — che ora resterai sempre in città, ora che l'avete presa, fino alla fine della guerra. Johnny sorrise. — Ma non la terremo molto, mamma. — Essa si fermò e gaped, anche suo padre ruotò. — Che cosa? Ma allora...? — E suo padre: — Ma io ho sentito il contrario. Ho sentito che la terrete per sempre, che non ve ne cacceranno mai più. Stamattina, mentre giravo a cercarti, ho sentito io due ufficiali dei vostri che dicevano a un fracco di gente che i fascisti non hanno più niente da fare, perché ogni giorno avremo gli aeroplani sulla testa, a fare ombrello aereo, cosi dicevano. — Non dirlo in giro. Ma sarò contento se ci saremo ancora fra quindici giorni.

Gli altri possono fantasticare su protezione aerea e impotenza fascista, non l'eroe epico, che ha perfetta consapevo-

50

lezza di come stanno le cose, e tanto più egli incarna la funzione di eroe, quanto meno crede nelle fantasticherie di Alba presa per sempre, senza più possibilità per i fascisti di ritornarvi.

Johnny è appunto l’eroe della sconfitta. L’epica moderna, come genere letterario, può attuarsi soltanto se è il canto della sconfitta, perfettamente chiara all’eroe fin da prima di

combattere,

anzi l’eroe combatte

con lucidità e con

determi-

nazione proprio perché sa che non vincerà e che lo aspettano disfatta, fuga, morte, per di più nella condizione peggiore che possa darsi. Contro l’oleografia eroica e il canone epico Alba sarà perduta sotto la pioggia più greve e continua, nell’apocalitticità del diluvio, quasi il flagello inviato da quel Giove, che già ha librato le bilance e ha visto quella dei difensori calare al basso, affinché la sconfitta sia del tutto senza luce, i

morti siano senza il sole che li illumini nel momento supremo, i fuggiaschi si trovino a dover far fronte al fango, a tutto il fango di tutte le colline e di tutti i fiumi in piena. Lo stesso fiume, che, poi, nella fuga, diventerà il pensiero osses-

sivo, la meta agognata (il Belbo, in quel caso, non il Tanaro: ma Ettore, Pierre e Johnny lo chiameranno sempre il fiume, senza specificazioni, per quella sorta di sacralità da cui è circondato

per tutto il romanzo,

in sé, come

e

entità simbolica:

si ricordi la parte che il fiume ha nelle pagine scritte per Una questione privata e rimastene fuori, quel fiume che è l’acqua originaria, il rifugio materno, ma che è anche il fiume infernale, quello acheronteo

destinato

a trasportare via i cor-

pi dei morti dell’inutile difesa e di ogni altra fuga, si presenta come il mostruoso nemico, quello che incute terrore, perfino più dei fascisti, perché è il segno della rivincita della natura sugli uomini, anzi dell’ostilità della natura nei confronti dei difensori, in quanto dal destino e da Giove decretati alla sconfitta dal momento che, come dimostrerà di li a poco l’abboccamento fra i comandanti fascisti e quelli partigiani, i fascisti, invece, come futuri vincitori, passano tranquillamente il Tanaro in piena: « Da una golena spuntò una barca piatta e larga, arando

con

derisoria

tragonfie »). Del resto l’abboccamento una degna conclusione epica:

facilità e sicurezza

le acque

ul

fra i fascisti e i partigiani ha

I gerarchi si reimbarcavano, abbastanza rischiosamente. Non sorridevano ma le loro facce non erano nemmeno particolarmente tese; l’esito della discussione era scontato. Il più aitante di loro sedette per ultimo, si rivolse alla ripa in generale e a Pierre in particolare. Disse distintamente: — Ci rivedremo sul campo. — Certissimamente, — rispose Pierre quietamente per tutti.

51

È la sfida sul campo di battaglia, gettata fra i due comandanti che più dimostrano la determinazione dell’azione. Pierre risponde per tutti, ma sa benissimo che dei duemila che sono in Alba sarà molto se ne resterà la metà per affrontare l’attacco, come ha detto proprio a Johnny. Ma per tutti i difensori Pierre prende l'impegno d'onore di essere sul campo, nella battaglia. Il dialogo è secco, netto, degno dell’epicità della situazione che si sta preparando, tanto più che anche l’abboccamento fra i comandanti dell’una e dell’altra parte è momento topico del canone epico, come dimostrano l’Iliade e la Gerusalemme liberata, quest’ultima, forse, con più immediata possibilità di riferimento, dal momento che il colloquio fra gli inviati da Gerusalemme e Goffredo e gli altri capi dei Crociati si conclude, davanti alla città assediata, con l’analoga sfida di Ar-

gante ai guerrieri cristiani di ritrovarsi sul campo, dopo che le parole hanno dimostrato di essere inutili. Fenoglio insiste continuamente sul paesaggio di pioggia, fango, fiume in piena, per imprimere meglio la cornice disgustosa e orribile, totalmente avversa com'è per i difensori della città, già destinati da sempre alla sconfitta e pure così crudelmente

costretti alla lotta, al sacrificio, alla morte

nella

situazione più svantaggiosa, più difficilmente sopportabile: Fuori città, incredibile era la fradicità dei campi: la terra gelatinosa non reggeva più un uomo ma nemmeno il semplice peso di un treppiede di mitragliatrice. Più alto dello scroscio della pioggia rumoreggiava il fiume, amplissimo, enfiato e insaccato come una belva dopo la digestione della preda, eppure sembrava aver perso in virulenza quanto acquistato in lutulenta ipertensione. Alla sinistra di Johnny le colline erano già cancellate da multiple cortine di pioggia, appena macchiate dall’ombra delle alture, mentre a destra le tanto meno alte colline dell’oltrefiume apparivano più prossime e più incombenti del naturale sulla pianura allagata; quelle collinette d’oltrefiume, sulle quali già brooded i cannoni fascisti, puntati al cuore della città ribelle.

Nel paesaggio camente

le colline

di pioggia e di piena del fiume, simbolidelle

alte Langhe,

il luogo

da

cui

sono

venuti i partigiani e dove dovranno rifugiarsi dopo aver perso la città, appaiono cancellate dalla pioggia, come per segnalare, appunto, l’ombra che già cade sugli sconfitti, mentre nitide sono le più basse colline della sinistra del fiume, dove già sono piazzati, nel pensiero di Johnny, i cannoni fascisti, come segno del favore degli dèi alla parte che è deciso che sarà vincitrice.

La battaglia

è, coerentemente,

stessa scarna nettezza del genere epico:

raccontata

con

la

Poi il vento decadde e allora tutti gli uomini uscirono all’aperto e fu nel momento del maggior assembramento che arrivarono

52

dalla città, con tutti i mezzi, l'annuncio e la conferma dell'attacco generale fascista per domani [...] — Bene, è esattamente quello che tutti volevamo, — disse Johnny agli uomini, ma ora questi sembravano gradire la certezza assai meno di quanto avessero prima scornato l'inutile putrida attesa. — Domani è il due novembre, — disse forte ma \ome a se stesso un ragazzo. — È il giorno dei morti, domani.

Non potrebbe essere detto meglio, con più spoglia evidenza e anche con quell’ombra d’ironia macabra che è un altro elemento proprio dell’epicità della sconfitta, in quanto sfida consapevole alla morte nella perdita, nella condizione più avversa, come

indicano anche i simboli, come

il due novembre,

giorno dei morti, per l'attacco fascista condotto con forze preponderanti e con tutta la migliore organizzazione militare. Anche la verifica del numero esiguo a cui le forze partigiane si sono ridotte viene detta con la consueta, ben scandita consapevolezza della determinazione più netta perché più negativa è la situazione, anzi con l’uguale ombra d’ironia autocorrosiva: Nel pomeriggio [...] tutti gli uomini assegnati alla difesa meridionale convennero sull'immensa aia della fattoria di San Casciano, ubicata al centro delle posizioni partigiane. Convennero e si contarono, e si trovarono in non più di duecento. Allora scattarono. — Ma come? Eravamo tremila a prender la città? Saremo in duecento a difenderla? Dove stanno gli altri duemilaottocento? — e non li placò un ufficiale staccato dal comando che assicurò che in città stavano centinaia di partigiani raccolti come massa di manovra ed altre centinaia stavano in posizione sulla parte bassa del fiume. Il vicino di Johnny, più che trentenne, con occhi tristi e la voce raffreddata, scrollò le spalle, disse che sarebbero stati battuti ugualmente. — Noi o loro? — indagò un ragazzo di Johnny. — Noi, — precisò l’uomo.

È tutto un progressivo accentuarsi della figura della sconfitta come quella del destino inevitabile, ma proprio per questo più disperatamente eroico. L'uomo più che trentenne che risponde alla domanda del ragazzo ha una voce infreddata, e questo particolare apre la strada all’episodio più tipico dell’epicità antifrastica di Fenoglio, quello che ha come protagonista l’ufficiale giovane ma semicalvo che ha la voce « estremamente raffreddata » e che ha il fratello felicemente riparato in Svizzera e ricoverato in un sanatorio, ad attendere al sicuro la fine della guerra, mentre lui, al momento di partire, non ha saputo decidersi, come dice con quell’ironia antifra-

sticamente rivolta a sminuire il gesto non soltanto di essere rimasto in Italia, ma di essere andato fra i partigiani e, poi, di essere

li, sulla linea di difesa

davanti alla città ormai

dell’inutilissima

condannata,

resistenza

perché soltanto cosi si

53

può presentare l'eroe di una guerra che è del bene contro il male, ma è combattuta nell’ambientazione peggiore, anzi è da lui resa volontariamente e determinatamente goffa e grottesca, perché

cosi ha da essere

combattimento,

in un

anzi

in

un'intera guerra che è esattamente l'opposto di quella cantata in tutti i poemi epici di tutte le tradizioni letterarie: « Uno di essi stava lagnandosi di qualcosa, con un tono salottiero. Era un uomo

strano, giovane ma

semicalvo,

sui ven-

ticinque anni, malamente infagottato in una uniforme inglese che egli avrebbe potuto portare con distinzione. La sua voce era estremamente raffreddata ». L'eroe moderno dell’epica di Fenoglio potrebbe portare l’uniforme inglese con distinzione, ma

non

lo fa; è giovane, ma

semicalvo;

soprattutto

è

raffreddato, che è di quanto meno eroico possa immaginarsi. Per questo incarna perfettamente la figura dell’eroe che ha gettato via tutte le sue qualità, e ha abdicato totalmente alla forma che gli dovrebbe essere garantita secondo il canone epico. Nell’epicità capovolta che è quella della parte dei difensori partigiani in attesa, per il giorno dopo, dell’assalto fascista, il discorso

che

l’eroe

raffreddato

fa è di fazzoletti,

ed

è un discorso tipicamente allusivo della condizione disperata, svantaggiatissima, rovinosa nella quale chi veramente è eroe deve combattere, perché degno sia battersi e morirvi con onore

a malgrado

di tutto, e il tono è, allora, quello dell’iro-

nia nera già presente nella citazione del 2 novembre come giorno dei morti e giorno della battaglia al tempo stesso (anche in questo caso, perché è inevitabile che sia cosi, nella complessiva cornice della lotta vista dalla prospettiva di quegli sconfitti per onore e dignità che saranno i pochi partigiani, rimasti a difendere la città, e il semicalvo raffreddato

su tutti

gli altri, lui che sarebbe potuto essere al sicuro in Svizzera, ad attendere la fine della guerra, con tutti i fazzoletti a disposizione per il suo raffreddore cronico e anche le infermiere e il letto comodo e caldo): — Tutti i miei fazzoletti sono finiti. Credetemi, i fazzoletti hanno rappresentato il massimo problema della mia esistenza partigiana. Un tipo di raffreddori a catena come me. Oh, la battaglia per la città mi troverà nella mia forma peggiore. Il mio unico fazzoletto è fradicio e io sono raffreddato da morire. Come si può aspettarsi che domani io mi batta come un leone per la città? Sorse un risclino generale di comprensione e giustificazione. Eppure sembrava a Johnny che l’uomo possedesse una sua serietà di base, una malinconica determinazione lucente in fondo ai suoi vivi, intelligenti occhi. Ed egli riprese, frivolmente: — Confesso che vorrei trovarmi al posto di mio fratello. Mio fratello è stato un genio. Altro che io che son qui ad aspettar di cadere morto nel

54

mio sangue e nel fango alluvionale... e mio fratello caldo e sicuro in un sanatorio svizzero, ed anche di primissimo ordine.

Dietro il parlare frivolo del giovane semicalvo Johnny ri-

conosce

l’eroicità, espressa

nella forma

antifrastica

dell’eroi-

smo che si celebra nelle forme capovolte sempre, in qualsiasi momento, si tratti del fango o della pioggia o del raffreddore. L'unico problema

sono stati, per lui, i fazzoletti:

di

fronte alla battaglia del giorno dopo è la dichiarazione di supremo sprezzo del pericolo e della morte, quella che lucidamente quanto con frivola leggerezza, perciò tanto più epica, si immagina per l’indomani, nel fango. L’eroe partigiano del bene ha come tono tipicamente epico la negatività totale della condizione in cui si batte: non può essere il leone dell’epica classica, delle similitudini dell’epica classica, perché ha il raffreddore e non ha più fazzoletti. Il sublime epico scatta proprio nell’insistenza su questo stato di creaturalità più umiliata, perché, dietro, c'è la determinazione di chi proprio quando tutte le carte e le anche minime situazioni personali sono avverse si batterà fino alla morte (e il giovane raffreddato effettivamente muore nella battaglia, mentre spara con la mitragliatrice dalla torretta). È giusto allora che il personaggio concluda il suo intervento in scena con una battuta di tragedia: Giorgio si alzò, polarizzando la luce residua sulla sua pronunciata calvizie. — Un regno per un fazzoletto anche usato! — gridò col naso intasato. Come nessuno offri, con un sospiro snodò il suo fazzoletto azzurro, il suo emblema di formazione e di battaglia, e dentro ci scaricò il naso.

La citazione shakespeariana viene a proposito, per rilevare nel modo più netto e radicale il carattere dell’epica di Fenoglio. Non il cavallo della battaglia di Riccardo III, ma il fazzoletto del combattimento da raffreddato, non in forma; e per di più

l'eroe, proprio nella vigilia dello scontro, si spoglia del suo emblema, che lo costituisce come combattente, per soffiarci dentro il naso, nel gesto supremo di dimostrazione della condizione invilita, umiliata, antifrastica, in cui il personaggio eroico è costretto a battersi. L’epica di Johnny si concentra sulla visione continua, sempre più desolata e triste della città, bellissima prima del-

la battaglia, nella prima luce dell’alba, quando

ancora

il ser-

gente Michele scommette che i fascisti non verranno, ma per una sorta di suprema scaramanzia nei confronti del destino

dei difensori e anche del suo destino, dal momento rirà dietro il suo Browning, nella vana difesa:

che mo-

l5%a)

A dispetto dell’afonia Michele disse che non ci sarebbe stata battaglia, gli uomini gli diedero pro e contro e presto scommisero accanitamente, sigarette e il proprio soldo oppure munizioni. Intanto Johnny guardava dalla parte della città: si destava dal suo incubo fra mattinali vapori, sorgendo soltanto coi fastigi dei suoi edifici ed apparendo senza fondamenta, fiabesca. Le cinque batterono ai campanili emergenti ed al quinto tocco scoppiò un generale fragore. — Hai perso, sergente, — disse Johnny freddamente e Michele annui con un afono risolino.

Accostato pare

come

c’è il sublime

fiabesca,

librata

della visione della città che apnel

cielo, nella

prima

luce

del-

l'alba, immateriale quasi, oggetto di sogno nella sacralità che la fa cosî pura e indifesa nell’istante che precede l’attacco che la farà schiava e violata, e l’altro antifrastico modo epico di Fenoglio, che è di parlare dell’eroicità dei difensori nascondendo

il sublime

scommessa comanda,

dietro

il grado,

invece,

più basso;

ed è la

del sergente e degli altri giovanissimi che Johnny intorno

al loro

destino,

alla loro

vita o alla loro

morte, e dentro ci possono giocare tutto il loro futuro, perché forse non ci sarà. Anche Michele, che ha dato origine all’accanimento della scommessa e che non ha più la voce (ed è un altro aspetto della condizione capovolta dell'eroe: non

potrà fare discorsi

sul campo,

di fronte

alla morte),

sa

ottimamente che si è trattato di un gioco sul proprio destino, e per questo ha il risolino afono che vuole, appunto, rilevare questa sua consapevolezza. L'unica difesa possibile contro la negatività assoluta delle condizioni in cui i paladini del bene sono costretti a battersi è l’ironia, la sfida grottesca e pure estremamente seria sul proprio destino, sulla propria morte (e Michele,

infatti,

muore

nel

combattimento,

dopo

aver

scommesso che non ci sarebbe stata battaglia per il giorno che sta sorgendo). Da sempre la difesa di Alba è senza illusioni. Un partigiano anziano, che Johhny incontra mentre ripiega su San Casciano dall’argine dove originariamente era stato collocato, lo rileva subito: « Sollevò il polsino del suo vatro macerato, lesse l’ora e parlò a se stesso. — Otto e un quarto. Miracolo se li fermano

fino alle nove ». Si badi bene, non è una

bat-

tuta di dialogo, l'anziano dice a se stesso che la resistenza sarà breve. Lo scandirsi delle ore, del resto, è rilevato da Fenoglio con una specifica solennità epica: alle cinque l’attacco; alle otto e un quarto questo punto della battaglia; un’ora dopo per dire che non ci sono più munizioni; Johnny che legge sull’orologio, dopo averlo ripulito dal fango, le undici e dieci; e poi ancora:

« Ci volle più d’un’ora

ai fascisti, che

però combattevano con ogni riguardo e cautela, per sloggiarli da quell’ultima posizione »; infine la nota più rivelativa:

56

, Gli uomini, i ragazzi, erano intontiti e riluttanti al pari di lui, si muovevano assorti nello sparso fuoco fascista, pigramente ma luminosamente pensando che la città era si perduta, ma che faceva un mondo di differenza perderla alle quindici anziché alle quattordici e un quarto.

._ Nella battaglia perduta da sempre fa, appunto, un’eroica differenza perdere la città tre quarti d’ora dopo, perché la lotta, a questo punto, è con se stessi, col proprio onore, con la propria dignità, non soltanto col nemico che sta di fronte. È il riconoscimento oggettivo dell’epicità del proprio comportamento,

a malgrado

del fango,

delle scarse

munizioni,

del-

l'essere rimasti in duecento, senza i pur annunciati rinforzi. Nella condizione quanto più svantaggiosa è possibile immaginare tre quarti d’ora sono un tempo infinito: quello che separa la pura e semplice perdita della città, saputa da sempre, dalla coscienza di aver fatto davvero tutto il possibile e anche qualcosa di più per la propria dignità. Anche l'ufficiale semicalvo, questa volta parlando con Johnny, con assoluta calma, epicamente (dell’epica antifrastica di Fenoglio) rileva che non c’è nulla altro da fare che battersi, perché il nemico vincerà quando vorrà: — C'è l’uomo dei minorenni, — disse molto amichevolmente l'ufficiale sull’ultimo ripiano, il biondo della felix Helvetia. — Che armamento? — Una Browning e venti fucili. — In quali mani è la Browning? — Di un anziano di prim’ordine. — Bene. Quanti colpi ha la Browning? — Millecinquecento. — Benissimo. Postati a destra, lungo il canale d'irrigazione. Johnny si voltò per uscire e il calvo gli disse dietro: — Non farti illusioni, eh? Sfondano come vogliono.

È il secco

colloquio prima dello scontro finale, davanti

alla sconfitta e al destino, forse alla morte

(che, infatti, co-

glierà sia l'anziano di prim'ordine sia l'ufficiale calvo). Tutto è detto con

tranquilla

ironia, amichevolmente,

con

la consa-

pevolezza di essere già al di là della battaglia, nella certezza della sconfitta, nella lucida serenità della propria morte. L’epicità di Fenoglio si concentra in questa secchezza, che contrasta calcolatamente con l’abbondanza della descrizione della giornata di pioggia, del fango, dello stesso fiume ormai remoto e inutile nella sua piena, mentre si costituisce in coerente sistema con gli sguardi che via via ancora Johnny getta sulla città sempre più perduta: « Si voltò ma non riusci a vedere la città, compressa fra i vapori della terra e il cielo che si abbassava, si abbassava ». La ripetizione del verbo è uno dei culmini del sublime epico: il cielo si abbassa sulla città

sacra, che ormai non è più sollevata sui vapori, nel cielo del

tramonto

del giorno che ha preceduto il combattimento,

ma

57

è come

schiacciata

a terra dal cielo stesso, quasi, ormai che

è perduta, il cielo a cui appartiene la respingesse. E quasi subito dopo: « Johnny abbassò gli occhi sulla città sottostante, segnata:

stava, cinta dalle acque,

in nuda, tremante

car-

ne ». Le acque che biblicamente cingono la città non ne sono difesa, ma sono ben parte di quel paesaggio sacrale ed eroico entro il quale il combattimento si sta svolgendo; e la città appare come una nuda carne, come offerta al sacrificio e alla violenza della conquista ormai imminente, poiché l'eroe non ha potuto preservarla. Anche la morte di Michele, nel fango e nella pioggia, ha quella grandiosità epica che si avvale, nell'opera di Fenoglio, per innalzarsi al sublime, di tutte le possibili antifrasi di miseria, di svantaggio, di smorzamento dei toni, per risalire poi subito di colpo verso il livello alto: Un ragazzo gli arrivò accanto e gli parlò quasi con la bocca nel fango. — Da’ un'occhiata a Michele. Aveva parlato con tale calma e inallusività che Johnny guardò a sinistra quasi distrattamente. Il sergente era prono, la testa all’altezza del treppiede, la canna della Browning pareva abbeverarsi nel fango. Un bambino poteva dirlo morto, ma andare a scoprire quel buco fatale, questo raggelò Johnny... Si tuffò nel fango e nuotò verso Michele. Lo tirò giù per i piedi nel canale, lo rivoltò, era leggero e docile. Lo stese, tenendogli una mano sotto la nuca legnosa. La pallottola gli era entrata in fronte, alta sull'occhio sinistro, un piccolo buco pulito, ma enorme a considerarlo al centro della chiusa sealedness della faccia. Il sangue spicciante aveva, come l’acqua, una difficile e svariata via, acqua e sangue lottavano con alterno successo ad arrossargli e risbianchirgli la faccia, Johnny incombente su lui, freddo e muto, sentendosi come mutilato. Dalle mura di San Casciano parti il terrificante segnale della ritirata... Johnny spinse il cadavere di Michele infilandolo dai piedi nel tubo di cemento, che la sua più nobile parte stesse al riparo dalla pioggia verminosa.

È giusto che il suono che saluta la morte di Michele sia quello « terrificante » della ritirata, perché è coerente con l’epica della sconfitta che è quella di Fenoglio. La descrizione del cadavere di Michele e delle azioni di Johnny è minuziosa, lenta, analitica

(e, in genere,

l’epicità

di Fenoglio

non

è

mai sintetica, quanto piuttosto analitica, nel senso che i particolari vengono osservati con cura specifica, mentre gli sguardi di insieme sono soltanto conclusivi di tutta una situazione o una vicenda: si pensi anche ai successivi sguardi che Johnny getta sulla città, nessuno definitivo e onnicomprensivo, ma tutti fissati su quel particolare che, nell'economia della descrizione del singolo momento epico, è significativo e necessario).

ternarsi

58

Due

momenti

del sangue

vi hanno

che esce

particolare

rilievo:

dalla ferita e dell’acqua

l’al-

della

pioggia nell’arrossare e nell’imbianchire la faccia di Michele e il gesto di onore e di supremo rispetto che mette al riparo del condotto di cemento del canale la più nobile parte del sergente

siciliano, cioè

il capo,

come

l’atto

dovuto

all’eroe,

la cerimonia funebre che lo celebra, l’unica possibile per preservarlo dalla « pioggia verminosa », cioè proprio dalla manifestazione più repellente della simbolica avversità della natura che si accanisce sui difensori della città, per umiliarli radicalmente, senza riscatto, se questa rivincita essi non trovano in se stessi, nelle azioni e nei gesti che compiono (anche

nella calma con cui il ragazzo segnala la morte di Michele a Johnny). Che i difensori siano epicamente esaltati proprio nel momento della loro sconfitta e nel fango che sono costretti a calpestare, ma con la pazienza che Johnny dimostra trascinando su per la collina il peso della Browning, pur nella fatica di strisciare sull’erba viscida e nel fango, o con un superiore sprezzo,

come

l’ufficiale biondo, è dimostrato

dalla citazione

dantesca che, con l’aggiunta del termine inglese ad adattarla alla situazione della battaglia di Alba, fa Fenoglio: « L’ufficiale

biondissimo si affiancò per un momento a Johnny, il vatro immacolato, armato di sola pistola, trattando il fango con piedi leggeri come fosse una plaything ». L'eroe è biondissimo,

ha l’impermeabile

immacolato,

si muove

sul fango della

collina di San Casciano come Dante e Virgilio nella pioggia eterna, fredda e greve del cerchio infernale dei golosi: è come separato e superiore alla materialità più greve e penosa della situazione, apparizione straordinaria, descritta per un istante in una sorta di sublimazione eroica che non vuole avere nulla di realistico, nulla, anzi, di reale, come, del resto, l’ultimo sguardo di Johnny al campo di battaglia, al luogo dove si è consumata la disfatta, che non ha più l’alone di tragica tristezza per la città perduta, ma, appunto, una sorta di irreale incoscienza

di ciò che è stato, di sollevamento

dalla situazio-

ne concreta per una sorta di stato assoluto, quale è quello in cui si trova l’ufficiale biondissimo con il vatro immacolato: Johnny

si alzò in tutta la sua statura fuori del riparo degli

olmi, con un intontimento, che era quello della disfatta:

una vera, campale disfatta, personalmente lavorata e subita. Per l'ultima volta guardò alla pianura, al campo della sconfitta, dagli argini più remoti fino a questo greppio fangoso, nella pioggia pomeridiana che già impartiva ombre di crepuscolo. E tutto gli apparve un sogno vorticoso, e nulla veramente

riconosciuta

reale, la realtà a esser toccata

e

con un dito da a new go at tt.

L'eroe si solleva in piedi, di fronte alla sconfitta, davanti

al campo in cui essa è maturata. È il gesto finale, quello che

59

chiude la vicenda con l’estremo sguardo rivolto ora al solo campo di battaglia, e con la più completa presa di coscienza della totalità della disfatta. Dopo, ci sarà soltanto il di più di dolore che Johnny decide di infliggersi guardando l’entrata dei fascisti nella città, ma ormai senza più passione. La battaglia gli appare « un sogno vorticoso », non fosse per i morti. L’alzarsi in piedi è l'estremo atto dell'eroe che medita su se stesso e su quello che è accaduto, al tempo stesso opponendosi allegoricamente al destino, a tutto quello che di avverso, oltre ai nemici, ha avuto contro. Né diverso è il suo gesto da quello dell’anonimo partigiano che poco prima, per dimostrare che i fascisti hanno ormai presso che circondato l’ultima linea dei difensori, si è mosso, all’impiedi, allo scoperto, ed è stato ucciso, con un atto che è stato, insieme, di sprezzo per la situazione disperata in cui i partigiani si trovano e di sfida

nei confronti della morte, di sacrificio per la salvezza dei compagni e di disperazione per come stanno andando le cose: Un uomo della I Divisione disse piuttosto morosamente che bisognava smettere di fissarsi sulla pianura, ma badare alla collina dirimpetto; al posto dei fascisti, lui si sarebbe tenuto collina protetta dalla vegetazione e assai meno impantanata

sulla della piana. E per esperimento e riprova, avanzò solitario ed eretto nella vigna scheletrita. Aveva anche troppa ragione, perché una grossa raffica crepitò dalla collina e lo stese stecchito nel filare.

Il partigiano parla « piuttosto morosamente », cioè oziosamente,

come

in una

conversazione

accademica,

quasi non

fosse in gioco la vita: ma è la consueta serietà di fondo sotto l'apparenza frivola, che è, poi, il tono adeguato all’epicità antifrastica di Fenoglio. Il partigiano anonimo, infatti, subito dopo la battuta, che sembra oziosa, si alza in piedi, allo scoperto, per dimostrare che ha ragione: sfida, cioè, la morte, nel momento in cui consacra con precisa scelta la disfatta.

Come tutti gli eroi dell’epica, prende su di sé i colpi del nemico, e ne risparmia i compagni. Va a morire, dopo una battuta che è risonata come « morosa », cioè oziosa, detta tanto per dire. « Eretto e solitario » si avanza nella vigna, che, sche-

letrita com'è, non gli può offrire nessun riparo, anzi lo espone del tutto alla vista di quei fascisti che egli si è dichiarato certo essere ormai sulla collina di fronte. Sacrificio e sfida, il suo gesto appartiene pienamente a quel culmine d’epicità che via via la narrazione di Fenoglio raggiunge nell’avvicinarsi alla conclusione del combattimento. È Epica della sconfitta, allora, è l'intero romanzo, fin dalla prima esperienza di Johnny con la Stella Rossa e il grande rastrellamento invernale di tedeschi e fascisti nell’Alta Langa,

per poi continuare fino alla vana difesa della città, ma per ac-

60

centuarsi e proseguire ancora nella lunga narrazione di tutto il terribile autunno di fughe e di successive ulteriori sconfitte, degli azzurri e dei rossi, con tutti i presidi dispersi e distrutti, e i tanti morti sulle vie della fuga, in un folle andirivieni da

collina a collina, con in mente sempre il mitico fiume come luogo di salvezza, sempre con i fascisti addosso, fino all’al-

ba in cui arriva la neve e Johnny si trova nella pace improvvisa della nevicata che interrompe la guerra e che gli permette di gettare uno sguardo su come sarà, dopo, il mondo, quando ricomincerà da capo, senza più la presenza di partigiani e fascisti, dei loro odi, dei loro combattimenti, delle loro morti. In tutto questo intrico di corse nel fango, di arrampicate affannose e faticose per le colline, di scivolate giù per i ritani, il tono di Fenoglio è sempre quello sublime dell’epica: appunto, dell’epicità della sconfitta, che è lo spazio autentico della lotta dei paladini del bene, perché solo il male può avere divise perfette, elmetti in testa, cannoni, carri armati, camion

efficienti, mitragliatrici in quantità, e perfino

la capacità di muoversi agilmente e sicuramente in tutta la pioggia e il fango e il fiume in piena, dominando gli elementi, ma in tutto questo splendore di forze e anche di fortuna (come nell'ultimo scontro descritto nel romanzo, quello fuori di Mango) perché alla fine sarà vinto e distrutto. Fin dalla morte di Tito, all’inizio de Il partigiano Johnny, sulla morte dei partigiani viene a concentrarsi spesso la celebrazione epica, diretta e sublime, con tanto di citazione classica per Tito, invece antifrastica ma non meno alta per l'ufficiale semicalvo o per Michele o per il partigiano anonimo che si erge nella vigna per dimostrare che la situazione è proprio quella che ha suggerito, anche al prezzo della vita. Di Tito Fenoglio, attraverso

i pensieri di Johnny, scrive:

Nella portata alla chiesa il Biondo lo scappucciò, lo scopri fino alla cintola. He sailed on front of Johnny: ci vide un sigillo di eternità, come fosse un greco ucciso dai persiani due millenni avanti. Profonda era l’occhiaia, la pelle già ridotta a pura fremente cartilagine, sentente la brezza, e la bocca lamentava l’assenza di baci millenari. I suoi capelli assolutamente immobili e grevi, i capelli d'una statua.

Tito avrà anche il discorso funebre del tenente Biondo. Ma quello che importa qui è la citazione del morto greco ucciso dai persiani duemila anni prima, e la trasfigurazione di Tito in una statua, come, appunto, un eroe greco, con tutti i particolari che consuonano con la metamorfosi del partigiano morto nell’eroe antico, fissato e consacrato per sempre

nella forma assoluta del monumento.

C'è, allora, da dire che, si, Fenoglio ha letto e amato

le

61

cronache della guerra civile inglese, e, si, i suoi protagonisti eroici si chiamano Milton e Johnny, proprio il cognome e il nome del poeta inglese del poema della lotta fra gli angeli del bene e gli angeli del male: ma il riferimento puntuale e specifico dell’epica di Fenoglio è forse più da vedersi nella tradizione del poema epico classico. Tito è come il greco ucciso dai persiani mentre difendeva il proprio paese dai nemici venuti da fuori, e la sua prosopopea nella morte appare quella della statua eroica; e ancora altri momenti epici sono quelli che ripetono, ma in forma antifrastica e capovolta e tuttavia non meno sublime, le gesta dei personaggi di Omero, di Virgilio, del Tasso

(e ci sono

anche

le citazioni

di Dante

e di

Shakespeare). La trasformazione radicale che Fenoglio compie è nella prospettiva con cui rappresenta le gesta dei suoi eroi: non dall’alto di un tempo fermo e assoluto, sorvegliato dagli dèi, ma dal basso di una condizione creaturale di fatica, fango, gelo, fuga (che, allora, ha, dentro, un’eco biblica). Gli eroi moderni del bene sono poveri, vinti, bagnati, raffreddati, infangati, in fuga continua: ma sono dalla parte del bene, appunto. Nell’epica moderna chi difende la parte giusta non è più il sovrano, il capo eroico e magnifico, l’intangibile protetto dagli dèi, ma è la creatura sporca, affaticata, braccata, eppure mai doma nella sua tenacia. La novità fondamentale di Fenoglio nel rinnovare l’epica nei romanzi partigiani è proprio qui: ma senza dimenticare che, dietro, c'è la tradizione classica, quella dell’epica antica.

62

Eduardo

LE GUERRE

Saccone

DI FENOGLIO

Mi era stato chiesto un titolo provvisorio, e impulsivamente prima ancora di sapere esattamente quel che avrei fatto, mi venne in mente quello annunciato, Le guerre di Fenoglio. Il titolo non intendevo,

è cambiato; si tratta ora di chiarirlo. Che cosa e che cosa intendo con esso? Perché il plurale?

Dal momento che — aggiungo o premetto — non volevo e non voglio qui presentare l’analisi di un testo specifico, come ho invece cercato di fare per lo più nei miei interventi precedenti,!

bensi

tentare

di offrire

delle

considerazioni

di ca-

rattere più generale un po’ su tutti i testi di Fenoglio. In effetti questo titolo vorrà alludere a parecchie cose insieme. In senso proprio e letterale le guerre di cui Fenoglio tratta nella sua opera sono, sappiamo, due: quella resistenziale del periodo 1943-1945, e la prima guerra mondiale. Di quest'ultima, come anche sappiamo, lo scrittore si occupa in alcuni

dei suoi ultimi

Rizzo nel volume Che cosa hanno

racconti,

quelli raccolti

a cura

Un Fenoglio alla prima guerra

in comune



di Gino

mondiale.

nei nostri testi, ovviamente



la prima guerra mondiale e quella che lo scrittore chiama almeno una volta in PJ, (I, 1, 994)? l’« avventura partigiana »? Proprio nulla, direi. Neppure la caratterizzazione che della prima dà il soldato Fenoglio nella Licenza: «il sangue e la merda e il fango » (III, 136) si attaglia precisamente (al più solo

genericamente)

alla seconda.

La

denuncia

rabbiosa,

la

polemica forte e violenta del personaggio, che sottolinea cosi la sua differenza dai signori di Alba, « che al caffè disquisiscono accademicamente sulla guerra ignorando, dalla loro privilegiata posizione di imboscati, la tragica realtà del fronte » (per usare qui l’ottimo riassunto recente di Francesco De Nicola) non

mi pare che sia assimilabile

alla differenza di cui

è questione per esempio nel Partigiano Johnny. Giustamente, chi si è occupato di questi ultimi racconti ha puntato su al. tro: Roberto Bigazzi sull’attenzione del narratore verso i vecchi Fenoglio — com’egli scrive — « produttori di fatti straordinari e perciò immagine di una civiltà non contaminata dagli interessi mercantili »;° Gino Rizzo sulla « insistente, assillante domanda

a una civiltà, quella degli antenati, ormai al

suo definitivo crepuscolo, ma tale da potersi ancora proporre

63

in alternativa a certe inquietanti immagini contemporanee »;9 De

Nicola

stesso,

« fedeltà estrema

sulla

più precisamente,

[di Fenoglio] alle proprie aspre origini », tema « già affrontato negli anni Cinquanta », che « viene ripreso da Fenoglio anche nei primi anni Sessanta quando lo sviluppo industriale di Alba aveva cominciato a snaturare in misura irreversibile la vita sulle colline »” Solo che queste interpretazioni, le quali sono certamente legittime, e fino a un certo punto persuasive, e, quella più recente di De Nicola in particolare articolata con pezze di appoggio numerose e indiscutibili, mi pare che corrano il rischio di ideologizzare Fenoglio, ipostatizzando delle opposizioni che sono indubbiamente presenti nei suoi testi: come sono quelle tra bello/bontà da una parte, brutto/cattiveria dall’altra; sviluppo industriale della città contro vita (nel passato) sulle colline; anche più in generale passato contro presente, ecc.

È De Nicola, mi pare, a portare

queste opposizioni alle estreme conseguenze, quando definisce Fenoglio « testimone nei suoi racconti di straordinarie vicende langhigiane spesso segnate dalla “bellezza” morale dei suoi protagonisti, proposti come portavoce di una civiltà sana ancorché quotidianamente alle prese con la “malora” »;8 e più innanzi,

riferendosi

anche

al racconto

Ferra-

gosto, al racconto anepigrafo di Nick e Jimmi,) e al moralismo esasperato di alcuni epigrammi, accentua l'opposizione tra quello ch’egli chiama «il mondo ambiguo della città, sia Torino o Alba », che «non offre che occasioni sempre più inarrestabili, per abbrutire l’uomo, per negargli » la bellezza, e questa « bellezza », appunto, « che sola gli consente il riscatto dalla passività e da una “malora” che non è solo materiale e visibile e che non solo sulle alte Langhe si accampa ».! Sempre De Nicola, concludendo il suo discorso sui Penultimi, caratterizza la ricerca di Fenoglio che s’identifica con

la scelta

morale

degli

antenati,

« bella » anche

se non

pratica, cosi: « In loro lo scrittore aveva riconosciuto i suoi modelli umani, che le sue pagine intendono riflettere, tra la denuncia dell’“avvenire ladro” e l’elogio dell’“onesto passato” (III, 597); e tra le lusinghe della città e l’asprezza delle colline la scelta in questa direzione è un’altra prova di “bellezza” aristocratica, un altro risoluto andare contro l’opinione comune, un’altra occasione

di riscatto contro

il mondo

dei me-

diocri e di quanti non sanno guardare oltre le apparenze (come facevano appunto i detestati borghesi della sua città) nel valutare la realtà ».!! C'è certamente

del vero

in tutto

questo;

molto

di ciò è

in Fenoglio, nei testi di Fenoglio. Ma è questo che c’interessa, oggi? Più precisamente: è questo strato del testo di Fenoglio —

64

un

Fenoglio

moralista,

nobile

ma

anche

acido,

e

in qualche modo ideologo, anche dirò banale, che comunque sceglie o sceglierebbe persone, personaggi abbastanza consolatori in cui proiettare le sue idealistiche frustrazioni — è questo strato del testo di Fenoglio il più interessante oggi? Anche, il più persuasivo artisticamente? Me lo chiedo. Inoltre, è proprio sicuro che questa lettura non sia passibile di qualche aggiustamento? Tra le guerre di Fenoglio, azzarderei, c'è anche questa: contro i suoi lettori che vogliono attribuirgli solo dei buoni sentimenti, degli ottimi sentimenti. Ma bisogna aggiungere subito che la guerra è anche dello scrittore contro se stesso, contro le tentazioni —

difficili da resistere —

dell'ideologia: di cui egli non manca, qualche volta, di essere la prima vittima. Quello che voglio dire è che, pur senza negare quasi nulla delle caratterizzazioni dei testi che ho citato, e anzi tenendone ben conto, la situazione mi appare tuttavia più complicata e contraddittoria, anche — secondo me — più interessante. De Nicola ha fatto giustamente riferimento al racconto, apparentemente del 1962, senza titolo come si diceva, in cui si narra dell’incontro in un caffè di Alba dei due partigiani Nick e Jimmi. In questo testo, importante ma non eccezionale, la cui tematica,

voglio

dire, attraversa

e pervade

tutta

l’opera del nostro, ciò che conta non è tanto l’opposizione tra il puro e disilluso Nick, che parte per l’entroterra, « per le colline che furono

nostre » (III, 121), e l'imborghesito

e arri-

vato Jimmi, rappresentante e simbolo di quella città di cui Nick non vuole « veder nulla » (III, 117), quanto qualche altra cosa. L'opposizione, in altre parole, resta certamente, ora

più di prima, tra la « collina alta » e la città del boom nomico

evidentemente

rifiutata;

ma

non

mi convince

ecola ca-

ratterizzazione che sempre De Nicola offre del Nick in fuga dalla città: « accompagnato da angosciosi sospetti su un probabile fallimento generazionale che richiama il deluso dopoguerra di Ettore nella Paga del sabato ».!2 Il richiamo al romanzo del 1950 è senz'altro opportuno, e anzi necessario. Ma anche li ciò di cui si tratta non è il « fallimento generazionale » o la delusione del dopoguerra. Si noti infatti come sia l’uno che l’altro personaggio, sia Nick che Ettore,

senza

accusare

nulla e nessuno,

si autodefinisco-

no: entrambi considerano se stessi dei falliti. Nick pensa: « Mi chiamava old lion con convinzione. Eppure se n'è accorto, sicurissimamente,

che

sono

un

fallimento » (III, 124);

e

quando l’ex compagno d’armi, alla notizia che Nicksi farà a piedi i diciotto chilometri della strada « per la collina alta verso Mango », esclama: « Scoppierai per la strada », la risposta di Nick è: « magari! » (p. 122). Quanto all’Ettore di La paga del sabato, apparentemente rassegnato infine alla

65

normalità del matrimonio e del distributore di benzina — che vuole pulito, asettico, senza ristorante per esempio — un giorno che, alla guida del camion,

« cantava con la bocca

chiusa », Palmo gli dice: « — Sei allegro. Lui fece di si con la testa. — Sono allegro sai perché? Perché sono un uomo finito.

Sono come una bilia ch'è cascata in buca » (II, 11). E un’altra volta, quando, uscito dal pranzo oppressivo in casa dei suoceri, in cerca di un lavacro purificatore, di un test qua-

lunque « per dimostrarsi », dice il testo, « che non era spacciato come s’era sentito in casa di Vanda» (p. 219), fa la prova con la « bella donna che faceva la vita a Torino », il risultato negativo, che conferma la sua sconfitta, lo fa cedere « di colpo, le spalle gli caddero come sotto un peso di bruttezza e d’impotenza, di vecchiaia » (ibid.). Può sembrare, è sembrato — s'è visto — che sia la delusione il motivo comune ai due testi. E in un certo senso è così.

Ma La del che che

di quale delusione, di quale illusione delusa si tratta? domanda, importante, deve spostarsi altrove: sull’oggetto desiderio del personaggio fenogliano. Che cosa desidera, cosa desiderava, per esempio, il personaggio Nick? Di sorta

è la nostalgia

che

lo fa riandare,

ora,

verso

«la

collina alta »? Il breve racconto non fornisce risposte se non assai implicite; solo ci lascia immaginare ciò che Nick non desidera, anzi ciò che chiaramente rifiuta. Il personaggio del romanzo, invece, ha più agio di esplicitare la sua passione, e il suo fallimento. In lui ritroviamo già, ben in evidenza, le due coordinate dello snobismo e del sentimentalismo, i due

poli riconosciuti dallo stesso autore! come costitutivi del suo personaggio più complesso e maturo. In Ettore non c’è il sentimentalismo di Bianco e di Palmo a Valdivilla: dei due certo egli non condivide «il barbaro sentimento che quelli erano stati tempi felici e che il destino sarebbe stato ingiusto se non gliene riservava un altro pezzo prima di morire » (II, pp. 200-201). Lui pensa, invece, che sia stato addirittura tutto uno sbaglio: « Che sbaglio avete fatto, ragazzi. Mi odio, mi darei un pugno in testa se penso che anch'io mi son messo tante volte nel pericolo di fare il vostro sbaglio » (pp. 201202): che sarebbe poi quello di morire, di essere morti. Di sentimento, in Ettore, ce n'è semmai un altro, residuo:

quello

per Vanda e, più, « per il piccolo che [lei] portava, e a pensarci a Ettore gli veniva non più da ridere ma da socchiudere la bocca per il dolce tormento di sentirsi il cuore premuto leggermente come una palla da dita di bambino » (p. 204). E prima, assai in evidenza, era in questo romanzo l’uomo fenogliano radicato nella sua terra e nella sua famiglia che, come l’Agostino della Malora, non partirà, non solo non emigrerà — come l’emblematico compagno per un anno

66

alle scuole elementari, chiamato da tutti Marsiglia, o come il Mario della Malora, che vuole lasciare, scappare dalle Lan-

ghe — ma, nonostante, e anzi proprio in virtà dei passionali e violenti rapporti che intrattiene con i suoi genitori, esibisce un attaccamento che sarebbe improprio definire viscerale, la cui natura « carnale », però, appare sottolineata e ribadita da troppi altri testi. In effetti il « sentimentalismo » più autentico di questo, come di tutti i protagonisti fenogliani, ha a che fare con la necessità di appartenere, di radicare un io essenzialmente fragile e insicuro, il quale si sparpaglierebbe altrimenti, o finirebbe inghiottito da un gorgo opprimente, sopprimente: indifferenziato e indifferenziante. È questo sentimentalismo, ch'è legato ovviamente a filo doppio a ciò che Fenoglio chiama snobismo, e ch'è in primo luogo desiderio di differenza, di essere differente: desiderio di alterità, di essere altro; rifiuto di una normalità, di una norma avvertita come inauten-

tica, insignificante o addirittura ripugnante; tri e insieme

desiderio

rifiuto degli al-

dei suoi: di quelli come

lui; rifiuto di

tutto ciò ch'è sentito come oppressivo, costringente, delimitante, obbligante: e dunque in senso lato desiderio di libertà. La paga del sabato illustra già bene, e con notevole complessità, questa dialettica, o per dir meglio l’intrico di questi due momenti. Non è, come pur potrebbe sembrare ed è parso, l’esperienza della guerra partigiana — la quale fu semmai, come appare più chiaramente con Johnny, la scelta del riappropriarsi, « occasione di ripossedersi interamente » (come si legge in Pdb,, pp. 1511-1512), per riscattare un io umiliato e alienato — non è, dicevo, l’esperienza della guerra partigiana a produrre lo sbandamento, l'impossibilità (per Ettore, ad esempio) di reinserirsi nella normalità. All’origine di quella scelta c’era già il rifiuto di una normalità degradata e corrotta. Ora, dopo la guerra, il rifiuto di un lavoro « normale », come li viene detto, del lavoro e dell’esistenza percepiti come « prigionia », privi di « tutto ciò che c'è di bello e d’importante nella vita» (come si legge anche nel racconto Un altro muro

[II, 110]),

è equivalente

alla ricerca —

nell’espe-

rienza della guerriglia — di ciò ch'è ben riassunto dal significante « libertà ». Nella Paga del sabato l’opposizione si configura più concretamente come opposizione tra il lavoro di routine e un altro lavoro, quello della guerra. [All’impresa]

mi facevano portare il calcestruzzo dalla beto-

niera a dove faceva di bisogno, cosi tutto il giorno, tutto il giorno

avanti e indietro col carrello. Io da partigiano comandavo uomini, e quello non era un lavoro da me (II, 124).

venti

67

Poi, più persuasivamente, la stessa opposizione è prospettata ellitticamente come quella tra « lavoro » e « gioco »: un motivo, quest’ultimo, che appare frequentemente negli scritti soprattutto langhigiani di Fenoglio, dove esso funziona sempre come immagine-simbolo di vita piena, affollata e gioiosa, fervorosa: Lui si mise ad andare, per la strada, andava a veder giocare alla pelota nel grande cortile dietro l’Albergo Nazionale [...]}. Ma oggi, come si avvicinava, non sentiva il suono della palla battuta

e ribattuta contro la muraglia, né le voci e lo scalpiccio degli spettatori eccitati (II, 126).

L'alternativa gioco/non gioco si trasforma metaforicamente — una metafora oggettiva — nell’altra (quasi leopardiana) tra il rumore della vita festosa e il silenzio della morte. Da sul portone vide la lizza deserta, in metà c’era una donna che faceva il bucato e con vicino un bambino seduto su un mastello rovesciato. Ettore entrò nella lizza come se non ci credesse ancora. Quel bambino mangiava una caramella con una pagnotta di pane. — Oggi non giocano, — gli disse il bambino. — Lo vedo, — rispose lui con una faccia scura come se parlasse a un uomo che l'avesse fatto arrabbiare. Tornò in strada, trovare il gioco deserto gli aveva fatto effetto, gli pareva d’essere stato tradito (II, 126).

Il seguito del testo elabora e rileva in cattivante evidenza il motivo snobistico, implicito in precedenza o solo appena accennato. Con Vanda che si compiace all'annuncio che l’indomani

Ettore inizierà a lavorare

alla fabbrica

di cioccolata,

enunciando l’argomento che doveva anche lui « cominciare un giorno o l’altro », come « cominciano tutti », « E perché io devo essere uno di questi qui? », è la reazione del personaggio (p. 135). Anche, egli l'accusa di volergli « far fare la fine di tutti gli altri» (p. 136). Ettore sembra anche preoccuparsi di «lavorare sotto gli altri », di essere « sotto un padrone ». Ma Vanda sa già che quello non è il vero problema, e che Ettore è « come tutti gli altri »: « Tu non puoi fare nient'altro. Sei come tutti gli altri » (p. 136). Il bovarista Ettore reagisce, com'era

da attendersi,

istericamente:

« Te lo farò vedere

io,

vedere a te per prima » (ibid.). Più innanzi, nel capitolo terzo, il motivo treva la sua formulazione più efficace e matura, pur senza cessare — per sostenersi — di avvolgersi in contraddizioni. Bisogna citare l’intero passo: Finalmente arrivarono gl'impiegati, otto, dieci, undici in tutto, non si mischiarono agli operai sull’asfalto, stettero sul marciapie-

68

de. Lui si nascose dietro l’orinatoio e li osservava attraverso i fori metallici. « Io dovrei fare il dodicesimo », si disse, ma cominciò a scuotere la testa, non finiva più di scuoterla e diceva: — No,

no, non mi tireranno giù nel pozzo con loro. Io non sarò mai dei vostri, qualunque altra cosa debba fare, mai dei vostri. Siamo troppo diversi, le donne che amano me non possono amare voi e viceversa. Io avrò un destino diverso dal vostro, non dico più bello o più brutto, ma diverso. Voi fate con naturalezza dei sacrifici che per me sono enormi, insopportabili e io so fare a sangue freddo delle cose che a solo pensarle a voi farebbero drizzare i capelli in testa. Impossibile che io sia dei vostri. Ecco là gli uomini che si chiudevano fra quattro mura per le otto migliori ore del giorno, tutti i giorni, e in queste otto ore nei caffè e negli sferisteri e sui mercati succedevano memorabili incontri d’uomini, donne forestiere scendevano dai treni, d'estate il fiume e d’inverno la

collina nevosa. Ecco là i tipi che mai niente vedevano e tutto dovevano farsi raccontare, che dovevano chiedere permesso anche per andare a casa a veder morire loro padre o partorire loro moglie. E alla sera uscivano da quelle quattro mura, con un mucchietto di soldi assicurati per la fine del mese, e un pizzico di cenere di quella che era stata la giornata. — Disse di no con la testa per l’ultima volta (p. 140).

Davvero ci sono qui tutti gli elementi. L'opposizione sprezzante — e snobistica — è, se si vuole, tra vita e non vita: vita come vedere, fare, incontrare, libertà, luce, avventura,

una vita « memorabile »; e non vita come pozzo, prigione (« quattro mura »), sacrifici, normalità, passività, non vedere, oscurità, cenere. {Una vita memorabile, una d’eccezione. Errerebbe, credo,

vita straordinaria, una chi volesse assimilare

vita tout

court quella di Fenoglio a una posizione decadente o estetizzante. Indubbiamente, a isolare i termini come ho appena fatto, la tentazione è forte, e anche non del tutto illecita. Il punto di partenza è del resto lo stesso, ciò che autorizza

poi l’uso di una categoria come quella di snobismo: l’insopportabilità dell’esistenza data, con buone e con cattive ragioni, per buone e per cattive ragioni. È questa la molla che fa agire e regola un personaggio come Johnny nel Partigiano, ovvero i protagonisti di racconti quali Un giorno di fuoco, La novella dell’apprendista esattore, il Racconto per « Nuovi Argomenti », fino a un certo punto, Ma il mio amore è Paco, o di un romanzo come Una questione privata. A suo modo, e in questo senso, si potrebbe sostenere, anche l’Agostino della Malora

è uno

snob.

La sua resistenza,

la sua

ostinazione,

la

sua vita da schiavo sono in funzione di un desiderio (di riappropriazione, di libertà) ch'egli deve sostenere, tenere in vita, per durare. Può farlo, può riuscirci Agostino — tutto sommato uno dei più fortunati personaggi fenogliani — perché il

69

suo snobismo, la sua volontà di differenza che non si arrende, sono sostenuti — come sempre nei personaggi più riusciti del

nostro scrittore — dal suo sentimentalismo, in questo caso dalla sua fedeltà — che la madre chiamerà « sacrificio » —

alla famiglia: fedeltà ostinata, resistenza che sarà premiata, nonostante la malora, da un vivere, per lui, magari « solo a

pane e cipolla », ma « senza più un padrone » (II, 436), e, per il fratello Emilio, dal non dover « morire nel suo degli altri » II, 437). i

La tensione tra i due momenti, tra sentimentalismo e sno-

bismo, è necessaria dunque perché l’autentico personaggio fenogliano sussista. Quando essa manca, o cade, anche il personaggio si affloscia, viene meno: per lui è finita. All’Ettore della Paga del sabato (che prima ha cercato di positivizzare la differenza nel banditismo con Bianco e Palmo — che cosi finisce col costituire l’altro speculare della routine impiegatizia — perseguendo dunque una falsa soluzione del problema, come il personaggio dovrà accorgersi presto), una volta che ha rinunciato alla trasgressione non resta che la carta del sentimento: troppo poco per far fronte alla coscienza del fallimento

(« Sono

un

uomo

finito », s’è visto),

fine, la quale infatti non zandosi

nel camion

si fa attendere

guidato

gli « crosciare » il torace

da Palmo,

« come

al senso

molto,

della

materializ-

che l’investe facendo-

una cesta di vimini schiac-

ciata » (II, 222).

Torniamo brevemente a quegli ultimi scritti, Un Fenoglio alla prima guerra mondiale e i cosiddetti Penultimi, da cui ero partito. Quale senso attribuire allora — dopo quanto ho detto finora — alla ricerca parentale di quest’ultimo Fenoglio? In primo luogo direi che il suo interesse non è di carattere storico, come pur si è proposto, bensi mitologico: collegabile ovviamente alla ricerca genealogica di Agostino nella Malora, sul « nostro sangue » (II, 397); anche alle preoccupazioni di Ettore,

nella Paga del sabato,

per il mescolamento

dei san-

gui, che lo induce a tormentarsi col pensiero di « quello che poteva esserci nel sangue di Vanda del sangue di suo padre, tutto ciò che stava dentro e dietro la donna che sarebbe stata sua moglie e che gli avrebbe dato i suoi figli impastandoli e irrorandoli con quel misterioso e ripugnante sangue di molti » (II, 215-216), e a desiderare che il figlio prenda tutto da sé (« Voglio che mio figlio prenda tutto da me. Se no, non lo riconoscerei, lo odierei. Deve prendere tutto da me », ibid.). Ma la ricerca è collegabile soprattutto alla nota di Diario contrassegnata dal numero XXXIV, intitolata significativamente Myself, dove si parla dei « vecchi Fenoglio, che stettero attorno alla culla di mio padre, tutti vestiti di lucido nero, col bicchiere in mano e sorridendo a bocca chiusa. [...] Cosi senza

70

mestiere e senza religione, cosi imprudenti, cosi innamorati

di sé ». I vecchi

Fenoglio,

ch'egli

« sente

tremendamente »,

« pende da loro ». E qui è anche invocata un’altra guerra, interna allo scrivente, quella tra i due sangui, della linea paterna e della linea materna: « Questi due sangui mi fanno

dentro le vene una battaglia che non dico » (III, 209). . Sentimentalismo e snobismo sono evidentemente operanti in questa ricerca — ch'è ricerca di un'identità (« myself »)

non chiara, per nulla assicurata — mediante l’appoggio, il tentativo di radicamento in un albero genealogico, un ordine e una rete significante, in cui inscriversi e in cui trovare fondamento.

La

domanda

è dunque:

chi

sono?

chi

siamo?

E,

come sempre in Fenoglio, il noi è definito mediante l’opposizione agli altri: nei Penultimi mediante l’opposizione dei Fenoglio ai Tarditi, mediante la guerra tra i Fenoglio e i Tarditi, che nella mitologizzazione dell’aedo Massimino, partigiano devoto dei perdenti ma resistenti (« Però resistemmo... » [III, 597]) Fenoglio — la cui « bontà » è « bella », perché è « grande aver la vita fregata dalla bontà » (p. 594) — è guerra tra « l'avvenire ladro » e « l’onesto passato » (p. 597). È l’opposizione dei termini che importa, la forma dell’opposizione, non certamente qui il contenuto: la letteralizzazione e l’irrigidimento manicheo, l’ideologizzazione di essi in buono e cattivo, passato e avvenire. Ch’è l’affare di Massimino, del per-

sonaggio Massimino, non del narratore Fenoglio. Resta il fatto, però, che l'insistenza su questi temi, a cosi tarda data, conferma il nodo non risolto, la mancanza di una vera evo-

luzione dello scrittore: anche — ch'è dir lo stesso in questo caso — la sostanziale coerenza, la rigorosa ripetitività della sua problematica. La preoccupazione, a volte addirittura l'angoscia per un'identità minacciata — incerta, cedevole, scollantesi, fluidificantesi — può risultare, sempre nel contesto di una dialet-

tica tra snobismo e sentimentalismo, da una parte in posture troppo rigide: stoiche, di pronuncia stentorea, generando una retorica che può diventare insopportabile ed è il volto antipatico dello snobismo di Fenoglio; dall’altra nel sentimentalismo,

appunto, inteso come scioglimento, diffusione, spappolamento dell'io: invasione e confusione dilagante, sgretolante limiti e compattezza della persona, dell’io. Si pensi, nei Racconti della guerra civile, al testo intitolato Nella valle di San Benedetto, dove ciò ch'è repellente, la fonte di un’angoscia ch'è di corruzione, dissoluzione, decomposizione, è a un certo punto la sensazione di un « allentamento » dei denti nelle gengive: immaginato come « decadimento fisico, principio di corruzione » (II, 89): contro cui il protagonista del racconto cerca di reagire chiamandosi per nome: « Mi chiamai col mio nome, mi

71

chiamai alla riscossa » (ibid.). Il nome, né solo quello proprio (altre volte è il patronimico, altre ancora, come nell'opera maggiore,

chiamo,

« partigiano »), vale,

appello difensivo:

costituzione, ricostituzione

o dovrebbe

valere,

resistenza, baluardo

incessante

come ri-

dell’identità;

della differenza di con-

tro all’altro invadente, opprimente, confondente. Tanto meglio se quest’identità, questa differenza è resa più sostanziosa, più compatta da tutta una famiglia, da una gente, da una razza. Noi, e gli altri; noi, contro gli altri. È quanto accade per l’appunto con la parola, e col mestiere, di partigiano. Nel libro che, nonostante i difetti e, in primo luogo, l’imperfezione — testimoniante forse l'impossibilità di ogni progetto letterario, la sua possibile impossibilità — è quello più equilibrato e profondo, il più persuasivo e moderno, la parola chiave, la parola dell’identità, cui si aggrappa il protagonista, è certamente « partigiano ». Fenoglio s’interroga, sappiamo, su che cosa significhi essere partigiano. « Partigiano, come poeta, è parola assoluta », aveva annunziato Cocito all’inizio di PJ, (I, 2, 410); ed è indubbiamente

verso questa assolutezza come

integrazione, reintegrazione di una «normale dimensione umana » (p. 437), di contro al « depauperamento », la « miseria », l’« opacità », l’« infezione », di cui soffre una realtà insopportabile, che Johnny si avvia quando parte per «le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero » (ibid.). Per

una volta sembrano congiunti e armonizzati sentimentalismo e snobismo. « Quando ci andrò, mi dirigerò sulle Langhe — aveva detto Johnny. — Non so, ma la mia linea paterna viene di là » (PJ,, 419). D’altra parte l’« arcangelico regno dei partigiani » (p. 413), l'esigenza che « tutto aveva da essere cosi nordico, cosi protestante » (p. 439), come pure l’anglomania, il desiderio e l’attesa degli inglesi — di essere con gli inglesi, come gli inglesi — non lasciano dubbi sul suo snobismo. Ma ciò non vuol dire altro che l’identità si costituisce come differenza. Sin dall'inizio, prima ancora di partire per le colline, solo trasportando la pistola dalla città alla casa in collina, di Johnny si dice che « camminava [...] con un nuovo sentimento, un sentimento di diversità da tutti quanti incontra-

va» (p. 414). Più tardi, in una « sospensione di partigianesimo », Johnny marcia « al basso », sentendosi « come può sentirsi un prete cattolico in borghese o un militare in borghese »: Era terribilmente diverso da tutta la gente che batteva la grande strada di cresta: rada, sullen, aggricciata gente che batteva la collina per bisogni e passioni supremi: il démone della

72

borsa nera, la mendicatizia ricerca di legna da ardere, o la chiamata del prete per una estrema unzione (p. 526).

Un po’ più (e siamo ancora la reazione del sibile rapporto,

innanzi, nella villa dell’industriale enologico solo all’inizio dell'esperienza partigiana), ecco personaggio: « No, non c’era più nessun postra quella gente e se stesso » (p. 534).

Quella che almeno una volta, come già accennavo, viene definita dal narratore « l'avventura partigiana » (PJ,, 994), si

configura dunque in primo luogo come esperienza della differenza, più precisamente come una lotta, una guerra per affermare e stabilire questa differenza: la cui definizione non è tanto asserzione, difesa di una positività, quanto opposizione a — e distinzione da — una negatività. Alla quale si reagisce appunto, opponendovisi: con un gesto reattivo, piuttosto che creativo. Reazione e resistenza, dunque: « dir di no fino in fondo », come spiegherà Johnny al mugnaio di buon senso (in PJ,, 898; PJ,, 1184). Partigiano è cosî la parola che descri-

ve il ruolo in cui si fissa questa cessa di essere oscura. Partigiano, tante e fautore di una parte, non salmente, la sua lotta in Fenoglio, civile,

contro

la parte

cattiva,

negativa diversità, che non per definizione, è rappresendi una totalità; ma, paradosla sua guerra — ch'è guerra

decadente,

corrotta,

a causa

della quale e contro la quale essa è sorta, insorta — è lotta e guerra per la costituzione, per la ricostituzione di una integrità, di una totalità: che nel nostro caso più che oscura è ignota. Non solo. La sua divisa, sappiamo, come quella di T.E. Lawrence secondo E.M. Forster,!* è « a profound distrust of himself, a still profounder faith », che in Fenoglio suona leggermente variata, o come « a deep distrust and yet a profounder faith » (Ur PI, 145), 0 come « a deep faith and yet a profounder distrust » [« una sfiducia profonda (in se stesso) e una fede an-

cor più profonda », ovvero « una fede profonda e una sfiducia ancor più profonda »]. Ciò implica un sospetto che, originario nel personaggio fenogliano e, per dir cosi, di fondo, non farà nel Partigiano

Johnny

che crescere,

avviandosi

il libro verso

la fine, verso la fine della guerra. In effetti l'incapacità di concepire quella che qualche volta nel libro è anche chiamata libertà in modo altro che oppositivo, puramente negativo — di negazione e opposizione del dato malvagio e opprimente — richiederebbe la perpetuazione del partigianato: partigiano in aeternum, for ever; il partigiano come mestiere, contro ogni buon senso. « Ma non vorrai dire che il tuo è un mestiere come il mio, normale come

il mio? » — prorompe il mugnaio contro Johnny verso la fine di PJ, e PJ, (rispettivamente p. 898 e p. 1184). Si tratta infatti di questo per Johnny, e qui precisamente risiede l’impossibi-

73

lità, l'assurdità del suo desiderio. Se l’esperienza partigiana si configura per Fenoglio come un modo di vita diversa, autentica e non banale proprio in quanto eccezionale, l'eccezione che si vuole regola, la resistenza e la rivolta, come quelle di Sisifo, devono

restare

senza

futuro;

o, che è lo stesso,

hanno altro futuro che se stesse. Ciò presuppone

non

e richiede,

ovviamente, anche il mantenimento del nemico, dell’avversario; altrimenti non c’è azione, non c’è lotta: la guerra, ch'è la

ragione d’essere del partigiano. Di qui nel romanzo, né solo in Johnny, la paura, l’angoscia della fine. « Ha ragione — dice un compagno. — Che diamine faremo il prossimo inverno senza più la pelle da salvare e senza più fascisti da averci che fare [con cui avere a che fare]? » (PJ,, 909; PJ,, 1194). Parole cui fanno eco quelle di Leo, in Frammenti di romanzo: « Per

novembre

sarà tutto finito. E poi che faremo? Dio santo, poi

che faremo?» (I, 3, 1584); e nell’Ur Partigiano, quelle dell’altro Leo, il tenente Leo: « Then all is over. The war, I mean, — and it worded it as defeat was that over » [« Allora è tutto

finito, la guerra, voglio dire. E sillabò queste parole come la sconfitta

fosse in quel finito »] (I, 73). E le citazioni

se po-

trebbero continuare. La fragile identità del partigiano, che si appoggia come quella dello snob alla parte, quella buona, che nasce in contrapposizione, si sostiene dell’esistenza della cattiva, ha bisogno inoltre del supporto di una sempre rinnovata serie di azio-

ni, posture, gesti spesso largamente o solamente dimostrativi, e confermanti di questa identità. Se si riflette, molte delle azioni partigiane narrate nel romanzo fenogliano esibiscono precisamente questa natura: spesso finiscono in « pasticci », ma, come dice una volta Johnny, « ha da essere fatto » (PJ,, 917; PJ,, 1199). E perché hanno

da essere fatte? A volte con-

tro ogni buon senso o senso comune. Non è a dire che il problema non tormenti Fenoglio, anche e soprattutto l’ultimo: in particolare quello di Frammenti di romanzo,

dell’atto

semplicemente senta

Atto

il bisogno,

unico

Solitudine,

unico.

È significativo

nei suoi

ultimi

e dell’altro

scritti,

che

intitolato

lo scrittore

di riprendere



e

ripetere, ribadire contro ogni buon senso — la postura (che rischia, come in Lawrence, di divenire impostura), che Johnny nel Partigiano si ostina ad assumere contro gli argomenti del mugnaio: « Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo e questa [l'ipotesi di ritirarsi, ripararsi fino alla venuta degli Alleati] sarebbe

una

maniera

di dir di si» (PJ,, 1184). Che

in

gioco ci sia il radicale svuotamento di senso dell’essere partigiano come l’intende Johnny è confermato dal « sonoro orgoglio » (PJ,, 1184) con cui egli maschera la sua insicurezza: « Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’uni-

74

co passero! — Ma tosto se ne penti... » (ibid.). In Solitudine, testo, come pare, del 1962, il confronto è tra il capitano Perez e un tabaccaio, che gli chiede per il bene del villaggio di ritirarsi senza che il contingente partigiano spari: perché « il coraggio sta bene, ma la ragionevolezza anche » (III, 729). Pe-

rez non ascolta ragioni: dice che lui sparerà prima, e poi si ritirerà. Sa bene, come tutti, che non c’è « una probabilità su cento di fermare i fascisti » (p. 728): « qui non c'è da illudersi » (p. 729); ma dichiara ugualmente che lo fa « per finire la guerra. [...] Se io domani non sparo, io non avrò più animo di ricominciare da capo. Ma se domani sparo, io arrivo it DÈ fine della guerra, perché non avrò smesso mai » i, p. Non si convincono i supplichevoli rappresentanti del paese, e non so se si convincano i lettori. Sempre in Solitudine c'è poi il confronto tra il partigiano Nick e, di nuovo, il mugnaio. La situazione è esattamente la stessa del romanzo, del Partigiano Johnny. E, come li, l’onesto e un po’ saccente mugnaio non vuole che Nick finisca come Califfo: « Com'è capitato a lui poteva capitare a te. [...] Se è solo fortuna, tu puoi averne ancora una volta, ma poi la fortuna si consuma » (p. 685). Gli Alleati « si muoveranno

tra due mesi.

[...] E vin-

ceranno senza di voi... [...] E allora, perché vuoi crepare, per una

vittoria

che

non

dipende

da te, che

verrà

da

sola...? »

(p. 686). Questa volta il partigiano non controargomenta, come invece, vedemmo, Johnny nel romanzo. Risponde solo: « No (gentilmente) ». « Ma tu sei un anormale! » gli grida il mugnaio disperato. « Macché sono un partigiano », ribatte Nick (p. 687). Può venire in mente una frase significativa di Agostino nella Malora: « Si viene a una mira che uno è obbligato a farsi delle illusioni » (II, 409). Illusioni, finzioni: idoli o feticci, cui attaccarsi, aggrapparsi per continuare, vivere, resistere. Johnny resiste, non senza gravi difficoltà: per ragioni che rischiano di diventare sempre meno chiare, se almeno una volta egli ha il « raggelante sogno di trovarsi “lui solo” in quella posizione, un solitario fuorilegge, autobanditosi per motivi non chiari nemmeno a lui stesso, precisatisi in un incubo » (PJ,, 536). Certo

è che, nonostante

l’ostinatezza

di « I'll go

on to the end, I'll never give up » [« Andrò fino in fondo, non cederò mai »] (PJ,, 1117), la solitudine del terribile inverno assottiglia ogni finzione, rode ogni sostegno, portando all’acme quella che viene ora chiamata la « separatezza » di Johnny. [« Si rese un radiante, spettrale conto della sua separatezza, del suo essere un partigiano, in nudità estrema e fatalità estrema,

senza

la più minima

possibilità di contatto » (PJ,, 874];

mentre si allarga senza rimedio il cantuccino, il patch del suo

75

essere che —

« non sarebbe mai stato can-

ormai egli sa —

cellato né sommerso

» (PJ,, 912). A questo

punto

Johnny

sa

di non funzionare più come prima: «lui solo did not run as before »; sa di « non trovarsi più: e, peggio, il patch si am4 pliava » (PJ,, 912). La guerra non finirà, non sarà seguita da una pace. « C'è mai stata una pace? » — domanda Nick in Frammenti di romanzo

(I, 3, 1708). « Mai

stata,

disse Milton.

Credo

proprio

che una vera pace non ci sia mai stata. Il mondo è sempre stato ammalato » (p. 1709). Sembra allora che anche per Fenoglio, come per Lawrence, si tratti di una « unending battle », di una battaglia che non finirà mai, « with an enemy who was not of the world, nor life nor anything, but hope itself » [« contro un nemico non di questo mondo, né di questa vita, ma di null’altro se non forse la speranza stessa »].5 Il « purpose », il fine, lo scopo, l’« idealità dell’ideale » ! si è sottiliz-

zata per incapacità di vera e Per i fortunati aggrapparsi ai delle loro passioni. Nel testo teatrale intitolato tamente anch'esso degli ultimi

piena convinzione. Che resta? loro idoli privati, agli oggetti semplicemente Atto unico, ceranni, si distingue tra due par-

tigiani, Nick, « che resiste bene, direi che ci si crogiola nella

posizione

di sbandato

[sempre

durante

il terribile

inverno

del 1944], è nel suo elemento » (III, 413), e l’angosciato Bob, che non ritiene necessario — e razionale — « restar fuori »,

che ha « approvato e approva, senza riserve, chi si è rintanato [...] col solo fine di svernare ». Al contrario di Nick, che crede

che sia necessario per potersi dire partigiano, Bob, « con tutta la buona volontà », non riesce a « capire che ci stiamo a fare in quattro gatti, uno per collina... Non lo capisco, e dico anzi ch'è assolutamente gratuito » (pp. 412-413). E tuttavia resta: rifiuta, dice di no alle offerte di ritirarsi. Però, ammette, se quella di cui è innamorato gli avesse detto di si, l’altro inverno non sarebbe entrato nei partigiani. Similmente, in Una questione privata, è Fulvia, l'oggetto

del desiderio di Milton, e l'inchiesta — un’« amorosa inchiesta» — che fanno passare in seconda linea tutto il resto. « Il fatto è — dice o pensa Milton — che più niente m’importa. Di colpo, più niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo più quella verità » (QP;, III, 1958). La verità circa Fulvia. L’affronto con la quale, con l’« arido vero » —

è il caso di dire — produce nel personaggio morte: la morte di ogni speranza, il disseccamento di ogni fonte di vita; il tramonto dell’idolo e la caduta improvvisa nel non senso di ogni azione. Io, io ho l’anima

76

di Fulvia. Lo so, lo credo, non ho mai cre-

duto ad altro su questa terra. Se cessassi di crederlo, se dovessi non più crederlo, sarei morto. Resterei in piedi ma morto (p. 1836).

Privata di illusioni, di finzioni, senza più schermi, la realtà si presenta ora nella sua spietatezza, anzi nella sua efferatezza:

un

inferno,

l’inferno

di Frammenti

di romanzo.

. La scomparsa, la caduta di Fulvia come oggetto del desiderio di Johnny è collegata, nel testo di Una questione privata, ai fascisti, che è come se ne prendessero il posto: entrambi datori di morte, ma paradossalmente anche di vita. «I hate you, I detest you, I loath you, / But oh why dont't you kiss me again? » [« Ti odio, ti detesto, ti aborro, / Ma oh perché non mi baci ancora? »] (I, 3, 1639). In questa prospettiva l’attività feroce, la caccia sistematica e ossessiva ai fascisti del Milton di Frammenti di romanzo, la sua « sete di morte » (p. 2168) — morte dei fascisti, ma anche di se stesso

— è affine, parente di quella patetica del Milton di Una questione privata 3. Anche i motivi del Milton di Frammenti sono detti esplicitamente « personali », e, a proposito della sua

irregolarità e del « bruciore » che egli si sente addosso, si legge che « quando sarebbe finita sarebbe stata in ogni senso finita ». Ma poi Milton si corregge: E poi per lui non sarebbe finita mai: avrebbe continuato ad avere sete e la pace avrebbe chiuso tutti i rubinetti. La sua stessa morte sarebbe stata almeno lo spegnimento della sete (I, 3, 2168).

A questo si riduce dunque la guerra di Milton. Ma c’è un'ultima variazione, ancora un’altra possibilità nei testi di Fenoglio: quella enunciata nell’annotazione del Diario che porta il numero XL, che ha per titolo « Concetto informatore nuovi Tales ». Ecco come recita: La vita ci dà in sorte una cosa sola: una donna, un campo, un coltellino, che diventa tutto noi stessi. La carichiamo di un possesso tanto più forte quante più sono le cose che ci sono negate. Chi tocca o porta via la cosa che è noi, ci uccide, ma non tanto in fretta che noi non si uccida anche lui (III, 210).!7

Come sempre in Fenoglio, l’attenzione va al personaggio: al Pietro Gallesio di Un giorno di fuoco, al Davide Cora della Novella dell’apprendista esattore, al Francesco Taricco del Racconto per « Nuovi Argomenti ». Anche la loro è una guerra infine: che ho analizzato a lungo altrove.!8 Qui mi limito ad osservare che la guerra, consapevolmente senza speranza, combattuta da Gallesio contro lo Stato, dopo aver fatto una strage di preti e parenti, ha anch'essa alla sua origine una grande passione: la quale viene come esplicitata negli altri due rac-

TI

conti affini. La Novella dell’apprendista esattore dice chiaro che Davide ne ha avuto abbastanza, e che « le taglie c'entrano

c’entrano affatto » spara, per lui essi « sono la medesima cosa della puleggia che ha tirato il povero Remo sotto la macina. [...] La medesima cosa del gorgo di Belbo che ha annegato il povero Fedele » (ibid.). Un mezzo,

e non c'entrano » (II, 523). Anzi, «non (ibid.). Quanto ai carabinieri contro cui

dunque, per attuare quello ch'è in definitiva un suicidio. Il Racconto per « Nuovi Argomenti », versione più ampia del precedente, esplicita la dichiarazione di Davide Cora. Perché se ne vuole andare? « Perché uno alla lunga vuole uscire da una stanza dove non respira più » (II, 677). Ma gli altri che c'entrano? « Dio se c'entrano! Sono loro che mi hanno fatto odiare la stanza » (ibid.). Il risentimento del personaggio Francesco Taricco verso gli altri viene elaborato ulteriormente: mediante l’introduzione dell'elemento snobistico, la sottolineatura orgogliosa della propria diversità — della « differenza — come li si legge — tra lui e tutti gli altri » (p. 678) — e di quello più propriamente sentimentale, la questione privata di Francesco

Taricco:

la brontiana Caterina, che altri,

che un altro gli ha portato via. Ero innamorato di Caterina. avessi sposato Caterina. Non

Se Caterina mi avesse sposato. sarei finito così (p. 669).

Cosi ora si è asserragliato in casa, e spara, contro

Se

i ca-

rabinieri, « contro tutto il mondo [...], turchi e cristiani » (p. 681): che secondo lui non « lo lasciano in pace » (p. 682), da cui si difende, contro i quali resiste, « dentro i suoi muri » (p. 683). Rifiutando, per non rinunciare all’ultima finzione, di ragionare col maresciallo. La sua è certamente una rivolta, e una rivolta assurda;

una guerra contro tutti, ch'è forse guerra — come avrebbe detto l'amato Lawrence — « contro un nemico non di questo mondo, né di questa vita »; una protesta contro l’assetto di un mondo, con il cui disordine, in verità metafisico, la conci-

liazione, la « pace » sembra impossibile. Donde la guerra: contro gli altri e contro se stesso; donde la distruzione: degli altri e di se stesso.

NOTE ! Uno studio sull’Ur Partigiano Johnny, uno

su Una questione pri-

vata e i testi collegati, un altro su alcuni racconti straordinari, un altro ancora sul Partigiano Johnny, uno infine sul primo Fenoglio, la raccolta I ventitre giorni della città di Alba e il romanzo La paga del sabato. Vedili nel mio Fenoglio. I testi, l’opera, Torino, Einaudi, 1988, e in Con-

78

clusioni anticipate su alcuni racconti e romanzi Liguori, 1988, pp. 173-192.

del Novecento,

Napoli,

2 Torino, Einaudi, 1973. ? Tutte le citazioni dai testi di Fenoglio si riferiscono naturalmente all'edizione delle Opere diretta da Maria Corti, in tre volumi, cinque tomi, Torino, Einaudi, 1978 4 Introduzione a Fenoglio, Roma-Bari, Laterza, 1989, p. 132. -Do per comodità da F. DE NICOLA, op. cit., p. 133.

id. Ibid: pX135: RIDI RIBO. ? Opere, III, 117-124. 10 F. DE NICOLA, op. cit., p. 139. 4 Ibid., p. 146. 2 Ibid., p. 140. 4 Cfr. la lettera a Livio Garzanti

del 10 maggio 1959 in D. LAJOLO, Fenoglio, Milano, Rizzoli, 1978, p. 212. 4 Cfr., dello stesso, Abinger Harvest, Londra, Arnold, 1936, p. 141

((edagsuec3:1955)!

tot

15 T.E. LAWRENCE, The Seven Pillars of Wisdom, Laurel edition, 1964, DI da trad. it. I sette pilastri della saggezza, Milano, Garzanti, 1950, D. À 16 Ibid., p. 465. viel i 7 Il testo di Fenoglio è dato qui con le correzioni fornite da G. RIZzo, Editi e inediti di Beppe Fenoglio, in « GSLI », XCIX (1982), 505, p. 2 # Cfr. il capitolo III del mio Fenoglio..., cit., pp. 97-123.

79

Nieves

FENOGLIO

Muniz

Mufiz

O LA CONTEMPLAZIONE

DELL'AGIRE

La critica su Fenoglio appare tuttora inficiata da polemiche e dualismi non solo riguardo alla questione filologica della cronologia delle sue opere, ma anche — e questo secondo motivo di disaccordo potrebbe essere visto nel contempo come causa e come effetto di tali incertezze — al significato ultimo che si pretende assegnare all’opera stessa nel suo insieme, e quindi alla decisione circa la sua più o meno organica evoluzione nel corso degli anni. Perché infatti, sia la tesi, risalente a Maria

Corti, di una

tendenza (per certi versi regressiva) alla normalizzazione della scrittura rispetto al modello più trasgressivo ed audace dei presunti inizi fenogliani, sia quella di una crescita lineare contraddistinta dal passaggio dal semplice al complesso? comportano l’ipotesi di una diversa cronologia (in rapporto soprattutto alla datazione del Partigiano Johnny), ma anche un diverso modo di giudicare lo stile e la poetica impliciti nel romanzo incompiuto, indipendentemente dalla sua collocazione nel continuum temporale. Senonché, proprio perché incompiuto, non datato e persino enigmatico, il massimo pezzo di appoggio di entrambe le tesi appare a sua volta bisognoso di confronti serrati con i testi adiacenti, i quali, essendo

spes-

so altrettanto problematici (o per il loro carattere incompiuto o per l'incertezza

della datazione),

ricacciano

il critico

in

una circolarità interpretativa e filologica da cui non sembra facile poter uscire. In questo disordinato « mazzo di carte » lasciatoci in eredità dalla morte prematura di Fenoglio, troppe cose insomma appaiono sottoposte a criteri relativi, sicché i rapporti fra le varie opere, e quelli fra le varie stesure di una medesima opera, acquistano un'importanza insolita per decidere delle intenzioni dell’autore. Intenzioni che grosso modo — e con argomenti persuasivi in entrambi i casi — vengono ricondotte alla sfera dell’epica o a quella delia problematicità esistenziale, ma che, indipendentemente da queste due diverse letture, hanno come problema implicito quello del significato e l’importanza attribuibili all’audacia del linguaggio fenogliano, perché ove essa venga messa in primo piano senza avere in mente il quadro com-

80

plessivo dell'iter stilistico tracciato dall'opera omnia, Il partigiano Johnny potrebbe emergere come un’isola nell’insieme dei testi che lo circondano (ivi compresa la seconda e più « sobria » redazione), dove in un modo o nell’altro gli espedienti

retorici, il ricorso

massiccio

all'inglese, la sovrabbon-

danza di immagini, il prevalere di neologismi ed arcaismi, la proliferazione semantica e sintattica, e persino i rimandi alla tradizione epica, tendono a ridursi a vantaggio di una maggiore — comunque la si voglia connotare e valutare — semplicità.4 Ora, com'è noto, la polemica intorno all'ordine di precedenza tra Il partigiano e i Racconti della guerra civile — questi ultimi sicuramente risalenti al 1949 e pubblicati da Einaudi nel 1952 col titolo I ventitre giorni della città di Alba — si fonda precisamente in una diversa valutazione dell’iter stilistico fenogliano, sulla base delle innegabili analogie che si ritrovano

fra i testi, le quali, mentre

ad alcuni

sembrano

calchi puntuali dal libro inedito ad altri paiono generiche reminiscenze risalenti tutt'al più ad un ipotetico « incunabolo » comune. Certamente,

ove ci si arresti a parole isolate, a stilemi o

a spezzoni irrelati di discorso, la strada dei calchi e delle analogie testuali non potrà che risultare labirintica in uno scrittore che, come Fenoglio, fin dai suoi esordi (il cosiddetto Quaderno Bonalumi) sembra tutto teso alla tormentata ela-

borazione di pezzi stilistici, e che poi procede, come ha felicemente chiarito G.L. Beccaria, per giustapposizioni e sovrapposizioni di « blocchi » preordinati »;7 un'idea avallata dagli autoritratti che Fenoglio inserisce via via nei propri scritti e che ce lo mostrano come un ossessivo contemplatore di paesaggi (« Poi mi sono steso sull’erba... a spiare per delle ore... non mi sfuggiva il minimo particolare », Ur PJ, p. 73;3 « talvolta quarti d’ora e più su un solo dettaglio », PJ,, p. 392, cap. XVI) e come un altrettanto ossessivo ricercatore di parole capaci di tradurre con la maggiore esattezza e potenza visionaria le proprie percezioni (« Whilst the garden and explanade were haunted and percurred by private partisans, in their english uniforms, and husky and self-composed and going two by twos, like seminarists in recreation before supper. No, the assimilation did not work, and ligth was made into Johnny's

fatigued mind: LIKE proper English re, I, 1, p. 111; « si poneva dei veri e zione letteraria: la giusta gradazione accosciata in mezzo al cielo o il tipo

troopers », Ur PJ, Opepropri temi di esercitadi bianco della nuvola di vibrazione del ramo penzolante nella molle acqua di riva », Prim. b,, cap. III, Opere, I, 3, p. 1284), talché, afferrata l’immagine cosî a lungo perse-

81

guita e cosi faticosamente conquistata, egli non potrà che desiderare di immagazzinarla in un deposito memoriale o tei stuale cui attingere in seguito. Tant'è vero che non solo certi stilemi passano quasi senza variazioni da un racconto all’altro all’interno di una medesima raccolta (le « nuvole » ancorate come un « dirigibile », in

Un giorno di fuoco, Opere, II, p. 453 e in Pioggia e la sposa, ivi, p. 507), e persino da un capitolo all’altro all’interno di una medesima opera (« il vento teso, largo, contundente » in Primavera di bellezza sia al cap. IV della prima redaz., p. 1291 sia al cap. XV della seconda, p. 1543; l’immagine del suono o del buio arrampicantisi « come per un agguato » nel cap. XVI [p. 392] e nel cap. XX [p. 442] del Partigiano Johnny), ma anche da una raccolta all’altra («l’eco » che « galoppa » nel Trucco, Opere, II, p. 41 e poi in Un giorno di fuoco, p. 448; l’acqua del fiume paragonata alla « pelle d’un serpente » nel Gorgo, Opere, III, 3, p. 8, e in Superino, Opere, II, p. 489); fino a percorrere una strada a volte molto lunga che va addirittura dai racconti del ’49 a Una questione privata (dove in tutte le sue redazioni ritroviamo l’immagine del fango lievitante [OQP;, p. 1987] già adoperata nei Ventitre giorni della città di Alba, p. 15), per tacere delle ben più note coincidenze, non già solo fra i racconti della guerra civile e Il partigiano Johnny, ma all’interno della catena che allaccia questo romanzo a Primavera di bellezza, e ad Una questione privata) cui aggiungerei, come caso estremo, ma anche estremamente significativo, un calco puntualissimo niente meno che dal Quaderno Bonalumi (« una pozza livida di luce segnava allora il punto

del naufragio

del sole », Opere, III, p. 184) riscontrato

da me — non so se da altri — nel Partigiano Johnny (« una pozza di livida luce segnava il punto del naufragio del sole », PJ,, p. 559 e PJ,, p. 950) e poi ripreso nel cap. XV di Primavera di bellezza (« una pozza di livida luce segnò il punto del naufragio del sole », [seconda redazione], p. 1541); al che oc-

corre aggiungere che l’immagine era già stata concepita in origine come un blocco mobile « da allegarsi », secondo l’avvertenza appostavi dal giovanissimo autore, ad una parte già approntata. Ma, se, pur essendo

elementi

essenziali

per la critica, i

calchi e le analogie testuali si mostrano

poco affidabili ai fini

di una

fenogliano,

ricostruzione

dell’iter

artistico

ciò

non

significa che si debba rinunciare al loro studio; significa anzi che tale studio deve diventare sempre più sistematico !° puntando sulla maggiore fusione possibile tra l'approccio filologico e quello più organicamente interpretativo piuttosto che sull'esame di vocaboli e stilemi isolati.

82

1. Ora, se partiamo dall'immagine rilasciataci dagli autoritratti fenogliani prima ricordati: cioè da quel giovane Fenoglio tutto concentrato nella contemplazione di un « dettaglio », quasi in agguato « per delle ore » a « spiarne » i minimi par-

ticolari,

e quindi i minimi

cambiamenti

intervenuti nel corso

dell’osservazione, per poi ritradurre le proprie percezioni in una rigorosa «esercitazione letteraria », non potremo che constatare che quell’atteggiamento ha avuto una straordinaria continuità nella storia artistica dello scrittore, e che esso

sta alla base della sua sperimentazione linguistica. In effetti, due saranno

descrittiva di Fenoglio:

i tratti fondamentali

della tecnica

la tendenza a filtrare ogni realtà at-

traverso la sua percezione (visiva o auditiva), facendo si che l'impressione si trasferisca sulla cosa che la produce (paradigmatici in questo senso i soldati visti nella loro corsa, come dei « lampi di verde lacca » [PJ,, p. 698; PJ,, p. 1032], dove l’effetto prodotto sull’occhio dalla velocità della corsa viene proiettato come tratto definitorio sull’oggetto stesso), con la conseguente riduzione della distanza tra la parola e la cosa, nella misura in cui la cosa descritta è appunto non già una seconda realtà cui la pagina rimandi, ma il tipo particolare di percezione che di essa si ha e che la pagina trascrive. In secondo luogo, il dinamismo implicito nell'immagine stessa proprio perché frutto di un processo, e quindi di un evento, percettivo, talché non si dà descrizione senza uno sguardo mobilissimo, o « terribile », 0 «radarico », 0 « mesmerizzato » (tre aggettivi adoperati dallo stesso autore per qualificare l’« occhio » umano) che la rifletta nell’attimo stesso del suo prodursi.!! E cosi potremmo dire che la storia del partigiano Johnny è anche la storia di una perpetua rincorsa tra lo sguardo e la realtà, una realtà umana fatta di continui spostamenti fra brevi soste di attesa alla vigilia di sempre rinnovate battaglie e fughe a perdifiato, mentre innumerevoli orologi e campanili scandiscono ininterrottamente le ore, e una realtà naturale fatta, pure tra brevi pause, di tramonti

che precipitano, di albe che improvvisamente si tramutano in crepuscoli, di nuvole che vorticano o che veleggiano come flotte, di vapori e nebbie

che si addensano,

si sfilacciano, in-

combono minacciose sulle colline o si arrampicano sulle loro creste, ed infine di pioggia e di vento e di neve che cancellano e deformano la sagoma del mondo come parti improvvisi di una perenne gestazione cosmica (« Il cielo era pregno e misterioso come grembo di gestante », Prim. b,, p. 1321).! Sicché una frase come questa di Primavera di bellezza: « Johnny vide il maggiore contorcersi ed annaspare, ma ad una diversa prospettiva e sfumatura, perché il cielo stava vertiginosamente mutando » (Prim. b,, cap. VIII, p. 1327) potrebbe assurgere

83

ad esempio emblematico della sintesi dinamica operata da Fenoglio allorché egli fa convergere nell'occhio del suo personaggio i movimenti umani e quelli cosmici come una sola avg 1. massa in mutazione vorticante. Ora, da questo punto di vista è senz'altro possibile individuare le tappe di una progressione lineare dello stile fenogliano verso la perfetta sovrapposizione di evento e percezione, o, se vogliamo, di azione e contemplazione (« Tra visibile e fattuale esiste in Fenoglio un rapporto strettissimo » ha detto giustamente Pietro Bigongiari), perché se in quel « poema d’azione » !4 che è Il partigiano Johnny, lo spettatore diventa attore implicato direttamente nella scena, la storia strutturale e tematica della narrativa complessiva dello scrittore albese, ove si tenga presente l’approdo finale di Una questione privata, pare rivolta ad incrementare parossisticamente la tensione dell’azione nello sforzo simultaneo di eliminare il flou che la separa dall’atto (e dal soggetto) percettivo. E questo sia a livello delle macrostrutture, sia a livello delle microstrutture. 2. Una ricostruzione diacronica di alcune di queste microstrutture potrebbe dunque venir tentata sulla base di tali premesse. Incomincerò con un passo più volte citato nel corso del dibattito sulla cronologia relativa dei racconti della guerra civile e del Partigiano Johnny, mi riferisco a quello in cui, nei Ventitre giorni della città di Alba, si descrive lo scoppio di un mortaio sul tetto di una casa di campagna: Piombò una mortaiata giusto sul tetto e il comignolo si polverizzò sull'aia. Un partigiano venne via dalla finestra per andare a raccogliere sul pavimento la mezzadra che c’era cascata svenuta (VG Alba, Opere, II, pp. 27-28).

Proprio mentre Johnny accostava alle labbra il mestolo colmo raso, una granata rovinò sul tetto, e sopra il lid della cazza Johnny vide il comignolo polverizzantesi passare fugace nel vuoto della finestra, mentre una donna di casa sveniva sull’ammantonato (PJ,, Opere, I, 2, p. 702). Proprio mentre Johnny accostava il mestolo alla bocca, una granata rovinò sul tetto, e sopra l'orlo del mestolo egli vide il comignolo disintegrantesi passare in un lampo nel riquadro della finestra, mentre (PI, p. 1036).

Ebbene,

una

da un

donna

della

confronto

casa

sveniva

fra la versione

sull’ammantonato

del racconto

e

quella delle due stesure del Partigiano Johnny, emerge subito l'importanza e la direzione dei cambiamenti subiti dal testo

84

originario, una direzione che relega senz'altro I ventitre giorni della città di Alba in una fase anteriore del processo scrittorio facendone emergere nel contempo il potere generativo, perché laddove nel racconto del ’49 si segue un ordine assai lineare fondato sul rapporto consecutivo di causa/effetto tra lo scoppio del mortaio, il polverizzarsi del comignolo e l’aiuto recato dal partigiano alla donna svenuta (e si avverta che nel racconto lo svenimento viene privato, ad opera della relativa e del trapassato, del suo valore di azione in fieri), nel testo

del Partigiano Johnny diventa centrale l’idea allora solo implicita della visione della scena dalla finestra (« Un partigiano venne via dalla finestra »), facendo si che l’evento venga concentrato attraverso lo sguardo del testimone in un rapporto di stretta simultaneità (garantito dalla connessione sintattica operata dall’avverbio « mentre ») con i due fatti che lo incorniciano: il movimento della bocca avvicinandosi al mestolo, e il moto

discendente

della donna svenuta, entrambi

descritti all’imperfetto, cioè come azioni durative nel cui tempo lungo viene incluso il tempo breve della catastrofe. Sicché l’orlo del mestolo e il vano della finestra diventano il doppio (e sovrapposto) foco prospettico che permette la formidabile sintesi temporale e spaziale raggiunta dall’autore. Una sintesi nella quale il participio « disintegrantesi » acquista tutta la sua funzionalità dinamica nella misura in cui il polverizzarsi del comignolo viene cosi condensato al massimo e reso simultaneo al suo fulmineo « passare » davanti alla retina del personaggio. Che è una direzione correttoria confermata dagli ulteriori cambiamenti apportati a questo brano ! durante la revisione del romanzo, poiché, al di là della potatura di certe ridondan-

ze per ragioni più ovviamente estetiche, la sostituzione dell'aggettivo « fugace » col sintagma «in un lampo », ben più immediatamente pregnante, e quella di « vuoto » con «riquadro » che contribuisce alla resa più materialmente spaziale della cornice prospettica, sono indizi meno appariscenti ma pure significativamente congruenti con la strategia qui descritta.

3. Ma, dato che la scrittura fenogliana sembra puntare sempre più decisamente alla contemplazione dell'agire, o meglio ancora, alla dinamizzazione di questo stesso contemplare, la storia testuale delle corse e delle fughe a perdifiato — luogo prediletto dell’epopea partigiana — dovrebbe riuscire ancora Sha : più significativa. In effetti, uno dei prototipi di questo importantissimo Leitmotiv risale alla seguente « volata » descritta in un altro racconto della guerra civile: Gli inizi del partigiano Raoul:

85

e poi si slanciò gi per il pendio. Era cosi ripido che in pochi passi la sua corsa divenne un’irresistibile volata, scendeva tanto preci pitosamente che gli alberi piantati ai piedi della collina parevano salirgli incontro, aveva una paura pazza di stramazzare con le caviglie rotte. Vide da una parte una depressione del terreno, deviò con un gran salto e vi cadde dentro (Opere, vol. II, p. 53).

Dove piuttosto che di una descrizione, si dovrebbe parlare di uno schema narrativo ridotto ai suoi elementi costituenti: lo slancio per la corsa in discesa presto trasformatasi in una vera e propria « volata » la cui sensazione vertiginosa viene resa mediante la percezione ottica invertita del paesaggio che si avventa contro il fuggitivo (e, come dettaglio aggiunto teso ad aumentare il senso di vertigine, la paura di cadere). Infine la scoperta del ritano e il salto nel fosso. Ebbene nel Partigiano Johnny tale schema subisce un notevolissimo sviluppo per poi venire sfrondato e condensato durante la revisione del passo, senza che ciò comporti — come vedremo



un ritorno all'origine, bensi l’accentuarsi

nee già marcate

dalla fase intermedia

dell’operazione

delle li-

di ri-

scrittura:!

PJ, si lanciarono per il grande pendio, per il cui interminabile ondare la loro velocità assunse presto un ritmo terrifico. E presto temettero, sbigottirono di quella scatenata,

intimonabile

cor-

sa, ogni posarsi di piede era un rischio potente, e Johnny si augurò gli capitasse di tutto, tranne che una caviglia rotta. Le gambe di Blister cedettero le prime, e con un ah! egli si tuffò e capottò e rotolò giù per traverso, come

un fulmine. Il confine alberato della convalle si avvicinava vertiginosamente, come meccanicamente sospinto su per un cozzo più micidiale... Johnny chiuse gli occhi e si tuffò di lato. Il duro cozzo sul suo fianco sinistro e simultaneamen-

te la piena, congelante raffica dello sten a cortatto col suolo.

E in un baleno vide il già approdato Blister prendersi la testa fra le mani per quello sparo-richiamo. Aveva trovato una cavità fra bush e scrub, ai piedi

86

PI. si buttarono per il pendio. La loro velocità assunse presto un ritmo vertiginoso, presto sbigottirono di quella volata folle, indirigibile, ogni toccar di piede era un rischio pauroso, Johnny si augurò tutto, tranne che di slogarsi o rompersi una caviglia. Le gambette di Jackie cedettero per prime, con un gasp si tuffò e capottò, poi rotolò giù come un tronco. Il confine alberato della convalle pareva salire a sua volta vertiginosamente, come una diga spinta su meccanicamente, a rendere pit micidiale il cozzo. Johnny chiuse gli occhi e con tutto il corpo si abbandonò di traverso. Senti il duro cozzo del suo fianco in terra e quasi simultaneamente la breve raffica sfuggita allo sten.

Arrivò tra le gambe del già approdato Jackie, [accoccolato in una conchetta listata di verde], Jackie si teneva la testa fra le mani [...]

del versante su Mango, e Johnny vi si tuffò tra i piedi di Blister [...]. Allora Pierre cennò loro di salire ad esso, raggiungerlo e seppellirsi nei suoi cespugli, prima che le avanguardie da Belbo guarnissero la cresta di San Donato e coi cannocchiali li centrassero mentre salivano come lucertole in un luogo inconge-

Allora si inerpicarono sul ciglione verso Mango e si seppellirono nei suoi cespugli (p. 1096).

niale (pp. 767-768).

In effetti, se analizziamo le modifiche subite da entrambi i testi rispetto al modello comune del racconto più antico, osserviamo — oltre all’evidente processo di rimpolpamento dell’ossatura primitiva — alcuni fatti notevoli: :1) la sostituzione dei rapporti consecutivi che sorreggevano lo schema iniziale (« cosi... che » e « tanto... che ») con una sequenza di sensazioni-percezioni susseguentisi senza intervalli o connessione logica; 2) la nuova resa fisica delle sensazioni prima solo enunciate astrattamente; e ciò sia attraverso modificazioni semanti-

che (« aveva una paura pazza di stramazzare » [IPR] + « ogni posar di piede era un rischio potente » [PJ;] + « ogni toccar di piede era un rischio pauroso » [PJ,]) sia mediante il ricorso a similitudini (ad esempio, quella del ciglione come una parete avvicinantesi quasi a produrre « un cozzo più micidiale »); 3) la condensazione delle immagini (« gli alberi piantati ai piedi della collina» [IPR]-—«il confine alberato della convalle » [PJ,] e [PJ.]); 4) la intensificazione del significato dei termini destinati a riprodurre azioni, sensazioni e percezioni riguardanti la velocità: IPR vi cadde dentro

scendeva tanto precipitosamente

irresistibile volata

PJ, cennò di... seppellirsi nei suoi cespugli La loro velocità assunse presto un ritmo terrifico scatenata intimonabile corsa

PI. si seppellirono nei suoi cespugli La loro velocità assunse presto un ritmo vertiginoso volata folle, indirigibile

Un vero e proprio « sistema » di cambiamenti volto a sostituire la spiegazione causale con la mimesi dell’azione (ma anche ad accentuare

la fulmineità

dei fatti, il senso

gine e di « volata ») e a filtrare questa mimesi percezioni dei personaggi.

di verti-

attraverso

le

87

Precisamente lo stesso orientamento che sta alla radice delle varianti introdotte da Fenoglio nel passaggio da PJ, a PJ,. Perché infatti, nel corso della riscrittura, egli sostituisce ancora la coordinazione con la paratassi (« E presto temettero [...] e Johnny

si augurò

[...] e con un ah! egli si tuffò e ca-

pottò e poi rotolò giù » [PJ,] + « presto sbigottirono...

Johnny

si augurò... con un gasp!... poi rotolò » [PJ,]), mentre la accresciuta intensità semantica dei vocaboli, nonché rendere i movimenti più fulminei, proietta la sensazione di vertigine e

di paura sul ritmo stesso della corsa rendendola PJ, si lanciarono ritmo terrifico scatenata, intimonabile ogni posarsi di piede un rischio potente sî tuffò di lato

piena, congelante

corsa

raffica

'E si veda come,

« folle »:

PJ: si buttarono ritmo vertiginoso volata folle, indirigibile ogni toccar di piede un rischio pauroso con tutto il corpo si abbandonò di traverso breve raffica

a rafforzare

la resa visiva di questa ver-

tigine, si ricorre all'immagine della « diga » come di paragone della parete incombente: Ps: Il confine alberato della convalle si avvicinava vertiginosamente, come meccanicamente sospinto su per un cozzo più micidiale...

termine

PJ: Il confine alberato della convalle pareva salire a sua volta vertiginosamente, come una diga spinta su meccanicamente, a rendere più micidiale il cozzo.

sicché ora si produce l’effetto ottico di un movimento inversamente sincronico tra la discesa degli uomini e la corrispondente ascesa minacciosa del ciglione; un cambiamento al quale si assomma l’attività « potatoria » di ogni connotazione rallentante o non strettamente funzionale alla resa della « volata »: come la riduzione di « temettero, sbigottirono » al solo « sbigottirono », o la soppressione degli attributi « grande » e «interminabile » riferiti al « pendio », perché in contrasto implicito con la rapidità della corsa: PJ, si lanciarono per il grande pendio, per il cui interminabile ondare la loro velocità assunse presto un ritmo terrifico

88

PI, si buttarono per il pendio. La loro velocità assunse presto un ritmo

vertiginoso

Allo stesso modo, nell’epilogo della fuga, non solo vediamo passare in primo piano l’arrivo del rotolante Johnny e concentrarsi parenteticamente a questo fine il dato sulla scoperta

conca,

della

ma

assistiamo

inoltre

alla

sparizione

di tutti i preamboli esplicativi o deliberativi (« Allora Pierre cennò loro di salire ad esso, raggiungerlo e seppellirsi nei suoi cespugli, prima che le avanguardie da Belbo guarnissero la cresta di San Donato e coi cannocchiali li centrassero mentre salivano come lucertole in un luogo incongeniale » [PJ,]) a vantaggio del momento puro ed esclusivamente attivo (« Allora si inerpicarono sul ciglione verso Mango e si seppellirono nei suoi cespugli » [PJ,]). Una riduzione altrettanto drastica di quella applicata al prologo della fuga, come emerge subito dal confronto dei passi: PJ,

PJ,

[Avanzarono rannicchiati fino al

poggio del camposanto, proprio per assicurarsi e migliorare il loro

coperto,

e si udiva

infatti

lontanare un ronzio di chiacchiera e il disarticolato passo in discesa d’un’intera unità. Si calarono nell'ombra del poggetto, scendendo d’un passo ogni venti che intuivano i nemici fare, finché] questi apparirono in fugace visione alla temuta grande ansa. Defluivano con un libero passo di gita collegiale, gli ufficiali facevano i compagnoni con la truppa... E come transitarono in irrevocable cecità, i quattro

Questi li videro in fugace visione mentre svoltavano a una curva che si indentava nel pendio. Scendevano con un passo da gita collegiale, gli ufficiali facevano i compagnoni con la truppa. Come sparirono alla curva...

Dove non solo la sequenza relativa allo spionaggio degli inseguitori — segnata fra parentesi quadre — è stata drasticamente eliminata, ma la apparizione dei fascisti (« questi apparirono in fugace visione alla temuta grande ansa »), viene tutta trasferita e condensata nell’atto percettivo («li videro in fugace visione mentre svoltavano a una curva »). E si avverta anche come avviene pure qui una implacabile riduzione degli elementi rallentanti, anche al prezzo di rinunciare a connotazioni che originariamente aspiravano appunto a raggiungere una superiore densità descrittiva: PJ, temuta, grande Defluivano

ansa

PI. curva Scendevano

89

transitarono cità

in irrevocabile

ce-

sparirono alla curva

un passo

libero passo

A ulteriore riprova della tecnica correttoria qui individuata, aggiungerò ancora un esempio tratto dalla « corsa folle » descritta nel cap. XLV di PJ, (Preinverno 6 di PJ)): PJy E là la sera si maturò, si maturò e proporzionalmente albeggiò in loro l’idea della salvezza. La strada, questo termine della zona-impero dei fascisti e della loro zona mortale, era a portata di piede. Si braced per l’ultima corsa, ad essa ed oltre essa, agli

angusti, ottenebrati prati dopo di essa, poi su per le alture gentili e infine un selvaggio, cieco precipitare verso il padre fiume. Stavano lanciandosi, quando un

autocarro

fascista

si annunziò

morosamente, con ferme, larghe

fasce di luce dopo le quali esso passò lentamente e fantomaticamente. Aspettarono che fosse ben transitato, poi scattarono avanti in pazza corsa, e, come sollevavano il piede sull’asfalto rattoppato, esplose il rombo d’un’automobile, lanciatissima; ebbero esatto il tempo di tuffarsi nel fosso oltre la strada, mentre la sua selvaggia, pugnalesca luce dei fari li mancava per un niente. Sfrecciò oltre verso Neive, essi si rialzarono e corsero pazzamente avanti tra l’erba guazzosa, ricevendo negli orecchi inriddati gli echi lacerati dei loro cori di bivacco (pp. 773-774).

PJ, Là la sera si maturò e proporzionalmente albeggiava in essi l’idea della salvezza. La strada, questo termine della zona d’impero dei fascisti, era a portata di piede. Si raccoglievano per l’ultima corsa, quando un autocarro fascista si annunziò burberamente, con ferme, larghe fasce di luce, dopo le quali esso transitò fantomaticamente. Scattarono allora in corsa folle, toccarono appena coi piedi l'asfalto sdrucito, esplose dietro di loro il rombo di una vettura lanciatissima;

ebbero il tempo esatto di tuffarsi nel fosso, la luce dei fari li mancò per un niente. La macchina sfrecciò oltre Neive, essi corsero pazzamente avanti nell’erba fradicia, ricevendo negli orecchi ronzanti gli echi ragged dei loro canti di bivacco (pp. 1100-1101).

Dove tra i tanti cambiamenti,

mi limiterò

a segnalare al-

cuni particolarmente congruenti con la strategia correttoria che sto tentando di ricostruire e cioè: 1) la riduzione o la soppressione di elementi connotativi ritardanti:

DJ, termine della zona-impero dei fascisti e della loro zona morta-

90

PJ, termine della zona d’impero dei fascisti

le

lentamente

mente lesca

e

fantomatica-

la sua selvaggia, pugna-

fantomaticamente

la luce

luce

tra cui, particolarmente

vistoso, il sacrificio della frase, pure

2) l’intensificazione locità:

semantica

di notevole efficacia lirico-retorica: « ad essa ed oltre essa, agli angusti, ottenebrati prati dopo di essa, poi su per le alture gentili e infine un selvaggio, cieco precipitare verso il padre fiume », perché proiezione mentale non strettamente coincidente con l’ambito spazio-temporale della fuga in fieri;

PJ; come sollevavano il piede sull’asfalto

dei

toccarono sfalto

termini PJ, appena

indicanti

ve-

coi piedi l’a-

3) la condensazione delle sequenze mediante soppressioni o fusioni di verbi: PJ, Si braced ... Stavano lanciandosi Aspettarono che fosse ben tran-

sitato si rialzarono e corsero

DJS Si raccoglievano corsa transitò

per

l’ultima

corsero

4) la creazione di un ritmo scattante e paratattico a forte effetto mimetico mediante la soppressione di congiunzioni copulative e la sostituzione delle virgole con punti, ma soprattutto mediante la accorta modificazione dei tempi verbali: sicché alla serie asimmetrica dei passati remoti alternantisi ad imperfetti e perifrasi imperfettive (« si maturò... albeggiò... Si braced... Stavano lanciandosi... quando... si annunziò... passò... Aspettarono che fosse ben transitato, poi scattarono... e, come sollevavano il piede... esplose il rombo... ebbero esatto il tempo... mentre la... luce... li mancava... Sfrecciò... si rialzarono e corsero ») subentra una struttura simmetrica formata da una

fase di tesa sospensione previa allo scattare della corsa, contrassegnata dai verbi all’imperfetto (« albeggiava... Si raccoglievano per l’ultima corsa ») cui succede la irrefrenabile serie di azioni fulminee tutte al passato remoto: « si annunziò... transitò... Scattarono... toccarono appena coi piedi... esplose... ebbero il tempo esatto... la luce... li mancò... La macchina sfrecCIÒ... COrSEro ». Dopo di che non pare eccessivo affermare che la lunga strada di Fenoglio verso la contemplazione dell'agire come

luogo privilegiato della sua narrativa è quanto mai organica

91

e coerente, e che essa tende a correggere i tentativi iniziali compiendo una intensificazione della pregnanza semantica, parallela alla stilizzazione della sintassi, in vista del potenziamento del dinamismo delle percezioni e di una loro superiore capacità mimetica e sintetica. A voler illustrare tali tendenze, mi viene in mente un passo della Gerusalemme in cui, per accentuare il carattere fulmineo della mossa di Erminia mentre accorre in aiuto di Tancredi, l’autore si autocorregge cosi: « non scene no, precipitò di sella » (XIX, 104), o quell’osservazione leopardiana sull’« effetto sensibilissimo », che produce nella descrizione delle azioni la soppressione dei nessi logici intermedi perché ne fa « sentire al lettore tutta la violenza e come la scossa » dell’azione:! « La soppressione del verbo intermedio tra il battere il capo e il giacere, che è il cadere, produce un effetto sensibilissimo, facendo

tore tutta la la mancanza di, e che tu che non può

sentire al let-

violenza e come la scossa di quella caduta, per di quel verbo, che par che ti manchi sotto ai piecada di piombo dalla prima idea nella seconda esser collegata con la prima se non per quella di

mezzo che ti manca » (Zib., a cura di F. Flora, Mondadori, Milano, I, pp. 109-110, corsivo mio).

4. Ma che pregnanza semantica e vertigine tendano ad avvicinarsi e quasi a confondersi nell’opera di Fenoglio (o almeno in quella parte della sua opera con cui la critica ha finito per identificarlo maggiormente: la cronaca partigiana), pare ancora più evidente quando si pensi non solo al fatto che il suo capolavoro postumo, Una questione privata, si conclude — almeno nella realtà della scrittura — con un’ennesima corsa a perdifiato, ma che questa corsa, esemplata sull'ultima fuga del Partigiano Johnny, si prolunga e si esaspera in modo espressionistico,

sia strutturalmente ! sia

semanticamente,®

al punto da produrre un capovolgimento speculare dei propri presupposti, talché l’apprensione dinamica del reale, non appena raggiunge il proprio apice, sembra non poter manifestarsi altrimenti che come un eccesso (di visione e di azione) approdante rispettivamente all’accecamento e alla paralisi: PJ, Correva, correva, o meglio vola-

va, corpo fatica e movimenti vanificati. Poi, ancora correndo,

fra luoghi

nuovi,

inconoscibili

ai suoi occhi appannati, il cervello riprese attività, ma non endogena, puramente ricettiva. I pensieri vi entravano da fuo-

92

OP Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movi. menti, respiro, fatica vanificati. Poi, mentre ancora correva, in posti nuovi e irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo

ri, colpivano la sua fronte come ciottoli da una fionda. — [...] Io sono vivo. Ma sono vivo? Sono solo, solo, solo e tutto è finito. Era conscio del silenzio e della solitudine e della sicurezza, ma ancora correva, non finiva di correre, il suo cervello si era annerito e la sua sensibilità fisica ritornò, ma solo per provare angoscia e sfinimento. Il cuore gli pulsava in posti sempre diversi e tutti assurdi, le ginocchia cedettero, vide nero e crollò (Inverno 1, p. 1115).

colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. « Sono vivo. Fulvia. Sono vivo. Fulvia, a momenti mi ammazzi! » Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante. Poi d'improvviso gli si parò dinnanzi una borgata. Mugolando Milton la scartò, l’aggirò sempre correndo a più non posso. Ma come l’ebbe sorpassata, improvvisamente tagliò a sinistra e l’aggirò di ritorno. Aveva bisogno di veder gente e d’esser visto, per convincersi che

era vivo, non uno spirito che alitava nell’aria in attesa di incappare nelle reti degli angeli. Sempre a quel ritmo di corsa riguadagnò l'imbocco del borgo e l’attraversò nel bel mezzo. C’erano ragazzini che uscivano dalla scuola e al rimbombo di quel galoppo sul selciato si fermarono sugli scalini, fissi alla svol-

ta. Irruppe Milton come un cavallo, gli occhi tutti bianchi, la bocca spalancata e schiumosa, a ogni batter di piede saettava fango dai fianchi. Scoppiò un grido adulto, forse della maestra alla finestra, ma lui era già lontano presso l’ultima casa, al margine della campagna che ondava. Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo della terra e nulla del cielo. E perfettamente conscio della solitudine, del silenzio, della pace, ma ancora correva, facilmente, irresistibilmente. Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò (pp. 2062-2063).

Perché, infatti, questo tratto finale della corsa che, abbandonata a se stessa, si prolunga irresistibilmente anche quando,

93

spariti i nemici, rimane priva di ragioni, culmina con il crollo e la solitudine totale del personaggio, privo a sua volta (specie nel contesto del romanzo postumo) di uno spazio abitabile diverso da quello della fuga o della quéte, nella misura in cui la struttura di Una questione privata appare come un 1rrlsolvibile cul de sac dove l’agire dell'eroe rimane aprioristicamente bloccato dal carattere contraddittorio dei due scopi che si prefigge in partenza: la scoperta del tradimento della donna amata e la liberazione del presunto rivale mediante la cattura di un fascista da scambiare col compagno imprigionato. Una situazione senza uscita la cui soluzione si rimanda all'infinito lasciando intatti sia la natura ambigua ed irraggiungibile di Fulvia sia il destino incerto dell’amico dopo il frustrato tentativo di catturare vivo un ufficiale fascista, sicché verità e realtà (intesa quest’ultima come realizzazione dell'amore,

e in ultima

istanza

come

ricomposizione

di ogni

dualismo 2!) non arrivano mai a congiungersi. Di qui il crollo finale del fuggitivo, ma soprattutto il fatto che questo crollo assuma nell’ultima versione le caratteristiche di un risucchio che è anche cozzo contro lo spazio (« Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro »),}3 quando ormai il fuggitivo ha subito un processo di trasformazione che lo rende successivamente simile ad uno « spettro fangoso » (p. 2061),* ad un «uccello » braccato (p. 2062) ad un cavallo impazzito, e ad uno spirito aliante nell’aria (pp. 2062-2063), quasi che la fusione tra il soggetto e la realtà potesse darsi solo per via negativa e al prezzo di una nullificazione del soggetto stesso, nel buio dell’incoscienza e sull’orlo della morte. Ed è illuminante a questo riguardo che nella pagina conclusiva dell'ultimo romanzo ricompaia l’immagine della « finestra », cioè la stessa prospettiva privilegiata dalla quale il testimone anonimo dei Ventitre giorni della città di Alba e poi il partigiano Johnny, vedevano la scena catastrofica del bombardamento, una finestra davanti alla quale ora passa, altrettanto fulmineo del comignolo « disintegrantesi », quello stesso partigiano, ormai irriconoscibile a causa della velocità raggiunta, necessitato di esser visto da altri per poter credere ancora alla propria esistenza e incapace a sua volta di vedere altro che la terra sfuggente sotto i piedi, quasi che le sue eccezionali capacità percettive — passando dalla contemplazione statica al coinvolgimento nell’azione — l'avessero travolto nel loro vortice. E cosi, l’accecamento progressivo del personaggio acquista qui le dimensioni di una vera e propria sequenza: a) « Fece una lunghissima scivolata, fendendo il fango con

la testa protesa, gli occhi sbarrati e ciechi »;

94

b) « Correva come non aveva mai corso, e le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate

dal diluvio, balenavano

come vivo acciaio ai suoi occhi sgranati e semiciechi »;

c) « ancora correva, in posti nuovi e irriconoscibili dalla sua vista svanita »; d) « Correva, con gli occhi sgranati, vedendo pochissimo

della terra e nulla del cielo ». Mentre, ancora più significativamente, la cecità appare collegata in rapporto ossimorico alla massima ricettività ed apertura

dell’occhio,

inizialmente —

la quale



secondo

la meta

tracciata

avrebbe dovuto servire ad afferrare la verità-

realtà di Fulvia (« Quando

si fosse saputo al culmine, sarebbe

scattato dritto, e avrebbe sgranato gli occhi per riempirseli subito della casa di lei», p. 2059), un rapporto inverso fra guardare e vedere parallelo al pur paradossale prodursi di una aerizzata sensazione di planare nel momento di maggiore sforzo fisico? (« Correva sempre più veloce, più sciolto »; « Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati »; « Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante »; « ancora correva, facilmente, irresistibilmente ») e ciò mentre il cuore inverte i suoi movimenti, battendo « dall’esterno verso l’inter-

no », e pure i pensieri capovolgono il loro corso naturale, colpendo « la fronte come ciottoli scagliati da una fionda ». Tali paradossi, dietro i quali sta quello fondamentale — e più volte avvertito dalla critica — dell’inversione del senso della corsa stessa: allorché la ricerca della verità sul tradimento di Fulvia si tramuta nella necessità di fuggire dai nemici

incontrati

sulla

strada,

convergono

in uno

solo:

e cioè

nella inafferrabilità del reale, o piuttosto nel fatto che il reale appare come non disgiungibile dal soggetto (o dall’« occhio ») che lo cerca (tant'è vero che a un certo punto l’esistenza di Fulvia appare come una proiezione del pensiero di Milton: « Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? », p. 2059), talché, quanto più esso accelera la corsa verso l’« altro », tanto più l’« altro » si avventa contro di lui, e la corsa si converte in una spirale che lo avvinghia per finire in un giro vorticoso, in un rotolamento a vuoto che — a causa dell’impasse provocata dalle due direzioni contrapposte della fuga e della quéte — sfocia nel crollo-risucchio

finale. Alla luce di questa interpretazione, si capisce più facilmente perché Milton fallisca nel tentativo di catturare il fascista, o piuttosto perché la cattura si concluda con l’uccisione (involontaria) del nemico la cui vita gli era pur preziosa. In effetti, morire o uccidere

sono —

come

vedere e diventar

95

ciechi, come correre e crollare — i due lati di una stessa moneta, tant'è vero che la morte altrui — nell’idea fenogliana della vita come partita da pareggiare secondo la leg-

ge del taglione® — si paga necessariamente con la propria morte, della quale essa è anzi l'equivalente anticipato. Da qui la necessità di raggiungere una perfetta sincronia tra l’ucciso

e l’uccisore

nell'istante

supremo

del morire,

e che

questa sincronia avvenga attraverso la contemplazione dell'evento in un'atmosfera di miraggio (« Pareva a Milton che la terra non c’entrasse, né per lui né per l’altro, e che tutto accadesse in sospensione nel cielo bianco

[...] —

No! —

urlò

Milton e gli risparò, mirando alla grande macchia rossa che gli stava divorando la schiena », p. 2032).? Perché la più perfetta simbiosi tra il contemplare e l’agire avviene nel tempo fulmineo, eppure assoluto della morte in quanto culmine cui miravano tutte le azioni precedenti (« La morte totale — leggiamo nel Partigiano Johnny — era seguita al tumulto di vita che

aveva

per

obiettivo

e corollario

la morte », 2? redaz.,

p. 1138). E cosi si spiega il ritmo sincronico e quasi di danza che Fenoglio imprime nel Partigiano Johnny alla prima uccisione compiuta dal protagonista: Johnny gli sparò senza affanno, senza ferocia, ed il ragazzo cadde, lentamente, cosi che Johnny lentamente si aderse sui gomiti, nell’ascensionale sospensione davanti al suo primo morto (p. 479, corsivi miei).

dove il causante dello sparo letale si identifica con la propria vittima allorché la contemplazione del suo crollo, e il tempo rallentato di quella stessa morte colta in fieri vengono finalmente a coincidere in un vuoto temporale. Il che dimostra fino a che punto la sintesi perfetta tra il vedere e l’agire, tra il soggetto (colui che uccide, identificato a sua volta col testimone che guarda) e l'oggetto (chi muore e chi è guardato), che è quanto dire tra la scrittura e la realtà, possa essere raggiunta solo attraverso la abolizione della distanza ontologica fra vita e morte.

E vorrei chiarire che questa interpretazione « ontologica » e tragica del realismo di Fenoglio, non mi pare incompatibile con la lettura epicizzante della sua narrativa, la quale — come è stato dimostrato ® — tende precisamente a creare una lontananza capace di assolutizzare scena ed eventi conferendo ‘ai fatti raccontati un’aura di eccezionale universalità. Purché si tenga presente che non si tratta tanto di « cantare » una gesta eroica a scopi memoriali, quanto di creare uno squarcio assoluto nella quotidianità per misurarsi all'ultimo sangue e

96

senza alcuna possibilità di raggiungere un equilibrio « classi-

co », con il reale in sé31

. Fenoglio insomma appartiene alla schiera degli scrittori in cui realismo artistico ed impegno politico acquistano una dimensione metafisica. A voler trovare una posizione filosofica vicina a tale metafisica dell’agire bisognerebbe forse rifarsi alla concezione sartriana della libertà, dove — rompendo con la tradizionale dicotomia tra l’esse e l’operari che subordinava l’azione alla contemplazione (« l’azione non è che l’ombra della contemplazione », Plotino, Enn., III, VIII, 4) — l’essenza viene fatta risiedere nel puro fare dell’esistere. In questo senso occorrerebbe a mio avviso indagare più a fondo nella matrice esistenzialistica della narrativa fenogliana # (e non solo di racconti come Un altro muro, cosi palesemente ispirato al quasi omonimo racconto di Sartre,} ma anche di quelli langaroli e del « parentado » dove i personaggi, spesso dei lucidi pazzoidi cacciati in situazioni estreme all’interno di una realtà da « malora » perfettamente insensata, si confrontano in modo radicale con la morte), o di un romanzo come La paga del sabato, dove l’equivalente fenogliano della « nausea » (il patch pure incombente sul partigiano prima durante e dopo le battaglie *) viene nonché convertito nel tema centrale, descritto in modo inequivocabile: se pensava alla sua vita di prima lo coglieva una nausea, ma non nel cervello, non nell'anima, ma solo nel corpo, nello stomaco e in bocca, e l’oggetto di quella nausea era quel gnocco di luce diurna che lui vedeva da coricato formarsi alle spalle della finestra oscurata nella sua stanza al Caffè Commercio. Tutto li, ma era una nausea forte (Opere, II, p. 206).

Cosi, non sembra troppo azzardato affermare che il vero epilogo dell’epopea partigiana si trovi virtualmente anticipato nella Paga del sabato e in altri racconti dove compaiono ex partigiani affetti da un inguaribile senso di estraneità e da una altrettanto inguaribile nostalgia del tempo angoscioso della guerra, perché la nausea dell’inserimento pacifico nel reale e l'angoscia del vortice rappresentato dall’« ondata rovente della battaglia » (PJ,, p. 656) nel cui tempo breve ma interminabile ci si « assorbe mortalmente »,$ sono gli unici modi fenogliani di rapportarsi al reale, entrambi antinaturalistici ed esistenzialmente radicali. Senonché, negli scrittori veri le idee trovano configurazioni immaginarie (e contraddizioni) irripetibili che sarebbe assurdo voler ridurre ad un pensiero astratto e tanto meno alla formulazione del pensiero altrui. Una volia scoperta — con tutto il margine di errore che il tentativo comporta — la matrice esistenziale di Fenoglio, resta in piedi la sua stra-

9

ordinaria e personalissima combinazione

di elementi epici,”

ed espressionistici, ma anche biblici, danteschi e simbolisti, ed il fatto che, tra le tante possibili traduzioni artistiche della

coincidenza fra esse ed operari, egli scelga non già come Pavese, il mito estatico dell’eterno ritorno, ma la forma cinetica della corsa verso

il maelstrom.

NOTE ! Il partigiano Johnny, la cui redazione viene fatta risalire dalla studiosa e dalla équipe pavese incaricata di curare l'edizione critica delle opere dello scrittore ad una data anteriore al 1949. Cfr. M. CORTI, Beppe Fenoglio, storia di un « continuum » narrativo, Padova, Liviana, 1980, in particolare le pp. 57-72. 2 Tesi che, dopo le ipotesi avanzate in questo senso da E. CORSINI (Ricerche sul fondo Fenoglio, in « Sigma », giugno 1970, pp. 3-17), appare oggi — seppure con sfumature a volte notevolmente diverse — vincente. Cfr. F. DE NicoLa, Introduzione a Fenoglio, Roma-Bari, Laterza, 1989. 3 Cosi, ad esempio, nel passaggio dalla prima alla seconda stesura del Partigiano Johnny, Fenoglio sopprime il passo in cui, nel descrivere il cadavere di Tito lo si compara ad « un greco ucciso dai Persiani due millenni avanti », p. 492. 4 Penso qui a certe sopravvalutazioni della « violenza » trasgressiva del linguaggio fenogliano nel senso di una tendenza alla dissoluzione del valore semantico della parola, di cui un esempio parzialmente convincente lo offre il saggio di G. FENoccHIO, La scrittura anfibia del « Partigiano Johnny » (in « Lingua e Stile », 1 [1985], pp. 89-120), ma che poi non consente di spiegare il passaggio dal Partigiano Johnny a Primavera di bellezza (e neanche a Una questione privata) se non come un penoso « compromesso » dell’autore con le esigenze editoriali o con una distrazione passeggera. Più produttiva sembra la posizione adottata da Gian Luigi Beccaria quando nell’operazione riscrittoria di Fenoglio vede la verifica di una sostanziale continuità. Ma, ovviamente, qui sta il punto e da qui inizia una verifica tutt'altro che facile per il critico. 5 Cfr. M. Corti, Il partigiano capovolto, in « Strumenti critici », ottobre 1968, pp. 413-421 e Trittico per Fenoglio, in Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969. Nello stesso senso, anche se con parziali divergenze, B. De MARIA, Le due redazioni del « Partigiano Johnny »: rapporti interni e datazione, in « Nuovi Argomenti », 35-36, n.s. (1973), pp. 132-167, e M.A. GRIGNANI, Nota ai testi, in B. FENOGLIO, Opere, I, 2, pp. 1208-1211. . * G. FarascHI, Sulla storia che Fenoglio ha dedicato a Johnny, in La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, pp. 181196, e soprattutto E. Saccone, Tutto Fenoglio: questioni di cronologia, con qualche appunto di critica e filologia a proposito del « Partigiano Johnny », in « Modern Language Notes », XCV (1980), 1, pp. 162-204, ora in E. SacconE, Fenoglio, Torino, Einaudi, 1988, pp. 3-52. ? Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989, p. 139. * Tutte le citazioni verranno tratte dall’edizione critica delle Opere, a cura di Maria Corti, Torino, Einaudi, 1978. Per dare una maggiore sveltezza al discorso ricorrerò in certi casi alle seguenti sigle: Ur PJ per l’Ur Partigiano Johnny; VGA per I ventitre giorni della città di Alba; IPR per Gli inizi del partigiano Raoul; PI per il Partigiano Johnny; Prim. b. per Primavera di bellezza; QP per Una questione privata. Nel caso di PJ, Prim. b. e QP, si indicherà con un numero arabo di quale Stesura sì tratta, nel caso dei racconti mi rifarò alla versione più antica.

98

? Con una precisazione

forse ancora

necessaria:

l’analisi

di queste stesse coincidenze testuali mi spinge a pensare che — per quanto con-

cerne 1 tre romanzi ad argomento partigiano — l'itinerario seguito Fenoglio sia stato: Il partigiano Johnny (prima e seconda redazioneda ) > Primavera di bellezza (prima e seconda redazione) > Una questione privata. E ciò nel senso che l’autore, quando attinge ai propri scritti per ulteriori rifacimenti o per prelievi parziali, parte sempre dall'ulti ma stesura del lavoro precedente a cui intende ispirarsi (in Una questione privata, per esempio, Fenoglio — nel caso non infrequente di una sovrapposizione di fonti, cioè di stilemi ricavabili da più testi — predilige le soluzioni raggiunte in Primavera di bellezza e non nel Partigiano Johnny). D'altronde, per quel che riguarda le coincidenze più o meno puntuali tra i racconti e Il partigiano Johnny, esse non si limitano ai cinque Racconti della guerra civile segnalati da M. Corti, B. De Maria e M. Grignani (/ ventitre giorni della città di Alba, Nella Valle di San Benedetto, Raffica a lato [poi Un altro muro], Il vecchio Blister, un elenco ancora incompleto che andrebbe arricchito con L’andata), ma si allargano — a volte tramite Primavera di bellezza — alla raccolta Un giorno di fuoco, a cominciare dal racconto omonimo e continuando poi con La novella dell’apprendista esattore, Il padrone paga male, e Golia (si veda ad esempio, per quest’ultimo racconto, quanto scrive Gina Lagorio nella sua monografia su Fenoglio, Firenze, La Nuova Italia, 1982?, pp. 105-107) nonché ad altri racconti inediti. !° In questo senso sono già stati fatti notevoli passi in avanti grazie al lavoro di G.L. BECCARIA e molto recentemente a quello di E. SOLETTI, Fenoglio, Mursia, Milano, 1987, mentre l’analisi variantistica di M. BrIccHi (Due partigiani due primavere, Ravenna, Longo, 1988) appare viziata in partenza dalla circoscrizione binaria dei confronti, esclusivamente attinenti al Partigiano e a Primavera di bellezza. 1! E ciò al di là dei problemi più strettamente narratologici riguardo alla fonte (« autoriale » 0 « personale », individuale o corale) dello sguardo stesso, per i quali rimando a M.G. DI PaoLo (Beppe Fenoglio fra tema e simbolo, Ravenna, Longo, 1988, pp. 91-127) e a Mariarosa Bricchi, op. cit., pp. 71-92. Sul paesaggio fenogliano come violento scontro di forze, cfr. G. BARBBERI SQUAROTTI, Fenoglio, in Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano, Mursia, 19784, pp. 365-373. 4 Cfr. Le maschere e il testo in Fenoglio, in AA.VV., Piemonte e letteratura nel ’900, San Salvatore Monferrato, s.e., 1980, p. 617. 4 La definizione è di Gian Luigi Beccaria; cfr. op. cit., p. 124. 5 Ovviamente più vicino, nella redazione di PJ,, al testo del racconto, come dimostra la conservazione della voce « polverizzarsi » di fronte

a « disintegrarsi » di PJ,. 4 Vi sono insomma

Li

due forme

ben diverse di « semplicità » e non

una isola, come pare intendere Maria Corti quando, a giustificazione della

maggiore

« maturità » dei racconti rispetto al romanzo partigiano, parla

di un Fenoglio « più rigoroso e pronto al sacrificio della precedente scrittura », in Trittico..., cit., p. 24. Infatti gli studiosi più attenti del linguaggio fenogliano tendono sempre più a scoprire un nesso fra l’operazione di sfrondatura condotta dall'autore, ed un incremento della sua potenza stilistica. L'analisi qui condotta vorrebbe apportare nuove ragioni e nuove prove in appoggio di tale ipotesi.

! Nel libro di Elisabetta Soletti (op. cit.) trovo confermate alcune delle ipotesi qui avanzate, ad esempio sulle « potature » funzionali alla « velocità e concisione della narrazione », p. 127, sull’« addizione di concretezza » (p. 128), sulla tendenza alla « paratassi » (p. 137); anche se le coincidenze aumentano quando la studiosa si riferisce a Una questione privata: « insistenza propria del vedere, del percepire le cose e gli oggetti attraverso l’occhio del protagonista, con un movimento e con una tecnica di mise en rélief » e di « presa diretta » (pp. 162-163), « [inten-

99

sificazione semantica] nella direzione dal termine generico, medio, al termine di grado forte, energico e condensato, oppure metaforico » (p. «i membri del periodo... tendonoa susseguirsi come unità indipen178), denti, giustapposte... in luogo della più probabile subordinazione » (p. 179), «passaggio dal polisindeto all’asindeto » (p. 180). i 18 Descritta nel cap. XLVI della prima redazione (pp. 789-791) e in quello intitolato Inverno 1 della seconda (pp. 113-1115), che è la fonte diretta del rifacimento. Non dimentichiamo però che il modello remoto di questo episodio si trova nei racconti del ‘49: non solo nel passo già citato degli Inizi del partigiano Raoul, ma anche nella chiusa del racconto L’andata (cfr. pp. 35-36 del volume II delle Opere), come dimostrano alcune reminiscenze disseminate in più luoghi del Partigiano Johnny, e in Una questione privata, e di cui basterà citare qui alcuni esempi più facilmente isolabili: « Negus tornò a strisciar sù, ma con gli occhi chiusi. Non voleva vedere quanto rimaneva lontana la cima della collina, e poi le gobbe del pendio gli parevano enormi ondate di mare che si rovesciavano tutte su di lui [...] Si voltò a vedere se qualcuno l’inseguiva su per il pendio, e se a salire faceva la sua stessa pena. Ma erano rimasti tutti sulla strada e stavano allineati a sparare come al banco di un tirasegno [...] Scivolava giù per i piedi, e le sue mani aperte trascorrevano sull’erba come in una lunghissima carezza. Ad una gobba del terreno non si fermò, ma si girò di traverso » (L’andata). Passi che ritroviamo ricuperati in altre opere, a volte con calchi assai letterali: « Restavano fermi, come al banco di un tirasegno, miravano e sparavano agiatamente » (PJ,, p. 1114); « senza il coraggio di sbirciare all’indietro, per non vederli ormai sul ciglione, allineati come al banco di un tirasegno » (QP, p. 2058); « Milton era di nuovo in piedi, rotolando aveva urtato contro la gobba del terreno » (ivi). Per tacere dell'immagine del pendio avventantesi sul fuggitivo, diventato poi, come abbiamo visto, un motivo ricorrente nella narrativa fenogliana. È impossibile procedere qui ad un’analisi ed un confronto esaustivi dei due episodi, mi limiterò perciò a dire che grosso modo essi coincidono nel seguente schema generale (pericolo imminente - apparizione dei fascisti - fuga sotto la sparatoria - attraversamento del torrente - nuovo e raddoppiato attacco fascista accompagnato da urla assordanti - corsa a occhi sgranati nel prato nudo, tra il paesaggio balenante finché i rumori diminuiscono e si crea una « gora » di silenzio tra i nemici e il fuggitivo - infine la corsa che continua per inerzia tra luoghi resi «inconoscibili » dagli occhi accecati, e crollo finale). Senonché in Una questione privata, ogni sequenza si sviluppa e si sdoppia specularmente (ma direi anche — in base al carattere « eccessivo » di questi sviluppi — espressionisticamente) introducendo cadute, scivolate, arretramenti che prolungano — rinnovandoli ad infinitum — la corsa ed il pericolo. Si tratta insomma dello stesso testo dilatato ed esasperato nel passaggio da PJ a QP. Per questo motivo mi pare che la pur intelligente analisi variantistica condotta da E. Soletti sulle tre redazioni del capitolo XIII in Una questione privata (cfr. op. cit., pp. 175-184) rischi di restare incompleta e per certi versi deformante, ove non aggiunga come elemento fondamentale di confronto le pagine corrispondenti del Partigiano Johnny. ® In questo senso l’intensificazione espressionistica pare evidente nel ricorso, al fine di suggerire il senso di pericolo, allo spropositato ed immaginario allargarsi delle spalle esposte alle temute pallottole: « sentiva la schiena allargarglisi, fino a debordare dalla strada» [OP, p. 2060]). Ma ad illustrare il potenziamento generalizzato delle immagini basteranno alcuni raffronti testuali: 1) «ora le secche nude frasche sopra la sua testa venivano potate dalle loro consapevoli scariche »

[PJ.]) > «ramaglia potata dal fuoco gli crollava sulle spalle »; 2) «un

amplificato sciacquio » [PJ;] > « uno sciacquio assordante » (a sua volta risultato concentrato delle due stesure precedenti, più prolisse, ma tanto

100

più inequivocabili

quanto

alla volontà

intensificatrice

del rifacimento:

«uno sciacquio che gli parve riempisse l’universo col suono d'un diluvio » [QP,]> « uno sciacquio che gli parve riempisse l’universo col fragore del diluvio » [QP,]); 3) «i soffi di terra rafficata » [PJ,]>« dietro, davanti e intorno a lui la terra si squarciava e ribolliva, lanci di fango svincolati dalle pallottole gli si avvinghiavano alle caviglie » [OP], dove la terra diventa addirittura un organismo vivo; 4) « guadò indenne la fiumana di pallottole » [PJ;] + « A Milton pareva... di pedalare sul vento delle pallottole » [QP]; 5) « Arrivò, ed altre ancora, infinite altre » [PJ,] «Le pallottole arrivavano innumerevoli, a branchi a sfilze» [OP]; 6) « lontane creste balenanti ai suoi occhi sgranati e quasi ciechi » [PJ,] le creste delle colline dirimpetto, annerite e sbavate dal diluvio, > « un immenso, invalicabile stagno » [OP]. 2! «ora era patentato e bollato... era schierato nel grande dualismo », è infatti la prima riflessione di Johnny dopo essersi arruolato come partigiano (PJ,, p. 447). Che l’esperienza della guerra, nella misura in cui è una situazione limite dal punto di vista esistenziale, sia la trasposizione di ogni altra esperienza ontologica assoluta — tra cui anche quella dell'amore — è un fatto implicito in tutti i racconti fenogliani, e a volte dichiarato esplicitamente: « Ma quando finiva quella galleria? Era come l’amore, e la guerra », ivi, p. 629. 2 D'altronde, anche nell’ipotesi più che probabile dell’incompiutezza del romanzo, il finale mancato potrebbe essere visto come la spia degli ostacoli trovati dall’autore per risolvere una struttura a cul de sac, la cui sola conclusione possibile è, appunto per ragioni intrinseche, o la sospensione del giudizio o il circolo vizioso, e, in ultima istanza, la o del protagonista, che pare fosse appunto il finale previsto dal«una

‘autore. 2 E non può sfuggirne l’analogia con il « risucchio » del piccolo cio mentre viene condotto alla fucilazione quale appare descritto cap. precedente: « Riccio piombò in grembo al soldato e gli altri gli si serrarono addosso come un coperchio... e da quel viluppo uscivano che le gambe sospese e mulinanti del ragazzino », p. 2056. % Ma ancora prima: «Sono fatto di fango, dentro e fuori.

Ricnel due non

Mia madre non mi riconoscerebbe », p. 2059. 2 « Gli sparavano anche d’anticipo, come a un uccello ». 2 Significativo in questo senso appare il fatto che nel corso delle successive redazioni di questo passo, Fenoglio si sia avvicinato progressivamente all'idea della volontà suicida di Milton, concepita solo durante la seconda stesura, e poi più concretamente rafforzata nella terza: « Non aveva nemmeno più la pistola per uccidersi, non vedeva un albero contro il quale sfraccellarsi la testa » (2* redaz., Opere, I, 3, pp. 2271-2272) += « Non aveva più la pistola per spararsi, non vedeva un tronco contro cui fracassarsi la testa, correndo alla cieca si alzò le due mani al collo per strozzarsi » (3° redaz., p. 2062). ì ì 2 E non è senza interesse notare come in Pavese siano frequenti, e persino scoperte, versioni « contemplative » di paradossi assai vicini a questo, che è invece esasperatamente cinetico. Si pensi ad esempio al rapporto proporzionale che in un racconto di Feria d'agosto si stabilisce fra il massimo di stanchezza e il massimo di riposo: « C'erano mattine che ci svegliavamo stranamente riposati, tanto riposati che ci pareva d'essere stanchi », Sogni al campo, in Feria d'agosto, Torino, Einaudi, 1968, p. 86. Per questo problema mi permetto di rinviare a N. MunIZ MuNIZ, Il sogno come letteratura: i racconti cifrati di Pavese, in « Critica letteraria », 57 (1986), pp. 485-500, e ora in Poetiche della Temporalità, Pa; h È. lermo, Palumbo, 1990. 28 «Ora poteva essere ucciso, perché aveva già ucciso... era triste, ma tonico essere del tutto nella partita », PJ,, p. 472; « Aveva fatto un’im-

101

«c tel

boscata ed aveva sicuramente ucciso: era un passo in avanti ed un rime0% _ rito verso e della sua propria morte », ibid., p. 567. 2 Ma si veda anche la descrizione della morte di Tito nel Partigiano

Johnny: « Tito cadde fulminato, col fucile imbracciato... come un palo. Johnny segui il suo crollo con attenzione, mentre la scia della raffica ; i fluttered il suo vestito », PJ,, p. 486. 3» Soprattutto da G.L. Beccaria in La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Milano, Serra e Riva, 1984 e nel capitolo Il tempo grande: Beppe Fenoglio del volume Le forme della lontananza, cit., pp. 101-160. 8 Cosi non posso non trovarmi d'accordo con E. Saccone quando nega la possibilità di interpretare la parabola del partigiano Johnny come un Bildungsroman, e quando parla, per l'insieme dell’opera fenogliana, di una progressione « allegorica » piuttosto che realistica, cfr.

L'orologio di Milton: morte, vite e miracoli di un personaggio fenogliano, in « Modern Language Notes », gennaio 1982, pp. 122-142 e La questione dell’« Ur Partigiano Johnny », in « Belfagor », fasc. 5, settembre 1981, pp. 569-590 (ora entrambi raccolti nel volume einaudiano). Ma a questo riguardo, si veda anche la posizione di Angelo Jacomuzzi, il quale definisce Fenoglio uno « scrittore della perplessità e della negazione trai maggiori del nostro tempo », cfr. Alcune tesi sullo scrittore Fenoglio, in AA.VV., Piemonte e letteratura nel ’900, San Salvatore Monferrato, s.e., 1980, p. 595. D’altronde, l’indefinizione ideologica dello scrittore di fronte

al suo impegno politico-militare (Johnny si autodefinisce « un solitario fuorilegge, autobanditosi per motivi non chiari nemmeno a lui stesso, precisatisi in un incubo », ibid., pp. 536-537) correlativa alla tanto generica quanto radicale affermazione del concetto di « libertà » come ragione ultima dell’agire, sono pure ingredienti necessari della concezione esistenziale della storia. # E mi conforta osservare che nella critica su Fenoglio i riferimenti a Heidegger (Fenocchio, Saccone, Di Paolo, op. cit.) e a Camus (SACCONE, Il! partigiano imperfetto, in Fenoglio, cit., pp. 148-200) incominciano

a diventar

frequenti,

anche

se a mio

avviso

l’ontologia

heidegge-

riana spinge in una direzione contemplativa che lascia fuori il problema dell’azione, fondamentale in Fenoglio. #8 E colpisce davvero che M.G. Di Paolo nell’accuratissima indagine sulle possibili fonti del « muro » come parola-chiave del racconto fenogliano (La casa in collina di Pavese, Per chi suona la campana di Hemingway, Uomini e no di Vittorini e addirittura la Divina commedia), si sia lasciata sfuggire la più evidente (cfr. Il «muro » e la morte, in op. cit., pp. 57-74). # Ma allusioni al carattere assurdo ed insensato del reale non mancano neppure nel Partigiano Johnny: «Tutto appariva insensato, sotto il doloroso ghigno del cielo senza tempo », PJ., p. 945; « Per certo essi [i morti] erano in eterno esclusi dalla luce del giorno e dalla tenebra della notte, ma questo che era? che significava? se a lui vivo il nato giorno e la cadente notte erano fenomeni assurdi ed inutili, se uno doveva spaccarsi, spappolarsi la testa per trovare una spiegazione alla loro natura ed essenza? », PJ,, p. 901. . _® Cosi nell’Ur Partigiano Johnny: « Ettore sorrise con lo stesso sorriso aperto e caloroso degli altri, ma anche lui aveva una zona vuota nel suo intimo: il luogo dov'era vissuto nella morte, in mezzo a uomini, e anche lui uno di loro, uomini che altri uomini trattavano e riducevano sulle soglie della morte, come la morva aveva trattato e ridotto la

razza dei cani... La mano gentile e flemmatica di Temple gli scese sulla spalla tamburellando, e in quel preciso istante Johnny arrossi, il cuore spezzato nell'atto di scorgere lo squarcio vuoto sull'orlo del sorriso di Ettore » (p. 174; e occorre notare che « lo squarcio vuoto » corrisponde,

nell'inglese di Fenoglio, a « the blank patch », ivi, p. 175, corsivi miei).

102

Ma si veda ancora nel Partigiano Johnny: « Johnny non si trovava più; quel patch, lungi dal scancellarsi, si ampliava. Non sopportava più comunanza né routine », p. 1195, « questa era l’ultima, unica possibilità di inserirsi nella battaglia, di sfuggire a quell’incubo personale e inserirsi nella generale realtà » (p. 1202). | * «ancora una volta si assorse mortalmente nella brevità e nella interminabilità del tempo delle battaglie », PJ,, p. 698. # Particolarmente puntuale mi sembra ad esempio — oltre al ricordo omerico del soldato trascinato dal carro a testa in giù (P)J,, p. 488 e Prim. b, p. 1568) — questo calco dal virgiliano « în obscenum se vertere vina cruorem » (Aen., IV, v. 455): «Il vino spillò come sangue sulla strada », PJ., p. 1203, che curiosamente in OP; appare capovolto:

« il sangue ruscellava come vino », p. 2 3 E non mi riferisco solo alla pregnanza

simbolica delle metafore trovate negli amati seicentisti inglesi, ma a quella di scrittori come Baudelaire e D'Annunzio (i poeti prediletti del prof. Cocito, PJ,, cap. XVII, p. 406). Basti pensare a certe puntualissime coincidenze, ad esem-

pio nell’uso

funebre

che Fenoglio fa del verbo

« inazzurrare » (« Ma il

ragazzo aveva qualcosa dentro, una tristezza gli inazzurrava a tratti le guance », PJ,, p. 547) di chiara matrice dannunziana (« l’erba novella / che inazzurravano l’ombre », Maja), o l’allusione alla « distesa d’asfodeli » nel Partigianò Johnny (PJ,, PJ,, p. 490 e poi riapparsa come « piano asfodelico », PJ,, p. 746 e PJ,, p. 1076) che è un Leitmotiv di Maia (utilizzato anche, in rapporto al binomio guerra-morte, nella Canzone di Umberto Cagni: « Fosti immemore e sparente / come l'Ombra sul prato d’asfodelo »), senza dimenticare certe creazioni aggettivali a base del suffisso « oso », cosi frequenti nella prima redazione del romanzo e non assenti dai versi di D'Annunzio: « febbroso » o « lapidose », « precipitosa » (sempre di Maia). Ma questo è ovviamente un problema che richiederebbe ben altro spazio e ben altro discorso.

103

i

Lorenzo

FENOGLIO

Mondo

E CONRAD

Molti sono gli scrittori inglesi che vengono citati nelle opere di Beppe Fenoglio, magari indirettamente, come accade con il nome di battaglia del partigiano Milton in Una questione privata. Non ho fatto uno spoglio ma, se ben ricordo, tra questi nomi non compare Conrad. Tanto più suggestivo riesce allora l'accostamento che si può fare tra un passo dei Ventitre giorni della città di Alba e un capitolo del romanzo Nostromo (terza parte, capitolo quinto). Qui e là abbiamo una sfilata di guerriglieri: i partigiani che occupano Alba senza colpo ferire e le formazioni di Pedrito Montero che entrano a Sulaco, capitale dell'immaginario paese di Costaguana. In entrambi

i casi, il tema è introdotto

dal suono

delle

campane che salutano i vincitori. Scrive Fenoglio: « Allora qualcuno s’attaccò alla fune del campanone della cattedrale, altri alle corde delle campane dell’altre otto chiese di Alba e sembrò che sulla città piovessero scheggioni di bronzo ». Scrive Conrad: « Durante la notte il popolino in attesa aveva preso possesso di tutti i campanili della città per dare il benvenuto a Pedrito Montero che faceva il suo ingresso... ».! E più avanti riprende e arricchisce il motivo, precisando che le mura dell’Intendencia « sembravano vacillare per le acclamazioni che laceravano l’aria e coprivano i fragorosi rintocchi delle campane ». La ripresa include anche il motivo delle acclamazioni. La gente, in Conrad, ha accolto con entusiasmo gli occupanti: « Gli spettatori si ritrassero contro i muri delle case gridando i loro Vivas! ». Meno coinvolta, sbalordita, la popolazione di Alba « pressata contro i muri di via Maestra ». Soltanto dopo l’intimazione di recarsi nella piazza deserta ad accogliere i capi partigiani, un gruppetto di persone si decide a battere

le mani: « Le batterono tutti e interminabilmente nonché di cuore ». Ma le analogie più stringenti riguardano le circostanze della sfilata. Ecco il memorabile attacco di Fenoglio: « Fu la più selvaggia sfilata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali [...]. Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso

104

e tutti, o quasi,

portavano

ricamato

sul fazzoletto

il

nome di battaglia ». Ecco invece Conrad: « E per prima entrò in ordine sparso dalla porta della campagna la marmaglia armata, d'ogni colore, tinta, tipo, e di ogni stadio di cenciosità, che s'era data il nome

di Guardia

Nazionale

di Sulaco

[...].

Al centro della strada irruppe, come un torrente di immondizie, una massa di cappelli di paglia, ponchos, canne di fucili, con un'enorme bandiera che sventolava nel mezzo... ». Dietro di loro avanzano i cavalieri che procedono « con indosso l’eterogeneo assortimento preso dai magazzini sulla strada che avevano saccheggiato in fretta e furia durante la loro rapida cavalcata [...]. I fazzoletti annodati larghi sul collo nudo erano

nuovi fiammanti... ». Conrad insiste sui tratti esotici e davvero selvaggi dei suoi guerriglieri sudamericani: le fette di manzo crudo avvolte intorno al cocuzzolo dei cappelli, gli speroni di ferro allacciati ai piedi nudi, la lancia sostituita spesso dal lungo pungolo dei bovari. Rispetto a questi, che esibiscono una eccentricità di massa, i partigiani di Fenoglio non perdono sostanzialmente la loro aria di ragazzi di buona famiglia. Non si abbandonano a saccheggi ma vanno «in giro a requisire macchine, gomme e benzina ». Hanno tenute inevitabilmente più domestiche, anche se più personalizzate e inventive: dagli avventurosi nomi di battaglia sui fazzoletti a certi strepitosi capi di vestiario: si veda il partigiano semplice che ostenta una « uniforme di gala di colonnello d’artiglieria cogli alamari neri e le bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio »; o il capo « che su dei calzoncini corti come quelli d’una ballerina portava un giubbone di pelliccia

che

da lontano

sembrava

ermellino,

e un

altro

capo che aveva una divisa completa di gomma nera, con delle cerniere lampeggianti ». Altri paesi, altri tempi, altra estrazione sociale. È significativa, in entrambi gli episodi, la presenza femminile, la più o meno risentita insinuazione erotica. In Fenoglio ci sono donne che sfilano tra i partigiani, suscitando lo stupore e la malizia dei borghesi: «e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare: — ahi, povera Italia! — perché queste ragazze avevano delle facce e un'andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio ». In Conrad l'angolo di osservazione è diverso, sono i guerriglieri, tutti maschi, che ma semmai richiamati da episodi epocali. Eppure, anche se «il quadro storico-politico non è mai rilevante sul crinale langarolo della narrativa fenogliana »,/} La malora presenta alcuni elementi che consentono agevolmente di collocarne la vicenda narrata nel primo decennio del nostro secolo; a tale conclusione

portano,

oltre a numerosi

altri indizi

minori,

il

terminus post quem suggerito da una citazione proverbiale della regina Taità” (moglie di Menelik e quindi siamo all'altezza della guerra d'Etiopia) e il terminus ante quem dato dalla procedura (seguita per il fratello di Agostino, Stefano) !8 della determinazione per sorteggio della durata del servizio di leva, introdotta nel 1882 dal ministro Ferrero e rimasta in vigore fino al 1911;! all’interno di questi estremi si aggiungono poi sia un accenno alla scuola elementare di San Benedetto Belbo, costruita nel 1901, sia l'entità della paga annuale di 7 marenghi,

cioè 140 lire, attribuita ad Agostino, servitore

nei campi, corrispondente alla paga media di quanti svolgevano quel lavoro in Italia nel 1901. Per La malora Fenoglio ha dunque ricostruito — probabilmente anche sulla base dei ricordi parentali della famiglia contadina del padre, che era nato nel 1882 — la realtà economica e sociale delle Langhe nei primi anni del Novecento, all’interno della quale ha però collocato una storia ispiratagli dalle vicende vissute negli anni Trenta da due suoi lontani cugini

di San

Benedetto

Belbo,

Giovanni

e Dino

Ghirardi,

figli di una Giuseppina Fenoglio: il primo, come Agostino, era andato servitore in giovane età ed il secondo, dopo aver studiato nel seminario di Alba, era divenuto prete, come

Emi-

lio, ed aveva poi lasciato la tonaca come il sacerdote di Piog-

144

gia e la sposa, racconto che non a caso allora Fenoglio aveva definito « un ponte » tra il suo primo ed il suo secondo libro, presentando in effetti uno stesso personaggio, sia pure in momenti successivi della sua vita. . La scelta fenogliana orientata ad un romanzo di ambientazione contadina non è in realtà, agli inizi degli anni Cinquanta, particolarmente originale poiché esso rientra tra i « soggetti » maggiormente incoraggiati dal neorealismo; più originale invece è la sua scelta di non calare quel tema nella contemporaneità o, tutt'al più, nel periodo fascista come accadeva per numerosi romanzi contadini pubblicati allora, nei quali i problemi del mondo rurale spesso sono collegati a quelli del Mezzogiorno d’Italia (si pensi, ad esempio, a Le terre del Sacramento di Jovine uscito proprio nel 1950). Il rifiuto della contemporaneità adottato da Fenoglio per La malora ribadisce allora in pratica il suo superamento della « cotta neoverista »; quindi rifiuto di una narrativa che rifletta cronache recenti o sia sorretta da un esplicito impegno ideologico (e infatti nel libro contadino di Fenoglio mancano del tutto le tensioni sociali, anche se non vi mancano tuttavia i soprusi e le ingiustizie), né infine alcuna concessione auto-

biografica, tanto che il racconto viene affidato in prima persona non ad un improbabile personaggio intellettuale controfigura dello scrittore, ma direttamente ad un giovane ed incolto contadino delle Langhe.® La storia di Agostino riflette ovviamente la condizione umana difficile e spesso misera nella quale vivono all’inizio del secolo i contadini delle Langhe, in particolare delle più povere Alte Langhe; ma al di là dei problemi economici e sociali connaturati ad una realtà territoriale peraltro assai ampia e varia 24 e non di necessità sempre povera e disperata, la storia di Agostino riflette soprattutto quello stesso diffuso sentimento già denunciato nel 1884 da Stefano Jacini nelle conclusioni relative al Piemonte dell’inchiesta agraria da lui voluta, e cioè « la smania del contadino

(specialmente

del col-

le e del monte) di diventare proprietario di terra; invincibile passione alla quale sacrifica ogni atto della sua vita, e a cui dirige ogni sua aspirazione e dedica quasi tutto il suo lavoro, impiegando per ottenere l’intento, tutti i sudati guadagni ».® La malora infatti, attraverso il racconto di Agostino % — servitore del mezzadro Tobia Rabino — narra proprio l’esasperato progetto di Tobia di diventare « particolare 3} 1ncioè piccolo proprietario (con ciò peraltro rispecchiando un’ambizione assai diffusa nelle campagne italiane del primo Novecento, dove dal 1901 al 1910 i mezzadri erano scesi da poco più di due milioni di unità a circa un milione e mezzo, men-

tre i coltivatori

diretti

da

1.583.000

unità

erano

passati

a

145

1.716.000)8 Ma Tobia non sogna un qualunque appezzamento di terra, bensi quanto di meglio potrebbe trovare sulle più morbide colline vicine ad Alba, una trentina di ettari a grano

e a vigna, con animali e una riva da legna: di qui i sacrifici disumani cui sottopone la sua famiglia, e lo stesso malcapitato Agostino, pur lavorando la terra di una cascina, il Pavaglione, piuttosto redditizia e quindi tale da non imporre la miseria al suo mezzadro.? Del resto anche la triste storia di Agostino, venduto come servitore a sette marenghi l’anno appena diciassettenne, ha alla sua origine un’altra progettata ascesa economica non giunta poi a buon fine; il padre del ragazzo, infatti, contadino piuttosto arricchito delle Alte Langhe, a San Benedetto Belbo,

aveva inteso impiegare i suoi risparmi per acquistare la « censa» del paese, ma, non avendo concluso l’affare, aveva poi cominciato a trascurare il lavoro nei campi dando il via al tracollo dell'economia della famiglia nel cui contesto era rientrata anche la « vendita » del figlio. Insomma, La malora propone storie di miseria contadina sulle Langhe determinate più da quella « smania » di miglioramento della propria condizione economica cui aveva accennato Stefano Jacini che non da effettiva ostilità della natura o da prevaricazioni di carattere sociale. Un altro personaggio, il servitore Mario Bernasca, affronta in La malora un differente e più attuale aspetto della «smania » contadina di migliorare la propria condizione; egli tenta infatti di sfuggire al proprio gramo destino lasciandosi alle spalle il duro e schiavizzante lavoro sui campi delle Langhe per tentare la sorte in città, ad Alba, cosi ripetendo di fatto una tendenza assai diffusa tra i giovani di quelle colline proprio negli anni tra il 1901 ed il 1911, ma attenuatasi tra le due guerre e ripresa con vigore, come si è visto, sul finire degli anni Quaranta. Tra il progetto avventuroso di Mario Bernasca di « scappar dalle Langhe e cercar fortuna giù in Alba » ® e il proposito più domestico di Agostino di potere un giorno tornare a casa, a San Benedetto Belbo, per sottrarsi ad un padrone e lavorare la propria terra, anche se esigua e poco redditizia, e vivere nella casa dei suoi vecchi, anche

se malandata

e bi-

sognosa di urgenti restauri, Fenoglio ha riposto, in questo contrasto appunto, il significato estremo e più attuale del suo libro contadino. La malora non propone certo una visione idilliaca della vita nei campi, non nasconde (né peraltro sottolinea) le componenti ostili e talora tragiche di quel lavoro spesso avaro e reso ancor più pesante dalla umiliante sudditanza imposta ai contadini dai padroni; della costante condizione subalterna della donna e delle frequenti esasperazioni

146

economiche che talora portano alla malattia mentale e al suicidio. Ma pur con queste pesanti ombre, Fenoglio difende la scelta di fedeltà compiuta da Agostino, nella quale non è difficile riconoscere l’atteggiamento dello scrittore a proposito della trasformazione economico-sociale in atto nelle Langhe al tempo della stesura di La malora: ad Agostino il ritorno a San Benedetto Belbo, alle proprie radici, dove pure l’attende una realtà non facile, appare « come la cosa più bella della sua vita »,3 ma mentre Fenoglio scrive questo signifi cativo epilogo del suo libro contadino i Mario Bernasca dei primi anni Cinquanta compiono esattamente il cammino opposto a quello di Agostino, richiamati in città dalla lusinga di una busta-paga sicura con la quale barattano volentieri la propria libertà e identità. In questa profonda trasformazione economico-sociale di Alba e delle Langhe (ma naturalmente verificatasi allora anche in altre aree industrializzate d’Italia),

Fenoglio

ha individuato,

con

un

certo

anticipo

sui

tempi, i sintomi irreversibili del tramonto di quella economia e civiltà contadina raccontata in La malora senza gratuiti vagheggiamenti arcadici, ma con equilibrio e onestà, sottolineandone

tanto

le debolezze,

come

l’esasperata

smania

di

arricchimento a costo di vivere miseramente, quanto i valori positivi, come la tenacia e lo spirito di sacrificio degli Agostino. E quanto Fenoglio valutasse quasi profeticamente sin dai primi anni Cinquanta le disfunzioni portate dalla incontrollata industrializzazione appare anche da altri spunti più o meno estesi che si colgono nelle sue pagine, e non solo dunque in quelle, a tale proposito chiaramente allusive, di La malora; nell'agosto 1954, ad esempio, lo scrittore annota sul suo diario un breve appunto sull’« acqua violacea della Bormida avvelenata »,* appunto sviluppato poco tempo dopo nella stesura del racconto Un giorno di fuoco: Hai mai visto Bormida?

Ha l’acqua color del sangue raggru-

mato, perché porta via i rifiuti delle fabbriche di Cengio e sulle sue

rive non

cresce

più un filo d'erba. Un'acqua più porca e avvefreddo nel midollo, specie a vederla di notte

lenata, che ti mette

sotto la luna.

Fenoglio dunque scrive queste parole proprio quando, a metà degli anni Cinquanta, dopo un lungo periodo di crisi, l’ACNA di Cengio aveva appena ripreso la massiccia produzione di coloranti avviando nel contempo quel grave fenomeno di inquinamento ambientale che dura ancora ai nostri giorni; e anche qui, come in La malora, Fenoglio evita ogni manifesto impegno di denuncia, ma senza nascondere tutta-

147

via il suo allusivo risentimento nei confronti di quanti propongono le mete facili e illusorie inseguite dai Mario Bernasca; ma esistono pur sempre gli Agostino, come i Paco, i Gal. lesio e naturalmente i Johnny, cioè «i passeri che non cascheranno mai ».”

NOTE ' La lettera è stata pubblicata parzialmente da M. Corti, Nota a B. FenocLIO, La paga del sabato, Torino, Einaudi, 1969, pp. 144-145, da E. Corsini, Ricerche sul fondo Fenoglio, in « Sigma », 26, giugno 1970, p. 11 e da G. Rizzo, Su Fenoglio. Tra filologia e critica, Lecce, Milella, 1976, pp. 68-69. ° ? Sulla rielaborazione di quest'opera cfr. M. Corti, La duplice storia dei « Ventitre giorni della città di Alba» di Beppe Fenoglio, in AA.VV., Un augurio a Raffaele Mattioli, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 375-391. Sulla partecipazione dello scrittore alla lotta di Liberazione sia consentito rinviare a F. DE NicoLa, Fenoglio partigiano e scrittore, Roma, Argileto (poi Foggia, Bastogi), 1976. : 4 Su questi dati biografici cfr. F. De NicoLA, Introduzione a Fenoglio, Roma-Bari, Laterza, 1989, pp. 30-31. 5 B. FeNnogLIO, La paga del sabato, in Opere, II, Torino, Einaudi, 1978, p. 140. 6 Le notizie storiche su Alba e le Langhe sono state desunte prevalentemente dai due volumi editi ad Alba, presso la Famija Albeisa, di A. Buccoro, E. NecADE, L. MaccarIo, Alba com'era (1978), e di A. BuccoLo, E. NECADE, V. RioLFo, Alba un secolo (1985). ? V. CastRoNOvo, Piemonte, Torino, Einaudi, 1977, p. 45. 8 M. FenogLIO, Per i 90 anni di Margherita Fenoglio, 22 novembre 1986, p. 4 (dattiloscritto). ? Sull’attività della Ferrero, cfr. Storia d’un successo, Torino, AEDA, ‘0 Sull’attività della Miroglio, cfr. Miroglio 1884-1984, a cura di A. Mazzuca, Milano, « Il Sole-24 ore », 198 1! Per questi dati cfr. A. VALLEGA, Il Cuneese: un territorio di nuova industrializzazione, Savona, Sabatelli, 1972, pp. 58-62. 1 E. LEARDI, Fiere e mercati delle Langhe, Cuneo, SASTE, 1975, p. 52. 43 Negli anni Cinquanta la produzione delle robiole, per lo più raccolta nell'apposito mercato di Murazzano, scende da 50 ai 15 quintali settimanali (ibidem, p. 44). 4 Ibid., pp. 30-45. 4 G. FALAscHI, L'isola, il calendario, i due libri mastri, in AA.VV., Fenoglio a Lecce, a cura di G. Rizzo, Firenze, Olschki, 1984, pp. 14-15. IGIRIZZO NONNI! Y « Non avessi cercato, volessi la regina Taitù », esclama il futuro padre di Agostino quando ancora non ha incontrato colei che sarebbe divenuta sua moglie (in B. FenocLIO, La malora, in Opere, II, p. 398; d'ora in avanti le citazioni da quest'opera sono precedute dalla sigla M). 1 « Poi il re chiamò Stefano a soldato, andò alla leva e tirò un numero basso. Nostro padre bestemmiò. [...] Lo congedarono dopo ventun mesi » (M, pp. 374-375). . F. STEFANI, La storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano, I, Roma, Ufficio Storico SME, 1984, pp. 288-292; un accenno anche in N. REvELLI, Il mondo dei vinti, I, Torino, Einaudi, 1977, p. XXXVIII. ® C. DANEO, Breve storia dell’agricoltura italiana, Milano, Monda-

148

dori, 1980, pp. 93 e 103 e E. RossINI-C. VANZETTI, Storia dell’agricoltura italiana, Bologna, Edagricole, 1986, p. 622. ? Devo queste notizie alla testimonianza di Ugo e Luciana Cerrato, che ringrazio ancora una volta per la cortese collaborazione. La loro conoscenza di personaggi e situazioni delle Langhe è stata di notevole aiuto per Fenoglio che infatti, in una lettera scritta il 4 luglio 1962 al regista Gianfranco Bettetini (pubblicata da M. BRICCHI, su « Autografo », n.s., 16, febbraio 1989, pp. 68-69) aveva osservato: «Il peggio è che il maestro Cerrato, che in certe cose mi è indispensabile per conoscenza di genti, paesi, usi e costumi, agricoltura, ecc., è già in vacanza sulle

Langhe

ed io non posso

stabilire con lui il minimo

contatto ».

x 2 Oltre al celebre Cristo s'è fermato ad Eboli di Carlo Levi, già uscito nel 1945, in tempi più recenti tra i testi di narrativa di questo

soggetto era stato pubblicato nei « Gettoni » einaudiani I! vento nell’oliveto di Fortunato Seminara nel 1951. % Questo procedimento narrativo potrebbe anche essere inteso come

volontà di sottrarsi al modello pavesiano di racconto contadino. % Le stesse differenze morfologiche tra Alte e Basse Langhe determinano corrispondenti diverse culture e risorse, con rispettive differenti economie. Nelle Basse Langhe le colline sono morbide e i raccolti della vite, dei seminativi, dei frutteti sono ricchi e abbondanti, mentre nelle Alte Langhe il paesaggio è più aspro e predominano boschi e prati naturali con allevamenti di ovini di ridotte dimensioni; è dunque improprio parlare genericamente di Langhe e attribuire a La malora la rappresentazione della loro realtà effettiva (su questi aspetti cfr. E. CORSINI, Il paesaggio nelle opere di Beppe Fenoglio, in AA.VV., Atti del convegno « Beppe Fenoglio 1963-1983. Letteratura e mondo contadino », Torino,

SEI, 1985, pp. 163-175). 5 Cit. in V. CASTRONOVO, op. cit., p. 23. % «Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto. La presero invece i Canonica. [...] Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i mercati d’Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi alla terra, aveva perso molto

di voglia e di costanza » (M, p. 372) 2? « Ho in mente una dozzina di giornate, non di più, ma tutte a solatio, da tenere mezze a grano e mezze a viti. Con una riva da legna e anche un pratolino da mantenerci due pecore e una mula» (M, pp. 379-380). % C. DANFO, op. cit., pp. 106-107. 2 A Tobia che sostiene di non poter assumere una servente per alleviare la fatica della moglie malata, il padrone del Pavaglione, che ben conosce la rendita della sua cascina e la situazione del suo mezzadro, replica deciso: «Io so che puoi » (M, p. 415). ® «Me e te siamo due bei stupidi. E difatti perdiamo la nostra gioventù a fare i servitori, e sotto che pidocchi di padroni, quando mi sembra che abbiamo la forza e i numeri per fare da noi. E perché dunque non ci mettiamo per nostro conto? Per esempio, non ci mettiamo

a fare i mietitori? Non hai mai pensato alla vita che è? I padroni vanno a ingaggiarli ad Alba » (M, p. 416). 3 A. VALLEGA, Op. cit., pp. 54-55. 8 M, p. 419. tario, in x Diario, in Opere,Opere, III, DIp.206 . 3 Un giorno di fuoco, in Opere, II, pp. 448-449. 3% P. PastoRINo, Dagli esplosivi ai coloranti, in «Il Lavoro», maggio 1989. si B. FenogLIO, Il partigiano Johnny, in Opere, I, 2, p. 1184.

14

149

Marziano

Guglielminetti

MILTON

AL PLURALE

Mi gioverò anch’io, in attesa di un'edizione completa delle lettere di Fenoglio, della spigolatura che per tutti noi Maria Antonietta Grignani ha compiuto tra quelle inviate a Garzanti. Comincio da quella in cui si sta giustificando del perché ha abbandonato il progetto del primo racconto su Milton, formulato all’editore il 10 marzo 1959 con parole ormai stranote (« il nuovo libro » rispetto a Primavera di bellezza, allora concluso, « che è libro lineare, in quanto parte da A per giungere a B, [...] sarà circolare,

nel senso

che i medesimi

per-

sonaggi che aprono la vicenda, la chiuderanno »); ma ecco la giustificazione, in data 8 marzo 1960: « Si trattava di una storia sul tipo di “Primavera

di Bellezza”, concedente

cioè larga

parte di sé alla pura rievocazione storica, sia pure ad alto livello.

Mi

saltò

in mente

una

nuova

storia,

individuale,

un

intreccio romantico, non già sullo sfondo della guerra civile d’Italia,

ma

nel fitto di detta

guerra ». Ed

ancora:

« Il rac-

conto ha un suo leit-motiv musicale nella celebre canzone americana

Over

the

rainbow,

che

costituisce

la sigla musicale

del disgraziato, complicato amore letterario del protagonista Milton (nome di battaglia) per Fulvia (coprotagonista femminile), la quale però appare e vive soltanto nella memoria di Milton impegnato fino al collo nella guerra partigiana ». La Grignani ha identificato nel romanzo abbandonato i cosiddetti Frammenti di romanzo, un titolo che ha fatto la sua stagione e che sarebbe ora di portare al livello di sottotitolo,

e nel

romanzo

avviato

« almeno

la

seconda

stesu-

ra» di Una questione privata: altro titolo, sia detto per inciso, da abbandonare, visto che nella lettera riportata, sia pure con qualche riserva, e per ingraziarsi, che so io, o il severo Citati o il vigile Garzanti, Fenoglio propone Lontano dietro le nuvole, ovvero il « canzonettistico », ma ben consono al Leit-motiv musicale, Far behind the clouds. Che le cose stiano grosso modo cosi, è vero, ma rimane sempre da chiedersi perché tra i Frammenti e Una questione, 2 (e 3), Fenoglio non abbia accennato alla terza soluzione romanzesca

covata quasi a metà, e che la Grignani etichetta come Questione privata 1. Perché di Milton, oggi, il lettore dell’edizione einaudiana ne conta tosto e facilmente tre; e se io li ho ri-

150

dotti a due, dovrò

non

ciurlare

nel manico,

o sul titolo del

mio intervento, per dirla meglio. Ad evitare confronti testuali che in questa sede neppure una lavagna luminosa renderebbe gradevoli, visto che mi state ascoltando,

soprattutto;

ad evi-

tare ancora di cavarmela col solito rinvio agli atti delle pezze d'appoggio del mio contributo (sempre di ascoltatori è questione, e quindi è una pubblica questione la nostra), partirò da una banale constatazione: che nei Frammenti non si dà triangolo amoroso, perché, com'è chiaro, Giorgio Clerici è il soprannome non tanto di battaglia, quanto di letto, con il quale Milton, il protagonista del libro, si presenta alla maestra Edda Ferrero e dietro il quale si nasconde, per poter arrivare a sorprendere l’ufficiale fascista Giorgio Goti, precedente amante di Edda e da Milton soppiantato. Due Giorgi, dunque, per una sola donna? Tale è l’interpretazione maligna ed infastidita di Jack, un altro partigiano che vorrebbe a sua

volta

farsi

Edda,

che

ne è allontanato

con

violenza

da

Milton e che cosi pesantemente ironizza sui giorni da loro trascorsi

insieme:

« Ci hai fatto la sei giorni, eh? »; e poi, alla

risposta da parte di Milton, di essere andato da Edda per incontrare ed uccidere il tenente Goti: « Ti porterò la sua pistola. Te la regalerò ». — « Ci credo tanto, — bisbigliò Jack. — Portami le mutandine della maestra ché ti riesce meglio » (Fr., I, III, 1617). In realtà le cose non sono cosi volgari e cosi

semplici; il lettore, che si legga anche le Appendici dei Frammenti, troverà, dopo il secondo epilogo, un capitolo espunto Dio solo sa perché dal testo se non definitivo, comunque presentato

dalla

Grignani

come

probabile,

dove

ad

Edda,

che

ha appena fatto l’amore con lui, Milton carpisce una serie di notizie sul tenente Goti abbastanza eloquenti circa l’oggetto e la natura del suo « amore ». E dico « amore », perché Milton stesso spiegherà più avanti ad un sergente, McGrath, di che tipo d’amore si tratta. « State attento ai fascisti », era stato il congedo di costui, e Milton dando inizio ad uno scam-

bio illuminante

di battute:

— Non posso, — rispose. — Li amo troppo. — Che volete dire? — Anch’essi mi amano molto. E due che si amano si cercano. — Non capisco bene. — Non è come tra voi e i tedeschi. — A proposito, big boy, state particolarmente alla larga dai tedeschi. — Questo è più naturale. Non li amo abbastanza. Il loro sangue non è abbastanza rosso, il loro fiele non è abbastanza verde (Fr., I, III, 1637-1638).

Ha ragione Eduardo Saccone, che ha parlato d'inferno per questi Frammenti, ed ancora di « atmosfera generale [...] propriamente cupa, e direi anche stagnante », di « sete di mor-

151

te », ovvero di « pulsione di morte » per ricorrere al linguaggio psicanalitico che gli è tanto caro. L'amore, far l’amore,

conduce tout court alla morte, a far morire ed a morire; e la donna, e il suo corpo, sono lo strumento, l'espediente anzi,

per giungere a questo esito distruttivo. Edda dovrebbe portare Milton a Goti; ed in un altro episodio espunto, ma questa volta capisco il perché, almeno a livello onomastico (la ragazza di Milton si chiama adesso Paola), sebbene la tensione sessuale sia maggiore e spinga Milton a gesti quasi sconci per le sue abitudini, di nuovo Fenoglio ritorna a ridurre il rapporto erotico appena consumato, e felicemente per l’evidente soddisfazione di Paola, ad un preambolo, necessario per ottenere non solo più informazioni, ma anche spunti ed in-

coraggiamenti per uccidere non un solo fascista, ma più fascisti: « Dobbiamo ammazzarli tutti », è l'imperativo di Milton. Il quale, però, sa di non essere esonerato dal medesimo destino, se queste sono le ultime parole rivolte a Paola: « Hai

pensato », le bisbigliò per ultimo, « hai pensato, mentre lo facevi, che lo facevi con uno

che domani

può esser morto?

Te

lo dico io che qualcosa ci hai perso, — e scomparve nella tenebra » (Fr., I, III, Appendice, pp. 2228, 2229). Di qui non sarebbe difficile a persona più esperta del linguaggio psicanalitico chiedersi perché mai, limitandosi

alla ricostruzione

del

testo proposto dalla Grignani e non utilizzando i materiali inutilizzati nel suo lavoro, il lettore rimanga perplesso, quando arriva alla fine del capitolo

gli pare giustamente vedibile:

di essere

in cui Milton

defraudato

avvicina

dell’epilogo

Edda,

pre-

Al campanile di San Quirico batté mezzogiorno. L’uscio gemette e la maestra usci sul ripiano. Certo non aveva un uomo in casa. Ora scendeva con un passo ondante, quasi ginnastico. Era bionda e bella, molto più del prevedibile. Era pensierosa o annoiata. Per il caldo si era raccolti i capelli sulla nuca e aveva una scollatura profonda. In fondo alla scala Edda Ferrero facendo perno sul pomello della ringhiera ruotò verso l’angolo e spari in direzione della privativa. Lentamente Milton si slacciò il cinturone, lo avvolse intorno alla fondina della Colt e poi appese quel fagotto al ramo alto del nocciolo. Tutto questo lo fece con molta ripugnanza (Fr., I, III, 1602-1603).

Ma la perplessità del lettore non deve nascondere che l'episodicità della battaglia d'amore non potrebbe essere detta meglio, e che richiamare il simbolismo erotico della Colt non è d'obbligo; e non a caso, perciò, nel capitolo espunto, di cui si diceva, terminato il rapporto, mentre Edda « stirred but nothing else more, Milton si sfiiò la giacca e abbottonò la fondina

152

della Colt » (Fr., I, III, 2158). L'arma,

a lui

propria, dà la morte. Ed è per questo che la Colt, unico segno rimasto di lui, dopo la morte, appaia « magnifica » a detta di un fascista;

conclude

con

film di Akira

quanto

al corpo,

saggezza

a detta

orientale

(ho sempre

pensato

l’intera

drammatica

vicenda,

Kurosawa)

del contadino,

che

ad un se ha

perso, trascinato dalle acque di un fiume, i tratti della guerra (al contadino appare addirittura «in borghese », cioè « vestito.. non da fascista né come gli inglesi »), è il corpo di uno sul quale « il Supremo [...] tiene gli occhi addosso » (Fr., SCRESI7 L75714) L'identità onomastica di Milton e di Goti, non completa sia perché Giorgio per l’uno è nome fittizio e per l’altro nome di battesimo, sia perché comunque anche Milton è nome di battaglia, rinvia ovviamente all’impossibilità, ben conosciuta in Fenoglio, di farsi autobiografo. Milton ha anche tratti di Johnny talmente palesi, da far pensare che sia nato da una costola di lui. Addirittura risulta poco significante l’essere, Milton, nato da un padre diverso di quello di Johnny, un padre ucciso dai fascisti per rappresaglia della liberazione di altri padri, presi come ostaggi perché avevano figli renitenti alla leva. Per altro verso, però, il suo omonimo-antagonista, Giorgio Goti, biondo, che dorme indossando un capo inconsueto in quel momento (un « pigiama » intendo), come si ricava dal capitolo in cui riceve la delazione di Jack sugli amori di Milton e di Edda, fa stranamente pensare a quel Giorgio Clerici che, nella prima redazione di Una questione privata, non

e meno

condivide

più con Milton

un altro da lui, esattamente

menti, Giorgio divise; gionieri me

la medesima

identità,

che mai la storia personale. Adesso Giorgio Clerici è come

lo è stato Goti nei Fram-

pur militando tra i partigiani. È biondo, insomma, Clerici, ed ama anche lui i bei pigiami, oltre alle belle in più fuma molto, legge con gusto, disprezza i pripolitici dei tedeschi, critica duramente l’esercito (co-

il Johnny

di Primavera

di bellezza), ed è ovviamente

ric-

co (il padre è il vicedirettore della Cinzano, la madre possiede una pelliccia ed è in grado di farsi ascoltare in curia, quando il figlio è catturato dai fascisti). Non basta: Giorgio Clerici è fidanzato, ma in segreto, con Fulvia Ferri (Edda era una Ferrero), che Milton simula quasi di non conoscere, ma non certo per rivalità o per improvvisa e dolorosa scoperta. La spac-

catura è di tali proporzioni, direi soprattutto sociali e di classe, che Milton, quando pensa a Giorgio, « abbastanza stranamente [...] non gli veniva di figurarselo che in uniforme di universitario

fascista ». La

ragione

starebbe

nel

fatto

che,

qualsiasi divisa indossi, Giorgio è « splendido », ma in realtà

[...] non c’era nulla, si disse Milton con un’ombra di sorriso e aguz-

153

zando gli occhi verso lo spiazzo della stazione ancora lontana, nulla che si accompagnasse meglio dei suoi capelli biondi al nero della sahariana e all’azzurro delle spalline e della sciarpa. Anche il segretario federale ne era rimasto impressionato.

Milton, per ragioni di censo, ma anche, è supponibile, di minore

fascino, rifiuta la divisa; al pari di tutti gli snobismi

di Giorgio. Assumerne il nome, a questo punto, avrebbe voluto dire per Milton mistificare la sua identità definitivamente; e difatti, quando Giorgio è catturato, egli prova sensi di colpa nei suoi confronti e decide di aiutarlo procurando una pedina di scambio: questa volta non più un tenente, ma un sergente, fascista, che amoreggia con una sarta in un paese vicino ad Alba. La larvale sovrapposizione di Giorgio Clerici a Giorgio Goti provoca,

di rimando, non

solo l’inizio della riduzione

di

Milton ad eroe brutto ed umano. Comporta inoltre la degradazione e la scomparsa di Edda e di Giorgio Goti stesso, laddove s’intravede la possibile ascesa di Fulvia al ruolo di donna contesa fra i due rivali: i quali, ripeto, non militano più in due campi ideologicamente opposti, ma nello stesso, come succedeva nel leggendario campo di Agramante (si è fatto gran uso

di metafore

cavalleresche

discorrendo

me ne sia consentita una non impegnativa: simbolica;

ariostesca,

non

arturiana).

di Fenoglio,

proverbiale, non

Se le cose

stanno

cosi,

se Milton insomma deve crescere nel contrasto con un personaggio che si chiama sempre Giorgio e che non è comunque annettibile, neppure spogliandolo del nome a quanto sappiamo

dai Frammenti

di romanzo,

c'è da

chiedersi

se

sol-

tanto Milton sia destinato a raccogliere l’eredità di personaggio romanzesco ed autobiografico, lasciata viva da Johnny, nella direzione intravista nella lettera del 10 marzo del ’59: « Come forse Citati Le avrà accennato » Fenoglio sta parlando a Garzanti,

«la morte

di Johnny

nel

settembre

1943

mi

li-

bera tutto il campo “resistenziale”. Ho cosi potuto istituire il personaggio del partigiano Milton, che è un’altra faccia, più dura, dal sentimentale e dello snob Johnny ». Una testimonianza del genere, dopo quel che si è detto, non può limitarsi ai Frammenti

di romanzo,

quanto decreta una

come

scomparsa,

definitiva. Johnny, insomma,

ha voluto

ma

la Grignani,

in

che non è cancellazione

è destinato

a rinascere

in Gior-

gio Clerici, o, se si preferisce, in quella parte di Milton che trabocca da lui e che si è riversata a formare Giorgio Clerici: l'antagonista alla cui nascita, sappiamo, ha concorso anche il provvisoriamente

estinto

Giorgio

Goti.

A farla breve,

ed a mio parere: Questione privata 1 è il romanzo di Giorgio Clerici, o, se si preferisce attenuare la sconvenienza della

154

mia proposta, quello in cui la responsabilità narrativa è con-

divisa a due, fra Milton e Giorgio Clerici, ma senza dubbio con maggiore preminenza di Giorgio, erede di Giorgio Goti e di Johnny. E non poteva non essere cosi, dal momento che, in origine, Milton e Giorgio Clerici erano uno, o due in uno,

si che dividerli è stata un’operazione

non

impossibile,

trattandosi,

ora

di chirurgia narrativa

lo si è visto

bene,

di un

parto gemellare e monoovulare. Insomma, Milton e Giorgio Clerici sono come due gemelli monozigotici, cioè, recita il Battaglia, « nati da un solo ovulo fecondato, che, poco dopo l’inizio dello sviluppo — all’altezza cioè della conclusione dei Frammenti di romanzo —, si scinde formando due individui »; per di più, « sono — pure loro — caratterizzati dallo stesso

sesso », mentre

sui « medesimi

caratteri

ereditari » si

può anche discutere. Ma una volta formatisi, questi gemelli si attraggono; ed è di qui che parte Questione privata 3, la redazione edita nel ’63, per la quale (mi consento un altro inciso editoriale) oltre il mutamento del titolo, proporrei anche quello del numero d’ordine. Perché Questione privata 2 non esiste a sé, e può stare benissimo in apparato della stesura ultima, la quale a buon diritto diventa essa la seconda. « — Ah. Siete molto amici tu e Giorgio. — Siamo nati insieme, — disse Milton fra i denti » (QP;, I, III, p. 1957). Il destinatario di questa preziosa confessione nell’ultima versio-

ne del romanzo è Leo, il capo partigiano cui Milton domanda con un pretesto il permesso di assentarsi per una mezza giornata, per scendere a Mango: in realtà vuole accertarsi da Giorgio, se è vero quel che ha appena saputo dalla custode della villa dov’era sfollata Fulvia, se è vero che loro due avevano fatto l’amore insieme. Dunque, Milton rivendica di essere il gemello di Giorgio, nel momento in cui apprende di essere stato escluso da ben altra congiunzione di Giorgio, con

quella

Fulvia

che, adesso

ne

siamo

edotti,

pure

lui ha

amato, intensamente e senza fortuna. Perché Milton voglia sapere da Giorgio quello che non è un pettegolezzo o una calunnia, ma ha tutta la parvenza della verità, e perché, soprattutto, da parte di Milton Giorgio venga invano cercato prima e poi, dopo essere stato catturato, invano tentato di scambiare con un prigioniero fascista, rimane misterioso, se non si ha consapevolezza che solo l’altra parte di Milton può confermare o meno di avere operato contro il patto di gemellaggio che le unisce entrambe. Ne può scaturire amore o odio, o meglio odio-amore ad un tempo. Ancora una volta l’amore è si in realtà odio, perché si manifesta come l’odio: « due che

amano — o troppo, o molto, e quindi si odiano, due così insomma — si cercano », stava scritto nei Frammenti; ed è que-

sto, senza

più proclamarlo,

il motivo

di tutto

il libro,

la

155

ricerca di Giorgio da parte di Milton. Ecco perché non è solo ricerca

una

di verità nel passato,

ma

anche

e soprattutto

di

amore nel presente, se « la ripulsa del cameratismo », tratto fondamentale dello snobismo di Giorgio, si risolve addirittura cosi: Giorgio pareva

sopportare

il solo Milton, coabitava solo con

nelle stalle, si erano stesi l'uno accanto all’altro, stretti l’uno contro l’altro, in una intimità la cui iniziativa partiva sempre da Giorgio. Siccome Milton dormiva d’abitudine ricurvo a mezza luna, Giorgio aspettava che si fosse sistemato e poi gli si stringeva ed adattava, come in un’amaca orizzontale. E quante volte, svegliatosi prima, Milton aveva tutto l’agio di considerare il corpo di Giorgio, la sua pelle, il suo pelo... (OPEL Ep e190)! Milton. Quante volte, dormendo

Non so se i gemelli monozigotici dormono cosi, ma qualcuno dice di no; mi piacerebbe tanto pensarlo, perché le solite coppie epiche e militari che si citano in simili circostanze

(Eurialo e Niso, Cloridano

e Medoro,

per restare

alle

più probabili) mi sembrano francamente estranee alla situazione venutasi a creare. Aggiungo solo che, durante la ricerca del fascista da scambiare con Giorgio, Milton ne scorge « l'esatta contropartita » in un ufficiale della « San Marco » di Canelli: « A un certo momento si tolse il basco, si lisciò con una mano i capelli biondi e ci ricalcò su il basco » (0P,, I, III, p. 2012). Un sosia, insomma, non un gemello, ma che con-

ferma l’esistenza di un legame tra i due Giorgi reali, Goti e Clerici, nel segno del color « biondo »: ecco perché, per un certo

Giorgio

momento,

Clerici,

iniziale,

per

Milton

timore

che

ha

tentato

uscisse

dalla

d’incorporarsi

sua

« mezza-

luna ». Ovviamente l’esistenza di un rapporto parentale siffatto appare a tratti in una Questione privata; la quale può benissimo leggersi come il romanzo del tradimento femminile di Fulvia, perpetrato ai danni dell’intelligenza e della sensibilità di Milton, ma anche della sua dichiarata (per la prima volta duramente) bruttezza e della sua goffaggine (non balla, non gioca a tennis, e che altro ancora). Che è una lettura, per di più, fedele agli intenti dell’autore, abbastanza convinto, a quanto si è udito all’inizio, di avere fornito al suo editore

«un intreccio romantico ». Ma se questo fosse il codice nar-

rativo adotiato

sino alla fine, anche Milton dovrebbe

morire,

oppure Fulvia; oppure avrebbero potuto riunirsi i superstiti, Milton e Fulvia per l'appunto. Invece, no: Fulvia sparisce, e Milton si salva, mentre

tentava di tornare alla casa di Fulvia,

da un agguato con una corsa liberatrice, il cui esito mi pare soprattutto metafora di un tentativo di liberazione dal com-

156

pito, non segreto, di gemello in cerca, amorosa e odiosa, del l’altro gemello: Correva vimenti,

ancora, ma

senza contatto con la terra;

respiro, fatica vanificati.

Poi, mentre

ancora

corpo, mocorreva,

in

posti nuovi o irriconoscibili dalla sua vista svanita, la mente riprese a funzionargli. Ma i pensieri venivano dal di fuori, lo colpivano in fronte come ciottoli scagliati da una fionda. « Sono vivo. oe solo. Fulvia, a momenti mi ammazzi! » (QP., I, III, p. ;

Fulvia è da tempo

l’interlocutrice

dei soliloqui di Mil.

ton; ma è muta, non esiste più, non ha mai risposto. Non colma la solitudine di Milton, non può farlo. In quella solitudine anche Giorgio si è dissolto, e con lui i fascisti inseguitori. Nel paese sconosciuto, oltre il quale un bosco accoglierà e proteggerà Milton (« come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò »), il gemello biondo, elegante, seduttore, ha spedito invano i suoi scherani. Milton allora cessa di duplicarsi, per essere uno, o « solo ». Lo ha detto lui stesso a Fulvia, la quale, avendo scelto

l’altro gemello, la metà sbagliata, non può risorgere accanto a Milton.

157

Angelo Jacomuzzi

OSSERVAZIONI IN MARGINE A « UNA QUESTIONE PRIVATA »

Nei « cinque fogli extravaganti »! che l’edizione critica colloca « in estrema vicinanza » a Partigiano Johnny 1, si legge un passo che appare come la prima radice, nel terreno aggrovigliato del grande romanzo incompiuto, della Questione privata.

Si tratta

dell'incontro

con

Marida,

nella

sua

parte

conclusiva: « Io non ho più problemi. Io ho solo più il tuo problema — ed era vero —. Non solo il servizio militare, ma anche l’imboscamento e Chiodi e Cocito e i partigiani appartenevano ad un altro uomo, un irriconoscibile, morto altro uomo con cui non aveva

‘più nulla da spartire. Al più poteva vedersi come il personaggio inammirabile di un altro racconto. Ecco, la sua vita non gli appariva più nella connessione d’un romanzo, ma egli si vedeva via via come il protagonista sempre variante e dimentichevole di tanti racconti non proprio omogenei: ora era al racconto di lui con Marida, e sperava che si trasformasse in romanzo, per essere e diventare l’ultimo racconto in terra ».3

In questo « racconto » che si spera si trasformi manzo,

per

essere

e divenire

l’ultimo

racconto

«in ro-

in terra » è

facile ravvisare il presagio e il progetto embrionale di Una questione privata. Nel leggere questo passo la nostra curiosità si appunta sulla definizione alquanto misteriosa di « ultimo racconto in terra », per cogliere il significato di quell’ultimo, che non può certo essere quello empirico della cronologia. In realtà, alla luce di Una questione privata, quell’ultimo chiama in questione le cose ultime, anticipa, del futuro romanzo-racconto, il carattere escatologico. Il libro si presenta, nel corso delle pagine e a lettura ultimata, come una quaestio, un’interrogazione su una verità che supera i limiti del creato per attingere un livello assoluto. Tutte le domande monologanti che Milton si fa sulla vera natura dei rapporti tra Fulvia e Giorgio culminano in una suprema affermazione: « Avrebbe rinunciato

a tutto

per

quella

verità,

tra quella

verità

e

l'intelligenza del creato avrebbe optato per la prima »4 Alla luce di questa ipotesi, già il titolo rivela il suo significato

158

autentico, le tre accezioni sotto le quali deve essere inteso: questione privata, cioè affare privato in contrapposizione a quello pubblico della guerra partigiana; quaestio, cioè procedimento interrogativo per raggiungere il possesso di una ve-

rità;

e, infine, queste,

cioè ricerca,

cammino

disseminato

di

prove, per conquistare una verità da cui dipende il senso stesso dell’esistenza del protagonista. Questa queste, questo cammino di ricerca è alla base di uno degli aspetti dominanti della tematica del libro: il tema del passo, dell’andare e venire incessanti, da un casolare all’altro, da un gruppo di partigiani all’altro, sino alla suprema, stordita corsa finale. Il carattere epico di questo « passo » è sottolineato dalla solitudine in cui agisce Milton;

una solitudine assoluta, anche in

rapporto a una natura — la nebbia, la pioggia, il freddo, il fango — ostile e per nulla solidale all’ansia di ricerca che Milton porta dentro di sé. « Milton è un assassino della strada. Siamo tornati ai cento all’ora »} dice Ivan dell’epico passo di Milton, ignorando, lui e gli altri partigiani, l’obiettivo di questo passo « tremendo ». Quale sia questo obiettivo risulta invece ai due punti di vista del protagonista e del lettore. Ma perché il punto di vista risulti proporzionato ai movimenti

e alle parole di Milton è necessario, per il lettore,

risalire dal piano letterale a quello simbolico-allegorico. Sul piano della lettera, la « questione » è semplice e quasi banale: si tratta di accertare se Fulvia abbia avuto scambi amorosi con l’amico Giorgio, di accertare se Fulvia è rimasta fedele all'amore di Milton. E ancora sul piano della lettera si colloca il carattere letterario del rapporto Fulvia-Milton. Fulvia è innamorata

delle parole di Milton:

« Tu, tu, tu [...]

tu hai una maniera di metter fuori le parole... », custodisce i libri che lui le ha regalato, è orgogliosa delle lettere che lui le invia, di Fulvia

dice ancora

Milton:

« [...] mi ha fatto

costruire tutto un mondo di amore su certe parole Tutti i rapporti tra Fulvia e Milton sono insomma

[...] ».? filtrati

attraverso i segni della letteratura, dal livello umile della canzone (Over the rainbow) a quello sublime di Tess dei

d’Urbevilles. Ma questa interpretazione letteraria è inadeguata per difetto ai monologhi nei quali Milton definisce la motivazione profonda della sua quaestio: dalla prima dichiarazione: « Il fatto è che più niente m'importa. Di colpo più niente. La guerra, la libertà, i compagni, i nemici. Solo più quella verita »8 a quella finale: « Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti ».? L'esistenza di Fulvia è cosî tutta riassorbita all’interno

della mente

di Milton;

da una

consistenza

biografica a una consistenza simbolico-allegorica. Che questa sia la direzione dell’invenzione poetica è anche dimostrato da

159

un confronto con le pagine della seconda redazione. Tutto l’acceso autobiografismo che segna i monologhi di Milton in questa seconda redazione risulta soppresso nel testo finale, rappreso in brevi gridati monologhi. C'è uno scarto profondo tra i dati della vicenda biografica e la pretesa assoluta di fedeltà di cui Milton è portatore. Questa incongruenza può solo essere risolta se si fa di Fulvia un personaggio allegorico, emblema di una fedeltà originaria. La connotazione allegorica di Fulvia non è solo l'approdo finale del romanzo, ma è presente fin dalle prime battute. Basta citare, dalle primissime pagine del testo, il passo in cui si rievoca Fulvia arrampicata sul ciliegio e Milton preso dal terrore che possa cadere: [...] indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano. « Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia. » 10

La ripetuta invocazione di scendi dà alla scena un carattere rituale, come

di invocazione

sacra.

Subito dopo la scena del ciliegio, inoltre, all’interno della casa di Fulvia, Milton oppone alle parole empiricamente sensate di lei la sua volontà di collocarla all'origine della storia: « Sei tutto lo splendore. » « Tu, tu, tu — fece lei, — tu hai una maniera di metter fuori le parole... Ad esempio, è stato come se sentissi pronunziare splendore per la prima volta.» « Non è strano. Non c’era splendore prima di te. »!

Il fatto è che la strutturazione allegorica di Fulvia si inserisce nella visione del mondo propria di Fenoglio: una visione biblica che vede gli uomini divisi in « fedeli » e « trasgressori » rispetto ad un patto. Va subito notato che questo patto non ha alcuna connotazione ideologica. L'ideologia è assente dal romanzo di Fenoglio e rinviata con astuzia narrativa al « dopo », alla fine della guerra (« Le cose di prima a dopo, a dopo »).!? All'origine, infatti, del rapporto di Fenoglio con il reale sta la sospensione di ogni principio di interpretazione e di organizzazione univoca della realtà, un’intuizione anarchica nel senso strettamente etimologico del termine. Le sue pagine vorranno dunque fare i conti con le figure della storia e con le sue componenti ideologiche, ma questo avverrà attraverso un energico procedimento di riduzione e trasformazione: le posizioni ideologiche saranno nelle sue pagine non schemi di interpretazione ma oggetti della narrazione, non discorso sui valori ma forze in campo. Sappiamo dal Partigiano Johnny che quella del partigiano è una « ca-

160

tegoria assoluta », cioè trascendente

logie, in quanto

rinvia radicalmente

rispetto a tutte le ideoalla citata visione

della

storia che vede gli uomini divisi in « fedeli » e « trasgressori ». Nel caso del Partigiano Johnny questa fedeltà è fedeltà all'indipendenza della propria terra e alla libertà; nel caso di Una questione privata si tratta di un patto d'amore che ha un carattere originario, anch’esso exemplum di un patto sul quale dovrebbe reggersi il senso del mondo. Bisogna infatti notare che, anche in questo caso biblicamente, per Fenoglio

il creato e la storia non hanno un senso intrinseco, ma hanno

il senso che noi gli attribuiamo con la nostra fedeltà a un mondo di valori che trascende appunto il creato e la storia. «La guerra,

la libertà,

i compagni,

i nemici », la natura

stes-

sa nella sua accanita opposizione appaiono, infatti, un enigma nel dubbio irrisolto circa l’amore di Fulvia. Solo quando questa fedeltà all'amore potrà essere eventualmente accertata il mondo in tutte le sue manifestazioni potrà aprirsi a un senso. La possibilità di riconciliazione di Milton con la guerra partigiana e con la storia in genere passa attraverso questo accertamento. Si avverte qui uno scarto tra la violenza come ultima parola nella definizione del mondo, propria del Partigiano Johnny, e la presenza di un patto basato sulla fedeltà a un valore che supera la violenza, il valore, cioè, testimoniato dall'amore che si propone come eventuale ragione

ultima della storia. Lo scenario di questo amore, la villa di Fulvia, diventa cosi, prima del dubbio, una sorta di Eden: Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni.13

Dopo il dubbio che il patto sia stato violato, la villa appare come il corrispettivo del mondo decaduto dopo il peccato: A quell’ora Milton era in marcia verso la villa di Fulvia sull'ulnon mai, a piombo, selvaggiamente [...]. I campi e la vegetazione stavano sfatti e proni, come violentati dalla pioggia... Ecco la villa, alta sulla col. lina, a un duecento metri in linea d’aria. Certo le fitte cortine di pioggia contribuivano a sfigurarla, ma egli la vide decisamente brutta, gravemente deteriorata e corrotta, quasi fosse decaduta di un secolo in quattro giorni. I muri erano grigiastri, i tetti ammuffiti, la vegetazione all’intorno marcia e sconquassata.!4 tima collina prima di Alba [...]. Pioveva come

Il termine

corrotta,

che rinvia per contrasto

al « senza

161

macchie » della prima

descrizione,

della villa trasportata al morale,

è una

spia indubitabile

del carattere allegorico

che

assume il luogo dell’amore tra Fulvia e Milton. La corruzione si identifica col dubbio che Fulvia non sia stata fedele, mentre Milton è rimasto sempre lo stesso: « Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto... Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi sono visto morto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso. » 15

In questo permanere sempre « lo stesso » si può cogliere una singolare convergenza del partigiano Milton con gli eroi del poema epico. Sappiamo come i personaggi del poema epico siano

caratterizzati

da una

tendenziale

immutabilità,

sia-

no contrassegnati da un solo sentimento, com'è il caso dell’ira di Achille. Cosi Milton si riassume tutto in questa queste su come siano andate effettivamente le cose: Doveva assolutamente sapere, doveva assolutamente, domani, rompere quel salvadanaio ed estrarne la moneta per l'acquisto del libro della verità.!6

In questa

ossessiva

ricerca

Milton

non

è uno

smarrito,

ma conserva freddezza e lucidità, conserva una capacità di commisurare gli eventi e gli ostacoli che ha qualcosa della grandezza equilibrata del classico: Classico, un classico. Diceva che ero grande perché mi mantenevo freddo e lucido quando tutti, lui compreso, perdevano la testa.!?

L'aspirazione epica della fabula e del discorso di Una questione privata è evidente; ma si tratta di un’epica rovesciata, dal pubblico al privato. Tutto ciò che è pubblico è collocabile nel verso di un arazzo il cui recto è la vicenda privata di Milton che attraversa un « oceano burrascoso » alla ricerca del libro della verità. Questo «libro della verità » dovrebbe contenere un elemento nuovo: il profilarsi eventuale di un mondo di valori che ha nell'amore il suo centro e che permette l’ipotesi di un superamento della violenza come legge suprema e ineluttabile della storia. Con straordinaria forza d’invenzione i movimenti dei partigiani sono destituiti di senso, non si svolgono come operazioni ordinate ad un

fine, eccetto

che nella evocazione

retrospettiva,

com'è

il

caso della battaglia di Verduno; mentre i movimenti di Milton, che appaiono strani e perfin dissennati ai compagni, sono gli unici dotati di un senso e di uno scopo perseguiti con assoluta coerenza. Da un confronto anche sommario con la

162

seconda redazione, è facile notare come tutto ciò che distrae da questa ricerca solitaria di Milton viene soppresso nel te-

sto finale. Sembra fare eccezione a questa regola l’introduzio-

ne, verso la fine del romanzo, dell’episodio della fucilazione di

Riccio, il ragazzo partigiano ostaggio dei fascisti. L'episodio appare estraneo alla vicenda unica di Milton e non necessario ai fini narrativi. In realtà questo episodio, proprio vicino all’epilogo e dopo l'uccisione del fascista da parte di Milton, che toglie a quest'ultimo

la speranza

dello scambio,

ci ricolloca al centro

di un universo dominato dalla violenza. È l'esecuzione esemplificativa della legge della guerra: « Questa guerra non la si può fare che cosîf. E poi non siamo noi che comandiamo a lei, ma è lei che comanda a noi ».!8 Il tenente, quando crepita la raffica che uccide Riccio, si calca una mano sui capelli che

si erano « tutti rizzati ». L'esecuzione viene presentata come obbedienza automatica a un ordine superiore. Due volte il tenente ripete al sergente perplesso l’espressione «non c’è niente da fare », e a Riccio dirà: « Gli ordini [...] non possia-

mo aspettare. Non c’è più altro da... ».!? La caserma è il luogo maledetto dove si consuma una legge della violenza tanto più orrenda e crudele in quanto si consuma nei confronti di un ragazzo inerme. Veramente,

verso

la fine del romanzo,

con la perdita del-

l'ostaggio di Milton, con questo episodio e con gli sconfortati monologhi di Milton, la conclusione sembra volgersi al negativo. Il tentativo di Milton di trovare un’altra ragione del mondo che non sia quella della violenza sembra destinato al fallimento. Ma anche se un fallimento si deve registrare sul piano della fabula, la ricerca di Milton sussiste come unica segnalazione di un mondo che non poggi sulla legge del taglione. In questa prospettiva Fulvia, a prescindere dai dati della cronaca e della biografia, sussiste come creazione mentale di Milton

(« Lo sai che se cesso di pensarti, muori istan-

taneamente? »), diventa per Milton la giustificazione di tutto il suo impegno nella lotta partigiana. Se è possibile anche solo una volta la fedeltà al patto d’amore, vale la pena combattere per un mondo diverso da quello violato dalla trasgressione fascista. Veramente Fulvia è ricondotta a una funzione essenziale, diventa la ragione del rovesciamento dal pub-

blico al privato. Di manifestata solo nei che Properzio dice l'equivalente di una Tam

vero

lei, allora, della sua presenza occulta e monologhi di Milton, si può dire quello di Cinzia, che rappresenta per il poeta vera Iliade:

longas condimus

Iliadas;

seu quidquid fecit sive est quodcumque maxima de nihilo nascitur historia.

locuta,

163

Per questo subordinare tutta la vicenda ad una quaestio privata

di natura

amorosa

viene

esclusa,

all’altezza

di Una

questione privata, qualsiasi ipotesi di un Fenoglio scrittore « resistenziale ». Peraltro, se una motivazione alla scrittura vogliamo cogliere, questa va ricercata nell’esigenza, secondo le parole di Fenoglio stesso, di « continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile », nell’esigenza di approdare a una scrittura che stabilisca un rapporto col reale per il quale Fenoglio non trovava modelli omogenei nella cultura e negli esempi letterari a lui contemporanei, ivi compresa la teoria e la pratica letteraria del neorealismo. Nella Questione privata questo rapporto si esprime in una letteratura intesa non come documento narrativo, ma come alternativa che consente una via d'uscita, sia pur problematica ed incerta, al mondo della storia sottoposto alle regole della violenza. In questa dimensione la letteratura acquista una connotazione escatologica e il racconto di Milton può ben presentarsi, secondo le parole di Fenoglio, come l’« ultimo racconto in terra ».

NOTE ! Opere,

edizione

critica

vol. I, t. II, 1978, p. 1245.

2010 id. ? Ibid., pp. 1247-1248.

? Ibid., p. 2049.

7 Ibid., p. 2036. 18 Ibid., pp. 2000-2001. DRIDIdSEP82055 ® Elegie, II, 1, vv. 14-16.

164

diretta

da Maria

Corti,

Torino,

Einaudi,

Elisabetta

FENOGLIO:

Soletti

DALL’ABBOZZO

AL RACCONTO

Anni 1954-1962. In questo arco di tempo sono abbastanza numerosi i racconti che Fenoglio pubblica su riviste, tra gli altri Un giorno di fuoco, La novella dell’apprendista esattore, Ma il mio amore è Paco, Superino, che saranno poi raccolti in Un giorno di fuoco.! In realtà questi ed altri racconti sono punte di iceberg, perché dietro ai singoli testi esiste agli atti una fascia fluida, una zona sperimentale dello scrittore che tenta di collegare gli spezzoni narrativi in un progetto organico, di unire le tessere in una cornice unificante, di presentarli in un'ottica rinnovata. È il caso principe — come noto — di Un giorno di fuoco, raccolta ibrida perché solo in parte rispecchia il piano dell’autore. Ma in questa zona d’ombra affiorante al di sotto dei racconti editi e che ruota attorno ai due poli del filone parentale (di cui Fenoglio parla ripetutamente nella sua corrispondenza con Calvino) e del filone langarolo e paesano del Paese,

in questa zona — dicevo — si leggono abbozzi, successive stesure, scalette di svolgimento, piani, ecc. È così possibile, in qualche caso, seguire la nascita e le modalità di costruzione

di un racconto. Rimane un po’ in ombra, oggi nel mio discorso, il percorso variantistico, del resto molto fluido ed incerto per questi scritti. A questo stesso retroterra appartiene anche L'affare dell’anima (uscito già nel 1968 nei « Quaderni dell’Istituto Nuovi Incontri » di Asti), in una versione dunque non licenziata da Fenoglio. Non si tratta certo di uno degli esiti più felici dello scrittore, ma proprio i suoi limiti e il suo stadio provvisorio mi sembrano ideali per seguire il farsi del racconto. Tanto più che nelle Note ai testi — come di consueto — possiamo leggere dei frammenti e degli abbozzi che mettono a nudo i fili e l'ossatura dell'impianto. Il racconto è la storia del temporaneo smarrimento e dello sgomento che assalgono durante una notte un anziano usuraio di fronte al pensiero della morte. Nelle pagine preparatorie si alternano due modalità diverse di scrittura. La pagina infatti inframmezza a delle dida-

165

scalie, a dei richiami e a delle scheletriche scalette sulla progressione della fabula, alcuni brevi, minimi segmenti diegetici che appartengono in ogni modo ad una fase elaborativa disusa stesa, ad una resa narrativa già raggiunta. Sono delle immagini: il passaggio nell’al di là è paragonato all’attraversamento di una stanza: « E gli venne in punto una sua idea della morte: che si trattasse di passare da una stanza illuminata ad un’altra buia, buissima, e che c’era da cercare un interruttore per far luce », già cosi in un abbozzo. E al « dramma metafisico del vecchio ricco contadino che comincia a pensare alla morte » — l’espressione è di Fenoglio — si accompagna l'insorgere di allucinate fantasie notturne. Il motivo qui è appena accennato, ma è insistito in altri racconti, come nella Valle di S. Benedetto o in Un altro muro, ad esempio, due intense variazioni sull’angosciante e totale solitudine di fronte al pensiero della morte imminente. Ma il fulcro ed il motore del racconto sono le acri ed irridenti boutades del protagonista sull’al di là, affondate nel suo grossolano spregio per i preti. Ribatte infatti compiaciuto al parroco: « Se il Paradiso fosse un posto che ci si sta davvero

bene, voi non

vi affannereste

tanto

a mandarcivi ».*

I brevi spezzoni che ho letto sono evidentemente dei coaguli, dei medaglioni a cui sarebbe improprio attribuire il valore di motivi, rappresentano però lo zoccolo impermeabile e resistente del racconto che da essi germina. In questo senso anche un testo poco significativo, come quello in questione, conferma il comportamento singolare dello scrittore, diffusissimo a ben altri livelli di scrittura, la presenza tenace — voglio dire — di tessere molto condensate, fisse e compiute,

in un certo senso definitive fin dal loro primo apparire, perché non soggette a mutamenti che ne alterino la sostanza e neppure la fisionomia, semmai conoscono, ovviamente, la ripulitura normale per qualunque scritto. Di fronte a questi elementi stabili, vere e proprie invarianti, sta la massa fluida e cangiante degli elementi che concorrono a comporre la fabula, elementi questi si, smontati e rimontati, disponibili a piacimento a trapassare da uno schema ad altro schema e quindi da un testo ad altro o più testi. Di personaggi e situazioni ricorrenti, contaminati e riutilizzati più volte la narrativa di Fenoglio abbonda (basti pensare ad esempio al travaso di tratti da Giorgio e Milton dai Frammenti di romanzo alla Questione privata). Anche in questo esempio dunque (ma, lo ripeto, in moltissimi altri e più complessi casi), le perplessità, le oscillazioni, le contamina-

zioni cosî tipiche della narrativa fenogliana toccano per lo più la conformazione dei personaggi, il loro spessore e i loro rapporti, la rete spazio-temporale in cui si muovono. In un

166

certo senso le fasi scrittorie sembrano seguire un percorso tortuoso ed inverso rispetto a quello suggerito dalle nostre prevedibili e radicate consuetudini mentali. . Infatti ci troviamo dapprima davanti il particolare finito, poi lo scrittore incomincia — per cosî dire — a costruirvi intorno la casa idonea. Fuor di metafora la ricerca ed il lavoro si appuntano, nell’Affare dell'anima, sul montaggio del personaggio Davide Manera, sul montaggio del carattere con le proiezioni sul suo passato di usuraio e sulle disgrazie familiari, cosi da rendere

accettabile

e plausibile il beffardo

ribaltamento finale, là dove il ciappelletto langarolo risolve in modo sbrigativo e secondo la sua ottica spiccia e terra terra, l'imbarazzante impasse della salvazione dell'anima. Infatti i brividi e i sussulti per l’ignoto, gli ingombranti fantasmi per il male compiuto, l’opprimente disagio per l’ostentato disprezzo per la religione e i preti si dissolvono in fretta e sono fugati con piena soddisfazione nel momento in cui gli si affaccia, geniale, l’idea di lasciare tutta la sua roba (post mortem,

naturalmente)

ai preti:

Che ne sarebbe stato di tutta quella roba, morto

lui? Spense

la luce, perché aveva trovato, ed aveva la luce nella testa, e questo

bastava. La avrebbe lasciata alla Chiesa, ai preti, comperava la salvezza dell'anima con una merce che il giorno dopo per lui non valeva più un centesimo. Questo era il suo più grande affare, ed era il suo ultimo affare.5

Anche l’epilogo dissacrante è un punto fermo, viceversa l’ambiente e la storia del personaggio sono fatti e disfatti tra gli interrogativi dello scrittore, incerto nel fissare le coor-

dinate temporali (l’attacco in un primo tempo prevedeva una breve presentazione introduttiva, poi eliminata a favore di un attacco

in medias

res); dubbioso

ancora

sulla quantità

e

qualità di elementi di contorno da inserire per inquadrare e ritagliare la figura (i figli prima sono due, entrambi morti in giovane età), ecc. Ma gli interrogativi e le perplessità sono dichiarati da Fenoglio stesso che a mano a mano annota: « L'inizio però era cosi: il vecchio peccatore a prendere un minimo fresco sul suo balcone una sera di fine estate. Verso l’ora del ritiro, alzando

gli occhi al cielo, per, come

sempre,

indovinare il tempo che faceva l’indomani, pensa all'anima sua. Di qui avanti»; oppure: « Dopo “il diavolo di mio padre” attaccare il racconto a dramma metafisico del vecchio ricco contadino che comincia a pensare alla morte e, dopo aver fatto più che il diavolo per ottenere e consolidare quella tal ricchezza, decide di pagarsi la pace dell'anima lasciando

167

tutto ai preti». Pagherà cioè quell’altissimo dono « con una merce che il giorno dopo per lui non avrà più nessun valore »; e alla fine postilla: « Nota: dal ricordo del padre bestemmiatore, passa inavvertitamente, involontariamente, ma repentinamente alla MADRE e LEI riaprirà la sequela degli interrogativi »; e sempre in fondo a questa pagina stende la scaletta con la sequenza dei motivi: « DOPO I PRETI LA SPOSA IL FIGLIO MORTO GIOVANE LE COLPE », e via di È î seguito. Come un contenitore che può essere riempito di tanti materiali questa tipica figura fenogliana, grifagna, inaridita dall’avidità, non possiede comunque una sua identità certa ed inconfondibile. Qualunque lettore infatti associa e sovrappone ad essa tratti e vicende di altri racconti. Ma la parentela più stretta è con il Manera protagonista della novella l’Esattore. Del resto, anche quando non soccorresse una buona memoria, è Fenoglio stesso ad indicare affinità e dipendenze: « Aveva avuto un figlio, Alfredo, ed una figlia [nel racconto ha poi nome Cecilia] (vedere storia dell’esattore): Alfredo mori stranamente (come esattore) ».” Anzi di Adolfo Manera (l’Esattore esce nel 1963 su « Paragone »),

il protagonista rappresenta quasi lo stadio finale. Ma non voglio insistere oltre su parentele ed affinità tra questi due racconti, peraltro assai evidenti, né tantomeno prenderli a pretesto per allargare il campo tanto arato di ipotesi di derivazione e di collegamenti. Il punto è un altro. Per l’Esattore, come per molti altri racconti

degli ultimi

anni,

i critici hanno

insistito



e in-

terpretato di conseguenza — sulla volontà dichiarata dello scrittore, di sviluppare e di elaborare spunti di cronaca e fatti di paese. Hanno insistito sul desiderio di Fenoglio di condurre una sorta di inchieste dal vivo, in vista poi di ordinare e di tradurre questi dati in «un assieme narrativo omogeneo ed unitario e destinato a rappresentare in un grandioso affresco fatti e modi di vita delle Langhe »8 Detto più concretamente il Paese e I penultimi e i racconti ad essi legati, compresi quelli a cui ho brevemente accennato, testimonierebbero

una

nuova

linea, un

orizzonte

tematico

e sti-

listico meno « attardato e provinciale » di quello offerto dalla Malora. Infatti la svolta si collocherebbe proprio a ridosso e per sdegnata reazione all’acido risvolto vittoriniano. «Ma proprio l’esperienza della Malora e le ben note riserve espresse da Vittorini — scrive Piera Tomasoni, curatrice dei volumi dei racconti — [...] segnano l’inizio di una nuova ricerca tematica e stilistica: essa si concreta, dal ’54 al '61-'62, in una paziente quasi ossessiva indagine e raccolta di fatti, episodi, dati, “tipi”, desunti dalla reale vita delle

168

Langhe, della quale

troviamo

tracce

vistose

in numerosi

bozzi, annotazioni, riferimenti, e che fa da presupposto composizione dei racconti più validi e maturi »?

ab-

alla

In effetti — siamo nel 1954 — alcune note del Diario confermano che Fenoglio attinse nuclei narrativi da fatti accaduti o raccontati. Ma nell’espressione « debbo riprendere il racconto

di Alfredo

Manera,

esattore

di Murazzano » !° l’ac-

cento cade e senza equivoci — mi sembra — sul lavoro di rielaborazione e di scrittura e non sul pre-testo. E lo stacco da una rappresentazione mimetica e fotografica del reale è ancor più evidente nell’appunto sul nucleo di Un giorno di fuoco: « Prepotente mi ritorna alla memoria il gran fatto di Gallesio di Gorzegno. Debbo rinfrescarmi i particolari. Ci vorrebbe una scappata a Gorzegno: la casa sempre muta dei Gallesio, dove s'è fermato il fumo degli spari, il castello spettrale, l’acqua violacea della Bormida avvelenata »,! appunto dove la prospettiva epica è già formalizzata dalla rilevata anticipazione del predicativo, dall’andamento ritmicamente bipartito e dalla metaforizzazione degli elementi:

casa

muta,

castello

spettrale,

Bormida

avvelenata:

la realtà insomma è già depurata dal mero referente oggettivo e deputata a funzione narrativa. E allo stato delle cose anche « l’origine e la natura “parentale” » (la definizione è tratta da una lettera di Fenoglio a Calvino

del 1961), di alcuni racconti

di Un giorno di fuoco

e dei Penultimi, sembrano appoggiarsi di più su una convenzione narrativa che su una reale dipendenza da una fonte orale. Nella lettera a Calvino che ho appena citata l’Autore precisa infatti: « Là dove non figuro io, bambino o poco più, in prima persona, metterò l'avvertenza come “Raccontato da Francesco Calleri” », ecc.!2 Ma al di là di considerazioni comunque non decisive, mi sembra veramente arduo sostenere per il Paese e per i Penultimi l'allontanamento dall’ottica provinciale e tardo-verista, dall’attardato gusto basso mimetico di cui sarebbe documento La malora, che funzionerebbe quindi come negativo termine di confronto. Al contrario non solo molte pagine del Paese e dei Penultimi sono amorfe ed incondite, talvolta quasi illeggibili (nel Mortorio

Boeri,

ad esempio



legato

al materiale

dei

Penultimi —, si tocca quasi il limite dell’insoffribilità per la goffa ed esasperata teatralità dell’amplesso sanguinante che vi è descritto),

ma

se accettiamo

la prospettiva

provinciale-

non provinciale, il materiale del Paese rappresenta allora un notevole passo indietro, perché qui siamo davvero in ambito strapaesano. È pur vero che i tronconi sono mutili e lacunosi

169

per cui è difficile trarre delle indicazioni convincenti sull’utilizzazione e sulla destinazione pensate dallo scrittore. Ma in ogni modo di fronte a stesure cosi provvisoriee grezze riesce davvero difficile condividere l'ipotesi che Fenoglio abbia affidato a queste carte « una lunga cronaca di vita paesana », come è sostenuto dalla Corti.!! Che è ipotesi grandiosamente ricostruttiva — certamente suggestiva — sostenuta con vigore anche

da G. Rizzo, dalla curatrice

dei volumi

dei

racconti, da F. De Nicola e in ultimo da R. Bigazzi, il quale sostiene l'opportunità di restituire Il paese « alla sua casella di romanzo, sia pure sui generis ».! Più opportuno forse sarebbe — mi pare — abbandonare la strada dei grandi progetti e rinunciare al desiderio di fissare i contorni di un disegno tanto confuso, e leggere queste carte per quello che realmente documentano e rappresentano. Quel che è certo è che nel Paese Fenoglio sperimenta nuove prospettive. Saggia, sia pure ad uno stadio ancora incondito e germinale, uno schema narrativo con punti di vista e forme dialogiche plurifocali, a raggiera. Nell’osteria, che è il luogo deputato, si alterna un coro di voci: il medico Durante,

Paco, l’ostessa Jeanne

con

suo

marito,

Gino

ed altri.

Banco di prova di un’ossatura tutta affidata al discorso diretto, proprio nella strutturazione dei dialoghi si avverte l’impaccio maggiore. Perché il discorso narrativo ancorato alla riproduzione — poco mediata — di spaccati di vita di paese, con le sue immobili e iterate scansioni quotidiane, le sue invidie,

le rivalità

e i rancori,

procede

faticosamente,

a sin-

ghiozzo. I personaggi sono introdotti da rigide e scolastiche marche, mentre la parola è rilanciata dall'uno all'altro per mezzo di monotone ripetizioni o di improbabili e stridenti variazioni sinonimiche. Un minimo esempio (dal cap. I): « Speriamo, — disse Paco. Poi disse [...] — Che fatto è stato questo? — indagò Gino [...] Allora il fatto mi sovviene, — disse il messo », e cosi di seguito, e per lungo tratto il primo capitolo si trascina cosi, prolisso e fastidioso, tra una selva di meccaniche

formule:

disse,

domandò,

rispose.

O per rimanere ancora al Paese è sufficiente misurare l’alleggerimento del cap. II che è alla base del racconto Il signor Podestà. Alleggerito il racconto — non solo di un’ampia porzione (è radicalmente tagliato il dialogo tra il messo e il podestà), ma anche snellito di indugi e di pause che sfibrano proprio il ritmo dialogico ben altrimenti teso e concitato nella versione di Un giorno di fuoco. Ma mi sembra fuori luogo indugiare in analisi minute di testi interrotti e incompiuti, cosi aperti dunque a interpretazioni molto diverse e contrastanti. Altre sono — per me — le ragioni del loro interesse: rivelano infatti con cruda evi-

170

denza — e mi riferisco anche ai Penultimi e a Un Fenoglio alla prima guerra mondiale — un impaccio di scrittura, una profonda indecisione sul punto di vista da adottare, la debolezza dell’ossatura solo dialogica, nel fondo una carenza d’inventiva. La crisi di cui queste pagine sono lampante documento è dichiarata del resto a chiare lettere dallo stesso Fenoglio che sullo scorcio del 1961 scriveva a Bettetini: «Mi cogli, l’avrai già capito, in un brutto momento. Sono fisicamente depresso e accuso una spaventosa carenza sia inventiva che esecutiva »,! e la lettera prosegue poi con l'ammissione della sua impossibilità a consegnare ad Einaudi per tempo completa la raccolta da presentare al premio Formentor, ma questo progetto, come noto, non andò in porto per il veto di Garzanti. L'analisi di stile e di forme rimane dunque di necessità vaga, sospesa a mezz'aria, ma è pur vero che essa rimane insostituibile,

è una

delle strade

maestre,

un percorso

obbli-

gato per l’esercizio filologico che si è lungamente esercitato su queste carte — come su tutta l’opera dello scrittore, naturalmente —, per ordinare, datare, fissare ascendenze e discen-

denze, ricucire connessioni e rapporti con le altre opere. Senonché la necessaria acribia filologica non può offuscare né far perdere di vista un problema altrettanto centrale e reale: quale dignità e valore queste carte possiedano non in fieri ma in re. Agli estremi della narrativa fenogliana si collocano i Penultimi e Un Fenoglio alla prima guerra mondiale. Il viaggio a ritroso nel tempo assume in questi testi i connotati della degradazione. Anziché ritrovare nel passato di che sostanziare, e trarre il respiro e il movimento dell’epica, gli ultimi abbozzi scarnificano e prosciugano sempre più umori e tensioni,

si bloccano

su toni

farseschi,

o macabri

e grotteschi.

La prospettiva allontanante (chi narra è un bambino ospite a quell’epoca dagli zii) diventa specchio deformante, la scrittura è a forti tinte, carica, eccessiva, a sfiorare il genere della

parodia. Ne La licenza ad esempio il tema del rifiuto viscerale della guerra procede stancamente tra indugi e prolissità per culminare nel caotico e disordinato torrente di ingiurie con cui Amilcare inonda gli avventori nel bar. Insomma, all’altezza di queste stesure tra le forme narrative già ampiamente sperimentate e altre tentate e cercate, nuove e soddisfacenti soluzioni sembrano ancora lontane, opache e confuse. Ma il giudizio non deve gravare troppo su questi testi. Ridimensionati nel loro valore e riportati alla loro casella di abbozzi e banchi di prova sono utili per stabilire connessioni e derivazioni,

ma

raramente

(il discorso

vale ugualmente

171

per il Paese) raggiungono un livello accettabile di autonomia e di leggibilità. L'importanza della loro conoscenza per tracciare genesi, disegnare movimenti correttori, parabole variantistiche, di tutto quanto cioè collabora ad una più completa conoscenza

del testo

e dei suoi antecedenti,

è fuori

discus-

sione. Ma neppure non si può non riconoscere che sono testi privi di autonomia narrativa, non solo perché mutili e incompiuti: la stesura è troppo approssimativa, l'impianto incerto, l'elaborazione stilistica di là da venire. C'è inedito e inedito di Fenoglio. La prospettiva non può essere appiattita considerando o privilegiando, in qualche caso, testi che hanno oggettivamente valori tra loro incommensurabili (sto alludendo — è chiaro — al Partigiano Johnny e al rapporto tra Una questione privata e i Frammenti di romanzo).

Per rimanere al mio tema sia il Paese sia i Penultimi vanno riportati e considerati nella loro effettiva consistenza: sono dei brogliacci, sono dei serbatoi, dei progetti appena abbozzati. Pagine comunque utili, ma che sopravalutate rischiano di alterare un’equilibrata discussione perché — e concludo con parole di M. Guglielminetti: « nulla o quasi aggiungono al profilo dello scrittore, facendo in qualche modo torto al suo giudizio e alla sua volontà ».!”

NOTE 1 Le citazioni da Beppe Fenoglio s’intendono daill’edizione critica delle Opere, diretta da Maria Corti, 3 voll., in 5 tomi, Torino, Einaudi, 1978; i racconti che qui interessano, sono compresi nel vol. III, a cura di Piera Tomasoni (corredati naturalmente delle rispettive Nota ai testi dove si leggono gli abbozzi e i rifacimenti), e che contiene tra il resto: Racconti sparsi editi e inediti e il Diario. Più precisamente do gli estremi di questi testi pubblicati prima su riviste, e poi confluiti in Un giorno di fuoco (ora in Opere, cit., vol. II); Un giorno di fuoco, « Paragone », 70, 1955, pp. 55-88; La novella dell’apprendista esattore, ne I giorni di tutti, Roma, Industria editoriale, 1960, pp. 147-162; Ma il mio amore è Paco, in « Paragone », 150, 1962, pp. 55-74; Superino, in « Palatina »,

23-24, 1962, pp. 5-19. .? L'affare dell’anima si legge nel vol. III delle Opere, cit., pp. 83-93; la do è tratta dalla Nota ai testi, p. 539. id. *Mibidi 5 Ibid., pp. 546-547. f Ibid.: le citazioni rispettivamente alle pp. 538, 539, 542 e 543. n Lo D. 4 Sono parole di G. Rizzo, Su Fenoglio

Milella, 1976, p. 83.

i

tra

filologia e critica,

IE

L

Tang

° Nella Nota al testo della Malora, in Opere, vol. II, cit., p. 629.

vol.

172

ano è contenuto } ! Ibid., nota XXV, p. 206.

nella

nota

XXI,

p. 205, in Opere,

cit.,

1? La lettera è riportata nella Nota ai testi di Un giorno di fuoco, in Opere, cit., vol. II, p. 631. Inoltre analoga finzione ribattezza due racconti: L'acqua verde è Quell’antica ragazza, già dei Ventitre giorni della città di Alba. Le nuove stesure aggiornate al progetto parentale si legI ag vol. III delle Opere, cit., rispettivamente alle pp. 113-115 e

4 Cfr. M. Corti, Realtà e progetto dello RS nel Fondo Fenoglio, in « Strumenti critici », 11, 1970, p. 40 [38-59 4 R. BIGAZZI, Fenoglio: personaggi e narratori, Roma, Salerno, 1983, D. 45, b In Opere, cit., vol. III, p. 20. ‘6 La lettera è citata da G. Rizzo, op. cit., 174. #7 M. GUGLIELMINETTI, Beppe Fenoglio, in iorerdtura Italiana, VII, Milano, Marzorati, 1969, p. 6836Pr6814. 6836].

173

Michele

PROCEDIMENTI

Prandi

DI DEFORMAZIONE NEI « PARTIGIANI »!

ASTRATTIVA

C'era un qualche ventoso movimento di donne per la spesa e la sonora gelidità della pianura che si allargava. (PJ:, XIX, 10)

1. Un'idea di lingua e un'idea di stile Il mio interesse per il testo dei Partigiani nasce dalla sua capacità di presentificare, con la forza dell’ostensione diretta, un’idea di lingua e un'idea di stile: la lingua vissuta come un immenso patrimonio di risorse tanto sottoutilizzate dagli investimenti utilitari quanto valorizzate dal lavoro stilistico, e lo stile visto come un arricchimento dell’universo concettuale dovuto a una utilizzazione intensa e disinteressata delle risorse formali della lingua. L’artigiano dello stile non combatte contro i limiti interni della lingua, che al contrario gli forniscono

la sua materia

prima,

ma

contro

i limiti esterni

che ne mortificano il potenziale di creazione. Da queste premesse, discende con immediatezza un orientamento epistemologico: lungi dall'essere emarginata dal territorio della ricerca linguistica come dominio dello scarto, la parola d’autore offre allo studio della lingua un punto di vista privilegiato. Se l’uso quotidiano, di consumo 2 della lingua è un uso pigro e, di conseguenza, non rivelatore, l’uso estetico è un uso intenso e, di conseguenza, rivelatore. Se l'osservazione degli

scambi immediati è essenziale a una pragmatica della comunicazione linguistica e non, chi è interessato a esplorare fino in fondo il potere di messa in forma del dispositivo linguistico non può che rivolgere la sua attenzione a chi di questo potere ha colonizzato per mestiere i confini ultimi. L'impiego del lessico astratto da parte di Fenoglio è un esempio particolarmente felice di convergenza tra la ricerca stilistica disinteressata dell'autore e le esigenze del lavoro d’analisi: la valorizzazione di una specifica risorsa linguistica — il potere di astrazione — produce un effetto stilistico singolare — una deformazione astrattiva degli schemi di percezione del reale — e offre allo studioso del linguaggio

174

AR t

una via privilegiata di penetrazione nella struttura e nel funzionamento del lessico astratto. Lo studio microstilistico della parola d’autore si traduce in un frammento di grammatica filosofica. 2. La deformazione

astrattiva

Nel ricostruire linguisticamente una percezione — di un oggetto, di una persona, di un paesaggio o di un fatto — il parlante dispone virtualmente di un ventaglio di opzioni, che spaziano da una pura e semplice duplicazione degli schemi soggiacenti alla percezione visiva, fino alle forme più radicali di ristrutturazione. Un osservatore che guarda un paesaggio di campagna macerato dalla pioggia è libero di vedere i campi fradici oppure la fradicità dei campi. Ciascuna delle due articolazioni

linguistiche

della visione, a sua volta, ammette

di

diventare soggetto di un giudizio: I campi erano incredibilmente fradici, oppure, con Fenoglio, Incredibile era la fradicità dei campi (PJ,, VIII, 45). La lingua è, in quanto tale, indifferentemente disponibile alle due formulazioni. Se il parlante preferisce in generale la prima, è per ragioni del tutto estranee al dispositivo formale della lingua: questa formulazione si accorda con gli schemi ontologici che canalizzano la nostra percezione. Con il patrimonio di risorse formali dell'espressione e del contenuto che formano la sua impalcatura strutturale interna, la lingua è irreversibilmente radicata in un’ontologia — in un'immagine concettuale del mondo che regola il nostro contatto con l’universo degli oggetti. Come inquadra ogni nostra forma di esperienza e di comportamento simbolico e non,

dalla deambulazione

l’ontologia

sottende

stico, intervenendo

anche

alla ricezione

il nostro

direttamente,

di un quadro,

comportamento

lingui-

dove le strutture sintattiche

le lasciano spazio sufficiente, nell’articolazione e nell’interpretazione dei significati complessi Se qualcuno ci dice che ha sagomato una tavola con un seghetto alternativo, per esempio, noi ci rendiamo conto immediatamente che si è servito del seghetto. Se ci dice che l’ha sagomata con suo figlio, vuol dire che ha compiuto l’azione in collaborazione con suo figlio. La forma linguistica dell'espressione — la preposizione con seguita da un'espressione nominale — e il contesto immediato — l’articolazione linguistica di un'azione compiuta da un agente — sono esattamente gli stessi nei due casi. Se l'interpretazione corretta è selezionata automaticamentee con sicurezza a ogni occorrenza, è solo grazie alla solidità e alla familiarità della distinzione tra la categoria ontologica

175

delle persone e la categoria degli oggetti inanimati. ii Se la lingua coesiste con un’ontologia, ciò non significa tuttavia che l’ontologia controlla i dispositivi formali della lingua. Al contrario, la lingua contiene virtualmente, ed è pronta a sviluppare, i germi di ontologie diverse. Il mito caro ai poeti della creazione di ordini concettuali diversi trova all’interno della lingua — nella semplice valorizzazione disinteressata delle risorse — il suo strumento più potente. La censura ontologica non è una censura linguistica: è in questo spazio stretto tra chiusure ontologiche e aperture formali che opera l’artigiano della lingua, lo scrittore. Come artista, lo scrittore non è interessato in prima istanza agli stati del mondo; egli non vuole produrre un riconoscimento diretto e positivo del mondo, ma una visione rivelatrice. Vuole insomma vedere al di là e al di sotto di quello che si vede. In quanto essere umano, lo scrittore condivide i presupposti della sua forma cultura: a differenza dello psicotico, egli assume e rispetta l’ontologia comune. Egli non identifica con l’orizzonte ontologico i limiti della sua creazione, ma è comunque sul suo sfondo che ci invita a valutare i suoi risultati. Come artista in primo luogo della lingua, infine, egli cerca di liberarsi della vischiosità degli schemi di riconoscimento degli oggetti affidandosi senza remore ontologiche ai bandoli che gli offre la lingua. Queste osservazioni si adattano perfettamente alla valorizzazione stilistica dell’astratto che impregna la prosa dei Partigiani. Nell’ontologia vissuta che incornicia i nostri comportamenti quotidiani, il mondo è fatto in primo luogo di esseri e solo in seconda istanza di proprietà, qualità e comportamenti di esseri. Le entità identificabili e reidentificabili — le persone, gli animali, gli oggetti, ciascuno nell’ambito delle sue competenze — ci appaiono come i supporti naturali di proprietà e disposizioni, e come i protagonisti di processi attivi e passivi, e non viceversa. Tematizzando il supporto o, aristotelicamente, il sostrato, l’espressione î campi fradici riproduce fedelmente la gerarchia ontologica: la qualità è subordinata al supporto. Scegliendo una formulazione alternativa linguisticamente disponibile — la fradicità dei campi — Fenoglio sovverte la prospettiva: il supporto è subordinato alla qualità. Lo scrittore coglie un’occasione che la lingua gli offre — la categorizzazione nominale dei concetti astratti — per attivare nel testo una tensione tra la ricostruzione linguistica della cosa — che porta la qualità in primo piano, sullo sfondo dell’oggetto — e la sua percezione generalmente condivisa, che colloca l'oggetto in primo piano, e le sue qualità sullo sfondo. La formulazione che chiamerò non mar-

176

en e

cata, canonica — una

i campi fradici —

sottoutilizzazione

delle

risorse

produce al tempo stesso linguistiche,

un’accetta-

zione passiva delle gerarchie ontologiche sottese alla percezione e, di conseguenza, l'illusione di una datità del mondo e di una trasparente aderenza della lingua alle cose. L'opzione che chiamerò marcata — la fradicità dei campi — produce simmetricamente un’utilizzazione intensa delle risorse linguistiche e una sollecitazione degli schemi percettivi; di conseguenza, rompe l’illusione di un’aderenza pacifica delle espressioni linguistiche agli ordini del mondo. Essa produce quindi, al tempo

no

stesso, un effetto interno

di stile e un effetto ester-

di straniamento.8

3. La presenza

dell’astratto nella prosa dei « Partigiani »

Gli aspetti più vistosi della presenza dell’astratto nei Partigiani sono certamente la relativa densità di nomi astratti e il conio di neologismi talvolta estrosi, a volte duri, sempre sorprendenti (trascureremo qui l’uso di termini astratti di lingua inglese o english-like). I due caratteri, se si rinforzano a vicenda nel conferire alla pagina di Fenoglio una sua individualità stilistica inconfondibile, impongono vie di accertamento e valutazioni diversissime, dell'impatto testuale come del potere di straniamento.

3.1. Il conio di neologismi Ciò che accomuna i neologismi coniati da Fenoglio è un uso « sintattico » dei meccanismi di formazione: l’autore combina cioè termini e affissi con la stessa creativa libertà con cui il comune parlante combina parole e espressioni negli schemi sintattici” I percorsi seguiti dalla formazione, e le sue possibili motivazioni o giustificazioni funzionali, sono per il resto eterogenei. Un primo gruppo di nomi astratti deriva da un nome, concreto (cameratità, nervità) o a sua volta astratto (scattità, barbarietà, gelità, agità), eventualmente passando per un ag-

gettivo attestato

(viziosità, graziosità, dolorosità, primaverili-

tà, sepolcralità, tenebrosità, frettolosità, cittadinità, desertità, acquosità) o a sua volta coniato ex novo (squallorosità). Alla

base di queste coniazioni si pone evidentemente la volontà di creare un lessico astratto alla seconda potenza. Un gruzzolo nutrito è formato dai nomi astratti derivati da aggettivi: trucità, pronità, massiccità, freddità, grezzezza, fantomaticità,

asolarietà, sfondità, località (per localizzazione), deleterietà, casalinghità, vaghità, immotezza, singolità, grigità, glabrità,

(VA

o

asprità, torvità, caldità, sinistrità, tacitità, selvaggiume, selvaggità, canterinità, servizievolità, camerateschità, cameratità, liscità, formidabilità, intattità, ertità, tersità, direttezza, serratezza, taciturnità, inodorità, rudimentalità.

In vista di una possibile giustificazione funzionale, dobbiamo distinguere due grandi categorie: i nomi che colmano una lacuna nel paradigma — sepolcralità, sinistrità — e i no‘mi, molto più numerosi, che rimpiazzano un termine astratto attestato nel lessico.!! Se in presenza di un vuoto nel paradigma il conio aspira a una motivazione funzionale — l’incremento della tastiera espressiva, con un effetto di forte suggestione — le coniazioni sostitutive non possono essere motivate che dalla volontà di esasperare la tonalità astrattiva della pagina. In generale, dalla semplice presenza dei neologismi astratti emana perentorio, potremmo dire parafrasando Genette, il messaggio qui astrazione. Una valutazione stilistica del conio di neologismi impone una premessa: nella pagina dei Partigiani, lo scavo stilistico di lungo respiro, lo sforzo di estrarre dallo strumento linguistico le note più riposte, si intreccia inestricabilmente a uno ‘ssperimentalismo spericolato e probabilmente — se è vero che le versioni disponibili dei Partigiani non erano destinate tali e quali alla pubblicazione — volutamente irresponsabile, comunque incurante di un immediato collaudo pubblico. Ora, se questa mistura è per noi, irreversibilmente, la scrittura dei

Partigiani, l’analisi non può rinunciare a separarne idealmente gli ingredienti eterogenei. L'impatto testuale più o meno violento dei termini astratti e la presenza di una genuina « tensione astrattiva » nella resa del vissuto — del paesaggio, del volto,

dell'evento



sono

in effetti

variabili

relati-

vamente indipendenti. Un costrutto appariscente, che grida al cospetto del lettore la sua tonalità astratta come la squallorosità del giorno, per esempio, ha un potenziale di deformazione quasi nullo, come lo squallore del giorno o la luminosità

del giorno

(PJ,, XXV,

6). Viceversa,

costrutti

più di-

screti, privi di neologismi come nella cigolante vastità del cortile (PJ,, XXI, 6) o sotto la raggelata impassibilità delle finestre borghesi (PJ,, X, 52), colgono il segno: il primo assorbendo in uno spazio dilatato e un po’ onirico tutto un vortice di vita evocato obliquamente dal modificatore; il secondo confondendo in una stessa impersonale, astratta distanza emotiva abitacoli e abitanti. 3.2. La densità

di termini

astratti

L'addensarsi di nomi astratti in certi settori della pagina fenogliana produce in genere un impatto testuale violento,

178

soprattutto quando si somma al conio estroso e funambolico o all’utilizzazione di parole inglesi: Cosi si ridiresse alla Langa, alla quale il fatto del giorno conferiva una più spiccata hue di spettralità e fatalità. Passò nell’aia, davanti al canile, davanti alla cucina, risentendo orribilmente la loro vacuità, ed entrò nella stalla, algente per vacuità e beastlessness (PJ:, XXXII, 29; cfr. PJ., XVIII, 43).

La densità dei nomi astratti è più facile da mostrare con esempi appropriati che da quantificare, e, ancor più, da valutare. Una semplice conta dei nomi astratti non fornisce risultati apprezzabili, dal momento che solo a certe condizioni il nome astratto acquista una salienza testuale marcata e, a più forte ragione, potere di deformazione. Date certe condizioni testuali e strutturali, una pagina è in grado di assorbire una quantità relativamente alta di termini astratti senza che la loro presenza superi la soglia critica della marcatezza. Nel passo seguente, si contano cinque nomi astratti in sei righe senza il minimo effetto di deformazione astrattiva, o anche solo di forzatura: Vestiva una divisa di ufficiale dell’esercito, spoglia di ogni grado e fregio e ad accrescere quella puritana sobrietà non calzava stivali, ma semplici calzoni lunghi, coi risvolti immacolatamente spolverati. Aveva un magnifico sorriso, ma fisso e mai smorente, il sorriso che può nascere dalla più alta capacità e fiducia in se stesso come coprire la più marchiana incompetenza e irresponsabilità (PJ:, VII, 18).

Se un conteggio indifferenziato si lascia sfuggire l’effetto sulla pagina, un conteggio selettivo presuppone una definizione esplicita dei contorti e complessi fattori testuali e strutturali che regolano l’impatto dei nomi astratti sull’isotopia concreta. Mi limiterò qui a fornire qualche esempio. Il fattore

testuale

più immediato,

esterno,

è il tipo di

testo: tanto alta da essere quasi irraggiungibile in un trattato di fisica,!! la soglia di marcatezza sarà invece bassissima nella descrizione di un paesaggio o di una persona. Indipendentemente dal tipo di testo, la capacità di assorbimento del termine astratto è regolata da fattori testuali interni: in generale, è direttamente proporzionale al suo contributo alla coesione tematica del testo. Un termine astratto che riprende anaforicamente, in posizione tematica, il nucleo semantico di una predicazione sviluppata, ad esempio, perde

il suo impatto testuale e il suo potere deformante, del tutto: Scesero

a tentoni,

fra

macchie

e scoscendimenti,

verso

il

179

quieto torrente e la più quieta gola (PJ,, XXVI, 35).

alla

La quiete prendeva

strada.

o almeno in parte Benevello era deserto, tutte le anime in chiesa: ma quella desertità aveva ora agli occhi di Johnny, cosi esperti di essa, un nuovo carattere (PJ,, XXXVI, 20).

L’accostamento dei passi precedenti, mettendo in luce l'efficacia del fattore lessicale, ci introduce tra i parametri strutturali. L'universo dei nomi astratti appare diviso equamente tra nomi astratti che chiameremo primari e nomi astratti che chiameremo secondari. I primi introducono concetti intrinsecamente

l'autonomia

astratti, ai quali i parlanti

ontologica

relativa

delle

riconoscono

raffigurazioni

che: la bontà, la virtù, la quiete del nostro

esempio.

allegoriI secon-

di introducono concetti percepiti dal parlante come altrettante astrazioni di proprietà osservabili di entità concrete, da cui appaiono irrevocabilmente dipendenti: l’essere fradicio, scivoloso,

serto.8

bianco,

Mentre

affollato

0, come

nel nostro

l’uso degli astratti

primari

esempio,

in genere

de-

passa

inosservato nel testo, il termine astratto secondario tende a un impatto marcato, che solo condizioni testuali o strutturali

specifiche sono in grado di ridurre o di neutralizzare. Rappresentante paradigmatico, forse estremo, della categoria è il nome astratto di colore: Incrociò una ronda garibaldina, felina e tesa, splendidamente isolata nella sua rossità (PJ;, XX, 47) Tra

i fattori

strutturali

della marcatezza,

infine,

appare

decisivo il ruolo proposizionale occupato dall’espressione nominale. L'espressione del modo dell’azione o del processo, ad esempio, è quasi un monopolio dei nomi astratti, al punto che l'alternanza di nome astratto e nome concreto commuta regolarmente,

a parità

di struttura

sintattica,

con

un'’alter-

nanza correlativa tra l’espressione del modo — Ho riparato la pompa con molta fatica — e l’espressione dello strumento — con un cacciavite a stella — (o del coadiutore dell’agente, se il riferimento è a una persona:

con Carlo, o altro ancora).

Forse contrariato da questo sistematico azzeramento dell’impatto testuale dell’astratto nell'espressione del modo, Fenoglio ricorre quasi altrettanto sistematicamente a una modificazione obliqua del nome astratto, orientata verso il supporto concreto, restaurando

cosi per altra via la tensione

le due sfere nel territorio d'elezione dell’astratto:

180

tra

[...] la zia accennò a conferma, con la sua animosa sobrietà, ma lo zio salutò con una balbuziente freddezza (PJ,, I, 13). Diego confrontò il prigioniero, con ironica trucità (PJ;, XXXIII,

Come

per il conio, anche nel caso della densità la violen-

za dell'impatto testuale non si traduce immediatamente in resa funzionale e in valorizzazione stilistica. I due effetti sono indipendenti, al punto che la dissonanza delle isotopie facilmente

travalica

in stonatura,

o senso

di saturazione,

se

solo la densità di termini astratti non è bilanciata da una resa funzionale proporzionata. Nell'esempio citato in apertura di paragrafo, ad esempio, la frequenza davvero opprimente e la laboriosità dei nomi astratti riproduce forse il sentimento straniante di vuoto concreto che la vista della cascina della Langa offre a Johnny, ma mostra anche la distanza tra una pura e semplice sollecitazione del testo e una autentica deformazione astrattiva del percepito e del vissuto. Nel passo seguente, l'innesto di nomi astratti, per quanto relativamente denso, prezioso e, in un caso — sorgentezza —

vistoso, anima la descrizione, senza forzarla, con una vena

di trasognata irrealtà narrativo incombente:

del tutto

in sintonia

con

lo sviluppo

Al piano la neve si era tutta sciolta, i prati smaltavano, le strade avevano un loro freddo nitore, tutto era percorso da una ventilazione tonica, il sole letteralmente garriva sugli esili campanili, che a Johnny parlavano di un'umanità lontana di evi. Lasciò che il paesaggio lo assorbisse, immaginò che cosa avrebbe voluto e potuto fare, e con chi, via via per quella strada parallela alla bealera di visiva sorgentezza alpina, sotto quei filari di pioppi cosi argenteamente freddi e vivi, nelle piazzette dei paesini cosi ovviamente pacifici con un loro sentore di caffè-latte (PJ., I, 7; CERVI, XI) Come

per il lievito, l'efficacia

della deformazione

astrat-

tiva passa per un dosaggio oculato e richiede mano leggera. Nella maggioranza delle attestazioni — e forse nelle migliori — basta una pennellata di astrazione per togliere alla sua ovvia e concreta datità la contemplazione di un paesaggio: Johnny sfrecciò dietro la casa, arrivò al punto più eccelso della cresta e di lassi speculò sulla quantità di colline e vallette e sulla quantità di casali in esse, già sfumanti nelle lontananze crepuscolari (PJ,, XXXII, 25). Talvolta l’eco di una fucilata neutra, distante e arcana sferzava la panica immobilità delle alte colline intente alla gestazione della primavera (PJ., I, 2; cfr. PJ,, X, 3) o di un

volto:

181

Questi considerava l’invisibilità avanti a lui con occhi e labbra stretti, la preoccupazione conferiva alla sua faccia lombrosiana una concentrazione, una serratezza precrimine (PJ,, VIII, 8).

NOTE 1 Questo lavoro anticipa alcuni temi di un saggio più ampio sulla presenza dell’astratto in Fenoglio: sulla grammatica filosofica dell’astrazione che l'osservazione del suo corpus permette di abbozzare, sugli effetti microstilistici dell’astrazione nella raffigurazione degli esseri — in primo luogo di paesaggi e persone — e sui suoi effetti macrostilistici: il tema della « separatezza » di Johnny e del suo sguardo distaccato, e, appunto, astratto. Gli esempi d’autore rinviano a B. FENOGLIO, Opere, edizione critica a cura di M. Corti, Torino, Einaudi, 1978. Con le abbreviazioni PJ, e PJ, ci si riferisce alle due versioni successive del romanzo. 2 La nozione di discorso di consumo, contrapposta alla nozione di discorso di riuso, è di Lausberg (1949-1969), $$ 11-19. 3 Tra i linguisti, Sapir (1921-1969), cap. XI, ha insistito sul lavoro stilistico come rivelatore delle risorse del dispositivo linguistico: « Nella grande arte c'è l'illusione della libertà assoluta... è come se ci fosse un margine illimitato di spazio libero fra la pura utilizzazione della forma da parte dell’artista da un lato e dall’altro lato, il massimo che il materiale per sua natura è capace di offrire » (p. 218). E aggiunge: « Molte rivolte dell’arte moderna sono state guidate proprio dal desiderio di ottenere dal materiale proprio ciò che esso può offrire ». Il loro bersa-

glio, di conseguenza, smo

verso

non sono le strutture della lingua, ma

le convenzioni

artistiche », che riproduce

«il servili-

in ambito

estetico

la pigrizia degli usi di consumo (Ibid., nota 2). 4 La « tensione astrattiva » della scrittura di Fenoglio è segnalata da Beccaria (1984), che parla anche di « astratta concentrazione antinaturalistica e antifigurativa » (1989, p. 112, corsivo dell’autore). 5 Su questo punto, cfr. Prandi (1987, sez. II). 6 Quanto detto non significa che non saremmo pronti a riconoscere una sua profondità a una filosofia che concepisce l’uomo come uno strumento azionato da cieche forze inanimate. Tuttavia, quest'idea dell’uomo è inconcepibile come criterio del nostro comportamento non

solo linguistico ma, soprattutto, pratico, e quindi del nostro giudizio etico. ? L’esigenza di valorizzare le risorse linguistiche latenti può portare lo scrittore a forzare la norma, in quanto espressione di una sensibilità linguistica mediamente condivisa, magari ispirandosi a modelli stranieri di norme più ricche o flessibili. Come il latino e il francese agli albori della storia linguistica italiana, l’inglese è per la lingua di Fenoglio, « lievito dell’invenzione » (Corti, 1980), « forma interna » proiettata sull’italiano (Meddemmen, 1979). * Come mezzo di rottura del circolo vizioso del vedere, la descrizione linguistica è particolarmente favorita dalla sua radicale alterità strutturale e materiale rispetto al mondo: certo più della rappresentazione pittorica, le cui forme e i cui materiali sono pericolosamente prossimi alla struttura percettiva degli oggetti e alle loro gerarchie

immanenti.

? La libertà nella formazione delle parole — qui perseguita ad arte, ma spontanea negli usi dei bambini e, in generale, di chi ha una familia-

rità media in divenire con la lingua — vale anche per i termini inglesi: cfr. Meddemmen (1979, p. 104). Sulla produttività limitata dei meccanismi di formazione, cfr. Matthews (1974-1979, cap. III). Per un inven-

182

tario dei termini astratti coniati e usati da Fenoglio, cfr. Beccaria (1984, p. 47). ! Il neologismo sostitutivo si distanzia dal termine attestato o per

un mutamento di suffisso — freddità (freddezza), sfondità (sfondatezza), località (localizzazione), rossità (rossezza), vaghità (vaghezza), nerità (nerezza), asprità (asprezza), caldità (calore), picciolità (piccolezza) — o per un mutamento congiunto di suffisso e radice: immotezza (immobilità), singolezza (singolarità), apparita (apparizione), prestezza (rapidità). Un caso di variante ortografica è giovenilità (PJ,, XXX, 26). Uso forzato di un termine attestato è platitudine per pianura. . ! L’introduzione di termini insaturi e astratti in prima istanza, in posizione tematica e senza valore anaforico, è funzionale al livello di astrazione propria del discorso scientifico, che manipola oggetti teorici la cui relazione con i fatti — e quindi la « realtà » — è scontata e accettata nella comunità dei destinatari. In un simile universo di discorso è normale predicare sulla solubilità del sale senza aver precedentemente enunciato che JI! sale è solubile. Cfr. su questo punto Halliday (1986, p. 78): « If I say technology has improved, this is presented as a message; it is part of what I am telling you. If I say improvements in technology, I present it as something I expect you to take for granted. By objectifying it, treating it as if it was a thing, I have backgrounded it; the message is contained in what follows (e.g., ... are speeding up the writing of business programmes) ». La nominalizzazione di processi e proprietà « far from being an arbitrary or ritualistic feature, is an essential resource for constructing scientific discourse », come mostra l’analisi delle opere dei pionieri della fisica (Halliday, 1988, p. 10). 1 Il valore anaforico va inteso in senso lato. La ripresa anaforica non ha sempre la direttezza della figura etymologica; a volte il legame con l’antecedente è laborioso: La luce si insinuava a piccolissime dosi, quasi rimpiangendo il suo notturno emisfero, ed in quella avarizia di luce ascesero per il bosco al fantomatico profilo del crinale (PJ,, XIV, 53; cfr. PJ,, XXVIII, 30). Un caso particolarmente interessante di ripresa indiretta è fornito dai cosiddetti incapsulatori anaforici, o « nominali anaforici incapsulatori » (su questa nozione, cfr. D’Addio Colosimo, 1988), termini che associano un valore parafrastico nei confronti di tutta una porzione di testo antecedente a una spiccata vocazione valutativa: Subito dopo mezzogiorno [il sole] fece una timida epperò trionfale apparizione nel cielo ancora amorfo, mentre in coincidenza la pioggia scadeva ad acquerugiola. Questa miseria bastò a riequilibrare gli uomini (PJ,, VIII, 53). Se l’incapsulazione anaforica è un fattore che smorza l'impatto testuale di un termine sintetico, l’incapsulazione che potremmo chiamare cataforica lo amplifica: Il fato si compié alla spalletta del ponte su Belbo: la frenata riusci troppo o non riusci, la macchina sbandò e cozzò nel muretto a secco... (PJ,, XVIII, 3). 13 La distinzione tra astratti primari e astratti secondari è intuitivamente chiara, e suffragata da un certo numero di termini paradigmatici raccolti intorno a quelli che potremmo definire i « tipi ideali » di ciascuna famiglia: il nome astratto primitivo — per esempio virtù —

e il nome

astratto derivato — per esempio bianchezza (tanto più se di

derivazione macchinosa o arbitraria: desertità o viziosità). Occorre tuttavia precisare che i meccanismi di derivazione non sono affidabili, ciò che contribuisce, insieme all’incertezza contestuale del giudizio ontologico, a rendere permeabili i confini delle due categorie: in particolare, numerosi concetti — per esempio la bontà o la bellezza — si comportano tendenzialmente come astratti primari sebbene siano designati da nomi derivati.

4 Per una definizione del concetto di modificazione obliqua e per un'analisi del suo uso in Fenoglio rinvio a Prandi (1988).

183

BIBLIOGRAFIA G. L. BeccarIA, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Milano, Serra e Riva, 1984; Il tempo grande: Beppe Fenoglio, in Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989. M. CortI, Beppe Fenoglio. Storia di un « continuum » narrativo, Padova, Liviana, 1980. , W. D’Appio CoLosimo, Nominali anaforici incapsulatori: un aspetto della coesione lessicale, in T. De Mauro, S. Gensini, M.E. Piemontese (a cura di), Dalla parte del ricevente: percezione, comprensione, interpretazione, Roma, Bulzoni, 1988. M. Darpano, La formazione delle parole nell’italiano di oggi. Primi materiali e proposte, Roma, Bulzoni, 1978. M. A. K. Haruay, Spoken and Written Modes of Meaning, in R. Horowitz-J. Samuels (a cura di), Comprehending Oral and Written Language,

New

York,

Academic

Press,

1986;

In., On

the Language

of

Physical Science, in M. Ghadessy (a cura di), Registers of Written TA pl situational factors and linguistic features, Londra, Pinter, H. LausBERG, Elementi di retorica, Bologna, Il Mulino, 1983. P. H. MATTHEWS, Morfologia. Introduzione alla teoria della della parola, Bologna,

Il Mulino,

struttura

1979.

J. MEDDEMMEN, L'inglese come forma interna dell’italiano di Fenoglio, in

« Strumenti critici », 38, 1979. M. PRANDI, Sémantique du contresens, Parigi, Les Éditions de Minuit, 1987: Modificazioni oblique nel « Partigiano Johnny », in « Strumen-

ti critici », n. s. III, 1988. E. E Il linguaggio. Introduzione

184

alla linguistica,

Torino,

Einaudi,

Ettore Canepa

SVILUPPO DELLA METAFORA NEL « PARTIGIANO JOHNNY »

Quasi a metà del Partigiano Johnny, in uno dei capitoli dove

è descritta l’effimera liberazione

di Alba nell'ottobre

viamo questa impressione di Johnny — che rivede città dopo circa un anno di militanza partigiana:

’44, tro-

la sua

Il Civico Collegio Convitto, ora Comando Piazza, stava, nel vecchio quartiere addossato al Vescovado, come una petroliera oceanica ancorata frammezzo una selva di velieri e di barche da cabotaggio. Confortavano la metafora la lunga e liscia e metal. lizzata fiancata dell’edificio, le sue sproporzionate linee di anguste e avare aperture come houblots, e lo svettare del propilio come una prua (PJ;, XXI, 646).

A questa metafora che assimila Alba ad un porto, al luogo quindi ove ci si sente sospinti alla partenza e al distacco,

fa riscontro

uno

dei filoni

metaforici

essenziali

del ro-

manzo, quello che assimila le Langhe al mare. Davanti a questo massiccio scivolamento di un paesaggio nell’elemento marino, il lettore, come lo stesso visionario — Johnny — che è afferrato dall’analogia, si chiede che senso abbia tutto ciò: che senso abbia assimilare le Langhe al mare; perché evi-

dentemente c’è un motivo che spinge a questo. Ma appunto qui è la ragion d’essere della metafora: che essa elargisce un senso

che sentiamo

di dover comprendere,

di cui avvertiamo

la presenza a volte con forza dolorosa, ma che spesso pare sfuggirci. Nel caso della metafora marina di Fenoglio possediamo le coordinate letterarie sufficienti per penetrarla: quando, ad esempio, una colonna di camions tedeschi pare a Johnny «un incubo di desertica nudità, una flotta di vascelli fantasma in secco » (PJ,, II, 938), o, in un altro momento, considerando gli uomini che lo seguono in un'azione notturna, gli viene in mente il verso 340 della Ballata del

Vecchio Marinaio: ben

macabra

« we were a ghastly crew » (« eravamo una

ciurma », nella

traduzione

dello

stesso

Feno-

glio); quando sappiamo per espressa dichiarazione dello scrittore, nel 1959, che sua aspirazione era scrivere « un lungo racconto marinaro, o, più esattamente, oceanico » e consta-

tiamo da evidenze stilistiche e di struttura narrativa che uno

185

dei modelli essenziali del Partigiano Johnny è Moby-Dick; abbiamo in mano i riferimenti-chiave che articolano e sviluppano

il senso

della

visione

iniziale,

consentendoci

di pene-

trarlo. Gli echi gotico-metafisici di derivazione anglosassone ci dicono che a Johnny le Langhe si danno come l'orizzonte di un distacco e allontanamento

(da Alba, la città-porto, o il

luogo dell’arresto del movimento, che in un punto è paragonata a « un incrociatore di ferro nero bloccato su un nero mare qua piatto e là apocalitticamente ondoso », PJ,, XIX, 620, e ancora, poco dopo, ad un’« isola interoceanica », PJ,, XX, 632); distacco e allontanamento che devono tradursi nell’esperienza del viaggio, della avventura, della ricerca; e infine nell'accesso alla meta ultima della ricerca, che li, entro

quello sconfinato orizzonte, da qualche parte deve darsi. Apparendo come mare le Langhe sono di tutto ciò la « figura », la « cifra »: cioè un'immagine vivente in cui è condensato un senso. Una « figura » è in certo modo il momento di inserzione, nelia nostra esperienza, di un senso. L'esempio della metafora marina in Fenoglio ci fornisce un'utile indicazione per determinare il valore della metafora come processo costruttivo di « figure ». Quando le Langhe sono assimilate al mare, cessano di essere quello che erano prima: diventano, nella loro vivente concretezza, un tertium aliquid, che è il senso stesso della metafora costruitosi come figura. Facendosi figure nella metafora, le cose ci vengono incontro, ci

parlano: la metafora è il loro linguaggio che ci consente di instaurare con loro un dialogo. Questo linguaggio delle cose affolla il Partigiano Johnny, poiché alla metafora marina si intrecciano altri fondamentali nuclei trettanto ritornanti e ossessivi — al punto

metaforici, alche Elisabetta Soletti può parlare di un intreccio di « matrici, in sequenze sempre fisse e prevedibili »3 — e costituenti una compatta struttura metaforica che conferisce al romanzo il suo tratto essenziale poematico ed epico. Il Partigiano Johnny si presenta come un tentativo avventuroso e arrischiato di penetrare il senso di questo linguaggio figurale che viene ad incontrare Johnny: e questo significa penetrare le ragioni intime della metafora assumendole esistenzialmente come un modo di essere. La metafora marina conduce anzitutto a chiedersi che cosa Johnny lasci dietro di sé, e per quale motivo lo lasci. All’inizio del romanzo, dove si descrivono le impressioni di Johnny mentre osserva la città dalla villetta collinare in cui passa gran parte del tempo in attesa degli eventi, troviamo: « Spiccavano le moli della cattedrale e della caserma, cotta l'una, fumosa l’altra, e all’osservante Johnny parevano en-

trambe

186

due

monumenti

insensati » (PJ,, I, 392).

In realtà,

l'aggettivo insensato denota l’intera umanità cittadina come Johnny la trova nel settembre del ’43: un’insensatezza che lo coinvolge e rischia di travolgerlo: « egli appari a se stesso grigio e passivo come il riflesso di tutto nel tardo pomeriggio novembrino » (414). Il tema marino dell’avventura e della ricerca andrà inteso proprio come ricerca del senso che il suo mondo ha perduto. È dalle cose stesse che si fa luce questo verdetto di condanna, dalle cose che si fanno « figure » di una condizione che di slancio trascende la consistenza soggettiva di Johnny (e dunque non ne costituisce la « proiezione lirica »), per porsi come lo stato ontologico della caduta. Conseguentemente, la metaforizzazione di Alba presenta gradi crescenti di intensità metafisica, culminanti nelle due serie figurali del serpente e dell’acqua diluviale intrecciate per tutto l’episodio della presa di Alba — nell’ottobrenovembre ’44 — terminante con la disfatta partigiana sotto nemico.

il contrattacco

La metafora

della caduta

(che attrae

« culturalmente » quelle del castigo e della colpa) appare particolarmente decisiva, costituendo il grande archetipo figurale che consente ai poeti metafisici di poeticizzare persino il non-senso, come uno stato di deriva e di distacco. Il senso rimane nell’insensatezza come una sorta di radiazione di fondo, un termine (occulto) di riferimento, che costituisce il residuo poe-

ticizzabile dell’insensato stesso. Le antenne dell’insight percepiscono la radiazione di fondo nei termini figurali di un movimento di deriva da un centro perduto. Questo dimostra che se per un verso non si dà metafora se non si dà senso (metafora

« viva », non

già retorica,

lessicalizzata:

abitudinaria,

morta), per l’altro il senso, che permette di tematizzare poeticamente persino l’insensatezza, è qualcosa che si dona sempre,

anche

solo

come

residuo

ineliminabile:

il trovarsi

nel

non-senso non è da addebitarsi al senso — come ciò che costantemente si ritragga, imprendibile — ma a una nostra colpa e caduta. L’annunciarsi del senso nelle cose, come residuo figurale in un

mondo

perduto,

funziona

come

richiamo

irresistibile

a risalire la caduta in un movimento opposto: e cosi, nei quattro capitoli iniziali, accanto alla vertigine del vuoto e dell’insensatezza

(« egli appari a se stesso grigio e passivo co-

me il riflesso di tutto ») che fa gridare in un punto a Johnny: «Io non mi sento un uomo! » (402), si fa strada la dimensione

dell’attesa, dell'apertura, del protendersi. Un giorno che — lasciato temerariamente il rifugio della villetta collinare — Johnny ritrova a un caffè due suoi ex-professori di liceo, Chiodi e Cocito fra «un serto di ex-alunni », quando nella discussione che segue qualcuno nomina per la prima volta

187

la parola « partigiano », tutti rimangono « intenti, ognuno per

suo conto, a pesare nella sua aerea sospensione, quella nuova parola, nuova nell’acquisizione italiana, così tremenda C splendida nell’aria dorata » (PJ,, II, 408-409). È veramente il

rivelarsi

a Johnny di un’apertura ignota, rispetto alla « cubi-

ca chiusura della città » (PJ,, III, 426). Dopo un’altra scriteriata discesa ad Alba per recarsi al cinema, da cui deve fug-

gire per terrore di un’irruzione fascista, Johnny pensa « salendo alla collina nella notte violetta » che non sarebbe più sceso in città: « se lascerò quella collina sarà soltanto per salire su una più alta, nell’arcangelico regno dei partigiani » (PJ,, II, 413). Il termine arcangelo/arcangelico ricorre, dopo questa, altre due volte nel romanzo (PJ,, V, 442; PJ,, XVIII, 599). Ora, all’inizio del romanzo, il termine viene a stabilire una di-

varicazione totale, una opposizione speculare: perché, se la dimensione partigiana è arcangelica (e poco dopo Johnny si trova a pensare che « Tutto era possibile fuorché i partigiani fossero uomini come tutti gli altri », 417-418), fra i segni di caduta e colpa che avvolgono il mondo borghese-cittadino non manca un richiamo demoniaco: Il primo autunno appariva all’agonia [...], mera tristezza piombata sulle colline derubate dei naturali colori, una trucità da mozzare il fiato nella plumbea colata del fiume annegoso [...] E il vento soffiava a una frequenza non di stagione, a velocità e RIO ri decisamente demoniaco nelle lunghe notti (PJ,,

Già fino da questo momento, la realtà partigiana — nella sua apertura arcangelica — appare un'esperienza di acquisizione del senso. Ma poi è fondamentale la sua localizzazione sulle Langhe: perché se da un lato esse, nell’insistita assimilazione al mare, appaiono il luogo della ricerca e dell’avventura (e il senso l’obiettivo finale di un’impresa arrischiata); dall'altro lato sono anche «la terra ancestrale » di Johnny, dove affondano le sue origini remote: il richiamo che le colline esercitano su di lui gli giunge anche per questa sotterranea via. Il movimento di ricerca e avventura verso la meta finale (garantito dalla metafora marina) appare insieme come un risalire alle origini, nell’ancestralità delle Langhe: analogamente a quanto accadeva in Moby-Dick, dove la ricerca della balena bianca è anche un risalire all’assolutezza originaria del mito. Questo varrebbe ad ulteriore conferma che l’insensatezza sia una colpa, una caduta, non già un ritrarsi del senso, visto che questo è un orizzonte avvolgente, circolare: la meta finale, ma anche l’origine che ci sta alle spalle. E difatti la notte del novembre ’43 in cui Johnny abbandona i

genitori — riparati con lui nella villetta collinare — per sali-

188

Te, « nel vento urlante e ubriacante », sulle alte colline in cer-

ca dei partigiani, nel momento in cui si accinge al distacco e inizia il suo movimento di avventura, egli approda già ad un primo parziale riscatto della colpa in cui lascia caduto il proprio

mondo

dietro

di sé: « Parti verso

le somme

colline,

la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto sibile, nel vortice

del vento

nero,

sentendo

com'è

pos-

grande

un

uomo quando è nella sua normale dimensione umana ». E ancora poco dopo è detto che « anche fisicamente non era mai stato cosi uomo, piegava erculeo il vento e la terra » (PJ,, IV, 437). Johnny approda ad una prima fondamentale tappa della sua vicenda, cioè alla normalità umana, come precisamente la dimensione dell'apertura e della ricerca. Ma di questa condizione non va mai dimenticato quanto sia pericolosa, arrischiata: avventurosa. Inizia con un distacco necessario, ma sofferto, e subito si tramuta in una messa

in gioco del proprio essere, nel confronto continuo col « grande prezzo » da pagare, la morte. Per questa via negativa, il senso, tanto cercato, si pone come assoluta alterità, al punto che l'iniziativa umana di ricerca sembra richiedere una serie progressiva di atti di negazione dell’io — attitudini « istituzionali

» per

un

poema

militare

come

questo:

amore,

sa-

crificio, dedizione — fino alla negazione assoluta della morte. Ma al tempo stesso si è visto che, nel linguaggio figurale delle cose, il senso, come orizzonte avvolgente, è disponibile a darsi, o meglio annunciarsi: e a questa iniziativa e disponibi-

lità corrispondono le altre attitudini militari fondamentali del romanzo: obbedienza, fedeltà e ascolto. La disponibilità figurale del senso suona come un richiamo o annuncio che attira a sé l’avventura: l’avventura, risalendo nell’alterità assoluta, si confronta sempre pericolosamente col punto limite della negazione dell’io, la morte. Ma il Partigiano Johnny indica la possibilità di una mediazione che consenta all’avventura di penetrare l’assoluto senza sacrificare l’individualità esistenziale: e sarà di nuovo una via figurale. Per il momento,

però, importa

soffermarsi

ancora

sullo

spessore che, nella metafora, le cose acquisiscono caricandosi di senso, cioè di alterità. Nel linguaggio figurale, proprio quando ci vengono incontro come annunci, le cose acquisiscono una alterità e oggettività assolute: non dipendono da noi, non sono manipolabili, giungono quando non sono aspettate, enigmi in certo modo impenetrabili. Questi sono i caratteri, fortemente epici, del mondo fenogliano, un mondo di cose nette, assolute, staccate.

E non è solo la metafora lo

strumento di questa assolutizzazione: è tutta la lingua di Fenoglio — « lingua inattuale, di mirabile difformità, [...] linguaggio astrattivo che non fu mai parlato »3 — a concorrervi

189

nin a c

colla sua inconfondibile struttura di « grande stile », come lo chiama Gian Luigi Beccaria, che, ne La guerra e gli asfodeli, l'ha splendidamente analizzato. Al centro di questa articolazione linguistica assolutizzante, antilirica, antipsicologistica, si pone la metafora. Ma essendo le Langhe, come detto, l’orizzonte della ricerca, cioè il luogo privilegiato di apparizione di una origine e di una conclusione (fra le quali si gioca l’avventura), la metafora



per tutto il tempo

della grande

av-

ventura collinare — si dà con gradi progressivi a seconda della trasparenza con cui le figure si presentano. In primo luogo si dà la metaforizzazione in cui si tematizza l’alterità delle cose (affinché poi possano valere come annunci) quando sono caricate dall’alterità del senso, e per questo rese profonde, staccate, assolute. È questo in primo luogo il caso del vento, che tanta parte ha nella vita del romanzo, con funzioni narrative diverse: più spesso esso è « diabolico », ma, anche, è presente a sottolineare i momenti so-

lenni delle grandi scelte, delle grandi prese di coscienza. Ma ciò che qui interessa è l’assoluta estraneità che impedisce di farne l’elemento di una dimensione lirica pervasa di soggettività: le connotazioni assolutizzanti (nero, eterno, onnipotente, superiore) lo staccano minacciosamente dall’io. Il vento è fisuralmente una forza indomabile, una alterità assoluta, non

per la sua percepita ostilità — che comunque non lo connota esclusivamente — ma per il carico di senso in cui esso si fa figura; tant'è che lo stesso distacco coinvolge in generale il paesaggio, non solo nelle stagioni inclementi, ma anche al colmo della sua bellezza estuosa, come mostra l’episodio dello scontro fra partigiani azzurri e fascisti nel giugno del ‘44, incastonato in un paesaggio pastorale la cui forza di fascinazione si dispiega nel capitolo precedente e nei due immediatamente seguenti del PJ,: ma l’alterità non liricizzabile di esso si profila nettamente man mano che l'avvenimento umano

scivola

inavvertitamente,

quietamente,

pacatamente,

nel-

l'orrore più totale, e allora la natura idilliaca appare come spettatrice tanto più staccata ed impassibile. Da questa alterità compatta e indifferente alla logica di uno psicologismo proiettivo, le cose paiono uscire per disciogliersi nella condizione enigmatica di apparizioni, a un grado più alto di metaforicità, da cui emerge la figura di una derivazione, di una uscita da un’assolutezza misteriosa. È questa la serie della spettralità, con i suoi agganci al cimitero, al sepolcro, al sudario. Attraversa dall’inizio alla fine tutto il romanzo, e dipende strettamente dal dominio che vi esercita la morte, cosi da diventare, dalla metà circa in poi, quasi ossessiva. La morte costituisce l'orizzonte assoluto, il

circolo

190

magico

entrando

nella cui sinistra luce

(anche

per

uscirvi immediatamente)

gli uomini

e le cose si caricano

di

un senso inafferrabile, di cui rimane percepibile chiaramente solo la derivazione, l'uscita dalla compattezza di un’alterità

assoluta. È ciò che capita a Johnny, in due momenti di supremo pericolo scampato, quando gli pare, per pochi attimi, di trovarsi fra una distesa di asfodeli (PJ,, IX, 490; PJ,, XXVII,

745-746).

Entrambi

i casi presentano

condensa-

una

zione, nei termini istantanei di una esperienza di morte-invita, della visita classico-epica all’al di là. L’assoluto negativo della morte rivela una profondità che può riconsegnare ciò che ha assorbito in sé. D'altronde l’« oggettività » di questa linea metaforica (non ribollente proiezione di soggettivi terrori, ma percezione oscura e inesplicabile di una « provenienza » delle cose) è marcata dalla forte mediazione letteraria di essa, perché gli aggettivi ricorrenti che la determinano: «spettrale », « sinistro », « stregato », sono spesso sostituiti dai corrispettivi inglesi ghastly, weird e haunted, termini quasi tecnici della letteratura gotico-simbolica anglosassone che marcano nettamente la figura del « ritornare », del « venir fuori », del « provenire »; gli aggettivi italiani non apparendo altro che la traduzione delle matrici simboliche inglesi. Si tratta di un’aggettivazione — in specie « spettrale » e « sinistro » — fittissima, cosi come fitta è l’assimilazione di cose o persone a fantasmi; trascinate da questa linea tematica ne abbiamo per tutto il romanzo altre strettamente

connesse: quella della tomba o bara; quella del sudario; quella del sepolcro e della sepoltura; quella del camposanto. Questa

suo

metaforizzazione

corrispettivo

« spettrale » ha, sul piano

nella

frequenza

del verbo

stilistico,

il

« apparire », e

del modulo « venne in vista », di cui Beccaria dice che « nega un’attesa, o la precedenza di una descrizione, ma sottolinea la rapidità, senza antecedenze, dell’accadere, del “manifestarsi”

fatale e inatteso di ciò che avviene ».9 Ma nel magico orizzonte marino delle Langhe possibile

una

più alta

linea

metaforica,

in cui

è ancora

il senso

si

elargisce compiutamente ed esplicitamente, condensando la cosa nella figura dell'annuncio, del messaggero. È un momento di spiritualizzazione che richiede nell'elemento al centro della condensazione figurale una luminosa consapevolezza del proprio ruolo. È questa la linea metaforica che ruota attorno al meraviglioso capo degli azzurri, Nord, la cui prima apparizione a Johnny (che rimane struck still and speechless) ha tutti i caratteri dell’epifania. E difatti il gioco metaforico che s’avvolge attorno a Nord elargisce la figura della visione imprevedibile, inaspettata, persino capricciosa, e in tal modo il capo azzurro diventa l’antipode speculare del vento — come s'è visto, la forza per essenza superiore e non dominabile:

191

ad esempio, « la perpetua quasi svenne nell’espugnante vento

il vento fi-

nero che era Nord » (PJ;, XVIII, 606). Ma mentre

gura un’alterità netta e impenetrabile, che lo fa scivolare facilmente verso la parte malefica, Nord è, all'opposto, un annuncio trasparente, inserito nella sfera del divino. Una sera Johnny ammira nel carissimo compagno Pierre, « discorrente nel vespro con un ufficiale di Nord », « quel suo unico sguardo a disposizione, di lealtà e di quasi interrogativa serietà, lo sguardo con cui confrontava Nord ed i fascisti, la morte e Dio » (PJ;, XVI, 577): in questo chiasmo i fascisti sono legati alla morte, Nord a Dio. Nord è davvero l’arcangelo in

cui l’uscita dal senso come messaggero ed annuncio si fa trasparente. Egli è «il divo Nord » (PJ,, XVI, 568), davanti al quale un giovane prete « scattò in piedi in pellicolare magrezza. E rispose a Nord con la stessa monosillabica convinzione che alla accettazione

manipolo

dei voti » (PJ,, XVIII,

607); mentre

di fascisti prigionieri, a cui è ordinato

suo arrivo, « si ersero

un

l’attenti al

e stettero, ma visto Nord, ristramazza-

rono sulla paglia come davanti a un dio giudicante » (PJ,, XXXI, 811). Nel momento della più completa rotta partigiana (autunno-inverno ’44) Nord rimane imprendibile e arcano persino per gli stessi partigiani, come avvolto in sfera numinosa: « circolava eternamente per valli e colline, serrato da un centinaio di uomini » (PJ,, XXX, 784); o, come un vecchio con-

tadino riferisce di lui: « viaggia sulle colline più alte, viaggia giorno

e notte,

senza

fermarsi

mai » (PJ,, XVIII,

1121).

E,

alla fine del tremendo inverno ’44-’45, quando Nord ricompare nel luogo convenuto per la riorganizzazione dei suoi uomini sbandati, un « boato

d’evviva

[...] salutò l’arrivo

di Nord

da

oriente » (PJ,, 908); un simbolico apparire questo, perché è Milton, nel Paradiso perduto, che chiama gli angeli « figli del mattino ». Le sue inaspettate, improvvise apparizioni hanno sempre il carattere della novità, rimarcata dal fasto sempre diverso della sua eleganza. Nord è avvolto da sentimenti di erotica dedizione e venerazione; verso di lui, l’innamoramento a prima vista è cosa comune: come nel caso di Johnny, che, vedutolo la prima volta, deve fare sforzi su di sé «per non soccombere all'immediata, integrale, colpo-difulmine devozione indiscriminata » (PJ,, XIII, 543). Ma proprio in questa onda di dedizione erotica che avvolge Nord, traspare il più sottile legame che lo unisce a Johnny: perché, se Johnny ha avuto un immediato colpo di fulmine per lui, Nord non è rimasto indifferente: Luciano e tutti gli altri mi hanno parlato molto bene di te — gli dice Nord — tanto bene che da tempo io sono qui... praticamente ad aspettarti. Se mantieni al 50% le promesse che per te

192

sì sono impegnati a formulare i tuoi compagni di città, tu sei destinato a restarmi molto presto vicino e fino alla fine, a dividere con me il mangiare e il dormire (PJ;, XIII, 544).

E ancora in seguito, durante una sua visita al quartier generale, il cassiere della divisione gli annuncia: « Finirai al comando. Nord s'è preso una cotta di te, e presto o tardi finirai al comando » (PJ,, XVI,

577). Questo

sottile legame

è

in realtà di natura molto profonda, perché la vicenda personale di Johnny è precisamente la conquista — con crescente, atroce consapevolezza — dello stesso ruolo figurale in cui è calato fin dall’inizio l’arcangelico Nord. Johnny muove alla sua avventura nella ricerca — dalla lontananza di una caduta — del centro di senso perduto. Nel loro linguaggio figurale, le cose si fanno apparizioni ed annunci di un'origine in cui egli vuole penetrare; che vuole, all’inizio della sua vicenda, conquistare. Ma come ogni avventura, anche questa è un andare ad incontrare l’ignoto, l’alterità. E l’alterità, ricercata e avvicinata — e che pure alletta e richiama coi suoi annunci — s’erge d’un tratto in tutto lo spessore impenetrabile d’una negazione dell'io: come nero muro della morte. La morte intride e avvolge tutta l'epopea militare del Partigiano Johnny come il culmine negativo dell’esperienza partigiana. Se l’origine del senso è l’alterità pura, sembra profilarsi necessaria una negazione suprema dell’io, che è poi lo scacco definitivo di ogni tentativo di conquistare il senso per riportarlo indietro al proprio mondo caduto — la propria terra desolata. Non parrebbe rimanere come alternativa che la passiva attesa degli annunci inesplicabili e imperscrutabili che, nelle cose, l'Altro dà di sé: ed è questa un'alternativa vissuta, nel romanzo, nell’insight visionario di Johnny, cui peraltro corrispondono nel suo carattere certi elementi di sognante passività, di capacità d’astrazione dai fatti contingenti. Ma Johnny è anche eroe attivo, e tutta la sua vicenda è giocata su una personale iniziativa di arrischio, di messa in gioco di sé. Questa consapevole, attiva apertura di Johnny non necessariamente è destinata allo scacco supremo della morte, perché il romanzo costruisce con un incalzare grandioso una nuova possibilità (l'assunzione del medesimo ruolo figurale di Nord) configurabile anzitutto attraverso l'esercizio mistico-militare della « contemplazione della morte ». Si assume qui il termine secondo la geniale riutilizzazione dannunziana dall’originario contesto mistico non tanto nell’opera che ne è intitolata,

quanto

nel Notturno,

dove è rimodulato

il motivo di caricarsi esistenzialmente della morte di Cristo, contemplandone come presente — nella concentrazione di un’immaginazione accesa — il corpo morto. Cosi D'Annunzio,

193

nella disperazione d’aver scampato — lui più che cinquantenne — la morte che s'è presa invece altri cari e giovani — « perché due volte m'hai tu deluso?» — nel ricordo che lo sopraffà come un’apparizione, contempla a lungo lucidamente il cadavere del fraterno Giuseppe Miraglia per raggiungere l’identificazione: « la sua morte e la mia vita sono una medesima cosa »; « Di tratto in tratto egli mi annienta. Mi perdo « Ho

in lui »;

messo

la bocca

nella pienezza

morte »;

della

« E talvolta vedo me stesso com’egli avrebbe potuto vedermi dalla sua bara »; « Sono talvolta il cadavere e colui che lo contempla »; « Toccare la morte, imprimersi nella morte, avendo un cuore vivo! ». Questo esercizio di contemplazione e meditazione

della morte, per farsene un carico esistenziale,

è il motivo di Johnny. Perché per tutto il romanzo, la morte non ha mai l’impersonalità della strage massiva. È invece una morte

selettiva, individuale, che egli può avvertire e leg-

gere negli occhi del compagno caro, del nemico con cui si confronta faccia a faccia, del cadavere che trova sul suo cammino. E ogni volta Johnny muore con loro anche lui, e tra-

muta in una certezza sempre più spaventosamente consapevole questa condizione di morte-in-vita, dalle riflessioni iniziali dopo la prima fortunata battaglia nella formazione comunista: [...] sentiva che si sarebbero ancora combattute battaglie, di quella medesima ancora guerra, quando egli e il Biondo e Tito e tutti gli uomini sull’aia [...] sarebbero stati sottoterra, messi da una battaglia al coperto da ogni più battaglia (PJ,, IX, 483), fino alla lucida identificazione,

nella parte conclusiva

del ro-

manzo, coi cadaveri dei due partigiani Ivan e Louis, quando Johnny rimane «tutto assorbito a contemplare i due, con una

crescente

capacità

di identificarsi

con

loro », PJ,, XXII,

1178 (capacità su cui insiste, nella prima redazione, una dittologia aggettivale: « Johnny sostava in ginocchio a contemplare loro due, con una crescente, crescente capacità di identificarsi in loro... », XXXVIII,

891-892). Ma

questo

episodio

ha luogo

ormai nel culmine dell’esperienza di Johnny, quando egli si sta caricando dell’assoluto — dell'Altro — non solo nella negatività tremenda della morte. Dal momento, infatti, del « grande sbandamento » e della solitudine successiva — che costituisce la materia dell’ultima sezione del romanzo — Johnny si assume il peso di un altro modo dell’assoluto: quello che per lui è la libertà, una libertà terribile e scon-

finata, coincidente colla morte nel suo prezzo altissimo di ne-

gazione dell'io. Johnny è rimasto tà delle

194

colline », quella

libertà

solo nella « selvaggia liberin cui

vuole

assimilarsi

e

coincidere; ma il prezzo che deve pagare per questa libertà. pura ed assoluta è una condizione disumana di sofferenza, in cui la fame, il freddo, la paura, la stanchezza,

la malattia

compongono la sua « nera notte dell’anima ». L'esistenza si riduce a un nudo confronto con gli elementi, i bisogni essen-

ziali,

la morte.

In

questo

disumano

calvario

la stanchezza

di Johnny può a volte trasformarsi in un rifiuto a continuare: «una greve repugnanza lo possedette al solo sbirciare alle grandi colline dirimpetto, coi loro interminabili seni e le creste già crepuscolari » (PJ,, XXXVI, 866); eppure, mai come ora egli è vissuto in una dimensione cosi assoluta: il silenzio, al cadere delle notti, è « supremo, come la vera voce di Dio » (PJ,, XXXIV, 843); le ore posseggono « un’estensio-

ne biblica » (PJ,, XXIII, 1186); quando risplende sulle colline innevate, il sole è « l'assoluto signore di quel compatto eppur piuma-leggero apparente mondo, [...] splendido ed assoluto come d’agosto e caldo come di ultimo maggio » (PJ,, XXXV, 849). E quando, morti Ivan e Louis, il mugnaio di Mango gli consiglia di smettere tutto, perché « Stanno facendovi cascare come passeri dal ramo. E tu, Johnny, sei l’ultimo passero su questi nostri rami [...] », Johnny risponde: « Mi sono ime se ne va rifiutando pegnato a dir di no fino in fondo» un ghiotto invito a cena, dine della notte,

e trovandosi

di nuovo

nella solitu-

Tutto, anche la morsa del freddo, la furia del vento e la voragine della notte, tutto concorse ad affondarlo in un sonoro orgoglio. — Io sono il passero che non cascherà mai. Io sono quell’unico passero! (PJ,, XXII, 1184).

Resistendo nel sacrificio e nell’umiliazione della carne, Johnny si è assorbito interamente nell’assoluto, cosi come si era « assorbito » a contemplare Ivan e Louis morti, « con una crescente capacità di identificarsi con loro »; la conclusione della vicenda ci mostra Johnny identificato — a prezzo atroce —

nell’assoluto

del senso;

ma

se caricarsi

di senso

è nelle

cose la condizione per acquisire lo spessore di figure, in un processo metaforico, lo stesso deve accadere per Johnny. E in effetti nell’itinerario della sua avventura, dal momento iniziale fino al culmine, Johnny ripercorre in rapida successione i tre livelli metaforici in cui si sono viste le cose « venirgli in vista » come « figure »: 1. Il livello in cui dalla metafora scaturisce la figura dell’alterità, come

ciò che esce dal nostro campo

lirico e lo con-

fronta come un apparire non consunto dall’abitudine. 2. Il livello in cui scaturisce la figura della derivazione « spettrale » della cosa da un centro che misteriosamente la elargisce.

195

3. Il livello

in cui scocca

la figura

dell’angelo,

cioè

del

cosciente porsi come un annuncio del senso da cui si è usciti. Ciascuno di questi tre livelli presuppone il farsi carico esistenziale di esso, il viverlo: la « figura » è vita pulsante, tramite cui soltanto il senso entra nel linguaggio. Nella figura dell’alterità, dell’estraniamento che lo rende un apparire nuovo all’orizzonte della banalità comune, Johnny entra già alla sua prima ridiscesa che lo porta a lambire il mondo cittadino, dopo la rotta della sua formazione rossa: Johnny si sentiva come può sentirsi un prete cattolico in borghese od un militare in borghese [...] il segno era sempre su lui: partigiano in aeternum. [...] Era terribilmente diverso da tutta

la gente che batteva la grande strada di cresta [...] (PJ,, XII, 526).

Lo spessore della sua alterità si rivela nel tinello borghese della villetta presso Alba dove l’industriale enologo B. l’ha invitato: Johnny stava malagiato nella dolce comodità antica della poltrona, con signore e signorine dirimpetto, lottava per ritrovare l'antica disinvoltura ed homeliness. Nel tono frivolmente mondano

della conversazione,

John-

ny si sente in pieno disagio: Tutto ciò era cosi assurdo, piombato in una vasca irreale: proprio non poteva più comunicare con quel tipo umano, nessun ulteriore rapporto, se non un muto sorriso, sfingico. [...] No, non c'era più nessun possibile rapporto, tra quella gente e se stesso, il suo breve ed enorme passato, Tito e il Biondo, le vedette notturne, le corvée di rifornimento, le uccisioni (PJ;, XII, 532-534).

Di questo estraniamento al mondo borghese-cittadino è prova ulteriore l’elusivo comportamento verso i genitori — non più rivisti dalla sua partenza — al tempo della conquista partigiana di Alba nell’ottobre ’44: si sottrae alla loro profferta di comodità, preferendo vivere in caserma o farsi distaccare in una fattoria fuori città. L’intensificazione al culmine della sua avventura, di questa alterità, innalza Johnny al piano figurale della derivazione spettrale: esito necessario per chi, due volte, ha vissuto la sensazione certa di essere entrato/uscito da una distesa di asfodeli,

o, in un’incursione

notturna,

si è sentito

parte

di

una ghastly crew, o, ancora, inseguito da una pattuglia di fascisti, « correva, o meglio volava, come uno spirito » (PJ,, XXX, 790). Ma è nelle terribili prove della solitudine succes-

siva, che la figuralità spettrale raggiunge la sua condensazione decisiva:

196

la notte

di Natale, mentre

« nevicava

soavemen-

te, in rade, piumose falde », Johnny è invitato — grazie agli uffici del partigiano Ivan — in una casa « opulenta e festaiola » di Benevello, dove le donne « hanno certamente preparato qualcosa di caldo e di dolce ». Ma una volta là dentro, Johnny è riafferrato da al vera insofferenza. Più che insofferenza era uncongenialità, incapacità a reggere e comprendere il discorso di coloro che potevano pensare e progettare per quando la guerra era finita [...]. E si rese un radiante, spettrale conto della sua separatezza, del suo essere un partigiano, in nudità estrema e fatalità estrema, senza la più minima possibilità di contatto. [...] scivolò fra un'ondata di ballerini ed oltre una staccionata di conversanti e fu fuori. Veleggiò nella neve morbida e alta alla caviglia [...]. Sprofondò nell’incorporeo, immenso abbraccio della solitudine [...]. Lo speciale Natale alla Langa era davanti a lui, nei suoi occhi, in tutta la sua appaling e fascinante nudità, ed egli vi marciò incontro con un fermo passo (PJ;, XXXVI, 870-875).

La separatezza spettrale di Johnny è risaltata oltre che da quell’« incorporeo abbraccio » in cui si perde, dall’aggettivo appaling, che ci riporta subito al terrore metafisico che paralizza l'equipaggio del capitano MacWhirr nel Tifone di Conrad (dove il termine ha forte incidenza) o sgomenta Ismaele di fronte all’arcano segno della bianchezza della balena: « It was the whiteness of the whale that above all things appaled me ». Ancora in seguito, un giorno che Johnny torna a visitare la vecchia

padrona

della

Langa,

rilasciata

dai

fascisti,

ella

[...] gli fissò gli occhi addosso un po’ spenti, e certo dovette apparirle come uno spettro grigiastro sotto l’allucinante sfondo bianco nero del tutto innevato bosco (PJ;, XXXIX, 901).

L’apparire spettrale è, in quest’ultimo caso, evidentemente connesso al suo stato di privazione e sofferenza: ma questo è il punto: quanto nelle cose, o negli altri uomini — compresi i soldati fascisti — è un emergere imprevedibile di senso mentre si trovano nel circolo magico di un assoluto — la morte —, per Johnny è un risultato voluto con tutte le sue forze, una condizione duratura al termine di un itinerario di sacrificio eroico. Ed è questa consapevolezza straziata e luminosa di chi si sente « partigiano in aeternum »; «il passero che non cadrà mai [...] quell’unico passero! », che consente a Johnny di attingere l’ultimo livello metaforico — quello in cui è situato Nord — della figura angelica dell’annuncio, in cui il senso compie luminosamente il suo ingresso nel mondo degli uomini e del loro linguaggio. Si tratta di due momenti nell’ultima parte del romanzo (quando, presi Et-

197

tore e la vecchia padrona, Johnny è rimasto solo nella devastata Cascina della Langa), il primo dei quali scompare dalla seconda redazione, insieme a tutto il capitolo in cui è compreso (dove è descritta, fra l’altro, l'imporiantissima veglia di Natale nella casa di Benevello). Qui vediamo una donna — una staffetta di Nord, appena rilasciata dai fascisti dopo torture e umiliazioni — salire alla bianca collina di Johnny — una mattina di riverbero « feroce e totale » — per ottenere di essere da lui riaccompagnata alla madre, nella rischiosissima

Santo

Stefano

Belbo.

All’inizio

osserviamo

la donna,

che sale faticosamente nella neve, con gli occhi di Johnny che la scruta dall’alto; poi, repentinamente, la prospettiva s’'inverte e, per un attimo, il soggetto osservante so — diventa la donna:



dal bas-

Poi la donna vide Johnny, solo, alto e scuro sul maestoso greppio folgorante, puntato a lei con tutta la persona ed il riverbero gli faceva dietro un intollerabile sfondo (PJ,, XXXVI, 858).

La medesima descrizione di Johnny in questo singolare atteggiamento ritorna una seconda volta in un successivo momento (compreso in entrambe le redazioni), dove egli [...] sedette sul davanzale ghiacciato, solo, alto e scuro, e sole e neve gli facevano dietro un intollerabile sfondo, e stette a lungo intento ai boati della città (PJ., XXI, 1165).

Questa descrizione appare tanto più singolare per il fatto che Johnny è qui completamente solo; non c’è nessuno a cui egli possa apparire « solo, alto e scuro » e lo sfondo alle sue spalle « intollerabile »: questa dunque è una dimensione che ormai gli compete «in essenza », cioè un atteggiamento figurale che ha la ripetitività e la stilizzazione dello stemma: e non ci vuole un profondo insight per stabilire il valore della figura. Johnny non è più « uno spettro grigiastro » su uno

« sfondo

bianco

nero », ma

una

creatura

sola e alta, in-

sostenibile allo sguardo per la luce sfolgorante su cui si campisce: tutte le qualità arcangeliche di Nord gli competono; Nord anzi era stato presentato in un passo antecedente in analogo atteggiamento: quando gli alpini di una divisione fascista che aveva disertato erano giunti al suo quartier generale. Essi [...] sfilaronc verso il sommo della conca, là dove stava Nord in alta solitudine. A lui s'erano immediatamente affissi i loro ricercanti occhi, competenti di capi, ed ora gli urlavano per gratitudine e dedizione (PJ;, XVI, 575).

L'« alta solitudine » e lo scuro

198

campirsi

su un pieno di

luce sono i caratteri che Montale aveva attribuito alla sua donna-angelo, Clizia, in una poesia della Bufera, Sulla collina più alta, composta davanti alla Moschea di Damasco nel 1948: « Ma in quel crepuscolo eri tu sul vertice: / scura, l’ali ingrommate, stronche dai / geli dell’Antilibano ». Johnny è veramente approdato alla dimensione arcangelica dei partigiani verso cui la sua anima anelava all’inizio: e questa dimensione è al tempo stesso conquista consapevole del senso, che, nel momento del suo ingresso fra gli uomini, può solo essere vissuto, testimoniato (Johnny avrebbe percorso il suo itinerario per approdare sulla sua carne alla conclusione che tutto l’effimero non

solo successivamente

è che un simbolo);

quel modo di essere che è la figura viene articolato e interpretato — ma a prezzo di un inevitabile irrigidimento: come,

nel caso

la sua

di Johnny,

sarebbe

testimonianza

di li-

bertà a coloro «che stavano accosciati sotto quel coltrone di nebbie e di vergogna »; ma il momento figurale è molto più ricco, e la commozione che scaturisce dalla figura dipende dal condensarsi

in lei di un

senso

che, nella sua totalità,

rimane inesprimibile e inesauribile. Può Johnny ridiscendere da questo culmine cui è pervenuto nella sua avventura? Quando il 31 gennaio cento uomini rispondono all'appuntamento di Nord sul poggio di Torretta, la missione di Johnny è conclusa, perché « Ecco l’importante:

che

ne

restasse

sempre

uno » (PJ,, XVI,

1117):

e

lui è rimasto, ultimo e unico passero sui rami infelici della disfatta. Ora che la radiosa primavera della vittoria è alle porte, e il reimbandamento si profila massiccio, la sua testimonianza è conclusa: ma soprattutto è ormai per lui impossibile riabituarsi ad una « normale » routine di guerra, do-

po i giorni solitari dello strazio e della luce. Il sentimento di estraniamento e quasi indifferenza — ma dolorosamente percepito — è il motivo dell'ultimo capitolo del romanzo già dal momento dei saluti e degli abbracci fra gli uomini ritrovati. Da questo estraniamento Johnny tenta di uscire nell’ultima battaglia che chiude il romanzo: uno scontro di non

decisiva

rilevanza

con

una

retroguardia

di fascisti;

il

successo starebbe per arridere ai partigiani, quando torna, a guastarlo, il grosso delle forze nemiche. Nello svolgimento dell'episodio le due redazioni divergono: la prima rimane indecisa fra l'isolamento che avvolge Johnny per tutta la battaglia e il finale riacquisto della solidarietà coi compagni, che appare conclusione poco giustificata e anche stilisticamente precaria. Da queste titubanze compositive esce la seconda redazione, che porta alla logica consequenza la necessità narrativa del personaggio di Johnny, che — partigiano in aeternum — deve per sempre rimanere su quelle colline

199

dove è avvenuta la sua trans-figurazione: vengono pertanto eliminati molti particolari accessori, e il motivo centrale rimane l’estraniamento di Johnny, condotto fino a quello che pare — nella provvisorietà di una frase non rifinita — il suggello della morte. Johnny, infatti, per tutto il tempo della battaglia non riesce ad «inserirsi nella generale realtà »; ad impedirglielo c’è l'accanimento con cui un invisibile fucile semiautomatico



« preciso, meticoloso, letale » —

lo prende

a bersaglio. Proprio nel momento in cui riesce a sostituire il suo sten scarico col fucile del partigiano Tarzan, morto, arrivano gli aiuti fascisti: il combattimento è finito e i partigiani si ritirano lenti e come intontiti. « Dalle case non sparavano

più, tanto

erano

contenti

e soddisfatti

della

libera-

zione ». Ma l’arcano destino che guida il semiautomatico ha preso di mira Johnny; infatti « Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico... »: bisogna immaginare nei puntini di sospensione quello che succede qui. Ma non c'è dubbio che in questo punto fosse la conclusione della vicenda; perché, subito dopo, l’ultima frase suona come definitivo commiato: « Due mesi dopo la guerra era finita ».

NOTE ! PJ,, PJ,= prima redazione e seconda redazione de Il partigiano Johnny, edizione critica, diretta da Maria Corti, delle Opere di Beppe Fenoglio, Torino, 1978, vol. I, tomo II. ? In «La Fiera Letteraria », 8 marzo 1959. ? E. SOLETTI, Beppe Fenoglio, Milano, Mursia, 1987, p. 123. eli termine « metafora viva » è qui assunto nell’accezione di Paul Ricoeur, La métaphore vive, Parigi, s. e. 1975, trad. it. La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Milano, Jaca Book, 1981. . _ ® G. L. BECCARIA, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di Beppe Fenoglio, Milano, Serra e Riva, 1984.

* Ibid., pp. 101-102.

200

Maria Grazia Di Paolo

BEPPE

FENOGLIO:

FRA SEGNO

E IMPEGNO

Nel primo saggio del suo libro su Fenoglio, Gian Luigi Beccaria quasi scandisce un monito solenne: « A vent'anni dalla morte, Beppe Fenoglio scrittore ci viene incontro oggi già con un tratto monumentale, con quella quasi astorica lontananza che ce lo pone tra i classici, uno dei massimi, del Novecento ».! Con opportuna essenzialità, il critico condensa

qui alcuni punti basilari coi quali converge questa mia lettura. È stata spesso suggerita — talvolta in forma di rimprovero — la tendenza di Fenoglio ad estraniarsi da responsabilità politiche o civili. Oggi studi più attenti sono riusciti a ridimensionare l’angolazione attraverso cui va guardata la sua opera: dobbiamo, cioè, soffermarci su aspetti che esulano dall’ispirazione storico-politica. Per quanto, infatti, riguarda il cosiddetto impegno, si sa che Fenoglio non segue le direttive degli scrittori della sua generazione. Che, con quel suo « tratto monumentale », egli possa annoverarsi «tra i classici » del Novecento è un giudizio più caratterizzante di quanto non appaia a prima lettura. Umanista nel senso ideale del termine, Fenoglio fa della letteratura la sua religione ed

è per essa e con essa — come si preciserà più avanti — che egli dà corpo al suo engagement. I segni di tale impegno, intesi come tracce visibili ed emessi « con la precisa volontà di significare qualcosa », sono da ricercare nella complessa tessitura

di citazioni, allusioni, ricordi

gini poetiche. gerito,

nella

Ed in effetti, secondo scrittura

di Fenoglio,

di cose

lette o imma-

quanto è già stato sugfondamentale

risulta

la

funzione ermeneutica e non retorica della parola, che s’'impone non come « ornamento del discorso », ma come « “segnale” di comunicazione ».3 Si è spesso accennato alla vocazione letteraria di Fenoglio; alle sue travagliate ed ossessive prove e riprove nel desiderio

di scrivere,

come

egli stesso

annota

nel Diario,

« il

libro per cui possa » ritenersi « buono scrittore » (III, p. 201). È un fatto innegabile, inoltre, che, più

o meno

intensamente,

egli si impegni in tutti i generi letterari, alla ricerca di nuove forme

teratura.

di espressione,

di nuovi

e diversi modi

di fare let-

E se Fenoglio privilegia i testi inglesi è perché in

201

essi, per dirla con Maria Corti, è intravisto « un modello umano di vita che egli ritaglia per sé entro la cultura anglosassone »5 Orbene, questa disposizione, anzi propensione agli otia (e non

volens

a cui doveva,

ai negotia

garsi) e il suo sogno

aut

pie-

nolens,

di un'Italia migliore, gli consentono

fare dell’opera letteraria

(che è per lui cosa

sacra, non

di solo

per la vita del suo spirito ma anche per quella dei « confratelli » uomini) il veicolo del suo engagement. Ad essa, pertanto, nell’ambito della sua produzione artistica, Fenoglio assegna un ruolo di primissimo piano, da cui traspare un abile e sottile gioco metaletterario, suggestivo e luminoso. La linea interpretativa del ruolo dell’opera d’arte nella produzione fenogliana va seguita, come dicevo, attraverso l’ordito

di citazioni,

ricordi

di cose

lette, allusioni

o imma-

gini poetiche a seconda del registro linguistico, dell’argomento o della situazione del personaggio. Ovviamente, gli elementi letterari che qui ci impegnano riguardano quei personaggi, come Milton o Johnny, coi quali Fenoglio si identifica, o quelli che potremmo in qualche modo considerare con essi imparentati: i giovani intellettuali e letterati partigiani. Ma addentriamoci per un momento in una regione particolare del loro mondo letterario: la loro realtà nel ruolo di studenti universitari. Rimane certo che una fonte cospicua di ispirazione del nostro autore sgorga dalla sua ammirazione per l’uomo colto, docente o discente di discipline umanistiche.

Infatti,

non

c’è libreria

che

non

attiri

l’attenzione

del

personaggio più tipicamente fenogliano; non c’è biblioteca, per quanto esigua, presso la quale egli non si attardi a frugare ed esaminare. Si pensi all’inaspettata apparizione di una libreria nell’Ur Partigiano con la descrizione di Johnny che si dirige affascinato alla vetrina « uglily encased in a dirtywall, but incredibly, stupefyingly rich in books and quality, with novels of Hardy and Dreiser » (I, p. 301);6 e si pensi all’angolino della maestrina nella fattoria Gambadilegno, in assenza della donna riservato a Johnny, che «includeva un apparecchietto radio su un centrino di filatura collegiale, e tre va

di libri»

(I, p. 652);

alla libreria

(Primavera

di bellezza,

prima

strati

Johnny

al tempo

dell'università

con

di Torino

che

redazione)

frequenta-

colonna

scaffalata,

l’« alta

fitta di edizioni Tauchnitz e Albatross » (I, pp. 1276-1277); allo scaffale « pieno zeppo di libri » di Edda di Frammenti di romanzo (si veda appendice), con Milton che si china a guardare il libro sul comodino, lui che « in nessun caso aveva mai

resistito

ad un

libro » (I, p. 2158);

e si pensi

infine

alla libreria di Fulvia di Una questione privata (I, p. 1948),

in cui, tra i libri dimenticati, Milton scopre Tess dei D’Urbervilles che egli stesso le aveva regalato. Si rivela anche profi-

202

cuo tener presente che siamo di fronte a un personaggio appartenente a una classe privilegiata in cui « Fenoglio può identificare il suo personale mito di aristocraticità »,’ cosi come, se pur in altro contesto, scrive la Grignani. Il senso di tale mito si evince in modo particolare da due tipici esempi estrapolati dal Partigiano Johnny. Il primo è un commento della già menzionata maestrina della fattoria Gambadilegno: « Chissà le risate che avete fatto sui miei poveri libri! Voi l’altero universitario destinato a diventare un professorone » (I, p. 679). L'altro, più esplicito, ci viene offerto tramite la contadina a cui Johnny è costretto a chiedere ospitalità durante lo sbandamento: Non s’era lasciata ingannare dal suo aspetto presente, egli era certamente un ragazzo molto distinto, da una distintissima famiglia cittadina, e con molti studi [...] che studi aveva fatto? L’università, Gran Dio, per la laurea da professore! Gran Dio, e profesa done Ah, l’istruzione era una gran cosa, la cosa più grande » » P. .

Ricorsi contenutistici di questo tipo non solo costituiscono elementi tematici con segni di spiccata autonomia,

ma

ov-

viamente presentano nessi di altro genere con il referente. È indubbio, intanto, che essi riflettono un ideale, quello, appunto, che va sotto l’insegna dell’amore per gli studi umanistici, in senso lato: di studioso e pedagogo, insomma, restituito alla sua dignità di uomo nobilitato dal suo sapere.

Alla luce di queste premesse, risulta quanto mai valida la descrizione del personaggio Johnny che offre Fenoglio nell'omonimo romanzo: « Aleggiava, da sempre intorno a Johnny una vaga, gratuita, ma pleased and pleasing reputazione d'impraticità,

di testa

fra le nubi,

di letteratura

in vita...»

(I,

p. 391). Con la dovuta enfasi, anzi facendo leva sul sintagma « di letteratura in vita », sarà possibile lumeggiarne le relazioni con un ricco prisma di elementi di argomento affine, ricorrenti in più pagine della produzione fenogliana. Partendo dall’Ur Partigiano, che, saturo di espressioni segniche, offre al mio tema l’opportunità di un dettagliato svolgimento, seguiamo il nostro personaggio esclusivamente per quel che concerne il suo mondo letterario. Apprendiamo presto che Johnny giudica res et homines attraverso i libri che ha letto e i personaggi che hanno fatto storia. Cosi, quando viene inviato quale interprete e ufficiale di collegamento presso la missione inglese, egli deve compiere uno sforzo per ridimensionare le sue ottimistiche aspettative, immaginandosi gli inglesi dal calco, per cosi dire, della loro « history and mangallery », « with something of Lawrence, and something of

203

Raleigh and something non

a caso, Lawrence,

of Gordon

in them» (I, p. 7). Certo

Raleigh e Gordon,

citati da Fenoglio,

sono tutti e tre scrittori ed impavidi guerrieri, attraverso i quali una volta ancora egli intende suggerire una corrispondenza di gusti e di ideali (« sulle lapidi, a me basterà il mio nome, le due date che sole contano, e la qualifica di scrittore

e partigiano », si legge nel Diario, III, p. 200). Non solo gli uomini, ma la stessa natura subisce questo tipo di trasposizione per il tramite di comparazioni: il paesaggio delle Alte Langhe è « something like a Yorkshire », dice Johnny, « out of very literary reminiscence » (I, p. 9) e la giornata primaverile acquista l'incanto della dark lady (I, p. 197), cioè la donna cantata nei sonetti shakespeariani. Ben si comprende, pertanto, la ragione dell’uso, ampiamente reiterato, di excerpta litteraria nell’epos partigiano nei momenti più impensati e a volte in disarmonia

con

la materia

sotto

mano?

Si ricordi,

per esempio, la citazione da Pilgrim’s Progress nell’Ur Partigiano: « In the total surety that finally derives from total unsurety, in the spherical confidence that nasce from very total ignorance, Johnny slept. And had a dream, and dreamed a dream » (I, p. 227); oppure l’altra da Wuthering Heights da parte del protagonista del Partigiano Johnny davanti alla tomba del suo compagno di lotta: Ma sul tumulo proprio non gli riusci di stabilire un benché minimo dialogo con Tito underlying, l’afferrò anzi, e per tutti quei minuti, un giro letterario, certo frivolo, forse sacrilego, sicuramente odiosissimo: — watched the moths fluttering among the heath and harebells: listened to the soft wind breathing through the grass (I, p. 498).

C'è in questi esempi, ed in diversi altri ancora che si potrebbero citare, molto di forzato e di iperbolico. Ma gli inserti si giustificano, più che per la pregnanza di cui s’arricchisce il referente, per quell’ideale squisitamente umanistico di letteratura che viene trasferito dal testo emittente a quello ricevente, dalla pagina alla vita.

Del resto in Fenoglio opera vivamente lo spirito della « poesia » non solo perché donatrice di fama, ma perché foscolianamente custode di memorie presso i posteri. Infatti, alta egli sente la sua missione di cantore di italiche « gesta ». E non mancano brani esemplificativi a riguardo. Va intanto osservato che il numero dei personaggi a cui Fenoglio affida il ruolo di scrittore è davvero imponente. Nell’Ur Partigiano il capitano Keany è il primo a confessare di aver lasciato interrotto un dramma a cui stava lavorando (« I left a work yon there, when going to the wars »; I, p. 51). Sullo

204

Stesso argomento s’innesta la testimonianza del Comandante Marino che sta scrivendo un libro (« I'm jotting a book on us and

our

things »; I, p. 243). A lui lo stesso

Johnny,

per

nulla sorpreso, annuncia che egli ne conosce dozzine che fanno altrettanto («I personally know dozens of us picking up such flowers » [I, p. 243], dove con « picking such flowers », « Fenoglio allude », secondo Eduardo Saccone, «a un passo dell’avvertenza, datata 15 agosto 1926, che T.E. Lawrence man-

dò innanzi alla seconda edizione di The Seven Pillars of Wisdom »).!0 In Primavera di bellezza (prima redazione) leggiamo: « Per ore nel pomeriggio — un pomeriggio nato vecchio, brizzolato, con acrimoniosi soffi di vento — era stato seduto davanti a una pagina bianca senza riuscire a stendervi una sola parola » (I, pp. 1318-1319) e più avanti è ancora Johnny che, in seguito alla morte dell'amico Morra, chiede a Fulvia: « se io finissi come Morra [...]. Me ne andrei senza aver fatto niente, non lascerei nulla di mio. In questo caso, tu mi considereresti ugualmente uno scrittore? » (I, p. 1322),

stralci da cui emergono i riverberi di uno dei topoi più visitati del nostro Novecento: la « pagina bianca » di cui aveva più volte parlato Mallarmé, il dramma dell’inespresso che qui Fenoglio sembra riecheggiare. E, come ultimo esempio, rimandiamo a un frammento in appendice a Una questione privata: « Sapevo che il mio compagno Jerry scriveva della guer-

ra [...]. Lo vedevo

scrivere e non

dubitavo

che scriveva

della

guerra » (I, p. 2281). Il proliferare di questo tipo di letteratura ci riporta all'ormai famosa prefazione di Italo Calvino al suo Sentiero dei nidi di ragno in cui egli si unisce ai tanti memorialisti di guerra nella comune e singolare esperienza, « spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d’una sua eredità ».!! Senza dubbio anche Fenoglio si sente « spinto » a ricreare eventi e situazioni in qualche misura eccezionali. Tuttavia, per il nostro scrittore si tratta di ben altro ancora. Su di un piano di risonanze culturali s'inserisce nell’Ur Partigiano un dialogo, particolarmente illuminante, tra Johnny e il capitano Keany sull’attività, diciamo, scrittoria: Keany

Johnny

He sighed in the lowering air: — Had I at least a centesim of Milton’s genius, and I would work a deathless thing of poetry, to console me of the loss of power. As you surely know, something alike has happened to your Dante. What is the Comedy but the raging attempt to erase the loss of power? The German emperor had failed him, King Charles returned home on Milton's back, and now we are working for U.S.A. up and us down (I, pp. 49-51). Though sad, it's a life-remplishing thing to be worth of the past, and you are so rising to that situation (I, p. 51).

205

È manifesta qui l'intenzione di Fenoglio di voler elevare la cronaca partigiana a letteratura impegnata, nella pienezza dell’accezione, sull'esempio di poeti come Milton e Dante. Ma il suo istinto di artista, assolutamente conscio dei suoi mezzi

e dei suoi limiti, gli detta parole quali « Had I at least a centesim of Milton's genius, and I would work a deathless thing of poetry ». Ancor più calzante, per il giudizio avanzato sull'arte poetica, è quanto si legge subito dopo, a proposito di Johnny, a cui il capitano Keany spiega che la Commedia di Dante, e perciò la grande poesia, altro non è che un tentativo di rimediare, col furor poeticus, alla perdita del potere (« the raging attempt to erase the loss of power »). Tramite l'esemplificazione qui addotta siamo così giunti a dei punti essenziali: la sussunzione, cioè, al valore, più o meno

insigne,

di un paese in base alla letteratura che esso ha prodotto, il potere (economico o militare) essendo anch'esso partecipe dell’inesorabile precarietà delle cose. In fondo è nello stesso spirito che Orazio dava voce al tema della poesia quale dominio sulla caducità della materia con l’ode Exegi monumentum aere perennius

(Odi, III, 30). È cosi che la parola poetica di-

viene il veicolo unificatore dell'esperienza umana. Ecco perché lo scrittore albese, e per trasposizione molti suoi personaggi, continuamente ritornano agli autori del passato. « It's a life-remplishing thing [che sta ovviamente per lifereplenishing thing] to be worth of the past » è il commento di Johnny che approva ed ammira il capitano nel suo rammarico di non possedere una minima parte del genio del poeta Milton. Pertanto, sull’ordito di una tela ricca di ricorsi contenutistici affini e di rimandi ad altri scrittori, Fenoglio costruisce, con aristocratica classicità, il suo monumentum come religione della letteratura, appunto foscolianamente

sentita.

In questo contesto ben si comprende l’attenzione che il nostro autore, attraverso i protagonisti dell’epos partigiano, pone all’esercizio del raffinato tradurre. Si consideri il riferimento all'’Ebreo di Malta di Marlowe nel Partigiano Johnny: « L’avrebbe

tradotto,

consumato

la sera

a tradurlo:

non

vi-

sivamente, ma con penna, l’avrebbe messo in carta con una scrittura elementare, minuziosa e calcata, la grafia come un ceppo di salvezza » (I, p. 401). E nel Diario Fenoglio poi scrive: « Recitato, nella mia versione, Peace di Hopkins. L’esaltante fatica che mi costò il tradurre quel poco d’Hopkins » (III, p. 210). in effetti, risulta estremamente fitto e variato il repertorio dei casi attraverso i quali è sviluppato questo motivo d'ispirazione. Ci limiteremo a qualche altro esempio

soltanto. In

206

Frammenti di romanzo Giorgio « stava traducen-

do da “L'Ebreo di Malta” quando arrivò l'avvocato di famiglia ad avvertirlo che suo padre era stato prelevato come ostaggio » (I, p. 1588). Nella prima redazione di Una questione privata Milton « aveva tradotto tutto il Dottor Faust e buona parte dell'Ebreo di Malta quando arrivò il 25 luglio » (I, p. 1796) e « aveva finito l’Ebreo di Malta ed anche l’Edoardo Secondo quando venne l’otto settembre » (I, p. 1797). Col richiamo a queste opere di Marlowe in particolare, perché ricorrenti in più parti dell'universo fenogliano, lo scrittore albese recupera un loro motivo comune: quello della precarietà delle gioie terrene, che Marlowe fissa emblematicamente nei versi di Edoardo Secondo quando, con la rinuncia alla corona, il re implora la morte: « Make me despise this transitory pomp [...] Come, death, and with thy fingers close my

eyes ».!2 Su una linea di ispirazione un po’ diversa, ma nello stesso

ambito, vanno

ricordate

le traduzioni

che nella secon-

da e terza redazione di Una questione privata Milton fa per Fulvia. La funzione cui accennavo è di dare ancora una volta risalto alla dimensione

letteraria che, sebbene

non

esuli dal-

l'immediatezza del referente, assume una sua realtà indipendente il cui focus è sempre alimentato da un'ottica diacronica intorno all’io autobiografico della lotta partigiana. Lo studio di queste interrelazioni suggerisce, però, un discorso a parte per Una questione privata perché più complessa e suggestiva è l'operazione riscontratavi, in quanto si passa dalla diegesi, in senso lato, alla esegesi. Gli excerpta litteraria, per esempio, sono più intimamente assorbiti nel tessuto narrativo del romanzo. Pertanto, non possiamo più affidarci esclusivamente a quei sintagmi e lessemi che costellano l’asse tematico del referente; bisognerà piuttosto esaminare quelle unità segniche che nel sistema simbolico dell’opera assumono

una

funzione

analoga.

Il breve

romanzo,

come

sappiamo, è dedicato quasi per intero alla vicenda sentimentale che intercorre tra i protagonisti, Milton e Fulvia. Ne nasce, secondo le parole dello stesso Fenoglio, il « disgraziato, complicato

amore

letterario »!* di Milton

per Fulvia.

Milton,

infatti, traduce per lei racconti, poesie e canzoni. Le scrive bellissime lettere e le parla a lungo. Di conseguenza Fulvia, come ho già detto in altra sede, assume un ruolo altamente positivo, quale ispiratrice della sua attività scrittoria.!! Ma nel contempo ella diventa anche motivo di gioia e di angoscia, di vita e di morte. E la torturante gelosia che opprime il cuore di Milton nella ricerca della verità su Fulvia non è in fondo che un pretesto per la ricerca dell’ubi consistam fenogliano. Il travaglio gnoseologico viene cosi impostato su

207

un

richiamo

affettivo,

secondo

il pensiero

di Kierkegaard

e

di tutto l’esistenzialismo in genere. Un motivo affiorante a diversi livelli nell'universo partigiano è appunto l’angoscia.! Tra i vari esempi è interessante indugiarsi a osservare la spiegazione che, nel Partigiano Johnny, Fenoglio mette sulle labbra del professor Chiodi:

— Vedi, l'angoscia è la categoria del possibile. Quindi è infuturamento, si compone di miriadi di possibilità, di aperture sul futuro. Da una parte l’angoscia, è vero, ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma d’altra parte essa è il necessario sprung, cioè salto verso il futuro (I, p. 408).

Questo brano, è stato già osservato, presenta una qualche ambiguità proprio perché vi si nota la compresenza di nozioni che risalgono a entrambi i filosofi Kierkegaard e Heidegger,!6 « Nella risposta data da Chiodi allo studente, si parla di “salto verso il futuro”, ed è propria della filosofia heideggeriana la stretta connessione tra il futuro e l’assunzione del proprio destino, in quella unità di passato e futuro autentici, realizzabile solo tramite l’angoscia ».”! Ebbene, questo motivo,

che, per il suo ricorrere, prende spicco nel Partigiano Johnny, ma assume rilevanza particolare in Una questione privata, si traduce in agire « autentico » tramite l'impegno tipico del mentore, impegno che nella traiettoria verso il futuro si « effettua » nell'opera d’arte secondo canoni heideggeriani. Un esempio tipico, tratto da Una questione privata, potrebbe essere il seguente: Correva, come non aveva mai corso, come nessuno aveva mai [...]. Correva ancora, ma senza contatto con la terra, corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati [...]. Non finiva di correre. La terra saliva sensibilmente ma a lui sembrava di correre in piano, un piano asciutto, elastico, invitante (I, p. 2062). corso

Paradigmatici risultano i sintagmi « senza contatto con la terra », « corpo, movimenti, respiro, fatica vanificati » da cui traspare, in actu, il senso, ovviamente irreale ma davvero inebriante, del divenire estetico. Cosi nell’opera d’arte l’io auto-

biografico si manifesta

in tutta la sua consapevolezza:

« Lo

sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti » (I, p. 2059) sono

le parole di Milton per Fulvia ormai lontana e irraggiungibile, parole che lasciano la loro impronta, che è, a sua volta, traccia dell'autore, « traccia di sé »,8 nella fuga dal finito verso l'assoluto.

208

NOTE ! G. L. BECCARIA, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica

di Beppe Fenoglio, Milano, Serra e go” 1984, p. 13. 5 ? C. SEGRE, / segni e la critica, Torino, Einaudi, 1969, p. 68.

$

* G.L. BECCARIA, op. cit., p. 60.

è Cito dall'edizione critica delle Opere di Fenoglio, diretta da Maria

Corti, Torino, Einaudi, 1978. ° M. CortI, Beppe Fenoglio. Storia di un « continuum » narrativo, Padova, Liviana, 1980, p. 23. . 9 Per l’inglese di Fenoglio, cfr. in particolare C. CARLUCCI, L'inglese di Beppe Fenoglio, ne « L’Approdo Letterario », n. 53, 1971, pp. 92-100; M. CORTI, op. cit., 1980, pp. 24-25; E. SAccoNE, La questione dell’« Ur Partigiano Johnny », in « Belfagor », XXXVI (1981), pp. 573-574; J. MEDDEMMEN, Documenting a Mobile Polyglot Idiolect. Beppe Fenoglio’s « Ur Partigiano Johnny » and its Critical Edition, in « Modern Language Notes », n. 1, 1982, pp. 85-114; G. L. BECCARIA, 1984, pp. 22-23. ? M. A. GRIGNANI, Beppe Fenoglio, Firenze, Le Monnier, 1981, p. 9. 8 La vedova dello scrittore, Luciana Bombardi, mi ha confessato (in un’intervista del 28 giugno 1983 ad Alba) che in realtà suo marito avrebbe voluto essere professore di liceo. ? Per questo aspetto del romanzo, rimando al mio saggio Strutture tematiche e tecniche letterarie in Beppe Fenoglio. Fra tema e simbolo, Ravenna, Longo, 1988, pp. 108-110. 1° E. SACCONE, Fenoglio: i testi, l’opera, Torino, Einaudi, 1988, p. 66. 1! I. CALVINO, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1967, p. 7. 1 C. MARLOWE, Plays, New York, E. P. Dutton, 1950, p. 342. 8 Cfr. M. A. GRIGNANI, La parola a Fenoglio, in « Belfagor », n. 3,

1982, p. 345. rario

4 Rimando al mio saggio La Fulvia fenogliana: tra realismo lettee letterarietà realistica, in Beppe Fenoglio. Fra tema e simbolo,

cit., pp. 25-53.

SRORTLI.

15 Dicevo che l’angoscia è un motivo affiorante a diversi livelli nelle opere partigiane, perché in esse è esplicitamente o implicitamente presente. Oltre al passo riportato nel testo di questo lavoro, si osservino i seguenti esempi in cui riappare il lessema. Nel Partigiano Johnny leggiamo: «Ogni suo passo parlava di angoscia e di abnegazione...» (I, p. 397); « Riguadò il torrente e si mise a salire, la debolezza, l'angoscia e la tenebra facendone un calvario » (I, p. 823). In Primavera di bellezza: « Le notti d’agosto, nell’insonnia cronicizzata, Johnny stava sempre più a lungo alla sua finestra, opponendosi con tutte le forze all’angoscia di cui era carica l’aria » (I, p. 1503). par 16 Si veda G. FenoccHIO, La scrittura anfibia del « Partigiano John-

ny », in « Lingua e stile », XX (1985), pp. 110-112. RIDI È ; 18 Cfr. U. GALIMBERTI, Invito al pensiero di Martin lano, Mursia, 1986, pp. 43-44, 108-113.

A Heidegger,

: Mi-

209

Laura Nay

DUE

FAVOLE

INIZIATICHE

Tra le carte di Beppe Fenoglio, dattiloscritte, sono state rintracciate, e successivamente pubblicate, da Piera Tomasoni, due favole scritte fra il 1961 e il 1962 per la figlia Margherita.! La scarsa attenzione, che la critica ha riservato ad entrambe, non è giustificabile ulteriormente, e neppure ha molto senso tentare un impari confronto di Fenoglio favolista con il contemporaneo Italo Calvino? Nell’universo narrativo di Fenoglio il racconto favoloso non ha lo stesso spazio e peso che ha in quello di Calvino, è vero; ma non per questo perde di necessità. Già il titolo della prima fiaba è sintomatico. La favola del nonno non è, come potrebbe sembrare a prima vista, un titolo generico, o, tanto peggio, elusivo. La favola del nonno vuol dire che ancora una volta questo genere di racconto per l'infanzia è prerogativa degli anziani, si che, quasi di conseguenza, sul racconto si stende un alone di bonarietà e d’ingenuità, quasi pacioccone? O piuttosto il nonno simboleggia la saggezza, e la sua favola, di conseguenza, diviene un racconto iniziatico? Protagoniste sono due animali, le galline Tuja e Chica, sorelle fra di loro. La prima cammina « impettita e arcigna », parla « poco e aspramente »: dirige « la casa »; la seconda si muove « molle e trasognata », parla « moltissimo e vezzo-

samente e quasi sempre a sproposito »: sa solo « apparecchiare la tavola in modo delizioso e preparare certi dolcetti veramente squisiti ». Tuja e Chica si presentano a chi legge con caratteri antitetici. Se si vuole proseguire dando credito alla seconda ipotesi, suggerita interrogativamente poco sopra, si potrebbe ricorrere a un’analisi ben nota di Bruno

Bettelheim, auto-

re del Mondo incantato. In particolare, delineando nella fiaba un percorso di maturazione, Bettelheim osserva: « Finché non abbiamo raggiunto una piena integrazione della nostra personalità, il nostro

Es (le nostre pressioni istintuali, la nostra

natura animale) convive in una pace precaria col nostro Io (la nostra razionalità) »3 In altre parole, i due aspetti della psiche umana, quello animale e quello umano, sono, perlomeno in una fase ben precisa della nostra esistenza, in lotta

210

fra di loro. È una

dualità, questa,

non

facile da comporre,

e, soloin età adulta, l'individuo riuscirà a raggiungere l’armonia interiore. Tornando alla favola di Fenoglio, e riprendendo il confronto fra le due galline protagoniste, non è difficile riscontrare in Tuja e Chica questa doppia natura. « Visti i loro caratteri » continua del resto Fenoglio, « non si poteva sperare che le due sorelle vivessero

accade

l’inevitabile.

L'autore non

Tuja

in armonia. » E così, un giorno,

caccia

di casa

soddisfa in alcun modo

la povera

Chica.

la curiosità del lettore,

attribuendo la decisione « crudele » a « una qualunque sciocchezzuola ». Non suscita meraviglia questa mancanza di ragioni plausibili: la favola è spesso gratuita, e sospinge il soggetto all'improvviso in situazioni d’impotenza e di pericolo senza grandi giustificazioni. In « una sera di tardo ottobre [...] con nebbia umida e vento maligno », scrive Fenoglio, « la povera Chica si ritrova quindi chiusa fuori di casa, destinata a trascorrere la notte nella foresta. A nulla valgono le suppliche e gli artifici, come quello, di matrice boccacciana, di fingere la morte ».4 Mentre Chica rischia la vita nel bosco, Tuja dorme « nel letto che proprio lei, Chica, aveva cosi deliziosamente decorato a lacca e provvisto di cuscini ricamati », aveva scritto Fenoglio nella precedente stesura. Nella versione

definitiva, tuttavia, questo particolare non

trova posto, quasi l’autore non avesse più ritenuto necessario insistere sulla crudeltà di Tuja. Il suo atteggiamento, oltretutto apparentemente non motivato, non trova giustificazione.

D'altronde

anche

la seconda

omissione,

voluta

da Fe-

noglio nella versione definitiva, pare orientare il lettore in questa direzione. Chica, ormai rassegnata, decide di mettersi in salvo su di un ramo. Spera cosi di sfuggire al lupo di cui sente

in lontananza

l’ululato,

e commenta,

riferendosi

alla

sorella: « Era cattiva, ma io la potevo sopportare. Però non avrei mai creduto che fosse anche tanto crudele, e questo non lo posso sopportare ». Nella stesura definitiva, Fenoglio riassume l’intero pensiero in un aggettivo, « cattivaccia », riferito ovviamente a Tuja. Le ragioni della sostituzione sono legate all'ingresso sulla scena, di li a poco, di un nuovo personaggio: la vecchia gallina saggia, di nome Pepa. A lei è attribuita, fra le altre, la funzione di giudicare il comportamento di Tuja: un giudizio che Chica, a questo punto della narrazione, non avrebbe potuto dare, non essendo ancora com-

piuto per lei il tempo della saggezza e della maturità. Ancora una parola sulla cacciata di casa di Chica. Il motivo dell'eroe « cacciato di casa, oppure condotto, oppure anche mandato nel bosco », per usare distinzioni di Propp nelle Radici storiche dei racconti di fate appartiene non

solo alla

241

fiaba, ma è collegabile ad un rito molto diffuso nel mondo primitivo, quello dell’iniziazione. La foresta è, per eccellenza, il luogo deputato per compiere il rito: quiil fanciullo diventa uomo. Qui difatti Chica incontra il lupo, il quale, volendo proseguire in questa direzione, pare essere, narrativamente, il personaggio destinato a compiere l'iniziazione, 0 comunque ad accrescere la tensione che accompagna il processo di sviluppo accennato. Comunque, il lupo della fiaba presa in esame, perlomeno a questo punto dell’intreccio, pare ancora comportarsi secondo schemi canonici. Chica si difende con astuzia dai suoi ripetuti attacchi, sottraendosi di volta in volta, fino a quando scorge in lontananza un lumicino. Di nuovo: si è di fronte a qualcos'altro di assai diffuso nella letteratura fiabesca: il motivo del bambino sperso nella foresta, che vede di lontano

una

luce.

In seguito si scopre che la luce proviene dalla capanna, dove però, spesse volte, abita una maga non sempre benevola. Anche Fenoglio dispone di una capanna e, come si è appena detto, di un personaggio che può essere scambiato per una maga: la vecchia e saggia gallina Pepa. Pepa ha alcuni degli attributi che Propp riconosce alla figura della maga (« è sempre vecchia, e una vecchia senza marito »).6 Si tratta, però, di una maga buona, che accoglie e ristora la povera Chica. Alla vecchia gallina, che si scopre essere tra l’altro madrina di Chica, spetta il compito di « bollare a fuoco la nequizia e la crudeltà » di Tuja, non

solo, ma

« traccia

subito

un piano per il futuro » di Chica. Pepa, insomma, è incaricata di collaborare alla maturazione di Chica. Si propone d’insegnarle a lavorare, cioè nella fattispecie « far la calzetta », ed ottiene subito in cambio da Chica l'impegno di mettere in opera la sua naturale abilità a fare « torte e pasticcini ». L'accordo fra Pepa e Chica mette fuori gioco Tuja, addirittura la condanna a morire. Il giorno seguente, Chica e Pepa decidono di tornare da Tuja, per « reclamare e riavere certi mobiletti e certi vestiti che le appartenevano indiscutibilmente ». Lungo il percorso incontrano « un gallo che faceva il portalettere ». Tocca a lui informarle che nulla più restava della casetta di Tuja e Chica. Quella stessa notte, quello stesso lupo a cui Chica era sfuggita [...] era ritornato sui suoi passi e aveva scoperto la casetta del fico selvatico. [...] Con gli artigli e coi denti la schiodò, la sfondò, mentre Tuja di dentro urlava e invocava la sorellina Chica. Un'ultima scardinata e Tuja fu fuori, alla mercé del lupo. Il quale fece « Oh! » e la divorò.

Di questo episodio conclusivo è interessante notare almeno due particolari: il primo, l'inserimento, nella stesura de-

212

finitiva, di un personaggio non contemplato nella redazione precedente, quello del « gallo che faceva il portalettere »; il secondo,

come

sottolinea

l’autore, essere

stato

« quello

stes-

so lupo » ad uccidere Tuja. La figura del gallo assolve ad un compito previsto nella poetica classica (l’oraziano « ne pueros coram populo Medea trucidet ») quando sarebbe da rappresentarsi sulla scena l’uccisione e la morte. È compito allora di un messo, descrivere agli altri personaggi, e contemporaneamente al pubblico, l'evento delittuoso. Altrettanto compie il gallo, che informa, « coi dovuti riguardi », commen-

ta Fenoglio, di quanto è avvenuto. Infine, per quanto concerne il lupo, fino al momento in cui Chica giunge alla capanna di Pepa, l’animale sembra seguire un copione già codificato nella fiaba, ovvero quello del lupo cattivo che cerca di divorare l’eroe. In seguito, però, se ne discosta: ritorna sui suoi passi e uccide Tuja. Se si vuole leggere La favola del nonno come una fiaba iniziatica, e se si riconoscono al lupo le funzioni di cui si è detto, il suo comportamento

ha una spiegazione, stando, si capisce, al Bet-

telheim. Uccidere Tuja significa far cadere i « nostri desideri asociali e condurci a un superiore stato di umanità ». L'azione del lupo, insomma, non è un'esplosione gratuita di violenza, ma una punizione: anche la variante lessicale voluta da Fenoglio nella versione definitiva (ad « ingoiò d’un colpo » si sostituisce « la divorò »), sembra voler suggerire a chi legge, attraverso l’impiego di un verbo indubbiamente più cruento, l’idea di un giusto castigo. Sempre che si dia credito alla possibilità qui sostenuta di muoversi dalla sua tesi, conclude Bettelheim: « l’integrazione degli aspetti disparati della nostra personalità può essere raggiunta soltanto dopo l’eliminazione di quelli asociali, distruttivi e ingiusti, e questo non può essere ottenuto finché non abbiamo raggiunto la piena maturità »8 Chica, insomma, per poter divenire matura, adulta, deve liberarsi di quegli aspetti caratteriali che Tuja incarna, e passare a sua volta attraverso un processo di crescita che la rende più completa. S’intende, allora, che Tuja e Chica in parte si sovrappongono.? L’altra favola, dal titolo Il bambino

che rubò uno

scudo,

è certamente meno facile da mantenere entro le griglie di uno schema come quello appena esperito. Volendo tentare di leggerla sulla scorta di Propp, non però il Propp delle Radici storiche del racconto

di fate, ma bensi quello della Mor-

fologia della fiaba, si potrebbe considerare il bambino protagonista, Paolo, alla stregua dell’eroe che s’impossessa, con la frode, del mezzo magico. Paolo ha tutto per essere un

213

bambino perfetto. Per dirla con Fenoglio medesimo, « non aveva nulla del monello, era anzi discreto e persino un po’ contegnoso, sempre vestito a modo, mai spettinato ». Non un

è però

eroe

buono,

anzi,

deamicisiano,

tutt altro. Paolo

ruba, e ruba i denari dei genitori, piccoli commercianti, a cul « gli affari andavano un po’ zoppi per i riflessi della grande crisi del ’29 ». Il riferimento a quell’anno famoso del crollo in Borsa di Wall Street sembra favorire una lettura della favola in chiave, se non storica, per lo meno autobiografica (i Fenoglio erano negozianti a loro volta), ma in realtà le cose non sono cosi semplici. Una riduzione siffatta priverebbe il racconto di tutte le significazioni che contiene e che non possono venire alla luce limitandosi semplicemente ad ambientarlo vuoi nella cronaca del tempo, vuoi nella vita privata dello scrittore. Ma torniamo alla considerazione più importante: Paolo ruba, e ruba soldi. Il loro valore, nella fiaba, è notorio; stando

al suggerimento di Propp, si potrebbe dire che diventano un mezzo magico da utilizzare per il conseguimento di un fine, che potrebbe essere quello individuato nella favola precedente, la maturazione del protagonista. Paolo,

ammalata, fettuoso,

inoltre, frequenta

Lorena,

una

bimba

gravemente

sua vicina di casa. Fra di loro c'è un rapporto afche

s’interrompe

con

la morte

l'evento non giunge improvviso, tenendo rimane da chiarire per quale motivo la venga curiosamente, immediatamente Paolo ha tracciato dell'ombra del corpo l'’ombra è l’anima, come

della

bambina.

Se

conto della malattia, morte di Lorena avdopo il disegno che di lei. Se è vero che

in altre epoche,

sulla scorta del pla-

tonismo, si è a più riprese e in più testi insinuato, Paolo allora ha di nuovo rubato: in vista di una propria maturazione, ha sottratto l’anima a Lorena nel momento stesso in cui ha disegnato l’ombra. Ma le sorprese di questa favola non terminano qui. Il racconto è mutilo, manca cioè della fine. La parentesi quadra che segnala la lacuna pare quasi un invito a riempire il vuoto con una conclusione che renda ragione del duplice furto di Paolo, monetario ed esistenziale. Si può avanzare una prima ipotesi: il racconto doveva terminare con il ravvedimento

dei genitori, i quali finalmente

si rendono

conto

che

Paolo ha carenze affettive e che tenta coi furti di richiamare la loro attenzione. Ipotesi facile, ma anche banale. Se si torna per un attimo al passo del racconto dove Paolo, fra le varie sue

virtù, sembra

anche

destinato,

per

parere

dei mae-

stri, a scrivere, si può supporre che scrivere sia anche sottrarre la vita agli altri, esattamente come il disegnare di cui prima.

214

In questo

caso, il finale mancante

e ricercato

confer-

merebbe che Fenoglio aveva in mente proprio la favola di un bimbo che cerca altrove il completamento della propria personalità. Paolo, in definitiva, continuerebbe

a rubare, cioè a

prendere a prestito dagli altri vita, affetti, avventure che non vive in prima persona. Se mai, allora, si dovesse stabilire che cos’hanno in comune le due favole disperse e quasi ignorate di Beppe Fenoglio, la risposta potrebbe essere questa: la crescita, l’acquisizione da parte di un adolescente di una sua integrità, di un suo equilibrio.

NOTE 1 B. FeNnogLIO, Opere, ed. critica Einaudi, 1978, vol. III, pp. 455-469.

diretta

da Maria

Corti,

Torino,

? Sebbene la famosa raccolta delle Fiabe italiane di Italo Calvino, edita nel 1956 presso Einaudi, preceda quasi certamente la composizione delle favole di Fenoglio, non sembra però aver avuto influenza certa su di esse. Si vedano comunque le fiabe del Principe canarino e delle Tre casette, per quanto riguarda la paura del lupo su giovani protagoniste; nella seconda, anzi, il lupo distrugge la casa di tre sorelle (cfr. pp. 128, 142-143). i 3 B. BETTELHEIM, I/ mondo incantato. Uso, importanza e significati psicanalitici delle fiabe, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 81. 4 Cfr. la celebre novella di Tofano e Ghita (VII, 4). 5 V.J. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Boringhieri, 1972, capp. II e IV.

6 Ibid., p. 120.

7 B. BETTELHEIM,

IDA

DAS

0p. ciît., p. 81.

? Tra le altre mutazioni lessicali, introdotte dall’autore nella stesura definitiva, merita segnalare l’impiego nella precedente versione di un termine di origine piemontese « pré » (ventriglio) che scompare in quella definitiva; se si tiene conto che un altro termine in uso in Piemonte quale « fichu », è mutato nella successiva versione in «scialletto », si può concludere che Fenoglio volesse disancorare la fiaba da una dimen-

sione dialettale.

‘0 V.J. Propp, Morfologia

;

,

3

della fiaba, Torino, Einaudi,

1966.

215

John

Meddemmen

FENOGLIO TRADUTTORE E SCRITTORE: «IL VENTO NEI SALICI » E L’« UR PARTIGIANO JOHNNY »

Comincio

citando

un

paragrafo

dal libro

di Kenneth

Gra-

hame, The Wind in the Willows, tradotto, come si sa, da Beppe Fenoglio con il titolo, che è suo, Il vento nei salici. The Toad saw at once how wrongly and foolishly he had acted. He admitted his errors and wrong-headedness and made a full apology to Rat for losing his boat and spoiling his clothes. And he wound up by saying with that frank self-surrender which always disarmed his friends’ criticisim and won them back to his side, « Ratty! I see that I have been a headstrong and a wilful Toad!

Henceforth,

believe

me,

I will be humble

and will take no action without proval ».

your

kind

and

advice

submissive,

and

full ap-

Ed ecco la versione italiana di Fenoglio: Il Rospo constatò subito quanto erroneamente e follemente aveva agito. Ammise i suoi errori, la sua sconsideratezza e si scusò pienamente col Topo per la perdita della barca e il completo sciupato. E s’ingegnò a proclamare, con quella schietta arrendevolezza che sempre disarmava il criticismo degli amici e glieli riaccaparrava. — Topolino! Vedo che sono stato un Rospo testardo

e cocciuto.

D’or’'inanzi, credimi,

sarò

umile

e sottomesso,

e nulla intraprenderò senza il tuo gentile consiglio e la tua piena approvazione! (p. 174).

In questa sede, il fenomeno che voglio sottoporre ad un rapido esame è stato da me evidenziato mediante sottolineatura nel testo inglese, che costituisce il punto di partenza. Si tratta dell’insistente abbinamento di elementi lessicali affini, di sostantivi, aggettivi, verbi, avverbi, una specie di dittologia quasi automatizzata che non teme il pleonasmo e la ridondanza.

AI livello dei testi sperimentali che lo scrittore di Alba gestisce in proprio e per i quali l'inglese costituisce, se non il modello, indubbiamente una componente palese, la prassi scrittoria del nostro al riguardo è assai interessante; prendiamo, a titolo d’esempio, il ventiseiesimo capitolo del primo

216

Partigiano, confrontabile con la sezione Primo inverno (pe9 del Partigiano Johnny 2. Ecco, di seguito, i due rani: [PJ1, XXVI, 3] Stava risentendo sempre più tutte quelle stelle rosse che, privilegio sulle prime di alcuni berretti, li costellavano ora tutti, con obbligatoria generalità, e tutti se le cucivano senza obiezioni ancor che senza sorriso, costituivano il più naturale e soddisfacente contrappeso al fascio littorio! E il buffo si era che le uniche, o le maggiori fornitrici, erano le suore dei paesi viciniori, le confezionavano con una certa qual rude e amorosa cura ed approssimazione, e il maresciallo Mario affermava di non ardire, di non poter nemmeno pensare di poterle eludere o ritardare nel pagamento (p. 497). [PJ:, I, PRIMO INVERNO (penultimo)] Johnny stava sempre più risentendo di tutte quelle stelle rosse che, privilegio sulle prime di soli alcuni berretti e caschetti, li costellavano ora tutti, con obbligatoria generalità, e tutti se le cucivano senza obiezioni, sebbene senza sorriso, in quanto costituivano il piu naturale e soddisfacente antialtare al fascio littorio e contrappeso. Il buffo si era che le uniche, o maggiori, fornitrici di stelle rosse erano le suore degli asili infantili dei paesi tutt'intorno, le fabbricavano con un certo qual astio e insieme con una certa qual amorosa accuratezza, e il maresciallo Mario affermava essere creditrici terribili, se non

si poteva nemmeno

stinarle nel pagamento

pensare

di eluderle o procra-

(p. 927).

In primo luogo, va rilevato il passaggio, non problematico, da alcuni berretti

della prima stesura

a alcuni berretti

e

caschetti nella seconda; ma può succedere anche il contrario e, al posto della formula con certa qual rude e amorosa cura ed approssimazione, ci troviamo di fronte ad un tentativo di riscrittura più complessa, con un certo qual astio e insieme con una certa qual amorosa accuratezza; e bisogna forse avvertire che l’usus scribendi dell'autore sembrerebbe esigere, se non nell'immediato almeno nel contesto più ampio, la lezione il piu naturale e soddisfacente antialtare e contrappeso al fascio littorio, e non quella messa a stampa antialtare al fascio littorio e contrappeso. Ma torniamo ora al paragrafo di Grahame da noi citato in apertura, con l'osservazione che l’esistenza stessa di questa traduzione — sulla questione della datazione tornerò in seguito — rende possibile una prima valutazione, nel caso specifico della formula sintagmatica sotto esame, delle strategie scrittorio-traduttorie adoperate da Fenoglio qui e altrove, perché ovviamente il passaggio è palesemente unilaterale: si passa in modo inequivocabile dall’una lingua all'altra, dal testo inglese alla sua resa italiana.

VAI

Dunque, humble and submissive diventa umile e sottomesso, il che è ovvio; e non sorprenderà neppure il passaggio da how wrongly and foolishly a quanto erroneamente e follemente; più interessante il terzo caso, without your kind advice and full approval, il cui ritmo chiude questo punto del discorso inglese, perché qui esigenze della lingua d'arrivo, dell’italiano, si prestano quasi obbligatoriamente, mediante variatio maschile/femminile, a rinforzare un parallelismo già esistente: senza il tuo gentile consiglio e la tua piena apx provazione. Tutti gli altri esempi dello stilema, che nel paragrafo in oggetto avrebbero potuto trovarsi avviati a soluzioni analogamente

automatizzate,

vengono,

all’atto

pratico,

variati;

l'impiego di strategie diverse, vengono distanziati da un dello di scrittura che il testo di partenza sembrerebbe lunghi tratti teso ad imporre con insistenza. Il Topo — ha rovinato sia la barca dell'amico sia l’abito — messo tappeto, chiede scusa for losing his boat and spoiling clothes;

il che in italiano diventa, più chiasticamente,

con

moper che al his

per la

perdita della barca e il completo sciupato. Nel caso del sintagma immediatamente precedente, he admitted his errors and wrongheadedness, Fenoglio adopera una tattica diversa: elimina la copula, scrive: ammise i suoi errori, la sua sconsideratezza, e prosegue con, e si scusò per..., imprimendo un ritmo che si distanzia consapevolmente da quello dell'originale, e che comporta una chiusura diversamente impostata. Va sottolineata, in quanto indice di una tendenza ovunque

in atto come forza costituente il nuovo linguaggio della traduzione, la sinteticità di una soluzione italiana del tipo e glieli riaccaparrava che in modo assai efficace sostituisce and won them back to his side, il più blando sintagma inglese. Vi pregherei, intanto, di tenere in mente la decisione qui adoperata di non calcare, nell’atto di tradurre un Rospo testardo e cocciuto, un originale che rinforza il proprio detto con un articolo insolitamente raddoppiato, a headstrong and a wilful Toad.

Petrarca — e al proposito altri modelli non mancherebbero — « solo e pensoso » passava, si sa, per «i più deserti campi », misurandoli

« a passi tardi e lenti », e tanti e tanti

dei suoi seguaci si sono mente. Ma uno scrittore simbolista fin de siècle, modo suo, per non dire plificazione con accanto, gliana (ed è all'edizione

218

precipitati a comportarsi analogacome Kenneth Grahame, di stampo predilige questa figura lui pure, a da par suo. Ecco una piccola esemcaso per caso, la relativa resa fenoeinaudiana della traduzione e non

alle varie ristampe del testo inglese che la pagina citata qui e in seguito va riferita). Il Topo prima mormora slowly and thoughtfully: « lento e cogitabondo » (p. 112), poco dopo lo troveremo a bisbigliare dreamful and languid: «trasognato e languido » (p. 113); chi si accinge ad affrontare il nemico si mostra desperate and determined: « disperato e determinato » (p. 190); il Rospo, inseguito, corre per i campi breathless and weary: « esausto e sfiatato » (p. 164); si tratta di un trasgressore dotato di ani-

ma naturalmente futurista che gli amici decidono di prendere in mano gravely and firmly: « con gravità e fermezza » (p. 167); ma

lui ovviamente,

costretto

a subire

suo malgrado

le ingerenze dei benintenzionati, vede l’intera operazione with much suspicion and ill-humour: « con molto sospetto e malanimo » (p. 196). La rimessa delle barche è stata abbandona-

ta, ha l’aria al contempo

unused

and

deserted:

spira, cioè,

« dissuetudine e desolazione » (p. 22); il Topo, che ama il suo fiume, deciso a non avventurarsi mai fuori dell'orizzonte delle circostanti colline, dopo aver sentito raccontare dei ma: ri, delle meraviglie, del mondo, avrà un attimo di esitazione;

la vita che si era finora accontentato di condurre gli sembra all'improvviso « piuttosto angusta e circoscritta »: somewhat narrow and circumscribed (p. 140). Ci si avverte, con l’arrivo dell’autunno, un senso

« di mu-

tamento e dipartita »: of change and departure (p. 132), tutto un agitarsi di « fughe e addii »: flittings and farewells (p. 133); i nostri amici che hanno vissuto l’estate in nostra compagnia, gli uccelli migratori ad esempio, ora sono in procinto di lasciarci; se ne vanno « con un sorriso e un cenno di saluto »: with a smile and a nod (p. 133). E poi annotta, e nel

bosco gli animaletti si aggirano « secondo le loro occupazioni e vocazioni »: according to their trades and vocations (p. 104); sono « occhiate di malizia e di odio »: glances of hatred and of malice (p. 39) che i più maligni di loro, prima di pedinarla, lanciano alla malcapitata intrusa, cioè alla Talpa. Nell’incan-

to dell’approdo all’Isola, le praterie si mostrano « di una freschezza e di una verzura incomparabile »: of a freshness and greenness unsurpassable (p. 107), mentre tutt'intorno una brezza leggera fa stormire «i canneti e i giuncheti »: [ît sets]

the reeds

and

bulrushes

rustling

(p. 106). E chi si ri-

vela in questo contesto tardo-ottocentescamente simbolista se non il Gran Dio Pan in persona? Il suono del suo flauto è appena cessato ma perdura l’incanto; al Topo e alla Talpa, ammaliati entrambi, « il richiamo e gli appelli sembravano ancora dominanti e imperiosi »: the call and the summons

seemed still dominant and imperious (p. 108). Con subdola forza, i nemici hanno sfrattato

i Nostri:

l si

219

racconta l'avvenimento: « li sbatterono al freddo e alla pioggia con molte osservazioni insultanti e immeritate »: turned them out into the cold and wet, with many insulting and uncalled-for remarks

(p. 68); ecco perché la Talpa fa la ronda

nel tentativo di rientrare in possesso della casa abusivamente occupata, presentandosi all'appello « cenciosa e lercia, con fuscelli di fieno e di strame tra il pelo »: very shabby and unwashed, with bits of hay and straw sticking in his fur (p. 176). Capita (al Rospo capita) di dover passare la notte all'aperto, dormendo per terra alla macchia; ma tutti i relativi terrori verranno, con l’arrivo del mattino, dissipati « dal riposo e dal sonno e dalla franca e confortante luce solare »: by rest and sleep and frank and heartening sunshine (p. 150); in altri frangenti, a tirarci su sarà il « tangibile e solido contenuto del paniere »: the very real and solid contents of the basket (p. 83). Ultimo, tracotante e travestito, viene il Rospo, che

afferma

sfacciato,

« Fo’ mestiere

di bucato

e lava-

tura »: I'm in the washing and laundering line (p. 151). In quest'ottica ho voluto che prendesse risalto un impianto stilistico ovunque presente, che tende ad imporsi anche per lunghi tratti dell'intera impresa scrittoria e traduttoria che in questa sede ci interessa. Se per esempio leggiamo questo: [...] dopo una cieca e sfilacciante marcia per sentieri e fossi, nel sordo crepitare di bestemmie e improperi per la cecità e difficoltà del trasferimento [...]

non

sarà certo lo stile,

stemmie

e neppure

la presenza

e improperi », ad avvertirci

di quel « be-

che si tratta non

degli

animaletti della fiaba inglese, ma dei partigiani italiani di Fenoglio (cito dal Partigiano 2, capitolo V, paragrafo 8), che sul piano formale ripropone in proprio l’assetto di paragrafi interi del testo di Grahame — in questo ad esempio (che mi limito a citare nella sola versione italiana): Lasciando la proda, dove i giunchetti stavano densi e alti in una corrente che già ristagnava e inaridiva, errò verso la campagna, traversò uno o due pascoli già polverosi e arsi, e s’infilò nel gran reame del grano, giallo, ondante e mormorante, pieno di movimento placido e di sussurri (p. 133).

Basta un'apertura di pagina per esemplificare questo fenomeno al livello dell’« inglese » di Ur Partigiano Johnny, testo al quale d’ora in avanti e di proposito limiterò il mio di-

scorso. Ecco, ad esempio, un piccolo mosaico basato su elementi lessicali e semantici ricorrenti: [IV, 6] Weather con-

jurated to heighten anguish and morbosity;

220

[III, 32] pining

a

away

from

homesickness

and

unsecurity;

[IX, 20] a vague

nostalgy and longing mastered him; [III, 54] undressing himself [...] with an invincible inquietude much to Johnny's renewed diseasiness

and unease; and shame;

[VI, 56] [IX, 32]

evidently in an agony of indecision and puzzlement. Si tratta di una impostazione sintattica non sempre fortemente redditizia, oserei dire, in quanto tesa a coinvolgere comunque un’abbondanza di espressioni tendenzialmente sinonimiche, del tipo: [IV, 16] the crying clamours and dins; [VI, 50] an excess of agonism and athletism; [IV, 9] the tune

light and weightless;

was

[VI, 10] the smell of lenghty soli-

tude and unfrequentance; [VI, 24] she makes me horror and schifo your Europe; [IV, 27] the dust-clouds of it own crum-

bling and disgregation (detto di un edificio fatto saltare); [I, 21] the prestige and weight of British standing and forma. I parametri di questi testi accolgono anzi, senza eccessive forzature sia detto, una specie di clonazione al livello persino dei sostantivi, con, ad esempio, la doppia designazione di un solo luogo: [V, 46] they both went a-driving to see Luciano in his new command and seat; o di una sola persona [a III, 31]

dove as

un

their

certo right

Otello chief

è stato

and

eletto

commander;

dai

suoi

mentre,

commilitoni: [a VI, 34]

a

sturdy yeoman, named Pronti guarda con occhi adoranti il capo che lo ha fatto diventare his servant and scudiero, senza, mi pare, distinzione di mansioni. Il contadino che, esonerato dal compito ingrato di dover

accompagnare la missione britannica [III, 7] sighed relief and quietude rappresenta un polo di questo stilema che raggiungerà, come vedremo in seguito, formulazioni da endiadi del tipo [VI, 10] have a good sleep and night, chiaramente basata sull’espressione « have a good night’s sleep », che in inglese sarebbe più normale (e come tale presumibilmente meno efficace). Già all’interno della traduzione fenogliana di Grahame — progetto che mira nell'immediato alla compiutezza — i risultati sono

tutt'altro che banali;

il confronto,

da me

abboz-

zato in questa sede, tra l'inglese di partenza e l’italiano del testo d’arrivo, serve almeno a dare risalto ad un apprendistato scrittorio il quale, sfruttando formule come quella sotto esame, si dimostra senz'altro in grado di raggiungere con sicurezza livelli espressivi nuovi e sorprendenti in sintonia con il testo di partenza, arrivando persino, sempre all'interno del campo di forze che il testo inglese impone con insistenza, a semplificare il proprio dettato nei suoi confronti con una resa più stringente dei sintagmi che chiedono di essere risolti all'interno del nuovo linguaggio; ciò viene effettuato grazie all'appropriazione e alla gestazione in proprio di formule origi-

221

nariamente derivate dal testo di partenza, formule di stampo te inglese che ora diventano italiane. — Anche davanti ad enunciati relativamente semplici Fenoglio effettua una specie di giro di vite, scrivendo « diede loro sei soldi a testa e un buffetto sul capo » (p. 60) al posto di he gave them sixpence apiece and a pat on the head; e altrove, « le imparti ordini di marcia e un amichevole buffetto d’addio sulla schiena » (p. 112), che è più sintetico e più com-

plesso di gave him his marching orders and a friendly farewell pat on the back. O prendiamo una soluzione calzante come «e quelli si congedarono con ossequioso sberrettio e tocco

di ciuffetto » (p. 60), la cui tensione

si distacca

molto

felicemente da un punto di partenza inglese nettamente più rilassato, and they went off with much respectful swinging of caps and touching of forelocks. Analogamente « insediato in una poltrona con le gambe accavallate e una pezzuola di cotone rosso sul viso » (p. 58) ripropone con tutt'altro taglio il più blando and settled himself in an armchair with his legs up on another and a red cotton handkerchief on his face. Il testo inglese pone il problema, he shuffled on in front of them, carrying the light, che viene risolto trasformando in front of them in un verbo «li precedette »; shuffling poi viene tradotto « strascicando i piedi », e questo permette di riallineare il sintagma in accordo con la formula: « li precedette strascicando i piedi e portando il lume » (p. 52). La decisione di tradurre con « mise in moto » l’inglese pulled the lever (letteralmente « azionò il cambio »), comporta uno spostamento di enfasi: due verbi con due oggetti (lever e car) ora diventano due verbi che reggono un solo oggetto (la macchina): Grahame scrive, as if in a dream he pulled the lever and swung the car round the yard and out through the archway, e Fenoglio, « come in sogno, mise in moto e guidò la macchina lungo il cortile e tra l’arcata » (p. 98), soluzione che ite-

ra la forma raddoppiata già presente del resto nell'immediato contesto del sintagma (« lungo... e tra... »). Do di seguito, senza ulteriori commenti (non è il caso di fare un processo alle intenzioni), una piccola casistica: si tratta del passaggio da una forma da considerarsi normale in inglese ad un’altra che diventa volta per volta più sintetica, più insolita, nella resa italiana: — all this he saw, for one moment breathless and intense: tutto questo vide in un istante senz’alito e intenso (p. 109); — still breathing short and staring into vacancy: ancora con l’alito breve e lo sguardo nel vuoto (p. 33); — he took the opportunity to tell Badger how confortable and

222

home-like it all felt to him [...]: come tutto le paresse confortevole e come di casa (p. 60); — I° ve lost all my money, and lost my way: ho perso il mio denaro e la strada (p. 151); — I’m frightfully hungry, and I’ ve got any amount to say to Ratty here: ho una fame da metter spavento e un sacco di cose da dire al Topo (p. 59);

— dropping down on a couch in dark despair and burying his face in his duster: s'abbandonò su una seggiola in nera disperazione e seppellendo il volto nello strofinaccio (p. 77); — and placed him in a chair, where he sat collapsed and shrunken into himself: l’insediò in una poltrona dove sedette in collasso e accasciatissimo (p. 147); — he stopped shivering and began to feel bolder and more himself again: cessò di tremare e prese a sentirsi più ardita e più lei (p. 43); — a day’s outing with the Otter, hunting and exploring on the wide uplands: un’escursione di un giorno con la Lontra a caccia e a esplorare gli estesi altopiani (p. 67); — the sharp edge of something in metal: ferisce la gamba di chi cammina nella neve; esempio che do per ultimo perché la riscrittura in italiano offre un’endiadi chiaramente ripensata e riproposta come tale: un qualcosa d’affilato e di metallo (p. 46).

Sarà evidente che tali soluzioni di Fenoglio-traduttore risulteranno immediatamente confrontabili con certe formulazioni forti già note, tipiche della prassi del Fenoglio-scrittore (anche qui, e sempre di proposito, limiterò le mie esemplificazioni al solo Ur Partigiano Johnny): [Ur PJ, IV, 47] « surely major Hope would understand this and him »; [Ur PI, p. 189] « he smiled up and back »; [Ur PJ, IX, 1] « all hope was lost for and in the british mission »; [Ur PJ, III, 15] « the major looked up and hard »; [Ur PJ, IV, 40] « but the reports went on and again »; [Ur PJ, V, 10] « he has surely thought it over and better » (trasgressivo ma immediatamente comprensibile, da risolvere

in: « thought it over and thought better of it »). I seguenti esempi di aggiogamenti in apparenza semplici sono

difatti, anche

per chi è di madrelingua

inglese,

efficaci

appunto perché sorprendenti [Ur PJ, V, 9] « happy to see you again and unscared » (di rivederti e di vederti tuttora indenne); [Ur PJ, IV, 31] « they will die în a heap and a minute » (falciati, cioè, fulmineamente, a colpi di mitra); e si veda [Ur PJ, IX, 16] dove la gente del luogo decide « not to

lose a detail or a minute of that scene », cioè della festa partigiana in piazza sotto casa.

223

Nel caso di [Ur PJ, I, 31] « Johnny nodded easiness to Ghiacci and starting to the driver », i gesti saranno stati, mi pare, due, anche se immediatamente consecutivi, uno per rassicurare l’amico, l’altro per far partire la macchina. Fucilati i falsi disertori subito individuati come tali, gli altri vengono [Ur PJ, V, 47] « kept in life and instructoria », una riuscita espressiva che nasce da un tirocinio paradigmatico, da tutta

una

sequela

di soluzioni

del

tipo

[Ur PJ, V, 13]

« down he went for the cigarettes and the permission »; [Ur PJ, V, 18] « protruding an english cigarette and a question about things au delà »; altrove le sigarette date di nascosto alle collegiali saltano fuori [Ur PJ, VI, 52] « from pockets and gowns-hideouts

[...] to the dust and the eyes of the nun ».

Certamente non immemore dell’apprendistato traduttorio — del faccia a faccia (oltremodo stimolante) con Grahame — la seguente formulazione va — e il fatto, qui e altrove, è ovvio — debitamente de-paradigmatizzata; la sua efficacia essendo legata all’immediato contesto specifico del suo proporsi. Catturati, i repubblichini si rivelano effettivamente imberbi: anzi, fanno quasi pena. Verranno fatti fuori ugualmente in un contesto di reciproca rappresaglia. Un loro coetaneo, partigiano dell’ultima (anzi ultimissima) leva, quando capisce quello che sta per succedere, protesta, si ribella... e viene preso in giro. Ma prevale il buon senso e il cameratismo partigiano lo soccorre: uno degli anziani [Ur PJ, IV, 39] « got him sitting again and patted his shoulder and conscience »: a posto il corpo, a posto l’anima — con una pacca ben piazzata!

mo

Nel paragrafo citato all’inizio del nostro discorso, abbiagià riscontrato un esempio del tipo a headstrong and a

wilful Toad

che, davanti

a due designazioni

di un

solo refe-

rente, ripete l’articolo (indefinito qui, definito altrove) per meglio rilevarne due aspetti distinti. Ed ecco il magistrato, con il Rospo davanti, sul punto di pronunciare la sentenza; si chiede: «... how can we possibly make it sufficiently hot for the incorrigible rogue and hardened ruffian whom we see cowering in the dock before us ». Fenoglio traduce questo: « come possiamo affliggere una cocente condanna all’incorreggibile villano e all’impenitente ruffiano che vediamo accoccolato alla sbarra » (p. 99). Davanti ad un altro esempio, del tutto analogo, devo confessare che mi è nato il dubbio. Do il contesto: il Rospo, per poter evadere dalla prigione, ha indossato i vestiti della lavandaia; a un certo punto, per non doversi smentire in questo ruolo, Sì trova costretto

disperazione pensa:

224

a fare il bucato

« credo che ogni scemo

sul serio

(nella

sappia lavare! »).

ORgiEP NIRI

Gli va male, invece, e si accorge per giunta che le sue belle zampe si arrugano, al che he muttered under his breath words that should never pass the lips of either washerwomen or Toads. . L'alternativa (either/or) serve si ad inglobare due aspetti di una stessa figura — il Rospo che lui è in realtà, e la washerwoman, la lavandaia, per la quale cerca di farsi passare — ma va tenuto presente che si tratta di aspetti i quali, nella situazione prospettata, dovrebbero presentarsi in alternanza, non contemporaneamente. Ecco invece la lezione dell'edizione einaudiana (e sottolineo il sintagma che ci interessa): « pronunziò in un soffio parole che non dovrebbero uscire dal labbro di lavandaie e di rospi» (p. 153). La resa dal labbro di lavandaie e di rospi è a tal punto fenogliana che un dubbio al proposito non sarebbe illegittimo. Si tratta di una formula che nel contesto intertestuale sotto esame sa imporsi; la questione è: a chi si è imposta? allo scrittore di Alba? e non forse a chi, anni dopo, si scervellava

a decifrare e a trascrivere il suo manoscritto? Mi conforta (perché nel secondo caso il colpevole sarei io) un’occorrenza

non dissimile

[in Ur PJ, VI, 4]:

« Mussoli-

ni will die like a dog and a pig ». Morirà, cioè, come un cane e — contemporaneamente è chiaro — come un maiale, evidenziando cioè nel momento decisivo due aspetti distinti nella stessa sua persona. Se è vero che si trova una certa sintonia di propositi, sul piano

stilistico almeno,

tra la traduzione

de Il vento

nei sa-

lici e il gruppo Partigiano Johnny nel suo insieme, e la cosa mi sembra evidente, resterebbero da indagare in modo più approfondito e capillare le conseguenze della constatazione. Prima di intraprendere qualsiasi discorso in merito, ad esempio, alla relativa datazione dei testi in questione, sarebbe utile fare qualche sforzo per datare l’operazione, secondo me primitiva: la traduzione del testo di Grahame. Esiste un ferminus ante quem che è indiscutibilmente tale, e per la sua datazione mi rimetto a voi, ogni mio sforzo al

proposito essendo stato vano. Quando nell’ultimo dei cinque quaderni che contengono — senza soluzione di continuità, e in bella, sia detto — l’intero romanzo di Grahame, si approda alla parola « fine », Fenoglio, secondo le sue abitudini, non spreca la carta, attacca subito a tradurre altri testi, uno

dei quali si trova poco dopo troncato sto punto, cioè immediatamente,

a metà pagina. A que-

con il salto di una sola riga,

| Fenoglio scrive a mo’ di titolo il nome

« Dario Tarzan », che

225

sbarra

per

sostituirlo del

Tarzan ». Si tratta

subito suo

con amico,

« Dario fucilato

Scaglione, dai

detto

fascisti

nel

‘ 1945, dopo la battaglia di Valdivilla. Il testo inizia parlando dell’eroismo di questo suo compagno d’armi: si dà una versione, diversa da tutte le altre versioni date altrove, del suo incontro con l’ufficiale fascista; altrove le rielaborazioni sono di carattere letterario, sia detto,

ed io presumo

che siano

più tarde. La versione

contenuta

nel Quaderno Grahame V non è letteraria; ha forma di discorso o, più probabilmente, è un’istanza scritta. L'occasione è

precisa e chiara e il documento si rivolge direttamente ai suoi riceventi.

Prima, l’antefatto, e cito:

Il giorno della liberazione della nostra cara città, alcuni commilitoni di Tarzan, corsero a una strada e all'angolo di essa impetuosamente scrissero: Corso Dario Scaglione (Tarzan). Taluni, molti, avranno pensato (pensavano) che quei ragazzi abbiano trasceso. Io dico che hanno fatto anzi poco.

Perché Fenoglio scrive questo? Perché sembra che si sia sul punto di togliere ciò che il testo in un secondo momento descrive come una targa; lui, l’amico, si rivolge di conseguenza direttamente a chi di dovere, e cito: Cittadini che degnamente sedete in Comune, vogliate deliberare in consiglio che quella targa rimanga: che sia anzi pubblicamente consacrata e benedetta.

Mentre stavo curando per Einaudi la traduzione del Vento nei salici, mi sono rivolto anch'io al Consiglio comunale di Alba, anch'io invano. E anche a molti privati, con lo stesso

risultato. Di questa targa nessuno Il documento,

ricorda nulla.

però, contiene un'ulteriore indicazione che

potrebbe stringere ancora più da vicino la sua datazione; dopo aver raccontato il misfatto dell’ufficiale fascista, si fa una rabbiosa valutazione della situazione in cui costui si trovò al momento della stesura del testo: « Colui che ha sparato non ha pagato ancora e forse non pagherà mai, e qui c'è da impallidire per l'ira e la vergogna ». Notate quel « forse »! Saremmo in clima di amnistia? Comunque sia, ho l’impressione — o mi inganno? — che dopo gli avvenimenti qui delineati poca acqua sia passata sotto i ponti di Alba.

Quel « rettangolo di metallo » è stato tolto, non so quan-

do. So questo però: nogliano,

il primo

se si riesce a datare

questo

scritto fe-

scritto, credo, in cui lui parla di ciò che

era successo quel giorno a Valdivilla, saremo in grado di datare pure un aspetto — come dire? — non secondario della

226

sua preistoria, del suo apprendistato: la sua traduzione del testo di Grahame. Il Fenoglio che scrive accorato per difendere la chiara fama dell’amico morto si era già a quella data cimentato in imprese traduttorie impegnatissime, che, a mio parere, già da sole bastano e avanzano per illuminare alcuni aspetti altrimenti inspiegabili di ciò che si è voluto, e non a torto, chiamare il suo grande stile.

221

Mark F. Pietralunga

NELL’ITER

UN’ALTRA TAPPA DI BEPPE FENOGLIO

TRADUTTORE

Nel saggio in cui T.S. Eliot spiega la genesi e l'evolversi della sua

prima

opera

teatrale,

L'assassinio

nella

cattedrale, egli

rivela come fu particolarmente colpito dal linguaggio singolare del drammaturgo irlandese John Millington Synge i cui drammi, per quanto scritti in prosa, gli sembrarono vere opere poetiche: « Una parola su quei drammi che io definisco poetici, sebbene siano scritti in prosa. I drammi di J.M. Synge costituiscono un caso alquanto particolare per il fatto di essere fondati sull’idioma di gente dei campi il cui eloquio è naturalmente poetico, sia nella figurazione sia nel ritmo. È mia convinzione che Synge arrivasse al punto di accogliere di peso fraseologie che aveva udito presso i contadini ».! La ricerca di un linguaggio poetico capace di evocare quella naturalezza e semplicità che Eliot ammirava nelle opere di Synge si avverò, seppure in circostanze eccezionali, nei cori del suo dramma. L'attore ‘Robert Speight, che fece la parte dell’arcivescovo in numerose occasioni, cosi dichiarò: « Credo che Eliot stesso sia stato particolarmente convinto da un coro che aveva ascoltato alla National University di Dublino. Il dolce accento irlandese suggeriva una naturalezza folk, l'appartenenza al popolo delle mogli e figlie di contadini e di pescatori che debbono essere state la grande maggioranza tra quei fedeli che accolsero Becket al suo ritorno dall’esilio. Tale sentimento è spontaneamente suggerito da voci delle aree periferiche celtiche della Gran Bretagna »? Queste osservazioni riguardanti le commedie di Synge e la suddetta opera teatrale di Eliot sono di particolare interesse se ricordiamo che Fenoglio tradusse una buona parte sia dell’Assassinio nella cattedrale del poeta-drammaturgo anglo-americano, compresi i cori, sia del Playboy of the Western World dell’irlandese, compresa la sua famosa prefazione. Alla luce

della

considerazione

di Eliot, vorrei

ricordare

un passo dalla prefazione del dramma per dimostrare quanto Synge ritenesse fondamentale alla sua arte il contatto con il popolo irlandese: «In ogni pregevole opera di teatro ogni battuta ha da essere fragrante pienamente come una noce o

228

mela, e queste battute non possono veder la luce da chi opera fra gente che s’è spacciata in bocca la poesia. In Irlanda, per ancora pochi anni, abbiamo una fantasia popolare che è fiera, magnifica e tenera. Cosicché quelli di noi che hanno velleità letterarie partono con una facoltà che non è concessa agli scrittori che operano in luoghi dove la primavera della vita locale è stata obliata, e le tegole han soppiantato i tetti di paglia ». _ _Synge, come William Butler Yeats, credeva che fosse possibile trovare in Irlanda quell’'immaginazione popolare e un linguaggio vivo dai quali si poteva ricavare il vero dramma. L’idioma dei paesani irlandesi gli permise di costruire un modello linguistico che era adattabile, in virtà del suo vasto campo e della sua energia, alla vitalità stessa dell’autore. Synge percepi quello che Marshall McLuhan avrebbe poi dichiarato

come

dato di fatto della letteratura

del Novecento,

cioè che « Only people from backward oral areas had any resonance to inject into the language — the Yeatses, the Joyces, Faulkners and Dylan Thomases ».4 Nel romanzo La malora si avvertono certe affinità con le teorie proposte da Synge nella prefazione del Playboy of the Western World. In un articolo-intervista dal titolo Scoperto un autentico «narratore »: Beppe Fenoglio e gli uomini al muro pubblicato nel « Corriere albese » del 12 giugno 1952, Fenoglio, alludendo a La malora, dice che stava lavorando su un romanzo ambientato nelle Langhe da lui definite « terra vergine letterariamente ».5 Si suppone che Fenoglio abbia ritenuto questa « terra vergine » il palcoscenico adatto per sperimentare con un linguaggio naturale e semplice che potesse rispecchiare la realtà della gente di quell’aspra terra. Secondo alcuni critici come Paolo Spriano, il cui parere a proposito de La malora si legge sotto, egli ci riusci. « È lui (Agostino)

che

racconta,

in un

dialetto

a cui la traduzione

italiana dello scrittore cerca di mantenere l’asprezza del lin| guaggio vivo, l'autonomia di una visione morale, la sobrietà di un costume senza frange letterarie ».9 « Linguaggio vivo » e « semplicità » sono termini ricorrenti quando si parla dello stile di Fenoglio. Nell’intervista-colloquio sul « Corriere albese », si rileva la seguente interpretazione dello stile de I ventitre giorni della città di Alba: « Ha un'esigenza insaziabile Fenoglio: limpidità del dire, esattezza di termini. Nulla di pleonastico. Oggettività assoluta nel raccontare. Semplicità ». È proprio questa espressione asciutta e lapidaria, che Fenoglio cercava di realizzare con il suo italiano, che gli fece tanto ammirare la lingua inglese. Nel libro The Spirit of English History di Alfred Leslie Rowse, | testo che si trova nella biblioteca di Fenoglio, si legge una

229

breve descrizione della lingua inglese che combacia con le suddette tendenze stilistiche dello scrittore albese. Queste frasi sono degne d’attenzione perché contenute fra le poche pagine rimasteci della traduzione che Fenoglio fece del libro di Rowse: « Ma il grande fatto culturale del Medio evo è la maturazione e l'affermazione della lingua inglese [...] il primo passo dell’immaginabile carriera della lingua inglese come lingua mondiale. I secoli di servitù e di sommersione avevano sortito un effetto straordinario: il prolungato contatto, prima col Danese,

col Francese

poi, avevano

cancellato

le inflessio-

ni goffe e volgari dell’antico Inglese, facendone una lingua nerboruta, agile e semplice, ma di quella semplicità che è un prodotto d’alta civiltà, non già di condizione primitiva ». Le caratteristiche della lingua inglese come lingua agile e semplice, anche nelle sue forme classiche, permisero a Synge di trattare materiale « locale » senza mai essere provinciale. A tale proposito, Thomas Kilroy scrive che il materiale irlandese dei drammi di Synge non è mai provinciale appunto perché il drammaturgo lo imprime con forme classiche: « His [Synge]

treatment, however,

of Irish material

is never

provincial in a narrow sense; it is the product of a rich mind which brought classical forms to bear upon native material ».3 Nella prefazione al Playboy of the Western World, Synge, infatti, si riferisce al gran teatro elisabettiano in termini che danno ragione al parere di Kilroy: « È probabile che, quando il drammaturgo elisabettiano impugnava la penna e sedeva al lavoro, usava molte espressioni udite di fresco, mentre

se-

deva a desinare, dalla bocca della moglie o dei bambini ». Synge riesce a fondere la fantasia popolare con un linguaggio vivo grazie all’agilità della lingua inglese. Lavorando con una lingua più rigida dell’inglese, Fenoglio, a giudizio di alcuni

critici, non

ebbe

una

simile

fortuna

con

La malora.

Nella sua recensione del libro, Domenico Porzio riconferma con un tono insofferente il rimprovero di Vittorini a Fenoglio, cioè di non alludere nel suo libro a « cose sperimentate personalmente »: « Presentando La malora, Elio Vittorini ha indicato il vizio fondamentale, non solo del libro di Fenoglio, ma di tutto un gruppo di giovani naturalisti intenti a abbeverarsi alle sorgenti principali con la speranza di estrarne bevande di sapore universale. “Un dirupo lungo il quale camminano”,

scrive

Vittorini;

dal

dirupo,

aggiungeremo,

sono

già caduti. Questa Malora ne è un esempio: infarcita di dialetto fino alla noia, rappresa ad una polemica sociale — se pur

V'è —

esaurita da qualche

decennio,

“barbara”

di lin-

guaggio e di rappresentazione da parere ispirata a certi insulsi modelli d’oltre Atlantico e priva di quel dato o tragico o grottesco che il tema degli “umiliati e offesi” poteva sug-

230

gerire. Una esercitazione dunque pregevole per l'impegno, ma mancata sul piano dell’arte. E soprattutto un libro insipido per mancanza di fantasia »9 Quanto fu scosso Fenoglio dalla critica di Vittorini è storia ben nota. Gino Rizzo ci ricorda che dopo La malora Fenoglio « impone a se stesso sulla scorta del severo ammonimento vittoriniano un rapporto più confidente, più solidale con la propria materia a definitivo scampo da una ricerca letteraria fatta altrimenti di attraenti e compiaciute finzioni ».!° La scelta di tradurre La ballata del vecchio marinaio di Coleridge sembra quasi motivata dalla stessa critica rivoltagli dopo La malora. Pare che Fenoglio fosse intenzionato a rendere in italiano un testo poetico ricco di fantasia che ancora una volta si esprimeva in un linguaggio popolare. La difficoltà di questa prova ce la descrive Fenoglio stesso in una lettera a Calvino del 20 gennaio 1956: Ad altra, ora. A fine gennaio o ai primissimi di febbraio uscirà

sulla rivista di un mio amico genovese (Francesco Cesare Rossi: conosci?) una mia traduzione dall’inglese, di un certo respiro e di molto impegno. La Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge: testo illustrissimo e di talvolta disperate difficoltà per la resa a livello fantastico.!!

La frase « disperate difficoltà per la resa a livello fantastico » si riferisce all’ostacolo che Fenoglio affrontò nel tentativo di trovare una sintesi fra struttura e racconto. Si trattava di un poema che era molto più complesso di quanto non potesse sembrare per la sua semplicità linguistica e strutturale. Ciò che avrà affascinato lo scrittore albese, scrive Clau-

dio Gorlier nella prefazione alla traduzione di Fenoglio del poema, era « l’incontro tra elemento realistico ed elemento soprannaturale nella Ballata; l'assunzione di un linguaggio popolare ed immediato in un tessuto tanto permanente e universale ».!2 Tali elementi si evidenziano nell'opera di Synge in un tessuto altrettanto permanente come quello del dramma classico. Gorlier allude alla « dimensione popolare » della ballata, la quale significa uno « sblocco di un chiuso linguaggio e liquidazione di una retorica sedimentata ». Ciò spiega l'interesse di Fenoglio nei confronti del poema. « Tale interesse, » continua

Gorlier, lo induce

« a ritentare

egli [ Fe-

noglio] stesso in una lingua che assai più dell'inglese ha stentato e stenta

a liberarsi

di trasferirlo

in un contesto

di strettoie

di lirica, con

tutte

le sue

ostinatamente

radicate;

culturale nel quale la nozione

violente

tensioni

e le sue

aristo-

cratiche preclusioni appunto sul piano del linguaggio, sembrava a lui, cosi poco legato a scuole e tendenze, ancora soffocante. »

231

I termini colloquiali ed un linguaggio vivo che sono una conseguenza di questa « dimensione popolare » aiutano a scuotere i sedimenti di una lingua stagnante. Nell’introduzione alle sue traduzioni del poeta inglese G.M. Hopkins, riconosciamo in Fenoglio una simile necessità di cimentarsi con una lingua e liberarsi di certi canoni retorici che egli riteneva soffocanti. L’affinità che Fenoglio aveva evidentemente sentito con il poeta gesuita era per lui talmente importante che lo fece anche capire nella soprammenzionata intervista sul « Corriere albese » quando si parla della sua preparazione veramente formidabile nel campo della letteratura anglosassone: « Sono casi che forse soltanto “la provincia” ha ancora, nella sua freschezza, la possibilità di generare, in un ambiente ove, man-

cando i cenacoli e le “scuole” letterarie, le intelligenze più vive si affinano nel gusto delle cose più belle unicamente sorrette dall'amore per la ricerca e da un meraviglioso equilibrio del gusto artistico ». Non è un caso fortuito che subito dopo questa riflessione il giornalista ci ricorda di una sera al Circolo sociale di Alba quando vennero lette alcune poesie di Hopkins, tradotte da Fenoglio: « Vi confesso che poche volte nella mia breve esistenza fui cosi preso dal fascino del “bello”. Fu uno stupore generale tra quei pochi fortunati presenti alla serata. Tanta era stata la raffinata sensibilità del traduttore, limpido e preciso, fedele nel far rivivere la freschezza

dell’originale ispira-

zione. Sono miracoli che soltanto dall'amore d’un animo sensibile per un altro a lui simile possono nascere ». La parola « freschezza » che appare due volte nel giro di poche righe richiama la frase « espressioni udite di fresco » dalla prefazione del Playboy of the Western World, che Synge considerava una caratteristica fondamentale della sua commedia e del gran teatro elisabettiano. Ed è, vale la pena di ricordare, proprio la freschezza del linguaggio delle commedie di Synge che colpi T.S. Eliot. Sono ben note agli studiosi di Fenoglio la sua predilezione per il teatro elisabettiano e la sua « spiccata » preferenza come traduttore per il teatro e la poesia. Le sei pagine, per la maggior parte inedite, che Fenoglio traduce da Henry the fourth, part one di Shakespeare convalidano queste sue preferenze e la sua attrazione all'uso di un linguaggio immediato. Sono pagine in prosa dall’atto secondo, quarta scena. L'azione si svolge alla taverna Boar's Head ed i personaggi principali sono il principe Hal e Falstaff. Il dialogo è molto idiomatico e brillante. Si offre, al proposito, un passo dalla traduzione di Fenoglio. È una conversazione animata tra il principe Hal, il bravaccio Falstaff e il compagno Poins:

232

PRINCIPE: FALSTAFF:

PRINCIPE:

Ma, pancione figlio di una buona donna, che t'ha preso? E non sei un vigliacco? Rispondimi a questo. E non è un vigliacco quel Poins laggiù? SADEnedieo; pancione, se mi dai del vigliacco, io ti infilzo. Ho dato del vigliacco a te? Voglio vederti dannato prima che io ti dia del vigliacco: Però darei mille sterline per saper correre forte come te. Tu sei abbastanza ben messo di spalle, non t'importa che qualcuno ti veda le spalle. Ma questo lo chiami spalleggiare gli amici? Peste a chi spalleggia a questo modo! Datemi gente che mi presenti il petto. Una coppa di secco. Sono un marrano se tutt'oggi ho bevuto. 9 depravato! Hai ancora le labbra umide dell’ultima

FALSTAFF:

Fa lo stesso (Beve). E torno

PoINS:

FALSTAFF:

evuta.

PRINCIPE: FALSTAFF: PRINCIPE:

FALSTAFF:

PRINCIPE: FALSTAFF:

a dire: peste e bubboni a tutti i vigliacchi. Ma cosa t’è successo? Che cos’è successo? Che stamattina quattro di noi qui presenti si sono beccati mille sterline. E dov'è il malloppo, Jack, dov'è? Dov'è! Fregato ci è stato. In cento contro noi quattro poveracci. Che dici? In cento!? Son paltoniere se per due ore filate non mi sono battuto a ferro corto con una dozzina di loro. Sono scampato per miracolo, otto volte mi han bucato il farsetto, quattro volte il calzone. Il mio scudo crivellato, la mia spada ridotta come una sega. Ecce signum! Non m'’ero mai battuto cosi bene da quando son uomo, ma non bastò. Peste e bubboni a tutti i vigliacchi! E adesso parlino. O se dicono qualcosa di più o di meno della verità, sono degli infami e i figli delle tenebre.!4

Questa scena sfrutta un linguaggio gergale che doveva sembrare particolarmente affascinante a Fenoglio. A proposito di questa attrazione per il gergo o per il vernacolo, Bruce Merry suggerisce — come modello inglese al dialogato di Burgess e Grisenthwaite, i due sudafricani fuggiti ne Il partigiano Johnny 1, e degli inglesi Leacock e Cullis in Primavera di bellezza — il gergo soldatesco di Soldier's Three di Rudyard Kipling (testo che Fenoglio possedeva, non annotato). Pur dando pienamente

ragione a Merry, pare che ci sia-

no altri modelli per le due opere di Fenoglio. Senza indugiare in esemplificazioni,

si trovano

usati nelle commedie

somiglianze

di John Galsworthy,

The Foundations.! Si ricorda,

con

certi termini

ed in particolare,

a proposito di Galsworthy, che

Fenoglio iniziò una traduzione della commedia A Bit O’ Love (Una briciola d'amore) dell’autore inglese, i cui drammi, vale la pena di menzionare, si distinguono per uno stile naturali-

233

stico (le poche righe della traduzione si trovano nel quaderno I nel Fondo Fenoglio ad Alba). La sensibilità mimetica e l'enfasi sul dialogato, caratteristiche dello scrittore confermate da altri studiosi, spiega in parte la sua scelta, come traduttore, di opere teatrali o di testi in cui il dialogo occupa uno spazio rilevante (pensiamo, ad esempio, all’abbondanza di dialoghi, per di più fortemente colloquiali, de Il vento nei salici di Kenneth Grahame).!” Inoltre, c'è da considerare il forte sapore colloquiale e/o regionale in molte sue letture. John Meddemmen ci fa notare, tra i libri nella biblioteca di

Fenoglio, la presenza del testo Sir Harry Lauder’s Best Scotch Stories e suggerisce che Fenoglio abbia letto la rivista Reader’s Digest in edizione inglese.!8 Nel volume 2 del Reader's Digest Condensed Books 1956 (testo che Fenoglio possedeva 19), leggiamo a pagina 50 del romanzo Captain of the Queens di Captain Harry Grattidge una canzonetta che Fenoglio poi riporta quasi per intero nelle pagine di Frammenti di romanzo: There'll always be an England Where there's a country lane, As long as there's a cottage small Beside a field of grain.

In Frammenti

di romanzo,

verso della canzonetta.

Fenoglio omette solo l’ultimo

Si riscontra, inoltre, un nome

molto

simile a quello dell'autore di Captain of the Queens a pagina 41 dell’Ur Partigiano Johnny! Si offre il passo nell’originale e poi nella traduzione italiana: And in the panic silence crooned

Perkins

shrill, raw,

adulescential

(Nell’irrequieto silenzio Perkins prese a canticchiare voce adolescenziale).

voice

con stridula

A questo punto, c’è nella narrazione uno spazio lasciato vuoto dall’autore e c'è, tra parentesi, il nome Grattadge. Fenoglio poi prosegue: and then raised only a little, having pleased tolerance. (Poi alzò la voce alquanto, avendo

ranza da parte del maggiore.)

experienced

the

major's

riscontrato una divertita tolle-

La narrazione s'interrompe ancora e ci troviamo di fronte ad un altro spazio vuoto. È chiaro che Fenoglio aveva ogni intenzione di inserire il motivetto inglese in ambedue

234

gli spazi lasciati vuoti e aveva messo tra parentesi il nome Grattadge per ricordarsi del motivetto nel romanzo. Fenoglio fa un errore di ortografia e scrive Grattadge anziché il corretto cognome Grattidge. Sia nei romanzi incompleti di Fenoglio che in quello di Grattidge il motivetto rustico si contrasta con una scena di guerra. Non è mia intenzione di occuparmi in questa sede della quaestio filologica che tale scoperta comporta. Mi sono solo permesso di offrire un altro esempio della sensibilità di Fenoglio alla parlata colloquiale della lingua inglese. Ciò non toglie che si mette a disposizione degli studiosi un altro elemento del « complicato puzzle » dell’iter stilistico dello scrittore. Vorrei, invece, soffermarmi brevemente

sulla traduzione

di Fenoglio del Pied Piper of Hamelin di Robert Browning in connessione con quanto ho finora detto.? La traduzione risale a dopo il 1960, anno in cui venne pubblicata l’edizione usata dallo scrittore (The Poetical Works of Robert Browning. Complete from 1833 to 1868 and the shorter poems thereafter, Londra, Oxford University, 1960). Fenoglio traduce quasi tutte le quindici stanze della poesia, escluse le prime due, l’ultima e qualche altro verso. La scelta di tradurre una favola o una storia per ragazzi che tratta di animali non gli era nuova. Basta ricordare la sua traduzione

de Il vento

nei salici.

Fenoglio,

inoltre,

dichiarò

in un’intervista concessa a una rivista d’un liceo di Cuneo nell'ottobre 1960 che avrebbe pubblicato presto un libro di fiabe. Sarebbe anche opportuno ricordare le due fiabe composte tra il ’61 e il ’62 per la figlia Margherita.* È significativo per la nostra discussione che Browning includa The Pied Piper of Hamelin fra le sue Dramatic Lyrics and Dramatic Romances. Il fatto che il poeta inglese definisca alcune di queste poesie romances è un riconoscimento che nella raccolta l’aspetto narrativo è più importante di quello lirico. Nell'edizione del 1842 delle Dramatic Lyrics and Dramatic Romances, Browning scrive la seguente nota sul verso del frontespizio che precede la prima pagina del testo: « Such poems as the following come properly enough, I suppose, under the head of “Dramatic pieces”; being though for the most part lyric in expression, always dramatic in principle, and so many utterances of so many imaginary persons, not

mine ».d Le poesie sono drammatiche, come ci spiega Browning, nel senso che dovrebbero trattare della parlata dei personaggi e non di quella dell'autore. Se guardiamo il testo che Fenoglio traduce, notiamo immediatamente

la sua ricchezza idiomatica

e il suo robusto realismo. Lo stile è « aggressivamente conversevole e colloquiale ».6 Browning tratta abilmente la for-

235

ma del verso cosi da fornire il mezzo perfetto per l’espressione parlata. La cadenza rapida e scorrevole fa si che la storia

fantastica sia vivida ed emozionante. Il commento di Gorlier, a proposito della traduzione di Fenoglio della Ballata di Coleridge, si adatta bene anche a questa di Browning: « Abbandonata la rima, Fenoglio si preoccupò però attentamente del ritmo, della coordinazione

tra cadenza

narrativa

e dramma-

tica e fluidità del linguaggio ». Benché la traduzione del Pied Piper rimanga in fase di elaborazione, già si avverte che Fenoglio abbia capito l’espressione dell'originale e, di conseguenza, riproduca con efficacia gli aspetti drammatici e narrativi della poesia, caratteristiche che Browning, si ricordi, riteneva principali. Un esame del linguaggio di testi tradotti da Fenoglio ci ha dimostrato che lo scrittore albese era attratto da un’espressione colloquiale ed immediata. Lo aveva evidentemente affascinato la capacità di certi autori inglesi, come Synge, Coleridge e Browning, di rendere poetica l’espressione parlata sia nella figurazione sia nel ritmo. La sua preferenza, come traduttore, del teatro o di poesie

come, per esempio, La ballata del vecchio marinaio e The Pied Piper of Hamelin, in cui c’è una forte componente drammatica, conferma il parere di Gian Luigi Beccaria a proposito di Fenoglio-narratore: « Fenoglio è il drammatico che mira alla rappresentazione diretta, e non ci dà l'impressione che l’autore è li ad esporci

le cose, a descrivercele,

a caratteriz-

zare ».? E il seguente commento di Eugenio Montale riconferma la scelta di Fenoglio di tradurre certi testi della letteratura anglosassone, come quelli di cui ci siamo occupati in questo intervento: « Fenoglio è uno di quegli scrittori che lasciano parlare i fatti, che curano molto la regia e il montaggio della narrazione, che ricalcano fedelmente l’espressione parlata, ma non si permettono mai di intervenire direttamente. Tendono, insomma,

a trasformare

la cronaca in poesia ».8

NOTE 1 T. S. ELIOT, La poesia e il teatro, in Murder in the Cathedral, a cura di V. Fissore, Milano, Mursia, 1980, pp. 104-105. ? Ibid.,p. 120. * Per l’intera traduzione della prefazione del Playboy of the Western World, rimando al mio libro Beppe Fenoglio and English Literature: A Study of the Writer as Translator, Berkeley & Los Angeles, University of California Press, 1987, pp. 213-214. ' S. DEANE, Synge's Poetic Use of Language, in J.M. [John Millington] Synge Centenary Papers 1971, a cura di Maurice Harmon, Dublino, The Dolman

Press, 1972, p. 131.

° Si deve a Gino Rizzo la scoperta di questo documento,

236

in Per un

itinerario letterario: le Langhe di Beppe Fenoglio,

sett.-dic. 1973,g: Dip. 226, ora in 35-36, vii $ Si veda La 60.critica 1978. p_ Cappelli,

ogli ancora

« Nuovi Argomenti

itica. Mi-Mi. Su Fenoglioio tra tra filologia e critica,

e Fenoglio, g

a cura

inediti dalla traduzione

dii G. Grassano,

del libro

di

Bologna,

i

Meo 19 nel Fondo Fenoglio ad Alba. ica