In carne e ossa. DNA, cibo e culture dell’uomo preistorico

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Percorsi 98

© 2006, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2006

L’edizione di questo volume è stata promossa dalla Fondazione Santa Lucia

Gianfranco Biondi Fabio Martini Olga Rickards Giuseppe Rotilio

In carne e ossa DNA, cibo e culture dell’uomo preistorico

Editori Laterza

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel dicembre 2006 Poligrafico Dehoniano Stabilimento di Bari per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8144-9

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Presentazione

La crescente diffusione presso il grande pubblico di «racconti» dell’evoluzione umana, sia sotto forma di film o documentari televisivi che sotto forma di articoli di giornale o libri, rende quanto mai opportuna la domanda: perché questo nuovo contributo? Una risposta ovvia sta nel fatto che assistiamo a una stagione straordinaria della paleoantropologia, con sempre nuove scoperte, sia a livello di scavo che di studi molecolari, e questo rende un aggiornamento sempre foriero di esiti imprevisti e appassionanti, anche a livello dei non addetti ai lavori. Si pensi, ad esempio, alla scoperta dell’uomo di Flores proprio nel periodo in cui una serie di romanzi e film di enorme successo riproponeva la favola del popolo degli hobbit come un’entità umana parallela agli esordi della nostra specie, un mito pubblicato mezzo secolo prima dei ritrovamenti sull’isola indonesiana. Ma c’è un’altra ragione che rende questo libro una novità. È la prima volta che si pubblica, almeno in Italia, un resoconto dell’evoluzione degli ominini che includa due altri punti di vista, al di là di quelli collegati alla trattazione dei reperti fossili e molecolari. Si tratta degli aspetti che riguardano l’alimentazione e la nascita dei primi fenomeni legati alla società e alla cultura. La difficoltà interpretativa di molti punti relativi a questi aspetti, in un campo in cui anche le conclusioni suggerite da reperti direttamente osservabili, come quelli ossei e molecolari, sono soggette ad accese discussioni, ci ha consigliato di scegliere una scrittura a più mani, che, rassicurando sul piano della competenza scientifica, può aver compromesso l’omogeneità stilistica e la fluidità di racconto. Ma la presenza di più esperti ci garantiva altresì da un altro punto di vista. Solo il ricercatore attivo sa che nel proprio campo anche l’ipotesi più corroborata da prove può essere «falsificata» da nuoV

ve scoperte e interpretazioni. Perciò ci è sembrato che la scrittura a responsabilità diretta fosse un inconveniente inevitabile per integrare in maniera adeguata due nuovi capitoli nella storia già più volte raccontata dei fossili e delle molecole. Affrontare i problemi relativi all’alimentazione e alla cultura di tempi così remoti significa andare alla radice dell’interazione della specie con il suo ambiente, che sta alla base dell’adattamento e dell’evoluzione. Queste due aree sono collegate fortemente fra loro perché dai processi ad esse connessi nascono gli effetti che caratterizzano le prime società. E un ruolo preminente è giocato dall’espansione cerebrale, allo stesso tempo promotrice di questi effetti (fra i quali una più efficiente ricerca del cibo) e prodotto principale dell’interconnessione fra nutrizione sempre più completa e affinamenti relazionali sempre più complessi. In questo contesto un ringraziamento particolare è dovuto alla Fondazione Santa Lucia, Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico specializzato in ricerca avanzata sul cervello, per il continuo interesse e supporto mostrati nei confronti del nostro lavoro. La Fondazione ha istituito un centro di studi sugli effetti dell’alimentazione sulla fisiopatologia cerebrale, nel quale sono coordinati interventi nutrizionali sul recupero delle funzioni neurologiche dopo episodi patologici di vario tipo, interventi in parte fondati sulle idee esposte nella parte di questo libro riguardante l’alimentazione. Ulteriore conferma che la conoscenza della storia evolutiva dell’uomo, dalla selezione dei geni a quella dei comportamenti, è uno strumento essenziale per un approccio più razionale ai problemi che segnano attualmente la sopravvivenza della specie umana.

In carne e ossa DNA, cibo e cultura dell’uomo preistorico

Parte prima

Umani da sei milioni di anni di Gianfranco Biondi e Olga Rickards

Capitolo primo

I primi passi della dinastia

A immagine di Darwin Prima che Charles Robert Darwin pubblicasse il libro più importante che sia mai stato scritto, quell’Origine delle specie apparso a Londra nel 1859, l’uomo era solo un’astrazione, sebbene di natura particolarissima. E precisamente, l’uomo era un’entità posta fallacemente al di sopra di ogni altro essere vivente per governare il mondo naturale, non già per farne parte. Eppure Linneo, fin nella prima edizione del suo Systema Naturae pubblicato nel 1735, aveva inserito la nostra specie nello stesso ordine tassonomico che comprendeva le scimmie e le scimmie antropomorfe e al quale aveva riservato il nome, appunto, Anthropomorpha – che nella decima edizione, del 1758, mutò in Primates (primati). Per Linneo, le somiglianze morfologiche tra l’uomo e le antropomorfe erano talmente spinte da non consentirne la separazione in ordini diversi; né tanto meno, come qualcuno addirittura si azzardava a suggerire, di toglierci dal regno animale e istituire per noi il regno «umano»1. Ma torniamo a Darwin e alla sua teoria dell’evoluzione, che per la prima volta era in grado di spiegare in modo organico e compiuto l’origine e la scomparsa delle forme viventi e le loro modificazioni nel corso del tempo. E proprio il parametro tempo ha costituito uno dei meriti principali della teoria, poiché ha veicolato in biologia il concetto di storia e quindi ha permesso di collocare ogni individuo in una relazione antenato-discendente. La prima reazione della società civile dell’epoca, e anche di una gran parte degli scienziati, fu di profondo rifiuto, tanto che trovò 1

G. Biondi, O. Rickards, Uomini per caso, Editori Riuniti, Roma 20032.

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spazio e accoglienza una vera e propria campagna denigratoria che stravolgeva il pensiero darwiniano, suggerendo la falsa idea di una nostra discendenza diretta dalle scimmie. Per Darwin, in realtà, noi e le antropomorfe avevamo semplicemente condiviso un progenitore comune, dal quale si erano evoluti lungo itinerari e tempi diversi gli antenati del gibbone, del siamango e dell’orango in Asia, e del gorilla, dello scimpanzé e dell’uomo in Africa. A metà Ottocento non era affatto possibile assegnare delle date alle separazioni tra le varie forme, ma oggi, e grazie all’enorme sviluppo della biologia molecolare, siamo in grado di farlo. Il primo distacco dal tronco, o antenato, comune è avvenuto 18 milioni di anni fa e ha visto coinvolti il gibbone e il siamango (che si sono separati l’uno dall’altro solo 8 milioni di anni fa); poi, 14 milioni di anni fa, si è distaccato l’orango, e 7 milioni di anni fa il gorilla. Scimpanzé e uomo sono stati una sola forma vivente fino a 6 milioni di anni fa, quando il caso li ha sospinti lungo vie evolutive diverse; e all’interno degli scimpanzé, la divisione tra lo scimpanzé comune e il bonobo (o scimpanzé pigmeo) risale a soli 3 milioni di anni fa – come vedremo, più o meno al momento in cui nella nostra linea evolutiva il genere Homo è nato dagli australopiteci e li ha sostituiti2 (si veda la figura di p. 79). Grazie a Darwin la storia umana aveva finalmente iniziato a prendere forma, a conquistare quella profondità che le apparteneva e che era stata invece compressa dal creazionismo in soli 4.000 anni. Al momento in cui Darwin scriveva, e ancora dopo, nel 1871, quando ha dato alle stampe il libro sull’Origine dell’uomo, si conoscevano pochi fossili ascrivibili alla nostra linea evolutiva e tutti piuttosto recenti e provenienti da siti localizzati nel nostro continente, il che voleva dire fossili di sapiens antichi o di neandertaliani. La paleontologia, infatti, era una scienza ancora giovane e l’interesse per la sua pratica era esclusivamente europeo; così come era l’Europa il teatro delle sue ricerche. È stato Darwin a suggerire che le testimonianze più antiche del nostro passato dovessero essere ricercate là dove vivevano i parenti a noi 2 M. Goodman, Epilogue: A Personal Account of the Origins of a New Paradigm, in «Molecular Phylogenetics and Evolution», 5, 1996, pp. 269-85; N. Patterson et al., Genetic Evidence for Complex Speciation of Humans and Chimpanzees, in «Nature», 441, 2006, pp. 1103-108.

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più prossimi, lo scimpanzé e il gorilla, e quindi nel continente africano, ma il suggerimento è stato accolto solo all’inizio del secolo successivo e solo dagli studiosi sudafricani. Secondo Alfred Russel Wallace – che sull’evoluzione era giunto alle stesse conclusioni di Darwin – e Ernst Haeckel, invece, la nostra origine sarebbe stata asiatica ed era quindi verso l’oriente che dovevano essere indirizzate le ricerche. Alla fine dell’Ottocento essi furono ascoltati da un giovane medico, Eugène Dubois, ma quell’area del mondo non ci ha restituito le radici che i primi paleoantropologi erano andati a cercarvi. Ancora una volta, quindi, Darwin ha avuto ragione, perché l’Africa è stata la madre e la culla dove gli ominini, la sottofamiglia zoologica che comprende noi uomini attuali e i nostri antenati fino alla separazione dallo scimpanzé, sono vissuti per i loro primi 4 milioni di anni. Darwin ha avuto l’enorme merito di trasformare in realtà un’aspirazione. Grazie a lui, l’umanità ha capito come usare la ragione per spiegare la vita, perché senza l’evoluzione è impossibile afferrarne il senso e penetrare nei suoi meccanismi. E per un vivente non c’è nulla di più caro e prezioso al mondo della vita. Noi bipedi Per lungo tempo abbiamo posto erroneamente alla base della nostra evoluzione l’enorme sviluppo del cervello3, il quale, oltre ad aver raggiunto una dimensione ben tre volte maggiore di quella che ha nelle antropomorfe, è anche cambiato nella struttura, con i lobi frontali che sono aumentati di più rispetto agli altri. Alle innovazioni verificatesi in questo organo sono state associate, in passato, l’origine del pensiero astratto e la capacità di produrre manufatti litici, oggi però sappiamo che le cose non sono andate affatto così. È stata una parte assai meno «nobile» del nostro corpo a farci diversi dagli scimpanzé, almeno al principio: sono stati i piedi. Il carattere che è divenuto diagnostico per far assegnare un fossile agli ominini è la postura eretta con l’andatura bipede, che ha modificato profondamente il nostro scheletro. Il bacino, prima 3 Si ricordi che il volume del cervello deve essere valutato sempre in relazione alle dimensioni corporee (Parte seconda, p. 103 e p. 125).

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di tutto, che si è accorciato ed espanso per offrire una più ampia superficie di attacco ai potenti muscoli glutei, il cui compito è quello di mantenere in equilibrio il busto sugli arti inferiori; poi il femore, che è andato a convergere verso l’articolazione del ginocchio per mantenere il baricentro all’interno della nostra base di appoggio; poi ancora il piede, che ha perso ogni capacità prensile e si è adattato alla deambulazione sul terreno; quindi il braccio, che si è accorciato; e il foro occipitale (o foramen magnum), che si è andato a posizionare proprio al centro della base del cranio per consentire alla testa di stare perfettamente in equilibrio sulla colonna vertebrale. Gli antropologi hanno pescato in ogni piega della loro fantasia per spiegare l’origine del bipedismo, ma con poco successo, bisogna dire. L’ipotesi che più di ogni altra, e più a lungo, è stata sostenuta lo metteva in relazione alla variazione climatica che ha trasformato gran parte della foresta africana in savana, con la conseguente rarefazione delle fonti di sussistenza e la loro distribuzione su un territorio sempre più ampio. Per gli ominini, quindi, sarebbe stato indispensabile scendere dagli alberi e imparare a muoversi sul terreno, e nel nuovo ambiente sarebbe stato estremamente vantaggioso avere le mani libere da compiti deambulatori, così da poterle impegnare nel trasporto a distanza del cibo. Non vi è dubbio che la «liberazione» delle mani sia stata vantaggiosa e che a partire da essa i nostri antenati abbiano potuto fare cose altrimenti impossibili, dal fabbricare oggetti al tenerli e trasportarli, ma questa è stata una conseguenza e non già la causa. L’evoluzione proprio non ha piani prestabiliti, essa innova a caso e le innovazioni che si dimostrano utili sono preservate. L’azione evolutiva non va dall’ambiente all’invenzione adattativa che ne permetta la conquista. Essa, invece, marcia in senso contrario: una novità casuale di natura genetica, sia essa di tipo anatomo-morfologico o fisiologico o biochimico, e nel nostro caso anche culturale, consente ai viventi di entrare in un nuovo ambiente. E la natura è estremamente varia e offre una potenzialità pressoché infinita di nicchie ecologiche, le quali però non sono date a priori, ossia non ci sono confini definiti tra l’una e l’altra né c’è o si può immaginare che ci sia una loro lista; invece, sono proprio le invenzioni evolutive che aiutano gli organismi a ritagliare le nicchie e a costruire le nuove case. Se i vantaggi dello stare dritti su due gam8

be sono del tutto evidenti, la causa di questa postura unica tra i primati viventi deve essere ricercata a nostro avviso esclusivamente nell’ambito del caso. Anche perché, ci sono ormai numerose prove, distribuite in vari siti africani, che testimoniano l’acquisizione della stazione eretta quando vivevamo ancora in ambienti boscosi. E inoltre, un tale modo di stare era già stato sperimentato molto tempo prima che la nostra avventura cominciasse. Ci riferiamo a un antico primate – l’Oreopithecus bambolii – vissuto nell’area tosco-sarda tra 9,5 e 6,5 milioni di anni fa, cioè nel Miocene superiore, quando la Maremma era un’isola al pari della Sardegna. Quella scimmia antropomorfa si presentava come un vero e proprio mosaico di tratti primitivi e derivati, in cui le braccia più lunghe delle gambe (come nelle antropomorfe) si accompagnavano a mani e piedi decisamente troppo piccoli per la vita arboricola4, dove è indispensabile poter esercitare una presa efficace sui rami, e a un bacino e a un’articolazione del ginocchio idonei all’andatura bipede (caratteri tipici della linea ominina). La prima invenzione del bipedismo da parte dell’evoluzione, però, ha avuto la sfortuna di andarsi a fissare in un animale insulare e l’isolamento geografico ne ha impedito la trasmissione e poi ne ha causato l’estinzione. Per nostra fortuna, tuttavia, il caso ha estratto una seconda volta quel carattere dal suo cilindro e questa volta l’evento ha interessato animali che vivevano in Africa: ecco come gli ominini sono venuti al mondo.

4 Nel 1999 Salvador Moyà-Solà, Meike Köhler e Lorenzo Rook avevano sostenuto la somiglianza morfologica (pollice lungo e dita corte) e funzionale della mano dell’oreopiteco con quella degli ominini (S. Moyà-Solà, M. Köhler, L. Rook, Evidence of Hominid-Like Precision Grip Capability in the Hand of the Miocene Ape «Oreopithecus», in «Proceedings of the National Academy of Sciences», 96, 1999, pp. 313-17). Nel 2004, però, Randall Susman ha criticato aspramente il lavoro di Moyà-Solà e dei suoi colleghi. Per Susman, infatti, il pollice sarebbe risultato più lungo perché una falange media di un dito sarebbe stata scambiata per quella prossimale del pollice; e le altre dita sarebbero risultate più corte perché una falange media del quinto dito (mignolo) sarebbe stata scambiata per quella del secondo dito (indice). La mano dell’oreopiteco, quindi, sarebbe scimmiesca e non ominina (R.L. Susman, «Oreopithecus bambolii»: An Unlikely Case of Hominid-Like Grip Capability in a Miocene Ape, in «American Journal of Physical Anthropology», suppl. 28, 2004, p. 191).

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I primi aspiranti ominini Il primo ritratto appeso nella galleria dei nostri antenati raffigura il probabile fondatore della sottofamiglia degli ominini, sebbene le sue spoglie siano state le ultime rinvenute dai paleoantropologi e anche le più contestate. Si tratta di un cranio quasi completo, sebbene molto deformato, due frammenti di mandibola e tre denti isolati5 riportati alla luce da Michel Brunet tra il luglio 2001 e il febbraio 2002 nella regione di Toros-Menalla, nel nord del Ciad6, e vecchi di 7-6 milioni di anni; altri due frammenti di mandibola e un premolare sono stati descritti nel 20057. Quella creatura, alla quale è stato dato il nomignolo Toumaï, che in lingua goran significa «speranza di vita», presentava un insieme unico di caratteri primitivi e derivati, e lo studioso si è immediatamente convinto, anche in considerazione dell’età, che essa fosse l’erede dell’antenato condiviso con gli scimpanzé e il capostipite della linea ominina. Il cranio di Toumaï era lungo, stretto e con delle creste sia nella parte apicale che sulla nuca e la visiera posta sopra le orbite, o toro sopraorbitario, era continua e spessa (segni primitivi8); il viso, invece, era poco prognato, cioè poco sporgente verso l’avanti (segno derivato9). Inoltre, simili a quelle delle antropomorfe erano la capacità cranica, di soli 350 centimetri cubici, e l’arcata dentaria a U; mentre sul versante opposto, quello dei tratti ominini, c’erano i canini piccoli, la mancanza del diastema10 e lo smalto dei denti molari piuttosto spesso. La mancanza di ossa postcraniali, e in particolare di quelle del bacino, non hanno consentito di trarre deduzioni conclusive sulla sua postura, ma la base del cranio – in cui il foro occipitale deve occupare una posizione più o meno centrale per garantire la stazione eretta – e le fattezze della faccia apparivano compatibili con l’andatura bipede abituale. Brunet, doUn incisivo, un canino e un molare. Una località situata 800 chilometri a nord di N’Djamena. 7 M. Brunet et al., New Material of the Earliest Hominid from the Upper Miocene of Chad, in «Nature», 434, 2005, pp. 752-55. 8 I caratteri primitivi sono quelli già presenti prima di una separazione evolutiva. 9 I caratteri derivati sono quelli comparsi dopo la separazione dall’antenato. 10 Lo spazio che nelle antropomorfe separa il canino superiore dagli incisivi e dove si va ad incuneare il canino inferiore. 5 6

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po aver assegnato al suo fossile il ruolo di patriarca degli ominini, ha coniato per esso il nome scientifico Sahelanthropus tchadensis e l’ha presentato al mondo nel numero di «Nature» dell’11 luglio 200211. La posizione sistematica del sahelantropo, tuttavia, non ha trovato unanime accettazione nel mondo accademico, dove non pochi studiosi si sono affrettati a sottolineare che le dimensioni dei canini rientravano nella comune variabilità che si osserva negli scimpanzé, che il toro sopraorbitario era più spesso che nelle antropomorfe africane e in qualunque ominino conosciuto, e che le creste si avvicinavano per dimensione a quelle del gorilla. L’insieme di queste considerazioni ha convinto alcuni paleoantropologi a riservare al fossile ciadiano null’altro che un posto tra le antropomorfe, ovvero di ascendente dello scimpanzé se non addirittura del gorilla, e a ritenere indispensabili altre analisi e la scoperta di altri reperti per poter assegnare al sahelantropo il posto che gli spetta nella tassonomia dei primati12. Nel 2005, però, Christoph Zollikofer ha pubblicato una ricostruzione virtuale del cranio che correggeva ogni distorsione e dimostrava inequivocabilmente che il foro occipitale occupava proprio la posizione che deve avere nei bipedi e reinseriva così il sahelantropo negli ominini13. Tuttavia, in un lavoro pubblicato nel 2006 dal gruppo di ricerca diretto da David Reich, il momento della separazione tra ominini e scimpanzé è stato fissato molecolarmente a non oltre 6,3 milioni di anni fa, e forse addirittura a 5,4, riportando fuori dalla linea ominina il sahelantropo14. Quello che è già ben descritto, invece, è l’ambiente dove visse, la cui ricostruzione è stata possibile a partire dai fossili degli altri animali restituiti dal sito di Toros-Menalla, che comprendeva specie acquatiche – quali pesci, coccodrilli e mammiferi anfibi – e specie di savana e foresta – quali scimmie, roditori, elefanti, equini e bovini. E una tale 11 M. Brunet et al., A New Hominid from the Upper Miocene of Chad, Central Africa, in «Nature», 418, 2002, pp. 145-51. 12 M.H. Wolpoff et al., Sahelanthropus or «Sahelpithecus»?, in «Nature», 19, 2002, pp. 581-82. 13 C.P.E. Zollikofer et al., Virtual Cranial Reconstruction of «Sahelanthropus tchadensis», in «Nature», 434, 2005, pp. 755-59. 14 Patterson et al., Genetic Evidence for Complex Speciation of Human and Chimpanzees, cit.

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convivenza di forme è assolutamente coerente con il fatto che proprio lì c’era il paleolago Ciad e attorno alle sue rive si dovevano estendere ampi territori con foreste a galleria intervallate da estese savane. Tra coloro che hanno più fortemente contestato la posizione di primo ominino al sahelantropo ci sono Brigitte Senut e Martin Pickford, i quali, fra l’ottobre e il novembre 2000, hanno effettuato un ritrovamento altrettanto straordinario15. Sulle colline Tugen del distretto di Baringo in Kenia, infatti, hanno recuperato 12 frammenti scheletrici, ai quali va aggiunto un molare inferiore rinvenuto da Pickford nel 1974, appartenuti ad almeno sei individui di una forma vissuta 6 milioni di anni fa e alla quale hanno dato il soprannome Millennium Man e il nome scientifico Orrorin tugenensis, un appellativo non casuale perché orrorin significa in lingua tugen «uomo primigenio». Ed è proprio questa la pretesa dei due scienziati: insediare sullo scranno di avo di tutti gli ominini giusto il loro fossile. Nonostante la frammentarietà dei resti16, è stato possibile ai paleoantropologi definire le caratteristiche principali della nuova specie. I denti molari avevano lo smalto spesso ed erano piuttosto piccoli in confronto a quelli dei successivi ominini e il resto della dentatura somigliava meno all’uomo che non alle antropomorfe, in particolare alla femmina dello scimpanzé; e anche il corpo della mandibola conservava una robustezza decisamente arcaica. A fronte di un apparato masticatorio così primitivo, tuttavia, il femore indicava che l’orrorin aveva acquisito il bipedismo abituale per muoversi sul terreno17 e al contempo le falangi della mano testimoniavano che aveva mantenuto anche una buona capacità di arrampicarsi sugli alberi. Per Senut e Pickford, insomma, quell’essere un po’ più grande di una femmina di scim15 B. Senut et al., First Hominid from the Miocene (Lukeino Formation, Kenya), in «Comptes Rendus de l’Académie des Sciences de Paris», 332, 2001, pp. 137-44. 16 Un femore sinistro e due porzioni prossimali (quelle verso l’alto) di un femore destro e uno sinistro, una porzione distale (quella verso il basso) di un omero destro, una falange della mano, due parti di mandibola con ancora inseriti tre molari e cinque denti (due molari superiori, un premolare inferiore, un canino inferiore e un incisivo superiore), più il molare del 1974. 17 K. Galik et al., External and Internal Morphology of the BAR 1002’00 «Orrorin tugenensis» Femur, in «Science», 305, 2004, pp. 1450-53.

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panzé era a tutti gli effetti un ominino che aveva conservato non pochi tratti dell’antenato condiviso con l’antropomorfa africana e l’età ne faceva il più antico di tutti noi. Il modello evolutivo nel quale pensavano di inserirlo, poi, era piuttosto semplificato ed estraneo allo schema a cespuglio oggi dominante, in cui più specie e più generi sarebbero convissuti nei vari momenti della nostra storia. Per i due studiosi, la separazione ominini-scimpanzé dovrebbe essere collocata tra 9 e 8 milioni di anni fa e dopo di allora ci sarebbero state solo due linee evolutive: quella degli australopiteci, che si è estinta tra due e un milione di anni fa, e quella che dall’orrorin sarebbe giunta ai preantropi e a Homo. Senza dubbio, è prematuro assegnare all’Orrorin tugenensis il ruolo di patriarca della sottofamiglia, al contempo però non lo si può neppure escludere, dal momento che la sua età è compatibile con la datazione molecolare. Quella, invece, che può essere definita piuttosto fantasiosa è l’idea di spostare indietro di 2 o 3 milioni di anni la divaricazione evolutiva uomo-scimpanzé. Evidentemente, non tutti gli studiosi dei fossili si sono ancora convinti che nel DNA è scritto il nostro percorso evolutivo e che spesso è meno equivoca la traduzione molecolare degli eventi evolutivi di quanto non lo sia quella basata sui fossili. Il terzo pretendente alla parte di iniziatore della linea ominina è forse il più titolato, o almeno è quello sul quale si riversano i maggiori consensi. La sua storia è iniziata nel dicembre del 1992 ad Aramis in Etiopia, dove sono stati trovati un molare superiore e un frammento di mandibola con ancora inserito un primo molare deciduo, ed è proseguita negli anni 1994 e 1995, quando sono stati recuperati moltissimi altri resti fossili e uno scheletro quasi completo di 4,4 milioni di anni. Le ossa delle dita della mano erano lunghe e curve, esattamente come sono quelle delle scimmie antropomorfe, e cioè assai adatte per afferrare i rami degli alberi; il foro occipitale era piuttosto avanzato sulla base del cranio e quindi nella giusta posizione per garantire alla testa di stare in equilibrio sulla colonna vertebrale, come avviene in tutti i bipedi; ma le ossa del bacino, della gamba e del piede rivelavano un tipo di andatura sconosciuta nei primati, sia attuali che estinti. Per Tim White, che dirigeva la missione paleoantropologica impegnata in Etiopia, si trattava di un modo di camminare barcollante sulle due gambe, qualcosa che sembrava richiamare il 13

primo tentativo di bipedismo, e nel 1994 decise coerentemente di inserire quei fossili nel genere Australopithecus, che allora comprendeva gli ominini più antichi, ma di istituire per essi la nuova specie ramidus – una parola che significa «radice» nella lingua afar18. Un esame più approfondito dei denti, tuttavia, ha messo in evidenza che i premolari e i molari erano meno sviluppati di quelli degli australopiteci e con lo smalto più sottile, e che i canini invece erano più grandi. L’insieme di queste considerazioni ha convinto White che la sua creatura dovesse essere separata da qualunque altro taxon19 noto e nel 1995 l’ha chiamata Ardipithecus ramidus. In quel nome lo studioso ha inteso racchiudere tutto l’orizzonte del suo pensiero e la certezza di aver fatto conoscere all’umanità il suo ascendente più antico, perché in afar ardi significa «suolo o pavimento»20. A metà degli anni Novanta del secolo appena concluso, quando Tim White presentava i suoi fossili e le sue ipotesi, né Toumaï né il Millennium Man erano stati ancora scoperti e perciò fu facile per il mondo accademico, e per l’opinione pubblica, riconoscere nell’ardipiteco il padre di tutti gli ominini, sebbene la sua età fosse piuttosto recente se riferita al momento a cui si faceva risalire la separazione uomo-scimpanzé. Negli anni successivi, però, il fronte dei progenitori si è affollato e la specie del Corno d’Africa ha rischiato di veder compromesso il suo primato. Almeno fino al 2001, quando il gruppo di White ha dato notizia di altri ritrovamenti avvenuti a partire dal 1997 e sempre nei pressi di Aramis21. I nuovi fossili erano più vecchi dei precedenti di oltre un milione di anni, risalendo a circa 5,5 milioni di anni fa, ed erano associati ad un paleoambiente decisamente boscoso. Anche in questo caso, Tim White ha ragionato per approssimazioni suc18 T.D. White et al., «Australopithecus ramidus», a New Species of Early Hominid from Aramis, Ethiopia, in «Nature», 371, 1994, pp. 306-12. 19 Taxon: una qualunque unità tassonomica a cui vengano assegnati individui o gruppi di specie. 20 T.D. White et al., Corrigendum, in «Nature», 375, 1995, p. 88. Altri reperti di Ardipithecus ramidus sono stati rinvenuti tra il 1999 e il 2003 a Gona in Etiopia (S. Semaw et al., Early Pliocene Hominids from Gona, Ethiopia, in «Nature», 433, 2005, pp. 301-305). 21 Y. Haile-Selassie, Late Miocene Hominids from the Middle Awash, Ethiopia, in «Nature», 412, 2001, pp. 178-81.

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cessive: all’inizio si è limitato a considerare la nuova forma una semplice sottospecie dell’ardipiteco, Ardipithecus ramidus kadabba (in cui kadabba significa «primo antenato della famiglia»); e poi, a marzo 2004, ha riconosciuto a kadabba il rango di specie più antica del suo genere, che così veniva a comprendere sia l’Ardipithecus kadabba che l’Ardipithecus ramidus22. Il provvidenziale, e del tutto insperato, invecchiamento subito dagli ardipiteci li ha rilanciati nella corsa per conquistare il ruolo di fondatori degli ominini e l’età e le caratteristiche anatomo-morfologiche li sostengono non poco. È prematuro carezzare la pretesa di poter risolvere con così pochi fossili il problema della radice dell’albero dell’evoluzione umana, ma mai come in questi ultimi anni l’attività dei paleoantropologi è stata intensa e feconda, e, soprattutto, svolta nelle aree geografiche che ci potranno fornire le risposte giuste. L’ardipiteco, comunque, pare avere le carte in regola per essere o l’antenato diretto del successivo cespuglio evolutivo degli australopiteci o un rappresentante di quelle forme dalle quali gli australopiteci si sono originati. Gli australopiteci d’oriente Nel lungo arco di tempo che va da poco più di 4 milioni a poco meno di 2 milioni e mezzo di anni fa l’evoluzione ha prodotto in Africa una vera e propria esplosione di specie ominine, che gli antropologi raccolgono nel genere Australopithecus, o «scimmia antropomorfa australe». Come si vede, il nome risente della lunga storia dell’antropologia, cioè del fatto che al giro del primo quarto del Ventesimo secolo, quando i resti australopitecini cominciarono ad essere riportati alla luce, il processo evolutivo era ancora interpretato secondo il modello lineare che dalle antropomorfe, e attraverso una serie di fasi intermedie, arrivava all’uomo moderno. E gli australopiteci, a causa delle ridotte dimensioni del cervello, erano avvicinati molto alle prime. Oggi, forse, per quei nostri antichi parenti avremmo coniato un nome non troppo dissi-

22 Y. Haile-Selassie et al., Late Miocene Teeth from Middle Awash, Ethiopia, and Early Hominid Dental Evolution, in «Science», 303, 2004, pp. 1503-505.

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mile da «australantropo», perché quelle forme appartengono completamente all’umanità. Le evidenze fossili della specie più antica provengono da tre siti localizzati nei pressi del lago Turkana in Kenia. A Kanapoi, Bryan Patterson ha trovato nel 1965 la parte distale di un omero sinistro risalente a circa 4 milioni di anni fa, ma quel reperto è stato considerato contraddittorio per un intero trentennio – poteva appartenere, cioè, sia ad Australopithecus che a Homo. Successivamente, nel 1994, Meave Leakey ha organizzato una nuova campagna di scavo, nel corso della quale sono stati recuperati dei denti e dei frammenti del cranio e dello scheletro postcraniale vecchi di 4,1 milioni di anni. Tra essi, la tibia indicava chiaramente che la creatura camminava dritta, ma la mandibola era assai primitiva e somigliante a quella delle antropomorfe – piccola e stretta, con la parte anteriore, là dove in noi uomini attuali c’è il mento, decisamente sfuggente e l’arcata dei denti con i rami più dritti e paralleli che in qualunque altro australopiteco allora conosciuto. Il modello morfologico dell’ominino di Kanapoi mostrava una combinazione inusuale di caratteri, di tipo umano nello scheletro degli arti e di tipo scimmiesco nel cranio, che non lo faceva rientrare in nessuno dei taxa già noti e ciò ha convinto Meave Leakey a definire per esso una nuova specie, Australopithecus anamensis (da anam che vuol dire «lago»), che per l’età si poneva alla base della radiazione australopitecina23. Ulteriori missioni archeologiche ad Allia Bay e Turkwel hanno permesso di scoprire altri resti, sebbene più giovani: 3,9 e 3,5 milioni di anni, rispettivamente. L’importanza di questi ultimi fossili, però, è legata più alle informazioni che ci hanno consentito di dedurre sull’ambiente, che non per averci fornito l’intervallo temporale in cui visse l’anamense. Le ossa del polso, infatti, erano più massicce delle nostre, perché dovevano contenere un ampio solco attraverso cui far passare dei tendini robusti per delle dita forti: un apparato muscolare, cioè, idoneo a far muovere una mano che potesse sollevare e sostenere il corpo sui rami degli alberi. A differenza di quan23 A marzo 2005, Yohannes Haile-Selassie e Bruce Latimer hanno comunicato in due conferenze stampa (ad Addis Abeba il 5 marzo e al Cleveland Museum of Natural History il 25 marzo) il rinvenimento in Etiopia di uno scheletro parziale molto verosimilmente di Australopithecus anamensis di 4 milioni di anni.

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to ritenuto fino agli anni Ottanta del secolo scorso, Allia Bay e Turkwel ci hanno fornito la prova che l’evoluzione umana aveva mosso i suoi primi passi in un ambiente ancora forestale e che solo molto tempo dopo gli ominini avevano preso possesso della savana e iniziato una vita diversa. Quest’idea oggi ci appare scontata, perché siamo stati in grado di ricostruire l’habitat delle specie che vissero ancora prima di anamense, ma allora essa mutò un paradigma: quello secondo cui saremmo diventati dei bipedi una volta scesi dagli alberi. Al contrario, invece, in principio il nostro fu un bipedismo arboricolo e terrestre e forse, come abbiamo visto, un bipedismo traballante. La specie che è succeduta all’anamense è certamente una delle più famose anche presso l’opinione pubblica e per molti paleoantropologi anche la sua discendente diretta. La storia scientifica di questo taxon è iniziata il 30 novembre 1974 quando Donald Johanson ha rinvenuto ad Hadar, una località etiopica che si trova nella regione dell’Afar, uno scheletro quasi completo di una femmina adulta vissuta 3,2 milioni di anni fa. In omaggio a una canzone dei Beatles, Lucy in the Sky with Diamonds, i ricercatori impegnati nella missione di scavo hanno assegnato al reperto il nome Lucy, che da allora non lo ha più abbandonato e anzi è divenuto così noto presso il grande pubblico da assumere quasi il significato di sinonimo di uomo preistorico e rappresentare così tutta la nostra storia. Lucy era alta poco più di un metro e aveva le braccia lunghe e le dita delle mani ricurve, tratti questi che sembravano testimoniare la sua capacità di muoversi ancora piuttosto bene sugli alberi. Le dimensioni e la forma delle ossa del bacino e del femore, invece, stavano ad indicare che essa era una perfetta bipede terrestre, la quale tuttavia aveva continuato a mantenere in sé, ma senza più utilizzarle, alcune tracce dell’evoluzione passata degli ominini: qualcosa come dei semplici residui destinati a scomparire. La scoperta era stata davvero straordinaria, perché in quegli anni Settanta Lucy era il fossile più antico che si conoscesse del nostro passato, e la sua eco non si era ancora spenta che l’anno successivo giunse la notizia che l’Afar aveva restituito parti delle spoglie di ben altri tredici individui morfologicamente identici a Lucy: nove adulti e quattro giovani, il più piccolo dei quali non superava l’anno di età. Il modo in cui le ossa giacevano nel terreno e l’assenza delle tracce che i denti dei car17

nivori lasciano sulle prede24 hanno suggerito che la causa da invocare per la morte di quelle creature fosse un evento improvviso e catastrofico. E fra tutti, il più verosimile a cui ricorrere è stato l’inondazione, anche perché i fossili erano stati segnati dal tipico rotolamento che causa il fluire dell’acqua. Se il ragionamento fatto dagli antropologi era corretto, e ancora oggi così sembra, allora quegli individui dovevano essere imparentati tra loro, dal momento che solo un gruppo affine avrebbe potuto essere sorpreso a quei tempi da una catastrofe improvvisa che li avrebbe sepolti tutti assieme – e i tredici, con i loro 3,2 milioni di anni, sono diventati la «prima famiglia» della storia. Dopo l’Etiopia, molti altri reperti sono venuti alla luce anche in Kenia e Tanzania, e finanche un’articolazione del ginocchio trovata ad Hadar nel 1972, e sicuramente appartenuta ad un animale bipede, è poi stata assegnata alla stessa forma ominina, riconosciuta come nuova specie nel 1978 con il nome Australopithecus afarensis. Lucy e i suoi simili, vissuti in Africa orientale tra 4 e 3 milioni di anni fa, avevano il cervello piuttosto piccolo, circa 500 centimetri cubici, la fronte sfuggente e il toro sopraorbitario massiccio; e la marcata usura degli incisivi ha fatto supporre che fossero adusi strappare la vegetazione e manipolare il cibo proprio con i denti anteriori. Essi, inoltre, mostravano un notevole dimorfismo sessuale, che oggi osserviamo solo nelle due scimmie antropomorfe più grandi: l’africano gorilla e l’asiatico orango. I maschi, invero, avevano la faccia molto prognata, i canini grandi e la mandibola massiccia, mentre i denti delle femmine erano più piccoli e l’ossatura era decisamente più delicata. Il nostro piccolo antenato dell’Africa orientale ci ha lasciato il più curioso biglietto da visita che si possa immaginare – un biglietto «scritto» con i piedi – e il sito dove lo ha posato è uno dei più noti di tutta la storia della paleoantropologia: Laetoli in Tanzania, che nella lingua dei Masai significa «giglio rosso». La località fu visitata per la prima volta da Louis Leakey nel 1935, ma siccome non c’era alcuna traccia di manufatti litici il grande antropologo l’abbandonò immediatamente. Leakey fu condizionato 24 La tafonomia è la disciplina che analizza i rapporti spaziali e biologici esistenti tra i fossili presenti in uno scavo.

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nella decisione dal pensiero del suo maestro Arthur Keith, secondo il quale sarebbe stato il cervello grande a fare di un’antropomorfa un uomo e il prodotto principale di quel salto evolutivo veniva fatto coincidere con la capacità di produrre lavoro e quindi attrezzi. L’uomo, insomma, avrebbe avuto un lungo passato alle sue spalle, e su questo punto né Keith né Leakey avevano dubbi, ma sarebbe venuto al mondo con fattezze già moderne. Ed è stato proprio questo pregiudizio che ha impedito agli scienziati coinvolti in quella prima missione a Laetoli di riconoscere come ominino un canino sinistro inferiore, perché troppo primitivo nella morfologia, e così di ritardare l’acquisizione che alle spalle dell’uomo c’era un’umanità già bipede ma dal cervello di scimmia. Dopo un fugace passaggio di Ludwig Kohl-Larsen nel 1939, che tuttavia fruttò il recupero di altri due fossili ominini, fu solo a partire dal 1974, e grazie a Mary Leakey, che Laetoli entrò nella lista dei siti archeologici più importanti per la storia umana. La moglie di Louis, infatti, riportò alla luce diversi reperti di 3,6 milioni di anni fa, i quali poi risultarono uguali a quelli etiopici di Johanson e cioè di afarensis. Già quello fu un evento importante, ma ciò che fu scoperto tra il 1978 e il 1979 lo surclassò decisamente. In uno strato di ceneri vulcaniche di 3,6 milioni di anni fa, Paul Abell scavò una traccia lunga ben 27 metri che conteneva 69 orme ominine, mescolate assieme a quelle di altri animali, tra cui antilopi, scimmie, giraffe, rinoceronti, elefanti e altri ancora. Dopo un momento di incredulità, che lasciò sbigottiti gli scienziati davanti allo spettacolo dei nostri primi passi, furono l’eccitazione intellettuale e la commozione a prendere il sopravvento. E gli stessi sentimenti hanno contagiato in seguito anche l’opinione pubblica mondiale. Le orme sembravano lasciate da piedi moderni, con l’alluce allineato alle altre dita e l’arco plantare ben evidente, e in particolare dai piedi di tre ominini: due adulti che camminavano appaiati, verosimilmente un maschio e una femmina perché una traccia era più grande dell’altra, e un piccolo che ci passava sopra. Una suggestiva storia è stata subito pensata per dar conto di quel fossile indiretto, ma forse più che vera dobbiamo accontentarci di considerarla verosimile. La regione dove si trova il sito archeologico di Laetoli era dominata dal vulcano Sadiman e un giorno di 3,6 milioni di anni fa un’eruzione la ricoprì di cenere; subito dopo, però, dovette piovere e quella cenere si trasformò in uno stra19

to melmoso sul quale passarono, lasciando le proprie impronte, molti animali e tra essi anche quei tre ominini. E qui la fantasia ha giocato la sua partita, suggerendo l’immagine della famigliola: due genitori con un bambino che andava dietro e metteva i piedi nelle orme dei grandi. Il successivo riapparire del sole ha poi asciugato il fango, che essendo ricco in carbonati è diventato una specie di lastra dura. Una successiva eruzione, infine, deve aver ricoperto il tutto, formando una specie di scatola in cui si sono conservati quei passi. Tra il 2000 e il 2003 a Dikika in Etiopia è stato rinvenuto uno scheletro quasi completo di una piccola di tre anni di Australopithecus afarensis, vissuta 3,3 milioni di anni fa e che è subito divenuta famosa come la «figlia di Lucy». Questo rinvenimento è particolarmente importante perché permetterà, tra l’altro, di far luce sulle modalità di sviluppo dei nostri primi antenati25., Gli australopiteci del sud La previsione formulata da Darwin sull’origine africana della nostra linea evolutiva ha trovato conferma nell’autunno del 1924, quando il soprintendente alle attività minerarie di una cava di calcare a Taung in Sudafrica, M. de Bruyn, raccolse uno dei tanti fossili di primati che insieme a quelli di altri animali si trovavano numerosi in quelle brecce e che lui inviava regolarmente all’Università del Witwatersrand a Johannesburg. Quel fossile di 2,3 milioni di anni arrivò nelle mani di Raymond Dart il 28 novembre e furono necessari oltre due mesi per liberarlo dal blocco di pietra che lo imprigionava. Una volta terminata l’operazione, però, lo studioso capì immediatamente che davanti ai suoi occhi non c’era uno di quei crani di babbuino che era solito recuperare e poi esporre nella vetrina che conteneva la collezione di primati fossili. Davanti a lui c’era un calco endocranico e una faccia completa di mandibola di un primate giovane e assai particolare: un ominino, cioè un rappresentante antico della nostra stessa linea evolutiva (fig. 1). Dart, ne era sicuro, aveva trovato l’antenato dell’uomo vagheggiato da Darwin e il 7 febbraio 1925 ne diede notizia 25 Z. Alemseged et al., A Juvenile Early Hominin Skeleton from Dikika, Ethiopia, in «Nature», 443, 2006, pp. 296-301.

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sulle pagine di «Nature». Quell’articolo avrebbe segnato profondamente la storia dell’antropologia, cambiando il modo di pensare dei paleoantropologi e il teatro delle loro ricerche. Eppure, come vedremo, la prima reazione fu di totale rigetto. Dart aveva riscontrato nel fossile alcuni caratteri che lo allontanavano dal modello anatomo-morfologico delle antropomorfe e che, invece, lo collegavano ineluttabilmente a quello proprio degli ominini. E tra questi annoverava l’innalzamento e l’arrotondamento della fronte, la riduzione del toro sopraorbitario, la maggiore leggerezza delle ossa della mascella e della mandibola e il profilo più ortognato, cioè più piatto, della faccia. Anche i denti erano piuttosto moderni nella forma, con i canini piccoli e senza più il diastema. Soprattutto, però, c’era la posizione del foro occipitale a dare forza al suo convincimento: non più posizionato all’indietro, come avviene nei quadrupedi, ma messo più o meno al centro della base del cranio, esattamente nel punto più idoneo per garantire la stazione eretta e l’andatura bipede. Il «bambino di Taung», nome con il quale il reperto sarebbe entrato nel parlare comune, era per Raymond Dart un bipede, e quindi un ominino, nonostante la sua capacità cranica fosse decisamente modesta, 405 centimetri cubici che sarebbero diventati 440 nell’adulto. E per esso coniò il nome scientifico Australopithecus africanus o scimmia antropomorfa meridionale dell’Africa. Abbiamo già anticipato che le idee di Dart furono fortemente osteggiate in Inghilterra, dove all’epoca c’era la scuola di riferimento per gli studi sulla preistoria umana, e il motivo era davvero semplice. Nell’ambiente accademico, infatti, era ampiamente accettato il pensiero di Arthur Keith, secondo il quale sarebbe stato il cervello grande a dare l’avvio alla nostra evoluzione, e all’improvviso un oscuro scienziato del sud del mondo pretendeva di stravolgere un modello a lungo meditato e tanto autorevolmente sostenuto. Il fossile di Dart, con il suo cervello piccolo e i denti moderni, era fatto proprio al contrario di come ci si aspettava che fosse l’antenato dell’umanità e non ci fu nessuno disposto ad abbandonare il preconcetto in favore dell’evidenza. Il mondo universitario si rivelò conservatore e spietato, e giunse fino a deridere lo studioso di Johannesburg, che fu accusato di non conoscere a sufficienza l’anatomia dei primati e così di aver proposto un’ipotesi semplicemente sbagliata e dettata dall’ignoranza. Il prognati21

smo, l’ossatura robusta e i canini grandi non sono caratteri infantili, essi compaiono solo con il raggiungimento della maturità da parte degli individui, e se il bambino di Taung non fosse morto giovane – almeno era questa l’opinione dei denigratori di Dart – avrebbe sviluppato tutti quei tratti secondo il normale schema di crescita delle antropomorfe. Oggi sappiamo con assoluta chiarezza che non era davvero Dart che avrebbe dovuto sostenere di nuovo l’esame di anatomia, perché chi la conosce sa bene che cosa si possa sviluppare nell’adulto da un abbozzo infantile. Eppure, per quanto incredibile possa apparire, la Royal Society rifiutò di pubblicare una monografia preparata dallo scienziato sudafricano su Taung proprio mentre Keith dava alle stampe un lavoro in cui sosteneva che l’africanus altri non era che uno scimpanzé e Othenio Abel affermava, in un altro saggio, che si trattava solo di un piccolo di gorilla. Raymond Dart uscì dalla vicenda molto scosso e deciso ad abbandonare gli studi di paleoantropologia e questa buia parentesi si è chiusa solo oltre un ventennio più tardi, quando altri fossili dello stesso tipo hanno dimostrato al mondo che egli aveva ragione. Se l’Inghilterra si dimostrò matrigna per l’ominino africano, in patria esso trovò il suo maggior estimatore e l’uomo che gli dedicò l’ultima parte della sua attività professionale. Si trattava di Robert Broom, un paleontologo che quando Dart comunicò la scoperta dell’Australopithecus africanus aveva già cinquantotto anni e che dieci anni più tardi, nel 1934, avrebbe ottenuto un incarico nella sezione di Paleontologia e Antropologia del Museo del Trasvaal a Pretoria. Due anni dopo aver assunto la sua nuova mansione, Broom poté finalmente lanciare la sfida che gli stava a cuore, trovare un africanus adulto, e a questo scopo chiese aiuto al soprintendente alle attività minerarie della cava di Sterkfontein, situata 50 chilometri a nord-ovest di Johannesburg. Erano passati solo otto giorni dal suo incontro con il soprintendente Barlow, quando quest’ultimo, il 17 agosto 1936, gli consegnò il frammento di un cranio – del quale sarebbero state trovate in seguito altre parti – del tutto simile a quello che aveva acceso la sua fantasia, ma questa volta si trattava di ossa adulte. Broom non riuscì a resistere alla tentazione di creare una nuova specie, che chiamò Australopithecus transvaalensis, e nel 1938, poi, ipotizzò che il suo fossile potesse addirittura essere il rappresentante di un nuovo gene22

re: Plesianthropus transvaalensis o «quasi uomo del Transvaal». La seconda guerra mondiale bloccò ogni attività di ricerca e solo nel 1947 Broom e il suo allievo John Robinson poterono tornare a Sterkfontein, dove il 18 aprile trovarono un cranio di 2,5 milioni di anni al quale mancavano solo i denti e la mandibola. Per i due paleoantropologi si trattava del cranio di una femmina adulta e per questa ragione chiamarono il fossile «Mrs. Ples», che oggi, al contrario, si attribuisce ad un maschio. Da quel momento fu evidente all’intera comunità scientifica che la «signora», un esserino dal cervello di soli 485 centimetri cubici ma per il resto più simile all’uomo che alle antropomorfe, altri non era se non la «madre» del bambino di Taung. La campagna di scavo a Sterkfontein durò fino al 1949 e permise di riportare alla luce numerosi reperti di africanus, tra cui alcuni crani sui quali è stato possibile stimare la capacità media della specie, solo 452 centimetri cubici. A questo proposito, tuttavia, vale la pena ricordare che un cranio incompleto trovato molto più tardi, nel 1989, ha mostrato una capacità di oltre 600 centimetri cubici e ciò costituisce un fatto del tutto inusuale per quelle creature. Ma torniamo agli anni dell’immediato dopo guerra. Il 1° agosto e il 13 novembre 1947 le brecce di Sterkfontein hanno restituito due dei fossili più interessanti di tutta la collezione: uno scheletro adulto parziale, composto da quindici vertebre, quattro costole e le ossa del bacino; e un cranio maschile, del quale l’anno successivo è stata poi trovata anche la mandibola. Il profilo facciale del cranio era decisamente meno prognato di quello di Mrs. Ples e di altri reperti, e ciò ha suggerito ad alcuni studiosi che in Sudafrica potrebbe essere vissuta non una sola specie australopitecina, ma ben due. Fortunatamente, a fronte di un problema che si è aperto, e al quale non è stata data ancora una risposta soddisfacente, un altro è giunto alla definitiva soluzione. Il bacino, infatti, sebbene non del tutto uguale al nostro, era comunque più basso e largo di quanto non si osservi nelle antropomorfe ed ha confermato quell’andatura bipede che Dart aveva già dedotto all’inizio del 1925 dalla posizione del foro occipitale nel bambino di Taung e che gli era servita per asserire che l’Australopithecus africanus era un ominino. Alla fine, la reputazione scientifica di Raymond Dart era stata risollevata dalla polvere in cui l’avevano trascinata uomini incapaci di liberare le loro menti da idee preconcette e ai quali non era servita a nulla la 23

notevole preparazione che avevano acquisito nel campo dell’anatomia. Accade più spesso di quanto non si creda che studiosi illustri e carichi di fama non riescano ad avere un salto di genialità e fin qui nulla di male perché la genialità non è distribuita equamente; il male, invece, inizia quando costoro abbandonano il rispetto per le idee altre dalle loro e piuttosto che alla critica ricorrono all’irrisione. Broom e Robinson si accinsero a preparare una memoria sugli scavi di Sterkfontein nel 1950 e il 6 aprile dell’anno successivo Robert Broom moriva all’età di 85 anni, proprio nello stesso giorno in cui aveva finito di apportare le ultime correzioni al lavoro, un atto che aveva voluto accompagnare con parole profetiche: «Now that’s finished... and so am I». Il testimone della ricerca paleoantropologica in Sudafrica è passato, negli anni successivi, nelle mani di Phillip Tobias, il quale è stato capace di offrire uno degli impulsi più cospicui che si conoscano all’analisi della nostra storia antica. Alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1945, Tobias riprese gli scavi in una grotta situata a nord-est di Johannesburg, Makapansgat, e due anni dopo gli sforzi della missione furono ripagati dalla scoperta di fossili ominini simili a quelli di Taung e Sterkfontein, anche se un poco più antichi: 2,8 milioni di anni. All’inizio fu scelto un nome nuovo per i materiali che provenivano da quel sito, Australopithecus prometheus26, ma in seguito tutti i resti furono inseriti nell’unica specie africanus. L’età piuttosto recente degli ominini sudafricani ne faceva un taxon discendente di afarensis e per alcuni addirittura fuori dalla nostra linea di ascendenza diretta. Almeno fino al 1998, quando fu data notizia da Ronald Clarke27 del ritrovamento a Sterkfontein, nella grotta Silberberg, di uno scheletro quasi completo databile a 4,2 milioni di anni fa. Il fossile, le cui ossa del piede erano note fin dal 1994 con il nomignolo «little foot», aveva l’al26 I primi fossili trovati a Makapansgat risalgono al 1925 e si presentavano anneriti. Raymond Dart pensava che quelle ossa potessero essere state annerite dal fuoco e ciò fu alla base del nome scelto per la specie. Australopithecus prometheus, appunto, dal nome del titano Prometeo che secondo la mitologia greca rubò il fuoco agli dei. Oggi sappiamo che il colore scuro era dovuto solo al manganese presente nel terreno. 27 R.J. Clarke, First Ever Discovery of a Well-Preserved Skull and Associated Skeleton of «Australopithecus», in «South African Journal of Science», 94, 1998, pp. 460-64.

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luce un poco divaricato e per il suo scopritore era stato quell’australopiteco a lasciare le proprie orme a Laetoli e non Lucy come tutti pensavano. La nuova età rendeva africanus coetaneo nientemeno che dell’anamense e ne faceva un candidato credibile al ruolo di progenitore del genere Homo, che sarebbe venuto al mondo solo un milione e mezzo di anni dopo. Per i paleoantropologi, Sterkfontein è una sorta di scrigno dei desideri, dove più si scava e più si trovano ossa fossili. E le ultime, di cui abbiamo avuto notizia su «Science» del 25 aprile 200328, provengono dalla caverna Jacovec e sono anch’esse databili a circa 4 milioni di anni fa. La clavicola del nuovo ominino era decisamente primitiva e assomigliava molto a quella degli scimpanzé e pure la calotta cranica, ampia posteriormente e stretta davanti, e il femore con la testa piccola e il collo lungo, si discostavano alquanto da altri reperti di africanus. L’insieme di questi tratti ha rilanciato con vigorosa coerenza la questione se nella parte meridionale del continente possano essere esistite due specie di australopiteci: una questione alla quale, tuttavia, non siamo ancora in grado di dare una risposta credibile. Tra est e ovest Nel corso degli anni Novanta l’attività dei paleoantropologi sudafricani è stata a dir poco febbrile; non si pensi comunque che in Africa orientale gli studiosi siano stati da meno. In una campagna di scavo in Etiopia proprio all’inizio di quel decennio, Tim White aveva trovato alcune ossa di 2,5 milioni di anni che non rientravano in nessuna delle specie allora note. La questione rimase sospesa fino al 1996-98, quando, grazie a numerosi altri ritrovamenti, fu possibile assegnare una fisionomia a quella forma e quindi trovarle un posto nella tassonomia australopitecina. La sua morfologia facciale era primitiva e la capacità cranica raggiungeva appena i 450 centimetri cubici, ma il femore presentava le stesse proporzioni che quell’osso ha nell’uomo moderno. Quest’ultimo tratto ha sorpreso non poco White e lo ha convinto a istituire una nuova specie, per il nome della quale ha scelto proprio il termine che 28 T.C. Partridge et al., Lower Pliocene Hominid Remains from Sterkfontein, in «Science», 300, 2003, pp. 607-12.

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in lingua afar significa «sorpresa» e cioè Australopithecus garhi. La modernità anatomica del femore e l’età dell’ominino hanno assunto una notevole importanza nell’ambito del dibattito sul progenitore di Homo, tanto che garhi è considerato oggi il pretendente più titolato per assumere quel ruolo. E il problema si è spostato su chi avrebbe dato i natali a garhi. Per White, le fattezze del suo cranio lo allontanerebbero dall’africanus mentre la robustezza dei denti ne farebbe il discendente ideale di afarensis; e se le cose fossero andate davvero così, allora il percorso evolutivo che ha portato all’umanità attuale dovrebbe essere passato attraverso l’anamense, poi l’afarense e infine garhi. Mentre Tim White perlustrava l’arido Afar etiopico per dare un genitore a Homo, più a occidente Michel Brunet era impegnato a risolvere un altro dei grandi problemi dell’antropologia. Fino a metà degli anni Novanta, infatti, era diffusa l’idea che tutta la prima parte della storia ominina – quella cioè che arriva agli australopiteci – si fosse svolta a oriente della Rift Valley, mentre a occidente di quella frattura nel corpo del continente si sarebbe realizzata l’evoluzione delle due antropomorfe africane. Una simile convinzione si era certamente formata sulla base dell’osservazione che i resti fossili della nostra sottofamiglia provenivano proprio da quell’area geografica, ma in essa allignava anche una sorta di preconcetto che faceva guardare con simpatia all’eventualità di una separazione netta tra le due terre natali, la quale finiva per assumere il significato di una sorta di barriera utile per tenere lontani da noi quei parenti che tanto ci turbano. In sostanza, una dimostrazione ulteriore – ammesso che ce ne fosse bisogno – di come una gran parte di noi non sia stata ancora capace di accettare del tutto la straordinaria prossimità uomo-antropomorfe. Quest’ultima illusione è stata cancellata nel novembre 1995 dal ritrovamento in Ciad di una mandibola australopitecina di 3,5-3 milioni di anni. In essa, la morfologia dei denti non si discostava da quella dell’afarense, mentre le caratteristiche della zona mentoniera erano decisamente più moderne; e in forza di ciò, Brunet ha deciso di definire una nuova specie a cui ha dato il nome Australopithecus bahrelghazali, dalla località in cui si trovava il sito archeologico: Bahr el Ghazal. Improvvisamente, e grazie a un solo fossile, l’antropologia aveva scoperto che tra 4 e 2 milioni di anni fa più specie di australopiteci avevano trascorso la propria 26

esistenza vagando senza confini nell’ampio territorio che si estende a sud del Sahara e l’intera Africa – e non più solo una sua parte – è stata investita del ruolo di madre e culla dell’umanità. Darwin aveva piantato la radice della nostra storia in quel continente, senza barriere e spezzettamenti, e la ferrea razionalità delle sue deduzioni ha ricevuto un’ulteriore conferma dal lavoro dei paleoantropologi. Il ramo dei parantropi Attorno a 2 milioni e mezzo di anni fa è iniziata la «decadenza» degli australopiteci, dalle cui ceneri, però, si sono evoluti ben due rami di discendenza: quello di Homo – che analizzeremo nel capitolo successivo – e quello dei parantropi, che è rimasto sulla scena africana fino a un milione di anni fa, per poi estinguersi senza lasciare prole. Alla base di quest’ultimo taxon si colloca uno dei reperti più noti di tutta la serie fossile e conosciuto con il nome «cranio nero» perché il terreno ricco di manganese in cui fu trovato gli aveva conferito una colorazione nero-bluastra. Era il 29 agosto 1985 quando Alan Walker si avvide di quelle strane ossa in un sito della sponda occidentale del lago Turkana, in Kenia, e rimase colpito dal mosaico di caratteri che in parte sembravano avvicinarlo all’australopiteco afarense e in parte – ma per la verità in misura maggiore – ne facevano una forma che non rientrava in nessuna di quelle allora note. La faccia alquanto prognata, la modesta capacità cranica, solo 410 centimetri cubici, e le creste ossee presenti nell’area occipitale richiamavano con forte evidenza la fisionomia dell’afarense; mentre la robusta cresta sagittale posta sulla sommità del cranio, il disegno della faccia, che sebbene fosse proiettata verso l’avanti aveva un profilo laterale concavo, e i molari e i premolari particolarmente sviluppati indicavano una diversa linea evolutiva, tutta tesa a rendere potente l’apparato masticatorio. La cresta sagittale, infatti, serviva ad aumentare la superficie ossea necessaria all’inserzione di muscoli sufficientemente forti per muovere una mandibola i cui denti erano capaci di triturare cibi vegetali decisamente duri. Come si vede, la creatura di Walker era idonea a occupare una nicchia ecologica in cui doveva abbondare un tipo di cibo – formato da radici, tuberi, bacche e 27

semi – che l’afarense e gli altri australopiteci avevano escluso dalla propria dieta; ma che richiamava prepotentemente le abitudini alimentari di due taxa già noti, il Paranthropus robustus di Robert Broom e lo Zinjanthropus boisei di Louis Leakey – ora inclusi entrambi nei parantropi. Rispetto a questi ultimi, però, il «cranio nero» era più vecchio di almeno 500.000 anni, essendo stato datato a 2,5 milioni di anni fa, e ciò convinse gli studiosi a istituire per esso una nuova specie: Paranthropus aethiopicus, o «quasi uomo dell’Etiopia» (fig. 2). Il nome era piuttosto originale per un ominino venuto alla luce in Kenia, ma l’origine di quella che parve all’inizio una bizzarria era legata a un fossile scoperto già nel 1967 nella formazione di Shungura nell’Etiopia meridionale. Si trattava di una mandibola priva di denti e risalente anch’essa a 2,5 milioni di anni fa, ma troppo conformata a V per poter essere inserita nel filone degli australopiteci o associata agli ominini di Broom e Leakey, e ad essa Camille Arambourg e Yves Coppens assegnarono il nome Paraustralopithecus aethiopicus, cioè «quasi scimmia antropomorfa meridionale dell’Etiopia». Il fossile e il suo nome furono presto dimenticati, ma circa vent’anni dopo, quando ci si accorse che la mandibola doveva essere appartenuta ad un cranio simile a quello rinvenuto da Walker, fu deciso di riunire entrambi i reperti in una nuova specie chiamata, appunto, Paranthropus aethiopicus. La posizione dell’etiopico nell’albero evolutivo degli ominini è ancora oggetto di discussione tra gli specialisti, ma l’ipotesi che ha coagulato il maggior consenso lo considera il discendente di afarense e l’antenato di entrambi i successivi parantropi. L’erede meridionale dell’etiopico è stato il primo parantropo a comparire sul palcoscenico antropologico e la sua scoperta, casuale quanto romantica, risale all’8 giugno 1938, quando Robert Broom acquistò per due sterline dal soprintendente Barlow un frammento di mascella con ancora inserito un molare. Broom si accorse subito che il dente era troppo grande per essere di africanus, e in più che il fossile era contenuto in una breccia diversa da quella di Sterkfontein, e pretese da Barlow di conoscerne la storia e la provenienza. Risultò così che l’artefice del ritrovamento era stato un ragazzo appassionato di cose antiche, Gert Terblanche, che aveva raccolto quel piccolo osso di 2 milioni di anni in una cava poco lontana: a Kromdraai. La successiva campagna di 28

scavo, immediatamente organizzata, permise di recuperare altre parti del cranio, tra cui il palato, la parte sinistra della scatola cranica con l’osso zigomatico, la metà destra della mandibola e un certo numero di denti. E a quel punto risultò assolutamente evidente quanto fosse stata corretta la prima impressione ricevuta dal paleoantropologo di Pretoria: quell’ominino non rientrava nel taxon dell’australopiteco africano perché il suo apparato masticatore era di gran lunga più sviluppato. Broom, fedele al suo stile di lavoro, impiegò solo un paio di mesi per decidere di istituire la nuova specie Paranthropus robustus (fig. 3) e preparare la memoria con la descrizione del fossile e la sua collocazione nella classificazione antropologica, che in agosto inviò a «Nature». Come abbiamo già rilevato, lo scoppio della guerra interruppe bruscamente il lavoro degli scienziati e solo a partire dal 1948 Broom fu in grado di riprendere l’attività di scavo in una grotta mai esplorata prima e che distava poco più di un chilometro da Sterkfontein. Il sito si chiamava Swartkrans e nella seconda metà di novembre di quello stesso anno restituì i primi reperti di 2-1,5 milioni di anni: la metà sinistra di una mandibola di adolescente e alcuni denti. La robustezza dell’osso e i denti grandi, con lo smalto spesso, sollecitarono ancora una volta la propensione di Broom a definire nuovi gruppi tassonomici e in questo caso la scelta cadde su Paranthropus crassidens, cioè un parantropo dai «grandi denti». Nel 1949, e poi ancora nel 1950, il notevole lavoro di ricerca portato avanti da Broom e Robinson a Swartkrans fu ricompensato dalla buona sorte con la scoperta di due crani adulti quasi completi e coevi alla mandibola, che hanno permesso di ricostruire con estrema precisione le fattezze anatomo-morfologiche di quell’ominino, almeno a livello del capo. La cresta sagittale, i canini e gli incisivi avevano dimensioni modeste; al contrario, i denti premolari e molari erano molto sviluppati e le ossa zigomatiche così proiettate in avanti da nascondere l’incavata area nasale. Nel complesso, la struttura del crassidens non era per nulla diversa da quella del robustus e gli antropologi moderni, meno propensi di Broom a vedere in ogni fossile il rappresentante di una specie a sé, l’hanno inserito in Paranthropus robustus, che è venuto così a impersonare la linea evolutiva sudafricana del genere. Anche i resti dell’ultima specie conosciuta di parantropi erano già noti quando Alan Walker annunciò la scoperta dell’ethio29

picus e la località che li aveva restituiti agli studiosi era assai vicina al sito dove furono trovati quelli dell’avo. Stiamo parlando della famosa gola di Olduvai, in Tanzania, che unitamente alle sponde del lago Turkana ha dato la fama alla famiglia Leakey e ha consegnato all’antropologia alcune tra le più famose e importanti serie fossili. L’artefice della storia è stata Mary Leakey, che il 17 luglio 1959 – solo pochi mesi prima che si compisse un secolo dalla pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin – ha recuperato un cranio quasi completo di un bipede dall’apparato masticatorio possente e dal cervello non superiore ai 550 centimetri cubici. A quello strano essere vissuto 1,8 milioni di anni fa, con i canini e gli incisivi ridotti, i molari e i premolari particolarmente robusti, la faccia concava e una cresta assai pronunciata sulla cima della scatola cranica, Louis Leakey assegnò d’impulso il nome Titanohomo mirabilis, ovvero «sorprendente uomo gigante», perché era convinto di avere innanzi a sé l’antenato dell’umanità attuale e colui che aveva fabbricato gli utensili litici comparsi nello stesso orizzonte geologico dello scavo – due ipotesi che si sono poi dimostrate prive di fondamento. Nell’articolo preparato il mese successivo per «Nature», tuttavia, Leakey propose una diversa denominazione: Zinjanthropus boisei, in cui il termine «Zinj» non era altro che il nome dell’Africa orientale in arabo antico e «boisei» era stato mutuato dal nome di Charles Boise, uno dei finanziatori delle ricerche a Olduvai. Dopo di allora, altre spoglie fossili dello «zinjantropo» sono venute alla luce in Etiopia e Kenia, permettendo ai paleoantropologi di fissarne l’intervallo di vita tra 2,3 e 1,2 milioni di anni fa e, inoltre, di includerlo nel genere Paranthropus, ma facendogli conservare il nome specifico: Paranthropus boisei, appunto (si veda Parte seconda, fig. 3). Una fisionomia per australopiteci e parantropi La corporatura di Australopithecus e Paranthropus era modesta: le femmine arrivavano a un metro di altezza e 35 chili di peso, mentre i maschi raggiungevano il metro e mezzo e i 45 chili. Le loro ossa del bacino erano decisamente simili alle nostre, con l’ala iliaca bassa e larga per dare inserzione a un muscolo gluteo tan30

to potente da mantenere in equilibrio il busto sulle gambe29. Le arcate dei denti avevano perso il diastema ed erano, quindi, continue e ad andamento parabolico30. I canini erano molto ridotti, tanto da superare appena il livello degli altri denti, ma ancora conici come nelle antropomorfe; al contrario, i molari erano grandi e con lo smalto spesso. E proprio le proporzioni dei denti, piccoli quelli anteriori (incisivi e canini) necessari per tagliare e grandi quelli posteriori (premolari e molari) adatti a frantumare, indicano senza equivoci che la dieta si basava quasi esclusivamente sul consumo di vegetali. I due taxa non differivano affatto nelle dimensioni corporee, essi invece avevano un apparato masticatorio completamente diverso: potente quello dei parantropi, e adatto a triturare radici, tuberi, bacche e semi; meno sviluppato quello degli australopiteci, che prediligevano il fogliame tenero. Le loro mani erano simili alle nostre, con il pollice allungato per poter toccare i polpastrelli delle altre dita e disporre così della presa di precisione; mentre le braccia erano più lunghe – il loro omero raggiungeva l’85 per cento del femore, quando il nostro si ferma al 75. Il cranio era piccolo e con la volta bassa, le cavità orbitarie ancora grandi e distanti tra loro, l’apertura piriforme – o apertura nasale – ampia e il toro sopraorbitario marcato. Il foro occipitale era orizzontale e in posizione avanzata per permettere al midollo spinale di essere perpendicolare al cervello e alla testa di stare in equilibrio sulla colonna vertebrale. La parte alta della faccia era piccola e quella bassa era larga e sporgente, ovvero prognata; e sulla mandibola mancava il mento. Le ossa craniche dei parantropi erano più massicce rispetto a quelle degli australopiteci, con delle creste che servivano per aumentare la superficie di inserzione dei forti muscoli masticatori. Entrambi quegli ominini avevano ancora il cervello più o meno delle stesse dimensioni di quello delle antropomorfe: circa 500 centimetri cubici. Se si con29 Le antropomorfe, invece, che utilizzano i quattro arti per camminare – il bordo esterno del piede e la faccia dorsale della mano a livello delle articolazioni metacarpo-falangee: knuckle walking, ovvero andatura sulle nocche – non hanno bisogno di una forte muscolatura glutea, tanto da essere prive di natiche, e il loro bacino è alto e stretto. 30 Nelle antropomorfe, invece, dopo gli incisivi si sviluppano due file di denti rettilinee e parallele, proprio come nella lettera U.

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sidera il volume relativo, però, e quindi il rapporto tra le dimensioni del cervello e del corpo, si nota nei nostri antenati un aumento del 25 per cento. Non abbiamo prove che producessero strumenti litici, ma non possiamo escludere che usassero attrezzi di legno o di osso. Un nuovo genere a fianco degli australopiteci Il Ventesimo secolo si era praticamente chiuso consegnandoci l’idea che tra 4 e 3 milioni di anni fa l’albero evolutivo degli ominini comprendesse il solo genere Australopithecus. Il fatto, però, appariva singolare, perché quell’intervallo di tempo era il solo a non mostrare quel rigoglio di specie e generi che, esattamente come aveva previsto Stephen Jay Gould31, aveva trasformato anche il nostro albero in un vero e proprio cespuglio. Un ritrovamento imprevedibile e imprevisto, tuttavia, ha cambiato ancora una volta la ricostruzione del nostro passato. Quella lacuna, infatti, è stata colmata, così come è avvenuto in tante altre occasioni, da un membro della famiglia Leakey, Meave, la quale su «Nature» di marzo 2001 ha descritto un cranio singolarissimo rinvenuto a Lomekwi, sul lato occidentale del lago Turkana, nella campagna di scavo compiuta tra il 1998 e il 199932. L’età del reperto risaliva a 3,5 milioni di anni fa e la sua morfologia si presentava come un mosaico di caratteri primitivi, nella porzione neurocranica, associati ad altri derivati, o moderni, nello scheletro facciale. Sfortunatamente, il fossile era molto distorto e ciò non ha consentito di effettuare una misurazione diretta della sua capacità cranica, che comunque non doveva superare quella degli australopiteci. Nondimeno, a questo tratto arcaico si contrapponevano uno scheletro facciale assai piatto, un palato sottile e molari piccoli e con lo smalto spesso. Il foro occipitale, poi, aveva la forma ovale e non a cuore come nei parantropi; e fra il toro sopraorbitario e la fronte non c’era alcuna traccia di solco, che, come vedremo nel capitolo successivo, comparirà invece in Homo habilis, ma non in Homo S.J. Gould, This View of Life, in «Natural History», 85, 1976, 4, pp. 24-31. M.G. Leakey et al., New Hominin Genus from Fastern Africa Shows Diverse Middle Pliocene Lineages, in «Nature», 410, 2001, pp. 433-40. 31 32

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rudolfensis. La mancanza quasi assoluta di ogni traccia di prognatismo ha convinto Meave Leakey, per la verità in contrasto con il parere di una buona parte di altri paleoantropologi, che il suo ominino non solo non potesse rientrare in nessuna specie conosciuta, ma addirittura che non potesse rientrare neppure nel genere Australopithecus. La scienziata non ha nutrito dubbi sul fatto che a quella creatura fosse capitato, più che di incarnare il ruolo di discendente degli australopiteci, di sperimentare dei tratti che solo molto tempo dopo sarebbero entrati nella storia di un’altra linea evolutiva: quella di Homo. E, così, gli ha attribuito il nome Kenyanthropus platyops – cioè «uomo del Kenia dalla faccia piatta» – e addirittura il ruolo di antenato dell’Homo rudolfensis, un ominino che sarebbe vissuto in quelle stesse terre un milione e mezzo di anni dopo. Lo sviluppo di questa linea di pensiero potrebbe persino portare all’ipotesi di sostituire gli australopiteci con i keniantropi nel ruolo di antenati dell’umanità attuale e alcuni paleoantropologi, come Brigitte Senut, sono già su questa strada.

Capitolo secondo

Dall’evoluzione compare un «Homo»

Un ponte sul «Rubicone» Fino alla metà degli anni Sessanta dello scorso secolo l’antropologia è stata dominata dall’idea che nessun ominino con un cervello inferiore a 700-800 centimetri cubici potesse essere ammesso nel genere Homo. Per la verità, quel valore era del tutto arbitrario e aveva l’unico scopo di tracciare un «Rubicone» tra noi e le creature che erano giudicate ancora troppo vicine alle antropomorfe: gli australopiteci. Gli studiosi, insomma, non riuscivano a prendere le distanze da quella che potremmo definire l’«ossessione cerebrale», secondo la quale solo un cervello imponente nel volume avrebbe potuto garantire l’armoniosa esplicazione di tutte le attività che erano giudicate esclusive dell’uomo – inteso con la U maiuscola, come allora si usava – e alla cui base campeggiava la produzione di utensili. Nel 1964, però, Louis Leakey, Phillip Tobias e John Napier decisero che quel «Rubicone» poteva essere attraversato e che la soglia poteva essere fissata a non oltre 600 centimetri cubici1. Ma cosa era successo di tanto straordinario da convincere tre dei più influenti paleoantropologi di allora a compiere quella rivoluzione culturale? Semplice, ancora una volta un fossile aveva cambiato il corso dell’antropologia. Il reperto in questione, uno scheletro parziale di un ragazzo di 10-12 anni, era stato trovato a Olduvai il 4 novembre 1960 dal primo figlio di Louis e Mary Leakey, Jonathan, in un sito nel quale erano presenti anche dei manufatti litici, ma il cranio di quel ragazzo, ecco il dato 1 L.S.B. Leakey, P.V. Tobias, J.R. Napier, Recent Discoveries of Fossil Hominids in Tanganyika; at Olduvai and Near Lake Natron, in «Nature», 202, 1964, pp. 7-9.

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singolare, aveva contenuto un cervello davvero piccolo. Louis Leakey mostrò il «ragazzo di Jonny» – come era stato chiamato il fossile in onore di Jonathan – a Tobias e Napier e la discussione che ne nacque si protrasse serrata per oltre un triennio, in cui ogni particolare fu analizzato e analizzato di nuovo, e solo dopo fu possibile giungere alla decisione che avrebbe cambiato il nostro modo di intendere l’evoluzione umana. I primi rappresentanti della sottofamiglia degli ominini non erano stati i soli ad aver avuto un cervello dalle dimensioni decisamente ridotte; anche le specie più antiche del nostro stesso genere si erano dovute accontentare di encefali di poco più grandi di quelli delle antropomorfe. Eppure, nonostante una così evidente parsimonia da parte dell’evoluzione, quegli uomini senza più la U maiuscola erano stati capaci di elaborare una iniziale conoscenza scientifica del mondo e quindi di inventare la tecnologia litica. Solo dopo molte centinaia di migliaia di anni la testa degli Homo avrebbe iniziato a crescere, fino a diventare quell’enorme sfera che noi, umanità attuale, ci portiamo in equilibrio sulle spalle2. Un ominino di specchiata abilità – «Homo habilis» La forma venuta alla luce a Olduvai nel 1960 risaliva a 1,8 milioni di anni fa e aveva una capacità cranica di appena 675 centimetri cubici, che, sebbene modesta, era pur sempre il 50 per cento più grande rispetto a quella degli australopiteci. E sempre nel raffronto con questi ultimi, il fossile mostrava denti incisivi più larghi e molari e premolari più stretti e allungati, secondo un modello già orientato verso l’umanità più tarda; le falangi incurvate delle mani, invece, parevano indicare un arto ancora ben adattato ad afferrare i rami, come sarebbe stato necessario per svolgere delle attività in un ambiente boscoso, e in questo caso continuava ad essere mantenuto il modello australopitecino. Simili caratteri anatomo-morfologici, in maggior parte innovativi e in minor parte conservativi, persuasero i tre studiosi che il «ragazzo di Jonny» non potesse rientrare in nessun taxon australopitecino e che, quindi, fosse necessario istituire una nuova specie nell’ambito del genere 2

G. Biondi, O. Rickards, Uomini per caso, Editori Riuniti, Roma 20032.

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Homo, per il cui nome ripescarono una proposta formulata tanto tempo prima da Raymond Dart: habilis. Quel nome, infatti, sembrava essere stato pensato proprio per lui, dal momento che nello stesso orizzonte stratigrafico dove avevano giaciuto le sue ossa erano stati trovati diversi manufatti litici, di una fattura che ha assunto poi la denominazione di cultura olduvaiana3. Alla fine del 1963, altri fossili dello stesso tipo furono scoperti a Olduvai e ciò convinse definitivamente Leakey, Tobias e Napier che attorno a 2 milioni di anni fa fosse vissuta nella regione, oltre al parantropo boisei, una seconda specie: l’Homo habilis, appunto. La comunità paleoantropologica mondiale si mostrò, per la verità, piuttosto scettica nei confronti del nuovo ominino e solo dopo che furono riportati alla luce due crani quasi completi, ancora a Olduvai e a Koobi Fora in Kenia, iniziò a manifestarsi un consenso che alla fine degli anni Settanta avrebbe finalmente sancito l’accettazione della nuova specie da parte della maggioranza degli antropologi. Il primo cranio è stato scoperto nell’ottobre 1968 e la sottigliezza delle sue ossa lo ha fatto attribuire a una giovane femmina, vissuta anch’essa attorno a 1,8 milioni di anni fa. Visto dall’alto, il reperto era più largo alla base che non all’apice – una caratteristica che si invertirà solo in noi sapiens – e aveva una conformazione neurocranica più allargata di quella di qualunque australopiteco; e, inoltre, la sua capacità era leggermente inferiore alla nuova soglia di 600 centimetri cubici. Il modesto difetto, però, poteva non aver riguardato l’individuo quando era in vita, ma dipendere esclusivamente dalla distorsione che la forte pressione del terreno aveva esercitato sulle ossa durante la fase della sua mineralizzazione. In ogni caso, ciò che ha colpito maggiormente i ricercatori è stato il modello di sviluppo morfologico che si ricavava dall’osservazione globale del fossile e cioè che il processo di crescita del neurocranio si era accompagnato a una riduzione della faccia, divenuta piuttosto bassa e dritta, proprio secondo la norma che ha guidato tutta la successiva evoluzione di Homo. Anche il cranio trovato in Kenia nel 1973, e vecchio di 1,9 milioni di anni, aveva la faccia piccola, al pari dei denti e della teca deputata a contenere il cervello, che in 3 La prima industria litica va sotto il nome di cultura olduvaiana, che copre l’inizio del Paleolitico inferiore, da 2,5 a 1,5 milioni di anni fa. Il nome deriva dalla gola di Olduvai in Tanzania.

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questo caso era ben sotto il valore proposto per l’inserimento in Homo: solo 510 centimetri cubici. Esso, poi, aveva già nella sua parte posteriore la protuberanza che avrebbe caratterizzato l’anatomia dell’osso occipitale di alcuni ominini che sarebbero comparsi solo più avanti nel corso dell’evoluzione. Alla fin fine, si poteva ritenere che la testa dell’uomo abile fosse stata ben descritta; non poche incertezze, invece, rimanevano sulla conformazione del resto del suo corpo. E questa lacuna ha pesato sul fondatore del nostro genere sino alla metà degli anni Ottanta, quando Tim White ha rinvenuto – sempre nella gola di Olduvai e nel corso della campagna di scavo del 1986 – 302 frammenti di uno scheletro di habilis. Tra essi, fortunatamente, comparivano parti di un braccio destro, compresi l’omero, il radio e l’ulna quasi completi, e la parte prossimale, cioè alta, di un femore sinistro e le loro modeste dimensioni hanno suggerito che i resti fossero appartenuti a una femmina, la cui statura non doveva superare il metro di altezza. La notevole usura della superficie occlusale dei denti, poi, era una chiara indicazione che l’esserino fosse morto quando era già un adulto piuttosto avanti negli anni. Tuttavia, ciò che ha stupito di più nella sua struttura corporea è stata la proporzione relativa degli arti, perché la lunghezza dell’omero raggiungeva il 95 per cento di quella del femore. Il braccio, insomma, era davvero lungo, se si pensa che nell’umanità attuale il rapporto si ferma al 75 per cento, e si approssimava decisamente alla conformazione che si osserva nelle scimmie antropomorfe – negli scimpanzé, infatti, l’indice raggiunge il 100 per cento, che significa che l’omero e il femore hanno la medesima lunghezza. A differenza di quanto enfatizzato fino ad allora, in habilis c’era ancora molto del programma di sviluppo degli australopiteci, ma una simile constatazione non avrebbe dovuto sorprendere eccessivamente i paleoantropologi, se solo avessero rammentato come François Jacob4 aveva descritto il modo di operare dell’evoluzione. Per lui, infatti, e in assoluta armonia con il pensiero darwiniano, il processo evolutivo non avanzerebbe secondo un piano prestabilito, né per giungere ad alcun fine, più semplicemente – e qui risiede l’originalità della sua proposta – recupere4 F. Jacob, Evolution and Tinkering, in «Science», 196, 1977, pp. 1161-66 (trad. it., Evoluzione e bricolage, Einaudi, Torino 1978).

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rebbe «pezzi» già disponibili, cioè presenti in altre specie, e li assemblerebbe in maniera del tutto originale fino a dar vita a specie nuove. Le innovazioni crescerebbero sull’antico, si potrebbe dire, e Homo si sarebbe portato dietro per un certo tempo un fardello australopitecino. Nel corso degli ultimi due decenni, la specie habilis è riuscita a conquistare una posizione piuttosto stabile nella tassonomia ominina, senza però ottenere il riconoscimento unanime della comunità scientifica. E tra gli studiosi che si sono dichiarati contrari all’istituzione di un taxon separato, Bernard Wood e Mark Collard5 sono stati tra i più decisi ad affermare che in realtà gli habilis non sarebbero altro che degli australopiteci. La portata teorica di una simile affermazione va ben oltre il problema tassonomico e investe una delle questioni centrali dell’antropologia: cioè a quale ominino si debba attribuire l’invenzione della tecnologia litica. Su questo punto, l’opinione maggiormente diffusa tra gli studiosi riconosce proprio al genere Homo quel salto culturale, pur senza negare che anche gli australopiteci potrebbero aver usato degli attrezzi, magari semplicemente raccolti nell’ambiente invece che costruiti, i quali non sarebbero giunti fino a noi perché ricavati da materiali deperibili, come legno o corno o osso. Viceversa, se accettassimo il pensiero di Wood e Collard saremmo obbligati a riconoscere agli australopiteci non solo il ruolo di nostri progenitori, ma anche quello di nostri maestri in fatto di scienza e tecnica. La posizione dominante ricorda in qualche modo il pensiero che già aveva espresso Louis Leakey, secondo il quale non solo era stato Homo a fabbricare gli utensili, ma addirittura erano stati gli utensili a fare di una parte dell’umanità degli Homo. Per lui c’era una linea evolutiva diretta che congiungeva l’habilis all’umanità attuale e relegava ogni altra specie allora conosciuta a semplice ramo laterale. Non sappiamo dire cosa ci riservino le future ricerche, ma non ci stupiremmo affatto, e neppure ci sentiremmo affatto dispiaciuti, se dovessimo scoprire che Homo non ha più il primato tecnologico (fig. 4).

5 B.A. Wood, M.C. Collard, The Human Genus, in «Science», 284, 1999, pp. 65-71.

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Un compagno per l’abile – «Homo rudolfensis» Nel mese di agosto 1972, Louis Leakey ha visto materializzarsi almeno in parte l’idea che aveva sostenuto tutta la sua lunga attività di paleoantropologo e cioè che milioni di anni fa fosse vissuto in Africa orientale un Homo dal «grande» cervello. E quella enorme soddisfazione gliela donò il figlio Richard riportando alla luce a Koobi Fora un cranio quasi completo, il famoso 1470, la cui capacità arrivava a ben 775 centimetri cubici. Il reperto risaliva a 1,91,8 milioni di anni fa ed era caratterizzato da una teca cranica piuttosto larga e con un marcato restringimento subito dietro le orbite, un occipitale arrotondato, una faccia larga e piatta, un toro sopraorbitario non troppo sviluppato e privo del solco che nell’uomo abile lo distaccava abbastanza nettamente dall’osso frontale, una mascella squadrata, un palato basso e corto, i denti canini e incisivi larghi, e quelli molari e premolari di media grandezza. Per alcuni, 1470 poteva rientrare nella variabilità morfologica di habilis, ma dopo un dibattito che ha assunto toni anche accesi è prevalsa l’opinione di istituire per esso, e per una mandibola e altri due resti cranici che successivamente erano stati trovati nello stesso sito, una nuova specie, il cui nome fu suggerito solo nel 1986 da Valerii Alexeev, il quale riprese la vecchia denominazione del lago Turkana, Rudolf, da cui appunto Homo rudolfensis. La decisione di definire un nuovo taxon oltrepassò il problema di dare una fisionomia rinnovata alla classificazione ominina, cioè di trovare un assetto più corrispondente alle variazioni biologiche che si andavano via via scoprendo nella sottofamiglia, essa riuscì a rompere quella linearità evolutiva, allora condivisa da molti antropologi, che dall’habilis avrebbe portato a noi sapiens, anche attraverso una serie di forme intermedie. La presenza in Africa orientale di due specie che erano convissute all’inizio della storia del genere Homo, infatti, complicava il disegno del suo albero evolutivo, fornendogli quella dimensione a cespuglio, con più specie presenti nel medesimo luogo e nel medesimo tempo, che Stephen Jay Gould aveva suggerito pure per l’evoluzione umana. Chi fosse il nostro antenato tra habilis e rudolfensis era la domanda nuova a cui gli antropologi dovevano far fronte. E con il 2001, come abbiamo già visto, le cose si sono notevolmente complicate, perché ora dobbiamo tener in considerazione anche la 40

possibilità che, a fianco della linea tradizionale che sale dagli australopiteci fino all’abile e a noi, ci sia stato un percorso alternativo: dal keniantropo sino al rudolfense e a noi. Purtroppo, non è ancora tempo di azzardare una risposta. Prima, e per poterne avanzare una scientificamente sostenibile, abbiamo la necessità di trovare altri fossili di quel periodo. Un altro ramo nel cespuglio – «Homo ergaster» Mentre preparava la sua tesi di dottorato presso il Museo del Transvaal a Pretoria, nel 1969, Ronald Clarke si imbatté in alcune ossa craniche che non avevano nessuna delle caratteristiche dei fossili di Paranthropus robustus che stava esaminando, eppure tutto quel materiale proveniva dalla medesima cava di Swartkrans e dal medesimo orizzonte geologico: 1,5 milioni di anni fa. Dopo aver messo insieme i pezzi, Clarke si avvide di avere in mano quasi l’intera metà sinistra di un cranio, la cui faccia era stretta e bassa, il toro sopraorbitario era ben pronunciato e con la depressione che lo separava dalla fronte non eccessivamente profonda, il restringimento dietro le orbite era contenuto e l’osso frontale era sfuggente6. Il suo stupore, comunque, aumentò ulteriormente quando realizzò che la mascella si adattava perfettamente a una mandibola piuttosto delicata rinvenuta da Broom e Robinson all’inizio degli anni Cinquanta e che i due paleoantropologi avevano escluso dal novero dei fossili di robustus e attribuito prima a una nuova specie, secondo il loro abituale costume, e poi all’unico Homo antico allora conosciuto: l’Homo erectus. Quella mandibola aveva suggerito a Robert Broom che a Swartkrans fossero convissute due specie ominine diverse, una con l’apparato masticatorio massiccio e l’altra gracile, e che proprio alla seconda si dovessero attribuire i manufatti litici ritrovati nella grotta e persino le tracce di fuoco ivi rinvenute. La sua ipotesi, però, si era infranta contro lo scetticismo generale manifestato dall’ambiente accademico, convinto che un sito archeologico potesse restituire solo fossili di un unico taxon. La scoperta di Clarke, invece, stava a testimonia6 R.J. Clarke et al., More Evidence of an Advanced Hominid at Swartkrans, in «Nature», 225, 1970, pp. 1219-22.

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re la giustezza di quell’idea. Agli studiosi sudafricani è capitato più di una volta di trovarsi a sostenere tesi mal accettate dal resto del mondo scientifico e non sono pochi i casi in cui hanno avuto ragione. E anche questo sembrava proprio che potesse rientrare nella categoria «non creduti ma nel giusto». Per sei anni, tuttavia, la questione è rimasta sospesa: con alcuni antropologi convinti che il reperto di Clarke fosse solo un parantropo robusto particolarmente piccino e altri che non riuscivano a trovargli una collocazione adeguata nel panorama delle specie già note. La situazione ha subito un rapido mutamento nel 1975, quando Richard Leakey ha rinvenuto a Koobi Fora un cranio adulto risalente a 1,8 milioni di anni fa. Anch’esso aveva una struttura decisamente meno robusta di quella dei parantropi che abitavano la regione nello stesso periodo e assimilabile, invece, al modello dei successivi Homo. Il cranio era largo alla base e andava restringendosi verso l’alto, la volta era bassa e allungata e nella sua parte posteriore, esattamente sull’occipitale, mostrava una piccola protuberanza arrotondata, il toro occipitale, le ossa erano sottili e la capacità cranica raggiungeva ben 850 centimetri cubici. Sarebbe stato difficile a quel punto continuare a coltivare dubbi: il fossile era fuori dal disegno anatomo-morfologico dei parantropi. Esso, però, non rientrava neppure in nessuna delle specie note. E per questo resto e per quello sudafricano, così come per altri che nel frattempo erano venuti alla luce, Colin Groves e Vratislav Mazák hanno proposto, sempre nel 1975, di istituire la nuova specie Homo ergaster, cioè «uomo lavoratore». Il decennio successivo è stato caratterizzato dalla disputa tra coloro che avevano accettato l’esistenza di ergaster e un folto gruppo di studiosi convinti, al contrario, che quelle ossa rappresentassero solo la forma primigenia dell’Homo erectus. La controversia, insomma, girava tutta attorno a una questione teorica, che, per la verità, continua ancora oggi ad alimentare un certo dibattito. E cioè: nel corso dell’evoluzione umana si sono susseguite tante specie poco variabili o meno specie più variabili? Ovvero, la nostra evoluzione ha avuto un andamento a cespuglio con un buon numero di rami, come molte prove stanno a indicare, o il cespuglio dovrebbe essere drasticamente potato? Una risposta alla questione se ergaster fosse una vera categoria sistematica, che al momento pare definitiva e quindi in favore della presenza di molte specie nel nostro albero evolutivo, è giunta il 42

22 agosto 1984 quando Richard Leakey e Alan Walker hanno dato notizia su «Nature» di un ritrovamento assai importante avvenuto a Nariokotome in Kenia7. Si trattava dello scheletro più completo di un ominino mai venuto alla luce e, in particolare, dello scheletro di un giovane maschio di 1,6 milioni di anni alto un metro e mezzo per circa 50 chili di peso, che se fosse vissuto fino all’età adulta avrebbe raggiunto il metro e ottanta e i settanta chili (fig. 5). La morfologia dei denti e alcune caratteristiche del cranio, tra cui la larghezza massima raggiunta nella parte più posteriore e il solco dietro il toro sopraorbitario poco profondo, lo avvicinavano indubbiamente all’Homo erectus della Cina, tanto che all’inizio fu inserito proprio in quella specie, ma la capacità cranica di 880 centimetri cubici, che sarebbero diventati 910 nell’adulto, convinse in seguito gli scienziati che il posto più idoneo che potesse occupare nella classificazione naturale fosse all’interno di ergaster. Le ossa postcraniali, poi, sono state una vera miniera di informazioni, che ci hanno permesso di mettere a confronto la costituzione anatomica dell’umanità primitiva con quella dell’umanità attuale. Relativamente a noi, il bacino era un po’ più stretto e quindi di maggiore efficienza per camminare e correre, mentre il collo del femore era decisamente più lungo, un carattere questo primitivo e retaggio della discendenza dagli australopiteci. Nel complesso, però, l’intero piano anatomico si era allontanato dallo schema australopitecino per fondare quello moderno del nuovo genere. Oltre a contribuire a stabilizzare il disegno tassonomico delle prime fasi della storia di Homo, il «ragazzo del fiume» – così chiamato perché rinvenuto lungo il bordo della bassa foce di un fiume – ha permesso di fare chiarezza su un argomento che da sempre stimola l’interesse degli antropologi, e la curiosità dell’opinione pubblica, e cioè se gli altri ominini fossero stati capaci di parlare come noi. Il canale vertebrale del giovane era più stretto rispetto al nostro e quindi doveva essere inferiore il numero di fibre nervose che raggiungeva la cassa toracica. Di conseguenza, il sistema che regolava il passaggio dell’aria dai polmoni alla bocca doveva essere meno efficiente e una simile costituzione 7 F. Brown et al., Early «Homo erectus» Skeleton from West Lake Turkana, in «Nature», 316, 1985, pp. 788-92.

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anatomica non era affatto compatibile con la possibilità di parlare. Ciò, ovviamente, consente di ipotizzare che il nostro particolare modo di comunicare con gli altri sia sorto successivamente nel corso dell’evoluzione. Questa interpretazione non convince alcuni ricercatori, per i quali il restringimento del canale vertebrale sarebbe di origine patologica, semplicemente una conseguenza della scoliosi, e quindi non sarebbe possibile escludere che gli altri rappresentanti della specie fossero in grado di parlare. L’uomo ergaster è stato il primo ominino capace di mantenere il fuoco, se non di produrlo, e quello che ha volto il suo pensiero e il suo interesse oltre i confini africani. Non è dato sapere cosa possa averlo mosso a colonizzare il resto del Vecchio Mondo, in quanto non ci sono evidenze apparenti che colleghino quella scelta a problemi demografici o nutrizionali o climatici. Nessuna causa esterna, cioè, pare coinvolta in quel bisogno di andare altrove. La passione per i viaggi, tuttavia, non ha indebolito il suo legame con il continente culla, dove molti ergaster sono rimasti e nel corso della successiva evoluzione hanno dato origine ad altre specie, che si sono anch’esse disperse fino a conquistare l’intero globo con noi umanità sapiente. Qualcosa, dunque, deve aver cambiato la sua testa, eppure, come abbiamo visto, si trattava di una testa assai primitiva, che conteneva un cervello piccolo e con i lobi frontali – dove hanno sede le funzioni della programmazione e del giudizio – non ancora sviluppati come i nostri. Una caratteristica comune a tutte le specie non sapiens del genere, infatti, era la fronte sfuggente. Anche la tecnologia posseduta da ergaster era pari a quella dei precedenti Homo, che invece erano rimasti fermi in Africa allo stesso modo dei parantropi, degli australopiteci, degli ardipiteci, degli orrorin e dei sahelantropi. E, infine, si deve notare che non poteva parlare, almeno non come lo facciamo noi. Un cervello che superava di poco la metà del nostro, quindi, è stato capace nell’alba dell’umanità di concepire delle imprese straordinarie, anche se non va sottaciuto che più della dimensione assoluta conta il rapporto tra la massa cerebrale e quella dell’intero corpo e sotto questo profilo sia ergaster che gli Homo a lui precedenti erano già abbastanza ben dotati. Il quadro dell’uscita dall’Africa che abbiamo appena tracciato, e che ancora è il più condiviso e coerente, potrebbe essere rivisitato nell’arco dei prossimi anni o, addirittura, dei prossimi me44

si, perché alcuni importanti fossili rinvenuti in Georgia fin dall’inizio degli anni Novanta dell’altro secolo stanno suggerendo un esodo con tempi e attori nuovi. L’uomo del Caucaso – «Homo georgicus» Nel corso degli anni Novanta, e poi subito all’inizio del nuovo millennio, un gruppo di paleoantropologi guidati da Léo Gabounia ha riportato alla luce a Dmanisi, in Georgia, diversi fossili molto ben conservati, tra cui due mandibole e tre crani. Le fattezze di quei reperti erano abbastanza simili, tanto da far pensare ad una sola forma ominina, e così primitive da suggerire l’idea che fossero stati trovati i primi uomini che avevano lasciato l’Africa per esplorare l’Eurasia. L’interesse verso quei fossili, però, crebbe davvero molto solo dopo che i geologi del gruppo li ebbero datati a 1,8 milioni di anni fa, cioè a ben 300.000-200.000 anni prima rispetto all’epoca a cui generalmente si faceva risalire l’uscita dal continente africano. Finalmente, gli antropologi potevano ragionare sulla migrazione di Homo verso settentrione, uno degli eventi più importanti di tutta la storia umana, avendo in mano non solo congetture e supposizioni, costruite a partire da documenti indiretti come sono i manufatti litici, ma i resti fossili di coloro che quell’evento lo avevano vissuto. Le ossa, sebbene tutte piuttosto delicate, mostravano delle differenze, con certune più robuste delle altre a indicare un inequivocabile grado di dimorfismo sessuale. Alcuni studiosi, tuttavia, hanno coltivato il dubbio se non fosse lecito pensare a due specie diverse, piuttosto che a maschi e femmine di differente corporatura. La mandibola aveva il corpo largo e alto, con l’arcata alveolare – cioè la porzione masticatoria – lunga e la branca montante fornita di creste per dare inserzione a un muscolo temporale ben sviluppato; i denti incisivi erano piccoli e i canini grandi; la faccia era minuta e sormontata dal toro sopraorbitario; e la scatola cranica era bassa e molto appiattita. L’arcaico quadro anatomo-morfologico, poi, era completato dalle modeste dimensioni del cervello, che nei tre reperti raggiungeva solo 600, 650 e 780 centimetri cubici8. Subito dopo le prime scoperte, i ricercatori si erano convinti 8 A. Vekua et al., A New Skull of Early «Homo» from Dmanisi, Georgia, in «Science», 297, 2002, pp. 85-89.

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che gli uomini di Dmanisi non fossero altro che dei migranti ergaster, ma i loro cervelli tanto piccoli e l’industria litica che li accompagnava, dello stesso tipo olduvaiano dell’Africa orientale, li hanno poi indotti a mutare opinione. Quegli ominini avevano conservato diversi tratti sia di Homo habilis che di Homo rudolfensis e pareva più appropriato considerarli i loro discendenti e un taxon nuovo dal quale poi si sarebbe evoluto l’uomo ergaster. Un gruppo intermedio, insomma, ma molto vicino al punto d’origine del genere Homo e per il quale era divenuto indispensabile – almeno così pensavano i paleoantropologi impegnati a scavare a Dmanisi – istituire una nuova specie, alla quale fu assegnato il nome Homo georgicus9. L’ambiente accademico non ha accolto con favore, almeno sino ad ora, la nuova specie, ritenendo che quei fossili siano tutti all’interno della variabilità biologica che caratterizza l’ergaster e, quindi, riconoscendo solo a quest’ultimo la straordinaria capacità di abbandonare la terra d’origine. Se i dubbi permangono sul nome da dare al «grande viaggiatore», è invece unanime il consenso sul mutamento del paradigma relativo all’uscita dall’Africa. L’esodo non ha richiesto, come si è ritenuto per svariati decenni, un cervello tanto sviluppato e un corredo di sofisticati utensili. I nostri antenati sono stati capaci di affrontare la prova più difficile e unica di tutta la storia dell’evoluzione umana, la conquista del mondo attraverso il corridoio del Medio Oriente, appena sono nati e quando ancora avevano lo stesso cervellino di quegli ominini che erano stati capaci di muoversi solo all’interno della grande madre Africa10. Come ama ricordare Philip Rightmire, uno degli scienziati coinvolti negli scavi, sono stati dei «piccoli uomini» a spingersi all’inizio oltre i confini delle terre conosciute. E da allora il desiderio di esplorare l’ignoto non ci ha più abbandonato. Sulla via dell’oriente – «Homo erectus» e «Homo floresiensis» La concezione filogenetica dei rapporti tra le specie, cioè l’idea basata sul legame evolutivo che unisce l’antenato ai propri di9 L. Gabounia et al., Découverte d’un nouvel hominidé à Dmanisi (Transcaucasie, Géorgie), in «Comptes Rendus Palevol», 1, 2002, pp. 243-53. 10 M. Balter, A. Gibbons, Were «Little People» the First to Venture out of Africa?, in «Science», 297, 2002, pp. 26-27.

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scendenti, aveva portato Charles Darwin a sostenere nell’Origine dell’uomo, pubblicato nel 1871, che la storia dell’umanità fosse iniziata in Africa, dal momento che in quel continente vivevano – e tuttora vivono – le antropomorfe a noi più simili e quindi proprio lì dovevano essere vissuti sia il progenitore comune che la sua iniziale progenie: ossia gli avi di gorilla, scimpanzé e uomo. Diceva Darwin, infatti, è quindi probabile che l’Africa fosse abitata primieramente da scimmie estinte strettamente affini al gorilla e al scimpanzé; e siccome queste due specie sono ora i più prossimi affini dell’uomo, è in certo modo più probabile che i nostri primi progenitori vivessero nel continente africano che non altrove11.

Di opinione diversa, invece, si era dimostrato Alfred Russel Wallace, che contemporaneamente a Darwin aveva elaborato il modello di evoluzione per selezione naturale e che era convinto che la nostra origine fosse da ricercare nell’Asia sud-orientale12. E, nel 1874, anche Ernst Haeckel aveva ampliato l’area geografica della culla, includendovi l’intera Asia, con le parole: L’origine dell’«uomo primitivo» ebbe luogo verosimilmente durante l’età diluviana13 nella zona calda del mondo antico, o sul continente dell’Africa od Asia tropicale, o su un continente antico (ora scomparso sotto la superficie dell’Oceano indiano) che dall’Africa orientale (Madagascar ed Abissinia) giungeva sino all’Asia orientale (isole di Sonda ed India posteriore)14.

Nell’Europa di fine Ottocento, la figura di Haeckel godeva di un indiscusso prestigio e il suo pensiero influenzò profondamente le scelte e l’attività di molti giovani intenzionati ad intraprendere gli studi naturalistici. Tra questi c’era Eugène Dubois, che 11 C. Darwin, L’origine dell’uomo e la scelta in rapporto col sesso (1871), trad. it., Unione Tipografico-Editrice, Torino-Napoli 1871, p. 146. 12 D. Johanson, B. Edgar, From Lucy to Language, Witwatersrand University Press, Johannesburg 1996, p. 187. 13 L’età diluviana, un termine impreciso che oggi non si usa più, corrisponde al passaggio dal Pleistocene all’Olocene, e cioè a circa 10.000 anni fa. 14 E. Haeckel, Antropogenia e storia dell’evoluzione umana (1874), trad. it., Unione Tipografico-Editrice, Torino 1895, p. 443.

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per realizzare il massimo sogno della sua vita, trovare quello che Haeckel aveva definito l’«anello mancante» tra l’uomo e le scimmie antropomorfe, si arruolò come medico nell’esercito coloniale dei Paesi Bassi che operava nelle Indie Orientali. La scelta dell’Indonesia, però, non era affatto casuale, né solo cresciuta sotto le suggestioni di Wallace e Haeckel, quanto piuttosto legata ai numerosi ritrovamenti fossili di cui si era avuta notizia negli anni precedenti la sua partenza, avvenuta nell’autunno del 1887. Gli antichi mammiferi indonesiani, infatti, erano risultati assolutamente simili a quelli che accompagnavano i resti degli antenati delle attuali antropomorfe venuti alla luce nell’area dei monti Siwalik, ai piedi dell’Himalaya, e Dubois sperava di trovare la stessa associazione anche a Giava15. I suoi sforzi furono ricompensati nel biennio 1891-92, quando recuperò, nei pressi del villaggio di Trinil lungo il fiume Solo, un molare, una calotta cranica e un femore di circa 500.000 anni. Le ossa della calotta erano robuste, la sua capacità era decisamente superiore a quella di qualunque scimmia antropomorfa conosciuta, ma inferiore alla nostra, la fronte era piatta, il toro sopraorbitario era pronunciato e dietro le orbite c’era una marcata costrizione; e il femore era sicuramente appartenuto a una creatura dalla postura eretta e dall’andatura bipede. Una breve riflessione fu sufficiente a fargli superare ogni dubbio e a convincerlo di aver trovato proprio quello che era andato a cercare in Asia: l’«anello mancante» previsto da Haeckel. Quest’ultimo, infatti, non aveva riconosciuto quel ruolo ai neandertaliani, perché il loro cervello era così grande da disporli molto in alto nella scala evolutiva dell’uomo, e, quindi, prima doveva esserci stata un’altra figura dalle forme più scimmiesche e decisamente intermedia tra noi e le antropomorfe, ma priva della parola in quanto solo «l’uomo vero si sviluppa dal precedente perché acquista la lingua»16 – almeno così riteneva Haeckel, che coniò per la sua invenzione il nome Pithecanthropus alalus (o scimmia-uomo senza favella). E Dubois, in omaggio a chi aveva ispirato la sua ricerca, chiamò l’uomo di Giava Pithecanthropus erectus. Da molto tempo 15 In un primo tempo Dubois aveva sperato di poter effettuare anch’egli delle ricerche in India, ma dopo aver scoperto che quell’area era riservata agli studiosi britannici orientò la sua scelta verso l’Indonesia. 16 Haeckel, Antropogenia e storia dell’evoluzione umana, cit., p. 443.

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ormai la teoria dell’«anello mancante» è stata falsificata e più nessun antropologo crede che sia esistita una qualche creatura intermedia tra noi e il gorilla o lo scimpanzé. Oggi, infatti, sappiamo bene che con quei parenti tanto prossimi abbiamo condiviso solo degli antenati comuni. Anche il nome pitecantropo è stato ormai abbandonato e precisamente fin dal 1963 quando Ernst Mayr suggerì di sostituirlo con Homo erectus, in quanto: «l’uomo di Giava è così vicino all’uomo moderno in tutti i lineamenti anatomici essenziali, che non sembra opportuno considerarli come due generi separati»17. Nel secolo successivo, il Ventesimo, altri fossili sono stati riportati alla luce a Giava. E in particolare, a Modjokerto e Sangiran negli anni Trenta da Ralph von Koenigswald e ancora a Sangiran nel 1979 da Sartono, il quale ha rinvenuto un cranio che risalirebbe a 1,5 milioni di anni fa – una data decisamente antica per erectus, se vera. Dopo il successo ottenuto nelle isole asiatiche, i paleoantropologi hanno rivolto il loro interesse all’area continentale cinese, dove nel 1903, in una collezione di denti fossili di una farmacia di Pechino, era stato rinvenuto un molare di un uomo preistorico. Il materiale proveniva da alcune grotte vicine al villaggio di Zhoukoudian, situato 60 chilometri a sud-ovest di Pechino, e proprio nella caverna principale Gunnar Anderson e Otto Zdansky iniziarono nel 1921 uno scavo sistematico, che fino al 1937, quando scoppiò il conflitto con il Giappone, ha restituito un gran numero di denti, mandibole, calotte e altri frammenti del cranio neurale e facciale. Quell’ominino, studiato principalmente da Franz Weidenreich e la cui età risaliva a 500.000-400.000 anni fa, aveva il toro sopraorbitario più delicato sia rispetto ai suoi simili di Giava che all’habilis; aveva la fronte sfuggente e l’osso occipitale fortemente flesso e con un toro ben evidente nella sua parte più posteriore; e aveva una capacità cranica pari a ben 1.043 centimetri cubici (figg. 6 e 7). Per l’uomo di Pechino fu scelto inizialmente il nome scientifico Sinanthropus pekinensis, ma poi anch’esso è stato inserito in Homo erectus. Sfortunatamente, la guerra non ha portato solo l’interruzione dell’attività archeologica a Zhoukoudian, 17 E. Mayr, L’evoluzione delle specie animali (1963), trad. it., Einaudi, Torino 1970, p. 692.

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ma nel 1941, e per cause ancora sconosciute, anche la scomparsa di tutti i suoi fossili umani. E solo la lungimiranza degli studiosi, che di ogni reperto avevano fatto il calco, ha permesso di contenere il disastro18. Fossili più antichi, risalenti a 800.000-700.000 anni fa, sono stati trovati a partire dagli anni Sessanta nelle province di Shenxi e Yunnan; e la regione di Guangxi Zhuang ha recentemente restituito utensili della medesima età. Del tutto inaspettatamente, due ritrovamenti – un frammento di mascella e alcuni utensili litici – avvenuti nella seconda metà degli anni Novanta nelle province di Sichuan e Anhui hanno determinato quello che potrebbe rivelarsi un autentico sovvertimento nel nostro modo di ricostruire la storia dell’Homo erectus. Quei reperti, infatti, risalivano a 2,2-2 milioni di anni fa e se la datazione dovesse essere confermata – e davvero i dubbi non sono pochi – dimostrerebbero che appena nato Homo sarebbe uscito dall’Africa per incamminarsi in tutte le direzioni e diventare georgicus a nord ed erectus a est19. Nel complesso, l’uomo eretto aveva il cranio lungo e piatto, con la fronte sfuggente, un marcato restringimento dietro le orbite e l’occipitale angolato; la faccia era larga, prognata e con un forte toro sopraorbitario; la mandibola era massiccia e priva di mento; i denti erano grossi; e la capacità cranica oltrepassava la soglia dei 1.000 centimetri cubici. Fino a pochi anni addietro si riteneva che si fosse estinto attorno a 200.000 anni fa, ma nuove datazioni effettuate nei siti di Giava – sulle quali pendono alcuni dubbi – lo manterrebbero in vita sino a 50.000-25.000 anni fa. In ogni antropologo, l’Homo erectus ha suscitato tradizionalmente l’idea di un ominino longevo e al tempo stesso sterile, cioè di un ramo morto del nostro cespuglio evolutivo. Di lui, infatti, non si conoscevano specie discendenti, ma nell’ottobre 2004 Peter Brown ha dato notizia su «Nature» della scoperta nell’isola indonesiana di Flores di uno scheletro incompleto di 18.000 anni 18 W. Rukang, L. Shenglong, Peking Man, in «Scientific American», 248, 1983, pp. 86-94. 19 R. Larick, R. Ciochon, The First Asians, in «Archaeology», 49, gennaiofebbraio 1996, pp. 51-53; R. Ciochon, R. Larick, Early «Homo erectus» Tools in China, in «Archaeology», 53, gennaio-febbraio 2000, pp. 14-15. 20 P. Brown et al., A New Small-Bodied Hominin from the Late Pleistocene of Flores, Indonesia, in «Nature», 431, 2004, pp. 1055-61.

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che sembrava colmare la lacuna20. Il fossile era davvero singolare – di una donna adulta la cui statura si era fermata a 106 centimetri e il cui cervello aveva raggiunto appena i 417 centimetri cubici – e Brown si è convinto che quelle particolari fattezze fossero dovute alla lunga segregazione sull’isola che aveva caratterizzato la vita della popolazione cui era appartenuto. Il fenomeno della riduzione della taglia nelle specie isolane, costrette in una nicchia in cui sia le fonti di sostentamento che i pericoli di predazione sono limitati, era ben noto negli altri mammiferi, ma a Flores esso è stato documentato per la prima volta – o almeno così sembra – anche nell’evoluzione umana. A quel punto, Brown non ha avuto dubbi sulla posizione tassonomica da assegnare al suo reperto: una nuova specie, Homo floresiensis, figlia dell’erectus ed estintasi prima di aver potuto lasciare una discendenza. Su questa ipotesi, però, si sono riversate le critiche di alcuni studiosi che hanno ritenuto di ravvisare nello scheletro di Flores i segni della patologia e che quindi hanno suggerito di considerarlo null’altro che un sapiens colpito da un grave difetto degenerativo. È bene sottolineare, comunque, che le argomentazioni dei detrattori della nuova specie non sono per nulla forti, perché le molte differenze tra le ossa di Flores e le nostre appaiono di tipo esclusivamente strutturale, e a quegli scienziati, inoltre, deve essere sfuggito il particolare che nel medesimo sito archeologico sono stati riportati alla luce diversi frammenti di scheletri di altri nove individui, vissuti tra circa 85.000 e 12.000 anni fa. E se la presenza di un malato disabile in una popolazione è nell’ordine delle cose, un’intera popolazione di microcefali non lo è affatto21. Si può ritenere, in ogni caso, che la contesa che si è or ora aperta tra i paleoantropologi non debba durare a lungo, a differenza di quanto è avvenuto in casi analoghi, dato che l’esame del DNA sarà in grado di risolvere la questione, anche se il primo tentativo è fallito, e dirci se il genoma di quell’individuo sia simile al nostro o tanto diverso da giu21 Una recente analisi del calco endocranico dell’uomo di Flores ha dimostrato che il cervello non era affatto patologico, di un microcefalo, ma piuttosto evoluto: con i lobi temporali (coinvolti nell’ascolto e nella comprensione del linguaggio) larghi e con i lobi frontali (coinvolti nei processi cognitivi) con molte circonvoluzioni (D. Falk et al., The Brain of LB1, «Homo floresiensis», in «Science», 308, 2005, pp. 242-45).

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stificare una specie nuova e con essa una ricostruzione alternativa di una delle ultime tappe dell’evoluzione umana. Più recentemente, Peter Brown ha avanzato l’ipotesi che l’uomo di Flores potrebbe non essere affatto il discendente dell’uomo eretto, quanto l’erede di una specie più antica e con il cervello piccolo. Un australopiteco, quindi, del quale però al momento non possediamo alcuna testimonianza fossile fuori dall’Africa e più giovane di 2,5 milioni di anni. Andando a nord – «Homo antecessor» e «Homo cepranensis» Nonostante l’uomo sia arrivato alle porte d’Europa in tempi molto antichi, vi è penetrato piuttosto tardi e, fino agli anni Novanta dello scorso secolo, si pensava addirittura non prima di 500.000 anni fa. Recenti scoperte in Spagna e Italia, però, hanno modificato profondamente le nostre conoscenze sul più antico popolamento del continente, arretrando il momento della colonizzazione a una data che sfiora il milione di anni fa e che avrebbe visto coinvolte ben due specie. La prima è stata rinvenuta durante gli scavi del 1994 e 1995 nel sito della Gran Dolina, nella sierra di Atapuerca presso Burgos, e risaliva a oltre 780.000 anni fa. I numerosi frammenti di cranio e del resto dello scheletro, appartenuti ad almeno sei individui di tutte le età, mostravano un insieme di tratti arcaici e moderni che sembravano differenziarli da ogni altra specie di Homo allora conosciuta. I denti apparivano alquanto primitivi, anche se il tipo di sviluppo e le modalità di eruzione non si discostavano dalle nostre, il toro sopraorbitario era evidente e a doppio arco e la capacità cranica era di soli 1.000 centimetri cubici. Le ossa postcraniali, però, erano decisamente gracili e ciò ha convinto José Maria Bermúdez de Castro a istituire una nuova specie alla quale ha dato il nome Homo antecessor 22. La seconda specie a giungere in Europa è testimoniata da una calotta cranica trovata il 13 marzo 1994 da Italo Biddittu nei pressi di Ceprano, 90 chilometri a sud di Roma, e datata a 800.000 an22 J.M. Bermúdez de Castro et al., A Hominid from the Lower Pleistocene of Atapuerca, Spain: Possible Ancestor to Neandertals and Modern Humans, in «Science», 276, 1997, pp. 1392-95.

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ni fa. La sua fisionomia era del tutto arcaica, a causa dell’ossatura spessa, della volta schiacciata, della fronte sfuggente, del toro sopraorbitario robusto e dell’osso occipitale fortemente angolato e, inoltre, anche per la sua forma complessiva, che vista dall’alto era stretta nella sua parte anteriore e larga dietro, a pera. Essa, però, aveva contenuto un cervello già piuttosto sviluppato, il cui volume doveva avvicinarsi a 1.200 centimetri cubici. L’uomo di Ceprano si discostava dalle specie più antiche di Homo soprattutto per il cranio più corto e per la costrizione postorbitaria meno pronunciata e da antecessor per la morfologia d’insieme della calotta. Sulla base di queste valutazioni, Francesco Mallegni ha proposto all’inizio del 2003 di istituire per l’ominino italiano un nuovo taxon, per il quale ha suggerito il nome Homo cepranensis23. Le due specie di cui or ora abbiamo dato conto, e che hanno fissato la data del popolamento dell’Europa a poco meno di un milione di anni fa, non erano discendenti di georgicus o erectus, ma rami nuovi di quel tronco evolutivo africano che è riconducibile all’Homo ergaster. E la popolazione africana d’origine, almeno per cepranensis, potrebbe essere ricondotta ai due crani di un milione di anni trovati a Buia in Eritrea e a Bouri in Etiopia e di cui Ernesto Abbate24 e Berhane Asfaw25 hanno dato notizia su «Nature» nel 1998 e nel 2002. L’ominino eritreo aveva la volta cranica a forma di pera, la faccia corta, stretta e prognata, il toro sopraorbitario spesso e un cervello di soli 750-800 centimetri cubici. Anche il suo vicino etiopico aveva una robusta visiera ossea sopra le orbite e un toro occipitale poco marcato, ma il cervello si avvicinava ai 1.000 centimetri cubici. Sul posto da assegnare loro nella tassonomia ominina, i paleoantropologi non hanno ancora trovato un accordo definitivo, sebbene il maggior consenso vada nella direzione di ergaster; i loro eredi, tuttavia, hanno abbandonato la culla africana per raggiungere i territori boreali, dove potrebbero essere giunti attraverso due distinte vie di migrazione: 23 F. Mallegni et al., «Homo cepranensis» Sp. Nov. and the Evolution of African-European Middle Pleistocene Hominids, in «Comptes Rendus Palevol», 2, 2003, pp. 153-59. 24 E. Abbate et al., A One-Million-Year-Old «Homo» Cranium from the Danakil (Afar) Depression of Eritrea, in «Nature», 393, 1998, pp. 458-60. 25 B. Asfaw et al., Remains of «Homo erectus» from Bouri, Middle Awash, Ethiopia, in «Nature», 416, 2002, pp. 317-20.

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quella di Gibilterra, assai breve ma con un salto di mare, e quella del Medio Oriente, certamente più lunga ma tutta su terra ferma. Nella casa europea – «Homo heidelbergensis» Un deposito di sabbie fluviali nei pressi di Mauer, pochi chilometri a sud-est di Heidelberg, era ben noto agli studiosi di fine Ottocento per i numerosi resti di mammiferi preistorici che aveva conservato e che i lavoratori addetti all’attività estrattiva riportavano continuamente alla luce. E Otto Schoetensack era convinto che tra quelle ossa – di rinoceronti, elefanti, orsi, bisonti, cervi e cavalli – dovevano pur esserci quelle di un qualche ominino. Per oltre vent’anni, però, le sue continue visite alla cava non avevano dato alcun risultato, ma il 21 ottobre 1907 tutto mutò d’improvviso e la sua ostinazione fu alfine ripagata da una mandibola di 500.000-400.000 anni che era stata appena trovata e che gli fu consegnata da un addetto ai lavori di scavo (fig. 30). Il reperto si presentava molto robusto, senza alcuna traccia di mento e anzi con la parte anteriore che piegava verso il basso e l’indietro e con il ramo verticale, che si articola al cranio, assai largo e quindi idoneo a dare attacco a dei forti muscoli della masticazione; ma i denti26 molari, sebbene grandi, erano più piccoli di quelli dell’Homo erectus e più o meno delle stesse dimensioni di quelli di alcuni sapiens antichi. Il divario tra la delicatezza dei denti e la solidità della mandibola dovette colpire enormemente gli anatomisti dell’epoca, se Arthur Keith ritenne di dover sottolineare «l’apparente difformità tra l’‘umanità’ dei denti e la massiccia conformazione – quasi bestiale – della stessa mandibola». Schoetensack si convinse presto che il fossile non poteva essere ascritto a nessuno dei taxa allora conosciuti e coniò per esso il nome Homo heidelbergensis, che per quasi tutto il Novecento avrebbe assunto il ruolo di primo abitante d’Europa. I decenni successivi hanno assistito via via all’intensificarsi dell’attività di ricerca degli antropologi in Europa e i reperti dell’Homo heidelbergensis sono comparsi numerosi un po’ in tutte le 26 I denti della mandibola di Mauer presentavano il carattere noto con il nome taurodontismo, che indica un’anomalia che causa un grande sviluppo della corona e della camera polpare e la fusione di parte delle radici.

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aree del continente: nel 1933 a Steinheim in Germania, poi nel 1960 a Petralona in Grecia, poi ancora nel 1971 a Tautavel (nella grotta di Caune de l’Arago) in Francia e, infine, nel 1992-93, nella Sierra di Atapuerca (a Sima de los Huesos) in Spagna. La loro età era compresa tra 400.000 e 250.000 anni e la morfologia cranica era caratterizzata da un toro sopraorbitario spesso e diviso in due archi, da un profondo solco che divideva quella visiera ossea dalla fronte assai sfuggente, da un forte restringimento subito dietro le orbite, da una faccia dritta, cioè ortognata, da un palato ampio e, in alcuni casi, da un osso occipitale spesso e con una marcata prominenza nella parte più posteriore (il toro occipitale); e la loro capacità cranica variava dai 1.100 centimetri cubici di Steinheim ai 1.390 del cranio 4 di Atapuerca. In complesso, la fisionomia dell’uomo di Heidelberg era a mosaico e comprendeva sia tratti più arcaici, come la forma del toro sopraorbitario, che tratti più moderni, come la forma della faccia. Il riconoscimento di una nuova specie apre immediatamente la questione filogenetica di dovergli trovare un luogo d’origine, un’ascendenza e, ammesso che l’abbia lasciata, una discendenza, ma, per poter rispondere a tutte queste domande, nel caso di heidelbergensis, i paleoantropologi hanno dovuto attendere fino all’ottobre 1976, quando a Bodo d’Ar in Etiopia è stato riportato alla luce un cranio di 600.000 anni che richiamava fortemente i più giovani europei. La sua struttura era assai robusta e la faccia era addirittura la più grande mai riscontrata nella nostra serie fossile, il toro sopraorbitario era spesso e decisamente sporgente e al centro della volta cranica campeggiava ben visibile una cresta ossea. Alla forma massiccia del cranio, tuttavia, sembrava contrapporsi il disegno delicato di un omero, rinvenuto sempre nel sito di Bodo nel 1990, le cui dimensioni erano più piccole di quelle che lo stesso osso ha in molti uomini moderni e la discordanza è stata interpretata quale segno di un certo dimorfismo sessuale presente in quella popolazione ominina. Di grande interesse, poi, è risultata la comparazione con il cranio rinvenuto a Kabwe in Zambia nel 1921 (noto nell’ambiente accademico con il nome di Broken Hill o «uomo della Rodesia»), il quale risaliva a 400.000 anni fa e si presentava allungato e con la fronte bassa e sfuggente e una capacità che raggiungeva i 1.300 centimetri cubici (figg. 8 e 9). Per gli studiosi, i due reperti appartenevano alla medesima specie e, da55

ta la notevole somiglianza con gli heidelbergensis europei, proprio a quel taxon. Gli uomini di Bodo e Kabwe, quindi, sarebbero stati i discendenti di ergaster e i primi rappresentanti della specie heidelbergensis, che sarebbe poi migrata in Europa, dove, di lì a qualche tempo, si sarebbe estinta, ma non prima di aver lasciato un erede: l’uomo di Neandertal.

Capitolo terzo

Neandertal o l’avo mancato

I fossili negletti La storia dell’uomo di Neandertal è iniziata con dei fossili che solo molti anni dopo la loro scoperta sono stati riconosciuti appartenere a una specie ormai estinta. Il primo rinvenimento si ebbe nel 1829 o nel 1830 a Engis in Belgio e fu opera di Phillipe-Charles Schmerling, ma l’antichità di quel cranio infantile1 fu negata da Georges Cuvier, a quel tempo la massima autorità in campo naturalistico e anche fermo oppositore di ogni idea di trasformazione delle specie viventi e attento seguace del dettato creazionista, tanto che, per rendere conto dell’esistenza dei fossili, elaborò la teoria del «catastrofismo». Quest’ipotesi, falsificata dalla successiva ricerca scientifica, si basava sull’idea che la Terra fosse stata sconvolta in passato da enormi e periodiche catastrofi, ognuna delle quali, oltre a modificare l’aspetto del globo terrestre, avrebbe distrutto le forme di vita precedenti e dato origine a forme nuove. Adam Sedwick, un autorevole sostenitore del catastrofismo e che a Cambridge era stato maestro di Charles Darwin, così descriveva la storia del mondo: «In periodi successivi, nuove famiglie di creature furono chiamate in essere, non semplicemente come progenie di quelle che le avevano precedute, ma come nuove prove viventi dell’interferenza creativa»2. Per Cuvier, quindi, il «diluvio universale» sarebbe stato una realtà e l’ultima e più recente catastrofe; e di conseguenza nessuna specie vivente poteva L’età alla morte del ragazzo è stata stimata a circa due anni e mezzo. R. Lewin, Le origini dell’uomo moderno (1993), trad. it., Zanichelli, Bologna 1996, p. 40. 1 2

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essere più antica né avere antenati o parenti che andassero oltre quell’evento. Poco più di vent’anni dopo Engis, nel 1848, un secondo cranio, ma questa volta di una femmina adulta, venne alla luce a Gibilterra e anch’esso rimase negletto per lungo tempo. La circostanza e il luogo esatto del ritrovamento non sono mai stati chiariti; si sa solo che il capitano Broome, direttore della locale prigione militare e appassionato di fossili, era solito far esplorare le grotte della zona dai prigionieri, i quali, molto verosimilmente, dovettero scoprire il reperto in una di esse. È invece certo che il ritrovamento sia avvenuto prima del 3 marzo, giorno nel quale il tenente Edmund Flint lo presentò alla Gibraltar Scientific Society, come risulta da una nota di verbale in cui si affermava che il segretario «aveva presentato un cranio umano da Forbes’ Quarry»3. Il fossile fu poi inviato a George Busk, il quale, però, non lo prese subito in considerazione e solo nel 1864, quando finalmente si aprì tra gli studiosi un acceso dibattito sui neandertaliani, lo esaminò insieme a Hugh Falconer e con lui lo presentò alla British Association con le parole: «È un esempio di un tipo molto primitivo di umanità – molto primitivo e selvaggio, e di notevole antichità – ma nondimeno uomo, e non un gradino intermedio tra l’uomo e la scimmia»4. Nella relazione era chiarissimo il rifiuto dell’uso del termine «anello mancante» per dar conto della posizione tassonomica del fossile e ciò sta ad indicare non solo la concezione assai moderna che i due ricercatori avevano maturato nei confronti dei neandertaliani, ma anche quanto ampiamente quella brutta e inesatta espressione avesse pervaso il linguaggio antropologico che designava gli antenati dell’uomo. E per lungo tempo lo pervaderà ancora dopo. Busk e Falconer decisero di creare per il loro ominino una nuova specie, per la quale proposero il nome Homo calpicus (da un’antica denominazione di Gibilterra, Calpe), e solo successivamente le fattezze anatomo-morfologiche del reperto – specialmente l’evidente proiezione verso il dietro dell’osso occipitale, la forma della faccia e la capacità cranica di 1.300 centimetri cubici – convinsero i paleoantropologi ad inserirlo nel taxon neandertaliano. 3 4

E. Trinkaus, P. Shipman, The Neandertals, Knopf, New York 1993, p. 45. Ivi, p. 91.

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Senza dubbio, tuttavia, il più importante dei fossili neandertaliani misconosciuti è stato il terzo, venuto alla luce in un giorno di agosto del 1856 – solo tre anni prima della pubblicazione dell’Origine delle specie di Charles Darwin – grazie ad alcuni minatori impiegati ad estrarre il calcare nella grotta di Feldhofer, situata nella valle di Neander nei pressi di Düsseldorf. Il reperto, composto da una calotta cranica e da diverse ossa postcraniali (i due femori, le tre ossa del braccio destro e due di quello sinistro, una parte del bacino e frammenti di una scapola e delle costole), fu affidato a Johann Karl Fuhlrott, un insegnante del luogo e naturalista dilettante, che si avvide immediatamente di essere di fronte ai resti di un uomo assai antico. Fuhlrott, ben conscio dell’importanza della scoperta, chiese il giudizio dell’anatomista Hermann Schaaffhausen e nel corso dell’anno successivo comunicò insieme a lui la notizia del ritrovamento. A partire da quelle «curiosissime ossa» è stata fondata una nuova disciplina scientifica, la paleoantropologia, ed ha preso il via un dibattito sull’origine della nostra specie che si è appena concluso (come vedremo nel capitolo successivo). La maggior parte del mondo accademico ha accolto con dichiarato scetticismo l’idea che lo scheletro di Feldhofer potesse essere attribuito ad una forma umana ormai estinta ed ha preferito ricorrere a cause davvero bizzarre per spiegarne le caratteristiche. La curvatura dei femori fu attribuita all’abitudine di andare a cavallo e il marcato toro sopraorbitario al continuo aggrottare della fronte causato dal dolore indotto da una forma di rachitismo infantile che avrebbe colpito lo sfortunato individuo. Nell’immaginario di alcuni, quel «rachitico cavallerizzo» poteva addirittura essere stato uno dei cosacchi che inseguivano Napoleone nel 1814 e che aveva trovato la morte nella grotta tedesca. Persino Rudolf Virchow, la più eminente personalità dell’epoca nel campo della medicina, dichiarò che le ossa erano moderne e patologiche, cioè affette da rachitismo, ma quel morbo rende le ossa sottili e porose mentre quelle in discussione erano straordinariamente spesse e robuste. Un errore tanto grossolano può essere stato causato solo dall’assoluta opposizione di Virchow alle idee evoluzionistiche che iniziavano allora a propagarsi nell’ambiente scientifico, un pregiudizio che non gli consentiva di accettare degli antenati per l’umanità. Ancora più estrema era la concezione di coloro che associavano alla patologia anche la criminalità e che vedevano in 59

quei resti i segni della grande forza fisica, dell’idiozia, della crudeltà, delle inclinazioni omicide e di un percorso umano destinato alla prigione e poi al patibolo. Sul versante opposto, quello favorevole alla notevole età del fossile, si schierarono Charles Lyell e Thomas Henry Huxley. Quest’ultimo, tuttavia, con la convinzione che il reperto fosse di epoca storica, sebbene antica, in quanto la sua struttura anatomo-morfologica non gli pareva così estranea alla nostra da giustificare un salto di specie. Per ironia della sorte, è stato un geologo, William King, e non un antropologo a sostenere che i tratti del fossile trovato nella valle di Neander dovessero essere considerati estranei al nostro taxon e a proporre, in occasione della riunione del 1863 della British Association, che per esso fosse adottato il nome Homo neanderthalensis. Solo nel corso dell’anno successivo, però, lo scienziato formalizzò la sua proposta, che comparve in un articolo pubblicato sul «Quarterly Journal of Science». King aveva maturato la decisione di istituire una specie nuova basandosi esclusivamente sul disegno ovale della calotta cranica, più larga nella parte posteriore che non davanti a causa di un marcato restringimento dietro le orbite e sull’osservazione che la fronte era bassa e sfuggente e il toro sopraorbitario era sviluppato, continuo e a forma di due archi, uno sopra ciascuna orbita. Un’intuizione, la sua, che ha retto alla prova del tempo, anche se formatasi solo su un frammento di cranio, e che oggi è comunemente accettata. Se King avesse potuto disporre di un cranio completo avrebbe notato diverse altre caratteristiche che facevano dei neandertaliani una specie a sé: la mandibola era massiccia e senza mento; i denti anteriori erano più grandi dei nostri, mentre i premolari e i molari erano più o meno delle stesse dimensioni; l’occipitale era molto angolato e con una protuberanza, o toro, non troppo accentuata e sormontata da un solco; le cavità orbitarie erano rotondeggianti; l’apertura nasale era larga e alta; la faccia era un poco protesa verso l’avanti; e la capacità cranica era decisamente elevata, con valori medi di circa 1.300 centimetri cubici nelle femmine e 1.600 centimetri cubici nei maschi5. Quello che a metà Ottocento la valle di Neander aveva negato a Fuhlrott, a Schaaffhausen e a King lo ha offerto a Ralf Schmitz 5

G. Biondi, O. Rickards, Uomini per caso, Editori Riuniti, Roma 20032.

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e Jürgen Thissen alla fine del Novecento, quando i due paleoantropologi hanno riportato alla luce nel sito dove si trovava la grotta di Feldhofer – oggi distrutta – diversi fossili, tra cui un frammento di faccia che si adattava perfettamente alla calotta. E ancora di maggiore interesse, se così si può dire, è risultato il fatto che in questa occasione sia stato possibile datare il sito: l’ominino che è diventato il neandertaliano per eccellenza aveva 40.000 anni. Più bruti che uomini Una volta che nel mondo scientifico – o almeno in una buona parte di studiosi – si fu radicata l’idea che prima di noi erano vissuti altri uomini ormai estinti, gli antropologi furono in grado di riconoscere e valutare correttamente i fossili neandertaliani che comparivano nei siti archeologici. E in quella nuova realtà, il Belgio è stato davvero generoso: prima con una mandibola trovata a La Naulette nel 1865 e poi con due scheletri trovati a Spy nel 1886. L’idea di Darwin, che le specie si originano da altre specie, iniziava ad essere suffragata da un buon numero di fossili anche nel caso dell’uomo e apparve allora assolutamente evidente che Neandertal dovesse essere considerato l’antenato dell’umanità attuale. Inoltre, come abbiamo già visto, quella che era considerata la nostra ascendenza si era ulteriormente arricchita verso la fine del secolo con la scoperta in Asia del «pitecantropo» e, siccome l’ominino asiatico appariva più primitivo, ovvero con una morfologia e un cervello più vicini a quelli delle scimmie antropomorfe, fu sistemato ancora più indietro dei neandertaliani. In questo modo, la prima genealogia dell’evoluzione umana aveva assunto una formulazione scientifica, secondo la quale da un antenato simile ad un’antropomorfa si sarebbe evoluto il pitecantropo, poi l’uomo di Neandertal e, infine, l’uomo attuale. E fu Gustav Schwalbe a formalizzarla proprio al volgere del secolo. In un primo tempo, la tesi dell’evoluzione lineare suggerita da Schwalbe fu accolta con un certo entusiasmo, ma già nel secondo decennio del Novecento si sviluppò una decisa opposizione contro la pretesa di voler considerare i neandertaliani i nostri antenati diretti. E la causa di ciò va ricercata principalmente nell’errata interpretazione di uno dei più famosi reperti paleoantropologici: uno scheletro nean61

dertaliano quasi completo rinvenuto nel 1908 a La Chapelle-auxSaints, nel dipartimento di Corrèze in Francia (figg. 10 e 11). Per somma sventura, il fossile fu consegnato a Marcellin Boule, i cui grossolani errori hanno associato ai neandertaliani un’immagine caricaturale. Lo studioso, infatti, riteneva che quelle ossa fossero appartenute ad un individuo di aspetto bestiale o scimmiesco, la cui colonna vertebrale e gli arti inferiori avrebbero indicato un’andatura bipede non ancora perfetta come la nostra; e l’aspetto vigoroso e pesante del corpo, la forma della testa e la robustezza delle mascelle avrebbero testimoniato la predominanza delle funzioni puramente vegetative su quelle cerebrali6. Anche Elliot Smith aderì alla paradossale descrizione che equiparava i neandertaliani a dei bruti, sostenendo che il modo di camminare di quelle creature doveva essere stato goffo a causa delle gambe corte e semiflesse e della testa protesa verso l’avanti. Relativamente a quest’ultimo punto, infatti, entrambi gli studiosi erano convinti che il foro occipitale fosse spostato molto indietro sulla base del cranio e, quindi, che la testa non fosse in equilibrio sulla colonna vertebrale, ma all’innanzi come avviene nelle antropomorfe quando si alzano sui due arti posteriori. Il quadro, poi, sarebbe stato reso ancora più fosco e animalesco, almeno ai loro occhi, dai tratti del cranio – in particolare, le forti arcate sopraorbitarie, la fronte bassa e sfuggente e la mancanza del mento – e dal folto manto peloso. Un’asserzione, quella sulla pelliccia, tirata fuori dal sacco del pregiudizio, perché non c’è modo di ricavare una simile informazione dai fossili. L’immagine pseudoscientifica costruita da Boule e Smith ha fatto insorgere nell’opinione pubblica e, cosa decisamente più grave, nel mondo accademico un archetipo neandertaliano in cui uomini e donne si muovevano strascicando i piedi, con le spalle curve e lo sguardo fisso e privo di ogni espressione, e con atteggiamenti animaleschi nel modo di consumare i pasti e organizzare le relazioni sociali: bruti appunto, da tenere accuratamente estranei non solo alla nostra storia culturale, ma anche a quella biologica7.

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M. Boule, Les hommes fossiles, Masson, Paris 19463. Biondi, Rickards, Uomini per caso, cit., p. 235.

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Insomma, degli antichi parenti e non già dei nostri antenati. Una nozione, questa, nata certamente da una prevenzione e dal desiderio di mantenere intatta la nostra unicità, ma che lo studio molecolare dell’evoluzione umana ha dimostrato essere corretta: sia ben chiaro, però, fuori da ogni pregiudizio. Una nuova immagine per i neandertaliani Il problema relativo al modo di camminare dei neandertaliani è stato risolto da Sergio Sergi nel 1929, quando in una cava di breccia situata alle porte di Roma, nella tenuta di Saccopastore, degli operai hanno trovato un cranio appartenente a quel medesimo taxon e sul quale Sergi ha valutato la posizione del forame occipitale e il suo orientamento. A differenza di quanto sostenuto erroneamente da Boule e Smith, il foro occupava nella base cranica dei neandertaliani una posizione identica alla nostra e il suo orientamento era verso l’avanti, proprio come avviene in noi – mentre negli altri mammiferi il foro guarda all’indietro. Ogni dubbio sulla deambulazione di quelle creature, quindi, è stato fugato da Sergi, il quale ha scritto sulla «Rivista di Antropologia» un articolo piuttosto polemico nei confronti dei due colleghi: Resta così dimostrato che l’uomo di Saccopastore per la posizione e l’inclinazione del forame occipitale doveva tenere assolutamente il capo eretto come gli uomini attuali. E poiché il cranio di La Chapelle presenta condizioni diverse, si potrebbe dubitare che il cranio di Saccopastore appartenga ad un tipo distinto. Ma a me sembra più probabile che la differenza del cranio di La Chapelle dipenda [...] da difetto nell’orientamento e da difetti nella ricostruzione della base8.

Finalmente la questione era chiusa e gli antropologi riconoscevano che i neandertaliani camminavano esattamente come noi e ciò contribuì non poco all’abbandono del modello evolutivo che li escludeva dalla nostra ascendenza e all’affermarsi di nuovo di

8 S. Sergi, La posizione e l’inclinazione del forame occipitale nel cranio neandertaliano di Saccopastore, in «Rivista di Antropologia», 29, 1930-32, pp. 563-69 (il volume è stato stampato nel 1933 e le parole citate sono a p. 565).

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quello monofiletico elaborato da Schwalbe. A favore di questa tesi si schierò anche l’antropologo più autorevole degli Stati Uniti, Alesˇ Hrdlicˇka, il quale era convinto che tutta l’umanità fosse passata attraverso una «fase neandertaliana», sia per quanto riguardava la forma anatomo-morfologica che la cultura. A metà Novecento, la ricostruzione dell’evoluzione umana ha conosciuto un nuovo assetto basato sul modello proposto da Franz Weidenreich, in cui si supponeva che i pitecantropi di ogni continente del Vecchio Mondo si fossero evoluti indipendentemente nell’uomo di Neandertal e poi, ancora indipendentemente, in ognuna delle varietà geografiche dell’uomo moderno. Nel mondo, quindi, ci sarebbero stati più percorsi evolutivi – Weidenreich ne aveva calcolati cinque – che tuttavia si sarebbero riuniti alla fine per sfociare nell’Homo sapiens. Questo schema, che visivamente si può assimilare ad un candelabro in cui da un’unica base si distaccano più bracci, sarebbe servito anni dopo ad un piccolo gruppo di antropologi per definire l’ipotesi della «continuità regionale», che oggi, però, è stata falsificata dall’analisi molecolare della nostra evoluzione. Dopo Weidenreich, la fase neandertaliana è stata elaborata in maniera decisamente più articolata da Clark Howell e Sergi, secondo i quali il taxon neandertaliano avrebbe mostrato ben due modalità anatomo-morfologiche: una più antica e dai tratti maggiormente arcaici, o preneandertaliani, e un’altra che potremmo definire classica. I preneandertaliani, tuttavia, non sarebbero stati solo gli antenati dei neandertaliani classici, che dopo un breve passaggio nel mondo sarebbero andati incontro ad un’estinzione senza discendenti, ma anche dell’umanità attuale9. La nuova fisionomia (moderna) e il nuovo ruolo evolutivo (nostri antenati) dei neandertaliani hanno finito per diventare patrimonio comune dell’intero ambiente scientifico e a questa rinascita ha contribuito enormemente anche il riesame del fossile di La Chapelle. Da quel momento, cioè dalla fine degli anni Cinquanta del Ventesimo secolo, i neandertaliani sono diventati degli Homo altamente evoluti e dalla cultura assai raffinata – che doveva com9 Id., I tipi umani più antichi preominidi e ominidi fossili, in R. Biasutti (a cura di), Le razze e i popoli della terra, Utet, Torino 19674, pp. 84-162.

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prendere persino delle manifestazioni artistiche – e per non pochi scienziati sarebbe stato addirittura arduo distinguerli da noi sapiens. E tra questi, gli anatomisti che avevano ricevuto l’incarico di studiare nuovamente l’uomo di La Chapelle, e che avevano corretto gli errori di Boule, hanno sintetizzato il nuovo clima culturale affermando che se un neandertaliano si fosse vestito all’occidentale e fosse entrato nella metropolitana di New York non avrebbe attirato molta più attenzione di altri suoi frequentatori. L’idea che i neandertaliani fossero stati un’umanità avanzata, non solo nel fisico ma anche nella psiche e nell’organizzazione sociale, ha ricevuto un ulteriore sostegno da alcune scoperte interpretate dai paleoantropologi quali prove, se non certe almeno assai verosimili, di pratiche funerarie. Infatti, nella grotta di Shanidar, nei monti Zagros in Iraq, fin dal 1950 sono state rinvenute delle strutture che apparivano come delle vere e proprie tombe singole e multiple, con il suolo accanto alle ossa ricoperto dal polline di molti fiori. Certo, non si può escludere che quel polline fosse solo percolato dalla superficie insieme all’acqua piovana, né che i cadaveri fossero stati interrati solo per non attirare gli animali, ma il convincimento che la sepoltura possa essere stata dettata da un comportamento pietoso rimane forte, anche perché Shanidar ci ha fornito una prova indiscutibile di condotta altruistica e quindi pietosa. In effetti, uno scheletro presentava tali segni di fratture e mutilazioni rimarginate da indurre in noi la certezza che solo l’assistenza della propria gente abbia potuto permettere all’individuo di sopravvivere10. Se furono tanti coloro che concorsero ad allontanare i neandertaliani dalla torbida corrente dei bruti, nessuno più di Loring Brace, però, ha potuto aspirare ad esserne il tutore11. Verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, Brace si era convinto che tutti gli ominini allora conosciuti – che andavano dagli australopiteci, ai pitecantropi, ai neandertaliani e all’umanità attuale – sarebbero stati riconducibili ad un unico schema anatomo-morfologico e, quindi, che sarebbero potuti rientrare in un’unica specie. Brace, R. Gore, Neandertals, in «National Geographic», 189, 1996, pp. 2-35. L. Brace, The Fate of the Classic Neandertals, in «Current Anthropology», 5, 1964, pp. 3-43. 10 11

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cioè, forzò il modello evolutivo lineare fino al suo limite estremo, presentandolo come un lungo accumulo di piccoli cambiamenti successivi realizzatisi nell’ambito di una medesima forma, e lo chiuse assegnando ai neandertaliani e a noi il rango di semplici sottospecie: Homo sapiens neanderthalensis e Homo sapiens sapiens. E così, ogni nostra ambizione di sedere sul gradino più alto dell’evoluzione, e di essere un po’ speciali rispetto al resto delle creature viventi, sembrava essere stata per sempre mortificata. I neandertaliani in sintesi I neandertaliani sono vissuti tra 350.000 e 28.000-27.000 anni fa nella vasta area che comprende l’Europa, il Medio Oriente e l’Asia centro-occidentale. La loro statura non era troppo alta, circa 160-170 centimetri, il peso variava tra i 70 chili per le donne e gli 85 per gli uomini, la costituzione corporea era decisamente robusta e la muscolatura potente. Le loro mani e i loro piedi erano larghi e la capacità cranica era uguale, se non superiore, alla nostra e variava tra i 1.250 e i 1.750 centimetri cubici. Il cranio si presentava massiccio e aveva una forma assai lunga e larga, schiacciata e con un caratteristico restringimento dietro le orbite; la fronte era sfuggente e il toro sopraorbitario era robusto e con la completa fusione delle due arcate sopracciliari; l’osso occipitale poi aveva una forma molto convessa e presentava un allungamento nella regione più posteriore, noto con il nome di chignon. Anche la faccia era voluminosa e con orbite rotonde e grandi e un’ampia apertura nasale. E la mandibola, infine, aveva conservato i caratteri arcaici del nostro genere, molto robusta e senza mento. Dalle molecole il posto dei neandertaliani nella tassonomia Nell’ultimo quarto del Ventesimo secolo, gli antropologi si erano ormai convinti che i neandertaliani fossero prossimi all’umanità attuale sia nei tratti somatici che in quelli culturali. Ciò che invece continuava a dividerli era il posto da assegnare loro nella classificazione degli ominini, perché non tutti condividevano l’idea che noi sapiens ci fossimo evoluti dai neandertaliani. E su questo punto, il dibattito tra gli studiosi dei fossili si era cristallizzato in 66

un’inutile contrapposizione: alcuni erano assolutamente certi di individuare una continuità morfologica tra loro e noi e, quindi, anche una continuità tassonomica, mentre altri arguivano dall’analisi comparativa la convinzione di una discontinuità nel modello evolutivo. I due punti di vista non avevano alcuna possibilità di essere avvicinati, dal momento che l’analisi dei fossili è fortemente influenzata dalla soggettività del ricercatore, un elemento questo che può essere controllato ma non eliminato. Una qualunque struttura ossea, infatti, è soggettivamente più o meno profonda, o sporgente, o robusta e così via. Ed è, quindi, arbitrario tagliare qui o lì la variabilità morfologica, che è in gran parte continua. Negli anni Ottanta del secolo scorso, però, una nuova tecnologia biologica ha permesso di affrontare il problema del rapporto filogenetico neanderthalensis-sapiens attraverso esperimenti ripetibili, e quindi oggettivi, e così di risolvere la questione. La storia ha avuto inizio in Cina, dove nel 1980 alcuni scienziati erano riusciti a recuperare il DNA da una mummia di 2.000 anni, aprendo in tal modo la via agli studi sul DNA antico (aDNA); e verso la fine del decennio, Erika Hagelberg e Satoshi Horai erano stati in grado di amplificare con la PCR, o reazione a catena della polimerasi, alcuni tratti di DNA estratto da ossa antiche. A quel punto, si erano realizzate le condizioni per affrontare la domanda antropologica del momento in modo completamente nuovo: cioè utilizzando le informazioni evolutive contenute nel genoma degli ominini ormai estinti. Sfortunatamente, non siamo stati ancora in grado di recuperare il materiale genetico da fossili più vecchi di 400.000 anni, sebbene teoricamente si dovrebbe poter andare indietro fino a 1 milione o addirittura 2 milioni di anni, ma quella data era comunque perfetta per sciogliere una volta per tutte la contesa neandertaliana. Il DNA di elezione usato nelle analisi sui fossili è quello mitocondriale (mtDNA), perché è semplice da studiare – si trasmette solo per via materna e quindi non ricombina – ed è presente in ogni cellula in migliaia di copie, a differenza di quello nucleare che è presente solo in due copie. E quest’ultima caratteristica è di estrema importanza, in quanto dopo la morte di un individuo e con il passare del tempo il suo DNA tende a degradarsi, cioè a rompersi in piccoli frammenti; è evidente allora che se ce ne sono più copie aumenta la probabilità di trovarne dei tratti sufficientemente lunghi per essere studiati. L’uni67

co svantaggio insito nell’mtDNA, se così si può dire, riguarda il fatto che ci permette di ricostruire l’evoluzione solo lungo la via materna. La prima indicazione molecolare sul posto da assegnare ai neandertaliani in natura è stata fornita nel 1997 da Svante Pääbo12, che era riuscito ad estrarre il DNA dal più famoso dei fossili di quel taxon: il reperto trovato nella grotta di Feldhofer nel 1856. La sua sequenza, infatti, aveva accumulato un numero di mutazioni tre volte maggiore rispetto alle differenze medie che si riscontrano tra le popolazioni umane attuali e ciò stava ad indicare l’estraneità reciproca dei due percorsi evolutivi. I neandertaliani, quindi, non solo non erano una sottospecie dell’Homo sapiens, ma non rientravano neppure tra i suoi ascendenti. Negli anni che sono seguiti è stato esaminato, e non solo da Pääbo, il DNA di altri neandertaliani ed è sempre stato confermato il primo esperimento. A quel punto, pareva proprio che uno dei problemi antropologici più dibattuti nel corso dell’altro secolo avesse trovato la soluzione definitiva, ma per esserne certi – al di là di ogni ragionevole dubbio, come si usa dire – doveva essere effettuato un altro esperimento: era indispensabile scoprire, cioè, se il DNA dei neandertaliani fosse estraneo anche alla variabilità genetica dei primi sapiens, quelli fossili. E una volta di più la risposta è giunta positiva: il DNA mitocondriale di alcuni sapiens antichi è risultato assolutamente confrontabile con il nostro ed estraneo a quello neandertaliano13. Nel 2004, poi, Mathias Currat e Laurent Excoffier hanno stimato la percentuale dell’eventuale flusso genico tra i due taxa che statisticamente ancora non può essere del tutto escluso e il suo valore ha raggiunto appena lo 0,1 per cento, ovvero non più di 120 incroci nell’arco dei circa 15.000 anni di con12 M. Krings et al., Neandertal DNA Sequences and the Origin of Modern Humans, in «Cell», 90, 1997, pp. 19-30. 13 D. Caramelli et al., Evidence for a Genetic Discontinuity between Neandertals and 24,000-Year-Old Anatomically Modern Europeans, in «Proceedings of the National Accademy of Sciences», 100, 2003, pp. 6593-97; T. Tarsi et al., Ricostruzione della storia genetica per via materna delle comunità paleolitiche dei Balzi Rossi, delle Arene Candide e del Romito, e di quelle neolitiche ed eneolitiche di Samari e di Fontenoce di Recanati, in A.F. Martini (a cura di), La cultura del morire, Origines, Progetti 3, Istituto italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze (in corso di stampa).

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vivenza: un livello talmente basso da suggerire che le due forme fossero reciprocamente sterili14. Ora possiamo affermare, e affermarlo una volta per tutte, che i neandertaliani erano una specie diversa dalla nostra, Homo neanderthalensis appunto, e che si è estinta senza lasciare prole (fig. 12). Una notizia sensazionale è stata data da Svante Pääbo il 12 maggio 2006 al convegno su Biology of Genomes tenutosi presso il Cold Spring Harbor Laboratory di New York. Il suo gruppo di ricerca, infatti, ha sequenziato nell’ambito del Progetto Genoma Neandertal un milione di basi di DNA nucleare dal reperto rinvenuto nella Cava di Vindija, in Croazia, e datato a 45.000 anni fa15. Molto presto, forse, conosceremo una gran parte del genoma neandertaliano e a quel punto sarà possibile effettuare il confronto tra i loro geni e i nostri, e valutare tutte le differenze e le possibili conseguenze. 14 M. Currat, L. Excoffier, Modern Humans Did Not Admix with Neanderthals during Their Range Expansion into Europe, in «PLoS Biology», 2, 2004, pp. 2264-74. 15 R. Dalton, Neanderthal DNA Yields to Genome Foray, in «Nature», 441, 2006, pp. 260-61.

Capitolo quarto

Sapienti e recenti

L’ultima invenzione evolutiva Le prime testimonianze che anche l’umanità attuale fosse sufficientemente vecchia da aver potuto lasciare dei fossili risalgono agli anni Sessanta dell’Ottocento e ci portano in Francia, a Solutré nel 1866 e ad Abri Cro-Magnon nel 1868 (fig. 13). E proprio in quest’ultimo sito, datato 30.000 anni fa, sono stati trovati i resti divenuti poi icona della primigenia umanità sapiente. Si trattava di cinque individui dalle forme compiutamente moderne: con la statura che raggiungeva anche i 170-180 centimetri; con il cranio alto, rotondo e una capacità di circa 1.600 centimetri cubici (in almeno un caso); con la fronte alta, la faccia corta e le orbite rettangolari; e, soprattutto, con la comparsa del mento, una innovazione assoluta nell’evoluzione degli ominini. Nei decenni successivi altri siti europei hanno restituito una copiosa documentazione sui nostri antenati e tra i più importanti dobbiamo ricordare il complesso delle Grotte di Grimaldi ai Balzi Rossi, in Liguria, con sepolture del Paleolitico superiore risalenti a 30.000-20.000 anni fa. E l’analisi del DNA antico effettuata proprio sugli inumati di una di queste sepolture ha messo in evidenza la loro parentela genetica con le odierne popolazioni del Vicino e Medio Oriente1.

1 L’analisi del DNA di questi antichi reperti è stata effettuata presso il Centro di antropologia molecolare per lo studio del DNA antico dell’Università di Roma Tor Vergata. T. Tarsi et al., Ricostruzione della storia genetica per via materna delle comunità paleolitiche dei Balzi Rossi, delle Arene Candide e del Romito, e di quelle neolitiche ed eneolitiche di Samari e di Fontenoce di Recanati, in A.F. Martini (a cura di), La cultura del morire, Origines, Progetti 3, Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Firenze (in corso di stampa).

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Nel corso del secolo successivo, il Novecento, i paleoantropologi hanno iniziato a riportare alla luce le testimonianze del passato più antico di noi sapiens anche in Africa. Nel 1967, a Kibish in Etiopia, sono stati recuperati tre crani più o meno completi e altre ossa postcraniali risalenti a 195.000 anni fa2 e nel 2003 Tim White ha dato notizia su «Nature» della scoperta a Herto, sempre in Etiopia, di altri tre crani di 160.000 anni3. I fossili mostravano un mosaico di tratti, con alcuni già compiutamente moderni che erano affiancati da altri arcaici: la scatola cranica era ampia – circa 1.450 centimetri cubici – e la massima larghezza si riscontrava nella parte più alta dei parietali, proprio come in noi; la faccia era bassa e larga; la fronte era alta e nella mandibola era evidente il mento. Sopra le orbite, però, permaneva un leggero arco osseo e l’occipitale era ancora piuttosto angolato, certo due elementi anatomici lasciati in eredità dalle specie di Homo più antiche. Per White, tuttavia, i suoi reperti non dovevano essere classificati semplicemente all’interno della nostra specie, ma considerati una vera e propria sottospecie per la quale ha suggerito il nome Homo sapiens idàltu, cioè il «più vecchio» uomo sapiente – anche se i più vecchi erano in realtà gli uomini vissuti a Kibish. Quasi certamente, gli uomini di Herto sono stati i nostri primi ascendenti; ci sembra invece poco verosimile che essi si siano differenziati a livello sottospecifico. Non sappiamo con certezza quanto tempo abbiano impiegato quelle creature a colonizzare l’intero continente africano, è noto però che 100.000 anni fa nessuna sua regione era loro sconosciuta. A quella data, infatti, risalgono i resti venuti alla luce negli scavi di Border Cave e Klasies River Mouth, in Sudafrica, i quali testimoniano anche il raggiungimento definitivo della modernità anatomica, perché dalla fronte era scomparsa ogni traccia di toro sopraorbitario. L’analisi dettagliata dell’organizzazione degli spazi abitativi, inoltre, ha convinto gli studiosi che dovevano essere decisamente moderni pure i comportamenti sociali e nutrizionali. Infatti, i focolari erano separati dagli spazi dove venivano accumulati i resti dei pasti, secondo un disegno che si affermerà nei millenni successivi, e nella dieta era entrata la fauna marina. 2 I. McDougall et al., Stratigraphic Placement and Age of Modern Humans from Kibish, Etiopia, in «Nature», 433, 2005, pp. 733-36. 3 T. White et al., Pleistocene «Homo sapiens» from Middle Awash, Ethiopia, in «Nature», 423, 2003, pp. 742-47.

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Mentre alcuni gruppi di nostri antenati si muovevano verso sud, altri migravano in direzione nord-est per abbandonare il mondo australe e raggiungere il Medio Oriente, dove, a partire dagli anni Trenta, prima Theodore McCown a Mugharet es-Skhul sul monte Carmelo e poi Bernard Vandermeersch a Jebel Qafzeh vicino Nazaret, in Israele, hanno rinvenuto molti fossili risalenti a 100.000-90.000 anni fa. Anche in questo caso, le fattezze erano allo stesso tempo innovative e arcaiche: il cervello si sovrapponeva al nostro nella forma, nelle proporzioni dei lobi e nella massa e pure la morfologia degli arti era identica a quella dell’uomo attuale; ma alla fronte alta e all’occipitale arrotondato – due caratteri moderni – si affiancavano un toro sopraorbitario ancora evidente, una faccia prognata e un mento non sempre ben modellato. Gli uomini di Skhul e Qafzeh, dopo essersi allontanati dall’Africa e aver sostato in Israele, si sarebbero poi mossi in tutte le direzioni fino a occupare ogni terra emersa del globo. Un quadro, questo, la cui coerenza – anche molecolare, come vedremo – ha incontrato un punto di debolezza in un fossile asiatico: un cranio trovato nel 1978 a Dali, nella provincia cinese di Shaanxi, da Wu Xinzhi. Il reperto era davvero interessante, perché combinava una capacità cranica di soli 1.120 centimetri cubici con una morfologia a metà strada tra i pre-sapiens e i sapiens e con un’età davvero antica, circa 200.000 anni, e quindi precedente a quella di ogni uomo sapiente africano. Se la datazione dovesse essere confermata, e qualche dubbio per la verità c’è, allora, più che abbandonare il percorso evolutivo che abbiamo tracciato sopra, dovremmo prendere in considerazione il fatto che l’uomo di Dali potrebbe essere stato solo un discendente dell’Homo heidelbergensis migrato in Asia dall’Europa o un discendente dell’Homo ergaster (o anche di Homo heidelbergensis) migrato in quel continente dall’Africa. Quest’ipotesi, che gode del sostegno assai autorevole di Donald Johanson, prevede che a Dali siano vissuti esseri umani estranei alla nostra specie e ad essa precedenti, i quali, nel breve arco temporale di qualche decina di migliaia di anni, si sarebbero estinti e l’oriente sarebbe poi stato raggiunto da un’altra ondata migratoria: quella dei sapiens, appunto4. 4 G. Biondi, O. Rickards, Uomini per caso, Editori Riuniti, Roma 20032, pp. 194-96.

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Fuori dall’Africa Per alcuni decenni, e in un clima di confusione diffusa, il consenso dei paleoantropologi si è diviso sui due modelli alternativi formulati per spiegare l’origine dell’Homo sapiens. Da una parte, i fautori del multiregionalismo ritenevano che una volta uscita dall’Africa, attorno a 2 milioni di anni fa, l’umanità, che a quel tempo era costituita dall’Homo ergaster, si fosse evoluta indipendentemente in ogni continente del Vecchio Mondo fino a diventare sapiens. Il punto considerato di forza di questa ipotesi consisteva in una presunta continuità anatomo-morfologica riscontrabile nella sequenza fossile di ciascuna area geografica del mondo; mentre il suo punto debole era dato dalla necessità di assicurare nel corso di così tanti millenni un alto livello di scambio genico tra le popolazioni, al fine di consentire a percorsi evolutivi diversi di confluire in un’unica specie. Sul versante opposto, erano molti i paleoantropologi che nutrivano un assoluto scetticismo nei confronti della continuità ed erano convinti che la nostra specie si fosse originata in Africa attraverso un evento unitario e casuale solo circa 200.000 anni fa; e che poi, da lì, si fosse diffusa nel resto del mondo e avesse sostituito tutti gli altri uomini che già vivevano nei vari continenti (fig. 14). Per la verità, alcuni ricercatori avevano tentato di formulare delle ipotesi evolutive intermedie, ma bisogna dire con scarso successo, perché le due visioni dominanti erano troppo estreme per potersi ritrovare su un qualsiasi terreno di mediazione. In fondo, però, la questione che gli antropologi dovevano affrontare e risolvere era assai semplice: solo una delle due ricostruzioni della nostra evoluzione poteva essere corretta e si trattava di scoprire quale. E siccome i fossili dividevano i pareri, invece di unificarli in una sintesi accettabile, si ricorse alle informazioni custodite nel genoma. Il DNA, infatti, è una molecola che può essere assimilata a un vero e proprio archivio in cui siano contenuti tutti gli atti dell’evoluzione relativi alla nascita e alla vita di ogni specie; e i biologi si comportano come degli archivisti che si muovono tra gli «scaffali» della vita per cercare i fascicoli a cui sono interessati. Il problema della nostra origine è stato affrontato e definitivamente risolto dagli antropologi molecolari alla fine degli anni Ottanta dell’altro secolo, quando ormai i principi della teoria molecolare dell’evoluzione erano del tutto noti e accettati. Si sapeva, 74

cioè, che dal momento della separazione dalla specie madre, o antenato comune, ogni specie figlia – ma lo stesso vale per le popolazioni – inizia ad accumulare delle mutazioni indipendenti con una velocità che si può facilmente calcolare e che è diversa nei vari taxa. A questo meccanismo è stato dato il nome «orologio molecolare» e il suo ticchettio esprime il numero medio di mutazioni che si fissano in una linea evolutiva in una certa unità di tempo. Per il DNA mitocondriale, che è stato il primo ad essere usato nelle analisi filogenetiche perché è ereditato unicamente per via materna e quindi non ricombina, si è calcolato che il battito in noi sapiens aveva una frequenza di 1-2 mutazioni ogni cento basi per milione di anni e, quindi, per risalire al momento in cui la nostra specie era venuta al mondo bastava stimare le mutazioni medie accumulatesi nelle popolazioni e rapportarle al tempo battuto dal metronomo molecolare. A questo scopo, Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson hanno analizzato l’mtDNA di 147 soggetti provenienti da ogni continente ed hanno calcolato che l’antenata comune dell’umanità sapiente era vissuta circa 200.000 anni fa. Il suo luogo d’origine, poi, è stato ricavato dalla topologia dell’albero filogenetico costruito a partire dalle linee mitocondriali trovate e che presentava due rami principali: il primo era formato solo da alcune linee africane, mentre il secondo si divideva in tanti sotto-cluster, ognuno dei quali era composto dalle linee degli individui provenienti dalle altre aree geografiche del mondo e da qualcuna delle rimanenti linee africane. Il significato dell’albero era chiarissimo e indicava che l’Africa era stata la culla della nostra specie (il primo ramo); e da lì, i nostri antenati erano migrati in seguito negli altri continenti (le linee africane trovate nei diversi sotto-cluster), dove avevano dato origine alle popolazioni locali. Questo quadro evolutivo è stato pubblicato su «Nature» nel 19875 e con esso si può dire che sia stato falsificato una volta per tutte il modello multiregionale della storia umana recente e, di contro, stabilita la validità scientifica di quello conosciuto con il nome «fuori dall’Africa»6. Le molecole erano state 5 R.L. Cann et al., Mitochondrial DNA and Human Evolution, in «Nature», 325, 1987, pp. 31-36. 6 C.B. Stringer, P. Andrews, Genetics and Fossils Evidence for the Origin of the Modern Humans, in «Science», 239, 1988, pp. 1263-68.

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capaci di fare chiarezza là dove i fossili non lo permettevano e, così, di rendere l’antropologia ancora più efficace nel suo intento di ricostruire la nostra storia. Fossili e molecole, si badi bene, non sono alternativi, ma livelli semplicemente diversi dell’organizzazione della nostra vita e, quindi, in antitesi solo se gli studiosi sbagliano a interpretarli. E, difatti, la datazione molecolare è perfettamente coerente con l’età dei fossili più antichi di sapiens che oggi conosciamo. Negli anni successivi, altre parti del nostro genoma – tra cui il DNA del cromosoma Y, la controparte maschile dell’mtDNA – sono state analizzate con il medesimo intento che ha guidato il lavoro della Cann, di Stoneking e di Wilson e i risultati hanno confermato l’ipotesi che la nostra specie si è evoluta solo molto recentemente in Africa e che poi ha colonizzato tutto il resto del mondo, senza incrociarsi con le altre specie ominine che già vivevano in quei territori: l’Homo ergaster e l’Homo heidelbergensis in Africa, l’Homo neanderthalensis in Europa e l’Homo erectus e l’Homo floresiensis in Asia. Mai più razze Il concetto di «razza» ha contaminato l’antropologia fin dal momento della sua nascita come disciplina autonoma, avvenuta nel 1775 quando Johann Friedrich Blumenbach discusse, presso l’Università di Gottinga, la sua tesi di dottorato in medicina con una dissertazione dal titolo De generis humani varietate nativa; è però la terza edizione dell’opera, pubblicata nel 1795, ad essere universalmente considerata il libro fondante di questa nuova scienza. Blumenbach, oltre ad aver tolto l’umanità dall’ordine dei primati7 per inserirla in quello dei Bimanus, l’aveva anche suddivisa in cinque «razze», ma è bene ricordare che non fu affatto il primo a suggerire una classificazione «razziale». Nei tempi moderni, infatti, c’erano già state le proposte di François Bernier nel 1684 e di Richard Bradley nel 1721; e poi quelle di Linneo nel 7 Nella prima edizione del Systema Naturae, pubblicata nel 1735, Linneo aveva usato il nome Anthropomorpha per indicare l’ordine in cui aveva inserito la nostra specie. Nella decima edizione pubblicata nel 1758, però, cambiò il nome in Primates.

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1735 e di Buffon nel 1749. Da allora, e ancora per due secoli, la «razza» è stata al centro degli studi antropologici e i tentativi di ordinare la specie in categorie sottospecifiche si sono basati prevalentemente sul colore della pelle e sulla morfologia della testa e del corpo. Sfortunatamente, i caratteri morfologici sono dei pessimi indicatori per ricostruire il rapporto filogenetico – o tassonomico – tra le popolazioni, cioè la relazione che lega l’antenato al proprio discendente. E ciò è dovuto al fatto che la struttura morfologica di un corpo non è governata solo dalle istruzioni contenute nel genoma, ma risente profondamente dell’influenza dell’ambiente. La forma, in sostanza, non è altro che il prodotto dell’interazione tra quelle due categorie della natura ed è quindi idonea a rendere esclusivamente conto della storia ecologica delle popolazioni. Il colore della pelle può essere un buon esempio per chiarire questo concetto: infatti, sebbene tutti i gruppi umani che vivono nelle regioni meridionali del Vecchio Mondo, dall’Africa all’Australia, condividano un colorito cutaneo più o meno scuro, essi non sono affatto uniti da uno stretto rapporto di parentela evolutiva8. La tassonomia raffigura sinteticamente i legami che intercorrono tra gli esseri viventi e può essere disegnata in modo corretto unicamente se si utilizzano dei caratteri neutri rispetto all’ambiente, ma questi sono stati scoperti solo di recente e a seguito dell’imponente sviluppo della genetica che si è realizzato a partire dalla metà del Ventesimo secolo9. E proprio in coincidenza con quella data si è finalmente aperto tra gli antropologi un dibattito sulla validità del concetto di «razza», il quale, sebbene non fosse mai stato sottoposto a verifica sperimentale, era stato tuttavia accettato come «naturale» dagli studiosi. La prima critica scientificamente fondata all’uso della «razza» per spiegare la variabilità biologica dell’uomo l’ha formulata Frank Brown Livingstone nel 1962, quando ha sostenuto che proprio il carattere continuo della variabilità non consentiva di incasellarla all’interno di unità di8 G. Biondi, O. Rickards, The Scientific Fallacy of the Human Biological Concept of Race, in «The Mankind Quarterly», 42, 2002, pp. 355-88. 9 Si trattava delle catene polipeptidiche delle proteine, che sono il prodotto primario dei geni e sono sotto il loro esclusivo controllo. Oggi la filogenesi si studia direttamente al livello del DNA.

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screte, cioè all’interno delle «razze»10. Successivamente, è stata anche dimostrata la non coincidenza tra le filogenesi basate su caratteri morfologici e su quelli genetici: mentre i primi infatti suggerivano una maggiore somiglianza tra africani e australiani, da una parte, e tra europei e asiatici, dall’altra, i secondi viceversa mostravano una maggiore affinità degli europei con gli africani e degli asiatici con gli australiani. E non vi è dubbio che quella genetica sia la filogenesi corretta, perché le antiche popolazioni di sapiens che hanno colonizzato l’Europa sono state le ultime a lasciare l’Africa e, quindi, i due gruppi hanno condiviso la medesima storia evolutiva per più tempo11. All’inizio degli anni Settanta, poi, Richard Lewontin ha dimostrato sperimentalmente che una quota compresa tra l’85 e il 95 per cento della variabilità genetica totale della nostra specie si distribuiva tra gli individui delle singole popolazioni e solo l’esigua parte rimanente poteva essere aggiunta al fine di differenziare tra loro i gruppi che vivevano in continenti diversi. Stando così le cose, e cioè essendoci davvero poca differenza genetica, in più tra popolazioni diverse che non all’interno di una medesima popolazione, era del tutto evidente l’impossibilità di dividere l’umanità in «razze»12. La completa e definitiva falsificazione scientifica del concetto di «razza» è giunta con il lavoro di Rebecca Cann, Mark Stoneking e Allan Wilson, in cui si dimostrava che l’estrema giovinezza della nostra specie non aveva permesso alle popolazioni che avevano colonizzato i vari continenti di accumulare le differenze necessarie per diventare delle categorie sottospecifiche. La «razza», insomma, non era affatto compatibile con il modello «fuori dall’Africa» della nostra origine; essa, invece, aveva un ruolo nel multiregionalismo, ma quell’ipotesi evolutiva si era dimostrata fallace. Sostenere che le «razze» non esistono non significa affatto misconoscere le differenze, anche molto marcate, che ci sono tra le popolazioni, significa invece sostenere che la «razza» non è ido10 F.B. Livingstone, On the Non-Existence of Human Races, in «Current Anthropology», 3, 1962, pp. 279-81. 11 Biondi, Rickards, The Scientific Fallacy of the Human Biological Concept of Race, cit., p. 376. 12 R.C. Lewontin, The Apportionment of Human Diversity, in «Evolutionary Biology», 6, 1972, pp. 381-98.

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Gibbone

Orango

Gorilla

Uomo

Scimpanzé

3 milioni di anni 6 milioni di anni 7 milioni di anni

14 milioni di anni

18 milioni di anni

Divergenze molecolari delle scimmie antropomorfe e dell’uomo.

nea a definirne la struttura filogenetica, così come dovrebbe garantire la tassonomia. In definitiva, la «razza» può aiutarci a tracciare la storia ecologica dei gruppi umani, ma non la loro evoluzione, e, pertanto, questo vocabolo è assolutamente improprio. Alla conquista del mondo L’uscita della nostra specie dal continente africano risale a 70.00060.000 anni fa, quando alcuni sapiens hanno abbandonato il Corno d’Africa e si sono incamminati lungo le coste dell’Arabia, dell’Iran, del Pakistan e dell’India per arrivare in Asia orientale. E da lì, poi, fin nelle isole dell’Asia meridionale e in Australia e Nuova Guinea, dove i dati archeologici collocano i primi insediamenti attorno a 40.000 anni fa13. Decisamente più recente, inve13 V. Macaulay et al., Single, Rapid Coastal Settlement of Asia Revealed by Analysis of Complete Mitochondrial Genomes, in «Science», 308, 2005, pp. 1034-36.

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ce, è stata la migrazione verso le isole del Pacifico, iniziata solo 6.000 anni fa; e quella verso la Nuova Zelanda, dove i primi colonizzatori-agricoltori sono arrivati 800 anni fa. La migrazione verso nord, e quindi la colonizzazione dell’Europa, è iniziata molto tempo dopo quella che ha interessato l’oriente e non sembra andare oltre i 35.000 anni fa. Un ritardo così marcato potrebbe essere dovuto alle condizioni climatiche, che avevano reso inospitali tante terre del nostro continente coprendole con spesse coltri di ghiaccio. L’ultima grande migrazione della preistoria ha visto coinvolte le popolazioni dell’Asia settentrionale, che hanno attraversato il corridoio della Beringia per raggiungere le Americhe in tre ondate successive, databili a 30.000-15.000 anni fa, a 15.00010.000 anni fa, e infine ad un periodo compreso tra 9.000 e 6.000 anni fa (fig. 15). Una volta raggiunto il Nuovo Mondo, possiamo dire che l’Homo sapiens abbia portato a termine la più ambiziosa opera di colonizzazione mai tentata dagli ominini, l’occupazione dell’intera Terra, un primato che solo di recente abbiamo voluto sfidare ancora per andare fin nello spazio.

Parte seconda

L’alimentazione degli ominini fino alla rivoluzione agropastorale del Neolitico di Giuseppe Rotilio

Capitolo primo

Dal cibo al DNA: alimentazione, geni e malattie

La strategia alimentare di Homo sapiens appare caratterizzata da uno straordinario onnivorismo, che fra i mammiferi non ha uguali se si eccettuano, ma a una certa distanza, il maiale e l’orso bruno. Questa strategia gli permette di avere un regime alimentare (o dieta) capace di acquisire tutte le sostanze necessarie alle sue esigenze energetiche e strutturali (i nutrienti) ricorrendo alle migliori fonti (gli alimenti) disponibili nell’ecosistema di origine e anche, a partire da un certo momento della sua evoluzione, adattandosi ad ecosistemi remoti. I nutrienti appartengono a sei classi: carboidrati o glicidi, grassi o lipidi, proteine, vitamine, ioni minerali e acqua. Le prime tre classi sono assunte in quantità relativa molto abbondante (macronutrienti), così come l’acqua e alcuni minerali (ad esempio calcio e fosforo). Le vitamine e la maggior parte dei minerali, invece, sono assunti con la dieta in quantità molto minori (micronutrienti) in quanto in genere servono come cofattore essenziale di proteine (enzimi) che esercitano la loro attività in maniera catalitica, cioè sono in grado di dare origine a un gran numero di atti funzionali con una sola molecola. Gli alimenti, soprattutto quelli vegetali, contengono anche quantità variabili di non nutrienti, sotto forma o di carboidrati non digeribili dall’intestino umano (fibra alimentare) o di molecole che dopo l’assorbimento non sono metabolizzati a fini energetici o strutturali (ad esempio i polifenoli). Come vedremo, anche la presenza di questi non nutrienti è importante ed è stata importante nei rapporti fra alimentazione ed evoluzione umana. Ulteriori notizie che renderanno più agevole la comprensione degli argomenti trattati in questa parte sono riportati nella tavola 1.

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Tavola 1. Gli alimenti dell’onnivorismo di «Homo sapiens» all’inizio del Neolitico Alimenti

Nutrienti caratterizzanti

Funzione predominante

Carne, uova

Proteine ad alto valore nutrizionale (VN), grassi, minerali micronutrienti, alcune vitamine (B12, A, D)

Componenti essenziali di tutti i tessuti ed enzimi. Energia a lungo termine dai grassi

Pesce e altri animali acquatici

Come sopra più acidi grassi essenziali

Come sopra più componenti essenziali del cervello e dei nervi

Latte, yogurt, formaggi

Come sopra più acqua, calcio e fosforo

Come sopra più funzioni dell’acqua e componenti essenziali delle ossa

Frutta

Carboidrati a rapido assorbimento (zuccheri), vitamine, fibra alimentare, polifenoli. Grassi (olive, palma ecc.)

Energia a breve termine, enzimi, funzione antiossidante, massa fecale. Energia a lungo termine dai grassi vegetali

Miele

Zuccheri

Energia a breve termine

Cereali e tuberi

Carboidrati a lento assorbimento (amidi), proteine a medio basso VN. Vitamine B

Energia a medio-breve termine, enzimi

Legumi

Carboidrati a lento assorbimento, fibra, proteine di medio VN (alto per la soia)

Energia a medio termine, massa fecale, buoni sostituti della carne (specie la soia)

Verdure

Vitamine, fibra, polifenoli

Enzimi, funzione antiossidante, massa fecale

Bevande

Acqua, minerali, etanolo (se fermentate), polifenoli (nel vino)

Componenti di tutti i tessuti e di molti enzimi: pressione arteriosa. Energia (se fermentate)

Note di commento alla tavola. Gli apporti nutrizionali si riferiscono al cibo crudo. Gli effetti della cottura sanno trattati nel capitolo VII, Parte secconda. Alcuni di questi alimenti (ad esempio il latte e i suoi derivati, le bevande alcoliche fermentate) riguardano l’evoluzione umana solo a partire dalla rivoluzione agropastorale del Neolitico. Fino a quest’epoca anche gli altri alimenti sono rappresentati dalle varianti selvatiche delle specie vegetali e animali interessate. L’apporto nutrizionale delle due varianti (selvatica e domestica) della stessa specie può essere molto differente. L’onnivorismo della specie umana è ulteriormente aumentato in epoca storica, per gli scambi alimentari fra varie culture fin dall’epoca classica ma specialmente per la produzione tecnologica di nuove molecole introdotte in grande quantità nell’alimentazione negli ultimi 500 anni. Un tipico esempio è rappresentato dal saccarosio, o zucchero da cucina, che ha anche dato origine, come sottoprodotto della sua raffinazione, all’industria delle bevande alcoliche distillate, a contenuto di etanolo molto più alto che in quelle fermentate.

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Discuteremo fra poco come il confronto del genoma umano con nuove molecole alimentari richieda tempi molto lunghi, dell’ordine di migliaia di anni, per generare fenotipi adattati, e questo concetto va tenuto ben presente sia nella storia dei rapporti fra cibo ed evoluzione, sia nell’interpretazione, in una corretta prospettiva biologica, delle molteplici innovazioni che l’umanità attuale propone continuamente a se stessa in materia di alimenti e di diete. Infatti la grande flessibilità e creatività nell’approccio al cibo, che è culminata 10.000 anni fa con la conversione totale di molte popolazioni all’agricoltura e all’allevamento, si è instaurata gradualmente nel corso dell’evoluzione umana. Anche nel mondo attuale rimangono isole di gruppi umani con alimentazione molto specializzata in quanto perfettamente adattati ad ecosistemi che sono rimasti immutati dal Pleistocene: la tundra artica e subartica, la foresta fluviale amazzonica, i deserti sudafricano o australiano. In questi habitat l’adattamento umano è avvenuto attraverso l’aumentata espressione di geni che portano alla sintesi di enzimi specializzati per la conversione delle variabili risorse nutrizionali dell’ambiente nelle molecole essenziali alle funzioni vitali. Fra queste molecole spiccano, nelle particolari situazioni alimentari e metaboliche degli habitat estremi, il glucosio (per l’energia di pronta disponibilità) e i grassi (per la termoregolazione, l’energia di riserva e la composizione strutturale delle membrane, soprattutto quelle alla base delle attività cognitive e di percezione sensoriale come le membrane delle fibre nervose, dei neuroni e delle sinapsi). A questo proposito un esempio ben studiato è quello degli Inuit dell’Artico (Eschimesi). Queste popolazioni, fino a pochi decenni fa, erano quasi totalmente carnivore, cibandosi di foche, caribù e pesce, che non contengono glucosio, o suoi precursori appartenenti alla stessa famiglia biochimica (glicidi). Nelle popolazioni che invece hanno trasformato il loro habitat mediante tecniche agricolturali il glucosio si acquisisce per ingestione di glicidi complessi come i polisaccaridi (amidi) da cereali e tuberi, poi scomposti in glucosio dalle amilasi intestinali, o come i disaccaridi, quali il lattosio del latte e il saccarosio dello zucchero da cucina, scissi a loro volta da lattasi e saccarasi. Gli Inuit mantengono costanti i loro livelli di glucosio ematico mediante un’attività enormemente ac85

cresciuta di gluconeogenesi, cioè di produzione di glucosio da precursori non glicidici. Alla base di questo adattamento è l’aumentata espressione dei geni che codificano gli enzimi della trasformazione degli aminoacidi, sia derivati dalle proteine degli alimenti che da quelle dei propri muscoli, in glucosio. Inoltre la necessità di superare periodi di riduzione delle risorse alimentari, tipici dell’ambiente artico, ha adattato gli Inuit al «metabolismo del digiuno». Questo adattamento consiste nella capacità di utilizzare, oltre che le proteine endogene per gluconeogenesi, soprattutto i grassi dei depositi adiposi a fini energetici. In queste condizioni di apporto di glucosio scarso o assente si accumulano dei particolari metaboliti dei grassi, i corpi chetonici, che però possono essere riutilizzati a fini energetici in tessuti specializzati, e con maggiore efficienza in popolazioni adattate mediante una maggiore disponibilità degli enzimi specializzati in questa trasformazione. Nel contesto di questo libro, gli studi sui regimi alimentari e i conseguenti adattamenti metabolici di popolazioni attuali occupanti «nicchie pleistoceniche» residue ha un duplice interesse. L’aspetto più ovvio è che essi ci aprono finestre sull’alimentazione di ominini vissuti in ambienti caratterizzati da condizioni analoghe a quelle delle nicchie attuali. L’altro punto, di presa meno diretta ma con implicazioni molto importanti, riguarda le possibili informazioni sui rapporti fra alimenti ed espressione genica e quindi fra cibo ed evoluzione umana. A questo proposito si è rivelata molto utile l’osservazione che malattie legate all’alimentazione (diabete di tipo 2, obesità, ipertensione) hanno maggiore incidenza in popolazioni passate solo recentemente da regimi alimentari «preagricoli» a regimi ricchi di carboidrati e di sale, tipici delle popolazioni che hanno adottato modelli agropastorali fin dall’inizio della rivoluzione neolitica. D’altronde, questo problema si inserisce nel contesto più vasto di come certi adattamenti alimentari possano contribuire alla fitness darwiniana di certi tipi genetici o genotipi. Nel caso da noi analizzato si tratterebbe di un genotipo parsimonioso o economo o frugale (in inglese «thrifty genotype»). Questo genotipo si sarebbe selezionato nel Paleolitico in risposta alla necessità di utilizzare al meglio l’abbondanza di alimenti proteici e ricchi di grasso dei periodi di grande disponibilità di car86

casse animali in alternanza con lunghi periodi di scarsezza di risorse. Il fenotipo prodotto dall’espressione di questo tipo genetico è caratterizzato soprattutto da una pronta stimolazione alla secrezione dell’insulina, in modo che il glucosio, del resto non immesso mai rapidamente e in gran quantità nel sangue dai cibi carnei, sia utilizzato «parsimoniosamente» per la sintesi dei depositi adiposi da bruciare nei periodi di carestia. L’insulina è un ormone secreto dal distretto endocrino del pancreas (insulae di Langerhans) in seguito all’aumento del tasso ematico di glucosio (glicemia) al di sopra dei valori normali, in genere subito dopo un pasto glucidico e in assenza di attività fisica sostenuta, che lo drenerebbe immediatamente all’interno dei muscoli. Questo ormone ha molte funzioni importanti, fra cui quella di stimolare la captazione del glucosio da parte del tessuto adiposo, perché sia poi convertito in acidi grassi e quindi in depositi lipidici. E qui nasce il problema. Il rigonfiamento delle cellule adipose genera segnali di sazietà che, a livello del cervello, si percepiscono come cessazione di fame e, a livello dei tessuti, come blocco dei meccanismi di assunzione di ulteriore glucosio dal sangue, che è denominato resistenza all’insulina. È difficile pensare di sottovalutare l’importanza di queste regolazioni nella storia naturale dei rapporti fra cibo ed evoluzione umana. L’eccesso di alimenti ricchi di zuccheri ai quali è ricorsa gran parte dell’umanità dopo il Neolitico, soprattutto nei secoli più vicini a noi nei quali è aumentata anche la sedentarietà, ha portato nei genotipi parsimoniosi l’aumento di sintesi lipidica nel tessuto adiposo e di resistenza all’insulina che, in termini di patologia metabolica, si trasformano nella sequenza obesità  diabete. In altre parole il cambiamento alimentare «neolitico» a vantaggio dei carboidrati non è stato, o è stato solo parzialmente, compensato dalla selezione di un nuovo genotipo metabolicamente «sprecone», capace, ad esempio, o di deprimere la gluconeogenesi oppure di aumentare l’utilizzazione muscolare o la dissipazione termica dell’energia del glucosio. La causa di ciò è chiaramente la brevità del tempo intercorso dall’inizio della rivoluzione agricola, come dimostrato dal fatto che i livelli di questo adattamento variano, nelle attuali popolazioni umane, in funzione del loro tempo di arrivo all’adozione di agricoltura e pastorizia. Infatti la sindrome metabolica (obesità, ipertensione, 87

diabete) è attualmente molto meno frequente (se pur in crescita) nelle società, come la nostra, di lunga tradizione agricola che non in popolazioni (Amerindi, Polinesiani, Africani) da poco convertite alle nostre abitudini alimentari. Il rimedio per surrogare questa carenza adattativa rimane limitato ad un considerevole aumento del dispendio energetico con l’esercizio fisico o, secondo alcune scuole di pensiero americane, al ritorno ad una dieta tendenzialmente «paleolitica», cioè più ricca di grassi e proteine a scapito dei carboidrati1. Questo suggerimento, però, non ci deve far dimenticare che i grassi delle prede pleistoceniche erano molto più insaturi di quelli delle specie analoghe sottoposte alle attuali tecniche di allevamento, che portano all’accumulo di tessuto adiposo ricco di grassi saturi, ritenuti più nocivi per la salute umana. Sfortunatamente non è facile calcolare i tempi di questi effetti dell’alimentazione sui geni perché non si conoscono i coefficienti di selezione che regolano il tempo necessario all’eliminazione degli alleli nutrizionalmente sfavorevoli2. Esiste però un caso che permette qualche calcolo perché si conosce il terminus post quem della mutazione. Si tratta della tolleranza alla presenza nel latte dello zucchero lattosio, che rimane dopo lo svezzamento nel 70-100 per cento degli Europei, mentre è del tutto assente negli Asiatici orientali, quasi del tutto nei Bantu, negli Eschimesi e negli Amerindi, ed è presente a livello del 30-40 per cento negli Indiani e nei neri Africani non bantu. Chiaramente questo adattamento consegue all’abitudine di bere latte degli animali addomesticati nel Neolitico e quindi non può essere anteriore a 8-10.000 fa. Il tempo intercorso può variare da poco più di un migliaio di anni per coefficienti selettivi molto alti (probabili in questo caso per l’alto valore nutrizionale del latte anche non materno per l’uomo e per fattori culturali concomitanti) a poco più di centomila con coefficienti cento volte infe-

1 S.B. Eaton, M.J. Konner, Paleolithic Nutrition: A Consideration of its Nature and Current Implications, in «New England Journal of Medicine», 312, 1985, pp. 283-89. 2 L.L. Cavalli Sforza, P. Menozzi, A. Piazza, The History and Geography of Genes, Princeton University Press, Princeton (N.J.) 1996 (trad. it., Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 2000).

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riori. In ogni caso l’esempio illustra come lo studio di malattie legate all’alimentazione sia utile alla comprensione dei cambiamenti genotipici e fenotipici che hanno portato all’attuale onnivorismo di Homo e dei loro effetti selettivi.

Capitolo secondo

Dal DNA al cibo: selezione di un handicap

L’intestazione di questo capitolo deriva dal titolo dell’articolo del biologo teorico israeliano Amotz Zahavi che propose l’idea che certi handicap per la fitness consolidata di una specie, comparsi per mutazione, potessero generare il successo selettivo dei loro portatori nella selezione sessuale1. Io credo che il «principio dell’handicap» sia comparso almeno una volta molto chiaramente nella storia alimentare umana, e in termini di straordinaria efficacia evolutiva. La copertina di un recente fascicolo di «Nature» dà risalto ad un articolo2 su una ricerca molto significativa ai fini di questo discorso. Essa riporta le immagini delle calotte craniche di Gorilla gorilla e di Homo sapiens. Come si può vedere dalla figura 1, le zone di attacco dei muscoli della masticazione, molto estese (circa metà della volta cranica) nel gorilla, mentre sono limitate a parte dell’area temporale nell’uomo. Inoltre nel cranio umano si nota l’assenza di sovrapposizione fra queste zone e le suture, cioè le linee di saldatura delle ossa craniche durante lo sviluppo cerebrale. Perciò la grande espansione del cervello umano durante il lungo periodo di sviluppo postnatale, che porta a dimensioni tre volte e mezzo superiori rispetto al gorilla, è ottenuta in virtù dell’handicap alimentare nella potenza dei muscoli della masticazione a vantaggio della grande elasticità del cranio. La didascalia della figura è: «brain versus brawn», cervello versus muscolo, efficienza mentale rispetto a forza fisica. 1 A. Zahavi, Mate Selection: A Selection for a Handicap, in «Journal of Theoretical Biology», 53, 1975, pp. 205-14. 2 H.H. Stedman et al., Myosin Gene Mutation Correlates with Anatomical Changes in the Human Lineage, in «Nature», 428, 2004, pp. 415-18.

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La parte più interessante della ricerca cui si riferisce questa figura è però l’analisi genetica della mutazione in questione. Gli autori dimostrano che la riduzione della massa muscolare masticatoria è dovuta all’inattivazione di un gene della catena pesante della miosina, cioè della parte della proteina principale del muscolo che genera, a livello molecolare, la forza contrattile. Il gene in questione, myh 16, codifica la sintesi della proteina MYH 16, che costituisce la catena pesante della miosina dei muscoli mascellari. Diversamente dai primati l’uomo possiede in questo gene una mutazione che impedisce l’accumulo di proteina MYH 16 nei tessuti interessati, producendone una marcata riduzione dimensionale. Si può risalire con buona approssimazione al tempo di questa mutazione mediante calcoli basati sulla velocità con cui si accumulano le mutazioni neutrali, cioè non sottoposte a pressione selettiva. In base a questi calcoli la data della mutazione del gene myh 16 si colloca approssimativamente intorno a 2,4 milioni di anni fa, un periodo di poco antecedente la comparsa delle prime specie di Homo. Anche se gli autori di questa ricerca non approfondiscono l’associazione, che risulta chiaramente dai loro dati, fra gracilizzazione dell’apparato masticatorio ed espansione cerebrale, è evidente che si deve creare una condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché questa associazione si realizzi: la sopravvivenza alimentare dei mutanti. Senza questa mutazione, i primati non umani attuali preferiscono cibarsi degli alimenti di più facile reperimento nei loro habitat forestali (noci, foglie, frutti selvatici) che, pur essendo molto coriacei per la ricchezza in fibra, sono convenientemente aggrediti dai loro muscoli mascellari (oltre che, come vedremo nei prossimi capitoli, dai loro apparati dentali e digerenti). Per quanto possiamo dedurre dallo studio dei fossili, gli ominini del Pliocene avevano caratteristiche anatomiche analoghe, e, condividendo le tipologie di habitat dei primati non umani attuali, avevano presumibilmente lo stesso approccio alle risorse alimentari, anche se cominciavano a prodursi delle differenze dettate dal bipedismo già molto avanzato, se è vero che potrebbe già essere presente nel Sahelanthropus tchadensis di 7 milioni di anni fa3. Di 3 C.P.E. Zollikofer et al., Virtual Cranial Reconstruction of «Sahelanthropus tchadensis», in «Nature», 434, 2005, pp. 755-59.

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fatto le dimensioni del loro cervello erano del tutto paragonabili a quelle delle scimmie antropomorfe attuali. Ma, una volta che i cambiamenti anatomici dei mutanti «leiognati» («di mascella gracile») resero queste nicchie alimentari troppo competitive, divenne per loro più conveniente sfruttare il bipedismo per colonizzare nicchie di savana che, d’altronde, si stavano espandendo per i contemporanei cambiamenti climatici. In questi nuovi ambienti avrebbero trovato nuovi alimenti più adatti alla loro anatomia maxillo-facciale e più utili, dal punto di vista nutrizionale, all’espansione cerebrale. Ricordiamo, e ne parleremo ad hoc nel capitolo VIII, Parte seconda, che per avere un grande cervello, oltre all’elasticità del cranio nel periodo dello sviluppo, occorre un’alimentazione estremamente appropriata alle esigenze nutrizionali dello sviluppo in questione. Inoltre l’acquisizione di questi alimenti pose dei problemi di organizzazione e pianificazione tali da dare la spinta risolutiva al processo espansivo del cervello. In questo contesto va notato che la riduzione dell’apparato masticatorio e conseguentemente del palato, con un suo avvicinamento alla colonna vertebrale, è un presupposto essenziale per l’articolazione dei fonemi tipici del linguaggio umano, strumento principe della socializzazione. Mutazioni geniche con effetti anatomici hanno quindi avuto profondi effetti sull’approccio degli ominini agli alimenti. Qui abbiamo citato bipedismo e micrognatismo e più avanti discuteremo cambiamenti a carico del tubo digerente e dello smalto dentale. È chiaro che le mutazioni si affermano per particolari condizioni di ambiente e, come abbiamo visto nel precedente capitolo, gli alimenti scelti in maniera predominante da una specie per qualche migliaio di anni possono, come costituente importantissimo della nicchia ecologica da essa occupata, produrre e selezionare mutanti che costituiscono la base di partenza per gli adattamenti alimentari durante la storia evolutiva della specie stessa. Questi adattamenti sono soprattutto metabolici, cioè capaci di regolare, a livello della trascrizione dei loro geni codificanti, la concentrazione e/o l’efficienza di enzimi della filiera di integrazione dei componenti alimentari nell’organismo, dai processi intestinali di digestione e assorbimento a quelli tessutali di modificazione chimica per la produzione di energia e costruzione delle strutture biologiche. Questi cambiamenti sono prodotti o per azione mutagena diretta di alcuni nutrienti o per selezione di mutanti spon93

tanei, e hanno coadiuvato le mutazioni anatomiche nella generazione della più spiccata specificità umana in materia di alimentazione, l’onnivorismo. In questi due primi capitoli di questa parte dedicata al cibo degli antenati della nostra specie e dei suoi rappresentanti più antichi fino all’avvento delle tecniche agropastorali abbiamo portato elementi atti a dimostrare il flusso bidirezionale di effetti fra alimenti e geni, cioè fra cibo e DNA. Ora ripercorreremo le tappe di questa reciprocità seguendo il percorso canonico dell’evoluzione umana delineato nella prima parte di questo libro.

Capitolo terzo

L’espansione del vegetarianismo nel Pliocene

Gli ominini di 5-2,5 milioni di anni fa (ardipiteci, australopiteci e i primi parantropi) vivevano prevalentemente in foreste umide, anche se dati recentissimi di composizione isotopica sul paleosuolo circostante fossili etiopici di Ardipithecus ramidus indicano ambienti con alternanza di boschi e praterie a regime di precipitazioni moderato1. Questi habitat impongono ai primati un’alimentazione essenzialmente frutti-folivora, come quella delle grandi scimmie attuali, che ha strutturato la loro anatomia digestiva, il loro metabolismo e le loro esigenze nutrizionali per 20 milioni di anni prima della comparsa del primo ominino. È un regime ricco di carboidrati a rapido assorbimento, e quindi è probabile che queste specie non sviluppassero resistenza all’insulina (si veda il cap. I, Parte seconda), cioè disponessero di un metabolismo capace di utilizzare l’energia del glucosio senza accumulare troppi grassi. Ma, paradossalmente, questa dieta è anche ricca di carboidrati poco digeribili per il nostro attuale sistema digerente, cioè di quei carboidrati provenienti dalle parti strutturali di piante e frutta (cellulosa, lignina, pectine) che prendono il nome collettivo di fibra alimentare. I primati che si basano su questa dieta necessitano di un notevole sviluppo del tubo intestinale per modificare, mediante la flora batterica, le grandi quantità di cibo che devono essere ingerite per estrarne tutti i nutrienti legati alla fibra. Infine questo regime alimentare è ricco di vitamine idrosolubili, come la vitamina C, o acido ascorbico, che i primati hanno smesso di sintetizzare, insieme a poche altre specie animali, quasi all’inizio della loro storia (cir1 S. Semaw et al., Early Pliocene Hominids from Gona, Ethiopia, in «Nature», 433, 2005, pp. 301-305.

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ca 40 milioni di anni fa), molto probabilmente proprio in relazione all’abbondanza di questa vitamina negli alimenti di origine vegetale largamente disponibili nell’habitat originario dei primati. Il gene codificante l’enzima della sua sintesi, pur mantenuto, è stato inattivato mediante una mutazione che è stata poi selezionata positivamente, forse perché l’incapacità a costruirsi da sé l’acido ascorbico forniva una maggiore esposizione all’azione mutagena dell’ambiente, sempre importante ai fini evolutivi. Infatti molti mutageni sono specie reattive di tipo ossidante (radicali liberi dell’ossigeno), che si producono sia nell’atmosfera che all’interno degli organismi aerobi, cioè gli organismi che hanno bisogno di respirare ossigeno per fornire energia alle loro attività vitali. Senza la presenza di antiossidanti introdotti con l’alimentazione, il numero di mutazioni sarebbe troppo elevato per la sopravvivenza della specie. La vitamina C e altre sostanze sintetizzate dalle piante sono fra i più efficienti fra questi antiossidanti. La necessità, peraltro, di bilanciare con la dieta la carenza dell’enzima capace di sintetizzarla ha sempre mantenuto un grado variabile di vegetarianismo «crudo» durante tutta la storia alimentare umana, visto che queste sostanze sono generalmente distrutte dall’esposizione ad alte temperature. La conferma di questa sostanziale identità di dieta per i primati ominidi del Pliocene, fino al grande cambiamento di 2,3 milioni di anni fa che portò all’avvento di climi più freddi e più secchi, è confermata dai reperti anatomici sui fossili, con qualche importante differenza. I denti dell’ardipiteco (molari più piccoli che in gorilla e orango e con smalto più sottile) sono generalmente simili a quelli dello scimpanzé, che, rispetto alle altre grandi scimmie, si ciba più di frutta che di foglie (fig. 2a). Questa attitudine sarà stata probabilmente consolidata negli ominini, perché richiede una maggiore attenzione alla variabilità spazio-temporale della frutta matura, ed è ovviamente favorita dall’andatura bipede. Ma, come poi dopo anche negli australopiteci, i canini sono più corti, e meno sessualmente dimorfici. Anche questo fa pensare a un ruolo del bipedismo che, liberando gli arti anteriori, disimpegna relativamente i denti dalla lacerazione preparatoria del cibo e distribuisce maggiormente fra i due sessi la cura parentale di questa preparazione. È argomento dibattuto se questi ominini si siano cibati, se pur 96

in maniera molto limitata, anche di proteine animali, di valore nutritivo molto più alto di quello delle proteine vegetali (si vedano tav. 1 e cap. IV, Parte seconda). È chiaro che non ci riferiamo a un vero e proprio carnivorismo, cioè all’alimentazione con muscoli e organi interni di uccelli, mammiferi o comunque vertebrati di media e grande taglia, sia pure con la modalità della scarnificazione delle carcasse, perché ciò presuppone disponibilità di strumenti, efficienza locomotoria in spazi aperti e soprattutto capacità cognitive per perlustrare la savana, tutte caratteristiche che compariranno presumibilmente solo con l’Homo habilis. Ci riferiamo invece ad una faunivoria più ampia, che include gli invertebrati e in particolare gli insetti e che è condivisa dagli analoghi attuali dei primi ominini, le grandi scimmie antropomorfe. Questo tipo di cibo non può dare che un contributo molto basso in termini di calorie totali, per le ovvie difficoltà di raccoglierne grandi quantità, a causa delle piccole dimensioni, della capacità di volare e degli apparati anatomici di protezione di molti insetti. Queste difficoltà, peraltro, non esistono per le larve degli insetti, immobili, indifese e molto nutrienti in quanto molto grasse e provviste di micronutrienti (molecole essenziali efficaci in piccolissima quantità) che, come la vitamina B12, non si ritrovano nelle piante al contrario di tutte le altre vitamine. Per di più queste prede sono spesso arboree, e quindi accessibili ai primi ominini (ancora in gran parte arboricoli) fuori dalla competizione dei predatori terricoli. L’alimentazione con larve di insetti ha inoltre dato luogo probabilmente al primo contatto con altri prodotti commestibili, ad esempio il miele, che deve essere entrato molto presto nella dieta ad incrementare la disponibilità di calorie di pronto impiego, essendo esso costituito quasi esclusivamente di zuccheri semplici a rapida assimilazione. È interessante notare come tutte queste attività collegate all’insettivorismo richiedono un certo grado di tecnologia, come la disponibilità di bastoni e recipienti rudimentali per la raccolta. Tutto ciò è documentato per gli scimpanzé (faunivori intorno al 5 per cento), ma il maggiore grado di bipedismo e quindi di utilizzazione degli arti anteriori da parte dei primi ominini avrà senza dubbio accentuato questa attitudine che costituisce il primo stadio di approccio a un più completo onnivorismo, cioè allo strumento alimentare essenziale per l’aumento 97

dimensionale del corpo e del cervello, tipico della sottofamiglia di primati cui noi apparteniamo. In Australopithecus anamensis (4,2-3,8 milioni di anni fa) lo smalto si fa più spesso e anche i molari crescono di dimensione. Malgrado questa specie occupasse la stessa nicchia forestale della precedente, appare chiaro che essa si sia rivolta verso vegetali più duri, iniziando una tendenza che continua in Australopithecus afarensis (Lucy), si accentuerà nell’Australopithecus africanus (canini più piccoli e molari più grandi con smalto ancora più spesso) e culminerà nella specializzazione alimentare dei parantropi «schiaccianoci», con cui entriamo in pieno Pleistocene (figg. 2b, 2c e 3). Per questi ominini della transizione plio-pleistocenica Wrangham2 ha proposto la teoria degli USO (underground storage organs) con riferimento a componenti anatomici sotterranei delle piante (tuberi, radici, rizomi, semi, noci), il cui uso alimentare avrebbe espanso il vegetarianismo del Pliocene con nuovi apporti nutrizionali. Questi alimenti richiedono apparato masticatorio potente e, essendo ricchi di fibra, un tubo intestinale molto sviluppato, come appare dalla cassa toracica a imbuto rovesciato di questi ominini (fig. 4). Ma possiedono anche altre caratteristiche, che rendono la loro utilizzazione alimentare un passaggio innovativo nell’alimentazione umana. In particolare: a) essi sono ricchi di carboidrati a lenta digestione (amidi) il cui apporto energetico ha una durata maggiore ed è concentrato in un minor volume rispetto agli zuccheri semplici, come glucosio e fruttosio (tav. 1), che costituiscono i carboidrati predominanti in frutti e bacche; b) noci e semi contengono anche acidi grassi polinsaturi, che ritroveremo come uno dei fattori nutrizionali determinanti, insieme alle proteine di origine animale, dell’encefalizzazione di Homo; c) la ricerca degli USO, favorita dal bipedismo che rendeva possibile l’esplorazione di aree più vaste di territorio, ha permesso di coprire il fabbisogno nutrizionale anche in periodi di restrizione dell’alimentazione frugi-folivora, come ad esempio nella 2 R.W. Wrangham, Out of the Pan into the Fire, in F.B.M. de Waal (a cura di), Tree of Origin, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2001, pp. 121-43.

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stagione secca, e questo ha indubbiamente avvantaggiato i nostri antenati rispetto a quelli delle grandi scimmie; d) infine questa nuova alimentazione ha richiesto l’uso di strumenti di scavo: i primi saranno stati frammenti lignei o ossei, ma già 2,5 milioni di anni fa compaiono i primi strumenti litici olduvaiani (si veda la Parte terza) ed è probabile che con questi nuovi mezzi a disposizione gli ominini abbiano fatto il secondo passo verso un più completo onnivorismo, con l’estensivo sfruttamento dello scavo di USO. Lo stesso tipo di strumenti sarà usato agli inizi del terzo stadio del cammino verso l’onnivorismo. Infatti in questo periodo compaiono le prime evidenze di macellazione di carcasse.

Capitolo quarto

Cibi alternativi all’alba del Paleolitico

Il milione di anni o poco più che, a partire da 2,5 milioni di anni fa, comprende al suo interno lo sviluppo dei manufatti olduvaiani, è anche associato alla contemporaneità di due generi di ominini molto differenziati dal punto di vista dell’anatomia maxillo-facciale, e quindi presumibilmente dal punto di vista alimentare: Paranthropus e Homo (habilis). Nei parantropi, e in particolare nella specie Paranthropus boisei, si sviluppa un grado di megalodonzia dei molari, di robustezza mandibolare e di spessore dello smalto di gran lunga superiore a quello presente negli australopiteci simpatrici, cioè conviventi nello stesso ambiente (figg. 2c e 3). Questi caratteri denotano una specializzazione estrema verso l’alimentazione con cibi vegetali molto consistenti come alternativa evolutiva in condizioni di progressiva insufficienza delle risorse alimentari vegetali della foresta pluviale e rappresentano una soluzione che nasce come continuazione diretta della scelta degli USO. Ma per circa 1 milione di anni questa alternativa si è confrontata con un’altra soluzione, esemplificata dalle caratteristiche delle prime specie del genus Homo. L’apparato masticatorio è sempre possente, ma la superficie dei molari si riduce notevolmente, da 756 mm2 nel Paranthropus robustus a 478 in Homo habilis (fig. 4, Parte prima). Inoltre lo smalto diminuisce il suo spessore e gli incisivi si fanno più grandi, tali da permettere la frammentazione del materiale alimentare in modo da renderlo meglio preparato per la digestione. Questi tratti anatomici indicano l’inizio di consumi consistenti di carne alla fine del Pliocene. Si pensa, in maniera ormai concorde dopo lunghi dibattiti, allo sfruttamento di carcasse residuali di prede di grandi carnivori. Il principale argomento a sostegno di questa tesi è l’associa101

zione di artefatti litici, dei quali Homo habilis è il primo accreditato produttore, a depositi di ossa di grandi ungulati come quello di Konjera in Kenia databile a circa 2,2 milioni di anni fa, che presentano prove certe di incisure da strumenti taglienti sovrapposte a incisure da zanne ferine. Un’ipotesi plausibile è che l’uso dei primi strumenti adoperati per la ricerca di USO si sia trasmesso ad un’attività di rottura di ossa per estrarne midollo – molto ricco in grassi e proteine – e di scarnificazione di carcasse, segnando il definitivo distacco alimentare, e in questo caso soprattutto nutrizionale, dalle grandi scimmie, i cui discendenti attuali non praticano attività di questo genere. Si entra così nel terzo e definitivo stadio di acquisizione dell’onnivorismo, cioè lo sfruttamento intensivo di grassi e proteine animali, al di là del faunivorismo marginale del Pliocene. Questa scelta è tipica di Homo, iniziata da habilis e perfezionata dai suoi successori con strumenti tecnologici (caccia, pesca, fuoco) sempre più efficaci. L’entrata della carne e dei grassi animali nella dieta umana è anche il presupposto essenziale per la resistenza della specie a latitudini più alte di quelle delle primitive sedi africane, dato che questi cibi contengono più energia per unità di peso rispetto a quelli vegetali. Essi contengono inoltre in concentrazione maggiore i nutrienti che sono alla base di una espansione cerebrale superiore a quella prevedibile in base all’aumento del peso totale del corpo (si veda p. 103). In circolo virtuoso, le aumentate facoltà cognitive hanno contribuito ad acquisire questi nutrienti in quantità sempre maggiori mediante gli strumenti tecnologici necessari per vincere la competizione dei carnivori specializzati. Un ulteriore contributo alle nostre conoscenze sull’alimentazione degli ominini in questo periodo viene da prove ottenute più recentemente attraverso studi sulla composizione isotopica di reperti fossili, in particolare sul rapporto fra gli isotopi stabili del carbonio 13C:12C. Il metodo si basa sulla diversa distribuzione dei due isotopi in diverse specie di piante, a secondo del tipo di via fotosintetica da esse adottata per la fissazione dell’anidride carbonica dall’atmosfera. Gli alberi, gli arbusti e i cespugli usano la via metabolica denominata C3 e questo porta ad un rapporto 13C:12C più basso di quello che si misura nelle erbe delle praterie tropicali che usano la via fotosintetica C4. Questo differenziale si mantiene anche nei tessuti degli animali in base al loro regime alimentare pre102

dominante. Ad esempio la zebra, che si nutre essenzialmente brucando erba, ha un rapporto molto più alto della giraffa che preferisce le parti aeree delle piante. Sorprendentemente parantropi e habilis mostrano nel loro smalto dentale un rapporto quasi identico, che indica un apporto del 75 per cento di piante C3 e del 25 per cento di piante C41. Ora, considerando l’inoppugnabile argomento della struttura cranio-dentale, questa percentuale isotopica può derivare, nei parantropi, dall’effettiva prevalenza nella loro alimentazione di parti di piante C3 (come ad esempio noci e USO), in habilis, invece, di un consistente apporto alla dieta da parte di carcasse di grandi ungulati a regime C3 e anche di carnivori alimentati primariamente con lo stesso tipo di prede. L’aspetto più interessante del paragone fra due ominini largamente sincronici (1,9/1,8-1,5 milioni di anni fa) e simpatrici (savana parzialmente umida) ma con nicchie alimentari nettamente separate è la diversità dell’indice di encefalizzazione (EQ, encephalization quotient). L’EQ è un indicatore dell’espansione della massa cerebrale nei mammiferi, normalizzata per la massa corporea. Martin2 ha proposto la seguente equazione per la relazione lineare fra massa cerebrale e massa corporea: logE = 0,76 logP + 1,77 dove E è la massa cerebrale e P è la massa corporea. L’EQ di Homo sapiens è 4,7 perché il suo cervello è 4,7 volte più grande di quanto prevedibile sulla base dell’equazione precedente. Lo scimpanzé ha un valore di EQ pari a circa il 40 per cento di quello di Homo sapiens, e lo stesso valore è stato ricavato, sulla base dei dati fossili disponibili, per gli australopitechi, che possiamo considerare più o meno degli scimpanzé bipedi, anche se questa caratteristica non ha subito prodotto una dieta molto differente. In Paranthropus robustus EQ è già il 50 per cento, e in Homo habilis il 57 per cento. Quindi ambedue le alternative alimentari del primo Pleistocene hanno favorito l’encefalizzazione, ma quella di habilis 1 J.A. Lee-Thorp et al., The Hunters or the Hunters Revisited, in «Journal of Human Evolution», 39, 2000, pp. 565-76. 2 R.D. Martin, Relative Brain Size and Metabolic Rate in Terrestrial Vertebrates, in «Nature», 293, 1981, pp. 57-60.

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è superiore a quella di robustus. Questo corrisponde esattamente a quello che noi sappiamo sulle esigenze nutrizionali del cervello, che tratteremo con maggiore profondità quando affronteremo il problema del grande cervello di sapiens (si vedano i capp. VIII e X, Parte seconda). Per ora basta ricordare che USO e noci hanno dato per la prima volta, come già accennato, un sostanziale apporto di acidi polinsaturi specifici delle strutture cerebrali, ma solo la carne ha permesso la disponibilità di proteine ad alto valore nutritivo per l’abbondante presenza di aminoacidi essenziali, dal metabolismo dei quali derivano, fra l’altro, mediatori chimici molto importanti per la funzione nervosa. A questo proposito, il ruolo dell’alimentazione nel processo di acquisizione delle caratteristiche di Homo rispetto agli altri ominidi è indirettamente rafforzato da ricerche recenti che hanno messo a confronto il genoma umano con quello dello scimpanzé3. È noto che la differenza genica fra i due ominidi ammonta a non più dell’1 per cento, ma solo sovrapponendo le sequenze e decifrandole si può arrivare a capire il significato biologico di questa differenza. L’analisi comparativa ha dimostrato che i maggiori livelli di selezione positiva nella transizione scimpanzé-uomo sono posseduti da geni che codificano per proteine coinvolte nella funzione olfattoria e nell’attività enzimatica relativa al metabolismo degli aminoacidi. È probabile che queste differenze siano dovute a pressioni selettive dell’habitat, che hanno prodotto adattamenti nella percezione sensoriale dei segnali di cibo e nella trasformazione di materia prima alimentare ricca di contenuto proteico di alto valore nutritivo. È inoltre da sottolineare che alcuni di questi enzimi assicurano la produzione di energia da parte delle proteine endogene in condizioni di digiuno prolungato, una situazione di frequente evenienza nel Pleistocene, soprattutto in periodi di glaciazione. In un altro studio dello stesso tipo, ma più focalizzato sul livello di espressione dei geni, e limitato al settore cerebrale4, è stato trovato che nel cervello umano, rispetto a quello dello 3 A.G. Clark et al., Inferring Nonneutral Evolution from Human-ChimpMouse Orthologous Gene Trios, in «Science», 302, 2003, pp. 1960-63. 4 M. Caceres et al., Elevated Gene Expression Levels Distinguish Human from Non-Human Primate Brains, in «Proceeding of the National Academy of Sciences, USA», 100, 2003, pp. 13030-35.

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scimpanzé e altri primati non umani, sono molto più espressi geni che danno origine a enzimi del metabolismo dei lipidi, e soprattutto di quello del colesterolo, e questo è in accordo con le nostre conoscenze sulla composizione biochimica delle membrane cerebrali, di cui parleremo diffusamente nel capitolo VIII, Parte seconda. Questi dati, peraltro, possono essere presi come ulteriore conferma della posizione preminente dell’aumento del consumo di carne alla base delle origini umane.

Capitolo quinto

Nato per correre: «Homo erectus» e rivoluzione alimentare del primo Pleistocene

Il primo Pleistocene (1,8-1,0 milioni di anni fa) è dominato dall’imponente figura del «ragazzo del fiume» di Nariokotome (si veda la Parte prima, p. 43), cioè l’Homo ergaster destinato a uscire dall’Africa e a diventare georgicus a nord ed erectus a est. Rispetto a Homo habilis, ad esso contemporaneo per almeno 400.000 anni (2,0-1,6 milioni di anni fa), ergaster è differenziato anzitutto per le dimensioni corporee straordinariamente accresciute, paragonabili a quelle dell’uomo moderno e, se mai, maggiori. L’alta statura di questo gruppo di ominini è tanto più sorprendente se si considera che, per esigenze di più efficiente termoregolazione, le popolazioni che attualmente vivono nelle foreste tropicali sono di norma più basse di quelle adattate a climi più asciutti e temperati. A tutti è chiaro l’esempio dei Pigmei rispetto ai Wa-tutsi o ai Masai degli altipiani situati alla stessa latitudine. Questa differenza è geneticamente stabilizzata: in particolare l’espressione dei geni che controllano i livelli di ormone della crescita e di IGF1 (fattore di crescita insulino-simile) non aumentano nei Pigmei al momento della pubertà. È possibile che una situazione analoga sia esistita negli ominini antecedenti a ergaster che di fatto abitavano nella foresta pluviale. Senza indulgere a ragionamenti circolari che non hanno alcuna utilità, si può però sottolineare la coincidenza tra la forte variazione climatica verso climi più freddi e asciutti intorno a 2 milioni di anni fa con la comparsa di ominini di più alta statura che permetteva, insieme alle probabili riduzione dell’apparato pilifero e comparsa delle ghiandole sudoripare, una maggiore resistenza in ambienti più secchi ed esposti al sole. Ma un corpo più grande richiede un sistema osteomuscolare molto più sviluppato, e questo è possibile solo con il viraggio ad una dieta decisamente carnea, ricca cioè di proteine facilmente utiliz107

zabili per una rapida crescita corporea in quei «mutanti» di specie capaci di esprimere i geni appropriati nel momento dello sviluppo. Per rimanere nel contesto delle popolazioni africane attuali, Masai e Wa-tutsi, pastori, sono più carnivori dei Pigmei, agricoltori e cacciatori-raccoglitori in un ambiente nel quale le risorse carnee sono più diluite, sporadiche e intermittenti. La rivoluzione alimentare del primo Pleistocene è fortemente evidenziata dalla grande divergenza di ergaster da habilis per quanto riguarda due tratti anatomici correlati all’alimentazione: il ridotto sviluppo del complesso dentale in rapporto alla massa corporea molto aumentata e, soprattutto, la forma della cassa toracica (fig. 4). Questa non ha più l’aspetto a imbuto capovolto, tipico dei primati attuali e presente, sulla base di ricostruzioni inequivocabili dai reperti ossei, negli australopiteci e in habilis. Essa è invece conformata come negli uomini moderni, cioè con la geometria di un cilindro regolare. Perché ho incluso questa forma differente del torace fra le caratteristiche anatomiche collegate all’alimentazione? La ragione sta nel fatto che l’acquisizione di questa nuova forma del torace implica una notevole riduzione della lunghezza dell’intestino, che è strettamente collegata a un cambiamento di dieta. Intestini molto lunghi servono ad estrarre nutrienti da cibi ricchi di fibra alimentare, resistente all’azione dei nostri enzimi digestivi, e che necessita di una lunga permanenza nel tubo digerente per essere attaccata dai batteri della flora intestinale (si veda p. 98). Cibi di questo tipo sono le parti edibili aeree degli organismi vegetali abbondanti negli ambienti africani che hanno visto l’evoluzione dei primati: foglie, frutti selvatici, steli. Inoltre l’abbondanza relativa di componenti poco digeribili in questi alimenti diluisce i nutrienti in essi contenuti; poiché i mammiferi hanno tutti le stesse esigenze nutrizionali, indipendentemente dalla dieta disponibile nella loro nicchia ecologica, è chiaro che un’alimentazione così caratterizzata richiede l’ingestione di grandi quantità di cibo e pertanto la disponibilità di un grande volume intestinale, che si aggiunge all’esigenza di un lungo periodo di transito del materiale alimentare nel produrre lo sviluppo di grandi masse intestinali negli erbivori o in altri animali prevalentemente vegetariani. Intestini sempre più brevi si ritrovano invece in mammiferi a crescente grado di carnivorismo, poiché la carne rappresenta il cibo per eccellenza dotato di alta densità di 108

nutrienti e provvisto di rapida digeribilità per gli organismi che hanno sviluppato gli apparati enzimatici adatti. La carne apporta, in grande quantità condensata in volumi relativamente piccoli, e per di più in forme molto assorbibili dall’epitelio intestinale, energia, aminoacidi essenziali e ioni minerali. Questa situazione cambia totalmente, anzi inverte i tempi del ciclo alimentare dei carnivori: molto meno tempo necessario a masticare e digerire, molto più tempo da dedicare alla ricerca degli alimenti carnei. A quest’ultimo aspetto si ricollega un altro particolare anatomico di Homo ergaster e di Homo erectus, anch’esso collegato, anche se più indirettamente, all’alimentazione, e cioè il loro bipedismo sempre più efficiente e vicino a quello dell’uomo moderno. Il tipo di impianto corporeo suggerisce una maggiore capacità di velocità ma soprattutto di resistenza nella corsa. Quest’ultima caratteristica è unica fra i primati ed anche eccezionale per molti mammiferi, a parte alcuni quadrupedi specializzati come i cavalli e alcune razze di cani. Inoltre, la configurazione corporea più slanciata collegata alla migliore stazione eretta consente, insieme alla riduzione dell’apparato pilifero e allo sviluppo delle ghiandole sudoripare, una dispersione termica più efficace molto adatta alla corsa prolungata senza il pericolo di soccombere al surriscaldamento. Come vedremo, queste condizioni sono necessarie ma non sufficienti a ipotizzare attività di caccia vera e propria come quelle tipiche dei futuri cacciatori paleolitici. Questi ultimi svilupperanno tecnologie strumentali e strategie di gruppo che renderanno meno esclusivo il ricorso alla capacità di corsa per l’acquisizione delle risorse alimentari. Ma è molto probabile che queste nuove attitudini posturali e locomotorie abbiano costituito un fattore determinante per avvistare carcasse e avvicinarsi rapidamente ad esse, e poi rapidamente sfuggire all’eventuale ritorno del predatore primario. Oltre a queste conseguenze sull’approccio al cibo, è ovvio che quanto abbiamo detto sulla grande capacità di resistenza locomotoria da parte di Homo ergaster e Homo erectus ci ricollega immediatamente alle grandi migrazioni di cui queste specie umane sono state capaci. Può risultare però a molti meno ovvio, e occorre perciò sottolinearlo con forza, che questi grandi spostamenti spaziali, e per di più la conservazione di caratteristiche specifiche costanti – da ergaster a erectus a georgicus – pur in aree del piane109

ta così distanti e diverse, sono strettamente correlati alla capacità di queste specie di Homo di essere più carnivore dei loro predecessori. È riconosciuto infatti da tutti gli etologi che gli erbivori hanno degli habitat più ristretti e specifici, perché le piante a cui essi sono adattati come possibile fonte di cibo hanno delle nicchie molto ristrette. Infatti le piante sono costrette a sviluppare strategie molto specializzate per sopravvivere al rischio estinzione a causa di insulti ambientali e dell’attacco degli erbivori. Invece la carne è una risorsa mobile, dispersa e sporadica, per cui aumentare la sua presenza nella dieta implica anzitutto la capacità di sapersi muovere fra diverse nicchie ecologiche e di adattarsi a diversi ambienti. In questo il nuovo Homo del Pleistocene è stato aiutato dalla sua anatomia, non condivisa dalle scimmie antropomorfe, che forse anche per questo sono rimaste erbivore e confinate ai loro habitat originari di foresta umida. Inoltre, queste nuove abitudini devono aver portato, come si osserva nei carnivori specializzati, anche a una diminuzione della densità degli aggregati umani e a una certa diminuzione della capacità riproduttiva, data la maggiore precarietà della nuova risorsa alimentare, più ricca di nutrimento e di energia ma meno garantita come disponibilità. Nel caso di Homo, però, ha giocato un ruolo compensatorio la sua eredità genetica di primate, cioè di mammifero erbivoro e sociale, e quindi il carnivorismo non ha portato alla dispersione individualistica tipica di molti carnivori attuali. Sono state invece intere comunità di Homo a migrare in maniera solidale, e questo fra i carnivori sono capaci di farlo solo alcune specie, ad esempio i lupi. Indubbiamente, senza la sua capacità di colonizzare i vasti spazi dell’Eurasia per soddisfare le sue nuove esigenze alimentari, Homo erectus non avrebbe raggiunto e conservato le dimensioni corporee che gli sono accreditate. Infatti c’è una relazione ben dimostrata fra le dimensioni dei mammiferi terrestri e l’ampiezza dell’area geografica a loro disposizione1. Poiché le popolazioni al di sotto di un certo numero di individui sono ad alto rischio di estinzione, e, all’interno di una certa popolazione, individui con 1 G.P. Burness et al., Dinosaurs, Dragons and Dwarfs: The Evolution of Maximal Body Size, in «Proceedings of the National Academy of Sciences, USA», 98, 2001, pp. 10518-23.

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massa corporea maggiore hanno bisogno di più cibo, e quindi di nicchie ecologiche o più produttive o più vaste, è chiaro che la sopravvivenza delle specie con individui di corporatura relativamente maggiore è più facilmente assicurata, almeno al livello minimo necessario di numerosità, da areali più ampi. A parità di estensione e produttività dell’area occupata, gli erbivori possono crescere in numero e dimensioni più dei carnivori. Infatti il cibo di origine vegetale è in genere più abbondante di quello di origine animale. Questo suggerisce un sicuro vantaggio evolutivo nel mantenere un certo grado di vegetarianismo, come in realtà ha fatto l’uomo del Pleistocene, e come dimostra il fatto che i carnivori attuali di maggiori dimensioni, gli orsi bruni, sono tendenzialmente onnivori. L’interesse di questa teoria sta soprattutto nella sua capacità di spiegare il caso di Homo floresiensis (si veda la Parte prima, pp. 50-52) come una regressione dimensionale di Homo erectus in condizioni estreme di restrizione areale alimentare. L’isola di Flores è grande un po’ più della metà della Sicilia. Le dimensioni notevoli (70 kg) del suo carnivoro più grande, il varano di Komodo, si spiegano con le esigenze energetiche molto minori di eterotermi come i rettili. Nel Pleistocene Flores ha anche ospitato omeotermi di dimensioni maggiori del varano, ma essi erano rigorosamente erbivori. Si tratta del protoelefante del genere Stegodon, peraltro di massa dieci volte inferiore all’attuale elefante asiatico. Malgrado il suo spiccato nanismo, lo stegodonte si è estinto, al contrario del varano di Komodo. È probabile che Homo erectus sia arrivato a Flores nel primo Pleistocene con le dimensioni sbagliate per l’ampiezza dell’isola, ma la flessibilità nella ricerca del cibo gli abbia permesso di adattarsi a risorse alimentari più scarse e meno nutrienti, riducendo la sua massa corporea e sopravvivendo allo stato miniaturizzato fino alle soglie dell’Olocene. Fino a quando non disporremo di studi isotopici del tipo di quelli descritti nel precedente capitolo, non potremo dire con sufficiente sicurezza quale sia stata la dieta degli hobbit di Flores, ma disponiamo già di un certo numero di indizi. Le punte di pietra ben modellate ritrovate nei siti di scavo accanto a ossa di stegodonte indicano capacità di procurarsi carne almeno da carcasse, anche se potrebbero essere stati lasciati da umani moderni contemporanei degli hobbit. Gli alimenti vegetali devono comunque essere stati 111

predominanti, come indica un grado di megadonzia che avvicina floresiensis più ad habilis che ad erectus. La conformazione scheletrica generale appare però del tipo di erectus e perciò Homo floresiensis non era in grado di sfruttare grandi quantità di cibo vegetale, alla maniera, ad esempio, degli australopiteci (si veda p. 108). Di fatto le sue dimensioni sono inferiori anche rispetto alle specie plioceniche; particolare più importante, anche il suo cervello è più piccolo di quello degli australopiteci, e si colloca negli intervalli dimensionali delle grandi scimmie attuali. Siamo perciò di fronte a una vera e propria regressione di EQ, al contrario di quello che si riscontra nei Pigmei attuali. In questi ultimi, la massa corporea si è ridotta per adattamento alle scarse risorse di un areale ristretto di foresta pluviale, che è di per sé una nicchia ecologica povera di risorse alimentari che non siano foglie e frutti. Nei Pigmei la presenza di robuste attività di caccia ha certamente contribuito a mantenere la riduzione della massa del cervello proporzionale alla riduzione della massa corporea, così che EQ è pienamente nell’intervallo di Homo sapiens. C’è però un’evidenza che complica un’analisi troppo lineare della regressione dimensionale di Homo floresiensis. Mediante risonanza nucleare magnetica tridimensionale, sono state ottenute immagini di impronte endocraniche virtuali di questa specie2. Si è visto che la forma del cervello è molto simile a quella di Homo erectus, e nettamente differenziabile da quella di altre specie umane antecedenti o posteriori e anche da quella di uomini attuali malati di microcefalia. Le somiglianze più notevoli sono nella convoluzione dei lobi frontali e temporali, che indica una certa capacità cognitiva. Si confermerebbe così la connessione filogenetica con erectus, di cui floresiensis costituirebbe una versione endemica miniaturizzata, per effetto di condizioni estreme di isolamento geografico e di scarsità di risorse alimentari. Allo stesso tempo, però, la tendenza a nutrirsi nella maniera più varia possibile, tipica degli umani del Pleistocene, ha generato un compromesso commisurato alle dimensioni e alla produttività dell’ambiente: un cervello piccolissimo, ma con espressione conservata di geni spe2 D. Falk et al., The Brain of LB1, «Homo floresiensis», in «Science», 308, 2005, pp. 242-45 (si veda anche nota 21, p. 51).

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cifici per una strutturazione avanzata, tale da poter spiegare anche l’attività di produzione di artefatti litici ben modellati. In conclusione la scoperta di Homo floresiensis è la controprova che un elevato consumo di carne è l’evento fondamentale della rivoluzione alimentare del primo Pleistocene e che esso implica una grande capacità di spostamento. A sua volta la mobilità imposta dalla ricerca della carne è la conseguenza più importante del processo di condizionamento dell’anatomia umana da adattamenti, come la riduzione della massa intestinale e l’aumento dell’efficienza nella stazione eretta e nella corsa, che facilitano un onnivorismo sempre più completo. Si amplia in questo modo il tempo giornaliero trascorso per muoversi rispetto a quello occupato per mangiare, con più difficoltà a raccogliere, conservare e distribuire il cibo, creando così le condizioni «socio-economiche» per una nuova vita di gruppo e i presupposti per sempre crescenti encefalizzazione, tempo di sviluppo cerebrale e longevità. Va infatti tenuto presente che il consolidamento della capacità di procurarsi e mangiare quasi tutti gli alimenti possibili è solo il presupposto per raggiungere questi traguardi biologici: l’approdo finale ad essi richiederà un ulteriore scatto nella strategia alimentare, una nuova tecnologia, una nuova specie di Homo.

Capitolo sesto

Interpretazione di reperti fossili in chiave alimentare e formazione delle prime società

Non a caso abbiamo chiuso il capitolo precedente con l’affermazione che le pur grandi innovazioni che sono alla base della rivoluzione alimentare del primo Pleistocene non trovano una motivazione diretta in un significativo progresso sulla strada dell’encefalizzazione. In realtà la convinzione che il carnivorismo a questo stadio si sia limitato alla frantumazione di ossa e alla spoliazione di carcasse nasce dal fatto che i dati anatomici, se attentamente analizzati, non documentano un grande salto evolutivo per quanto riguarda la massa del cervello e confermano quanto detto prima sul collegamento di attività di carnivorismo più «attivo», come la caccia e il controllo del fuoco, a un grado maggiore di espansione cerebrale. Infatti il quoziente di encefalizzazione rispetto a sapiens passa dal 57 per cento di habilis a poco più del 60 per cento per l’erectus del primo Pleistocene (1,8-1,5 milioni di anni fa), tenendo conto che le più accreditate valutazioni del peso corporeo danno un aumento da circa 37 kg a circa 66 kg, che normalizza completamente l’aumento di massa cerebrale da 612 g a 863 g1. Sembrerebbe dunque che, malgrado la riduzione della massa intestinale, la quota di energia metabolica destinata a sostenere un’attività cerebrale più complessa sia ancora nell’erectus spalmata su altri organi e sistemi, gli apparati osteoarticolare e muscolare soprattutto. Questo dato trova riscontro nella relativa ristrettezza del canale vertebrale in questa specie umana. Questo canale ospita i fasci di fibre nervose (midollo spinale) che innervano i musco1 W.R. Leonard et al., Metabolic Correlates of Hominid Brain Evolution, in «Comparative Biochemistry and Physiology», A, 136, 2003, pp. 5-15.

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li dello scheletro postcraniale. In gran parte, nella sezione superiore, si tratta dei muscoli dell’espansione toracica, cioè diaframma e intercostali. Solo una sofisticata regolazione dei loro movimenti permette la modulazione del flusso aereo adatta all’espressione dei fonemi vocali. La molto probabile assenza di queste condizioni anatomiche ci fa pensare che erectus non disponesse di una mappa cerebrale molto sviluppata, tale da sovrintendere all’esecuzione di movimenti complessi e in particolare a quegli strumenti di comunicazione necessari, fra l’altro, all’organizzazione e all’esecuzione delle attività di caccia in gruppo. La conferma più significativa della notevole differenza delle attività cognitive di erectus rispetto ai suoi successori ci viene da dati recenti che riguardano il tempo di sviluppo del cervello2. Infatti lo sviluppo del cervello umano richiede molto più tempo che negli altri primati. Alla nascita è grande circa un quarto rispetto a quello adulto, e a 1 anno è ancora il 50 per cento, per raggiungere il 95 per cento a 10 anni. Nel macaco i neonati hanno un cervello che è già grande il 70 per cento di quello adulto, mentre nello scimpanzé si passa da una dimensione del 40 per cento alla nascita ad una dell’80 per cento ad 1 anno. Questo modello di sviluppo, legato fra l’altro ai problemi ostetrici di una testa di dimensioni adulte in primati molto encefalizzati, rende il neonato umano dipendente da lunghe cure parentali, specialmente per procurarsi le risorse alimentari (secondary altriciality). Allo stesso tempo, però, il fatto che lo sviluppo cerebrale avvenga in molti anni di interazioni con il modo esterno, permette l’acquisizione di capacità cognitive complesse, in primo luogo il linguaggio. In definitiva, «altricialità secondaria» e ominazione sono indissolubilmente legati, ed è fondamentale stabilire quando questo rapporto si sia compiutamente realizzato. Lo studio citato riguarda un’analisi mediante tomografia computerizzata dell’unico cranio ben conservato di un neonato di Homo erectus, il bambino di Mojokerto (Indonesia), datato 1,81 milioni di anni fa, e di età probabile fra pochi mesi e 1 anno e mezzo. Il volume endocranico del campione è risultato essere fra il 72 e l’84 per cento dei valori assegnati a 2 H. Coqueugniet et al., Early Brain Growth in «Homo erectus» and Implications for Cognitive Ability, in «Nature», 451, 2004, pp. 299-302.

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vari crani adulti di erectus. Quindi l’«altricialità secondaria» non si era ancora sviluppata in queste specie, e si è presumibilmente stabilita quando l’espansione cerebrale si è accompagnata al restringimento del canale di impegno pelvico del neonato. Questa variazione anatomica è presente solo in Homo neanderthalensis e Homo sapiens. Perché il parto potesse avvenire in maniera eutocica, è comparsa l’infanzia. Senza infanzia erectus non aveva il tempo di far crescere il cervello in modo da sviluppare le capacità cognitive e il tipo di linguaggio dell’uomo moderno. Alcuni dati fossili, però, ci fanno pensare all’inizio di strutture sociali a livello di questa specie. Qui citeremo alcune evidenze che hanno a che fare con l’alimentazione. La prima è uno dei primi casi documentabili di patologia alimentare. Si tratta di uno scheletro femminile di circa 1,5 milioni di anni fa, attribuibile a Homo ergaster, scoperto da Walker, Zimmerman e Leakey in Africa orientale3. Ci sono due aspetti molto interessanti in questo reperto, denominato KNM-MER 1808. Uno riguarda il fatto che le ossa mostrano segni inequivocabili di accumulo di vitamina A. Questo è un sintomo molto raro in patologia umana perché si manifesta solo dopo ingestione di grandi quantità di fegato crudo di una specie carnivora. Infatti attualmente è documentato fra gli Eschimesi che raccontano tuttora, malgrado la crescente occidentalizzazione della dieta, aneddoti su intossicazioni da fegato di orso polare che includono sintomi classici di ipervitaminosi A acuta. Quindi abbiamo la prova diretta, incisa nelle ossa stesse di un esemplare umano, di un carnivorismo non selettivo da parte di questi primi spogliatori di carcasse. L’altro punto di rilievo che riguarda KNM-MER 1808 è che i sintomi ossei indicano una ipervitaminosi A che si è protratta a lungo, forse per alcuni mesi. Questo è un dato eccezionale, se si pensa alla natura invalidante della malattia, tanto più grave in un ambiente denso di pericoli e di predatori in cui solo un apparato locomotore, e quindi la sua porzione scheletrica, al meglio della sua efficienza poteva permettere di sopravvivere. Non ci resta che concludere che la nostra paziente del Pleistocene debba essere stata assistita da un gruppo in grado di 3 A.C. Walker et al., A Possibile Case of Hypervitaminosis A in «Homo erectus», in «Nature», 266, 1982, pp. 248-50.

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difenderla dagli assalti dei predatori e, durante gli stadi più avanzati della malattia che la costringevano alla quasi completa immobilità, di trasferire acqua fino al posto del suo giaciglio. Ci si apre perciò davanti il quadro di una comunità capace di mutuo soccorso e di procurarsi contenitori per il trasporto di liquidi a lunga distanza (la permanenza protratta vicino a sorgenti o corsi d’acqua non sembra facilmente ipotizzabile, data l’estrema probabilità che essi hanno di essere frequentati da predatori specializzati). Un altro tipo di caratteri patologici che suggerisce la possibile esistenza di assistenza alimentare in ominini di questa epoca è stato trovato in un cranio di Homo georgicus, trovato a Dmanisi e risalente a 1,8 milioni di anni fa. Si tratta di un individuo di circa quarant’anni, quindi vecchio per quei tempi, completamente sdentato, ma con segni di ricrescita delle ossa degli alveoli dentari che denotano un tempo molto lungo (circa due anni) di sopravvivenza in queste condizioni. È chiaro che questo individuo può essersi alimentato con cibi morbidi, ma in ogni caso si deve ipotizzare la presenza di un gruppo sociale solidale. La dinamica sociale di Homo in questo periodo è anche riflessa in un altro tipo di reperti fossili coevi e collegati alle nuove abitudini alimentari, segnate dalla disponibilità di massicce quantità di carne, anche se non ancora ottenuta con tecnologie di caccia organizzata. Dalla comparsa della prima specie di Homo 2,3 milioni di anni fa ma, in maniera più consistente, dalla comparsa di Homo ergaster 1,9 milioni di anni fa si trovano caverne africane con accumuli ingenti di ossa di ungulati e di altri grandi quadrupedi insieme a utensili litici del tipo adatto alla scarnificazione di carcasse. Isaac4 ha formulato l’ipotesi di un luogo centrale dove trasportare il cibo per consumarlo al sicuro. Questa teoria, denominata central place foraging model, ha resistito alle critiche e alle proposte di teorie alternative e implica la costituzione di protosocietà con divisione sessuale del lavoro di raccolta del cibo e condivisione della razione alimentare. Questo scenario differisce quantitativamente ma non qualitativamente da quello che ci presentano le grandi scimmie attuali, in particolare gli scimpanzé, che 4 G.L. Isaac, The Food Sharing Behavior of Protohuman Hominids, in «Scientific American», 238, 1978, pp. 90-108.

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pure mostrano attitudini a raccogliere e condividere il cibo con incipiente tendenza alla suddivisione sessuale del lavoro. La differenza sta nella grande quantità e dimensione delle prede carnee e soprattutto nei primi indizi, riscontrabili negli stessi depositi, dell’uso del fuoco.

Capitolo settimo

Il crudo e il cotto

Niente è più controverso, nella storia dell’alimentazione umana, della data di inizio dell’uso del fuoco da parte di Homo, un uso prima accidentale, poi controllato, a fini che vanno dallo scongelamento di grandi carcasse nei climi più freddi alla cottura dei cibi, sia tuberi che prede carnee. C’è però ormai sostanziale accordo nel datare l’inizio del controllo del fuoco a questi scopi intorno a 1,6-1,4 milioni di anni fa, cioè in piena diffusione di Homo erectus1. Il dibattito sulla data è molto importante soprattutto perché mangiare cibi cotti è senza dubbio un passaggio fondamentale dell’evoluzione umana in quanto ne deriva un apporto nutrizionale notevolmente migliore e di conseguenza effetti più radicali sui geni. Infatti gli studi sull’adattamento all’uso alimentare di latte non materno, con relativa conservazione dell’espressione del gene codificante per l’enzima lattasi dimostrano che questo evento si è prodotto in circa 5.000 anni o anche meno e che quindi la cottura dei cibi ha avuto tutto il tempo per generare effetti reali sull’evoluzione umana. Ma quali sono le proprietà determinanti del cibo cotto rispetto al cibo crudo da questo punto di vista? Anzitutto l’allungamento del tempo di preparazione è compensato, e con risultati positivi largamente in eccesso, dall’abbreviamento dei tempi di masticazione e di digestione dell’alimento. I cibi vegetali perdono la consistenza delle pareti cellulari di cellulosa così che molti nutrienti diventano più accessibili alla digestione e all’assorbimento. L’amido e le proteine contenuti nei tuberi e nei semi subiscono processi di denatura1 R.M. Rowlett, Fire Control by «Homo erectus» in East Africa and Asia, in «Acta Anthropologica Sinica», 19, 2000, pp. 198-208.

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zione che li fanno attaccare più facilmente dagli enzimi salivari (per l’amido), gastrici (per le proteine) e intestinali (per derivati di amidi e proteine). Nei vegetali crudi esistono molecole tossiche e composti inibitori della digestione (tipico è l’esempio dei fagioli e dei legumi in generale) che sono distrutti dalla cottura. Anche la fibra, contenuta in gran quantità nei cibi vegetali e responsabile della prolungata preparazione masticatoria da parte degli erbivori nonché della scarsa palatabilità di molti alimenti vegetali crudi, è ammorbidita e resa più gradevole al gusto dalla cottura e quindi i cibi che la contengono possono dare più energia e nutrienti in un tempo minore. Abbiamo già menzionato che Homo ergaster e Homo erectus hanno una conformazione scheletrica che indica una grande riduzione della massa intestinale. La cottura dei cibi vegetali, permettendo un più breve tempo di digestione di questo tipo di alimenti, ha dato un contributo notevole a questo cambiamento, fondamentale per favorire l’aumento relativo della massa e del metabolismo cerebrale. Analoghe considerazioni si applicano agli effetti della cottura sulla carne. L’intenerimento è specialmente importante per le carni di animali selvatici, che sono molto più povere di grassi e ricche del collageno dei tendini e del tessuto connettivo rispetto alle carni degli animali da macello dell’epoca postagricola. Il collageno è una proteina dal valore nutrizionale quasi nullo. Essa infatti non contiene quei particolari aminoacidi, detti aminoacidi essenziali, e gli ioni metallici, soprattutto ferro, che conferiscono all’alimentazione con cibi di origine animale, in particolare tessuti muscolari, quel ruolo così determinante nell’evoluzione umana. Inoltre il collageno ha una struttura a fune rigida che non si scioglie in acqua, e questo rende la carne in cui esso è abbondante molto più dura da masticare. A temperature superiori a 80°C il collageno perde la sua struttura fibrosa e si trasforma in una proteina amorfa e solubile che è poi la gelatina dei nostri brodi di carne. In questo modo le fibre muscolari, che contengono invece proteine a valore nutrizionale molto alto, non sono più cementate dal collageno e si possono masticare agevolmente. Non a caso gli scimpanzé, che, fra le grandi scimmie, hanno il grado di carnivorismo più elevato (anche se non superiore al 5 per cento del peso totale di cibo ingerito giornalmente), preferiscono prede piccole e giovani, e, di queste, il sangue, il cervello e le interiora che so122

no molto poveri di collageno. In qualche caso le scimmie antropomorfe si cibano dei loro escrementi (coprofagia) per soddisfare il loro bisogno di componenti nutrizionali abbondanti nella carne come gli ioni metallici essenziali. È chiaro che queste soluzioni comportano un grande dispendio temporale per la cattura delle prede oltre al tempo di masticazione, già di per sé molto lungo a causa della ricchezza di fibra degli alimenti vegetali, che costituiscono più del 90 per cento del cibo delle grandi scimmie. Si calcola che gli scimpanzé mastichino i loro alimenti per il 50-60 per cento del loro tempo giornaliero. Molto di questo tempo è stato recuperato dalle prime specie di Homo aumentando la quota di carne nella loro alimentazione, ma, considerando che l’apparato dentale dei primati poco si adatta a un consumo rapido di carne cruda, la cottura ha senza dubbio risolto il problema del «tempo alimentare» (masticazione + digestione + assorbimento) per Homo ergaster, che, in effetti, mostra un’ulteriore riduzione delle dimensioni di denti e mascella (fig. 2d). Possiamo anticipare che questa riduzione si accentuerà ancora in sapiens (circa 100.000 anni fa) e questo cambiamento potrebbe coincidere con l’adozione della bollitura (fig. 2e). Ma il contatto del cibo umano con il fuoco ha avuto anche risvolti di altro genere dal punto di vista dell’evoluzione nutrizionale. Quasi tutte le vitamine si inattivano con l’alta temperatura della cottura. L’uomo, che, come gli altri primati, non aveva sofferto l’incapacità di sintesi di questi essenziali micronutrienti per il vegetarianismo spinto delle specie ancestrali, ha dovuto mantenere alto l’introito di verdura e frutta cruda e questo aspetto giustifica il suo esaltato onnivorismo. Anzi, in ambienti privi di questo apporto essenziale, è tornato, come nel caso degli Eschimesi fino ad epoche recenti, al carnivorismo crudo degli inizi, perché nelle carni non cucinate degli animali selvatici si ritrovano quantità sufficienti di vitamina C ed E. Fra gli effetti negativi della cottura del cibo sulla storia naturale delle specie umane possiamo annoverare la probabile perdita di resistenza a tossine vegetali e ad agenti infettivi inattivati dalle alte temperature, peraltro bilanciata da un miglioramento complessivo della resistenza immunitaria a causa del migliore apporto di nutrienti competenti. Infine è da notare come il pretrattamento termico del cibo possa aver favorito un più precoce di123

stacco, rispetto agli altri primati, dei lattanti dal seno materno con la somministrazione di alimenti sostitutivi. E se questo può comportare un certo rischio per la prole, a causa della completezza dei componenti del latte materno al fine di sopperire alle esigenze nutrizionali dell’infante, ha anche prodotto un accorciamento dei periodi interfertili delle femmine e un aumento del tasso riproduttivo della specie. A questo proposito va ricordato che il rischio di abbandono precoce del latte materno è molto meno grave al giorno d’oggi. Infatti l’alimentazione incongrua diffusa in molti paesi industrializzati rende il latte materno molto povero di nutrienti, e rende spesso opportuna la sua sostituzione con latte artificiale opportunamente formulato: l’alternativa moderna alla balia di campagna meglio attrezzata della madre naturale in termini di requisiti nutrizionali.

Capitolo ottavo

Un primate con un grande cervello e un’ottima dieta

Con Homo ergaster si sarebbe quindi realizzata la quarta fase del progresso dell’alimentazione umana verso livelli più alti nella catena alimentare, dove sono collocati i cibi con migliore qualità nutrizionale. La prima fase comprende un’alimentazione molto simile a quella delle grandi scimmie attuali. La differenziazione comincia con lo sfruttamento rilevante di radici e altri USO (seconda fase). La terza fase è caratterizzata dall’aumento cospicuo del consumo di carne, unito al mantenimento di un certo vegetarianismo con specializzazioni di nicchia ignoto agli altri primati. Se avvenuta a questo stadio dell’evoluzione di Homo, l’adozione di modificazioni tecnologiche come la cottura può essere considerata una quarta fase, in quanto rende il cibo più adatto, per il suo più efficiente apporto in nutrienti e calorie, a sostenere il passaggio ad un’encefalizzazione sempre maggiore. Malgrado la presenza di questi presupposti, un aumento considerevole del quoziente che indica un reale incremento della massa cerebrale rispetto al peso corporeo (EQ) non è riscontrabile in ergaster, e lo comincia ad essere solo con le specie che compariranno nella seconda metà del Pleistocene. Infatti da habilis a erectus il quoziente di encefalizzazione sale di 6 punti percentuali, mentre l’aumento è di 11-12 punti da erectus a heidelbergensis e neanderthalensis (da 600.000 anni fa in poi) per un rapporto massa cerebrale/massa corporea che rimane sostanzialmente quello di erectus, cioè circa 1,9. La relativa normalizzazione dell’espansione cerebrale di erectus in base all’aumento di massa corporea rende anche più comprensibile come, alla drastica riduzione di massa in floresiensis, sia corrisposto un ritorno di EQ nell’intervallo tipico degli australopiteci anche se accompagnato da una certa conservazione della complessità cerebrale. 125

Il grande balzo in avanti dell’encefalizzazione si avrà con sapiens: soprattutto per la riduzione della massa corporea più che per un ulteriore aumento cerebrale, questo rapporto si posiziona in maniera significativa sopra 2 (fra 2,3 e 2,9 a secondo dei dati utilizzati dai vari autori per la statura e il peso di sapiens). In altre parole, assistiamo a un vero e proprio spostamento delle risorse energetiche e plastiche verso il cervello, per cui solo le specie umane della seconda metà del Pleistocene e in particolare sapiens mostrano una deviazione marcata dalla linea retta che correla i logaritmi di peso corporeo e peso cerebrale nei primati. Questa affermazione risulta più convincente se si considera che invece il metabolismo basale degli umani attuali, cioè la misura della spesa energetica a riposo, si colloca esattamente sulla linea retta che congiunge i valori logaritmici di questa grandezza in diverse specie di primati in funzione del peso corporeo. Questo vuole dire che gli umani dedicano una quota molto più grande del loro metabolismo per sostenere i costi energetici della loro attività cerebrale: 20-25 per cento, rispetto all’8-10 per cento dei primati non umani e al 3-5 per cento dei mammiferi diversi dai primati1. Quanta importanza ha la qualità della dieta nello stabilire queste correlazioni? Ne ha veramente molta, se pensiamo che già a livello delle scimmie il valore residuo peso cervello/peso corpo (cioè il differenziale sui valori attesi rispetto alla correlazione logaritmica discussa nel cap. IV della Parte seconda) è di un terzo maggiore nei fruttivori rispetto ai folivori. In uno studio analitico2 è stato sviluppato un indice di qualità della dieta (QD) che è prodotto dalla media pesata delle proporzioni dei vari tipi di alimenti presenti nel cibo dei primati, sulla base del contributo energetico e nutrizionale dei loro componenti. QD ha una buona correlazione lineare in un grafico semilogaritmico che la rapporta al peso corporeo, ma l’uomo attuale esce dalla linea di regressione perché ha una QD migliore rispetto a quella necessaria, sulla base dell’equazione di Sailer e colleghi, per sostenere la sua massa cor1 W.R. Leonard, M.L. Robertson, Evolutionary Perspectives on Human Nutrition: The Influence of Brain and Body Size on Diet and Metabolism, in «American Journal of Human Biology», 6, 1994, pp. 77-88. 2 L.D. Sailer et al., Measuring the Relationship between Dietary Quality and Body Size in Primates, in «Primates», 26, 1985, pp. 14-27.

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porea. È facile prevedere che questa QD sovrabbondante serva al cervello. Infatti graficando in maniera appropriata QD e dimensioni cerebrali (fig. 5) per un gran numero di specie di primati si è osservata una buona correlazione lineare, con l’uomo attuale distaccato di molto ai valori più alti della linea di regressione, a testimoniare che cervelli più grandi richiedono diete migliori e che Homo sapiens ha il cervello relativamente più grande e ha – o, perché ha – la dieta migliore in relazione al peso corporeo. Ovviamente l’espansione della rete nervosa centrale ha determinato comportamenti più adatti a procurarsi risorse dietetiche in maniera ottimale, e di questo parleremo nel prossimo capitolo. A conclusione di quanto detto finora è da citare la più completa introduzione teorica al rapporto bidirezionale fra dieta e cervello: l’«ipotesi degli organi costosi»3. Partendo dalla constatazione, che abbiamo già discusso, che non c’è nei primati correlazione fra entità del metabolismo basale e dimensioni del cervello, e che anzi i valori metabolici dell’uomo cadono esattamente sulla linea retta che congiunge i logaritmi di questi valori in funzione dei logaritmi della massa corporea in tutti i mammiferi, questi autori suggeriscono che il sacrificio energetico a vantaggio del cervello si attua nell’evoluzione umana a carico dell’intestino. Per quanto riguarda la spesa metabolica percentuale, nell’uomo adulto fegato e cervello sono gli organi più costosi (ciascuno per il 15-20 per cento), seguiti dal muscolo scheletrico e dal tubo digerente, che ne usano ognuno poco meno del 15 per cento. Rispetto agli altri primati, però, il cervello umano mostra un incremento metabolico del 10 per cento rispetto a quello previsto per il peso corporeo della specie. Al contrario quello del fegato è sostanzialmente invariato e quello del tubo digerente è diminuito del 12 per cento. Fegato, e anche cuore e reni, hanno lo stesso peso di quello calcolato sulle basi della correlazione esistente per gli altri primati, mentre il cervello pesa tre volte di più e l’intestino due volte di meno (fig. 6). Poiché lo sviluppo della massa intestinale, come abbiamo detto più volte, è inversamente proporzionale alla qualità della dieta, è chiaro che la sua riduzione è permessa solo dall’adozione di ali3 L.C. Aiello, P. Wheeler, The Expensive Tissue Hypothesis, in «Current Anthropology», 36, 1995, pp. 199-221.

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menti facili da digerire e provvisti di alta concentrazione di nutrienti. Il cervello acquisisce la quota metabolica perduta dall’intestino, quindi il suo accrescimento in Homo sapiens diventa una conseguenza diretta del miglioramento della qualità della dieta. Non essendoci stato, nell’evoluzione, un aumento del metabolismo basale relativo, l’aumento del consumo di energia e di utilizzazione di materiale strutturale da parte del cervello non si può essere attuato se non con una più alta qualità nutrizionale della dieta della specie con il grande cervello. Poco importa, in questo contesto, se altri fattori di selezione hanno esercitato effetti paralleli, o anche maggiori, per stabilizzare mutanti dal grande cervello. È un dato di fatto che esiste un circuito virtuoso fra dieta di qualità migliore perché arricchita di risorse carnee, intestino più piccolo che rende più energia disponibile per un cervello più grande, che a sua volta determina, e ne è anche un prodotto, un comportamento più complesso per procacciarsi, conservare e condividere quelle nuove risorse alimentari necessarie a mantenere il circuito pienamente operativo (fig. 7).

Capitolo nono

Elogio del grasso: «survival of the fittest» o «survival of the fattest»?

Occorre adesso mettere a fuoco quali ulteriori innovazioni del regime alimentare hanno accompagnato la grande crescita di EQ nelle specie di Homo comparse dopo 600.000 anni fa: heidelbergensis, neanderthalensis e sapiens. Ci devono essere state, e di significative, perché sostenere un grande cervello è impresa rara fra gli animali, ed è condivisa solo dai delfini, dalle focene e dagli umani dal medio Pleistocene in poi. Sembra, con il grande cervello, di essere nuovamente di fronte alla selezione di un handicap. Infatti il grande costo nutrizionale del cervello non trova giustificazione in un evidente vantaggio selettivo: molti altri mammiferi, non appesantiti da un simile costo, sopravvivono e si adattano benissimo. L’handicap in questione è usato con successo in diverse attività della specie, sessuali, culturali, e sociali nel senso più ampio, ma non fa parte in senso stretto di quella relazione specieambiente che conosciamo come «survival of the fittest». Anzi ha prodotto il rifiuto di nicchie ecologiche ristrette e la diffusione della specie in tutto il pianeta alla ricerca dell’unica risorsa insopprimibile per caricarsi, da animale terrestre, quella testa enorme: un cibo migliore, un cibo che, come vedremo, dovrà avere qualcosa di essenziale in comune con quello dei piccoli cetacei «intelligenti» citati prima. E non è detto che questa soluzione di sfruttare al massimo le fonti alimentari di questo pianeta per mantenersi il lusso di un grande cervello fuori dall’acqua porti a una sopravvivenza più lunga di questa specie di umani rispetto a quelle che l’hanno preceduta. Un dato da sottolineare è la scarsa presenza di grasso, per quanto riusciamo a sapere, nella dieta di Homo ergaster. I suoi alimenti abituali ne erano molto poveri, perché, come abbiamo già 129

detto, povere ne sono le carni degli animali selvatici che vivono sulla terra emersa. In queste condizioni limitanti la sintesi endogena di tessuto adiposo dipende dall’abbondanza dell’apporto di zuccheri, anch’esso scarso in era preagricola. Le migrazioni hanno portato questa specie a contatto con altri ambienti, e questa situazione dietetico-metabolica può essere divenuta limitante anche per la sua sopravvivenza e per le sue capacità di adattamento, dato che i lipidi esercitano il loro ruolo nell’evoluzione mediante due meccanismi molto diversi, che considereremo con più attenzione in questo capitolo. Il tessuto adiposo ha una funzione particolare dal punto di vista della produzione e della conservazione dell’energia. Quella termica, anzitutto. Il grasso sottocutaneo isola gli organi interni dalle variazioni di temperatura dell’ambiente esterno, mentre uno speciale tipo di grasso viscerale, detto grasso bruno, si attiva a produrre calore endogeno in particolari situazioni, come il periodo perinatale e quello di letargo. L’omeotermia è un’innovazione di uccelli e mammiferi, un tipico attributo di sopravvivenza riuscita. Inoltre i componenti metabolicamente attivi del tessuto adiposo, gli acidi grassi, si ossidano nei mitocondri producendo, a parità di peso, più del doppio dell’energia rispetto a carboidrati e proteine, per la termogenesi, il lavoro muscolare e le altre funzioni organiche. Sotto forma di esteri del glicerolo (trigliceridi) si possono accumulare fornendo una scorta di energia concentrata in volumi relativamente piccoli perché la loro struttura chimica non li fa permeare dall’acqua, il maggiore fattore di rigonfiamento per cellule e tessuti. Altrettanto importante è il contributo dei lipidi alle componenti strutturali delle cellule. Se i trigliceridi funzionano da combustibili e isolanti termici, i fosfolipidi, gli sfingosidi e il colesterolo formano l’ossatura delle membrane che circoscrivono i compartimenti dei sistemi biologici (mitocondri, cellule, tessuti), conferendo alle cellule proprietà di specializzazione funzionale, di scambio di molecole e di reattività all’ambiente. Se l’aspetto precedente della funzione dei lipidi può essere in parte surrogato da altri meccanismi biochimici, a partire da carboidrati e proteine, questa seconda funzione del grasso è assolutamente specifica e insostituibile. Da una parte il grasso dà un’impalcatura assoluta130

mente unica a queste strutture, dall’altro in queste strutture stesse esso costituisce il veicolo di vitamine essenziali a processi di alta specializzazione come la visione e la fertilità e, nel caso del colesterolo, il punto di partenza della sintesi degli ormoni sessuali, progestinici e corticosurrenali. L’essenzialità del grasso per il grande cervello è ancora più stringente di quanto essa lo sia, e molto, per altri tessuti. Nel muscolo scheletrico o nel fegato, organi che come il cervello hanno alti costi metabolici, gli acidi grassi si possono ossidare completamente, liberando tutta la loro alta scorta di energia, solo in presenza di adeguati apporti dietetici di carboidrati. Se questi non sono disponibili, si formano composti di ossidazione intermedia, i corpi chetonici, di natura acida, che producono la morte per acidificazione del sangue se il loro accumulo non è interrotto da apporti glicidici. Questa condizione si crea nel digiuno prolungato o nel diabete non trattato e si diagnostica facilmente per l’odore di acetone (uno dei corpi chetonici) nell’alito. Nelle prime fasi di questo processo c’è però un organo che è in grado di estrarre ulteriore energia dai corpi chetonici, ed è il cervello. È evidente la grande rilevanza evoluzionistica di questo adattamento, che permette il lavoro cognitivo anche in condizioni di disagio alimentare, di carestia e di digiuno, quali dovevano essere frequenti nei nuovi ambienti incontrati dagli ominini pleistocenici durante la loro colonizzazione di latitudini sempre più settentrionali. C’è un’altra situazione in cui l’uomo consuma molto grasso e il suo cervello molti corpi chetonici. È quella della vita fetale e neonatale, che è quella poi di massima espansione cerebrale e di massimo rischio di insufficiente apporto dietetico per condizioni di carenza a cui può andare incontro la madre durante la gestazione e l’allattamento e il neonato stesso al momento dello svezzamento. Una soluzione a questo problema sta nel fatto che il feto umano è in grado di trasformare, a partire dalle ultime 5 settimane delle 40 della gestazione a termine normale, quasi tutte le calorie che gli arrivano con i nutrienti del sangue materno in tessuto adiposo, tanto che il 90 per cento del suo aumento di peso subito prima della nascita è dovuto al grasso. Questo processo continua nel neonato nei primi 6 mesi di vita ed esprime 131

la capacità straordinaria, unica fra i mammiferi terrestri, che ha Homo di accumulare grasso nel periodo perinatale (>90 per cento sottocutaneo e non viscerale come nell’obesità dell’adulto). Alla nascita, Homo ha il 16 per cento del peso corporeo sotto forma di grasso, e il 27 per cento a 6 mesi, mentre i primati alla nascita ne hanno appena il 6 per cento, più o meno come un neonato prematuro di 7 mesi. La grande differenza sta nel fatto che gli altri mammiferi terrestri nascono con un cervello molto più sviluppato: infatti non c’è molta differenza nel peso percentuale del cervello fra il neonato umano e quello di scimpanzé, cioè 10-11 per cento, mentre nell’adulto il rapporto uomo-scimpanzé, sia dei pesi assoluti che di quelli percentuali del cervello, è di circa tre volte. Anche il metabolismo cerebrale è straordinariamente elevato nel neonato umano. Esso ammonta a circa l’85-90 per cento del totale alla nascita e scende gradualmente fino al valore del 20 per cento tipico di Homo adulto durante l’infanzia e l’adolescenza. Risulta evidente che l’espansione prolungata del cervello umano, da due mesi prima della nascita all’adolescenza, fondamentale per la scelta evoluzionistica della specie, deve contare su risorse nutrizionali sicure e specifiche per questo organo. Ne fa fede il fatto che i neonati umani prematuri hanno delle difficoltà nelle acquisizioni cognitive se non alimentati in maniera adeguata. L’attivazione di geni che codificano per enzimi e ormoni capaci di favorire l’accumulo di grasso nel momento della nascita è un evento cruciale nella selezione delle specie di Homo. Si tratta di geni appartenenti alla famiglia del «genotipo risparmiatore», di cui abbiamo parlato nel capitolo I, Parte seconda, e portano allo sviluppo precoce del tessuto adiposo preferenzialmente a discapito del tessuto muscolare, che è anch’esso sottodimensionato in Homo rispetto agli altri primati. Per l’ulteriore capacità metabolica del cervello menzionata prima, il feto riesce ad usare i corpi chetonici prodotti dall’ossidazione degli acidi grassi dei suoi depositi adiposi fino al 30 per cento del suo combustibile totale (il resto è glucosio di origine materna perché gli acidi grassi non passano dal sangue al cervello). La crescita encefalica si impianta su queste basi nutrizionali e ne necessita di altre. Queste verranno dal latte materno e dall’adozione precoce di cibi molto 132

nutrienti precondizionati dalla cottura, ma soprattutto dalla conquista di una nuova nicchia ecologica, l’ultima frontiera del primate migratore prima della stanzialità neolitica: le regioni costiere e le distese d’acqua da esse delimitate, fiumi, laghi e mari. Dopo la savana, saranno questi i nuovi territori alimentari del Pleistocene recente e si riveleranno decisivi per la definitiva strutturazione dell’uomo anatomicamente e funzionalmente moderno.

Capitolo decimo

Grassi speciali dall’acqua e dai litorali: la chiave nutrizionale per il grande cervello

La duplice funzione del grasso per l’organismo umano è enfatizzata a vantaggio del cervello anche per quello che riguarda l’aspetto strutturale. Il tessuto nervoso è il tessuto più ricco di grasso (60 per cento del suo peso secco) per la grande quantità di strutture membranacee contenute dalle sue cellule, fibre e sinapsi. Parte di questo grasso è identico a quello degli altri tessuti e a quello che serve per l’isolamento termico, e il cervello lo sintetizza dai corpi chetonici, che è in grado di importare in abbondanza dal sangue. Esiste però una quota rilevante di grasso encefalico che è richiesto in maniera speciale dalle membrane cerebrali e retiniche in quanto particolarmente adatto alle cellule specializzate in attività elettrica come sono quelle del tessuto nervoso, fra le quali sono da includere quelle della retina, che ne sono particolarmente ricche. Si tratta di acidi grassi atti a rendere le membrane eccitabili più dotate di fluidità e plasticità. A questo scopo gli acidi grassi devono avere una catena di atomi di carbonio molto lunga e ricca di doppi legami che le permettono di cambiare orientamento nel suo percorso (LC-PUFA: long chain polyunsaturated fatty acids). Questi acidi sono anche indicati come omega 3, perché il primo doppio legame si incontra a distanza di tre atomi di carbonio dall’estremità omega della catena (cioè quella opposta all’estremità alfa che porta il carbonio del gruppo acido). Fra questi acidi grassi il più lungo (22 atomi di carbonio) e maggiormente polinsaturo (6 doppi legami) è proprio quello più abbondante nel cervello e si chiama acido docosaesanoico, abbreviato con le iniziali inglesi DHA. La maggiore abbondanza di questa molecola si trova alla nascita, e il neonato a termine (ma non il prematuro o il neonato di altri primati) ha una scorta di DHA che soddisfa le esigenze di 135

sviluppo del cervello per i primi tre mesi, indipendentemente dal contenuto del latte materno. Infatti, il problema nutrizionale con questo tipo di acidi grassi (oltre al DHA, il suo diretto precursore EPA o acido eicosapentenoico, 20 atomi di carbonio e 5 doppi legami, e l’AA o acido arachidonico, 20 atomi di C e 4 doppi legami), è che sono essenziali, cioè devono venire esclusivamente dalla dieta, e da cibi molto particolari. Il più ovvio di questi cibi è il cervello animale, e dobbiamo pensare all’estrazione di quest’organo da carcasse per individuare una fonte abbondante di questo prezioso acido grasso nella dieta dei primi ominini delle savane interne. Inoltre i reperti fossili più accreditati per documentare casi di cannibalismo riguardano proprio l’allargamento del foro occipitale per estrarre materiale cerebrale. Se il cranio di Neandertal della Grotta Guattari al Circeo sembra essere stato modificato dall’attività di iene e non da altri esseri umani la stessa ipotesi appare più improbabile per le basi allargate dei crani di Neandertal di Krapina in Croazia. Qui essi si associano ad ossa bruciate e frantumate, e questo fa pensare ad un’attività pianificata di estrazione di materiale midollare e cerebrale, due tessuti che sono i più ricchi nell’organismo animale in acidi grassi essenziali. Malgrado ciò, il cervello come cibo non si presta da solo a sostenere un’alimentazione costante e facilmente accessibile per una popolazione in crescita numerica e con aumentate esigenze nutrizionali per sostenere il processo di evoluzione espansiva del sistema nervoso centrale. AA è contenuto anche nel tuorlo d’uovo e nella carne di animali terrestri, soprattutto la carne degli organi interni come il fegato, ma DHA e EPA sono presenti solo in animali che ingeriscono direttamente, o indirettamente come gli uccelli marini, grandi quantità di fitoplancton. Ai fini nutrizionali del cervello in espansione, il cibo adatto è rappresentato da pesci, molluschi, crostacei e mammiferi marini, o anche di acque dolci ma solo a climi più temperati, che, nelle loro parti grasse, contengono quantità nutrizionalmente rilevanti di questi acidi grassi. La massima concentrazione si trova perciò in pesci molto ricchi di grasso, come nel pesce azzurro (sardine, sgombri), nell’aringa e nel salmone, ma anche in uova di uccelli acquatici, seppie, vongole, ostriche e pesci dei laghi africani della Rift Valley. Per fare un esempio calzante con l’habitat originario di Homo, una carpa del lago Nya136

sa contiene circa cinquanta volte più DHA che la carne di un quadrupede di savana come la zebra o il bufalo. Il neonato assume DHA dal latte materno, che ne contiene in gran quantità solo in presenza di alimentazione adeguata della puerpera. Si va infatti dallo 0,1-0,5 per cento nel latte delle donne occidentali all’1,1 per cento delle donne giapponesi fino a punte di quasi il 3 per cento in zone costiere della Cina. Nessun altro mammifero terrestre ha un latte così ricco in LC-PUFA-omega 3, e quindi l’allattamento artificiale richiede formulazioni che risolvano questo problema. Esistono numerosissimi dati epidemiologici che associano carenze nutrizionali di DHA a deficit cognitivi, visivi e psicologici di vario livello, ed è stato provato che questi disturbi si aggravano nelle generazioni successive se queste carenze persistono. Solo l’effetto selettivo di molte generazioni di Homo che si sono cibate di piccoli animali acquatici sulle rive di fiumi, laghi e mari, anche raccolti senza l’ausilio di perfezionati strumenti di pesca, possono aver sostenuto la formazione e il metabolismo della massa cerebrale fino a valori così grandi, eccedenti le dimensioni corporee raggiunte (si veda il cap. VIII, Parte seconda). Anche se i primi depositi di conchiglie e valve di molluschi sono stati trovati solo in insediamenti di Homo sapiens anatomicamente moderno (100.000 anni fa in Africa meridionale), appare più che probabile che il primo contatto con questo nuovo tipo di cibo sia avvenuto con la comparsa delle prime specie umane ad alto EQ 500.000 anni prima, e forse anche anteriormente nel caso di Homo ergaster. Studi recenti1 dimostrano che gli effetti multigenerazionali di DHA si esercitano mediante la regolazione dell’espressione di geni coinvolti nella plasticità sinaptica, nell’assemblaggio delle membrane, nella formazione di canali ionici legati alla trasmissione dello stimolo nervoso e nel metabolismo energetico. Si ha così un chiaro esempio di come si attui il passaggio dal cibo al DNA: una molecola essenziale per la struttura di un apparato funzionale diventa con la selezione anche uno dei modulatori dei geni che sovrintendono alla costruzione di quella stessa struttura. 1 K. Kitajka et al., The Role of n-3 Polyunsaturated Fatty Acids in Brain: Modulation of Rat Brain Gene Expression by Dietary n-3 Fatty Acids, in «Proceedings of the National Academy of Sciences, USA», 99, 2002, pp. 2619-24.

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Oltre ai LC-PUFA la catena alimentare litoranea contiene altri nutrienti importanti per lo sviluppo cerebrale. È a tutti nota la carenza di iodio che ha tradizionalmente colpito alcune popolazioni dell’entroterra e che prende il nome di cretinismo. È stato ipotizzato da Dobson2 che le caratteristiche delle ossa di Homo neanderthalensis possiedono tratti che fanno pensare a questa malattia. L’autore attribuisce alla carenza iodica, e di conseguenza tiroidea, la decadenza di questa specie con l’arrivo in Europa di sapiens. Anche altri ioni minerali, legati alle funzioni enzimatiche antiossidanti, come rame, zinco, selenio e manganese sono molto abbondanti nella catena alimentare litoranea ed essenziali al sistema nervoso centrale che per la sua alta attività metabolica aerobia è più esposto di altri tessuti all’attacco da parte dei ROS (reactive oxygen species, o specie reattive dell’ossigeno). Fra i micronutrienti abbondanti in questi alimenti c’è inoltre la vitamina A, essenziale alla visione, in particolare quella notturna. Granchi, vongole, gamberi, uova di uccelli e tartarughe marine, pesci di acque basse devono essere stati una preda molto facile per le specie umane della seconda metà del Pleistocene, accessibili anche a vecchi, bambini e donne incinte e quindi ideali a sostentare le migrazioni «out of Africa». È possibile che gran parte dell’evoluzione umana nel periodo che ha visto la diffusione delle specie di Homo fuori dall’Africa sia avvenuta in regioni costiere e che noi ne abbiamo perso le tracce per quanto riguarda l’alimentazione a causa dell’innalzamento recente dei livelli marini dopo la fine delle glaciazioni. L’abitudine a nutrirsi di risorse alimentari tipiche dei litorali potrebbe essere stata introdotta in Europa da Homo sapiens. A parte le vecchie osservazioni di Dobson sul cretinismo dei Neandertal ora disponiamo di ricerche recenti effettuate con misure isotopiche in resti delle due ultime specie umane che hanno convissuto in Europa3. Questi resti risalgono al Paleolitico medio-superiore e sono stati analizzati per quanto riguarda la composizio2 J.E. Dobson, The Iodine Factor in Health and Evolution, in «Geographical Review», 88, 1988, pp. 1-23. 3 M.P. Richards et al., Stable Isotope Evidence for Increasing Dietary Breadth in the European Mid-Upper Paleolithic, in «Proceedings of the National Academy of Sciences, USA», 98, 2001, pp. 6528-32.

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ne del collageno delle ossa rispetto agli isotopi stabili 15N e 13C. Il primo isotopo è più abbondante nei pesci, sia marini che di acqua dolce, e negli uccelli che si cibano di organismi acquatici, e meno negli erbivori terrestri. Il secondo isotopo, invece, è più rappresentato negli organismi marini. I risultati indicano che il collageno osseo degli umani anatomicamente moderni riflette un’alimentazione nella quale le proteine derivano per il 25-50 per cento da risorse di acqua dolce, mentre nei Neandertal, anche in quelli di regioni ricche di laghi e di fiumi, la composizione del collageno fa pensare a una dieta in gran parte basata su erbivori terrestri. Questo non esclude che nelle zone costiere i Neandertal non si cibassero occasionalmente di molluschi, ostriche e qualche pesce, ma dimostra che essi si erano adattati ad una dieta simile a quella dei carnivori loro contemporanei, probabilmente perché il rigore del clima e la necessità di prestazioni fisiche estreme imponevano una dieta di proteine e grassi molto concentrati e abbondanti, quali sono presenti negli erbivori terrestri. Infatti la composizione isotopica dei loro fossili è simile a quella che si trova nei resti ossei di lupi, iene e volpi. Invece, il miglioramento delle condizioni ambientali può avere indotto i sapiens ad allargare il loro raggio d’azione all’acquisizione dei cibi dei litorali e questa scelta alimentare può essere stata decisiva nel confronto socio-culturale, più che fisico, fra le due specie.

Capitolo undicesimo

Balla coi lupi

La caccia e la pesca organizzate per l’acquisizione di cibo richiedono strumenti adatti e un comportamento sociale sofisticato. È quindi probabile che le attività di raccolta del cibo finora descritte abbiano preceduto queste innovazioni e fornito gli elementi nutrizionali necessari allo sviluppo del cervello che renderà poi possibili strategie di gruppo più complesse. Se le tracce archeologiche riguardanti la pesca non vanno indietro di 90.000 anni fa, in quanto probabilmente sommerse a causa dell’arretramento della linea costiera, prove che la caccia si sia sviluppata come attività indipendente dalla predazione di carcasse sono molto più antiche delle date probabili per l’apparizione di Homo sapiens nelle varie aree geografiche. La documentazione in questo senso è molto importante ai fini del ruolo dell’alimentazione nell’evoluzione umana, perché solo la caccia pianificata per un’attuazione da parte di gruppi numerosi di operatori capaci di collaborare assicura alla comunità quell’apporto continuo di alte concentrazioni di proteine e grassi necessario allo sviluppo integrato di attività muscolari e cognitive di livello superiore. Ci sono anzitutto delle prove anatomiche sui fossili umani del periodo paleolitico medio-superiore che sono a favore dell’esistenza da quest’epoca di strumenti vocali di comunicazione, essenziali per la caccia organizzata. Le dimensioni dei canali dei nervi ipoglossi, che portano le fibre a innervare la lingua per i movimenti fonatorii, sono abbastanza simili in Neandertal e sapiens e molto più grandi che nelle specie più arcaiche. Differenze fra le due specie esistono nell’anatomia dell’apparato fonatorio propriamente detto, cioè cavità nasale e orale, ma non sono tali da precludere ai Neandertal la disponibilità di un linguaggio articolato. 141

Informazioni interessanti sono state desunte dall’analisi accurata delle incisioni sulle ossa delle prede degli umani medio-paleolitici europei, che 500.000 anni fa erano costituite da cervi, bisonti e rinoceronti. In molti casi i segni dei denti dei carnivori si sovrappongono a quelli lasciati dagli strumenti paleolitici umani, e quindi sembra che i nostri antenati avessero cominciato ad apprendere come arrivare a spolpare la preda prima di altri carnivori. La frequenza di queste tracce indica l’inversione dei tempi d’accesso alla carne fra umani e altri predatori rispetto a fasi anteriori di carnivorismo (si veda il cap. IV, Parte seconda), e anche questo è un elemento a favore dell’adozione di tecniche di caccia organizzata nel medio Pleistocene. Ma l’esistenza di attività venatorie trova i suoi documenti più convincenti nel ritrovamento di armi appropriate. Le armi che ci interessano ai fini dell’esistenza o meno della caccia collaborativa e pianificata sul territorio sono quelle missili, che implicano l’appostamento e il lancio con ruoli diversificati da parte di più componenti di un «branco». Poiché prove dell’esistenza di arco e frecce mancano fino all’alba del Mesolitico, sono le tracce di possibili giavellotti che hanno attirato l’attenzione degli archeologi. A Schoeningen, in Germania, sono state trovate quattro lance, lunghe circa 2 metri e pesanti circa 2 chili, e costruite in modo da essere pensate più come proiettili che come picche per colpi inferti da vicino. Sono state trovate in un giacimento di 400.000 anni fa, insieme a una grande quantità di resti equini, che recano i segni dell’utilizzazione alimentare da parte umana. Tutto fa pensare all’appostamento di mandrie di cavalli sorprese durante l’abbeveramento. Giacimenti di ossa di grandi quadrupedi con tracce di manipolazione umana sono così abbondanti in questa fase della preistoria, soprattutto in Europa, da convincerci che la macellazione di grandi animali e il consumo di quantità considerevoli di carne abbia costituito la base di quella dieta paleolitica che ha strutturato la morfologia di Neandertal e sapiens arcaico, e che pensiamo abbia lasciato la sua impronta sugli adattamenti metabolici della specie umana (cap. I, Parte seconda, pp. 86-89). Inoltre, l’adozione di strategie finalizzate allo sfruttamento delle risorse alimentari del Pleistocene, soprattutto quello glaciale, ha avuto un’influenza fondamentale per l’evoluzione del comportamento 142

umano. Voglio qui menzionare un particolare forse sorprendente, che potrebbe aggiungere un altro tassello al mosaico di indizi che si focalizzano sull’ottimizzazione delle strategie alimentari come elemento importante di differenziazione fra sapiens e Neandertal. Non a caso, poche righe più sopra, avete trovato la parola «branco» ad indicare il raggruppamento coordinato di umani nell’atto della caccia organizzata. Studi di DNA mitocondriale1 hanno dimostrato che la separazione genetica di lupi e cani è avvenuta circa 140.000 anni fa. Questa data segna quindi con molta verosimiglianza l’addomesticamento dei canidi e corrisponde alla finestra temporale che segna l’inizio della migrazione «out of Africa» di Homo sapiens. Quello che impressiona è la considerazione che questo addomesticamento – di gran lunga il più antico che possiamo ipotizzare – trova basi profonde nelle attitudini comuni delle due specie nella caccia cooperativa e nella condivisione del cibo con una famiglia estesa. La suddivisione di ruoli nell’approccio alla preda, l’uso di richiami vocali, l’attenzione primaria alla salvaguardia alimentare dei cuccioli sono solo alcune delle caratteristiche che rendono uomini e lupi capaci di comunicare ai fini di un più proficuo accesso al cibo. Senza pensare all’eccezionale complementarietà delle doti sensoriali: vista nell’uomo, odorato e udito nel cane. Si può senza dubbio affermare che l’alleanza alimentare fra le due specie è stata vitale per la loro sopravvivenza, soprattutto nelle condizioni climatiche dell’era glaciale in Eurasia, così come lo è tuttora nelle regioni artiche. 1 C. Vila et al., Multiple and Ancient Origins of the Domestic Dog, in «Science», 276, 1997, pp. 1687-89.

Capitolo dodicesimo

L’autunno del Paleolitico e della sua dieta

È stato osservato che il cane ha un cervello che è più piccolo di circa un quarto rispetto a quello del lupo, a parità di peso corporeo. Si è anche osservato1 che Homo sapiens ha perso circa il 16 per cento della sua massa corporea fra 50 e 10.000 anni fa e che negli ultimi 35.000 anni anche la massa cerebrale è diminuita nella proporzione attesa sulla base del ridotto peso del corpo. Il grande aumento di EQ si situa incontrovertibilmente fra 600 e 150.000 anni fa e abbiamo analizzato quelle che a nostro parere ne sono le basi nutrizionali. C’è allora da chiedersi, senza creare rapporti causa-effetto di incerta validità, se il relativo regresso degli indici corporei e cerebrali nel Paleolitico superiore non si associ anche a cambiamenti delle abitudini alimentari. L’archeologia ci fornisce a questo proposito elementi di grande interesse, in particolare la recente pubblicazione2 dell’esplorazione di un sito medio-orientale con tracce di triturazione e cottura di semi di cereali selvatici risalenti a poco più di 20.000 anni fa. Questi cereali appartengono alla famiglia dell’orzo e del grano, che perciò sarebbero entrati nell’alimentazione umana almeno 10-15.000 anni prima della loro domesticazione in Asia sud-occidentale, e forse molto prima. Infatti, se le pietre da taglio sono le maggiori innovazioni della tecnologia paleolitica per quanto riguarda la manipolazione delle risorse alimentari, a partire da 50.000 anni fa compaiono le pietre da macina, indizio della molitura di grani e semi. Questa procedura, unita a un sempre più razionale controllo del fuoco sotto for1 C. Ruff et al., Body Mass and Encephalization in Pleistocene «Homo», in «Nature», 387, 1997, pp. 173-78. 2 D.R. Piperno et al., Processing of Wild Cereal Grains in the Upper Paleolythic Revealed by Starch Grain Analysis, in «Nature», 430, 2004, pp. 670-73.

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ma di focolari e poi di forni, comporta una rivoluzione alimentare di enorme rilevanza nutrizionale e metabolica. Con la triturazione e la cottura le particelle d’amido dei cereali si riducono di dimensione e si amalgamano con l’acqua, divenendo così rapidamente digeribili, cioè attaccabili dagli enzimi intestinali che liberano dall’amido il glucosio, il suo componente elementare e il combustibile metabolico di pronto uso per la produzione d’energia a vantaggio del lavoro muscolare. L’assunzione alimentare di amidi macinati (farine) e arrostiti rende il loro glucosio immediatamente disponibile per l’assorbimento intestinale, così che esso passa in gran quantità nel sangue e arriva rapidamente alle sedi cellulari di utilizzazione. L’indice glicemico è una misura della capacità relativa dei cibi contenenti carboidrati ad innalzare la glicemia postprandiale, posto uguale a 100 l’innalzamento prodotto da una quantità equivalente di glucosio. È stato calcolato che la cottura aumenta del 70 per cento la capacità di cereali come l’orzo e il grano di innalzare il contenuto di glucosio nel sangue e in conseguenza la quantità di energia prontamente disponibile. Come abbiamo visto nel capitolo I, Parte seconda, questa energia è utilizzata immediatamente dai muscoli se c’è richiesta di prestazioni contrattili per sforzi fisici intensi e prolungati. Se questo non avviene, l’aumento della glicemia stimola la secrezione di insulina, il cui effetto più importante è l’aumento di sintesi e accumulo di tessuto adiposo. Questo comporta un senso di sazietà che inibisce l’assunzione di grandi quantità di cibo, specialmente se ricco di grassi. Si può ragionevolmente ipotizzare che un’alimentazione con quantità sempre maggiori di cereali selvatici resi facilmente commestibili a seguito di procedimenti di molitura e di cottura abbia indirizzato l’uomo alla loro domesticazione, prima fase della rivoluzione agroalimentare del Mesolitico e del Neolitico. Si è generato così un processo che ha portato la specie umana a basare la sua sicurezza alimentare sui carboidrati dei cereali a discapito della carne di animali selvatici (fig. 8). La carne è rimasta una quota importante dell’alimentazione umana perché è intervenuto l’allevamento di alcune specie animali. Ma l’alimentazione di questi animali in regime di pastorizia ha prodotto una carne di tipo diverso, soprattutto perché molto più povera di acidi polinsaturi nella sua componente grassa di quella degli animali selvatici. Attualmente solo tre tipi di cereali apportano circa il 50 per cen146

to delle calorie totali della nostra alimentazione (23 per cento riso, 17 per cento frumento, 10 per cento mais) riducendo di molto la molteplicità nutrizionale cui aveva accesso l’uomo del Paleolitico. Va inoltre ricordato che la domesticazione degli alberi da frutto e dei cereali ha prodotto l’irruzione nella dieta umana delle bevande alcoliche fermentate (tracce della produzione di vino in Medio Oriente risalgono già a 7.500 anni fa) e quindi a nuovi apporti calorici a pronta utilizzazione. Questi cambiamenti alimentari hanno inoltre influito sull’organizzazione delle comunità umane, che sono divenute più sedentarie e meno impegnate nello sviluppo di sempre nuove soluzioni per l’acquisizione del cibo. In seguito a questa che è stata la prima vera globalizzazione dei regimi alimentari e degli stili di vita delle società umane, si è arrestata l’espansione cerebrale e la crescita in peso e altezza. Nel contempo è cominciato il periodo che porterà al grande aumento della popolazione e delle malattie, infettive e metaboliche, come tratto biologico caratterizzante dello stadio attuale dell’evoluzione umana.

Parte terza

In principio. Origine ed evoluzione delle culture paleolitiche di Fabio Martini

Capitolo primo

Dalla natura alla cultura

La definizione di cultura implica una piena coscienza dell’individuo riguardo alla realtà che lo circonda, vale a dire la sua capacità di relazionarsi attivamente con l’ambiente mediante un sistema organico di risposte alle induzioni esterne, secondo un codice comportamentale condiviso dalla comunità. In altre parole la nascita della cultura richiede la possibilità di intervenire sulla natura mediante comportamenti, azioni e gesti creativi, standardizzati in linguaggi e canoni trasmettibili all’interno di un sistema avanzato di comunicazione. Produzioni, socialità, sussistenza e capacità simbolica diventano, in un unico insieme, i parametri di valutazione dell’esistenza o meno di un sistema comportamentale che segni il confine tra natura e cultura. La povertà della documentazione relativa all’archeologia delle origini, tuttavia, per altro selezionata da molti fattori, tende a privilegiare il comportamento produttivo, vale a dire la capacità tecnologica di creazione di manufatti. In questo senso si fa coincidere convenzionalmente l’origine della cultura con la manipolazione della materia in quanto essa prevede un processo di astrazione. Questo modello interpretativo è il risultato di una serie di letture dei dati archeologici, biologici e paleoambientali ma anche di una serie di elaborazioni concettuali che proveremo ad enunciare con una serie di interrogativi. Cinque domande per cominciare La capacità di astrazione è un carattere peculiare dell’uomo? La risposta è certamente sì. L’uomo, unico tra gli esseri viventi, possiede gli strumenti intellettivi per prescindere dal sensibile, per prevedere il risultato come conseguenza di un’azione, per cono151

scere il processo di causa-effetto e quindi per pianificare una sequenza di gesti. Altri esseri viventi, com’è ampiamente noto, utilizzano oggetti come si trovano in natura ma senza modificarne la forma per renderli più funzionali; i rametti impiegati dallo scimpanzé o dal gorilla per estrarre termiti dal termitaio o le pagliuzze che certi uccelli usano per catturare insetti nelle cavità degli alberi non rappresentano «conoscenza attiva» ma sono atteggiamenti di «conoscenza passiva» che non implicano progettazione né possibilità di processi organizzati di riproduzione e di consequenzialità. Nello scenario dell’archeologia delle origini la nascita della tecnica rappresenta un fenomeno di differenziazione che va visto come adattamento a determinate condizioni ambientali e climatiche, una sorta di specializzazione – o meglio di iperspecializzazione – che si basa sulle capacità di utilizzare al massimo le proprie possibilità di relazionarsi alle risorse naturali. Cultura, quindi, come conoscenza attiva che si elabora e cresce attraverso pulsioni e astrazioni e che si alimenta nella socialità e nella comunicazione. Quali sono i caratteri biologici o comportamentali che permettono di definire il genere «Homo»? Il genere Homo, che compare forse come discendente del genere Australopithecus oppure come linea evolutiva parallela, appare come un individuo fornito sia di strumenti biologici che culturali per interagire con il mondo: la stazione eretta, la capacità cranica elevata, la capacità di elaborare concetti astratti e una comunicazione verbale, la sapienza tecnica. I tempi di acquisizione di questi caratteri sono differenziati. Probabilmente il bipedismo ha permesso l’utilizzo degli arti superiori dapprima per utilizzare oggetti e poi per trasformare questi in manufatti, tuttavia la stazione eretta è precedente allo sviluppo della capacità cranica e anche alla manipolazione della materia; il linguaggio, poi, sembra acquisito in uno stadio relativamente tardo, certamente posteriore alle tappe appena dette, per non parlare della comunicazione non verbale attraverso immagini (detta impropriamente «arte preistorica») o attraverso segni codificati (la scrittura). Il potere del gesto, quindi, la potenza della mano che manipola la roccia creando un margine funzionale possono essere posti all’origine del percorso vincente che l’uomo ha intrapreso oltre 2 milioni di anni fa. Ecco quindi che «Scientia est potentia!», il grido con cui Bacone proclamava la nascita della scienza 152

moderna, può indicare ancora oggi, nella nostra ricostruzione storica delle origini della cultura, la consapevolezza del potere applicativo della tèkne e delle capacità che essa possiede di trasformare il reale. Certamente la capacità di intervenire sulla materia rappresenta la condizione principale per definire l’origine della cultura, tuttavia è necessario non sopravalutare eccessivamente il significato e il valore della tecnica in quanto essa verrebbe a conferire quasi un senso escatologico all’emancipazione dalla natura. Allo stesso modo in cui oggi riponiamo nelle scienze quelle aspettative di salvaguardia della vita e della specie che un tempo, mutatis mutandis, in una concezione salvifica, erano riposte nella religione. La conoscenza tecnica e la socialità, e con essa il linguaggio, non possono essere acquisizioni troppo distanti cronologicamente in quanto se la tecnica è un atteggiamento fondamentale per il controllo dell’ambiente, la trasmissione delle conoscenze tecniche prevede un sistema di comunicazione esplicativo e non solo imitativo. Non conosciamo le cause della comparsa del linguaggio, cemento della coesione del gruppo, né quanto abbia influito su di essa il caso. Il dato inequivocabile è che si è trattato di un processo di acquisizione irreversibile che è stato inglobato nel patrimonio comportamentale. Relazionarsi con l’ambiente costringe l’uomo a porsi delle domande e a trovare delle soluzioni; questo atteggiamento è una struttura genericamente culturale o un dato biologico, organicistico? Per alcuni è riduttivo pensare che alla base dell’evoluzione ci sia solo il determinismo ambientale, tanto più che i progressi della biologia e delle neuroscienze stanno mettendo in luce quello che potrebbe essere il motore dell’evoluzione, la corteccia cerebrale. Questa tendenza interpretativa porta alla rivalutazione di dottrine – si pensi alla filosofia kantiana – che propongono il sistema conoscitivo dell’uomo come una entità precostituita, vale a dire, semplificando, come un sistema di classificazione del reale; ciò significa che noi non conosciamo la realtà ma quello che di essa riusciamo a cogliere. In ogni caso, la nascita della cultura è legata ai meccanismi di spiegazione degli eventi, in altre parole allo stadio in cui un essere vivente si è posto il problema, in forma di domanda, dei seguenti concetti: io, adesso, qui, perché. Tale stadio, che coincide con la nascita del pensiero astratto, è il risultato di 153

un lungo processo di strutturazione del cervello che è passato da comportamenti naturali (cercare cibo, difendersi, ripararsi, aggregarsi...) ad atteggiamenti interpretativi (perché? a che scopo?). Non credo sia possibile dare una risposta alla domanda appena posta. Quello che conta è il risultato, cioè che le risposte che l’uomo della preistoria ha trovato gli hanno permesso di sopravvivere mediante un continuo adattamento, vale a dire maturando la capacità di elaborare strategie tecniche e sociali mutabili, confacenti e funzionali al reale in cambiamento, creandosi un bagaglio ideologico non totalizzante né totalitario capace di valutare criticamente le possibilità di mutamento, cioè munendosi di un forte potenziale di flessibilità intellettiva e progettuale. Quali dinamiche sono alla base dell’evoluzione culturale? La teoria dell’evoluzione biologica è retta su un sistema molto complesso teso ad enunciare una interpretazione unitaria di un numero altissimo di fenomeni biologici, minore invece è la complessità dell’evoluzione culturale che è basata su poche dinamiche: tecnica, socialità, sussistenza, capacità simbolica. È difficile dire quale processo assicura la continuità delle conoscenze e dei comportamenti. Superata la teoria lamarckiana della trasmissione alla prole e a tutti i discendenti di un’eredità di esperienze, in quanto essa non dà ragione della variabilità delle esperienze stesse, il quesito che emerge è il seguente: l’uomo delle origini ha proceduto per cause oppure per paragoni e parallelismi? Se il procedimento è basato su: osservazione, registrazione delle costanti, assimilazione, imitazione, allora il processo evolutivo dovrebbe basarsi sul paragone continuo e sul raffronto continuo e non su costrutti causali. Le possibilità interpretative sono rese ulteriormente complesse da altri modelli che filosofi e scienziati considerano ancora accettabili, il concetto di varianti spontanee di darwiniana memoria, la selezione naturale (imprevedibilità e impotenza della tecnica), la selezione artificiale (conoscenza ed efficacia della tecnica). L’evoluzione culturale non è solo un progresso tecnico, essa si compone di una serie indefinibile di episodi di microevoluzioni nei quali vengono adottate e divengono preminenti nuove acquisizioni, cioè «varianti» portatrici di effetti maggiormente produttivi. Ciò presuppone un investimento collettivo attraverso un consenso che diventa la regola della comunità e condizione es154

senziale per la trasmettibilità nel tempo dei modelli acquisiti. Ciò che caratterizza la storia culturale dell’uomo è la capacità di assorbire e riutilizzare le conquiste tecniche e le capacità simboliche e sociali delle generazioni precedenti, è in altre parole l’eredità patrimoniale che le diverse specie si sono trasmesse. La storia della nostra cultura si identifica con la creazione del consorzio degli uomini, il cui spessore e la cui coesione è tanto più forte in quanto si tratta di comunità prive della scrittura, lo strumento di comunicazione che solo da alcuni millenni elimina la categoria del «qui ed ora» permettendo di superare distanze e tempi. Ogni innovazione è dovuta agli effetti della discontinuità e dell’adattamento attraverso una forma dialettica che comprende dapprima uno squilibrio, al quale seguono una sperimentazione comportamentale e infine una diversa organizzazione. Intelletto e socialità sono alla base delle trasformazioni e la trasmissione dei saperi globali è l’anello di congiunzione degli stadi culturali che noi schematizziamo in tappe. L’evoluzione culturale non ha tempi definiti e le fasi di accelerazione o di stasi sono condizionate da fattori non necessariamente biologici. La cultura come accumulazione di conoscenza e di relazioni interpersonali sembra, dal punto di vista archeologico, lenta e stagnante negli stadi più antichi, poi progressivamente più dinamica e cronologicamente compattata. Non sono infatti assolutamente comparabili i tempi dei mutamenti tecnologici presso le comunità prive di scrittura con quelli degli ultimi 2.000 anni né tanto meno con la costante fortissima accelerazione della scienza moderna e dei suoi dirompenti esiti più recenti. La durata di un modello culturale è proporzionale al livello di adattabilità delle proprietà operative alla realtà e alla validità, confermata da tutta la collettività. Non è tanto la complessità del sistema, cioè le dimensioni di un sistema operativo, che assicura la sua radicalizzazione nella storia quanto piuttosto la capacità di elaborare coerentemente il modello culturale stesso in un sistema di correlazioni interne (comunità) ed esterne (ambiente). Certamente la storia insegna che quanto più la capacità di fare è sviluppata tanto più rapidamente avvengono gli squilibri e, di conseguenza, le sperimentazioni e i mutamenti. Quali parametri denotano un maggiore livello di evoluzione? Dedicarsi alle cure parentali, alla protezione dei piccoli è tipico del 155

genere Homo. Ciò porta non solo alla sopravvivenza del gruppo umano ma anche all’apprendimento dei codici operativi e di comunicazione che regolano la stabilità e la coesione della comunità e quindi la sua efficacia nell’ambiente. La capacità di conservazione delle capacità acquisite, che garantisce appunto la sopravvivenza, è regolata da vincoli che tendono a limitare la capacità o il rischio distruttivo del caso. I vincoli sono la ripetitività dell’esperienza e la continuità della conoscenza attraverso le generazioni nonostante la possibilità di intrusione di elementi rivoluzionariamente innovativi. Il genere Homo rappresenta uno stadio di equilibrio alle esigenze di avere un cervello che si sviluppa anche dopo la nascita, incamerando informazioni attraverso le sollecitazioni ambientali e culturali che lo porteranno, ad un certo punto della propria vita, ad avere una struttura culturale specifica e ben caratterizzata, anche se il prezzo da pagare è una grande precarietà e fragilità specialmente se confrontata con la gran parte degli esseri viventi. Da qui le cure parentali e da esse l’organizzazione sociale. L’ulteriore passo è la condivisone di uno schema di interpretazione della mentalità collettiva, vale a dire della conoscenza dei meccanismi intellettivi e reattivi dei componenti il gruppo sociale. Le conoscenze tecniche hanno avuto, nel corso delle tappe che oggi identifichiamo nel Pleistocene, diversi gradi di trasformazioni indirizzate verso una progressiva predeterminazione dei manufatti, in altre parole la progettualità destinata alla ottimizzazione dei prodotti si fa ad un certo momento più evidente sino a divenire presso i neandertaliani «sistema» con tecniche standardizzate e specializzate come, ad esempio, la tecnica Levallois. Anche la variabilità delle materie prime utilizzate può essere un parametro di valutazione del livello evolutivo, pur con la riserva che la deperibilità dei materiali organici li rende via via più eccezionali in rapporto alla loro antichità. Tuttavia è col sapiens che lo spettro delle materie prime si arricchisce in modo sistematico delle materie dure animali, della manipolazione dell’argilla sino alla prima terracotta già in epoca paleolitica. Il livello più o meno significativo degli stadi culturali è legato anche a quanto via via la risposta fornita dall’uomo alle domande poste dall’ambiente si allontani dallo stimolo naturale e dal bisogno di base. Alle necessità primarie di cibo e di ricovero si aggiungono durante il Paleolitico atteggiamenti «sovrastrutturali» quali il linguaggio verbale, 156

la capacità simbolica, la cultura visuale, l’atteggiamento rituale. La storia dell’uomo, che gli studiosi schematizzano in epoche, fasi, facies ecc., si configura come un lungo processo di accumulazione di capitale intellettivo e sociale costantemente messo a frutto e destinato ad essere un moltiplicatore di efficienza, una serie consequenziale di adduzioni critiche e condivise che uniscono in un’unica linea evolutiva il ciottolo scheggiato 2 milioni di anni fa e il megapixel di oggi. Ne è prova il fatto che l’uomo oggi ancora esiste e – animale tra gli animali, animale con un grosso cervello – specula su se stesso e sulle proprie origini. Vietato non scheggiare La fase arcaica del Paleolitico, a partire da circa 2 milioni di anni fa (in seguito abbreviato Ma), e il successivo stadio detto «inferiore» (che abbraccia il segmento storico sino a circa 150.000 anni fa) vede in Africa l’espansione dell’ergaster; essi rappresentano il più lungo stadio culturale nella storia dell’uomo. Questa lunga durata può essere spiegata con una scarsa capacità intellettiva, cioè con una limitata possibilità di astrazione progettuale, una pressoché inesistente capacità simbolica. D’altra parte rispetto allo stadio sapiens, che rappresenta lo stadio della massima espansione collettiva, la capacità cranica degli australopiteci è pari a circa un terzo di quella dell’uomo anatomicamente moderno, quella dell’habilis a un mezzo e, infine, quella dell’ergaster solo in alcune forme raggiunge valori superiori a 1.000 cm3. Ci sono voluti 3 milioni di anni per raggiungere la capacità cranica moderna, triplicando i valori iniziali, attraverso un processo che ha visto una progressione (fortemente accelerata nel Paleolitico recente) nelle conoscenze tecniche con affinamento delle funzioni percettive, delle funzioni motorie, della capacità di ragionamento. Gli unici documenti archeologici controllabili in merito all’origine di strutture culturali, siano esse produttive, economiche o sociali, sono quelli legati alla comparsa di manufatti intenzionalmente ricavati con una strategia operativa che, per quanto semplice, presupponga un progetto. Essi si riferiscono attualmente solo a manufatti in pietra (selce, diaspro, quarzite, basalto, ossidiana...) e sono localizzati per lo più in Africa orientale. Queste industrie 157

litiche sono caratterizzate dalla scheggiatura più o meno elaborata del margine di un ciottolo al fine di ricavare un bordo con uno spigolo acuto tagliente, sia con una lavorazione su una sola faccia (chopper o ciottolo unifacciale) sia sulle due facce (chopping tool o ciottolo bifacciale). L’attribuzione del primato della prima manipolazione della materia e quindi della fabbricazione dei più antichi utensili (le cosiddette industrie litiche) è oggetto di discussione. La maggior parte degli studiosi è propensa ad attribuire all’Homo habilis la capacità di scheggiare le rocce e di ricavare su ciottoli o su schegge dei margini taglienti adatti alle necessità quotidiane, in quanto è solo in associazione con i resti fossili umani a lui attribuiti che si trovano produzioni intenzionali di manufatti; altri studiosi non escludono che detto primato vada attribuito agli australopiteci non perché accertato da evidenze archeologiche ma in quanto è possibile in linea teorica che essi avessero la medesima capacità operativa e molti aspetti comportamentali condivisi con i primi rappresentanti del genere Homo. Al primo filone industriale, che dà origine alla tecnologia programmata e attribuito all’Homo habilis, sono state date varie denominazioni più o meno generiche (Pebble Culture, Paleolitico arcaico, «a ciottoli scheggiati», Preacheuleano, Modo I) ma quella più adottata è Olduvaiano, dal sito nella Gola di Olduvai lungo la Rift Valley, in Tanzania, dove è presente una delle documentazioni più abbondanti che coprono un arco cronologico da circa 2,2 Ma sino a circa 0,1 Ma. Recentemente è stata proposta anche la dizione Preolduvaiano per indicare uno stadio formativo, anteriore a 2,0 Ma, con tecnologie ancora approssimative e con atteggiamenti comportamentali originali rispetto a quelli dei gruppi olduvaiani: uso saltuario di ciottoli e manufatti scheggiati, tecnologia sommaria, incerta differenziazione delle materie prime, dispersione occasionale dei manufatti nei siti, adozione di una dieta vegetariana in quanto le elementari e sommarie industrie litiche non sono associate a resti faunistici. Ritornando allo stadio olduvaiano, per il quale è accertata una complessità comportamentale e una differenziazione tecnologica (materie prime, progettazione elementare ma consequenziale delle fasi operative della scheggiatura) oltre al giacimento eponimo, altri siti fondamentali per la ricostruzione dell’archeologia delle origini sono tutti nell’area 158

orientale dell’Africa e nell’estremo sud del continente. L’Olduvaiano rappresenta la codificazione di comportamenti e di tendenze tecnologiche che non lasciano spazio alla casualità del gesto, che operano su un’ampia variabilità di rocce, selezionandole. Sulla tendenza tecnologica di base relativa alla manipolazione di ciottoli (fig. 1) si inseriscono variabilità regionali che possono dipendere dal tipo di roccia locale utilizzata o dal livello tecnico più o meno complesso del gruppo umano oppure dalle esigenze funzionali legate all’ambiente e alle risorse animali e vegetali. Di questo stadio culturale iniziale abbiamo, a livello comportamentale e ambientale, scarse informazioni. I siti con fossili e manufatti sono localizzati di solito presso corsi d’acqua, sulle rive di laghi, in spazi aperti ai margini di aree forestate. Vista l’ampiezza cronologica e geografica dei giacimenti, i dati paleoambientali non sono naturalmente omogenei: è attestata la presenza di gruppi umani del più antico stadio culturale in aree di savana più o meno arborata, di steppa tropicale forestata, di prateria montana. La strategia di sussistenza è legata alla caccia di piccoli mammiferi, alla raccolta e probabilmente anche allo sfruttamento delle carogne di animali vittime dei predatori; questa attività di sciacallaggio sembrerebbe legata agli stadi iniziali dell’evoluzione culturale, destinata ad esaurirsi in rapporto alla crescente maturità sociale che porta, nel tempo, dalla caccia ad animali di piccola taglia legati anche alla caccia individuale all’uccisione di grandi mammiferi quando la coesione di gruppo può permettere una caccia collettiva. In uno dei livelli olduvaiani del Bed 1 di Olduvai sembra attestato il consumo di pesci. Il nomadismo dei gruppi umani, legato agli spostamenti delle popolazioni faunistiche, fa ipotizzare che i siti individuati fossero occupazioni temporanee legate strettamente ai movimenti degli animali (elefanti, bovidi, equidi, suidi) che venivano cacciati, uccisi e consumati sul posto. La localizzazione sulle rive di specchi d’acqua o di laghi (Omo 123) può essere legata alla permanenza sul posto di ippopotami. Tracce di organizzazione dello spazio abitato sono raramente presenti, ad esempio nel sito KBS di Koobi Fora, a Olduvai, a MelkaKunturé, a Kalambo-Falls, a Omo 123, e si riferiscono a strutturazioni del piano d’uso con una sorta di pavimentazione di pietrame disposto intenzionalmente (a Olduvai sulla superficie DK è segnalata una struttura circolare di oltre 4 m di diametro), forse 159

con funzione drenante (fig. 2). Sinora non sono state osservate sui piani d’uso aree con funzioni diversificate in quanto manufatti e resti di prede di caccia, come già detto macellate e consumate in loco, sono associati senza distribuzioni particolari che facciano pensare a funzioni specializzate del sito. Lo stadio culturale della produzione di manufatti rappresenta la risposta dell’uomo all’ambiente esterno e alle stimolazioni destinate ad elaborare forme e strategie di adattamento che garantissero la sopravvivenza. Usare il termine «società», come talora si trova in letteratura, può essere eccessivo a meno che non lo si usi con una valenza molto generica, anche perché le evidenze documentali indicano la probabile esistenza di piccoli gruppi, di comunità ristrette che si dovevano muovere al pari dei branchi di altri primati evoluti. Non dimentichiamo che le ricerche di D. Johanson nel sito etiope di Hadar, località 333, hanno messo in luce nel 1975 più di 200 resti fossili di Australopithecus afarensis attribuiti a tredici individui che potevano costituire insieme a Lucy la cosiddetta «prima famiglia». Certamente anche l’evolversi della coesione del gruppo e degli strumenti di comunicazione ha portato al passaggio natura-cultura che segna l’inizio della civiltà umana, tuttavia è la nascita della tecnologia litica – il gesto pensante – che fornisce ai primi rappresentanti del genere Homo lo strumento per elaborare una strategia vincente nella competizione con altri esseri viventi con cui divideva gli ampi spazi dell’Africa orientale e australe. Scheggiare per aumentare la potenza della mano, per fornire al gesto un potenziale opportunistico o di azione o di offesa che superava la gracilità dell’individuo rispetto ad altri esseri viventi. Sarebbe errato, tuttavia, assegnare alla sola valenza competitiva la spiegazione dell’origine della tecnologia e del successo che essa ha determinato per i primi umani. La compresenza in più siti tra australopiteci e habilis indica una coesistenza che niente ci autorizza a ritenere segnata dall’aggressività; una eventuale competitività non dovrebbe essere collegata alle risorse alimentari in quanto gli ampi spazi delle savane nel periodo compreso tra la fine del Pliocene e il primo Pleistocene potevano soddisfare ogni esigenza alimentare, onnivora o erbivora, senza contare le risorse animali per una dieta carnea. L’importanza della capacità tipicamente umana di essere faber e di fare di questa capacità un «sistema» di comportamento è 160

convalidata anche dallo studio delle attività, sia individuali sia di gruppo, di primati evoluti quali gli scimpanzé che condividono con l’uomo, come dimostrano studi etologici, alcuni di questi comportamenti: adattabilità ad ambienti aperti o alberati, preparazione di luoghi di sosta e di ripari, differenziazione dei gusti alimentari (midollo osseo, termiti, frutti), mobilità per procurarsi il cibo, ridotta stanzialità in luoghi con risorse idriche o ricche di frutti e di insetti (termiti), tecniche di approvvigionamento di risorse carnee (appostamenti, assalti), depezzamento della preda, trasporto della preda o di parti di essa, episodi di cannibalismo, attività di sciacallaggio, simbologia gestuale e comunicazione vocale per domandare il cibo, selezione di rocce e loro trasporto per schiacciare gusci duri. L’intervento diretto sulla materia, la scheggiatura di un ciottolo e la manipolazione di un nucleo sono gesti che ad un certo momento del cammino (che scimmie antropomorfe e primi ominidi hanno condiviso con atteggiamenti etologici simili) ha segnato per il genere Homo la nascita (per pressione selettiva? per casualità?) di un involontario primato: superare le potenzialità di fare cultura e realizzarla. Verso il controllo della realtà: lo stadio culturale acheuleano Sulla base dell’esigenza di schematizzare le grandi tappe evolutive della storia delle origini, all’Olduvaiano si fa seguire un altro stadio culturale, detto Acheuleano; insieme essi compongono quel lungo segmento culturale chiamato in Africa anche Early Stone Age. L’Acheuleano è caratterizzato a livello tecnologico dalla ulteriore acquisizione del controllo delle sequenze di scheggiatura, dalla capacità di valutare le potenzialità delle diverse materie prime in rapporto ai vantaggi e agli svantaggi connessi con la loro manipolazione (rischi di fratturazione, incidenti di taglio...). Il fossile guida di questa fase matura del Paleolitico inferiore è lo strumento bifacciale, o amigdala (fig. 3), caratterizzato da un’estremità più o meno appuntita o leggermente arrotondata, che stigmatizza l’acquisizione a livello di percezione della simmetria bilaterale. Una variante di questo modello tecnologico è il bifacciale con estremità a margine tagliente rettilineo (hachereau). L’inizio di questo nuovo stadio si fa risalire intorno a 1,7-1,5 Ma, tuttavia come sempre quan161

do si ricostruiscono percorsi evolutivi, la cesura è in un certo senso forzata e, al momento attuale, non sembrano definibili salti qualitativi di rilievo e, quindi, rotture con la tradizione. L’affermarsi del modello culturale acheuleano avviene attraverso una fase di transizione e di adattamento, sia biologico sia culturale, che vede la compresenza in Africa di tipi umani diversi dei quali solo l’erectus-ergaster sopravviverà caratterizzando, unico protagonista, il lungo segmento storico del Paleolitico inferiore che convenzionalmente facciamo terminare intorno a 120.000 anni fa. A livello comportamentale è stata rilevata, compatibilmente con certe variabilità legate forse ad esigenze funzionali e comportamentali, la nascita di una tendenza alimentare onnivora con progressiva preferenza per una dieta carnivora, l’uso via via più diversificato dello spazio abitato con aree specializzate (macellazione, scheggiatura...) (fig. 4), una maggiore aggregazione sociale come testimonia, tra l’altro, l’abbattimento di macromammiferi (ippopotami, elefanti...) il cui consumo non deve essere sempre e necessariamente legato allo sfruttamento di animali già morti. L’Acheuleano viene attribuito all’Homo ergaster, tuttavia nella schematizzazione culturale, a volte eccessiva e fuorviante, i ruoli assegnati alla specie habilis e all’ergaster in relazione allo stadio olduvaiano andrebbero visti in un’ottica più fluida, senza escludere che allo stadio olduvaiano stesso abbia partecipato anche l’ergaster medesimo (Melka-Kunturé). La lunga sequenza acheuleana africana (da 1,7 a 0,2 Ma circa) viene suddivisa, in estrema sintesi, in tre o quattro grandi fasi, tuttavia il panorama delle tendenze tecno-tipologiche non appare omogeneo e si colgono differenziazioni su macroregioni (Tanzania, Corno d’Africa, Africa mediterranea) che vanno valutate nell’ottica di diverse tensioni evolutive e di diverse specializzazioni. Degna di rilievo è l’abbondantissima serie di località con resti faunistici e manufatti che E. Abbate e collaboratori hanno segnalato, nell’ultimo decennio, in Dancalia (Eritrea) nel distretto di Buya; qui in un’area campione di diversi chilometri quadrati sono stati mappati oltre 250 siti, più o meno ricchi di faune e industrie, tutti risalenti ad un periodo attorno a 1,0 Ma, comprendenti bifacciali, hachereaux e strumenti su scheggia (fig. 5). Lo stadio acheuleano si caratterizza per una evoluzione sostanziale, o almeno più documentata rispetto ad altri comporta162

menti paletnologici, delle strategie di sfruttamento delle materie prime litiche, delle tecniche di scheggiatura tendenti ad una migliore predeterminazione dei supporti e, infine, della manifattura delle schegge per ottenere strumenti ben definiti. Gli abitati sono localizzati soprattutto in prossimità di bacini lacustri, di corsi d’acqua oppure in zone rivierasche. Sembra risalire a questa fase una maggiore interazione controllata col territorio, documentata dalle strategie di approvvigionamento delle rocce da utilizzare per lo strumentario specializzato (bifacciali, hachereaux). L’integrazione matura dell’ergaster con l’ambiente, vale a dire un completo adattamento, appare anche dalle strategie via via più specializzate di approvvigionamento delle risorse carnee attraverso modalità di caccia selettiva (antilopi, bovini, ippopotami, rinoceronti, coccodrilli, cavalli...) e attraverso un trattamento anch’esso selettivo delle carcasse in fase di macellazione. Il controllo del fuoco risale allo stadio finale dello stadio culturale (0,5-0,4 Ma) ed è attestato da strutture di combustione poco elaborate all’interno di aree abitate. «Out of Africa»: primi passi in Europa e le fasi antiche del Paleolitico nel Vecchio Mondo Africa culla dell’umanità. Ma gli spostamenti dei gruppi nomadi dei primi cacciatori raccoglitori non hanno interessato, sin dagli stadi antichi del Paleolitico, solo quel continente. Il popolamento dell’Eurasia è attribuito all’Homo heidelbergensis (Europa) e all’erectus (Asia) a partire da circa 1 milione di anni or sono, a seguito di migrazioni dal continente africano. Su quella data, 1,0 Ma, gli archeologi preistorici sono concordi per quanto concerne l’inizio di un popolamento stabile dei due continenti; la colonizzazione dell’Eurasia, tuttavia, sembra essere stata preceduta da pulsioni migratorie che, dall’Africa attraverso il Medio Oriente, hanno permesso ad alcuni gruppi umani di raggiungere regioni molto interne dei due continenti ma che non hanno dato origine a popolamenti stabili. La documentazione archeologica in questo senso è molto chiara, esaminiamola in ordine di antichità: ad un’età maggiore o attorno a 2,0 Ma sono attribuiti alcuni manufatti nel sito di Yron in Israele e quelli pakistani di Riwat. Al periodo 2,0163

1,5 Ma sono attribuite altre evidenze litiche localizzate nel centroovest europeo in Georgia (Dmanisi, 1,7 Ma) (fig. 6), in Romania (Tatoiu), in Francia (Chilac, 1,5 Ma), in Spagna (Orce) e nell’Est asiatico. Leggermente più numerose sono le evidenze euroasiatiche datate tra 1,5 Ma e 1,0 Ma; quest’ultima data è, approssimativamente, il limite cronologico che sembra segnare la demarcazione tra la fase delle incursioni pionieristiche, anche su lunghe distanze ma senza filiazione, e il popolamento stabile dell’Eurasia; intorno e dopo tale data (in Israele: Ubeidya 1,4-1,0 Ma; Cina: Lantian 1,2-0,9 Ma; Bose 1,0-0,8 Ma), ha inizio una diffusione capillare dei gruppi erectus-heidelbergensis sia verso le zone atlantiche sia verso l’Asia estrema, raggiungendo anche le isole dell’arcipelago indonesiano. Partiamo quindi da circa 1,0 Ma e, abbandonando la successione delle culture africane che avranno una loro storia parallela ma diversa da quella dei gruppi euroasiatici, ci limiteremo a mettere in risalto le dinamiche culturali che hanno segnato il cammino della preistoria europea. L’arrivo dei pionieri africani nelle nuove terre, passando attraverso il Medio Oriente, forse attraverso lo stretto di Gibilterra (un tempo anche il canale di Sicilia era visto come una via di transito), non deve essere stato facile. Nel Pleistocene inferiore (da 1,8 a 0,8 Ma) durante le prime incursioni degli ergaster africani ma anche in corrispondenza del primo popolamento stabile, l’Europa è stata interessata da glaciazioni (secondo lo schema classico Donau, nella prima parte del Pleistocene inferiore, e Günz al passaggio Pleistocene inferiore-medio); si tratta di eventi che hanno influito sull’ambiente e il fortissimo rincrudimento delle temperature ha istaurato condizioni climatiche molto diverse da quelle in cui si muovevano in Africa le comunità di ergaster. Non possiamo escludere che proprio la situazione ecologica particolarmente sfavorevole abbia vanificato, tra 2,0 e 1,0 Ma, i tentativi di espansione al di fuori del continente africano. Certamente i gruppi che poi riuscirono nell’impresa dimostrano una forte capacità di adattamento ad ambienti profondamente diversi da quelli di origine. Le documentazioni considerate unanimemente attendibili sono localizzate nell’Europa media e mediterranea (ad esempio: Grotta di Vallonet con datazioni attorno a 1,3 Ma in Francia, di Fuente Nueve 3 di Orce 0,95-0,90 Ma e della Gran Dolina di 164

Atapuerca 0,78 Ma in Spagna, di Monte Poggiolo presso Forlì in Italia circa 1,0 Ma, di Kärlich 0,915 Ma in Germania). I complessi litici di questa fase antica del popolamento dell’Europa non sono omogenei ed escludendo quelli che hanno restituito pochi manufatti, anche su scheggia, il tecnocomplesso standard è quello a choppers più o meno abbondanti. Anche il Pleistocene medio (0,8-0,12 Ma), al cui interno continua lo sviluppo del Paleolitico inferiore europeo, comprende alcuni stadi glaciali, denominati, seguendo i criteri tradizionali di cronologia alpina, Günz, già citato, Mindel e Riss, intervallati da periodi di miglioramento climatico relativamente brevi. La struttura culturale del Paleolitico inferiore europeo risulta, sulla base delle documentazioni in verità non abbondanti, abbastanza omogenea per tutto l’ampio arco cronologico. Caccia e raccolta costituiscono il regime di sussistenza primario, con specializzazioni e selezioni che dipendono dalle risorse locali e dai diversi ambienti. Sembra aumentare, rispetto al passato, il repertorio delle prede, soprattutto per i momenti più avanzati del Paleolitico inferiore, quando è documentato l’abbattimento di animali di taglia media (Bos primigenius, Capra ibex...) e grande (Elephas antiquus, Mammuthus meridionalis, Stephanorinus hemitoechus e di Merck...). La determinazione dell’età di morte da parte degli archeozoologi permette di osservare una tendenza generalizzata ad uccidere gli individui più giovani; non sappiamo se ciò sia stato dettato da una ricerca intenzionale di carne di migliore qualità oppure se fosse legato all’inesperienza delle giovani prede. Per quanto concerne la macellazione e lo sfruttamento delle varie parti dell’animale non è possibile verificare atteggiamenti generalizzabili: pochi sono gli studi in tal senso e solo per un numero limitato di siti esiste una casistica statisticamente attendibile. In generale, sembrerebbe che già nei luoghi di caccia certe parti venissero consumate e che lì le parti più grandi venissero depezzate per il trasporto nell’abitato. L’abbattimento sistematico di prede di grossa taglia prevede una organizzazione collettiva della caccia che è spiegabile solo pensando ad una buona organizzazione sociale e ad una conoscenza approfondita del territorio e del comportamento degli animali. Una struttura di gruppo più complessa rispetto al passato sembra provata anche da alcune documentazioni relative all’ampiezza e all’organizzazione degli abitati. La documentazione diretta delle 165

armi utilizzate è pressoché inesistente: conosciamo infatti rarissimi strumenti, ad esempio l’asta appuntita in legno di Clacton on Sea (Gran Bretagna) oppure il manufatto, in verità dubbio, di Terra Amata (Francia) ricavato da una zanna di pachiderma. Considerando inoltre che lo strumentario di questo periodo è di dimensioni medio-piccole (fanno eccezione alcuni strumenti bifacciali di dimensioni considerevoli) e quindi inadatto ad attività di caccia di grandi mammiferi, dobbiamo ipotizzare l’utilizzo sistematico di manufatti in legno e in osso oppure l’impiego di trappole. Alcuni autori hanno ipotizzato strategie particolari di cattura delle grandi prede attirate in fosse oppure in aree melmose dalle quali non potevano fuggire. Per quanto concerne gli abitati, che hanno sempre una durata stagionale e che potevano talora essere rioccupati periodicamente, si rileva una certa estensione e soprattutto alcune strutturazioni tese a risultati funzionali specifici. Il controllo del fuoco rappresenta in questo stadio culturale una tappa importante e si data a circa 400.000 anni fa (Terra Amata, Vértesszöllös in Ungheria, Torralba). Le strutture di combustione sono molto semplici, si tratta di piccole cavità scavate nel terreno dove viene alloggiato il combustibile oppure di focolari accesi direttamente sul piano d’uso talora delimitati da pietre. In merito allo psichismo non abbiamo evidenze certe. La pratica della grafica come attività simbolica non è documentata con sicurezza; i granuli di ocra rinvenuti a Isernia e a Terra Amata, importati nell’abitato, sono da relazionare, in via del tutto teorica, a pitture corporali o alla colorazione di supporti deperibili. Non sono attestate pratiche rituali nei confronti dei defunti; l’allargamento del foro occipitale di crani umani documentato in Asia orientale a Ngandong sembra rimandare alla pratica del cannibalismo che non deve necessariamente possedere una valenza rituale. Per quanto concerne le produzioni litiche, in Europa si registrano diversi filoni industriali che seguono lo stadio della cultura del ciottolo. Di ampia diffusione è l’Acheuleano, con una articolazione evolutiva interna variabile regionalmente in rapporto al modello morfologico dei bifacciali e delle tecniche di scheggiatura più o meno elaborate e predeterminate. Parallelamente si diffonde, soprattutto in Occidente e sul Mediterraneo, un filone su scheggia senza bifacciali, caratterizzato da una tecnica di scheggiatura elementare e non predeterminata, comprendente due aspetti origina166

li, il Clactoniano (dal sito inglese di Clacton-on-Sea), con manufatti grandi, e il Tayaziano (dalla località francese di Les-Eyzies-parTayac) con strumenti di dimensioni ridotte, entrambi omologati da una lavorazione sommaria che dà origine a ritocchi denticolati prevalenti. La componente su scheggia senza bifacciali risulta un filone originale rispetto alla tradizione del Paleolitico inferiore africano. Sia l’Acheuleano sia il filone su scheggia hanno una lunga durata; tradizionalmente i paletnologici hanno individuato per entrambi uno stadio antico (glaciale di Mindel e interglaciale MindelRiss, stadi isotopici 17-7) e uno recente (glaciale di Riss e interglaciale Riss-Würm, stadi isotopici 6-5). Il più antico popolamento dell’Italia rientra nelle dinamiche dei movimenti dei gruppi umani che hanno colonizzato stabilmente il Vecchio Mondo a partire da circa 1,0 Ma; la sua posizione geografica ne ha fatto una sorta di appendice dell’Europa mediterranea bene inserita nei circuiti culturali che interessano il continente nel Pleistocene inferiore e medio; in particolare sono evidenti le analogie con tendenze tecno-industriali caratteristiche dell’Europa occidentale. Il complesso della cultura del ciottolo compare in Italia in epoca remota; il sito più antico è quello di Ca’ Belvedere di Monte Poggiolo, presso Forlì, databile forse attorno al milione di anni (fig. 7); siti appena più recenti sono quelli laziali di Colle Marino e di Arce e Fontana Liri. Seguono, ma con separazioni non sempre definibili con precisione, i complessi di Bibbona (Toscana), di Casella di Maida (Calabria), di Realmonte (Sicilia). Questo filone arcaico ha nella penisola una certa durata e, nelle fasi recenti, si sovrappone ai filoni del Paleolitico inferiore che comprende l’Acheuleano e il filone su scheggia senza bifacciali, due phila paralleli e contemporanei che hanno interessato a volte i medesimi areali. Degni di nota sono i giacimenti acheuleani di Venosa (Basilicata), di Fontana Ranuccio (Lazio), datato a circa 530.000 anni or sono, che contiene anche manufatti in osso, alcune località di Marina di Camerota (Campania) e del Gargano (fig. 8), Monte Conero (Marche), Visogliano (Friuli). Il Tayaziano antico italiano è noto solo sulla base di tre sole evidenze (Visogliano presso Trieste, Isernia-La Pineta e Loreto di Venosa in Basilicata) che denotano un modello tecnologico di base, omologabile a quello del167

l’Europa occidentale (fig. 9). Il Clactoniano è segnalato in EmiliaRomagna, Abruzzo, Puglia e Sardegna (fig. 10). Nota bibliografica I temi trattati in questo capitolo comprendono una serie troppo ampia di riferimenti bibliografici specifici, soprattutto se in riferimento ai singoli siti citati nel testo. Segnaliamo quindi alcune opere a carattere più generale alle quali rimandiamo per le informazioni sui giacimenti archeologici. Di grande utilità è il recente volume coordinato da D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004; nell’introduzione metodologica e nel quadro storico, redatti dal curatore (pp. 19 sgg.), il lettore può trovare informazioni e preziosi spunti di riflessioni, i dati sui singoli siti archeologici, esposti per schede in modo molto funzionale, sono bene aggiornati; a questo testo rimandiamo anche per la completezza del repertorio bibliografico. Ancora valido è il Dizionario di Preistoria, a cura di A. Leroi-Ghouran (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. I-II), un quadro estremamente sintetico con suggerimenti di problematiche interessanti in M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999. Per il Paleolitico antico nel continente africano si veda anche M. Sahnouni, Le Paléolithique en Afrique. L’histoire la plus longue, Artcom’/Errance, Paris 2005 e, più nello specifico, in merito alle recenti scoperte paleoantropologiche e paletnologiche di Buya nella Dancalia eritrea si vedano i diversi saggi in A Step Toward Human Origins: The Buia «Homo» One-Million-Years Ago in the Eritrean Danakil Depression (East Africa), in «Rivista italiana di Paleontologia e Stratigrafia», 110, supplemento, Milano 2004. Per l’Europa non vanno dimenticati la prima parte del saggio di A. Tuffreau, Il Paleolitico inferiore e medio (da oltre un milione a 35.000 anni), in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994; il volume di A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986; il volume di A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, Roma-Bari 1998. Per l’Italia non si può non fare riferimento al volume di A. Palma di Cesnola, Il Paleolitico inferiore e medio in Italia, Museo fiorentino di Preistoria Paolo Graziosi, Firenze 2001: il lettore vi troverà tutte le problematiche in corso di studio e i riferimenti bibliografici aggiornati. Inoltre si vedano M. Piperno, Il Paleolitico inferiore, in A. Guidi, M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Laterza, Roma-Bari 1992; C. Peretto, Il primo popolamento della penisola italiana: considerazioni sul significato delle industrie li168

tiche più antiche, in «Rivista di Scienze preistoriche», XLIX, 1998, pp. 351-56. Per il problema del popolamento delle isole nel Paleolitico inferiore si vedano P.Y. Sondaar, Insularity and Its Effects on Mammal Evolution, in M.K. Hecht et al. (a cura di), Major Patterns in Vertebrate Evolution, Plenum Press, New York 1977, pp. 671-707; P.Y. Sondaar et al., L’Homme pléistocene en Sardaigne, in «L’Anthropologie», 95, 1991, 1, pp. 181-200; F. Martini (a cura di), Sardegna Paleolitica. Studi sul più antico popolamento dell’isola, Museo fiorentino di Preistoria Paolo Graziosi, Firenze 1999; F. Martini, Problemi e ipotesi sul Paleolitico inferiore in Sicilia, in «Origini», XXV, Roma 2003, pp. 7-18.

Capitolo secondo

Neandertal

A qualcuno piace freddo: culture e ambienti del Musteriano Nel corso del Pleistocene superiore, che inizia con la fase temperata dell’interglaciale Riss-Würm (o Eemiano, stadio isotopico 5e), intorno a 130.000 anni fa, l’evento climatico fondamentale è, in termini di cronologia glaciale alpina, la glaciazione würmiana; essa comprende due picchi freddi principali, il cosiddetto primo Pleniglaciale (stadio isotopico 4), circa 70-60.000 anni or sono, e il secondo Pleniglaciale (stadio isotopico 2), intorno a 24.000 anni da oggi. La prima parte di questa fase di rincrudimento climatico, almeno sino a 40.000 anni fa, interessa la diffusione dell’Homo neanderthalensis in Europa, al quale viene fatto riferimento per le culture del Musteriano, comprese nella fascia culturale detta Paleolitico medio (100-40.000 anni fa circa). I dati archeologici non sembrano indicare una netta cesura culturale tra il Paleolitico inferiore e medio e il periodo tra 120 e 100.000 anni or sono sembra essere il segmento cronologico nel quale si consumano gli estremi esiti culturali del Paleolitico inferiore e, nello stesso tempo, inizia lo stadio formativo del nuovo filone musteriano. Il Musteriano si presenta come un insieme articolato di aspetti culturali regionalmente differenziati che, al di là di alcune strategie comportamentali innovative che le comunità neandertaliane disperse su tutto il continente condividono (rito funerario, tecniche di scheggiatura, strategie economiche...), configura questo stadio non come una «cultura» ma come un insieme di aspetti culturali con caratteri talora molto originali la cui valenza regionale può aprire il dibattito sulla eventuale presenza in Europa di etnie diverse. Esaurita la fase interglaciale climaticamente favorevole durante la quale si data la diffusione della nuova specie neandertaliana 171

nel Vecchio Mondo, inizia una serie di oscillazioni climatiche, sia per quanto riguarda l’umidità che la temperatura, tendenzialmente sempre più fredde, che segnano un progressivo deterioramento climatico (stadio isotopico 4). L’ambiente a carattere forestale si trasforma in un habitat tendenzialmente steppico nelle zone europee dell’Occidente e nell’area mediterranea e in un paesaggio arido periglaciale al limite con il fronte della calotta artica che scende, nel momento di massimo deterioramento, sino all’Europa centrale. L’ampliamento della calotta polare corrisponde alla regressione marina, con il livello del mare che si abbassa notevolmente, oltre –100 m, con risalite o abbassamenti periodici a quote intermedie anche con tempi lunghi di stazionamento. I neandertaliani europei, quindi, rappresentano un episodio di adattamento ad un lungo periodo di forte rigidità climatica all’interno di paesaggi che regionalmente possono essere anche più o meno variati; il clima avverso, quindi, non ha limitato la capacità di espansione dei neandertaliani che hanno lasciato traccia della loro presenza a partire dal Vicino Oriente sino alle coste atlantiche e, in direzione opposta, sino alle regioni occidentali dell’Asia ma anche nell’Africa maghrebina e sahariana. L’attività primaria della caccia ha interessato tutte le specie animali presenti nei vari territori dai piccoli mammiferi (lepri) sino alle specie di grande taglia (mammut); ciò significa che i neandertaliani non praticavano una selezione intenzionale delle specie faunistiche. La documentazione archeologica sembra proporre un modello di caccia di gruppo, con strategie non troppo diverse da quelle del Paleolitico inferiore. Lo strumentario presente nei vari contesti pare indicare la presenza di armi da lancio e mancano evidenze di armi in osso o legno, probabilmente non conservati. Tuttavia la taglia considerevole di alcuni animali che contrasta con le dimensioni piccole dello strumentario litico sembra rendere lecita l’ipotesi di giavellotti lignei oppure di trappole. In Europa centrale è segnalata la pratica di attirare le prede in zone paludose, un’usanza già risalente al Paleolitico inferiore. L’attività di pesca non è documentata, ma probabilmente solo per una carenza dei dati archeologici in quanto già nel Paleolitico inferiore alcune rare evidenze sembrano dimostrare lo sfruttamento delle risorse ittiche in siti costieri. Valve di molluschi sono segnalate in Puglia (Grotta del Cavallo) come supporto utilizzato per fabbri172

care strumenti (fig. 11). L’adozione di una dieta anche vegetariana è dimostrata solo dall’esame delle usure dentarie e non da resti documentali. Le aree abitative all’aperto e le strutture (capanne, tende, ricoveri coperti) sulla base della documentazione esistente soprattutto in Europa centro-orientale appaiono talora ampie e articolate, tanto da far ipotizzare un’organizzazione sociale più complessa rispetto al passato e la presenza di siti specializzati nella lavorazione delle materie prime litiche potrebbe essere connessa a una divisione dei ruoli di lavoro. Per alcune zone europee è stato proposto un modello di organizzazione delle comunità che prevede la presenza di un campo base, a carattere semistanziale, e di insediamenti satelliti, anche a carattere stagionale, distribuiti in microaree circoscritte. Alcuni agglomerati comprendevano sia strutture coperte sia aree di attività specializzate, anche su ampie estensioni (Fontmaure, in Francia, oltre 800 m2). Il modello costruttivo di capanne all’aperto nel sito di Molodova si ripete in diversi siti delle pianure dell’Europa orientale, con l’escavazione di fondi di capanna e l’istallazione di resti ossei di mammut per strutture generalmente subcircolari (diametri da 3 a 8 m circa), sia per zavorrare a terra la copertura sia per sostenere in elevato la copertura stessa. La grotta è per i neandertaliani un prezioso ricovero in quanto il microclima interno è certamente più accogliente di quello al di fuori della caverna. Questi spazi riparati, contesi spesso con felini o con orsi, sono stati strutturati con aree di combustione, zone destinate alla scheggiatura o ad altre attività. Il fuoco, ormai facente parte delle risorse abituali, è acceso in strutture di combustione di solito molto semplici, direttamente sul suolo o in piccole fossette poco profonde, talora con perimetrazione di pietre. Per quanto riguarda le produzioni litiche, sembra di cogliere in alcune aree, dove la documentazione è più abbondante, una sorta di passaggio graduale da alcuni aspetti tardo-tayaziani o tardo-acheuleani a nuovi assetti industriali; il legame tra i due stadi sembra concernere non tanto l’introduzione di nuovi strumenti particolarmente innovativi, quanto piuttosto l’enfatizzazione di conoscenze già acquisite e l’adozione privilegiata di alcuni manufatti a scapito di altri, fatto che, in sostanza, porta a delle variazioni quantitative di tipologie già in uso piuttosto che a trasfor173

mazioni qualitative. In estrema sintesi potremmo definire le produzioni litiche musteriane come un insieme di complessi che su un fondo tecno-tipologico comune non complesso, composto da pochi modelli ricorrenti (raschiatoi, punte, denticolati), vedono l’inserimento di variabili più o meno specializzate e di stili di lavorazione dei bordi mediante ritocco che sembrano avere una valenza diacronica ma soprattutto geografica. All’interno di questa variabilità acquista una larga diffusione la tecnica Levallois, basata sulla lavorazione del nucleo mediante una serie ordinata di colpi in successione, tutti orientati verso il centro del nucleo stesso. Per l’Europa occidentale F. Bordes ha proposto la suddivisione del locale Musteriano in alcuni gruppi, caratterizzati da specifici parametri tecno-tipologici, a suo parere originati da un substrato culturale originale e aventi uno sviluppo autonomo. Alla specie Neandertal viene riconosciuta l’introduzione del rito funerario: si riferiscono, infatti, a diversi gruppi musteriani le inumazioni in fossa di defunti, praticate nelle medesime grotte adibite all’abitazione; si tratta di un rituale molto semplice, che prevede sostanzialmente la conservazione del cadavere e solo eccezionalmente rare offerte. Del rito funerario si tratta nel capitolo VII, Parte terza, al quale si rimanda. Rimanendo nel campo delle attività simboliche neandertaliane, un cenno merita il dibattito sull’esistenza di una produzione figurativa ad opera dei gruppi musteriani; esso si basa, al momento attuale, su una serie di evidenze distribuite in alcune regioni europee, sia ad Est (Ungheria, Bulgaria), sia in area mediterranea (Italia e Spagna), sia nell’area occidentale (Francia), alle quali si unisce, per ora, un documento da Israele. Si tratta di evidenze relative a rari frammenti lapidei e a più numerosi frammenti di osso (costola, scapola e, più spesso, frammenti indeterminabili) e di corno sui quali compaiono segni incisi eseguiti in modo più o meno sommario e organizzato. La penisola italiana ha accolto i gruppi neandertaliani in espansione attraverso l’Europa sino dai primi episodi delle loro migrazioni nel continente e quando ancora il territorio era abitato dalle ultime comunità di heidelbergensis. I neandertaliani italiani si diffondono lungo tutta la penisola, ma a differenza dei loro predecessori, non raggiungono gli ambienti insulari; si spingono invece in zone montane appenniniche, alpine e prealpine, adattandosi alle variate condizioni climatiche peraltro sempre condizio174

nate dal clima rigido del nuovo evento glaciale. L’economia di caccia, prevalente, è rivolta per lo più agli animali di media taglia che popolavano i diversi habitat senza una specializzazione o una selezione delle varie specie; nella prima parte del Musteriano erano ancora presenti nella penisola pachidermi (elefante, rinoceronte, ippopotamo) legati alle condizioni più favorevoli dell’interglaciale precedente e destinati ad estinguersi con il progressivo irrigidimento climatico. Il modo di vita dei neandertaliani italiani sembrerebbe legato ad un rapporto circoscritto nel territorio e quindi ad una scarsa mobilità, sia per quanto riguarda le distanze dei luoghi di caccia dai campi base sia per quanto concerne le distanze ricoperte per approvvigionarsi di materia prima litica. Le produzioni litiche dei neandertaliani italiani non sono omogenee né in senso diacronico né a livello geografico, a riprova che il Musteriano è, anche nella nostra penisola, un insieme articolato di aspetti e di tendenze tecnologiche. In Italia centro-settentrionale alcune sequenze stratigrafiche importanti (Grotta del Principe e Grotta della Madonna dell’Arma, in Liguria) ci indicano la presenza sin dalle prime fasi del locale Musteriano di un aspetto che richiama gruppi francesi, con ampio impiego della tecnica Levallois; essa pare caratterizzare, con incidenze più o meno forti, le industrie musteriane del centro-nord, sia quelle più antiche associate a faune con pachidermi sia quelle più recenti (in Toscana). Nel centro-sud l’esordio del Musteriano è legato a complessi di tipo charenziano laquinoide, anche qui con faune a pachidermi (Grotta del Cavallo e Grotta Romanelli in Puglia, ad esempio, ma anche nel Lazio alcuni siti dell’area pontina) (fig. 11). Queste due macroaree mantengono caratteri distintivi sino alla seconda parte del ciclo Musteriano, quando si registra una diffusione della tecnica Levallois da nord, dove era caratterizzante, verso sud e la sua adozione pressoché ovunque. Siti di riferimento sono, ad esempio, i Ripari Fumane, Tagliente e Mezzena nel Veneto, Grotta di Gosto in Toscana (fig. 12), il Riparo del Poggio e la Grotta di Castelcivita in Campania, la Grotta di Torre Nave in Calabria, ancora Grotta del Cavallo, Grotta Romanelli, Piani di San Vito e Grotta Spagnoli in Puglia e, infine, alla conclusione del Musteriano, alcune grotte delle Apuane toscane (Buca della Jena, Grotta all’Onda) datate attorno a 40.000 anni or sono. 175

Nota bibliografica Anche per questo capitolo si può fare riferimento ad opere di carattere generale già citate per il capitolo precedente, innanzitutto D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004, sia per l’inquadramento storico e i problemi connessi alla civiltà neandertaliana sia per le schede relative ai singoli siti citati nel testo. Si rimanda anche al Dizionario di Preistoria, a cura di A. Leroi-Ghouran (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. I-II), al lavoro di M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999. Si vedano anche i saggi di G. Bosinski e di altri autori nel volume curato da E.B. Krause, Les Hommes de Néandertal. Le feu sous la glace 250.000 ans d’histoire européenne, Errance, Paris 2004, la seconda parte del saggio di A. Tuffreau, Il Paleolitico inferiore e medio (da oltre un milione a 35.000 anni), in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994, i volumi di A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986, e di A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, Roma-Bari 1998; per il Musteriano italiano, A. Palma di Cesnola, Il Paleolitico inferiore e medio in Italia, Museo fiorentino di Preistoria Paolo Graziosi, Firenze 2001. Inoltre si veda C. Peretto, Il Paleolitico medio, in A. Guidi, M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Laterza, Roma-Bari 1992. Per l’introduzione del rito funerario nello psichismo neandertaliano si rimanda, oltre ai testi già citati, anche a A. Defleur, Les sépoltures moustériennes, CNRS, Paris 1991; F. Facchini et al., La religiosità nella preistoria, Jaca Book, Milano 1991. Una sintesi sul problema delle prime manifestazioni grafiche, con relativa bibliografia di dettaglio, in F. Martini et al., Incisioni musteriane su pietra da Grotta del Cavallo (Lecce): contributo al dibattito sulle esperienze grafiche neandertaliane, in «Rivista di Scienze preistoriche», LIV, Firenze 2004.

Capitolo terzo

40.000-30.000 anni fa: la prima Europa

Gli ultimi neandertaliani Intorno a 40.000 anni fa l’Homo sapiens colonizza l’intero continente europeo. Fu un evento rivoluzionario che diede avvio ad un processo di profonde trasformazioni, sia sul piano delle attività più strettamente utilitaristiche sia per quanto riguarda lo psichismo. L’Homo sapiens è l’uomo anatomicamente moderno, la specie che, dopo aver sostituito i neandertaliani, ancora oggi dopo circa 40.000 anni di trasformazioni morfologiche molto labili, popola e governa il nostro pianeta. Le più recenti evidenze archeologiche rendono attendibile un modello basato sulla sostituzione etnica. Le origini dell’uomo anatomicamente moderno sarebbero collegate alla comparsa nel continente africano di un progenitore, in un periodo compreso tra 290.000 e 140.000 anni or sono, che si sarebbe diffuso successivamente in Medio Oriente (100.000 anni fa). Da qui, a partire da circa 40.000 anni or sono, avrebbe avuto inizio una migrazione di questa nuova specie sapiens da est verso ovest, popolando e radicandosi in territori sino ad allora controllati dalle genti neandertaliane. Non sappiamo se tale movimento sia avvenuto prepotentemente e con immediato successo oppure se attraverso ripetute e ravvicinate pulsazioni; in ogni caso il risultato, suffragato dalla documentazione archeologica, è stata la diffusione repentina di nuovi gruppi umani, in possesso di strategie di sussistenza innovative, i quali in poche migliaia di anni si sono diffusi in tutta l’Europa centro-occidentale, scendendo anche nelle estreme propaggini dell’Europa mediterranea e raggiungendo in tempi molto brevi le coste dell’Atlantico e la penisola iberica. Come al passaggio tra Paleolitico inferiore e medio una certa 177

gradualità di trasformazione culturale rende assai labile ed evanescente la cesura tra queste due ampie fasi culturali, allo stesso modo l’inizio del Paleolitico superiore, per quanto la comparsa e la diffusione dell’uomo anatomicamente moderno siano avvenute bruscamente e in tempi rapidi, non vede un’immediata scomparsa delle culture preesistenti. Le popolazioni neandertaliane hanno avuto un periodo di coabitazione con le nuove genti sapiens, giungendo talora anche a limitati e ristretti fenomeni di ibridazione culturale. Nel periodo del Paleolitico superiore arcaico rientrano diversi complessi ancora legati alla struttura industriale del Paleolitico medio e, in molti casi, legati da indubitabili prove archeologiche ai gruppi umani neandertaliani. Essi, detti «complessi di transizione», si possono riunire in due grandi gruppi, quello dei complessi a foliati (dalla Gran Bretagna all’Europa orientale) (fig. 13) e quello dei complessi con strumenti a dorso e geometrici (ad esempio, Castelperroniano in Francia, Uluzziano in Italia) (fig. 14). Attorno a 30.000 anni fa, dopo circa 10.000 anni dall’arrivo dei sapiens in Europa, i neandertaliani subiscono la completa estinzione: troppo emancipate e vincenti le cognizioni dei nuovi gruppi umani, più ampio e articolato il sistema di comunicazione all’interno dei gruppi e tra comunità e, quindi, la capacità di aggregazione sociale, decisamente più produttive le loro strategie di lavorazione delle materie prime. L’Aurignaziano e la formazione della prima cultura cosmopolita L’Aurignaziano (dal sito francese di Aurignac), la prima cultura dell’uomo anatomicamente moderno, fa la sua comparsa in Europa attorno a 40.000 anni or sono nelle regioni più orientali. La sua specificità culturale è chiara, così come chiare sono la mancanza di tradizioni locali a cui fare riferimento, la repentinità della sua apparizione e la celerità di diffusione da est verso ovest. La maggioranza delle evidenze archeologiche, quindi, porta alla proposizione di un modello di diffusione dell’Aurignaziano il cui ceppo di origine dovrebbe localizzarsi in aree asiatiche o dell’estremo sud-est europeo. Fenomeno intrusivo esterno, quindi, che alcune datazioni radiometriche collocano in area balcanica 178

già attorno a 40.000 anni fa e che, con una rapida espansione, colonizza l’Europa atlantica nel giro di poco più di 2 millenni. Di fronte al variegato mosaico delle ultime espressioni neandertaliane, l’Aurignaziano ha costituito un fenomeno dirompente, portatore di strategie innovative vincenti su quelle tradizionali capaci di apportare profonde modificazioni culturali. Gli ambiti in cui si sono manifestati i nuovi apporti culturali sono diversi. Riguardo alle strategie insediative a partire dall’Aurignaziano si afferma l’impianto di accampamenti organizzati, comprendenti più strutture coperte. È innegabile il superamento delle strategie più approssimative del Paleolitico inferiore e medio, legate a bivacchi in grotta, a ripari e stanziamenti all’aperto non organizzati. Il rito funerario aurignaziano si ricollega a quello neandertaliano per la pratica della conservazione intenzionale del cadavere mediante inumazione strutturata, tuttavia le sepolture dei sapiens, come vedremo nel capitolo VII, Parte terza, hanno modalità di deposizione che rimandano ad una prassi codificata e diffusa in tutta Europa, non priva di connotati simbolici estranei al mondo neandertaliano e profondamente innovativi. In ambito più utilitaristico al sapiens si deve anche la lavorazione sistematica dell’osso, del corno e dell’avorio mediante tecniche specializzate e standardizzate che prevedono il taglio, la raschiatura e la lisciatura (fig. 15). Agli aurignaziani inoltre si deve l’uso sistematico e diffuso di oggetti ornamentali, documentati soprattutto in ambito funerario. Pendenti, cavigliere, cuffiette non sono più rinvenimenti occasionali e le strategie per l’approvvigionamento di molluschi destinati a tale uso spinge a volte a coprire distanze considerevoli. Importante è la nascita, tra le attività dei primi sapiens, dell’espressione figurativa, la cosiddetta «arte preistorica» secondo una impropria dizione corrente, che in realtà si configura, come vedremo nel capitolo VI, Parte terza, come una sorta di comunicazione non verbale, con finalità e linguaggi fortemente simbolici. Il «fare segno» fa parte della espressività corrente dell’uomo anatomicamente moderno, un’acquisizione irreversibile dello psichismo che la rende, insieme ad altri campi di intervento più o meno utilitaristici, unica nel cammino evolutivo della nostra storia più antica. La pittura, la scultura, il bassorilievo, la piccola plastica a tutto tondo compaiono simultaneamente, a riprova di una padronanza tecnica e di una strut179

tura psichica già codificate sin dalle origini. Infine, profonde innovazioni sono documentate nella tecnica di lavorazione della pietra. La novità introdotta con l’Aurignaziano è la tecnica sistematica di scheggiare lame e lamelle strette e slanciate; essa permette la messa a punto di armature, piccoli manufatti utilizzati in serie per armare supporti lignei e destinati quindi ad una particolare tipologia di arma da lancio. È il primo passo di una perizia tecnica che aprirà la strada ad uno strumentario specifico, gli strumenti a dorso, che caratterizzerà con stili e morfologie originali nelle varie epoche le manifatture delle armi da lancio con armature dei diversi stadi culturali sino alla fine del Paleolitico e anche nel successivo Mesolitico. Le espressioni culturali sopra descritte sono documentate con profonde analogie su tutto il continente europeo, dalla regione del Don sino alle coste atlantiche. I canoni figurativi, le produzioni laminari della litotecnica, la tipologia dei manufatti in osso, i riti, gli impianti insediativi sono documentati uniformemente anche in regioni profondamente diverse dal punto di vista paesaggistico e di risorse primarie. Le innovazioni aurignaziane portano ovunque una omogeneità culturale sconosciuta nelle epoche precedenti e si impongono nonostante le profonde diversità delle singole tradizioni culturali che i nuovi gruppi umani di sapiens trovano al loro arrivo. Questi diffondono una strategia di sussistenza e un bagaglio di esperienze, utilitaristiche e spirituali, che nonostante alcune variabilità regionali fanno capo ad una matrice comune, ad una cultura che è stata in grado di imporsi con spirito cosmopolita e su tutto il continente in tempi tutto sommato relativamente brevi, realizzando la vera «prima Europa» con un’unità di fondo che non può essere giustificata invocando processi di adattamento ambientale. Di un simile fenomeno unitario non troveremo più traccia nelle culture preistoriche successive né in epoche storiche antiche. Nemmeno Alessandro Magno o l’impero romano, che hanno realizzato la convivenza – più o meno equilibrata – di tradizioni culturali profondamente diverse per origine e ispirazione, sono riusciti a creare una omogeneità culturale come quella aurignaziana, una unità che sarebbe limitativo identificare con la standardizzazione antropologica del tipo umano. La fase arcaica del Paleolitico superiore si sviluppa in condi180

zioni climatico-ambientali poco differenziate, con oscillazioni delle temperature non particolarmente cruente. È probabilmente questa situazione ecologica di partenza, come hanno sottolineato A. Broglio e J. Kozlowski, che ha portato le diverse tradizioni culturali presenti nel passaggio dal Paleolitico medio al superiore ad assumere un forte peso nella trasmissione dei bagagli di conoscenze tecniche. Per quanto riguarda le strategie di insediamento e di sussistenza, il modello apparentemente più ricorrente, che rimarrà in auge anche nelle fasi seguenti del Paleolitico superiore europeo, è quello dell’impianto di un campo-base, normalmente all’aperto ma anche in grotta, dal quale partivano le spedizioni di caccia che lasciavano bivacchi più frequentemente in grotta, ma anche in ripari sotto roccia. I campi-base dell’Europa centro-orientale appaiono formati da più strutture coperte («capanne»), con impianto a pianta ovale o subcircolare (diametro circa 4-5 m) seminterrato, munite di una copertura aerea deperibile sostenuta da intelaiature di solito di modesto impegno. Non mancano esempi di costruzioni più impegnative con intelaiature di sostegno ricavate da ossa di mammut (Sungir), che anticipano strategie di edificazione di più ampia adozione da parte dei gruppi gravettiani del secondo Pleniglaciale. La strategia primaria di sostentamento resta, come nelle epoche precedenti, la caccia che viene praticata senza specializzazioni. Le innovazioni legate alle tecniche di lavorazione dell’osso portano ad una migliore funzionalità delle armi da lancio, rappresentate soprattutto da zagaglie appuntite. I resti di pasto rinvenuti negli insediamenti offrono un panorama indifferenziato delle popolazioni faunistiche relative ai diversi ambienti, comprendendo le specie caratterizzanti i vari habitat. Nel Nord Europa la caccia è rivolta prevalentemente alla renna e, in secondo rango, a cavallo, mammut e rinoceronte, nella zona di diffusione dei complessi a foliati l’orso speleo è la preda preferenziale. Nell’Europa mediterranea sono più frequenti i resti di bovidi, cavallo, cervo, capriolo e cinghiale, con variazioni quantitative legate alla situazione paesaggistica e climatica, con prevalenza cioè di aree a prateria oppure a copertura forestale o di macchia. La strategia sembra continuare senza variazioni considerevoli le tendenze osservate localmente per il Paleolitico medio, cioè senza specializzazioni territoriali o pae181

saggistiche. Durante l’Aurignaziano, soprattutto in Europa centro-occidentale, si assiste ad una progressiva tendenza verso una specializzazione della caccia alla renna che diverrà più sistematica nei periodi successivi. Tale specie diviene oggetto privilegiato delle attenzioni dei cacciatori durante i picchi più freddi ma nelle sottofasi temperate essa viene sostituita da altre prede. Lo stesso è documentato in Europa orientale, dove le battute di caccia sono indirizzate prevalentemente alla renna e al mammut, che tendono a sostituire il cavallo. Più che una specializzazione venatoria, la preferenza della renna ad ovest e del mammut ad est sembra riflettere, in questa fase del Paleolitico superiore, il quadro demografico della fauna di quelle regioni. La caccia viene accompagnata dalla raccolta e dalla pesca, che svolgono una funzione di integratore alimentare importante solo in determinati ambienti. Non mancano esempi di approvvigionamento di molluschi eduli anche in siti relativamente distanti dalle coste. Le produzioni litiche aurignaziane sono caratterizzate da una gamma tipologica non molto ampia che ricorre, sia pure con alcune varianti regionali, su tutta l’area di diffusione dell’Aurignaziano. Legate alla scheggiatura laminare sono soprattutto le lamelle e le punte a dorso marginale (fig. 16), i grattatoi su lama di dimensioni medie e grandi e le lame con margini sinuosi a strozzatura, cui si associano come tipi più diagnostici i grattatoi carenati (soprattutto in forme a muso) e i bulini con diedro carenato. Ad essi si uniscono, ricordiamo, tipologie molto standardizzate di manufatti ossei. Su una base concettuale comune si sviluppano produzioni con specifiche variazioni locali che permettono di suddividere l’Aurignaziano in alcuni gruppi regionali, quello occidentale (le regioni atlantiche e la Francia continentale), quello centrale (Europa centrale e Balcani), quello orientale (dalla regione carpatica sino al Don), quello mediterraneo italiano (dalle regioni subalpine sino alla Sicilia). Tra i più antichi siti aurignaziani italiani compare il Riparo di Fumane, nelle Prealpi venete, che ha restituito una importante serie plurifase. La frequentazione aurignaziana, iniziata qui attorno a 37-35.000 anni or sono e proseguita sino a circa 32-31.000 anni fa circa, potrebbe rappresentare la direttrice subalpina del movimento dei nuovi gruppi umani verso ovest, da mettersi in parallelo cronologico forse con il percorso immediatamente tran182

salpino rappresentato a Krems grosso modo con le medesime datazioni radiometriche. Verso sud l’Aurignaziano è rappresentato su entrambi i versanti peninsulari, più frequentemente lungo quello tirrenico, sino probabilmente alla Sicilia. Nel complesso l’Italia appare ben inserita nella «prima Europa» aurignaziana, anche se in talune zone vengono elaborate produzioni litiche in parte originali le quali rappresentano una specializzazione locale ma che si ispirano a modelli ampiamente diffusi dell’Aurignaziano peninsulare. Nota bibliografica Nella stesura di questo capitolo si è fatto riferimento a diversi testi, sia volumi sia memorie, che il lettore troverà citati nelle seguenti opere a carattere generale, alle quali rimandiamo ancora una volta in merito alle problematiche storico-culturali e per quanto concerne i dati e le informazioni sui singoli siti archeologici: D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004; A. Leroi-Ghouran (a cura di), Dizionario di Preistoria (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. I-II); M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999; A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986; A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, Roma-Bari 1998. Le principali problematiche sono molto succintamente esposte nel saggio di J. Kozlowski, M. Otte, Il Paleolitico superiore in Europa, in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994. Per le problematiche relative all’insorgere della produzione di ornamenti si veda Y. Taborin, Langage sans parole. La parure aux temps préhistorique, La Maison des Roches, Paris 2004. Per l’Aurignaziano italiano rimandiamo soprattutto ad A. Palma di Cesnola, Il Paleolitico superiore in Italia. Introduzione allo studio, Garlatti e Razzai, Firenze 1993, e a testi successivi che hanno aggiornato lo stato dell’arte su questo tema: per la Grotta di Fumane rimandiamo alla bibliografia aggiornata in A. Broglio et al., L’abitato aurignaziano, in A. Broglio, G. Dalmeri (a cura di), Pitture paleolitiche nelle Prealpi venete. Grotta di Fumane e Riparo Dalmeri, Memorie del Museo civico di Storia naturale di Verona, II serie, sez. Scienze dell’Uomo, 9, Verona 2005; per la Grotta Paglicci gli ultimi aggiornamenti in A. Palma di Cesnola, Paglicci ed il Paleolitico del Gargano, Grenzi, Foggia 2003. L’opera di G. Laplace, Recherches sur l’origine et l’évolution des complexes leptolithiques, École Française de Rome-Melanges d’Archéologie et d’Hi183

stoire, Paris 1966, rimane la base di partenza per quanti si sono confrontati con questo tema. Un interessante spunto sulle interpretazioni culturali in A. Broglio, Riflessioni sul significato delle entità tassonomiche del Paleolitico superiore, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, in «Rivista di Scienze preistoriche», suppl. 1, Firenze 2005, pp. 85-92.

Capitolo quarto

Il grande freddo: trasformazioni e adattamenti dei cacciatori di renne e di mammut

Nel periodo successivo a 30.000 anni or sono ebbe inizio una fase di deterioramento climatico che, attraverso alcune brevi pulsazioni più temperate, raggiunse il massimo acme glaciale attorno a 22.000 anni fa. Essa viene indicata come secondo Pleniglaciale würmiano (stadio isotopico 2). Le alternanze tra picchi glaciali e interstadi temperati hanno determinato cambiamenti del paesaggio non uniformi. I picchi più freddi appaiono come fasi a temperature particolarmente basse, che instaurano condizioni di relativa aridità; tutte le regioni europee appaiono tendenzialmente interessate da un paesaggio a steppa dominante, con scarsa copertura arborea. Le fasi interstadiali vedono la temporanea comparsa di boschi a nocciolo dominante, accompagnato da essenze termofile (quercia, tiglio, olmo). In Europa centro-orientale si rileva la presenza di habitat tendenzialmente steppici variabili, in rapporto alla latitudine, verso il paesaggio a tundra, a steppa fredda o forestale. È stata soprattutto l’Europa centrale a subire gli effetti della trasgressione dei ghiacciai, con la formazione di un paesaggio a tundra artica verso nord e di steppa fredda verso est. In Occidente, all’interno di ambienti di tipo steppa o tundra, compaiono isolati gruppi forestali, mentre in area mediterranea sono documentate alternanze di ambienti più o meno forestati con fasi a steppa o a prateria dominanti. I complessi del Pleniglaciale I complessi litici del secondo Pleniglaciale appaiono unificati da un substrato tecno-tipologico comune legato in particolare alla produzione degli strumenti a dorso; ciò li rende inseribili in una 185

parziale koinè culturale che non possiede quel carattere assolutamente cosmopolita che ha contraddistinto l’Aurignaziano in quanto i diversi gruppi umani europei, sotto la spinta delle profonde trasformazioni climatico-ambientali, avviano processi di adattamento e di trasformazione del bagaglio tradizionale comune. Il risultato è la perdita dell’unità culturale del primo Paleolitico superiore e l’avvio di una serie di pratiche inerenti le strategie di sussistenza e i modelli insediativi legate alle diverse zone ecologiche create dalla trasgressione glaciale. Con l’inizio del secondo Pleniglaciale ha inizio una fase di profondo condizionamento dell’ambiente sull’uomo, il cui risultato è un’ampia varietà di risposte. Si specializzano le strategie di caccia in rapporto alle faune disponibili nelle diverse nicchie ecologiche, i canoni insediativi si trasformano in relazione alle disponibilità di materiale edilizio, creando specializzazioni nelle tipologie insediative. Col termine Gravettiano (dal sito francese di La Gravette) viene indicato un importante complesso culturale dell’Europa centro-occidentale che occupa, dopo l’Aurignaziano, il segmento storico compreso tra 29.000 e 20.000 anni dal presente. Il problema della sua origine è ancora irrisolto: una teoria lo interpreta come il risultato di un’ondata migratoria di popolazioni orientali, una delle tante pulsazioni da est verso ovest che hanno alimentato l’evoluzione culturale della prima Europa, altri studiosi vedono focolai gravettiani in aree centro-europee e da qui postulano una diffusione verso Occidente, altri ancora non escludono una potenzialità evolutiva dai gruppi aurignaziani a dorsi marginali (Dufour, Krems) verso i dorsi profondi del primo Gravettiano. Al momento attuale nessuna delle varie ipotesi appare più plausibile di altre, ma forse la terza sembrerebbe destinata ad una maggiore credibilità. Il Gravettiano appare come un fenomeno abbastanza unitario, soprattutto nei suoi aspetti iniziali e maturi, più regionalizzati in quello terminale e va considerato ancora un fenomeno di ampio respiro e cosmopolita, nel quale tuttavia si fanno più evidenti espressioni originali su scala locale. Nell’ambito delle produzioni litiche il Gravettiano è caratterizzato essenzialmente da punte a dorso (secondariamente da lame a dorso) rettilineo, di dimensioni sia microlitiche che mediograndi, indicate comunemente in letteratura con la dizione francese «microgravettes» o «gravettes». Tra gli altri strumenti spic186

cano come elementi caratteristici i grattatoi frontali su lama e un’ampia varietà di bulini, sia semplici che su ritocco, anch’essi spesso su lama e a stacchi plurimi; in particolare trovano un certo sviluppo gli strumenti composti (bulino opposto a grattatoio, grattatoio opposto a punta...) o multipli (doppi grattatoi, doppi bulini). Tutte le produzioni appaiono tendenzialmente laminari, come dimostra anche la standardizzazione dei nuclei prismatici destinati all’estrazione preferenziale di lame e lamelle. La produzione ossea comprende punte biconiche o cilindro-coniche, bastoni forati, spatole e punteruoli. In Europa occidentale il Gravettiano inizia con una fase antica che presenta caratteri ancora non specializzati. Una successiva fase evoluta vede l’inizio di produzioni parzialmente specializzate, soprattutto per quanto riguarda singole classi tipologiche, tra le quali ricordiamo la cosiddetta punta di La Font-Robert, munita di una base peduncolata più o meno lunga, atta all’immanicamento, e i cosiddetti bulini di Noailles. La fase finale del Gravettiano pare chiudersi in Occidente con insiemi caratterizzati da generici parametri gravettiani e da una tendenza alla variabilità tipologica; ciò può essere interpretato come una rottura dell’unità gravettiana a favore di una tensione evolutiva verso una maggiore differenziazione regionale. In Europa occidentale la caccia acquista un carattere specializzato con la scelta preferenziale della renna, che talora fornisce il quasi esclusivo apporto carneo, associata in aree montane a stambecchi e a camosci, invece le possibilità di sopravvivenza per i gruppi adattatisi alle ostili condizioni ambientali dell’Europa centro-settentrionale e orientale sono legate essenzialmente alla caccia al mammut. Questo animale acquista una grande importanza, testimoniata non solo dallo sfruttamento specializzato della sua carne ma anche della carcassa, che viene utilizzata per la costruzione dei sostegni aerei delle strutture abitative. Più indifferenziata sembrerebbe la strategia di caccia in area mediterranea, legata alla composizione della reale popolazione faunistica degli specifici areali e non tanto a selezioni predeterminate. Gli impianti insediativi risalenti al secondo Pleniglaciale sono molto differenziati. Se in Europa orientale, come è già stato detto, si sopperisce alla mancanza di legname dovuta alla deforestazione con lo sfruttamento delle difese e di certe parti scheletriche del mammut creando così un modello edilizio abbastanza stan187

dardizzato, in Occidente i siti abitativi all’aperto appaiono più articolati. Le strutture coperte, impiantate a livello del suolo senza infossamenti, sono a pianta circolare, ovale o rettangolare, talora con pavimentazioni drenanti oppure munite di palificazioni di scarso impegno. Lo spazio interno è parzialmente strutturato, con strutture di combustione e fossette. Maggiormente noti sono i siti centro-orientali. Degni di menzione sono, tra gli altri, gli insediamenti di Pavlov e di Dolni Vestonice, con capanne seminterrate. L’interramento nel suolo, che proteggeva in parte dal freddo esterno, è tipico anche delle strutture di Pavlov, dove è stato messo in luce un agglomerato di una decina di capanne, a profilo rotondeggiante non sempre regolare, munite di uno o più punti di combustione più o meno elaborati. Non mancano esempi di utilizzo di pietrame quale parziale delimitazione, forse utilizzata per zavorrare la copertura. Il modello costruttivo adottato durante questa fase del Paleolitico superiore resterà in uso anche nel periodo successivo, sino alle nuove strategie legate alle trasformazioni ambientali del Tardoglaciale. Il Gravettiano italiano, diffuso solo in ambito peninsulare su entrambi i versanti, rappresenta un aspetto caratteristico del Gravettiano occidentale in quanto si configura per certi versi come un filone di rielaborazione locale di alcune facies transalpine. Una facies antica possiede una fisionomia poco specializzata (stadio «indifferenziato»), caratterizzata soprattutto da punte a dorso al cui interno la presenza di alcuni dorsi marginali potrebbe rimandare ad una tradizione aurignaziana. È stato riconosciuto al Riparo Mochi-strato D (tagli f3.6), a Grotta della Cala-Beta I e II, a Grotta Calanca-or. inferiore, a Grotta Paglicci-strati 23C-A, 22 F-B, 22A. Il sito di riferimento per l’evoluzione del Gravettiano lungo il versante adriatico è la Grotta Paglicci (fig. 17), che possiede una serie stratigrafica assai ampia comprendente in basso la sopra citata facies indifferenziata, alla quale segue un aspetto a punte tipo Font-Robert (strato 21), un’ulteriore facies a dorsi troncati (strati 20 e 19B), entrambi di fisionomia europea. A queste facies del Gravettiano evoluto segue a Grotta Paglicci un aspetto finale, attorno a 20.000 anni fa, caratterizzato da punte a dorso angolari (strati 19A e 18B) (fig. 17); derivato probabilmente da una rielaborazione locale della sottostante facies a dorsi troncati, questo aspetto appare al momento unico in ambito italiano e senza ana188

logie anche in ambito continentale. Il versante tirrenico è interessato quasi esclusivamente dalla facies a bulini di Noailles (fig. 18), con produzioni che rimandano strettamente alle tipologie standardizzate francesi (Riparo Mochi-strato D in Liguria); mentre al sud si diffonde una variante locale caratterizzata dalla rarefazione o dalla scomparsa del ritocco di arresto, para-Noailles secondo la dizione di A. Palma di Cesnola (Grotte della Cala, della Calanca e della Serratura a Marina di Camerota). A Bilancino, un sito presso Firenze specializzato nella preparazione del bulino di Noailles, questo aspetto gravettiano è datato attorno a 24.000 anni da oggi. A Grotta della Serratura e a Grotta del Romito è stato recentemente messo in luce nella serie gravettiana un aspetto molto avanzato a dorsi troncati, posteriore alla facies a Noailles, che rende il quadro del Gravettiano tirrenico più articolato. Nota bibliografica I testi generali indicati per i capitoli precedenti sono ancora indispensabili per i riferimenti bibliografici di dettaglio, sia in merito ai problemi generali sia per i rimandi ai singoli siti concernenti il secondo Pleniglaciale: D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004; A. Leroi-Ghouran (a cura di), Dizionario di Preistoria (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. I-II); M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999; A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986; A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, RomaBari 1998. Le principali problematiche sono molto succintamente esposte nel saggio di J. Kozlowski, M. Otte, Il Paleolitico superiore in Europa, in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994. Rimandiamo anche ai testi presentati ai Congressi internazionali UISPP di Forlì nel 1996 (si vedano i Colloquia e gli Atti), dove furono impostati i grandi problemi di questo filone culturale europeo poi dibattuti nel decennio successivo, e di Liegi nel 2001 (BAR International series 1240). Per le interpretazioni culturali rimandiamo ancora una volta ad A. Broglio, Riflessioni sul significato delle entità tassonomiche del Paleolitico superiore, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, in «Rivista di Scienze preistoriche», suppl. 1, Firenze 2005, pp. 85-92; si veda anche A. Palma di Cesnola, Il problema dell’origine del Gravettiano, in «Rivista di Scienze preistoriche», XLIX, 1998, pp. 189

379-94. Per il Gravettiano italiano rimandiamo ad A. Guerreschi, La fine del Pleistocene e gli inizi dell’Olocene, in A. Guidi, M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Laterza, Roma-Bari 1992, ma soprattutto ad A. Palma di Cesnola, Il Paleolitico superiore in Italia. Introduzione allo studio, Garlatti e Razzai, Firenze 1993, e a successive pubblicazioni relative alle nuove acquisizioni: P. Boscato et al., Il Gravettiano antico di Grotta della Cala a Marina di Camerota. Paletnologia e ambiente, in «Rivista di Scienze preistoriche», XLVIII, Firenze 1997, pp. 97-186; F. Martini et al., Una nuova facies gravettiana sul versante tirrenico a Grotta della Serratura, in «Rivista di Scienze preistoriche», LI, Firenze 2001, pp. 139-76; per l’importante sito toscano di Bilancino la bibliografia completa in B. Aranguren, A. Revedin, Dalla tipologia analitica alla catena operativa e funzionale: per una nuova definizione del Bulino di Noailles, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, in «Rivista di Scienze preistoriche», suppl. 1, Firenze 2005, pp. 137-50; per Grotta del Romito si veda F. Martini, D. Lo Vetro, Il passaggio Gravettiano-Epigravettiano a Grotta del Romito (scavi 2003-2004). Prime osservazioni, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, suppl. di «Rivista di Scienze preistoriche», 1, Firenze 2005, pp. 151-76. L’impianto storico culturale del Gravettiano italiano, sottoposto nel tempo a revisioni e adattamenti, si deve a G. Laplace, Recherches sur l’origine et l’évolution des complexes leptolithiques, École Française de Rome-Melanges d’Archéologie et d’Histoire, Paris 1966.

Capitolo quinto

Regioni e frontiere: il nuovo assetto dell’Europa postgravettiana (20.000-17.000 anni or sono)

L’Europa continentale Il secondo Pleniglaciale würmiano ha rappresentato un evento cruciale per la storia delle popolazioni della fase media del Paleolitico superiore europeo a causa delle profonde modificazioni paleogeografiche che ha apportato, le quali a loro volta hanno costretto le popolazioni, a partire dal tardo Gravettiano in poi, ad importanti fenomeni di adattamento e alla elaborazione di strategie di sussistenza originali. È evidente quindi quanto questi fatti abbiano influito sulla evoluzione dei complessi culturali del momento. Il fenomeno più importante è legato al frazionamento dei territori abitabili e al sorgere di barriere naturali tra regione e regione. In Europa centro-meridionale appare subito chiara la funzione di ostacolo che viene ad assumere l’arco alpino per le comunicazioni tra la penisola italiana e le aree transalpine. I contatti con l’ambito occidentale francese divengono assai difficoltosi e ciò dà origine ad una differenziazione culturale tra le due zone in discorso. Lo stesso vale per i rapporti con l’Europa orientale; da un lato è vero che la regressione marina, con l’abbassamento della linea di riva grosso modo all’altezza dell’attuale città di Spalato, porta alla scomparsa dell’alto Adriatico e alla congiunzione della Pianura Padana con le regioni balcaniche, ma va anche valutato che immediatamente a nord e a nord-est di queste i rilievi montuosi carpatici costituiscono a loro volta ulteriori impedimenti alle comunicazioni con l’Est europeo. Nasce così una provincia mediterranea costiera (dalla Provenza ai Balcani) che inizia a configurarsi come una realtà territoriale connotata da parametri culturali originali. Analoghe conseguenze di isolamento ha visto la penisola iberica, che viene separata dalle dinamiche culturali 191

continentali dalla glacializzazione del diaframma montano pirenaico. L’espansione del fronte artico nel Nord Europa porta alla riduzione dei territori abitabili; inoltre le condizioni inospitali delle aree periglaciali sono la causa di movimenti migratori, sia faunistici che umani, verso regioni più ospitali, verso est, in direzione delle steppe e della tundra. Su scala più regionale, anche i territori a sud delle Alpi vengono abbandonati e diventano sede di temporanee e brevi battute di caccia di gruppi stanziati più o meno stabilmente lontano dai rilievi montuosi. Le zone più accoglienti, quindi, divengono quelle mediterranee, a clima meno rigido, e quelle occidentali atlantiche; qui in particolare si registrano importanti atteggiamenti culturali a carattere originale, soprattutto nel campo delle produzioni artistiche. Ad est prendono corpo specifici complessi che rappresentano l’adattamento dei gruppi di cacciatori di mammut alle mutate condizioni. Questa parcellizzazione territoriale e culturale avviene in tempi relativamente brevi, nell’arco di alcuni millenni. Essa diviene poi un nuovo stadio di partenza verso una evoluzione dei comportamenti umani fortemente regionalizzata, con specializzazioni e differenziazioni sempre più accentuate nel corso del Paleolitico superiore finale. Talmente forte deve essere stata la spinta all’adattamento ambientale e così specifici i nuovi modelli culturali che, nei millenni successivi, col ripristino di condizioni climatiche coincidenti con l’inizio di quella fase eutermica (sia pure presentante alcune oscillazioni negative non particolarmente rigide) indicata con il termine di Tardoglaciale, non si rilevano importanti segnali di riunificazione culturale. In Europa occidentale al ciclo gravettiano segue, su basi cronostratigrafiche, un aspetto molto specializzato, detto Solutreano (dal sito francese di Solutré). La sua specificità risiede soprattutto nella originalità delle produzioni litiche, caratterizzate dall’impiego sistematico del modo di ritocco piatto (fig. 19), una tecnica di lavorazione dei supporti per pressione che presuppone una notevole perizia tecnica e accorgimenti specifici, quali forse il riscaldamento preliminare della materia prima per ottenere una certa dilatazione molecolare che avrebbe favorito le operazioni di ritocco. Il risultato di questa particolare tecnica, rivolta soprattutto a strumenti piatti e slanciati, sono utensili specializzati, detti «foliati», utilizzabili sia come proiettili da lancio, sia come armi 192

o utensili manuali più convenzionali. Non si tratta di una invenzione del tutto nuova in quanto il modo piatto è un tipo di ritocco già inventato durante il Paleolitico inferiore e utilizzato in quell’ambito per la lavorazione delle amigdale bifacciali e adottato anche dai neandertaliani a più riprese per produzioni specializzate. Ai gruppi solutreani quindi si deve l’aver intuito le potenzialità applicative del modo piatto e l’aver enfatizzato una tecnica di lavorazione creando una specializzazione tecnologica che avrà una breve ma intensa primavera della durata di un paio di millenni, tra 20.000 e 18-17.000 anni circa dal presente. Lo stadio culturale successivo, nella scansione dell’Europa occidentale, è il Maddaleniano, dal sito francese di La Madeleine, nella regione del Perigord. Ai maddaleniani (18.000-12.000 anni or sono circa) viene assegnato un ruolo abbastanza cosmopolita nell’Europa continentale, in virtù della loro espansione nella penisola iberica e nell’Europa centro-occidentale sino alla Repubblica Ceca, questo almeno nelle fasi iniziali, successivamente insieme agli ultimi aspetti maddaleniani ritroviamo diverse entità regionali indicative di una frammentazione culturale sempre più accentuata. I gruppi maddaleniani possedevano una notevole capacità di adattamento ai sistemi ecologici e ambientali, come documentano le diverse tipologie degli insediamenti (in grotta, sotto riparo, in gallerie sotterranee, all’aperto), i resti faunistici derivati dalla caccia con la presenza, talora, di piccoli mammiferi, i prodotti della raccolta, la variabilità dello strumentario in osso modificato in base alle risorse disponibili. Sembra ben documentata anche la capacità di gestione del territorio, utilizzando i rilievi per avere un’ampia panoramica e quindi un controllo delle aree occupate, i percorsi vallivi, le zone più idonee per lo sfruttamento delle materie prime. A questa capacità adattiva si unisce un fantasioso atteggiamento creativo nella tecnologia, come testimoniano l’ampia variabilità di manufatti in osso e in pietra (fig. 20) e l’introduzione di strumenti nuovi e funzionali per la caccia e per la pesca. La tendenza alla regionalizzazione di molti gruppi maddaleniani, ma non isolamento culturale, che si verifica alla fine dello stadio culturale, può essere spiegata anche sulla base di una crescente propensione alla sedentarizzazione, come sembrano mostrare le documentazioni archeologiche, atteggiamento però non generalizzabile in quanto nello stesso tempo contatti su lunga distanza, anche centinaia di chilo193

metri, sono comprovati dalle zone di provenienza dei molluschi ornamentali, dalla diffusione di strumenti specializzati quali i propulsori e dall’influenza a largo raggio di linguaggi e stili figurativi. La specializzazione degli ultimi maddaleniani trova esiti significativi nel sorgere alla fine del Tardoglaciale, tra 12.000 e 10.000 anni fa, di entità culturali locali. Nella scansione dell’Europa occidentale la fine del Pleistocene viene indicata con l’Aziliano (dalla Grotta di Mas d’Azil, sui Pirenei francesi) che in realtà ha una valenza regionale in alcuni suoi tratti tecno-industriali tipici e nello stesso tempo partecipa a tendenze tecnologiche generalizzabili a diverse aree europee. È il caso della progressiva riduzione delle dimensioni degli strumenti, soprattutto strumenti a dorso e grattatoi, nella specializzazione dei grattatoi circolari, nella morfologia curva delle armature a dorso (fig. 21), nello scadimento tecnologico (questi caratteri tecnologici sono da alcuni autori indicati con la dizione «processo di azilianizzazione»). Tipico dell’Aziliano è l’impiego di piccoli ciottoletti fluviali, solitamente piatti e allungati, decorati con pigmenti coloranti o con incisioni, che spiccano per il loro modello specializzato: innanzitutto l’uso ricorrente del ciottoletto come supporto ma anche la decorazione dipinta (a punti, segmenti, brevi tratti, linee...) o incisa che ricopre solitamente le superfici del ciottolo con un effetto di tutto pieno. Questa produzione, che ha nell’area pirenaica la sua zona nucleare, è stata esportata verso il centro e l’est della Francia e, attraverso la Provenza e la Liguria, percorre il versante tirrenico della penisola italiana giungendo sino in Campania (Grotta della Serratura), in Calabria (Grotta della Madonna a Praia a Mare) e in Sicilia (Grotta dei Genovesi nell’isola di Levanzo). Non esiste una spiegazione unica riguardo all’uso di questi ciottoli aziliani: la decorazione geometrica e lineare rientra nelle connotazioni delle produzioni figurative europee della fine del Paleolitico, tuttavia l’impiego sistematico di ciottoletti fa pensare piuttosto ad oggetti simbolici (amuleti?) con una fisionomia e un significato decisamente specifico che l’archeologo non è in grado di decifrare. L’Epigravettiano: la provincia culturale nell’Europa mediterranea Ma torniamo al territorio italiano, facendo un passo indietro. Durante il secondo Pleniglaciale würmiano (attorno a 24.000 anni fa) 194

l’ampliamento del fronte dei ghiacciai nell’arco alpino determina la formazione di barriere alle comunicazioni tra i gruppi peninsulari e il resto d’Europa. Con l’apice del deterioramento climatico del secondo Pleniglaciale l’Italia si configura come una regione isolata, con possibilità di contatti con la Provenza ad ovest e con la penisola balcanica ad est sino ai Carpazi. L’alto Adriatico, ricordiamo, in seguito alla regressione marina, è in emersione e costituisce un ponte continuo tra la Pianura Padana e le regioni balcaniche. Intorno a 19.000 anni or sono l’Italia e le vicine regioni mediterranee non fanno più parte del circuito di comunicazioni che rimanda all’Europa occidentale e da questo momento inizia per questa provincia meridionale un processo di individualità culturale irreversibile. In parallelo con il Solutreano occidentale si diffonde l’Epigravettiano, convenzionalmente suddiviso in più fasi. È uno stadio che rappresenta, nei suoi aspetti iniziali, la fisionomia produttiva dei gruppi umani che hanno scelto l’Europa mediterranea quale zona rifugio alla fine del secondo Pleniglaciale, uno stadio dal quale avrà seguito, come già detto, un processo culturale originale e non un attardamento in un’area laterale di fenomeni primari centro-europei. Geograficamente l’Epigravettiano mediterraneo abbraccia le coste dal sud-est della Francia ai Balcani, Grecia compresa. Anche il Levante spagnolo, per quanto con aspetti propri (Solutreo-Gravettiano) potrebbe far parte di questa provincia culturale. Alla formazione di questo complesso tardoglaciale hanno, è vero, concorso alcune strategie comportamentali della fine del Gravettiano condizionate dalle frontiere paesaggistiche, dalla formazione di più unità regionali a scapito della passata unità, ma non va escluso tuttavia l’apporto che, con pulsazioni intermittenti e saltuarie, si può imputare ai gruppi umani transalpini. In altre parole, su un substrato culturale di base di stampo gravettiano sembrano accendersi tradizioni regionali che sporadicamente accolgono rari elementi esterni, riconoscibili per la loro specificità regionale. In Italia la fase dell’Epigravettiano antico, della durata di quasi 3.000 anni, pare diffusa su tutta la penisola e forse anche in Sicilia. Alla tradizionale matrice gravettiana sembrano rimandare, in un momento iniziale, sia alcune tipologie sia le dimensioni dei manufatti. I principali siti di riferimento sono il Riparo Mochistrato C, la serie di Grotta Paglicci-strati 17-18A, la grotta ligure 195

delle Arene Candide-focolari 6/4, Grotta delle Veneri di Parabita-strato A, ai quali si aggiungono alcuni insiemi minori o fuori contesto. In un momento più recente (ancora la Grotta Paglicci, Grotta delle Mura e il Riparo C delle Cipolliane, Grotta del Romito-orizzonte F4 in Calabria, in Liguria la Caverna delle Arene Candide-focolari 3-1 e la Grotta dei Fanciulli-focolare F) si coglie un rimando all’ambito occidentale nelle produzioni dei foliati e dei crans. La facies a foliati italiana si caratterizza per l’impiego del ritocco piatto unifacciale, mentre nel Solutreano francese esso è sempre bifacciale, nella successiva sottofase a cran si colgono elementi di differenziazione regionale che sembrano distinguere il versante tirrenico da quello adriatico (fig. 22). Il cosiddetto Epigravettiano evoluto rappresenta una fase di passaggio tra l’antico e il finale e di questi due estremi contiene diversi elementi; da un lato conserva diversi elementi legati alla tradizione, comprese le aree di diffusione, dall’altro anticipa alcuni aspetti tecno-tipologici innovativi che saranno poi enfatizzati negli ultimi millenni del Tardoglaciale. Questa fase di passaggio, relativamente breve (da 16.000 a 14.500 anni da oggi), ha il valore di evidenziare una lenta trasformazione degli assetti tecnologici postglaciali che, partendo da fisionomie in qualche caso ancora legate al substrato gravettiano, acquisiscono chiare specificità attraverso la diffusione di modelli tecnologici e tipologici specializzati (Grotta dei Fanciulli in Liguria, Palidoro nel Lazio, Grotta della Cala e Grotta della Serratura nel Salernitano, Grotta Paglicci nel Gargano, Riparo delle Cipolliane nel Salento). L’Epigravettiano finale, che chiude la sequenza pleistocenica, occupa gli ultimi millenni del Tardoglaciale, sino a 10.000 anni fa circa, data in cui convenzionalmente si fa iniziare l’Olocene, l’era geologica nella quale viviamo. Le condizioni climatiche postglaciali, in miglioramento, vedono ora una progressiva trasformazione degli habitat, la comparsa e la successiva diffusione di manti forestali, l’accesso a zone precedentemente glacializzate. Non devono essere mancate zone, o brevi momenti, anche di degrado ambientale che potrebbe aver contribuito al nuovo processo di regionalizzazione culturale e alla suddivisione del territorio italiano in alcune macroaree con caratteri, soprattutto nelle tendenze tecnologiche, assolutamente specifici e talora originali. In generale, tuttavia, le migliorate condizioni di vita devono essere state alla base di un forte sviluppo demografi196

co, come attesta l’alto numero di siti, decisamente superiore a quello delle epoche precedenti. In un panorama così ampio è impossibile ricordare tutti i giacimenti importanti che meriterebbero una citazione: fra tutti vanno tenuti presenti la Grotta dei Fanciulli, il Riparo Mochi in Liguria; Isola Santa in Toscana; Grotta Polesini nel Lazio; le grotte del Mezzogiorno, della Cala e della Serratura in Campania (fig. 23); Grotta del Romito in Calabria; le grotte dell’Acqua Fitusa, di San Teodoro, dei Genovesi in Sicilia; le grotte Paglicci, Romanelli, del Cavallo, delle Mura, delle Veneri in Puglia; le grotte del Fucino in Abruzzo; le grotte della Ferrovia e del Prete nella Marche; il Riparo Tagliente e il Riparo Villabruna nell’area veneta ai quali si uniscono diversi siti alpini e subalpini più o meno in quota. Questo lungo elenco, sebbene molto parziale, mostra la capacità di diffusione dei gruppi tardoepigravettiani lungo tutta la penisola e in Sicilia, in ambienti diversificati (costieri, interni, montani...), con una forte capacità di adattamento alle risorse disponibili e ai diversi habitat. La diversificazione regionale è ben chiara se prendiamo come riferimento lo strumentario litico e le strategie operative che stanno alla base della scheggiatura della pietra, la variabilità dei medesimi strumenti (soprattutto grattatoi, armature a dorso e geometriche, lame) che, pur rispettando un modello tecno-tipologico standard, si presenta con una pluralità di morfologie e di dimensioni. Oltre allo sviluppo di tendenze già avviate nella fase epigravettiana evoluta (riduzione delle dimensioni, scadimento tecnico...), compaiono e si specializzano litostrumenti che diventano una sorta di fossile guida geografico. In questa fase ultima del Tardoglaciale, nonostante le forti connotazioni regionali, il territorio italiano è inserito all’interno di un’ampia provincia culturale epigravettiana che abbraccia l’Europa mediterranea dalla Provenza sino alle regioni balcaniche interne (Crimea). Come in Italia, anche nel resto d’Europa la fine del Paleolitico (lo abbiamo visto per il Maddaleniano) è caratterizzata da fisionomie industriali locali tuttavia, in quest’ambito di entità regionali, la provincia epigravettiana mostra alcuni aspetti di fondo che fanno riconoscere alle diverse latitudini una ispirazione e dei modelli culturali (quindi anche industriali) comuni. Ciò è bene evidente nel rito funerario, improntato a canoni rigorosamente ripetuti nella posizione supina del defunto e nello scar197

no corredo, nella cultura visuale che si esprime ora soprattutto nella produzione di oggetti mobili incisi o, secondariamente, dipinti, con l’adozione di schemi grafici geometrizzanti che vediamo pressoché identici dalla Provenza alla Puglia sino al Mar Nero. Sebbene in minore misura, un rumore di fondo generalizzabile a tutta la provincia mediterranea è indicato da alcune comuni tendenze tecnologiche (microlitizzazione dei manufatti), tipologiche (ad esempio, sviluppo delle armature a dorso), morfologiche (ad esempio, grattatoi corti e circolari, dorsi convessi). Le tendenze regionali non indicano, quindi, una chiusura forte e decisa con altre aree, sia a livello di micro che di macroaree, ma precise specializzazioni tecnologiche che non escludono fenomeni e acquisizioni transculturali: si pensi, ad esempio, ai già citati ciottoletti aziliani che, originari dell’area pirenaica, attraversano tutto il cul de sac della nostra penisola raggiungendo l’estremo limite delle isole Egadi in Sicilia. Di conseguenza dobbiamo interpretare l’Epigravettiano finale italiano come il risultato di un lento processo di adattamento alle mutate condizioni ambientali del Postglaciale, che ha visto la formazione e la radicalizzazione di tendenze industriali locali ma che è rimasto all’interno di circuiti di scambi culturali su ampie distanze; scomparso definitivamente il cosmopolitismo europeo dell’Aurignaziano e del Gravettiano, il Tardoglaciale vede la stabilizzazione di realtà regionali che saranno alla base della formazione dei successivi complessi mesolitici. Nota bibliografica La bibliografia sui complessi postgravettiani europei è reperibile nelle opere generali già citate: D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004; A. Leroi-Ghouran (a cura di), Dizionario di Preistoria (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. III); M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999; A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986; A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, Roma-Bari 1998. Le principali problematiche sono molto succintamente esposte nel saggio di J. Kozlowski, M. Otte, Il Paleolitico superiore in Europa, in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994. Rimandiamo anche ai testi presentati ai Congressi internazionali UISPP di Forlì nel 1996 (si veda198

no i Colloquia e gli Atti), dove furono impostati i grandi problemi di questo filone culturale europeo poi dibattuti nel decennio successivo, e di Liegi nel 2001 (BAR International series 1240). Per le interpretazioni culturali rimandiamo ad A. Broglio, Riflessioni sul significato delle entità tassonomiche del Paleolitico superiore, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, suppl. di «Rivista di Scienze preistoriche», 1, Firenze 2005, pp. 85-92, e a G. Laplace, Gravettien, Epigravettien, Tardigravettien, in «Rivista di Scienze preistoriche», XLVIII, 1997, pp. 223-38. L’Epigravettiano italiano è stato ed è oggetto di un articolato dibattito scandito sia in memorie che in monografie di sintesi; il quadro generale più dettagliato e approfondito nelle informazioni e nelle problematiche rimane il testo di A. Palma di Cesnola, Il Paleolitico superiore in Italia. Introduzione allo studio, Garlatti e Razzai, Firenze 1993; si veda anche per una panoramica più generale A. Guerreschi, La fine del Pleistocene e gli inizi dell’Olocene, in A. Guidi, M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Laterza, Roma-Bari 1992. In merito alle nuove acquisizioni segnaliamo F. Martini, Grotta della Serratura a Marina di Camerota (Salerno). Culture e ambienti dei complessi olocenici, Garlatti e Razzai, Firenze 1993; F. Martini et al., Primi risultati delle nuove ricerche nei livelli epigravettiani di Grotta del Romito a Papasidero (scavi 2000-2002), Atti XXXVII Riunione scientifica IIPP 2002 in Calabria, Firenze 2004; S. Lami, A. Palma di Cesnola, Le industrie degli strati 10-12 della Grotta Paglicci (promontorio del Gargano). Primo approccio allo studio, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, suppl. di «Rivista di Scienze preistoriche», 1, Firenze 2005, pp. 177-200; M. Peresani et al., Baracche, un site épigrabettien récent dans la Dorsale de Cingoli, Marches, in F. Martini (a cura di), Askategi. Miscellanea in memoria di G. Laplace, suppl. di «Rivista di Scienze preistoriche», 1, Firenze 2005, pp. 201-12. Una sintesi aggiornata sull’Epigravettiano della Sicilia in F. Martini, Il Paleolitico superiore in Sicilia, in S. Tusa (a cura di), Prima Sicilia. Alle origini della società siciliana, Ediprint, Palermo 1997, pp. 110-24. Rimandiamo infine al quadro di sintesi che è stato elaborato in occasione della tavola rotonda L’Italia tra 15.000 e 10.000 anni fa. Cosmopolitismo e regionalità nel Tardoglaciale, organizzata a Firenze nel novembre 2005 in memoria di Georges Laplace, i cui Atti sono in corso di stampa nella collana «Millenni» del Museo fiorentino di Preistoria; essa ha preso lo spunto da una revisione, sulla base dei nuovi dati, dello schema proposto da G. Laplace in Recherches sur l’origine et l’évolution des complexes leptolithiques, École Française de Rome-Melanges d’Archéologie et d’Histoire, Paris 1966.

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Capitolo sesto

L’origine dell’arte: segni e colori al posto delle parole

Presso le comunità di cacciatori-raccoglitori il linguaggio figurativo compare circa 40-35.000 anni or sono all’interno dei gruppi europei aurignaziani di Homo sapiens. Si tratta di un sistema organico e codificato di comunicazione non verbale che si caratterizza, sin dalle origini, per una certa variabilità tecnica (pittura, incisione, piccola statuaria a tutto tondo) e per i temi standardizzati (figure zoomorfe e figure umane). Il «fare segno», che impropriamente chiamiamo «arte preistorica», è uno dei principali parametri culturali dell’uomo anatomicamente moderno. I primi segni Le produzioni figurative aurignaziane, così complesse e così avanzate, non possono essere lo stadio iniziale della pratica iconografica ma devono essere state precedute da tappe e da «sperimentazioni» di cui esse rappresentano l’esito conclusivo. Purtroppo non conosciamo né l’origine di questo percorso né gli stadi evolutivi preaurignaziani. Tra le manifestazioni dello psichismo neandertaliano si registrano alcuni documenti che rimandano ad una pratica figurativa, per quanto estremamente sommaria e non codificata: si tratta di semplici segni geometrico-lineari incisi su pietra o su frammenti ossei di piccole dimensioni e di blocchetti di ocra chiaramente grattato per ricavare la polvere colorante. Il repertorio iconografico neandertaliano comprende essenzialmente tre tipologie di segni: motivo lineare generico, costruito mediante un intreccio di linee parallele e subparallele, sempre molto ravvicinate, disposte a gruppi che si intersecano e che provengono da più direzioni; motivi lineari specializzati, a li201

nee concentriche, a zig zag costruito con l’associazione di singoli segni a V, cruciforme, a linee incise sui margini; motivo lineare con scansione ritmica in gruppi di linee attestato su due frammenti ossei (fig. 24). Esistono, inoltre, alcune prove dell’uso del colore, sia sotto forma di frammenti di ocra presente nel deposito, sia di blocchetti di ocra con tracce di raschiatura del pigmento, sia di oggetti dipinti. Il «fare segno» dei «sapiens» paleolitici ovvero quanti Michelangelo, Picasso, Moore, Kline...? Con le comunità aurignaziane si diffonde la cosiddetta «arte preistorica», da intendersi come un sistema organico e non estemporaneo di figurazioni riprodotte sia sulle pareti delle caverne (arte parietale) sia su supporti in osso o pietra trasportabili (arte mobiliare) attraverso varie tecniche. Il linguaggio iconografico (lo «stile», se vogliamo usare un termine corrente) delle prime manifestazioni figurative aurignaziane non è omogeneo. Un’ampia e ben documentata serie di incisioni ha come oggetto l’organo sessuale femminile, rappresentato in modo schematico ma perfettamente riconoscibile, raffigurato come tema isolato, avulso dall’unità corporea, come ideogramma che rimanda – una parte per il tutto – al grande tema della fertilità e della procreazione. Ideologicamente legata al medesimo tema dei segni vulvari è la piccola statuaria antropomorfa, le cosiddette Veneri, nella quale l’enfatizzazione delle parti anatomiche legate alla gravidanza è attuata con un procedimento mentale di astrazione molto moderno, vale a dire con una scomposizione e una ricomposizione dei volumi anatomici tese a dare profonda espressione al tema della fertilità senza perseguire alcun intento ritrattistico (fig. 25c). L’altro grande tema delle figurazioni aurignaziane concerne il mondo animale, ritratto sia con soggetti singoli sia in scene talora particolarmente elaborate e complesse, nelle quali si osservano anche tentativi di resa prospettica. È indubbio, quindi, che la cosiddetta «arte» aurignaziana, la prima manifestazione organica di comunicazione non verbale, si presenta sin dalle origini come un sistema maturo, il risultato di un procedimento mentale che, partendo dall’assimilazione del reale percepi202

to, lo rielabora e lo restituisce in segni e in un alfabeto iconografico non improvvisato né spontaneo bensì codificato in un linguaggio comprensibile a tutti. Già nelle prime manifestazioni sono presenti in Europa diversi stili, uno naturalistico attento alle proporzioni e ai dettagli anatomici, talora anche con effetti di chiaroscuro e di visione prospettica (Grotta Chauvet) (fig. 25a), quello apparentemente approssimativo con rigide rappresentazioni di animali visti di profilo, quello schematico ed essenziale, con valenza simbolica, che rappresenta una parte per il tutto (ad esempio, la schematizzazione dell’organo sessuale femminile che richiama la figura femminile gravida esplicitata nella piccola statuaria femminile a tutto tondo). Nel corso della prima parte del Paleolitico superiore (Aurignaziano e Gravettiano sino al Solutreano) si diffonde in Francia e nei paesi limitrofi un linguaggio di tipo naturalistico, noto come stile franco-cantabrico, che ha dato origine a produzioni parietali e mobiliari talora di grande valore estetico; la sua diffusione coincide con gli areali nei quali le valenze cosmopolite delle culture hanno lasciato testimonianza e anche in epoca postglaciale, quando inizia un processo di regionalizzazione su scala europea, echi di questa ispirazione così codificata si colgono ancora a latitudini lontane dal centro di origine, ad esempio in Puglia (Grotta Paglicci). Le produzioni di stile franco-cantabrico hanno avuto una certa evoluzione nei millenni. A livello di temi, il repertorio aurignaziano predilige le immagini antropomorfe rispetto a quelle zoomorfe, al contrario di quanto avviene nella cultura visuale gravettiana che elabora in modo quasi esclusivo figurazioni animali; questa preferenza rimane in seguito nelle rappresentazioni del Tardoglaciale. Pur con le inevitabili eccezioni, in quanto diversi linguaggi sono presenti in tutti gli stadi culturali, esiste nella fase antica del Paleolitico superiore, sino a circa 20.000 anni fa, uno stile dominante che si manifesta nella visione della figura di profilo, con rari dettagli anatomici e due soli arti, alla quale si uniscono alcuni canoni iconografici: veduta frontale delle corna, curva cervicodorsale molto sinuosa, forma allungata del muso dei cavalli. Presso le comunità postglaciali, nel Solutreano, il linguaggio visuale si fa più articolato e lo stile dominante, ma non esclusivo di questo periodo, vede rappresentazioni zoomorfe con tutti e quattro gli arti, vedute prospettiche di buona qualità, uso della bicromia 203

nelle pitture, ispirazione dinamica ed espressiva (figg. 25b, 26, 27a). Accanto alle figurazioni zoomorfe dominanti appaiono segni geometrici e astratti (scacchiere, segni quadrangolari, graticci, punti...). Il filone figurativo franco-cantabrico si esaurisce nel Maddaleniano con alcune tendenze specifiche: produzione di piccole sculture, soprattutto a soggetto zoomorfo; spiccato decorativismo geometrico e lineare anche su armi e strumenti; impiego della policromia nella pittura; estrema attenzione e verismo nelle figurazioni anatomiche zoomorfe con la riproduzione puntuale dei dettagli anatomici e talora anche delle masse muscolari utilizzando il tratteggio e macchie di colore. Alla fine del ciclo maddaleniano il verismo espressivo della fase precedente sembra esaurirsi e prende campo uno stile dominante improntato alla sommarietà e alla rigidità delle figurazioni, la scultura risulta ora solo occasionale e sporadica e si amplifica una certa tendenza geometrizzante del segno. Non mancano però raffigurazioni pregevoli, anche con tentativi prospettici quasi pioneristici e scene composte da più soggetti (mandrie al galoppo, cervi che attraversano un corso d’acqua...). Vanno ricordati alcuni aspetti particolari della cultura visuale franco-cantabrica. Non è raro, soprattutto nelle fasi avanzate, l’impiego di formazioni naturali (stalagmiti, asperità rocciose) come input ispiratore di figurazioni; all’interno delle figurazioni umane compaiono personaggi con maschere animali o con tratti mostruosi oppure con tratti addirittura ibridi che hanno fatto pensare alla raffigurazione di una sorta di «figura sciamanica», esemplificativa della presenza all’interno delle comunità di individui collegati al mondo magico-religioso; altro aspetto particolare è la rappresentazione di mani, isolate o a gruppi, spesso in associazione o sovrapposte a figure animali. Gli «artisti italiani» del Paleolitico superiore in Italia: circuiti internazionali e nuove tendenze L’esperienza figurativa dei primi sapiens europei trova testimonianze anche nella nostra penisola. Di grandissima importanza sono le pitture che Alberto Broglio ha messo in luce nella Grotta di Fumane, in Veneto, riportate su frammenti di calcare che verosi204

milmente si sono staccati dalle pareti e dal soffitto della caverna. Rinvenute nei livelli aurignaziani, esse sono le più antiche pitture europee, risalenti a circa 36-37.000 anni or sono, delle quali restano leggibili una probabile figura zoomorfa e una figura umana schematica, il cosiddetto «sciamano», con un copricapo munito di corna (fig. 28a). Restando nell’ambito dell’arte rupestre, a Grotta Paglicci sono presenti alcune pitture rupestri, le uniche (con l’eccezione dei blocchi rocciosi di Fumane) sinora segnalate in Italia, raffiguranti tre cavalli, uno incompleto, in associazione con impronte in positivo di mani (fig. 29b). Le figure degli equini rimandano ad analoghe pitture francesi databili, su base stilistica, ad un momento di poco successivo al Gravettiano, e al pari di altre analoghe evidenze d’Oltralpe, sono localizzate in una piccola sala sul fondo della grotta alla quale si accede attraverso uno stretto passaggio. In Liguria a Grotta del Caviglione è presente un’incisione di cavallo che ricorda nell’impostazione analoghe figure di equini di età maddaleniana. Tra le scarse evidenze di arte rupestre italiana vanno ricordate le incisioni di Grotta Romanelli (un bovide molto schematico e di fattura sommaria, segni fusiformi che potrebbero rappresentare una stilizzazione molto spinta del corpo femminile, una composizione geometrica) ma soprattutto le incisioni di soggetto zoomorfo e la figura umana dipinta della Grotta dei Genovesi a Levanzo (fig. 28d), la scena di esecuzione capitale di Grotta dell’Addaura e la maestosa figura di bue primigenio nel Riparo del Romito, in Calabria (fig. 29a). Queste evidenze sono di età verosimilmente avanzata in ambito epigravettiano. Passando alle produzioni figurative mobiliari, le più antiche sono relative al Gravettiano, presenti in numero veramente esiguo, soprattutto se confrontate con quanto è documentato nell’Europa occidentale. Da Grotta Paglicci proviene (strato 20C, circa 21.000 anni da oggi) un osso inciso con una figura di stambecco visto di profilo e con rari dettagli anatomici, che rimanda all’ispirazione franco-cantabrica arcaica; la figura animale è ricoperta da una fitta serie di chevrons che quasi oblitera il sottile segno zoomorfo. La produzione italiana del Tardoglaciale è costituita da un buon numero di documenti, soprattutto mobiliari. Nell’ambito delle figurazioni mobiliari, quattro sono i fenomeni che caratterizzano la cultura visuale epigravettiana. Una produ205

zione moderatamente cospicua rimanda alla sfera franco-cantabrica (Grotta Paglicci, Grotta Polesini, Riparo Tagliente, Riparo di Vado all’Arancio...); della tradizione transalpina si riprendono l’attenzione alle proporzioni e ai dettagli anatomici, il gusto brioso di rappresentare non icone singole ma scene anche dinamiche, uno stile naturalistico fluido e armonioso. La sua diffusione in ambito peninsulare pare ridursi progressivamente nel tempo mantenendosi, alla fine del Tardoglaciale, solo nel centro-nord. Un secondo filone figurativo è rappresentato da uno stile naturalistico più essenziale, che Paolo Graziosi cinquant’anni or sono ha chiamato «mediterraneo» (in quanto attestato, allora, in Italia meridionale, Spagna e Mezzogiorno francese), a contenuto zoomorfo ed eccezionalmente antropomorfo, che si configura chiaramente come un linguaggio codificato e autonomo rispetto ad altre esperienze europee; interessa l’ambito peninsulare ed insulare e si evolve nella seconda fase dell’Epigravettiano finale in linguaggi e grafie che tendono ad un progressivo irrigidimento e, contemporaneamente, si arricchisce di canoni espressivi geometrico-lineari. Il terzo filone è rappresentato dallo stile schematico, che rende su moduli grafici lineari essenziali il risultato della scomposizione dei volumi antropomorfi e zoomorfi, in altre parole che adotta un linguaggio di traduzione di masse tridimensionali in grafemi bidimensionali; ciò avviene secondo una progressiva complicazione del processo di astrazione durante il quale tuttavia il soggetto resta sufficientemente riconoscibile (emblematiche sono le pitture del Riparo Villabruna-A e di Grotta Romanelli) (fig. 28b). Infine, il quadro figurativo italiano comprende anche una produzione molto specializzata, datata alla fine del Paleolitico: i ciottoli cosiddetti «aziliani», dipinti con punti, linee e segmenti, secondo schemi molto semplificati e standardizzati; la zona dei Pirenei costituisce l’area di origine di questa produzione. La produzione figurativa dell’Epigravettiano antico, stando alle scarsissime documentazioni oggi disponibili, sembra indicare la presenza nella penisola di un unico modello, quello transalpino franco-cantabrico. La prima innovazione e il distacco dal modello francese avvengono nell’Epigravettiano evoluto, quando il tradizionale linguaggio di derivazione transalpina che ancora è diffuso nella penisola non appare più unico, ma associato ad una rielaborazione della grafia più semplificata, non trasandata ma più 206

essenziale. Ben più articolato è il sistema figurativo dell’Epigravettiano finale: nei circa 5.000 anni in cui sono comprese le diverse fisionomie tecno-tipologiche del Tardoglaciale il fenomeno iconografico italiano appare molto più variato rispetto ai periodi precedenti. L’originalità delle produzioni della fine dell’Epigravettiano sta nell’affermazione di linguaggi legati ad una visione non verista della realtà, nella quale la grammatica dei segni è altamente specializzata in una grafica geometrico-lineare (fig. 29c) e la componente più naturalistica si basa su un procedimento mentale di scomposizione dei volumi dei soggetti zoomorfi e antropomorfi e una loro ricomposizione in termini bidimensionali lineari schematici (iperantropico di Villabruna-A, pettiniforme di Romanelli) oppure in rigide masse geometrizzanti. L’accentuarsi del procedimento di astrazione, quindi, si pone attorno a 12.000 anni dal presente come una rottura con la tradizione. La visione non realistica del mondo porta alla rarefazione dell’arte naturalistica e anche a forme di decadimento grafico, fenomeno che si coglie in alcune produzioni in cui le sagome estremamente irrigidite e la parzialità dei profili zoomorfi possono essere anche un chiaro segnale di scadimento qualitativo. Le figurazioni preistoriche sono opere d’arte? Qual è stata la funzione delle figurazioni preistoriche? Quali punti fermi abbiamo oggi nel cercare di interpretare un fenomeno molto complesso che rimane tutto sommato impenetrabile? Le immagini sciamaniche o le impronte di mano hanno fatto ipotizzare una rappresentazione con fini propiziatori per la caccia, nella quale la mano acquisisce il valore simbolico di possesso e di potere. Non sono dati di poco conto, in quanto una delle funzioni ipotizzate per la pratica figurativa paleolitica è proprio quella legata ad una sorta di magia venatoria. D’altra parte il fatto che il repertorio figurativo paleolitico comprenda, in modo molto preponderante, immagini di animali legati alla caccia, che era la risorsa primaria di sopravvivenza, non può non collegare strettamente l’attività venatoria a pratiche simboliche ad essa connesse. Importanti sono, in quest’ottica, le figurazioni di animali feriti o abbattuti (grotte di Montespan o di Faunt-de Gaume, ad esempio); nella grotta di Tuc d’Audou207

bert si sono conservati due bisonti modellati in argilla e, nei pressi, impronte di piedi di adolescenti limitate al solo calcagno, ordinate in cinque file, le quali potrebbero essere i segni lasciati nel corso di una danza con valenza rituale. Tuttavia sarebbe riduttivo attribuire alla cultura visuale questa unica valenza, in quanto, anche se non siamo in grado di trovare le necessarie spiegazioni, la simbologia molto articolata che sottende alle immagini indica una complessità e una pluralità di atteggiamenti. Alcune grotte sono state utilizzate come veri e propri santuari e solo secondariamente a fini abitativi o utilitaristici; è il caso della famosissima Grotta di Lascaux, dove la posizione delle figure, tutte ad un’altezza superiore a 2 m dal piano di osservazione, le loro dimensioni a volte gigantesche rispetto a quelle naturali e la sovrapposizione, talora, di molte figure che creano pannelli articolati e complessi stanno ad indicare una funzione delle immagini certamente non decorativa ma legata a simbologie e a codici specifici, forse con significato magico-religioso, di immediata comprensione per quelle comunità. Le raffigurazioni rupestri sono anche probabilmente legate a riti di iniziazione, come potrebbe indicare la loro collocazione in anfratti o in gallerie di difficile accesso, talora lungo dei veri e propri percorsi sotterranei. A questo punto si pone un altro quesito: la figurazione elaborata dalle comunità paleolitiche è necessariamente «arte»? La risposta è no. Se diamo alla pratica figurativa preistorica la valenza non di rappresentazione del reale ma di sistema articolato finalizzato a stimolare le reazioni individuali di fronte al reale stesso, cade anche la validità del termine «rappresentazione» che dovrebbe essere sostituito da «evocazione». Certamente sarebbe fuori luogo assegnare alle immagini dipinte o incise sulle pareti delle caverne o su oggetti mobili quella valenza che la cultura moderna occidentale assegna alla definizione di «opera d’arte». È questa una concezione che trova le sue radici nella filosofia greca, e più precisamente nella istituzione del logos («l’intelligenza dell’Europa»), che ha dato origine al nostro sistema culturale: arte come rappresentazione del «vero», dimostrazione del «vero» attraverso assunti approvati dalla comunità, figurazione del «vero» mediante immagini riconoscibili e, come presupposto, visibili. In altre parole la cultura occidentale ha creato una definizione di arte come rappresentazione unicamente eidetica, che cioè presuppone uno spettatore. Questa valenza di visibilità della figurazione è docu208

mentata in gran parte dei complessi iconografici rupestri preistorici, che sono stati pensati, progettati e realizzati in rapporto alla posizione dello spettatore. Eclatante in questo senso è una figurazione di bovino a Lascaux, posizionata a più di due metri di altezza rispetto al piano visivo dello spettatore, che è stata realizzata deformata nelle dimensioni e nelle proporzioni anatomiche le quali invece risultano realistiche e aderenti alla natura per chi le osserva dal basso; si tratta del più antico caso di anamorfosi sinora noto, una correzione che prevede una progettazione e una previsione del piano visivo dello spettatore, che testimonia l’assoluto fine eidetico dell’immagine (fig. 26). Ma questa non è la sola chiave di lettura delle figurazioni preistoriche: numerose incisioni di soggetti zoomorfi sono sovrapposte le une alle altre in un groviglio inestricabile di segni che solo una paziente opera di rilevamento grafico o un movimento di luce radente permettono di decifrare, mentre visivamente le singole immagini non sono immediatamente percepibili nei loro contorni. Si tratta per lo più di figure di dimensioni modeste, realizzate nelle caverne in cunicoli percorribili con difficoltà, che perdono la loro riconoscibilità nel labirinto di linee sottili e che per tale motivo facevano parte di un progetto che escludeva uno spettatore. Figurazione non eidetica, quindi, che potremmo definire arte performativa, una sorta di «action art» nella quale gesto e immagine danno origine ad un’«azione figurante» legata ad un’operazione del tutto individuale di rapporto con l’immagine prodotta, simbolo di un significato che ci sfugge. Questa chiave di lettura delle figurazioni preistoriche che insiste sul significato interiore del «gesto figurante» rimanda a certi comportamenti documentati nelle civiltà dell’Asia estrema, ad esempio nell’arte zen dove l’«arte», chiamata «via», è un’azione, un operare un percorso interiore che in un primo stadio affronta l’origine e il senso delle cose e successivamente coincide con il ritorno alla realtà; in quest’ultima fase vengono elaborate immagini che rendano visibile l’origine delle cose, fruibili solo da chi le crea, senza spettatori. In questo caso, quindi, il gesto e il movimento danno senso all’immagine prodotta. Restando ancora al di fuori degli schemi culturali occidentali, figurazioni non eidetiche sono le famose linee sull’altopiano di Nazca, destinate a non esse209

re viste da parte della comunità, effimere nella loro natura di rappresentazioni sottoposte agli agenti atmosferici. Senza dubbio deve ancora maturare nell’archeologia delle origini una metodologia di indagine del patrimonio figurativo che affronti il «fare segno» in tutte le sue implicazioni, nella consapevolezza tuttavia che nessun modello teorico e nessuna metodologia potranno condurci alla conoscenza globale delle rappresentazioni preistoriche. Il segno è una comunicazione non verbale Cosa ha spinto i primi uomini anatomicamente moderni di 4035.000 anni or sono ad iniziare una pratica figurativa che poi, nella storia dell’uomo, non è più stata abbandonata e che da allora fa parte dei nostri sistemi di comunicazione? Come tanti argomenti che riguardano l’archeologia delle origini anche questa domanda è destinata a rimanere senza una risposta certa; il linguaggio figurativo paleolitico potrebbe forse essere messo in relazione con un sistema di relazioni interpersonali più complesso rispetto alle epoche precedenti oppure ad una evoluzione dei sistemi di percezione, ma ogni ipotesi che affronti problematiche sociali o biologiche deve trovare la conferma in un sistema comparato di analisi e di studi pluridisciplinari che non è ancora stato avviato. La pratica del «fare segno» trova un aspetto complementare nella documentazione che durante il Paleolitico superiore si ha anche della pratica musicale: alcuni manufatti ottenuti da ossa cave di uccelli rapaci e muniti di appositi fori sono interpretati come strumenti a fiato (flauti) dei quali possediamo anche l’immagine in incisioni. Tale attitudine, archeologicamente documentata, potrebbe anch’essa essere messa in relazione a nuove strategie di comunicazione sconosciute agli antenati dell’Homo sapiens. Nella collettività aurignaziana, quindi, potremmo forse identificare le ragioni della nascita di sistemi espressivi non verbali, in una collettività basata su una maggiore complessità sociale. Questa ipotesi tuttavia è senza dubbio, da sola, riduttiva e non possiamo escludere che il problema in discorso non possieda anche una valenza legata ai sistemi di percezione e alla psicologia. Certamente il «fare segno» si basa su un assunto fondamentale, cioè che la nostra men210

te è in grado di riconoscere un oggetto rappresentato anche attraverso le infinite possibilità di variazione morfologica e strutturale che la figurazione comporta, in altre parole è la percezione della stabilità del reale, della sua immutabile identità che permette l’elaborazione di linguaggi iconografici («stili») differenziati: si pensi, in breve, alla capacità di riconoscere il soggetto di una figurazione zoomorfa sia in termini lineari (incisione) sia in termini di massa (pittura). Le tendenze più recenti non hanno ancora portato modelli di riflessione convincenti sui problemi qui solo accennati e nonostante nuovi e ripetuti approcci tra archeologia, biologia, antropologia e psicologia molte domande, come sosteneva E.H. Gombrich, appartengono al futuro. Nota bibliografica Il tema della cultura visuale è stato trattato, sia pure succintamente e riprendendo le teorie più accreditate presso gli specialisti di arte paleolitica, in tutte le opere di carattere generale citate per i capitoli precedenti: D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004; A. Leroi-Ghouran (a cura di), Dizionario di Preistoria (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. I-II); M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999; A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986; A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, Roma-Bari 1998. Le principali problematiche sono molto succintamente esposte nel saggio di J. Kozlowski, M. Otte, Il Paleolitico superiore in Europa, in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994. Il tema ha visto un certo dibattito in occasione dei due congressi internazionali dell’UISPP di Forlì (1996) e a Liegi (2001), ai cui pre-atti e Atti rimandiamo. Fondamentale rimane per l’arte paleolitica europea la monumentale opera curata da A. Leroi-Gourhan, Préhistoire de l’art occidental, Mazenod, Paris 1965, alla quale va aggiunto il prezioso volume L’art des cavernes. Atlas des grottes ornées paléolithiques françaises, edito a Parigi nel 1984 dal ministero della Cultura francese. Si segnala anche il volume di M. Lorblanchet, La naissance de l’art. Genèse de l’art préhistorique dans le monde, Errance, Paris 1999. I problemi di interpretazione dell’arte paleolitica sono stati trattati da quasi tutti coloro che si sono cimentati col tema della cultura visuale; rimandiamo ai titoli già indicati, ai quali si aggiunge il tanto discusso lavoro di A. Laming Em211

peraire, La signification de l’art rupestre paléolithique, Picard, Paris 1962; si vedano anche alcuni contributi editi nel volume XLIX della «Rivista di Scienze preistoriche», 1998, pubblicato nel decennale della morte di Paolo Graziosi: D. Vialou, Problématique de l’interprétation de l’art paléolithique; F. Martini, Illazioni sull’arte; L. Barral, S. Simone, De l’art préhistorique à l’écriture. A questo medesimo volume rimandiamo anche per altri contributi sia documentali sia metodologici sulle produzioni europee. Tra le più recenti acquisizioni e i nuovi studi ricordiamo alcuni lavori importanti: R.G. Bednarik, A Figurine from the African Acheulean, in «Current Anthropology», 44, 2003, pp. 405-13; C. Valladas et al., The Emergence of Modern Human Behavior: Middle Stone Age Engravings from South Africa, in «Scienze», 295, 2002, pp. 1278-80. Una sintesi sul problema delle manifestazioni grafiche neandertaliane, con relativa bibliografia di dettaglio, in F. Martini et al., Incisioni musteriane su pietra da Grotta del Cavallo (Lecce): contributo al dibattito sulle esperienze grafiche neandertaliane, in «Rivista di Scienze preistoriche», LIV, Firenze 2004. Alle più antiche produzioni parietali europee, quelle di Grotta Fumane, è stato dedicato un simposio, ai cui Atti rimandiamo: A. Broglio, G. Dalmeri (a cura di), Pitture paleolitiche nelle Prealpi venete. Grotta di Fumane e Riparo Dalmeri, Memorie del Museo civico di Storia naturale di Verona, II serie, sez. Scienze dell’Uomo, 9, Verona 2005. Per Grotta Chauvet, che ha portato innovativi spunti per il quadro storico culturale, si veda il recente magnifico volume coordinato da J. Clottes, La grotte Chauvet. L’art des origines, Seuil, Paris 2001, oltre a quello La Grotte Chauvet à Vallon Pont d’Arc firmato da J.M. Chauvet, E.B. Deschamps e C. Hillaire. Alla Grotta di Arcy-sur-Cure D. Baffier ha dedicato diversi studi; un loro elenco completo in La Grande Grotte d’Arcy-sur-Cure (Yonne, France), persistance de l’iconographie aurignacienne, in A. Broglio, G. Dalmeri (a cura di), Pitture paleolitiche nelle Prealpi venete. Grotta di Fumane e Riparo Dalmeri, Memorie del Museo civico di Storia naturale di Verona, II serie, sez. Scienze dell’Uomo, 9, Verona 2005, pp. 76 sgg. La Grotta di Lascaux è oggetto del recente studio di N. Aujoulat, Lascaux. Le geste, l’espace et le temps, Seuil, Paris 2004, dove è possibile reperire la bibliografia più importante su questo santuario, fondamentale per lo studio dell’arte paleolitica. Si vedano anche per l’Europa centrale G. Bosinski, Die Kunst der Eiszeit in Deutschland und der Schweiz, Habelt, Bonn 1982, e i lavori di N. Conard, che ha portato recentemente importanti contributi alla conoscenza dell’arte aurignaziana, dei quali si dà il repertorio aggiornato in N.J. Conard, Aurignacian Art in Swabia and the Beginnings of Figurative Representations in Europe, in A. Broglio, G. 212

Dalmeri (a cura di), Pitture paleolitiche nelle Prealpi venete. Grotta di Fumane e Riparo Dalmeri, Memorie del Museo civico di Storia naturale di Verona, II serie, sez. Scienze dell’Uomo, 9, Verona 2005, pp. 82 sgg. Le produzioni paleolitiche italiane sono state inquadrate in un lavoro di sintesi da Paolo Graziosi più di trent’anni or sono: P. Graziosi, L’arte preistorica in Italia, Sansoni, Firenze 1973. Un lavoro di sintesi sulle produzioni epigravettiane in F. Martini, La cultura visuale epigravettiana in Italia: aspetti formali e trasformazioni del linguaggio grafico nelle figurazioni mobiliari, in A. Broglio, G. Dalmeri (a cura di), Pitture paleolitiche nelle Prealpi venete. Grotta di Fumane e Riparo Dalmeri, Memorie del Museo civico di Storia naturale di Verona, II serie, sez. Scienze dell’Uomo, 9, Verona 2005, pp. 163-76. Per la facies romanelliana una sintesi in A. Frediani, F. Martini, L’arte paleolitica di Grotta Romanelli, in Atti del convegno Grotta Romanelli nel centenario della sua scoperta, Congedo, Galatina 2003; inoltre si veda A. Vigliardi, «Provincia» mediterranea e «stile» mediterraneo: nota su un problema aperto, in A. Broglio, G. Dalmeri (a cura di), Pitture paleolitiche nelle Prealpi venete. Grotta di Fumane e Riparo Dalmeri, Memorie del Museo civico di Storia naturale di Verona, II serie, sez. Scienze dell’Uomo, 9, Verona 2005, pp. 177-78.

Capitolo settimo

La cultura del morire

Convivere con la morte L’uomo è, tra gli esseri viventi, l’unico ad avere coscienza della finitezza della propria vita e, a differenza degli animali che avvertono l’approssimarsi del momento del decesso, egli è accompagnato per tutta la sua vita dall’attesa della catastrophe irrémédiable (E. Morin) che segna la fine dell’esistenza. Di conseguenza l’uomo è anche l’unico essere vivente che, nella consapevolezza della precarietà dell’esistenza, ha associato a questa coscienza pratiche simboliche e creative che hanno dato origine, sin dalla preistoria, a comportamenti rituali. L’opinione più diffusa tra gli antropologi che si occupano di tanatologia è che, all’interno delle diverse fisionomie culturali, ogni pratica intrapresa sia una sorta di tentativo di controllare, ostacolare e, in ultimo, di dare un senso, alla disgregazione del corpo («Toute société se voudrait immortelle et ce qu’on appelle culture n’est rien d’autre qu’un ensemble organisé de croyances et de rites, afin de mieux lutter contre le pouvoir dissolvant de la mort individuelle et collective», L.V. Thomas, Mort et pouvoir, 1978). Fondamentale, nella ricostruzione storica della cultura del morire nel Paleolitico, è sottolineare il carattere sociale di queste pratiche che fanno parte di comportamenti di tutta la comunità e non di atteggiamenti individuali. In epoca paleolitica la documentazione archeologica individua una sola pratica funeraria, la conservazione del cadavere in fossa, che è solo una delle molteplici forme con cui l’umanità ha affrontato (e affronta) il rapporto con l’annullamento del corpo: non abbiamo evidenze che indichino il tentativo di bloccare idealmente la decomposizione creando una sorta di simulacro che sostituisca l’assenza fisica del defunto (imbalsamazione, mummificazione), 215

né abbiamo documentazioni di pratiche che enfatizzino, mediante accelerazione, la scomparsa del morto (cremazione o esposizione agli agenti atmosferici o ai predatori); tuttavia non possiamo escludere che presso le comunità di cacciatori e raccoglitori non venissero attuate azioni, come le ultime citate, che non lasciano traccia. Questa osservazione si potrebbe riferire non solo alle culture del Paleolitico medio, al cui interno inizia la pratica dell’inumazione, e del Paleolitico superiore, che proseguono tale rito, ma anche alle specie più antiche, durante il Paleolitico inferiore. Infatti la mera assenza di inumazioni non è un valido motivo per giustificare l’assenza di una cultura del morire e il livello di socialità raggiunto non solo dagli erectus (sensu lato), ma anche dagli habilis, indurrebbe a lasciare aperta, ma solo in linea teorica, questa possibilità. Per contro, come ci indicano gli etnologi e gli antropologi culturali, nel corso della storia delle civiltà non tutte le culture sono state in grado di elaborare un sistema coerente di comportamenti simbolici atti ad «elaborare il lutto», a dare un senso all’evento della scomparsa e dell’assenza; quella che altri hanno chiamato la «nuda morte», cioè la totale assenza di interventi sui cadaveri e di ritualizzazione, potrebbe anche essere stata una caratteristica comportamentale delle culture umane più antiche. Il problema, quindi, che concerne l’origine e le forme del rito funerario nel Paleolitico deve restare aperto. La pratica ripetuta dell’inumazione a partire dal Paleolitico medio testimonia l’insorgenza di una risposta sociale al tema della morte. Si tratta di una tappa culturale molto importante che si caratterizza per l’adozione di un segno, unico e destinato idealmente all’eternità, da contrapporre all’evento della scomparsa, anch’esso unico e irrimediabile. È il sorgere della memoria, come soluzione psicologica all’interruzione dell’esistenza e al senso di incompiutezza di una vita, come unica contrapposizione alla tragedia dell’accettazione dell’assenza, una sfida al tempo mediante l’adozione di uno spazio attorno al quale si consuma l’illusione della continuità della vita. Un carattere fondamentale del rito funerario paleolitico mediante inumazione risiede nella conservazione dei cadaveri nei medesimi luoghi dove si svolgeva la vita della comunità. La grotta è per i gruppi umani di questo periodo non solo il rifugio e il luogo dove si svolgono le attività utilitaristiche e pratiche ma an216

che la sede dove il sacro convive col profano, dove la quotidianità scorre accanto al mondo mitico e magico delle raffigurazioni parietali, al di sopra degli spazi ipogei dove i defunti, assenti come entità corporee visibili, mantengono una loro specifica presenza in una reale convivenza che acquista ancor più significato se pensiamo alla pratica – come vedremo tra poco – di conservare nel mondo dei vivi, come reliquie, alcune parti del loro corpo. La sfida lanciata al «tempo» mediante l’adozione di uno «spazio della memoria» si svolge non in una necropoli (le «città dei morti», dove vengono riunite le spoglie dei defunti in uno spazio solo ad esse riservato, sorgono in epoche preistoriche più tarde), dove l’anonimato di una successione di sepolture darebbe un senso definitivo all’assenza, ma nella grotta stessa dove la vita, incompiuta, si è svolta e dove la continuità della presenza di chi è ormai assente può portare consolazione. Questa convivenza con la morte rappresenta anche l’introduzione di una pratica simbolica che manifesta l’insorgere nell’uomo della coscienza della precarietà della vita, l’irruzione del caso nell’esistenza e, di conseguenza, la ricerca di un senso della vita laddove la morte porta una fine senza senso. La «pietas» neandertaliana Stando alla documentazione archeologica, il confronto collettivo con la morte, uno stato psicologico che nella storia delle culture umane ha dato origine ad atteggiamenti estremamente variati, trova il suo stadio iniziale nelle culture neandertaliane, alle quali vengono ascritte le più antiche pratiche funerarie mediante sepoltura in fossa. Il rito funerario presso i neandertaliani appare standardizzato in pratiche molto semplici destinate alla conservazione del corpo dei defunti che non prevedono sovrastrutture simboliche complesse (ad esempio offerte, corredi, agghindamenti particolari del defunto) ma la mera deposizione in una fossa-contenitore all’interno della grotta dove continuava la vita della comunità. Non esiste presso i neandertaliani un canone unico di deposizione del defunto; il corpo, infatti veniva disteso rannicchiato sul fianco con braccia e gambe piegate (Chapelle-aux-Saints), disteso sul fianco in atteggiamento non composto (La Ferrassie 1, Tabun) o con arti fortemente flessi (Skull 4), in decubito laterale 217

(La Quina, Qafzeh 3 e 9, Amud, Kiik Koba 2) (fig. 30a) e con le mani collocate vicino al viso (Le Régourdou, Spy) oppure col viso rivolto al suolo (Le-Roc-de-Marsal). Un carattere ricorrente è dato dalle gambe sempre flesse e dalla posizione molto variata delle braccia. Disposizioni più o meno caotiche di resti scheletrici (Skull 5 e 8, forse Qafzeh 6, Shanidar 6 e 8) indicano una riapertura della fossa o una deposizione secondaria, la mancanza di alcune parti craniali (Kebara) attesterebbe l’asportazione di una reliquia da trattenere nel mondo dei vivi (fig. 30b). Una possibile valenza simbolica potrebbe essere assegnata alle pietre presenti in alcune fosse, sia singoli blocchi (Qafzeh 11, poggiato sul bacino) sia in discreto numero (Shanidar 1 e 5), a meno che non si pensi che la copertura a pietrame fosse destinata a salvaguardare il cadavere dalle devastazioni dei carnivori. Forse a scopo di protezione il cadavere del giovane defunto di Tashik-Tash è stato ricoperto con corna di stambecco (Capra siberica), le quali però potevano anche avere la funzione di segnacolo (fig. 30c, d). Molto discussa è la documentazione delle offerte funerarie e sino ad oggi una documentazione accettata è quella del palco di cervo elafo che giaceva sulle mani (a diretto contatto col palmo rivolto in alto) del giovane inumato Qafzeh 11 e anche diversi blocchetti di ocra rossa sono segnalati. All’interno delle rare offerte di parti animali sembrano ricorrenti i resti di poche specie, ad esempio crani di cinghiale nella grotta di Skul, corna di stambecco a Tasik-Tash, ossa di mammut ad Arcy-sur-Cure. Per ora unica è la documentazione, in verità discussa, di un’offerta floreale (Shanidar) rilevata sulla base di una grande quantità di pollini fossili di fiori all’interno della fossa; non si può escludere che l’assenza di offerte possa essere dovuta alla deperibilità di eventuali corredi di natura vegetale. Inoltre non è stato rilevato un criterio di inumazione né legato al sesso né all’età: si hanno bambini, adolescenti, adulti, anziani, sia maschi sia femmine senza discrepanze statistiche. Dallo spazio della memoria alla metamorfosi della morte Se nello stadio culturale neandertaliano l’inumazione rappresenta l’introduzione nella società del rito della memoria, nel Paleolitico superiore la pratica innovativa è rappresentata da una mani218

polazione dei cadaveri attraverso una sorta di toilette funeraria che prevede una certa gamma di posizioni, la protezione di alcune parti del corpo (cranio), rivestimenti di ocra, ornamenti e monili (fig. 31a, c), indumenti anche forniti di decorazioni, offerte alimentari e una serie di gesti simbolici (tra i quali l’impiego del fuoco). Potremmo interpretare questo passaggio ad una ritualità maggiormente complessa come una reazione, più forte rispetto al passato, al processo di disgregazione del corpo (tanatomorfòsi) che si attua attraverso una serie di gesti volti al modellamento culturale del corpo (antropopoiesi, secondo la definizione di Francesco Remotti). Nel sistema culturale del sapiens la «memoria» sembra non essere più sufficiente e all’insensatezza della vita interrotta deve essere contrapposta una ritualità palese, fatta di doni, di messaggi, di abbellimenti. Una metamorfosi della morte che, attraverso un ingenuo controllo della disgregazione del corpo, contrappone un gesto effimero al senso altrettanto effimero dell’esistenza. Non registriamo cesure di rilievo nelle modalità di conservazione del cadavere che restano, come in passato, legate all’interramento del defunto in fossa; questo codice rituale, adottato in tutta Europa, si arricchisce di elaborazioni e di canoni simbolici che riguardano, oltre che il trattamento del defunto, anche il numero degli inumati (sepolture simultanee di due o più individui, apertura di fosse sepolcrali ravvicinate). In tutta Europa a partire dal primo Paleolitico superiore si diffondono alcuni canoni funerari: uso della fossa funeraria, impiego dell’ocra rossa (al valore simbolico legato al colore acceso, da alcuni equiparato al sangue come metafora della vita, potremmo contrapporre la funzione utilitaristica di questo minerale che, cosparso sui cadaveri, col suo potere impermeabilizzante poteva bloccare le mefitiche esalazioni legate ai processi di putrefazione), ricchezza e variabilità degli ornamenti del corpo e delle offerte (cuffie, indumenti, monili, oggetti esotici, armi, oggetti d’uso ma di dimensioni particolari) ma soprattutto dell’acconciatura, presenza di strutture di protezione della testa. All’interno di questo standard il rito funerario europeo comprende alcune varianti che nulla tolgono alla omogeneità del rito: le deposizioni, in genere singole, possono essere bisome o trisome (fig. 31b); la posizione degli inumati, più spesso supina, può essere varia, rannicchiata, di fianco, con le braccia lungo il 219

corpo o sul pube o rivolte verso la testa; la testa talora poggia su una roccia in guisa di cuscino e non sono infrequenti i casi di blocchi rocciosi poggianti sulle tibie o sui piedi del defunto. In ambito italiano, dove possediamo una buona casistica di sepolture della prima parte del Paleolitico superiore (dall’Aurignaziano al primo Epigravettiano, cioè sino all’inizio del Tardoglaciale, vale a dire sino a 17.000 anni fa), il rituale funerario appare caratterizzato da alcuni canoni potremmo dire cosmopoliti con dettagli e accorgimenti locali dovuti ai diversi substrati culturali. Citiamo, tra le evidenze funerarie importanti, le sepolture liguri del Bausu da Ture, di Grotta del Caviglione, la triplice sepoltura della Barma Grande, quelle pugliesi di Paglicci II e III, tutte indicative della mancanza di un canone unico di deposizione (supina, laterale, con la faccia verso il basso, gambe distese o flesse...). Emblematica è la sepoltura cosiddetta del Giovane Principe nella caverna delle Arene Candide, in Liguria, risalente a circa 20-19.000 anni or sono, per quanto riguarda l’impiego di ocra rossa e la ricchezza del corredo funerario consistente in manufatti litici (in particolare una grande lama di 25 cm tenuta in mano), un copricapo che scendeva anche sulla fronte e sulle orecchie composto da centinaia di esemplari di conchiglie, piccoli gasteropodi, ricci di mare e denti canini atrofici di cervo forati, una ricca acconciatura di molluschi forati, l’ornamento del collo e del torace, la presenza di bracciali e pendagli, l’offerta di quattro bastoni forati in corno di Alce (tre sono decorati con incisioni a linee e a tacche), probabilmente portati a tracolla, che conferiscono, per la loro eccezionalità, un ruolo di grande prestigio all’inumato (fig. 32a). La sepoltura del Giovane Principe delle Arene Candide sembra chiudere un primo ciclo del rito funerario del Paleolitico superiore; come A. Palma di Cesnola ha acutamente osservato, la «cultura del morire» epigravettiana si trasforma e nel Tardoglaciale assistiamo ad una graduale e progressiva sobrietà del rito che sembra però arricchirsi di valenze simboliche più accentuate. Tutte le diverse inumazioni dell’Epigravettiano finale a tutt’oggi note (Grotta dei Fanciulli, la cosiddetta piccola necropoli della Caverna delle Arene Candide, Riparo Tagliente e Riparo Villabruna A nel Veneto, Vado all’Arancio in Toscana, grotte Continenza e Maritza in Abruzzo, grotte Paglicci e Romanelli in Puglia, Grotta e Riparo del Romito in Calabria (fig. 32b), grotte di San Teodoro 220

e d’Oriente in Sicilia), indicano con chiarezza una trasformazione formale del rituale funerario che si codifica in una pratica di inumazione più sobria ed essenziale rispetto alla tradizione aurignaco-gravettiana. La posizione supina, con gli arti più spesso distesi, diviene uno standard (nel periodo precedente essa era una delle possibili variabili), l’impiego dell’ocra diventa molto raro, le strutture protettive della testa non vengono più costruite e i cadaveri talora (Tagliente, Romito) vengono ricoperti da una sorta di tumulo di pietrami all’interno della fossa, che potrebbero aver avuto la funzione di proteggere il corpo dalla devastazione dei carnivori. Un altro carattere primario delle sepolture più recenti è la rarefazione, se non la scomparsa, del corredo e degli ornamenti del corpo (fanno eccezione le evidenze della Liguria dove permane la tradizione di ricche acconciature, come alle Arene Candide, o di indumenti ornati con molluschi forati, come i perizomi della Grotta dei Fanciulli), ma anche dei manufatti litici di grande taglia e di accurata fattura che abbiamo visto essere un’offerta ricorrente nelle sepolture più antiche; le offerte sono ora limitate a ciottoletti più o meno allungati, richiamanti forse una forma fallica (Arene Candide, Grotta del Romito), a minerali esotici, a piccoli grumi di ocra, a resti di piccoli mammiferi (castoro, scoiattolo, riccio) o di uccelli o di pesci, a corna di bovino o di cervide. Altro elemento significativo è l’incremento delle sepolture plurime e anche del numero di fosse più o meno coeve all’interno del medesimo sito (Arene Candide, Romito, San Teodoro); ciò potrebbe essere in relazione all’aumento demografico attestato nel Tardoglaciale oppure, indipendentemente da questo, ad una maggiore diffusione del rito funerario mediante inumazione. Le reliquie La manipolazione dei cadaveri e i gesti simbolici destinati ad attuare idealmente una metamorfosi del processo di dissoluzione del fisico non si concludono nel chiuso di un sepolcro ma proseguono anche nel mondo dei vivi. Se la conservazione delle spoglie nelle fosse funerarie aperte all’interno dei siti abitativi testimonia una convivenza con la morte, carica di valenze psicologiche e culturali, il trattenere presso di sé piccole porzioni del corpo del de221

funto testimonia l’esigenza di una presenza visibile, tangibile all’interno della comunità. La pratica delle conservazioni delle reliquie sembra presente già presso i neandertaliani, stando ad alcune evidenze scheletriche non integre (inumazione Kebara 2, nel Vicino Oriente, mancante del cranio prelevato dopo un certo tempo dall’interramento), ma è soprattutto nel Paleolitico superiore che essa si diffonde, soprattutto a partire dal Gravettiano per poi enfatizzarsi nel Tardoglaciale. Si tratta di resti craniali e postcraniali isolati rinvenuti per lo più sulle paleosuperfici d’uso all’interno delle grotte; alcune reliquie sono state oggetto di attenzioni particolari, probabilmente rituali, e significativo, in tal senso, è il loro inserimento in nicchie o anfratti delle pareti delle grotte a guisa di piccoli «altari». Nella Grotta Paglicci è nota una prova diretta di questa pratica in un livello dell’Epigravettiano che ha restituito quello che A. Palma di Cesnola ha definito «una sorta di altarino», cioè due omeri umani incrociati appoggiati su una lastra calcarea; essa si associa ad altri resti rinvenuti isolati, soprattutto gravettiani (un omero incompleto, porzioni di radio e ulna, mandibole, frammenti di cranio, denti). Oltre a ciò la sepoltura gravettiana (circa 24.700 anni fa) del giovane adolescente detto Paglicci II, mancante dell’omero sinistro, offre una prova indiretta del trattenimento nel mondo dei vivi di piccole parti del corpo del defunto. Alla Grotta Polesini, nel Lazio, è attestata la pratica di colorare la reliquia con ocra rossa. Un ulteriore documento, più elaborato nel rituale, è segnalato nella grotta pirenaica di Mas d’Azil, dove in una nicchia della parete era conservato (ancora un «altarino», quindi) il cranio di una giovane fanciulla con i fori orbitali obliterati da due placchette ossee. La casistica di queste testimonianze di reliquie, alla quale si accenna anche nel capitolo seguente, è ampia e concerne diverse regioni europee, a riprova di un atteggiamento rituale generalizzato la cui ripetitività garantisce la non occasionalità del dato archeologico ma l’esistenza di un sistema comportamentale simbolico e rituale. Nota bibliografica Il tema del rito funerario è stato trattato, in modo più o meno ampio, in tutte le opere di carattere generale citate per i capitoli precedenti: 222

D. Vialou, La Préhistoire. Histoire et dictionnaire, Laffont, Paris 2004; A. Leroi-Ghouran (a cura di), Dizionario di Preistoria (ed. it. a cura di M. Piperno), Einaudi, Torino 1992 (voll. I-II); M. Otte, La Préhistoire, De Boeck & Larcier, Bruxelles 1999; A. Broglio, J. Kozlowski, Il Paleolitico. Uomo, ambiente e culture, Jaca Book, Milano 1986; A. Broglio, Introduzione al Paleolitico, Laterza, Roma-Bari 1998. L’argomento viene affrontato naturalmente anche nel saggio di J. Kozlowski, M. Otte, Il Paleolitico superiore in Europa, in J. Guilaine, S. Settis (a cura di), Storia d’Europa. Preistoria e antichità, vol. II, t. I, Einaudi, Torino 1994. F. May è autrice dell’opera di sintesi più importante per le evidenze europee, Les sépoltures préhistoriques, CNRS, Paris 1986, considerata un valido riferimento da chi si occupa di questo tema. A. Palma di Cesnola ha più volte affrontato il tema del rito funerario del Paleolitico superiore in Italia, mettendo in luce, di volta in volta, nuovi aspetti interpretativi e spunti di riflessione; il quadro generale più dettagliato e approfondito nelle informazioni e nelle problematiche rimane il suo testo Il Paleolitico superiore in Italia. Introduzione allo studio, Garlatti e Razzai, Firenze 1993, inoltre si rimanda, anche per i titoli principali di questo autore sull’argomento, anche al suo ultimo studio Variazioni nel tempo e nello spazio dei riti funerari del Paleolitico superiore italiano, in «Bullettino di Paletnologia italiana», n.s., XI-XII, 2002-2003, 93-94, pp. 1-18. Riferimenti alle nuove evidenze funerarie di Grotta del Romito in F. Martini et al., La nuova sepoltura epigravettiana «Romito 7» a Papasidero, Atti XXXVII Riunione Scientifica IIPP in Calabria, Firenze 2004, pp. 101-12; F. Martini (a cura di), Grotta del Romito, Museo fiorentino di Preistoria Paolo Graziosi, Firenze 2002. Un’opera di sintesi sul rito funerario paleolitico, di prossima pubblicazione, è in corso di redazione nell’ambito del Progetto dell’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria La cultura del morire. Il rito funerario nella preistoria e nella protostoria in Italia.

Capitolo ottavo

«Homo religiosus»: modi e spazi dell’esperienza sacrale

Quelle che possiamo chiamare «esperienze del sacro» presso le comunità preistoriche sono oggi denominate dagli archeologi con termini talora ambigui, che solo con forzature interpretative o con grandi rischi concettuali possono essere impiegati per i gruppi umani paleolitici. Il termine «religione», per esempio, indica esperienze condizionate da precetti rigidi, da regole codificate (da relegare, osservare coscienziosamente oppure da religare, legare) non collegate a importanti presupposti psichici e comportamenti derivati dalla tradizione mitologica sensu lato. Altro termine ricorrente nella lettura paletnologica è quello di «magia», intesa come comportamento mediante gesti o parole che ha come obiettivo l’influenza da parte dell’uomo di un fenomeno naturale o psichico. Certo più appropriato è il concetto di rito (inteso come una sequenza prestabilita di atti, parole e formule ritenuti capaci di agire sugli eventi) viene in un qualche modo ad unificare il contenuto di quello che magia e religione comprendono nei loro significati più specifici, in quanto materializza in pratiche e comportamenti – oltre che in parole e formule – la tensione tipicamente umana a ricercare forme di protezione e di rassicurazione quando mancano gli strumenti di controllo della realtà interna ed esterna. In altre parole il rito materializza la sovrapposizione di un’esigenza interiore a quanto è dato all’uomo di rilevare mediante i sensi. Vengono spesso ricollegati alla sfera rituale documenti che sembrano indicare o una situazione inusuale oppure uno stato eccezionale. Ma il presupposto fondamentale per tentare una riflessione su tali documenti al fine di convalidare un loro legame con la sfera del «sacro» non è tanto l’essere fuori dalla norma, quanto 225

piuttosto la ripetitività di un gesto, di una pratica comportamentale, di atti materiali che possono avere in modo indiscutibile un significato simbolico. Questo carattere di ripetitività del gesto simbolico, che attesta un codice ideologico all’interno di un sistema culturale, rende verosimile la sua attinenza alle esperienze del sacro. La sacralità, quindi, come parametro di identità di una comunità che non ammette individualismi nell’invenzione di gesti (essi diventerebbero atti religiosi privati, in termini psicanalitici atteggiamenti nevrotici). Se la ripetitività del rituale testimonia a favore dell’esistenza di una esperienza del sacro, il significato del rituale e il senso del linguaggio e del gesto simbolico inesorabilmente ci sfuggono. Ogni tentativo di ancorare una decifrazione ad una realtà comportamentale e ad una interiorità dedotte da confronti etnografici rimane precario, in quanto il rapporto tra comportamento rituale e significato non è univoco. La presenza di pratiche magico-religiose durante il Paleolitico sembra verosimile ma l’entità dei documenti archeologici è nel complesso troppo esigua per poter affrontare in modo significativo l’argomento e ci si deve spesso limitare a ipotesi. La pratica dell’inumazione, che possiede in alcune fasi del Paleolitico un codice comportamentale abbastanza codificato, è la migliore attestazione del rito nelle società. Resta talora controversa l’attribuzione di resti umani a pratiche rituali di conservazione e di manipolazione di ossa umane: molto citato è nella letteratura paletnologica il caso di Ciu-cu-tien, riferito ad una ipotetica pratica di cannibalismo, la quale tuttavia, quando anche fosse dimostrata, non necessariamente dovrebbe rivestire un carattere rituale. A forme di cannibalismo sono ascritte alcune documentazioni musteriane comprendenti resti umani frammentati e recanti tracce di colpi e di bruciature (Krapina in Croazia, Marillac in Francia, Engis in Belgio); se da un lato la pratica antropofagica pare indubitabile, dall’altro il carattere rituale rimane anche in questo caso assai aleatorio. Significativi sono, su questo argomento, alcuni documenti isolati che lasciano presupporre pratiche sacrali: il calvario di individuo femminile del Mas d’Azil, manipolato con l’inserimento nelle cavità orbitarie di due placchette d’osso lavorate; il cranio completo di individuo femminile dalla grotta del Placard circondato da un corredo di conchiglie e le cinque calotte craniche (quattro in fila) dal medesimo sito, manipolate sino ad essere 226

trasformate in recipienti, il cranio del bambino neandertaliano di La Ferrassie, deposto in una fossetta, i crani isolati di Abri Lachaud, Rochereil Le Placare, Cuzoul, Sauveterre, solo per citarne alcuni, ma anche quelli di Offnet, di Dolni Vestonice ecc., i crani isolati delle Grotte di Ortucchio e La Punta in Abruzzo, sono evidenze, purtroppo isolate, di tempi e culture diverse. Secondo alcuni autori potrebbero indicare un culto dei crani oppure un cannibalismo rituale o ancora essere trofei di guerra. Abbiamo già accennato alla conservazione di reliquie tratte da persone defunte; talora, per le fasi più antiche, la valenza rituale di questa pratica non è dimostrabile, come nel caso di Ngandong (Paleolitico inferiore), che ha restituito in uno spazio ristretto 11 teche craniche e due tibie, sembrerebbe attestata una pratica di conservazione della sola scatola cranica prelevata dopo il disseccamento del cranio. Nel Paleolitico medio sono segnalati crani isolati (Jebel Irhoud in Marocco, Petralona in Grecia) a testimonianza di un rito di conservazione dei crani quale reliquia che trova una prova indiretta nello scheletro acefalo di Le Regourdou. Questa pratica nel Paleolitico superiore possiede maggiori documentazioni; a titolo esemplificativo citiamo ancora una volta Grotta Paglicci: negli strati gravettiani denti, frammenti di mandibole e di cranio, un omero incompleto erano dispersi sul piano di abitazione insieme ai resti di pasto e agli utensili litici; nello strato 5 epigravettiano due omeri appartenenti a due individui diversi appoggiati su una lastra di pietra, in una sorta di «altarino». Prove indirette della conservazione di reliquie nel mondo dei vivi è la mancanza di parti dello scheletro degli inumati. Alcune reliquie sono state manipolate e vi è stato praticato un foro di sospensione (Grotte di Trois Frères e La Combe). La sfera del sacro si è sempre alimentata, nella storia dell’uomo, delle raffigurazioni simboliche, che ritroviamo, naturalmente, anche alle origini della pratica iconografica sulle pareti delle grotte e su oggetti mobili; non secondario è il fatto che dette immagini siano localizzate spesso in zone particolari della grotta, talora di difficile accesso. I temi principali, come abbiamo già avuto modo di vedere, sono due, il mondo animale comprendente talora esemplari feroci e pericolosi, e la sessualità, quest’ultima esemplificata soprattutto attraverso la capacità riproduttiva femminile. Le rappresentazioni di organi sessuali femminili e, meno 227

frequentemente, maschili indicano la peculiarità di un tema legato ad espressioni simboliche relative alla fecondità. Alcune figure umane paiono rimandare a pratiche simboliche legate al «sacro»: sono le immagini di personaggi mascherati con teste zoomorfe, esemplificative di personaggi reali con funzione «sciamanica» oppure di un amalgama tra mondo animale e natura umana. A favore di azioni rituali simboliche in grotta vengono portati alcuni simboli ricorrenti nelle immagini di animali dipinte o incise: si tratta soprattutto di animali colpiti da frecce, di proiettili scagliati contro le pareti o di raffigurazioni delle impronte di mani e di piedi, di segni geometrici o puntiformi. Gli animali feriti e le frecce (fig. 33a-b) sono comunemente interpretati come aspetto di un rito per propiziare la caccia in caso di animali utili all’uomo o come rito di magia distruttiva per quelli pericolosi; è stato comunque osservato che non sempre vi è corrispondenza tra animali figurati e resti di pasto nelle grotte. Particolare, in quest’ambito, è la documentazione offerta dalla grotta di Montespan, contenente in uno degli ambienti più interni immagini zoomorfe che rimandano a riti violenti di simulazione della caccia. I simulacri di cavalli ad incisione sono stati bersagliati insistentemente e una figura di felino modellata in argilla risulta quasi demolita dalla furia dei colpi. A breve distanza la figura acefala di orso, la cui testa fu rinvenuta staccata, è interessata da numerose ferite. Un discorso più complesso è quello relativo alle impronte di mani e di piedi. Molto è stato scritto sulle impronte di piedi rimaste sui suoli argillosi di alcune grotte: queste impronte, attribuite ad adolescenti, hanno portato a vedere le grotte come luogo deputato ai riti di iniziazione, in luoghi segreti e oscuri, dominati dalle immagini delle divinità animali, soprattutto quando le impronte dei piedi nudi mostrano andamenti particolari e possono far ipotizzare una possibile danza. Nella grotta francese del Tuc d’Audoubert impronte di soli talloni erano attorno ad un cerchio di sottili stalattiti conficcate nel suolo, lungo un corridoio di accesso alla sala terminale, si sono conservate cinque file di impronte di piedi, nelle quali risulta particolarmente evidente il solco lasciato dal tallone, che si dirigono verso cinque coni di argilla nei quali alcuni hanno visto un simbolo fallico; l’ipotesi di una marcia ordinata con un passo codificato (forse di danza?) resta plausibile, e l’accesso difficoltoso alla caverna attraverso un cuni228

colo erto, basso e stretto potrebbe essere in relazione all’esperienza iniziatica. Molta prudenza è necessaria nel considerare ipoteticamente rituali quegli oggetti esotici rinvenuti in contesti abitativi (granuli di ocra, frammenti di quarzo, di pirite, gasteropodi fossili...) sin dall’epoca di Neandertal. Alla sfera del sacro, invece, potrebbero rimandare alcuni ammassi di oggetti, una sorta di ripostiglio, che paiono prescindere da impieghi utilitaristici. Nella Grotta di Vogelherd, Germania, sono stati rinvenuti diversi esemplari di piccole statuette zoomorfe, localizzati presso la parete rocciosa in un’area fortemente antropizzata utilizzata anche per la lavorazione dell’avorio. A Grotta delle Veneri, in Puglia, circa 500 pietre incise a motivi geometrici spezzate ab antiquo erano ammassate in un anfratto della parete. Anche a Isturitz sono segnalate figure scolpite e graffite ridotte in frammenti o mutilate. Questo tipo di documento archeologico, anche se non prova indiscutibilmente la pratica rituale (frammentazione rituale, distruzione delle immagini?) suggerisce un’attività che prescinde dall’impiego utilitaristico dell’oggetto. In sintesi i documenti che in un qualche modo sembrano attestare una pratica rituale concernono tre temi: l’approvvigionamento del cibo (la caccia), la sopravvivenza del gruppo (la fertilità), la dimensione della finitezza della vita (inumazioni e pratiche ad esse assimilabili). Le documentazioni archeologiche che ci attestano la pratica rituale nel Paleolitico in modo indubitabile, ed altre meno paradigmatiche ma da non ignorare, sembrano indicare nella grotta lo spazio privilegiato dove avviene e si materializza la coscienza del sacro. Nella struttura comportamentale dell’uomo «religioso», in ogni tempo e ad ogni latitudine, lo spazio abitato è una realtà disomogenea le cui parti possono avere significati e funzioni qualitativamente molto differenziate. L’esperienza sacrale ha sempre avuto la necessità di essere delimitata entro confini, limiti, cornici ben definite. Si pensi, tra l’altro, alla pratica del sulcus primigenius, che già dall’Eneolitico sino alla fondazione di Roma costituisce il gesto primario per la fondazione di una struttura, monumentale o no; si pensi anche alla determinazione dell’omphalós geografico come punto di orientamento e di collegamento tra mondo reale e non, al significato costruttivo dei templi nelle so229

cietà religiose arcaiche, alla chiesa cristiana come contrapposizione alla dimensione profana del luogo abitato. La grotta durante il Paleolitico sembra possedere il requisito di poter diventare uno spazio sacro; infatti è il luogo privilegiato del rito funerario, è la sede primaria dove gli artisti del Paleolitico superiore esprimono la loro concezione simbolica del reale, è nella grotta che si attuano quei comportamenti che paiono attestare, pur nella loro nebulosità documentale, l’esistenza di riti di iniziazione, di rapporti forse cultuali col mondo animale. La grotta come spazio sacro, témenos entro cui ha luogo la ierofania o il rapporto privilegiato con il non reale, va intesa come l’acquisizione di un punto di riferimento sul quale fondare un ordine e un codice di interpretazione del mondo. L’omogeneità dello spazio non differenziato equivale al caos, la rottura di questa omogeneità e la costruzione di un «centro» sacrale sono la condizione per dare validità ed efficacia al rito. Nota bibliografica Questo capitolo rappresenta parte del più ampio testo che ho redatto insieme a Renata Grifoni Cremonesi, La frequentazione rituale delle grotte durante il Paleolitico, in occasione del Convegno organizzato nel 2000 in Liguria sulla Grotta di Toirano e sull’uso delle grotte nella preistoria (atti in corso di stampa), al quale si rimanda per la bibliografia di dettaglio. Sull’argomento vengono qui forniti alcuni riferimenti principali nei quali il lettore potrà trovare informazioni su singoli documenti ma anche valutare le diverse impostazioni metodologiche. Si segnalano, in particolare: R. Otto, Das Heilige. Uber das irrationale in der idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, München 1936 (trad. it. a cura di E. Buonaiuti, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione col razionale, Feltrinelli, Milano 1996); A.C. Blanc, Origine e sviluppo dei popoli cacciatori e raccoglitori, L’Ateneo, Roma 1956; A. Leroi-Gourhan, Les religions de la préhistoire, Presses Universitaires de France, Paris 1964; M. Otte, Préhistoire des religions, Masson, Paris 1993; C. Bell, Ritual: Perspectives and Dimensions, Oxford University Press, New York 1997; S. Ciattini, Antropologia delle religioni, Carocci, Roma 1998. Il tema si ricollega in parte anche a quanto ipotizzato da A. Laming Emperaire nel suo La signification de l’art rupestre paléolithique, Picard, Paris 1962; J. Clottes ha affrontato l’argomento più volte, in Conservation des traces 230

et des empreintes, in «Histoire et Archéologie», 90, 1985, pp. 40-49; in L’archéologie des grottes ornées, in «La Recherche», 239, 1992, pp. 5261; insieme a D. Lewis Williams in Les chamanes des cavernes. Transe et magie dans les grottes ornées, Seuil, Paris 1996. Si veda inoltre J.O. Lewis William, T.A. Dowson, The Signs of All Times: Entoptic Phenomena in Upper Palaeolithic Art, in «Current Anthropology», 29, 1989, 2, pp. 201-45. Per la bibliografia di dettaglio dei documenti italiani citati nel testo si veda A. Palma di Cesnola, Il Paleolitico superiore in Italia. Introduzione allo studio, Garlatti e Razzai, Firenze 1993.

Appendice

Le date della Terra Era

Periodo

Epoca

Olocene

Milioni di anni

0,01

0

Pleistocene

1,8

0,01

Pliocene Miocene Oligocene Eocene Paleocene

5,2 25,2 36 54 66,5

1,8 5,2 25,2 36 54

Quaternario

Cenozoico Terziario

Mesozoico

Cretaceo Giurese Trias

144 213 248

66,5 144 213

Paleozoico

Permiano Pennsylvaniano Mississippiano Devoniano Siluriano Ordoviciano Cambriano

286 320 345 408 438 505 590

248 286 320 345 408 438 505

4.600

590

Precambriano

Le date della cultura Migliaia di anni

Neolitico

6

4

Mesolitico

10

6

20 28 35

10 20 28

200 2.500

35 200

superiore Paleolitico medio inferiore

recente medio antico

Gli autori

Gianfranco Biondi insegna Antropologia nell’Università dell’Aquila. Con Olga Rickards ha scritto: I sentieri dell’evoluzione (Cuen, 2000); Uomini per caso (Editori Riuniti, 2001); e Il codice Darwin (Codice, 2005). Fabio Martini insegna Paletnologia ed Ecologia preistorica nell’Università di Firenze. È specialista di archeologia del Paleolitico e del Mesolitico ed ha condotto, e conduce, ricerche nel Centro-Sud dell’Italia peninsulare, in Sicilia, in Sardegna e in Africa orientale. È autore di monografie e articoli relativi alle produzioni materiali, all’arte preistorica e a sintesi regionali. Olga Rickards è co-editore della rivista «Annals of Human Biology» e dirige il Centro dipartimentale di antropologia molecolare per lo studio del DNA antico dell’Università di Roma Tor Vergata, dove insegna Antropologia molecolare. Con Gianfranco Biondi ha scritto: I sentieri dell’evoluzione (Cuen, 2000); Uomini per caso (Editori Riuniti, 2001); e Il codice Darwin (Codice, 2005). Giuseppe Rotilio insegna Biochimica nell’Università di Roma Tor Vergata, dove ha fondato e presiede il corso di laurea in Scienze della Nutrizione umana. Dal 2002 dirige il Centro di Studi su Alimentazione e Riabilitazione (CeSAR) presso la Fondazione Santa Lucia. Nel 2004 ha ricevuto dall’Accademia dei Lincei il premio per la Medicina. Ha scritto: Struttura e funzione delle proteine (Nuova Italia Scientifica, 1993).

Indice

Presentazione

V

Parte prima

Umani da sei milioni di anni

di Gianfranco Biondi e Olga Rickards

I.

I primi passi della dinastia

5

A immagine di Darwin, p. 5 - Noi bipedi, p. 7 - I primi aspiranti ominini, p. 10 - Gli australopiteci d’oriente, p. 15 - Gli australopiteci del sud, p. 20 - Tra est e ovest, p. 25 - Il ramo dei parantropi, p. 27 - Una fisionomia per australopiteci e parantropi, p. 30 - Un nuovo genere a fianco degli australopiteci, p. 32

II.

Dall’evoluzione compare un «Homo»

35

Un ponte sul «Rubicone», p. 35 - Un ominino di specchiata abilità – «Homo habilis», p. 36 - Un compagno per l’abile – «Homo rudolfensis», p. 40 - Un altro ramo nel cespuglio – «Homo ergaster», p. 41 - L’uomo del Caucaso – «Homo georgicus», p. 45 - Sulla via dell’oriente – «Homo erectus» e «Homo floresiensis», p. 46 Andando a nord – «Homo antecessor» e «Homo cepranensis», p. 52 - Nella casa europea – «Homo heidelbergensis», p. 54

III.

Neandertal o l’avo mancato I fossili negletti, p. 57 - Più bruti che uomini, p. 61 - Una nuova immagine per i neandertaliani, p. 63 - I neandertaliani in sintesi, p. 66 - Dalle molecole il posto dei neandertaliani nella tassonomia, p. 66

243

57

IV.

Sapienti e recenti

71

L’ultima invenzione evolutiva, p. 71 - Fuori dall’Africa, p. 74 - Mai più razze, p. 76 - Alla conquista del mondo, p. 79

Parte seconda

L’alimentazione degli ominini fino alla rivoluzione agropastorale del Neolitico di Giuseppe Rotilio

I.

Dal cibo al DNA: alimentazione, geni e malattie

83

II.

Dal DNA al cibo: selezione di un handicap

91

III.

L’espansione del vegetarianismo nel Pliocene

95

IV.

Cibi alternativi all’alba del Paleolitico

101

V.

Nato per correre: «Homo erectus» e rivoluzione alimentare del primo Pleistocene

107

VI.

Interpretazione di reperti fossili in chiave alimentare e formazione delle prime società

115

VII. Il crudo e il cotto

121

VIII. Un primate con un grande cervello e un’ottima dieta

125

IX.

Elogio del grasso: «survival of the fittest» o «survival of the fattest»?

129

X.

Grassi speciali dall’acqua e dai litorali: la chiave nutrizionale per il grande cervello

135

XI.

Balla coi lupi

141

XII. L’autunno del Paleolitico e della sua dieta 244

145

Parte terza

In principio. Origine ed evoluzione delle culture paleolitiche di Fabio Martini

I.

Dalla natura alla cultura

151

Cinque domande per cominciare, p. 151 - Vietato non scheggiare, p. 157 - Verso il controllo della realtà: lo stadio culturale acheuleano, p. 161 - «Out of Africa»: primi passi in Europa e le fasi antiche del Paleolitico nel Vecchio Mondo, p. 163 - Nota bibliografica, p. 168

II.

Neandertal

171

A qualcuno piace freddo: culture e ambienti del Musteriano, p. 171 - Nota bibliografica, p. 176

III.

40.000-30.000 anni fa: la prima Europa

177

Gli ultimi neandertaliani, p. 177 - L’Aurignaziano e la formazione della prima cultura cosmopolita, p. 178 Nota bibliografica, p. 183

IV.

Il grande freddo: trasformazioni e adattamenti dei cacciatori di renne e di mammut 185 I complessi del Pleniglaciale, p. 185 - Nota bibliografica, p. 189

V.

Regioni e frontiere: il nuovo assetto dell’Europa postgravettiana (20.000-17.000 anni or sono)

191

L’Europa continentale, p. 191 - L’Epigravettiano: la provincia culturale nell’Europa mediterranea, p. 194 Nota bibliografica, p. 198

VI.

L’origine dell’arte: segni e colori al posto delle parole 201 I primi segni, p. 201 - Il «fare segno» dei «sapiens» paleolitici ovvero quanti Michelangelo, Picasso, Moore, Kline...?, p. 202 - Gli «artisti italiani» del Paleolitico superiore in Italia: circuiti internazionali e nuove tendenze, p. 204 - Le figurazioni preistoriche sono opere d’arte?, p. 207 - Il segno è una comunicazione non verbale, p. 210 - Nota bibliografica, p. 211

245

VII. La cultura del morire

215

Convivere con la morte, p. 215 - La «pietas» neandertaliana, p. 217 - Dallo spazio della memoria alla metamorfosi della morte, p. 218 - Le reliquie, p. 221 - Nota bibliografica, p. 222

VIII. «Homo religiosus»: modi e spazi dell’esperienza sacrale

225

Nota bibliografica, p. 230

Appendice

233

Le date della Terra, p. 235 - Le date della cultura, p. 236

Gli autori

237