Introduzione a Omero

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PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI Geografia. Storia

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Copyright© 196' Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Quarta edizione

FAUSTO CODINO

INTRODUZIONE A OMERO

Piccola Biblioteca Einaudi

Indice

p. 9

Prefazione Età e fortuna di Omero

II

Notizie storiche

23

La critica fino al Settecento

38

L'analisi filologica e la questione omerica

47

Qualche esempio e qualche ipotesi

Il mondo di Omero 63

Passato e presente

7I 79

I poteri di Agamennone

90

Responsabilità collettiva : la freccia di Pandaro

Oggetti materiali e rapporti umani

98 I 05

Responsabilità personale: la Riconciliazione

I J4

Odissea : le ragioni dei pretendenti

123

L'altra parte : Odisseo e il popolo

I 30 I 36

La rappresentazione epica dei caratteri

Un giudice nell'Iliade

I personaggi La vita professionale e l'ira

I 43

La nascita del sentimento privato

I 53

Epica e libertà

Religione e mitologia I 59

I rapporti fra l'Olimpo e la terra

I 68

Gli dèi tra loro

I 74

Gli dèi nelle battaglie

I 85

II destino

6

INDICE

Sulla composizione dei poemi p. 191

Tradizione e innovazione

"199

Elementi della struttura

209

Indice analitico

2I I

Indice dei nomi

INTRODUZIONE A OMERO

Ai nonni di Giorgio e Alessandra

Prefazione

In questo breve avviamento alla lettura di Omero, de­ stinato anche a chi non conosca il greco e non abbia un in­ teresse specifico per gli studi sulla Grecia antica, si è cer­ cato di fornire il piu possibile d'informazioni attendibili sulla civiltà in cui i poemi nacquero e sulle circostanze del­ la loro genesi. Il mio desiderio principale era di riuscire chiaro, di trascurare le discussioni inessenziali, ma qui non si poteva semplificare troppo: la materia stessa, dapper­ tutto controversa, imponeva di tenersi a metà strada fra il saggio d'interpretazione e l'esposizione manualistica. Sul formarsi delle molte teorie contrastanti sull'origine dei poemi, che tengono ancora diviso il campo della critica, cioè sulla storia della «questione america», ho pensato che bastasse un ragguaglio sommario nella parte introdut­ tiva. Ma anche nel seguito ho dovuto spesso avvertire che su questo o quel punto la critica non è affatto unanime, e prendere posizione. In piu, su questioni anche non secon­ darie ho esposto pareri personali che gli studiosi giudiche­ ranno: in particolare sulla monarchia omerica e sulla so­ cietà di Itaca, sulla costruzione dei caratteri degli eroi, sul­ la mitologia. Le citazioni sono prese dalla traduzione di Rosa Calzec­ chi Onesti (Einaudi, r963) che, oltre ad essere chiara e precisa, segue l'originale verso per verso: la numerazione dei versi corrisponde dunque a quella del testo greco. F. C.

Età e fortuna di Omero

Notizie storiche. Il nostro argomento principale è il mondo omerico, cioè intendiamo illustrare in qualche punto l'ambiente rappresentato dall'Iliade e dall'Odissea per facilitare una lettura appropriata dei poemi. Ci capiterà di dire qualche cosa su temi svariati, sulla psicologia dei personaggi e sul­ le loro armi, sulla tecnica epica e sulla mitologia ; ci aster­ remo invece il piu possibile dal giudicare le qualità poeti­ che dei testi in esame perché, senza contare che saremmo troppo inferiori al compito, il giudizio va tenuto in sospe­ so per necessità. Tutti sanno che la paternità dei poemi è ignota e che, se essi sono nati dal lavoro a catena di gene­ razioni di poeti-artigiani, il loro valore artistico si sottrae ai criteri consueti delle nostre teorie estetiche. Dobbiamo dunque aver pazienza e riconoscere onestamente che da oltre un secolo e mezzo, da quando esiste la « questione omerica », Omero se ne sta sospeso nel limbo (o forse nel purgatorio ) dei poeti, dove la critica letteraria non ha il diritto di entrare e donde nessun filologo è riuscito finora a trarlo fuori. Se fosse possibile, seguiremmo lo schema classico di ogni indagine preliminare su un'opera letteraria : ambien­ te storico, fonti, biografia e personalità dell'autore. Si dà il caso che per noi queste siano tre incognite. È già molto se si riesce a fare un po' di luce sull'una o sull'altra. Fer­ mandoci a considerare soprattutto l'ambiente storico noi ci adeguiamo semplicemente a una tendenza che oggi ha acquistato molto rilievo nella critica america.

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ET À E FORTUNA DI OMERO

In passato prevalevano le ricerche sulla paternità dei poemi, cioè l'analisi filologica in senso stretto, come inda­ gine sull 'unità e sulla coerenza interna dei poemi. Nel se­ colo scorso i testi erano per cosi dire aggrediti su tutto il fronte con tutte le armi filologico-linguistiche disponibili, ma per lo piu in vista di un fine limitato : mettere allo sco­ perto gl'indizi rivelatori del loro processo di formazione. Gli studi ottocenteschi hanno dato risultati parziali di un valore inestimabile, ma quasi sempre nell'ambito della « questione america » considerata essenzialmente come un problema, preliminare, di analisi testuale. Oggi i poemi sono oggetto di una critica piu differen­ ziata, negli interessi e nei metodi, che li considera da pun­ ti di vista molteplici, ma infine convergenti, e che tende in ultima analisi a collegare il problema della struttura in­ terna dei poemi con quello de1la loro collocazione stori­ ca. Nuove scoperte, progressi nelle tecniche scientifiche e una piu stretta collaborazione fra le discipline che studia­ no le prime epoche della storia greca consentono di osser­ vare l 'opera america in una prospettiva ben piu ampia. La questione america non ha perduto d'interesse, ma è di­ ventata parte di un sistema complesso di campi d 'indagi­ ne. L'accumularsi di dati archeologici, linguistici ecc. ci rivela un Omero non piu isolato e avvolto nella tenebra, ma situato in un punto sempre meglio determinabile del percorso chf' port�· la Grecia dall'età micenea al periodo cosidde:to arcaico . Negli studi su Omero, anche in quelli d'interesse preci­ puamente filologico, si concede uno spazio maggiore ai problemi storici generali ; si riferiscono piu direttamente ad essi anche le ricerche parziali e specialistiche. Una re­ cente rassegna bibliografica di studi omerici (curata da Hans Joachim Mette in « Lustrum », 1 95 6 ) può suscitare un'impressione falsa e magari sconfortante : su sette-otto­ cento titoli elencati, solo tredici sono raccolti sotto la ru­ brica « sociologia », solo due sotto « diritto », mentre cin­ quantun lavori trattano di questioni linguistico-gramma­ ticali e a)tt-i 289 di ricerche semasiologiche sul lessico o­ merico. Ma va detto che queste ultime in buona parte concernono la storia di cose o concetti utili per la cono-

NOTIZIE S TORICHE

IJ

scenza del mondo omerico, e per giunta la scelta e la clas­ sificazione dei titoli sono discutibili. Molte fra le piu rap­ presentative pubblicazioni recenti su Omero portano tito­ li come Omero e i monumenti (Hilda L. Lorimer) , Il mon­ do di Odisseo (Moses l. Finley), Da Micene a Omero (Thomas B. L. Webster), La storia e l'Iliade america (De­ nys Page) e cosf via. Se è vero che negli ultimi anni le �coperte archeologi­ che e le pubblicazioni di nuovi testi letterari e religiosi orientali hanno gettato molti raggi di luce sull'evoluzione della Grecia dalla preistoria all'età omerica e in particola­ re sui rapporti della civiltà minoica e micenea col mondo orientale, oggi però sarebbe prematuro affermare che di questi secoli si possa tracciare un quadro nitido e convin­ cente. Agli storici i nuovi dati, numerosi ma sparsi, sulla vita materiale, economica e culturale dell'età del bronzo e della prima età del ferro in Grecia consigliano piu caute­ la che sicurezza nell'avventurarsi in ricostruzioni genera­ li , mentre gli stessi atteggiamenti e metodi della storio­ grafia sono in fase di ripensamento e di discussione. Spe­ cialmente per il periodo che ci interessa va detto che « la prevalenza della archeologia negli studi moderni di storia antica risulta in una certa mancanza di direzione, in una saltuarietà e arbitrarietà di contributi. Se si confronta la ricerca storica degli ultimi decenni con quella, diciamo, fra il 1 870 e il 1 8 90, è chiaro che essa si è fatta meno omogenea, ma piu ricca di fatti nuovi, piu conscia del pe­ ricolo Ji generalizzare quando altri fatti nuovi possono emergere in qualsiasi momento » (Arnaldo Momigliano). Ma non abbiamo intenzione di anteporre alla lettura dei poemi una nostra interpretazione particolareggiata di quei secoli, bensf di ricavare proprio da questa lettura dei testi stessi qualche indicazione sull'ambiente in cui si muovono gli eroi omerici, presupponendo come accertati solo alcuni punti essenziali del lungo periodo che va dal­ l'età cretese-micenea, alla quale risalgono in gran parte le leggende narrate nei poemi, fino all'età in cui questi furo­ no composti nella redazione definitiva ( fra la fine dell'viii secolo e gl'inizi del vu). Riassumiamo in breve. Nella media età del bronzo, a

ETÀ E FORTUNA DI OMERO

partire dagli inizi del secondo millennio a. C., comincia a Creta la civiltà dei grandi palazzi, che non furono un fe­ nomeno specificamente cretese ma compaiono in altre for­ me in Egitto, in Mesopotamia, in Siria e in Asia Minore. I palazzi presuppongono un'economia evoluta, un'accentua­ ta divisione del lavoro fra piu categorie di artigiani e arti­ sti, una gerarchia politica che fa capo a un principe. Oltre che essere residenze delle autorità, essi avevano la funzio­ ne decisiva di centrali di scambio dei prodotti della comu­ nità, e quindi favorivano l'incremento delle attività pro­ duttive nonché i rapporti commerciali a lunga distanza. Sono famosi gli splendidi palazzi di Cnosso e di Pesto, centri maggiori di una Creta che già nei primi secoli del millennio cominciò a dominare i mari e fu in rapporti re­ golari con i paesi civili del Mediterraneo orientale, e che alla metà del millennio raggiunse il suo massimo splendo­ re, stabilendo stretti contatti ( di amicizia o di ostilità ) con i potenti centri della Grecia micenea, che intanto erano sorti. Sulle forme politiche della civiltà cretese o minoica siamo poco informati, ma l'alto livello di vita raggiunto è attestato dall 'ampio raggio delle relazioni esterne, dalla varietà e dall'eccellenza dei prodotti artigianali e delle opere d 'arte, dall'architettura assai progredita nelle co­ struzioni di strade, ponti, acquedotti e abitazioni provvi­ ste d'impianti che potevano soddisfare le esigenze piu raf­ finate. In Grecia, all'inizio del secondo millennio, c'era stata un 'invasione di genti di lingua indoeuropea, venute dal­ l'Europa orientale, praticanti un'economia esclusivamen­ te o prevalentemente pastorale, che si sovrapposero a una civiltà ( « antico-elladica »: il termine « elladico » è usato in archeologia per indicare l 'età del bronzo in Grecia) già in parte urbanizzata. Possiamo chi-amare « protogreci » questi invasori , che introdussero la lingua destinata ad af­ fermarsi nella penisola, ma facendo attenzione a non dare troppa importanza al nome e a non fraintendere la quali­ fica di « indo-europei », che ha troppo contribuito ad ali­ mentare l'equivoco mito dell'incomparabile « uomo gre­ co » e ad inquinare molte interpretazioni della storia gre­ ca. L'attribuire i successi posteriori dei Greci a cause raz-

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ziali - purtroppo occorre ancora ripeterlo è per lo meno « un voler confondere la razza con la cultura, quando non è una perversione come quella del culto dell'uomo nordi­ co. Il greco è una lingua indo-europea, ma una razza indo­ europea non è mai esistita » (Robert M. Cook). I protogreci immigrati dovevano essere numerosi. Men­ tre una parte di essi si arrestò nelle regioni montuose del­ la Grecia settentrionale, conservando le abitudini della pastorizia, gli altri occuparono il resto della penisola e si mescolarono ai precedenti abitatori. La loro lingua preval­ se, anche la loro religione si attestò saldamente nella nuo­ va sede, ma lasciando ampi diritti alle vecchie divinità e ai loro riti. Per il resto, gl'immigrati avevano molto da im­ parare : passando a forme di esistenza stabile, in centri urbani , era ovvio che facessero tesoro delle esperienze an­ tico-elladiche. Presto i vecchi abitati si ripopolarono, quel­ li distrutti furono ricostruiti. Sorse cosi una cultura mista che in due o tre secoli compi notevoli progressi e che ver­ so il 16oo a. C. era caratterizzata da ricche residenze prin­ cipesche, in particolare a Micene, e da modi di vita molto influenzati da quelli egiziani e cretesi. Nei due secoli se­ guenti i principi del continente prevalsero sui cretesi e ar­ rivarono a dominare l 'isola ; dopo la distruzione definitiva di Cnosso (c. 1400 a. C. ) , Micene raggiunse la sua massi­ ma ricchezza, circondata da altri centri di potenza, fra cui la vicina Tirinto, Pilo, Atene e le numerose residenze sparse dalla Laconia fino alla Tessaglia. Non si può dire se i signori di questi luoghi fossero au­ tonomi, se costituissero una sorta di federazione o un si­ stema feudale sottoposto a uno o piu sovrani . È certo pe­ rò che essi erano presenti in vasti tratti del Mediterraneo, con le loro navi da guerra e mercantili, con i loro carri da battaglia, e dalle spedizioni d'oltremare riportavano merci di lusso e bottino abbondante. Nei rapporti, anche diplo­ matici, col mondo esterno (per esempio con gli lttiti, la grande nazione dell'Asia Minore) sembra che essi si pre­ sentassero come una potenza piuttosto unita. D 'altra parte i resti materiali della loro civiltà - le abitazioni col grande ambiente quadrangolare (megaron ), le armi, gli ornamen­ ti raffinati, gli oggetti del culto, le tombe, la bella cerami-

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ca in particolare - sono assai uniformi su tutta l'area da essi occupata : una simile uniformità nei prodotti artistici e artigianali, sn un'area cosi estesa, non si raggiungerà piu nella storia greca. Sembrerebbe dunque di dover con­ cludere che esisteva una certa unità politica, e che la capi­ tale era Micene. Nello stesso periodo, sulla costa nord-occidentale del­ l 'Asia Minore, fioriva l 'antica città di Troia, forte della sua posizione geografica e delle sue mura, ricca soprattut­ to per gh allevamenti e la produzione di tessuti ; aveva stretti rapporti con i Micenei (o « Achei » ) e fu distrutta per incendio nella seconda metà del secolo XIII. È ben possibile, dunque, che una coalizione micenea abbia asse­ diato ed espugnato Troia, come racconta Omero, anche se non ci possiamo aspettare che il nostro poeta, a tanta di­ stanza di tempo, potesse riferire con qualche esattezza i particolari dell'impresa. Ma occorre avvertire che, secon­ do le nostre conoscenze attuali, si tratta di una semplice possibilità. Non è neppure certo che l'incendio di Troia VII a ( lo strato degli scavi troiani che può essere identifi­ cato con la città america) fosse stato causato da avveni­ menti militari . Se veramente Troia fu espugnata e distrut­ ta, non è ancora detto che i vincitori fossero Achei venuti dalla penisola greca. Si potrebbe pensare a una spedizione di Achei già in sedia ti in qualche parte dell'Asia Minore, o a un'invasione di quelle poco note genti del nord che gli Egiziani chiamavano « Popoli del mare ». Questi ultimi potrebbero anche avere ricevuto l'appoggio di un contin­ gente di Achei , i cui discendenti avrebbero raccontato la guerra a modo loro, come impresa puramente « naziona­ le » achea. Tutte queste sono ipotesi lecite, anche se in ge­ nerale si continua a credere che la narrazione america con­ servi un nucleo di verità storica. La civiltà micene" ebbe fine nel XII secolo, quando i Dori e le altre popolazioni greche che a suo tempo si era­ no fermate nel nord-ovest calarono nella penisola fino a raggiungere le isole meridionali ; gli Achei emigratone verso l 'Asia Minore e le regioni periferiche, oppure resta­ rono sul posto a condividere l'esistenza -arretrata dei nuo­ vi venuti. Questo almeno risulta dalla versione tradizio-

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naie dei fatti, come li raccontavano i Greci dell'età classi­ ca; essi credevano anche di sapere che l'invasione dorica era avvenuta pochi decenni dopo la guerra di Troia, e che gli spostamemi verso oriente da essa provocati portaro­ no le tre stirpi principali ad occupare le lbro seclì storiche sull'altra sponda dell'Egeo : gli Eoli nel nord della costa occidentale anatolica, gli Ioni al centro, i Dori al sud. La distribuzione dei dialetti greci conferma questa versione nelle linee generali. Da molto tempo, tuttavia, si è osser­ vato che Omero sembra ignorare del tutto un'invasione dorica che avrebbe distrutto i regni del Peloponneso, e gli archeologi contemporanei sono molto prudenti nel va­ lutare i dati in loro possesso : per esempio, la sovrapposi­ zione di un modo di vita presumibilmente dorico sul vec­ chio strato miceneo sembra posteriore di almeno un seco­ lo al primo distruttivo attacco esterno che avvenne verso il 1200. È ovvio che narrazioni tramandate oralmente per secoli abbiano sempre piu semplificato avvenimenti tanto intrkJti. Si ricordi che la Grecia restò senza l'uso .della scrittura per mt::--;zo millen�io. Oggi noi, piu fortunati dei contem­ poranei di Omero, leggiamo anche testi micenei . Creta aveva posseduto una scrittura almeno fino dagli inizi del secondo millennio, prima una scrittura ideografica, poi una scrittura sillabica, che in una forma modificata fu adottata dai Micenei per scrivere il loro greco. Questa scrittura (la Lineare B) è stata decifrata nel 1952, come ormai tutti sanno, dal geniale studioso inglese Michael Ventris. I documenti che ora possiamo leggere sono tavo­ lette d'argilla, ritrovate a Creta, a Pilo e a Micene, sulle quali sono registrati inventari, partite di merci, elenchi di persone ; servivano a scopi pratici immediati, tanto che non erano sottoposte a cottura (quelle conservate furono cotte dagli incendi che, distruggendo gli edifici, ci hanno salvato le scritte ), e purtroppo non ci dicono molto, per esempio, sui rapporti politici e giuridici della civiltà mi­ cenea e sulla crisi violenta che la fece scomparire. Ma a noi interessava soltanto ricordare, con questi po­ chi cenni, che i Micenei avevano raggiunto condizioni di vita quanto mai evolute, stavano alla pari con i grandi -re-

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gni dell'Oriente, avevano intensi rapporti commerciali con i paesi del Mèditerraneo centrale e orientale, disponevano di forze militari capaci di condurre spedizioni esterne in grande stile, erigevano costruzioni piu monumentali dei palazzi cretesi ; i documenti in Lineare B, anche se non ci possono fornire tante notizie che avremmo desiderato, èonfermano almeno che la società era molto differenziata: la popolazione aveva una struttura gerarchica complessa ed era sudJivisa in numerose categone economiche di spe­ cialisti. Essi dimostrano, se non altro, che «i palazzi era­ no già governati piu dallo stilo dello scriba che dalla spa­ da » (Fritz Schachenneyr) . I poemi omerici parlano di cose e fatti micenei, ma il mondo omerico può amministrarsi senza bisogno della scrittura. Se quasi un secolo fa le prime scoperte archeo­ logiche importanti sembravano confermare la veridicità di Omero come testimone della civiltà micenea, oggi vengo­ no alla luce piu le differenn� che le somiglianze fra la Mi­ cene storica e quella america. I nostri poemi hanno preso forma a secoli di distanza dai fatti ;tarrati, sono nati in quel «m ·!dioevo greco)) (xi­ VIII secolo ; il suo inizio coincide con la rivoluzione tecni­ ca provocata dall 'uso del ferro) sul quale siamo cosi ma­ le informati. In quei « secoli oscuri » la Grecia attraversò vicende complicate: ci furono varie combinazioni fra le vecchie e le nuove stirpi, spostamenti in massa e a piccoli gruppi, insorsero differenze rilevanti di livello civile fra gli stabilimenti esclusivamente abitati dai nuovi venuti, le regioni meno toccate dagli avvenimenti, come l 'Attica con Atene, e le popolazioni che affrontavano in Asia 1vlinore condizioni di vita affatto nuove, in contatto con popoli di­ versi. Possiamo dire che in Grecia si ricominciò tutto da ca­ po, o anche che la storia greca vera e propria ha inizio ver­ so l'anno r ooo a. C. Quando si dice che i Greci classici sono i discendenti dei Micenei , si rende semplicemente omaggio a un mito che essi stessi crearono. Su questo pun­ to si deve insistere perché alla formazione di quel mito contribui decisamente proprio la poesia epica che, pur es­ sendo un prodotto del medioevo greco, trasmise di gene-

NOTIZIE STORICHE razione in generazione memorie vivaci e apparentemente autentiche della civiltà micenea, come se fossero ricordi di ieri, passando sotto silenzio la sua distruzione totale, cosi che nell'VIII-VII secolo la nascente civiltà aristocratica po­ té illudersi di trovare nel mondo eroico dell'epica il pro­ prio precedente diretto oltre che il proprio modello. Lo storico moderno deve distinguere piu freddamente fra le illusioni e la realtà, anche se gli riesce difficile rinun­ ciare alla vecchia idea classicistica di un'evoluzione unita­ ria e armoniosa della nazione ellenica. Accade cosi che molti cerchino ancora oggi di attenuare la profondità de­ gli sconvolgimenti avvenuti alla fine del secondo millen­ nio. Oppure, partendo dal solito presupposto sicuro che fin dalla creazione il popolo greco avesse ricevuto una mis­ sione specialissima dal buon Dio, c'è chi interpreta la ri­ caduta nella barbarie come un salutare e provvidenziale ritorno alle origini, grazie all'avvento di una stirpe sorel­ la, quella dorica, che. per un disegno superiore era stata tenuta di riserva e fu infine chiamata a restaurare l'essen­ za pura della grecità. Secondo questa interpretazione la precoce maturità cretese-micenea avrebbe accelerato trop­ po i tempi, secondo un ritmo non-greco, e si sarebbe me­ ritato il crollo. «Ogni volta che un popolo deve arrivare a una civiltà realmente indipendente, dovrà un giorno ab­ bandonare tutto ciò che nei suoi primi tempi ha preso, ma non assimilato, di elementi estranei, troppo maturi, del mondo circostante, e ritornare alle radici della sua natura, anche se esse non si sono affatto sviluppate. Per la storia greca l 'irruzione delle stirpi nordiche, non toccate dalla cultura egea, ha avutç questa importanza» (Helmut Ber­ ve). Ma è meglio lasciare da parte quello che un popolo nella sua storia «deve» fare, ossia non conviene giudica­ re il medioevo ellenico avendo già in mente la polis clas­ sica come punto d'arrivo necessario. Non si può certo negare che fra il passato miceneo e il medioevo ellenico ci siano vistosi elementi di continuità; ma essi appartengono e�senzialmente alla sfera mitologi­ co-poetica e religiosa, soprattutto agli aspetti esteriori di essa, ed è facile sopravalutarli. Fra i principali assertori di quella continuità si trovano appunto storici della lettera-

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tura e della religione, anche insigni (come Martin P. Nils­ son), mentre gli archeologi sono piu riservati. Questi ele­ menti ideologici potranno servire, a chi vuole, per dimo­ strare la presenza di un sentimento nazionale e magari di una nascente coscienza storica nella Grecia di allora, ma non dicono molto sulle condizioni reali di vita. Néll'esistenza sociale, dopo l'invasione dorica, la Gre­ cia continentale tornò a ordinamenti che, per semplificare, possiamo tranquillamente definire barbarici. Al posto del complesso ed evoluto sistema politico scomparso si rista­ bilirono gli ordini gentilizi, senze.le città vere e proprie e senza le strutture statali . Si ha, « oltre che un accentuato frazionamento, una nuova e largamente vittoriosa pene­ trazione di condizioni primitive »: « Dopo il crollo ester­ no e interno dell'età micenea e della sua monarchia, l 'or­ dinamento tribale riprende ora il suo posto » . « In ogni caso, la grecità dell'xi-IX secolo, con la sua primitività culturale ed economica, è chiaramente diversa dalla civil­ tà micenea : significò un nuovo inizio » (Vietar Ehren­ berg). Nella Grecia postmicenea l 'elemento fondamentale del­ la società è la comunità democratica primitiva articolata in gruppi di parentela, nelle loro varie estensioni, dalla fa­ miglia ristretta alla tribu. Siamo costretti a parlare vaga­ mente di questi gruppi (fratrie, ghene, clan, tribu, o co­ munque si voglia classificarli e definirli) perché, se la loro esistenza è ben documentata in età piu tarda, quando ave­ vano già perduto molto del loro senso originario, per il periodo che c'interessa non abbiamo informazioni dirette, e d'altronde fra i vari luoghi e le varie stirpi ci saranno state differenze; né in questa sede è il caso di ricorrere alla pericolosa comparazione con altri popoli « primitivi » o « selvaggi » , a noi meglio noti, che si trovano in una fa­ se corrispondente. Si potrà dire che il legame della comu­ nità è costituito piu dalla parentela reale o supposta che dalla circostanza di convivere in uno stesso luogo, che il tipo semplice di economia non rende necessarie magistra­ ture o poteri politico-statali in rappresentanza della comu­ nità o di parti di essa, che ogni gruppo elegge in assem­ blea un suo capo, il « re », il quale nelle migrazioni, nelle

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guerre, nelle imprese di rapina e di conquista riceve dal­ l 'assemblea poteri militari, come attribuzione temporanea e rcvocabile. Tuttavia il termine « re » che siamo costretti ad usare, diciamolo unà volta per sempre, va preso con forti riserve: la parola basileus, che designa il re nel gre­ co classico, in Omero ha significati oscillanti, indicando tanto il capo di un esercito composto di forze alleate, o il reggente di una comunità « politica » vera e propria, quan­ to il capo di una casa o di una gente aristocratica, allorché l 'aristocrazia si è già formata in seno alla comunità primi­ tiva. Cos! nell'Iliade, dove tutti i capi nell'esercito acheo sono anche « re » , Agamennone deve essere definito qual­ che volta « piu re » degH altri ( IX 16o, 3 92; cfr. Od. XV 5 3 3 ) o « il piu re » di tutti ( Il. IX 6 9 ) . Base del! a vita ecnnomica è dapprima l a pastorizia, poi, per lungo tempo, l'agricoltura esercitata su terreni di pro­ prietà collettiva e affidati in uso temporaneo alle famiglie o ai gruppi di parentela piu estesi. La divisione del lavoro ora esiste solo allo stato rudimentale. Le guerre e le raz­ zie portano però elementi di diseguaglianza: da un lato il capo militare tende a consolidare, a rendere permanente e se possibile ereditaria la sua posizione; dall'altro si forma­ no famiglie e gruppi privilegiati, che tendono ad affrancar­ si dal controllo del re ( d'ora in poi scriveremo la parola senza virgolette} e dell'assemblea. Da queste differenze di poteri e di mezzi proéede l 'appropriazione dei terreni che diventano proprietà privata delle famiglie piu forti. Sorge il dualismo fra monarchia gentilizia o militare e aristocra­ zia nascente, che è alla base dello Stato e degli ordinamen­ ti « politici » veri e propri. Questo processo, da noi ridotto a semplice schema, si riprodusse certo con infinite variazioni in tutto il mondo greco postmiceneo e portò generalmente al prevalere del­ l 'aristocrazia. La quale, acquistando il potere economico e rompendo a proprio vantaggio i vecchi quadri democrati­ co-gentilizi, avviò, a partire dall'Asia Minore, la formazio­ ne della polis e introdusse quelle istituzioni che faranno della civiltà greca , dopo Omero, quel fenomeno singolare e inconfondibile che sappiamo. Tutto ciò è molto vago, e non abbiamo detto a che pun-

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to si debba collocare l'« età america » ; ma, ripetiamo, è meglio arrivare ad esaminare i nostri testi senza presup­ porre altro che queste nozioni generali. Visto che la do­ cumentazione storica è cosi scarsa, mentre Omero è un te­ stimone parlante anche se sibillino, intendiamo compiere un saggio dei poemi senza anteporvi teorie precostituite, cercare di leggerli con attenzione senza !asciarci influenza­ re da questa o quella interpretazione tradizionale. Si tratta di seguire fino in fondo quel principio tanto semplice, eppure di cosi difficile applicazione, che la criti­ ca alessandrina aveva tentato per l'interpretazione della lingua america : spiegare Omero con Omero, ossia rico­ struire il significato delle parole sulla base del solo testo senza presupporre altro, intendere la sua lingua cercando di sottrarsi all'influenza dei significati che le parole aveva­ no acquistato piu tardi. È il principio oggi rimesso in ono­ re, con rinnovata consapevolezza storicistica, dalla criti­ ca migliore : « Se interpretiamo Omero attenendoci pura­ mente alla sua lingua, potremo dare anche una interpreta­ zione piu viva e originale della sua poesia e far si che le parole americhe, intese nel loro vero significato, riprenda­ no l'antico splendore. Il filologo, come il restauratore di un quadro antico, potrà ancor oggi scrostare in molti pun­ ti quell'oscura patina di polvere e di vernice che i tempi vi hanno deposto e ridare cosi ai colori quella luminosità che avevano al momento della creazione » (Bruno Snell) . Naturalmente si parte dalle parole per ricostruire situa­ zioni e concezioni, e questo tipo di lettura spregiudicata ha già dato risultati notevoli nello studio della società, dell'etica e della religione america , facendo giustizia di molte falsificazioni classicistiche. Nel cercare di seguire questa strada già aperta, dichiariamo subito di essere de­ bitori ad altri di gran parte di ciò che stiamo per dire. Se rinunciamo a indicare in nota le fonti bibliografiche che ci hanno servito, lo facciamo per numerose ragioni : innanzi­ tutto per buon senso pratico, tenendo conto che nel cam­ po organizzatissimo degli studi classici chi ha interesse a ritrovare qualche cosa ci riesce sempre facilmente ; ma an­ che per malizia, perché un apparato di note, oltre a mette­ re troppo in mostra la quantità dei nostri debiti verso al-

LA CRlTICA FINO AL S ETTECENTO

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tri, rivelerebbe anche i difetti della nostra informazione; per amore del quieto vivere, perché oltre a tributare omaggi e riconoscimenti doverosi bisognerebbe motivare i dissensi, col rischio di non riuscire a conservare sempre « quella pazienza e quel buon umore che si perdono tanto facilmente quando si scrutano i libri sulla questione ame­ rica » (Denys Page). Del resto abbiamo citato ampiamente nel testo giudizi altrui, riportandoli alla lettera anziché pa­ rafrasarli, e indicandone la paternità, in modo che si veda verso quali studiosi ci sentiamo piu obbligati. Nella nostra lettura cercheremo dunque semplicemente di cogliere il senso di quello che Omero vuol dire, e qual­ che volta di quello che dice senza volerlo. Il metodo piu prudente è di esaminare da vicino brani determinati e, se qualche risultato si ottiene, non generalizzare troppo av­ ventatamente. Perché, anche se scriviamo il nome di O­ mero senza virgolette, non crediamo affatto che tutti i versi dei quarantotto libri siano stati scritti da una stessa persona, né da due sole persone, e pertanto da un unico brano non si possono ricavare conclusioni valide per tutto Omero. Da questo punto di vista il nostro metodo di spie­ gare Omero con Omero è molto diverso da quello alessan­ drino. Non si può mai essere certi che due passi omerici siano stati composti dalla stessa mano e alla stessa data. È dunque indispensabile riassumere almeno per sommi capi la storia delle interpretazioni di Omero e accennare ai ri­ sultati ottenuti nelle discussioni sulla questione america, per quel tanto che è richiesto dal tipo di lettura che inten­ diamo fare. e

La critica fino al Settecento. Non sarà inutile premettere pochi cenni sulla fortuna dei poemi nella Grecia antica. Non perché i critici greci di età classica o postclassica abbiano anticipato in qualche modo la questione america come la intendiamo noi (se non per rari spunti d'interesse puramente esteriore ) : la questione america non poteva essere posta che dal meto­ do critico-filologico e dalla linguistica scientifica moderna.

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Nella critica antica non possiamo cercare anticipazioni si­ gnificative in questo senso (né vogliamo passare in rasse­ gna i suoi « errori » o ingenuità). Ci basta mettere a con­ fronto il modo greco di considerare i poemi col nostro, non tanto per mostrare quello che i Greci non sapevano « ancora » di Omero, quanto per avvertire che essi vi tro­ vavano molte cose che la nostra filologia non ci può resti­ tuire. Abbiamo detto che non possediamo notizie precise sul­ l 'ambiente storico in cui nacquero i poemi, sulle loro fon­ ti, sulla biografia e la personalità dell'autore o degli auto­ ri. I Greci dell'età classica non ne sapevano piu di noi, ma non si afHiggevano per questo : l'unica cosa importante, per loro, era il possesso dei poemi. Quanto alla loro forma letterale, alcuni sapevano o credevano di sapere che nel VI secolo a. C. il tiranno ateniese Pisistrato, o chi per lui, aveva fissato il testo in una redazione stabile; ma i piu non avevano scrupoli filologici. Il nostro testo deriva in sostanza da quello stabilito da­ gli eruditi di Alessandria d'Egitto nel m-n secolo a. C . Prima delle edizioni alessandrine circolavano varie reda­ zioni; curate da città o da singoli editori, che risalivano a qualche lontano esemplare « originale » , custodito da cor­ porazioni di rapsodi. L'esistenza di questo originale è del tutto ipotetica, ma si può credere che per poemi delle pro­ porzioni di quelli omerici si facesse uso al piu presto pos­ sibile di quello strumento insostituibile di conservazione che è la scrittura. D'altra parte, la scrittura non impediva affatto le alte­ razioni . In primo luogo, la trasmissione dei poemi restò affidata per lungo tempo in prevalenza alla tradizione ora­ le, con tutti i suoi inevitabili rischi. Non si può parlare di una circolazione di libri fino al v secolo a. C . , e anche allo­ ra l 'uso della lettura era di diffusione limitatissima. Per i Greci classici aveva poco senso leggere un poema, una tra­ gedia, una lirica, che erano destinati alla recitazione, alla rappresentazione o al canto. In secondo luogo, i Greci non avevano il nostro concetto della proprietà letteraria ; se piu tardi la notorietà immediata acquisita da un'opera poetica e dal suo autore era una garanzia sufficiente per la

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sua conservazione, in età arcaica un testo era esposto a ogni sorta di aggiunte e d'interventi. Particolarmente esposti erano i poemi epici, continua­ tori di una tradizione poetica fluida e impersonale, col lo­ ro stile uniforme e piu facilmente imitabile. Per eventua­ li aggiunte che siano state introdotte nell'opera america non si potrebbe parlare di falsificazione o di plagio : l 'in­ terpolatore era animato da spirito d'emulazione, rende­ va omaggio alla grandezza del poeta che imitava, e si sa­ rebbe meravigliato di sentirsi oggetto di biasimo morale. Qualunque idea si abbia sull'« originale » omerico, si do­ vrà dunque dare per certo che altri vi misero mano suc­ cessivamente. Si pensi che delle tre opere conservate sot­ to il nome di Esiodo, il primo e originalissimo poeta che parla in prima persona e che per cosi dire finna i suoi can­ ti, le Opere e i giorni contengono una lunga aggiunta sicu­ ramente spuria (i « giorni »), la Teogonia è stata molto rielaborata e ampliata da poeti posteriori, e lo Scudo è un'imitazione non esiodea di Omero. Tutto ciò è molto sconfortante per il critico moderno. Ma abbiamo sufficienti ragioni per credere che, dopo un periodo iniziale non troppo lungo di relativa fluidità, l 'o­ pera omerica si sia trasmessa senza modifiche sostanziali fino all'età ellenistica. I critici alessandrini non trovarono i testi ridotti proprio in condizioni caotiche; i precedenti editori e custodi avevano ben contribuito a proteggerli . E dalle testimonianze che abbiamo sulle edizioni prealessan­ drine ( nei brani omerici citati da autori classici o ritrovati su papiri ) vediamo che le alterazioni dovute al passare del tempo e al lavorio dei rapsodi consistevano principalmen­ te in un allargamento del testo, nell'aggiunta di versi ri­ presi da altre parti degli stessi poemi omerici, che non provocavano guasti troppo gravi nella struttura degli epi­ sodi, non ne modificavano il senso. I Greci avevano cominciato presto a trattare con ri­ spetto i poemi. La loro stessa precoce notorietà li salvava da manipolazioni radicali. E inoltre essi occuparono per tempo un posto cosi speciale nella cultura greca che ormai nessuno avrebbe piu osato rielaborarli. Omero era la Bib­ bia dei Greci, come si dice spesso. Ma non era un libro

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sacro né, tanto meno, un libro rivelato; i Greci non ebbe­ ro mai una sacra scrittura. Omero era per loro un artista, sovranamente dotato ma non un visionario. Il testo era venerato, ma come opera di poesia e di sapienza umana, e come tale era custodito; mancando il culto per l'espressio­ ne letterale, non era necessario introdurre alterazioni in­ teressate. Non c'erano interpreti uffici�.li di tipo sacerdo­ tale. L'idea di canonizzare il testo presuppone uno spirito fazioso, polemico e intollerante di cui i Greci non aveva­ no bisogno. Nessuno era obbligato a professarsi credente " nel verbo di Omero. Eppure tutti consideravano la sua opera, oltre che come capolavoro di poesia, anche come fonte di ammaestramenti sulla storia, la scienza, la politi­ ca, la religione e la morale. Piu precisamente, un Greco non avrebbe capito una distinzione fra la poesia e i conte­ nuti pratici e ideologici. E tanto meno avrebbe ammesso, in Omero, una separazione fra valori poetici perenni e aspetti « storicamente condizionati » e superati. La generale accettazione di Omero come maestro era il risultato di una scelta meditata. Omero non era stato l 'u­ nico poeta epico. Al suo tempo si erano scritti molti altri poemi, che in parte esistevano ancora in età classica e piu tardi. Alcuni di questi poemi del cosiddetto « Ciclo epi­ co » avevano per argomento episodi della guerra troiana : i Canti Ciprii (o Ciprie), sulle origini e l'inizio della guer­ ra; l'Etiopide, sulle ultime imprese di Achille ; la Distru­ zione di Ilio e la Piccola Iliade, sulla fine della guerra; i Ritorni, che raccontavano, parallelamente all'Odissea, le avventure degli eroi reduci da Troia; la Telegonia, sulla fine di Odisseo. Per qualche tempo i Greci furono pro­ pensi ad attribuire ad Omero tutta la produzione epica, poi come autori dei poemi « minori » furono indicati altri, e cosf la sorte del Ciclo fu segnata. Esso andò perduto, perché era meno apprezzato. Noi non possiamo fare con­ fronti, ma è abbastanza rassicurante il fatto che la con­ danna del Ciclo non fu decretata da un'accademia, da una autorità politica o da un'istanza clericale. E testimoni au­ torevoli ci dicono che il Ciclo valeva assai meno dell'Ilia­ de e dell'Odissea. Nella sua Poetica (XXII I ) Aristotele, parlando dell'u-

LA CRITICA FINO AL SETTECENTO nità d'azione nel poema epico, dice che « la favola di que­ sto genere deve avere struttura drammatica, come quella della tragedia, ed essere costituita da un'azione intera e compiuta, che abbia principio, mezzo, fine, affinché essa, una e completa come un. organismo vivente, possa pro­ durre quel diletto che le appartiene. Ed ancora è manife­ sto che la struttura della poesia epica non può essere ugua­ le a quella delle narrazioni storiche, che sono costrette ad esporre non un'unica azione ma un periodo di tempo, con tutti gli eventi che accaddero in esso ad uno o piu perso­ naggi, ciascuno dei quali sta rispetto a tutti gli altri cosi come capitò . . . Eppure la maggior parte dei poeti seguono quest'ultimo procedimento. E perciò, come abbiamo già detto, anche per questo riguardo Onìero sembra elevarsi meravigliosamente su tutti gli altri poeti, perché non vol­ le poetare, benché avesse un principio e una fine, tutta quanta la guerra di Troia (dato che l 'argomento sarebbe riuscito troppo vasto e tale da non potere essere colto nel suo insieme ) ; mentre d 'altra parte, se pure avesse avuto una misurata estensione, sarebbe stata troppo complessa per la varietà degli eventi. E dunque Omero da tutti que­ sti eventi staccò una parte che avesse unità, e di molte delle altre si servi come episodi, e cosi col catalogo delle navi e con gli altri episodi rese variata la sua poesia . Ma gli altri poeti hanno preso come loro oggetto una perso­ na, un periodo di tempo, un'unica azione ma con molte parti, come l'autore delle Ciprie e della Piccola Iliade» ( trad. F. Albeggiani). Aristotele aggiunge un'osservazione importante : « E perciò dall'Iliade e dall'Odissea, da ciascuna di esse si può ricavare una tragedia sola, o due tutt'al piu, molte inve­ ce dalle Ciprie, e dalla Piccola Iliade piu di otto, come il Giudizio delle armi, Filottete, Neottolemo , Euripilo , Odisseo mendico, le Donne di Sparla, la Distruzione di Troia e la Partenza delle navi, Sinone e le Troiane». Se i poeti posteriori non poterono ricavare da Omero temi per le loro opere, ciò era dovuto, in primo luogo, come di­ ce Aristotele, all'eccellenza della struttura epica america, nella quale nessun episodio resta talmente isolato da po­ ter essere sviluppato a parte ; mentre i poemi ciclici do-

ETÀ E FORTUNA DI OMERO vevano avere un semplice andamento cronachistico. E si tenga conto che se questi ultimi erano assai piu brevi dei poemi omerici (undici libri i Canti Ciprii e forse quattro la Piccola Iliade), gli episodi in essi addensati dovevano essere trattati in forma molto succinta. È interessante a questo proposito ricordare, tra parentesi, che molti episo­ di fra i piu noti della guerra troiana, prediletti dalla poe­ sia posteriore e poi rimasti molto popolari, erano appunto nel Ciclo ma non sono riferiti neppure indirettamente in Omero : il giudizio di Paride ( solo accennato nell'ultimo libro dell 'Iliade), il sacrificio di Ifigenia, l'assassinio di Pa­ lamede, la storia di Filottete ( appena ricordato due o tre volte in Omero ), il ratto del Palladio, le profezie di Cas­ sandra , l'uccisione di Polissena ecc. Ma i poeti posteriori avevano un'altra ragione per evi­ tare di rifondere motivi omerici nelle loro opere : tanta era l'autorità della versione america dei fatti , che essi do­ vevano considerarla per cosf dire definitiva. Sulle trenta­ due tragedie che ci sono conservate, per esempio, solo una, il Reso pseudoeuripideo, svolge un episodio iliadico, e proprio quello che già alla critica antica sembrava un 'in­ trusione estranea e aberrante nella compagine del poema (la storia di Dolone del libro X ) . Si capisce come mai E­ schilo affermava che i suoi temi poetici erano solo le bri­ ciole del grande banchetto omerico. Il tipo di ammirazione che i Greci avevano per Omero era diverso da quello che noi possiamo avere per un poe­ ta anche moderno. Prima di arrivare al giudizio estetico anche piu favorevole, noi procediamo di riserva in riser­ va, ed espungiamo idealmente dall'opera ciò che ci sem­ bra aver perso di attualità e di valore. Omero doveva es­ sere accettato o rifiutato in blocco. I piu lo accettavano. Al massimo si poteva fare qualche riserva parziale, quan­ do per esempio un'usanza descritta da Omero non trova­ va riscontro nella realtà contemporanea, e una sua affer­ mazione appariva discutibile alla critica storica. Parlando della guerra di Troia, per esempio, Tucidide ( I ro ) dice : « si deve credere che quella spedizione sia stata piu gran­ de delle precedenti, ma inferiore a quelle di ora, se anche qui dobbiamo credere alla poesia di Omero che, da poeta ,

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è naturale che l'abbia abbellita ». Ma sulla storicità della guerra di Troia non si nutrirono mai dubbi. In tutti i ca­ si, il criterio di giudizio era quello della veridicità, non quello del gusto e del merito poe:tico presi a sé, che non entravano in discussione come tali. Possiamo credere che i Greci del VI e v secolo a. C. considerassero particolarmente anacronistico il modello omerico nei campi della religione e della morale. Eppure proprio in questi campi la sua influenza restò grandissi­ ma. Per Erodoto ( I l 5 3 ) Omero ed Esiodo per primi « fis­ sarono la genealogia degli dèi greci, assegnarono agli dèi i loro titoli , distribuirono fra loro gli onori e le funzioni, definirono le loro immagini » . L'affermazione è tanto piu notevole in quanto Omero, se contiene poco di propria­ mente religioso e non fornisce indicazioni coerenti sul cul­ to, non può essere certo considerato un sistematore della teologia, a differenza di Esiodo. I suoi dèi, che non sono né i creatori né i signori del mondo, intervengono sempli­ cemente nella vicenda senza troppo distinguersi dagli eroi, se non perché sono piu forti e perché la loro condotta mo­ rale è particolarmente deplorevole. Gli stessi Greci se ne accorgevano, ma anche qui non era possibile separare : salvare la poesia e dichiarare decaduta la teologia ameri­ ca. I piu intransigenti dovevano dunque pronunciare una condanna totale dei poemi, come faceva il filosofo Senofa­ ne nel VI secolo a. C. : « Omero ed Esiodo attribuirono agli dèi tutte le cose che per gli uomini sono vergogna e biasimo : rubare, commettere adulterio e ingannarsi a vi­ cenda » . Intorno al 500 a. C., Eraclito era piu radicale : « Omero meriterebbe di essere cacciato dagli agoni e fru­ stato ». Ma non era questa l'opinione dominante. Se non si pensava a escludere dai poemi o a correggere ciò che doveva ripugnare alla coscienza della Grecia clas­ sica, tanto meno si cercava di spiegare quelle incongruen­ ze interne ad essi su cui si è concentrata l'attenzione della critica moderna. Solo in età ellenistica, in un ambiente culturale appartato e riservato agli studi libreschi, che considerava già la poesia come un gioco intellettuale rigo­ roso nella forma ma non troppo impegnativo per l'autore e per il suo pubblico, i poemi furono sottoposti all'esame

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di una critica storica e filologica disinteressata. Nel III e n secolo a. C. i dotti alessandrini Zenodoto di Efeso, Ari­ stofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia compirono sui libri omerici ricerche ampie e minuziose che culmina­ rono nelle edizioni da essi curate. Ma niente li indusse a dubitare dell'unità dei poemi e della loro paternità. Poco seguito ebbe la teoria di alcuni « separatisti » che attribui­ rono l'Iliade e l 'Odissea a due poeti diversi : era una teo­ ria audace, ma il considerarli anticipatori della questione omerica significa far loro troppo onore. La storia della fama di Omero dall'età alessandrina al Rinascimento, che forma un capitolo interessante nelle vi­ cende della cultura europea, non può trovar posto in que­ sta sede. Sulla fede delle testimonianze degli autori latini allora conosciuti, nel medioevo Omero poteva essere con­ siderato con certezza « poeta sovrano » anche da chi non aveva mai visto le sue opere. Il primo italiano che pos­ sedette un testo originale di Omero fu il Petrarca, che se lo tenne come un tesoro ma non riusd mai a leggerlo non sapendo il greco. Questa esperienza toccò invece al Boc­ caccio. Restituito alla cultura dell'Occidente, Omero si trovò in una posizione curiosa : il maestro dei poeti antichi piu ammirati era giudicato secondo i canoni che si erano rica­ vati da questi classici, e ciò non gli poteva giovare. A par­ tire dal tardo Rinascimento egli ebbe detrattori in due campi opposti : da una parte i fautori di una rigida pre­ cettistica classicheggiante, seguaci di Giulio Cesare Scali­ gera che nella sua Poetica del r56 r contrapponeva la roz­ zezza di Omero alla perfezione di Virgilio, fornendo un modello di giudizio per tutto il classicismo posteriore ; ma dall'altra parte stavano i letterati innovatori, modernisti e nazionalisti, che nella loro polemica contro le regole e le autorità letterarie avevano facile gioco nello scegliere co­ me rappresentante della poesia antica proprio l 'opera di Omero, la piu barbarica, la piu lontana dalle idee mo­ derne. Nel Seicento l'aperta mancanza di rispetto verso Ome­ ro diventò segno di buon gusto e d'intelligenza. Un pre­ cursore dell'offensiva contro le autorità fu Alessandro

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Tassoni che, oltre a fare la parodia dell'epica nella Secchia rapita ( I622), nel libro X dei Pensieri diversi ( I 62o ) met­ teva apertamente in ridicolo Omero e proclamava la supe­ riorità dei moderni. Si annunciavano qui i motivi della fa­ mosa Querelle des anciens et des modernes che divampò in età barocca e di cui .Omero fece gran parte delle spese. La maggioranza dell'Accademia francese si dichiarò contro Omero e gli antichi fino dal giorno della sua fondazione (I6 3 5 ) . La società colta della Parigi secentesca non pote­ va tollerare un poeta non « naturale » nella forma, insipi­ do nelle idee, volgare nel contenuto, col suo linguaggio plebeo, i suoi eroi dediti alle fatiche manuali ; un poeta che descrive il « molto letame » ammucchiato davanti al­ l'ingresso del palazzo di Odisseo (Od. XVII 2 9 7 ) . Uno dei piu violenti, fra i modernisti, era Charles Perrault (Pa­ rallèle des anciens et des modernes, I688-9 7 ) , l'autore delle famose fiabe; suo fratello Pierre tradusse il poema del Tassoni e lo pubblicò con una prefazione che è un al­ tro documento della querelle. Fra i non molti difensori di Omero (Racine, Boileau ) ricordiamo Madame Anne Dacier, che portò il sussidio piu utile in difesa della buona causa preparando una fede­ le traduzione francese dell'Iliade (I699 ) . Un modernista, A. Houdar de la Motte, rifuse e abbreviò la traduzione ( 1 7I4 ) adattandola al gusto del tempo, e ne nacque una polemica con Madame Dacier che gli rispose subito col trattato Des causes de la corruption du gout. Se le fortune di Omero erano manovrate da filosofi, teorici rlella letteratura e saggisti che spesso sapevano po­ co o niente di greco (come il Perrault, per esempio), l'esi­ stenza di buone versioni moderne era un presupposto es­ senziale per ogni discussione sensata. Qui l'Inghilterra era molto piu avanti della Francia : la prima traduzione completa di Omero in una lingua moderna fu quella di George Chapman, che comparve fra il 1 5 9 8 e il I6I6 . L'opera era già familiare agli inglesi colti quando usd la classica traduzione dell'Iliade di Alexander Pope ( I 7 I 51 720 ), che nella prefazione invitava tra l 'altro il lettore a tener conto delle diverse condizioni storiche in cui il suo poeta era vissuto : « Quando leggiamo Omero, dobbiamo

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riflettere che stiamo leggendo l'autore piu antico del mon­ do pagano ; e chi lo considera in questa luce, troverà nella lettura doppio piacere » . Il XVIII secolo, grazie specialmente a l nuovo senso del­ la storia, nasceva sotto ottimi auspici per una rivincita de­ gli antichi e di Omero in particolare. Ma intanto la pole­ mica filosofico-letteraria cominciava a complicarsi in se­ guito alla comparsa di un nuovo personaggio disturbato­ re, il filologo. Sorgeva il contrasto fra il dilettante, nel sen­ so negativo che la parola ha oggi, e il pedante. Un primo episodio memorabile di questo antagonismo si ebbe pro­ prio nella fase inglese della disputa degli antichi e dei mo­ derni, o Battaglia dei libri. Nel r 69o il diplomatico e scrittore Sir William Tempie aveva pubblicato un opuscolo sulla superiorità assoluta degli scrittori antichi (An Essay upon the Ancient and Modern Learning) , che provocò una replica ragionevole di William Wotton (Ref/ections upon Ancient and Modern Learning, 1 694 ) . Nella polemica, ciascuno dei due con­ tendenti si trovò a fianco un valoroso alleato. Il Tempie aveva per segretario Jonathan Swift, il quale nel 1 704 in­ tervenne da par suo con due satire : A Tale of a Tub e The Battle of the Books. Il Wotton era amico di un gran­ de filologo, Richard Bentley, al quale la disputa offri l'oc­ casione di dare un saggio del suo talento. Poiché il Tem­ pie aveva citato fra le piu antiche e geniali prose dell'anti­ chità le Epistole di Falaride, attribuite al tiranno agrigen­ tino del VI secolo a. C., il Bentley sottopose questo testo a una rigorosa analisi storica, linguistica e letteraria e in una celebre dissertazione del 1 6 9 9 , anticipatrice del metodo critico moderno, dimostrò che le epistole erano false e per di piu di mediocre livello. Abbiamo ricordato questo episodio, che ebbe strascichi polemici anche a causa delle maniere aspre del Bentley, perché esso annuncia una fase in cui la discussione sui classici antichi, e in particolare su Omero, resterà sempre piu ristretta nell'ambiente dei filologi. Ma il Bentley ha legato il suo nome proprio alla critica america. La lettura del verso omerico presentava numerose difficoltà di carat­ tere metrico. Il Bentley scopri che gran parte di queste

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difficoltà cadevano s e s i supponeva che nella forma origi­ naria di molte parole fosse esistita una lettera in piu, il digamma, poi scomparsa nella pronuncia e nella grafia del dialetto ionico e attico. In realtà l'esistenza del digamma trova ampie conferme in iscrizioni o glosse, e l 'etimologia ci aiuta a stabilire quali parole greche avessero contenuto questo suono : per esempio otvoc; (vino ), equivalente al la­ tino vinum. La scoperta era molto importante perché per­ metteva di capire la lingua america meglio di quanto fos­ se possibile agli stessi Greci di età classica e alessandri­ na. Si apriva la strada a uno studio storico della lingua, vista nella sua evoluzione, e alla linguistica comparata che piu tardi , dopo la rivelazione del sanscrito alla fine del '700, collocherà il greco al suo posto nella famiglia delle lingue indo-europee. Anche questo era un avvio alla valu­ tazione storica dei testi. Ma il Bentley aveva anche opinioni non ortodosse sul­ l'origine dei poemi. Le prove linguistiche indicavano per lui che doveva essere passato molto tempo, circa cinque­ cento anni, fra l 'età di Omero e il momento in cui la sua opera era stata fissata nella supposta redazione di Pisistra­ to. Inoltre Omero non aveva scritto due veri e propri poe­ mi, ma solo una serie di canti separati, che piu tardi gli editori saldarono insieme nell'Iliade e nell'Odissea. Que­ ste teorie non furono sviluppate a fondo dal Bentley, ma per quel tanto che ne espose egli riusd a offendere i piu celebrati interpreti contemporanei. Il Pope, la cui tradu­ zione del resto era stata apertamente criticata dal Bentley, nel poema satirico The Dunciad ritrasse come modello di pedanteria il « potente scoliasta » col suo digamma. Un altro precursore della grande svolta nella critica a­ merica fu spinto a decomporre i poemi da motivi di gusto, pur appoggiandosi anche lui a quelle incerte testimonian­ ze antiche sulla redazione di Pisistrato « che, si dice, di­ spose per la prima volta i libri di Omero, per l 'innanzi confusi, nel modo come ora li abbiamo » (Cicerone, De oratore III 3 4 , 1 3 7 ) . Lo scrittore francese François Hé­ delin, abbé d'Aubignac, che ammirava le bellezze di Ome­ ro ma condivideva anche il parere dei suoi contemporanei che giudicavano i poemi incoerenti e privi d'unità, trovò

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la soluzione ingegnosa per salvare la poesia e spiegare i di­ fetti. All'origine dei poemi messi insieme da Pisistrato (ma anche da Licurgo due secoli prima) c'erano stati nu­ merosi poemetti brevi e indipendenti, ciascuno rispettoso della desiderata unità. I poemetti originali erano opera di vari autori, tutti dotati di talento, mentre le pecche della composizione generale andavano messe sul conto degli edi­ tori. Il saggio del d' Aubignac, Conjectures académiques ou dissertation sur l'Iliade, scritto nel r 664, fu pubblica­ to postumo nel 1 7 15 . Una teoria simile, ma piu radicale nelle conclusioni e soprattutto inquadrata in una visione profonda della sto­ ria, fu enunciata a piu riprese da Giambattista Vico ed esposta per esteso nel libro III della Scienza nuova secon­ da ( 1 730) sotto il titolo « Della discoverta del vero Ome­ ro ». Per primo il Vico volle rendere ragione degli aspetti della poesia america che offendevano il gusto, senza con­ dannarli o giustificarli sul metro della filosofia morale ed estetica moderna. Egli esamina « se Omero mai fusse sta­ to filosofo » . Omero fu il poeta di un'età barbara, non un filosofo ( « i filosofi nelle favole americhe non ritruovaro­ no, ma ficcarono essi le loro filosofie » ) . Quindi si deve concedere che Omero dovette « andare a seconda de' vol­ gari costumi della Grecia, a' suoi tempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari costumi dànno le proprie materie a' poeti » . Gli si conceda « estimarsi gli dèi dalla forza . . . Gli si conceda narrare il costume immanissimo (il cui contrario gli autori del diritto natura! delle genti vo­ gliono essere stato eterno tralle nazioni) , che pur allora correva tralle barbarissime genti greche (le quali si è cre­ duto avere sparso l 'umanità per lo mondo ), di avvelenar le saette . . . e di non seppellire i nimici uccisi in battaglia, ma !asciargli inseppolti per pasto de' corvi e cani . . . » « Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sf varie e sanguinose battaglie, sf diver­ se e tutte in istravaganti guise crudelissime spezie d'am­ mazzamenti , che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'Iliade » . Procedendo nella ricerca del vero Omero, i l Vico osser-

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va che, essendo inattendibili le antiche testimonianze e­ sterne, è necessario « di ritruovare il vero, e della età e della patria, da esso Omero medesimo ». Le descrizioni di costumi civili e selvaggi tra loro contrastanti dimostrano che i poemi sono stati « per piu età e da piu mani lavora­ ti e condotti » . Essi risalgono alla fine dei tempi eroici, ed erano stati preceduti da canti che si erano tramandati nel­ la memoria di tutta la nazione. Un poeta Omero non è mai esistito : « essi popoli greci furono quest'Omero » ; i canti non scritti restarono affidati per lungo tempo alla memoria dei rapsodi, i quali ne erano autori in quanto « erano parte di que' popoli che vi avevano composte le loro istorie » . Co n questa scoperta, le « sconcezze e inverisimiglianze » dell'Omero finora creduto divengono « convenevolezze e necessità ». « Cosi Omero, sperduto dentro la folla de' greci popoli, si giustifica di tutte le accuse che gli sono state fatte da' critici, e particolarmente : delle vili senten­ ze, de' villani costumi, delle crude comparazioni, degl'i­ diotismi, delle licenze de' metri, dell'incostante varietà de' dialetti, e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomi­ ni » . Ma, al di là delle giustificazioni, appare ora spiegata la grandezza incomparabile di Omero, proprio « in quelle sue selvagge e fiere comparazioni, in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e di morti, in quelle sue sen­ tenze sparse di passioni sublimi, in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore. Le quali tutte furono pro­ prietà dell'età eroica de' greci, nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta ; perché, nell'età della vi­ gorosa memoria, della robusta fantasia e del sublime in­ gegno, egli non fu punto filosofo. Onde né filosofie, né ar­ ti poetiche e critiche, le quali vennero appresso, potero­ no far un poeta che per corti spazi potesse tener dietro ad Omero » . In particolare i l Vico vide bene la « infinita differenza » di stile che impone di attribuire l'Iliade e l'Odissea a epo­ che diverse, differenza che solo un'approfondita analisi linguistica ha potuto dimostrare fuori di ogni dubbio. L'interpretazione del Vico non ebbe eco, ma con lui la critica omerica era uscita dai pregiudizi del classicismo.

ETÀ E FORTUNA DI OMERO Ormai gl'interpreti piu acuti cercheranno di collocare O­ mero in una prospettiva storica, di metterlo per cosi dire alla giusta distanza per osservarlo e capirlo meglio. Ciò sa­ rà tentato in vari modi, a seconda delle mutevoli tendenze della cultura umanistica. Anche di questa conquista della prospettiva storica possiamo soltanto ricordare alcuni dei momenti che ci sembrano piu significativi. Pur continuando a credere nell'unità e originalità della poesia omerica, si poteva tentare una ricostruzione del­ l'ambiente e delle circostanze in cui era sorta, che strap­ passe la figura dell'antico poeta dalla sua ideale e astratta sohtudine. Il filologo inglese Thomas Blackwell (Enquiry into the Life and Writing of Homer, 1 7 3 5 ) ritrasse un Omcro vissuto durante un periodo di disordini, di violen­ ze, di migrazioni, che attingeva all'opera di poeti anterio­ ri e la cui opera sarà a sua volta rimaneggiata da poeti ve­ nuti piu tardi. Si poneva cosi il problema delle fasi stori­ co-culturali anteriori e successive che certo avranno la­ sciato traccia nei testi . U n altro modo per liberare i poemi d a quell'alone mi­ sterioso che ostacolava il giudizio storico ed estetico era di visitare i luoghi della loro origine. Questa curiosità era incoraggiata dal nuovo interesse per l'arte greca, che at­ torno alla metà del Settecento, periodo di alacre attività archeologica, spingeva molti viaggiatori in Grecia e in O­ riente. Robert Wood, che vide e descrisse le rovine di Palmira e di Baalbek , volle anche « leggere l'Iliade e 1'0dissea nei paesi in cui Achille combatté e Ulisse viaggiò » (An Essay of the Origina! Genius of Homer, 1 769 ). Il confronto dei passi omerici con i luoghi descritti lo convinse dell'eccellenza di Omero come « pittore » . Ac­ certata la verità naturalistica della geografia omerica, si poteva tentare con fiducia anche una ricostruzione del mondo umano dei poemi, probabilmente raffigurato con uguale fedeltà. Per il Wood era innegabile la grande di­ stanza storica che separa il mondo omerico da quello clas­ sico . Per definire il primo, egli si riferiva, con accosta­ mento audace per i suoi tempi , alle esperienze fatte fra i beduini di Palmira. Quanto all'origine dei poemi, egli pensava naturalmente che Omero, testimone cosi preciso,

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fosse vissuto non molto dopo la guerra di Troia, nel XII secolo a. C., e che le sue opere si fossero trasmesse oral­ mente per secoli, perché la scrittura, se esisteva al suo tempo, doveva essere di uso molto raro. Per capire la poe­ sia omerica, egli affermava, è necessario dimenticare tutto ciò che per noi si connette all'uso della scrittura, per ri­ portarsi a una fase in cui il linguaggio poetico è fatto an­ che d'intonazioni musicali e di gesti. Le idee del Wood (la cui opera, insieme con quella del Blackwell, tanto contribui a illuminare la poesia omerica nella mente del Goethe) indicano varie strade che piu tar­ di saranno seguite dalla critica : il ricorso a Omero come fonte storica in qualche misura attendibile ; la ricerca on the spot, che per il mondo di Omero sarà avviata dall'ar­ cheologia solo a distanza di un buon secolo ; il metodo del­ la comparazione etnologica. Questo metodo, se in genera­ le ha potuto solo fornire qualche utile suggerimento, sen­ za gettare luce diretta su un'epoca singolare come quella omerica, in tempi recenti ha però ispirato ricerche par­ ticolari sulla poesia di composizione e tradizione orale che ci fanno meglio apprezzare la precoce intuizione del Wood : i criteri della poesia scritta non valgono per giu­ dicare la poesia orale, che è essenzialmente diversa nel lin­ guaggio e nella struttura. Se le strade indicate dal Wood, e anche dal Vico, non furono poi seguite sempre speditamente dalla critica, ciò fu dovuto al restringersi degli interessi della filologia che prevalse nel primo Ottocento e ai suoi eccessi di scettici­ smo ; tanto che essa finf con l 'eludere in gran parte il pro­ blema dell'eventuale storicità dei contenuti omerici e non fece buon uso dei monumenti fino a quando l 'archeologia om�rica dovette ricevere impulso, in modo tanto efficace quanto infelice, dagli scavi dello Schliemann. La filologia tedesca allora dominante si attenne al mo­ dello del Bentley. Sul senso di questa scelta possiamo la­ sciar parlare proprio un filologo tedesco : « Già per la com­ prensione reale di una poesia e di un poeta non basta l 'in­ telletto, del cui solo ausilio il Bentley si serve... La dis­ sertazione [ sulle epistole di Falaride ] stabilisce fatti sto­ rici , ma questo è solo un mezzo in vista del fine. L'arte di

ETÀ E FORTUNA DI OMERO questa filologia depura le opere scritte; è certo qualche cosa di grande, un presupposto indispensabile, ma per questo esse non diventano ancora vive. Perché diventino vive nel senso voluto dagli autori, la ricerca storica deve evocare per la nostra fantasia la vita intera del loro am­ biente. La scoperta del digamma è pure qualche cosa di grande, ma il fatto che R. Wood si rese conto della verità della descrizione omerica della natura nello stretto fra Chio e il Mimante, e quindi poté lodare il genio originale di Omero, ha avuto certo piu importanza per il fiorire del­ la nostra scienza dell'antichità » (U. von Wilamowitz­ Moellendorff, I 9 2 I ) . Veramente la scienza dell'antichità ha rischiato per mol­ to tempo di perdere di vista l'esempio dei ricercatori del­ lo stampo del Wood, e non tanto per mancanza di fanta­ sia - che qui è meglio non contrapporre all'intelletto -, quanto per i limiti che essa stessa si pose, come abbiamo accennato. In ogni caso, alla fine del Settecento la questio­ ne omerica entra in una nuova fase e diventa di esclusiva competenza della filologia ; o, se si vuole, propriamente essa viene posta per la prima volta, almeno a giudizio dei filologi.

L'analisi filologica e la questione omerica. Nell'ultimo decennio del Settecento Friedrich August Wolf, giovane professore di Halle, si accinse a preparare un 'edizione di Omero, che usd poi nel I 8o4; ma nel 1795 egli pubblicò i famosi Prolegomena ad Homerum, origine di tutte le dispute successive. Le sue idee, in breve, erano le seguenti . Nella Grecia arcaica non esisteva un testo sta­ bile dei poemi omerici, ma esistevano molte versioni assai differenti fra loro. Quanto piu cerchiamo di risalire indie­ tro nella storia dei testi , tanto minori sono le possibilità di trovare un poeta Omero e due unità poetiche ; soprat­ tutto perché al tempo della loro composizione l 'uso della scrittura era ignoto. Senza la scrittura, un poema come l'I­ liade non potrebbe essere né concepito, né composto, né tramandato. Esistevano invece canti separati, piuttosto

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brevi, di età e di autori diversi (come dimostrano le incon­ gruenze tra di essi ), che i rapsodi tenevano a memoria e cantavano nelle feste. Essi poterono essere raccolti insie­ me, avendo in comune l'argomento, soltanto al tempo di Pisistrato, nell'Atene del VI secolo a. C. Oggi sappiamo, ma potevano accorgersene anche i con­ temporanei del Wolf, che i suoi argomenti principali - non esistenza della scrittura, impossibilità di tramandare a memoria lunghi poemi, storicità della redazione di Pisi­ strato - oltre a non essere nuovi, erano infondati o non decisivi. Ma questa volta il clima culturale era tale che la disso­ luzione dell'unità dei poemi poteva essere accolta, se non da consensi incontrastati, almeno da interesse e curiosità anche fra il largo pubblico. Omero era entrato da poco nel patrimonio culturale dei non specialisti tedeschi attraver­ so l'elegante traduzione in esametri di Johann Heinrich Voss. L'interesse per la cultura classica, che aveva avu­ to cultori influenti come Johann Joachim Winckelmann ( Geschichte der Kunst des Altertums, 1 764) e Gotthold Ephraim Lessing ( Laokoon, 1 766), era generale. Oltre ai classicisti, però, c'erano i cultori romantici della poesia primitiva, intesa come espressione dello spirito nazionale dei popoli, che accostavano Omero ai canti popolari e in particolare a Ossian, uno degli idoli del tempo ; l'editore di Ossian, Macpherson, poteva forse essere preso come esempio per spiegare la parte avuta da Pisistrato nella re­ dazione dei poemi omerici . Proprio il massimo promotore di questi studi , Johann Gottfried von Herder, attaccò im­ mediatamente il Wolf perché questi avrebbe plagiato la sua teoria delle ballate popolari e perché non aveva tenu­ to conto del valore artistico dei poemi che per lo stesso Iferder, nonostante la loro vicinanza alla produzione po­ polare, erano opera di un grande poeta, non una raccolta redazionale. In realtà si era aperto un problema serio : era difficile dissolvere l'unità dei poemi e continuare a ri­ conoscere in essi grandi opere di poesia. Un filologo imperturbabile poteva ignorare il problema o risolverlo a tutto danno della poesia. Un poeta sensibile non poteva mettere a tacere gli scrupoli. Goethe accettò

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fra i primi come una liberazione la teoria del Wolf che gli permetteva di accostarsi meno timorosamente a Omero; e nell'elegia Arminio e Dorotea ( 1 79 6 ) brindava « prima alla salute dell'uomo che infine, liberandoci dal nome di Omero, ha chiamato anche noi su una piu ampia via. Chi infatti oserebbe lottare con gli dèi, chi con l 'unico ? Ma es­ sere un omeride, anche l 'ultimo, è bello » . Ma piu tardi lo stesso Goethe tornò alla sua fede nell'unico Omero. Fra i filologi la teoria separatista o analitica ( cosi detta in contrapposizione a quella unitaria) fini col prevalere, trionfando sulle opposizioni. Essa fu finalmente fondata su una critica rigorosa del testo, alla quale molto contri­ bui dapprima Gottfried Hermann ( I 77 2- I 848 ) con i suoi lavori sulla lingua di Omero, che è un dialetto ionico con molti elementi eolici, sulla metrica, sullo stile con le sue formule ripetute, sulla struttura degli episodi. Nel com­ plesso egli salvava molto dell'unità dei due poemi, ma ri­ tenendo che al loro nucleo originario si fossero sovrappo­ ste aggiunte successive. Un altro grande filologo, Karl Lachmann ( 1 79 3 - I 85 I ), dopo essersi dedicato alla critica neotestamentaria e avere sottoposto a decomposizione analitica i Nibelunghi, divise l'Iliade in numerosi canti au­ tonomi, in base alle contraddizioni che gli sembravano escludere l'identità d 'autore ; dell'unità del poema non re­ stava traccia. Seguendo fino in fondo una concezione analoga a quel­ la dello Hermann, lo storico inglese George Grote ( I 7 94I 8 7 I ) compi un tentativo molto apprezzabile di ricostrui­ re il processo di formazione dell'Iliade. Dapprima dovette esistere un poema sull 'Ira di Achille, comprendente l'at­ tuale libro I , forse l'VI I I , e la battaglia centrale con quan­ to segue fino alla morte di Ettore (Xl-XXII ) . I libri II­ VII, che non hanno alcun rapporto con Achille, e il IX, che non si accorda col resto del poema, furono aggiunti piu tardi. Aggiunte ulteriori sarebbero il libro X e gli ul· timi due. È un'interpretazione non meccanica della genesi dell'Iliade, fondata su un 'analisi penetrante del testo, che a tutt'oggi gran parte della critica non ha affatto ripu­ diato. Per l 'Odissea, uno scolaro del Lachmann, Adolf Kirch-

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hoff ( r 826- r 9o 8 ) , presupponeva che essa fosse stata com­ posta da un poeta relativamente tardo, il quale avrebbe ripreso due poemi piu antichi e tra loro indipendenti, uno sulle peregrinazioni dell'eroe e l'altro sulla vendetta con­ tro i pretendenti, e ad essi avrebbe aggiunto i libri I-IV con la storia di Telemaco. L'opera del Kirchhoff (Die Ho­ merische Odyssee, prima edizione r 85 9 ) merita ancora molta considerazione. Non possiamo seguire in tutti i meandri e in tutte le diramazioni l'infinito lavorio della critica nel secolo scor­ so e nei primi decenni del nostro; tanto piu che il presente saggio non ha la pretesa di aggiungersi alla lunga serie dei contributi sulla questione omerica. Basterà avere accen­ nato alle sue prime vicende e alle soluzioni principali, che dunque possiamo riassumere come segue : r ) i poemi so­ no nati per aggregazione di poemetti sparsi e autonomi ; 2) i poemi sorsero attraverso aggiunte successive attorno a un nucleo, a un originario poema breve; 3 ) varie compo­ sizioni epiche sono state rifuse da un poeta o da un redat­ tore nell'Iliade e nell'Odissea. In altri termini : un vero .autore o non esiste, o va collocato all'inizio del processo di formazione dei poemi, o alla fine. In quest'ultimo caso egli può essere un poeta o semplicemente un redattore. Possiamo aggiungere che, se si prescinde dagli eccessi distruttivi, dalle complicazioni aberranti, che certo non sono mancati , la critica analitica si è progressivamente mossa verso il riconoscimento di un certo ordine strut­ turale o « piano » meditato nella compagine dei poemi. Escluso un Omero creatore nel senso moderno della pa­ rola, nell'Iliade e nell'Odissea restano però alcuni grossi e solidi blocchi poetici che non si lasciano smembrare e alcune linee della composizione che non saranno frutto del caso. C'è un innegabile principio ordinatore, e dunque un'unità relativa dei poemi che va spiegata cosf come , d'altra parte, non vanno dimenticati i legittimi motivi di sospetto che furono all'inizio della decomposizione sepa­ ratista. Prevale in sostanza la terza delle soluzioni sopra indicate. Negli anni attorno alla prima guerra mondiale si ebbe una serie di studi autorevoli e tuttora fondamentali ( fra

ETÀ E FORTUNA DI OMERO gli altri emergono i lavori di Ulrich von Wilamowitz, Erich Bethe, Eduard Schwartz) in cui la critica analitica tirava le somme e sembrava almeno stabilire alcuni punti fermi di una cronologia relativa delle parti che compon­ gono i poemi, distinguendo nello stile e nella lingua il piu antico dal piu recente, i pezzi redazionali dai canti e poe­ metti già indipendenti. Ora la critica disponeva anche dei dati forniti dalle ricerche archeologiche, che per l 'età di Omero ebbero uno sviluppo decisivo dopo il r 8 7o, come abbiamo già accennato, grazie alle fortunate campagne di scavo di Heinrich Schliemann, e che permettevano di ve­ dere meglio problemi storiografici che ormai non pote­ vano essere trascurati dalla critica testuale. Noi oggi studiamo a scuola l'età minoica e micenea, i cui monumenti, i palazzi, le fortezze, le maschere d'oro, le spade, i vasi si trovano raffigurati in tutti i manuali. Ma non si dimentichi che ancora un secolo fa ci si chiedeva quale fosse il luogo dell'antica Troia, se mai la città era esistita, e non si sapeva praticamente nulla di una « civiltà micenea ». Solo piu tardi si guardò a Creta, dove gli scavi in grande stile di Sir Arthur J. Evans ebbero inizio alla fine del secolo. E solo allora ci si cominciò a convincere che gli Achei di Omero fossero cosf diversi dai Greci del­ l'età classica, che essi fossero proprio i rappresentanti di quella civiltà, tanto antica ed evidentemente non « elleni­ ca » , eppure tanto evoluta, che aveva avuto il suo centro a Micene. Nel primo dopoguerra si poteva già fare un lieto bilan­ cio e formulare previsioni fiduciose : « Le barriere che se­ paravano le memorie storiche dell'Europa dall'Asia e dal­ l 'Egitto sono cadute : anche se facciamo cominciare la sto­ ria europea con Omero, dobbiamo spingere lo sguardo fi­ no a Menes e oltre. A Creta si è scoperto il centro di una civiltà altamente evoluta che nel secondo millennio a. C. si è irradiata in tutte le direzioni. . . Gli I ttiti e altre stirpi pro­ gressivamente ellenizzate dell'Asia Minore ci sono noti al punto che l'avvenire, con la conoscenza della lingua, illu­ minerà anche l'antica civiltà di Creta e quindi l'epoca de­ gli eroi e dei Vichinghi ellenici, sebbene per il momento questo periodo ci parli essenzialmente attraverso la sua

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arte. Il fatto che l 'abisso fra l 'età eroica e quella omerica, col suo stile geometrico, è diventato incontestabile, ha permesso di comprendere storicamente l 'epos » (Wilamo­ witz ). Le previsioni erano giuste, come sappiamo, anche se la comprensione storica dell'epos non è ancora un fatto com­ piuto. Per quanto riguarda la questione omerica in senso stretto, negli ultimi decenni è addirittura venuta meno quella relativa unanimità d'opinione che aveva prevalso in passato. Da qualche parte, anche ad opera di filologi, si è tornati a sostenere che un poeta ha composto tutta l 'Ilia­ de, un altro tutta l 'Odissea. Questo ritorno a una teoria radicalmente unitaria, o almeno il favore con cui è stato accolto da una parte del pubblico, è stato determinato in primo luogo dagli occasionati eccessi della demolizione analitica. In secondo luogo, motivi di perplessità sono venuti proprio dal perfezionarsi della critica storico-linguistica, che nei testi omerici ha sempre trovato uno dei suoi cam­ pi preferiti e che sembrava fornire uno strumento effica­ cissimo per un'analisi interna irreprensibile dei poemi. Si sono compilate statistiche e grammatiche omeriche, cer­ cando di trovare un ordine nell'evidente stratificazione evolutiva e dialettale della lingua omerica. Ma poche con­ clusioni sicure si sono potute trarre anche in casi apparen­ temente favorevoli. In Omero , per ricordare un esempio tipico, si assiste alla progressiva scomparsa del digamma, la lettera riscoperta dal Bentley, che non si trova mai scrit­ ta nei poemi ma spesso, non sempre, fa ancora sentire la sua presenza fonetica (come nelle parole con iniziale voca­ lica originariamente preceduta da digamma, che metrica­ mente valgono come se avessero la consonante iniziale) . Questo sembrerebbe u n elemento prezioso per distingue­ re passi piu o meno antichi, e quindi l 'opera di mani di­ verse, ma le statistiche dimostrano che anche qui il vec­ chio e il nuovo si confondono disperatamente e che la pre­ senza o l'assenza delle tracce del digamma non ha valore di prova per la cronologia relativa dei passi. E in generale la comparsa di una forma linguistica particolarmente « an­ tica » o « recente » non dimostra nulla per la datazione del

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brano che la contiene, come si avverte nelle moderne grammatiche omeriche. Dice per esempio Pierre Chan­ traine nella prefazione della sua grossa Grammaire homé­ rique : « Quando do l'indicazione " recente " a proposito d 'un esempio, non intendo affermare che il passo sia in effetti recente, ma segnalo che tale forma che non mi sem­ bra arcaica si trova in un verso che, per altre ragioni, degli editori non considerano " antico " » . Tutto ciò che s i può dire, sulla base dei fatti linguistici , è che l'Odissea nel suo complesso deve essere posteriore di qualche decennio all'Iliade, e che in ciascun poema ci sono parti in cui le forme relativamente tarde s 'infittisco­ no sensibilmente, come i libri I I , X, XXI I I , XXIV del­ l'Iliade e i libri I-IV, VIII , XXIV dell'Odissea. ( Si ricor­ di però che la divisione dei poemi in ventiquattro libri non è originaria e a rigore si dovrebbe parlare di episodi, che possono coincidere o non coincidere con i libri at­ tuali ). Se tanti decenni di ricerche non avevano portato a solu­ zioni definitive, ciò giustificava tutt'al piu un atteggiamen­ to di attesa o un moderato scetticismo. Si poteva, e molti lo fanno, tenere il problema aperto e intanto considerare i poemi in blocco come un documento di storia e di civiltà artistica, da usare con le opportune cautele e con la con­ sapevolezza di non possedere la spiegazione ultima della loro genesi. Ma intanto restava inappagata l 'esigenza, del resto giusta, di poter apprezzare una buona volta come autentiche opere d'arte questi poemi che occupano un po­ sto cosf importante nella letteratura europea. E siccome negli studi sulla civiltà greca ogni momento di crisi pro­ voca un nuovo accesso della vecchia malattia classicistica, una ricaduta nella contemplazione della cultura antica co­ me ideale extrastorico, era inevitabile che, essendo stati i poemi omerici modelli di poesia per i Greci, si volesse tor­ nare a scoprire in essi l 'incarnazione piu pura degli ideali poetici dell'uomo moderno, partendo dal presupposfo al­ trettanto inevitabile che essi siano stati scritti da un solo autore, come un'opera moderna. Altrimenti la critica let­ teraria non avrebbe un oggetto su cui lavorare. Come attorno al I 870, in un altro periodo critico della

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filologia (e della cultura europea in generale ), trovò nuovi fautori la tendenza ad attribuire un valore esemplare alle creazioni del cosiddetto spirito greco, cosf ora, fra le due guerre mondiali, si volle restituire una portata impegna­ tiva perenne alle norme poetiche e persino etiche insegna­ te da Omero alla Grecia aristocratica . Anziché procedere sulla strada laboriosamente aperta della storicizzazione dell'epica, alcuni nuovi rappresentanti della filologia tede­ sca ricominciarono a cercare in Omero le « norme ogget­ tive del bello e del vero » . Un forte impulso all'idealiz­ zazione del contenuto etico dei poemi fu dato da Wer­ ner Jaeger nel suo fortunato libro Paideia (volume I del 1 9 34 ) . Il ritorno alla dottrina unitaria è stato promosso so­ prattutto dalla scuola di Wolfgang Schadewaldt, che ha avuto e conserva una forte influenza perché tiene conto dei metodi e delle conclusioni della critica analitica e si oppone ad essa sullo stesso terreno dell'alta filologia. Ma quei metodi, naturalmente, sono osservati solo in appa­ renza ; per ripudiare, in nome di un vago ideale poetico , quanto si è fatto finora per intendere la genesi concreta dell'Iliade e dell'Odissea, occorre mescolare e scambiare la dimostrazione filologica con la contemplazione estetica, mettendo la prima sulle spalle della seconda. Allora è fa­ cile controbattere le ipotesi analitiche con argomenti pre­ si da un arsenale estetico in cui tutte le arti si confondo­ no. Il poema è un'architettura (citiamo lo stesso Schade­ waldt) e « la grandezza e la bellezza della costruzione non è guastata per il fatto che qua e là nell'opera muraria spor­ gono ineguaglianze e si aprono fenditure » ; ci sono diffe­ renze stilistiche, ma anche il pittore ha « diversi colori sul­ la tavolozza » ; oppure, « da un motivo fondamentale tut­ to il resto è sviluppato con una regolarità e in pari tempo con una vivacità quali oggi noi riconosciamo principal­ mente in brani musicali » . La questione omerica si rivela alla fine come l'invenzione di eruditi insensibili alla poe­ sia : « La questione omerica . . . verte in sostanza su un pro­ blema semplicissimo : sull'essenza del creatore poetico e dell'opera poetica » . Sono tutte frasi rappresentative di un certo tipo di critica tuttora diffuso, al quale accennia-

ETÀ E FORTUNA DI OMERO mo per far vedere dove può portare una filologia apparen­ temente severa, ma in realtà esposta alle recrudescenze di un classicismo estetico purtroppo non paragonabile alla visione del mondo e della poesia che impedivano a Goe­ the di accettare fino in fondo le rivelazioni del Wolf. Chi non segue questa via, cerca di chiarire il modo di formazione dei poemi non solo tentando di distinguere al­ l 'interno di essi, con i criteri filologici e linguistici tradi­ zionali, quanto deriva da una lunga tradizione anonima e quanto può essere certamente ricondotto a un'ultima ma­ no o a piu mani diverse, ma anche estendendo il campo delle ricerche, ricostruendo finché è possibile, eventual­ mente coh l'ausilio dei suggerimenti che può offrire il me­ todo comparativo, le linee generali della poesia eroica, il carattere delle sue forme e dei suoi contenuti, gli elemen­ ti specifici del suo stile. Nozioni nuove si precisano. La poesia composta e tra­ mandata oralmente è un fenomeno che solo ora comin­ ciamo a capire. Già il Wood, per esempio, e poi la critica romantica, avevano intuito molto di giusto in questo cam­ po. Ma solo le indagini statistiche sulla lingua dei poemi , connesse con lo studio comparato dell'epica popolare di altri tempi e paesi, ci hanno introdotto nella prassi da cui ha origine questa poesia, con i suoi epiteti fissi, con le sue formule ricorrenti e le sue « scene tipiche » , col suo lin­ guaggio che è fatto in sostanza di frasi o gruppi di suoni metricamente utili e non di singole parole. In queste ricerche ha avuto gran parte l 'americano Mil­ man Parry, esploratore dell'epica popolare slava meridio­ nale, col suo scolaro e collaboratore Albert B. Lord. Il cantore analfabeta della poesia orale, secondo il Parry, non distingue fra la composizione e l'esecuzione del suo canto : egli compone nell 'atto dell'esecuzione. Ciò gli è consentito, oltre che dal lungo apprendistato presso altri cantori esperti e dal lungo esercizio, dalla facoltà di di­ sporre di elementi tradizionali : le formule e i temi che formano i canti. La formula è « un gruppo di parole re­ golarmente impiegato nelle stesse condizioni metriche per esprimere una data idea essenziale »; il sistema delle for­ mule costituisce una grammatica speciale, simile a quella

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della lingua comune, ma la cui unità fondamentale non è la parola isolata : il cantore pensa e parla per formule, che sono versi o parti di versi. Il tema è uno schema ·descritti­ vo sempre ripetuto per momenti tipici della narrazione (un'assemblea o un esercito che si riunisce, un eroe che si arma, uno scambio di domande e risposte ecc. ). Gli sche­ mi si ripetono costantemente, ma sono variati, allungati, combinati in modi diversi, non sono unità statiche. Anche il canto è ripetuto seguendo una linea immodificabile nei punti essenziali, ma con possibilità di variazioni parziali. Il cantore ha dunque un buon margine di libertà entro i limiti del linguaggio e del repertorio tradizionale; egli non ripete mai a memoria e alla lettera canti già composti per intero da lui o da altri, ma in un certo senso crea qualche cosa di originale ad ogni esecuzione, tanto che non sareb­ be capace di ripetere una seconda volta un canto esatta­ mente nella stessa forma. È quindi difficile parlare di un autore o di una versione originale di un canto : in ogni esecuzione il cantore è a suo modo autore, il suo canto è sempre un originale, ma nel quadro di una tradizione col­ lettiva. Queste osservazioni ricavate dallo studio diretto di una poesia popolare ancora viva, che di per sé possono essere usate per confermare soluzioni opposte della questione omerica, non potranno essere senz'altro applicate all'Ilia­ de e all'Odissea ; ma almeno ci aiutano a spiegare certi aspetti altrimenti incomprensibili dei poemi omerici. Nei quali, tuttavia, non si può fare a meno di riconoscere le tracce di un lavoro piu consapevole, quasi letterario, e l'u­ tilizzazione ragionata di « fonti » vere e proprie. La critica dovrà dunque tener conto che tradizione piu o meno mec­ canica e intervento letterario possono apparire operanti in qualsiasi punto dei poemi.

Qualche esempio e qualche ipotesi. Converrà vedere alcuni casi caratteristici, senza la pre­ tesa di dire molte cose nuove, per mostrare come lavora la critica e piu che altro per spiegare che cosa intendiamo, in

ETÀ E FORTUNA DI OMERO seguito, quando saremo costretti a parlare di fonti e di imitazioni, di brani « antichi » e « recenti » . Nel libro VIII dell'Iliade c'è u n breve episodio (vv. 8 o sgg.), poco chiaro e poco significativo, i n cui Nestore, quando Paride gli uccide un cavallo con una freccia , ri­ schia di finire sotto le mani di Ettore mentre cerca di li­ berare il carro impigliato ; ma Diomede chiama in soccor­ so Odisseo e, poiché questi non lo sente, salva Nestore e lo raccoglie sul suo carro. La narrazione presenta alcuni punti oscuri, mal compatibili con lo stile epico e col con­ testo particolare : vi si parla vagamente di un cavallo di rinforzo, aggiunto al carro di Nestore, di cui non si sape­ va nulla, di un intervento di Paride che peraltro non com­ pare affatto nella battaglia, di questo Odisseo che curio­ samente non sente il richiamo, di Ettore che avanza mi­ naccioso e poi non compie le gesta che ci si aspetterebbero da lui. Un episodio molto simile era nell'Etiopide, il per­ duto poema ciclico di cui conosciamo il contenuto attra­ verso un riassunto di Proclo, attraverso cenni di Pindaro e pitture vascolari : anche qui Nestore aveva il cavallo fe­ rito da Paride, era minacciato da Memnone, il figlio del­ l'Aurora, e chiamava in aiuto il figlio Antiloco che lo sal­ vava a prezzo della propria vita . Nell'Etiopide l'episodio era molto piu significativo e ben legato al contesto : la col­ lera per la perdita di Antiloco spingeva Achille a uccidere Memnone, anticipando cosi la propria morte per mano di Paride. La scena dell'Iliade deriva certamente da quella contenuta nell'Etiopide, e siccome i poemi del Ciclo epico erano tradizionalmente ritenuti posteriori a Omero, an­ che nel contenuto , la critica analitica assegnava un tempo il brano del libro VIII a un molto tardo rielaboratore del­ l 'Iliade, mentre gli unitari erano costretti a escludere la derivazione. È stato invece dimostrato (da Heinrich Pe­ stalozzi ) che non solo il breve episodio del libro VIII, ma diverse parti di rilievo dell'Iliade sono modellate sulla parte dell'Etiopide che narrava l'ultima impresa di Achil­ le, la vittoria su Memnone re degli Etiopi. Da questa di­ mostrazione si possono ricavare conclusioni diverse, ma in ogni caso oggi si dà per certo che i poemi del Ciclo, anziché rappresentare senz'altro una fase decadente del-

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la poesia epica, potevano conservare molto di preomerico, almeno nel contenuto, e quindi ci possono illuminare sul­ le fonti di Omero. Questa ricerca sulle fonti ha già dato e potrà dare ri­ sultati interess·anti, soprattutto ora che abbiamo notizie di quel vasto patrimonio di leggende che la Grecia mice­ nea aveva in comune con i popoli dell'Egitto, della Meso­ potamia e dell'Asia Minore. Anche esaminando bene le diverse situazioni in cui compare uno stesso personaggio si può spesso scoprire qualche indizio sul suo passato mi­ tologico e poetico e valutare il senso delle innovazioni americhe. L'Odisseo che conosciamo, per esempio, è un personag­ gio composito, diventato protagonista di svariate avven­ ture non connesse col ciclo troiano : è stato identificato con l'eroe di leggende originarie della Grecia continentale e dell'antico Oriente, con figure di favola popolare. Nella struttura del tema principale dell'Odissea, il racconto fol­ cloristico del Ritorno dell'eroe, « sono inseriti altri raccon­ ti folcloristici che, prima di essere inclusi nella storia del­ l'Odissea, non avevano nulla a che fare con quel tema. Le storie di Circe e di Polifemo, per esempio, sono a loro vol­ ta ( come la storia del Ritorno dell'eroe) Weltmiirchen, rac­ conti folcloristici universali, indipendenti l'uno dall'altro e dal tema principale dell'Odissea. Anche piu notevole, sotto questo aspetto, è il trasferimento a Odisseo di un intero ciclo di avventure che prima appartenevano non a un eroe dal folclore piu o meno privo d'identità ; di av­ venture che non erano semplicemente il soggetto di co­ muni narrazioni , ma erano realmente fissate e glorificate in un poema epico familiare al pubblico dell'Odissea : intendo parlare delle avventure Argonautiche raccontate nei libri X e XII » . Questo è i l giudizio d i uno studioso, Denys Page, che ha condotto ottimi studi sulle fonti e sulla composizione dell'Odissea. Egli accenna qui agli episodi del poema che, come altri avevano già dimostrato, derivano da momenti delle famose gesta degli Argonauti. Odisseo parte dall'iso­ la di Eolo, situata nell'estremo Occidente, e all'improvvi­ so capita nel lontano Oriente, tra personaggi dell'ambien-

ETÀ E FORTUNA DI OMERO te di Giasone. Circe è sorella di Eeta, re della Colchide, figlio del Sole e guardiano del Vello d'oro; essa vive nel­ l 'isola Eea, « dove l'Aurora nata di luce J ha la casa e le danze, dov'è il levarsi del Sole » ( Od. XII 3-4 ) . Nello stes­ so episodio si parla delle Rupi erranti, che sorgevano nel mar Nero e appartenevano anch'esse alla storia di Gia­ sone. Qui il poeta dichiara addirittura che altri corsero quest'acqua (XII 69-72 ) : sola riusd a passarvi una nave marina, quell'Argo che tutti cantano, tornando dal regno d'Eeta : e quella pure il flutto contro le immani rocce scagliava, ma Era la spinse oltre, perché l'era caro Giasone.

La fonte Artachie dei Lestrigoni (X r o 8 ) ci riporta nei paraggi del mar Nero e alla rotta degli Argonauti : una fonte dello stesso nome si trovava a Cizico sull a Propon­ tide. Nell'isola di Trinachia, Odisseo, come se non bastas­ se l'ostilità di Poseidone, si tira addosso la vendetta del Sole, un dio che ha gran parte nella storia di Giasone ma che non ha niente a che fare con Odisseo. Diomede, uno dei grandi eroi dell'Iliade, ha l'aria di essere stato inserito all'ultimo momento nella storia della guerra di Troia, dove sembra un intruso. Oltre che nel « suo » libro, il V dell'Iliade (con quanto lo precede e lo segue immediatamente ), nella Dolonia e nei Giochi fune­ bri per Patroclo (libri X e XXIII, che sulla base di molte­ plici argomenti sono generalmente annoverati fra i piu tardi del poema), Diomede compare solo saltuariamente in quelle parti di tipo redazionale che servono da passag­ gio fra un grande episodio e un altro : libro VI I I , inizio e fine del IX, prima parte del XIV. Dopo le grandi impre­ se del V lo si rivede in battaglia solo una volta (XI 3 r o sgg. ), m a giusto per essere ferito e d eliminato definitiva­ mente dalla guerra. Nel seguito gli sono dedicati rari e brevi cenni, solo per ricordare che appunto è ferito (XI 66o = XVI 25 , 74 sg. ; XIX 48 ) : potrebbero essere tutte rapide e sommarie giustificazioni, introdotte per soddisfa­ re in qualche modo il pubblico deluso dalla scomparsa di questo eroe che soltanto una volta si è messo in luce nel combattimento ; eppure nell 'Iliade le ferite guariscono

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presto, in modo piu o meno miracoloso, e Diomede è pro­ tetto da Atena. Diomede è ancora ricordato nella Battaglia degli dèi ( XXI 3 96 ), quando Ares rievoca lo scontro del libro V. Ma non è nominato nei libri I , II ( tranne nel catalogo, 5 5 9 sgg., dove egli è detto signore di Argo, città che, stan­ do ·al resto dell'Iliade, dovrebbe appartenere ad Agamen­ none ), I I I , XII, XIII, XV, XVII , XX, XXI I , XXIV, nei quali a volte non gli mancherebbero le occasioni per farsi vedere in battaglia o nelle assemblee. Per conto nostro crediamo che si possa dimostrare che le gesta del libro V, l 'unico veramente dominato dalla figura di Diomede, so­ no l 'adattamento di una storia indipendente dalla guerra di Troia . Anche il personaggio di Diomede dimostra dun­ que una tendenza generale dell'epica : eroi e fatti già ap­ partenenti a cicli diversi tendono a farsi assorbire nel ciclo che diventa piu diffuso e piu popolare . Un personaggio che merita attenzione è Elena, che in­ vece è inseparabile dalla storia della spedizione achea, ben­ ché abbia dietro di sé un remoto passato mitologico e re­ ligioso inàipendente dal mito troiano. E nella parte pre­ iliadica della guerra c'è quel Giudizio di Paride che è ram­ mentato nell'Iliade una sola volta , quando si dice ( XXIV 2 5-30) che tutti gli dèi hanno pietà del corpo di Ettore, straziato da Achille, mentre Era, Poseidone e Atena con­ servano il loro odio per i Troiani per colpa di Paride, che aveva offeso le dee quando nella capanna gli vennero, e lui lodò quella che gli offri l'affannosa lussuria,

cioè Afrodite. Questo passo, oggetto di grandi discussioni fra i critici , è spesso considerato tarda interpolazioce per ragioni linguistiche (ma tutto l 'ultimo libro è composto in uno stile « recente » ) e soprattutto perché Omero non doveva conoscere la leggenda, altrimenti l'avrebbe ricor­ data anche in altre occasioni . L'ipotesi è fondata sul du­ plice pregiudizio che tutte le storie narrate dal Ciclo epi­ co siano postomeriche (il Giudizio di Paride era compre­ so nei Canti Ciprii) e che ogni elemento particolare che figura una volta sola in Omero - l'allusione a un fatto o

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una forma linguistica - sia per lo meno sospetto. Si può dire invece, senza farne un principio generale, che l'allu­ sione isolata presuppone che il fatto sia ben noto al pub­ blico. Anche la figura del principe-pastore non può essere di origine tarda. Il parziale silenzio dell'Iliade su questa leggenda può essere dovuto alla tendenza america a disin­ teressarsi alle « cause » lontane dei fatti narrati. Ma a proposito di Elena sono piu interessanti gli ac­ cenni al suo tradimento contro Menelao : ci sembra che l 'Iliade tenda qua e là a insinuare una versione che modi­ fica quella tradizionale e che forse tradisce una nuova preoccupazione moralistica. Nel riassunto che ci è rimasto dei Canti Ciprii è detto che quando Paride era ospite di Sparta Menelao parti per Creta e affidò l 'ospite a Elena. Qui è notevole non tanto la fiducia di Menelao, quanto la libertà e l'autorità di Elena, che se poteva sostituirsi al marito in una faccenda d'interesse « pubblico », qual era la cura di ospiti venuti da lontano, doveva godere di una posizione che le donne di Omero hanno perduto quasi del tutto. « Mentre Menelao è via - continua il riassunto Afrodite fa unire Elena ed Alessandro; dopo essersi uniti, portano via di nascosto molti tesori e durante la notte prendono il mare » . Nonostante l 'intervento divino, que­ sta è la storia di un adulterio dei piu comuni, in cui gli amanti in fuga hanno cura di non dimenticare la cassa ( i tesori sono ben noti anche all'Iliade : V I I 350, 3 6 3 , 3 8 9 , 400; XII 626 ; XXII r r 4 ). Elena è del tutto consenziente, come è naturale se agisce sotto il potere della divinità ir­ resistibile che l'ha promessa a Paride, e non tarda un mo­ mento a concedersi al nuovo sposo. Anche in vari passi dell'Iliade Elena appare come colei che ha « seguito » vo­ lentieri Paride. Una volta ricorda lei stessa a Priamo il giorno che « il figlio tuo seguii » ( Il. III I 74 ) . .Per allu­ dere ironicamente al fatto, Atena dice a Zeus : « Certo Ciprigna (Afrodite) ha spinto qualcuna delle Achee l a se­ guire i Troiani. . . » (V 422-23 ) . È dunque improprio par­ lare di « ratto di Elena » . I l riassunto è chiaro, m a purtroppo non d fornisce par­ ticolari sulla tattica usata da Paride nella sua conquista e sul contributo di Afrodite. Lo svolgimento dei fatti di

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Sparta sembra trasparire, come è già stato notato ( per esempio da Karl Reinhardt), nell'episodio dell'Iliade ( III 3 83 sgg. ) dove Afrodite « fa unire » nuovamente Elena con Paride. Questi è stato sottratto dalla dea alla furia di Menelao e trasportato nella sua camera. Poi Afrodite as­ sume l 'aspetto di una vecchia filatrice, carissima a Elena « quando vivevano a Lacedemone » ( Sparta ), raggiunge Elena sulle mura e con la mano le scuote un lembo del ve­ lo per parlarle ; la invita ad andare da Paride, Elena rifiu­ ta, pur avendo riconosciuto la dea, ma poi cede alle mi­ nacce e si avvia. Nella camera Afrodite depone un sedile di fronte a Paride ; Elena siede, con gli occhi bassi, rim­ provera il vile che si è fatto battere in duello, ma poi ce­ de anche alle parole di lui e lo segue. Se si escludono i discorsi diretti, qui tutti i particolari fanno pensare al pri­ mo incontro amoroso di Sparta. lnnanzitutto la parte di Afrodite, la quale assume l'aspetto di una vecchia ancella che a quanto pare non ha seguito Elena a Troia, dunque il meno adatto per presentarsi tanto a Elena - se Afrodite non si vuole rivelare a lei ( ma poi sarà riconosciuta a pri­ ma vista ) - quanto alle Troiane che la circondano. A Spar­ ta, invece, l'aspetto della vecchia ancella affezionata era il piu adatto che la dea potesse scegliere per combinare l'incontro. L'atto di tirare il velo potrà trovare piu di una giustifi­ cazione, ma andrebbe meglio per invitare una donna a in­ contrarsi per la prima volta in privato con un uomo che ancora le è estraneo, ma per poco ; mentre qui in fin dei conti Paride è da lungo tempo il suo nuovo sposo. Il ge­ sto è accompagnato da parole insinuanti (vv. 3 90-92 ) : Vieni ! Alessandro ti dice d i tornare a casa : è là nel talamo, sopra il lucido letto, raggiante di vesti e bellezza . . . ,

ma qui l'invito di Alessandro è una pura invenzione della dea . Il gesto di Afrodite che accosta un sedile a Paride per mettere i due di fronte appariva sconveniente a Zenodo­ to, e non si può dare torto al critico antico se si pensa che qui la dea è stata riconosciuta. Tutto invece andrebbe be­ ne se il travestimento da filatrice avesse retto fino in fon-

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do, come sarebbe piu logico. Anche il pudore e la ritrosia di Elena dovrebbero onnai appartenere al passato, sebbe­ ne qui siano motivati dagli indizi del suo ravvedimento. E alla fine che fa Afrodite, di cui non si parla piu? Resterà nella stanza? Nell'Iliade non si manca mai di segnalare le uscite come le entrate degli dèi, e qui un cenno sarebbe piu che mai necessario per salvare il decoro del terzetto. Il poeta avrà trascurato di riprendere questo particolare che certo esisteva nel suo modello, ma in una forma che non gli conveniva. Tutta la scena sembra dunque il rifa­ cimento di una composizione in cui era raccontato il pri­ mo convegno di Elena e Paride a Sparta, come si trovava nei Canti Ciprii. Ma le ultime parole di Paride (vv. 44 2-4 5 ) , fatte evi­ dentemente per la scena iliadica, presuppongono una ver­ sione differente : non ti ho mai tanto desiderato, egli dice, neppure quando a Sparta « ti rapii e per mare partii sulle navi, l e nell 'isola Cranae mi t'unii d'amore e di letto » . Questa versione dunque esclude i l consenso d i Elena, che fu invece rapita e soltanto dopo un tratto di viaggio ce­ dette a Paride. Di ratto e non di fuga si parla anche altro­ ve ( Il. II 3 5 6 5 9 0 ) in una parte che certo non è delle piu antiche dell'Iliade. Può darsi che nella poesia preome­ rica la leggenda della fuga avesse provocato una condanna di Elena, che echeggia in una battuta di Achille (XIX 3 2 5 : « per l a funesta Elena combatto coi Teucri » ) , nei giudizi dell'opinione pubblica (III 2 4 2 : « il disonore, la molta vergogna che ho io » ; XXIV 775 : « tutti m 'hanno in or­ rore ») e nelle parole di accusa che Elena stessa pronuncia contro di sé (VI 3 5 6 , 3 44 : « cagna » , « cagna maligna, agghiacciante » ; XXIV 76 4 : « ma fossi morta prima » ) ; mentre alcuni l a giustificano, come Priamo ( I I I 1 64 : « non certo tu sei colpevole davanti a me, gli dèi son col­ pevoli » , cfr. XXIV no) e anche Ettore (XXIV 767). Nel­ l'Iliade, dove il problema delle responsabilità personali comincia ad essere affrontato seriamente, come vedremo piu avanti, si è dunque preferito introdurre con discre­ zione la versione del ratto, piu favorevole a Elena, e pre­ sentare l'eroina toccata dal rimpianto e dal rimorso. L'E­ lena dell'Odissea invece si leva d'imbarazzo con un facile =

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compromesso : è incorsa si in una colpa ( lo dice lei stessa : IV 26 I sgg. ), ma dopo essere stata con i Troiani si ravve­ de, quando la guerra volge alla fine, e torna a parteggiare per gli Achei. Questo tipo di ricerche sulle fonti serve per confronta­ re i nostri poemi, presi in blocco, con leggende e composi­ zioni anteriori; ma per l 'unità o non unità dei poemi stes­ si non se ne possono trarre conclusioni sicure. Tanto è vero che a queste ricerche contribuisce molto anche la cri­ tica unitaria. Uno stesso poeta, infatti, potrebbe essersi attenuto dove piu dove meno strettamente ai modelli e aver lasciato sussistere contraddizioni in un episodio o nelle vicende di u.n personaggio. Si vede, comunque, che il poeta non crea in assoluta libertà e deve sempre fare i conti con versioni già affermate di leggende note al pub­ blico. Il caso fortunato e ideale per produrre argomenti ana­ litici inoppugnabili si ha quando si può dimostrare che la fonte e il rifacimento, il modello e l'imitazione, sono con­ servati entrambi nei nostri poemi. In alcuni casi ciò è pos­ sibile. Ai versi 5 I I sgg. del libro Il dell'Iliade c'è un pas­ so curioso, dove di Ascalafo e !almeno, capi achei, è det­ to che nel palazzo d'Attore Azeide, al piano di sopra, generò Astioche, vergine degna d'onore, al forte Ares; ch'egli le giacque accanto furtivo.

Se i versi vanno letti cosi non si capisce perché il poeta tenga tanto a far sapere che la fanciulla per partorire è sa­ lita di sopra, cioè nella sua stanza. Non si può intendere « essendo salita di sopra per ( incontrare) il forte Ares » , riferendo l a battuta al momento del convegno, perché dif­ ficoltà grammaticali non lo permettono, e si preferisce non pensare ad Ares che aspetta di sopra . Oppure, e sa­ rebbe meglio, il verbo ( 't"ÉXE\1 ) potrebbe significare « con­ cepi » dal forte Ares ( dopo essere salita nella sua stanza), ma anche allora la costruzione della frase dovrebbe essere diversa. Questo poeta (come ha dimostrato Giinther Jach­ mann) non è riuscito a riassumere in forma chiara o non ha capito quanto è detto in un altro passo (XVI I 8 I sgg . )

ETÀ E FORTUNA DI OMERO del mirmidone Eudoro, figlio della nubile Polimela e di Ermete : il dio « la bramò, ché la vide tra le compagne del coro . . . ed ecco, salito al piano di sopra, accanto a lei si stese furtivo . . . ed ella gli diede uno splendido figlio » . L'autore del brano del Catalogo delle navi h a rifatto a mo­ do suo il brano del libro XVI , opera di un autore prece­ dente. In casi come questi , quando l'imitazione è chiara e l'i­ dentità d'autore va esclusa, si potrebbe anche salvare l 'u­ nità del poema o pensando alla possibilità di una breve in­ terpolazione o supponendo che lo stesso poeta abbia fatto proprio e inserito nella sua composizione un brano altrui e poi lo abbia rifatto con poca attenzione in un altro suo canto. Ma queste ipotesi non valgono per le parti abba­ stanza estese che hanno da cima a fondo il carattere della compilazione, come appunto ampi brani del Catalogo del­ le navi o la Dolonia (libro X dell'Iliade), i cui autori non attingono liberamente al corrente formulario tradizionale o a determinate fonti anteriori , ma imitano passi precisa­ bili dell'Iliade e dell 'Odissea. E comunque le false inter­ pretazioni del tipo che abbiamo visto sono cosi frequenti da dimostrare fuor di ogni dubbio che i poemi conten­ gono molti blocchi di provenienza diversa. La Dolonia veramente rappresenta un caso a parte per­ ché è sicuramente posteriore a tutta l'Iliade, nella quale forma un corpo decisamente estraneo, e forse posteriore anche al grosso dell'Odissea. Vediamo un solo esempio fra i tanti che si potrebbero citare. Quando Diomede si prepara per l'incursione in campo troiano, Agamennone gli dice di scegliersi un compagno. Diomede risponde ( X 24 3 ) che l a scelta è ovvia : « come potrei, i o , trascurare i l divino Odisseo . . . » Il verso s i ritrova uguale nel primo li­ bro dell'Odissea (v. 6 5 ) all'inizio del discorso di Zeus che risponde ad Atena, dalla quale è stato rimproverato di lasciare Odisseo nel suo lontano esilio. Non essendo un verso-formula del repertorio, deve essere originario in un passo, ripetizione nell'altro ; Io conferma anche la somi­ glianza fra i versi che seguono in entrambi i brani. Se non si è convinti a priori che tutta l'Odissea debba essere po­ steriore a tutta l'Iliade, sembrerà subito naturale pensare ,

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che il verso sia stato fatto originariamente per Zeus : nel­ l 'Odissea esso è in grande evidenza nel concilio degli dèi che dà l'avvio alla vicenda, ossia appartiene a uno di quei brani memorabili che sono facilmente ricordati e imitati. E, se guardiamo meglio, nel contesto della Dolonia sono ingiustifìcati l 'enfasi con cui Diomede, che deve sempli­ cemente trovarsi un compagno, nega di poter dimenticare Odisseo ( si tenga anche presente che nell'Iliade Odisseo e Diomede non formano ancora una coppia tipica, legata da stretta fraternità d'armi, come nella poesia posteriore ), e il rilievo in cui mette il pronome « io » . Invece nell'Odis­ sea Zeus ha ragione di controbattere energicamente i rim­ proveri di Atena; e dichiara che all'origine delle disavven­ ture di Odisseo c'è non la sua volontà, ma quella di un altro dio : « come potrei, io, . . . ma Poseidone è irato . . . » La lingua epica si tramandava di generazione in genera­ zione, e pdteva accadere che certe parole, contenute in brani che venivano trasmessi integralmente a memoria, non fossero piu capite dai poeti. Allora un poeta che cer­ cava di creare qualche cosa di nuovo usando il lessico tra­ dizionale poteva prendere grossi abbagli. Scegliamo un esempio fra i molti identificati da Manu Leumann, che applica lo studio linguistico non alle formule fisse ma ap­ punto alla storia della lingua « a breve distanza » , cioè alle innovazioni arbitrarie, dovute a falsa interpretazione di passi determinati. La parola 1tap'i)opoc; ricorre in Omero con signifìcati troppo diversi, fra i quali quello, giustifi­ cato dall'etimologia, di trapelo o bilancino (cavallo di rin­ forzo, legato a lato in aggiunta al tiro normale) e un altro aggettivo - forse « lungo disteso » o « immenso » con ri­ ferimento a un corpo che giace a terra. Il primo significato si trova ( Il. XVI 1 5 2 , 47 1 , 474 ) quando Patroclo aggiun­ ge ai due cavalli immortali di Achille, Xanto e Balio, il mortale Pedaso ; il quale in battaglia cade ucciso e mette in difficoltà gli altri due. L'espressione XEL't'O 1tap'i)opoc; Év xoVLTJcn, « giacque il trapelo nella polvere » , di questo epi­ sodio dovette restare nell'orecchio, come frase isolata, a un altro poeta, l'autore del passo (VII 15 6 ) in cui Nestore racconta la sua giovanile vittoria sul gagliardo Euretalio­ ne che, colpito a morte da lui , « giacque 1tap'i)opoc; ». Di-

ETÀ E FORTUNA DI OMERO menticando tutto il pur chiaro contesto dell'episodio di Pedaso, questo poeta ha creduto di ricordare che la frase significasse « giacque immenso » (o lungo disteso, o in tut­ ta la sua statura, o palpitante : è difficile precisare), co­ niando cosi un curioso neologismo. Per capire meglio la possibilità di questo equivoco si badi che nella frase greca sopra citata non c'è l 'equivalente dell'articolo davanti al nome ; dunque : « giacque trapelo nella polvere » . Detta co­ si, anche la frase italiana potrebbe ingannare un lettore ignaro di trapeli. In questo modo si può cogliere sul fatto il singolo poe­ ta che lavora a memoria su materiale preesistente, molto ripetendo tale e quale ma anche rinnovando per suo con­ to, e riconoscere alcune delle mani diverse che hanno composto gli episodi contenuti nei poemi. Ma non si può ancora dire come i poemi siano arrivati ad assumere la for­ ma finale, e soprattutto è difficile arrivare a una conclusio­ ne lasciando da parte i giudizi di gusto. Dai pochi esempi che abbiamo visto risulta abbastanza chiaro che nelle sue ipotesi analitiche la critica prende sempre le mosse da un'incongruenza del testo, da un ele­ mento di disturbo che va spiegato. Ciò è naturale ; ma ac­ cade quasi sempre che per rendere piu efficace la dimo­ strazione si ricorra a giudizi di gusto a carico dell'ignoto autore responsabile dell'incongruenza; giudizi che posso­ no essere di carattere razionalistico, estetico o moralisti­ co, con varie possibilità di combinazione. Ricordiamo qualche esempio citato. L'autore dell'episodio di Nestore e del cavallo (libro VII I ) ha copiato e rovinato un passo dell'Etiopide. Il poeta di vari passi dell'Odissea ha offeso la verosimiglianza geografica per correre dietro a Giasone e agli Argonauti. Chi ha inserito Diomede nell'Iliade, ha trascurato di mettere il suo eroe veramente a suo agio nel campo greco sotto Troia. Chi ha combinato l'incontro di Elena e Paride ha si costruito un buon episodio, ma ha offeso la logica, la decenza e la divinità ( Afrodite che por­ ta il sedile ). Il poeta di Ascalafo e !almeno non ha capito niente di un altro passo chiarissimo, e trova un degno compare nel poeta di Euretalione. Del plagiario che ha messo insieme la Dolonia, meglio non parlare.

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Le incongruenze ci sono, e offrono alla critica i soli pos­ sibili punti d 'appoggio per identificare la fonte e la deri­ vazione, la mano piu antica e la piu recente. Ma non si può dire per questo che i poemi omerici siano in massima parte opera di plagio, di compilazione, pasticci redazio­ nali, pur non volendo giustificare una volta per sempre tutte le « sconcezze e inverisimiglianze » dichiarando che sono invece « convenevolezze e necessità » . Si può soltan­ to dire, almeno provvisoriamente, che intanto l'Iliade e l'Odissea sono ancora molto vicine alla poesia di compo­ sizione e tradizione orale, come dimostrano il linguaggio fatto di formule ricorrenti (che la poesia scritta tende ben presto ad abbandonare) e la presenza di numerosi episodi in sé conclusi, lunghi poche centinaia di versi, relativa­ mente autonomi nella cornice dei poemi, che corrispon­ dono all'unità compositiva media della poesia cantata o recitata e che riconosciamo bene nei canti degli aedi Fe­ mio e Demodoco dell'Odissea . Il poema esteso era dun­ que una novità, e di questo si deve tener conto. È vero che i canti piu fortunati dovevano tendere na­ turalmente a raccogliersi in stabili unità maggiori, ma un 'aggregazione meramcnte meccanica doveva produrre poemi o piuttosto repertori disposti secondo la piu sem­ plice successione cronologica dei fatti narrati, in serie di canti brevi, o secondo una disposizione catalogica. En­ trambe le forme sono infatti rappresentate nella produ­ zione pseudo-omerica ed esiodea. L'Iliade e l 'Odissea invece sono costruite secondo un piano tendente non alla concatenazione dei fatti ma alla loro concentrazione attorno a un episodio limitato nel tempo (l'ira di Achille e la vendetta di Odisseo), median­ te un uso amplificato della composizione circolare, della parentesi, dell'excursus retrospettivo, secondo un piano quindi che difficilmente può essere il risultato di una sedi­ mentazione spontanea e che invece deve essere il prodot­ to di una concezione originale. Restano da valutare i li­ miti di questa originalità. È chiaro che i poemi conten­ gono, anche tagliati o rielaborati, canti brevi di diversa origine, ripresi dal ciclo troiano o adattati da altri cicli. Ci sono forti diversità nello stile, nelle concezioni etiche

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e religiose, nell'interpretazione di fatti e personaggi. Ma proprio le diversità e le incongruenze, se da un lato di­ mostrano pluralità di autori o di fonti, dall'altro dimo­ strano che al tempo della formazione dei poemi la poesia orale creativa si era estinta. Il vero aedo non è un filologo o un editore o un redattore : usa un linguaggio arcaico e corporativo finché si vuole ma coerente e in certa misura personale, non ripete pezzi da antologia mutando voce e lessico e stile a seconda dei brani che sceglie. Nei poemi omerici troviamo invece che alcuni testi epici si sono fis­ sati in una determinata redazione e non vengono piu « ti­ cantati » e aggiornati integralmente da nuovi aedi in un nuovo stile uniforme e secondo concezioni piu moderne, ossia che essi vengono ripresi da qualcuno che ha rispetto per la forma originaria, anche a costo di ammettere con­ traddizioni nel poema piu ampio e di !asciarvi espressioni non piu capite ; o da qualcuno, per meglio dire, che non è piu capace di rifondere interamente per proprio conto, secondo la vecchia tecnica aedica, il materiale raccolto. Oltre al piano generale, anche le suture redazionali che di questi florilegi fanno poemi veri e propri dimostrano che il processo della loro formazione non dovette essere meccanico : è vero che queste suture sono spesso fatte con una trascuratezza impensabile in un poeta moderno, ma esse non consistono soltanto in brevi e frettolosi gruppet­ ti di versi fra un episodio e l'altro ; spesso si estendono in brani talmente ampi che poterono essere composti soltan­ to da chi intendeva costruire, sia pure con materiale in gran parte altrui, opere delle dimensioni dei nostri poemi. Nessuno per esempio può avere composto il libro VIII dell 'Iliade per offrirlo separatamente al pubblico : esso ha un carattere decisamente redazionale e interessa soltanto come parte del poema, di cui è la « chiave di volta che guarentisce la saldezza della sua compagine » (Gaetano De Sanctis) . Molti episodi dell'Iliade possono essere pre­ si a parte e ascoltati come piccoli poemi, per un'ora d'in­ trattenimento : il Duello di Paride e Menelao, le Gesta di Diomede, il Colloquio di Ettore e Andromaca, l'Ambasce­ ria ad Achille ecc. ; ma il libro VIII, preso a sé, non ha proprio senso.

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A u n certo punto del processo d i formazione dei poemi si deve far intervenire inevitabilmente qualche Omero : almeno due, uno per l'Iliade e uno per l'Odissea. All'ini­ zio non si può mettere, perché non si riuscirà mai a tro­ vare nei poemi quel nucleo originario che poi si sarebbe allargato per successive aggiunte. Si dovranno mettere gli autori verso la fine di quel processo, lasciando spazio per ammettere qualche tarda aggiunta e interpolazione, e at­ tribuire loro il « piano », la concezione generale dei poemi quali li abbiamo. Troppo spesso la critica è ingenerosa con questi autori. La critica analitica piu settaria, per dimostrare che un Omero poeta non è mai esistito, deve farsi forte dei giudi­ zi di gusto che abbiamo detto, calcare la mano sulle di­ scordanze e sulle contraddizioni lasciate o introdotte dal redattore (o dai redattori) , regolarmente definito « raffaz­ zonatore », « arruffone », che con i suoi interventi avrebbe sconciato tanti bei brani di poesia arcaica. Anche noi pen­ siamo che la fisionomia di chi ha creato i poemi vada cer­ cata nelle parti che hanno una funzione strutturale o, co­ me si dice, redazionale : ma le definizioni sopra citate so­ no poco rispettose per chi forse ha creato per primo la forma del grande poema, oppure. nel caso a lui piu sfavo­ revole, ha pur sempre il merito di aver capito il valore di quei testi antichi e di averceli conservati cucendoli insie­ me, sia pure con lo spago grosso, in opere che poterono resistere al tempo fino a quando i Grec� dell'età classica le presero in custodia. D'altro canto la critica unitaria di stretta osservanza non rende a Omero miglior servigio descrivendolo come quello squisito calcolatore di simme­ trie e parallelismi, creatore di architetture quasi perfette, di variazioni musicali raffinate, di pitture smaglianti , che non ci si aspetterebbe proprio di trovare in quel buon tempo antico. Nella disputa intervengono anche i consueti pregiudizi mutuati dalla concezione evolutiva dell'arte : la poesia piu arcaica, si dice, è pura, genuina, maliosa, e poi si corrompe quando al poeta ingenuo subentra il com­ pilatore ; oppure è rozza e sgraziata, e poi pian piano si raffina. Nessuno può riscrivere il breviario di estetica che ispi-

ETÀ E FORTUNA DI OMERO rò l'Iliade e l 'Odissea. Esse sono però un tipico prodotto di transizione fra due epoche artistiche, fra la poesia ora­ le che si fonda sulla memoria e l 'improvvisazione, che si vale di un corredo di formule prestabilite, che ha la sua dimensione normale nell'episodio autonomo di poche cen­ tinaia di versi, e la poesia composta al tavolino, ricercante anche l'originalità stilistica, nella quale l'episodio ha si­ gnificato anche in riferimento a punti distanti di un conte­ sto molto esteso. Gli autori che misero insieme l'Iliade e l'Odissea non possedevano piu la tecnica della memoria che permetteva agli aedi d'improvvisare o ricantare qual­ siasi argomento di un largo repertorio, né pensavano an­ cora che un poeta potesse creare in ogni suo verso un'e­ spressione inaudita e personale ( altrimenti si sarebbero dedicati alla poesia lirica). Le parti piu recenti sono si composte in uno stile decaduto, già quasi libresco, ma so­ no necessarie per tenere insieme i poemi. I quali dunque stanno fra l'antologia e la creazione originale nel senso moderno. Quanto agli autori, noi preferiamo chiamarli poeti anziché redattori. Ma qui di seguito, nel dare uno sguardo al contenuto dell'Iliade e dell'Odissea, le consi­ dereremo semplicemente come testimonianze del periodo di transizione fra la tradizione orale e la poesia scritta, te­ nendo conto che esse accolgono materiali « piu antichi » e « piu recenti » , e solo alla fine della nostra esplorazione dei testi aggiungeremo qualche osservazione sulla loro struttura interna. Terremo quindi in sospeso per quanto è possibile la questione omerica e, pur usando per comodità il nome di Omero, lasceremo la sua persona nella semio­ scurità dei suoi secoli , e la sua individualità poetica nel limbo dove l 'avevamo trovata.

II mondo di Omero

Passato e presente. L'ambiente sociale descritto nei poemi omerici sembra abbastanza omogeneo e coerente, a prima vista, soprat­ tutto per il lettore che si lascia trascinare e distrarre dalla magia della favola, contentandosi di rafligurarselo come un mondo vagamente feudale, con re, vassalli, cavalieri e un po ' di popolo sullo sfondo. In realtà, ogni volta che si cerca di mettere ordine fra tutte le indicazioni desumibili dai poemi sui rapporti di autorità e di proprietà, sugli isti­ tuti pubblici ecc., si trova che il quadro è insanabilmente contraddittorio. Omero non nasconde di esporre fatti ac­ caduti in un'epoca lontanissima, ma non ci fornisce indizi per distinguere nel racconto la memoria o la ricostruzione storica, se c'è, dall'invenzione o dall'adeguamento alla vi­ ta contemporanea. Il primo assestamento su base cronologica del materia­ le epico-mitologico si trova in Esiodo, il piu antico poeta greco che ci è noto anche come persona e che visse non molto dopo il periodo della redazione finale dell'Iliade e dell'Odissea, ma nel diverso ambiente rurale della Beozia , nella madrepatria greca. Sia pure con ambiguità e incoe­ renze che non possono sorprendere, Esiodo delinea una storia del mondo divino e di quello umano dalle origini all'età sua . Il primo, come egli racconta per esteso nella T eogonia, è passato da fasi primordiali piene di orrori e di atrocità a un ordine, imposto da Zeus, che dovrebbe garantire una certa giustizia in cielo e in terra. Il genere umano invece (egli spiega nell'altro suo poema, le Opere )

IL MONDO DI OMERO

è passato per cinque età : dell'oro, dell'argento, del bron­ zo, degli eroi, del ferro, che hanno portato dalla felicità iniziale al regno del dolore e dell'ingiustizia, quello in cui appunto vive il poeta e che è descritto cosi ( vv. 1 7 4 -20 1 ) : Meglio sarebbe se, invece di vivere in mezzo alla quinta generazione, io fossi già morto o nascessi piu tardi . Questa è la razza del ferro. Gli uomini ora di giorno penano e soffrono senza riposo, durante la notte sono angosciati ; gli dèi li tormentano e affliggono sempre, anche se ai mali si mescolerà qualche cosa di buono. Poi questa razza a sua volta sarà cancellata da Zeus, quando vedremo neonati che abbiano bianche le tempie, figli di versi dai padri e padri diversi dai figli ; piu non vedremo l'affetto tra gli ospiti, non tra gli amici, non si ameranno i fratelli tra loro, com'era in passato. Maltratteranno i parenti apper.a saranno attempati, li copriranno di male parole e d'insulti, gl'infami, senza rispetto divino. Costoro neppure daranno il necessario per vivere ai vecchi che li hanno alle vati. Non avrà credito l'uomo leale, né il giusto, né il buono. Preferiranno onorare chi compie delitti, il maestro di prepotenze. Faranno giustizia le mani, e il rispetto scomparirà. Prevarranno i furfanti sugli uomini onesti insinuando parole bugiarde e giurandoci sopra. Tutti quei miserabili uomini avranno alle spalle stridula, brutta di faccia, maligna e gelosa, l'Invidia. Si leveranno allora, cercando rifugio in Olimpo, presso gli eterni, Coscienza e Vergogna, coprendo di veli bianchi la loro bellezza; sarà abbandonata la terra con le sue strade spaziose ; agli uomini il pianto e il dolore. Contro i disastri per gli uomini non ci sarà piu riparo.

Il malcostume dato qui come previsione doveva già esse­ re in gran parte una realtà. Dèi e uomini si sono ora net­ tamente separati, avendo seguito vie divergenti, anzi op­ poste, nella loro evoluzione. Si capisce come Esiodo fosse arrivato a questa concezione : l'esistenza quotidiana era cosi infelice che egli doveva spiegarsi l 'origine dei mali nel mondo, e contrapporre ad essa un'esistenza esemplare, ideale, come indispensabile punto di riferimento per sal­ vare quel poco di bene che poteva restare in terra, per sperare in qualche cosa, per avere almeno una garanzia di

PA S S ATO E PRE SENTE

ordine soprannaturale, per addurre argomenti polemici contro la società ingiusta del presente. Per Esiodo il processo continuo di corruzione del gene­ re umano è stato interrotto una sola volta, dalla stirpe degli eroi, che sta a sé perché non è rappresentata da un metallo, inserita com'è fra l 'età del bronzo e quella del ferro, e perché è l'unica delle cinque che abbia portato una temporanea rinascita della giustizia. Gli eroi o semi­ dei, dice Esiodo ( Opere r 6 r-68 ), perirono in guerre fero­ ci e battaglie, combattendo in parte a Tebe per le greggi di Edipo - il ciclo tebano costituiva un altro grande filone dell'epica eroica -, in parte a Troia, dov'erano giunti con la flotta a causa del ratto di Elena ; la loro età è quindi quella descritta dalla poesia omerica, e propriamente do­ vrebbe rientrare nell'età del bronzo; in Esiodo essa occu­ pa un posto speciale perché egli avrà integrato un'antica storia dell'inesorabile decadenza umana introducendovi questa fase che era troppo nota per essere trascurata, e nota con caratteristiche che non permettevano d'identifi­ carla con una delle età dei metalli. Cosi l 'età degli eroi appare in una luce particolarissima : da un lato, essa sem­ bra situata come un fenomeno eccezionale fuori dell'evo­ luzione dell'umanità, o meglio in una sfera intermedia fra il mondo terreno condannato a decadere e il mondo divi­ no che al contrario procede verso l 'ordine e la giustizia (gli eroi superstiti, dice ancora Esiodo, furono mandati da Zeus a vivere in eterno nelle Isole dei Beati) ; dall'altro, questa è l 'unica delle età esiodee che appaia legata a fatti e luoghi storici : alle guerre di Tebe e di Troia. Senza dubbio Esiodo considerava ugualmente autentici e veri­ tieri entrambi i miti, quello generale della decadenza uma­ na e quello degli eroi, ma il testo rivela chiaramente che al suo tempo i racconti di origine micenea conservavano un'autonomia e una consistenza particolari, grazie alle lo­ ro origini storiche e alla continuità della tradizione epica. Questa tradizione, almeno come è rappresentata da Omero, tende bensi ad allargarsi secondo un certo ordine, ma senza che si arrivi a disporre i miti in una sistemazio­ ne cronologico-genealogica che oltrepassi i limiti della ben circoscritta « età degli eroi ». Anzi, se prima di Omero, o

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indipendentemente da Omero, potevano esistere cicli poe­ tici completi sulla guerra di Troia e sui ritorni degli eroi, con ampie storie di città e dinastie, nei poemi rimasti ab­ biamo soltanto un episodio della guerra e il ritorno di un solo eroe. Dall'Iliade non sappiamo neppure, precisamen­ te, come sia cominciata e come dovrà finire la guerra; l'Odissea non ci dice che cosa abbia fatto il protagonista prima di arrivare a Troia e come trascorrerà l 'ultima par­ te della sua vita. E tanto meno i poemi ci parlano della preistoria della civiltà eroica, da una parte, e delle gene­ razioni successive, dall'altra. Il mondo omerico appare co­ si come un mondo ideale, forse eterno nella sua sfera iso­ lata : i singoli eroi muoiono, sf, ma lasciano eredi ; eppure non si parla di loro discendenti conosciuti, né sapremmo dire se Omero pensasse che le loro generazioni si erano estinte, e quando, e in che modo, mentre Esiodo ha cura di spiegare la loro scomparsa. Questo dev'essere il risultato di una scelta poetica piu o meno intenzionale; infatti in Omero non mancano trac­ ce o spunti della prospettiva cronologico-genealogica del tipo esiodeo, che però in lui è volutamente lasciata in di­ sparte. Anche Omero sa che in tempi remoti ci furono lot­ te furiose fra gli dèi per il potere, ma su questo tema è reticente; sa, come Esiodo, che gli eroi erano stati prece­ duti da genti piu violente e selvagge, come i Centauri e i Lapiti di cui si ricorda il vecchio Nestore ( Il. I 262-6 8 , cfr. II 742-45 ) ; ma tutto ciò appare soltanto d a rapidi accenni, introdotti in vista di un 'occasione poetica imme­ diata. Sulla fine della civiltà eroica e sul presente non ci sono riferimenti diretti. Esiodo almeno dice che gli eroi scomparvero combattendo ; in Omero si cercherebbe inu­ tilmente un'allusione alla fine della civiltà micenea, a me­ no che non si voglia sentire l'eco isolata di una catastrofe storica nelle amare parole di Era che vuole abbandonare alla collera di Zeus le città a lei piu care, Argo, Sparta e Micene ( Il. IV 5 1 -5 3 ) : Ebbene, vi sono tre città a me carissime: Argo e Sparta e la spaziosa Micene; distruggile, il giorno che tu le odiassi in cuore !

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Qualche spiraglio sulla vita contemporanea si apre certo nelle famose similitudini, con le loro immagini prese dal vero, ma per il resto l'epos omerico vuoi mostrare di co­ noscere soltanto un passato che ormai appare come fuori del tempo : non ci fa capire se si è arrivati al presente at­ traverso un processo continuo di decadenza, o una crisi improvvisa, una rottura violenta. La polemica esiodea contro i meschini uomini contemporanei si riduce qui a qualche eterno luogo comune sulla superiorità degli an­ tichi. Quando per esempio Diomede solleva una pietra enorme per colpire Enea, il poeta commenta che oggi nep­ pure due uomini porterebbero un peso simile ( Il. V 302304). Questo è tutto. I canti epici si erano dunque trasmessi di generazione in generazione senza che vi penetrassero riferimenti espli­ citi a nuove realtà. Nessuno può dubitare che i nostri poe­ mi discendano in linea diretta da canti del XVI-XII secolo : in essi sono micenei i temi, i personaggi, i miti principali, come pure, in gran parte, il corredo delle formule metri­ che. L'inventario delle sopravvivenze micenee è stato fat­ to piu volte, per quanto è possibile, ma a noi interessa sapere fino a che punto, alla fine, i poemi possono essere considerati documenti di vita micenea, ovvero fino a che punto, nel corso della loro lunga formazione il loro con­ tenuto si sia inavvertitamente adeguato al modello della vita contemporanea. Non è pensahile, prima di tutto, che i poemi si siano formati in età micenea cosf come li abbiamo e poi si sia­ no conservati senza alterazioni sostanziali. Intanto s'igno­ ra se in origine le composizioni poetiche micenee fossero messe per iscritto ; con tutta certezza no, ma la cosa ha poca importanza perché la scrittura scomparve con l'inva­ sione dorica e fu nuovamente introdotta, con l 'adozione dell'alfabeto fenicio (quello che, con i necessari adatta­ menti intervenuti, continuiamo a usare noi), verso la me­ tà dell'viii secolo. D'altra parte si sa che per famiglie o corporazioni di aedi non sarebbe impossibile trasmettere a memoria immutati poemi anche piu lunghi dell'Iliade e dell'Odissea, almeno in linea di principio : le ricerche recenti hanno provato che cantori popolari analfabeti han-

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no capacità mnemoniche, sviluppate in un lungo appren­ distato, che a noi sembrano prodigiose. Ma abbiamo an­ che visto che in pratica il compito di questi cantori non è mai di ripetere i testi tradizionali in versioni definitive : ognuno modifica il testo ad ogni recitazione, lo allunga, lo abbrevia, introduce digressioni o parentesi, a seconda del­ le esigenze dell'occasione e dell'uditorio. Neppure lo stes­ so cantore ripete mai due volte uguale lo stesso testo, non ne sarebbe capace. Nella poesia orale il tema non è un'en­ tità statica, « ma una creazione artistica vivente, mutevole, adattabile » . Qui non esiste neppure un « originale » , che possa essersi trasmesso immutato o alterato : ogni recita­ zione dello stesso testo è insieme ripetizione e creazione. « Il nostro concetto " dell'originale ", " del canto " è sem­ plicemente privo di senso per la tradizione orale. A noi sembra tanto fondamentale, tanto logico, per essere cre­ sciuti in una società in cui la scrittura ha fissato la norma di una prima creazione stabile, che pensiamo che ci debba essere un " originale " per tutte le cose . . . Nella tradizione orale l'idea di un originale è illogica » (Albert B. Lord ). Anche gli aedi che compaiono come personaggi nell'O­ dissea ripetono storie note, ma creano nello stesso tempo, e sono lodati per la loro bravura artistica, non solo perché hanno una memoria eccellente. Nel primo libro dell'Odis­ sea si trova un'affermazione curiosa. L'aedo Femio, a lta­ ca, canta delle avventure disgraziate che colpirono gli Achei reduci da Troia e Penelope lo invita ad abbando­ nare un argomento cosi penoso per lei, ma Telemaco pren­ de le difese di Femio dicendo che il canto piu gradito è quello che tratta dei fatti piu recenti, piu attuali (Od. I 3 5 1 -5 2 ) . E altrove Demodoco, l'aedo di Scheria, canta la lite fra Achille e Odisseo (VIII 73 sgg . ) e la storia del cavallo di legno (VIII 492 sgg.), fatti recenti, alla presen­ za dello stesso protagonista. In questi casi la recitazione di storie contemporanee da parte degli aedi serve ad av­ viare eccellenti sviluppi poetici : nel libro I per introdurre le battute di Penelope e di Telemaco e tutto quel che se­ gue ; nel libro VIII per preparare, col pianto di Odisseo, il suo riconoscimento da parte dei Feaci. Ma tanto il pa­ rere generale espresso da Telemaco quanto la prassi degli

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aedi dell'Odissea non concordano con la poesia di Omero, che si tiene rigorosamente nei limiti di un passato conclu­ so e remoto. Viceversa Esiodo, che pure è un poeta della vita contemporanea, dice che l'aedo « celebra le gesta glo­ riose degli uomini antichi e gli dèi beati che abitano 1'0limpo » ( Teogonia 99 - 10 0 ). In un certo modo, nonostante la contraddizione, tanto Omero che Esiodo affermano il giusto. La definizione di Esiodo riguarda gli aedi che al suo tempo cantavano le storie di Eracle, di Tebe e di Troia, i temi che continua­ vano a dominare nel repertorio poetico anche se Esiodo, personalmente, aveva scelto la strada nuova dell'attualità e della polemica. Egli sembra annunciare con tono di sfida questa sua originalità nell'introduzione della Teogonia, dove parla della sua investitura poetica; le Muse gli han­ no detto : « noi sappiamo raccontare tante menzogne che sembrano cose vere, ma, se vogliamo, sappiamo anche pro­ clamare la verità » (vv. 2 7-2 8 ) . Nell'allusione alle menzo­ gne non si dovrà proprio vedere una condanna illumini­ stica di tutta la poesia del tipo omerico; ma è chiaro che Esiodo contrappone con energia il suo programma dida­ scalico a un'epica che gli sembrava tendere al mero in­ trattenimento. Omero, che pure non parla mai del presente, ci mostra aedi in funzione di cantori della cronaca e, attraverso le parole di Telemaco, enuncia addirittura il programma di una poesia dell'attualità. In questo caso egli ci potrebbe conservare proprio una testimonianza autentica su usan­ ze micenee. Se all 'origine dell'epica omerica ci sono can­ ti micenei ispirati da fatti realmente accaduti in quell'età, gli aedi di allora dovevano comporli subito dopo che quei fatti erano avvenuti, proprio come Femio e Demodoco nell'Odissea, e cantarli alla presenza dei protagonisti e dei testimoni, o almeno dei loro figli . In questo caso l 'e­ sattezza del ricordo storico, a tanta distanza di tempo, può non sorprendere : se i temi micenei si sono traman­ dati ininterrottamente, la professione dell'aedo doveva trasmettersi per via familiare o corporativa, e qui gli aedi possono conservare memorie particolarmente fedeli per­ ché parlano dei loro predecessori e forse si compiacciono

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di ricordare che quelli erano oggetto di ammirazione nei palazzi. Ma per il resto i ricordi non erano cosi precisi. Mutate le circostanze, scomparse le famiglie dei signori con le lo­ ro corti e residenze, i discendenti degli aedi micenei ave­ vano mutato sedi, portandosi dietro le loro leggende, per un periodo di secoli alla fine dei quali li ritroviamo in Asia Minore. Ciò che diventava incomprensibile doveva essere abolito o modificato o aggiornato, sia pure inconsa­ pevolmente, riferito alla nuova realtà che gli aedi aveva­ no sotto gli occhi, al pubblico che li ascoltava. Restava solo la consapevolezza di cantare fatti accaduti molto tem­ po prima. Si vede allora in che senso limitato possiamo dire che i poemi rispecchiano l'ambiente miceneo : essi conservano quanto è possibile che sia trasmesso per tradizione orale di una società altrimenti scomparsa e dimenticata; cioè quanto può conservarsi immutato in virtu del linguaggio formulario e del legame metrico : certi atti isolati degli eroi, gli epiteti ( in parte ormai incomprensibili ), le defini­ zioni e descrizioni di oggetti materiali. Nei poemi deve in­ vece essere radicalmente « aggiornata » la descrizione dei rapporti umani in atto e dei modi di pensare corrispon­ denti, che non poteva tramandarsi in ambiente diverso e a tanta distanza di tempo. Qualche volta si è supposto che nei poemi omerici ci sia un consapevole arcaismo anche in questo campo, ma è impossibile che in un'epoca che non possedeva non diciamo una storiografia, ma neppure do­ cumenti grezzi sul passato, in cui il senso della storia do­ veva ancora nascere, potessero riuscire ricostruzioni d'am­ biente simili a quelle tentate, sempre con successo parzia­ le, nei romanzi storici moderni. Dopo tutto fra l'età mi­ cenea e il nostro Omero era trascorso un numero di se­ coli uguale a quello che divide noi dal tardo medioevo. E si pensi a come nel medioevo si concepiva la vita dei Ro­ mani, nonché alle difficoltà che noi stessi, con tutto il no­ stro storicismo, e anche disponendo di buoni documenti, incontriamo quando cerchiamo d'immaginarci in concreto modi di esistenza diversi dal nostro. Se i Greci dell'età ar­ caica e classica attribuivano i propri costumi agli eroi ome-

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rici, l a critica moderna è arrivata solo da pochi decenni a sospettare che quelle rafligurazioni fossero decisamente anacronistiche, almeno per la parte controllabile sul ma­ teriale archeologico : vesti, armi e architetture. Molto piu difficile resta la ricostruzione dei modi di condotta uma­ na, sui quali l'archeologia non può dirci nulla. Oggetti materiali e rapporti umani. In Omero si avrà dunque da una parte una remini­ scenza antiquaria, meccanicamente tramandata, di aspetti esterni del passato miceneo, dall'altra un deciso accosta­ mento al modo di vita del « medioevo greco » , e anzi del suo periodo piu recente. Piu precisamente, nel considera­ re Omero come fonte storica possiamo distinguere tre or­ dini di testimonianze : I ) quelle concernenti gli oggetti materiali ( armi, carri, vesti, abitazioni) possono rispec­ chiare condizioni remotissime perché in questo campo il linguaggio epico è facilmente conservatore, perché l'og­ getto può essersi conservato materialmente, se era di me­ tallo o di pietra, o infine può anche esserne rimasta l'im­ magine in qualche raffigurazione su materiale durevole; qui, con l 'aiuto dell'archeologia, si può tracciare una suc­ cessione cronologica e anche stabilire date assolute; 2 ) certi atti o costumi isolati della vita sociale (consuetudini matrimoniali, riti, cerimonie funebri ecc. ) possono pure essersi fissati in descrizioni che i poeti ripetevano anche quando erano stati abbandonati o modificati ; 3 ) per l'in­ sieme dei rapporti sociali in atto, per il funzionamento de­ gli istituti pubblici, per le corrispondenti concezioni mo­ rali, che una volta superati nell'evoluzione storica non la­ sciano tracce visibili né memorie sicure, i poeti non hanno altro punto di riferimento che la vita contemporanea. In quest'ultimo campo, quindi, nonostante le difficoltà della ricerca, potremo sperare di scoprire le testimonianze piu autentiche sul mondo in cui Omero viveva. La storia centrale dell'Iliade narra in sostanza un con­ flitto che doveva essere tipico per le comunità gentilizie dei « secoli oscuri » : la rivolta di un individuo che eccelle per valore personale (Achille) contro il capo militare che

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è appoggiato o non ostacolato dall'assemblea (Agamenno­ ne) ; un contrasto che emerge sullo sfondo di un'impresa guerresca che per le proporzioni apparenti, per i nomi del­ le persone e dei luoghi, per vari particolari descrittivi può ancora apparire un fatto miceneo autentico. Lo scenario, la decorazione micenea sono conservati in misura talmen­ te vistosa che la critica è tuttora esposta alla tentazione di ricercare nei poemi fin troppe testimonianze sulla civiltà micenea. E, dopo tutto, lo Schliemann fu ben guidato da Omero a scoprire i resti di Troia e a cercare monumenti negli altri centri micenei. Ma una cosa è l'identificazione dei luoghi, i cui nomi e la cui situazione geografica pote­ vano tramandarsi facilmente, un'altra cosa è l'identifica­ zione e la ricostruzione di un tipo di struttura sociale. L'esempio piu noto di reminiscenze archeologico-anti­ quarie è quello della caratteristica coppa di Nestore, de­ scritta nell'Iliade (Xl 63 3-3 5 ) quando Ecamede vi prepa­ ra la sua strana miscela corroborante. La grande coppa era sparsa di borchie d'oro ; i manici erano quattro ; e due colombe intorno a ciascuno, d'oro, beccavano ; sotto v'eran due piedi. ..

Le somiglianze riscontrate fra l'oggetto qui descritto e una coppa d'oro di Micene dimostrano, nonostante i dub­ bi di qualche studioso, che la coppa di Nestore è micenea. Un oggetto cosi poteva anche essersi materialmente con­ servato alla luce del giorno ; non altrettanto si può dire per il singolare elmo che Merione dà a Odisseo nella Do­ lonia ( Il. X 2 6 1 -65 ) : esso è di cuoio, dunque di materiale deperibile, decorato di zanne di verro, con cinghie ben te­ se all'interno e fodera di feltro. E si sa che elmi di questo tipo erano stati in uso nei secoli XVI-XV , ma forse erano già scomparsi assai prima della fine dell'età micenea. Que­ st'esempio è particolarmente istruttivo in quanto sappia­ mo che la Dolonia è uno degli episodi piu recenti dell 'I­ liade ; dunque può accadere che le reminiscenze piu remo­ te figurino nelle parti piu tarde dei poemi. I palazzi omerici corrispondono bene a quelli di età mi­ cenea rimessi in luce dagli scavi in Grecia e in Asia Mino­ re, mentre finora gli archeologi non hanno potuto dimo-

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strare con certezza che palazzi cosi complessi, e di quella struttura, esistessero ancora in età postmicenea. I poeti e il pubblico, dunque, per cosi dire sapevano ancora aggi­ rarsi con la fantasia in edifici che non avevano mai visto. E niente impedisce di crederlo. S'intende che anche nella descrizione degli oggetti i poeti non possono essere sempre coerenti e che anche qui il nuovo tende a farsi strada. Al tempo della guerra di Troia il ferro era ancora un metallo poco diffuso, presso­ ché prezioso, di difficile lavorazione; armi e utensili erano di bronzo. Quando Atena si presenta a Telemaco sotto l'a­ spetto di Mente, signore dei Tafi, gli dice che si reca a Te­ mesa portando ferro per avere in cambio bronzo (Od. I r 84). Anche nei poemi le armi sono quasi tutte di bron­ zo, con poche eccezioni : la ferrea clava di Areitoo ( Il . VII 1 4 1 ), la punta della freccia di Pandaro ( IV 1 2 3 ), le scuri impiegate per la gara con l'arco (Od. XXI I I ), che appar­ tengono al tesoro del re. Fra i ricchi premi offerti da A­ chille per i giochi funebri in onore di Patroclo c'è il grigio ferro ( Il. XXIII 2 6 r , 850, in un contesto che è entrato nell'Iliade certamente in età piuttosto tarda), tra l'altro un disco massiccio che potrà servire di riserva al vincitore per cinque anni ( 8 2 6 sgg. ). Ma diversi indizi rivelano che i nostri testi sono stati composti ben dopo la fine dell'età del bronzo : è stato osservato che in certe descrizioni ( per esempio del lavoro del fabbro ) anche se si parla di altri materiali si ha in mente la lavorazione del ferro. Com­ penetrazione anacronistica di metalli e tecniche diverse si trova nelle descrizioni di armi , per esempio in quelle famose dello scudo di Achille del libro XVIII dell'Iliade e della corazza di Agamennone dell'Xl . E il ferro compare correntemente in espressioni proverbiali : avere un cuore di ferro ( Il. XXIV 205, 5 2 1 ) ; « da solo trascina gli uomi­ ni il ferro » (Od. XVI 294; XIX I J ), cioè : la sola vista delle armi induce ad usarle. Se le descrizioni di armi potevano tramandarsi abba­ stanza fedelmente, la troppo grande varietà dei tipi impie­ gati nelle battaglie, risalenti a diverse generazioni mice­ nee e postmicenee, conferma che i poeti non sapevano ri­ ferirsi a una fase determinata dello sviluppo della tecnica

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militare e lasciavano che reminiscenze di varia origine si sovrapponessero. Ne risultano scene e parate che a un let­ tore troppo esigente possono sembrare strane e pittore­ sche, ma non proprio assurde; l 'assurdo comincia quando si guarda non alla descrizione delle armi, ma al loro uso e specialmente alle tattiche militari seguite nell'Iliade. I Greci consideravano Omero, tra l'altro, un maestro dell'arte della guerra, come dice Eschilo nelle Rane di Aristofane (v. r o 3 6 ) ; e si ricorderà lo Ione platonico che, solo per essere un eccellente conoscitore di Omero, si van­ ta di essere il migliore stratego degli Elleni (Ione 5 4 1 B ) . Eppure, come documento d i una condotta d i guerra l'Ilia­ de è quanto di piu confuso e inverosimile si possa imma­ ginare : le battaglie tendono a modellarsi secondo la tat­ tica oplitica che si diffuse in Grecia dalla fine dell'vm se­ colo, ma l'elemento decisivo doveva restare il duello in­ dividuale. Soprattutto non riusciamo a farci un'idea delle dimensioni delle battaglie, dove a volte gli schieramenti si estendono a perdita d'occhio e il comandante non sa che cosa avvenga nei vari punti : per esempio Aiace può fare strage dei Troiani senza che Ettore sappia nulla, per­ ché « combatteva a sinistra della battaglia » ( Il. XI 4 9 8 ; cfr. XIII 6 75 ) ; altre volte l e masse scompaiono per la­ sciare soli pochi campioni, la cui voce e il cui sguardo do­ minano tutto il campo. Un'arma ineliminabile era il carro miceneo, del quale però l'Iliade ha soltanto un vago ricordo. Nell'Iliade si parla continuamente di carri da guerra. Una volta Nesto­ re, prima della battaglia, spiega il miglior modo di com­ battere con i carri, affermando che cosf facevano gli « an­ tichi » ( Il. IV 3 0 8 ) ; Agamennone raccomanda che i caval­ li abbiano il pasto prima di scendere in campo ( I I 3 8 3 ) e Ettore incita a lanciare i carri contro gli Achei (XI 2 8 9 ). Ma quando la battaglia è in corso il poeta non sa vedere come si combatta col carro, il quale in pratica serve sol­ tanto da « taxicab » (John Chadwick) per gli spostamenti piu lunghi degli eroi, che poi si affrettano ad abbandonar­ lo per battersi a piedi. Tanto piu che, come si è notato, quando si scontrano un guerriero a piedi e uno sul car­ ro, di solito quest'ultimo ha la peggio. Spesso, poi, il poe-

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ta dimentica di dirci quando il carro viene licenziato o ri­ chiamato, cosi che non sappiamo se immaginarci il guer­ riero appiedato o no : come Ettore nel XV libro e Patroclo nel XVI . Dai ritrovamenti archeologici sappiamo che in età mi­ cenea l 'arco era un'arma di largo uso, ben rappresentata negli inventari dei palazzi, e che esisteva una categoria di specialisti fabbricanti di archi ; arcieri compaiono nelle rafl:ìgurazioni di città assediate. In seguito sembra che l'u­ so dell'arco diventasse piu raro. In Omero l 'arco e la frec­ cia sono nominati in espressioni fisse, in formule ricorren­ ti che rivelano l'antichità dell'oggetto. Gli arcieri ricorda­ ti sono parecchi : Eracle, Eurito, Ifito, Odisseo, Merione, Teucro, Filottete, Pandaro, Paride, oltre a tutti i Locri. Questi personaggi erano di origine micenea come si può desumere dai nomi e dalle loro leggende. Ma in Omero l'uso dell'arco appare già come un costume eccezionale, ammesso quando il poeta non ne può fare a meno. Quest'arma caratteristica era ineliminabile quando era troppo legata al ritratto tradizionale di certi eroi, come Eracle o Filottete, o a versioni canoniche e immodificabili di certi episodi salienti, come la gara dell'Odissea, che aveva origini remotissime, il tradimento di Pandaro ( Il. IV 8 8 sgg.), la morte di Achille ecc. Qua e là si vede che ormai quest'arma è considerata poco nobile o poco utile. I Locri, armati di archi e di fionde, una volta sono dipinti come semiselvaggi e mediocrissimi combattenti, che non sanno reggere al combattimento chiuso (Il. XIII 7 1 2- r 8 ) ; i n questo passo i l loro capo è Aiace d i Oileo, che però nel Catalogo delle navi (II 5 3 0 ) è detto particolarmente abile nel maneggiare la lancia. Lo stesso Pandaro, che ha ferito da lontano Menelao, violando la tregua, in battaglia ( Il. V 1 9 2 -2 1 7 ) parla della scarsa efficacia dell'arco, rimpiange di non aver portato il carro da guerra e vorrebbe gettare nel fuoco quell'arma inutile. E una volta Diomede apostrofa cosi Paride che lo ha ferito da lontano ( Il. XI 3 85-87 ) : Arciero insultatore, superbo dell'arco, vagheggino, se ti provassi in duello a faccia a faccia con l'armi, l'arco e le molte frecce non ti darebbero aiuto.

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Dunque il poeta lascia che l'arco figuri ancora nella sua narrazione, ma si riserva d'insinuare il suo parere, e quel­ lo dei suoi contemporanei, su quest'arma disusata. Se le armi e gli oggetti di origine disparata che figurano nei poemi costituiscono un bizzarro repertorio, vario co­ me il catalogo di un museo storico, essi però possono al­ meno essere datati, in buona parte, con l'ausilio dei reper­ ti archeologici. Per interpretare le indicazioni sui rapporti umani che regolano la società america si deve invece fare a meno di ogni punto di riferimento. Le vicende dei due poemi vertono in sostanza su con­ flitti d'autorità : da una parte c'è un re, Agamennone, il cui potere è messo in discussione da uno degli altri capi ; dall'altra un re, Odisseo, che deve recuperare le posizioni minacciate da un gruppo di pretendenti al trono e alla ma­ no della presunta vedova. Ma quando si cerca di combi­ nare i numerosi indizi che definiscono le attribuzioni di questi re, per ricostruire un sistema politico completo, i risultati sono sempre ambigui. Se si prendono per buoni tutti quegli indizi si può concludere con argomenti ugual­ mente sostenibili, a seconda della tesi che si è prescelta, che in Omero è descritta una grande monarchia micenea, oppure che vi domina già un 'aristocrazia molto evoluta, come nella posteriore età ellenica che conosciamo. Ma neppure tenendo conto che i poemi rispecchiano strati di civiltà diversi si può facilmente venire a capo del­ le difficoltà. Il compito sarebbe forse piu agevole se nei « secoli oscuri » vi fosse stata un'evoluzione storica retti­ linea da forme di vita semplici a forme superiori; invece l 'evoluzione non fu affatto uniforme, e cominciò con la di­ struzione di una civiltà : nei poemi non si ha una società arretrata vista con occhi piu civili, ma una società evolu­ ta osservata da un livello per cosf dire inferiore (secondo lo schema « normale » del progresso storico) . In secondo luogo, neppure al tempo in cui sorsero i nostri poemi si erano ancora affermati ordinamenti sufficientemente defi­ niti ; era un'epoca ricca di fermenti e di contrasti, in via di rapida trasformazione, non un periodo che, godendo di una certa stabilità, potesse dare una propria decisa im­ pronta unitaria, secondo il proprio modello, all'interpre-

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tazione del passato leggendario. Non è lecito sostenere che in Omero si trova già compiuto il « codice di casta della nobiltà cavalleresca » , « l'alta coscienza educativa dell'aristocrazia greca arcaica » (Wemer Jaeger) ; per affer­ mare questo con tanta sicurezza bisogna partire dal pre­ supposto che la storia sarebbe tutt'uno con la storia della cultura, la cultura sarebbe sempre aristocratica ( « la cul­ tura altro non è se non la fisionomia, progressivamente spiritualizzata, dell'aristocrazia d'una nazione » ) , e per­ tanto l'aristocrazia dovrebbe essere al potere là dove si producono beni culturali. Infine, se cerchiamo di ricostruire un'evoluzione stori­ co-politica disponendo in qualche ordine cronologico plau­ sibile gli sparsi indizi contenuti nei poemi, dobbiamo am­ mettere ancora una volta che per questo scopo le poche conclusioni sicure raggiunte dalla critica filologica ci of­ frono un aiuto che può essere problematico : come la de­ scrizione dell'elmo miceneo di cuoio si trova nella tarda Dolonia, cosf può accadere che anche i riferimenti a con­ dizioni di vita presumibilmente piu remote si trovino in passi che per l'analisi linguistico-filologica sono relativa­ mente recenti. Quando, per esempio, Agamennone cerca di placare Achille con un'offerta di ricchi doni, gli pro­ mette tra l'altro in regalo sette città del Peloponneso oc­ cidentale ( Il. IX 149 sgg . ) . L'offerta è curiosa sotto vari aspetti : intanto le città, o villaggi che siano, si trovano in una regione che, stando al resto dell'Iliade, non appartie­ ne affatto ad Agamennone. Ma di certo si può dire che, se mai qualcuno in Grecia poté regalare città o villaggi, tan­ ta liberalità e tanta potenza sarebbero state forse pensa­ bili solo in età micenea, mentre nei poemi, tranne questo caso isolato, nessuno regala mai neppure un podere per­ ché nessun privato ne possiede : solo un'assemblea popo­ lare può assegnare il godimento di un terreno al capo. Quando per esempio il re di Licia vuole onorare e tenere presso di sé il grande Bellerofonte, gli dà la figlia in spo­ sa; ma sono i Lici che gli assegnano un pezzo di terreno ( Il. VI 1 9 1 -95 ). Ebbene, per i filologi è certo che l'episo­ dio del libro IX, nella sua forma attuale, è fra i piu « re­ centi » dell'Iliade.

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Leggendo criticamente i poemi, alla fine ci accorgiamo che ci è persino difficile afferrare sempre anche il significa­ to dei termini piu comuni, compresi quelli che designano fatti e cose della vita sociale e che dovrebbero aiutarci a definire le proporzioni e gli ordinamenti del mondo ome­ rico. Se c'è un re, si suppone, ci sarà una monarchia. Ma la parola che noi traduciamo « re » ( basileus) in età mice­ nea era il titolo di personaggi di una certa importanza, per noi non ancora precisabile; poi restò in uso, come abbia­ mo già detto, per essere attribuito a uomini forniti di un'alta o della massima autorità, quale che potesse essere di volta in volta la natura o l'estensione del loro « regno » , e i n Omero basileus può significare r e o capotribu, pa­ triarca o principe o duca. Una « guerra » (polemos) può essere un conflitto mondiale, una contesa fra famiglie, uno scontro fra individui. Una « città » (polis) può essere anche un villaggio o un piccolo borgo aperto. Il metodo migliore, per sceverare opportunamente gli elementi tradizionali e le testimonianze di vita contempo­ ranea, ossia per stabilire in seno a quale tipo di civiltà i poemi furono composti nella forma che conosciamo, sarà di distinguere innanzitutto fra ciò che è semplicemente affermato e ciò che è realmente rappresentato. Si vedrà al­ lora che Agamennone, al quale in passi marginali e deco­ rativi è attribuita una grande monarchia peloponnesiaca o anche panellenica, nei rapporti reali con gli altri eroi è un primo fra uguali, un capo militare con poteri non sanciti da alcuna legge, né permanenti, né, tanto meno, ereditari. Se si tolgono le occasionati reminiscenze micenee, si vedrà che l'Iliade ci riporta al periodo declinante e finale di una democrazia primitiva, che accoglie in sé gli elementi di un'aristocrazia già pronta a crearsi un potere. Nei fatti esposti dall'Iliade l'affermata sovranità auto­ cratica di Agamennone appare cosf inconsistente che, se oggi si rinuncia a voler trovare nella sua posizione un ri­ flesso immediato dell'età micenea, c'è anche chi per ecces­ so arriva a sostenere che le affermazioni marginali, che fanno di lui il sovrano di estesi territori greci, sarebbero il frutto di mera invenzione, dovuta a un fenomeno di am­ plificazione poetica. La grande monarchia ellenica di A-

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gamennone sarebbe « una pura fioritura poetica, che non consente di riferirsi in alcun modo a un modello storico » , e sarebbe addirittura derivata da « un processo interno al­ l'Iliade » (Giinther Jachmann) . Il fenomeno dell'amplifi­ cazione è bensf sensibile in Omero come in ogni forma di poesia eroica (le r r 86 navi passate in rassegna nel Catalo­ go del II libro dell'Iliade formano una massa non meno assurda dei 400 ooo Saraceni di Roncisvalle), ma attra­ verso un semplice processo di espansione quantitativa non si poteva trasformare il condottiero militare di una comunità gentilizia nel capo assoluto di un vasto Stato monarchico, che non esisteva nella realtà contemporanea. Le definizioni che nell'Iliade fanno di Agamennone un autocrate, e che non sono confermate dai rapporti sociali realmente descritti, saranno proprio ricordi micenei. I poteri di Agamennone. Per riconoscere i poteri reali di Agamennone occorre dunque lasciare da parte le qualificazioni isolate, gli attri­ buti onorifici, e leggere con attenzione qualche episodio. Il piu adatto è la « Prova dell'esercito » che occupa la pri­ ma parte del libro I I , fìno al Catalogo delle navi. Prima di tutto sarà utile vedere se, in base a considerazioni filo­ logiche, la Prova ha l'aria di rappresentare un corpo estra­ neo nel poema, cioè se essa è stata trapiantata senza modi­ fiche nella compagine del poema da un contesto diverso (in questo caso il suo valore di testimonianza sarebbe re­ lativo), o se invece è stata elaborata proprio come parte della struttura dell'Iliade e quindi può essere considerata, nel suo complesso, come un campione rappresentativo per il modo di vivere e di pensare dell'epoca in cui l'Iliade prese la sua forma finale. Su questo episodio problemati­ co, che presenta chiare tracce di rimaneggiamento, la cri­ tica ha molto lavorato. Esporremo in breve la nostra in­ terpretazione, che non è fra le piu complicate. Nella nostra Iliade la Prova ha un'evidente funzione di raccordo, fra l'avvio del primo libro e la serie di avveni­ menti che fìno al libro XI distolgono l'azione dallo svilup-

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(sconfitta degli Achei) che dovrebbe essere determi­ nato dalla contesa dei capi e dal ritiro di Achille. Questa funzione, da sola, garantisce già che l 'episodio è stato ela­ borato in modo da servire al suo scopo strutturale iliadi­ co. Ma esso non è stato composto di getto dall'autore del­ l'Iliade. Il libro II, facendo direttamente seguito alla fine del primo, comincia col Sogno che Zeus manda ad Agamen­ none con una promessa di vitt�ria immediata, ma in real­ tà per ingannarlo . Agamennone dovrebbe ora convocare l'esercito in assemblea e disporlo per la battaglia finale. È quanto ci aspettiamo da un capo sicuro di sé e confortato dalle assicurazioni personali di Zeus. L'esercito infatti è convocato (vv. 5 0-5 2 ), ma prima (v. 5 3 ) Agamennone riu­ nisce i capi, racconta il sogno e dichiara che appunto di­ sporrà gli uomini per il combattimento. Alla fine del suo discorso, senza spiegare i suoi motivi e le sue intenzioni, egli annuncia che però vuole mettere alla prova i soldati, invitandoli a rimpatriare, e i capi dovranno tenersi pronti a trattenerli, se l 'esercito sarà troppo disposto ad acco­ gliere la finta proposta di smobilitazione. La proposta all'esercito riunito è poi fatta in un discor­ so ( vv. r r o-4 I ) che da molto tempo ha sollevato giusti so­ spetti nei critici. Esso è nettamente diviso in tre parti, in cui si alternano stranamente i motivi disfattisti e quelli parenetici. Agamennone dice in sostanza : I ) Zeus mi ha ingannato ; mi aveva promesso di farmi distruggere Troia, e ora, dopo avere perduto tanti uomini, m'impone di tor­ nare inglorioso ad Argo ( vv. I I I - I 5 ) ; 2 ) secondo la vo­ lontà di Zeus, distruttore di città . . . quest'impresa non può restare incompiuta : tanto numerosi noi siamo in confron­ to ai Troiani , le cui forze non raggiungono un decimo del­ le nostre (vv. r r 6-2 9 ) ; 3 ) ma ci sono i loro alleati , molti e valorosi ; già nove anni sono trascorsi e non abbiamo raggiunto lo scopo : orsu, torniamo in patria (vv. ! 3 0-4 1 ) . L'orazione i n parte s 'ispira all'ottimismo suggerito dal sogno, in parte mira a scoraggiare l 'esercito. Ora, se l 'idea della Prova è stata introdotta senza giustificazione, le par­ ti del discorso di Agamennone che ad essa devono servire, cioè la prima e la terza parte, sono composte con un evipo

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dente lavoro di compilazione, contengono numerosi versi derivati da altri passi del poema. Si deve concludere che il poeta che ha sistemato l'episodio deve avere trasforma­ to in un discorso a doppio senso, contenente l'invito alla fuga, un'orazione in cui Agamennone esortava sul serio i suoi uomini a impegnarsi a fondo. Se le cose stanno cosf, il motivo della Prova ingannevo­ le dev'essere secondario, e i cenni che ad esso si riferisco­ no saranno stati aggiunti dall'ultima mano a un testo già fatto, contenente una normale assemblea militare in pre­ parazione della battaglia. Se si guarda bene, il motivo del­ la Prova è stato introdotto brevemente e inaspettatamen­ te in poche parole, le ultime rivolte da Agamennone ai ca­ pi riuniti ( vv. 74- 7 5 ) e poi, se si toglie la parte disfattista del discorso all'esercito, esso è lasciato cadere. Agamennone ha detto ai capi che è arrivato il momento di schierare gli uomini per l'offensiva finale e sicuramente vittoriosa; ma prima, egli conclude ( vv. 73-75 ), io con parole li tenterò - è giustizia ordinerò di fuggire con le navi ricche di remi ; e voi, chi qua, chi là, tratteneteli con parole. e

Il primo di questi versi non è molto chiaro. Il verbo usato da Agamennone ( 'ltELpi)tro(J.a.L ) non specifica se proprio egli vuole « mettere alla prova » i soldati per una semplice perfidia di tiranno, con lo scopo di distinguere i fedeli dai renitenti o magari divertirsi a giocare cnn i loro sentimen­ ti, oppure se egli vuole « cercare di convincerli » o soltan­ to « interpellarli ». La prima interpretazione, che è quella corrente, appare ovvia solo se si dà per certo che Agamen­ none sia un sovrano con poteri illimitati e sicuro del fatto suo; mentre per noi questa è ancora la questione da chia­ rire. La frase tradotta « è giustizia » (il �É(J.tc; Étr'tf.) può si­ gnificare « come è giusto » , « come è normale », « secondo l'uso » . In tutti i casi essa esprime la dovuta osservanza di una consuetudine, di una norma. Secondo la lettura piu ovvia del verso, dunque, Agamennone vuole consultare i soldati, accertarsi dei loro sentimenti, o cercare di persua­ derli a combattere. Lo stesso verbo, per esempio, è usato da Achille ( Il. IX 345 ) quando manda a dire ad Agamen-

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none « non mi ritenti, ché lo conosco ; non potrà persua­ dermi », cioè : non cerchi di convincermi con parole e do­ ni. Fin qui Agamennone ha in mente una normale convo­ cazione dell'assemblea armata. Ma poi conclude in due versi che ordinerà di abbandonare la guerra, e i capi do­ vranno collaborare con lui per tenere l 'ordine. In questo secondo libro, cosi pieno di lunghi discorsi diretti, le parole non si risparmiano ; ma qui Agamennone è di una concisione inaudita, e nvn spiega come gli sia ve­ nuta l'idea di tentate un esperimento cosi rischioso quan­ do la vittoria è a portata di mano. E anche Nestore, di so­ lito cosi loquace, gli risponde con cinque versi che appro­ vano la prima parte del programma di Agamennone ma sorprendentemente ignorano il punto finale, quello della Prova. A parte quei versi sospetti del discorso all'esercito (e due cenni posticci ai vv. 143 e 1 94 ) , in seguito tutto si svolge come se non si fosse mai parlato di un falso invito alla fuga. Nel verso 75 Agamennone ha incaricato i capi di tenersi pronti per il peggio, ma quando l'esercito rom­ pe le file nessuno dei capi se ne ricorda : l 'incarico resta inoperante, e ciò vorrà dire che esso non esisteva nella versione primitiva. Solo Odisseo arresta la fuga, ma per un'improvvisa ispirazione di Era e Atena. Tutto quindi fa credere che qui sia stato rielaborato, con un paio di brevi aggiunte o ritocchi, un episodio in cui Agamennone, pro­ prio sul momento di attaccare battaglia, veniva abbando­ nato dall'esercito. E ammutinamenti del genere, come sappiamo, non mancavano nd ciclo di Troia. Nei Canti Ciprii « Achille trattiene gli Achei che muovono per tor­ nare in patria » ( Proclo) ; nella stessa Iliade affiora il mo­ tivo, altrimenti non sviluppato, del malumore dell'eserci­ to contro Agamennone (XIII r o7 sgg . ; XIV 49 sgg.). Il poeta dell'Iliade, a quanto pare, non ha voluto che proprio all'inizio del poema scoppiasse un vero e proprio ammutinamento. Si pensa che a questo punto, mentre si prepara una serie di episodi in cui Agamennone cerca di condurre la guerra a buon esito con prodezze personali, anche in assenza di Achille, rinviando cosi a piu tardi la resa dei conti finale con l'avversario, il poeta non abbia voluto umiliarlo troppo. Ma vi sarebbe riuscito solo in

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parte. Ipotesi per ipotesi, si direbbe piuttosto che nella versione finale si sia voluto mostrare un Agamennone che commette un nuovo abuso di potere alle spalle dell'eserci­ to, dopo la prepotenza ai danni di Achille. All'origine della prima parte del libro II c'è dunque un episodio non direttamente legato alla contesa fra Achille e Agamennone. Oltre che nei punti sopra esaminati, esso deve essere stato ritoccato almeno nelle parti che alludo­ no all'ira di Achille ( vv. 2 3 9-4 2 , 377-80) e al piano di Zeus contro gli Achei. Se si accettano questi risultati, pos­ siamo stabilire in che misura e in che senso la Prova pos­ sa valere da testimonianza per la questione dei poteri di Agamennone. Se questo episodio, pur essendo costruito sulla falsariga di qualche composizione piu antica, è stato modificato in vista della funzione strutturale che deve avere nell'Iliade, è da aspettarsi che esso riveli, in ultima istanza , le idee del poeta che lo ha scelto, adattato e col­ locato dove si trova. Ciò vale in sostanza anche per le par­ ti che saranno rimaste come si trovavano nella fonte ; se questo poeta innovatore le ha lasciate immutate, vuoi di­ re che esse non urtavano il suo modo di pensare. All'inizio del libro, abbiamo visto, Zeus vuoi mantene­ re la promessa fatta a Teti e fa sapere ad Agamennone, per mezzo del Sogno ingannatore, che è tempo di schiera­ re l'esercito per l 'ultimo assalto : Troia cadrà presto per­ ché tutti gli dèi, convinti da Era, sono ormai d'accordo. Il passo è chiaramente fatto per dare un seguito immediato agli avvenimenti del primo libro, al quale è collegato con una « insistenza quasi maldestra » (Pau! Mazon ). Appena sveglio, Agamennone si veste e impugna « lo scettro avi­ to, indistruttibile sempre » per recarsi all'assemblea. Piu avant" ·vv. I O I sgg . ) , quando egli si leva a parlare, il poe­ ta racc nta diffusamente la storia di questo scettro : fab­ bricato da Efesto, era stato consegnato a Zeus, il quale per mano di Ermete lo aveva dato a Pelope ; da Pelope poi esso era passato ad Atreo e infine ad Agamennone, che doveva regnare « su molte isole, sull'Argolide intera ». Agamennone è dunque i l sovrano d i una monarchia d i ori­ gine divina (come è detto piu volte anche altrove : Il. I 1 7 5 , 2 7 9 ecc.), ereditaria ed estesissima. Non stiamo a

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precisare questa estensione: basti dire che in Omero il va­ go nome di Argo può indicare o la sola città, o l'Argolide, o tutto il Peloponneso o anche tutta la Grecia, e che nel Catalogo delle navi ( Il. II 5 5 9 ) la città di Argo è inaspet­ tatamente assegnata a Diomede, non ad Agamennone ; certo è che egli appare qui come uno dei grandi monarchi orientali del secondo millennio a. C . , che governavano per investitura divina ed erano venerati come semidei. Il suo scettro è « a pedigree Mycenaean object » (Thomas B. L. Webster). Ma questi attributi regali contano poco per l 'interpretazione dell'Iliade, potendosi essere trasmessi per secoli anche quando la monarchia era entrata nel re­ gno della favola. Anche nelle novelle di un futuro lonta­ no, rispetto a noi, ci saranno ancora dei re, sempre imma­ ginati come gran signori padroni di tutto, forniti di ermel­ lino, scettro e corona. Nei fatti descritti, che non sono una pura favola, Aga­ mennone non è padrone di tutto. Già il tranello che gli tende Zeus indica che la sua autorità deve essere preca­ ria : in una monarchia piu o meno teocratica difficilmente si poteva pensare, o mostrare in un poema, che il divino depositario del potere dinastico fosse cosi ingloriosamen­ te esposto agli umori mutevoli del dio cui risaliva la sua investitura e il suo scettro. Per attuare il suo piano di guerra, poi, Agamennone deve innanzitutto convocare l'assemblea dell'esercito : comunque si voglia interpretare il motivo della Prova, e le ragioni del suo inserimento, è innegabile che nel secondo libro si assiste a un comizio tu­ multuoso, non a una rassegna militare. Almeno formal­ mente l'assemblea ha facoltà di accettare o respingere le proposte di Agamennone. Quando l'esercito decide di rimpatriare, contro la volontà dell'incauto « re » e degli altri capi che la pensano come lui, questi non intervengo­ no in nessun modo finché non provvede una divinità e, per conto di essa , il solo Odisseo. E il successo di Odisseo, nella sua opera di persuasione, ha qualche cosa di miraco­ loso. Va bene che l'epica non è mai meticolosa nel tenersi nei limiti del verosimile, ma questo poeta dimostra un note­ vole senso realistico nel descrivere l'assemblea, ed è chia-

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ro che Agamennone, oltre ad essere tenuto a convocarla, non possiede gli elementari strumenti pratici di potenza che gli accorrerebbero per sostenere la sua posizione e i suoi propositi. La storia non ha mai visto un autenticQ re privo dell'inseparabile apparato di forze disciplinari e re­ pressive. Ma qui Agamennone non ha né un corpo di uffi­ ciali subalterni né guardie : l 'assemblea turbolenta è tenu­ ta a freno dalle grida di nove araldi. Se l 'assemblea recai­ citra, può essere trattenuta o convinta soltanto « con pa­ role » , « con blande parole » , come dicono a piu riprese Agamennone (v. 75 ), poi Era (v. r 64 ) e Atena (v. r 8o ) e come fa appunto Odisseo (v. r 89 ) . Il poeta non riesce a immaginarsi una monarchia vera e propria in funzione, con i suoi quadri militari e polizieschi che assicurino l'ob­ bedienza dei sudditi. La Prova è dunque concepita come una formale consultazione, anche se condotta con secondi fini; se il lettore moderno la interpreta come il passatem­ po di un autocrate che si concede di giocare un brutto tiro ai suoi sudditi, ciò accade perché per noi invece è fin trop­ po facile immaginarsi un potere dispotico in funzione, perché, come è stato detto bene (da Roland Hampe, che tuttavia giudica tutto l'episodio in modo diverso dal no­ stro), « si confronta troppo la posizione di Agamennone con quella di un comandante supremo, si applica la mo­ derna disciplina militare all'esercito acheo, mentre si do­ vrebbero piuttosto addurre a confronto le condizioni del sistema militare prestatale germanico » . E s e Odisseo, nel correre qua e là arrestando d a solo tutti i fuggitivi, non si limita alle blande parole ma in qualche caso passa a vie di fatto, bastonando con lo scet­ tro gli uomini « del volgo » che incontra, il particolare mette allo scoperto, non senza una certa comicità non vo­ luta, la contraddizione fra ciò che il poeta ha derivato dal mito e ciò che realmente vuoi descrivere. Questo scettro è per l 'appunto lo « scettro avito, indistruttibile sempre » di Agamennone, che Odisseo si è fatto prestare per la bi­ sogna (vv. r 85 sgg.). Dunque il grande sovrano è subito messo fuori causa e resta a guardare, gli altri capi non in­ tervengono ; l'unico collaboratore che per fortuna e per divina ispirazione fa qualche cosa non ha altri strumenti

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che le « blande parole » e lo « scettro indistruttibile », il quale diventa niente piu che un povero e solitario basto­ ne. Siamo ben lontani dalla monarchia micenea, nonostan­ te il lustro degli epiteti e degli ornamenti che possono trarre in inganno il lettore. Un altro particolare curioso ci riporta al mondo del poeta. Nell'apostrofe all'uomo del volgo, Odisseo ammo­ nisce sentenziosamente che « non è bene il comando di molti : uno sia il comandante, l uno il re, cui diede il fi­ glio di Crono » ecc. Il re e comandante è naturalmente Agamennone ; ma alle parole di Odisseo segue : « Cosf comandando reggeva l'esercito » . La ripetizione della pa­ rola (1toÀ.uxotpav!T] , xo!pavoc;, xotpavÉwv ; abbiamo resti­ tuito noi la ripetizione in italiano : a questo punto la tra­ duttrice ha variato, certo perché ha sentito giustamen­ te la stranezza del passo) sottolinea la sostituzione del « re » , completamente esautorato, con un altro dei capi. Il poeta ha in mente una situazione in cui il capo militare supremo ha un'autorità precaria, preso fra la collettività ancora sovrana, almeno formalmente, e altri capi che pos­ sono affiancarlo o anche ostacolarlo, e deve penare molto per far accettare a tutti la teoria qui esposta da Odisseo. Il quale Odisseo, del resto, se qui assume per un momen­ to la direzione in nome di Agamennone, in altra occasio­ ne si dimostra non meno indipendente di Achille, quando ( Il. XIV 83 sgg. ) maltratta a dovere Agamennone che ha proposto, questa volta sul serio, di abbandonare l'impre­ sa. Anche piu risoluto, in circostanze simili ( IX 32 sgg . ), è Diomede, che d à del vile ad Agamennone e l o avverte che lui intende comunque restare a Troia, magari in com­ pagnia del solo Stenelo. Anche la concretezza con cui è descritta l'assemblea tu­ multuante e indisciplinata, e introdotto un rappresentan­ te individuale della massa, Tersite, dimostra che il model­ lo era sotto gli occhi dd poeta. Tersite non è il suddito di un re miceneo, ma è membro di una democrazia primiti­ va ancora funzionante seppure già differenziata. Egli ha la libertà di parola, è teoricamente uguale agli altri membri dell'assemblea, anche se l'inferiorità personale gli può co­ stare una bastonatura (purché l'assemblea sia disposta ad

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approvare e a riderei sopra). Ma non è in una condizione di definitiva inferiorità sociale, sancita e perpetuata da apposite istituzioni e da pubblici poteri, e in ogni assem­ blea potrà sempre dire la sua. Il testo dice che egli ha l 'a­ bitudine di « sparlare dei re » : non di Agamennone, ma di tutti i capi che, come gruppo, stanno sopra di lui e fra i quali egli non fa molte differenze (vv. 2 2 0-2 2 ) : Era odiosissimo, soprattutto ad Achille e a Odisseo, ché d'essi sparlava sempre; ma allora contro il glorioso Agamennone diceva ingiurie . . .

Gli abusi che Tersite rimprovera ad Agamennone (pre­ cisamente gli stessi contro cui ha protestato Achille nel libro l, ma Tersite per sua disgrazia non è un Achille) do­ vevano essere certo una cosa comune quando i costumi della democrazia primitiva erano ormai inadeguati per una società che già conosceva sensibili differenze di ric­ chezza e di potenza. La storia dell'Iliade verte appunto su un sopruso consumato ai danni di Achille da Agamenno­ ne, che però alla fine farà ammenda. L'esposizione del conflitto e delle sue cause, nel libro I, è molto chiara : Crise vuole riavere la figlia da Agamen­ none, ma rivolge la sua supplica a tutta l'assemblea (vv. 15 sgg. ) ; questa acconsente, ma Agamennone caccia il sa­ cerdote e qui cominciano le violazioni degli ordinamenti non scritti che regolano la vita della comunità. Durante la pestilenza Achille riunisce l'assemblea (che dunque, come è confermato dal passo di Il. XIX 40 sgg., può essere con­ vocata da uno qualsiasi dei capi) ; Calcante, prima di rive­ lare le cause della collera di Apollo, chiede ad Achille pro­ tezione contro il piu forte, perché l'ira di un re è sempre pericolosa (vv. 74 sgg. ). Achille promette di difenderlo anche contro Agamennone « il quale ora si vanta di essere nel campo il piu forte » . Agamennone si sottomette al re­ sponso dell'indovino, restituisce Criseide, ma chiede al­ l'assemblea un compenso. Achille protesta, Agamennone ribatte irosamente, e dalla contesa emergono i veri moti­ vi della lite che essi devono discutere e risolvere a tu per tu senza poter chiamare in causa né una legge scritta né

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un principio etico superiore : Agamennone è avido di pre­ da (vv. 1 22 , 149, 2 3 0 ecc.), cerca di farsi la parte del leo­ ne nella spartizione del bottino (vv. 1 63 sgg.), è provocan­ te nei rapporti con gli altri (vv. 146, 1 73 sgg.). In queste circostanze, un altro dei capi che lo ha seguito spontanea­ mente, non perché costretto da una condizione di vassal­ laggio, e che essendo piu forte di lui si sente diminuito non ricevendo benefici materiali (ossia « onori » ) propor­ zionati ai suoi meriti, si può liberamente ritirare dall'im­ presa. L'assemblea, tacendo, convalida per il momento l'ope­ rato di Agamennone ; Achille è solo. Ma una presa di po­ sizione dell'assemblea contro Agamennone è sempre pos­ sibile. Anche se il comandante in capo può imporsi facil­ mente ad essa o agire alle sue spalle, essa si deve sempre riunire nei momenti decisivi ; è l'assemblea, per esempio, che divide la preda e assegna anche ad Agamennone la sua parte (vv. 1 2 3 , 1 2 7 , 1 3 5 , 1 6 2 , 1 6 3 , 2 7 6 , 2 9 9 , 3 6 8 , 3 9 2 ) . Quest'ultima sarà naturalmente una parte speciale, e Aga­ mennone farà di tutto per aumentarla. Ci si può chiedere quali siano le mansioni del Consiglio dei capi o degli anziani. Dato che piu tardi in Grecia esso appare come un istituto politico stabile, si afferma gene­ ralmente che per esempio in Omero il re « non può nulla senza i capi dei gruppi che compongono la città. Essi for­ mano il Consiglio, la �ouÀ-i) che gli sta sempre vicina » ecc. ( Gustave Glotz). In Omero, per la verità, il Consiglio { istituto tipicamente aristocratico) compare poche volte e con compiti mal definiti. Se nell'Odissea esso acquista un certo rilievo, nell'Iliade invece, in guerra, dove esso do­ vrebbe avere anche la funzione essenziale di uno stato maggiore, quando si prendono decisioni importanti, il poe­ ta fa riunire l'assemblea, anche se in essa naturalmente parlano e agiscono soltanto i piu influenti. Oltre che nel libro I, vediamo riunirsi l'assemblea ( troiana) quando Me­ nelao e Odisseo vanno in missione a Troia ( III 2 0 5 sgg. ; XI 1 3 8 sgg.), quando i Troiani discutono se restituire Ele­ na con i tesori (VII 34 5 ) ecc. Le poche riunioni riservate ai capi sembrano richiedere una giustificazione speciale : come nel caso del libro II che abbiamo visto, o col prete-

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sto di un banchetto (VII 3 13 sgg. ; IX 69 sgg. ), o in segui­ to a un incontro casuale dei capi (XIV 2 7 sgg. ), o in quel­ l'aberrante convocazione notturna con invito personale dell'inizio dell� Dolonia (X 5 3 sgg.). Si capisce che in ogni comunità doveva distinguersi una cerchia ristretta di uo­ mini influenti per età o per meriti personali, e che nelle comunità complesse ( tribu suddivise in gruppi gentilizi minori, federazioni ecc . ) ogni gruppo doveva essere rap­ presentato ed esprimersi attraverso il suo capo o portavo­ ce. Ma l'unico istituto sovrano qui è ancora l'assemblea. Che l 'assemblea (qui in un esercito, e a maggior ragione nelle comunità pacifiche) sia presupposta sovrana e solida­ le è confermato indirettamente ma efficacemente dal fatto che essa è responsabile in blocco di ogni azione da essa ap­ provata o non impedita, persino nel caso che il capo sia riuscito a imporre la sua volontà contro quella di tutti gli altri. Agamennone maltratta Crise contro il parere espres­ so dall'assemblea, ma per Crise è naturale chiedere ad Apollo la punizione di tutti i Greci ( Il. I 42 : « paghino i Danai le lacrime mie coi tuoi dardi » ) , e Apollo fa strage dell'esercito ; e piu tardi l 'espiazione sarà fatta a nome dell'esercito tutto intero (vv. 444 sg. , 454 sgg.). Il ratto di Briseide, che a noi potrebbe apparire come una violen­ za privata ma è stato deciso in assemblea, per Achille im­ plica naturalmente il consenso e la responsabilità dell'as­ semblea stessa, che ha taciuto. Alla fine della contesa (vv. 299 sgg . ) Achille dichiara : con la forza, è inteso, 10 non combatterò per la giovane, non con te, non con altri, poiché la prendete voi che la deste. Ma dell'altro che nella rapida nave nera possiedo, nulla di questo potresti prendere e portar via mio malgrado. Su dunque, fanne la prova, che sappiano anche costoro : subito il sangue nero scorrerà intorno alla lancia !

È una dichiarazione molto precisa e interessante. Qui Achille riconosce che l'assemblea ha il diritto di chiedere la restituzione di beni già assegnati, almeno quando si presenta un caso eccezionale e delicato come quello che ha avviato la contesa : per cause di forza maggiore Aga­ mennone ha dovuto privarsi della prigioniera , sua parte

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di una preda, ed esige un risarcimento (vv. u 8-2o). Poi Achille chiederà alla madre l'aiuto di Zeus contro gli A­ chei « perché tutti quanti godano il loro re » (v. 4 r o). Teti a sua volta lo esorta a conservare l 'ira « contro gli Achei » (v. 42 2 ). Dunque egli accetta la decisione, ma con forti ri­ serve : prima cerca di risolvere diplomaticamente il caso delicato che abbiamo detto, osservando che, in mancanza di bottino non ancora spartito, Agamennone potrebbe aspettare la prima occasione per essere risarcì to ad usura (vv. 1 24-2 9 ) ; poi vuole ammazzare Agamennone, ma si trattiene in tempo (vv. 1 90 sgg. ) ; ora decide di mettere in atto, pur nel rispetto formale dei poteri dell'assemblea, una certa resistenza passiva, le cui conseguenze dovranno naturalmente ricadere su tutta la comunità. Del massimo interesse è poi la seconda parte della sua dichiarazione che abbiamo riportato sopra. Egli fa una netta distinzione fra ciò che ha ottenuto come parte della preda di guerra e altri suoi beni che nessuno può toccare, certo conquistati in azioni personali e tenuti in possesso privato : se qualcuno, fosse pure Agamennone, tentasse d'impadronirsene, il conflitto diventerebbe di carattere privato e non riguarderebbe piu l'assemblea. Il dramma di Achille nasce da questa sua duplice esistenza : accetta ancora le consuetudini della comunità democratica primi­ tiva di cui fa parte, ma si sente estraneo e superiore ad essa eccellendo per capacità personali e per possessi pri­ vati. Responsabilità collettiva: la freccia di Pandaro. Possiamo vedere la responsabilità collettiva operante in un altro episodio dell'Iliade. Tutto un popolo, i Troia­ ni, deve scontare le conseguenze di un'avventura galante di Paride, che non è neppure il re, ma fin qui non c'è nien­ te di strano : fatti simili si possono trovare in tutti i tempi o per lo meno sono possibili nelle leggende. Già Erodoto, per la verità, considerava storicamente assurda la versio­ ne corrente : Elena non andò a Troia, egli dice ( I l 1 20), perché in tal caso i Troiani si sarebbero affrettati a resti-

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tuirla per evitare le conseguenze rovinose, perché anche Priamo non sarebbe arrivato al punto di sacrificare per lei i suoi figli e il suo popolo, e infine Paride, per la sua gio­ vane età, non aveva il diritto d'imporre il suo volere . E altrove ( l 4 ) , ·nel riferire l'opinione di certi dotti Persiani, Erodoto spiega come mai al suo tempo un ratto di donna non potesse valere da causa plausibile per una guerra : « Essi ritengono che, se il rapire donne è un'azione da uo­ mini ingiusti , prendersela troppo per i rapimenti e volersi vendicare è da insensati ; che gli uomini di buon senso non si curano affatto delle donne rapite. È evidente, infatti, che non verrebbero rapite se loro stesse non lo volessero. Essi, gli Asiatici , non fanno alcun caso dei rapimenti di donne, mentre i Greci, a causa di una donna lacedemone, riunirono una grande spedizione, andarono in Asia e ab­ batterono la potenza di Priamo » . Noi possiamo essere meno scettici d i Erodoto e meno maligni dei suoi dotti Persiani. Tuttavia nella stessa Ilia­ de, qua e là, si vede (e vedremo subito sotto ) che persino l'antico poeta, pur senza mettere in dubbio il principio della responsabilità collettiva, considera sproporzionata agli avvenimenti la « causa » tradizionale del ratto di Ele­ na, sulla quale tende a sorvolare finché è possibile ; o per lo meno al motivo del ratto ne aggiunge altri. Per esem­ pio insiste su quello dei tesori : da una parte i tesori por­ tati via da Sparta e dall'altra quelli che i Greci potranno trovare in Troia conquistata. Spunti di critica razionali­ stica dei miti si trovano in tutto Omero, e non sorprende che al « cercate la donna » si cominci a sostituire il « cer­ cate i denari » . Per i tesori di Troia possono ben combat­ tere anche gli alleati di Agamennone; tranne però Achille che, a conti fatti, giudica non conveniente l 'impresa e quindi anticipa in un certo senso Erodoto nel valutare freddamente le cause della guerra (l 1 5 2-60 ) : Davvero non pei Troiani bellicosi io sono venuto a combattere qui, non contro di me son colpevoli : mai le mie vacche han rapito o i cavalli, mai a Ftia dai bei campi, nutrice d'eroi, han distrutto il raccolto, perché molti e molti nel mezzo ci sono monti ombrosi e il mare sonante.

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Ma te, o del tutto sfrontato, seguimmo, perché tu gioissi, cercando soddisfazione per Menelao, per te, brutto cane, da parte dei Teucri ...

Ma sappiamo che Achille fa parte per se stesso, e che è diventato il protagonista dell'Iliade proprio perché si tro­ va a mettere in crisi i costumi della democrazia primitiva ; e in secondo luogo non va dimenticato che l'esercito acheo appare come una stretta comunità solidale quando si riu­ nisce sotto forma di assemblea, ma nello stesso tempo può ripresentarsi come una lega di alleati. Anche altrove però si ha l 'impressione che il poeta evi­ ti di dare troppo peso morale al ratto (o alla fuga) di Ele­ na, come causa della guerra e colpa collettiva dei Troiani , che pure era un elemento ineliminabile della leggenda. Abbiamo già visto che nella rappresentazione del perso­ naggio di Elena sembra di trovare traccia di una medita­ zione critica sulla versione corrente dei fatti di Sparta. E anche la figura di Paride appare con tratti mutevoli : a volte è un guerriero forte e moralmente neutro, a volte di­ venta un « eroe negativo ». Chi ha composto l 'Iliade sa­ peva che le cose erano andate cosi, e infine era convinto che, in caso di ratto, tutta la comunità di un rapitore do­ veva essere esposta alla vendetta. Ma per un avvenimen­ to di dimensioni inaudite come la guerra di Troia del mi­ to, che coinvolge comunità cosi favolosamente grandi, la « causa » del ratto doveva apparire inadeguata. Cosi il poe­ ta lascia piu che può ai margini della narrazione l'oggetto originario del conflitto, introduce pretesti ausiliari per mandare avanti questa guerra interminabile, e a un certo punto inserisce addirittura un fatto nuovo che deve servi­ re come « causa » di ricambio per la distruzione di Troia. L'episodio che ora vedremo deve essere di origine assai antica, ma è stato deliberatamente sviluppato nell'Iliade come suo momento essenziale. Nel libro III Paride si fa coraggio e si offre di affron­ tare in duello Menelao, per mettere fine alla guerra senza altre stragi e concludere con gli Achei un patto d'amicizia. Ettore prova grande gioia per questa proposta ( III 76 ) e ferma gli eserciti per informarne tutti ; « quelli godettero,

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Achei e Troiani, l sperando di metter fine alla guerra fu­ nesta » (vv. r r r- I 2 ). Iri informa Elena, con parole di esul­ tanza, che i due eserciti hanno deposto le armi e la guerra è finita (vv. r 3 o-3 8 ) . Elena sembra ravveduta e rinsavita, sente il desiderio del primo marito e corre alle mura per vederlo. Vi trova gli anziani di Troia, che ammirano la sua bellezza ma esprimono chiara la speranza che se ne vada al piu presto (dunque anche loro, come tutti gli altri, compreso lo stesso Ettore, accertano come un male neces­ sario la guerra in cui Paride li ha coinvolti, condividendo per obbligo ma contro voglia la « causa » di Paride). Pri­ ma del duello, entrambi gli eserciti pregano che Zeus fac­ cia morire chi è stato causa della guerra, « e ancora nasca fra noi amicizia e patto leale » (v. 3 2 3 ) . A una ricerca del­ le responsabilità individuali, che potrebbe avviare una composizione diplomatica del conflitto, non si pensa nep­ pure : occorre una specie di giudizio di Dio. Comunque tutti sono per la pace, che pertanto dovrebbe essere a por­ tata di mano. Poi Paride ha la peggio, ma Afrodite lo ra· pisce e lo trasporta sano e salvo nella sua stanza : questo salvataggio però non cambia le cose, e la guerra dovrebbe essere finita con soddisfazione di Menelao e di tutti. Si sa che la guerra deve continuare fino alla distruzione di Troia, ma il poeta sa che a questo punto il vecchio mo­ tivo dell'incidente fra Paride e Menelao è superato : la prova del duello, compiuta con tutte le formalità religio­ se, è una cosa molto seria, e inoltre egli ha troppo insisti­ to sull'unanime volontà dei Troiani e degli Achei di finire la guerra, per poterla far riprendere con un pretesto qual­ siasi ; occorre un motivo nuovo e gravissimo, non meno grave del precedente. Il nuovo motivo è quello della vio­ lazione della tregua ad opera di Pandaro, che ferisce a tra­ dimento Menelao con una freccia . Il fatto è tanto grave che la sua narrazione occupa gran parte del libro IV, ed è ricordato piu volte in seguito come la nuova causa della guerra. La guerra ricomincia subito senza ulteriori tentativi di compromesso. Può essere naturale che gli Achei prima considerino senz'altro vincitore Menelao, anche se il duel­ lo ha avuto un esito un po' confuso, almeno dal nostro

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punto di vista, per la miracolosa scomparsa dell'avversa­ rio, e poi attribuiscano ai Troiani in blocco la colpa di ave­ re violato la tregua. Ma i Troiani, che sono dispostissimi a liberarsi di Elena e di Paride pur di arrivare alla pace, dovrebbero impedire la ripresa delle ostilità. Che Paride sia stato regolarmente sconfitto, non lo mette in dubbio nessuno : lo ammette lui stesso (III 43 9 ), lo dice Elena ( I II 403-4 ), lo conferma Zeus in persona ( IV 1 3 ). I Troia­ ni potrebbero decidere di non rispettare i patti, nonostan­ te l'esito del duello, solo se fossero particolarmente affe­ zionati a Paride. Invece non lo amano affatto, come sappia­ mo. Ettore ha detto che lo avrebbero già lapidato, per quello che ha fatto, se non fossero troppo paurosi ( III 565 7 ) ; gli anziani la pensano piu o meno allo stesso modo. Quando il duello è concluso o sospeso a causa della scom­ parsa di Paride, e Menelao lo cerca « tra la folla, simile a belva » per massacrarlo, il furore dei Troiani e degli allea­ ti contro Paride si manifesta senza ritegno : essi lo conse­ gnerebbero volentieri all'avversario, se potessero, perché « per amicizia nessuno l'avrebbe nascosto, se l'avesse ve­ duto, l perché era odioso a tutti come la Moira nera » (III 453-54). Anche piu tardi l'araldo troiano Ideo, nel rife­ rire ai Greci la proposta di Paride, commenta per suo con­ to il nome di quest'ultimo con la frase : « ma fosse morto prima ! » (VII 390). Dopo il duello la guerra dovrebbe senz'altro finire con soddisfazione dei Troiani non meno che degli Achei. Tan­ to piu che anche questi ultimi hanno detto che vogliono la pace; neppure il ferimento di Menelao li commuove molto, tanto è vero che Agamennone pensa subito preoc­ cupato che se il fratello muore l'esercito, invece di preci­ pitarsi a vendicarlo, vorrà tornare immediatamente a ca­ s a : « subito gli Achei brameranno la patria terra » ( IV 1 7 2 ). Allora perché i Troiani non fanno giustizia di Pan­ daro o non lo consegnano agli Achei, osservando per il re­ sto i patti, con reciproco vantaggio ? Perché i patti, che prima li autorizzavano o li obbligavano a consegnare lo sconfitto Paride, ora che sono stati violati li obbligano non a consegnare Pandaro, bensf ad addossarsi collettiva­ mente la responsabilità del suo gesto. Perché si sentono

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impegnati in blocco dagli accordi precisi della tregua, e quindi sono tutti colpevoli della sua violazione. Non solo lo dice subito e solennemente Agamennone : i Troiani « pagheranno con molto, l con le teste loro, e con le don­ ne e coi figli » ( IV r 6 r -62 ), ma lo dirà precisamente anche il saggio Antenore in un'assemblea dei Troiani : noi ora combattiamo per aver violato un patto leale (VII 3 5 1 -5 3 ). A prima vista sembrava che i Troiani si lasciassero sfug­ gire da ingenui una buona occasione per cavarsela a un prezzo accettabile. Un'analisi un po' attenta, se riusciamo ad assimilare questo modo peculiare di sentire le respon­ sabilità e gli obblighi sociali, dimostra che non potevano fare diversamente e che anche il poeta ne è convinto. Tut­ to l'episodio ha dunque uno svolgimento coerente. Si può dire che il nuovo motivo determinante per la distruzione di Troia, il gesto inconsulto di un guerriero, secondo il no­ stro modo di vedere e alla luce delle conoscenze puramen­ te umane, appare un po' tenue. Noi invocheremmo l'atte­ nuante dell'infermità mentale per Pandaro, che poi sarà uno dei primi a pagare con la vita il suo tradimento. Il poeta fa qualche cosa di simile, a suo modo, ma senza che la motivazione muti in nulla le conseguenze morali del misfatto : all'inizio del libro IV egli ci ha introdotti nel retroscena olimpico e ci ha raccontato che gli dèi, per loro ragioni imperscrutabili o meglio per il puntiglio di Era, hanno deciso che i patti saranno violati e che si ricominci a combattere. Atena scende sulla terra, assume l 'aspetto di Laodoco figlio di Antenore e istiga Pandaro a ferire Menelao. Di questo concilio degli dèi non abbiamo tenuto conto perché noi guardavamo agli effetti e non alle cause del tra­ dimento, e perché esso introduce motivazioni che, riguar­ dando piuttosto la poesia o la teologia, ora non c'interes­ savano. Le ragioni poetiche della svolta provocata dalla violazione dei patti sono chiare : « Il patto fra i due eser­ citi è ragionevole e se poi le cose procedessero ragionevol­ mente esso dovrebbe portare a un lieto fine in senso bor­ ghese. Ma un lieto fine è impossibile. Non è reale, perché la tradizione sa che Troia cadde ; e in secondo luogo l'epos piu antico è non-borghese e tragico. Il poeta del nostro

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episodio ha riflettuto che sarebbe oggettivamente giusto ma artisticamente sbagliato se, dopo la gigantesca messin­ scena di una spedizione panellenica in oltremare, un duel­ lo incruento desse una comoda pace alle due parti » (Her­ mann Frankel ). Tutto ciò è verissimo ; anzi, il poeta non aveva affatto la libertà di pensare a una conclusione della guerra diversa da quella che tutti conoscevano. Ma a noi interessava vedere, dall 'analisi del contenuto, come il poe­ ta abbia sostituito a un esito giusto e ragionevole ma ar­ tisticamente impossibile un altro esito che per lui era al­ trettanto giusto e ragionevole, non una disinvolta soluzio­ ne di comodo : dai fatti non appare concepibile che la soli­ darietà dei Troiani con Pandaro possa essere messa in di­ scussione dagli interessati, anche quando essi avrebbero ottime ragioni, e buoni argomenti, secondo il nostro mo­ do di vedere, per dividere le responsabilità. Insistiamo su questo punto della responsabilità collet­ tiva perché la nozione, in questa forma, è estranea alle nostre concezioni. Essa è propria di comunità primitive che rispondono in blocco, verso le altre comunità e verso gli dèi, delle azioni di ogni loro singolo membro, nella supposizione che tutti gli atti d'interesse pubblico abbia­ no avuto l'approvazione della comunità. Si capisce che in queste condizioni l'accertamento delle motivazioni individuali, anche se l 'atto che ne deriva ha conseguenze di portata pubblica, non presenta l 'interesse che ha per noi : l 'individuo non ha grande ragione di ri­ flettere sull'origine dei propri atti per renderne conto agli altri o a se stesso, quando gli può accadere di rispondere di azioni che sono sue solo in quanto hanno origine nella comunità cui appartiene; né ha grande ragione d'investi­ gare i moventi altrui, quando una maggiore consapevolez­ za non muterebbe le conseguenze. Se proprio occorre spie­ gare l'inspiegabile, all'origine di ogni atto o avvenimento si deve mettere un intervento della divinità. « Nella mag­ gior parte dei rapporti della sua vita l'uomo omerico non sentiva il bisogno di far filosofia sulle cause e gli effetti. Solo in circostanze eccezionali, e specialmente quando le cose andavano a rovescio, sorgevano questioni di respon­ sabilità ; e alla questione si rispondeva in termini straordi-

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nariamente chiari e consistenti » (Denys Page ) : l a rispo­ sta si trovava nelle cause soprannaturali. « Tutto ciò che succede quaggiu avviene per determinazione degli dèi. L'azione umana non ha alcun inizio effettivo e indipen­ dente; quello che viene stabilito e compiuto è decisione e opera degli dèi . . . l'uomo non si sente ancora promotore della propria decisione » (Bruno Snell). Questa è la con­ clusione che deriva da un'analisi approfondita dei testi omerici ; e bisogna guardarsi dal considerare spiegazioni mitologiche e letterarie di comodo le espressioni di una convinzione religiosa quanto mai seria e profonda. Ma anche qui, come sempre per Omero, non bisogna generalizzare troppo. Se è vero che spesso tutto sembra avvenire per determinazione degli dèi, dobbiamo dire su­ bito che in certi casi, soprattutto quando le cose vanno a rovescio, si pongono anche questioni di responsabilità in­ dividuale. Proprio nell'episodio che abbiamo visto ora, nel quale le cose vanno terribilmente a rovescio, veramen­ te i Troiani non pensano affatto ad accertare quale motivo abbia indotto Pandaro a guastare tutto, e non si vede per­ ché dovrebbero perdere tempo nell'inchiesta : impulso di­ vino o dissennatezza generica, non vale la pena di discu­ terci sopra perché le cose non cambierebbero. Ma il poeta che ha introdotto il concilio degli dèi ha avuto cura di collegare con un passaggio razionale l 'insano dibattito o­ limpico e il conseguente, folle atto di Pandaro. Atena, as­ sunto l 'aspetto di Laodoco, dice a Pandaro ( IV 9 4- 99 ) : Osassi tu d i scoccare rapido dardo a Menelao, davanti a tutti i Troiani avresti grazia e gloria, ma specialmente davanti al sire Alessandro; prima di tutto da lui avresti doni splendidi, se vedrà Menelao guerriero, figliuolo d'Atreo, ucciso dalla tua freccia, salire il rogo funesto.

I Troiani avranno poco da rallegrarsi del tradimento, ma, se si pensa all'esito del duello che si è svolto nel libro precedente, la prospettiva di ricevere compensi da Paride non è- campata in aria. Anche in quest'episodio tutto azio­ nato da una motivazione soprannaturale, dunque, per il gesto del protagonista è indicato, almeno come alternati-

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va possibile, un movente poco lodevole ma in tutto co­ sciente e accettabile da un punto di vista affatto raziona­ le. La possibilità di un'iniziativa cosciente e calcolata ai danni della comunità, e quindi da essa condannabile, in­ dica che qui si può già pensare a una responsabilità perso­ nale. A conti fatti, secondo i giudizi nostri, possiamo dire che Pandaro è oggettivamente lo strumento passivo e in­ consapevole della divinità, ma l'intenzione cosciente che lo muove è di servire agli interessi concreti e colpevoli di Paride. In questo caso preciso di Pandaro i Troiani (e il poeta ) non hanno occasione né interesse di fare il proces­ so alle intenzioni. Ma qui affiorano già problemi che in al­ tre circostanze dovranno essere affrontati. Responsabilità personale: la Riconciliazione. Non si può dunque arrivare a negare del tutto agli eroi omerici la libertà di decisione, o meglio la coscienza di questa libertà, e quindi una responsabilità individuale ve­ ra e propria, separata dalla volontà collettiva e indipen­ dente dai decreti della divinità. Se diciamo che Paride ed Elena sono colpevoli nel senso nostro della parola non sia­ mo troppo lontani dall'interpretazione giusta. Nel primo libro Achille chiede vendetta contro tutti gli Achei, e pos­ siamo pensare che la sua richiesta corrisponda a un « nor­ male » modo di pensare (come la precedente strage indi­ scriminata di Apollo), non a un risentimento eccessivo; ma, nello stesso libro, ancora questo Achille, che subisce recalcitrando le decisioni della collettività (ingiuste, estor­ te, o concesse passivamente, ma non per questo meno im­ pegnative, come abbiamo visto ), che per un momento pensa di estrarre la spada e farsi giustizia da solo in piena assemblea, che durante la contesa dice di possedere nella nave altri beni privati, questo Achille insomma che sotto tanti aspetti rappresenta per noi la nascente aristocrazia, col suo individualismo, contro l 'ordinamento democrati­ co primitivo, saluta con queste parole gli araldi timorosi ed esitanti che vengono per condurre via Briseide : « Salu­ te, araldi, nunzi di Zeus e degli uomini, l venite vicino :

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non voi siete colpevoli verso di me, ma Agamennone . . » (vv. 3 3 4-3 5 ). Sarebbe facile scegliere qualche passo isolato in cui la libertà d'iniziativa personde è affermata in termini espli­ citi, che non ammettono dubbi, e in primo luogo i famosi versi dell'inizio dell'Odissea in cui Zeus protesta contro l'opinione umana che fa gli dèi responsabili di tutto ( I 3 2-34 ) : .

Ah quante colpe fanno i mortali agli dèi ! Da noi dicon essi che vengono i mali , ma invece pei loro folli delitti contro il dovuto han dolori.

Zeus riferisce il caso preciso di Egisto che, a dispetto del destino e degli ammonimenti degli dèi, uccise Aga­ mennone dopo essersi preso la sua donna; e cosi si tirò addosso, esclusivamente per sua colpa, la pena inevitabile. Ma un passo come questo, che appunto è sempre citato per dimostrare l'esistenza del libero arbitrio nel mondo omerico, non può essere considerato rappresentativo per tutto Omero . Lo stesso tono polemico di Zeus avverte che la verità da lui espressa era tutt'altro che universalmente accettata . Non è possibile ridurre a sistema il modo ome­ rico di spiegare la condotta degli eroi e i suoi moventi. Numerosi episodi dei poemi indicano invece che in Omero anche una stessa azione può apparire motivata o successivamente o simultaneamente da un impulso perso­ nale e da un impulso divino. Ricorderemo soltanto il tipi­ co passo ( Il. XVI 684-9 1 ) dove Patroclo si getta nell'ulti­ mo e fatale inseguimento dei Lici e dei Troiani : e molto errò, stolto ! se alle parole del Pelide obbediva certo evi t ava il malo destino di nera morte. Ma sempre il volere di Zeus val piu di quello di un uomo.

Si vede qui che « ciò che accade nell'uomo e ciò che vuole e dispone il dio formano un'unità che esclude ogni ripartizione razionale, ma costituisce a nostro giudizio un aspetto essenzialissimo della visione omerica del mondo » (Albin Lesky ). Questa duplicità di motivazioni spiega gli atti di indi-

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vidui che esistono come parti non autonome di un organi­ smo sociale chiuso, ancora ritenuto operante come volon­ tà collettiva, e che si sentono in qualche misura dipenden­ ti da forze magico-religiose. Ma il dominio di queste for­ ze è a sua volta limitato e condizionato, in un modo che esclude il determinismo. Gli dèi intervengono volta per volta, ispirano e avviano singole azioni, ma non determi­ nano i fatti umani a lunga scadenza. Per questo essi com­ paiono cosi spesso, anche operando in maniera contrad­ dittoria. In piu si può dire che gli spunti di una ricerca deliberata della responsabilità personale, di una distinzio­ ne fra motivazione umana e divina, si trovano natural­ mente riferiti a certi atti che comportano conseguenze piu vaste sul piano sociale. Per il tradimento di Pandaro le motivazioni erano molteplici, la questione delle responsa­ bilità era per cosi dire lasciata in sospeso, ma il proemio dell'Iliade fa capire con tutta chiarezza che i fatti del poe­ ma derivano da una scelta cosciente di Agamennone : il « piano » o « consiglio » di Zeus ne è soltanto una conse­ guenza. Per il caso di Agamennone, dunque, nonostante il mu­ to consenso dell'assemblea, sembra lecito parlare di una colpa personale in piena regola, se si prendono alla lettera il proemio, le ripetute affermazioni di Achille, l'accusa di­ retta di Nestore ( « Ma tu al cuore superbo l cedendo, un altissimo eroe . . . offendesti » : IX 1 0 9- r o ) e la confessione dello stesso Agamennone : « Ma poi che ho sbagliato se­ guendo pensieri funesti. . . » ( q>pEcrt À.EUyaÀ.ÉlJCTL 1tdhicrac; : IX I I 9 ) . Ce n'è abbastanza per essere soddisfatti e per convincersi che nell'Iliade Agamennone faccia cosciente­ mente la parte del « cattivo », del perfetto vilain. Ma noi siamo abituati a sottoporre i personaggi letterari a un giu­ dizio morale senza appello che per gli eroi omerici solo di rado ha fondamento. Ricordiamo che in Omero un'azione è valutata di solito per i risultati che porta, indipendente· mente dagli impulsi psicologici o soprannaturali che pos­ sono avere spinto il suo autore e che di regola presentano tutt'al piu un interesse secondario. Un'azione sbagliata, cioè dannosa, quando non sia irrimediabile come quella di Pandaro ( che compromette i rapporti di due comunità

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fra loro estranee e viola u n patto e un giuramento preci­ so), vuole semplicemente una riparazione materiale ade­ guata : non si guarda se chi l'ha commessa era cosciente, fuori di sé o guidato dagli dèi come un automa. Perciò la questione della responsabilità umana, che a noi sta tanto a cuore, in Omero sembra trattata con indifferenza e in­ coerenza. Anche i passi sopra citati sulla colpa di Agamen­ none appaiono smentiti in un grande episodio del poema, quello della cosiddetta Riconciliazione del libro XIX. Di fronte ad Achille e a tutto il pubblico, Agamennone proclama in una lunga apologia (vv. 78-144) di non essere colpevole : Zeus, la Moira e l'Erinni gli hanno messo nel­ l 'anima l'Ate, il folle errore. Spesso questo discorso mi facevan gli Argivi e mi biasimavano ; pure non io son colpevole ma Zeus e la Moira e l'Erinni che nella nebbia cammina; essi nell'assemblea gettarono contro di me stolto errore quel giorno che tolsi il suo dono ad Achille. Ma che potevo fare? i numi tutto compiscono.

La cattiva Ate è irresistibile e una volta ha trascinato per­ sino Zeus. Dopo avere raccontato per esteso questa storia allegorica, Agamennone conclude (vv. 1 3 7-3 8 ) : « Ma dal momento che ho errato, Zeus m 'ha tolto la mente, l vo­ glio farne l'ammenda, dare doni infiniti » . f1 1" � 'f1 Qui sembra accertata l 'innocenza di Agamennone, che è stato semplicemente trascinato all'errore da potenze ma­ giche avverse. È vero che questa è un'esposizione apolo­ getica dei fatti, che contraddice il loro svolgimento del primo libro; ma a noi non interessa pronunciare una sen­ tenza definitiva sulla condotta di Agamennone. In una scena cosi solenne, ci pare che il suo discorso debba essere preso sul serio, e comunque possiamo tranquillamente as­ solverlo se lo fa persino Achille; il quale, benché anche poco prima (XVI 52-5 9 ) non abbia concesso attenuanti all'avversario, ora si unisce a lui nel far risalire tutto l 'ac­ caduto alla sola volontà di Zeus (XIX 2 70-74 ) : Padre Zeus, ah, grandi errori tu ispiri agli uomini. Mai, se no, il figlio d'Atreo l'animo in petto cosf a fondo m'avrebbe sconvolto, né la fanciulla

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strappato, inflessibile, mio malgrado. Ma Zeus per molti Achei voleva far giungere morte.

A noi basta osservare che la nozione di responsabilità per­ sonale esiste piu che altrove proprio in questo passo che, nell'oggetto specifico, vuole negarla. Appunto la negazio­ ne esplicita , la giustificazione polemica., insistente, pre­ suppone l'affermazione contraria. « Piu nettamente che in altri casi, accusa e difesa si trovano qui fronte a fronte ; dinanzi al rimprovero l'accusato rifiuta la responsabilità della propria azione attribuendo agli Dei la determinazio­ ne della sua volontà. Però il fatto che la difesa risponde a un'accusa è documento che di fronte alla tesi della irre­ sponsabilità, formulata dall'accusato, si trova già affer­ mata dagli altri la tesi della responsabilità dell'agente » (Rodolfo Mondolfo) . L'efficace autodifesa d i Agamennone, accettata dall'av­ versario, non lo esime però dal pagare un alto prezzo per rimediare al suo errore. Questo è il punto per noi piu in­ teressante. Quanto all'atteggiamento interiore del prota­ gonista, critici troppo razionalisti hanno trovato intollera­ bile la contraddizione fra l 'Agamennone convinto della sua colpa e quello sicuro della sua innocenza, e per questo solo motivo hanno attribuito a due autori diversi le scene dei libri IX e XIX, mentre altri hanno cercato di metterle d'accordo : o esse sarebbero affatto indipendenti l'una dal­ l'altra, o l'una sarebbe stata liberamente e incoerentemen­ te sviluppata nell'altra, o la contraddizione ( apparente in questo caso) sarebbe dovuta a una conversione psicologi­ ca di Agamennone, o infine essa sarebbe giustificata poeti­ camente dalla diversa situazione : mentre nel libro IX A­ gamennone era prostrato, sfiduciato e disposto ad accu­ sarsi di tutto, nel libro XIX egli ha riacquistato la sicurez­ za, la dignità regale, e non ha piu intenzione di cosparger­ si il capo di cenere (cosf ora Albin Lesky). Quest'ultima interpretazione è certo quella che piu tiene conto del pos­ sibile alternarsi delle motivazioni per gli atti degli eroi omerici, ed esclude giustamente che due atteggiamenti eti­ camente differenti dello stesso personaggio debbano sen­ z'altro essere attribuiti al lavoro di due poeti diversi. Da

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questo punto di vista, dunque, la Riconciliazione non è proprio in contrasto con gli altri passi dell'Iliade e serve bene a mostrare come qui i moventi del comportamento umano non siano oggetto, per principio, di spiegazioni ra­ zionalistiche sistematiche ; le quali sono necessarie solo quando un'azione deve essere sottoposta a giudizio mora­ le, inessenziali quando essa in sostanza interessa solo per gli effetti sociali che ha prodotto. Per altri aspetti, tuttavia, noi crediamo che la Riconci­ liazione sia stata aggiunta relativamente tardi al corpo del­ l'Iliade, e che essa, pur nella sua sostanziale coerenza col modo di pensare tipicamente « omerico », presenti indizi di una transizione a una fase nuova. Pur ammettendo che le osservazioni seguenti ( non tutte nuove, del resto ) pos­ sono sapere di pedanteria, essere suggerite da impressioni soggettive, dall'intenzione di spiegare a tutti i costi ogni particolare di un mondo poetico che appare bello proprio perché è vario e imprevedibile, dobbiamo dire che l 'intero episodio, a parte le sue qualità intrinseche, ci sembra inop­ portuno e fuori posto nel quadro generale del poema. Achille è addolorato per la morte di Patroclo, furioso contro i Troiani, impaziente di tornare a combattere. Ap­ pena riceve le armi nuove che gli ha fabbricato Efesto, aspettiamo di vederlo passare all'azione. Invece convoca tutto l'esercito, fa lui il primo passo per riconciliarsi con Agamennone, e ne segue una serie interminabile di di­ scorsi e cerimonie. Perché lo fa ? Il poeta non lo dice. Non in segno di obbedienza da vassallo a sovrano, perché dall'incontro esce con tutti gli onori. Non per assicurarsi l'appoggio del resto delle truppe che fanno capo ad Aga­ mennone, perché si suppone che questo non gli mancherà, e poi se avesse questa preoccupazione Achille non sarebbe piu lui. Non per un'esigenza morale che non può aver luo­ go in Omero. Non per incassare seduta stante il prezzo del suo ritorno in campo, perché durante la discussione non vorrebbe neppure sentir parlare dei doni. Sembrereb­ be che anche in questo caso Achille obbedisca a una spe­ cie d'impulso irrazionale, trasmesso o impersonato da Te­ ti che dopo avergli consegnato le armi gli dice senza altre spiegazioni : « Ma tu, chiamati gli eroi achei in assemblea,

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l rinuncia alla collera contro Agamennone. . . » (XIX 3435 ). Ma in questo caso non vogliamo contentarci di un sem­ plice rinvio alla sfera dell'irrazionale : tutto l 'episodio del­ la Riconciliazione è molto ragionato, nei discorsi degli eroi e nella procedura, e vorremmo sapere a quali esigen­ ze inespresse risponde. Il poeta della Riconciliazione co­ nosce l'Ambasceria del libro IX: qui c'è stato un tentati­ vo di appianare la lite, ed è fallito. Nulla è cambiato nei rapporti fra Achille e Agamennone e non si vede perché mai Achille proprio ora debba accettare le profferte già rifiutate prima. Il fatto nuovo è la morte di Patroclo, con la decisione di Achille di tornare a combattere per vendi­ carlo. Agamennone, che aveva fatto le sue offerte proprio per farlo tornare, ora dovrebbe essere contento perché non ha piu bisogno di pregare o di pagare per questo. In­ vece insiste per consegnare subito i doni promessi, men­ tre lo stesso Achille gli chiede con impazienza di riman­ dare la questione a piu tardi (vv. I 46-5 o). Si può dire che il nuovo sviluppo degli avvenimenti non ha cancellato il sopruso consumato da Agamennone nel primo libro e che la promessa fatta va comunque mantenuta. Ma questo è un modo moralistico di ragionare, dato che i doni promes­ si nel libro IX erano soltanto il prezzo offerto in cambio di un ritorno immediato di Achille, al cui rifiuto dovrà pure corrispondere il ritiro dell'offerta. Oppure si può dire che l'autore della Riconciliazione ha sentito la necessità poetica di chiudere il tema dell'Ira di Achille, « di risolvere la questione fra Achille e Agamen­ none nel corso del poema, e di risolverla a questo punto cosf che ora possa passare in piena luce ciò che sostituisce l'Ira di Achille come tema principale : la Morte di Etto­ re » (Denys Page). Questa spiegazione è migliore, ma va detto piuttosto che il poeta ha voluto risolvere la que­ stione in questo modo, con una riconciliazione, perché il tema della contesa si poteva benissimo considerare con­ cluso con l'Ambasceria, dove l'antagonismo fra i due capi è apparso insanabile : conclusione piu che soddisfacente, anche se il pio lettore può preferire di vedere i due avver­ sari che tornano a braccetto. Il seguito, con la morte di

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Patroclo, non ha piu a che fare con la contesa, ne è soltan­ to una conseguenza indiretta che introduce un motivo di ricambio, una volta fallite le trattative, per riportare A­ chille sul campo e fargli uccidere Ettore come voleva la storia. Se Achille perde l 'amico piu caro si può pensare che gli sta bene perché si è ostinato, oppure, secondo le preferenze, che anche questa disgrazia va messa sul conto di Agamennone; ma non si capisce perché essa imponga una riconciliazione tardiva. Quello che piu sorprende è che dopo tutto ciò Achille conservi il diritto a ricevere i doni, e Agamennone non Io contesti. Non si tratta di cavilli inventati da noi. Il testo omerico è chiaro su questo punto. Nell'Ambasceria, Feni­ ce racconta ad Achille, per convincerlo a tornare sul cam­ po, la storia di Meleagro ( IX 5 2 7-605 ) che, come lui, in preda all'ira si rifiutava di difendere la sua città, nonostan­ te tutte le preghiere e le promesse di una grande ricom­ pensa; all'ultimo momento Meleagro cedette alle suppli­ che della moglie e salvò la città, ma ormai aveva perso il diritto a ricevere la ricompensa prima respinta. Fenice non parla per passare il tempo, ma per spiegare quanto dovrà succedere ad Achille se non accetta le offerte. Tutto poi va come aveva detto il saggio Fenice, con la sola dif­ ferenza che alla fine Achille, piu fortunato di Meleagro, i doni se li porta a casa Io stesso. Questa volta Omero è ve­ ramente poco educativo. Un giudice nell'Iliade. Ma se rileggiamo la Riconciliazione senza pensare al re­ sto del poema, presupponendo soltanto che due personag­ gi eminenti abbiano fatto baruffa e siano ormai disposti a rappacificarsi, l'episodio appare edificante e degno di figu­ rare in un manuale di buone creanze. Achille, proprio lui, prende l'iniziativa e fa ammenda per primo : o meglio de­ plora quanto è accaduto senza stare a distinguere chi ab­ bia cominciato. Egli dice ad Agamennone : che ci siamo messi a fare noi due ; litigare per niente, per una fanciulla, che avrebbe fatto meglio a morire appena la vidi ; ma quel

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che è stato è stato, e io per primo rinuncio alla collera (vv. 5 6-67 ). Questa cessazione dell'ira di Achille, edifi­ cante in sé, è deludente se si pensa alla grande disputa che nel primo libro era scoppiata occasionalmente « per la gio­ vane » (l 2 9 8 ), ma si era subito allargata a motivi ben piu gravi; e Zeus che ha messo sottosopra l'Olimpo e la terra « per una fanciulla » . Anche Agamennone si comporta da perfetto gentiluomo : accetta senza discutere e vuole che si portino subito i doni che Achille non ha affatto chiesto. Non basta : Achille non ha neppure vagamente tentato di addossare la responsabilità ad Agamennone, ma questi sente il dovere di gratificare gli astanti con una lunga e non richiesta autodifesa, contenente la storia di Ate e di Zeus . Egli si dimostra bensi innocente, con argomenti che come sappiamo si addicono bene al mondo dell'Iliade, e anzi il suo atteggiamento è n10lto piu « iliadico » di quello di Achille. Ma sono eccezionali il fatto che egli senta la necessità di giustificarsi cosi per esteso, la studiata costru­ zione didascalica della sua apologia e la sua forma allego­ rica : un tipo di costruzione e di esposizione molto piu esiodeo che omerico. Nella sua breve replica, Achille cerca di tornare all'ar­ gomento che gli preme, la guerra, ed esorta a non perdere tempo. Ma il trattenimento è appena cominciato. Inaspet­ tatamente prende la parola Odisseo, il quale ammonisce l'impaziente che occorre ancora : 1 ) che i soldati mangino prima della battaglia, 2 ) che Agamennone faccia portare i doni in mezzo all'assemblea, 3 ) giuri di non avere mai toc­ cato Briseide, 4 ) inviti presso di sé Achille a banchetto. Per suo conto il volenteroso Agamennone aggiunge che il giuramento dovrà essere accompagnato da un sacrificio (vv. 1 96-97) . Nella prima parte del suo non breve discorso Odisseo spiega ad Achille, ampiamente e sentenziosamente, che è uno sbaglio scendere in campo senza aver fatto mangiare i soldati ; anche piu avanti tornerà a infervorarsi sull'argo­ mento (vv. 2 2 1-3 3 ). In questa insistenza sul tema alimen­ tare c'è chi trova una goffaggine imperdonabile, chi invece vede anche qui, come in tutte le numerose colazioni dei poemi omerici, un fattore essenziale della grandezza epi-

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ca col suo « senso reale per la polarità dell'esistenza e del­ le cose » (Wolfgang Schadewaldt). Noi preferiamo lascia­ re per un momento la questione in sospeso, pur ammet­ tendo che varie ragioni potrebbero avere indotto l'autore dell'episodio a concedere tanto spazio al desinare dell'e­ sercito. Questo libro ha un accentuato tono didascalico, e può darsi che l'autore avesse in mente precetti dell'arte militare in cui il vettovagliamento avesse molta importan­ za ; oppure può avere sviluppato spunti che esistevano già nella tradizione epica : anche dopo l 'assemblea del libro II, per esempio, Agamennone ha cura di mandare i sol­ dati a mangiare prima della battaglia (II 3 8 1 , un verso che si ritrova uguale in XIX 2 7 5 ) . Poi c'è un passo in cui Agamennone rimprovera proprio a Odisseo di essere len­ to a scendere in campo, ma sempre pronto a mangiare ( IV 343 ). Insistendo cosi sulla necessità di rispettare le usan­ ze e le leggi della natura, il poeta della Riconciliazione mette anche in risalto l'ascetismo di Achille digiunatore. Il quale piu avanti, nell'ultimo libro (XXIV 6o1 sgg . ) , di­ mostra di avere imparato la lezione di Odisseo quando spiega all'affranto Priamo che anche il piu addolorato de­ gli uomini non deve digiunare, e gli racconta la storia di Niobe che pensò al cibo pur dopo avere perduto dodici figli. In Omero dunque la questione del mangiare non è mai trattata con leggerezza. Resta tuttavia il fatto, e ne pren­ diamo nota, che nel nostro episodio le divagazioni su que­ sto argomento sembrano piu ingombranti del necessario. E il parlare di Odisseo è proverbioso e didascalico come quello di Esiodo : « non potrà un giorno intero fino al tra­ monto del sole l un uomo digiuno di cibo affrontare la lot­ ta » ecc. (vv. 1 6 2 sgg.); « ma l 'uomo sazio di cibo e di vino l lotta l'intero giorno coi guerrieri nemici » ecc. (vv. 1 6 7 sgg . ) . E piu avanti (vv . 2 2 1 sgg. ) : vien presto agli uomini stanchezza d i guerra, dove moltissima paglia il bronzo a terra riversa, ma raccolto pochissimo, quando Zeus le bilance inchina, che è l'arbitro delle battaglie umane. Non col ventre possono piangere un morto gli Achei...

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Nel seguito del discorso, Odisseo si preoccupa non me­ no scrupolosamente delle formalità che devono sancire la riconciliazione : Agamennone deve portare i doni dovuti « perché tutti gli Achei li vedano con gli occhi », deve fare il giuramento « in piedi in mezzo agli Achei » e infine of­ frire il banchetto « perché niente della giustizia si lasci » (v. I 8o}, egli dice rivolto ad Achille, cioè : perché nulla ti manchi di ciò che vuole la giustizia. E ad Agamennone (vv. I 8 I -83 ) : e tu nel futuro anche con gli altri piu giusto sarai : certo non merita biasimo che un re plachi un guerriero, se per primo ha infuriato.

Questo Odisseo che si è introdotto nel dialogo fra i due avversari va assumendo una statura imprevista : si erge autorevolmente sulle parti, dà ordini all'uno e all'altro im­ ponendo prescrizioni cerimoniali e rituali, parla per sen­ tenze. Nemmeno il vecchio Nestore ha mai parlato cosf. Seguiamolo per il resto dell'episodio : Agamennone accet­ ta tutto contento le sue prescrizioni (« Godo, Laerziade, la tua parola ascoltando : l tutto opportunamente hai di­ scorso e spiegato » : vv. 1 85-8 6 ), mentre Achille ripete che vuole andare a combattere subito; allo ra Odisseo, sul punto di perdere la pazienza, lo richiama all 'ordine, invo­ cando i diritti della propria maggiore età ed esperienza (vv. 2 1 6-20 ) : O Achille d i Peleo, fortissimo fra gli Achei, tu sei piu forte di me e potente non poco con l'asta, ma io per senno forse t'avanzo assai, perché son nato prima e so piu cose di te : per questo il tuo cuore si adatti alle mie parole.

Quindi Odisseo prende con sé alcuni giovani ed eletti guerrieri ( mentre sopra, al v. 1 4 3 , Agamennone voleva destinare i suoi servi per questo incarico; la scena diventa sempre piu solenne) e va egli stesso a prendere i doni, a pesare i dieci talenti d'oro; torna alla testa del gruppo, fa deporre i doni in vista di tutti, e finalmente si arriva al sa­ crificio e al giuramento. Abbiamo detto che neppure Nestore ha mai dimostrato

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d i possedere tanta autorità, neppure nell'episodio del li­ bro IX che introduce l'Ambasceria e che il nostro poeta tiene presente. Se guardiamo bene, i due episodi presen­ tano certe analogie. All'inizio del libro IX Agamennone è ridotto alla disperazione, vuole rinunciare all'impresa e viene aspramente biasimato da Diomede, deciso a com­ battere fino in fondo. Si leva a parlare Nestore, che prima di tutto frena gli ardori di Diomede, appellandosi alla sua maggiore età ed esperienza, poi suggerisce (anche lui ) che intanto si vada a mangiare ; nel banchetto degli anziani che segue, egli invita Agamennone a placare Achille con doni e parole concilianti (vv. 96- n 3 ) . Qui i rapporti fra i capi sono quali li conosciamo : Agamennone che è « piu re » degli altri ma non può agire da solo ; Diomede che ha completa libertà di parola nelle forme dovute; Nestore che può far valere i diritti dell'età di fronte a Diome­ de, può dare disposizioni all'esercito, mentre di fronte ad Agamennone è qualche cosa fra il subalterno e il consi­ gliere autorevole. L'autorevole consiglio è dato con schiet­ tezza ma con molto rispetto e comincia con un'apostrofe che sembra quasi una formula liturgica ( IX 9 6-9 9 ) : Splendido Atride, signore d'eroi, Agamennone, con te finirò, comincerò da te, che di molti armati sei il capo, e Zeus t'ha affidato e scettro e leggi, perché tu ad essi provveda.

L'Odisseo della Riconciliazione, invece, è sicuro della sua autorità e tratta Agamennone e Achille senza far dif­ ferenze fra loro. Si dirà che Achille, specialmente in que­ sto momento, è fuori di ogni rapporto gerarchico e può stare benissimo alla pari con Agamennone. Ma Odisseo non parla ai due con lo stesso rispetto usato da Nestore per Agamennone, non innalza cioè Achille al rango di un secondo capo supremo ; al contrario, li tratta con la stessa superiorità. Per lui Achille è un giovane che deve accetta­ re gli ordini, e cosi deve accettarli Agamennone. Se Ne­ store aveva cura di usare un linguaggio diverso con Dio­ mede e con Agamennone, qui Odisseo sembra avere al­ trettanta cura di mettere i due sullo stesso piano. Arriviamo a concludere. L'Odisseo della Riconciliazio-

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ne, che si mette al di sopra dei due ex contendenti, che ascolta le loro dichiarazioni, che esige che l'atto sia garan­ tito 1 ) dal pareggiamento immediato di una pendenza con la consegna dei doni, 2 ) dalla presenza del pubblico, 3 ) da un giuramento solenne con sacrificio, è un personaggio sconosciuto al resto dell'Iliade : è un basileus-giudice co­ me quelli che conosciamo da Esiodo e la cui attività rivela una privatizzazione della vita economico-sociale che rende inoperante l 'istituto dell'assemblea come strumento della democrazia primitiva, ossia presuppone il formarsi di una solida aristocrazia. Nella Riconciliazione non c'è un vero e proprio « re » del fondamentale tipo omerico, come pre­ sidente di un'assemblea di ( supposti ) uguali, e non c'è neppure un'assemblea : c'è solo una massa di testimoni . Anche nel resto dell'Iliade la massa dei guerrieri resta sul­ lo sfondo, mentre i capi discutono ; ma qui sarebbe stu­ pefacente se si levasse a parlare un Diomede o anche un Nestore : a tal punto Odisseo si è assunta la funzione di magistrato superiore alle parti che lo hanno scelto libera­ mente. O meglio, per essere chiari, a tal punto il contrasto fra Achille e Agamennone, che nel primo libro si era aper­ to nella sua sede adatta, l 'assemblea, ed era un fatto d'in­ teresse· pubblico, qui è diventato una questione privata. Questa nuova situazione ci fa capire meglio vari aspet­ ti singolari dell'episodio : la condiscendenza di Achille e Agamennone, l'esordio conciliante di Achille che non vuo­ le piu parlare di responsabilità mentre Agamennone ne vuole proprio parlare, i cenni accorati sulle conseguenze sempre funeste che nascono per gli individui dalle loro li­ ti (un tema esiodeo ), il consiglio iniziale di Teti, che per l'Iliade non appare motivato, ma è umanamente saggio in linea di principio e doveva essere ben compreso in un mondo in cui la questione delle contese private e degli strumenti capaci di appianarle, quando ormai la disegua­ glianza aveva messo fuori uso l'assemblea, doveva essere passata all'ordine del giorno. E forse ora possiamo spie­ gare persino le chiacchiere imbarazzanti sul mangiare, con cui Odisseo ammaestra Achille. Il primo dovere di un giu­ dice conciliatore è di essere o di apparire imparziale. Qui non c'è un colpevole da condannare e una vittima da ri-

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sarcire, ma due persone in dissidio, disposte a venirsi in­ contro a vicenda; ce l'assicurano le prime parole di Achil­ le (vv. 5 6-68 ) : Atride, ah, che bene fu mai per entrambi, per te e per me, che noi due, morsi in petto dalla lite che il cuore divora, ci adirassimo per una fanciulla? ... Per Ettore e i Teucri fu bene : ma, penso, gli Achei ricorderanno a lungo la mia e la tua lite. Ora lasciamo andare quello che è stato, per quanto aflli tti, vincendo a forza il nostro cuore nel petto. lo smetto l'ira, ché non mi sta bene sempre testardamente essere irato . . .

Se Agamennone appare nelle vesti di quello che paga, co­ me voleva tutto il contesto dell'Iliade, Achille non inten­ de umiliarlo. Odisseo deve fare da mediatore e da conci­ liatore, imponendo equilibratamente all'uno e all'altro le decisioni che gli sembrano opportune. Agamennone compie i sacrifici che sappiamo, piuttosto pesanti (il poeta avrà usato l'elenco già pronto delle offer­ te del libro IX) : essi sono volontari, ma Odisseo gli enu­ mera le prescrizioni precise. Achille che può fare per pa­ reggiare il conto? Non deve dare o restituire niente; l'uso di chiedere scusa non è stato ancora inventato. Cosi Odis­ seo si appiglia all'unico partito possibile, che gli è suggeri­ to dall'irruenza con cui Achille vuole precipitarsi in batta­ glia senza pensare ad altro, e insieme da quel passo paralle­ lo che abbiamo visto nel libro IX, dove Nestore manda tut­ ti a cena. Inoltre un pasto era già previsto come momento necessario della riconciliazione : quello che Agamennone deve offrire ad Achille, anche se questi non se la sente di accettarlo. Odisseo gli aveva detto (vv. 1 79-80 ) : -� nella sua tenda ti inviti a cena abbondante l perché niente del­ la giustizia si lasci ». L'offerta della cena doveva essere un elemento essenziale nel rituale di una pacifìcazione. Ecco allora la sentenza per Achille, che del resto deve imparare in generale ad essere piu riflessivo : si trattenga e faccia mangiare i soldati (vv. 1 5 5- 7 2 , 2 1 6-3 3 : trentasei versi di ordini e ammonimenti). Achille dovrebbe ringra­ ziare di cavarsela con cosf poco : invece, mentre Agamen-

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none accetta subito e di buon grado la sentenza che lo ri­ guarda, Achille si rifiuta una prima volta di accettare e alla fine non risponde alle ultime parole di Odisseo (v. 2 3 7 ) . Bene o male, calcando la mano sull'unico pretesto che aveva a disposizione, il poeta è riuscito a ristabilire l'equilibrio e a presentarci un giudice imparziale nella sua severità. L'introduzione della figura del giudice nell'Iliade sarà in gran parte involontaria. Il poeta voleva che vi fosse una riconciliazione, da mostrare come buon esempio al suo pubblico, e l 'ha messa in scena tenendo conto finché era possibile della situazione complessiva dell'Iliade. Ma, a parte la contraddizione « poetica » fra questa conclusio­ ne e lo svolgimento originario della contesa, egli si è atte­ nuto al tipo di procedura che gli era familiare, ha modi­ ficato le posizioni reciproche di Achille e Agamennone, presentandoli in atteggiamenti inaspettatamente conci­ lianti, ed ha attribuito a Odisseo funzioni che nell'Iliade non sono le sue. Tutto questo episodio va accostato alla nota scena dello Scudo di Achille ( Il. XVIII 497-508 ) do­ ve due uomini, in lite per il prezzo del sangue da pagare dopo un omicidio, ricorrono al giudice in piazza, davanti al popolo riunito e agli anziani. Siamo in un mondo non molto diverso da quello di Esiodo : il quale non conosce istituti statali, ma non co­ nosce neppure l'assemblea popolare che ha tanta impor­ tanza in Omero (l'assemblea è nominata soltanto nella Teogonia, v. 430, in un passo di autenticità quanto mai dubbia). Tutto il suo mondo è invece dominato dalla figu­ ra del giudice aristocratico (ora basileus ha questo signi­ ficato ) dalla cui rettitudine dipende la prosperità o la ro­ vina della comunità. Il giudice ispirato dalle Muse ha il parlare dolce, è rapido e infallibile nell'appianare le liti piu gravi ; tutti lo guardano quando, sulla piazza, con pa­ role miti rimedia senza fatica le ingiustizie commesse ( Teogonia 80-90 ) . Considerata nel quadro complessivo del poema, abbia­ mo detto, la Riconciliazione lascia perplesso il lettore. Può soddisfare come happy end dell'Ira di Achille, ma dobbiamo lodare il poeta che ha fatto finire l'Iliade in tra-

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gedia. Nel primo libro abbiamo visto che Agamennone e Achille, pur tenendosi formalmente nei limiti di una se­ duta regolare dell'assemblea, non disputano solo « per una fanciulla » : il primo abusa del margine di autorità che gli è stato concesso, il secondo non si vuole ricono­ scere uguale agli altri, e tanto meno inferiore al primo co­ mandante. Qui non c'è un re-giudice che possa calmare le acque, ma soltanto un'assemblea che non può fare molto ; cerca d'intromettersi il povero Nestore, che come al soli­ to è sfortunato con le sue raccomandazioni (forse per que­ sto P autore della Riconciliazione ha evitato di nominare giudice Nestore e ha scelto il meno compromesso Odis­ seo). L 'equilibrio che si ristabilisce con la Riconciliazione è precario, e infatti nell'ultimo libro, che svolge coeren­ temente le premesse dell'Ira di Achille originaria, Achille tratta con Priamo senza curarsi di Agamennone e dell'as­ semblea, operando deliberatamente alle loro spalle (XXIV 650-5 5 ) : Dormirai fuori, caro vecchio, ché qualche acheo consigliere non capiti qui ; sempre nella mia tenda tengon consiglio sedendo, come vuol l'uso. Se ti vedesse qualcuno di questi entro la nera notte veloce, subito ad Agamennone pastore di genti andrebbe a narrarlo, e ne verrebbe ritardo alla consegna del morto ...

Qui Achille ha trovato la sua definitiva posizione d'in­ dipendenza e di solitudine, fra la sua comunità armata e il re dei suoi nemici. Non vediamo come questo superbo atteggiamento ribelle possa accordarsi con l'edificante re­ missività dell'Achille della Riconciliazione. L'ultimo li­ bro può essere stato aggiunto tardi al poema, ma offre una conclusione che, per quanto malinconica, è la piu felice che si potesse pensare. Sappiamo bene d'incorrere in uno di quei deprecabili giudizi di gusto che la critica deve evi­ tare, ma dobbiamo dire che per noi l'Achille omerico è quello dell'ultimo libro, mentre il costumato Achille del­ la Riconciliazione appartiene già a un mondo diverso, al mondo }egalitario dell'ideale esiodeo. Per riassumere : l'Iliade, che pure narra un avvenimen­ to di guerra limitato e di breve durata, ha parti che ap-

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paiono composte in ambienti sociali differenti, ma fonda­ mentalmente ci presenta un mondo identificabile nei suoi tratti essenziali, anche se assai complesso : una società ret­ ta da ordinamenti democratici primitivi, fregiata di me­ morie micenee, e resa già instabile dall'emergere d'indi­ vidui che grazie ai propri meriti personali accumulano be­ ni privati ed esigono privilegi sociali corrispondenti, indi­ vidui che come gruppo tendono a frapporsi fra re e as­ semblea costituendo una forma di Consiglio aristocratico, mentre il capo riconosciuto della comunità, quello che è « piu re » degli altri, cerca di trasformare in potere stabile un incarico che l'assemblea gli ha concesso a titolo prov­ visorio. Abbiamo qui in germe il conflitto fra aristocrazia e mo­ narchia che sarà caratteristico del periodo successivo e che porterà quasi dappertutto l 'aristocrazia al potere. Una forma democratico-primitiva di monarchia sopravviverà fino all'età classica solo in regioni periferiche del mondo greco, per esempio fra i Molossi dell'Epiro ; altrove il ti­ tolo regale resterà per designare magistrati con poteri li­ mitati nel tempo, sottoposti a vari tipi di controllo, o ca­ pi dei superstiti raggruppamenti gentilizi, là dove questi continuano ad avere un'esistenza piu o meno fittizia nel quadro dei nuovi ordinamenti politici, o semplici ministri del culto. Odissea: le ragioni dei pretendenti. Nell'Odissea il quadro sociale si allarga e affiorano qua e là elementi piu moderni. Essa descrive anche società umane che vivono in pace, ma non per questo offre un panorama piu nitido. Mentre nell'Iliade la maggiore con­ centrazione dell'intreccio è un fattore di relativa chiarez­ za, e lo stesso stato di guerra fa precipitare il conflitto fra Agamennone e Achille, riducendolo subito al suo conte­ nuto essenziale, nell'Odissea la varietà degli ambienti de­ scritti e delle fonti travasate nella storia del ritorno di Odisseo si riflette in un'immagine piu che mai composita e contraddittoria delle relazioni umane. Il campo di Troia forniva un ristretto terreno comune, sul quale i diversi

ODIS SEA : LE RAGIONI DEI PRETENDENTI

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eroi venivano immediatamente a confronto, o in assem­ blea o in battaglia, mentre i fatti dell'Odissea si svolgono a diversi livelli della società, e le peregrinazioni del pro­ tagonista ci portano addirittura nelle regioni misteriose della favola e del folclore. Anche il tema centrale dell'Odissea nasce da una situa­ zione « politica » eccezionale che è descritta con molto rea­ lismo, sebbene prenda lo spunto dal motivo spesso ricor­ rente del reduce creduto morto che si vendica su coloro che hanno insidiato i suoi beni e la moglie fedele. Duran­ te i lunghi anni dell'assenza di Odisseo ( sarebbero venti in tutto ), nessuno lo sostituisce nella carica. I pretendenti di Penelope, nonostante il loro numero e pur non incon­ trando resistenze organizzate, non possono imporre la lo­ ro volontà : dunque le leggi non scritte della convivenza democratica primitiva sono ancora rispettate, a tal punto che il « re », partendo, non ha avuto nemmeno bisogno di lasciare un vicario né custodi dell'ordine . (A Mentore ha lasciato solo la custodia della casa e della famiglia : I I 2 2 5-2 7 ) . Anche s e concediamo u n buon margine alle esi­ genze della favola, dobbiamo riconoscere che questa co­ munità ha notevoli capacità di autogoverno, e che il « re » non deve avere molte attribuzioni che non siano puramen­ te onorifiche, se le cose vanno avanti senza intoppi anche durante una sua assenza cosi prolungata. Fatti incresciosi avvengono soltanto in casa sua, dove i pretendenti posso­ no installarsi e darsi bel tempo con i beni che vi trovano : ma se possono farlo vuoi dire che la comunità, o la parte privilegiata di essa, considera cosa propria la reggia con la sua dispensa. Ai pretendenti si rimprovera soltanto di es­ sere inurbani e molesti . Essi formano una sorta di aristo­ crazia, ma è ancora un'aristocrazia che non aspira al po­ tere in quanto classe, che non vuole mutare con una vera rivoluzione gli ordinamenti in uso, giacché i pretendenti chiedono soltanto che uno di loro succeda a Odisseo e as­ suma le funzioni del predecessore scomparso. Per ora la monarchia primitiva non è messa in discussione. Il loro maggior torto è di credere che Odisseo sia scomparso per sempre, di non possedere l'intuito di Penelope e di non nutrire le stesse speranze.

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La posizione di Penelope è inspiegabile e rivela che la sua storia è passata attraverso varie fasi. Secondo quanto è detto in alcuni passi, soltanto lei è arbitra della situa­ zione : sembra che basti il suo consenso e la sua scelta per dare a Itaca un nuovo re, o che basti l'astuzia della tela per tener testa alle insistenze dei corteggiatori ; in tutto ciò alcuni studiosi hanno voluto trovare vestigia del ma­ triarcato. Oppure, come è detto piu spesso, Penelope tor­ nerà o sarà rimandata alla famiglia paterna che provve­ derà alle nuove nozze ( Od. I 276 sgg. ; II 53 sg. , r r 4 ; XIX 5 3 3 ). S e i pretendenti, per bocca d i Eurimaco ( I l 1 94 sgg.), propongono proprio questa soluzione, che Te­ lemaco non vuole accettare, si dovrebbe pensare che il padre di Penelope possa disporre, o autoritariamente o secondo le preferenze di lei, della successione e dei beni « della corona ». Ciò che nell 'Odissea è impossibile. Men­ tre Telemaco si trattiene a Sparta, Atena si precipita ad­ dirittura da lui per avvertirlo che il padre e i fratelli co­ stringono o convincono Penelope a sposare Eurimaco (XV 1 5 sgg. ). Ma altrove la decisione è in mano a Telema­ co. Una volta, per esempio (XX 334-3 7 ) , invitato dal pre­ tendente Aghelao a convincere la madre a contrarre nuo­ ve nozze, Telemaco risponde che non vuole obbligarla o cacciarla di casa. Che ne abbia la facoltà, appare dal po­ tere autoritario che nel poema egli dimostra di esercitare sulla madre. Di sicuro sappiamo che la successione è considerata aperta e che non esistono strumenti costituzionali per la designazione e la scelta del successore. Quando la scom­ parsa di Odisseo fosse accertata, la decisione dovrebbe di­ pendere in linea di principio da una deliberazione dell'as­ semblea, piu probabilmente da un accordo o da una lotta fra i pretendenti : in ogni caso tutto si svolgerebbe in pra­ tica all'interno del gruppo privilegiato. Se invece Odisseo non fosse assente, Telemaco avrebbe certo le migliori pos­ sibilità di succedergli, ma ora la tendenza all'ereditarietà è inoperante. Che la trasmissione ereditaria della carica avviene per consuetudine e non per principio, è detto chiaramente nel primo libro. Dopo che Telemaco ha ma­ nifestato la sua insorgente insofferenza per la situazione,

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Antinoo gli dice : « che in ltaca cinta dal mare re non ti faccia il Cronide, l come sarebbe per nascita tuo diritto d'erede ! » (I 3 86-8 7 ; la traduzione forza un po' il senso dell'originale, dove non si parla di diritto) . Telemaco ri­ sponde che vorrebbe essere re, se Zeus glielo concede ( vv. 3 9 2-9 8 ) : Non è u n male esser re : l a sua casa subito abbonda di beni, ed egli è molto onorato. Ma principi achei ce ne sono anche altri, e molti, in ltaca cinta dal mare, giovani e anziani. Qualcuno di loro abbia il regno, se è morto Odisseo luminoso. Allora della mia casa io sarò finalmente padrone e dci servi, che m'acquistò Odisseo luminoso.

Il testo greco ha « re » , �a.O"LÀ.i'jEc;, anche dove la traduzio­ ne ha « principi » ; qui dunque il termine è usato nello stesso passo col duplice senso di reggente di una larga co­ munità e di capo di una casa signorile o aristocratica. Nelle parole di Telemaco è interessante la distinzione fra le ricchezze che gli competerebbero come successore di Odisseo e quelle che conserverà in ogni caso perché il padre se l 'è procurate in azioni o affari personali. Queste ultime nessuno intende toccarle. Eurimaco risponde a Te­ lemaco (vv. 402-4 ) : Ma tu tienti pure i tuoi beni, regna sulla tua casa . Nessuno potrebbe venire e, tuo malgrado, per forza, privarti dei beni, fin quando ltaca sia popolata.

Questo è il patrimonio ricavato da razzie contro genti vi­ cine, corrispondente ai beni che nell'Iliade Achille tiene nella sua nave e sui quali né l'assemblea né Agamennone hanno alcun controllo. La distinzione ritorna precisa nel­ le parole che Odisseo dice alla fine del poema parlando con Penelope di ricostituire i suoi beni (XXIII 3 5 5 -5 7 ) : l e greggi, poi, che i pretendenti superbi m i hanno mietuto, per gran parte io stesso ne andrò a far preda; altre gli Achei ne daranno, finché mi riempiano tutte le stalle.

Dei « beni della corona » accordati dal popolo fa parte, oltre al bestiame, alle cose necessarie per i banchetti e per

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i sacrifici, alle parti speciali del bottino di guerra, anche un particolare appezzamento di terreno ( temenos) conces­ so in uso personale che, morto o decaduto il re del mo­ mento, sarà assegnato al suo successore. Il godimento per­ sonale di un pezzo di terra era un privilegio cosf eccezio­ nale da essere considerato il vero simbolo della posizione regale. Nell'Iliade, per definire questa posizione e per ri­ cordare a Glauco che essa obbliga a primeggiare in guerra, Sarpedone dice (XII 3 1 0- 1 4 ) : Glauco, perché noi due siamo tanto onorati con seggi, con carni, con coppe numerose in Licia e tutti guardano a noi come a dèi, e gran tenuta (temenos) abitiamo in riva allo Xanto, bella d'alberata e arativo ricco di grano?

E quando Odisseo incontra la madre nell'oltretomba, e le chiede se qualcun altro ha già preso il suo posto e spo­ sato Penelope, Anticlea lo rassicura con queste parole (XI 1 84-86 ) : Nessuno ha il tuo bel privilegio: a sua voglia Telemaco le tenute reali ( temenea) si gode, e ai banchetti comuni banchetta.

Finché non si nomina un successore, il godimento dei be­ ni regali resta alla famiglia del re assente. Qui sembra che Odisseo non pensi neppure che il suo successore possa essere Telemaco, e ha tutte le ragioni di aspettarsi che le cose siano volte al peggio. Anche nell'Odissea, dunque, il potere del re non è ere­ ditario ed è tutt'altro che assoluto : si fonda su un equili­ brio di forze ormai minacciato. Abbiamo visto che in fon­ do i pretendenti non sono ancora usurpatori e rispettano le regole tradizionali. Ma quando Odisseo tornerà, non rientrerà automaticamente in possesso della sua carica : ri­ correrà alla violenza, agirà privatamente, senza aiuti ester­ ni . È vero che verso la fine del poema ci spostiamo verso il regno della favola. Un lettore troppo esigente si potreb­ be chiedere se sia proprio necessario riservare una fine cosf atroce ai pretendenti , che dopo tutto si sono com­ portati da gentiluomini e hanno aspettato pazientemente

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tanto tempo senza imporre la successione, sia pure gozzo­ vigliando con i beni semipubblici (che comunque doveva­ no essere destinati in gran parte ai banchetti offerti dal re ai membri piu ragguardevoli della comunità). Oppure, se usurpazione ci fosse stata, in un'Itaca piu reale, nelle stes­ se condizioni descritte dall'Odissea, invece di compiere quasi da solo quella sua prodigiosa vendetta Odisseo si sarebbe certamente procurato alleati piu gagliardi di un porcaro e di un mandriano. La scelta di queste figure umili appare però motivata. Il naturale alleato di un re contro l 'aristocrazia dovrebbe essere proprio il popolo, la massa dei non abbienti, che forma il grosso dell'assemblea ormai esautorata e che nel­ l 'Odissea comincia ad acquistare rilievo come classe au­ tonoma. Ma lasciamo da parte le costruzioni ipotetiche e vediamo i fatti. Nel colloquio che precede il riconoscimento di Odisseo da parte di Telemaco, il falso mendicante chiede al figlio come mai egli non abbia potuto resistere ai pretendenti (XVI 95-9 8 ) : Dimmi se t u volente ti sei lasciato piegare o se il popolo t'odia in paese, seguendo il responso d'un dio. O forse devi accusarne i fratelli, in cui pure di solito uno confida come alleati, per grave lotta che nasca.

È una domanda ovvia, che anche Nestore ha rivolto a Te­ lemaco (III 2 1 4- 1 5 ) . In teoria la carica regale è assegnata dal popolo, e se a Itaca fosse in vigore un perfetto regime democratico primitivo l'assemblea dovrebbe decidere a fa­ vore di Telemaco o contro di lui. Propriamente, in que­ sto caso, l'assemblea dovrebbe deliberare sulla morte pre­ sunta di Odisseo ed eleggere suo successore o Telemaco o un altro candidato. Essa non decide, prima di tutto, per­ ché la favola deve seguire il suo corso . Ma i rapporti di forze esistenti a ltaca sono descritti con notevole reali­ smo, e si può vedere con sufficiente chiarezza Io stato di cose che il poeta ha in mente. L'alternativa contenuta nelle citate parole di Odisseo è illuminante. Il popolo non odia Telemaco, ma non f:t nul­ la forse perché resta sostanzialmente neutrale, oppure, se

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è ostile ai pretendenti, non può arrivare a condannarli : perché costituiscono un gruppo troppo forte e, vorrem­ mo aggiungere, perché i pretendenti non hanno ancora compiuto alcun atto « illegale » , come abbiamo detto. Un intervento popolare a favore di Telemaco potrebbe addi­ rittura rappresentare un sopruso. I pretendenti sono for­ se tentati di arrivare all'atto « illegale » , ma questa sem­ plice tentazione è meno sovversiva del pensiero che fa di­ re a Odisseo le ultime parole del passo riportato sopra : Telemaco non ha fratelli , ma se ne avesse e se potesse con­ tare sul loro aiuto sarebbe padrone della situazione. Dun­ que Odisseo pensa alla conservazione del potere con mez­ zi privati e violenti, cioè pensa che questa è l'alternativa se manca l'appoggio del popolo. Si capisce che in tutta l 'Odissea i pretendenti devono apparire come le vittime predestinate di una giusta ven­ detta : questa era la storia; eppure, nel descrivere concre­ tamente i rapporti esistenti a ltaca, il poeta non riesce a dimostrare che essi sono completamente dalla parte del torto : piu che altro si limita a mettere in luce i lati odiosi del loro comportamento e il loro cattivo gusto, e arriva a dare di quei giudizi moralistici che nell'Iliade erano cosi rari. Nel colloquio con Telemaco che stiamo esaminando, Odisseo elenca cosi le colpe dei pretendenti, anzi le « ver­ gogne » di cui si macchiano ( vv. r o 8- r o ) : Ospiti maltrattati, ancelle violate turpemente nel mio bel palazzo, sprecato il mio vino , e gente che mangia il mio pane . . .

Le stesse parole sono ripetute da Telemaco nel libro XX J I 8· I 9 . Lasciamo stare l e ancelle, della cui moralità Odisseo ha modo di certificarsi quando dorme nell'atrio e gli tocca assistere a un allegro viavai notturno (XX 5- 1 3 ) ; è vero che alla fine Euriclea riferisce a Odisseo che la statistica è abbastanza confortante : su cinquanta ancelle, le « sfron­ tate » da punire con la morte sono dodici, ma appunto questa distinzione, e la punizione delle sfrontate, indica che qui i pretendenti non hanno commesso veri abusi. Il pane e il vino, come abbiamo detto, venivano dalla comu-

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nità ed erano destinati agli abituali banchetti di rappre­ sentanza offerti in primo luogo ai cittadini eminenti : i quali possono essere indiscreti a mettersi a tavola quando il posto del re è vuoto, ma insomma non fanno che appro­ fittare di una consuetudine. I maltrattamenti inflitti agli ospiti, se veramente ci so­ no stati, sono invece una colpa grave, soprattutto grave perché appunto essa contamina la casa del re in quanto istituto pubblico, e pertanto dovrebbe ricadere su tutta la comunità. Qui si esce dal terreno problematico del mora­ lismo generico e si passa nella sfera di quei doveri sociali che per l'Odissea come per l'Iliade hanno valore assolu­ to : in una società in cui non ci si può appellare a leggi scritte e l 'individuo può contare soltanto sulla protezione della sua comunità gentilizia, il rispetto per l 'ospite indi­ feso è un dovere sacrosanto. Omero lo sa benissimo, tan­ to è vero che, a strage compiuta, accorgendosi che questo è l'unico motivo adeguato per tanto spargimento di san­ gue, fa dire a Odisseo che i pretendenti sono finiti cosi perché non rispettavano gli ospiti. Euriclea vuole manifestare ad alte grida la gioia che l'ha invasa nel vedere i corpi dei massacrati, ma Odisseo la fa tacere (XXII 4 n - r 6 ; la stessa idea è espressa poi da Penelope : XXIII 65-6 6 ) : In cuore, balia, godi , m a frénati, non esultare : non è pietà su uomini uccisi far festa. Costoro la Moira dei numi travolse, e le azioni malvage ; perché nessuno onoravano degli uomini in terra, né il tristo, né il buono, chi arrivasse tra loro : cosi, pel folle orgoglio, turpe fine trovarono.

Queste parole sono dette in un momento solenne, e do­ cumentano il grado piu evoluto delle concezioni morali di Omero. Non si deve far festa sugli uccisi, neppure se la loro strage è stata un atto di giustizia : giustizia divina, di cui Odisseo si considera solo lo strumento. Qui Odisseo si è dimenticato il pane, il vino, le ancelle e anche la tentata o presunta usurpazione del suo potere . Come si vede, le motivazioni che portano alla strage si alternano. Fa la sua comparsa anche l'idea della giustizia

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divina, provocata da colpe che non riguardano diretta­ mente il conflitto « politico » , ma essa appare soltanto co­ me uno spunto occasionale che certo non può essere con­ siderato come un motivo fondamentale del poema. In un altro episodio sembra addirittura che gli dèi vo­ gliano decidere il destino individuale dei pretendenti giu­ dicandoli secondo le opere di carità che sono disposti a compiere. Atena induce Odisseo-mendicante a chiedere loro avanzi di pane « perché vede:;se chi era giusto e chi ingiusto » (XVII 3 6 3 ) ; tuttavia la possibilità di salvezza che sembra offerta ad alcuni di loro è annullata dal verso seguente : « ma, nemmeno cosi, qualcuno avrebbe evitato il malanno » . Nel libro seguente Anfinomo tratta con cor­ tesia Odisseo, il quale lo loda e gli augura che un dio gli permetta, come si merita, di evitare la morte quando il momento della vendetta sarà venuto; « ma neppure cosi evitò il fato : anche lui inchiodò Atena l sicché dalla ma­ no e dall'asta di Telemaco fosse abbattuto » (XVIII 1 5 51 5 6 : l'uccisione di Anfinomo è poi raccontata nel libro XXII 89-98 ). Nessuno si salva perché la leggenda popo­ lare del reduce vendicatore non prevedeva la distinzione fra buoni e cattivi ; ma sono interessanti questi spunti iso­ lati della nuova concezione di una giustizia divina che di­ stingue con cura fra le responsabilità individuali e che non esclude la clemenza. Abbiamo visto che nel costruire il piano della vendet­ ta il poeta (o i poeti ) rivela qualche incertezza quando de­ ve parlare delle colpe dei pretendenti. Il motivo « politi­ co » non era sufficiente, e allora sono state introdotte le motivazioni di ricambio che abbiamo detto. Alle quali vanno aggiunti il tentativo dei pretendenti di ammazzare Telemaco, i maltrattamenti personali inflitti a Odisseo, mendicante sconosciuto, e la follia che infine travolge le loro menti e li fa scoppiare nella risata magica e allucinan­ te (XX 34 5-49 ). Sono tutti fatti sufficienti per metterli in cattiva luce e per giustificare la strage, ma che avvengono quando la vendetta era già decisa.

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L'altra parte: Odisseo e il popolo. Dopo avere cosi assolto questi poveri pretendenti da quasi tutte le colpe che vengono loro addossate, tornia­ mo alla posizione di Odisseo che vuole o deve riconquista­ re il potere con mezzi privati e violenti. Il conflitto non a­ vrebbe carattere privato se funzionasse l 'unico potere pub­ blico che esiste, l'assemblea popolare. L'assemblea è un istituto regolare anche a ltaca ; ci si può chiedere come mai Odisseo, certamente benvoluto da tutti, quando tor­ na in patria non convochi per prima cosa l'assemblea e non si metta alla testa della maggioranza contro i preten­ denti. Con la sua esperienza militare avrebbe facilmente ragione di pochi aristocratici scioperati. Lo diciamo per scherzo, naturalmente : il bello della favola sta nell'azione individuale con riconoscimento finale del protagonista. Tuttavia vediamo che r ) un'alleanza fra il re e il po­ polo è possibile in linea di principio, e che d'altra parte 2 ) l'assemblea di ltaca, quando si riunisce, ormai funge da semplice massa di manovra. Nel libro II essa tiene se­ duta per la prima volta da quando Odisseo è partito. La convoca Telemaco, ma anche qui la può convocare chiun­ que, come nell'Iliade; infatti Egizio chiede : « chi ci ha raccolti cosi? » (v. 2 8 ) . Telemaco fa un discorso giovanil­ mente impulsivo, ma anche meditato. Egli dice : io cac­ cerei i pretendenti « se n'avessi il potere » rv. 6o ); quindi si rivolge alla comunità ( vv. 64- 7 9 ) : adiratevi anche voi, fate qualche cosa, sia per vergogna delle genti vicine, sia per timore di una punizione divina che colpirebbe anche voi ; a meno che non abbiate subito qualche torto da mio padre e non vi sentiate solidali con i pretendenti. Prefe­ rirei, conclude Telemaco, che voi gente del popolo divo­ raste i miei beni e i miei armenti : in tal caso me li restituireste. Ma meglio sarebbe per me che voi divoraste i miei beni, i miei armenti. Se voi li mangiaste, ben presto il compenso ne avrei : tanto m'attaccherei, parla e parla, in città a richiedere il mio, finché fosse resa ogni cosa.

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Ciò che in casa del re viene consumato da chiunque, indi­ geno o straniero, è fornito dal popolo. Una volta lo dice anche Alcinoo, il signore dei Feaci, che elenca a Odisseo i ricchi doni che gli darà e poi conclude tranquillamente il discorso, in presenza dell'ospite, con queste parole ri­ volte agli altri capi (XIII 1 3- 1 5 ) : Ma diamogli ancora un tripode grande e un lebete a testa ; poi, raccogliendo fra il popolo, noi ne avremo rivalsa, perché è pesante senza rivalsa donare.

Anche i beni consumati dai pretendenti vengono dalla comunità, che dovrebbe colmare i vuoti della dispensa : e cosi sarà alla fine, come dice Odisseo a Penelope nel pas­ so che abbiamo già citato (XXIII 3 5 5-5 7 ). Ma qui Tele­ maco prende atto di una situazione nuova, della relativa privatizzazione del conflitto fra casa reale e aristocrazia : c'è uno stato di « sede vacante » in cui i pretendenti di­ spongono a loro piacimento dei beni di Odisseo, cioè dei beni semipubblici, e il popolo lascia fare o per inerzia, o per impotenza o per solidarietà con loro. Questa situa­ zione nuova dovrebbe essere risolta alla fine, se la leg­ genda non dovesse seguire la sua strada obbligata fino al­ la strage, precisamente come suggerisce Eurimaco dopo l'uccisione di Antinoo (XXII 54-5 9 ) : Odisseo dovrebbe perdonare il suo popolo che collettivamente lo compen­ serà dei danni subiti, e in piu ciascuno dei pretendenti gli consegnerà a parte come multa, a titolo privato, venti buoi, bronzo e oro. Eurimaco distingue le responsabilità di Antinoo, il capo dei pretendenti, da quelle degli altri pretendenti e da quelle del popolo. Antinoo, egli dice, ora secondo giustizia è stato ammazzato ; ma tu al popolo tuo perdona ; noi, rendendoti pubblica ammenda, per quanto è stato bevuto e mangiato in palazzo, ciascuno a parte una multa di venti vacche pagando, bronzo e oro ti renderemo, finché il tuo cuore si rassereni; prima non merita biasimo l'ira.

L'offerta è molto ragionevole, tanto è vero che Odisseo preferisce non discuterla e passa al massacro. Dopo che Telemaco ha parlato, sempre nell'assemblea

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del libro II che stavamo esaminando, i pretendenti espon­ gono le loro ragioni e tutto resta come prima. Alla fine dell'assemblea dice il buon Mentore, riconoscendo che il conflitto si è privatizzato : io non me la prendo con i pre­ tendenti, che giocano la loro testa sperando che Odisseo non tornerà, e continua (I l 2 3 9-4 1 ) : io me l a prendo col resto del popolo, come voi tutti ve ne restate H muti, non costringete a finirla, con le parole attaccandoli, i pochi pretendenti, voi molti.

Si ragiona in termini di forza, cattivo segno ; e Leocrito può ribattere da Realpolitiker che, essendo il popolo pas­ sivo e neutrale, in realtà il rapporto di numero è a favore dei pretendenti. Cosi la situazione è messa in chiaro sotto tutti gli aspetti. La possibilità di un'azione popolare appare piu concre­ ta, con preoccupazione dei pretendenti, dopo che l'atten­ tato contro Telemaco è fallito. Ora è Antinoo che espone i fatti : Telemaco ha cominciato a dare prove di capacità insospettate, il popolo non è piu con noi ; dobbiamo agire prima che Telemaco convochi l'assemblea, altrimenti il popolo ci ridurrà a mal partito e ci caccerà dal paese (XVI 371-82). Nonostante tutta l'insistenza del poeta sui torti dei pretendenti, abbiamo visto che le ragioni « politiche » di Odisseo non sono indiscutibili. La sua azione resta fino in fondo qualche cosa d'intermedio e oscillante fra la legit­ tima riassunzione del potere e la vendetta privata. Se egli si dice sicuro di riottenere senz'altro dal popolo le ric­ chezze consumate, oltre alla carica, dopo la strage si guar­ da bene dal comparire in pubblico proclamando che giu­ stizia è fatta, ma prende le sue precauzioni in vista del conflitto privato con le famiglie degli uccisi e ammonisce Telemaco (XXIII u 8-2 2 ) : Chi un uomo solo h a ucciso i n paese, e molti vendicatori ne restano, fugge, lasciando i congiunti e la terra dei padri : e noi il sostegno della città massacrammo, i piu nobili fra i giovani d'ltaca ; questo t'invito a pensare.

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Finalmente Odisseo si rende conto di essersi cacciato in brutto guaio, o meglio il poeta che ha motivato reali­ sticamente, secondo le idee del suo tempo, la favolosa vendetta del reduce della leggenda, si accorge che il suo eroe è diventato piu o meno un criminale. L 'imbroglio non può essere risolto che da un provvidenziale deus ex machina, e a ciò ha provveduto alla meglio l'autore del­ l'ultimo libro dell'Odissea : Atena scende fra le parti in lotta e stabilisce un patto di pace per il futuro. La conclu­ sione è molto soddisfacente per il civile lettore e per Odis­ seo, ma non altrettanto per le famiglie dei giovani uccisi. Nell'Odissea il popolo, come depositario dei poteri « politici » , sembra a volte una forza reale, piu spesso una massa di manovra fra il re e i nobili che assumono, da am­ bo le parti, posizioni di carattere sempre piu privato. Quando non è visto come assemblea, qui il popolo appare assai piu differenziato che nell'Iliade (che però, occorre tenerne conto, rappresenta un esercito in guerra) . Nell'O­ dissea affiorano bensf motivi tradizionali che si riferiscono a una società primitiva governata da un re-pastore. Come nell'Iliade c'è Paride che nel passo sul famoso concorso di bellezza è occupato nella pastorizia (XXIV 2 9 ) , o i fra­ telli di Andromaca, figli del re Eezione, che sono uccisi accanto ai buoi e alle pecore (VI 424), cosf nell'Odissea il protagonista appare a tratti come un patriarca artigiano­ contadino, abile in tutti i lavori : per necessità si costrui­ sce una buona zattera (V 2 3 4 sgg . ), ma si è anche fabbri­ cato da solo il letto nuziale (XXII I I 8 9 sgg . ) e una volta dichiara di saper falciare e arare con bravura e senza stan­ carsi ( XVIII 366 sgg. ) e se ne vanta. Qui la divisione sociale del lavoro sembra appena agli inizi ; siamo ancora lontani dalla nuova epoca annunciata da Esiodo, che è costretto a proclamare, come una verità non ovvia : « Non è vergogna il lavoro, è vergogna la vita inattiva » ( Opere 3 I I ). Nell'Odissea ci sono ancora esem­ pi di specializzazione professionale primitiva o « natura­ le », determinata non da opportunità o necessità tecnico­ economiche ma dalla costrizione di particolari condizioni personali : il primo fabbro a noi noto, Efesto, è zoppo, cioè ha acquistato una peculiare perizia nel lavoro della un

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fucina essendo inabile alle altre occupazioni. L'aedo De­ modoco è cieco, come l'aedo di Chio dell'Inno america ad Apollo e come l'Omero della tradizione : i ciechi si spe­ cializzano nell'esercizio della memoria. I tipi di attività artigianali noti all'Odissea sono elen­ cati da Eumeo, in risposta ad Antinoo che gli ha rimpro­ verato di avere condotto con sé un mendicante (XVII 3 8 1 sgg. ) : chi uno straniero andrà i n persona a invitare, se non si tratti d'artigiani ( OTJ!J.LOEpyoL) o maestri , o un indovino, o un carpentiere, o un guaritore di mali, o anche un divino cantore, che diletta cantando? Questi sono cercati fra gli uomini . . .

Se si aggiungono il fabbro e l 'araldo si ha l'elenco com­ pleto degli specialisti che possono ben trovarsi in una co­ munità ancora sostanzialmente indifferenziata. Ma l'Odissea conosce anche altri gruppi che presup­ pongono iniziati mutamenti profondi. Il mendicante è già una figura caratteristica. Le imprese di rapina e di pirate­ ria non sono piu normali attività economiche collettive, quali ha in mente Nestore quando domanda cortesemente all'ospite Telemaco, non ancora riconosciuto, se lui e i suoi compagni sono pirati ( I II 72 sgg. ) ; ora il brigantag­ gio e la pirateria sono anche attività private, esercitate da elementi che sono stati esclusi dalla comunità, e pertanto sono giudicate riprovevoli. I versi con la domanda di Ne­ stare a Telemaco (la stessa che Polifemo fa a Odisseo : IX 2 5 2 -5 5 ) erano espunti dal critico alessandrino Aristar­ co, il quale non voleva ammettere che Telemaco potesse essere preso per un pirata . Ma da questo passo Tucidide ( l 5 ) desumeva giustamente che nei tempi piu antichi l'e­ sercizio della pirateria era un mestiere onorato, o meglio « era un onore esercitarlo bene » , perché non c'erano me­ stieri piu o meno onorevoli o disprezzati. Già nell'Odis­ sea si vede che le cose cambiavano rapidamente, soprat­ tutto in seguito al nascente contrasto fra città e campagna ; dapprima non c'è una vita urbana che si contrapponga a una vita rustica, ma una battuta dell'Odissea (XXI 8 5 ) : « Stupidi campagnoli, che avete corti pensieri » , indica for-

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se che la degradazione dei contadini cominciava a passare in proverbio. Fra la popolazione rurale ci sono i lavoratori agricoli ( thetes) che prestano la loro opera per altri e che vivono in una condizione precaria come i mendicanti e i ladri, oc­ cupano il gradino piu basso della scala sociale. Una volta, per far ridere i pretendenti, Eurimaco fa questa proposta allo sconosciuto Odisseo (XVIII 3 5 0 sgg. ) : Straniero, vorresti dunque servirmi, se ti prendessi, laggiu in fondo ai campi - la paga sarà sicura a raccogliere pietre o a piantare grandi alberi? là pane ogni giorno ti fornirei, vesti ti vestirei, ai piedi ti darei sandali.

Lo scherzo di Eurimaco è crudele : dopo il lavoro sta­ gionale i thetes potevano essere ricompensati con un'ele­ mosina, se andava bene, oppure con una bastonatura. Un brutto infortunio di questo genere era capitato persino a Poseidone e ad Apollo che una v9lta, forse per essersi ri­ bellati contro Zeus, avevano dovuto servire come thetes sotto Laomedonte, dopo aver pattuito un salario, ma alla fine della stagione Laomedonte li aveva semplicemente cacciati minacciando per giunta di mozzar loro le orecchie ( I l. XXI 44 1 -5 7 ) . Per esprimere con impressionante efficacia i l suo rim­ pianto per la vita, il morto Achille dice a Odisseo che lo incontra nell'oltretomba : vorrei lavorare come un thes (ìh]'tEVÉ(.LE'II, Od. XI 489), servire un padrone, un diseredato, che non avesse ricchezze, piuttosto che dominare su tutte l'ombre consunte.

« Un thes, non uno schiavo, era l 'infima creatura della terra a cui Achille potesse pensare » (M. I. Finley ). Le parole di Achille, la stessa esistenza di categorie co­ me i mendicanti, i predoni « in proprio » e soprattutto i thetes dimostrano che gli ordinamenti primitivi sono su­ perati (pur se formalmente appaiono in vigore, con i limi­ ti che abbiamo visto, nell'intreccio centrale dell'Odissea ), che il possesso privato della terra, occupata dalla nascente

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aristocrazia, comincia a espellere dai poderi e dai quadri gentilizi larghi gruppi di persone che ora dovranno sotto­ mettersi in condizione di servaggio, o campare alla giorna­ ta con tutti i mezzi o, quando è possibile, emigrare in altre terre. L'accentramento della proprietà privata della terra nelle mani delle famiglie aristocratiche segna anche l'ini­ zio della polis e degli ordinamenti « politici » veri e propri, con organi rappresentativi permanenti e tutte le strutture amministrative che di una comunità fanno uno Stato ; d'al­ tra parte esso è all'origine della grande diaspora che por­ terà colonie di emigrati greci in cerca di terre su larghis­ simi tratti delle coste mediterranee. Gli storici antichi sa­ pevano benissimo che la grande colonizzazione fu dovuta alla « scarsità di terra » in madrepatria. Gli studiosi mo­ derni considerano il fenomeno, piu romanticamente, an­ che come « espressione di un nuovo elementare sentimen­ to della vita, per il quale i confini della patria sono diven­ tati troppo angusti » (Hermann Bengtson). È certo però che in un primo tempo tutte le colonie greche orientali e occidentali furono fondate come centri agricoli.

I personaggi

La rappresentazione epica dei caratteri. Dalle notizie sommarie che abbiamo raccolto sui linea­ menti generali dell'ambiente omerico risulta, se non altro, che in un mondo come quello la poesia doveva avere non solo un oggetto diverso, ma anche una natura e una fun­ zione diverse da quelle della nostra poesia moderna, e che essa non potrà essere giudicata con i criteri a noi familiari . Noi non cercheremo di scoprire i criteri estetici supremi dell'epica, ma soltanto di esaminare nei poemi omerici qualche altro aspetto particolare, sempre restando fermi all'analisi del contenuto. Vediamo ora come siano costrui­ ti i singoli personaggi, come si muovano in quel loro mon­ do che abbiamo cercato di afferrare. Nella valutazione estetica « ingenua » dei poemi i per­ sonaggi sono considerati senz'altro alla stregua delle figu­ re poetiche dei nostri tempi : se ne loda la vivezza, la fi­ nezza psicologica, l'unità di carattere, rese con la coerenza che fa il merito delle grandi creazioni poetiche moderne. Proprio all'epoca in cui i filologi erano intenti a demoli­ re col massimo fervore la compagine dei poemi, denun­ ciandone le infinite incongruenze e contraddizioni, Jacob Burckhardt per esempio scriveva : « l'impostazione dei singoli caratteri mostra un'infallibile sicurezza ed una ve­ rità spontanea e naturale » ; e pertanto « chi sapeva pre­ sentare e potenziare cosi Achille e Odisseo doveva essere un poeta, e un poeta di prim'ordine. Dobbiamo liberarci dalla concezione di un'opera composta da una sequela di parti staccate : una simile perfezione non sorge da sola, a

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poco a poco ; analogamente a ciò che avvenne in tutti i millenni, occorre per questo un individuo della specie piu potente » . È il giudizio di un austero studioso, che merita tutto il rispetto. Ma fra filologi ogni discussione sull'uni­ tà dei caratteri dei personaggi omerici s 'invelenisce subito perché le diverse opinioni rispecchiano fatalmente teorie diverse sull'unità dei poemi, cioè sulla questione omerica. Abbiamo accennato a suo tempo che il contrasto fra l'Aga­ mennone penitente del libro IX dell'Iliade e quello sicuro della propria innocenza del libro XIX ha servito ad alcuni per dimostrare che i due passi sono di autore diverso. An­ che oggi si cerca, a seconda dei punti di vista, di far ap­ parire intollerabili o inessenziali, rispettivamente, quelle incoerenze psicologiche che, secondo il nostro modo di vedere, senza dubbio si riscontrano nelle azioni e nei pen­ sieri dei personaggi omerici. Tutti ricordano i versi che concludono l'Incontro di Et­ tore e Andromaca ( Il. VI 5 00-2 ) : Ettore torna a combat­ tere, la moglie e le ancelle piangevano Ettore ancor vivo nella sua casa, non speravano piu che indietro dalla battaglia sarebbe tornato, sfuggendo alle mani, al furore dei Danai.

Veramente Ettore ha ancora un certo tempo da vivere, e avrà anche occasione di rivedere la moglie ; se passiamo sopra a questo particolare che non toglie nulla al patetico dell'episodio, dovremmo però aspettarci che nel seguito Ettore si comporti come un uomo già avvolto da una « at­ mosfera di morte » . Un critico convinto dell'unità com­ positiva di tutto il poema affermerà che d'ora in poi l'ani­ mo di Ettore appare dominato da quest'ombra, mentre chi considera l 'Incontro un episodio affatto autonomo, inse­ rito a forza nell'Iliade all'ultimo momento, sosterrà ener­ gicamente il contrario. Alla base di queste discussioni c'è pur sempre l'idea che nell'epica greca si possa comunque ricercare una costruzione e caratterizzazione poetica in tutto affine a quella della poesia moderna. Ciò che invece non è affatto lecito. Mentre da un'opera moderna, per esempio da un ro­ manzo, si possono estrarre i ritratti dei personaggi, che la

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fantasia del lettore finisce con l'immaginare come persone in carne ed ossa, conosciute nella vita, ciascuna con i suoi lati personali inconfondibili e i suoi gesti prevedibili, e anche la critica ha il diritto di valersi praticamente di que­ sta illusoria trasfigurazione veristica, dai poemi omerici si­ mili ritratti non si possono ricavare. Se noi abbiamo in mente una caratterizzazione tipica dei maggiori eroi ome­ rici, in realtà essa deriva da qualche episodio isolato dei poemi o, piu spesso, dalla rappresentazione moralistica e manualistica che ne fornirono scrittori posteriori : non an­ cora e non tanto i tragici, quanto i mitografi e i compila­ tori, con molta influenza della filosofia popolare che aveva ridotto quei personaggi a tipi esemplari. Ma nei poemi la personalità degli eroi appare davvero inconsistente, con­ traddittoria; dei loro caratteri « il n'y en a presque un seui qui ne se démente » ( Voltaire). Alcune delle contraddizioni che contribuiscono a ren­ dere cosi sfuggenti i caratteri omerici derivano certo dalla pluralità delle fonti, dalla natura corporativa del mestiere poetico, dalla naturale evoluzione delle leggende tradi­ zionali, e qui la critica « analitica » trova le sue buone ra­ gioni. Se Achille è sostanzialmente l'anticipatore di una visione piu civile della vita , aristocratica , mentre per al­ cuni aspetti è il piu barbaro degli eroi , i due lati della sua « personalità » saranno il riflesso di fasi successive della sua storia poetica; per non dire di Odisseo che, essendo preso a protagonista delle avventure piu disparate, appa­ re veramente capace di tutto : è un modello di lealtà e sa inventare menzogne come nessun altro, pensa sempre alla casa ma va in cerca di guai per il vasto mondo, è saggio e prudente ma si caccia senza ragione nella grotta del Ciclo­ pe e vorrebbe affrontare Scilla con la spada in pugno. Ma la mancanza di un vero carattere individuale nei personaggi omerici non può essere completamente spiega­ ta con la diversità di autori o con la stratificazione del ma­ teriale leggendario, e deve dipendere soprattutto da una ragione storica, prima che tecnico-poetica. Questa rappre­ sentazione letteraria delle figure umane - che sarebbe fa­ cile definire poco profonda - corrisponde a una certa con­ dizione storica dell'uomo.

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Nell'indagine sul modo omerico di descrivere le figure umane la recente critica linguistica e contenutistica ha raggiunto risultati notevoli (grazie soprattutto ai noti la­ vori di Bruno Snell). Si è osservato che in Omero, come non si ha una visione unica e comprensiva del corpo uma­ no, né un termine per esprimerla, cosi manca o sembra mancare una rappresentazione sintetica che renda l'indivi­ dualità spirituale, la personalità, e quindi il carattere di un personaggio. Già i critici antichi avevano osservato che il termine indicante il corpo nel greco posteriore (crwiJ.cx.), in Omero è usato soltanto per il cadavere, e i critici mo­ derni sono d'accordo, nonostante qualche possibile riser­ va : intanto una volta ( Il. III 2 3 ) CTWIJ.CX. potrebbe indicare un animale vivo (Hans Herter) ; e poi oltre a CTWIJ.CX. Ome­ ro usa per i viventi altre parole che equivalgono a « cor­ po » , come OÉIJ.cx.c;, o che per estensione assumono preci­ samente quel significato, come « testa » (xEcpcx.À.i) ). « La pa­ rola omerica per la persona è " testa ". Analogamente, nella lingua del diritto romano caput e capitalis sono impiegati per " persona " e " personale " , a differenza di res per la proprietà. In questo senso vanno intese poena capitalis e deminutio capitis » (Hermann Friinkel). Per esempio Pe­ nelope, parlando di Odisseo (Od. I 343 ), dice : « cosi ca­ ra testa rimpiango, sempre pensando a quell'uomo » ecc. Resta vero però che di regola, del corpo vivente, sono indicate soltanto le singole parti e i singoli organi. Allo stesso modo la psyche, l'« anima », è o l'ombra evanescen­ te che si stacca dal corpo alla morte (piuttosto un fanta­ sma che un'anima), o la base di ogni moto vitale, mentre i var: aspetti della vita spirituale sono ricondotti a parti del corpo. Mancando un centro spirituale organizzatore, l'a­ nimo umano sarebbe allora un « campo aperto » a tutte le influenze del mondo esterno, e per l'uomo omerico non si potrebbe parlare ancora di vita interiore, di responsa­ bilità (un problema, questo, di cui abbiamo già discusso sopra), di autodeterminazione. La poesia omerica non avrebbe alcun concetto della dimensione della profondità umana , mancando tutti gli elementi che per noi costitui­ scono la personalità. Questa tendenza a definire i limiti della concezione

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omerica dell'uomo, o meglio a individuare storicamente il valore esatto di espressioni e fenomeni che di solito ven­ gono intesi secondo criteri affatto moderni, rappresenta un positivo passo avanti nell'interpretazione dei poemi. Non va nascosto però che nella sua fedeltà al dato lingui­ stico concreto questa tendenza comporta un nuovo peri­ colo di astrazione. È vero che nella lingua omerica man­ cano i termini che esprimono aspetti generali, per noi es­ senziali, della personalità umana, ma non è ancora detto che se manca la sintesi concettuale, elaborata piu tardi, debba necessariamente mancare ogni nozione della cosa e la rappresentazione poetica di essa. Di per sé, la semplice determinazione ed elencazione di ciò che « manca » all'uomo omerico, in rapporto alla no­ stra idea dell'uomo in generale, ossia dell'uomo moderno, presupposto come « completo » se non perfetto, finisce col suggerire l'immagine di un tipo umano dolorosamen­ te limitato o mutilato, brancolante nell'oscura anticamera della vera vita etico-razionale, ancora alla ricerca dello « spirito » che sarebbe un'entità esistente ab aeterno ma ancora in attesa di essere scoperta. Questa ricorrente, an­ che se involontaria, caratterizzazione negativa dell'« uo­ mo omerico » va accostata alla storiografia di tipo teleo­ logico, che nelle antiche istituzioni, ancora prive di questo o quello strumento, non vede altro che un rozzo embrio­ ne, un rudimento delle istituzioni moderne. Si capisce che da molte parti si protesti, se non altro in nome del senso comune, contro questa grave menomazione di una civiltà e di una poesia di cui si continua a proclamare il perenne valore esemplare e normativa. Si obietta, per esempio, che i personaggi omerici non potrebbero apparire tuttora cosi vivi se non avessero una vera personalità : « non bisogna arrivare a concludere che nel mondo di Omero non si vedesse affatto l 'insieme di una persona. Anzi, le figure di questa poesia hanno una personalità molto definita, altrimenti la sua impronta non sarebbe potuta sopravvivere per millenni » (Albin Lesky) . Si può rispondere che ogni generazione d i lettori, d i vol­ ta in volta, ha sempre ritrovato nei personaggi omerici uomini affini a quelli della propria epoca. Certo, il nuovo

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modo d'interpretarli sembra ridurre a pure ombre inaf­ ferrabili quelli che ci apparivano uomini veri. « Se si ag­ giunge che al Greco . . . sarebbero addirittura mancate la coscienza, la responsabilità, e che insomma fino all'età di Eschilo gli sarebbero mancate la tragicità, la scelta e la decisione autentiche, la consapevolezza del rapporto di personalità, e questa e quell'altra cosa, allora s'impone la domanda : che rimane dunque? Questo uomo greco, ar­ caico, omerico, è poi un uomo ? E resta ancora, fra noi e lui, una possibilità d'intesa ? O meglio : una possibilità per noi d'intenderlo ? » ( Otto Seel). Ma se le recenti ricer­ che ·storico-linguistiche hanno dimostrato che molti aspet­ ti della vita psicologica e intellettuale a noi familiari non si trovano in Omero, ciò non vuol dire che l'uomo ome­ rico sia un minorato, uno scarto d'uomo. È semplicemen­ te diverso dagli uomini moderni, ciò che del resto era ov­ vio, e anche dai Greci che troviamo rappresentati in opere letterarie appena un secolo o due posteriori ai poemi. Quest'ultimo punto non è di poco conto, se si pensa a quanto resiste ancora la visione classicistico-retorica del­ l 'unità ideale della civiltà greca, di cui Omero sarebbe par­ te essenziale. È vero che i lirici e i tragici derivarono sem­ pre da Omero temi e precetti di stile, ma bisogna guar­ darsi dal considerare la civiltà tardo-arcaica e classica co­ me un proseguimento logico e necessario della civiltà del­ l'epica. Resta da vedere di che sia fatto il carattere del perso­ naggio omerico, o se si debba negare che abbia un carat­ tere purchessia. La parola greca « carattere » compare re­ lativamente tardi col significato metaforico tradizionale, ma ciò non ha importanza : già prima, naturalmente, esi­ steva la nozione e qualche termine all'incirca equivalente. In Omero non ci sono espressioni analoghe, e anche qui si è arrivati ad affermare che in questa poesia non manca sol­ tanto la parola, ma anche la nozione, in quanto essa impli­ ca la dimensione della profondità ecc. Questa soluzione è ovviamente troppo sbrigativa. Quando Achille dice che Agamennone ha occhi di cane e cuore di cervo, la contrapposizione fra aspetto fisico e animo vile esprime con energia una qualità interiore per-

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manente e anche essenziale di un capo militare, che non osa mai muovere personalmente in combattimento e pre­ ferisce raccogliere i frutti delle gesta altrui ( Il. I 225 sgg.). La stessa contrapposizione è nel giudizio d i Ettore su Paride, bello ma vile (III 39 sgg.). C'è anche una di­ stinzione fra la natura innata : « non mi fece imbelle del tutto la madre » (parla Paride : XIII 777 ) , e le doti acqui­ site : « ho appreso a esser forte l sempre, a combattere in mezzo ai primi troiani. . . » (parla Ettore : VI 444 sgg.). Si può anche « imparare la ribalderia » (Od. XVII 2 2 6 XVIII 3 6 2 ) . A Ettore che lo biasima Paride risponde ( Il. III 6o sgg . ) : =

Sempre i l tuo cuore è inflessibile, come l a scure che penetra il legno in mano d'uomo che ad arte taglia scafo di nave, seconda lo sforzo dell'uomo : cosi impassibile al timore l'anima è nel tuo petto.

Si vede che allo stile epico non mancano i mezzi per definire certe qualità permanenti. In mancanza di termi­ ni sintetici si ricorre a indicazioni analitiche e metafori­ che : identificazione di tutta la persona con un suo organo fisico-psicologico (i}v(J.6