Il sonetto italiano [I ed.] 9788843086467

Il sonetto è la forma metrica di maggior fortuna della poesia occidentale. Il libro ne ripercorre le vicende in area ita

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Il sonetto italiano [I ed.]
 9788843086467

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Il sonetto italiano “A“? . Marino e i lirici marinisti 5.3. Altre esperienze secentesche

Il Settecento, tra crisi e modernità Un secolo (quasi) senza poesia ma con molti sonetti Le forme del sonetto nell’Arcadia settecentesca Il sonetto anacreontico e pastorale e altre varianti formali Verso la fine del secolo (Parini, Alfieri) .

7.1. 7.2.

L’Ottocento L’esperienza di Foscolo Sonetti di un Ottocento non solo minore .2.1.

Alla ricerca di nuovi giri melodici: gli schemi / 7.2.2.Verso un sonetto “liberato”: la rima, il verso, la sintassi / 7.2.3. Varianti strutturali

81

93 95 95 107

116 119

119 123 130 135 143

143

148

7

Il Novecento

181

Continuità e discontinuità nell’epoca delle avanguardie Un Canzoniere per il Novecento. Saba e il sonetto Sonetti in tempo di guerra Nei dintorni degli anni Sessanta

184 189

207

l’ipersonetto Il neometricismo degli anni Ottanta Un secolo che si chiude tra Giudici e Raboni

213 218 228

>. Zanzotto e

INDICE

Riferimenti bibliografici

235

Indice ed edizioni dei sonetti citati

251

Indice dei nomi

257

Premessa

Questo libro nasce da un progetto di qualche anno fa, che era stato suggerito agli autori dall’amico Andrea Afribo. Poi una serie di vicissitudini ne ha interrotto la stesura, e solo di recente il testo è stato ripreso e portato a termine, grazie alla disponibilità dell’editore e alla caparbia volontà (ma soprattutto alla pazienza) di Anna Casalino. A tutti loro va dunque il più sentito ringraziamento da parte di chi scrive. L’idea di partenza, mantenuta negli anni, era la seguente: che le forme metriche non siano dei puri schemi, più o meno sempre uguali a sé stessi, da catalogare nelle tavole e nei repertori o da descrivere nei manuali; ma siano degli organismi storici, che offrono alla poesia di ciascuna epoca dei modelli compositivi istituzionali e nello stesso tempo sono essi stessi sottoposti a interpretazioni sempre nuove, insomma sono attraversati dalle linee di forza che definiscono lo spazio letterario come uno spazio — appunto — storico, dunque per se’ mobile, dinami— co, segnato dalle spinte contrapposte dell’innovazione e della stabilizzazione del sistema, dell’azione stilistica individuale e della ricezione collettiva e convenzionale. In questo quadro, chi intenda descrivere la morfologia di un genere come il sonetto non può limitarsi a definirne le caratteristiche fonda— mentali e a elencarne le possibilità di variazione istituzionale, ma deve fare interagire questi dati oggettivi con parametri formali più comples— si: che partono dai rapporti, interni al testo, con le altre linee organizzative del discorso versificato (la prosodia, la sintassi), per arrivare alle dinamiche macrostrutturali che proiettano il testo sullo sfondo che gli compete (il sistema generale dei generi metrici, le strategie di costituzione del libro di poesia, le stesse funzioni espressive affidate di volta in volta alla lirica). Così si è tentato di fare in questo libro, la cui la linea di sviluppo coincide con il tracciato plurisecolare della poesia lirica italiana, dato che il sonetto ne attraversa per intero la storia, dalle origini II

IL SONETTO ITALIANO

presso la Scuola siciliana di Federico II fino alla stretta contemporaneità, che ha segnato per questa forma il momento di una vitalità tanto rinnovata quanto problematica. Tra i due estremi si dispongono poi le stagioni più vivaci della sua vicenda: da identificare nello Stilnovo e soprattutto in Petrarca e nella lunga stagione del petrarchismo, che ha consegnato il sonetto alla nascente civiltà letteraria europea. I due autori hanno concepito e sviluppato il progetto in piena comunione di intenti e di metodi. Ognuno ha quindi redatto le parti di cui è direttamente responsabile: Arnaldo Soldani ha affrontato la fase antica fino al primo Cinquecento (CAPP. 1—4), Fabio Magro la fase moderna fino alla contemporaneità (CAPP. 5-8).

I).

La forma, il genere

1.1

La forma basilare Il sonetto è una forma metrica, ovvero un modello di organizzazione ritmica complessiva del testo poetico. In ciò esso condivide la condizione di altre forme 0 generi metrici (la canzone, la ballata, la terzina, l’ottava ecc.), e come questi si definisce incrociando dimensioni diffe— renti, che possiamo riassumere in tre principali: la struttura interna, il genere poetico, la storia del sistema metrico. Proveremo ora a passare in rassegna ciascuno dei tre punti. Cominciamo dunque dalla struttura e partiamo da un testo esemplare, il son. 353 del Canzoniere di Petrarca, che presenta le caratteristiche principali delle forma nella sua compaginazione normale: (1)

Vago augelletto che cantando vai,

over piangendo, il tuo tempo passato, vedendoti la notte e ’l verno a lato e ’l di dopo le spalle e i mesi gai, se, come i tuoi gravosi affanni sai, così sapessi il mio simile stato, verresti in grembo a questo sconsolato a partir seco i dolorosi guai. I’ non so se le parti sarian pari, che' quella cui tu piangi è forse in vita, di ch’a me Morte e ’l ciel son tanto avari; ma la stagione et l’ora men gradita, col membrar de’ dolci anni et deli amari, a parlar teco con pietà m’invita.

Come si vede a colpo d’occhio, già la disposizione tipografica, mediante i rientri di alcuni versi (o, in alternativa, mediante gli stacchi interline13

IL SONETTO ITALIANO

ari), evidenzia che il sonetto è un testo “diviso”, articolato cioè in brevi partizioni interne (che per consuetudine — ma impropriamente chiameremo strofe: cfr. PAR. 2.1.3). Nella sua veste normale, tali partizioni sono quattro: le prime due comprendono quattro versi ciascuna e sono dette quartine (o quartetti), le ultime due ne comprendono tre e sono dette terzine (o terzetti). I versi sono dunque quattordici, e sono tutti uguali tra loro per misura: ciò fa del sonetto una forma omometrica, che nel suo schema originario e basilare prevede l’uso esclusivo di en-



decasillabi. Tutte queste caratteristiche — dicevamo — si desumono immediatamente dalla presentazione grafica. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che dipendano da essa: è vero casomai l’inverso, nel senso che da una certa fase Storica in poi i sonetti hanno cominciato a essere scritti e stampati in questo modo proprio per metterne in luce la tessitura fon— damentale. Questa, infatti, esiste di per sé, perché dipende dall’orga— nizzazione linguistica e formale del testo Stesso, che dunque continua a essere articolato in questo modo, continua a essere un sonetto, anche quando non sia scritto ma solo recitato; e continuerebbe a esserlo anche se venisse scritto senza rispettare quelle consuetudini tipografiche. Come in effetti succedeva nei manoscritti della poesia italiana delle origini, in cui ad esempio i versi potevano essere allineati a due a due (cfr. PAR. 2.1); oppure come succede ancora in tanta poesia contemporanea, che nei cosiddetti “cripto-sonetti” occulta la vera identità della forma scompaginandone la presentazione scritta. In realtà, appunto, ciò che fa di quei versi degli endecasillabi è la loro misura sillabica e, almeno in parte, la distribuzione degli accenti: quindi alcuni tratti formali che la linguistica assegna alla “prosodia”. Parimenti, ciò che raggruppa i quattordici versi nelle quattro strofe è la presenza di rime, che disegnano due schemi principali. Assegnando a ciascuna rima una lettera dell’alfabeto maiuscolo, dall’analisi del sonetto di Petrarca emerge che le due quartine hanno le stesse rime (A in -ezi, B in -nt0), che in ciascuna si dipongono secondo il disegno ABBA; e si ricava che le due terzine a loro volta condividono le loro rime (C in -em', D in -itn), che nella prima danno luogo alla sequenza CDC, nella seconda alla sequenza DCD. La continuità rimica tra le due quartine consente inoltre di considerare i primi otto versi del sonetto come una macrounità, che i metricologi definisconofìonte (o ottetto), per analogia con la parte iniziale della stanza di canzone; e lo stesso vale per le terzine, che insieme costituiscono la simm (o sestetto). 14

I. LA FORMA, IL GENERE

Il tutto permette infine di osservare come, parlando in generale, le forme metriche non vadano considerate alla stregua di contenitori vuoti da riempire di testo, ma regolino l’organizzazione interna del testo stesso, che utilizzando i propri materiali, che sono mate— riali linguistici, li dispone secondo strategie che rispondono a quei modelli ritmici, consegnati dalla tradizione ma anche modificati o escogitati per iniziativa del singolo autore, o di una scuola poetica, . o di una certa fase della cultura letteraria. Possiamo dunque parlare di “sovrastrutturazione ritmica” come tratto formale caratterizzante del discorso poetico rispetto ai discorsi che poetici non sono, e che si limitano a organizzare il testo in base alle normali articolazioni delle lingue naturali: fonologia, morfologia, sintassi, lessico. Nel caso del sonetto il ritmo è conferito dal poeta, e recepito dal lettore, ai diversi livelli che abbiamo appena passato in rassegna: come ritorno periodico, per quattordici volte, della medesima stringa sillabica (gli endecasillabi); come richiamo fonico tra le terminazioni dei versi (le rime); come ripetizione a coppie di due sistemi strofici diversi (quartine e terzine). 1.2

Varianti strutturali Avremo modo di vedere più avanti come queste unità e sottounità

formali fungano da guida per la disposizione sia sintattica che logicotematica del testo. Per ora restiamo alle questioni strutturali, e notiamo anzitutto come lo schema che abbiamo disegnato a partire dal sonetto di Petrarca sia da considerarsi fisso per quel che concerne i suoi elementi fondamentali: numero e tipo dei versi, divisione strofica, alternanza rimica tra fronte e sirma; ma possa variare per altri, essenzialmente per le combinazioni tra le rime. Passiamoli dunque in rassegna, questi altri, precisando che tali variazioni si inseriscono all’interno di un quadro strutturale percepito dalla tradizione italiana come perfettamente normale: non anomalie, quindi, ma oscillazioni “istituzionali” ammesse dal sistema, sicché i sonetti che ne risultano saranno da considerarsi come allotropi strutturalmente equivalenti (sebbene — lo vedremo — utilizzati con frequenza diversa, e talvolta differenziati sul piano funzionale). Esemplifichiamo ancora con un sonetto del Canzoniere, il 318: I5

IL SONETTO ITALIANO

ari), evidenzia che il sonetto è un testo “diviso”, articolato cioè in brevi partizioni interne (che per consuetudine — ma impropriamente chiameremo strofe: cfr. PAR. 2.1.3). Nella sua veste normale, tali partizioni sono quattro: le prime due comprendono quattro versi ciascuna e sono dette quartine (o quartetti), le ultime due ne comprendono tre e sono dette terzine (o terzetti). I versi sono dunque quattordici, e sono tutti uguali tra loro per misura: ciò fa del sonetto una forma omometrica, che nel suo schema originario e basilare prevede l’uso esclusivo di en-



decasillabi. Tutte queste caratteristiche — dicevamo — si desumono immediatamente dalla presentazione grafica. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che dipendano da essa: è vero casomai l’inverso, nel senso che da una certa fase Storica in poi i sonetti hanno cominciato a essere scritti e stampati in questo modo proprio per metterne in luce la tessitura fon— damentale. Questa, infatti, esiste di per sé, perché dipende dall’orga— nizzazione linguistica e formale del testo Stesso, che dunque continua a essere articolato in questo modo, continua a essere un sonetto, anche quando non sia scritto ma solo recitato; e continuerebbe a esserlo anche se venisse scritto senza rispettare quelle consuetudini tipografiche. Come in effetti succedeva nei manoscritti della poesia italiana delle origini, in cui ad esempio i versi potevano essere allineati a due a due (cfr. PAR. 2.1); oppure come succede ancora in tanta poesia contemporanea, che nei cosiddetti “cripto-sonetti” occulta la vera identità della forma scompaginandone la presentazione scritta. In realtà, appunto, ciò che fa di quei versi degli endecasillabi è la loro misura sillabica e, almeno in parte, la distribuzione degli accenti: quindi alcuni tratti formali che la linguistica assegna alla “prosodia”. Parimenti, ciò che raggruppa i quattordici versi nelle quattro strofe è la presenza di rime, che disegnano due schemi principali. Assegnando a ciascuna rima una lettera dell’alfabeto maiuscolo, dall’analisi del sonetto di Petrarca emerge che le due quartine hanno le stesse rime (A in -ai, B in -ato), che in ciascuna si dipongono secondo il disegno ABBA; e si ricava che le due terzine a loro volta condividono le loro rime (C in -ari, D in -ita), che nella prima danno luogo alla sequenza CDC, nella seconda alla sequenza DCD. La continuità rimica tra le due quartine consente inoltre di considerare i primi otto versi del sonetto come una macrounità, che i metricologi definiscono_fionte (o ottetto), per analogia con la parte iniziale della stanza di canzone; e lo stesso vale per le terzine, che insieme costituiscono la sirma (o sestetto). 14

I. LA FORMA, IL GENERE

Il tutto permette infine di osservare come, parlando in generale, le forme metriche non vadano considerate alla stregua di contenitori vuoti da riempire di testo, ma regolino l’organizzazione interna del testo stesso, che utilizzando i propri materiali, che sono mate— riali linguistici, li dispone secondo strategie che rispondono a quei modelli ritmici, consegnati dalla tradizione ma anche modificati o escogitati per iniziativa del singolo autore, o di una scuola poetica, . o di una certa fase della cultura letteraria. Possiamo dunque parlare di “sovrastrutturazione ritmica” come tratto formale caratterizzante del discorso poetico rispetto ai discorsi che poetici non sono, e che si limitano a organizzare il testo in base alle normali articolazioni delle lingue naturali: fonologia, morfologia, sintassi, lessico. Nel caso del sonetto il ritmo è conferito dal poeta, e recepito dal lettore, ai diversi livelli che abbiamo appena passato in rassegna: come ritorno periodico, per quattordici volte, della medesima stringa sillabica (gli endecasillabi); come richiamo fonico tra le terminazioni dei versi (le rime); come ripetizione a coppie di due sistemi strofici diversi (quartine e terzine). 1.2

Varianti strutturali Avremo modo di vedere più avanti come queste unità e sottounità

formali fungano da guida per la disposizione sia sintattica che logicotematica del testo. Per ora restiamo alle questioni strutturali, e notiamo anzitutto come lo schema che abbiamo disegnato a partire dal sonetto di Petrarca sia da considerarsi fisso per quel che concerne i suoi elementi fondamentali: numero e tipo dei versi, divisione strofica, alternanza rimica tra fronte e sirma; ma possa variare per altri, essenzialmente per le combinazioni tra le rime. Passiamoli dunque in rassegna, questi altri, precisando che tali variazioni si inseriscono all’interno di un quadro strutturale percepito dalla tradizione italiana come perfettamente normale: non anomalie, quindi, ma oscillazioni “istituzionali” ammesse dal sistema, sicché i sonetti che ne risultano saranno da considerarsi come allotropi strutturalmente equivalenti (sebbene — lo vedremo — utilizzati con frequenza diversa, e talvolta differenziati sul piano funzionale). Esemplifichiamo ancora con un sonetto del Canzoniere, il 318: I5

IL SONETTO ITALIANO

(2)

Al cader d’una pianta che si svelse come quella che ferro o vento sterpe, spargendo a terra le sue spoglie excelse, mostrando al sol la sua squalida sterpe, vidi un’altra ch’Amor obiecto scelse, subiecto in me Calliope et Euterpe; che ’l cor m’avinse, et proprio albergo felse, qual per trunco o per muro hedera serpe. Quel vivo lauro ove solean far nido li alti penseri, e i miei sospiri ardenti, che de’ bei rami mai non mossen fronda, al ciel translato, in quel suo albergo fido lasciò radici, onde con gravi accenti è anchor chi chiami, et non è chi responda.

Osserviamo le quartine: qui lo schema è ABAB, che alterna -else e -erpe, e non più ABBA, come nell’es. (1). Ecco, salvo eccezioni, che si spiegano con qualche intento sperimentale, questi due schemi, il primo a “rime alterne” (o “alternate”), il secondo a “rime incrociate” (o “:1bbracciate”), costituiscono le due opzioni effettivamente disponibili al compositore nella storia del sonetto italiano tradizionale. Anche nelle terzine di es. (2) spicca una notevole differenza, perché le rime non sono più due ma tre, ossia —ia'o (C), -enti (D), -ona'a (E). lì la combinazione di tre rime può generare, come qui, uno schema “replicato” (CDE CDE), oppure uno “inverso” (CDE EDC), 0 varie altre soluzioni, più o meno frequenti sia in assoluto sia presso il singolo autore (CDE DCE, CDE DEC ecc.). Lo stesso, del resto, vale per il tipo a due rime, pur con l’ovvia riduzione delle varianti dovuta

alla minore possibilità combinatoria: sicché alla distribuzione alterna CDC DCD si può preferire quella incrociata CDC CDC, o ancora CDD CDD, CDD DCC ecc. L’insieme di questi dati comporta dunque che, fin dall’età antica, il sonetto risulti assai più disponibile alla variazione interna nella sirma che nella fronte; e la tendenza, anzi, apparirà ancora più evidente in certe epoche, che per le quartine si orienteranno in modo quasi esclusivo verso l’una o verso l’altra opzione.

16

1. LA FORMA,

IL GENERE

1.3

Il genere La tradizione letteraria italiana, fin dalle origini, ha associato le forme metriche ai generi poetici, costituendo un sistema piuttosto stabile nel corso dei secoli, pur nei mutamenti che hanno investito sia le une sia gli altri. Ad esempio, la poesia narrativa ha selezionato prima la terzina, poi l’ottava, più altri metri minori; la didascalica l’endecasillabo sciolto; il melodramma la successione di endecasillabi e settenari, e così via. Il sonetto, da questo punto di vista, è appartenuto da subito e per sempre alla poesia lirica, sia nel suo canone antico (che comprendeva anche la canzone, la sestina, la ballata, il madrigale) sia nel suo canone moderno (con canzonetta, ode, canzone libera, sciolto). Tale ascrizione non è priva di conseguenze, naturalmente. Certo anche sul piano dei temi, perché, ad esempio, la dominante amorosa della lirica aulica delle origini, tra Siciliani, Stilnovo e Petrarca, ha ovviamente orientato in quella direzione anche il sonetto. Ma il terreno è infido, perché la nostra forma, con altrettanta naturalezza, ha già da allora manifestato la sua apertura ai contenuti giocosi (nella poesia comico-realistica) o morali (pensiamo alle invettive avignonesi dei Rerum vulgarinrnfiagmenta di Petrarca), e nel Tre e Quattrocento si è presto adattata alle esigenze espressive multiformi della letteratura cortigiana, senza alcuna preclusione. Meglio dire, allora, che la specificità lirica del sonetto si coglie nel fatto che, come gli altri metri dello stesso genere, veicola immediatamente l’intenzione espressiva dell’istanza dell’enunciazione. Chi parla è l’io del poeta, insomma; sua è la voce che sentiamo risuonare nel testo, anche se è possibile che qua e là sia riportata la parola altrui; e quella voce parla essenzialmente di se', perche' anche quando rappresenta altri oggetti, lo fa con una prospettiva soggettiva. Non insisteremo su questo punto, che tocca un nodo centrale dell’estetica moderna. Ma, partendo da lì, possiamo almeno affermare che il problema della liricità non è in sé di contenuti, ma di forma complessiva del contenuto, ovvero riguarda il modello generale della rappresentazione. Quest’ultimo aspetto ne tocca altri. Porta a chiederci, soprattutto, se nello specifico la forma del contenuto del sonetto differisca, e in che cosa, da quella degli altri metri lirici. La risposta è affermativa, e tocca vari aspetti. Uno è quello delle dimensioni del testo. Per cui il sonetto, nella sua brevità, si oppone ai generi “lunghi”, come la canzone (e più tardi la canzonetta); e già questo implica uno sviluppo tematico per 17

IL SONETTO ITALIANO

necessità “ridotto”, una maggiore rapidità di scrittura, una qualche contrazione dei contenuti e del giro logico necessario ad esporli. Ma alla questione delle dimensioni si intreccia quella della divisione in strofe. Perché il sonetto appare si diviso in quartine e terzine, ma evidentemente mantiene una sua unitarietà profonda, di forma e di tracciato, al punto che è stato spesso considerato un componimento monostrofico articolato internamente, e certo era stato concepito in questo modo al momento della sua invenzione (cfr. PAR. 2.1). Mentre, per dire, nella canzone le varie stanze hanno una loro compiuta autonomia, strutturale e discorsiva, e la loro successione si traduce di volta in volta o in una serie di variazioni sul tema o in una serrata progressione argomentativa. Nel sistema dei metri lirici al sonetto verranno dunque assegnate funzioni ben precise e differenziate (che poi costituirono anche le ragioni della sua nascita): la notazione di uno stato d’animo o di una sensazione, la corrispondenza con altri poeti, lo spunto occasionale; ed è invece alla canzone che la poesia antica affida i grandi momenti speculativi, le narrazioni distese, le riflessioni sui contenuti intellettualmente più impegnati (i magnalia). Sicché, anticipando quanto vedremo più avanti, si capisce come mai, tra i generi della poesia lirica, Dante attribuisca al sonetto il grado umile, alla canzone quello alto. Tali caratteristiche “di genere” della forma-sonetto implicano, a loro volta, un certo tipo di successione dei movimenti argomentativi e un certo modello di distribuzione della sintassi. Fattori, questi, che costituiranno alcuni dei punti di maggior interesse nella storia di un metro che, mantenendo inalterate le sue caratteristiche tecniche fondamentali, la sua griglia di base, deve giocare molte delle sue possibilità di interpretazione stilistica proprio su questi piani dell’orchestrazione

discorsiva. 1.4

La forma nella storia I fatti metrici sono istituti storici. Lo sono in due sensi diversi. Il primo a . . . base, I. . . e che I. loro materiali di loro fondamenti ,sono determ1nat1dalle caratteristiche prosodiche della lingua naturale a cui appartengono; .”

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sicché, ad esempio, la versificazione greca e latina nasce da una prosodia basata sulla quantità sillabica (ossia sull’alternanza di sillabe lunghe e sillabe brevi), mentre la versificazione delle lingue romanze — tra cui l’i18

1. LA FORMA, IL

GENERE

taliano — presuppone una prosodia naturale a base sillabico-accentativa (nella quale cioè il tratto distintivo è dato dall’opposizione tra sillabe toniche e sillabe atone). In questo caso si parla di storicità della metrica in quanto essa varia col variare del sistema linguistico di riferimento: il passaggio dalle metriche classiche a quelle romanze, a cui abbiamo appena accennato, ne è l’esempio più lampante in diacronia. E se uscissimo dal dominio europeo (e indoeuropeo) e considerassimo le metriche di altre civiltà, linguistiche e letterarie, l’assunto sarebbe altrettanto evidente anche in sincronia. Si deve parlare di storicità in un senso diverso per quel che concerne i generi metrici (nonche' alcuni dei loro elementi costitutivi: la conformazione strofica, gli schemi rimici ecc.). Questi infatti non sono predeterminati dalle caratteristiche “naturali” della lingua, ma nascono in una certa epoca storica per combinazione più o meno libera di certi moduli, su iniziativa di un certo poeta o all’interno di una certa tradi— zione collettiva, in cui sono varie le voci che concorrono alla messa a punto del metro. La poesia italiana ci consegna in proposito le situazioni più diverse. Diciamo che nella poesia colta, specie in età moderna, prevale la creazione individuale, legata alle esigenze espressive di un singolo poeta: il caso estremo è quello della metrica libera del Novecento. Mentre nella poesia “popolare” sembra prevalere la creazione collettiva. Sottolineiamo il “sembra” perché in realtà si tratta pur sempre di congetture, in cui è impossibile stabilire se la presunta collettività sia reale oppure sia un’illazione indotta dalla mancanza di documentazione; tanto è vero che la stessa incertezza si ripropone per i metri pur colti ma così antichi da soffrire della medesima lacuna documentaria. Pensiamo alla canzone, di cui possiamo indicare la provenienza provenzale, non il trovatore che per primo se ne è servito; oppure, già in pieno Trecento, consideriamo un metro fondamentale come l’ottava rima, per la quale gli studiosi moderni si dividono tra una paternità d’autore (il Boccaccio del Filostrato) e un’origine anonima nel mondo popolare o semipopolare dei “cantari”. >, titolava dunque la sua indagine sull’ottava uno dei massimi esperti della questione (Balduino, 1982). Sta di fatto, però, che se il padre può essere incerto, resta certo che ogni metro è nato a una precisa altezza cronologica e ha avuto un periodo di sviluppo e di diffusione; non esiste da sempre e, se pure non sia già uscito dall’uso, è presumibile che non esisterà per sempre (salvo magari risorgere in epoche successive per un’operazione di recupero antiquario). Appunto: si tratta di istituti storicamente determinaI9

IL SONETTO ITALIANO

ti, la cui configurazione non è imposta “per natura” dalle caratteristiche

strutturali della lingua. Ciò spiega come mai essi possano subire dei cambiamenti di assetto più o meno duraturi (per il sonetto alcuni li abbiamo visti nel PAR. 1.2, altri li vedremo più avanti); e spiega anche perché, pur restando le medesime condizioni linguistiche, i metri che si sono succeduti nella storia della poesia italiana siano così numerosi e così diversi tra loro (e lo stesso vale — si intende — per qualsiasi altra tradizione: per quella latina come per quella provenzale, per la francese come per l’inglese ecc.). Mentre, per la ragione inversa, altrettanto non si può dire dei loro fondamenti linguistici, che infatti sono stabilissimi nel tempo e, per l’Italia, perdurano senza soluzione di continuità e senza variazioni sostanziali dalle origini ad oggi: oltre all’impianto ritmico-sillabico del verso, ricordiamo l’isosillabismo quale principio dell’equivalenza ritmica, la percezione dell’omoteleuto su cui si basa la rima, alcuni fenomeni microstrutturali come la sinalefe, e poco altro. Tornando al sonetto, la sua origine storica è assai poco incerta. Possiamo dire anzitutto che si tratta di una creazione italiana, anzi di un prodotto della Scuola siciliana, fiorita tra gli anni Venti e Sessanta del Duecento presso la corte degli Svevi, prima con l’imperatore Federico II, poi con suo figlio Manfredi. Di più: la tradizione è anche concorde nell’attribuirne la paternità diretta al principale di quei poeti, il caposcuola Giacomo da Lentini; e obiettivamente non ci sono motivi positivi per dubitarne. Vedremo nel prossimo capitolo (PAR. 2.1) le principali ipotesi circa le modalità con cui sarebbe avvenuta que5ta “invenzione”. Quello che ci interessa qui è osservare che il sonetto nasce insieme alla poesia (e alla letteratura) italiana, dunque appartiene al numero ristretto delle cosiddette “forme primarie” (Gorni, 1993), con le quali intreccia da subito un complesso rapporto oppositivo, nei termini che abbiamo rapidamente osservato sopra (PAR. 1.3). Il seguito della storia mostra che, di quei metri originari, il sonetto è anche l’unico che abbia attraversato tutte le epoche e sia arrivato fino ad oggi, sostanzialmente immutato nella struttura di base. Ha conosciuto alti e bassi nella sua fortuna plurisecolare, certamente; e ci sono stati periodi in cui ha vissuto un’esistenza sottotraccia, relegato ai margini della grande poesia: per farsene un’idea, si pensi che non ne compare alcun esemplare nei Canti di Leopardi (ma si nella sua produzione estravagante: com’è pure significativo). Però poi è sempre riemerso dal sottosuolo della poesia minore e ha riconquistato i piani alti della lirica d’autore, perfino in tempi pregiudizialmente antipassatisti, come il barocco o il Novecento 2.0

1. LA FORMA, IL GENERE

pieno. A queste vicende, al loro significato, alle loro conseguenze per le scelte stilistiche, ai rapporti che il sonetto ha instaurato con i differenti

sistemi metrici nel corso della sua storia, sono dedicati per gran parte i capitoli di questo libro. Per ora basti indicare che una tale vitalità, da un lato, è il segno indubbio della straordinaria adattabilità della struttura alle esigenze espressive di tanti periodi diversi, dall’altro testimonia la forza della sua tradizione, che ha imposto il sonetto come la forma lirica per eccellenza, non solo in Italia ma anche, e prestissimo, nel resto

d’Europa.

1.5

Nome e musica Abbiamo lasciato per ultima la questione del nome. Sonetto è l’adattamento del provenzale sonet, che a sua volta derivava dal latino sonus ‘suono’ e indicava genericamente una poesia musicata. In Italia la parola è attestata per la prima volta in Rinaldo d’Aquino, uno dei poeti siciliani, più o meno nel medesimo significato, e soltanto nella seconda metà del Duecento, in Toscana, si specializzerà nell’accezione tecnica attuale, registrata in Guittone d’Arezzo, in Chiaro Davanzati e poi via via sempre più spesso, ad esempio nelle didascalie dei manoscritti 0 nella Vita nova di Dante (cfr. Montagnani, 1986, pp. 19-22; Beltrami, 1999, pp. 206-7). Ovvio chiedersi se l’originario riferimento di sonetto alla poesia cantata non riveli una primitiva destinazione musicale della forma che prenderà lo stesso nome. Di certo possiamo dire che quando i poeti toscani utilizzarono la parola nel nuovo senso metrico, il sonetto già non era pensato per la musica. Lo dimostra ad esempio un verso di Guido Cavalcanti in cui si esplicita che il testo è rivolto alla sola lettura (Rime 41, 12 «Se ’l presente sonetto spesso leggi >>). E i Siciliani? La critica moderna, sulla scia di Contini ( 1951,p. 176),ha prevalentemente ritenuto che alla loro altezza si sia consumato >, nel senso — precisato da Roncaglia (1978, p. 390) — che «la grande maggioranza dei poeti aulici italiani componevano solo testi verbali, lasciando un loro eventuale (non obbligatorio) rivestimento melodico a musici professionisti». Più di recente, Beltrami (1999) ha rimesso in discussione la tesi, sostenendo che di sicuro la canzone e forse anche il sonetto fossero ’

ZI

IL SONETTO ITALIANO

concepiti come >. L’ipotesi, tuttavia, si presta a sua volta a obiezioni, su cui qui non è il caso di soffermarsi (cfr. Colussi, 2001b; Di Girolamo, 2008, pp.

XLIV-L); e in definitiva la documentazione che possediamo sembra troppo scarsa per poter esprimere un’opinione al là di ogni ragionevole dubbio: si pensi che > (Ziino, 1995, p. 484; e cfr. le indagini di Pirrotta, 1980; Lannutti, 2005; 2007; Zuliani, 2009, pp. 83-112; Antonelli, 2010; Ziino, 2013). Resta il fatto, comunque, che nella tradizione successiva i sonetti, pur scritti per essere letti 0 recitati, furono spesso musicati, anche a secoli di distanza dalla loro composizione, secondo le abitudini sociali e culturali di ciascuna epoca, e secondo il variare degli stili melodici. Pensiamo solo alla fortuna dei sonetti petrarcheschi nella produzione madrigalistica del Cinquecento.

2.2.

2.

Le origini

2.1

L’ invenzione Nel PAR. 1.4 abbiamo anticipato che il sonetto ha un’origine certa nella Scuola siciliana, presso la Magna Curia di Federico II, e ha un padre quasi altrettanto sicuro nel principale esponente di quella Scuola, Giacomo da Lentini, comunemente indicato all’epoca come “il N otaro”. A queste conclusioni portano infatti i più antichi testimoni della forma, ossia i grandi manoscritti di area toscana che, tra la fine del Duecento e i primi del Trecento, ci hanno tramandato la lirica italiana delle origini, seguendo una logica compositiva che già allude a una “storia” di quell’esperienza (cfr. Avalle, 1992; Leonardi, 2000-01). In questa fase il sonetto appare già perfettamente configurato nel suo assetto fondamentale, nella sua morfologia definitiva, quanto al numero dei versi, al loro tipo e alla loro distribuzione in fronte e sirma grazie al cambio delle rime; vale a dire che esso non sembra conoscere — come altri generi — un’esistenza embrionale, nasce già ,…

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2. LE ORIGINI

si è detto quindi, fin dal Cinquecento (con Minturno), che il sonetto, a sua volta, altro non è che una stanza di canzone isolata. Rispetto alla

pratica delle tobias, tuttavia, il sonetto anche diverge, per almeno due motivi: anzitutto perché né nella poesia provenzale ne’ in quella sici-

liana sono attestate stanze di canzoni che ne ricalchino esattamente la formula; poi perché le tobias esparsas avevano uno schema variabile, come è appunto quello delle canzoni, mentre il sonetto da subito si presenta come una forma fissa, almeno per quel che riguarda le cornponenti essenziali di cui sopra: anzi, risulta «la prima forma fissa della lirica d’arte europea >> (Di Girolamo, 2008, pp. LXXVII )Ed è l’ insieme di queste condizioni che deve aver prodotto il senso di un’autonomia di genere originaria (cfr. Brugnolo, 1995, pp. 320-1). Partendo da questo quadro d’ insieme, i metricologi hanno avanzato, negli ultimi trent’anni, diverse ipotesi circa le modalità e i principi con cui il sonetto è stato “inventato”. Questa sede non permette, ovviamente, di passarle in rassegna tutte, ne’ di scendere nei minuti dettagli tecnici, che richiederebbero di considerare nel loro complesso le prassi compositive delle letterature romanze di riferimento (provenzale e francese, oltre che siciliana). Osserviamo, tuttavia, che tali ipotesi si dispongono su due direttrici principali, che potremmo definire “numerologica” e “combinatoria”, e che fanno capo, rispettivamente, a Wilhelm Pòtters e a Roberto Antonelli. Proviamo a esporle qui di seguito. 2.1.1.

L’IPOTESI NUMEROLOGICA

metaforicamente, aritmetico o geometrico era stato riconosciuto da tempo nella compaginazione del sonetto: August W. Schlegel parlava di un componimento >, Baudelaire di una sua >. Pòtters ha cercato di dare una consistenza reale a queste impressioni, riconducendo l’origine del metro all’intenzione di tradurre formalmente precise suggestioni matematiche. La sua teoria ha conosciuto diverse fasi, fondandosi all’inizio sull’analisi dei sonetti petrarcheschi (Pòtters, 1983; 1987) e solo in un secondo tempo

Un

carattere,

arrivando ad affrontare il nodo dell’invenzione (ivi, 1998). Ci limitiamo a quest’ultima versione della proposta, che è anche la più compiuta, sia dal punto di vista concettuale sia sul piano della ricerca storiografica. In breve, Pòtters sostiene che la relazione tra il numero delle sillabe metriche di ciascun verso (11) e quello complessivo dei versi (14) ricalca il rapporto tra il cerchio e il quadrato circoscritto (11:14 = 71/ 4), mentre 2.
e che dunque può aver direttamente influenzato Giacomo da Lentini (Pòtters, 1998,pp. 69-70). Pòtters suggerisce inoltre due precisi modelli geometrici che avrebbero guidato l’inventore del sonetto. Il primo è quello della figura magistralis, quella — per intenderci — che presenta un cerchio con un quadrato circoscritto e uno inscritto. Ebbene, quando quest’ultimo ha un’area pari a 154 (che corrisponde — lo abbiamo appena visto — alle sillabe metriche del sonetto), le parti eccedenti del cerchio hanno area 88 e quelle del quadrato circoscritto hanno area 66: 88 e 66 che costituiscono, rispettivamente, il numero delle sillabe della fronte e della sirma, che dunque sarebbero la ottenuta in modo che «il rapporto tra l’intero segmento [..] e la sua parte maggiore [..] sia uguale al rapporto tra la parte maggiore e la parte minore >> (ivi, pp. 106-7). E poiché alla sezione aurea si richiama anche la famosa sequenza di numeri che prende il nome da Fibonacci, ecco che l’illustre matematico si porrebbe di nuovo come il tramite tra questi temi e la pratica metrica inaugurata dai Siciliani (ivi, pp. 119-25). Un’impostazione di questo genere, così radicale nel derivare senz’altro il sonetto da modelli matematici, ha naturalmente suscitato reazioni vivaci, che sono andate in diverse direzioni. Da un lato, ad esempio, si è messa in dubbio la conoscenza diretta di Fibonacci da parte di Giacomo, che in effetti non trova riscontro nei documenti storici; così come sembra che lafigura magistralis e la sezione aurea fossero concetti non troppo diffusi nei trattati del Medioevo, dunque difficilmente accessibili ai non specialisti. Dall’altro, si sono rilevate alcune incongruenze della ricostruzione: ad esempio il fatto che le 154 sillabe 26

2. LE ORIGINI

metriche prima siano collegate all’area del cerchio, poi a quella del quadrato inscritto. Senza contare, infine, che i numeri su cui si stabiliscono i rapporti esprimono di volta in volta grandezze non omogenee (sillabe, versi, misure lineari 0 di superficie). Ma non insistiamo su questi aspetti, peri quali rimandiamo alle circostanziate recensioni che hanno fatto seguito al volume di Pòtters (in particolare Billy, 1999,e Colussi, 2001a, dal quale abbiamo tratto gli spunti precedenti). Piuttosto, segnaliamo che negli anni successivi un approccio simile è stato ripreso anche da altri studiosi, sia pure per mettere a punto modelli alternativi. Cosi fa, in specie, Giovannella Desideri (2000), che insiste sulla valenza simbolica, di matrice sia pitagorica sia cristiana, del rapporto 4:3 (quartina e terzina) e del rapporto 8:6 (i versi di fronte e sirma), e li vede applicati in vario modo anche nella costruzione di Castel del Monte, il massimo monumento dell’architettura di Federico II; con il quale, dunque, il sonetto condividerebbe la funzione di rappresentare formalmente l’ideologia imperiale. Ma il tutto, in ultima analisi, va ricondotto alla disponibilità dell’intera metrica medievale, latina e romanza, a essere compresa in una qualche logica numerica, se non precisamente matematica o geometrica (cfr. già Avalle, 1990, e Roncaglia, 1992). 2.1.2.

L’IPOTESI COMBINATORIA

Quanto ad Antonelli, ci riferiamo al suo saggio fondamentale del 1989, L’invenzione del sonetto. Punto di partenza è lo studio della tecnica compositiva di Giacomo da Lentini, per come la si ricostruisce dai testi arrivati fino a noi. Ne risulta che il poeta, sia nelle canzoni sia nei sonetti, riprende le strutture metriche provenzali applicando un metodo di aggregazione e combinazione di moduli preesistenti. Per il sonetto, in specie, sarebbe partito dallo schema di una , e

quindi deve aver trasferito la medesima tecnica dalla canzone al nuovo genere del sonetto (ivi, pp. 67-8). In questo quadro interpretativo, lo

studioso ritiene che, dei tre schemi di terzina conosciuti da Giacomo (CDE CDE, CCD CCD, CDC DCD), la priorità strutturale spetti al primo e al secondo, che rispondono esattamente al principio della duplicazione dello schema-matrice, attivo anche nella fronte; mentre il terzo, a rime alterne, sarebbe prodotto si raddoppiando un modulo CDC, ma > (una pratica che ammette lui stesso, ivi, pp. 71-5 — è >; diversa invece la ricostruzione di Beltrami, 1999,pp. 203-13). Secondo Antonelli, dunque, il metodo compositivo che ha portato all’invenzione del sonetto consiste nel duplicare i moduli metrici di partenza, e risponde evidentemente all’esigenza primaria di dilatare la strofa in verticale; un effetto che Giacomo persegue anche in orizzontale, adottando per il sonetto il verso più lungo a disposizione, l’endecasillabo, senza mai alternarlo ad altri più brevi per tutto il componimento. Ancora una volta, del resto, analoghe tendenze sembrano verificarsi nella produzione provenzale contemporanea 0 di poco anteriore, e soprattutto nelle eoblas esparsas: perche' qui, come nel sonetto, l’isolamento della strofa impone che il suo spazio testuale sia ampliato, consentendo così uno sviluppo più articolato del discorso (Antonelli, 1989, pp. 68-9). In sintesi estrema: secondo questa prospettiva, il sonetto risulta costruito con la stessa tecnica della stanza di canzone e assemblando moduli tratti da stanze di canzone preesistenti. E ciò da un lato avvalora la percezione intuitiva che il sonetto derivi dalla stanza, dall’altro rende ragione del dato storico per cui la sua struttura non coincide perfettamente con quella di nessuna stanza provenzale o siciliana effettivamente attestata. Questi, semplificando molto, i termini della questione per quel che riguarda l’origine del sonetto, allo stato attuale degli studi. Volendo commentarli, diciamo che emergono due punti fondamentali. Primo: le due posizioni rispondono a due diverse domande poste oggettivamente dai dati storici. Quella di Antonelli affronta, infatti, il problema



28

2. LE

ORIGINI

di come sia nato il sonetto: tecnicamente ma anche in relazione alla tradizione poetica e culturale di riferimento. Quella di Pòtters e dei cultori dell’ipotesi “aritmetica” — giusta o sbagliata che sia — cerca invece di spiegare pere/oe’ il sonetto sia nato in una forma fin dall’inizio non variabile e rimasta poi sostanzialmente inalterata, una forma che non conosce fasi anteriori e dunque deve essere stata inventata sulla base di un principio-guida (o di un calcolo, come pretende lo studioso), che porta a quel risultato e solo a quello. Secondo punto: proprio perché rispondono a diverse finalità interpretative, le due proposte per sé non sono incompatibili. Se infatti Giacomo da Lentini voleva creare una forma metrica che obbedisse a una certa logica (numerica, geometrica, architettonica o d’altro genere), non poteva realizzarla che impiegando le risorse compositive messe concretamente a disposizione dalla cultura poetica vigente (cfr., del resto, le conclusioni dello stesso Antonelli, 1989, p. 75; e ancora Id., 1997; Roncaglia, 1992; Brugnolo, 1999; Desideri, 2000).

2.1.3. UN GENERE MONOSTROFICO

Un’ultima considerazione, per concludere questo lungo paragrafo. Nel capitolo precedente (PARR. 1.1, 1.3) abbiamo accennato al fatto che la natura “strofica” del sonetto costituisce un dato problematico. Di certo, quando è stato inventato, il nuovo genere non si presentava propriamente diviso in strofe. Non solo perché — come abbiamo osservato — la bipartizione della fronte in quartine sembra contraddetta dalla scrizione unitaria dei manoscritti, ma anche per almeno un paio di altre ragioni decisive. Una, di tipo diciamo culturale, è che il modello provenzale che sembra implicare la nascita del sonetto, la cobla, è per definizione una stanza isolata, dunque è intrinsecamente monostrofico, e sarebbe difficile ammettere che il metro siciliano ne replicasse le funzioni e le modalità costruttive ma non l’assetto indiviso. L’altro motivo è interno alla fattura stessa del sonetto: e cioè che nel sistema metrico antico le forme autenticamente strofiche, come la canzone e la ballata, replicano più volte la medesima struttura metrica (perché tutte stanze hanno lo stesso schema), mentre il sonetto presenta nella fronte e nella sirma unità differenziate per numero di versi e per disposizione delle rime (cfr. Beltrami, 1991, p. 99); rime che, oltretutto, si ripetono tra le due quartine e tra le due terzine, come in genere non succede tra le vere strofe, e invece cambiano tra fronte e sirma, come appunto succede tra 29

IL SONETTO ITALIANO

fronte e sirma all’interno della medesima stanza di canzone. In altre parole potremmo dire che, all’inverso di quanto previsto dalla configurazione strofica, laddove c’è identità di struttura c’è continuità di rime, e laddove non c’è continuità di rime non c’è identità di struttura. Ciò, d’altra parte, spiega come mai il sonetto, in quanto costitutivamente monostrofico, abbia potuto essere infilato in serie estese, ossia sia stato utilizzato esso stesso come strofa di un componimento di ampie dimensioni: pensiamo al Fiore attribuito a Dante (cfr. PAR. 3.4.5). E in quest’ottica, ancora, si giustificano gli elementi formali che accomunano strettamente la sua organizzazione a quella della stanza di canzone. Non è neanche il caso di richiamare qui le molte analogie compositive su cui ci siamo già soffermati. Piuttosto, menzioniamo un fenomeno retorico, apparentemente minore, individuato da Menichetti (1975) in tutti i sonetti di Giacomo da Lentini e in quasi tutti gli altri sonetti siciliani giunti fino a noi (molto pochi, in verità). In pratica, si tratta della ripetizione di una parola, o di una sua variante, tra la fronte e la sirma, per lanciare una sorta di “ponte” tra le due parti e produrre così una continuità logico-discorsiva che attraversa le articolazioni metriche, un’unitarietà formale che si protende oltre il cambio delle rime: ne vedremo un caso tra poco (es. [4] del PAR. 2.2). Ebbene, Santagata (1989, pp. 79-127) ha mostrato come il medesimo procedimento sia ampiamente attestato, in analoga posizione e con la stessa funzione coesiva, anche nelle strofe di molte canzoni della Scuola. In definitiva, non si saprebbe concludere meglio questo punto che citando le parole scritte da Leo Spitzer (1958, p. 65) più di cinquant’anni fa: il sonetto offre un’energica compressione, un’unità facilmente discernibile, una direzione lineare unica, che lo rende paragonabile all’epigramma antico. Per me dunque il sonetto è prima di tutto un’unità (che ha suddivisioni), non due parti (che giungono, in una maniera o in un’altra, all’unità).

2.2

Un sonetto siciliano Torniamo ora al sonetto del Notaro che abbiamo citato al PAR. 2.1, es. (3). Questa volta, però, lo affrontiamo nella versione offerta dal più recente editore moderno (Antonelli, 2008), avvertendo che, salvo po30

2. LE ORIGINI

chi frammenti arrivati fino a noi nell’originaria veste siciliana, per il resto dobbiamo leggere i testi della Magna Curia, tra cui questo, nella rielaborazione toscana trasmessa dai canzonieri miscellanei (cfr. Di Girolamo, 2008, pp. L ss.): (4)

Donna, vostri sembianti mi mostraro

isperanza d’amore e benvolenza, ed io sovr’ogni gioia lo n’ò caro lo vostro amore e far vostra piagenza. Or vi mostrate irata, dunqu’è raro senza ch’io pechi darmi penitenza,

e fatt’avete de la penna caro, come nochier c’à falsa canoscenza. Disconoscenza ben mi par che sia, la conoscenza che nonn-à fermezze, che si rimuta per ogni volere; dunque non siete voi in vostra balia, né inn-altrui c’aia ferme prodezze, e non avrete bon fine al gioire.

Passiamone in rassegna rapidamente le caratteristiche principali, che ormai riconosciamo come tipiche del sonetto siciliano. A cominciare dallo schema, che prevede una fronte a rime alterne, che il filologo propone senza individuare graficamente le due quartine, in obbedienza all’indicazione del manoscritto e all’effettiva indistinguibilità metrica (ABABABAB); mentre le terzine sono regolarmente separate, come già nel codice e come suggerito dalla loro struttura interna, che risponde alla sequenza replicata CDE CDE, a tre rime, del resto la più comune nell’autore. Ben evidente è anche la connessione retorica tra fronte e sirma, qui esposta nei due versi di confine tra le parti (canoscenza v. 8, disconoscenza v. 9) e immediatamente replicata subito sotto (conoscenza v. 10).Ma Menichetti (1975, pp. 5-6) insiste anche su altri collegamenti lessicali, che contribuiscono — come sempre in Giacomo — alla fitta tramatura testuale: gioia e gioire ai vv. 3 e 14, avete e avrete ai vv. 7 e 14, ai vv. 10 e 13, mostraro e mostrate ai vv. 1 e 5, amore ai e firmezze 2 4. vv. e Con questi dati non si esaurisce tuttavia l’analisi metrica del sonetto. Che deve pure tener conto dei rapporti che questi tralicci ritmici intrecciano con le altre componenti del testo, in particolare con la sintassi (su cui ora Facini, 2017). Osserviamo dunque come si di-

ferme

31

IL SONETTO ITALIANO

spongono i nuclei sintattici (frasi e periodi) dentro la griglia metrica. Anche solo facendoci guidare dai segni di interpunzione (che sono introdotti dall’editore), vediamo che una prima frase occupa il primo distico (vv.1-2), un’altra il secondo (vv. 3-4), e così via fino al termine della fronte; e che ogni terzina ospita un periodo più complesso, ciascuno composto da tre frasi distese sui tre versi. La prima impressione è dunque di una sostanziale armonia o solidarietà tra organizzazione metrica e organizzazione sintattica, che condividono le misure interne e le pause principali, grossomodo coincidenti con ciascuna partizione istituzionale del sonetto. Più nel dettaglio, la fronte risulta nettamente scandita per distici anche dal punto di vista sintattico, come appunto suggerisce il suo schema alternante (AB AB AB AB: cfr. PAR. 2.1); ma su questo aspetto possiamo avanzare qualche altra ipotesi. Perché la poesia mostra anche che il luogo di stacco più intenso si ha tra quarto e quinto verso, e che invece tra i vv. 2-3 e 6-7 la pausa è meno pronunciata, perché le due frasi sono coordinate tra loro: lo sottolinea implicitamente lo stesso Antonelli interpungendo là con il punto fermo, qui per due volte con la virgola. Tutto, quindi, sembra andare verso una disposizione del discorso per quartine, ognuna delle quali comprende due distici, e il dato è confermato dalla grande maggioranza dei sonetti del Notaro: su ventidue testi certi, infatti, ben quattordici presentano una situazione analoga alla nostra; e altri due, pur risolvendo diversamente la sintassi, comunque staccano senza alcun dubbio le due parti (si tratta del son. 21, Si come il solche manda la sua spera, che vi dispone la sequenza subordinata-principale, e del son. 23, Molti amadori la lor malatia, che le occupa con la sequenza inversa). Allora si dovrà concludere che nel sonetto siciliano la bipartizione della fronte non ha evidenza metrica (perche’ non si trova altro schema rimico che l’alternato), ma ha lo stesso una sua consistenza sintattica; ovvero che Giacomo, nel momento in cui realizza linguisticamente lo schema astratto in testi concreti, sembra procedere per quartine (cfr. Mòlk, 1971, p. 332). E del resto — lo ricorderemo — Antonelli (1989, p. 66), discutendo della nascita del metro, aveva precisamente proposto di >. A indicare, insomma, una qualche identità originaria anche delle quartine. Passiamo ora ai temi del sonetto o — se si vuole — al suo tema, visto che, in questo campo, la caratteristica fondamentale dei Siciliani in 32

2. LE ORIGINI

genere e di Giacomo in specie è la notevole selettività, che fa ruotare quasi ogni discorso intorno al motivo amoroso. E noto, anche, che ad essa si accompagna un’analoga selettività linguistica, che già Dante, nel De vulgari, indicava quale matrice del “volgare illustre”, cioè di un linguaggio poetico orientato a una scelta lessicale di livello alto e alla ricerca del nitore stilistico in ogni altro settore, dalla sintassi alla retorica. Potremmo arguirne, pertanto, che il monotematismo trovi il suo luogo espressivo pure nel monostrofismo del sonetto; o, rovesciando i termini, che il monostrofismo si risolva nella fissità tematica. Ma è così fino a un certo punto. Perché, invero, unicità del tema non significa che esso non possa essere articolato, e che non trovi un qualche sviluppo lungo il testo. Anzi: paradossalmente una simile progressione è favorita proprio dalla forma saldamente coesa del sonetto. Nei testi strofici, infatti, e in primo luogo nelle canzoni, l’autonomia strutturale comporta «l’intercambiabilità delle stanze, che possono essere, poniamo, seconda terza quarta quinta come seconda quinta quarta terza, cioè l’assenza d’una seria dialettizzazione del motivo >> (Contini, 1951, p. 176). La struttura monostrofica, dunque rigida, del sonetto garantisce invece > (Menichetti, 1975,p. 12). E lo vediamo benissimo nel testo in esame, che adesso proveremo a seguire nei suoi motivi essenziali (dando anche qualche minima indicazione di lettura). Prima, dunque, il ricordo della felice armonia tra la benvolenza della donna e la gioia dell’amante (vv. 1-4);poi la sua rottura, per l’inspiegabile ira di lei, che si comporta come il nochier, il marinaio, che per imperizia (flzlsa canoscenza) ha capovolto l’antenna che regge la vela, portando la penna, la punta, al posto del caro, la base (vv. 5-8); quindi il riconoscimento di tale agire come insensato e contraddittorio, una conoscenza che nonn-àfermezze (vv. 9-1 1); infine la conseguenza che ci si attende (dunque), ossia che la mancanza di controllo di sé (non siete voi in vostra balia) e il rifiuto di rimettersi alla forza d’Amore (innaltrui c ’aiafirme prodezze) impediranno alla donna il raggiungimento di qualsiasi esito positivo (e non avrete bonfine algioire, vv. 12-14). Nel montaggio della sequenza, per prima cosa, si sarà notato «l’effetto prospettico prodotto dall’inquadramento del presente fra il passato dell’esordio e il futuro dell’amara previsione finale >> (Menichetti, 1975, pp. 5-6). Ma, soprattutto, non sarà sfuggito che la trafila tematica risponde, ancora, alla scansione cui si attengono la metrica e la sintassi, accrescendo ulteriormente il grado di compatta corrispondenza tra le diverse dimensioni discorsive, che “blinda” l’avanzamento testuale e 33

IL SONETTO ITALIANO

lo piega a una ferrea logica “istituzionale” (in ultima analisi di natura ritmica, come se un metronomo segnasse il tempo). Non solo. Se osserviamo, alla fronte è delegata la funzione di tratteggiare la situazione soggettiva (i rapporti tra i due amanti ora e nel passato), alla sirma quella di proporre una visione più generale, oggettiva possiamo dire, in grado di interpretare la prima alla luce di un sistema di valori condiviso (espresso da una tramatura lessicale che rimanda all’universo della corte: canoscenza, disconoscenza,fermezze, balia, prodezze, bonfine al si tratta questa volta non di un episodio isolato. Così ingioire). Anche fatti sono organizzati quasi tutti i sonetti dell’autore, in un’alternanza o “ritmo” tra concreto e astratto, individuo e collettività, soggettivo e oggettivo, che qualche volta rispecchia l’ordine appena descritto, altre lo inverte tra fronte e sirma ; e qualche volta prevede la corrispondenza tra i due termini, altre — come qui — mostra una specie di innaturale rovesciamento. In tal senso Spitzer (1958, p. 69) parlava di una >. Con la precisazione, comunque, che una simile dialettica si risolve sempre a favore del polo oggettivo: in totale analogia col prevalere degli elementi istituzionali in ogni settore della forma a cui abbiamo applicato l’analisi. 2.3 Dopo i Siciliani

di Manfredi, figlio e successore di Federico II, nella battaglia di Benevento del 1266, ha termine la dominazione sveva sull’Italia meridionale, e con essa si esaurisce anche la Scuola poetica siciliana. I suoi frutti tuttavia, e tra questi il sonetto, vengono presto raccolti nell’Italia centrale e settentrionale, lungo l’asse appenninico tra Bologna e la Toscana. Lo testimoniano già gli antichi manoscritti miscellanei, che alla fine del secolo tramandano insieme la produzione dei maestri e delle nuove generazioni, tracciando — neanche tanto implicitamente — la linea di continuità; che nei primi anni del Trecento sarà poi formulata a chiare lettere dal primo, formidabile tentativo di sistemazione “critica” della lirica italiana, cioè dal De vulgari eloquentia di Dante (cfr. I XII). Per quel che riguarda il sonetto, non ci soffermeremo sulle prime fasi di questa nuova stagione poetica. Ci limitiamo piuttosto a consiCon la

morte

34

2. LE ORIGINI

derare due punti essenziali. Il primo è che, in proporzione, i sonetti si fanno molto più numerosi. Nei Siciliani infatti, oltre ai ventiquattro riportabili al nome di Giacomo (ventidue certi più due dubbi), se ne contano solo altri quindici, di cui cinque in tenzoni cui partecipa il Notaro medesimo: a ribadire, tra l’altro, quanto a quell’altezza il nuovo genere apparisse strettamente legato alla figura del suo inventore. Basta invece scorrere le tavole metriche dei toscani per rendersi conto che in loro il sonetto diventa il genere più diffuso, superando di gran lunga la canzone (per non parlare dei metri minori, come il discordo o il serventese). Il secondo punto è una conseguenza del primo. Perché la maggiore produzione significa anche una maggiore disponibilità a utilizzare il sonetto per ogni situazione, allontanandolo dal rigore tematico che lo improntava in origine e trasformandolo nel metro tipico della poesia d’occasione: con un evidente abbassamento di rango, anch’esso precocemente rilevato dal De vulgari (II III 5). Non solo: alla varietà tematica si associa, in parecchi autori, una sperimentazione più o meno decisa sulle strutture formali, di cui riparleremo al PAR. 3.4. Attenzione però: questo non significa che il sonetto diventi un metro a schema strutturalmente variabile, come la canzone, e non solo perché la maggioranza dei testi finisce per ricalcare la matrice siciliana originaria, ma anche perché questa resta ben riconoscibile, sottotraccia, anche nelle sperimentazioni più spinte, che si presentano sempre e comunque come sue variazioni e dunque continuano a presupporla, ad alludere ad essa. Aggiungiamo inoltre che questo mondo, ampio e variegato, di poeti aperti al nuovo, per certi aspetti “anticlassici”, non esaurisce il panorama della lirica del secondo Duecento. Accanto ad essi, infatti, si staglia una linea ben precisa di versificatori nei quali la fedeltà ai Siciliani è più marcata: e parliamo di fedeltà non tanto come adesione stretta ai modi precedenti, nei veri e propri “siculo-toscani” (cfr. l’ed. Coluccia, 2008), quanto come prosecuzione di una precisa disposizione verso la poesia, fondata sulla selezione tematica e sul nitore formale. E in questa linea, su cui si collocano autori come Bonagiunta Orbicciani e Guido Guinizzelli (cfr. Giunta, 1998), anche il sonetto è ripreso solo nelle sue forme “regolari”. E ancora il De vulgari a tracciare le coordinate precise di questa direttrice, estetica e tecnica, che trova il suo compimento storico nel Dolce stil novo, la scuola poetica nata a Firenze dal magistero di Cavalcanti e alla quale aderisce Dante stesso nella sua giovinezza. Ma qui occorre che ci soffermiamo più a lungo. 35

IL SONETTO ITALIANO

2.4

Il sonetto stilnovista Cominciamo senz’altro da un testo, il sonetto Delo, peregrini, chepensosi andate della Vita nova, il libello giovanile, misto di prose narrative e di poesie liriche, in cui Dante racconta le vicende del suo amore per Beatrice. Siamo ormai alla fine della storia (cap. 29 dell’ed. Gorni,

1996), quando l’autore, dopo la morte di lei, vede alcuni peregrini che attraversavano Firenze nel loro viaggio verso Roma, dove avrebbero contemplato la sacra immagine della Veronica (>), e constata che essi, provenendo >, non partecipano al dolore che ha prostrato la città; immagina dunque che se potesse parlar loro, li farebbe «piangere anzi ch’elli uscissero di questa cittade >> .Al termine della sequenza il tema del racconto in prosa è ripreso dalla poesia, in forma di allocuzione ai pellegrini stessi: (5)

Deh, peregrini, che pensosi andate forse di cosa che non v’è presente, venite voi da si lontana gente (com’alla vista voi ne dimostrate), che non piangete quando voi passate per lo suo mezzo la città dolente, come quelle persone che neente par che ’ntendesser la sua gravitate? Se voi restate per volerlo audire, certo lo cor d’i sospiri mi dice che lagrimando n’uscireste poi. Ell’à perduta la sua beatrice; e le parole ch’om di lei pò dire ànno virtù di far piangere altrui.

Sul piano formale, qui il punto di maggior interesse è l’organizzazione a rime incrociate della fronte (ABBA ABBA). Non che si tratti di un’invenzione stilnovista, intendiamoci. Se ne hanno tracce, infatti, negli immediati predecessori, ma in un numero di esemplari complessivamente non elevato, e comunque di molto inferiore rispetto alla variante a rime alterne. Già Biadene (1888), nella prima indagine sistematica sul fenomeno, ne contava solo un paio in Guittone, in Chiaro, in Bonagiunta; pochi di più in Onesto, nessuno ancora in Guiniz36

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LE ORIGINI

zelli (cfr. Solimena, 2000, e AMI, Archivio metrico italiano). Mentre nella nuova scuola fiorentina le proporzioni si rovesciano, e sono i sonetti a quartine alternate a diventare nettamente minoritari: i repertori di Adriana Solimena ( 1980) e dell’AM] ne segnalano 10 contro 25 in Cavalcanti, 11 contro 46 in Dante, 27 contro 110 in Cino da Pistoia. Insomma, la scelta di campo è chiara: qui il modo crociato non è più una sporadica alternativa al tipo originario, siciliano, ma risponde a un’opzione preferenziale, che conferisce al nuovo schema il rango di modello principale di riferimento. La cosa per certi versi sorprende, se consideriamo che lo Stilnovo si pone come una forma di “classicismo”, in una linea di continuità dichiarata con i maestri della Magna Curia. Ma è probabile che i poeti fiorentini abbiano sentito che la variante crociata era in grado di interpretare meglio la forma soggiacente proprio al sonetto “classico”. Nel senso che già i Siciliani — come abbiamo visto — tendevano a realizzare la fronte con un testo sintatticamente e logicamente bipartito; e lo schema crociato dà appunto un’evidenza anche metrica a tale bipartizione, perché obbliga a scandire la fronte in due quartine, ben delineate dalla ripetizione del medesimo profilo rimico: per due volte ABBA, e non più per quattro volte AB (cfr. Baldelli, 1976; Di Girolamo, 2008, p. LXXXI). In altre parole, si porta così a compimento un progetto formale in certa misura latente, e si rivela un’intenzione di profonda fedeltà piuttosto che il disegno di rompere col passato. Dal punto di vista dell’istituto metrico, con questa innovazione si crea nella fronte una situazione parallela a quella della sirma. E non solo per la possibilità di optare tra diversi allotropi, ma anche perché la scelta avviene tra un modello maggioritario che rende palese la bipartizione e una disposizione a rime alterne che invece la neutralizza. Senza però che i poeti modifichino per questo il trattamento della sintassi e della compaginazione testuale, che anche nel secondo caso continuano a presupporre una scansione per quartine o per terzine, e dunque contemplano uno stacco discorsivo tra i vv. 4 e 5 e tra i vv. 11 e 12. Segno, questo, che la coscienza metrica ha ormai elaborato uno schema astratto 4+4+3+3, che prescinde dalle varianti tipologiche ammesse dal sistema, e quindi interpreta nello stesso modo le realizzazioni in cui lo schema è palesato dalla griglia rimica e quelle in cui non lo è. Torniamo al testo di Dante, soffermandoci ora sulla sua organizzazione interna e in particolare sulla sintassi del periodo. Osserviamo che, nella fronte, la seconda quartina risulta legata alla prima da un rapporto 37

Il. S()Nli'l"l'() “ALIANO

di subordinazione, perche' si apre con una frase consecutiva che ha la sua principale nei versi precedenti: venite voi da si lontana gente... che non piangete quando voi passate... Una simile modalità di collegamento è un tratto stilistico quasi assente nella lirica siciliana e ancora piuttosto raro nei sonetti toscani e bolognesi (ad esempio in Guittone e in Guinizzelli). Diventa invece frequente negli stilnovisti, e non solo tra le quartine, ma anche negli altri due punti di discontinuità metrica: tra le due terzine e tra la seconda quartina e la prima terzina (cfr. Soldani, 2009; Praloran, Soldani, 2010). Non si tratta comunque di un elemento che intacchi la suddivisione tra le quattro parti, cosi precisamente cercata nell’assetto metrico; casomai, anzi, la presuppone: le frasi infatti sono ordinatamente distribuite nei comparti metrici, e i legami subordinativi costituiscono un modo per gestire tale articolazione in forme più complesse, non come semplice giustapposizione ma come implicazione reciproca dei segmenti, dando luogo a strutture ampie e ramificate. Del resto il principio vale anche all’interno delle singole unità, quartine e terzine: nel sonetto in esame, per dire, quasi ogni verso presenta una frase fortemente connessa con quelle precedenti e successive. Mentre nulla di paragonabile avveniva nel sonetto siciliano che abbiamo letto nel PAR. 2.2; nel quale, certo, le frasi si sgranavano in modo consequenziale, ma questa logica non si traduceva in una struttura propriamente sintattica. Restano da considerare un paio di aspetti. In primo luogo che il nuovo assetto della sintassi produce una discorsività più fluida e un’argomentazione più ragionata, in perfetta coerenza con il clima intellettualistico che caratterizza la scuola. In secondo luogo, che i periodi sintattici sono in genere “discendenti”, ossia prevedono che la frase principale preceda la subordinata. Ciò induce a un’intonazione regolare, piana, meditativa, favorita appunto dall’espansione lineare della sintassi per segmenti agganciati l’uno dopo l’altro. Potremmo dire che in tal modo il discorso ricalca il ritmo naturale degli eventi, il loro ordinato decorso di cause e di effetti, e non è un caso, infatti, che le subordinate di gran lunga prevalenti siano le causali e le consecutive. Il tutto in linea con un’ideologia che concepisce l’esperienza amorosa come un meccanismo oggettivo, governato da leggi fisiologiche, e con una poetica che immagina la lirica come “dettato d’Amore”, ossia come la registrazione esatta di tale meccanismo nella pratica scrittoria: lo spiegherà Dante stesso, qualche anno più tardi, nel colloquio con Bonagiunta Orbicciani del XXIV canto del Purgatorio (vv. 53-55: «I’ mi 38

2. LE ORIGINI

son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando >> ). In termini generali, se ne ricaverà un ulteriore tratto di continuità rispetto ai Siciliani, nei quali l’elemento oggettivo tendeva pure a prevalere su quello soggettivo. Ma, d’altro canto, ciò implica anche che la grande bipartizione tra fronte e sirma, che costituisce lo snodo fondamentale del sonetto sotto il profilo argomentativo, si risolva ora non più nell’opposizione netta tra le due istanze, soggettiva e oggettiva, ma in una sorta di variazione sul tema: un tema che vede sempre il soggetto in posizione subalterna rispetto alla potenza di un fatto amoroso che non dipende da lui. Dato un certo motivo, esso viene quindi sviluppato, o rimodulato da differente prospettiva, o perfino reduplicato, con un effetto complessivo di circolarità semantica. Prendiamo ancora Delo, peregrini, in cui il medesimo nucleo centrale, la perdita di Beatrice, è considerato prima dal punto di vista dei pellegrini, che non ne sanno nulla e dunque non soffrono, poi da quello della città dolente, che al contrario sente drammaticamente l’assenza, tanto che la sola espressione del suo dolore farebbe piangere chiunque. Ma la variazione, più nel profondo, si manifesta pure come specularità: perché da un lato si auspica che anche gli stranieri siano coinvolti nel dolore collettivo (lagrimando n ’uscirestepoi), dall’altro nei pellegrini che vanno a venerare l’icona sacra, pensosi... forse di cosa che non v’è presente, si avverte un equivalente dei fiorentini che in Beatrice contemplavano già l’immagine di Cristo e ora l’hanno perduta per sempre (cfr. l’ed. di

De Robertis, 2005, p. 398).

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3

Petrarca e il Trecento

3.1

Il sonetto di Petrarca L’opera di Francesco Petrarca segna il punto centrale nella storia del funge da anello di congiunzione tra la sua fase antica, culminata nello Stilnovo, e le sue vicende moderne, che in Italia e in Europa troveranno il loro modello, anche tecnico, in quell’esperienza poetica. Storicamente, essa agirà sugli sviluppi del genere in tre direzioni. La prima ha a che fare con l’invenzione del Canzoniere (o Rerum vulgariumfragmenta, RVF), il nuovo “libro di poesia” che, superando le tradizionali modalità di raccolta dei testi lirici, non raggruppa più i componimenti per genere metrico, ma li dispone secondo una logica di progressione temporale (dunque, per certi aspetti, “narrativa”), alternando e mescolando forme diverse (cfr. Brugnolo, 1991). In questo contesto la presenza numericamente preponderante del sonetto (con 317 esemplari su 366) finisce per assegnargli un ruolo cruciale nella costruzione del macrotesto, e comunque lo pone su un piano di equivalenza funzionale rispetto ai generi che ancora il De vulgari dantesco considerava superiori: la canzone e la sestina, certamente, ma anche la ballata, che insieme al madrigale e, appunto, al sonetto costituiscono il canone metrico dei RVF. Con ciò siamo arrivati al secondo fattore di influenza sulla poesia successiva, che riguarda proprio la posizione del sonetto entro il sistema dei generi, tanto che il grado di adesione al canone del Canzoniere fornisce uno dei criteri fondamentali per stabilire la maggiore o minore vicinanza degli imitatori al modello del maestro. Ma naturalmente l’elemento che interessa prevalentemente questo libro è il terzo, ossia la struttura interna del sonetto, o meglio il modo in cui essa viene reinterpretata da Petrarca e, sulla sua scia, dalla tradizione successiva. sonetto, perché

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IL SONETTO ITALIANO

3.1.1. CLASSICISMO METRICO

Su quest’ultimo piano, il dato di partenza è che Petrarca si pone senza esitazioni sulla linea di un classicismo formale che, per il sonetto, significa fedeltà allo schema stabilito dai Siciliani e ripreso dagli stilnovisti con gli aggiustamenti minimi che abbiamo esaminato al PAR. 2.4. Lo dimostra la sua sostanziale indifferenza nei confronti delle sperimentazioni due-trecentesche, e non solo verso le più eccentriche ma anche verso quelle che all’epoca avevano raggiunto un certo grado di legittimità istituzionale. Sicche' le poche concessioni alle novità Petrarca le relega fuori dal Canzoniere, negli scartafacci delle rime “estravaganti” (così è per i suoi tre sonetti ritornellati e il suo unico caudato; cfr. PAR. 3.4.2), mentre nel libro lascia spazio solo a qualche variazione, sporadica e cauta, nella sequenza rimica della fronte, negli unici quattro testi a schema anomalo sui 317 totali (cfr. Molinari, 1993; Pelosi, 2003; e più avanti il PAR. 3.4.1). Ciò provoca per sé una contrazione nel numero complessivo degli schemi: quindici in tutto, che diventano soltanto undici se si escludono gli anomali. E una misura davvero minimale per una raccolta di dimensioni cosi ampie, e dunque ha il valore di una presa di distanza, dà il segnale chiarissimo di una volontà precisa di differenziazione rispetto alla prassi lirica dei contemporanei. Nel dettaglio, è ovvio che, sempre scorporando i tipi anomali, le quartine si riducano ai due allotropi noti, il crociato largamente maggioritario (303 occorrenze) e l’alternato ormai in nettissima minoranza (solo dieci); ma anche le terzine, che pure avrebbero assai meno restrizioni, presentano un repertorio limitato: di fatto solo CDC DCD (114 esemplari), CDC CDC (10), CDD DCC (4) tra i tipi a due rime, e CDE CDE (121), CDE DCE (66), CDE DEC (I), CDE EDC (1) tra i tipi a tre rime. Dalle combinazioni possibili risultano, alla fine, tre schemi principali

che coprono da soli più del 90% dei sonetti petrarcheschi: in ordine deCDE CDE (116), ABBA ABBA CDC DCD (109), ABBA ABBA CDE DCE (65; i dati in Pelosi, 2003; cfr. la tavola metrica dell’ed. Santagata, 1996, pp. 1570-1).

crescente ABBA ABBA

3.1.2. SPERIMENTALISMO SINTATTICO

Un simile regime di restrizioni non deve far pensare a una ricezione passiva della tradizione precedente. Piuttosto, Petrarca sceglie di giocare la sua iniziativa non sulla sagoma esterna del sonetto, ma interamente 42

3. PETRARCA E IL TRECENTO

sul suo assetto interno, ossia sull’organizzazione linguistica, retorica e argomentativa del testo che lo compone. E su questo versante il suo intervento è ampio e radicale. Cominciamo dalla sintassi, tornando a leggere i due sonetti che abbiamo presentato nel CAP. 1. In Vago augelletto (es. [1] del PAR. 1.1) le due quartine sono legate da un rapporto di

subordinazione, con una tecnica che, apparentemente, riprende quella già diffusa presso gli stilnovisti (cfr. PAR. 2.4).Ma è così solo in parte. Se badiamo, infatti, viene rovesciata la disposizione reciproca delle frasi: al

vocativo iniziale seguono una relativa (che cantando vai... ), quindi una gerundiva ( vedendoti... ), una condizionale e una comparativa (se, come sai, / cosi sapessi... ), e bisogna aspettare la fine della i tuoi gravosi fronte perché compaia la principale, ossia il sostegno di tutta l’impalcatura precedente (verresti in grembo..) Petrarca disegna così una lunga campata fatta di tanti elementi, tutti legati strettamente tra loro ma i cui rapporti reciproci e il cui senso si comprendono davvero solo alla fine. Questo crea un’attesa di completamento, formale e semantico, e nella lettura obbliga a mantenere sospesa l’intonazione, che può discendere e “riposare” soltanto quando terminano, insieme, il periodo e l’unità metrica. Lo stesso vediamo nell’es. (2) del PAR. 1.2,Al cader d ’unapianta che si svelse, dove il fenomeno è ripetuto due volte. Prima nella fronte, con una serie di dipendenti, di vario tipo e di vario grado, che occupano la prima quartina e trovano la loro reggente (vidi...) solo all’inizio della seconda; poi nella sirma, dove si ha una costruzione perfettamente pa-

afinni

rallela, benché con un lieve, ulteriore ritardo nella comparsa del verbo

principale (lascio' radici).

Potremmo proseguire su questa via con moltissimi altri esempi, perche' in realtà il periodo lungo con apertura in subordinata è una delle costanti dello stile petrarchesco, che se ne serve secondo una complessa strategia e — potremmo dire - in una logica di sistema che provoca varie conseguenze su più piani. Una è senza dubbio l’estensione del discorso, come avveniva già negli stilnovisti, ma ricercandola ora in modo ben più frequente e spingendola verso esiti più marcati e coerenti. Nella scuola fiorentina, infatti, era raro che la campata sintattica arrivasse a coprire per intero le due parti coinvolte: cosa che invece capita quasi sempre nei sonetti del Canzoniere; dove, inoltre, Petrarca spesso non si limita a congiungere due parti metriche ma ne coinvolge tre: le due quartine e la prima terzina, dunque; oppure, all’ inverso, la seconda quartina e le due terzine. Il caso estremo, come si può immaginare, è quello in cui un unico periodo sintattico copra per intero lo spazio testuale; e anche questo 43

Il. SONETTO ITALIANO

dispositivo è sperimentato, sia pure in pochi sonetti (quattro o cinque, a seconda delle prospettive). Ne riportiamo uno (il son. 100),notando da subito come esso consti di una serie di soggetti espansi da una relativa (Quellafenestra ove..., et quella dove..., e ’lsasso, ove... ecc.), che solo in chiusura trovano l’accordo con il verbo che li regge tutti (fanno le luci mie dipianger vaghe). La tensione sintattica via via accumulata culmina così in una specie di >, come la chiama lo studioso che per primo ha isolato questa tipologia (Renzi, 1988): (6)

Quella fenestra ove l’un sol si vede, quando a lui piace, et l’altro in su la nona; et quella dove l’aere freddo suona ne’ brevi giorni, quando borrea ’l fiede; e ’l sasso, ove a gran di pensosa siede madonna, et sola seco si ragiona, con quanti luoghi sua bella persona coprì mai d’ombra, o disegnò col piede; e ’l fiero passo ove m’agiunse Amore; e—lla nova stagion che d’anno in anno mi rinfresca in quel di l’antiche piaghe; e ’l volto, et le parole che mi stanno altamente confitte in mezzo ’l core, fanno le luci mie di pianger vaghe.

Con queste modalità, la sintassi si espande e attraversa i punti di discontinuità metrica, come un ponte che si distenda su varie arcate; e insieme all’intonazione ascendente, indotta dall’attacco in subordinata, ciò crea un potenziamento della voce del locutore, ossia del poeta che enuncia e detiene la responsabilità del discorso. In altre parole, il lettore sente che la voce che gli parla ha una sua evidenza, un’autonomia di svolgimento rispetto al ritmo istituzionale, in certo modo esterno, imposto dall’organizzazione metrica. Certo, non tutti i sonetti di Petrarca sono interessati da simili procedimenti di espansione dei periodi oltre le pause metriche. Ne restano molti, anzi, in cui ciascuna delle quattro partizioni risulta sintatticamente autonoma dalle altre. Tuttavia anche in questi testi il poeta mantiene la medesima tensione della voce, pur affidandola a mezzi differenti: alla strumentazione retorica, all’organizzazione argomentativa, a dispositivi sintattici interni alle singole quartine o terzine. Dentro le quali, dunque, si realizzano in piccolo delle strutture periodali analoghe a quelle che avvolgono più strofe. 44

3. PETRARCA E IL TRECENTO

Del resto, intravediamo il medesimo progetto anche nelle nuove procedure con cui Petrarca gestisce le relazioni tra le misure dei versi e le misure sintattiche. Per rendersene conto, basta riprendere, ad esempio, la terzina finale di Al cader d’una pianta: al ciel translato, in quel suo albergofido lasciò radici, onde con gravi accenti è anchor chi chiami, et non è chi responda.

dove le singole frasi non occupano un verso per ciascuna, ma per due volte si ripropone il medesimo travalicamento dello stacco metrico (o enjambement), di nuovo complicato da un movimento di anticipazione sintattica, qui del complemento (evidenziato in corsivo) rispetto al predicato che lo regge (in grassetto). In tal modo nel verso precedente si apre un flusso sintattico e intonativo che trova compimento e senso solo nel successivo, al di là della pausa tra i versi, costringendo il lettore a misurarsi con un sistema di soste e riavvii che non collimano con

quelli metrici.

3.1.3. UN NUOVO MODELLO DISCORSIVO

Su tutte queste innovazioni ha certamente pesato la grande lezione della Commedia di Dante, in cui analoghi meccanismi di potenziamento della voce erano già pienamente attivi. Però nel poema vigeva un diverso statuto del locutore, che lì era esterno, raccontava i fatti dopo che erano accaduti, com’è tipico del discorso narrativo; mentre in Petrarca la voce è interna ai fatti rappresentati, nel senso che il poeta parla della

situazione che in quel momento sta vivendo lui stesso, dando l’impressione di una simultaneità tra eventi e scrittura, e di una coincidenza tra soggetto e oggetto della rappresentazione, com’è tipico della poesia lirica. In questo quadro, potenziare la sua voce significa dunque accrescere la presenza dell’io, che parla e parlando si rappresenta, impregnando il discorso della propria soggettività. Ne discende che qui la voce oppone al ritmo stabile, isocrono, della metrica la propria variabilità e imprevedibilità, che porta con sé una propria, diversa segmentazione del discorso, dunque una propria scansione temporale, legata strettamente ai movimenti interiori del soggetto, ai suoi pensieri, alle sue emozioni. Occorre appena aggiungere che questo assetto formale trova una corrispondenza nei temi e nell’organizzazione argomentativa, in cui il 45

ll. SON ETTO ITALIANO

reale appare continuamente filtrato dalla forza del desiderio amoroso e dell’immaginazione (cosi come questa, d’altra parte, deve sempre fare i conti con la forza del reale). Ciò spiega, ad esempio, come mai nella scelta delle subordinate Petrarca preferisca quelle che definiscono le relazioni di causalità in un’ottica soggettiva: non più solo causali e consecutive, dunque, ma soprattutto periodi ipotetici, nei quali il legame tra gli eventi diventa il frutto di una supposizione dell’io, di una sua proiezione fantastica, di un suo desiderio o di un suo rimpianto. Leggiamo il son. 12: (7)

Se la mia vita da l’aspro tormento si può tanto schermire, et dagli affanni,

ch’i’ veggia per vertù degli ultimi anni, donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento, e i cape’ d’oro fin farsi d’argento, et lassar le ghirlande e i verdi panni, e ’l viso scolorir che ne’ miei danni a-llamentar mi fa pauroso et lento: pur mi darà tanta baldanza Amore ch’i’ vi discovrirò de’ miei martiri qua’ sono stati gli anni, e i giorni, et l’ore; et se ’l tempo è contrario ai be’ desiri, non fia ch’ almen non giunga al mio dolore alcun soccorso di tardi sospiri.

dove il grande movimento che occupa per intero le due quartine e la prima terzina esprime la fuga del pensiero nell’immaginario: l’ipotesi, impossibile da verificare, che almeno nella vecchiaia, quando Laura avrà perduta la sua bellezza, l’amore potrà essere confessato liberamente e il dolore del rifiuto sarà finalmente lenito. Con ciò, evidentemente, siamo molto distanti dal modello compositivo dello Stilnovo, che, obbedendo al dettato d’Amore, si proponeva di riprodurre i meccanismi oggettivi del mondo rappresentato, la sua ordinata sequenza temporale, e allo scopo assecondava la regolare cadenza metrica con la diposizione sintattica, con la sequenza tematica, con una tipologia ben precisa di connettivi tra le frasi, come abbiamo cercato di chiarire al PAR. 2.4. In Petrarca vige invece un sistema di compresenza e sovrapposizione tra l’ istanza soggettiva e quella oggettiva, a ogni livello d’analisi. Ma attenzione: ciò non significa che la prima annulli la seconda. Anzi, il senso vero dell’operazione sembra proprio il

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3. PETRARCA E IL TRECENTO

con fronto dialettico tra i moti del desiderio e la coscienza del reale, che deve misurarsi con fatti certi quali la lontananza dell’oggetto amoroso e infine la sua morte; e sul piano formale ciò implica il mantenimento di un orizzonte strutturale istituzionale su cui stagliare i movimenti stilistici di marca soggettiva. Nel sonetto, in particolare, è il traliccio metrico della forma tradizionale, già per sé molto stabile, e ridotto da Petrarca a pochi tipi essenziali, che si incarica di arginare le spinte centrifughe della voce dell’io: sicché, di norma, la singola quartina o terzina resta la misura dentro cui si contengono le frasi (principali 0 subordinate) e dentro cui si sviluppano gli enjambements, che dunque ben di rado travalicano i confini strofici. In fondo, il tempo fisso, ben cadenzato, della metrica segna il tempo della realtà, con cui confliggono ma anche devono convivere le misure temporali della psiche, i tempi dell’anima. Analogamente, nel Canzoniere i singoli momenti della coscienza, che trovano espressione nelle singole poesie, si oggettivano nel tempo istituzionale, il tempo storico definito dalla loro successione nel libro (ricordiamo, infatti, che i 365 componimenti che seguono il sonetto proemiale rimandano simbolicamente alla misura “reale” di un

anno).

Torniamo infine alla storia del sonetto come genere. Con le procedure su cui ci siamo soffermati, Petrarca ha di fatto sancito la possibilità di coprire tutti gli spazi con un’articolazione discorsiva sempre diversa, mobile. Nel sonetto petrarchesco non ci sono geometrie prestabilite né zone inerti, perche’: tutte le aree entrano nel gioco dell’organizzazione stilistica e ogni spazio diventa significativo; in tal senso la forma istitu-

zionale smette di fungere da guida, da traccia per lo svolgimento della lirica, perché la contrazione o la dilatazione dei segmenti discorsivi vengono utilizzate per adeguare di volta in volta la struttura compositiva alla modulazione dei contenuti. Perfino la grande pausa tra fronte e sirma cessa di essere il solo punto in cui cade, immancabilmente, il baricentro argomentativo, e questo può spostarsi in altre zone, seguendo le oscillazioni del pensiero. Un ultimo esempio per chiarire, il son. 141: (8)

Come talora al caldo tempo sòle semplicetta farfalla al lume avezza volar negli occhi altrui per sua vaghezza, onde aven ch’ella more, altri si dole: così sempre io corro al fatal mio sole degli occhi onde mi vèn tanta dolcezza 47

IL SONETTO ITALIANO

che ’l fren de la ragion Amor non prezza, e chi discerne è vinto da chi vòle. E veggio ben quant’ elli a schivo m’ ànno, e so ch’i’ ne morrò veracemente, ché mia vertù non pò contra l’affanno;

ma si m’abbaglia Amor soavemente, ch’i’ piango l’altrui noia, et no ’] mio danno; et cieca al suo morir l’alma consente.

Apparentemente qui si rispetta la bipartizione tradizionale, potremmo dire siciliana (tanto più che anche la similitudine della farfalla è un topos caro a Giacomo da Lentini). La fronte sviluppa infatti il motivo del soggetto dominato dall’amore, mentre la sirma si apre con la constatazione del suo stato oggettivamente negativo sul piano razionale, dei valori condivisi: E veggia ben, da intendersi come ‘eppure capisco bene’. Però, sorprendentemente, la terzina finale imprime al processo argomentativo una sterzata ulteriore, ben segnata dal ma iniziale, che riapre la finestra della soggettività e in pratica riporta alla situazione iniziale, al tema della cecità dell’anima, in una specie di circolo vizioso che traduce la serialità dell’ossessione amorosa. E solo un esempio tra i tanti, naturalmente; che tuttavia mostra bene come il vero snodo argomentativo non si situi nel punto centrale ma sia ritardato a ridosso della conclusione. Certo, le partizioni metriche istituzionali si fanno comunque sentire, ma appunto come una matrice soggiacente, la cui funzione si definisce in un quadro non più di continuità ma di contrappunto con le altre componenti della compaginazione formale. 3.2

Il Trecento minore La tensione stilistica, davvero trascendentale, con cui Petrarca interpreta la forma sonetto resta un’eccezione nel Trecento, e troverà solo nel secolo successivo i primi veri seguaci. Per questo parliamo qui di un Trecento “minore”: non perché siano necessariamente minori i suoi autori, ché anzi alcuni appartengono ai piani alti della letteratura (basti pensare a Boccaccio); ma perché nel settore specifico di cui ci occupiamo non si ravvisa in loro una capacità di esecuzione paragonabile a quella dei grandi maestri del genere. 48

3. PETRARCA E IL TRECENTO

La categoria è discutibile anche per un altro aspetto: perché è troppo generica e finisce per raggruppare sotto un’unica etichetta esperienze poetiche molto distanti tra loro. Con un po’ di approssimazione, distingueremo dunque i sonettisti “minori” almeno nelle due specie degli aulici e dei cortigiani, intendendo con gli uni i poeti colti, che si pongono esplicitamente sulla scia della grande tradizione che dallo Stilnovo porta a Petrarca: dunque Boccaccio in primo luogo, ma anche, prima di lui, Giovanni Quirini e, dopo, Cino Rinuccini; con gli altri la lunga serie dei lirici congiunti in vario modo all’esperienza delle corti e alla pratica, ad essa collegata, della poesia d’occasione, che proprio nel sonetto trova la tipica forma espressiva: ad esempio Antonio Pucci, Antonio Beccari, Franco Sacchetti, Francesco di Vannozzo, fino alla generazione di Simone Serdini detto il Saviozzo, con la quale sconfiniamo già nel primo Quattrocento. Ce ne occupiamo partitamente qui di seguito. 3.2.1. POETI AULICI

Il loro primo tratto caratterizzante è la tavola metrica, che — come quella del Canzoniere — non si scosta mai o quasi mai dai generi ammessi dallo Stilnovo e consacrati dal De vulgari: sonetto, canzone e sestina, ballata, con la sola apertura, minima e anch’essa petrarchesca, al madrigale, che per quanto genere nuovo, legato alla musica, risulta affine agli altri per tematica amorosa, linguaggio cortese, impostazione strutturale (uso dell’endecasillabo e della terzina ecc.). Nella pratica del sonetto questa attitudine classicistica si ripercuote su due altri elementi: nel mantenimento della sua alta incidenza rispetto agli altri metri, e nell’uso della forma originaria, di quattordici versi, piuttosto che delle sue varianti più recenti. Che magari compaiono, come nel Petrarca “estravagante”, in qualche esemplare, ma di solito nei pezzi di corrispondenza, vincolati per lo schema alla proposta dell’altro poeta. Ad esempio, Cino Rinuccini scrive il suo unico ritornellato (Pippo, s’ tu fussi buon mastro in grammatica) per rispondere a uno analogo di Pippo di Franco Sacchetti, da cui mutua anche un tono comico che altrimenti gli risulta estraneo.

Ma questi non sono che gli indizi grossolani di una posizione più generale. E cioè del tentativo di mantenersi fedeli a una linea di “impegno” stilistico dalla forte connotazione intellettuale, com’è specialmente evidente nel trattamento della sintassi. Su questo piano la 49

IL SONETTO ITALIANO

spinta propulsiva determinante è venuta non tanto dal Canzoniere, che comincia ad agire sui più avvertiti solo piuttosto tardi, quanto dalla Commedia di Dante, che invece è ben presente fin dagli anni Venti e infatti — come abbiamo visto — costituisce il riferimento primario per lo stesso Petrarca. Ovviamente ciò comportava di adattare il modello a un genere letterario (la lirica) e a uno schema metrico (il sonetto) completamente diversi dalla poesia narrativa e dalla terzina del poema sacro. Un problema che, appunto, Petrarca risolve da par suo inventandosi una nuova modalità di organizzazione del discorso poetico. Mentre gli altri, evidentemente, non arrivano a tanto, e interpretano la lezione dantesca in modo, diciamo, più meccanico. Colgono, in specie, che il suo punto qualificante è il rapporto complesso tra le due scansioni della linea discorsiva, la metrica e la sintassi, e che ciò

si traduce in un incremento dei periodi lunghi e degli enjambements: è vero che sono proprio questi i settori che conoscono la maggiore espansione nei sonetti dei poeti “colti”, in particolare di Quirini e di Boccaccio. L’impressione, però, è che la tecnica sia spinta ben oltre i limiti fissati da Dante e Petrarca, da una parte perché i legami interstrofici tendono a farsi preponderanti, dall’altra perché essi sono molto spesso realizzati, oltre che con subordinate anteposte, anche tanto

mediante enjambement: il che significa che le grandi pause metriche (tra fronte e sirma, tra le due quartine, tra le due terzine) vengono tranquillamente oltrepassate anche dagli spezzoni delle singole frasi. In altre parole, questi poeti non si limitano più a collegare le varie parti del sonetto mantenendone l’autonomia, ma sembrano quasi ignorarle, sembrano distendere il loro discorso senza tenere conto della griglia metrica, trasformata in una sorta di scatola vuota da riempire come si vuole. Certo, in tal modo esaltano ancora di più la voce “autoriale”, la sua libertà di svolgimento, ma anche annullano quella sottile dialettica che in Dante e in Petrarca è originata da un rapporto più equilibrato tra la componente sintattica e quella metrica, con la prima che trova nella seconda il suo argine istituzionale e “oggettivo” (cfr. Soldani, 2009, pp. 283-5). Facciamo un solo esempio, tratto dalle Rime di Boccaccio: (9)

Mentre sperai e l’uno e l’altro collo trascender di Parnaso e ber dell’onde del castalio fonte e delle fronde, che già più ch’altre piacquero ad Apollo, 50

3. PETRARCA E IL TRECENTO

adornarmi le tempie, umil rampollo de’ dicitori antichi, alle gioconde rime mi diedi; e ben che men profonde fosser, canta’ne in stil leggiero e 50110. Ma poscia che ’l cammino aspro e selvaggio, e gli anni miei già faticati e bianchi tolser la speme del sù pervenire, vinto, lasciai la speme del viaggio, le rime e i versi e i miei pensieri stanchi, ond’or non so, com’io solca già, dire.

Si tratta del sonetto CVII, e la parte che ci interessa è la fronte. Dove non c’è confine di verso che non sia attraversato da un enjambement, anche piuttosto forte e tendenzialmente del tipo che prevede un’a-

qualche sovvertimento dell’ordine naturale del discorso. Ad esempio, nei primi versi, l’uno e l’altro collo (‘i due colli’) trova il suo complemento (di Parnaso) solo dopo la pausa metrica e l’inserzione di un elemento estraneo (trascender). Oppure ai vv. 6-7 l’aggettivo (gioconde) anticipa il suo nome (rime), e ai vv. 7-8 il predicato (men profonde) precede la sua copula (fosser). Ma il luogo davvero decisivo è il confine tra le due quartine, su cui Boccaccio getta un lungo ponte che parte dal v. 3 (dellefronde) e si conclude al v. 5 (adornarmi le tempie), con in mezzo la relativa del v. 4. Nella sirma, invece, tutto sembra tornare alla normalità, perche' il periodo che la copre per intero è ben sparito tra le due terzine, la prima con la subordinata, la seconda con la principale. Qui, casomai, si noterà l’apertura con il Ma iniziale, a segnare una svolta argomentativa netta, e dunque la consueta grande bipar-

pertura sintatticamente sospesa oppure un

tizione, già siciliana, che oppone una fronte dominata dal ricordo a una sirma dedicata alla constatazione del reale, secondo uno schema ormai piuttosto prevedibile. Ciò significa, allora, che le ingenti novità formali non si traducono nell’elaborazione di un nuovo modello di organizzazione dei contenuti — come avveniva in Petrarca. Pur in un testo che ormai risente fortemente degli influssi non solo della Commedia ma anche del Canzoniere: accanto ai tanti echi puntuali, basterebbe citare la mitologia delle fronde care ad Apollo, ovvero il lauro della gloria poetica.

SI



IL SONETTO ITALIANO

3.2.2. POETI CORTIGIANI

L’insieme, piuttosto eterogeneo, di questi poeti si lascia descrivere per opposizione a quanto abbiamo detto fin qui per i poeti “aulici”, Petrarca compreso. Lo si vede dal sistema complessivo delle loro forme metriche, nelle quali il sonetto da un lato perde parte della propria centralità, perché incide di meno sul totale dei componimenti, dall’altro si trova a convivere con generi diversi da quelli della tradizione stilnovista e poststilnovista: serventesi, ottave e strambotti, capitoli ternari, frottole, cacce ecc. (cfr. Ciociola, 1995,pp. 334-7). Non solo: a questa riduzione e dispersione corrisponde la massima disponibilità a variare lo schema di base, di cui daremo conto al PAR. 3.4. Quanto all’interpretazione stilistica del sonetto, si ravvisa — ancora all’opposto dei poeti “colti” — una sorta di disimpegno formale, che possiamo riassumere così: le connessioni interstrofiche sono scarse; le subordinate che le realizzano sono spesso posposte alla principale e sono di tipo tradizionale, ossia essenzialmente causali e consecutive; non si avvertono dunque strategie per ridisegnare con la sintassi il profilo interno del sonetto; piuttosto sporadici sono anche gli enjambements, che oltretutto appartengono ad alcuni tipi di larga diffusione, del tutto “grammaticalizzati” nella lingua poetica delle origini (cfr. Soldani, 2009, pp. 282-3). In definitiva potremmo dire che a un massimo di variabilità nella forma esterna si oppone un minimo di variazione dell’assetto discorsivo. E come se non si volesse mai turbare l’orizzonte di attesa del lettore, puntando tutto sulla linearità

di svolgimento. Anche qui ci limitiamo a un unico esempio, il son. LXXXVIII del Saviozzo: (IO)

Partita s’è la luce e gita via che rifretteai raggi contra ’l sole; partita s’è quell’angelica prole uve ben si specchiò la mente mia. Che pò più far questa Fortuna ria se non ferirmi dove più mi dole? Rimossa m’ha la vista e le parole che satisfèr mie’ occhi affritti pria. Che farò dunque sconsolato e lasso,

trovandomi lontan da tanto bene novamente acquistato e tosto perso? 52

3. PETRARCA E IL TRECENTO

Girò cercando ogni sublime sasso,

’l loco ove mia spene sia giunta insieme col mio cor summerso. tanto ch’ i’ trovi

Dove, senza scendere nei dettagli, vediamo che il tema dell’assenza dell’amata è svolto passando in rassegna i motivi più triti (donna come sole e come angelo, accanimento della Fortuna, angoscia che spinge il poeta a percorrere luoghi impervi), dentro un quadro formale che non presenta alcuna asperità nel trattamento metrico-sintattico.

3—3

La coscienza della forma Quando abbiamo discusso della nascita del sonetto, abbiamo notato come gli antichi manoscritti fornissero alcuni indizi importanti sul modo in cui i loro copisti (e probabilmente i poeti stessi) ne intendessero la forma (PAR. 2.1). Dai loro schemi di trascrizione, in specie, ricaviamo che si concepiva la fronte come una struttura unitaria scandita per distici. Anche se poi — dicevamo — tali indicazioni andrebbero considerate con cautela, sia perché sono in parte contraddette dall’ipotesi dell’origine combinatoria e dal trattamento sintattico della fronte già nei sonetti siciliani (PARR. 2.1.2, 2.2), sia perché le reperiamo in manoscritti del tardo Duecento e del primo Trecento, quando ormai la bipartizione in quartine sembra un fatto acquisito nella produzione poetica, a partire dallo Stilnovo (PAR. 2.4). Bisognerà, allora, pensare alla sopravvivenza di modi di trascrizione più antichi, a una tradizione “conservatrice”, insomma, che prosegue anche dopo il cambiamento della concezione strutturale. Tanto è vero che la ritroviamo pure in fasi ben più tarde, quando non possono più sussistere dubbi in proposito: citeremo solo il manoscritto Chigiano L VIII 305 e, ancor più, l’autografo del Canzoniere petrarchesco, il Vaticano Latino 3195, su cui il poeta continua a scrivere fino alla morte (1374) utilizzando «la dispo— sizione “a distici” consacrata dalla luminosa tradizione dei canzonieri toscani». Così sostiene Furio Brugnolo (1991, p. 267), il massimo studioso della questione, che mostra però come nel secondo Trecento inizi ad affermarsi anche il modo “moderno” di scrivere le poesie liriche, incolonnandone i versi uno sotto l’altro, a cominciare ancora dai sonetti, e > di ciascun dialetto rappresentato (Brugnolo, 1977, pp. 17-21). Ciò significa, dunque, che dei consapevoli giochi linguistici si praticavano anche in quest’epoca, e che insomma è già ben attivo il plurilinguismo, elemento costitutivo della poesia italiana fin dalle origini, specie in certe aree culturali, come appunto il Veneto, particolarmente inclini all’espressività (cfr. Brugnolo, 1976, p. 387). Non a caso, il pa62

3. PETRARCA E IL TRECENTO

dovano Antonio da Tempo, con il suo gusto per ogni forma eccentrica, procede a una classificazione minuta anche in questo settore (ivi, pp. 431-6). La Summa distingue pertanto il sonetto semiletterato, nel quale ai versi italiani si alternano endecasillabi latini (ed. Andrews, 1977,pp. 34-5); quello metrico, in cui l’alternanza avviene con veri versi latini ricavati dai classici (ivi, pp. 35-6); quello bilingue, in cui al volgare italiano si affianca il francese (ivi, pp. 37-8). Ma — al solito — nella prassi poetica la varietà delle soluzioni risulta anche maggiore: per esempio, le lingue che si confrontano nel testo possono essere tre (italiano, francese, latino), come nel son. 29 del Saviozzo e nel trilingue doppio di Gidino (ed. Caprettini et al., pp. 98-100); oppure la scelta del latino può essere esclusiva, come nei sonetti letterati di Giovanni Quirini. Dal quale riprendiamo infine questo esempio di semiletterato, con il latino che copre i versi a rima B della fronte e i versi a rima C della sirma: (18)

Si come l’ape nel tempo da fiori ex arte sua atque vi nature legenda vadunt per loca secure la cera e ’l mèle, e seguen loro amori, cossi l’animo mio, da molti ardori nuper acensus voluntatis pure, intrans in pratum divine Scripture s’è messo ad immitar cotal lavori:

floribus bumorem

et de diversis

tragge et acoglie, e compone un mèl chiaro cum cera mistum quod sedat laborem; e d’ogni infirmità che fa reparo in corpus nostrum expulit langorem e sana il morbo et è al venen contrar[i]o.

Terminiamo il repertorio con un accenno ad altre costruzioni artificiose, che non coinvolgono il tipo di lingua utilizzato ma attivano complicatissime procedure retoriche. Ne nominiamo solo due, prese da quella specie di > che è il canzoniere di Nicolò de’ Rossi, poeta trevisano del primo Trecento (Brugnolo, 1976, p. 417; 1977,pp. 258 ss.). La prima è data da alcuni esperimenti di “poesia figurata”: in pratica, dei normali sonetti devono essere smembrati e ricomposti secondo una certa logica strutturale, così da venire a disegnare delle figure che rappresentano il vero tema del componimento e ne rivelano il senso nascosto. La seconda è una tecnica organizzativa

63

I I. SONETTO ITALIANO

repertoriata anche da Antonio da Tempo (ed. Andrews, 1977, pp. 324), ossia il sonetto che questi chiama retrogrado, nel quale ogni verso può essere letto pure in senso inverso, dall’ultima parola alla prima. Ne diamo qui di seguito l’esemplare di Nicolò (son. 12), mettendo a sinistra la versione originale, a destra la sua ricostruzione retrograda, che — come si vede — mantiene la misura dei versi e lo schema delle rime (Brugnolo, 1977, pp. 341-4). Il risultato non è eccelso, ma testimonia bene una certa concezione del testo, come luogo in cui esercitare una serie di meccanismi combinatori:

(19) Amore m’ucide facendo torto:

amar e atendere a mi non vale; le tore ch’i’ veco mi fa conforto:

spero, che m’aleva il male. Dolore sento tal m’à quasi morto: astare non posso, contra m’è tale signore si alto, che da reo ’l porto, a contrastare morte chi ne sale. Mercede e’ glie chero e pietate; aldire degnimi, si sono ve’nto: tornare

pregoli si rimire mi smaruto. En fede gel curo e ’n veritate obedire a liii, ch’io non mento:

nego altriii, ch’i’ sonto abatuto.

Torto facendo m’ucide Amore:

non vale a mi atendere e amare; conforto mi fa, ch’i’ veco le tore:

il male m’aleva, che' spero tornare. Morto m’à quasi, tal sento dolore: tale m’è contra, non posso astare: porto ’I da reo che si alto signore ne sale, chi morte à contrastare. P'ietate e’ glie chero e mercede; vénto sono, si degnimi aldire: smaruto mi rimire, si li prego. En veritate gel curo e ’n fede, ch’io non mento, a liii obedire: abatuto sonto ch’i’ altrui nego.

3.4.5. SERIE DI SONETTI

E stata probabilmente la percezione originaria del sonetto come stanza

di canzone (cfr. PAR. 2.1.3) che ha indotto spesso a utilizzarlo non in modo isolato ma in serie unitarie, in sequenze allineate secondo un certo criterio e rispondenti a determinate intenzioni. Anche in questo caso le situazioni sono molto varie, e ci limitiamo a elencarne rapidamente alcune: a) fin dalle origini siciliane i sonetti sono stati impiegati nella corrispondenza poetica, a formare delle “tenzoni” che possono essere lette come un unico componimento, scritto a più mani e diviso in varie strofe (tanto che queste, i singoli sonetti, risultano spesso connesse tra loro “per le rime”); b) dentro i canzonieri si individuano dei cicli di sonetti legati tematicamente, che spesso raccontano un episodio occorso al poeta (così ad es. il ciclo del guanto neiRVF di Petrarca, sonn. 64

3. PETRARCA E IL TRECENTO

201); c) un motivo viene trattato in una “collana” di sonetti, in cioè una serie chiusa che ne sviluppa le articolazioni interne (ad es. la corona dei mesi di Folgore da San Gimignano); a') per converso, ci sono delle canzoni con strofe di quattordici endecasillabi che anche nello schema di rime collimano perfettamente, o quasi, con dei sonetti (il caso più noto è Donne cb’avete intelletto dÀmore nella Vita nova di 199, 200,

Dante). Eccetera. Proseguendo per questa strada, è logico che Si arrivi a impiegare direttamente il sonetto come strofa vera e propria di un componimento poetico, anche di grandi dimensioni. Così, in specie, è organizzato Il fiore, il poemetto, attribuito al giovane Dante, che in 232 sonetti riassume il Roman de la Rose. 3—5

Variazioni sui temi Nei testi che abbiamo citato in questo capitolo abbiamo già visto vari casi di sonetti che trattano temi diversi da quello amoroso e cortese.

Spicca in particolare l’attenzione nei confronti della realtà quotidiana e “bassa”, spesso affrontata in tono comico o burlesco. La tendenza è molto antica, è testimoniata fin dai primi poeti toscani, ad esempio nel fiorentino Rustico Filippi. Che è rivelatore anche per un altro aspetto: perche' la sua produzione si divide esattamente tra questa vena comico-realistica e quella “seria”, di marca cortese. A dimostrare che la prima altro non è che un rovesciamento parodico della seconda, che dunque ne costituisce il presupposto e il punto di riferimento costante (cfr. Mengaldo, 1971, pp. 11-4). Di qui i motivi ritornanti: il vizio, del gioco e del bere, in opposizione alla virtù; una concezione risentita e plebea del rapporto con la donna, in opposizione all’amor cortese. E la stilizzazione parodica si fa tanto più evidente quanto più la poesia aulica pratica una distanza aristocratica dal mondo reale, come avviene soprattutto con lo Stilnovo. Dal più tipico dei poeti comici toscani tra Due e Trecento, Cecco Angiolieri (su cui cfr. ]ermini, 2017), citiamo un esempio che ci consente di mostrare non solo un modello femminile diametralmente opposto alla donna angelicata, ma anche una forma discorsiva fondata sul dialogo serrato, che intesse per intero la lirica, secondo una tipologia caratteristica, appunto, della poesia giocosa (ma presente

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Il. SON I4'.'I"I'O I'I'ALI ANO

anche in quella seria, perfino in Petrarca), risolta qui nel più classico dei battibecchi: (20)

. > (Balduino, 2008, p. 40), ossia individua altri poeti esemplari che lo “mediano” e forniscono un’interpretazione autorevole della sua lezione, dando origine a diversi filoni: pensiamo alla funzione svolta da Giusto de’ Conti per il Quattrocento padano, oppure a Bembo e Della Casa quali punti di riferimento per le due opposte poetiche della dulcedo e della gravitas. Un’ultima osservazione, per tornare ai problemi strettamente metrici. Il carattere “sociale” del petrarchismo costituisce probabilmente la ragione che porta, quasi di necessità, a selezionare nel multiforme sistema stilistico del Canzoniere le soluzioni che Praloran (2007) ha definito «intermedie >>; dunque di rado — e solo con i suoi grandi in68

4. L’ETÀ DEI PETRARCHISMI

terpreti — il petrarchismo arriva a toccarne gli estremi, mai — neppure con i grandissimi, Boiardo, Sannazaro, Bembo, Della Casa — arriva a riprodurlo per intero: > (ivi, p. 16).Tutto ciò lo cogliamo non tanto nella ripresa degli schemi puri e semplici, che pure — come vedremo — rivestono un ruolo fondamentale nella definizione di una storia e geografia del petrarchismo; quanto nei loro rapporti, molto più complessi da indagare, con le altre componenti della forma: la prosodia, ad esempio, 0 la sintassi o i procedimenti argomentativi, dove si sprigionava al massimo grado la capacità di orchestrazione formale del maestro ( Praloran, 2003c, p. 36). E, diciamolo subito, mentre per il primo aspetto, per gli schemi, gli studi scientifici sono oggi sufficientemente avanzati da consegnarci un panorama abbastanza definito, per gli altri un vero lavoro di indagine è iniziato da pochi anni e sta richiedendo difficili ed estesi approfondimenti sistematici sui singoli autori e sulle scuole di appartenenza. Nei paragrafi che seguiranno, pertanto, presenteremo un quadro degli sviluppi quattro-cinquecenteschi del sonetto che, per

forza di cose, dovrà considerarsi parziale, circoscritto ad alcuni settori e ad aree ben limitate, talvolta fondato più su impressioni di lettura che su dati accertati. 4.2

Il sonetto del Quattrocento Dicevamo che la metrica ci permette di misurare a prima vista il grado di vicinanza di un imitatore a Petrarca. Il principio metodologico, tuttavia, non deve essere inteso in maniera rigida, soprattutto nel Quattrocento, e neanche per un settore immediatamente verificabile

come la tavola dei generi utilizzati. O meglio: qui il criterio funziona benissimo per i poeti che si servono quasi esclusivamente di metri non contemplati dal Canzoniere (come lo strambotto), e dunque mostrano

la loro estraneità sostanziale alla linea petrarchesca. Mentre per gli altri deve essere applicato tenendo conto di un insieme di circostanze proprie dell’epoca. Anzitutto l’apertura, anche dei più fedeli imitatori, a generi che non compaiono nel Canzoniere: esempio tipico quello del capitolo ternario, che casomai rivela un’attenzione all’“altro Petrarca”, quello dei Trionfi. Poi l’arretramento dei due metri minori, il madri-

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IL SONETTO ITALIANO

gale e la ballata: il primo a seguito dell’esaurimento dell’Ars nova, la corrente musicale che ne aveva garantito la fortuna nel Trecento; la se-

conda per l’eccessiva vicinanza strutturale a un metro contemporaneo tipicamente popolare, la barzelletta. Infine si avverte, soprattutto nella prima metà del secolo, una certa insofferenza per i generi lunghi, come la canzone, al punto che un petrarchista di provata fede come il veneziano Marco Piacentini, attivo tra Tre e Quattrocento, non ne compose in effetti neanche una (Balduino, 2008, p. 60). Il quadro generale ci porta a dire, insomma, che la spinta imitativa verso il maestro si contempera con l’esigenza di confrontarsi, per analogia o per differenza, con le tendenze in atto nella lirica contemporanea. Lo vedremo del resto anche per altri aspetti, in questo stesso paragrafo. Sta di fatto che, con questi condizionamenti, restano ben pochi i poeti che coprono per intero il canone metrico del Canzoniere: Baldu— ino ne ha contati solo cinque, dopo uno spoglio compiuto su svariate decine; e, soprattutto, tra questi non compaiono alcune delle figure fondamentali del petrarchismo, anche avanzato: basterà fare il nome di Iacopo Sannazaro, che pure già si affaccia oltre la soglia del Cinquecento (ivi, pp. 57-8). Di norma, dunque, l’adesione al canone si limiterà all’assunzione, qualche volta esclusiva qualche altra no, dei tre generi fondamentali: sonetto, canzone, sestina. Con l’ovvia conferma della preminenza, non solo quantitativa, del primo sugli altri due: si può essere petrarchisti scrivendo solo sonetti (ad esempio Gasparo Visconti nel Canzoniere per Beatrice d’Este); difficile però immaginare un petrarchista che non ne scriva mai. Considerazioni non dissimili si devono fare a proposito del trattamento dei generi esperiti, a partire dagli schemi adottati per ciascuno. Anche qui infatti la lezione di Petrarca deve fare i conti con tradizioni locali e prassi consolidate, ed entra in concorrenza con modelli diversi, da seguire 0 da cui differenziarsi. Tipica ad esempio, per la canzone, la sopravvivenza di stanze non petrarchesche ma attestate in Dante oppure in maestri più tardi, come il Saviozzo, nei primi decenni, o come Giusto de’ Conti, che almeno fino a metà del Quattrocento, in area padana, svolse una decisiva funzione di mediatore, perché fu nello stesso tempo il «capofila indiscusso dell’avanguardia petrarchista >> e il fondatore di una koine', di un codice formale comune, che > (Santagata, 1984, pp. 62, 88, sulla scorta di Mengaldo, 1963, p. 30 e passim). Dal canto suo, un poeta di prima grandezza 70

4. L’ETA DEI PETRARCHISMI

come Boiardo concepirà invece la canzone come il luogo di massima sperimentazione metrica, e dunque arriverà anche lui a un deciso allontanamento da Petrarca, sia pure per vie diverse. Sicché si dovranno attendere i petrarchisti “ortodossi” napoletani di fine secolo, Cariteo e Sannazaro, per incontrare una ripresa sistematica ed esclusiva degli

schemi del Canzoniere (Santagata, 1979,pp. 270-1). Per il sonetto, naturalmente, la questione dello schema si pone in termini differenti. La prima conseguenza del magistero di Petrarca fu l’abbandono delle forme diverse da quella di base, di quattordici versi: tanto che nella lirica che a lui si ispira quasi scompaiono i sonetti caudati, e le rare eccezioni si spiegano come deviazioni estemporanee verso il genere burlesco. Per le stesse ragioni, le quartine abbandonano del tutto lo schema alternato, in questo caso contro la stessa norma del maestro, che se ne era servito per una decina di volte (cfr. PAR. 3.1.1). In tal modo, gli unici elementi di variazione li ritroviamo nella compaginazione delle terzine, su cui ora ci soffermiamo prendendo in considerazione un paio di casi emblematici studiati da Santagata (1984). Il primo riguarda la sirma a due rime alterne, CDC DCD, che nella prima metà del Quattrocento viene confinata ai piani bassi della scala di preferenze. Un simile rifiuto da un lato stupisce, perche': invece in Petrarca si trattava della seconda opzione, che con 114 occorrenze si collocava appena sotto CDE CDE (con 121).Ma dall’altro si spiega: perche’ quel modello era anche il più diffuso, e di gran lunga, nella lirica del Trecento e nei poeti giocosi del Quattrocento, quindi alle avanguardie petrarchiste poteva sembrare troppo compromesso con esperienze poetiche dalle quali volevano nettamente differenziarsi. Non a caso, quando nei decenni successivi questa demarcazione non sarà più necessaria, verrà meno anche l’ostracismo verso lo schema, che tornerà a essere impiegato in misure molto elevate, e anzi diverrà la soluzione più praticata nei canzonieri di fine secolo. L’altro esempio si riferisce al tipo CDE CED, che non compare nel Canzoniere ma si riscontra in percentuali piuttosto elevate nei poeti del primo Quattrocento. L’incongruenza ha la sua ragione, ancora, nel contesto poetico contemporaneo, e in particolare nell’opera di Giusto de’ Conti, dove se ne trovano svariate occorrenze, sufficienti a legittimarne l’uso nella corrente di lirica “padana” che a lui si ispira. Al punto che ne rinveniamo ancora esemplari non solo negli Amorum libri di Boiardo, ma anche (e parecchi) nel tardo petrarchista padovano Niccolò Lelio Cosmico (ca. 1420-1500). Un poeta interessante, quest’ultimo, pure per il suo impiego di CDC DCD, che in una 71

IL SONETTO ITALIANO

prima fase utilizzò poco, poi molto intensamente (Bartolomeo, 2001a, pp. 118—9). A confermare che il regime degli schemi metrici segue logiche che non si possono solo attribuire all’imitazione di Petrarca, ma tengono conto dei condizionamenti e delle reazioni suscitati dalla poesia del secolo: tanto che uno stesso autore può variare le sue abitudini compositive nel corso dei decenni. La mappatura degli schemi fornisce, pertanto, delle indicazioni chiare circa il perimetro del petrarchismo quattrocentesco: le sue trafile storiche, i suoi criteri di selezione ecc. Non ci dice molto, invece, sulle modalità con cui le forme metriche sono interpretate stilisticamente, ossia su come la metrica petrarchesca venga gestita nell’organizzazione del discorso. Un settore per il quale — come ormai sappiamo — occorre fare interagire altri parametri, primo fra tutti la sintassi. Proveremo dunque a muoverci in questa direzione nei paragrafi successivi, in cui esamineremo alcuni sonetti di tre figure cruciali del Quattrocento (Giusto de’ Conti, Boiardo, Sannazaro), sulla scia di una serie di studi che in tempi recenti è divenuta piuttosto vivace, e che comprende tra gli altri Di Dio (2010, su De ]ennaro; 2013, sull’Augurello), Baldassari (2015; 2017) sul Canzoniere Costabili e sulla tradizione ferrarese, Bellomo (2016; 2017) su Lorenzo de’ Medici e la sua cerchia. 4.2.1. GIUSTO

DE’ CONTI DI VALMONTONE

La fedeltà di Giusto a Petrarca, piuttosto sorprendente a quell’altez— za, si manifesta in modo più o meno intenso nei diversi livelli della struttura, a partire dalla centralità del tema amoroso per arrivare all’elaborazione “narrativa” del libro di poesia, La bella mano (concluso nel 1440), il cui travolgente successo fu un vettore fondamentale per l’espansione del modello petrarchesco (cfr. Pantani, 2002, pp. 196 ss.). Abbiamo appena visto, peraltro, che nella gestione degli schemi metrici Giusto talvolta si discosta da Petrarca; e di recente Marco Praloran (2008, p. 127) ha dimostrato che questi allontanamenti si rintracciano, in modi più sottili, anche in altri settori: nella rima, ad esempio, che rivela >, riducendo le punte maggiormente espressive del maestro; oppure nel ritmo dei versi, in cui si riprende dal Canzoniere la grande densità di accenti ma non la sublime capacità di variare la loro posizione (ivi, pp. 130-2). Piuttosto, è la sintassi il luogo in cui l’adesione 72

4.

L’ETA DEI PETRARCHISMI

sembra farsi massima, perché Giusto recepisce da Petrarca sia la tecnica dell’enjambement sia la tendenza alla campata lunga, come dimostra il numero molto elevato di sonetti “continui” (ben 11: cfr. ivi, pp. 132 ss.). Consideriamo dunque un sonetto della Bella mano, il XCV della vecchia (e poco affidabile) edizione Vitetti (1933): (22)

Or che dall’Ocean sorge l’aurora, con l’umida treccia il mondo bagna, et seco Filomela pur si lagna si che de i suoi lamenti altrui ’namora, tornami al cor Madonna, il tempo, et l’ora, che mai dal mio pensier non si scompagna, et

quando fu presa all’amorosa ragna quest’anima, che Amor l’increspa e indora. Così nel gran disio mi levo a volo, et tregua ho quando l’alba il ciel ne imbianca, e il cor digiuno di speranza pasco: vien poi la sera, et io rimango solo miei alimenti, onde mia vita manca; de notte moro, e il di rinasco. così la

Chi conosce Petrarca non faticherà a rinvenire nella poesia le tracce lasciate da parecchie liriche del Canzoniere: si va da precisi elementi tematici, come il pianto di Filomena (l’usignolo), a soluzioni formali come il verso bipartito finale, con il parallelismo che sostiene una doppia opposizione semantica (notte-di, moro-rinasco). C ’è da dire che queste tessere non rimangono isolate, ma si compongono in un quadro coerente, sviluppato lungo un asse narrativo: con il soggetto che prima, all’alba, vede rinascere dentro di sé l’immagine di madonna, e con essa il desiderio e la speranza; poi, a sera, sente spegnersi ogni slancio positivo, nella classica alternanza di euforia e disforia, morte e rinascita (che anche nel motivo del levarsi in volo, al v. 9, allude forse al mito, ben petrarchesco, della fenice: cfr. la canz. 135). Insomma: una specie di riduzione al minimo della complessa psicologia che domina il Canzoniere (cfr. Praloran, 2008, pp. 142-3). Ciò che interessa notare è però che la narratività si traduce subito nella ricerca di strutture sintattiche congruenti, in specie la lunga subordinata temporale che apre il componimento e copre la prima quartina: anche questa una formula petrarchesca, con la principale ritardata alla seconda strofa e gli effetti di intonazione sospesa che ben conosciamo. 73

II. SONETTO ITALIANO

Scrive ancora Praloran (ivi, p. 143) che «l’attacco temporale è molto ricorrente nei casi di schemi di sonetto 8+n [..]; ed è spesso legato ad una apertura atmosferica […:] paesaggio naturale 0 descrizione astronomica che poi si espande nella seconda quartina sul piano dell’io >>. Certo, in Petrarca soluzioni di questo tipo, giocate più spesso sui periodi ipotetici, davano luogo ad accensioni dell’ immaginario di cui qui, obiettivamente, non c’è traccia. Però la lezione del movimento sintattico dilatato, che agisce in controcanto rispetto alla scansione metrica, appare perfettamente assimilata; casomai si noterà che il meccanismo, come spesso in Giusto, investe solo la fronte, mentre la sirma recupera un andamento più convenzionale, con le frasi allineate ordinatamente verso per verso, sicché la sentenza finale serve a suggellare in qualche modo un componimento che ormai ha perso gran parte della sua energia stilistica (cfr. ivi, pp. 146-50). 4.2.2. MATTEO MARIA BOIARDO

Boiardo è probabilmente il più grande poeta, lirico e narrativo, del Quattrocento italiano. Di sicuro è quello meglio studiato, a partire dalla fondamentale monografia di Pier Vincenzo Mengaldo (1963) sul suo canzoniere, gli Amorum libri tres, scritti tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo. Il libro di Mengaldo aveva come primo scopo di mettere a fuoco la lingua boiardesca, ma si allargava anche ad altri aspetti formali, tra cui la metrica; che in seguito è stata affrontata, con ottiche differenti, anche da Conti (1990) e da Praloran (2003c). Il quadro che ne abbiamo è dunque piuttosto dettagliato, e presenta anzitutto una notevole disparità tra il trattamento della canzone, improntato a uno sperimentalismo spiccato, e il trattamento del sonetto, che invece appare, nel complesso, «lo spazio dell’adesione alla lezione del Canzoniere»: un’adesione che (11 9). Si tratta dunque delle due componenti, egualmente necessarie, dello stile elevato, che per ora vengono circoscritte al campo della fonologia (il suono) e della prosodia (il numero). In queste pagine non si parla direttamente del sonetto, ma qualcosa si può ricavare comunque dalle considerazioni intorno alla rima (cosi Afribo, 2001, pp. 132 ss.; Bartolomeo, 2001b, pp. 54-5). Bembo scrive infatti che «più grave suono rendono quelle rime che sono tra se' più lontane; più piacevole quell’altre che più vicine sono >> (II 12). Se ne deduce che nelle terzine sono da considerare gravi gli schemi a tre rime, piacevoli quelli a due, perché negli uni il ritorno della stessa rima è di necessità più distanziato che negli altri. Il principio, che sarà ripreso dai trattatisti successivi (ad esempio Dolce e Tasso), sembrerebbe confermato dalla prassi poetica dell’autore. Che nelle sirme dei suoi sonetti introduce delle significative novità rispetto alle abitudini di Petrarca: da un lato incrementa di molto lo schema alternato CDC DCD, proseguendo la tendenza del tardo Quattrocento, dall’altro diminuisce drasticamente il tipo maggioritario nel Canzoniere, ossia CDE CDE, parificandolo a quello degli altri modelli a tre rime, sia petrarcheschi (CDE DCE, CDE DEC) sia non petrarcheschi 83

Il. SON E'I‘TO ITALIANO

( il quattrocentesco CDE CED). In tal modo si ottengono due risultati. Primo: una sostanziale equiparazione tra sirme a due e a tre rime, che realizza l’esigenza primaria di contemperare piacevolezza e gravità. Secondo: distribuendo il modulo a tre rime su quattro tipi principali e concentrando quello a due su uno solo, si rivela come la gravità implichi una maggiore articolazione delle opzioni, perche’ nasce dall’imprevedibilità della mossa stilistica, deve produrre un qualche spaesamento del lettore, al punto da rendere leciti schemi minoritari o addirittura assenti in Petrarca. Mentre la piacevolezza richiede la percezione netta del ritorno dell’uguale, della ripetizione regolata, e pertanto si esprime nell’unico schema che risponda a una disposizione ordinatamente alternante.

Quando, una trentina d’anni dopo le Prose, scoppieranno le polemiche su questi temi, le categorie di gravità e piacevolezza finiranno per investire quasi ogni aspetto dell’organizzazione stilistica, come vedremo. Bembo certo non si spinge a tanto, tuttavia lui stesso arriva a sostenere che il principio di equilibrio che ne regola l’uso (la variazione) nasce da una precisa qualità dello scrittore, il senso del decoro degli stili o convenevolezza, e che questa si estende all’intero processo compositivo (II 19). In effetti, nella poesia di Bembo è evidente come il tentativo di conciliazione tra i due modelli di suono faccia parte di una strategia più generale, che comporta la studiata compresenza di elementi istituzionali ( la piacevolezza) ed elementi legati alle esigenze espressive del soggetto poetante (la gravità), come in fondo accadeva prima in Petrarca e adesso in Sannazaro. Con il quale Bembo condivide, quindi, una lettura del maestro che ne reseca le punte estreme ma ne coglie i movimenti fondamentali, mantenendosi dentro i confini segnati più nettamente dal sistema del Canzoniere (cfr. ora le indagini di Juri, 2017). Poi — si capisce — le motivazioni psicologiche che generavano il dispositivo formale petrarchesco sono sostituite da istanze più propriamente culturali, con quel tanto di ideologico che queste portano con sé, almeno in termini di definizione del ruolo sociale dello scrittore: e qui si trattava essenzialmente di marcare la superiorità intellettuale del poeta e dell’élite a cui questo si rivolge, ormai al di fuori della società cortigiana dei lirici del Quattrocento, ma anche in contrapposizione alla nuova società letteraria diffusa al traino dell’editoria e della massificazione dei consumi culturali. In altre parole, le oscillazioni petrarchesche tra tensione e compostezza vengono disancorate dalla loro originaria dialettica tra fuga nell’ immaginario e constatazio84

4.

L’ETA DEI

PETRARCHISMI

ne del reale, per trasformarsi nell’espressione di una soggettività tanto “autonoma” e raziocinante quanto consapevole della necessità di calarsi in un quadro oggettivo, in un codice formale che le consenta di esistere come istanza storica e culturale. In questa partita doppia, Bembo interpreta la dimensione soggettiva come una pacata riflessione della voce autoriale, che qualche volta si risolve in arguti giri logici e in finali sentenziosi, come già in Sannazaro (cfr. il son. Poi cb ’ogni ardir mi circonscrisse Amore); qualche altra si imposta su un registro di solenne magistero intellettuale, come spesso nei sonetti rivolti ai letterati della sua cerchia; altrevolte ancora si intona su accenti più accorati, su una vena sentimentale, come nei numerosi testi in morte (del fratello Carlo 0 di amici o di donne amate). A quest’ultima serie appartiene il son. 163, >, come informa Dionisotti (1966, p. 637):

(26)

Quando, forse per dar loco a le stelle, il sol si parte, e ’l nostro cielo imbruna spargendosi di lor, ch’ad una ad una, a diece, a cento, escon fuor chiare et belle, i’ penso et parlo meco: >. In questa piango; et poi ch’al mio riposo torno, più largo fiume gli occhi miei, et l’imagine sua l’alma riempie, trista; la qual mirando fiso in lei le dice quel ch’io poi ridir non oso: 0 notti amare, o Parche ingiuste et empie!

E scontato osservare che non c’è quasi parola o motivo che non trovi

riscontro in Petrarca. Alla spicciolata, seguendo i commenti: per i vv. 1-2 cfr. il son. 223, vv. 1-2 > (in rima con luna e una) e la sest. 237, v. 30 >; per i vv. 6-7 cfr. il son. 187,v. 6 >, e la sest. 237, v. 2 >; per il v. 10 cfr. il son. 279, vv. 10-11 >; per il v. 12 cfr. il son. 17, v. 8 > ; per il v. 13 cfr. Triumpbus Pudicitie v. 116 >. Il codice preme, evidentemente. Ma non impedisce che

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II. SONETTO ITALIANO

le tessere compongano un mosaico di grande effetto rappresentativo. Pensiamo a come, nella fronte, il poeta trascorra dalla contemplazione del firmamento al monologo interiore, che riporta il paesaggio not-

all’esperienza del soggetto, con la mediazione della «dottrina platonica del soggiorno astrale delle anime >> (Ariani, in Segre, Ossola, 1997b, p. 187). Il deflusso sulla propria interiorità induce quindi, nella sirma, all’effusione sentimentale (in questa piango), che prelude a un cambio di ambientazione. Dall’aperto il soggetto passa infatti al chiuso, tornando al suo riposo, al letto, dove il pianto continua e l’imagine dell’amata, che prima era proiettata sugli elementi naturali, nelle stelle, arriva a saturare la parte più profonda dell’io (l’alma riempie). Anzi, in una specie di sdoppiamento di sé, ora è proprio l’anima che contempla quel fantasma (mirandofiso in lei) e confessa un senso di frustrazione e di risentimento verso il destino (le Parcbe), che l’io razionale non osa neppure ripetere (le dice quel ch’io poi ridir non oso). Un perfetto congegno narrativo scandisce il tempo della rappresentazione, tutta in presa diretta, in una serie di momenti che trapassano l’uno nell’altro, e ciò conferisce al presente della coscienza una durata, un’estensione che attraversa la notte di veglia: prima il tramonto del sole, poi l’imbrunire, quindi le stelle che a poco a poco cospargono il cielo, infine il riposo e l’estrema prostrazione. In questo movimento senza soluzione di continuità, anche il cambio di ambientazione (dal fuori al dentro) e di prospettiva (dalla natura all’interiorità) non dà luogo — come avveniva spesso nel petrarchismo — a una vera opposizione, quanto a una progressione, a una trasformazione dello stato del poeta, sancita dai due soliloqui: il primo detenuto dall’io razionale e concluso col suo pianto, l’altro detenuto dall’anima “sentimentale” e concluso con un grido di disperazione. A significare allora che i due tentativi di risolvere l’assenza dell’amata mediante una proiezione, prima filosofica e poi sentimentale, sono entrambi falliti. Il tracciato discorsivo segue coerentemente il corso del racconto, ne asseconda le linee di continuità temporale, oltrepassando sistematicamente le scansioni strofiche. Così già tra le due quartine, dove, tra l’altro, la serie delle temporali iniziali (vv. 1-4) risulta retta, al v. 5, da un verbo (i’penso) che esprime il protrarsi della meditazione lungo tutti quei momenti. Tra fronte e sirma è invece rispettata la canonica pausa sintattica; non però l’atteso scarto logico, perché l’avverbio iniziale del v. 9 (in questa, ‘nel frattempo’) marca la sostanziale contemporaneità fra il pianto e il monologo precedente, e solo dopo, nel secondo turno

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4.

L’ETA DEI

PETRARCHISMI

emistichio, avviene l’avanzamento temporale e narrativo (etpoi che...). Ancora, la frase successiva si prolunga oltre il confine della prima terzina, con un enjambement fortissimo che rigetta l’aggettivo lontano dal suo nome () e lo isola tra la pausa metrica di fine verso e quella, sintattica, che interrompe bruscamente l’enunciato. A compimento, peraltro, di un percorso particolarmente accidentato, che coinvolge per intero la prima terzina: con un altro enjambement, pure energico, che interessa i vv. 9-10 (>). Un effetto di chiusura dello spartito, questo, che al lettore del canzoniere bembiano risulta ancora più evidente, perche’ il meccanismo retorico è richiamato nell’ultimo verso del sonetto seguente («0 giorni tenebrosi, o fato acerbo!» ). Si aggiunga, sempre nel finale, la dichiarazione di reticenza con cui la voce autoriale prende le distanze dall’eccesso di espressività (ridir non oso), e ne avremo abbastanza per confermare che, nel complesso, Bembo realizza il suo programma di superiore perequazione tra compostezza architettonica e forzature espressive. Se non che, in testi come questo, un certa irrequietudine formale sembra serpeggiare in modo più marcato, al cospetto di un maggior coinvolgimento emotivo nella materia trattata. 4.3.2. L’UNIVERSO DELLA GRAVITÀ: GIOVANNI DELLA CASA

A metà del Cinquecento i teorici riprendono le due categorie della gravità e della piacevolezza, o gravitas e dulcedo, ma in una prospettiva ormai molto diversa dall’originaria impostazione bembiana. Di cui, soprattutto, abbandonano la posizione conciliatrice tra le due dimen-

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IL SONETTO ITALIANO

sioni, l’idea cioè che il grande stile non potesse fare a meno né dell’una né dell’altra. Ora invece siva alla totale separazione, a farne il perno di due poetiche del tutto incompatibili: insomma, o si è dolci 0 si è gravi. E il fatto è tanto più rilevante perché — come si anticipava — adesso viene coinvolto l’intero assetto della composizione. Prendiamo la gravitas, che conta nel suo schieramento gli intellettuali di punta, da Varchi a Minturno a Tasso. Di Bembo resta l’attenzione alla testura fonica: sono gravi certi gruppi consonantici di sonori— tà aspra, specie in serie allitterative o esposti in rima; e può essere grave

la prosodia del verso, nei (Afribo, 2001, p. 93; cfr. Grosser, 2016). Ma poi la prospettiva si allarga alla struttura discorsiva: perché un segnale forte di gravità diventa il cosiddetto >, con il >, come teorizza il Tasso dei Discorsi delpoema eroico e della Cavaletta; e segnali altrettanto forti sono indicati nella pratica intensa e imprevedibile dell’enjambement e del «parlar disgiunto >>, oppure nella disposizione asimmetrica delle figure di parallelismo e di ripetizione, quando cioè queste non accompagnano le travature metriche ma le contraddicono patentemente, accavallandosi tra un verso e l’altro con >. In breve: si avverte una strategia sistematica, che valorizza tutti gli stilemi, di varia natura, che producano un «intoppo >> nel regolare flusso del discorso, frenino il ritmo imposto dalla metrica, scompaginino le cadenze e le architetture. E lo facciano in modo totalizzante: perché il loro potenziale di nervosa espressività si manife5ta in pieno solo quando le figure si combinano tra loro e fanno massa, quando escludono ogni concessione alla dulcedo. Così Tasso nei Discorsi (ed. Poma, 1964, p. 239): «la dolcezza del suono […] O più tosto la tenerezza, per così dire, e l’egualità, suole essere nemica de la gravità >>; e nella Cavaletta: > (ed. Baffetti, 1998, p. 676; cfr. Afribo, 2001, p. 104 epassim). Quanto agli avversari, non è che propriamente neghino la funzione della gravitas, ma ne fanno, appunto, una questione di funzione all’interno di un sistema più vasto, non un fine assoluto ma un mezzo. Chiaro che qui sembra agire in modo più deciso la lezione di Bembo, la sua idea di un equilibrio tra le componenti della scrittura poetica. Se non che nei suoi epigoni l’equilibrio risulta, in teoria e in prassi, di molto sbilanciato a favore dell’elemento più evidentemente riproducibile, ossia quello istituzionale, latore per se' di dolcezza e euritmia, 88

4. L’ETÀ DEI PETRARCHISMI

non certo di asprezza stilistica. Quello che conta è mantenere a vista gli elementi portanti del codice, anche sul versante della costruzione. Di qui il sospetto verso l’eccesso di esposizione e di concentrazione delle figure della gravitas; di qui, in specie, la necessità di una sostanziale sincronia tra tempi metrici e tempi sintattici: si concepisce «il verso come una unità conclusa, con una clausola che fa da interruttore definitivo del “corso del dire” e che risucchia in un fiato tutto ciò che le è vicino >> (ivi, pp. 84-5); di qui, ancora, un uso intenso di parallelismi a chiara vocazione geometrica, collocati strategicamente — con > — a marcare le convergenze tra il procedere del discorso ela compaginazione metrica (ivi, pp. 155 ss.). Questo accordo, più convenzionale, tra le linee portanti del testo appare poi funzionale alla destinazione sociale della poesia, in un’epoca — lo ricordiamo — in cui la lirica petrarchista è il cemento della nascente società letteraria e infatti tende a diffondersi in quei contenitori collettivi che sono le antologie (cfr. Bianco, Strada, 2001). In questi prodotti, evidentemente, è prioritario il bisogno di “comunicazione” e di riconoscibilità, dunque il discorso deve procedere senza intoppi di sorta, aderire al codice senza eccessivi personalismi. Non è un caso che sul piano teorico troviamo impegnati alcuni letterati coinvolti a tempo pieno nell’industria editoriale, come Dolce e Ruscelli. Da questo punto di vista, il massimo di vicinanza a Bembo si attua, paradossalmente, negli ambienti più lontani dalla sua ideologia elitaria, che rivolgeva la propria proposta agli intellettuali di cultura più esclusiva: proprio quelli che ora sembrano prendere le distanze dalla dottrina delle Prose. Pare dunque replicarsi su questo livello la stessa situazione che vede la proposta linguistica bembiana come luo-

go di origine delle operazioni di uniformazione grammaticale dell’editoria “di consumo”, perfino dei manuali per i principianti, contro ogni intenzione del suo autore (cfr. Trovato, 1994,pp. 116 ss.; 1991). Da questi cenni si sarà capito che il dibattito sullagravitas implicava anche una >, come scrive ancora Afribo (2001, pp. 202 ss.), ossia una riflessione sui modelli lontani e vicini. In sintesi diremo che, sul comune sfondo classicistico, gli uni cristallizzano l’esperienza del petrarchismo tradizionale, gli altri la superano su un linea di “modernismo”, che guarda al Petrarca più esposto sul piano della sperimentazione, e a Bembo prima affianca e poi contrappone il Della Casa, nuovo maestro di uno stile > (Afribo, 2009, p. 216). In tale quadro rientra pure la riflessione sul sonetto, nelle cui vicende i cultori della gravitas riconoscono un’evoluzione, una storia, 89

IL SONETTO ITALIANO

che ha nei moderni il punto più alto. Sono due gli aspetti fondamentali. Il primo interessa i temi: perche' la gravitas è una questione di stile, certo, ma è motivata da un maggiore impegno sul piano dei contenuti, che dal discorso amoroso si spostano verso argomenti anch’essi gravi, ossia di taglio più intellettuale o spirituale (Afribo, 2001, pp. 120 ss.; 2009, pp. 229 ss.). Il secondo riguarda gli schemi, e quigravitas significa essenzialmente allontanarsi dall’orizzonte di attesa del lettore coevo, dunque dagli schemi maggiormente frequentati dai poeti convenzionali (e prescritti dai trattatisti attenti all’istituto). Lo si vede perfino nelle quartine, in cui, dopo il dominio incontrastato del modello incrociato (ABBA ABBA), si riaffermano non solo quello alternato (ABAB ABAB) ma anche i due anomali testimoniati in poche liriche del Canzoniere (ABBA BAAB e ABAB BABA): al punto che Minturno li mette tutti e quattro sullo stesso piano (cfr. Afribo, 2001, p. 139). E nella sirma, analogamente, si avverte nei poeti gravi un calo consistente del tipo piacevole per eccellenza (CDC DCD), e l’espansione dei tipi a tre rime, specie quelli meno diffusi o assenti in Petrarca. Della Casa, per esempio, abbassa CDC DCD a un’incidenza del 21%, riduce di molto anche CDE CDE, il più frequente nel Canzoniere, e invece sviluppa i rari CDE DEC e CDE EDC (8 e 7%), nonché i non petrarcheschi CDE CED e CDE ECD (12 e 4%). La trattatistica segue a ruota: >. E vidi le lasagne andare a Prato a vedere il sudario, e ciascuna portava lo ’nventario.

Non fa specie, naturalmente, che la struttura metrica corrisponda al tipo del sonetto caudato, canonico per la poesia giocosa quattro—cinquecentesca (cfr. PAR. 3.4.2). Colpisce invece la difficoltà estrema di ricostruire un minimo di senso letterale: che è esattamente la peculiarità della poesia alla burchia, cioè “alla rinfusa’, nella quale i materiali tematici e linguistici sono accumulati e si compongono per associazioni verbali di tutti i generi. Enumerazioni, ossimori, antitesi, citazioni letterarie e proverbiali, fraseologie dei mestieri, false etimologie, doppi sensi osceni, indovinelli e molti altri giochi formali istituiscono deboli percorsi semantici all’ interno delle singole porzioni testuali, che danno di volta in volta l’impressione di uno sviluppo, subito contraddetto dal segmento successivo. Con le parole del commentatore moderno del Burchiello, Michelangelo Zaccarello (2004, pp. XXII, XVIII): il «carattere fondamentalmente centrifugo della maniera burchiellesca […] mina alla base ogni tentativo di strutturazione micro e macrotestuale >>; per cui la lettura >) stacca la terzina finale preparando lo spazio per una conclusione che rilegge in chiave di umana relazione amorosa la visione cosmica precedente. Ma la circolarità di cui si è detto, e che in qualche modo controbilancia la linearità instaurata dalle pur variate serie elencative (si noti tuttavia il parallelismo che si instaura ai vv. 7-8 dove alla prima serie composta 100

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

da un nome e tre verbi ne segue una formata da tre nomi e un verbo), si coglie anche nel rapporto rimico tra la prima e l’ultima parola del sonetto (amore : core, che doppia la rima E ai vv. 11 e 14), e insieme nella corrispondenza che si crea ancora tra la parola iniziale (Amore), la parola in uscita al v. 1 (mente) e quella finale (core) che sembra voler suggerire sinteticamente la formula secondo cui ‘amore è un pensiero (mente) che sta nel cuore dell’amante ’. Il forte interesse speculativo che domina il sonetto, e sta ovviamente all’origine dell’assenza dell’io, orienta il testo verso lo stile della gravitas come pare confermare in primo luogo quella che si può considerare una vera e propria spia dellacasiana, ossia l’inarcatura con verbo in prima posizione in funzione di riporto ai vv. 5-6 (cfr. proprio Questa vita mortal di Della Casa, vv. 5-6 appunto: «Or a mirar le grazie tante tue / prendo, [.] >>). Per cogliere inoltre lo stretto rapporto tra teoria e prassi poetica che si instaura a quest’altezza (non solo ovviamente nella lirica del Tasso), è opportuno soffermarsi sull’incipit. Il primo verso fortemente allitterante sulla m permette infatti di richiamare un passo dai Discorsi del poema eroico (ed. Poma, 1964, p. 702): «ma l’usar molte parole, le quali abbiano principio da la m, conviene al pianto; e peraventura in questa medesima forma è conveniente, come: di me medesmo meco mi vergogno >>. E così l’attacco del nostro sonetto mentre enuncia con forza solenne le facoltà di Amore, veicola attraverso quel minimo elemento formale che si ripercuote sull’intera linea del verso la commozione suscitata da una tale alta sentenza (recuperando in questo modo anche la presenza dell’io autoriale, mettendolo anzi direttamente in contatto con il lettore). D’altra parte si guardi alla chiusura del sonetto, a quei due ultimi endecasillabi che si compenetrano (> (ivi, p. 701), allungando la formula finale e dando alla chiusa un più vasto respiro, mentre in precedenza (con l’eccezione rilevante di cui si è detto ai vv. 5-6) il discorso si distende abbastanza pacificamente lungo la misura del verso, senza traumatiche rotture. Il tutto è naturalmente costruito secondo una calibratissima ricerca armonica che, al di là delle ripetizioni vere e proprie (ciel v. 2 e ciel v. 12; regge v. 6 e regia v. 13),punta sull’effetto di omogeneità fonica tramite allitterazioni dis e di r (>, ivi, p. 702). Abbiamo ancora una volta conferma del fatto che «la gravitas è un sistema complesso. E una rete, che riceve e dà forza attraverso l’organizzazione dei suoi fili, nel loro incontrarsi e 101

IL SONETTO ITALIANO

intrecciarsi, nei nodi, in cui e da cui si può imprigionare e sprigionare

il massimo di energia >> (Afribo, 2001, p. 61). La dialettica che abbiamo appena visto, con cui si inizia a mettere in discussione la pacifica adesione alle partizioni metriche dell’assetto sintattico e di quello argomentativo, si registra anche in altre più complesse situazioni, in cui si ottiene comunque l’effetto principale di isolare più fortemente la parte finale del sonetto. (30) Se a chi penetrar valse il fosco e nero vel ch’a gli arcani suoi Natura pose, si che vi scorse apertamente il vero e le cagioni a’ nostri sensi ascose, e s’a chi ben oprar seco propose e fe’ seguire gli effetti al suo pensiero, dar non si può trale mondane cose premio che ’l metto lor agguagli intero; qual il mio rozzo stil daratti onore ch’al tuo sommo valor non sembri poco? Ché ’l vero e ’l buon non sol conosci ed opri, ma drizzi e inviti a questo il tuo signore, e quel tratto di tenebre gli scopri ond’in ciel fra le stelle acquisti ei loco.

Il componimento, che fa parte delle Rime d’occasione e d’encomio ed è rivolto a un consigliere del duca Alfonso II, si svolge in buona sostanza per distici, secondo un modulo abbastanza statico benché vivacizzato dal rilancio delle proposizioni coordinate. Gli snodi fondamentali del periodo sono dunque disposti nelle sedi dispari del sonetto (e qui infatti, al v. 1, si ha l’unico enjambement del componimento) e in perfetta coincidenza con le partizioni metriche (l’attacco della protasi del periodo ipotetico ai vv. 1 e 5, il verbo della protasi al v. 7, la consecutiva al v. 3 e infine l’inizio dell’apodosi al v. 9). Il movimento sintattico però (il primo dei due periodi di cui si compone il testo) non si chiude in corrispondenza dell’ottavo verso, bensì prosegue sbilanciandosi fino al decimo, prolungando l’intonazione sospensiva oltre la fronte. Ne esce così una non certo comune scansione 10+4 che scompagina l’assetto del sonetto apparentemente lasciandone intatta la struttura. Vale la pena di mettere in evidenza come lo schema rimico che nella prima quartina asseconda la sintassi, nella seconda, rovesciando l’alternanza (ABAB —> BABA), la contraddica, mentre nelle terzine la mancata cor102

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

rispondenza con la sintassi è attenuata dall’assonanza di tutte le parole in rima, e inoltre dal fatto che in rima risultano i due versi che comunque chiudono i due periodi principali (poco : loco). Anche qui, pur nel contesto di una lirica scritta come moltissime altre dichiaratamente su commissione, siamo dentro un sistema di gravitas, come conferma del resto lo schema delle terzine (CDE CED). Nel vasto repertorio tassiano c’è però spazio anche per note più leggere, come dimostra questo sonetto caudato: (31)

Tanto le gatte son moltiplicate, ch’a doppio son più che l’Orse nel cielo: gatte ci son ch’han tutto bianco il pelo, gatte nere ci son, gatte pezzate; gatte con coda, gatte discodate; una gatta con gobba di cammelo vorrei vedere e vestita di velo come bertuccia: or che non la trovate? Guardinsi i monti pur di partorire ché s’un topo nascesse, il poverello da tante gatte non potria fuggire. Massara, io t’ammonisco, abbi ’l cervello e l’occhio al lavezzuol ch’è sul bollire: corri, ve’, ch’una se ’n porta il vitello.

VO’ farci il ritornello perche’ ’l sonetto a pieno non si loda, se non somiglia a i gatti da la coda.

Il registro ironico pervade l’intero componimento e conferma la capacità di Tasso di far interagire i vari piani della lingua per costruire un testo compatto e armonico, che regge perfettamente il tono prescelto. Qui, al di là dello schema a due rime adottato forse proprio per la sua maggiore leggerezza e cantabilità, è da notare innanzitutto l’apertura lessicale, che va comunque considerata accettabile in un testo di questo genere: si pensi a bertuccia per ‘scimmia’; a massara per ‘massaia’ (ant. e region. secondo il Grande dizionario della lingua italiana di S. Battaglia, GDLI); a lavezzuol per ‘pentola’ (ant. ma con un altro esempio ferrarese accanto a quello del Tasso per il GDLI); ma soprattutto all’aggettivo discodate, vero e proprio neologismo tassiano. Degna di nota è inoltre la struttura anaforica che occupa gran parte della fronte ed è funzionale nel sostenere il tema centrale del componimento; una 103

IL SONETTO ITALIANO

struttura estesa, ma che tuttavia non esaurisce tutte le possibilità retoriche del sonetto (come accadrà invece spesso nei lirici marinisti). Il tono è leggero ma non disimpegnato come mostrano da un lato il v. 7 tutto

allitterante, e dall’altra la camuffata fonte oraziana ( >, Ars poetica, v. 139; certo a quest’altezza ormai di carattere proverbiale) con cui si aprono le terzine, e infine la

coda che in modo originale volge in figurativo il consueto riferimento metapoetico. L’appartenenza al genere comico—giocoso è confermata inoltre dalla brusca e perentoria esortazione in prima persona (al contempo individuale e collettiva) che apre la seconda terzina, e anche, sul piano prosodico, dalla presenza di ben tre endecasillabi dattilici, con accenti di 4373 (vv. 2, 7, 14), > (Praloran, 2003a, p. 145). Vale la pena, prima di chiudere questo paragrafo, di ritornare sul concetto di gravitas per coglierne la centralità anche al di fuori del dibattito tra gli intellettuali più o meno integrati nel sistema culturale del tempo. L’esperienza poetica e la vicenda biografica del calabrese Tommaso Campanella ci conducono infatti nel chiuso isolamento di una solitudine sofferta, tormentata dai rigori dell’ Inquisizione. Pur non essendo comunque affatto digiuno dalle parole d’ordine della contemporaneità manierista e barocca (cfr. Bolzoni, 1977,pp. 42-3), Campanella sviluppa una Poetica (sia italiana che latina) che guarda decisamente al passato lontano, alla Magna Grecia in particolare e, privilegiando tra tutti i poeti-filosofi (ossiai > e i «poeti architettonici»), trova in Dante il modello a cui guardare: e già questo rappresenta un tratto di forte individualità e indipendenza dal petrarchismo di maniera. Per quanto qui ci interessa però, e al di là dell’intensa attività filosofica, come quasi tutto il resto della sua opera ideata e prodotta in carcere, Campanella è autore di oltre centoventi sonetti, la maggior parte dei quali accolti nella Scelta d ’alcunepoesiefilosofiche di Settimantano Squilla cavate da’ suoi libri detti La cantica con l’esposizione (ed. princeps, 1622; si cita da Giancotti, 1998).L’attività creativa del frate domenicano, a lungo accusata di rozzezza, trova caratteri innovativi nella considerevole apertura tematica e lessicale che veicola una veemente e appassionata ispirazione. Il tratto più originale sul piano della resa poetica sembra però scaturire dalla dialettica conflittuale tra laforma mentis speculativa e raziocinante dell’autore e la rigidità del codice lirico, ossia tra la naturale propensione ad argomentare e i vincoli imposti 104

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

dalla forma metrica. La necessità di rispettare la scansione strofica del sonetto, di armonizzare lo sviluppo sintattico e argomentativo con la divisione tra fronte e sirma e tra quartine e terzine finisce così spesso per rappresentare un ostacolo al discorso del domenicano, costretto ad adottare soluzioni inedite non tanto per dare ragione alla struttura formale quanto per non dissolverla del tutto. In qualche caso, ad esempio, il sonetto di Campanella è costruito su una lunga gittata iniziale che scavalca la seconda quartina e salda direttamente la fronte alla sirma (son. 51 della Scelta, secondo di Alcuni sonettiprofetali): (32)

— La scuola inimicissima del vero, dal principio divino tralignante, pasciuta d’ombre e di menzogne tante sotto Taida, Sinon, Giuda ed Omero, — dice lo Spirto — a riveder l’impero tornando in terra il Senno trionfante, l’ampolla del quinto angelo, versante giusto sdegno, terribile e severo, di tenebrefia cinta; e l’impie labbia, le lingue disleal co’ fieri denti stracceransi l’un l’altro per gran rabbia. In Malebolge gli animi dolenti, per maggior pena, dall’arsiccia sabbia vedran gli spirti pii, lieti e contenti. —

La seconda terzina, che si stacca dal resto, non ha però qui il compicome invece (lo vedremo) nel sonetto di Marino e dei marinisti, di chiudere il componimento mediante la ricerca della nota arguta, dell’acutezza, ma serve semplicemente come corollario figurativo del ragionamento, introducendo tra l’altro un sovrappiù di pena al giudizio dantesco. In altri sonetti, al contrario, Campanella utilizza la prima quartina come una sorta di proemio, di esposizione del tema, sviluppato poi, in un solo periodo, per tutto il resto del componimento (son. 44 della Scelta): to,

(33)

Nessun ti verrà a dire: — Io son sofista —; ma di perfidie la scuola più fina larve e bugie sottil dà per dottrina, e vuol esser tenuta evangelista. Ma lAretino con sua setta trista, 105

IL SONETTO ITALIANO

che bevetter di cinici in cantina, di sue ciarle mostrando fiori e spina, di bene e mal ciflz tutto una lista, per giuoco, non perfraude; ed ha a vergogna parer men tristo degli altri, c’han doglia che di tant’arte si scuopra la fogna; onde serran le bocche altrui, e si spoglia ognor il libro, e veste di menzogna, citato in testimon contro lor voglia.

Notevole anche in questo caso il rapporto stretto che si instaura tra la seconda quartina e la prima terzina, aperta tra l’altro, come nel sonetto precedente, con un verso sintatticamente franto. La rottura dell’autonomia sintattica tra le due parti del sonetto può anche essere più forte, come nel testo seguente di argomento storico-religioso, consacrato al dominio di Roma sul mondo, prima con la spada e poi con la via vera della fede cattolica: (34)

Dale arme ai corpi e dagli corpi alle alme sorse l’imperio tuo già, Roma altiera, quando tua spada veloce e severa ti die’ mille trionfi e mille palme. Lasciasti poscia lefierrigne salme (onde ognun ti stimò pazza e leggiera) al mondo da te vinto; e la via vera prendesti opposta, di cui tanto calme, per vincerlo di nuovo, e dolcemente. Deh! non pianger l’imperio, Italia mia, ch’oggi l’hai vie più certo e venerando; e sola avrai assoluta monarchia in austro, borea, levante e ponente, seguendo Roma il suo fato ammirando.

Qui non solo si ha la chiusura del secondo periodo al v. 9 (anche in queendecasillabo a maiore sottolineato dal leggero stacco sintattico), ma tutto il sonetto risulta sbilanciato, costruito com’è con una formula sintattica in cui alla quartina iniziale seguono due periodi di cinque versi ciascuno. Proseguendo in questa direzione si può anche incontrare l’enjambement interstrofico, ma sempre inserito in un giro sintattico più ampio e complesso che plasticamente organizza l’intera sirma (Sonettofitto sopra un che morse nel Santo 017izio in Roma, son. 99): sto caso un

106

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

(35)

Dilli che, se mandar tosto il soccorso dell’aspettata nova redenzione non l’è in piacer, da si dolente morso toglia, benigno, a sé nostre persone, o ci ricrei ed armi al fatal corso c’ha destinato l’ Eterna Ragione.

L’insofferenza che la scrittura poetica di Campanella mostra nei confronti della rigidità del metro sembra del resto trovare una sostanziale legittimità nella sua stessa Poetica (si cita da Giancotti, 1998, p. XXV): gli antichi non si sottomettevano mai a regole prefisse a loro, se non da Dio, da cui sono inspirati i buoni, e dalla natura che si deve imitare, perché invero queste regole pedantesche oscurano e ammorzano lo spirito puro e lucido del poeta, che in ogni cosa si trasmuta facilmente e d’ogni cosa parla, imitando l’affetto che egli esprime.

Parole in cui il conflitto con il linguaggio storicizzato della tradizione diventa esplicito e anzi necessario per far emergere l’individualità del poeta, tratto fondamentale della poetica del calabrese. La poesia campanelliana resta comunque all’ interno del codice lirico tràdito, rappresentandone rilevanti istanze di rinnovamento che però rimangono sottotraccia, proprio come un sentiero poco battuto nel bosco che affiora qua e là (cfr. ad esempio nel CAP. 6 i sonetti di Faustina Maratti Zappi). 5.2

«E del poeta il fin la meraviglia >>. Marino e i lirici marinisti Nei suoi Vestigi della storia del sonetto italiano Foscolo (ed. Terzoli, 1993, p. 43) dimostra di avere le idee chiare in merito alla situazione venutasi a creare alle soglie del Seicento: Ora nelle vicende della italiana poesia, e nella mia memoria trovo una grande lacuna. Per quasi cent’anni dopo la morte del Tasso, l’arte s’imbarbarì; si perché le armi, i costumi e la letteratura spagnuola innondarano tutta Italia; si per l’ ingegno prepotente del Marino il quale, cercandosi novella via, traviò; e tirò seco gli altri a smarrirsi.

Pur trattandosi di una posizione autorevole, e che può forse ancora trovare qualche sparuto seguace, gli studi — e forse anche l’evoluzione del 107

IL SONETTO ITALIANO

gusto — degli ultimi decenni hanno consentito di correggere in modo sostanziale il quadro tracciato da Foscolo. Per quanto riguarda nello specifico proprio Marino infatti, appare ormai chiaro come la proposta mariniana, soprattutto delle Rime del 1602, vada interpretata come estremo portato di una linea meridionale, e segnatamente napoletana, della generazione successiva al Sannazaro, diffusa a partire dalla metà del Cinquecento nelle raccolte di rime edite dal Giolito […] e caratterizzata da un atteggiamento di “petrarchismo largo”, aperto al recupero di esperienze della lirica cortigiana, e, particolarmente nel metro del sonetto, dalla ricerca di un andamento epigrammatico, con conseguente potenziamento dei nessi logici che accompagnano e sbilanciano il testo verso la conclusione arguta (Raboni, 2012,

pp. 125-6).

Così anche, come abbiamo appena visto, per Campanella (senza però la ricerca di una chiusura brillante). Ricondurre l’esperienza poetica di Marino (e dei cosiddetti lirici marinisti) a un preciso contesto storico-culturale non significa naturalmente disconoscerne l’originalità di ispirazione o la felicità di certi esiti, sul filo di quella meraviglia («è del poeta il fin la maraviglia >>, come da programma della XXIII fischiata della Murtoleide) che > (Getto, 1954a, 8). Marino è stato certo il più dotato e forse anche il più acuto p. poeta della sua epoca, quello che con più convinzione ha saputo sfruttare le risorse offerte dalla tradizione per esprimere la propria singolare prorompente individualità. Si può dire, con un’ inevitabile ma forse utile semplificazione, che al Marino non interessa affatto una scrittura che sancisce un’appartenenza (l’appartenenza alla tradizione): attraverso una rilettura anche superficiale del passato egli punta in primo luogo a stupire i suoi contemporanei, ed è pertanto costantemente rivolto al presente e proteso verso il suo superamento («Io pretendo di saper le regole più che non sanno tutti ipedanti insieme; ma la vera regola, […], è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo >>, scrive in una lettera a Girolamo Preti). Da qui l’interesse per ogni cosa che colpiscai sensi, e soprattutto la vista perché essa è immediatamente suscitatrice di meraviglia; da qui lo stretto rapporto che la poesia instaura con la pittura e con le arti in genere; ma da qui anche l’esclusione di ogni approfondimento psicologico, in favore di una pure acuta, analitica ma tutta esteriore osservazione delle cose e della natura, una natura ritratta nei suoi aspetti lussureggianti e 108

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

preziosi. Tale approccio si traduce inevitabilmente, sul piano formale, nella propensione a una minore complessità sintattica e a una più vasta apertura lessicale e tematica rispetto alla lirica precedente. Soprattutto per questo secondo aspetto la continuità con Tasso (non solo quello delle Rime, naturalmente) è evidente: il Tasso doveva per la civiltà poetica barocca sostenere la parte che il Petrarca aveva sostenuto per l’età precedente. Sicché questa poesia [quella marinista in sostanza], fondamentalmente antipetrarchista, accoglierà del Petrarca solo quel tanto che era passato nell’ancora petrarchista Tasso, e in quella maniera e in quella misura in cui il Tasso era stato a sua volta imitato attraverso il filtro del Marino (Getto, 1954a,p. 14). sostanza essere considerato in poesia il punto di snodo attraverso cui si attua il passaggio dal principio di imitazione a quello

Tasso può in

di contaminazione e variazione. Per stringere il cerchio su ciò che però più ci interessa si deve tener presente il quadro ben impostato da Parenti (1978, p. 226):

La forma metrica che lo scorcio del secolo trovò maggiormente usurata è prossima già all’incoerenza era, ovviamente, il sonetto: luogo eletto ai deliri nomenclatòri dei signori napoletani, per l’originaria sua vocazione all’elenco, al parallelismo e al contrasto, nelle predilette figure in verbis coniunctis dell’anafora e dell’ossimoro, esso esaudiva il desiderio di sterilità ripetitoria dei suoi stralunati manipolatori.

Per cercare di chiarire nel concreto quanto sostenuto da Parenti prendiamo in esame il sonetto di Francesco Della Valle intitolato Particolari bellezze della sua donna: (36)

O chioma bionda, o fronte ampia serena, neri o occhi lucenti, anzi o due stelle, o guancie d’ostro e neve e fresche e belle, o aria modestissima e amena, o bocca di rubin, di gemme piena, 0 soavissime favelle, riso, o 0 man di latte, o vaghe membra e snelle, in o figura beltà più che terrena, o nobil portamento e pellegrino, o accorte maniere, 0 gran decoro, 0 moto, o caminar quasi divino, 109

IL SONETTO ITALIANO

o novo spirto de l’empireo coro, o nome dolce, o nume a cui m’inchino, che dirò mai di voi? Taccio e v’adoro.

La lunga “tirata” anaforica, impostata sull’unica formula dell’invoca-

zione o della chiamata in scena delle bellezze dell’amata, comporta una serie di variazioni che però esauriscono il loro effetto nell’ambito del singolo verso, il quale (a eccezione, è ovvio, dell’ultimo) può in sostanza scambiarsi di posto con il corrispondente nello schema rimico (O, mutando schema, con un altro) senza che il senso ne risulti compromesso (non si tratta del resto di un caso isolato: con la stessa struttura, ma con una più evidente disposizione a scalare, in climax, è costruito il sonetto Ofizllaci promesse o vero inganno di Luigi Groto, su cui cfr. Erspamer, 1983, pp. 198-9).Al v. 1 il sonetto di Della Valle prevede che al sintagma formato da sostantivo e aggettivo (chioma bionda) segua il sostantivo con due aggettivi giustapposti (fronte ampia serena), dilatando cosi la cellula iniziale, mentre il verso successivo ripropone lo stesso schema (un sostantivo con due aggettivi) ma questa volta collocando classicamente il sostantivo al centro (neri occhi lucenti) e chiudendo il verso con la trasposizione metaforica, in chiave ossimorica e iperbolica (gli occhi neri lucenti diventano stelle), di quel sintagma. I due versi iniziali, che sono dunque costruiti con i medesimi materiali variati nella loro disposizione, danno vita a due movimenti ritmici diversi: il primo è un endecasillabo a minore (con cesura sulla 4a sillaba) mentre il secondo è a maiore (con cesura sulla 6“). Designando poi il colorito della donna tramite una coppia di sostantivi con funzione eminentemente coloristica (d ’ostro e neve già di Petrarca, di Caro ecc.), a cui si accostano mediante polisindeto due aggettivi intonati sulle stesse vocali toniche del secondo sostantivo (e e belle), il terzo verso dà seguito alla progressiva apertura della battuta (rispetto ai primi due) distendendosi liberamente lungo tutta la sua misura. Nonostante l’impostazione retorica porti con sé una p0tenziale apertura adlibitum del testo, l’ultimo verso della prima quartina, e così anche l’ultimo della seconda, svolgono comunque una funzione di chiusura, che si esplica esclusivamente sul piano del significato: dopo infatti che i primi si erano concentrati sui dettagli fisici (la chioma, gli occhi, le guance; la bocca, il riso, le mani e le membra), i versi finali svolgono una funzione riassuntiva, dando una visione generale e d’insieme della donna (l’aria in un caso, la figura nell’altro). Ancora si possono mettere in evidenza sul piano

fresche

110

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

dell’ordine delle parole le epifrasi con effetto rallentante al v. 7 (o vaghe membra esnelle) e, distesa per l’intera misura, al v. 9 (o nobilportamento e pellegrino); oppure sul piano dell’armonizzazione fonica la sequenza allitterante dell’ultima terzina (NOva spirto... NOME dolce... NuME, anche con paronomasia). In sintesi il sonetto è lavorato con grande finezza, anche se la meccanicità del risultato sembra risolvere questa bravura in un fatto di pura esibizione tecnica: il gioco retorico è infatti evidente fino all’eccesso, e il testo finisce per tradire il suo carattere gratuito, riducendosi a un puro schema astratto, una sorta di scatola vuota da rivestire con una carta brillante e colorata. Si può ben capire in questo contesto come venga meno nei poeti marinisti e barocchi l’interesse per Della Casa e per il discorso lungo, costruito su un giro sintattico complesso e inarcato. Anche in sede teorica (cfr. ad es. Vincenzo Toralto, La Veronica o delsonetto, del 1589,poi ripreso da Federigo Meninni, Il ritratto del sonetto e della canzone, del 1677) è valorizzata ora la chiarezza dell’elocuzione che deve servire a mettere in risalto la > o «concetto >> su cui riposa essenzialmente la riuscita del sonetto. Da qui deriva l’importanza che assume appunto la chiusura del testo e in particolare la terzina finale, che si stacca spesso anche sintatticamente dal resto del componimento, e in cui soprattutto si concentra la massima ricerca di sorpresa e di “acutezza”. Le possibilità sono molteplici: una serie di più o meno variate descrizioni può terminare con un commento arguto (cfr. Amor dipesci, per comodità si esemplifica qui e in seguito da Marino); la terzina finale può ribaltare con una serie di interrogative ed esclamative l’idillico quadretto tracciato nella prima parte (Lapastorella in citta'); oppure il secondo terzetto può, cambiando semplicemente prospettiva, rovesciare il senso di quanto detto in precedenza (cfr. Il ventaglio di bianche piume, in cui da un lato, nella fronte, il ventaglio ristora la donna dall’afa estiva mentre funziona come un mantice che ravviva le fiamme dell’amore del poeta, dall’altro, nella sirma, il ventaglio stesso nasconde gli occhi della donna e insieme tempera l’ardore dei sospiri dell’uomo); ancora nel finale è dato rintracciare il senso autentico del titolo di un sonetto (si pensi ad Alla gelosia, che enumera inizialmente una serie di pene eccezionali per antonomasia, come quelle di Tizio, Tantalo, Issione, Sisifo e Prometeo per poi chiudere con la sofferenza più dura, ossia quella del tradimento); la terzina conclusiva è anche il luogo in cui spesso trova posto l’io del poeta e la sua relazione con la donna (cfr. In morte della sua donna), oppure si dà un cambio di referente che è motivo di sorpresa e stupore (ne Il velo sulle

IL SONETTO ITALIANO

chiome ad esempio, dopo essersi rivolto per i primi undici versi sempre alla donna, proprio nell’ultima terzina l’invocazione, con slittamento metonirnico, è per il lino beato). A volte inoltre si può staccare dal resto del componimento il solo ultimo verso (così come abbiamo visto per il sonetto di Della Valle, ma così come accade anche ne Il Velo e le aure, o ne Le parole sempre del Marino). Queste e altre soluzioni (cfr. anche Praloran, 2011, pp. 54-7) sono possibili proprio perché al sonetto nulla è più precluso, nessun argomento, nessuna prospettiva, nessun registro. La ricerca di arguzia non risparmia neppure un contesto tragico come il pianto funebre: la donna che piange per la morte di un bambino non trattiene il poeta dall’esprimere il proprio rammarico — ancora una volta in chiusura di componimento — per non essere riuscito a farle fare altrettanto (cfr. La sua donna che piange sopra un fiznciullo morto ancora di Giambattista Marino). Abbiamo dunque definitivamente lasciato alle spalle il sistema dei generi, o meglio il rapporto tra genere e forma metrica (cfr. PAR. 1.3), e il sonetto è davvero ora un luogo ove nulla, nelle cose e nei modi, è più taciuto. A que5ta straordinaria disponibilità nei confronti della superficie colorata del mondo fa però da contrappunto una notevole rigidità sul piano formale, e soprattutto su quello degli schemi, delle terzine in particolare. Tenendo come punto di riferimento ancora l’edizione delle Rime di Marino del 1602, Giulia Raboni (2012, p. 135) ha notato «la selezione quasi esclusiva nelle terzine del sonetto della forma alternata su due rime CDC DCD >>: su un totale di 430 sonetti ben 394 presentano questo assetto. Anche da questo punto di vista il sonetto di Marino sembra funzionare come modello per tutta una serie di lirici successivi, non solo quelli che alla poesia del napoletano si riconducono, ma addirittura quelli inquadrabili nell’ambito della successiva lirica arcadica. Se si prende ad esempio l’antologia di lirici marinisti curata da Benedetto Croce (1910) si può notare come tra i primi 300 sonetti ben 278 sono quelli che presentano uno schema a due rime, di cui 276 del tipo alternato CDC DCD (tra cui un sonetto caudato CDC DCD dEE) e appena due del tipo replicato CDC CDC; gli altri schemi sono: CDE CDE (8); CDC EDE (8); CDE DCEG%CDEEDCU) Si ricordi in ogni caso che lo schema a due rime alternate non solo, da un punto di vista numerico, è il secondo del Canzoniere di Petrarca, ma già Bembo, come noto, ne aveva individuato le proprietà di piacevolezza, considerandolo più adatto alle rime di carattere amoroso, al 112

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

contrario dello schema a tre rime il quale — essendo meno percepibile il ritorno dello stesso suono a causa della maggiore distanza tra una parola e il suo corrispondente — era giudicato più nobile e adatto al registro

sublime (cfr. PAR. 4.3.1). Seguiamo ancora Giulia Raboni (ivi, p. 149) che ha benissimo individuato e descritto il senso di una dinamica da cui si possono cogliere due indicazioni nello stesso tempo: l’attestazione su una linea temperata, aliena dall’eccessivo impegno grave del filone dellacasiano e in particolare dal suo avvolgente andamento sintattico, e la promozione al suo interno di uno schema adatto a sviluppare gli aspetti arguti del testo, rifacendosi d’altra parte a una consuetudine che tradizionalmente riservava questo tipo di sonetto a sviluppi seriali, come catene e corone, particolarmente sfruttati a livello microstrutturale nei canzonieri seicenteschi (tipici in particolare della lirica mariniana) e favoriti […] dal raggruppamento tematico e dall’uso delle intitolazioni. A tutto favore perciò dell’esaltazione della variatio tematica e del repertorio immaginifico, laddove alla unicità metrica spetta invece il compito di suggerire l’omogeneità dell’insieme.

Vediamo ora, attraverso il confronto diretto tra due testi strettamente legati, in cui anzi il secondo è imitazione del primo, come sia possibile cogliere nel concreto questo passaggio, questa neutralizzazione della complessità che la lirica marinista comporta. Mettiamo dunque a fianco i due sonetti al sonno di monsignor Giovanni Della Casa (Rime, LIV, es. [37]) e del cavalier Giambattista Marino (La lira, LX, es. [38]): (37) O Sonno, o dela queta, umida, ombrosa Notte placido figlio, o de’ mortali egri conforto, oblio dolce de’ mali si gravi ond’è la vita aspra e noiosa, soccorri al core omai che langue e posa non ave, e queste membra stanche e frali solleva: a me ten vola, o Sonno, e l’ali tue brune sovra me distendi e posa. Ov’è ’l silenzio che ’l di fugge e ’l lume? E i lievi sogni che con non secure vestigia di seguirti han per costume? Lasso, che ’n van te chiamo e queste oscure e gelide ombre in van lusingo: o piume d’asprezza colmel, 0 notti acerbe e dure! 113

IL SONETTO ITALIANO

(38)

O del Silenzio figlio e de la Notte, padre di vaghe imaginate forme, Sonno gentil, per le cui tacit’orme son l’alme al ciel d’Amor spesso condotte, or che ’n grembo a le lievi ombre interrotte ogni cor, fuor che ’] mio, riposa e dorme, l’Erebo oscuro, al mio pensier conforme, lascia, ti prego, e le cimerie grotte. E vien’ col dolce tuo tranquillo oblio e col bel volto, in ch’io mirar m’appago, a consolare il vedovo desio. Ché, se ’n te la sembianza, onde son vago, non m’è dato goder, godrò pur io de la morte, che bramo, almen l’imago.

I sonetti presentano lo stesso schema rimico, con le quartine a rime incrociate e le terzine a due rime alternate. Colpisce comunque la scelta di Della Casa che utilizza, per un sonetto che tematicamente e stilisticamente sta tutto dentro il registro della gravitas, uno schema considerato per eccellenza portatore di dulcedo, proprio dello stile temperato. Anche l’attacco con il vocativo è comune ai due sonetti, ma mentre nel componimento di Della Casa l’invocazione, che chiama in causa subito il suo oggetto (0 Sonno), si raddoppia già nel primo verso e poi anzi si triplica distendendosi nel secondo e nel terzo, in quello di Marino il tasso retorico, che si alza, trattiene e quasi blocca lo sviluppo del discorso. La perifrasi, in forma di epifrasi al v. 1, con cui si apre il testo introduce un’attesa che è una forma di reticenza (sonno compare solo al terzo verso): è un attacco impostato e sospeso, privo di energia in sostanza, mancante delle virtù avvolgenti del suo modello. Della Casa poi concepisce la fronte come una cosa sola (si pensi alla funzione di legante svolta dall’allitterazione: S0nno, SOccorri, poSA, SOllevA, S0nno, SOvra, poSA ), pur organizzando il suo discorso in modo da dividere il momento dell’invocazione che occupa la prima quartina, contemplati-

vo e tutto nominale (se si eccettua il verbo essere alla terza persona al v.

4), dal contenuto dell’invocazione stessa, nella seconda quartina, ben più compromesso con l’esistenza dell’io e in cui si contano sette verbi, di cui tre in prima posizione (l’attacco con il verbo al v. 5 funziona come elegantissima cerniera tra i due momenti). Marino tenta una cosa in prima battuta ancora più complicata, con il verbo della principale al v. 8, accentuando dunque ancor più la distanza con il vocativo (o la 114

5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

prima occorrenza di esso). Ma quello che non si coglie in Marino è la profondità data sul piano metrico-sintattico dall’incatenamento o dal rompimento dei versi, dalle inarcature insomma che non permettono il riposo mentre continuamente le parole lo invocano: per Parenti (1978, p. 23 6) quello di Marino è, forse prima che un obbligatorio cimento su un tradizionale pezzo di bravura, una sottile parodia stilistica ove la superbia sintattica del famoso modello dellacasiano viene umiliata, saldati i rompimenti più traumatici, attutiti o aboliti i trapassi d’uno in altro quaternario.

Una lezione di controstile, insomma. Nel componimento di Della Casa in effetti la struttura del sonetto è sfruttata per sollecitare il rapporto, che è anche conflitto, tra forma e contenuto, diviene cioè un elemento attivo: anche qui abbiamo, al v. 9, un’epifrasi che si distende lungo tutto il verso e lo satura, ma i due versi successivi sono ancora una volta compenetrati l’uno nell’altro, fanno un tutt’uno, con un movimento ampio, ricco di dislocazioni e inversioni ma perfettamente fuso. Il pathos che anima il testo dellacasiano funziona come un crescendo che ha al centro proprio la prima terzina, in cui l’invocazione lascia spazio all’interrogazione sconsolata. Marino, in gara con il proprio modello, cerca di introdurre i medesimi rallentamenti, o le medesime sospensioni, attraverso brevi incisi, sul piano cioè solamente ritmico-sintattico, senza chiamare in causa il livello metrico, accettato potremmo dire nel-

la sua rigidità. Anche la conclusione è totalmente diversa: l’ultima terzina di Della Casa sviluppa o ripete coerentemente il tema dell’intera lirica, chiudendosi addirittura con un’invocazione che rispecchia retoricamente l’incipit mentre lo contraddice (per tutto il componimento era stato invocato il sonno come portatore di pace, ma ora si denuncia l’insonnia, e con essa lo scacco del desiderio). In Marino invece l’ultima terzina è il punto culminante della pointe: il sonno è invocato come lenitivo nei confronti dell’assenza dell’amata, ma anche se attraverso il sogno non restituisce l’immagine di lei, il sonno rimane pur sempre un anticipo di morte, ossia di oblio. Tutto ciò che nel testo di Della Casa è profondità, nel senso anche di oscurità e pesantezza (si pensi alla qualità vocalica delle rime delle terzine: -UmE; -UrE, con l’aggiunta dell’assonanza tra 0MbrE e COIME), è nel Marino alleggerito e come svaporato; tutto quello che in Della Casa si esprime come ansia di conoscenza e turbamento in115

IL SONETTO ITALIANO

teriore (già in qualche modo controriformistico) è nel Marino ricondotto a una dinamica relazionale, interna al rapporto amoroso. E così Marino è costretto a nominare la cosa (la morte) che — pur presente fantasmaticamente in tutto il componimento — nel sonetto di Della Casa può essere taciuta.

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Altre esperienze secentesche Nella continua ricerca di novità e di meraviglia, nella concezione della vita come spettacolo e del mondo come teatro, il barocco è — come già ricordato sopra — potentemente attratto dalla superficie cangiante delle cose, in una sorta di progressiva azione di conquista che punta ad ampliare i confini del reale. Se il cannocchiale consente a Galileo di scrutare finalmente lo spazio e osservare le macchie solari, anche la bellezza femminile potrà essere indagata dal poeta secondo nuovi canoni, spingendosi fin dentro i territori inesplorati e oscuri del suo contrario. In questa direzione vanno ad esempio i sonetti dedicati — e si noti intanto l’aggettivo costante in que5ta tipologia di testi — alla bella guercia, alla bella gobba, alla bella nana, alla bella zoppa (Giovan Leone Sempronio) e così via fino alla bella balbuziente (Scipione Errico) o anche, con sintomatico rovesciamento, alla bruttezza ingioiellata (Ludovico Tingoli). Al di là del valore specifico di questi sconfinamenti dal canone (o dal galateo) tradizionale, il poeta barocco è incalzato dalla necessità «di toccare l’intera serie delle possibili qualità della donna, senza escluderne alcuna e senza ritrarsi di fronte a nessuna di esse, per quanto riesca negativa e ripugnante >> (Getto, 1954b,pp. 48-9). Più che a un atteggiamento di accondiscendenza nei confronti della varia natura umana sembra comunque di trovarsi di fronte a qualcosa di analogo alla passione per il collezionismo, tipicissima di questo periodo, che si sviluppa direttamente dall’ansia ossessiva nei confronti del caos e del disordine (cfr. Battistini, 2000, pp. 63 ss.). Pur trattandosi di un atteggiamento che si riflette soprattutto in ambito tematico, toccando solo in parte la forma del sonetto, può risultare utile leggere almeno La bella tartagliante del vicentino Paolo Abriani: — Mio co-co-cor, mio ben, mia pu-pupilla, (39) s’io mi-mi-miro il tuo be-bel vi-viso,

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5. IL SONETTO TRA MANIERISMO E BAROCCO

se-se-sentomi il sen co-co-conquiso, per-per l’ardor, che da te-te sfavilla; ma tu-tu-tu non hai sci-scintilla d’amor e stai da-da-da me diviso, e avendo in te-te-te il pa-paradiso, di gio-gioia mi nieghi anco una stilla. S’ogni mia po-potenza a te si diede, s’hai di me-me la mo-mo-monarchia, pe-pe-perché mi nieghi egual mercede? — Così, d’amor ardendo in fiamma ria, qualche segno maggior della mia fede tartagliando chiedea la bella mia.

Il segno linguistico che rifà il verso alla bella balbuziente si inserisce in modo perfetto nello schema versale: nonostante il ritmo sincopato e rotto che pare voler spezzare l’unità del verso, cosi come il balbuziente spezza l’unità della parola, è alla fine la struttura formale a piegare la ricerca di verosimiglianza. Se il tasso, per così dire, di gratuità semantica inoculato nel testo pare del tutto inedito, il sonetto è poi ricondotto al suo normale sviluppo, rientrando l’azzardo in una gestione pacifica dell’assetto rimico e dello sviluppo discorsivo, come conferma da un lato la punteggiatura che scandisce quasi tutti i versi rendendoli ritmicamente autonomi, dall’altro la terzina finale che funziona da chiosa esplicativa (e si noti il gioco facile, per trovare la rima, dell’inversione tra sostantivo e aggettivo in uscita di verso, ai vv. 11 e 13). L’interesse nei confronti del poeta vicentino è legato però anche a un altro sonetto (entrambi opportunamente antologizzati da Croce), il quale, confermando la nota dissacrante e parodica che quello appena citato già portava in superficie, conferma il grado di consapevolezza che Abriani ha del proprio lavoro: (40)

Vorrei per Nuccia mia far un sonetto,

ma sento che la vena or non mi serve,

e quanto il desiderio in me più ferve, tanto il mio ingegno a questa impresa è inetto. Pur mi ci vuo’ provar, ché se più aspetto, dubito che ’l poter più mi si snerve: >. Eh, non va ben questo concetto! Voltiamo faccia e andiam da poppa a prora: >. II'/’

IL SONETTO ITALIANO

NO, diciam meglio e incominciamo ancora: >.

Ma come c’entra Urania? Or su, per ora, far sonetti non so; ci vuol pazienza!

Mettendo in scena, anche grazie a una efficace modalità di rappresentazione autodialogica, l’incapacità di scrivere sonetti, il poeta vicentino costruisce un sonetto ineccepibile, in cui ricca e raffinata è la rispondenza trale singole parti: dalla ripresa tra primo e ultimo verso del testo del termine in questione (sonetto > sonetti) al passaggio dal verbo in prima persona al sostantivo attribuito alla donna tra primo e ultimo verso della fronte (Vorrei > tue voglie); dal rovesciamento dell’ipocoristico Nuccia nel mitologico Urania (entrambi per due volte) alla ricerca di omogeneità fonica evidente sia nelle rime ricche e/o inclusive sia nelle allitterazioni interne (nella seconda quartina ad es.: provar...poter... proterve) ecc. Riuscita è inoltre la contaminazione tra registri linguistici e stilistici differenti: sul versante linguistico conta ad esempio l’inserimento di diverse tessere di ascendenza dantesca (ingegno, canto, Urania ecc.), distribuite però a macchia lungo tutto il sonetto e inserite in un contesto sintattico e discorsivo che ne abbassa costantemente l’intonazione; sul versante stilistico invece va notato il progressivo innalzamento del tono alla ricerca di un incipit degno del genere (si confrontino i vv. 7-8, 10, 12), con il recupero (però infine scherzoso) di un tipico modulo epico di attacco, tra Virgilio e Tasso, al v. 10. Il risultato leggero e divertito non è però solo il frutto di un’ispirata vena individuale, ma può essere considerato la traccia di un filone produttivo, nel cui solco si inserisce anche, ad esempio, il Sonetto nello stile di moda del lucano Tommaso Stigliani che porta come sottotitolo appunto un’etichetta di genere: parodia.

118

6

Il Settecento, tra crisi e modernità

6.1

Un secolo (quasi) senza poesia ma con molti sonetti «Negli ultimi decenni del Seicento […] si comincia a sentire, in Italia, la vivida frescura di un’aura nuova >> (Croce, 1968,p. 213). Da un certo punto di vista, la storia segue vie di apparente buon senso: a un’epoca dominata dalla ricerca dell’arguzia, della stravaganza e della meraviglia segue per reazione, e quasi senza soluzione di continuità, un periodo in cui diventa centrale un’esigenza di semplicità, di chiarezza e di simmetria. A un’epoca d’altro canto attraversata da un cupo senso di caducità, che in pittura porta alla massima espressione il genere della natura morta (anche nella declinazione della Vanitas) succede, dopo la breve stagione del rococò, un tempo che non solo scopre lo spazio aperto, il paesaggio, e inventa la veduta e il capriccio (cfr. almeno Starobinski, 2008, pp. 15-49),ma si fa curioso più che attento alla realtà sociale, dando largo spazio e fortuna alla pittura di genere: da Caravaggio a Pietro Longhi in sostanza, dal Greco a Canaletto. Si potrebbe anche continuare, sulla via di una semplificazione che lasciando per strada molti aspetti problematici e anche contraddittori (ad esempio la parte svolta da Chiabrera, e la continuità che proprio sul piano linguistico-stilistico ne deriva nel senso di un nuovo classicismo) consente però di cogliere il cambio di paradigma che si verifica nel corso del XVIII secolo, certo anche sulla spinta del pensiero razionalistico d’oltralpe. La condanna dell’irrazionalità e della chiusura, che stavano tra l’altro alla base del sospetto e dell’inquisizione cattolica, poggia dunque sulla scoperta, o riscoperta, del primato della ragione, posta a fondamento innanzitutto di una visione della vita che apre le porte all’agio del salotto e alla “civiltà della conversazione”. In sostanza, e cominciando dall’inizio, il «Settecento letterario si apre all’insegna del rifiuto polemico degli ec119

IL SONETTO ITALIANO

cessi barocchi, contestati in ragione del “buon gusto” e di un’esigenza di ordine e di misura di ispirazione classicheggiante >> (Coletti, 1993,p. 194). Al centro di questa reazione, e prima di ogni influenza esterna, si colloca l’Arcadia, l’accademia fondata a Roma nel 1690 e diffusasi ben presto nel territorio italiano grazie alla proliferazione delle sue colonie. Pur nella continuità iniziale di certi atteggiamenti, per Croce (1968, 225), semplicemente, «l’Arcadia fu la reazione contro il barocchismo >>. In questo processo di rinnovamento, il ritorno al linguaggio tradizionale si coniuga strettamente con una nuova centralità attribuita alla musica, che porterà al trionfo italiano ed europeo del melodramma di Metastasio (sulle cui forme cfr. Benzi, 2005), ma che avrà evidenti ricadute anche su altri aspetti della produzione poetica settecentesca. In primo luogo proprio sul piano della metrica, che conosce nel Settecento una stagione di grande vivacità sperimentale. Da questo punto di vista del resto

l’interesse e dei contemporanei e dei posteri per il metro in se' è per noi un indizio o una riprova del carattere della poesia settecentesca, poesia prevalentemente letteraria, nella quale cosi scoperto è il lavoro dell’artefice e i vari elementi onde risulta (lessico, sintassi, metro ecc.) che è importante, prima che per autentici valori poetici, proprio per quel vario lavoro, per la elaborazione che con essa si compì del nostro linguaggio poetico, per l’efficacia sua sulla poesia maggiore e minore dell’Ottocento (Fubini, 1965,p. 39).

Si tenga presente in ogni caso che l’Arcadia accoglie in sé, livellandole, esperienze anche molto diverse sia da un punto di vista temporale sia sul piano spaziale e geografico: da un lato ad esempio la propensione verso la cantabilità e la piacevolezza, la leggerezza, di Metastasio o di Savioli e dall’altro, anche se già avanti nel secolo, le più impegnate e profonde esigenze di Parini (arcade con il nome di Darisbo Elidonio dal 1777).Sulla qualità degli esiti di questa massiccia produzione poetica si è discusso molto, e va detto che il giudizio complessivamente negativo parte da lontano, se già al tempo vi era Chi, come Carlo Innocenzo Frugoni, tra l’altro uno dei fondatori nel 1716 della colonia arcadica di Brescia, dubitava di sé stesso e un po’ palazzeschianamente affermava: son io? Verseggiatore e nulla più: non poeta, nome usurpato da molti, meritato da pochi, che ebber mente più divina e lingua da risonar cose grandi». E innegabile tuttavia che sul piano tecnico, della tecnica poetica, il Settecento rappresenti un momento di grande interesse per ). Il che significa innanzitutto un’amplissima escursione tematica: pur nella preponderante finzione arcadica e nei consueti travestimenti della lirica petrarchesca il sonetto settecentesco (ma certo la stessa cosa si potrebbe ben dire per altre forme metriche) sa parlare d’amore come di argomenti morali e sacri, sa cogliere le opportunità della lirica encomiastica come guardare con curiosità ai temi di più schietta occasionalità (dalle vicende biografiche 122

6. IL SETTECENTO, TRA CRISI E MODERNITÀ

dei singoli poeti alla moda dei sonetti per monacazione ecc.). Insomdisponibilità che rischia spesso di scadere in facilità, come del resto denunciato da Baretti stesso che, nel primo numero della “Frusta letteraria” (1763), si scaglia sarcasticamente contro gli > dell’ > Zappi (si cita da Baragetti, 2012, p. 167). Su questa strada è sintomatico, e insieme gustoso, il quadro tracciato da Foscolo (in Fubini, 1965, p. 40), secondo cui ma, una

i nostri poeti, leggiamo nel Gazzettino del bel mondo, non possono essere più generosi di voi tutti patrizi; ed essendo men ricchi di voi vi fanno un sonetto quando nascete; e quando uscite di collegio un sonetto; e quando vi ammogliate, un sonetto; e quando mandate le vostre figliuole in convento, un sonetto; — e quando morite vi cantano il requiem aeternam con un altro sonetto — e se ne fanno raccolte, — l’uso era alquanto cessato; ma tornerà con gli altri usi.

6.2

Le forme del sonetto nell’Arcadia settecentesca L’attenzione per l’aspetto sperimentale che porta alla proliferazione di forme metriche nuove o rinnovate, anche se come detto non impensierisce sul piano quantitativo la consolidata supremazia di quella sorta di hortus conclusus che è il sonetto, si esercita sottilmente pure su di esso. Nelle realizzazioni migliori il sonetto settecentesco si giova, infatti, dell’amore per la simmetria e la leggerezza dietro cui riposa la fortuna delle ariette metastasiane o degli Amori del Savioli, e lo fa innanzitutto rinunciando a puntare tutte le sue carte sulla ricerca dell’arguzia finale, ma badando invece a una distribuzione più equilibrata, più armonica del discorso. Naturalmente, laddove è maggiore la propensione verso la grazia, più esplicito risulta il riferimento alle forme di poesia per musica: se il sonetto > (Baragetti, 2012, p. 146),per i sonetti di Giambattista Felice Zappi, Fubini (1965, p. 40) ha esplicitamente parlato di >, non possiamo non tener conto della spinta esercitata proprio dal teatro di Metastasio (chiarissima Benzi, 2005, p. 246: «prassi compositiva fondamentale dell’aria metastasiana è, a qualsiasi livello, quella della ripetizione >> ). A conferma del costante appoggio offerto dalla musica non sarà inutile notare sul piano fonico come i due sonetti citati (i quali pur non essendo contigui nel canzoniere dell’autore pure sono piuttosto vicini) non solo leghino in assonanza le rime della fronte con quelle della sirma 125

IL SONETTO ITALIANO

(nel primo la rima A con la rima D, nel secondo la rima A con C) o all’interno della sirma stessa (nel primo C con E, nel secondo D con E), ma condividano anche tra loro alcune sequenze vocaliche in rima ( la rima A ma anche la rima E), e addirittura un rimante (l’aggettivo bello). Perfettamente funzionale in entrambi è inoltre la sintassi che procede per giustapposizione, e anche all’interno della frase non tollera se non eccezionalmente perturbamenti dell’ordine delle parole tali da complicare la linea melodica (si vedano nel secondo gli iperbati al v. 2 e al v. 12). L’estrema convenzionalità dei motivi si conferma cosi sostenuta in egual misura dal mestiere e dal repertorio di forme che il linguaggio tradizionale mette a disposizione del poeta: ne esce una poesia che — prendendo a prestito una terminologia usata per un tipo di pittura diffusa in Italia in particolare proprio nei primi decenni del XVIII secolo — si potrebbe chiamare appunto “poesia di genere”. Il rapporto con la pittura, o insomma con le arti figurative, risulta anche più esplicito in una particolare forma di sonetto che dal tema e dai modi prese appunto l’attributo di “pittorico” (di sonetti pittorici parla Foscolo). Non si tratta di una novità assoluta, e Croce ne sottolinea la continuità nel corso della tradizione italiana, pur notandone la diffusione soprattutto a partire dalla metà del Seicento grazie al leccese Giuseppe Battista. Lo stesso Croce (1968, p. 264) del resto, nella sua Letteratura italiana del Settecento, dedica un capitolo a Giuliano Cassiani e ai suoi “sonetti pittorici”, che consistono nella >. Pubblicati in numero di nove nel quattordicesimo volume delle Rime degli Arcadi, ne vediamo qui in breve almeno uno, Il ratto di Proserpina: ( 43)

Diè un alto strido, gittò i fiori, e volta a l’improvvisa mano che la cinse, tutta in se' perla tema, onde fu colta, la siciliana vergine si strinse. Il nero dio la calda bocca involta d’ispido pelo a ingordo bacio spinse, e di stigia fuligin con la folta barba l’eburnea gota e il sen le tinse. Ella già in braccio al rapitor puntello fea d’una mano al duro orribil mento, de l’altra agli occhi paurosi un velo. Ma già il carro la porta; e intanto il cielo 126

6. IL SETTECENTO, TRA

CRISI E MODERNITÀ

ferian d’un romor cupo il rio flagello, le ferree ruote e il femminil lamento.

I quattro momenti in cui si articola il rapimento della dea si accordano perfettamente alla struttura strofica del sonetto. Pur dando compiutezza a scene diverse il testo riesce a legare da vicino i tempi dell’azione, che pare incalzante nella fronte (tra i primi otto rimanti ben sette sono verbi) e si fa più contemplativa nella sirma (su tre rime, ma tutte assonanti e anche più tra loro): la Stretta continuità dei singoli momenti della rappresentazione riesce così a tradursi in unità di visione, tanto che non con un quadro sarà da porsi il parallelo bensi piuttosto con un affresco, magari un soffitto del Tiepolo. L’impianto descrittivo non toglie nulla all’intensità del dramma, che si coglie benissimo già a partire dall’attacco in medias res: come se non ci fosse nulla prima dello squarcio che quel grido introduce, e lo spavento della donna non fosse che l’unico tratto con cui essa manifesta a sé e al mondo la propria esistenza. Si badi dunque che “pittorico”, almeno per gli esemplari più riusciti del genere, non va affatto inteso come “imitativo” di una qualche opera d’arte figurativa, ma come modalità particolare di una visione poetica. Il movimento speculare tra prima e seconda quartina, che è anche un movimento speculare della sintassi (si veda la diversa collocazione del soggetto nelle due strofe) pare dare un preciso corrispettivo delle due opposte posizioni dei protagonisti. Se la donna sta tutta nel grido che mentre libera all’esterno la paura produce fisicamente una chiusura in sé stessa, il dio è invece colto benissimo nei suoi tratti più spiccatamente visivi: l’ispido pelo, la stigiafuli'gin, lafolta barba che addirittura tinge la guancia e il seno della donna, con l’uso di un verbo che esprime il carattere figurativo del passo e insieme dice anche la violenza del dio e la sua passione impetuosa. L’opposizione tra le due nature si conferma nella prima terzina in cui, ormai in balia del dio, la donna permane nella fissità di un gesto, duplice, di rifiuto. La chiusura del sonetto infine riprende l’elemento acustico dell’incipit, ma disperdendolo in un più ampio è comprensivo rumore infernale, conseguente a un destino compiuto (e si noti la ripetizione dell’avverbio già, vv. 9 e 12). Il cielo che in avvio era squarciato ora è, e rimane, “ferito”; così pare del tutto conseguente che l’alto strido (v. 1) si spenga in un ormai arresofemminil lamento (v. 14). Torniamo a occuparci degli aspetti formali del sonetto arcadico. Si è detto sopra che gli elementi di rottura rispetto al gusto barocco 127

IL SONETTO ITALIANO

convivono (almeno in una prima fase) con elementi che si pongono in continuità rispetto alla scrittura secentista. Per quanto riguarda il sonetto questa dialettica è ben evidente proprio nella gestione degli schemi rimici. In linea generale, infatti, i 14 volumi delle Rime degli Arcadi confermano la supremazia della fronte a rime incrociate ABBA ABBA, seguita da quella a rime alternate. Il fatto che desta interesse è però la riduzione della forbice tra i due tipi: se infatti nei sonetti marinisti schedati la fronte a rime incrociate sfiorava le tre occorrenze su quattro, lasciando il tipo a rime alterne a grande distanza (circa il 14%), nei 14 volumi delle Rime degli Arcadi, il tipo ABBA ABBA supera di poco il 61% mentre il tipo ABAB ABAB raggiunge il 31,4%. La nuova polarizzazione ha come conseguenza l’emarginazione della fronte a rima alternata con inversione nella seconda quartina (ABAB BABA), tipologia che nel sonetto marinista aveva una certa rilevanza (quasi il 10%).Una sostanziale continuità si nota invece negli schemi relativi alle terzine in cui il tipo a due rime domina largamente sugli altri: sempre su un totale di 5.157 sonetti le terzine CDC DCD sfiorano il 73% mentre

CDC CDC supera appena il 14% (nell’insieme solo di poco inferiore alla percentuale registrata per i lirici marinisti). Il tipo a tre rime più diffuso è lo schema replicato CDE CDE (quasi il 6%). Si tenga presente in ogni caso che i dati complessivi non danno ragione delle differenze che si registrano in diacronia. Se infatti il primo tomo di rime degli Arcadi fa registrare per il tipo CDC DCD il 92,3%, negli ultimi, pur in un contesto di varia oscillazione, si nota una sensibile diminuzione: dal 53,3% dell’undicesimo al 41,5% del tredicesimo per poi risalire al 67,3% dell’ultimo. A guadagnare non è solo l’altro schema a due rime (CDC CDC) ma anche un tipo su tre rime, ossia il non petrarchesco CDC EDE, che nell’ultimo tomo della serie supera addirittura il 16% (lo si ritroverà spesso nell’Ottocento). Mettendo insieme i dati possiamo dire a questo punto che quasi un sonetto su due tra quelli raccolti nei quattordici torni degli Arcadi ha una struttura con fronte a rime incrociate e sirma a rime alternate (ABBA ABBA CDC DCD), mentre quasi uno su quattro presenta un profilo su quattro rime alternate (ABAB ABAB CDC DCD). Insomma, nonostante qualche scricchiolio all’interno del sistema, la situazione pare in buona sostanza stabile. Si tenga presente in ogni caso che lo sguardo qui è molto dall’alto e non può non solo entrare nel dettaglio di un’analisi in diacronia sulla base del rapporto tra i singoli tomi, ma neanche, come invece sarebbe doveroso, nella specificità 128

6. IL SETTECENTO, TRA

CRISI E MODERNITÀ

dei diversi approcci regionali (l’Arcadia milanese ad esempio, secondo Isella, 2006, p. XII, è soprattutto un >, mentre quella romana è >). Sarebbe anche necessario (ma neppure è possibile farlo qui) operare un confronto tra l’assetto metrico che, almeno per il sonetto, si delinea nei quattrodici volumi degli Arcadi e il resto della produzione del tempo, per verificare l’ipotesi secondo cui alle raccolte ufficiali, di gruppo, fossero destinati i componimenti meno eversivi. Da questo punto di vista, un’indicazione indiretta, almeno per il settore specifico ma fondamentale del rapporto tra metro e sintassi, possiamo comunque provare a coglierla. Nei sonetti raccolti nelle antologie sopra citate la sintassi segue sempre abbastanza fedelmente le partizioni metriche. Le deviazioni più ragguardevoli sembrano essere quelle che si riscontrano nei sonetti di Faustina Maratti Zappi. Al di là di un testo in cui il periodo si chiude oltre la fronte (Che? non credeviforse, anima schiva, ma le singole parti metriche sono comunque ben rilevate da una pausa sintattica), il sonetto in cui si attua la tensione maggiore, tutta interna alle quartine, è Donna, che tanto al mio bel Solpiacesti: (44)

Donna, che tanto al mio bel Sol piacesti, che ancor de’ pregi tuoi parla sovente, lodando ora il bel crine, ora il ridente tuo labbro, ed ora i saggi detti onesti, dimmi: Quando le voci a lui volgesti, tacque egli mai, qual uom che nulla sente? o le turbate luci alteramente (come a me volge) a te volger vedesti?

Qui la curva sintattica dopo il vocativo d’esordio è tenuta sospesa per quartina e si chiude appena oltre la sua conclusione, con un verbo tra l’altro allitterante con il sostantivo iniziale, a rinforzare la legatura. La ricerca musicale cede a una non comune gestione delle strutture che produce un effetto di contrappunto antimelodico proprio perche' chiude il movimento in una zona testuale deputata piuttosto al rilancio del discorso. La consapevolezza tecnica raggiunta da una tra le più dotate e ammirate poetesse del tempo va però anche oltre. Se usciamo dai componimenti pubblicati tra le Rime dell’Accademia troviamo infatti almeno un sonetto di straordinaria fattura, in cui accanto a diverse infrazioni al pacifico accordo tra metro e sintassi, possiamo tutta la prima

129

IL SONETTO ITALIANO

evidenziarne una più forte, più radicale, che permette di oltrepassare con un’inarcatura tra verbo e oggetto le colonne d’Ercole della fronte

del sonetto collegando strettamente le due parti del testo: (45)

Ahi che si turba, ahi che s’innalza e cresce Il mar, che irato la mia nave porta; E un vento rio l’incalza e la trasporta Fra scoglio, ove a se stesso il flutto incresce. E più la pena all’alma, e il duol s’accresce, Ch’io perder temo l’astro che mi è scorta; Che ben splende da lungi e mi conforta: Ma il Ciel s’oscura, ein un confonde, e mesce Lampi, e saette: ahi quanto, ahi quanto è grave L’aspro periglio, e non ho chi m’invola Al fier naufragio, alla spietata sorte! E meco il mio nemico ho su la nave; Ein col ferro, io disarmata e sola: Or come potrò mai scampar da morte?

Anche ai vv. 1-2 si ha un’inarcatura analoga, tra verbo e soggetto, ma lì il peso dei costituenti, e quindi l’effetto della stessa curva intonativa che si genera, sembra meno potente. Notevole è inoltre, subito dopo la saldatura tra fronte e sirma, la ripresa del medesimo schema sintattico-argomentativo che si appoggia alla duplicazione dell’interiezione rafforzando il tono patetico del testo, che naturalmente non può non concludersi con il tono sospensivo di un’interrogazione. Il sonetto della Maratti Zappi ha il pregio di trovare una soluzione potenzialmente eversiva, che però è destinata a rimanere a lungo isolata: non esce in sostanza dalle eccezioni che confermano la regola.

6.3

Il sonetto anacreontico e pastorale e altre varianti formali A quanto riferisce il primo custode d’Arcadia, Giovan Mario Crescimbeni, al di là degli sporadici casi in versi minori dei secoli precedenti la fortuna del sonetto di ottonari vanta sul finire del Seicento una precisa paternità: una maniera di versi tutti ottosillabi che tra gli Antichi non aparisce trovarsi, fu l’anno 1694 messa in uso con titolo di Sonetto pastorale nell’Adunanza 130

6. IL SETTECENTO, TRA

CRISI E MODERNITÀ

de’ Pastori Arcadi dal CO. Carlo Errico Sanmartino, Cavaliere ornato al pari di gentilezza e di erudizione, il quale fu seguitato da parecchi de’ felicissimi ingegni che compongono una si nobile Conversazione (cit. in Zucco, 2001b, p. 229).

L’interesse per la nuova forma è non solo immediato, dato che di lì a poco, ossia nel 1697, il frate lucchese Antonio Tommasi (in Arcadia Vallesio Gareatico) pubblicherà un volume di Sonetti anacreontici; ma anche costante nel tempo poiche' per tutto il secolo molti si cimenteranno nella piccola trovata del sonetto in versi brevi. Per quanto riguarda la sua origine, tuttavia, pur accogliendo la testimonianza di Crescimbeni, va anche ricordato (ivi, p. 228) che «i precedenti del passaggio dei versi brevi a uno schema metrico riservato all’endecasillabo saranno costituiti [..] dall’impiego dell’octosyllabe nel sonetto francese nei due secoli precedenti e da alcuni episodi cinque-secenteschi, a partire, naturalmente, da Gabriello Chiabrera >> (per il rapporto con la musica rinvio a Zuliani, 2009). Si aggiunga però un altro fattore, legato direttamente al nome di Anacreonte, il poeta greco chiamato in causa per questa forma di sonetto: secondo Spongano (1963, p. 69) infatti, da una lunga analisi dei metri adoperati da tutti i traduttori di anacreontee nel Sci e Settecento risulta chiaro che a ognuno venne quasi spontaneo ricorrere a [versi] brevi per meglio imitare la misura dell’originale, e che a poco a poco si passò quasi altrettanto spontaneamente da metri brevi sciolti a metri brevi rimati e da metri brevi rimati irregolari a metri brevi strofici via via più regolari, finché si giunse all’adozione del sonettino di ottonari quasi come a un perfetto modello, se non per tradurre, certamente per imitare la grazia del metro e del sentimento anacreontico. Ciò non toglie che il sonetto anacreontico si specializzi innanzitutto proprio come sonetto pastorale, evitando temi estranei alla finzione arcadica. Si veda ad esempio la seconda quartina, di evidente intento programmatico, di un sonetto del citato Antonio Tommasi, tra l’altro il poeta che presenta il corpus più ampio di sonetti in versi brevi (Zucco, 2001b, p. 231): «Ma ’l Dio Pan par che s’annoi, / Che Città superbe io fregi. / Oh, mi disse, Oh perché spregi, / Pastorello, il gregge e i buoi?» (Rime degli Arcadi, vol. VI). Solo in un secondo tempo — seguendo ancora Zucco, 2001b — il sonetto di versi brevi trova una declinazione particolare come forma di corrispondenza, recuperando modi

più antichi: lo

stesso

custode generale legittima quest’uso presso gli I3I

IL SONETTO ITALIANO

altri accademici, scambiando sonetti con Angelo Antonio Somai e con Alessandro Galanti detto Gantile (cfr. tra le Rime di Crescimbeni la sezione IX dei Brindisi ditirambici). Un altro ambito di applicazione del verso breve riguarda il sonettino “per nascita”, che anche nella misura risulta intonato alla funzione di omaggio rivolta all’infante e ai genitori (omaggio a cui non rimase estraneo neppure Parini: cfr. l’Anacreontica per la nascita delprimogenito di Alberico Barbiano e Anna Ricciardi d’Este, del 1760). Per quanto riguarda invece l’estensione del fenomeno, il numero complessivo di sonetti anacreontici che si registra nel repertorio arcade (55 testi su un totale di 5.906 componimenti, e rispetto ai 5.157 sonetti in endecasillabi) non indica in realtà una grande diffusione all’interno dell’ufficialità dell’Accademia, anche se la sua sopravvivenza è attestata fino al tredicesimo volume delle Rime (1780). Maggiori riscontri si collocano dunque al di fuori dell’Arcadia, come conferma la tavola metrica alla fine del saggio di Zucco (2001b, pp. 248-53), che elenca ben 200 sonetti ( «limitatamente a quelli strutturati in due quartine e due terzine, e con esclusione dei sonetti di traduzione del Catelani e del Gaetani della Torre >>, ivi, p. 248) e permette di notare la varietà dei versi (quinari, settenari, anche decasillabi, ma in larga maggioranza appunto ottonari) e degli schemi impiegati (che possono arrivare a utilizzare anche sette rime), nonché la ricorrenza di versi tronchi e sdruccioli. Vediamo dunque almeno uno di questi sonetti minori, quello in ottonari di Carlo Severoli (alias Efesio Arneo, Rime degli Arcadi, vol. V): (46)

Superbetta Pastorella,

cui non cale del mio pianto, ma ti ridi ingrata, e fella del mio duolo aspro cotanto; a me forse un giorno quella non farai già amabil tanto, e vorrai parermi bella, né di bella avrai più ’I vanto. Ed io allor, che avrò dal core

di già tratta la saetta, riderò del tuo dolore; e così farò vendetta col rigor del tuo rigore, Pastorella superbetta. 132

6. IL

SETTECENTO, TRA CRISI E MODERNITÀ

Qualcosa innanzitutto va detto sulla scelta del verso. L’ottonario era da tempo ampiamente sfruttato nella poesia per musica (Chiabrera) e nel melodramma, anche se Metastasio aveva infine scelto il settenario come metro prediletto per le proprie arie (cfr. Benzi, 2005, pp. 19-24). Lo sviluppo in effetti — già a partire dalle canzoni del Magnifico — di un tipo di ottonario ad accenti fissi (sulla 3a e 7a sillaba), con la conseguente spezzatura del verso in due parti isosillabiche (due quadrisillabi) e isoritmiche, favoriva l’utilizzo musicale del parisillabo. Nel sonetto in esame questo ritmo bipartito e per sua natura cantilenante è del tutto evidente in avvio e in chiusura (vv. 1 e 14), ma è poi spesso variato dalla presenza di un altro accento in quinta posizione (vv. 3, 5, 7 ecc.), a rendere più rilevata e netta la scansione della seconda parte del verso (si noti poi come al v. 8, a conclusione cioè della fronte, siano accentate tutte le sedi dispari dando luogo a una perfetta sequenza trocaica). L’unico nodo o rilievo ritmico si coglie al v. 4 in cui la dialefe nella sinalefe non solo produce un “aspro” contraccento, ma fa gravitare tutto il verso, sbilanciandolo, sull’ictus di 4“. La sintassi appoggia comunque con facilità la linearità melodica del verso (sulla linearità nella poesia settecentesca cfr. Mengaldo, 2003b, pp. 53-68, per Rolli; Matarrese, 1993, p. 238, per Frugoni): lo si vede bene proprio al v. 4 con l’ordine sostantivo-aggettivo in luogo dell’inversione, che sarebbe normale nella lingua poetica. A rendere interessante questo sonetto è anche il rapporto che esso instaura, per la struttura di incipit ed explicit basata sulla ripresa invertita di sostantivo e aggettivo, con la Rondinella garruletta di Parini (che al v. 14 fa appunto >). Come noto, quella che per Carducci è «la più schiettamente arcadica cosuccia >> che si trova tra le Rime di Ripano Eupilino, pubblicata nel XIII volume delle Rime degli Arcadi, è in realtà la traduzione-imitazione dell’ode XII di Anacreonte, un testo di grande fortuna su cui si esercitarono molti poeti tra XVII e XVIII secolo (Bartolomeo Corsini, Régnier-Desmarais, Anton Maria Salvini, Paolo Rolli ecc., cfr. Spongano, 1963, pp. 69-93). L’unico traduttore tuttavia, assieme a Cesare Gaetani, a usare il sonettino di ottonari fu proprio il Parini, ed è da credere che una qualche parte l’abbia avuta proprio il precedente costituito dal Severoli, per un testo che fa tra l’altro proprio della > un nodo tematico centrale. Alle sperimentazioni che interessano la misura del verso si possono affiancare quelle che ripropongono forme particolari e minoritarie del metro, come il sonetto caudato o il sonetto “intercalato” (su cui Zucco, 2001b, p. 226). Giulio Cesare Grazzini (Benaco Deomeneio, nel I33

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volume degli Arcadi) unnhina addirittura insieme gli endecasillabi la ripresa, a conclusione di ciascuna partizione strofica, del primo emistichio dell’endecasillabo che apre fronte e sirma: \‘11

lro|1o|ati con

(47)

Io vo narrANDO alle sord’aure, a i venti i miei tormENTI, e il fiero aspro comando, che tiemmi in bANDO da’ be’ rai splendenti, e le mie ardENTI pene intorno errando io vo narrANDO. E rimembrANDO i di lieti, e ridenti, quando presENT] avea i begli occhi, e quando

languìa mirANDO (oh lieti giorni spenti !) co’ miei lamENTI il duol, ch’io soffro amando,

io vo narrANDO. Voi, che m’udlTE infra i silenzi cupi, foreste, e rUPI, e fate eco a’ miei pianti, e a’ sospir tANTI, il mio dolor ridite voi, che m’uleE. Voi tutti usc]TE, irti cinghiali, e lupi, d’antri, e dir UPIi, e per le selve erranti gli urli sonANTI a mie querele unite

voi, che m’udl TE.

Ne esce una struttura che mentre raddoppia le rime (che da alternate diventano per lo più baciate) dimezza o quasi la misura versale, alludendo a un’inedita struttura composta di versi brevi imparisillabi (quinario + settenario). Il ritmo di questo testo, largamente implicato con la musica, vive perciò di continui agganci (interni al verso) e rilanci (in uscita di verso) che scardinano la forma dall’interno utilizzando, in un certo senso, le sue stesse armi. Sulla stessa scia Zucco (2001b, pp. 226-7) colloca altri esempi di manipolazione della struttura del metro, tra cui quelle di Ferdinando Passerini da Spello (Da te mio bene, ahi c’hofuggito invano, Vivea contendo alla capanna mia; entrambi accolti nel IV vol. delle Rime degli Arcadi) o di Luigi Fiacchi (Limpido rio, che dal natio soggiorno, Questo candido Agnel che ancor dal seno; primo e ultimo dei quaranta Sonetti pastorali, pubblicati nel 1789). Si tratta nel complesso di soluzioni che puntano ad arricchire di armoniche il sonetto, senza però metterne in discussione l’architettura istituzionale, e risultano pertanto meno corrosive di quella di Grazzini, e certo ancor meno di quella della Maratti Zappi vista più sopra. 134

6. IL SETTECENTO, TRA

CRISI E MODERNITÀ

6.4

Verso la fine del secolo (Parini, Alfieri) Non si può chiudere questo capitolo senza parlare delle due esperienze letterarie più significative della seconda metà del XVIII secolo. Significative per motivi diversi e certamente al di là della pratica sonettistica, che rappresenta solo una parte, e tra l’altro non la centrale, della loro

opera.

Parini innanzitutto, più inserito nel contesto culturale e accademiitaliano, proprio a metà del secolo (1752) pubblica Alcune poesie di co Ripano Eupilino, raccolta che contiene ottantasette sonetti, tre capitoli, un’epistola e tre egloghe piscatorie. L’esordio poetico del giovane in procinto di diventare sacerdote (1754) si caratterizza per l’adozione di una molteplicità di registri che trova una prima superficiale distinzione tra poesie d’argomento grave (amoroso, sacro o morale) e poesie d’argomento piacevole. Benché in seguito almeno pubblicamente desse mostra di pentirsene, soprattutto per alcuni accenti un po’ liberi nelle poesie del secondo gruppo, Parini doveva pure inizialmente aver affidato alla musa di Ripano Eupilino qualche speranza, se non altro di visibilità (A ’leggitori: . Se da un punto di vista tematico la novità maggiore delle Rime di Ripano Eupilino è stata individuata dalla critica nei sonetti cosiddetti “magici” (caratterizzati dalla presenza di streghe innamorate, pozioni centrata su Parini,

genere” (ispirati alla quotidianità della vita campestre), sul piano formale i testi più interessanti sono quelli “alla bernesca”. Tra i primi tuttavia vale la pena di notarne almeno uno tra i tre che Parini scrisse in endecasillabi catulliani (o rolliani in quanto la forma fu introdotta da Paolo Rolli), ripreso poi anche nel XIII volume delle Rime degli Arcadi: e malefici) e in quelli “di

(48)

O Sonno placido che, con liev’orme, vai per le tenebre movendo l’ali, e intorno a i miseri lassi mortali giri coll’agili tue varie forme; là dove Fillide secura dorme stesa su candidi molli guanciali vanne, e un’imagine carca di mali in mente pignile trista e deforme. Tanto a me simili quell’ombre inventa e al color pallido che in me si spande, ch’ella, destandosi, pietà ne senta. Se tu concedimi favor si grande, con man vo’ porgerti tacita e lenta

due di papaveri fresche ghirlande.

Il verso (utilizzato altrove anche con forme metriche diverse dal sonetto) è qui costruito come somma di due quinari, il primo dei quali sempre sdrucciolo: là dove alla sdrucciola segue una parola bisillabica, l’endecasillabo franto in due parti è ritmicamente ricondotto ad unità dal replicarsi della medesima cadenza dattilica (si vedano il v. 3 e soprattutto i vv. 6-7 e 14; analogo risultato si ottiene al v. 13 in cui il piede dattilico è per così dire lessicalizzato grazie alla successione di due trisillabi sdruccioli). Al ritmo si accompagna poi l’artificio della rima,

136

6. IL SETTECENTO, TRA CRISI

E MODERNITÀ

che coincide nei primi due versi con il rimante (orme, ali), così che i successivi non sono che un’eco amplificata di quell’attacco (si tratta infatti di rime inclusive). Il sonetto, in particolare in avvio, risente delle invocazioni al sonno di illustri predecessori: ma se si confrontano con questo i due testi di analogo soggetto di Della Casa e di Marino, commentati al capitolo precedente (PAR. 5.2, es. [33-34]), si può cogliere la minore originalità di quello pariniano, il quale pur condividendo con gli altri due parecchi rimanti della fronte, si allontana quasi subito dai suoi modelli: non si tratta tuttavia di una mancanza di qualità artistica, ma piuttosto dell’affiorare di un diverso ambiente culturale e di una diversa sensibilità, i quali fanno si che Parini riconduca l’appello alto e solenne dei predecessori (in particolare di Della Casa) alla consueta e ormai inerte dinamica amorosa. Oltre che nella scelta particolare del verso, la tecnica sembra qui prevalere sull’ispirazione sia nel tentativo di rimescolare le carte dei sonetti di Della Casa e Marino (prendendone a prestito numerosi termini), sia nella ricerca di simmetria, evidente tra inizio e chiusura del sonetto impostate su due movimenti insieme paralleli e speculari, ricchissimi tra l’altro di richiami fonici e timbrici (il Sonno che va per le tenebre movendo l’ali e l’io che ugualmente va con man tacita e lenta portando ghirlande, ma in direzione del sonno). Per Carducci (in Isella, 2006, p. 201) questo sonetto è un epigramma nel senso antico, a modo della Antologia greca, come ne fecero i poeti nostri del Cinquecento, specialmente in latino: e attesta, parmi, che il Parini sarebbe, volendo, riuscito anche in quella poesia morbida e melodiosa della quale pur gli ammiratori non riconoscono in lui la facoltà, e che in quel suo fare, conciso, riciso, rigido e duro talvolta e contorto, ebbe parte, e di molto, la elezione e volontà sua.

L’interesse che invece suscitano i sonetti “piacevoli”, al di là di qualche trovata lessicale o qualche licenza poco poetica, del resto tipica del genere, consiste proprio nella scelta di una forma di sonetto che in larga maggioranza (diciannove contro quattordici) prevede la coda. Niente più che un divertimento, una dimostrazione di “tenuta”, è il sonetto più lungo della serie, ossia M ’ha invitato a ballarjeri Ser Nanni, che tocca i quarantaquattro versi arrivando alla rima P, e per ulteriore artificio non solo riprende in chiusa la rima A, ma termina il discorso replicando direttamente all’incipit: «M’ha invitato a ballar jeri Ser Nanni >> (v. I), «O i begli inviti, che mi fa Ser Nanni!» (v. 44). Al di là del giudizio 137

IL SONETTO ITALIANO

che si può dare di queste prove, quel che importa è che se da un lato esse confermano il valore del sonetto come mezzo di comunicazione e di partecipazione sociale anche nell’ambito dello scherzo e della leggerezza licenziosa, dall’altro Ci segnalano che la stanchezza del metro spinge ormai verso soluzioni alternative, che mentre abbassano il registro aprono il testo in direzione narrativa e discorsiva. Come se l’usura della linea e del disegno spingesse a ricorrere all’impiego massiccio del colore. Di tutt’altra ragione e di tutt’altro esito la lirica di Alfieri: oltre a essere molto più ampia sul piano quantitativo, la produzione sonettistica alfieriana rientra anche in un progetto più organico e complesso, pur non definibile nei termini di un vero e proprio canzoniere. L’astigiano pubblicò a Kehl nel 1789 la prima parte delle sue Rime (con componimenti che vanno dal 1776 al 1788), mentre la seconda vide la luce solo dopo la sua morte, nel 1804 (testi scritti tra il 1789 e il 1798),per le cure di Francesco Tassi, ultimo segretario del poeta. In entrambi i volumi a dominare è il metro di cui qui ci occupiamo: il primo libro infatti è composto da 188 sonetti, due canzoni, un’anacreontica, un capitolo, due stanze in ottave e 44 epigrammi; il secondo invece da 71 sonetti, un capitolo, 39 epigrammi e la Teleutodia con cui il poeta si congeda dalla lirica. Anche se non si può del tutto attribuire all’autore l’assetto (e la lezione) della seconda parte, visti nell’insieme i due libri presentano comunque evidenti tratti di omogeneità. Innanzitutto sono entrambi organizzati per metri, con una priorità attribuita sempre al sonetto; inoltre i componimenti sono accompagnati dall’ indicazione della data e del luogo della prima ispirazione se non proprio della composizione (Maggini, 1954, p. XIII: «parecchi sonetti, per esempio, hanno nel ms 13 l’indicazione a cavallo, e certo quella non sarebbe stata una posizione comoda per scrivere: la poesia veniva pensata, formulata, variata e ricorretta a mente, e infine stesa in carta; e questo spiega come spesso anche gli abbozzi non presentino tante correzioni»). Se da un punto di vista linguistico Alfieri, come noto, guarda ai grandi modelli della tradizione, a Dante e soprattutto a Petrarca (>, afferma in una lettera a Ottavio Falletti del 17 ottobre 1787), esprimendo anche sotto questo aspetto «il desiderio di scartare da una contemporaneità rifiutata >> (Coletti, 1993,p. 224), la funzione che le Rime svolgono nella vicenda umana e intellettuale dello scrittore è stata da più parti assimilata a quella di un “diario”:

138

6. IL SETTECENTO, TRA CRISI

E MODERNITÀ

quei sonetti accanto ai quali l’autore aveva cura di notare dove, quando e in quali circostanze fossero stati composti, erano per lui, prima che poesia, il suo diario; diario, che aveva finito di costituire una parte integrante della sua vita, per divenire il confidente, al quale quel grande taciturno che egli fu, affidava giorno per giorno i suoi sentimenti e i suoi pensieri (Fubini, 1963,p. 67).

Scaturite entrambe da una spiccata esigenza autobiografica, la Vita e le Rime alfieriane pongono in essere dunque una dialettica complessa in cui paradossalmente proprio alla scrittura in versi è affidato il registro in presa diretta dei casi anche minimi a cui è esposta la sensibilità dell’autore: i sonn. 84-90 del primo libro seguono ad esempio le alterne vicende del cuore del poeta nel percorso di ricongiungimento con la sua donna (dall’attesa immaginata da parte di lei, all’ impazienza dolorosa dell’io e ancora al ridestarsi del coraggio nell’avvicinarsi alla meta ecc.). In altre parole la poesia aggancia le vicende esistenziali e le approfondisce laddove la prosa, a posteriori, si sforza di ricostruirle a beneficio (anche nel senso di edificazione morale) del lettore. Ciò che però viene meno con le Rime alfieriane, e contribuisce a fare di questa vicenda poetica una sorta di vero e proprio spartiacque tra Sette e Ottocento, è il grado di socialità, di partecipazione alla vita collettiva, che invece — come abbiamo visto — caratterizza profondamente l’esperienza settecentesca. Anche se la dimensione pubblica è acquisita al mo-

mento della pubblicazione del primo volume, le Rime non perdono la loro natura di diario intimo, nato e scritto in funzione dell’io. Questo elemento di discontinuità nei confronti della lirica settecentesca è del resto coerente con i tratti linguistici del testo

(ovviamente“ non solo del sonetto), il quale è si incline all’arcaismo (cfr. anche Bozzola, 2012, p. 102) ma in modo nient’affatto passivo, anzi rivitalizzando il linguaggio petrarchesco della tradizione con una sollecitazione verbale del tutto personale (da cui il sostantivo alfierismo). Gli schemi metrici, pochi e tutti petrarcheschi, utilizzati per i sonetti delle Rime non fanno che confermare questa sorta di doppio binario: nel primo libro sono utilizzati nove schemi in totale: il tipo più diffuso è il consueto, con rime incrociate nelle quartine e alternate nelle terzine (ABBA ABBA CDC DCD, 119 esemplari), seguito dalla variante a rime alterne nelle quartine (ABAB ABAB CDC DCD, 43), mentre ad ancora maggiore distanza si trova lo schema con rime invertite nella seconda quartina (ABAB BABA CDC DCD, 10). La prevalenza nettissima, anzi schiacciante, di terzine su due rime (sempre in forma alternata), se va a discapito 139

IL SONETTO ITALIANO

del canone petrarchesco è però perfettamente in linea con l’assetto del sonetto sei-settecentesco. La direzione è poi chiarissima sul piano diacronico: i sedici sonetti con terzine su tre rime del primo libro infatti si collocano tutti nella prima parte (entro i primi quaranta, in sostanza), mentre nel secondo libro l’unico su tre rime si posiziona al ventunesimo posto. Nessuna tentazione verso lo sperimentalismo dunque (solo un sonetto ha nella rima A parole sdrucciole, Îìznte, si spesse, si lunghe, si orribili), ma semmai una tendenza verso la semplificazione: Alfieri non chiede al sonetto di essere quello che non è, perché sa bene che la propria forte personalità può piegare il metro senza bisogno di mutarne la struttura. Ed è proprio il tipico modo di procedere del discorso alfieriano, a scatti e mosse brevi, nervose, con largo uso della paratassi e con abbondanza di interrogative ed esclamative da cui erompe l’umore dell’io, a far si che lo sviluppo sintattico-argomentativo del componimento aderisca con naturalezza alle partizioni del sonetto, spesso tra l’altro souolineandone gli snodi con anafore di rinforzo. Anche in un sonetto come il seguente (il son. 134 del vol. I), che vuol essere poco più che un esercizio scherzoso, si può cogliere il tono secco e il procedere del discorso quasi verso per verso, con una serie di proposizioni che si allineano l’una di fianco all’altra (tredici versi su quattordici si chiu— dono con un segno interpuntivo) e insieme si fondono in un breve ma efficace guizzo d’umore: (49)

Mezzo dormendo ancor domando: Piove? Tutta la intera notte egli è piovuto. Sia maledetto Pisa! ognor ripiove; anzi, a dir meglio, e’ non è mai spiovuto. Almen, quando adirato il pluvio Giove fea d’abitanti l’universo muto, acqua in ciel fabbricando in fogge nuove, quell’acquosa sua rabbia ha un modo avuto: ma qui, non degni or di affogar ci crede; né di goder del Sol la dolce vista; purche' in molle ei ci tenga, e il capo e il piede. Siam forse noi di quella specie trista, che né in ben né in mal far mai non eccede, si che di moja il Ciel sol ci contrista?

Al di là dei grandi temi, come l’amore, la gloria, l’attesa della morte, la malinconia, l’odio per la tirannide ecc., che stanno comunque al cen140

6. IL

SETTECENTO, TRA CRISI E MODERNITÀ

delle rime alfieriane, in questo sonetto si può cogliere innanzitutto lo spunto esistenziale che si trasforma in occasione per un pezzo di bravura. Che non consiste tanto nel gioco, facile e però riuscito, delle rime che ribattono sullo stesso lessema (piove,piovuto, ripiove, spiovuto, con l’aggiunta dell’aggettivopluvio al v. 5), o della ripresa poliptotica di acqua (v. 7) nell’efficacissimo sintagma acquosa rabbia (v. 8), o ancora dell’allitterazione insistente (fizbbricando...fogge… afigar) ecc., quanto piuttosto — e anzi nonostante tutti questi artifici — nell’andamento piano e quasi parlato, che punta fin dall’inizio a dare vita a una sorta di monologo interiore, coinvolgendo però immediatamente il lettore. E pur vero, «l’Alfieri non canta, nota: e le sue note sono spesso originali e robuste, ma di rado si sollevano sopra il linguaggio parlato >> (Fubini, 1963, p. 66). Certo si tratta pur sempre di un linguaggio parlato intonato a un registro lirico retoricamente impegnato, come dimostra in questo caso sia l’ordine delle parole (cfr. le inversioni e gli iperbati) sia la gestione dello spazio testuale incorniciato tra due interrogative che sottolineano l’atteggiamento perplesso e risentito dell’autore. La chiusura del sonetto in tono sospensivo o dichiarativo non va poi considerata inusuale, ma rientra nelle strategie alfieriane di rilevamento sul piano argomentativo e sintattico della terzina finale (in una lettera al Caluso del 1800, lo stesso Alfieri nota che «in una breve composizione se la chiusa non aggiunge qualcosa, toglie al già detto»; cfr. Caretti, 1989, p. 94): non si tratta tuttavia di qualcosa che ha a che fare con l’arguzia barocca perché qui il tono è fondamentalmente diverso, risoluto ed epigrafico, sentenzioso (Perdichizzi, 2006, p. 40: > ). Le Rime di Alfieri indubbiamente chiudono un’epoca più che non ne aprano una nuova, come invece farà la poesia di Foscolo e ancor più, poi, la lirica leopardiana. Da questo punto di vista proprio il rapporto di Leopardi con Alfieri pare significativo. Se infatti, come storico della letteratura, Leopardi include nella sua Crestomazia poetica ben undici sonetti dell’astigiano, l’unico poi che egli compone (al di là di alcuni sonetti pastorali in versi minori della fanciullezza o dei cinque in endecasillabi ma di registro comico in persona di Ser Pecora fiorentino beccaio) nasce su ispirazione non delle Rime, ma della vigorosa e intensa prosa della Vita. Ed è anche questo il segno di una modernità che si forma sul superamento dei paradigmi imitativi del passato: da qui in avanti il punto di riferimento non sarà più soltanto l’opera e le sue tro

141

Il. SONETTO ITALIANO

formali ma anche l’autore e la sua individualità biografica. Si noti inoltre come in Letta la Vita scritta da esso (tra l’altro con schema rimico, nelle quartine, non dei più usuali: ABAB BAAB CDC DCD) il giovane conte, sulla spinta di una fervida capacità di immedesimazione (siamo nel 1817), riesca perfettamente a incidere il profilo di un carattere e di un destino (quelli, per capirci, delle Canzostrutture

dellAlfieri

ni) chiudendo gli snodi principali del sonetto sulle parole addio (v. 4), obblio (v. 8, in rima con io al v. 5), antica (v. 11), tomba (v. 14).

142

7

L’Ottocento

7.1

L’esperienza di Foscolo Dopo l’abbondanza alfieriana che chiude sostanzialmente il XVIII secolo — anche se in realtà lo scavalca con la pubblicazione postuma del secondo libro di Rime (1804) — l’Ottocento si apre con i pochi ma notevoli sonetti di Foscolo, pubblicati per la prima volta in numero di otto, nel 1802 e poi, con l’aggiunta di altri quattro, nell’edizione definitiva del 1803. I sonetti foscoliani rappresentano nella storia del metro uno snodo cruciale, toccando un vertice che segna la fine di un’epoca. Come già detto in chiusura del capitolo precedente, Leopardi in buona sostanza non scrisse sonetti, e i pochissimi di Manzoni non sono da porsi all’altezza di quelli di Foscolo, e neppure delle altre opere dello scrittore milanese (in particolare, per restare alla poesia, degli Inni sacri). Secondo Remo Fasani (1988, p. 285) del resto «i dodici sonetti di Foscolo […] costituiscono il più esiguo, ma il più denso canzoniere della poesia italiana; e rappresentano, quanto a novità, l’ultimo grande capitolo della storia del sonetto stesso e l’ultimo risultato a cui perviene il linguaggio petrarchesco >>. Se in effetti si rimane nell’ambito di un petrarchismo che guarda al passato, di una poesia intesa essenzialmente come lirica effusione sentimentale, o come rivelazione di un io che si esprime nelle forme codificate di un linguaggio chiuso nel perimetro della tradizione, l’opinione di Fasani è senz’altro condivisibile. D’altra parte si può anche notare come sul piano della lingua e dello stile Leopardi stesso abbia raccolto l’eredità petrarchesca, innervandola con le sofferte vicende della propria esistenza e con la profondità e modernità della sua speculazione intcllettuale. facendone qualcosa di diverso e rendendola così 141

IL SONETTO ITALIANO

disponibile per la contemporaneità. Non per nulla una “funzione” Petrarca, in larga parte attraverso Leopardi, agisce ancora per tutto o quasi il Novecento (cfr. Lavezzi, 2008b). Se si rimane invece sul piano più specifico e limitato della storia di questa forma metrica, si può forse dire che proprio i risultati raggiunti dal sonetto foscoliano hanno rappresentato un punto di non ritorno nuovamente

ma insieme una sollecitazione autorevole per un ripensamento del metimidamente, minore poi esprimere zone alcune dell’Ottocento il meglio a vaper rie riprese — nel secolo successivo. E senz’altro vero comunque che il sonetto foscoliano riesce a raggiungere con grande naturalezza un equilibrio tra il tema e la forma: il tema infatti, anche per il modo appassionato e “romantico” con cui Foscolo lo sente e tratta, tende a debordare dalla misura breve dei quattordici versi, impegnando l’autore in uno sforzo di compressione e misura quasi sempre riuscito. Con un corpus così esiguo come quello foscoliano i riscontri numerici lasciano un po’ il tempo che trovano. Possiamo comunque dire che per quanto riguarda lo schema rimico della fronte, la preferenza di Foscolo va decisamente alla rima alternata (in sette casi su dodici, a cui si possono aggiungere i due casi in cui la rima alternata è invertita nella tro, dando il via a uno sperimentalismo che tocca, sia pur



seconda quartina :ABAB BABA); la fronte petrarchesca per eccellenza, che come ormai sappiamo domina largamente tutta la tradizione, cioè ABBA ABBA, compare invece solo due volte (l’altra fronte utilizzata combina i due tipi : ABBA ABAB). In astratto, badando solo alla struttura di questi schemi, si può dire che mentre la rima incrociata tende a fare di ogni singolo membro strofico un’unità autonoma, la rima alternata non individua neppure sul piano rimico questa autonomia e può quindi favorire la realizzazione di una fronte concepita come una cosa sola, una strofa appunto compatta e unitaria (è quel che accade ad esempio in Alla sera e in A Zacinto). La preferenza per la rima alternata si ritrova anche nelle terzine, che in cinque casi appunto sono su due rime alterne, mentre mi pare interessante che il tipo più diffuso nei RVF di Petrarca (CDE CDE) compaia una sola volta (poi in tre casi lo schema è CDC EDE; negli altri tre CDE CED). Insomma, Foscolo si dimostra piuttosto lontano dal modello del Canzoniere, almeno per quanto riguarda gli schemi rimici, e invece più in sintonia con la storia anche recente del metro. Il fatto stesso che 144

7. L’OTTOCENTO

nella sirma scelga un solo schema per il tipo a due rime (quello relativo alla dulcedo) mentre gli schemi su tre rime (che fanno riferimento alla gravitas) sono di tre tipologie diverse, è cosa già cinquecentesca (cfr. PAR. 4.3.1).

Se alla tipologia degli schemi impiegati aggiungiamo il fatto che il verso foscoliano è continuamente “rotto”, nel senso che il discorso tende a distendersi oltre la misura endecasillabica — altra figura della tensione tra la forma “stretta” e il contenuto che la preme —, dobbiamo riconoscere che se anche questa poesia rappresenta, come vuole Fasani, l’ultimo risultato del linguaggio petrarchesco, i mezzi con cui riesce a conseguire questo traguardo sono tutt’altro che petrarcheschi. Vediamo dunque, rapidamente, alcuni aspetti di uno tra i più famosi sonetti di Foscolo, ossiaA Zacinto: (SO)

Ne’ più mai toccherò le sacre sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque, Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar da cui vergine nacque

A B A B

Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque

le tue limpide nubi ele tue fronde l’inclito verso di colui che l’acque

A B A B

cantò fatali, ed il diverso esiglio per cui bello di fama e di sventura baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

C D E

Tu non altro che il canto avrai del figlio, o materna mia terra; a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura.

C E D

Lo schema a rima alterna della fronte è quello maggioritario in Foscolo, mentre lo schema della sirma non è petrarchesco e non è senz’altro, fino a quest’altezza, tra quelli più utilizzati nel resto della tradizione (ma vedremo che avrà molto spazio nell’Ottocento). L’assetto rimico adottato qui da Foscolo appoggia invece il movimento lungo e disteso della sintassi: il primo periodo del sonetto anzi scavalca la fronte per concludersi solo alla fine della prima terzina (v. 11). Anche 145

IL SONETTO ITALIANO

all’interno di questo primo periodo, ampio e protratto, tutto teso a toccare con la commozione della memoria una terra che fin da subito si predica non più raggiungibile, non c’è riposo che assecondi gli snodi metrici, ma continuamente il discorso spinge oltre costringendo il verso a inarcarsi. Non si tratta in ogni caso di inarcature, per così dire, semplici, a gomito, che spezzano cioè un sintagma unito: qualche elemento in più, in genere precedente la fine del verso, è sempre coinvolto nel giro artificiale delle parole. Si prenda ad esempio, tra prima e seconda quartina, ai versi 4-5, la rottura secca tra verbo e soggetto (nacque // Venere): va considerato che l’anticipo del complemento predicativo (potenziato dalla forte congruenza ritmica e allitterativa tra vergine e Venere), aggiungendo una pausa ulteriore, inserisce l’inarcatura in un movimento più ampio ed elegante. La tensione in questo modo si bilancia e il passaggio tra le quartine diventa, per così dire, più morbido o rotondo. Anche ritmicamente la cosa è notevole, perche' se l’endecasillabo al v. 4 ha un’uscita dattilica (uscita del resto nient’affatto rara in Foscolo, cfr. Frare, 1995, pp. 30-2), dattilico è anche l’attacco (di 1343) del verso successivo, che proprio attraverso l’isoritmia supera la pausa sintattica e riconduce ad unità il verso (v. 5: Venere, efiea quelle isolefeconde). Una cosa del tutto analoga accade in una zona ben più importante del sonetto, tra fronte e sirma, ossia ai vv. 8-9, dove l’inarcatura, questa volta tra oggetto e verbo («L’inclito verso di colui [Omero] che l’acque // Canto' fatali >>, con inversione e anticipo del complemento oggetto), è complicata dall’iperbato (a cui si aggiunge poi l’epifrasi: l’acqua […] ed il diverso esiglio). Anche in questo caso l’effetto è da un lato di potenziamento dell’intonazione sospensiva dell’innesco, dall’altro però anche di arricchimento delle pause che non permettono una distensione dell’energia o del ritmo in avvio del verso successivo. A tenere insieme in questo caso i due versi (8-9), a compattarli, non è solo il giro retorico dell’ iperbato, ma anche le evidenti e insistite allitterazioni sulla velare che interessano entrambi (l’inClito, Colui, aCQue, Canto') e la ripresa tra l’altro di VERSO in diVERSO. Senza contare che dopo il primo ictus (sulla prima sillaba in un caso, sulla seconda nell’altro) i due versi procedono con lo stesso ritmo. L’affinità, pur nella specularità sintattica, tra questa costruzione e quella vista in precedenza (ai vv. 4-5), sia da un punto di vista retorico sia fonico e ritmico, permette di dire che Foscolo in sostanza riesce a costruire un periodo lungo non rompendo la struttura, ma smussando ogni possibile conflitto, scaval-

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7. L’OTTOCENTO

candolo. A Foscolo sembra dunque non interessare tanto la spezzatura quanto la ricomposizione in una superiore unità. Una conferma ulteriore si ha ai vv. 10-11 che chiudono la prima terzina e il lungo periodo. Si tenga presente, ma è un dato ovvio, che il forte investimento del soggetto, evidente non solo a partire dalla prima persona del verbo in avvio (tocchera') ma anche nel possessivo che fa proprio il vocativo al v. 3 (Zacinto mia), si impunta e termina sul nome di Ulisse, portando a compimento l’identificazione con l’eroe greco (lo è Ulisse). Ma quello che qui interessa è proprio la funzione unificatrice e di compattamento dei due versi, costruita semplicemente attraverso l’allitterazione (su vocaboli bisillabici) tra l’aggettivo bello e il verbo baciò in prima posizione, seguito da un fruscio di sibilanti. Il discorso foscoliano non procede però solo sul piano orizzontale, ma riesce a essere molto coeso anche sul piano verticale grazie alla ripresa continua di suoni e parole che moltiplicano gli echi. Ravvicinata è la ripresa della rima A (-onde) al v. 6 nel relativo onde (V. 7), ma poi si ha il sostantivo canto al v. 12 che riprende cantò al v. 9; e ancora ovviamente a breve distanza si richiamano i possessivi di prima (vv. 2-3) e seconda persona (v. 7). Più importante però da un lato, sul piano strutturale, il recupero, variato, al penultimo verso del vocativo d’apertura (Zacinto mia > O materna mia terra), che ripropone e ribadisce l’intonazione luttuosa iniziale, e dall’altro, sul piano figurativo e semantico, la ripresa del corpofiznciulletto che giacque nel mare (v. 2) nella sepoltura illacrimata (v. 14).Una circolarità che fa i conti sul piano temporale con una mancata apertura, o con una progressione bloccata: i due verbi al futuro (vv. 1 e 12, entrambi in avvio di movimento strofico e insieme sintattico) sono di fatto negati, mentre a dominare è senza dubbio il passato (ben sette sono i verbi al passato); quello meno lontano, individuale, e quello invece del mito. Passato prossimo e passato remoto in altre parole, coincidendo nella fantasia del poeta, concorrono a schiacciare, e negare, ogni altra dimensione temporale. L’unico orizzonte d’attesa possibile, in questo contesto, è quello di un ritorno che hai tratti della malattia, ossia, in senso etimologico, della nostalgia. In altre parole, è proprio quel che succede quando extratemporale della riflessione: il “breve” carme si fa come in nessun altro “amplissimo” e tende a comprendere nell’atmosfera catartica della riflessione la vita del poeta e la vita dell’universo, i suoi palpiti d’affetto ele ragioni dei suoi palpiti (Fubini, 1931, p. 205). tutta la vita del poeta, tutto l’universo è sollevato sul piano

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IL SONETTO ITALIANO

7.2

Sonetti di un Ottocento non solo minore L’opinione di Fasani, secondo cui con Foscolo le vicende del sonetto toccano l’apice e lì si concludono, è un’opinione condivisa.Ad esempio da Giovanni Getto, il quale nell’introduzione all’antologia, Il sonetto. Cinquecento sonetti dalDuecento alNovecento (Getto, Sanguineti, 1957, p. XXVI), afferma che «la storia maggiore del sonetto, con il Foscolo, appare veramente esaurita. La forza del Carducci sarà pur sempre quella di un epigono d’eccezione >>. Insomma, seguendo Getto i grandi poeti che vengono dopo Foscolo o non usano il sonetto (come Leopardi) 0 lo usano già come recupero di una forma passata e non più vitale, come se stessero facendo un esercizio di raffinata e lussuosa archeologia letteraria. Si può certo discutere questa opinione, magari spostando un po’ più avanti i tempi. Perche' il salto da Foscolo a Carducci (e ancor più a Pascoli e D’Annunzio) rischia di lasciare per strada tutta una serie di poeti che la crisi del sonetto l’hanno pure portata in superficie proprio cercando di negarla, o non affrontandola e preferendo rivolgere altrove il proprio desiderio di rinnovamento. Si tenga conto comunque che quella che si è chiamata, un po’ sbrigativamente, “crisi del sonetto” (e che Getto chiama, acutamente, la sua >) va inquadrata già a quest ’altezza in una più generale e profonda crisi della lingua poetica tradizionale O, in altre parole, si inserisce nel contesto di quello che con felice metafora è stato indicato come l’ > (Bozzola, 2016). Anche l’Ottocento infatti è attraversato in profondità da un desiderio di sperimentazione, di forme nuove: > (Capovilla, 1988,p. 95). Il Settecento ha risolto la sua ansia di novità e di rinnovamento con il ricorso alla musica, l’Ottocento invece — che pure recupera forme antiche > (cit. in Capovilla, 1988, p. 101). E una strada insomma che prevede studio, recupero e trasformazione della tradizione, nonche' apertura e contaminazione con suggestioni anche estere. Al punto che alla voce ballata del Dizionario della lingua italiana redatto proprio da Tommaseo troviamo: «Più per imitazione de’ Ted. e de’ Fr., che per memoria dell’antica poesia it., i nostri moderni fanno ballate lunghissime, che né si ballano né si cantano >>. Vale la pena di insistere in via preliminare sulla ballata per la circolazione a quest’altezza di un tipo di ballata grande di soli endecasillabi (su modello stilnovistico, e anche petrarchesco di Volgendo gli occhi al mio novo colore, Canzoniere, son. 63), molto vicina sul piano morfologico al sonetto in quanto composta da quattordici versi spesso anche sintatticamente suddivisibili in due quartine e due terzine: si tratta di una ballata con ripresa di quattro versi e stanza di dieci, con mutazioni di tre versi, concatenatio e ultimo verso della volta che riprende circolarmente la rima iniziale. Secondo Capovilla (1988, p. 104) «la vera e propria ratifica al ripristino del metro [via Tommaseo] proviene dal magistero carducciano», in particolare quello delle Rime nuove e della Ballata dolorosa (datata 28 aprile 1886). Ciò non toglie che questa forma abbia poi messo in difficoltà qualche editore moderno, anche avveduto. Così è ad esempio accaduto per due testi di Nicola Marchese, che rappresentano > (Ulivi, 1963, p. 713). Nell’antologia di poeti dell’Ottocento curata da Ferruccio Ulivi (di cui si dirà meglio più avanti) i due testi, morfologicamente uguali, hanno una presentazione tipografica diversa ossia il primo (A mia moglie) in veste di ballata, il secondo (Olim) di sonetto. Al di là della struttura metrica profonda basta dare un’occhiata all’edizione origi149

IL SONETTO ITALIANO

nale per restituire anche al secondo testo l’esatta disposizione delle strofe. La cosa è se non altro curiosa, in quanto non si tratta di un caso isolato: la medesima situazione si riscontra almeno per un altro autore antologizzato da Ulivi, ossia Ulisse Tanganelli, che ha anch’esso uno vicino all’altro due testi uguali sul piano morfologico ma impaginati in modo diverso, uno correttamente in forma di ballata e l’altro in forma di sonetto. Si tenga poi presente che anche nell’edizione Einaudi delle poesie di Corazzini a cura di ]acomuzzi si può leggere in veste — non d’autore — di sonetto sia la Ballata della primavera sia la Ballata delfiume e delle stelle: e qui il titolo è parlante. Possiamo in ogni caso considerare queste sviste o errori come un indizio che conferma — riflettendosi nell’incertezza della ricezione — le tendenze sperimentali del periodo, la ricerca di contaminazione tra recuperi filologici e innovative scelte d’autore. Si è già detto delle spinte politiche e risorgimentali che animano gran parte della poesia italiana del primo e medio Ottocento. Baldacci ( 1958, p. X), nell’introduzione all’antologia dedicata ai Poeti minori dell’Ottocento, da lui stesso curata, conferma, in effetti, che in questo arco di tempo anche nei poeti apparentemente più distratti, la poesia ha sempre un attaglio preciso con la vita strettamente attuale, da intendersi appunto come politicità, impegno più o meno cosciente della propria sensibilità storica alle esigenze vive del momento. E questo è il denominatore più vero della poesia dell’Ottocento, anche nei momenti in cui essa aspira a definizioni assolute.

L’antologia curata da Baldacci è in due volumi, di cui il primo fa spazio alla lirica, mentre il successivo (del 1963) raccoglie e seleziona componimenti di carattere religioso e didascalico, testi narrativi (i più impegnati sul piano romantico), poesia satirica e giocosa, poesia di argomento risorgimentale, aggiungendo infine le traduzioni poetiche. E significa-

tivo che in questo secondo volume non compaiano sonetti. Altro dato di rilievo, osservato dallo stesso Baldacci (1963, p. IX), è che i poeti raccolti nel secondo volume «non varcano il primo cinquantennio del secolo […] Significa che la lirica propriamente detta prende, a un dato momento, il sopravvento sugli altri “generi minori”». Dando nei fatti concreti ragione, ancora una volta, a Leopardi (e a Hegel) secondo cui, come noto, all’uomo moderno non resta che il genere lirico (>, Zibaldone, p. 4476 dell’au-

Nella stessa introduzione, Baldacci ( 1958, p. IX) considera inolla poesia minore dell’Ottocento «materia incandescente: fluida e lontanissima ancora da una definizione, anzi a una definizione di per se stessa mal riducibile >>. Da questo punto di vista è probabile che la retorica risorgimentale, dando fiato alle fanfare patriottiche, abbia portato la critica successiva a concentrare l’attenzione sulle cose, o al limite sul tono con cui quelle cose venivano scritte e diffuse, impedendole di scorgere il piano inclinato su cui l’intero edificio linguistico e stilistico della tradizione stava, sia pur lentamente, scivolando. Pur tenendo conto con Contini (1970a, p. 588) che «metodologicamente le innovazioni dei minori hanno un significato di virtualità rispetto alla grande corrente della vita letteraria >>, è comunque necessario, per fare storia delle forme, avere anche uno sguardo orizzontale: saper riconoscere e comprendere gli alberi che svettano ma non dimenticare di dare un’occhiata al sottobosco. Come si è fatto in precedenza, dunque, possiamo prendere in esame una serie di antologie di poesia minore ottocentesca per cercare di cogliere alcune dinamiche generali di sviluppo: con l’antologia di Baldacci (il primo volume, per le ragioni di cui si è detto) sono state schedate la crestomazia a cura di Ferruccio Ulivi ( 1963),quella di Maurizio Cucchi (1978), e quella di Giuseppe Petronio (1959). Va da sé che i risultati che derivano dallo studio di queste antologie saranno di volta in volta confrontati con quelli relativi allo studio dei grandi di fine Ottocento, Carducci e D’Annunzio in primo luogo, visto che il rapporto che Pascoli intrattiene con il sonetto non è poi gran cosa. Il corpus totale di sonetti raccolti nelle antologie citate (escluse le ripetizioni) è dunque di 322, in rappresentanza di 55 autori. Non è facile, in questo caso, fare un rapporto tra il numero di sonetti e il totale dei componimenti antologizzati, perché molti di essi hanno in realtà lo statuto di polimetri e possono contenere vari testi in metro diverso: ad esempio la poesia di Gabriele Rossetti (pubblicata in raccolta nel 1846),intitolata Ingresso nella solitudine eproponimenti del solitario, è formata da undici testi di vario metro tra cui, all’ingrosso, la canzonetta, l’ode—canzone, la sestina (non lirica), la strofa saffica ecc., e anche in sesta posizione un sonetto (Sacra de’ vati indefinibil’arte). I polimetri dunque sono strutture complesse che riconducono a unità forme metriche diverse. tre

151

IL SONETTO ITALIANO

Per farci comunque un’idea del ruolo giocato dal sonetto nel contesto di queste antologie e insieme di questo Ottocento minore, è pos-

sibile provare ad adottare un’altra prospettiva. Se infatti, ritornando

a quanto diceva Baldacci, considerassimo come dato peculiare della poesia minore ottocentesca la fondamentale vocazione politica, intesa anche nella sua apertura nei confronti della poesia popolare (ancora via Tommaseo, ma anche Berchet, Carcano e altri; cfr. Girardi, 2015), sarà da evidenziare che, nei 322 sonetti del corpus considerato, proprio questo dato è quasi del tutto assente. I sonetti, infatti, che direttamente affrontano una tematica politica si contano, stando larghi, sulle dita di un paio di mani (tra cui Vittorio Imbriani, L’oggi; Giulio Carcano, Voce di guerra, In riva del Verbano; Pompeo Bettini, Italia, tu produci ottime cose, ma più morale che politico; Olindo Guerrini, Ifilosofi

salariati). I sonetti contenuti in queste antologie svolgono in buona sostanza tematiche ancora in linea con un’ispirazione tradizionale, essenzialmente lirica o al massimo elegiaca. Largo spazio è infatti dato al tema amoroso, in tutte le sue declinazioni. Ma anche la descrizione paesaggistica e la vita agreste hanno una notevole rappresentanza: si pensi alla serie Astichello di Zanella, formata da novantuno sonetti (ma avrebbero dovuto essere cento) dedicati alla vita serena accanto al fiumiciattolo che scorre vicino a Cavazzale, nel vicentino; oppure si pensi all’altra serie (in numero di sei) sempre di Zanella intitolata Passeggio solitario, una sorta di provinciale Passeggiata alla Robert Walser. Interessante tuttavia perché la continuità tematica e narrativa del passeggio trova formalmente una spia nella tecnica della coblas capcaudadas: i sonetti sono cioè trattati come una stanza di canzone e legati l’uno all’altro dalla ripresa della rima dell’ultimo verso di un sonetto nella prima rima o rima A del sonetto successivo. Anche se questi agganci formali, che rafforzano il legame della serie, non sono molto frequenti, le corone di sonetti costruite per lo più su elementi tematici continuano ad avere un certo riscontro in questo Ottocento, minore (dal Benaco di Andrea Maffei alle Oropee di Giovanni Camerana ai Sonetti alpestri di Giovanni Bertacchi ecc.) ma non solo visti gli esempi carducciani (cfr. ad es. i dodici sonetti del Ca ira delle Rime nuove) e dannunziani (si pensi, tra il molto altro, alle Città del silenzio). Come si vede tuttavia — ma la questione andrebbe approfondita —, solo Carducci si impegna in una tematica politica, ma lo fa immergendosi nel passato rivoluzionario francese. 152

7. L’OTTOCENTO

Altri temi presenti nel corpus antologico in esame sono del tutto scontati: il senso del tempo, la malattia (cfr. Cesare Betteloni) e la morte (soprattutto per gli autori più vicini agli ambienti scapigliati), l’amore, la fede ecc. L’attenzione per la realtà si esprime in questi sonetti come interesse per lo più privato, intimo, dove pare quasi fuori legge o fuori registro una sensibilità attenta a serie dinamiche di tipo sociale. Ovviamente fatta eccezione per personalità particolari come quella di Giusti, oppure per i dialettali come Porta e Belli (non inclusi però nelle antologie qui considerate) che invece mettono in primo piano proprio il rapporto stretto, corrosivo e sagace, con la realtà anche popolare. D’altra parte l’esiguità di sonetti in versi minori (appena 13 su 322, e tutti collocabili ben oltre la metà del secolo) e di sonetti caudati (solo

di Giovanni Prati), tradizionalmente più disponibili ad accogliere una materia meno ufficiale, sembrerebbe confermare che questa lirica (almeno quella che in queste sillogi trova spazio) riflette

uno, Ser Lio

pure, se non nei temi almeno nell’intonazione, quasi sempre pensosa o grave, la serietà del momento storico. L’eccezione che, come si dice, confermerebbe la regola è rappresentata dalla prima raccolta poetica di Carducci,]uvenilia (come noto raccoglie testi scritti tra il 1850 e il 1860). Il V libro è composto infatti da tredici testi di cui dodici sono proprio sonetti caudati, “anche molto caudati” dal momento che ad esempio Alla musa odiernissima raggiunge i 98 versi, mentre Ai poeti 56 versi. Come già indicano questi due titoli, la sezione della raccolta mette alla berlina, nella tradizione propria di questa particolare variante del sonetto, temi e figure di vario tipo, legati agli argomenti intellettuali più discussi del momento (il poeta di montagna, il filosofo, il geometra, il canonico pedagogo, Pietro Fanfani e le postille al vocabolario della Crusca ecc.). Il linguaggio schietto e di vario registro, ele sprezzature che nascono dal meccanismo della rima baciata della coda, non riescono però ad essere granché corrosive dal momento che rientrano in un codice letterario classicistico per lo più di stampo settecentesco, pervaso di nostalgica deferenza. Si legga solo la sirma e la prima coda (vv. 9-17) del sonetto dedicato A un filosofo (in totale sono ventinove versi): (51)

[…I Voi sbancate i copisti e gli scrivani, voi vendete il sistema a bariglioni, con la modestia pia de’ ciarlatani. 153

IL SONETTO ITALIANO

Venitela a vedere, o berrettoni, l’opera bella de le vostre mani fatta ad imagin de’... Oh i leggiadri sermoni! Oh la filosofia vaghetta e pura che larga a un tempo e stretta è di natura! […]

L’ultimo verso del sonetto (v. 14) si interrompe su un debolissimo aclasciare poi al lettore l’agio di completare la rima in -oni: un piccolo esercizio letterario formalmente ineccepibile, a ricordarci che anche con i calzoni corti Carducci non è diverso da quel che è sempre stato, o da quel che sarà; anche quando sembra prendersi una pausa non smette in realtà la toga del vate. Insomma, con le sue regole e le sue eccezioni, a guardarlo anche solo superficialmente il sonetto di questo Ottocento minore sembra rimanere nel complesso fuori quadro rispetto agli interessi più vivi e militanti della poesia del tempo. E come se dopo l’esperienza fortemente individuale, caricata sul soggetto, di Foscolo (ma anche di Alfieri), il sonetto avesse perso progressivamente la sua centralità, la sua capacità di essere lo strumento privilegiato di comunicazione della società letteraria (in questo senso Fasani e Getto hanno ragione). E allora altri metri, più svelti e brevi o al contrario più distesi e narrativi si incaricheranno di veicolare tematiche urgenti e vitali. Non tutto è perduto, però, poiché la vita delle forme a tratti sa scorrere sotterranea. Spostandoci infatti verso la fine del secolo e ampliando il nostro corpus possiamo cogliere la risalita del sonetto italiano da questa soglia minima di pura resistenza a nuovi e più moderni modi di essere. Pare infatti di poter dire che la sperimentazione, a livello metrico ma anche linguistico e stilistico, che attraversa tutto l’Ottocento arrivi a toccare solo sul finire del secolo anche il congegno perfetto del sonetto («forma esatta più che altra mai», con l’ironia di Gozzano, Elogio del sonetto, v. 12). Solo in vista della conclusione del lungo processo di liberazione dalle forme chiuse, in un contesto in cui il verso libero non è già più un fantasma anche se non è ancora una presenza viva e quotidiana, solo allora pare si possa osare un discorso sul sonetto che ne rimetta in discussione alcuni fondamenti, sotto il segno della manipolazione o della più aperta e irridente parodia. Affianchiamo dunque al corpus fin qui considerato un’altra serie di autori e di sonetti (in numero di 154),tratta dall’antologia curata da cento di sesta per

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7. L’OTTOCENTO

Glauco Viazzi e Vanni Scheiwiller dedicata ai Poeti simbolisti e liberty in Italia (edita in tre volumi a partire dal 1969). Prendendo spunto da un’indicazione di Lucini (contenuta ne Il verso libero, 1908) relativa alla presenza in Italia di una corrente simbolista e liberty nata sulla scia della Scapigliatura e poi differenziatasi sulle orme soprattutto

del simbolismo d’oltralpe, l’antologia raccoglie materiale relativo al

ventennio 1895-1915 circa (ma risalendo in realtà agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento), e rappresenta in linea di massima la punta avanguardistica (e protoavanguardistica) del periodo a cavaliere tra i due secoli. Vi compaiono nomi che avranno pOi anche storie poetiche

molto diverse, da Pascoli a D’Annunzio, da Marinetti a Corazzini, da Gozzano a Govoni, da Tozzi a Campana ecc., insieme a molti altri meno conosciuti ma che a quest’altezza rappresentano, visti tutti insieme, uno snodo importante per la poesia novecentesca. Un luogo in cui le spinte più eterodosse, anche in conseguenza, come si è già detto, di una maggiore apertura a influssi stranieri (soprattutto francesi, da Baudelaire in poi), convivono con residui di stampo tradizionale, dando vita a un impasto magari non sempre così interessante sul piano della poesia, ma comunque notevole come serbatoio di temi, figure, possibilità tecniche. Ne esce un’immagine della poesia italiana che rispecchia e anzi asseconda la progressiva deriva irrazionalistica di fine secolo in cui, accanto al persistere di motivi ormai stracchi e provinciali, trova finalmente spazio, anche nel sonetto, una serie di temi che stringono più da vicino le ossessioni del periodo. Sia pure con un linguaggio che spesso cede a un gioco metaforico fine a sé stesso, rifugiandosi nell’oscurità misteriosa e ambigua del simbolo; e sia pure attraverso la consueta ricerca di eleganza nelle figure e di preziosità astratta nel lessico, che piega il discorso poetico verso il decorativo, questa poesia tocca comunque punti sensibili: la reazione nei confronti del realismo borghese di stampo positivista; il rifugio a volte semplicistico in territori vitalistici e misticheggianti; la scoperta del corpo e delle torbide implicazioni del sesso, la nevrosi e la malattia come condizioni insieme emarginanti e creative e così via.

Si tratta di un panorama complesso e sfaccettato a cui, e questo è un modo molto moderno di vivere e maneggiare la forma, anche il sonetto può attingere. Del resto, con Marazzini (1981, p. 198) >. Sta di fatto in ogni caso che i due gruppi di antologie presi in esame, pur condividendo in parte uno stesso tratto di strada, non potrebbero essere più lontane. Appena otto sono, in effetti, gli autori in comune, e tra questi solo tre sono i poeti di cui entrambi i corpora presentano sonetti (Remigio Zena, Arturo Graf e Giovanni Camerana). Benché non vi sia alcuna sovrapposizione (i due gruppi di antologie scelgono testi diversi per rappresentare l’opera di questi autori), è notevole che sia proprio tra questi tre poeti che si trovino alcuni tra i testi che più guardano in avanti, almeno sul piano della sperimentazione formale. 7.2.I. ALLA RICERCA DI NUOVI GIRI MELODICI: GLI SCHEMI

evoluzione, diciamo un movimento moderatamente riforsi intravede comunque, già a partire dalle antologie dedicate ai minori, a livello degli schemi metrici. Basti pensare che sul piano numerico gli schemi registrati sono più di una quarantina. Un numero ben rilevante, soprattutto se lo si confronta con quello delle antologie settecentesche schedate, che superava appena i venti tipi (a fronte di un numero assoluto di sonetti ben maggiore). Nella prima parte del secolo almeno, l’assetto del sonetto foscoliano pare vincente: maggioritario risulta in effetti un sonetto su quattro rime sempre alternate (ABAB ABAB CDC DCD.Pare compiersi così, anche sotto questo aspetto, melodico in primo luogo ma non solo, quel processo possiamo dire di emancipazione dal modello dei RVF che in qualche modo era stato avviato già all’indomani della codificazione bembesca, ma che per svolgere l’intero suo tragitto ha dovuto attendere circa tre secoli. Si tratta tuttavia solo di un breve momento poiché verso

Una

certa

matore,

la fine dell’Ottocento, quando il percorso di liberazione dalle forme tradizionali giunge al suo punto culminante, si fa sensibile anche sotto l’aspetto degli schemi del sonetto una sorta di ritorno al modello petrarchesco, con la fronte a rime abbracciate e la sirma su tre rime replicate che tornano percentualmente a prevalere. Per confermare questa tendenza basta mettere a confronto l’atteggiamento di Carducci, che mantiene costantemente una predilezione per il primo tipo qui sopra descritto, e D’Annunzio, che invece si orienta via via con maggiore decisione verso lo schema più utilizzato nei RVF.

156

7. L’OTTOCENTO

Si può comunque ipotizzare che il maggiore spazio che almeno in un primo momento si conquista il tipo a rime alternate per le due quartine presupponga una maggiore libertà, 0 meglio una più esplicita propensione a considerare gli otto versi della fronte come un’unica unità Strofica (con tutto quel che ne discende da un punto di vista non solo metrico ma anche sintattico e argomentativo). In altre parole si può pensare che proprio da qui, da questo cambiamento o spostamento, abbia avuto ori-

gine l’impostazione ad esempio del sonetto luciniano (passando però per il D’Annunzio di Ad E. Z. del Canto novo e di La napea e La naiade del Poema paradisiaco) che alla fine del secolo non è più distinto in quattro strofe (4+4+3+3) ma per lo più stacca solo la fronte (appunto a rima alternata) dalla sirma ( 8+6). Ma su questo torneremo. E importante in ogni caso che al di là delle tendenze generali si riscontrino anche soluzioni inedite, come ad esempio il cambio di rima nella seconda quartina,

che pur andando in direzione contraria a quanto appena notato, ossia indebolendo la compattezza della fronte, riguarda comunque davvero pochissimi esemplari (non si arriva neppure alla decina): cfr. ad esempio, Giovanni Camerana, Addio! Vedi, l’autunno arriva: il verde (su cui cfr. infra, pp. 162-3); Gustavo Botta, Non credo che al tempo (in senari, con schema abab cdcd), Corrado Govoni, Ottavario degli occhi (I) (ABAB CDCD) e Ottavario degli occhi (3) (ABBA CDDC) ecc. In tema di varietà, comunque, D’Annunzio pubblica già nel 1884 (in rivista) un sonetto (Ricordo di Ripetta) che alle rime replicate della sirma fa precedere queste due quartine:

» \:

Lunghi rami di mandorlo la fante dietro di voi recava. Inconsapevole, un bellissimo sogno floreale dietro di voi lasciaste al riguardante.

\.

E ne l’anima ancor veggovi quale io da prima vi amai. Alta e pieghevole passaste, sorridente e luminante, pe ’l chiaro gelo del mattin iemale.

\:

(52)

>DU O Ì

in cui più che l’apertura dello schema, impostato su tre rime (tra cui una sdrucciola) e non su due, conterà la ricerca armonica trale parole in rima attraverso assonanze e consonanze che legano strettamente tutte e tre le rime e finiscono per ridurre o contenere quella varietà. I57

IL SONETTO ITALIANO

Novità di rilievo si registrano anche negli schemi delle terzine. Come si è detto nel CAP. 6, il Settecento si poneva in continuità con la lirica marinista nell’adozione largamente maggioritaria di una sirma su due rime, la stragrande maggioranza delle volte alternate. Sceglieva in sostanza la piacevolezza al posto della gravitas, certo anche in virtù di una maggiore centralità svolta dalla ricerca musicale. I poeti dell’Ottocento minore invece utilizzano soprattutto una sirma a tre rime del tipo CDC EDE (34%). Lo schema su due rime alternate, che era quello maggioritario nei sonetti degli ultimi due secoli, si colloca solo al secondo posto (26%) mentre al terzo troviamo il petrarchesco, ancora su tre rime, CDE CDE (21,40%). Anche in questo caso Carducci funziona come cartina di tornasole: nei sonetti di]uvenilia (e in genere anche in seguito, sia pure via via con minore scarto soprattutto nelle Rime nuove) è infatti largamente preponderante la sirma su due rime; su 69 componimenti ben 49 hanno una struttura CDC DCD. Mentre, già che ci siamo, D’Annunzio negli anni manterrà una netta preferenza proprio per il tipo, petrarchesco per eccellenza, su tre rime (la sola Chimera ha 42 sonetti, su 62 totali, con una sirma CDE CDE). Si può a questo punto e per questo aspetto avanzare già una prima considerazione generale in merito a D’Annunzio, e dire che al netto delle soluzioni che lo pongono in ogni caso su un versan-

te più sperimentale, in linea con le tendenze simboliste francesi ed europee, il tipo di sonetto più utilizzato rimane comunque di stampo petrarchesco (ossia ABBA ABBA CDE CDE). Vale la pena a questo punto ricordare il passo del romanzo Il piacere in cui, all’inizio del libro 11, riprendendo un passo del Petit traite’ de poésie francaise di Banville, si discute il carattere > della forma del sonetto, la quale >; il poeta migliore secondo il protagonista, alter ego di D’Annunzio, sarà allora colui «il quale sa coprire tale mancanza; il quale cioè, serbando alle terzine la imagine più precisa e più visibile e le parole più forti e più sonore, ottiene che le terzine grandeggino e armonizzino con le superiori strofe senza però nulla perdere della lor leggerezza e rapidità essenziali». Nell’ottica dannunziana una sirma impostata su tre rime non sembra dunque rispondere più a una scelta di poetica, in direzione della gravitas, ma a una necessità per riequili— brare la disarmonia nella struttura stessa del metro. Resta il fatto che nell’Ottocento minore gli schemi su tre rime si moltiplicano, in numero di circa quindici tipi differenti. Una ricerca di

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7. L’OTTOCENTO

nuove formule che giunge, in ogni caso, a risultati di un certo interesse in particolare nei sonetti di Adolfo De Bosis, poeta che > (Baldacci, 1958,p. 1217), in cui si ha sia il tipo, eccezionale, della sirma su due rime ma in cui ogni terzina è monorima (Casa, 0 diletto nido, CCC ddd, di settenari), sia il tipo in cui la rima C occupa primo e ultimo verso della sirma e la rima D gli altri (Epur da questapia, cdd ddc, sempre di settenari, con quattro versi sulla stessa rima), o anche il tipo ancora su due rime ma baciate e alternate (Vien la notte e a canto a me si posa, CCD DCC, in endecasillabi). Se nel primo caso l’autonomia delle singole terzine risulta potenziata, negli altri due invece è chiara l’impostazione unitaria della sirma da un punto di vista musicale (ma anche, nel caso, sintattico). Si tenga presente comunque che già D’Annunzio nella Chimera ( 1885-88) ha un sonetto in endecasillabi, Quando,furia d’amore, in labirinti, con una sirma del tipo CCD DDC (si tenga però presente che C = -ore e

D = -orte). Un esempio di spicco sul piano della ricerca melodica è ad esempio il sonetto continuo intitolato Dicembre di Lorenzo Stecchetti, pseudonimo di Olindo Guerrini. Figura singolare di poeta > (Baldacci, 1958, p. 815), vicino al magistero carducciano, autore di testi d’impegno civile ma dotato di un vivace e anche aspro tono satirico, con questo sonetto su due sole rime, pubblicato nel volume complessivo delle Rime nel 1903, mette in rilievo una sensibilità che accompagna o precorre quella crepuscolare: (53)

Nel ciel grigio e sonnolento E una gran malinconia, E la neve senza vento Muor nel fango della via.

a

b a

b

Un mortale increscimento Assali l’anima mia;

b

Agghiacciato il cor mi sento Nel sudor dell’agonia.

b

a a

Muore il giorno e al mondo invia Un addio che fa spavento, Un singhiozzo d’elegia. I59

a

b

IL SONETTO ITALIANO

Muore l’anno e lento lento Nel languor dell ’etisia L’amor nostro, ecco, s’è spento!

a

a

Si tratta di un sonetto di ottonari nella tradizione dell’anacreontico, ma che di anacreontico o pastorale non ha più nulla; altro segno di un cambio di paradigma, di una liberazione della forma (il sonetto in versi minori) e dal genere (il travestimento pastorale). Il ritmo del parisillabo poggia sull’accento dominante sulla terza sillaba, ma l’effetto cantabile è trascinante e contribuisce a marcare quasi tutte le sedi dispari portando in superficie il piede trocaico (cfr. v. 9 e v. 12, e poi v. 3, v. 4 [dèlla?] ecc.): è in sostanza l’ottonario del Magnifico. Il sonetto inoltre è costruito su due rime (tra cui, notevole, la precrepuscolare etisia : elegia) quasi a voler sottolineare nel ripetersi monotono della medesima cadenza l’intonazione luttuosa e la gran malinconia annunciata al v. 2. Ma più che di lutto si può parlare di estenuazione crepuscolare se ai vv. 10-11 lo spavento del giorno che finisce si traduce senza troppi drammi in un singhiozzo d’elegia.

Al di là della struttura anaforica che rincalza il facile sviluppo di quella ritmica, la quale non mette mai in discussione l’autosufficienza del singolo verso, due sono soprattutto le cose da segnalare. La prima riguarda l’inversione di rima tra fronte e sirma (tipo di sonetto continuo presente anche in Cino da Pistoia, cfr. Una ricca rocca eforte manto): ciò permette di avere al centro del componimento l’unica rima baciata che contraddice l’andamento della rima alternata rappresentando un forte elemento di saldatura della forma. La seconda è di natura ritmica e riguarda l’ultimo verso: grazie all’inciso è qui introdotto un contraccento (come anche al v. 6 ma lì senza intoppo sintattico) che, invertendo il ritmo, sembra voler negare tutto il cantabile precedente. Il medesimo schema continuo è adottato da Guerrini in altri sonetti, anche in endecasillabi. Così è ad esempio per quello che apre la raccolta Postuma del 1877 (Poveri versi miei gettati al vento), ma anche per il primo della serie Sole d’inverno (in bicicletta). Interessante il fatto che, appunto come il sonetto appena visto, anche gli altri (anche di altri autori, come ad esempio Remigio Zena, cfr. la poesia intitolata Idem) abbiano l’inversione della rima all’inizio della sirma (per altre soluzioni sonettistiche di Stecchetti/Guerrini cfr. Bozzola, 2016, pp. 34-5). Da ricordare comunque che già D’Annunzio nell’Intermezzo ha un sonetto su due rime, La portantina (con schema però molto diverso: 160

7. L’OTTOCENTO

ABBA ABBA BAB ABA). Ne Lefiale di Govoni, Mengaldo (1984, p. 124) ne conta invece nove di parziali, cioè Z U

malinconicamente. Addio, deserti già dell’alpe i sentier, vacue le bianche fughe dei porticati, e come inerti le brume, inerte il cuor, sopite e stanche tutte le ultime

fedi. Addio, verranno le nevi, il buio, il nembo: il Santuario sarà tutto un sepolcro intorno a te. Pei viventi sepolcri che vedranno altre lacrime ancor, tu prega, O Statua, prega, o raggiante, e prega anche per me.

-n > < r

OC

E X F

Al di là della terzina finale che si stacca dal resto per esprimere più compiutamente l’invocazione conclusiva alla statua della Madonna, 162

7. L’ OTTOCENTO

colpisce innanzitutto il cambio di rima e di schema tra prima e seconda quartina, anche se rimane un’assonanza tra rima A e rima C, ripresa poi all’interno del verso (v. 6 sentier e v. 8 inerte). Da un punto di vista metrico-sintattico inoltre si ha un attacco franto addirittura in quattro tempi, tenuti insieme appena dall’allitterazione (Vedi, arriVa, Verde); ma poi si apre un periodo lungo appoggiato, da manuale, ai due avverbi che aprono i versi pari (vv. 2 e 4: già...già…). Ed è un periodo che non ha inciampi, ma si conclude scavalcando la quartina e distendendosi quasi estenuato nel settenario di malinconicamente. Questo sbilanciamento impresso al sonetto nella prima quartina è in un certo senso recuperato non solo dalla ripetizione dell’interiezione d’esordio, Addio (v. 5), ma anche dal parallelismo che sul piano verticale si stabilisce con la successiva ripresa della formula di saluto al v. 9; in entrambi i casi sotto ictus di 8“. Il parallelismo prosegue poi grazie al fatto che il nuovo periodo, che inizia al v. 5, ha uno sviluppo analogo a quello precedente, o meglio termina anch’esso scavalcando la quartina e chiudendosi sotto ictus di 63 al v. 9. Come se uno smottamento avesse semplicemente fatto scivo-

lare in avanti tutta la struttura. Questo strano impasto di parallelismo e di scarto è confermato anche dalla ripresa dell’avverbio gia al v. 6, che per amor di simmetria con la prima quartina chiamerebbe il corrispettivo al v. 8. Nella seconda quartina l’avverbio gia resta, però, spaiato. Torniamo all’assetto rimico. Se il cambio di rima tra le quartine è già rilevante, del tutto eccezionale è quanto accade nelle terzine, in cui in sede di seconda rima (vv. 10 e 13) sono messi in collegamento Santuario e Statua: due versi che restano pertanto fuori schema realizzando semmai, con il rinforzo dell’allitterazione, una sorta di rima per metonimia. Solo verso la fine del secolo si comincia dunque a sentire anche la rima non più come un obbligo da rispettare, un adempimento imprescindibile, ma come territorio da esplorare cercando soluzioni inedite. Possiamo trovare una conferma di quest’apertura nel sonetto del trentino Andrea Maffei, Dolore segreto: (55)

Perché tristi ho le notti e insonne il letto, chiedi, e il labbro mio forse infinto a te sembra, 0 almen restio d’aprir la cura che nasconde il petto.

tu pietosa mi

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IL SONETTO ITALIANO

Ma dovrei con aperto incauto detto appagar, cara donna, il tuo desio rivelandoti un ver, che soldi Dio la vegliante pupilla in cor m’ha letto? Fin che si compia il mio corso mortale, non sia che un’ombra di dolor ti appanni per mia cagion de’ begli occhi il sereno.

Tutto un giorno saprai, se fuor degli anni viva eterno l’amor, ne' venga meno

la rimembranza de’ segreti affanni.

Noto soprattutto per l’attività di librettista, oltre che di traduttore-divulgatore dal tedesco e dall’inglese (cfr. Giovannetti, 2011, pp. 139-72), Maffei è un poeta che respira un’aria europea (come molti del resto in questo scorcio di secolo). Fu vicino al Prati, con cadenze di accentuato petrarchismo romantico. Anche il sonetto in esame (contenuto in Arte, afitti,flzntasie del 1864) non si discosta poi molto da un intimismo tutto sommato finto e manierato. E non ci sarebbe davvero molto altro da dire se non il fatto che il v. 9, il primo della sirma, è anarimo. Si tratta di un’astuzia che mette in figura — letteraria, dato il probabile riferimento, rovesciato, al Pastore errante leopardiano (v. 20) — il dolore segreto

al centro del testo, permettendo comunque di ristabilire con facilità lo schema mediante la sosdtuzione di mortale con terreno (si tratterebbe in questo senso di una rima concettuale). Tutto avviene però in seconda battuta dal momento che questa sorta di rimozione con compensazione sinonimica (da terreno a mortale) scopre il suo gioco solo alla fine della lettura, al compimento (che non si attua) dello schema. Quasi a illustrazione del titolo, attraverso l’attesa di un ritorno che non c’è, il testo ci offre, insieme, il segreto e il suo svelamento. La sperimentazione di inediti assetti in sede di rima non si esaurisce però con le trovate, in vero un po’ estemporanee, di Camerana e Maffei. Si spinge ben oltre ad esempio Remigio Zena, un altro dei tre poeti che trovano spazio in entrambi i gruppi di antologie qui messi a confronto. La modernità del marchese Gaspare Invrea (di cui Zena è lo pseudonimo) si può cogliere nello sforzo di accordare un senso aristocratico della poesia col virtuosismo formale imparato sui testi della Francia postparnassiana, mostrandosi aperto a tutte le più ardite inclinazioni prenovecentesche: Zena sarebbe dunque «a cominciare dalle

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7. L’ OTTOCENTO

Poesie grigie del 1880,potenzialmente un futurista in duplice senso: nel precorrere i tempi e nelle esperienze singolarmente affini a quelle che saranno della poesia crepuscolare, palazzeschiana e più propriamente futurista >> (Baldacci, 1958,p. 1096).Il presupposto zeniano, poco futurista in verità bensì polemico nei confronti della nuova metrica barbara carducciana, sembra essere una difesa quasi ad oltranza della rima. Al punto però — ma la considerazione va oltre la rima e coglie il senso di una ricerca poetica di stampo intellettuale che punta tutto sulla ripresa stereotipata degli oggetti e dei motivi più tipici della poesia di fine se-

colo — da svuotarla di senso. Al di là delle divertite varianti strutturali di cui si dirà più avanti, vale la pena di rileggere almeno un paio di testi di questo autore, tratti da una raccolta, Olympia, ricca di umori e prontamente ricettiva di una serie di soluzioni innovative, benché si collochi già oltre l’inizio del secolo (è datata 1905). Si legga innanzitutto il componimento intitolato Le laudi, che apre la seconda parte del libro: (56)

Il mio poeta in un bosco di lauri e in pien meriggio, canta solitario; già in Amatunta vincitor del palio, d’altri Iddii si compiace e d’altri flauti. Della terra e del mar canta le laudi, canta gli Eroi discendenti da Ascanio,

i prodigi del vomere e del gladio, e i Centauri e le Ninfe e gli Echi e i Fauni.

Canta i silenzi di Città non morte e neppur vive, il fascino immortale dell’Urbe Unica e del suo tempo eccelso, e le cose presenti ele travolte, e tutto lauda che si può laudare, ma non canta le vittime del verso.

Il sonetto è il primo di una serie di sei, in endecasillabi, riuniti sotto il titolo complessivo (ma ciascuno ne ha anche uno proprio) di Alta scuola. Tutti i testi esordiscono con il sintagma Il mio poeta, che per antonomasia chiama ovviamente in causa D’Annunzio. La serie, infatti, sul

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IL SONETTO ITALIANO

filo sempre della parodia, riprende luoghi e temi del preziosismo dannunziano (in quello citato, dal riferimento alle Landi a quello relativo al ciclo di sonetti delle Citta del silenzio) con l’obiettivo di denunciare, sarcasticamente, le pose eccessive e i toni falsi e studiati del vate (cfr. Tutto lauda che sipuo' laudare, v. 13, con una ripresa mediante poliptoto della parola in rima al v. 5 nella terzina finale, da manuale). Il testo in questione è in ogni caso l’unico tra questi sei che sostituisca alla rima l’assonanza (per una casistica delle varie possibilità di sostituzione in Zena rinvio a Bozzola, 2016, pp. 112-3). La convergenza del giro armonico, soprattutto nelle quartine, è ben chiaro ( -auri : -auti : -audi : —auni; -ario : -alio : -anio : -adio) e iversi si intrecciano seguendo uno schema tradizionale (ABBA ABBA CDE CDE), ma è evidente che anche l’equivalenza tra le due figure di suono (rima e assonanza) rinvia a una tecnica che non solo era per così dire nell’aria, ma che lo stesso D’Annunzio aveva fatto propria, sfruttandola forse meglio di altri. Anche lo scarto dalla norma rientra dunque in un progetto di stilizzazione che centra facilmente il suo obiettivo polemico. Se l’equivalenza tra rima e assonanza poteva tuttavia ancora permettere di puntare sul valore semantico della parola in fine di verso, come appare chiaro nel sonetto citato in cui in rima si hanno solo parole piene, di senso pregnante nel sistema di riferimenti tematici dannunziano, il passo ulteriore sarà un forte depotenziamento della stessa sede di rima, non più punto terminale di un segmento ritmico-sintattico e semantico significante, ma semplice adempimento sonoro. Si veda dunque un altro sonetto di Zena, tratto ancora da Olympia, intitolato Tra le rose (piccolo capriccio mimica): (57) Datemi delle rose. Io voglio delle rose! Oh le rose! molte rose! molte rose! Oh dormire trale rose, colte appena appena! sulle rose! nelle rose! Voi non sapete quante volte

sognai che piovevano dal ciel le rose, a nembi, a ghirlande! Rose belle, deh piovete dal ciel, roride e folte!

Non rosee, non bianche, non vermiglie, e neppur gialle e neppur variopinte: io voglio le mie rose come tinte 166

7. L’ OTTOCENTO

del mio pensiero all’ora di compieta, quando il tedio m’abbranca fra gli artigli e non viene a confortarmi il mio poeta.

Mentre la rima franta (v. 6 e v. 13) rientra in un bagaglio tecnico tradizionale, la rima su parola grammaticale (v. 1,v. 4), era comunque già stata utilizzata dal Carducci delle Rime nuove (Omero, II); e tuttavia, il “combinato disposto” delle due figure comporta un effettivo ed esibito indebolimento della fine del verso. Si tratta di un percorso dunque che, fatta salva una sterile adesione al ritmo canonico dell’endecasillabo, sembra fatto apposta per ridurre il sonetto a uno schema vuoto, pura onda sonora che ricombina altrove le sue unità di senso ( si veda all’inizio del verso la ripetizione nella fronte del sostantivo rose, sorta di rima identica che sta al posto della rima B in uno schema prima abbracciato e poi alternato). Non sarà senza importanza allora, in questo contesto, che l’ultima parola sia proprio poeta; un poeta che non conforta più. Per quanto di per se’ il capriccio di Zena sia poca cosa, è comunque indicativo di una strada che ben prima delle acrobazie futuriste aveva cominciato a mettere in crisi le equivalenze tradizionali in sede di rima. Lo stesso Zena ad esempio scrive sonetti che, recuperando modi canzonettistici, utilizzano parole sdrucciole in fine di verso in rima ritmica (e non è certo l’unico, cfr., per fare solo un caso, Gloria in excelsis di Giovanni Camerana, su cui Bozzola, 2016, pp. 33-4). Si tratta di un’apertura che se portata fino in fondo può condurre alla dissoluzione dello schema metrico, come accade in alcuni sonetti della Chimera di D’Annunzio in cui la rima proprio non c’è, e non c’è neppure l’assonanza a legare i versi in uno schema riconoscibile. E una circostanza che riguarda, tra gli altri, l’ottavo testo della serie dedicata a Donna Francesca, il quarto, il quinto e il sesto di Donna Clara ecc. Vediamone però più da vicino almeno uno, La neve, pubblicato in rivista nel 1885: (58) Scende la neve su la Terra madre, placidamente. E lei bianca riceve la Terra ne’ suoi giusti ozi, da poi che all’uom copia di frutti ha partorito.

Guarda il bifolco splendere a’ sudati

campi la neve, mentre siede al desco;

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IL SONETTO ITALIANO

e a lui dal cuor la speme e dal bicchiere sorride la primizia del vino.

Scendi con pace, 0 neve; e le radici difendi e i germi, che daranno ancora erba molta alli armenti, all’uomo il pane. —

Scendi con pace; si che al novel tempo da te nudriti, lungo il pian ridesto, corran qual greggia obedienti i fiumi. —

Se si eccettua la rima, tutti gli altri indici formali che segnalano l’appar— tenenza di questo componimento al metro qui in esame sono presenti e rispettati. La scansione strofica innanzitutto, con la divisione in due quartine e due terzine appoggiate dalla sintassi che fa risaltare, grazie al punto fermo, l’autonomia delle singole strofe; l’uso dell’endecasillabo canonico; l’organizzazione del testo con il verbo in prima posizione ad aprire le strofe, in tre casi su quattro riproponendo lo stesso verbo, ma con la considerevole differenza sul piano diegetico del passaggio dalla descrizione (nella fronte) all’invocazione (nelle terzine). Anche la ripresa all’interno dei versi delle Stesse parole (neve ai vv. I, 6 e 9; Erra ai vv. I e 3), e la presenza di rime interne ( la stessa neve con riceve al v. 2; l’ipermetra scende : splendere ai vv. 1 e 5; armenti : obedienti vv. 11 e 14), o di quasi rime (desco al v. 6, ridesto al v. 13) e di altri legami fonici (cfr., ad esempio, ozi,poi, copia ai vv. 3-4;pane, pace ai vv. 11-12 ecc.) convergono nel sopperire alla mancanza dello schema rimico compattando per altra via le singole strofe: si moltiplicano in altre parole i tratti formali di poeticità mancando quello più importante di stroficità a sostenere il metro. L’assenza della rima tuttavia rimane centrale e rappresenta il segnale evidente di una possibile crisi del sistema. Anche perché un altro asse portante del metro comincia a essere messo in discussione: il rapporto strettissimo tra sonetto ed endecasillabo. Nel corso della tradizione, come si è già ampiamento messo in rilievo, la presenza di sonetti in versi minori è sempre stata un fenomeno marginale, e così in effetti rimane. La legittimità, tuttavia, che il verso libero acquista in questo lasso di tempo porta una ventata di aria fresca anche nelle segrete stanze del congegno sonettistico. Non si tratta più quindi solo di valori semantici e ritmici della parola in rima, ma anche di misura. Abbiamo detto che nel corpus di sonetti tratto dalle antologie di poeti dell’Ot168

7. L’OTTOCENTO

tocento così detto minore i sonetti con versi inferiori all’endecasillabo

sono molto pochi. Il confronto con l’antologia di Viazzi e Scheiwiller è da questo punto di vista interessante, poiche’ tra i componimenti dei poeti simbolisti e liberty la serie di sonetti in versi minori è molto più

cospicua. Ha ragione dunque Mengaldo (1989a, p. 50) quando afferma

che in questo lasso di tempo > come afferma Giovannetti (1994, p. 30), eppure la forza di questa pura immagine è determinante: questo testo vuole, vorrebbe, essere un sonetto. E per molti aspetti ci riesce: nel primo caso basta seguire incipit ed explicit delle singole strofe per ricostruire la trama argomentativa del discorso in quattro tempi (, dall’altro la forma che nega la libera Idea nuotante nell ’in/ì171

IL SONETTO ITALIANO

nito), sembra tuttavia troppo scoperta ed anzi esibita, esaurendo così

la sua carica polemica. Nei due testi di Capuana (ma anche in quello non rimato di D’Annunzio) la sintassi rappresenta un elemento importante per la riconoscibilità del metro: le strofe non solo si chiudono con una pausa sintattica significativa ma svolgono un pensiero o concetto o tema che si sviluppa e compie nei limiti del perimetro assegnato, ribadendone tutta

l’autonomia. Che succederebbe se anche questo indice metrico venisse messo in discussione? La forma metrica non è un baluardo che possa reggere a tale assalto: secondo Marazzini (1981, p. 197) «la via della rottura sintattica, della corrosione interna all’apparato strofico, è evidentemente quella che conduce alla progressiva esautorazione delle forme metriche >>. Il poeta che apre una breccia in questo nuovo fronte è in generale Pascoli, in particolare in Myricae, raccolta che ospita quasi tutti i sonetti dell’autore (ne contiene ventiquattro). Si pensi al primo dei cinque sonetti che formano il Colloquio in cui la sintassi è, al modo tipico di Pascoli, frantumata in segmenti minimi che introducono brevi incisi descrittivi, frammenti di desolato discorso diretto, invocazioni che rompono continuamente l’unità del verso e cosi della strofa e del metro. Metro che mantiene certo l’isometria endecasillabica e soprattutto lo schema rimico, ma che, non molto diversamente dai sonetti di Capuana visti sopra, si affida soprattutto all’occhio, alla disposizione tipografica, come a un ultimo fragile argine di fronte all’erompere della disperazione del soggetto. Sull’esempio pascoliano si modellano poi testi come la Leggenda delle stelle o Giardini di Corazzini (su cui cfr. anche Esposito, 1992, p. 132-5), e anche Notturno di Alessandro Giribaldi, anch’esso dei primi anni del Novecento. Con un tono completamente diverso, ma raggiungendo in buona sostanza gli stessi risultati, si muove questo sonetto di Govoni intitolato Il nero, tratto da Gli aborti del 1907: (61) Feccia. Distacco. Notte primordiale. Deformità. Confusione. Lutti. Servitù. Nulla. Inesistenza. Flutti letei. Deserto. Sonno sepolcrale. Finzione. Caino micidiale che fugge il giorno. Miseri ributti 172

>I U

> jU

7. L’OTTOCENTO

della vita. Con aspri amari frutti giardino degli olivi passionale.

B A

Parole della porta dell’inferno. Ebano lucido di flauti lenti per incastrare lividi serpenti.

C D D

L’ultimo. Il cuore, don Giovanni eterno C dannato a traghettar le singhiozzanti E E ombre pallide di tradite amanti.

A dare legittimità al metro intervengono anche in questo caso la divisione strofica, lo schema rimico e l’endecasillabo regolare (tranne l’ultimo). Eppure il senso di frantumazione interna delle strofe, di assoluta gratuità delle corrispondenze foniche a fine verso (si noti tra l’altro all’interno del verso la rima Caino :giardino ai vv. 5 e 8, quella tra piana e sdrucciola olivi : lividi ai vv. 8 e II, e le numerosissime assonanze in tutte le posizioni, che finiscono per togliere peso alla rima), di mancanza di riconoscimento sul piano ritmico di quel verso a causa delle pause continue della sintassi; tutto questo ci dice che la forma è vuota, o svuotata. E l’esito estremo di un lavoro che Govoni aveva in realtà già iniziato con le Fiale (1903), in cui il sonetto è assunto «come un contenitore a priori e neutro» (Mengaldo, 1984, p. 132). 7.2.3. VARIANTI STRUTTURALI

Traballante impalcatura, scheletro senza polpa, osso di seppia... Al sonetto sono state via via sottratte tutte le certezze tranne quella, per sua natura fallace, dell’occhio. Non resta, per cosi dire, che l’ultimo affronto. Anche in questo caso, tuttavia, è molto probabile che le inno— vazioni in area italiana siano penetrate grazie ad esempi stranieri. Non per nulla, i casi più macroscopici di manipolazione della struttura del sonetto hanno precedenti francesi, da Baudelaire a Rimbaud a Verlaine passando per i minori franco-belgi ecc. Dobbiamo a questo punto tornare a sfogliare le Poesie grigie (1880) di Remigio Zena che offrono anche da questo punto di vista un vasto campionario delle diverse possibilità. Vi troviamo cosi, affiancati, due testi come i seguenti (Amore morto, es. [62];Amore vivo, es. [63]): I73

IL SONETTO ITALIANO

(62) t tt e Lisaseèverch eimoriamezzano raccolti stinchi ed ossa escano dalla fossa, e vadan brancicando fra le rotte croci del Camposanto non bagnate di pianto,

che ogni morto scordato e solitario a cui mancan dei vivi le preghiere debba dir per se stesso il Miserere, Lisa, tu puoi restar nel tuo sudario,

(63) tt Am oilbion doedlf i uoco;amo I ’esae più della primavera, le donne indebitate, trenta e quaranta, la rossa e la nera. Amo gli acri profumi e la riviera, Musset, le schioppettate, la birra di Baviera e il compagno di Sant’Antonio abate.

Ed amo te, Francesca, te bionda come la birra

tedesca,

te infocata che abbruci e che consumi,

perché la mamma tua tutte le sere dormicchiando ti brontola il rosario che a Montecarlo sei, e al Curato io fui lesto a provvedere circondata da un nuvolo d’ebrei, quattro scudi pel primo anniversario. spumeggiante nel brago e nei profumi.

In un tipico gusto scapigliato, macabro e insieme divertito, il dittico tiene insieme, sotto il cappello dei titoli, un sonetto e il suo rovescio, ossia un sonetto > (Bozzola, 2016, p. 52). Alla medesima variante strutturale — già sperimentata da Verlaine ad esempio in Re'signation, prima poesia della sezione Mélancholia dei Poèmes saturniens (1866) — si ispirano anche altri sonetti della medesima raccolta di Zena (Euterpe, L’ultimo regalo), sempre tra l’altro combinando settenario ed endecasillabo a variare la misura. Di rilievo è anche la ricombinazione proposta in Costumepompadour, sempre in Poesie grigie: (64) Siete pronta, marchesa, per il ballo?

Lasciatevelo dir: siete una fata con quell’abito a sbuffi rosso e giallo e con quella parrucca incipriata.

>ac w I>Ol

Il ventaglio di piume e di corallo eccolo qui coi guanti. Andiamo? è l’ora: badate di non porre il piede in fallo. 174

7. L’OTTOCENTO

Se ci fosse Voltaire, 0 mia signora, minierebbe per voi un madrigale, se il re Luigi fosse vivo ancora ci vi darebbe braccio nelle sale. Ma pria di far l’ingresso trionfale ditemi un si che trepidando aspetto: faremo insieme un passo di minuetto?

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Una piccola scenetta galante è il pretesto, nel consueto registro leggero che è la cifra più tipica della poesia di Zena (marchese anch’egli), per costruire un sonetto ricombinato, in cui le singole strofe, sintatticamente autonome, sono dislocate in una sequenza anomala (si ha anche il caso, ne Il tunnel, di un ordine diverso: 3+4+3+4). La soluzione è senza dubbio più interessante rispetto alla precedente (il sonetto inverso) poiche' anche il giro melodico delle rime subisce ora una ricombinazione: tutte le strofe condividono con la precedente almeno una rima. D’altra parte, se restituissimo alle strofe l’ordine consueto, la scansione narrativa della scena se ne gioverebbe, a dire dell’artificiosità dell’esercizio. La manipolazione è comunque significativa e garantisce un passo ulteriore rispetto a quanto visto fin qui dal momento che il riconoscimento del metro non risulta immediato, ma può avvenire solo con un’operazione di secondo grado, confrontando il modello con la sua realizzazione. Se la tensione sperimentale di Zena e di altri può essere ricompresa nelle inquietudini di inizio secolo, che certo sfociano anche in un atteggiamento scherzosamente parodico nei confronti della tradizione, Emilio De Marchi per formazione e interessi sembra stare un passo indietro. Nato nel 1851, milanese, De Marchi è noto soprattutto come autore di romanzi importanti tra cui Demetrio Pianelli, Il cappello del prete, Giacomo l ’idealista ecc. Alla poesia non si dedica molto, considerandola una necessità, o meglio una malattia a cui non si può sfuggire (> scrive in una lettera a Giovanni Bertacchi il 5 settembre 1898, citata in Lavezzi, 2005, p. 83), anche se pubblica comunque nel 1899 una strenna a beneficio del Pio istituto dei rachitici in cui raccoglie, con titolo significativo, Vecchie cadenze e nuove. Si può leggere qui Il triste ritorno, un sonetto camuffato o ricombinato (si corregga comunque il refuso 175

IL SONETTO ITALIANO

al v. 4 — dietro al posto di entro — che produce un verso ipermetro; cfr. Lavezzi, 2005, p. 87): (65) Era cara con lei questa segreta Stradella, che nei campi umile gira, la mattina di maggio e nella queta ora che il vespro dietro gli alberi spira.

Nella mestizia mia correa giuliva la sua parola come un’acqua chiara tra lenti sassi garrula si avviva. Della tristezza dissipato il fosco

velo, sentivo nella voce cara

rider le cose, gorgheggiare il bosco.

Ancor tra i campi cerco la segreta

ombra là dove il mio dolor mi attira: ma tace il torrentel, chiusa èla meta, E un gran tramonto nell’anima spira.

Il testo è interessante perché: lavora sulla struttura del sonetto ridisegnandola. Da un lato è impossibile non riconoscere un sonetto (anche la sintassi ci aiuta in questo), dall’altro è qualcosa di totalmente diver-

so. Va in ogni caso riconosciuto che nella terza edizione de Lesfleurs du mal di Baudelaire (1868) si trova un testo intitolato L’avertisseur (apparso in rivista il 15 settembre del 1861) costruito esattamente nello stesso modo. Ma anche D’Annunzio non si fa mancare l’occasione in

Agli olivi, sonetto della Chimera (1890).

Lo schema, ricondotto il testo a una scansione normale, sarebbe ABAB ABAB CDC EDE, quello più diffuso nell’Ottocento minore. Implicate con il significato complessivo del testo sono le ripetizioni dei singoli rimanti: la ripresa di segreta (vv. 1e 11) e di cara (v. 1non in rima e v. 9) sanciscono l’intimità e privatezza del testo; quella del verbo spirare (vv. 4 e 14) invece sottolinea il passaggio dall’ambientazione idillica al presente del dolore e della morte (con l’aggiunta ulteriore del passaggio temporale dal vespro del v. 4 al tramonto del v. 14). Insomma il testo è molto ricco, e lo confermerebbe anche un’analisi degli aspetti ritmici (molte le sdrucciole interne) e fonici (ripresa di ancor v. 11 in dolor v. 12; allitterazione di velo in voce v. 9; assonanza di voce in cose vv. 9-10 ecc.).

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7. L’OTTOCENTO

In ogni caso, sia pure in un autore che non frequenta troppo la poesia, qui abbiamo una manipolazione della struttura del sonetto che, in assenza di una ispirazione poetica autentica, denuncia comunque la presa in carico di una sperimentazione sul metro che va da Baudelaire a D’Annunzio, confermando la vasta e aggiornata cultura dell’autore. Cultura moderna che non manca certo in un altro poeta che si colloca a cavaliere tra i due secoli, Gian Pietro Lucini. Poliedrico e sperimentale, legato alla tradizione italiana ma aperto ad accogliere le più aggiornate e originali novità d’oltralpe, Lucini, dopo una serie di tentennamenti approderà infine, tra il 1896 e il 1898 secondo Viazzi (1972, p. 118), al verso libero. Eppure, il primo libro di Lucini, il Libro delle figurazioni ideali (1894) sta tutto dentro il perimetro della tradizione, sia pure una tradizione in vario modo manipolata. Con il sonetto, preponderante (trenta testi su quaranta), si alternano odi saffiche non rimate e ballate, seguendo in questo caso una linea che mette in fila Tommaseo, Carducci e lo stesso D’Annunzio. Il sonetto comunque è ancora una volta al centro del sistema (il Libro delle Imagini Terrene del 1898 contiene addirittura 112 sonetti), ma Lucini sembra fare un passo indietro rispetto ai suoi contemporanei, adottando — come di preferenza a inizio Ottocento — schemi a rima alternata per la fronte (27 sonetti su 30, cfr. Manfredini, 2003, pp. 223-7) e perla sirma (16 casi). Il salto in avanti Lucini lo fa però distinguendo del sonetto solo la fronte e la sirma (forse riprendendo la conformazione di alcuni sonetti del Canto novo dannunziano che presentano la fronte, ma solo la fronte, unita). Ne esce un testo di due sole strofe, distinto, da indicazione ancora dannunziana, in «Otto e sei verghe d’oro >> (Il sonetto d’oro, v. 1).Alsonetto però Lucini ama aggiungere una coda, solitamente di quattro versi (0 serie di quartine). Come nota Manfredini (2005, p. XXVI): le code luciniane sembrano tentare un raddoppiamento della sirma, quasi ad applicare originalmente il suggerimento del Petit traite’ de poésiefrangaise (1872) di Théodore de Banville, volto a riequilibrare la sirma del sonetto, sbilanciata rispetto alla fronte, quanto a numero di versi.

E il passo, già citato, ripreso da D’Annunzio ne Ilpiacere.

Nel caso di Lucini tuttavia la mancata suddivisione del sonetto in quattro parti non vàvista come un gesto solo tipografico, estrinseco, dal momento che in un buon numero di casi in questo modo la sintassi si libera da ogni vincolo o sudditanza costruendo il suo discorso al di I77

IL SONETTO ITALIANO

là delle partizioni interne (che appunto non ci sono più). Da I sonetti d’Oriana, I baroni: (66)

E noi veniamo a te, strana Maliarda sui cavalli coperti di gualdrappe, veniamo, gioventù forte e gagliarda. Or lungo fu il viaggio e perle frappe e le forre dell’Alpe, l’alabarda nostra splendette e le vermiglie cappe giocar col vento della notte tarda. Vediam ne’ tuoi giardin’ rider le grappe

da cui spremi l’Ambrosia del piacere; vediam te, nuova Acrasia, in tanta gloria porger la Tazza ed invitare a bere: e noi veniamo a te sul bastione d’oro del tuo palagio, e la Vittoria squilla per noi la più ardita canzone.

>I W ZJ U D O U m " “

Come si può notare anche la distinzione in due parti del testo è da un punto di vista della sintassi del tutto arbitraria. Giovannetti (1994, p. 40) giustamente osserva che «la costante tendenza a porre il fluire della sintassi in violento contrasto con le scansioni metriche, ad aumentare parossisticamente il tasso di tensione interna fra metro e discorso» porta alla composizione di un sonetto che è ormai >. Lucini andrà anche oltre, ad esempio staccando e separando l’uno dall’altro gli ultimi quattro versi (ABABABABCD// E/ / C// D/ /E) L’unico elemento a tenere insieme questa struttura è lo schema rimico, che torna a essere il tratto più caratterizzante insieme all’endecasillabo, quasi sempre rigorosamente canonico. Da qui all’eliminazione completa delle partizioni strofiche il passo è breve. E Lucini, successivamente (cfr. Romanini, 2014), non mancherà di farlo. La ricerca di novità di Lucini, a quest’altezza, si scontra tuttavia con un gusto singolare, davvero liberty e decorativo, che tende forse a mascherare il genuino conflitto tra la necessità di stare dentro la tradizione e il desiderio di metterla in discussione, tra il bisogno di una regola e la spinta alla sua trasgressione. Meglio allora chiudere

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7. L’OTTOCENTO

con un testo che pur rimarcando la medesima dialettica riesce però a trarne un discorso, per quanto desolato, certo anche più motivato. Il sonetto, di Italo Dalmatico, si intitola Pensiero della morte (da juvenilia, 1903):

(67) Solo il pensiero della morte resta e ciò che amammo, anima mia, fu vano. Ne l’estasi di un lungo sogno insano vivemmo. Il cuore, anima mia, s’arresta oggi. Or tu segui a vagar sola in questa primavera che ride su l’umano tormento! Il nostro regno è assai lontano, anima. Arriva, dopo la tempesta, un po’ di pace su la terra cheta e le fronti ricinte di speranza si levano al buon sole della vita: ma sovra il mondo e sovra l’infinita voragine e pur sovra il sole avanza la Morte, rossa come una cometa.

>WU Z O “ …

Non c’è più spazio qui per una divisione strofica tradizionale. La materia è come avvolta su se' stessa, raggomitolata: ne è una evidente conferma il rapporto tra sintassi e metro, con le continue e insistite inarcature che nella fronte (dal v. 3 in poi) chiudono i periodi (brevi, spesso di una sola proposizione) appoggiandosi all’inizio del verso. Nella sirma invece il discorso, che non è meno cupo, si fa però più disteso: un solo periodo (che inizia al v. 8) si organizza infatti in due parti seguendo perfettamente la scansione delle due terzine. La diversa struttura sintattica di fronte e sirma bilancia così la mancanza di divisione strofica contribuendo a rafforzare, insieme allo schema rimico e all’uso dell’endecasillabo canonico, la struttura del sonetto. Tra il primo el’ultimo verso ritorna inoltre il nome della cosa che si fugge, ma quella cosa che all’inizio era solo un pensiero sopravvissuto al naufragio dell’esistenza e dei suoi desideri (l’estasi di un lungo sogno insano), alla fine è una presenza concreta che annuncia l’imminenza di un disastro cosmico: circolarità quindi, oltre che progressione. Il dialogo struggente Con la propria anima non può così che rivolgersi a un passato lontano è perduto, non riuscendo a trovare requie, leopardianamente, neppure nel momento di quiete concesso dalla natura. L’ in— I79

IL SONETTO ITALIANO

combere della tragedia e il ripiegamento del soggetto ( si noti l’ insistere per tre volte sull’avverbio sovra in fine di componimento) motivano in questo caso la chiusura della struttura, che non può respirare. Il giro dei rimanti sembra ribadire l’ascendenza leopardiana, facendo in sostanza di questo testo, per riprendere la nota formula di Carducci, una sorta di sonetto “senza forma”.

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8

Il Novecento

8.1

Continuità e discontinuità nell’epoca delle avanguardie

E opinione ormai largamente diffusa tra gli studiosi che la data d’inizio della poesia italiana del XX secolo sia da porre al 1903. Escono infatti nel corso di quest’anno alcune raccolte fondamentali, che segnano un momento di trapasso: da un lato i Canti di Castelvecchio di Pascoli e la Laus Vitae di D’Annunzio poi seguita da Elettra eAlcione, dall’altro Lefiale e Armonia in grigio et in silenzio di Govoni, senza contare l’esordio, su rivista, di Corazzini. Pascoli a parte (nei Canti non si registrano sonetti), in tutti gli altri il sonetto, spesso organizzato in corone, dimostra di godere ancora di una buona salute. Pur non utilizzandolo in Maia, D’Annunzio ne fa un largo uso in Elettra, in particolare nelle serie dedicate alle Citta' del silenzio: l’intera raccolta comprende in totale cinquantanove sonetti, tutti con fronte a rima incrociata e sirma su tre rime variamente combinate (prevale però lo schema replicato CDE CDE); le rime inoltre sono sempre perfette, eccetto in Lucca in cui se ne ha una imperfetta (coperchio : specchio, vv. 6-7), mentre la sintassi si adegua alla scansione strofica (tranne, in particolare, in un caso, Spoleto, monoperiodale). In Alcyone invece il numero si riduce ma il sonetto è chiamato a rispondere a esigenze anche macrostrutturali entrando in rapporto con la strofa lunga de L’onda. Si deve però tener conto che nella Corona di Glauco, composta da nove sonetti, ben sette sono del tipo “riformato”, ossia con una o più assonanze in luogo della rima. Così accostate, L’onda e la Corona, fanno un bell’esempio di metrica “liberata”, che pur affondando le radici

nella tradizione guarda già al futuro. Di segno diverso l’operazione che Govoni compie con Le fiale, composta da ben cento sonetti regolari (più i ventuno della sezione 181

IL SONETTO ITALIANO

licenziosa Vas luxuriae, eliminata a suo tempo): al di là di qualche libertà negli schemi rimici, e qualcuna in più nella prosodia e nel ritmo (cfr. Mengaldo, 1984), il punto di forza di Govoni (in questa raccolta ma certo non solo) sono le scelte lessicali, soprattutto in rima, dove tra esotismi (musme‘ : netzhe‘; Timbuctu [già in Myricae]: bambù, gime' : Kiroshige‘ ecc.), preziosità (eliotropio : caleidoscopio, marcassite : pirite, garoflzno schioppone : color di corindone ecc.) e dissonanze (smeraldini : pannolini, rimirare : ciociare; cfr. Beccaria, 1983) si esaurisce per estenuazione un repertorio di forme, temi e oggetti che trova legittimazione proprio perché confinato all’interno di una cornice metrica istituzionale. In questo senso il punto d’arrivo del percorso govoniano è rappresentato dai venticinque sonetti dei Fuochi d’artiin maniera fizio (1905), tutti con versi di tredici sillabe che rompono strutturale (non episodica come già in altri autori 0 opere) il rapporto privilegiato che il sonetto ab origine intratteneva con l’endecasillabo: si tratta, sempre secondo Mengaldo (1984, p. 142), di soluzioni metriche «di compromesso», tra continuità e discontinuità con la tradizione. A un deciso abbassamento di registro punta Corazzini, coerentemente con una poetica che rifiuta l’esibizione letteraria rifugian— dosi nella malinconica vita di tutti i giorni, tra l’altro segnata dalla malattia: cospicuo l’utilizzo del metro (57 sonetti su un totale di 120 componimenti), il cui trattamento è in alcuni casi efficacemente sperimentale soprattutto nell’assetto sintattico, che frantuma verso e metro sottraendo alla struttura non solo la fluidità del suo discorso quanto soprattutto ogni sua ragion d’essere (come già osservato, nel PAR. 7.2.2, in particolare per La leggenda delle stelle, pubblicato in rivista nel 1904). Sulla stessa scia si collocano i sonetti di Gozzano, il quale però usa il metro solo nella prima raccolta, La via del rifugio (1907): si trovano qui venti sonetti in larga parte con schema incrociato nella fronte (in quattordici casi) e sempre con schema replicato nelle terzine, secondo la tipologia preferita dal primo D’Annunzio. Con risorse d’arte maggiori rispetto a Govoni, che gli hanno consentito — secondo la nota formula montaliana — di > (Montale, 1951,p. 62), anche Gozzano gioca le sue migliori carte (non solo nel sonetto) in sede di rima. Nei sei Sonetti del ritorno ad esempio il poeta riesce con abilità a sprigionare, nel contrasto tra > e > (ancora Montale), la sua corrosiva e liqui182

8. IL NOVECENTO

datoria ironia (proprio nel terzo si legge in rima la famosa coppia sublimi : concimi, mentre nel sesto si ha cosi v’agogna : aulenti di cotogna), ma anche ad innescare significativi percorsi di senso (si consideri, nel quinto, la serie io [in corsivo] : oblio :Dio; apparenza : assenza; disperso : Universo; Natura :paura). Notevole inoltre anche il collegamento macrotestuale che dà continuità narrativa alla serie: il terzo e il quarto dei Sonetti del ritorno si aprono con l’invocazione «O nonno... Nonno…» appena variata nel quinto (> (Esposito, 1992,p. 135). Si tratta indubbiamente di esperienze diverse che confermano una situazione ancora in movimento, la cui evoluzione generale però di lì a qualche anno non potrà non essere condizionata dall’irrompere sulla scena, non solo letteraria, delle spinte irrazionalistiche dell’avanguardia futurista, apertamente (e rumorosamente) in lotta contro il mantenimento di ogni forma e valore della tradizione. Non sarà infatti senza significato che i tre libri di poesia più importanti usciti tra il 1913 e il 1914, a pochi anni dal Manifesto marinettiano (1909), concedano al sonetto uno spazio esiguo: i Frammenti lirici di Rebora ne contengono appena tre su un totale di settantadue testi; Pianissimo di Sbarbaro non contiene sonetti mentre quelli presenti in Resine sono stati presto rinnegati dall’autore stesso («Resine non va ristampato >>, cit. in Lagorio, Scheiwiller, 1985, p. 10); ancora tre, in diverso modo irregolari, ne troviamo nel corpus di Campana, anche se in realtà, si badi, tutti e tre rimangono fuori dai Canti orfici (sono stati pubblicati tra gli Inediti da

Enrico Falqui solo nel 1942). Sarà semmai significativo che l’unico sonetto dei Canti orfici si tro— vi “nascosto” alla fine di Immagini del viaggio e della montagna, un testo lungo, di 77 versi in totale, che termina con quattordici endecasillabi indivisi, rimati secondo lo schema ABBABAABCDECDE. La forte esigenza di nuove modalità espressive che attraversa la prima fase del Novecento porta indubbiamente a uno scardinamento del linguaggio poetico tradizionale, spingendo verso forme più libere

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IL SONETTO ITALIANO

e anche più compromesse con la prosa (e viceversa). Sia pure in forme meno velleitarie e meno improvvisate dei futuristi, ma con una tensione espressiva che i crepuscolari non potevano conoscere, i vociani

riscoprono la necessità di esprimere la propria soggettività, il proprio difficile rapporto con il mondo, anche senza la mediazione degli istituti tradizionali. Solo Arturo Onofri percorre strade diverse, più complicate, attraversando territori dannunziani e crepuscolari prima di avvicinarsi al clima vociano. L’espressionismo eclettico e inquieto di Onofri si manifesta soprattutto nel linguaggio teso e ricco di conglomerati di origine futurista, ma organizzato secondo le forme della tradizione,

mai messa veramente in discussione: l’opera di Onofri infatti (traggo i dati da una ricerca in corso di Fabio Romanini), che conosce bene il verso libero come la prosa lirica, conta più di quattrocento sonetti, in larghissima parte regolari (395 sonetti, 8 parasonetti, un criptosonetto). Se pare evidente un certo influsso sugli ermetici fiorentini, legato soprattutto a una idea di poesia filosofica (nutrita però dalle teorie steineriane) e di ricerca di assoluto poetico, non si può dire che Onofri sia riuscito a far passare anche l’idea di un rapporto più accogliente nei

confronti del sonetto. Al di là delle bulimie di Onofri si deve in effetti constatare e confermare una progressiva perdita di fiducia e interesse nei confronti del sonetto. In un breve giro d’anni, tra il 1903 el’inizio della Prima guerra mondiale, il sonetto sembra dunque uscire dagli orizzonti della lirica nuova, scalzato dalla poetica del frammento e prima ancora dalla ricerca di una più libera e personale modulazione del discorso. 8.2

Un Canzoniere per il Novecento. Saba e il sonetto Lungi dallo smentire questa direzione, l’esperienza poetica di Umberto Saba finisce per confermarne gli esiti. Almeno fino ai primi anni Venti, Saba dimostra infatti di credere ancora al sonetto, così come crede nella tradizione, con una fedeltà che ha lo stigma psicologico dell’autodifesa. Nonostante il poeta cerchi di mischiare un po’ le carte (nella prefazione al Canzoniere 1921 rivendica «l’inoppugnabile derivazione petrarchesca e leopardiana >> — Castellani, 1981, p. 6 — delle sue prime liriche), il retroterra metrico di Saba rimane comunque , Quel che resta dafare aipoeti, 1911,in Stara, 2001, p. 674) assicura sull’assenza di qualsiasi > (Girardi, 1987, p. 17). Eppure non si tratta di un’adozione del tutto pacifica: se infatti il sonetto utilizzato da Saba non mette mai in discussione la partizione strofica tradizionale (4+4+3+3) né l’uso di un endecasillabo regolare, nella prima fase della sua produzione (1900-21) accoglie comunque un certo numero di licenze. Si tratta innanzitutto di una libertà negli schemi, non sempre canonici: come ebbe a sostenere lo stesso autore nella sua Storia e cronistoria questi sonetti sono «irregolari — ma non sempre — per il gioco delle rime >> (Stara, 2001, p. 134). I tratti fondamentali sono soprattutto due: da un lato la moltiplicazione delle rime nella fronte, dall’altro la netta predilezione, in genere, per la rima baciata, in particolare nella sirma. Si veda ad esempio il secondo sonetto della serie Durante una tattica (7 sonetti in totale): …) Pure a me non dispiace ancor quest’urto soldatesco, quel cielo arroventato; i colloqui col mio vicino armato. Gli chiedo: A casa ove il lavoro frutta; a casa, dove certo hai la tua tutta bella, ci andresti, ma così aggravato, a piedi, con lo zaino affardellato, vivendo d’elemosina e di furto?

mi guarda, e mi lascia parlare: Ein owOomO C…

dove c’è tanto pane e tanto oro, tanto vino per Chi sa lavorare. >> In America si vorrebbe andare.

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IL SONETTO ITALIANO

La fronte è costruita su tre rime (in sei dei ventisette sonetti militari poi inclusi nel Canzoniere definitivo la fronte è addirittura su quattro rime: ABBC CDDA), con un singolare schema a cornice che contribuisce a dare compattezza alla prima parte del sonetto evitando la progressione dispersiva dovuta al meccanismo della rima baciata; rima baciata che non interessa solo la parte finale del componimento ma, così come altrove in Saba, è sempre di guida all’orecchio del poeta.

La ricerca di armonizzazione musicale agisce, del resto, anche mediante assonanze, consonanze (tra tutte e tre le rime della fronte, e poi della sirma), e riprese di vario tipo (di vicino al v. 3 in vino al v. 13; difrutta del v. 4 al v. 10, di America del v. 11 al v. 14 ecc.). Va11 notata comunque l’introduzione di un elemento dissonante: il v. infatti non rima perfettamente con la rima D (casi di assonanze in luogo della rima si danno anche in altri quattro sonetti). Questo lavoro di fino sull’assetto fonico del testo svolge evidentemente una funzione di innalzamento del tono per un discorso che vuole essere colloquiale (> secondo la nota formula sabiana), anche se segnato da alcuni tratti tipici del linguaggio letterario, se non proprio poetico (dalle apocopi all’uso del relativo ove, qui per far tornare il verso, alle riprese sintattiche ecc.). Il piccolo dialogo tra il soggetto e un suo commilitone mette in scena un momento di vita militare (ma l’attacco, collegando il sonetto al precedente, inserisce l’episodio in una continuità narrativa dando ragione testuale alla serie), cercando di appoggiarsi ai due snodi strofici principali del sonetto per disporre la propria materia, chiosando poi efficacemente con un tocco di cultura popolare mediante la parafrasi di un verso di una nota canzone del tempo, dedicata appunto all’emigrazione. La musa di Saba «non si esaurisce nella dimensione lirica, ma cerca il “racconto” >> (Esposito, 1992,p. 137);tiene insieme canto e narrazione. Una predisposizione, o vocazione, che a volte mal sopporta le misure ridotte del metro e per questo non si fa scrupoli a oltrepassarle sia attra— verso forti e incisive inarcature che interessano anche i luoghi cardine del sonetto (su cui cfr. ancora Girardi, 1987, p. 36; Esposito, 1992, p. 138), sia prolungando il discorso oltre la stessa unità del componimento mediante un’ inarcatura intertestuale. Si veda il dittico, sempre dai Versi militari, dedicato a Il capitano (riproposto con poche varianti formali nel Canzoniere definitivo): 186

8. IL NOVECENTO

Se più non posso senza lei pensare rea soldatesca ai piedi della croce così chiara campana è la sua voce ch’io certo soffrirò di non udirla. Frai tanti che non san che maledirla, se a volte sembro a quella voce sordo, è che a rendere il gran volto un accordo cerco, che ancor non saprei qui fermare.

Sol quando a sera andarmene soletto potrò, più che non temendo l’importuna tromba, che chiama: Picchetto, picchetto; mi verrà fatto di fermare in una strofa, in un verso, quell’aspetto un poco da Farinata. Ma ben più che il fuoco 11.

dell’Eterno la cruccia: una fratina gente, dai visi ebeti o cagnazzi; davanti a quei noiosi vecchi pazzi star sull’attenti, peggio d’un coscritto. Mai un’ardita impresa, un bel delitto,

solo la pace, solo la tempesta che brontola e non scoppia solo questa parodia della gran carneficina. Uno che a saccheggiare in grande è nato, vederlo qui, che ad aggravarli spia i fantaccini della compagnia! O tanto il suo destino è dei più avversi, che darei, per vederla liberato, questi in suo onore improvvisati versi.

Sarà significativo per l’originale effetto di legato che i due testi vogliono dare che tutte le singole partizioni metriche siano sostanzialmente chiuse (cfr. vv. 4, 8 e 11 di entrambi i componimenti), e solo l’ultima

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IL SONETTO ITALIANO

invece (v. 14 del sivo.

primo) si protenda e si inarchi nel

sonetto succes-

Già D’Annunzio in Invocazione (nell’Intermezzo) aveva collegato sintatticamente due sonetti facendone una cosa sola, ma badando a non operare inarcature nella zona di passaggio e sostenendo l’intera struttura attraverso un fitto reticolo di anafore e un discorso in crescendo che sviluppa un solo lunghissimo ed estenuato periodo di ventotto versi (si

consideri comunque che anche Pascoli nella Finestra illuminata collega con un’ inarcatura sintattica due testi contigui: si tratta però di due madrigali). Il pathos che si coglie nei due sonetti dannunziani, sollecitato a forza di virtuosismo, è, nel caso qui riportato di Saba, sciolto in una narrazione che a dire il vero dimostra di non essere meno condizionata e costretta dalla forma. Pertanto la soluzione, con alcune varianti, verrà pure riproposta altrove nei Versi militari (Ilprigioniero, Ordine sparso), ma sarà in seguito abbandonata: il procedere su questa strada avrebbe implicato, prima o poi, una rivoluzione della forma-sonetto. Saba, invece, aveva la natura del riformatore metrico. Giunto ai limiti di un esperimento eversivo, se ne ritraeva bruscamente (in Coi miei occhi non c’è un solo sonetto!), cercando in altri generi metrici una forma più adeguata alle esigenze della sua sintassi (Girardi, 1987,p. 37).

Saba in realtà continuerà a scrivere sonetti: un’altra trentina se ne conta successivamente nel Canzoniere 1921, a cui poi vanno aggiunti i quindici dell’Autobiografia (1924) e gli altri quindici de Iprigioni ( 1924), e il Sonetto diparadiso (in Cuor morituro). Dopo il 1921 sono però bandite le “stravaganze” e gli schemi tornano a essere rigorosamente petrarcheschi dal momento che la fronte è a rima alternata nell’Autobiografia e abbracciata ne Iprigioni mentre la sirma è in entrambe le serie sempre a rime replicate. Sarà anche per l’emergere, a un certo punto, di un’esigenza di aggiornamento e adeguamento ai nuovi valori formali della poesia novecentesca che il poeta si spingerà a cercare soluzioni diverse e personali, trovando — soprattutto nelle poesie, molto frequenti da li in avanti, organizzate su tre strofe — una propria originale libertà.

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8. IL NOVECENTO

8.3

Sonetti in tempo di guerra Se dunque non stupisce la progressiva perdita di centralità del sonetto nell’esperienza del poeta triestino, in linea generale va considerata anche questa parabola come una conferma della crisi che il metro attraversa a partire dagli anni dieci del Novecento e che prosegue successivamente, prolungandosi con i cosiddetti lirici nuovi, fino almeno alle

soglie della Seconda guerra mondiale.

Se da un lato non mancano poeti minori che frequentano il sonetto, va pure notato che il primo Ungaretti e il Montale degli Ossi di seppia e delle Occasioni da un lato, Cardarelli e “La Ronda” dall’altro non usano sonetti, e gli stessi ermetici del resto lo praticano con molta parsimonia: Luzi, Gatto, Quasimodo non ne hanno che pochi esemplari. La situazione cambia almeno in parte con Carlo Betocchi. I trentasei sonetti (tra cui anche Ora ad altre speranze, parasonetto elisabettiano di endecasillabi e settenari) riscontrabili nell’intero corpus del poeta sono stati scritti tutti tra gli anni Quaranta e Cinquanta (Dicembre anzi addirittura nel 1931 e All ’amata nel 1937; trovo i riscontri in Stefani, 1994) anche se pubblicati via via, in rivista o in raccolte diverse, nel corso del tempo: in Altre poesie del 1939 e in Estate di San Martino del 1961, ma soprattutto ne Il sale del canto e in Poesie del sabato, entrambe del 1980.Ne Il sale del canto ad esempio è contenuta la collana di quindici sonetti (poi ridotta a tredici) dedicata alla moglie è intitolata Sonetti d’amore a Emilia secondo l’imitazione dal Petrarca e da john Donne. L’opera poetica di Betocchi si caratterizza per il recupero costante, accanto a poesie nuove, di testi scritti anche molto tempo prima, > (Menichetti, 2001, p. 386). Ciò non toglie tuttavia che dal punto di vista della ricezione quei sonetti escano in un periodo, gli anni Ottanta, di grande interesse (di revival si è parlato da più parti) per le forme metriche chiuse, in cui anche il sonetto come veicolo di materia amorosa può trovare piena cittadinanza, soprattutto se il riferimento a due campioni della tradizione come Petrarca e John Donne è reso esplicito fin dal titolo, e per ciò stesso distanziato (sul rapporto tra il sonetto novecentesco e la tematica amorosa cfr. Tonelli, 2000, pp. 22-4). Possiamo dire che anche in questo modo l’inattualità di Betocchi finisce per essere il modo fondamentale della sua attualità.

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Pur conservando sempre, tranne in un caso, come si è detto sopra, una scansione strofica tradizionale, l’approccio di Betocchi al sonetto è comunque libero e in alcuni tratti sperimentale, sia nella misura del verso (ad alcuni ipometri e/o ipermetri e ad alcune scansioni non lineari dell’endecasillabo si affianca un componimento come Le coglitrici d ’ireos composto di versi lunghi, tra le tredici e le sedici sillabe, con qualche doppio settenario); sia nell’uso della rima (frequenti i rapporti sosdtutivi che non rendono sempre perspicui gli schemi; cfr. Roggia, 2002); sia nel rapporto tra metro e sintassi (numerosi sono i casi di enjambements, anche forti, intra e interstrofici). Va del resto ricordato che Betocchi è stato riconosciuto come «uno dei più grandi metrici della poesia del Novecento» (Baldacci, 1984, p. 17; ma si veda anche Menichetti, 2001). Se ne ha una conferma nel sonetto seguente, pubblicato inizialmente come primo dei Sonetti d’amore a Emilia (ne Ilsale del canto del 1980) e poi espunto dalla corona ed edito separatamente. Si tenga presente che il sonetto è datato 1944: (70) Al sole di settembre, ai freschi primi d’autunno, sull’acquatile sponda scendi fra i giunchi dove stagna l’onda — e uno spirito lieve erra tra i limi grigiastri e il cielo azzurro — e intemerata scegli la rosa della tua memoria e affidala a quell’alito, e la storia dimentica di te, se la beata guancia dei di fanciulli ti ritorni sensibile com’era, e se una pèsca ti sembri come allora, giù dal ramo

pèndula e calda al sole di quei giorni, e ancor tra ’l verde vaghi una canestra curva a un braccio femineo, in uno strano

silenzio.

Ai tratti pertinenti del metro, gli endecasillabi regolari e lo schema rimico, a rime incrociate nella fronte (con cambio di rima tra le quartine) e a rime ripetute nelle terzine (sia pure con le due ultime non 190

8. IL NOVECENTO

perfette), si oppone una sintassi che travalica versi e strofe e compie il suo discorso, formato di un solo periodo, al di là dei confini del metro stesso: l’ultima parola necessaria alla chiusura del senso infatti, ossia

silenzio, che fa parte dell’ennesimo sintagma inarcato (in questo caso aggettivo-sostantivo), è soprannumeraria. Come toccata e infusa dal paesaggio che sta descrivendo, come i giunchi nell’acqua stagnante

presso la riva, l’onda sintattica e musicale si sovrappone alla struttura del sonetto piegandola con una naturalezza tale che la parola che rompe la struttura non fa quasi rumore. L’impostazione sfumata tra vocativa e rammemorante del testo, con i verbi che suggeriscono l’azione o la richiedono sempre in prima posizione, rinvia ad una consuetudine linguistica e stilistica vicina a un ermetismo confidente e creaturale, che ama la vaghezza pittorica (qui si potrebbe dire alla Poussin) e non si inerpica nelle astratte preziosità tipiche ad esempio del primo Luzi (cfr. Mengaldo, 1989b).Ne esce un sonetto che attraversa in un unico piano sequenza un tempo lunghissimo, molle e sensuale (anche grazie alle tante figure di suono), lasciandosi infine cadere con grande naturalezza fuori schema, in un silenzio (strano perche' meraviglioso e stupefatto) che tutto comprende. L’esperienza di Betocchi, e il suo contraddittorio rapporto con il sonetto, scritto ma non pubblicato, ci dice comunque che negli anni Quaranta qualcosa comincia a mettersi in movimento, ossia sembrano maturare le condizioni per un diverso approccio al metro. Se volessimo chiederci a questo punto le ragioni della scarsa vena sonettistica che attraversa la prima parte del secolo, dagli anni Dieci almeno alla seconda metà degli anni Trenta, dovremmo forse guardare proprio ai poeti che da quel momento hanno cominciato a ridare fiducia a questo metro. Per forza e novità il verso libero godeva in effetti di una spinta difficile da contrastare, e altri metri, come ad esempio la canzonetta, erano più maneggiabili e manipolabili a seconda della vena, ma quel che è mancato al sonetto in questo periodo è un’autentica e profonda motivazione all’uso o riuso del metro. Venuta meno una comunità letteraria che si riconosceva nella condivisione di specifiche forme ereditate dalla tradizione, attraverso cui veicolare e addomesticare i propri valori e disvalori, ciascun poeta, per così dire, è stato lasciato solo con la necessità di dare ragione, a se’ stesso prima di tutto, delle proprie scelte formali, metriche soprattutto (più evidente infatti sul piano linguistico l’aspetto di hoine' che assume la lingua degli ermetici e dintorni, cfr. Mengaldo, 1989b).Non era possibile in tale contesto ricondurre nei termini di una 191

IL SONETTO ITALIANO

prassi diffusa un metro che, al di là delle sperimentazioni a cui era stato sottoposto, aveva perduto la sua ragione principale, quella di essere la forma per eccellenza della socialità in poesia. Solo sono la pressione di un evento altamente tragico, personale o collettivo, sarebbe stato evidentemente possibile un recupero della forma che fosse credibile, che non si riducesse a un discorso in codice. Nel 1943 Montale pubblica a Lugano, grazie alla mediazione di Contini, Finisterre, un piccolo libretto di sole quindici poesie che andrà a costituire in seguito la prima parte del suo terzo libro, La bufera e

altro (anche se in realtà il poeta considera quel fascicolo come >, in Bettarini, Contini, 1980,p. 937). E significativo che tra quei quindici testi ci siano ben quattro sonetti (più un criptosonetto,A mia madre; cfr. Bozzola, 1989,pp. 20-2). Anche se l’assetto linguistico e stilistico ha, in linea generale, caratteristiche per lo più dantesche (come del resto le opere precedenti), Montale riferendosi a quelle poesie fa il nome di Petrarca, o meglio parla di «esperienza petrarchesca >>, intendendo segnalare, secondo Isella (2003, p. XVII), «il carattere di sistema chiuso, monotematico, fondato su pochi elementi ad alta ricorrenza >>. Perfettamente coerente in questo senso è l’orizzonte tematico del libro, la guerra: > ( in Montale, Intervista immaginaria). I sonetti di Finisterre sono elisabettiani nella struttura, ossia prevedono una scansione su tre quartine seguite da un distico a rima baciata ( 4+ 4+4+2). Ciò comporta la possibilità di dare maggiore spazio all’argomentazione, ma comporta anche uno sbilanciamento della parte finale, una sorta di accelerazione che tende in generale a concentrare nel distico conclusivo una clausola particolarmente rilevata o la pointe conoscitiva: per parafrasare la già citata considerazione dannunziana affidata a Ilpiacere in questa forma il sonetto ha un corpo più robusto, ma solo piedi e non gambe. La scelta compiuta da Montale di recuperare questa particolare forma di sonetto può essere letta in vari modi: l’apertura alla cultura inglese e a un’idea di poesia metafisica a cui Montale ha sempre guardato con attenzione (i nomi — accanto a Shakespeare, di cui Montale

I… tradotto

i sonetti

XXII, XXXIII, XLVIII

192



sono

quelli di Hopkins

8. IL NOVECENTO

e Eliot), ma anche il rapporto che in questo modo si instaura tra la tradizione italiana (da cui viene il sonetto) e quella anglosassone (da cui lo schema elisabettiano) in un momento storico drammatico. In questo modo Montale , citata in Bettarini, Contini, 1980, p. 943; ma l’indicazione montaliana andrà riferita soprattutto alla struttura elisabettiana), datato 1942 e intitolato

Il ventaglio: (7I)

Ut pictura... Le labbra che confondono,

gli sguardi, i segni, i giorni ormai caduti provo a figgerli là come in un tondo di cannocchiale arrovesciato, muti e immoti, ma più vivi. Era una giostra d’uomini e ordegni in fuga tra quel fumo ch’Euro batteva, e già l’alba l’inostra con un sussulto e rompe quelle brume. Luce la madreperla, la calanca vertiginosa inghiotte ancora vittime, male tue piume sulle guance sbiancano e il giorno è forse salvo. O colpi fitti, quando ti schiudi, o crudi lampi, o scrosci sull’orde! (Muore chi ti riconosce?)

> w no m O

Il testo, in endecasillabi regolari, non presenta divisioni strofiche malo schema delle rime indica comunque una Struttura formata da tre quartine con rime alterne (sempre diverse) e un distico finale a rima baciata. La sintassi non appoggia lo schema, ma segna un punto in fine di verso solo in ottava posizione (quasi a suggerire una scansione tradizionale, italiana, del metro, una divisione tra fronte e sirma, che poi però le rime non rispettano). Non tutte le rime sono perfette, anzi: ai vv. 1 e 3, 9 e I93

IL SONETTO ITALIANO

ha una rima ipermetra, tra sdrucciola e piana; ai vv. 6 e 8, 13 e 14 una rima imperfetta all’atona. Fitti, come di consueto, i legami 11, 10 12 si e

fonici interni: sul piano verticale si noti solo, come una sorta di fil di ferro interno che sostiene la struttura, a partire dal v. 6, la serie OrdEgni, rOmpE, inghiOttE,fOrsE, OrdE, Mu OrE; sul piano orizzontale invece alla rima vera e propria, a contatto, di schiudi e crudi al v. 13, almeno l’allitterazione tra FUga e FUMo al v. 7 (anticipata ai vv. 4-5 da Mu TI / e iAdÀdb77)ecc.

Il riferimento oraziano in apertura (dal De arte poetica) è fondamentale per cogliere il senso del testo dal momento che nel passo latino l’affinità tra pittura e poesia è vista anche in termini di prospettiva, tema chiamato direttamente in causa dal riferimento al > (v. 4). La prospettiva però non è solo spaziale ma anche temporale: lo strumento ottico usato a rovescio permette così di avvicinare le cose lontane (il passato in cui è confinata Clizia) e distanziare quelle vicine (il presente bellico). L’avvento salvifico di Clizia (e il giorno e'forse salvo), che si manifesta come splendore di madreperla (il ventaglio del titolo), ha effetti dirompenti in grado di mettere in fuga le orde che mietono ancora vittime. La chiusura del sonetto, che inizia poco prima del distico finale (dopo l’ictus di 63 del v. 12), alza il tono grazie al triplice vocativo con cui sono descritte le azioni liberatrici della donna (colpi, lampi, scrosci), al modo che può ricordare il messo angelico del canto IX dell’Inferno dantesco. La parentesi e la forma interrogativa con cui si chiude il sonetto sanciscono la natura soprannaturale di Clizia: > (cit. in Isella, 2003, p. 34). Anche gli altri sonetti di Finisterre, tutti in endecasillabi (ma in Nel sonno è inserito al v. 3 un settenario), presentano la medesima compatta fisionomia e lo stesso schema (a parte La frangia dei capelli... in cui le quartine sono legate da rime incrociate e non alternate), accolgono forme sostitutive della rima e hanno una sintassi libera che travalica la partizione strofica: nel momento stesso in cui Montale adotta una struttura chiusa e fortemente vincolante come il sonetto, ne viola le partizioni dilatando versi e strofe implicite con le inarcature, e scioglie la rigidità delle rime variandole […:] insomma riacquista, per vie traverse, una nuova libertà compositiva (Bozzola, 1989, p. 20). 194

8. IL NOVECENTO

Quel che conta in ogni caso è che il sonetto, cosi “liberato”, per il tramite di un’esperienza tragica collettiva sia tornato ad essere, senza più intenti ironici o parodici, portatore di senso. Anche l’uso del sonetto (del sonetto elisabettiano) si inserisce pertanto in un sistema metrico che concorre a definire il particolare, tutto moderno, classicismo lirico di Montale.

Tutti e quattro i sonetti confluiti nel libretto luganese erano stati in precedenza pubblicati su rivista, tra il 1940 e il 1942. E interessante notare la quasi perfetta sovrapponibilità di date tra i sonetti di Montale e quelli relativi alla prima fase della stagione sonettistica di Caproni. I sonetti di Caproni raccolti in Finzioni (Sonetto d ’epifiznia e Maggio) sono della prima metà del 1940 (il rinvio va all’ed. Zuliani, 1998), mentre i diciotto Sonetti dell ’anniversario (in Cronistoria, del 1943) sono databili in larga parte tra giugno e dicembre del 1942. Lo sfondo degli eventi è il medesimo (il 1942 è definito da Caproni «l’anno più chiuso a ogni nostra speranza >>, in Rota, 2014, p. 37), ma alla tragedia collettiva il livornese aggiunge quella personale, dal momento che l’anniversario a cui fanno riferimento i sonetti di Cronistoria è appunto quello relativo alla morte (nel 1936) della fidanzata Olga. Nonostante qualche tentativo precedente presto uscito dal corpus ufficiale — tra cui ad esempio Folle vento, edito in rivista nel 1939, > (Scarpa, 2004, p. 37) —, si può presumere che a un convinto recupero del sonetto Caproni giunga proprio sulla pressione di quegli eventi drammatici, che spingono il poeta a cercare di > (Girardi, 1987, p. 111). Il passaggio si coglie, proprio in Cronistoria, nell’accostamento delle canzonette in strofe di versi mediobrevi liberamente rimati della prima sezione (E lo spazio era unfuoco) ai diciotto Sonetti dell ’anniversario, così severi e impenetrabili, quasi senz’aria. Forse proprio per mantenere questo stacco Caproni tolse dalle edizioni successive alla prima il sonetto La mia fronte che semina di tombe!, che nel libro del 1943 era in prima posizione con funzione solenne di apertura. La forma “classica”, che ha i tratti dell’assolutezza e dell’atemporalità, è chiamata a svolgere una funzione di contenimento nei confronti di una condizione emotiva di grande precarietà (si rilegga l’incipit del primo sonetto: «Poco più su d’adolescenza ahi mite / fidanzata così completamente / morta >> ). Da qui le peculiarità formali ancora più riI95

IL SONETTO ITALIANO

gorose, quasi ossessive, rispetto a Montale, nonostante entrambi optino per un sonetto senza stacchi strofici. Nel sonetto “monoblocco” di Caproni la tensione fondamentale scaturisce in primo luogo dal rapporto tra la sintassi e il metro: il discorso travolge la struttura non riuscendo mai a trovare una pausa in corrispondenza delle partizioni strofiche, mentre il verso si presenta spesso frammentato da incisi, parentesi, rotture. Non c’è possibilità di riposo, come dimostra anche sul piano dell’ordine delle parole «la frequente distanza fra soggetti e predicati, o viceversa, che nella recitazione (interiore) comporta una tenuta di respiro che dilata quella stessa delle inarcature a catena >> (Mengaldo, in Zuliani, 1998,pp. XVI-XVII). Si tocca qui «il paradosso di fondo: che una materia quasi indicibile (tanto è dolente, lancinante) sia veicolabile solo attraverso tali gabbie o prigioni metriche, attraverso le loro intelaiature ermeticamente chiuse, oppresse >> (Girardi, 1996, p. 190). Questa tensione esasperata si riflette immediatamente sul piano enunciativo grazie all’uso insistito di moduli interrogativi ed esclamativi appoggiati a quelle marche dell’intonazione patetica che sono le interiezioni (ah, ahi, sette occorrenze nei Sonetti dell ’anniversario), le quali introducono dei vuoti del respiro nella perentorietà di un ritmo versale endecasillabico sincopato, continuamente spezzato. La lingua ben si adegua a questo contesto esprimendo una sorta di adesione allucinata alla realtà; nel senso che la realtà, pur presente con i suoi nomi, viene deformata attraverso gli accostamenti più vari (tipiche le sinestesie come >, , «il dolore / chiuso nell’ossa dei giorni cui manchi» ecc.). Già a questi sonetti si può estendere quanto Pasolini (1954, p. 467) ha affermato dei (di poco successivi) Lamenti : >. Ciò che importa in ogni caso sono i correttivi che Caproni mette in atto per fare argine alla dispersione, o se si vuole allo sgomento (parola chiave dei Lamenti). Se la struttura del sonetto non riesce a contenere la sintassi, le rime perfette rappresentano un punto di sostegno della forma (eccetto in quattro casi — sonn. IX, XVI, XVII, XVIII — in cui l’assonanza sostituisce la rima, mentre in altri tre — sonn. II, III, XI — lo schema prevede una casella vuota, un verso anarimo), anche perche' a quella perfezione aggiungono di frequente elementi aggiuntivi (ampia

196

8. IL NOVECENTO

la casistica delle rime ricche, cfr. Magro, 2007a, pp. 1452-4);se la lingua, eccitata da un pathos incontenibile, tende all’oscurità, la ripetizione di parole e sintagmi consente ad alcuni temi di emergere in tutta la loro necessità e urgenza (Caproni «lavora in economia >>, secondo la giusta osservazione di Surdich, 1982, p. 65). Si pensi proprio alle rime e ai rimanti che le veicolano: a più ampia diffusione si registrano le rime in -ori (errori, odori, amori, clamori ecc.), in -ura (mura, paura, apertura, sepoltura,frescura ecc.) e in -aria (aria :precaria :plenaria : solitaria : sanguinaria ecc.) presenti in cinque sonetti; -ore (dolore, amore, sudore, rossore, ardore, rumore, clamore ecc.) che veicola il rimante a più alta ricorrenza, cioè amore, in quattro. La stessa ricerca di armonizzazione fonica tanto sul piano verticale (frequenti sono le rime che assuonano e consuonano) quanto su quello orizzontale (spesso la rima è il punto terminale di un verso fortemente coeso sul piano fonico; cfr. Magro, 2007a, pp. 1454-5) conferma la ricerca di un equilibrio tra la tenuta della struttura e le spinte all’implosione. Anche gli schemi rimici sembrano rimarcare questa dialettica. Lo schema maggioritario prevede fronte e sirma a rime alternate (in quindici dei Sonetti dell ’anniversario, in tredici dei Lamenti): si tratta di una soluzione che da un lato allude a uno schema aperto, replicabile all’infinito, come se il lamento fosse potenzialmente destinato a non chiudersi (è, d’altra parte, la forma del responsorio), dall’altro però pare confermare — soprattutto se si considera che in larghissima maggioranza il sonetto si costruisce su sole quattro rime — la strategia di chiusura melodica dell’autore. Va ricordato inoltre che il VII sonetto della serie aggiunge allo schema una coda di due versi in rima baciata. Resa compatta da una serie di stringenti caratteristiche formali, la sequenza dei diciotto Sonetti dell ’anniversario si appoggia naturalmente anche a una forte coesione tematica: «non tanto il lutto per l’amore perduto, quanto il riaffacciarsi, nonostante la morte, di questo amore >> (Scarpa, 2004, p. 44). In questo senso il sonetto, e soprattutto il modo con cui la forma è trattata da Caproni, ha un duplice obiettivo: quello come si è detto di difesa nei confronti di una spinta emotiva travolgente e quello al contrario di trattenere, racchiudere, salvare dentro il dispositivo formale quanto di memoria vitale si oppone alla dispersione del tempo e della morte. La strategia caproniana è così rigorosa da rischiare di portare il testo a un eccesso di saturazione. Forse per questo l’autore ha avuto a un certo punto la tentazione di fare un passo indietro e provare soluzioI97

IL SONETTO ITALIANO

ni diverse. Se ne ha una conferma grazie al volumetto Ifaticati giorni. Quaderno Veronese 1942 (Dei, 2000; cfr. anche Scarpa, 2004, pp. 53 ss.). Si tratta della riproduzione degli autografi di una serie di testi che confluiranno poi in Cronistoria (ma Ci sono anche degli inediti). Il quaderno è detto “veronese” per il fatto che Caproni scrisse quei testi sui fogli di guardia e sul retro delle illustrazioni di un libro d’arte del pittore cinquecentesco Paolo Veronese. In queste carte si trovano alcuni sonetti già composti, trascritti con una nuova scansione strofica (preceduta dall’indicazione Esempio di comepotrei dividere in strofi), come nel caso — è il decimo sonetto della serie — seguente (ivi, pp. 65, 75):

(72) a Hai lasciato di te solo il dolore chiuso nell’ossa dei giorni cui manchi

cosi improvvisa — il velo di sudore che soffoca le piazze ove già stanchi allentasti i tuoi passi al disamore eterno. E ai nostri ponti, e agli atrii, e ai bianchi archi allevati in un cielo incolore

più dell’ultimo viso, i cari fianchi trafitti tanto giovani al ricordo nessuno sosterrà: come la cera se la mano la stringe, come il sordo suono del sangue se cade la sera che non s’appoggia più al crollato accordo della tua spalla ora ahi quanto leggera!

b Hai lasciato di te solo il dolore chiuso nell’ossa dei gironi cui manchi così improvvisa — il velo di sudore che soffoca le piazze, ove già stanchi allentasti i tuoi passi al disamore eterno.

E ai nostri ponti, e agli atrii, e ai bianchi archi travolti in un cielo incolore . dell ult1mo VISO, 1C31’1. fianch1. p1u spezzati tanto giovani al ricordo \

)

o

o

o

198

8. IL NOVECENTO

nessuno sosterrà: come la cera se la mano la stringe — come il sordo suono del sangue se cade la sera

che non s’appoggia più al trafitto accordo della tua spalla crollata leggera.

Da un punto di vista della disposizione tipografica la seconda versione,

poi non accettata, rimarrebbe perfettamente in linea con il Caproni per così dire “prima maniera” (al di là della misura versale). L’uso del verso

a gradino che stacca e insieme unisce ha un effetto di alleggerimento verticale che comporta anche una maggiore adesione tra sintassi e intonazione, fra respiro e pensiero (Raboni). La fluidità acquisita in questo modo rendeva probabilmente meno evidente e quindi meno necessario il riferimento alla forma sonetto, facendone così anche venir meno la funzione essenziale di raffreddamento o contenimento del pathos, di schermo e difesa. Del resto, non si tratta di colpo d’occhio, ma di una resa all’evidenza da parte del poeta (cfr. su questo aspetto anche Scarpa, 2012, pp. 138 ss.). Qui come anche negli altri sonetti della serie l’intera organizzazione ritmica e sintattica satura completamente lo spazio testuale: sia attraverso l’impostazione melodica, che insiste su alcuni suoni (in particolare sulla sibilante che collega ossa apassi e asangue: cfr. poi ai vv. 11-12 > ), e sembra quasi avvitarsi su se' stessa per mezzo degli enjambements (per lo più di media intensità ma continui: disamore / eterno;fianchi / spezzati; sordo / suono); sia attraverso la punteggiatura che svolge una funzione segmentatrice soprattutto mediante il trattino, il quale più che indicare una pausa sembra essere funzionale all’enunciazione, come se si dovesse passare a una nota più alta dell’accordo intonativo, con effetto patetico. Dal lutto individuale al dramma storico e collettivo. Alla guerra, o meglio a Gli anni tedeschi si riferiscono infatti i testi relativi alla seconda fase della stagione sonettistica di Caproni, inseriti prima nelle Stanze della funicolare (1952) poi ne Il passaggio d’Enea (1956) e infine ne Il

(dall’introduzione di Caproni ai cinque Lamenti usciti su “Poesia”, VII, luglio 1947; si cita da Zuliani, 1998, p. 1133). In realtà la possibilità di individuare anche in questi sonetti, pur nell’evidente asimmetria, un qualche residuo di struttura in quattro tempi, variamente allusiva a un’organizzazione in quartine e terzine, è stata ben messa in luce da Surdich (1982, pp. 66-8). Anche in questa serie in ogni caso, come nei sonetti di Cronistoria, lo schema rimico maggioritario è quello a rima alternata, ma il tratto di novità riguarda proprio la qualità delle rime. Lo schema infatti — cosa che, come detto, non accadeva in precedenza — è continuamente messo in discussione dal ricorso a sostituti della rima o all’assenza di rima (in quindici dei sedici sonetti totali è riscontrabile la presenza di rapporti sostitutivi). Una delle strategie più efficaci utilizzate da Caproni nei Sonetti dell ’anniversario per evitare l’erosione della forma viene così meno, e la struttura del sonetto vacilla. Lo si può cogliere con chiarezza in Alba (cfr. anche Zuliani, 2014): (73) Amore mio, nei vapori d’un bar all’alba, amore mio che inverno lungo e che brivido attenderti! Qua dove il marmo nel sangue è gelo, e sa di rifresco anche l’occhio, ora nell’ermo rumore oltre la brina io quale tram odo, che apre e richiude in eterno le deserte sue porte?... Amore, io ho fermo il polso: e se il bicchiere entro il fragore sottile ha un tremitìo trai denti, è forse di tali ruote un’eco. Ma tu, amore, 200

8. IL

NOVECENTO

non dirmi, ora che in vece tua già il sole sgorga, non dirmi che da quelle porte qui, col tuo passo, già attendo la morte.

Difficile ricondurre a uno schema convincente e univoco le terminazioni versali del sonetto. A partire però da un profilo che tiene conto solo dei rapporti rimici perfetti (ABCCDEBDFGFHII) si può procedere con una serie di progressive riduzioni equiparando innanzitutto la doppia coppia di assonanze nella fronte (bar e tram, qua e sa da un lato; inverno ed eterno, ermo efirmo) mentre per quanto riguarda la sirma si può tener conto da un lato della consuetudine caproniana allo scambio tra /1/ e /I/ in sede di rima (fragore, sole, amore), e dall’altro della tendenza a rispettare la quantità consonantica tra i rimanti (forse,porte, morte). Il risultato — in un contesto tra l’altro di forte omogeneità fonica in cui tutte le rime della sirma assuonano tra loro — è uno schema di sonetto del tutto inedito nella tradizione (ABAABABBCDCCDD), ma non privo di una certa simmetria interna. A controbilanciare l’indeterminatezza del profilo rimico, e a frenare il rischio di un’implosione della forma, ci sono anche in questo caso le ripetizioni. Amore, parola centrale di questi sonetti, che tra l’altro rima con rumore al v. 6 e assuona con morte (non per nulla si tratta della prima e dell’ultima parola del componimento a indicare quasi la tragica direzione di un percorso esistenziale), si ripete ben quattro volte, e nelle zone più sensibili del testo (ai vv. I, 2, 8 e II), occupando significativamente tutte le posizioni all’interno dell’endecasillabo (ictus di 23 nel primo caso, di 43 nel secondo, di 8a nel terzo e di 103nel quarto). A ripetersi inoltre sono i deittici qua e qui (vv. 3 e 14), ora (vv. 5 e 12) e gia (vv. 12 e 14);il sostantivoporte (vv. 8 e 13);il sintagma non dirmi (vv. 12 e 13); e in particolare il verbo che esprime la desolata impasse del soggetto: se in avvio l’attesa è ancora rivolta alla donna amata (>, vv. 2-3), alla fine quell’attesa fa tutt’uno («col tuo passo») con la morte (>, vv. 13-14). Questo serrato sistema di iterazioni e riprese porta naturalmente con se' l’emersione di parole e temi centrali (e questo vale anche per le parole grammaticali e per le interiezioni), ma non punta a restituire un articolato sviluppo narrativo. La sua funzione, piuttosto, sarà ancora una volta quella di portare in primo piano la modalità intonativa fondamentale della serie, annunciata fin dal titolo di sezione — Lamenti. 201

IL SONETTO ITALIANO

Sia i Sonetti dell ’anniversarioche quelli del Terzo libro mettono in forma una contraddizione — la compattezza della forma monoblocco contrasta con gli elementi destrutturanti descritti — che trova origine nei tragici eventi personali e collettivi che l’autore ha vissuto, come ha sottolineato Surdich (2016, p. 98) parlando di un campo di tensione due poli contrapposti del riferimento alla tradizione letteraria e della drammatica esperienza esistenziale e storica, tra codice retorico e sofferenza toccata alle radici […] Anziché rimuovere il primo termine (quello relativo all’ottemperanza letteraria), Caproni provocatoriamente lo assume, per scontarne fino in fondo l’inadeguatezza, ma anche per ricavarne le residue possibilità di comunicazione poetica, quelle che incanalano le emozioni entro uno spazio di accoglimento.

tra i

Sia pure con finalità e risultati diversi, il trattamento che Montale e Caproni riservano alla forma sonetto presenta quindi alcune affinità, che tuttavia non andranno sopravvalutate. Soprattutto, il recupero della forma si colloca nell’orizzonte di un’esperienza traumatica e lì si esaurisce, come conferma il semplice fatto che rimane quello l’unico momento di avvicinamento al metro: Montale e Caproni infatti non torneranno più al sonetto. Diverso il caso di Fortini, il quale ha senza dubbio frequentato con maggiore consuetudine le forme metriche della tradizione (dalla canzone e dalla canzonetta alla sestina, dalla saffica all’ottava ecc.; il rinvio va a Mengaldo, 2000b). Diverso innanzitutto perché al sonetto Fortini ritorna a più riprese nel corso della sua produzione poetica, ma anche perché radicalmente altra è la funzione che la metrica svolge in questa poesia. Come ha giustamente osservato Mengaldo (1974, p. 414), «quanto più preme una rovente materia esistenziale, tanto più Fortini affida alla poesia non già il ruolo dell’immediatezza individuale d’espressione, ma quello della mediazione oggettiva e indiretta >>. E il ricorso alle forme metriche della tradizione, insieme all’adozione di un registro linguistico e stilistico sempre alto e sostenuto, funziona proprio come mezzo per allontanare da sé quel contenuto, o meglio per inserire quel contenuto individuale in una storia collettiva che lo trascende. Non la ricerca metafisica di Montale dunque, né il pathos espressionistico di Caproni. Ne abbiamo una conferma fin dalla prima raccolta poetica di Fortini, Foglio di via (1946), che contiene testi composti tra il 1938 e il 1945. 202

8. IL NOVECENTO

Si trovano qui due sonetti (Vice veris, es. [74]; Sonetto, es. [75]; altri due, Mesi per bambini e Dedicando poesiefuture, composti nello stesso periodo, saranno poi rifiutati), molto diversi tra loro: (74) Moli 147261primavera 507726 questa E venuta sul mondo. Certo è un giorno Da molto tempo a me promesso questo Dove tutto il mio sguardo siflz eguale Ai miei confini, riposando; e quanta Calma giustizia nelpensiero e' infiore Quanta limpida luce orna il colore Delle ombre del mondo. Ora conosco

Perche' mai dagli inverni ove afiztica Si levò questo esistere mio vivo M ’e‘ rimasto quel nome, che mi scrivo Su quest’aria d’aprile, 0 sola antica Eperduta e oltre ilpiano sempre cara Immagine d’amore mia compagna.

(75)

Alcuni pregavano perla grazia di un colpo ben centrato. Altri cantavano i canti di Israele... (DAL DIARIO DI UNA DODICENNE POLACCA, 1944)

Sempre dunque così gemeranno le porte divaricate in pianto. Rotano eterni i fumi Dei roghi e giù s’ingorga la coorte D’uomini scimmie, di femmine implumi. Con loro, amici! Sono questi i fiumi Dove l’errore nostro ha la sua sorte. Ma sele torce stridono e vacillano i lumi Qualcuno dentro il buio canta più forte. Non la battaglia bianca d’arcangeli cristiani

Clama l’inno che tu alla notte rubi Sempre più cieca; ma noi, gli ultimi, ivivi.

A coro alto scendiamo, le mani strette alle mani E non vinti, le grotte vane: Anubi Enorme erra, testa di cane, ai trivi. 203

IL SONETTO ITALIANO

Il primo chiude la sezione Elegie, che ospita testi di carattere privato, rievocativo e nostalgico; di intonazione appunto elegiaca. Il secondo invece si colloca tra gli Altri versi, sezione varia che si apre con la poesia che presta il titolo alla raccolta e che alla prima persona singolare alterna un plurale — un noi — che chiama in causa i compagni della propria generazione. Il collegamento tra la poesia Foglio di via e Sonetto è posto da Fortini stesso nella prefazione all’edizione del 1967 della raccolta:

il “foglio di via” voleva essere la “bassa di passaggio” che nei trasferimenti accompagna il soldato isolato. Non per nulla la poesia di quel titolo è una piccola discesa all’Ade. Viaggi dello stesso genere sono accennati o svolti in non poche poesie (Eguarderemo, Sonetto, Antichi cantifunebri) (in Lenzini, 2014, p. 64).

Da un lato un testo in corsivo come il primo e l’ultimo della raccolta, che mette in forma, con uno stupore che rimarrà sostanzialmente legato alla prima fase della poesia fortiniana, la presa di coscienza di un momento finalmente giunto di riconciliazione con il mondo, in cui ritrova senso il passato e quello che gli sopravvive; dall’altra un sonetto in cui la tensione allegorica e il linguaggio solenne e cifrato sono contestualizzati dall’epigrafe posta in esergo, che collega il componimento al tema drammatico dello sterminio degli ebrei. E dunque, Vice veris è un parasonetto composto da quattordici endecasillabi canonici, privo di stacchi strofici e di qualsiasi accordo tra metrica e sintassi; con un profilo rimico sfrangiato che allude comunque a uno schema di sonetto (si noti ai vv. 1e 3 la rima imperfetta questa : questo, ai vv. 6-7 la rima perfettafiore : colore, compatibili con lo schema di una fronte a rima prima alternata e poi incrociata; mentre per la sirma si può molto più chiaramente indicare uno schema su tre rime del tipo XYY XZZ, con la sola variante dell’assonanza in luogo della rima ai vv. 13-14).Dall’altra parte, in Sonetto, notiamo invece: titolo metrico, scansione strofica tradizionale, accordo tra metro e sintassi, rime perfette; l’unica particolarità si coglie semmai nell’alternanza tra misure versali diverse, tra endecasillabi (l’ultimo, tripartito e allitterante ma stonato, di 5“) e alessandrini (anche calanti). Semplificando un po’ si può comunque dire che se il contenuto di un privato pacificato, in Vice veris, fatica a trovare la strada della forma canonica, e può solo alludervi, in Sonetto metro e lingua servono a razionalizzare (è una delle funzioni dell’allegoria) e ogget204

8. IL NOVECENTO

tivare un contenuto bruciante. Proprio per questo Mengaldo (1978, p. 829) ha potuto parlare, per Fortini, di un >, il v. 13 >), o ancora tramite altri espedienti retorici (dal poliptoto che si somma alla sinonimia in n, vv. I e 14: «Corre corre il sangue ma in noi un’altra gara […] Di sangue in sangue non bagna il traguardo della corsa >>; all’anafora che si aggiunge all’ipermetria rimica in m, vv. 1 e 13-14: . Zanzotto e l’ipersonetto

Per la storia novecentesca del metro, l’Ipersonetto di Zanzotto, pubbliIl galateo in bosco del 1978, rappresenta un momento cruciale, un vero e proprio snodo che ha in qualche modo offerto alla poesia successiva, tra le altre cose, un’autorevole legittimazione al riuso della forma chiusa. Innanzitutto, si tenga presente che l’autore stesso, in una delle note finali al libro, si preoccupa di chiarire struttura e motivazione del suo lavoro: l’Ipersonetto cato ne

è un componimento [si noti l’uso del singolare] formato da 14 sonetti che tengono ognuno il posto di un verso in un sonetto. Più una premessa e una postilla. E questo un particolare omaggio a coloro che, come Gaspara e il Monsignore del Galateo, scrissero sonetti abitando nel BOSCO.

L’Ipersonetto si colloca al centro di un libro (diciotto liriche lo precedono e diciotto lo seguono) che medita intensamente sul rapporto tra

due sostantivi con cui si costruisce il titolo del volume, galateo (che rinvia a una serie di norme, codici e comportamenti) e bosco, racchiudono già un riferimento esplicito a queste polarità: nello spazio unitario che fa da sfondo al libro, ossia la zona del Montello in provincia di Treviso, si trovano sedimentate testimonianze di ordine naturale (il bosco con la sua vita fermentante), letterario (è la zona in cui hanno vissuto e scritto la poetessa Gaspara Stampa e monsignor Giovanni Della Casa, autore tra l’altro proprio del Galateo) e storico (si trova qui un ossario che raccoglie i resti dei soldati caduti durante la Prima guerra mondiale). Ne Ilgalateo in bosco allora : quel giardino, che si pone all’origine della nostra storia letteraria, è diventano nel corso del tempo un bosco (dalla cultura alla natura, come indicato da Testa), ma ciò non significa che

di quell’originario galateo (di quell’originaria disposizione regolata) non si sia mantenuta alcuna traccia vitale. In altre parole in un contesto di successive accumulazioni e sedimentazioni la poesia, come la vita stessa del resto, sperimenta uno statuto >, trovandosi

in una posizione di doppia “connivenza”: da una parte essa si rivolge parassitariamente al bosco [al reale] come sua unica fonte di sostentamento e speranza di vita autentica, dall’altra non può non riconoscersi nelle istanze razionalizzanti (nel bene e nel male) del Galateo [della norma] in quanto memoria stratificata nel codice letterario (Dal Bianco, in Dal Bianco, Villalta, 1999, p.

1575)-

Zanzotto, la cui ambizione «è sempre stata quella di andare Dietro il paesaggio, come non per niente suona il titolo della sua prima raccolta >> (Contini, 1978,p. 6), intende attraversare e in questo modo valorizzare lo spessore storico e la relazione dialettica di quelle istanze contraddittorie, discostandosi così radicalmente dalla dispersione superficiale tipica delle tecniche di contaminazione linguistica della neoavanguar-

dia.

Ecco allora perché «il sonetto è qualcosa di più del sonetto >> (Zana proposito del sonetto foscoliano) e l’Ipersonetto è in sostanza — per continuare la metafora zanzottiana — una sorta di casa nel bosco, costruita “a regola d’arte” (o di codice) ma fatta con i materiali sparsi raccolti lì intorno, nel bosco stesso: la stabilità della costruzione è assicurata dalla chiarezza delle sue strutture e dalla ric-

zotto, 1991, p. 312,

214

8. IL NOVECENTO

chezza delle connessioni intra e intertestuali (studiate, tra gli altri, da Bordin, 1993; Tassoni, 2001; Giuliodori, 2008), mentre i materiali di risulta di cui è fatta (di cui è fatta la sua lingua) costituiscono > (Dal Bianco, in Dal Bianco, Villalta, 1999, p. 1575). Nel dettaglio, i tratti comuni ai sonetti che compongono il macrotesto e i suoi singoli addendi vanno nella direzione di una forma accolta nelle sue strutture fondamentali. Si nota infatti: il mantenimento della divisione tradizionale in quartine e terzine, con un sostanziale rispetto dell’autonomia delle singole partizioni strofiche (solo un paio i casi di inarcatura interstrofica); l’uso di un endecasillabo regolare (pur con qualche libertà nel profilo ritmico); uno schema rimico che adotta per la fronte quartine a rima incrociata (tranne che nel son. V in cui si ha ABBA BAAB e nel son. VI, a rima alternata ABAB ABAB) mentre per le terzine, al di là della prevalenza dello schema replicato (CDE CDE, in cinque sonetti), utilizza una maggiore varietà, anche al di fuori del canone petrarchesco (nel son. XII ad esempio la rima A ritorna anche nelle terzine rafforzando la struttura a cornice e anzi circolare — ABBA ABBA ACC DDA — che porta tra l’altro a un capovolgimento di senso: dal bel sembiante del v. 1 al mai sembiante del v. 14); la prevalenza quasi assoluta di rime perfette, con il solo ricorso all’artificio dell’ipermetra, in cui rimano parola piana con parola sdrucciola. Vediamo ora, sia pur brevemente, alcuni aspetti che riguardano almeno il primo e l’ultimo dei testi che compongono l’Ipersonetto: (77) PREMESSA

(Sonetto dello schivarsi e dell ’inchinarsi) Galatei, sparsi enunciati, dulcedini di giusto a voi, fronde e ombre, egregio codice... Codice di cui pregno o bosco godi e abbondi e incombi, in nascite e putredini...

Lasciate ovunque scorrere le redini intricando e sciogliendo glomi e nodi... Svischiate ovunque forze e glorie, o modici bollori d’ingredienti, indici, albedini... 215

IL SONETTO ITALIANO

Non più che in brezze ragna, o filigrana dubbiamente filmata in echi e luci sia il tuo schivarti, penna, e l’inchinarti...

Non sia peso nei rai che da te emanano prescrivendo e secando; a te riduci segno, te stesso, e le tue labili arti...

POSTILLA

(Sonetto infimia e mandala) a F. Fortini

Somma di sommi d’irrealtà, paese che a zero smotta e pur genera a vista vermi mutanti in dèi, così che acquista nel suo perdersi, e inventa e inforca imprese, vanno da falso a falso tue contese, ma in si variata ed infinita lista che quanto in falso qui s’intigna e intrista là col vero via guizza a nozze e intese.

Falso pur io, clone di tanto falso, od aborto, e peggiore in ciò del padre. accalco detti in fatto ovver misfatto: cosi ancora di te mi sono avvalso,

di te sonetto, righe infami e ladre — mandala in cui di frusto in frusto accatto.

I due sonetti, in endecasillabi regolari, presentano entrambi uno schema rimico che ripropone la soluzione petrarchesca per eccellenza (AB-

BA ABBA CDE CDE). Interessante il fatto che il sonetto d’apertura sfrutti in modo rimarchevole non solo il ricorso alla rima su parola sdrucciola (vv. I, 4, 5, 8), ma anche quello alla rima ipermetra, nelle quartine ai vv. 2-3 e 6-7 (ma la rima è perfetta se si considerano i vv. 3 e 6 e appena imperfetta per i vv. 2 e 7), e ai primi versi delle terzine (vv. 9, 12). Si noti tra l’altro il rapporto semantico, se non oppositivo comunque divaricato, tra dulcedini e putredini, a indicare i due poli entro cui si collocano norma e caos, cultura e natura. 216

8. IL NOVECENTO

E chiaro comunque che la rima non è che il punto più esposto di

una serie di rapporti fonici, ritmici, retorici, e infine semantici, particolarmente nutrita. Un fitto sottobosco di rimandi che satura completamente il testo: per quanto riguarda in particolare la Premessa, siva dalle assonanze e consonanze a contatto (frOndE e OmbrE, v. 2; abendl

intricaNDO e scioglieNDO, V. 6; glOmI e nOdl, v. 6; prescriveNDO e secaNDO, v. 13 ecc.) o a distanza (D UlCEdini, coDICE, MoDICI, lUCI, riDUCI), alle ripetizioni anaforiche (lasciA TE ovunque […] svischiATE ovunque, vv. 5-7; Non sia […] Non sia, vv. 9-11 e 12) o in anadiplosi (codice, vv. 2-3) e cosi via (cfr. Bordin, 1993,pp. 112-4, 144-6). Per la Pastilla occorrerà invece sottolineare il valore anche costruttivo svolto dalle antitesi (cfr. Welle, 1987, p. 104) che formalizzano il senso di una domanda, che attraversa tutto l’Ipersonetto, sul rapporto che la norma stessa intrattiene con la verità: >; «paese che a zero smotta >> vs «e pur genera >>; ; > vs >; > vs «padre >>; > vs >; > vs «mandala», fino all’ossimoro «che acquista / nel suo perdersi» (vv. 3-4), a cui si può aggiungere la ripetizione, per ben cinque volte, difalso. Questa ricchezza va sia nella direzione di una lussureggiante chiusura e compattezza della superficie testuale, sia nella direzione di una disseminazione (non dispersione) del senso, che si compone per somma di frammenti, non sempre e non solo coincidenti con la singola parola ma a volte anche inferiori ad essa (una situazione in realtà valida per tutto il libro e ben oltre). Anche sul piano della determinazione del significato abbiamo a che fare con una sorta di «puzzle destinato a rimanere per zone incompiuto (non però per insufficienza o oscurità, ma per via della struttura mobile degli elementi dell’enunciazione, che nel sonetto si manifesta come circolare e aperta) >> (Tassoni, 2001, p. 34). La Pastilla in ogni caso chiude il discorso sul rapporto tra la norma e la > (Tassoni, 2001, p. 147) coinvolta in una metamorfosi incessante (vermi mutanti in dèi, v. 3) con una dichiarazione di falsità che investe l’intero orizzonte dei referenti in gioco, in altre parole la totalità del reale: il paese, l’io, la forma sonetto. Dal falso discende il falso, anche se in quella falsità si trova, allusa, tutta la verità possibile. E proprio questo il fatto, non la verità, a cui il sonetto come forma nella storia ci mette costantemente di fronte: e incOmbl, v.

4;

217

IL SON ETTO ITALIANO

il sentimento di un vero e di un falso minotaurizzati come non mai nel proprio in questa figura, che sembra avere il diritto di riassumere tutti i deficit della fictio letteraria, e poi di tutto quel che si vuole. Eppure, maledettamente, questa figura presenta una sua irriducibilità da frammento di una cristallografia e petrografia del profondo non mai esplicitata del tutto, da segno e disegno mandalico assolutamente eterodosso, ma sicuramente autorizzato e autorevole, col suo dinamico telescopage di allusioni, a perdita d’occhio (dallo scritto che accompagna la pubblicazione della Pastilla, in “Tuttolibri”, 12 agosto 1978).

resta

sonetto,

8.6 neometricismo Il degli anni Ottanta

L’importanza di un fatto o di un’opera letteraria si misura anche dal potenziale di energia creativa che essa riesce a liberare nel tempo, dalle possibilità e dalle strade che rende praticabili. Anche se molto spesso quell’opera precorritrice, cosi apparentemente “rivoluzionaria”, non fa in realtà che raccogliere e dare forma a ciò che già era nell’aria, portando in superficie correnti sotterranee. Così, pur dando all’Ipersonetto di Zanzotto quell’importanza e centralità che gli spetta, va tenuto conto del fatto che in quegli anni, anche nell’ambito delle poetiche apparentemente più spericolate, un terreno fertile per il ritorno alle forme chiuse si stava già preparando. Verso la fine degli anni Settanta la situazione si arricchisce con le prime incursioni nel territorio della metrica chiusa da parte di esponenti in origine refrattari ai codici della tradizione, come ad esempio Edoardo Sanguineti, destinato a diventare, secondo Lavezzi (in Giovannetti, Lavezzi, 2010, p. 152), un «beffardo caposcuola >> del neometricismo: il Sottosonetto per Valerio Trubbiani che Sanguineti scrive il 31 ottobre 1978 (comparso prima in una plaquette del 1979 con tre acqueforti di Trubbiani, poi nella sezione Fuori catalogo compresa nella prima edizione di Segnalibro del 1982) si colloca infatti già all’indomani della pubblicazione su rivista della Pastilla zanzottiana. Ma nello stesso arco di tempo vanno inseriti anche i sonetti di Patrizia Valduga e Gabriele Frasca (si vedano ora gli inediti recuperati nella sezione Versi rispersi di Lame, 2016) il cui esordio si pone nei primissimi anni Ottanta, con datazione però di alcuni singoli testi che sembrerebbe, se non anticipare, essere almeno coeva all’Iperso726170.

218

8. IL NOVECENTO

Il ritorno alle forme chiuse che si registra a partire dagli anni Otfenomeno complesso, che si può almeno inquadrare tenendo presente da un lato la penetrazione anche in ambito italiano di alcuni tratti tipici del postmodernismo come la predilezione per il pastiche e la contaminazione linguistica, il citazionismo, l’intertestualità, insomma la tendenza al manierismo e alla parodia, cui si accompagna la riscoperta della vocalità e della corporeità ecc. (caratteristiche del resto che la poesia di Zanzotto aveva già elaborato in modo del tutto originale), dall’altro la particolare situazione della poesia italiana che, dopo la stagione della neoavanguardia, negli anni Settanta era tornata a farsi sedurre dall’orfismo e dal ripiegamento neoermetico (si pensi in particolare all’antologia La parola innamorata a cura di Pontiggia e Di Mauro proprio del 1978), suscitando quasi per reazione l’esigenza di un ancoraggio concreto e disciplinato, o insomma misurato e formalizzato, del testo poetico (sul rapporto tra questo revival, come è stato più volte chiamato, e i nuovi mezzi di comunicazione, in particolare la televisione, cfr. Frasca, 2001, pp. 39-40). Quel che conta in ogni caso è che il fenomeno non solo è così massiccio da meritarsi l’etichetta, generica ma efficace, di neometricismo, ma è anche di lunga durata (ancora nel 2014 un poeta come Magrelli pubblica una raccolta, Il sangue amaro, che contiene una serie di poesie in forma chiusa, tra cui quattro sonetti, due elisabettiani), coinvolgendo inoltre tanto poeti giovani o esordienti quanto poeti che hanno già una storia importante alle spalle, come Giudici o Raboni e anche, in modi ben suoi, lo stesso Sanguineti. E ovvio in questo contesto che diverse siano le finalità, i mezzi e anche i risultati di quanti a partire da quel momento si sono dedicati al recupero delle forme della tradizione. Forme, innanzitutto, al plurale, perché si tratta di una ripresa a tutto campo che coinvolge il sonetto, certamente, ma anche l’ottava, la terzina dantesca, addirittura la sestina (cfr. Frasca, 1992,pp. 390 ss.), con una predilezione per le forme e i tipi più difficili, più vincolanti. Occorrerà cominciare da Patrizia Valduga la cui poesia si affida in modo esclusivo alle forme chiuse: > (Valduga, 2001, p. 105). Sembra che solo dentro (o dietro) i vincoli e le misure della tradizione la poetessa riesca a sprigionare la sua prorompente carica verbale e a trasformare in energia espressiva alcune costanti ossessive. Il paradosso di fondo, segnalato subito da uno dei critici più autotanta è dunque un

219

IL SONETTO ITALIANO

revoli, Luigi Baldacci, scaturisce dal fatto che questa poesia riesce a raggiungere il massimo grado di autenticità proprio nel momento in cui esibisce l’artificio. Valduga infatti si muove costantemente in una dimensione in cui convivono, e si legittimano, gli opposti: dietro (o dentro) la provocazione si nasconde l’insicurezza; dietro la trasgressione, la timidezza; dietro l’esibizione, la tentazione all’isolamento; al limite, dietro la pornografia, la vocazione al misticismo. Monologo teatrale e confessione lirica si tengono insieme. La stessa forma chiusa può rappresentare al contempo la cella del monaco e la camera da letto degli amanti: in entrambi i casi si tratta di un luogo in cui si celebra un rito (e qui si può cogliere un importante punto di contatto con Zanzotto) che in quanto tale trova nella ripetizione di forme e parole la sua forza e la sua sacralità. Amore e morte (0 forse meglio il desiderio di assoggettarsi al dominio d’amore e la paura dell’abbandono) sono a tal punto gli unici due temi di questa poesia che da quella stanza, letteralmente oltre che metaforicamente, non si esce mai. Come e più che in tanta poesia d’amor cortese. Da qui l’uso di una lingua che sul piano lessicale ama la citazione e il prelievo (da Dante, Petrarca ecc.), sul piano sintattico procede per accumulo e iterazione, e su quello fonico-ritmico dà spazio a una voce ricca di appoggi e sempre seduttiva. Una prima serie di quattordici sonetti (anche qui si dovrà cogliere un’allusione all’Ipersonetto) fu pubblicata, con introduzione di Raboni, nell’“Almanacco dello specchio” dell’ottobre 1981, mentre dell’anno successivo sono I medicamenta, in cui il numero di sonetti sale a ventidue (alternati con distici, terzine, ottave ecc.). Con l’aggiunta di altri otto nell’edizione di Medicamenta e altri medicamenta del 1989 si

completa il corpus: > (intervista citata da Cortellessa in Parola plurale, 2005, p. 321). Caratteristica infatti di questi sonetti, sempre nella disposizione strofica tradizionale, è la varietà degli schemi, ripresi dalla tradizione anche minore o inediti, a dare il senso di una ricerca sperimentale che si fa guidare dalla volontà di stupire soprattutto attraverso il suono («io che vedo con le orecchie >>, Valduga, 2004, p. 51): ecco allorai sonetti caudati o i sonetti — e non solo — tempestati di rime aspre e preziose, di rime identiche o equivoche, e su tale scia costruiti su un’unica rima o parola-rima, o su rime quasi uguali nel loro corpo fonico (Afribo, 2007,p. 64).

220

8. IL NOVECENTO

Vediamone almeno uno 1982):

tra

gli ultimi (in Altri medicamenta 1980-

(79)

E HOÌÈCÈCITIPO la gente SI arrappa, s’ingrifa, al serra serra si disgroppa. Ah... eh... ah... bada ansimare... di tappa in tappa svelta s’accoppia, s’aggroppa. Ponte sui sensi, avendoli, s’acchiappa con mutua trappola, greve s’intoppa fino allo scoppio... gioca a stringichiappa a strappa strappa e a cervello di stoppa

por toppa... E intanto la notte le scappa da razionalità antidotata e imperata... Io dolente, in gola un groppo,

il mio universo di assenze e la mappa dei miei giorni ridesti mi sciroppo, di pensamento in abuso incappata. La stessa rigirata

d’angoscia in margine all’esiguo e al troppo: il succo della notte invero allappa.

Pare di capire che l’autrice, qui e altrove, sia interessata a sfruttare la struttura del sonetto non tanto per rafforzare lo sviluppo argomentativo del suo discorso, quanto piuttosto per valorizzarne le risorse musicali. Da questo punto di vista si può forse cogliere nell’ampia sperimentazione sugli schemi rimici una necessaria strategia per sfuggire alla sterilità della ripetizione; lo stesso contesto ritmico alterna momenti di inerzia (in es. [79] ben otto sono gli endecasillabi dattilici) a libere partiture, magari un po’ forzate in direzione dell’oralità. Come è del tutto evidente, ad esempio, proprio in ( 79) in cui la fronte alterna due rime fortemente consonanti che ritornano nelle terzine e nella coda (difficile dire poi se si tratta di tre o quattro rime in totale) chiudendo a cornice il sonetto (la coda infatti non ha la formula canonica della rima baciata). Ad appoggiare la ricerca di armonizzazione verticale intervengono poi le rime, le allitterazioni e le assonanze 221

IL SONETTO ITALIANO

interne che percorrono l’intero sonetto per così dire assorbendone le escursioni linguistiche: dal lessico risentito o disfemico (ingri arsi,

disgropparsi, aggrapparsi) alle spie letterarie (dal pensamento al troncamento di par, all’uso stesso di arrappare con la doppia, che mentre rinvia a parola di tradizione antica nel senso, secondo il GDLI, di ‘prendere con violenza, afferrare, rubare’, mantiene pur sempre il

valore che ha per noi con la scempia, anzi lo rafforza sul piano fonico) ai neologismi espressivi (stringichiappa). Si tenga presente però che anche il lessico apparentemente più colorito può avere una tradizione letteraria: se aggrapparsi è già in Boccaccio e soprattutto in Guittone, disgropparsi è in un minore dell’Ottocento come Graf («Ora da te mi disgroppo, / prima che il giorno si desti», Addio, vv. 19-20), antologizzato da Baldacci (il critico e il contesto minore ottocentesco sono, come noto, cari all’autrice). Aldilà della memoria letteraria che si può celare dietro un testo così connotato nel suo registro fonico e ritmico, ne esce confermata l’impressione di una struttura metrica sfruttata soprattutto perla possibilità di impostare e rendere riconoscibile una precisa voce autoriale. Tuttavia, di fronte alla meccanicità e staticità di certe soluzioni della poetessa, occorre ricordare almeno un passo dell’introduzione succitata di Raboni (1981, p. 378): la forma sonetto […] non è in alcun modo, per Patrizia Valduga, lingua morta da far muovere con qualche grazioso e macabro marchingegno; è lingua viva, non solo ma addirittura necessaria, inevitabile, l’unica nella quale, almeno per ora, possano prendere corpo d’immagine le sue immagini, corpo di parola le sue parole.

Non è solo per la ripresa rigorosa e anzi accanita dei metri della tradizione, o per l’uso “manierista” della lingua, o ancora per la centralità assunta dalla vocalità e anzi teatralità, che la poesia di Patrizia Valduga, pur mantenendo comunque una irriducibile diversità, può essere accostata a quella di Gabriele Frasca. Si tratta infatti di due opere, come in verità altre degli anni Ottanta (si pensi al primo Magrelli), che condividono anche un’attenzione particolare per il corpo, per le sue pulsioni e la sua fisiologia. Il tema non è del tutto senza rapporti con il ricorso alla forma chiusa, se è vero che tale forma, in quanto espressione, in questo contesto, di solidità e stabilità ( si vorrebbe dire di salute), instaura un rapporto dialettico con il tema della corruzione 222

8. IL NOVECENTO

del corpo. Sonetti, sestine, ottave, terzine ecc. rappresentano dei veri e propri dispositivi che consentono di mettere al riparo l’individuo non tanto o non più dalle tragedie della storia quanto da quelle individuali, biologiche, legate allo scorrere inesorabile del tempo (altro tema della poesia di Frasca è quello, tra l’altro tipicamente barocco, degli orologi, anch’essi se si vuole metafora del tentativo di imbrigliare il tempo informe nella scansione regolare della norma). Da questo punto di vista pare opportuno insistere sul senso tecnico o meglio tecnologico che la metrica chiusa assume: la forma chiusa in buona sostanza consente di aggirare la morte nello stesso modo in cui (ivi, p. 367), ed è in primo luogo a questa riproducibilità che si aggancia il ricorso alla forma chiusa più che sulla riscoperta e riproposta del valore della tradizione. In questa direzione va la ricerca di una complicazione degli schemi ( Frasca compone addirittura una ipersestina), nel tentativo di realizzare dispositivi sempre più sofisticati, che garantiscano con la riproducibilità anche la marca dell’unicità, ossia dell’individualità. Pur pescando dal grande serbatoio della tradizione, è come se queste forme chiuse fossero senza storia. Coerenti con questa impostazione sono la lingua e lo stile di Fra— sca in generale e nello specifico dei sonetti —, il quale procede aggregando, attraverso un rigoroso sistema di ripetizioni e variazioni, parole, sillabe, singoli fonemi, puntando alla saturazione fonica del testo 0, in altri termini, alla sua dissoluzione tramite una sorta di incantamento sonoro. L’attacco, costante, con la minuscola e l’assenza di punteggiatura (dalla seconda raccolta si ha però l’introduzione del punto fermo in funzione pausativa, per spezzare il ritmo dell’endecasillabo isolando singole parole o sintagmi) non sono che ulteriori appoggi e conferme nella direzione di un discorso che non conosce misura e ordinamento se non quella programmata dal contenitore metrico (l’assenza di punteggiatura o l’uso del punto influiscono però, e non poco, sull’oralità). Ecco l’ultimo sonetto della sezione rimerai presente nella versione di Rame uscita nel 1999 (del 1984 la prima edizione che però non include la sezione, a quanto afferma l’autore per ragioni di spazio): 223

IL SONETTO ITALIANO

(80) quanti inganni protesi quanti intesi sospetti tanti in sillabe ne esposi pensieri falsi 0 sensi rugginosi coi quali cancellai segni di pesi quante spronai indolenze e quante arresi speranze d’improbabili riposi tu sola sai che in questi versi posi il germe in cui rapprendi o la sua ascesi o amarilli tu sai che in questi ospizi dove una voce volge le sue spire da me fino alle labbra d’altri tizi non c’è mai vita che si possa dire solo quel palpito degli orifizi che ribattono il tempo sul morire

>w m 0

Come in altri quattro sonetti della sezione (che ne contiene quindici) l’interlocutrice è esplicitamente indicata in Amarilli, con riferimento in generale a una tradizione letteraria che va da Teocrito a Virgilio e Ovidio, e in particolare (seguendo l’indicazione di > nel sesto sonetto) con rinvio al madrigale di Guarini musicato da Mon-

teverdi. Il sonetto è in endecasillabi regolari (al penultimo verso tuttavia l’accento di settima è costretto a poggiare sulla preposizione articolata), con uno schema rimico impostato su quartine a rima incrociata e su terzine a rime alterne. E l’assetto più frequente, utilizzato in venti— cinque dei trenta sonetti di Lame ( 2016, che raccoglie gran parte della produzione del poeta). Se si eccettua qualche ipermetra e qualche rima imperfetta (un caso anche di rima franta), si può dire che in questi sonetti il lavoro sulla rima consiste soprattutto nella ricerca di armonizzazione fonica trai rimanti (si noti qui la consonanza tra rima A e B, con rima inclusiva al v. 7; e l’assonanza tra rima C e D). La rima svolge in sostanza una funzione stabilizzatrice del sonetto, coadiuvata dall’anafora che interviene spesso (come qui ai vv. 1 e 5, 7 e 9) a segnalare la scansione strofica. A guardar bene, però, l’assetto fonico e retorico del testo spinge anche in direzione contraria: la frequenza di rime interne (protesi : intesi, v. 1; cancellai :spronai, vv. 4-5), di assonanze e consonanze (indolenze : speranze, vv. 5-6; sensi : segni : versi, vv. 3—4 e 7 ecc.), e di allitterazioni (una voce volge, v. 10), moltiplicando le corrispondenze e gli echi interni, toglie al metro le sue certezze. Nella stessa direzione va l’assenza di punteggiatura che aggiunge pause mentre le toglie e con224

8. IL NOVECENTO

tribuisce a dare quell’effetto artificiale di flusso continuo, di continuo rimasticamento (una voce volge le sue spire, v. 10) 0 continua limatura di una lingua spesso presa a prestito che caratterizza in generale la scrittura di Frasca. Da questo punto di vista ha ragione Donati (2016, p. 436) quando nota che i in un contesto di >. Il testo in esame chiude la sezione rimerai volgendo uno sguardo agli altri sonetti con una prospettiva metapoetica che chiama direttamente in causa il codice, secondo modi piuttosto comuni nella poesia di Frasca e in quella di molti suoi compagni di strada. Il “sonetto-ospizio” si colloca in una zona liminare dell’esistenza, è un dispositivo per misurare, e semmai cristallizzare, il tempo che finisce, non un luogo in cui si possa “dire la vita”. Una sorta di rilettura del percorso compiuto (è l’unico sonetto della sezione al passato) che si traduce in una dichiarazione di poetica da pensiero debole (in senso filosofico). Pur non aderendo mai esplicitamente al movimento, Frasca è stato comunque sodale e vicino ai poeti riunitisi nel Gruppo ’93: Tommaso Ottonieri, Marcello Frixione, Giuliano Mesa, Marco Berisso, Paolo Gentiluomo e altri rinnovano sul finire del secolo una tradizione che infine tutto lo attraversa, quella della contestazione avanguardista. All’impostazione ideologica si accompagna nei testi di questi poeti > (Mengaldo, 1987, p. 8) passa proprio attraverso il titolo metrico (non solo in rapporto al sonetto) in vario modo alterato incrociando forma e contenuto (da Erotosonetto a Radiosonetto, in cui si allude a una sorta di esame diagnostico eseguito sull’amata). Ciò con cui Sanguineti spesso gioca è il riferimento tecnico al metro, come testimoniano da un lato l’Emisubsonetto (due terzine seguite da una quartina, in endecasillabi rimati ABA CBC DEED), dall’altro i cinque semisonetti (composti da una quartina e una terzina di endecasillabi; nel primo la quartina è a rime alternate, negli altri a rime abbracciate, mentre la terzina è sempre CDC) presenti nella stessa raccolta (Cose, 2001). Sempre in ambito neoavanguardistico diversa è la tecnica parodica di autori come Porta e Balestrini: entrambi infatti usano il titolo metrico per componimenti che con il sonetto hanno 227

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poco o nulla a che fare, con l’effetto di spiazzare l’orizzonte d’attesa del lettore. Sonetto di Porta (in Cara. Poesie 1965-190’5’, uscita nel 1969) è formato da due parti numerate con numeri romani ciascuna delle quali composta di quattro strofe o lasse di quattro versi (l’ultima del secondo è di cinque), i primi due più lunghi, il terzo e il quarto rientrati. Balestrini invece usa il titolo metrico addirittura come titolo (sottotitolo) di raccolta (Ipocalisse. 49 sonetti. Provenza 1980-1983, del 1986) o anche di sezione (Asonetti, in Sfinimondo del 2003). Il riferimento alla forma si riduce però in Ipocalisse al numero totale dei versi di ogni componimento (sempre quattordici e sempre brevi o medio-brevi, non rimati), con l’aggiunta del riferimento ambientale, la Provenza di Petrarca che vale come indicazione di genere (ma cfr. anche Loreto, 2016, pp. 22-5). Si ricordi in ogni caso che il titolo metrico non è certo una rarità nel Novecento poetico: «e si capisce anche, in linea generale: quanto più rara e intenzionale è l’adozione di metri tradizionali, tanto più va segnalata >> (Mengaldo, 1987, p. 7; nel saggio di Mengaldo si trovano altri esempi in tal senso).

8.7

Un secolo che Si chiude tra Giudici e Raboni Non sono solo i protagonisti della neoavanguardia a ritrovarsi negli anni Ottanta a ripensare e rivedere il proprio rapporto con le forme della tradizione. Si ricordi ad esempio che solo nel 1980 un poeta come Betocchi si autorizza a pubblicare una collana di sonetti composta molti anni prima. Caso analogo è quello di Giudici, anche se come ha dimostrato Zucco (cfr. almeno Zucco, 1993), la > delle forme (dal titolo del saggio pubblicato nel 1964 su “Quaderni piacentini”) inizia ben per tempo e fa registrare fin da O beatrice del 1972 casi

di manipolazione parodica di metri tradizionali (proprio il

sonetto in Degenerazione, su cui si veda il commento di Zucco, 2000, p. 1467). Pur in un contesto di alta consapevolezza metrica e formale, sarà comunque significativo l’episodio di Salutz del 1986: si tratta di

una raccolta composta da settanta componimenti (più il Lais conclusivo) di quattordici versi indivisi di varia misura (dal trisillabo al doppio settenario), molti dei quali con uno schema rimico che sembra rinviare appunto al sonetto (cfr. Mengaldo, 1989a,p. 52; Zucco, 1993,pp. 180—1). 228

8. IL NOVECENTO

Al di là dell’adesione formale al modello, per corroborare l’elemento di allusività conta anche la nota che lo stesso Giudici inserisce alla fine del volume, in cui la raccolta è posta nel solco della tradizione dei salutz trobadorici. In quella stessa nota il poeta ricorda di aver avvertito il primo impulso alla composizione di quelle poesie («m’avvenne di scrivere >>) a seguito di una conversazione padovana svoltasi a casa di Gianfranco Folena nel marzo del 1983.La data è interessante in quanto di lì a pochi mesi avrebbe visto la luce un altro progetto a cui Giudici aveva dedicato molte fatiche, la traduzione dell’Eugenio Onieghin di PuSkin (uscita per Garzanti in ottobre, con una prefazione dello stesso Folena). Il fatto è che anche la strofa del poeta russo conta quattordici versi come il sonetto, ed è strutturalmente composta da tre quartine e un distico finale rimati (anche se Giudici sostituisce spesso l’assonanza alla rima). Il lavoro dunque del poeta non poteva non giovarsi di quello del traduttore (e viceversa). Il riferimento alle origini stesse delle letterature romanze conferma del resto un interesse per il linguaggio della tradizione che va di pari passo con la sua riscrittura parodica la quale, comportando il travestimento e la manipolazione, coinvolge tanto la metrica quanto la lingua e lo stile. Pur avendo già alle spalle, come Giudici, una storia poetica importante, quasi tutta giocata all’interno di un orizzonte di metrica libera, 0 più precisamente nell’ambito di una ricerca di formalizzazione dell’informale, Giovanni Raboni intraprende nella seconda metà degli anni Ottanta un percorso di avvicinamento alla forma chiusa, a conclusione del quale giungerà addirittura ad affermare che > (in Mazzoni, 1997, p. 141, da cui sono tratte anche le citazioni che seguono). Il passaggio alla metrica tradizionale da parte di Raboni matura per il convergere di stimoli diversi, sia di tipo personale e familiare. («l’esempio di Patrizia [Valduga] mi ha fatto pensare >>), sia di tipo teorico ( «mi sono convinto che lo stesso lavoro di liberazione metrica che attraversa tutto il secolo si [è] un po’ esaurito >>), sia per l’esempio di amici e compagni di strada (>). Più di tutto però «l’aver adottato ufficialmente una forma chiusa, da un certo punto in poi, è stato un modo per garantirmi il passaggio da una fase all’altra del rapporto poesia-biografia >>, ossia la possibilità di una maggiore compromissione ed esposizione dell’io au229

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toriale nel testo o di assumere in altre parole, finalmente e senza schermi, una voce lirica. Era un modo per avere uno spazio dentro il quale muovermi»). Non si tratta però di un ripiegamento nel privato. Già all’inizio di questo percorso, infatti, ossia già nel testo che accompagna come quarta di copertina la raccolta con cui si inaugura la stagione della metrica chiusa raboniana (i Versi guerrieri e amorosi del 1990), l’autore pone lucidamente la questione in termini di orizzonte d’attesa del lettore, sottolineando la richiesta di riconoscibilità formale che sempre più la poesia mi sembra rivolgere ai poeti per poter continuare o ricominciare ad esistere, oltre che nella loro volontà e immaginazione, anche nella mente e nell’orecchio dei lettori.

In questo senso si può dire che l’avvicinamento alla forma chiusa di

Raboni, pur sollecitato da fattori diversi, è del tutto coerente con la forte idea di poesia civile che sta al fondamento stesso della sua opera, come ricorda Zanzotto ( 2006, p. XI): >, Raboni, cit. in Zucco, 2006, p. 1707). 230

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La struttura metrica è resa esplicita dalla disposizione tipografica, anche nel caso dell’elisabettiano in cui sono sempre distinte le tre quartine e il distico finale. A Raboni non interessa tanto mettere in discussione la forma, ma lavorare all’interno di essa, trovare dentro le sue regole la propria voce: in questo senso «il ritorno alla prigione metrica significa fare un passo indietro per ritrovare uno slancio di libertà anche formale >> (ancora dall’intervista a Mazzoni, p. 141).L’ immagine usata dal poeta già ci mette sulla strada di una dialettica tra il modello e la sua realizzazione che coinvolge in prima battuta il rapporto tra metro e sintassi: nei sonetti di Raboni infatti non si dà, a nessun livello, coincidenza tra strofa e periodo. Pur rispettando i limiti e gli adempimenti della forma il discorso si svolge in modo indipendente,portando anzi spesso in superficie il conflitto con la struttura attraverso potenti enjambements: ( >, Ogni terzo pensiero, III-9, vv. 8-9; «Niente sarà mai vero come è / vero», Quare tristis, I-5, vv. 1-2, con dialefe in uscita ecc.). Una situazione che si coglie non solo in corrispondenza degli snodi metrici principali, ma anche all’interno delle strofe, dove spesso l’endecasillabo non riesce a contenere lo sviluppo sintattico e si inarca nel verso successivo. Quel che importa è che Raboni di fronte alle esigenze del metro non modifica le sue strategie discorsive, che cornportano l’abbassamento del tono, le ripetizioni, la messa in scena di monologhi interiori che si appoggiano alle forme del parlato (domande retoriche, incisi commentativi e metatestuali, sospensioni ecc.). La voce è sempre riconoscibile quindi, anche se alla rigidità del metro qualcosa bisogna pagare, come confermano sia il trattamento dell’endecasillabo (ma l’apertura a profili ritmici non canonici serve anche a compensare la perdita di varietà nella misura) sia quello della rima. Non tanto per quanto riguarda gli schemi, in cui non si evidenziano situazioni particolari (cfr. Magro, 20 07b, pp. 229-30), quanto invece per la qualità dei rimanti, che spesso sono costituiti da elementi semanticamente vuoti come preposizioni, congiunzioni, articoli, avverbi, pronomi ecc. ( > , Quare tristis, I-4, vv. 6-7; >, Quare tristis, 1-6,vv. 9-11 ecc.). La priorità attribuita al discorso rispetto al metro comporta in effetti un certo depotenziamento della rima, presente in questi casi come luogo di un adempimento piuttosto che come conclusione di un percorso 231

IL SONETTO ITALIANO

di senso. Raboni tuttavia adotta alcuni correttivi che puntano a bilanciare la situazione restituendo centralità alla rima: sul piano formale, sia attraverso la ricerca di armonizzazione melodica trai rimanti di serie diverse, sia attraverso l’uso di rime tecniche (dalle rime ricche alle inclusive, dalle paronomastiche alle allitteranti o a quelle per l’occhio fino alle identiche ecc.); sul piano semantico, tramite il collegamento tra le parole in rima (dagli ossimori noia : gioia, profumo : fumo ecc.; alle intensificazioni ossa :fossa, salma : calma ecc.). Ecco il terzo sonetto della prima sezione di Quare tristis: (83) Più la gente che c’era se ne va o si nasconde e meno avrebbe senso lasciarla da vivo questa città senza vita. Si, ogni tanto ci penso,

immagino un altro cielo, un incenso meno acre ma chi me lo ridà l’alitare, il parlottare, l’immenso silenzioso brusio di chi non ha casa che nel mio ricordo? Per quanti siano i vivi che amo non saranno mai tanti come loro, gli sfrattati

dal tempo, i clandestini, gli abbonati fuori elenco a telefoni che hanno numeri di cinque cifre soltanto.

Due temi centrali della poesia di Raboni fin da Le case della Vetra (1966), il rapporto con Milano e quello con i morti, confluiscono in un intenso monologo interiore, modalità diegetica cara all’autore. Il sonetto è costruito su tre movimenti (l’esposizione del tema, la sua ipotetica e retorica messa in discussione e la sua conferma) che si svolgono rispettando la forma nella misura versale (molti però gli endecasillabi non canonici; cfr. ivv. 3, 4, 5, 7, 9, 14), nello schema rimico e nelle rime (una sola rima imperfetta in chiusura, quanti : soltanto, vv. 9 e 14). Si noti però il rapporto conflittuale tra metro e sintassi, che trova proprio nel passaggio tra fronte e sirma la sua massima esposizione: si tratta di un’inarcatura interstrofica con forte valore patetico, 232

8. IL NOVECENTO

che costringe a sostare, per effetto di caduta, sul termine emotivamente più coinvolgente, casa. Più che un lavoro > (cfr. lo stesso Raboni, in Mazzoni, 1997, p. 141) quello di Raboni è un lavoro dentro il sonetto, che riesce a tenere insieme, come il testo riportato conferma, intonazione colloquiale e linguaggio colto, stabilità della forma e fedeltà a un discorso personale, conflitto con l’istituzione e sua superiore conciliazione. Come abbiamo visto accadere per altri poeti nel corso del secolo (Montale e Caproni su tutti), anche il rapporto di Raboni con il sonetto a un certo punto si interrompe. Dopo ventisei sonetti elisabettiani, la terza sezione di Quare tristis si chiude con un testo formato da una quartina a rime incrociate e un’altra quartina di cui rimangono solo tre versi (il secondo e il terzo in rima) e un trisillabo. Il contesto, la sua collocazione alla fine di una sezione di soli sonetti, Ci dice che anche quel testo avrebbe potuto essere un sonetto. Ma così non è stato. E da lì in avanti, «più niente >> (così come chiude il testo in questione). Possiamo idealmente porre alla fine del Novecento — Quare tristis è del 1998 — questo sonetto che non si compie. Certo, attorno e oltre tale data, il sonetto continua a essere praticato con molteplici funzioni, mezzi e risultati; basti qui ricordare almeno i sonetti cosi impenetrabili nella lingua quanto porosi nel metro, cosi misteriosi e perfetti, vitali e senza futuro, di Memorire’ di Marco Ceriani (2010). La storia continua dunque, ma questo lavoro non potrebbe chiudersi se non si fissasse un punto. E questo, di Raboni, è un punto alto, giunto alla fine di un secolo che ha cercato di liberarsi in vari modi del sonetto: ignorandolo o mancandolo; alludendovi o parodiandolo. E stato in ogni caso un secolo che ha sentito tutto il gran peso della tradizione, del sonetto come dell’endecasillabo. Franco Fortini (1957, p. 331 e nota 2) ha precisato benissimo e, come sempre, per tempo, la situazione più tipica del Novecento: da innumerevoli endecasillabi e sonetti nasce una coscienza o attesa 0 “cavità” dell’endecasillabo e del sonetto [..].Basta [.] che versi o anche solo frammenti di righe, si raggruppino a simulare le due quartine e le due terzine perché lo “spettro” del sonetto si sovrapponga alla pagina.

Il problema sarà semmai quello di intendersi su che cosa veramente significhi, o che cosa susciti in termini di paure e di attese, di desideri e di rimozioni, la parola “spettro”. Z33

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249

Indice ed edizioni dei sonetti citati

La cifra a sinistra si riferisce al numero d’ordine dei sonetti citati nel testo.

Francesco Petrarca, Canzoniere, son. 353, Vago augelletto che cantando vai, in ed. Santagata (1996), p. 1337. 2. Francesco Petrarca, Canzoniere, son. 318, Al cader d’una pianta che si svelse, in ed. Santagata (1996), p. 1210. 3. Giacomo da Lentini, Donna vostri sembianti mi mostraro, riproduzione fotografica dal ms. Vat. Lat. 3793, c. 1140, in ed. Leonardi (2000-01), vol. I. 4. Giacomo da Lentini, son. 24, Donna, vostri sembianti mi mostraro, in ed. Antonelli (2008), p. 442. 5. Dante Alighieri, Vita nova, cap. 29, son. Deh, peregrini, che pensosi andate, in ed. Gorni (1996), pp. 223-5. 6. Francesco Petrarca, Canzoniere, son. 100,Quellafenestra ove l’un sol si vede, in ed. Santagata (1996), p. 471. 7. Francesco Petrarca, Canzoniere, son. 12, Se la mia vita da l’aspra tormento, in ed. Santagata (1996), p. 55. 8. Francesco Petrarca, Canzoniere, son. 141, Come talora al caldo tempo sole, in ed. Santagata (1996), p. 683. 9. Giovanni Boccaccio, Rime, son. CVII, Mentre sperai e l’uno e l ’altro collo, in ed. Branca (1992), p. 88. 10. Simone Serdini detto il Saviozzo, Rime, son. LXXXVIII, Partita 5 ’è la luce e gita via, in ed. Pasquini (1965), p. 234. 11. Francesco Petrarca, Canzoniere, son. 279, Se lamentar augelli, 0 verdifronde, in ed. Santagata (1996), p. 1114. 12. Giacomo da Lentini, son. 37, Angelicafigura e comprobata, in ed. Antonelli (2008), p. 541. 13. Cino da Pistoia, son. XL, Omo smarruto chepensoso vai, in ed. Marti (19 69), pp. 514-5. 14. Antonio Beccari, Rime, son. LXI, E’ me recorda, cara mia valise, in ed. Bellucci (1972), pp. 252-3. 1.

251

IL SONETTO ITALIANO

15. Antonio Beccari, Rime, son. LVIII, Ibrnato sono a’ colpi del tri asso, in ed.

Bellucci (1972), pp. 245-6.

16. Franco Sacchetti, Il libro delle Rime, son. 71, Non m’e' gravezza quel chefu di driè, in ed. Brambilla Ageno (1990), p. 93. 17. Gidino da Sommacampagna, Trattato e arte deli rithimi volgari, son. Cupido dio d’amore, in ed. Caprettini et al. (1993), pp. 94-5. 18. Giovanni Quirini, Rime, son. 43, Si come l’ape nel tempo da fiori, in ed.

Duso (2002), pp. 69-70.

19. Nicolò de’ Rossi, Il canzoniere, son. 12,Amore

m’ucidefizcendo torto, in ed.

Brugnolo (1974, p. p. 342). Cecco Angiolieri, Le Rime, son. XLII, «Becchin ’amor!». « Che vuoîfizlso tradito?», in ed. Lanza (1990), p. 86. 21. Franco Sacchetti, Il libro delle Rime, son. 187,Non ti provar più in arme, o paltoniere, in ed. Brambilla Ageno (1990), p. 266. 22. Giusto de’ Conti di Valmontone, La bella mano, son. XCV, Or che dall ’O102. in cean sorge l’aurora, ed. Vitetti (1933), p. 23. Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres, son. I 53, La smisurata et incredibil voglia, in ed. Zanato (2012), pp. 321-4. 24. Matteo Maria Boiardo, Amorum libri tres, son. I 39, Già vidi uscir de l ’onde una matina, in ed. Zanato (2012), pp. 246-50. 25. Iacopo Sannazaro, Sonetti e canzoni, son. LXVI, Si spesso a consolarme il sonno riede, in ed. Mauro (1961), pp. 182-3. 26. Pietro Bembo, Le Rime, son. 163, Quando, finse per dar loco a le stelle, in ed. Donnini (2008),v01. I, pp. 380-2. 27. Giovanni Della Casa, Rime, son. LXIII, O dolce selva solitaria, amica, in ed. Tanturli (2001), pp. 190-2. 28. Domenico di Giovanni detto il Burchiello, I sonetti del Burchiello, son. X, Nominativifritti e mappamondi, in ed. Zaccarello (2004), pp. 15-6. 29. Torquato Tasso, Le rime, son. Amore alma e' del mondo, Amore e' mente, in ed. Basile (1994), p. 444. 30. Torquato Tasso, Le rime, son. Se a chi penetrar valse ilfosco e nero, in ed. Basile (1994), p. 856. 31. Torquato Tasso, Le rime, son. Tanto le gatte son moltiplicate, in ed. Basile (1994), p. 995. 32. Tommaso Campanella, Scelta d ’alcunepoesiefiloscjìche..., son. 51, La scuola inimicissima del vero, in ed. Giancotti (1998), p. 234. 33. Tommaso Campanella, Scelta d’alcune poesiefilosofiche..., son. 44, Nessun ti verrà a dire: — Io son sofista —, in ed. Giancotti (1998), p. 220. 34. Tommaso Campanella, Scelta d’alcune poesiefìlosofiche..., son. 97, Da le arme ai corpi e dagli corpi alle alme, in ed. Giancotti (1998), p. 472. 35. Tommaso Campanella, Scelta d’alcune poesiejilosofiche..., son. 99, Sonetto 9; 1977,

20.

252

INDICE ED EDIZIONI DEI SONETTI CITATI

fatto sopra un che morse nel Santo Oflizio in Roma, in ed. Giancotti (1998),

pp. 476-7. 36. Francesco Della Valle, son. Particolari bellezze della sua donna, in ed. Get-

(1954c), vol. II, p. 311. Della Casa, Rime, son. LIV, O Sonno, o de la queta, umida, omin brosa, ed. Tanturli (2001), pp. 165-6. 38. Giambattista Marino, La lira, Rime amorose, son. LXII, O del Silenziofiglio e de la Notte, in ed. Slawinski (2007), p. 48. 39. Paolo Abriani, son. La bella tartagliante, in ed. Croce ( 1910),p. 197. 40. Paolo Abriani, son. Vorrei per Nuccia mia fizr un sonetto, in ed. Croce (1910), p. 198. 41. Giambattista Felice Zappi, son. Arda per Filli: ella non sa, non ode, in ed. Maier (1959), pp. 54-5. 42. Giambattista Felice Zappi, son. Îhlora i’parlo a un colle, a un riva, a un fiore, in ed. Maier (1959), p. 55. 43. Giuliano Cassiani, son. Die' un alto strido, gitto' ifiori, e volta, in ed. Maier (1959), P- 28644. Faustina Maratti Zappi, son. Donna, che tanto al mio bel Solpiacesti, in ed. Maier (1959), p. 64. 45. Faustina Maratti Zappi, son. Ahi che si turba, ahi che s’innalza e cresce, in Zappi, Maratti (1819), p. 33. 46. Carlo Severoli, son. Superbetta Pastorella, in Rime degli Arcadi (1716-81), V (1717), p. 207. 47. Giulio Cesare Grazzini, son. Io vo narrando alle sord’aure, a i venti, in Rime degliArcadi (1716-81), VII (1717), p. 120. 48. Giuseppe Parini, Alcune poesie di Ripano Eupilino, son. XLI, O Sonnoplacido che, con liev’orme, in ed. Isella (2006), p. 43. 49. Vittorio Alfieri, Rime, son. CXXXIV, Mezzo dormendo ancor domando: Piove?, in ed. Maggini (1954), p. 115. 50. Ugo Foscolo, son. A Zacinto, in ed. Bezzola (1976), pp. 74-5. 51. Giosuè Carducci, ]uvenilia, son. A un filosofi, in ed. Barberi Squarotti (1978), pp. am52. Gabriele D’Annunzio, Intermezzo, son. Ricordo di Ripetta, in ed. Andreoli, Lorenzini (1982), vol. I, p. 259. 53. Lorenzo Stecchetti, pseudonimo di Olindo Guerrini, Rime, son. Dicembre, in ed. Ulivi (1963), p. 506. 54. Giovanni Camerana, Versi, son. Addio! Vedi, l’autunno arriva: il verde, in ed. Ulivi (1963), p. 468. 55. Andrea Maffei, Arte, ayfetti, fizntasie, son. Dolore segreto, in ed. Baldacci (1958), p. 463— 56. Remigio Zena, Olympia, son. Le laudi, in ed. Briganti (1974), p. 359. to

37. Giovanni

253

IL SONETTO ITALIANO

Olympia, son. Tra le rose (piccolo capriccio mimico), in ed. (1974), Briganti p. 376. 58. Gabriele D’Annunzio, La chimera, son. La neve, in ed. Andreoli, Lorenzini (1982),v01. I, p. 573. 59. Gustavo Botta, son. Visione, in ed. Viazzi, Scheiwiller (1971), p. 71. 60. Luigi Capuana, Semiritmi, son. Poesia musicale, in ed. Ghidetti (1972), pp. 66-7. 61. Corrado Govoni, Gli aborti, son. Il nero, in ed. Viazzi, Scheiwiller (1971), p. 132. 62. Remigio Zena, Poesie grigie, son. Amore morto, in ed. Briganti (1974), p. 57. Remigio Zena,

64. 63. Remigio Zena, Poesie grigie, son. Amore vivo, in ed. Briganti (1974), p. 64. 64. Remigio Zena, Poesie grigie, son. Costume pompadour, in ed. Briganti (1974),}171.

65. Emilio De Marchi, Vecchie cadenze e nuove, son. Il triste ritorno, in ed. Ulivi (1963), p. 603.

66. Gian Pietro Lucini, I sonetti d’Oriana, son. I baroni, in ed. Manfredini

(2005), pp. 48-9. 67. Italo Dalmatico,]uvenilia, son. Pensiero della morte, in Viazzi, Scheiwiller

(1971), p. 80. 68. Umberto Saba, Versi militari, son. Durante una tattica, II, in ed. Castellani

(1981), p. 133. Saba, Versi militari, son. Il capitano, in ed. Castellani (1981), pp. Umberto 69. 138-9. 70. Carlo Betocchi, Il sale del canto, son. Al sole di settembre, ai fieschi primi, in ed. Betocchi (1984), p. 437. 71. Eugenio Montale, La bufera e altro, son. Il ventaglio, in ed. Bettarini, Contini (1980), p. 198. 72. Giorgio Caproni, Il passaggio d’Enea, son. Lamenti, X, in ed. Zuliani (1998), p. 124. 73. Giorgio Caproni, Ilpassaggio d ’Enea, son. Alba, in ed. Zuliani (1998),p. 111. 74. Franco Fortini, Foglio di via, son. Vice veris, in ed. Lenzini (2014), p. 37. 75. Franco Fortini, Foglio di via, son. Sonetto, in ed. Lenzini (2014), p. 135. 76. Pier Paolo Pasolini, Sonettoprimaverile, son. I, in ed. Siti (2003), p. 759. 77. Andrea Zanzotto, Il galateo in bosco, son. Premessa, in ed. Dal Bianco, Villalta (1999), p. 593. 78. Andrea Zanzotto, Il galateo in bosco, son. Postilla, in ed. Dal Bianco, Villalta (1999), p. 608. 79. Patrizia Valduga, Medicamenta e altri medicamenta, son. E nottetempo la gente si arrappa, in Valduga (1989), p. 17. 80. Gabriele Frasca, Rame, son. quanti inganni protesi quanti intesi, in Frasca (2016), p. 81. 254

INDICE

EI)

EDIZIONI DEI SONETTI CITATI

81. Edoardo Sanguineti, Segnalibro, son. Erotosonetto, in Sanguineti (20 04), p. 243. 82. Edoardo Sanguineti, Stracciafirglio, son. Un brindisi, in Sanguineti (1980),

p.

121.

83. Giovanni Raboni, Quare tristis, son. Più la gente che c’era se ne va, in ed. Zucco (2006), p 945.

255

Indice dei nomi

Basile Bruno, 96

Abriani Paolo, 116—7 Afribo Andrea, 11, 83, 88-90, 93, 95,

Battaglia Salvatore, 103 Battista Giuseppe, 126

99, 102,220, 225

Albonico Simone, 96 Alfano Giancarlo, 223 Alfieri Vittorio, 138, 140-1, 154 Alfonso II d’Este, 102

Battistini Andrea, 116 Baudelaire Charles, 25,

176—7

Beccari Antonio, 49, 57-8, 62 Beccaria Gian Luigi, 182 Belli Gioacchino, 153 Bellomo Leonardo, 72 Beltrami Pietro G., 21, 28-9, 59-60 Bembo Carlo, 85 Bembo Pietro, 68-9, 78, 81-5, 87-

Anacreonte, 121, 131, 133 Andrews Richard, 54, 56-60, 63-4 Angiolieri Cecco, 65 Anselmi Gian Mario, 83

Antonelli Roberto, 22-5, 27-30, 32,

56

Antonio da Tempo, 54, 60-1, 63-4

90, 95, 112

Bendidio Lucrezia, 97-8 Benjamin Walter, 223

Archimede di Siracusa, 26

Ariani Marco, 86 Augurello Giovanni Aurelio, 72 Avalle d’Arco Silvio, 23, 27

Benzi Elisa, 120, 125, 133 Berchet Giovanni, 152 Berisso Marco, 225 Bertacchi Giovanni, 152, 175 Betocchi Carlo, 189-91, 228 Bettarini Rosanna, 192-3 Betteloni Cesare, 153 Bettini Pompeo, 152 Biadene Leandro, 36, 56, 58-9 Bianco Monica, 89

Baffetti Giovanni, 88 Baldacci Luigi, 150-2, 159, 165, 190, 220,222

Baldassari Gabriele, 72 Baldelli Ignazio, 37 Balduino Armando, 19, 67-8,

155, 173,

70,

81-2

Billy Dominique, 27

Balestrini Nanni, 212, 227-8 Bandini Fernando, 213 Banville Théodore de, 158, 177 Baragetti Stefania, 122-3 Baretti Giuseppe, 123 Bartolomeo Beatrice, 72, 83, 90

Boccaccio Giovanni,

19, 48-51,

76,

81,222

Boiardo Matteo Maria, 69, 74, 76,

78, 226 Bolzoni Lina, 104

257

71-2,

IL SONETTO ITALIANO

Bordin Michele, 215, 217 Botta Gustavo, 157, 169 Bozzetti Cesare, 78 Bozzola Sergio, 125,139,148-9,160,

Ciociola Claudio, 52 Coletti Vittorio, 120, 138 Coluccia Rosario, 35 Colussi Davide, 22, 27, 97, 99, 205-

162,166-7,174, 192,194 Brugnolo Furio, 23, 25, 29, 41, 53-4,

6

Conti Roberta, 74 Contini Gianfranco,

62-4, 207-8

Burchiello (Domenico di Giovanrfl),66,93-4

33, 151,

Corazzini Sergio, 150, 155, 169, 172,

Butti Enrico Annibale, 169

181-2

Corsini Bartolomeo, 133 Cortellessa Andrea, 220 Cosmico Niccolò Lelio, 71 Crescimbeni Giovan Mario, 130-2 Croce Benedetto, 112, 117, 119—20,

Cacciatore Edoardo, 210-2 Camerana Giovanni, 152, 156—7, 162, 164, 167 Campanella Tommaso, 104-5, 107-

8

126

Canaletto (Giovanni Antonio Canal), 119 Capovilla Guido, 148-9 Caprettini Gian Paolo, 54, 63 Caproni Giorgio, 195—200, 202,

Cucchi Maurizio, 151 Dal Bianco Stefano, 208, 213-5 Dalmatico Italo, 179 D’Annunzio Gabriele, 148, 151, 155-

129,233

60,165-7,172,176-7,181-2,188

18,21, 30, 33-8, 45, 65,70, 91, 104,138, 220 Darisbo Elidonio, cfr. Parini Giu-

Dante Alighieri,

Capuana Luigi, 170, 172 Caravaggio (Michelangelo Merisi), 119 Carcano Giulio, 152 Cardarelli Vincenzo, 189 Carducci Giosuè, 133, 137, 148, 151-

50,

seppe

Davanzati Chiaro, 21, 36, 59

Davoli Ninetto, 210 De Bosis Adolfo, 159 Dei Adele, 198 De Jennaro Pietro Jacopo, 72 Della Casa Giovanni, 68-9, 89-91,

4,156,158,167,177,180,195 Caretti Lanfranco, 141 Cariteo (Benedetto Gareth), 71

Caro Annibale, 110 Casalino Anna, 11 Cassiani Giuseppe, 126 Catelani Vincenzo, 132 Catullo C. Valerio, 91, 121 Cavalcanti Guido, 21, 35, 37, 57 Ceriani Marco, 233 Chiabrera Gabriello, 60, 119,

21,

192-3, 214

96, 98-9, 101, 111,113-6, 137, 213 Della Valle Francesco, 109-10, 112 De Marchi Emilio, 175 De Robertis Domenico, 39 Desideri Giovannella, 27, 29

Di Costanzo Angelo, 95 Di Dio Alessia, 72 Di Girolamo Costanzo, 22,

121,

131,133

Cigala Lanfranco, 27 Cino da Pistoia, 37, 56, 160

37

Di Mauro Enzo, 219

258

25, 31,

INDICE DEI NOMI

Gatto Alfonso, 189 Gentiluomo Paolo, 225 Getto Giovanni, 108, 109, 116, 122,

Dionisotti Carlo, 62, 67-8, 78, 85, 135

Dolce Ludovico, 83, 89 Donati Riccardo, 225 Donne John, 189

148, 154

Giacomo da Lentini, 20, 23, 26-33,

35348356

El Greco (Dominikos Theotokò-

Giancotti Francesco, 104, 107

poulos), 119

Gidino da Sommacampagna,

Eliot Thomas Stearns, 193 Errico Scipione, 116 Erspamer Francesco, 95, 110 Esposito Edoardo, 172, 183, 186

61, 63

Gigante Claudio, 96, 98 Giolito de’ Ferrari Gabriele, 108 Giorgieri Contri Cosimo, 169 Giovannetti Paolo, 149, 162, 164,

Facini Laura, 31

170-1,178, 218

Falletti Ottavio, 138

Girardi Antonio, 149, 152, 185-6, 188, 195-6 Giribaldi Alessandro, 172 Giudici Giovanni, 219, 228-9 Giuliani Alfredo, 212 Giuliodori Guglielma, 215

Falqui Enrico, 183 Fanfani Pietro, 153

143, 145, 148, 154 12, 20, 23, 27, Svevia, di

Fasani Remo,

Federico

II

34

Ferretti Francesco, 97 Fiacchi Luigi, 134 Fibonacci Leonardo, 26 Folena Gianfranco, 229 Folgore da San Gimignano, 65 Fortini Franco, 202, 204-7, 216,

Giunta Claudio, 35 Giusti Giuseppe, 153 Giusto de’ Conti di Valmontone, 68, 70-4

Géngora Luis de, 206 Gorni Guglielmo, 20, 36

229,233

Govoni Corrado,

Foscolo Ugo, 107-8, 123, 126, 141, I43-83154 Francesco da Barberino, 54 Francesco di Vannozzo, 49 Frare Pierantonio, 146 Frasca Gabriele, 218-9, 222-3, 225-6

155, 157, 161, 172-

3,181-2

Gozzano Guido, 154-5, 182-3 GrafArturo, 156, 169, 222 Grandi Guido, 123 Grazzini Giulio Cesare, 133-4

Gronda Giovanna, 121-2 Grosser]acopo, 88, 90 Groto Luigi, 95, 110

Frixione Marcello, 225-6 Frugoni Carlo Innocenzo, 120, 133

Fubini Mario,

54,

120-I, 123, 139, 141,

Guarini Giovanni Battista, 224 Guasti Cesare, 96 Guerrini Olindo, 152, 159-61

147

Gaetani Cesare, conte della Torre, 132—3

Guidiccioni Giovanni, 91 Guinizzelli Guido, 35-8

Galanti Alessandro, 132 Galavotti Jacopo, 95 Galilei Galileo, 116

Guittone d’Arezzo, 21, 36, 38, 58-9, 222

259

IL SONETTO ITALIANO

Hegel Georg Wilhelm Friedrich,

Matarrese Tina, 133 Mazzoni Guido, 229, 231, 233 Mengaldo Pier Vincenzo, 65, 68, 70, 74, 76-8, 122, 133, 161, 169,

150

Hopkins Gerard Manley, 192 Imbriani Vittorio, 152 Invrea Gaspare, 156, 160, 164, 16673 173‘5

Isella Dante,

173, 182, 191, 193,

227-8

Menichetti Aldo,

129, 135-7, 192, 194

30-1, 33,

60, 189,

190

Meninni Federigo, 111 Mesa Giuliano, 225 Metastasio Pietro, 120, 123,125, 133,

Jacomuzzi Stefano, 150 ]ermini Fabio, 65

Juri Amelia, 84

133

Minturno Antonio (Antonio Se-

bastiani), 25, 88, 90 Molinari Carla, 42 Mòlk Ulrich, 32 Montagnani Cristina, 21, 23, 54 Montale Eugenio, 182, 189, 192-6,

Lagorio Gina, 183

Lannutti Maria Sofia, 22 Lavezzi Gianfranca, 144, 175-6, 218 Lenzini Luca, 204

Leonardi Lino, 23 Leopardi Giacomo, 20,

141, 143-4,

202,233

Monte Andrea, 59 Monteverdi Claudio, 224

148, 150

Longhi Pietro, 119 Lorenzo de’ Medici, 72, 133, 160

Nicolò de’ Rossi, 63-4

Loreto Antonio, 228 Lucini Gian Pietro, 155, 177—8 Luzi Mario, 189, 191

Omero, 146

Onesto da Bologna, 36, 60 Onofri Arturo, 184 Orazio Flacco Q., 91, 121 Orbicciani Bonagiunta, 35-6, 38 Orlandi Guido, 57 Orlando Sandro, 60 Ossola Carlo, 86 Ottonieri Tommaso, 225 Ovidio Nasone P., 76, 91, 121,224

163-4 Maffei Andrea, Maggini Francesco, 138 152,

Magrelli Valerio, 219, 222 Magro Fabio, 197, 231

Maier Bruno,

196, 202, 205,

121-2

Mallarmé Stéphane, 206 Manfredi di Svevia, 20, 34 Manfredini Manuela, 177

Manzoni Alessandro, 143 Maratti Zappi Faustina, 107, 129-

Pagliarani Elio, 212

30,134

Pantani Italo, 68, 72 Panuccio del Bagno, 59 Parenti Giovanni, 109, 115 Parini Giuseppe, 120, 132-3, 135-7

Marazzini Claudio, 155, 172 Marchese Nicola, 149 Marinetti Filippo Tommaso, 155 Marino Giovan Battista, 105, 107-

Pascoli Giovanni, 148, 151, 155, 170,

9,111-6, 137

172, 181, 188

260

INDICE DEI NOMI

Pasolini Pier Paolo, 196, 207-8, 210 Passerini Ferdinando, 134 Paz Octavio, 227 Pedroni Matteo Maria, 161 Pelosi Andrea, 42

Rimbaud Arthur, 169, 173 Rinaldo d’Aquino, 21 Rinuccini Cino, 49

Roggia Carlo Enrico, 121, 190 Rolli Paolo, 122, 133, 136

Romanini Fabio, 178, 184 Roncaglia Aurelio, 21, 27, 29 Rossetti Gabriele, 151 Rota Bernardino, 95 Rota Melissa, 195 Ruscelli Girolamo, 89 Rustico Filippi, 65

Peperara Laura, 97 Perdichizzi Vincenza, 141 Petrarca Francesco,

12-5, 17, 41-52,

553 60, 649 66! 68'74» 76, 79‘8S> 87, 89—91, 95,98, 109-10,112, 138, 144,189, 192, 220,228 Petronio Giuseppe, 151

Piacentini Marco, 70 Pippo di Franco Sacchetti, 49 Pirrotta Nino, 22 Poma Luigi, 88, 101 Pontiggia Giancarlo, 219 Porta Antonio, 212, 227-8 Porta Carlo, 153 Pòtters Wilhelm, 25-6, 29 Poussin Nicolas, 191 Praloran Marco, 38, 68-9, 72-4,

Saba Umberto, 184-6, 188 Sacchetti Franco, 49, 59, 61, 66 Salvini Anton Maria, 133 Sanguineti Edoardo, 148, 212, 2189, 226-7 Sanmartino Carlo Enrico, 131 Sannazaro Iacopo, 69-72, 77-82, 84-3387, 933108 Santagata Marco, 30, 42, 67, 70-1 Savioli Ludovico, 120-3 Saviozzo, cfr. Serdini Simone Sbarbaro Camillo, 183

104, 112

Prati Giovanni, 153, 164 Preti Girolamo, 108 Pucci Antonio, 49 Puékin Aleksandr Sergeeviè, 229

Scaglione Francesco, 169 Scarpa Raffaella, 195, 197-9 Scheiwiller Vanni, 155, 169,183,208 Schlegel August W, 25 Segre Cesare, 86 Sempronio Giovan Leone, 116 Serdini Simone detto il Saviozzo,

Quadrio Francesco Saverio, 62 Quaglino Romolo, 169 Quirini Giovanni, 49-50, 63 Raboni Giovanni,

199, 211, 219—20,

49, 32,

Raboni Giulia, 108, 112-3 Raimondi Ezio, 95 Rebora Clemente, 183 Régnier—Desmarais Francois-Seraphin, 133

Renzi Lorenzo, 44

Riccardi di Lantosca Vincenzo

63, 70

Severoli Carlo, 132-3 Shakespeare William, 192, 206 Silio Italico, 91 Siti Walter, 207-8 Soldani Arnaldo, 38, 50, 52, 59, 79 Solerti Angelo, 97 Solimena Adriana, 37 Solmi Raffaella, 121-2

226, 229-33

161,

Somai Angelo Antonio, 132

169 261

IL SONETTO ITALIANO

Spitzer Leo, 30, 34 Spongano Raffaele, 59, 62, 131, 133 Stampa Gaspara, 213 Stara Arrigo, 185 Starobinski Jean, 119 Stecchetti Lorenzo, cfr. Guerrini Olindo Stefani Luigina, 189

Stigliani Tommaso, 118 Strada Elena, 89

Surdich Luigi, 197, 200, 202

Tanganelli Ulisse, 150

Tansillo Luigi, 95 Tassi Francesco, 138 Tasso Bernardo, 98 Tasso Torquato, 83, 88, 90, 96-101, 103, 107,109,118

Tassoni Luigi, 215, 217 Tavoni Mirko, 68 Teocrito, 224 Terzoli Maria Antonietta, 107

Testa Enrico, 211, 213-4 Tiepolo Giovanni Battista, 127 Tingoli Luigi, 116 Tommaseo Niccolò, 149, 152, 177 Tommasi Antonio, 131 Tonelli Natascia, 189, 208, 211, 2267

Toralto Vincenzo, 111

Tozzi Federigo, 155 Trovato Paolo, 89 Trubbiani Valerio, 218

Ulivi Ferruccio, 149-51 Ungaretti Giuseppe, 189

Vaganay Hugues, 83 Valduga Patrizia, 218-20, 222, 229 Valperga Tommaso, abate di Caluso, 141

Varchi Benedetto, 88

Venier Domenico, 95 Venier Maffio, 95 Verlaine Paul, 173—4 Viazzi Glauco, 155, 169, 177 Villalta Gian Mario, 208, 213-5 Virgilio Marone P., 91, 118, 224 Visconti Gasparo, 70 Vitetti Leonardo, 73 Vitruvio Pollione, 26

VittorelliJacopo, 121 Walser Robert, 152 Welle John P., 217 Zaccarello Michelangelo, 94 Zanato Tiziano, 76 Zanella Giacomo, 152 Zanzotto Andrea, 206, 212-4, 21820,

229-30

Zappi Giambattista Felice, 123, 125 Zena Remigio, cfr. Invrea Gaspare Ziino Agostino, 22 Zoccarato Giovanna, 98 Zucco Rodolfo, 121, 131-4, 228, 230 Zuliani Luca, 22, 131, 195-6, 200

Carocci editore

@ Studi Superiori

Il sonetto è la forma metrica di maggior fortuna della poesia occidentale. Il libro ne ripercorre le vicende in area italiana, dalle origini siciliane fino ai recuperi contemporanei, dalla codificazione rinascimentale alle arguzie mariniste e alle sperimentazioni ottocentesche. Ricostruendo la dialettica, mutevole nel tempo e via via più conflittuale. tra il modello e la sua realizzazione, fra ossequio alla tradizione e stile individuale, è possibile tracciare una storia del metro che sia anche, e insieme, storia letteraria e storia culturale. La forma infatti vive nella storia e partecipa alla vita sociale esprimendone, in modi allusivi ma precisi, i valori consolidati e le tensioni in atto. Fabio Magro è ricercatore di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova. Si è occupato di metrica. di stilistica, di lingua letteraria e non, in particolare tra Otto e Novecento.

Arnaldo Soldani insegna Storia della lingua italiana all’Università di Verona. Ha studiato soprattutto le forme della poesia italiana, con particolare attenzione a Petrarca, Tasso, Pascoli. Per Carocci editore ha pubblicato Le voci nella poesia. Sette capitoli sulleforme discorsive (2010).

ISBN 978-88-430-8646-7

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