Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia 9788842087397

In questo libro Margherita Pelaja e Lucetta Scaraffia rivelano come il tentativo di unire lo spirito alla carne, e quind

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Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia
 9788842087397

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Storia e Società

© 2008, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2008

Margherita Pelaja Lucetta Scaraffia

Due in una carne Chiesa e sessualità nella storia

Editori Laterza

Referenze iconografiche Fig. 1: © Contrasto Fig. 2: Per gentile concessione della Soprintendenza BAPPSAE dell’Umbria Fig. 3: © 1999. Foto Scala, Firenze Fig. 4: © Contrasto Fig. 5: © 1990. Foto Scala, Firenze Fig. 7: © Contrasto Fig. 8: Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali © 1990. Foto Scala, Firenze Fig. 9: MSK Ghent, photo ©Lukas-Art in Flanders vzw Fig. 10: Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali © 2007. Foto Scala, Firenze

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione.

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel luglio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-8739-7

È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. Per la legge italiana la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l’autore. Quindi ogni fotocopia che eviti l’acquisto di un libro è illecita e minaccia la sopravvivenza di un modo di trasmettere la conoscenza. Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura.

Introduzione DUE IN UN LIBRO

Due nomi, due biografie, due passioni intellettuali. Sono molti i libri che affiancano autrici e autori diversi in una stessa prospettiva di ricerca, in un comune progetto conoscitivo. In questo libro le differenze tra le autrici sono più profonde, perché toccano la concezione stessa dell’oggetto di indagine; ma aggiungono senso alla ricerca, perché si propongono di mostrare la possibilità di confrontare, interrogare – mai contrapporre ideologicamente e mai mediare per opportunità politica – due visioni diverse nella sostanza. E il lavoro comune si basa su una condivisa volontà di riesaminare e verificare stereotipi acclamati, come quello che il cristianesimo prima, e la Chiesa cattolica poi, siano caratterizzati da una sostanziale sessuofobia. Si basa anche sulla fiducia – che qui diventa una concreta scommessa – che un lavoro di ricerca storica possa essere svolto insieme da due studiose che pure si collocano su posizioni ideologiche per alcuni aspetti opposte. Margherita Pelaja è laica. Storica e militante femminista negli anni Settanta, ha progressivamente saldato interessi scientifici e passione politica nel progetto e nell’esperienza della storia delle donne. Insieme con altre studiose ha fondato nel 1981 «Memoria», una rivista importante nel panorama dei gender studies in Italia, e più tardi la Società italiana delle storiche. Ha orientato le sue ricerche soprattutto sull’interazione di donne e famiglie con la giustizia e gli apparati giudiziari tra Sette e Novecento, privilegiando i conflitti che avevano al loro centro questioni sessuali. Nello studio dello Stato pontificio ha così potuto analizzare le politiche delle diverse istituzioni ecclesiastiche nelle loro articola-

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zioni storiche, scegliendo – pur con una certa inquietudine – di non prendere in considerazione le critiche di chi ritiene parziale o addirittura fuorviante un’analisi che non comprenda in sé la dimensione spirituale e la questione della fede. Lucetta Scaraffia condivide la lunga pratica di storia delle donne e di femminismo, ma da circa vent’anni è tornata a sentirsi appassionatamente cattolica, e quindi ad affiancare alla sua attività di ricerca sulla storia delle donne e della vita religiosa un impegno culturale che si può definire militante. Oggi, oltre a insegnare Storia contemporanea all’Università di Roma «La Sapienza», è membro del Comitato nazionale di bioetica. Il suo impegno culturale e quello religioso si fondono quindi in molti suoi libri e articoli, ma sempre con l’avvertenza di non piegare la realtà studiata a obiettivi ideologici, con la certezza che solo una onesta conoscenza della storia può permettere di capire il presente, anche per intervenirvi polemicamente. Esaurite le presentazioni, possiamo cominciare a esprimerci al plurale, usando un «noi» che indica la convinzione che fosse non solo possibile, ma anche fecondo e stimolante, scrivere insieme un libro che non c’era: la ricostruzione di lungo periodo del discorso e della politica della Chiesa sulla sessualità. Una ulteriore ragione è la complementarietà delle nostre direzioni di ricerca: più sociale quella di Margherita Pelaja, più culturale e teorica quella di Lucetta Scaraffia. Le ricerche finora disponibili sul tema che affrontiamo sono infatti indagini dettagliate su contesti specifici e cronologicamente delimitati; oppure sintesi su singoli aspetti della sessualità (la contraccezione, la masturbazione); o ancora testi che con una certa frettolosità divulgativa sembrano partire tutti da assunti ideologici preconfezionati, da ribadire soltanto nel corso dell’esposizione. E, più in generale, sembrano confermare un’antica dicotomia, prendendo in esame le norme da una parte, e i comportamenti – preferibilmente «devianti» – dall’altra, trascurando tra l’altro quello che per Michel Foucault era l’aspetto centrale di uno studio sulla sessualità: il discorso prodotto sul tema, che comprende anche gli aspetti simbolici, l’arte, l’immaginario. Ci sembrava importante, come abbiamo detto, porre in questione soprattutto il pregiudizio più diffuso e radicato: quello che attribuisce alla Chiesa cattolica un’antica e lineare sessuofobia,

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che si dipana nel corso dei secoli in un atteggiamento repressivo costante e generalizzato. Il luogo comune è solido: per il cattolicesimo il piacere è colpa, il sesso è peccato. Da praticare con parsimonia e disagio esclusivamente nel matrimonio, e principalmente per procreare. Non tutto del luogo comune va sfatato; alcuni enunciati si ripetono nel corso del tempo nella predicazione cattolica, fino a rendere possibile una sintesi così brutale. Ma sensibilità più libere, analisi circostanziate dei testi e delle politiche possono di volta in volta articolare, smentire, porre in relazione con territori e finalità diverse, fino a sgretolare forse il potenziale interpretativo di un assunto così generico. Sul piano teologico va richiamato subito per esempio il modo completamente nuovo con cui il cristianesimo affronta il problema del rapporto sessuale: il rapporto sessuale fra una donna e un uomo deriva dall’Incarnazione, è metafora del rapporto fra l’anima e Dio, fra la Chiesa e Cristo, anticipo del piacere d’amore che si vivrà in paradiso. E poiché l’Incarnazione promuove il corpo allo stesso livello dello Spirito, all’atto sessuale viene dato un significato spirituale inedito, che lo carica di un’importanza e di una luce che lo assolvono, per sempre, dal sospetto e dal disprezzo con cui lo guardavano, per esempio, gli stoici. Ne deriva una conseguenza fondamentale: se il rapporto sessuale è pervaso di significati spirituali, esso deve essere privato dell’aspetto ludico che lo aveva contrassegnato nel mondo pagano, e soprattutto deve venir regolamentato con attenzione e severità. La storia della genesi e delle contraddizioni che di volta in volta si addensano su tale regolamentazione è anch’essa ricostruita in questo libro. Non sempre infatti l’unità indissolubile fra anima e corpo che caratterizza la visione cristiana viene rispettata; la tentazione di giocare lo spirito contro la carne segna periodi e figure della storia della Chiesa, pur non determinandone in modo continuativo l’impronta culturale e morale. Ci siamo mosse quindi cercando di affiancare l’indagine sulle Scritture, sui trattati, sulle opere di formazione del clero e dei fedeli alla verifica di quanto di quei testi trovasse applicazione nel governo delle anime, e in che modo. Una prospettiva questa che ha contribuito a definire l’architettura di tutto il nostro libro, che si compone di capitoli insieme tematici e cronologici. Non abbiamo considerato però la cronologia come una gabbia rigida, ma

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abbiamo preferito ampliare di volta in volta la trattazione dei singoli temi con ampi flashback oppure con anticipazioni sul futuro, scegliendo di privilegiare l’interpretazione anche a scapito del rispetto di una periodizzazione predefinita. Si trattava insomma di individuare ciò che in ogni epoca storica ha contraddistinto l’atteggiamento del cristianesimo prima e della Chiesa cattolica poi verso i molteplici aspetti della sessualità umana e – come in ogni ricerca storica – di dar conto di tali tratti distintivi nelle trasformazioni, nelle permanenze, nelle flessibilità. Alle fondamenta della morale sessuale cristiana – dalle Scritture alla patristica – è dedicato il capitolo d’inizio, che copre tutto il primo millennio; il capitolo successivo, sui simboli e l’immaginario, si sofferma sulla disinvoltura con cui – sulla scorta del Cantico dei cantici – la cultura cristiana ha usato per secoli ardite metafore sessuali per trattare del rapporto dell’anima con Dio, raggiungendo vette stilistiche importanti con i mistici. Allo stesso modo, fino al Cinquecento, l’arte rappresenta con simboli sessuali dogmi teologici, come quello della vera umanità di Cristo, ritratto a questo fine con l’organo sessuale in erezione. La cesura è operata dalla Riforma, che denuncia la corruzione e il lassismo della Chiesa di Roma anche nel campo della morale sessuale. Si aprirà da qui una lunga stagione densa di contraddizioni, nella quale il cattolicesimo amplierà e perfezionerà il proprio apparato normativo accentuando il rigore degli enunciati e mettendo in atto nello stesso tempo strategie articolate di controllo e tolleranza. È il lento processo del disciplinamento, che prende le mosse dagli ultimi secoli del Medioevo per protrarsi almeno fino al Settecento. Centrato su due strumenti decisivi, il diritto e la confessione auricolare, il disciplinamento si propone di definire gli ambiti e le forme entro cui può esprimersi la sessualità, e di affinare i dispositivi più adatti a saldare la presa sulle coscienze dei fedeli. Ma è anche la stagione della politica. Una politica della sessualità che deve esibire la capacità della Chiesa di governare i comportamenti dei fedeli: si articolano allora gerarchie e responsabilità, affidando ai parroci e ai confessori il compito di temperare l’universale intransigenza delle norme con le necessità quotidiane e particolari della carne e del desiderio. Flessibilità e pragmatismo diventano così le chiavi di volta di un sistema di controllo che

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mentre ripete condanne assolute – della masturbazione, della sodomia, della prostituzione – alterna repressione e clemenza, avendo ben cura di instillare e rafforzare nelle coscienze quel senso del peccato e della colpa che garantisce la perpetua soggezione delle anime. È un sistema raffinato, capace di funzionare per secoli e di resistere alle sollecitazioni più diverse fino a quando un altro processo – che gli storici hanno chiamato modernizzazione – ne incrinerà le basi, facendo emergere nuove agenzie che contesteranno alla Chiesa il monopolio sulla morale sessuale. Il conflitto nasce alla fine del Settecento e si inasprisce nel secolo successivo, quando il discorso sulla sessualità viene attribuito all’esclusiva competenza di medici, biologi, antropologi e poi psicoanalisti. I nuovi scienziati negheranno alla Chiesa il diritto di imporre norme universali e ai teologi la capacità di definire il senso e il valore dell’atto sessuale, ai loro occhi ormai depotenziato di ogni significato spirituale. Mentre molti Stati e molte leggi si proporranno di erodere la sovranità esclusiva del diritto canonico sui comportamenti sessuali. La contesa non occupa soltanto il terreno della teoria, ma è anzi l’eco di sommovimenti profondi, che toccano gli assetti sociali, economici e culturali di tutti i paesi occidentali: dalla rivoluzione demografica ai mutamenti culturali indotti dall’Illuminismo, dall’affermarsi dell’individuo come soggetto di diritti al fatto che il sesso viene progressivamente sottratto alla dimensione religiosa per essere studiato come fenomeno scientifico. Non è un caso che il termine «sessualità» venga coniato solo nell’Ottocento: vi fecero ricorso in un primo tempo zoologi e botanici, in seguito venne usato per classificare il comportamento sessuale degli esseri umani secondo gli stessi metodi usati per studiare animali e piante, fino ad arrivare, negli anni Sessanta del Novecento, alle ricerche di un entomologo, il dottor Alfred Kinsey, che i mass media faranno diventare un vero e proprio guru della sessualità. Il controllo delle nascite ha costituito quindi l’oggetto di una lunga contesa che ha diviso società e Chiesa a partire dall’Ottocento. Il suo rifiuto da parte della Chiesa è stato sancito da ben due encicliche: Casti connubii del 1930 e Humanae vitae del 1968, che ribadiscono la ferma opposizione della Chiesa alla separazione fra sessualità e riproduzione. Abbiamo scelto come termine

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cronologico l’Humanae vitae – alla stesura della quale ha contribuito il cardinale Wojtyla – perché questa enciclica contiene già tutti i temi che sono oggi al centro della discussione che divide la concezione della Chiesa da quella della società laica: la legge di natura, il valore del matrimonio, l’indivisione dei due aspetti dell’atto sessuale, l’unione fra gli sposi e la procreazione, e la richiesta alla scienza di percorrere strade di ricerca rispettose della morale cattolica. Temi che sembrano aprire un solco profondo soprattutto tra la visione cattolica e le esigenze e le inquietudini di coloro che per lungo tempo sono state le custodi più fervide dei valori religiosi e le alleate più sicure della Chiesa come istituzione: le donne. Di fronte alla diffusione crescente di comportamenti sessuali estranei alla legittimità coniugale, il cattolicesimo sembra progressivamente irrigidire le proprie posizioni, opponendo una condanna dura e solitaria: come se alla secolare tolleranza avesse sostituito un rigore coerente e selettivo. L’esito dei processi descritti ci appare ancora lontano. Perché l’ambito del dibattito continua ad ampliarsi, includendo soggetti – gli omosessuali, per esempio – che reclamano diritti inediti alla genitorialità ma anche alla dimensione religiosa delle proprie scelte affettive; o includendo i punti di vista di altre religioni, ormai contigue e imprescindibili nel mondo globalizzato in cui siamo immersi. Ma anche perché la sessualità di uomini e donne tende a disarticolarsi, distribuendo brani di sé al brusio mediatico o all’asetticità del laboratorio, e depositando la densità del vissuto in angoli sempre più remoti dell’interiorità dei singoli. La Chiesa, a partire dall’Humanae vitae, ma ancora più decisamente con Giovanni Paolo II, tenta di riaffermare quell’unità fra corpo e spirito che aveva costituito la specificità della rivoluzione cristiana, e di riproporre, in una società in cui la sessualità – separata dalla procreazione – appare legata a una dimensione prevalentemente individualistica, il significato spirituale di questa fondamentale esperienza umana. Quelli che si confrontano non sono, tuttavia, due sistemi fondati l’uno su regole e limitazioni, l’altro su libertà e piacere; ma due concezioni diverse della sessualità, del rapporto dell’essere umano con il corpo, e più in generale della ricerca di una nuova etica del rapporto della persona con il mondo.

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Questo è un libro di sintesi. Si basa dunque – soprattutto per quanto riguarda le parti di taglio storico-sociale – su indagini già svolte piuttosto che su ricerche d’archivio originali. Al lettore – al più curioso come al più avvertito – non sfuggiranno le numerose lacune che segnano la ricostruzione da noi proposta; non possiamo tuttavia ascrivere tante mancanze ai vuoti del patrimonio storiografico disponibile. Ci assumiamo la responsabilità di scelte e omissioni, perché abbiamo preferito svolgere il filo dei problemi piuttosto che garantire la completezza del quadro d’insieme. Al lettore non sfuggirà neanche l’assenza di una conclusione univoca, che ricomponga materiali e questioni trattati nel corso dell’esposizione. Anche in questo caso si tratta di una decisione consapevole, anzi ricercata: perché ci è sembrato riduttivo cercare da due punti di vista così diversi come i nostri una sintonia capace di proporre interpretazioni e prospettive unitarie; perché proprio in un tempo in cui le distanze tra laici e cattolici sembrano ampliarsi e irrigidirsi in visioni contrapposte ci è sembrato opportuno esaltare quello che è il nostro denominatore comune, e cioè la ricerca di dialogo e confronto; perché infine preferiamo vedere questo libro come uno strumento in grado forse di dare profondità e spessore storico a polemiche troppo spesso appiattite su un presente apparentemente immobile ed eterno. Al lettore, di nuovo, l’opportunità e la responsabilità di scegliere un versante o di elaborare nuovi interrogativi, anche sulla base, speriamo, del cammino percorso in questa lettura. M.P. L.S.

Mentre l’Introduzione e le Conclusioni sono comuni così come il progetto complessivo del libro, Margherita Pelaja ha scritto i capitoli III, IV, i paragrafi 2 e 3 del capitolo V, il paragrafo 4 del capitolo VI; Lucetta Scaraffia ha scritto i capitoli I, II, i paragrafi 1, 4 e 5 del capitolo V, i paragrafi 1, 2 e 3 del capitolo VI. Data la vastità e la varietà degli argomenti trattati in questo studio abbiamo preferito non includere una bibliografia generale. Molti riferimenti bibliografici sono indicati in nota, cosa che rende più agevole individuare le fonti di ciascun argomento.

DUE IN UNA CARNE CHIESA E SESSUALITÀ NELLA STORIA

I IL CORPO, LE PULSIONI

1. Una rivoluzione culturale «Ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito compia il suo dovere verso la moglie; ugualmente anche la moglie verso il marito», scrive l’apostolo Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (7, 2-3), e poco più avanti: «Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito [...] e il marito non ripudi la moglie» (7, 10-11). E in un’altra lettera paolina si legge: «E voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa [...]. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno infatti ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, perché siamo membra del suo corpo» (Lettera agli Efesini, 5, 25 e 28-30). In queste frasi paoline si manifesta tutta la potenza dell’innovazione cristiana sul piano dei rapporti sessuali: permettendo questi rapporti solo all’interno del matrimonio, la nuova fede prevedeva una reciprocità di doveri e di diritti fra marito e moglie assolutamente inedita nel mondo antico. Insieme con la proposta di scegliere la castità, seguendo il modello di Gesù e dello stesso apostolo Paolo, questo fatto costituisce l’aspetto più innovativo del cristianesimo nascente: un diverso modo di concepire il sesso, piuttosto che una repressione, come è luogo comune pensare. È infatti opinione diffusa che il profondo cambiamento nel modo di concepire e di vivere la sessualità provocato dalla crescente affermazione del cristianesimo nel mondo antico consi-

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stesse in un’ondata di restrizioni morali e di proibizioni, che piombano su una società tendenzialmente libera e portata a valorizzare il piacere. La situazione in realtà è più complessa, perché anche nel mondo pagano di quel periodo si stavano affermando forti correnti ascetiche: certo è che le culture antiche consideravano la sessualità come un aspetto dell’essere umano dato dalla natura, e quindi non oggetto di controllo, ed erano interessate solo a disciplinare il comportamento femminile in modo da controllare la paternità. Per il resto, per gli uomini tutto era libero e possibile, e solo alcune correnti filosofiche greche – in primis gli stoici – pensavano all’istinto sessuale come a un ostacolo irrazionale al controllo di sé da parte della ragione, e quindi lo vedevano come un pericolo da combattere1. Come ha scritto lo storico Peter Brown, l’ascesa del cristianesimo nel mondo romano, più che come il passaggio da una società meno repressiva a una più repressiva, dovrebbe essere visto «come il prodotto di un sottile cambiamento nella concezione del corpo. Nei secoli successivi, infatti, gli uomini e le donne non si sarebbero trovati semplicemente attorno a un muro di proibizioni diverse e più rigorose, ma sarebbero pervenuti a una visione del proprio corpo assai differente»2. Come aveva detto Paolo, il corpo non è solo natura, ma, con l’Incarnazione, è diventato il tempio di Cristo, e quindi parte integrante della persona umana, e non si scinde dalla sua natura spirituale. Il cristianesimo infatti, pur condividendo in parte la visione stoica, fa molto di più: toglie la sessualità dalla sfera naturale e la inserisce in quella culturale, dandole un posto preciso nella storia della salvezza. Se la carne è a immagine di Dio, anch’essa può divenire strumento di salvezza. Questo concetto è stato sviluppato da tutti i Padri della Chiesa, e in particolare da Agostino, che ha fissato e precisato le grandi linee della concezione cristiana occidentale della sessualità. Era evidente, infatti, che attraverso l’Incarnazione di Cristo Dio era sceso sulla terra per far sì che anche il corpo fosse capace di trasformarsi. Proprio per questo, all’in1 Cfr. A. Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana, Laterza, Roma-Bari 1985. 2 P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo (1988), Einaudi, Torino 1992, p. 24.

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terno della tradizione cristiana, il comportamento sessuale non sarà mai considerato solo come un settore da regolare attraverso una precettistica morale, ma costituirà fin dall’inizio un nodo teologico fondamentale, la cui definizione risulta centrale in tutti i momenti di svolta della storia della Chiesa, a cominciare dalla riforma gregoriana per arrivare al Vaticano II, passando per la Riforma e il Concilio di Trento. E proprio per questo è divenuto uno dei motivi dominanti di quasi tutte le eresie. La differenza cristiana sul posto da dare alla sessualità e al corpo si affermò prendendo le distanze non solo dal paganesimo, ma anche dalla cultura ebraica. Questo nuovo modo di concepire la sessualità non solo assume un’importanza crescente nel definire l’identità cristiana, ma avrà l’effetto di cambiare radicalmente i rapporti tra i sessi. Si tratta di una rivoluzione simbolica e culturale dalla quale la cultura occidentale riceverà le caratteristiche che la contraddistinguono ancora oggi, se pure con modalità contraddittorie. I cristiani, infatti, cercano con passione tutte le vie che li possono trasformare già in questa vita, rendendoli più liberi dai gravami della condizione umana e aperti a ricevere lo Spirito: la sessualità viene individuata come il nodo fondamentale, come il punto in cui corpo e spirito si intrecciano e sul quale, quindi, si può agire per avanzare nel cammino spirituale. Il matrimonio e la castità acquistano entrambi lo statuto di via spirituale, e proprio per questo è tanto importante delinearne le nuove leggi e rivelarne i significati simbolici. Un primo importante passaggio è costituito dallo spostamento dell’attenzione dall’atto all’intenzione individuale che lo sottende, aprendo così la via a quella che, nel corso del tempo, diventerà l’analisi dell’uomo interiore e delle sue motivazioni. Il primo passo in questa direzione è lo strappo con la tradizione ebraica della purità, uno strappo che costituisce uno degli aspetti più «scandalosi» dei Vangeli, e coinvolge allo stesso tempo il cibo e la sessualità. Gesù stabilisce infatti chiaramente – con le parole e con l’esempio – la fine delle categorie tradizionali di contaminazione materiale, per sostituirle con la impurità metaforica dell’intenzione. A tal punto che, nel suo rovesciamento delle gerarchie umane, promette il regno dei cieli alle prostitute, che del resto frequenta e con cui parla in vari episodi evangelici.

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Al tempo stesso, la sua breve vita è contraddistinta dalla più rigorosa castità: Cristo, il modello a cui si rifaranno tutti i cristiani, ha scelto di non avere rapporti sessuali, ha scelto di non aderire al modello del pater familias a cui si erano omologati i grandi patriarchi e i profeti. Il dovere di perpetuare la specie, la famiglia, l’etnia, che nella società antica incombeva su ogni essere umano, viene così fortemente messo in crisi, minato da questo esempio, tanto che, per influsso del cristianesimo, nascerà la prima società che accetta, anzi valorizza, la scelta di castità, non solo per gli uomini, ma anche per le donne. Forse è proprio per questa rivoluzione che ancora oggi, al cristianesimo, e in particolare al cattolicesimo, è rimasta appiccicata un’idea di oppressione sessuale. Non è stata certo secondaria, nel momento in cui si diffonde l’aspirazione al casto modello di vita di Gesù, la forte tensione apocalittica che si respirava nella società giudaica. Se la fine del mondo sarebbe arrivata a breve scadenza, anche la tensione verso i legami umani e familiari e le proiezioni sul futuro umano come la procreazione tendevano a perdere rilievo. Il codice di comportamento sessuale cristiano non solo non si è formato immediatamente, ma ha conosciuto tensioni contrastanti e opposte, e ha dato origine a numerose eresie. L’unico punto sul quale tutti i primi scritti cristiani sembrano concordare è proprio il distacco dalle Sacre Scritture dell’ebraismo, che proponevano un’etica sessuale basata sull’impurità: era considerato impuro avere rapporti sessuali durante le mestruazioni (per coerenza con l’idea di impurità del sangue), praticare l’adulterio e l’omosessualità, frequentare prostitute. In queste occasioni si cadeva in uno stato di impurità uguale a quello che contaminava chi mangiava animali proibiti o non eseguiva i lavacri prescritti, per uscire dal quale bisognava sottoporsi a un rito di purificazione. Il cristianesimo, cancellando l’impurità materiale, trasferisce sul piano etico le prescrizioni ebraiche, e le giustifica non con l’impurità, ma con la rottura dell’armonia comunitaria. Le intenzioni del cuore – la cupidigia, la volontà di possesso – sono considerate i motori peccaminosi di queste pratiche, e per questo vengono condannate, e si insiste sugli effetti di discordia che atti come l’adulterio possono provocare nel gruppo. Naturalmente, su tutto svetta l’esempio di Cristo, che però

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non è possibile seguire per tutti: il matrimonio viene allora proposto da Paolo come una scelta meno alta, ma ugualmente santa. Il passaggio dalle norme precedenti a quelle nuove non avviene però senza scosse e contraddizioni: ci sono comunità che pensano – liberate dall’impurità – di poter praticare una totale libertà sessuale, come i discepoli di Valentino e di Marcione, noti per la vita sessuale molto libera degli uomini, che si accompagnava a una stretta fedeltà alla fede cristiana, o come alcuni gruppi gnostici che estendevano questa libertà anche alle donne e integravano nel cristianesimo anche l’omosessualità e la pedofilia. Queste sette non reagivano ad alcuna oppressione sessuale, ma anzi aderivano a una cultura molto diffusa integrandola in un sistema religioso in cui si cercava l’unione con Dio. Gli gnostici condannavano al nulla la materia, compreso il corpo: proprio per questo ciò che si faceva con il corpo non aveva importanza. Molto più numerose erano invece le comunità che cadevano nella tendenza opposta, interpretando il modello casto di Cristo come obbligatorio. Questa scelta restrittiva, che – in una prospettiva apocalittica – impone a tutti la castità, darà origine a una eresia, l’encratismo, che influenzerà dall’esterno la cultura cristiana diffondendo una demonizzazione dell’atto sessuale. Ma se fra il III e il IV secolo assistiamo a una vittoria della castità come ideale, che concretamente ha preso forma nelle comunità monastiche maschili e femminili, dobbiamo tenere presente che non si tratta solo di influenza cristiana: la limitazione spontanea dei rapporti sessuali si era estesa nella società anche prima della diffusione della nuova religione, come dimostra la stagnazione demografica nelle classi superiori dell’impero. Era una pratica consigliata dai medici, che ritenevano dannosa per l’uomo l’emissione del seme: nel II secolo Sorano scrive che «ogni emissione di seme [maschile] nuoce alla salute» e addirittura che «il rapporto sessuale è in se stesso nocivo»3. La continenza – detta enkràteia, cioè «dominio di sé» e dunque, in questo caso, ritenzione di sperma – è raccomandata anche dai filosofi, che vedono in essa una vittoria della parte più nobile dell’uomo, la ragione, sull’istinto. La proposta cristiana, quindi, trova un terreno fertile nella società 3

Gynaecia, I, VII, 30-32.

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dell’epoca sia pagana che giudaica – dove la setta degli esseni, ad esempio, praticava l’ascetismo assoluto – e le eresie che predicano il totale annullamento del corpo hanno radici in questo passato, più che in una esasperazione della valorizzazione cristiana della castità. Nelle Sacre Scritture ebraiche e cristiane non c’è differenza per ciò che riguarda i peccati sessuali: l’elenco che ci fornisce Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (6, 9) prevede la condanna dei pòrnoi (fornicatori), moichòi (adulteri), malakòi (effeminati), arsenokòitai (sodomiti). Le novità introdotte dal cristianesimo riguardano invece due punti importanti: il matrimonio e il celibato. Il primo ad affrontare problemi di etica sessuale è appunto Paolo, pressato dalle domande dei cristiani di Corinto, comunità da lui fondata e seguita per un periodo abbastanza lungo (si pensa un anno e mezzo). Evidentemente Paolo non aveva mai affrontato con loro il tema dell’etica sessuale e nella comunità si era verificata una frattura fra modi diversi di affrontarla, che andavano dal libertinismo al rifiuto totale del matrimonio e dei rapporti sessuali. I libertini applicavano anche alla sfera sessuale la convinzione di Paolo, che aveva affermato che il Vangelo è superiore alla legge, interpretandola come la fine di ogni restrizione morale. Altri, sottolineando la scelta celibataria di Paolo, nonché il suo uso negativo del termine «carne», concludevano che il cristianesimo incoraggiava una totale astinenza dal sesso. Altri ancora, vedendo che Paolo era in buoni rapporti con le famiglie tradizionali, optavano per questa ipotesi più tranquillizzante. Le più forti tensioni erano provocate dal gruppo degli asceti, che fondavano la loro scelta anche sulla convinzione – ampiamente condivisa – che ogni problema di continuazione del gruppo umano doveva essere accantonato davanti all’imminenza della fine del mondo4. Paolo, pur condividendo questa certezza della prossimità della fine, risponde dando precise norme di etica sessuale, vicine senza dubbio alle parole di Gesù, ma con una inclinazione meno rivoluzionaria, più attente a non sovvertire la società esistente. A questo fine, nella Prima lettera ai Corinzi condanna senza mezzi termini il caso di un uomo che si era unito alla moglie del padre, 4 Si veda in proposito F. Watson, Agape, Eros, Gender. Towards a Pauline Sexual Ethic, Cambridge University Press, Cambridge 2000.

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senza considerare un’attenuante il fatto che quest’ultimo era morto: come nella cultura ebraica e in quella greco-romana, questo doveva considerarsi un incesto perché si trattava di un’offesa contro la sovranità patriarcale. Veniva ritenuto infatti un peccato contro la gerarchia familiare, e non contro la purità, perché con questo gesto il figlio si metteva alla pari del padre, mancando così di rispetto verso la famiglia che gli aveva dato la sua identità. Paolo insiste quindi che questo vada considerato un’offesa grave contro l’etica della famiglia patriarcale, da difendere anche in prossimità della fine dei tempi, nonostante che alcuni membri della comunità avessero difeso il figlio, sentendosene addirittura orgogliosi. La colpa non si doveva ascrivere comunque a una trasgressione della purità, ma della proprietà, cioè al prendere ciò che appartiene a un altro. Allo stesso modo viene giustificata la condanna paolina dei maschi cristiani che frequentavano le prostitute: mentre l’Antico Testamento condannava questa pratica come spreco delle risorse familiari, egli la condanna come furto da parte del cristiano, che dà a un’altra il corpo che aveva offerto a Cristo. Il corpo del cristiano – e Paolo dà a questo termine il senso di unità e integrità dell’essere umano – appartiene infatti già a Cristo, a Dio, e non può appartenere, neppure per poco, a una donna pagata. Egli infatti insiste su questo tema: «Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l’uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dà all’impudicizia pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!» (I Corinzi, 6, 18-20). Anche se dichiara fermamente che l’astinenza sessuale è la condizione migliore, perché permette all’uomo di affrancarsi dalle preoccupazioni quotidiane e di dedicarsi totalmente a Dio, Paolo non è contrario al matrimonio, anzi, lo considera una vocazione diversa, ma altrettanto degna di stima, e sempre nella Prima lettera ai Corinzi (7, 7) scrive: «Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno ha il proprio dono [chàrisma] da Dio, chi in un modo, chi in un altro». Il rapporto sessuale nel matrimonio non entra in conflitto con l’appartenenza a Cristo del corpo del credente a condizione che ne vengano rispettate le indicazioni: cioè che si realizzi un attento equilibrio fra la proprietà sessuale della mo-

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glie da parte del marito e l’equivalente proprietà del marito da parte della moglie. Paolo dimostra qui di accettare completamente la rivoluzione che Gesù aveva operato nel matrimonio, negando la possibilità di ripudio da parte del marito, l’unico, nella legge ebraica, a «possedere» il corpo della moglie. Negando il ripudio a entrambi, Gesù stabilisce infatti che anche il marito è proprietà della moglie, inaugurando così una eguaglianza fra i coniugi assolutamente inedita in tutte le società antiche. Nella Prima lettera ai Corinzi (7, 9) Paolo detta la famosa frase che sembra condannare la sessualità nella cultura cristiana – «se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere» – ma è significativo che l’apostolo riconosca la soddisfazione del desiderio sessuale come una ragione legittima e sufficiente per il matrimonio. Data la prossimità della fine dei tempi, per Paolo la ragione principale del matrimonio non poteva più essere la continuazione della famiglia, e la nuova giustificazione che proponeva teneva invece conto del desiderio sessuale. Il presente è da lui percepito come breve e provvisorio: non vale la pena, quindi, per i cristiani sposati, cambiare condizione né cercare di cambiare radicalmente l’istituto familiare in modo conforme alle innovative proposte di Cristo. Ciò che conta per lui è come si deve vivere senza peccare negli ultimi giorni. In sostanza, Paolo segue l’insegnamento di Gesù sul piano della proprietà sessuale, proponendone l’uguale diritto per uomini e donne, e in questo modo incrina la base dell’autorità del pater familias dell’antica tradizione israelita, confermata dal diritto romano. Egli parla delle donne considerandole alla pari degli uomini nelle questioni di proprietà sessuale, anche se – ribadisce – al di sopra di tutto chi possiede il credente è Cristo, e la vita sessuale deve tenerne conto. Dal momento invece che Paolo si dichiara contrario alla parità in altri ambiti, come per esempio la predicazione, possiamo dedurre che la parità fra i sessi per lui era ammessa solo per i diritti sessuali, appunto: senza arrivare, del resto, alla conclusione che sotto questa nuova ottica la famiglia fosse da riformarsi, forse per la sua convinzione dell’imminenza del regno di Dio. Anche se Paolo considera il matrimonio uno stato inferiore al celibato, perché per certi aspetti distrae dalla fedeltà a Cristo, non condivide certo l’idea dei sostenitori a oltranza dell’ascetismo che

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il sesso costituisca un male intrinseco, e questa posizione è stata condivisa in sostanza negli Atti degli apostoli. Con il tempo, però, anche fra i cristiani si è affermata nuovamente la tendenza conservatrice rispetto alla famiglia tradizionale e quindi si è affievolita la tensione all’eguaglianza fra donne e uomini proclamata dal Vangelo. Tutto il pensiero cristiano sulla sessualità dipende da Agostino, che era senza dubbio segnato, nella sua esperienza personale, da una forte passione sessuale, la cui pratica gli era ben nota nel periodo precedente la conversione. E non è senza significato che l’incontro fra Agostino e il cristianesimo sia passato attraverso un’esperienza di ascesi narrata nell’ottavo libro (12, 28-30) delle Confessioni. Ponticiano racconta ad Agostino e Alipio come due amici avessero abbracciato la via ascetica e contemplativa dopo la lettura della Vita del monaco egiziano Antonio. Poco più avanti è lo stesso Agostino che, ricordandosi dell’esempio di Antonio convertitosi ascoltando per caso un passo del Vangelo, decide di abbandonare la sua vita disordinata: una adesione al cristianesimo, quindi, venata di tensione ascetica e, conseguentemente, escatologica. Per Agostino, sia il corpo in generale, sia la sfera dei sensi, non soggiacciono ad alcuna condanna in se stessi, ma solo se legati alla concupiscentia5. Si tratta di un nuovo concetto che avrà grandissima fortuna nella letteratura cristiana successiva, pur assumendo spesso un significato più rigido. La concupiscenza, per Agostino, non è né la sensibilità, né il corpo, né il sesso, quindi non appartiene all’essere umano in quanto tale, ma è provocata dall’intervento dell’intelligenza e della coscienza dell’uomo. È quel vizio per cui la carne desidera contro lo spirito e diventa matrice di peccato. Si tratta di un male che viene all’uomo per colpa dell’antico peccato di Adamo. Agostino inserisce così i rapporti sessuali nella teologia della salvezza, collegandoli al peccato originale e quindi al problema del libero arbitrio e con questo trasforma completamente lo statuto della sessualità: non più solo fenomeno naturale, da disciplinare, ma segno della condizione umana 5 Cfr. E. Samek Lodovici, Sessualità, matrimonio e concupiscenza in sant’Agostino, in Etica sessuale e matrimonio nel cristianesimo delle origini, a cura di R. Cantalamessa, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 212-272.

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e suo banco di prova spirituale. Per lui, infatti, il termine caro non designa semplicemente il corpo, ma la vita di tutto l’uomo sotto la legge del corpo, così come spiritus non è semplicemente l’anima, lo spirito dell’uomo, ma designa la vita di tutto l’uomo secondo la legge dello spirito. Alla base del suo pensiero sta la confutazione della teoria di Pelagio, che negava l’esistenza del peccato originale e proponeva di abbandonare la pratica del battesimo dei bambini, ritornando a quello degli adulti. Ma contro il battesimo, per motivi opposti, erano anche altri eretici, i manichei, secondo i quali i corpi non erano creati da Dio, ma dallo spirito del male. Già Ireneo aveva condannato queste posizioni, sostenendo che il battesimo garantiva anche al corpo un destino spirituale e una vita incorruttibile. Per Agostino, il peccato originale c’è, e ne vediamo le conseguenze nella nostra vita, non solo perché ne dobbiamo sopportare le pene – come la morte, il lavoro e il parto doloroso –, ma perché ne siamo moralmente condizionati, come prova lo stato di disordine e di rivolta morale in cui viviamo. Egli nega risolutamente che il peccato di Adamo ed Eva sia consistito in una trasgressione sessuale – come invece sosteneva la setta eretica dei messaliani –, ma pensa sia stato essenzialmente un peccato di orgoglio, da cui è derivato il doloroso dissidio fra la carne e lo spirito che angustia l’essere umano. È proprio a causa di questa corruzione del corpo che la concupiscenza carnale fa sentire i suoi stimoli. Prima del peccato, infatti, l’uomo non provava concupiscenza, era padrone del suo istinto sessuale e i genitali venivano mossi senza difficoltà per comando della volontà: «È infatti pena giustissima del peccato che perda ciò che non volle usare bene chi avrebbe potuto usarlo senza alcuna difficoltà, solo se lo avesse voluto»6. Da quel momento il corpo disobbedisce alla volontà con un movimento di rivolta, fino ad allora sconosciuto, come fosse una pena reciproca della precedente disobbedienza verso Dio7. Sono almeno tre, secondo Agostino, le caratteristiche che indicano la concupiscenza come legata al peccato originale: l’indo-

Agostino, De libero arbitrio, III, 18.52. Cfr. P.F. Beatrice, Tradux peccati. Alle fonti della dottrina agostiniana del peccato originale, Vita e Pensiero, Milano 1978. 6 7

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mabilità, intrinseca alla libido; la vergogna che vi si collega (che è quella provata da Adamo ed Eva); l’innaturalità della sua presenza, che dimostra come dopo il peccato originale la natura umana sia viziata anche se rimane opera di Dio. Il pensatore africano chiama la concupiscenza peccatum, perché è apparsa con il peccato e opera il peccato, ma in sé non è peccato, come dimostra il fatto che se ne può fare buon uso nel matrimonio. Per Agostino l’atto sessuale compiuto nel matrimonio, anche se provoca diletto nei coniugi, non è peccato in sé, anzi esiste una serie di testi agostiniani in cui è espresso un invito positivo all’esercizio della vita sessuale. Non è quindi da regolare il piacere in sé, quanto la ricerca esclusiva del piacere, cioè la concupiscenza. L’uso smodato della comunione sessuale rivela la propria schiavitù alla libido, che si contrappone alla delectatio – la quale rientra invece nella sfera naturale – in quanto si caratterizza non solo come una rivolta contro la ragione, ma soprattutto come peccato spirituale, cioè come mancata adesione di tutto l’uomo alla legge dello Spirito Santo. È lo spirito di Dio che deve comandare al corpo e allo spirito umano. Per farsi capire meglio, Agostino fa un confronto con l’uso del cibo: è la stessa differenza fra chi vive per mangiare e chi mangia per vivere. Prima della caduta, infatti, secondo Agostino, il matrimonio avveniva attraverso l’atto sessuale, praticato con diletto, ma senza concupiscenza, come prova il fatto che gli organi sessuali erano controllati dalla ragione, in completa obbedienza dell’anima razionale e del corpo a Dio. Il rapporto sessuale non è solo conseguenza del peccato, ma anche il suo modo di trasmissione: per Agostino il peccato originale si trasmette per generazione e non per imitazione. Proprio per questo hanno suscitato tante preoccupazioni teologiche le vicende matrimoniali di due coppie protagoniste della storia sacra: Anna e Gioacchino e Maria e Giuseppe, sui quali si tornerà più avanti. Il battesimo dei bambini è dunque necessario, in contrapposizione alle idee pelagiane, ma è anche necessario ribadire il libero arbitrio, come Agostino non mancherà di fare con il consueto vigore contro i manichei. Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, riprenderà, per ampliarla, la concezione agostiniana: il peccato originale non è uno stato, ma una disposizione malvagia, una sorta di malattia che provoca una grande privazione di beni soprannaturali. Più ottimista di

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Agostino, però, Tommaso enumera le facoltà positive che sono rimaste all’essere umano: la ragione e la volontà, attraverso le quali può trionfare sui sensi. La ragione sola – scrive –, e non la sensualità, ha il potere di condannarci alla fine eterna o di salvarci. La dottrina tomista è profondamente umana, perché sostiene che il fedele, aiutato nel combattimento spirituale dalla preghiera e dalla grazia, può raggiungere la perfezione armoniosa, umana e divina al tempo stesso. La posizione pessimista agostiniana viene ripresa in campo protestante e giansenista, e quella di san Tommaso, più ottimista, dai gesuiti e da san Francesco di Sales, affermandosi definitivamente nel cattolicesimo del XIX secolo. In ogni modo, il collegamento fra peccato originale e sessualità – ribadito dal Concilio di Trento, al di là delle sottigliezze del pensiero agostiniano e della chiarezza positiva di Tommaso8 – ha contribuito in misura non indifferente a caricare di negatività la vita sessuale agli occhi della cultura cristiana meno avvertita e a condizionare le norme relative ai comportamenti, come dimostrerà, in negativo, la liberalizzazione del comportamento sessuale che si accompagnerà alla secolarizzazione9. Ma, al tempo stesso, il collegamento fra sessualità e peccato originale ne fa un’alta questione teologica, cruciale sul piano della salvezza, dando alla sfera sessuale una importanza che la cultura antica non le aveva mai riconosciuto.

2. Il matrimonio cristiano Anche se in apparenza poteva sembrare che la famiglia cristiana riprendesse le virtù di una buona famiglia della tradizione romana, anch’essa monogamica, la natura del legame era cambiata completamente di significato, e non solo perché alla donna veniva concesso un posto egualitario nella relazione e veniva sollecitato il libero consenso degli sposi, ma soprattutto perché ne era8 Cfr. A. Vanneste, Le décret du Concile de Trente sur le péché originel, in «Nouvelle Revue Théologique», 87, 1965, pp. 688-726. 9 Si veda in proposito, sia pure fortemente critico nei confronti della tradizione cristiana, G. Israel, Volupté et crainte du Ciel. Peut-on se libérer du péché originel?, Payot, Paris 2002.

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no stati completamente trasformati il senso e lo scopo, attraverso un profondo lavoro di revisione simbolica. Gesù ne stabilisce la sacralità: ricorda l’affermazione della Scrittura – «i due saranno una sola carne» (Genesi, 2, 24), che attesta una vocazione originaria dei sessi a unirsi a partire dalla creazione – e ne riporta l’interpretazione autentica e definitiva: «L’uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto» (Marco, 10, 9; cfr. Matteo, 19, 6) che dà al matrimonio il peso di una scelta di vita, di una vocazione e di un destino. Il matrimonio, infatti, si pone fin dai primi tempi della tradizione cristiana al centro di dispute non solo morali, ma anche teologiche10, diversamente dalla cultura antica, in cui offriva terreno di riflessione per i moralisti, ma soprattutto per i medici che ne dovevano regolare le abitudini ai fini di una buona procreazione e di una buona salute, dimostrandosi in sostanza un legame prevalentemente naturale, finalizzato alla procreazione. Nel cristianesimo, invece, è l’accordo di coppia che costituisce l’essenziale del matrimonio e non la fecondità come tale: in esso, infatti, non è più motivo di separazione la sterilità, che nelle società antiche era vissuta sempre come malattia femminile. Il legame fra i due sposi era concepito come un legame d’amore; certo, non nel senso di amore romantico come noi intendiamo dopo il XIX secolo, ma nel senso di carità reciproca, di solidarietà profonda, resa più forte dalla comune appartenenza spirituale. Tertulliano, un Padre della Chiesa che pure si è espresso chiaramente a favore della superiorità dell’ascetismo sulla vita coniugale, così parla degli sposi cristiani: «Che coppia quella di due cristiani uniti da una sola speranza, un solo desiderio, una sola norma di vita, dallo stesso servizio! Ambedue fratelli, ambedue compagni di servizio; nessuna divisione né nello spirito né nella carne»11. E non poteva essere diversamente, se pensiamo come l’amore sia al centro di tutto l’insegnamento di Gesù: il matrimonio costituisce quindi una sorta di prima esperienza dell’amore che lega ogni essere umano a Dio. In tale esperienza, di cui fa parte la passione sessuale, il soggetto acquisisce infatti, senza bisogno di una mediazio10 Cfr. Donna e matrimonio alle origini della Chiesa, a cura di E. dal Covolo, Las, Roma 1996. 11 Tertulliano, Ad uxorem, II, 8, 7.

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ne discorsiva o logica, un sapere essenziale, quello del sacrificio e del dono di sé. È solo staccandosi da sé, infatti, rinunciando a sé, rimettendo il proprio destino nelle mani di un altro, abbandonandosi all’altro, che il soggetto può dare un senso alla sua esistenza. Già le Scritture ebraiche davano un ruolo simbolico importante al rapporto tra uomo e donna: è come «maschio e femmina» (Genesi, 1, 27) che Dio ha creato l’uomo a sua immagine; la storia del popolo di Israele è attraversata dall’amore che unisce le coppie – Adamo ed Eva, Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele, Sansone e Dalila, Booz e Ruth, Davide e Betsabea – e nella letteratura profetica (per esempio, in Osea) il rapporto sponsale diviene metafora del rapporto tra Dio e il suo popolo, mentre il Cantico dei cantici celebra l’unione carnale. Ma nel Nuovo Testamento l’unione fra l’uomo e la donna acquista uno spessore simbolico ancora maggiore, diventa figura della partecipazione dei credenti a Cristo secondo il corpo e lo spirito e, soprattutto, figura della relazione di Cristo con la Chiesa, sua sposa. Il fiorire dell’interpretazione simbolica trasforma così il rapporto di coppia da un evento sociale e naturale in un legame sacro, per definire il quale viene utilizzato il termine greco mystèrion, che in latino verrà tradotto come sacramentum. Le tradizioni cristiane orientali e il cattolicesimo hanno mantenuto l’antica indicazione che vedeva del matrimonio non soltanto il contesto etico, familiare e sociale, ma il mistero del dono di una grazia intimamente trasformante, che in alcune occasioni, per mantenere la pratica delle virtù, può divenire un soccorso offerto da Dio. Anche per la definizione del matrimonio cristiano siamo debitori ad Agostino, meno severo di Tertulliano e di Girolamo, che esaltano decisamente la continenza e il celibato. Per Agostino, invece, anche il matrimonio è un bene, perché l’unione fra uomo e donna è naturale conseguenza della creazione di due sessi diversi. I beni del matrimonio non sono solo la sessualità e la conseguente procreazione (bonum prolis), ma anche la fedeltà reciproca (il bonum fidei) e l’indissolubilità (il bonum sacramenti). E in questa valorizzazione del matrimonio Agostino si contrappone a Gregorio di Nissa, che aveva interpretato la sessualità solo come una consolazione offerta da Dio all’uomo dopo la caduta, e supera Clemente di Alessandria, che aveva difeso il matrimonio ve-

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dendovi una collaborazione all’opera del Creatore attraverso la procreazione. Se il fine della procreazione non rompeva con la tradizione precedente, e si rifaceva alla teoria degli stoici, il bonum fidei costituisce invece una vera novità, perché impone non solo il reciproco adempimento del dovere coniugale, ma la convivenza per tutta la vita in una unione paritaria e fedele. Nella società romana, al contrario, la legge puniva duramente le adultere, mentre l’infedeltà dei mariti non era soggetta a sanzioni penali, né a una seria disapprovazione morale. Era anzi pienamente accettato che l’uomo intrattenesse rapporti sessuali con gli schiavi di ambo i sessi presenti nella casa. Rifacendosi alle radici bibliche, Agostino scrive – sulla traccia di Paolo (cfr. I Corinzi, 6, 12-20) – che l’eccellenza di una unione fedele è così grande che i coniugati diventano membra stesse di Cristo, per cui mancare alla fedeltà significa prostituire le membra stesse di Cristo. Il bonum sacramenti, poi, trasforma il matrimonio da un contratto puramente umano in una realtà superiore che trascende la volontà dei contraenti, rendendo indissolubile il rapporto. L’indissolubilità del matrimonio nasce quindi dalla partecipazione terrestre a un mistero divino di amore indissolubile, quello fra Cristo e la Chiesa, rappresentato secondo Agostino dalla trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana. Non si tratta, quindi, di una indissolubilità naturale, ma di una indissolubilità teologica, per cui la generazione della prole non può essere considerata da sola l’essenza del matrimonio. Viene quindi condannata la pratica diffusa per cui il marito si poteva unire a un’altra donna in vista della procreazione. Ed è proprio la visione non naturalistica, ma teologica, che Agostino ha del matrimonio a impedirgli la considerazione puramente biologica di esso. Anche la procreazione, comunque, ha un senso teologico in quanto ha lo scopo di mettere al mondo i membri dell’umanità definitiva, la Città celeste. Se, nell’Antico Testamento, i patriarchi dovevano procreare per preparare l’arrivo del Messia, così, dopo la venuta di Cristo, per alcuni cristiani non sembrava più necessario mettere al mondo dei figli. Cristo però è venuto, ma non ancora definitivamente, dice Agostino, bisogna generare figli per la sua seconda venuta. L’esperienza delle persecuzioni potenzia e intensifica la solidarietà e il sostegno reciproco fra gli sposi cristiani, che insieme

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vanno in esilio o affrontano il martirio. Uno dei pochi casi di matrimonio esemplare tramandato dalla tradizione tardo-antica è quello di Paolino con Therasia: Paolino, nato in una ricchissima e influente famiglia senatoriale della Gallia romana, compie il cursus honorum nella società del suo tempo e sposa la spagnola Therasia, cristiana appassionata che lo induce alla conversione: «Pellegrino, varcati i Pirenei, giunsi al vicino paese degli Iberi: lì hai permesso che io prendessi una sposa secondo la legge umana; lì tu guadagnasti in una sola volta due vite; ti eri servito del giogo della carne per mettere insieme la salvezza di due anime, e con i meriti dell’una hai compensato le esitazioni dell’altra», scrive nel carme XXI di Ad coniugem (398-403). Il matrimonio diventava spesso una via di conversione per gli uomini: è ampiamente noto l’importante ruolo che le donne hanno svolto nel cristianesimo dei primi secoli per indurre gli uomini alla conversione. Paolino e Therasia, dopo la morte del loro unico figlio, decidono insieme di donare i beni e di trasferirsi presso il sepolcro del martire Felice, a Nola, dove fondano una comunità cristiana di coppie – alcune con figli – dedite a Dio. Lì, nella vita comune, si rafforza il loro legame paritario, come dimostra la conclusione dell’Ad coniugem di Paolino: «Siamo l’un l’altro esempi di una vita pia; sii custode del tuo custode; sosteniamoci vicendevolmente; rialza colui che cade, rinfrancati con l’aiuto di colui che si è rialzato, affinché non soltanto abbiamo in comune la stessa carne, ma anche la stessa mente e uno stesso spirito nutra due anime». Nella loro vicenda, così come ci è stata tramandata da Paolino stesso, la trasformazione dell’unione dei corpi – essere una stessa carne – in un legame spirituale diventa vera e vissuta. Considerando la procreazione un bene, Agostino conferma anche il valore sociale del matrimonio, cioè il legame storico fra matrimonio e politica presente nella tradizione romana che, con le parole di Cicerone, considerava il matrimonio «il nucleo primo della città e quasi il semenzaio dello Stato». L’idea di matrimonio di Agostino era quindi in stretta assonanza con la tradizione romana: la carità che univa i coniugi avrebbe dovuto creare legami di pace e di unità sociale, avrebbe costruito la pace nella comunità politica. Ma come poteva realizzarsi questa visione così mitizzata e spiritualizzata del matrimonio in una società in cui il consenso era

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spesso solo una formalità, e molto spesso anche il celibato era deciso dalla famiglia? Per la cultura cristiana, infatti, la rivendicazione del libero consenso al matrimonio va di pari passo con la libertà di monacazione, ma in entrambi i casi i poteri delle famiglie erano più forti della libertà individuale di scelta. Il problema della libertà di scelta viene sentito nel corso del tempo come centrale per la validità del sacramento: nel XII secolo i canonisti affermarono il diritto della donna a scegliere il marito, mentre si parla sempre più esplicitamente di affetto coniugale che viene favorito e rinsaldato dal piacere sessuale12. Naturalmente, un piacere che deve essere ragionevole; nel caso in cui il piacere carnale superi la misura del ragionevole – scrive nella seconda metà del XII secolo Ecberto di Schönau nei Sermones contra Catharos (PL, 197, 30) –, «può esservi qualcosa di peccaminoso [aliquid peccati]: ma questa traccia di peccato, da una parte, è leggera e, dall’altra, è giustificata dal bene che risulta al matrimonio». Lo prova il fatto che nella Summa per confessori di Tommaso di Chobham (composta fra il 1210 e il 1216) veniva consigliato agli sposi di fare reciproco apostolato spirituale approfittando proprio del momento dell’unione carnale, in cui si supponeva che il coniuge fosse meglio disposto nei confronti dell’altro13. E questo atteggiamento indulgente verso il piacere sessuale nel matrimonio, che dura a lungo, non fa differenza fra piacere maschile e piacere femminile, anche se coloro che scrivono, naturalmente, sono sempre ecclesiastici che conoscono solo la vita ascetica. Proprio per questo, l’esempio più noto di passione amorosa fuori dalle regole nel Medioevo è un caso drammatico e controverso, che si risolve con la scelta dell’ascetismo: la vicenda di Eloisa e Abelardo – sposatisi segretamente, dopo essere stati amanti – protagonisti di una violenta passione, dal cui frutto era nato un figlio. Lo zio e tutore di Eloisa li aveva scoperti, e per vendetta aveva fatto castrare Abelardo: i due amanti decisero quindi di dedicare la loro vita a Dio ritirandosi in monastero. Abelardo ricorderà gli incontri amorosi con il senso di colpa di chi deve espiare i peccati commessi, mentre Eloisa, che non rinnegherà mai quel 12 Cfr. J. Leclercq, I monaci e il matrimonio. Un’indagine sul XII secolo (1983), Società editrice internazionale, Torino 1984, p. 19. 13 Ivi, p. 56.

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periodo d’amore, lo rimpiangerà sempre, cercando di tramutare la dedizione appassionata all’amante in abbandono a Dio. Nessuno dei due, a differenza della società del tempo, giudica negativamente la realtà sessuale: Abelardo – convinto com’è che Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno – conferisce alla persona una centralità nuova grazie al principio di intenzionalità, ma iscrive ogni vicenda della vita in un progetto provvidenziale. Tanto che Pietro il Venerabile – abate di Cluny, dove si era rifugiato Abelardo – può inviare a Eloisa la notizia della morte dell’amato facendo un chiaro riferimento alla loro passione, ormai sublimata e purificata: «Sorella venerabile e carissima nel Signore, colui al quale tu fosti prima unita nella carne, poi legata con un nodo tanto più saldo quanto più perfetto era il legame della carità divina, colui con il quale e sotto il quale tu hai servito il Signore, Cristo lo tiene ora nel suo seno al tuo posto e come un’altra te stessa te lo custodisce affinché alla venuta del Signore [...] per grazia sua ti sia restituito» (lettera XV). Mentre in una delle storie più antiche di coppie cristiane, quella cioè tra Paolino di Nola e Therasia, è la donna a ispirare la svolta religiosa, nella vicenda di Eloisa e Abelardo è questi che impone alla donna il monastero. Paolino muore nel 431, Abelardo nel 1142: in questi settecento anni sembra sia cambiato molto il modello di matrimonio. Per realizzare la sublimazione del legame della carne – simboleggiato dalla trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana – Abelardo ed Eloisa dovranno scegliere la vita monastica e la castità, mentre Paolino e Therasia avevano potuto vivere insieme, in un rapporto di reciprocità che la pur sapiente Eloisa non riesce più a raggiungere.

3. Un desiderio che vince gli altri desideri Senza dubbio l’esperienza più forte e più specifica legata all’affermarsi del cristianesimo è quella di permettere e, anzi, di suggerire come positiva la scelta della castità per un vasto numero di persone, donne e uomini, facendo della verginità un ideale e insieme una prassi di vita. Attraverso la pratica della castità si sviluppa la mistica cristiana, che orienta la concupiscenza umana

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verso un’altra finalità: quella dell’amore per Cristo come desiderio che vince gli altri desideri. Le opere degli autori cristiani che, come già il medico pagano Galeno e Tertulliano, sostengono questa scelta di vita come l’unica che permette non solo di aspirare alla salvezza, ma anche alla santità, trovano un riscontro concreto nella nascita del monachesimo, scelta di vita ascetica che per la prima volta coinvolge anche le donne. Molti storici vedono nella fortuna dell’ascetismo nel IV secolo un tentativo di recuperare l’eroismo del martirio dopo la fine delle persecuzioni contro i cristiani. È infatti al termine delle grandi persecuzioni in Oriente, dopo l’editto di Costantino, che Eusebio di Cesarea indicò le due vie proposte ai cristiani: «Dunque il Signore ha dato alla Chiesa due modi di vivere. Uno è soprannaturale, al di là dell’esistenza umana ordinaria, poiché non ammette il matrimonio, la maternità, la proprietà e il possesso dei beni [...]. Come esseri celestiali, costoro guardano alla vita umana dall’alto e servono Dio onnipotente in rappresentanza di tutta l’umanità [...]. La via più umile e umana spinge gli uomini a unirsi in casto connubio, a generare figli, a governare, a comandare i soldati che si battono per la giustizia, e consente loro di dedicarsi tanto alla religione quanto all’agricoltura, al commercio e ad altri interessi più secolari»14. In alcuni apocrifi si trovano le più violente requisitorie contro il rapporto sessuale. In particolare gli Atti di Giuda Tommaso – scritti in Siria intorno al 220 – descrivono con estrema vivezza la scena della rinuncia al sesso di due sposi nella prima notte di nozze: «Quindi il Signore [...] sotto l’aspetto di Giuda Tommaso [...] si sedette sul letto, ordinò loro di sedersi sulle sedie [...]. I giovani si astennero dal soddisfare l’immondo desiderio e attesero il mattino castamente». Allo stesso modo gli Atti di Pietro ci rivelano un cristianesimo d’urto, in forte contrapposizione con la società esistente: «E ancora molte altre donne s’innamorarono della dottrina sulla purezza [...] e anche gli uomini smisero di giacere con le mogli [...]. Perciò Roma cadde nello sgomento» (capitolo 34). In realtà, come si è detto, il cristianesimo ha fatto propria e potenziata una tendenza già in atto nel mondo ellenistico: la scelta 14

Eusebio di Cesarea, Demonstratio evangelica, I, 8.

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per la castità era già diffusa in Palestina, dove il deserto della Giudea ospitava grandi gruppi di maschi ribelli. Gli osservatori romani erano colpiti dalle colonie di celibi, in particolare dagli esseni. Plinio il Vecchio – contemporaneo di Gesù – li definisce «popolazione solitaria e con una caratteristica unica fra i popoli del mondo. Vivono infatti senza donne ed hanno rinunciato a ogni desiderio sessuale [...]. Così – incredibile a dirsi – è riuscita a sopravvivere per migliaia di anni una popolazione in cui non nasce nessuno»15. Secondo Filone di Alessandria e Flavio Giuseppe, due autori ebrei ellenizzati, gli esseni avevano realizzato un’utopia totalmente maschile, con l’intento di rifondare Israele rafforzando la separazione con il mondo pagano. Allo stesso tempo, nel mondo pagano, gli stoici predicano, se non l’ascesi totale, almeno l’astinenza periodica, e gli stessi medici vedono il rapporto sessuale, per gli uomini, come un pericoloso dispendio di energie sottratte a compiti più alti. Questa diffusa convinzione spiega probabilmente il grande successo che conobbe la Vita di Antonio, dettata intorno al 356 da Atanasio, vescovo di Alessandria, prima vita di un anacoreta, a cui seguirono la Vita di Paolo di Tebe composta da Girolamo verso il 379, la Vita di san Martino scritta da Sulpicio Severo, nonché gli Apophthegmata Patrum, raccolte di detti e di episodi riferiti a santi eremiti, che hanno conosciuto nell’antichità ben sette traduzioni. Questi testi, scritti da intellettuali che si recavano nel deserto in visita a monaci eremiti per capire come fosse possibile praticare l’astinenza totale e definitiva, furono e sono restati la fonte principale del monachesimo orientale e occidentale. Questo tessuto vivente di esperienze ha portato al consolidamento e allo sviluppo di quel particolare sistema di vita religiosa che è il monachesimo: si trattava di esperienze del tutto inedite per gli eremiti. Essi, infatti, si trasferivano nel deserto senza alcun bagaglio di precetti su come affrontare la solitudine, il digiuno, l’astinenza sessuale: hanno semplicemente provato. Antonio, l’iniziatore, era un contadino egiziano che, sentite le parole del Vangelo che invitavano a seguire Gesù, decise di abbandonare famiglia e beni e di cercare un incontro faccia a faccia 15

Plinio, Naturalis historia, XV, 75, 53.

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con Dio nel completo isolamento. Scoprì così che i desideri dell’uomo erano dentro di lui, e non si spegnevano quando i contatti con l’esterno venivano sospesi. Antonio li descrive come assalti diabolici, e scopre che il più irriducibile è proprio il desiderio sessuale: «Chi dimora nel deserto e vive nel raccoglimento non deve affrontare tre combattimenti: quello con l’udito, quello con la chiacchiera e quello con la vista. Il solo combattimento che resta è quello con la fornicazione»16. Per portare alla ragione il suo corpo prova a sfinirlo privandolo di sonno, di cibo, di ogni comodità. Il desiderio rimane però una tortura lancinante, per lui e per gli altri eremiti, non attutita neppure dall’età e dal tempo trascorso in solitudine. Gli episodi narrati in proposito sono innumerevoli: un vecchio eremita malato, «sicuro che il suo corpo fosse morto», scese a farsi curare in un villaggio, dove dimorò presso una famiglia e mise incinta la giovane che lo accudiva. Storie come questa dovevano essere così frequenti che, se una donna rimaneva incinta fuori del matrimonio, spesso dava la colpa agli eremiti. La tentazione sessuale si manifestava anche come sogno ricorrente, che talvolta diventava allucinazione – i Padri la descrivono come assalti del demonio –, tanto che alcuni arrivavano a evirarsi, altri si torturavano con un ferro rovente; Pacone si chiuse nella tana di una iena, sperando di morire piuttosto che cedere o, in altra circostanza, si avvinghiò un serpentello ai genitali; Evagrio passò notti intere immerso in un pozzo gelato17. Naturalmente, uno dei provvedimenti più frequenti era la rinuncia totale e definitiva ad avere contatti con le donne, in quanto risvegliavano desideri alla sola vista: «Un monaco incontrò per la via delle monache; vedendole, si allontanò dalla carreggiata, ma la loro superiora gli dice: ‘Se tu fossi un monaco perfetto non ci avresti guardate e non ti saresti accorto che eravamo donne’», narrano gli Apophthegmata Patrum. Per evitare queste tentazioni gli anacoreti cercarono di ridurre al minimo i contatti con l’esterno: abbandonarono così i lavori artigianali che li portavano periodicamente a scambiare i loro proApophthegmata Patrum (Antonius, 11). Una vivace sintesi di queste storie è in H.C. Zander, Quando la religione non era ancora noiosa. Eremiti, asceti, stiliti: le incredibili avventure e le divertenti imprese dei padri del deserto, Garzanti, Milano 2003 (2001). 16 17

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dotti con il pane nei villaggi, e si ritirarono sempre più lontano dall’abitato, cercando di vivere solo di erbe e radici. Rimaneva comunque il pericolo di incontrare qualcuno nei posti di rifornimento di acqua. La questione dei rapporti umani che risvegliavano gli stimoli sessuali era la più grave da risolvere: ce ne informano gli stessi eremiti che non nascondono come l’incontro con una donna o con un ragazzo, dopo anni di castità, diventasse spesso occasione di caduta al richiamo del sesso. Sono oggetto di tentazione i bambini, talvolta affidati ai Padri che sceglievano il deserto. Numerosi testi, infatti, mettono in guardia dall’abitare con un fanciullo, come in un’affermazione di Macario: «Quando vedrete dei ragazzi alla Scete, prendete le vostre meloti [pelli animali usate come vestiario] e ritiratevi». Sogni e pensieri erano causa naturalmente di erezioni ed eiaculazioni involontarie, mentre per gli anacoreti il fine da raggiungere era la soppressione di qualsiasi espressione sessuale, anche non voluta. I segni di una involontaria attività sessuale – opera anche questa del demonio – non sono considerati peccato, ma ostacolo al progetto di ascesa spirituale del monaco. Giovanni Cassiano dedica a questo tema un’intera conferenza (collatio), la ventiduesima, ritenendoli «segno di una concupiscenza che si nasconde nelle profondità del nostro essere» (12, 7) e gli anacoreti considerano compiuto il loro cammino verso la perfezione, cioè verso l’unità completa di corpo e di spirito, solo quando queste emissioni finiscono; così, a proposito dell’abba Sereno riferisce che «fra tutte le virtù che la grazia del Signore faceva risplendere nelle sue opere, nei suoi costumi e persino nella sua faccia, egli aveva ricevuto il dono particolare di una castità sì alta da non sentire più, neanche durante il sonno, i moti naturali della carne» (7, 1), e altrettanto si tramandava di Evagrio, che morì a 54 anni, da tre anni libero dalla concupiscenza. Una caduta sessuale non costituiva, però, una ragione per abbandonare l’impresa: i monaci più giovani ricorrevano in questi casi ai consigli di un anziano e, in generale, intensificavano la mortificazione del corpo con privazioni alimentari: «Quando si vuole conquistare una città le si tagliano l’acqua e i viveri. Similmente per le passioni della carne. Se un uomo vive nel digiuno e nella fame, i nemici della sua anima sono indeboliti», dice Giovanni il

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Breve18. E Ilarione, ancora giovane, così ammonisce il suo corpo in cui si risvegliano gli stimoli del desiderio: «Caro il mio asinello, t’insegnerò io a non tirare calci; non ti nutrirò d’orzo, ma di paglia; ti sfinirò a forza di fame e sete, ti caricherò di pesi enormi, ti metterò alla prova con la calura e con il gelo»19. Non tutti gli anacoreti mangiavano allo stesso modo, ma nella ricerca di una dieta lo scopo fondamentale era quello di trovare alimenti che facilitassero la resistenza alle tentazioni sessuali. Non era tanto un problema di quantità e qualità – per coloro che, come Antonio, provenivano dalle classi popolari, l’abitudine a mangiare poco, anche per mantenere le numerose famiglie, era così radicata che talvolta la dieta dell’eremita era considerata un lusso – ma di dosare digiuni e alimenti in modo da spegnere l’istinto sessuale. In genere digiuno significava mangiare una sola volta al giorno, al tramonto, e i digiuni totali erano praticati in occasioni eccezionali, per combattere una tentazione particolarmente violenta. Secondo alcuni, per combattere il desiderio sessuale bisognava non mangiare nulla di cotto; per altri, lo sperma proveniva da una sovrabbondanza di umori, e si consigliava quindi una dieta alimentare disseccante: «più secco è il corpo, più fiorente è l’anima»20. Secondo Evagrio, i luoghi umidi erano frequentati dai demoni. Anche il sonno inumidisce: proprio per questo, gli anacoreti passavano le notti in piedi, o seduti, pregando. Giovanni Cassiano sostiene che, privandosi del sonno, bevendo poco e accontentandosi di due pani al giorno, il novizio poteva in sei mesi conseguire una castità quasi perfetta, ma questo non valeva per i più poveri, abituati già a questo regime di vita. Ben presto l’esperienza dell’eremita solitario venne affiancata, o sostituita, da una forma organizzata che coinvolgeva più persone. Già intorno all’eremitaggio di Antonio – che morì a 113 anni – si erano insediati molti discepoli e, nel IV secolo, migliaia di uomini in tutto l’Egitto raggiunsero i primi anacoreti cercando di imitarli: nel deserto di Nitria vivevano, soli o in piccoli gruppi, circa cinquemila monaci; nella Tebaide, si trovavano milleduecento

4, 19. Girolamo, Vita di Ilarione. 20 PlGv, 10, 17. 18 19

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monaci e nelle vicine spelonche vivevano molti anacoreti. Nei pressi del villaggio di Ermupoli, intorno all’abbas Apollo, si erano raccolti cinquecento discepoli. Ma il primo a pensare un’organizzazione monastica collettiva fu Pacomio, che fondò a Tabennisi un monastero composto da trenta o quaranta case che ospitava tra i milleduecento e i milleseicento monaci. Una rigida regola organizzava il loro lavoro, i ritmi della preghiera e le eventuali uscite dal monastero, e comprendeva anche delle norme preventive per impedire che nascessero fra i monaci amicizie carnali: i monaci dovevano coprirsi le ginocchia quando erano seduti in assemblea, non dovevano rimboccare troppo la tunica quando facevano il bucato, non dovevano guardare gli altri durante il lavoro o al momento dei pasti, le relazioni tra loro dovevano sempre essere mediate da un responsabile. A maggior ragione non si potevano isolare a due a due quando riposavano sulla stessa stuoia, non dovevano salire sullo stesso asino, né parlare nell’oscurità e, soprattutto, dovevano sempre mantenere l’uno con l’altro la distanza di un cubito. Questa scelta di astinenza perpetua deve essere letta come risultato di un contesto sociale in cui si era convinti di essere alle soglie del ritorno di Cristo, e per questo sembrava necessario vanificare la continuità del mondo. Diversamente dai filosofi pagani sostenitori dell’astinenza, e dagli ebrei, che volevano una società capace di imbrigliare e disciplinare il flusso continuo della sessualità umana, i cristiani sceglievano la castità per dimostrare che era possibile invertire le cose, arrestare il flusso vitale, e mettere a nudo così la fragilità di un ordine sociale solo apparentemente immutabile. In una società in cui ognuno aveva l’obbligo di non mutare funzione, mestiere, dimora, e quindi di contribuire alla riproduzione del gruppo umano a cui apparteneva, scegliere la castità e la povertà significava rompere con tutto, fare una rivoluzione. Era una scelta rivoluzionaria soprattutto per le donne: dal momento che la mortalità infantile era altissima, per garantire la continuità nel tempo di un gruppo sociale era indispensabile che le donne, fin dalla pubertà, fossero destinate alla procreazione, necessità resa ancora più ineluttabile anche a causa della frequente mortalità per parto. Le uniche donne che, nella società romana, potevano conservare la propria verginità, cioè le vestali, custodi del fuoco sacro, dopo i trent’anni si sposavano. Una scelta

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totale di castità per le donne, che per tradizione non potevano disporre di se stesse, era inconcepibile. Naturalmente, non era facile per loro realizzare questa scelta: in un mondo in cui venivano maritate giovanissime dal padre, ben poche furono quelle in grado di opporre un rifiuto. Le più libere erano quelle che rimanevano orfane prima di arrivare in età da marito, o le vedove che riuscivano a resistere a tutte le pressioni per un secondo matrimonio: caso emblematico quello di Olimpiade che, maritata a diciott’anni e vedova a diciannove, dovette resistere alle pressioni dell’imperatore Teodosio, che la voleva far sposare a un suo parente. Ma talvolta le donne erano votate alla verginità – fin dalla nascita – dai loro parenti cristiani, come il caso della figlia di Melania Iuniore, o di Paola, donna dell’aristocrazia senatoriale romana che porta sulla strada della verginità la figlia Eustochio. Sono queste donne che scelgono la castità, se vedove, o che tentano di coinvolgere i mariti in questa scelta ascetica e spingono i figli al celibato: l’ascetismo diviene la scelta di intere famiglie, come nel caso di una donna romana trasferitasi a Betlemme, che esortava il marito rimasto a Roma ad abbandonare tutto e a seguire la via dell’ascetismo, come le aveva promesso. Un caso emblematico è quello di Melania Seniore, vedova, che lascia la famiglia per i luoghi santi, e conquista con il suo esempio la nipote Melania Iuniore, costretta al matrimonio giovanissima. La giovane Melania, dopo la nascita di due figli che muoiono subito, riesce a convincere il marito e, insieme alla nonna, trascina sulla via della castità anche il padre e la madre. La coppia che si astiene dai rapporti sessuali diventa un esempio da imitare, specialmente per le donne, anche se non tutte le spose riuscivano a convincere i loro mariti, e quindi i vescovi si videro costretti a ricordar loro gli impegni coniugali, considerandole – come sottolinea Giovanni Crisostomo nella diciannovesima omelia – «responsabili dei disordini dei loro mariti». E alle donne maritate loro malgrado, i cui mariti respingevano la vocazione ascetica, Basilio di Ancira consiglia di comportarsi come quelle che «succubi di violenza, non partecipando l’anima al piacere, sembravano schernirsi del proprio corpo come fosse morto e la loro anima, che rifiutava di concedersi alla voluttà di colui che la oltraggiava, si presentava senza macchia al cospetto dello Spo-

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so con una fedeltà e una verginità più radiose»21. Il desiderio femminile, nei trattati spirituali e nelle Vite, è perfettamente riconosciuto, proprio come nei testi dei medici greci, anche se si tende a pensare che si manifesti soprattutto nelle donne che hanno conosciuto il sesso piuttosto che nelle vergini. Si capisce quindi come proprio le donne fossero le più propense alla conversione al cristianesimo, anche perché consentiva loro di scegliere la castità che le salvava da mariti non voluti, dalla morte per parto e – cancellando la differenza biologica – le rendeva uguali agli uomini. Realtà che del resto era ben chiara a molti Padri della Chiesa i quali, in antitesi alla scelta verginale, presentano con vivezza alle donne il dolore del parto, il malumore e la prepotenza del marito, la morte dei figli. Giovanni Crisostomo scrive apertamente alla donna sposata: «Sopporta [...] tutta questa schiavitù: sarai libera solo quando egli morirà»22, mentre Basilio di Ancira aveva affermato che con la dote la donna comprava in realtà un padrone. Si spiega così il maggiore successo devozionale di Blandina, martire vergine appesa a un palo con le braccia distese, rispetto a un’altra martire sbranata dalle belve ma sposa e madre, Perpetua, che aveva gioiosamente allattato il bambino in prigione poco prima di morire. La fantasia pagana era molto colpita dall’esistenza di questo numero crescente di vergini, tanto che, verso la fine del III secolo, le persecuzioni delle donne cristiane cominciarono ad assumere sempre più spesso la forma di violenza sessuale, spesso come condanna a prostituirsi nei lupanari. Anche la castità maschile, proposta e valorizzata dalle Vite degli eremiti, diventa oggetto di supplizio. Racconta Girolamo che, durante la persecuzione di Decio e Valeriano, un martire, dopo aver resistito a crudeli supplizi fu portato in un giardino amenissimo. Ivi, in mezzo a candidi gigli e rose rosse, mentre accanto serpeggiava con dolce mormorìo d’acqua un ruscelletto, e il vento sfiorava con un fruscio sommesso le fronde degli alberi, fu posto riverso su un letto di piume, e lasciato lì, dolce21 Basilio di Ancira, De virginitate, 52 (testo attribuito anche a Gregorio di Nissa). 22 Giovanni Crisostomo, De virginitate, 40, 1.

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mente avvinto da ghirlande intrecciate, perché non potesse in alcun modo balzar via. Quando tutti si furono allontanati, sopravvenne una bellissima meretrice, che prese ad avvinghiarglisi al collo in un abbraccio voluttuoso e – cosa infame anche solo a raccontarla – a brancicargli il sesso con la mano; dopo averne eccitato il corpo alla libidine, la svergognata vincitrice intendeva giacere sopra di lui. Il soldato di Cristo non sapeva che fare, a quale partito appigliarsi: non l’avevano vinto i tormenti, e ora lo sopraffaceva la voluttà! Infine, per un’ispirazione celeste, si mozzò coi denti la lingua, e la sputò in faccia alla donna che lo baciava: così l’intensità del dolore, sostituendosi alla sensualità, riuscì a sopraffarla.

Questo episodio, che a prima vista sembra una esasperata difesa della castità da parte dei cristiani, non è altro che una raffinata ripresa letteraria di un tema già presente nella cultura classica, ma applicato a un filosofo che si mangia la lingua per non rivelare un segreto durante le torture. Il morso della lingua viene attribuito anche a due donne: Leena, una prostituta che aveva partecipato alla congiura dei tirannicidi e che non vuole rivelare il nome dei complici, e Timica, la moglie incinta di un filosofo pitagorico, sempre per evitare di tradire un segreto. I due esempi femminili stanno a testimoniare come i pagani sapessero resistere al dolore ma non al piacere – si tratta di una prostituta e di una donna incinta – e quindi non fossero capaci di autentica virtù. Nel testo di Girolamo, in cui l’amenità del luogo costituisce un tòpos di incitamento al piacere, l’aneddoto viene rivestito da un alone di sensualità – in parte ricavata da un racconto di Petronio nel Satyricon – e si colora dei toni della rivincita del maschio, stranamente casto, sulla donna impudica, cioè ribadisce la superiorità della razionalità maschile sulla passionalità femminile23. Una superiorità messa in forse nell’unico punto debole maschile, quell’involontario motus genitalium, che imbarazzava anche teologicamente Agostino. Questa variazione cristiana del tema della lingua morsicata apre spiragli sulla concezione della sessualità cristiana, intesa come l’esaltazione della maschilità. Non solo, quindi, l’uomo cri23 Cfr. C. Nardi, La lingua in faccia al persecutore. Fra antichi sapienti e martiri cristiani, in Paideia cristiana. Studi in onore di Mario Naldini, Gruppo editoriale internazionale, Roma 1994, pp. 397-427.

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stiano è superiore al pagano, ma anche alla donna, più debole di fronte al piacere. E in questa esaltazione della castità maschile si nasconde forse una nota polemica sull’importanza crescente delle vergini nella vita della Chiesa.

4. Una scelta individuale La scelta di una vita casta si configura quindi, nella società antica, come una prima possibilità di scelta individuale all’interno di una società che considerava stabilito e immutabile il destino matrimoniale, in particolare per le donne. Ben diverso, come già si è accennato, era il caso delle vestali, scelte dalle famiglie, e che si sposavano dopo i trent’anni. L’opportunità per le donne di compiere una scelta di verginità costituiva infatti un apporto nuovo, in grado di offrire autentici spazi di emancipazione femminile. Ha piena consapevolezza di questa novità, che permette di superare i pregiudizi del mondo classico sulla debolezza e inferiorità femminile, Girolamo, che collega alla figura di Maria la possibilità di scegliere la castità anche per le donne: «Ma dopo che una vergine ha concepito nel suo ventre ed ha partorito per noi un bambino [...] la maledizione è stata annullata. La morte attraverso Eva, la vita attraverso Maria. Perciò il dono della verginità si è diffuso anche più largamente tra le donne, perché ha avuto inizio da una donna»24. Una eguaglianza con gli uomini ben esemplificata dalla attribuzione loro di «animo virile», come scrive Gregorio Nazianzeno: «Hanno mente elevata esse [le vergini] che con animo virile hanno rigettato dal cuore l’ingannevole Eva [...]. Hanno dimenticato la debolezza, una volta attaccate alle solide frange di Cristo. Sono venute meno di fronte al senno la delicatezza della carne, l’eleganza delle vesti, la bellezza della prima stagione, rapida ad appassire, sia quella naturale, sia quella esteriore artificialmente manipolata con tratti da impudiche, sicché la forza dell’animo rende le femmine uguali agli uomini, nel corpo come nella sapienza»25. 24 25

Girolamo, Epistulae, 22, 21. Gregorio Nazianzeno, Carmina, II, 2, 1, vv. 233-246.

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Una virilità intesa come disposizione interiore, metafora usata nel linguaggio del tempo per alludere al progresso morale e spirituale comune a uomini e donne, che implica un superamento della divisione dei sessi. Nella concezione patristica, dunque, la verginità è una scelta interiore e libera nella quale l’illibatezza fisica non è l’elemento determinante, ma ciò che conta è la disponibilità totale a donare se stessi a Dio, come scrive Giovanni Crisostomo: «Non basta non essere sposata per essere vergine, ma occorre anche la castità dell’anima, e per castità io intendo non solo la lontananza da desideri cattivi e vergognosi, da ornamenti e cure superflue, ma anche la purificazione da preoccupazioni materiali. Se non c’è questo, a che serve la purezza fisica?»26. È evidente che questa insistenza sulla scelta interiore presuppone una libertà assolutamente inedita per le donne, in una società che non lasciava loro molto spazio all’autodeterminazione. Non bisogna trascurare il fatto, inoltre, che le donne che sceglievano la castità cristiana spesso provenivano da ricche famiglie romane, contribuendo così in grande misura alla sussistenza della Chiesa, ma ne condizionavano anche la vita intellettuale – dal momento che finanziavano gli studiosi cristiani – come non era mai successo. Melania, giunta nel 374 ad Alessandria, andò a deporre ai piedi del famoso Apa Pambo un grande forziere che conteneva centocinquanta chili di oggetti d’argento, una ricchezza che salvò dal collasso totale le comunità monastiche situate nei pressi della città; in seguito, trasferitasi a Gerusalemme, assunse la direzione di un convento che ospitava cinquanta vergini alle pendici del Monte degli Ulivi, e da lì esercitava una grande influenza sulla Chiesa della città, rafforzata anche dalle regolari e ingenti somme di denaro che le spediva il figlio. Ambrogio – fratello della vergine Macrina – ne era ben consapevole, e si adoperò per convincere imperatori, prefetti e governatori di provincia a non porre ostacoli alla scelta di vita casta da parte di vedove e vergini abbienti, e cioè a tollerare che i beni di grandi famiglie, tramite quelle donne, finanziassero le opere cristiane. Egli fu il primo a scrivere un testo, dedicato appunto alla sorella Macrina, finalizzato a dare una definizione dottrinale della verginità: nel De 26

Giovanni Crisostomo, De virginitate, 77.

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virginibus «le vergini erano considerate come categoria a sé, e ricevevano un ruolo specifico entro la Chiesa»27. L’astinenza aveva comunque, senza dubbio, un carattere eversivo dell’ordine sociale, perché aveva il pregio di essere compatibile con l’estrema semplicità: «Le donne e gli incolti cristiani, attraverso la castità, potevano raggiungere la stessa reputazione del maschio più dotto», scrive Peter Brown, che continua evocando l’esempio di santa Tecla, compagna di evangelizzazione di Paolo, molto popolare nell’antichità cristiana: «La sua leggenda serviva a dimostrare che una ragazza casta e riservata poteva rispondere all’appello di un immaginario apostolo come qualunque maschio sessualmente attivo»28. Brown ipotizza che in alcune Chiese, come quella di Alessandria, intorno al problema del matrimonio e della castità fosse in corso un conflitto sociale: attraverso la scelta ascetica i membri più poveri e ambiziosi della comunità potevano emergere sui capofamiglia ricchi e istruiti che ne costituivano l’élite tradizionale. Intellettuali moderati che miravano al consolidamento della società tradizionale come Clemente Alessandrino intervenivano per bloccare sul nascere una pericolosa mistica dell’astinenza, fatta propria da coloro che pensavano di rinunciare al matrimonio per distruggere la società alle radici, arrivando a congetturare che non solo Pietro ma forse anche Paolo fossero uomini sposati. Ma questa posizione moderata non ha molto successo in una società cristiana in cui un numero sempre crescente di fedeli voleva sentire la presenza attiva dello Spirito al suo interno. Sarà Tertulliano a scrivere che, per coloro che non avevano il destino del martirio, il dono dello Spirito, cioè la profezia, si poteva raggiungere attraverso la sospensione di ogni atto sessuale: «Con l’astinenza si può acquisire moltissima santità; risparmiando nella carne si può investire nello Spirito»29. Egli negava recisamente ogni dualismo: solo attraverso un controllo rigoroso del corpo e delle sue sensazioni era possibile educare l’anima per entrare diretta27 R. Lizzi, Vergini di Dio – vergini di Vesta. Il sesso negato e la sacralità, in L’Eros difficile. Amore e sessualità nell’antico cristianesimo, a cura di S. Pricoco, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998, p. 112. 28 Brown, Il corpo e la società, cit., p. 54. 29 Tertulliano, De anima, 9, 4.

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mente in sintonia con lo Spirito. Al tempo stesso, però, metteva in guardia coloro che, un po’ semplicisticamente, pensavano che la castità e il battesimo rendessero nullo il pericolo di cadere in tentazione. Anzi, secondo lui, dal momento che la natura umana era immodificabile, e quindi perennemente soggetta agli impulsi del sesso, bisognava impedire alle giovani che si erano votate alla verginità di comparire senza velo nelle assemblee dei cristiani. Anche se lo Spirito poteva conferire al corpo il dono della sopportazione davanti al martirio, non poteva abolire dalla mente dell’essere umano la debolezza della tentazione sessuale. Uno dei Padri più radicalmente sostenitori della castità è Origene, alessandrino figlio di un martire, che in quanto platonizzante sosteneva la fluidità dell’identità corporea e la possibilità, quindi, di espurgarne completamente ogni istinto sessuale e di liberarne lo spirito in esso racchiuso. La trasformazione che il corpo poteva ottenere seguendo una rigida via di ascesi era tale che sarebbe scomparsa ogni nozione legata all’identità sessuale e sociale. La purezza fisica costituiva infatti, per lui, una sorta di fragile oasi di libertà umana dai condizionamenti biologici e sociali. Origene stesso – che, secondo una notizia peraltro incontrollabile e probabilmente leggendaria, si sarebbe fatto evirare da un medico per prevenire ogni insinuazione a proposito dei suoi rapporti con le donne sue discepole – si presentava con un aspetto strano, privo di barba, prova concreta dell’indeterminatezza del corpo. Il risultato di tante fatiche e rinunce sembrava degno di ogni sforzo: «Quello che noi saremo un giorno – scrive Cipriano alle vergini – voi già cominciate a esserlo. Voi fin da questo secolo godete la gloria della risurrezione, passate attraverso il mondo senza contagiarvene. Finché perseverate caste e vergini, siete uguali agli angeli di Dio»30. Analogo il discorso di Atanasio ben consapevole che l’istituzione delle vergini costituisce una specificità cristiana: «Il Figlio di Dio, nostro Signore e Salvatore, Gesù Cristo, divenuto uomo per noi, ha abolito la morte e liberato il genere umano dalla schiavitù della corruzione. Oltre a tutte queste grazie, ci ha donato di possedere sulla terra un’immagine della santità stessa degli angeli, la verginità. Coloro che fanno professione 30

Cipriano, De habitu virginum, 22.

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di questa virtù, la Chiesa cattolica è solita chiamarle spose di Cristo. Gli stessi pagani che le vedono le ammirano come tempio del Verbo; poiché da nessuna parte, in verità, si trova questa venerabile e celeste istituzione se non presso noi cristiani»31. Intorno a ogni chiesa si andava così formando un gruppo – sempre più numeroso – di vergini che il vescovo doveva mantenere, con l’aiuto della popolazione, e che costituiva quasi un tesoro della collettività. Si riteneva che la vergine, dal momento della consacrazione in poi, vivesse in compagnia di Cristo e degli angeli, in un silenzioso colloquio di preghiera. È un’immagine idillica della vita verginale, ben lontana dai reali tormenti raccontati nella vita di Euprassia tra la fine del IV secolo e gli inizi del V: tentazioni sessuali, invidia e sofferenze fisiche, ma anche la possibilità di accesso alla cultura, soprattutto alla lettura dei libri sacri. E anche il clero, attratto dalla cultura pagana e dalle lotte di potere, guardava alle vergini come a un’oasi di purezza. La possibilità, anche per le donne, di raggiungere un alto livello spirituale come quello degli uomini più elevati, costituiva una novità assoluta, e per molti versi inquietante. Il Padre della Chiesa che offre l’esempio più evidente di questa contraddizione è senza dubbio Girolamo, grande sostenitore della verginità, soprattutto femminile, tanto da circondarsi di donne che avevano scelto la castità e da intrattenere con loro importanti amicizie spirituali. Dal suo atteggiamento si può dedurre che era pronto a considerare uguali gli asceti dei due sessi, e a giustificare una loro stretta collaborazione. In un primo tempo, Girolamo condivise infatti l’opinione di Origene relativa alla possibilità di superare l’effimero carattere sessuato dei corpi. Ma in seguito, senza dubbio influenzato dalla condanna di Origene da parte della Chiesa d’Occidente, quasi rinnegando il suo antico ruolo di mentore presso Marcella, Paola ed Eustochio, dichiarò inapplicabile per il proprio tempo l’immagine di Paolo secondo cui l’uomo e la donna, trasformandosi, diventavano una cosa sola in Gesù. «Nell’invettiva contro Pelagio – del 415, quando era già vecchio, scrive Peter Brown – Girolamo ce la mise tutta per distruggere ogni speranza di perfezione cristiana sulla terra: a quella perfezione, infat31

Atanasio, Apologia ad Constantium, 33.

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ti, si opponevano i richiami del sesso, ormai diventati così pericolosi da sconsigliare ben più che l’amicizia femminile»32. La castità, in ogni modo, creava le condizioni per una amicizia fra donne e uomini che non aveva riscontro nel mondo antico e che diventa un tratto specifico e qualificante dell’esperienza cristiana. Si tramutano in amicizia legami fraterni, quali quelli fra Ambrogio e la sorella Marcellina, o coniugali, come tra Melania e Piniano, ma soprattutto ne nascono di nuovi fra persone colte, che condividono la ricerca sulle Scritture e la volontà di avanzare nel cammino spirituale. Oltre ai già citati legami fra Girolamo e Paola, compagna dello studioso nell’esilio, nell’edizione dei testi, nelle traduzioni della Scrittura, in un impegno severo profondamente condiviso, è particolarmente significativo il legame fra Giovanni Crisostomo e Olimpiade, con lui e per lui perseguitata. Olimpiade gli è compagna nella prova, gli è vicina nel mantenere i contatti, come il suo cuore e il suo braccio, occupandosi anche del suo vestiario e del suo frugale cibo, in un rapporto – come dimostrano le lettere – di intimità e di condivisione totale. Una sintonia profonda per cui, come scrive Giovanni, vedersi e parlarsi è essenziale: «Immagino che tu soffra anche per la separazione dalla nostra povera persona, e che per questo tu pianga continuamente, dicendo a tutti: non possiamo più ascoltare quella voce, godere del suo consueto insegnamento»33. La valorizzazione della scelta ascetica portò naturalmente all’affermazione tacita di una gerarchia interna alla comunità cristiana, basata sull’astinenza. Il fatto che si affermasse una élite di asceti costituiva una novità assoluta: mai prima di allora era stata richiesta a un uomo pubblico questa virtù, del resto considerata tipicamente femminile. Le solenni cerimonie pubbliche di consacrazione che mettevano le vergini su un piedistallo servivano quindi a rafforzare la gerarchia clericale. Opponendosi a Gioviniano e ai suoi discepoli, che rifiutavano di aderire a questa idea, Ambrogio affermava con chiarezza: «Ogni giorno, attraverso le Scritture e nella predicazione dei vescovi, la Chiesa elogia l’onesta vita coniugale, ma la gloria suprema va senz’altro all’integrità 32 33

Brown, Il corpo e la società, cit., p. 349. Giovanni Crisostomo, Epistulae, 8, 11.

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verginale»34. Egli applicava, attraverso l’uso di immagini retoriche, le qualità della vergine all’intera Chiesa cattolica, intesa come un corpo intatto che aveva la miracolosa capacità di crescere e di alimentarsi.

5. Celibi per forza Se l’astinenza sessuale costituì una delle prime possibilità di scelta individuale, facendo della castità monastica un cardine della vita religiosa cristiana, ben presto si pose il problema della vita sessuale di coloro che svolgevano le funzioni che erano state degli apostoli, e che non sceglievano, in gran numero, il celibato. Proprio a questo proposito, infatti, la Chiesa cominciò ben presto a esercitare una pressione, cercando di spingere al celibato anche coloro che non ne avevano sentito la vocazione ascetica, ma svolgevano funzioni di chierico nella comunità. Non si trattava tanto di un problema morale: all’inizio del III secolo l’affermazione di un clero cristiano – comprendente da almeno un centinaio di anni chi esercitava le funzioni di vescovo, presbitero e diacono – come gruppo separato avviene contemporaneamente all’avvento di una proprietà ecclesiastica, presente ben prima che Costantino concedesse ufficialmente alla Chiesa il diritto di conservare un patrimonio proprio35. Il clero, infatti, non solo comincia a essere mantenuto dalla comunità, ma a svolgere un ruolo centrale nell’amministrazione di queste proprietà; saranno soprattutto i vescovi a distribuire le cariche, ma anche a offrire doni e a nutrire i poveri. La prosperità del clero, fondata sui beni ecclesiastici, diventa rapidamente il segno per eccellenza della benedizione di Dio e gli ecclesiastici riassumono e rappresentano simbolicamente la Chiesa, perché realizzano l’ideale della comunità di beni sperimentata dai primi cristiani. È proprio questo ideale a suggerire un modello di vita comuAmbrogio, De virginibus. Su tutta la questione si veda A. Faivre, Ordonner la fraternité. Pouvoir d’innover et retour à l’ordre dans l’Église ancienne, Les Éditions du Cerf, Paris 1992; cfr. anche G.M. Vian, Dai cimiteri al potere temporale: note sulle origini della proprietà ecclesiastica, in «Vetera Christianorum», 42, 2005, pp. 307-316. 34 35

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ne che suppone la continenza o il celibato. È evidente infatti come l’assenza di una famiglia, o almeno di figli, garantisca una migliore gestione dei beni ecclesiastici e impedisca la trasmissione degli uffici ecclesiastici all’interno della famiglia. Ma il problema del celibato dei clerici veniva a scontrarsi con quella che era una delle principali innovazioni della cultura cristiana: il valore dato alla libera scelta, soprattutto nel campo della vita ascetica. Affiancare alla castità scelta dei monaci una castità obbligata dei chierici, se pure necessaria per molti e validi motivi, significò un percorso accidentato nella storia della Chiesa, e aprì un’insanabile contraddizione sul valore dell’intenzione. La questione del celibato ecclesiastico è stata infatti discussa fin dai primi tempi del cristianesimo, a cominciare dalle ipotesi avanzate sulla vita familiare degli apostoli, Paolo compreso. Molti autori, infatti, hanno cercato di accreditare l’opinione che gli apostoli fossero tutti modelli di celibato, anche se si sa per certo che Pietro era sposato, mentre più tardi la leggenda gli attribuisce una figlia, Petronilla. Un figlio maschio avrebbe infatti sollevato una sorta di questione dinastica nella successione dei vescovi di Roma, eredi appunto dell’apostolo Pietro. La posizione degli apostoli su questo problema non è chiara: di certo si sa solo che nell’epistolario paolino è sottolineata l’esigenza, per i vescovi, di una rigida monogamia: i vescovi rimasti vedovi non avrebbero infatti dovuto risposarsi, e questa è considerata da alcuni storici la prima tappa verso il celibato. Ma anche la questione della monogamia era controversa: si affermano infatti fra i cristiani opinioni diverse sulla validità dei matrimoni contratti prima del battesimo. Per alcuni, la fedeltà richiesta ai vescovi riguardava solo la donna presa in moglie dopo l’iniziazione cristiana, ma la questione verrà chiarita dai papi Innocenzo I e Leone il Grande, che si dichiararono a favore della validità anche delle unioni precedenti. Nonostante questo, e lo ricorda Girolamo, la società cristiana era piena di vescovi, senza parlare dei preti e dei diaconi, che avevano preso una seconda moglie: in realtà bigami che per questo avrebbero dovuto essere esclusi dagli ordini36. 36 Cfr. T. Sardella, Eros rifiutato ed eros proibito, in Pricoco (a cura di), L’Eros difficile, cit., pp. 197-238 (in particolare, pp. 226-228).

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L’alta considerazione di cui godeva la verginità fece sì che, fin dai primi secoli, molti ecclesiastici praticassero spontaneamente il celibato, valorizzato soprattutto in Occidente, senza che la Chiesa promulgasse una normativa rigida in proposito. Dal momento, infatti, che lo stato matrimoniale veniva, come si è visto, dotato di carattere religioso e spirituale, era difficile escluderne gli ecclesiastici senza provocarne una svalorizzazione. Solo nella seconda metà del II secolo il celibato del clero cominciò a prendere la forma di una pratica diffusa, considerata, se non necessaria, almeno altamente auspicabile. Nel IV secolo, Eusebio di Cesarea scrive che «la continenza conviene ai preti e a tutti coloro che sono impiegati al servizio del Signore»37 mentre alcune Chiese, come quella egiziana, cercano di imporre la castità almeno ai vescovi. Ma a questa pratica si oppone Girolamo, scettico sulle sue possibilità di attuazione: «che diventerebbero le Chiese d’Oriente? Che diventerebbero le Chiese di Egitto e di Roma, che non accettano che chierici vergini o continenti, o che esigono, quando hanno a che fare con chierici sposati, che rinuncino a ogni rapporto con le loro mogli?»38. Altrettanto consapevole di quanto fosse lontana dalla realtà questa proposta è Epifanio: La santa Chiesa rispetta la dignità del sacerdozio a tal punto che non ammette al diaconato, alla funzione di prete, di vescovo e neppure di suddiacono, colui che vive ancora nel matrimonio e genera dei figli; e ammette solamente colui che, sposato, si astiene da sua moglie o colui che l’ha perduta, soprattutto nei paesi dove ci sono severi canoni ecclesiastici. In verità, in certi luoghi, i preti, i diaconi e i suddiaconi continuano ad avere bambini. Io rispondo che questo non si fa secondo le regole, ma a causa della mollezza degli uomini, perché è difficile trovare dei chierici che si applichino seriamente alle loro funzioni. Quanto alla Chiesa che è ben costituita e ordinata dallo Spirito santo, ha sempre giudicato più decente che coloro che si votano al santo ministero non siano distratti, fino a che è possibile, da niente e adempiano alle loro funzioni spirituali con una coscienza tranquilla e gioiosa39. Eusebio di Cesarea, Demonstratio evangelica, I, 9. Girolamo, Adversus Vigilantium, II. 39 Epifanio, Adversus Haereses, 48, 9. 37 38

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Come ha rilevato acutamente Giovanni Crisostomo, però, la necessità di una legge che imponesse al clero la continenza si scontrava con la libertà di scelta che, come valore morale, era strettamente connessa alla scelta ascetica40. La discussione sul celibato ecclesiastico rimane a lungo aperta, e lunga e tenace è la resistenza, all’interno della Chiesa, al movimento rigorista che voleva introdurre il celibato obbligatorio per i chierici, come dimostra la difficoltà di stabilire una norma vincolante, benché spesso richiesta, per tutta la Chiesa. Più spesso prevale la tolleranza, come nel 343 al Concilio di Gangres, dove con il canone 4 si stabilisce che chiunque faccia distinzione fra preti sposati e preti celibi che celebrano il sacrificio eucaristico è passibile di anatema. Il sacramento, infatti, ha validità indipendentemente dalla condizione morale del sacerdote che lo somministra. E ancora nel 400 le Costituzioni apostoliche si limitano a ordinare la monogamia ai rappresentanti del clero, anche se vedovi. Lo storico Socrate, a questo proposito, riferisce un aneddoto significativo: nel Concilio di Nicea, ad alcuni vescovi che volevano stabilire l’astinenza, avrebbe risposto un venerabile e casto vescovo egiziano, Pafnuzio, sostenendo che sarebbe stato imprudente imporre un fardello di astinenza anche alle spose dei chierici. Secondo lui, quindi, bisognava accettare anche il clero ordinato dopo il matrimonio, lasciando alla libertà di ciascuno di decidere se vivere in castità oppure no41. Questo racconto, poi ampiamente diffuso, trova una conferma nei testi del Concilio di Nicea. Una linea differente però era stata espressa, a partire dalla prima metà del IV secolo, da molti sinodi locali, come quello di Elvira (l’attuale Granada), che aveva obbligato il clero di quella diocesi alla castità, così come i Concili di Cartagine del 390 e del 401, di Toledo del 400 e di Torino del 401. Papa Siricio, nel 386, in una lettera al vescovo di Tarragona, e successivamente in lettere ai vescovi africani, interviene per raccomandare almeno di rispettare i periodi di continenza già stabiliti dalla legge ebraica durante le funzioni religiose più importanti, mentre Leone il Grande cerca di imporre il celibato, come testimonia una lettera scritta al vescovo Atanasio nel 446: «Mentre a chi non appartiene all’ordine 40 41

Giovanni Crisostomo, De virginitate, 9, 2. Socrate, Historia ecclesiastica, I, 11.

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clericale è consentito sposarsi e avere figli, per realizzare alla perfezione la più completa castità, non sarà concesso nemmeno ai suddiaconi il matrimonio con rapporti sessuali, così che anche quelli che hanno moglie devono comportarsi come se non l’avessero»42. O almeno, in ogni regione, si cerca di limitare la carriera ecclesiastica ai preti celibi, non solo per motivi di impegno nella missione, ma anche per impedire la dispersione dei beni della Chiesa. Infatti quando, nel 554, il futuro papa Pelagio I finirà per accettare la nomina di un vescovo padre di famiglia, lo farà a condizione che ai figli non vada nulla di ciò di cui il prelato entrerà in possesso dopo il suo accesso all’episcopato. Alle preoccupazioni economiche, naturalmente, si accompagnavano quelle spirituali: Isidoro di Siviglia (morto nel 636) aveva proposto una etimologia allegorica di caelebs (celibe), spiegato come coelo beatus (beato nel cielo). Ma, in sostanza, almeno sino alla fine del IV secolo, anche se la continenza era osservata dalla maggior parte dei preti sposati, almeno dopo la loro elevazione agli ordini maggiori, la Chiesa autorizzava ugualmente coloro che non sentivano la vocazione del celibato a usufruire dei loro diritti coniugali. È solo a partire dalla fine del IV secolo che la legge del celibato comincia a prendere forma, segnando così la separazione fra la Chiesa greca e quella latina. La prima frattura aperta su questo tema si presenta durante il secondo sinodo Trullano – così chiamato dal thrùllos, il salone a volta nel palazzo imperiale di Bisanzio dove si tenevano le sessioni – convocato dall’imperatore Giuliano II e tenutosi nel 691-692. Qui la Chiesa orientale si oppone al papa, come testimonia il canone 13: «Nella Chiesa romana coloro che vogliono accedere al diaconato o al presbiterato, promettono di non avere più rapporti sessuali con le loro mogli, noi invece concediamo loro, secondo i Canoni apostolici di continuare a vivere nel matrimonio. Chi vuol interrompere tali matrimoni sia deposto, e il chierico che con il pretesto della pietà lascia la propria moglie, sia scomunicato. Se persiste in questo, sarà deposto». Unica concessione nei confronti di Roma è quella relativa ai vescovi: «Se uno viene consacrato vescovo, sua moglie deve andare in un 42

Leone Magno, Epistulae, 14, 4.

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convento piuttosto distante. Ma il vescovo deve provvedere a lei. Se è degna, può anche diventare diaconessa»43. La Chiesa ortodossa fa riferimento ancora oggi a questi decreti: infatti, anche se i vescovi sposati osservano abitualmente la continenza – ma per evitare il problema vengono abitualmente nominati vescovi dei monaci – è accettato che i preti di grado inferiore si sposino prima dell’ordinazione. Al momento della rottura ufficiale fra le due cristianità, nel 1054, il cardinale Umberto di Silva Candida, che guidava la delegazione pontificia a Bisanzio, si espresse con aspra durezza contro i preti ortodossi sposati: «Giovani mariti spossati dal recente piacere carnale servono all’altare. E immediatamente dopo essi con le loro mani santificate dall’immacolato corpo di Cristo abbracciano di nuovo le loro mogli. Questo non è il segno di una vera fede ma un’invenzione di Satana»44. Come si spiega il fatto che in Occidente, invece, si affermasse sempre più l’idea che la vita matrimoniale era incompatibile con il ministero ecclesiastico? Probabilmente, all’origine di questo atteggiamento non sta solo una preoccupazione di ordine morale e spirituale, ma la certezza che un clero celibe avrebbe garantito il mantenimento delle proprietà nelle mani della Chiesa, rafforzando quest’ultima davanti al potere politico. Ciononostante, a partire dall’VIII secolo la disciplina ecclesiastica subisce una crisi generale e in particolare ne risente proprio la pratica del celibato. Secondo Bonizone, vescovo di Sutri, la corruzione si diffondeva ovunque: «Non sono solo i ministri di secondo ordine, sacerdoti e diaconi, ma addirittura gli stessi pontefici vivono in regime di concubinato; e questo è divenuto così comune che il disonore relativo a tale condotta è in qualche modo cancellato»45. Roma stessa è descritta in preda a questo disordine, come constata un papa, Vittore III, lamentando anche che i beni della Chiesa venivano devoluti ai figli dei vescovi. Il problema del celibato del clero si pone quindi a metà fra la condotta morale dei sacerdoti e i proble43 I canoni del secondo sinodo Trullano si leggono nella classica SS. Conciliorum nova et amplissima collectio (1757-1798) di Giovanni Domenico Mansi (XI, 921-1006). 44 Il testo è citato in U. Ranke-Heinemann, Eunuchi per il regno dei cieli (1988), Rizzoli, Milano 1990, p. 104. 45 Bonizone, Liber ad amicum, 3.

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mi della Chiesa come istituzione e come potenza economica, che si veniva definendo in quegli anni come autonoma nei confronti dell’impero. Per rafforzare questa autonomia appena conquistata era quindi indispensabile un intervento forte, che garantisse la riforma morale del clero, colpendo sia il nicolaismo, ovvero il concubinato dei preti, sia la simonia, la vendita dei beni ecclesiastici. Ma, nonostante la severità della procedura ecclesiastica contro il clero sposato – che prevedeva il carcere, fustigature e bastonature pubbliche –, intorno alla fine del primo millennio cristiano un gran numero di preti era sposato. Sarà il movimento di riforma che prenderà poi il nome di gregoriano – da papa Gregorio VII, morto nel 1085 e che diede grande impulso alle correnti riformatrici già in atto – a rendere più severo l’atteggiamento della Chiesa in proposito: Leone IX (10491054) ordinò che le mogli dei preti fossero ridotte in schiavitù per servire nelle proprietà ecclesiastiche, mentre il Concilio del Laterano del 1059 così si esprime al canone 3: «Nessuno potrà assistere alla Messa di un prete, che notoriamente tenga presso di sé una concubina o una subintroducta mulier». Nicolò II (10581061) aggrava le già severe sanzioni contro i preti sposati o conviventi e cerca anche di prevenire il male obbligando gli ecclesiastici alla vita in comune. Duro fustigatore di chi si opponeva al celibato ecclesiastico fu Pier Damiani, vescovo di Ostia e autore del De celibatu sacerdotum, il quale sosteneva che solo mani verginali potessero toccare il corpo del Signore. Da proibizioni di tipo sociale, finalizzate non solo a garantire la buona condotta morale dei chierici, ma anche la compattezza del patrimonio ecclesiastico, si torna pertanto a motivazioni di ordine spirituale e teologico, peraltro sempre esistite, e a problemi relativi alla purità46. Anche per la sua imposizione del celibato ecclesiastico, come per altre sue riforme, Gregorio VII – considerato il simbolo più alto della riforma che da lui prese poi il nome – non proponeva certo novità, ma nuova era la radicalità della richiesta, avanzata con grande energia subito dopo la sua elezione al pontificato nel 1073, per vincere le numerose resistenze che venivano soprattutto da parte del basso clero. Sembra che solo nella diocesi di Co46

Cfr. Ranke-Heinemann, Eunuchi per il regno dei cieli, cit., p. 105.

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stanza si fossero radunati in un sinodo 3.600 ecclesiastici per manifestare il loro dissenso, mentre circolavano vari opuscoli a favore del matrimonio del clero. Le resistenze furono forti in particolare in Lombardia, dove la Chiesa ambrosiana si oppose al celibato in nome della sua antica autonomia da Roma, ma dove la posizione romana fu sostenuta con forza dal movimento dei patari, laici intransigenti che – mettendo in discussione la validità dei sacramenti consacrati da preti sposati – perseguitavano il clero che rifiutava il celibato con minacce e rappresaglie. L’azione riformatrice fu brutale: le mogli dei preti vennero considerate concubine, e i loro figli, perso lo statuto di liberi, divennero servi della proprietà ecclesiastica. Nel secondo Concilio Lateranense (1139) si fece un altro passo decisivo in questa direzione: si affermò infatti che i matrimoni contratti dopo l’ordinazione non erano validi e al tempo stesso chi era coniugato non poteva più essere ordinato prete. Nel Decreto di Graziano – raccolta di leggi compilata intorno al 1140 e che ha costituito il nucleo principale del diritto canonico nella Chiesa romana fino al 1917 – viene fissata la normativa che regola la vita privata dei chierici: «Vi sono due generi di cristiani, i chierici e i laici. A questi è permesso di avere dei beni, [...] di sposarsi, di coltivare la terra, di essere giudici, avvocati»47. Si chiudeva così una delle questioni più interessanti affrontate dalla canonistica durante il primo millennio cristiano, creando una società spaccata in due, laici da un lato e chierici e religiosi, obbligati al celibato, dall’altro. La Chiesa mirava, pertanto, a istruire e formare una classe dirigente di sicuro prestigio e ascendente religioso e a fare del comportamento sessuale continente un indicatore esterno adeguato a delimitare i confini tra laici ed ecclesiastici. Ma, al tempo stesso, «proprio la necessità di una legge che imponga al clero la continenza, si scontra con la libertà di scelta che, come valore morale, per Crisostomo deve essere connessa alla scelta ascetica, destituita di significato se, diversamente, soggetta a costrizione»48. Si tratta di una contraddizione che si apre nella società cristiana, in cui vengono messe insieme – per delimi47 48

Graziano, Decretum, 12, quaest. 1, 7. Sardella, Eros rifiutato ed eros proibito, cit., p. 221.

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tare i confini fra laici ed ecclesiastici – due forme ben diverse di celibato: quello scelto dei monaci, e quello imposto del clero. Si tratta di provvedimenti che si inseriscono in un’opera di complessiva riforma della vita religiosa e dell’istituzione ecclesiastica caratterizzata da due obiettivi: il rafforzamento della Chiesa di fronte al potere imperiale e la formazione di un clero come ceto separato, da considerarsi nettamente superiore al resto della popolazione cristiana. È a partire da questo periodo, infatti, che il termine Chiesa viene a significare l’insieme dei chierici, e non più tutti i cristiani, per i quali venne forgiato il nuovo termine di Christianitas. Ma la realizzazione piena di questa norma fu lenta e molto contrastata; Guidone, legato di papa Clemente IV al sinodo di Brema del 1266, dovette ribadire che i suddiaconi e i chierici con gli ordini maggiori che si prendono una concubina col titolo di moglie e di fatto si legano a essa in matrimonio sono privati per sempre del beneficio ecclesiastico. I figli di tali unioni illegittime non hanno alcun diritto alle masserizie dei loro padri, e ciò che costoro lasciano alla loro morte sarà diviso tra il vescovo e la città. I figli di tali preti sono per sempre infami. Ma poiché alcuni prelati tollerano la disonestà per il danaro, noi scomunichiamo e colpiamo con l’anatema tutti coloro che a tale scopo fanno sì che questo statuto, di cui deve essere data lettura nei sinodi diocesani e provinciali, non venga rispettato. Coloro invece che, chierici e laici, d’ora in poi danno le loro figlie o le loro sorelle ai chierici con gli ordini maggiori per un supposto matrimonio o per concubinato, sono esclusi dall’entrata in chiesa49.

Queste parole lasciano trasparire una abituale forma di corruzione: molti preti sposati ottenevano il silenzio dei loro vescovi versando loro periodicamente del denaro. Una prassi di lunga durata: nella continuazione del Roman de la rose – opera scritta intorno al 1277 che conobbe un successo eccezionale – Jean de Meung combatte vivacemente il celibato ecclesiastico per bocca di Natura, così come nel 1521 i protestanti denunciano pubblicamente il vescovo di Costanza, Ugo di Lan49

K.J. von Hefele, Konsiliengeschichte, Freiburg im Breisgan 1867, VI, p. 84.

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denberg, perché riceveva per il suo vescovado circa seimila fiorini annui di multa per i figli dei preti che nascevano. Molti preti-padri divennero allora protestanti per evidenti motivi economici50. Che questo costume, soprattutto in regioni lontane dal controllo di Roma, fosse rimasto vivo, lo dimostra il fatto che Erasmo da Rotterdam era figlio secondogenito di un prete, e che Ignazio di Loyola aveva un fratello prete, Pedro López, che lasciò alla sua morte quattro figli, mentre Francesco Borgia, terzo generale dei gesuiti, era vissuto nel palazzo arcivescovile di Saragozza dove suo nonno, l’arcivescovo don Alfonso d’Aragona, viveva ufficialmente con sua nonna, Anna Urrea. Fra il 1488 e il 1489 circolavano svariate falsificazioni di bolle pontificie, per consentire il matrimonio di alcuni preti. È noto come la Riforma luterana abbia trovato terreno fecondo proprio nella scontentezza dei preti tedeschi per l’obbligo del celibato: nel suo discorso sulla situazione della Germania tenuto al Concilio di Trento nel 1562, il rappresentante del duca di Baviera, Agostino Baumgartner, afferma che «tra cento preti, ne sono stati trovati appena tre o quattro che non vivono in pubblico concubinato o che già clandestinamente o del tutto apertamente non abbiano contratto matrimonio»51. La piaga del nicolaismo guarì più o meno velocemente, a seconda dei paesi e degli uomini, ma il miglioramento dei costumi morali del clero appariva incontestabile già nel XII secolo e il celibato venne ribadito risolutamente dal Concilio di Trento a metà del Cinquecento, per rimanere in vigore fino a oggi: «Se qualcuno non dice che è meglio e gradito a Dio rimanere nella verginità o nel celibato piuttosto che sposarsi, sia scomunicato». La questione fu in qualche modo riaperta dalla Rivoluzione francese: nel 1791 venne stabilito infatti che a nessun uomo si può impedire di sposarsi e quindi molti preti francesi – fra cui il vescovo Talleyrand – presero moglie. Il celibato ecclesiastico è stato confermato ancora dal Concilio Vaticano II, durante il quale i padri conciliari, pur riconoscendo esplicitamente che l’astinenza non è richiesta dalla natura stessa del sacerdozio, raccomandano il celibato richiamandosi a necessità religiose e pastorali. 50 51

Cfr. Ranke-Heinemann, Eunuchi per il regno dei cieli, cit. Concilium Tridentinum, VIII, p. 620.

II EROS E SANTITÀ 1. Simboli sessuali «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta»: questi versi fortemente erotici appartengono alla Bibbia, e più esattamente al Cantico dei cantici (5, 4). Benché gli interpreti antichi e medievali si siano impegnati a spegnerne la carica erotica dando una interpretazione metaforica di questo verso – per Ruperto di Deutz, ad esempio, l’adolescente è l’anima, tremito divino, la mano è quella del crocifisso che si stacca dalla croce1 –, la presenza di questo e altri versi simili nella tradizione cristiana costituisce la prova che la sfera sessuale non offre solo occasione di prescrizioni morali o di regole ascetiche, ma costituisce il patrimonio di metafore e simboli a cui era normale attingere per parlare del sacro. Purtroppo, oggi se ne è perso il ricordo, così come sembra scomparsa la percezione dei «sensi sovrannaturali», attraverso i quali un corpo ancora vivente può divenire molto simile a un corpo glorioso. Quell’antica sensualità trascendente – scrive Cristina Campo – è stata cancellata dalla Riforma e dall’Illuminismo: «ogni prova fu puntualmente superata dalla dottrina ma sembrò strappar via con sé un lembo della corporeità raggiante, della vivida pelle dell’antica vita cristiana»2. 1 Cfr. J.C. Schmitt, La conversione di Ermanno l’Ebreo. Autobiografia, storia, finzione (2003), Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 119-120. Per uno sguardo sull’interpretazione antica e medievale si veda l’Introduzione di M. Simonetti a Origene, Il Cantico dei cantici, Fondazione Lorenzo Valla, Roma-Milano 1998, pp. IX-XXXI. 2 C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 237.

II. Eros e santità

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Noi siamo come il giovane monaco protagonista del Nome della rosa, il celeberrimo romanzo di Umberto Eco, che capisce il senso del Cantico dei cantici solo quando vive concretamente l’amore umano con una fanciulla: si tratta di una proiezione della mentalità odierna su un passato che, invece, interpretava il libro biblico in modo esclusivamente allegorico. A noi, infatti, la sconcertante franchezza con cui questo poemetto parla dell’amore, la concretezza erotica delle sue immagini, fa solo venire in mente l’amore fisico mentre, fin dalla sua inclusione nei testi sacri ebraici, a questo testo è stata data sempre una interpretazione metaforica. Anche se gli studiosi ipotizzano che si tratti, all’origine, di un esempio di poesia erotica, simile a quella dei papiri egizi dello stesso periodo, il significato metaforico ha finito con il sovrastare a tal punto quello letterale che per secoli nessuno l’ha più letto secondo il significato originario. Senza dubbio, su questo testo e sulla sua esegesi si fonda l’uso metaforico della sessualità nella tradizione cristiana. Attribuito dalla leggenda a Salomone, ma in realtà di molto posteriore, era stato inserito fra gli altri libri della Scrittura, nonostante il suo contenuto profano e il linguaggio fortemente erotico, perché considerato una metafora dell’amore di Dio per Israele, e l’amore non sempre fedele da parte di Israele per Dio. Questa lettura costituisce una conferma di quanto l’allegoria dell’immagine sponsale fosse divenuta patrimonio comune del pensiero religioso d’Israele. Basta, del resto, ricordare un’immagine utilizzata da Isaia (62, 5) per spiegare la rivelazione dell’amore divino per rendersene conto: «Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te». Nel Cantico dei cantici, l’amore fra un uomo e una donna viene considerato l’unica realtà umana che può rendere in qualche modo intellegibile il mistero dell’amore di Dio per l’umanità. In esso la sessualità non viene vissuta come una forma misteriosa di unione con il sacro – come nei riti di fertilità delle religioni pagane – ma come realtà teologica in sé. A ragione è stato infatti sottolineato in proposito che «non vi è un amore ‘spirituale’, ‘puro’ ed uno profano; esiste solo l’amore e basta. Anzi, l’amore contiene in sé qualcosa di divino»3. 3 R. Infante, Lo sposo e la sposa. Percorsi di analisi simbolica tra Sacra Scrittura e cristianesimo delle origini, San Paolo, Milano 2004, p. 15.

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Molti commentatori hanno osservato come nel Cantico dei cantici vi sia piena parità della donna con l’amato, anch’essa soggetto attivo nel rapporto, a cui viene riconosciuto lo stesso diritto di esprimere il proprio desiderio e la propria voglia di amore. La ricerca dell’amato è quasi sempre sua, anche in condizioni rischiose, ed è alla sua bocca che il poeta affida le parole più belle: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione. Le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore! le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo» (8, 6-7). Solo l’amore e l’eros hanno la possibilità di vincere le potenze distruttrici, perché solo l’amore è creatore e fonte di vita in quanto dotato di potenza divina. I cristiani, che ripresero dai giudei l’uso della Sacra Scrittura come fondamento divinamente ispirato di vita e di dottrina, ma che hanno cominciato a leggerla considerandola come un insieme di profezie e simboli della verità portata da Gesù, non sembra abbiano avvertito alcuna remora ad accogliere anche il Cantico dei cantici, benché non ci siano riferimenti diretti a questo poema nella letteratura cristiana sino alla fine del II secolo, quando compare un commentario a cura di Ippolito. Questa prima interpretazione – per cui, ad esempio, il profumo dello sposo diventa simbolo della generazione del Logos e della successiva Incarnazione e la nerezza della sposa è simbolo dei passati peccati della Chiesa – apre le porte a un genere che conoscerà una fortuna crescente nella letteratura cristiana, quello cioè della spiegazione allegorica del Cantico dei cantici, nella comune convinzione che la Scrittura vada accostata con timore e devozione per decifrare la chiave del linguaggio simbolico con cui è scritta. Poco tempo dopo, infatti, Origene dettò un commento al poemetto in dieci libri, basato su un accurato lavoro filologico. Fin dal prologo egli affronta, risolvendolo in senso allegorico, il problema del linguaggio erotico dell’opera, presentando il Cantico dei cantici come «espressione della vetta più alta cui può aspirare l’anima umana nella ricerca di Dio». Come ha scritto Ann Matter, studiosa della fortuna del Cantico dei cantici nella storia del cristianesimo, «è con questa interpretazione dell’amore nuziale del Cantico dei cantici come amore tra Dio e l’anima del cristiano credente, che comincia la vera storia del matrimonio mistico nella tradizione cristiana. Inoltre, que-

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sta lettura legittima anche l’idea della vita di devozione come matrimonio con Dio»4. Dopo il successo di questo commento, il Cantico dei cantici viene considerato – e per sempre – uno dei punti più alti di mistica nell’ambito della Sacra Scrittura. I commentatori successivi si rifanno tutti all’esempio origeniano, fino a quando Apponio, nel 410, introduce anche un’interpretazione in senso mariano, che avrà una buona fortuna nel Medioevo. Del resto, che l’interpretazione metaforica del Cantico dei cantici sia ormai accreditata ovunque – a parte alcuni casi marginali rappresentati da canti goliardici, come i Carmina burana – lo dimostra la libertà con la quale Bernardo di Chiaravalle, nei suoi sermoni di commento al Cantico dei cantici, utilizza la descrizione realistica dell’incontro amoroso. Così, mentre il poema biblico si limita a dire «Mi baci con i baci della sua bocca», Bernardo specifica che si tratta di «congiunzione delle labbra» e «per dare un bacio, bisogna che le due labbra di ogni bocca si premano l’una su l’altra» per arrivare poi all’«abbraccio che non si può districare»5. È ben chiaro come la sposa non sia solamente passiva, ma contribuisca a produrre questo bacio in un rapporto di eguaglianza. Ogni parola è concreta, ma basta che egli aggiunga pochi termini, anch’essi biblici, di risonanza spirituale, perché si disveli un significato sublime: la libertà è quella dello Spirito Santo, il calore è quello dello Spirito di Cristo. Perché la metafora sia giusta e legittima, infatti, bisogna che la realtà di riferimento sia chiara e concreta, cioè l’amore carnale fra un uomo e una donna, a cui egli aggiunge un particolare che nel Cantico dei cantici non c’era: che si tratti di uno sposo e di una sposa, di un amore lecito. Il fondamento della metafora è dunque il matrimonio, in antitesi ad altri tipi d’amore carnale, come la prostituzione, l’adulterio e l’unione libera, lodata dagli eretici renani suoi contemporanei. Naturalmente questa interpretazione di Bernardo, che legge la metafora su tre piani diversi – e presuppone uno stretto paralleli4 E.A. Matter, Il matrimonio mistico, in Donne e fede. Santità e vita religiosa, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 45; cfr. anche E.A. Matter, The Voice of My Beloved. The Song of Songs in Western Medieval Christianity, University of Pennsylvania Press, Philadelphia 1992. 5 Bernardo di Chiaravalle citato in J. Leclercq, I monaci e il matrimonio. Un’indagine sul XII secolo, Società editrice internazionale, Torino 1984, p. 155.

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smo fra l’unione carnale e quella spirituale – rinnova profondamente la tradizione dei commenti del Cantico dei cantici. Nel bacio Bernardo identifica l’insufflazione attraverso la quale Cristo Risorto dona il suo Spirito alla Chiesa. Infatti la sua idea di base è che la rivelazione avvenga con un bacio, cioè per mezzo dello Spirito Santo. Ma il bacio esprime anche l’unione di Dio con l’uomo Gesù: «la bocca del Verbo preme la natura umana: così, Dio si unisce all’uomo, in cui, ormai, risiede tutta la pienezza della divinità»6. Ma la metafora coniugale si presta anche a esprimere l’unione di Cristo con la Chiesa, tenendo presente il fatto che la Chiesa è fatta dalla comunione delle anime. Sin da questa vita, e poi meglio nella gloria, ognuno di noi aderisce alla Chiesa nell’abbraccio dell’amplesso, formula che presuppone, più ancora del bacio, l’unione totale. Attraverso il vigore di queste metafore, Bernardo riesce a cogliere una realtà misteriosa, che sarebbe estremamente difficile formulare in altri termini. Anche il teologo contemporaneo Hans Urs von Balthasar scrive a proposito della Chiesa, velata nel mistero sponsale, che si tratta di «un mistero d’amore, che noi possiamo circondare solo della nostra reverenza»7. L’attività amorosa degli sposi viene così applicata alle relazioni tra il Verbo e l’anima, e il mistero è espresso in termini d’amore: «non vi è una sola anima, ve ne sono molte, riunite in una sola Chiesa, abbracciate da una sola Sposa»8. Anche se la Chiesa sarà perfetta sposa di Cristo solo nella gloria futura, già da ora gli è unita come lo sono marito e moglie. Il termine latino con il quale Bernardo esprime questo incontro amoroso è proprio quello che designa l’amplesso nel senso più forte, adherere, assumendo tuttavia per lui un significato solo spirituale: «Questo amore vicendevole, intimo e forte, che unisce i due, non in una sola carne ma, veramente, in un solo spirito»9. L’amore di Dio per l’uomo e dell’uomo per Dio è necessariamente espresso in un linguaggio umano, nutrito di immagini e di simboli umani e di esperienze umane. Altri scrittori cistercensi riIvi, p. 158. H.U. von Balthasar, Sponsa Verbi, Morcelliana, Brescia 1972, p. 55. 8 Bernardo di Chiaravalle citato in Leclercq, I monaci e il matrimonio, cit., p. 159. 9 Ivi, p. 161. 6 7

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prenderanno, dopo di lui, il simbolismo del letto e delle delizie dell’amplesso, e il fatto che spesso queste metafore si trovino anche in sermoni rivolti alle monache conferma come non ci fosse alcun timore a riferirsi con franchezza all’amore coniugale. Come scrive Jean Leclercq, «niente, in loro, tradisce l’ossessione e la repressione»10, né si comportano come se questi temi fossero tabù. Con la formazione dei nuovi ordini monastici del XII-XIII secolo, infatti, era cambiato il tipo di religioso: cominciano a prevalere gli adulti fra coloro che scelgono la vita nel monastero. Si tratta cioè di persone che avevano avuto un’esperienza diretta dell’amore profano, o per aver sperimentato il matrimonio, oppure per conoscenza letteraria o, magari, dall’esperienza dovuta alla promiscuità abitativa allora molto diffusa, se non abituale. Ed è proprio per la facilità con la quale viene compresa questa esperienza, probabilmente, che molti monaci come Bernardo si sentono spinti a creare, parallelamente alla letteratura amorosa dei troubadours, una letteratura amorosa sacra. Non dobbiamo poi dimenticare la capacità, diffusa fra tutti i monaci medievali e il clero – e, seppure in minor misura, anche fra i laici –, di interpretare simbolicamente, almeno in due sensi, la parola sacra. Quelle immagini che a noi – che siamo portati dal senso comune a escludere la natura spirituale dell’uomo e l’esistenza di Dio – sembrano solo il ritorno di un istinto erotico rimosso nell’inconscio erano per loro, invece, immagini ricche di senso profondo che li spingevano a cercare, a partire dai simboli biblici, significati misteriosi e nascosti. Per capire ancora meglio quale fosse il potere trasformante dell’interpretazione spirituale di scritti carichi di contenuto erotico, bisogna ricordare anche che una operazione simile a quella sul Cantico dei cantici era stata fatta, nel Medioevo, su un testo ben più difficile da «spiritualizzare», cioè l’Ars amandi di Ovidio. Certo, in alcune copie monastiche qualche riga era stata espurgata, ma in sostanza anche a esso si applicava una vera e propria esegesi, utilizzando lo stesso procedimento che si applicava alle Sacre Scritture, sino a fare di Ovidio un cristiano e ad arrivare alla dedica che un pio frate francescano scrive alla Vergine, nella vigilia di una sua festa, su un codice del poeta pagano. 10

Ivi, p. 164.

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L’immagine sponsale, del resto, è presente anche nei Vangeli, proposta da Gesù stesso che, in più di un episodio, si sostituisce a Yhwh nella metafora dello sposo e sarà ripresa da Paolo nella Seconda lettera ai Corinzi (11, 2), che stavano correndo il grave pericolo dell’infedeltà: «Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo». Bernardo è stato senza dubbio l’intellettuale cristiano che ha meglio saputo trasferire ogni desiderio di amore umano in desiderio di unione con Dio, partendo appunto dal Cantico dei cantici, ma poi procedendo oltre, sempre però all’interno della stessa metafora sponsale. Per lui, l’amore fra un uomo e una donna non è che una delle espressioni dell’amore cristiano, che sempre rinvia all’amore più alto, la carità. Egli si sforza, riuscendoci, di sublimare una pulsione fondamentale dell’essere umano, quella dell’amore, partendo da una conoscenza profonda della psiche umana. Nel suo trattato Sulla necessità di amare Dio, Bernardo stabilisce che l’amore divino integra e assume in sé tutte le manifestazioni umane dell’amore che sono in accordo con l’ordine dei valori fissati da Dio. Proprio per questo Dante attribuisce a Bernardo un ruolo centrale nella Commedia, il cui tema di fondo è l’importanza dell’amore. Nel poema assistiamo infatti al passaggio dall’amore per Beatrice a quello per Dio, dalla guida di Beatrice a quella di Bernardo. Simbolo comune fra il poeta e il monaco è la sposa del Cantico dei cantici, più volte citata da Dante nelle sue opere. Se le esperienze che Bernardo e Dante hanno vissuto sono state diverse, uguale è il processo attraverso il quale le trascendono, e per entrambi è una donna – sia essa Beatrice, oppure la sposa del Cantico dei cantici, o Maria – a esprimere simbolicamente la parte migliore di loro stessi, e quindi di tutto il genere umano. Il Cantico dei cantici, quindi, testimonia come anche nella tradizione giudaico-cristiana sia presente l’idea che il piacere sessuale, essendo riflesso della beatitudine divina, ci permette di cogliere qualcosa di Dio11. Ne parla esplicitamente Alain Daniélou nel suo saggio sulla scultura erotica indù, cogliendo le somiglianze 11

Cfr. A. Grün, Mistica ed eros (1994), Berti, Piacenza 2000.

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con questa tradizione, in quanto «riflesso dello stato di perfezione, dello stato divino, è il godimento. Per un istante l’uomo realizza lo scopo suo vero. Dimentica i suoi interessi, i suoi problemi, i suoi doveri, e partecipa al sentimento di felicità che è la sua vera natura, la sua natura immortale»12. Accanto a una tradizione – ben rappresentata da grandi Padri della Chiesa, come Ambrogio, Agostino e Girolamo – che vede la corporeità sessuata come un grave limite dell’essere umano, dal quale egli deve liberarsi quanto più gli è possibile per avvicinarsi alla trascendenza divina, ne esiste quindi un’altra che vede nell’esperienza erotica una chiave per comprendere Dio. Una posizione, questa, sostenuta anche da Tommaso d’Aquino, il quale scriveva che, anche se «i progenitori in paradiso non ebbero rapporti, perché, poco dopo la formazione della donna, ne furono scacciati a causa del peccato; oppure perché attendevano l’ordine dall’alto che ne determinasse il tempo, perché da Dio ne avevano ricevuto un comando generico»13, se l’avessero fatto ne avrebbero provato più piacere, perché «il piacere è tanto più grande, quanto più pura la natura e più sensibile il corpo» (ibid.). Perché per Tommaso l’essere umano è stato fatto a somiglianza di Dio nell’anima e nel corpo: «l’anima unita al corpo assomiglia di più a Dio di quella separata dal corpo, perché possiede più perfettamente la propria natura»14, per cui la separazione dal corpo impedirebbe la beatitudine perfetta: «la separazione dal corpo, infatti, impedisce all’anima di tendere con tutto lo slancio verso la visione dell’essenza divina, poiché l’anima desidera godere Dio fino al punto che il godimento ridondi sul corpo, nella misura del possibile. Perciò, finché essa ha il godimento di Dio senza il corpo, il suo appetito, pur quietandosi nell’oggetto che possiede, vorrebbe ancora che il suo corpo arrivasse a parteciparne»15. Da questo si può dedurre come Tommaso fosse convinto che il piacere sessuale – tanto più intenso quanto maggiore è la purezza della natura – è un dono che ci apre alla conoscenza della diviA. Daniélou, La sculpture érotique hindoue, Buchet-Chastel, Paris 1973. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I, q. 98, a. 2. 14 Tommaso d’Aquino, Quaestiones de potentia, 5, 10 ad 5. 15 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I-IIae, q. 4, a. 9. 12 13

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nità: noi conosciamo Dio dalle perfezioni che egli comunica alle creature16 in una visione molto concreta della natura umana; dei piaceri, egli scrive «alcuni sono corporei, altri dell’anima; il che in sostanza è la stessa cosa [...] e il bene sensibile è il bene di tutto il composto umano»17. Data l’unicità del composto umano non ci deve stupire che egli concepisca l’unione con Dio come un’esperienza insieme spirituale e fisica: «Sebbene il nostro corpo non possa godere di Dio con la conoscenza e con l’amore, tuttavia possiamo arrivare alla perfetta fruizione di Dio con opere compiute col corpo. Ecco perché dal godimento dell’anima ridonda sul corpo una certa beatitudine [...] perché il corpo è partecipe in qualche modo della beatitudine, può essere amato con amore di carità»18. Come era sottinteso nel Cantico dei cantici, infatti, non c’è contrapposizione fra l’amore umano e quello divino: «l’amore verso Dio e l’amore verso l’uomo sono identici nella specie [...] hanno lo stesso abito di carità»19. Questa libera interpretazione del Cantico dei cantici cominciò a incontrare degli ostacoli al momento della Riforma protestante, così come tutti gli aspetti più concreti e mistici della tradizione cristiana. E le critiche alla natura materiale e superstiziosa della fede romana spinsero anche nella cultura cattolica a proibire la lettura integrale dell’inno e a presentarne esegesi censurate. Particolarmente problematica divenne la lettura del Cantico dei cantici nella Spagna della Controriforma, in cui l’unica interpretazione consentita era quella agostiniana, cioè la Chiesa come sposa di Cristo, preferita a quella della Scolastica, che proponeva il matrimonio dell’anima individuale con Dio. Un grande studioso della Bibbia, Luis de León, fu incarcerato dall’Inquisizione dal 1572 al 1575 per avere messo in dubbio l’accuratezza della Vulgata e per avere tradotto in spagnolo il Cantico dei cantici, ma soprattutto perché ne aveva fatto una traduzione troppo letterale, poco attenta all’allegoria ecclesiologica che ne doveva spegnere il carattere erotico.

Cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I, q. 13, a. 3. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I-IIae, q. 30, a. 1. 18 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I-IIae, q. 25, a. 5. 19 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I-IIae, q. 25, a. 1. 16 17

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2. Prostituta casta («casta meretrix») Alla sposa pura e appassionata del Cantico dei cantici nei testi sacri si opponeva un modello negativo, quello della prostituta, già utilizzata nei testi sacri ebraici come simbolo di crisi nelle relazioni fra Dio e il suo popolo. Ma la prostituta delle Sacre Scritture è una figura ambivalente: in alcuni episodi biblici il suo ruolo è provvidenziale, come nella vicenda centrale di Osea, profeta a cui Dio aveva dato l’ordine di andare da una prostituta e di generare con lei dei figli, sui quali ricadesse la vergogna della madre. Il segno dato al popolo ebraico è chiaro: Dio, sebbene offeso dal suo tradimento, si riabbassa di nuovo verso l’uomo, rappresentato da questa prostituta. Il mistero dell’amore di Dio è tale che anche la riprovazione avviene nel segno della provvidenza, ed è una strada verso una nuova elezione. Agostino dirà che la meretrice del libro profetico di Osea deve essere interpretata dal Nuovo Testamento come la Chiesa dei giudei e dei pagani, di cui Cristo è il cardine e la pietra angolare. Matteo inserisce varie donne irregolari nella genealogia di Cristo perché – scrive Anselmo di Laon – l’evangelista voleva «dimostrare che Cristo non doveva nascere solo dai Giudei ma anche dai pagani, non solo dai giusti ma anche dai peccatori»20. Questo elenco di prostitute è stato sottolineato e interpretato da esegeti delle Scritture, come Rabano Mauro che scrive: Omesse le mogli legittime, vengono assunte nella genealogia di Cristo quattro donne straniere: Thamar, che siede al crocicchio sotto le spoglie di una meretrice, Rahab, la prostituta che si unisce a Salmon, il principe giudeo di Gerico, Ruth, che dopo la morte di suo marito viene da Mohab e si unisce a Booz, Bethsabea, che viene resa incinta dall’adulterio del re Davide. Ciò avvenne affinché noi ammirassimo fin nel senso letterale l’estrema bontà del Signore che per cancellare i peccati umani non solo si è degnato di nascere dagli uomini ma addirittura dai peccatori e dalle meretrici. Secondo il senso spirituale però in queste donne è prefigurata la Chiesa che viene al Signore dagli errori del paganesimo.21 20 21

Anselmo di Laon, In Mattheum, 1 (PL 162, 1239). Rabano Mauro, Homiliae in Evangelium, 163 (PL 110, 458).

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Anche Rahab viene considerata dagli esegeti come simbolo della Chiesa; per esempio, Girolamo scrive con grande incisività: «Rahab, la meretrice giustificata, prefigura noi»22. Gregorio di Elvira23 ha messo in luce la ricchezza e la complessità di questo tema biblico: «Infatti, in molti passi della scrittura incontro questa meretrice, non solo come ospite dei santi, ma addirittura come sposa. Ecco Osea, il profeta del tutto irreprensibile, cui il Signore comanda di prendere in moglie una meretrice [...] e lo stesso Signore, ch’è nostro salvatore, seduto presso un pozzo della Samaria a discorrere con una meretrice [...]. E infine è ancora una meretrice che lava con le sue lacrime i piedi del Salvatore». Nei Vangeli un posto importante è occupato da Maddalena, prostituta redenta da Gesù, imitata poi nel primo cristianesimo da «sante puttane» come Pelagia, Maria Egiziaca, Taide. Questa figura è senza dubbio il personaggio più sensuale della letteratura evangelica: lo rivela l’arte sacra, che ha rappresentato la Maddalena come giovane e bella, spesso discinta e con i lunghi capelli sciolti nel dolore del pentimento: in sostanza, l’unico dei personaggi dei Vangeli proposto come modello erotico, a cui gli artisti prestano la sensualità di Venere. Il solo modo per ritrarre una prostituta, nella società rigidamente controllata della Controriforma, era di presentarla sotto le vesti della peccatrice pentita dei Vangeli: così per esempio è raffigurata la Maddalena di Tiziano, che esprime al tempo stesso offerta sessuale e devozione sincera. Del resto, non solo il suo stato di peccatrice pentita – si suppone di peccati sessuali – induce ad attribuirle questa carica erotica, ma anche i gesti che compie sul corpo di Gesù: l’unzione dei piedi e poi dei capelli con costosi olii profumati, e l’asciugatura dei piedi con i propri capelli sciolti. Tanto che si è immaginato, da parte di eretici di tendenza gnostica e poi da scrittori che arrivano fino al modesto Dan Brown del Codice da Vinci, che il legame tra il predicatore di Nazareth e la donna fosse di carattere sessuale, e cioè che Gesù fosse sposato con lei (oppure che fosse il suo Girolamo, Epistulae, 22, 38. Si veda il trattato XII edito da P. Batiffol e A. Wilmart nei Tractatus Origenis de libris S. Scripturae, Paris 1900, pp. 128-139. 22 23

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amante) e che avessero dei figli, e naturalmente che tutto ciò sia stato tenuto nascosto dalla Chiesa. In realtà, che Maddalena godesse di un legame particolarmente intenso con Gesù risulta evidente dagli episodi evangelici che la vedono protagonista, come infatti ben coglie uno dei primi e più famosi agiografi che ne scrive la biografia, Jacopo da Varagine: «In tutte le occasioni [Gesù] prendeva le sue difese. La discolpò presso i farisei, che la chiamavano immonda, presso sua sorella che la trattava da pigra, presso Giuda, che la accusava di prodigalità»24. All’interno della sua vocazione universale, del suo amore per tutti gli uomini, il maestro di Nazareth aveva quindi delle preferenze, e questa donna che sapeva amare era una di queste. Non c’è dubbio che Maria Maddalena sia un personaggio molto intrigante: nei Vangeli gioca infatti un ruolo dirompente, quasi trasgressivo, fino alla scena più importante, quella dell’incontro con Gesù risorto, che si mostra a lei per prima, e le chiede di diffondere l’annunzio della risurrezione. Che Gesù risorto fosse apparso per la prima volta a una donna che non era sua madre, anche se questa donna aveva avuto il coraggio di seguire ogni fase della sua passione ed era rimasta sotto la croce fino al termine dell’agonia, è un fatto che a lungo ha turbato gli uomini cristiani, come traspare già nel racconto degli stessi Vangeli canonici. Il problema si ripropone nei secoli, tanto da suscitare la leggenda che forse Gesù era apparso dapprima a sua madre, ma in forma segreta: farà propria questa ipotesi addirittura Ignazio di Loyola, che propone questa apparizione come tema di meditazione – l’unico non fondato sulle Scritture – degli Esercizi spirituali. La Maddalena era stata una grande peccatrice e quindi, nonostante le esplicite narrazioni evangeliche, si fatica ad accettare che il primo testimone della risurrezione sia proprio lei. Metterla in concorrenza con la Vergine Maria è servito dunque a ridimensionarla. Ma non è questo l’unico modo in cui si cerca di sminuire il suo ruolo nella vita di Gesù. Basandosi sul fatto che non è chiaro se sia sempre Maria Maddalena la protagonista di alcuni importanti episodi – la contrapposizione con la sorella Marta in casa di Laz24

Jacopo da Varagine, La leggenda aurea, 92.

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zaro, loro fratello, e l’unzione con olii preziosi prima dei piedi e poi del capo di Gesù in due circostanze distinte –, molti commentatori dei Vangeli hanno infatti identificato tre personaggi diversi, le «tre Marie». Imbarazza questi autori soprattutto il succedersi di atti che segnano una profonda sintonia con il Messia da parte di una unica donna, descritta dagli evangelisti sia come peccatrice pentita sia come indemoniata guarita da Gesù. Una presenza perturbante, che arriva al suo culmine proprio quando l’unzione del capo di Gesù diventa per Giuda – indignato per un uso così «inutile» del denaro – la molla decisiva che lo spinge a tradirlo. Una donna «fatale», insomma, sia nel senso di grande peccatrice che in quello di elemento scatenante delle forze del destino. Ma anche la protagonista di una relazione molto intensa con Gesù: una relazione particolarmente significativa, e certo non ben vista dagli immancabili moralisti. Proprio per questo molti hanno cercato di sfumare il suo ruolo attribuendolo a tre personaggi diversi e diminuendone, di fatto, il peso. Le tradizioni cristiane orientali hanno optato in genere per questa soluzione, mentre quelle occidentali – se pure con numerose eccezioni nel corso dei secoli, anche importanti, come per esempio quella del grande predicatore seicentesco JacquesBénigne Bossuet – hanno preferito pensare che si tratti di una sola donna. Maria Maddalena, appunto. Che sarebbe quindi nativa di Magdala (da qui il suo nome), un borgo della Galilea, e sorella di Lazzaro e di Marta, poi trasferitisi a Betania, nei pressi di Gerusalemme. Questa relazione privilegiata ha suscitato reazioni moralistiche, ma anche strenue difese, come quella di sant’Agostino che, anch’egli peccatore convertito, poteva capire meglio di altri il mistero della peccatrice convertita che diventa prediletta del Signore. Ma il privilegio suscita sempre sospetti e gelosie: due Vangeli apocrifi – quello attribuito a Tommaso, e un altro, detto di Maria, tutto dedicato alla Maddalena che ne è anche presentata come l’autrice – suppongono un sentimento di gelosia da parte degli apostoli per la relazione speciale di Gesù con la pentita, fino a ipotizzare (in quello di Tommaso) che Pietro l’avesse cacciata come indegna dal gruppo. Abbiamo visto come il ridimensionamento del ruolo di Maddalena sia avvenuto a favore di un’altra donna, Maria Vergine. E

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dunque non sarebbe tanto una motivazione misogina a ispirare il ridimensionamento del posto della Maddalena nella vita di Gesù, quanto piuttosto un eccesso di moralismo. Con gli slanci di amore per Gesù, con la familiarità che dimostra con il suo corpo, Maria Maddalena è senza dubbio inquietante, e da sempre molti si sono domandati fino a che punto si è spinta questa relazione privilegiata. Il matrimonio fra il Messia e una prostituta non sarebbe stato impossibile da accettare per la tradizione ebraica, come infatti dimostra la storia del profeta Osea. E il carattere erotico delle azioni della Maddalena hanno ispirato un apocrifo del III secolo, il Vangelo gnostico di Filippo, dove si legge che «il Signore amava Maddalena più dei discepoli. La baciava spesso sulla bocca. Gli altri discepoli videro che amava Maria, e gli dissero: ‘Perché l’ami più di noi?’. Il Salvatore rispose e disse: ‘Come mai non vi amo quanto lei?’». In questo testo Maddalena è designata come compagna di Gesù, ma bisogna tenere conto che il bacio sulla bocca, nelle sette gnostiche, non aveva un significato amoroso, bensì designava la fraternità fra gli iniziati. E gli gnostici – prima nell’apocrifo a lei intitolato, poi nel più esplicito Pìstis Sophìa – avevano fatto di Maddalena, alla pari con Giovanni, la loro iniziata originaria: Cristo avrebbe rivelato solo a lei le dottrine esoteriche destinate a essere trasmesse a pochi iniziati, ed essa prende così il posto di Iside, la dea che tiene i misteri della vita. Maddalena veniva quindi prescelta come iniziatrice dai protagonisti della prima grande corrente cristiana eterodossa, lo gnosticismo, che aveva fatto di Cristo un rivelatore di misteri sacri, al tempo stesso iniziato e iniziatore. E di Maddalena l’iniziata perfetta, simbolo dell’essere umano assetato di purezza e di conoscenza dell’Assoluto. La tentazione gnostica ha costituito una costante nella storia del cristianesimo, ed è oggi più viva che mai: anche se nell’età contemporanea, scrive Roland Hureaux25, la gnosi è ancora più razionale e meno esoterica, perché coincide con la scienza, la cui esaltazione comporta la svalorizzazione delle morali tradizionali. Proprio come l’eretico Marcione (che peraltro va distinto dagli 25

R. Hureaux, Jésus et Marie-Madeleine, Perrin, Paris 2006.

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gnostici), oggi tutti, tesi al nuovo, svalorizzano il passato. La tradizione ortodossa del cristianesimo sostiene invece che il messaggio di Gesù è universale, e che la Chiesa non nasconde segreti. Maddalena, in quanto donna, provoca però dei problemi anche agli gnostici26, che sono fondamentalmente misogini – in coerenza con la mentalità prevalente nell’antichità – e non accettano una donna come iniziatrice: nel Vangelo detto di Maria, infatti, la Maddalena viene trasformata in maschio da Gesù stesso. Così questa donna libera e appassionata – che trasgredisce il suo ruolo prima come peccatrice, poi come iniziata/iniziatrice – diventa il prototipo dell’androgino, tema centrale nello gnosticismo. Ritorna così evidente, a proposito della peccatrice pentita Maddalena, il conflitto radicale sulla concezione del corpo, della sessualità e della salvezza che separa la tradizione cristiana dallo gnosticismo: per gli gnostici, infatti, la materia è malvagia e da disprezzare perché condannata alla distruzione, e quindi per loro la castità assoluta è uguale al disordine sessuale, cioè non conta nulla; per l’autentica tradizione cristiana, invece, la carne è così importante che se ne stabilisce con cura l’uso, dando all’atto sessuale un valore altamente positivo: la carne è importante perché è creata da Dio, e il rapporto con la carne – destinata alla risurrezione finale – è al centro della nostra salvezza. Per gli gnostici, che pensano che il corpo sia da dimenticare e da trascendere, Maddalena trasmette una aspirazione profonda ed eterna dell’essere a ritrovare la supposta unità androgina primitiva. Essa infatti incarna il tentativo di superare la divisione/ mutilazione dei sessi – presente ad esempio nel Simposio di Platone – per raggiungere l’armonia della fusione nella perfezione dell’Unità originaria. Una tensione omogenea a quella che pervade la società contemporanea, nella quale molti cercano, con la negazione della polarità sessuale biologicamente determinata, di ricreare per tutti, con la sola forza del desiderio, la possibilità di essere, al tempo stesso, donna e uomo. Ma se Maddalena è semplicemente una donna, rimane aperto il problema di una possibile unione sessuale fra il maestro e la di26 Cfr. S. Fabrizio-Costa, A l’ombre de Marie-Madeleine, in La pureté. Quête d’absolu au péril de l’humain, a cura di S. Matton, Autrement, Paris 1993, pp. 151-169.

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scepola prediletta. Questa unione è sostenuta da alcuni con il debole argomento che, nella società ebraica del tempo, i rabbini dovevano essere sposati, ma l’ipotesi non è autorizzata dalle fonti, e anzi può facilmente essere contraddetta tenendo conto di un contesto nel quale agiscono Giovanni Battista, anch’egli celibe, e gli esseni, comunità dove era praticata una castità di tipo ascetico. Del resto, neppure gli accusatori di Gesù alludono mai a sue esperienze sessuali e sembrano invece urtati proprio dal suo essere così diverso dai comuni mortali, e quindi pericoloso. Gesù propone, a chi si sente in grado, la via difficile della castità, e questo è del tutto coerente con il messaggio essenziale del Vangelo, cioè che la natura umana è infinitamente più ricca di potenzialità, infinitamente più aperta di quanto l’uomo ordinario, fermo al suo orizzonte limitato, possa immaginare. Perché è aperta sull’infinito. Del resto, ragiona Hureaux, il cristianesimo, per porsi come religione universale, doveva obbligatoriamente prescindere da una dinastia, che avrebbe legato la nuova religione a un popolo e a un’area geografica circoscritti, così come era per l’ebraismo e, almeno in parte, sarà per l’islam, nel cui ambito i discendenti di Maometto sono considerati degni di un ruolo privilegiato. Nell’elaborazione teorica che subisce la figura di Maddalena da parte della tradizione medievale, Rabano Mauro e Bernardo compresi, il tema centrale non è più la prostituzione intesa come colpa sessuale, ma il pentimento: il nemico non è la lussuria, ma l’orgoglio. Al centro della sua figura sono il mistero del peccato e del perdono, la prevalenza data alla compassione sulla stretta osservanza dei principi morali. L’umiltà e la bontà non sono virtù cristiane inferiori alla castità. E questo è dimostrato, del resto, anche dalla larga accettazione che la Chiesa ha sempre praticato nei confronti delle prostitute pentite, a cui era aperta la possibilità di diventare religiose o spose. Ma c’è di più. La rappresentazione della Chiesa come prostituta pentita, sposa di Cristo per amore come Maddalena, si fonda sull’idea di una singolare duplicità: essa è immacolata, in quanto luogo beneficato da Dio, ma al tempo stesso peccatrice sempre impegnata a confessare le sue colpe. È stato Ambrogio a inventare l’icastica definizione di casta meretrix, applicandola però a un altro aspetto simbolico della Chiesa, il suo amore per i peccatori: la

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Chiesa, come una meretrice, «non ha rifiutato il suo amplesso ai molti che accorrevano, e quanti più sono quelli cui si unisce, tanto più casta essa diventa: vergine immacolata senza rughe, immune dal sentimento di vergogna, pubblica-universale nel suo amore, una meretrice casta, una vedova infeconda, una vergine feconda. Meretrice perché viene visitata da molti amanti, con tutte le attrattive dell’amore, ma senza la macchia di una colpa»27. Bernardo non chiama meretrice la Chiesa, ma dice che i cattivi pastori, che l’hanno devastata in luogo di edificarla, l’hanno prostituita. Ildegarda di Bingen, in una visione, vedrà la Chiesa ricoperta di immondezza, con un vestito lacerato e calzature infangate.

3. La triplice verginità di Maria Ma figura della Chiesa è soprattutto Maria, la madre di Gesù, nella sua identità complessa di vergine-madre, carica di significati simbolici che bisogna sviscerare per comprendere lo statuto della sessualità nella tradizione cristiana. Molti critici del cristianesimo, e soprattutto della sua idea di sessualità, considerano il dogma della verginità della madre di Gesù una prova della sessuofobia che avrebbe caratterizzato, fin dalle origini, la tradizione della Chiesa. Secondo questi critici, infatti, negando con tanta risolutezza la possibilità di una vita sessuale all’essere umano che ha cooperato all’Incarnazione, si giudicherebbe implicitamente lo stato verginale molto superiore a quello sponsale, e quindi si caricherebbe la vita sessuale di un significato fortemente negativo. La verginità di Maria, invece, sembra piuttosto legata a questioni teologiche, relative allo statuto di Gesù come vero uomo e, al tempo stesso, vero Dio, piuttosto che a condizionamenti morali del comportamento sessuale, che ne derivano solo marginalmente. Ma certamente, anche se il centro del dibattito sulla verginità di Maria, così intenso e ricco nel corso della storia del cristianesimo, è il problema della verità dell’Incarnazione, non si può negare che l’insistenza sul suo stato di verginità abbia svolto 27

Ambrogio, In Lucam, 8, 40.

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una funzione importante e abbia avuto anche un ruolo di rilievo nella creazione di un modello asessuato di santità. La dimensione verginale di Maria è stabilita in base a una serie di passi della Scrittura: secondo Matteo (1, 20-25) un angelo appare in sogno a Giuseppe per avvertirlo che Maria ha concepito dallo Spirito Santo: quod enim in ea natum est, de Spiritu sancto est, recita la Vulgata. L’angelo afferma anche che la gravidanza di Maria realizza la profezia di Isaia (7, 14) sulla venuta del Messia: «Ecco, la vergine concepirà e genererà un figlio al quale darà il nome di Emmanuele» e soprattutto l’annuncio secondo il Vangelo di Luca (1, 26-28), dove Maria si stupisce del messaggio di Gabriele perché non conosce uomo, e l’angelo risponde che lo Spirito Santo verrà su di lei per coprirla con la sua ombra. Però, sulla base di questi dati, secondo John P. Meier, «la ricerca storico-critica semplicemente non ha le fonti e gli strumenti disponibili per raggiungere una decisione definitiva sulla storicità del concepimento verginale come è narrato da Matteo e Luca»28. Già verso l’anno 150, Giustino propone di interpretare la profezia di Isaia come «vergine», e quindi di attribuire a Maria il concepimento verginale per provare che Gesù non è opera umana, ma divina. Ireneo poi vede nel concepimento verginale il segno del creatore stesso: la verginità di Maria rimanda alla terra vergine da cui fu tratto Adamo. Mentre i gruppi gnostici sostengono il significato esclusivamente simbolico del concepimento verginale, Tertulliano, con uno scrupolo realista, replica che Maria ha perduto la verginità partorendo Cristo. Origene sostiene che Maria non avrebbe potuto unirsi a un uomo dopo la nascita di Gesù, quindi la propone come archetipo della verginità femminile, come Cristo lo è di quella maschile. Ma a spostare decisamente l’interpretazione del termine alma/parthènos nel senso della verginità come stato fisico vero e proprio è senza dubbio, alla fine del II secolo, il protovangelo di Giacomo, che in un episodio fa intervenire una ostetrica, Salomè. Per verificare la verginità di Maria dopo il parto, Salomè inserisce la sua mano e non solo è costretta ad ammettere la verginità, ma 28 J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, vol. 1, Le radici del problema e della persona (1991), Queriniana, Brescia 2001, p. 222.

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il suo braccio per punizione si atrofizza. Lo stesso testo difende la verginità successiva di Maria, presentando i fratelli di Gesù menzionati nei Vangeli come figli del primo matrimonio di Giuseppe. Di qui deriva, per rendere più credibile la verginità di Maria dopo il matrimonio, la tradizione di Giuseppe come anziano. La tradizione iconografica, infatti, rappresenta Giuseppe canuto e stanco, con in mano il giglio della purezza29. La verginità di Maria viene accreditata dai Padri della Chiesa perché funzionale al dogma della natura divina e umana al tempo stesso di Gesù: generato da una donna, quindi, come tutti gli esseri umani, ma da una donna eccezionale, vergine nonostante il parto. Mentre nella vita cristiana si afferma sempre più il prestigio della castità e della verginità, i Padri propongono Maria come modello alle vergini e ai monaci asceti: «che la vita di Maria sia per voi come l’immagine della verginità», predica sant’Ambrogio a Milano alla fine del IV secolo. La verginità in partu viene così confermata dal Concilio di Efeso (431) e da quello di Calcedonia (451), che dà a Maria il titolo di sempre vergine: viene stabilita così la verginità della Madonna, «prima» della concezione verginale di Gesù, «durante» il parto e «dopo», cioè nella vita matrimoniale con Giuseppe. In realtà, come si è detto, solo l’enunciato del concepimento verginale possiede solidi riferimenti scritturistici, cioè soprattutto il racconto dell’annuncio di Gabriele a Maria (l’Annunciazione) nel Vangelo di Luca. In particolare, la questione della castità del matrimonio con Giuseppe è stata oggetto di aspre discussioni teologiche, fra chi, come Ambrogio, sostiene la sua perpetua verginità e chi – come Elvidio e Gioviniano – pensa che abbia partorito una numerosa serie di figli, i «fratelli» di Gesù. Questione difficile da chiarire, dal momento che nella lingua ebraica uno stesso termine serviva a designare il fratello, e al tempo stesso un parente stretto. Anche se il dogma della verginità è stato sostanzialmente accettato in tutto il mondo cristiano, esso ha suscitato una infinità di ipotesi sul modo concreto in cui l’Incarnazione di Cristo sia avvenuta. Una particolare attenzione è stata portata al concepimen29 Si veda in proposito M. van der Lugt, Le ver, le démon et la vierge. Les théories médiévales de la génération extraordinaire. Une étude sur les rapports entre théologie, philosophie naturelle et médecine, Les Belles Lettres, Paris 2004.

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to verginale, senza dubbio il problema principale perché quello immediatamente collegato alla paternità divina, e la soluzione più accreditata è stata l’inseminazione attraverso l’orecchio: «e poiché il diavolo, insinuandosi attraverso l’orecchio con la persuasione, aveva ferito Eva e le aveva dato la morte, Cristo, entrando in Maria attraverso l’orecchio, recide tutti i vizi del cuore e, nascendo dalla Vergine, guarisce la ferita della donna. Accogliete il segno della salvezza! Alla corruzione è seguita l’integrità, al parto la verginità», scrive il vescovo Zeno di Verona intorno al 38030. Maria, prima discepola del figlio, è così caratterizzata anzitutto dall’ascolto della parola: «Nascerà da qui – scrive Enzo Bianchi – la tradizione patristica che parla del cristiano come di colui che, grazie all’ascolto della parola di Dio e alla fede, è chiamato a concepire e a generare il Cristo nella propria anima. A divenire egli stesso ‘madre del Signore’»31. Ma, più in generale, la verginità di Maria, senza bisogno di spiegazioni plausibili, viene assimilata al miracolo: «Quello che vedo non riesco a comprenderlo – scrive Romano il Melode, il più grande innografo bizantino del VI secolo – è al di sopra di ogni umano intendimento che il fuoco faccia avvampare l’erba senza consumarla, che l’agnella porti sopra di sé un leone, la rondine un’aquila, e la serva il proprio padrone. Nel suo seno mortale, senza circoscriverlo, Maria porta il mio Salvatore, che così ha voluto. Perciò esclamo con gioia: ‘una vergine partorisce e, dopo il parto, è ancora vergine’»32. Delle tre forme di verginità, è naturalmente quella durante il parto che ha suscitato le maggiori perplessità, a cui si è cercato di rispondere, da parte dei Padri della Chiesa, con teorie immaginose, come l’idea di una ricostituzione immediata dell’imene dopo l’espulsione del figlio, o invece, più prudentemente, con la proposta di una lettura allegorica. In sostanza, la verginità in partu e post partum è ammessa in maniera generale dalla teologia a partire dalla fine del IV secolo, mentre quella ante partum, menzionaCitato in van der Lugt, Le ver, le démon et la vierge, cit., p. 413. E. Bianchi, Introduzione, in Maria. Testi teologici dal I al XX secolo, a cura della Comunità di Bose, Mondadori, Milano 2000, p. 6. 32 Citato in van der Lugt, Le ver, le démon et la vierge, cit., p. 432. 30 31

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ta nel Credo, è già unanimemente riconosciuta dalla prima patristica. Non c’è dubbio che questo dogma, centrale e precoce nella tradizione cristiana, sia all’origine di una svalorizzazione dell’atto sessuale, come si può vedere dai numerosissimi commenti espressi sul tema dai Padri della Chiesa: «Davvero il Signore Gesù avrebbe potuto insudiciare con la semenza virile questa dimora celeste – scrive Ambrogio – come se gli fosse stato impossibile assicurare la protezione del suo pudore verginale?»33. E Girolamo, per difendere Maria dal sospetto di non avere mantenuto la verginità post partum espresso da un certo Elvidio, arriva a rilanciare, affermando anche la verginità di Giuseppe: «Tu dici che Maria non è restata vergine. Quanto a me, io chiedo di più: che a causa di Maria Giuseppe sia stato vergine, al fine che da una unione verginale nasca un figlio vergine. Piuttosto che qualche impurità potesse contaminare un uomo santo, e non è scritto che egli ha avuto un’altra donna, è stato piuttosto il guardiano che lo sposo di Maria, che tutti credevano sua moglie. Per cui chi ha meritato di essere il padre del Signore è restato vergine con Maria»34. Maria diventa così il modello di ogni verginità, e quindi di ogni vita religiosa votata alla castità, al punto che Dominique Cerbelaud si domanda se non sia stata invece proprio la pratica cristiana di ascesi, sempre più diffusa nel nascente monachesimo, a influenzare questa fissazione dottrinale, cioè che «non sarebbe dalla verginità di Maria alla verginità cristiana la relazione di causa, ma nel senso contrario»35. È una riflessione che sembra confermata dal fatto che le Chiese cattolica e ortodossa, che in vario modo prevedono la pratica del celibato clericale e monastico, sono molto più portate a difendere la verginità di Maria delle confessioni riformate, dove non esiste un clero celibe. Bisogna ricordare, però, che dal canto suo la Chiesa cattolica ha affermato solennemente la superiorità della verginità sul matrimonio solo nel Concilio di Trento (sessione XXIV, canone 10), come risposta diretta agli attacchi di Lutero contro il celibato ecclesiastico. Ambrogio, De institutione virginum, VI, 44. Girolamo, De perpetua virginitate beatae Mariae adversus Helvidium, 9. 35 D. Cerbelaud, Marie, un parcours dogmatique, Les Éditions du Cerf, Paris 2003, p. 74. 33 34

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La verginità di Maria è considerata perfetta, perché coinvolge anche l’intenzione, la mente, ed è noto che lo stesso Tommaso d’Aquino considerava la verginità più alta proprio quella mentale, mentre quella fisica poteva essere valutata come solo accidentale. Il senso che veniva dato alla condizione di verginità già nei primi Padri della Chiesa, infatti, era più spirituale che fisico, cioè significava il totale distacco dal mondo, da cui derivava una incorruttibilità che lo Spirito Santo portava con sé e che era condizione dell’anima e non del corpo: «Ciò che avviene fisicamente nella incorrotta Maria, quando la pienezza della divinità rifulse in Cristo attraverso la Vergine, si compie – scrive Gregorio di Nissa – anche in ogni anima che vive verginalmente secondo il Logos»36. La condizione di verginità spirituale viene quindi considerata, dai grandi mistici, come essenziale perché in ogni cristiano si ripeta la maternità della Vergine: nella sua anima, vuota e libera, si può generare il Logos. Massimo il Confessore lo scrive con grande chiarezza: «Mediante la grazia, Cristo viene misticamente generato nell’anima, prende corpo attraverso i salvati e in questo modo rende l’anima che lo genera una vergine madre»37. Sarà Agostino a far prevalere il tema della Chiesa come madre di Cristo, e perciò madre verginale e feconda del credente, rispetto alla teoria della generazione nell’anima stessa del fedele. Ma tra la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV qualcosa cambia, e cominciano a risvegliarsi interessi di tipo scientifico. Si apre allora un dibattito sulla interpretazione biologica della concezione miracolosa di Gesù, e molti teologi cominciano a interrogarsi sulla natura della materia con cui si è costituito il suo corpo, tema che implica la realtà della sua umanità, nonché il ruolo svolto da Maria nella sua formazione fisica, arrivando perfino a discettare su una sua eventuale somiglianza fisica con la madre. Si tratta infatti di un miracolo che deve avere anche degli aspetti naturali e quindi deve essere spiegato in base alle conoscenze scientifiche disponibili sulla generazione umana. Così, i teologi cercano di spiegare in quale modo una nascita straordinaria possa rientrare nelle leggi naturali, cercando di risolvere con argomenti scientifici il Gregorio di Nissa, De virginitate, 2. Massimo il Confessore, Brevis expositio orationis dominicae (PG 90, 889 C). 36

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problema della formazione del corpo umano di Cristo. La questione da spiegare era quella della sua generazione realizzata senza emissione di sperma maschile e, naturalmente, anche senza piacere femminile. E già a partire dal XII secolo i teologi – per garantire la realtà dell’Incarnazione – cercano di far rientrare questa nascita straordinaria all’interno delle leggi naturali. Nella ricerca di una spiegazione la scienza si intreccia, però, con la teologia, e le due diverse teorie mediche della generazione allora prevalenti – cioè quella aristotelica e quella galenica – sono scelte anche in rapporto al ruolo mariano che suggeriscono. I domenicani seguono Tommaso d’Aquino nel considerare la concezione di Cristo come miracolosa e naturale insieme: in assenza di sperma, che secondo la teoria aristotelica dovrebbe costituire il materiale per la formazione del feto – per il filosofo greco, infatti, la donna sarebbe semplicemente un contenitore, e rimarrebbe passiva nella generazione –, sarebbe stato utilizzato il sangue materno, ma un sangue puro, non quello impuro delle mestruazioni. I francescani, invece, che volevano ampliare la partecipazione di Maria all’Incarnazione, preferirono la teoria galenica, secondo la quale, per la fecondazione, è indispensabile l’emissione di un seme femminile, provocato dal piacere carnale. Questa teoria, però, pur dando più importanza al ruolo biologico della madre, apriva il problema del piacere, e quindi della verginità totale di Maria: i francescani lo risolsero non parlando di semen – che avrebbe richiamato subito l’idea di piacere – ma sostenendo che lo Spirito Santo aveva fatto sì che la vergine producesse la materia per il feto per via soprannaturale38. Per chiarire il mistero del concepimento verginale, e al tempo stesso per provarne la possibilità naturale di fronte ai dubbiosi, vennero anche proposti esempi presi in prestito dal mondo naturale, cioè animali o vegetali di cui si credeva che la riproduzione avvenisse senza congiungimento carnale, come il verme – creduto frutto della putrefazione della carne – o l’ape, considerata animale asessuato. Dal mondo vegetale venivano utilizzate come piante simbolo, per lo stesso motivo, la palma e l’olivo. L’idea che 38 Si veda in proposito il volume, già citato, di van der Lugt, Le ver, le démon et la vierge.

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Dio avesse creato nella natura altre forme di generazione straordinaria e verginale serviva a rendere più plausibile il miracolo. Tutti i teologi concordano nell’affermare che Maria non ha conosciuto la concupiscenza – condizione di grazia da cui si ricava l’idea della sua esenzione dal peccato originale – ma si interrogano su altri problemi fisiologici, come l’eventuale assenza in lei di mestruazioni. Il corpo sessuato di Maria compare però nelle immagini che la rappresentano mentre allatta il figlio, immagini necessarie per garantire la vera umanità di Cristo, ma che, come scrive Timothy Verdon, talvolta si soffermano «in modo un po’ indiscreto sulla particolare bellezza della giovane donna che allatta»39. In ognuna di queste opere, infatti, viene esposta una nudità erotica, se pure non si arriva alla conturbante madonna allattante dipinta intorno al 1450 da Jean Fouquet ad Anversa, che rappresenterebbe l’amante del re di Francia. La verginità di Maria, accolta nel Corano, è sempre stata respinta dagli ebrei, che arrivarono a spiegarla con la leggenda polemica di un concepimento illegittimo da parte di Maria, che avrebbe avuto rapporti sessuali con un soldato romano di nome Pantera, un racconto che periodicamente è stato poi ripreso dalla letteratura anticlericale. Più recentemente uno studioso, il rabbino Riccardo Di Segni40, ha sostenuto che il vero significato del termine ebraico alma – poi tradotto come «vergine» (in greco, parthènos) – sia invece «non mestruata», quindi non ancora capace di generare. La verginità di Maria non è stata messa in dubbio invece dai protestanti, almeno fino all’ondata razionalista del XVIII secolo: Lutero ha sostenuto e predicato la verginità perpetua di Maria durante tutta la sua vita, e Zwingli è stato altrettanto affermativo, così come anche Calvino. Un discorso critico di origine antica è quello di chi sottolinea la somiglianza di questa tradizione con i miti ellenistici incentrati sulla nascita straordinaria dell’eroe. Per costoro la verginità di Maria sarebbe solamente la traduzione fisica per gente semplice del mistero dell’Incarnazione. Già a partire dal Settecento, molti studiosi protestanti si sono scagliati con ironia e disprezzo su queT. Verdon, Maria nell’arte europea, Electa, Milano 2004, p. 64. R. Di Segni, «Colei che non ha mai visto il sangue». Alla ricerca delle radici ebraiche dell’idea della concezione verginale di Maria in Verginità, a cura di G. Fiume e L. Scaraffia, in «Quaderni storici», 3, dicembre 1990. 39 40

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sto dogma, brandendo la storia delle religioni e i miti di generazione miracolosa come arma contro la Chiesa cattolica, e sottolineando come l’idea della concezione verginale dipenda in realtà dalla fede nell’Incarnazione, e non il contrario. L’esegeta cattolico Grelot, che ha dedicato un saggio al tema, sostiene invece che questo dogma «esprime una riflessione teologica che si avrebbe torto a guardare come ingenua» e che invece «la narrazione vuole presentare concretamente il senso che il passaggio di Gesù sulla terra comportava nella realizzazione e nello svelamento del disegno di Dio» 41. Edmund Leach, un antropologo che ha studiato le «verginimadri» in diverse culture, sostiene che da questo dogma deriva un atteggiamento favorevole al riconoscimento dei figli illegittimi, come quello che caratterizza le società cattoliche rispetto a quelle protestanti, dove è scomparso il culto mariano. Ma egli soprattutto insiste sul fatto che la condizione di vergine-madre, una anomalia rispetto alla condizione femminile naturale, costituirebbe la prova dello statuto di mediatrice svolto da Maria fra il mondo umano e quello divino. Leach considera la verginità di Maria come una variazione nell’ambito di un tema strutturale che si era posto fin dall’antichità, e sottolinea la pericolosa contiguità del tema della nascita verginale di Gesù con la nascita di dei e semidei in varie tradizioni mitologiche antiche – come nel celebre mito di Danae, la vergine fecondata da una pioggia d’oro che dà la vita al semidio Perseo – e in culture diverse da quella occidentale42. Ma, anche se ci sono delle innegabili similitudini, la tradizione cristiana cambia radicalmente il senso dato all’episodio: non più una prova «magica» della potenza del trascendente, ma un segno complesso, dai significati plurimi, da interpretare in senso spirituale. Proprio per questo, l’importanza data fin dai primi secoli alla verginità di Maria non è frutto – come insinuano molte interpretazioni superficiali – di una presunta sessuofobia cristiana, ma piuttosto rimanda al tema centrale della natura umana e divina di Cristo. 41 Cfr. P. Grelot, La naissance d’Isaac et celle de Jésus. Sur une interprétation «mythologique» de la conception virginale, in «Nouvelle Revue Théologique», 94, 1972, pp. 462-483, 561-585 (per le citazioni, p. 468). 42 Cfr. E. Leach, Les vierges-mères, in Id., L’unité de l’homme et autres essais, Gallimard, Paris 1980.

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Non vogliamo qui addentrarci ulteriormente in questa infinita polemica, che potrebbe portarci molto lontano dal nostro tema, ma prima di concluderla dobbiamo ricordare che, nei Padri, la concezione di verginità è sempre legata all’idea della Chiesa e della sua missione, e che Maria è riconosciuta come figura della Chiesa – al tempo stesso madre e vergine – per cui, come dice uno dei più importanti documenti del Concilio Vaticano II, «il tipo nella fede e nella carità. E la Chiesa istruita dallo Spirito la considera come il suo modello più evidente» (Lumen gentium, 53). Con il dogma della verginità di Maria, che ha suscitato così tante riflessioni teologiche e critiche da parte di intellettuali razionalisti, tocchiamo il punto più alto di quella caratteristica della tradizione cristiana – già messa in luce – di utilizzare i rapporti sessuali come metafora di verità trascendentali. La realtà naturale dei rapporti sessuali costituisce dunque una modalità privilegiata per accedere a significati trascendenti, in una concezione che vede nella natura un libro che, come il Libro, può essere percepito a diversi livelli esegetici, cioè allegorico, morale e spirituale. Maria è al centro di un universo di senso legato all’Incarnazione di Gesù, e come tale anche il suo corpo biologico viene sopraffatto dai significati. Naturalmente la verginità di Maria coinvolge il suo sposo Giuseppe e, anche se della verginità di quest’ultimo non si è fatto un dogma, il problema della mancata consumazione di questo matrimonio si è posto subito. Il protovangelo di Giacomo ha cercato di risolverlo attribuendo a Giuseppe una età elevata e pure una vedovanza: un matrimonio precedente, infatti, poteva risolvere il problema dei «fratelli» di Gesù, ma escludeva la possibilità, anche per Giuseppe, di una scelta libera della verginità, così come era stato per Maria, e quindi rendeva la sua figura sempre inferiore a quella della moglie. Perché questo è stato sempre uno dei problemi principali nella definizione del ruolo di Giuseppe in una società patriarcale: quello di un uomo che è privato delle sue prerogative sessuali, fa il padre di un figlio non suo, e soprattutto deve servire e proteggere una moglie e un figlio infinitamente superiori a lui. Si possono capire perciò le grosse difficoltà che il culto di Giuseppe ha incontrato nella storia della cristianità: fino al XV secolo, erano pochissimi i cristiani battezzati con il suo nome, e nelle novelle, nei Misteri e nell’iconografia si vede spesso Giu-

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seppe raffigurato come contadino ridicolo, come marito ingannato e costretto ad allevare un figlio adulterino43. Nella cultura popolare la sua tristezza veniva spiegata appunto con questa situazione, e il suo dubbio davanti alla gravidanza di Maria diventava il timore di tutti i padri davanti a una paternità sempre incerta. Il riso delle novelle o delle immagini caricaturali serviva a scongiurare questo pericolo, così come lo charivari serviva a segnalare la sconcerto della comunità davanti al matrimonio fra una giovanissima e un vecchio probabilmente impotente. In molte raffigurazioni della scelta dello sposo – scelta che, secondo gli apocrifi, avvenne grazie alla fioritura miracolosa del bastone che Giuseppe portava – i pretendenti rifiutati da Maria sono rappresentati con l’espressione di dileggio tipica dei rituali burleschi, come nello Sposalizio della Vergine di Giotto. Ma, con la fine del Medioevo, il rafforzamento del culto mariano impone una «promozione» di Giuseppe, che viene proposto come esempio di padre di famiglia devoto, e in quanto tale inizia a essere indicato alla devozione dei fedeli come santo. Anche le raffigurazioni del matrimonio fra lui e Maria – che prevedono sempre la presenza di un sacerdote e lo scambio degli anelli – rivelano il tentativo di rafforzare l’istituzione matrimoniale, se pure a prezzo di qualche ambiguità. Infatti, offrire il modello della sacra coppia implica la messa in discussione di un aspetto del matrimonio cristiano ritenuto fondamentale per la sua validità da molti teologi e canonisti, cioè la consumazione del rapporto sessuale. Giuseppe e Maria vengono presentati come coppia modello anche se vivono in castità, proponendo quindi come più importante nella definizione del matrimonio il consenso della consumazione. La coppia casta offre un modello di possibile santità anche nella vita matrimoniale, ma senza dubbio questo avviene a prezzo di una svalutazione della sessualità. 4. Il sesso dei santi La sessualità e l’erotismo hanno larga parte nelle vite dei santi: per lo più, naturalmente, come tentazioni da rifuggire per man43 Si veda in proposito P. Payan, Joseph. Une image de la paternité dans l’Occident médiéval, Aubier, Paris 2006.

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tenere verginità e castità, ma anche in questo rifiuto si possono distinguere modalità differenti. Intanto, una prima differenza è quella fra donne e uomini: per le donne, in genere, non si tratta tanto di fuggire le tentazioni, quanto di liberarsi dell’autorità familiare, che non accetta la scelta religiosa della figlia o della moglie. Per gli uomini, invece, sono piuttosto le tentazioni a costituire un ostacolo al cammino spirituale, anche se non per tutti forti allo stesso modo. Francesco d’Assisi, che probabilmente nella sua gioventù aveva conosciuto l’amore, appare come completamente pacificato rispetto al pericolo di perdere la castità, come dimostrano i suoi rapporti con le donne, frequenti, disinvolti, e spesso più facili e tranquilli di quelli con i suoi frati. Filippo Neri, invece, prima di ottenere dalla Madonna un aiuto speciale contro la tentazione, si sentiva così in pericolo da non confessare le donne e da impedire loro l’ingresso nella sua stanza, arrivando addirittura a gettare una sedia addosso a una donna, forse una prostituta, che aveva cercato di sedurlo. Ancora nell’Ottocento troviamo altrettanto rigido nei confronti del peccato contro il sesto comandamento – il «brutto peccato» – Giovanni Bosco, che nelle sue prediche ai ragazzi arrivò a riproporre il precetto, caro agli asceti del primo cristianesimo, di non guardare mai le donne, anche se parenti, per rifuggire dalle tentazioni. Nei cenni biografici che egli dedica all’esemplare chierico Luigi Comollo, morto in giovane età, scrive: Sovente era visitato da alcune sue cugine di Chieri, e questo gli era un grave cruccio, dovendo trattare con persone di diverso sesso, onde appena detto quello che la stretta convenienza, e il bisogno voleva, raccomandando loro con bella maniera di venirlo a trovare il meno possibile, tosto da loro si licenziava. Richiesto alcune volte se quelle sue parenti (con le quali trattava con tanto riserbo) fossero grandi, piccole, o di straordinaria avvenenza, risponde che all’ombra parevano grandi, che più oltre nulla sapeva non avendole mai rimirate in faccia. Bell’esempio degno di essere imitato da chiunque aspira o trovasi nello stato ecclesiastico!44

44 P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, III, Las, Roma 1981, p. 73.

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Don Bosco non si limitava a proporre questo comportamento ai sacerdoti, ma lo estendeva a tutti i giovani nella sua guida al comportamento morale, Il giovane provveduto, dove narra di un pio giovinetto che, «interrogato perché fosse così cauto negli sguardi, diede questa risposta: ‘Ho risoluto di non guardare sembiante di donna per serbare gli occhi miei a mirare la prima volta (se non ne sarò indegno) il bellissimo volto della Madre di purità Maria Santissima’». Domenico Savio, narra la biografia scritta da don Bosco, aveva dato la stessa risposta a un compagno: anzi, era così cauto negli sguardi che, narra un altro compagno, spesso tornava a casa con il mal di testa. L’epopea delle donne che cercano di sfuggire alla famiglia per vivere una vita di castità e rinuncia comincia con una serie di Vite tardo-antiche, poi ampiamente diffuse nel Medioevo, di giovani che per sfuggire al matrimonio imposto si vestono da uomo e si nascondono in un monastero maschile. Si tratta di dodici donne (Tecla, Marina, Eugenia, Pelagia, Eufrosina, Anastasia, Susanna, Apollinaria, Atanasia, Matrona, Anna, Teodora)45 le cui vicende si somigliano tutte: si fanno passare per eunuchi per giustificare la mancanza di barba, e sopportano eroicamente l’accusa di violenza sessuale avanzata contro di loro da donne illecitamente incinte; il loro vero sesso viene scoperto solo dopo la morte. Esse rappresentano la totale rinuncia alla propria sessualità ma anche il raggiungimento di una libertà di scelta concessa solo agli uomini, grazie all’ottenimento di quella eguaglianza spirituale che le donne vergini possono vantare con gli asceti. La rapida diffusione di questi scritti, e il fatto che sono sempre opera di uomini, può far pensare però che si tratti anche di una forma di rappresentazione delle fantasie dei monaci, isolati in un universo solo maschile. L’inserimento delle vicende agiografiche nell’universo della narrativa popolare riprende intorno al XII secolo, periodo di nascita del romanzo cavalleresco, con un affermarsi di testi agiografici lunghi e avventurosi nei quali l’amore fra un uomo e una donna è sostituito con l’amore per Dio. Questi testi sono interessanti perché ci forniscono particolari sul matrimonio e sulla sessualità 45 Cfr. E. Patlagean, L’histoire de la femme déguisée en moine et l’évolution de la sainteté féminine à Byzance, in «Studi medievali», 17, 1976, pp. 597-623.

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coniugale, e servono a diffondere l’idea – tutta cristiana – che il matrimonio, così come la vita religiosa, si fonda sulla libera scelta. Sembra che proprio la possibilità, anche per le donne, di scegliere la castità costituisca la condizione necessaria per fare della scelta matrimoniale un atto volontario. Lo troviamo ben rappresentato nella vita di Ode de Bonne-Espérance, religiosa dell’ordine premostratense morta nel 1159: di famiglia nobile, la giovinetta era stata destinata dal padre al matrimonio ma considerava già Cristo suo vero e unico sposo. Dopo una lunga serie di vicissitudini, che culminano nel rifiuto a pronunciare il suo assenso durante la cerimonia nuziale, Ode riesce a conquistare la sua libertà. Sempre peripezie relative al rifiuto del matrimonio sono al centro della vita di Cristina di Markyate, che si sarebbe reclusa presso l’abbazia di Saint-Alban, esercitando una importante influenza su questo monastero. Si tratta di «romanzi del celibato», ricchi di avventure come i romanzi d’amor cortese46. La libera scelta matrimoniale presuppone l’amore fra i coniugi, che comprende l’idea di una profonda comunanza spirituale, e non esclude in alcune Vite di santi – certo meno numerose di quelle centrate sulla castità – la consumazione del rapporto sessuale. Ida di Herzfeld, in una Vita della fine del X secolo, ha esperienza di un matrimonio intensamente consumato, e vissuto nell’intimità con Dio. Avrà cinque figli e, «per quanto legata dalla legge coniugale – scrive il biografo –, non antepone nulla all’amore del suo Sposo celeste» e per questo «non soffre alcun danno quanto al pudore e alla castità», perché «in occasione dell’unione carnale, aveva cura di rendere a Dio ciò che era di Dio; temperava il suo amore esteriore di modo che il suo spirito non fosse intaccato da nessuna leggerezza»47. Dopo la morte del marito, Ida si dedicherà completamente all’ascesi e alla vita contemplativa. Analoga la Vita di santa Paolina, morta nel 1107, scritta nel XII secolo da un monaco di nome Sigeboto e, all’inizio dell’XI secolo, quella di santa Matilde, moglie di Enrico I di Germania: essi «godevano del loro matrimonio e dell’unione amorosa che è lecita», anche se la santa, di notte, si alzava per pregare. 46 Cfr. A. Chapelle, Sexualité et sainteté, Institut d’études théologiques, Bruxelles 1977. 47 Acta Sanctorum, Septembris, II (1748), pp. 260-269.

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Vengono portati come esempio, se pure estremo, anche coniugi che si amano ma che rinunciano alla loro vita sessuale per amore di Dio: in questo caso il legame, benché solo spirituale, viene descritto come ancora più intenso. La storia di santa Cunegonda, moglie dell’imperatore Enrico II, si svolge come un romanzo edificante: nonostante che il rapporto fra gli sposi fosse intenso e intimo – la moglie svolgeva addirittura un ruolo inedito di consigliera negli affari politici –, il loro legame era solo spirituale. Ma la corte invidiosa approfittò di un viaggio dell’imperatore per calunniare la sposa, accusandola di infedeltà: il sovrano diede credito a queste voci e la santa, molto turbata, dovette subire dure prove prima della riconciliazione. Nel caso di sant’Alessio, invece, è lo sposo a convincere la sposa, fin dalla prima notte, a scegliere la castità. La fuga delle donne dal matrimonio per motivi religiosi continuò a costituire un tema ricorrente nei testi agiografici anche nell’età moderna: vi ricorre anche Teresa d’Avila48, nel racconto delle sue fondazioni, per dimostrare quanto forte fosse l’ardore e la determinazione delle sue monache. In queste storie, infatti, giovani ragazze si mettono in conflitto con la famiglia per entrare nel monastero carmelitano di Teresa, che solidarizza con loro: Casilda de Padilla, unica erede di una ricca famiglia, era stata promessa in sposa allo zio ma, dopo una visita al monastero carmelitano di Valladolid, si sente sicura della vocazione monastica e si oppone al matrimonio. Il conflitto, durissimo, con la famiglia, si protrae per anni, nonostante le ripetute fughe di Casilda in convento, da dove però viene sempre restituita alla madre. Il clero locale, infatti, aveva timore a mettersi contro una famiglia tanto potente. La ragazza riesce a ottenere quello che vuole con un’ultima e rocambolesca fuga così narrata da Teresa: E così un giorno, andando alla messa con sua madre, mentre erano in chiesa, la madre entrò in un confessionale per confessarsi; lei pregò la sua governante di andare a chiedere a un padre di dir messa per lei. Appena quella se ne fu andata, si mise le scarpe nella manica, tirò su la gonna e cominciò a correre più velocemente possibile, verso 48 Cfr. A. Weber, Teresa d’Avila e la retorica della femminilità, Le Lettere, Firenze 1993.

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il monastero, che era molto lontano. La governante, non trovandola più, le corse dietro e, quando Casilda era ormai vicina al convento, gridò a un uomo di fermarla. In seguito, l’uomo disse che non era riuscito a fare il minimo movimento, e così l’aveva lasciata andare. Casilda entrò nella prima porta del monastero, la richiuse dietro di sé e cominciò a chiamare. Quando arrivò la governante, era già entrata nel convento e subito le dettero l’abito.49

Una vicenda simile, dai toni romanzeschi, è narrata, sempre da Teresa, a proposito di Catalina, anch’essa erede delle ricchezze di famiglia, e di Beatriz de Chávez, che fu anche calunniata, tenuta prigioniera e picchiata in casa prima di realizzare il suo sogno e di entrare nel monastero di Siviglia.

5. Il matrimonio mistico Questo desiderio imperioso di diventare spose di Cristo si spiega con la speranza di «consumare», in qualche modo, questa mistica unione, alla quale apertamente allude la cerimonia di consacrazione delle religiose, che deriva dal rito matrimoniale. La dizione sponsa Christi, per definire le donne consacrate, viene utilizzata per la prima volta da Tertulliano, e ripresa da Ambrogio che, a proposito della consacrazione delle vergini, parla con grande naturalezza di «nozze»50. Le religiose vivono in maniera particolare quella che è la situazione di ogni anima battezzata, che in un certo senso è pure sposa di Cristo. Il punto culminante della vita mistica è considerato il matrimonio spirituale, come si coglie anche da molte rappresentazioni pittoriche o sculture, la più celebre delle quali senza dubbio è la santa Teresa del Bernini. La trasformazione dell’idea di matrimonio mistico come unione fra la Chiesa e Dio mutò solo gradualmente in una forma di misticismo personale, cioè nell’incontro fra un’anima e Cristo, senza dubbio anche per influenza dei diretto49 50

Teresa d’Avila, Fondazioni, 11, p. 528. Ambrogio, De virginibus, III, 1.

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ri spirituali delle religiose, conoscitori del Cantico dei cantici e delle sue esegesi. Molte mistiche hanno trovato parole di grande intensità per raccontare questa esperienza, senza preoccuparsi che le chiare allusioni alla sessualità potessero essere equivocate51. Umiltà da Faenza (1227-1310) scrive: «Datti a me integralmente, e non ti nascondere a me, Cristo mio dolcissimo, se mi vuoi consolare. Fa’ che io sia fecondata in tutte le mie viscere e che sia soggetta all’amore. Io desidero figli che producano frutto e che in tuo onore moltiplichino la mia eredità»52. E Margherita da Cortona (12471297), una convertita dalla vita tumultuosa, dice: «Alla parola così dolce, così lusinghiera, essa sentì tanta dolcezza, mista a desiderio, che a altissima voce confessò che né la Madonna, né gli angeli né i beati che godono Dio in paradiso per quanto siano saziati da Dio, possono restare senza fame e senza sete di lui»53. Ancora più appassionata nel suo amore anche fisico per Gesù, Angela da Foligno (1248-1309), «stette nel sepolcro insieme a Cristo: dapprima baciò la sua bocca dalla quale ricevette un mirabile e indicibilmente dolce profumo. Poco dopo accostò la sua guancia a quella di Cristo, e Cristo poggiò la sua mano sull’altra guancia di lei stringendola a sé [...]. La sua gioia era suprema, indicibile»54. La prima a raccontare una vera e propria cerimonia in cui viene celebrato il matrimonio mistico è Caterina da Siena55, che nelle sue lettere racconta di una visione in cui Gesù la sposa «con anello di carne sua»: «il quale dolce Gesù la sposò [l’anima] con la carne sua perocché quando egli fu circonciso, tanta carne si levò nella circoncisione quanta è una estremità d’uno anello, in segno che come sposo voleva sposare l’umana generazione» (lettera 261). Il suo esempio fu molto imitato nella vita monastica nei secoli successivi, come prova il fatto che, nelle visioni in cui veniva51 Si veda per tutti questi testi la raccolta Scrittrici mistiche italiane, a cura di G. Pozzi e C. Leonardi, Marietti, Genova 1988. 52 Umiltà da Faenza, Sermoni, VI. 53 Fra’ Giunta Bevegnati, Leggenda della vita e dei miracoli della beata Margherita da Cortona, 6. 54 Fra’ Arnaldo, Memoriale, VII. 55 Cfr. D. de Courcelles, Il dialogo di Caterina da Siena, Jaca Book, Milano 2000.

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no sposate da Cristo, le mistiche vedevano spesso la stessa Caterina partecipare come testimone, insieme alla Vergine. La forte metafora corporea dell’anello di carne ricavato dal prepuzio viene però stemperata, nella Vita di Caterina scritta da Raimondo da Capua, suo segretario e confessore, che preferisce parlare di un anello d’oro ornato da quattro perle e un diamante, e di anello prezioso parlerà anche Teresa d’Avila. Per altre «spose», come Caterina de’ Ricci e Veronica Giuliani, l’anello sarà sostituito da una stigmata anularia. Teresa d’Avila, forse la più grande mistica cristiana, utilizzò la metafora del matrimonio mistico come difesa della sua libertà intellettuale. Ella scriveva in anni – la metà del Cinquecento – in cui il controllo sull’aspetto erotico delle visioni mistiche si era fatto molto più stretto, e la santa carmelitana, che ne era ben consapevole, cerca di tenerne conto nelle sue descrizioni dei rapimenti mistici. Il misticismo nuziale emerge però come allegoria cruciale negli ultimi tre libri del Castello interiore, il resoconto puntuale del suo percorso mistico. La combinazione di piacere e dolore – «È un grande dolore, ma delizioso e dolce» (6, 2) – mentre l’anima viene trascinata senza sforzo e irresistibilmente verso il centro, penetrata con tocchi gentili: «Mi sembra che sarebbero fin troppo sufficienti per ripagarci di ogni possibile travaglio questi tocchi del Suo amore così soavi e penetranti» (7, 3). Teresa però, prudentemente, cerca di tenersi lontana dai simboli più significativi del Cantico dei cantici, professando la sua ignoranza delle Scritture. In realtà, fra il 1566 e il 1567, la santa aveva scritto una breve opera ispirata proprio al libro veterotestamentario, e per di più ai suoi versi di maggiore carica erotica, dicendo che non voleva interpretare la Bibbia in modo diverso dagli uomini, ma solamente narrare la sua forma di comprensione semplice da donna illetterata. Fra una protesta di modestia e una confessione di ignoranza, Teresa riesce però a rivendicare il diritto delle donne a essere ispirate dal Cantico dei cantici, e deride coloro che lo respingono per moralismo. Quando scrive il Castello, però, la sua situazione si è fatta più difficile, e quindi i riferimenti al linguaggio della spiritualità erotica rimangono velati. Anche se Teresa era intervenuta due volte sul testo, per temperare delle espressioni che potevano sembrare troppo esplicite, dopo la sua morte il testo fu severamente esami-

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nato e alcune parti censurate. Su di lei cadeva il sospetto di essere vicina alla corrente giudicata eretica degli alumbrados, accusati dall’Inquisizione di sostenere che «baciarsi e toccarsi in modo indecente non erano peccati». Le beatas di Llerena, condannate in un auto da fé del 1579, raccontavano di aver avuto visioni erotiche dell’umanità di Cristo e riferivano di un’intima unione con Dio. Anche se probabilmente, sul piano reale, non si erano verificati rapporti carnali, il fatto che molte beatas parlassero di sé come di «spose di Cristo» gettava un velo di dubbio su tutte le espressioni di misticismo nuziale. Teresa ben conosceva i rischi che correva, ma evidentemente – pur sapendosi ai limiti dell’ortodossia contemporanea – considerava l’idea del matrimonio spirituale così cruciale da continuare ad affrontare tali rischi, non volendo abbandonare il linguaggio erotico. Come ha perfettamente colto Lorenzo Bernini nella sua scultura, prendendo spunto da un famoso brano del Libro de la vida (29, 13) in cui Teresa descrive la sua estasi: Vidi che aveva nelle mani un lungo dardo d’oro, e sulla punta del ferro pareva avesse un po’ di fuoco. Mi pareva che egli me lo mettesse nel cuore varie volte, e che mi arrivasse alle viscere. Quando lo tolse, mi parve avesse tagliato [le viscere] con quello, e mi lasciò completamente ardente di grande amore di Dio. Il dolore fu così grande che mi faceva dare qualche gemito, e la dolcezza che mi suscitava questo dolore fu così eccessiva che volli fermarlo, e nemmeno sarebbe stata corporale, anche se al corpo è permesso di partecipare alquanto, ed anche tanto. È un rapporto così dolce tra l’anima e Dio che prego, nella sua bontà, di darne un assaggio a chi pensa che mento.

Nonostante il sospetto con cui veniva guardato il matrimonio mistico dopo la Riforma, ci furono ancora mistiche che nei loro scritti ne facevano esplicito riferimento, come Caterina Vannini nel 1606 – «il meo sposalizio, quando io per misericordia di Dio ebbi ell’anello»56 – e Maria Maddalena de’ Pazzi, nel 1604: «Viene la luce oscura e la tenebra chiara [...]; è ben dovere, o verbo, che [...] trovi per la sposa un’altra unione, insolita e non conosciuta»57. 56 57

Epistole, 115. Maria Maddalena de’ Pazzi, Tutte le opere, IV.

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Ancora nel 1744, nel Trattato mistico delle virtù esteriori (e interiori), fa riferimento all’unione mistica servendosi di un linguaggio erotico Chiara Isabella Fornari: «Finalmente seguite queste ed altre purificazioni e disposizioni ed effetti ammirabili prodotti in me dal divino amore, rimasi confortata e proporzionata assai incomparabilmente più per entrare nel talamo della divinità, e mi fu tolto un velo da una luce più che luce finissima, dalla quale fui tutta vestita e rivestita»58. Esempi di matrimonio mistico in ambito maschile sono meno frequenti. In questi casi, per mantenere la polarità della differenza sessuale, l’unione mistica avviene con la saggezza divina, che appare con i tratti di una bella donna che invita l’uomo a sposarla, sulle orme di un illustre predecessore biblico: il re Salomone, che si propone di prendere la saggezza di Dio come sposa ideale. Si può capire però la diffidenza della Chiesa verso questa forma di esperienza estrema, che avveniva totalmente al di fuori da ogni controllo, anche perché le vere esperienze mistiche erano sempre accompagnate da forme di invasamento ambigue, a sfondo mistico e libero, che si possono definire come marginali e trasgressive. La prima allusione a un matrimonio mistico viene infatti dagli gnostici, per i quali l’unione costituiva la tappa obbligata per un ritorno all’unità androgina originale. Tra il XII e il XIV secolo i Fratelli del Libero Spirito consideravano due distinte religioni: una per l’ignorante, l’altra per l’illuminato che vedeva Dio agire in ogni cosa. Per questi ultimi, l’idea di peccato veniva meno, la norma ascetica perdeva ogni significato, anche le azioni del corpo andavano a glorificare Dio. Non è detto che si tratti di dottrine veramente praticate, forse erano solo posizioni teoriche, a loro imputate dagli avversari e dall’ortodossia. È chiaro comunque come forme simili di spiritualità, praticate da sette eretiche, mettessero in sospetto la Chiesa, e un atteggiamento analogo si sviluppò in seguito anche nei confronti delle «epidemie mistiche» che si verificavano periodicamente nei monasteri femminili. Ancora nel XVIII secolo un’inchiesta, condotta nel convento delle domenicane di Santa Caterina di Prato, mette in luce uno scandalo di ero58

1744.

Chiara Isabella Fornari, Trattato mistico delle virtù esteriori (e interiori),

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tismo mistico. Una giovane monaca, che era stata badessa, dichiara apertamente: «Essendo il nostro spirito libero, l’intenzione è ciò che rende cattiva l’azione. Basta dunque con la mente elevarsi a Dio perché qualsiasi cosa non sia peccato» e anche «esercitando quella che erroneamente chiamiamo impurità, è la vera purità: quella che Iddio ci comanda e vuole che noi pratichiamo, e senza della quale non vi è maniera di trovare Iddio, che è verità»59. Il sospetto della Chiesa nei confronti di queste esperienze era quindi in gran parte giustificato: non si trattava solo di smascherare inganni orditi dalle aspiranti mistiche per ottenere considerazione e potere, ma anche di impedire che una via difficile, praticabile solo da asceti di profonda spiritualità, diventasse l’aspirazione generalizzata di monache e religiosi. La via percorsa dai mistici cattolici non consisteva in una sublimazione della sessualità, ma piuttosto in una trasposizione dell’energia sessuale su un piano più alto, cioè la trasformazione dell’eros in energia spirituale, attraverso un processo che si può definire metaforicamente alchemico, e che non è proprio solo del cristianesimo, ma fa parte di molte altre tradizioni spirituali, prima fra tutte quella dell’induismo tantrico. Ma con una differenza fondamentale: il cristianesimo, al cui centro è il mistero dell’Incarnazione, si è mosso più nel senso di umanizzare il divino che in quello di divinizzare l’umano, benché questa seconda componente sia anch’essa naturalmente presente nella tradizione cristiana. Nella mistica cristiana, quindi, la sensualizzazione del sacro attraverso metafore e simboli prende il posto della sacralizzazione della sessualità conosciuta da correnti dionisiaco-tantriche60. In linea con la progressiva traduzione sul piano astratto delle metafore sessuali, praticata dalla Chiesa in tutti i campi, come abbiamo visto, soprattutto per smentire le accuse di materialismo e superstizione lanciate dai protestanti, a partire dagli anni della Riforma il linguaggio mistico perde la sua concretezza, e si preferisce parlare di «unione trasformante» o di «unione perfetta» per il matrimonio, e di «unione estatica» per il fidanzamento spiri59 L. de Potter, Vie de Scipione de’ Ricci évêque de Pistoie et de Prato, I, Bruxelles 1895, pp. 460 e 428. 60 Si veda il volume di Grün, Mistica ed eros, già citato.

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tuale. Si viene così a scartare ogni possibilità di equivoco sul piano dell’erotismo concreto, ma certo ne fa le spese la potenza suggestiva del simbolo.

6. Spose del diavolo Se il rapporto erotico con Dio è possibile, allora lo è anche quello con lo spirito ribelle, cioè con il signore delle tenebre, e quindi tutte coloro che rivelavano di conoscere l’unione mistica erano sospettate di praticare invece questo rovesciamento, per dolo o solo per incapacità di discernere. Per esempio, nel 1578, in un convento di Siviglia dedicato a Maddalena, una suora, Teresa della Concezione, rimasta incinta, disse che la causa era «l’ardore della sua unione con Dio»61. Naturalmente fu subito sospettata di unione con il Maligno, ma la verità si rivelò poi molto più banale: una «consorella» era in verità un uomo travestito. Le «spose del diavolo» – che Lutero, con un neologismo, chiamò «puttane del diavolo» – che non erano state oggetto di violenza ma che avevano accettato liberamente questa unione erano considerate streghe e condannate dall’Inquisizione. Anche se il diavolo poteva trasformarsi in donna o uomo, a seconda del rapporto sessuale che voleva realizzare – come nei sabba descritti nei Paesi Baschi, dove si diceva che il diavolo avesse con uomini e donne rapporti sodomitici tanto brutali da danneggiarli fisicamente –, le donne risultano sempre essere le vittime preferite. Dai verbali degli interrogatori delle donne sospettate di stregoneria si viene a sapere che il Maligno poteva unirsi alle streghe nel letto di casa, mentre il marito dormiva, sotto forma di incubo, oppure sotto forma di diavolo durante il sabba. Il domenicano Heinrich Institor, autore del famigerato Malleus maleficarum, che voleva dimostrare la realtà di un mondo di diavoli e streghe, era molto attento ai particolari del rapporto sessuale con il diavolo: «Una femmina finalmente catturata e bruciata aveva avuto per sei 61 P. Dinzelbacher, Santa o strega? Donne e devianza religiosa tra Medioevo ed età moderna (1995), Ecig, Genova 1999, p. 206.

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anni un incubo a letto, persino al fianco del marito dormiente e per la precisione tre volte la settimana, la domenica, il martedì e il venerdì»62. Da molte testimonianze emerge il fatto che gli incontri con il diavolo fossero decisamente soddisfacenti, più piacevoli di quelli con gli uomini normali, nonostante che molte accusate dicessero che l’organo sessuale diabolico era freddo. Così narra una accusata di San Miniato, Gostanza: «Lui mi pigliava, mi abbracciava et faceva mille carezze et usava subito secho, come faceva con il suo marito e poi li dava da mangiare e bere, prima, et poi si ritornava a usare con il Diavolo Maggiore [...]. Interrogata che dica se essa costituta haveva delectatione in simile affare con il demonio, congiungendosi seco carnalmente come già faceva con il suo marito, ‘io ero giovane et mi pareva d’havere più presto maggiore piacere a usare con il demonio che con il mio marito perché mi faceva più carezze’»63. L’abilità di seduzione del diavolo costituisce infatti un capitolo importante della confessione: «Et detto ad essa constituta che si dichiari et che deponga particolarmente quelle careze che il demonio li faceva et dove consistano, rispose quelle carezze consistevano che mi abbracciava, mi baciava, et mi maneggiava in tutti li modi, mi saltellava intorno, mi toccava il petto, et insomma mi toccava per tutta la vita et mi pareva d’havere tanto spasso e sollazzo che mi pareva di essere a una gran festa et cicalava con esso meco et mi diceva: ‘non mi dimenticare’ et che io l’amassi et che io non lo lasciasse»64. Questo accenno a un discorso amoroso da parte del diavolo fa pensare a fantasie di donne trascurate dai mariti, o anche ad amori segreti camuffati da satanismo. Nei primi anni del Cinquecento un’altra strega italiana citò una formula che alludeva chiaramente a un legame di passione amorosa: «Io me te son data e me te do in anima e in corpo; o renuntiato e renuntio ad tucte cose de Dio, al baptismo e alla fede e ad tucte le cose celestiali: te, voglio amare»65. Anche una suora che aveva tentato di farsi passare per mistica, Citato in Dinzelbacher, Santa o strega?, cit., p. 195. Processo del 1594 riportato integralmente in F. Cardini (a cura di), Gostanza, la strega di San Miniato, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 165. 64 Ivi, p. 173. 65 Dinzelbacher, Santa o strega?, cit., p. 197. 62 63

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Maddalena della Croce, sosteneva di essere stata visitata quasi ogni notte dal suo demone, e di averne tratto indicibili soddisfazioni e così Francesca, interrogata nel 1514, rispondeva che il demone «la baciava e amava meglio del consorte, benché fosse piuttosto freddo»66. Probabilmente alcuni di questi citati raduni si verificavano realmente, e alcuni individui si vestivano davvero da diavoli per divertirsi, oppure erano solo fantasie, nelle quali elementi sadici e sadomasochisti avevano larga parte. Il diritto canonico e la teologia morale attribuivano al diavolo la preferenza verso quelle posizioni considerate «irregolari», come quella in cui la donna sta sopra, o la pratica della sodomia, mentre altri negavano risolutamente la realtà di queste esperienze. Alcuni inquisitori cercavano di mettere alla prova le streghe dichiarando che gli spiriti maligni erano privi di corpo e quindi di pene, ma molte di loro continuavano a sostenere di avere incontrato il diavolo sotto forma di giovinetto, che si comportava «come un marito con la moglie»67, se non addirittura sotto l’aspetto di un cavallo o di una volpe. Gostanza dichiara: «Tutta stanotte io ho fantasticato in me stessa, come sia possibile che faccia parere il diavolo quello che voi dite che non ha, cioè che non ha membro, braccia, bocca né gambe da potere usare, abbracciare, baciare et simil cose, et nondimeno a me quando sono stata dove lui ha fatto con esso me quanto vi ho detto sopra, et non havere usato esso con me, et mi pareva una persona come li altri christiani»68. Tanta dimestichezza col diavolo poteva avere conseguenze pericolose, cioè una gravidanza, vera o, diremmo noi oggi, isterica: «A una donna vessata da un demone – scrisse Brigida di Svezia – il ventre si ingrossò a tal punto che pareva prossima al parto, poi lentamente diminuì, quasi che dentro non fosse stato nulla». Ma i figli potevano nascere, tanto che le tradizioni popolari attribuivano molti figli a Satana: l’Anticristo, il mago Merlino, Attila o il tiranno di Padova, Ezzelino da Romano. Più spesso si credeva che gli elfi – dopo la cristianizzazione identificati con i demoni – scambiassero i bambini in culla, e Lutero intervenne per smentire la capacità procreativa dei demoni, che secondo lui si limitavano a guaIbid. Ivi, p. 196. 68 Ibid. 66 67

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stare i bambini nell’utero. Ciò non impedì, tuttavia, che nel 1654, nella regione della Slesia, venissero arse oltre cento persone, tra le quali anche lattanti e bambini, perché si credeva fossero state generate dal diavolo. Lo stesso Lutero fu sospettato, dai polemisti cattolici naturalmente, di essere figlio del diavolo. La capacità dei demoni di generare fu un tema a lungo dibattuto dai teologi – era aperta la questione della consistenza corporea di angeli e diavoli – e molti convennero con Tommaso d’Aquino che tale atto era possibile non direttamente, ma solo attraverso una sorta di inseminazione artificiale. I demoni, cioè, presentandosi con parvenze femminili, avrebbero raccolto lo sperma dagli uomini sedotti e poi, presentandosi in veste maschile, lo avrebbero trasmesso alle donne conquistate69. Ci sono state anche «spose contese» fra Gesù e il diavolo, o almeno così racconta Jeanne des Anges, madre superiora del convento delle orsoline di Loudun, nel memoriale che scrisse nel 1644. Di nobile stirpe, in quanto discendente dai baroni di Cozes, una delle più aristocratiche famiglie della Guascogna, ma bassa in modo anormale, Jeanne fu destinata dalla famiglia alla vita monastica, dove, pur giovanissima, venne subito nominata superiora grazie all’origine aristocratica. Nel monastero conobbe gravi tentazioni, nonché peccaminose relazioni con i diavoli, culminate in una gravidanza isterica da cui si liberò vomitando grumi di sangue davanti al gesuita Surin, suo confessore ed esorcista. Ma la stessa Jeanne scrive di avere sentito la presenza di Gesù, il suo vero sposo, che la richiamava alla conversione. Mentre l’unione mistica, se pure considerata capace di coinvolgere il corpo, veniva descritta in termini più astratti e spirituali, il sesso con il diavolo costituiva l’occasione per narrazioni boccaccesche e, forse, allusive di orge molto umane. 7. I tempi dell’amore Come si è visto, il posto della sessualità nella cultura cristiana ha subìto profonde trasformazioni nel corso della storia: una delle prove che, almeno nei primi tempi del cristianesimo, la certez69

Si veda in proposito van der Lugt, Le ver, le démon et la vierge, già citato.

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za di poter trasformare l’amore umano in amore divino fosse diffusa e condivisa fra i fedeli è la liturgia prevista per il rito battesimale, cioè il momento dell’iniziazione70. Così la celebrazione del battesimo, a cui assistevano i fedeli, prevedeva la triplice immersione in una vasca piena di acqua, preceduta dalla spoliazione delle vesti. Il corpo purificato – nudità e abluzione significano nuova nascita – veniva prima unto e poi rivestito di una veste bianca. Il rito forse si ispirava anche alla pratica delle terme e all’unzione degli atleti prima della competizione, ma qui il significato simbolico era così diverso e così forte da superare, agli occhi dei teologi, la tensione che poteva derivare dalla prosmiscuità sessuale e, soprattutto, dalla manipolazione del corpo nudo da parte dei ministri a ciò predisposti. La prima fonte che tradisce un imbarazzo in questo senso è la Didascalia degli apostoli, scritta all’inizio del III secolo, che consiglia di rivolgersi alle diaconesse per i battesimi femminili. Ancora più severo in proposito un testo siriaco della fine del V secolo, che impone anche un velo come tenda per impedire la vista delle donne nude sia ai ministri che ai fedeli. La nudità costituiva un momento ineliminabile del rito battesimale, per segnare simbolicamente il passaggio alla nuova vita, e non poteva quindi essere accantonata facilmente (come poi è stato, passando al battesimo dei neonati). Il rito nel suo complesso mirava a ristabilire la realtà originaria compromessa dal peccato originale, e soprattutto a promuovere nuove modalità sociali di controllo del proprio corpo, valorizzato simbolicamente in modo da servire come strumento di santificazione e salvezza. Proprio per questo, la scansione dei tempi di penitenza e dei tempi di festa nell’anno liturgico cominciò ben presto a prevedere, oltre ai digiuni e alle preghiere, anche una regolamentazione della sola sessualità consentita, cioè quella matrimoniale. Per tutto il Medioevo la definizione dei periodi in cui non si dovevano avere rapporti sessuali, di quelli in cui erano consentiti, e le pene da comminare ai trasgressori, costituiva un tema importante, presente nella predicazione e nella normativa. In sostanza, era proibito avere rapporti coniugali in tutti i periodi dell’anno ritenuti sa70 Cfr. G. Filoramo, Il controllo dell’eros: la nudità rituale, in Pricoco (a cura di), L’Eros difficile, cit., pp. 67-88.

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cri: cioè tutte le domeniche e le festività, e naturalmente durante i quaranta giorni della Quaresima, e nei venti giorni prima di Natale e di Pentecoste, e due o più giorni prima di ricevere la comunione. Proprio per questo vigeva l’uso di comunicarsi per lo più nelle grandi solennità, perché così si era sicuri del digiuno e dell’astinenza sessuale. Anche se la lunghezza dei periodi di astinenza variava da regione a regione, si può calcolare che la somma complessiva raggiungesse circa cinque mesi, quindi quasi la metà dell’anno. A questo si aggiungeva il divieto – avvalorato dal sapere medico – di avere rapporti durante le mestruazioni, i puerperi e in molti casi anche l’allattamento. La predicazione finalizzata al mantenimento di queste regole era rafforzata con il racconto di episodi in cui la nascita di un figlio cieco e storpio era collegata a un congiungimento in periodo proibito, e una serie di multe in denaro e di periodi più o meno lunghi di penitenza attendevano i trasgressori. Con il tempo queste regole divennero meno rigide perché, pur non mutando la tabella dei giorni proibiti, l’attenzione si spostò, più che sull’atto, sull’intenzione con la quale era stato perpetrato: se solo per generare un figlio, non costituiva impedimento alla comunione o profanazione di un periodo sacro. Con il catechismo tridentino, la continenza nei tempi sacri venne riproposta non più come obbligo ma piuttosto come «esortazione». La rigidità medievale sarà ripresa dai giansenisti, che non ammettevano deroghe alle norme antiche, ma non dalla Chiesa cattolica. Nello stesso periodo storico in cui la pratica della sessualità viene bandita con severità dal calendario festivo e penitenziale, essa viene riproposta, questa volta in positivo, al centro di uno specifico momento liturgico: la messa di Pasqua. È stato documentato infatti fin dal Medioevo l’uso di festeggiare la Pasqua con una predica scherzosa densa di significati erotici, uso che risulta poi ampiamente diffuso per tutta Europa in età moderna. Questa usanza è stata ricostruita71 a partire da una lettera che Wolfgang Capito, un sacerdote di Basilea, scrive a un altro sacerdote – che 71 Cfr. M.C. Jacobelli, Il «risus paschalis» e il fondamento teologico del piacere sessuale, Queriniana, Brescia 1990; C. Bernardi, «Risus paschalis». Riti e tradizioni della gioia pasquale, in C. Bernardi, C. Bino e M. Gragnolati (a cura di), Il corpo glorioso. Il riscatto dell’uomo nelle teologie e nelle rappresentazioni della resurrezione, Giardini, Pisa 2006.

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parteciperà pochi anni dopo alla Riforma – Giovanni Ecolampadio, criticandolo perché si rifiutava di farcire di aneddoti comicoerotici la predica di Pasqua. Capito non parla solo di barzellette o scherzi ma addirittura dell’uso di spingere gli ascoltatori a «ridere sguaiatamente», scherzando «con parole oscene» o «imitando uno che si masturbi». Molte sono le fonti che – a partire dal Concilio di Reims dell’852 per arrivare a un articolo giornalistico pubblicato a Francoforte nel 1911 – attestano questa usanza, raccontando di sacerdoti che imitano versi di animali, fingono di partorire un vitello o, come minimo, suscitano l’ilarità dei fedeli con storielle sconce, come quella di due amanti che, incapaci di attendere che la loro camera fosse pronta, si uniscono sulla panca della locanda, facendola precipitare fra le galline. Alcuni di questi motivi – celebre soprattutto quello del frate che fa passare i propri pantaloni dimenticati dall’amante come una reliquia presso il marito di costei – sono presi a prestito, o prestati, dalla letteratura del Trecento o Quattrocento. Dopo il secolo XVI i racconti tendono a sostituirsi completamente alla pantomima del sacerdote, tanto che nel 1698 il prete bavarese Andreas Strobl stampa un manuale per predicatori, fornito di regolare imprimatur, in cui i sermoni sono arricchiti da storielle comiche e che conobbe un grande successo. L’autore stesso spiega che questo «è uno dei migliori mezzi per rendere attento l’uditorio». Anche se in questo caso si tratta di storielle abbondantemente censurate, non mancano i doppi sensi a sfondo sessuale. È solo alla fine del XVIII secolo – lo attesta una decisa presa di posizione di papa Lambertini – che la Chiesa si pronuncia chiaramente contro questa usanza, senza riuscire, del resto, a cancellarla in breve termine. È normale, quindi, all’interno dello spazio sacro, il ricorso nel periodo pasquale a immagini legate al piacere sessuale, collegate al riso e alla felicità per la risurrezione di Gesù, che coincide con la fine di un periodo di digiuno e di astinenza. Erasmo da Rotterdam, mentre condanna questa usanza, ne fornisce al contempo la chiave interpretativa: «È la cosa più vergognosa che ci sia, che nelle feste di Pasqua alcuni provochino al riso la gente, secondo il desiderio del popolo, con racconti palesemente inventati e il più delle volte osceni, tali che neppure in un convivio un uomo onesto potrebbe ripeterli senza vergognarsi. In nessun modo è il salmo pasquale a invitare a questo genere di al-

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legria, quando dice: Hic est dies quem fecit Dominus, exultemus et laetemur in eo»72. Sarebbe proprio la letizia pasquale, dunque, a richiedere scoppi di risate, e quindi a giustificare il ricorso a questo repertorio osceno. Il riso, adatto alla festa religiosa più importante dell’anno, non è infatti che metafora, espressione, del piacere sessuale. Lo troviamo più volte, in questo senso, nella Bibbia, a cominciare dalla nascita tardiva di Isacco, il cui nome significa proprio piacere e riso. Il giorno di Pasqua si legge il Cantico dei cantici, per cui non ci si deve stupire se, in molti paesi europei, il piacere sessuale diventi linguaggio per celebrare la gioia della risurrezione, la liberazione dell’uomo da parte di Dio. Usanza denunciata e disapprovata dai riformati, e rimasta in uso nella tradizione cattolica solo nelle zone più lontane dalla critica protestante. La lunga durata e la vasta diffusione del risus paschalis starebbero a testimoniare la sopravvivenza, all’interno della tradizione cristiana, anche se sotto una forma degradata di oscenità, della sacralità del piacere sessuale e del suo essere considerato mezzo privilegiato per cogliere qualcosa dell’infinito di Dio. E Joseph Ratzinger non ha esitato a fare esplicito riferimento all’uso del risus paschalis nella liturgia di Pasqua: «Una volta faceva parte della liturgia barocca il risus paschalis. La predica di Pasqua doveva contenere una storia atta a suscitare il riso, in modo che la chiesa risuonava di allegre risate. Era una forma superficiale e primitiva di gioia cristiana. Ma non è forse splendido e perfettamente in sintonia che il riso sia diventato simbolo liturgico?»73.

8. L’arte: sacra, ma non asessuata La sessualità non è solo parola, sentimento o tentazione, frutto di unione mistica, ma anche immagine – e immagine religiosa –, anche se in genere per arte sacra s’intende arte asessuata. Non ci si è ancora resi conto della portata dei recenti restauri delErasmo da Rotterdam, Ecclesiastae, Basileae 1535, p. 126. Il testo – tratto dal volume Schauen auf den Durchbohrten. Versuche zu einer spirituellen Christologie, pubblicato da Einsiedeln nel 1984 – è in Jacobelli, Il «risus paschalis», cit., p. 111. 72 73

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la Sistina che hanno restituito le potenti figure nude dipinte da Michelangelo alla loro natura umana completa di sessualità, dopo le «braghe» con le quali i censori le avevano rivestite a due riprese, nel XVI e poi ancora nel XVIII secolo. Oggi, i musei tendono a restaurare le opere d’arte sacra togliendo perizomi posticci, aggiunti a partire dal XVII secolo, quando si è scatenata sull’arte naturalista rinascimentale un’ondata di censura che l’ha resa irriconoscibile74. Non se ne sa molto: non ci sono infatti documenti storici che permettano di risalire al momento in cui questo tipo di censura comincia a essere praticata, in modo da individuare, per esempio, chi abbia ordinato di eliminare il pene, conservato nella chiesa della Minerva, dalla scultura di Michelangelo che raffigura il Cristo risuscitato. Quando le opere erano conservate solo in spazi sacri e considerate un supporto devozionale alla vita religiosa, era normale intervenire con aggiunte o interventi aggressivi in nome della purezza morale, e ciò è avvenuto fino in tempi recenti. Ma molte opere considerate imbarazzanti conobbero un destino diverso a causa della manipolazione censoria: rimasero nascoste non solo nei depositi delle chiese ma anche in quelli dei musei. Sulla rappresentazione della sessualità nell’arte sacra occidentale dopo il Cinquecento ha pesato fortemente, infatti, l’interdetto religioso: la sessualità, considerata fonte di tentazione e di corruzione, doveva essere sfuggita o almeno contenuta il più possibile. Questa norma ha rappresentato un problema perché sono numerosi gli episodi della storia sacra che presentano temi sessuali, a cominciare dalla nudità di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre75. Prendiamo in esame, ad esempio, l’Annunciazione: in fondo è la rappresentazione più cruda e semplice dell’atto sessuale, o piuttosto delle sue conseguenze procreatrici, cioè della penetrazione di un corpo femminile da parte di un essere forse asessuato, ma che si ritiene sia maschio. In genere, la penetrazione divina viene rappresentata da trattini dorati, da fili di luce che legano Maria al Divino, e che sono ispirati alla pioggia d’oro di Giove. Ci sono 74 Cfr. L. Steinberg, The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion, A Pantheon October Book, New York 1983. 75 Cfr. X. Dectot, Sexualité, in Dictionnaire critique d’iconographie occidentale, a cura di X. Barral i Altet, Puf, Rennes 2003.

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opere, come l’Annunciazione di Rogier van der Weyden, nelle quali la dimensione sessuale è evidente: in fondo alla scena è rappresentato un letto. Ma, prevalentemente, solo la donna si presenta con un deciso carattere sessuato, mentre l’aspetto maschile può essere raffigurato come pioggia, colomba o angelo. In ogni caso è necessario che si alluda – in modo impercettibile ma sensibile – all’atto sessuale, perché in questo episodio, che ha il valore di fondamento della fede cristiana, deve essere ben rappresentato il mistero dell’umanità e della divinità di Cristo. Problemi analoghi pone la rappresentazione del matrimonio fra Giuseppe e Maria, come si sa mai consumato, e poi, quando comincia a prevalere la certezza dell’Immacolata Concezione di Maria, già adombrata in testi apocrifi tardo-antichi come il protovangelo di Giacomo, di quello fra Anna e Gioacchino. L’idea di Maria concepita senza peccato si impone lentamente alla pietà, alla liturgia e alla teologia e a lungo ha cercato un’espressione figurativa. Il primo tentativo di raffigurare l’Immacolata Concezione in chiave simbolica, mediante la rappresentazione dell’incontro di Anna e Gioacchino alla Porta d’Oro di Gerusalemme, è di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e risale al 1305. La rilevanza data all’incontro casto fra i due genitori starebbe a testimoniare che Maria sarebbe stata concepita in quel modo, senza l’atto sessuale che le avrebbe trasmesso il peccato originale. Il Medioevo latino, affermando che il peccato originale si trasmette con l’atto generativo, ha avuto la tendenza a spiegare la santità assoluta del Salvatore con il fatto della sua concezione verginale, e quindi miracolosa, e allo stesso modo ha cercato di tradurre la santità originale di Maria risalendo ai suoi genitori. Sant’Anna, a partire dalla fine del XV secolo, diviene una delle sante più venerate d’Europa, anche se le sue raffigurazioni sono basate su un testo apocrifo del II secolo, il protovangelo di Giacomo, poiché nella Bibbia non è neppure nominata. Secondo questi racconti il suo matrimonio era rimasto senza figli per colpa del marito, che dalla vergogna si era nascosto nel deserto. Un giorno un angelo gli predisse la nascita di una figlia: Gioacchino tornò a Gerusalemme e incontrò Anna presso la Porta d’Oro. Il momento dell’abbraccio/bacio tra i due sposi, secondo gli scrittori medievali, avrebbe segnato il momento del concepimento di Maria ex osculo.

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Già presente nei cicli della Vergine, il tema diventa con Giotto autonomo, con alcune interessanti variazioni che ne vogliono sottolineare il senso, come l’apparizione di un angelo che scende sui due vecchi sposi per avvicinare le loro labbra. In sostanza, in questo modo si fa capire che non c’è stato rapporto sessuale, veicolo di trasmissione del peccato originale: i due sposi si incontrano e Maria è la figlia del miracolo, come Samuele e Giovanni Battista, nati da madri sterili. L’incontro casto fra Anna e Gioacchino venne così visto, fin dal Trecento, come un simbolo di quello che più tardi divenne un dogma, l’Immacolata Concezione. Questo tema sparisce però nel XVII secolo, sia a causa della sua ambiguità sia per la concorrenza di altre raffigurazioni. La sessualità è presente anche in temi figurativi che non sono centrati sul rapporto fra uomo e donna, ma che possono diventare pretesto di rappresentazioni erotiche: il più celebre è la raffigurazione dell’episodio biblico di Susanna e dei vecchioni che la spiano mentre fa il bagno. In questo caso, è il soggetto stesso che ricorda allo spettatore il suo ruolo di voyeur, ma ci sono casi in cui il sesso compare invece sotto forma sadomasochista, come nelle passioni dei martiri. L’esempio più celebre è quello di san Sebastiano, nel cui martirio – come nelle celebri opere di Mantegna e Tanzio da Varallo – è rappresentato il piacere di far soffrire un bel corpo, piuttosto che la sofferenza offerta a testimonianza di Dio. Oppure il martirio di sant’Agata di Sebastiano del Piombo, in cui il piacere di soffrire presente sul volto della santa trova un preciso riscontro nel piacere di far male che illumina il viso del torturatore. Anche la vita di Maria Maddalena, peccatrice pentita, offriva delle occasioni: quella, ad esempio, di rappresentare una prostituta che adesca il cliente, con le gambe nude come richiamo erotico, e anche in seguito, quando diventa penitente, la sua figura nuda, coperta solo dai lunghi capelli, mantiene spesso un carattere erotico. Di fatto, pertanto, anche la dimensione religiosa – oltre alla raffigurazione dei miti classici – ha offerto occasione e pretesto per la rappresentazione di pratiche erotiche riprovate dalla morale. Ma c’è un’altra forma, simbolica, attraverso la quale l’eros e il piacere sono entrati nello spazio sacro medievale, e sono stati accettati almeno fino al XIV secolo: immagini sessuali che avevano la funzione di proteggere la fertilità, considerate la continuazione,

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se pure sotto sembianze cristiane, degli antichi culti fallici molto diffusi nell’antichità classica. In Italia gli esempi di temi osceni in luoghi sacri sono numerosi: nella Madonna del Belvedere – dipinta da Ottaviano Nelli nel 1495 e conservata a Gubbio – la sacra immagine è incorniciata da due colonnine di colore bianco grigio su cui sono dipinte scene impregnate di un forte erotismo: un uomo e una donna, completamente nudi, sono raffigurati mentre si accoppiano in vari modi, con una crudezza che ricorda le sculture erotiche dei templi indù. Nel duomo di Trasacco, in provincia dell’Aquila, uno dei due portali, chiamato il Portale degli uomini, datato intorno al XIV secolo, presenta al centro, fra volute floreali, un fallo gigante appartenente a una figura umana scolpita alla sommità della volta, mentre a sinistra, all’altezza degli occhi di chi entra, è scolpita una figura femminile, accovacciata, con le gambe divaricate e la vagina in evidenza. Un tema simile è presente intorno al portale del tempio di San Fortunato di Todi: da un lato è raffigurato un monaco, dall’altro una monaca, uniti dal fallo del primo che si allunga mimetizzandosi fra i tortiglioni che circondano la porta. A Città di Castello, in provincia di Perugia, accanto al rosone della chiesetta della confraternita di Sant’Antonio Abate si protendeva un enorme fallo, che ora non c’è più, a cui le donne rivolgevano preghiere per la fertilità. Ma non era un caso isolato: fino alla Rivoluzione francese un grosso fallo ornava la cattedrale di Tolosa e la maggioranza delle chiese di Bordeaux, mentre nelle chiese irlandesi era spesso raffigurata una donna accovacciata, con le gambe divaricate, che mostrava una enorme vagina spalancata. Erano rimaste quindi nella cultura cristiana tracce di culti pagani della fertilità che richiedevano rappresentazioni figurative che oggi possiamo considerare oscene. Lo dimostra anche il fatto che tra le opere, purtroppo perdute, di un religioso tedesco, il carmelitano Johan von Hildesheim (morto nel 1375), erano elencati due scritti – Opus metricum de monstris in ecclesia e In quendam turpia pingentem – in cui si condannava con veemenza l’uso di dipingere negli spazi sacri mostri e soggetti osceni. Queste immagini tendono a sparire a partire dal XIV secolo, pertanto i culti della fertilità più evidentemente legati alla tradi-

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zione pagana sono sopravvissuti solo marginalmente nella tradizione popolare, ma nello stesso periodo la sessualità ricompare proprio collegata a quello che si può considerare «il corpo sacro» per eccellenza, cioè quello di Gesù. Un quadro di Gentile da Fabriano, conservato a Berlino e datato intorno al 1415, ci mostra una Madonna seduta che guarda in volto lo spettatore mentre apre il mantello che copre il Bambino mostrando il suo inguine nudo: non si tratta di uno scherzo, di un gioco familiare fra madre e figlio, ma – scrive lo storico dell’arte Leo Steinberg – di una vera e propria ostentazione dei genitali di Gesù, che ha valore di rivelazione. Con questo quadro si apre un genere nuovo, che conoscerà grande fortuna nell’arte rinascimentale e che è stato erroneamente interpretato come una forma del naturalismo pittorico proprio dell’epoca. Si tratta di una novità: nell’arte bizantina il Bambino Gesù veniva dipinto completamente e riccamente vestito, così come gli altri personaggi sacri, prevalentemente ritratti a mezzo busto perché, come scrivevano i Padri della Chiesa, la testa di Gesù, e quindi la parte superiore del corpo, rappresentava la sua divinità, i piedi e la parte inferiore la sua umanità. Le severe regole iconografiche della Controriforma inciteranno gli artisti a riprendere questa antica consuetudine, ma intorno alla metà del Duecento i pittori italiani di Madonne con Bambino avevano cominciato a far apparire le gambe del figlio, segno della sua umanità, e a poco a poco, verso il 1310, si arrivò a rappresentare il Bambino nella sua nudità, spostando così l’attenzione dalla natura divina e regale del piccolo Cristo alla sua natura umana. Da questo momento la nudità del bambino è legittimata, come sappiamo dalle numerosissime rappresentazioni della maternità in cui compare, e diventa l’emblema della condizione umana a cui il figlio di Dio si è abbassato. È un periodo in cui domina la pietà francescana, che insiste sull’umanità di Gesù e sulla sua nudità. Non si tratta, come molti storici dell’arte hanno scritto, di una forma di naturalismo – nessun altro essere umano è stato ritratto con la crudezza anatomica di Gesù – o di una imitazione dell’arte pagana, ma sono delle ragioni simboliche a favorire questo tipo di iconografia. Molti pittori, infatti, sentono necessaria l’ostentatio genitalium, cioè l’esi-

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bizione del sesso dell’Incarnato, per confermare la sua reale appartenenza alla natura umana, definita appunto, dopo la caduta, da due condizioni: la morte e il sesso. Steinberg, che ha analizzato queste immagini interpretandone il significato, osserva che si tratta di una «autorivelazione» le cui modalità sono molto simili a quelle abitualmente associate alla seduzione femminile. Il tema si presenta in tre forme: il bambino svelato dalla madre (o in alcuni casi dalla nonna, sant’Anna), il bambino che mostra se stesso, o una sorta di cooperazione in cui il bambino si denuda da solo, ma la mano della madre segnala allo spettatore la sua sessualità. Alcune opere sono ancora più esplicite: in un quadro di van Verleyden del 1545 il Bambino, raffigurato in mezzo a un gruppo di familiari, tiene in mano il suo pene. Per spiegare il gesto, l’opera era stata chiamata: «Cristo bambino dopo la circoncisione». In altre opere il Bambino si tocca il pene con la mano sinistra, o più spesso mostra il suo sesso in erezione. Dopo il Rinascimento queste immagini saranno ritenute imbarazzanti e scioccanti per molti cristiani, e l’esibizione dei genitali diventa un gesto impudico perché nessuno sembra più ricordare il suo significato teologico. Sembra allora impossibile che la cultura cristiana avesse potuto avere una tale audacia da esprimere tutte le implicazioni della fede nell’Incarnazione con una rappresentazione degli organi sessuali di Gesù. Rappresentazione che, da quel momento, nell’arte sacra verrà proibita. Nelle raffigurazioni di episodi evangelici, altri sono i momenti della vita di Gesù che implicano il problema della rappresentazione dei genitali: la circoncisione e il battesimo. La circoncisione, festeggiata il 1° gennaio insieme con l’attribuzione del nome, cioè otto giorni dopo la nascita, viene rappresentata perché considerata simbolicamente l’inizio della sua opera redentrice. Il sangue che Gesù perde in questa occasione rappresenta quello che verserà a profitto dell’umanità durante la Passione e, proprio per questo, i Padri della Chiesa facevano della circoncisione un atto volontario. Il figlio di Dio, infatti, non aveva certo bisogno di purificarsi attraverso questo sacrificio: se lo faceva, era solo per segnalare la sua intenzione di salvare l’umanità fin dalla nascita. Beda il Venerabile aggiunge a questa scelta volontaria un motivo di insegnamento: Gesù vi si sarebbe sottomesso «al fine di racco-

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mandarci, con un esempio eminente, la necessaria virtù dell’obbedienza»76. Alla fine del VII secolo, prima di diventare un oggetto abituale della rappresentazione artistica, la circoncisione di Cristo era stata rivestita di molti significati: iniziatica, esemplare, sacrificale, escatologica. Questa concezione può spiegare il fatto che gli artisti cristiani non rappresentarono mai, nel corpo di Cristo, gli effetti dell’intervento, visti come segno di una imperfezione indegna. Bernardo, in un sermone, commenta l’operazione come prova della sua vera umanità77, mentre Tommaso d’Aquino, pur riprendendo tutte le interpretazioni precedenti, aggiunge che tale atto serviva a indebolire la concupiscenza, e quindi a rendere più facile la castità. Tema ripreso in un sermone da un prete umanista, Gasperino Barzizza: «Egli ha voluto essere circonciso per poter spegnere le fiamme del nostro detestabile appetito»78: facendo dono volontario del suo sangue, Gesù ha trionfato sul demonio. Nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine – una delle letture più diffuse dal Medioevo nel mondo cristiano – la circoncisione serve a dare «prova della sensibilità carnale del Dio-uomo, vulnerabile e sofferente», ed «è in questo giorno che ha cominciato a versare sangue per noi [...] e fu l’inizio della nostra redenzione»79. Il legame fra la prima e l’ultima ferita viene reso da alcune raffigurazioni del XV e XVI secolo dal filo di sangue che dal costato va verso l’inguine del crocifisso. Questi testi erano diretti, in una contrapposizione che ormai aveva solo valore retorico, contro quegli eretici che, come gli gnostici e i docetisti, sostenevano la sola natura divina di Cristo e, quindi, pensavano che la sua sofferenza fosse stata solo apparente. Anche in questo caso, nei quadri come nei sermoni, l’argomento a favore dell’umanità di Cristo si basava sul membro sessuale del Bambino. La cultura del Rinascimento ha professato quindi una teologia dell’Incarnazione che è all’origine di modelli di rappresentazione sacra ben diversi da quelli ieratici dell’arte orientale: è stato questo l’unico periodo – scrive Steinberg – in cui «l’arte cristiana ha Citato in Steinberg, The Sexuality of Christ, cit., p. 53. Cfr. ivi, pp. 54-55. 78 Citato ivi, p. 61. 79 Citato ivi, p. 57. 76 77

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sostenuto totalmente l’ortodossia cristiana». Il grande slancio teologico rinascimentale, infatti, ha fatto sua la realtà dell’Incarnazione, rappresentando parti basse e alte del corpo, compresa la componente sessuale. Questo punto di vista non è stato ripreso né compreso dalle generazioni seguenti, come testimonia Goethe che, nel 1786, dopo avere ammirato la Circoncisione del Guercino, scrive: «Perdonai l’imperdonabile soggetto, ma ammirai la sua esecuzione»80. E lo stesso Louis Réau, celebre storico dell’arte cristiana, scrive che questo soggetto è stato eliminato a causa della «sua indecenza»81. Ai loro occhi, si è persa l’eccezionalità del corpo di Cristo, il suo valore simbolico: la sua nudità diventa indecente come quella di tutti gli altri. Ma cosa succede quando Gesù viene rappresentato nel pieno vigore della giovinezza, e quindi anche della sua sessualità? C’è un unico episodio in cui questo problema si pone – negli altri la questione è risolta raffigurando Gesù vestito – ed è il battesimo nelle acque del Giordano. Fin dai mosaici bizantini sono presenti raffigurazioni del battesimo in cui Cristo è totalmente nudo e in posizione frontale, ma poi si assiste a una crescita di puritanesimo, per cui, dopo il VII secolo, nonostante il simbolismo dell’episodio, che rappresenta la nascita e la risurrezione, richiedesse la nudità completa, il pudore proibiva la rappresentazione del sesso. Nel Medioevo gli artisti cercarono di aggirare il problema alzando il livello dell’acqua e rendendola opaca, oppure eliminando semplicemente la rappresentazione dei genitali. Ma, dopo il Quattrocento, queste modalità vennero scartate, e il problema fu risolto con un gesto di pudore: la mano di Gesù va a difesa dei genitali, un Christus pudicus, poi sostituito da un Cristo cinto da un perizoma intorno ai fianchi. Sia la mano che il perizoma servivano a difendere la vista di questa parte insopportabile del corpo, ma al tempo stesso ne sottolineavano l’esistenza. Nelle opere rinascimentali Cristo torna a essere rappresentato senza imbarazzo, nel momento della morte, con un corpo sessuato. Viene raffigurato nudo sulla croce, oppure il suo corpo è dipinto con la mano che ricade sulle parti genitali: non tanto per un ge80 81

Citato ivi, p. 72. L. Réau, Iconographie de l’art chrétien, II, 2, Puf, Paris 1957, p. 260.

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sto di pudore, quanto per portare l’attenzione sulle pudenda, prova dell’umanità di Gesù. Ma ci sono anche rappresentazioni del Cristo morto o appena risorto – spesso appena velato da un drappo che ne sottolinea il rigonfiamento – con il sesso in erezione. Nell’Uomo dei dolori di Ludwig Krug, datato intorno al 1520, l’erezione fallica è incontestabile, evidente come le ferite e il dolore che il volto di Gesù esprime; in altri, come nell’omonimo dipinto di Maerten van Heemskerck del 1532 e nel celebre Cristo morto del Mantegna, l’erezione è suggerita a uno sguardo attento dal rigonfiamento dei panni. Non si tratta di opere sacrileghe, ma della rappresentazione simbolica della rinascita della carne, cioè della risurrezione, attraverso un’equazione simbolica tra erezione e risurrezione che ha radici nell’antichità precristiana. Steinberg ricorda che l’idea del fallo come simbolo del potere è una costante universale, e così il fallo di Cristo resuscitato esprime il potere più grande: vincere sulla morte. Anche questo tipo di immagini tende a scomparire, o a essere coperto, dal XVII secolo. Il sesso quindi non solo è stato rappresentato nell’arte sacra, ma ha svolto, nell’arte del periodo rinascimentale, una importante funzione simbolica, poi dimenticata e cancellata nei secoli successivi, soprattutto per la pressione critica della Riforma protestante, che giustificava le ondate di distruzione iconoclasta di arte sacra anche con un esasperato puritanesimo e un rifiuto totale della dimensione simbolica per valorizzare solo una lettura del testo sacro. Uno degli aneddoti derisori più ricorrenti nella letteratura polemica protestante contro i cattolici è quello relativo all’autenticità del prepuzio di Cristo, conservato come reliquia in San Giovanni in Laterano. La teologia del Rinascimento – scrive lo studioso gesuita O’Malley – è centrata invece sul mistero dell’Incarnazione, di cui cerca di precisare ogni aspetto82. Questo mistero tende a essere considerato la verità centrale del cristianesimo, identificata con la redenzione: non si tratta di un’idea nuova perché questo legame era già stato messo in luce dai Padri della Chiesa e da Tommaso d’Aquino, ma nel Rinascimento si tende a pensare che la reden82 J.W. O’Malley, Post scriptum, in Steinberg, The Sexuality of Christ, cit., p. 200.

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zione inizi nel momento in cui Gesù si incarna nel grembo della madre, e proprio per questo si riprendono i simboli e le controversie dell’epoca patristica. Intellettuali e artisti se ne servono per far sentire la verità della dignità della natura umana, e questo ha ispirato direttamente, in un gesto di audacia paradossale, la ostentatio genitalium di molte opere artistiche.

III IL CONTROLLO E LE NORME

1. Sopportare il piacere Lussuria: il grande vizio che corrompe il corpo facendolo diventare carne, organi pulsanti capaci di asservire lo spirito, aveva occupato per lunghi secoli la riflessione teologica, trovando in essa declinazioni proprie, individuando soggetti di elaborazione e di controllo, segmentando il popolo dei cristiani secondo i livelli e le forme di esposizione al peccato. I monaci degli eremi medievali vivevano la loro reclusione assediati da desideri e visioni che dovevano senza sosta soggiogare, bandire, cancellare, in un esercizio quotidiano di dominio su forze che, da territori occulti della mente, contaminavano e vanificavano la tensione alla castità. Altri religiosi affrontavano l’esposizione al peccato in forme meno virtuali, e la tentazione non come vacillamento dell’anima ma come esperienza materiale di stimoli esterni e ingovernabili. Intermediari tra Dio e il mondo, i chierici non potevano ritrarsi nella clausura spirituale e sensoriale dei monasteri, ma dovevano confrontarsi, mischiarsi con le fonti stesse del vizio. Dovevano imparare a misurarsi non con l’immagine, ma con la materia di corpi femminili da respingere, urgenze maschili da governare, sollecitazioni e seduzioni ovunque palpitanti nel mondo. Una tentazione esterna dunque, su cui poco potevano le armi monacali dell’ascesi e della sublimazione del corpo, ma che esigeva invece forze e poteri tutti, per la Chiesa intera, ancora da elaborare. Gli istinti di uomini e donne che vivono nel mondo richiedono, per essere governati, categorie e strumenti in apparenza più semplici. Nel cristianesimo degli ultimi secoli del Medioevo, fon-

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dato ancora sull’esteriorità di percezioni e di pratiche di devozione piuttosto che sull’interiorizzazione delle norme morali, la maggior parte dei fedeli è «incapac[e] di ridurre le proprie azioni entro [...] categorie astratte [...], o di concepire il peccato fuori dal contesto dei rapporti umani concreti»1. Privi degli strumenti necessari ad accedere alla dimensione simbolica della colpa, della penitenza e del perdono, essi pongono una relazione meccanica e corporale tra peccato ed espiazione, convinti di riguadagnare la grazia soltanto attraverso penitenze dolorose, proporzionate alla gravità della colpa. In una prospettiva che dei laici privilegia i comportamenti, rispetto a dimensioni interiori ancora impossibili da leggere e coltivare, la Chiesa e i chierici necessitano dunque di formule elementari, di contrasti forti fra bene e male, fra innocenza e peccato, e non di sfumature dell’anima, di tensioni irriducibili fra desiderio e dominio. Nella rappresentazione del clero il popolo dei cristiani è fatto di corpi quasi sempre affamati, quasi sempre sudici, succubi di un’istintualità e di brame cui è impossibile contrapporre senza mediazioni la negazione della carne. Nel mondo, alla lussuria va opposta non la castità ma la continenza. Non la repressione feroce dei bisogni della carne combattuta quotidianamente tra le mura dei monasteri, ma una disciplina del desiderio capace di subordinare il suo soddisfacimento ai tempi, ai modi e alle forme tollerate dalla religione. Dalle periferie dell’impero, soprattutto dall’Irlanda e dall’Inghilterra, tra il VI e l’XI secolo giunsero e si diffusero in tutta Europa testi che si proponevano di fornire ai sacerdoti elenchi standardizzati di penitenze da imporre ai peccatori pentiti. Una letteratura ricca e ripetitiva, che dà naturalmente larghissimo spazio ai peccati della carne nell’intento di governare e controllare gli impulsi sessuali, e nella convinzione che ogni pratica comporti inevitabilmente peccato ed espiazione. La maggior parte dei penitenziali si sofferma compiaciuta soprattutto sul peccato della fornicazione nelle sue infinite varianti (masturbazione, sodomia, bestialità, adulterio, pratiche anticoncezionali): penitenze di anni – 1 Cfr. J. Bossy, L’Occidente cristiano, 1400-1700 (1985), Einaudi, Torino 1990, pp. 56 e sgg.

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due, sette, venti –, fatte naturalmente di spietate privazioni alimentari, sono scandite a seconda dell’età per il sesso solitario; dell’età, dello status sociale e della frequenza della pratica per il sesso anale; dell’età e del genere per il sesso orale, considerato da alcuni peccato nefando2, tollerato da altri con pene miti se praticato da giovani uomini all’interno di un percorso di iniziazione sessuale. La sessualità coniugale è sottoposta invece a calendari rigidi e complicati, che la vietano a seconda dei giorni della settimana e delle ore del giorno, dei ritmi della vita religiosa, dei cicli fisiologici femminili, fino a imporre un’astinenza dopo il parto più lunga se a nascere è una femmina, poiché dal sesso femminile deriva un’impurità maggiore3. Le penitenze si attenuarono con il passare dei secoli («Hai avuto contatti impuri con la tua sposa durante la Quaresima? Devi fare penitenza per quaranta giorni a pane e acqua, oppure dare ventisei soldi in elemosina», scrive Burcardo, arcivescovo di Worms, nell’XI secolo. «Se è accaduto quando eri ubriaco, farai penitenza venti giorni a pane e acqua. Devi rimanere casto venti giorni prima di Natale e tutte le domeniche, e durante tutti i digiuni previsti dalla legge, e in occasione della natività degli apostoli, e durante le feste principali, e nei luoghi pubblici. Se non ti sei mantenuto casto, farai penitenza per quaranta giorni a pane e acqua»4), ma le prescrizioni rimasero permeate da una concezione salda: il buon cristiano non deve mai ricercare il godimento, ma soltanto sopportare il piacere. La puntigliosità e il rigore dei penitenziali si stemperarono e nello stesso tempo si accentuarono nella produzione giuridica che a partire dall’XI secolo organizzò le diverse centinaia di canoni, editti e decreti prodotti dalla Chiesa, avviando quella che viene definita l’età d’oro del diritto canonico classico5; diminuì dunque 2 «Qui semen in os miserit, VII. annos peniteat: hoc pessimum malum. Alias ab eo judicatum est ut ambos usque in finem vitae peniteant; vel XXII. annos, vel ut superius VII»: J.A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, The University of Chicago Press, Chicago-London 1987, p. 167. 3 Ivi, p. 157; cfr. anche J.-L. Flandrin, Un temps pour embrasser. Aux origines de la morale sexuelle occidentale (VIe-XIe siècle), Seuil, Paris 1983. 4 Cit. in J. Verdon, Il piacere nel Medioevo, Baldini & Castoldi, Milano 1999, pp. 79-80. 5 Cfr. J. Gaudemet, Storia del diritto canonico. Ecclesia et Civitas (1994), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1998.

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la casistica, la minuziosità con cui erano stati classificati gesti, posizioni, circostanze di ogni atto sessuale; si rafforzò invece l’enfasi con cui veniva giudicata crimine soggetto a punizione qualsiasi forma di sessualità non coniugale6. Nel frattempo nascevano e si diffondevano in tutti i paesi cristiani i tribunali ecclesiastici, vere e proprie magistrature rette da esponenti delle gerarchie del clero e deputate a giudicare e dirimere reati, questioni e conflitti che avessero per oggetto pratiche religiose e pratiche sessuali, in una significativa commistione. I tribunali ecclesiastici conquistarono presto l’egemonia per le proprie competenze, divenendo interlocutore esclusivo di aspetti decisivi della vita quotidiana dei fedeli, i quali portavano al loro giudizio seduzioni, adulteri, comportamenti spregiudicati, tutto ciò che offendeva la coesione comunitaria provocando scandalo. La pubblicità del peccato e della pena trovava dunque uno spazio giuridico attraverso il quale venivano mondate non solo le singole coscienze, ma anche la rappresentazione di sé e il legame sociale di intere comunità. E veniva così a configurarsi un apparato istituzionale potente e ramificato, capace di amministrare la moralità sessuale dei cristiani. Anche la continenza infatti – dovere prioritario di chi si muove nel mondo accettandone gli scambi e le suggestioni – ha bisogno di regole; se la concupiscenza vive e si agita in ogni cristiano dall’infanzia alla vecchiaia, l’esercizio di una sessualità legittima e continente ha bisogno di confini certi e riconoscibili, così che sia possibile collocare senza dubbi liceità e colpa. Da parte di teologi, confessori e giudici, la risposta prima al problema è univoca: le pulsioni della carne possono essere legittimamente placate soltanto all’interno del matrimonio cristiano. Ma è proprio qui che il programma si complica. Per stabilire infatti quali atti, e quando, è possibile compiere dentro il matrimonio, occorre prima sapere cosa sia il matrimonio, quando abbia inizio e in cosa consista la sua validità. Intorno al matrimonio la Chiesa combatte una delle sue battaglie più vaste e tenaci, addensando nei secoli armi e strategie che avranno conseguenze e ripercussioni su tutti i territori della vita sociale e istituzionale della cristianità. 6

Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 225.

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2. La commistione del sangue Tra impero romano e alto Medioevo il matrimonio si era fondato sostanzialmente sulla prassi romana e sulla morale cristiana. Sul piano giuridico, la Chiesa aveva fatto propria la teoria consensualistica tipica del diritto romano (il matrimonio è un patto fondato sul consenso dei due contraenti), limitandosi appunto a elaborare canoni e precetti – sull’adulterio, il divorzio, le forme del congiungimento carnale – che orientassero i fedeli sulle caratteristiche della vita coniugale cristiana. Ma il matrimonio rimaneva un fatto privato, un’alleanza tra famiglie, una scelta dei singoli, e la sua celebrazione era affidata alle scansioni della tradizione romana e alle consuetudini locali. Le usanze barbare, il diritto germanico, che a partire dal V secolo contaminarono concezioni e prassi del matrimonio, prevedevano il divorzio, il concubinato, il ratto, e costrinsero teologi e canonisti a moltiplicare la produzione normativa per contrastare il disordine delle unioni e delle parentele. Gli ambiti su cui maggiormente si concentrò l’attenzione della Chiesa appartengono al territorio comune del governo della parentela. Nel mondo antico i legami di consanguineità e di affinità erano a tal punto forti e costitutivi – nella percezione dei singoli e nella rappresentazione sociale – che il cristianesimo avvertì la necessità di riconoscerli, e nello stesso tempo di spezzarli. La teoria degli impedimenti matrimoniali ebbe per lunghi secoli questa funzione. Già i Padri della Chiesa e alcuni concili del IV e del V secolo avevano posto divieti alle nozze tra parenti e affini; divieti che si svilupparono nei secoli successivi, stimolati dalla lotta contro l’incesto e il matrimonio tra consanguinei, diffusi nelle tribù germaniche e nelle famiglie nobiliari dell’impero. Ma un’elaborazione sistematica fu avviata intorno al X secolo e progressivamente articolata in casistiche minuziose, che proibivano o rendevano nullo il matrimonio fra consanguinei fino al settimo grado di parentela, tra parenti adottivi, tra parenti spirituali (i padrini di battesimo), e tra affini, senza limiti e a prescindere dall’esistenza di nozze formali: perché era il sesso, l’unione carnale anche illecita a creare un legame impossibile da sciogliere o da replicare. È la definizione stessa di affinità, diffusa e accettata dai più autorevoli canonisti, a sottolineare il potere fondativo della copula, «attra-

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verso cui uomini e donne diventano una sola carne, e l’uno attinge il sangue dell’altro, e due cognazioni diverse si uniscono, attraverso le nozze secondo le leggi, attraverso il coito secondo i canoni»7. La copula crea un vincolo e dunque un impedimento perpetuo, che rimane anche quando muore la persona con cui è stato contratto; un vincolo – si badi bene – originato esclusivamente dalla commistione del sangue provocata dall’atto sessuale completo, perché l’impedimento non nasce se la polluzione è esterna e avviene «davanti o intorno alle parti naturali», ed esperti giuristi non riconoscono affinità quando ci sono stati soltanto «toccamenti impudichi, e qualche polluzione straordinaria»8. Il dibattito sulle interpretazioni del rigore che caratterizza la teoria degli impedimenti matrimoniali ha appassionato per decenni gli storici, dividendoli tra chi sosteneva la priorità per la Chiesa di far diminuire matrimoni, prole e successioni, così da incrementare i lasciti destinati al patrimonio ecclesiastico9; e chi suggeriva prospettive meno economicistiche, mostrando come l’estensione dei divieti poteva contribuire a rafforzare l’appartenenza, alla comunità dei fedeli piuttosto che alla famiglia-corpo, e l’obbedienza, all’autorità della Chiesa piuttosto che a quella dei padri. La teoria degli impedimenti aveva comunque derivazioni e implicazioni profonde e ramificate, che contribuirono in maniera determinante all’edificazione di una compiuta dottrina e legislazione del matrimonio. Arcivescovo di Reims nella seconda metà del IX secolo, Incmaro venne spesso consultato per i gravi affari matrimoniali che riguardavano le famiglie regnanti nell’impero carolingio. Nell’857 la figlia del conte di Tolosa aveva sposato con il consenso delle rispettive famiglie il giovane Stefano, ma costui aveva rifiutato di consumare l’unione, affermando di aver avuto in precedenza rapporti carnali con una parente della giovane sposa. Complicata come tutte le alleanze matrimoniali da conseguenze politiche, la 7 Pyrrhus Corradus, Praxis dispensationum apostolicarum, Neapoli, apud Franciscum Sauium typographum curiae archiepiscopalis, 1641, p. 297. 8 Ivi, p. 298. Cfr. anche M. Pelaja, Nozze in deroga. Dispense matrimoniali e politica ecclesiastica, in Ead., Scandali. Sessualità e violenza nella Roma dell’Ottocento, Biblink, Roma 2001. 9 J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa. Origini e sviluppi dei modelli familiari dell’Occidente (1983), Laterza, Roma-Bari 1991.

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questione esigeva una soluzione ponderata, che fu richiesta ai vescovi riuniti in sinodo a Douzy nell’860; ma costoro preferirono non pronunciarsi, rinviando il tutto per competenza territoriale ai colleghi provinciali di Aquitania, i quali a loro volta consultarono il canonista Incmaro. L’arcivescovo rispose con una lunga lettera in cui ribadiva fermamente l’indissolubilità del matrimonio, ma nello stesso tempo sosteneva che non si sarebbe potuto né dovuto costringere gli sposi a commettere l’incesto derivato dalla relazione sessuale di Stefano con la parente della moglie; né condannarli a mantenere la loro unione la quale, non essendo stata consumata, non costituiva matrimonio perfetto e sacramentale10. Con tale argomentazione Incmaro faceva della copula carnalis l’elemento costitutivo di ogni relazione parentale: è il rapporto sessuale, l’unione dei corpi e degli umori che stringe i partner in un vincolo più saldo di qualunque altro, capace di estendere le sue implicazioni oltre la morte di uno di essi, di rendere legittima o nefanda ogni altra unione successiva. Ed è soprattutto la copula carnalis la base indispensabile del matrimonio cristiano, quella che decide della sua validità e della sua indissolubilità. Sul piano giuridico, dunque, fu il cristianesimo medievale a introdurre il sesso nel matrimonio: il testo di Incmaro fu ripreso in molte collezioni canoniche successive, che da esso derivarono le basi concettuali della teoria sul matrimonio che si andava elaborando. Non solo teoria anzi, ma progressiva affermazione di un potere di normazione e di controllo che si preparava a diventare esclusivo. «È a partire dall’anno mille – scrive Daniela Lombardi – che la Chiesa cominciò ad imporre la propria competenza in materia di matrimonio. A dettare le regole e a giudicare: in una parola, ad esercitare il controllo dell’istituto matrimoniale»11. Dall’XI secolo infatti la Chiesa aveva cominciato a porsi il problema di dotarsi di una teoria relativamente coerente, di un corpo giuridico che si trasformò gradualmente in un vero e proprio sistema legale, di istituzioni, i tribunali ecclesiastici, deputate a giudicare e dunque a governare le questioni matrimoniali. Sul versante teorico, erano ancora accesi i dibattiti fra coloro 10 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente (1987), Società editrice internazionale, Torino 1989, pp. 95-96. 11 D. Lombardi, Matrimoni di antico regime, Il Mulino, Bologna 2001, p. 27.

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che secondo la tradizione romana continuavano a privilegiare il consenso come elemento costitutivo del matrimonio, e coloro che sulla scia di Incmaro identificavano nella copula il fondamento dell’unione perfetta. Il progetto del canonista Graziano, autore di un’opera apparsa intorno al 1144 con l’eloquente titolo di Concordia discordantium canonum, intendeva conciliare posizioni apparentemente contrapposte: il matrimonium initiatum, espresso dal consenso dei partner, doveva essere ratificato dalla copula, che avrebbe dato luogo al matrimonium ratum. Ma le opinioni dei canonisti rimasero divergenti ancora per secoli, fino alla sistematizzazione operata dal Concilio di Trento12. Sul piano dei riti e delle cerimonie che formalizzavano la celebrazione delle nozze, disparità e contaminazioni dominarono tutto il Medioevo. Le tradizioni germaniche, accogliendo e rimodellando ritualità romane, proponevano una complessa scansione del processo matrimoniale: la fase iniziale era costituita dalla promessa (desponsatio) solenne per verba de futuro, che per prima sanciva la volontà dei partner; a questa seguiva, con intervallo variabile, il consenso espresso per verba de praesenti e la subarrhatio, cioè lo scambio degli anelli, che costituiva il matrimonio vero e proprio, completato infine dalla traditio puellae, il trasferimento della sposa nella casa maritale, che consentiva la copula e dunque l’avvio della vita coniugale. Una scansione tuttavia che difficilmente è possibile rintracciare nella sua linearità nei matrimoni medievali, i quali solennizzavano e ritualizzavano una fase o l’altra a seconda della simbologia che si intendeva enfatizzare. La cerimonia nuziale longobarda, ad esempio – che si era diffusa a partire dal VII secolo –, doveva in primo luogo rendere pubblico il trasferimento del mundium, cioè della tutela giuridica della sposa dal padre al marito: «dapprima la sposa veniva portata dai suoi parenti in casa del marito, che pagava una somma (chiamata meta) in cambio del riconoscimento del mundium sulla moglie. Le cerimonie giungevano a compimento il mattino successivo alla consumazione dell’unione, quando il marito offriva pubblicamente alla moglie la morgengabe, un dono di valore cospicuo che rappresentava l’attestazione dei propri diritti sessuali»13. La 12 13

Cfr. infra, par. 3. D. Owen Hughes, Il matrimonio nell’Italia medievale, in Storia del matri-

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tradizione longobarda dunque aveva privilegiato del matrimonio il carattere di alleanza, accordo e trasferimento di diritti tra famiglie e lignaggi. Contro questa concezione la Chiesa aveva proposto fin dal IX secolo prospettive e scansioni proprie, che restituivano il primato agli sposi rispetto alle parentele e che attribuivano alla benedizione del sacerdote un ruolo decisivo; nell’866 papa Niccolò I riassunse per il re dei bulgari appena convertito al cristianesimo i riti nuziali dell’Occidente latino: dapprima lo scambio della promessa e gli accordi matrimoniali, poi l’anello di fedeltà dallo sposo alla sposa, poi ancora il conferimento della dote, infine i voti matrimoniali in chiesa e la benedizione del sacerdote14. Nel difficile equilibrio tra sposi e famiglie, tra accordi giuridico-economici e impegno spirituale, la Chiesa cercava di restituire la priorità al consenso e di conquistare spazi decisivi per la cerimonia religiosa; l’anello divenne lentamente simbolo della reciprocità dei voti, mentre il sacerdote prendeva il posto del notaio nella lettura dei pronunciamenti rituali. Ma le consuetudini locali e la tenace resistenza delle parentele ostacolarono ancora per secoli queste innovazioni: il fidanzamento, frutto spesso di alleanze familiari strette quando gli sposi promessi erano ancora impuberi, continuò a creare vincolo e a essere considerato un matrimonio da ratificare soltanto con l’unione carnale; il corteo nuziale mantenne il suo forte e pubblico significato di rito di passaggio, e fu solennizzato fastosamente con danze e ghirlande; la consumazione stessa fu ufficializzata, a volte in presenza di testimoni incaricati di riferire sul suo compiuto svolgimento: nel 1473 – racconta ancora Diane Owen Hughes – all’amplesso coniugale tra Eleonora d’Aragona ed Ercole d’Este assistettero tre donne parenti del duca e l’evento fu riportato nelle cronache locali15. Il processo matrimoniale rimase dunque lungo e complicato, e la sua formalizzazione sfuggì per molti secoli a egemonie e a cerimonie codificate, prestandosi a innumerevoli contestazioni. Intanto, il Concilio ecumenico di Lione del 1274 aveva inserito il matrimonio tra i sacramenti, affidandone la competenza giurisdimonio, a cura di M. De Giorgio e C. Klapisch-Zuber, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 17. 14 Ivi, p. 19. 15 Ivi, p. 30.

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zionale alla Chiesa: la quale ormai non solo doveva stabilire sul piano morale la liceità dei comportamenti coniugali, ma sul piano giuridico, attraverso i tribunali ecclesiastici, doveva difenderne l’indissolubilità. E ciò poneva di nuovo, e con maggiore urgenza e drammaticità, il problema di poter identificare, con un atto ritualizzato e pubblico, la celebrazione del matrimonio.

3. Diritto e sacramento La tentazione degli storici è spesso quella di perdersi nei cerchi che si dilatano all’infinito a partire dal proprio, circoscritto, oggetto d’indagine. Il Concilio di Trento è un evento fondamentale nella storia del cristianesimo e dell’intera civiltà occidentale, e come tale è stato studiato e interpretato in una mole ormai considerevole di testi. Dal punto di vista particolare della storia dei comportamenti sessuali, la sua capacità periodizzante appare contraddittoria, lenta e a volte incerta nell’imporre l’applicazione di norme, queste sì, categoriche e innovative. I Padri conciliari si riunirono la prima volta a Trento nel 1545, con compiti enormi: dovevano difendere la dottrina cattolica contro le tesi protestanti, correggere parti significative del diritto canonico precedente, elaborare i fondamenti di una morale nuova e più rigorosa, ponendo termine a confusioni, corruzioni e lassismi contro cui si erano scagliati i predicatori della Riforma. Le prime sessioni, fino al 1547, furono dedicate alle questioni dogmatiche, tra le quali la dottrina dei sacramenti, al cui interno fu riaffermato il carattere sacramentale del matrimonio, negato dai protestanti; ma proprio quando si cominciava ad affrontare la disciplina matrimoniale il Concilio fu interrotto per la peste che dilagava nella città e i Padri conciliari si rifugiarono a Bologna, dove ripresero a lavorare per qualche mese ancora. Poi, nel 1549, papa Paolo III sospese le riunioni. Il nuovo diritto fu redatto dopo undici anni di interruzione, e approvato nella sua forma definitiva – il Decretum de reformatione matrimonii – alla fine del 1563. Tra i decreti tridentini, alcuni ribadivano e rafforzavano posizioni già acquisite dalla Chiesa: la superiorità dello stato di verginità e di celibato rispetto a quello matrimoniale; l’indissolubilità

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del matrimonio, che può essere sciolto solo se non consumato, e nello stesso tempo il potere della Chiesa di ammettere la separazione dei coniugi; il potere della Chiesa di stabilire impedimenti diversi da quelli considerati nel Levitico. Le questioni principali che il Concilio si propose di dirimere erano infatti, sostanzialmente, il carattere sacramentale del matrimonio, la sua indissolubilità, il ruolo delle famiglie, le forme e la solennità della celebrazione, ma la dimensione giuridica in cui veniva ormai collocata la sfera sessuale fece sì che pratiche e comportamenti sessuali entrassero a vario titolo in molti canoni. Uno dei capitoli del Decretum, per esempio, privava della speranza di ottenere le previste dispense dagli impedimenti coloro che, proprio al fine di estorcere la dispensa alle autorità ecclesiastiche deputate – ponendole per così dire di fronte al fatto compiuto –, avessero avuto rapporti sessuali: a dimostrazione della capacità ormai acquisita dall’unione carnale di essere portata come condizione, come precedente, di costituire insomma elemento di trattativa in una interlocuzione complessa tra fedeli e gerarchie della Chiesa. La riforma più significativa riguardava comunque la celebrazione del matrimonio: il primo capitolo del Decretum, quello noto come Tametsi, ordina che prima delle nozze ne sia dato per tre volte pubblico annuncio durante la messa dei giorni festivi; che lo scambio dei consensi che costituisce il matrimonio sia effettuato in facie Ecclesiae, davanti al parroco e a testimoni; che né coabitazione né consumazione debbano avvenire prima della benedizione del parroco. Novità decisive, che tematizzando per la prima volta la questione della cerimonia nuziale ne affermavano il carattere pubblico e ne riservavano alla Chiesa il controllo esclusivo, in una competizione a volte aspra con altre sovranità. Papi, teologi, canonisti, nessuno infatti aveva pensato fino ad allora a regolare le nozze, a individuare nelle tappe che scandivano il processo matrimoniale l’evento capace di dividere il prima di un nubilato tassativamente casto dal dopo di una coniugalità possibilmente continente. E ognuno, ogni comunità, ogni coppia, afferrava consuetudini e simbologie per proporre una versione personale del rito nuziale. Unioni controverse: così storici e giuristi hanno definito i matrimoni che, innumerevoli tra il XIV e il XVI secolo e molto oltre, finirono davanti ai tribunali ecclesiastici per reclamare un giudi-

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zio di validità, o la sanzione di un vincolo inesistente. Tutti narravano di cerimonie disparate, di legami avviati dopo gesti diversi, ognuno tuttavia provvisto di un richiamo alla vita coniugale o agli antichi passaggi del processo matrimoniale, a testimonianza di consuetudini nuziali non informali16, ma creativamente adattate – a seconda dei contesti e delle circostanze – a forme giuridiche e canoniche sedimentate. Non bastava, tuttavia. Ogni cerimonia lasciava dubbi, incertezze, margini sufficienti alla contestazione, alla revoca. Le narrazioni storiche centrate sull’analisi delle norme ricompongono un quadro nell’insieme coerente, che dalla Gallia della prima cristianità alla Germania del tardo Medioevo arricchisce con riti locali un atto fondato sull’affermazione del consenso e sulla benedizione religiosa17; ma le ricerche ispirate alla passione quantitativa che ha alimentato per decenni la storiografia anglosassone contano che nel XIV secolo circa il 70% dei matrimoni portati nei tribunali ecclesiastici in una comunità inglese era stato celebrato in ambienti privati18; e gli studi che in una prospettiva di storia sociale tematizzano la formazione del matrimonio offrono scenari disomogenei e conflittuali, in cui ognuno – sposo o testimone, o semplice partecipante – può collocare quasi a suo piacimento il momento costitutivo delle nozze. Così il fiorentino Gregorio Dati racconta le sue nozze come un continuum di avvenimenti che addensano e integrano alcune tappe del matrimonio romano senza individuarvi la scansione che autorizza il rapporto carnale: «A dì XXXI di marzo 1393 la compromisi e giurai, e a dì 7 d’aprile, che fu lunedì di Pasqua, le diedi l’anello: fu il notaio ser Luca Francieschi. E a dì 22 di giugno seguente in domenica, dopo nona, ne venne a marito col nome di Dio e di buona ventura»19. Più im16 D. Quaglioni, «Sacramenti detestabili». La forma del matrimonio prima e dopo Trento, in Matrimoni in dubbio. Unioni controverse e nozze clandestine in Italia dal XIV al XVIII secolo, a cura di S. Seidel Menchi e D. Quaglioni, Il Mulino, Bologna 2001. 17 Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit. 18 M.M. Sheehan, The Formation and Stability of Marriage in FourteenthCentury England: Evidence of an Ely Register, in «Medieval Studies», n. 43, 1971. 19 Cit. in G. Ruggiero, I confini dell’eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Marsilio, Venezia 1988, p. 46.

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mediati potrebbero apparire i comportamenti nuziali dei giovani poveri nella Venezia del Rinascimento: i quali facevano seguire la copula a una semplice promessa, e spesso invertivano i fattori, «regolarizzando» con una promessa una relazione carnale avviata a volte da una violenza20. Più confusa la vicenda nuziale vissuta e combattuta da due giovani padovani alla metà del Quattrocento: apparentemente – o fraudolentemente – ignari di procedure acquisite celebrano una prima volta le nozze in casa del padre della sposa, dove lo sposo, secondo il racconto di lui, le infila un anello al dito e poi consuma il matrimonio. Ma i dubbi sono molti, dall’età della sposa, che non si sa se abbia compiuto o no i dodici anni minimi, alla validità di una cerimonia che dalla narrazione appare improvvisata e sbrigativa. Per creare quell’«effetto di reale»21 che risulta ancora insufficiente, la ragazza prende allora a raccontare in giro l’accaduto, così che se ne diffonda la fama; e per maggiore sicurezza, il matrimonio viene celebrato una seconda volta, festeggiato con un banchetto e poi ancora consumato. Nonostante tutto questo, la sua validità sarà impugnata proprio dalla sposa, che deciderà di ritirarsi in convento. Secondo Marietta Soranzo, invece, che nel 1460 ricorre al tribunale ecclesiastico di Venezia per ottenere il riconoscimento della validità del suo matrimonio con Girolamo da Mula, le nozze sono valide perché sono state celebrate «Con mutuo consenso e parole legittime»22; ma non esistevano, prima del Concilio di Trento, «parole legittime» che offrissero formule universalmente valide; tanto più che l’ignoranza dei fedeli rendeva a volte impossibile individuare la declinazione verbale adatta a distinguere i verba de praesenti da quelli de futuro23. Così la Chiesa prestava attenzione e fiducia ai gesti: al tocco della mano (l’impalmamento: in una notte d’estate del 1535, in Valsugana, una giovane aveva acIvi, p. 49. R. Barthes, L’effetto di reale, in Il brusio della lingua. Saggi critici 4 (1984), Einaudi, Torino 1988; cfr. C. Cristellon, La sposa in convento (Padova e Venezia, 1455-1458), in Seidel Menchi e Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio, cit., p. 130. 22 S. Chojnacki, Valori patrizi nel tribunale patriarcale: Girolamo da Mula e Marietta Soranzo, ivi, p. 212. 23 Lombardi, Matrimoni di antico regime, cit., p. 200. 20 21

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colto nel suo letto l’innamorato a condizione che egli «ge tochasse la man de esser suo marì»24), allo scambio degli anelli (nel 1548 si erano sposati così, scambiandosi la fede sulla pubblica via, due ortolani bolognesi25), al bere insieme, magari rompendo subito dopo il calice, come voleva anche un’antica usanza ebraica, allo scambio di doni, in particolare fazzoletti che venivano poi usati dalla sposa per asciugare il sangue dopo il primo rapporto sessuale26, al bacio della sposa, così denso di significato da dar luogo al matrimonio per osculum, secondo cui era sufficiente baciare violentemente e pubblicamente una ragazza per creare un impegno vincolante27, agli appellativi usati nell’interlocuzione fra gli innamorati, alla pubblica fama, a tutti quegli alia signa attraverso i quali poteva essere manifestato il consenso, e su cui i giuristi invitavano a indagare con meticolosità. Sintesi storiografiche recenti illustrano con chiarezza i margini di manipolazione che l’ambiguità delle norme offriva ai fedeli: poteva anche succedere – scrive Lloyd Bonfield – che la coppia discutesse se il matrimonio fosse stato realmente contratto perché uno dei partner (oppure tutti e due) aveva cambiato idea: si era pentito e non intendeva essere più sposato, o forse voleva essere libero per poter sposare un’altra persona. Nei casi in cui veniva contestata l’esistenza stessa del matrimonio il punto più spinoso era la questione della prova: non essendo stata richiesta la presenza di testimoni, il fatto che il consenso fosse stato pronunciato al presente poteva essere provato, certe volte, solo dai due partner. Così, se a voler porre fine al matrimonio erano tutti e due, potevano semplicemente mettersi d’accordo (e naturalmente un accordo in questo senso non era consentito perché il matrimonio, una volta contratto, era indissolubile) e mentire, negando di aver espresso il consenso con il verbo al presente. Se i due avevano coabitato potevano negare addirittura di essersi scambiato il 24 A.M. Lazzeri e S. Seidel Menchi, «Evidentemente gravida». «Fides oculata», voce pubblica e matrimonio controverso in Valsugana (1539-1544), in Seidel Menchi e Quaglioni (a cura di), Matrimoni in dubbio, cit., p. 314. 25 L. Ferrante, Gli sposi contesi. Una vicenda bolognese di metà Cinquecento, ibid. 26 Lombardi, Matrimoni di antico regime, cit., p. 209. 27 O. Niccoli, Baci rubati. Gesti e riti nuziali in Italia prima e dopo il Concilio di Trento, in Il gesto nel rito e nel cerimoniale dal mondo antico ad oggi, a cura di S. Bertelli e M. Centanni, Ponte alle Grazie, Firenze 1995.

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consenso, presente o futuro, e subire la condanna per fornicazione pur di non perdere l’opportunità di liberarsi da una unione non più voluta.28

Davanti a indizi tanto fragili e contraddittori i giudici ecclesiastici si trovavano a volte a prendere decisioni sofferte, e a rimetterne la responsabilità «alla coscienza delle parti, poiché esse sole sanno se è stato stipulato un matrimonio valido in coscienza e davanti alla chiesa trionfante»29; anticipando così quella distinzione tra foro interno e foro esterno che diventerà consapevolezza condivisa soltanto dopo il Concilio di Trento. Nella visione dei vescovi e degli ecclesiastici riuniti a Trento la normazione delle cerimonie nuziali non costituiva probabilmente un obiettivo prioritario; essa rappresentava semmai uno strumento, un corollario indispensabile all’attuazione di progetti più complessivi. In primo luogo, la supremazia definitiva nelle competizioni con altre sovranità: i regni, le famiglie. Principi e re non avevano manifestato fino ad allora un interesse specifico per la formazione del matrimonio, preoccupati più che altro di non invadere un campo riservato agli interessi dei nobili; da secoli ormai il potere secolare aveva rinunciato a ogni facoltà legislativa e giurisdizionale in merito, limitandosi – laddove, come a Parigi o in alcune zone dell’Inghilterra, esistevano tribunali laici deputati a discutere cause matrimoniali30 – ad applicare le norme canoniche e le prescrizioni della Chiesa. L’autorità dei padri appariva invece un ostacolo più difficile da superare per affermare pienamente il monopolio ecclesiastico sul matrimonio; la volontà del pater familias decideva ancora di nozze e di alleanze, e il gradimento alle scelte familiari da parte dei giovani appariva come un’opzione non indispensabile. Una contraddizione pesante per la Chiesa, divaricata tra la difesa prioritaria del consenso nell’accedere al sacramento e l’altrettanto pressante necessità di predicare l’obbedienza dei figli all’interno del28 L. Bonfield, Gli sviluppi del diritto di famiglia in Europa, in Storia della famiglia in Europa. Dal Cinquecento alla Rivoluzione francese, a cura di M. Barbagli e D.I. Kertzer, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 134. 29 Cristellon, La sposa in convento, cit., p. 146. 30 Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., pp. 105-106.

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l’ordine familiare. I matrimoni clandestini si moltiplicavano, provocando tensioni e gravi casi di coscienza, così che nelle sedute conciliari il dibattito sulla questione fu particolarmente denso e impegnativo, e la decisione finale conservò un certo margine di ambiguità: i matrimoni contratti dai figli senza il consenso dei genitori furono dichiarati validi, anche se sempre «detestati e proibiti» dalla Chiesa31; e soprattutto – naturalmente anche allo scopo di contrastare i matrimoni clandestini – le nozze dovevano essere pubbliche e solenni, celebrate in facie Ecclesiae dal «parroco proprio» (cioè dal parroco della parrocchia di uno degli sposi o da un altro sacerdote purché appositamente autorizzato dal vescovo), il quale alla presenza di almeno due testimoni avrebbe interrogato gli sposi e dopo averne ricevuto il consenso li avrebbe uniti con la formula di rito. I decreti emanati a Trento affermarono dunque il primato della Chiesa cattolica su ogni questione matrimoniale, dalla formazione della coppia all’indissolubilità dell’unione sancita secondo i canoni, affidando in tal modo alle gerarchie ecclesiastiche un potere inedito e assoluto sul governo delle famiglie. Venivano così formalizzate le strutture di base della famiglia moderna: la natura del vincolo e gli obblighi che ne derivano, la distribuzione di responsabilità e prerogative tra genitori e figli. L’attuazione dei decreti tridentini fu lenta e contrastata, e aprì un territorio nuovo, in cui i fedeli, uomini e donne, affinarono o acquisirono una sapienza specifica, che si esercitò con i giudici dei tribunali ecclesiastici in un’attività secolare di negoziazione e di mediazione. Non soltanto per far riconoscere ancora la validità di un matrimonio clandestino o per cercare di dimostrare la nullità di un’unione ormai intollerabile; ma anche e soprattutto per porre, sotto infinite forme e varianti, la questione del matrimonio presunto. Il Concilio infatti non si era pronunciato a proposito del fidanzamento, di quella promessa per verba de futuro che in tante vicende – soprattutto fra i ceti popolari – costituiva l’unico atto «formale» capace di avviare e in qualche modo autorizzare il rapporto sessuale e poi la vita coniugale. E tale comportamento rimase in molti contesti prassi condivisa, anche dopo che la Con31

Ivi, p. 217.

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gregazione del Concilio – istituita da Pio IV subito dopo la sua chiusura per continuarne l’opera e garantire l’attuazione delle sue delibere – abolì la validità giuridica del matrimonio presunto, sostenendo che l’atto sessuale non poteva possedere la pubblicità necessaria a garantire la notorietà dell’impegno per il presente32. Carenze, ambiguità e contraddizioni delle risoluzioni tridentine che, se da un lato ne sfumano la capacità periodizzante, dall’altro evidenziano una novità determinante: attraverso i canoni emanati dal Concilio – e paradossalmente anche attraverso le loro lacune e i margini aperti all’interpretazione – la Chiesa si era dotata di uno strumento formidabile per attuare nei secoli a venire una vera e propria politica della sessualità.

4. La morale coniugale nel Seicento La vita matrimoniale aveva finalmente un inizio riconoscibile. E questo inaugurava una incombenza nuova: l’amministrazione della sessualità coniugale. La continenza, predicata ai laici come forma inferiore ma accettabile rispetto alla castità, doveva trovare cataloghi e regole, formule sicure per collocare ogni atto sulla scala della rettitudine o del peccato. Si apriva un nuovo ambito, una nuova responsabilità per chi, canonista, confessore o predicatore, si concedeva di penetrare nella relazione tra i coniugi e sezionarla, scomporne gesti, motivazioni e finalità, elencarne legittimità e pericoli. Fiorirono, a partire dalla fine del Cinquecento, trattati e summae destinati non solo a interpretare i dettati tridentini, ma a superarli, sviscerando una materia finalmente circoscritta fino a casistiche vertiginose di divieti e licenze. I teologi dell’antichità e del Medioevo, costretti ad accettare l’unione coniugale come remedium concupiscientiae, avevano disquisito se l’atto sessuale tra moglie e marito costituisse almeno peccato veniale: pur riuscendo a tenere a bada fantasie innominabili che durante la copula potevano sostituire al coniuge l’immagine di un’altra persona, era impossibile – sostenevano – uscire puri dall’amplesso, da quell’on32

Cfr. infra, cap. V, par. 2.

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data di piacere fisico che comunque neutralizzava, seppure per un attimo, la vigilanza della coscienza cristiana. Ed era certamente peccato mortale avvicinarsi al corpo del coniuge per cercarvi esclusivamente quel piacere. La teologia morale dei secoli XVI e XVII trovò nel matrimonio un oggetto d’elezione. Cominciò l’agostiniano Alonso de la Vera Cruz, che nel 1571, subito dopo la chiusura del Concilio di Trento, avvertì l’esigenza di integrare il suo Speculum coniugiorum, pubblicato quindici anni prima, con una Appendix, secondo l’autore rivolta ai missionari nelle Indie americane, ma in realtà il primo testo che proponeva una sistematizzazione dei dettati tridentini33. Continuarono, con maggiore spessore teorico e scientifico, i teologi della cosiddetta seconda Scolastica, gesuiti spagnoli soprattutto, che dalla metafisica al diritto, dalla patristica alla dottrina dei sacramenti, elaborarono per il cattolicesimo della Controriforma basi teoretiche e prospettive filosofiche rinnovate: a partire dalla seconda metà del XVI secolo Francisco Suárez, Gabriel Vázquez de Belmonte e Gaspar Hurtado offrirono riferimenti dottrinali che canonisti e moralisti utilizzarono per tutto il Seicento e oltre. Ma il primato – e l’innovazione profonda – nella trattatistica seicentesca sul matrimonio spetta ancora a un gesuita spagnolo, Tomás Sánchez, autore di De sancto matrimonii sacramento disputationum tomi tres, pubblicato per la prima volta a Madrid nel 1605 e poi riedito in diverse città d’Europa per tutto il secolo. Ristampe che testimoniano del grande successo dell’opera – la quale fu applaudita anche da papa Clemente VIII – e persino della sua valenza politica: dall’edizione di Venezia del 1614 il governo della Repubblica veneta fece escludere un paragrafo in cui l’autore sosteneva il diritto del papa di legittimare gli illegittimi a prescindere dall’intervento dell’autorità civile. L’eliminazione provocò l’ira del pontefice e la messa all’Indice, nel 1627, del terzo volume di quell’edizione34. Il trattato di Sánchez subì inoltre at33 Alonso de la Vera Cruz, Appendix ad Speculum coniugiorum per eundem fratrem Alfonsum a Veracruce, ordinis aeremitarum Sancti Augustini..., Mantuae Carpentanorum, excudebat Petrus Cosin, 1571. 34 Sánchez, Tomás, in Enciclopedia cattolica, vol. 10, Ente per l’Enciclopedia cattolica e per il libro cattolico, Città del Vaticano 1953.

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tacchi violenti perché considerato scandaloso, troppo esplicito nei particolari scabrosi della materia; ma rimase un riferimento obbligatorio per tutta la teologia morale successiva. La sua novità risiedeva nelle premesse teoriche e nelle conclusioni che ne venivano fatte discendere: come molti gesuiti dell’epoca, l’autore si rifaceva alla fisiologia e alle teorie ippocratiche della riproduzione, in opposizione alla sistemazione dottrinale aristotelica35, e ciò implicava l’esaltazione dell’orgasmo, maschile e femminile, ai fini della generazione. Mentre infatti per Aristotele la riproduzione è causata esclusivamente dall’emissione del seme maschile, indipendentemente dal godimento che l’uomo può provare, e nessun piacere o fluido femminile è necessario al concepimento, Ippocrate e poi Galeno ritenevano che l’orgasmo di entrambi fosse indispensabile, nell’uomo per emettere il seme, nella donna per meglio aprire l’utero e ricevere il fluido vitale36. Le conseguenze di tale approccio nell’elaborazione della morale cristiana furono dirompenti. Non si trattava più, come avevano sostenuto tutti i teologi medievali, di sopportare il piacere, si trattava invece di ricercarlo per garantire la procreazione; non si trattava più di disprezzare il corpo e di mortificarlo, ma di accettarne gli impulsi e la sensualità; e tutto ciò poneva Sánchez al di fuori di quella scala omogenea di tolleranza che aveva fino ad allora aggregato tutti i moralisti. La concezione del matrimonio offerta dal gesuita spagnolo è enunciata subito, nel Proemium della sua opera, dove elenca nomi, sinonimi e definizioni: matrimonium, perché la donna si sposa per essere resa madre; nuptiae o connubium, dalla consuetudine di velare la vergine al momento della celebrazione delle nozze; coniugium, dalla congiunzione di due persone in una sola carne37. Al centro della riflessione dunque spiccano la procreazione e l’at35 V. Marchetti, L’invenzione della bisessualità. Discussioni tra teologi, medici e giuristi del XVII secolo sull’ambiguità dei corpi e delle anime, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 4. 36 T. Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud (1990), Laterza, RomaBari 1992, pp. 56-68. 37 Cito dall’edizione Tomás Sánchez, De sancto matrimonii sacramento disputationum tomi tres, Lugduni, Sumptibus Philippj Borde, Laurentij Arnaud & Claudij Rigaud, 1654, vol. I, Liber primis, De sponsalibus, p. 1.

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to sessuale, quella copula che esige un’analisi attenta e originale. L’ordine discorsivo è quello appunto delle disputationes, discussioni approfondite di dubbi e questioni dottrinali, giuridiche e morali, dibattute riportando in dettaglio le posizioni espresse da filosofi, canonisti e Padri della Chiesa e infine risolte in una posizione univoca e dirimente. I primi libri, dedicati alla sistematizzazione dei canoni tridentini, dalla teoria del consenso ai matrimoni clandestini, dalle donazioni tra coniugi agli impedimenti matrimoniali e alle dispense, si dilungano spesso sulle implicazioni della consumazione e dell’impotenza, esaltando comunque il significato e il valore dell’amplesso, che occupa a sua volta tutto il libro nono. De redditione debiti coniugalis è il titolo. E la prima disputatio va dritta al cuore del problema, discutendo la qualità dell’atto e proponendone una attribuzione che aggrega in una sintesi sottile religione, morale e diritto, e misura così la distanza tra l’autore e il pensiero medievale. Anche se non mancano – sostiene Sánchez – Dottori cattolici che insegnano che l’atto coniugale non può essere immune da colpa, seppure veniale, a causa dello sfrenato piacere sensuale che vi si prova, esso è invece meritorio: gode di santità sacramentale perché significa la congiunzione di Cristo con la Chiesa, è anzi dotato della grazia del sacramento, perché è capace di trasformare gli sponsali in matrimonio, ed è inoltre un atto di giustizia, perché soddisfa l’impegno contratto attraverso il patto matrimoniale38. Da qui un insieme di discussioni su casi e circostanze, quali voti o impedimenti, che potrebbero rendere illecito l’amplesso; ma l’atto in sé è sempre lecito, ripete Sánchez, e per non essere costretto a proibirlo ricorre alla distinzione tra il coniuge che lo richiede e colui che lo rende, distribuendo così opportunamente innocenza e responsabilità. Il marito cui per un voto di castità contratto dopo il matrimonio è interdetto richiedere la copula «può ciononostante penetrare la moglie, e offrirsi all’uso coniugale, e anche chiedere a lei il debito, non per sé né per obbedire al proprio desiderio, ma per compiacere la moglie, e non renderle il matrimonio un peso insopportabile»39. 38 39

Ivi, Liber nonus, p. 171. Ivi, p. 191.

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Motivazioni e finalità dell’amplesso costituiscono infatti un nucleo consistente e decisivo di argomentazioni. Si comincia con il fare spazio, aprire spiragli lampeggianti a una concezione dell’atto coniugale non orientata esclusivamente alla procreazione: è lecito unirsi nella copula soltanto per significare l’unione del Verbo con la carne o con la Chiesa? O solo per evitare la fornicazione? O per ristabilire la salute del corpo? Le risposte sono caute ma chiare: colui «che usa il matrimonio né espressamente ricercando, e neanche escludendo la prole, ma che di essa immemore copula con il coniuge in quanto coniuge pecca in misura minima»; ed «è lecito l’accesso, ove non sia stato possibile contenersi con un mezzo più facile»40. Per concludere, con argomentazioni tanto sofisticate quanto tortuose, che il peccato è mortale esclusivamente se il coniuge si congiunge con l’altro trascinato dalla passione, al punto che sarebbe disposto a unirsi ad esso anche se non fosse il proprio consorte; del resto, «il piacere non è male in sé, visto che la natura stessa sagacemente lo ha annesso all’atto al fine della procreazione [...]: così come ha posto piacere nel cibo, per la conservazione dell’individuo»41. Sesso e cibo tornano in un abbinamento opposto a quello medievale: se fino a pochi secoli prima gli alimenti, pervadendo gli intestini di umori sapidi e grassi, eccitavano per contiguità gli organi sessuali provocando bramosie fisiologicamente irrefrenabili e vergognose42, ora, insieme al godimento sessuale, sono doni benevoli della natura. Il piacere è anzi così importante che l’autore si diffonde in discussioni e raccomandazioni perché sia perseguito e raggiunto, da parte sia dell’uomo che della donna: infatti, anche se non indispensabile alla generazione, il seme femminile la facilita di molto, così che la sua effusione deve essere stimolata e ottenuta. Ma è peccato mortale – puntualizza una delle disputationes – non pervenire simultaneamente al piacere? La risposta trasforma l’argomentazione in un testo di educazione sessuale: «è un giusto proposito adoperarsi affinché il seme di entrambi sia effuso simultaneamente: per cui il

Ivi, pp. 193-196. Ivi, pp. 197-198. 42 Cfr. C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, Torino 2000. 40 41

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coniuge più lento nell’emettere il seme deve preoccuparsi di eccitarsi con toccamenti venerei prima dell’amplesso, in modo da potere nell’amplesso stesso emettere il seme contemporaneamente all’altro»43. Il piacere femminile è un dono della natura, e anche se non è obbligatorio per l’uomo aspettarlo, «non pecca affatto il marito che, sapendo di effondere il seme prima della femmina, ne eccita i genitali [...]. È obbligatorio per il marito continuare la copula, anche se ha già emesso il seme, finché non lo faccia la donna. Perché ciò serve alla completa consumazione della copula da parte della moglie»44. La liceità della copula coniugale ha dunque il potere di autorizzare anche quelli che il lessico contemporaneo chiamerebbe preliminari e fantasie: toccamenti, sollecitazioni dei genitali, immagini e parole licenziose sono ammessi al fine di prepararsi all’amplesso, e costituiscono colpa veniale se compiuti per puro piacere; è colpa veniale persino l’autoerotismo, se agito pensando al coniuge assente e nella speranza che arrivi presto per congiungersi con lui45. Purché il tutto non comporti il pericolo della polluzione. La proibizione infatti regna categorica soltanto per l’effusione del seme maschile al di fuori della vagina, che contraddice irrevocabilmente il fine ultimo della copula, e per la penetrazione anale che, sostiene Sánchez, appartiene all’ordine della lussuria, e non può in alcun modo essere recuperata nella classe dei preliminari. Anche se alcuni dei pareri riportati nella disputatio sostengono che una copula cominciata in modo sodomitico, ma con l’intenzione di concluderla nella vagina, costituisca peccato solo veniale, il gesuita concorda con chi afferma che «culpam esse lethalem sodomiae inchoatae» (è peccato mortale di sodomia iniziata), perché la sodomia non può essere riferita all’atto coniugale essendo intrinsecamente pervertita, contro natura, peggiore della fornicazione; la moglie è moglie non per un simile congiungimento, ma solo per la copula intra vas legitimum, e il matrimonio rende ciascun coniuge padrone non dell’intero corpo dell’altro, ma soltan43 Tomás Sánchez, De sancto matrimonii sacramento, cit., Liber nonus, p. 217. 44 Ivi, p. 218. 45 Ivi, p. 303.

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to dei suoi genitali46. Finalmente dunque proibizioni e tabù, a rassicurare le aspettative di un senso comune che immagina l’elaborazione cattolica – a maggior ragione dopo la Controriforma – ispirata a repressioni e divieti. L’interpretazione di un testo così sorprendente esige riflessioni forse più ampie. Ripreso e citato a profusione per tutto il Seicento, criticato per scabrosità e lassismo, De sancto matrimonii sacramento è parte di un progetto sofisticato, che non trova certo i suoi confini nell’elaborazione di norme morali sulla sessualità coniugale. Parte da origini lontane, dall’embriologia ippocratico-galenica già ripresa dall’archiatra pontificio Realdo Colombo – che nel 1559 aveva riaffermato la necessità dell’orgasmo femminile per garantire la procreazione47 – e silentemente accettata dalle gerarchie ecclesiastiche; ma di quella teoria non si limita a trarre conseguenze lineari sul piano della teologia morale. L’opera di Sánchez rientra invece in un disegno – sviluppato principalmente proprio dai gesuiti – che mentre esalta con rigore e inflessibilità la castità del clero legittima il piacere nel matrimonio dei laici, sezionandolo nello stesso tempo in una casistica dettagliata, in un insieme complicato di condizioni, clausole, eventualità. Affiora così un progetto che intende approfondire la distinzione tra clerici e laici, e che della vita mondana moltiplica e sfuma i confini tra il lecito e l’illecito; esimendo i fedeli dall’obbedienza automatica a regole universali e consegnando definitivamente le coscienze all’autorità dei confessori. I contrasti violenti tra purezza e corruzione che avevano caratterizzato la trattatistica medievale si sono ammorbiditi, evaporati in una normativa del particolare e del possibile che costituirà uno degli strumenti più potenti della politica cattolica della sessualità. La teologia morale si è saldata con il processo di disciplinamento sancito e accelerato dalla riforma tridentina: l’interiorizzazione delle norme e della colpa, i dilemmi del foro interno della coscienza, l’intima inquietudine tra innocenza e peccato sono ormai il fardello di ogni cattolico, solo transitoriamente alleggerito dal lavacro della confessione. Ivi, p. 217. Realdi Columbi Cremonensis... De re anatomica libri 15, Venetiis, ex typographia Nicolai Beuilacquae, 1559. 46 47

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5. Il sesso in confessionale Disciplina dell’anima, disciplina del corpo48. Alcuni tra i più autorevoli storici del cristianesimo e della civiltà occidentale hanno così definito la direzione di un ampio movimento di forze che a partire dagli ultimi secoli del Medioevo presero a convergere verso un nucleo capace di attirare e organizzare quelli che sarebbero divenuti i tratti distintivi della coscienza individuale moderna: l’interiorizzazione di norme e precetti morali, di colpa e responsabilità, l’acquisizione di una consapevolezza intima, personale, del bene e del lecito, del moralmente oltre che del socialmente accettabile, su cui plasmare scelte e comportamenti. Fu un processo lungo, che nel suo affinarsi permeò pressoché tutta l’età moderna, e che in una delle lunghe tappe del suo percorso – tra il XVI e il XVII secolo – stabilì tra l’altro discriminanti decisive tra le società cattoliche e le società toccate dalla Riforma protestante. Fu caratterizzato soprattutto da strumenti nuovi, adeguati alla vastità e alla molteplicità dei mutamenti che comportava: una nuova concezione, o meglio una nuova relazione con il corpo e la corporeità, e una nuova, dirompente, pratica religiosa, la confessione auricolare. Disciplinamento è il termine scelto dagli addetti ai lavori per nominare questo processo, un termine che forse evoca indebitamente una volontà coerente e univoca, oscurando il carattere meticcio, plurale, della nascita dell’uomo occidentale moderno. A questa concorsero infatti culture sviluppate in contesti diversi: l’Umanesimo e il Rinascimento, nel loro più rigoglioso fiorire delle arti e del pensiero filosofico, l’elaborazione di nuovi modelli di comportamento e di percezione di sé nelle società di corte (la civiltà delle buone maniere descritta da Norbert Elias49), soprattutto le dottrine, la concezione della norma morale, gli strumenti di controllo che in quei secoli si svilupparono all’interno del cristianesimo. Alcuni studiosi, anzi, hanno ritenuto di individuare proprio nelle «radici spirituali della cristianità medievale» le 48 Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra medioevo ed età moderna, a cura di P. Prodi con la collaborazione di C. Penuti, Il Mulino, Bologna 1994. 49 N. Elias, La civiltà delle buone maniere (1969), Il Mulino, Bologna 1982.

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origini del «processo di disciplinamento» che coinvolse «in diverso modo e per diverse strade tutta la società europea»50; tuttavia, più che discutere sul motore primo di un movimento così ampio e complesso, è forse importante riconoscerne le tracce, inseguirne le implicazioni. Fu intorno al XII secolo che segni di novità apparvero proprio tra le mura dei monasteri, riguardanti la rappresentazione del corpo, dei suoi rapporti con lo spirito cristiano: nelle regole di benedettini, francescani, domenicani e di altri ordini la lotta feroce combattuta per tutto il Medioevo contro la carne e le sue immonde pulsioni parve stemperarsi nella ricerca di un equilibrio conciliativo e cooperante. Secondo la devotio moderna l’anima e il corpo vivono in profonda simbiosi, e dunque «a ogni movimento e positura del corpo deve corrispondere un’affezione dello spirito. Perciò, mettendo a freno le manifestazioni fisiche esteriori degli impulsi e dei pensieri peccaminosi anche l’anima poteva imparare a resistere e, col tempo, vincere quegli impulsi e quei pensieri»51. Non più dunque disprezzo e mortificazioni, ma tensione a un’unità armonica di corpo e anima, di comportamenti e di attitudini interiori: la disciplina, come venivano chiamati i criteri posti alla base delle nuove regole, spezzava il circuito infinito di cadute e penitenze, ponendo fine all’assedio cui dalla tarda antichità il corpo sottoponeva lo spirito cristiano. Finché la disciplina divenne modestia, un insieme di comportamenti ispirati al decoro e alla compostezza e capaci di infondere una sorta di autocontrollo, che dagli atteggiamenti esteriori si sarebbe trasferito agli istinti, ai desideri, all’anima; un modello pedagogico universale che uscì dai conventi per diffondersi nelle città, portato da catechisti e chierici non solo ai ricchi e potenti, ma anche agli umili, ai giovani, alle donne, agli spiriti meno in grado di padroneggiare le virtù razionali più impegnative52. La pedagogia della modestia fu sviluppata, articolata, diffusa con zelo nel Cinquecento, in risposta alla Riforma protestante: era parte es50 P. Prodi, Presentazione, in Idem (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, cit., p. 9. 51 D. Knox, Disciplina: le origini monastiche e clericali del buon comportamento nell’Europa cattolica del Cinquecento e del primo Seicento, ivi, p. 69. 52 Ivi, p. 74.

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senziale di quel disegno di rinnovamento profondo che prese forma con il Concilio di Trento e che mirava a fare di ogni fedele un cristiano obbediente e disciplinato. Pur addomesticato dalla modestia, il corpo rimaneva tuttavia preda facile di pulsioni corruttrici, e la sua disciplina non poteva da sola domare gli istinti più profondi e insopprimibili; strumenti più sottili erano necessari per purificare l’anima da una convivenza comunque contaminante, per trasferire il rispetto di norme morali e comportamentali dal controllo esteriore delle comunità all’intimo dominio degli impulsi, per acquisire una consapevolezza personale del lecito e dell’illecito. A tutto questo seppero provvedere un senso antico, connaturato alla fede cristiana, quello del peccato, e una pratica nuova e sofisticata, la confessione. Protetta dal segreto, la confessione si svela all’indagine storica soltanto attraverso le fonti normative: testi – rivolti ai fedeli per meglio prepararsi al sacramento e rivolti soprattutto al clero che lo amministra – che mostrano una sostanziale continuità per tutta l’età moderna. «Il cristianesimo – ha scritto Jean Delumeau in un’opera divenuta un classico – [...] fece del peccato una rivolta della volontà umana alla volontà di un Dio personale, e tale rivolta non si manifestava solo con atti esterni, ma anche con pensieri e sentimenti. Il cristianesimo creò i termini peccator e peccatrix, che non esistevano nel latino classico e che man mano che passava il tempo assunsero nella nuova civiltà un’importanza straordinaria»53. Si avviò così l’elaborazione lunga e meticolosa della classificazione dei peccati, che gli specialisti di teologia morale distinsero in carnali e spirituali, di pensiero, parola e opere, contro Dio, contro se stessi, contro il prossimo, fino alla grande partizione stabilita da Agostino tra crimina levia, quotidiana, venalia, che sfiorano la legge di Dio senza offenderla veramente, e crimina letalia, mortifera, che a tale legge si contrappongono totalmente. Ma una dottrina del peccato esigeva una dottrina della penitenza e del riscatto, la cui messa a punto si prolungò ancora per secoli54: nel cristianesi53 J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo (1983), Il Mulino, Bologna 1987, p. 348. 54 Cfr. V. Lavenia, L’infamia e il perdono. Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 2004.

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mo delle origini i peccati venivano confessati al vescovo e poi espiati in forma pubblica, con abiti speciali e in genere all’inizio della Quaresima, con un’enfasi che induceva spesso a rimandare il più possibile la penitenza, fino all’avvicinarsi della morte; poi, intorno al V secolo, prese a diffondersi nei monasteri la figura del direttore spirituale, cui confidare inquietudini e trasgressioni con una pratica che di fatto apriva la strada alla confessione privata, alla dimensione segreta della confessione e dell’espiazione. Tuttavia, fino al XII secolo la confessione e l’attuazione della penitenza prescritta rimasero solo uno dei modi possibili per ottenere la remissione dei peccati, accanto alle elemosine, al digiuno, alla preghiera. Un elemento era divenuto tuttavia essenziale per mondare l’anima e purificarla da ogni peccato: il pentimento, enfatizzato proprio a partire dal XII secolo come espressione di consapevolezza e umiliazione interiore, come sofferenza profonda della coscienza. Proprio questi sentimenti anzi divennero via via la componente distintiva della confessione, fino a eliminare la penitenza e a far seguire alla contrizione, immediatamente, il perdono. Dalla drammatizzazione pubblica dell’espiazione ai territori più intimi della coscienza, un grande mutamento era avviato. Nel 1215 infine il canone 21 Omnis utriusque sexus del quarto Concilio Lateranense prescrisse che ogni fedele doveva confessarsi almeno una volta l’anno al proprio parroco. Occorreva dire, enunciare analiticamente tutti i peccati commessi55, e dunque prepararsi all’evento ripercorrendo nel raccoglimento interiore atti, pensieri, intenzioni, per misurarli con le leggi di Dio e i precetti della Chiesa: era la pratica dell’esame di coscienza, che avrebbe lentamente contribuito a fondare in ogni cristiano il senso di sé e della propria biografia. Parte attiva e determinante dell’interlocuzione nel confessionale era tuttavia anche il sacerdote, cui spettava il compito delicatissimo di interrogare, spiegare, catechizzare, profittando di un dialogo personale di cui il confessore stesso determinava ritmi e durata. Non tutti i sacerdoti in cura d’anime erano preparati alla nuova incombenza; fiorì così a partire dal XIII secolo una vasta letteratura sul peccato, presto organizzata 55 Cfr. R. Rusconi, L’ordine dei peccati. La confessione tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 2002.

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in indici tematici, lemmi, glossari: veri e propri manuali destinati a formare i confessori e profondamente diversi dai penitenziali medievali, i quali si limitavano ad affiancare a ogni peccato la penitenza corrispondente secondo tariffari prestabiliti. Alla secca contabilità dell’espiazione doveva sostituirsi ora la valutazione ponderata di contesti e intenzioni, così da garantire il giudizio esatto dei peccati ed evitare ricadute: dal diritto la casistica si diffondeva alla teologia morale, e infatti Summa de casibus poenitentiae era il titolo di una delle prime e più famose opere della categoria, scritta nella prima metà del Duecento dal domenicano catalano Raimond de Peñafort ed editata in innumerevoli versioni fino al Quattrocento. Nel frattempo le Summae confessorum, redatte da francescani e domenicani soprattutto, erano divenute un genere, diffuso in Spagna, Italia, Germania e Francia, destinato a mettere a punto una teoria della confessione nello stesso momento in cui se ne porgevano le istruzioni d’uso56. Fino alle soglie dell’età moderna però la teoria e la riflessione pedagogica rivolte ai confessori sembrano distanziarsi dall’esperienza concreta dei fedeli; nella pratica del sacramento la dimensione sociale, pubblica e riconciliativa continuò a prevalere sullo scavo interiore e sull’intimo travaglio della colpa e del pentimento57, favorita forse dalle condizioni materiali in cui si svolgeva la confessione: il colloquio – con un prete che si conosceva bene e si frequentava quotidianamente, in spazi per nulla riservati o separati dal resto dei fedeli che frequentavano la chiesa – diventava spesso un’occasione di confronto sui comportamenti comunitari più che di indagine sulle ombre della coscienza. Un mutamento sostanziale avvenne nel Cinquecento, con l’enfasi sulla confessione posta dal Concilio di Trento e soprattutto con l’introduzione del confessionale. Le indicazioni dei Padri conciliari ribadirono e irrigidirono le prescrizioni tardo-medievali sulla confessione annuale resa al proprio parroco58, affermandone il 56 M. Turrini, Il giudice della coscienza e la coscienza del giudice, in Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, cit. 57 Bossy, L’Occidente cristiano, cit.; cfr. anche J. Bossy, Storia sociale della confessione nell’età della Riforma, in Id., Dalla comunità all’individuo. Per la storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, Einaudi, Torino 1998. 58 A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996.

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carattere di atto giudiziario: «Il confessore era un giudice: il Concilio di Trento aveva ribadito questa definizione e aveva anche insistito sull’obbligo per i penitenti di descrivere con precisione le loro colpe»59. Il confessore dunque doveva interrogare, e interrogando spiegare, inculcare le norme etico-religiose della dottrina cristiana, risvegliare la coscienza del peccato60: la confessione divenne strumento di formazione dei fedeli e di informazione del clero, soddisfacendo quella «volontà di sapere» che era parte determinante del progetto di disciplinamento post-tridentino. La sede del nuovo «tribunale» era il confessionale, introdotto nel Cinquecento dal cardinal Borromeo61 e poi istituzionalizzato nel 1614 (con il Rituale Romanum, il manuale di liturgia che seguiva il Rituale Ambrosianum del 1584). «Siano posti detti Confessionali in luogo della Chiesa talmente aperto, che da ogni parte si veggano; e se con questo si può insieme fare, che siano in luogo dove abbiano qualche riparo, che mentre alcuno si confessa, impedisca gli altri d’accostarsi troppo vicino al Confessionale, si faccia: altrimente dov’è questo abuso, sarà uffizio del Confessore levarlo, con far scostare le genti troppo vicine, prima che si metta à sedere nel Confessionale, & anche mentre ascolta le confessioni, se l’occasione lo ricercarà»62: la «nuova tecnologia»63 era destinata a separare fisicamente l’atto della confessione dal resto della chiesa e – con un’apposita griglia i cui buchi dovevano avere «all’incirca la misura di un pisello» – il confessore dal penitente, al fine di garantire la privatezza del dialogo e soprattutto di evitare qualunque eccitazione di carattere sessuale. Circostanza probabile, dato che il sesso era, doveva essere, uno dei temi più trattati. Ivi, p. 273. H. Schilling, Chiese confessionali e disciplinamento sociale. Un bilancio provvisorio della ricerca storica, in Prodi (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo, cit., p. 157. 61 W. de Boer, La conquista dell’anima: fede, disciplina e ordine pubblico nella Milano della Controriforma (2001), Einaudi, Torino 2004. 62 Avvertimenti di S. Carlo per li confessori Stampati d’ordine della felice memoria di Papa Innocenzo XII e publicati Dalla ch.me. dell’Em ˜ o, e Rm ˜ o Sig. Card. Carpegna Suo Vicario [...], Quarta edizione [...], in Roma, MDCCXXII, Nella Stamperia della Reu. Camera Apost., p. 8. 63 Bossy, L’Occidente cristiano, cit., p. 72. 59 60

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Se il pentimento, la sofferenza bruciante per i peccati commessi, era l’obiettivo esplicito della confessione, il senso di colpa era ritenuto lo strumento più valido per raggiungerlo; una condizione dell’anima che in ogni cattolico doveva essere costante e generalizzata, così da meglio prepararlo ad anelare e a ricevere il perdono e la grazia. E nulla era efficace a instillare il sentimento della colpa quanto la sessualità, il linguaggio della carne di cui ognuno conosce gli alfabeti. Già alla fine del Quattrocento in un penitenziale anonimo era scritto che la fornicazione è un peccato «più detestabile dell’omicidio e del furto, i quali non sono atti sostanzialmente cattivi»64. Nella sterminata manualistica post-tridentina poi, una tardiva Istruzione pratica per i confessori novelli, Operetta utilissima ancora per i catechisti di gente rozza riassume con sagace buon senso il metodo e il ritmo dell’operazione: Quello, che importa, è [...] soprattutto che la Confessione si faccia con spirito contrito ed umiliato: perciò io comincio le mie interrogazioni dal peccato che più fa vergognare, e più suole umiliar l’uomo. Già m’intendete. E qui dopo essermi informato di che anni cominciò a capirne la malizia, vado scorrendo per tutte le specie diverse (si vada però adagio e cautamente coi giovani) quei fatti da se; quei fatti con altri del medesimo o di sesso diverso, di stato libero o nò; con parenti e in che grando [sic]; o con bestie di qualunque specie. Ricavato all’ingrosso, se non si può esattamente, il numero de’ peccati di opere, passo a quei di pensieri, desiderj, compiacenze, occhiate maliziose, discorsi, motteggi, equivoci, canzoni, vanti con grave scandalo di chi li udì &c. E qui, sospeso per un poco l’esame faccio considerare il numero innumerabile di tutti i peccati insieme di questa sola specie [...] e perciò quante volte siasi meritato l’inferno per questo capo solo, e la gran misericordia di Dio, che glielo ha risparmiato per tanto tempo, e lo ha aspettato a penitenza [...]. Così umiliato da principio e penetrato dalla moltitudine de’ suoi peccati, ed ammirato della bontà di Dio verso di lui, si trova benissimo disposto a proseguire tutto il resto della Confessione...65.

Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 390. Istruzione pratica per i confessori novelli, [...] Operetta utilissima ancora per i catechisti di gente rozza Scritta dal Sacerdote Filippo Maria Salvatori e dedicata al zelantissimo Patriarca S. Ignazio di Loyola fondatore della Compagnia di Gesù, 64 65

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Non solo preliminare al pentimento, la confessione dei peccati della carne occupa per tutta l’età moderna un posto di rilievo nella letteratura per i sacerdoti e in quella per i penitenti; e se alcuni storici hanno contato le ricorrenze dei comportamenti sessuali nelle pastorali del Seicento e del Settecento attribuendo loro il primato66, le gerarchie di rilevanza dei peccati in epoca posttridentina appaiono mobili, e ancora in gran parte da ricostruire67. Si trattava in primo luogo di individuare e di classificare i delicta carnis: a questo si dedicarono molti dei teologi che a partire dalla seconda metà del Cinquecento fissarono contenuti e regole del sacramento della penitenza. Non moechaberis, non fornicherai. Le infinite declinazioni del desiderio sessuale sono elencate da Carlo Borromeo con una minuzia che privilegia le circostanze e i partner – e tra questi ovviamente i parenti, che aggiungono l’incesto alla fornicazione – più che i modi e le tecniche del peccato, facendo seguire a ogni caso la penitenza relativa, secondo un ordine contabile che si richiama ancora ai penitenziali medievali. «Se qualcuno si sarà lavato nei bagni con una donna, faccia penitenza per tre giorni»; ma anche «La donna che fornica da sola, o con un’altra donna, farà penitenza per due anni. L’uomo che si corrompe, se lo fa per la prima volta farà penitenza per dieci giorni; se lo ripete per venti giorni, se lo fa per la terza volta per trenta giorni»68 (ma l’uomo che si veste da donna e la donna che si traveste da uomo dovranno vivere per tre anni da penitenti69). Atti contro natura e abusi sono ovviamente considerati con rigore, con accenti tuttavia che introducono categorie nuove: le differenze – sociali e di stato civile, oltre che di genere – tra i peccatori, e la capacità transitiva della colpa, che dal corruttore si diffonde sulla vittima, contaminandola della stessa infamia. «Il piccolo fanciullo oppresso da un individuo più Terza edizione romana Accresciuta dall’Autore medesimo [...], in Roma, MDCCCIII, Nella Stamperia Salomoni, pp. 320-321. 66 Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 770. 67 Bossy, L’Occidente cristiano, cit. 68 Ex Actis Ecclesiae Mediolanensis Parte Quarta Ubi S. Carolus instruit Confessarios quomodo Sacramentum Poenitentiae ritè administrare debeant Canones Poenitentiales, in Avvertimenti di S. Carlo per li confessori, cit., pp. 96-102. 69 Ivi, p. 108.

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grande d’età, digiunerà per una settimana: se avrà consentito, per venti giorni», mentre chi avrà copulato con un animale farà penitenza per dieci anni o più, a seconda della sua condizione, e «chi avrà copulato contro natura; se è un servo, sarà castigato con la frusta; e farà penitenza per due anni; se è libero, e coniugato, per dieci anni; se è celibe, per sette anni»70 e così via, secondo distinzioni che sembrano anticipare il principio di responsabilità. I diversi generi di penitenti sono il fulcro di preoccupazioni pastorali e di raffinate tecnologie71. Il cardinal Borromeo conosceva bene l’ignoranza della maggior parte del clero soprattutto nei confronti della confessione, di cui i preti trascuravano obblighi e regole al punto da suscitare l’allarme dei Padri conciliari riuniti a Trento; e nelle sue Avvertenze ai confessori (pubblicate per la prima volta nel 1574) mise a punto un insieme di strumenti mirati ad amministrare il sacramento nella forma più completa e perfetta, riconoscendo cioè le caratteristiche dell’interlocutore e in base a quelle modulando interrogazioni, prediche e castighi. In primo luogo, per meglio penetrare l’anima occorre saper «leggere» il corpo72, e dunque riconoscere dall’abbigliamento i segni interiori della preparazione al pentimento e quelli esteriori della condizione sociale e lavorativa; ogni mestiere infatti comporta specifiche occasioni di peccato, e tra essi le arti militari sono quelle che più espongono alla fornicazione, comportando spesso la frequentazione di meretrici. La distinzione dei mestieri secondo l’esposizione al peccato raggiungerà vertici inauditi circa due secoli dopo, quando Alfonso de’ Liguori dedicherà un capitolo della sua Istruzione, e pratica per li confessori alle domande da farsi «secondo i diversi stati», elencando minuziosamente i rischi di ogni occupazione: «se viene un Sartore, se gli dimandi [...] se forse gli è occasione prossima di peccare il prender la misura alle Donne»73; «Se viene un Barbiere, o Parrucchiere, se gli dimandi [...] se fa la testa alle Donne, secondo l’uso maledetto oggidì inIvi, p. 100. P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 335-336. 72 Boer, La conquista dell’anima, cit., p. 62. 73 Istruzione, e pratica per li confessori Opera dell’Illustriss., e Reverendiss. Monsig. D. Alfonso De’ Liguori [...], Tomo Terzo [...], Edizione Nona [...], in Bassano, MDCCLXXX, a spese Remondini di Venezia, p. 119. 70 71

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trodotto dal Demonio? Io tengo che (comunemente parlando) ciò sia a’ Giovani occasione prossima di peccare mortalmente con compiacenze sensuali, o almeno con cattivi desideri [...]. Con tutto ciò procuri il Confessore di rimuoverlo quanto può da un tal mestiere, che in se certamente è pericoloso»74. È lo stato civile l’oggetto dell’indagine più sofisticata. I pericoli del matrimonio, degli atti commessi nello svolgimento della copula coniugale, sono una costante di lungo periodo nel pensiero di teologi, canonisti e predicatori: erano in molti a vedere l’inferno popolato soprattutto da uomini e donne sposati, al punto che, al confessore che le chiedeva perché nelle sue visioni i coniugati fossero puniti più severamente degli altri peccatori, santa Caterina rispose «perché non lo sanno bene e non ne provano pentimento come per altri peccati, e, quindi, vi soccombono più spesso»75. La colpa tuttavia – e dunque la delicatezza della condizione matrimoniale – risiede tanto negli eccessi quanto nel rifiuto: qualche decennio più tardi san Francesco di Sales esorta madame Brûlart, moglie del presidente del Parlamento di Borgogna, ad accettare di buon grado i propri doveri coniugali, perché «una persona coniugata può compiere miracoli, ma, se non adempie gli obblighi che ha verso il coniuge [...] è peggiore di un infedele»76 e, aggiunge in un impeto di insopprimibile sensualità, «non si conviene alle rose essere bianche, ma ai gigli. Le rose sono più belle e profumate quando sono carminie»77. Anche i vedovi, e soprattutto le vedove, sono posti sotto speciale osservazione: «La vedova, che si diletta degli atti del matrimonio passati, non pecca mortalmente: percioche ella si diletta dell’opere, ch’allora le erano lecite. Ma nondimeno, se per quella dilettatione, ella entrasse in pericolo di pollutione avvertendone essa, peccherebbe mortalmente; esponendosi à simil pericolo. Ma, se perciò sorgono i moti della sensualità, imaginandosi d’esser presente col marito ne gli atti carnali, se ne diletta, allhora pecca»78. Occasione assai prossima di peccato è anche la condizione Ivi, p. 120. Citato in Delumeau, Il peccato e la paura, cit., p. 398. 76 Francesco di Sales, Lettere a donne sposate, a cura di F. Mariotti, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 29. 77 Ivi, p. 45. 78 Prima parte del memoriale della vita christiana: composta dal R.P. Fra Lui74 75

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degli sposi promessi, che Alfonso de’ Liguori fa oggetto di esortazioni e minacce quando, nella prima metà del Settecento, la copula dopo la promessa si collocava su un crinale incerto fra tolleranza e peccato79: «E qui avvertono i Confessori a non permettere agli Sposi l’andare in casa della Sposa, né alle Spose, o a’ loro Genitori, l’ammettere gli Sposi in casa, perché di rado succede che tali Sposi non pecchino, almeno con parole o pensieri in tale occasione, mentre tutti gli aspetti e colloquj tra gli Sposj sono incentivi al peccato: ed è mortalmente impossibile trattare insieme, e non sentir gli stimoli a quegli atti turpi, che debbono poi succedere in tempo del Matrimonio»80. Apprensione, fonte costante di timori e inquietudini è poi l’interrogazione delle donne81. Affiancate nei testi ai fanciulli in tipologie che ne esaltano innocenza e inconsapevolezza – ma campeggianti in più profonde rappresentazioni come eterna origine di peccato –, le donne sono oggetto di direttive specifiche. «Sia particolarmente cauto – raccomanda Carlo Borromeo al confessore – e avvertito nel modo, che deve interrogare donne, e putti, acciò non gl’insegni quel che non sanno...»82. E se la cautela necessaria con i fanciulli può essere facilmente articolata in un susseguirsi di domande per così dire preconfezionate («se han dette male parole? Se han fatte burle con altri figliuoli, o figliuole? e se quelle burle le han fatte di nascosto? e con toccarsi l’un l’altro? [...] Con chi dormano, e se nel letto hanno burlato con le mani?»83), la relazione con le donne penitenti comporta pericoli particolari, esige tecniche più complesse. Perché è la confessione stessa allora che diventa occasione di peccato. La differenza tra i sessi era «la principale categoria atta a spiegare l’imposizione della pubblicità della confessione e la consegi di Granata [...], Trattato secondo, Della penitenza e confessione, in Tutte l’opere del R. Padre fra Luigi di Granata dell’Ordine di San Domenico [...], In Vinetia appresso Gabriel Gioito di Ferrario, MDLXXII, p. 101. 79 M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Laterza, RomaBari 1994. 80 Istruzione, e pratica per li confessori, cit., pp. 87-88. 81 Cfr. A. Malena e D. Solfaroli Camillocci, La direzione spirituale delle donne in età moderna: percorsi della ricerca contemporanea, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», XXIV, 1998. 82 Avvertimenti di S. Carlo per li confessori, cit., p. 22. 83 Istruzione, e pratica per li confessori, cit., p. 121.

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guente realizzazione strutturale del confessionale»84. Già nel Concilio di Trento, nella sessione del 1547, si era discusso di gravi casi in cui i confessori avevano sedotto le confitenti durante la pratica sacramentale, e si era raccomandato di disquisirne in modo riservato, «per non rivelare la nostra vergogna»85; e poco dopo, nel 1575, Niccolò Ormaneto, ex assistente di Carlo Borromeo, dalla corte spagnola aveva inviato un rapporto allarmato alla Curia romana: «da diverse parti molte persone di buon zelo lacrimano meco la gran abominatione di molti huomini impii che violano il sacramento della penitentia, tentando nell’atto della confessione et fuori d’essa di satiar il suo sfrenato et bestial appetito con figliuole spirituali»86. Insomma, da purificazione dell’anima la confessione poteva diventare corruzione e lussuria: perché, come per una intrinseca capacità transitiva la colpa poteva diffondersi dal corruttore sulla vittima, così desiderio ed eccitazione potevano trasferirsi dalla penitente al confessore, corrompendolo e macchiando d’abominio l’intero sacramento. Dunque, per evitare lo spettro della sollicitatio ad turpia che poteva colpire tanto il prete quanto la donna che si accostava al sacramento, il confessore doveva essere prudente «sia con la penitente [...] sia con se stesso [...] nel porre domande su argomenti che possono far cadere gli incauti in tentazione», ammoniva il gesuita Juan Alfonso Polanco in un suo testo rivolto ai confessori87; e alcuni decenni prima il cardinal Caetano aveva porto esempi espliciti: «Se [...] una donna confessa di essere stata conosciuta al di fuori del vaso naturale, ciò è sufficiente, e non si deve chiederle in quale parte del corpo»88. Concludeva Carlo Borromeo: «E ne i peccati carnali, insieme con la prudenza, [il confessore] deve usare molta cautela in non cercar altro, quando averà inteso la specie del peccato, e le circostanze grandemente aggravanti»89, mettendo a punto una direttiva che spiega l’inattesa laconicità dei manuali sui temi minuziosamente sviscerati dai moralisti coevi. Boer, La conquista dell’anima, cit., p. 99. Citato ivi, p. 100. 86 Citato ivi, p. 101. 87 Citato ivi, p. 103, nota 45. 88 Citato ivi, p. 103. 89 Avvertimenti di S. Carlo per li confessori, cit., p. 21. 84 85

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Non solo attraverso le parole, tuttavia, la tentazione poteva propagarsi dall’uno all’altro soggetto del sacramento: e se il contatto fisico – compresa la rituale imposizione delle mani al momento dell’assoluzione – era stato abolito dalla rigida struttura del confessionale, lo sguardo e la vista potevano ancora attraversare le strette maglie della grata e turbare i sensi del confessore. Già alcune Summae medievali avevano raccomandato che le penitenti si inginocchiassero non di fronte al prete, ma di fianco, per impedire ai loro sguardi di incrociarsi; nella pratica post-tridentina poi il confessionale fu perfezionato da uno spesso panno posto a coprire la grata, così che in nessun modo il confessore potesse vedere la penitente, perché «il volto della donna è come un vento che brucia la pelle»90. Sarà di nuovo Alfonso de’ Liguori, citando Tommaso d’Aquino, a descrivere quella penitenziale come una scena di seduzione: «il Demonio al principio non manda saette apertamente avvelenate, ma solo quelle che alquanto feriscano, e accrescano l’affetto; ma in breve tali persone giungono a segno, che non più trattano insieme cogli Angeli, conforme han cominciato, ma come vestiti di carne; vicendevolmente si guardano, e si feriscono le menti con parole blande, che sembrano ancor procedere dalla prima divozione. Quindi l’uno comincia ad appetire la presenza dell’altro; Sicque [...] spiritualis devotio convertitur in carnalem»91. Diversità dei penitenti, pratiche della confessione: i fuochi della letteratura penitenziale dal Cinquecento in poi sembrano convergere su un’esteriorità che lambisce soltanto la pur predicata contrizione, quell’intervento sulla coscienza di donne e uomini che la teologia pone al centro del sacramento e del programma pastorale post-tridentino. Affiorano così ambizioni e ambiguità della disciplina cattolica. Le ambizioni in primo luogo: di governare le fantasie, oltre che le coscienze e i comportamenti, di tutti i fedeli. Della riformatione della imaginatione è il titolo di uno dei capi del Libro secondo della Guida de’ peccatori di Luigi di Granata:

90 91

Antonino da Firenze, citato in Boer, La conquista dell’anima, cit., p. 106. Istruzione, e pratica per li confessori, cit., p. 138.

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l’imaginatione [...] è una di quelle potentie della nostra anima, che restaron più disperse per lo peccato, & meno soggette alla ragione. Donde nasce ch’ella molte fiate si parte da casa, come schiavo fuggitivo senza licenza; & non sì presto lo cerchiamo che egli è gito per lo mondo, & parimente una potentia molto appetitosa, & bramosa di pensare tanto quanto gli occorre avanti à guisa di cani golosi, i quali di continuo vanno cercando, & trovando, & in ogni loco vogliono porre la bocca, & quantunque alle volte sieno battuti fieramente, nondimeno sempre tornano al mal costume. È parimente una potentia molto libera, & sciolta, come una bestia salvatica, che va di luogo in luogo, senza volere sopportare il capestro né Signore che la governi.92

Eppure è necessario imbrigliare una così copiosa e ribelle fonte di peccato; e la dilettatione morosa, il peccato di mollizie, occupa pagine decisive nei testi rivolti a confessori e penitenti. «La dilettatione morosa è quando la persona volontariamente si diletta cogitando di qualche atto disonesto [...]. La qual cogitatione è peccato mortale»93. Si trattava di forgiare l’immaginario sessuale dei cattolici porgendo a ognuno le categorie di classificazione di pensieri e desideri, bisognava codificare quella sensualità «minore» cui si rischiava di indulgere ritenendosi al riparo dall’atto peccaminoso; e dunque occorreva mettere sullo stesso piano l’agito e il fantasticato: «e se [...] s’immagina una vergine è stupro, se coniugata è adulterio, se monaca è sacrilegio, se parente o affine o consanguinea è incesto, e così altre, anzi il più delle volte pecca in un solo atto, quante volte il pensiero e l’affetto si trasporta in diversi oggetti»94. Arginare fantasie e desideri poi era tanto più importante in quanto costituiva un riparo sicuro da uno dei pericoli più gravi per l’anima e per il corpo dei fedeli: quello della polluzione95. Le ambiguità della disciplina cattolica si mostrano con maggiore evidenza nelle contraddizioni tra pubblicità e segreto, tra 92 Guida de’ peccatori nella quale s’insegna tutto quello che debbe fare il Christiano dal principio della sua conversione, fin al fine della sua perfettione, in Tutte l’opere del R. Padre fra Luigi di Granata, cit., pp. 80-81. 93 Prima parte del memoriale della vita christiana, cit., p. 100. 94 F. Toledo, Instruttione de’ sacerdoti e penitenti, citato in P. Lucà Trombetta, La confessione della lussuria. Definizione e controllo del piacere nel cattolicesimo, Costa & Nolan, Genova 1991, p. 77. 95 Cfr. infra, cap. IV.

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scandalo e riparazione. La concessione dell’assoluzione esigeva che venissero denunciati i complici dei peccati, anche dei peccati sessuali, e che la promessa di non ricadervi fosse affidabile; i confessori che intendevano seguire rigorosamente la regola però provocavano spesso tensioni e conflitti. Nel 1641 una lettera anonima denuncia alla Curia arcivescovile di Milano il prevosto Galbiati, colpevole di abuso e violazione del segreto confessionale: «Confessando questo Proposto un huomo [...] e trovandolo in fornicazione, vuole [...] che il confitente gli dica il nome della Donna, il che recusando il confitente più volte, et instando con gran romore [...] si faceano sentire in tutta la ghiesa dove le persone si moveano a grandissimo riso; all’ultimo il Proposto minacciando costui che non l’assolverà, se non gliene dice, et comandandogliene sotto pene gli trasse di bocca non solamente il nome di lei, ma del padre et il luogo dove ella stava»96. Le conseguenze di tanto zelo inquisitoriale toccano naturalmente anche le relazioni familiari, perché per evitare il ripetersi delle fornicazioni il prete informa tutti: e «di simili revelationi fatte in confessione a i mariti delle mogliere, a i fratelli delle sorelle, ai padri e alle madri delle figliuole e dei nomi di coloro che con esse peccano [...] sono stati per uscire grandissimi scandali, e vi sono pur hora grandissime inimicitie»97. Il solerte rigore di Galbiati appare tuttavia un caso relativamente isolato, degno appunto di polemiche e denunce, perché i peccati sessuali esigono invece un’estrema discrezione. Tra i «casi riservati» – quei crimini cioè la cui assoluzione era prerogativa non del confessore ma di più alte gerarchie ecclesiastiche, cui il caso doveva essere inviato – figuravano il concubinato, la prostituzione, il tentato aborto, l’incesto; ma proprio in tali occasioni esplodeva la contraddizione tra due necessità opposte, quella di sottolineare la gravità della colpa e garantire dalla ricaduta, e quella di proteggere l’onore delle famiglie e la quiete delle comunità. Era la seconda esigenza spesso a prevalere; perché inviare il caso in curia poteva equivalere a rivelare il segreto. Nel 1579 il prevosto di un piccolo centro lombardo, essendo venuto a co96 Citato in E. Brambilla, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Il Mulino, Bologna 2000, p. 504. 97 Ivi, p. 506.

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noscenza che un uomo prima di sposarsi aveva avuto rapporti sessuali con la sorella della moglie (un incesto tra affini), chiede se debba costringere i coniugi alla separazione, precisando che il fatto è «segretissimo e conosciuto soltanto in confessione» e aggiungendo che la pubblicizzazione del peccato causerebbe «grande infamia alla famiglia» della donna. La risposta della diocesi è categorica: «in modo alcuno il confessore non deve separare detto matrimonio essendo il peccato occulto», ma il marito non potrà esigere il debito coniugale finché non avrà ottenuto la dispensa98. La risposta è anche prevedibile, perché il timore dello scandalo – la priorità di esibire un gregge disciplinato – era ormai un tratto distintivo della politica ecclesiastica post-tridentina, e prevaleva sulla gravità del crimine: ciò appare ancora più evidente in un caso di incesto che fu considerato di tale gravità da giustificare l’intervento personale dell’arcivescovo e il consulto del papa, probabilmente Pio V. Come riferiva Borromeo, una donna aveva avuto una figlia il cui padre era il figlio della donna stessa, il quale, a sua volta, aveva sposato la ragazza che era – nel medesimo tempo – sua figlia e sua sorellastra. Poiché evidentemente solo la madre era al corrente di questi fatti, il pontefice raccomandò che sia lei, sia il suo confessore, mantenessero il segreto su tutta la questione: il caso doveva essere trattato nella più stretta riservatezza del confessionale. Nella sua risposta, il papa non accennò in alcun modo all’eventualità che il doppio matrimonio incestuoso potesse essere sciolto, o che dovesse essere richiesta una dispensa matrimoniale. Possiamo tranquillamente supporre che la penitenza della madre dovesse rimanere segreta.99

L’infinita disponibilità della Chiesa a valutare ogni caso nella particolarità del suo contesto e delle sue conseguenze, ad accogliere la supplica del singolo prescindendo dall’universalità di regole e dettati, a considerare gli esiti del proprio intervento sotto il profilo dell’opportunità sociale e politica oltre che su quello individuale della coscienza, comincia a dispiegarsi con sfumature e articolazioni che troveranno varianti inesauribili nel corso dell’età moderna. 98 99

Citato in Boer, La conquista dell’anima, cit., p. 229. Boer, La conquista dell’anima, cit., p. 230.

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6. Versioni di una morale flessibile In origine le tariffe erano stabilite. Nel 1516, sotto il pontificato di Leone X, fu pubblicata la Taxa Camerae Apostolicae, un elenco del denaro dovuto alla Camera apostolica per ogni peccato di cui si volesse ottenere il perdono. Le colpe contemplate erano gravi e diverse – dall’omicidio al furto allo spergiuro –, così come varie e originali erano le possibilità di acquisto di dispense: il guercio che avesse voluto essere ordinato sacerdote avrebbe dovuto pagare 58 libbre e 2 soldi se privo dell’occhio destro, ma soltanto 10 libbre e 7 soldi per la mancanza dell’occhio sinistro, mentre era possibile cautelarsi comprando in anticipo l’assoluzione di ogni omicidio incidentale eventualmente commesso in futuro pagando 168 libbre e 15 soldi. I crimini sessuali occupano un posto di rilievo nel tariffario, declinati con analitica spregiudicatezza: «L’ecclesiastico che incorresse in peccato carnale, sia con suore, sia con cugine, nipoti o figliocce, sia, infine, con un’altra qualsiasi donna, sarà assolto, mediante il pagamento di 67 libbre, 12 soldi. Se l’ecclesiastico, oltre al peccato di fornicazione chiedesse d’essere assolto dal peccato contro natura o di bestialità, dovrà pagare 219 libbre, 15 soldi. Ma se avesse commesso peccato contro natura con bambini o bestie e non con una donna, pagherà solamente 131 libbre, 15 soldi». Una graduatoria questa ammissibile dalla sensibilità contemporanea soltanto ricordando l’orrore della Chiesa per la polluzione: la corruzione di bambini – consumata con un rapporto comunque infecondo – è meno grave della dispersione volontaria del seme in una copula potenzialmente riproduttiva. L’elenco prosegue con un’indicazione onnicomprensiva: «Per ogni peccato di lussuria commesso da un laico, l’assoluzione costerà 27 libbre, 1 soldo; per gli incesti si aggiungerà a coscienza 4 libbre»100. Intorno alla Taxa Camerae si sono accese polemiche violente: tra chi lo ritiene un documento autentico e completo, pubblicato al fine di aumentare l’informazione e accelerare così le procedure 100 Citato in P. Rodríguez, Verità e menzogne della Chiesa cattolica (1997), Editori Riuniti, Roma 1998, p. 263; l’autore, animato evidentemente da un forte intento polemico, non indica la fonte da cui ha tradotto il documento, il quale ha avuto peraltro numerose edizioni nel corso dei secoli, molte delle quali ap-

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di assoluzione; chi invece, preoccupato di difendere la Chiesa cattolica dall’accusa di simonia, lo colloca senz’altro tra i numerosi falsi prodotti all’epoca, magari proprio per offrire un appoggio alle accuse dei protestanti; e chi infine ne ridimensiona la portata, riferendo il tariffario non alle assoluzioni ma alle spese da sostenere per farsi redigere la supplica e inoltrarla alla Penitenzieria. Senza entrare in dispute filologiche, quel che importa rilevare è forse non l’autenticità ma la plausibilità del testo: il fatto che il percorso verso il perdono si snodasse attraverso istituzioni e procedure che contemplavano – per la scrittura, per la spedizione, o addirittura per la cancellazione dei peccati, in tappe diverse e ancora in parte da ricostruire – transazioni economiche e pagamenti. E che dunque oltre alle differenze di sesso, età, stato civile e mestiere, valutate per i penitenti, ne esistessero altre, altrettanto decisive: il censo, e soprattutto l’inserimento in reti di relazioni che consentissero l’informazione, l’appoggio, l’interlocuzione positiva con le istituzioni ecclesiastiche. La Sacra Penitenzieria apostolica era il primo tribunale della Santa Sede e il principale organo per il foro interno della penitenza, delegato a occuparsi dei casi riservati al papa; suppliche per ottenere assoluzioni, dispense e grazie potevano essere inviate anche in forma anonima, indicando il confessore cui inviare segretamente la risposta. I poteri della Penitenzieria – che in origine si estendevano al campo giudiziario – furono ridimensionati dal Concilio di Trento, che attribuì molte delle sue facoltà ad altre istituzioni riservandole l’autorità di concedere assoluzioni e dispense per censure e impedimenti occulti, da ottenersi con il sigillo della confessione e rigorosamente gratis101. Il tribunale della Dataria apostolica trattava anch’esso di dispense e assoluzioni, oltre che di benefici, pensioni, concessioni di abiti e insegne prelatizie e altre questioni di varia natura. I suoi funzionari erano chiamati «oracoli della voce e mente del Papa, quindi a loro si deve prestar piena fede, non solo perché provano, ma eziandio perché prevalgono a qualsiasi altra prova anche di teparse in paesi protestanti per alimentare le accuse di simonia rivolte alla Chiesa cattolica. 101 G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, vol. XIX, Venezia 1843, pp. 75-80.

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stimoni»102, e il tribunale stesso era chiamato Curia graziosa, perché la sua opera aveva come esito la concessione di grazie. Ogni supplica doveva essere redatta secondo stili e procedure particolari, e per ogni grazia si doveva pagare una tassa che, tolte le spese per gli impiegati interni, era poi devoluta ad altre congregazioni cardinalizie e a scopi di beneficenza. Il risultato era che chi poteva permetterselo si rivolgeva alla Dataria, offrendo un’elargizione capace di muovere l’interesse del tribunale; gli altri si rivolgevano alla Penitenzieria, cercando di ottenere la grazia in segreto e comunque senza spesa. Una parte consistente delle suppliche riguardava le dispense matrimoniali, e valutava spesso, in alchimie delicate di opportunità e diritto, i comportamenti sessuali. «La dispensa – sostiene nella prima metà del Seicento il canonista Pyrrhus Corradus, autore del trattato più autorevole sull’argomento, punto di riferimento per tutte le riflessioni successive – è un rilassamento del diritto», una mitigazione del suo rigore «che rende lecito l’illecito e possibile l’impossibile»103. Le leggi, infatti, solo apparentemente universali, possono a volte confliggere con la pubblica utilità, e richiedono allora considerazioni speciali, deroghe da accordare vagliando ogni caso secondo parametri variegati, elencati dalla Curia romana in un ordine preciso: in primo luogo i meriti della persona, poi la necessità, il luogo («per cui si concede qualcosa che non sarebbe concesso altrove»), il tempo, l’utilità della Chiesa, l’età, lo scandalo, il bene maggiore, il bene futuro, l’evento (il fatto compiuto, per cui «si dispensa più facilmente per le cose già fatte che per quelle ancora da fare»), la discrezione, la pietà, la misericordia, la religione104; tenendo bene a mente tuttavia, come scrive alcuni decenni dopo il cardinal De Luca, che «il tutto dipenda dalle circostanze particolari de’ casi, e dall’usanze de’ paesi, o da stili de’ tribunali»105. Le dispense matrimoniali sono concepite per derogare dalla rigida codificazione degli impedimenti, posti al matrimonio cristiaIvi, p. 109. Pyrrhus Corradus, Praxis dispensationum apostolicarum, cit., p. 2. 104 Ivi, p. 3. 105 G. Battista De Luca, Il Cardinale della S.R. Chiesa pratico, Roma, Stamperia della Rev.ma Camera Apostolica, 1680, p. 23. 102 103

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no a partire dall’alto Medioevo traendo ascendenze dal diritto romano. L’esasperato proibizionismo dei primi secoli, che estendeva divieti fino ai gradi più remoti della parentela106, fu progressivamente addolcito fino al Concilio di Trento, che come in altri campi della normativa matrimoniale sembrò introdurre gli assetti definitivi: tra gli impedimenti impedienti – quelli capaci non di invalidare, ma di rendere illecito il matrimonio – fu conservato il veto (una speciale proibizione del superiore ecclesiastico), il tempo (le scansioni del calendario religioso), gli sponsali (la promessa di matrimonio fornita solennemente a qualcun altro) e il voto di castità perpetua. Gli impedimenti dirimenti, che rendono nullo anche un matrimonio già contratto, sono più numerosi, affiancati in un insieme di sacro e profano, di rigori dottrinali e preoccupazioni terrene. Non è valido il matrimonio celebrato con una persona ritenuta per errore nobile o ricca, o di cui si ignorava la condizione servile, o estorto con la forza; pongono impedimento la disparità di culto, l’appartenenza a un ordine religioso, l’esistenza di un matrimonio precedente e non sciolto, l’adulterio con promessa di sposarsi alla morte del coniuge, e soprattutto la parentela: consanguineità, affinità, cognazione spirituale sono i vincoli di cui canonisti, preti e fedeli contrattano di continuo forza o inefficacia. La negoziazione deve seguire procedure stabilite, che salgono nella gerarchia ecclesiastica dal parroco al vescovo locale fino ai tribunali romani, scegliendo motivazioni concrete: nel 1581 Margherita Rusca, «essendo delle nobili di Bellinzona et di parentado nel quale vi sono stati Dottori di legge et di medicina et anche un arciprete honorato», deve sposare un cugino di terzo grado per non declassare il proprio casato107; e nel 1589 Antonio Paino di Peglio pur di accrescere il patrimonio familiare scarta tutti i pretendenti della figlia Pedrina e chiede la dispensa perché la ragazza possa sposare un cugino in secondo grado giustificandosi con il fatto che la ragazza non trovava in paese un partito di «pari conditione»108; nel 1621 poi Baldassarre Solaro e Antonio Aprile, che Cfr. J. Goody, Famiglia e matrimonio in Europa, cit. R. Merzario, Il paese stretto. Strategie matrimoniali nella diocesi di Como, secoli XVI-XVII, Einaudi, Torino 1981, p. 65. 106 107

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vivono in un piccolo insediamento sul lago di Lugano, «fecero un baratto tra di loro, cioè Baldissarro diede ad Antonio Jacomina, sua sorella [...] et per scontro esso Antonio diede a detto Baldassarro Cattarina sua [sorella]», realizzando con la benedizione della Chiesa la forma più elementare di scambio matrimoniale, il «vicendevole cambio di sorelle»109. I mercati matrimoniali stretti delle comunità rurali, le strategie patrimoniali e di lignaggio delle famiglie nobili, gli interessi economici più minuti di artigiani e bottegai, e le solidarietà parentali del popolo, fatte di vicinanza e accudimento, rendevano frequente in età moderna il ricorso a matrimoni proibiti, e dunque la necessità di dispense che ne garantissero la legittimità. Cugini e cognati soprattutto si rivolgevano alle gerarchie ecclesiastiche elaborando comportamenti e suppliche capaci di toccare le corde più sensibili della Chiesa, quelle che si tendevano tra lo scandalo e la sessualità. Colpa, dono divino, fragilità umana, diritto, minaccia, persuasione: in tutto il sistema teologico e politico del cattolicesimo la copula carnale trova forme di legittimazione inattese e coerenti, e le infinite sottigliezze che contraddistinguono la trattatistica cattolica post-tridentina – soprattutto per quanto riguarda le questioni matrimoniali, anche nel caso delle dispense – sembrano concepite tutte per dare spazio e potere all’incontro sessuale. È il coito a creare il vincolo, e dunque l’impedimento perpetuo, che rimane anche quando muore la persona attraverso cui è stato contratto. Ma il coito deve essere completo: il vincolo infatti «non nasce da una polluzione straordinaria, davanti, o intorno alle parti naturali, senza penetrazione», ma soltanto da una copula capace di generare, o «se con essa si realizza la commistione del sangue», anche «se la copula è eseguita con una donna istigata, o costretta, o inconsapevole, addormentata, ubriaca, pazza»110. Non il desiderio, non «toccamenti impudichi», neanche il reciproco consenso, ma una commixtio sanguinis comunque effettuata con una donna di nuovo e per sempre passiva e incosciente crea un legame di cui l’autore della Praxis si lancia in declinazioni vertiginose: Ivi, p. 64. Ivi, p. 68. 110 Pyrrhus Corradus, Praxis dispensationum apostolicarum, cit., p. 297. 108 109

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«Maria moglie di mio fratello è con me nel primo genere di affinità: se ora, morto mio fratello, sposa Francesco, Francesco medesimo sarà con me e con tutti i consanguinei di mio fratello nel secondo genere di affinità», e «se tale Maria muore, e Francesco sposa Costanza, allora anche Costanza sarà con me e con tutti i consanguinei di mio fratello, nel terzo genere di affinità»111. Non tutti i legami così costruiti creano impedimento, ma tutti i rapporti sessuali, sia coniugali che fornicari, creano legami: la sessualità gode comunque di una circolazione classificata, di cui si valutano volta per volta poteri e implicazioni. Una sessualità agita, consumata spesso proprio allo scopo di ottenere la dispensa; perché il fatto compiuto e la necessità prioritaria di evitare lo scandalo costituiscono potenti incentivi alla deroga ecclesiastica112. Così, se i meno abbienti usano la copula carnale – costruendo e confermando lo stereotipo che rappresenta il popolo sempre abbandonato a un’istintualità priva di mediazioni – per negoziare l’appoggio delle istituzioni della Chiesa, i più ricchi possono non soltanto rivolgersi al tribunale della Dataria e pagare la tassa corrispondente a ogni dispensa, ma soprattutto veder riconoscere i propri interessi come diritto, come causa legittima di eccezione. «È prassi notoria [...] – avverte Pyrrhus – che in tutte le pratiche per ogni grado va sempre specificata la qualità delle persone degli oratori, se siano nobili o cittadini di prestigio, o di famiglia onesta»113; tra le cause di dispensa predominano allora la difesa e l’accrescimento dei beni familiari, l’opportunità di «conservare status e patrimonio in una stessa parentela, senza mandarli attraverso la dote in un’altra famiglia»114. Ma attenzione: per muovere la disponibilità ecclesiastica alla dispensa i soldi in gioco devono essere proprio tanti: «L’ottava causa si ha quando l’oratrice sostiene una grave lite per la successione a beni di grande valore, e rischi di perderli per la mancanza di un uomo che prosegua la lite, e l’oratore voglia sposarla, e assumere e proseguire a proprie spese la lite. È ammessa perché il Papa ha il compito di vigilare che le liti Ivi, p. 298. M. Pelaja, Nozze in deroga, cit. 113 Pyrrhus Corradus, Praxis dispensationum apostolicarum, cit., p. 305. 114 Ivi, p. 316. 111 112

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abbiano come esito la pubblica utilità, riguarda soltanto questi motivi e beni consistenti, non viene concessa dispensa per beni modici»115. Trattati, summae, manuali si prodigano così a immaginare con minuzia puntigliosa eventualità e circostanze da classificare in dettaglio, per farle ricadere nel dominio della norma o, più spesso, per prevedere deroghe ed eccezioni. Il processo di giuridicizzazione del cattolicesimo avviato dal Concilio di Trento116 raggiunse il suo acme nel corso del Seicento, quando teologi e canonisti fissarono regole e procedure soprattutto nel campo della morale e del governo delle coscienze. Nello stesso tempo, proprio dall’enfasi giuridica prese nuova forma la casistica, la teoria cioè che nelle sue applicazioni estreme avrebbe reso evanescente la codificazione appena eretta. Furono i gesuiti ad avviare una elaborazione sistematica della nuova teologia morale: la cura da essi rivolta «all’esercizio della confessione aveva [...] posto all’ordine del giorno il problema del discernimento dei peccati negli infiniti spazi della coscienza individuale tra norme generali e casi specifici, che consentivano distinzioni tanto capziose da eludere la sostanza stessa dei principi morali»117. La casistica come ricerca sulla colpa o sull’esenzione dalla responsabilità poté poi travalicare i confini della confessione per toccare gli ambiti non sacramentali delle materie oggetto di giurisdizione ecclesiastica, le censure, le dispense, l’assoluzione dei peccati riservati. Raggiunse allora vertici inimmaginabili e si diffuse oltre l’ordine di Gesù: nel 1629 il teatino Antonino Diana pubblicò le sue Resolutiones morales, composte da circa ventimila casi di coscienza. Un’opera tanto ponderosa da meritare – qualche decennio dopo la pubblicazione – una distillazione secondo l’ordine «alfabetico e dottrinale», così da entrare come 115 Ivi, pp. 310-311. Per le norme che regolavano la potestà giuridica delle donne cfr. E. Holthöfer, La «cura sexus» dall’antichità al XIX secolo, in Soggetto e identità, a cura di A. Arru, Biblink, Roma 2008. 116 Cfr. Prodi, Una storia della giustizia, cit., e M. Turrini, La coscienza e le leggi. Morale e diritto nei testi per la confessione della prima età moderna, Il Mulino, Bologna 1991. 117 S. Pavone, I gesuiti dalle origini alla soppressione, 1540-1773, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 86.

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Summa Diana nelle biblioteche di prelati e laici dei secoli successivi. La sintesi realizzata risulta sorprendente nell’utilizzo spregiudicato dei concetti di volontà e responsabilità: «desiderare la morte naturale di un parente, non per il suo male, ma per qualche vantaggio temporale che deriverà dalla sua morte, non è peccato mortale; perché la morte è desiderata non per il male del prossimo, ma per il bene di colui che la desidera»118; dunque, «è lecito ad una madre desiderare la morte dei figli se per deformità, o idiozia non possano sposarsi conformemente al loro status»119. La stessa sottigliezza nell’individuare, nel suggerire l’intenzione, si applica al sesso e alla sua fisiologia: «la moglie può lecitamente chiedere e rendere il debito al marito, che senza il suo consenso suole alla fine della copula estrarre il membro, ed effondere fuori il seme, poiché essa coopera ad un atto che di per sé può diventare un bene»120. Ma è nel capitolo dedicato alla lussuria che i ricami diventano più delicati, perché su questo tema, come afferma l’autore, bisogna scendere nei particolari: i baci tra due persone libere, se non c’è pericolo di polluzione, o consenso ad atti ulteriori, non sono peccati mortali, purché non siano uniti a un forte ardore libidinoso [...]. Il piacere, che si avverte nei baci e negli abbracci, è meramente sensuale, consiste nella relazione con l’oggetto toccato, e non è altro che il piacere di una cosa morbida, tiepida, lieve, tenera, diverso dall’altro piacere turpe che è quello unito all’eccitazione della carne, in cui interviene lo spirito della generazione. Il tatto e i baci con il piacere del primo genere non sono libidinosi, e mortali, e quelli con il piacere del secondo genere sono mortali, dunque baci e abbracci non sono di per sé libidinosi [...] e si suppone che in essi manchi ogni intenzione e pensiero di voluttà venerea. Dunque, toccare cose molli, soavi e tiepide per il piacere che ne risulta natural-

118 Summa Diana. In qua opera omnia duodecism Partibus comprehenda Antonius Cotonius Siculus tertij Ordinis Sancti Francisci, necnon Andreas Guadagno S.T.D. Septem à primo, ceateris ab hoc expletis, IN unicum volumen, alphabetico simul & doctrinali ordine digestum & bipartitum, eodem Antonino Diana Panormitano clerico regulari [...] Notabili legentium commodo ac utilitate, arctarunt & eleganter remiserunt [...], Venetiis, Apud Benedictum Milochum, MDCLXXVI, p. 272. 119 Ibid. 120 Ivi, p. 258.

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mente non è mortale, e quindi neanche toccare le carni di altri, una volta escluso ogni altro fine e pericolo.121

Le eventualità contemplate si fanno poi più crude ed esplicite: se «strofinare i genitali degli animali per la curiosità di vedere il seme è peccato mortale», e «non è lecito ad una donna agitarsi dopo il coito con un uomo che non appena ha eiaculato ha estratto il membro dalla vagina, così da espellere il seme» né «strofinare i propri genitali con toccamenti impudichi per espellere il seme effuso», tuttavia «agitare il membro virile nell’orifizio posteriore è peccato mortale (anche se non c’è pericolo di polluzione), ma se lo si fa con l’animo di consumare nel vaso naturale non è mortale, poiché tale atto non comporta l’intenzione dell’agente»122. Sarebbe un errore di prospettiva collocare il senso complessivo di opere come questa nella tradizione dei manuali per confessori concepiti per calibrare le penitenze rispetto ai comportamenti. Perché il concentrare l’analisi sull’intenzione, sulle motivazioni interiori e sulla classificazione dei desideri piuttosto che sull’atto, rende i testi della casistica strumenti di costruzione di una nuova morale: un sistema normativo della coscienza in cui il singolo – il particolare – è al centro di valutazioni e negoziazioni che declinano di volta in volta l’applicabilità della legge universale del bene e del male.

121 122

Ivi, p. 610. Ivi, p. 611.

IV IL DISCIPLINAMENTO IMPOSSIBILE

1. La dissipazione del seme Come la schiuma del mare. «Il seme del maschio è infatti la schiuma del sangue, al modo dell’acqua che, rompendosi contro gli scogli, produce una schiuma bianca», così tra il VI e il VII secolo il vescovo di Siviglia Isidoro, grande erudito dagli interessi enciclopedici, riprendeva un’immagine classica della fisiologia tardo-antica consegnando alle scienze naturali e alla teologia del Medioevo una concezione della riproduzione tutta basata sulla teoria degli umori1. Non si trattava però di un semplice fluido corporeo: già alcuni secoli prima il cristiano Tertulliano aveva spiegato che «in un unico impeto, mentre tutto l’uomo è scosso, il suo seme spumeggia, traendo umore dalla sostanza corporale, calore da quella animale [...]. In quel momento [...] nell’ultima dirompente vampa di piacere, [...] non abbiamo forse la sensazione che una parte dell’anima esca fuori di noi?»2. Affine, nelle descrizioni più crude, al sudore, al fiato, all’urina, a tutte le secrezioni che garantiscono un’appropriata evacuazione degli umori corporei, lo sperma possiede qualità specifiche e superiori: lo spirito vitale, capace, nella concezione classica, di preservare forza e virilità; la potenza generativa, che fa dell’uomo lo strumento del divino nel donare la vita, al punto che tanto gli gnostici quanto la tradizione 1 T. Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud (1990), Laterza, RomaBari 1992, p. 73. 2 Tertulliano, De anima, 27, 25-27; 29-2.

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manichea vedevano nell’eiaculazione «la tappa finale della liberazione della luce/spirito dalla vile materia»3. Liquido immondo e prezioso, dunque, il seme maschile ha generato nella tradizione cristiana un’ambivalenza forte, a sua volta origine di inquietudini, di prescrizioni contraddittorie. Perché appare dotato, tra l’altro, di due poteri fondamentali nella rappresentazione dell’ordine generativo: quello di assicurare la legittimità, l’ordine paterno, ma anche quello di fluire dal corpo a prescindere dalla volontà, e di associarsi così al disordine del desiderio. Dunque, un umore anch’esso da disciplinare, ricercando un equilibrio impossibile tra la sua custodia – casta ma creatrice di ingorghi pericolosi per la salute – e un’emissione regolata: tre eiaculazioni all’anno – suggeriva un monaco citato da Cassiano – prive di fantasie erotiche sarebbero state appunto la media per un buon monaco4. Gran parte del dibattito tardo-antico e medievale sulla polluzione si iscrive così nella grande questione teologica sul libero arbitrio e sui suoi confini: delimitati dal sonno – che ottundendo la coscienza renderebbe incolpevole ogni emissione – oppure aperti a una vigilanza indefettibile, capace di dominare anche il sogno. Lo stesso dibattito rivela inoltre ansie e fantasmi incoerenti: quelli su una mascolinità – governata dalla ragione, superiore a una natura femminile sempre dominata dalle emozioni e da passioni corruttrici – irrimediabilmente sopraffatta da carnalità incoercibili, resistenti a ogni controllo, memoria perpetua della Caduta dalla grazia originaria; e quelli di un’esperienza sessuale passiva, opposta dunque al significato stesso della virilità. Immunditia, impurità che nel sonno o nella veglia sorprende lo spirito macchiando il corpo; Cassiano dedica una conferenza intera alle polluzioni notturne, questione decisiva perché non solo mette in dubbio la possibilità di avvicinarsi agli uffici divini, ma rivela soprattutto un’insufficiente capacità di dominare gli istinti più profondi. Voce isolata nel suo rigore e nelle sue ossessioni, egli parla ad asceti dei deserti bramosi di assoluto, proponendo una battaglia non tra il corpo e l’anima ma dell’anima con se stessa, e ponendo come obiettivo il dominio sulle immagini, sulle figure oniriche, sul corso spontaneo dei pensieri, sui sogni: le emissioni 3 4

Laqueur, L’identità sessuale dai Greci a Freud, cit., p. 339, n. 50. Brown, Il corpo e la società, cit., p. 382.

IV. Il disciplinamento impossibile

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notturne sono «il segno di un male che covava interiormente, al quale l’ora della notte non ha dato origine, ma che, nascosto nel più profondo dell’anima, riaffiora sotto il riposo del sonno, che rivela la febbre nascosta delle passioni contratte alimentandoci ininterrottamente di passioni malsane»; dobbiamo dunque «sforzarci di reprimere i moti dell’anima e le passioni della carne affinché la carne soddisfi le esigenze della natura senza suscitare voluttà, sbarazzandosi della sovrabbondanza dei suoi umori senza alcun prurito malsano e senza innestare una lotta per la castità»5. Finché l’assenza totale di polluzioni sarà il segno finale della santità: «Quia tu possedisti renes meos», scrive Cassiano citando i Salmi e indicando nella consegna a Dio dei reni – considerati il centro dell’energia sessuale – la vittoria definitiva sulla concupiscenza. È posto così, nei primi secoli della cristianità, un tema dominante che diverrà l’asse portante del governo della sessualità da parte della Chiesa: la relazione tra «il polo involontario, quello sia dei movimenti fisici, sia delle percezioni che si ispirano ai ricordi e alle immagini che si presentano e che, propagandosi nella mente, investono, richiamano e attirano la volontà; e, d’altra parte, il polo della volontà che accetta o respinge, si volge altrove oppure si lascia catturare, indugia, acconsente»6. L’essenziale non è il corpo ma la volontà e la memoria7, e «questi elementi vanno considerati con la massima attenzione», sosterrà Gregorio Magno, perché «bisogna ricordare che l’uomo [...] è schiavo e libero allo stesso tempo»8. I monaci combatteranno per sempre la loro battaglia contro le fantasie e le polluzioni, ma non fu questo il perno della predicazione medievale rivolta ai laici nel mondo. Altri spettri agitavano una Chiesa preoccupata di porre argini al pulsare dei corpi: occorreva prima di tutto governare gli aspetti sociali del desiderio, 5 Giovanni Cassiano, De Institutis Coenobiorum, VI, 11 e 22, citato in M. Foucault, La lotta della castità, in P. Ariès et al., I comportamenti sessuali. Dall’antica Roma a oggi (1982), Einaudi, Torino 1983, p. 32. 6 Foucault, La lotta della castità, cit., p. 29. 7 Brown, Il corpo e la società, cit., p. 397. 8 Gregorio Magno, Epistolae, PL XI, LXIV, col. 1200a, citato in Brown, Il corpo e la società, cit., p. 397.

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frenare adulteri e incesti che generavano conflitti nelle famiglie e nelle comunità, contenere ratti e stupri che rendevano incerta e violenta la paternità. Presunto e segreto, il piacere che deriva dall’abbandono solitario alle immagini carnali poteva essere più facilmente ignorato, taciuto, oscurato da altre priorità; anche perché gli uomini avvezzi alle pratiche con le donne erano ritenuti indenni dalla polluzione. Nei primi penitenziali, che i monaci dell’alto Medioevo scrivevano per chi come loro viveva recluso nei conventi, le emissioni notturne venivano poste in relazione con la somministrazione o l’assunzione dell’eucaristia: chi riceverà l’eucaristia dopo un’emissione notturna, scriveva Burcardo di Worms nel X secolo (Decretum, 5.42-43; 5.51), dovrà fare penitenza per sette giorni9. Con il passare dei decenni e dei secoli, tuttavia, la riflessione divenne più sofisticata, e associò con frequenza sempre maggiore la polluzione con il peccato di lussuria; soprattutto, cominciò a porla su un continuum semantico e dottrinale con la masturbazione. Il primo fu Villelmo de Montibus, vissuto tra il XII e il XIII secolo, che nei suoi trattati da un lato circostanziò e propose tariffe predefinite per ogni emissione: se il seme fosse fluito baciando una donna il prete avrebbe dovuto espiare con quindici «discipline», ma se il seme fosse fluito sulla carne nuda della donna o sui suoi vestiti, le «discipline» sarebbero divenute trenta, e ad esse si sarebbero dovuti aggiungere altri atti di espiazione; la stessa penitenza avrebbe dovuto essere imposta a colui che fosse arrivato all’eiaculazione «con la propria mano o con qualche altro sudicio movimento»10. Dall’altro lato, Villelmo de Montibus ritenne che il pericolo della polluzione non riguardasse esclusivamente religiosi e celibi, ma toccasse tutti gli uomini, e che tutti gli uomini dunque dovessero essere interrogati al riguardo in confessione. Si rivolgeva ai monaci invece il vescovo di Lincoln, Roberto Grossatesta, quando alla metà del XIII secolo scrisse un’opera destinata a orientarli nel loro personale esame di coscienza. Un testo sorprendente, scritto in prima persona a partire dalla propria esperienza di eccitazione sessuale, raffinato nel guidare all’introspezione lungo un percorso scandito dai cinque sensi: se la vista 9 Citato in J. Murray, Men’s Bodies, Men’s Minds: Seminal Emissions and Sexual Anxiety in the Middle Ages, in «Annual Review of Sex Research», 1997. 10 Citato ivi.

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di una bella donna o di due animali che copulano può suscitare desiderio, e magari polluzione, in uomini più ardenti di lui, Grossatesta confessa di aver peccato più volte con il tatto, toccando il proprio corpo o quello di altri: «ho accarezzato spesso membra proibite, membra vergognose, sia su di me che su altri [...]. Spesso ho riportato la mia mano al mio grembo, carezzando la carne e infiacchendola, e rendendola incline alla stimolazione e all’eccitazione da toccamenti di quel genere»11. Vista, tatto e udito si sono poi combinati in seduzioni collettive: il vescovo ammette di aver provocato altri uomini, sia con carezze, sia esibendo la propria erezione, sia eccitandoli in altri modi indicibili. L’esondazione è ormai palese: il tema della polluzione ha superato le mura dei conventi ed è esplicitamente associato con la masturbazione e con le pratiche omosessuali. L’ultimo, decisivo passo sarà compiuto nei primi anni del Quattrocento dal teologo francese Jean de Gerson, il quale affermerà che le emissioni di seme sono un problema comune a entrambi i sessi12. Riservato prima ai monaci poi a tutti i celibi, poi a tutti i maschi, infine a maschi e femmine, da problema fondamentalmente idraulico a veicolo di dissolutezza e perversione: la grande colpa del piacere solitario occupa ormai la scena della morale cristiana, e richiede tecnologie specifiche per essere individuata ed estirpata. A partire dalla confessione, la quale stava nel frattempo avviandosi a mutare di senso – dall’esteriorità delle penitenze all’intimo della contrizione – e a raffinare le sue tecnologie. Nei manuali per i confessori elaborati dopo il Concilio di Trento e dopo le riforme di Carlo Borromeo la polluzione non occupa certo lo stesso numero di pagine dedicate alla sessualità coniugale o alle infinite possibilità dell’incesto, ma è collocata spesso in crocevia significativi, in snodi delicati di quel processo di disciplinamento di cui la confessione è componente decisiva. Come corruzione del confessore stesso, turbato dalla nuova intimità stabilita in confessionale con i penitenti e con i loro peccati; come abbandono alle fantasie, classificato ormai sotto quella pericolosa fattispecie chiamata dilettatione morosa. Luigi di Granata appare a questo proposito flessibile, aperto alla contestualizzazione del 11 12

Citato ivi. Jean de Gerson, De cognitione castitatis seu De pollutione diurna.

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desiderio: la regola, egli sostiene, è «che se l’opera cogitata non è peccato mortale la cogitatione non è (formalmente parlando) peccato mortale»; dunque, nell’uomo ammogliato e nella donna maritata la dilettatione del pensare di essere l’uno con l’altro non è morosa, è incolpevole, «eccetto però quando con avvertenza si esponessero à rischio della pollutione»13. È l’effusione del seme a porre il confine tra desiderio legittimo e masturbazione colpevole. Ma non basta. Si possono concepire distinzioni più ardite, tecniche di assoluzione più sofisticate. Qualche decennio più tardi, la Summa Diana appare categorica: «ogni pensiero venereo è una polluzione iniziata» (omnis cogitatio venerea est inchoata pollutio14). Tuttavia, mentre la masturbazione vera e propria, il peccato di mollities, non è ritenuta degna di una trattazione specifica perché attinente senza ambiguità al vizio della lussuria, alla polluzione è dedicato invece un intero capitolo, per discutere casi e circostanze della sua colpevolezza. Definita «solemnis emissio sine copula», secondo la Summa Diana la polluzione può essere distinta in involontaria e volontaria; quest’ultima, si afferma subito, è «peccato mortale contro natura, è intrinsecamente cattiva e non può essere legittimata con alcun giusto fine»15. Ma, pubblicato in un’epoca in cui la giuridicizzazione della morale trova nella casistica lo strumento per declinare all’infinito l’applicabilità del principio, il trattato si affretta a relativizzare l’univocità della sentenza; citando proprio Tomás Sánchez, secondo il quale potrebbe esistere una forma di polluzione per così dire terapeutica, procurata mediante medicamenti o addirittura con sfregamenti, destinata all’emissione di seme corrotto e velenoso; e non sarebbe grave se insieme al seme malato ef13 Prima parte del memoriale della vita christiana: composta dal R.P. Fra Luigi di Granata [...], Trattato secondo, Della penitenza e confessione, in Tutte l’opere del R. Padre fra Luigi di Granata dell’Ordine di San Domenico [...], In Vinetia appresso Gabriel Gioito di Ferrario, MDLXXII, p. 101. 14 Summa Diana. In qua opera omnia duodecism Partibus comprehenda Antonius Cotonius Siculus tertij Ordinis Sancti Francisci, necnon Andreas Guadagno S.T.D. Septem à primo, ceateris ab hoc expletis, IN unicum volumen, alphabetico simul & doctrinali ordine digestum & bipartitum, eodem Antonino Diana Panormitano clerico regulari [...] Notabili legentium commodo ac utilitate, arctarunt & eleganter remiserunt [...], Venetiis, Apud Benedictum Milochum, MDCLXXVI, p. 262. 15 Ivi, p. 724.

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fluisse anche una piccola parte di seme «vero», perché ciò accadrebbe per accidente, all’interno di un’operazione lecita. La polluzione involontaria è assai più frequente, e la sua esemplificazione non si riferisce più agli impossibili desideri dei religiosi, ma riguarda ormai le circostanze della vita quotidiana di uomini e donne che vivono nel mondo: può derivare infatti dall’assunzione di cibi caldi, dalla pratica dell’equitazione (ma non sarà necessario per questo andare sempre a piedi, rassicurava Sánchez), da toccamenti di parti intime di un infermo da parte di un chirurgo, dai contatti tra corpi che si hanno nelle pubbliche danze, dal pronunciare parole d’amore tra sposi promessi. Un popolo sempre sull’orlo dell’orgasmo può così essere diviso tra innocenti – coloro nei quali l’effusione del seme sopraggiunge in modo imprevisto e incontrollabile – e variamente colpevoli – coloro i quali pur avvertendo chiaramente l’eccitazione non fanno nulla per rimuoverne le cause. Il peccato viene così scomposto secondo geometrie variabili, per mostrare facce diverse a seconda della prospettiva di osservazione. Se l’inclinazione al piacere solitario è riconosciuta come parte integrante della sessualità umana, la morale cristiana elabora strategie e tecniche atte ad amministrarla, a ricondurla di volta in volta a crimine contro natura oppure a incauta dissipazione di energie riproduttive, a fallimento episodico e veniale nel controllo dei propri istinti. Perché il confine tra masturbazione e polluzione è mobile, e lambisce i territori dell’interiorizzazione delle norme più che gli spazi della lussuria; gli uomini e le donne che effondono il proprio seme appaiono così cristiani su cui il processo di disciplinamento ha avuto scarsa efficacia, più che depravati dediti a un vizio innominabile. La depravazione giungerà nel Settecento, e avrà altre origini16. Intorno al 1712 fu pubblicato a Londra un opuscolo anonimo, scritto probabilmente dal chirurgo empirico John Marten, autore di altre opere sulla sessualità, dal lungo titolo Onania; ovvero l’odioso peccato dell’autopolluzione, e tutte le sue spaventose conseguenze per entrambi i sessi, con consigli spirituali e materiali per coloro che si sono già rovinati con questa pratica abominevole. E op16 Cfr. T.W. Laqueur, Sesso solitario. Storia culturale della masturbazione (2003), a cura di V. Lingiardi e M. Luci, Il Saggiatore, Milano 2007.

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portuni avvertimenti ai giovani della nazione di ambo i sessi... Fu l’inizio di un profluvio di pubblicazioni e di angosce: alle varie riedizioni del libretto di Marten seguirono altri opuscoli, carteggi17, infine l’opera di uno dei più influenti medici francesi, Samuel-Auguste Tissot, il quale intorno al 1760 diffuse in lingua francese il suo L’onanisme18. Era stata inventata una parola, e intorno ad essa erano state costruite visioni fosche e minacciose: la masturbazione non era più soltanto un vizio, una debolezza morale, un momentaneo cedimento dell’autocontrollo, ma era divenuta una malattia, origine a sua volta di altri morbi orrendi e incurabili. Soprattutto, l’interlocutore per un’inclinazione così perniciosa doveva essere il medico e non più il confessore, la cura doveva riguardare più il corpo che l’anima. Un vento nuovo si era alzato, imponendo alla Chiesa competizioni e alleanze tutte da sperimentare.

2. Gli angeli di Sodoma Si chiamavano «Ufficiali di notte», ma il loro compito non era quello di pattugliare anfratti e vicoli bui alla ricerca di peccatori e di perversi accoppiamenti; dovevano semmai raccogliere denunce, stimolare delazioni, porsi come interlocutori di sospetti e voci, rappresentare il proposito del governo cittadino di reprimere il vizio più eversivo dell’ordine morale e sociale. E la «notte» della loro denominazione rimandava alle tenebre di turpitudini segrete, di commerci vergognosi. Nei primi decenni del Quattrocento, a Firenze, la sodomia fu al centro di un’ondata di preoccupazione pubblica senza precedenti, che spazzando via l’indifferenza e la relativa tolleranza che aveva contraddistinto i secoli passati dette origine a provvedimenti legislativi, giurisdizioni apposite, commissioni dedicate, 17 Per una storia delle varie edizioni cfr. Laqueur, Sesso solitario, cit., pp. 18-22. 18 S.-A. Tissot, L’onanisme ou dissertation physique sur les maladies produites par la masturbation traduit du latin de Mr. Tissot [...], À Lausanne: de l’imprimerie d’Antoine Chapuis, 1760. L’opera è la versione ampliata dell’edizione originale latina del 1759.

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epurazioni interne alla classe politica, infine alla magistratura degli Ufficiali: sei cittadini eletti annualmente, assistiti da un notaio e da qualche coadiutore, che avviavano procedimenti a partire da denunce segrete e da confessioni, e che amministravano una giustizia sommaria con l’intento di sradicare l’«abhominabile sogdomie vitium»19. Tra il 1432 e il 1502, l’anno della soppressione, la magistratura giudicò circa quindicimila uomini e ragazzi, e ne condannò più di duemila; la popolazione fiorentina si attestava in quel periodo intorno ai quarantamila abitanti20. Calzolai, rigattieri, tessitori, in realtà appartenenti un po’ a tutti i mestieri, soprattutto nati in città, prevalentemente giovani sotto i trent’anni, i denunciati e i perseguiti mostravano quanto comuni fossero tali pratiche e quanto sfuggente fosse la loro definizione, così legate come erano a comportamenti condivisi di iniziazione sessuale21. A Venezia si chiamavano i «Signori di notte» i magistrati che dalla metà del Trecento giudicavano i reati di sodomia, prima di passare le loro competenze, nel XV secolo, al Consiglio dei Dieci. Leggi reiterate munirono queste istituzioni di guardie che perlustravano la città e il porto; fu avviato addirittura, intorno alla metà del Quattrocento, una sorta di censimento cittadino, attuato da un gruppo di nobili (due per parrocchia) incaricati di ricercare nella loro zona qualunque segno del vizio, dai luoghi sospetti ai contatti insoliti tra giovani e vecchi22; e nel 1467 una legge impose a chirurghi e barbieri di denunciare chiunque si fosse rivolto a loro per lesioni sospette: «Eliminare il vizio della sodomia da questa nostra città vale ogni sforzo perché ci sono molte donne che favoriscono tale vizio e sono rotte nelle parti posteriori e anche molti ragazzi sono rotti in tal modo e tutti questi vengono medicati e tuttavia nessuno di essi viene denunciato e i loro atti restano impuniti; quindi poiché è saggio onorare Dio, allo stesso 19 M.J. Rocke, Il controllo dell’omosessualità a Firenze nel XV secolo: gli «Ufficiali di notte», in «Quaderni storici», 66, n. 3, 1987, p. 704. 20 Ivi, p. 702. 21 M.J. Rocke, Il fanciullo e il sodomita: pederastia, cultura maschile e vita civile nella Firenze del Quattrocento, in Infanzie. Funzioni di un gruppo liminale dal mondo classico all’età moderna, a cura di O. Niccoli, Ponte alle Grazie, Firenze 1993. 22 G. Ruggiero, I confini dell’eros. Crimini sessuali e sessualità nella Venezia del Rinascimento, Marsilio, Venezia 1988, p. 224.

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modo in cui denunciano i colpi d’arma ai Signori di Notte, così essi debbono denunciare chi è rotto in quelle parti siano essi ragazzi o donne»23. Segni tutti, questi, di un’ansia repressiva che a Venezia aveva origini economiche oltre che religiose: bisognava salvare la flotta, perché sulle navi la sodomia «è commessa in altissimo grado con non poca infamia per noi e pericolo manifesto per ogni nave tanto che sorprende che la giustizia divina non le abbia affondate»24. Il terrore del castigo di Sodoma ispirava il rigore della pena: la morte sul rogo – con il fuoco, come quello che aveva incendiato la città biblica – aspettava i condannati, eventualmente protetti da tecnologie (un dispositivo che li avrebbe strangolati non appena si fossero alzate le fiamme) destinate a rendere meno feroce l’esecuzione25. Lo scarso numero dei processi – poco meno di trecento, dal 1326 al 150026 – rinvenuti dagli storici negli archivi delle magistrature veneziane non permette indagini sociali sofisticate; diffusa in tutti gli strati della popolazione ed estesa come a Firenze tra i nobili, la sodomia fu oggetto a Venezia di una persecuzione intransigente, che almeno in una prima fase appare anche straordinariamente espressiva. Proprio la durezza della condanna infatti esigeva che il crimine fosse inequivocabilmente accertato, con rapporti dettagliati, circostanze descritte minutamente; esigeva soprattutto definizioni e classificazioni. Nel 1365 un artigiano di nome Simon fu accusato di sodomia per aver avuto rapporti sessuali con una capra; a sua difesa affermò di avere problemi fisici che gli impedivano sia di avere rapporti con donne sia di masturbarsi; fu sottoposto allora a visite mediche e anche a prove con prostitute, esami tutti che comprovarono le difficoltà fisiologiche esposte. Dichiarato comunque sodomita, Simon ebbe risparmiato il rogo ma fu fustigato, marchiato e amputato della mano destra27. Nel 1474 fu processato un nobile, accusato di sodomia perché aveva agitato «il membro virile malissimamente alla presenza

Citato ivi, p. 195. Citato ivi, p. 185. 25 Ivi, p. 186. 26 Ivi, p. 212. 27 Ivi, pp. 190-191. 23 24

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di Marino, un orefice»28; i magistrati si concentrarono a verificare se tra i due ci fosse stato contatto fisico, e la sua esclusione permise all’imputato di uscire indenne dall’accusa. Un barcaiolo e il suo servitore invece furono condannati al rogo perché più volte, nella barca, avevano dormito insieme e uno «si era corrotto» agitando il suo membro fra le cosce dell’altro29. Un pescatore invece fu prima decapitato e poi bruciato a causa della «frequente sodomia con la propria moglie», che lo aveva denunciato30. Mentre a Firenze, nel 1495, un uomo di 34 anni fu denunciato agli Ufficiali di notte perché «si tiene e ha tenuto [un ragazzo sedicenne] a suo uso di donna, cioè per sodomitarlo, e asselo sodomitato già è un anno e più»31; e tra il 1492 e il 1496, ancora a Firenze, tre fratelli furono denunciati più volte prima per essersi prostituiti e poi per aver avuto a loro volta relazioni con fanciulli32. C’è una vasta zona semantica e comportamentale che circonda le pratiche sodomitiche e che da esse si irraggia, fino a comprendere le varie forme dei rapporti omosessuali, la bestialità, ma anche il sesso tra i coniugi. Denunce, persecuzioni e condanne mostrano un disagio sociale e giuridico che trovava forse una delle sue origini proprio nel tratto più qualificante dei meccanismi avviati: il loro avere come referente magistrature che si ponevano nello stesso tempo sia come tutrici dell’ordine sociale e dell’identità di genere sia come braccio secolare di una giustizia divina che poneva un interdetto assoluto, ma impossibile da rispettare. Incapaci di sradicare il vizio, ben presto rassegnati a contenerlo soltanto, a Firenze gli Ufficiali di notte furono soppressi nel 1502, mentre già nel 1497 Domenico Cecchi aveva richiesto l’abolizione della magistratura per proteggere la reputazione della città: «Per onore della città, levate via gl’ufficiali di notte, che non si possa dire: ‘Firenze è un uficio sopra a’ soddomiti’, che chi l’ode crede che non si faccia altro et viensi a dare chattivo esempio»33. Le preoccupazioni politiche prevalsero sullo zelo religioso, il pecCitato ivi, p. 191. Ivi, p. 192. 30 Ivi, p. 198. 31 Citato in Rocke, Il fanciullo e il sodomita, cit., p. 219. 32 Ivi, p. 224. 33 Citato in Rocke, Il controllo dell’omosessualità a Firenze nel XV secolo, cit., p. 717. 28 29

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cato rimase crimine ma perse gli angeli riservati alla sua eliminazione; la Chiesa riprese a essere l’istituzione prima responsabile della condanna e della purificazione dei corpi e delle coscienze. Quali che fossero le simbologie che vi erano racchiuse e le letture che nei secoli ne furono proposte, la vicenda biblica di Sodoma e Gomorra appare come punto di riferimento dell’atteggiamento cristiano verso il «peccato contro natura». Ma il canone emanato nel Concilio di Ancira nel 314 ancora contabilizzava la pena nella prospettiva della salvezza: «Quelli che hanno commessi peccati contro natura, se prima della età di venti anni, staranno quindici anni prostrati, e cinque anni senza offerire. Se son caduti negli stessi peccati dopo l’età di venti anni, ed essendo maritati, staranno venticinque anni prostrati, e senza offerire. Se hanno peccato dopo l’età di venticinque anni, essendo maritati, non avranno la Comunione che in fine della vita»34. Una proporzione possibile finché, sempre nel IV secolo, Giovanni Crisostomo espresse tutto il suo disgusto in un commento all’epistola di Paolo ai romani: «Le passioni sono tutte disonorevoli, perché l’anima viene più danneggiata e degradata dai peccati di quanto il corpo lo venga dalle malattie; ma la peggiore fra tutte le passioni è la bramosia fra maschi [...]. Perciò io ti dico che costoro sono anche peggiori degli omicidi, e che sarebbe meglio morire che vivere disonorati in questo modo. L’omicida separa solo l’anima dal corpo, mentre costoro distruggono l’anima all’interno del corpo»35. E Agostino nelle Confessioni (III, 8) sottolineò l’impossibilità di qualunque compromesso: «I peccati contro natura sempre e dovunque devono essere detestati e puniti, come per esempio quelli dei sodomiti. Ed anche se tutto il genere umano li commettesse, tutto il genere umano sarebbe reo di codesto crimine per la legge di Dio che non ha creato gli uomini perché si unissero in tal modo». Così che la condanna si fece diritto, e nel Concilio di Toledo del 695 fu escluso ogni riscatto: «Quelli che peccano contro natura, son condannati ad essere separati dai Cristiani per tutta la vita, 34 Dizionario portatile de’ Concilj, in Venezia, Appresso Tommaso Bettinelli, 1775, p. 385, canone 16. 35 Homilia IV in Epistula Pauli ad Romanos, in Patrologia Graeca, vol. 47, coll. 360-362.

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a ricevere cento frustate, ed essere rasi per infamia, e banditi in perpetuo, e non riceveranno la Comunione nemmen in morte»36. I penitenziali del primo Medioevo, tuttavia, continuarono a trattare la sodomia come una colpa orrenda ma banale, da espiare con digiuni e penitenze calcolati in base all’età e allo status del peccatore37. Solo a partire dal XII secolo cominciò a verificarsi un mutamento sostanziale, e i comportamenti sessuali devianti divennero indicatori di inosservanza religiosa, di una potenziale eresia. Furono alcuni santi e dottori della Chiesa a ribadire la repulsione verso le pratiche sodomitiche, in un crescendo di associazioni terrificanti: da Pier Damiani («Questo vizio non va affatto considerato come un vizio ordinario, perché supera per gravità tutti gli altri vizi. Esso infatti uccide il corpo, rovina l’anima, contamina la carne, estingue la luce dell’intelletto, caccia lo Spirito Santo dal tempio dell’anima»38) a Tommaso d’Aquino, che affianca nel genere infamante della colpa «coloro che godono nel cibarsi di carne umana, o nell’accoppiamento con bestie, o in quello sodomitico»39. E mentre il Doctor Seraphicus, il francescano Bonaventura, nel XIII secolo si preoccupò di nominare le donne tra i peccatori puniti nella notte della nascita di Cristo («Tutti i sodomiti, uomini e donne, morirono su tutta la terra»40), le condanne più veementi vennero da Siena; santa Caterina pensava ancora agli angeli mentre, enfatizzando il fetore che emana da coloro che peccano contro natura, affermava: «E come ciechi e stolti, offuscano el lume dell’intelletto loro, non cognoscono la puzza e la miseria nella quale eglino sonno: che non tanto che ella puta a me, che so’ somma e eterna purità (ed èmmi tanto abominevole che per questo solo peccato profondâro cinque città per divino mio giudicio, non volendo più sostener la divina giustizia, tanto mi dispiacque questo abominevole peccato); ma non tanto a me, come detto t’ho, ma alle dimonia (le quali dimonia e’ miseri s’hanno fatto signori) lo’ dispiace. Non che lo’ dispiaccia el male perDizionario portatile de’ Concilj, cit., p. 385, canone 3. J.A. Brundage, Law, Sex, and Christian Society in Medieval Europe, The University of Chicago Press, Chicago-London 1987, pp. 166-167. 38 Liber Gomorrhianus ad Leonem IX Rom. Pont., PL, CXLV. 39 Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II, II, q. 142, a. 4. 40 Bonaventura da Bagnoregio, Sermone XXI, In Nativitate Domini. 36 37

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ché lo’ piaccia alcun bene, ma perché la natura loro fu natura angelica, e però la natura loro schifa di vedere o di stare a vedere commettere quello enorme peccato attualmente. Hagli bene inanzi gittata la saetta avelenata del veleno della concupiscenzia, ma, giognendo all’atto del peccato, egli si va via per la cagione e per lo modo che detto t’ho»41. E san Bernardino fece delle invettive contro i sodomiti un oggetto frequente delle sue prediche, terrorizzando i fedeli con immagini non solo di dannazione, ma anche e soprattutto di malattia, e anticipando così fantasmi settecenteschi: Non è peccato al mondo che più tenga l’anima, che quello della sodomia maledetta [...]; questo vizio sconvolge l’intelletto, spezza l’animo elevato e generoso, trascina dai grandi pensieri agli infimi, rende pusillanimi, iracondi, ostinati e induriti, servilmente blandi e incapaci di tutto; inoltre, essendo l’animo agitato da insaziabile bramosia di godere, non segue la ragione ma il furore»42; e ancora: «Una volta io mi trovai in luogo che uno avendo preso una bella giovane per moglie, ella era stata sei anni con lui, e anco era vergine: la quale era stata con lui sempre in peccato gravissimo contra a natura. O confusione, o vergogna grandissima! Ou ou ou! Sai come questa poveretta era fatta? Ella era consumata, defunta, palida, smorta. Ella mi si raccomandò per l’amore di Dio, dicendomi s’io potessi per niuno modo, ch’io l’aitasse, dicendomi come ella era stata al vescovo per questa cagione, e anco al podestà, e’ quali dice che rispondevano a lei, che di ciò ch’ella diceva, bisognavano le pruove.43

La storia narrata da Bernardino sembra una sintesi consapevolmente costruita delle difficoltà, delle ambiguità e delle contraddizioni cui la Chiesa si trovava di fronte ogni volta che cercava di perseguire il peccato di sodomia: una definizione allo stesso tempo ampia e sfuggente, che associava pratiche omosessuali e pratiche coniugali in condanne che si scontravano con diversi gradi di tolleranza sociale o di scandalo; un sostegno aperto ma inefficiente da parte delle autorità civili, cui doveva rivolgersi se all’esclusione dalla comunità cristiana intendeva aggiungere punizioni esemplari che colpissero anche i corpi; l’onere della prova, che imponeva di raggiungere la certezza della consumazione piena e Caterina da Siena, Dialogo della divina Provvidenza, CXXIV. Bernardino da Siena, Predica XXXIX, in Prediche volgari. 43 Ibid. 41 42

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consenziente del crimine, rimanendo così in balia di confessioni e ritrattazioni; la necessità di distinzioni delicate, per distribuire inegualmente colpa e responsabilità a seconda del ruolo sostenuto nel rapporto. Dalla categoricità della condanna derivava allora l’impossibilità del castigo, secondo uno stile che caratterizzava molti atteggiamenti della Chiesa verso i peccati sessuali. Il diritto aveva stabilito la pena con una sorta di secca ritrosia: il canone 11 del terzo Concilio Lateranense del 1179 aveva ribadito che «coloro che peccano dell’incontinenza contro natura», se clerici sarebbero stati espulsi dal clero e rinchiusi indefinitamente in un monastero per compiere la penitenza, se laici sarebbero stati esclusi per sempre dalla comunità dei fedeli. La norma, che riprendeva il canone del Concilio di Toledo, fu poi inserita nelle Decretali di Gregorio IX e rimase sostanzialmente invariata fino al Concilio di Trento. La punizione canonica risultava così notevolmente più mite rispetto alle diverse e spesso fantasiose forme di pena che in alcuni luoghi furono elaborate dalla giustizia civile del tardo Medioevo: gli statuti di Bologna del 1288 prevedevano il rogo, le leggi portoghesi prescrivevano che i sodomiti fossero castrati e poi, tre giorni dopo, fossero sospesi per le gambe fino al sopraggiungere della morte; i sodomiti senesi invece sarebbero dovuti essere addirittura appesi «per il membro virile»44. Dal punto di vista teorico, inoltre, i canonisti sembravano attribuire alle pratiche sodomitiche un peso limitato, quasi sproporzionato rispetto allo sdegno di teologi e moralisti; discutevano se il rapporto anale costituisse ragione sufficiente per ottenere la separazione coniugale, sostenevano che non creasse affinità, e dunque non fosse motivo di impedimento. Si affannavano poi a proporne una definizione sufficientemente ampia e articolata, e descrivevano la sodomia come qualunque soddisfazione cosciente dell’istinto carnale o con persona indebita o nel vaso indebito, distinguendo tra sodomia perfecta, quella di maschio con maschio o donna con donna, e sodomia imperfecta, quella tra un uomo e una donna in cui la scelta di un vaso improprio non permette una copula finalizzata alla procreazione45. Ma proprio l’ampiezza delBrundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 473. A. D’Avack, Omosessualità (diritto canonico), in Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Giuffrè, Milano 1980, pp. 92-99. 44 45

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la definizione rendeva impossibile l’identificazione del crimine e l’applicazione della pena. Il diritto finì così per rimanere prigioniero di se stesso, e infinite cavillationes furono poste a circoscrivere la punizione o addirittura a esimere da essa: si discuteva se la consumazione del reato implicasse la sola penetrazione o esigesse anche l’effusione del seme, argomentando che l’eiaculazione esterna escludeva la conclusione del crimine e riduceva il rapporto ad actus proximus crimini, derubricandolo come peccato e come reato; nello stesso periodo si ritenne impossibile includere nella definizione del reato il rapporto omosessuale tra donne le quali, non potendo per ragioni anatomiche procedere alla penetrazione, avrebbero consumato tra loro soltanto delle mollitiae. Ponendo infine in primo piano le ragioni della politica, si procedette a delimitare l’applicazione della pena, anche una volta accertata la consumazione perfetta dell’atto: si sarebbe potuto esimere dalla punizione il sodomita occasionale e anche quello recidivo, destinando il castigo soltanto a coloro che esercitavano la sodomia frequentium et quasi de consuetudine; si sarebbe dovuto inoltre dare la priorità all’eliminazione dello scandalo, alla preservazione della tranquilla coscienza della comunità dei fedeli, punendo o al contrario ignorando i peccatori secondo la pubblicità del peccato46. Dalle leggi della Chiesa il peccato nefando contro natura fu così occasionalmente perseguito, debolmente punito; e papa Pio V dovette dunque apparire sensibile alle contraddizioni del suo diritto e previdente nel colmare le lacune della sua applicazione quando, in piena Controriforma, emanò due Costituzioni, a distanza di due anni l’una dall’altra, destinate a riaffermare e rafforzare una collaborazione già sperimentata. Nel 1566 la Costituzione Cum primum, nell’intento di estirpare peccati orrendi tra cui «l’esecrabile vizio libidinoso contro natura», ricorreva apertamente alla cooperazione delle istituzioni laiche: «Se qualcuno compirà quel nefando crimine contro natura, per colpa del quale l’ira divina piombò su figli dell’iniquità, verrà consegnato per punizione al braccio secolare». E perché fosse garantito il rigore del castigo minacciava i funzionari civili preposti: «sappiano i magistrati che, se anche dopo questa nostra Costituzione saranno negligenti nel punire questi delitti, ne saranno colpevoli al cospetto 46

Ivi, p. 94.

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del giudizio divino, e incorreranno anche nella nostra indignazione»47. Ma occorreva essere ancora più espliciti, puntare con maggiore chiarezza l’obiettivo. Nella Costituzione Horrendum illud scelus, del 30 agosto 1568, era scritto: Quell’orrendo crimine, per colpa del quale le città corrotte e oscene vennero bruciate dalla divina condanna, marchia di acerbissimo dolore e scuote fortemente il nostro animo, spingendoci a reprimere tale crimine col massimo zelo possibile. [...] Affinché il contagio di un così grave flagello non progredisca con maggior audacia approfittandosi di quell’impunità che è il massimo incitamento al peccato, e per castigare più severamente i chierici colpevoli di questo nefasto crimine che non sono atterriti dalla morte dell’anima, abbiamo deciso che vengano atterriti dall’autorità secolare, vindice della legge civile. Pertanto [...] stabiliamo che qualunque sacerdote o membro del clero sia secolare che regolare, di qualunque grado e dignità, che pratichi un così orribile crimine, in forza della presente legge venga privato di ogni privilegio clericale, di ogni incarico, dignità e beneficio ecclesiastico, e poi, una volta degradato dal Giudice ecclesiastico, venga subito consegnato all’autorità secolare, affinché lo destini a quel supplizio, previsto dalla legge come opportuna punizione, che colpisce i laici scivolati in questo abisso.48

Ogni velo era sollevato: data l’inefficienza delle leggi ecclesiastiche sarebbero stati le leggi civili e i magistrati laici gli angeli castigatori dei molti sodomiti servitori di Dio. Così, se solo pochi anni prima, nel 1556, Giacomo Richi, prete di Pistoia, poteva rivolgersi con animo sereno e riservato al tribunale della Penitenzieria confessando di aver avuto rapporti carnali con diverse donne, di aver avuto una concubina, di aver commesso il peccato di sodomia con donne e uomini («anche forse in luogo sacro») e di aver «toccato i genitali ai fanciulli», e chiedendo tuttavia di essere assolto e di poter esercitare il ministero dell’altare49, già nella prima metà del secolo successivo non furono Bullarium romanum, t. IV, c. II, pp. 284-286. Ivi, t. IV, c. III, p. 33. 49 F. Tamburini, Santi e peccatori. Confessioni e suppliche dai Registri della Penitenzieria dell’Archivio Segreto Vaticano (1451-1586), Istituto di propaganda libraria, Milano 1995, p. 326. 47 48

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pochi i chierici inquisiti a Roma dal tribunale del Governatore, la principale magistratura cittadina con competenza sia civile che criminale. In un procedimento del 1601 l’arciprete e il canonico di Nettuno e un «chierico di prima tosatura», nel 1611 il canonico della cattedrale di Rieti e un frate dell’ordine di sant’Agostino, nel 1624 un frate romano e un terziario di Napoli50; il vizio nefando, impossibile anche a nominarsi, aveva trovato le parole e le procedure adatte a punirlo. Anche se, come per ogni crimine in antico regime, permase la possibilità di interloquire e rivolgersi a magistrature diverse, prima fra tutte la più alta fra quelle esclusivamente ecclesiastiche: il tribunale del Sant’Uffizio che – pur avendo operativamente associato la sodomia all’eresia in rappresentazioni e credenze che evocavano i rapporti tra il diavolo e le streghe – esibì spesso rigori difformi, inaspettate indulgenze. Se infatti l’Inquisizione spagnola tra il 1566 e il 1700 mandò al rogo 37 sodomiti dei 234 processati51, il tribunale romano manifestò nel tempo una singolare mitezza. Tra i pochi esempi finora portati alla luce dalla ricerca storica, alcuni appaiono particolarmente significativi: nel 1722 il Sant’Uffizio di Roma inquisisce, su denuncia dei confratelli, il priore del convento della Beata Maria Vergine, il sagrestano e un frate laico converso, accusati di aver corrotto circa undici ragazzi convincendoli «col falso Dogma, non esser peccato»; i tre religiosi vengono incarcerati e finiscono con l’ammettere le loro colpe, pur tentando di ridurre il numero dei fanciulli sodomizzati e soprattutto negando di aver pronunciato frasi eretiche; dopo pochi mesi la Congregazione romana chiude il procedimento con la condanna a soli sei anni di carcere. La stessa clemenza applicata due decenni dopo nei confronti del carmelitano Ludovico Botteglio, un brasiliano residente a Lisbona che si presenta spontaneamente al Sant’Uffizio denunciandosi per peccati di sodomia attiva e passiva commessi con numerosi giovani; la scelta del frate mostra sensibilità politica e sapienza giuridica: 50 M. Baldassari, Bande giovanili e vizio nefando: violenza e sessualità nella Roma barocca, Viella, Roma 2005. 51 R. Carrasco, Il castigo della sodomia sotto l’Inquisizione (XVI-XVII secolo), in La violenza sessuale nella storia, a cura di A. Corbin, Laterza, Roma-Bari 1992.

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è vero che io ho commessi i sopradetti peccati, de quali provo confusione, e dolore, ma non credo, né ho mai creduto, esser lecito ad un cattolico, e Sacerdote Regolare commettere atti disonesti di mollizie né tampoco abusarsi impudicamente de Giovani, o sia con Sodomia perfetta, o sia imperfetta, anzi ho sempre creduto il contrario [...]. Ho differito a presentarmi al Santo Officio di Portogallo, perché ho sempre dubitato di ricevere qualche rigoroso castigo non ostante, che mi fossi presentato spontaneamente sapendo, che il delitto di Sodomia nella Spagna è considerato massimo, quindi ho stimato bene di venire a Roma per esporre a questo Tribunale i miei delitti, perché sapevo, che è di maggior mitezza, e pietà.52

Il frate è infatti assolto dai suoi crimini – sia pure con l’obbligo di sottoporsi a non meglio precisate «gravi pene salutari» – tanto dall’Inquisizione romana quanto dal tribunale del Vicario di Roma53. Centro e periferia mostrano spesso, nella politica della Chiesa cattolica, priorità differenti, speciali difformità nell’amministrazione di castigo e perdono54. Una particolare disuguaglianza domina del resto la concezione e la punizione del peccato di sodomia all’interno di tutta la Chiesa: una disuguaglianza che distribuisce colpa e responsabilità a seconda del ruolo svolto nell’atto sessuale. Molti casi, la maggior parte forse di quelli perseguiti e così emersi nelle carte d’archivio, hanno come protagonisti uomini adulti e fanciulli o giovani ragazzi; come nella Grecia antica, dal Medioevo all’età moderna la pederastia domina se non l’esperienza, certamente la rappresentazione delle pratiche sodomitiche. Un araldo del governo veneziano, Benedicto, fu denunciato nel 1368 per aver avuto rapporti sessuali nelle sale del Palazzo ducale con un giovane di tredici anni, Antonio, cui insegnava il proprio mestiere55. Nel 1493, a Firenze, un delatore informa gli Ufficiali di notte che il ceraiuolo Attaviano Benintendi aveva avuto una lunga relazione con il figlio di 52 Cfr. M. Cattaneo, «Vitio nefando» e Inquisizione romana, in Diversità e minoranze nel Settecento, a cura di M. Formica e A. Postigliola, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006, pp. 74-75. 53 Ivi, p. 75. 54 Cfr. M. Pelaja, Nozze in deroga. Dispense matrimoniali e politica ecclesiastica, in Ead., Scandali. Sessualità e violenza nella Roma dell’Ottocento, Biblink, Roma 2001. 55 Ruggiero, I confini dell’eros, cit., pp. 193-194.

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un tessitore, ma «ora che è grande, l’ha lasciato per il fratello più giovane»; e ancora a Firenze un fornaio abbandonò dopo tre anni il suo ragazzo «quando detto Jacopo non era più buono di adoperarlo»56. Il rapporto sodomitico sembrava implicare dunque una gerarchia anagrafica e sociale in cui il dominante cercava e otteneva la propria soddisfazione penetrando il corpo di un fanciullo; il quale appariva solo come oggetto di una iniziativa sessuale, compiacente forse, ma estraneo al piacere. Al di là delle differenze di età o di condizione, questa rappresentazione divenne il modello in cui inscrivere ogni pratica sodomitica; la quale, nell’elaborazione religiosa come nel diritto laico, trovava i suoi codici di classificazione esclusivamente nella posizione assunta durante l’atto. Attivo e passivo, corruttore consapevole e mero strumento di lussuria, i ruoli sostenuti dai partner costituivano l’asse intorno a cui ripartire colpa e castigo: secondo una logica inversa a quella della riprovazione sociale. Se infatti disprezzo ed epiteti ingiuriosi erano ovunque destinati dalle comunità di riferimento a chi accettava di prestare il proprio corpo a pratiche che compromettevano la virilità e invertivano l’ordine naturale dei sessi, le leggi civili e quelle religiose riservavano le punizioni più pesanti a chi compiva la penetrazione. Nel 1474, a Venezia, un gruppo di sodomiti fu giudicato dalla suprema magistratura laica della città, il Consiglio dei Dieci. I due uomini identificati come attivi furono decapitati, e i loro cadaveri bruciati; degli altri quattro accusati di aver rivestito un ruolo passivo uno, un fanciullo di dieci anni, fu condannato a dieci frustate, un altro, diciottenne, ebbe venticinque frustate e un bando di cinque anni, gli ultimi due furono banditi dalla città per tre anni57. E a Firenze era regola lasciare del tutto impuniti i giovani che confessavano di aver subito un atto sodomitico. Perché gli uomini che elaboravano e applicavano la legge associavano probabilmente al ruolo attivo un’immagine di dominio e sopraffazione, e percepivano quello passivo come inerme e sottomesso. Le argomentazioni della Chiesa erano naturalmente più sofisticate. Il principio ispiratore era sempre la salvaguardia della riproduzione: «Quali sono le specie di lussuria consumate contro 56 57

Rocke, Il fanciullo e il sodomita, cit., p. 216. Ruggiero, I confini dell’eros, cit., pp. 202-203.

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natura?» è la questione posta nel libro sui peccati di un trattato di teologia morale redatto all’inizio del Settecento. «Tali peccati sono quelli nei quali non sono garantite le condizioni che la natura richiede all’atto venereo perché in esso possa verificarsi il concepimento di un essere umano, e queste condizioni sono cinque, vale a dire l’unione di due persone, della stessa specie, di sesso diverso, negli organi o vasi adatti, e nel modo debito, così come sono cinque i peccati di quel genere»58: la masturbazione, i modi «inordinati» di copulare, la bestialità, la sodomia imperfetta tra uomo e donna, e la sodomia perfetta tra due persone dello stesso sesso. Ma la sodomia perfetta esige una distinzione in più: «Il penitente deve precisare in confessione se sia stato agente o paziente, poiché da parte dell’agente interviene la polluzione propria, che in genere non avviene da parte del paziente (per quanto a volte intervenga in ambedue, e se ciò si verifica deve essere comunicato). Infatti sono diversi i peccati se la polluzione è volontaria o se soltanto si coopera alla polluzione di un altro: infatti una cosa è procurarsi un piacere illecito, un’altra farlo raggiungere a un altro»59. Il peccato più esecrabile è quello dell’infertilità e la dissipazione del seme è l’indicatore della colpa, in una percezione del rapporto per così dire astratta, indifferente ai movimenti del desiderio, alle origini dell’attrazione dei corpi: nulla si raccomanda di chiedere e nulla viene chiesto sulle motivazioni interiori del sodomita attivo, la sua appare come una semplice ricerca di soddisfazione sessuale, criminosa ma non inquietante, dannata ma non lesiva della sua identità60. È per questo che risulta difficile proporre una storia di lungo periodo dell’omosessualità. Perché, nella rappresentazione sociale e nell’elaborazione giuridica e teologica, non esisteva la figura dell’omosessuale: i fanciulli e i giovani si avviavano a una «regolare» vita matrimoniale dopo le esperienze omoerotiche o sodomitiche della pubertà, gli adulti che continuavano a offrire il proprio corpo alla soddisfazione altrui erano disprezzati come prostitute, ma non sembravano costituire una minaccia all’ordine sociale dei 58 G. Antoine, Theologia moralis universa [...] Editio postrema [...], t. I, Venetiis, apud Antonium Graziosi, 1778, p. 133. 59 Ivi, p. 134. 60 Rocke, Il fanciullo e il sodomita, cit.

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sessi, gli adulti che dalla sodomia traevano il proprio piacere non sembravano sfidare le identità sessuali socialmente riconosciute61, le donne che godevano reciprocamente l’una dell’altra peccavano, ma non ponevano questioni interessanti né alla teologia né all’ordine riproduttivo, e riuscivano forse a essere più segrete62. Di fronte a un popolo che sembra essere percepito come fondamentalmente bisessuale, assalito da desideri ciechi, un disciplinamento sempre più appassionato di interiorità si fermava sulla soglia di una condanna totale ma contraddittoria, così che il peccatore non era indotto a interrogarsi su moventi e implicazioni del proprio peccato63. Cieli tempestosi si addenseranno su un panorama così ordinatamente sregolato quando altre prospettive, altre parole e altri discorsi cominceranno a comporre identità nuove, a tematizzare nuove colpe e nuovi diritti. Nel secolo dei Lumi nasceranno un carattere e una fisiologia, prenderà forma un personaggio capace di suscitare inquietudini profonde e di stimolare riflessioni inaudite: si affermerà che l’inclinazione alla sodomia nasce da nature diverse, abominevoli e affascinanti allo stesso tempo, si comincerà a proporre per esse l’eliminazione della pena civile. E la Chiesa dovrà tracciare un nuovo quadro, in cui soltanto alcuni tra i suoi fedeli – non più l’intero popolo – potranno essere prede di quel demonio e vittime dei suoi angeli vendicatori.

3. Copula mercenaria Gli accampamenti dei Crociati che nell’XI secolo sostavano presso Costantinopoli in attesa di accordi con l’imperatore erano circondati da tende popolate da prostitute, numerose e organizzate fino a costituire veri e propri bordelli. I soldati di Cristo po61 Cfr. anche, per la sodomia tra mariti e mogli, C. Casanova, La sanzione penale dei reati «senza vittima» e nelle relazioni private (Bologna, XVII secolo), Clueb, Bologna 2007. 62 Cfr. P. Lupo, Lo specchio incrinato. Storia e immagine dell’omosessualità femminile, Marsilio, Venezia 1998. 63 Cfr. anche M. Foucault, La volontà di sapere (1976), Feltrinelli, Milano 1978, p. 38

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tevano così occupare il proprio tempo e saziare i propri appetiti, e a eliminare tali traffici nulla poté lo stesso Gesù, che secondo il racconto dei reduci appariva qua e là intimando di porre fine a tanta intemperanza. Il ricordo dell’efficienza della prostituzione bizantina rimase anzi vivo nella memoria dei Crociati almeno quanto la visione ammonitrice del figlio di Dio. Nell’accampamento egiziano di Damietta, durante la quinta Crociata, le prostitute scivolavano silenziosamente di tenda in tenda offrendo i loro servizi ai soldati; e alla sesta Crociata, ancora in Egitto, Luigi IX il santo re di Francia fu costretto a scacciare un numero considerevole di seguaci perché avevano messo su un bordello proprio vicino alla sua tenda64. Del resto, se molti erano partiti per riconquistare la Terra Santa agli infedeli, altri erano mossi dal più commerciale intento di reclutare e organizzare prostitute per le armate. Nessuno scandalo, nessuna inflessibile condanna, nessun castigo esemplare attendeva i più ardenti fra i cristiani che si intrattenevano con le meretrici levantine; così come in Occidente, giovani onesti e onorati padri di famiglia potevano sfogare la propria virile esuberanza fidando nella comprensione del confessore, che avrebbe inflitto loro una penitenza tollerabile e discreta. Perché peccavano, certo, ma il loro era un peccato per così dire idraulico, inscritto nell’ordine della fisiologia dei sessi, lontano, nella percezione della società e della Chiesa, dalla lussuria e dalla perversione. Molti studiosi hanno chiamato tolleranza l’atteggiamento del cristianesimo verso la prostituzione – un atteggiamento tanto durevole e coerente da apparire quasi immune ai mutamenti della storia – riconducendolo a un’impostazione «politica» tratta da Agostino, per il quale «come la cloaca impedisce che l’intero palazzo sia lordato dagli escrementi, il meretricio limita il disordine sessuale a una parte soltanto della società e perciò è un male minore che occorre sopportare»65. Ma la relativa indulgenza mostrata nei secoli dalla Chiesa non deriva soltanto da valutazioni di opportunità nel governo delle anime, che hanno indotto a prefeBrundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., pp. 211 e 466. L. Ferrante, Il valore del corpo, ovvero la gestione economica della sessualità femminile, in Il lavoro delle donne, a cura di A. Groppi, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 210 e nota 12. 64 65

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rire i rapporti mercenari agli adulteri e al disordine delle famiglie: essa trae forse le sue motivazioni anche da concezioni più complesse, che attengono alla teologia e al diritto. Cominciò il canonista Graziano, nel XII secolo, a scomporre il problema secondo angolazioni inedite: nel suo Concordantia discordantium canonum confermò la condanna complessiva formulata dai suoi predecessori ma sostenne che l’essenza della prostituzione risiedeva nella promiscuità piuttosto che nello scambio economico tra prostituta e cliente. Dunque, una donna che aveva molti amanti era una prostituta, che ricevesse del denaro per le sue prestazioni oppure no, mentre il lato veniale della transazione passava in secondo piano, diventava un corollario irrilevante66. La definizione piacque ai canonisti e ai giuristi dei secoli successivi, che si affrettarono tutti a circoscrivere e a circostanziare, evidenziando la necessità della dimensione pubblica della promiscuità: una donna che avesse diversi uomini in segreto – affermò il canonista e teologo Tommaso di Chobham – non era una meretrice, così come non lo era, secondo il giurista e glossatore Francesco Accorso, colei che accettava normalmente denaro in cambio dei suoi favori. Gli stessi canonisti tuttavia si trovarono presto in disaccordo nei conteggi: quanti amanti avrebbe dovuto avere una donna per essere classificata come prostituta? Il domenicano Giovanni Teutonico suggerì sessanta, poi ne ridusse il numero a quaranta, avviando una contrazione esponenziale: neanche un secolo più tardi gli amanti concessi dal giurista Odofredo – paganti o no – erano solo due, lo stesso numero consentito dagli statuti della città di Cremona, portato a cinque in molte città spagnole, persino a undici ad Alhambra67. La nuova definizione del meretricio poneva l’accento su questioni di ordine politico – la pubblicità, dunque la certezza dello scandalo, la probabilità della corruzione di innocenti – ma poggiava su un elemento, la promiscuità, a sua volta origine di problemi delicatissimi. La promiscuità costituiva un pericolo grave non solo perché era la dimostrazione evidente dell’abbandono dei fedeli alla fornicazione, ad accoppiamenti illegittimi indotti solo 66 67

Cfr. Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 248. Ivi, pp. 390 e 465.

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dalle urgenze della carne; non solo perché implicava spesso tentativi più o meno efficaci di contraccezione, iscrivendo la copula nella categoria abominevole degli amplessi infertili; non solo perché l’infertilità avvicinava la copula alla polluzione volontaria, peccato altrettanto pesante anche se facilmente alleviabile con opportune motivazioni68. La conseguenza spaventosa della promiscuità, nella rappresentazione dei teologi medievali, era l’incesto. I canoni medievali ponevano l’impedimento al matrimonio per consanguineità fino al settimo grado di parentela; e soprattutto conferivano alla copula – anche a quella illecita – la capacità di creare legame, di dare luogo a un’affinità impossibile da spezzare, estesa fino a considerare ogni parente di un partner parente anche dell’altro69. Un popolo attraversato da una trama fitta, segreta ma resistente, di legami di parentela, un popolo in cui ogni matrimonio correva il rischio dell’incesto e dell’annullamento era dunque l’incubo di ogni canonista e di ogni pastore d’anime. La presenza di prostitute all’interno delle comunità allacciava nodi impossibili da sciogliere, grovigli di peccato e di diritto. Altri accoppiamenti invece non suscitavano nelle coscienze dei cristiani del Medioevo e del Rinascimento la ripugnanza esibita dalla sensibilità dei nostri giorni. Nella millenaria interlocuzione tra la Chiesa e il suo gregge, nelle intercessioni dei parroci per favorire matrimoni resi impellenti dalla precarietà economica e dalla gravidanza della sposa promessa, nelle suppliche di cognati e parenti che chiedevano la dispensa per sposarsi e proseguire legittimamente commerci carnali e di bottega, sesso e denaro si accompagnano spesso, sostenendosi a vicenda, ognuno con il suo potere e con la sua scarna eloquenza. Anche la transazione che accompagnava una copula mercenaria dunque non era colpa, né per la prostituta né per il cliente. Lo sostennero chiaramente nel XII secolo i commentatori dell’opera di Graziano: se era riprovevole per una meretrice esercitare il suo mestiere, non lo era accettare denaro in cambio dei suoi servizi, scrissero Uguccione da Pisa vescovo di Ferrara e Rufino arciveCfr. supra. Cfr. J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente (1987), Società editrice internazionale, Torino 1989, p. 159. 68 69

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scovo di Sorrento70, e fu Tommaso d’Aquino, un secolo più tardi, a dirimere la questione: è necessario distinguere tra il motivo del compenso – un motivo che può anche essere contrario alla legge divina – e il compenso stesso, il quale in sé non contrasta né con la giustizia né con il volere di Dio71. Intorno al 1300 poi l’arcidiacono di Bologna, Guido de Baisio, elaborò una teoria ardita per scagionare anche il cliente. Il problema era se pagare una prostituta aggiungesse un nuovo peccato a quello di fornicazione, e la risposta fu contorta ma tranquillizzante: pagarla sarebbe stato colpevole solo se il pagamento fosse stato promesso in anticipo allo scopo di persuadere la donna a compiere un atto che altrimenti avrebbe rifiutato – come forma di seduzione insomma; in tutti gli altri casi il pagamento sarebbe stato semplicemente la giusta ricompensa per il suo lavoro72. La posizione di de Baisio non convinse del tutto i canonisti dei secoli successivi quando, in piena Controriforma, si trattava di offrire sostegni più saldi all’assoluzione dell’esborso economico e nello stesso tempo ribadire la condanna del meretricio. Il pagamento rischiava infatti di apparire come il prezzo del peccato, e in quanto tale poteva acuirne la gravità; la soluzione fu trovata con un elegante passo laterale, e il pagamento non fu più pagamento ma dono. Il dono – afferma il diritto – è un atto libero, non obbligato da alcuna legge, effettuato da una persona che consapevolmente vuole donare a una persona che consapevolmente vuole accettare, a prescindere dalle qualità morali dei due attori; una categoria giuridica che si prestava bene a definire la conclusione del rapporto fra prostituta e cliente purgandola da ogni ambiguità peccaminosa73. Proprio questa definizione, tuttavia, nel momento in cui affermava l’innocenza dell’elargizione, poneva il problema della sua obbligatorietà: se il dono è atto volontario e liberale, come garantire il compenso alla prostituta, cui alcuni degli stessi canonisti avevano negato il diritto di reclamare contro il cliente inBrundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 309. Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, II, II, q. 32, a. 7, citato in Ferrante, Il valore del corpo, cit., p. 211. 72 Guido de Baisio, Rosarium decretorum, citato in Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 465. 73 Diego de Covarrubias y Leiva, Regulae peccatum. De regulis iuris libri VI, 1581, citato in Ferrante, Il valore del corpo, cit., p. 212. 70 71

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solvente?74 Ancora una volta la questione fu risolta con sottigliezza e fantasia: «laddove l’uomo prova diletto e piacere la donna incontra invece pericolo e fatica, pertanto l’unico mezzo per riequilibrare questo scambio così ineguale è il dono che per l’uomo acquista il carattere di ‘obbligazione naturale’ cui è illecito sottrarsi»75. Non è sorprendente la puntigliosità con cui dal Medioevo alla prima età moderna canonisti e giuristi si sono applicati a elaborare le categorie più raffinate per dare sostegno giuridico al pagamento degli amplessi mercenari; la necessità di attenuare l’aura di colpa che circondava il meretricio – così da rendere meno contraddittoria la sua accettazione – era coerente con una percezione della copula carnale che aveva origini lontane. Nel diritto romano il matrimonio era un consortium, una società basata sul consenso degli sposi e su un insieme di obblighi che andavano dalla fedeltà da parte della moglie al mantenimento da parte del marito; il cristianesimo assorbì questa concezione introducendo tra gli obblighi per così dire fondativi l’unione sessuale, quel debitum intorno a cui teologi e canonisti costruirono complicate architetture di impegni e divieti. Come in vasi comunicanti, la visione contrattualistica sembra così fluire dal matrimonio alla copula coniugale e da questa alla copula fornicaria, associando ogni amplesso a un patto di scambio provvisto di implicazioni economiche determinanti. Il denaro che circolava intorno al meretricio dunque non era contaminato dalla fornicazione, ma possedeva anzi una sua purezza, fatta di leale rispetto di obblighi a qualunque titolo assunti. Un dubbio tuttavia cominciò nel basso Medioevo a corrodere tanta serenità: tra i beneficiari di quei guadagni era possibile includere anche la Chiesa? Poteva una prostituta effettuare donazioni ed elemosine alle istituzioni ecclesiastiche senza macchiarle del proprio peccato? Uguccione, di nuovo d’accordo con Rufino, sostenne di no, affermando che non si può fare elemosina di beni provenienti da azioni illecite, e cioè di beni acquisiti «attraverso il furto, o la rapina, o l’usura, o la simonia, o il gioco, o il meretriCfr. Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 393, nota 353. Lucia Ferrante, in Il valore del corpo, cit., p. 212, riprende le parole di Leonardo Lessio [Leys], De justitia et jure, 1622. 74 75

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cio, o con il lavoro degli attori, o dei matematici»76; mentre Giovanni de Faenza, riprendendo Tommaso, si dichiarò possibilista, suggerendo che «agisce turpemente chi fa la prostituta, ma [...] non agisce turpemente chi riceve da essa, benché sia prostituta»77. Il dibattito proseguì appassionato, dividendo chi confermava la tesi di Uguccione dai molti altri e autorevoli canonisti del XIII secolo che cominciarono a introdurre dei distinguo decisivi: è vero – sostenevano – che alcuni guadagni illeciti come quelli provenienti dal furto o dall’usura vanno rifiutati, ma è vero anche che le prostitute, al contrario dei ladri e degli usurai, hanno un diritto riconosciuto a ricevere il loro compenso, e dunque possono anche donarlo78. Le divergenze si estesero presto a toccare questioni istituzionali: era lecito introdurre tassazioni sui guadagni delle meretrici? La Bibbia lo proibisce ma la maggioranza dei giuristi finì con l’accettarlo, motivando le proprie tesi con le stesse argomentazioni teoriche che giustificavano l’accettazione delle elemosine. Un efficiente pragmatismo inoltre orientava la Chiesa tutta nel ritenere che fosse meglio esigere le decime e usarle a fini pii piuttosto che lasciare che il denaro fosse speso in inutili e peccaminose vanità79. Nei fatti, fin dal Medioevo le prostitute donavano candele per gli altari, elargivano elemosine e finanziamenti diversi, solo occasionalmente rifiutati da preti e vescovi. Finché, intorno al XV secolo, un mutamento decisivo investì la concezione stessa del meretricio in tutta la società: non più male inevitabile da accettare tacitamente per evitare danni peggiori all’ordine familiare, la prostituzione divenne un servizio di pubblica utilità, capace forse addirittura di contrastare il vizio nefando della sodomia, che in quegli stessi decenni pareva diffondersi irrefrenabilmente in molte città80, un servizio dunque da controllare e regolamentare81. Tutte le teorie elaborate dai giuristi confluirono allora a sostenere comportamenti sessuali e scelte governative che presero a dilatarCfr. Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 309. Ibid. 78 Ivi, p. 393. 79 Ivi, p. 394. 80 Cfr. supra. 81 Cfr. J. Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo, Laterza, Roma-Bari 1995. 76 77

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si, diffondendosi nelle latitudini e nei ceti sociali ed estendendosi dalle autorità civili a quelle religiose. Dapprima tollerati nelle zone più periferiche o degradate delle città, in Spagna, in Francia, in Italia, in tutta Europa i bordelli si insediarono nei quartieri più centrali o più facilmente accessibili, raggiunsero borghi fino ad allora serviti da prostitute vaganti o occasionali, furono riorganizzati e sottoposti a regolare tassazione dalle autorità municipali, passarono spesso sotto la loro diretta gestione. Nella Castiglia del Quattrocento la frequentazione dei lupanari era strettamente riservata ai cristiani, e la pena di morte attendeva il moro o l’ebreo che avessero osato congiungersi con una delle prostitute che vi lavoravano; il reddito assicurato dalle imposte di concessione inoltre costituiva per molte città – anche nei primi decenni del Cinquecento, durante il regno dei Re Cattolici – uno dei cespiti più significativi per i bilanci municipali82. Verso la fine del secolo a Digione – che contava circa 2.500 abitanti in città e circa 10.000 nel baillage – prosperavano un bordello municipale e diciotto privati, con un ruolo tutt’altro che marginale nelle entrate comunali83. Nei primi anni del Cinquecento poi le case di prostituzione che sorgevano vicino al fiume, a Siviglia, erano considerate un investimento lucroso e rispettabile, al punto che oltre alla municipalità stessa ne erano proprietari enti ecclesiastici (incluso il capitolo della cattedrale), ospedali e comunità religiose84. A Firenze nel 1403 fu istituito l’Officio dell’Onestà, con la finalità politica di ostacolare il diffondersi della sodomia organizzando e regolamentando la prostituzione: i suoi funzionari concedevano a meretrici e lenoni le licenze per esercitare la loro attività e gestivano i bordelli pubblici, tre in cui nel 1436 lavoravano circa settanta donne con l’obiettivo di affermare i piaceri dei rap82 Cfr. D. Menjot, Prostitution et ruffianage dans les villes de Castille à la fin du Moyen Âge, in Bulletin n. 19 de l’International Association for the History of Crime and Criminal Justice, 1994. 83 Cfr. Rossiaud, La prostituzione nel Medioevo, cit., p. 9. 84 Cfr. R. Pike, Aristocrats and Traders: Sevillian Society in the Sixteenth Century, Cornell University Press, Ithaca 1972; M.E. Perry, Crime and Society in Early Modern Seville, University Press of New England, Hanover 1980; Ead., Deviant Insiders: Legalized Prostitutes and a Consciousness of Women in Early Modern Seville, in «Comparative Studies in Society and History», vol. 27, 1, 1985.

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porti eterosessuali. Inoltre, in ossequio al diritto canonico che proibiva alle prostitute di reclamare in prima persona contro abusi e insolvenze, i magistrati dell’Onestà le rappresentavano in giudizio, offrendo così un accesso ai tribunali più diretto di quello consentito nello stesso periodo alle donne oneste85. Anche a Bologna nella seconda metà del Quattrocento esistevano non solo il pubblico lupanare, fatto di un gruppo di case e di osterie situate proprio al centro della città, ma anche un registro delle meretrici e una magistratura – l’Ufficio delle Bollette – che aveva tra i suoi compiti quello di redigere il registro, individuare e legalizzare le prostitute clandestine, imporre e riscuotere le imposte sulla prostituzione, giudicare nelle cause in cui fossero coinvolte le meretrici86. E quando papa Giulio II nel 1513 annetté la città allo Stato pontificio non pensò affatto di abolire tanta organizzazione: si limitò a chiudere il bordello, un po’ per arginare il diffondersi della sifilide e un po’ per soddisfare le richieste dei padri cappuccini, la cui chiesa sorgeva accanto alla zona «a luci rosse» che turbava spesso con i suoi schiamazzi il pio svolgimento di funzioni e devozioni. Il governo papalino conservò il registro e l’organismo giudiziario: fino a Seicento inoltrato dunque le prostitute bolognesi poterono rivolgersi all’Ufficio delle Bollette per reclamare il pagamento delle proprie prestazioni. Chiedevano il sostegno della magistratura «pro mercede carnali» e i giudici, in difesa di quella «obbligazione naturale» che si era stabilita tra le donne e i loro clienti, condannavano questi ultimi a pagare una o due lire per una notte, alcune decine per un rapporto esclusivo durato vari anni. Così Lucrezia Malaguti reclamò nel 1604 chiedendo di essere pagata «pro concubito et re carnali», avendo passato la notte con un cliente che pensava di essersela cavata offrendole la cena; e quando, per garantire i diritti di Camilla Benini, i giudici interrogarono nel 1625 lo sbirro Sebastiano Belpassi, gli chiesero se fosse a conoscenza del fatto che «qualsivoglia don85 Cfr. S. Cohen, The Evolution of Women’s Asylums since 1500: From Refuges for Ex-Prostitutes to Shelters for Battered Women, Oxford University Press, Oxford 1992, pp. 42-44; M.S. Mazzi, Prostitute e lenoni nella Firenze del Quattrocento, Il Saggiatore, Milano 1991; R.C. Trexler, Famiglia e potere a Firenze nel Rinascimento, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1990. 86 L. Ferrante, Pro mercede carnali... Il giusto prezzo rivendicato in tribunale, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», 2, 1986.

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na, ancor che meretrice, che si induce a lasciarsi godere carnalmente da qualsivoglia sbirro merita molta maggior recognitione di quello meritaria da qualsivoglia altro non facesse detta professione di sbirro», sostenendo in pratica che l’infamia dello sbirro era senz’altro superiore a quella della prostituta87. Se dal meretricio provenivano imposte sicure e laute elargizioni, era necessario che il popolo delle prostitute fosse riconoscibile e separato dal resto della comunità. Oltre che a facilitare censimenti e tassazioni, l’identificazione si rendeva indispensabile a un insieme di scopi: in società – come quelle del tardo Medioevo e della prima età moderna – in cui l’appartenenza a corpi e a ceti doveva essere immediatamente leggibile attraverso grammatiche tutte esteriori, doveva essere impossibile scambiare per prostituta una donna onesta, mettendone a rischio l’onorabilità con interlocuzioni inopportune; altrettanto semplice doveva risultare il riconoscimento a preti e religiosi, così che potessero allontanare le donne di mala vita dalle processioni o dalle funzioni più solenni; anche gli sbirri infine dovevano appurare agevolmente iscrizioni ai registri e patenti di esercizio, aggiungendo l’efficacia del controllo poliziesco all’eliminazione di ogni contaminazione sociale e religiosa. I segni della diversità dovevano essere posti nell’abbigliamento e nell’acconciatura: avevano cominciato a suggerirlo alcuni canonisti del XIII secolo, riprendendo un’antica legge romana secondo la quale le matrone che si fossero vestite come le prostitute avrebbero perso i loro privilegi sociali. Molti statuti municipali si affrettarono ad accogliere l’indicazione, stabilendo ognuno a suo modo il marchio della separatezza: il colore in molte aree di lingua tedesca, così che le prostitute dovevano vestire di verde ad Augusta, di rosso a Zurigo, di giallo a Vienna e a Lipsia, mentre dovevano portare una cuffia color zafferano a Cordova in Spagna; lo stile dell’abito o addirittura la fabbrica di produzione in altre città; i gioielli, gli orecchini in particolare, in altre ancora88. Anche i comportamenti erano regolamentati, in alcune zone all’insegna di una contaminazione che accomunava ebrei e meretrici: ad 87 88

Ivi, p. 49. Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 468.

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Avignone, secondo lo statuto del 1243, né gli uni né le altre potevano toccare il pane o la frutta esposti nei mercati, a meno di non comprare ciò che avevano tastato89. In altri paesi il principio ispiratore era la distinzione sociale: nella Roma papalina bandi reiterati fino al XVII secolo e oltre proibivano alle prostitute di andare in carrozza, sotto la pena della frusta, dell’esilio, della confisca della carrozza, dei cavalli, dei vestiti e dei gioielli indossati90. Introdotti in genere nel Duecento, tali provvedimenti rimasero attivi nei secoli subito seguenti – quando la prostituzione fu concepita come un proficuo servizio sociale, di cui andavano riconosciuti gli operatori, più che come una vergogna appena tollerabile – e furono confermati in epoca di Controriforma, quando i dettami del Concilio di Trento imposero di isolare e garantire l’ordine delle famiglie, e quando le nuove responsabilità pastorali e anagrafiche dei parroci resero necessario conoscere e ben distinguere i fedeli91. Il senso dell’identificazione risiedeva infatti non nel progetto di estirpare la prostituzione ma in quello di governarla, in una cooperazione efficace tra poteri laici e istituzioni ecclesiastiche. Identificate, separate, segregate, le meretrici non erano tuttavia depositarie di un marchio indelebile, di una colpa foriera di dannazione eterna; nella percezione sociale, nelle rappresentazioni letterarie, nelle elaborazioni giuridiche e teologiche il peccato più esecrabile era semmai quello di chi si faceva tramite e sfruttatore delle copule mercenarie. Nel Medioevo i canonisti bollavano di infamia mezzane e lenoni, ritenuti personalmente responsabili di ogni trasgressione commessa dalle donne da loro controllate, condannavano in misura appena inferiore i proprietari dei bordelli e chi aiutava le prostitute ad adornarsi; ma nel Rinascimento e nella prima età moderna anche quell’infamia era svanita, scalzata dal più concreto proposito di acquisirne vantaggio economico. Nel lungo periodo della storia del cristianesimo, invece, l’immagine della prostituta veniva associata, più che a un’innata depraIvi, p. 469. Archivio di Stato di Roma, Biblioteca, Bandi, b. 410 (si ringrazia Angela Groppi per la segnalazione). 91 Cfr. L. Allegra, Il parroco: un mediatore fra alta e bassa cultura, in Storia d’Italia. Annali, vol. IV, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981. 89 90

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vazione, all’abbandono nella povertà e nella solitudine, a una lotta per la sopravvivenza priva di appoggi familiari e istituzionali. La sua colpa era la debolezza della vittima, la disperazione della sedotta. Come tale dunque era reversibile, conservava la speranza del riscatto. L’aveva mostrato Maria Maddalena, la redenzione era possibile, e la riabilitazione delle meretrici fu un impegno costante del cristianesimo. Nell’XI secolo il culto della Maddalena fu attivamente stimolato da papa Leone IX, mentre Ivo di Chartres raccomandava come un atto di grande carità cristiana quello di sposare una prostituta strappandola alla sua vita di peccato92. Un secolo dopo il progetto prese ad ampliarsi, e il recupero non si limitò più al matrimonio – meritorio ma sporadico – tra un singolo fedele e una singola meretrice; divenne dapprima scelta pastorale, poi programma istituzionale. Nei primi anni del Duecento, in Francia, il predicatore Folco di Neuilly seppe indurre al pentimento un gran numero di prostitute, al punto che dovette trovare un convento vicino Parigi dove riunirle e garantire loro un’esistenza protetta e penitente. Fu l’inizio di un movimento che si estese in tutta Europa e per tutta l’età moderna, coinvolgendo soggetti laici e istituzioni ecclesiastiche in politiche complesse di carità, di scambi economici e di visibilità sociale. In Renania Rodolfo di Worms fondò l’ordine di Santa Maria Maddalena, approvato da papa Gregorio IX nel 1227 e subito esteso a molte città francesi e tedesche: le prostitute pentite si ricoveravano nei conventi dell’ordine e vivevano vestite di bianco una vita di preghiera, in attesa di prendere i voti o di tornare al mondo trovando un marito93. Non si poteva certo, infatti, vincolare alla monacazione la possibilità del riscatto, limitandola a una scelta forse inadatta a molte; il matrimonio rimaneva la soluzione più sicura, la sanatoria garantita di ogni vita dissoluta. Il progetto allora non parve completo se non avesse affiancato alla fondazione di conventi specifici la raccolta e l’erogazione di doti, capaci di attirare uomini alla ricerca di nozze convenienti. E la missione del recupero delle prostitute divenne una fitta ramificazione di elargizioni, lasciti, finanziamenti e trattative. 92 93

Ivo di Chartres, Decretum, 8. 37-38. Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 395.

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I conventi sembravano infatti al tempo stesso troppo provvisori e troppo definitivi, a seconda che li si osservasse dal punto di vista del ricovero immediato dalla strada o da quello della scelta dei voti; e anche troppo promiscui, nel loro unire in convivenza prostitute pentite, vergini consacrate alla preghiera, nobildonne consegnate al velo dalle politiche familiari. Erano necessari istituti specializzati dove le donne di mala vita potessero consumare il loro pentimento e ricevere gli strumenti indispensabili a una onesta esistenza nel mondo: i rudimenti di un mestiere, una dote, una nuova garanzia di onorabilità. I ricoveri per le meretrici in cerca di riscatto fiorirono in tutta Europa a partire dal Cinquecento, quando la tensione controriformista indusse la Chiesa cattolica e i potenti devoti a gareggiare con il rigore protestante nell’ostentare impegno contro ogni pubblica depravazione. Erano retti da congregazioni e confraternite istituite ad hoc, o comunque in grado di riservare alla loro gestione una parte cospicua della propria attività, supportate da nobili, mercanti, prelati, dame, tutti desiderosi di investire denaro e risorse relazionali in istituzioni pie, capaci di remunerare copiosamente in termini di patronage e di visibilità. Divennero ben presto istituzioni complesse, dalle attività diversificate: fornivano asilo, espiazione e formazione alle prostitute redente, collocavano sul mercato i manufatti prodotti dalle ricoverate, bandivano e assegnavano periodicamente doti da aggiungere al capitale ricostituito di onore e abilità. Altrettanto diversificate dovevano essere dunque le risorse finanziarie che alimentavano tanto impegno: rendite dei patrimoni delle congregazioni stesse, proventi delle attività svolte all’interno degli istituti, elemosine ed elargizioni periodicamente sollecitate o imposte ai congregati, lasciti testamentari di cittadini abbienti. L’intreccio di missione pastorale, carità privata, interessi economici, strategie familiari, carriere ecclesiastiche, politiche di assistenza pubblica non poteva essere più fitto. Uno degli istituti più antichi fu quello di Santa Caterina della Rosa a Roma, fondato dalla Compagnia delle vergini miserabili, una confraternita di laici e di ecclesiastici istituita nel 1536 allo scopo di «provvedere e ovviare a’ molti scandali ch’occorrevano per le figliole di cortigiane e di poveri huomini le quali erano al-

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levate a malavita»94; tra i suoi fini caritatevoli figurava dunque anche la prevenzione, inaugurando quel filone di ricoveri per «pericolanti» che avrebbe avuto grande sviluppo nei secoli successivi95. Nel 1579 nacque a Firenze la Compagnia di Santa Maria Maddalena sopra le Malmaritate, una confraternita di laici ed ecclesiastici che fondò la Casa delle Malmaritate – un ricovero per prostitute pentite e donne di dubbia moralità – e che seppe trovare subito un accordo vantaggioso con le altre istituzioni cittadine: il rigore controriformista e la paura della sifilide avevano infatti dato nuovo impulso alla promozione delle redenzioni, e la magistratura dell’Onestà si impegnò a destinare parte dei suoi proventi al finanziamento del locale monastero delle Convertite e alla Casa delle Malmaritate. Si instaurava così un circuito ipocrita ma virtuoso: le tasse pagate dalle prostitute per esercitare il mestiere servivano anche per redimerle e ricoverarle dopo il pentimento96. Del resto, smentendo le leggi medievali, alla metà del secolo una disposizione del governo cittadino aveva stabilito che le meretrici potessero risiedere anche a poca distanza dai conventi, purché vivessero in apparente modestà e decenza97. Alla fine del Cinquecento l’offerta di riscatto riservata a Bologna alle prostitute era ricca e diversificata: c’era la Casa del Soccorso di San Paolo, retta anch’essa da una congregazione di laici ed ecclesiastici e destinata ad accogliere donne cadute nel peccato per reinserirle nella società attraverso il matrimonio, la collocazione a servizio presso famiglie oneste o la monacazione98; c’era il convento dei Santi Giacomo e Filippo, detto delle Convertite, istituito nel 1568 per accogliere le prostitute pentite che desi94 Citato in A. Groppi, I conservatori della virtù. Donne recluse nella Roma dei Papi, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 21. 95 Cfr. Groppi, I conservatori della virtù, cit., e A. Camerano, Assistenza richiesta ed assistenza imposta: il Conservatorio di S. Caterina della Rosa di Roma, in «Quaderni storici», 82, 1993. 96 Cfr. Cohen, The Evolution of Women’s Asylums since 1500, cit., p. 45. 97 Ivi, p. 51. 98 L. Ferrante, L’onore ritrovato. Donne nella casa del soccorso di S. Paolo a Bologna (sec. XVI-XVII), in «Quaderni storici», 53, 1983; Ead., Patronesse e patroni in un’istituzione assistenziale femminile (Bologna, sec. XVII), in Ragnatele di rapporti. Patronage e reti di relazione nella storia delle donne, a cura di L. Ferrante, M. Palazzi e G. Pomata, Rosenberg & Sellier, Torino 1988.

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deravano prendere i voti; c’era l’intervento certificatore dell’Ufficio delle Bollette. Oltre alla prerogativa di giudicare e valutare il «giusto prezzo» di ogni amplesso mercenario, l’Ufficio delle Bollette aveva infatti un altro, decisivo, potere: quello di cancellare dai propri registri il nome di una prostituta, restituendola così a una vita rispettabile e onorata. Certo non era facile: bisognava avere un certificato di matrimonio – l’unico documento capace di reintegrare definitivamente l’onore di una donna deflorata –, oppure il parere favorevole del Sindaco delle Madri Convertite, meglio se accompagnato da una lauta elemosina alle religiose del convento. Muovere la disponibilità di quelle monache a riconoscere la nuova onestà delle ex meretrici era obiettivo non sempre realizzabile, e non solo per la diffidenza delle suore verso pentimenti forse solo di facciata. Grazie a un decreto di papa Pio V in vigore dal 1569, l’anno successivo alla fondazione, il convento delle Convertite – come molti altri analoghi, in altre città – godeva della prerogativa di ereditare i beni delle prostitute. Ogni cancellazione dal registro redatto dall’Ufficio delle Bollette comportava dunque sì la riabilitazione di una donna non più perduta, ma anche la scomparsa di una probabile entrata per l’istituto99. Intorno al recupero delle meretrici, tra laici e religiosi, tra istituzioni civili e istituzioni ecclesiastiche, si accendevano non solo collaborazioni fruttuose ma anche conflitti di interessi, aspre rivalità. Il modello italiano si estese a molti paesi cattolici europei, e i ricoveri per prostitute pentite si moltiplicarono per tutta l’età moderna, ripetendo all’infinito denominazioni e schemi organizzativi: all’inizio del Seicento i gesuiti fondarono a Siviglia la Casa Pía, nel 1619 nacque a Madrid il rifugio di Santa María Magdalena de la Penitencia, mentre l’esempio delle casas de recogidas cominciava a espandersi perfino nelle terre della Conquista; a Marsiglia fu fondato nel 1640 l’Ospizio del Rifugio e nel 1668 il rifugio di Clermont; verso la fine del secolo a Lione la potente confraternita della Compagnia del Santo Sacramento istituì il rifugio delle Recluse e quello delle Penitenti100. Ferrante, Pro mercede carnali..., cit. Cfr. Cohen, The Evolution of Women’s Asylums since 1500, cit., pp. 128-129. 99

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Negli asili per le ex prostitute era incluso fin dall’inizio un germe prolifico, che nelle rappresentazioni sociali e nelle esperienze operative generò lentamente ma coerentemente ampliamenti di destinazione, associazioni di significato, slittamenti di collocazione nel panorama della beneficenza pubblica e privata dell’Europa cattolica. Fondati con lo scopo specifico di dare ricovero alle meretrici pentite, gli istituti offrirono il primo esempio di reclusione femminile: presto nuove case aprirono le porte a donne di reputazione dubbia, a mogli abbandonate, a vedove, a zitelle povere, a tutte le donne prive di un capofamiglia capace di dare garanzie di tutela, perché tutte le donne sole erano minacciate e minacciose, e perché i confini del popolo delle prostitute rimasero sempre mobili e incerti. Nuove confraternite furono create per restituire onestà alle donne perdute ma anche per smacchiare onorabilità offuscate, per conservare virtù in pericolo. A partire dal Seicento fino al Novecento, la reclusione delle donne divenne una forma di sostegno alle famiglie e una risorsa decisiva per poveri e marginali: dalla redenzione all’assistenza, nascevano dalla prostituzione gli embrioni del welfare moderno101.

4. L’impotenza Il disordine che nella lunga storia del cristianesimo era associato al sesso non riguardava soltanto gli eccessi del desiderio o le pratiche immonde della lussuria più sfrenata. Come se missione e passione della Chiesa fossero esclusivamente la negazione e la repressione di ogni istintualità. Disordine sessuale era anche il silenzio dei corpi, colpevoli erano i membri virili che si rifiutavano di funzionare secondo i dettami del diritto canonico, era obbligo congiungersi spesso e fertilmente, traendone un piacere conforme alla legge ecclesiastica. E godere dell’amplesso coniugale era un diritto da garantire a tutti, anche alle minoranze dotate di corpi abnormi e doppi, di genitali sproporzionati o chiusi alla legittima penetrazione. La tutela del diritto a un’ordinata sessualità ha trovato nei se101

Su tutto questo si veda Groppi, I conservatori della virtù, cit.

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coli terreni d’applicazione impervi, che la storiografia ha quasi sempre ricondotto alla complessità inesauribile della dottrina sul matrimonio; essa rimanda invece anche a questioni altrettanto delicate, come la teoria della sovranità, la cooperazione e il conflitto con il sapere scientifico, la violenza sempre connessa all’applicazione della legge. Nella seconda metà del IX secolo, negli stessi anni in cui l’arcivescovo di Reims Incmaro pose la copula carnale a fondamento del matrimonio cristiano102, l’impossibilità di consumare le nozze, e dunque di portare a compimento il sacramento, prese a costituire per i canonisti un terreno di esercitazione ricco e articolato, fertile di sviluppi a volte inauditi. Come conseguenza del potere fondativo dell’amplesso, nell’alto Medioevo l’incapacità sessuale di uno dei coniugi divenne causa possibile di separazione e nuove nozze. Ma con una serie di cautele. Occorreva verificare che l’impotenza fosse innata, che precedesse cioè il matrimonio, e che non fosse invece transitoria, dovuta magari a sortilegi o malefici. Se si fosse appurata un’impotenza permanente, il coniuge «sano» avrebbe potuto risposarsi, ottenendo così la garanzia di una soddisfacente sessualità coniugale, mentre l’altro avrebbe dovuto vivere in castità permanente; se all’origine di tutto si fosse trovata invece una magia, i coniugi colpiti avrebbero dovuto digiunare, fare elemosine, pregare, sottoporsi a esorcismi, avrebbero infine potuto essere separati, ma mai più procedere a seconde nozze. La teoria sul matrimonio era appena abbozzata: non esisteva ancora l’idea di nullità, un concetto che richiedeva un senso giuridico capace di dissociare una situazione di fatto – un’unione esistente – da uno stato di diritto, la rispondenza cioè a requisiti stabiliti da norme universali103. Qualche secolo dopo, verso la fine del 1100, la messa a punto di un sistema teorico compiuto sugli impedimenti ebbe conseguenze evidenti anche sulla concezione dell’indissolubilità, e offrì nuovi argomenti di riflessione sull’impotenza e sul diritto alla sessualità. L’impossibilità di congiungersi carnalmente fu classificata tra gli impedimenti assoluti, capaci di rendere nullo un matrimonio 102 103

Cfr. supra, cap. III. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit., p. 146.

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già contratto indipendentemente dalla volontà dei coniugi; il papa dunque avrebbe potuto dissolvere le unioni non consumate poiché il legame matrimoniale era stabilito dalla Chiesa e non dalla legge divina o naturale. Il potere papale sul matrimonio aumentava enormemente, e rischiava di entrare in conflitto con la teoria che poneva le basi del legame sul consenso reciproco dei coniugi; alcuni canonisti proposero allora una soluzione che integrava la questione dell’impotenza nella perfezione del consenso. Secondo Stefano, vescovo di Tournai, la capacità sessuale era una condizione essenziale su cui doveva basarsi il consenso, una sorta di prerequisito alla stipulazione del contratto matrimoniale104. Altri si dichiararono semplicemente in disaccordo con le decretali che conferivano al papa il potere di sciogliere i matrimoni non consumati, e cercarono almeno di limitarne la casistica: si affermò, per esempio, che non si sarebbero dovute annullare le nozze minate dall’impotenza senile, perché quest’ultima avrebbe potuto essere superata, almeno a intermittenza, attraverso medicine e diete opportune105. Di fatto, il papato fu chiamato spesso a dirimere questioni coniugali controverse, e la necessità di appurare, verificare, circoscrivere si fece sempre più stringente. Uguccione propose una classificazione di successo distinguendo tre cause di impotenza: quelle fisiche, quelle mentali, connesse alla follia, quelle sia fisiche che mentali, come l’età troppo giovane. Mentre le ultime due erano cause certe di nullità, l’impotenza esclusivamente fisica richiedeva indagini più accurate: bisognava appurare che fosse congenita e non acquisita, bisognava soprattutto provarne l’autenticità. Questione spinosissima, la prova dell’incapacità sessuale metteva in risalto i limiti degli strumenti utilizzati dalla Chiesa per governare comportamenti sessuali e moralità dei fedeli. Confessioni, giuramenti e testimonianze – le conoscenze normalmente acquisite attraverso la strategia della parola – non potevano considerarsi sufficienti per giudicare su argomenti tanto intimi; soprattutto – percorrendo all’inverso l’itinerario che, dall’esteriorità di peccati e penitenze tutte fisiche, stava conducendo la pastorale 104 105

Brundage, Law, Sex, and Christian Society, cit., p. 291. Ivi, p. 376.

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cristiana nel profondo di anime, intenzioni, desideri – era necessario che a esprimersi fossero i corpi. I corpi di uomini e donne, e loro soltanto. L’impotenza, infatti, non riguardava soltanto membri virili inadatti alla penetrazione, ma comprendeva nel suo ambiguo disordine vagine serrate, imeni impossibili da perforare. Genitali ribelli all’obbligo coniugale, immaturi, maledetti da sortilegi o congenitamente estranei all’accoppiamento dovevano essere svelati, ispezionati, messi alla prova e curati se possibile, in vista del bene superiore della legittimità matrimoniale. E per questo, con prelati e giudici ufficialmente incompetenti di organi sessuali dovevano collaborare altri saperi e altre esperienze, convocati dalla Chiesa con pragmatica spregiudicatezza. Giuristi e teologi si confrontarono dapprima sul grado di impotenza tollerabile: mentre Bernardo di Montemirato sosteneva che per ritenere valido il matrimonio l’uomo dovesse essere in grado non solo di penetrare, ma anche di effondere il seme, Tommaso d’Aquino e Bonaventura non consideravano indispensabile l’eiaculazione, visto che la questione da dirimere era la consumazione e non la sterilità, e altri canonisti arrivarono a sostenere che il matrimonio potesse essere consumato anche con la sola inseminazione, «sine effractione claustri pudoris»106. Stabilirono poi tre procedimenti convenzionali per ottenere la prova, sia dell’impotentia coeundi che della frigiditas: un’accurata ispezione dei genitali, sia dell’uomo che della donna, la testimonianza giurata dei vicini, la certezza di una coabitazione continuata di almeno tre anni. La parte più complessa era ovviamente quella dell’ispezione. Se c’era da verificare l’incapacità del marito si cominciava con il controllare la verginità della moglie; se l’imene era intatto si doveva avviare l’esame del marito, alla ricerca di tracce di immaturità o di anomalie fisiche. Se anche questa circostanza fosse stata da escludere occorreva spingersi oltre, all’indagine sul funzionamento. Ma non si poteva certo esigere che fossero i giudici – maschi e preti – a stimolare membri apatici per provocarne una qualche reazione; nei tribunali ecclesiastici inglesi si ricorreva spesso all’aiuto di donne di provata esperienza (proba106

Petrus de Sampsone, Lectura in decretales, citato ivi, p. 456, nota 201.

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bilmente prostitute) che si adoperavano a baciare, carezzare, strofinare pene e testicoli dell’esaminando per provocarne l’erezione. Se la prova – naturalmente pubblica – fosse fallita, con tutta probabilità il tribunale avrebbe riconosciuto l’impotenza del marito. Giudici per esperienza anziché per carriera ecclesiastica, le prostitute avevano così l’ultima parola sulla validità del sacramento matrimoniale. La verifica e il trattamento dell’incapacità femminile potevano essere ancora più radicali. L’impossibilità dell’amplesso poteva dipendere da un imene troppo spesso o dal disturbo oggi chiamato vaginismo: in entrambi i casi Guglielmo di Pagula, canonista del XIV secolo, aveva pronta la soluzione. Con uno sguardo attento alle eventuali difficoltà di erezione del marito, il quale forse «non può copulare con una vergine, ma può farlo con una corrotta», Guglielmo suggeriva che «con una medicina o con qualche altro strumento si potessero rompere gli sbarramenti della ‘pudicizia’, e tale intervento non avrebbe offeso il matrimonio perché sarebbe stato compiuto non a scopo di concupiscenza ma a scopo di cura»107. Se lo sverginamento chirurgico poteva aver ragione delle resistenze dell’imene, i rimedi per il vaginismo dovevano essere, per così dire, ancora più empirici. Le difficoltà di penetrazione potevano derivare anche da una sproporzione tra genitali maschili e femminili; la cura consigliata dal canonista era allora la promiscuità. La vagina si sarebbe dischiusa attraverso coiti ripetuti con un partner dalle dotazioni più compatibili, e così la moglie sarebbe divenuta progressivamente capace di accogliere il coniuge legittimo. L’impotenza relativa – quella appunto che impediva la copula esclusivamente con il coniuge ma non con altri – era stata già al centro delle preoccupazioni dei canonisti trecenteschi: e Tancredi aveva discusso il caso di una donna che, dopo un primo matrimonio sciolto per l’impossibilità di consumarlo, aveva preso un secondo marito con cui si era congiunta felicemente. Doveva tornare dal primo marito e riprovare con lui? Tancredi aveva ritenuto di sì, aggiungendo che se il primo tentativo fosse andato a vuoto la donna sarebbe dovuta tornare dal secondo marito e poi an107

205.

Guglielmo di Pagula, Summa summarum, 4.13, citato ivi, p. 458, nota

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cora dal primo, per almeno tre volte. Giovanni Teutonico era stato più intransigente, e aveva sostenuto che la donna sarebbe dovuta andare e venire da un marito all’altro all’infinito108. Le soluzioni proposte da Guglielmo di Pagula apparvero forse più sensate dell’andirivieni erotico voluto dai suoi predecessori, ma anche troppo creative, se nei secoli successivi i canonisti ripresero e acquisirono la scelta chirurgica ma lasciarono cadere l’intervento dilatatore del volenteroso terzo; le seduzioni delle prostitute non avevano il potere di contaminare il marito in difetto d’erezione, ma una pratica sessuale ripetuta della moglie con un altro partner, anche se propedeutica a quella legittima, doveva apparire troppo minacciosa per essere addirittura imposta per vie legali. Alla fine del XVII secolo, la Summa Diana cita autorevoli teologi per riproporre l’incisione, sottolineandone tuttavia la pericolosità e la delicatezza e soprattutto distribuendo tra i coniugi responsabilità e oneri: La donna che si sposa con l’impedimento di una straordinaria strettezza a causa della quale deve ritenersi inadatta all’uso del marito, se non c’è pericolo di morte o di grave e pericolosa infermità, può essere sottoposta all’incisione, e diventare adatta. E questo lo imputerà certamente a se stessa: perché non si era esaminata prima delle nozze. [...] Se invece ella è di per sé adatta alla copula, e l’uomo è trovato incapace per la straordinaria grandezza, o debolezza, dei genitali, non è tenuta a patire l’incisione anche se potesse farlo comodamente, poiché dato che il difetto è nell’uomo all’uomo tocca trovare il rimedio e rendersi adatto, soprattutto perché la natura virginale ha orrore dell’incisione, e l’onestà non la tollera facilmente.109

Qualcosa è cambiato, e profondamente: il principio di responsabilità personale ha pervaso anche l’amministrazione del Ivi, pp. 378-379. Summa Diana. In qua opera omnia duodecism Partibus comprehenda Antonius Cotonius Siculus tertij Ordinis Sancti Francisci, necnon Andreas Guadagno S.T.D. Septem à primo, ceateris ab hoc expletis, IN unicum volumen, alphabetico simul & doctrinali ordine digestum & bipartitum, eodem Antonino Diana Panormitano clerico regulari [...] Notabili legentium commodo ac utilitate, arctarunt & eleganter remiserunt [...], Venetiis, Apud Benedictum Milochum, MDCLXXVI, p. 476. 108 109

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matrimonio e la sessualità, la Chiesa non è più padrona assoluta di corpi da manipolare in vista del bene supremo del congiungimento coniugale, uomini e donne devono garantire la propria capacità persino mediante autoispezioni prenuziali. Nell’Europa cristiana i soggetti si costituiscono anche attraverso appropriazioni ed espropriazioni: acquisiscono frammenti di dominio su corpi e desideri, perdono l’innocenza di esistenze prima governate da una legge pervasiva e imperscrutabile. «Il matrimonio – spiega la Summa Diana – è celebrato infatti sotto la tacita condizione che i coniugi siano adatti non genericamente all’altro sesso considerato in toto, ma a quel coniuge in particolare; per cui se un uomo, adatto a qualche altra donna, è inadatto proprio a sua moglie, che di per sé è adatta ad altri, anche se essa potesse con una piccola incisione diventare adatta anche a un uomo di proporzioni enormi non è tenuta a sottoporvisi, né l’uomo acquisisce il dominio sul suo corpo; ma il matrimonio deve essere sciolto»110. Il sacro vincolo del matrimonio è così minacciato dalla disarmonia dei genitali, la sua indissolubilità deve arrendersi di fronte alle sproporzioni reciproche di membri e vagine. L’incapacità relativa apriva la strada a circostanze e contrattazioni che rendevano ogni caso di impotenza una storia a sé, impossibile da ricondurre a classificazioni generali e inappellabili. A meno che non intervenisse di nuovo una scienza medica decisa a imporre il proprio sapere a giudici dubbiosi e comprensivi, rassicurandoli sulle infinite possibilità di accoglienza delle donne. In pieno Seicento Paolo Zacchia, medico personale dei papi Innocenzo X e Alessandro VII, consulente legale del tribunale della Sacra Rota e fondatore della moderna medicina legale, nelle sue Quaestiones medico legales si adoperò a sviscerare con severa analiticità la materia dell’impotenza, proponendo una casistica anche riguardo alle dimensioni dei genitali maschili. I risultati tranquillizzarono quasi tutti – prelati desiderosi di salvaguardare il legame coniugale e mariti incerti delle proprie dotazioni – ispirati com’erano dall’immagine di una vagina onnivora e infinitamente adattabile, e di donne disposte o obbligate ad accettare qualunque conseguenza dell’amplesso. L’eccessiva lunghezza del 110

Ivi, p. 477.

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pene – sostiene Zacchia – non impedisce la copula, anche se può provocare nella donna incomodi non irrilevanti come incontinenza, diarrea continua, prolasso uterino; la grossezza non costituisce mai un impedimento tale da non poter essere superato dalle caratteristiche stesse dei genitali femminili, poiché non è possibile «che una donna non lasci entrare un uomo per la grandezza del suo membro, o che non possa tollerarlo»111; le donne poi non si lamentano di membri corti purché siano abbastanza larghi, e solo l’eccessiva sottigliezza può diminuire, se non impedire del tutto, il piacere coniugale. Un’esperienza medica ottimistica e orientata si propone ormai non più come partner cruento e incurante del pudore femminile, ma come interlocutore e consigliere di violenze più sottili. C’era un modo tuttavia per i coniugi illibati di alleggerire la responsabilità di mancati esami preventivi, di sottrarsi alla violenza indagatrice di giurie eterogenee in cui prelati, medici, mammane e prostitute ispezionavano e misuravano, tagliavano e manipolavano; c’era un modo anche per la Chiesa di riacquistare l’esclusiva di un potere troppo condiviso. Bisognava attribuire consumazioni mancate e inattese défaillances a malefici lanciati da parenti invidiosi o da pretendenti respinti, o da Satana in persona, e tutto il procedimento avrebbe dovuto lasciare i terreni positivi delle ispezioni corporali per entrare nel soprannaturale di scongiuri e penitenze. Ma anche questo percorso era irto di ostacoli, perché doveva poggiarsi ancora sull’evidenza della prova. Questa volta però tutta rovesciata. Lo dichiara esplicitamente Paolo Zacchia: il riconoscimento del maleficio spetta ai maestri della religione (Doctores). Ma è terribilmente difficile – soggiunge – trovare i segni che distinguono senza alcun dubbio il frigido dal maleficiato; così che l’individuazione dei maleficiati si riduce all’assenza dei segni che attestano la frigidità112. E allora la scienza medica torna in soccorso del giudi111 Pauli Zacchiae Quaestionum medico-legalium opus, Lugduni, M.A. Ravaud, 1661, Libri noni, Titulus III, De impedimento coeundi & generandi, Quaestio III, De impedimento Copulae ob membri magnitudinem, & alia vitia pater naturam, p. 49. 112 Ivi, Quaestio II, De impedimento coitus ob frigiditatem & maleficium, p. 46.

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zio ecclesiastico, suggerendo che la diagnosi del maleficio debba svolgersi a contrario: occorre verificare che i genitali siano ben conformati, che la peluria sia collocata nei luoghi debiti, che ci siano stati in precedenza congressi carnali ben riusciti, insomma che nulla faccia sospettare un’impotenza congenita, perché il maleficio non colpisce uomini per loro natura già impotenti. L’ignavia genitalium deve cogliere all’improvviso, e soprattutto, perché sia certo il maleficio, non deve essere universale, perché un uomo incapace di congiungersi con qualunque donna è più probabilmente impotente; l’uomo colpito dunque sarà incapace con una donna soltanto, e non con tutte le altre, oppure con tutte tranne che con una. Il Diavolo ad esempio si adopera a moltiplicare le occasioni di peccato, e dunque facilmente rende gli uomini impotenti solo con la propria moglie così da spingerli all’adulterio, oppure – sempre allo stesso scopo – li rende capaci di copulare soltanto con meretrici. Anche il maleficio infatti deve essere classificato: può essere opera del Diavolo in persona oppure procurato da altri con la somministrazione di pozioni velenose113. Le credenze popolari non avevano bisogno di prove e classificazioni scientifiche: nella prima età moderna fatture e sortilegi agitavano i sogni degli sposi promessi, mobilitavano le fantasie delle comunità di villaggio e di vicinato, facevano da detonatore di gelosie e conflitti sopiti a lungo, stimolavano l’elaborazione di simbologie complicate. Nel Cinquecento soprattutto, ma anche nei secoli successivi, il maleficio che i francesi chiamavano le nouement de l’aiguillette (l’annodamento del membro virile) fu al centro delle ansie dei fedeli e di molte disposizioni conciliari: poiché infatti il diritto canonico riconosceva – pur tra mille riserve – la possibilità di sciogliere un matrimonio non consumato per impotenza da maleficio (Si per sortarias, diceva uno dei decreti di Graziano del XII secolo), purché il maleficio stesso fosse stato compiuto prima delle nozze, i timori principali si addensavano proprio sulla cerimonia nuziale. Si fantasticava di strani bambini, di individui sospetti nascosti nelle chiese per lanciare il sortilegio sugli sposi appena benedetti e condannarli a un matrimonio casto e indissolubile. Il rimedio più logico era allora quello di celebrare 113

Ivi, p. 48.

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le nozze in clandestinità, di notte o in ore inusitate, così da impedire l’accesso a rivali malintenzionati e a fattucchieri di passaggio; una pratica che divenne evidentemente consuetudine, se molti concili cinquecenteschi dovettero ribadire il divieto dei matrimoni notturni. Traendo così forse in inganno qualche storico della famiglia che ha ritenuto di attribuire alla ribellione contro l’autorità paterna e ai matrimoni combinati orari e segretezze che avevano invece lo scopo di evitare sortilegi e garantire una felice sessualità coniugale. Altri rimedi per evitare il famigerato «annodamento» appartenevano all’ambito di scongiuri molto terreni, dal simbolismo ingegnoso e letterale: uno dei più diffusi voleva che lo sposo orinasse per tre o quattro mattine attraverso il buco della serratura della chiesa dove era stato celebrato il matrimonio, oppure attraverso l’anello da lui donato alla sposa114. La Chiesa cercava allora di recuperare un’egemonia sul soprannaturale minata dalla superstizione distribuendo secondo le opportunità benedizioni e scomuniche: statuti e rituali diocesani raccomandavano ai parroci di enfatizzare con formule specifiche la santità dell’unione coniugale e di minacciare di scomunica sia gli artefici del sortilegio sia le pratiche destinate a neutralizzarlo. Il momento delle nozze, tuttavia, era l’unica occasione in cui il segreto veniva chiamato a velare timori e conflitti relativi all’impotenza. Dal Medioevo a tutta l’età moderna matrimoni dalla consumazione contrastata furono portati di frequente davanti ai tribunali ecclesiastici, uomini e donne consegnarono ai giudici l’incapacità del coniuge incuranti della pubblicità e della violenza delle prove; perché la pubblicità non era foriera di scandali, ma era parte di un conflitto destinato al riconoscimento pieno del diritto a una sessualità legittima e soddisfacente. Poco studiati da una storiografia ostacolata dalla complessità o dall’inaccessibilità delle fonti, e in genere distratta verso il dettaglio dei comportamenti sessuali, i processi conosciuti esibiscono dati solo in parte prevedibili. Cominciarono i re e i principi medievali, reclamando da papi e vescovi lo scioglimento di matrimoni a loro dire non consumati, probabilmente invece superati da nuove e pressanti 114 Cfr. P. Darmon, Le tribunal de l’impuissance. Virilité et défaillances conjugales dans l’ancienne France, Seuil, Paris 1979, p. 47.

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questioni dinastiche115; continuarono in età moderna soprattutto le donne le quali, con la sapienza disinibita che distingueva il loro accesso alla giustizia116, reclamavano contro mariti anziani, flaccidi, inutili. Aiutate dal confessore. Era il confessore a informare le giovani mogli illibate dei requisiti e delle prestazioni da esigere dai mariti, era il confessore a consigliarle di convocare in giudizio la loro incapacità117. Era una priorità precisa per la Chiesa che il diritto alla copula coniugale fosse assicurato: contro la volontà di coppie magari disponibili alla castità; nonostante l’abnormità di corpi ambigui, disposti a piaceri doppi e inquietanti. Nel 1587 Sisto V emanò una Bolla in cui proibiva espressamente il matrimonio degli eunuchi, con donne sia ignoranti sia consapevoli della loro condizione. Troppo impegnata a costruire e difendere l’istituzione matrimoniale nella sua perfezione, e troppo consapevole del potere corruttore del desiderio carnale, la Chiesa non poteva tollerare che con l’andar del tempo le mogli intatte degli spadones divenissero prede di fantasie e desideri lascivi; la castità inoltre doveva essere aspirazione delle anime e non imposizione dei corpi, i quali per accedere ai sacramenti dell’unione – il matrimonio ma anche l’ordinazione – dovevano essere integri e dotati di ogni capacità. Meno univoche – provviste anzi di ricami delicatissimi – le architetture giuridiche costruite nei secoli intorno all’affascinante mostruosità degli ermafroditi. Per secoli la Chiesa fondò la propria politica su un principio in apparenza semplice: purché dotato di un qualche genere di capacità sessuale, l’ermafrodito avrebbe potuto sposarsi con una persona del sesso opposto a quello in esso prevalente; se i due sessi si fossero in lui perfettamente bilanciati avrebbe dovuto sceglierne uno d’elezione e sposare una persona del sesso opposto, dopo aver giurato di non usare mai del Cfr. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente, cit. Cfr. Casanova, Crimini nascosti, cit.; R. Ago, Introduzione a The Value of the Norm. Legal Disputes and the Definition of Rights, a cura di R. Ago, Biblink, Roma 2002; Ead., Ruoli familiari e statuto giuridico, in «Quaderni storici», n. 88, 1995. 117 Cfr. Darmon, Le tribunal de l’impuissance, cit., pp. 121-122; si veda anche P. Scaramella, Il matrimonio legato. L’«impotentia ex maleficio» in un caso napoletano di fine Cinquecento, Fridericiana, Napoli 1999, e Id., Medici e confessori. Medicina del corpo, medicina dell’anima, Carocci, Roma 1999. 115 116

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sesso abbandonato. Ma che un unico corpo avesse la possibilità di sperimentare l’amplesso in forma sia attiva sia passiva era una circostanza troppo intrigante per non stimolare la passione analitica dei giuristi e dei teologi che soprattutto nel corso del Seicento si appassionarono a confezionare nuove e raffinate vesti alla morale cattolica. Nel 1676 il giurista e uomo di Stato spagnolo Lorenzo Mateu y Sans pubblicò il Tractatus de re criminali, un repertorio legale che intendeva esporre i casi più notevoli portati alla Corte suprema di diritto penale del suo paese. Il trattato aveva ricevuto non solo il permesso di pubblicazione da parte dell’Inquisizione spagnola («In quest’opera non c’è nulla che sia in contrasto con la nostra morale o contrario alla fede cattolica»), ma anche un aperto elogio del gesuita incaricato dell’esame118. La quarantottesima controversia discussa narra del caso di due ermafroditi i quali, «sposatisi legittimamente l’uno con l’altro, s’erano ritrovati incinti per avere reciprocamente adoperato l’uno e l’altro organo genitale di cui erano provvisti»; la vicenda, priva com’è nel testo di riferimenti ad atti processuali o a pareri legali, appare più una figura giuridica che un dato di realtà, ma il suo interesse risiede ovviamente nelle argomentazioni sviluppate dall’autore. Deve davvero essere considerato un delitto che un individuo pratichi la propria bisessualità naturale? Per rispondere, Mateu y Sans intraprende un lungo ed erudito viaggio che dal diritto canonico giunge al diritto romano soffermandosi su commentari e giurisprudenza, e la conclusione è sorprendente: il diritto canonico non ha mai affrontato esplicitamente la questione degli ermafroditi, l’obbligo di elezione di un sesso e il giuramento di non usare dell’altro non hanno fondamenti giuridici119. Né le analogie – altrettanto sorprendenti – proposte dall’interpretazione corrente sono risolutive: perché si sostiene che sia sconveniente che nei rapporti sessuali un ermafrodito faccia uso dell’uno come dell’altro genitale, come è sconveniente che una stessa persona sia insieme prete e abate, o che abbia la titolarità di due chiese, eppu118 Cfr. V. Marchetti, L’invenzione della bisessualità. Discussioni tra teologi, medici e giuristi del XVII secolo sull’ambiguità dei corpi e delle anime, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 217. 119 Ivi, pp. 252-253.

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re questo succede, per motivi di interesse superiore; e si sostiene che sia sconveniente che la stessa persona eserciti sia il ruolo attivo di maschio che quello passivo di femmina, come è sconveniente che una persona coniugata benefici del patrimonio ecclesiastico, e anche questo succede, perché il principio di necessità a volte impone moralmente e legalmente di allontanarsi dalla norma120. Ma qual è la necessità che consente la deroga? Come sempre per la Chiesa cattolica, è l’adattamento alle infinite spirali del desiderio umano, il bisogno di offrire loro sponde legittime e governabili, l’obbligo di allontanare il rischio dell’incontinenza. Mateu y Sans sostiene che l’ermafrodito il quale, compiuti la scelta e il giuramento, si congiunge con l’altro secondo il sesso d’elezione sentirà certamente invadere il proprio genitale interdetto dal desiderio per l’organo vietato dell’altro; la disponibilità di quattro apparati genitali raddoppia la potenza sessuale, perché ognuno di essi è eccitato dall’attività degli altri e richiede la propria soddisfazione. Non procurargliela – continua il giurista – significherebbe esporre il coniuge inappagato al pericolo della fornicazione, e ciò sarebbe in contrasto con tutte le prescrizioni della Chiesa, da Paolo a Tommaso d’Aquino a Tomás Sánchez, i quali tutti affermano che ogni coniuge è tenuto a portare aiuto all’altro quando avverte che rischia di cercare soddisfazioni non conformi al matrimonio cristiano121. L’uso promiscuo dei corpi dunque non è peccato purché i diversi si trovino e si uniscano tra di loro, purché tutte le copule possibili siano coniugali.

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Ivi, pp. 254-255. Ivi, p. 289.

V LA FINE DEL MONOPOLIO

1. «Un piacere innocente, al quale la natura, madre e sovrana, ci invita tutti» «Non so che cosa sia quel che tu chiami religione, ma non posso pensarne che male, dal momento che ti impedisce di gustare un piacere innocente, al quale la natura, madre e sovrana, ci invita tutti», dice il selvaggio Orou al cappellano della nave francese che ha raggiunto le coste dell’isola di Tahiti e che gli ha appena rivelato l’obbligo alla castità che impostogli dalla sua scelta religiosa, nel pamphlet che Denis Diderot ha scritto nel 1774 con il titolo Supplemento al viaggio di Bougainville1. Il sottotitolo dell’opera è rivelatore delle sue intenzioni polemiche: Sull’inconveniente che nasce dall’attaccare delle idee morali ad alcune azioni fisiche che non ne comportano. Le azioni fisiche in questione, ovviamente, sono i rapporti sessuali. Il filosofo francese scrive sotto l’impressione del Viaggio intorno al mondo, pubblicato dal de Bougainville nel 1771 – che aveva conosciuto uno straordinario successo nella società francese dell’epoca anche perché l’esploratore aveva portato con sé un selvaggio in carne e ossa da esibire a corte –, un libro che nasceva con l’esplicita intenzione di offrire «una prova empirica dell’esistenza sulla terra di una perfetta società naturale e felice»2. Se de Bougainville offre agli europei un perfetto para1 D. Diderot, Supplément au voyage de Bougainville, Dialogue par Diderot, in Opuscules philosophiques et littéraires, la plupart posthumes ou inédites, Imprimerie nationale, Paris 1796, p. 216. 2 L. Zecchi, Sognare Tahiti, in A. Ferraro (a cura di), Altérité et insularité. Relations croisées dans les cultures francophones, Forum, Udine 2005, p. 78.

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digma della società di natura, Diderot coglie la sfida estendendola al comportamento sessuale, tema appena toccato nell’opera originaria. Il dialogo fra il cappellano e il selvaggio, infatti, ruota intorno alla diversità delle regole relative al comportamento sessuale fra la cultura di matrice cristiana e quella «primitiva». In sostanza, il problema che gli interlocutori si pongono è capire come mai «è potuto capitare che un atto il cui fine è così solenne, e al quale la Natura ci invita con le più dolci attrattive, i più innocenti piaceri, sia divenuto la fonte più feconda della nostra depravazione e dei nostri mali?»3. Nel paese immaginario di Otaiti si seguono gli istinti della natura, non esiste la distinzione tra «tuo» e «mio» neppure per quanto riguarda i rapporti fra i sessi: «le nostre figlie e le nostre donne sono in comune – dice un anziano – e tu, europeo, hai condiviso questo privilegio con noi», ma in cambio gli abitanti di questo paradiso hanno conosciuto la vergogna e il peccato, insieme con le malattie veneree. Secondo Orou, le regole cristiane sul matrimonio rendono «la condizione dell’uomo peggiore di quella dell’animale»4 perché obbliga gli esseri umani a rinunciare alla Natura. Il sistema indigeno nei confronti della sessualità, invece, libera da colpe e condanne: nella loro società non ci sono più la giovane disonorata, la moglie infedele, il seduttore e lo sposo libertino: «la passione dell’amore ridotta a semplice appetito fisico, non produce nessuno dei nostri disordini»5. Perfino l’incesto è accettato senza riprovazione, perché l’unica cosa che conta è la nascita di bambini, che garantiranno il benessere della società. Con questo libretto, per la prima volta nella storia europea, viene proposta una totale indipendenza della vita sessuale da ogni categoria di ordine etico-religioso, e vediamo subito come la proposta si appoggi su una documentazione antropologica che dovrebbe testimoniare un comportamento «naturale», non ancora contaminato da regole e divieti. Non si sa quanto Diderot fosse veramente fiducioso dell’esito positivo di un ritorno alla natura, e lo studioso Lionello Sozzi nega che questo scritto sia un «manifesto di ingenuo naturalismo»6, ma certo questa idea conobbe un diDiderot, Supplément au voyage de Bougainville, cit., p. 234. Ibid. 5 Ivi, Dialogue, p. 253. 6 L. Sozzi (a cura di), L.A. de Bougainville, Viaggio intorno al mondo con il 3 4

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screto successo anche negli anni successivi, fino a saldarsi con l’uso dell’antropologia fatto dai medici positivisti di fine Ottocento. Non era certo la prima volta che arrivavano in Europa notizie sui costumi liberi delle popolazioni indigene: ne avevano parlato molti missionari nelle loro relazioni, ma il punto di vista era quello di chi descrive per ordinare e moralizzare costumi che quasi sempre prevedevano la poligamia – anche per motivi demografici, perché la mortalità dei maschi guerrieri era molto più alta di quella delle donne – scoprendo che nelle lingue indigene non ci sono parole per definire il matrimonio. Sono i missionari, infatti, i primi a raccontare in Occidente la diversità di costumi delle popolazioni con le quali, attraverso l’ampliarsi delle aree di dominio coloniale, i paesi europei venivano in contatto, denunciando con orrore la mancanza di moralità in queste comunità alle quali per la prima volta arrivava l’insegnamento evangelico. E le loro narrazioni si propagavano in molti strati sociali: era infatti in uso, durante la seconda metà dell’Ottocento, che i religiosi di ritorno dalle terre di missione girassero per i paesi europei a raccogliere offerte e vocazioni per l’opera missionaria, raccontando gli orrori di inciviltà a cui bisognava porre rimedio. Fra gli argomenti più trattati il comportamento sessuale, che a loro appariva senza regole. Di questo si parlava anche nelle relazioni dei missionari, spesso pubblicate, a cui poi hanno attinto abbondantemente gli antropologi, anche perché il problema della sessualità – compresa quella dei missionari – era drammaticamente presente. Come scrive Gianpaolo Romanato nella sua biografia di Daniele Comboni, uno dei primi missionari che ha avuto il coraggio di addentrarsi nell’alta valle del Nilo, nelle sue lettere «qualche cenno troviamo anche, peraltro molto discreto, ai rischi morali cui è esposto il missionario, costretto “ad imporre una legge così contraria agli usi, alla natura e alle leggi locali [...] la tentazione, favorita dalla solitudine, dalla mancanza di controlli, è quella di lasciarsi convertire dalla ‘dominante corruzione’, anziché convertirla”»7. Una libertà sessuale che sconvolge e, al temsupplemento al viaggio di Bougainville di Denis Diderot, Il Saggiatore, Milano 1983, p. 413. 7 G. Romanato, L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni, Corbaccio, Milano 2003, p. 310.

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po stesso, mette in pericolo i missionari, è dunque al centro delle narrazioni, ed è considerata uno dei mali più gravi che i missionari, con l’aiuto dei buoni cristiani europei, devono estirpare. «Chi è di coscienza meticolosa – si legge in un testo vergato da Comboni in un momento di grande sincerità – si spaventa, si conturba, e temendo per se stesso si lascia sopraffare dallo scoraggiamento. Chi invece non è di coscienza timorata lo diventa ancor meno, e corre il rischio di lasciarsi trascinare dalla corrente ad occhi chiusi»8. Per evitare le cadute in questo senso – peraltro non tanto rare – Comboni invoca l’arrivo di suore missionarie che, con la loro sola presenza, avrebbero costituito un freno per i religiosi: egli infatti le considera particolarmente necessarie «nei paesi poi dove uomini e donne vanno vestiti colla sola pelle dei nostri primi padri Adamo ed Eva»9. Per l’eterogenesi dei fini, proprio le relazioni allarmate dei missionari diventano, agli occhi degli scienziati, prove convincenti dell’esistenza di uno stato «naturale» di sessualità al quale pensano sia opportuno ispirarsi per ristabilire una analoga «naturalità» nell’europeo moderno: «rigide convenzioni ci rendono impossibile scoprire le leggi della natura in questione, soffocandole sul nascere»10, scrive uno dei primi sessuologi, l’inglese Havelock Ellis. Questa «naturalità» – garante di buona salute fisica e psichica – sarebbe stata soffocata dall’intervento del clero che, diffondendo la morale cristiana, avrebbe inibito ogni spontaneità e favorito la repressione degli istinti naturali. Nel Settecento, il primo segnale della secolarizzazione tocca proprio la sessualità, e le relazioni di viaggiatori e missionari diventano, invece che una denuncia di inciviltà, prova dell’esistenza di uno stato di natura felice. Nel pamphlet di Diderot ci sono già tutte le argomentazioni che utilizzeranno, a fine Ottocento, i pionieri del libero amore: l’idea che le regole cristiane siano innaturali, e quindi impossibili da seguire, e che proprio per questo creino infelicità e storture sociali, e soprattutto che sia pericoloso il celibato ecclesiastico, imIbid. E. Pezzi, L’istituto Pie Madri della Nigrizia. Storia dalle origini alla morte del Fondatore, EMI, Bologna 1981, p. 152. 10 H. Ellis, Brevi saggi sull’amore sessuale, Hoepli, Milano 1936, p. 91. 8 9

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possibile da mantenere, e quindi apportatore di atti amorali e di malattie. Il processo di secolarizzazione avviato dagli illuministi, secondo cui la religione costituisce solo un’opinione fra tante e non più un termine di riferimento dell’intera comunità, bensì una scelta particolare del singolo cittadino, ha immediate conseguenze, quindi, sulle norme di comportamento sessuale fino ad allora stabilite dalla Chiesa. Anche la sessualità viene investita da quel processo sociale e spirituale che, secondo Marcel Gauchet11, segna per due secoli tutta la dinamica del mondo contemporaneo: il passaggio da una società eteronoma, strutturata dalla religione, a una società autonoma che, dopo essere uscita dalla religione, si è data leggi proprie con il fine dell’autogoverno. Questa società ha sviluppato un’autocomprensione, in contrapposizione con la religione, su tutti i temi della vita umana, quindi anche sul comportamento sessuale. Questa trasformazione epocale si è compiuta in Europa prima e dopo la Rivoluzione francese, tra il 1750 e il 1850, quando l’organizzazione della vita associata si sgancia dalla credenza in un ordine soprannaturale che impone dall’esterno e dall’alto la sua legge. Abolita la mediazione della religione tra Dio e il mondo degli uomini, spetta soltanto alla società il compito propulsivo di qualsiasi trasformazione, attraverso le analisi che le forniranno i suoi scienziati. Finisce così il monopolio che gli uomini di Chiesa avevano esercitato sulle regole e sul discorso relativi al comportamento sessuale e compare, per la prima volta, un nuovo vocabolario, di natura scientifica, per parlarne. È interessante notare, a questo proposito, che il termine «sessualità» appare in inglese nel 1800, in tedesco nel 1820, e in francese nel 1860, e sempre usato, in un primo tempo, in ambito zoologico e botanico. Da questa nuova impostazione prendono il via varie discipline, che si aggiungono all’antropologia: la pedagogia, la psichiatria e la psicologia, l’igiene, la medicina, e infine, negli ultimi decenni dell’Ottocento, la sessuologia vera e propria. Tutte disci11 M. Gauchet, Credenze politiche e credenze religiose, in Idem, La democrazia contro se stessa, Città aperta, Troina 2005.

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pline che hanno in comune il proposito di regolare le condotte individuali a partire dalla definizione di normale e di anormale, che sostituisce la precedente antinomia fra peccato e virtù, fra concesso e proibito. Con una importante novità: questa trasposizione del discorso sulla sessualità dal piano morale e religioso a quello scientifico ha determinato – negli ultimi decenni – una progressiva incorporazione di quelle che venivano definite perversioni nella sfera della «normalità». Ai manuali dei confessori si sostituisce una letteratura scientifica prodiga di consigli e di insegnamenti, mentre il buon funzionamento della sfera sessuale comincia, a fine Ottocento, a essere considerato essenziale per la riuscita del matrimonio, cosa che – come abbiamo visto – la Chiesa aveva sempre considerato come scontata. Con una differenza, però: secondo gli ecclesiastici, la pratica sessuale costituiva sempre e comunque un piacere per gli sposi, e in questo senso serviva a tenere unito il matrimonio, mentre i nuovi esperti di sessualità cominciano a distinguere fra donne e uomini, e ad affrontare il tema della frigidità. La stessa istituzione matrimoniale, a sua volta, subisce in questo periodo profondi cambiamenti: l’idea di realizzazione individuale che si afferma dopo le rivoluzioni americana e francese, per cui ogni individuo ha diritto di scegliere chi essere e cosa pensare, si allarga immediatamente al matrimonio e naturalmente, dal momento che si parla di una novità assoluta – cioè di scegliere il proprio consorte in base a quella che viene chiamata la propria inclinazione, ma che l’immaginario romantico trasforma subito in un sogno d’amore –, anche le donne vengono coinvolte in prima persona. Accanto alle nuove possibilità di scegliere professione, credo religioso, idee politiche, luogo di abitazione, che la modernità apriva agli esseri umani di sesso maschile, si poneva quindi, quasi subito, il problema della scelta matrimoniale che, come i romanzi insegnano, era l’unico tipo di scelta per il momento rivendicabile da parte delle donne. Un ruolo chiave per la diffusione di questa inedita interpretazione del rapporto matrimoniale lo svolsero i romanzi, a partire da quelli di Jean-Jacques Rousseau, iniziatore di un nuovo rapporto fra scrittore e lettore. È con lui, infatti, che il romanzo da genere di svago diventa guida per le scelte di vita, capace di pe-

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netrare nella realtà quotidiana e di dare «un senso alle cose più importanti della sua esistenza: amore, matrimonio, paternità»12. L’idea romantica del matrimonio d’amore, in realtà, all’inizio non sembrava mettere in crisi il rapporto cardine dell’istituzione familiare, né tanto meno la sua durata nel lungo periodo ma, anzi, sembrava prenderlo ancora più sul serio, rinsaldarlo, farne qualcosa di intimamente vero invece di una istituzione dettata dalle norme morali e dalle convenienze sociali. In un certo senso, sembrava avvicinarsi ai valori morali del cristianesimo che, come si è detto, assimilava l’unità fra uomo e donna a quella mistica fra esseri umani e Dio. Solo che qui Dio scompare, e rimangono solo i due coniugi, con le loro difficoltà e le loro incapacità, e il sogno d’amore romantico si infrange nell’incontro con la realtà. Con il progetto di amore romantico, da cui discende la creazione di una «storia comune» fra gli sposi, si separa il legame matrimoniale dagli altri aspetti dell’organizzazione familiare, conferendogli un primato e un’importanza inedita13. Su questa affermazione del matrimonio d’amore nella società si riponevano quindi molte speranze, sia di felicità individuale – come rivelano i molti romanzi incentrati su questo tema, sia in positivo, come quelli di Jane Austen, che in negativo, come i tormenti d’amore del giovane Werther di Goethe – sia di felicità collettiva. Non sono poche, infatti, le femministe sostenitrici della libera scelta matrimoniale, così come alcuni progressisti radicali, a sperare che se tutti si fossero sposati per amore sarebbe scomparsa la prostituzione, e naturalmente le famiglie sarebbero state tutte concordi e felici, con figli allevati in un’atmosfera serena, e quindi esseri umani migliori. Un esempio classico di questa visione utopistica della felicità, possibile grazie alla scelta matrimoniale libera e centrata sull’amore, è il romanzo di Nikolaj Cˇernysˇevskij, Che fare?, scritto nel 1860, che avrebbe avuto poi tanto successo – grazie all’entusiastico favore riservatogli da Lenin, che addirittura diede lo stesso titolo a un suo libro – nell’Unione Sovietica comunista. Lo scrittore russo, vissuto in esilio in Francia per 12 R. Darnton, I lettori rispondono a Rousseau: la costruzione della sensibilità romantica, in Idem, Il grande massacro dei gatti, Adelphi, Milano 1988, p. 299. 13 Cfr. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 1995.

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molti anni, dipinge una nuova società basata sul matrimonio d’amore e sulla fine della proprietà privata, sostituita da una cooperazione fra padroni e operai, proposta come l’obiettivo a cui tutti i rivoluzionari dovevano ispirarsi, e introduce anche il divorzio come possibilità concreta di realizzare la felicità sentimentale individuale. Il romanzo quindi mette in luce la contraddizione interna al progetto di matrimonio romantico: se il matrimonio si basa sull’amore romantico fra gli sposi, qualora l’amore finisse, sarebbe logico pensare al divorzio. Si arriva così a minare, in nome della libertà individuale, l’indissolubilità del matrimonio ribadita dal Concilio tridentino. Le femministe emancipazioniste si dichiaravano in gran parte favorevoli al divorzio, così come le frange radicali del partito democratico in Italia e negli altri paesi europei, mentre i teorici di utopie politiche come Fourier, Saint-Simon e Enfantin, già all’inizio dell’Ottocento, avevano proposto addirittura nuove società dove non esisteva più la famiglia, in cui uomini e donne si amavano in modo libero, per il tempo dettato dal loro desiderio, mentre i figli venivano allevati collettivamente. Si trattava naturalmente di utopie, ma alcune scrittrici di grande fortuna, come George Sand e Flora Tristan, incarneranno agli occhi dei contemporanei un nuovo modello di donna che, grazie all’affermazione intellettuale, può vivere liberamente anche la sua vita sentimentale davanti agli occhi di tutti. La Chiesa naturalmente vide subito i pericoli di questa ricerca della felicità attraverso l’amore umano, e denunciò la fragilità di un’istituzione, come quella matrimoniale, se abbandonata ai sentimenti caduchi dei due sposi. La lotta contro la lettura dei romanzi – considerati in particolare pericolosi per le giovinette – durerà più di un secolo, e costituirà il versante culturale di quella lotta contro il divorzio che la Chiesa comincerà a combattere dagli anni della Rivoluzione francese14. Dall’amore romantico come ingrediente fondamentale di un buon matrimonio alla passione e alla sessualità il passo è breve, anche se, almeno fino ai primi decenni del XX secolo, non è compiuto dallo stesso tipo di intellettuali: mentre l’amore romantico è difeso e cantato da scrittori, musicisti e poeti, della sessualità co14 Si veda in proposito M. De Giorgio, Le italiane dall’Unità a oggi, Laterza, Roma-Bari 1992.

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minciano a interessarsi riformatori politici e scienziati, in primo luogo naturalmente medici, ma in seguito anche antropologi.

2. Una sovranità contesa Vibrazioni lievi, o scosse tanto profonde da risultare quasi impercettibili ai contemporanei – ma soprattutto agli storici che secoli dopo hanno teorizzato l’erosione del monopolio cattolico sui comportamenti sessuali –, si manifestarono a partire dal Settecento proprio nel territorio su cui fino ad allora la Chiesa aveva esercitato un’egemonia indiscussa: il diritto, la legiferazione, la competenza giurisdizionale. L’insieme delle leggi e dei poteri che si coagulava intorno al matrimonio e agli scambi che presiedevano alla sua formazione. Nella Francia gallicana l’urto era stato violento e precoce: raccogliendo orientamenti già apparsi nel corso del Seicento presso la monarchia, nel 1712 il cancelliere de Pontchartrain affermò la tesi della competenza civile in campo matrimoniale in una lettera inviata al primo presidente del Parlamento di Besançon, sostenendo che il re aveva un potere diretto sul contratto, e indiretto sull’amministrazione del sacramento, il quale, avendo come materia proprio il contratto, in caso di sua nullità non avrebbe più avuto oggetto su cui applicarsi15. Era la subordinazione del sacramento al contratto, l’avvio di una teoria e di un processo che avrebbero portato i parlamenti a giudicare anche sulla validità del vincolo coniugale. Le «libertà gallicane», sostenute da molti canonisti francesi pronti a difendere le prerogative della corona, indicarono un percorso che presto molti principi avrebbero seguito. In ordine sparso, secondo orientamenti e obiettivi che di volta in volta assegnavano la priorità a ideali libertari, a coerenze interne ai sistemi giuridici, a necessità concrete di governo dei popoli. Già dai primi anni del Seicento, la Congregazione del Concilio – incaricata di applicare e garantire i canoni tridentini – aveva ammesso la validità dei matrimoni celebrati alla presenza di un 15 J. Gaudemet, Il matrimonio in Occidente (1987), Società editrice internazionale, Torino 1989, p. 246.

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magistrato civile in Olanda e nella Frisia occidentale; nel 1719 in Ungheria fu elaborato un progetto di codificazione che regolava anche il fidanzamento, il matrimonio e gli impedimenti, anche se pochi anni dopo fu ristabilita la competenza su di essi dei tribunali ecclesiastici; il Codex Maximilianus del 1756 in Baviera considerava il fidanzamento un contratto civile, ma rispettava le norme tridentine in materia di celebrazione del matrimonio; l’imperatore Giuseppe II d’Austria emanò nel 1783 un decreto che riservava allo Stato la giurisdizione su tutto ciò che riguardava i contratti civili, compreso il matrimonio, e l’anno successivo lo estese alla Lombardia16. C’era un meccanismo soprattutto che suscitava la preoccupazione dei governanti e dei legislatori: l’istituto della promessa di matrimonio e le pratiche sociali che intorno a essa si addensavano. Il diritto canonico classico aveva sancito il valore giuridico della promessa, che faceva nascere l’obbligo di coscienza a sposarsi; il rispetto dell’obbligo poteva essere imposto anche per via legale o almeno – per non violare troppo platealmente il principio della libertà del consenso – poteva far sì che in caso di nozze sfumate si costringesse lo sposo fuggitivo a pagare una dote a titolo di risarcimento: aut nubet, aut dotet, aut triremes, matrimonio, dote o galera erano le alternative poste all’uomo che intendesse rompere la promessa e volare verso nuovi legami. La garanzia che una promessa più o meno pubblica forniva alle nozze ebbe una conseguenza importante: quella di autorizzare i rapporti sessuali tra fidanzati, i quali potevano così trasformare l’impegno per il futuro (verba de futuro) in matrimonio de praesente, valido per il presente, perché l’unione carnale era considerata prova definitiva di consenso17. Passato indenne attraverso le norme del Concilio di Trento – che non aveva preso una posizione esplicita sulla promessa – tale meccanismo divenne l’origine di molti matrimoni d’età moderna: 16 Ivi, p. 288, e D. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni dal Concilio di Trento alle riforme settecentesche, in Storia del matrimonio, a cura di M. De Giorgio e C. Klapisch-Zuber, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 244. 17 M. Pelaja, Il cambiamento dei comportamenti sessuali, in A. Bravo, M. Pelaja, A. Pescarolo e L. Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 192-193.

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le donne si rendevano disponibili ai rapporti sessuali dopo accordi matrimoniali formali o soltanto ventilati per poi, in caso di conflitti familiari o ripensamenti maschili, reclamare presso i tribunali ecclesiastici perché la deflorazione fosse riparata con le nozze. Le querele per stupro semplice – come era chiamato qualunque amplesso extraconiugale tra persone consenzienti – affollavano le aule giudiziarie e gli uffici dei parroci, sempre mediatori, sempre testimoni del «retto fine matrimoniale» della disponibilità di donne considerate comunque innocenti, fragili, esposte alla seduzione e alla corruzione. Qualcosa poi lentamente cominciò a incrinarsi in un congegno pur così lungamente collaudato: per attriti provenienti da ambiti diversi, orientati a finalità apparentemente disparate. Dai conflitti di sovranità, che lo spirito del tempo rendeva via via più espliciti, tra magistrature laiche e magistrature ecclesiastiche; dal mondo del diritto, che secondo percorsi tutti interni alle costruzioni giuridiche andava elaborando una nuova concezione delle donne e delle «arti» femminili; dal malcontento di padri e lignaggi, contraddetti gli uni e inquinati gli altri da alleanze imposte dalla copula e dalla Chiesa. Qualche voce si era già levata, anche all’interno delle gerarchie ecclesiastiche, per denunciare gli abusi generati dall’istituto della promessa: alla fine del Seicento il gesuita Paolo Segneri aveva scritto che «La libertà, che v’è nella gioventù, di vagheggiarsi insieme, e di trattare domesticamente, sotto pretesto di futuro matrimonio [...] non può oramai tenersi in conto di altro, che di una invenzione diabolica, ordita novellamente nel gran Consiglio di Satanasso, per rovina di anime innumerabili»; e come rimedio aveva suggerito di seguire l’esempio di popoli lontani, lontani dall’Occidente e dal cattolicesimo: I Turchi quando prendono moglie, non l’hanno mai comunissimamente veduta in viso; e tra’ Chinesi si pratica questa ritiratezza con tanto rigore, che finché la sposa non è condotta a casa dello sposo, non si lascia vedere a niuno. Anzi per assicurarsi maggiormente di una somma ritiratezza nelle loro femmine tutte, non solo avanti il matrimonio, ma anche dapoi, costumano quei popoli, per altro i più riputati di tutto l’Oriente, costumano, dico, alle loro bambine di latte stringere sì

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fortemente colle fasce i teneri piedi, che queste fatte adulte se ne risentono poi per tutta la vita, e penano a camminare.18

Ma gli avvertimenti e gli esempi di Segneri erano rimasti inascoltati, e i tribunali ecclesiastici avevano continuato a proteggere la disponibilità femminile e a condannare al matrimonio gli incauti seduttori. Finché appunto, nel corso del Settecento, il disagio sociale, politico e giuridico divenne intollerabile. Negli antichi Stati italiani i mutamenti furono dapprima cauti e contraddittori: cominciò, nel 1740, la Modena degli Estensi, limitando con un apposito editto il diritto delle donne a sporgere querela per stupro ai casi in cui prove legittime e verificabili potessero dimostrare con certezza l’avvenuto scambio della promessa di matrimonio19. Seguì, nel 1754, un motuproprio toscano che obbligava il seduttore accusato di stupro semplice – non accompagnato cioè da promessa – a devolvere una somma di denaro non alla sedotta bensì ai poveri degli ospedali del Granducato, ma confermava le pene precedenti (il matrimonio, la dote o la galera) all’uomo che avesse deflorato una donna dopo averle promesso di sposarla20. La posta in gioco era delicata ma decisiva, perché apriva una breccia nel monopolio ecclesiastico attribuendo ai sovrani laici un primo, limitato potere di normare e governare anche sulla morale e sui comportamenti sessuali dei sudditi. «... Riconosce la Società dalla legislazione il suo stato civile, e conserva l’interna sua felicità a misura che si sostiene la decenza, e l’onore delle Famiglie, che le compongono», declamava il prologo della Prammatica IV emanata nel 1779 nel Regno di Napoli. «Le norme costituiscono quel primo vincolo, la cui buona direzione è come la base del pubblico vincolo sociale. Perciò i savj Legislatori rivolsero le loro più serie attenzioni a questo oggetto interessante, acciocché riuscisse-

18 P. Segneri, Il cristiano istruito nella sua legge, III, Firenze 1686, pp. 403 e 417, citato in Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni, cit., pp. 237-238. 19 Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni, cit., p. 241 e nota 44. 20 Codice della Toscana legislazione, vol. II, Siena 1778, p. 77; cfr. anche G. Alessi, L’onore riparato. Il riformismo del Settecento e le «ridicole leggi» contro lo stupro, in Onore e storia nelle società mediterranee, a cura di G. Fiume, La Luna, Palermo 1989.

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ro plausibili i parentadi, virtuosa l’educazione, ed onorata la discendenza.21

La Prammatica stabilì così Che niuna Donna, o altra Persona, cui interessa, di qualunque grado e condizione ella sia, abbia azione di querelare di stupro, ancorché siano preceduti alla vera o simulata deflorazione li sponsali, o parola di matrimonio contratta coram Parocho, o capitoli matrimoniali, anche rogati per mano di pubblico Notajo, o altro qualsiasi rito, o solennità, indicante la legittima promessa di future nozze, ed ancorché fossero simultaneamente preceduti atti confidenziali, o trattamenti in casa, o qualunque altro somiglievole atto induttivo allo stupro; di manieraché dopo la promulgazione di questa nostra Sovrana Legge, niun Giudice, o Magistrato della Capitale, o del Regno, riceva, o dia corso, sotto qualunque pretesto, a sì fatte querele, eccetto l’unico e solo caso, se lo stupro si commettesse con vera, reale ed effettiva violenza, esclusa qualunque interpretativa, che si traesse dal pretesto delle blandizie, allettamenti, promesse verbali o somiglievoli cose; Essendo nostra Reale volontà, che le Donne non possano, né debbano profittare della complicità del delitto, ma che badino a conservare l’onore delle Famiglie.22

La legge è categorica, precisa nell’elencare gli atteggiamenti e le motivazioni più diffuse nelle pratiche sociali, e soprattutto nell’indicare i soggetti deputati all’applicazione della legge; ma la sua puntigliosità non è ancora sufficiente, perché un conflitto – ancora strisciante ma già aspro – sta lacerando i delicati meccanismi della convivenza tra il potere del re e quello della Chiesa. Soltanto un anno più tardi, nel 1780, una nuova Prammatica polemizza esplicitamente con i tribunali ecclesiastici, ponendo limiti definiti alle loro competenze: avendo con la salutare legge per gli stupri promulgata nell’anno scorso efficacemente provveduto alla custodia della pudicizia, ed alla quiete delle famiglie, è avvenuto, che col pretesto degli sponsali o car21 Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, 15 voll., tomo I, con Prefazione di L. Giustiniani, Napoli, nella stamperia Simoniana, 1803-1808, p. 310. 22 Ibid.

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piti, o non veri, s’impediscono bene spesso i matrimonj presso le Curie Ecclesiastiche, le quali confondendo il giudizio della validità [...] con quello dell’esistenza, si arrogano abusivamente la cognizione benanche della esistenza degli sponsali medesimi, in pregiudizio non meno della libertà dei cittadini, che dei sacri diritti del Trono.23

Re Ferdinando allora comanda che il giudizio sull’esistenza degli sponsali sia riservato ai giudici laici, che la cerimonia degli sponsali rispetti procedure stabilite, che i giudici ecclesiastici, una volta accertata la validità degli sponsali, non possano perseguire i «renitenti» «senza prima con distinta relazione darne parte a Noi per ottenerne il permesso [...]. E finalmente, che nommeno i Parochi, che le Curie Ecclesiastiche, sotto la grave pena della Reale indignazione, stiano avvertite ad osservare questo Sovrano Editto, ch’è diretto ad evitar le frodi, che si commettono, a sostenere la libertà de’ Cittadini, ed a conservare la pace, e il decoro delle famiglie»24. Più timida e conservatrice fu in definitiva la Toscana di Pietro Leopoldo, che pure con le sue complesse riforme operò con decisione a eliminare le interferenze della Chiesa nell’amministrazione della giustizia nel Granducato25. Il motuproprio del 1754 aveva introdotto una disposizione ancora una volta importante e contraddittoria: aveva confermato il valore economico della verginità femminile ma, obbligando il seduttore a pagare una «pena di lire Trecento» agli ospedali di Firenze e di Siena, aveva impedito che la riparazione dell’offesa andasse a beneficio della stuprata, e aveva così disinnescato un incentivo potente alla querela. Ma, nonostante la proposta di Pietro Leopoldo, che respingeva «la ridicola legge presente di doversi dotare, e sposare, la stuprata, o andare in galera, la quale serve d’incentivo alli stupri»26, il principio giuridico del risarcimento rimase intatto: l’articolo III della Leopoldina estendeva ai familiari della sedotta la facoltà di 23 Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, cit., tomo 7-8, pp. 210-211. 24 Ivi, p. 211. 25 La Leopoldina nel diritto e nella giustizia in Toscana, a cura di L. Berlinguer e F. Colao, Giuffrè, Milano 1989. 26 Citato in G. Cazzetta, Praesumitur seducta. Onestà e consenso femminile nella cultura giuridica moderna, Giuffrè, Milano 1999, p. 341.

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ricorrere in tribunale per stupro, confermando tutte le disposizioni vigenti e soffocando l’impeto riformatore del Granduca. Il quale nell’elaborazione del nuovo codice aveva trovato tuttavia un alleato imprevisto: il vescovo Scipione de’ Ricci, che guidò il sinodo di Pistoia del 1786 verso l’abolizione degli effetti giuridici degli sponsali. Le spose promesse e sedotte non avrebbero più potuto ricorrere ai tribunali ecclesiastici per reclamare il matrimonio riparatore. Non solo: i vescovi riuniti a Pistoia andarono oltre, riprendendo quella distinzione tra sacramento e contratto già assunta in alcuni sistemi giuridici settecenteschi per attribuire «al potere civile il potere di legiferare sul contratto matrimoniale e, in particolare, di stabilire impedimenti, cioè di rendere nulli alcuni tipi di matrimonio»27. Ma le leggi granducali finirono per assumere i principi del diritto canonico tradizionale perché le decisioni del sinodo furono aspramente avversate dalla maggioranza dei vescovi toscani e poi condannate dalla Curia romana: con la bolla Auctorem fidei del 28 agosto 1794, papa Pio VI qualificò come eversive ed eretiche le proposizioni con cui i vescovi pistoiesi intendevano sottoporre gli impedimenti matrimoniali all’approvazione dei principi28. Il dibattito, i risultati e la condanna del sinodo di Pistoia avevano tuttavia reso evidente che anche in Italia, vicino allo Stato del Papa, il fronte ecclesiastico si andava incrinando, mostrando crepe e contraddizioni che avrebbero inciso significativamente – se non ancora nel diritto – nella politica ecclesiastica verso il matrimonio e la sessualità. Prima delle leggi, oltre i processi e le sanzioni, un clima nuovo si stava diffondendo tra i giuristi addetti all’elaborazione delle norme matrimoniali: toccava la rappresentazione delle donne e delle qualità femminili, capovolgeva concezioni secolari investendole di una nuova conflittualità, pretendeva di separare con una frattura insanabile un passato ormai degenerato da un futuro illuminato da nuove coerenze. I delicta carnis erano al centro di un dibattito che si prefiggeva un compito inaudito: quello di separare la morale dal diritto, il peccato dal crimine. Lombardi, Fidanzamenti e matrimoni, cit., p. 243. A.C. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico. Dal Concilio di Trento al Codice del 1917, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 87-88. 27 28

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I giuristi d’antico regime fondavano le loro teorie su una presunzione universale, che raffigurava le donne come sempre oneste, fragili, esposte a seduzioni e raggiri, incapaci di riconoscere una volontà personale svincolata da interessi familiari e da logiche di gruppo. Donne bisognose di protezione da ogni istituzione con cui venissero a interagire: famiglia, Chiesa, sistema giudiziario, apparati di controllo e di carità avevano l’obiettivo prioritario di preservare e garantire la naturale innocenza di un sesso debole e corruttibile. «Le donne sono composte di una tessitura più molle, e più delicata degl’Uomini, e perciò più facilmente sono soggette ad essere vinte da un tratto spiritoso, e seducente. Colui che profitta di questa loro debolezza naturale, è certamente più reo di quello, che semplicemente richiede i loro favori, e merita perciò di essere punito con una pena che sia capace a compensare la deteriorata condizione di quella che è stata vittima delle sue più seducenti allettative. [...] L’obbligo di sposare, o dotare la sedotta Fanciulla è la pena più giusta da imporsi al seduttore»29. Le conseguenze di una simile concezione nelle pratiche sociali erano ormai sotto gli occhi di tutti: per conquistare un matrimonio con l’aiuto delle leggi ecclesiastiche, le donne avevano usato tale immagine per piegarla ai propri interessi, rendendosi disponibili a farsi sedurre, investendo nel fine matrimoniale una verginità molto concreta e una fragilità tutta rappresentata. Gli «abusi delle donne» erano stati percepiti anche dalla Chiesa, persino nello Stato del papa; un editto emanato nel 1736 dal cardinal Guadagni, vicario di Clemente XII, rende con efficacia il carattere di emergenza dell’intervento ecclesiastico di fronte al dilagare irrefrenabile di quella che appare ormai come una vera e propria pratica di contrattazione sociale: «[...] siccome l’esperienza ha fatto conoscere, che la sicurezza dell’Impunità goduta dalle Giovani Deflorate, e la speranza dell’incontro, che da loro si ha, di poter a costo dell’onore conseguir la Dote, o l’effettuazione del matrimonio, non solo rende le medesime meno accorte nel custodir la propria pudicizia: ma forte talora serve d’incentivo alla loro prostitu-

29 L. Cantini, Illustrazione della Legge per gli stupri del 24 gennaio 1754, in Id., Legislazione toscana raccolta e illustrata, 32 voll., vol. XXVII, Firenze, nella Stamperia Albizziniana per Pietro Fantosini e figlio, 1800-1808, p. 55.

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zione»30, il vicario ordina che anche le deflorate, «come corree del Delitto», siano obbligate a pagare una pena al fisco e persino carcerate. Una diffidenza esplicita dunque – che sospetta la vittima di simulare inganno e arrendevolezza per estorcere dote o matrimonio – prende a propagarsi dall’amministrazione della giustizia al mondo del diritto, esigendo nuove sistematizzazioni. A partire dalla fine del Settecento allora giuristi e penalisti laici elaborano figure giuridiche che prendono in considerazione una variabile inedita: la libera volontà della donna, la sua capacità di esprimere consenso o rifiuto di fronte ai tentativi di seduzione maschili. Non più vittima a priori, la donna non ha più diritto a una tutela che prescinda dal suo «colpevole consenso» al rapporto carnale; in ogni ricorso per stupro dunque, la querelante appare come socia criminis, a meno che non sappia dimostrare la propria innocenza esibendo sul proprio corpo i segni, le prove tangibili della violenza subita. Agli «abusi delle donne» si risponde ora con la presunzione di colpevolezza, e il riconoscimento della volontà della donna abbandona la tutela indiscriminata per esigere dimostrazioni positive di onestà31. La rappresentazione delle colpevoli astuzie femminili sarà poi perfezionata e arricchita per tutto l’Ottocento, fino a ottenere i toni e le luci di una retorica capovolta: «il maschio parrebbe che trascini e la femmina parrebbe che resista: ed ivi novanta volte su cento abbiamo una vittima nel preteso rapitore; vittima della combinata cecità del proprio trasporto amoroso con la frigidità calcolatrice della femmina»; «la donna è sedotta [...] ma da sé medesima: sedotta dalla sua avidità, sedotta dai sensi, sedotta dall’ambizione di divenire una signora»32. La Chiesa cattolica non si appropria di una rappresentazione così univoca; l’editto del vicario di Roma aveva sì indicato le «Giovani Deflorate» come «corree del Delitto» e aveva minacciato loro carceri e multe ma – come spesso accadeva nell’amministrazione quotidiana delle colpe e delle anime – la minaccia era rima30 Archivio storico del Vicariato di Roma, Varie, citato in M. Pelaja, Matrimonio e sessualità a Roma nell’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 54. 31 Ma su tutto questo si veda Cazzetta, Praesumitur seducta, cit. 32 P. Viazzi, Ratto, in Enciclopedia giuridica italiana, XIV.1, Società editrice libraria, Milano 1900, pp. 199 e 211, citato in Cazzetta, Praesumitur seducta, cit.

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sta ad aleggiare sui progetti e sulle disponibilità femminili, predisponendo piuttosto a strategie più complesse, a nuove mediazioni. Nel corso dell’Ottocento la sessualità perse progressivamente il suo carattere di garanzia per diventare una risorsa, uno strumento di pressione all’interno di una trattativa che aveva come fine la conclusione delle nozze: il rapporto sessuale che seguiva la promessa di matrimonio – che a sua volta aveva perso quasi tutti gli elementi di formalizzazione – apriva soltanto una nuova fase di una contrattazione dagli esiti ancora incerti. Se un conflitto si apriva dopo la copula – perché magari lui, dopo aver insistito nella richiesta, si ritraeva sostenendo di non aver mai avuto intenzioni matrimoniali e accusando lei di una eccessiva disponibilità –, le donne e le loro famiglie continuavano a rivolgersi ai parroci e ai tribunali ecclesiastici per ottenere la conclusione delle nozze. La Chiesa cattolica era ancora l’arbitro di queste contese, e continuava a ergersi a tutrice della vulnerabilità femminile: il favor matrimonii che ispirava la politica ecclesiastica diventava protezione e appoggio agli intenti delle donne, anche se, naturalmente, aveva come fine prioritario la tutela dell’ordine familiare e non quella delle donne in particolare. Così, dopo la deflorazione, si apriva una nuova fase di negoziazione in cui la sessualità entrava nella sfera giuridica, ma senza più alcun automatismo; in una dimensione corale anzi, in cui parentele, vicinati e gerarchie ecclesiastiche dovevano farsi pubblicamente garanti del «retto fine del matrimonio». Le giovani dovevano divulgare al massimo l’avvenuta conoscenza carnale, le famiglie mostrarsi certe degli accordi matrimoniali, i parroci proclamare l’onestà pubblica delle deflorate e intercedere per loro presso i tribunali; istruttorie e processi non avevano esiti scontati, dovevano semmai accogliere e sancire la fama più accreditata, premiare la parte provvista delle reti più estese e più autorevoli. Si trattava per la Chiesa di proteggere e garantire sì donne e famiglie, ma soprattutto di preservare la propria egemonia nel governo della morale e della popolazione, secondo quella miscela di valori universali e di mediazioni particolari che aveva secolarmente caratterizzato la sua politica. Finché gli equilibri da preservare cominciarono a farsi troppo delicati e precari: troppo aleatorie le promesse, non più formalizzate da documenti o ritualità, soprattutto tra i ceti meno abbien-

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ti; troppo confuse le voci, sovrapposte e smentite di continuo dalla crescente mobilità e complessità urbana; troppo contraddittoria la tutela delle deflorate, ormai platealmente dissipatrici di quello che la Chiesa stessa predicava come il nuovo bene supremo delle donne: la verginità. Non più patrimonio da investire, l’integrità dell’imene era divenuta valore assoluto, prioritario non solo rispetto a qualunque «retto fine» matrimoniale ma anche rispetto alla vita stessa. Sarà intorno alla figura di Maria Goretti, uccisa per aver difeso la propria castità, che la Chiesa del Novecento costruirà il suo nuovo modello femminile33. Nel frattempo, alla fine dell’Ottocento, un evento decisivo modificava la collocazione della Chiesa cattolica negli assetti istituzionali del mondo occidentale: la fine del potere temporale cancellava definitivamente quella particolare doppiezza che contrassegnava lo Stato pontificio e la figura del papa, nello stesso tempo apice della Chiesa universale e sovrano di un territorio provvisto di confini e di apparati di governo, capace di porsi in concorrenza con gli altri Stati dell’Occidente. Era la fine di un processo secolare, che aveva visto il papa-re usare il proprio regno temporale per affermare l’indipendenza della Santa Sede rispetto agli imperi, ma anche per esibire – nella dialettica tra centro e periferia della cristianità – il potere sulle coscienze e sulla morale dei cattolici. Con la fine dello Stato pontificio «il difficile cammino per la costruzione di una nuova sovranità sulle anime»34 affronta un’altra tappa: quella della collocazione della sovranità spirituale del pontefice su un piano parallelo a quello della sovranità temporale dei principi35. La delocalizzazione della Chiesa ha implicazioni ed esiti a catena: l’abolizione dei tribunali ecclesiastici successiva alla fine dello Stato pontificio proietta l’interlocuzione dei fedeli sulle istituzioni centrali della Santa Sede e dunque sposta la frontiera tra il foro esterno – obbediente ai diritti dei diversi Stati – e il foro interno – sempre più intimamente saldato alla norma religiosa. Custode della nuova frontiera, la Chiesa necessita ora di universali Cfr. infra, cap. VI, par. 6. P. Prodi, Postfazione, in Id., Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, Il Mulino, Bologna 20062, p. 428. 35 Ivi, p. 431. 33 34

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più efficienti. Non più flessibile, disarticolato da quel meccanismo che consentiva di mitigare il rigore della norma con la mediazione «politica» delle gerarchie, il sistema etico cattolico deve riaffermare il suo primato attraverso dettati elementari, enunciati univoci, assoluti non negoziabili. Non di governo si tratta ora, ma di egemonia; e la trattativa su lecito e illecito non può che svolgersi nel segreto del confessionale, nell’intimo delle coscienze, senza muovere clientele e reti sociali. La nuova configurazione della Chiesa esige a sua volta un’attività legislativa coerente con equilibri e obiettivi acquisiti: la promulgazione del Codex iuris canonicis nel 1917 sottolinea il parallelismo con il processo di codificazione che aveva caratterizzato gli Stati laici del secolo precedente36, divulgando un sistema di norme capace di rappresentare il nuovo universalismo cattolico. Per tornare al matrimonio, o meglio al processo della sua formazione, l’opera del Codex – anticipata dal decreto Ne temere della Congregazione del Concilio del 1907 – mirò a eliminare le differenze tra i paesi dove erano stati applicati i canoni tridentini e i paesi in cui il matrimonio poteva essere celebrato in qualsiasi forma; e soprattutto intese limitare, scarnificare, giuridicizzare l’istituto della promessa sottraendolo al terreno delle pratiche sociali e della negoziazione politica per porlo sul piano del rigore formale, astratto, inutile. Per avere validità riconosciuta, la promessa deve essere redatta in un atto scritto, firmato dalle due parti e dal parroco o dal vescovo (il che esclude ovviamente la grande maggioranza dei fidanzamenti celebrati tra le classi popolari). Soprattutto essa non genera obbligo al matrimonio: proprio per porsi sullo stesso piano delle legislazioni civili ed evitare finalmente i mali dei matrimoni coatti37, il canone 1017 del Codex stabilisce che dalla promessa ratificata negli sponsali non scaturisca più un grave obbligo al matrimonio, ma soltanto l’impegno a rispettare l’accordo, o almeno a risarcire il danno recato dalla sua rescissione in termini di fama, di occasioni perdute, di spese già effettuate in vista delle nozze38. Ivi, p. 434. Jemolo, Il matrimonio nel diritto canonico, cit., p. 100. 38 Cfr. Margherita Pelaja, La promessa, in De Giorgio e Klapisch-Zuber (a cura di), Storia del matrimonio, cit. 36 37

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La sessualità prematrimoniale perde così il suo valore originario di risorsa, di strumento con cui le donne, sostenute da preti e famiglie, potevano trascinare all’altare fidanzati incerti e recalcitranti; la copula che precede le nozze è ora prova d’amore, ricatto degli uomini per ottenere prestazioni sessuali in vista di matrimoni ancora aleatori, è colpa segreta, da smentire invece che esibire pubblicamente come attestato di impegno matrimoniale. E il vero capitale delle donne – intangibile, inviolabile – è un nuovo e concretissimo assoluto: l’integrità dell’imene, la verginità.

3. Peccato e malattia Copia delli primi dodici dubbi del Giappone è il titolo di un documento conservato presso l’archivio romano dei gesuiti39; in esso erano esposte alcune delle più frequenti «perplessità morali» in cui nella prima metà del Seicento si imbattevano i missionari impegnati nell’evangelizzazione dell’Estremo Oriente. Il sesto dubbio riguardava anche le gravidanze illegittime e trattava il caso di giovani nubili incinte che rischiavano per questo motivo non solo di perdere l’occasione di matrimoni previsti e vantaggiosi, ma addirittura di essere uccise dai propri parenti per salvaguardare l’onore familiare. Ai missionari del Giappone sembrava questa una circostanza in cui prendere in considerazione la possibilità di un aborto, da praticare ovviamente nella fase iniziale della gravidanza, prima dell’animazione del feto. Non si trattava certo di dubbi esotici; questioni del genere erano all’ordine del giorno anche nell’Occidente cristiano, tanto più urgenti quanto più le disposizioni tridentine penetravano nella politica della Chiesa, rendendo incerti gli esiti della sessualità prematrimoniale e irreparabili i destini delle madri illegittime. «Il medico, che ordina rimedii a una donna gravida, o che li fa cavar sangue, o li dà conseglio, acciò disperda, ancorché questo lo facci, o per l’honor di quella donna, o per evitar il scandalo o homicidii 39 Copia delli primi dodici dubbi del Giappone, in Archivum Romanum Societatis Iesu, Iap.-Sin. 18-I, cc. 162r-164v, citato in A. Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, Torino 2005, p. 284.

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quali potessero succeder venendo in luce il parto, o scoprendosi la gravidanza [...], se sa di certo che la creatura sia animata, e di anima intellettiva, commette omicidio, et per conseguenza il peccato mortale, et diviene irregolare», aveva scritto già nel 1589 un medico di Imola, Gian Battista Codronchi, autore di un testo, Casi di conscienza, destinato a medici e infermieri40. La posta in gioco, all’interno di dibattiti e disquisizioni via via più accaniti, che a volte si perdevano in casistiche remote, era di portata enorme: i medici infatti avrebbero potuto cancellare, insieme alla gravidanza, la visibilità sociale della sessualità irregolare, impedire l’espiazione pubblica del peccato ricacciandolo nell’intimo delle coscienze, fuori dal corpo. C’era un tempo in cui, fino a tutto il Seicento e oltre, preti e medici erano alleati nella battaglia comune per una salvezza che sembrava porre confini fluidi tra corpo e anima: i medici sentivano l’obbligo di curare soltanto malati in regola con i sacramenti e sperimentavano speciali siringhe in grado di far penetrare l’acqua benedetta nell’utero materno, consentendo così il battesimo di feti in pericolo di vita ma lasciando alla religione la prerogativa di regolare qualunque espressione della sessualità; i teologi e i canonisti elaboravano teorie su feto e gravidanza, ma preferivano governare i comportamenti sessuali attraverso la categoria della colpa dell’anima piuttosto che con quella della salute del corpo. I rapporti tra discorso medico e discorso religioso rimanevano cauti e fiduciosi: i medici avanzavano sempre più di frequente dubbi e proposte alla Congregazione del Sant’Uffizio, ma l’Inquisizione evitava di pronunciarsi con nettezza e in termini generali, preferendo semmai rispondere caso per caso, con prudenza e reticenza. Alla collaudata lungimiranza delle gerarchie ecclesiastiche diventava sempre più chiaro che dietro la specificità e l’apparente tecnicismo dei quesiti si celava la possibilità di pronunciarsi sulla vita e sulla morte. La medicina intanto ampliava rapidamente le sue conoscenze e le sue ambizioni: in primo luogo intorno alla scena della gravidanza e del parto – in cui inoltre la questione del taglio cesareo 40 Casi di conscienza, pertinenti a medici principalmente, et anco a infermi, infermieri, e sani, descritti per Battista Codronco..., citato in Prosperi, Dare l’anima, cit., pp. 245-246.

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pose per secoli alternative tragiche e certe tra la vita del bambino e quella della madre41 – ma aggredendo anche la sfera giuridica dove, a partire dalle Quaestiones medico legales redatte dal medico pontificio Paolo Zacchia42, il parere dei clinici prese ad acquistare una rilevanza crescente nei processi penali e nei conflitti portati dinanzi alle diverse magistrature. Lo spazio guadagnato richiese inizialmente giustificazioni teologiche: il carattere sacrilego da molti attribuito all’autopsia, che profanava un corpo fatto a immagine del suo Creatore, fu confutato per la prima volta nel 1627 da un teologo della Chiesa riformata inglese, con l’affermazione che l’anatomia e le sue applicazioni avrebbero permesso di conoscere meglio l’opera di Dio43. Si venivano a comporre così in tutto il loro spessore semantico i due termini che si sarebbero collocati nel tempo sui due opposti poli del conflitto, latente ma già riconoscibile, tra sapere medico e religione: l’inviolabilità da un lato di organismi appartenenti a un ordine naturale di matrice trascendente e la manipolabilità dall’altro di meccanismi passivi, sottoposti al dominio e al controllo delle conoscenze umane44. Il Settecento segnò il trionfo della sperimentazione umana: veleni diversi venivano somministrati ad ammalati sofferenti dei più vari morbi per verificarne gli effetti terapeutici o letali, il virus del vaiolo fu inoculato a schiavi, galeotti e orfani, prima che a pazienti di più elevato status sociale, per ricercare la garanzia dell’immunizzazione. Il corpo di uomini e donne divenne laboratorio di esperimenti arditi, il cui esito spesso mortale fu calcolato come possibile incidente di percorso, o più di frequente ascritto a precedenti e sconosciute malattie45. Risultava così sempre più palese 41 Cfr. N.M. Filippini, La nascita straordinaria. Tra madre e figlio la rivoluzione del taglio cesareo, sec. 18.-19, Franco Angeli, Milano 1995. 42 Pauli Zacchiae Quaestionum medico-legalium opus, Lugduni, M.A. Ravaud, 1661. 43 J. Weemes, The Pourtraiture of the Image of God in Man: In his Three Estates of Creation, Restauration, Glorification, Printed for Iohn Bellamie, London 1627, citato in R. Muchembled, L’orgasmo e l’Occidente. Storia del piacere dal Rinascimento a oggi, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. 89. 44 Cfr. G. Pomata, Donne e rivoluzione scientifica: verso un nuovo bilancio, in Corpi e storia. Donne e uomini dal mondo antico all’età contemporanea, a cura di N.M. Filippini, T. Plebani e A. Scattigno, Viella, Roma 2002, p. 165. 45 Cfr. L. Schiebinger, La sperimentazione umana. Sesso e razza nel XVIII secolo, ibid.

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che la medicina stava diventando capace di controllare la vita e la morte, in un’evoluzione travolgente. Gli sviluppi scientifici modificavano di continuo gli aspetti morali dei problemi, rendendo sempre più arduo aggiornare legittimità e divieti per garantire la conformità con i dettami della Chiesa. Affiancando l’assimilazione di saperi e pratiche antiche a teorie inedite, a nuovi farmaci e a strumentazioni ardite, i medici dell’Ottocento conquistarono la fiducia del popolo degli infermi: riducevano fratture e incidevano ascessi, osservavano e individuavano morbi invisibili, prescrivevano rimedi capaci non solo di alleviare la sofferenza, ma anche di guarire dalla malattia. Il loro potere cresceva di pari passo con le loro conoscenze46. Così, lentamente, la scienza medica divenne garante di se stessa. Si emancipò dal dominio della trascendenza per pretendere anzi di disegnare il proprio, autonomo, ordine naturale. Si dette come priorità quella di elaborare categorie e metodi capaci di descrivere accuratamente il reale, di classificarlo, per definire cosa appartenesse oggettivamente alla natura – e fosse dunque da difendere e preservare – e cosa invece se ne discostasse, ne rappresentasse una distorsione da curare o estirpare. Erano le categorie della normalità e della patologia, che dalla medicina esondarono presto verso le nascenti «scienze dell’uomo» che insieme alla scienza medica si applicarono subito all’individuazione delle differenze tra maschile e femminile, nel tentativo di stabilire – ancora una volta oggettivamente – cosa fossero per natura gli uomini e cosa fossero per natura le donne47. Non solo di corpi quindi si trattava e si disquisiva, ma anche di comportamenti, di collocazione e relazioni nei sistemi sociali. Il confine tra salute e patologia si estese nei suoi significati e nelle sue implicazioni fino ad assorbire quella che fino ad allora era stata la bussola, il criterio di riferimento di ogni valutazione degli atteggiamenti individuali: il discorso normativo cattolico sul confine tra innocenza e peccato. 46 G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste nera ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2005. 47 Cfr. V.P. Babini, F. Minuz e A. Tagliavini, La donna nelle scienze dell’uomo. Immagini del femminile nella cultura scientifica italiana di fine secolo, Franco Angeli, Milano 1986.

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Una natura non più creazione e dono di Dio ma meccanismo complesso in continua evoluzione, da sezionare e perfezionare invece che farne oggetto di ammirazione e gloria: questa natura – se adeguatamente conosciuta – può fornire i nuovi parametri di giudizio su chi è sano, chi affetto da mali curabili e dunque da sottoporre a opportuni trattamenti da parte di chi ne possiede le competenze, chi infine è colpito da malattie prive di rimedio, ed è quindi da rinchiudere, emarginare, separare comunque dal mondo dei sani. Il territorio del peccato viene così a restringersi: i comportamenti non conformi ai dettati di una morale i cui assunti dominanti rimangono per ora quelli elaborati nei secoli dal cristianesimo non sono più ascrivibili semplicemente alla libera volontà di scegliere il male, ma a nuove incapacità fisiologiche – più tardi psichiche – che possono essere sottoposte a terapia oppure bollate senza riscatto. La cura si sostituisce alla redenzione, la strategia della colpa si affievolisce, e la Chiesa vede progressivamente sgretolarsi uno strumento decisivo di dominio sulle coscienze. All’inizio di questo processo, nella prima metà del XVIII secolo, le sue conseguenze non apparvero limpide neanche ai cattolici più avvertiti; i quali comunque scelsero subito di rimanere aggrappati al concetto di peccato e di evitare l’uso delle categorie scientifiche come nuovi argomenti per orientare alla continenza i fedeli in balia di una prepotente sensualità. Ma la progressiva erosione della categoria di peccato e il dilagare di quella di malattia renderà pian piano evidente un avvicendamento ben più significativo: ciò che era rimasto indomato dal disciplinamento di matrice religiosa – e più tardi non solo quello – sarà fatto proprio da un sistema medico-scientifico che si appresta a diventare una nuova, autonoma, agenzia normativa. A cominciare dal peccato che la Chiesa aveva maledetto e insieme dissimulato: quello di Onan. La masturbazione moderna – ha scritto uno studioso che le ha dedicato un’importante ricerca48 – possiede una data d’inizio di una precisione rara nella storia della cultura. Era il 1712 quando fu pubblicato a Londra un opuscolo il cui titolo può essere tradotto così: Onania; ovvero l’odio48 T.W. Laqueur, Sesso solitario. Storia culturale della masturbazione (2003), a cura di V. Lingiardi e M. Luci, Il Saggiatore, Milano 2007.

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so peccato dell’autopolluzione, e tutte le sue spaventose conseguenze per entrambi i sessi, con consigli spirituali e materiali per coloro che si sono già rovinati con questa pratica abominevole. E opportuni avvertimenti ai giovani della nazione di ambo i sessi... L’autore, anonimo, è stato identificato da Thomas Laqueur in John Marten, un chirurgo empirico che si proponeva principalmente scopi commerciali: vendere tinture e polveri di sua fabbricazione che avrebbero sconfitto l’odiosa tentazione. Il successo del libretto andò ben oltre quello di testi analoghi che in quegli anni circolavano offrendo descrizioni minuziose di organi e attività sessuali e soddisfacendo così tanto la sete di conoscenza quanto la ricerca di sollecitazioni erotiche, al punto da essere definiti pornografia medica49. Onania fu ristampato più volte lungo tutto il Settecento, diffondendo un nuovo termine per nominare la masturbazione; termine che fu ripreso nel trattato di uno dei più importanti medici francesi, Samuel-Auguste Tissot, che scrisse una prima versione in latino nel 1758 e una seconda in francese, L’onanisme, pubblicata a Losanna nel 1760. Gli argomenti di Tissot non sono affatto nuovi, dato che sembrano limitarsi a riformulare in termini medici proibizioni e minacce espresse nei secoli precedenti in chiave teologica. Ma lo slittamento è compiuto: le conseguenze dell’onanismo riguardano ormai la macerazione del corpo e non la dannazione dell’anima, e la descrizione di tormenti infernali ha il suo scenario nella vita terrena. A partire dalla tradizionale teoria degli umori la dissipazione del seme provocherà una debolezza mortale. Ancora poco per gli altri scienziati che per tutto l’Ottocento riprenderanno le teorie di Tissot attribuendo alla masturbazione infinite malattie: pustole orrende, febbri violente, fino alla tubercolosi spinale e all’epilessia. Niente più dibattiti sul confine tra polluzione volontaria e involontaria, un confine che tra Medioevo ed età moderna era stato spostato di continuo per ampliare il margine di tolleranza verso una propensione incoercibile50; niente più indagini discrete dei confessori. L’onanismo è divenuto malattia mortale da curare con ogni mezzo. E a elaborare sistemi di cura e repressione si appli49 50

Cfr. R. Muchembled, L’orgasmo in Occidente, cit., pp. 145 sgg. Cfr. supra, cap. IV.

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cano in molti, gareggiando – loro, gli addetti alla cura – in fantasiose perversioni, che risuonano di strane assonanze con le mortificazioni cui si sottoponevano i monaci medievali: mani legate alla testata del letto o costrette in una specie di camicia di forza durante la notte; apparati genitali stretti in cinture di castità; canali dell’uretra cauterizzati e mantenuti in uno stato di costante infiammazione così da rendere dolorosissimo ogni toccamento; amputazioni della clitoride; applicazione agli uomini di congegni con allarme elettrico in caso di erezione; utilizzo di anelli provvisti di punte acuminate pronte a conficcarsi nel membro eretto51. Non sono solo i medici ormai i responsabili di un così violento accanimento terapeutico: altre scienze tra Settecento e Ottocento si applicano a mettere a punto un sistema morale – e all’interno di questo una visione della sessualità – che mette al suo centro priorità inedite. Parte integrante di un ordine naturale conoscibile e manipolabile, il corpo umano è un meccanismo delicato, deperibile, che funziona grazie a complicati flussi di energia. Un’energia che deve essere dunque preservata, risparmiata, non dissipata in atti sessuali inconsulti e insani. Molti storici hanno sottolineato nei loro studi il carattere economico della morale sessuale messa a punto dalle borghesie nascenti tra Settecento e Ottocento; nella cultura dell’epoca – scrive Robert Muchembled – «il corpo è pericoloso. Però, non più perché allontana dalla salvezza eterna, ma perché costituisce un capitale, una meccanica da gestire per trarne il miglior profitto [...]. L’educazione dei sensi ha dunque come obiettivo il risparmio. La cultura medica alimenta il timore che ‘le perdite’ portino ineluttabilmente al trapasso, come è accaduto all’uomo che ha assunto una pozione afrodisiaca contenente polvere di cantaride. ‘Lo stolto ha ottantasette rapporti con la moglie quella notte, spande inoltre molto sperma nel suo letto. Cabrol, chiamato il mattino per curarlo, vede questo novello Ercole, ancora più famoso dell’eroe che aveva meravigliato l’Antichità, avere ancora tre eiaculazioni successive strofinandosi sulla testiera del letto. La morte mette fine a questa crisi erotica’»52. L’economia biologica e sociale è offesa da tanto sperpero, da un’incapacità di autoregolazione che contraddice l’emergente 51 52

Cfr. Muchembled, L’orgasmo in Occidente, cit., pp. 230-232. Ivi, p. 222.

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esaltazione del mercato: se grazie al mercato infatti anche gli atti di avidità e di soddisfazione dei desideri individuali potevano trasformarsi nel bene generale in quanto motore che alimenta l’intera imprenditorialità, gli eccessi sessuali – e tra questi soprattutto la masturbazione – rappresentavano l’unica forma di ricerca del piacere che sfuggiva a ogni autocontrollo, per di più improduttiva e assolutamente gratuita. È meglio, scrisse il medico e pensatore Bernard Mandeville, che i ragazzi frequentino i bordelli anziché commettere stupri contro i loro stessi corpi53. La prostituzione acquista così una rilevanza strategica: la nuova morale sessuale che dal Settecento si diffonde per dominare fino agli ultimi decenni del secolo scorso conserva infatti gli assetti di quella cattolica messa a punto in età moderna, ponendo al suo centro la relazione matrimoniale. Nello stesso tempo tuttavia opera una dislocazione decisiva: il piacere – che il cattolicesimo prescriveva, insegnava, cercava di garantire nella copula coniugale – è collocato ora fuori del matrimonio. La rigida distinzione fra i sessi, e dentro i sessi, fra sani e depravati/malati impone che le donne oneste e sposate siano frigide. L’amplesso coniugale è ancora, e ancora più rigidamente, procreativo, mentre le donne disoneste/ninfomani sono nei bordelli, dove si costruisce il nesso indissolubile tra piacere e malattia. Già Agostino, pur sempre condannandolo come peccato orrendo, aveva associato il meretricio a una cloaca che «impedisce che l’intero palazzo sia lordato dagli escrementi»54; ora l’immagine viene ripresa e perfezionata da chi ha davvero tutti i titoli per riproporla. Nel 1836 Alexandre Parent-Duchâtelet, medico e igienista, dopo essersi a lungo occupato del funzionamento delle fogne di Parigi, scrive De la prostitution dans la ville de Paris, considérée sous le rapport de l’hygiène publique, de la morale et de l’administration55; il corpo della prostituta è davvero la fogna del se53 B. Mandeville, Modesta difesa delle pubbliche case di piacere (1724), traduzione e note di F. Bandel Dragone, Passigli, Firenze 1998. 54 Cfr. supra, cap. IV. 55 A.-J.-B. Parent-Duchâtelet, De la prostitution dans la ville de Paris, considérée sous le rapport de l’hygiène publique, de la morale et de l’administration: ouvrage appuyé de documens statistiques... par A.-J.-B. Parent Duchâtelet; précédé d’une notice historique sur la vie et les ouvrages de l’auteur par Fr. Leuret, Société belge de librairie Hauman, Cattoir et C., Bruxelles 1836.

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me maschile, e come tale va mantenuto pulito, sano e separato dagli altri corpi femminili. Organizzato quindi, e regolato da norme efficienti, e sorvegliato da apposite figure di controllo. È la sanzione pubblica del passaggio dal proibizionismo alla tolleranza. Fino al Settecento infatti il meretricio era ufficialmente condannato anche dalle autorità civili e perseguito con editti tanto reiterati quanto evidentemente inutili. Tra il XVI e il XVIII secolo, per esempio, vennero emanate nel Regno di Napoli ben sedici Prammatiche, le quali prevedevano per chi esercitasse o favorisse il meretricio la frusta, l’esilio, la galera, il taglio del naso56. E due Prammatiche, rispettivamente del 1734 e del 1737, intendevano colpire anche gli affittuari delle case ove si esercitava la prostituzione, la prima vietando semplicemente l’affitto, e la seconda introducendo pesanti disincentivi economici: il contratto d’affitto sarebbe stato nullo, le meretrici sarebbero state esonerate dall’obbligo di pagare la mercede, le case stesse avrebbero potuto essere confiscate57. E il Bando per li vagabondi e per le puttane cassariote, emanato in Sicilia dal viceré principe di Caramanico nel maggio 1793, ripristinava le Prammatiche sul lenocinio varate più di due secoli prima, tra il 1515 e il 1553, proibendo alle donne di girare per strada di notte e di affittare case di persone oneste, minacciando la frusta e la rasatura delle ciglia e condannando gli uomini trovati in compagnia di prostitute all’esilio, o alla frusta, o al carcere58. Ma con il passaggio all’Ottocento un cambiamento rapido investe gli assetti normativi, gli apparati di controllo, la percezione stessa del fenomeno e dei suoi protagonisti. La meretrice-fogna descritta da Parent-Duchâtelet è il vaso in cui viene depositato quell’eccesso fisiologico di liquido spermatico prodotto da corpi maschili privi di vasi legittimi in cui deporlo: celibi, militari, gio56 Pragmatica edicta decreta interdicta regiaeque sanctiones Regni neapolitani. De Meretricibus, Napoli 1772, citato in L. Valenzi, Donne, medici e poliziotti a Napoli nell’Ottocento. La prostituzione tra repressione e tolleranza, Liguori, Napoli 2000, p. 24. 57 Ivi, p. 25. 58 Archivio di Stato di Palermo, Ministero e Real Segreteria di Stato presso il Luogotenente generale delle due Sicilie – Polizia, p. 408, doc. 1060, citato in G. Fiume, Le patenti di infamia. Morale sessuale e igiene sociale nella Sicilia dell’Ottocento, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», n. 17, 1886, pp. 78-79.

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vani altrimenti preda della tentazione masturbatoria. L’immagine tuttavia è già arretrata rispetto ai mutamenti in corso: perché ormai assidui e regolari frequentatori delle prostitute stanno diventando i mariti. Insoddisfatti dell’algido talamo coniugale e bramosi di piaceri negati dalle caste spose legittime. La promiscuità è forte, e va esorcizzata. Se la frequentazione delle meretrici non appartiene più a determinate fasi della vita, ma è esperienza che attiene alla quotidianità di mariti e padri di famiglia che possono passare dai luridi e contaminati panni del giaciglio delle prostitute al nitore della biancheria di casa, allora il confine tra piacere e castità deve essere demarcato – concretamente e simbolicamente – con strumenti nuovi ed efficaci. Sul piano normativo, la definizione scelta senza più ipocrisie per i nuovi sistemi di controllo dà un nome, tolleranza, all’atteggiamento che ha preso il sopravvento: comincia il Regolamento napoleonico del 1802, che prevede registrazioni, visite mediche e maisons de tolérance; nel 1820, a Palermo, la Direzione generale di polizia, appena istituita, crea le «patenti di tolleranza», documenti che servono a censire le prostitute non occasionali. Tali documenti devono essere vistati ogni dieci giorni dall’ispettore addetto e dal «chirurgo visitatore»: la visita medica praticata nell’ospedale è pubblica e obbligatoria, pena l’arresto, e serve a verificare l’esistenza di malattie veneree59. Nel corso dell’Ottocento il regolamentarismo si diffonde in tutta Europa, in un susseguirsi di disposizioni che si propongono infinite garanzie: la garanzia dei diritti e dei profitti di chi gestisce i bordelli, la garanzia di una separazione senza ambiguità tra donne oneste e donne perdute, la garanzia dell’igiene e dell’impossibilità del contagio. Sul piano operativo, si afferma e si struttura il connubio così sottilmente analizzato e ipostatizzato dagli studi di Michel Foucault: quello tra medico e poliziotto. Un connubio che in una gerarchia tutta implicita unisce chi – il poliziotto – ha il compito di controllare i comportamenti socialmente pericolosi e chi – il medico – ha le competenze per collocare tali comportamenti nella devianza consapevole e colpevole o in una malattia che si distribuisce su vari gradi di innocenza e di curabilità. Anche il Regola59

Ivi, p. 79.

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mento sulla prostituzione, detto Regolamento Cavour, promulgato nel 1860 tra i primi provvedimenti legislativi dello Stato italiano, impone la visita forzata: «La visita, in quel dispensario, si fa con mirabile celerità», riferisce il medico Agostino Bertani criticando tale disposizione. «Il medico, estratto lo speculum da una, appena lo striscia su una spugna inzuppata d’olio e lo applica ad un’altra. Dopo 50 visite all’incirca la spugna è carica di muco e di sangue, ma il medico imperturbabile continua. E con pari celerità si procede visitando la bocca introducendovi una spatola che, nell’istantaneo passaggio da una bocca all’altra il medico striscia sul suo grembiale»60. E poiché, per esempio a Bologna – continua Mary Gibson –, attraverso quelle ispezioni fu trovato infetto solo il 17% delle donne controllate tra il 1864 e il 1886, per l’altro 83% la visita medica forzata rappresentò essenzialmente un «rito di iniziazione» per l’ingresso in un bordello. Se il controllo medico si aggiungeva alla registrazione e alla reclusione nei bordelli per caratterizzare la politica degli Stati laici nei confronti della prostituzione, tale politica si mostrava invece priva di uno dei tratti costitutivi dell’atteggiamento della Chiesa cattolica verso le meretrici: la tensione al recupero, il progetto di redimere, di salvare l’anima delle donne cadute togliendole dal peccato e garantendo loro una sussistenza fatta di pentimento e di speranza. Nell’organismo sociale congegnato dalle borghesie ottocentesche le prostitute svolgono un ruolo «igienico» essenziale e devono dunque essere disponibili in abbondanza; non bisogna redimerle ma solo mantenerle sane e pulite, registrate e chiuse in luoghi ben separati dai territori – anch’essi ben delimitati – accessibili alle oneste spose e madri. Classificare e separare è ormai attività quotidiana di una scienza medica in cerca di ambiti sempre più vasti su cui dispiegare la propria capacità disciplinatrice. E all’interno di una sessualità concepita come interesse pubblico altre figure vengono costruite per definire e isolare ogni inclinazione e ogni comportamento che 60 A. Bertani, La prostituzione patentata e il regolamento sanitario: Lettera ad Agostino Depretis, Quadrio, Milano 1881, citato in M. Gibson, Medici e poliziotti. Il Regolamento Cavour, in «Memoria. Rivista di storia delle donne», n. 17, 1886, pp. 92-93; si veda anche Ead., Stato e prostituzione in Italia 1860-1915, Il Saggiatore, Milano 1995.

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si discosta dal «normale» esercizio della copula coniugale e della copula mercenaria. Per tutta l’età moderna la sodomia era il «vizio nefando», la colpa abominevole di cui tutti i fedeli potevano macchiarsi senza per questo compromettere un’identità sessuale che trovava altrove i suoi parametri costitutivi61. Nei primi decenni del Settecento nacquero a Londra le molly houses, ritrovi specializzati per chi preferiva avere incontri sessuali con persone dello stesso sesso e prime enclaves di una sottocultura fiorente. I frequentatori delle «case per effeminati» vi si recavano spontaneamente per trovarvi soddisfazioni molteplici – vi si praticava per esempio anche la flagellazione – e forse anche l’armonia di un’appartenenza ancora in embrione62. È sempre difficile e controverso stabilire la data di nascita di un atteggiamento culturale, e il dibattito storiografico sulla nascita dell’omosessuale moderno è ancora aperto63; è possibile però ritenere che le molly houses, pur offrendo ai propri visitatori il germe di una nuova percezione di sé e di una nuova cultura, non generavano allarme sociale, non sembravano minacciare un ordine dei sessi che si andava costruendo in forme sempre più rigide e violente. Il labeling, la collocazione dei sodomiti in una specie autonoma – non più da condannare soltanto per i suoi atti immorali, ma da studiare e perseguire per la sua identità perversa –, avvenne più tardi, verso la fine dell’Ottocento, per la convergenza di due processi: uno, maturato in ambito giuridico anche sotto l’influenza della nascente antropologia criminale, faceva slittare il giudizio e la condanna dall’atto, isolato nella sua circostanzialità, all’indiviCfr. supra, cap. IV. Cfr. R. Norton, Mother Clap’s Molly House: The Gay Subculture in England, 1700-1830, GMP, London 1992, e Muchembled, L’orgasmo in Occidente, cit., p. 177. 63 Tra le diverse posizioni al riguardo cfr. J. Weeks, Against Nature: Essays on History, Sexuality and Identity, Rivers Oram, London, 1991; The Making of Modern Homosexual, a cura di K. Plummer, Rowman & Littlefield, London 1981; M. Duberman, M. Vicinus e G. jr Chauncey, Hidden from History. Reclaiming the Gay and Lesbian Past, Meridian, New York 1980; R. Norton, The Myth of the Modern Homosexual: Queer History and the Search for Cultural Unit, Cassell, London 1997. 61 62

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duo, portatore di uno stigma vizioso e criminale nell’insieme dei suoi comportamenti; il secondo, risultato della fusione dell’approccio medico, biologico e psichiatrico, componeva corpi e caratteri in figure sociali marchiate da anomalie molteplici, tutte indirizzate verso un’aberrante inversione sessuale64. Un’inversione che presto avrebbe trovato nei progressi scientifici la via per essere sanata. Nella gara ingaggiata per individuare l’origine dell’anormalità, anatomia ed endocrinologia si contendevano fantasiosamente il primato: secondo Paolo Mantegazza l’omosessualità derivava «da un’anomalia anatomica che indirizzava i nervi spinali, destinati alla voluttà, non verso gli organi genitali ma verso il retto. Anche i pederasti attivi avevano un’anomalia che li portava a desiderare di sentire il penis circumclusum (desiderio di strettezza). L’origine della sodomia era quindi da ricercare nei centri nervosi»65. Maggiore seguito e prestigio ottenne l’approccio endocrinologico; offrendo una sintesi felice delle teorie lombrosiane, dell’organicismo e della teoria della bisessualità di Otto Weininger66, gli endocrinologi ritenevano che l’omosessualità derivasse da un’anomalia congenita che si manifestava in alcune disfunzioni ormonali. Le applicazioni di tale teoria furono entusiastiche e raccapriccianti: il fisiologo Eugen Steinach compì a Vienna molte ricerche sui testicoli degli omosessuali prima di procedere alla loro castrazione e all’innesto su di essi di testicoli di persone eterosessuali. I risultati dei suoi esperimenti – compiuti in collaborazione con il collega Robert Lichtenstern – furono celebrati dall’italiano Ferdinando De Napoli: Sono notevoli specialmente i risultati ottenuti da Lichtenstern sugli omosessuali. Egli li ha fatti tornare come gli altri uomini del loro sesso; li ha fatti agire, pensare, amare come questi, normalmente (e noi 64 M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), a cura e traduzione di V. Marchetti e A. Salomoni, Feltrinelli, Milano 2004. 65 P. Mantegazza, Gli amori degli uomini. Saggio di una etnologia dell’amore, Milano, s.d., citato in L. Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli, Milano 2005, p. 54. 66 O. Weininger, Sesso e carattere, Fratelli Bocca, Torino 1912.

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vedremo quanto diversamente agiscono non nella sola sfera sessuale, ma in tante manifestazioni spirituali, questi poveri invertiti!). Li ha resi diversi con l’innesto della materia buona, dopo di aver asportata la materia non buona, anormale e difettosa, per cui questi infelici, per lungo tempo, apparvero come malati di mente o, peggio ancora, furono giudicati viziosi. Non è dunque la materia che domina, che influenza, che guida e che piega anche lo spirito?67

Non potevano scegliersi toni più trionfali: scientismo positivista e materialismo dimostravano finalmente la possibilità di manipolare non soltanto i corpi ma anche le emozioni e i sentimenti; e dunque di ridisegnare la geografia del vizio e dell’innocenza, del condizionamento e della libera scelta. Gli omosessuali sono tali per tare congenite: sono dunque incolpevoli e soprattutto curabili. La scienza medica è in grado di governare e ripristinare l’ordine dei sessi. La competizione con la visione cattolica del sodomita come peccatore responsabile del proprio vizio è esplicita e agguerrita; l’antagonismo dei medici appare così ben più aggressivo di quello dei giuristi, che fra Ottocento e Novecento in Italia si ritrassero per ben due volte dall’intervento sull’omosessualità. Con motivazioni solo in parte diverse, i redattori del Codice Zanardelli del 1889 e quelli del Codice Rocco del 1931 rinunciarono a perseguire specificamente i comportamenti omosessuali. Per i giuristi liberali lo Stato non doveva invadere i territori della morale, e gli atti di libidine contro natura dovevano essere puniti solo se comportavano violenza o pubblica offesa al pudore, altrimenti dovevano essere abbandonati «come peccati alla sanzione della religione e della privata coscienza»68. Con il risultato che l’introduzione del codice unitario estese a tutta l’Italia la depenalizzazione dell’omosessualità, perseguita invece nel Lombardo-Veneto e nel Regno di Sardegna. Gli argomenti dei legislatori fascisti erano soprattutto di carattere estetico: pur dopo un lungo dibattito, decisero che l’intro67 F. De Napoli, Sesso e amore nella vita dell’uomo e degli animali, vol. I, Fratelli Bocca, Torino 1927, pp. 192-193, citato in Benadusi, Il nemico dell’uomo nuovo, cit., p. 58. 68 Ivi, p. 102.

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duzione dell’omosessualità come reato a sé stante avrebbe offerto agli stranieri l’immagine di una nazione popolata di pervertiti e bisognosa dunque di una esplicita tutela da parte della legge. Meglio il silenzio allora, e una delega forte alla Chiesa sulla prevenzione e sul controllo di tale turpitudine. Tra Ottocento e Novecento dunque le gerarchie ecclesiastiche furono costrette a costruire e affinare nuovi strumenti per gestire con efficacia sia il controllo dei comportamenti sessuali dei fedeli sia l’interlocuzione con teorie e sperimentazioni che si stavano diffondendo nell’ambito della scienza medica. Lo fecero rinnovando l’impegno nella formazione dei confessori: perché l’omosessualità – come ogni altro atto sessuale compiuto al di fuori del matrimonio – tornasse a essere fino in fondo un peccato da portare al tribunale della penitenza e perché i sacerdoti sapessero maneggiare con cognizione di causa concetti e terminologie che dalla comunità scientifica rischiavano di esondare verso strati sempre più ampi della società. Nel 1905 fu pubblicata la prima edizione di un testo più volte ristampato nei decenni successivi: la Medicina pastoralis in usum confessariorum et curiarum ecclesiasticarum di Giuseppe Antonelli, corredato di tavole anatomiche esplicative, che dedicava pagine specifiche al tema dei rapporti contro natura; pochi anni più tardi, nel 1910, padre Agostino Gemelli diede alle stampe, sempre in latino come era in uso nella Chiesa cattolica soprattutto quando si trattava di questioni delicate dal punto di vista morale e sessuale, il suo Non moechaberis. Disquisitiones medicae in usum confessariorum, che nel capitolo quinto trattava De sexualibus aberrationibus earumque cura. Nel 1930 infine, e finalmente in italiano, iniziò le pubblicazioni a Bologna la «Rivista medica per il clero», il cui obiettivo era quello di fornire gli strumenti per comprendere il nesso tra malattia fisica e malattia morale. Un arduo compito attendeva i cattolici che si prefiggevano di illuminare quella terra di confine: soprattutto chi – come padre Gemelli – nel corso della prima metà del secolo avrebbe approfondito da psicologo i suoi studi sulla sessualità, cercando da un lato di difendere il libero arbitrio dal determinismo biologico di stampo positivista, e dall’altro di riaffermare la dimensione spirituale della castità in polemica con quello che all’epoca veniva definito come il «pansessualismo» della psicoanalisi.

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Proprio la psicoanalisi infatti andava nel frattempo elaborando quella che sarebbe divenuta la rappresentazione dominante della condizione umana. La rivoluzione fu lenta ma irreversibile, e avvenne attraverso progressive dislocazioni, secondo un movimento che riportava nell’anima quello che era stato appena localizzato nel corpo, e che ancora nell’anima, all’interno del soggetto, poneva l’origine e il senso della colpa e del castigo69. Osservando i sussulti delle isteriche, Freud capì che le cause delle loro sofferenze andavano ricercate non in disfunzioni fisiologiche o in lesioni anatomiche, ma nei «nervi dell’anima», in conflitti fra desideri e interdizioni che parlano al corpo attraverso il sintomo; capì che ogni desiderio trae direzione ed energia da pulsioni erotiche risalenti alla prima infanzia; che l’interdetto posto al loro soddisfacimento ne provoca la rimozione, la quale a sua volta genera l’autorappresentazione del soggetto condizionandone la volontà e l’agire. La ricerca della verità attiene allora a un percorso interiore, che attraverso il disvelamento della rimozione recupera l’identità più profonda di ognuno. Per la psicoanalisi quindi la sofferenza continua – come nella religione e nella morale tradizionale – a essere lontananza dalla verità, ma è lontananza da una verità interiore che non si raggiunge con il perdono e con la redenzione ma con il disvelamento e la conquista della coscienza. Un altro sapere dunque parla di verità ma esclude ogni assoluto, indica percorsi di conoscenza e di responsabilità che attraversano la decodifica e il dominio delle pulsioni; è il sapere più vicino alla pluralità di opzioni e di progetti che la modernità dispiega all’individuo occidentale.

4. Rigenerare l’umanità? Questo cambiamento di mentalità, che ha segnato una frattura con la morale cristiana sia per quanto riguarda sia il matrimonio sia il comportamento sessuale, non era solo provocato da fattori culturali, ma anche dalla profonda trasformazione demogra69 Cfr. Il secolo della psicoanalisi, a cura di G. Jervis, Bollati Boringhieri, Torino 1999.

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fica delle società occidentali realizzatasi a partire dal 1750 e affermatasi decisamente dalla seconda metà del XIX secolo. A cominciare da questo periodo, il miglioramento delle condizioni di vita ha consentito un allungamento della vita umana e, soprattutto, grazie all’adozione di norme igieniche e delle nuove medicine, un crollo della mortalità infantile e della mortalità per parto delle donne. Come scrive il sociologo francese Paul Yonnet, sono le donne e i bambini i grandi beneficiari di questa rivoluzione, un cambiamento che provoca anche importanti trasformazioni nel modo di concepire l’infanzia – il bambino diventa una persona – e nella definizione del ruolo femminile, dal momento che non saranno più necessarie molte gravidanze per garantire un figlio vivente, cosicché alle donne si apre la possibilità di impegnare in altri campi la propria vita. La rivoluzione demografica, scrive Yonnet, «è originata – fondamentalmente – dalla coniugazione di un calo delle mortalità con una rivoluzione ideologica e culturale» che non solo avrà profondi effetti sul comportamento sessuale «ma arriverà a influenzare la formazione dell’io»70. Il nuovo ordine della fecondità, per cui i bambini abbondano, fa nascere il desiderio di avere un bambino, cioè il desiderio di scegliere quando avere un figlio. Anche in questo campo, Rousseau, che abbandona all’orfanotrofio i cinque figli avuti dall’amante – e non «desiderati» in quanto egli non si ritiene un «buon padre» – disegna la strada per tutti. L’abbandono dei figli non desiderati, che aumenta costantemente nel corso del XIX secolo, costituisce infatti, secondo Yonnet, la prima forma di scelta: perché esista il bambino desiderato, deve esserci quello rifiutato. All’abbandono si sostituiranno ben presto, come fenomeno di massa, la contraccezione e l’aborto, ma le motivazioni sono sempre le stesse: non più l’accettazione naturale della discendenza ma, come dice Rousseau, la decisione di tenere un figlio o no si basa sullo stato della coppia, e sulla capacità dei genitori di soddisfare le proprie attese di fronte ai figli che desiderano avere. Questa rivoluzione non si limita a programmare le nascite in proporzione al calo della mortalità, ma va oltre, come dimostra il fatto che nei paesi occidentali l’incremento demografico è sceso al di sotto del rin70 P. Yonnet, Le recul de la mort. L’avènement de l’individu contemporain, Gallimard, Paris 2006, p. 143.

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novo generazionale. La «ritirata della morte», infatti, ha liberato delle aspirazioni che non sono più legate all’equilibrio della specie o all’equilibrio della società, né agli interessi di sopravvivenza di un gruppo sociale, ma solo ai desideri individuali, che saranno al centro di una nuova dinamica. L’aborto volontario si diffonde solo in questo periodo come pratica di massa nelle società umane, scrive Yonnet71, grazie alla scoperta dell’asepsi e degli antibiotici – prima l’aborto era troppo rischioso, ed era più sicuro invece abbandonare il bambino – e comincia a essere legittimato dall’accettazione sociale della regola morale del bambino desiderato. La prima fase di questo cambiamento inizia nel XVIII secolo, quando si diffonde come forma di controllo delle nascite l’abitudine a ritardare la data del matrimonio, comportamento diffuso con cui i Paesi occidentali di tradizione cristiana cominciano a differenziarsi dal resto del mondo. È chiaro che questa nuova economia familiare porta a una crisi della morale tradizionale, che non scompare, ma che si riformula intorno ai valori dell’autenticità del legame: «non è perché le relazioni sessuali prima del matrimonio sono immorali che sono proibite, è perché minacciano l’equilibrio demografico che sono dichiarate immorali», afferma Yonnet72, e conclude sostenendo che, con l’accettazione e la diffusione del controllo delle nascite, la società occidentale inventa una nuova morale, centrata sul figlio desiderato, che non ha più bisogno della protezione del matrimonio, della maschera del conformismo sociale. Il controllo delle nascite viene proposto pubblicamente nelle società occidentali per la prima volta da Francis Place, un operaio inglese impegnato nella politica, che stampa nel 1822 un breve trattato sui metodi anticoncezionali. Al libro vennero affiancati dei manifesti, rivolti «ai coniugati di ambo i sessi», che illustravano tecniche anticoncezionali semplici e di facile impiego, come la spugna vaginale e il coito interrotto. Lo sfondo teorico con cui Place giustifica la sua propaganda è utopistico – il controllo delle nascite permetterà di debellare la povertà e di migliorare il tenore di vita delle masse –, così come utopista era l’altro pioniere del71 72

Cfr. Yonnet, Le recul de la mort, cit., p. 165. Ivi, p. 190.

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la contraccezione, il filantropo Robert Owen, e questa tensione utopica rimarrà una caratteristica di tutta la propaganda anticoncezionale, almeno fino alla metà del Novecento. Un’altra caratteristica del movimento di controllo delle nascite è lo stretto legame con i movimenti anticlericali e di propaganda dell’ateismo, come quello del Libero pensiero, e con gli evoluzionisti che sostenevano la necessità di una selezione eugenetica per accelerare l’evoluzione della specie umana. Ritroviamo tutti questi elementi nei due protagonisti di un processo che si tenne a Londra fra il 1877 e il 1879 per la pubblicazione e la diffusione di un opuscolo di informazioni anticoncezionali compilato da un medico, George Drysdale, fondatore della Lega neomalthusiana: Charles Brandlaught, giornalista e capo della National Secular Society, associazione che si proponeva come obiettivo la predicazione dell’ateismo, e la sua stretta collaboratrice, Annie Besant. Entrambi furono assolti, e il processo diede grande risonanza alla loro iniziativa, che poi la Besant sfruttò pubblicando un opuscolo più aggiornato – Law of Population – di larga diffusione, ristampato più volte e tradotto in varie lingue. In questi anni il movimento neomalthusiano si diffonde rapidamente in tutta Europa, attraverso reti socialiste ed evoluzioniste – che spesso coincidevano – in sintonia con le teorie eugenetiche. I neomalthusiani, per affrontare questo tipo di problema, sentivano il bisogno di una giustificazione etica, e presentavano pertanto il controllo delle nascite come una pratica eugenetica, intesa come speranza di rigenerare l’umanità: «allo scopo dunque di migliorare il tipo fisico umano, il materialismo scientifico doveva proibire la procreazione alle persone non perfettamente sane, restringendo la prole nei limiti consentiti dalla buona salute della madre, ed imporre il dovere di non mettere al mondo dei figli quando non è possibile fornire ad essi le condizioni di buon allevamento», scrive Annie Besant73. La Besant parla apertamente «del dovere umano di cooperare razionalmente con la natura dell’evoluzione» per costruire una società perfetta, nella quale – eliminate le ragioni della sofferenza – il dolore sarebbe scomparso. 73 A. Besant, Autobiografia, prefazione di L. Scaraffia, Le Lettere, Firenze 2002, p. 194.

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La motivazione al controllo delle nascite veniva ricondotta, quindi, alla necessità «superiore» di rigenerare l’umanità. Il concetto di «rigenerazione», il cui significato originario era legato al battesimo cristiano, viene considerato una possibilità umana a partire dalla Rivoluzione francese, fino a diventare un topos del lessico giacobino. Si sposa perfettamente poi con la concezione darwiniana della storia, secondo cui la società tende a trasformarsi costantemente in senso positivo. Si può ben capire, quindi, come questo termine venga utilizzato ampliamente dai movimenti neomalthusiani favorevoli al controllo delle nascite: nel 1900 la Lega internazionale neomalthusiana – fondata dai propagandisti George Drysdale, Paul Robin e Johannes Rutgers – prese il nome di Ligue pour la régéneration humaine. Ma già Robin, nel 1890, aveva fondato la Ligue de la régéneration humaine, che aveva come motto «bonne naissance-éducation intégrale», apertamente femminista, e che pubblicava la rivista «Régéneration». Paul Robin è un esempio significativo di questo tipo di utopista ideologico: nato in Bretagna nel 1857, appassionato insegnante di metodi pedagogici alternativi, aderì all’Internazionale socialista e venne iniziato alla massoneria. Condannato all’esilio per le sue attività rivoluzionarie, in Inghilterra conobbe la Malthusian League di Drysdale e ne divenne sostenitore una volta tornato in Francia. Nel 1899 lasciò la lega per fondare una comunità comunista in Nuova Zelanda, presto fallita, per cui tornò nuovamente in Francia, dove finì la sua esistenza suicida nel 191274. La Lega neomalthusiana italiana, fondata nel 1913, era affiliata alla Federazione universale della rigenerazione umana con sede a Parigi, e aveva per motto: «non quantitas sed qualitas», scelto allo scopo di legare strettamente «la limitazione delle nascite al miglioramento della razza umana»75. Il termine «rigenerazione» ricorre spesso negli scritti di una delle donne più celebri fra le oratrici del congresso femminista tenutosi a Roma nel 1908, la dottoressa Maria Montessori, creatrice di un programma pedagogico che offriva un messaggio universale per la «rigenerazione» umana. La Montessori partecipò ai la74 Cfr. F. Ronsin, La grève des ventres. Propagande néo-malthusienne et baisse de la natalité en France, XIXe-XXe siècles, Aubier, Paris 1980. 75 S. Giorni, L’arte di non far figli. Neo-malthusianismo pratico, Società editrice malthusiana, Firenze 1921.

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vori con un intervento sull’igiene e sulla morale sessuale, prendendo una posizione decisamente favorevole all’eugenetica, che lei vedeva come via «scientifica» per trasformare in senso positivo la futura umanità. Anche Ersilia Majno, femminista moderata impegnata in opere di assistenza sociale, se pure dopo qualche incertezza, aderisce alla proposta neomalthusiana come si deduce dal suo intervento al convegno sulla «questione sessuale» tenutosi a Firenze nel 1910: «La maternità si è svolta fino ad oggi bestialmente. Il neomalthusianesimo dà coscienza alla specie. I figli dei genitori malati indeboliscono la società, la quale crea per essi una quantità di istituti medici. Inutilmente: bisogna prevenire il male. La questione del neomalthusianesimo è una questione di scienza e di responsabilità sociale»76. La giurista Teresa Labriola, impavida sostenitrice del divorzio e della libera unione, nonché del riconoscimento di paternità per i padri fedifraghi, ha ben chiaro che le sue proposte sono rivoluzionarie, ma le giustifica con la promessa di una crescita etica della società: «La tendenza a trasformare la ‘scala dei valori’ nella sfera della vita sessuale, che comincia a delinearsi ai nostri tempi, può portare realmente ad una elevazione di cotesti valori, in quanto li emancipa in definitivo – totalmente per la prima volta – dalle idee e dalle istituzioni autoritarie, per considerarli come valori per sé esistenti»77. Del resto, che l’idea del controllo eugenetico delle nascite fosse circondata da un consenso diffuso lo prova anche Nietzsche che, in Così parlò Zarathustra, scrive: «Io chiamo Imene quella che riunisce due individui i quali vogliono creare un uomo più perfetto di quelli che l’hanno creato». Per mettersi al posto di Dio decidendo come e quando procreare, infatti, l’essere umano deve trovare motivazioni alte, di ordine quasi religioso, e in questo caso coerenti con la nuova religione della modernità, quella scientifica. La propaganda neomalthusiana trova terreno favorevole per effetto della rivoluzione demografica, che cambia completamente il modo di vedere la procreazione nella società, creando una si76 Il Convegno per la questione sessuale, in «La Voce», n. 49, 17 novembre 1910, pp. 436-439. 77 T. Labriola, Libera unione e divorzio, Roma 1914, p. 33.

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tuazione opposta a quella in cui si è affermata la morale sessuale cristiana: il modello del matrimonio cristiano, infatti, si è formato in una società oppressa dal problema della continuità, in lotta contro la morte che colpiva soprattutto i neonati e le partorienti, e quindi portata a privilegiare la procreazione rispetto al piacere per quanto riguarda la pratica sessuale. In questa situazione, il modello di morale sessuale cristiana che limitava il sesso nel matrimonio a fini di procreazione era ben accetto e coerente alle esigenze della società: in fondo, poi, la cultura cristiana addolciva la durezza di questa necessità, che ha sempre costretto le donne a rimanere strettamente ancorate al loro destino biologico, sia riservando a esse la possibilità di vivere in castità come religiose, sia, nel matrimonio, chiedendo agli uomini di osservare le stesse regole di fedeltà tradizionalmente richieste alle donne. L’indissolubilità del matrimonio, poi, impediva che venissero ripudiate le donne sterili e le adultere, creando di fatto una rete di protezione nei confronti delle donne non «normali». Era evidente che la fine della necessità di procreare il numero di figli più alto possibile per garantire la sopravvivenza della famiglia e del gruppo sociale apriva alle società occidentali la possibilità di cambiare le regole di comportamento sessuale e di disciplina matrimoniale della morale cristiana: nasce così la proposta di separare la sessualità dalla procreazione, la riabilitazione del piacere sessuale fine a se stesso, la fine della necessità di praticare la sessualità nel matrimonio per garantire la procreazione, e quindi la separazione fra matrimonio e procreazione. La morale cristiana, che aveva segnato un progresso nella concezione del matrimonio introducendo il concetto di dignità umana anche nei confronti delle donne, non sembra più portatrice di un valore positivo che mitiga la brutalità del rapporto sessuale fra donne e uomini, come era stato fino ad allora, ma un ostacolo alla libertà degli esseri umani di vivere il piacere. Se in Italia l’eugenetica non ha conosciuto una realizzazione pari a quella ottenuta nei paesi dell’Europa del Nord e negli Stati Uniti – scrive una studiosa del tema, Claudia Mantovani78 –, è grazie alla presenza organizzata della Chiesa cattolica. 78 C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubbettino, Soveria Mannelli 2004.

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La ribellione contro la morale sessuale cristiana diventa, infatti, ribellione contro il cristianesimo stesso: «Questo assalto al cristianesimo non deve la sua forza [...] alla scienza del XIX secolo; la sua base è nella morale, il suo strumento la critica etica del XVIII secolo. Le Chiese cristiane non vengono attaccate in nome della conoscenza, bensì in nome della giustizia e della libertà. [...] Non è tanto un problema di superstizione contro ragione; si tratta invece di un conflitto tra un’etica innaturale e i modi di vita dettati da Dio»79.

5. Una morale evoluzionista A fine Ottocento nasce una scienza nuova, la sessuologia, che non si limita a studiare gli organi e il comportamento sessuale degli esseri umani con lo stesso distacco con cui si analizzano quelli degli animali, ma che si propone come nuova morale perché dà indicazioni di condotta sessuale ben diverse da quelle che le Chiese cristiane avevano predicato e predicavano. È questa la fase in cui nascono nuovi termini, come «eterosessuale», utilizzato per la prima volta nel 1868 dallo scrittore KarlMaria Kertbeny, che lo inserisce all’interno di una classificazione di comportamenti sessuali che comprende altre nuove categorie: monosessuale, cioè chi si masturba, e omosessuale; classificazione che si fonda sull’idea che gli atti erotici abbiano per finalità il piacere e non la procreazione80. L’eterosessualità assume così l’aspetto della normalità sessuale, in una concezione che considera il piacere il fine principale della sessualità: il termine eterosessuale, infatti, è usato da uno dei pionieri della sessuologia, Richard von Krafft-Ebing81, per definire la ricerca del piacere erotico con una persona dell’altro sesso consapevolmente dissociata dalla procreazione. 79 O. Chadwick, Società e pensiero laico. Le radici della secolarizzazione nella mentalità europea dell’Ottocento, Società editrice internazionale, Torino 1989, pp. 177-178. 80 N.A. Giami, Cent ans d’hétérosexualité, in «Actes de la recherche en sciences sociales», n. 128, 1999, pp. 38-45. 81 R. von Krafft-Ebing, Psychopatia sexualis, 1886.

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Il problema del piacere delle donne costituisce una delle grandi questioni irrisolte di questa nuova scienza che, a differenza della Chiesa, per la prima volta considera l’armonia sessuale – e quindi anche il piacere femminile – come base della solidità matrimoniale. Il problema fondamentale, per questi esperti, diventa quindi la freddezza delle donne: i primi manuali sessuali sono diretti agli uomini, e insegnano come sconfiggerla. Questa nuova disciplina si contrappone quindi apertamente e consapevolmente alla morale cristiana, in quanto mette al centro del comportamento sessuale la ricerca del piacere invece della procreazione, ma non è questa l’unica differenza: la nuova sessuologia, infatti, abbraccia senza riserve l’eugenetica, che viene addirittura proposta come nuovo valore su cui fondare i giudizi morali. Anche se la morale borghese dominante non era certo aperta – almeno nella pratica – ad accogliere le nuove e rivoluzionarie idee sul comportamento sessuale dei primi «sessuologi», i loro libri ebbero successo, arrivando a influenzare una élite e quindi a porre le basi per la profonda trasformazione culturale del Novecento. Un personaggio chiave di questo nuovo corso è il medico inglese Havelock Ellis (1859-1939) che pratica poco la sua professione, ma si afferma invece come scrittore e divulgatore scientifico. A lui si deve un’opera fondamentale per l’affermarsi di un nuovo modello di comportamento sessuale, Studies in the Psychology of Sex, sette volumi usciti fra il 1897 e il 1928, di cui è stata tradotta in italiano una sintesi nel 1937. In questi volumi sono raccolti i suoi studi sulla sessualità, ricerche che si basano su un numero molto ampio di letture di saggi medici, psicologici – non mancano i riferimenti a Freud, ammiratore della sua opera – sociologici, storici e antropologici, e anche il testo delle numerose conferenze da lui tenute su questo tema. Ellis si presenta come uno scienziato colto e moderato, che non vuole rivoluzionare il modo tradizionale di vivere la sessualità ma, forte della sua ampia cultura, sembra limitarsi a metterne in luce gli aspetti negativi e a proporne degli emendamenti, apparentemente di poco peso, ma in realtà profondamente rivoluzionari. Costante, soprattutto, è il suo lavoro per smantellare la morale religiosa vigente, anche se la Chiesa non viene mai apertamente attaccata: un’opera che ne ha ispirate molte simili – come

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L’igiene dell’amore del nostro scienziato Paolo Mantegazza, medico e antropologo, il primo a ricoprire una cattedra di antropologia culturale presso una università italiana e che attacca il controllo del comportamento sessuale da parte delle gerarchie religiose in nome di una visione scientifica e salutista. È necessario soffermarsi sul suo pensiero, così come è stato diffuso in Italia nel compendio dell’opera generale, perché vi si trova l’archetipo ideologico di quello che è diventato un sentire comune nella cultura occidentale molti decenni più tardi. Havelock Ellis ripercorre la storia della sessualità umana nella nostra civiltà per ricostruire il modo in cui si è affermato nei paesi europei il modello di sessualità vigente, e poi sottoporlo a un processo critico, usando fonti mediche, psicologiche e sociologiche e soprattutto il confronto con altri modelli di comportamento sessuale presenti nelle società «selvagge»: lo scopo del suo lavoro è quello di proporre un altro modello, più libero e sano, dedotto «scientificamente» dal suo lavoro di ricerca. Per lui è fondamentale, a questo scopo, quella che chiama «scienza della procreazione», cioè l’eugenetica intesa come studio dell’ereditarietà: «il destino di un uomo non sta nel suo futuro, ma nel passato», scrive82 e prevede che, nell’ottica di un costante miglioramento della vita umana, «nel futuro la razza sarà modellata da una selezione deliberata»83. Nel prendere in esame le fasi della vita umana, e le modalità in cui viene prescritto il comportamento sessuale, fa vasto uso di confronti con i comportamenti di quelli che chiama «popoli selvaggi», riportati da antropologi o, più spesso, come si è visto, da missionari. Ad esempio, per quanto riguarda la sessualità infantile, le norme repressive degli europei sono confrontate con la libertà concessa da società primitive, che considerano la sessualità infantile «come un gioco», secondo le informazioni che dà in proposito un missionario, il reverendo Weeks84. Viene anche denunciata l’assenza di rituali di iniziazione per la pubertà, che invece, scrive il medico inglese, «sono comuni fra i selvaggi», e magnificata la nudità dei selvaggi, segno di mancanza di costrizioni sessuali. MenEllis, Brevi saggi sull’amore sessuale, cit., p. 139. Ivi, p. 14. 84 Ivi, p. 40. 82 83

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tre denuncia la «ferocia» dei missionari, che vogliono rivestirli, Ellis decanta i salutari effetti della nudità, delle cure di aria e di sole, e sostiene che l’abitudine alla nudità eliminerebbe il 90% degli atti indecenti commessi dai giovani con le bambine «perché nella maggior parte dei casi essi non sono aggressioni, ma l’innocente, benché incontrollata, conseguenza di una naturale curiosità repressa»85. Anche i «selvaggi», continua, conoscono il valore della castità, intendendola, come Nietzsche, come una necessaria forma di «autocontrollo capace di raccogliere e mantenere le forze dell’anima, in vista di un loro maggior impegno per scopi deliberatamente accettati»86. Ma si tratta di un ascetismo volontario e temporaneo, che egli definisce come laico, in contrapposizione alla continenza perpetua imposta dalla Chiesa ai religiosi, condizione negativa che – secondo i medici – danneggia gravemente la salute dell’essere umano, arrivando a causare malattie agli organi sessuali, nonché nevrastenie, isteria e talvolta anche un atteggiamento schizofrenico. L’origine di questa sessuofobia della Chiesa si porrebbe, secondo Ellis – in coerenza con la tradizione protestante –, all’epoca di Gregorio VII, autore della riforma che impone il celibato al clero: «per quanto ho potuto scoprire, nei primi cento anni del cristianesimo non troviamo questa concentrata ferocia intellettuale e sentimentale nell’attacco al corpo. Esso si sviluppò solo quando, con Gregorio VII, il cristianesimo medievale raggiunse l’acme del suo dominio sulle anime degli Europei, con l’istituzione del celibato per il clero secolare, e lo sviluppo di grandi comunità claustrali di monaci in ordini severamente regolati e reclusi»87. Ragione per cui i cristiani «non poterono sfuggire in questo modo all’ossessione del sesso; essa li accompagnò sempre»88. Si tratta di una interpretazione del celibato ecclesiastico coincidente con quella espressa dal mondo protestante – come rivela l’accenno agli studi sul celibato ecclesiastico del protestante Henry Charles Lea (History of Sacerdotal Celibacy) – che riceve in questo saggio la conferma e la consacrazione della scienza medica. Alla Chiesa cattolica, quindi, la responsabilità di avere caIvi, p. 90. Ivi, p. 141. 87 Ivi, p. 105. 88 Ivi, p. 129. 85 86

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ricato di significati negativi il termine «concupiscenza», in origine «incolore, come la fame e la sete, poi negativo perché contrapposto all’amore»89, finalmente riabilitato da Freud che adotta la sua traduzione latina, libido, per estenderla però al significato di desiderio in generale. Ultimo tema affrontato dal medico inglese è la prostituzione, frutto avvelenato della civiltà, che impone la «repressione dell’intimità sessuale al di fuori del matrimonio»90. Egli sfata la tesi che siano i problemi economici a provocare la prostituzione, ricordando che in genere l’aumento della ricchezza di una società provoca un incremento delle prostitute e sostiene che l’unico modo per farla diminuire, se non scomparire completamente, è la modifica del sistema matrimoniale e la conseguente nascita di un nuovo tipo di donne, né spose né prostitute, ma dal comportamento sessualmente libero. In sostanza, cioè, egli pensa che ci sia una «tendenza verso una lenta eliminazione della prostituzione per la fortunata concorrenza di migliori metodi di rapporti sessuali liberi da considerazioni venali»91. Questo ragionamento verrà ripreso sovente nei decenni successivi, tanto da diventare una sorta di mentalità comune nelle società occidentali, in cui la critica alla Chiesa si accompagna alla fiducia utopica nei benefici fisici e psichici conseguenza di un modello libero di comportamento sessuale. Abbiamo visto quanto sia importante il ricorso alle fonti antropologiche, anche di matrice missionaria, nella formulazione del nuovo modello: Ellis, oltre che uno studioso, era stato anche un grande viaggiatore, visitando paesi lontani al seguito di suo padre, capitano di lungo corso, così come Mantegazza, che aveva affiancato agli studi di medicina lunghi viaggi di esplorazione esotica. Il modello a cui entrambi si ispiravano è senza dubbio Darwin e il suo celebre viaggio sul Beagle, cioè uno scienziato che univa alle competenze di storia naturale e di medicina anche esperienze antropologiche. L’importanza che Ellis dava alle ricerche antropologiche sul comportamento sessuale è ribadita dall’entusiastica Prefazione – in cui ricorda la relazione di de Bougainville – che scrisse al primo lavoro antroIvi, p. 111. Ivi, p. 190. 91 Ivi, p. 234. 89 90

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pologico che aveva messo esplicitamente al centro della ricerca il comportamento sessuale: La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale di Bronislaw Malinowski. Confermata del resto dall’antropologo che, nell’Introduzione alla prima edizione (1929), scrive: «durante la stesura di questo libro venni molto stimolato dall’interesse che mi testimoniava il signor Havelock Ellis, di cui ho sempre ammirato e stimato il lavoro e l’esempio come pioniere di onestà intellettuale e autentica ricerca. La sua prefazione accresce concretamente il valore di questo libro»92. E probabilmente il medico inglese condivideva l’ipotesi di lavoro di Malinowski per cui «il sesso, nel suo significato più ampio, [...] è più una forza sociologica e culturale che una mera relazione fisica fra due individui»93. Del resto Malinowski era pienamente consapevole della funzione dei suoi scritti nella cultura del tempo, in particolare per quanto riguardava le discussioni sulle regole della sessualità, come dimostra la sua Introduzione alla terza edizione dell’opera, in cui si lamenta che l’idea base del libro – cioè che «il problema del sesso, della famiglia, e della parentela presenta una unità organica che non può essere scissa»94 – non sia stata recepita se non da pochi intellettuali, come Havelock Ellis, che però l’hanno fatta propria nei loro scritti: si trattava di Bertrand Russel, in Matrimonio e morale, e di Floyd Dell in Love in the Machine Age. Un’altra delle profetesse della rivoluzione sessuale più ascoltate e tradotte è la scrittrice e conferenziera svedese Ellen Key. Femminista della prima ora, ed esperta di psicologia infantile, sviluppa un’idea spiritualista dell’emancipazione femminile che valorizza al massimo la maternità, scindendola dall’obbligo del matrimonio. Il suo libro più famoso è L’amore e il matrimonio – tradotto in tutte le principali lingue europee –, pubblicato in Italia nel 1909 dai fratelli Bocca, con una Prefazione di Giulia Peyretti, che la difende pur ammettendo che «in Svezia non nasce più un bambino illegittimo senza che se ne dia la colpa alla povera Ellen 92 B. Malinowski, La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale, Introduzione alla prima edizione, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 32. 93 Ivi, p. 29. 94 Ivi, p. 4.

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Key»95. In questo libro, che conobbe grande fortuna anche in Italia, la Key espone la sua idea evoluzionista di morale sessuale, che prevede la fine del matrimonio – «la vita è una evoluzione continua, e in conseguenza di ogni evoluzione muoiono certe verità che una volta erano ritenute vitali e se ne formano delle nuove»96 – a opera di una élite che sa cosa è giusto fare «per la progressiva evoluzione della vita nell’individuo e nella razza»97. Anche le donne dovrebbero vedere riconosciuta la «libertà di scegliere entro certi limiti la forma della loro vita sessuale»98. La Key vede la libertà sessuale legata alla secolarizzazione, in quanto impossibile «fintanto che l’uomo ha creduto al peccato originale» mentre «la teoria dell’evoluzione ha dato all’uomo il coraggio di domandarsi se il peccato non consisteva piuttosto nel trionfo dello spirito sulla materia». Una tappa positiva della liberazione dalla moralità cristiana – scrive l’autrice – è stato Lutero, che «riconosce la forza dell’istituto naturale»99, ma anche la sua dottrina matrimoniale conduce all’immoralità, perché «non tien conto né dei diritti della razza, né di quelli dell’individuo»100. Perché, secondo la Key, una nuova concezione morale può nascere solo «dalla fede nella perfettibilità della razza umana»: infatti «la forma della vita sessuale che favorirà meglio il progresso della razza, diventerà la legge della nuova morale»101. In una visione chiaramente utopica degli effetti di questa nuova morale, la Key scrive che sia il matrimonio per obbligo sia la prostituzione scompariranno un poco per volta, «perché essi non risponderanno più ai bisogni degli uomini dopo la vittoria dell’idea dell’unione perfetta»102. Bisogna quindi «trionfare del pregiudizio nutrito dal cristianesimo» con una nuova morale, «quella che si basa sulla bontà fondamentale della natura umana e sull’uguaglianza di tutti gli uomini», perché sicuramente l’umanità sta per innalzarsi «alla superumanità»103. E. Key, L’amore e il matrimonio, Fratelli Bocca, Torino 1909, p. VI. Key, L’amore e il matrimonio, cit., p. 2. 97 Ibid. 98 Ivi, p. 5. 99 Ivi, p. 10. 100 Ibid. 101 Ibid. 102 Ivi, p. 16. 103 Ivi, p. 34. 95 96

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Questa nuova morale è fondata sull’idea che «la felicità dell’individuo sia la condizione essenziale per la felicità dell’umanità»104. La libertà di scelta sessuale, secondo la Key, deve essere sottoposta a un unico vincolo: un giudizio medico che assicuri che la coppia genererà un figlio sano, perché il dovere supremo è «non trasmettere ad altri le malattie gravi la cui eredità sia stata stabilita scientificamente»105. Il cristianesimo sarebbe responsabile di questa mancata selezione perché, «insistendo sul valore dell’individuo diminuì il sentimento dell’importanza della specie» come conseguenza del fatto che, per ignoranza scientifica, «il solo legame che stabilisca fra l’uomo e i suoi antenati è il peccato originale»106. Ma oggi, invece, grazie al declino dell’influenza della morale cristiana «il sentimento della razza, il rispetto per gli avi, l’orgoglio d’un sangue puro, con un senso nuovo riacquisteranno il loro potere decisivo sui sentimenti e sulle azioni»107. «Fortunatamente – conclude la Key – la Chiesa ha perduto la battaglia nella sua lotta contro l’amore»108. Sempre ai fratelli Bocca, e sempre negli stessi anni, si deve la pubblicazione di un libretto di un autore svizzero, Auguste Forel, che propone un vero e proprio programma di rivoluzione sessuale: La questione sessuale esposta alle persone colte109. Anche Forel si rifà ai costumi sessuali delle popolazioni selvagge, più vicine alla natura di «noi civili»110 e affronta il tema dell’influenza della razza sulla vita sessuale, ma il vero obiettivo polemico del suo scritto è la Chiesa cattolica: «uno dei doveri futuri più difficili e nello stesso tempo più importanti delle scienze sociali verso l’umanità, consiste quindi nel liberare i rapporti sessuali da ogni tirannia dei dogmi religiosi, mettendoli nel tempo stesso in armonia colle vere leggi morali puramente umane di un’etica naturale, Ivi, p. 37. Ivi, p. 91. 106 Ivi, p. 93. 107 Ivi, p. 98. 108 Ivi, p. 94. 109 A. Forel, La questione sessuale esposta alle persone colte (1907), Fratelli Bocca, Milano 1942. 110 Ivi, p. 159. 104 105

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di una religione del ‘bene sociale’»111. Naturalmente, anche per Forel la nuova morale oltre che essere naturale deve anche essere eugenetica: bisogna «sostituire – scrive – al culto delle leggende religiose [...] il culto dei nostri discendenti e della loro felicità»112. La morale non può essere che relativa alla cultura di appartenenza, anche se dovrebbe prevalere in tutti l’amore per l’umanità, che per Forel coincide con l’eugenetica: «tutta l’attenzione dell’umanità dovrà essere rivolta alla propria selezione, per far crescere il numero degli individui buoni e utili, e diminuire gradatamente quello degli esseri cattivi o inetti, fino alla soppressione completa di essi»113. Forel, insieme con Havelock Ellis ed Ellen Key, è presente nella bibliografia essenziale relativa alla Questione sessuale che il periodico «La Voce» offre ai lettori nel 1910, in un numero dedicato proprio a questo tema. I problemi affrontati in questo numero – che costituisce un’anticipazione del convegno che la rivista organizza sullo stesso tema nell’ottobre 1910 e i cui interventi verranno poi stampati nel numero 17 della rivista – sono numerosi: si va dall’educazione sessuale della gioventù, che Margherita Grassini Sarfatti vorrebbe affidare ai genitori, all’ormai abituale denuncia dei mali provocati dal celibato del clero, considerato «pericoloso per la società» (Romolo Murri sostiene che la vocazione al celibato è di pochissimi, per gli altri solo menzogna), a cui si aggiunge una anteprima del discorso freudiano a opera del suo divulgatore italiano, Roberto Assagioli. Anche su «La Voce» la nuova morale sessuale viene presentata centrata sull’eugenetica: il portavoce di questo programma, anche qui, è Forel, che chiede l’equiparazione degli illegittimi, l’uguaglianza fra donne e uomini nelle norme sessuali, matrimonio precoce con controllo delle nascite, «come dovere etico-sociale nel senso di un miglioramento metodico, qualitativo, della nostra razza per quel che riguarda la forza fisica e la salute, ma anche le facoltà etiche, carattere, fermezza di volontà e intelligenza»114. Al convegno sulla questione sessuale, che si tiene a Firenze, i cattolici non sono invitati: «queIvi, p. 313. Ivi, p. 314. 113 Ivi, p. 419. 114 A. Forel, in «La Voce», n. 9, 1910, p. 261. 111 112

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ste persone, avendo già risolto ogni questione con un testo fissato dalla divinità, è inutile che vengano al convegno», scrive Giuseppe Prezzolini, che del resto considera le norme della morale cristiana come caduche, dettate da specifiche condizioni storiche ormai superate, e si domanda «come si potrebbe cancellare quella profonda ondata di pudore della quale il cristianesimo ci ha imbevuti»115. In sostanza, già nei primi anni del Novecento i punti dell’opposizione alla morale sessuale dettata dal cristianesimo sono fissati: insistenza sul mancato rispetto della «naturalità» dell’essere umano, riscoperta attraverso le ricerche antropologiche presso i popoli primitivi, e proposta di una nuova morale più libera, che valorizza il sesso nella vita umana, ma a condizione che venga praticato rispettando precise regole eugenetiche, che quindi prevedono un ampio uso dei contraccettivi. Dietro a questa posizione si scorge l’influsso dell’evoluzionismo e dell’anticlericalismo, se non addirittura della propaganda ateistica portata avanti dalle Società del Libero pensiero. Alla morale cattolica ispirata al peccato e a un percorso spirituale si contrappone una nuova morale «scientifica», quella eugenetica.

115

G. Prezzolini, in «La Voce», n. 29, 1910, p. 347.

VI COMPETIZIONE E CONFLITTI 1. La Chiesa risponde Il processo di secolarizzazione ottocentesco non solo mette in discussione la morale sessuale cristiana, ma addirittura la stessa legittimità della Chiesa a parlare di sesso, legittimità riconosciuta solo al discorso scientifico, soprattutto se medico. In una situazione in cui, di fatto, la morale sessuale dominante, soprattutto per le donne, non differiva certo da quella proposta dalla Chiesa, gli anticlericali attaccano frontalmente il diritto del clero di parlare di sesso: il confessore diventa ai loro occhi corruttore e pornografo, perché non è uno scienziato. Un esempio di questa campagna lo offre la traduzione in francese del manuale per confessori di Jean-Baptiste Bouvier, scritto nel 1827 (Dissertatio in sextum Decalogi praeceptum et Supplementum ad tractatum de matrimonio), realizzata nel 1874 da un personaggio ambiguo come Leo Taxil e pubblicata con il titolo allusivo I misteri del confessionale, tramutato nell’edizione del 1882 nell’ancora più esplicito I pornografi sacri. La confessione e i confessori, che ottiene un grande successo come libro erotico – confermato dalle molte edizioni – grazie a una traduzione molto esplicita del prudente latino del prelato, a cui si aggiunge qualche opportuna inserzione di descrizioni molto realistiche. Gli anticlericali accusano pertanto il clero di usare un linguaggio illegittimo, teso a destabilizzare l’istituzione del matrimonio attentando a quella recente «privatizzazione del sesso» che si stava affermando nelle classi borghesi1. I preti – 1 Si veda in proposito C. Langlois, Le crime d’Onan. Le discours catholique sur la limitation des naissances (1816-1930), Les Belles Lettres, Paris 2005.

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secondo loro – non possono parlare di ciò che non conoscono, e attentano al pudore delle mogli durante le confessioni, perché violano un rapporto intimo e privato che a loro non compete: «Il mondo non ha mai visto una lotta più terribile e disperata di quella che si combatte nell’animo di questa giovine moglie e di quest’umile figliuola, le quali prostrate appié del prete debbono tra se stesse decidere: se debbono ascoltare la voce del pudore, ch’è voce di Dio, e nascondere a quest’uomo ciò che una donna non può dire ad un uomo; oppure se debbono degradarsi fino a dimenticare il rispetto che debbono a se medesime, fino a parlare con lui di cose che non possono non contaminare e chi le ascolta e chi le dice»2. Così è scritto in uno dei numerosi e diffusi pamphlet, talvolta opera anche di celebri scrittori come Victor Hugo e Jules Michelet, che fondano i termini di una polemica anticlericale che segna l’epoca moderna: non basta criticare la Chiesa per la sua morale sessuale, ma bisogna impedire che il clero si pronunci sull’etica del comportamento sessuale, di cui si devono occupare, con maggior competenza, gli scienziati. Una delegittimazione in atto ancora oggi. È di questi anni e risale a questi ambienti la traduzione del termine debitum, che nella teologia designa l’atto sessuale stesso all’interno del matrimonio, con «dovere», termine che fa credere che la Chiesa lo imponga come obbligo morale, mentre significa solamente «ciò che è dovuto». Nel contratto matrimoniale, infatti, ciascuno ha diritto al corpo dell’altro, in una situazione che stabilisce l’uguaglianza fra i coniugi, perché la reciprocità dei diritti e dei doveri è totale. Al centro della polemica sta dunque proprio il controllo del comportamento sessuale che la Chiesa tenta di mantenere attraverso i confessionali, e proprio presso le donne, le uniche rimaste a frequentarli. Ed è quindi dai confessori, i quali si misurano con le nuove tecniche di controllo delle nascite, che sorgono le prime domande da porre ai dicasteri romani. Come ha ricostruito lo storico Claude Langlois, il problema nasce in Francia, alla fine del XVIII secolo, e si diffonde nel clima secolarizzato post-rivoluzionario, intrecciando da subito la pratica 2 Padre Chiniquy, Il prete, la donna e il confessionale, seconda edizione, Ettore Arati, Roma 1888, p. 10.

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contraccettiva con l’avanzare della decristianizzazione. La prima forma di controllo delle nascite è il coitus interruptus, praticato anche da coppie cattoliche che chiedono ai confessori ragguagli sulla sua legittimità morale. Da qui nascono una serie di quesiti proposti alla Sacra Penitenzieria e successivamente al Sant’Uffizio da prelati in difficoltà, fra i quali il più attivo nell’affrontare la questione e nel proporre soluzioni è proprio quel Jean-Baptiste Bouvier che abbiamo conosciuto come autore di un manuale per confessori, il quale individua il problema e comincia a chiedere chiarimenti a Roma già nel 1816. Sia Bouvier che i suoi interlocutori rubricano questa pratica assimilandola al «crimine di Onan», che configura una categoria specifica di colpevoli ben nota, perché denunciata per due volte nella Bibbia, in un contesto morale in cui la lussuria è sempre considerata un peccato grave, senza gradazioni, e in cui la perdita del seme costituisce da sempre l’archetipo del peccato contro natura. Bouvier cerca di trovare delle vie di assoluzione, sia per la moglie che subisce la pratica – problema della collaborazione a un atto malvagio – ma che non è consenziente, sia per entrambi gli sposi se in buona fede, proponendo in sostanza che il confessore non intervenga con domande dirette sulla questione. Egli abbraccia una prospettiva pastorale ispirata ad Alfonso de’ Liguori, ed è ben consapevole di affrontare il problema in una situazione già fortemente marcata dal dimorfismo sessuale: solo le donne si confessano, quindi è più facile gettare la colpa sul marito. Le risposte romane sono vaghe, non scoraggiano definitivamente Bouvier dal suo tentativo di trovare una via di assoluzione per frenare il processo di secolarizzazione in corso. Del resto la questione è aperta, a Roma il problema è percepito ancora come nuovo, e soprattutto come relativo al contesto francese. Ma nella seconda metà dell’Ottocento, quando le pratiche anticoncezionali cominciano a dilagare anche negli altri paesi cattolici europei, la Chiesa si mostra severa verso coloro che praticano il coitus interruptus, definiti onanisti: specialmente rigido appare nelle sue risposte il Sant’Uffizio, che chiude ogni possibilità di indulgenza con una sentenza del 18513 anche se la speranza di assolvere 3

Cfr. Langlois, Le crime d’Onan, cit., p. 253.

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l’«onanismo» rimane viva nel clero francese, come dimostra il fatto che, nel 1869, un anonimo vescovo francese presenta al Concilio Vaticano I la proposta – che non sarà mai discussa – di decolpevolizzare il peccato di onanismo4. Nel 1873 una soluzione nuova sembra venire proprio dal mondo della scienza: la scoperta dei periodi non fecondi del ciclo femminile offre la possibilità di esercitare un controllo delle nascite senza dispersione del seme. La raccoglie un sacerdote belga, Lecomte, che chiede alla Sacra Penitenzieria di riconoscerne la legittimità, ottenendo risposta affermativa sette anni dopo. Si manifesta qui, per la prima volta con chiarezza, quello che sarà negli anni successivi, ed è ancora oggi, l’atteggiamento della Chiesa: la morale sessuale consiste nel seguire la natura, se non si ostacola la natura tutto è bene, quindi ben vengano le nuove conoscenze della fisiologia femminile che permettono di assecondare la natura approfittando dei periodi di non fertilità. Del resto, la morale matrimoniale già accettava la continuazione dei rapporti sessuali fra coniugi anche dopo la menopausa, quando la donna non poteva più generare, in nome dei fini unitivi del matrimonio. Langlois sottolinea come venga perduta, con questa scelta «naturale», la logica dell’intenzionalità, a beneficio di un rispetto quasi sacrale della natura. «La Chiesa – scrive – evita la questione di fondo: la scelta individuale della limitazione delle nascite, che fonda la modernità dei comportamenti collettivi»5. La scelta, cioè, non solo di separare la procreazione dalla sessualità, e quindi di separare i due fini del matrimonio – procreativo e unitivo –, ma anche di dare la prevalenza al secondo fine sul primo. Invece, il Codice di diritto canonico, promulgato nel 1917 da Benedetto XV, fissava nel canone 1013 la tradizionale dottrina cattolica, confermando che «il fine principale del matrimonio è la procreazione e l’educazione dei figli; il suo fine secondario è l’aiuto reciproco fra gli sposi e il sollievo alla concupiscenza»6. Cfr. ivi. Ivi, p. 373. 6 M. Sevegrand, L’amour ou les deux fins du mariage de Benoît XV à JeanPaul II, in P. Legendre (a cura di), «Ils seront deux en une seule chair». Scénographie du couple humain dans le texte occidental, Émile Van Balberghe Libraire, Bruxelles 2004, p. 167. 4 5

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Fra il 1897 e il 1929 si susseguono prese di posizione sul controllo delle nascite degli episcopati nazionali, e un dibattito aperto sulla rivista «L’Ami du clergé» nel 1898. In generale prevale la posizione rigorista, che prevede l’assimilazione alla definizione di onanismo di quello che oggi ci appare a essa estraneo, cioè il controllo delle nascite – oltre al coitus interruptus si sono aggiunti nuovi mezzi, come il preservativo, il pessario e la spugna vaginale – nella convinzione condivisa che ogni cedimento non sarebbe stato un rimedio al neomalthusianesimo dilagante, ma piuttosto un incoraggiamento. Nel 1909 il cardinale belga Mercier denuncia il pericolo dello spopolamento, tema che sarà ripreso, dopo la Grande Guerra, dall’episcopato francese7. In nessuno dei documenti episcopali sul matrimonio trova posto l’amore coniugale, considerato solo un fine soggettivo degli sposi. Le risposte delle istituzioni ecclesiastiche, così come del resto le questioni proposte dai prelati sorte durante la pratica della confessione, rimanevano chiuse all’interno di un ragionamento teologico, centrato, come si è detto, sulla dispersione del seme e sul ruolo, più o meno indagatorio, del confessore, mentre non erano presi in considerazione, né quindi condannati, i fini eugenetici che si proponevano i neomalthusiani, e più in generale i problemi sociali a essi connessi. Problemi invece affrontati apertamente da uno scienziato cattolico attento all’eugenetica, Agostino Gemelli, ben consapevole che fosse «il terreno sul quale la discussione è attualmente fatta»8. Gemelli accetta la logica del controllo delle nascite, in alcuni casi gravi anche per motivi eugenetici, ma dissente sui mezzi proposti dai neomalthusiani: Se il controllo delle nascite vuol dire che gli sposi non possono abbandonarsi ciecamente all’istinto, e se esso vuol dire che le ragioni biologiche e sociali, se non possono autorizzare alcuno a frustrare il fine dell’atto coniugale, debbono però essere dal cristiano esattamente valutate finché esso, da un canto, non può trasmettere ai figli, con la vita dei germi, condizioni che la rendano inaccettabile e, dall’altra, non può dar la vita senza creare le condizioni che la rendano possibile – alCfr. Sevegrand, L’amour ou les deux fins du mariage, cit., p. 170. A. Gemelli, Il «controllo delle nascite» secondo la dottrina cattolica, in «La scuola cattolica», dicembre 1926, pp. 401-432, 420. 7 8

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lora il controllo delle nascite diventa il primo dei doveri della paternità, e il controllo delle nascite non solo può essere ammesso dai cattolici con animo tranquillo, ma costituisce un dovere che il progresso della scienza mette sempre più in maggior luce.9

Dal momento però che «la morale cattolica è fondata sul riconoscimento del fine soprannaturale dell’uomo [...] l’impulso sessuale deve essere governato secondo norme soprannaturali»10, e mentre «i neomalthusiani, i sostenitori del controllo delle nascite, sostengono la sostituzione della ragione all’istinto [...] noi cattolici subordiniamo l’istinto alla ragione, ossia conserviamo il giuoco delle forze naturali, ma le regoliamo nel loro agire, le subordiniamo ad un fine soprannaturale». Di conseguenza, Gemelli propone come mezzo unico di controllo la castità, che considera «il miglior mezzo di eugenìa negativa e preventiva»11. La castità considerata come dura lotta, palestra di volontà, anche se egli sa che oggi «occorre del coraggio per mostrare che la fecondità e la continenza sono le due forze della vita matrimoniale»12. Perché non si può negare la «dolorosa situazione dinanzi alla quale è vano chiudere gli occhi: sono pochissime le famiglie, anche cristiane, nelle quali è mantenuta la pace fra i coniugi e la salute della donna», perché «in tutti i matrimoni si praticano ‘frodi coniugali’»13. Gemelli si rivolge quindi ai cattolici, ricordando loro che «le pratiche neomalthusiane sono dannose per il vostro corpo, infide nei risultati, [...] soprattutto applicandole voi perdete la vostra anima [...] il solo rimedio è la continenza». La sua critica alle ragioni invocate dai neomalthusiani è serrata: «Non preferire qualità a quantità: una certa abbondanza è la condizione necessaria per avere la qualità»14 ed egli dubita anche delle ragioni «umanitarie» che essi invocano per giustificare il loro operato: «Ritengo che gli sposi che si danno alle pratiche anticoncezionali non lo fanno per tutte quelle ragioni teoriche che mettono Ivi, p. 414. Ivi, p. 415. 11 Ivi, p. 417. 12 Ivi, p. 426. 13 Ivi, p. 417. 14 Ivi, p. 415. 9

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innanzi i propagandisti di tali pratiche, ma per ragioni personali, individuali»15. E le conseguenze saranno nefaste: «Si incomincerà per salvaguardare la salute della donna e adducendo le condizioni finanziarie, ma ben presto mille altre ragioni saranno ritenute valide [...] una volta messi su questa china, non ci si ferma più»16 e ricorda che la sterilità volontaria nel matrimonio «conduce con sé inevitabilmente l’aborto, l’infedeltà coniugale e il divorzio», come dimostrano le statistiche: «le curve di frequenza di questi due fenomeni sociali seguono parallelamente le curve della diminuzione della natalità»17. La consapevolezza che il controllo delle nascite sta diventando una ideologia – l’eugenetica neomalthusiana di matrice evoluzionista – e che non si può affrontare solo come problema di peccato individuale è presente nel primo documento pontificio che affronta la morale sessuale, l’enciclica Casti connubii promulgata da Pio XI il 31 dicembre 1930. Nata come risposta all’accettazione delle pratiche contraccettive da parte della Chiesa anglicana, questa enciclica è la prima presa di posizione di un papa su argomenti che fino ad allora avevano costituito materia di risposte morali da parte dei dicasteri vaticani a ciò preposti. La sua novità – cioè l’inserimento del discorso teologico concernente la limitazione delle nascite nel campo dell’insegnamento diretto del papa – segna anche la presa d’atto dell’importanza che il problema del comportamento sessuale viene ad assumere nella società moderna. L’enciclica intende innanzi tutto ribadire che solo la Chiesa cattolica è la fedele custode della dottrina cristiana su questi temi, l’unica capace di difendere la legge naturale, accettando di rimanere sola davanti all’intiepidimento delle coscienze. Nel testo l’opposizione netta è fra la «legge naturale» e l’«intervento umano»: segue quindi la tradizione e ne accentua il rigorismo, senza paura di aggravare il rischio di decristianizzazione di popolazioni cattoliche ormai abituate a ricorrere a mezzi contraccettivi. Da questo momento, sarà il papa a dare la risposta a tutti i problemi Ivi, p. 427. Ibid. 17 Ivi, p. 429. 15 16

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relativi al comportamento sessuale che la modernità impone, con la certezza che «Dio non comanda cose impossibili»18. L’autorità morale intangibile del papa condanna ogni forma di controllo delle nascite, a eccezione della continenza periodica nella fase fertile del ciclo femminile, resa più efficace dalle recenti scoperte dei medici Ogino e Knaus. La condanna è netta: «Qualsiasi uso del matrimonio, in cui per l’umana malizia l’atto sia destituito della sua naturale virtù procreatrice, va contro la legge di Dio e della natura, e coloro che osino commettere tali azioni, si rendono rei di colpa grave»19. Ma Pio XI indica anche altri nemici del matrimonio cristiano, che deve essere considerato invenzione divina e non costruzione umana: il divorzio, l’emancipazione delle donne – «Che anzi questa falsa libertà e innaturale eguaglianza coll’uomo torna a danno della stessa donna; giacché, se la donna scende dalla sede veramente regale, a cui, tra le domestiche pareti, fu dal vangelo innalzata, presto ricadrà nella vecchia servitù (se non in apparenza, di fatto) e ridiventerà, come nel paganesimo, un mero oggetto dell’uomo» – ma anche le influenze di una cultura a cui il papa non riconosce il diritto di essere considerata scienza: «Né mancano libri, che si decantano come scientifici, ma che, in verità, della scienza sovente altro non hanno che una certa qual tintura, con l’intento di potersi più agevolmente insinuare negli animi»20. Pio XI condanna quindi «l’indicazione eugenica e l’ingerenza dello stato», ricordando che «la famiglia è più sacra dello Stato, e che gli uomini, anzitutto, sono procreati non per la terra e per il tempo, ma per il cielo e per l’eternità»21. Nella terza parte, dedicata alla restaurazione cristiana del matrimonio, il papa torna a condannare chi «con discorsi, con libri e con infiniti altri mezzi lavora a pervertire le menti, a corrompere i cuori, a mettere in derisione la castità matrimoniale, e ad esaltare vizi vergognosi»22. L’enciclica mette sotto accusa anche le nuove ideologie del matrimonio, come il «sostituire al sincero e solido amore, che è il fonPio XI, Casti connubii, in «Acta Apostolicae Sedis», XXII, 1930, p. 562. Ivi, p. 560. 20 Ivi, pp. 567-568 e 556. 21 Ivi, p. 568. 22 Ivi, p. 589. 18 19

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damento dell’intima dolcezza e felicità coniugale, una certa cieca compatibilità di carattere e concordia di gusti, che chiamano simpatia, col cessar della quale sostengono che si rallenta e si scioglie l’unico vincolo che unisce gli animi. Che altro mai sarà questo, se non un edificare la casa sopra la sabbia?»23. Anche se con questo Pio XI prende le distanze dall’amore romantico e dalle teorie che legano la riuscita del matrimonio alla soddisfazione sessuale, l’enciclica segna un cambiamento in questo senso: pur ribadendo che il fine primo del matrimonio è la procreazione, egli dà una inedita importanza al rapporto fra i coniugi: Questa azione poi nella società domestica non comprende solo il vicendevole aiuto, ma deve estendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo, che i coniugi si aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore; sicché nella loro vicendevole unione di vita crescano sempre più nelle virtù [...]. Una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, con l’assiduo studio di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo, come insegna il catechismo romano, si può dire anche primaria ragione e motivo del matrimonio, purché s’intenda per matrimonio, non già, nel senso più stretto, l’istituzione ordinata alla retta procreazione ed educazione della prole, ma in senso più largo, la comunione, la consuetudine e la società di tutta quanta la vita.24

Cioè Pio XI considera di fatto l’amore coniugale come causa e fondamento del matrimonio, anche se non rientra nell’ordine tradizionale dei fini del matrimonio perché «li trascende e ne è la fonte»25. Queste parole suscitarono molti commenti e domande, a cui Pio XII, suo successore, diede risposta in alcune circostanze: come nel 1941, in un discorso al tribunale della Sacra Rota, in cui ribadì che separare l’atto coniugale dal fine procreativo era inaccettabile; e il 29 ottobre 1951, in un celebre discorso alle ostetriche – dove viene confermata la possibilità di regolare le nascite seguendo i cicli di fertilità femminili –, ripeté che i «fini secondari», vale a dire ciò che riguarda il rapporto di amore fra i coniugi, Ivi, p. 591. Ivi, p. 590. 25 A. Mattheeuws, Union et procréation. Développement de la doctrine des fins du mariage, Les Éditions du Cerf, Paris 1989, p. 54. 23 24

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non potevano essere disgiunti dai fini primari, invitando a lottare contro «una grave inversione dell’ordine dei valori e dei fini posti dallo stesso Creatore»26 dal momento che l’atto coniugale, «nella sua struttura naturale, è un’azione personale, una cooperazione simultanea e immediata dei coniugi, la quale, per la stessa natura degli agenti e la proprietà dell’atto, è la espressione del dono reciproco, che, secondo la parola della Scrittura, effettua l’unione ‘in una carne sola’»27. In sostanza, la Chiesa è ben consapevole del pericolo che i fini del matrimonio vengano ridotti o solo al livello soggettivo, o solo a quello biologico e quindi puramente scientifico. L’enciclica genera sconcerto e inquietudine fra quegli sposi cristiani che già usavano metodi anticoncezionali, come avveniva in Francia. A dimostrarlo la corrispondenza all’abbé Viollet pubblicata su un settimanale cattolico, a cui i lettori scrivono che allora «era meglio non sposarsi» facendo appello alle malattie che, sostengono, derivano da una eccitazione a cui non segue il piacere: «I fibromi non sono una malattia dei conventi?»28. Molti rivelano di non essersi più confessati dopo l’enciclica, mentre una giovane donna lamenta come in questo modo il matrimonio appaia molto poco seducente perché troppo serio. Un ufficiale, per obbedire al papa, non trova altra soluzione che chiedere l’allontanamento dalla famiglia, avendo già cinque figli. Ma la crisi innescata dall’enciclica si estende per lui a tutta la fede: «Per la prima volta ho trovato nella dottrina della Chiesa qualche cosa che sarei tentato di nascondere a un ignorante che volessi riavvicinare a Dio. Per la prima volta ho invidiato i protestanti in buona fede che possono essere salvati. Per la prima volta, infine, ho dubitato della parola di Roma e mi sono domandato se non sarebbe di questa come di altre dottrine (Inquisizione, ecc.) che la Chiesa ha abbandonato in seguito»29. Nel 1937 lo studioso tedesco Doms scrive un importante commento all’enciclica Casti connubii30 insistendo sull’importanza 26 Pio XII, Discorso alle ostetriche, 29 ottobre 1951, in «Acta Apostolicae Sedis», XXXXIII [sic], 1951, p. 848. 27 Ivi, p. 850. 28 M. Sevegrand, L’amour en toutes lettres. Questions à l’abbé Viollet sur la sexualité, 1924-1943, Albin Michel, Paris 1996, p. 179. 29 Ivi, p. 187. 30 H. Doms, Du sens et de la fin du mariage, Desclée de Brouwer, Paris 1937.

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della comunità di vita e dell’amore fra gli sposi, mettendo in rilievo cioè il valore unitivo del matrimonio, che si realizza attraverso l’atto coniugale. L’eco suscitata da questo scritto è vasta e ricca, e testimonia la profondità del pensiero che lo sostiene: «Perché si trattava – scrive Sevegrand –, elaborando una nuova teoria del matrimonio, di assumere l’esperienza dell’amore coniugale realizzata da una generazione di sposi cristiani»31. Il matrimonio veniva così valorizzato come vocazione cristiana, insistendo sull’unità e sul mutuo perfezionamento degli sposi. Perfino «L’Osservatore Romano» pubblica, nel 1938, una recensione prudente, ma sostanzialmente positiva, a Doms, mentre dalle sue tesi molti, all’interno della Chiesa, partono per proporre un rinnovamento sostanziale della dottrina dei fini del matrimonio. Si tratta di un filone di pensiero, chiaramente influenzato dalla filosofia personalista, che viene definito come «l’ingresso dell’amore nella letteratura religiosa contemporanea»32, che avrà influenza sul Gaudium et Spes, la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo emanata dal Vaticano II, e poi sull’Humanae vitae. Ma, nonostante questa piccola apertura, la Casti connubii rimane una enciclica molto rigida, che non si pone il problema di rispondere alle trasformazioni sociali della modernità, come del resto prova il ricorso continuo ad Agostino e alla sua concezione pessimistica della sessualità. Il termine «natura», solo o associato a legge, ritorna in ciascuna delle circa sessanta pagine dell’enciclica, e su questa legge morale naturale, voluta da Dio, si basano tutti i precetti morali proposti dal magistero. La natura sembra una sorta di ipostasi intoccabile della saggezza di Dio, una sorta di causa prima assoluta33. Tanto immutabile che Häring arriva a scrivere che Tommaso d’Aquino, in materia di «morale naturale, è più sfumato di Casti connubii»34. È l’esistenza fisica dell’atto coniugale a essere decisiva, per cui l’atto è visto solamente come equivalente di un atto di proSevegrand, L’amour en toutes lettres, cit., p. 172. Mattheeuws, Union et procréation, cit., p. 58. 33 Si veda in proposito B. Häring, De «Casti connubii» à «Gaudium et Spes», in Id., Crise autour de l’«Humanae vitae», Desclée de Brouwer, Paris 1968. 34 Ivi, p. 42. 31 32

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creazione. L’immagine dell’essere umano che ne deriva è moderatamente dualista, divisa fra corpo e anima: l’amore e l’amicizia fra gli sposi sono presentati come di natura spirituale, senza legami con l’unione dei corpi. In sostanza, «l’atto coniugale, anche quando si tratta di un atto di procreazione voluto, non è in fondo che una concessione al desiderio maligno troppo forte e non ha valore morale che come una sorta di ‘scusa’»35. Pio XI si rivela in sostanza fondamentalmente pessimista circa la possibilità dei fedeli, presi individualmente, di comprendere la legge morale naturale, soprattutto per quanto riguarda la sessualità, e questo vale particolarmente per l’uomo moderno: proprio per questo il magistero deve interpretare la legge morale naturale, grazie all’aiuto divino, e chiedere allo Stato di adeguare a questa la sua legislazione. In questa sfiducia, e nel rifiuto di prendere in considerazione i cambiamenti storico-sociali intervenuti, arroccandosi in un riferimento a leggi senza tempo, si vede l’effetto che la propaganda anticlericale di evoluzionisti e darwinisti ha esercitato nella cultura cattolica, che tende a rispondere, in questa come in altre questioni, con il rifiuto di fare i conti con la modernità. Il Concilio Vaticano II cambierà molto nel modo di concepire l’emancipazione della donna e la sessualità, ma non le regole di comportamento morale.

2. Il mito dell’orgasmo Se il periodo che va fino alla prima guerra mondiale aveva visto profondi cambiamenti culturali nel modo di concepire la sessualità, e aveva tolto alla Chiesa il monopolio del discorso su questo argomento, delegittimandola come referente per il comportamento sessuale, nella vita quotidiana i comportamenti non erano cambiati radicalmente, tranne che per il particolare, certo non irrilevante, del controllo delle nascite, sempre più diffuso nei paesi occidentali. La scoperta di un nuovo tipo di anticoncezionale, la pillola che 35

Ivi, p. 60.

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inibisce l’ovulazione, da parte del dottor Pincus – commercializzata proprio a partire dal 1960 – apre però nuove prospettive che permettono di realizzare le nuove e più avanzate teorie di liberazione sessuale che dilagano negli anni Sessanta in tutto il mondo occidentale. Se la pillola anticoncezionale apre una nuova stagione per la pratica della sessualità, e da questo punto di vista pone problemi inediti alla Chiesa, la sua scoperta è dovuta a esponenti di un filone ideologico che la Chiesa conosce e combatte da molti anni, quello dell’eugenetica neomalthusiana. La ricerca di Pincus infatti – iniziata nel 1953 – è stata voluta e finanziata da una pioniera del controllo delle nascite, l’americana Margaret Sanger, collaboratrice apprezzata di Havelock Ellis e fondatrice di una delle più importanti organizzazioni mondiali per la cosiddetta pianificazione familiare36. Nei suoi libri, diffusi e tradotti con grande successo – La donna e la nuova razza (1920) e Il cardine della civiltà (1922) –, il controllo delle nascite, sempre con fine eugenetico, viene considerato l’obiettivo più importante per lo sviluppo dell’umanità: «la civiltà, nel senso pieno del termine, è basata sul controllo e sulla guida del grande istinto naturale del Sesso. La padronanza di questa forza è possibile solamente attraverso lo strumento del Controllo delle Nascite»37. Dopo la seconda guerra mondiale, quando l’eugenetica cade in disgrazia perché associata alle barbarie naziste, la Sanger fa dimenticare la sua passata militanza e si dedica solo al controllo delle nascite, coniugandolo con la militanza femminista. La pillola anticoncezionale, infatti, ha una nuova caratteristica fondamentale, cioè quella di permettere alle donne di comportarsi come gli uomini dal punto di vista sessuale: in questo stanno le ragioni del suo successo e il motivo per cui sono passati sotto silenzio ogni disagio o disturbo medico provocati dalla sua assunzione e le eventuali conseguenze dannose per la salute femminile. Con la pillola, le donne non solo possono essere le sole a decide-

36 Per la biografia della Sanger, cfr. A. Morresi, Appendici, in E. Roccella e L. Scaraffia, Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia, Piemme, Casale Monferrato 2005. 37 Ivi, p. 184.

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re se concepire un figlio, ma possono anche separare definitivamente la sessualità dall’amore e dalla famiglia, come è sempre stato possibile per gli uomini. Alle esigenze delle donne che premono per una totale emancipazione – negli anni Settanta si parlerà di liberazione, che significa soprattutto liberazione sessuale – si aggiunge anche il discorso degli intellettuali, che approfondisce e porta alle estreme conseguenze le teorie avanzate dai sessuologi all’inizio del Novecento. Se già Freud aveva centrato sulla sessualità il suo discorso psicoanalitico, minando una delle basi della moralità cattolica, cioè la fiducia nelle capacità dell’essere umano di combattere le tentazioni sessuali, sostenendo in sostanza che «nessuno era padrone in casa propria»38, dopo la prima guerra mondiale una serie di suoi seguaci svilupperà in senso fortemente libertario la sua teoria, ottenendo uno straordinario successo fra i giovani europei e nordamericani. Sono infatti formati da Freud studiosi come Wilhelm Reich (1897-1957) e poi, sulle sue orme, Erich Fromm e Herbert Marcuse, gli ideologi della liberazione sessuale. Reich, staccatosi da Freud, era divenuto il profeta di una specie di religione che intrecciava psicoanalisi e marxismo, centrata sulla convinzione che svilupparsi, vivere, esprimersi, amare compiutamente fosse impossibile per qualunque essere umano a cui fosse stata bloccata la funzione orgasmica e l’evoluzione verso la maturità sessuale, da lui definita come il «primato dei genitali». Tutte le sue opere principali, a cominciare dalla Funzione dell’orgasmo, pubblicata nel 1927, sono fondate sull’idea che chi non sfoga nell’orgasmo l’energia sessuale è destinato a nevrosi e a deformazioni della personalità. Nella sua opera più celebre, Psicologia di massa del fascismo (1933), questa motivazione psicologica viene utilizzata per spiegare l’affermazione dei regimi autoritari. È Reich il primo a utilizzare l’espressione «rivoluzione sessuale», che conoscerà tanto successo negli anni Sessanta. La rivoluzione sessuale e quella politica erano dunque strettamente collegate nella ideologia del tempo, come riaffermarono pochi anni dopo Erich Fromm e Herbert Marcuse, sia pure senza riferirsi a Reich, le cui opinioni, nel giro di qualche anno, di38 G. Jervis, Il secolo della psicoanalisi, in Id. (a cura di), Il secolo della psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 17.

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ventarono così estreme e suscitarono tale sconcerto che, negli Stati Uniti dove si era rifugiato, si ricorse al suo internamento psichiatrico. Fromm, nel celebre libro Fuga dalla libertà (1941), aveva sostenuto la stessa tesi: cioè che se l’energia espansiva della vita era coartata nella sua espressione – la pratica sessuale – essa dava origine al carattere sado-masochista e autoritario. Ma la fortuna maggiore toccò al saggio Eros e civiltà di Marcuse, uscito nel 1955, dove il filosofo sosteneva che non ci poteva essere rivoluzione sociale senza rivoluzione sessuale, e che la liberazione sessuale costituiva la base della felicità umana. Abbiamo aperto la parte moderna di questo libro, che inizia da quel XVIII secolo in cui la cultura occidentale comincia a rifiutare il monopolio della Chiesa sulla morale sessuale, discutendo l’influenza esercitata prima, involontariamente, dai missionari e poi, volontariamente, dagli antropologi, nel descrivere società libere da tabù sessuali, a cominciare proprio da uno dei primi e più importanti racconti di viaggio, quello del cavaliere de Bougainville a Tahiti. Sempre in Polinesia, ma a Samoa, si era recata, intorno al 1920, una giovane promessa dell’antropologia culturale americana, Margaret Mead, per studiare il comportamento degli adolescenti. Il libro che raccontava i risultati di questa ricerca – L’adolescenza in Samoa (1928) – confermò le descrizioni dei viaggiatori sette-ottocenteschi e dei missionari: nelle isole della Polinesia il sesso era libero, e i corpi nudi e le danze selvagge erano prova di una totale assenza di inibizioni sessuali. La Mead, che aveva studiato psicologia per un anno, si azzardò anche ad affermare che a questa libertà sessuale corrispondeva una libertà da sensi di colpa, complessi nevrotici, impotenza e frigidità, nonché l’assenza di crisi adolescenziali. Il libro ebbe un successo di pubblico straordinario, mai registrato per uno studio di ricerca antropologica, ma non solo: venne considerato un’opera fondamentale dai massimi antropologi viventi, l’americano Boas e l’inglese Malinowski. Era un libro che arrivava al momento giusto, perché offriva alla popolazione anglosassone una prova scientifica a favore della liberazione sessuale proprio nel momento in cui era più insofferente nei confronti del puritanesimo tradizionale: nei decenni successivi non ci fu studio dell’adolescenza o di problemi sessuali che non lo citasse come una bibbia. Tutto procedeva come i primi ses-

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suologi avevano indicato: questa volta non solo le relazioni dei missionari e dei viaggiatori, ma anche la ricerca scientifica confermava che per l’uomo la libertà sessuale era «naturale». E veniva confermata così anche la teoria di psicoanalisti come Reich e Fromm, secondo cui la repressione sessuale era causa di molti mali della società occidentale. Lo straordinario successo del libro è la prova di quanto fosse sentita l’esigenza, da parte di un gruppo di intellettuali, di porre in quegli anni le basi di un’altra morale sessuale. Ma la ricerca di Margaret Mead era sbagliata. Negli anni Ottanta alcuni studiosi, sollecitati dallo scritto critico di un antropologo australiano, Derek Freeman39, ritornarono sul posto per rifare l’indagine, e scoprirono che l’antropologa americana era arrivata troppo in fretta a conclusioni errate: a Samoa le regole sessuali erano strette e severe, alle ragazze si richiedeva la verginità prima del matrimonio, e le danze che avevano tanto impressionato missionari e viaggiatori erano solo simboliche, non finivano in un’orgia. In sostanza, quella della libertà sessuale era una favola inventata dagli occidentali, per i quali la nudità coincideva con una libertà di costumi da loro desiderata e immaginata. Il fatto di aver svelato e compreso che quella che è stata considerata una inoppugnabile prova scientifica dell’esistenza della liberazione sessuale e dei suoi effetti positivi era in realtà solo frutto, nella migliore delle ipotesi, di un malinteso – ma più probabilmente di una ricerca affrettata, in cui i testimoni avevano preso in giro l’allora giovane antropologa –, può suggerire molte riflessioni. Soprattutto che il clima riguardo alla liberazione sessuale è mutato, perché non siamo più ansiosi di introdurla nelle nostre società, ma anzi oggi – in quanto stabilmente diffusa – siamo pronti a guardarla con uno sguardo critico, consapevoli che il mito della felicità a portata di mano non si è realizzato neppure questa volta. Ci si rende conto di quella che è la realtà della Polinesia perché gli effetti della rivoluzione sessuale nei paesi occidentali sono stati deludenti. Ma se è nota la fortuna di questi autori – negli anni Sessanta anche in Italia –, chi ha dato la spinta decisiva alla rivoluzione ses39 Cfr. S. Tcherkézoff, Le mythe occidental de la sexualité polynésienne, Puf, Paris 2001.

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suale è stato il biologo statunitense Alfred Kinsey (1896-1956), le cui date di nascita e di morte coincidono quasi perfettamente con quelle di Reich. Kinsey – che molto probabilmente non ha mai letto questi libri – ha dedicato la seconda parte della sua vita a raccogliere dati, che voleva rigorosamente scientifici, sulla vita sessuale dell’«animale umano», un oggetto che egli si proponeva di osservare con la stessa freddezza e distacco con cui, come entomologo, osservava e classificava gli insetti. Il suo impegno totale verso la causa, la sua fiducia utopica che la fine della repressione del desiderio sessuale avrebbe realizzato una società pacifica e armoniosa, ne hanno fatto un profeta-scienziato di grande impatto sociale. Come ogni vero guru, costringeva i suoi collaboratori a praticare anche nella vita, oltre che nello studio, la sua «religione». Kinsey, come si è accennato, non è il primo studioso a proporre una liberalizzazione sessuale, ma è il primo a farlo senza ostentare alcuna ideologia politica, né simpatie per l’eugenetica o per il miglioramento della razza. La sua formazione di zoologo lo porta ad analizzare un solo tema – quello del comportamento sessuale – nella sua accezione più seriale e descrittiva, lontano da sconfinamenti sul terreno della psicologia o tanto meno dell’analisi sociale. Proprio perché l’interesse di Kinsey è esclusivamente incentrato sulla sessualità umana, analizzata con la stessa freddezza analitica che riservava alla catalogazione degli insetti, il suo lavoro è stato al tempo stesso così dirompente dal punto di vista morale, ma anche, per un altro verso, meno imbarazzante negli anni del dopoguerra, quando da una parte ogni riferimento all’eugenetica poteva richiamare le pratiche naziste, e dall’altra ogni dichiarazione di fede comunista suscitava i sospetti della società americana. Con Kinsey, il comportamento sessuale si scinde completamente dalla sfera emotiva e da quella morale, per essere considerato solo dal punto di vista fisico: in un certo senso, questa visione della sessualità – che si impone nelle società occidentali – ripropone, rovesciata, l’eresia gnostica che separava corpo e spirito dando tutta l’importanza allo spirito e disprezzando, quindi, la sessualità. Qui si dà invece al corpo e alla sessualità il massimo dell’importanza, facendo in sostanza coincidere l’identità dell’individuo con questi, e arrivando anche – secondo Reich e Fromm – a sostenere che la sessualità ne determina il comportamento, in totale contrapposizione alla unione inscindibile fra corpo e spirito

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sempre sostenuta dalla tradizione cristiana. Il cristianesimo, infatti, si fonda su una concezione di «carne» intesa come esperienza complessiva dell’essere umano, non riducibile solo al significato di corpo come materia, ma che «rinvia all’unità originaria della creazione-incarnazione-resurrezione ed indica il tutto dell’uomo, implicando sempre anche l’insieme dei legami, delle relazioni che ogni essere stabilisce»40. Naturalmente, la visione nuova, libera, della sessualità, ha il merito di recuperarne la dimensione leggera, ludica, schiacciata in un certo senso dal carico di significati «alti» che la tradizione cristiana dà all’atto sessuale. Lo studio di Kinsey sul comportamento sessuale dell’uomo è stato tradotto abbastanza presto in Italia – nel 1955, mentre l’edizione inglese è del 1948 – e pubblicato con una lunga introduzione di Cesare Musatti. Questi, noto in Italia come uno dei primi e più celebri psicoanalisti freudiani, riconosce l’importanza scientifica e culturale dello studio, in quanto prova che «non esiste uno schema fisso della normalità sessuale: e la fenomenologia sessuale, entro un ambito che non vi è motivo per qualificare abnorme, è estremamente varia, e sfuma nella anormalità vera e propria, o nelle sue diverse forme, per gradi insensibili»41. Il rapporto Kinsey si rivela quindi un ottimo ausilio per la psicoanalisi, legittimando la confessione di desideri e pratiche trasgressive per la morale corrente. Da Kinsey, che si presenta come il prototipo dello scienziato asettico e neutro, deriva una serie di inchieste sul comportamento sessuale, come quelle celebri di Masters e Johnson42, che hanno svolto un ruolo importante nel fornire materiale alla critica della morale tradizionale negli anni Sessanta. Ma la sua influenza non si limita all’ambito scientifico: quella che viene proposta come evidenza scientifica fornisce la base della nuova morale permissiva, che in quegli stessi anni un altro americano, Hugh Hefner – allie40 C. Bernardi, C. Bino e M. Gragnolati (a cura di), Il corpo glorioso. Il riscatto dell’uomo nelle teologie e nelle rappresentazioni della resurrezione, Giardini, Pisa 2006, p. 12. 41 C. Musatti, Prefazione, in A.C. Kinsey, W.B. Pommeroy e C.E. Martin, Il comportamento sessuale dell’uomo (1948), Bompiani, Milano 1955, p. X. 42 W. Masters e V. Johnson, L’atto sessuale nell’uomo e nella donna: indagine sugli aspetti anatomici e fisiologici (1966), Feltrinelli, Milano 1968.

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vo di Kinsey, e come lui educato in una famiglia rigidamente puritana –, diffonde nel mercato dei periodici con l’invenzione di un mensile di grande successo, «Playboy». Anche per Hefner lo scopo era quello di diffondere la libertà sessuale: «la mia rivista offre una visione onirica del mondo, lontana dalla sfera matrimoniale e sicuramente più incentrata sulla vita dei single e dei giovani», e definisce «Playboy» come «il simbolo del razionalismo e dell’umanismo». La testata, diffusa in moltissimi paesi, vende ancora bene, anche se le sue promesse di felicità legate alla liberazione sessuale – le stesse di Kinsey e Reich, seppure espresse più grossolanamente – non si sono realizzate, neppure nel ristretto campo delle relazioni sessuali. Avanza invece – scrive Georges Cottier – un erotismo commercializzato che costituisce «una delle più gravi profanazioni dell’amore conosciute nella storia» perché, sotto il pretesto di sopprimere tabù, «sessualità e amore vengono ridotti a dimensioni della più volgare piattezza»43. Il successo di questa ideologia rivoluzionaria, che presupponeva un distacco netto fra sessualità e procreazione, era assicurato anche dal fattore demografico: dopo la seconda guerra mondiale, infatti, grazie ai progressi medici, la crescita della popolazione, registrata per la prima volta nella storia anche nei paesi del Terzo Mondo, dà origine a una serie di previsioni catastrofiste. Già nella conferenza mondiale sulla popolazione, tenuta a Roma nel 1954 sotto l’egida delle Nazioni Unite, era emersa la preoccupazione per lo squilibrio tra la crescita demografica e le risorse del pianeta. Nei decenni seguenti le organizzazioni internazionali fanno proprio il punto di vista occidentale, secondo cui i paesi ricchi sarebbero in pericolo perché assediati da una crescente folla di poveri che si moltiplicano rischiando di consumare troppe risorse. Domina infatti l’idea – oggi abbandonata – che la produzione delle risorse costituisca un fattore rigido, immodificabile. Paolo VI, nel discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1965, aveva detto invece che è dovere dei governanti responsabili far sì che il pane abbondi sulla mensa dell’umanità, non già «favorire

43 G.M.M. Cottier, Régulation des naissances et développement démographique, Desclée de Brouwer, Paris 1969, pp. 12-13.

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un artificiale controllo delle nascite che sarebbe irrazionale, per far diminuire il numero dei commensali al banchetto della vita»44. Queste trasformazioni culturali contagiano anche i cattolici, che cominciano a sentire voglia di rinnovamento, e proprio in merito a ciò che costituisce il nucleo centrale di ogni discorso sulla sessualità, il matrimonio. La discussione dei fini del matrimonio riprende, fortemente influenzata dalle trasformazioni culturali avvenute nel mondo occidentale: l’affermarsi dell’amore romantico e l’idea che l’atto sessuale costituisca un elemento essenziale nel rafforzare l’amore fra i coniugi, ormai considerato come il vero fine del matrimonio. Pertanto quest’ultimo viene percepito sempre più come una istituzione umana, con finalità umane e sociali, cioè il raggiungimento di una realizzazione affettiva e sessuale individuale, e come tale esposto alla fragilità dei desideri umani. Tutto ciò preoccupa la Chiesa, che vede in pericolo l’irreversibilità del vincolo, ma soprattutto scorge in questa umanizzazione una vera e propria cancellazione di Dio dal rapporto fra gli sposi, se pure credenti: solo il fine della procreazione, che vede gli sposi interagire con la volontà divina, può riportare Dio nel vincolo, e restituire alla sessualità quel profondo significato simbolico e spirituale che la tradizione cristiana le aveva attribuito. Inoltre, era ormai chiaro che l’accento sull’amore costituiva solo una prima tappa: nella cultura occidentale la seconda rivoluzione sessuale separerà definitivamente la sessualità non solo dalla procreazione, ma anche dal matrimonio e dall’amore, per legittimarla come semplice ricerca di piacere individuale. In questo modo, la sessualità perde la dimensione sociale e pubblica, per divenire sempre più un’attività privata e insindacabile, nella quale ognuno rivendica il diritto di fare le scelte che preferisce. Questo passaggio da pubblico a privato è provocato dall’affermarsi di una cultura sempre più focalizzata sulla realizzazione individuale, e quindi poco attenta alla difesa della famiglia, resa più fragile, del resto, anche dall’emancipazione femminile e dalla crescente autonomia delle giovani generazioni. Alcune indagini – come Le italiane si confessano di Gabriella Parca (1959) – rivelano che anche in un paese ancora fondamen44 Insegnamenti di Paolo VI, III, 1965, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 1966, pp. 516-523.

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talmente cattolico come l’Italia era in corso un cambiamento nel comportamento sessuale delle donne, sempre più tentate di sperimentare la libertà sessuale anche al di fuori del matrimonio. E questa trasgressione morale si traduce poi in allontanamento dalla pratica religiosa, come nota il matrimonialista Lucio Grassi nell’inchiesta L’adulterio femminile in Italia (1963): Al campione esaminato è apparso che una rilevante percentuale di coppie coniugate pratica il controllo delle nascite con metodi assolutamente riprovati dalla morale e dal diritto. Tali modalità di compimento dell’atto sessuale coniugale finiscono con l’allontanare notevolmente la donna dalla attiva pratica religiosa non essendo compatibili con i precetti morali. Un rilevante numero di donne coniugate viene a trovarsi – durante il matrimonio – in uno stato di perenne conflitto con le norme religiose; da tale conflitto esce così soccombente la coscienza morale. La norma religiosa, in tali casi, sembra svalutarsi; ed è apparso ben evidente che le violazioni di altri precetti morali – quali, ad esempio, la fedeltà – incontrino una resistenza spirituale sempre minore.45

Si presenta così quella che sarà una delle questioni calde nel cattolicesimo contemporaneo: cioè se sia la severità della Chiesa nell’ambito della morale sessuale a provocare l’allontanamento dei fedeli, o piuttosto sia la liberalizzazione sessuale della modernità a provocare la secolarizzazione. In entrambe le prospettive, comunque, emerge l’importanza della rivoluzione sessuale per l’affermazione della secolarizzazione contemporanea. Anche nel mondo dei cattolici più fedeli entra in crisi il modello tradizionale di religiosità femminile incentrato sulla spiritualità sacrificale e le donne, accanto ai doveri, cercano una realizzazione personale, affettiva e sessuale nella vita coniugale. Molto importante, in questa riscoperta della soggettività e della parità fra i sessi, è il movimento fondato da don Giussani a metà degli anni Cinquanta, Gioventù studentesca, aperto alla lettura dei romanzi ma anche della psicologia, tematica che si estende ad alcuni titoli di argomento sessuale46. 45 L. Grassi citato in R. Fossati, Un «sogno di fusione perfetta». Il mondo cattolico e la politica dei sessi, in C. Adagio, R. Cerrato e S. Urso (a cura di), Il lungo decennio. L’Italia prima del ’68, Cierre, Verona, p. 78. 46 Come A. Zarri, Impazienza di Adamo. Ontologia della sessualità, citato in Fossati, Un «sogno di fusione perfetta», cit., p. 81.

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Nel periodo che va dalla Casti connubii al Concilio Vaticano II nascono in questo clima – soprattutto in Belgio e in Francia – movimenti di spiritualità coniugale, caratterizzati dal cosiddetto «sogno di fusione perfetta»47. Il prete e teologo Pierre de Locht, impegnato nel movimento dei Foyers, scriveva: «Vivere in due, pensare in due, pregare in due»; questo modello di coppia ideale penetrò un po’ più tardi in Italia. Ma già dagli anni Cinquanta segnava i suoi limiti, come denuncia sulla rivista del movimento dei Foyers, «Anneau d’or», il promotore svizzero, Robert Bovet, in un articolo intitolato Éloge du mariage imparfait48. In Italia un gruppo che si riallaccia a questa tendenza è la Pro Civitate Christiana, la Cittadella di Assisi, e la sua rivista «Rocca» si apre a discutere questioni come l’indissolubilità del matrimonio, le tecniche anti-fecondità e l’educazione sessuale. Si parla anche di femminismo, e si discute il caso della «Zanzara» – il giornale studentesco del liceo Parini di Milano dove un articolo aveva rivelato una pratica abbastanza disinvolta di rapporti prematrimoniali fra le studentesse – sostenendo «un’educazione positiva alla sessualità»49. Attento a questi temi era anche il centro Idoc, nato durante il Concilio, che pubblica una collana di libri fra cui compare anche Diritti del sesso e matrimonio (pubblicato in prima edizione nel marzo 1968), testimonianza di come anche le nuove generazioni cattoliche avessero assorbito la cultura laica dominante: La Chiesa dopo il Concilio Vaticano II è impegnata in diversa misura nei confronti dei problemi del sesso, del matrimonio, del controllo delle nascite. In una società che respinge l’ipocrisia ed esige l’autenticità, la scottante tematica dell’amore va affrontata in modo personale ed esistenziale. Se il cattolicesimo non sceglierà la strada del dialogo più aperto il solco che divide i fedeli dalla gerarchia ecclesiastica e la Chiesa dal mondo moderno si allargherà sempre di più. La parte più viva della cattolicità vuole affrontare i problemi della vita intima dell’uomo e della donna, della famiglia, della procreazione, con coraggio e schiettezza e abbattere i tabù che hanno distorto il nostro giudizio.50

Ibid. Cfr. ivi, p. 82. 49 Ivi, p. 84. 50 Ivi, p. 85. 47 48

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Già prima della seconda guerra mondiale, in alcuni paesi europei si erano alzate voci autorevoli, come quella del padre domenicano Benedetto Lavaud, professore di teologia all’Università di Friburgo, a favore di un rinnovamento radicale della teoria dei fini del matrimonio, valorizzando il secondo fine, l’unione fra i coniugi, invece della procreazione, messa al primo posto da sant’Agostino e san Tommaso. Anche un gesuita francese, padre Boigelot, conferma la necessità di precisare le relazioni fra i due fini, e il 10 aprile 1941, in un discorso al tribunale della Sacra Rota, Pio XII risponde che il fine secondario è legato al primario da un legame di subordinazione, giudizio ripetuto il 1° aprile 1944 da un decreto del Sant’Uffizio e, come abbiamo visto, nel suo celebre discorso alle ostetriche nel 195151. Ma in questa occasione il papa apporta una nuova e importante precisazione: i due fini erano da considerarsi inseparabili, cioè l’amore coniugale era a servizio della procreazione e l’attività procreatrice non poteva essere separata dalla relazione personale fra gli sposi. E nel sostenerlo abbandonava il vocabolario del diritto canonico che definiva il fine secondario come «aiuto reciproco» e «rimedio alla concupiscenza» per riconoscere «tutto ciò che c’è di buono e di giusto nei valori personali che risultano dal matrimonio e dalla sua realizzazione»52. Giovanni XXIII, tre mesi prima di morire, nel marzo del 1963, suscitò speranze nuove con la nomina di una piccola commissione di teologi – alcuni esperti di demografia – incaricati di studiare con calma il tema del controllo delle nascite sia dal punto di vista demografico che da quello dell’etica coniugale. Una prova, secondo il giornalista Giancarlo Zizola, che egli «considerava problema ciò che era comunemente considerato, a parte un piccolo gruppo di teologi, ancora una verità di fede»53. Il nuovo papa Paolo VI, desideroso di arrivare a un accordo unanime sul problema, nel 1964 allarga la commissione, che viene così a com51 Si veda in proposito Sevegrand, L’amour ou les deux fins du mariage, cit., p. 178. 52 Pio XII, Discorso alle ostetriche, cit., p. 849. 53 G. Zizola, Genesi dell’enciclica «Humanae vitae», in G. Zizola, A. Zarri, G. Gozzer e P. Donizetti (a cura di), La questione della pillola, Mursia, Milano 1969, p. 21.

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prendere venticinque teologi, fra cui due vescovi, diciannove demografi, sociologi ed economisti, dodici medici e infine – innovazione importante – tre coppie (una canadese, una americana e una francese). Il Terzo Mondo contava tredici rappresentanti su quarantaquattro membri europei e nordamericani e – altro aspetto nuovo e importante – i laici erano in maggioranza in rapporto al clero e ai religiosi54. Ma il dibattito ormai si era aperto presso l’opinione pubblica, rivelando all’esterno gli aspri conflitti interni alla Chiesa stessa su questo tema. Anche per questo, nel giugno 1964, Paolo VI annunciò che aveva deciso di sottrarre al dibattito conciliare le questioni relative al controllo delle nascite. Ai padri conciliari venne lasciata solo una parte del problema, quella relativa al rinnovamento della morale coniugale, tema che darà occasione ad alcuni di loro di parlare esplicitamente di amore nel 1964, durante la terza sessione del Concilio. «Bisogna assolutamente proporre l’amore coniugale come un vero fine del matrimonio», dice il cardinale Léger, arcivescovo di Montréal, e con lui concordano il cardinale Suenens, arcivescovo di Bruxelles, e il cardinale Alfrink, arcivescovo di Utrecht, mentre nel dibattito che segue si oppongono i cardinali di Curia, e in particolare Ottaviani e Browne, che difendono la dottrina tradizionale. Ancora più netta la demarcazione fra i padri conciliari riguardo i mezzi di controllo delle nascite, questione su cui Suenens, considerato portavoce delle correnti più aperte, afferma con chiarezza: «Seguiamo i progressi della scienza. Vi scongiuro, padri, evitiamo un nuovo processo a Galileo. Uno basta alla Chiesa»55. La lotta fu particolarmente aspra, e si risolse solo in seguito a un intervento di Paolo VI nel 1964, che propose di mantenere la dottrina dei due fini, primario e secondario, dottrina che non appariva nella prima versione del testo conciliare. Si palesò quindi apertamente la forte divergenza fra la maggioranza conciliare desiderosa di affermare la grandezza dell’amore coniugale e un papa teso a mantenere l’insegnamento tradizionale. Ma la costituzione conciliare Gaudium et Spes, votata nel dicembre 1965, nel 54 M. Rouche, La préparation de l’encyclique «Humanae vitae», in Paul VI et la modernité dans l’Église, École française de Rome, Roma 1984, pp. 361-384. 55 Zizola, Genesi dell’enciclica «Humanae vitae», cit., p. 25.

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capitolo consacrato al matrimonio non parla dei due fini, e soprattutto della loro gerarchia. Il testo conciliare, rompendo decisamente con la teoria del remedium concupiscentiae del diritto canonico, si sforzava infatti di restituire tutto il valore alla vita sessuale degli sposi e al dialogo fra i corpi: «Gli atti che realizzano l’unione intima e casta degli sposi sono degli atti onesti e degni. Vissuti in una maniera veramente umana, essi significano e favoriscono il dono reciproco attraverso il quale gli sposi si arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella riconoscenza»56. Come scrive il gesuita Mattheeuws, questo testo conciliare, in un’ottica influenzata dalla filosofia personalista, testimonia «la cancellazione del linguaggio della finalità» e «la ricerca di un vocabolario più vicino all’affettività e all’esperienza, più direttamente in accordo con la sensibilità contemporanea»57. Ma, cosa più importante per la questione ancora aperta del controllo delle nascite, il testo conciliare vuole mostrare l’interdipendenza fra la procreazione e la comunione fra gli sposi. Questa unificazione dei fini sembra, in un primo momento, offrire un argomento ai sostenitori del controllo delle nascite: se i due fini diventano una cosa sola, essi sostengono, la contraccezione può essere concessa all’interno di una visione totale del rapporto, in cui la procreazione, se pure in un altro momento, viene accettata perché può venire giustificata come strumento per rafforzare il rapporto di coppia. Più si dà importanza al legame umano fra gli sposi, interpretando il rapporto sessuale come dono reciproco e aiuto alla stabilità del matrimonio, più il ricorso alla contraccezione appare accettabile. La polemica intorno al controllo delle nascite diventa quindi il banco di prova decisivo per valutare la disponibilità della Chiesa ad accettare i cambiamenti avvenuti nella società relativamente al rapporto di coppia e al comportamento sessuale: i termini del dibattito in corso durante il Concilio, però, fanno capire quanto si sia ormai divaricato il mondo cattolico dalla società laica. Da una parte, quella cattolica, si discute se il matrimonio – unico rapporto all’interno del quale sono consentiti i rapporti sessuali – sia definito dalla sua funzione procreatrice, come vuole la tradizione, o non piuttosto dall’amore reciproco degli sposi, in un’ottica mo56 57

Gaudium et Spes, n. 49, 2. Mattheeuws, Union et procréation, cit., p. 100.

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derna di valorizzazione della scelta individuale e della realizzazione dei propri desideri. L’atto sessuale acquista senso e viene regolato – in particolare rispetto al problema incombente del controllo delle nascite – a seconda dell’opzione prevalente a questo proposito. Nelle società occidentali secolarizzate, invece, l’atto sessuale sta acquistando una legittimità propria, finalizzata al piacere individuale, e viene quindi «liberalizzato» anche al di fuori del legame coniugale, grazie alla diffusione dei metodi anticoncezionali moderni, che permettono di separarlo totalmente dalla procreazione e quindi dalla necessità di provvedere all’allevamento dei figli. In fondo, in paesi come l’Italia, gli anni Sessanta, che vedono il mondo cattolico diviso sul problema della legittimità della separazione della sessualità dalla riproduzione all’interno del legame matrimoniale, sono anche quelli in cui comincia ad affermarsi la «liberazione sessuale» che diventerà di massa nel decennio successivo. E, sul piano politico, la sconfitta dei cattolici italiani nei referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981) segnala che proprio su questo settore, quello dei legami uomo-donna e della regolamentazione della sessualità, la Chiesa sta perdendo sempre più influenza e autorevolezza. Ne era perfettamente consapevole Paolo VI, che vive con drammatica angoscia questa situazione, come traspare dall’intervista rilasciata ad Alberto Cavallari sul «Corriere della Sera» del 3 ottobre 1965: «Il mondo chiede cosa Ne pensiamo [del controllo delle nascite] e Noi ci troviamo a dare una risposta. Ma quale? Tacere non possiamo. Parlare è un bel problema. La Chiesa non ha mai dovuto affrontare, per secoli, cose simili. E si tratta di materia diciamo strana per gli uomini della Chiesa, anche umanamente imbarazzante. Così, le commissioni si riuniscono, crescono le montagne delle relazioni, degli studi. Oh, si studia tanto, sa. Ma poi tocca a me decidere. E nel decidere siamo soli. Decidere non è così facile come studiare».

3. L’«Humanae vitae»: una enciclica contestata La commissione sul controllo delle nascite, esclusivamente consultiva, operò in piena libertà, e vide nel corso dei lavori – dal

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1963 al 1966 – un capovolgimento della maggioranza, che da tradizionalista divenne innovatrice. Alla conclusione dei lavori non fu raggiunta l’unanimità, per cui in sostanza non si arrivò a fornire elementi decisivi a Paolo VI, che lamentava: «più nomino persone nel gruppo, più la questione diventa complessa»58. Nel 1966 la commissione infatti era stata di nuovo allargata, ma questa volta con ecclesiastici – sette cardinali e nove vescovi (fra cui Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia) –, mentre alla presidenza veniva designato il cardinale Ottaviani, sostenitore delle tesi tradizionali. Ma, nonostante questo innesto, la commissione contava una maggioranza di innovatori – quindici – contro quattro della minoranza. Per preparare il documento conclusivo decisiva fu la riunione a Roma, nel 1966, durata due mesi, che si svolse in sessioni diverse in cui si affrontarono le questioni dottrinali, la sessualità, si organizzò l’incontro fra clero, demografi e medici, si prestò ascolto alle coppie, si diede spazio al parere di sociologi e psicologi, e si concluse con una assemblea generale. Gli esperti esterni si dichiararono in genere favorevoli alla liberalizzazione del controllo; tutti i medici, tranne uno, insistettero sulla inefficacia e sulla inapplicabilità del metodo del ritmo mensile. Particolarmente convincente risultò l’ascolto dell’esperienza delle coppie, unanimi nel dire che l’astensione periodica non era sostenibile, e che bisognava lasciare agli sposi la scelta del metodo anticoncezionale. La minoranza tradizionalista replicò che far scegliere le coppie avrebbe portato a una sorta di idolatria della coppia, e quindi a una mistificazione del rapporto coniugale, ma non convinse la maggioranza. In conclusione, non si arrivò a un testo unanime, ma a due relazioni, una di maggioranza, a favore, e una di minoranza, contraria, e questo fatto contribuì a far sentire libero il papa nella sua decisione finale. Era la prima volta che una commissione pontificia prendeva una posizione, se pure non unanime, contro la tradizione, e questo, scrive Michel Rouche, fece sì che venisse alla luce «la più formidabile crisi della Chiesa cattolica nel XX secolo»59. Quasi tutti gli studiosi che hanno lavorato sull’enciclica tendono a schierarsi con la maggioranza innovatrice della commis58 59

Paolo VI citato da Rouche, La préparation, cit., p. 365. Ivi, p. 383.

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sione, considerando la sua posizione come ragionevole e «moderna», e a considerare invece incomprensibile, se non sbagliata, quella dei tradizionalisti, poi adottata da Paolo VI. Ma per uno storico costituisce invece un problema interessante scoprire le ragioni del capovolgimento della maggioranza, e dell’irriducibile frattura fra le due «fazioni», evento raro nella storia della Chiesa: Rouche attribuisce la sconfitta dei tradizionalisti all’inesperienza generale dei membri su questi temi, che li rendeva molto influenzabili dalle relazioni degli esperti, quasi tutti favorevoli alla contraccezione ormonale, e all’incapacità dei tradizionalisti nel trasformare in argomentazione convincente la loro intuizione di fede. Colpisce comunque l’assenza, fra gli esperti, di storici della sessualità – presente a due riunioni John Noonan, autore di una celebre storia della contraccezione uscita nel 1966, che però si limita a un taglio giuridico del problema – che avrebbero potuto ricordare come il rapporto fra Chiesa e sessualità avesse radici ben più profonde della Casti connubii, e che il discorso cristiano sulla sessualità comprendeva anche la mistica e soprattutto la castità consacrata. Mancarono soprattutto valenti psichiatri che approfondissero le conoscenze sulla natura del desiderio. L’unico psichiatra presente, un freudiano ortodosso, si limitò a ribadire le tesi del pericolo di squilibri psichici causati dall’inibizione del desiderio. In questa ottica, il metodo della continenza periodica appariva quindi intollerabile, passibile di compromettere l’intesa coniugale e il clima di pace della famiglia, dal momento che si pensava che solo la liberazione del desiderio sessuale potesse dare la felicità. In fondo, anche nella Chiesa era entrata la sacralizzazione del desiderio che stava affermandosi nelle società occidentali, se pure ammessa solo all’interno della coppia sposata. La sessualità, espressa nella sua forma più tradizionale, cioè nel coito, veniva considerata luogo per eccellenza del dialogo amoroso. Non si erano ancora ascoltate le denunce delle femministe contro la penetrazione, né rivendicate possibilità diverse di appagamento sessuale: la sessualità era concepita in modo tradizionale, anche se sembrava nuovo, un modo che pochi anni dopo sarebbe stato denunciato come maschilista. Anche i tradizionalisti riconoscevano il valore positivo della sessualità coniugale, ma chiedevano di superare l’egoismo di cop-

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pia, per affinare in una dimensione spirituale il senso del matrimonio. Soprattutto, ricordavano che l’ordine naturale è insieme carnale e spirituale, tant’è vero che il matrimonio costituisce una metafora del rapporto fra Cristo e la Chiesa. Non convenivano, poi, con l’idea della maggioranza progressista secondo cui il divieto della pillola avrebbe dato origine a una fuga dei fedeli – soprattutto donne, cioè quelle che fino a quel momento meno avevano risentito della secolarizzazione – perché non avrebbero potuto sopportare la sensazione di sentirsi continuamente colpevoli. Ma, se il problema della commissione era quello di definire il ruolo della sessualità nella coppia in rapporto a Dio e in rapporto al mondo, problema in cui i dati scientifici e quelli rivelati erano inestricabilmente legati, ci si accorse ben presto che la posta in gioco era molto più ampia – «smisurata», per dirla con le parole di Rouche – perché toccava anche il conflitto di potere fra clero e laicato (il sensus fidelium), nonché quello fra donne e uomini. La pillola anticoncezionale, infatti, insieme con gli altri nuovi mezzi come il diaframma e la spirale, dava alle donne il potere di decidere quando e con chi procreare, a differenza degli anticoncezionali più tradizionali, il coitus interruptus e il preservativo, che davano il potere agli uomini. Ma anche perché si affrontava quello che sarebbe stato il tema di contesa principale fra Chiesa e società moderna nei decenni successivi: il rapporto fra natura e tecnologia, che implicava il riconoscimento della legge naturale. La diffusione della pillola segnava anche la fine di quella specie di armistizio che, a partire dall’Ottocento, se pure con alterne vicende, aveva definito i rapporti fra la Chiesa e gli Stati liberali: alla Chiesa il privato delle coscienze e dei legami familiari, allo Stato la sfera pubblica. La Chiesa rischiava infatti di perdere il suo ascendente anche nella sfera privata, dove la sua legge morale non era più accettata come legittima, in un clima di crescente rafforzamento dei diritti individuali. L’Humanae vitae sarà sentita da molti cattolici, infatti, come una indebita intromissione nella loro sfera intima. Nell’estate del 1966, Paolo VI si portò a Castelgandolfo le ottocento pagine del dossier raccolto dalla commissione, ma l’attesa si protrasse ancora: il papa incaricò la Congregazione per la dottrina della fede di esaminare il dossier, e si formò a questo pro-

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posito una nuova équipe di esperti, otto, tutti teologi. La loro risoluzione, di taglio fortemente conservatore, fu resa pubblica da un giornale cattolico americano, «The National Catholic Reporter», suscitando vaste proteste nell’opinione pubblica. Le voci più diverse si rincorrevano, e soprattutto si infittivano le previsioni di tipo liberale, mentre alti porporati non si trattenevano da dichiarazioni favorevoli al controllo demografico, come il cardinale Heenan, convinto dal rapporto dell’economista cattolica inglese Barbara Ward, che condivideva le prospettive allarmanti per l’esplosione demografica del Terzo Mondo. Anche la Ward, poi, sosteneva che era necessario, da parte della Chiesa, un recupero «dell’amore umano nella vita personale»60. Nel 1967 il cardinale Villot avvertì i vescovi che, pur non essendo abilitati a discutere della regolazione delle nascite, erano invitati dal papa a fargli pervenire per iscritto il loro parere sull’argomento: pare, da notizie non ufficiali, che l’80% dei delegati abbia risposto a favore del rinnovamento61. I pronunciamenti a favore della contraccezione si susseguirono anche nel mondo laico: la rivista dei gesuiti statunitensi «America» diede notizia che larghi settori dei medici cattolici erano favorevoli al rinnovamento, e così si pronunciò pure il III Congresso mondiale per l’apostolato dei laici, che in un documento reclamò il diritto dei genitori di scegliere liberamente i mezzi tecnici per controllare le nascite: «Questo giudizio [sul numero dei figli] lo devono formulare davanti a Dio gli sposi stessi»62. Il papa lavorava aiutato da due consiglieri personali, il teologo Carlo Colombo e il gesuita Gustave Martelet, conosciuto per i suoi articoli sulla regolazione delle nascite; l’ultimo vescovo ed esperto consultato da Paolo VI durante questa fase finale della redazione fu Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, considerato uno specialista di morale coniugale63. Anche dal punto di vista demografico, il 1968 è un anno decisivo: esce il fortunato libro di Paul Ehrlich, The Population Bomb, Zizola, Genesi dell’enciclica «Humanae vitae», cit., p. 51. Ibid. 62 Cfr. ivi, p. 53. 63 J. Grootaers, Quelques données concernant la rédaction de l’encyclique «Humanae vitae», in Paul VI et la modernité dans l’Église, cit., pp. 385-398. 60 61

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che darà il nome alla «bomba demografica», e nasce il prestigioso Club di Roma, che lancia allarmi sui pericoli della sovrappopolazione e fa previsioni drammatiche sul futuro. Sei anni dopo, nel 1974, alla Conferenza sulla popolazione mondiale di Bucarest, il family planning – dizione preferita al più controverso «controllo», che allude inoltre a una pratica molto in auge, la pianificazione economica – viene innalzato dall’Onu al rango di obiettivo fondamentale. In questo clima, in cui l’attesa diventava facilmente una forma di pressione in senso innovativo, nell’anno fatale della ribellione studentesca e dell’inizio di quel percorso di liberalizzazione dei comportamenti sessuali giovanili che doveva caratterizzare la modernità occidentale, Paolo VI, il 29 luglio 1968, rese nota l’enciclica Humanae vitae, che confermava in sostanza, senza possibilità di ambiguità, l’insegnamento tradizionale della Chiesa in tema di matrimonio e di contraccezione. Il papa, nelle prime pagine dell’enciclica, spiega di non avere accettato i risultati emersi dai lavori della commissione pontificia, sciolta nel 1966, e un riferimento a questo travaglio personale torna pochi giorni dopo, il 31 luglio, nel discorso all’udienza generale: «Quante volte abbiamo trepidato davanti al dilemma di una facile condiscendenza alle opinioni correnti, ovvero di una sentenza male sopportata dalla odierna società, o che fosse arbitrariamente troppo grave per la vita coniugale» e poi con drammatica sincerità: «Mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del Nostro ufficio [...] dovevamo rispondere alla Chiesa [...] all’umanità intera». La lunga preparazione dell’enciclica, l’accidentato iter con il susseguirsi di esperti e di commissioni, la fatica per la pesante responsabilità più volte confessata dal papa dimostrano come ci fosse in Paolo VI e nei suoi collaboratori più stretti la consapevolezza dell’importanza storica di questa decisione, non solo nei confronti dei cattolici, ma di tutti i popoli del mondo. Il confronto con la modernità, che il Concilio aveva cercato di rendere più aperto, veniva messo alla prova, subito dopo la chiusura del consesso, con uno degli argomenti più difficili, la sessualità. Questo era il campo, infatti, in cui la secolarizzazione aveva agito in modo più incisivo, facendo sì che i comportamenti sessuali nei paesi occidentali si allontanassero sempre di più dal modello morale

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cristiano che li aveva regolati per secoli, e naturalmente questo aveva conseguenze determinanti sulla famiglia. Ma non era solo questione di comportamenti: stava cambiando in modo radicale la concezione stessa di atto sessuale, che viene analizzato e studiato come un fenomeno biologico – e in questo senso non diverso da quello degli animali – e proprio per questo considerato così necessario all’equilibrio vitale umano da renderlo indispensabile e quindi non sottoponibile a regole che sembrano provenire da sfere completamente diverse e separate come quella religiosa. Del resto, anche le scienze umane, come la psicoanalisi, riconoscono alla sessualità umana un ruolo decisivo al di là della riproduzione. Quanto la Chiesa doveva accettare di questo rinnovamento avvenuto interamente al di fuori della sua orbita culturale, e, in caso di rifiuto del cambiamento, quanto sarebbe costato in perdite di fedeli? Le discussioni avvenute nel mondo cattolico in attesa dell’enciclica avevano reso evidente come la cultura moderna secolarizzata avesse influenzato anche i cattolici, che volevano riportare nell’ambito della decisione e dell’affettività individuale ogni scelta relativa alla sessualità, cancellando quello che era stato uno dei tratti innovatori del cristianesimo: l’ingresso di Dio nel legame fra uomini e donne, la valorizzazione del rapporto sessuale che derivava da quella del corpo umano, indissolubilmente legato allo spirito dall’Incarnazione. Il passaggio centrale dell’enciclica, quello su cui si scatenò immediatamente il dibattito, fu la condanna della contraccezione farmaceutica, così formulata: «Dio ha sapientemente disposto leggi e ritmi naturali di fecondità che già per sé distanziano il susseguirsi delle nascite. Ma, richiamando gli uomini all’osservanza delle norme della legge naturale interpretata dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita»64. Tale dottrina infatti, continua l’enciclica, è fondata «sulla connessione inscindibile che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo»65. Il vocabolario è nuovo, il papa non parla più di fini ma di significati, ma permane il rifiuto di se64 65

Humanae vitae, n. 11. Ivi, n. 12.

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pararli, allo scopo di dare valore all’amore fra gli sposi più che alla funzione procreativa. In questo passaggio, si vede l’intenzione di mantenere al matrimonio cristiano quel carattere di sacralità che gli veniva dall’aprirsi all’azione di Dio nella procreazione. Paolo VI non vuole che il matrimonio si riduca alla valorizzazione di un sentimento umano, se pure il sentimento più alto, l’amore: gli sposi devono riconoscersi «non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal Creatore»66. C’è una importante innovazione: l’enciclica sottolinea il valore positivo dell’atto coniugale come espressione di amore, e quindi viene considerata positivamente la sua espressione, cioè l’atto sessuale praticato anche nei periodi non fecondi; e questo diversamente dal passato, anche recente, quando i rapporti che avevano luogo in momenti sicuramente non procreativi, come la gravidanza o la menopausa, venivano considerati una mancanza di controllo di sé e di mortificazione. Nel mondo cattolico la delusione degli innovatori è cocente, e non si guarda all’apertura dell’enciclica sulla regolazione delle nascite attraverso il metodo detto «naturale» di individuazione dei periodi non fecondi – metodo ancora imperfetto sul quale il papa chiede agli scienziati di proseguire gli studi – ma solo alle sue chiusure. Quello che viene criticato è innanzitutto il metodo adottato dal papa, che non ha tenuto conto delle conclusioni della maggioranza della commissione, né dei pareri della maggioranza dell’episcopato: subito dopo il Concilio, che sembrava avere aperto la Chiesa a una nuova dimensione di collegialità, Paolo VI impone la scelta pontificia come indiscutibile, e ribadisce il suo dovere, e diritto, di autorità magistrale. Le formulazioni usate – «l’insegnamento della Chiesa», «la dottrina della Chiesa», «la Chiesa insegna» e così via – non lasciano dubbi sull’impegno diretto del magistero. Il dissenso invece «esprime la nuova coscienza di tutte le componenti ecclesiali e il loro bisogno di partecipare alla vita religiosa in termini non burocratici»67 e quindi quello che viene messo in discussione dai critici è proprio il ruolo del magistero ecclesiale: molti cattolici, in varie parti del mondo, si opponIvi, n. 13. G. Gozzer, Regolazione, magistero, tecnologie, in Zizola, Zarri, Gozzer, Donizetti (a cura di), La questione della pillola, cit., p. 141. 66 67

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gono all’idea di dover accettare l’insegnamento dell’enciclica come moralmente impegnativo, dando origine alla «più preoccupante forma di dissenso che la Chiesa cattolica abbia conosciuto negli ultimi secoli»68. Gli oppositori si appellano al principio della non vincolabilità della coscienza del cristiano, e si apre la questione sull’infallibilità dell’insegnamento papale, come se ci fosse da un lato la legge e la sua eteronomia e dall’altro la coscienza individuale come unico criterio di giudizio morale. Cottier difende il papa, chiarendo che «una coscienza ben formata integra in maniera riflettuta e personale i diversi apporti della legge morale, della quale il magistero è interprete autorizzato»69. Il 1° agosto «Le Monde» riassume così le prime reazioni all’enciclica: «Sia che approvino, o che siano costernati, la stupefazione domina in Vaticano dopo la pubblicazione dell’enciclica sulla contraccezione»; stupore, costernazione, delusione sono le parole che dominano le reazioni della stampa, mentre il dibattito passa presto dal problema della contraccezione a quello dell’autorità pontificia70. Il piano della discussione, da teologico e morale, comincia a scivolare sempre più sul piano disciplinare. Paolo VI interviene su questo problema nella lettera che indirizza all’82° Katholikentag, il raduno dei cattolici tedeschi, che si tiene il 30 agosto 1968: «Si vorrebbe fosse lecito, ad ognuno nella Chiesa, di pensare o credere ciò che gli piace. Non si prende invece in considerazione che al servizio della verità si mette pienamente soltanto chi si subordina al magistero della Chiesa». Ma i membri del forum, che discutono su matrimonio e famiglia, voteranno a maggioranza una risoluzione secondo la quale essi «non possono secondo coscienza sottostare alla richiesta di obbedienza alle decisioni del papa nella questione dei mezzi di controllo delle nascite»71. Le critiche in generale toccano due punti, entrambi fondamentali per la Chiesa: il diritto del papa sia di decidere indipenIvi, p. 150. Cottier, Régulation des naissances, cit., p. 10. 70 Cfr. J.-L. Pouthier, Les réactions de l’opinion publique française à l’encyclique «Humanae vitae», in Paul VI et la modernité dans l’Église, cit., pp. 417418. 71 D. Tettamanzi, La risposta dei vescovi alla «Humanae vitae», Ancora, Milano 1969. 68 69

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dentemente dal parere della commissione e degli organi collegiali della gerarchia ecclesiastica, sia di intervenire in una sfera intima come il rapporto fra i coniugi. Il primo punto si riallacciava direttamente alle speranze nate nel corso dei lavori conciliari di una gestione più collegiale della Chiesa e soprattutto di una importanza nuova conferita alla voce dei laici, a cui si rispondeva invece con una decisione autonomamente presa dal papa in aperto contrasto con la maggioranza dei cattolici, clero compreso, che richiedeva di fatto obbedienza anche se non si condivideva la condanna dei contraccettivi. «Il fatto è che alla Chiesa non compete né il sì né il no ai contraccettivi: compete insegnare al cristiano ‘le fonti’ del suo comportamento di fronte ai contraccettivi», scrive Giovanni Gozzer, intellettuale cattolico critico nei confronti dell’enciclica72. Il secondo punto riguardava invece un problema ben più grave, cioè il valore da dare alla sessualità e il concetto stesso di amore coniugale: non basta l’amore a dare significato spirituale al matrimonio – è questa l’intuizione di Paolo VI – ma di esso fa parte, ed è costitutivo di senso, il potere di generare altri esseri umani, parte integrante del mistero supremo dell’amore divino. Così, e solo così, «l’amore coniugale si radica nel mistero di Dio»73. L’incomprensione fu tale che l’enciclica, concepita come strumento risolutore di una crisi – cioè l’incertezza sulla portata esatta dell’insegnamento del magistero sulla contraccezione –, fu considerata come la causa che l’aveva provocata. Per alcuni, infatti, l’enciclica era venuta a interrompere lo sviluppo armonioso della dottrina conciliare sull’amore coniugale e a turbarne il corso: il tono personalista adottato da Gaudium et Spes, la sua scelta di abbandonare il linguaggio dei fini del matrimonio e introdurre come positivo il concetto di «paternità responsabile» sembravano indicare una linea di apertura smentita dall’enciclica. L’Humanae vitae, che si propone di essere una ricapitolazione e unificazione fra la Casti connubii e i documenti conciliari, risulta essere invece un grido di allarme sulla contraccezione, considerata un pericolo per l’amore. Gozzer, Regolazione, cit., pp. 116-181. G. Martelet, Essais sur la signification de l’encyclique «Humanae vitae», in Paul VI et la modernité dans l’Église, cit., pp. 399-415, 402. 72 73

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Il 20 ottobre 1968, in un lungo articolo sull’«Osservatore Romano», il cardinale Felici difende la continuità fra l’enciclica e il Concilio: se il Vaticano II fornisce il quadro generale dell’enciclica, Paolo VI ha preso qui una posizione più concreta sul significato dell’atto coniugale e sulla sua finalità. In sostanza, scrive Mattheeuws, l’Humanae vitae vuole solamente «portare a compimento il Concilio, e non abolirlo»74. Uno dei temi più discussi fu l’ancoramento della moralità alla legge naturale, considerato da molti una ripresa acritica di Casti connubii, in cui Dio e la natura si confondevano come fonti della legge morale, rivelando un carattere assoluto e statico. Secondo la Gaudium et Spes i criteri morali, invece, derivavano «dalla natura stessa della persona e dei suoi atti», prendendo le distanze così dall’enciclica di Pio XI che dava alla legge naturale una connotazione essenzialmente fisica. Paolo VI fa sua la concezione di legge naturale conciliare, più legata a una idea di natura umana: «usando di questo dono divino [cioè l’atto di amore reciproco] distruggendo, anche soltanto parzialmente, il suo significato e la sua finalità, è contraddire alla natura dell’uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua volontà»75. Perché «il disegno di Dio si rivela, agli sposi, attraverso queste leggi fisiologiche assolutamente inviolabili»76. L’uomo non ha potere illimitato sul suo corpo, soprattutto «non ha alcun potere sulle funzioni biologiche che servono alla trasmissione della vita»77, perciò gli sposi, afferma l’enciclica, sono «ministri del disegno stabilito dal Creatore» e devono adeguarsi alle leggi e ai ritmi naturali, considerati come segno dell’ordine stabilito da Dio. Gli sposi sono ministri di un disegno che li supera: essi trasmettono una vita che non creano. I critici, come Adriana Zarri, sostengono invece che «è la stessa natura che ci suggerisce la contraccezione, mostrandoci quanto spesso agisca ‘a vuoto’, da un puro punto di vista demografi-

Mattheeuws, Union et procréation, cit., p. 131. Humanae vitae, n. 13. 76 Ivi, n. 10. 77 Häring, Crise autour de l’«Humanae vitae», cit., p. 81. 74 75

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co»78. Essi non vogliono afferrare la novità di una legge naturale ma umana, e insistono nelle osservazioni già avanzate, ma più timidamente, nei confronti della Casti connubii: «Più che rispettare la natura bisogna rispettare l’uomo e il cristiano; bisogna rispettare il progetto di Dio per la salvezza della persona umana»79 in una interpretazione della prospettiva personalista «che mette l’uomo, non già la natura, al centro del discorso»80, ragione per cui non sembra avere più molto rilievo il problema delle tecniche. I difensori dell’enciclica spiegano da parte loro che la norma si esprime nella condizione naturale, ma non si riduce a questa: «La norma morale dell’azione umana non sta nell’ordine del cosmo. E non sta neppure nella natura biologica [...]. La legge morale naturale non può essere che antropologica: deriva dal senso dell’uomo, dal senso delle relazioni interumane. Tiene conto della natura biologica ma la riferisce al compimento dell’uomo. Di conseguenza, non può prescrivere nulla in nome della legge naturale che non si possa giustificare dal punto di vista dell’uomo e del suo proprio bene»81. Come ha chiarito uno degli autori dell’enciclica, Martelet, «il biologico nel sessuale è talmente legato all’umano che il rispetto del biologico condiziona a questo punto il rispetto dell’umano»82. Da questa «umanizzazione» della sessualità derivava un concetto di desiderio ben diverso dall’istinto animale di Kinsey: per la cultura cattolica, infatti, il desiderio «è infinito e cerca nell’altro ciò che questo rappresenta e promette, ma senza esserlo né poterlo donare»83. Cioè, apre a qualcosa di più grande della coppia amorosa, che si presenta in primo luogo sotto la figura del figlio, per poi aprirsi verso «l’unica Presenza che esaudisce il desiderio, cioè Dio fra di loro»84. Non si tratta, quindi, di rispetto irrazionale e sacrale di una na78 A. Zarri, La «Humanae vitae» e la teologia del matrimonio, in Zizola, Zarri, Gozzer e Donizetti (a cura di), La questione della pillola, cit., p. 99. 79 Ivi, p. 99. 80 Ivi, p. 101. 81 H. Bouillard, Autonomie humaine et présence de Dieu, citato in Mattheeuws, Union et procréation, cit., pp. 119-120. 82 G. Martelet, Pour mieux comprendre l’encyclique «Humanae vitae», in «Nouvelle Revue Théologique», 90, 1968, p. 1025. 83 Mattheeuws, Union et procréation, cit., p. 137. 84 Ibid.

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tura divenuta tabù, come denunciano molti critici, ma piuttosto del senso dell’uomo come unità indivisa di carne e spirito. Proprio per questo «l’atto carnale è un atto umano»85. Ben diversa, e cioè sostanzialmente positiva, fu l’accoglienza dell’enciclica nei paesi del Terzo Mondo, e in particolare in America Latina, dove fu vista come una coraggiosa e libera dissociazione della Chiesa dall’ideologia antinatalista dei ricchi paesi occidentali, che essi sperimentavano in quegli anni concretamente con le sterilizzazioni forzate imposte dagli organismi internazionali86. A questo proposito si può citare un film boliviano di quegli anni – Yawar Mallku, realizzato nel 1969 dal regista boliviano Jorge Sanjinés, uscito in Italia nel 1974 con il titolo Sangue di condor – che affrontava proprio il problema della sterilizzazione di massa compiuta sulle donne indigene. Si trattava di un film di chiara pedagogia rivoluzionaria, corredato da brani rivoluzionari: insieme ai pensatori marxisti, era citata l’Humanae vitae87. Paolo VI, nel suo discorso alle Nazioni Unite del 1965, aveva messo in luce come la dottrina malthusiana fosse sostanzialmente conservatrice perché non metteva in discussione la distribuzione delle ricchezze, e quindi la sua applicazione andava a favore dei privilegiati: l’«eccedenza» di popolazione era costituita dai poveri o, nel caso in questione, dai paesi sottosviluppati. Chi accusava Paolo VI di impedire lo sviluppo dei paesi sottosviluppati condannando la pillola lo faceva in base a una ideologia che difendeva precisi interessi sociali88: «Né si potrebbe senza grave ingiustizia rendere la divina Provvidenza responsabile di ciò che dipendesse invece da minore saggezza di governo, da un senso insufficiente della giustizia sociale, da egoistico accaparramento o ancora da biasimevole indolenza nell’affrontare gli sforzi e i sacrifici necessari per assicurare l’elevazione del livello di vita di un popoIvi, p. 139. Si veda in proposito L’Enciclica e il terzo mondo, in G. Ceriani e G. Concetti, Commento all’enciclica «Humanae vitae», Quaderni di orientamento pastorale, n. 18, Milano 1968. 87 Dà notizia del film Giovanni Maria Vian nel suo intervento al convegno Educazione, intellettuali e società in G.B. Montini-Paolo VI, i cui atti sono stati pubblicati a cura dell’Istituto Paolo VI, Brescia 1992, p. 250. 88 Cottier, Régulation des naissances, cit., p. 106. 85 86

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lo e di tutti i suoi figli»89. Proprio per questo, scrive Cottier, il problema demografico ci fa prendere coscienza «del carattere rivoluzionario dell’etica cristiana»90. Indubbiamente l’enciclica rivela una concezione pessimistica della debolezza umana, a differenza di coloro che concedevano piena fiducia alla forza morale delle coscienze individuali: Non ci vuole molta esperienza per conoscere la debolezza umana e per comprendere che gli uomini – i giovani specialmente, così vulnerabili su questo punto – hanno bisogno d’incoraggiamento ad essere fedeli alla legge morale e non si deve loro offrire qualche facile mezzo per eluderne l’osservanza. Si può anche temere che l’uomo, abituandosi all’uso delle pratiche anticoncezionali, finisca per perdere il rispetto della donna e, senza più curarsi del suo equilibrio fisico e psicologico, arrivi a considerarla come semplice strumento di godimento egoistico e non più come la sua compagna, rispettata e amata.91

Si tratta di un ragionamento che va nella direzione opposta a quella verso cui si era volta la cultura moderna, di libertà sempre più larga per i desideri e le scelte individuali, suscitando quindi reazioni molto negative. Ben diversa, almeno da quanto traspare dall’enciclica, la reazione che aveva auspicato Paolo VI: «Noi pensiamo che gli uomini del nostro tempo sono particolarmente in grado di affermare il carattere profondamente ragionevole e umano di questo fondamentale principio»92, cioè l’unione fra amore e procreazione. Paolo VI non riuscì a farsi capire, a farsi ascoltare, dagli «uomini del nostro tempo», perché le sue parole non riuscirono a superare il muro di delusione e di protesta che si era alzato contro l’enciclica anche fra i cattolici. Il dialogo fra gli innovatori delusi e la Chiesa, a rileggerlo oggi, sembra un dialogo fra sordi, tanto che questa rimane l’enciclica meno ricordata dalla Chiesa stessa fra quelle del Novecento, quasi un brutto incidente da dimenticare. Nonostante ciò, le tesi dell’enciclica sono state riprese dal magistero della Chiesa negli anni successivi. La condanna dell’interHumanae vitae, n. 23. Cottier, Régulation des naissances, cit., p. 120. 91 Humanae vitae, n. 17. 92 Ivi, n. 12. 89 90

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vento umano nella procreazione, stabilita qui con recisione, ma del resto già anticipata senza ambiguità da Giovanni XXIII nell’enciclica Mater et magistra – «La vita umana è sacra: fin dalla sua origine, ella coinvolge direttamente l’azione creatrice di Dio»93 – costituirà un precedente importante per la morale cattolica non solo nei confronti del controllo delle nascite, ma anche delle tecniche di fecondazione artificiale e di manipolazione degli embrioni che si affermeranno alla fine del Novecento, e la concezione qui espressa di legge naturale, una concezione di stampo personalista ma comunque legata a una idea di natura umana da rispettarsi perché creata da Dio a sua immagine e somiglianza, sarà ripresa e sviluppata da Giovanni Paolo II. Uno dei più tempestivi e coraggiosi difensori dell’enciclica è stato infatti proprio il cardinale Wojtyla, che abbiamo già segnalato come uno dei consulenti di Paolo VI. Wojtyla, del resto, era uno dei pochi cardinali che si era occupato di morale sessuale in un libro intitolato Amore e responsabilità, uscito in polacco nel 1960 e poi tradotto in altre lingue europee94. Nel libro Wojtyla affronta temi come «l’analisi della parola godere», «la libido e il neomalthusianismo», «l’analisi della sensualità» e «la castità e il risentimento» con una chiarezza e spregiudicatezza di linguaggio a cui la tradizione cattolica non era certo abituata. La sua definizione della tendenza sessuale dà largo spazio alla interezza della persona – «La tendenza sessuale è la fonte di ciò che ‘si verifica’ nell’uomo, dei diversi avvenimenti che hanno luogo nella sua vita sensoriale o affettiva senza la partecipazione della sua volontà. Questo prova che essa fa parte dell’essere umano totale e non soltanto di una delle sue sfere o facoltà. Permeando tutto l’uomo, essa ha il carattere di una forza, che si manifesta non soltanto attraverso ciò che ‘si verifica’ nel corpo dell’uomo, nei suoi sensi o sentimenti, senza la partecipazione della volontà, ma anche attraverso ciò che vi si forma con il suo concorso»95 – si contrappone a «uno spirito ipnotizzato dall’ordine biologico»96. Il futuro papa Mater et magistra, n. 13. Prima edizione italiana: K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Vita e Pensiero, Milano 1968. 95 Ivi, p. 37. 96 Ivi, p. 47. 93 94

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critica il concetto freudiano di libido per la sua stretta correlazione «all’atteggiamento utilitarista»97, che conferisce all’atto sessuale un significato prettamente egocentrico: «La sola sensualità non è dunque amore e può anche molto facilmente divenire il contrario dell’amore»98. Ma non per questo egli condanna la sessualità né il corpo: «Conviene precisare che esiste una differenza tra l’‘amore carnale’ e l’‘amore del corpo’ perché il corpo, in quanto elemento della persona, può anche essere oggetto d’amore e non soltanto di concupiscenza»99. In conclusione, dopo avere denunciato l’errore di una cultura che «rifiuta di riconoscere il grande valore della castità per l’amore»100, egli si avvia a confutare l’idea, sempre più diffusa, che «la mancanza di rapporti sessuali è nociva alla salute dell’essere umano in genere, e a quella dell’uomo in particolare. Ma non si conosce una sola malattia che possa confermare la veridicità di questa tesi»101, mentre – continua – «le nevrosi sessuali sono soprattutto conseguenza degli eccessi nella vita sessuale e si manifestano quando l’individuo non si conforma alla natura e ai suoi processi»102. Questo libro dimostra come Wojtyla, anche prima dell’enciclica, avesse visto il pericolo – da cui avrebbe messo in guardia l’Humanae vitae – di lasciare il problema dell’atto coniugale e della parentela responsabile al di fuori della sfera etica e di togliere così all’uomo la responsabilità di azioni profondamente radicate nella sua struttura personale. Nell’articolo che scrive in difesa dell’enciclica sull’«Osservatore Romano» egli riprende l’interpretazione personalista dell’atto coniugale, che si deve realizzare al livello della persona e della sua dignità, e sostiene che non c’è identificazione fra l’amore coniugale e la sua espressione privilegiata, l’atto sessuale: «Questo amore si esprime anche nella continenza – anche periodica – perché l’amore è capace di rinunciare all’atto coniugale, ma non può rinunciare al dono autentico della perso-

Ivi, p. 53. Ivi, p. 97. 99 Ivi, p. 136. 100 Ivi, p. 154. 101 Ivi, p. 280. 102 Ibid. 97 98

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na»103. Dieci anni dopo, poco prima di diventare papa, Wojtyla scrive di nuovo sull’enciclica, cercando di spiegare «la visione integrale dell’uomo» di cui parla Paolo VI e di mostrare cosa fa la «dignità della persona»: l’uomo non è un essere diviso perché «l’essere e il valore devono costituire insieme il principio ermeneutico dell’uomo»104. L’uomo e la donna, quindi, devono vivere l’atto coniugale nella verità: questa verità interiore dell’atto indicata dal testo dell’enciclica. Consapevole del malessere che ha accompagnato l’apparizione dell’Humanae vitae, malessere ancora vivo dieci anni dopo, appena divenuto papa Wojtyla realizza il progetto di Paolo VI di convocare un sinodo sulla famiglia, che si tiene nel settembre del 1980. Nel corso dell’assemblea sinodale ha l’occasione di riprendere le tesi dell’enciclica contestata, che definisce profetiche, e presentare quelle che diventeranno le proposizioni dell’esortazione apostolica Familiaris consortio, da lui emanata nel 1982. Qui sviluppa in chiave personalista gli argomenti dell’enciclica: l’amore implica l’uomo tutto intero – la sessualità «non è qualcosa di puramente biologico, ma concerne la persona umana in quello che ha di più intimo»105 –, e il matrimonio ha carattere sacro perché tocca la più profonda essenza dell’uomo, il punto in cui è legato a Dio. Il vocabolario dei fini del matrimonio viene messo da parte definitivamente, mentre la concezione di sessualità che emerge dal documento è veramente e pienamente umana, legata alla persona, che non può mai essere utilizzata come oggetto106. In questo contesto, il corpo acquista una positività completa, legata allo spirito nell’unità: il principio personalista implica che tutte le dimensioni dell’essere umano partecipino della dignità personale, e siano quindi oggetto di rispetto, e mai considerate come puri strumenti. Per Giovanni Paolo II la sessualità, intimamente legata alla persona, è il segno corporale della donazione totale della persona nel suo porsi in relazione con un’altra persona. 103 K. Wojtyla, La verità dell’enciclica «Humanae vitae» di Paolo VI, in «L’Osservatore Romano», 5 gennaio 1969. 104 K. Wojtyla, La visione antropologica dell’«Humanae vitae», in «Lateranum», 44, 1978, pp. 125-145, 130. 105 Familiaris consortio, n. 11. 106 Mattheeuws, Union et procréation, cit., p. 184.

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L’attenzione del papa a questo tema è testimoniata anche dalle catechesi che tiene a partire dal maggio 1984 sul tema «l’amore umano nel piano di Dio», in cui cerca di mettere in relazione la verità e l’etica ripercorrendo le radici della concezione del corpo nella tradizione scritturistica. Durante il pontificato di Giovanni Paolo II è avvenuta anche la svolta nella ricerca scientifica auspicata da Paolo VI, cioè la scoperta di un metodo di regolazione delle nascite basato sul periodo infecondo mensile facile da applicare e sicuro. La notizia però nel mondo sviluppato non è uscita dall’ambiente cattolico, e anche lì non è stato sufficientemente diffuso in paesi occidentali come l’Italia, mentre ha avuto molto più successo nel Terzo Mondo. Da noi, infatti, i metodi naturali sono sempre stati considerati non solo totalmente inefficaci, ma anche scomodi e difficili da applicare. Del resto, essi avevano anche un’altra caratteristica, sottaciuta, che ha contribuito alla loro scarsa diffusione: il fatto di essere gratuiti. Nessuna casa farmaceutica aveva infatti interesse a finanziare ricerche su questa forma di controllo delle nascite, che conveniva piuttosto coprire di ridicolo e di discredito. Ma una coppia di medici australiani di Melbourne – Evelyn e John Billings, lui di antica ascendenza cattolica irlandese, lei convertitasi al cattolicesimo con il matrimonio – ha dedicato la propria vita a questa ricerca, ottenendo, fin dal 1964, risultati importanti. Il nuovo metodo naturale che ha preso il loro nome non è complicato e scarsamente efficace come quello della temperatura o dei ritmi ovulativi fino a quel momento sperimentati, ma al contrario è semplice e sicuro. Si tratta infatti di un metodo semplicissimo, senza costi, basato sulla conoscenza del proprio corpo che ogni donna deve essere preparata ad avere. Per chi ricorda il discorso delle femministe sulla riscoperta dell’apparato sessuale femminile – negli anni Settanta Noi e il nostro corpo consigliava alle donne di prendere uno specchio e di esplorare il proprio sesso – questo metodo sembra perfetto: la donna controlla la sua potenza procreatrice attraverso la conoscenza di sé, senza l’intermediazione di medici e medicine, in perfetta autonomia. Invece le femministe hanno sempre snobbato il metodo Billings. Intanto, però, il metodo si è diffuso nel mondo: la coppia australiana è arrivata a fondare centri anche in Cina, dove il governo ha subito capito l’utilità di un metodo gratuito e privo di effetti

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collaterali per la salute delle donne e in India, dove il metodo è stato insegnato da madre Teresa di Calcutta e dalle sue suore. Lo scarso entusiasmo che il metodo sembra suscitare nei ricchi e moderni paesi occidentali si può forse spiegare con il modello di comportamento sessuale considerato auspicabile: il metodo Billings, infatti, presuppone una fedeltà di coppia, una sessualità vissuta insieme e con responsabilità di entrambi, molto lontana dal mito della completa libertà sessuale e della separazione fra sessualità e procreazione radicato nelle società occidentali.

4. Donne e Chiesa, fine di un’alleanza Lungo tutto il Novecento, dunque, la riflessione teologica e l’interlocuzione della Chiesa con i fedeli si sono esercitate su nodi delicati, che avevano il loro fulcro nel corpo delle donne e nelle loro capacità procreative. Intorno a questi temi antiche e nuove alleanze tra donne e Chiesa hanno conosciuto rinsaldamenti e lacerazioni, i cui ritmi possono essere scanditi con date precise. Luglio 1902. Nel pomeriggio afoso della campagna romana una ragazzina di dodici anni cuce nel pianerottolo esterno della casa colonica dove abita con la madre, i fratelli e un’altra famiglia di contadini. Poco più in là lavora nei campi uno dei giovani con cui divide il casolare. Né il calore pesante del sole, tuttavia, né la fatica della terra sono capaci di smorzare nel ragazzo un istinto che è cresciuto proprio negli anni di convivenza e che ora prende il sopravvento: egli guarda la fanciulla, le si avvicina, l’afferra. Al suo rifiuto e alla sua reazione la colpisce più volte con un punteruolo e la uccide. La storia di Maria Goretti, dalla morte alla canonizzazione, si compone di narrazioni e scansioni diverse, che si incastrano perfettamente nei tempi e nei tratti distintivi del cattolicesimo del Novecento. Offre anzi il materiale più efficace e plasmabile per mettere a punto un modello forte di virtù e di santità, che la Chiesa porgerà all’imitazione delle donne – di tutte le donne – per lunga parte del secolo. Ogni narrazione dispone diversamente i personaggi sulla sce-

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na, e li caratterizza con tratti e luci adeguati alla drammatizzazione scelta. A riferire per primo i fatti è «Il Messaggero», quotidiano laico e borghese di Roma, che prende a protagonista l’assassino, Alessandro Serenelli, e ne fa il mostro, la bestia sfuggita alla civilizzazione urbana e rimasta soggetta alla violenza e all’ignoranza che dominano il mondo contadino107. È il tempo, l’inizio del nuovo secolo, della modernità esaltante e plurale, in cui le nuove scienze dell’uomo cercano e identificano con puntiglio e soddisfazione i degenerati, sempre preda di istinti aberranti e sempre lontani dal progresso inarrestabile della società. Nella ricostruzione offerta dalla cronaca, il mostro è dunque al centro della scena. Ma è il tempo anche, per la Chiesa, della competizione con una morale borghese sempre più rigida nell’affermazione di un sistema patriarcale tutto politico, cioè privo di fondamenta etiche e religiose108; e della lotta contro le utopie socialiste, che riprendono le crude analisi elaborate dai nuovi scienziati – medici, psichiatri, filosofi materialisti, antropologi – per proiettarle in un futuro in cui l’abbattimento del capitalismo porrà le basi della vera uguaglianza. È un precetto dell’uomo verso se stesso, che deve osservare rigorosamente, se vuole svilupparsi in modo normale e sano, di non lasciare inerte alcun membro del suo corpo e di non negare il proprio soddisfacimento ad alcun stimolo naturale. Ogni membro deve compiere la funzione alla quale venne destinato dalla natura, quando non si voglia che venga guastato l’intero organismo. [...] Le così dette passioni animali non occupano un gradino più basso delle così dette passioni morali, perché così le une come le altre sono l’effetto dello stesso organismo complessivo ed esercitano una vicendevole influenza. Ciò vale tanto per l’uomo quanto per la donna.109

107 Si veda «Il Messaggero», 7 luglio 1902, citato in M. Turi, La costruzione di un nuovo modello di comportamento femminile. Maria Goretti tra cronaca e agiografia, in «Movimento operaio e socialista», 3, 1987, cui si rimanda per tutta l’analisi della vicenda. 108 Cfr. supra, cap. V. 109 A. Bebel, La donna e il socialismo (1889; 1a ed. italiana 1891), Max Kantorowicz, Roma 1892, pp. 100-101.

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Il libero amore propugnato dal socialismo anticipa dunque motivi che decenni più tardi saranno ripresi con ben maggior vigore da Reich, ma nella pratica si limita spesso alla registrazione del matrimonio civile più che a una promiscuità senza leggi né regole110. L’enfasi posta sui diritti sessuali delle donne lo rende tuttavia particolarmente inquietante, meritevole di una risposta salda e adeguata. Altri diritti intanto hanno minato l’egemonia cattolica sui comportamenti femminili; codificando il matrimonio su un terreno esclusivamente laico, i sistemi giuridici moderni hanno abolito l’istituto della promessa, rendendo di fatto i rapporti prematrimoniali privi di qualunque conseguenza legale111. La Chiesa – per secoli protettrice delle giovani che accettavano rapporti carnali in vista delle nozze – deve ora cercare altre forme di tutela delle prospettive matrimoniali delle donne: sceglie allora di scavalcare gli ostacoli giuridici, di rincorrere la rigidità morale delle nuove borghesie, di asserire con vigore inedito la necessità dell’illibatezza. L’assassinio di Maria Goretti diventa allora provvidenziale nel suo offrire allo stato puro gli elementi necessari alla nuova predicazione. La stampa cattolica reagisce con qualche ritardo agli avvenimenti, il tempo utile forse a metabolizzare l’accaduto e a mettere a punto la versione più consona al messaggio da veicolare: nell’ottobre 1902, quasi quattro mesi dopo i fatti, il giornale cattolico «La Vera Roma» commenta: «Un’eroina appena dodicenne precoce già nella bellezza delle forme ma più in quella delle cristiane virtù: un’eroina che sa difendersi dagli assalti di un bruto frenetico e si lascia trafiggere da 14 colpi di coltello anziché lasciar macchiare la sua verginale purità, è uno di quegli esemplari che vanno segnalati alla pubblica venerazione. Inneggino pure liberalescamente gli ammiratori panegiristi di Emilio Zola a quelle altre che si suicidano insieme ai complici del loro disonore. [...] ora è la nostra volta. È la volta dei cattolici e degli onesti»112. La versione cattolica dispone gli attori su un palcoscenico con nuove lu110 Cfr. Storia della famiglia in Europa. Il Novecento, a cura di M. Barbagli e D.I. Kertzer, Laterza, Roma-Bari 2005. 111 Cfr. supra, cap. V, par. 2. 112 «La Vera Roma», 26 ottobre 1902, citato in Turi, La costruzione di un nuovo modello di comportamento femminile, cit., p. 227.

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ci, e la polemica antimoderna è esplicita. Il mostro che affascinava i lettori borghesi del «Messaggero» ora è in ombra, mentre tutti i riflettori sono puntati su Maria, l’eroina, il simbolo della purezza come assoluto. La verginità di Maria Goretti rifulge proprio in contrapposizione al disordine che regna ormai nella società modernizzata, dove le stesse ragazze difese un tempo nel loro uso della sessualità prematrimoniale sono ora esempio della corruzione dei costumi, derivata a sua volta – nella visione degli ambienti cattolici – dagli stili di vita urbani che travolgono i valori tradizionali del mondo contadino trascinando spesso nell’infamia della prostituzione le giovani sprovvedute arrivate in città; la verginità di Maria Goretti non è quella delle martiri che difendevano la propria purezza consacrata in una scelta religiosa definitiva; la sua verginità è un valore cui immolarsi solo per il carattere illecito della proposta ricevuta, in una prospettiva tutta terrena che non esclude il matrimonio e una pratica legittima della sessualità. Nel 1935 prende avvio la causa di beatificazione di Maria Goretti, che vede in Alessandro Serenelli, l’assassino, il principale sostenitore e argomentatore della santità della fanciulla: «Il torto è stato tutto mio perché mi feci accecare da una brutale passione. E lei fece bene a resistere per conservare la sua innocenza. Era proprio innocente. A quei tempi le bambine non erano come adesso: erano semplici e buone, soprattutto nelle campagne»113. La scena è cambiata: tutti i personaggi mostrano tratti nuovi, occupano spazi diversi. La belva umana bollata nei primi resoconti è ora un penitente, e la fanciulla che ha difeso la verginità a costo della vita ha perso lo smalto di un sacrificio pienamente consapevole, è tornata bambina; e accanto a lei si staglia con un protagonismo inedito la figura della madre, cui man mano viene attribuito tutto il merito della santità della figlia. La madre cristiana, la vedova onesta ha trasmesso alla figlia i principi morali che l’avrebbero portata alla gloria degli altari: «L’eroismo della madre spiega perfettamente quello della figlia: l’uno è copia dell’altro». La verginità non basta più. Nel modello che la Chiesa ha confezionato per le donne emerge dirompente la figura materna. 113

Ivi, p. 231.

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Nell’Europa degli anni Venti e Trenta è in atto una ridefinizione delle identità maschili e femminili in base agli schemi più tradizionali, nel tentativo di cancellare i mutamenti indotti dalla prima guerra mondiale: le donne devono tornare a occuparsi della casa lasciando agli uomini i posti di lavoro occupati durante il conflitto, gli uomini devono tornare senza incertezze a esercitare il loro potere nella cosa pubblica e in una famiglia possibilmente sempre più numerosa. È compito della Chiesa elaborare la dimensione morale della femminilità, assecondando così anche quel processo di femminilizzazione della fede che avanza per tutto il Novecento e che, pur riguardando tutte le religioni, è particolarmente forte nel mondo cattolico114. Da più di un secolo scrittori cattolici avevano sottolineato le responsabilità materne nell’educazione dei figli, ribaltando radicate diffidenze verso la natura femminile115; ora si tratta però di attribuire alla maternità un senso esclusivo, di farne lo scopo, la missione, il destino univoco della vita delle donne. Alle madri è affidato il compito di educare spiritualmente i figli e di trasmettere loro la fede e la morale cristiana quasi in contrapposizione ai padri, contaminati dalla secolarizzazione che dilaga ormai nella scena pubblica: «Degne e ferme, [...] voi mostrerete coraggiosamente i pericoli, voi stigmatizzerete gli atti contrari all’onore e alla morale, nonostante le parole di una società corrotta voi evocherete la voce della coscienza e in caso di mancato effetto farete scorrere le lacrime»116. Vergine pronta al sacrificio, madre oblativa, la donna cattolica sa ormai che il proprio corpo è votato a una riproduttività senza scelta: «Le vere donne sono quelle che sanno di rinuncia, di pietà, di abnegazione», affermerà Lia Zanzucchi Ceccato in una conferenza alle madri di Azione Cattolica. «Ma abnegazione e rinuncia connotano, in primis, la sessualità femminile: ‘sante donne del dovere’ sono definite ‘quelle che subiscono l’amplesso con la paura 114 A. Bravo, La nuova Italia: madri fra oppressione ed emancipazione, in Storia della maternità, a cura di M. D’Amelia, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 151; si veda anche Donne e fede, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Laterza, Roma-Bari 1994. 115 Cfr. M. D’Amelia, La mamma, Il Mulino, Bologna 2005. 116 Conseils sur l’éducation, in «Petit Echo», supplemento all’organo mensile della Ligue patriotique des Françaises, 25, 1921, p. 2.

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di una nuova gravidanza’»117. Il piacere, anche quello legittimo del talamo coniugale, è diventato sottomissione, sacrificio, annullamento di sé; per le donne il sesso è esclusivamente maternità. Quando, nel 1950, si giunge alla canonizzazione di Maria Goretti il modello – non solo il modello agiografico, ma anche il tracciato entro cui deve prendere senso la vita di tutte le donne – è definitivo. La guerra ha spazzato i regimi totalitari e con essi la valorizzazione in chiave nazionalistica delle responsabilità domestiche e riproduttive delle donne; per i cattolici tuttavia la sfera femminile rimane ancora più saldamente delimitata dalle responsabilità familiari, estese semmai alla maternità «sociale» dell’associazionismo e della carità. La norma cattolica ha irrigidito la definizione dei generi, la separatezza tra sfera pubblica e privato familiare, la flessibilità secolare dei propri criteri di applicazione. Le donne accettano in maggioranza il modello offerto, che nella sua ambiguità costitutiva di imporre ed esaltare il sacrificio le colloca da protagoniste in un sistema morale capace di travalicare gli angusti recinti della loro esistenza quotidiana. Sono loro, le donne, a riempire le chiese, riconoscendosi in un credo e in un’istituzione da cui si sentono ancora protette e valorizzate; sono loro ad adeguarsi docilmente agli orientamenti dei partiti cattolici risorti nel dopoguerra, fino a essere percepite come temibili alleate degli schieramenti più conservatori nella battaglia per il riconoscimento del diritto di voto118. Poi, lentamente, cercheranno di conquistare lievi margini di autonomia in una trattativa serrata e silenziosa tra precetti religiosi e coscienza individuale. Nel corso degli anni Cinquanta mutamenti quasi invisibili nella loro percezione di sé, insofferenze taciute verso un modello ancorato al destino biologico e riproduttivo, aspettative confuse e progettualità da elaborare su percorsi esistenziali che sembrano aprirsi agli scenari dell’istruzione e del lavoro scavano un solco tra il modello cattolico e i soggetti fem-

117 F. Koch, La madre di famiglia nell’esperienza sociale cattolica, in D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, cit., p. 255. 118 Cfr. G. Galeotti, Storia del voto alle donne in Italia. Alle radici del difficile rapporto tra donne e politica, Biblink, Roma 2006; Donne alle urne. La conquista del voto, a cura di M. D’Amelia, Biblink, Roma 2006.

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minili119. Fino a quando l’irrompere delle culture libertarie e dei movimenti femministi non porrà con nuovi linguaggi il tema dei diritti e della dignità delle donne anche e soprattutto nell’ambito sessuale, smascherando ipocrisie sedimentate e rendendo evidente che l’alleanza tra Chiesa e genere femminile poteva nascondere anche un universo di taciti accordi tra singole donne e confessori. 1971. Una periodizzazione artificiale, una data simbolica che non ha corrispondenza diretta con avvenimenti sociali o istituzionali; ma che avvia scoperte, inquietudini, mutamenti profondi anche se spesso poco visibili nella vita delle donne. Come nel caso della storia della masturbazione120, l’origine risiede in un fenomeno editoriale: un gruppo di donne pubblica a Boston Noi e il nostro corpo121, un libro nato da una lunga esperienza di discussione, insegnamento e scambi nelle sedi più diverse di aggregazione femminile: scuole, asili, chiese, case private. Obiettivo dell’impresa è la conoscenza: una conoscenza attiva e partecipata, secondo lo spirito del tempo ma anche secondo il carattere peculiare dell’oggetto di indagine. Nel campo della sessualità la conoscenza del corpo, dell’anatomia e della fisiologia del piacere ha un’importanza decisiva. Ben prima delle donne di Boston l’avevano capito i gesuiti del Seicento122, poi, nell’Ottocento, i socialisti propugnatori del libero amore come Bebel, e nel Novecento i medici dalle utopie rivoluzionarie come Kinsey o Masters e Johnson; ma i gesuiti si rivolgevano esclusivamente al clero impegnato nella confessione o nella riflessione teologico-morale, i socialisti ai militanti da formare, i sessuologi al circuito scientifico e a un’opinione pubblica espressa da una classe media acculturata e prevalentemente maschile. La novità di Noi e il nostro corpo è quella di rivolgersi alle donne, coinvolgendole in un’esperienza conoscitiva condivisa, comunicabile, 119 Cfr. S. Piccone Stella, La prima generazione. Ragazzi e ragazze nel miracolo economico italiano, Franco Angeli, Milano 1993. 120 Cfr. supra, cap. V. 121 The Boston Women’s Health Book Collective, Noi e il nostro corpo. Scritto dalle donne per le donne (1971), Feltrinelli, Milano 1974. 122 Cfr. supra, cap. III.

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rassicurante, ricca di implicazioni pratiche immediate. Il successo è immediato ed enorme: il libro viene tradotto in venti paesi di tutti i continenti, vende – cifra straordinaria per il mercato editoriale dell’epoca – più di cinque milioni di copie, raggiunge quindi almeno il triplo di lettrici, tocca un’intera generazione. Le giovani donne che lo leggono hanno un cammino già lungo e contraddittorio alle spalle. Le loro madri hanno vissuto il pesante conformismo che pervadeva i rapporti sociali e le relazioni di genere nel periodo tra le due guerre; le loro sorelle maggiori, negli anni Cinquanta, hanno fatto sesso contrattando puntigliosamente toccamenti e penetrazioni nel buio solitario di incontri rubati, subordinando ogni soddisfacimento all’obiettivo matrimoniale123. Loro, molte delle ragazze che insieme leggono e discutono Noi e il nostro corpo, hanno da elaborare disagi inconfessati, sottili ma brucianti delusioni. Hanno conosciuto – per esperienza diretta o molto più spesso per la suggestione offerta dai mass media – la stagione «libertaria» del movimento hippy, che nella seconda metà degli anni Sessanta affollava le strade di alcune metropoli, e i prati dei molti raduni di giovani rapiti dal sogno di una comunità innocente, in cui gli scambi sessuali sembravano voler rafforzare fratellanza e solidarietà più che sperimentare nuove forme di erotismo. Una stagione breve, che ha lasciato eredità importanti nel campo della produzione artistica e soprattutto musicale, nella diffusione delle droghe e della cultura ad esse collegata; che poco tuttavia ha sedimentato sui portati della propria primitiva promiscuità, se non, forse, per un aspetto: la percezione e l’uso della nudità. Le ragazze e i ragazzi che si spogliavano nei concerti e nei raduni mostravano i loro corpi senza sottomettersi – almeno in apparenza – ai canoni di un’estetica che allora come oggi subordinava il nudo alla seduzione sessuale: la loro nudità simboleggiava anzi un’uguaglianza estranea a canoni estetici come a intenti seduttivi, e risultava così completamente de-erotizzata. La ricerca del piacere sessuale non nasceva da una nuova percezione del corpo, era demandata semmai al sussidio tutto esterno delle droghe. 123 Cfr. M. Pelaja, Il cambiamento dei comportamenti sessuali, in A. Bravo, M. Pelaja, A. Pescarolo e L. Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001.

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L’eros torna poco dopo nelle relazioni tra ragazze e ragazzi di quella generazione: torna con il Sessantotto, che proietta i comportamenti giovanili su un terreno più consapevolmente politico e che – soprattutto dal nostro punto di vista – reintroduce violentemente la questione del potere. Anche in questo caso la memoria e la ricerca storica non hanno tematizzato esplicitamente la sessualità124: l’hanno spesso sfiorata, evocando incontri improvvisi, legami intrecciati, traditi, dimenticati nella fragorosa euforia della protesta collettiva. Perché l’utopia di un mondo nuovo tutto da costruire smantellando le ipocrisie che reggono la «società borghese» ha una ricaduta immediata e dirompente anche sulla morale sessuale; sembra far svanire quel senso di colpa che da secoli aveva soffocato ogni rapporto estraneo alla legittimità matrimoniale. Si tratta in realtà di un processo che secondo alcuni storici si era avviato in molti paesi cattolici a partire dalla fine degli anni Cinquanta, nella direzione di un’«autonomia dei soggetti in quanto fedeli nel campo della sessualità»125; ma quell’«ondata di soggettivismo sessuale» aveva toccato in misura più profonda i temi della contraccezione, lasciando ancora in ombra le scelte e le implicazioni connesse alla pratica del sesso fuori dal matrimonio. Tanto più travolgente allora la rivolta contro un «sistema» di cui è parte integrante una famiglia per sua natura autoritaria e repressiva126, e l’affermazione di modelli libertari in cui i rapporti sessuali diventano leggeri, svincolati da impegni e progettualità. Ma i movimenti del Sessantotto – anch’essi segnati da una dimensione fortemente comunitaria127 – sono al tempo stesso attraversati da disuguaglianze e gerarchie. I collettivi, le assemblee e più tardi i gruppi sono aggregazioni divise al loro interno tra il ca124 Cfr. tra l’altro, per l’esperienza italiana, Un anno durato decenni: vite di persone comuni prima, dopo e durante il ’68, a cura di F. Cerocchi, Odradek, Roma 2006; R. Braidotti et al., Baby boomers. Vite parallele dagli anni Cinquanta ai cinquant’anni, Giunti, Firenze 2003; L. Passerini, Autoritratto di gruppo, Giunti, Firenze 1988; A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Laterza, Roma-Bari 2008. 125 G. Zizola, Il modello cattolico in Italia, in P. Ariès e G. Duby (a cura di), La vita privata, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 260. 126 Cfr. H. Marcuse, L’autorità e la famiglia, Einaudi, Torino 1970; R.D. Laing, La politica della famiglia, Einaudi, Torino 1974. 127 Cfr. F. Socrate, Una morte dimenticata e la fine del Sessantotto, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 1, 2007.

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risma di pochi leader e l’entusiasmo gregario dei seguaci; e tra le ambizioni politiche o cospirative degli uomini e l’energia operativa delle donne. «Angeli del ciclostile», come si definiranno qualche tempo dopo, le donne parlano poco durante le riunioni ma collaborano generosamente ai volantinaggi e all’organizzazione dei cortei, scandiscono slogan, partecipano alle occupazioni; vivono una disponibilità sessuale spensierata, componente non separabile del pacchetto emancipatorio offerto loro dalla militanza. La seduzione entra allora nei giochi dell’appartenenza e della partecipazione alle cerchie sempre più ristrette dei leader, i quali sembrano esercitare un inconfessabile diritto di prelazione. Per le donne la conquista e l’affermazione di una libertà che pare a portata di mano passano anche attraverso esperienze confuse, in cui il piacere si mescola spesso a un senso di sperdimento, inadeguatezza, nuova subalternità. Le differenze di genere rimangono visibili e crudeli, all’interno dei movimenti e in quegli strati sempre più ampi della società in cui gli echi della nuova libertà sessuale sembrano sollevare i veli di conformismi ormai anacronistici, raccogliere esigenze taciute ma lampanti. A nessuno tuttavia pare necessario aggiornare i modelli delle relazioni di genere ed elaborare le basi di una morale diversa: non alla Chiesa ufficiale, impegnata a discutere e diffondere i precetti su procreazione e contraccezione promulgati dall’enciclica di Paolo VI128; non ai numerosi gruppi della dissidenza cattolica, interessati a rifondare le basi teologiche e istituzionali del cattolicesimo; tanto meno ai partiti ufficiali della sinistra e ai movimenti del Sessantotto, accomunati dalla convinzione che il mondo nuovo nato dall’egemonia del proletariato e dalla rivolta antiautoritaria comporterà automaticamente l’uguaglianza nel rapporto tra i sessi. Toccherà alle donne. Alle prime, riunite in gruppi radicali e isolati, lontani dalle aggregazioni della sinistra, si affiancano via via le militanti deluse dall’esperienza nelle vecchie e nelle nuove organizzazioni e convinte della necessità di riflettere in autonomia sulla differenza sessuale; si aggiungono poi le donne, molte, moltissime, che si avvicinano per la prima volta alla politica e la urla128

Cfr. supra, par. 3.

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no con allegria in piazze gremite e colorate. Le prime avviano subito una riflessione sulla sessualità, criticando con la foga rabbiosa delle pioniere tutti gli scienziati maschi teorici delle varie rivoluzioni sessuali (Reich, Kinsey, Masters e Johnson), ma anche i movimenti giovanili dell’ultimo decennio: «La delusione che il femminismo ha avuto anche sui movimenti hippies deriva dal fatto che il giovane che non fa la guerra, ma l’amore finisce per ristabilire suo malgrado quel funzionamento che lo conferma difensore del nucleo primario del patriarcato. [...] L’invito all’amore è una formula pericolosamente affascinante perché attribuisce nuovo valore, candore, alone taumaturgico al modello sessuale maschile, rafforzando così il mito della bontà arcaica della coppia e dei relativi ruoli»129. Non è risparmiata neanche la falsa emancipazione proposta dalla sinistra: «È importante per noi affermare il proprio sesso e non solo averlo soddisfatto. Che significato liberatorio può avere la soluzione offerta dalla donna emancipata? In presunta parità con l’uomo che pone in atto tecniche diverse per variare il piacere sessuale, essa vede sì soddisfatto il suo orgasmo clitorideo, ma le manca la presa di coscienza di stare esprimendo una sessualità in proprio. Resterà perciò ugualmente succube dell’uomo e del modello sessuale maschile»130. La strada che le donne devono percorrere per conquistare la liberazione è ancora una volta quella della conoscenza: «La donna vaginale è restia a indagare sul sesso perché, avendolo collegato col sentimento, ha paura di privarlo della trascendenza di cui l’ha circondato. L’uomo, naturalmente, è dietro le quinte e si assicura che non venga tolto al suo oggetto il valore di una sconoscenza che lo rende pregiato e inoffensivo. L’uomo fa affidamento sul sentimento della donna perché lei goda, e non sulla conoscenza della sua sessualità»131. L’accento delle teorizzazioni più radicali è assertivo e vagamente minaccioso; ben più accogliente appare lo stile comunica129 C. Lonzi, La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di rivolta femminile, Milano 1971; cito qui l’edizione del 1974, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Scritti di rivolta femminile, Milano 1974, pp. 131132. 130 Ivi, p. 86. 131 Ivi, pp. 87-88.

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tivo scelto dalle autrici di Noi e il nostro corpo, frutto di una lunga pratica di confronto fra donne. «Dal nostro corpo noi muoviamo verso il mondo. L’ignoranza, l’insicurezza – nella peggiore delle ipotesi, la vergogna – della nostra identità fisica ci alienavano e ci impedivano di raggiungere la nostra completezza»132. La critica all’emancipazione rimane decisa: «La rivoluzione sessuale [...] ci ha dato a intendere che dobbiamo essere in grado di far l’amore impunemente, senza angoscia, in qualunque condizione e con chiunque, se non vogliamo essere dei mostri. Queste prospettive alienanti e disumane non sono meno distruttive e degradanti del puritanesimo vittoriano che abbiamo ripudiato così sdegnosamente»; ma la conoscenza è inserita in una visione intensamente relazionale – etica, ma non oblativa – della sessualità femminile: «Vogliamo distruggere i miti che ci reprimono; vogliamo aiutarci reciprocamente a crescere per diventare individui completi, capaci di avere rapporti chiari ed affettivamente validi. Prima di poter amare un’altra persona, dobbiamo imparare ad amare noi stesse. Se ci rendiamo esatto conto dei nostri bisogni, se accettiamo lealmente la nostra sessualità, libereremo una enorme quantità di energia per un lavoro e una vita soddisfacenti»133. Con le sue spiegazioni serene e il suo profondo rispetto per le differenze che passano – senza dividerle – tra le donne, il libro segna l’avvio di una riflessione che le giovani donne degli anni Settanta condurranno insieme sulla sessualità, sul desiderio, sulla dignità femminile. Una riflessione che non si chiude nelle mura – forse elitarie, certamente urbane – dei collettivi femministi, ma che è capace anzi di diffondersi per osmosi in tutta la società, la quale sembra assorbirne avidamente almeno gli enunciati più generali. In Italia i risultati dei referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981) segnano una svolta epocale, rendendo evidenti esigenze e consapevolezze inaspettate. Le donne sono uscite dal conformismo morale che obbligava molte di loro a subire la propria fertilità; si riconoscono come soggetti titolari di diritti e capaci di scelte autonome, non intendono più veder esaltato un modello di femminilità per loro ormai estraneo. 132

The Boston Women’s Health Book Collective, Noi e il nostro corpo, cit.,

p. 13. 133

Ivi, p. 42.

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Come ogni conquista di libertà o di emancipazione, l’affermazione di una nuova disponibilità sessuale svincolata dalla procreazione richiede consapevolezza e responsabilità alle persone coinvolte; reclama strumenti di conoscenza del corpo e del suo valore, configurazioni etiche in grado di fornire senso a incontri altrimenti gratuiti o ancora strumentali. L’andamento carsico dei movimenti femministi impedirà a questa ricerca di coagularsi, di essere trasferita non soltanto attraverso la comunicazione personale e soggettiva. Mentre le piazze si svuotano e i collettivi si esauriscono, molte donne di quella generazione si dedicano al lavoro intellettuale o alla testimonianza autobiografica, ma riusciranno a trasmettere alle loro figlie soltanto un metodo, un impegno, la prospettiva di un conflitto quotidiano. Nella società individualizzata e frantumata dei decenni successivi sembra non esserci spazio – o all’opposto sembrano aprirsi voragini difficili da colmare – per sistemi morali che in una prospettiva laica siano capaci di fondere dignità e autonomia delle donne, rispetto della conoscenza e del godimento, salvaguardia del profondo valore relazionale di ogni incontro sessuale.

CONCLUSIONI

Quasi tutte le culture hanno fatto ricorso alla religione per governare la sessualità e conferirle un senso simbolico. La sessualità si presenta agli esseri umani come contraddittoria: da un lato potente origine della vita, dall’altro forza oscura che si impadronisce dell’uomo, gli fa perdere la padronanza di sé, e quindi deve essere domata. L’impeto della passione infatti può minacciare la debole coerenza dell’io: le religioni forniscono i mezzi più efficaci per salvaguardare la sua integrità e controllare la violenza degli istinti. Le più antiche attitudini umane nei confronti della sessualità sono state la divinizzazione e la sacralizzazione, entrambe espressioni della percezione dell’amplesso come di una esperienza superiore, divina, per l’energia del desiderio e l’estasi del piacere, per la partecipazione al potere fecondante. Il monoteismo, stabilendo la trascendenza del sacro, implica la desacralizzazione delle potenze vitali e sessuali. Il cristianesimo si differenzia tuttavia dagli altri monoteismi a causa dell’Incarnazione, e inaugura così un nuovo modo di dare senso spirituale all’atto sessuale. Dio che si è fatto carne, i corpi che resuscitano, i corpi visti come tempio dello Spirito Santo conducono infatti a una complessità nuova del rapporto con la carne, che diventa essa stessa parte e strumento del cammino spirituale che ogni cristiano deve compiere. Per la cultura cristiana, il desiderio dell’altro fa parte della dimensione corporea, ed è quindi positivo, perché in essa si rispecchia la volontà di Dio. Il comportamento sessuale diventa allora un altro percorso dell’evoluzione spirituale, sia nella via ascetica, sia in quella matrimoniale: e in tale percorso si intrecciano naturalmente carne e spirito, sentimenti ed eros. Se queste sono le fondamenta della visione cristiana della sessualità, è possibile però – anche leggendo questo libro – intrave-

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dere un’ambiguità, una contraddizione di fondo in quello che è stato il concreto dispiegarsi storico della politica ecclesiastica nei riguardi della sfera sessuale, o almeno un’oscillazione che ha spesso indotto a privilegiarne gli aspetti svalutativi, e dunque la repressione, rispetto alle sue potenzialità di strumento verso il divino. Dalle mortificazioni che i monaci medievali infliggevano al proprio corpo alle infinite declinazioni dei peccati della carne poste al centro dei penitenziali prima, e dei manuali dei confessori dopo l’introduzione della confessione auricolare, una parte preponderante della predicazione e della preoccupazione cristiana si muoveva nel senso di umiliare il corpo e colpevolizzare il sesso, smentendo così l’assunto teologico di fondo. Proprio questo ha probabilmente generato il luogo comune della perenne sessuofobia della Chiesa che abbiamo messo in questione nel nostro studio. Fino a quando il diritto canonico ha conservato l’egemonia sulla regolamentazione dei comportamenti sessuali – dalla fine del Medioevo al Settecento – giuristi e teologi morali si sono applicati a mettere a punto un sistema normativo che definisse univocamente il matrimonio cristiano e che fosse in grado di garantire al suo interno sia il diritto al sesso sia il diritto al piacere, per entrambi i coniugi: a questo obiettivo erano orientati ad esempio i grandi trattati seicenteschi che abbiamo analizzato nel terzo capitolo. Ma si può dubitare, con fondamento, che le sofisticate casistiche elaborate dai canonisti del Cinquecento-Seicento rimanessero lontane dalle conoscenze e dalla sensibilità dei religiosi cui era demandata l’interazione quotidiana con il popolo dei fedeli. Nell’età del disciplinamento dunque, ma anche nei secoli successivi, i pastori d’anime hanno messo in atto una politica ispirata più alla diffidenza verso le pulsioni della carne che alla nobilitazione del corpo e dei suoi istinti vitali; una politica – come quella che abbiamo cercato di tratteggiare ad esempio nel quarto capitolo, a proposito della prostituzione, della masturbazione, della sodomia persino – le cui dimensioni prevalenti sembrano quelle della tolleranza o di un perdono generico, rassegnato alla ripetizione. Due atteggiamenti ispirati comunque al nesso sessualità/colpa/divieto. Questa sorta di ambivalenza della Chiesa nei confronti della sessualità ha radici antiche in Agostino, che lega la trasmissione del peccato originale all’amplesso: da quel momento in poi, è sta-

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to difficile sottrarsi del tutto a una immagine negativa dell’atto sessuale, anche se questo non veniva considerato male in sé, ma solo veicolo del male. Pur all’interno di una concezione positiva dell’atto sessuale, non si può negare che la Chiesa abbia sempre guardato al sesso con uno sguardo grave, che ha comportato il rifiuto o l’ignoranza della sua dimensione di leggerezza, di gioco o di gratuità, così come la sua idealizzazione ha portato all’accantonamento dei lati inquietanti, ambigui, disordinati del sesso. La tendenza cristiana a subordinare del tutto la sessualità alle categorie etiche o religiose rischia infatti di lasciare nell’ombra tutto un piano dell’esperienza sessuale, quello che oggi la società secolarizzata ripropone con forza, giungendo spesso alla sopravvalutazione dei legami sessuali. Il fatto che l’atto sessuale fosse caricato di importanti significati simbolici e spirituali è dimostrato anche dall’uso frequente e disinvolto che ne ha fatto la tradizione culturale cristiana in tutti i suoi aspetti – artistico, mistico, liturgico, teologico – almeno fino alla prima metà del Cinquecento. Fino a quest’epoca, infatti, l’unità fra corpo e spirito – se pure con qualche punta di disprezzo del corpo nella cultura monastica – si era mantenuta. È con la Riforma, che privilegia la parola scritta rispetto all’immagine e alla ritualità – due importanti dimensioni che coinvolgono il corpo – e mette da parte la castità e la verginità come vie spirituali, che inizia la secolarizzazione del mondo, a cominciare da quella della sessualità. Cade infatti l’idea che il rapporto con Cristo sia corporeo e che debba segnare il corpo dell’essere umano. Le pesanti critiche dei protestanti alla materialità del mondo cattolico hanno avuto però delle conseguenze soprattutto nella sfera artistica e spirituale: scompaiono le ardite metafore sessuali, la mistica – che nel cristianesimo è la trasformazione della concupiscenza umana verso la finalità dell’amore per Cristo come desiderio che vince gli altri desideri – è guardata con un certo sospetto, la carne, pur se continua a esistere e a risplendere nella sua dimensione corporea, viene in qualche modo contrapposta allo spirito, aprendo una contraddizione nella tradizione cristiana che suscita forme sempre più rigide di controllo sessuale – talvolta vicine alla sessuofobia – anche nel mondo cattolico. Un controllo che ha assunto però forme diverse di interlocuzione tra gli uomini e le donne. Se il cristianesimo delle origini – come si illustra nei primi due

Conclusioni

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capitoli – ha fermamente sostenuto una sorta di parità, per esempio offrendo a entrambi i sessi la possibilità di scegliere tra vita religiosa e vita coniugale; e se la teorizzazione post-tridentina sulla sessualità matrimoniale ha posto con insistenza l’accento sull’uguaglianza dei diritti tra i coniugi nel disporre del corpo dell’altro e nell’accedere alla soddisfazione sessuale, per altri aspetti e nel corso dei secoli l’atteggiamento della Chiesa ha mostrato differenze evidenti nel governo della sessualità maschile e di quella femminile. Ha considerato gli uomini – tutti, sia religiosi sia laici – esposti perennemente ad appetiti violenti e quasi indistinti, mutuando forse da quella concezione «idraulica» della sessualità maschile che affonda le sue radici nella fisiologia tardo-antica. Ha risposto dando la priorità al controllo, e spesso alla repressione, di un desiderio cieco e inconsapevole. La stessa riflessione sui vizi sessuali – dalla masturbazione alla sodomia – sembra trovare negli uomini i soggetti più vulnerabili e depravati, sottacendo spesso l’esposizione al peccato del desiderio femminile. Ben diversa, variegata e sottoposta ai mutamenti della storia, invece, la politica della Chiesa nei riguardi della sessualità femminile. La concezione che ha dominato fino a tutta l’età moderna collocava le donne in una sorta di penombra del desiderio: laide e sconce quando – ridotte alla fisicità passiva dei loro organi sessuali – erano poste a emblema della tentazione diabolica; esemplarmente caste e lontane dalle sollecitazioni della carne quando si trattava di difendere la scelta monacale dalle strategie matrimoniali di padri e casati; fragili e sensuali, ma soprattutto inclini a orientare innocentemente la disponibilità sessuale a fini diversi, quando occorreva mondare con il matrimonio la colpa di precipitosi cedimenti. È stato il diritto soprattutto a elaborare e a fornire alla Chiesa le figure e gli strumenti per una politica di protezione e di tutela nei confronti dei comportamenti sessuali delle donne; e fu proprio quando la Chiesa perse gli strumenti giuridici necessari ad attuare una politica del genere – con la fine del potere temporale, l’abolizione dei tribunali ecclesiastici, l’introduzione del matrimonio civile – che, nel passaggio tra Ottocento e Novecento, mutarono gli atteggiamenti del cattolicesimo verso la sessualità femminile. I rapporti prematrimoniali furono definitivamente interdetti, la verginità fisica divenne un imperativo senza margini di negoziazione. Così che la Chiesa degli ultimi decenni sembra affermare una nuo-

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va uguaglianza tra uomini e donne, paritariamente obbligati a rifuggire da ogni esperienza sessuale non conforme a una morale che ha abbandonato gli antichi strumenti del pragmatismo e della tolleranza per proclamare nuovi assoluti. Ma la posizione attuale della Chiesa nei confronti della sessualità è veramente oppressiva e «antimoderna»? Quali che siano le nostre opinioni personali, nel nostro lavoro di ricerca non ci siamo proposte di rispondere a questo quesito, che aleggia in tutti gli scritti – sia a favore sia contro – sul tema che abbiamo affrontato, come ben si sa un tema oggi particolarmente controverso e discusso. Abbiamo voluto consapevolmente sfuggire all’atteggiamento che Odo Marquard individua come specifico dell’epoca moderna, cioè la trasformazione della storia in un tribunale al quale «l’uomo sfugge solo identificandosi con esso»1. Abbiamo preferito non diventare un tribunale, né due tribunali in confronto fra loro, ma invece ricostruire il processo storico che ha portato fino alla situazione attuale sia la Chiesa sia i suoi critici. Nel ricorso alla storia che giudica infatti, abbiamo colto quello che si può considerare un luogo comune tipico della modernità: quello che fa sì che colui che accusa «assumendo il monopolio dell’accusa biasima, quanto al male nel mondo, gli altri uomini in quanto riluttanti all’emancipazione, in quanto cattivi uomini creatori, e li condanna immediatamente a diventare passato»2. La concezione rivoluzionaria dell’atto sessuale proposta dal cristianesimo delle origini e poi approfondita e articolata dalla Chiesa è stata considerata negli ultimi secoli obsoleta e dannosa: le scienze moderne – medici, antropologi, poi sessuologi – hanno elaborato una categoria astratta, quella di sessualità, da studiare come fenomeno a parte, e da disciplinare secondo criteri generali, che si sarebbero voluti scientifici ma che spesso sono diventati ideologici. A tali criteri si sarebbe dovuto conformare il comportamento dei singoli, magari con il sostegno e il consiglio degli «esperti». 1 O. Marquard e A. Melloni, La storia che giudica, la storia che assolve, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 80. 2 Ivi, p. 81.

Conclusioni

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Per lunghissimi secoli, la visione cattolica ha inserito invece il comportamento sessuale all’interno del cammino personale di purificazione e di santificazione che è compito di ogni cristiano, in quel fragile equilibrio tra corpo e anima che è costitutivo di una tradizione religiosa fondata sull’Incarnazione; ma anche all’interno di un sistema morale globale, costruito sugli enunciati generali del peccato e della sua condanna, e sulla distinzione del lecito dall’illecito. Almeno fino alla metà del Novecento queste due impostazioni non potevano comunicare fra di loro, perché erano per molti aspetti incommensurabili. Sarà solo quando la Chiesa – a partire dall’Humanae vitae, per proseguire più decisamente con la nuova proposta teorica di Wojtyla – comincia ad affrontare in termini astratti il problema del comportamento sessuale, che lo scontro si trasferirà su un terreno comune. Solo allora cioè diventerà chiaro che non si tratta semplicemente di una dialettica fra libertà e oppressione, tra emancipazione e oscurantismo, ma del conflitto fra due diverse concezioni di sessualità: l’una, quella laica, che colloca anche l’atto sessuale nella sfera della libertà individuale, l’altra, quella cattolica, che lo giudica e lo definisce come momento importante del percorso spirituale di ogni credente, un incontro fra anima e corpo che non si può sottrarre al rispetto delle regole religiose. L’una basata su un’analisi scientifica della sessualità e sull’autonomia del soggetto intesa come valore dominante, l’altra fondata sulla costituzione dell’individuo come soggetto morale in un sistema di norme definite. Per dirlo con le parole di Foucault, «il compito di mettersi alla prova, di analizzarsi, di controllarsi in una serie di esercizi ben definiti pone la questione della verità – della verità di ciò che si è, di ciò che si fa e di ciò che si è capaci di fare – nel cuore della costituzione del soggetto morale»3. Oggi – paradossalmente, vista l’asprezza del dibattito politicoideologico – è possibile forse un approccio meno conflittuale al problema, almeno dal punto di vista teorico. La differenza fra le due concezioni non costituisce più un momento bruciante di scontro nelle società occidentali, come è stato almeno fino alla 3

M. Foucault, La cura di sé, Feltrinelli, Milano 2006, p. 71.

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Due in una carne. Chiesa e sessualità nella storia

metà del Novecento: nei paesi «avanzati» sembra aver prevalso, nella mentalità comune, la proposta laica, ma questa nello stesso tempo è stata sottoposta a critiche da diversi punti di vista – quello femminile, ma anche quello di intellettuali laici come Marcel Gauchet4 – senza che ciò abbia comportato l’adesione alla visione cattolica, come sarebbe accaduto quando i due schieramenti si fronteggiavano polarizzati. Mentre sono caduti alcuni orpelli ideologici, e soprattutto l’illusione che la libertà sessuale costituisca di per sé una condizione fondamentale per la felicità individuale, altre categorie hanno subito slittamenti di collocazione e di significato: la natura, ad esempio, invocata dai teorici della rivoluzione sessuale come garante di una sessualità finalmente libera da condizionamenti sociali e religiosi, è diventata richiamo severo della Chiesa a un ordine immutabile nella procreazione; la sfera privata, difesa dai modernizzatori laici come ambito intoccabile di scelta individuale, appare prosciugata di senso e di valori, e sembra respingere soprattutto le donne in antiche solitudini, nel rapporto con il proprio corpo e con il proprio desiderio, nella scelta di maternità. È tempo, forse, che il comportamento sessuale torni a essere problema collettivo.

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M. Gauchet, L’enfant du désir, in «Le débat», 2004, pp. 98-119.

INDICE DEI NOMI Abelardo, Pietro, 19-20. Abramo, 16. Adagio, Carmelo, 270n. Adamo, 11-13, 16, 63, 91, 201. Agata, 93. Ago, Renata, 195n. Agostino, 4, 11, 12 e n, 13-14, 16-18, 29, 53, 55, 58, 67, 126, 160, 171, 225, 260, 272, 307. Alessandro VII (Fabio Chigi), papa, 191. Alessi, Giorgia, 209n. Alessio, 76. Alfonso d’Aragona, 45. Alfrink, Bernard Jan, 273. Alighieri, Dante, 52. Alipio, 11. Allegra, Luciano, 180n. Alonso de la Vera Cruz, 118 e n. Ambrogio, 31, 35, 36n, 53, 61, 62n, 64, 66 e n, 77 e n. Anastasia, 74. Angela da Foligno, 78. Anna, madre di Maria, 13, 92-93, 96. Anna, 74. Anselmo di Laon, 55 e n. Antoine, Gabriel, 169n. Antonelli, Giuseppe, 232. Antonino da Firenze, 136n. Antonio, abate, 11, 22-23, 25. Antonio, 167. Apollinaria, 74. Apollo, 26. Apponio, 49. Aprile, Antonio, 143-44. Aprile, Cattarina, 144. Ariès, Philippe, 151n, 301n. Aristotele, 119. Arnaldo (fra’), 78n.

Arru, Angiolina, 146n. Assagioli, Roberto, 248. Atanasia, 74. Atanasio di Alessandria, 22, 33, 34n. Atanasio, 39. Attila, 85. Austen, Jane, 204. Babini, Valeria Paola, 221n. Baisio, Guido de, 174 e n. Baldassari, Marina, 166n. Balthasar, Hans Urs von, 50 e n. Bandel Dragone, Francesca, 225n. Barbagli, Marzio, 115n, 295n. Barral i Altet, Xavier, 91n. Barthes, Roland, 113n. Barzizza, Gasperino, 97. Basilio di Ancira, 27, 28 e n. Batiffol, Pierre, 56n. Baumgartner, Agostino, 45. Beatrice, Pier Franco, 12n. Beatriz de Chávez, 77. Bebel, August, 294n, 299. Beda il Venerabile, 96. Belpassi, Sebastiano, 178. Benadusi, Lorenzo, 230n, 231n. Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini), papa, 89. Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa), papa, 253. Benedicto, 167. Benini, Camilla, 178. Benintendi, Attaviano, 167. Berlinguer, Luigi, 211n. Bernardi, Claudio, 88n, 267n. Bernardino da Siena, 162 e n. Bernardo di Chiaravalle, 49 e n, 50 e n, 51-52, 61-62, 97. Bernardo di Montemirato, 188.

314 Bernini, Lorenzo, 77, 80. Bertani, Agostino, 228 e n. Bertelli, Sergio, 114n. Besant, Annie, 236 e n. Betsabea, 16, 55. Bevegnati, Giunta (fra’), 78. Bianchi, Enzo, 65 e n. Billings, Evelyn, 292-93. Billings, John, 292-93. Bino, Carla, 88n, 267n. Blandina, 28. Boas, Franz, 264. Boer, Wietse de, 129n, 132n, 135n, 136n, 139n. Boigelot, 272. Bonaventura da Bagnoregio, 161 e n, 188. Bonfield, Lloyd, 114, 115n. Bonizone, 41 e n. Booz, 16, 55. Borgia, Francesco, 45. Borromeo, Carlo, 129, 131-32, 134-35, 139, 153. Bosco, Giovanni, 73-74. Bossuet, Jacques-Bénigne, 58. Bossy, John, 102n, 128n, 129n, 131n. Botteglio, Ludovico, 166. Bouillard, Henri, 286n. Bouvier, Jean-Baptiste, 250, 252. Bovet, Robert, 271. Braidotti, Rosi, 301n. Brambilla, Elena, 138n. Brandlaught, Charles, 236. Bravo, Anna, 207n, 297n, 300n, 301n. Brigida di Svezia, 85. Brown, Dan, 56. Brown, Peter, 4 e n, 32 e n, 34, 35n, 150n, 151n. Browne, Michael, 273. Brûlart, madame de, 133. Brundage, James Arthur, 103n, 104n, 112n, 161n, 163n, 171n, 172n, 174n, 175n, 176n, 179n, 181n, 187n. Buonarroti, Michelangelo, 91. Burcardo di Worms, 103, 152. Cabrol, 224. Caetano, cardinale (Tommaso De Vio), 135. Calvino, Giovanni, 69. Camerano, Alessandra, 183n. Campo, Cristina, 46 e n.

Indice dei nomi Cantalamessa, Raniero, 11n. Cantini, Lorenzo, 213n. Capito, Wolfgang, 88-89. Caramanico, principe di, 226. Cardini, Franco, 84n. Carrasco, Rafael, 166n. Casagrande, Carla, 121n. Casanova, Cesarina, 170n, 195n. Casilda de Padilla, 76-77. Cassiano, Giovanni, 24-25, 150, 151 e n. Catalina, 77. Caterina da Siena, 78-79, 133, 161, 162n. Cattaneo, Massimo, 167n. Cavallari, Alberto, 275. Cazzetta, Giovanni, 211n, 214n. Cecchi, Domenico, 159. Centanni, Monica, 114n. Cerbelaud, Dominique, 66 e n. Ceriani, Grazioso, 287n. Cˇ ernycˇevskij, Nikolaj, 204. Cerocchi, Francesca, 301n. Cerrato, Rocco, 270n. Chadwick, Owen, 240n. Chapelle, Albert, 75n. Chauncey, George jr, 229n. Chiniquy (padre), 251n. Chojnacki, Stanley, 113n. Cicerone, Marco Tullio, 18. Cipriano, 33 e n. Clemente di Alessandria, 16, 32. Clemente IV (Guy Le Gross Foulquois), papa, 44. Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini), papa, 118. Clemente XII (Lorenzo Corsini), papa, 213. Codronchi, Gian Battista, 219. Cohen, Sherrill, 178n, 183n, 184n. Colao, Floriana, 211n. Colombo, Carlo, 279. Colombo, Realdo, 123. Comboni, Daniele, 200-201. Comollo, Luigi, 73. Concetti, Gino, 287n. Corbin, Alain, 166n. Cosmacini, Giorgio, 221n. Costantino I, imperatore, 21, 36. Cottier, Georges M.M., 268, 283 e n, 287n, 288 e n. Courcelles, Dominique de, 78n.

Indice dei nomi Covarrubias y Leiva, Diego de, 174n. Cristellon, Cecilia, 113n, 115n. Cristina di Markyate, 75. Cunegonda, 76. dal Covolo, Enrico, 15n. Dalila, 16. D’Amelia, Marina, 297n, 298n. Danae, 70. Daniélou, Alain, 52, 53n. Darmon, Pierre, 194n, 195n. Darnton, Robert, 204n. Darwin, Charles, 244. D’Avack, Alessandro, 163n. Davide, re d’Israele, 16, 55. De Bougainville, L.A., 198, 199n, 244, 264. Decio, imperatore, 28. Dectot, Xavier, 91n. De Faenza, Giovanni, 176. De Giorgio, Michela, 109n, 205n, 207n, 217n. Dell, Floyd, 245. De Luca, Giovanni Battista, 142 e n. Delumeau, Jean, 126 e n, 130n, 131n, 133n. De Napoli, Ferdinando, 230, 231n. Diana, Antonino, 146. Diderot, Denis, 198 e n, 199 e n, 201. Dinzelbacher, Peter, 83n, 84n. Di Segni, Riccardo, 69 e n. Doms, Herbert, 259 e n, 260. Donizetti, Pino, 272n, 282n, 286n. Drysdale, George, 236-37. Duberman, Martin, 229n. Duby, Georges, 301n. Ecberto di Schönau, 19. Eco, Umberto, 47. Ecolampadio, Giovanni, 89. Ehrlich, Paul, 279. Eleonora d’Aragona, 109. Elias, Norbert, 124 e n. Ellis, Havelock, 201 e n, 241, 242 e n, 243-45, 248, 262. Eloisa, 19-20. Elvidio, 64, 66. Enfantin, Barthélemy-Prosper, 205. Enrico I, re di Germania, 75. Enrico II, imperatore, 76. Epifanio, 38 e n. Erasmo da Rotterdam, 45, 89, 90n.

315 Ercole d’Este, 109. Eufrosina, 74. Eugenia, 74. Euprassia, 34. Eusebio di Cesarea, 21 e n, 38 e n. Eustochio, 27, 34. Eva, 12-13, 16, 30, 65, 201. Evagrio, 23-25. Ezzelino da Romano, 85. Fabrizio-Costa, Silvia, 60n. Faivre, Alexandre, 36n. Felice, 18. Felici, Pericle, 285. Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, 211. Ferrante, Lucia, 114n, 171n, 174n, 175n, 178n, 183n, 184n. Ferraro, Augusto, 198n. Filippini, Nadia Maria, 220n. Filippo, 59. Filone di Alessandria, 22. Filoramo, Giovanni, 87n. Fiume, Giovanna, 69n, 209n, 226n. Flandrin, Jean-Louis, 103n. Flavio Giuseppe, 22. Folco di Neuilly, 181. Forel, Auguste, 247 e n, 248 e n. Formica, Marina, 167n. Fornari, Chiara Isabella, 81 e n. Fossati, Roberta, 270n. Foucault, Michel, VI, 151n, 170n, 227, 230n, 311 e n. Fouquet, Jean, 69. Fourier, Charles, 205. Francesca, 85. Francesco d’Assisi, 73. Francesco di Sales, 14, 133 e n. Francieschi, Luca, 112. Freeman, Derek, 265. Freud, Sigmund, 233, 241, 244, 263. Fromm, Erich, 263-66. Gabriele, 63-64. Galbiati, 138. Galeno, 21, 119. Galeotti, Giulia, 298n. Galilei, Galileo, 273. Gauchet, Marcel, 202 e n, 312 e n. Gaudemet, Jean, 103n, 107n, 115n, 173n, 186n, 195n, 206n. Gemelli, Agostino, 232, 254 e n, 255.

316 Gentile da Fabriano, 95. Gerson, Jean de, 153 e n. Gesù, 3, 5-6, 8, 10, 15, 22, 33-34, 48, 50, 52, 56-64, 66-67, 70-71, 78, 86, 89, 95-100, 146, 171. Giacobbe, 16. Giacomo, 63, 71, 92. Giami, Alain, 240n. Gibson, Mary, 228 e n. Giddens, Anthony, 204n. Gioacchino, 13, 92-93. Giorni, Secondo, 237n. Giotto, 72, 92-93. Giovanni, 59. Giovanni Battista, 61, 93. Giovanni Crisostomo, 27, 28 e n, 31 e n, 35 e n, 39 e n, 160. Giovanni Paolo II (Karol Wojtyla), papa, X, 276, 279, 289 e n, 290, 291 e n, 292, 312. Giovanni Teutonico, 172, 190. Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli), papa, 272, 289. Gioviniano, 35, 64. Girolamo, 16, 22, 25n, 29-30, 30n, 3435, 37, 38 e n, 53, 56 e n, 66 e n. Girolamo da Mula, 113. Giuda, 57-58. Giuda Tommaso, 21. Giuliani, Veronica, 79. Giuliano II, imperatore, 40. Giulio II (Giuliano della Rovere), papa, 178. Giuseppe, 13, 63-64, 66, 71-72, 92. Giuseppe II d’Austria, imperatore, 207. Giussani, Luigi, 270. Giustiniani, Lorenzo, 210n. Giustino, 63. Goethe, Johann Wolfgang von, 98, 204. Goody, Jack, 106n, 143n. Goretti, Maria, 216, 293, 295-96, 298. Gostanza, 84-85. Gozzer, Giovanni, 272n, 282n, 284 e n, 286n. Gragnolati, Manuele, 88n, 267n. Grassi, Lucio, 270 e n. Grassini Sarfatti, Margherita, 248. Graziano, 43 e n, 108, 172-73, 193. Gregorio di Elvira, 56. Gregorio di Nissa, 16, 28, 67 e n. Gregorio Nazianzeno, 30 e n.

Indice dei nomi Gregorio I Magno, papa, 151 e n. Gregorio VII (Ildebrando Aldobrandeschi di Soana), papa, 42, 243. Gregorio IX (Ugolino di Anagni), papa, 163, 181. Grelot, Pierre, 70 e n. Grootaers, Jan, 279n. Groppi, Angela, 171n, 180n, 183n, 185n. Grossatesta, Roberto, 152-53. Grün, Anselm, 52n, 82n. Guadagni, Giovanni Antonio, cardinale, 213. Guercino, 98. Guglielmo di Pagula, 189 e n, 190. Guidone, 44. Häring, Bernhard, 260 e n, 285n. Heemskerck, Maerten van, 99. Heenan, 279. Hefele, Karl Josef von, 44n. Hefner, Hugh, 267-68. Hildesheim, Johan von, 94. Holthöfer, Ernst, 146n. Hughes, Diane Owen, 108n, 109. Hugo, Victor, 251. Hureaux, Roland, 59 e n, 61. Hurtado, Gaspar, 118. Ida di Herzfeld, 75. Ignazio di Loyola, 45, 57. Ilarione, 25. Ildegarda di Bingen, 62. Incmaro, 106-108, 186. Infante, Renzo, 47n. Innocenzo I, papa, 37. Innocenzo X (Giovanni Battista Pamphilj), papa, 191. Institor, Heinrich, 83. Ippocrate, 119. Ippolito, 48. Ireneo, 12, 63. Isacco, 16, 90. Isaia, 47, 63. Isidoro di Siviglia, 40, 149. Israel, Gérard, 14n. Jacobelli, Maria Caterina, 88n, 90n. Jacopo da Varagine, 57 e n, 97. Jean de Meung, 44. Jeanne des Anges, 86. Jemolo, Arturo Carlo, 212n, 217n.

Indice dei nomi Jervis, Giovanni, 233n, 263n. Johnson, Virginia E., 267 e n, 299, 303. Kertbeny, Karl-Maria, 240. Kertzer, David I., 115n, 295n. Key, Ellen, 245, 246 e n, 247-48. Kinsey, Alfred C., IX, 266, 267 e n, 268, 286, 299, 303. Klapisch-Zuber, Christiane, 109n, 207n, 217n. Knaus, Hermann, 257. Knox, Dilwyn, 125n. Koch, Francesca, 298n. Krafft-Ebing, Richard von, 240 e n. Krug, Ludwig, 99. Labriola, Teresa, 238 e n. Laing, Ronald D., 301n. Langlois, Claude, 250n, 251, 252n, 253. Laqueur, Thomas W., 119n, 149n, 150n, 155n, 156n, 222n, 223. Lavaud, Benedetto, 272. Lavenia, Vincenzo, 126n. Lazzaro, 57-58. Lazzeri, Anna Maria, 114n. Lea, Henry Charles, 243. Leach, Edmund, 70 e n. Leclercq, Jean, 19n, 49n, 50n, 51n. Lecomte, 253. Leena, 29. Legendre, Pierre, 253n. Léger, 273. Lenin, Nikolaj, 204. Leonardi, Claudio, 78n. Leone I il Grande, papa, 37, 39, 40n. Leone IX (Brunone dei Conti di Egisheim-Dagsburg), papa, 42, 181. Leone X (Giovanni de’ Medici), papa, 140. Lessio (Leys), Leonardo, 175n. Lichtenstern, Robert, 230. Liguori, Alfonso de’, 132, 134, 136, 252. Lingiardi, Vittorio, 155n, 222n. Lizzi, Rita, 32n. Lombardi, Daniela, 107 e n, 113n, 114n, 207n, 209n, 212n. Lonzi, Carla, 303n. López, Pedro, 45. Luca, 63-64. Lucà Trombetta, Pino, 137n.

317 Luci, Monica, 155n, 222n. Luigi di Granata, 136, 153. Luigi IX il santo, re di Francia, 171. Luis de León, 54. Lupo, Paola, 170n. Lutero, Martin, 66, 69, 83, 85-86, 246. Macario, 24. Macrina, 31. Maddalena della Croce, 85. Majno, Ersilia, 238. Malaguti, Lucrezia, 178. Malena, Adelisa, 134n. Malinowski, Bronislaw, 245 e n, 264. Mandeville, Bernard de, 225 e n. Mansi, Giovanni Domenico, 41n. Mantegazza, Paolo, 230 e n, 242, 244. Mantegna, Andrea, 93, 99. Mantovani, Claudia, 239 e n. Maometto, 61. Marcella, 34. Marcellina, 35. Marchetti, Valerio, 119n, 196n, 230n. Marcione, 7, 59. Marcuse, Herbert, 263-64, 301n. Margherita da Cortona, 78. Maria, madre di Gesù, 13, 30, 52, 5758, 62-72, 74, 91-93, 296. Maria Egiziaca, 56-57. Maria Maddalena, 56-61, 93, 181. Maria Maddalena de’ Pazzi, 80 e n. Marina, 74. Marino, 159. Mariotti, Flavia, 133n. Marquard, Odo, 310 e n. Marta, 57-58. Martelet, Gustave, 279, 284n, 286 e n. Marten, John, 155-56, 223. Martin, Clyde E., 267n. Massimo il Confessore, 67 e n. Masters, William H., 267 e n, 299, 303. Mateu y Sans, Lorenzo, 196-97. Matilde di Ringelheim, 75. Matrona, 74. Matteo, 55, 63. Matter, E. Ann, 48, 49n. Mattheeuws, Alain, 258n, 260n, 274 e n, 285 e n, 286n, 291n. Matton, Sylvain, 60n. Mazzi, Maria Serena, 178n. Mead, Margaret, 264-65. Meier, John P., 63 e n.

318 Melania Iuniore, 27, 35. Melania Seniore, 27, 31. Melloni, Alberto, 310n. Menjot, Denis, 177n. Mercier, Desiré, 254. Merzario, Raul, 143n. Michelet, Jules, 251. Minuz, Fernanda, 221n. Montessori, Maria, 237. Moroni, Giovan Battista, 141n. Morresi, Assuntina, 262n. Muchembled, Robert, 220n, 223n, 224 e n, 229n. Murray, Jacqueline, 152n. Murri, Romolo, 248. Musatti, Cesare, 267 e n. Nardi, Carlo, 29n. Nelli, Ottaviano, 94. Neri, Filippo, 73. Niccoli, Ottavia, 114n, 157n. Niccolò I, papa, 109. Niccolò II (Gerardo di Borgogna), papa, 42. Nietzsche, Friedrich, 238, 243. Noonan, John, 277. Norton, Rictor, 229n. Ode de Bonne-Espérance, 75. Odofredo, 172. Ogino, Kyusaku, 257. Olimpiade, 27, 35. O’Malley, John W., 99 e n. Onan, 222, 252. Origene, 33-34, 46n, 48, 63. Ormaneto, Niccolò, 135. Orou, 198-99. Osea, 55-56, 59. Ottaviani, Alfredo, 273, 276. Ovidio Nasone, Publio, 51. Owen, Robert, 236. Pacomio, 26. Pacone, 23. Pafnuzio, 39. Paino, Antonio, 143. Paino, Pedrina, 143. Palazzi, Maura, 183n. Pantera, 69. Paola, 27, 34-35. Paolina, 75. Paolino di Nola, 18, 20.

Indice dei nomi Paolo, 3-4, 7-10, 17, 32, 34, 37, 52, 160, 197. Paolo III (Alessandro Farnese), papa, 110. Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 268, 272-73, 275, 276 e n, 27780, 282-85, 287-89, 291-92, 302. Parca, Gabriella, 269. Parent-Duchâtelet, Alexandre-JeanBaptiste, 225n, 226. Passerini, Luisa, 301n. Patlagean, Evelyne, 74n. Pavone, Sabina, 146n. Payan, Paul, 72n. Pelagia, 56, 74. Pelagio, 12, 34. Pelagio I, papa, 40. Pelaja, Margherita, V-VI, XI, 106n, 134n, 145n, 167n, 207n, 214n, 217n, 300n. Penuti, Carla, 124n. Perpetua, 28. Perry, Mary Elizabeth, 177n. Perseo, 70. Pescarolo, Alessandra, 207n, 300n. Petronilla, 37. Petronio Arbitro, 29. Petrus de Sampsone, 188n. Peyretti, Giulia, 245. Pezzi, Elisa, 201n. Piccone Stella, Simonetta, 299n. Pier Damiani, 42, 161. Pierre de Locht, 271. Pietro, 32, 37, 58. Pietro il Venerabile, 20. Pietro Leopoldo, 211. Pike, Ruth, 177n. Pincus, Gregory Goodwin, 262. Piniano, 35. Pio IV (Giovanni Angelo Medici), papa, 117. Pio V (Antonio Michele Ghislieri), papa, 139, 164, 184. Pio VI (Giannangelo Braschi), papa, 212. Pio XI (Achille Ratti), papa, 256, 257 e n, 258, 261, 285. Pio XII (Eugenio Pacelli), papa, 258, 259n, 272 e n. Place, Francis, 235. Platone, 60. Plebani, Tiziana, 220n.

319

Indice dei nomi Plinio il Vecchio, 22 e n. Plummer, Kenneth, 229n. Polanco, Juan Alfonso, 135. Pomata, Gianna, 183n, 220n. Pommeroy, Wardell B., 267n. Pontchartrain, Phélipeaux de, 206. Portinari, Beatrice, 52. Postigliola, Alberto, 167n. Potter, Louis de, 82n. Pouthier, Jean-Luc, 283n. Pozzi, Giovanni, 78n. Prezzolini, Giuseppe, 249 e n. Pricoco, Salvatore, 32n, 37n, 87n. Prodi, Paolo, 124n, 125n, 128n, 129n, 132n, 146n, 216n. Prosperi, Adriano, 128n, 218n, 219n. Pyrrhus Corradus, 106n, 142 e n, 144n, 145 e n. Quaglioni, Diego, 112n, 113n, 114n. Rabano, Mauro, 55 e n, 61. Rachele, 16. Rahab, 55-56. Raimond de Peñafort, 128. Raimondo da Capua, 79. Ranke-Heinemann, Uta, 41n, 42n, 45n. Ratzinger, Joseph, 90. Réau, Louis, 98 e n. Rebecca, 16. Reich, Wilhelm, 263, 265-66, 268, 303. Ricci, Caterina de’, 79. Ricci, Scipione de’, 212. Richi, Giacomo, 165. Robin, Paul, 237. Roccella, Eugenia, 262n. Rocco, Alfredo, 231. Rocke, Michael Jesse, 157n, 159n, 168n, 169n. Rodolfo di Worms, 181. Rodríguez, Pepe, 140n. Romanato, Gianpaolo, 200 e n. Romano il Melode, 65. Ronsin, Francis, 237n. Rossiaud, Jacques, 176n, 177n. Rouche, Michel, 273n, 276 e n, 277-78. Rousseau, Jean-Jacques, 203, 234. Rousselle, Aline, 4n. Rufino, 173, 175. Ruggiero, Guido, 112n, 157n, 167n, 168n.

Ruperto di Deutz, 46. Rusca, Margherita, 143. Rusconi, Roberto, 127n. Russel, Bertrand, 245. Rutgers, Johannes, 237. Ruth, 16, 55. Saint-Simon, Claude-Henry de, 205. Salmon, 55. Salomè, 63. Salomone, re d’Israele, 47, 81. Salomoni, Antonella, 230n. Samek Lodovici, Emanuele, 11n. Samuele, 93. Sánchez, Tomás, 118, 119 e n, 120, 122 e n, 123, 154-55, 197. Sand, George, 205. Sanger, Margaret, 262 e n. Sanjinés, Jorge, 287. Sansone, 16. Sara, 16. Sardella, Teresa, 37n, 43n. Savio, Domenico, 74. Scaraffia, Lucetta, VI, XI, 49n, 69n, 207n, 236n, 262n, 297n, 300n. Scaramella, Pierroberto, 195n. Scattigno, Anna, 220n. Schiebinger, Londa, 220n. Schilling, Hans, 129n. Schmitt, Jean-Claude, 46n. Sebastiano, 93. Sebastiano del Piombo, 93. Segneri, Paolo, 208, 209 e n. Seidel Menchi, Silvana, 112n, 113n, 114n. Serenelli, Alessandro, 294, 296. Sereno, 24. Sevegrand, Martine, 253n, 254n, 259n, 260 e n, 272n. Sheehan, Michael M., 112n. Sigeboto, 75. Simon, 158. Simonetti, Manlio, 46n. Siricio, papa, 39. Sisto V (Felice Peretti), papa, 195. Socrate, Francesca, 301n. Socrate Scolastico, 39 e n. Solaro, Baldassarre, 143-44. Solaro, Jacomina, 144. Solfaroli Camillocci, Daniela, 134n. Sorano, 7. Soranzo, Marietta, 113.

320 Sozzi, Lionello, 199 e n. Stefano, 106-107. Stefano, vescovo di Tournai, 187. Steinach, Eugen, 230. Steinberg, Leo, 91n, 95-96, 97 e n, 99 e n. Stella, Pietro, 73n. Strobl, Andreas, 89. Suárez, Francisco, 118. Suenens, 273. Sulpicio Severo, 22. Surin, 86. Susanna, 74, 93. Tagliavini, Annamaria, 221n. Taide, 56. Talleyrand, Charles-Maurice de, 45. Tamburini, Filippo, 165n. Tancredi, 189. Tanzio da Varallo, 93. Taxil, Leo, 250. Tcherkézoff, Serge, 265n. Tecla, 32, 74. Teodora, 74. Teodosio, imperatore, 27. Teresa d’Avila, 76, 77 e n, 79-80. Teresa della Concezione, 83. Teresa di Calcutta, 293. Tertulliano, 15 e n, 16, 21, 32 e n, 63, 77, 149 e n. Tettamanzi, Dionigi, 283n. Thamar, 55. Therasia, 18, 20. Timica, 29. Tissot, Samuel-Auguste, 156 e n, 223. Tiziano Vecellio, 56. Toledo, Francisco, 137n. Tommaso, 58. Tommaso d’Aquino, 13-14, 53 e n, 54n, 67-68, 86, 97, 99, 136, 161 e n, 174 e n, 176, 188, 197, 260, 272. Tommaso di Chobham, 19, 172. Trexler, Richard C., 178n. Tristan, Flora, 205. Turi, Monica, 294n, 295n. Turrini, Miriam, 128n, 146n. Ugo di Landenberg, 44-45. Uguccione da Pisa, 173, 175-76, 187. Umberto di Silva Candida, 41.

Indice dei nomi Umiltà da Faenza, 78 e n. Urrea, Anna, 45. Urso, Simona, 270n. Valentino, 7. Valenzi, Lucia, 226n. Valeriano, imperatore, 28. Van der Lugt, Maaike, 64n, 65n, 68n, 86n. Van der Weyden, Rogier, 92. Vanneste, Alfred, 14n. Vannini, Caterina, 80. Van Verleyden, 96. Vázquez de Belmonte, Gabriel, 118. Vecchio, Silvana, 121n. Verdon, Jean, 103n. Verdon, Timothy, 69 e n. Vian, Giovanni Maria, 36n, 287n. Viazzi, Pio, 214n. Vicinus, Martha, 229n. Villelmo de Montibus, 152. Villot, Jean, 279. Viollet, Jean, 259. Vittore III (Dauferio Epifani), papa, 41. Ward, Barbara, 279. Watson, Francis, 8n. Weber, Alison, 76n. Weeks, Jeffrey, 229n. Weeks, reverendo, 242. Weemes, John, 220n. Weininger, Otto, 230 e n. Wilmart, Andreas, 56n. Yonnet, Paul, 234 e n, 235 e n. Zacchia, Paolo, 191-92, 220. Zanardelli, Giuseppe, 231. Zander, Hans Conrad, 23n. Zanzucchi Ceccato, Lia, 297. Zarri, Adriana, 270n, 272n, 282n, 285, 286n. Zarri, Gabriella, 49n, 297n. Zecchi, Lina, 198n. Zeno di Verona, 65. Zizola, Giancarlo, 272 e n, 273n, 279n, 282n, 286n, 301n. Zola, Emilio, 295. Zwingli, Ulrico, 69.

INDICE DEL VOLUME

Introduzione. Due in un libro

V

I.

3

Il corpo, le pulsioni 1. Una rivoluzione culturale, p. 3 - 2. Il matrimonio cristiano, p. 14 - 3. Un desiderio che vince gli altri desideri, p. 20 - 4. Una scelta individuale, p. 30 - 5. Celibi per forza, p. 36

II. Eros e santità

46

1. Simboli sessuali, p. 46 - 2. Prostituta casta («casta meretrix»), p. 55 - 3. La triplice verginità di Maria, p. 62 - 4. Il sesso dei santi, p. 72 - 5. Il matrimonio mistico, p. 77 - 6. Spose del diavolo, p. 83 - 7. I tempi dell’amore, p. 86 - 8. L’arte: sacra, ma non asessuata, p. 90

III. Il controllo e le norme

101

1. Sopportare il piacere, p. 101 - 2. La commistione del sangue, p. 105 - 3. Diritto e sacramento, p. 110 - 4. La morale coniugale nel Seicento, p. 117 - 5. Il sesso in confessionale, p. 124 - 6. Versioni di una morale flessibile, p. 140

IV. Il disciplinamento impossibile

149

1. La dissipazione del seme, p. 149 - 2. Gli angeli di Sodoma, p. 156 - 3. Copula mercenaria, p. 170 - 4. L’impotenza, p. 185

V.

La fine del monopolio 1. «Un piacere innocente, al quale la natura, madre e sovrana, ci invita tutti», p. 198 - 2. Una sovranità contesa, p. 206 - 3. Peccato e malattia, p. 218 - 4. Rigenerare l’umanità?, p. 233 - 5. Una morale evoluzionista, p. 240

198

322

Indice del volume

VI. Competizione e conflitti

250

1. La Chiesa risponde, p. 250 - 2. Il mito dell’orgasmo, p. 261 3. L’«Humanae vitae»: una enciclica contestata, p. 275 - 4. Donne e Chiesa, fine di un’alleanza, p. 293

Conclusioni

306

Indice dei nomi

313