Il reale allo specchio. Il documentario italiano contemporaneo 8831712527, 9788831712521

Dall'inizio degli anni zero del nuovo millennio, il cinema documentario italiano, e più specificamente quello di cr

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Il reale allo specchio. Il documentario italiano contemporaneo
 8831712527, 9788831712521

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Oall’inizio degli anni zero del nuovo millennio, il cinema documentano italiano, e più specificamente quello di creazione, su vivendo uno subordinano momento di (ri)nasciu. diventando cosi uno dei fattori privilegiati di rinnovamento estetico-culturale del cinema tout court nel nostro paese. Attraverso saggi e interviste,

il presente volume vuole documentare questo fenomeno, analizzando a tutto campo il mondo del documentario italiano con analisi particolareggiate del sistema c dei problemi non piccoli della produzione, degli sbocchi distributivi tra festival e canali televisivi, dei “cervelli in fuga* all'estero, oltre al complesso rapporto teorico tra fiction e non fiction, tra cinema del “reale" e quello di "invenzione*.

Senza tralasciare al tempo stesso l'approfondimento sugli stili, sull'elaborazione artistica dalla forma documentaria e degli stessi contenuti dove spesso si è privilegiato

(ma non solo) un'accurau e tagliente ricognizione dei fenomeni trasformativi ddla società italiana in tutti i campi.

A completare il volume uriampia biofilmografia degli autori di rinema di non fiction. Saggi di: Adriano Apri. Marianpda Barbancntc. Stia Bemiti. Marco Bertoni Aitano lairnicci. Giulio Latini. Sara Legp. Cecilia Manpni. Antonio Medici, laica Mono. Davide Otano, Gianfranco Pannone. Chitina Piccino. Giovanella Rendi. Giovanni Spagnolette Con interventi e intanine a: Serpo Basto. Aleuandro Bottelli. Maltinto D'Anolti e Manina Parenti. Leonardo Di CoManro. Davide Ferrano. Pietro Manelio. Valentina Monte Eliaatatu Pandirniglio. Giovanni Ptpcmo. Catana Quatnglio. Stefano Savona.

NUOVOCINEMA/PESARO N. 73 Quaderni della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema Collana fondata da Lino Miccichè

Il reale allo specchio Il documento italiano contemporaneo a cura di Giovanni Spagnoletti

Marsilio

Il presente volume viene pubblicato in occasione della 48“ Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro 25 giugno - 2 luglio 2012, www.pesarofilmfest.it), manife­ stazione realizzata con il contributo di

Regione Marche Provincia di Pesaro e Urbino Comune di Pesaro Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Direzione Generale per il Cinema

DNUZKNK GBtttAlf Kilt CINEMA

Coordinamento editoriale Pedro Armocida © 2012 by Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia (per il volume nel suo complesso) © 2012 by Fondazione Pesaro Nuovo Cinema Onlus (per i singoli saggi) Prima edizione: giugno 2012

ISBN 978-88-317-1252 www.marsilioeditori.it

INDICE

INTRODUZIONE 11 La situazione del documentario italiano oggi di Giovanni Spagnoletti RIFLESSIONI 17 Di alcune tendenze del documentario italiano nel terzo millennio di Marco Bertozzi 33 II documentario italiano “classico” di Adriano Apra 39 Dieci anni in Italia: note su documentario, mercato, istituzioni e tec­ nologie di Luca Mosso 50 Le sirene del documentario di Gianfranco Pannone 59 Le relazioni pericolose. Pratiche ed estetiche del documentario nel cinema di finzione di Antonio Medici 72 II documentario e la migrazione. Un fatto di resistenza di Cristina Piccino 78 La “verifica incerta”: l’uso del materiale d’archivio nel documenta­ rio italiano contemporaneo di Giovannella Rendi 95 L’ultimo Olmi di Giulio Latini

MATERIALI E STRUMENTI 105 Dov’è la verità? Come il Cinema del Reale racconta il mondo. Con­ versazioni con Leonardo Di Costanzo e Davide Ferrario di Mariangela Barbanente 7

INDICE

112 7 domande a 10 autori (e produttori) di documentari di Sila Berruti e Giovanni Spagnoletti 133 Riflessioni a mano libera sul ruolo del documentarista di Cecilia Mangini 137 Voci dai festival di documentario Alberto Lastrucci e Davide Oberto 141 Filmmaker di tutto il mondo, unitevi! Appunti su 12 anni di attività di Doc/it, l’associazione dei documentaristi italiani di Mariangela Barbanente 145 Dizionario dei registi di Sara Leggi e Giovanni Spagnoletti

AVVERTENZA Alcuni dei testi qui riprodotti (Il documentario e la migrazione. Un fatto di resi­ stenza di Cristina Piccino; 7 domande a 10 autori (o produttori) di documentari di Sila Berruti e Giovanni Spagnoletti; Riflessioni a mano libera sul ruolo del docu­ mentarista di Cecilia Mangini e Filmmaker di tutto il mondo, unitevi! Appunti su 12 anni di attività di Doc/it, l'associazione dei documentaristi italiani di Mariangela Barbanente) erano stati già pubblicati in un dossier a cura di Giovanni Spagno­ letti sulla rivista «Close-up» n.s. n.2 (novembre-dicembre 2011) e n.3 (gennaiofebbraio 2012).

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INTRODUZIONE

GIOVANNI SPAGNOLETTI

LA SITUAZIONE DEL DOCUMENTARIO ITALIANO OGGI

Come ogni buon “documentario di creazione”, l’argomento del pre­ sente volume, anche il nostro libro vuole sollevare dei problemi, rinun­ ziando invece ad offrire delle certezze, delle soluzioni belle & confezio­ nate. Cerchiamo allora di partire, riassumendoli, da alcuni dati e rifles­ sioni comuni che corrono, sotterranei o espliciti, nei testi che qui si sus­ seguono, pur negli argomenti differenti svolti dai diversi saggisti. Avver­ tendo in anticipo il lettore che continueremo ad usare, per quanto logoro e superato che sia, il termine documentario, in mancanza di un’alterna­ tiva veramente credibile ad esso. 1) Compulsando i dati del sito «Cinemaitaliano.info», i numeri dei doc realizzati nel nostro paese (pur se non distinti tra le diverse tipolo­ gie di lunghezze) sono abbastanza impressionanti: la produzione sem­ brerebbe si sia quadruplicata, in una marcia inarrestàbile, dalla metà del terzo millennio a oggi: 131 opere nel 2005, 168 nel 2006, 252 nel 2007, 359 nel 2008,373 nel 2009,485 nel 2010,519 nel 20111. È probabile che per quanto riguarda il passato le cifre riportate siano stimate per difetto, ma a confrontare quelle degli ultimi tre anni che dovrebbero essere omo­ genee, malgrado la persistente difficoltà a raccogliere informazioni atten­ dibili, non si possono nutrire dubbi sulla eccezionalità del fenomeno di crescita2. E ciò a dispetto di una crisi economica generalizzata e in par­ ticolare nel settore audiovisivo con le note difficoltà produttive in gran parte dovute agli sconsiderati tagli dei fondi ministeriali e pubblici. Dun­ que di boom si tratta «dovuto - ipotizza nel suo intervento Gianfranco Pannone - oltre che all’attrazione per i bassi costi, specie tra i più gio­ vani, proprio a un disperato bisogno di cercare nuove stràde sia sul piano il

GIOVANNI SPAGNOirm

linguistico che su quello dei contenuti». Se pur continua a sopravvivere l’idea che il documentario (identificato popolarmente con il prodotto didattico per la tv) sia una sorta di serie B nel campionato dell audiovi­ sivo. molto più vera è l'affermazione che esso si sia affermato come il principale campo di sperimentazione contemporanea del cinema gio­ vane e a low budget. 2) Passando dai numeri all'estetica. un dato altrettanto scontato quanto il rigoglio quantitativo, è, nel ‘documentario di creazione* (da ben distinguere dal reportage televisivo), quel passaggio epocale, avve­ nuto chissà quando (ma forse esistente da sempre), quella rivoluzione copernicana dal "Noi" impersonale, quello dola "divina* voce fuori campo, all'" Io” del regista-autore. Con la ovvia conseguenza del sempre

più accentuato uso di parametri soggettivi e personali, di modalità poe­ tiche. che evocano una lungamente agognata * transizione del documen­ tario da luogo di certezze a quello di domande aperte”. Sempre Marco Bertozzi porta poi il discorso (efr il suo saggio) alle estreme conseguenze, conferendo alla non fiction un impegnativo compito epocale: «È un tema che mi appassiona: che il documentario italiano, nonostante la sua ende­ mica debolezza e la scarsa capacità nd comunicare le proprie storie, sia stato il condensatore estetico e il principale artefice di un nuovo reali­ smo». Forse è andare troppo in là e si tratta di un pio desiderio? Senza volere investire il complesso della cultura italiana c così restituire al cinema quella funzione di Gtumlkuntlwtrlt che tonto a lungo ha avuto nell’ambito dd Novecento, di fatto però la produzione cinematografica "grande” - quella con attori professionisti, una sceneggiatura stnmurata. dei capitali consistenti o almeno con un pallido abbozzo di progetto industriale - ne sta usufruendo in maniera positiva. Basti considerare il numero non piccolo di documentaristi - da Alina Marrazzi a Leonardo di Costanzo, da Massimo Coppola e Andrea Segre a i Fratelli De Serio, solo per citare qualche nome - che negli ultimi anni hanno tentato o stanno tentando il debuno nd film a soggetto (si veda a riguardo il sag­ gio di Antonio Media ). E queste "relazioni pericolose”, come sappiamo bene, comprendono anche i tanti autori c registi che hanno alternato c alternano in maniera non episodica i lavori di Raion a quelli documen­ tari. D'altronde tutto ciò non dovrebbe suonare strano nd Pane di Zavattini e Rossellini, di Pasolini e Olmi, in una cinematografia il cui principale ceppo (accanto alla commedia) nasce dalla tradizione neo­ realista e la sua "onda lunga” nella modernità. 3) Alla base dd successo e dell'interesse per il documentario, oggi molto più di ieri, c'è il problema della rincgoziazionc da rapporti tra l'e­ lemento frazionale e quello testimoniale, caratteristico dell'attuale fase

dd cinema tout court (o dd post-cinema, come alcuni amano definirla).

LA STHJAZIONE DEL DOCUMENTARE) ITALIANO < XX,l

A questo riguardo ci piace ricordare la riflessione teorica di Pietro Mon­ tani che già a partire dall’inizio dd nuovo millennio ha individuato in modo pregnante la questione: «Innanzitutto bisogna premettere che stiamo vivendo una rase importante della storia da cinema - la transi­ zione dalla ripresa fotografica a quella digitale - nella quale la tradizio­ nale distinzione tra fiction c documentario potrebbe non sussistere più. In tal senso preferisco parlare di una componente "testimoniale" radi­ cata Dell'apparato tecnico dd cinema fotografico (e dunque presente anche odia fiction) che una cinematografia integralmente digitale potrebbe neutralizzare in modo completo. Oggi abbiamo infatti stru­ menti di produzione dell'immagine che possono prescindere dd tutto dall'elemento testimoniale che è costitutivo, in generale, ddla tecnica fotografica. Accade allora che. in questa fase storica, la rinegoziazione dei rapporti tra l’elemento finzionale e quello testimoniale dd cinema debba essere completamente ripensata. Ma non spetta a me dire in che modo: il teorico deve fermarsi qui c lasciare la parola ai cineasti»’. Oggi tale transizione si può dare per conclusa (o quasi) c l’attuale rigoglio dd documentario come luogo privilegiato di sperimentazione di Nuovo cinema (anche "in esilio", cfr. il saggio di Cristina Piccino) ci sem­ bra essere la risposta a questo quesito storico. I cineasti la parola l'hanno presa sia con le loro opere sia sulla carta - non c un caso che questo libro contenga una consistente sezione di testimonianze ed interviste, parti­ colarmente interessanti per mettere a fuoco (e cogliere le differenti opi­ nioni) il problema lumeggiato da Montani e i tanti altri di cui in questo libro si discute. Cè chi come Leonardo di Costanzo sostiene, contro­ corrente. che invece il documentario in Italia si sia fermato e che la fic­ tion offra maggiori possibilità di raccontare la realtà4. E comunque non si può non constatare come, oggi più di sempre, nd migliore cinema europeo (e non) contemporaneo predominino in modo netto le poetiche del reale. 4 ) L’avvento dd digitale e la sua estetica sempre più distante da quella della pellicola novecentesca (si tratta di un argomento interessantissimo che andrebbe approfondito), ha reso possibile e accelerato in modo espo­ nenziale tale processo. Molto lontano dai modelli dd passato (cfr. il sag­ gio di Adriano Apri), il documentario in Italia, si rinnova, secondo Luca Mosso (c Marco Bertozzi), all’inizio dd nuovo millennio in concomitanza con i fatti dd G8 di Genova, la moltiplicazione delle telccamerinc digi­ tali e il conseguente processo di "democratizzazione* dell'immitgine. Si può essere d accodo o meno con tale affermazione, con come proble­ matico resta la moltiplicazione c le ibridazioni delle fonti, dei canali e delle forme in cui si è articolata la rappresentazione attuale della realtà tramite l’audiovisivo; tuttavia il vaso di Pandora è stato aperto c con esso



GIOVANNI SPAGNOLETTI

dobbiamo fare i conti in quanto poi, come ricorda Antonio Medici, «è in gioco la possibilità di fare esperienza, cioè di dare un senso alle stesse immagini, quando queste si presentano con un certo grado di indistinguibilità tra “fattuale” e “finzionale”, “documento” e “spettacolo”». 5) Last but not least: non soltanto “sciolto dal giuramento” dell’ideo­ logia, il documentario italiano oggi ha anche abbandonato la suprema­ zia tradizionale del verbo e «se permane comunque dominante il logocentrismo [...], si può dire che la sua assertività si sia modificata sempre più in funzione del passaggio dalla voce formale a quella poetica [...] Grazie al graduale abbandono della egemonia del verbo e soprattutto della scrittura, il montaggio assume sempre maggiore importanza come luogo di costruzione di senso e può giocare con le informazioni, le imma­ gini e la loro alterità, ovvero il continuo rimando visivo e semantico al fuori campo» (Giovannella Rendi). Da ciò il moltiplicarsi di lavori “a base (totale o parziale) d’archivio” e il rinnovato interesse verso questo genere da parte di molti registi di fiction. Abbiamo così enucleato, a mo’ d’introduzione, alcuni fili rossi che nel presente volume sono stati maggiormente esplicitati, anche se, come si diceva, le soluzioni agli annosi problemi del documentario italiano (e non) sono ancora ben lungi da essere sciolte. Chissà se lo saranno - ci auguriamo - nelle prossime ricerche e libri. 1 Anche per quanto riguarda il film a soggetto le cifre sempre riportate dallo stesso sito sono molto interessanti (tra parentesi a confronto dal 2008 i dati Anica/Mibac che sono un po’ diversi soprattutto per gli ultimi due anni): 76 film nel 2005, 101 nel 2006,122 nel 2007, 155 (154) nel 2008, 123 (131) nel 2009, 166 (142) nel 2010 e ben 239 (155) nel 2011. Colpisce comunque il fatto che più della metà dei film prodotti nel 2011, sempre secondo il sito «Cinemaitaliano.info», non abbiano una distribuzione, un fatto industrialmente ancor più grave che non per il campo documentario. 2 Lo possiamo testimoniare di persona nell’estrema difficoltà ad allestire il dizionario degli autori di documentari attivi nell’attuale panorama italiano, pre­ sente alla fine del volume. La lista dei nomi candidati cresceva di giorno in giorno e ad un certo punto abbiamo dovuto porre uno stop all’impresa che si è rivelata una classica “mission impossible”. 5 Mazzino Montinari, Il cinema al bivio. Intervista a Pietro Montani, in «Close­ up» n. 16, sett. 2004, pp. 6-7; cfr. anche il suo volume più recente: Pietro Mon­ tani, L'immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Bari, Laterza, 2010. 4 «Se devo fare un’operazione di sintesi per rendere la realtà intellegibile, tanto vale prendere una storia, scriverla, arrogarsi il diritto di far agire i personaggi, dir loro cosa si vuole che dicano... cosa che poi succede anche con i documentari, ma in maniera non dichiarata».

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RIFLESSIONI

MARCO BERTOZZI

DI ALCUNE TENDENZE DEL DOCUMENTARIO ITALIANO NEL TERZO MILLENNIO

1. Lurgenza espressiva Con altre anime inquiete del documentario ci alterniamo a valutare i dossier che giungono ogni anni al concorso Solinas Doc. L’anno scorso sono rimasto stupito dalla qualità di tanti progetti, carichi di sguardi sog­ gettivi e appassionati. Storie randagie, di incroci identitari e paesaggi del sentire mai agevolmente indossati; storie migranti, nel basculare fra mito­ logie dell’integrazione e reali separazioni culturali, volontà di non per­ dersi e rischio di nuovi abiti mentali. Storie di ragazzi a pezzi, in città a pezzi, in un mondo che fatica a capire di essere uno, e unico, aldilà di ridicole frontiere. Storie di viaggi e di frastagliate peregrinazioni inte­ riori; di guerre e malaffari, illuminazioni o apocalissi, vite segnate e atti­ vità indicibili. Storie di cesure urbane, di ecomostri quotidiani, di gio­ vani madri ed energie adolescenziali. Storie del sentire - non più storie di cose, il vecchio documentario ricettacolo del mondo - nel perdurare di un desiderio, nell’affermarsi di una memoria, di memorie che non ci lasciano più e segnano paesaggi della nostalgia. Di come avremmo potuto essere. Della stocastica voglia di follia. E poi storie viste dai media, per sterminati ricicli d’archivio; costruzione di mondi virtuali, di paure sociali, di finte svolte epocali, d’immaginari attori sociali. Urgenze espressive per pance in ebollizione, lontane dal sentire bel­ lepronto del teleracconto. Una emergenza necessaria, con radici lontane: «Io credo che non sia quella del verosimile, del bozzettismo, e, diciamolo pure, della cronaca pura, la strada del realismo. Realismo è piuttosto quella visione cinematografica che sia o si sforzi di essere studio e inter­ pretazione poetica della realtà che ci circonda, nella profondità dei suoi 17

MARCO BERTOZZI

conflitti e delle sue contraddizioni. Questa realtà è fatta non solo di pre­ sente, ma anche di passato, di storia recente e lontana»1. Quello che molti di questi progetti promettevano - o, almeno a me, sem­ brava promettessero - era la consapevolezza che fra il mondo e la sua messa in forma esistessero scarti e deragliamenti; e la riflessione sul rapporto fra “realtà” e “finzione” obbligasse tutti ad affinare gli sguardi, ad attraversa­ menti lenti, all’osservazione minuziosa di alcune derive dell’idea documen­ taria, fra cinema etnografico e documentario di creazione, film saggio e com­ media documentaria, cinema di poesia e racconto autobiografico. Il punto di vista giornalistico, fortemente descrittivo, sembrava dileguarsi a favore di progetti segnati da tempi lunghi, per irrorare quelle opere potenziali di sguardi raffinati. Insomma, un cinema in cui pareva delinearsi un laborato­ rio pulsante di urgenze espressive lontane dalla “normalità mediatica”. Eppure, come rabdomanti visionari alla ricerca di brandelli di mondo, con sguardi che non favoriscono «né la solennità di sale equi­ paggiate in dolby né la trivialità dell’uso quasi domestico della televi­ sione»2, la stragrande maggioranza dei film documentari si sta ormai rea­ lizzando per la follia di qualche testardo appassionato, al di là dei finan­ ziamenti disponibili e della loro rendita commerciale. I documentari si girano comunque: ben lo sanno anche autori affermati, come Cecilia Mangini e Ugo Adilardi, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Paolo Isaia e Maria Pia Melandri, Daniele Segre e Daniele Cini, Bruno Bigoni e Davide Ferrario, Mimmo Calopresti e Francesca Comencini... È un’ur­ genza che si espande e che cerca di liberarsi da forme narrative consoli­ date per ibridarsi con discipline di confine, dalla videoarte all’antropo­ logia, dalle pratiche del teatro di ricerca sino a quelle di marcata resi­ stenza politica. Una esigenza condivisa: un’urgenza che abbatte logiche normative di “genere”, esalta la messa in campo del dubbio, l’ambiguità di un confronto in itinere, il sudato va et vien fra gli interlocutori coin­ volti. Alcuni dei più interessanti film italiani degli ultimi anni attraver­ sano proprio questi orizzonti. Un brulichio filmico in cui si annidano robusti anticorpi alle idee standard di cinema. Ecco, forse il mio sguardo tendeva all’allucinato e riguardava piuttosto un desiderio, un livello di sorveglianza tenero; alla fine i documentari impor­ tanti sono pochi ma l’auspicio dell’inatteso, l’impressione di progetti in grado di aprirsi all’accadimento e all’intrusione del fato, restava forte. (Nell’idea che questi film a venire avrebbero offerto scarti, intensità, deragliamenti...).

2. Found footage time Primo «scarto», il riciclo d’archivio. Gli anni recenti hanno conse­ gnato il found footage a pratiche molteplici, sottratte alle sirene della memoria che diventa subito storia, al racconto diretto che piace ai finti 18

DI ALCUNE TENDENZE DEL DOCUMENTARIO ITALIANO NEL TERZO MILLENNIO

documentari e alle emozioni pilotate. È un’onda lunga, internazionale, non solo cinematografica, che ha eletto il cineremix a privilegiata pratica estetica3. Mentre l’ordine audiovisivo mondiale cerca di ritagliare nella foresta delle cose una “tele realtà” - che diviene realtà tout-cort - il footage prova a disturbare, a introdurre s-contentezza verso la narrazione fluida, a rompere la discorsività teleguidata, evitando la felicità della memoria infiocchettata. Poetiche e pratiche in levare, in cui il mistero dell’immagine cambiata di segno scarta la ratio facilis del senso presta­ bilito per divenire rivelazione altra, aliena al flusso di significati a buon mercato. In linea con questi più vasti orizzonti stilistici, il nuovo docu­ mentario ha nel foundfootage un ricco orizzonte di sperimentazione. Ma esiste una peculiarità italiana in questo genere? Cosa significa comporre cinema rielaborando immagini del passato in un luogo così ricco di sto­ ria come l’Italia? C’è una relazione fra l’importante sistema cinetecario nazionale, o la presenza dei più importanti festival di settore - Il cinema ritrovato di Bologna, Le giornate del cinema muto di Pordenone - e la nuova onda documentaria? In questo appuntamento fra spettri d’antico e sguardi contempora­ nei molti autori italiani si sono recentemente avventurati ma penso che, dopo i maestri Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Alina Marazzi e Pietro Marcello si siano distinti per la qualità del loro personale labo­ ratorio creativo. Ne La bocca del Lupo (2009, Pietro Marcello) il rapporto fra una storia di vita sbandata - Enzo «una faccia d’angelo che la mala­ vita ha rubato al cinema» - e i paesaggi di una città, Genova, divorata dai cambiamenti del secolo breve, informa una raffinata alchimia este­ tica. L’accumulo di materiali “incoscienti”, psichici e filmici, compone grumi di senso apparentemente informe. La crescita è sommessa, non immediatamente collocabile in un prima e in un dopo; qualcosa che si dipana fin quando il “dipinto del reale” è sentito come compiuto e il mistero del film ci viene incontro con grazia: e poco a poco trova com­ pimento nell’apparizione di una forma finalmente riconosciuta. Una lunga intervista nel tinello del protagonista disvela quanto le voci, i fram­ menti d’archivio, le passeggiate dei protagonisti nel buio della notte, ci avevano giusto fatto premeditare. Qualcosa che valica la realtà fenome­ nica resta appiccicato alla visione, una patina sentimentale che costringe a riconsiderare l’amatorialità di un cinema che sembra “fatto di niente”. La bocca del lupo è un lavoro sulla memoria involontaria, su rovine che fanno intuire l’esistenza di un tempo sfasato, in un procedere che non coincide con quello del ricordo consapevole. E lì che si intrecciano geo­ grafie sentimentali differenti: resoconti di una città baciata dal miracolo industriale e un’infanzia libera nei vicoli/giardini di pietra, segmenti di un passato urbano divorato dalla speculazione e consapevolezze che con19

MARCO BERTOZZI

trabbando e sparatorie costano anni di prigione e inenarrabili lontananze dal soggetto amato. Così, attraverso un groviglio di sopravvivenze e migrazioni figurali, Marcello ci pone il quesito del destino delle imma­ gini; di più, l’impressione che quelle stesse immagini possano illuminare epoche diverse, ragioni e destini molto distanti fra loro4. Come negli splendidi film di Alina Marazzi, Un'ora sola ti vorrei (2002) e Vogliamo anche le rose (2007). Nel primo, ormai ampiamente recensito e divenuto oggetto di culto, entriamo in una prospettiva che attesta il valore realistico dell’interiorità, dei suoi sbandamenti, dei suoi miraggi5. L’opera ricostruisce la memoria della madre, morta quando la regista aveva sei anni, portando alle estreme conseguenze l’accostamento fra scarti della materia cinematografica - i film di famiglia, mai entrati nelle Storie del cinema - e scarti dalla supposta “normalità” psico­ sociale. Come se al crollo dell’ideologia ospedaliera nelle cure delle malattie mentali associassimo il crollo delle categorie del cinema classico e la fine di baluardi analitici in stile “Grande Sintagmatica”. Addensando i film girati dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli, la Marazzi porta a ter­ mine «un’operazione di alto profilo stilistico e linguistico, tutt’altro che consueta nel (cosiddetto) genere documentario»6. Il laboratorio del film accentua i caratteri di bottega, il lavoro con una serie di professionisti/amici con cui creare in “assonanza”, un clima di fiducia necessario per «produrre piccoli film che sfiorino l’inutilità, cose marginali, oggetti non richiesti dal mercato. Per il gusto di farli. Perché è giusto farli, anche in barba alle leggi del marketing e del profitto. Purché ci sia, dietro, il sentimento della necessità»7. La mescolanza di materiali di repertorio si accentua in Vogliamo anche le rose (2007), per il quale la Marazzi utilizza film in super8, materiali delle Teche Rai, dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, della Cineteca di Bologna, di film sperimentali e dell’un­ derground (Grifi, la Miscuglio, Leonardi...), nonché i diari dell’Archivio di Pieve Santo Stefano (rivisti con la scrittrice Silvia Ballestra) e mate­ riale d’animazione, sia d’epoca che contemporaneo (elaborato da Cri­ stina Seresini). Vogliamo anche le rose compone una serie di racconti diaristici in un raffinato impasto audiovisivo: senza retorica, “rischiando” di sfiorare momenti altamente poetici, scivola via un quindicennio fon­ damentale per l’affermazione dei diritti delle donne e della sessualità femminile. Da una perdita del sapere primigenio, da una mancanza, a volte da una vera e propria catastrofe del linguaggio, il laboratorio del found foo­ tage conduce dunque alla creazione di nuovi significanti. Una ricompo­ sizione continua del senso: non tanto per svelarci il senso ultimo, la verità nascosta, la psiche sotterranea dell’autore quanto, per quel che mi 20

DI ALCUNE TENDENZE DEL DOCUMENTARIO ITALIANO NEL TERZO MILLENNIO

riguarda, per un principio di godimento estetico, di continua elaborazione/ricomposizione del mondo. Che ho provato, ad esempio, compo­ nendo un film come Appunti romani (2004); o che presumo abbia pro­ vato Gianfranco Pannone nel montare Ma che Storia (2010); o, ancora, Marco Bechis nel recente 11 sorriso del capo (2011). Dunque dar forma all’informe. Evitando la teoria (modernista?) della forma perfetta e del suo stiloso controllo, in una percezione porosa del confine, luogo di con­ vivenza fra forze della materia selvaggia e il suo tendere a un aspetto signi­ ficante. Un luogo estetico in cui si consuma la lotta fra un primigenio a pezzi, spostato, collassato e la danza dei suoi resti. Laddove la forma «non è il contenente del contenuto, non è la pellicola superficiale, la scorza insignificante o gloriosa che avvolge il piatto forte o inesistente del con­ tenuto, ma è il prodotto di una trasformazione, è l’effetto di una gene­ razione produttiva della forza»8. Importante ribadirlo perché nel cinema italiano l’idea documentaria si è posta spesso al riparo del filmico, nel privilegio del contenuto sulla forma, dei paesaggi naturali su quelli este­ tici. Nel persistere cioè di una concezione immanentista, incurante dei problemi di immagine suscitati dal film, dal viaggio intrapreso nell’atto della visione.

3. Osservare la relazione In effetti, si tratta di un rischio che coinvolge profondamente il cinema del reale in opere dal tono dimostrativo, che si limitano alla sto­ ria che stanno raccontando «senza riuscire ad andare oltre, a renderla “politica” e “poetica”, frammento di una epifania più ampia del reale»9: quella fastidiosa retorica scodellata sia dalla maggior parte di film di finzione che dai cosiddetti documentari sociali, in cui ricerca e speri­ mentazione sono sacrificati a deboli consapevolezze estetiche e diktat di tipo produttivo. Se l’autore non si assume la responsabilità di uno sguardo personale, senza celarsi dietro un’impassibile oggettività di genere, le migliaia di documentari prodotti in Italia negli ultimi anni non faranno che confermare vecchi pregiudizi e nuove incomprensioni critiche. Anche perché la progressione nel numero di opere realizzate è sorprendente, quasi preoccupante. E la qualità è merce rara. Forse si tratta solo di un ampliamento dei dati disponibili ma, certo, si resta stu­ pefatti innanzi alla escalation di film prodotti negli ultimi cinque anni: 168 documentari nel 2006, 252 nel 2007, 359 nel 2008, 373 nel 2009, 485 nel 2010, 519 nel 201110. Molti dei quali restano senza distribu­ zione e, dopo qualche proiezione, finiscono in un cassetto. Anche per­ ché se il digitale contribuisce a uscire dal letterario - a non scrivere più con la penna, ma, da subito, con una piccola “digicaméra-stylo” - evi­ denti sono i rischi di mancate consapevolezze formali. Se la leggerezza 21

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del digitale consente di sfiorare la soglia delTaccadimento fatale, tra­ scurare il progetto estetico del film basandosi sulla pesca miracolosa di decine, a volte centinaia di ore di girato, può inficiare qualsiasi buona cine-intenzione e ricacciare il cinema del reale nei luoghi comuni della rappresentazione naif del mondo. Eppure la visione dei migliori documentari continua a procurare stu­ pore nello spettatore casuale, sottratto per un attimo al suo abituale «tele­ lavoro» (vendere pubblicità). Il rischio dell’esperienza sbandata diviene «pericolosa» aurora figurale, uno sguardo che non è solo questione di occhi, ma che pervade, congiuntamente, etica ed estetica. Esperienze che correggono - in maniera quasi dimessa, eppure potente - il compito di glorificazione chiesto alle immagini dalla retorica del regime e dal fasci­ smo televisivo ( Videocracy, Eric Gandini, 2009). Dunque sguardi acuminati, capaci di tracciare una cartografia in cui «i film documentari non sono solo “aperti sul mondo”, ne sono attra­ versati, trafitti, trasportati. Si consegnano a ciò che è più forte di loro, che li supera e al contempo li fonda»11. Un sacro mirare il «mondo che c’è già» in un tempo dell’attesa inquadrato con certosina compostezza: nei suoi processi di assestamento identitario, di nuova accoglienza, di accettazione della “devianza” e della “sofferenza”. Come in Padre nostro di Carlo Lo Giudice (2008), un abisso aperto nel rapporto quotidiano di due uomini sudati, russanti, a-televisivi. Quali animali spiaggiati, un vec­ chio padre e un figlio cinquantenne si grattano fra le lenzuola sgualcite: i loro corpi sono immobili, gli sguardi catatonici, il tempo sospeso. Il vec­ chio bacia la foto della moglie, il figlio lo guida, in mutande, versola puli­ zia quotidiana. Intimità inenarrabile, in cui Salvatore, il figlio, versa una catinella d’acqua sul capo del vecchio, lo asciuga, lo bacia, lo sdraia... “Sei schifoso, sei”. Ma le immagini dicono più delle parole, trasudano affetto supremo: geografie del benevolo tracciate da pezzi di mano che si cercano, da parole sussurrate nelTErMr/ dello sguardo (titolo di un’o­ pera di Gesualdo Bufalino sbirciata dal vecchio all’inaugurazione di una mostra d’arte). Si tratta di opere liberate da imprinting letterari: come 11 teatro e il Professore (2007), girata da Paolo Pisanelli al Centro Diurno di Via Mon­ tesanto a Roma, seguendo un anziano ospite del centro. Ecco dettagli, sguardi, atteggiamenti normalmente guidati dall’istanza drammaturgica che tracimano dal prevedibile, scardinano il visibile noto, introducono consapevolezze metalinguistiche. Una presenza irriducibile all’idea del bel film confezionato, in grado di subire la capitolazione del “progetto” a favore del “dono-abbandono-scambio ” dell’esperienza. Come raccon­ tava Alberto Grifi in merito all’illuminazione avuta durante il toumage di Anna (1972-1975): «Non dovendo amministrare il tempo oggettivo 22

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che è denaro concesso dal capitale, né il denaro, che reifica il tempo oggettivo, scaricati dal peso di dover preferire il tempo di un momento particolarmente significativo contrapposto alla realtà banale di tutti i giorni, buttata nel cesso la sceneggiatura, questo libro mastro del tempo del capitale, abbiamo trovato il sempre, il tempo continuo della vita reale, che è l’intersecarsi osmotico di tutti i tempi soggettivi»12. Considerazioni fondamentali per un certo cinema a venire, laddove il vortice del non prevedibile rompe lo scafandro del valore d’uso, nella volontà di spo­ stare l’esperienza dello sguardo verso un campo non protetto. E lì che il “folle” lavoro del film dice la sua, a lato della rappresentazione codifi­ cata, fuori dalle tombe del simbolico. Secondo deragliamento. Per Below Sea Level (2008), un altro pro­ getto assetato di tempo, disteso sul tempo, Gianfranco Rosi impiega quattro anni di appostamenti, amicizie, abbandoni, ritorni. Lo scopo è incontrare/filmare le vite di un gruppo di emarginati, a 250 chilometri da Los Angeles, in un’area in cui sorgeva una base militare. Territori fisici - paesaggi desertici - umani - il backward del “we can” - estetici - lad­ dove il film sfugge la mera intenzione documentale e diviene potente macchina simbolica. Perché la “realtà" è una faccenda molto soggettiva, e comporla, calibrarla, riprenderla, insomma, farne un film come questo è una sfida gravitazionale alle galassie del cinema industriale. Protagoni­ sta non risulta la didascalica volontà di saturare il tema - le condizioni di vita di alcuni homeless - quanto la transumanza di memorie scabrose, piene di relitti, lontane dagli sfavillìi di altre, contemporanee memorie, molto più luccicanti. E nel rapporto fra osservazione e relazione che si gioca il valore del film, laddove fiducia e condivisione diventano fondamentali per la buona riuscita del lavoro. Doti composite: disponibilità umane, maestrie tecni­ che e consapevolezze teoriche capaci di orchestrare un consesso di mediazioni in attesa, davanti all’occhio ciclopico della camera (affinché la parola si manifesti quale improvvisa epifania, in bilico fra impossibili stati di innocenza e altri di attenzione suprema). Sottilmente, una visione del mondo altra si materializza dietro segni che sembrerebbero rinviare al sociologicamente conoscibile. Per questo i territori di Below Sea Level risultano indigesti ai domini dello sguardo realistico camuffato da repor­ tage, telegiornale, talk-show : come ai paesaggi del versioning dominati da commissioning editors che impongono semiosfere “identitarie" suc­ cubi di presunte esigenze spettatoriali (per ipotetici canoni di gradibilità/vendibilità). Lo si vede, clamorosamente, nel successivo film di Rosi, Sicario room 164 (2010) una sfida a qualsiasi precetto in stile "buon” documentario da pitchingforum. I territori estetici di queste opere appar­ tengono piuttosto agli abissi di quel fragile/enorme “realismo” capace di 23

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volgere l’osservazione del mondo in originale creazione cinematografica. Siamo sul versante di uno sguardo metafisico: mostrare l’indicibile attra­ verso il rappresentabile, come nel tentativo attuato da Alessandro Ros­ setto in Feltrinelli (2006), un film in bilico fra forma classica e sentimento romantico. Doti rare, capacità di comprendere il valore pulsante di un fotogramma, l’efficacia di un piano sequenza, l’utilità di una esitazione apparentemente inutile. Come in CIMAP! Cento matti italiani a Pechino (2009) dove Giovanni Piperno segue il viaggio di 77 sofferenti psichici verso la Cina attraverso una serie di incontri precari e sguardi non assertivi. L’inquadratura stessa - porosa, trafitta ai bordi - soccombe al tentativo di tenere in quadro il mondo, ribalta il limite dell’o-scena “normalità” scopica, per scodellare la fuga da una vita di controlli. O come nel delicato incontro esperienziale di Rumore bianco (2008, Alberto Fasulo), un’opera che ha radici profonde nelle origini del regista, e che si sviluppa come riscoperta del­ l’universo naturale e umano del fiume Tagliamento. La coscienza di una narrazione universale (umanità, lavoro, tradizioni) si fonde con momenti di epifanico sbandamento. Bellissime le scene dei ragazzi al fiume, liberi, appesi alle liane, in pasoliniane immersioni che rimandano a La canta delle marane (1960) di Cecilia Mangini e rivendicano solo l’energetica pulsazione della giovinezza. Fuori dalle mistiche dell’alta definizione e del tempo reale questi film, come pochi altri, minano le torrette di controllo del documentario pre­ cotto e sfuggono al lindo cinema segnaletico delle emozioni pilotate. È la stessa prospettiva di Franco Piavoli in L’orto di Flora, episodio di Terra Madre (2009, di Ermanno Olmi) nel subordinare il racconto naturalistico allo choc estetico che la natura procura. Un innamoramento che produce incantamenti pittorici e sogni a occhi aperti: osserviamo una bambina nell’orto che, forse per la prima volta, accarezza le forme dei frutti, vede i colori, sente gli odori degli ortaggi e delle piante guardandosi intorno attonita, come a chiedere al nonno, Piavoli stesso, la conferma della sua straordinaria scoperta. Alla ricerca, direbbe Celati, di un “cinema natu­ rale”, per assonanze evocate dalla fuoriuscita dal sé (dell’autore come della sua arte), a confronto con l’immersione panica nel paesaggio13. Dunque film che offrono più dei semplici “contenuti” espressi dal titolo, sfuggono la mera intenzione documentale, palpitano al di là del­ l’etimo tardo positivista nel quale i cineasti del reale vengono spesso ghet­ tizzati. Ecco, la “follia” del documentario italiano di questi anni non sta solo nelle sue difficoltà produttivo-mostrative ma anche nella scelta di rappresentare un punto di vista etico-estetico minoritario, per molti enig­ matico ma, al tempo stesso, esemplare: Diol Kadd (Gianni Celati, 2010) ne è un esempio lampante, e ci seduce proprio per la siderale lontananza 24

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dalle galassie del vedere diffuso; nonché per la chiara posizione del punto di vista dell’autore nel raccontare, in prima persona, la vita di un villag­ gio del Senegai. Dunque film prototipo, schegge visive occultate ma resistenti, in cui la bellezza dell’accadimento è un corpo a corpo con l’apparente disastro del reale. Se penso, fra gli altri, a film importanti come Odessa (Leonardo Di Costanzo e Bruno Oliviero, 2006, Miglior documentario a Filmmaker) o Palazzo delle Aquile (Stefano Savona, 2011, premiato al Cinéma du réel di Parigi), mi rendo conto che si tratta di film sintomatici nel pren­ dere in carico il non stimabile, accudire l’“insensato”, abbandonare le valutazioni economiche per raccontarci biografie da una marginalità dimessa, normalmente “fuori dal mondo”. Film di osservazione per cam­ mini nell’oscurità antropologica, su figli di un dio minore, segnati/protetti da un cono d’ombra che li rende invisibili ai luccichi! dei grandi media. Opere che scrutano, piuttosto, l’identità di soggetti qualunque, nella loro quotidianità: un clima di anonimato fuso al massimo clima di partecipa­ zione. Un clima di estroversione fuso alla massima possibilità di intro­ spezione. Reperti per una archeologia dell’estremo, in cui emergono i volti di umanità spaesate, in rivolta. Come in Tahrir Liberation Square (2011, Stefano Savona) un miracoloso cinema dal vivo che scorre davanti ai nostri occhi stupefatti. E merita pienamente il David di Donatello come miglior documentario italiano dell’anno.

4. Composizione/creazione Ma il cantiere aperto dal documentario degli ultimi anni riguarda anche la sperimentazione di “forzature” alla frontiera con la finzione, in un processo di manipolazione del “reale” teso ad illustrare aspetti altri­ menti difficili da indagare. Terzo deragliamento, modalità varie e com­ plesse: l’utilizzo dell’animazione, di parti recitate o scenografie rico­ struite, di intromissione degli autori negli eventi in atto. Nei migliori esiti, una sorta di “commedia documentaria” che ha avuto in Giovanni Piperno e Agostino Ferrente due esponenti importanti, in opere - come Il film di Mario (2000) e Intervista a mia madre (2001) - capaci di inau­ gurare drammaturgie ludico espressive con una forte attenzione agli aspetti metalinguistici. Una linea “creativa” complessa, ricca di questioni ancora aperte, che Ferrente sviluppa in ^orchestra di Piazza Vittorio (2006), un’opera laboratorio, un film cantiere sull’orizzonte esperienziale dell’idea documentaria. In un deposito personale del ricordo, la par­ tecipazione dell’autore diviene esplicita esigenza di contatto e, congiun­ tamente, attestazione del processo in corso. Un’idea di cinema in grado di lavorare su elementi contaminati della “realtà” per farne emergere visioni non allineate, in qualche modo deboli, e laterali, nel diritto supe­ 25

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riore di “essere fuori”. In una parola, poter essere felicemente ibridi. I musicisti stranieri in Italia sono pedinati attraverso una felice rivisita­ zione delTauspicio zavattiniano, modulata grazie a un sapiente flirt tec­ nologico fra riprese in digitale e in super8. Un cinema di creazione, di relazione e di scambi, nutrito di un sentimento conviviale: un cinema “dal vivo” ma anche un cinema “costruito”, che nasce all’interno di un’e­ tica della condivisione e rende improbabili piani di lavorazione e analisi dei costi. Una linea nutrita, con specifiche differenze stilistiche, anche da Chiara Malta (Armando e la politica, 2008) e Francois Farellacci (Famille, 2009), in due film ricchi di humor, di percorsi anamnetici e implicazioni psicologiche14. Ormai fra cinema, narrativa, arti visive, teatro documentario la feca­ lizzazione sull’“io“ diviene una modulazione privilegiata, diffìcile da cali­ brare, incerta fra il dicibile e il narrabile, in self-presentation che basculano fra creatività dell’invenzione e qualità della drammaturgia. Qui il patto sti­ lato tra autore e lettore/spettatore diviene quello comune alla non-fìction, un impegno a intendere il testo come legato a fatti dotati di vita propria, autonomi e sopravviventi l’esperienza del testo artistico. Ricordo le parole di Davide Ferrano: «Mi sono accorto, documentario dopo documentario, di tenerci sempre di più alla mia presenza diretta nel film. Non che mi sistemi davanti alla macchina da presa, sia chiaro. Ma voglio che sia evi­ dente a tutti quelli che vedono il mio lavoro che si tratta di una testimo­ nianza personale [...] Un documentario in cui si senta la voce del regista è la migliore garanzia che si tratta di un lavoro democratico, che parla a cia­ scuna persona e non solo al “pubblico”»15. Ferrario tocca un tasto impor­ tante - il passaggio da un’idea di voce paradivina a una voce intima. Di più: la transizione del documentario da luogo di certezze a quello di domande aperte. Dunque film che sanno dire io, e che offrono il dono del­ l’esperienza personale per attraversamenti pubblici e privati: come Daniele Vicari con II mio paese (2006), sulle tracce con temporanee de L'Italia non è un paese povero di Joris Ivens; Giovanna Taviani con Fughe e approdi (2010), nei luoghi di una infanzia isolana segnata dal cinema; Davide Fer­ rario stesso, con Piazza Garibaldi (2011), nelle geografìe, reali e immagi­ narie, dell’epopea dei Mille che fecero l’unità d’Italia. Sapere calibrare voci e presenze. Non solo personali. Spesso in que­ sti film altri personaggi si raccontano, e il come farlo, come dar loro parola è un aspetto gravido di quesiti teorico-estetici. Il privilegio del volto consente alla testimonianza di srotolarsi nella sua piena visibilità ma corre il rischio di limitare l’opera a una elencazione di eventi e memo­ rie narrate, ma non “viste”. Qual è dunque il valore dell’intervista? «E quali sono le diverse modalità di realizzazione di un’intervista? [... ] Deve essere alternata ad altre immagini o la sua forza ne è diluita?» Ed «è pos­ 26

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sibile cogliere nell’intervista il miracolo del reale che si manifesta?»16. Sono quesiti che intercettano molte opere. Se prendiamo tre film impor­ tanti e assai diversi fra loro come Detour/DeSeta (Salvo Cuccia, 2005), Il sol dell"avvenire (Gianfranco Pannone e Giovanni Fasanella, 2008) e La febbre del fare (Marco Mellara e Alessando Rossi, 2010) notiamo come sia comune la ricerca di giungere, attraverso l’intervista, a un livello altro da quello semplicemente verbale, grazie a volti paesaggio capaci di distil­ lare parole “pesanti”17. Soprattutto nel raccontare quell’intreccio, spesso denso di equivoci, che parte dalle memoria personali per giungere a rico­ struire Storie più vaste. Le opere migliori tentano spesso di valicare un cinema basato sulla semplice intervista, coinvolgendo i soggetti ripresi in un processo partecipativo o, ancor meglio, in una tribù audiovisiva capace di divenire essa stessa luogo d’incontro. E quando il protagoni­ sta accetta di valicare il ruolo di “intervistato” s’ingenera una produttiva deriva documentaria in cui lo spazio per una teoria del cinema emerge come “linguaggio potenzialmente transculturale”18. Si tratta di un vasto processo in atto, un sommovimento che sta inve­ stendo i territori dell’estetica, ben evidenziato da David Shields nel suo recente libro Fame di realtà. Shields costruisce una manifesto teorico per una nuova letteratura ma molte delle sue considerazioni sono fonda­ mentali per il cinema documentario. A grandi linee, Shields sostiene che al termine delle narrazioni epocali l’opera tradizionale non abbia più senso. «Si sta formando un movimento artistico. Quali soni i suoi tratti salienti? Una voluta inartisticità: materiale “grezzo”, apparentemente non lavorato, non filtrato, non censurato e non professionale... Casua­ lità, disponibilità verso l’imprevisto e la serendipità, spontaneismo; rischio artistico, urgenze e intensità emotive, interazione del lettore spet­ tatore... critica come autobiografia; autoriflessività, autoetnografia, autobiografia antropologica; una linea di confine sempre più sottile (fino a diventare invisibile) fra fiction e non-fiction»19. Sembra di assistere al film di Isabella Sandri e Giuseppe Caudino Per questi stretti morire (2010), dove i vuoti della storia accompagnano le parti di fiction in un immaginario e caotico magazzino della memoria. Una biografia reinventata, quella dell’esploratore cineasta Alberto Maria De Agostini, partito come missionario da un paesino del Piemonte, per raggiungere nel 1910 la Patagonia e la Terra del Fuoco. Una messa in mora del senso pre-visto, un cinema capace di rilevare la precarietà del suo farsi e, congiuntamente, delle nostre esistenze: come di fronte allo struggimento e al dolore della scomparsa degli ultimi indios, quando De Agostini sembra non usare altre parole che quelle impressionate sulle sue lastre fotografiche o sui fotogrammi del sopravvissuto e incredibile film Terre Magellaniche (girato tra il 1915 e 1930, mostrato nel 1933). 27

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Il dibattito sul “nuovo realismo” costituisce l’approdo ai modi con­ temporanei di intendere la rappresentazione documentaria. Si tratta di un forte problema teorico: come affrontare i limiti, l’ammissibilità, le scelte dello sguardo documentario nella messa in forma filmica? Un lavoro semplice e potente come Cielo senza terra (2011) di Sara Pozzoli e Giovanni Madema ci aiuta a penetrare questa complessità. Nella rela­ zione “in cammino” fra padre e figlio, nell’occupazione di una fabbrica a Milano, nel racconto delle (dis)awenture di un produttore musicale negli anni settanta si ingenera un gioco di rimandi e di allusioni che mischia generi e materiali cinematografici, sino a comporre un intreccio di storie (dalle individuali alle collettive) liberate da teleologiche finalità drammaturgiche.

5. Verso una estetica documentaria? Ciò che sta mutando è il limite della nostra percezione-mediazione con il mondo: e la domanda teorica e sociale verso il documentario si tra­ muta «nelle domande che quest’ultimo pone alla società stessa: quale idea di verità essa abbia, quali aspetti decide di magnificare e quali di narcotizzare»20. Certo, quella “documentaria” sembra essere una ten­ denza del nostro tempo che irrora alcuni rivoli della realtà artistica ita­ liana, in supposta resistenza ad altri realismi medial-televisivi. Che il documentario italiano, nel bene e nel male, ne sia stato l’artefice? Il pro­ motore, nonostante alcune contemporanee mitologie (le camerine quale possibile tecnico per una estetica liberata), di un ritorno a racconti dal “paese reale”? Ora che tracce cospicue di questo realismo fossero par­ tite dalla nuova onda del cinema documentario resta un quesito aperto21. Se il territorio segnato dalla generazione di documentaristi emersi negli ultimi 20 anni è stato vasto, dissodato dagli ordigni del documentario didattico e del reportage televisivo, oggi le nostre opere confermano la vitalità di quella prima Pangea documentaria. L’emergere di orizzonti sti­ listici in cui nuove idee di realismo attraversano il fare artistico si pone all’intersezione tra poetiche personali e più vasti orizzonti del sentire dif­ fuso. Si tratta di una forte “tensione” del nostro tempo - testimoniata, solo due esempi, dalle prese di posizione della generazione TQ in lette­ ratura o dai recenti Leoni per il Teatro assegnati dalla Biennale - che investe la coscienza artistica in aperta resistenza/opposizione a format­ tati realismi televisivi. E un tema che mi appassiona: che il documentario italiano, nono­ stante la sua endemica debolezza e la scarsa capacità nel comunicare le proprie storie, sia stato il condensatore estetico e il principale artefice di un nuovo realismo. Anche grazie al lavoro, alle opere e alle prese di posi­ zione di molte giovani registe, come Costanza Quatriglio e Mariangela 28

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Barbanente, Chiara Malta e Rosella Schillaci, Chiara Idrusa Scrimieri e Caterina Catone, Valentina Monti e Laura Halilovic, Valentina Pedicini e Maura Delpero. Autrici che spesso praticano un cinema in prima per­ sona, capace di riflettere sul proprio destino nell’atto stesso del farsi: per­ ché la “realtà” è una faccenda molto soggettiva, «una successione infi­ nita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è dunque ine­ stinguibile, irraggiungibile»22 e l’idea documentaria è ormai consapevole di maneggiare “immagini di realtà” piuttosto che “attendibili realtà”. Come nei documentari di alcune coppie di registi in grado di esaltare la complementarietà dei punti di vista e la raffinatezza degli sguardi: Il castello (Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, 2011), Left by the Ship (Emma Rossi Landi e Alberto Vendemmiati, 2010), This is my heart (Giu­ lia Amati e Stephen Natanson, 2010), ThyssenKrupp Blues (Pietro Balla e Monica Repetto, 2008), La minaccia (Silvia Luzi e Luca Bellino, 2008). O, ancora, nei lavori di alcuni giovani autori come Luca Vullo (Dallo zolfo al carbone, 2008), Christian Carmosino e Andrea Appetito (Dora d'a­ more, 2008), Marcello Sannino (Corde, 2009), Sergio Basso (Giallo a Milano, 2009), Claudio Giovannesi (Fratelli d'Italia, 2009), Matteo Russo (La sospensione, 2011), Alessandro Comodin (Destate di Giacomo, 2011), Duccio Chiarini (Hit the Road, nonna, 2011), Felice d’Agostino e Arturo Lavorato (In attesa dell'avvento, 2011)... Eppure, proprio per una sorta d’incapacità a raccontarsi, a esprimere pubblicamente il valore di esperienze originali, il documentario italiano è stato poco visto, recensito, conosciuto. In termini mediali, solo la let­ teratura e il teatro e, grazie alla divulgazione dei festival a lei dedicati, la filosofia, hanno evidenziato l’emergenza “realistica” nel dibattito este­ tico contemporaneo23. L’incapacità di uscire da circuiti a lui dedicati ha procurato al cinema del reale un mancato riconoscimento: che, para­ dossalmente, rischia di ricacciarlo nelle sacche, a bassà pulsazione sim­ bolica, della banale riproduzione del mondo. Non sono bastate film com­ mission illuminate - come l’Apulia Film Commission o il Piemonte Doc Film Fund - la nascita di associazioni regionali di documentaristi - come in Emila Romagna o in Toscana - il tentativo di creare reti distributive indipendenti - una, su tutte, Documé - una rinnovata attenzione critica - con alcuni siti, il gruppo de «Il Manifesto», il gruppo di «Hollywood Party» - importanti scelte festivaliere - Extra al Festival di Roma, Italia Doc a Torino, Orizzonti a Venezia, il Festival dei popoli di Firenze - o rinnovate politiche culturali da parte di istituzioni storiche, come il Luce. Un dibattito che avrebbe potuto vedere protagonista il miglior cinema documentario ha evidenziato, piuttosto, lo scarso peso degli autori e dei promotori del cinema del reale: la scarsa considerazione goduta all’in­ terno della cultura italiana, della stampa, delle riviste di teoria e critica 29

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delle arti, dei consessi in cui le prassi artistiche e sociali vengono diffuse e mediatizzate. Non solo dei film in sala, o in televisione, ma dell’intero movimento. A parte alcuni casi, molto diversi fra loro, che per il forte aggancio alla cronaca sono riusciti ad emergere e ad alzare l’asticella della visibilità: penso a film come Carlo Giuliani ragazzo (Francesca Comencini, 2002), Improvvisamente l’inverno scorso (Gustav Hofer e Luca Ragazzi, 2007), Biùtiful cauntri (Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambro­ sio, Giuseppe Ruggiero, 2007), Come un uomo sulla terra (Andrea Segre, Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene, 2008), Draquila. Lltalia che trema (Sabina Guzzanti, 2010), Polvere. Il grande processo dell’amianto (Nic­ colò Bruna e Andrea Prandstraller, 2011). Numerosi sono ormai i tentativi di raccontare il mondo partendo dal dato documentario. Una tradizione che, in qualche modo, si rifà al Neo­ realismo ma che, al tempo stesso, se ne distacca per l’assenza di un potente afflato etico o di una speranza unificante. L’elenco è lungo, ma anche scrittori come Eraldo Affinati (La città dei ragazzi) e Walter Siti ( Troppi paradisi), Niccolò Ammaniti (Come dio comanda) e Mario Desiati (Il paese delle spose infelici), Massimo Lolli (Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio) e Antonio Scurati (Il bambino che sognava la fine del mondo), Melania Mazzucco (Un giorno perfetto) e, naturalmente, Roberto Saviano (Gomorra) praticano, con toni e orizzonti diversi, un comune riattraversamento del paese dimenticato, una riscoperta civile dell’Italia sbandata o che resiste. Nessuna facile retorica, solo consape­ volezza che un paese “altro” si è fatto strada: e che alcuni, possibili, anti­ corpi, si sono recentemente sviluppati all’interno e all’incrocio delle arti. Un colpo di evidenziatore collettivo per raccontare un mutato paesaggio antropologico, attraverso immagini d’archivio e idiomi regionali, inglo­ bando l’italiano neotelevisivo e alcune patologie di alluvionati territori identitari. Le affinità “documentarie” sono forti, il crossover consentito: ognuno si sente ormai autorizzato a girare un documentario, ognuno si sente di potere scrivere un romanzo. Videocamere e videoscritture consentono progressivi appostamenti all’emergere di un desiderio espressivo che parte dal concreto, dal dato reale. Per questo, nel momento in cui il lin­ guaggio audiovisivo diviene così importante, e si affianca a quello ver­ bale sin dalla più tenera età, è fondamentale che l’educazione alle imma­ gini non sia lasciata in mano ai televenditori di professione. Una alfabe­ tizzazione necessaria: la capacità di leggere un testo filmico o televisivo, di smontarlo e di rimontarlo, di comprenderne il mutare del senso al variare del montaggio, dovrebbe essere insegnata sin dai primi anni di scuola. Per i ragazzi non si tratta più solo di scrivere o far di conto: oggi godere di strumenti di base per affrontare un mondo dominato dalle 30

DI ALCUNE TENDENZE DEL DOCUMENTARIO ITALIANO NEL TERZO MILLENNIO

immagini dovrebbe essere un atto pedagogico “naturale”. Un atto che nel nostro paese diviene profondamente politico: e sottrarsi al “tele­ schiavismo” assurge a pratica rivoluzionaria non violenta, una linea difensiva che non è solo barricata tecnica o consapevolezza linguistica. Ma, soprattutto, atto estetico di civiltà e democrazia. 1 Carlo Lizzani, in Vittorio Giacci, Carlo Lizzani, Milano, Il Castoro, 2009, p. 21. 2 Guy Gauthier, Le Documentane, un autre cinéma, Paris, Nathan, 2002, p. 247. 3 Si veda anche il recente Focus Total Remix su «Alphabeta», n. 16, febbraio 2012, con interventi di Paolo Fabbri, Nicola Dusi, Paolo Peverini, Lucio Spaziante, Chuck Tryon. 4 Per Georges Didi Huberman il destino “è ciò che la storia genera al di là di se stessa, quello che la vincola a un passato di cui non ha più memoria e a un futuro che non conosce ancora”. Georges Didi-Huberman, Costruire la durata, in Federico Fer­ rari (a cura di), Del contemporaneo. Saggi su arte e tempo, Milano, Bruno Mondadori, 2007, p. 43. 5 Un’ora sola ti vorrei arriva alla distribuzione in sala solo nel 2005, dopo avere ottenuto riconoscimenti in vari festival, alcuni passaggi sui canali televisivi e nume­ rose proiezioni amplificate dal passa parola sul film. 6 Antonio Costa, Il sentimento della necessità. Alina Marazzi e Paolo Franchi, in Vito Zagarrio (a cura di), La meglio gioventù, Venezia, Marsilio, 2006, p. 210. 7 Alina Marazzi: Un’ora sola ti vorrei, a cura di Gianni Canova, in «Duel», nr. 99, 2002, p. 27. 8 Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per una estetica psicanalitica, Milano, Bruno Mondadori, 2007, P. 216. 9 Cristina Piccino, in 11 miraggio del reale (a cura di Marco Bertozzi), Quaderni di Studio del CSCI, Barcellona, 2008. 10 Dati riportati nel sito “Cinemaitaliano.info”. 11 Jean-Louis Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Roma, Donzelli, 2006, pp. 99-100. 12 Alberto Grifi, Videomateriali di Alberto Grifi, in «Altrocinema», n. 12-13, giu­ gno - settembre 1977, p. 10. 13 Cinema naturale è proprio il titolo di un libro di Gianni Celati, Milano, Feltri­ nelli, 2001. 14 Ad esempio, Famille è un lucido divertissement autobiografico, frutto di un cinema fortemente costruito. Ricorda l’autore: «Fantasia, intraprendenza e sprezzo del pericolo non sono mai mancati nella mia famiglia. Lo attestano i racconti, per metà inventati, che costituiscono l’epopea familiare... Con questo documentario ho chiesto alla mia famiglia di ripercorrerli insieme a me, come in un rito magico che sappia ancorarci alla realtà, dando inizio a un nuovo racconto», Francois Farellacci, dal pressbook del film. 15 Davide Ferrano, 1 documentari devono avere una faccia, in Tullio Masoni e Paolo Vecchi (a cura di), Cinenotizie in poesia e prosa. Zavattini e la non-fiction, Torino, Lindau, 2000, p. 97. 16 Se lo chiedeva Luciano Barisone introducendo un numero di “Duellanti.doc”, in cui nove documentaristi rispondevano a una serie di quesiti sul tema. Luciano Bari-

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MARCO BERTOZZI

sone, Bruno Bigoni, Serena Checcucci, Silvia Taborelli e Giulia Conte (a cura di), L'intervista. 5 domande a 9 documentaristi italiani, in «Duellanti», n. 23, febbraio 2006, pp. 52-63. 17 Come nel recente Antonio + Silvana = 2 (Vanni Gandolfo, Simone Aleandri, Luca Onorati, 2011). 18 In questo senso ricordo il lavoro di Mario Balsamo, Sognavo le nuvole colorate, presentato al Festival di Locamo nel 2008. Si veda Cecilia Pennacini, Filmare le cul­ ture, Un'introduzione all'antropologia visiva, Roma, Carocci, 2005, p.143. 19 David Shields, Fame di realtà, Roma, Fazi, 2010, pp. 9-10. 20 Pier Luigi Basso, Il trattamento della realtà. Frontiere teoriche ed estetiche del cinema documentario, in Id. (a cura di), Vedere giusto. Del cinema senza luoghi comuni, Rimini, Guaraldi, 2003, p. 112. 21 Rimando ad alcune considerazioni emergenti dai miei testi : L'idea documen­ taria. Altri sguardi dal cinema italiano (a cura di, con la collaborazione di Gianfranco Pannone), Lindau, Torino, 2003 e Storia del documentario italiano. Immagini e cul­ ture dell'altro cinema, Marsilio, Venezia, 2008. 22 Vladimir Nabokov, Intransigenze, Milano, Adelphi, 1994, p. 27. 23 Una tradizione che, in qualche modo, si rifa al Neorealismo ma che, al tempo stesso, se ne distacca per l’assenza di un potente afflato etico o di una speranza uni­ ficante. Rimando a Vittorio Spinazzola (a cura di) Tirature '10. Il New Italian Rea­ lism, Milano, Il Saggiatore e Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2010.

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ADRIANO APRÀ

IL DOCUMENTARIO ITALIANO “CLASSICO”

Le varie leggi sul cortometraggio che si sono succedute dal dopo­ guerra agli anni sessanta hanno comportato, grazie ai vari tipi di aiuti governativi, una proliferazione insensata della produzione (circa 14.000 titoli fino agli anni novanta!). I vantaggi economici che derivano ai pro­ duttori - Edelweiss, Documento, Incom, Astra, Universalia, Lux, la Sedi di Enzo Nasso, la Nexus di Giorgio Patata, la Corona di Ezio Gagliardo, ecc.) - li spingono a risparmiare sui costi, compresi quelli di distribu­ zione (infatti la cosiddetta programmazione obbligatoria in accoppiata con lungometraggi è spesso tale solo sulla carta). Di conseguenza i cor­ tometraggi non sono quasi mai di finzione, raramente superano la durata di 11’ (contenibili in un unico rullo di pellicola), sono più spesso girati a Roma e dintorni, comportano la presenza quasi obbligatoria di una voce fuori campo (in assenza spesso di suoni non dico diretti ma almeno di ambiente) e di un commento musicale banale. Grazie però a una per­ centuale supplementare sugli incassi (di solito il 3% sull’introito lordo dello spettacolo) per cortometraggi “di eccezionale valore tecnico e cul­ turale” si incontrano, prima e più spesso che nel lungometraggio, opere a colori e in scope (un modo per sperimentare le nuove tecnologie prima di utilizzarle in un ambito industriale più impegnativo). In sostanza, la massima parte della produzione corta italiana è di una banalità sconcer­ tante. Poiché però non esiste né una catalogazione di tutti i cortometraggi prodotti né qualcuno che li abbia visti non dico tutti ma almeno una per­ centuale alta, sarà prudente non essere troppo drastici nei giudizi. Resta il fatto che anche qualcuno come me che ne ha visti molti non può fare a meno di affermare che la qualità delle opere è una eccezione. 33

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Non tornerò, per questo breve excursus su “ciò che resta” del periodo fra gli anni cinquanta e settanta, sulle opere di Luciano Emmer, Miche­ langelo Antonioni, Valerio Zurlini e qualche altro, che certamente nei primi anni del dopoguerra si distinguono dalla media. Né vorrei limi­ tarmi al cortometraggio documentario, perché anzi il primo fenomeno da registrare è la presenza, negli anni cinquanta e sessanta in particolare, di lungometraggi documentari. Il lungometraggio documentario Ilfilm di viaggio, etnologico ed esotico. Il primo film del genere è una coproduzione LUCE, Una lettera dall’Africa ( 1951 ) di Leonardi Bonzi, che però ha scarso successo, al contrario di Magia verde (1952) di Gian Gaspare Napolitano, sull’America centrale, che lancia un genere assai popolare negli anni cinquanta. Seguono, fra i titoli di maggior rilievo: Sesto continente (1953) di Folco Quilici, sugli oceani, un sottogenere di cui diventa uno specialista, sia in campo documentario (Oceano, 1971) che di finzione; Èva nera (1954) di Giuliano Tornei, una sorta di filminchiesta sulla donna africana a metà strada fra documentario e finzione che non incontra il favore del pubblico; India favolosa (1954) di Giulio Macchi; Continente perduto (1955) sulla Cina e l’Indonesia e Limpero del sole (1955) sul Perù, a cui collaborano a vario titolo Mario Craveri, Enrico Gras, Giorgio Moser e Leonardo Bonzi; Paradiso terrestre (1956) di Luciano Emmer, sulle popolazioni primitive; India Matri Bhumi (1957-59) di Roberto Rossellini, film in 4 episodi tra finzione e docu­ mentario, realizzato parallelamente alla serie televisiva in 10 episodi fai fait un beau voyage/ÈIndia vista da Rossellini, che si distacca dal genere per porsi piuttosto come una riflessione saggistico-filosofica sulla civiltà indiana; La muraglia cinese (1958) di Carlo Lizzani; Mondo cane (1962) di Gualtiero Jacopetti, che con questo e altri film introduce nel genere un sadismo scandalistico e una manipolazione della realtà di marca rea­ zionaria che fanno sensazione. Il documentario erotico. Nel clima più permissivo degli anni sessanta esplode il fenomeno di film che, pur partendo da una premessa documen­ taristica, finiscono per servirsene come pretesto per mostrare un’antologia di nudi o di scene piccanti. Inaugura involontariamente il genere Europa di notte (1959) di Alessandro Blasetti, film di enorme successo sui night-club più famosi del vecchio continente cui fa seguito, già misto a elementi di fin­ zione, Ioamo, tuami... (1961). Jacopetti, che ha a suo modo ravvivato il tra­ dizionale commento dei cinegiornali con “Europa Ciak” e poi con “Ieri, oggi e domani” a metà degli anni *50, è coautore di quello di Europa di notte. Con il suo La donna nel mondo (1963) la ricerca del sensazionale annulla ogni possibile distinzione tra film esotico e film erotico. 34

IL DOCUMENTARIO ITALIANO “CLASSICO”

Ilfilm di montaggio, cioè il film a base di materiale di repertorio. Dopo qualche esperimento negli anni ‘50, il film di montaggio assume negli anni sessanta una nuova coscienza politica, a cominciare All’armi siam fascisti (1961) di Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, con testo di Franco Fortini, ottima ricostruzione critica del fascismo, che giunge fino ai giorni nostri. In La rabbia (1962) gli anni recenti vengono rivisitati in due episodi “da sinistra” (Pier Paolo Pasolini) e “da destra” (Giovanni Guareschi), con splendidi risultati nel primo caso. Gott mit Uns (1963) del critico Fernaldo Di Giammatteo è un attento riesame del nazismo. Qa ira, il fiume della rivolta (1964) di Tinto Brass ricostruisce con disinvoltura le varie rivoluzioni del secolo. Nel quinto episodio de Letà del ferro (1965) Rossellini cataloga le più curiose invenzioni che hanno caratterizzato il progresso industriale, analogamente a quanto farà nell’undicesimo e dodicesimo episodio de La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (1969). Sul fascismo torna Fascista (1974) di Nico Naldini e sulla Resistenza il notevole Lotta partigiana (1975) di Paolo Gobetti e Giuseppe Risso. Bianco e nero ( 1975) di Paolo Pietrangeli analizza il neo­ fascismo con interviste miste a repertorio e Forza Italia! (1977) di Roberto Faenza irride un po’ goliardicamente il potere democristiano. Terminato nel 1973 ma edito solo nel 1978 è l’ottimo Homo sapiens di Fiorella Mariani. Ilfilm-inchiesta. Sono pochi ma significativi i lavori che si possono far rientrare sotto questa etichetta: I nuovi angeli (1961) di Ugo Gregoretti; Le italiane e l’amore (1961) supervisionato da Cesare Zavattini, con epi­ sodi, spesso di finzione, di Nelo Risi, Lorenza Mazzetti, Piero Nelli, Fran­ cesco Maselli, Giulio Questi, Gian Franco Mingozzi, Marco Ferreri, Flo­ restano Vancini, Carlo Musso, Giulio Macchi, Gian Vittorio Baldi, e I misteri di Roma (1962-63), sempre supervisionato da, Zavattini, repor­ tage a più mani sugli aspetti meno noti della capitale; I ragazzi che si amano (1962) di Alberto Caldana, interessante esperimento di cinemaverità; In Italia si chiama amore (1963) di Virgilio Sabel; I piaceri proibiti (1963) di Raffaele Andreassi, esempio di cinema-verità “ricostruito” con personaggi reali e suono in presa diretta in sette episodi dove situazioni scabrose vengono trattate con stile minimalista e pudico; Comizi d’amore (1964) di Pier Paolo Pasolini. In questi film si incrociano le teorie neo­ realistiche di Zavattini, l’influenza della televisione che da qualche anno si è aperta al documentario, l’eco del cinema-verità e del suo uso di attrez­ zature leggere per le riprese, nonché la voga del documentario erotico affrontato però con propositi non commerciali. A sua volta la televisione produce Viaggio nel sud (10 puntate, 1958) e Storia della bomba atomica (6 puntate, 1962) di Sabel; Caccia al quadro (1959), Sicilia del “Gatto­ pardo” e la rubrica “Controfagotto” (1961) di Gregoretti; Viaggio della 35

ADRIANO APRÀ

valle del Po alla ricerca dei cibi genuini ( 12 puntate, 1957-58) e Chi legge? Viaggio lungo le rive del Tirreno (7 puntate, 1959-60) di Mario Soldati, che si distinguono per il taglio particolarmente moderno; La donna che lavora (8 puntate, 1959) e Viaggio nell’Italia che cambia (1963) di Ugo Zatterin; LItalia non è un paese povero (3 puntate, 1961) di Joris Ivens, sulle attività dell’ENI; La lunga strada del ritorno (3 puntate, 1962) di Blasetti, testimonianze di reduci della Seconda guerra mondiale; Noi e l’au­ tomobile (5 puntate, 1962) di Emmer; La casa in Italia (4 puntate, 3 delle quali censurate dalla RAI, 1964) di Liliana Cavani; La via del petrolio (3 puntate, 1966) di Bernardo Bertolucci; I bambini e noi (6 puntate, 1970, riedito nel 1977 in 4 puntate con nuove interviste agli ex bambini) e La­ more in Italia (5 puntate, 1978) di Luigi Comencini; Chung Kuo. Cina (3 puntate, 1972) di Antonioni, sgradito alle autorità cinesi dell’epoca. A parte potremmo considerare Specchio segreto (8 puntate, 1964) e Viaggio in seconda classe (10 puntate, 1977) di Nanni Loy; Diario di un maestro (5 puntate, 1972) di Vittorio De Seta; Anna (1972-75, non pro­ dotto per la RAl) di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli; Nessuno o tutti/Mattida slegare (2 puntate, 1975, non prodotto per la RAl) e La mac­ china cinema (5 puntate, 1978) di Silvano Agosti, Marco Bellocchio, San­ dro Petraglia e Stefano Rulli. Nel caso di Loy si tratta di un documenta­ rio parzialmente “falso” perché le interviste vengono realizzate con una macchina da presa nascosta a inconsapevoli partecipanti fatti parlare da intervistatori agguerriti: una sorta di stravolgimento delle teorie zavattiniane; De Seta imposta una classe di veri ragazzi disadattati della perife­ ria romana condotta però da un maestro-attore, Bruno Cirino, e ripresa con attrezzatura leggera e suono in presa diretta di eccezionale qualità (cosa che non si può dire per il suono di altri film dell’epoca): la forza di questa finzione-verità è ancora oggi incomparabile; Grifi e Sarchielli spe­ rimentano da pionieri il video (poi trasferito in 16mm) per documentare la vita quotidiana di una emarginata romana, con risultati che segnano nello stesso tempo l’inizio e la fine delle utopie del cinema-verità; Bel­ locchio e compagni, con un’attrezzatura tecnica ancora rudimentale, indagano esperienze-limite con esiti emotivamente e politicamente note­ voli.

Il cortometraggio documentario Il primo nome che mi viene in mente è quello, a lungo sottovalutato, di Raffaele Andreassi. La maggior parte dei cortometraggi che ho visto (alcuni di finzione) è priva di voce fiiori campo, c’è un uso elaborato del suono d’ambiente o diretto e la musica è assente o impiegata con molta discrezione; il punto di partenza documentario è annullato o trasceso da una tensione lirica affidata a immagini e suoni laconici, quasi astratti; 36

IL DOCUMENTARIO ITALIANO “CLASSICO”

Andreassi lavora più sui vuoti che sui pieni; nulla è dichiarato, tutto è suggerito in cortometraggi esemplari per rigore stilistico come Agnese (1959), La città calda (1959), Bambini (1960), Amore (1963), Gli animali (1965), Idorizzonte (1968). Esemplari sono anche i suoi film sull’arte, fra i quali si distinguono quelli sul pittore naif della bassa padana Antonio Ligabue, e in particolare Antonio Ligabue pittore (1965). Nel 1999 Andreassi realizza un bellissimo lungometraggio, I lupi dentro, che è una sintesi delle sue ricerche. Vittorio De Seta e Ermanno Olmi girano, quando la battaglia e la pra­ tica neorealistica sono già in fase declinante, documentari che affrontano in maniera diretta la realtà. La loro attività è per certi versi complemen­ tare. De Seta realizza al sud dieci documentari che registrano un mondo in via di estinzione. Olmi realizza al nord documentari che accompa­ gnano un mondo in via di trasformazione. La scelta di De Seta è radi­ cale: assenza di commento e di musica, suono diretto, riprese che nascono da una ricognizione spesso anche fisicamente faticosa sui luo­ ghi della Sicilia, della Sardegna e della Calabria che vuole documentare, con accensioni sacrali ed epiche (Lu tempu di li pisci spata, 1954, Conta­ dini del mare, Isole di fuoco, Surfarara, Pescherecci, tutti del 1955). Olmi filma un mondo che conosce, quello degli operai che lavorano alla costru­ zione di ciò che sarà l’Italia del boom economico, con una sostanziale fiducia nel progresso tecnologico, dove affiora però anche un’attenzione alle radici antiche, contadine, che stanno dietro agli operai delle dighe o delle centrali elettriche (Manon finestra 2, 1956, Costruzioni meccaniche Riva, 1956, Tre fili fino a Milano, 1958, Un metro lungo cinque, 1961). Le sue ricerche confluiranno nel lungometraggio in presa sonora diretta Il tempo si è fermato (1959) e proseguiranno nel campo della finzione non senza ritorni al documentario (Artigiani veneti, 1986, Lungo ilfiume, 1992). Il documentario italiano, si è detto, soffre della assenza di suono diretto, con le eccezioni già ricordate. Chi affronta con coscienza le nuove tecnologie elaborate in Francia e altrove dal cinema-verità e dal direct cinema (macchine da presa e registratori del suono) è Gian Vittorio Baldi, che realizza alcuni documentari (Ilpianto delle zitelle, 1958, La casa delle vedove, 1960, Luciano, via dei Cappellari, 1960) prima di passare al lun­ gometraggio (Fuoco!, 1968, ZEN-Zona Espansione Nord, 1988), dove confluiranno e si perfezioneranno, in un misto di finzione e documenta­ rio, le sue ricerche. A sua volta Gianfranco Mingozzi, che si era distinto per alcuni cortometraggi (La taranta, 1962, Li mali mistieri, 1963, Con il cuore fermo, Sicilia, 1965), trova in Baldi il produttore che gli consente di affrontare anche lui le nuove tecnologie in Note su una minoranza (1964) e II sole che muore (1964). Anche Gianni Amico è cosciente del­ 37

ADRIANO APRÀ

l’importanza del suono in presa diretta in Appunti per un film sul jazz (1965) e II cinema della realtà (1965, prodotto da Baldi), e quindi nel lun­ gometraggio semidocumentaristico Tropici (1968), girato in Brasile. Luigi Di Gianni si specializza in film a carattere etnografico sull’Ita­ lia meridionale, documentando in particolare i riti magico-religiosi che ancora sopravvivono nelle campagne. Senza pregiudizi e con la passione di un testimone coinvolto, si preoccupa di registrare - spesso con suono diretto - una realtà in via di estinzione (Magia lucana, 1958, Pericolo a Valsinni, 1959, Frana in Lucania, 1959, Grazia e numeri, 1962, Il male di San Donato, 1965, Viaggio in Lucania, 1965, Il culto delle pietre, 1967, La possessione, 1971, Lattaccatura, 1971).

Bilancio L’esperienza del “documentarismo di stato”, come potremmo defi­ nire la maggior parte di ciò che è stato prodotto fra gli anni cinquanta e gli anni settanta, ha oggi il sapore di qualcosa lontano nel tempo. Il docu­ mentarismo attuale sembra aver prodotto una cesura con quella espe­ rienza. Analogamente a quanto è avvenuto nel campo della finzione, a partire dagli anni novanta è come se si fosse ripartiti da zero, senza più legami col passato, in una condizione di “orfani”. Forse solo i nomi di De Seta e di Pasolini possono ancora essere ricordati come “antenati” per ciò che si fa oggi, lontani dall’idea di “documentare”, più vicini a un’idea di cinema di nonfiction di tipo saggistico o autobiografico.

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DIECI ANNI IN ITALIA: NOTE SU DOCUMENTARIO, MERCATO, ISTITUZIONI E TECNOLOGIE

L’apertura del decennio è drammatica: il 2001, con la rapida suc­ cessione delle tragedie del G8 genovese e dell’11 settembre, scuote in profondità il sistema della comunicazione. Ma se l’attentato alle Torri gemelle in diretta tv viene immediatamente ricondotto alla sfera del­ l’esperienza mediata, oggetto di analisi mediologiche più che motore di un’effettiva presa di coscienza, lo smascheramento del volto autori­ tario delle istituzioni ad opera di una anonima moltitudine di mediattivisti è momento fondativo di un movimento di nuovi documentaristi che, sia pure con molti limiti e alcune ambiguità, non tarderà a espri­ mere la sua voce. A confronto con le omissioni delle reti televisive (cla­ morosa quella della Rai che censura addirittura Bella ciao di Marco Giusti, Roberto Torelli e Carlo Freccero, 2001, che pure ha prodotto), il popolo delle videocamerine insegue tutte le storie che gli capitano di fronte, con una molteplicità di punti di vista che è di per sé alternativa. Come scrive Marco Bertozzi, «le microstorie possono finalmente cir­ colare, il Grande Fratello incrinarsi di fronte alla moltiplicazione degli sguardi, la storia divenire un momento pubblico»1. Il documentario ottiene su un piano politico-civile la considerazione che, almeno in Ita­ lia, gli era sempre mancata su quello cinematografico. Il brusco risve­ glio da una situazione dove sembrava che si potesse attingere alla verità solo sottoponendo il falso a un processo quintessenziale si traduce in una domanda documentaria forte che, seppure parzialmente disattesa, ha prodotto e ancora produce degli effetti. Anche per questo, più degli esiti compiuti (l’unico film di valore resta Carlo Giuliano, ragazzo di Francesca Comencini, 2002, anche se 39

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occorre segnalare almeno Le strade di Genova, 2002, umile e utilissima ricostruzione a opera di Davide Ferrano, Ilaria Fraioli, Giorgio Grosso e Jimmy Renzi) è importante la ricaduta del movimento genovese sulle prassi documentarie e sulle aspettative spettatoriali diffuse nel paese. L’idea che ci sia una realtà in movimento da raccontare si traduce in un diffuso attivismo, vitale anche se spesso scomposto. Centinaia di gio­ vani scoprono la vocazione documentaristica e scendono nelle strade alla ricerca di una storia autentica e possibilmente appassionante. I risultati, almeno in prima battuta, non sono buoni: privo di modelli solidi e di cultura cinematografica specifica (i riferimenti condivisi sono giornalistici: «Report», il settimanale «Internazionale», oltre al magma del web), il “movimento” subisce la dittatura del referente e sforna lavori che anche quando escono dall’ambito militante e trattano di nuovi migranti o di vecchi operai risultano regolarmente al traino del­ l’agenda politico-giornalistica del paese, oltre che generalmente carenti di qualità cinematografiche. Ma l’importante è che alcune fondamentali domande inizino a circo­ lare: come porsi di fronte alla realtà? Come coglierla nel suo farsi? Come raccontare il cambiamento? Partecipare o testimoniare? Si tratta evi­ dentemente di questioni a suo tempo affrontate dai teorici del cinema diretto ma che nel contesto italiano, carente di riferimenti culturali e penalizzato da sponde istituzionali - università, editoria, critica - deboli e disorganizzate, avevano scarso corso. Negli anni successivi, all’interno del grande movimento di aggiornamento e divulgazione che si è svilup­ pato, un ruolo di primaria importanza ha proprio la riscoperta delle forme e delle riflessioni sul cinema diretto. Ignorato all’epoca del suo ful­ gore storico e snobbato poi a favore di forme più “moderne” e ibride (di volta in volta cinema militante, docu-fiction, videoteppismo, nonfiction, infine documentario di creazione), il diretto recupera posizioni soprat­ tutto grazie alla mediazione di documentaristi didatti come Leonardo Di Costanzo, Daniele Incalcaterra e Alessandro Rossetto, che introducono anche da noi i modelli e le pratiche della scuola documentaristica fran­ cese la quale, neppure negli anni del documentario di creazione trion­ fante, ha mai reciso i legami con il diretto2. A partire da tali sintetiche premesse, questo testo traccerà alcune delle linee di sviluppo - istituzionali, organizzative, tecnologiche e di riflesso estetiche - che hanno caratterizzato l’ultimo decennio, cercando di indi­ viduare le tendenze di maggior respiro, anche in relazione al quadro intemazionale, e infine ragionando su alcuni dei lavori più significativi degli ultimi anni.

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DIECI ANNI IN ITALIA

Il mercato o quello che ne resta Il decennio 2000 segna il ritiro quasi generalizzato delle televisioni dalla produzione documentaria. Nel 2002 Murdoch compra Tele+ e interrompe immediatamente la politica di preacquisti che la rete aveva perseguito con coerenza dal 1997. Al documentario italiano viene a man­ care quella sponda “industriale”, caratterizzata dall’indispensabile con­ tinuità e da un progetto editoriale preciso (in sintesi, l’importazione del documentario di creazione alla francese, sul modello Arte), che gli aveva permesso di fare un piccolo salto in avanti e di conquistare, anche tra­ mite coproduzioni e accordi, una timida visibilità internazionale3. Da una parte autori importanti come Gianfranco Pannone, autore di Latina/Littoria (2001), Alessandro Rossetto, Chiusura (2001) e Leonardo Di Costanzo, Prove di Stato (1999), si trovano improvvisamente privati della sponda nazionale, indispensabile per costruire coproduzioni inter­ nazionali di un certo livello, dall’altra si interrompe quella politica di pro­ mozione del nuovo che negli anni precedenti aveva portato ad esordire filmmaker come Alina Marazzi, Stefano Savona, Paolo Pisanelli e i Fluid Video Crew. Gli anni successivi sono segnati da incertezze e contraddizioni, dove la costante è il relativo disinteresse della Rai, il cui impegno nel docu­ mentario si limita oggi alla trasmissione Doc3 (ventotto documentari “di interesse sociale” mandati in onda nel biennio 2010/2011, pochi dei quali sostenuti anche produttivamente) e l’unica vera novità è l’impegno delle istituzioni pubbliche locali e centrali nel documentario. Capofila dei fondi locali istituiti negli ultimi anni4, quello che ha il progetto più organico ed esteso - per quanto legato al territorio di rife­ rimento5 - è il Piemonte Doc Film Fund istituito nel 2007 per sviluppare e razionalizzare gli interventi che la Regione Piemonte e la Film Com­ mission svolgevano singolarmente da alcuni anni. Con il finanziamento di 128 film per un ammontare oscillante da 5.000 a 43.000 euro nel trien­ nio 2007-20096 e il completamento di 56 film (mentre ce ne sono altri 53 in progress) nel biennio successivo, il fondo è l’articolazione documen­ taristica di quel “sistema Torino” che appare tuttora come l’unico polo produttivo moderno ed europeo realizzato negli ultimi anni. Il governo centrale risponde alle richieste dei documentaristi rap­ presentati dall’Associazione Doc/it e con la nuova Legge Cinema (D. Lgs 22 gennaio 2004 n. 28 e successive modif.) inserisce i documentari nel novero dei film finanziabili. Dal 2005 in poi il Mibac sostiene una qua­ rantina di lavori all’interno delle categorie dei Cortometraggi (40.000 euro ciascuno) e dei Lungometraggi (dai 200.000 euro di Fughe e approdi di Giovanna Taviani ai 640.000 euro di Civico zero di Citto Maselli). Importante dal punto di vista del principio - i documentari sono a tutti 41

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gli effetti dei film e come tali sostenuti - il finanziamento ministeriale ha un volume complessivo insufficiente a garantire una continuità produt­ tiva all’industria del documentario ma non si può negare che senza di esso alcuni film importanti come Le strade di Levi di Davide Ferrano (2006), Face Addict del ticinese Edo Bertoglio (2005), Il colore del vento di Bruno Bigoni (2011) e II sol dell'avvenire di Gianfranco Pannone (2008) non avrebbero altrimenti visto la luce, mentre è evidentemente complementare ad altre più sostanziose provviste il contributo conse­ gnato a Odessa di Leonardo Di Costanzo e Bruno Oliviero (2006), Giallo a Milano di Sergio Basso (2009), Per questi stretti morire di Sandri-Gaudino (2010), Gaza Hospital di Marco Pasquini (2009). L’intervento mini­ steriale, che prevede espressamente che una parte del finanziamento sia destinato alla distribuzione, il timido impegno dei documentari della divisione cinematografica della Rai (tra i film sostenuti, Odessa di Leo­ nardo Di Costanzo e Bruno Oliviero, I promessi sposi, Grandi speranze e Il castello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, nessuno dei quali però distribuito regolarmente in sala) e il successo di documentari come Bow­ ling for Columbine (2002) e Fahrenheit 9/11 (2004) di Michael Moore e Ètre et avoir (Essere e avere, 2002) di Nicolas Philibert hanno alimentato per alcuni anni l’illusione, corteggiata per un po’ addirittura dall’Associazione Doc/it, che la sala cinematografica potesse costituire un’alter­ nativa economica alla sempre più distratta televisione. Gli incassi raccolti dai tentativi più convinti (Biùtiful cauntri di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero e Vogliamo anche le rose di Alina Marazzi, distribuiti rispettivamente da Lumière e Mikado nello stesso 7 marzo 2007, La strada di Levi di Davide Ferrario, Un silenzio particolare di Ste­ fano Rulli, 2004) hanno però scoraggiato anche i più fiduciosi, tanto più che negli ultimi anni la riconversione digitale delle sale ha innescato un processo di ristrutturazione e di ulteriore concentrazione dell’esercizio destinato a ridurre gli spazi disponibili per i film indipendenti. Supplenze e omissioni A fronte del fallimento del mercato (cinematografico e televisivo) e delle incomplete contromisure istituzionali, accade però che il movi­ mento documentaristico italiano non abbia smesso di svilupparsi e di esprimere individualità di rilievo tra gli autori e i curatori7, di raccogliere prestigiosi premi internazionali ai festival8 e di essere oggetto di interesse delle riviste internazionali9. La contraddizione, evidente e non si sa fino a quando sostenibile, ha il suo fondamento nello sviluppo di una rete informale di festival, scuole, associazioni, fondi locali, premi, editoria specializzata e siti web che, ope­ rando al di fuori delle compatibilità del mercato, hanno svolto un’opera 42

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di supplenza e garantito la tenuta del sistema. In particolare sono i festi­ val che mantengono il collegamento tra i registi e un pubblico costantemente in crescita e assolvono quell’importante funzione di indirizzo che normalmente spetterebbe alla critica. L’aggiornamento e l’apertura inter­ nazionale di manifestazioni storiche come il Festival dei Popoli di Firenze e Filmmaker, la conversione al documentario di una manifestazione radi­ cata come Bellaria Anteprima, la troppo breve vita di Infinity ad Alba, lo spazio sempre più ampio riservato al documentario dai festival generalisti hanno contribuito a diffondere e a sprovincializzare la cultura documentaristica diffusa tra gli operatori e il pubblico, e le retrospettive dedicate a Nicolas Philibert ad Alba, a Chris Petit e ai nuovi filippini a Pesaro, a Johan van der Keuken, Frederick Wiseman, Errol Morris a Filmmaker, a D. A. Pennebaker e Peter Whitehead a Bellaria hanno semi­ nato vocazioni a vedere e a filmare di cui si è giovato l’intero movimento. Più articolato il ragionamento sull’editoria. Insieme alle monografie realizzate in corrispondenza delle retrospettive festivaliere, il decennio ha segnato un certo ritorno d’interesse per il documentario degli editori specializzati, che hanno tradotto testi fondamentali come quelli di Bill Nichols e Guy Gauthier10, hanno dato alle stampe l’indispensabile Sto­ ria del documentario italiano di Marco Bertozzi senza scordare la voce “Documentario” curata da Adriano Aprà per l’Enciclopedia Treccani. Sono però altri i testi cardine: il primo è Id idea documentaria curato dallo stesso Bertozzi con la collaborazione di Gianfranco Pannone11, col­ lezione ricchissima e un po’ magmatica di testimonianze, ragionamenti e ricognizioni storico-teoriche che, uscita nel 2003, si trasforma rapida­ mente in un riferimento capillarmente diffuso in tutta la comunità dei documentaristi. Fondamentale strumento di aggiornamento al momento della sua uscita, a distanza di quasi dieci anni il volume appare come una sorta di autocoscienza collettiva di un movimento che prendeva per la prima volta coerentemente la parola. Interessante tanto per le domande che solleva quanto per le risposte che cerca, sintomatica espressione di grandi individualità e di alcuni limiti teorici e culturali, il volume è pronto per essere storicizzato e messo a confronto con le corrispondenti realiz­ zazioni del periodo. Del tutto proiettato in avanti è l’altro libro fondamentale del decen­ nio, Vedere e potere di Jean-Louis Comolli, impegnativo nei riferimenti (molti dei quali sconosciuti in Italia) ed espressione di una riflessione teo­ rica ambiziosa che affronta tutto il cinema alla luce della pratica docu­ mentaria. La teoria di Comolli - che è studioso e cineasta - si radica nella minuta pratica filmica e da essa è nutrita in un cortocircuito fecondo che offre risposte nello stesso momento in cui rilancia le domande. Il suo ragionamento sull’autorappresentazione della realtà davanti alla mac­ 43

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china da presa, figlio delle riflessioni storiche del cinema diretto, è posto con una tale efficacia, unitaria nel fondamento dottrinale e allo stesso tempo plastica ed adattabile alle diverse contingenze pratiche della mes­ sinscena, da offrire strumenti solidi sia a chi viene dallo studio del cinema e dalla cinefilia che ai cultori della pratica. Attraverso Comolli, che tenne anche un interessante seminario a Bellaria nel 2007, si riduce almeno in parte il gap culturale che separa l’Italia dagli altri paesi e comincia a diffondersi l’idea che il documentario possa essere oggetto di analisi fil­ miche raffinate segnando la via di un possibile incontro con la critica, finora ampiamente mancato.

Vedere sempre di più: l’alta definizione di massa Relativamente indipendente dal mercato del documentario (ma piena espressione del mercato dell’elettronica di consumo), la variabile tecno­ logica ha un rilievo notevole ma sempre mediato sulle pratiche e ancor più sulle estetiche del documentario. Il vincolo di budget che affligge praticamente tutte le produzioni limita l’adozione di strumentazioni troppo costose e la necessità di leggerezza e praticità d’uso indirizza i rea­ lizzatori verso macchine da presa piccole e portatili. D’altra parte le comunicazioni via internet tagliano drasticamente i tempi di diffusione delle novità che ultimamente incalzano comunità virtuali di utenti sem­ pre più informati e tecnicamente agguerriti. Gli anni che vanno dal 2001 al 2010 segnano l’allargamento dell’uso del digitale e soprattutto la defi­ nitiva affermazione dell’alta definizione a basso costo. Nel 2003 viene raggiunto un accordo sul formato HDV che consente la realizzazione di camere HD da 2000 euro, l’anno successivo esce il sistema di registrazione P2, a tutt’oggi il più affidabile e professionale, rapidamente affermatosi come standard di riferimento nel documentario, e nel 2006 viene lan­ ciato il codec AVCHD, più efficiente nella compressione, adatto ai sup­ porti a scheda e ben supportato dai nuovi e potenti processori dei com­ puter da montaggio. Infine, tra il 2008 e il 2009, l’uscita sul mercato di due fotocamere Canon di prezzo contenuto e dalle spiccate qualità video (HD con codec H264, ma soprattutto ottiche intercambiabili e un sensore di ripresa di dimensioni pari a quelle del fotogramma 35mm che con­ sente sfuocati e profondità di campo dal sapore marcatamente cinema­ tografico) cambia le prospettive tecnico-realizzative di molti filmmaker indipendenti e con loro dei documentaristi meno conservatori. Da Monte Hellman (Road to Nowhere, 2010, in concorso a Venezia) a Ste­ fano Savona (Tahrir Liberation Square, 2011, proiettato in uno spettaco­ lare 2k al festival di Locarno) l’uso di macchine fotografiche usate come videocamere si diffonde rapidamente e altrettanto rapidamente, sugge­ rite da innumerevoli clip disseminate su YouTube da tecnici puntigliosi 44

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ed entusiasti evangelisti del nuovo verbo, si affermano consuetudini di ripresa e soluzioni tecniche a misura delle piccole Canon. Oggi la focheg­ giatura selettiva è diventata un must di qualsiasi saggio di scuola e la straordinaria pulizia delle ombre in condizioni di scarsa luminosità spinge i filmmaker a orientare la macchina da presa verso soggetti fino a poco tempo prima letteralmente invisibili. Se la dialettica tra qualità del mezzo e progetto creativo del regista resta tutto sommato all’interno del fisiologico processo di aggiustamento reciproco tra tecnica ed espres­ sione che il cinema conosce fin dalle origini, a colpire sono la velocità del fenomeno e le dimensioni che esso ha raggiunto. Oggi che l’alzata d’in­ gegno di un innovatore si può trasformare in consuetudine in un giro di web, è sempre più vero che la quantità fa la qualità. Ma l’aspetto ancora più interessante del passaggio lo si coglie nel­ l’interazione di queste tecnologia di ripresa con le proiezioni digitali in 2k diffuse ormai nelle principali sale cinematografiche del Paese - dove però i documentari non vengono proiettati quasi mai - e nei festival principali, specializzati o generalisti, dove invece i documentari si sono ritagliati da tempo uno spazio cospicuo. I proiettori ad alta definizione esaltano il “microcontrasto ” delle immagini digitali che, al di là dei valori effettivi di definizione, inferiori anche nei casi migliori a quelli della pellicola 35mm, appaiono più incise e ferme, quasi scolpite sullo schermo. L’effetto è una sorta di potenziamento della visione, di un iperrealismo che evidenzia i dettagli e svela le imperfezioni (della pelle e del make-up: si pensi soltanto a J. Edgar, 2011, di Clint Eastwood). Che da una parte aumenta il numero di informazioni potenzialmente disponibili e dall’altra introduce una certa ineliminabile quota di arti­ ficio nella rappresentazione. La progettazione dei sensori e del software di controllo di queste camere sembra ispirata a modelli altri rispetto a quelli che hanno sempre governato la riproduzione della pellicola. Se prima per riconoscere all’impronta una pellicola da un’altra non sem­ pre bastava l’occhio di un esperto direttore della fotografia, oggi quasi chiunque può individuare il tipico look della Canon 5D, un mix inconfondibile di iperdefinizione percepita, peculiare gamma croma­ tica e ridotta profondità di campo. E come se il digitale, colmato lo scarto qualitativo che lo separava dalla pellicola, avesse preso una strada propria lungo la quale i parametri tecnici della mimesi cinema­ tografica, codificati e continuamente modificati per tutto il secolo chi­ mico, sembrano essere ignorati. O meglio, sono pronti ad essere tran­ quillamente relativizzati come già accade nel campo della fotografia, dove il software Hipstamatic, applicando dei preset digitali, trasforma una qualsiasi foto dell’iPhone in un’immagine dal sapore vintage ispi­ rata alle caratteristiche di celebri pellicole del passato. 45

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Il passaggio è notevole, particolarmente visibile nel documentario che sul realismo di base del dispositivo cinematografico costruisce il suo patto con lo spettatore, ma in realtà esteso a tutta la rappresentazione cinematografica, che come dice Pietro Montani è chiamata in questa fase storica a “rinegoziare i rapporti tra l’elemento finzionale e quello testi­ moniale”12. Montani si riferisce principalmente alle immagini di film come The Lord of the Rings (Il signore degli anelli, 2001, di Peter Jack­ son) dove la matrice fotografica è sottoposta a rielaborazioni e vere e pro­ prie “creazioni”, ma il discorso vale allo stesso modo qui, dove l’inter­ vento di progettazione informatica è più limitato e sottile ma il suo uso più diffuso, generalizzato e nascosto. L’indicazione di Montani a favore di un cinema che riscopra l’elemento testimoniale attraverso «un ripen­ samento della tecnica in direzione di una dimensione etica che mi pia­ cerebbe contrapporre a quella poietica tipica dell’estetica moderna» sug­ gerisce la necessità di indagare i modi (e i modelli che gli informatici hanno in mente quando progettano il software di una videocamera) attra­ verso cui «i dispositivi tecnici sono in grado di raccogliere e mettere in forma la contingenza del mondo esterno». Se è vero che «ciò che conta davvero è la capacità del cinema, sia di finzione che non, di accogliere l’imprevedibile e di portarlo dentro la propria struttura formale, con­ servandone i tratti di imprevedibilità»13 non si può ignorare come que­ sta operazione avvenga, attraverso quali filtri e quali trasformazioni, esplicite o implicite, ottiche o digitali che siano. Cosa accade là fuori: il controllo e altre ossessioni in tre film esemplari Quello che fa Nikolaus Geyrhalter in Abendland (Austria, 2011), rie­ dizione high tech e politicamente corretta dei vecchi Mondo movies, è portare sullo schermo la “fortezza Europa” delle frontiere e di quei dispositivi di controllo, capillari e impersonali occhi meccanici nella notte, che vegliano silenziosi sulla nostra sicurezza. Nell’esemplare sequenza girata a Melilla, lungo il confine tra la Spagna e il Marocco, la macchina da presa osserva impassibile il funzionamento di videocamere di sorveglianza che operano in assenza o quasi di presenza umana. Mac­ chine che guardano altre macchine, un dispositivo filmico che si presenta allo spettatore come il raddoppiamento del dispositivo di controllo, dove la cattura della realtà equivale all’individuazione del clandestino che cerca di entrare. Il cineasta si sottomette alla messa in scena del controllo e la filma “come se fosse la relazione cinematografica stessa”. Jean-Louis Comolli osservava qualcosa di molto simile a proposito di riprendere il lavoro14 quando sottolineava come il cinema fosse (e continui a essere) «in primo luogo una macchina che eredita altre macchine, ossessionato e come affascinato da esse. Dialogo di macchine. Attrazione e seduzione 46

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che comportano un’accentuazione delle dimensioni plastiche e coreo­ grafiche nelle rappresentazioni del lavoro. Adorazione della superficie e del movimento come quintessenza dello spettacolo». Con l’avvento del­ l’alta definizione il cinema documentario subisce evidentemente il fascino dei sistemi di sorveglianza, con cui condivide la tecnologia digi­ tale e le qualità analitiche. Se adeguatamente messa in forma, la semi­ immobilità del controllo può trasformarsi in uno spettacolo, terribile e affascinante, pronto a restituire nella sua vitrea plasticità un’esperienza cinematografica potente e stordente, perfettamente integrata all’attuale panorama audiovisivo. I film-mondo, collezione spesso disinvolta di fatti diversi unificati dalla pretesa di esaurire un luogo, un tema, un universo, sono un campo privilegiato di questa tendenza. L’impassibilità e l’esibita oggettività dello sguardo trasformano in “naturale” ciò che in effetti è “culturale” (eco­ nomico e tecnologico, a volte organizzativo e sempre storico) e la reto­ rica argomentativa - spesso orientata a posizioni “apocalittiche” - si con­ solida in un’ideologia che non offre alternative al mondo come viene rap­ presentato. Nelle intenzioni di alcuni commissioning editors {Abendland è prodotto da ORF, ZDF e 3sat) è questo il cinema di non fiction che può ritrovare le platee (televisive, ma in certi paesi europei anche cinemato­ grafiche) di un decennio fa ed è per questo che il filone vive oggi un certo rigoglio non solo festivaliero. Ma non tutti i film-mondo sono uguali e non è difficile individuare alternative al modello egemone anche tra i film che assumono il set stan­ dard di regole del gioco (argomenti d’attualità, ampiezza della narra­ zione, alta qualità fotografica)15. Il russo Viktor Kossakovsky, per esem­ pio, con jVivan las Antipodas! (2011) realizza un film-mondo che, pur condividendo l’alta definizione e i caratteri esteriori del filone cui appartiene, si fa beffe delle pretese universalistiche che lo contraddi­ stinguono, individuando un principio d’ordine stravagante per quanto in sé rigorosissimo: il film racconta le relazioni che intercorrono tra una serie di coppie di luoghi collocati l’uno agli antipodi dell’altro, indivi­ duando somiglianze e affinità che appartengono all’universo della figu­ razione, dell’arte, dell’associazione mentale e che non vengono mai tranne che nelle sue interviste happening - assunte come scientifiche e “naturali”. In Alpi (2011) l’artista e filmmaker italo-tedesco Armin Linke affronta molti dei luoghi fisici e simbolici di Abendland, ma la sua capacità di smascherare la monumentalità del potere passa attra­ verso una serie di procedimenti - l’ironia, l’incorniciamento, il “passo indietro” metaforico ma a volte anche reale - che lasciano allo spetta­ tore lo spazio dell’interrogativo. II suo sguardo, sempre riconoscibile nella composizione del quadro e nella durata della singola ripresa (rea­ 47

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lizzate in pellicola superló), è schiettamente cinematografico, con una precisa consapevolezza del fuori campo e una moralità indiscutibile. Il confronto più interessante viene però dall’esame del documentario italiano più premiato dell’ultima stagione, Il castello di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (2011), girato anch’esso in HD. Nel primo episo­ dio del film lo spettatore si trova coinvolto in una triangolazione di sguardi simile a quella proposta da Geyrhalter: l’osservazione del lavoro delle guardie di frontiera dell’aeroporto di Malpensa, dopo l’esposizione di una serie di protocolli standard (la simulazione dell’attentato, la veri­ fica della freschezza delle derrate alimentari, le perquisizioni), approda all’individuazione - sugli schermi delle radiografie e poi negli interroga­ tori - di un corriere internazionale della droga. Se i nessi di causalità sug­ geriti dal montaggio tendono a giustificare la necessità del controllo, a differenziare il senso del lavoro di D’Anolfi e Parenti da quello di Geyrhalter è la qualità dello sguardo posato sugli uomini. L’impersona­ lità delle procedure - che, pur assistite dagli occhi meccanici, non pre­ scindono mai dall’intervento umano - viene contrapposta all’irriducibile individualità del caso singolo e l’intera messa in forma è sostenuta dalla polarità tra sfondo geometrico e primo piano irregolare e vivo del per­ sonaggio. Ed è a quest’ultimo che la macchina da presa offre tutta la sua attenzione. Consapevoli che “la messa in scena è un fatto condiviso, una relazione”16, i due cineasti accolgono - e regolano - l’autorappresentazione che l’uomo con l’intestino pieno di ovuli di cocaina organizza a beneficio degli agenti di frontiera, accettano di essere chiamati dallo stesso a garanti della correttezza delle procedure e si assumono i rischi che un simile coinvolgimento comporta. La scommessa è vinta. Piena­ mente inseriti nella tradizione del cinema diretto (il loro primo film, I promessi sposi, 2007, era una sorta di applicazione del dispositivo wisemaniano di Welfare (1975) e High School (1968) alla realtà dell’ammini­ strazione pubblica italiana) e abituati a valutare lo spessore e la qualità drammaturgica delle autorappresentazioni che si offrono alla macchina, D’Anolfi e Parenti attribuiscono il giusto peso alla tecnologia e alla sua messa in scena senza farsi risucchiare dal suo fascino. Usano l’HD per entrare in sintonia con l’ossessione del controllo che domina l’universo dell’aeroporto ma poi, mostrando chi sta davanti e dietro alle videoca­ mere di sorveglianza, mostrano l’umanissima, ambigua, vitalmente com­ promessa natura della loro attività. Nelle prassi filmiche la rinegoziazione del rapporto tra testimoniale e finzionale di cui parla Montani è questione di istinto e di lavoro, di con­ tingenze fortunate e di riflessioni a lungo termine. Pensare o essere pen­ sati dalla macchina, progettare o subire il dispositivo con cui si intende affrontare e trasformare la realtà non si presenta mai come un’alternativa 48

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netta e facilmente riconoscibile. Come ho cercato di mostrare in queste note è compito della teoria ma soprattutto del serrato confronto con i film individuare i modi e i tempi di questo relazione. Si tratta del campo spe­ cifico della critica che però in Italia, con pochissime eccezioni17, ignora tranquillamente il documentario. Ma questa è davvero un’altra storia. 1 Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano, Venezia, Marsilio, 2008, p. 290. 2 Si veda a titolo d’esempio lo speciale “Le cinéma direct, et après?”, in «Images documentaires» n. 21, Parigi 1995. 3 Fabrizio Grosoli, Docin tv. L'esperienza di Tele+, in Marco Bertozzi (a cura di), L'idea documentaria, Torino Lindau, 2003, p. 345. 4 L’ultimo in ordine di tempo è quello della Film Commission Valle d’Aosta, men­ tre nel 2008 ha avuto un’importanza notevole l’episodio isolato del Fondo cinema della Provincia di Milano. 5 Tra i cinquantadue film completati nel triennio 2007-2009,15 sono prodotti da società non piemontesi, ma di questi solo due sono privi di connessioni forti con il territorio o sono diretti da registi non piemontesi. Cfr. Relazione 2010. Elenchi, tabelle e foto in www.fctp.it/info_pdff.php?&lang=_it. 6 Cfr. Marco Bertozzi, A rapporto! Uno sguardo sul Piemonte Doc Film Fund in www.fctp.it/info_pdff.php?&lang=_it, Torino 2010. 7 Si pensi a Luciano Barisene, direttore dal 2011 di Visions du Réel di Nyon, uno dei più importanti festival europei di documentari. 8 Gli ultimi e più importanti sono il premio raccolto agli Hot Does di Toronto da II castello di D’Anolfi e Parenti e quello riportato a Cinéma du Réel di Parigi da Palazzo delle Aquile di Stefano Savona. 9 Cfr. Emiliano Morreale, Nouvelles images du cinéma italien, in «Cahiers du Cinéma» n. 662, dicembre 2010. 10 Bill Nichols, Introduzione al documentario, Milano II Castoro, 2006; Guy Gauthier, Storie e pratiche del documentario, Torino Lindau, 2009. 11 Marco Bertozzi con la collaborazione di Gianfranco Pannone (a cura di), L'i­ dea documentaria, Torino, Lindau 2003. 12 Mazzino Montinari, Il cinema al bivio. Intervista a Pietro Montani, in «Close­ up» n. 16, sett. 2004. 13 Ivi. 14 Jean-Louis Comolli, Corps mécaniques de plus en plus célestes, in «L’images documentaires» n. 24 1996 (trad. it. nel catalogo edito in occasione dell’edizione 1999 del Festival di Milano Filmmaker). 15 Al di fuori delle quali è da segnalare il lavoro di Anna Franceschini, che nel piano sequenza di 14 minuti che compone Nothing is [Is] More Mysterious. A Fact That Is Well Explained (2010) mette in scena il confronto tra due macchine del mil­ lennio scorso, una pianola meccanica conservata in un museo di Amsterdam e un’Arriflex 16mm muta. 16 Comolli, op. cit. 17 «Il Manifesto» e occasionalmente «L’Unità» tra i quotidiani, «Due!» e «Close­ up» tra le riviste.

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LE SIRENE DEL DOCUMENTARIO

Continuerò a passare per pazzo, ma mi rifiuto di sapere come finirà il mio film il giorno in cui comincio le riprese! (Roberto Rossellini)

In principio c’era il neorealismo, con Rossellini e Zavattini avanti a tutti, a fare da apripista ai giovani autori; poi Francesco Rosi e il suo cinema di impegno civile e Pasolini con il suo modo del tutto nuovo di guardare al mondo; e ancora, Lizzani, De Seta, Olmi, Mingozzi, Vancini, Emmer e il loro stare senza paure tra “finzione” e realtà; a seguire una schiera di (autentici?) documentaristi: Michele Gandin, Lino Del Fra, Cecilia Mangini, Luigi Di Gianni, Fernando Cerchio, Raffaele Andreassi, Franco Piavoli, Giuseppe Morandi..., molti di loro anche impegnati politicamente. Ma la politica frontale, quella militante, è arrivata con il ’68. E allora fuori altri nomi: dai già attivi Paolo Gobetti e Gian Vittorio Baldi alla coppia Gianikian/Ricci Lucchi, da Paolo Brunatto al quartetto Agosti/Bellocchio/Petraglia/Rulli, fino ad Antonello Branca e all’indi­ menticato Alberto Grifi. Poi, poco più in là, nei controversi Ottanta, Daniele Segre, Davide Ferrario, Guido Chiesa, nuovi apripista di una rinnovata scena documentaristica italiana. E bene ribadirlo, in Italia quello del documentario è un percorso anche ricco, ma accidentato e spesso contraddittorio, perché parlare di documentari da noi per decenni è significato rivolgersi a una specie di figlio di un dio minore. Documentario per i vecchi maestri del cinema significava letteralmente un trampolino di lancio sul cinema autentico, quello di finzione o, come si diceva un tempo, a soggetto. Ancora oggi 50

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ricordo Francesco Rosi arrabbiarsi perché (si era a metà degli anni novanta) mi ostinavo a fare documentari senza pensare a un “film vero”. In realtà, per chi come me appartiene alla generazione degli ormai quasi cinquantenni, le sirene del documentario hanno cominciato a can­ tare da oltreconfine, in particolare dalla Francia, dove, fin dal dopo­ guerra, alla pratica del “cinema del reale” si era affiancato un opportuno dibattito teorico. Sul fronte italiano, invece, la faccenda si fa un po’ più complicata. Di solito quando comincio le mie lezioni di cinema documentario, dico sem­ pre che, a fronte dell’assenza di una autentica generazione di documen­ taristi (mi riferisco sempre al dopoguerra), in Italia abbiamo avuto Ros­ sellini, Zavattini e Pasolini, insomma, grandi uomini di cinema che si sono sempre posti la questione del rapporto un po’ scivoloso tra cinema e realtà. Se è vero (come è vero) che non si può vivere senza Rossellini, è altrettanto vero che da noi non si può dissertare di documentari senza partire dall’episodio padano di Paisà (1946). E che dire, poi, de I misteri di Roma (1963) e di Comizi d’amore (1965)? Certo, non bastano questi due piccoli ma importanti documentari d’inchiesta a esaurire il discorso sul rapporto tra cinema e reale caro sia a Za che a PPP, ma quei film sono una dimostrazione che i due cineasti-intellettuali avevano ben chiaro cosa fosse significato l’irrompere del cinema diretto sulla scena internazionale a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. Tuttavia in Italia il documentario ha avuto ben poca fortuna lungo almeno quattro decenni, a partire dalla fine della guerra (ma prima, con il fascismo, non è che andasse meglio). O, per essere più precisi, ha visto un relativo successo nella misura in cui era un prodotto di propaganda politica del potere o il manifestarsi di una militanza politica d’opposi­ zione. Insomma, dentro e fuori “il sistema”, il documentario in Italia, fatte salve poche eccezioni, non ha vissuto di vita propria, ma è stato piut­ tosto uno strumento a disposizione di ideologie diverse (oltre che di discutibili piccoli affari, come per molti decenni è accaduto con i finan­ ziamenti pubblici ai cortometraggi). E oggi? Oggi le cose sono molto cambiate, anche se è fin troppo facile cantar vittoria. Esistono anzitutto due generazioni di registi-documen­ taristi, per così dire definitivamente “sciolti dal giuramento”, ovvero nella maggior parte svincolati dall’ideologia. Un bene o un male? Io sono tra quelli che pensano che, malgrado tutto, sia un bene. Semplicemente perché preferisco uno sguardo sulla realtà più orizzontale che verticale e, certo, le ideologie (tutte) non aiutano quello che molti di noi conti­ nuano a chiamare lo sguardo in ascolto; che, beninteso, non significa essere neutrali di fronte alla realtà, ma che piuttosto associo allo “sguardo umano” di cui scrive il teorico Bill Nichols, provando a porsi la questione 51

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dei modi diversi di avvicinarsi alla realtà: uno sguardo emotivo e parte­ cipato al mondo, prima di ogni cosa. La storia è cominciata agli inizi degli anni novanta. Eravamo ancora in pochi, ma in compenso sono stati lasciati ai posteri alcuni film docu­ mentari che hanno sancito la fine di una tradizione (o, ad essere più esatti, di una pigra consuetudine, provocata anche dall’assenza del suono in presa diretta), quella del prodotto quasi sempre commentato da una voice over, imponendo di fatto un idea documentaria che, in opposizione alla formula documentario = saggio, cinema di finzione = romanzo, si rivolge piuttosto al racconto o alla poesia del reale. Niente di nuovo, ora lo sappiamo, in Europa queste cose si facevano già da anni, ma c’è voluto, appunto, in particolare il confronto con la scena francese per capire cosa significhi realmente fare cinema documentario. Per alcuni dei miei colleghi la svolta è arrivata frequentando gli Ate­ liers Varan, il prestigioso centro di formazione voluto da Jean Rouch agli inizi degli anni ottanta per trasmettere ai più giovani una pratica rigo­ rosa del documentario; penso a Leonardo Di Costanzo e a Enrica Colusso e (anche se cresciuti in ambiti diversi, comunque a stretto con­ tatto con i cugini doltralpe e altri paesi europei) ad Alessandro Rossetto, a Gianfranco Rosi, a Daniele Incalcaterra (che al Varan oggi insegna, come del resto Di Costanzo stesso). Per altri è stata, invece, la scoperta di autori come Nicolas Philibert, Claire Simon o Robert Kramer (poco prima della sua morte prematura, guarda un po’, trasferitosi in Francia), cioè di filmmaker fuori dal coro televisivo, originali sia sul piano dei con­ tenuti sia sul piano linguistico, a determinare certe svolte professionali. Per esempio, mi è capitato di scoprire questi autori quando in Italia i loro film, vecchi e nuovi, erano solo circolati nei festival. Ricordo, però, nel 1993 una visione magica (forse anche per via del silenzio “imposto” dai sordomuti protagonisti del film) di Le pays des sourds (Nelpaese dei sordi, 1992) di Nicolas Philibert, uno dei primi documentari distribuiti nei cinema in Italia da quella Bim che più avanti avrebbe distribuito dello stesso autore Etre et avoir (Essere e avere, 2002). E poi, ancora più sor­ prendente, la visione dei primi corti di Vittorio De Seta, quelli da lui diretti e prodotti lungo gli anni cinquanta. Benché realizzati molto tempo prima, per me i suoi dieci documentari brevi furono una rivelazione! Il cinema irrompeva sulla realtà, a colori e persino nel formato panoramico, senza voce fuori campo e inoltre grazie a una visione pittorica che aveva pochi eguali in Europa; per giunta volgendo lo sguardo a un mondo con­ tadino e pastorale ben diverso da quello che era stato inculcato prima e dopo la guerra (fascista, cattolico, comunista), di fatto ridando dignità a uomini e donne di un mondo che andava pian piano scomparendo. Da noi, intanto, quando ancora i documentari erano una cosa per 52

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pochi, con i succitati, si affacciavano nomi come quelli di Giovanni Piperno, Salvo Cuccia, Alina Marazzi, Stefano Missio, Ilaria Freccia, Paolo Pisanelli... E ancora, si proponevano in modo nuovo, nomi già conosciuti nell’ambiente, come quelli di Antonietta De Lillo, Wilma Labate, Bruno Bigoni, Daniele Gaglianone..., la coppia Gaudino/Sandri... E non va certo dimenticata la lezione di Matteo Garrone, che nel 1996 con Terra di mezzo aveva già imposto il suo talento in bilico tra realtà e finzione. I festival, poi, si accorgevano finalmente dei documentari d’autore, che all’epoca, sempre influenzati dalla Francia, avevamo tutti imparato a chiamare documentaires de création, Non credo di essere stato l’unico ad aver subito il fascino di autori anche molto diversi, e non solo per età, come De Seta, Kramer, Philibert (ma ci sono stati anche Frederick Wise­ man e i fratelli Maysles). Però, ad essere sincero, io che mi sono laureato in Storia e Critica del cinema e poi diplomato in regia al CSC, raramente ho sentito i miei professori e maestri parlare di documentari e (ricordo volentieri le lezioni di Virgilio Tosi e di Luigi Di Gianni, però); e, dun­ que, i documentari me li sono andati a cercare da solo, tra Roma, Parigi, Torino e Firenze, buttandomi in un cinemino, immergendomi nei festi­ val, reperendo scalcagnati vhs, o leggendo sulle pagine culturali dei gior­ nali di piccole chicche offerte quasi in clandestinità. La verità, però, è che, quando tra il 1990 e il 1991, fresco di diploma in regia al CSC, ho girato e montato il mio Piccola America, avevo visto ben poco. Resta un fatto: negli anni novanta in Italia è partito un fenomeno del tutto nuovo, come se d’improvviso i giovani registi-documentaristi si fos­ sero accorti della realtà che li circondava, al contrario di un cinema che fin dagli anni ottanta, fatte poche eccezioni, si era chiuso in un intimi­ smo tutto due camere e cucina, come si diceva con malizia fino a pochi anni fa. Anche autori più attenti al cinema di finzione, a cavallo tra i novanta e il duemila, comprendevano la forza del documentario. Ancora qualche nome: Francesca Comencini, Marco S. Puccioni, Marco Turco, Daniele Vicari. E intanto si affacciavano altri documentaristi attenti al racconto del reale, qualcuno anche legato, come nel caso di Costanza Quatriglio e di Vincenzo Marra, al cinema di finzione: Marco Bertozzi, Agostino Ferrente, Marco Amenta, Piero Medioli, e, pochissimi anni dopo, i più giovani Fabrizio Lazzaretti, Alberto Vendemmiati, Emma Rossi Landi, Stefano Savona, Mariangela Barbanente, Alessandra Tan­ nilo, Chiara Malta, Pietro Marcello... Insomma, i racconti del reale si moltiplicavano, credo non senza preoccupazione da parte di certi pro­ duttori solitamente abituati a vedersela con cifre a più zeri, ma, più di recente, anche grazie all’attenzione da parte di taluni (uno per tutti, Gre­ gorio Paonessa) verso le proposte originali di un Michelangelo Fram53

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martino o di un Pippo Mezzapesa. Cos’è, dunque, che ha caratterizzato questi ultimi dieci anni, che hanno visto proporsi (più che imporsi) decine e decine di film docu­ mentari? Provo a fare un bilancio parziale e provocatorio (dunque, a maggior ragione del tutto discutibile), nella quasi certezza che mai come in questo frangente storico il potenziale della nostra produzione docu­ mentaristica creativa rischi di rimanere impigliato nelle maglie di un mer­ cato avaro e poco attento alle novità. Per non dire della mancanza di coraggio, ai limiti dell’autocensura, che troppo spesso ha influenzato per­ sino gli artisti più talentuosi e originali. Prima di tutto la parola documentario: chiusa, ambigua, per molti versi desueta. Se ne discute da anni e, da un po’ di tempo a questa parte, non sono pochi gli autori che rifiutano questo termine considerato ghet­ tizzante oltre che fuorviarne. Negli ultimi anni anche la critica più intel­ ligente si è mostrata abbastanza diffidente verso la difesa ad ogni costo della parola documentario, eccetto taluni ostinati, che insistono con il collocare il genere solo all’interno di una sfera contenutistica. Sì, la parola documentario sembra non basti più a definire un genere che sfugge da tutte le parti, in una società, poi, in cui realtà e finzione tendono sempre più a contaminarsi. Errol Morris, con i suoi film ad alto tasso di provocazione, è un documentarista? E da noi? Possiamo defi­ nire solo documentaristi un Gianfranco Rosi o un Pietro Marcello con i loro film profondamente personali? E, sul fronte opposto quello della televisione, che dire, poi, di docu-soap come Reparto maternità^ Evi­ dentemente la parola documentario è troppo angusta per definire un genere fatto di cose assai diverse tra loro, che non a caso spesso un po’ tutti chiamiamo piuttosto fumosamente “cinema del reale” o, rivolgen­ doci alla televisione, con un termine oggi di moda, faction. Insomma, in una società-spettacolo ormai in panne, tutto rischia di farsi opaco, angusto, opinabile. Il problema non riguarda solo l’Italia (in Francia qualche anno fa si è arrivati a battezzare il Fidmarseille, il Festi­ val del documentario di Marsiglia, con un controverso “Fiction du réel”, poi rimangiato), ma da noi è più grave, anche se si preferisce far finta di niente, spesso proprio per la mancanza di quelle basi teoriche di cui si diceva sopra. In risposta a questo pur comprensibile relativismo, rimango, però, tra quelli che pensano che sia comunque necessario conservare ancora la parola documentario per tutto quel cinema che interagisce con persone autentiche in luoghi autentici, malgrado l’imperversare dei reality. E insufficiente, lo so, ma nella società pastiche di oggi, questo assunto semplice semplice serve a mettere dei paletti, che non vanno certo intesi in senso corporativistico, bensì servono a difendere una questione etica 54

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con cui (fatti salvi i film dichiaratamente in prima persona) la cosiddetta non fiction (altra definizione discutibile ereditata dagli inglesi) deve fare i conti. Penso in particolare ai più giovani, spesso in balia di maree ano­ male di sicura attrazione, ma al tempo stesso confuse e velleitarie - va bene che la realtà è di per sé ambigua, ma qualcuno dovrà spiegarmi cosa si intenda veramente per docu-fiction, termine che va tanto di moda in televisione e di cui un po’ tutti si riempiono la bocca! O quanto meno vada a vedersi Close-up (1990) di Abbas Kiarostami! In Italia, lungo un decennio, si è discusso spesso di documentario e di tutte le sue forme possibili. Dunque, per qualche anno si è creato un circuito quasi virtuoso tra teoria e pratica, in cui autori di talento, qual­ che produttore lungimirante, critici cinematografici finalmente motivati (cito volentieri, tra i tanti, Cristina Piccino, Luca Mosso, Dario Zonta, Boris Sollazzo, Carlo Chatrian), per non dire dei festival (grazie in par­ ticolare a figure importanti come Luciano Barisone, Fabrizio Grosoli, Mario Sesti) e, non ultimo, di un’università che ha aperto le proprie porte a un genere di solito tenuto ai margini del dibattito cinematografico, hanno tutti in qualche modo dato il proprio contributo, creando di fatto quel “caso Italia” che oggi, credo, vede da noi, rispetto agli altri Paesi europei, il più alto numero di documentari realizzati per anno (e, predi­ ligendo la qualità, i nomi ancora da segnarsi non mancano, dal duo D’Agostino/Lavorato all’altra coppia D’Anolfi/Parenti, da Claudio Giovannesi a Pierpaolo Giarolo da Andrea Caccia ad Alberto Fasulo...; come non mancano i film documentari che si sono imposti all’estero, godendo anche di riconoscimenti festivalieri, come è stato nel 2011 a Cinéma du Réel). Parte di questa piccola rivoluzione quasi invisibile è profondamente legata al nostro controverso scenario politico. Quasi vent’anni di “berlusconismo” (ma Berlusconi non credo che sia l’unico responsabile, lui è solo la punta dell’iceberg) hanno confuso non poco le coscienze. Dov’è la finzione e dove è la realtà nella nostra fragile “democrazia mediatica”? Di derive etico-antropologiche se ne è parlato tanto, meno si è detto delle responsabilità del nostro cinema... Sì, perché il boom del documentario in Italia a mio giudizio è dovuto, oltre che all’attrazione per i bassi costi, specie tra i più giovani, proprio a un disperato bisogno di cercare nuove strade sia sul piano linguistico che su quello dei contenuti. In un Paese dove la parola autore provoca una sempre più malcelata diffidenza, negli ultimi anni sono stati spesso i documentaristi a cercare nuovi percorsi più originali e spiazzanti per raccontare lo stato delle cose (pensando ancora a due generazioni, da Mario Balsamo ad Andrea Segre, da Bruno Oliviero ad Andrea D’Am­ brosio, da Vittorio Moroni a Caterina Carone...); e con loro anche un 55

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buon numero di registi approdati al cinema di finzione, che evidente­ mente trovano nell’approccio documentaristico vie di fuga da un gene­ ralizzato conformismo politico-culturale. Insomma, si direbbe una bomba a orologeria. Che ha creato (crea) non pochi problemi a un assetto produttivo solitamente pigro e opportunista (con alcune realtà piccole ma significative, specie su scala europea, la Stefilm di Stefano Tealdi ed Elena Filippini, la Doclab di Marco Visalberghi, la Bibi Film di Raffaele Brunetti, pochi gli esempi virtuosi, anche se ormai ben lontani dalla pra­ tica del documentario, la Fandango, la Indigo... ), dove a far danni è stato prima d’ogni cosa il duopolio Rai-Mediaset, che, accettato un po’ da tutti, di fatto ha finito con l’impedire una libera e concreta circolazione delle idee (ecco spiegato il perché di un filone perlopiù intimista del nostro cinema, che ha accompagnato gran parte degli ultimi due decenni?) e, naturalmente, un uso troppo spesso clientelare e poco equo dei finan­ ziamenti pubblici. Per dirla tutta, sembra proprio che la responsabilità del disastro a cui sta andando incontro il comparto cinema (è di questi giorni la notizia di un notevole ridimensionamento dei biglietti venduti nelle sale cinematografiche), sia anche dovuta all’incapacità della poli­ tica (già, ma pure gli intellettuali dove sono!?) di adoperarsi per una riforma di tutto il settore dell’audiovisivo invocata da almeno trent’anni. Ecco spiegato perché oggi il documentario (o, piuttosto, un certo modo di fare documentari, che, ricordiamolo, persino su una realtà televisiva importante e ricca di canali come Sky non trova alcun spazio, forse pro­ prio perché, immerso nelle cose reali e dunque meno filtrato, sa essere più “scandaloso” del cinema di finzione) sembra portare aria nuova al cinema come alla società civile. Alcuni documentaristi, non a caso, a cominciare da Andrea Segre con il suo bell’esordio, Io sono lì (2011 ), hanno realizzato proprio quest’anno il primo film di finzione (penso a Di Costanzo e alla Marazzi). Senza dimenticare i percorsi inversi, come è ben chiaro nella scena tutta documentaristica della tammurriata nella nave di Nuovomondo (2006), l’opera più importante di Emanuele Crialese. Il documentario propone (e non impone) altri tempi, altre abitudini, un po’ come frequentare sentieri impervi e imprevedibili piuttosto che una tranquilla autostrada. E se la sempre sbandierata crisi, attraverso la pratica del documentario (beninteso anche nel cinema di finzione), diventasse un’opportunità, specie per i più giovani? Certo, incombe sempre il mito del basso costo, quel pauperismo “senza se e senza ma” che rischia di trasformare tutto il nostro cinema in un gioco da ricchi o per dilettanti. E non tramonta l’idea un po’ mal­ sana che tutti debbano fare documentari d’autore (qualcuno si occuperà finalmente di diffondere attraverso gli audiovisivi il nostro inestimabile patrimonio artistico!?). Tuttavia per il documentario questa crisi del set56

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tore sarà di sicuro meno pesante che per il cinema di finzione ed è pro­ babile che permetterà a parte degli autori giovani e meno giovani di andare avanti comunque. Sono troppo fiducioso? Il mio vuole esser solo un ottimismo della volontà, cinefilo e politico. Resta un fatto. Tornando a dieci anni fa, viene da pensare che se il mondo del documentario fosse stato meno autore­ ferenziale (tra diversi autori, giovani e meno giovani, serpeggia un rigo­ rismo che trovo persino stitico), meno ecumenico (c’è posto per tutti!) e meno prudente (“prima di lanciarmi ci penso tre volte”), oggi le cose andrebbero decisamente meglio. Come ho già avuto modo di scrivere, noi tutti (registi, produttori, i pochi distributori che resistono) non abbiamo saputo “fare sistema”, non siamo riusciti a trasformare il documentario in un genere realmente rico­ nosciuto nei “piani alti” come tra la gente. Ci saremmo dovuto occupare con maggior convinzione del bene di tutti, di questa società poco limpida e vorticosa in cui nuotiamo quasi indifferenti, magari rivolgendoci meno al passato e più al presente; e invece in troppi abbiamo pensato a campare, magari trincerandoci die­ tro l’annoso problema del “tengo famiglia”. E di coraggio? Ce ne è stato a sufficienza? Mi riferisco alle proposte, alle sfide. Certo, in questi anni abbiamo visto film documentari anche duri come Biùtiful cauri tri (2007), che ha persino anticipato un’opera importante come Gomorra (2008) di Matteo Garrone; e film documentari coraggiosi sul piano linguistico, come La bocca del lupo (2009), contemporanei a 11 divo (2008) di Paolo Sorrentino. Ma tutto ciò non è bastato a imporre una nouvelle vague degna di questo nome. Pur registrando la presenza di una generazione di trentenni molto promettente, ancora troppo pochi risultano i nomi e i film degni di rilievo e il conformismo generalizzato (non solo sul ver­ sante commerciale ma anche tra gli autori) certo frena qualsiasi legittima aspettativa. Tuttavia mi chiedo, cosa pretendiamo dai più giovani se in questo benedetto Paese, salvo qualche appuntamento di nicchia, non è data neanche la possibilità di conoscere i nomi importanti del docu­ mentario mondiale, da Avi Mograbi a Lech Kowalski, da Rithy Panh a Kim Longinotto? Certo, ad assisterli(ci) c’è anche la rete, ma non credo che aiuti molto un computer sintonizzato su youtube se a mancare sono figure di riferimento che si prendano la briga di consigliare, indirizzare, guidare. C’è, appunto, la questione aperta della scuola, che, tra l’altro, oltre che a formare registi, produttori e figure più tecniche, dovrebbe contri­ buire a creare un cittadino in grado di “leggere” realmente un film o un programma televisivo, a partire dalla scuola dell’obbligo. E, infine, non va dimenticato il servizio pubblico televisivo, dal quale avremmo potuto 57

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pretendere risposte chiare (a cominciare da una reale diversificazione dell’offerta di palinsesto), magari adottando forme più nette di protesta. Non ci resta ora che sperare in un canale satellitare tutto dedicato ai documentari d’autore, vedremo... Ahimè, senza una bella dose di intran­ sigenza oggi è ben più difficile rivendicare nuovi spazi e maggior consi­ derazione, qualcosa che, lo sappiamo bene, riguarda non solo il varie­ gato mondo dell’audiovisivo. Il problema è che ora ci sono ben altre urgenze nel Paese! Insomma, se occupassimo i piani alti del Ministero dei beni culturali o della Rai, difficilmente avremmo la comprensione degli italiani. Concludendo, sono ottimista ma non troppo. Perché questo pano­ rama politico-culturale poco incoraggiante mi fa temere che presto le sirene non saranno più quelle belle e suadenti, adagiate sugli scogli in mezzo al mare, che, sebbene pericolose (ma il pericolo non può far paura al documentarista), hanno la forza di svegliarci da antichi torpori; ma, piuttosto, quelle gracchiami delle fabbriche, in cui, operai dell’audiovi­ sivo (senza dimenticare che ci sono anche i disoccupati, naturalmente!), un giorno saremo tutti costretti a timbrare un cartellino. Dedicato a Corso Salani

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LE RELAZIONI PERICOLOSE PRATICHE ED ESTETICHE DEL DOCUMENTARIO NEL CINEMA DI FINZIONE

Cartografia provvisoria Uno spirito documentario si aggira nel cinema italiano contempora­ neo, proprio quando ogni presa sulla realtà sembra irrimediabilmente destinata a smarrirsi nelle ipertrofiche affabulazioni dei media di massa. La dissonanza è quantitativamente accertabile: da circa un decennio, il cinema del reale rappresentata la fetta più cospicua della produzione audiovisiva; la maggior parte dei registi italiani (basta compulsare i data­ base) alternano finzione e documentario1; in molti film a soggetto circo­ lano pratiche ed estetiche “documentaristiche”. Certo, il documentario continua ad essere confinato nel campionato di seconda categoria delle visioni; per taluni registi, è ancora un allenamento al lungometraggio di finzione o un lavoro su committenza, dove persistono formati e linguaggi convenzionali. E tuttavia, si può comunque tracciare un grafico ascen­ dente del genere, per vitalità e ampiezza dei temi, innovazione e ricerca estetica, conseguente attenzione da parte dei festival e degli studi. Non è sicuro che si possa dire altrettanto del nostro cinema di finzione. Ad ogni modo, la transizione attuale in cui si trova tutto il sistema dei media audiovisivi sta già approdando a configurazioni più articolate, non foss’altro perché le tecnologie digitali moltiplicano le possibilità produttive e i canali di diffusione, dove il documentario forse avrà la chance di una più dignitosa collocazione. Si tratta di una transizione segnata - nella prassi sociale e nel campo teorico - dal tema “epocale” del passaggio dall’analogico al digitale. Ma binary digits, sempre sotto il profilo quantitativo, lungi dal rendere superfluo il reale, per ora hanno ulteriormente ampliato la già nume­ 59

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rosa famiglia dei racconti informativi sul mondo: sono lievitati i canali, le fonti (tutti siamo potenziali reporter), le forme e la loro ibridazione. Fatti che hanno dato luogo, tra l’altro, a una densa letteratura che vede nell’infinita disponibilità di rappresentazioni della realtà non un’e­ spansione di risorse conoscitive, ma il loro stesso tendenziale annichi­ limento2. Si può condividere o no questa tesi, ma è certo che tutto il cinema oggi difficilmente può esimersi dal fare i conti con la stratifi­ cazione di immaginari e saperi accumulata dai media sulla nostra espe­ rienza del mondo. Di più: è in gioco anche la possibilità di fare espe­ rienza, cioè di dare un senso, alle stesse immagini, quando queste si presentano con un certo grado di indistinguibilità tra “fattuale” e “fun­ zionale ”, “documento” e “spettacolo”3. Il campo del documentario si confronta con questi temi da molto tempo, avendo sempre aspirato, almeno nelle pratiche autoriali, ad essere molto più del resoconto informativo o del mero documento di prova (ammesso che esista). Oggi però il tema del rapporto con il reale si presenta indubbiamente con una radicalità problematica nuova, che in alcuni casi sembra spingere, d’istinto o consapevolmente, a una più decisa soggettivazione del racconto documentario. Ed è plausibile che, nel campo della finzione, la scelta di estetiche dell’immediatezza docu­ mentaria sia una delle strade che gli autori tentano per schivare i labi­ rinti mediatici e piantare il proprio racconto nella carne viva del pre­ sente. Il censimento critico dei registi che alternano documentario e finzione, che ibridano questa con quello, la loro continuità o discon­ tinuità tematica e stilistica, è fuori dalle portata di questo saggio; qui si può tentare di circoscrivere, per prelievi significativi, il loro “luogo comune”, una provvisoria cartografia delle “terre di mezzo” dove si mescolano documentario e finzione nel cinema della nostra contem­ poraneità.

La relazione documentaria Uno degli aspetti che ha investito, anche precocemente, la pratica e la riflessione del cinema del reale è la relazione tra chi filma, chi è filmato e lo spettatore. Questa relazione è parsa, su vari piani, un suo tratto distintivo. Ma a quali condizioni è ancora possibile? La domanda allude a una perdita dell’innocenza di tutti gli attori in gioco, oltre che delle stesse immagini che si producono e condividono. Il campo di gioco è l’e­ stensione attuale e la paradossale immediatezza del mondo visibile, pro­ prio quando è iper-mediato dalla proliferazione dei racconti audiovisivi, dalla scambiabilità di ruolo tra produttori e consumatori di immagini. Si tratta di una immediatezza illusoria, ovviamente, ma è questo il nostro recinto quotidiano. In fondo, è la riduzione del mondo al “notiziabile”. 60

PRATICHE ED ESTETICHE DEL DOCUMENTARIO NEL CINEMA DI FINZIONE

Ciò che non rientra nelle griglie di tale senso non è fuori campo, non attende di essere inquadrato, non contribuisce a dare senso al campo, ma semplicemente non esiste. Il notiziabile è un recinto chiuso, un gioco di specchi, è il pensabile autorizzato e deborda in tutti i generi dello spet­ tacolo, inclusi il documentario addomesticato e il film di finzione cor­ rente. A queste condizioni, se ci si interroga sulla possibilità di una rela­ zione autentica con il reale, una delle risposte è quella di interpretare lo spirito documentario come la riconquista di un principio di innocenza quale istanza etica prima che estetica, lungo la linea che passa per Bazin e Zavattini. Come fosse un Don Chisciotte al contrario, lo spirito docu­ mentario è quello che rompe il recinto delle finzioni per inseguire le avventure della realtà. Jean-Louis Comolli, ad esempio, se ne fa portavoce. Per lo studioso e cineasta francese, la co-esistenza della manifestazione reale e della sua trascrizione audiovisiva4 è ciò su cui si costruisce la “relazione docu­ mentaria”. «Filmare, può essere: assegnare una posizione all’altro e richiudervelo - per contratto (gli attori) come per accordo (coloro che, presi nello sforzo di sopravvivere, si sottopongono alle macchine da presa). Può essere, al contrario, aprire il cantiere della posizione dell’al­ tro, posizione da costruire con lui, posizione che mette in gioco la nostra e forse la minaccia e forse anche le dà senso»5. Insomma, la parte auten­ ticamente documentaria del cinema richiederebbe l’assunzione del rischio - ma anche del dono - della relazione con il reale, dove il senso non è un dato già precostituito, appannaggio di chi ha il “potere di mostrare”, ma l’esito aperto di una ricerca della verità che si forma sul campo e nel campo6. Questa formulazione a proposito della parte documentaria del cinema può essere una bussola utile per il nostro tentativo di cartogra­ fia. Prima che censire la presenza nei film a soggetto di forme testuali, stili di regia o pratiche produttive tipiche del documentario (come la pre­ senza di voice over, di attori sociali, di immagini “sporche” o “rubate”, di narrazioni e montaggi frammentari; l’uso di immagini di repertorio o di formati e supporti diversi; l’adozione di strategie produttive low bud­ get), si tratterebbe di indagare se c’è e in che modo viene declinata una relazione documentaria in quei film e in quegli autori che hanno messo in questione il già labile confine tra cinema del reale e cinema di finzione. D’altro canto, l’adozione di estetiche del documentario nel film a sog­ getto può essere una scelta stilistica dettata da ragioni diverse, non inte­ ressata ad assumere il comolloniano “rischio del reale” ma tesa, ad esem­ pio, ad evocare un certo tipo di realismo o semplicemente ad aggiornarsi alle tendenze del momento.

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Luoghi, tempi Per chiarire con qualche esempio, si può partire da quei film che trag­ gono alimento per far vivere le storie dal contatto con luoghi reali di ambientazione (elemento che può combinarsi o meno con l’impiego di attori non professionisti o vicende realmente accadute). Benché abbia una lunga tradizione nel cinema italiano, questa scelta ovviamente non si traduce ipso facto in una relazione documentaria con il mondo rac­ contato - tenendo contro, tra l’altro, che oggi si gira sempre meno in tea­ tro di posa anche per carenza di budget. Ci sono film, però, dove questa possibilità è messa a frutto, conse­ gnando allo spettatore preziose esperienze emozionali e conoscitive, come in Eisola (2003 ), film d’esordio di Costanza Quatriglio, e in Le quat­ tro volte (2010) di Michelangelo Frammartino. Il primo è girato quasi interamente nell’isola di Favignana, che accoglie le storie di due adole­ scenti alla ricerca della propria strada per crescere. I giovanissimi inter­ preti non professionisti Veronica Guarrasi e Ignazio Ernandes donano ai protagonisti Turi e Teresa, fratello e sorella, la loro fisicità e certi tratti del carattere, l’uno taciturno e ombroso, l’altra estroversa e solare, come si vede anche dai provini che la regista ha raccolto in una sorta di diario di lavorazione del film, il documentario Racconti per l’isola (2003). Qua­ triglio cerca uno sguardo che entri in sintonia con il ritmo interno di que­ sto ambiente naturale, abitato dal lavoro, dai rapporti tra le generazioni e nella famiglia, dalle amicizie, dai riti, dalla presenza del diverso (un detenuto interpretato da Erri De Luca; un vecchio irregolare; una gitante che si innamora di Turi). I cambiamenti non sono scosse telluriche, ma come scivolamenti di strati rocciosi, movimenti minimi e inarrestabili che fanno evolvere nella storia una collettività apparentemente ferma nei rap­ porti sociali e familiari. E uno sguardo che produce frammenti di narra­ zioni, filtrate dalla sensibilità dei due protagonisti, ma anche una sorta di sospensione, che fa coincidere un sentimento di attesa del futuro tipico della loro età con una macchina da presa che prolunga il tempo interno dell’inquadratura, si sofferma sulle cose e sui volti, con una propensione osservativa da cinema diretto. E una modalità di relazione con il reale, e in particolare con bambini e adolescenti, che si presenta anche e soprat­ tutto in alcuni documentari della regista, come Ecosaimale? (2000), Il bambino Gioacchino (2000), Comandare. Una Storia Zen (2004), 1/mondo addosso (2006). In Ecosaimale?, ad esempio, la ripresa si adatta ai tempi delle bambine di un quartiere di Palermo, avvicinate con straordinaria intimità nel loro ambiente e nel loro precoce essere adulte. Si tratta di un mettersi in ascolto e di un pazientare, che porta ad affiorare un indici­ bile mondo nascosto di violenze subite e agite. Anche Elisola, in fondo, è un’attesa di senso, in cui entrano in relazione documentaria una deter­ 62

PRATICHE ED ESTETICHE DEL DOCUMENTARIO NEL CINEMA DI FINZIONE

minata realtà umana e naturale e un dispositivo filmico che la ri-figura (anche grazie ai suoni: il dialetto, il dolce commento musicale), senza soverchiarla, per avvolgerla in un alone di favola. Oggetto inclassificabile secondo le abitudinarie distinzioni tra docu­ mentario e finzione, il secondo film di Michelangelo Frammartino, Le quattro volte (2010), racconta luoghi e forme di vita che prendono il sopravvento drammaturgico sull’umano. Girato in Calabria, terra d’ori­ gine della famiglia del regista e oggetto di una peculiare relazione affet­ tiva e conoscitiva, il film mostra la malattia e la morte di un anziano pastore di Caulonia (circondato dagli animali che cura e da cui è curato), la nascita di una capretta, l’abbattimento di un albero destinato a diven­ tare un palo della cuccagna, la costruzione delle carbonaie da parte chi ancora sa praticare questo mestiere. Sulla scia di Vittorio De Seta e Franco Piavoli, Le quattro volte è un film materico, impastato di luce, colore, durata, suono d’ambiente, quasi senza dialoghi e del tutto senza musiche. Alla ricerca di una forza primigenia delle immagini, procede dissolvendo i già deboli nessi narrativi, e in un certo senso le immagini stesse, se ciò che invita a guardare è in fondo al di là di qualunque dispo­ sitivo ottico: il soffio vitale di una trasmutazione pitagorica che passa dagli uomini agli animali alle piante ai minerali, per tornare agli uomini. Ma la Weltanschauung del regista è solo una delle possibili interpellazioni che il film rivolge allo spettatore, cui offre un’esperienza percettiva ed emozionale radicalmente diversa da ciò che consuma abitualmente: il contatto con una alterità, concretamente nella storia globalizzata (paesi, genti, animali e paesaggi dell’appennino calabrese, oggi) e nello stesso tempo fuori dalla storia, il cui senso è aperto, proprio perché declinato tanto sui pieni che sui vuoti. Un esito che scaturisce da una relazione documentaria fondata sul desiderio amoroso di quest’alterità7, un senti­ mento dei luoghi e dei tempi che rifiuta di ancorare il film a direzioni precostituite, senza rinunciare ad un estremo rigore formale. Del resto, Frammartino è interessato alla ricerca visiva e alla sperimentazione su quegli “oggetti” pluridimensionali che sono le immagini non solo nel cinema, ma anche attraverso le sue video-installazioni interattive (tra cui, La casa delle belle addormentate, 1997; Film, 1998). Icone, linguaggi Sulla strada della rilevanza documentaria delle ambientazioni nei film a soggetto, si incontra ovviamente un autore come Matteo Garrone, che, soprattutto nei primi lavori (il corto Silhouette, 1996, poi inserito nel trit­ tico Terra di mezzo, 1997; Ospiti, 1998; Estate romana, 2000), ricorre ad alcune pratiche tipiche del cinema diretto: l’utilizzazione di attori non professionisti, di una troupe ridotta al minimo, in cui il regista stesso è l’o63

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peratore, di una sceneggiatura aperta, che si adatta al modificarsi delle situazioni in fase di ripresa. Il cinema diretto è richiamato anche sul piano stilistico, con inquadrature mobili a ridosso dei personaggi e nessi narra­ tivi piuttosto labili. Come ha più volte dichiarato lo stesso Garrone, il punto di partenza di questi film (e in fondo, anche di documentari come Bienvenido espirilo santo, 1997 e Oreste Pipolo, fotografo di matrimoni, 1998) sono essenzialmente gli ambienti: «I primi lavori, ma credo anche gli ultimi, sono nati sempre dall’idea di raccontare dei luoghi, delle imma­ gini che all’inizio mi avevano colpito casualmente»8. Il regista è attratto dall’incongruo che si installa nel tessuto ordinario del paesaggio reale e può condurre a guardarlo sotto un aspetto nuovo: ad esempio, le prosti­ tute nere vestite di colori sgargianti immerse nella campagna romana in Silhouette o la capitale che si prepara al Giubileo del 2000 in Estate romana, una città piena di cantieri e facciate di palazzi in ristrutturazione, in cui vaga un gruppo di artisti che vorrebbe trovare o ritrovare il senso del proprio lavoro. Anche se il regista qui attinge a luoghi e personaggi molto vicini alla propria biografia, più che all’indagine psicologica o sociale è interessato alle traiettorie di spaesamento, al surreale o al grot­ tesco che fa capolino nel quotidiano. In questo senso, Garrone non sta­ bilisce una relazione documentaria con persone e ambienti di cui pure il suo cinema si nutre, ma piuttosto opera una distanziazione, che avver­ tiamo nel suo sguardo di cineasta, nella sua preminente attenzione alla dimensione visiva. Questo duplice aspetto, di un’osservazione ravvicinata e di una distanza emozionale, è ancora più evidente nei successivi L’imbalsamatore (2002), Primo amore (2004) e Gomorra (2008), film più strut­ turati dal punto di vista narrativo (e industriale), dove tuttavia Garrone mantiene intatto il suo modo di procedere. Per Gomorra, uno dei film più potenti e visionari degli ultimi anni, il regista ha spesso ricordato quanto sia stato fondamentale nella fase di preparazione perlustrare spazi come le Vele di Scampia, controllate dalla camorra, mettersi in relazione con un mondo dove convivono affiliati ai clan e gente comune. Del resto, le sto­ rie scelte dall’omonimo libro di Saviano hanno come protagonisti per lo più coloro che stanno in basso nella piramide criminale, preda di destini ferocemente inconsapevoli o privi di alternative. A quest’altezza, lo sguardo di Garrone attraversa e dà forma all’infemo come in un repor­ tage raffreddato, di disturbante asetticità. Benché lo stile e l’origine del film da un testo letterario anomalo, intessuto di dati, inchieste giornali­ stiche e giudiziarie, possa evocare il sostrato di un cinema della realtà9, Gomorra si attesta su un registro diverso dalla relazione documentaria, lavorando in modo consapevole alla rifondazione iconografica di vicende, luoghi, volti non solo già consumati dalla cronaca televisiva e dal cinema, ma anche colonizzati da quello stesso immaginario dominante. 64

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Un discorso parzialmente analogo vale per l’esordio di Andrea Segre nel cinema di finzione con Io sono Li (2011), girato a Chioggia, con un impianto narrativo tradizionale e attori professionisti nei ruoli principali. Nel microcosmo della piccola città lagunare, il regista ambienta un incon­ tro possibile tra due persone, la giovane cinese Li (Zhao Tao, per altro premiata come migliore attrice ai David di Donatello 2012) e il maturo pescatore Bepi (Rade Sherbedgia), nato in Jugoslavia ma trasferitosi a Chioggia da tempo immemore; una relazione d’affetto che fallisce per l’interdizione delle rispettive “comunità” (Li è ricattata dai connazionali che le danno lavoro; Bepi, per quanto integrato, è in fondo sempre sul confine). Nonostante la continuità tematica con i numerosi documentari realizzati da Segre sui migranti, Io sono Li si attesta fin dal titolo su una realtà filtrata nelle forme simboliche dello spaesamento. I linguaggi quo­ tidiani (il cinese, l’italiano, il dialetto veneto, il gergo dei pescatori) dise­ gnano per lo più geometrie identitarie che entrano in opposizione; le poe­ sie in rima di Bepi (nella realtà, lo stesso Sherbedgia è poeta e cantau­ tore) e quelle del grande poeta cinese Qu Yuan, permettono di parlarsi. La bellezza e la lezione della parola poetica hanno un correlato ogget­ tivo nel paesaggio esterno: la laguna, il mare, le vie del porto, sono il luogo dove gli elementi si toccano e si mescolano senza perdere identità (terra, acqua dolce, acqua salata, cielo), anzi attingendo una limpido fascino. Il film, insomma, distilla le traiettorie incandescenti dei fatti di cronaca, rarefacendo così personaggi e paesaggi. Traiettorie su cui Segre ha aperto squarci di verità strazianti con i suoi documentari, raccontando i lunghi e spesso mortali viaggi nel deserto del Sahara per arrivare sulle coste ita­ liane (A Sud di Lampedusa, 2006), raccogliendo la testimonianza dei rifu­ giati etiopi, oggetto di un vero e proprio commercio da parte della Libia di Gheddafi, finanziata da Italia e Europa {Come un uomo sulla terra, co­ regia di Dagmawi Yimer, Riccardo Biadene, 2008), dando voce ai brac­ cianti africani che a Rosarno si sono ribellati alle condizioni di degrado ed estremo sfruttamento {Il sangue verde, 2010). Personaggi, persone La reciprocità e messa in gioco del “potere di mostrare” hanno a che fare non solo con la fisicità degli ambienti reali, ma anche con la fisicità delle relazioni, come in Non è ancora domani (la pivellina) (2009) di Tizza Covi e Rainer Frimmel. Gli autori hanno preparato a lungo il loro film attraverso un percorso di conoscenza dello spazio fisico e relazionale abi­ tato dai loro personaggi, attori sociali che recitano se stessi: la cinquan­ tenne Patti, schivatrice di coltelli, il suo compagno Walter, maturo clown tedesco, l’adolescente Tairo e la nonna Gigliola. Essi formano un piccolo circo a conduzione familiare, con cui si guadagnano da vivere, accampati 65

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con le loro roulotte in una sorta di enclave recintata e invisibile, collocata tra il mercato e le case popolari della borgata di S. Basilio a Roma. In luogo di un’indagine documentaria, qual era il loro precedente Babooska (2005 ), dedicato al mondo nomade del lavoro circense, in Non è ancora domani Covi e Frimmel fanno accadere un evento possibile, in grado di mobili­ tare il gioco della finzione e nello stesso tempo assolvere alla relazione documentaria. All’inizio del film, Patti trova in un parco una vispa bam­ bina di nome Asia, abbandonata dalla madre, che le ha lasciato in tasca un biglietto in cui promette di tornare a riprenderla. Decide di accoglierla, assumendosene il rischio. Lo sviluppo successivo segue la pista innescata dall’evento e insieme, con naturalezza, disegna la profonda umanità di relazioni che attraversano questa famiglia sociale, a dispetto delle preca­ rie condizioni di vita. Gli attori non attori improvvisano su un canovac­ cio, Rainer Frimmel cura direttamente la ripresa (in 16mm), Tizza Covi il suono. Insomma, lavorano con una vicinanza a chi è filmata tipica del documentario osservativo (stile adottato anche in Babooska). Il pedina­ mento, la macchina a spalla, il montaggio frammentario e “sporco”, segnano anche stilisticamente il film, ma ciò che conta è capacità degli autori di far passare in esso la verità e il rischio di un incontro, che può portare reciprocità di doni: chiave tematica e nello stesso tempo metadiscorsiva. Ancora una volta il senso è un’apertura sull’inaspettato, che coinvolge la storia, i luoghi e la realizzazione del film: il diventare “geni­ tori” quando non è più possibile biologicamente, la dolcezza e I’allegria dove la vita è più dura, un casale di campagna tra schiere di palazzi, la disponibilità a negoziare nel racconto le precarie traiettorie del reale. Un simile approccio comporta evidentemente anche un rischio pro­ duttivo: Guido Lombardi ha impiegato cinque anni per portare a ter­ mine La-Bas. Educazione criminale (2011), il suo lungometraggio d’esor­ dio. Il regista prova a costruire un racconto sui migranti attraverso un punto di vista interno alla comunità nera di Castel Volturno, sensibilità nuova per il cinema di finzione, già abbondantemente esplorata nel cinema documentario. Il protagonista Youssuf arriva in Italia carico di speranze, come tutti i migranti, ma poi si accomoda nella ricchezza pro­ dotta dallo smercio di droga e sfugge per miracolo alla strage organiz­ zata dalla camorra per dare una lezione alla concorrenza nera (riferi­ mento all’agguato di Castel Volturno, il 18 settembre 2008, dove rima­ sero uccisi sei africani). Interpretati quasi tutti da attori non professio­ nisti, i personaggi del film nascono dalla frequentazione del regista con la comunità nera dell’area domiziana, a nord di Napoli, in particolare dei suoi gruppi musicali, che Lombardi seguiva come filmmaker. Il punto debole di La-Bas è la ricerca di una storia esemplare, che parla per tutti i destini criminali dell’immigrazione cui non si danno alternative. L’a­ 66

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spetto più interessante è il rovesciamento del punto di vista: gli italiani appaiono poco, sono raccontate soprattutto le relazioni tra i migranti, e finalmente si riesce a intravedere che dietro i destini obbligati e le stati­ stiche ci sono persone con un passato di legami affettivi, identità cultu­ rali, mestieri (Youssuf è uno scultore, come lo zio trafficante), annientati da un presente gramo e un futuro improbabile. Il racconto è tenuto insieme da inquadrature strette e incollate ai personaggi; ha l’andamento talvolta claustrofobico di un reportage dai colori offuscati; poche le aper­ ture sugli spazi esterni, come se il regista volesse tenere fuori campo il contesto italiano, avvertito come una sorda pressione sui rapporti interni alla comunità. Le scelte stilistiche sembrano conseguenti alle condizioni di realizzazione del film («Abbiamo dovuto girare gran parte di nasco­ sto, clandestini anche noi»10 dice il regista, che si è scontrato con i divieti del sindaco di Castel Volturno) e ai mezzi tecnici utilizzati (macchine fotografiche HD), e tuttavia il rischio della realtà, preso in fase di realiz­ zazione, non sembra risuonare nel film. Non sempre sono necessari un luogo reale o attori non professionisti per instaurare una relazione documentaria. Pietro (2010) di Daniele Gaglianone offre allo spettatore una storia dura e personaggi scostanti, che prendono vita nel corpo di attori professionisti (Pietro Casella, Fran­ cesco Lattando e Fabrizio Nicastro), alle prese con un registro recitativo distante (o forse no...) dal loro surreale teatro-cabaret. Anche l’ambientazione a Torino è utilizzata per evocare dei “non luoghi”, più che un rapporto preciso con la città. La storia è quella di un ragazzo “disadat­ tato” colmo di una straordinaria dignità, mentre tutto frana intorno, compreso il fratello tossicodipendente di cui si prende cura: c’è forza dove ti aspetteresti fragilità, c’è deriva e oscenità, nascosta o ignorata, dove apparentemente regna la quotidiana normalità. Il racconto è incol­ lato al personaggio, lo segue con uno stile asciutto, a volte ellittico, come fosse un reportage di guerra. E lo stile ormai riconoscibile del regista, che qui ha una compattezza, una radicalità e una necessità non raggiunte in altre sue opere, come Nemmeno il destino (2004) o il più recente Rug­ gine (2011 ). Un esito che scaturisce anche da una sorta di comunità crea­ tiva che si è raccolta intorno alla realizzazione di Pietro, dai rapporti che preesistevano al progetto stesso, dalla voglia di resistere a un paludoso clima culturale di questi anni. Gaglianone ha scritto i personaggi tenendo conto della fisicità degli interpreti, con cui è legato da relazioni di ami­ cizia; l’indipendenza produttiva gli ha dato modo di trasformare le prove in una ulteriore fase di scrittura; gli interni hanno coinciso con gli stessi appartamenti in cui vivono gli attori. Il film porta così inscritto nei suoi segni e nel suo ritmo le ferite nascoste del nostro modo di vivere e la necessità di una ribellione che va oltre il cinema, sentita da uomini e 67

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donne prima che da cineasti. La stessa intensità, forse non a caso, è rav­ visabile nel documentario Rata nece biti (La guerra non ci sarà) (2009), con cui Gaglianone fa un lungo viaggio nei luoghi nella ex-Jugoslavia devastati dalla guerra, tra Sarajevo e Sbrebrenica, raccogliendo intervi­ ste che testimoniano come le lacerazioni del passato sovrastano ancora il presente, creando una sorta di tempo sospeso, di cui sono carichi parole e silenzi, paesaggi e volti. Come Gaglianone, anche Gianluca e Massimiliano De Serio scelgono di portare sullo schermo, nel loro lungometraggio d’esordio Sette opere di misericordia (2011), una storia estrema, che sgorga dal cuore nero dei nostri tempi. Le opere sono quelle dell’assistenza corporale al prossimo comandate dalla chiesa cattolica; i protagonisti, la giovane immigrata clan­ destina Luminita (Olimpia Melinte) e il vecchio malandato Antonio (Roberto Herlitzka). La vicenda, una lotta di reciproca sopraffazione per la sopravvivenza, ma anche l’incontro tra due vite che apre uno spiraglio di redenzione. L’intonazione è da parabola laica, come in fondo è laico l’omonimo quadro di Caravaggio, groviglio di corpi di angeli, uomini e donne affioranti alla luce dall’oscurità. E infatti la materia del film sono anzitutto i corpi degli attori (in particolare quello del valoroso Herlitzka), la luce e suoni, benché i dialoghi siano ridotti al minimo. Gli autori orche­ strano un progetto stilistico complesso: una storia quasi senza antefatto, scarnificata e tesa; l’uso di didascalie che scandiscono i capitoli del film nominando le opere in contrasto con gli eventi, via via in attenuazione fino ad annullarsi nel finale; una frontalità visiva che amplifica la durata interna dei piani e ne fa spazi osservativi concentrati sull’esplorazione degli sguardi, dei gesti, della figura umana; un tessuto sonoro che racco­ glie i rumori della periferia urbana in cui sono immersi i personaggi, e che diventa l’eco del loro malessere sociale ed esistenziale. Nonostante qual­ che compiacimento formale, nel film si prolunga un’etica dello sguardo che i fratelli De Serio hanno praticato sia nei cortometraggi di finzione (Maria Jesus, 2003; Mio fratello Yang, 2004; Zakaria, 2005), sia nei docu­ mentari (L'esame di Xhodi, 2007; Bakroman, 2010), cogliendo i punti di contraddizione più acuta della nostra civiltà che precipitano sui destini individuali, alle porte del mondo ricco, nelle periferie urbane o del pia­ neta. Rakroman, ad esempio, è uno straordinario ritratto collettivo dei ragazzi che vivono in strada ad Ouagadougou, in Burkina Faso, attraverso un pedinamento ravvicinato e di nitido rigore delle loro storie e del loro tentativo di organizzare la reciproca solidarietà per la sopravvivenza. Sette opere di misericordia è un ulteriore capitolo di questa antropologia della crisi del nostro vivere, in cui la materialità dei luoghi (quelli di una peri­ feria torinese familiare ai registi) e dei corpi è sottoposta a una interroga­ zione estrema, nel tentativo di raggiungerne l’anima. 68

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Totale parziale Agli esempi citati si potrebbero aggiungere altri titoli (non molti per la verità) usciti negli ultimi dieci anni, film dalle riuscite diseguali, in cui però è aperta la possibilità di una relazione documentaria sia con la mate­ ria viva di certi mondi sociali lontani dai racconti dominanti nel mediascape (come La capagira, 2000, di Alessandro Piva; Respiro, 2001, di Ema­ nuele Crialese; Tornando a casa, 2001, di Vincenzo Marra; Saimir, 2004, di Francesco Munzi; Il vento fa il suo giro, 2005, di Giorgio Diritti; Let­ tere dal Sahara, 2006, di Vittorio De Seta; La rieducazione, 2006, del col­ lettivo Amanda Fior); sia con lo stesso cinema come “luogo documenta­ rio” (Dopo mezzanotte, 2004, di Davide Ferrario). La bussola della relazione documentaria ci ha fatto incontrare film che costruiscono un mondo diegetico che letteralmente si nutre della “biografia” reale di luoghi o persone, o di entrambi, senza però assor­ birla totalmente nella narrazione. Come accade con i documentari, essi intercettano qualcosa che esiste indipendentemente dalla messa in scena, mentre ne rispettano l’irriducibilità alla logica dominante dell’immagine. In questo produttivo campo di tensione, appare un’alterità radicale del reale, inconsumabile dalla rappresentazione; e questa, d’altro canto, si carica finalmente di autentiche valenze conoscitive ed emozionali (tal­ volta autoriflessive). E un cinema temerario - non a caso, spesso si tratta di opere prime, di film anomali, di produzioni indipendenti - che si fa carico di uno sguardo diretto sul mondo, prendendo il rischio dell’in­ nocenza quando questa sembra perduta, ritrovandola nelle cose prima­ rie ed essenziali dei rapporti tra i viventi, dei gesti perduti e ritrovati, dei corpi carichi di biografie. Le vie della relazione documentaria sono anche un azzardo teorico, poiché forse è meglio prendere atto, come suggerisce Pietro Montani11, dell’impossibilità di una presa diretta dell’immagine sul mondo, senza per questo arrendersi all’idea postmoderna che il reale sia stato sostituito dal suo doppio simulacrale. Infatti, benché preferisca abbandonare il ter­ mine “documentario” alla sua tramontata fortuna storica di portare una qualche traccia del reale12, il filosofo richiama comunque le immagini a un’etica dell’impegno testimoniale, per risarcire il debito contratto con l’alterità del mondo. Solo che non si tratta di discernere le immagini “autentiche” da quelle artefatte (lo sono tutte!), ma di costruire percorsi di “autenticazione”, che impegnano tanto chi realizza i racconti audio­ visivi quanto chi ne è spettatore in un attraversamento critico dei plurali formati tecnici e discorsivi dell’immagine: «Un gioco esplicito tra le diverse forme mediali, che si fanno sentire nella loro opacità, al fine di sollecitare nello spettatore una riflessione sulla irriducibile alterità del rappresentato, sul suo irriducibile differire»13. Insomma, la messa in que69

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stione dell’ideologia del “tutto visibile” costruito dai media mainstream passa attraverso il lavoro dell’“immaginazione intermediale”, in cui vi è un sovrappiù di elaborazione delle forme per poter riprendere contatto con l’esperienza del mondo. Montani porta in proposito esempi convin­ centi; del resto, abbiamo seguito sin qui solo una delle molte possibilità date al filmico di “trascrivere” il reale e al cinema di finzione di incro­ ciare il documentario. Il documentario, tuttavia, ancora sfida il cinema di finzione quando si assume, prima di qualsiasi messa in forma, il «rischio della realtà». Il confine tra i due generi è sempre stato labile, la possibilità della falsi­ ficazione sempre presente. La forma, ovviamente, è ciò che porta al senso, ma essa si dispone su molti piani: la forma della relazione con il reale, la forma della sua trascrizione filmica, la forma della sua circola­ zione. La relazione documentaria è accidentata, può incontrare rifiuti, divieti, reticenze; può arrivare dopo l’evento; può smarrirsi nel fram­ mento. Ma quale incalcolabile dono di emozioni e cogitazioni quando l’immagine fissa la verità di un incontro, o l’accidentale diventa un’e­ pifania del senso. E lo diventa non contro l’immagine, ma grazie all’im­ magine, poiché al cinema l’accidentale non esiste: ritagliato e messo in forma, esso trova posto, segnala, evoca, significa. Per questo, correre il rischio della realtà, mettersi in gioco come uomini prima che come sog­ getti con una macchina da presa, è forse la strada maestra per “auten­ ticare” le immagini. 1 Nessuna novità in proposito: accadeva anche nel cinema italiano del secondo dopoguerra. Del resto, era Cesare Zavattini a considerare “lo spirito documentari­ sta” come assolutamente necessario per completare i già ragguardevoli risultati rag­ giunti dal neorealismo. Cfr. Cesare Zavattini, Alcune idee sul cinema, prefazione alla sceneggiatura di Umberto D., pubblicate nella «Rivista del cinematografo», 2, dicem­ bre 1952. 2 Qualche titolo tra i più noti: Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini e Castoldi, 1997 [1967]; Tomàs Maldonado, Reale e virtuale, Milano, Feltri­ nelli, 1993; Jean Baudrillard, Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?, Milano, Cortina, 1996; Jacques Derrida, Bernard Stiegler, Ecografie della televisione, Milano, Cortina, 1997; Marc Augé, La guerra dei sogni. Esercizi di etno-fiction, Milano, Eléuthera, 1998 e 2005; Paul Virilio, La bomba informatica, Milano, Cortina, 2000; Slavoj Zizek, L'epidemia dell’immaginario, Roma, Meltemi, 2004. ’ Scurati ha coniato in proposito il termine “Actual”, fusione di “fictional” e “fac­ tual”; cfr. Antonio Scurati, La letteratura dell’inesperienza, Milano, Bompiani, 2006. Per Montani, «è proprio il carattere confusivo di molte immagini mediali, Tindistizione tra spettacolo e documento, ciò che impedisce di fame oggetto di esperienza» in Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Bari, Laterza, 2010, p. XI.

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4 «La parte documentaria del cinema implica che la registrazione di un gesto, di una parola, di uno sguardo, sia necessariamente riferita alla realtà della loro manife­ stazione, che sia provocata o meno dal film [...]. La finzione può evadere dai refe­ renti». Jean-Louis Comolli, Vedere e potere, Roma, Donzelli, 2006, p. 90. 5 Ivi, p. 6. 6 Siamo, ovviamente, dalle parti del cinema e della teoria del cinema di Jean Rouch, ovvero dell’impossibilità e della non auspicabilità di tener separati osserva­ tore e osservato. Cfr. Jean Rouch, Saggio sulle metamorfosi della persona del posse­ duto, del mago, dello stregone, del cineasta e dell’etnografo, in Raul Grisolia (a cura di), Il cinema del contatto, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 25-39. 7 Negli stessi luoghi, il regista ha girato anche 11 dono (2003), suo film d’esordio. 8 Matteo Garrone, La forza del vero e della sorpresa, intervista a cura di Anna Barison, in «Cinecritica», XIII, n. 52, Ottobre-Dicembre 2008, p. 8. 9 Scrive ad esempio Gianfranco Pannone: «Per me Gomorra è molto più docu­ mentario di un qualsiasi reportage ad effetto, proprio come Elephant di Van Sant lo è molto di più di Bowling a Colombine di Moore. Qui non si tratta di stare sulla realtà restituendone qualche brandello, magari con uno sguardo a tesi, ma di saperla deci­ frare», in www.ildocumentario.it, giugno 2008. 10 Guido Lombardi, intervista a cura di Flaviano De Luca, in «Alias», inserto de «Il Manifesto», 3 settembre 2011. 11 Cfr. Pietro Montani, op. cit.. 12 «Stiamo vivendo - afferma - una fase importante della storia del cinema - la transizione dalla ripresa fotografica a quella digitale - nella quale la tradizionale distinzione tra fiction e documentario potrebbe non sussistere più»; Pietro Montani, A proposito di realtà e finzione: il cinema al bivio, conversazione a cura di Mazzino Montinari, pubblica in «Close-Up» il 16 maggio 2005 (http://www.close-up.it). ” Pietro Montani, op. cit., p. 13.

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CRISTINA PICCINO

IL DOCUMENTARIO E LA MIGRAZIONE UN FATTO DI RESISTENZA

Fino a qualche anno fa la convinzione più ricorrente tra i documen­ taristi italiani era che per fare il proprio lavoro, e “camparci” pure, si doveva andare in Francia; che con i suoi “modelli” e le sue “eccezioni culturali”, con il riferimento produttivo del canale tematico Arte, e soprattutto con la possibilità di ottenere la distribuzione in sala, veniva considerata una specie di paradiso. Ricordo incontri, discussioni, “cantieri” del documentario dove, snocciolando gli infiniti problemi nazionali a cominciare - a mio parere - dall’assenza di interlocutori motivati nelle istituzioni pubbliche nostrane, Rai in testa, si finiva inevitabilmente per fantasticare sulla Fran­ cia e sulla sua condizione felice. Se questo “mito” è sempre attuale (forse un po’ scalzato da Berlino), molto è cambiato: Arte, il canale franco-tedesco, impone format normalizzati - la terribile voce off che nella quasi totalità dei casi appare come una dichiarazione di sfiducia verso le immagini. Il cinema indipendente fa fatica anche oltralpe, e il “cinema del reale” meno imbrigliato e più politico, a cominciare dalla sua “forma”, si scontra contro una diffusa attitudine glamour che mal sopporta la radicalità (reale). E lo stesso, vista la crisi globale, vale per altri paesi. Parlo di forma, e quindi di contenuto, nonostante questa dicotomia dovrebbe essere stata ormai seppellita: nel “cinema del reale” il rischio che si manifesti è sempre alto - al di là di un diffuso revisionismo del pensiero che potrebbe riaffermarne il valore. Spesso, infatti, si ha l’impressione che, specialmente in Italia, il “cinema del reale” coincida col suo soggetto. Si raccontano i migranti 72

IL DOCUMENTARIO E LA MIGRAZIONE. UN FATTO DI RESISTENZA

ora è un tema premiato, come dimostra il caso di Terraferma (2011), di Emanuele Crialese, anche se non è un documentario (la definizione del “genere” meriterebbe poi una riflessione a parte) - o si scelgono prota­ gonisti anziani come memoria vivente (della fabbrica, della guerra, del fascismo, ecc...). Ovviamente non manca Fattualità - camorra, mafia, conflitto sociale - ma il punto è un altro: nella maggior parte dei casi il soggetto sembra bastare a se stesso, a discapito di una riflessione sul lin­ guaggio cinematografico. Il soggetto “forte” (come problema sociale del momento) soddisfa cioè Finterò film offrendo spunti per la sua lettura (quasi sempre extra-cinematografica); e la critica che guarda i docu­ mentari sotto la lente del “genere” partecipa a questa abitudine. Tornando alla Francia, è abbastanza indicativo in questo senso l’articolo negativo di Nicolas Azalbert pubblicato sui «Cahiers du Cinema» su Qu’ils reposent en révolte (Defigueres de guerres, 2010) di Sylvain George - il regista è uno dei talenti più interessanti cresciuti in questi ultimi anni: in Italia è stato scoperto dal festival Filmmaker di Milano, che lo ha inco­ ronato vincitore della edizione del 2010 e che continua a supportarlo insieme al Torino Film Festival, del quale è ospite fisso nella sezione dei documentari internazionali; il film è anche passato nel Concorso della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema a Pesaro 2011. Quello di Syl­ vain George è un cinema del contemporaneo di cui sono protagonisti i migranti. Francese, ha girato per alcuni anni di seguito a Calais, dove i tanti clandestini in fuga da guerre e massacri sperano di farcela a saltare su una nave che li porti in Inghilterra - e intanto vivono nella “Giungla”, come chiamano la bidonville di cartoni nella sterpaglia, demolita dalla polizia francese. La natura politica dell’opera di Sylvain George sta nella coincidenza tra ricerca estetica e soggetto, i migranti appunto, rappre­ sentati in contrasto all’iconografia miserabilista dominante - con uno splendido bianco e nero che esprime nella sua grana il respiro dell’uma­ nità. E questa rivendicazione che “disturba” e che li rende intollerabili persino allo sguardo critico? Questo detour, che si allontana dal tema assegnato - ovvero i cinea­ sti che lavorano all’estero - è un po’ il tentativo di svolgerlo oltre il dato concreto che in alcuni paesi europei si lavora in condizioni migliori, con strutture più efficienti e interlocutori più disponibili verso la ricerca arti­ stica, la produzione indipendente e progetti meno formattati - poi è anche vero che ormai il cinema di ricerca, incluso il documentario, si è spostato nel sistema delle gallerie d’arte. Prendiamo uno dei nostri cineasti “migranti” più riconosciuti all’e­ stero: Stefano Savona, palermitano, come è nel dna siciliano emigra, prima a Roma e poi a Parigi, dove vive e lavora ormai da oltre dieci anni e dove ha aperto una casa di produzione, la Picofilms, insieme a Pene73

CRISTINA PICCINO

lope Bortoluzzi - un’altra migrante ma da Venezia, sua compagna anche di vita. Lei a Parigi ci è arrivata per studiare cinema, poi si è fermata. Il suo primo film, Fondamenta delle convertite (2008), però non è ambien­ tato in Francia ma a Venezia, nel carcere femminile, i cui fragili e asso­ luti equilibri quotidiani vengono narrati nella poesia del cinema d’os­ servazione. Anche il prossimo progetto di Penelope non sarà ambientato in Francia ma nel Vajont, e questa è una caratteristica comune a diversi cineasti migranti. Prendiamo Leonardo Di Costanzo: vive tra Parigi e l’Italia da diversi anni, ma nei suoi film torna sempre a Napoli, la sua città dove ha ambien­ tato anche l’esordio nella finzione, ^intervallo (ancora in post-produzione), anche se, come Savona e Bortoluzzi, è radicato nella realtà fran­ cese (insegna agli Ateliers Varan) e ha sempre produttori francesi. Stessa cosa per Savona: insegna alla Femis, la Picofilms ha nazionalità francese ma i suoi film sono girati altrove. Palazzo delle Aquile, con cui ha vinto il Cinéma du Reel 2011, è stato girato a Palermo, e Primavera in Kurdistan (2006) sulle montagne dove vivono i combattenti per la liberazione del Kurdistan dalla Turchia. Forse la più “radicata” nella realtà francese è Chiara Malta, anche lei da Roma volata a Parigi, che nei suoi film mescola le due realtà: Armando e la politica (2008); ]’attends une femme (2010). Torniamo un poco indietro. Savona prima di approdare a Parigi vive un po’ a Roma, in Italia gira Un confine di specchi (2002), sulle affinità “migranti” tra la Sicilia e la Tunisia. Poco dopo comincia a preparare Pri­ mavera in Kurdistan, viaggia diverse volte attraverso il Kurdistan, e costruisce un rapporto coi militanti di Ocalan necessario per realizzare il film. Intanto arriva a Parigi. La vicenda produttiva di Primavera in Kur­ distan sarà complicata fino all’arrivo in produzione di Jacques Bidou, quindi della Francia. Il film, molto bello, fa conoscere Savona nel mondo. Eppure da quel momento lui cambia (forse sarebbe meglio dire che porta a compimento) la sua cifra narrativa. Il successivo Piombo fuso (2009) vince il Festival di Locamo (la sezione Cineasti del presente). Durante i bombardamenti israeliani del dicembre di due anni fa, Savona comincia a girare delle cronache filmate sul confine egiziano - diffuse via web col sostegno di Pulsemedia - e poi dai tunnel che dall’Egitto facevano arri­ vare a Gaza le materie prime (il confine era chiuso), arriva anche lui tra le macerie delle bombe. Nei mesi scorsi, quando a II Cairo esplode la rivolta contro il regime di Mubarak, è a Piazza Tahrir a filmare i giorni dell’occupazione, a rac­ cogliere frasi, pensieri, speranze di chi è su quella piazza sperando in un futuro diverso. Tahrir Liberation Square (2011), il film, ha fatto il giro del mondo. Savona lo finisce insieme a Palazzo delle Aquile, girato a Palermo durante l’occupazione del palazzo comunale attuata dai senza casa. 74

IL DOCUMENTARIO E LA MIGRAZIONE. UN FATTO DI RESISTENZA

Gaza, Il Cairo, Palermo: questi tre film sono però vicini tra loro molto più di quanto si possa pensare. L’idea verso la quale Savona ha indiriz­ zato il suo racconto della realtà, è quella di un “teatro”, nella cui unità di luogo l’evento di cronaca si trasforma in qualcos’altro: diviene rifles­ sione sul cinema, e sulla sua possibile scommessa con la realtà. Una sfida già presente in Primavera in Kurdistan, perché anche lì siamo in zona di conflitto, la dimensione che sembra essergli più consona. Alessandro Comodin è l’ultimo, in ordine di tempo, dei migranti ita­ liani che si è imposto internazionalmente. Molto giovane (è nato nel 1982), col suo primo lungometraggio, destate di Giacomo, ha vinto il Festival di Locamo 2011, nel concorso Cineasti del presente. Friulano, è migrato prima a Bologna, poi a Bruxelles e a Parigi, dove continua a vivere. L’estate di Giacomo è un piccolo capolavoro di libertà e di grazia, rivela un talento dello sguardo raro. La ricerca della realtà parte da un personaggio - Giacomo, un ragazzo sordo che dopo l’operazione acqui­ sta l’udito - e la sua scoperta del mondo diviene la nostra. Dicevamo di Chiara Malta. Ha lasciato l’Italia giovane, negli anni degli studi, ed è rimasta in Francia, dove fa film, lavora con Acid (Associazione per il cinema indipendente e la sua diffusione), è infaticabile e riesce a tenere insieme sempre più progetti (attualmente sta lavorando a un film di finzione). Leonardo di Costanzo, che forse è più conosciuto in Francia che in Italia (e comunque in Francia ha sempre trovato i suoi partner produt­ tivi), nei suoi film parla del nostro sud: di Napoli e dei suoi dintorni di camorra, d’indifferenza complice delle istituzioni, d’impotenza, di cor­ ruzione politica, di paradossi della burocrazia. Napoli, Italia verrebbe da dire. Le sue immagini interrogano costantemente la realtà e la sua rap­ presentazione - da Prove di stato (1998), A scuola (2003), Odessa (2006), fino al più recente Cadenza d’inganno (2011), nel quale questo suo con­ fronto con le immagini, e il sentimento di inadeguatezza del regista, divengono la materia stessa del film. Daniele Incalcaterra è forse più di ogni altro un apolide: vive tra Parigi e Buenos Aires, dove ha sede la sua produzione, è forse più legato all’A­ merica latina che all’Europa - ci ha passato molti anni da ragazzino, il suo prossimo film, racconta attraverso un’esperienza personale, le con­ traddizioni di quel continente, nel “laboratorio” sociale e politico del Paraguay. Eppure Repubblica nostra (1995) continua a essere una luci­ dissima chiave di interpretazione al berlusconismo. Enrica Colusso insegna, produce, le sue scelte di “set” l’hanno riportata in Italia e l’hanno spinta anche altrove - da molti anni si è stabilita a Londra. La domanda a questo punto è: tutti questi filmmaker, così eterogenei (anche per un fatto generazionale), avrebbero fatto film diversi rima­ nendo in Italia? 75

CRISTINA PICCINO

La risposta - la mia almeno - è no. Nel senso che lavorare all’estero (produttivamente) ha permesso loro di trovare una risposta più adeguata a una poetica personale che era già lì e che sicuramente in Italia non avrebbe trovato la stessa corrispondenza. Qui da noi, tra l’altro, sono molti i registi della realtà che vanno altrove: Palestina, Africa, favelas brasiliane... E come se ci fosse uno strano flusso all’inverso: chi vive e lavora all’estero racconta l’Italia, chi sta in Italia va fuori. Forse è perché questo “altrove” rappresenta più un’esigenza espressiva, un modo di avvicinarsi al cinema del reale, che semplicemente una condizione produttiva. Non è un caso se Arturo Lavorato e Felice d’Agostino, altri due cineasti che coniugano ricerca estetica al loro soggetto (il sud d’Italia), stiano lavorando a Parigi con la Picofilms di Savona. In qualche modo sono anche loro migranti, perché dalla Calabria si sono trasferiti a Roma: la loro è però una migrazione dello sguardo, che avvicina il loro cinema a quelle tensioni di poetica del reale oggi comuni a molta ricerca artistica mondiale - In attesa del­ l’avvento (2011), il loro ultimo lavoro, era alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti, che ha vinto come migliore medio­ metraggio. Questi “migranti interni” sono anche i più riconosciuti a livello inter­ nazionale, sono i loro film che troviamo nei festival come Rotterdam, Ber­ lino, o al Fid di Marsiglia, che è una manifestazione estremamente esi­ gente. Un regista come Fabrizio Ferraro - Je suis Simone (2009) - è trai pochissimi italiani; l’anno scorso, invece, ma nel Concorso dedicato alle opere francesi, c’era Poser me va si bien (2010) di Sara Pozzoli: lei è ita­ liana, vive a Roma, ma ha trovato una sinergia produttiva in Francia. Non a caso, anche qui, ha lavorato con Giovanni Maderna in Cielo senza terra, uno dei film più intensi della passata stagione (era alle Giornate degli Autori di Venezia 2010). Lui è un caso di migrante al contrario: dalla Francia dove ha realizzato i primi film, è tornato in Italia - ma il suo modo di fare cinema non è cambiato, continua a essere “migrante” e ricono­ sciuto soprattutto all’estero. Lo stesso vale per due narratori della realtà come Angela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian a cui la londinese Modem Tate ha dedicato una retrospettiva nel novembre 2011. O Armin Linke, che si è trasferito a Berlino e lavora però molto in Italia - Alpi (2011), il suo ultimo film, è una variazione sulla costruzione degli immaginari girato tra Italia, Austria, e tutti i confini delle Alpi. Oppure Andrea Caccia, con La vita ai tempi della morte (2010); o ancora Martina Parenti e Massimo D’A­ nolfi, con la loro rilettura del cinema diretto - Il Castello (2011) ha vinto gli Hot Doc. 76

IL DOCUMENTARIO E LA MIGRAZIONE. UN FATTO DI RESISTENZA

Di fatto tutti questi “migranti”, dentro e fuori, sono anche i nostri autori conosciuti all’estero. E la ragione non è semplicemente tecnica: nella loro ricerca si manifestano le esigenze del cinema e degli immagi­ nari contemporanei di ogni latitudine, dalla Thailandia alla Francia, dal­ l’Inghilterra agli Stati uniti. La migrazione è dunque un gesto di resistenza. Si può anche stare fermi (fisicamente parlando). Ps.: c’è una nuova scoperta, grazie al Tff 2011, tra i migranti: si chiama Laura Lazzarin, è di Padova e da qualche anno si è trasferita a Berlino (generazione postParis). Land ofJoy (2011), il suo primo lungometrag­ gio, parla però dell’Italia, del Veneto di ieri e di oggi.

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GIOVANNELLA RENDI

“LA VERIFICA INCERTA”: L’USO DEL MATERIALE D’ARCHIVIO NEL DOCUMENTARIO ITALIANO CONTEMPORANEO

. .per cui basta documentari oggettivi e viva la soggettività!. Con la giusta dose di consapevolezza, però!" (Alina Marazzi')

Nell’ambito del già spinoso “sistema binario”2 malamente diviso tra cinema e documentario, e in cui quest’ultimo è spesso definito in nega­ tivo (cinema di non fiction) o in absentia di elementi (la sceneggiatura, gli attori professionisti), poco spazio sembra rimanere per parlare del docu­ mentario realizzato, parzialmente o totalmente, con materiale d’archivio. Misconosciuto sottoinsieme di un genere, quello documentaristico appunto, che in Italia ha sempre avuto enormi difficoltà non solo ad affer­ marsi in senso visibile attraverso una distribuzione non penalizzante, ma soprattutto a guadagnarsi la dignità di status cinematografico vero e proprio, il documentario realizzato con materiale d’archivio viene immediatamente identificato dall’immaginario collettivo dello spettatore medio con il pro­ dotto storico, classico, televisivo. In altre parole, rievoca immediatamente quello che Pierre Sorlin definisce documentario di celebrazione', un filmato costituito da un testo scritto da eminenti e stimati storici di un determinato periodo, e in cui immagini, testimonianze e significanti sonori non hanno altra funzione che illustrare un discorso di tipo prettamente cronologico’. Le considerazioni che seguono - e che, occorre sottolinearlo, non hanno alcuna pretesa di esaustività, bensì mirano semplicemente a con­ tribuire ad un dibattito estetico e culturale - vertono quindi non su que­ sto tipo di prodotto, considerato peraltro con il massimo rispetto, bensì 78

LA VERIFICA INCERTA”: L’USO DEL MATERIALE D’ARCHIVIO

sul documentario d’autore nelle sue varie forme e sperimentazioni: un prodotto in cui il materiale d’archivio non rivesta una funzione mera­ mente illustrativa di una realtà storica narrata, bensì divenga oggetto di rielaborazione artistica di un passato attraverso cui sia possibile inter­ pretare la società di ieri e di oggi. Un cinema documentario, dunque, non assertivo ma che piuttosto coltiva l’esercizio del dubbio, mettendosi in gioco in prima persona, come peraltro risulta essere una delle caratteri­ stiche costitutive del documentario italiano contemporaneo: «Torna al centro la biografia dell’esistenza: senza utopie, in una marginalità dimessa, dove il progetto politico riguarda l’individuo nudo innanzi alla (sua) storia [...] Una modalità documentaria che impara a dire “io” (dopo il “noi” degli anni sessanta-settanta), dove lo sguardo gettato sul reale diviene, inevitabilmente, sguardo su se stessi»4. Molteplici ma ancora insufficienti iniziative, alcune già tramontate (come la stagione d’oro della illuminata politica di finanziamento di Tele+ conclusasi nel 2003), altre ancora felicemente in essere (come la nascita e lo sviluppo dell’associazione Doc/it, la rete di distribuzione alternativa Documè, il sito ildocumentario.it attivo dal 2000, ecc), hanno comunque fatto sì che si potesse parlare - come fa Adriano Aprà - di una “rifondazione” del documentario italiano5: svincolata dall’eredità di un cinema del passato decisamente in crisi, più libera e quindi più fram­ mentata (ma allo stesso tempo più isolata e svantaggiata) questa recente produzione presenta un corpus frastagliato e molteplice, ben lontano dall’idea di un “pensiero unico”. Si assiste infatti ad una rivendicazione di soggettività da parte dei cineasti, in netto contrasto con il tradizionale preconcetto sul genere documentario, considerato da sempre garanzia di maggiore vicinanza alla realtà e, soprattutto, di distacco emotivo. L’elemento di necessità, collegato al concetto di scelta su cui si costrui­ sce l’opera, affonda infatti sempre più le radici nella storia personale, il rapporto con il tempo si trasforma in un “corpo a corpo” e l’esperienza della storia si costruisce attraverso la fertile combinazione di «massimo della conoscenza con il massimo dello spaesamento»6. Lo spostamento dello sguardo dalla realtà a se stessi, o per meglio dire, lo sguardo sulla realtà mediato dall’esperienza di sé, passa ovvia­ mente attraverso la voice over e il montaggio, i due elementi costitutivi del cinema documentario che non escono indenni da questa rivoluzione copernicana. Scompare infatti l’io narrante che asserisce, oggettivizza, afferma dogmaticamente, la voce sconosciuta e anonima, “paradivina” e onnisciente, per lasciar posto allo stesso regista, in un ruolo testimoniale, intimo, che trasforma il documentario da sede di certezze assolute a luogo di domande aperte più che di risposte. 79

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Si assiste dunque alla deviazione verso una modalità prima di tutto partecipativa, e anche se permane comunque dominante il logocentrismo che ha caratterizzato la storia del documentario, si può dire che la sua assertività si sia modificata sempre più in funzione del passaggio dalla voce formale a quella poetica, o meglio dalla modalità “espositiva” in cui l’enfasi è posta soprattutto sul commento verbale e sulla logica argo­ mentativa a quella, appunto, “partecipativa” dove l’attenzione è focaliz­ zata sull’interazione tra regista e soggetto7. Grazie al graduale abbandono della egemonia del verbo e soprattutto della scrittura, il montaggio assume sempre maggiore importanza come luogo di costruzione di senso e può giocare con le informazioni, le imma­ gini e la loro alterità, ovvero il continuo rimando visivo e semantico al fuori-campo. L’emergere alla ribalta del bistrattato sottoinsieme del documentario con materiale d’archivio (sia esso istituzionale o privato, propagandistico o squisitamente familiare) risponde forse ad un processo di saturazione delle immagini che sembra aver colpito la nostra società negli ultimi anni grazie alla moltiplicazione delle tecnologie audiovisive: il procedimento di soggettivizzazione della realtà che costituisce il denominatore comune della produzione documentaristica italiana di inizio millennio, risponde evidentemente ad un’esigenza di riflessione sull’atto stesso del guardare la realtà, e il materiale d’archivio interrompe l’illusione di realtà/verità insita nel concetto stesso di documentario per spostare l’attenzione sul montaggio di sguardi e significanti sonori “altri”. Il distacco dall’idea di verità rivelata oggettiva e inconfutabile attra­ verso le immagini non fiction, fa sì che venga rivalutato materiale pree­ sistente e vistosamente già manipolato in uno stadio precedente. La ricerca di autenticità, paradossalmente, passa attraverso la messa in scena, più o meno conscia, realizzata da altri, spesso anonimi, spesso lon­ tani nel tempo e nello spazio. L’utilizzo di materiale d’archivio per un documentario o addirittura per un’opera di fiction ha radici antiche nella storia del cinema mondiale8 e tuttavia non esiste una denominazione definitiva per questo genere. Anche per quanto concerne il documentario per così dire “normale”, ovvero realizzato con materiale girato dal regista, come si accennava in apertura, le definizioni sono molteplici e anche molto creative (“cinema di non fiction”, “cinema di chiarificazione”9, “cinema di improvvisa­ zione”10). Di norma, questo tipo di prodotto è passato alla storia secondo la definizione lievemente spregiativa di “documentario di montaggio”, che sembra implicitamente insinuare che il montaggio sia l’unica fase del processo produttivo o, per meglio dire, l’unico procedimento creativo di 80

“LA VERIFICA INCERTA”: L’USO DEL MATERIALE D’ARCHIVIO

tutta l’operazione. Non sfugge allo stesso implicito rimprovero anche la dicitura “film di compilazione di materiali d’archivio”11 laddove il termine compilazione implica evidentemente l’atto del redigere più che del creare artisticamente. A nostro avviso, la denominazione più appropriata, pro­ prio in quanto priva di impliciti giudizi “morali”, è quella di “documen­ tario a base (totale o parziale) d’archivio” di Ansano Giannarelli e Silvia Savorelli12 ed è questa che userò d’ora in poi. La caratteristica principale di questo tipo di documentario consiste soprattutto nella cancellazione della tradizionale concezione del regista come “storico del presente”: l’autore che si prende tutto il tempo neces­ sario per filmare, e la cui opera può subire trasformazioni e svolte ina­ spettate rispetto al progetto iniziale, a causa delle casualità e delle varia­ bili che gli si presentano durante l’atto stesso del riprendere la realtà. Se si intende realizzare un documentario a base totale d’archivio, questa immagine non è più plausibile, a meno che non si voglia sostituire il tempo delle riprese con il tempo delle ricerche (cosa difficilmente paragonabile), o meglio con il tempo di cui il regista ha bisogno per acquisire familiarità con il materiale. Di rado, infatti, lo cerca personalmente, e di solito, soprattutto per il materiale di tipo “istituzionale”, si avvale di un ricerca­ tore che, interpretando le direttive, di fatto assume il ruolo di “media­ tore” tra il regista e il materiale, operando comunque una selezione. L’utilizzo del materiale d’archivio è non solo, come si accennava pre­ cedentemente, una riflessione sull’atto del guardare, ma anche e soprat­ tutto un processo di storicizzazione del proprio vissuto, nella misura in cui il personale diviene universale. Possiamo infatti considerare il materiale d’archivio come una delle tante manifestazioni, o per meglio dire, di “strutture connettive”, di quella che è stata definita memoria culturale"'. un processo collettivo di riorga­ nizzazione di un passato condiviso attraverso le forme della ripetizione e dell’attualizzazione, che non a caso sono gli elementi fondanti del mon­ taggio del documentario a base di archivio. Il materiale audiovisivo, isti­ tuzionale o privato che sia, rispondendo ad una forma di organizzazione della memoria, della trasmissione e del senso culturale, altro non è che un luogo artificiale in quanto oltre alla coscienza storica e alla tradizione vi sono presenti la mitodinamica e soprattutto l’autodefinizione, perché “per la memoria culturale è valida non la storia de facto ma quella ricordata”14. Attraverso il montaggio l’autore procede dunque ad una riorganizzazione di senso di secondo grado di un materiale che anche in origine era ben lon­ tano dalla realtà, risemantizzando dunque un immagine già costruita, e il risultato può essere considerato la messa in scena di un passato filtrato dalla memoria (con le sue inevitabili rimozioni), un mezzo per riprendere pos­ sesso della forma di conoscenza che ne abbiamo nel presente. 81

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Non è un caso quindi, se la storia del documentario a base d’archivio in Italia sia stata connotata sin dall’inizio da una forte valenza di tipo politico, sin dal primo esempio che sono riuscita a rintracciare, ovvero il documen­ tario dell’istituto Luce Gloria, commissionato al pioniere del documenta­ rio scientifico Roberto Omegna nel 1934. Omegna, chiamato a collaborare con l’ente della cinematografia documentaria sin dalla sua creazione, è inca­ ricato di rimontare ore e ore di materiale della Grande Guerra ovviamente seguendo i dettami propagandistici del regime fascista, e per quanto il risul­ tato dimentichi Caporetto per sottolineare principalmente l’eroico patriot­ tismo dei ragazzi del ’99, le immagini loro malgrado non riescono a far dimenticare la drammaticità della guerra e il prodotto riveste interesse comunque in quanto portatore dei valori propagandistici di un’epoca. Tra i primi documentari a base d’archivio a contribuire al lacunoso processo di storicizzazione del recente passato italiano, vi sono indiscu­ tibilmente il film di Cecilia Mangini, Lino del Fra e Lino Miccichè All"armi siam fascisti del 1961 e La Rabbia di Pier Paolo Pasolini ( 1963 ) ”. All’armi siam fascisti nasce in un periodo estremamente controverso della recente storia italiana, ovvero in seguito alle manifestazioni e ai san­ guinosi scontri che seguono la decisione da parte del governo Tambroni di formare una coalizione con i voti dei deputati del MSI e di appoggiare il Convegno Nazionale dei Neofascisti nel 1960. Di fronte a questi avve­ nimenti, gli autori sentono l’esigenza di una riflessione dialettica sul ven­ tennio del regime, troppo presto dimenticato in nome di un generale e riconciliatorio antifascismo. Con un montaggio serrato per analogia e contrasto vengono messi a confronto materiali come il documentario sulla marcia su Roma A noi!, Uomini e voci del congresso socialista di Livorno, Dalla sagra di Napoli al trionfo di Roma, fino alle immagini coeve delle cariche della polizia, accompagnati dalla voce di Franco Fortini, che si distacca fortemente dalla retorica documentaristica in voga, per rivolgere un appello direttamente alla coscienza dello spettatore: “Biso­ gna scegliere, bisogna decidere. Il vostro destino è solo vostro: decidete”. Pasolini invece, su incarico di Gastone Ferranti, produttore dei cine­ giornali della testata “Mondo Libero”, si interroga sull’evoluzione della società a lui contemporanea, partendo dall’apocalittico interrogativo: “Perché la nostra vita è dominata dalla scontentezza, dall’angoscia, dalla paura della guerra, dalla guerra?”. A commento delle immagini spesso triviali, retoriche e sensazionalistiche dei cinegiornali, Pasolini scrive un commento in prima persona (letto da Giorgio Bassani nelle parti poeti­ che e da Renato Guttuso per la prosa) in cui denuncia con rabbia e dolore, e con inquietante preveggenza, la trasformazione della società dominata sempre più dai valori capitalisti e borghesi, colpevole della scomparsa del mondo rurale e proletario. 82

“LA VERIFICA INCERTA”: L’USO DEL MATERIALE D’ARCHIVIO

In entrambi i casi, sia il pamphlet politico che il “saggio tra poetico e ideologico”, trasformano per la prima volta il documentario a base d’archivio rendendolo “una lezione di storia e contemporaneamente una lezione di cinema”16 e anticipano la tendenza, sviluppatasi di recente, allo sguardo soggettivo attraverso un io narrante riconoscibile. Sul piano formale, invece, il montaggio non assurge ancora (ovvero non nella sua piena riconoscibilità) ad una funzione dialettica e creativa, luogo di riflessione estetica, bensì rimane ancora subordinato all’inva­ denza della parola17.

Il doppio binario della soggettività partecipativa e la riorganizza­ zione della memoria culturale trova un terreno particolarmente fertile nel materiale proveniente da archivi privati: negli ultimi anni i cosid­ detti “filmini di famiglia” o “home movies” sono stati protagonisti di un deciso processo di rivalutazione sia storica che estetica (la loro qua­ lità si rivela infatti spesso sorprendentemente elevata) che ha culminato con la fondazione dell’Home Movies - Archivio Nazionale del Film di Famiglia a Bologna. Matrimoni, comunioni, nascite e vacanze scandiscono pellicole in Super 8, popolate da gentili fantasmi che sorridono sempre all’obiettivo, protagonisti assoluti ancorché sconosciuti. Essendo il possesso della macchina da presa nella società italiana del Novecento ancora un lusso decisamente elitario, le immagini che ne scaturiscono costituiscono, oltre al legittimo desiderio di ricordare e di preservare dalla morte, anche la soddisfazione di esprimere una precisa appartenenza sociale: la docu­ mentazione non può dunque non mostrare implicitamente aspetti della personalità di chi registrando le immagini di fatto mette in scena la pro­ pria (benestante) esistenza. Non è forse casuale che i due più grandi successi di critica e di pub­ blico degli ultimi anni (tra i pochi documentari italiani ad avere l’onore di una distribuzione in sala) siano state due opere difficilmente classi­ ficabili e che contengono, seppur riorganizzato semanticamente in maniera affatto diversa, immagini provenienti da archivi privati. Men­ tre ne La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello il materiale audiovi­ sivo costituisce solo uno dei molteplici elementi di un’opera estremamente complessa, Un'ora sola ti vorrei di Alina Marazzi (2002) è un’o­ pera a base totale d’archivio realizzata con i filmini girati dal nonno a partire dal 1926 al 1972. La bocca del lupo si può definire un’opera ad andamento circolare in cui alla vicenda centrale ripresa dal regista (la storia di Enzo e Mary, due personaggi ai margini della società che sembrano uscire da un film di Kaurismaki o da uno degli “amori difficili” di Calvino) si intersecano 83

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continuamente altri due piani narrativi che contengono la storia della città di Genova come mnemotopo (lo sbarco dei Mille da Quarto) e com’è diventata oggi, uno strano non luogo dove gli uomini vivono nelle caverne e chilometri di spazio sono affollati da un cimitero di container, gru e navi. Tre sono i livelli anche del materiale d’archivio inteso come pubblico (quello proveniente dalla Fondazione Ansaldo), quello semi­ pubblico (il repertorio del circolo amatoriale genovese) e privato (il fondo della famiglia Vassallo dalla Home Movies di Bologna). Tre sono anche i livelli dei significanti sonori: le voci di Enzo e Mary che si rac­ contano, le loro voci registrate nelle audiocassette che si scambiano per anni (inizialmente misteriose e incomprensibili per lo spettatore) e infine, in una modalità testimoniale ma nascosta, la voce del regista. Pietro Mar­ cello non parla in prima persona, preferisce celarsi dietro la apparente­ mente tradizionale anche se poetica voce narrante di Franco Leo, ma sono suoi i versi recitati, un atto d’amore alla città e ai suoi personaggi (“Questo è stato, misura della notte, del giorno, del tempo, dell’amore, dell’ombra, della luce. Questo è stato, una volta in una città”). Un'ora sola ti vorrei è un film estremo, un caso limite, sia per l’ine­ dito uso d’archivio privato a base totale, sia per la messa in scena di un privato dolorosissimo e struggente, quasi imbarazzante per lo spettatore che si trova inizialmente spiazzato. Alina Marazzi scava infatti nelle tan­ tissime bobine di materiale girato dal nonno, l’editore Ulrico Hoepli, a partire dalla metà degli anni ’20, alla ricerca del volto di sua madre, morta suicida nel 1972, dopo anni di voluta e forse necessaria dimenticanza. Il filtro individuale della memoria conosce in questo caso una valenza par­ tecipativa praticamente assoluta, rafforzata dalla decisione della regista di “impersonare” sua madre, leggendo lei stessa lettere e diari autentici ma costruiti come un monologo d’addio alla figlia. Malgrado l’incande­ scenza di un argomento così personale, la Marazzi non solo riesce a rea­ lizzare un’opera di grande pudore e piena di commozione, ma fa emer­ gere la duplice valenza universale che si nasconde dietro una vicenda pri­ vata: da un lato le radici oscure dell’infelicità umana (nel mancato rico­ noscimento materno la coscienza della propria inadeguatezza e la con­ seguente cognizione del dolore) e parallelamente, l’insofferenza per le rigide gabbie della condizione femminile borghese e l’imminenza del femminismo, che non a caso diviene oggetto di ripensamento e storicizzazione nel successivo Vogliamo anche le rose (2007). Un conflitto di gender, sociale, storico e culturale che si ripercuote sul “corpo a corpo” con il materiale filmico, un materiale quanto mai indice dell’autodefinizione di sé operata dall’invisibile regista, che più o meno consciamente utilizza la macchina da presa per documentare la propria scalata sociale dal paesino svizzero di provenienza alla fortunata carriera 84

LA VERIFICA INCERTA”: L’USO DEL MATERIALE D’ARCHIVIO

di editore a Torino. La personale mitopoiesi è dunque scandita da eventi degni di una famiglia reale (matrimoni con tanto di paparazzi, eventi mondani, vacanze a Capo Nord o nel “feudo” svizzero) e rappresentata non solo con gli stilemi iconografici tipici delle varie epoche che attra­ versa, ma con un senso della messa in scena che ha reso molto difficile il processo di decostruzione, costringendo spesso l’autrice e la montatrice ad aggirare i vincoli imposti dall’“operatore autoritario”18.

Né materiale privato né istituzionale, girato su commissione per l’ENI di Enrico Mattei e frantumato nel passaggio in Rai dell’epoca con il titolo significativo di frammenti di un film di Joris Ivens, L'Italia non è un paese povero (1960) costituisce ormai una sorta di patrimonio per la memoria culturale audiovisiva italiana. Pur se trascurato nell’ambito della filmo­ grafia di uno dei più grandi documentaristi del Novecento, continua ad essere oggetto di attenzione per cineasti di oggi, sia per la sua importanza di documento storico, fotografia affettuosa e spietata dell’Italia del boom economico così vicina e così lontana, sia come testimonianza delle ambi­ guità del periodo, che si concretizzano nella sua parabola dalla commit­ tenza illuminata alla censura di stato. Appartiene a quest’ultimo filone Quando l'Italia non era un paese povero, realizzato da Stefano Missio nel 1997, che focalizza la sua atten­ zione sulle vicissitudini del film non solo durante la sua complessa rea­ lizzazione ma anche sulla rocambolesca fuga della copia definitiva verso la Francia ad opera di un giovane Tinto Brass, per sottrarla al bisturi della censura democristiana televisiva. In un bianco e nero allucinato e non privo di eleganza malgrado lo stile ancora piuttosto acerbo, Missio mette in scena quasi esclusivamente i protagonisti della vicenda, come Valen­ tino Orsini, i fratelli Taviani, Tinto Brass, Virgilio Tosi, lasciando che il materiale originale occhieggi fuggevolmente da una sala di montaggio o si rifletta nello sguardo spento dietro le lenti spesse dell’anziana monta­ trice che con un filo di voce dice soltanto: «Non mi ricordo...». Il mate­ riale vero e proprio appare fuggevolmente nel finale, che mostra la sequenza drammatica e controversa della Basilicata con il neonato coperto di mosche, quasi un’immagine da Terzo Mondo, che però subito sfuma sui titoli di coda, mentre rimane l’audio dell’intervista alla povera famiglia. Malgrado il predominio della parola, Missio sceglie dunque la via delle informazioni “tacite”, in quanto legate ad immagini che con­ tengono in sé il fuori-campo, ovvero rimandano continuamente alla nar­ razione di eventi altri che lo spettatore cerca di visualizzare. Antitetico, almeno sul piano formale, è invece II mio paese (2006) di Daniele Vicari, che si può considerare a buon diritto tra i migliori esempi di elaborazione della memoria culturale: costituisce infatti una perfetta 85

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decostruzione di mitopoiesi, o meglio una decostruzione di secondo grado o meta-decostruzione, dato che, nonostante le premesse (o le pro­ messe) dovute alla commissione di un industriale illuminato come Mat­ tei, il documentario di Ivens si poneva già come grado zero di disvela­ mento del falso mito del boom economico e della speranza già persa di un paese migliore. Vicari sceglie di ripercorrere, cinquanta anni dopo, il percorso geo­ grafico e politico tracciato dal regista olandese dal sud al nord Italia, inte­ ragendo con il materiale originale. Subito dopo i titoli di testa, tuttavia, in una sorta di prologo, la sua voce sottolinea che attraverso l’elemento di soggettività del suo sguardo sarà filtrato un patrimonio mnemonico culturale comune: «Ho sentito dire spesso che i vecchi film sono come i sogni o i ricordi di tutti noi, è forse per questo che vedendo il film di Ivens L’Italia non è un paese povero ho avuto davvero la sensazione di aver vissuto le cose che lui racconta, di aver conosciuto persone, luoghi, dialetti (...)». Dalla visione del vecchio film di Ivens, nasce per Vicari l’esigenza prima di tutto politica di analizzare e interpretare la situazione politica ed economica del paese “non per confrontarmi con un così grande pre­ decessore, ma per farmi aiutare da lui”19. Non è casuale quindi che il rapporto con il materiale di Ivens, molto cospicuo nella parte iniziale dedicata a Gela, si faccia sempre più rare­ fatto, fino a scomparire nella lunga sequenza dedicata all’Italia centrale, riapparendo nel finale con la breve e discussa (in quanto palesemente forzata) sequenza del sogno del bambino a Venezia. L’interazione maggiore con il materiale d’archivio non è nella fase ini­ ziale, in cui il rapporto è soprattutto quantitativo, ma nella già citata sequenza della Basilicata che chiude il film di Missio e che rappresenta uno dei momenti più commoventi del film di Ivens, ma anche più rive­ latori dell’illusione di Mattei di un mondo migliore, governato da un pro­ gresso per così dire pasoliniano (nell’antitesi di sviluppo). La ritrovata famiglia, ora in condizioni più che dignitose, si “riconosce” nelle imma­ gini con la stessa semplicità e dignità con cui cinquanta anni prima aveva guardato nella macchina da presa. Senza alcuna ingerenza né virtuosismi di montaggio, anche qui come nel film di Missio, le immagini si riflet­ tono nello sguardo di un’anziana donna, la madre, che si limita a mor­ morare «come è brutta la miseria...», un dolore atavico disegnato sul volto su cui la macchina da presa indugia in primo piano. Un’immagine che si collega idealmente all’unica deviazione dal tracciato prestabilito verso un personale tragitto di Vicari che è sempre comunque politico, ovvero l’incontro con suo padre, ex emigrato, che cammina nella neve in una sequenza allo stesso tempo poetica e metafisica. 86

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Quando il repertorio non è opera di un anonimo anche se talentuoso operatore di cinegiornale, ma di un maestro del cinema il rapporto con il materiale d’archivio è quindi di affettuosa deferenza, ma non di sog­ gezione, piuttosto di complice cautela: «Il documentario di Daniele sot­ tintende il lavoro dj Ivens. Anche quando non appare viene citato, non solo verbalmente. E la trama nascosta, che si scorge in filigrana. Forse allora il repertorio ne II mio paese è una guida, un vademecum da con­ sultare quando si parte, il post it che segna una tappa del viaggio»20. Il materiale dell’istituto Luce costituisce una fucina pressoché ine­ sauribile di materiale audiovisivo che va dagli inizi del secolo (materiale di fondi acquisiti successivamente, dato che la fondazione del Luce risale al 1924) agli anni ottanta, anche se ovviamente il materiale più conosciuto e usato è sicuramente quello del ventennio fascista, o meglio quello ine­ rente ad alcuni momenti salienti del ventennio fascista. La dichiarazione di guerra, l’annuncio della conquista dell’Etiopia, la posa della prima pie­ tra di Cinecittà, Mussolini al Gran Sasso e con Hitler sono ormai ele­ menti costitutivi della nostra biografia di spettatori, talmente noti e fami­ liari nell’eterna riproposizione televisiva da essere di fatto svuotati di significato. Non tanto perché ormai si tratta di un paradigma negativo del male assoluto e quindi universalmente condiviso, come accade con la coscienza collettiva tedesca in rapporto alla Shoah, quanto perché la coscienza italiana rifiuta da sempre una più diretta assunzione di respon­ sabilità in nome di meccanismi di rimozione fortemente auto assolutori, che comunque non è qui la sede idonea per indagare.

Contro questi meccanismi, anzi in favore del loro smascheramento, si schierano due recenti documentari a base di materiale dell’istituto Luce ovvero Inconscio italiano di Luca Guadagnino e II sorriso del capo di Marco Bechis, entrambi realizzati nel 2011. Il film di Guadagnino, in particolare, svela già dal titolo il desiderio di scavare nei recessi più recon­ diti della psiche collettiva di una nazione per scardinare le basi della sua autorappresentazione per quanto riguarda un argomento ancora non del tutto affrontato come quello della colonizzazione fascista. E una sorta di Nostos alle origini della memoria culturale, costruita quindi sul ricordo anziché sulla realtà, per arrivare ad una sorta di seduta psicanalitica col­ lettiva, in cui si analizzano le dinamiche del razzismo nella cultura ita­ liana di ieri e di oggi, e i miti di fondazione dell’inconscio collettivo dal dopoguerra in poi. Anche da un punto di vista estetico Inconscio italiano ricalca le dina­ miche di una seduta psicanalitica, essendo strutturato secondo regole non propriamente convenzionali del documentario a base di montaggio: 87

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non solo è diviso in un vero e proprio dittico (anche se di diseguali pro­ porzioni) dove dominano rispettivamente la parola e l’immagine, ma insi­ ste in maniera assolutamente inedita sulle persone intervistate, quasi a voler attirare l’attenzione dello spettatore più sull’ambiente dove presu­ mibilmente studiano o lavorano che al contenuto delle loro analisi stori­ che. Il colloquio con l’intervistato (Angelo Del Boca, Lucia Ceci, Michela Fusaschi, Iain Chambers, Ida Dominijanni, Alberto Burgio) ricorda effettivamente una seduta terapeutica, come ce le ha mostrate recente­ mente non tanto il cinema (ancora forse arenato su archetipi freudiani da commedia ebraico-newyorkchese alla Woody Alien) quanto ottimi prodotti del calibro del serial di origine israeliana In treatment (creata e prodotta da Rodrigo Garcia, 2008-2010), che non a caso privilegiano il primo piano e l’inquadratura quasi fissa per focalizzare l’attenzione dello spettatore soprattutto sulle parole e sui gesti, con lievissimi spostamenti dell’asse di ripresa e qualche gioco di rispecchiamento tra intervistatori e intervistati, ovvero tra medico e paziente. Questa messa in scena “drammatica” (in un elegantissimo bianco e nero ricalca neanche troppo implicitamente l’estetica di regime del mate­ riale d’archivio e ne simboleggia implicitamente la continuità) costitui­ sce per Luca Guadagnino un elemento fondamentale del rapporto che si sviluppa tra i personaggi intervistati e lo spettatore che, a suo dire, «deve vedere i luoghi dove vengono dette le parole come accade con Straub e Huillet intervistati in sala di montaggio da Pedro Costa»21. All’interno del loro “nucleo narrativo” gli intervistati talvolta osservano meta-cinematograficamente il materiale audiovisivo sul pc, talvolta par­ lano con lo sceneggiatore Giuppy D’Aura in campo o con Guadagnino stesso fuori campo. Tra una “seduta” e l’altra si comincia a insinuare bre­ vemente il materiale d’archivio, in un connubio talvolta illustrativo (volti di personaggi etiopi), talvolta criptico-evocativo (una folla che al ralenti si addensa in una stessa direzione, si tratta della folla che si sta dirigendo sotto il balcone di Piazza Venezia in attesa di assistere al famoso discorso della conquista dell’impero, ma questo lo spettatore non lo sa). Sia Inconscio italiano che II sorriso del capo sono tra le opere qui prese in esame quelle che maggiormente riflettono la definizione di Gauthier, secondo cui quando usa materiale preesistente, un film diventa «un documento non più sulla vita, ma immaginario di unepoca»12(il cor­ sivo è mio), tuttavia l’utilizzo della parola rispetto al’immagine nei due documentari è in funzione esteticamente speculare. Mentre nel film di Bechis la parola si nasconde dietro l’immagine e l’identità di chi racconta rimane addirittura misteriosa fino alla fine, nel caso di Inconscio italiano, a parte queste brevissime pause che segnano delle piccole cesure a indi­ care l’ingresso in scena di un nuovo personaggio, il materiale d’archivio 88

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compare sullo schermo soltanto dopo 70 minuti. Fino a quel momento la parola domina incalzante, faticosa, costringendo lo spettatore ad uno sforzo di attenzione assolutamente inusuale per un documentario a base d’archivio. L’originale escamotage di eliminare l’elemento cinematogra­ fico ha l’effetto assolutamente inedito di svuotare il significato di quanto viene detto da qualsiasi elemento emotivo e quindi mitopoietico, auto rappresentativo, e, di conseguenza, auto-assolutorio. Mentre gli intervistati ripercorrono le nefandezze compiute dall’e­ sercito italiano in Etiopia, (e non solo gli stermini con i gas tossici ordi­ nati da Graziani), e il modello di colonizzazione “a distanza” operato da Mussolini, che dirigeva le operazioni dall’Italia, nessuna immagine, anche se falsamente edificante come quelle degli ospedali militari dove gli “italiani brava gente” curano i poveri etiopi devastati dalle malattie, può venire in soccorso dello spettatore. Guadagnino elimina così in tal modo i vuoti “Superzeichen”23 della memoria culturale italiana, a servi­ zio più dell’emotività più che dell’informazione o del ricordo, o meglio li pospone a dopo ben oltre la metà del film nel lungo segmento realiz­ zato soltanto con materiale d’archivio. Preceduti da alcuni secondi di silenzio, che quasi lasciano l’eco dell’affollamento delle parole prece­ denti, si susseguono tuttavia senza alcuna indicazione per lo spettatore che fatica a mettere insieme volti e luoghi, a individuare immagini di ani­ mali che “sembrano quasi test di Rohrschach” (Guadagnino24), e rico­ noscendo forse solo l’imperatore Hailè Selassiè, il cui sguardo enigma­ tico sembra sancire la componente poetico-evocativa del montaggio, e allo stesso tempo profondamente politica, esaltata dalla colonna sonora di Harmonium di John Adams, epica e disturbante. Se la seduta di psicanalisi collettiva appare esteticamente e storica­ mente riuscita a decostruire il mito degli “italiani brava gente” e definire il rapporto non riconosciuto ma radicato con il razzismo, meno convin­ cente appare però l’intento di tracciare forzatamente una continuità diretta ed esplicita tra il fascismo e la politica italiana contemporanea. Per quanto esista ancora nella nostra cultura l’elemento giuridico di retaggio fascista dello “lus sanguinis” e che (come si legge nella dida­ scalia iniziale) «con l’instaurazione della repubblica nel 1948 il partito fascista viene dichiarato incostituzionale. La forza che si appella alla sua eredità il MSI - Movimento Sociale Italiano, rimane all’opposizione fino al 1994,1 anno del governo Berlusconi», alcune modalità di analogia tra personaggi storici appaiono quantomeno discutibili.

Un’ideale filo rosso tra la politica del ventennio e quella italiana recente (il film nei titoli di coda porta la data di chiusura del 25 aprile 2011) è presente anche nel film di Marco Bechis 11 sorriso del capo: un’o­ 89

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pera che, più che documentario a base totale d’archivio, si può quasi defi­ nire una Gesamtkunstwerk del materiale dell’istituto Luce essendo costruito esclusivamente attraverso immagini, suoni e musiche originali dell’Archivio Storico. Una sorta di “caso limite” di questo genere cine­ matografico, che ha comunque ampi precedenti sin dai primordi del cinema, come è il caso di Padénije dinàstii Romànovych, (t.l. La caduta della dinastia dei Romanov, 1927) realizzato dalla regista Esfir Schub in occasione del primo decennale della rivoluzione russa, o, in tempi più recenti Un spécialiste, portrait d’un criminel moderne (Uno specialista, 1999) di Eyal Sivan (riduzione a 128’ delle 350 ore di registrazione del processo a Joseph Eichmann a Gerusalemme; coregia: Rony Brauman) o Autobiografia lui Nicolae Ceausescu (t.l. Nicolae Ceaucescu - Auto­ biografia di un dittatore) di Andrei Ujicà, presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2010. Ideato con il giornalista dell’Espresso Gigi Riva, il documentario di Marco Bechis esplora i meccanismi del rapporto tra il potere e la massa e il ruolo dei mass media nella manipolazione (ma anche fascinazione nei confronti del leader) dell’opinione pubblica durante il ventennio fasci­ sta: un argomento quanto mai attuale nonché uno dei motivi costitutivi del successo di Mussolini, ovvero la sua capacità di cogliere gli aspetti della modernità più utili a consolidare il già entusiastico consenso degli italiani al suo regime. Con l’eccezione di Camicia nera (1933), uno strano ibrido tra cinema e documentario, interpretato da attori non professionisti e con l’ambizione di raccontare l’Italia dal 1914 al 1932, diretto da Gioac­ chino Forzano25, nel cinema fascista l’elemento propagandistico ben presto viene abilmente occultato dietro le categorie di genere (com­ media, dramma, film di guerra) per diffondere più che altro implicita­ mente e subliminalmente sentimenti conservatori, nazionalisti e catto­ lici26. L’Istituto Luce, al contrario, fondato nel 1924 con la precisa fun­ zione di strumento didattico ed educativo del regime, è lo specchio politico e culturale dell’Italia fascista ed è suo il compito di presentare allo spettatore una società priva di poveri e assassini, di tribunali e car­ ceri, dove lo stato costruisce colonie elioterapiche per i bambini e sani divertimenti sportivi per gli adulti, isolata dal resto del mondo e con­ dannata al buon umore e alla forma fisica. Oltre a costituire comunque uno straordinario documento storico, di altissimo valore formale ed estetico, il materiale dell’Archivio Luce con­ tiene in sé anche qualche “variabile impazzita”, non soltanto nel cosid­ detto “repertorio” (così viene definito nell’Archivio il materiale non montato), ma anche nascosta nelle pieghe del suo materiale più ufficiale. Ecco dunque sbucare a sorpresa all’interno di un lunghissimo docu­ 90

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mentario di regime27 un altrettanto interminabile “fuori onda” durante un comizio a Torino nel 1932, che rivela allo sbigottito spettatore un Mus­ solini assolutamente fuori dall’immaginario collettivo, ben lontano dai canoni della nostra memoria culturale italica, che anzi ne scardina il tes­ suto connettivo con la sua seduttiva bonomia. Prima della svolta a seguito della quale “l’immagine classica del Duce diventa quella con l’elmo, come un’amplificazione metallica della super­ ficie del suo cranio”28 o dall’atteggiamento terrifico23 degli anni che vanno dalla dichiarazione di guerra alla Repubblica di Salò, quando i segni della sconfitta lo trasformano in una maschera pietrosa, Mussolini domina lo schermo interpretando un personaggio bonario e appunto sorridente, che suscita automaticamente un sorriso di risposta anche nello spetta­ tore di oggi. Un Duce non privo di qualche goffaggine, che ancora non ha sviluppato quella perfetta, isterica e ossessiva coreografia dialogica con la piazza, quella che viene parodiata da Ettore Petrolini nel famoso sketch di Nerone. I capi raramente sorridono, ma nella prima fase del ventennio Mus­ solini, come la Garbo, ride e anche spontaneamente: il suo sorriso è il riflesso della folla adorante, è un cardine del meccanismo di autoesalta­ zione del leader rispetto alla massa che, nelle intenzioni del regista, non è cambiato molto a distanza di quasi un secolo. Su un piano diametralmente opposto, si pongono i materiali dell’Archivio Luce che scelgono la modalità di una vera e propria messa in scena sotto forma di fiction: non solo i famosi “Tacete!”, veri e propri piccoli film che in tempo di guerra invitavano i cittadini a non farsi sfuggire informazioni che potevano rivelarsi essenziali al nemico, ma anche i ritro­ vati episodi di “Fesso di guerra”, interpretati da ottimi quanto scono­ sciuti caratteristi affiancati dalla “voce” dei cinegiornali Guido Notari in veste di spalla, nei quali viene crudelmente ridicolizzato un personaggio (di solito una persona anziana e dalle caratteristiche psico-fisiche del pic­ colo borghese) che osa esprimere in pubblico i suoi timori per la guerra e per le sorti dell’Italia fascista. I due volti dell’istituto Luce, il “fuori onda” e la fiction, costituiscono gli estremi formali di un’opera che non rinuncia a materiale documen­ tario più tradizionale (la visita del Duce alla Fiat, i documentari sulla stampa, sul funzionamento del telefono, sull’educazione dei bambini, sul palinsesto radiofonico), ma sceglie diversi piani di elaborazione formale. Il montaggio più che su un piano esplicitamente dialettico o poetico-evocativo, tende a nascondersi dietro l’evento storico: il regista più che costruirlo attraverso una rinegoziazione semantica, lascia che questo emerga spontaneamente nelle immagini e nel montaggio originali, limi­ tandosi piuttosto a sottolinearlo con interventi quasi impercettibili. 91

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L’uso di specificità del linguaggio filmico è volutamente assente, e così il confronto critico con la realtà storica esaminata non appare che a film concluso. I meccanismi di analogia, contrasto, ripetizione sono applicati non sui singoli fotogrammi o sulle inquadrature, bensì su ampi segmenti audiovisivi, vere e proprie macroaree su cui il regista ha scelto di non intervenire affatto oppure in maniera ironicamente destrutturata, anche se non del tutto percettibile per lo spettatore. In tal modo, nelle inten­ zioni di Marco Bechis, il montaggio del film assume una funzione che potremmo definire di natura essenzialmente compilativa, una sorta di catalogo delle possibilità di intervenire sul materiale Luce. Dietro l’apparente oggettività dei fatti si nasconde in filigrana una forte valenza testimoniale, che oscilla tra racconto e confessione, rap­ presentata da una voce anziana e un po’ affannata, ma sempre lucida e a tratti divertita e ironica, che racconta stralci di una vita cominciata nel 1921, lo stesso anno in cui è nato il fascismo: una vita paradigmatica, per molti aspetti, cominciata da fervente fascista, divenuto poi partigiano dopo l’otto settembre, poi emigrante e poi a sua volta capo di una grande azienda. Piccoli e grandi episodi, personaggi ormai scomparsi da tempo, di una vita lunga novanta anni, fino a che il film non si ferma sugli occhi verdi di Riccardo Bechis e sul suo interrogativo, destinato a rimanere senza risposta: «Mussolini lo vidi quando venne a Torino a giustificare la dichiarazione di guerra e mi vergogno a dire che mi aveva preso... mi aveva commosso. Oggi quanto lo vedo sembra Chariot, e mi domando come faceva a commuovermi. Ma ci commuoveva. Inconcepibile». 1 Alina Marazzi, Ilaria Fraioli, Un'ora sola ti vorrei in L'idea documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano, a cura di Marco Bertozzi con la collaborazione di Gian­ franco Pannone, Torino, Lindau, 2009, cit. p. 99. 2 Guy Gauthier, Storia e pratiche del documentario, Torino, Lindau, 2009, p.6. 5 Cfr. Pierre Sorlin, Il montaggio della storia, in Annali dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, n. 1,1998, A proposito delfilm documenta­ rio, pp. 98-106. 4 Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Venezia, Marsilio, 2008, cit. p. 278. 5 Cfr. Adriano Aprà, La rifondazione del documentario italiano, in L’idea docu­ mentaria Altri sguardi dal cinema italiano, cit. 6 Alice Rohrwacher in Atti dei convegni: Il documentario italiano, lo sguardo degli autori: due giorni di discussione e riflessioni sul cinema del reale, Officinema Visioni Italiane, 22/23 febbraio 2008 Bologna; Documentario giornalistico: sguardo oggettivo e soggettivo? Premio llaria Alpi, 3 giugno 2008 Riccione; Dialoghi sul cinema docu­ mentario italiano, Bellaria Film Festival Anteprima Doc, 6/7/8 giugno 2008 Bellaria Igea Marina, Bologna, Regione Emilia-Romagna, 2009, cit. p. 43. 7 Cfr. Bill Nichols, Introduzione al documentario. Milano, Il Castoro, 2006.

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8 II primo esempio ufficialmente riconosciuto risale addirittura al 1902 con The Life of an American Fireman (t.l. La vita di un vigile del fuoco americano) di Edwin S. Porter che utilizza scene d’archivio che vedono pompieri intenti a spegnere incendi veri accostate a sequenze da lui appositamente girate in funzione narrativa, cfr. Ansano Giannarelli, Silvia Savorelli, IIfilm documentario. Forme, tecniche e processo produttivo. Roma, Dino Audino Editore, 2010. 9 Jean Breschand, Il documentario. L’altra faccia del cinema. Torino, Lindau, 2005. 10 Carlo Cresto-Dina, Sia lode al gabelliere, in L’idea documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano, cit.. " Adriano Aprà, op. cit., p.189. 12 Ansano Giannarelli, Silvia Savorelli, op.cit., pp. 50-58. ” Jan Assmann, La memoria culturale. Torino, Einaudi, 1997. H Ivi, p.26. 15 Un esempio precedente di documentario con materiale di montaggio è costi­ tuito da Giorni di gloria (1945), coordinato da Mario Serandrei e Giuseppe De San­ tis, che contiene immagini girate anche da Marcello Paglieto e Luchino Visconti. Trattandosi di un’opera realizzata “a caldo” e che contiene peraltro scene di lotta partigiana “ricostruite” da De Santis, a mio giudizio non rientra a pieno diritto nel genere documentaristico qui trattato, inteso soprattutto come processo di storicizzazione. 16 Ansano Giannarelli, Silvia Savorelli, op.cit. p. 52. 17 Tra i successivi esempi di documentario a base totale d’archivio vanno per lo meno ricordati: La verifica incerta (1964) di Alberto Grifi e Gianfranco Baruchello (destrutturazione dei tempi e dei modi del cinema di genere hollywoodiano, rico­ struito in senso antinarrativo), Qa ira - il fiume della rivolta di Tinto Brass (1964), Voci da un pianeta in estinzione (1981) di Franco Brocani (assemblaggio di docu­ mentario realizzati per la casa di produzione Corona), La terra trema (1998) di Mario Mattone (materiale Rai sui terremoti) e la serie Alfabeto italiano prodotta per la RAI nel 1998 da Beppe Attene e Beppe Sangiorgi. Un discorso a parte meriterebbe poi l’opera di due raffinati artisti come Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, che da anni hanno avviato un intenso lavoro di rie­ laborazione del materiale proveniente da archivi storici (tra cui quello di Luca Come­ rio), per realizzare videoinstallazioni e filmati che scavano nei meandri della memo­ ria collettiva grazie ad una originale reinterpretazone del rapporto tra cinema e sto­ ria, sospesa tra pittura e avanguardia. 18 Così la montatrice Ilaria Fraioli definisce emblematicamente l’autore dei fil­ mini di famiglia Ulrico Hoepli, cfr.: Un’ora sola ti vorrei di Alina Marazzi e Ilaria Fraioli, in L’idea documentaria. Altri sguardi dal cinema italiano, cit. p.94. 19 L’Italia di Daniele Vicari intervista di Laura Buffoni in Daniele Vicari, Il mio paese, Milano, Feltrinelli, 2007, p. 18. 20 Benni Atria, Io e il mio paese, in ivi, p. 54. 21 Danièle Huillet et Jean - Marie Straub Cinéastes - Où git votre sourire enfoui?! di Pedro Costa (2001). L’intervista a Luca Guadagnino dell’undici agosto 2011 è su http://vimeo.eom/31323827. 22 Guy Gauthier, op. cit., p 23. 2) Letteralmente “super-segni”. Con questa definizione, lo storico del cinema tedesco Mathias N. Lorenz identifica i simboli iconografici più tristemente famosi dell’olocausto, come reticolati di filo spinato, cumuli di cadaveri, mucchi di scarpe,

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occhiali, capelli. Cfr. Matthias N. Lorenz, Der Holocaust as Zitat-Tendenzen in Holocaust-Spielfilm nach “ Schindlers List” in Sven Kramer (Hg), Die Shoah im Bild. Miinchen, edition text + kritik, 2003. 24 http://vimeo.com/31323827. 25 Camicia nera si può considerare un primo esperimento non riuscito di utilizzo di propaganda di regime eccessivamente diretta, paragonabile alla cosiddetta “Tri­ logia della SA (Sturmabteilung)” realizzata nella Germania alla presa del potere di Hider nello stesso anno, il 1933, e composta da: SA Mann Brandt (t.l. Brandt, l’uomo della SA) di Franz Seitz, Hans Westmar di Franz Wenzler e Hitlerjunge Quex (t.l. Il giovane hideriano Quex) di Hans Steinhoff. La trilogia aveva suscitato le critiche dello stesso ministro della Propaganda Joseph Goebbels. 26 Cfr. Vito Zagarrio. Cinema efascismo. Film, modelli, immaginari. Venezia, Mar­ silio, 2004. 27 11 Duce nelle trionfali giornate del decennale (1932, durata 90’). 28 Italo Calvino, Cominciò con un cilindro in «La Repubblica» del 10-11 luglio 1983. 29 Inteso nella sua accezione etologica, ovvero l’atteggiamento che assumono moiri animali per spaventare e allontanare predatori e avversari più grandi e perico­ losi di loro.

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L’ULTIMO OLMI

Ancora una volta la natura e il lavoro dell’uomo. Ancora una volta anche i bambini a dischiudere per poi contrappuntare intimamente una non mar­ ginale misura dell’elaborazione filmico-documentaria configurata dall’ul­ timo Olmi in Terra madre (2009) e Rupi del vino (2010), dopo l’esteso ed intenso pedinamento condotto su Jannis Kounellis mentre allestisce pro­ gressivamente lungo le due navate della Fondazione Arnaldo Pomodoro a Milano la sua mostra-installazione, confluito nel mediometraggio Atto unico di Jannis Kounellis (2QG1 ). Un Atto capace di far riverberare con lim­ pida concentrazione e sottigliezza espressiva i segni visibili/invisibili della drammaturgia della creazione, il farsi stesso del pensiero compositivo del grande artista ellenico, le tracce vive del suo corpo a corpo con la materia (tra travi di legno, pareti d’acciaio, mucchi di pietre “per la porta di Sarajevo”1, un quintale di carbone, un pianoforte, le grandi vele colorate, i quarti di bue appesi ai ganci...) destinato a plasmare poderosamente il gigantesco spazio dell’ex fabbrica di turbine Riva&Calzoni. Ancora una volta la natura e i bambini, dicevamo. Come lungo la prima volta del Servizio Cinematografico della Società Edison ovvero Piccoli calabresi sul lago Maggiore... Nuovi ospiti nella colonia di Suna (1954), il breve movimento di otto minuti in bianco e nero - in funzione di messa a punto per i successivi La pattuglia del passo S. Giacomo (1954) e La diga del ghiacciaio (1955) nella notoria direttrice del documentario d’impresa in casa Edison - aperto dalla notizia radiofonica di uno spa­ ventoso nubifragio imperversante da 48 ore sulla regione calabra che motiva il viaggio in treno di duecento bambini calabresi verso luoghi accoglienti messi a disposizione dalla grande azienda elettrica. 95

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Ma, in tutta evidenza, molte, troppe cose sono mutate nell’arco tem­ porale di oltre mezzo secolo separante il viaggio appena richiamato da quelli declinati entro e fuori i nostri confini geografici da Terra madre e Rupi del vino. Molte, troppe cose si sono contratte e chiuse nella dialet­ tica olmiana tra sguardo e mondo lungo l’ultimo trentennio, incrinando via via la sua iniziale apertura fiduciaria sulla capacità umana di armo­ nizzare sviluppo economico-industriale e ambiente naturale e condu­ cendolo conseguentemente a quel sensibile cambiamento di registro materializzato dalle immagini di Lungo il fiume (1992) e Mille anni (1994), per restare nel dettato della sua esperienza documentaria2. Come, vale la pena di rammentarlo, testimoniano alla loro pedagogica maniera le inquadrature strette sull’acqua avvelenata (tre di esse, brevemente con­ tratte, verranno riproposte all’altezza del tredicesimo minuto di Terra Madre) di cospicua componente dei tre minuti del prologo di Lungo il fiume rimarcate dal sincronico richiamo riflessivo a Konrad Lorenz ope­ rato da un’insegnante, tramite la lettura al microfono di brani dell’ultima conferenza tenuta dallo scienziato viennese pochi giorni prima della sua scomparsa nel 1989, all’indirizzo dei suoi giovani allievi in gita sopra un battello che solca il Po: «L’inquinamento a livello mondiale equivale al suicidio. [...] E un grosso errore credere che acqua e aria siano a nostra disposizione in quantità illimitate. [...] bisognerebbe che i potenti, i poli­ tici e gli industriali, cercassero di impedire l’avvicinarsi di questa immane catastrofe». I potenti, i politici e gli industriali... «i veleni del benessere»... l’ac­ celerata lacerazione del «rapporto organico tra uomo e natura», di una natura che per l’uomo «è il suo corpo, con cui deve stare in costante rap­ porto per non morire»’... I bambini divenuti nel frattempo, loro mal­ grado, effigie di consistente flagranza espositiva alla virulenta crisi glo­ bale che, partita inizialmente sul versante azionario con il crollo dei mutui subprime nell’estate del 2007, ha investito rapidamente, per rimanere nei paraggi del tema in svolgimento, i prezzi internazionali di riso, grano, mais, soia, portandoli alle stelle nei primi mesi del 20084... Della gravosa torsione prodotta con estrema intensità dagli assiomi neo-liberisti sul corpo del pianeta e dei più che lo abitano con sempre maggiore precaria difficoltà ed umiliazione sociale il regista bergamasco ne è pienamente consapevole e, al margine del lavoro completato su Kounellis, rilancia l’urgenza di una decisa presa di posizione: «C’è bisogno di un rapporto senza simulazioni con quello che ci circonda. C’è bisogno di spostare di nuovo lo sguardo alla realtà vera»5. E in fondo la non dissimile tensione che fin dall’anno prima, nell’ot­ tobre 2006, complice la volontà propositiva e il prezioso supporto del movimento Slow Food, della Cineteca di Bologna e della Film Commis96

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sion Torino Piemonte, lo ha spinto a coordinare nel capoluogo piemon­ tese sette troupe leggere per le riprese in formato digitale del secondo raduno mondiale di quella rete planetaria, per usare le parole del suo presidente Carlo Pettini, «fatta di uomini, pensieri, lavoro e culture pre­ sente in 153 Paesi del mondo, che va seminando e coltivando le giuste idee di difesa della biodiversità, rispetto dell’ambiente e dignità del cibo, per un futuro di pace e di armonia con la Natura»6. Nel 2006 - lo stesso anno, per inciso, in cui giungono nelle sale cine­ matografiche due opere nonfiction, seppure di radicale divergenza, in tema di stringente relazione «ambiente-società» quali An Inconvenient Truth (Una scomoda verità} di Davis Guggenheim e When the Leeves Broke (Quando si sono rotto gli argini} di Spike Lee - viene effettuata dunque la prima sessione di riprese del cine-viaggio Terra Madre. Cineviaggio, una volta ultimato di 78 minuti, dalla densa ibridazione di regi­ stri stilistici e di tecniche e formati cinematografici che Olmi governa accogliendo i preziosi contributi creativi e testimoniali di Franco Piavoli (L’orto di Flora} e Maurizio Zaccaro (L’India di Vandana Shiva}, non man­ cando di annettere al disegno complessivo ulteriori materiali di reperto­ rio di diversa provenienza e valenza espressiva sui quali si avrà a breve modo di tornare. Un complesso e stratificato viaggio etico-politico orientato a redigere un “diario di bordo” ove pervengano a chiara congiunzione il “partico­ lare” e il “generale” in tema di de-naturalizzazione della natura e de-uma­ nizzazione dell’umano sullo sfondo delle favole apologetiche sullo svi­ luppo infinito narrate da un capitalismo in crisi egemonica ma non di dominanza7: derive telluriche contro le quali innalzare, a mo’ di signifi­ cativo esempio e con nettezza di toni, la solidale unione di intenti di «uomini e donne che nelle loro terra ancora resistono all’incalzare di una delittuosa politica di sfruttamento esasperato e devastante dei suoli fer­ tili, unica risorsa per il cibo di tutti i popoli»8. Un viaggio etico-politico che prende le mosse, come inizialmente alluso, entro il circoscritto perimetro di un orto scolastico ove quattro bambini si rincorrono prima che uno di essi raccolga da terra e mostri orgoglioso alla camera una piccola mela. Una semplice azione non dissi­ mile nella sostanza ultima da quella che, un istante dopo, si realizza in interni, sulla superficie di un tavolo ove la mano di un uomo anziano vi dispone simmetricamente tre diverse varietà di mele, sebbene in questo caso si occasioni una breve composizione dai ricercati valori luministici e cromatici tesa a precedere quattordici inquadrature fisse su elementi di un paesaggio che muta nel corso delle stagioni e delle ore del giorno. Intensa riapertura in esterni cadenzata dai toni e dai timbri sapienti di una voce narrante (Omero Antonutti) che trasferisce all’ascolto, da Le 97

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Georgiche di Virgilio, la circostanza di un vecchio che su un piccolo ret­ tangolo di campo abbandonato «piantando radi fili di erbaggi e all’intomo bianchi gigli e verbene e gracile papavero pareggiava col suo spi­ rito le ricchezze dei re. Era il primo a cogliere la rosa a primavera e in autunno la frutta e tornando a casa a tarda notte ricopriva il suo desco di cibi prelibati». Un prologo di mirata quanto proficua evenienza lirica e al contempo di assai sensibile memorazione in direzione dell’atteggiamento assumi­ bile nei confronti della terra e del lavoro da svolgervi9 sul quale, dopo i titoli di testa che conducono negli spazi dell’assise torinese, irrompe con tutto il suo inequivoco peso la ruvida equivalenza che Vandana Shiva sot­ topone al microfono di un intervistatore fuori campo: «Il corpo obeso del bambino americano e quello scheletrico del bambino africano, sono il prodotto dello stesso sistema alimentare. Entrambi possono essere evi­ tati». Fulminante anticipazione di ancor più dirimenti rilievi critici che la teorica di maggiore eminenza dell’ecologia sociale svilupperà all’al­ tezza di circa metà del decorso filmico lungo un'ampia periodizzazione sintattica che coniuga alternativamente immagini del suo intervento al meeting torinese con quelle di un viaggio che la conduce a Dehra Dun (regione Uttaranchal, Nord dell’india). Un viaggio culminante all’in­ terno e nelle vicinanze della Navdanya Farm (la fattoria che la Shiva ha predisposto per la custodia dei semi del riso tramandati di generazione in generazione) ove vengono accolte significative testimonianze di donne in diretto contatto con l’esperienza promossa dalla fisica ed attivista indiana e si assiste alla raccolta del riso, mentre all’ascolto risuonano ancora le vibrazioni di assunti quali: «Le sementi sono state brevettate, diventando monopolio di un gruppo di corporazioni, con il 95 % di semi geneticamente modificati. In India, da quando i nuovi semi geneticamente modificati sono stati introdotti nelle aree dove le corporazioni controllano la distribuzione di semi, centinaia di migliaia di coltivatori si sono indebitati e si sono suicidati. I guadagni di Monsanto hanno assunto un valore più alto della vita umana»10. E una sequenza di pedinamento, quella appena riassunta, che marca appieno la precipua fisiologia costruttiva del dispositivo olmiano. Si tratta per il regista, cioè, una volta illustrate le molteplici valenze e i pre­ cipui obiettivi promossi dal secondo incontro di Terra Madre funzionalizzando tale vivace spazio riflessivo come una vera e propria cassa di risonanza dalla quale partire e alla quale fare costante ritorno (alternando inquadrature su vari esponenti internazionali della rete mondiale che si succedono sul palco e sui volti dei delegati in platea attenti nell’ascolto dei loro discorsi a micro-sequenze su luoghi di economia locale restituiti tramite i gesti e i ragionamenti di chi vi lavora nel segno della salvaguar­ 98

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dia della agro-biodiversità) di esplorare sul campo e sottoporre ad evi­ denziazione Fonda lunga di tali predicati. Fosse anche nei termini anti­ tetici di chi a tali concepimenti di gratuità e scambio di risorse ed espe­ rienze risulta rimanere radicalmente estraneo, come accade esemplar­ mente lungo uno dei segmenti più acuminati dell’escursione documen­ taria. Segmento audiovisivo riferito a ciò che è avvenuto nel febbraio 2008 a Spitsbergen, la più estesa isola dell’arcipelago delle Svalbard, al nord della Norvegia, entro il quale si dà conto per interposto sguardo (materiale fornito dal Global Crop Diversity Trust poiché non è stato consentito di filmare alla troupe) della cerimonia d’inaugurazione della Banca Mondiale dei Semi da parte del Primo Ministro norvegese Jens Stoltenberg e del presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso. Quest’ultimo, all’interno di un esteso e blindato caveau nella roccia destinato ad ospitare 268.000 campioni di semi che diverranno successivamente 4 milioni, parla sorridente di «Giardino dell’Eden con­ gelato», di «senso di comunità globale», di «responsabilità globale». Alla trista arroganza di chi mette sottochiave la vita Olmi non ha necessità alcuna di contrapporre forme di vistoso sdegno, lascia che a rispondere sia un nucleo di inquadrature ravvicinate su alcune api morenti per via di pesticidi mentre si dispiegano sublimi le note bachiane di Abbi pietà di me, o Signore Iddio. Il conseguente rischio di compromissione del ciclo dell’impollinazione è limpidamente tradotto un istante dopo dal conte­ nuto dei disegni e dalle parole over di un bambino: «Niente api, niente ciliegie. Niente frutta, niente uomo. Niente ciliegie, niente bambini». Ci sarà un’ingente quantità di altre frasi, scopertamente stigmatiz­ zanti o fattivamente propositive nello spirito della lingua solidale del­ l’impegno e del rispetto verso ciò che fondativamente tutti accomuna, a contrassegnare le successive tappe dell’itinerario che, tra esercizio della ragione e sentimento, Olmi promuove allo sguardo e all’ascolto aprendo innumerevoli “finestre” attenzionali. Che se, per un verso, indubbia­ mente inficiano, in termini di risultato finale, la compattezza strutturale del percorso tematico affrontato, per altro verso, offrono in cambio la misura obiettivamente ampia e dinamica della materia problematizzata. E come l’ingente quantità di frasi restituite, ci sarà una non meno ingente quantità di volti, di corpi, di azioni, che la “camera plurale” e la trama­ tura sintattica raccontano man mano con discrezione ma anche con buona dose di briosità11. E non solamente nel tracciato delle occorrenze contemporanee. Per oltre dieci minuti, infatti, dal trentaquattresimo al quarantacinquesimo minuto, la camera si insedia nello “spazio fuori dal tempo” di un podere di tre ettari nel comune veneto di Roncade entro il quale è ancora in piedi una casa contadina totalmente disabitata. Vi ha vissuto un uomo che per più di quarantanni si è di fatto separato dal 99

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mondo; privo di telefono, luce, gas, automobile, si è nutrito esclusivamente dei frutti della terra. Un’esperienza di radicale pauperismo che, al di là delle intenzioni di Ernesto Girotte, questo il suo nome, ha lasciato «un ecosistema vergine di valore botanico e culturale», come esplicita l’ultimo intervento della voice over muovendo dal testo Un uomo senza desideri di Ignazio Roiter. Ma più e oltre le intense parole del commento ancorché di quelle registrate in presa diretta fuori e dentro la casa (tra figure, fra le altre, quali Vandana Shiva, Carlo Petrini e Aldo Schiavone) a testimoniare un confronto aperto sulle risonanze che tale esperienza controcorrente può dialetticamente produrre nel presente, sono le immagini che si succedono entro quel luogo di tangibile biografia memo­ riale a generare un autentico innalzamento della temperatura connota­ tiva della costruzione documentaria. Si accede nel clima di una traspa­ rente geografia emotiva di quieta ma rimarchevole artisticità per via del pieno dominio di una luce non selettiva ove le inquadrature prevalente­ mente statiche lungo gli ambienti interni dell’umile abitazione, a svelare ritmicamente la presenza del paesaggio oggettuale che ha scandito la pri­ vata quotidianità di quell’uomo solo, giungono per nitore compositivo a costituire l’acme espressivo del lavoro. Predisponendo al contempo l’at­ mosfera completamente priva di verbalizzazione dell’arcata finale di ven­ ticinque minuti che, circolarmente, riprende ed incarna letteralmente i versi virgiliani del prologo. Un’atmosfera popolata, ad eccezione fatta per il debole screzio sonoro di impronta tecnologica proveniente da un aereo che in un dato momento solca rapidamente il cielo, dai soli eventi acustici originati da una porzione di terra nella Valle dell’Adige abitata dal lavoro di un contadino lungo l’arco delle quattro stagioni. Il vento, la pioggia, l’acqua di un fiume, la neve, il fuoco. I versi degli animali, vicini e lontani. Il sole, la luna. L’aratura, la semina, la raccolta dei frutti del proprio lavoro (che un bimbo di pochi mesi può in libera tranquil­ lità assaggiare). Tutto avviene con le mani o con strumenti discendenti da una secolare tradizione e utilizzazione. In ogni gesto è reperibile cura, armonia, metrica del tempo giusto. Privilegiando le inquadrature strette e strettissime, tra oggettive e semi-soggettive, questa mirabile progres­ sione terminale materializzata da Piavoli si fa implicita figura del dialogo di intima produttività tra il “particolare” e il “generale”. Ricompren­ dendo per molti versi i sensi di maggiore pregnanza che il personale viag­ gio olmiano ci consegna nel segno di un sincero e concreto umanismo. Il medesimo segno che sostanzialmente, a distanza di un solo anno dall’uscita di Terra madre, nell’assai più circoscritto perimetro del set­ tentrione lombardo, viene impresso lungo le compatte sequenze visive e la fitta tramatura sonora - intessuta, al di là del fin troppo ricco e forte­ mente ibrido repertorio musicale attivato spaziarne da Liszt e Bach a 100

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Paolo Fresu e al Caruso di O sole mio, soprattutto di vivide riflessioni che la voice over mutua essenzialmente da pagine de L!avventura in Val­ tellina (1985) di Mario Soldati e Ragionamenti d'agricoltura (1752): un manoscritto di Pietro Ligari - dei cinquantadue minuti di Rupi del vino. Poiché anche in questa circostanza testimoniale, occasionata per valo­ rizzare l’esperienza identitaria e culturale dei millenari terrazzamenti del versante Retico della Valtellina, sebbene priva per intuibili ragioni di committenza e di focus tematico dalle translucide enunciazioni del voca­ bolario critico-sociale appena riscontrato in Terra madre, non viene meno il piglio olmiano di profondo interprete della dignità del lavoro e della fatica umana di cui gli intensi sguardi, le pause, le minime o più com­ plesse azioni ritratte con sobria delicatezza e maestria tecnica lungo la narrazione fungono da cuore pulsante e costitutiva cartina al tornasole. Sguardi, pause e azioni nel dettato dell’antica sapienza agricola che è arri­ vata a rimodellare straordinariamente una porzione di terra povera segnata da colture primitive non sottraendosi, nel presente, dal predi­ sporre una costante manutenzione dei muri a secco per garantire il ciclo stagionale del vino e preservare l’equilibrio e l’autentica eccezionalità di tale luogo. Un luogo, come del resto quelli fisici e mentali attraversati e riconfi­ gurati dall’attenta auscultazione di Olmi in Terra madre, che senza diffi­ coltà alcuna ritrasmette una precisa persuasione in merito ad una nozione di umano all’altezza ideale di tale espressione. Al ruolo attivo che dovrebbe più che mai impegnare degnamente ciascun vivente nell’oriz­ zonte spaesante declinato dall’ordine esistente sulla scala del mondo. Prima che sia troppo tardi. Come rammenta il sigillo testuale posto in calce alla sua, per ora, ultima opera finzionale 11 villaggio di cartone (2011): «O noi cambiamo il corso impresso alla Storia o sarà la Storia a cambiare noi». 1 Si tratta de La porta serrata dei libri, originata da Kounellis nel 2004 per la Biblio­ teca Nazionale di Sarajevo in memoria dei bombardamenti della guerra dei Balcani. 2 Si vedano al riguardo i perspicui contributi di Tullio Masoni (Lungo il fiume) e Luca Mazzei (Mille anni), in Adriano Aprà (a cura di), Ermanno Olmi. Il cinema, i film, la televisione, la scuola, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 263-266 e 267-270. 5 Cfr. Karl Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844; trad. it. Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1968, p. 77. 4 Benché, come rammenta Paul Collier, è lungo l’arco temporale 2005-2008 che i prezzi mondiali degli alimenti di base hanno subito un incremento superiore all’80%. Cfr. Paul Collier, The Plundered Planet: How to Reconcile Prosperity with Nature, London,Allen Lane, 2010; trad, it., Il sacco del pianeta, Bari, Laterza, 2012, p. 227.

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5 Cesare Balbo, L'arte spiata da Ermanno Olmi, «L’Espresso», 6 febbraio 2007. 6 Cfr. http://www.cinetecadibologna.it/areastampa/c_126: comunicato stampa dal titolo Terra madre di Ermanno Olmi alla Berlinale Special redatto il 21 gennaio 2009. 7 Come ben sintetizza Piero Bevilacqua: «La falsa infinità delle risorse, spacciata dall’ideologia economica occidentale, non è che un riflesso del controllo imperiale esercitato sul Sud del mondo per tutta l’età contemporanea». Piero Bevilacqua, Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo, Roma-Bari, Laterza, 2011, p. 57. Dello stesso autore, per restare in tema, si vedano i significativi contributi: La Terra è Finita. Breve Storia dell'Ambiente, Bari, Laterza, 2006 e Miseria dello sviluppo, Bari, Laterza, 2008. 8 Sono parole dello stesso Olmi (gennaio 2009) tratte da una più estesa dichiara­ zione contenuta all’interno del press-book di Terra madre. Cfr. www.bimfilm.com/ upload/pressbook/terra_madre.doc. 9 Un sensibile rimando olmiano ad aspetti importanti della concezione della vita e a talune parole chiave del dettato virgiliano (labor, pietas) era stato pertinentemente rinvenuto da Morando Morandini ne L'albero degli zoccoli (1978). Cfr. Morando Morandini, Ermanno Olmi, Milano, Il Castoro, 2009, pp. 59-60. 10 Una solida radiografia dell’appropriazione privata o statale delle risorse ambientali comunitarie e delle esperienze in più aree del mondo che vi si oppongono, al di là dei numerosi studi di Vandana Shiva, è contenuta nell’importante contributo riflessivo dell’economista catalano Joan Martinez Alier, El ecologismo de los pobres. Conflictos ambientales y lenguajes de valoracion, Barcelona, Icaria Editorial, 2004 (trad, it., Ecologia dei poveri. La lotta per la giustizia ambientale, Milano, Jaca Book, 2009). 11 Anche nella direzione degli espliciti richiami intertestuali, oltre che alla pro­ pria filmografia, ai Lumière de L'arrivé d'un train en gare de la Ciotat (1896) così come all’Hitchcock di The Birds (Gli uccelli, 1963).

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MATERIALI E STRUMENTI

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DOV’È LA VERITÀ? COME IL CINEMA DEL REALE RACCONTA IL MONDO Conversazioni con Leonardo Di Costanzo e Davide Ferrario

“La veritàaaa!”, urla Zavattini in uno dei rarissimi film che ha diretto (La Veritàaaa, 1983). Erano i suoi ultimi anni di vita, il neo­ realismo era abbondantemente alle spalle, ma quella Verità lui conti­ nuava a invocarla, a rincorrerla, nel tentativo di acciuffarla per i capelli e restituirla agli spettatori. Non bastava più uscire dai salotti coi Telefoni Bianchi e andare per la città dei Ladri di Biciclette (1948). Zavattini si interrogava su quali strumenti utilizzare per raccontarla ora, quella Verità. Una parola che nel suo vocabolario stava a signifi­ care: come restituire col Cinema la complessità del mondo in cui viviamo. Chi fa documentari si trova costantemente di fronte a questa sfida: restituire la verità della storia raccontata, di un ambiente, di un perso­ naggio. In che modo e per quale pubblico? Soprattutto, siamo ancora capaci di farlo o gli strumenti che abbiamo sono ormai spuntati, supe­ rati, inadatti alla realtà che ci circonda? Mi sono ritrovata a parlare di questo con due registi diversissimi tra loro, per formazione e filmografia: Leonardo Di Costanzo e Davide Fer­ rario. Anche i contesti in cui sono avvenute queste conversazioni erano molto diversi. In privato con il primo, regista di documentari che ha da poco realizzato il suo primo film “di finzione”, e con cui ho lavorato per anni, prima come aiuto regista poi come sceneggiatrice; in una master­ class alla Cineteca di Bologna con il secondo, regista che si muove da anni tra i due generi, a cui facevo da sparring partner di fronte a un pub­ blico di colleghi e curiosi dell’argomento in “Fiction/Documentario: la frontiera del reale”1. 105

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Eppure sono molti gli elementi in comune emersi dalle due chiac­ chierate, così come gli spunti utili per una riflessione allargata. Con Di Costanzo tutto è iniziato parlando del suo ultimo documen­ tario Cadenza d'inganno2 (2011). M’interessava capire di più della lunga gestazione di quest’opera che rappresenta uno spartiacque nella sua fil­ mografìa (dopo viene la fiction: il suo primo confrontarsi con attori, una troupe e una sceneggiatura in L'Intervallo attualmente ancora in post produzione). Cadenza d'inganno era un lavoro incompiuto che a un certo punto è stato ripreso e concluso. Il 90% delle riprese risale a quasi dieci anni prima del montaggio. Ci sono progetti che falliscono e ci si butta alle spalle, perché lui ha sentito l’urgenza di riprenderlo? Perché questo film è diventato una riflessione sul fare documentari, mi sono sentita rispondere. A questo punto abbiamo fatto un passo indietro e abbiamo cominciato a parlare di cosa significa fare documentari.

Il documentario - a detta di critici attenti - in questi ultimi vent'anni è stato capace di raccontare la realtà italiana più del cinema di finzione. Una capacità che permeava sia i contenuti che i linguaggi. Adesso ho la sen­ sazione che quella forza si sia affievolita. I documentari che funzionano a livello di mercato sono quelli in cui si riproduce una visione non proble­ matica della realtà, in qualche modo edulcorata, consensuale. È quello che fa la televisione. Forse è anche la conseguenza di un atteggiamento di molti documentaristi negli ultimi anni, me compreso: quello di voler far somi­ gliare i nostri film a delle finzioni, aderendo a esigenze d'intelligibilità. E quando qualcuno ce lo fa rilevare lo accogliamo con soddisfazione. Mi chiedo: non siamo, per questo, davanti ad un paradosso? Se la fiction, per esigenze di credibilità, da un po' di anni ha fatto ricorso a modalità più vicine al fare documentaristico (camera a spalla, illuminazione essenziale ecc..), il documentario, invece di preoccuparsi di come continuare una ricerca nelle modalità che gli appartengono, per esigenze drammaturgiche va verso la fiction perdendo di ruvidità e adesione al reale, diventando così una finzione “cheap"... È vero che c'è bisogno di riorganizzare il caos del reale per renderlo intellegibile, ma se lo si sistematizza troppo, la narra­ zione si insterilisce. In che modo quest’ultimo film ti ha permesso di riflettere sul fare documentari? In Cadenza d’inganno io scelgo Antonio [il protagonista] perché sin dall'inizio mi resiste. Non sta lì a cercare di capire cosa deve fare per com­ piacermi. Gioca, scappa, si sottrae. E questo mi sembrava sano, vero. La sfida era mettere insieme delle sequenze che non avessero necessariamente 106

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un'evoluzione narrativa, ma che fossero solo giustapposizione di momenti diversi e andassero a costituire un ritratto “cubista”, dove la figura appare e non appare. Avevi questa consapevolezza quando hai cominciato a girare?

Consapevolezza no, quella è venuta dopo. Intuivo però che l'incontro con Antonio, per il suo atteggiamento quando gli ho proposto di essere fil­ mato, sollevava dei problemi che incrociavano tutta una serie di domande più generali che mi stavo ponendo sul filmare, sul personaggio, sulla rap­ presentazione. Apro una parentesi: io faccio film su Napoli e il mio pro­ blema fondamentale ogni volta è nel come aggirare, come evitare di restare prigioniero della straordinaria capacità di auto-rappresentazione della città (come si dice: “a Napoli sono tutti attori”); capacità che può essere molto utile e rivelatrice, se gestita con consapevolezza, ma che può essere usata (dalla città) per celarsi, nascondersi, perché compiace e asseconda chi filma e chi guarda. La consapevolezza è arrivata quando Antonio mi ha richia­ mato quasi dieci anni dopo. È stato a quel punto che ho cominciato a chie­ dermi perché fosse scappato e perché mi avesse cercato di nuovo. È solo allora che ho deciso di riprendere quel film interrotto. Molti mi dicono: il film c'era già, perché non l'hai montato subito? Perché non mi era chiaro. La chiarezza è venuta dal nuovo incontro. Comunque non è un caso che sin dall'inizio abbia scelto lui e non gli altri, che per certi versi erano più docili, perché già all'epoca io m'interrogavo: è possibile fare un film con qualcuno che si sottrae? Cosa ti interessa nel sottrarsi di Antonio?

Cosa succede quando vai a filmare una persona? Che tende a rappre­ sentarsi. Tutti vedono la tv e quindi da subito sanno cosa interessa. Nella mia preoccupazione di fare un cinema che racconti il mondo, mi dicevo: se riesco a entrare in tutte le cavità e le asperità della realtà, probabilmente oltre a essere più “vero”, sono anche più interessante dal punto di vista nar­ rativo. Perché un personaggio che ti dà quello che vuoi, diventa liscio. Toglie tutte le incoerenze, non riesce più a rappresentare la realtà. Ed è noioso. E sintomatico che i tuoi documentari, pur usciti in anni diversi {A Scuola, 2003; Odessa, 2006; Cadenza d'inganno, 2011), siano stati girati nello stesso periodo (2000/2003). Come se fino a quando non fossi riu­ scito a chiudere quest’ultimo, la riflessione non sarebbe potuta andare avanti. E ora?

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Continuo a interrogarmi. Questo deriva dalfatto che non sento di essere ancora riuscito a trovare strumenti sufficientemente acuti per poter inter­ cettare le zone d'ombra della realtà e a renderle narrative. Parlo da un punto di vista formale e di dispositivo. Fino a qualche anno fa era importante andare a ficcare la telecamera in un posto che non si era mai visto. Ora non mi è più sufficiente. E c'è anche dell'altro: per finanziare un film, il sistema produttivo ti chiede di leggere il progetto nella sua fattibilità. Ti obbliga a fare un'ope­ razione di semplificazione. Il regista deve quindi in partenza togliere tutte le asperità. È per questo che le cose più interessanti nel documentario avvengono al di fuori del sistema produttivo.

N\ioì dire che nel momento in cui un genere filmico diventa industria perde la capacità di sperimentare?

Non vorrei arrivare a questa conclusione. Però è vero che strutture come Arte [il canale televisivo franco-tedesco] e in generale quelle che hanno accompagnato il documentario in questa rinascita a partire da una ventina d'anni a questa parte, invece di continuare in quella direzione cercando insieme ai registi il modo per far incontrare la ricerca personale con le esi­ genze della produzione, di fatto si sono fermati. Il sistema - dalle televisioni ai festival - si limita a ricevere i film e a dire“questo mi piace e questo non mi piace" senza entrare nel meccanismo, senza porsi la domanda: come si fanno, da quali preoccupazioni, urgenze, nascono? Nel documentario, ma non solo in Italia, si sta campando su cose che si sono inventate negli anni cinquanta e che sono state rilanciate gra­ zie all'alleggerimento della tecnica negli anni novanta.

Significa che non ha più senso fare documentari? Al momento sospendo il giudizio, ma per quello che mi riguarda, fino a quando non troverò nuovi strumenti, mi fermo. Per questo ora sto andando verso la finzione: se devo fare un'operazione di sintesi per rendere la realtà intellegibile, tanto vale prendere una storia, scriverla, arrogarsi il diritto difar agire i personaggi, dir loro cosa si vuole che dicano... cosa che poi succede anche con i documentari, ma in maniera non dichiarata. Mi sembra più onesto verso lo spettatore e anche verso le persone che sono fil­ mate. È l'inizio di un percorso, vediamo dove porta.

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DOV’È LA VERITÀ? COME IL CINEMA DEL REALE RACCONTA IL MONDO

Anche per Davide Ferrano il documentario ha raccontato meglio del cinema di finzione la complessità della realtà italiana. A differenza di Di Costanzo, però, pensa che questa cosa riesca ancora a farla: “il docu­ mentario non ha standard da rispettare, e questo diventa libertà, una ric­ chezza che va tenuta stretta”. Il tuo ultimo film è un documentario, Piazza Garibaldi3 (2011 ), eppure quando devi parlare del binomio cinema-verità, parti da un film di fin­ zione, il controverso Guardami (1999), un film sul porno liberamente ispirato alla vita di Moana Pozzi.

M'interessava il corto circuito tra il corpo che gode e il corpo che muore, che è la condizione della vita, e ho cercato di fare un film laico su questo. Per prepararlo, sono stato sui set porno e avevo con me una telecamerina. Mentre filmavo mi chiedevo: dal punto di vista oggettivo quello che gli attorifanno è vero, se non fosse vero non sarebbe nemmeno porno. Quindi quello che sto filmando è un'immagine “documentaria". È altrettanto vero che, se non ci fosse la telecamera della troupe, non lo farebbero. O per lo meno non in quel modo. Quindi quell'immagine è “fiction". Cosa sto fil­ mando? La risposta era che stavo filmando il Cinema. La pornografia ci permette in maniera estrema di capire questo della natura del cinema: che non è mai né vera né falsa, ma è un terzo livello in cui le due cose convi­ vono. E così tutta la storia fatta dividendo cinema di finzione e cinema documentario crolla. Ontologicamente non c'è differenza tra fiction e docu­ mentario, varia solo il grado di consapevolezza e di recitazione.

La differenza tra documentario e fiction è soprattutto nel “contratto” con lo spettatore, che è tenuto a sapere se quello che sta vedendo è falso o vero. E tecnicamente possiamo dire che siamo di fronte a un docu­ mentario quando nel posto in cui abbiamo realizzato il film, la situazione (o la persona) filmata c’è davvero o c’è stata in passato. Non è sempre così. Rimanendo sempre a Guardami, la scena dello strip di Elisabetta Cavallotti al “Mi-Sex" è vera. Là di spettacoli così ce rierano decine e decine ogni giorno, per cui Elisabetta si era presentata come Pri­ scilla, una pornostar tra tante. Le telecamere sul palco cerano per lei come per le altre, quindi la presenza della troupe passava inosservata. Alla fine quello che si vede cos'è: Elisabetta l'attrice che fa una scena di Guardami? Priscilla la pornostar fittizia che fa uno spogliarello? Una donna in carne ed ossa che si butta in mezzo a duemila maschi arrapati? È tutto insieme. Esattamente per quello che dicevo prima: perché il cinema costruisce una dimensione propria, con le sue leggi.

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MARIANGELA BARBANENTE

Chiedi molto agli attori. In generale fare gli attori è interpretare quello che non si è. E questa è una differenza col documentario. Sin dall'inizio con Elisabetta si sapeva cosa si andava a fare. Non l’ho forzata. Anche se non voglio farla più semplice di quello che è stato: io non farei quello che lei ha fatto perché non ne sarei capace, nel senso che non sono un attore; ma, dal punto di vista professionale, quella per Elisabetta è stata un 'enorme sfida perché doveva essere insiemefinta e vera. Ha saputo gestire la distanza tra realtà e finzione. Non perché quelle mani che le met­ tevano addosso non fossero vere, ma perché come una rockstar ha giocato con il suo potere, ha catalizzato l'energia che c'era sotto il palco. Mi piace lavorare con gli attori professionisti come se facessi un docu­ mentario su di loro. Secondo me l'aderenza che puoi trovare tra un attore e il personaggio non è quella che lui raggiunge immedesimandosi in qual­ cun altro (per me il “Metodo" è una pia illusione) ma è una verità che ha dentro e che corrisponde al personaggio. Se tu sei un regista, la prima cosa che fai è capire se quell'attore lì ha dentro quella cosa che stai cercando.

E con i non attori? Con le persone che incontri nei tuoi documen­ tari? Dove sta la verità?

La verità sta in un posto inattingibile e quello che può fare il Cinema è solo prendere atto della propria ambiguità. Si dice spesso che il Cinema è lo specchio della verità. No, è molto più un prisma. E questo prisma più facce ha, più riflette, più forse ci avvicina a quella cosa inafferrabile che è la verità. Il primo che si riflette nel film è chi lo realizza. Il cinema deve mettere in discussione le certezze dello spettatore, e perfarlo il regista deve mettersi in discussione per primo. Quando vent'anni fa ho fatto Lontano da Roma (1991) - in cui cercavo di raccontare la nascita della Lega Lom­ barda intorno a questo leader carismatico che era Umberto Bossi- ho messo da parte le mie convinzioni politiche. Quando l'ho mostrato, a sinistra o ne ridevano o mi hanno accusato di apologia, mentre i leghisti si sono sen­ titi presi in giro. Il film non ha accontentato nessuno. E questo per me è un bene perché il Cinema deve destabilizzare, non confermarti quello che credi. Come diceva Fassbinder: “I film liberano la testa". E liberare la testa certe volte è faticoso, certe volte scomodo, ma questo dovrebbe essere l'o­ biettivo di chi fa cinema. Per questo io non amo i film di Michael Moore con tutto il rispetto per quello che fa che è un ottimo lavoro di con­ troinformazione - ma non sono dei bei film perché sono rivolti a chi la pensa come lui. E infatti succede che vanno a vederli solo loro. È proprio questo tipo di ritualità che impedisce la libertà mentale.

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DOV’È LA VERITÀ? COME IL CINEMA DEL REALE RACCONTA IL MONDO

La strada di Levi4 (2006) e Piazza Garibaldi sono film molto più strut­ turati di Lontano da Roma.

Sì, ma la libertà e la casualità con cui ho lavorato è la stessa. Faccio tutti i miei film così: senza tesi da dimostrare. La Strada di Levi era un viaggio che voleva raccogliere suggestioni. Poi fai i conti con il montaggio e rac­ conti la tua esperienza, la condividi con lo spettatore. Fare un film è un viaggio: ti metti per strada, hai la direzione, ma non sai quello che ti suc­ cederà. Non lo devi sapere prima. Devi accogliere quello che ti viene incon­ tro. I film devono essere aperti al mondo, soprattutto i documentari, non devono per forza dire qualche cosa. La vita non è così semplice, non è che quando uno la sera va a dormire si pone la domanda: cos'ha significato per me questa giornata? Eppure unidea su come quella giornata è stata ce l’ha. C’è un sentimento, c’è una sen­ sazione. Penso che il Cinema debba funzionare così. 1 “Fiction/Documentario: la frontiera del reale”: incontro con i registi Ferrano, Mordini e Gagliardi per la V edizione de “Lo sguardo degli autori” organizzato dalla D-E.R. (Documentaristi Emilia-Romagna) in collaborazione con Doc/it - Docu­ mentaristi Italiani. Bologna, 24 febbraio 2012. Un ringraziamento a Flavio Giorgio per la registrazione de “Lo sguardo degli autori” 2012. 2 L’esistenza turbolenta di Antonio, dodicenne dei Quartieri Spagnoli di Napoli nel 2003. Un giorno il ragazzo decide di scomparire e il film s’interrompe. Anni dopo, in seguito ad alcuni nuovi eventi, il regista ricorda e pensa. E finisce il film. 5 Un viaggio sulle orme della spedizione dei Mille. L’obiettivo: verificare il rap­ porto tra passato e presente, partendo da Bergamo, una volta “Città dei Mille” e oggi roccaforte padana, per arrivare fino a Teano. Un percorso pieno di sorprese, incon­ tri, riflessioni: un road movie attraverso la storia e la geografia del paese, cercando di rispondere a una domanda assillante: perché noi italiani non riusciamo più a imma­ ginarci un futuro? 4 II film ripercorre il viaggio di Primo Levi quando nel 1945 viene liberato dal campo di concentramento di Auschwitz e - dopo dieci mesi, dozzine di deviazioni, molti ritardi e centinaia di chilometri - toma a Torino. Sessanta anni dopo, Ferrano e lo scrittore Marco Belpoliti ripercorrono lo stesso itinerario nell’Europa post comu­ nista. Il film ricostruisce l’avventura di Levi mostrando la condizione dell’Europa moderna: i resti dell’impero sovietico, Chernobyl, i raduni neo-nazisti, i villaggi dei migranti.

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SILA BQUUm ■ GIOVANNI SPAGNOLETU

7 DOMANDE A 10 AUTORI (E PRODUTTORI) DI DOCUMENTARI

J) Rzrscr a definire in una frate cot'ì il JooMmum, tecondo la tua etperienza(mfeuioiulf, il tuo modo di vedere, la tua poetia penonale? Cè (re esitte) una linea di confine che lepore un film di fiction da uno di non fiction? Sergio Baaao Un buon parametro è il grado di consapevolezza del soggetto documentale vi quello dell’attore. L’attore è pagato per tentare di muti una data emozione, che può essere opposta a come la persona si sente quel gkxno; mentre non si dovrebbe mai forzare il soggetto docu­ mentale a esprimere un’emozione che non gli appartiene. Ciò detto, il documentario è più sofisticato ed ipocrita di un feature; ma non tanto nelle riprese, con una mite en teìne più o meno spinta, quanto al mon­ taggio, dove la sofisticazione è ancora più subdola perené è meno evi­ dente per lo spettatore, avviene nel segreto della moviola: puoi cancel­ lare ragionamenti, invertire punti di vista. Alessandro BorreDi (produttore, La Sanai Pictures, Torino) Pren­ dendo in prestito e adattando una definizione dell”*ermeneutica', il documentario è 'l’interpretazione diretta della realtà" a differenza del film a soggetto che rappresenta "un’interpretazione mediata". L’unica linea di confine che separa un film a soggetto da un film documentario è quella più evidente e tangibile, ossia aie il film “documentario* rac­

conta senza l’intermediazione ddl'"adattamento della realtà*, come accade invece per il film a soggetto. Per quanto riguarda lo stile narra­ tivo. l’approccio visivo e la ricerca registica, la differenza la fit l'Autore

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7 DOMANDE A IO AUTORI IE PRODUTTORI» DI tXXDMENTAM

delle immagini e non importa se racconta il “rade" o la finzione. Nei film che decidiamo di produrre, il confine tra film a soggetto e film non a sog­ getto non esiste a livello stilistico e formale.

Massimo D'Anolfi/Martina Parenti I documentari sono film che possono garantire agli autori un'immensa libertà d’inventiva, un maggior controllo ddl’apparalo produttivo e la possibilità di farsi stupire conti­ nuamente dal soggetto filmato. Noi crediamo nella bellezza e nd buoni film: l'unica linea di confine che ci interessa è quella tra film necessari, rigorosi e coraggiosi e gli altri. Solo attraverso i primi può emergere quella scintilla che tende sempre verso nuove domande, nuove avventure e nuove scoperte. Pietro Marcello Credo che il documentario sia uno strumcnto/attrezzo del cinema. Fino ad oggi ho sempre realizzato fìlm/documentari per varie ragioni: la leggerezza del mezzo, una troupe ridotta, l’imprevisto della messa in scena che offre enormi risorse per un documentario di crea­ zione. e innanzitutto per la sua economia, fare un film anche con un pic­ colo budget. Certamente il documentario, perché non soggetto all’archttcttura produttiva industriale dd cinema di finzione, offre più libertà di linguaggio e di scrittura. Tra cinema di finzione e cinema di non fin­ zione esiste, secondo me. un'unica differenza: cinema e televisione. La televisione è lo specchio, aberrante, ddla nostra società, il cinema invece - come scrive Artavazd Pdcsjan - ‘è ima montagna che beve arte da tutti i suoi fiumi e affluenti'*.

Valentina Monti 11 documentario è un racconto ddla realtà, dove destini possibili stanno accadendo adesso, da qualche parte nd mondo. Non è per me contrapposto alla fiction e non è una sedia definitiva. 11 documentarista si confronta con persone che diventano penoruwgi sullo schermo, il regista di fiction con attori, entrambi si muovono nelFambito della rappresentazione. Elisabetta Pandimiglio Mi verrebbe da rispondere che un docu­ mentario è semplicemente un film. Potrei precisare: una rappresenta­ zione visiva dd reale, ma questa definizione andrebbe bene per qualun­ que genere. Se penso alla produzione, alle modalità di realizzazione, alle figure professionali impegnate, all’allestimento, ai mezzi tecnici, d rap­ porto con i protagonisti... il confine tra fiction e non fiction esiste. Se penso invece in termini artistici, se considero il mio personale percorso lavorativo, dico che non esiste, o meglio è una linea sottile dove i due generi possono intrecciarsi c contaminarsi l'uno con l’altro, sfociando

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SILA BERRUTI - GIOVANNI SPAGNOLETTI

nella rappresentazione efficace di quel determinato microuniverso a cui si arriva attraverso tutte le risorse comunicative disponibili. Esistono film di finzione che sembrano documentari per quanto è forte il loro grado di aderenza alla realtà e documentari purissimi che sembrano finzioni, tanto appaiono complessi e strutturati narrativamente. Io ho iniziato a fare la regista con dei film di finzione passando al documentario e poi a forme - diciamo così - ibride, miste, senza mai fare distinzioni o scegliere fra un genere e l’altro. Sem terra (2002, coregia: César Augusto Meneghetti), Motoboy (2004, coregia: César Augusto Meneghetti), Contro­ mano (2005, coregia: César Augusto Meneghetti), Mille giorni di Vito (2009, coregia: César Augusto Meneghetti), Rincontro (2010) sono lavori che accanto ad una parte documentaria, si avvalgono di ricostruzioni romanzate o personaggi reali che interpretano se stessi. Sogni di cuoio (2004, coregia: César Augusto Meneghetti) è “un documentario puris­ simo”, spesso scambiato per una commedia di finzione. Per quello che mi riguarda, non faccio distinzioni neanche nel metodo del lavoro pre­ paratorio: parto sempre con un progetto elaborato, ovviamente sapendo che, nel caso di un certo genere di documentario - quello basato sul “pedinamento” o “appostamento” - tale progetto potrebbe essere in qualsiasi momento superato dagli eventi. È il momento in cui il film segue una strada sua che sfugge a qualsiasi pianificazione. E anche il momento in cui l’autore deve essere pronto a fare un passo indietro rispetto a quello che intendeva raccontare, lasciare che il reale prenda il sopravvento e il film si scriva da solo. Ecco, forse questa è una differenza tra fiction e non, tutta generata dall’imprevedibilità legata alla natura stessa del film di realtà. Se pensiamo però , ad esempio, solo ai lavori di finzione nati da “Dogma 95 ” - dove il caso e l’imprevedibilità entrano attraverso la libera improvvisazione dei protagonisti, nella finzione strutturata - anche que­ sto viene meno come parametro netto di confine.

Giovanni Piperno Sono tre le differenze fondamentali. Nel cinema documentario c’è una quota di imponderabilità molto più alta rispetto al film di finzione. Quando si comincia non si è mai sicuri di dove si andrà a finire. Anche se ci si è preparati molto bene, tutto può cambiare, per­ fino il protagonista. La seconda riguarda il rapporto umano che nasce con gli attori. Dal momento che si usano attori non professionisti che non vengono pagati, il patto di fiducia che si deve stabilire con il regista è molto più profondo rispetto a quello di un film di finzione. Infine, l’a­ spetto produttivo. Per una serie di motivazioni, tra le quali il fatto che non si debbano pagare gli attori, il documentario costa meno della fin­ zione e questo fa sì che tutto sia meno rigido e più leggero. Quindi più libero di sperimentare. 114

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Costanza Quatriglio Per me il documentario è relazione. Quella relazione imprescindibile che ti impegna in un’esperienza di ascolto e rielaborazione. Un procedimento di analisi e sintesi che ha a che fare con la produzione di senso e la restituzione del tempo. Credo anche che un film documentario sia uno strumento eccezionale per porre domande sulla realtà, sulla condizione degli esseri umani, e che la forza delle domande stia nel fatto di venir poste nei luoghi più difficili da frequentare, nei territori più impervi, scomodi, che fanno male. Occhio però: un film documentario ci deve portare nel territorio del­ l’indicibile senza dire troppo, senza essere dimostrativo. Ci deve con­ durre alla strada lasciandoci il tempo di perderci e ritrovarci. Lo spaesamento, il dubbio, sono fondamentali. Non mi piacciono i film che danno le risposte, ma quelli che pongono le domande. Infine, non ho mai amato la distinzione tra film di fiction e documentario, per me esi­ ste il cinema e la linea di confine non sta neanche nella messa in scena ma in quella soglia del pudore che spesso nel documentario tout court non è facile attraversare, mentre nella messa in scena è offerta con meno preoccupazioni. A volte può succedere che la scelta del pudore sia radicale: arrivare un attimo dopo che l’emozione abbia bruciato gli occhi e il cuore, così da poter ascoltare la riflessione, il ragionamento. A volte, al contrario, è lo stare in mezzo “mentre” accadono le cose che, in un tempo lungo, costruisce la drammaturgia riconoscibile, fatta di frammenti di vita messi insieme da una trama vera e propria costi­ tuita dal senso intimo degli avvenimenti. E questa trama, poi, non avrà nulla da invidiare alla trama di un film cosiddetto a soggetto. In gene­ rale ogni racconto ha la sua necessità. E poi, soprattutto nei film di finzione, mi piace la dialettica: dettagli di realtà a servizio del conte­ sto di finzione e viceversa, dettagli di finzione all’interno di un conte­ sto reale, come può essere l’inserimento di un attore in un contesto preesistente. Stefano Savona Non serve a nulla chiedersi se qualcosa sia cinema di finzione o non lo sia. Bisogna invece distinguere il documentario, che è cinema (quando dico cinema intendo qualche cosa in cui ci sia un aspetto di creazione) da quello che non è cinema (faccio riferimento al reportage televisivo, per esempio). Il cinema è tale quando ciò che si vede non è tipico di qualcos’altro, ma mostra degli organismi viventi con una loro specifica individualità, quando il protagonista della sto­ ria che racconti porta sullo schermo niente altro che se stesso. Questa è una dimensione fondamentale.

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2) Qual è l’impatto del digitale e delle ultime tecnologie (persino il 3d come hanno dimostrato Wim Wenders e Werner Herzog di recente) sul panorama produttivo e distributivo del documentario all"estero e/o in Ita­ lia? Ti piacerebbe, se potessi, usare la “vecchia” pellicola? Sergio Basso II formato è collegato alla storia che vuoi raccontare. Magari per qualche storia va bene anche il VHS. Alessandro Borelli L’impatto delle tecnologie digitali sarebbe di grandissimo vantaggio per il documentario soprattutto nell’ottica della sua diffusione, intendo per l’eventuale distribuzione in sala. Il problema è che sono poche le sale sul territorio italiano digitalizzate e si tende a confondere sala digitalizzata con sala dotata di attrezza­ tura per la proiezione 3D, che a parte i rari casi sopra citati (Herzog, Wenders), sono lontani anni luce dalla nostra realtà produttiva. Il 3d è uno strumento tecnologico. Come tutti i mezzi tecnici, se è a servi­ zio della poetica dell’Autore ha un senso estetico, altrimenti è solo un inutile orpello che viene presto smascherato anche dallo spettatore meno attento o avvezzo alla visione di documentari. Come per il 3d, mi piacerebbe nel momento che la scelta della pellicola non fosse un vezzo, ma assolutamente necessaria dal punto di vista stilistico e for­ male per narrare una determinata storia. Il formato non è mai il con­ tenuto di un film, né determina la qualità di un’opera, ma il suo neces­ sario completamento.

Massimo D’Anolfì/Martina Parenti II digitale per noi ha concretiz­ zato la possibilità di possedere tutto il necessario per fare un film ed essere così indipendenti, autonomi e liberi. Con la pellicola questo sarebbe stato sicuramente più dispendioso, anche se cerchiamo di lavo­ rare con la “parsimonia” e la ricerca nella precisione dell’immagine pro­ pria della cinepresa. Se ci capiterà l’occasione gireremo in pellicola, ma non è il tipo di supporto il nostro obiettivo. Pietro Marcello Io non ho mai visto un film 3d ma sono curioso. Sono affascinato dalla pellicola e dalla sua potenza alchemica che si scatena durante lo sviluppo chimico. Nel realizzare un film in pellicola si fa atten­ zione al consumo e si sceglie, spesso, bene cosa girare. Io faccio parte di una generazione che ha iniziato a fare piccoli film grazie all’uso del digi­ tale, per la sua leggerezza e la sua economia. Per il mio ultimo film/ritratto Il silenzio di Pelesjan (2011) ho utilizzato una piccola cinepresa 16 mm, e spero di poter continuare a girare in pellicola.

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Valentina Monti Come autrice, cerco per quanto possibile, di sce­ gliere il mezzo che meglio si presta alla storia che voglio raccontare. Ogni formato ha una sua precisa identità ma rimane uno strumento al servi­ zio della storia. Non amo particolarmente il 3d, al di là dei costi di pro­ duzione, non credo che aggiunga nulla di straordinario alla realtà. La pel­ licola, sarebbe una sfida interessante. Elisabetta Pandimiglio Le domande sono due, ma unica la risposta. Parto dalla fine con un’affermazione forse troppo scontata: fare un film in pellicola costa moltissimo. Con il digitale, basta avere una telecamera in mano, un computer, saper usare il final cut e si può costruire un film, anche da soli. Questo non vuol dire, equivoco ormai ricorrente, che la sempre più diffusa padronanza tecnologica sia sufficiente a fare un film o un autore, ma su questo, che rappresenta una conseguenza della demo­ cratizzazione introdotta dal digitale, non mi soffermo oltre. Mi piace­ rebbe riprendere in pellicola? Sì, certo, ma solo nel caso avessi un pro­ getto adatto ad essere girato in pellicola. Mi riesce difficile pensare i miei ultimi lavori realizzati con una tecnica diversa dal digitale. E non solo per i costi. Il documentario - almeno per quel che mi riguarda - richiede come condizione di base, la massima libertà espressiva e quindi anche agilità di mezzi, leggerezza tecnica e riduzione al minimo di tutto ciò che ostacola una relazione ravvicinata e profonda con la realtà da raccontare. Probabilmente, se avessi dovuto girare con l’ingombro di una macchina da presa, tempi della pellicola, apparato illuminotecnico, operatori, sepa­ razione rigida in inquadrature e sequenze, i mie ultimi film non sareb­ bero esistiti. Penso in particolare a Più come un artista (2011 ), girato inte­ ramente dentro la cucina di un cuoco stellato dove, a volte, addirittura io da sola, con una piccola telecamera in mano, risultavo ingombrante e invadente; dove, quando si era in più di un operatore, bisognava farsi piccoli e discreti fino a diventare invisibili perché i cuochi si dimenti­ cassero di noi e si manifestassero in quella sincerità che può nascere solo dall’inconsapevolezza. Credo che ogni storia, ogni idea narrativa abbia oltre che una sua durata ideale, un suo ideale formato, una sua ideale modalità per essere rappresentata. Spesso la cosa più complicata è pro­ prio individuare questo formato, prima ancora di iniziare. Non coglierlo, pregiudica la riuscita di un progetto filmico. Così per finire con il 3d, credo rappresenti senz’altro un’ottima evoluzione in campo tecnico. Par­ landone con una mia amica, qualche giorno fa, ci siamo ricordate dei “view master”, quegli stereoscopi giocattolo in cui da bambine infila­ vamo delle coloratissime diapositive che ci facevano entrare in mondi incantati. Un bel gioco! Credo che dal 3d derivi un linguaggio ideale per un certo tipo di lavori. Nel sorprendente Pina (2011) di Wenders, la per­ ii?

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cezione tridimensionale del particolare universo rappresentato, trascina lo spettatore ad un coinvolgimento totale da tutti i punti di vista. Mi rie­ sce difficile pensare in 3D Capturing the Friedmans ( Una storia americana, 2003), il documentario di Andrew Jarecki sulla pedofilia in famiglia. Qui la bidimensionalità di certe immagini è perfetta per raccontare il sotteso di una storia complessa e sconvolgente dove nulla è risolto, dove proprio le inquadrature piatte restituiscono il contrasto tra dichiarazioni verbali dei protagonisti e una realtà dei fatti inquietante e in continuo muta­ mento che stimola riletture, considerazioni, turbamenti. Ciò che la magnificenza della tridimensionalità rischia, invece, di annullare, sot­ traendo alla spettatore quella quota di distacco, necessaria per attivare il senso critico, la visione soggettiva, la lettura della parte bianca, i nodi irrisolti, la personale interazione con l’altro. Tutte funzioni fondamen­ tali, secondo me, in un racconto del reale.

Giovanni Piperno L’avvento delle nuove tecnologie è una cosa già vecchia. La grande rivoluzione non nasce adesso con l’HD o il 3d, ma trova le sue origini nella possibilità di girare con piccole macchine da presa, che costano poco, e di montare in casa il proprio materiale. Sono queste le circostanze che hanno dato la possibilità a molte persone di fare documentario. Io, che vengo dalla pellicola, non ne ho nessuna nostal­ gia. Fino al 2003 ho avuto questa nostalgia e ho cercato di inserire degli inserti in Super 8 o 35mm; adesso, con la nuova pasta morbida che hanno le telecamere, anche quelle non modernissime, sinceramente non ne sento più il bisogno. Costanza Quatriglio Molto genericamente, i documentari si fanno solo in digitale. Moltissimi con le telecamere di consumo. Devo dire che ulti­ mamente mi è tornata la voglia di usare la pellicola per un documentario. Ma solo perché ho in mente un film di un certo tipo. Questo a conferma che il mezzo usato influisce sulla storia e che, viceversa, è il film a chiederti come vuole esser girato. Per esempio ho sempre sostenuto che è assurdo pensare di usare il digitale come surrogato della pellicola, come negli anni scorsi troppo spesso si sentiva dire in riferimento ai film di finzione a basso costo. Al contrario, siamo fortunati perché abbiamo a disposizione molte possibilità e non bisogna accontentarsi né essere pigri. E entusiasmante imparare a “spremere” il mezzo. Ricordo ancora il mio primo documen­ tario, È Cosaimale? del 2000: scoprii che la piccola telecamera Panasonic aveva un microfono zoom, cioè, stringendo il quadro il microfono diven­ tava direzionale e, per me, che giravo per strada tra i motorini e la confu­ sione delle strade palermitane, quello di stringere a distanza (anche per fare sentire!) divenne la chiave stilistica dell’intero film. 118

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Stefano Savona Adesso c’è una libertà assoluta dovuta al fatto che esistono moltissimi tipi di digitale. La tecnologia se utilizzata in maniera un po’ estrema e pionieristica, ti permette di fare delle cose tecnicamente impossibili trenta anni fa. La libertà del video sta proprio nella possibi­ lità di utilizzare il nuovo in maniera sperimentale, quasi artigianale. Per quel che riguarda il 3d credo che sia un fenomeno passeggero, anche per­ ché il cinema, per sua natura, ha almeno altre 100 dimensioni. Il cinema è l’arte di raccontare quello che non si vede, per cui non può essere più vero solo perché c’è una terza dimensione. L’idea che al cinema mancasse una dimensione, sinceramente, non l’ho avuta mai.

3) Nell’ambito della produzione e delle distribuzione, quali concrete possibilità offre lo sfruttamento di internet e quali sono invece i limiti di questo strumento? L’assenza quasi totale del documentario dalle sale cine­ matografiche e quindi la necessità di essere trasmessi solo su piccolo schermo (a volte piccolissimo, se pensiamo ad internet) influisce sullaforma estetica della non fiction fatta?

Sergio Basso La distribuzione influisce sulla grammatica, sì. Credo, tra l’altro, che sia sano e normale. Internet può avere un enorme impatto: creazione di canali tematici fruibili solo su internet, lancio di piattaforme crossmediali (www.corriere.it/gialloamilano). E probabilmente tempo di cercare nuove strade, sala o non sala. Il problema però non è più la visi­ bilità di un’opera: ma come guadagnarci sopra decentemente, per poter fare quella successiva. Alessandro Borrelli Internet offre certamente possibilità e presenta grandissime potenzialità, ma nello stesso momento, essendo la rete di fatto una “giungla” sconfinata, è necessario che si studino misure distri­ butive appropriate e un piano di lancio che deve necessariamente tro­ vare partner di grande visibilità. Chiunque può utilizzare internet per distribuire il proprio film a costi bassissimi, ma il vero problema è “come” e naturalmente “chi e quanti lo guarderanno”. Si contano ormai tantissime esperienze fallimentari di siti, dove è possibile vedere in strea­ ming o “scaricare” legalmente film e documentari, ma questi da soli, se non accompagnati da un forte partner commerciale (sulla rete) e da una campagna di promozione, non hanno alcuna visibilità, se vogliamo par­ lare di numeri importanti. Si sta proponendo anche sulla rete quello che accade da sempre in sala: solo i grandi gruppi o film con una forte cam­ pagna di lancio possono garantire visibilità. Poi, certo, proprio come suc­ cede in sala, ogni tanto troviamo una felice scoperta, il famoso “caso distributivo”. Per esperienza personale posso dire che, in un anno e 119

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mezzo, lOOmila internauti hanno visto o quantomeno conosciuto resi­ stenza del documentario Giallo a Milano (2009), ma era ospitato sul por­ tale web del «Corriere della sera», pertanto ha avuto buona campagna mediatica anche sulla carta stampata. Se l’avessi distribuito sul mio sito o su un qualunque “contenitore” di documentari in quanti l’avrebbero visto, eccetto gli addetti ai lavori? L’Autore e il produttore, almeno per quanto mi riguarda, lavorano con mezzi atti a soddisfare le necessità crea­ tive, narrative e visive della storia. Non pensiamo mai prima, come e dove sarà diffuso il documentario. Tra l’altro, almeno nel nostro caso, prima della diffusione, ci sono sempre molte partecipazioni a festival dove si può godere della qualità di proiezioni ottimali per il documentario.

Massimo D’Anolfi/Martina Parenti Noi facciamo dei film sperando che vengano proiettati il più possibile nei cinema. La rete è uno stru­ mento grandioso, ma è un altro mestiere. Pietro Marcello Credo che solo attraverso la proiezione in sala o su schermi di grandi dimensioni il cinema vinca: “Riempirsi la vista”. Non sono contrario alle nuove tecnologie ma bisogna fare attenzione all’uso che se ne fa. Sono abituato a vedere film anche sul mio portatile e quindi conosco bene i limiti delle visioni domestiche. Però, un bel film è un bel film, sia visto su internet o al cinema, e manterrà sempre le sue caratte­ ristiche e la sua bellezza formale.

Valentina Monti: Internet è una piattaforma per me molto interes­ sante. Ovviamente un progetto che nasce per la rete non può essere lo stesso di uno che nasce per la sala o per la televisione ma deve avere altre caratteristiche. La sala cinematografica o la TV richiedono un ascolto orizzontale, internet per sua natura è verticale e interattivo, apre al docu­ mentario, e più in generale al racconto di finzione, nuove possibilità di narrazione non lineare. Esistono progetti di documentari per il web estre­ mamente interessanti, penso ad esempio ad Highrise (2011) della cana­ dese Katerina Cizek, ma credo che la ricerca e la sperimentazione in ambito trans-mediale sia appena iniziata e, per questo, estremamente sti­ molante.

Elisabetta Pandimiglio Sicuramente l’internet insieme al digitale sta generando modi alternativi di produrre e distribuire film. Mi pare che, come già succede in altri paesi europei, anche in Italia stiano entrando nuovi modelli di produzione, costruiti su finanziamenti col­ lettivi da parte del popolo di internet (crowdfunding) che, organiz­ zandosi in community, ha la possibilità di partecipare anche con pic­ 120

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cole somme alla coproduzione di progetti filmici, fin dal nascere. I pro­ getti vengono accolti in appositi siti dove esistono anche dei labora­ tori con la possibilità di contribuire allo sviluppo del progetto a cui si è interessati. Certamente questo permette di produrre lavori a costi molto bassi e influenzerà in qualche modo la futura distribuzione, creando un potenziale pubblico prima ancora che il film sia tale. Nel caso specifico del documentario, tale meccanismo comunicativo potrebbe contribuire notevolmente ad avvicinare il pubblico a lavori non standard e dare vita così ad una nuova cultura del racconto del reale. E rimanendo in tema di distribuzione, per i registi indipendenti di documentari, il web potrebbe rappresentare la possibilità di far vedere ad un pubblico ampio i propri film che raramente, con i loro formati e durate “anomale”, raggiungono il grande schermo e riescono quindi ad avvicinarsi al circuito commerciale, anche perché sono ancora troppo poche le sale attrezzate per la proiezione del digitale. Con una maggiore digitalizzazione delle sale, si potrebbe avere una programmazione varia e alternativa dove troverebbero spazio anche lavori di durata e formati non convenzionali che al momento circolano solo tra i pochi frequentatori di un certo tipo di festival. Proseguendo lungo la strada delle nuove tecnologie, il modo di guardare un film subirà cambiamenti importanti che non potranno non influenzarne anche l’estetica. E questa è una considerazione sul cinema in generale. Penso ad esempio al fascino di certi totali disseminati di minuscoli det­ tagli, ai campi lunghi con gli esseri umani che si muovono come for­ michine e già ora scorrono insensati e invisibili negli schermi degli iphone. Anche lo schermo possiede una propria estetica legata alla misura. E non solo. Forse nel momento in cui ognuno sceglierà di vedere film su schermi mobili di qualsiasi grandezza - trasportati con le proprie mani ovunque faccia comodo, poggiati sulle gambe, su una mano, sul braccio di una poltrona, in grembo - l’esperienza cinema­ tografica come evento sociale collettivo che accosta per qualche ora spettatori tra loro sconosciuti ma uniti nel condividere la stessa por­ zione di reale, sarà già morta insieme al calore unico che emana la grana della pellicola. O meglio sarà diventata qualcos’altro. È già qual­ cos’altro per gli adolescenti post-multisala che, invece di frequentare cinema, si riuniscono in gruppetti attorno ad un cellulare di ultima generazione. I miei primi film - The Devil’s Brother (Fra Diavolo, 1933, Hal Roach e Charley Rogers) con Laurei & Hardy, The Greatest Show on Earth (Ilpiù grande spettacolo del mondo, 1952, Cecil B. DeMille), Spartacus (1960, Stanley Kubrick) - li ho visti in una sala parrocchiale strapiena di bambini chiassosi.

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Giovanni Pipemo Siamo ancora all’inizio di questo percorso. Ho l’impressione che tutti girino documentari cinematografici, nonostante l’assenza di un mercato vero e proprio. Potenzialmente internet può essere solo un vantaggio, anche perché sugli schermi dei computer i film si vedono in alta definizione, ma non conosco ancora nessuno che riesca a vivere “di solo internet”. In prospettiva, credo che non ci sarà più la divisione tra televisione e internet. Costanza Quatriglio Certamente lo strumento di diffusione influisce, al pari del mezzo. La prossimità del soggetto nelle inquadrature è spesso la chiave stilistica della non fiction, quando i movimenti di macchina, le inquadrature “ariose”, i paesaggi, l’aspetto “contemplativo” viene meno per lasciare il posto a inquadrature che rivelino la “fisicità” del mezzo, filmate magari con l’equivalente di un sano obiettivo cinquanta che bressonianamente annulla la distanza tra te che filmi e ciò che viene filmato. Personalmente non ho ancora esperienza dell’uso di internet, e di que­ sto mi rammarico, anche se mi sta venendo in mente che, vista la diffi­ coltà di realizzare e di mostrare certe storie scomode, forse si potrebbe pensare a una veicolazione autonoma attraverso l’uso di internet. Ci sto pensando. Stefano Savona II ruolo di internet è proprio quello della distribu­ zione, ma ci sono, a mio avviso, diverse problematiche. La Rete è solo apparentemente un mezzo libero grazie al quale chiunque può trasmet­ tere. Potremmo fingere di credere che, se carichi i tuoi lavori su internet, i tuoi interlocutori diventino il mondo intero mentre, invece, rimangono quelle cento, duecento persone che, per qualche motivo specifico vanno a vedere il tuo film. Inoltre quello di internet è solo in apparenza un sistema casuale. La ricerca tramite i motori più diffusi è basata, infatti, su di un algoritmo che studia le tue abitudini. Per come sono strutturare le chiavi di ricerca, ognuno è portato a trovare le cose appartenenti all’ambito che normalmente frequenta. Ovviamente come strumento internet fornisce accesso a tutta una serie di notizie che facilitano il nostro lavoro. Senza le immagini raccolte su internet non avrei mai potuto rea­ lizzare il mio lavoro sul Cairo (Tahir Liberation Square, 2011). La rete pone, insomma, questione di varia natura solo parzialmente tematizziate, prima che risolte.

4) Quali sono, se ci sono, dei filoni stilistico/formali che a tuo avviso caratterizzano, oggi, l'attuale fase del documentario nel nostro Paese? Cè qualcuno che ti ha influenzato?

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Sergio Basso C’è una marea di sperimentazione. La tavolozza di solu­ zioni generate, che possiamo vedere nei festival, è molto ispirante. Ci si può permettere di essere molto più creativi nel documentario che nel fea­ ture, che invece oggi in Italia è troppo spesso conformista. Alessandro Borrelli Non intravedo particolari filoni stilistico/formali. Nel cosiddetto “documentario di creazione”, in genere l’ambizione di molti Autori è piuttosto modesta: i soggetti che leggo sono nella maggior parte dei casi di carattere molto personale, intimista a volte quasi introspettivo, o di carattere “sociale/sociologico” che analizza temi spesso troppo abusati, soprattutto nell’approccio. Troppi sono pur­ troppo accomunati da scarse ambizioni visive e narrative. Il punto di par­ tenza, a mio avviso un approccio sbagliato, da parte di molti è “non ci sono mezzi, non c’è denaro, devo cavarmela con poco, di qui le storie hanno un taglio minimalista e la fattura in molti casi non è di grande qua­ lità”. In che modo si pensa di poter competere con i film a soggetto che sono regolarmente distribuiti con documentari visivamente e qualitati­ vamente poco attraenti? Cosa dovrebbe spingere uno spettatore ad andare in sala a vedere un documentario di creazione sull’immigrazione, per esempio, magari composto da una serie di testimonianze e interviste frontali, senza dubbio di grande valore e interesse, ma assolutamente poco interessante dal punto di vista visivo e formale. Da considerare inol­ tre che troppi aspiranti Autori e registi di film a soggetto realizzano docu­ mentari, in attesa di passare un giorno al cinema o alla televisione (alla finzione tout court). Negli anni ottanta e novanta i cortometraggi rap­ presentavano la “palestra” per passare un giorno al lungometraggio, da fine anni novanta con la “riscoperta” del documentario di narrazione, in tanti vedono in questo genere un’occasione per dimostrare le proprie capacità di “narratori per immagini”, sbagliando evidentemente l’ap­ proccio, poiché la narrazione documentaristica, soprattutto laddove le risorse sono scarse (come in Italia), dovrebbe rappresentare una voca­ zione e non un passaggio verso altro. Naturalmente, altro caso a parte sono quegli autori che si muovono tra film a soggetto e film documen­ tari, in base alla necessità e urgenza di temi e argomenti che vogliono affrontare.

Pietro Marcello L’unica corrente che ha caratterizzato il nostro cinema è il neorealismo, che senza la guerra non sarebbe mai nata. Oggi siamo lontani da quel cinema che ha influenzato le cinematografie mon­ diali, e non abbiamo neanche motivazioni forti per esprimere un cinema di resistenza, di cambiamento e di fame. Per esempio il nuovo cinema rumeno ha espresso le stesse caratteristiche di un cinema/dopoguerra. 123

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Anche l’Argentina, con il suo crack economico, e le sue spinte sociali e generazionali lo ha fatto. In Italia non possiamo aspettare un’altra guerra per vedere rinascere un cinema altro, e nel resto d’Europa la situazione non è così diversa dalla nostra. Poche motivazioni e poche spinte sociali, per ora, non hanno permesso al cinema di essere protagonista e stru­ mento di comunicazione reale.

Valentina Monti Non vivo in Italia oramai da un po’ di anni ma non credo esistano filoni stilistico/formali, o forse io non li conosco, penso invece che esistano bravissimi autori. Tutto quello che mi piace in un qualche modo mi influenza.

Elisabetta Pandimiglio Non riesco a individuare filoni stili­ stico/formali ben precisi. Potrei indicare: reportage, doc narrativi, d’in­ chiesta, sperimentali, cinediari, storici, mockumentary, d’arte, di viaggio, di famiglia... perché il documentario è difficile da imbrigliare, non ha confini ed è una forma espressiva estremamente libera nello stile e nel tema. Non ho la percezione consapevole di essermi ispirata a qualcuno in particolare, ma amo i lavori di Wiseman, Flaherty, De Seta... Giovanni Piperno Non dei grandi maestri, ma piccoli insegnanti. Sono partito piuttosto autodidatta e ignorante. I documentaristi come Errol Morris e Robert Kramer li ho scoperti dopo. L’autore che mi ha influenzato di più è stato Agostino Ferrente: quando ho iniziato a lavo­ rare con lui, ho apprezzato il suo modo di mettere in scena che poi ho fatto mio. Prima di lui c’è stato un amico e collega francese, Brice Emiel, con il quale ho fatto il mio primo lavoro senza la co-regia di Laura Muscardin (Il mio nome è Nico Cirasola, 1998), che mi ha insegnato a lavorare sul campo e a girare in maniera cinematografica. Per quanto riguarda il nostro paese, si è creato il paradosso che la mancanza di un vero mercato (tranne per Natura e Storia) permette una grande libertà stilistica - basta ricordare i cinque finalisti del premio Doc/it del 2011, per rendersene conto: Elsicario Room 164 (Gianfranco Rosi), Cielo senza terra (Giovanni Maderna, Sara Pozzi), This is my Land... Hebron (Stephen Natanson, Giulia Amati), Left by the Ship (Emma Rossi Landi, Alberto Vendemmiati), 11 Castello (Massimo d’Anolfi, Martina Parenti). Non c’è un filone dominante. E questo è l’unico dato positivo italiano.

Costanza Quatriglio II documentario ha, di fatto, soppiantato la nar­ razione del presente nel cinema di finzione, affermandosi come territo­ rio di novità e coraggio, non solo dal punto di vista dei temi ma anche dal punto di vista linguistico. Non so se ci sono dei filoni stili­ 124

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stico/formali. Penso al contrario che il documentario in questo momento è il territorio della libertà, proprio perché non ci sono regole certe né di produzione né di distribuzione. La libertà è nella scelta dei soggetti, nelle durate dei film. Questa libertà è frutto anche dell’indipendenza dei mezzi di produzione e del bassissimo costo. Nel panorama italiano, gli autori di documentari, non sono così condizionati dall’autocensura come nel cinema di finzione in cui siamo ridotti veramente al depauperamento più totale di segni e significati. D’altro canto è chiaro a tutti che ci vorreb­ bero spazi di diffusione, ci vorrebbe una cultura della non fiction sia sul piano degli spettatori, sia sul piano dei produttori. Ahimè sono ancora troppi i produttori cinematografici italiani che considerano il documen­ tario la serie B rispetto ai film di finzione. C’è da dire, però, che come forma di resistenza sono proliferate le rassegne e nei festival ci sono anche importanti spazi dedicati al documentario, segno che forse è da qui che bisogna ripartire.

Stefano Savona Non credo che ci siano dei filoni in Italia, perché di cinema documentario se ne produce poco. Non ci sono scuole, ma realtà forti e isolate anche per la natura stessa del cinema di non finzione. Se dovessi pensare a qualcuno che mi ha influenzato, credo che uno dei migliori registi italiani sia Francesco Rosi. Rosi porta avanti una ricerca estrema sia da un punto di vista formale che da uno sostanziale. Il suo lavoro mi influenza nella misura in cui vedo che si può arrivare ad una per­ fezione stilistica che prima di vedere i suoi lavori non credevo possibile. Nella generazione precedente ci sono stati documentaristi come Alessan­ dro Rossetto che mi hanno dato la voglia di fare quello che faccio. X) La televisione ha generato e genera delle forme (facciamo riferimento a canali tematici come Rai Storia o altre forme di reportage giornalistico) che vengono comunemente definite documentario, abituando il pubblico a un prodotto che magari è molto lontano da quanto per esempio voi fate. Come si risponde (se si risponde) a tale tendenza? Sergio Basso Continuando a lottare per fare i documentari come mi piace, verificando se al pubblico interessa. Il mondo è bello perché è vario, i realizzatori di reportage e di Rai Storia hanno tutto il diritto di fare i documentari che a loro piacciono, e se vincono sul mercato televi­ sivo, meglio per loro.

Alessandro Borrelli Per poter rispondere si dovrebbe avere l’oppor­ tunità di farlo sullo stesso campo, ossia mostrare concretamente allo spet­ tatore, il quale in nessun modo è tenuto a sapere a priori quale sia la dif125

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ferenza tra un reportage, un documentario storico o un documentario di creazione, il lavoro che facciamo. Dal momento che questo non accade, poiché lo spazio è pressoché inesistente o comunque relegato a giornate e orari di programmazione assolutamente impopolari, non si può rispon­ dere. Piuttosto bisognerebbe domandarsi noi, come Autori e produttori, dove e come mostrare il nostro lavoro, quindi inventarsi spazi e strate­ gie distributive e di visibilità. A che servono i produttori? A fare un docu­ mentario che sarà visto nelle migliori delle ipotesi in 10-15 passaggi nei festival? In questo caso sarebbe solo uno spreco di soldi e tempo per tutti, oltre che a un’enorme frustrazione. Con questo ragionamento, sia ben chiaro non voglio assolutamente difendere l’indifendibile program­ mazione della televisione italiana e l’inesistente politica produttiva/distributiva per il documentario di creazione sia nella televisione generalista che pay, satellitare o digitale che dir si voglia, ma in assenza di una televisione “normale” come hanno in quasi tutti i Paesi europei, che facciamo? Dovrebbe essere un obbligo editoriale della televisione generalista di Stato riservare almeno un canale alla sperimentazione e alla ricerca senza essere subordinato ai risultati dell’audience, lasciando dun­ que anche spazio a documentari. Al momento purtroppo non è così, ma noi produttori e autori abbiamo lo stesso il dovere di trovare forme alter­ native di diffusione del nostro lavoro e nello stesso momento lottare affin­ ché le cose cambino in meglio. Pietro Marcello Odio profondamente la nostra televisione. La Rai, fino agli inizi degli anni ottanta, era una grande televisione, non meno della BBC. Se il nostro paese è cambiato - in peggio - questo è in parte imputabile alla televisione. La televisione poteva essere storia, sociolo­ gia, didattica, emancipazione sociale, sperimentazione, ecc... Ci sono tut­ tavia degli esempi virtuosi, faccio riferimento a canali come Rai Storia. Il sistema televisivo è dominato dal mondo delle banalità, dall’edonismo e dalla miseria culturale dei nostri politici. Credo che i padri fondatori, quelli della costituente, sarebbero ben felici di abbattere tutti i ripetitori che invadono il territorio, per ricostruire un Paese.

Valentina Monti Mi sembra incredibile che ancora ci sia confusione tra reportage televisivo e documentario di creazione, è come confondere soap opera e cinema. Voglio dire che sono prodotti diversi e per questo non in competizione tra loro. Dovrebbe esserci, anche in Italia, spazio per entrambi.

Elisabetta Pandimiglio Capita che, alla domanda “Che lavoro fai? Di cosa ti occupi?” risponda sbrigativamente “di documentari”. Abba­ 126

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stanza spesso mi sento replicare: “Che bello! Animali? Storia?”. Capita a molti dei miei colleghi, al punto di essere diventato ormai un luogo comune. Credo che il reportage giornalistico, compilativo, divulgativo, cristallizzato in forme standard (teste parlanti + repertorio d’archivio, fil­ mati accompagnati da voci off sovrapposte, simili) sia la forma più cono­ sciuta di documentario, soprattutto perché generata e diffusa da sempre attraverso la tv. Direi che per il pubblico medio, l’identificazione del documentario con questa forma di audiovisivo sia totale. Senza pensare alla tv come antagonista del cinema e senza voler squalificare un tipo di lavoro a cui riconosco comunque una indubbia funzione informativa, è ovvio che, come ho detto sopra, sento di fare un lavoro molto diverso. Per me il documentario non è semplicemente il suo contenuto: ritengo imprescindibile la cura, non solo per il cosa si racconta, ma anche per il come, mai trascurando sperimentazione e ricerca. La scelta di un angolo di osservazione e di un punto di vista si traduce già di per sé nell’ assun­ zione di una responsabilità critica verso la realtà ritratta, senza mai venire meno al rigore etico e formale che ritengo fondamentali e necessari per contrastare l’autocompiacimento, il voyeurismo, la facile retorica, la por­ nografia delle immagini. Giovanni Piperno II problema è la distribuzione. C’è stato un momento, negli anni novanta, durante il quale il documentario aveva molto successo nelle televisioni europee e andava in onda in prima serata. Adesso abbiamo perso il treno anche in Europa. Si è però creato, in Ita­ lia, un pubblico minoritario che, grazie alle rassegne diffuse in tutto il Paese, alla democraticizzazione dei mezzi di produzione, ai sempre più numerosi corsi universitari e scuole, sa che esistono i documentari. E una piccola minoranza ma molto solida, molto viva e attiva. Perché di docu­ mentari se ne fanno e se ne guardano tanti. Le nuove generazioni non sono cresciute e non cresceranno davanti alla televisione generalista. Devo poi dire che negli ultimi anni sia la critica che i festival hanno dimo­ strato una nuova attenzione per il documentario. Quando ho iniziato io, il genere non fiction era reietto, non considerato. Ma naturalmente per una vera emancipazione la strada è ancora lunga: sarebbe necessaria una maggiore attenzione da parte dei giornali per compensare la disatten­ zione della nostra televisione; creare un circolo virtuoso con proiezioni ed eventi dovrebbe diventare una moda culturale per allargare un po’ il suo pubblico. In Italia, se vogliamo avere più visibilità, siamo costretti a passare alla finzione, e non a caso Rossetto, Marazzi, Di Costanzo, Alice Rohrwacher, lo hanno già fatto o lo stanno facendo ora. Se si pensa che Gianfranco Rosi, il miglior documentarista italiano, pluripremiato all’e­ stero, non è mai uscito in sala, si capisce quale sia la nostra visibilità. 127

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Costanza Quatriglio Si risponde cercando di ottenere degli spazi di distribuzione per altro; proponendo film documentari in televisione e nei circuiti distributivi. Dieci anni fa ancora si confondeva il documen­ tario con il reportage. Oggi la situazione è migliorata, ma non del tutto, se sono gli stessi addetti ai lavori a non credere nel documentario come forma cinematografica, ingenerando erroneamente liquazione tra il tema trattato e il buon film, soprattutto quando si tratta di temi sociali. Stefano Savona II cinema documentario produce solo una quantità infinitesimale di tutte le “immagini di realtà” che si trovano in giro e per la maggior parte, in televisione. Secondo me la domanda giusta da porsi è piuttosto sulla relazione della realtà con le immagini televisive, perché da quando esiste la televisione la messa in immagini della realtà ha subito un trauma e di conseguenza anche la percezione del reale attraverso le immagini filmate ha subito un cambiamento radicale. Noi registi di cinema documentario, nel momento in cui abbiamo davanti la persona protagonista del nostro racconto, avendo a cuore l’unicità di quel momento e di quella persona, ci portiamo dietro, indipendentemente dalla nostra volontà la pesantezza enorme di tutto l’apparato simbolico che le immagini televisive hanno generato sull’immaginario collettivo. Quando incontriamo una persona questa è già rappresentante di una serie di categorie che possono essere la sua professione la sua origine sociale, la sua famiglia, la sua nazionalità e per mezzo delle quali ci fac­ ciamo un’idea di lui prima ancora di conoscerlo. Nel momento in cui costruisci la relazione con una persona devi anche distruggere tutto quel­ l’apparato di luogo comune che quella persona si porta dietro per il solo fatto di appartenere ad una categoria che la televisione ha mostrato come specie e non singoli individui. Il cinema documentario produce solo una quantità infinitesimale di tutte le “immagini di realtà” che si trovano in giro e , per la maggior parte, in televisione.

6) Come scegli le storie che realizzi e/o produci?

Sergio Basso Sul senso di necessità. Adesso sto lavorando sul tema di “verso quale identità nazionale stiamo andando”. Diversi progetti a cui penso, si aggregano tutto sommato attorno a questo fulcro.

Alessandro Borrelli In molti casi esiste già un affiatamento con gli autori con i quali si ha già avuto occasione di lavorare insieme per pro­ duzioni pregresse e si condivide la modalità, la visione e le intenzioni sti­ listiche del lavoro. Nel caso di un nuovo rapporto di collaborazione è per me di fondamentale importanza la motivazione, la passione, la profon­ 128

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dità con la quale si affronta un argomento, così come l’amore per l’im­ magine e per la ricerca di soluzioni e approcci narrativi originali. Non mi colpisce più di tanto l’originalità di un soggetto, ma il modo di narrare e vedere dell’autore.

Massimo D’Anolfi/Martina Parenti Le storie a volte ci vengono incontro, a volte le inseguiamo nel tempo. Però, dal momento che cer­ chiamo di restituire un modo di vedere e non una tesi, per noi la scelta della storia non è il fattore più importante. Si può fare un buon film da qualunque storia. Pietro Marcello Tutto parte da una necessità, se non ho motivazioni reali preferisco stare zitto. Valentina Monti: Sono le stesse storie a sedurmi per la loro unicità. Non accade mai nello stesso modo. Girls on the Air - Radio Sahar (2009), ad esempio, è nato dalla mia necessita di provare a comprendere il pre­ sente mentre il progetto su cui sto lavorando in questo momento indaga la memoria, ricerco nelle immagine del passato la trama di una famiglia, una possibile verità sulle relazioni.

Elisabetta Pandimiglio II documentario a cui sto lavorando in que­ sto momento nasce dall’esigenza forte di dare un senso profondo a una scelta personale: è un dialogo collettivo con altre donne che hanno fatto la stessa mia scelta. Spesso i miei lavori derivano da un esigenza profonda. Altre volte nascono dall’infatuazione per un soggetto, un tema, un essere, una storia. L’infatuazione si può trasformare in innamoramento. Se il film è commissionato, questo può rappresentare un problema. E successo. A volte mi è capitato di non riuscire ad amare quello che stavo raccontando. Forse questo senso di avversione è rimasto impresso in qualcuno dei miei lavori meno riusciti. Giovanni Piperno Adesso sto lavorando a un progetto prodotto e diretto assieme ad Agostino Ferrente, ma è una eccezione. Dal 2003, infatti, non propongo e non produco più, ma lavoro solo su commissione. La commissione ti dà la possibilità di avere un budget e un compenso, e i limiti imposti dalla committenza diventano una sfida creativa sempre interessante se si vuole fare un film con uno stile personale. Poi, per cam­ pare e per piacere, faccio di tutto: conduttore radiofonico, animatore di dibattiti, docente, presentatore/velino, attore; insomma per mettere assieme uno stipendio da postino facendo solo cose che ci piacciono è necessaria molta elasticità e fantasia. In questo Gianfranco Parinone è un 129

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maestro. Il rischio è che non ci si riesca a concentrare sui film importanti, ma non abbiamo molta scelta, se non si è molto ricchi di famiglia. Costanza Quatriglio Scelgo le storie che mi permettono di mettermi in gioco. Per me fare un film documentario è un viaggio, un’esperienza che ha a che fare sia con l’urgenza (e quindi necessità) di calarmi in quella data realtà e raccontare quella storia, sia con un aspetto più propriamente dinamico, che è quello del lavoro su di me e il mio stesso stupore. Mi spiego meglio: costruendo quella relazione tutta mia con il contesto in cui decido di calarmi, ecco che capisco come riesco a restituire nel film quel mio stesso procedimento, dapprima interiore, poi assolutamente condiviso e condivisibile. Questo per dire che cerco di offrire allo spet­ tatore una drammaturgia fatta di elementi dinamici che hanno a che fare con lo svelamento e non con la dimostrazione. A volte è stato ricono­ sciuto come filo rosso che lega i miei film, quello della ricerca dell’iden­ tità. Probabilmente è vero, o è stato vero, ma per fortuna i film docu­ mentari sono in parte anche il frutto dell’hic et nunc di chi li fa, e i miei film, almeno stilisticamente, sono uno diverso dall’altro, anche se tutti cercano nella complessità la ragione stessa dell’esser realizzati. Stefano Savona Quello che mi preme è raccontare storie individuali che abbiamo la forza delle storie, ma che siano delle storie che vengono realizzate utilizzando la realtà così com’è. Ma queste storie devono avere una loro unicità e mettere in discussione quello che tu sapevi prima piut­ tosto che confermarlo.

7) Quale senti essere il tuo ruolo di autore nel panorama del cinema ita­ liano di oggi?

Sergio Basso Forse sono un po’ orso. Vorrei riuscire a far più gruppo: un cenacolo di persone. Ma non solo per lottare per diritti o per pren­ dere un aperitivo: per ragionare.

Alessandro Borrelli Un ruolo politico. In Italia ritengo che sia final­ mente ora che si incominci tutti a fare politica ciascuno attraverso il pro­ prio mestiere. Intendo il significato più alto e nobile di “politica”, quello dell’agire per la società, per la “polis”. Non il fare propaganda o pro­ muovere ideali o ideologie, ma un approccio etico che, nel caso del nostro mestiere, di creatori di contenuti e immagini, deve essere volto alla valo­ rizzazione della ricerca stilistica e formale e alla diffusione di storie, indi­ pendentemente che siano a soggetto o documentarie, capaci di smuovere le menti e le coscienze. Quando tutti torneremo a esercitare un ruolo 130

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politico nel nostro mestiere, qualunque mestiere esso sia, solo allora migliorerà la politica e l’amministrazione del nostro Paese, di conse­ guenza anche la politica culturale. Non posso fare in modo che tutti la pensino come me, ma non mi piace neppure ripetere “io da solo che posso fare?” restando fermo e indolente. Buona fortuna e buon lavoro a tutti noi! Massimo D’Anolfi/Martina Parenti Nullo!

Pietro Marcello Nessuno, provo a fare film per non ammalarmi! Valentina Monti: Nessun ruolo. Inseguo io stessa la possibilità di stu­ pirmi e cerco di raccontarla.

Elisabetta Pandimiglio L’unica cosa che mi viene da rispondere di getto, premesso che non mi considero indispensabile per il cinema ita­ liano, è la scelta frequente di raccontare il disagio e l’ingiustizia che si annidano dietro realtà solo apparentemente piccole, più spesso nascoste fino all’invisibilità, cercando anche io di non essere troppo visibile. Sono un’autrice donna, rappresento quindi ancora una minoranza. Sicura­ mente porto il mio mondo, la mia storia nel modo di osservare e rac­ contare. Non parlo di scelte tematiche. Parlo di altre esperienze, matu­ rate in altri ambiti, che mi hanno portato a capire quanto sia importante - anche attraverso la semplice denuncia con i piccoli mezzi che abbiamo a disposizione - dare voce e spazio a chi non ce l’ha.

Giovanni Piperno Per anni ho sempre pensato di non avere alcun ruolo. Poi ho cominciato a incontrare molti giovani che mi hanno rac­ contato di come è stato importante per loro vedere i film miei e dei miei colleghi “della vecchia guardia”, come ci chiama Pietro Marcello. E quindi un qualche ruolo forse ce l’abbiamo, o ce lo abbiamo avuto. E poi tra cinquanta anni verremo tutti riscoperti per aver narrato, con stili diversi e originali, l’Italia prima della catastrofe (o della rinascita, chissà!). Detto questo, alla qualifica di autore preferisco quella di regi­ sta. Costanza Quatriglio II mio ruolo? Sento di far parte di una genera­ zione di cineasti che si è riappropriata del documentario come strumento per vivere a pieno il proprio tempo. Negli ultimi dieci anni il documen­ tario è rifiorito, proprio a causa della accessibilità/indipendenza del mezzo. Nello spaesamento totale abbiamo bisogno tutti di riappropriarci del ruolo del cineasta come persona capace di fare una riflessione sul pro131

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prio tempo, altrimenti di cosa parliamo? Proprio adesso c’è un deficit di narrazione del paese, c’è un buco nero della coscienza rispetto al nostro paese. Ogni giorno mi chiedo quale ruolo posso avere da cineasta, ma anche da cittadina cineasta. Il ruolo, poi, per definizione ha a che fare con il riconoscimento. Si declina il ruolo in base a ciò che gli altri ti rico­ noscono. In questo senso l’Italia vive una contraddizione gigantesca: non ci sentiamo all’altezza di stare nel mondo, invece il documentario ci porta lontano, in Egitto come dietro l’angolo, dove basta semplicemente fer­ marsi un attimo per capire che il re è nudo e che è solo a partire da un cinema che sappia ricondurre la narrazione al contesto che possiamo rinascere veramente. Stefano Savona II ruolo principale di un regista è quello di fare cinema. Di raccontare storie che abbiano un’urgenza personale che poi si riesca a trasmettere allo spettatore al pubblico anche attraverso la nar­ razione di storie personali collettive anche per mezzo del cinema poli­ tico ma non necessariamente in maniera analitica. Il cinema documen­ tario utilizza la realtà stessa per raccontare la realtà.

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RIFLESSIONI A MANO LIBERA SUL RUOLO DEL DOCUMENTARISTA

Siate pazienti e arretrate insieme a me fino ai ruggenti anni cinquanta (i decenni di poi sono stati tutti utilizzati per assopire le aspettative di una società che esigeva di non essere più una collettività larvale - alla paralisi ci stiamo arrivando trionfalmente adesso). Allora io ragazza, da così poco tempo senza più le trecce, e i ragazzi, da così poco tempo in calzoni lunghi, avevamo scelto il cinema come la palestra per agire sul e nel nostro tempo: dico per questo grazie a Citto Maselli, che ha definito il film “un fatto pubblico” (ora non lo è più, se non per i nostalgici incalliti). Poiché la nostra scuola nozionistica ci aveva instillato obbligatoria­ mente la necessità di grammatica e sintassi, ecco il nostro intenso tiroci­ nio a impadronirci della grammatica del film e subito dopo a capire la sintassi con lo scopo di comprenderla. Nostra era la profonda soddisfa­ zione a individuare: P.P. (il primo piano), P.P.P. (il primissimo piano), C.M. (il campo medio), P.A. (il piano americano), C.C. (il controcampo) C.L. (il campo lungo), C.L.L. (il campo lunghissimo, altresì idoleggiato come P.P.P. della terra), F.C. (suono, rumori, voci presenti nella colonna sonora ma non in inquadratura), PAN (la panoramica), TRAVELLING (il carrello), PANCINOR (il carrello ottico, oggi confidenzialmente detto ZOOM). Il secondo stadio consisteva nel catturare i primi rudimenti della sin­ tassi filmica: dissolvenza semplice, dissolvenza incrociata, salto dell’asse (il divieto di usarlo era assoluto), piano sequenza, materiale plastico (solo i grandi registi riuscivano a usarlo), montaggio, teorizzato da: Ejzenstejn, che ci stregava con il miraggio del suo montaggio delle attrazioni, e Pudovkin, recepito con qualche timida riserva. 133

CECILIA MANGINI

Sin dal nostro primo incontro con la MDP (vezzeggiativo per la mac­ china da presa), questo bagaglio di nozioni è stato il nostro vademecum. Meno male che ce lo portavamo appresso, altrimenti quando giravi un documentario con 900 metri di pellicola, pari a 30 minuti, o con mas­ simo 1200 metri, pari a 40 minuti, non riuscivi a portare a casa lo stretto necessario per montare i 10 minuti obbligatori previsti dalla legge. Lo scrivo a ragion veduta, perché oggi, con la media di 60 ore di girato, che sono pari a 108 Km di pellicola, montare un documentario di un’ora diventa un impresa non da poco, e il rapporto dal nostro 1 a 3 (massimo 1 a 4) diventa striminzito come l’eroina nel palmo peloso del gigantesco King Kong. Metto subito le mani avanti: non si tratta di una rievocazione nostal­ gica dei nostri anni più belli (nostri, miei e dei miei coetanei). I nostri documentari avevano spesso un che di ingessato, lo speaker in off era una sovrapposizione autoritaria e dirazzante, la mancanza del suono ori­ ginale un vuoto che oggi sento incolmabile. Eppure... Ogni volta che preparavamo un nuovo lavoro, tutta quella gram­ matica, tutta quella sintassi per noi diventavano gli strumenti indi­ spensabili a costruire la struttura del documentario - e per capire l’im­ portanza della struttura, fate conto che sia lo scheletro portante di muscoli, vene, arterie, organi, epidermide, capelli, un traliccio d’ossa che non si vede e non si sente; ma se non ci fosse muscoli, vene arterie, organi, epidermide e capelli cadrebbero per terra affrittellandosi su se stessi. Succede ai documentari girati senza struttura: a salvarli deve intervenire un montatore tanto bravo da fornirgli due stampelle per farli procedere almeno zoppicando. Facciamo un salto in avanti fino agli anni novanta, quando il docu­ mentario era stato messo fuori gioco da quello che oggi chiamiamo “mac­ china del fango”: dichiarato “registrazione priva di creatività”, punito dalla legge Veltroni con 20 risicatissimi premi di qualità di 25 milioni di lire erogati a copia campione, contro i 100 milioni assegnati ai corti di fiction da una commissione sulla base di un trattamento, anche per una lunghezza di tre minuti. Come sempre, quando essere uniti è imperativo, noi dell’ANAC (la storica, forse archeologica Associazione Nazionale Autori Cinematografici) ci spaccammo tra documentaristi e cortometraggisti, e a quel punto Carlo Lizzani, allora presidente della nostra Associazione, promosse una commissione di documentaristi per stilare un ricorso da presentare al Ministero. Sconsideratamente mi sono presa la bega di scriverlo: non mi ricordo quanto tempo ci volle per portarlo a compimento - forse due mesi, forse tre. Per di più a tanti anni di distanza non mi ricordo se mai fosse stato presentato, e se lo era stato non aveva spostato di una virgola la legge Veltroni. 134

RIFLESSIONI A MANO LIBERA SUL RUOLO DEL DOCUMENTARISTA

Ho ritrovato quei vecchissimi fogli, in cui per difendere il documen­ tario mi affidavo agli specchietti, uno copiato pari pari da Bertold Bre­ cht: Forma drammatica dello spettacolo

Forma epica dello spettacolo

coinvolge lo spettatore in un’azione

fa dello spettatore un osservatore

ne esaurisce l’attività

ne stimola l’attività

gli consente dei sentimenti

lo costringe a decisioni

lo spettatore viene immesso in qualcosa

viene posto di fronte a qualcosa

lo spettatore partecipa

lo spettatore studia

l’uomo si presuppone noto

l’uomo è oggetto di indagine

il pensiero determina l’esistenza

l’esistenza sociale determina il pensiero

Lo riporto in quanto attualissimo oggi come allora: la forma epica dello spettacolo fissa una volta per sempre le funzioni del documentario. Confesso che di mio avevo elaborato anche uno specchietto sulla struttura delle categorie filmiche, nel generoso intento di polverizzare l’antinomia creatività/registrazione che racchiudeva la condanna del documentario. Così scrivevo: «A dare una parvenza di credibilità allo slogan creatività/registra­ zione è la presenza inflattiva del giornalismo televisivo, che basato sul semplice assemblaggio di immagini e indifferente alla necessità di una struttura, nulla ha a che spartire con il documentario e si pone anche a rigorosa distanza dall’inchiesta televisiva, che è almeno sostenuta dal filo conduttore dell’assunto. Analogamente al film, il documentario e il corto di fiction si fondano sull’elaborazione narrativa - che nel documentario è quella del reale mentre nel corto di fiction è quella del racconto (...). A differenza del corto, durante le riprese il documentarista si trova molto spesso ad affrontare momenti ed episodi non previsti e deve possedere la capacità 135

CECILIA MANGINI

immediata di inserirli nella sua elaborazione, scegliendo su due piedi anche il taglio delle inquadrature in funzione del montaggio, a dimo­ strazione che la creatività dell’autore di documentari ha qualche addendo in più di quella dell’autore di un racconto cinematografico». Ed ecco Io specchietto che avevo elaborato: giornalismo televisivo

casualità totale

struttura inesistente

inchiesta televisiva

filo conduttore

struttura media

corto di fiction

elaborazione del rac­ conto

struttura forte

documentario

elaborazione del reale

struttura fortissima

Ormai ce lo ripetiamo come un mantra: tutti i media, ma in massimo grado la televisione, puntano alla gratificazione a breve termine, mentre la pubblicità manda in letargo il pubblico di ogni età, privandolo della voglia di capire. Ed eccomi infine al dunque. Quando Hillary Clinton, in quanto moglie del Presidente degli Stati Uniti, al Forum economico internazionale di Davos aveva detto che la società civile è la terza forza capace di equilibrare l’economia globale e i poteri forti dei governi, aveva anche affermato che per esserne all’altezza la società civile ha bisogno di scuotersi dall’apatia. Dal mio punto di vista, per riuscirci ha bisogno di una politica culturale che le offra i mezzi per crescere. Uno di questi mezzi, e non tra gli ultimi, è il documentario: sempre che sia documen­ tario, cioè trasposizione e chiarimento e scoperta e denuncia e metafora e paradigma di quanto realmente succede in noi e intorno a noi. E per­ ché succede. Documentaristi, forza, la società civile vi pretende.

136

ALBERTO LASTRUCCI - DAVIDE OBERTO

VOCI DAI FESTIVAL DI DOCUMENTARIO

Abbiamo chiesto a due responsabili della massime manifestazioni di documentario in Italia (il Festival dei Popoli di Firenze e il Concorso doc al Torino Film Festival) un loro parere sulla situazione del documentario (G. Sp.).

Ealba di un nuovo giorno C’è un pubblico, dotato di mente aperta e curiosità vivace, che si sta avvicinando al cinema documentario, forse non per la prima volta ma con costanza maggiore rispetto al passato. E un fenomeno che caratte­ rizza i tempi recenti e che risulta evidente se si presta attenzione alle numerose iniziative - mini-festival, rassegne, cicli di proiezioni, singole serate - che proliferano dappertutto e in ogni stagione, andando non di rado ad utilizzare luoghi e spazi polivalenti che si sono resi disponibili a una programmazione alternativa. Queste manifestazioni sono spesso il frutto della passione e dell’energia profuse dagli organizzatori su base volontaria, seguendo logiche rigorosamente low-budget, senza scorag­ giarsi di fronte a strutture ridotte ai minimi termini ed equipaggiamenti tecnici di dubbia qualità. Probabilmente molte di queste proposte sono destinate ad una durata effimera o a subire rapide metamorfosi. Eppure l’insieme di queste realtà, in ragione del loro numero e della loro effer­ vescente e brulicante vitalità, sebbene sfugga a qualsiasi possibilità di monitoraggio, costituisce un importante segnale: il cinema del reale sta definitivamente uscendo da quella eclisse che ha caratterizzato i passati decenni. Un lunga notte che ha fatto sì che opere di assoluto rilievo, anche dopo essere state presentate e premiate nei festival di maggior pre137

ALBERTO LASTRUCCI - DAVIDE OBERTO

stigio, siano state ignorate dai principali circuiti distributivi che, eviden­ temente, hanno preferito seguire logiche e obiettivi di più facile profitto. Chi avrebbe immaginato, solo qualche anno fa, che gli italiani sareb­ bero stati disposti ad ospitare proiezioni aperte al pubblico di film docu­ mentari nelle proprie abitazioni, come stanno dimostrando gli amici di “Doc at Home”, iniziativa di alcuni giovani collaboratori del Festival dei Popoli che, partita da Firenze, si sta estendendo in altre città? Prendere atto di quanto sia fertile questo terreno, alimentato per ora più dall’ini­ ziativa dei singoli che da una rete organizzata e strategicamente razio­ nale, innesca nuove ambizioni e incita il settore a raccogliere nuove sfide. Queste fasce di pubblico, composte non solo da frequentatori abituali di festival ma da un’ampia varietà sociale e generazionale diffusa sul ter­ ritorio, se incoraggiate e valorizzate possono andare a costituire quella vasta platea a cui il documentario da sempre aspira a rivolgersi. Un pub­ blico “nuovo”, cresciuto di consapevolezza e di numero, che apprezza la portata innovativa che il cinema documentario ha in sé. Una carica sov­ versiva che è prima di tutto linguistica oltre che sociale e politica. Il con­ fronto continuo con le istanze del reale fa sì che questa forma cinemato­ grafica produca nei suoi stessi artefici - cineasti e produttori che vi si dedicano - una sorta di antidoto nei confronti delle convenzioni narra­ tive più scontate, delle facili scorciatoie del racconto, delle opere ste­ reotipate. Con questo non intendo affermare che il documentario con­ temporaneo sia esente da difetti, ma che in esso si può rinvenire la salu­ tare tendenza a produrre degli anticorpi. Quando si mantiene fedele a suoi assunti originari, il documentario è per sua stessa natura refrattario alle soluzioni banali, alle tesi precostituite, ai preconcetti. È il campo stesso della propria indagine - la realtà che ci circonda - a dimostrarsi insofferente verso chi abbia la pretesa di averla interamente compresa e catturata, di essere venuto a capo delle sue intime contraddizioni, di volerla confinare dentro certezze e ideologie. Il documentario è il cinema della scoperta e della sorpresa. Tra tutti i generi cinematografici è quello che si presta maggiormente a proporre un nuovo tipo di sguardo, a stimolare lo spettatore con punti di vista ori­ ginali. Offre una ventata d’aria fresca in un panorama, quello cinemato­ grafico e televisivo italiano, che ha la tendenza a ripetersi seguendo for­ mule ormai abusate. E la strada in cui si incontrano tipi umani che sfug­ gono a qualsiasi criterio di classificazione per rivelarsi unici ed irripeti­ bili. E la piazza dove al cineasta viene richiesto di mettere alla prova il proprio talento per cogliere quegli istanti in cui la realtà si rivela nella sua autenticità. E l’occasione, offerta al pubblico, di abbandonarsi a una storia che mantiene un inizio e una fine ma, nello spazio che corre tra i due estremi, si libera in digressioni imprevedibili e rivelazioni sorpren­ 138

VOCI DAI FESTIVAL DI DOCUMENTARIO

denti. Nel documentario niente è già scritto in partenza, neanche il destino dei propri protagonisti. Ciascun individuo, anche se ha accettato di offrire la propria immagine, la propria parola, il proprio agire all’oc­ chio indagatore della camera, resta un fitto mistero. In questo risiede Fintimo fascino di mettere in scena persone reali: nella loro capacità di appa­ rire diverse, seppur in maniera quasi impercettibile, al sorgere di ogni nuovo giorno. (Alberto Lastrucci co-direttore con Maria Bonsanti del Festival dei Popoli di Firenze)

Più reale della realtà Il rapporto tra il documentario italiano e il Torino Film Festival nasce e si sviluppa fin dalla prima edizione, nel 1982, di quel che allora si chia­ mava Cinema Giovani. La retrospettiva di quell’anno era dedicata alle opere prime realizzate da registi italiani tra il 1958 e il 1967. Tra i film proiettati ci furono molti film documentari: Il tempo si è fermato (1960) di Ermanno Olmi, Banditi a Orgosolo (1961) di Vittorio De Seta, 1 nuovi angeli (1962) di Ugo Gregoretti. «Avevo scoperto il cinema attraverso un fatto abbastanza sconvol­ gente per me: la contrapposizione di due tipi di cinema quello americano di confezione, che mandava in visibilio le platee in quel momento e il neorealismo. Ho scoperto il neorealismo assistendo a una proiezione di Paisà di Rossellini. Rimasi folgorato. (...) Cominciai a girare dei docu­ mentari sulle attività dopolavoristiche: gare di pesca, di sci, gite, etc.. Quei documentari sono stati la mia palestra. Dopo questa fase di appren­ distato sono passato a qualcosa di più impegnativo: ho cominciato a riprendere le fasi della costruzione di una diga, di una centrale elettrica e via dicendo. A poco a poco mi sono accorto che più che la documen­ tazione del lavoro, mi interessavano gli uomini che producevano quel lavoro, le loro facce. (...) Ho imparato il mestiere stando in moviola, andando al cinema, guardandomi intorno». (Ermanno Olmi in Aldo Tassone, Parla il cinema italiano, vol. II, Edizioni il Formichiere, Milano 1980, pp. 198-199) Era chiaro, come ci è chiaro ancora oggi, che il cinema documenta­ rio doveva essere un sorvegliato speciale. Per ragioni produttive il docu­ mentario permette di girare senza grossi budget e quindi può rendere più “facile” e libera la realizzazione di un film. Per ragioni teoriche - il suo apparentemente immediato, sostanzialmente complessissimo rap­ porto con la realtà - il documentario può essere ritenuto una forma cine­ matografica privilegiata di sperimentazione, nel senso quasi scientifico ma anche teologico del termine. Come raccontava Rossellini, proprio lo speciale rapporto con il dato bruto della realtà che passa davanti alla cine­ 139

ALBERTO LASTRUCCI - DAVIDE OBERTO

presa, il documentario è il cinema più prossimo al miracolo, miracolo che si compie quando la verità appare nell’inquadratura. Ripercorrere la storia della programmazione del documentario ita­ liano all’interno del festival è interessante perché racconta anche molto della percezione di quel cinema negli ultimi trent’anni. Per tutti gli anni ottanta i documentari italiani trovano collocazione nello Spazio Aperto, sezione inizialmente non competitiva, insieme a opere internazionali, insieme a film di sperimentazione e animazioni, di durate diverse. È chiaro il carattere underground di un cinema che vuole/deve stare fuori dalle logiche produttive ufficiali e permettersi la libertà della forma e del contenuto. Negli anni novanta nasce il Concorso Spazio Italia, che, dopo una prima edizione senza distinzioni di genere e formato, viene suddiviso in fiction e non fiction. Il cinema giovane italiano, o almeno la generazione cresciuta nel decennio precedente, si specializza. E si specializzano le car­ riere. Chi sceglie la fiction decide di andare verso il lungometraggio di finzione, chi il documentario cerca un percorso diverso che verso la fine del secolo comincia a suscitare l’interesse delle televisioni che si rivelano essere una possibilità insperata nella ricerca delle risorse. E infatti nel 2000 nasce il Concorso Documentari Italiani, sponso­ rizzato dal canale televisivo satellitare Tele +, molto attivo per qualche anno in tutta la produzione cinematografica italiana. La presenza di Tele + è fondamentale, ma anche molto presente nella selezione dei film mostrati al festival. Senza dubbio permette a un folto numero di autori e autrici di affermarsi, di trovare visibilità, di lavorare e creare sperando anche di guadagnare qualcosa. Il lato negativo si può forse rintracciare in una sorta di formattazione del linguaggio (la durata a 52’, un certo stile di ripresa e di montaggio, pensato per la fruizione televisiva e meno per quella cinematografica) che riduce l’aspetto sperimentale del documen­ tario e lo lascia alla forza e alla pervicacia del singolo autore. La sponsorizzazione Tele 4- dura 4/5 anni, poi il canale chiude e smette di produrre. Il concorso dedicato al documentario italiano continua, sup­ portato direttamente dal festival, che può anche decidere direttamente la linea editoriale che vuole dare alla sua selezione. Si riduce il numero dei film mostrati per poterli curare meglio e permettere di attirare sui titoli e sugli autori e autrici un’attenzione maggiore da parte del pubblico e della stampa, sempre un po’ pigra e poco incline alla curiosità. Si decide di mostrare anche qualche documentario nel concorso ufficiale. E forse il documentario italiano comincia a ritrovare una forma capace di ricerca e una forza specificatamente cinematografica che riesce anche a uscire dai patri confini e a confrontarsi con altre cinematografìe. (Davide Oberto, curatore di TFFdoc e di italiana.corti) 140

MARIANGELA BARBANENTE

FILMMAKER DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI! Appunti su 12 anni di attività di Doc/it, l’associazione dei documentaristi italiani

Tutto cominciò con un’affollatissima riunione romana dove il mondo del documentario si diede appuntamento un giorno del 1999. Come dice Alessandro Signetto, uno dei fondatori e presidente dell’Associazione per molti anni, per la prima volta le tante “monadi vaganti” del docu­ mentario italiano cominciavano a contarsi. In realtà di tentativi per met­ tere i documentaristi in contatto tra loro ce n’erano stati diversi durante tutto l’anno precedente. Uno di questi era stato a Bardonecchia, in occa­ sione della seconda edizione di Documentary in Europe, la prima mani­ festazione nata per dare a registi e produttori italiani la possibilità di pro­ porre progetti a televisioni nazionali e straniere. Alla fine un gruppo di 9, tra cui registi (Laura Quaglia, Tonino Curagi) e produttori (Dario Barone, Daniele Maggioni), aveva deciso che era arrivato il momento di dare il via ad un’associazione, e mise la firma davanti ad un notaio di Milano. Era nata Doc/it. Quel giorno a Roma registi, produttori, giovani aspiranti filmmaker (mai si sarebbe pensato che a far documentari in Ita­ lia fossero così tanti) si auto convocarono per la prima assemblea uffi­ ciale ed elessero il primo Consiglio Direttivo, tra cui figuravano - tra gli altri - Dario Barone, Gianfranco Pannone, Heidi Gronauer, Leonardo Di Costanzo, Carlo Cresto-Dina, Italo Moscati, Joseph Péaquin. Doc/it è la prima e unica associazione italiana che riesce a tenere insieme autori e produttori. Sembra un paradosso, ma nei fatti non lo è. La maggior parte di registi italiani sono produttori di loro stessi perché il documentario è spesso un attività artigianale, dove chi ha un’idea, un progetto, un talento, deve spingerlo da solo. «Prima del 1999 il mondo del documentario italiano era fatto da singole realtà sparse per la peni­ 141

MARIANGELA BARBANENTE

sola senza nessun reale collegamento tra loro - racconta ancora Signetto - e si sentiva molto forte l’esigenza di fare qualcosa che ci aggregasse a 360 gradi. C’era bisogno di fare fronte comune sulla promozione, nelle relazioni con le tv. Diventare riconoscibili come un settore dell’industria audiovisiva italiana». E c’era bisogno di far circolare idee. Esistevano già alcuni festival, ma non bastava. Non c erano scuole, anche il primo tentativo del Centro Sperimentale di Cinematografia di avere una sezione dedicata alla regia di documentari (istituita nel 1993) ebbe vita breve. Nei primi anni novanta i pochi registi italiani di documentari che riuscivano a emergere nei festival internazionali si erano formati all’estero, e spesso erano anche prodotti all’estero. Il documentario italiano era molto indietro nella ricerca del linguaggio. La cultura del “cinema del reale” era andata quasi del tutto smarrita all’inizio degli anni settanta quando si era esaurita la spinta propulsiva di una Legge Cinema che obbligava i distributori per le sale a far precedere i film da cortometraggi documentari. Quella che aveva permesso a Vittorio De Seta, Cecilia Mangini, Luigi Comencini, Michelangelo Antonioni di debuttare. Una legge. Alla fine è sempre sulla politica che si va a parare. È per questo che le associazioni servono. Servono a far valere le ragioni di un settore in quell’arena di urla e strepiti che è il mondo in cui viviamo. Una delle principali conquiste di Doc/it è stato assicurarsi che anche i progetti di documentari potessero accedere al contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali (Mibac). È avvenuto con il decreto Urbani, nel 2004. Fino a quel momento era obbligatorio presentare una sceneggiatura, cosa che costringeva i pochi documentaristi che ci prova­ vano, a scriverne una finta o a tentare la richiesta del finanziamento a film finito, con una sceneggiatura desunta. Ora il documentario è espres­ samente citato nella legge come genere finanziabile ed è sufficiente un trattamento. Non entriamo nel merito di come questi finanziamenti vengono dati. Le modalità in cui sono composte e nominate le commissioni sele­ zionatrici meriterebbero un approfondimento, però questa modifica permette a molti documentari pensati per il cinema più che per la tv, di essere realizzati. Altro scopo di Doc/it è quello di aiutare i documentaristi italiani a costruire rapporti con partner internazionali. Uno degli sforzi più impor­ tanti è organizzare ogni anno gli Italian Doc Screenings (IDS), una mani­ festazione itinerante (da due anni si svolge a Firenze, in gemellaggio con il Festival Dei Popoli e grazie all’appoggio logistico ed economico della Mediateca Toscana) che porta in Italia decine di commissioning editor di televisioni straniere. Non solo europee. Gli IDS erano iniziati come espe142

FILMMAKER DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!

rimento a Todi nel 2004, con 50 produttori iscritti e 10 tv ospiti. Adesso le cifre si sono triplicate e gli IDS sono uno degli eventi principali per la produzione italiana, permettendo a molti progetti di trovare coprodu­ zioni intemazionali. Fondamentale è stato anche il rapporto costruito con l’iCE (Istituto nazionale per il Commercio Estero, oggi disciolto) che ha consentito a molti produttori italiani - e quindi a molti film - di prendere parte a mer­ cati importanti (come il Sunny Side of the Doc in Francia, Hot Doc in Canada) non più come singoli ma come delegazione. Con la forza che può avere una delegazione nel promuovere i propri film. La politica, il mercato, le idee. O meglio il confronto tra idee. E con questo scopo che erano nati nel 2004, con cadenza biennale, gli Stati Generali del Documentario Italiano, momento di confronto tra autori e non solo. L’ultima edizione ha avuto luogo a Palermo nel 2008. Il confronto con le realtà straniere ha permesso ai filmmaker italiani di crescere. I nostri film in questi ultimi 10 anni sono usciti sempre più spesso dall’ambito ristretto dei confini nazionali per approdare a grossi festival stranieri, essere trasmessi nelle televisioni di molti paesi ed essere anche distribuiti in sala. All’estero sì, in Italia no. Un paradosso, e anche questo avrebbe bisogno di un discorso a parte. 13 anni sono tanti, ma sono anche pochi per consolidare le conquiste. I traguardi raggiunti sono ancora insufficienti a dare solidità al documen­ tario italiano e possono essere spazzati via in un soffio per tante ragioni: la politica dei broadcaster, la richiesta di opere sempre più formattizzate, rende molto difficile produrre documentari di creazione e limita la possi­ bilità di sperimentare forme nuove; i tagli alla cultura rendono sempre più irrisorio il contributo del Mibac, i fondi delle Film Commission e così l’am­ montare dei preacquisti televisivi. Un’associazione ha il dovere di diven­ tare più forte soprattutto quando le cose vanno male, perché sono questi i momenti in cui è necessario non abbassare la guardia. Le associazioni nascono, si evolvono, raggiungono l’apice della rico­ noscibilità per poi implodere. Quello che conta è essere uniti. In que­ sti anni, dopo Doc/it, ne sono nate altre, mosse dallo stesso bisogno. Alcune regionali: i Documentaristi Emilia Romagna (d.E-r), Aprodoc in Piemonte, la giovanissima Documentaristi Anonimi della Toscana; altre nazionali, come lOOAutori che è diventata un importante partner in battaglie che coinvolgono soprattutto gli autori. «Il punto fondante di noi lOOautori - dice il regista Mario Balsamo - è affermare, fin dallo statuto, l’assoluta pariteticità dell’autorialità documentaristica con tutte le altre autorialità del cinema, della televisione, dell’animazione e dei new media. Questo assunto può apparire scontato, ma in realtà nel nostro Paese non lo è mai stato». 143

MARIANGELA BARBANENTE

Una delle azioni che ci vede uniti riguarda i rapporti con la Rai. È questa infatti la vera grande sconfitta dei dodici anni di Doc/it. La Rai fino ad ora si è sottratta al rispetto dei più basilari diritti degli autori e produttori di documentari. Per esempio trova spesso il modo per non pagare l’equo compenso (chiamati comunemente diritti d’autore) ai documentari mandati in onda; sono arrivati a infilare nei contratti una clausola in cui si dichiara che quello che si sta vendendo non è un docu­ mentario ma un filmato e quindi non ha diritto all’equo compenso. Cer­ care un confronto con i vertici Rai è come scontrarsi con un muro di gomma. Le battaglie, non finiscono mai. Le altre associazioni di categoria che coinvolgono i documentaristi:

100 Autori - Associazione dell’autorialità cinetelevisiva www.100autori.it D.E-R - Documentaristi Emilia Romagna www.dder.org Documentarsti Anonimi - Associazione documentaristi toscani www.documentaristianonimi.it Aprodoc - Associazione piemontese produttori documentari www.aprodoc.it A.P.I.L. - Associazione produttori indipendenti lombardi sito in costruzione

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SARA LEGGI - GIOVANNI SPAGNOLETTI

DIZIONARIO DEI REGISTI

Il presente dizionario non vuole avere nessuna pretesa di esaustività, si tratta di un tentativo di agrimensura, di una prima misurazione topogra­ fica di un territorio, quello della non fiction italiana del terzo millennio che da anni è in una continua e tumultuosa espansione con l’emergere conti­ nuo di sempre nuove opere e filmmaker. Malgrado questo rigoglio, però, la documentazione sugli autori di doc è praticamente affidata quasi solo al web e ad alcuni siti specializzati, quando non alle informazioni richieste direttamente ad personam (cosa che abbiamo cercato di fare in alcuni casi). Ciò rende il presente dizionario che supera abbondantemente il centinaio di nominativi, non esente da errori ed omissioni di cui ci scusiamo in anti­ cipo con gli interessati e con quanti abbiamo dimenticato - ad esempio sono stati esclusi, per ragioni di spazio, giovani e meno giovani registi, pur promettenti ma solo alla loro prima esperienza di lavoro. Ad essi sarà dedi­ cato, speriamo, un futuro aggiornamento di questa prima mappatura su carta del documentario di creazione nel nostro paese che si è immediata­ mente rivelata un infinito, vero lavoro di Sisifo. Ai documentaristi cosiddetti “puri” abbiamo aggiunto anche un con­ gruo numero di registi di fiction (e alcuni sperimentali) che da anni hanno frequentato e frequentano in maniera non episodica (quindi non con una sola esperienza) la “non fiction”, una dimostrazione in più di quanto oggi i due campi siano, molto più che in passato, contigui e gli scambi tra le parti artisticamente produttivi. Anche perché in diversi casi è assai dif­ ficile tirare delle linee di demarcazioni precise e univoche. I principali siti consultati, a parte quelli personali (quando esistenti) dei filmmaker, sono stati: www.cinemaitaliano.info,www.docume.org, 145

DIZIONARIO DEI REGISTI

www.documentando.com,www.torinofilmfest.org, www.italiandoc.it, www.ildocumentario.it. Tutti i film riportati nelle schede sono dei docu­ mentari, salvo i casi di opere di non fiction abbreviate con il termine fict.. Al dizionario ha collaborato in una prima stesura Sila Berruti che rin­ graziamo per il suo lavoro (G. Sp.).

Amenta Marco (Palermo, 1970) Regista, fotoreporter e produttore. Nel 1992 si tra­ sferisce a Parigi dove si laurea nel 1995 in cinema alTUniversità “Paris 8”. Presentato alla 54° Mostra del Cinema di Venezia nel 1997, Diario di una siciliana ribelle vince innumerevoli premi ai Festival intemazionali oltre il 50° Prix Italia (1998). Nel 2008 ha debuttato nella fiction con La siciliana ribelle mentre è in preparazione 11 Banchiere dei poveri dall’au­ tobiografìa di Muhammed Yunus, Feconomista bengalese inventore del microcredito. Filmografìa Bom in Bosnia (1995); Lettre de Cuba (1996); Diario di una siciliana ribelle (1997); Lultimo Padrino (2004); Ilfantasma di Corleone (2005); La siciliana ribelle (2008, fict.); Il Banchiere dei poveri (fict., in produzione).

Balla Pietro (Poirino, Torino, 1956) Regista, autore televisivo, critico cinemato­ grafico (per «Filmcritica» e «Segnocinema»). Dopo la laurea in Scienze Politiche, dividendosi tra il lavoro di capostazione e il cinema, negli anni ottanta realizza documentari e programmi per la tv italiana (“Publimania” su Rai 3, “Supergiovani” su Rai 2). Ha diretto le docu-fìction I cam­ pioni di Olimpia (Arte, History Channel) e Casa Pappalardo (Rai 2); per Fox International Channels Italia ha ideato e prodotto la serie sui fotoreporter Scatti di nera con Michele Placido. Nel 2002 ha creato con Monica Repetto (v.) la società di produzione indipendente Deriva film. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, ThyssenKrupp Blues ha vinto il Mediterraneo Film Festival.

Filmografìa Ai confini della realtà (1985); 3 febbraio 1960 (1986); Videolettera a Italo Zilioli (1989); Mortus est mai pi barbota (1990); Kamikaze bum bum (1990); Zilioli blues (1990); Ladro di biciclette (1991); Costanza (1992); Illibatezza (1994); Mariano Laurenti: l'occhio ridens vede nudo (1995, co­ regia di M. Repetto); Camerini ardenti (1996, co-regia di M. Repetto); 146

DIZIONARIO DEI REGISTI

Fiat c eravamo tanto amati (1996); Cara Giovanna (1998); Ciclo (199899); Amateurs (1999, co-regia di M. Repetto); Gabetti e Isola a Palazzo Reale (1999); Agathae, 3 giorni di fuoco e devozione (1999); Panico Jodorowsky (1999, co-regia di M. Repetto); Amateurs 2 (2000, co-regia di M. Repetto); 1949. Nelle terre di Dio (2000); Derive Gallizio (2000, co-regia di M. Repetto) \ Amori in fiamme (2002, co-regia di M. Repetto); Ballando nel fumo (2002); Guarda che luna, omaggio a Fred Buscaglione (2002); Torino-Vancbiglia. Storie di ieri (2003); I campioni di Olimpia (2004); Ino­ dore della gomma (2005); Scatti di nera (2006, co-regia di M. Repetto); Operai (2008, co-regia di M. Repetto); ThyssenKrupp Blues (2008, co­ regia di M. Repetto); Radio Singer (2009); La vita incerta (in produzione).

Balsamo Mario (Latina, 1962) Documentarista e scrittore. A partire dalla fine degli anni novanta realizza moltissimi documentari, soprattutto per Raisat Art. A luglio del 2001 è uno dei registi che girano a Genova il documentario collettivo, coordinato da Citto Maselli, sul G8 e il Popolo di Seatde, Cn mondo diverso è possibile. Partecipa poi ad un altro doc collettivo Porto Aiegre, dedicato al secondo Forum Social Mondial, mentre con Stefano Scialotti è autore di Sotto il cielo di Baghdad, sulla vita degli iracheni, fina­ lista al Premio Libero Bizzarri e selezionato al Festival di Annecy. Come scrittore ha firmato il romanzo storico Que viva Marcos! (1995) e il dia­ rio di viaggio Cannella e garofano. Istantanee dallo stato di Bahia e altre storie (2008). Con Gianfranco Pannone (v.) ha scritto il volume L'officina del reale. Fare un documentario: dalla progettazione al film (2010).

Filmografia Note di donne. Appunti dal Festival Donne in Musica (1998); Voci. Venezia Poesia (1997); Gli oscuri sotterranei della censura (1998); Parole di Ricercare (98 (1998); Dionysia in Festival (1998); In restauro. Eopificio delle pietre dure di Firenze (1999); Alvaro Siza, architetto (1999); Sogno albanese (1999); Ergastolo di Santo Stefano (1999); Poste di via Marmo­ rata (1999); Le isole dipinte. Viaggio nelle Marchesi di Paul Gauguin (2000); Vedute d'arte contemporanea con paesaggio toscano (2000); Piazza dei Signori, Vicenza (2000); Vn mondo diverso è possibile (2001, doc col­ lettivo); Europalia (2002); Porto Aiegre (2002, doc collettivo); Sotto il cielo di Baghdad (2002, co-regia di S. Scialotti); Il villaggio dei disobbe­ dienti (2002); La primavera del 2002. Eltalia protesta l'Italia si ferma (2002, doc collettivo); Ciao, ciao bambina (2004); Io, Socrate e Nicoletta (2004); Mae Baratinha, una storia di Candomblé (2006); Storie Arbereshe (2006); Sognavo le nuvole colorate (2008); Anima selvaggia (2012). 147

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Barbanente Mariangela (Mola di Bari, 1968) Laureata in Lettere indirizzo cinema, studia sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia. Documenta­ rista e sceneggiatrice, lavora soprattutto come autrice di serie televisive (Eravamo solo mille, Le ali della vita 2, Ris. Delitti imperfetti, Fratelli & Detective, Orgoglio). Nel 1994 realizza due cortometraggi scientifici per l’Enea. Nel 2000 gira Sole, cui segue nel 2005 la docuserie per Pla­ net Il trasloco del bar di Vezio. Nel 2006 collabora alla sceneggiatura de L'Orchestra di Piazza Vittorio di Agostino Ferrente (v.). Il suo ultimo lavoro, Ferrhotel del 2011, racconta di un gruppo di ragazze e ragazzi somali che hanno occupato un albergo dismesso di Bari. È coautrice della sceneggiatura de L'intervallo di Leonardo Di Costanzo (v.), di prossima uscita. Filmografìa Il Lidar di Frascati (1994); Io era in terra e il cuore in paradiso (1997); Sole (2000); Il trasloco del bar di Vezio (2005); Ferrhotel (2011).

Barletti Davide (Lecce, 1972) E stato, assieme a Lorenzo Conte, Mattia Mariani ed Edoardo Cicchetti, fondatore della Fluid Video Crew con cui hanno rea­ lizzato oltre 30 opere tra documentari, lungometraggi, cortometraggi e video-installazioni, sia in video che in pellicola. Il loro lavoro è stato oggetto, nel 2004, di una retrospettiva presso la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Barletti ha firmato nel 2008, con Lorenzo Conte (Roma 1974), il film a soggetto Fine pena mai, interpretato da Claudio Santamaria e Valentina Cervi, e successivamente i documentari Diario di uno scuro e Radio Egnatia, in concorso al Torino FF. Nel 2009 partecipa come regista al progetto www.fromzero.tv, piattaforma web italiana per il documentario, producendo corti ambientati nelle zone terremotate dell’Abruzzo. Filmografìa Fine pena mai (2008, fict., co-regia di L. Conte); Diario di uno scuro (2008, co-regia di E. Cicchetti e L. Conte); Radio Egnatia (2008); FromZeroTv. Aspettando la ricostruzione (2009); Non c'era nessuna signora a quel tavolo. Il cinema di Cecilia Mangini (2010); Theo Angelopoulos, il poeta del tempo (2011); Un ritratto di Ettore Scola (2012).

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Basso Sergio (Milano, 1975) Si diploma in regia presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e approfondisce gli studi di regia e recitazione presso la Gitis, F Accademia d’Arte Drammatica di Mosca, con maestro Jurij Alschitz. Collabora con Gianni Amelio in qualità di dialoghista e assistente alla regia sul set di La stella che non cè (2006). Nel 2009 rea­ lizza Giallo a Milano, un’inchiesta sui cinesi residenti nel capoluogo lom­ bardo, con cui vincerà nel 2010 il “Meuilleur film de commande” al Festi­ val international du film d’animation d’Annecy. Filmografìa Fuhao (2003); 30 febbraio (2004); Tu sogni (2004); Quando capita di perdersi (2005); Il viaggio di Gesù (2007); Dora (2008); Giallo a Milano (2009); E adesso torniamo a casa (in produzione); Ti ho sulla punta delle dita (in produzione); Diciannove e settantadue (in produzione). Bertozzi Marco (Bologna, 1963) Si laurea in architettura a Firenze con un film, stu­ dia cinema con Ermanno Olmi presso “Ipotesi cinema” e il DAMS di Bolo­ gna. Realizza film sugli immaginari urbani e sulle identità culturali, fra i quali Note per quattro amici (Gabbiano d’argento a Festival di Bellaria), Rimini Lampedusa Italia (premio Roberto Gavioli per film sul mondo del lavoro), Appunti romani, Il senso degli altri (vincitore del Sole e luna doc Festival di Palermo) e Predappio in luce (vincitore del Festival del Cinema d’Arte di Asolo). Dopo il dottorato e il postdottorato insegna cinema documentario al Centro Sperimentale di Cinematografia, al DAMS di Roma 3 e, attualmente, all’Università IUAV di Venezia. Tra i suoi libri: La veduta Lumière (2001), Lidea documentaria cura di, 2003) e Storia del documentario italiano (2008).

Filmografia Note per quattro amici (1992); Ifrutti puri impazziscono (1997 ); Rimini Lampedusa Italia (2004); Appunti romani (2004); Il senso degli altri (2007); Predappio in luce (2008); Profughi a Cinecittà (2012).

Bigoni Bruno (Milano, 1950) Si laurea in Lettere e Filosofia con indirizzo cinema. Nel 1972 fonda, assieme ad altri, il Teatro dell’Elfo e successivamente è regista per la Rai (dal 2001-2 ha diretto 4 episodi della serie tv poli­ ziesca “La squadra”) e Mediaset. Debutta alla regia con Live (1983), 149

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co-diretto da Kiko Stella, e ottiene diversi riconoscimenti nazionali e internazionali. Nel 1987 inizia la sua attività in campo documentari­ stico con Nome di battaglia: Bruno. Del 1993 è il debutto nella fiction con Veleno, presentato in concorso al Festival di Locamo e vincitore del premio Anteprima al Festival di Bellaria 1993. Nel 1999 firma assieme a Romano Giuffride Faber, omaggio al cantautore genovese Fabrizio De André. Tra i suoi più recenti documentari si segnalano: Oggi è un altro giorno (primo premio al Libero Bizzarri 2001); Cuori all'assalto (primo premio al Libero Bizzarri 2003) e Riccardo III (2004), un lungometraggio realizzato con detenuti e studenti all’interno della II Casa Circondariale di Bollate. Filmografìa Spaccati (1979); L'attesa (1980); La magia (1980); Live (1983, fict., co-regia di K. Stella); Nothing (1985); Nel lago (1986); Nome di batta­ glia: Bruno (1987); Il mondo chiuso (1988); Confine incerto (1988); Provvisorio quasi d'amore (1988, ep. Occasioni di shopping, fict.); Zan­ zare (1989); Lux interior (1989); Jamaica (1990); Italia 90. Lavori in corso (1990); Stanza One-Eleven (1991); Le lacrime amare di Petra (1992); Veleno (1993, fict.); L'origine della ferita (1994); Oggi è un altro giorno. Milano 1945-1995 (1995, co-regia di Beppe De Santis); Belli sciattati (1996); Il cerchio (1996); L'agnello di Dio (1996); Nothing is Real. Appunti sul nirvana (1996, co-regia di Giuseppe Baresi); Nirvana (1997); Amleto... frammenti (1997); Scene da Pinocchio (1998); Faber, omaggio a Fabrizio De André (1999, co-regia di R. Giuffride); I sogni degli elfi, viaggio netta storia del Teatro dett'Elfo(200G}-, Comizi d'amore 2000 (2000); Cuori all'assalto. La storia di Raffaele e Cristina (2002); Chiamami Mara (2005); Don Chisciotte e... (2006); L'attimo assoluto (2009); Il colore del vento. Un viaggio nel mediterraneo sulle tracce di Créuza de ma (2010). Brunetti Raffaele (Capri, 1961) È produttore e regista di documentari, fondatore della B&B Film. Gira i suoi lavori spesso in giro per il mondo: Mitumba in Africa, Hair India e Mother India in India. Hair India è stato presentato in concorso al Festival dei Popoli, al Full Frame Film Festival e ai cana­ desi Hot Does, vincendo il premio della giuria al festival di Guanghzou. In Italia ha diretto Ealtra rivoluzione, Gorkij e Lenin a Capri. Dal 2005 al 2010 è stato membro del consiglio direttivo di Doc/it e ha diretto gli Italian Doc Screenings, lo showcase del documentario italiano.

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Filmografìa Mitumba (2005); Hair India (2008); Housing (2009); L'altra rivolu­ zione, Gorkij e Lenin a Capri (2010); Mother India (2011); Vacanze romane (in produzione); SAW. Il segreto dell'arma anfibia (in produ­ zione).

Caccia Andrea (Novara, 1968) Dopo gli studi di pittura e regia, si dedica al docu­ mentario creativo e all’insegnamento. Ha diretto cortometraggi, video­ clip, promo. I suoi lavori hanno ricevuto riconoscimenti e partecipato a numerosi festival tra i quali il Festival Internazionale di Locamo, il Rot­ terdam International Film Festival, la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro, il Festival dei Popoli di Firenze. Vedozero e La vita al tempo della morte, entrambi terminati nel 2009, sono i suoi due primi lungometraggi. Filmografìa L'estate vola (2000); 18 Days Around Arrington De Dionyso Quartet (2002); Sulle tracce del gatto (2003, co-regia di Vittorio Moroni) ; Hospice (2009); Vedozero (2009); La vita al tempo della morte (2010); Mi piace quello alto con le stampelle (2011).

Calopresti Mimmo (Polistena, Reggio Calabria, 1955) Inizia la carriera presso F Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma per il quale realizza nel 1985 il video A proposito di sbavature che vince il primo pre­ mio al Festival Cinema Giovani di Torino. Per la Rai realizza nel 1991 Paolo ha un lavoro e Fanno dopo Paco e Francesca. Nel 1995 passa al cinema di finzione con La seconda volta, prodotto da Nanni Moretti. Continua però a realizzare documentari tra cui segnaliamo: Tutto era Fiat (1999), Volevo solo vivere (2006) che affronta il tema dell’olocausto, La fabbrica dei tedeschi (2008), sui tragici incidenti alla ThyssenKrupp di Torino e La maglietta rossa (2009), dedicato alla finale di Coppa Davis del 1976 e all’acceso clima di polemiche che stava per spingere la squa­ dra italiana a boicottare il match a Santiago del Cile. Filmografìa A proposito di sbavature ( 1985 ) ; Ripresi ( 1987 ) ; Fratelli minori ( 1989) ; Alla Fiat era così (1990); Paolo ha un lavoro (1991); Paco e Francesca (1992); 1943. La scelta (1993); ‘43-‘45 Pace e libertà (1994); La seconda volta (1995, fict.); La parola amore esiste (1998, fict.); Tutto era Fiat 151

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(1999); Preferisco il rumore del mare (2000, fict.); La felicità non costa niente (2002, fict.); Fuori fuoco. Cinema, ribelli e rivoluzionari (2004); L'ora della lucertola (2004); Una bellissima bambina (2004); Come si fa a non amare Pier Paolo Pasolini. Appunti per un film sull'immondezza (2005); Dov'è Auschwitz? (2005); Volevo solo vivere (2006); L'abbuffata (2007, fict.); La fabbrica dei tedeschi (2008); La maglietta rossa (2009); LAquila 2009. Cinque registi tra le macerie. Perfect Day (2009); Anch'io ero comunista (2010); 7960 I ribelli (2010); Gangs di Napoli (in produ­ zione); Uno per tutti (in produzione).

Cannizzaro Piero (Lodi, 1953) Laureato alla Statale di Milano in Scienze Politiche, ha scritto e diretto numerosi film-documentari sia radiofonici che televisivi per Rai, Mediaset e Sky con i quali ha partecipato a molti festival nazio­ nali e intemazionali. Le isole, la musica, Parte, le città sotterranee, la spi­ ritualità e il monitoraggio dello sviluppo sociale sono i principali temi di cui Piero Cannizzaro si è occupato, per approdare in ultimo alla dimen­ sione del “giocale” (direttore artistico a Capalbio della rassegna “Il Gio­ cale nel Documentario 2005”) e della “musica etnica” soprattutto nel­ l’Italia del Sud. Filmografia Nello Spazio di Arthur Clark (1985); Sri Lanka (1985); Il lavoro minorile a Napoli (1990); Natale '90 nel Golfo Persico (1991); L'isola di Pianosa (1994); L'isola di Gorgona (1994); Sud Africa L'Isangoma la divinatrice Zulu (1996); L'Isola di Montecristo (1998); Napoli sotter­ ranea (1996); Roma sotterranea (1997); Orvieto Sotterranea (1997); Viaggio nella musica in Italia (2000); Viaggio nel Nord Europa (2000); Ritratti dalla laguna veneta (2000); Storie d'acqua: viaggio nella Laguna Veneta (2000); Salento Terra di pietre e di tarante (2001); Salento terra di confine (2001); La notte della Taranta e din­ torni (2001); La sublime e inutile arte della parola con Francesco Guccini e Claudio Lotti (2003); Ritratti dal Salento (2003); Storie di canti con Uccio Aloisi e Anna Cinzia Villani (2003); Ritorno a Kurumuny (2004); Storie di dolci (2005); Il cibo dell'anima (2007); Cilento tra miti e leggende (2008); Cilento: Storie di pane e di grano (2008); Ancel Keys e la dieta mediterranea (2009); Città Slow (2010); Nel mondo di Archimede Seguso (2010); Tradinnovazione: una musica gio­ cai (2011); Ossigeno (2012).

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Carmosino Christian (Ventimiglia, 1972) Laureato in Lettere alla Università di Roma Tre, da circa 15 anni organizza eventi cinematografici in Italia e all’estero. Ha lavorato al Centro Sperimentale di Cinematografìa e attualmente è responsabile tecnico del Laboratorio Audiovisivi dell’università di Roma Tre. Nel 2005 ha fondato con il contributo del Comune di Roma Officine, cineclub e società di produzione cinematografica. L'Ora d'Amore, sulle relazione amorose in carcere, è stato selezionato per il Festi­ val Intemazionale del Film di Roma. Nel 2010 ha diretto con Riccardo Biadene “[Cinema.doc] Il documentario in sala”, primo festival/circuito per la diffusione del documentario di creazione nelle sale di prima visione.

Filmografia Gesù di Capocotta (2003); Pierino 12.06.04 (2004, co-regia di Andrea Appetito); Gaia (io sono un selvaggio) (2004); iQuién es Pilar? (2005, co­ regia di A. Appetito, fict.); Il corriere (2006, fict.); Federico e Maria (2006); La zuppa di pietra (2007, fict.); Gli Invisibili. Esordi nel cinema italiano 2000-2006 (2007, co-regia di Enrico Carocci, Francesco Del Grosso e Pierpaolo De Sanctis); Carolina (2007); Lora d'amore (2008, co-regia di A. Appetito); Il senso di Luca (2008); Ritorno a casa (2009); Piccoli tasselli (2009); La corsa degli altri (2010); Con lei (2011). Catone Caterina (Ascoli Piceno, 1982) Si laurea nel 2004 in Scienze della Comunica­ zione presso l’Università di Bologna. Tra il 2005 e il 2006 ha realizzato i primi documentari, Numero 5 e Polvere. L’anno seguente ottiene il diploma in Sviluppo del progetto, Produzione e Regia alla Scuola Zelig di Bolzano. Ha frequentato il Berlinale Talent Campus del Festival di Berlino con il film Le chiavi per il paradiso, vincitore del premio Kodak come miglior documentario al Libero Bizzarri 2008.

Filmografìa Numero 5 (2005); Polvere (2006); Le chiavi per il paradiso (2007); Valentina Postika in attesa dipartire (2009). Cattini Stefano (Carpi, 1966) Lavora come filmmaker e docente presso scuole d’i­ struzione secondaria. Ha girato il suo primo cortometraggio documen­ tario nel 2004 e ha partecipato a numerosi festival con Ivan e Loriana, 153

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short che è all’origine de Eisola dei sordobimbi, candidato ai David di Donatello 2010 come miglior documentario. Dal 2010 è invitato a far parte della European Film Academy e dell’Accademia del Cinema Ita­ liano. Filmografìa Possali-Auschwitz, andata e ritorno (2005); Il sabato del villaggio (2006); Il vento bussa alla mia porta (2007, co-regia di Nelson Bova e Ric­ cardo Giullari); Inombra della mia casa (2007); Ivan e Loriana (2008); L'i­ sola dei sordobimbi (2009); Uno strano treno (2009, co-regia di R. Giul­ lari); Una giornata perfetta (2009, co-regia di Roberto Zampa); Amen (2010); L'ora blu (in produzione). Cecconello Manuele (Vercelli, 1969) Laureato in Lettere, collabora con il Museo Nazio­ nale del Cinema di Torino. Dopo una prima esperienza lavorativa nel­ l’ambito della formazione all’audiovisivo per soggetti diversamente abili, dirige la casa editrice Grafica Santhiatese. Negli anni novanta dà avvio alla società di produzione Prospettiva Nevskij e dirige un centinaio di lavori che partecipano a festival e rassegne. Nel 2007 realizza la prima parte di Olga e il tempo che si aggiudica vari premi tra cui il premio per il miglior documentario al Flahertiana International Film Festival di Perm (Russia) e il Gran Premio della Giuria al Festival di Annecy.

Filmografìa Catrame (1996); Green Echoes (1997); Lettera ad una sconosciuta (1997); Trio (1997, co-regia di Cristina Monti); Romano Conversano pit­ tore (2000); Terre (2002); Venite all'acqua (2002); Acque (2003); A propos de Lourdes (2003); Einmal di Arvo Part (2003); Memoria ai margini (2003); Fiorenzo Rosso. Il limite della trasparenza (2003); Martirologio (2003); Autoritratto 1 (2004); Le baptème de la solitude (2004); Dublin, pigeon (2004); Etant donns: 1 Rrose (2004) ; Preghiera n. 1. Preservami dal buio (2004); Preghiera n. 2. Serba il mio tempo (2004); Preghiera n. 3. Scal­ dami sulla rena (2004); Preghiera n. 4. Rinnova le mie lacrime (2004); Pre­ ghiera n. 3. Pietà per gli animali (2004); Preghiera n. 6. Rendimi del tutto fragile (2005); Etant donns: 2 La raison (2005); Etant donns: 3 La valtz (2005); Lumen naturae (2005); Finis terrae (2005); Untitled. Land Art II (2005); Cuban Experimental Winter (2006); Etant donns: 4 Bleu (2006); Preghiera n. 7. Qual la mia casa) Polittico di primavera (2006); Gorgo (2006); Beato colui che sarà visto dai tuoi occhi (2006); Germinale (2007); Memento (2007); Preghiera n. 8. Toglimi la paura (2007); Sun symbol 154

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(2007); Olga e il tempo. Parte prima: epica minima del mattino (2007); Hoc erat in Votis (2007); Adriano Massazza Gal. Nel cuore la giustizia (2007); Olga e il tempo. Parte seconda: equinozio del pomeriggio (2008); Strona materia prima (2008); Strojogo. Autobiografia del torrente Strona (2009); Rinaldo Rigola, ^onorevole operaio (2010); Sentire l'aria (2010).

Cederna Giulio (Roma, 1966) Giornalista, esperto di comunicazione sociale, si occupa da anni di ambiente e sviluppo con particolare attenzione all’Africa sub-sahariana. Insieme a Sveva Sagramola ha realizzato diversi reportage per il programma di Rai 3 “Geo&Geo” (1999, 2001, 2002). Dal 1998 cura la comunicazione di AMREF Italia, realizzando reportage, documentari, progetti di informazione ed educazione allo sviluppo. Ha ideato insieme a Marco Baliani il progetto teatrale Pinocchio nero-, è stato co-autore con Angelo Loy (v.) e John Muiruri del documentario Tv Slum, il film dei ragazzi di strada di Nairobi (Tele+) mentre assieme a Paolo Novelli ha firmato il documentario Big Brother AIDS (Rai 3). Nel 2005 ha pubblicato il libro Le avventure di un ragazzo di strada.

Filmografia Tv Slum, ilfilm dei ragazzi di strada di Nairobi (2003, co-regia di A. Loy e J. Muiruri); Sillabario africano (2005, co-regia di A. Loy); Big Brother AIDS (2004, co-regia di P. Novelli); A Different Perspective (2007, co-regia di A. Loy e J. Muiruri); Millennium News (2009 co-regia di A. Loy); Una scuola italiana (2010, co-regia di A. Loy); Soltanto il mare (2010).

Chiesa Guido (Torino, 1959) Tra il 1983 e il 1990 ha lavorato negli Stati Uniti come aiuto regista ed assistente di produzione (al fianco di registi quali JimJarmush e Micheal Cimino), nonché come corrispondente di giornali ita­ liani e Radio Rai 2. Tornato in Europa, nel 1990 ha diretto il suo primo lungometraggio, Il caso Martello, premiato alla Mostra del Cinema di Venezia con la Grolla d’Oro per il miglior film d’esordio. Ha realizzato alcuni importanti documentari storici italiani tra cui: Partigiani, opera collettiva sulla memoria e il significato della Resistenza in Italia; Nascita di una democrazia, sulla redazione della Costituzione italiana. Nel 2000 con II partigiano Johnny partecipa a Venezia, aggiudicandosi il premio “Ragazzi e cinema”. Lavorare con lentezza ottiene a Venezia il Premio Mastroianni per i migliori attori esordienti e vince a Barcellona il Festi­ val del Cinema Politico nel 2005. 155

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Filmografia Give Me a Spell (1985); Black Harvest (1986); Il caso Martello (1991, fict.); Civiltà (1992); Il tempo dei sogni (1993); Babylon (1994, fict.); Memorie da una fabbrica (1994); Torino in guerra: 1940-1945 (1995); 25 aprile: la memoria inquieta (1995); Quei momenti eroici (1988-1995) (1995); Materiale resistente (1995, co-regia di Davide Ferrario); Rane culatelli & lucciole: la pianura di Bertolucci ( 1996); Ritratti d'autore. I fra­ telli Taviani (1996); Partigiani (1997, co-regia di D. Ferrario, Antonio Leotti, Daniele Vicari e Marco Simon Puccioni); Petali di candore Mar­ lene Kuntz *96-97 (1997); Nasata di una democrazia (1997); Volare. La grande trasformazione (1998); Un giorno di fuoco (1998); Una questione privata. Vita di Beppe Fenoglio (1998); Non mi basta mai (1999, co-regia di D. Vicari); Il partigiano Johnny (2000, fict.); Provini per un massacro (2000); Un mondo diverso è possibile (2001, doc collettivo); Alice è in paradiso (2002); Sono stati loro. 48 ore a Novi Ligure (2003 ); Lavorare con lentezza (2003, fict.); Stessa spiaggia stesso mare (2006); Le pere di Adamo (2007); La nostra chiesa (2007); Quo vadis, baby? (2008, fict.); Io sono con te (2010, fict.).

Cini Daniele (Torino, 1955) Dopo il diploma al Centro Sperimentale di Cinema­ tografia, inizia Fattività di regista di documentari collaborando con vari programmi televisivi come “Mixer”, “Mixer nel mondo”, “Quark” e “Geo”. Negli anni novanta cura la regia delle ricostruzioni filmate dei programmi “Ultimo minuto” e “Misteri”. Assieme a Carlo Lucarelli e Paola de Martiis inventa la trasmissione “Blu notte”. Realizza diversi cor­ tometraggi di finzione tra cui Arrivano i sandali e Zittitutti, presentato al Torino FF 2001. Nel 2002 debutta nel lungometraggio a soggetto con Last Food. Dal 2003 collabora alla trasmissione di Rai 3 “La Storia siamo noi”. Nel 2005 è uscito il suo primo libro Io, la rivoluzione e il babbo dia­ rio del ‘68, da cui ha tratto la sceneggiatura Tigri di cartolina risultata fina­ lista al premio Solinas 2006. Filmografia Vietnam: sconfiggeremo il cielo (1996); Adamello tra l'aquila e l'orso (1996); Arrivano i sandali (1997); Zittitutti. L'uomo dei rumori (2001); Last Food (2002, fict.); Seconda patria (2006); Tanos (2008); All Human Rights for All (2008, ep. La sirena)', Noi che siamo ancora vive (2009); Idroeden (2011); Il futuro ha cinquant"anni (in produzione).

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Cioni Giovanni (Parigi, 1962) Dopo gli studi universitari e un corso in cinema docu­ mentario diretto da Jean Rouch a Parigi, crea assieme ad altri registi “autodidatti” la struttura di realizzazione e produzione Qwazi qWazi filM. Nel 2004 si trasferisce a Barberino di Mugello in Toscana dove è tra i fondatori dell’associazione culturale Nanook. Assieme a Pinangelo Marino dirige i “Laboratori Uccellacci”, laboratori di scrittura e realiz­ zazione con ragazzi di varie scuole medie della provincia di Firenze. Tra i suoi film si ricordano In purgatorio, in selezione al Festival dei Popoli dove ha ottenuto il premio del pubblico e Nous/Autres, presentato al festival Visions du réel di Nyon e uscito in sala e in televisione in Belgio. Filmografìa Le Gout de l’eveil (1988); De Retour (1993); Funambulite (1996, co­ regia di Barbara Manzetti e Christian Olivier); Non ho tempo e serve tempo ( 1995 ) ; Si par une nuit, film ( 1994) ; Planetarium ( 1990) ; Avoir mal partout (1997, co-regia di B. Manzetti); Lourdes Las Vegas (1999); Emir Kusturica, Belgrade, mars 2002 (2002); Nous/Autres (2003); Temoins, Lisbonne, aout 00 (2003, co-regia di B. Manzetti, Sofie Kokaj, David Nunez, Marion Gizard e Marta Wengorovius); In questi luoghi (2005); Au Monde (2005-2008, co-regia di B. Manzetti e Morad Ammar); Dal Paradiso (2006, co-regia di Andrea Cambi e Carlo Monni); Olhos/Yeux (2006-2009); Prelude a fantomes (2007); In Purgatorio (2009); Napoli 24 (2010, collettivo, ep. Prima di Napoli).

Cipri Daniele (Palermo, 1962) In coppia con Franco Maresco (v.), nella seconda metà degli anni ottanta ha iniziato a collaborare come autore in alcuni programmi televisivi divenuti in breve tempo molto popolari (“Blob”, “Fuori orario”). L’esordio cinematografico avviene nel 1995 con Lo zio di Brooklyn, presentato al Festival di Berlino, a cui hanno fatto seguito Totò che visse due volte (che inizialmente venne interdetto dalla censura italiana), Il ritorno di Cagliostro, Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio. Del 2002 è il debutto in teatro con Palermo può attendere, alla Biennale di Venezia e nel 2012 ha realizzato il suo primo lungometraggio da solo con È stato il figlio. Filmografìa Loro di Palermo (1990, co-regia di F. Maresco); Variazioni (1992, co­ regia di F. Maresco); Martin a Little... (1992, co-regia di F. Maresco); Il corridoio della paura (1992, co-regia di F Maresco); Sicilia da Oscar (1993, 157

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co-regia di E Maresco); I Castagna sono buoni (1994, co-regia di E Maresco); Intervista a Giuseppe De Santis (1994, co-regia di E Maresco); Il Gattoparve (1995, co-regia di E Maresco); Vittorio De Seta. Lo sguardo in ascolto (1995, co-regia di E Maresco); Lo zio di Brooklyn (1995, fict., co-regia di E Maresco); Grazie Lia. Breve inchiesta a proposito di Santa Rosalia (1996, co-regia di E Maresco); IlManocchio (1996, co-regia di E Maresco); A memoria (1996, co-regia di E Maresco); Aspettando Totò. Conversazione con Mario Martone ed Enzo Moscato (1996, co-regia di E Maresco); Totò che visse due volte (1998, fict., co-regia di E Maresco); Intervista a Mario Monicelli (1998, co-regia di E Maresco); E (1999, co­ regia di E Maresco); Steve Plays Duke (1999, co-regia di E Maresco); Noi e il Duca. Quando Duke Ellington suonò a Palermo (1999, co-regia di E Maresco); Enzo, domani a Palermo! (1999, co-regia di E Maresco); Arruso (2000, co-regia di E Maresco); Tutti for Louis. Omaggio a Louis Armstrong (2000, co-regia di E Maresco); La ballata di Salvo (2000, co­ regia di E Maresco); Miles Gloriosus. Tributo a Miles Davis (2001, co­ regia di E Maresco); Siamo davvero pietosi (2001, co-regia di E Mare­ sco); Conversazione con Sergio Cittì (2001, co-regia di E Maresco); Direc­ ted by Anthony Dawson (2002, co-regia di E Maresco); Che fine ha fatto Pino Grisanti? Cipri e Maresco alla ricerca di un maestro incompreso (2003, co-regia di E Maresco); Il ritorno di Cagliostro (2003, fict., co­ regia di E Maresco); Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio (2004, co-regia di E Maresco); Era una volta (2008, co­ regia di E Maresco); Il testamento di Mario Monicelli (2010, co-regia di E Maresco); È stato il figlio (in produzione).

Cipriani Claudia (Milano, 1972) Laureata in filosofìa, ha frequentato i corsi di film­ making e sceneggiatura della Scuola Civica di Cinema Tv e Nuovi Media di Milano. Giornalista professionista, ha collaborato con diversi quoti­ diani e mensili a tiratura nazionale. Ha lavorato in qualità di regista per Sky Italia ed è stata consulente per mostre allestite presso la Triennale di Milano. Il suo doc Ottoni a scoppio ha ottenuto una menzione speciale al premio Libero Bizzarri 2004 mentre il suo primo lungometraggio Lasciando la baia del re è stato selezionato in numerosi festival.

Filmografìa Arimo (2002); Ottoni a scoppio (2004); Danae (2005); La guerra delle onde (2009); Lasciando la baia del re (2011 ); Marilyn Monroe and the Art of Fishing (in produzione).

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Colusso Enrica (Roma, 1962) Studia regia di documentari a Parigi (Varan, Atelier de Réalisation Cinématographique) e a Londra (National Film and Televi­ sion School). Ha realizzato numerosi doc fra i quali Fine pena mai {Sen­ tenced forever}, che ha vinto diversi premi ed è stato trasmesso dalla Rai e dalla CBS. Dal 1994 ha insegnato Antropologia Visuale presso FUniversità di Tromso in Norvegia ed è senior lecturer alla University of Roehampton di Londra. Filmografia 41 bis. Quaide la Loire (1989); Les sardines ca se mange debout (1989); Sisters (1991); Non è vero ma ci credo (1992); Il recupero del Gattopardo. Intervista con Giuseppe Rotunno (1991); Sentencedforever. Fine pena mai (1995); The Solitude ofMemory (2000); Hidden Toscany (2001); Chi non rischia non beve champagne (2002); Scusi dovè il documentario? (2003, co-regia di Agostino Ferrente, Chiara Malta, Gianfranco Pannone, Gio­ vanni Piperno e Alessandro Rossetto); Umberto Eco, Rennaissance Man (2002); ABC Colombia (2007). Comencini Francesca (Roma, 1961) Figlia del regista Luigi, ha esordito nel 1984 con Pia­ noforte (Premio De Sica a Venezia) e si è poi trasferita in Francia, dove ha realizzato Annabelle partagée (1991), selezionato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes, e il documentario Elsa Morante (1997). Tornata in Italia, ha portato sullo schermo La coscienza di Zeno di Italo Svevo con Le parole di mio padre (2001) e dopo il documentario Carlo Giuliani, ragazzo (2002) ha diretto Mi piace lavorare. Mobbing (2004), vincitore della sezione Panorama a Berlino, e A casa nostra (2006).

Filmografìa Pianoforte (1984, fict.); La Lumière du lac (1988, fict.); Annabellepar­ tagée (1991, fict.); Marcellino pane e vino (1992, fict., co-regia di Luigi Comencini); Elsa Morante (1997); Shakespeare a Palermo (1998); Un mondo diverso è possibile (2001, doc collettivo); Le parole di mio padre (2001, fict.); Carlo Giuliani, ragazzo (2002); Firenze, il nostro domani (2003, doc collettivo); Mi piace lavorare. Mobbing (2004, fict.); Visions of Europe (2004, ep. Anna vive a Marghera); Dopo la guerra (2005); A casa nostra (2006, fict.); In fabbrica (2007); Lo spazio bianco (2009, fict.); Gina (fict., in produzione).

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Comodili Alessandro (San Vito al Tagliamento, Pordenone, 1982). Ha studiato lettere a Bologna poi cinema a Parigi, quindi all’lNSAS di Bruxelles. Nel 2009 rea­ lizza il suo film di diploma, Jagdfieber, un documentario sulla caccia, pre­ sentato al Festival dei Popoli ed alla Quinzaine des Réalisateurs di Can­ nes. L’Estate di Giacomo, il suo primo lungometraggio di cui è stato sce­ neggiatore, operatore, montatore e produttore, ha vinto il concorso Cineasti del presente al Festival di Locamo 2011 e partecipato a nume­ rosi festival. Filmografìa 2008 Jagdfieber (2008), L’Estate di Giacomo (2011). Consiglio Stefano (Roma, 1955) Dopo tre documentari (1982-83) sui set di Sergio Leone, Ettore Scola e Richard Donner, è uno degli ideatori di “Ladri di Cinema”, incontri con cineasti invitati a “confessare” i “furti” perpetrati rispetto a film o autori della storia del cinema. Assieme a Fabio Ferzetti cura un libro di interviste ai direttori della fotografìa La bottega della luce (1983) e collabora come aiuto regista con Giuseppe Bertolucci, Roberto Benigni e Giulio Questi. Dirige La camera da letto, versione filmata del­ l’omonimo poema di Attilio Bertolucci, che ne è l’interprete, presentato alla Mostra di Venezia 1992. Realizza poi per Rai 2 Le strade di Princesa, sul transessuale brasiliano detenuto a Rebibbia, che ha ispirato l’omo­ nima canzone di Fabrizio De André. Con L’uomo flessibile partecipa al Torino FF 2003 vincendo il premio Cipputi. Nel 2009 firma L’amore e basta, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2009, incentrato sull’amore omosessuale. Il suo ultimo lavoro in postproduzione, Il Cen­ tro, è stato girato in un centro commerciale alle porte di Roma.

Filmografìa Stefania Sandrelli Story (1990); Lampi d’amore. Tre storie di donne che amano troppo (1990); Una prostituta allo specchio (1990); Adolescenti in bilico (1991); Via Arbat. Una strada verso l’Europa (1991); Mosca, crimini e misfatti (1991); La camera da letto (1992); Voci per un dizionario cubano (1996); Le strade di Princesa (1997); Appunti per un monologo sulla luce (1999-2000); Argilla (2000); Il nostro futuro. Un anno dopo 1’11 settem­ bre (2002); Euomo flessibile (2003); Appunti per un film sulla lotta di Melfi (2004); Ilfuturo - Comizi infantili (2006); Il cinema digitale secondo Giulio Questi (2007); Eamore e basta (2009); Il Centro (2012).

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Conversano Francesco/Grignaffini Nene Francesco Conversano (Monopoli, Bari, 1952) e Nene Grignaffini (Parma) fondano nel 1980 la società di produzione Movie Movie: assieme hanno ideato e diretto circa ottanta opere tra documentari, reportage televisivi, filmati didattici e culturali, videoinstallazioni, presentati a festi­ val ed eventi internazionali tra cui la Mostra del Cinema di Venezia, il New York Film Festival, il Festival di Taormina e quello di Locamo. Tra i documentari segnaliamo La rosa dei nomi, il making of di II nome della rosa di Jean-Jacques Annaud, e Caro Nanni, un ritratto-intervista di Nanni Moretti durante le riprese di Caro Diario. Nel 2006 vincono il David di Donatello con II bravo gatto prende i topi.

Filmografia Perfarla finita con gli anni ‘60 ( 1982) ; Architetto: Renzo Piano ( 1987 ) ; La rosa dei nomi (1989); The House Of Images (1990); Viaggetto sul Po (1991); Caro Nanni (1993); Buon compleanno Cinema (1994); Gone with The Vespa (1996); Caro Nanni (1998); Barry Gifford. Un cuore selvaggio a New Orleans (1999); Shanghai mon amour. Le notti di Mian Mian (2000); Mosca non ha cuore. Il mondo di Vladimir Sorokin (2000); La vera storia di Bjòrn Larsson. Un vagabondo a Gilleleje (2000); Jazz e dintorni. Un giorno con... (2000); Eduardo e la città incompiuta. Le luci e le ombre di Napoli (2000); Era il Danubio e il mare. Il mondo di Claudio Magris (2000); Lucio Dalla Confidential (2001); Nell'anno 2002 di nostra vita, io, Francesco Guccini... (2002); Due o tre cose che so di lei. Tonino Guerra e la Romagna (2003 ) ; Bologna e Bologna (2003 ) ; Strade blu. Storie dalla pro­ vincia americana (2004); Il bravo gatto prende i topi (2005); Buongiorno Cina (2005); Taccuino indiano (2006); Il tempo del dopo. I Balcani di Pre­ drag Matvejevic (2007); Megalopolis (2007); Indigeni della repubblica (2007 ); Amma. La madre dei senza terra (2007); Partire, ritornare. In viag­ gio con Tahar Ben Jelloun (2008); I luoghi dell'altro. Diario di viaggio di Joe R. Lansdale in Puglia (2009); Megalopolis: Los Angeles, San Paolo, Il Cairo, Karachi, Shenzhen, Tokyo (2009); Viaggetto sull'Appennino. A piedi da Piacenza a Rimini (2009). Coppola Massimo (Salerno, 1972) Laureato in Filosofia della Scienza, ha pubblicato tre libri: Nove domande sulla coscienza (2000), Brand New (2002) e Tenniste (2012). Ha ideato, scritto e condotto diversi programmi televisivi e radiofonici tra cui: nel 2000-2003 per MTV “Brand New”, nel 2001-2003 per Rai2 “Cocktail D’Amore”, nel 2003-2004 per MTV “Pavlov”, nel 2004-2005 per MTV “Avere Ventanni” e nel 1997-2000 per Rai Radio 2 161

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“99 alle 9”. Nel 2004 fonda assieme a Luca Formenton e Giacomo Papi la ISBN Edizioni, casa editrice di Milano. Insieme ad Alberto Piccinini e Luciana Bianciardi ha curato EAntimeridiano, l’edizione in due volumi delle opere dello scrittore Luciano Bianciardi su cui ha realizzato nel 2007 un doc intitolato Bianciardi!, in programma alle Giornate degli Autori di Venezia. Ambientato tra Bucarest e Melfi, Hai paura del buio, il suo debutto nella fiction, è stato presentato alla Settimana Intemazio­ nale della Critica al Festival di Venezia 2010. Filmografia La regola del contemporaneamente (2002); Il pareggio non esiste (2002); Solomon (2006); Politica zero (2006, co-regia di Giovanni Giommi e Alberto Piccinini); Bianciardi! (2007); Parafernalia (2008, co­ regia di G. Giommi); Hai paura del buio (2010, fict.).

Cotronei Tommaso (Vibo Valentia, 1962) Inizia come aiuto regista di Vittorio De Seta per il documentario In Calabria. Nel 1998 realizza il suo primo film Né»/ blu cercando fiabe, presentato ad Arcipelago Cinema. Nel 2005 esce il doc Lavoratori, che vince un premio speciale della giuria al concorso docu­ mentari del Torino FF ed è selezionato a Locamo. Nel 2010 il festival Documenta Madrid gli dedica una retrospettiva dal titolo Nombres Proprios: Tommaso Cotronei. Filmografia Nel blu cercando fiabe (1998); Lavoratori (2005); Ritrarsi (2007); Pre­ parativi difuga (2008); Le unghie le lacrime la rosa (2009); Tierra (2010); Scuola di uomini (2011).

Cuccia Salvo (Palermo, 1960) Regista, videoartista e sceneggiatore. Lavora dal 1990 alla Filmoteca Regionale Siciliana e nel 1995 vince il secondo premio Spa­ zio Italia al Festival Cinema Giovani di Torino con il corto Un sogno di lumaca. Ha ideato e diretto il progetto Albasuite, una serie di documentari sulla comunità Arbèreshè. Ha realizzato circa 70 lavori e tra questi va ricor­ dato Détour De Seta, sul regista Vittorio De Seta, presentato da Martin Scorsese al Tribeca Film Festival a New York e vincitore del Genova Film Festival 2005. Nel 2011 ha realizzato il documentario 1982. L’estate di Frank, incentrato su un viaggio in Sicilia di Frank Zappa e di un suo con­ certo a Palermo, andato in onda in Rai nel gennaio di quest’anno. 162

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Filmografia Duo with Peter Kowald (1993); Raoul not making (1994); Dn sogno di lumaca (1995); Angelica (1995); Videoplunders (1995); Terra Madre (1996); Palermo (1996); Prima Sicilia (1997); Bambini intravisti (1997); Hortophonìa (1997); La cena informale (1998); Cieli Altissimi Retrocedenti (1998-1999); Verso Venezia (2000); Ce ne ricorderemo, di questo pianeta (2000); Paesaggi italiani (2000-2001); Specular Cities (2000-2002); La vaga sfera è in questa mano (2002-2003); Il Satiro danzante (2003-2005); Détour De Seta (2005); Weltanschauung (2006); Oltre Selinunte (2006); Rockarbèresh (2007); 1 Fiorio dal mito alla storia (2007); Belice 68. Terre in moto (2008, co-regia di Antonio Bellia); Fuori rotta (2008); Ritorno in Sicilia. Incontro con Letizia Battaglia (2010); 1982. Destate di Frank (2011).

Cupisti Barbara (Viareggio, 1962) Attrice e regista. Si diploma presso F Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Debutta come attrice nel film La chiave (1983) di Tinto Brass. Recita poi per Dario Argento, Michele Soavi, Paul Planchon, Gabriele Salvatores, Carlo Verdone e Marie Trintignant, dividendosi tra Italia, Francia e Stati Uniti. Dalla fine degli anni Novanta dirada progressivamente Fattività recitativa per dedi­ carsi alla regia. Con Madri vince il David di Donatello. Filmografia La maschera d'acqua segmento cornice (2007); Madri (2007); Vietato sognare (2008); Io sono. Storie di schiavitù (2011). D’Agostino Felice (Tropea, 1978) Laureato in Storia e Critica del Cinema presso l’Università degli studi di Firenze, dal 2000 collabora assieme ad Angelo Mag­ gio e, soprattutto, Arturo Lavorato (v.) con la società Suttvuess di Roma come operatori, montatori e registi. Da diversi anni svolgono un’attività di ricerca e documentazione audiovisiva sulle feste religiose popolari in Calabria e nella creazione di un archivio audiovisivo sulle lotte contadine nella Piana di Gioia Tauro. Con II canto dei nuovi emigranti hanno vinto il premio Doc 2005 al Torino FF e il premio Casa Rossa Doc al Festival di Bellaria, con In attesa dell'avvento il Premio Orizzonti Cortometrag­ gio alla Mostra di Venezia del 2011.

Filmografia La notte del gufo (2003); La gente dell'albero (2004, co-regia di A. 163

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Lavorato e A. Maggio); Vattienti (2004, co-regia di A. Lavorato e A. Mag­ gio); Il canto dei nuovi migranti (2005, co-regia di A. Lavorato); ...allora piangeranno mentre noi cammineremo (2006, co-regia di A. Lavorato); Uw racconto incominciato (2006, co-regia di A. Lavorato); Noz dobbiamo deciderci (2007, co-regia di A. Lavorato); In amabile azzurro (2009, co­ regia di A. Lavorato); In attesa dell"avvento (2011, co-regia di A. Lavo­ rato). D’Ambrosio Andrea (Roccadaspide, Salerno, 1975) Laureato in cinema, ha frequentato la Nuct di Roma, diplomandosi in regia. Tra i suoi film: Nel Paese di Tem­ porali e di Primule, sul periodo friulano di Pasolini, è stato presentato alla Mostra di Pesaro, Come una Nuvola che Danza, sulla poetessa Alda Merini, al Festival del cinema di Salerno e il collettivo Checosamanca? alla Festa Intemazionale di Roma 2006. Pesa combattenti ha vinto il “Premio Cipputi” al 20° Torino FF; Biùtifulcauntri, realizzato a sei mani con la montatrice Esmeralda Calabria e il giornalista Giuseppe Ruggiero, è stato uno dei pochi doc italiani distribuiti in sala; insieme ai fratelli Taviani ha ricevuto il premio Giacomo D’Onofrio al Laceno d’oro 2009 (Bagnoli Irpino/Avellino) e nel 2011 il premio Angelo Vassallo al Youngabout Festival di Bologna. Sta lavorando al suo primo lungometraggio di finzione dal titolo 2 euro l'ora. Filmografìa Ecce Nanni (1998); Attori di vita (1999); Gli anni nel cassetto (1999); Nel paese di temporali e di primule (2000); Come una nuvola che danza (2001); Pesci combattenti (2002, co-regia di Daniele Di Biasio); Checosa­ manca (2006, doc collettivo); Biùtifulcauntri (2007, co-regia di Esmeralda Calabria e Giuseppe Ruggiero); I giorni della merla (2010, co-regia di Carla Del Mese); Di mestierefaccio il paesologo (2010); Campania Burning (2010, co-regia di Maurizio Cartolano); 2 euro l'ora (in produzione, fict.). D’Anolfi Massimo (Pescara, 1974) Ha scritto la sceneggiatura del film Angela di Roberta Torre, presentato alla Quinzaine des Realizateurs del Festival di Cannes 2002. Nel 2003 ha realizzato cinque documentari radiofonici per Radio Rai 3. Si torna a casa. Appunti per un film è stato selezionato al Torino FF mentre Play al Festival dei Popoli di Firenze. Assieme a Martina Parenti (v.) ha realizzato I Promessi Sposi (2007) presentato al Festival di Locamo nella sezione lei & Ailleurs e premiato al Festival dei Popoli e a Film164

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maker di Milano. Il doc d’osservazione 11 castello è stato i doc più pre­ miati in Italia (Italiana.Doc e il Premio Avanti! Al Torino FF) e all’estero (Hot Does di Toronto). Filmografìa Si torna a casa. Appunti per un film (2003); Play (2004); I Promessi Sposi (2007, co-regia di M. Parenti); Grandi speranze (2009, co-regia di M. Parenti); Il castello (2011, co-regia di M. Parenti); Materia oscura (co­ regia di M. Parenti, in produzione). De Falco Paolo (Novoli, Lecce, 1965) Laureato in Storia del teatro all’Università “La Sapienza” di Roma, ha studiato danza, musica e recitazione incontrando nel suo percorso di formazione Eduardo De Filippo, Leo de Berardinis, Peter Stein, Carmelo Bene e Jerzy Grotowsky. Dopo alcuni video tea­ trali, nel 2002 ha girato il suo primo corto, Il ponte, tratto da un racconto di Franz Kafka. Nel 2005 dirige il doc di lungometraggio Stella Loca, pre­ sentato alla Festa Internazionale del Cinema di Roma e al Doc for Sale di Amsterdam.

Filmografìa Il ponte (2002); Stella Loca (2005); Leonardo (2008); Via Appia (2010). Delbono Pippo (Varazze, Savona, 1959) Regista, attore, danzatore e creatore dei suoi spettacoli. Per il suo singolare accostamento tra teatro, danza e musica, è considerato uno dei maestri più innovativi della scena internazionale contemporanea. Anche il suo cinema si distingue per un’originale ricerca linguistica, caratterizzata nei suoi ultimi lavori dall’uso dei telefono cel­ lulare. Nel 2004 vince il David di Donatello come miglior documentario di lungometraggio con Guerra. Cinque anni più tardi il Festival di Locamo gli dedica una retrospettiva. Amore carne ha vinto il premio spe­ ciale della giuria per il lungometraggio svizzero più innovativo al Visions du Réel di Nyon del 2011.

Filmografia Guerra (2003); Grido (2006); Blue sofa (2009); La paura (2009); L'In­ dia che danza (2009); Questo buio feroce (2009); Amore carne (2011).

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Del Grosso Francesco (Roma 1982) Laureato al DAMS di Roma Tre, è autore di saggi per volumi collettanei e collabora a siti e riviste di critica cinematografica. Dopo Gli Invisibili - Esordi nel Cinema Italiano 2000-2006, doc collet­ tivo girato alla Mostra del Cinema di Pesaro nel 2006 in occasione delFEvento Speciale sugli esordi italiani, in Negli occhi, presentato al Festi­ val di Venezia del 2009, ha tratteggiato la personalità di Vittorio Mezzo­ giorno - per questo lavoro ha vinto, tra gli altri, il Nastro D’Argento per fl Miglior documentario sul Cinema e il Globo d’Oro Speciale (entrambi nel 2010). Nel successivo 11 metri, invece, evento speciale al Festival di Roma 2011, ha ricostruito la figura del calciatore della Roma Agostino Di Bartolomei morto suicida.

Filmografia: Gli Invisibili - Esordi nel cinema italiano 2000-2006 (2007, co-regia di Christian Carmosino, Enrico Carocci, Pierpaolo De Sanctis); Stretti al vento - Storie di navigazioni in solitario (2008); Negli Occhi (2009, co­ regia di Daniele Anzellotti); 11 Metri (2011).

De Lillo Antonietta (Napoli, 1960) Si laurea in Spettacolo al DAMS di Bologna. Nel 1985 dirige il suo primo lungometraggio Una casa in bilico, vincitore del Nastro d’Argento quale migliore opera prima. Tra il 1992 e il 1999 firma numerosi documentari e video-ritratti: nel 1995 dirige Racconti di Vittoria (Premio Fedic e del Sindacato Critici Cinematografici alla 52° Mostra del Cinema di Venezia), nel 2001 Non è giusto, presentato al Festival di Locamo. Il resto di niente riceve numerosi riconoscimenti, tra cui tre David di Donatello e cinque candidature ai Nastri d’Argento. Con la Marechiaro Film, una nuova società di produzione e distribu­ zione, ha proseguito idealmente F esperienza maturata in precedenza con la Angio Film (insieme a Giorgio Magliulo) e poi con Megaris (insieme aUo stesso Magliulo, Giogiò Franchini e Paola Capodanno). Ha ideato e prodotto il “documentario partecipato” e collettivo II pranzo di Natale (2011). Filmografia Una casa in bilico (1985, fict., co-regia di G. Magliulo); Matilda (1990, fict., co-regia di G. Magliulo); Angelo Novi. Fotografo di scena (1992); Promessi sposi ( 1993 ); La notte americana del Dr. Ludo Fuld (1994); Rac­ conti di Vittoria (1995); Ogni sedia ha il suo rumore. Ritratto di Alda Merini (1995); Viento ‘e terra (1996); Controcampo. Peter del Monte 166

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(1996); Racconti di Vittoria (1996, fict.); Saharawi, voci distanti dal mare (1997, co-regia di Jacopo Quadri e Patrizio Esposito); I vesuviani (1997, ep. Maruzzella, fict.); Hispaniola (1997); ‘O Cinema (1999); ‘O Solemio (1999); Ilfaro (2000); Le Vele, Lltalsider, I Quartieri Spagnoli (2000); La terra di lavoro del Casertano, Il parco nazionale del Cilento, LIrpinia a venti anni dal terremoto, Il pendolarismo, Il litorale romano, Larea indu­ striale di Cassino (2001); Non è giusto (2001, fict.); Pianeta Tonino. Tonino Guerra (2002); Il resto di niente (2004, fict.); All Human Rights for All (2008, ep. Art. 20)-, Morta di soap (in produzione).

De Serio Gianluca/De Serio Massimiliano (Torino, 1978) I gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio hanno pro­ dotto vari cortometraggi e documentari che si sono aggiudicati numerosi premi e riconoscimenti tra cui il Nastro d’Argento per il miglior corto­ metraggio nel 2004 a Maria Jesus e nel 2005 a Mio fratello Yang, nel 2006 la candidatura agli European Academy Awards per Zacaria, nel 2007 il Premio Speciale della Giuria al Torino FF con Lesame di Xhodi. Al loro lavoro sono state dedicate varie retrospettive: nel 2007 al Contemporary Art Center di Tel Aviv di Israele, nel 2009 a Arcipelago Film Festival di Roma e nel 2008 presso il Museo de Arte Moderno La Tertullia, di Cali in Colombia. Rakroman ha vinto il Concorso dei doc italiani al Festival di Torino del 2010 mentre l’anno successivo hanno debuttato nel Im a soggetto con Sette opere di misericordia presentato al Festival di Locamo. Filmografìa Poche cose (2001); Il giorno del santo (2002); Maria Jesus (2003); Mio fratello Yang (2004); Zakaria (2005); Tanatologia (2006); Neverending Maria Jesus (2006); Ensi e Shade (2006); Rew e Shade (2006); Raige e Shade (2006); Tanatologia, 14 maggio 1958 (2007); L’esame di Xhodi (2007); DialoghidelLys (2010); Rakroman (2010);Stanze (2011 ); Looking for Lumini a (2011); Sette opere di misericordia (2011, fict.). Di Costanzo Leonardo (Ischia, 1958) Dopo essersi laureato all’istituto Orientale di Napoli si è trasferito in Francia dove ha seguito i corsi di regia di Cinema Docu­ mentario presso gli Ateliers Varan. Quest’esperienza lo ha portato ad aprire un centro per documentaristi in Cambogia assieme al regista Rithy Panh. Tra i suoi film ricordiamo Prove di Stato, che affronta il tema della latitanza dello Stato nel comune di Ercolano e A scuola, spaccato di vita scolastica in un istituto delle medie inferiori di Napoli, presentato alla 167

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Mostra del Cinema di Venezia e vincitore dell’edizione Filmmaker/doc8. Sta per debuttare nel lungometraggio di finzione con Eintervallo. Filmografia Prove di Stato (1999); A scuola (2003); Odessa (2006, co-regia di Bruno Oliviero); E Orchestra di Piazza Vittorio. I diari del ritorno (2007, ep. Houtine); Cadenza d'inganno (2011); Eintervallo (fict., in produ­ zione).

Di Giacomo Federica (La Spezia) Si laurea in Antropologia a Firenze, lavora per alcuni anni nel teatro danza con il gruppo russo “Derevo”, fondando poi il “Collet­ tivo Teatrale Tutti”. Nel 1999 frequenta il master europeo di documen­ tario di creazione a Barcellona dove collabora come aiuto sceneggiatrice in Monos corno Becky di Joaquin Jordà e in E» construction di Louis José Guerin. Nel 2000 gira il doc Eos colores de la trance, Marrakesh distri­ buito da BTV. Dal 2001 realizza documentari e video per Raisat Cinema ed altre televisioni. Il lato grottesco della vita è premiato al Torino FF 2006 (premio Cipputi, premio Avanti), all’Etno Film Fest 2007 (miglior documentario) e selezionato in numerosi festival e distribuito da Rai 3 e Cult. Filmografia Los colores de la trance, Marrakesh (2000); Close Up (2001); Suicidio perfetto (2003); Il lato grottesco della vita (2006); Housing (2009).

Di Vaio Gaetano (Napoli, 1968). Nel 2001 intraprende la carriera di attore nella com­ pagnia teatrale di Peppe Lanzetta “I ragazzi del bronx Napoletano” che segue fino al 2003. Nel 2004 inizia l’attività di produttore, fondando l’as­ sociazione culturale “Figli del Bronx” che diviene in seguito anche società di produzione cinematografica. Produce quindi Sotto la stessa luna di Carlo Luglio (v.) che partecipa, in concorso, al Festival di Locamo ed è premiato al Festival de II Cairo. Nel 2007 produce Napoli, Napoli, Napoli diretto da Abel Ferrara, presentato fuori concorso alla 66° Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2010 produce e dirige il documentario II loro Natale, presentato a Venezia nella sezione “Controcampo Italiano”, che racconta la vita delle donne dei detenuti nel carcere di Napoli. Ha par­ tecipato al doc collettivo II pranzo di Natale coordinato da Antonietta De Lillo (v.). 168

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Filmografìa Il loro Natale (2010); Il pranzo di Natale (2011, doc collettivo, seg­ mento). Fasulo Alberto (San Vito al Tagliamento, Pordenone, 1976) Il suo primo approccio al documentario avviene nel 1998 come personaggio-attore in Bibione By e By e One di Alessandro Rossetto (v.). E poi aiuto operatore in Mob­ bing e operatore per il corto Anna vive a Marghera entrambi di France­ sca Comencini (v.). Diventa fonico di presa diretta e avvia collaborazioni con Gianfranco Pannone (v.), Massimo Coppola (v.) e Agostino Ferrente (v.), per il quale è operatore in E Orchestra di Piazza Vittorio. Nel 2004 debutta come produttore e regista in Cos’è che cambia, un doc sul suo paese d’origine. Il successivo Im Rumore bianco è stato presentato al Festival coreano di Pusan mentre TIR - Corridoio 5 vince il Premio Solinas Documentario per il Cinema 2010 per la migliore sceneggiatura (exaequo).

Filmografia Cos’è che cambia (2004); Rumore bianco (2008); Atto di dolore (2011); TIR - Corridoio 5 (in produzione). Ferrario Davide (Casalmaggiore, 1956) Prima di passare dietro la macchina da presa è critico cinematografico su «Cinefonim», saggista (è autore del “Castoro” su Rainer Werner Fassbinder) e compare in Matewan (1987) di John Sayles. Comincia l’attività di regista con il cortometraggio Non date da mangiare agli animali (1987) mentre del 1989 è il suo primo lun­ gometraggio, La fine della notte. Nel 1991 realizza il documentario sulla Lega Nord Lontano da Roma, trasmesso dalla Rai, e nel 1995 produce e dirige assieme a Guido Chiesa (v.) un doc musicale Materiale resistente. Nel 2005 Dopo mezzanotte (interamente realizzato in digitale all’interno del Museo Nazionale del Cinema di Torino e presentato al sezione Forum del Festival di Berlino) vince un David di Donatello e due Nastri d’ar­ gento nel 2005. E anche autore dei romanzi Dissolvenza al nero (1994) e Sangue mio (2010).

Filmografìa Non date da mangiare agli animali (1987); La fine della notte (1989, fict.); Camera 64 (1990); Colors/La casa (1990); American Supermarket 169

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(1991); Lontano da Roma (1991); Mulino bianco (1993); Anime fiam­ meggianti (1994, fict.); Materiale resistente (1995, co-regia di G. Chiesa); A Rimini (1995); Il figlio di Zelig (1995); Estate in città (1996); Confi­ dential Report - A proposito di Orson Welles (1996); Trailer per un docu­ mentario su Giorgio Mendella (1996); Partigiani (1997, co-regia di G. Chiesa, Antonio Leotti, Daniele Vicari); Sul 45° parallelo (1997); Tutti giù per terra ( 1997, fict.); Figli di Annibaie (1998, fict.); Comunisti ( 1998, co-regia D. Vicari); Loro ("Alfabeto italiano”) (1998); Guardami (1999, fict.); La rabbia (2000); Fine amore: mai (2001); I-TIGI a Gibellina: rac­ conto per Ustica (2002); Le strade di Genova (2002, ); Mondonuovo (2003); Dopo mezzanotte (2004, fict.); Se devo essere sincera (2004, fict.); La strada di Levi (2006); Tutta colpa di Giuda (2009, fict.); Loscura immensità della morte (2009); Piazza Garibaldi (2011). Ferrante Agostino (Cerignola, Foggia, 1971). Dal 1990 studia al DAMS di Bologna e par­ tecipa agli incontri di “Ipotesi Cinema”. Nel 1992 fonda la Pirata Mani­ fatture Cinematografiche che lo accompagnerà in tutte le sue produzioni, a partire dai corti Poco più della metà di zero e Opinioni di un pirla. Nel 2001, insieme a una decina di “complici”, fonda a Roma il gruppo “Apollo 11” che salva lo storico cinema-teatro “Apollo” dal diventare una sala bingo. Con “Apollo 11 ”, insieme a Mario Tronco degli Avion Travel, crea LOrchestra di Piazza Vittorio, ensemble composto da una ventina di musi­ cisti provenienti da tutto il mondo. Su questa vicenda dirige il pluripremiato documentario dal titolo omonimo, Nastro d’Argento come miglior documentario. A seguito del successo del film nel 2008 è ideatore, insieme a Mariangela Barbanente (v.) e Alessandro Rossetto (v.), del progetto LOr­ chestra di Piazza Vittorio. I Diari del ritorno, serie di ritratti su singoli musi­ cisti dell’orchestra. Con Doc/it svolge un’intensa attività di promozione del genere documentaristico (gli Stati Generali del Documentario e il Pre­ mio Doc/it a Venezia). Insieme a Anna Maria Granatello ha creato il Pre­ mio Solinas Documentario per il Cinema. Filmografìa Poco più della metà di zero ( 1993); Opinioni di un pirla ( 1994); Il vespro della beata vergine (1996); Intervista a mia madre (1999, co-regia di Gio­ vanni Pipemo); Ilfilm di Mario (1999-2001, co-regia di G. Pipemo); Scusi dovè il documentario? (2003, co-regia di Enrica Colusso, Chiara Malta, Gianfranco Pannone, G. Pipemo e A. Rossetto); Gli Avion Travel in seduta di registrazione (2003); LOrchestra di Piazza Vittorio (2006); Le cose belle (co-regia di G. Pipemo, in produzione); Film a pedali (in produzione). 170

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Freccia Uaria (Milano, 1960) Ha lavorato a New York, come fotografa, per «Gran Bazaar», «Village Voice» e «Soho News» e, come filmmaker, al Public Theater per la compagnia di teatro sperimentale “Mabu Mines”. E stata produttrice associata per la serie di documentari The Great Pleasure Hunt diretta da Elliott Erwitt per la Hbo. Ha collaborato come regista a diverse trasmissioni televisive tra cui “La Tv delle ragazze” e “Publimania” e diretto una serie televisiva per bambini di 6 ore At The Black Bear Chocolate Factory, prodotta da Tele+ e il British Film Institute. L7niziazione, opera sulle mutilazioni sessuali in Mali, si aggiudica il Primo Premio al Festival dei Popoli 2000. Con Padre Pio Express partecipa a vari festival vincendo il primo premio al Genova Film Festival del 2004. Filmografìa La guerra delle bollicine ( 1989); Notturno ( 1990); Vision Quest (1992); Potigai Malai (1994); Strippers (1995, co-regia di Elisabetta Francia); Marusthali (1995); La magica terra del Sikkim (1995); Thangam (1996); Madras Eyes (1999); Uiniziazione (1999); Cristiani oggi (1999); Un mondo senza povertà (2000); Giusto un po’ d’amore (2002); Padre Pio Express (2003). Gaglianone Daniele (Ancona, 1966) Si laurea in Storia e critica del cinema a Torino. Nel 1991 inizia a collaborare con F Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza realizzando numerosi documentari. Conquista premi e rico­ noscimenti per La ferita, Era meglio morire da piccoli, L’orecchio ferito del piccolo comandante e 11 sale della terra. Collabora con Gianni Amelio alla sceneggiatura di Così ridevano (1998). Nel 2000 debutta nel lungome­ traggio con / nostri anni, selezionato alla Quinzaine del Festival di Can­ nes e vincitore del Jerusalem Film Festival 2001. Attivo anche in campo teatrale con la compagnia “IIBuioFuori”.

Filmografìa Ilfrascume ( 1989) ; Nella solitudine del sangue ( 1990) ; La ferita (1991); Mario Soldati e il cinema ( 1992); Alla ricerca di Piero Gobetti (1992); Era meglio morire da piccoli (1992); Cichero (1993); Eorecchio ferito del pic­ colo comandante (1994); Il sale della terra (1994); Quello che inventa {mentrefa) il modo difare (1994); E finisce così (1994); La carne sulle ossa (1996); Luoghi inagibili in attesa di ristrutturazione capitale ( 1997); Anto­ nio Gramsci, gli anni torinesi (1997); Vratite se (1998); Dopo settantanni i ricordi non esistono più. Paolo Gobetti racconta (1999); I nostri anni 171

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(2000, fict.); Blocco 101 (2001); Storie di calcio. Le domeniche del signor Mantaut (2003, fict.); Nemmeno il destino (2003, fict.); Non si deve morire per vivere (2005 ); Alle soglie della sera. Un viaggio a Riga con Marina Jarre (2005); Rata Nece Biti. La guerra non ci sarà (2008); La classe dei gialli (2009); Pietro (2010, fict.); Uomini e mercati (201l); Ruggine (2011, fict.). Gamba Giuliana (Urbino, 1953) Esordisce alla regia con il film a soggetto Profumo, cui segue La cintura tratto dall’omonima commedia di Alberto Moravia, interpretato da Eleonora Brigliadori e James Russo. Per conto di Rai 3 cura le inchieste Reper Story, sulla trasformazione della società italiana dal dopoguerra ad oggi, Oltre il silenzio, sulla realtà odierna del mondo religioso femminile e Tradimenti in riviera, sui rapporti di coppia. Oltre a dirigere miniserie televisive, come membro della Fondazione “Cinema nel presente” collabora alla realizzazione di vari doc tra cui Un mondo diverso è possibile e Lettere dalla Palestina. Nel 2003 gira 32 mq di mare circa sulla vita di Pino Pascali e nel 2010 il doc sulla musica marocchina Sound of Morocco distribuito dal Luce. Filmografia Profumo (1985, fict.); La cintura (1987, fict.); Oltre il silenzio (1991); Tradimenti in riviera (1997); Anni 70 sogno e tragedia ( 1996); Reper Story (1997); Una farfalla nel cuore (1998); Qualcuno da amare (2000); Un mondo diverso è possibile (2001, doc collettivo); La casa dell’angelo (2002); Lettere dalla Palestina (2002, doc collettivo); La primavera del 2002. L’Italia protesta l’Italia si ferma (2002, doc collettivo); Firenze, il nostro domani (2003, doc collettivo); 32 mq di mare circa (2003); Sound ofMorocco (2010).

Garzella Lorenzo (Pisa, 1972) Si laurea in Semiologia del Cinema all’Università di Pisa, dove è poi docente di montaggio video. Allievo nel 1996/97 della Scuola video di documentazione sociale “I Cammelli” di Daniele Segre (v.), fonda nel 2001 con Filippo Macelloni (v.) la società di pro­ duzione indipendente Nanof con la quale ha realizzato servizi e for­ mat tv (Rai 1, Rai 2, Rai Trade, Stream, Tele+). Ha diretto numerosi documentari di argomento storico-sociale (Eccehomini. Ricordi di una strage, sull’eccidio nazi-fascista nel Padule di Fucecchio; Pinocchio in Siam, sulle carceri minorili di Bangkok) e sportivo (La mia squadra. Marcello Lippi racconta i Mondiali 2006; Rimet. L’incredibile storia Ì12

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della Coppa del Mondo, presentato al Festival di Taormina). Insieme a Filippo Macelloni (v.) ha realizzato il mokumentary 11 mundial dimenticato.

Filmografìa Pisa, anno 5759 (1998, co-regia di Francesco Andreotti, Irene Floriani); Eccehomini. Ricordi di una strage (1999, co-regia di E Macelloni e Marco Folin); Bicchieri di luce (1999); Bahas Bat. Lavarsi gli occhi (1999); L'occhio e il pendolo. ]em Cohen a Pisa (1999, co-regia di E Andreotti); Pinocchio in Siam (2002, co-regia di E Macelloni); Scarcerarci Football Club (2003, co-regia di Maurizio Ambrosini, Francesco Andreotti, Giovanna Maina, Chiara Martina, Sara Petri); Pinocchio. Un film parallelo (2004, co-regia di E Macelloni); Diego Armando Maradona (2005); Occhi su Roma (2008, co-regia di E Macelloni e Vincenzo De Cecco); Rimet. L'incredibile storia della Coppa del Mondo (2010, co-regia di E Macelloni e Cesar Meneghetti); Film Fifa 2006. Il trionfo di Berlino (2010); La mia squadra. Marcello Lippi racconta i Mondiali 2006 (2010); Il mundial dimenticato (2011, co-regia di E Macelloni); Le bombe sulla testa (in produzione); Faje vede chi ssei. Pasolini, Roma e il calcio (in pro­ duzione). Gatti Francesco (Treviglio/Bergamo, 1977 - Milano, 2008) Vince nel 2000 il Premio Solinas con la sceneggiatura Storie per dormire. Il 2005 è l’anno di Irrea­ lity Show, presentato al Batik Film Festival di Perugia e fuori concorso al Bellaria Film Festival, vincitore del premio produttivo Filmmaker doc 10. Lo stesso premio lo conquista l’anno seguente con Le regole del gioco, presentato in concorso a Bellaria e al Taranto Film Festival. Gli anni Falck, documentario di montaggio con l’Archivio Cinematografico Falck, realizzato insieme a Giusi Castelli, partecipa al Bergamo Film Meeting e al FID di Marsiglia. Francesco Gatti muore il 26 luglio 2008, lasciando non finito un ultimo film, Ilfiglio di Amleto. Il montaggio verrà portato a termine dal produttore e dal gruppo di persone con cui abi­ tualmente collaborava.

Filmografia Irreality Show (2005); A Relativistic Film (2005, co-regia di G. Castelli); Il resto del discorso (2005, co-regia di Paolo Jamoletti); Retro­ marcia. Storia Sportiva della Citty delle Fabbriche (2006, co-regia di G. Castelli); Le regole del gioco (2006); Gli anni Falck (2007, co-regia di G. Castelli); Il figlio di Amleto (2009); 482 anni dopo (incompiuto). 173

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Caudino Giuseppe M. (Pozzuoli, Napoli, 1957) Si diploma in Scenografia presso l’Accade­ mia delle Belle Arti di Napoli e in regia al Cento Sperimentale di Cine­ matografia. Nel 1983 esordisce col documentario Antrodoco, una storia per due battaglie mentre il film sperimentale Aldis è presentato al Festi­ val Giovani di Torino nel 1984 e poi Fanno dopo al Festival di Berlino (sezione Forum). Nel 1992 realizza Joannis Amaelii, anima vagula e blandula, backstage di 11 ladro di bambini di Gianni Amelio. Giro di lune tra terra e mare del 1997 è il suo primo Im a soggetto, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Dal 1988 collabora con Isabella Sandri (v.). Nel 2001 firma il documentario O’ duna, sul problema dei mino­ renni albanesi in Italia, mentre del 2003 è Materiali a confronto. Albania 1994. Dal 2003 al 2008 i due filmmaker sono stati impegnati in Afgha­ nistan per Storie d’armi e di piccoli eroi, sulla vita di un orfano delle “bombe intelligenti” salvato grazie alla scrittura e ai libri. Filmografìa Antrodoco, una storia per due battaglie ( 1983); Aldis ( 1982-84); Annota­ zioni per un documentario su Pozzuoli (1987-88); Caldnacd (1990, co-regia di I. Sandri); Per il rione terra (1990); Joannis Amaelii, animula vagula blandula ( 1992); Giro di lune tra terra e mare ( 1997, fict. ); La casa dei limoni ( 1999, co-regia di I. Sandri); Animali che attraversano la strada (2000); 1 diari della Sacher: Scalamara (2001)-, Gli amori di Aldis. Amore 101, 102, 103... (2001); O’ duna (2001); Materiali a confronto. Albania 1994 (2003); Scalo a Baku (2003, co-regia di I. Sandri); Maquilas (2005, co-regia di I. Sandri); Storie d’armi e di piccoli eroi (2008, co-regia di I. Sandri); Per questi stretti morire (ovvero cartografia di una passione) (2010, co-regia di I. Sandri). Gianikian Yervan/Ricci Lucchi Angela Yervant Gianikian (Merano, 1942) ha studiato architettura a Vene­ zia, mentre Angela Ricci Lucchi (Lugo di Romagna, 1942) ha studiato pittura in Austria con Oskar Kokoschka. Trasferitisi a Milano, si sono dedicati quasi interamente al cinema a partire dalla metà degli anni Set­ tanta, con produzioni indipendenti e sperimentali che comprendono le proiezioni-performance dei “film profumati” e, in seguito, la rielabora­ zione creativa, tra viraggi, ralenti e combinazioni di montaggio, di mate­ riale d’archivio risalente soprattutto all’epoca della prima guerra mon­ diale. Tra questi Dal Polo all’Equatore, frutto della ripresa di 347.600 fotogrammi di film muti in formato Pathé Baby 9,5 appartenenti all’ar­ chivio del cineasta Luca Comerio, virati con una delicata sensibilità monocroma e montati secondo un ritmo personalissimo. 174

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Filmografia Erat Sora (1975); Catalogo comparativo (1975); Cataloghi non è altro gli odori che sente (1976); Profumo (1977); Un prestigiatore una miniatu­ rista (1978); Milleunanotte (1979); Essence d’Absynthe (1981); Karagoez (1981); Das Lied von der Erde. Gustav Mahler (1982); Dal polo all'equa­ tore (1986); Ritorno a Khodorchur. Diario armeno (1986); Erammenti (1987); Passion (1988); Uomini anni vita (1990); Diario africano (1994); Aria (1994); Prigionieri della guerra (1995); Lo specchio di Diana (1996); Nocturne (1997); Io ricordo (1997); Su tutte le vette è pace (1998); Inven­ tario balcanico (2000); Images d’Orient. Tourisme vandale (2001); Corpi. Erammenti elettrici n. 3 (2002); Rom (Uomini). Erammenti elettrici n. 1 (2002); Oh! Uomo (2004); Ghiro Ghiro Tondo (2007); Film perduto (2008); Frammenti elettrici n. 6. Diario 1989. Dancing in theDark (2009); Notes sur nos Voyages en Russie 1989-1990 (2011).

Giarolo Pier Paolo (Comodoro Rivadavia, Argentina, 1970) Dopo il diploma in pia­ noforte al Conservatorio di Vicenza apre un’officina grafica. Nel 2000 frequenta a Torino il master presso la scuola Holden. Nel 2002 assieme ad un gruppo di amici fonda a Mantova “Il cinema del carbone”. Con Un piccolo spettacolo, scritto e montato assieme ad Alice Rohrwacher, vince il primo premio nel 2005 al RomaDocFest mentre Tradurre riceve il Premio Avanti! al festival di Bellaria. Filmografìa Un piccolo spettacolo (2005); Tradurre (2008); Boygo (2008); Il Capo­ danno di Nis (2009); La rosa di Valentino (2012); Cinemambulante (in produzione); Books&Clouds (in produzione). Giommi Giovanni (Milano, 1965) Si laurea in architettura presso il Politecnico di Milano e poi frequenta la Scuola Civica di Cinema. Lavora come autore, pro­ duttore e regista per molti canali televisivi italiani (Tele+, MTV Italia, Rai2, La7, Sky Classica). Realizza nel 1999 con Antonio Bellia e Giacomo Incu­ lano il suo primo doc Nel cuore delle alghe e dei coralli, girato durante la lavorazione del film I cento passi di Marco Tullio Giordana (2000). Nel 2001, con Béisbol, film sulla passione cubana per il baseball, vince il pre­ mio Kodak Sport Movies mentre con il successivo Frames variazioni per catena di montaggio riceve la menzione del Premio Cipputi al Torino FF. Nel 2005 avvia una collaborazione con Massimo Coppola (v.) per la serie 175

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televisiva “Avere Ventanni”. L’anno seguente presenta al Festival di Torino Politica Zero, così come nel 2007 Les ninjas du japon, che vince il premio Avanti! Nel 2011 è in concorso all’lDFA di Amsterdam con Bad Weather che vince nel 2012 il festival di Bellaria. Filmografia Sol YSombra (1997); Nel cuore delle alghe e dei coralli (1999, co-regia di A. Belila e G. Inculano); Beisbol (2001, co-regia di Antonio Cavallini); Nice! (2003); Frames variazioni per catena di montaggio (2004); Politica zero (2006, co-regia di M. Coppola e Alberto Piccinini); Les Ninjas du Japon (2007); Parafernalia (2008, co-regia di M. Coppola); Bad Weather (2011).

Giovannesi Claudio (Roma, 1978) Laureato in Lettere moderne, nel 2005 si diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Lavora per Radio Rai e collabora dal 2001 al 2004 con la redazione di “Blob”. Impegnato da diversi anni nello studio della chitarra jazz, scrive musiche per spettacoli teatrali. Tra i suoi cortometraggi L'uomo uccello, vincitore nel 2005 del Dams Film Fest e premio del pubblico RomaDocFest e Welcome Buca­ rest, Premio Avanti! al Festival di Bellaria. La casa sulle nuvole segna il passaggio al lungometraggio a soggetto. Filmografia Ultimo taglio (2000); Il cellulare (2000); Caino (2002); La banda (2003); 1 gabbiani (2004); L'uomo uccello (2005); L'uomo del sottosuolo (2005); Welcome Bucarest (2007); La casa sulle nuvole (2009, fict.); Fra­ telli d'Italia (2009). Guadagnino Luca (Palermo, 1971) Si laurea all’Università di Roma “La Sapienza” con una tesi sul cinema di Jonathan Demme. Nel 1999 realizza il suo primo Im The Protagonists, presentato alla 56° Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2004 gira il doc Cuoco contadino, in concorso a Venezia nella sezione “Digitale”. Raggiunge la notorietà con Melissa P, tratto dal discusso romanzo 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire di Melissa Pana­ rello. Nel 2009 firma la regia e la produzione di Io sono l'amore con Tilda Swinton che, dopo essere stato presentato alla Mostra Intemazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ottiene la nomination ai Golden Globe come miglior film straniero e all’Oscar come migliori costumi. 176

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Filmografia Qui (1997); The Protagonists (1999, fict.); Duomo risacca (2000); The Love Factory #1 Tilda Swinton (2002); Lotus (2003); Mundo civilizado (2003, docu-fict.); The Love Factory #2 Arto Lindsay Perdoa a Beleza (2004); Cuoco contadino (2004); Melissa P (2005, fict.); PartDeux (2007); The Love Factory #3 Pippo Delbono. Bisogna morire (2008); Io sono l’a­ more (2009, fict.); Inconscio italiano (2011); Bertolucci on Bertolucci (in produzione).

Guzzanti Sabina (Roma, 1963) Regista, sceneggiatrice e attrice-autrice di satira, diplo­ mata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Ini­ zia in televisione nel 1987 con il programma “Proffimamente...non stop”. La notorietà arriva però con “La TV delle ragazze”, seguita da altri pro­ grammi di satira presentati da Serena Dandini: “Scusate l’interruzione”, “Tunnel” e “Avanzi”. Per il cinema, come attrice ha interpretato I cam­ melli e Troppo sole diretti da Giuseppe Bertolucci e Cuba Libre. Veloci­ pedi ai tropici, sceneggiato e diretto da David Riondino. Con Viva Zapa­ tero! vince il Festival italiano del cinema di Villerupt. Draquila. L’Italia che trema è presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2010 scate­ nando aspre polemiche. Filmografia Donna selvaggia (1998); Bimba (2001, fict.); La primavera del 2002. LItalia protesta l’Italia si ferma (2002, doc collettivo); Viva Zapatero! (2005); Le ragioni dell’aragosta (2007, fict.); Draquila. L’Italia che trema (2010); Franca, la prima (2011). Hintermann Carlo Shalom (Weiningen, Svizzera 1974) Ha studiato cinema alla Università “la Sapienza” e pubblicato insieme a Luciano Barcaroli e Daniele Villa Addio Terraferma - Ioseliani secondo Ioseliani (1999), Il cinema nero di Takeshi Kitano (2001) e un volume su Malick (di prossima uscita). Con la produzione Citrullo International ha realizzato due film-ritratto a più mani su Otar Ioseliani (per Rai Sat) e Terrence Malick (presentato alla Mostra di Venezia) e poi da solo un viaggio nella Venezia ebraica in Concorso doc al Torino FF 2004. Dopo il corto d’animazione H2O (Annecy Animated Film Festival), il suo ultimo lavoro verte su una rara malattia che costringe i bambini a non poter vedere la luce del sole. The Dark Side of the Sun è stato selezionato per il Festival di Roma 177

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2011 e il Concorso di Visions du Réel di Nyon (2012, Svizzera). È anche compositore e musicista. Filmografia Otar Ioseliani (1999, co-regia di Luciano Barcaroli e Daniele Villa); Rosy-Fingered Dawn: un film su Terrence Malick (2002, co-regia di Luciano Barcaroli, Gerardo Panichi e Daniele Villa); Chatzer: volti e sto­ rie di ebrei a Venezia (2004); H2O (2007); The Dark Side ofthè Sun (2011).

Hofer Gustav (Sarentino, Bolzano, 1976) Dopo la laurea in Scienze della Comuni­ cazione a Vienna e in cinema a Londra, si trasferisce a Roma. Dal 2001 lavora per la televisione franco-tedesca Arte in qualità di corrispondente per la cultura dall’Italia. Ha esordito alla regia nel 2004 con il doc // san­ gue dell’impero, diretto insieme a Pietro Suber. Quattro anni più tardi gira con Luca Ragazzi (v.) Improvvisamente l’inverno scorso presentato alla Berlinale nella sezione Panorama dove riceve la menzione speciale da parte della giuria mentre in Italia vince il Nastro d’Argento come miglior documentario 2009. Sempre con Ragazzi ha poi diretto Italy: Love It, or Leave It. Filmografia Il sangue dell’impero (2004, co-regia di P. Suber); Improvvisamente l’inverno scorso (2008, co-regia di L. Ragazzi); Italy: Love It, or Leave It (2011, co-regia di L. Ragazzi).

Idrusa Scrimieri Chiara (Galatina, Lecce, 1975) Deve i suoi primi passi nel cinema soprattutto a Ermanno Olmi grazie alla scuola “Ipotesicinema”. Nel 2005 ha creato il laboratorio “Idrusa Visual Lab” (Storie-Percorsi-Visioni). Con il sog­ getto di Lu Pallunaru (L’uomo nero) ottiene una menzione speciale al Pre­ mio Solinas 2010. Filmografia Amelia (2007); La piccola repubblica della sedia (2008); Tutte le bar­ che a terra (2009); Danze di palloni e di coltelli (2009); Lu Pallunaru (L’uomo nero) (in produzione).

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Incalcaterra Daniele (Roma, 1954) Dopo aver studiato ingegneria e matematica a Buenos Aires, si dà alla fotografia, svolgendo reportage fotografici in diversi paesi africani. Tra il 1984 e il 1985 inizia ad occuparsi di documentari presso il centro Varan di Parigi, di cui diventa co-direttore nel biennio 1988-89. Tra i suoi lavori Terre d’Avellaneda (1993), sui desaparecidos argentini e il caso di Karina Manfil, e FaSinPat - Fabrica sin patron che indaga la realtà di una fabbrica di ceramiche della provincia di Neuquèn in Argen­ tina. Repubblica nostra racconta invece da vicino il delicato passaggio del­ l’Italia dalla prima alla seconda repubblica, soffermando la propria inda­ gine su Tangentopoli e il primo governo Berlusconi. Filmografia Deux ou trois bières (1984); Dernier état (1984); Tu ne sais méme pas ouvrir un yaourt (1985); Solange Marguerite Solange la mémoire bleu (1986); I Rouge, U Vert, O Bleu (1987); Live (1988); Portrait des Francis ( 1989) ; Chapare ( 1990) ; Live - Place Rouge ( 1990) ; Le champ (1991); Terre d’Avellaneda (1993); Repubblica nostra (1995); Posso darle un facsimile? (1996); Solo d’amour (2001); FaSinPat - Fabrica sin patron (2004); La Nacion Mapuce (2007); Arcadia, la naturaleza primitiva (2012).

Labate Wilma (Roma, 1949) Laureata in filosofia, nel 1979 ha cominciato a colla­ borare con la Rai girando diversi programmi, fiction e documentari. Dopo il doc Ciro il piccolo, ha esordito nel lungometraggio con Ambro­ gio (1992); poi con La mia generazione (1996) si è imposta all’attenzione del pubblico e della critica ottenendo numerosi riconoscimenti (nomi­ nation all’Oscar come rappresentante del nostro paese). Nel 1997, per la serie Alfabeto italiano (1997), gira Lavorare stanca mentre il radio­ dramma Dulhan la sposa (2001) le vale la vittoria nel Prix Italia. Insieme ad altri registi ha preso parte a film di fiction e non collettivi come Un mondo diverso è possibile o Lettere dalla Palestina, presentato al Festival di Berlino nel 2003; dello stesso anno è Maledettamia, storia di cinque giovani estremisti in perenne conflitto con se stessi e il resto del mondo, selezionato per la Mostra del Cinema di Venezia. Più recentemente ha preso parte come attrice a Fuori fuoco e ha scritto assieme a Fausto Ber­ tinotti il libro 11 ragazzo con la maglietta a strisce (2005), autobiografia del leader di Rifondazione Comunista. Nel 2008 esce Signorina Effe, storia di un’impiegata della FIAT nell’anno della “Marcia dei quarantamila”. L’anno successivo riceve al Festival du Film Italien de Villerupt il Prix Amilcar. 179

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Filmografia Ciro il piccolo (1990); Ambrogio (1992, fict.); La mia generazione (1996, fict.); Alfabeto italiano (1997, ep. Lavorare stanca); Gli ultimi della classe (1998, episodio); Genova per noi (2001, doc collettivo); Un mondo diverso è possibile (2001, doc collettivo); Domenica (2001, fict.); La pri­ mavera del 2002. LItalia protesta l’Italia si ferma (2002, doc collettivo); Lettere dalla Palestina (2003, doc collettivo); Maledettamia (2003 ); Signo­ rina Effe (2007, fict.). Lavorato Arturo (Vibo Valentia, 1974) Ha svolto con Felice D’Agostino (v.) e Angelo Maggio un’intensa attività di ricerca e documentazione audiovisiva sulle feste religiose popolari in Calabria. Attualmente i due filmmaker sono impegnati nella creazione di un archivio audiovisivo sulle lotte contadine nella Piana di Gioia Tauro. Con 11 canto dei nuovi emigranti hanno vinto il premio Doc 2005 al Torino FF e il premio Casa Rossa Doc al Festival di Bellaria. In attesa dell’avvento si è aggiudicato il Premio Orizzonti Cor­ tometraggio alla 68° Mostra di Venezia del 2011.

Filmografia A Zappa pisa... (2002, co-regia di Marco Marcotulli); La gente del­ l’albero (2004, co-regia di F. D’Agostino e A. Maggio); Vattienti (2004, co-regia di F. D’Agostino e A. Maggio); Il canto dei nuovi migranti (2005, co-regia di F. D’Agostino); ...allora piangeranno men­ tre noi cammineremo (2006, co-regia di F. D’Agostino); Un racconto incominciato (2006, co-regia di F. D’Agostino); Noi dobbiamo deci­ derci (2007, co-regia di F. D’Agostino); In amabile azzurro (2009, co­ regia di F. D’Agostino); In attesa dell’avvento (2011, co-regia di F. D’Agostino).

Lazzaretti Fabrizio (Roma, 1966) Ha iniziato a lavorare nel 1984 a Londra come regi­ sta freelance per la locale sede Rai e per alcuni altri network della città. Nel 1986 è passato con gli stessi compiti alla Rai Corporation di New York. Nel 1991 è rientrato in Italia e ha realizzato quasi tutti i suoi lavori per Rai 3, curando nel periodo 1999-2000 la regia di sedici puntate della trasmissione “Report”. I suoi lavori, alcuni dei quali realizzati con Alberto Vendemmiati (v.), oltre che in Italia sono stati trasmessi all’e­ stero e hanno ricevuto diversi riconoscimenti internazionali.

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Filmografìa Viaterra (1995); Drug Stories (1997, co-regia di Milena Gabanelli); Vivo a Fang (1997, co-regia di M. Gabanelli); Giro d'Italia a vela (1997); La vittoria a tuttiicosti (1998, co-regia di M. Gabanelli); Crucifige (1998, co-regia di Alberto Vendemmiati); Le vocifuori (1998, co-regia di A. Ven­ demmiati); Jung - Hella terra dei Mujaheddin (2000, co-regia di A. Ven­ demmiati); Socialmente pericolosi (2001); Afghanistan: effetti collaterali? (2002, co-regia di A. Vendemmiati); Giustizia nel tempo di guerra (2004); Mattintour (2005, co-regia di Paolo Santolini); Con l'acqua alla gola (2006); Domani torno a casa (2008, co-regia di P. Santolini); Le mani su Palermo (2008, co-regia di Matteo Lena); Bianca Neve (2010, co-regia di Luca Lancise); Matti da slegare (2011); Le mille e una notte (2011, co­ regia di L. Lancise). Lazzarin Laura (Padova, 1979) ha studiato scienze della comunicazione alTUniversità di Padova e si è laureata con una tesi in sociologia, sviluppando un profondo interesse per la regia documentaria. Nel 2005 si è trasferita a Berlino, dove ha studiato regia alla Deutsche Film- und Fernsehakademie Berlin (Dffb). Dopo alcuni corti di fiction realizza Land ofJoy, il suo primo lungometraggio incentrato sul Sud-Est e presentato in Concorso al Torino FF del 2011. Filmografìa Es muss sein (2005 fict.), Clara (2006, fict.), Privatunterricht (2008, fict.), Land ofJoy (2011). Loy Angelo (Roma, 1966) Inizia ad occuparsi di cinema nel 1996 quando co-produce il film Once We Were Strangers (1996) di Emanuele Crialese. Da allora lavora nella produzione, direzione e montaggio di documentari. Collabora con l’Ong AMREF ed è stato uno dei promotori di un progetto di riabilitazione e formazione audiovisiva che nel 2002 ha prodotto TV Slum, un doc interamente girato da un gruppo di ragazzi di strada di Nai­ robi e nel 2005 Sillabario africano, una serie di venti episodi a tema scritti e filmati da settanta ragazzi degli slums di Nairobi, Premio Casa Rossa al Festival di Bellaria. Per la sua attività documentaristica ha ricevuto il pre­ mio Cinema del Reale 2006 e il premio Cinema per la Pace 2006. Spesso ha collaborato con Giulio Cederna (v.).

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Filmografia Fiumarali (2000); Unisola nell’isola. Retroscena dal set di “Respiro” (2002); Tv Slum, il film dei ragazzi di strada di Nairobi (2003, co-regia di G. Cedema e John Muiruri); Pinocchio nero (2005); Sillabario africano (2005, co-regia di G. Cedema); A Different Perspective (2007, co-regia di G. Cedema e J. Muiruri); Malkia (2008); Millennium News (2009, co­ regia di G. Cedema); Una scuola italiana (2010, co-regia di G. Cedema); Lo sguardo dei turchi (2010). Luglio Carlo (Napoli, 1967) Laureato in storia del cinema al DAMS di Bologna, fre­ quenta i corsi di sceneggiatura di Ugo Pirro presso la libreria “Il Leuto” di Roma. Già assistente alla regia con Marco Risi, Ricky Tognazzi, Roberto Ciampanelli, realizza vari cortometraggi e un documentario sul cinema napoletano muto per Raisat Cinema: Il cinema salato. Con Capo Nord, debutto nella fiction, vince il Festival di Valencia e quello di Brooklyn. Sotto la stessa luna, ambientato in un campo profughi rom a Scampia e prodotto da Gaetano Di Vaio (v.), partecipa in concorso al Festival di Locamo ed è premiato al Festival de II Cairo, oltre ad una menzione speciale al Festival di Annecy. Con Radia, presentato al Festi­ val di Venezia 2011, ha intrapreso un viaggio nel mondo musicale del suo concittadino Enzo Gragnaniello. Filmografia Mimmo X (1996, co-regia di Diego Olivares); Les jeux sont faits ( 1997, co-regia di D. Olivares); Gli ultimi giorni delfrullone ( 1999); Pittura a mano armata (1999); Il cinema salato (1999); Bolle di parole (2000); Parola di Big Paul (2000); Capo Nord (2002, fict.); Cardilliaddolorati (2003, co-regia di Romano Montesarchio); Sotto la stessa luna (2006, fict.); Radia (2011). Macelloni Filippo (Firenze, 1965) Laureato in Architettura, ha realizzato numerosi documentari, cortometraggi, videoclip musicali, promozionali, istituzio­ nali e sociali, per i principali canali televisivi e gruppi editoriali italiani (Rai, Sky, La7, Rcs). Insieme a Roberto Faenza, ha firmato il film di mon­ taggio Silvio Forever, scritto da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo e ha realizzato con Lorenzo Garzella (v.) il mockumentary II mundial dimen­ ticato, tratto da uno spunto di un racconto di Osvaldo Soriano II figlio di Butch Cassidy, selezionato alle Giornate degli Autori di Venezia del 2011 e distribuito in sala nel 2012. 182

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Filmografìa Occhi su Roma (2007, co-regia di L. Garzella e Vincenzo De Cecco); Rimet. Eincredibile storia della Coppa del Mondo (2010, co-regia di L. Garzella, César Augusto Meneghetti); Silvio Forever (2011, co-regia di R. Faenza); Il mundial dimenticato (2011, co-regia di L. Garzella).

Madema Giovanni Davide (Milano, 1973) Dopo gli studi in Lettere si trasferisce a Lione dove, nel 1995, acquista una cinepresa 16mm con cui dirige il corto La Place, premiato con il Sacher d’Oro al Festival di Nanni Moretti. Nel 1998 par­ tecipa al Festival di Locamo con Dolce stil novo, per poi girare il suo primo lungometraggio, Questo è il giardino, vincitore del Premio opera prima Luigi De Laurentiis alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2005 con Bologna, 16-2-05, Giovanni Madema e Antonio Moresco incontrano Alberto Grifi ritorna al documentario con una video-intervista al famoso regista sperimentale. Nel 2007 fonda la casa di produzione Quarto Film con cui ha realizzato il suo ultimo Im, Cielo senza terra, in bilico tra fic­ tion e non. Filmografia La Place (1996); La finestra (1994); Com’è bella la città. Scrittori e città (1997, ep. Documentario su Milano)', Jahilia (Occidente) (1997); Dolce Stil Novo (1998); Questo è il giardino (1999, fict.); Ho il rifiuto (2000); L’a­ more imperfetto (2001, fict.); Bologna, 16-2-05, Giovanni Madema e Antonio Moresco incontrano Alberto Grifi (2005, co-regia di Antonio Moresco); Schopenauer (2006, fict.); Cielo senza terra (2010, co-regia di Sara Pozzoli). Malta Chiara (Roma, 1977) Dopo essersi laureata in Storia del cinema aU’Università di Roma Tre, nel 2002 si è trasferita a Parigi per seguire i corsi degli Ateliers Varan. Da quest’esperienza è nato il suo primo lavoro ]e m’appelle Mouhamed. Da allora ha realizzato film con materiale digitali e super8, dando origine a mosaici di film di famiglia e sequenze animate. L’Isle è stato selezionato in numerosi festival internazionali, come Cler­ mont Ferrand, mentre Aspettandoti/En t’attendant è presentato alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro. Armando e la politica, selezionato dal 26° Torino FF e altri festiva, è stato accolto con favore dalla critica che ne apprezza la libertà e la giustezza dello sguardo e il tono insolito.

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Filmografia Je m'appelle Mouhamed (2002); Scusi dovè il documentario? (2003, co-regia di Enrica Colusso, Agostino Ferrante, Gianfranco Pannone, Giovanni Pipemo e Alessandro Rossetto); Aspettandoti/En t1attendant (2004); Sur les montagnes russes (2005); Lisle (2005); L'Été à Zedelheek (2007); Armando e la politica (2008); ]'attends une femme (2010); La­ mour à trois (2010).

Marazzi Alina (Milano, 1965) E stata aiuto regista, principalmente con Giuseppe Piccioni; ha collaborate con “Studio Azzurro” su progetti cinematogra­ fici e installazioni artistiche, ha tenuto laboratori audiovisivi all’interno del carcere di San Vittore a Milano e per due anni ha lavorato all’interno del progetto “Fabrica” sotto la direzione artistica di Godfrey Reggio. Con Un'ora sola ti vorrei, ritratto della madre morta suicida quando lei aveva sette anni, ha vinto numerosi premi, tra cui quello per il miglior documentario al Torino FF 2002 e al Newport International Film Festi­ val 2003, oltre la menzione speciale della giuria al Festival di Locamo 2002 e al Festival dei Popoli di Firenze 2002. Nel 2012 è passata a rea­ lizzare il suo primo film a soggetto Baby Blues con Charlotte Rampling. Filmografia LAmerica me l'immaginavo (1991); Il declino di Milano ( 1992); Medi­ terraneo, il mare industrializzato ( 1993 ) ; Il Ticino è vicino ? ( 1995 ) ; Ragazzi dentro (1997); Il sogno tradito (1999); Un'ora sola ti vorrei (2002); Per sempre (2005); Vogliamo anche le rose (2007); Baby Blues (2012, fict.).

Marcello Pietro (Caserta, 1976) Dopo il radiodocumentario II tempo dei magliari (2002), trasmesso da Radio Rai 3, nel 2003 esordisce alla regia con i cor­ tometraggi Carta e Scampia. L’anno successivo dirige II cantiere, vinci­ tore del Premio Libero Bizzarri. Nel 2004 porta a termine La baracca e collabora come volontario per una Ong in Costa d’Avorio per la realiz­ zazione del doc Grand Bassan. Nel 2007 ha realizzato II passaggio della linea, girato interamente sui treni espressi che attraversano l’Italia, pre­ mio Pasinetti Doc alla 64° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e menzione speciale al premio Doc/it. Nel 2010 con La bocca del lupo vince il Torino FF, il Forum del Festival di Berlino, il Nastro d’Argento e il David di Donatello come miglior documentario.

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Filmografìa Carta (2003); Scampia (2003); Il cantiere (2004); La baracca (2005); Grand Bassan (2005, doc collettivo); Il passaggio della linea (2007); La bocca del lupo (2009); Napoli 24 (2010, ep. Rettifilo)-, Marco Bellocchio. Venezia 2011 (2011); Il silenzio di Pelesjan (2011). Maresco Franco (Palermo, 1958) Regista, sceneggiatore. In coppia con Daniele Cipri (v.), a partire dalla metà degli anni ottanta ha iniziato a realizzare micro­ montaggi con frammenti di film e altri brevi lavori in video. Nel 1990 i corti di “Cinico TV” approdano a “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi. Seguiranno “Blob” e “Avanzi”. Del 1995 è il loro primo lungometraggio Lo zio di Brooklyn, che mostra una Palermo periferica e desertificata. Il 1998 è l’anno di Totò che visse due volte e, nel 2003, Il ritorno di Caglio­ stro. Nel 2004 presentano a Venezia Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio. Dopo vent’anni di lavoro in comune, nel 2010 si è separato da Daniele Cipri.

Filmografìa Loro di Palermo (1990, co-regia di D. Cipri); Variazioni (1992, co­ regia di D. Cipri); Martin a Little... (1992, co-regia di D. Cipri); Il corri­ doio della paura (1992, co-regia di D. Cipri); Sicilia da Oscar (1993, co­ regia di D. Cipri); I Castagna sono buoni (1994, co-regia di D. Cipri); Intervista a Giuseppe De Santis ( 1994, co-regia di D. Cipri); Il Gattoparve (1995, co-regia di D. Cipri); Vittorio De Seta. Lo sguardo in ascolto (1995, co-regia di D. Cipri); Lo zio di Brooklyn (1995, fict., co-regia di D. Cipri); Grazie Lia. Breve inchiesta a proposito di Santa Rosalia (1996, co-regia di D. Cipri); Il Manocchio (1996, co-regia di D. Cipri); A memoria (1996, co-regia di D. Cipri); Aspettando Totò. Conversazione con Mario Martone ed Enzo Moscato (1996, co-regia di E Maresco); Totò che visse due volte (1998, fict., co-regia di D. Cipri); Intervista a Mario Monicelli (1998, co­ regia di D. Cipri); F. (1999, co-regia di D. Cipri); Noi e il Duca. Quando Duke Ellington suonò a Palermo (1999, co-regia di D. Cipri); Enzo, domani a Palermo! (1999, co-regia di D. Cipri); Steve Plays Duke (1999, co-regia di D. Cipri); Arruso (2000, co-regia di D. Cipri); Tuttifor Louis. Omaggio a Louis Armstrong (2000, co-regia di D. Cipri); La ballata di Salvo (2000, co-regia di D. Cipri); Miles Gloriosus. Tributo a Miles Davis (2001, co-regia di D. Cipri); Siamo davvero pietosi (2001, co-regia di D. Cipri); Conversazione con Sergio Cittì (2001, co-regia di D. Cipri); Direc­ ted by Anthony Dawson (2002, co-regia di D. Cipri); Che fine ha fatto Pino Grisanti? Cipri e Maresco alla ricerca di un maestro incompreso 185

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(2003, co-regia di D. Cipri); Il ritorno di Cagliostro (2003, fict., co-regia di D. Cipri); Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio (2004, co-regia di D. Cipri); Era una volta (2008, co-regia di D. Cipri); La musica più comica del mondo (2009); Il testamento di Mario Monicelli (2010, co-regia di D. Cipri); Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista deljazz (2010); Belluscone. Una storia siciliana (in produzione). Marra Vincenzo (Napoli, 1972) Alla fine degli anni novanta dirige i corti Una rosa prego e La vestizione. Il suo primo lungometraggio semidocumentario, Tornando a casa, riceve molti riconoscimenti, tra cui i premi come miglior film della Settimana Intemazionale della Critica a Venezia e la miglior regia al Festival di Valencia. Successivamente firma il doc E.A.M. - Estra­ nei alla Massa, selezionato per i Festival di Torino e di Locamo, e Pae­ saggio a Sud, presente nella sezione Nuovi territori della Mostra di Vene­ zia 2003. Nel 2004 dirige il suo secondo film a soggetto Vento di terra, premio Fipresci a Venezia e vincitore del Festival di Gjion in Spagna. L’ora di punta è stato selezionato in Concorso alla Mostra di Venezia nel 2007. Filmografia Una rosa prego (1998); La vestizione (1998); Tornando a casa (2001, fict.); E.A.M. - Estranei alla Massa (2002); Paesaggio a sud (2003); Vento di terra (2004, fict.); 58% (2005); Ludienza è aperta (2006); L’ora di punta (2007, fict.); Il grande progetto (2008); La prima luce (in produzione).

Mellara Michele/Rossi Alessandro Michele Mellara (Bologna, 1967) e Alessandro Rossi (Bologna, 1970), entrambi soci della Mammut Film (fondata nel 2005), lavorano da molti anni in stretto sodalizio. Il 2002 è Fanno di Fortezza Bastiani che riceve il Premio Solinas come miglior sceneggiatura, il Premio Officinema come miglior esordio. A teatro hanno messo in scena vari spettacoli come 1929, Stanze Concrete-Upsidedowncircus e Mosca-Petuski 125km ma negli ultimi anni si sono concentrati soprattutto sulla regia di documentari.

Filmografia Sweet (1996); Tic-tac man (1996); The retreat (1997); Tutti i gusti del territorio (2000); ProgettArci (2002); Fortezza Bastiani (2002); Doma. Case a San Pietroburgo (2003); Intervista a Ken Loach (2004); Intervista 186

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a Florestano Vancini (2005); Paradiso Terrestro. Gente del Cilento (2005); Un metro sotto i pesci (2006); Le vie dei farmaci (2007); 1 pescatori del Delta (2007); La febbre del fare, Bologna 1945-1980 (2010); Men & Pup­ pets (2011, co-regia di Francesco Merini); GodSave the Green (2012). Menozzi Daria (Modena, 1958) Agli inizi degli anni Ottanta frequenta il DAMS di Bologna. Nel 1986 fonda a Modena la società di video-produzioni VBR. Nel 1988 gira il corto Dedicato a Marguerite, seguito dal lungometraggio Le mosche in testa, presentato in numerosi festival. Dal 1995 al 1999 lavora a Intermedia, serie televisiva di documentari e reportage sulla civiltà multietnica e sui rapporti tra Nord e Sud del mondo. Nella seconda metà degli anni Novanta realizza alcuni documentari in Cina tra cui Sprecare sentimenti, girato in Piazza Tienanmen. Nel 2005 con Manoorè, un doc sul lavoro e la globalizzazione, vince il Premio Cipputi come miglior film sul mondo del lavoro al Torino FF.

Filmografìa Dedicato a Marguerite (1988); Le mosche in testa (1991, fict., co-regia di Gabriella Morandi) ; Intermedia ( 1995 ) ; Sprecare sentimenti ( 1997 ) ; L7deogramma capovolto (1998); Germano Almeida scrittore (1999); Bike Baba (2000); Figli delle stelle (2001); I diari della Sacher Storie dell"Ar­ chivio Diaristico Nazionale (2002); Lacqua in mezzo (2002); Radio clan­ destina (2004); Manooré (2005); Giorni in prova. Emilio Rentocchini poeta a Sassuolo (2006).

Mezzapesa Pippo (Bitonto, 1980) Dopo aver seguito un laboratorio di sceneggiatura, realizza Lido Azzurro, il suo primo cortometraggio. Il suo secondo corto, TÀnanà, vince il David di Donatello nel 2004. L’anno successivo indaga in Produrre Consumare Morire sui disastri e le morti causate dal Petrolchimico di Brindisi. In Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate, evento speciale della Settimana della Critica a Venezia, mischia realtà e finzione. Nel 2009 firma sceneggiatura e regia del cor­ tometraggio Laltra metà (episodio del film Per Fiducia 2) che si aggiu­ dica una nomination al David di Donatello e riceve una menzione spe­ ciale per la regia ai Nastri d’Argento. Ha debuttato nella fiction con Il paese delle spose infelici in Concorso al Festival Internazionale del Film di Roma.

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Filmografia Lido Azzurro (2001); Zinanà (2003); Cornea Cassano (2005); Produrre Consumare Morire (2005); Pinuccio Lovero. Sogno di una morte di mezza estate (2007); Per Fiducia 2 (2009, ep. Ealtra metà, fict.); Il paese delle spose infelici (2011, fict.).

Mineo Vincenzo (Erice, 1975) Laureato in Storia del cinema all’università “La Sapienza” di Roma, ha lavorato come assistente alla regia per Minieroe Genovese, Andrea Barzini, Cipri e Maresco, Costanza Quatriglio, Marco Puccioni, Gianni Zanasi, Claudio Cupellini, Alfredo Peyretti, Francesco Lagi e Matteo Rovere. Esordisce alla regia nel 1998 con un video girato a bordo di un peschereccio sulla tradizionale pesca del tonno girato durante la mattanza di Favignana. La sua produzione è interamente dedi­ cata ed ispirata all’opera del regista Vittorio De Seta che reputa il suo maestro. Filmografia Santa Maria (1998); Shalom (2000); I’m in the mood for love (2001); Tang.Est (2003); Levanzo (2006); Cargo (2010); Zavorra (2012). Missio Stefano (Udine, 1972). Studia Cinema alla Sorbona di Parigi e si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografìa nel 1997. Da allora realizza vari documentari in pellicola e in digitale tra cui Quando l’Italia non era un paese povero, mediometraggio sull’Italia raccontata da Joris Ivens nel 1960 e Scusi, dovè il Nord Est?, prodotto dalla Fandango per il canale televisivo franco-tedesco Arte. Dall’autunno 2000 dirige www.ildocumentario.it, un portale internet sul cinema documentario italiano. La repubblica delle trombe, documentario sulla Serbia e i suonatori di trombe e ottoni, vince nel 2007 il “premio speciale per il talento” al Saratov Sufferings Film Festival in Russia. Sempre nel 2007 realizza Che Guevara, il corpo e il mito, sulle vicende del celebre rivoluzionario e sulla storia dei suoi resti umani, una coproduzione intemazionale diffusa dalle televisioni di ben 11 Paesi.

Filmografia Vesevus (1995); Notte di Natale (1996); Quando l’Italia non era un paese povero (1997); Siamo troppo sazi (1998); Scusi, dov’è il nord est? (2000); Gli italiani e gli elettrodomestici (2001); Eis(occupazione) (2004); 188

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Il ponte (2005); La repubblica delle trombe (2006); Che Guevara, il corpo e il mito (2007).

Monaco Emiliano (Roma, 1975) Nel 1998 frequenta un corso di regia alla New York Film Academy dove realizza un primo film in 16 mm col quale vince una borsa di studio. Alla fine del 2004 si trasferisce in Islanda dove inizia ad insegnare cinema presso l’Università. Nel 2005 inizia le riprese di Dopo­ tutto, non sono un bel paesaggio, per la cui realizzazione impiega 6 anni. Nel 2006 fonda il “Reykjavik Documentary Workshop”, associazione dedita alla proiezione mensile di documentari. Realizza video e installa­ zioni pubbliche, tra cui Summer Solstice, video di 24 ore realizzato nel giorno più lungo dell’anno e proiettato pubblicamente nel centro di Reykjavik durante il solstizio d’inverno e Steambath, video girato con una lente macro che descrive la “vita” di una goccia d’acqua sui vetri di una sauna. Filmografia Ég er ekki nógu goti landslag (Dopotutto non sono un bel paesaggio, 2011). Monti Valentina (Bologna, 1973) Si laurea all’Università di Bologna nel 2000 in Storia dell’arte contemporanea. Durante il periodo universitario compie studi all’estero: nel 1995 presso Universiteit van Amsterdam e nel 1999 presso il Goldsmith College di Londra. Collabora successivamente come aiuto regista con “Studio Azzurro” e “Numidia”. Nel 2005 frequenta l’Esodoc (European Social Documentary). Il suo primo doc Radio La Colifata ha vinto nel 2005 il primo premio al RomaDocFest.

Filmografia La lucha sigue (2003); Radio La Colifata (2005); Uganda Calling (2007); Verofinta (2008); Girls on the air. RadioSahar (2009);Daspu. Putas pret-à-porter (2010); Silvio, uno di noi (2011, docu collettivo). Moroni Vittorio (Sondrio, 1971 ) A Milano compie studi universitari in Estetica e Filo­ sofia e si diploma alla Civica Scuola di Cinema nel 1995. Nel 1999 con il corto Eccesso di zelo vince un premio che gli consente di frequentare un 189

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master presso gli studi della Universal Pictures a Hollywood. Due volte Premio Solinas nel 1998 con il soggetto de 11 sentiero del gatto e nel 2002 con quello di Una rivoluzione, debutta nel Im a soggetto in Tu devi essere il lupo, distribuito grazie ad un ingegnoso sistema di autofinanziamento con la prevendita del biglietto di ingresso del film. Con Emanuele Crialese ha scritto la sceneggiatura di Terraferma, Premio Speciale della Giu­ ria alla Mostra del Cinema di Venezia 2011.

Filmografia Quasi una storia (1995); Eccesso di zelo ( 1997); La terra vista da Marte (1998); Disperanze. Lettera dall’india (1999); L’incontro (1999); Black Tiger (2000); Sulle tracce del gatto (2003, co-regia di Andrea Caccia); Una rivoluzione (2002); Prove di danza per una musica nuova (2003); Tu devi essere il lupo (2004, fict.); Le ferie di Licu (2007, fict.); Èva e Adamo (2009); Se chiudo gli occhi non sono più qui (fict., in produzione).

Nifosì Nunzio Massimo (Scicli, Reggio Calabria, 1967) Ha studiato storia del cinema e del tea­ tro presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Nel 1994 ha girato il mediometraggio Riflessi sulla pietra selezionato in concorso da diversi festival indipendenti. Del 1995 è Intervista a Godard presentato come evento speciale alla Mostra del Cinema di Venezia dello stesso anno. In seguito ha realizzato documentari, spot e uno spettacolo teatrale. Luitimo periodo lo vede impegnato nella direzione di lavori di videoarte, nella scrittura di un testo teatrale e di un lungometraggio di finzione. Filmografia Quando eravamo repressi (1992); Agosto (1994); Riflessi sulla pietra (1994); Intervista a Godard (1995); Vuoti a perdere (1999); Le sciamane (2000); La stretta di mano (2002); Domani torno a casa (2008); Diverso da chi? (2009); Francesca Leone, oltre lo sguardo (2009); Piero Guccione verso l’infinito (2011).

Oliviero Bruno (Torre del Greco, 1972) Ha studiato Antropologia e Filosofia a Napoli. Insegna a Milano alla Scuola Civica ed è assistente alla regia per il teatro e il cinema. Dall’aprile 2007 è impegnato con Silvio Soldini nella direzione di una scuola di documentario a Venezia. Negli ultimi anni ha sviluppato un progetto di produzione con Lumière & Co. e l’istituto Luce per la realizzazione di sei film diretti da altrettanti documentaristi 190

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alla loro opera prima. Nel 2011 assieme a Luca Mosso è stato coordina­ tore del progetto di Filmmaker per Milano 55,1. Cronaca di una setti­ mana di passioni, documentario collettivo sull’elezione a sindaco di Milano di Giuliano Pisapia, girato da più di una settantina di cineasti.

Filmografia Isaac a Ponticelli (1997); La guerra di Antonietta (2002); Un amore a Milano (2004); Odessa (2006, co-regia di Leonardo Di Costanzo); Napoli Piazza Municipio (2008); Così eravamo (2009); Napoli 24 (2010, ep. Nau­ fragio)', MM Milano Mafia (2011, co-regia di Gianni Barbacelo); Milano 55,1. Cronaca di una Settimana di Passioni (2011, doc collettivo).

Pandimiglio Elisabetta (Roma, 1959) Ha scritto e diretto oltre cinquanta lavori: lungome­ traggi di finzione, documentari, corti narrativi, video, spot ed è una delle fondatrici di Telefono Rosa. Ha pubblicato inchieste, saggi, racconti su condizione femminile e disagio sociale, e il romanzo Ilia di Notte (2001). Ha spesso lavorato con il filmmaker italo-brasiliano César Augusto Meneghetti (San Paulo, 1964). Su commissione di Nanni Moretti, ha rea­ lizzato nel 2002 il Diario Sacher Zappaterra. Nel 2009 ha scritto e diretto il corto Mille giorni di Vito, vincitore di numerosi premi e nel 2011 il lun­ gometraggio “culinario” Più come un artista, selezionato alle Giornate degli Autori come Mille giorni di Vito. Nel 2010 ha pubblicato il libro II camoscio e il borraccino edito con il doc Taccone fuga in salita. Attual­ mente lavora a un documentario sulla scelta femminile della non mater­ nità. Filmografia Punti di vista (1996, fict., co-regia di C. Meneghetti); Se un giorno qualcuno... (1998, fict.); Interferenze (1998, fict., co-regia di C. Meneghetti); Blue, blu (2000); Cercando Èva (2000, fict.); A Sud del Sud (2001, co-regia di C. Meneghetti); Sem Terra/ Senza terra (2001, co-regia di C. Meneghetti); Zapaterra -1 Diari della Sacher (2002, co-regia di C. Meneghetti); Sogni di cuoio (2004, co-regia di C. Meneghetti); Motoboy (2004, co-regia di C. Meneghetti); Comizi e quant’altro (2005, co-regia di C. Meneghetti); Contromano (2005, fict., co-regia di C. Meneghetti); Verso Itaca (2005); Il corso deifiori (2006); Taccone fuga in salita (2007, co-regia di C. Meneghetti); Testi e testimoni (2008); Destasi della ragione (2009, co-regia di C. Meneghetti); Mille giorni di Vito (2009, fict.); Lincontro (2010, co-regia di C. Meneghetti); Più come un artista (2011).

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Pannone Gianfranco (Napoli, 1963) Laureato in lettere alla Università “La Sapienza”, si è diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografìa. Tra il 1990 e U 1998 ha prodotto e diretto la trilogia: Piccola America, Lettere dal­ l’America, L’America a Roma e nel 2001 Latina/Littoria, quest’ultimo miglior film documentario al Torino FF 2001. Tra la sua produzione più recente si segnalano: un film di fiction Io che amo solo te e i doc II sol del­ l’avvenire, Ma che storia... e Scorie in libertà. I suoi film gli sono valsi par­ tecipazioni e riconoscimenti ai festival italiani e intemazionali, oltre che la messa in onda sulle principali televisioni europee. Insegna Cinema documentario al DAMS di Roma Tre e regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Saggista e autore, ha tra l’altro scritto Lofficina del reale. Fare un documentario: dalla progettazione alfilm (2010) insieme a Mario Balsamo (v.) e Docdoc. Dieci anni di cinema e altre storie (2012). Filmografìa La giostra (1989); Vacanze d’Egitto (1990); Piccola America (1990); Kenya (1995); Romani. Storie di normale integrazione (1996); Ritorno a Littoria (1996); La dama bruna. Gli ultimi giorni di Ciano (1997); Ombre del sud (1997); LAmerica a Roma (1998); Le leggi dimenticate (1998); Kelibia/Mazara (1998, co-regia di Tarek Ben Abdallah); La guerra di Anna (1999); Così vicini, così lontani (1999); Pomodori. Viaggio nell’i­ dentità italiana (1999); Sirena operaia (2000); Ferie: gli italiani e le vacanze (2000); Viaggio intorno alla mia casa (2000); Cerimonie: gli italiani, la Chiesa, lo Stato (2001); Venezia, una città che affonda (2001, co-regia di Marco Visalberghi); Latina/Littoria (2001); Toscana: lungo il fiume (2002); Scusi dov’è il documentario? (2003, co-regia di Enrica Colusso, Agostino Ferrente, Chiara Malta, Giovanni Pipemo e Alessandro Ros­ setto); Io che amo solo te (2004, fict.); Pietre, miracoli e petrolio (2004); 100 anni della nostra storia (2006); Cronisti di strada (2007); Una que­ stione poco privata. Conversazione con Giulio Questi (2007); Giovanni Agnelli (2008); Il Sol dell’avvenire (2008, co-regia di Giovanni Fasanella); Immota Manet (2009); Ma che storia... (2010); Territorio (2010); Silvio, uno di noi (2011, doc collettivo); Scorie in libertà (2012); Ebrei a Roma (2012).

Pastore Luca (Torino, 1961) Fonda nel 1983 con Alessandro Cocito la casa di pro­ duzione Legovideo con cui realizza numerosi contributi che mescolano videoarte e tv, soprattutto per Rai3. Critico musicale per «Il manifesto» dal 1994 al 1997, lui stesso musicista (suona con i Fluxus), realizza sono­ 192

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rizzazioni e colonne sonore. Ha curato la regia di numerosi documen­ tari, clip musicali, filmati per enti e istituzioni, videomagazine e corti per la tv, oltre ad alcune installazioni di videoarte per vari enti museali. Pre­ sentato al Torino FF 2011, il road movie emiliano alla ricerca del Grande Beat, Freakbeat, è stato selezionato per il Concorso del Festival di Bella­ ria 2012.

Filmografia Orizzonti di gloria (1984, co-regia di Luca Gasparini); Il processo (1984); Ultima spiaggia (1986, co-regia di A. Cocito); Jean Tinguely. Una magia più forte della morte (1986, co-regia di A. Cocito); Adieu Dali (1987, co-regia di A. Cocito); Unoequattordici (1988, co-regia di A. Cocito); Ufficio di collocamento (1993, co-regia di A. Cocito); Ira (1994); Senza titolo (1995, co-regia di A. Cocito); Montata Fangi (1995, co-regia di A. Cocito); Torino Sistema Arte (1996, co-regia di A. Cocito); Subaquea (1997); Dopo (1997); Le due orfanelle (1997); Officina veneziana (1997); Welat/Patria (1998); Derelict Land (1999); 30 Seconds over Moscow (2000); Eredità di una rivoluzione (2000); Cortile d'acqua (2001); Io arrivo da Giove (2001); Come fossili cristallizzati nel tempo (2002); Dovevano almeno ottenere di fare la rotazione (2004); I dischi del sole (2004); Subsonica extraterrestre (2005); Volumi all'idrogeno-kartakanta (2006); Be Human. Cronache Terrestri (2006); 3 Minutes over Istanbul (2007 ); Orna e chimica (2007); Ganci (2007); No Planet B (2010, co-regia di Simone Bauducco); (2011); La rivoluzione vegetale (in produzione).

Pasquini Marco (Roma, 1975) Regista e direttore della fotografia, nel corso degli anni ha realizzato documentari in Europa, Stati Uniti, Africa, India, Medio Oriente e ultimamente a Maputo in Mozambico (/ racconti della Lixeira). Dal 2004 dirige e coordina un progetto di documentazione nei campi profughi palestinesi in Libano, dove ha realizzato diversi lavori docu­ mentari. Il lungometraggio Gaza Hospital che tratta della più importante struttura sanitaria della Mezzaluna Rossa Palestinese in Libano, è stato presentato al Dok Leipzig 2009 e l’anno successivo all’Italia Doc, vin­ cendo il Globo d’Oro (2010) della Stampa Estera come miglior docu­ mentario. Filmografìa Saloon al-Fidah (2006); R-Esistenze (2006); Sguardi superstiti (2007); Gaza Hospital (2009); I racconti della Lixeira (2010).

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Parenti Martina (Milano, 1972) Nel corso degli ultimi anni ha realizzato lavori di non fic­ tion proiettati e premiati in vari festival tra i quali L'estate di una fontanella (2006), selezionato a Bellaria o Animol (2003), presentato a Filmmaker di Milano. Ha realizzato programmi televisivi tra cui School in Action (2006) e EApprendista Stregone (2002). A partire da 1 Promessi Sposi (2006), presen­ tato al Festival del Film di Locamo e premiato al Festival dei Popoli e a Filmmaker, ha realizzato i suoi film assieme a Massimo D’Anolfi (v.). Filmografia Animol (2003 ); L'estate di una fontanella (2006); Checosamanca (2006, doc collettivo); 1 Promessi Sposi (2007, co-regia di M. D’Anolfi); Grandi speranze (2009, co-regia di M. D’Anolfi); Il castello (2011, co-regia di M. D’Anolfi); Materia oscura (co-regia di M. D’Anolfi, in produzione).

Pipemo Giovanni (Roma, 1964) Diplomato presso dell’istituto Europeo di Design, lavora prima come fotografo, poi dal 1987 come aiuto e assistente operatore sia in ambito cinematografico che pubblicitario. Nel 1992 ha cominciato a produrre e dirigere video e documentari con Laura Muscardin e Agostino Ferrente (v.). Con Eesplosione ha vinto il primo premio al Concorso Doc del Torino FF nel 2003 ed è stato candidato al David di Donatello come miglior documentario; This Is My Sister ha vinto il premio Avanti ! al Torino FF del 2006 mentre Cimap! Cento Italiani Matti a Pechino, presentato a Locamo, ha vinto il premio Libero Bizzarri 2009. Il pezzo mancante, sulla famiglia Agnelli, ha partecipato al Festival di Torino del 2010. Filmografia Ebrei in Sudafrica (1992, co-regia di L. Muscardin); Black Taxi (1993, co-regia di L. Muscardin); Mosè a Bombay (1994, co-regia di L. Muscar­ din); L'uomo di scorta (1994, co-regia di Marco Massaccesi); Sinagoghe nella giungla (1994, co-regia di L. Muscardin); Un thè sul set (1994, co-regia di L. Muscardin); Vernichtung Baby (1995, co-regia di Marcus Jorge e L. Muscardin); Vernichtung Baby il Corto (1996); Bananine Unipolari (1997); Il mio nome è Nico Cirasola (1998); Animale uomo (1998); Ugo e Vannila ( 1998) ; Intervista a mia madre ( 1999, co-regia di A. Ferrente) ; Ilfilm di Mario (1999, co-regia di A. Ferrente); Ugo e Carmine, cose di questo mondo ( 1999); Prima della prima (1999/2000); Il film di Mario (1999); Verdi Supreme (2002); Scusi dovè il documentario? (2003, co-regia di A. Ferrente, Enrica Colusso, Chiara Malta, Gianfranco Parinone e Alessandro Rossetto); Lesplosione (2003); This Is My Sister (2006); Cimap! Cento Italiani Matti a 194

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Pechino (2008); La danza delle api (2008, co-regia di Giulio Cedema); Il pezzo mancante (2010); Ernesto Nathan raccontato a un bambino (in pro­ duzione); Le cose belle (co-regia di A. Ferrente, in produzione).

Pisanelli Paolo (Lecce, 1965) Dopo la laurea in Architettura, si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia seguendo i corsi di fotografia tenuti da Giuseppe Rotunno. Dal 1995 si dedica alla regia di documentari. Nel 1998 è tra i soci fondatori di Big Sur, società di produzioni cinemato­ grafiche e laboratorio di comunicazione. Dal 2004 conduce il Laboratoriocinema del Centro Diurno di via Montesanto a Roma. E direttore arti­ stico di “Cinema del Reale”, festa di autori e cinema documentario che si svolge ogni anno a Specchia (Lecce). Il suo ultimo lavoro è dedicato al terremoto dell’Aquila: ]u Tarramutu. Filmografìa In silenzio ( 1993 ); Nella prospettiva della chiusura lampo ( 1994); Roma A.D. 999 (2000); Roma A.D. 000 (2001); 10 calcoli infiniti (1998); Il magnifico sette (1998); N (1999); Where We Go (1999-2000); Tunza Tunza (2002); Don Vitaliano (2002); Il sibilo lungo della taranta (2006); Il tea­ tro e il professore (2007); ]u Tarramutu (2010). Pitzianti Enrico (Cagliari, 1961) Dopo la laurea in giurisprudenza si trasferisce negli Stati Uniti, dove frequenta la New York Film Academy. I suoi primi due cortometraggi, la docu-fiction II guardiano (1998) e II gobbo sono stati distribuiti in sala dall’istituto Luce, poi firma Sanpit e Id ultima corsa che vince il premio della giuria al Torino FF 2002. Dopo Un anno sotto terra, in concorso al Premio Libero Bizzarri, realizza Piccola Pesca distribuito in sala dalla Pablo mentre nel 2008 ha girato la commedia Tutto torna ambientata nella sua città natale. Il suo ultimo lavoro, Roba da matti, su una struttura sanitaria psichiatrica autogestita a Quartu Sant’Elena, in pericolo di essere chiusa, è stato selezionato per il Torino FF e per il Con­ corso del Festival di Bellaria 2012.

Filmografìa Il guardiano (1998); Il gobbo (2000); Sanpeet (Veleno) (2001, co-regia di Giuseppe Petitto e Gianluca Pulcini); Idultima corsa (2002); Un anno sotto terra (2003); Piccola pesca (2004); Tutto torna (2008, fict.); Roba da matti (2011). 195

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Puccioni Marco Simon (Roma, 1959). Dopo aver lavorato negli Stati Uniti, toma in Italia nel 1993, e inizia a collaborare con Rai e Mediaset dirigendo opere di fiction e non. Il suo interesse nella sperimentazione di nuovi media trova espres­ sione, nel 1995, nella regia di II treno delle meraviglie, premio per il miglior film al Festival di Vendòme. Nel 1996 fonda Cinema senza con­ fini e concepisce insieme a Roberto Giannarelli e Massimo Guglielmi il progetto Intolerance, film catalogo contro l’intolleranza, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del premio Cinema e Società e del premio Phil Collins/Toyota per l’impegno sociale. Nel 2001 esce il suo debutto nel lungometraggio a soggetto, Quello che cerchi, un roadmovie girato tra Torino e Napoli. Nel 2004 è promotore e fondatore di “Ring”, l’associazione dei registi indipendenti.

Filmografìa Concertino (1988); Letterati (1989); Letter #2. Berlin ’89 (1990); The Witches Scene ( 1990) ; The Blue Fiction ( 1991 ) ; A Light on the Path ( 1992 ) ; La valle del Draa (1994); Il treno delle meraviglie (1995); Intolerance. Sguardi del cinema sull’intolleranza, (1996, ep. Ottantanni di Intolerance) ', Partigiani (1997, co-regia di Guido Chiesa, Davide Ferrano, Antonio Leotti, Daniele Vicari); Sell your body, now! (1998); Quello che cerchi (2001, fict.); Tuttigiorni. Vita in Palestina (2002); La primavera del 2002. L’Italia protesta l’Italia si ferma (2002, doc collettivo); La Divina Com­ media secondo La Fura dels Baus (2002); La Fortezza vista da basso (2003 ); Corpo immagine (2004); 100 anni della nostra storia (2006); Riparo (2007, fict.); Il colore delle parole (2009); Il pranzo di Natale (2011, doc collet­ tivo, segmento); Come il vento (fict., in produzione). Quatriglio Costanza (Palermo, 1973) Laureata in Giurisprudenza e diplomata in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 2007 ha ideato e diretto per Mikado lo spot cinematografico per la campagna governativa di sensibi­ lizzazione sull’affido familiare. Il suo primo film di fiction, Lisola, par­ tecipa alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes nel 2003 (Nastro d’Argento per la colonna sonora originale del trombettista jazz Paolo Fresu). Nel 2009 ha presentato al Locamo il doc II mio cuore umano sulla cantante italiana Nada Malanima, trasmesso su Rai 3.

Filmografìa Rewind ( 1995 ) ; Lettera a Monsieur Cinema ( 1995 ) ; Rubinetti raccordi (1996); L’albero (1997); Anna ! ( 1998); Il giorno che ho ucciso il mio amico 196

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soldato (1999); Una sera (2000); Nonna Caterina (2000); Il bambino Gioacchino (2000); Ècosaimale? (2000); Le donne di Tara. Un'opportu­ nità per le madri a Bangalore (2001); Linsonnia di Devi (2001); Per una famiglia adottiva 1. e 2. (2001); La borsa di Helene (2001); Lisola (2003, fict.); Racconti per l'isola. Appunti di lavoro per un film (2004); Raìz. Radici a Capo Verde (2004); Comandare. Una storia Zen (2005); Metro ore 13 (2005); Il mondo addosso (2006); Il mio cuore umano (2009); Terra matta (2012); Con il fiato sospeso (in produzione). Ragazzi Luca (Roma, 1971) Dopo aver studiato Lettere e Filosofia alTUniversità “La Sapienza”, esercita la professione di giornalista, critico cinemato­ grafico e fotografo. Improvvisamente l'inverno scorso è il suo primo film, realizzato in collaborazione con Gustav Hofer (v.), presentato alla Berli­ nale nella sezione Panorama dove riceve la menzione speciale da parte della giuria mentre in Italia vince il Nastro d’Argento come miglior docu­ mentario nel 2009. Sempre con Hofer, nel 2011 ha diretto Italy: Love It, or Leave It.

Filmografia Improvvisamente l'inverno scorso (2008, co-regia di G. Hofer); Italy: Love It, or Leave It (2011, co-regia di G. Hofer). Repetto Monica (Roma, 1965) Giornalista e critico cinematografico, dagli anni novanta realizza cortometraggi, documentari e programmi per la televi­ sione. Nel 2002 fonda con Pietro Balla (v.) la società di produzione indi­ pendente Deriva Film. Nel 2003 è tra gli autori della docu-sit-com Casa Pappalardo di Rai 2. Nel 2007 ha diretto e prodotto il documentario La vera storia di Marianne Golz (Fox International Channels Italia, History Channel). Per Fox Crime è stata produttore e co-autore del programma in 4 puntate con Michele Placido Scatti di nera. Ha co-diretto con Balla i documentari Operai e ThyssenKrupp Blues, quest’ultimo presentato alla 65° Mostra del Cinema di Venezia e vincitore del Mediterraneo Film Festival. E co-fondatrice della piattaforma distributiva sul web On the Docks.

Filmografia Ubalda e le sue sorelle. Vent'anni di cinema “decamerotico" (1995); Mariano Laurenti: l'occhio ridens vede nudo (1995, co-regia di P. Balla); 197

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Camerini ardenti (1996, co-regia di P. Balla); Tempo al tempo (1998); Amateurs (1999, co-regia di P. Balla); Panico Jodorowsky (1999, co-regia di P. Balla); Amateurs 2 (2000, co-regia di P. Balla); Derive Gallizio (2000, co-regia di P. Balla); Amori in fiamme (2002, co-regia di P. Balla); Scatti di nera (2006, co-regia di P. Balla); La vera storia di Marianne Golz (2007 ); ThyssenKrupp Blues (2008, co-regia di P. Balla); Operai (2008, co-regia di P. Balla); Falck. Romanzo di uomini e di fabbrica (2010); Ezio Tarantetti. La forza delle idee (2010). Rosi Gianfranco (Asmara, Eritrea, 1964) Di nazionalità italiana e statunitense, fre­ quentata l’università in Italia si trasferisce negli Usa nel 1985 per diplo­ marsi presso la New York University. Nel 1993 produce e dirige un primo lavoro sulle rive del Gange, il mediometraggio in b&n Boatman, pre­ sentato a vari importanti festival (Sundance, Locamo, Toronto, Docu­ mentary FF Amsterdam) e trasmesso dalle principali emittenti mondiali (BBC, PBS, WDR, Rai). Il corto Afterword è in programma alla Mostra di Venezia del 2000 mentre quindici anni dopo il film indiano toma sul rap­ porto fra immagini e acqua con Below Sea Level (2008), il suo debutto nel lungometraggio. Girato a Slab City in California, il film vince alla Mostra del Cinema di Venezia il premio di Orizzonti Doc e poi il Prix des Jeunes al parigino Cinéma du Réel nel 2009. Nel 2010 firma El sica­ rio. Room 164, film-intervista su un sicario messicano, oggetto di criti­ che contrastanti, vincitore del premio Doc/it 2011 come miglior docu­ mentario italiano. Ha supervisionato la regia del doc collettivo Un Anno Dopo - Progetto Memory Hunters (2010), è stato guest lecturer presso la New York University, il Centro de Capacitación Cinematogràfica di Città del Messico e la SUPSI di Lugano.

Filmografia Boatman (1993); Afterwords (2000); Below Sea Level (2008); El sica­ rio. Room 164 (2010); Sacro G.R.A. (in produzione). Rossetto Alessandro (Padova, 1963) Ha studiato cinema documentario presso il Centre de Recherche Cinématographique dell’università di Nanterre a Parigi. Nel 1997 ha diretto IIfuoco di Napoli, selezionato in numerosi festival tra cui “Vision du Réel” a Nylon (Svizzera), e Messaggio per Tuomo a San Pie­ troburgo. Il suo secondo documentario lungometraggio, Bibione Bye Bye One, è un’opera che osserva e riflette sulla condizione di un paese, una 198

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stazione balneare, che viene vista come lo specchio della condizione umana alla fine del XX secolo. Ha partecipato con un episodio al pro­ getto di Agostino Ferrente (v.) L’Orchestra di Piazza Vittorio. I diari del ritorno e prodotto Rumore Bianco (2008) di Alberto Fasulo (v.) e Valen­ tina Postika (2009) di Caterina Catone (v.); sta preparando il suo primo film di finzione Piccola Patria. Filmografìa Il fuoco di Napoli (1997); Messaggio per l'uomo (1997); Bibione By e Bye One (1999); Chiusura (2001); Scusi dovè il documentario? (2003, co­ regia di Enrica Colusso, Agostino Ferrente, Chiara Malta, Gianfranco Pannone e Giovanni Piperno); Feltrinelli (2006); LOrchestra di Piazza Vittorio. I diari del ritorno (2007, ep. Raul)\ Vacanze di guerra (2010), Pic­ cola Patria (in produzione).

Rossi Landi Emma (Roma, 1971) Studia storia del cinema alFUniversità “La Sapienza” e si diploma in regia alla London International Film School. Dopo aver realizzato diversi cortometraggi di finzione, in video e pellicola, dal 2001 si dedica alla regia di documentari, realizzando 11 viaggio di Giuseppe, Via delle Traiane 15°, Quaranta Giorni (vincitore di vari premi, tra cui come miglior documentario italiano il Festival dei Popoli di Firenze) e La stoffa di Veronica, che conquista nel 2005 il primo premio al Bellaria Film Festival. Filmografìa Famous Last Words (1999); Il viaggio di Giuseppe (2001); Via delle Traiane U° (2002); Quaranta giorni (2004); La stoffa di Veronica (2005); Looking for Eden (2006) ; La canzone di Vaccarizzo (2007 ) ; Left by the Ship (2010). Sandri Isabella (Rovigo, 1957) Laureatasi in Arte al DAMS di Bologna, si diploma poi in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia. Dopo aver girato vari cortometraggi, tra cui Calcinacci, vincitore del premio Spazio Italia nel 1990 al Torino FF, nel 1995 realizza il suo primo lungometraggio II mondo alla rovescia, selezionato al Festival di Locamo e Torino. Con Gli spiriti delle mille colline vince il Silver Spire Award a San Francisco e il secondo premio al Libero Bizzarri. Dal 1988 collabora con Giuseppe M. Caudino (v.). Il loro ultimo lavoro è Per questi stretti morire (ovvero car­ 199

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tografia di una passione), doc sull’esploratore, cineasta e fotografo Alberto Maria De Agostini, selezionato alla Biennale di Venezia 2010 nella sezione “Orizzonti” e vincitore del premio speciale della giuria al Libero Bizzarri.

Filmografìa Paesaggio domestico (1983); Anita (1985); La vestaglia rosa (1987); Diario in poesia (1988); La divina Claudia (1988); Elvira Notari, pioniera del cinema napoletano (1989); Ricordo di Virginia ( 1989); Italia '90, lavori in corso (1990, doc collettivo); Calcinacci (1990, co-regia di G.M. Cau­ dino); Il mondo alla rovescia (1995, fict.); Gli spiriti delle mille colline (1997); La casa dei limoni (1999, co-regia di G.M. Caudino); Animali che attraversano la strada (2000, fict.); I quaderni di Luisa (2001); La zattera di sabbia (2003); Scalo a Baku (2003, co-regia di G.M. Caudino); Maquilas (2005, co-regia di G.M. Caudino); Storie d'armi e di piccoli eroi (2008, co-regia di G.M. Caudino); Per questi stretti morire (ovvero cartografia di una passione) (2010, co-regia cfi G.M. Caudino).

Sangiovanni Paola (Roma, 1965) Laureata in Storia e critica del cinema alla Università “La Sapienza” di Roma, ha lavorato per molti anni in produzioni televi­ sive e cinematografiche italiane e intemazionali come aiuto regista e segretaria di edizione. Dopo alcuni corti tra cui la partecipazione al lavoro collettivo Intolerance ideato da Marco Simon Puccioni (v.), il suo primo Im doc. Ragazze.La Vita Trema ha vinto, tra l’altro, il Sulmona Cinema Film Festival. E tra i fondatori della Scuola provinciale d’arte cinematografica Gian Maria Volonté di Roma. Filmografia Ogni cosa al suo posto (1993), Intolerance. Sguardi del cinema sull'in­ tolleranza, (1996, ep. Senzapatria), Voci (2001), Diario di un superamore (2005), Staffette (2006), Girando Palermo (2007), Ragazze... La Vita Trema (2009).

Savona Stefano (Palermo, 1969) Ha studiato archeologia e antropologia e ha parte­ cipato a diversi scavi archeologici in Sudan, Egitto, Turchia e Israele. Nel 1995 comincia a lavorare come fotografo indipendente per poi dedicarsi all’attività di regista e produttore di documentari. Ha realizzato nume­ rose videoinstallazioni come La città infinita (2003) alla Triennale di 200

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Milano e D-Day (2005) al Centre Pompidou di Parigi; Primavera in Kur­ distan vince il premio della Scam al Cinéma du Réel di Parigi e il premio Casa rossa al Bellaria Film Festival. Piombo fuso riceve il premio speciale della sezione Cineasti del presente al Festival di Locamo e il Grand prix du documentaire ad Annecy. Fonda nel 2010 a Parigi con Penelope Bortoluzzi la società di produzione Picofilms. Palazzo delle Aquile ha otte­ nuto il Gran Prix del Festival Cinéma du Réel 2011. La sua ultima pro­ duzione, Tahrir Liberation Square, un documentario in presa diretta sulla rivoluzione egiziana, selezionato al Festival del film di Locamo, al New York Film Festival e alla Viennale 2011, conquista il David di Donatello 2012 come miglior film documentario. Filmografìa Roshbash Badolato (1999, co-regia di Anseimo De Filippis); Siciliatunisia (2000, co-regia di A. De Filippis); Storia di Palermo dalle origini all’età romana (2000); Alfabe, abbecedario curdo (2001); Un confine di specchi (2002); 1 formalisti siciliani nel cinema (2002, co-regia di Marco Alessi); Primavera in Kurdistan (2006); Sulla stessa barca (2007); Il tuffo della rondine (2008); Diario da Gaza (2009); Piombo fuso (2009); Spezzacatene (2010); Palazzo delle Aquile (2011, co-regia di Ester Sparatore e Alessia Porto); Tahrir Liberation Square (2011); La strada dei Samouni (in produzione).

Segre Andrea (Dolo, Venezia, 1976) Da più di un decennio realizza documentari per la televisione e per il cinema con particolare attenzione al tema delle migrazioni. Tra le sue opere principali si segnalano: Marghera Canale Nord, selezionato alla Mostra del Cinema di Venezia (sezione Nuovi Ter­ ritori), al Premio Libero Bizzarri e menzione speciale al RomaDocFest; PIP49 (episodio del progetto Checosamanca)-, La mal’ombra, in concorso al Torino FF del 2007; Come un uomo sulla terra, finalista nel 2008 per il David di Donatello. Il suo primo film a soggetto, Io sono Li, presen­ tato alle Giornate degli Autori di Venezia 2011, ha vinto il David di Dona­ tello per la migliore interpretazione femminile della protagonista Zhao Tao. E inoltre fondatore dell’associazione ZaLab. Filmografìa Lo sterminio dei popoli zingari (1998); Berlino ’89-’99. Il Muro nella testa (1999); Ka Drita? (2000); Dalle tre alle tre. Il Nord-Est e il mare (2001); A metà. Storie tra Italia e Albania (2001); Albania. Viaggi minori (2001); Marghera Canale Nord (2003, co-regia di Andrea Bevilacqua e 201

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Francesco Cressati); Costruiamo nuove basi in Iraq (2003); Intilniri/lncontri (2003); Dio era un musicista (2004, co-regia di Cristina De Ritis e Maddalena Grechi); L'Albania è Donna (2005); A Sud di Lampe­ dusa (2006); Cbecosamanca (2006, doc collettivo); La mal’ombra (2001, co-regia di E Cressati); Pinuccio Sciola. Il cantico delle pietre (2008); Come un uomo sulla terra (2008, co-regia di Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene); Magari le cose cambiano (2009); Il sangue verde (2010); Io sono Li (2011, fict.); Mare chiuso (2012, co-regia di Stefano Liberti).

Segre Daniele (Alessandria, 1952). Dopo l’esordio come fotografo di strada, dalla metà degli anni settanta inizia a realizzare film e video. Per sviluppare un’idea personale e indipendente di cinema, fonda nel 1981 la società di produzione I Cammelli e, nel 1989, la Scuola video di documentazione sociale, che negli anni ha avviato decine di giovani alla delicata e difficile attività di autore audiovisivo. Sin dagli inizi, Segre ha lavorato sulla realtà con una metodologia di approccio che privilegia, nella preparazione, la conoscenza approfondita delle situazioni da rappresentare e, nel modo di riprendere, la “costruzione” dell’immagine. La sua è una vera e pro­ pria “messa in scena” della realtà, in cui lo sguardo fotografico del cinema si fonde con una rappresentazione spesso teatrale, con un risalto dato ai volti e ai racconti in modo da rendere il linguaggio visivo e verbale un tramite per esperienze che diventano universali. Filmografìa Perché droga (1976); Il potere dev'essere bianconero (1978); Ragazzi di stadio (1980); Vite di ballatoio (1984); Partitura per volti e voci. Viaggio tra i delegati Cgil (1991); Manila Paloma Bianca (1992); Crotone Italia (1993); Dinamite (1994); Come prima, più di prima, t'amerò... (1995); Non ti scordar di me (1995); Quella certa età (1996); Sei minuti all'alba (1996); Paréven furmighi (1997); Sto lavorando? (1998); A proposito di sentimenti... (1999); Via Due Macelli Italia. Sinistra senza Unità (2000); Protagonisti. I diritti del ‘900 (2000);Asuha de su serbatoiu (2000); Tempo vero (2001); Un mondo diverso è possibile (2001, doc collettivo); Vecchie (2002, fict.); Mitraglia e il Verme (2004, fict.); Morire di lavoro (2008); Luciano Lischi, Editore (2010); Lisetta Carmi. Un'anima in cammino (2010); ]e m'appelle Morando, alfabeto Morandini (2010); Sic Fiat Italia (2011); Giorgina Levi (2011); Luciana Castellina, comunista (in produ­ zione); È viva la Torre di Pisa (in produzione).

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Taviani Giovanna (Roma, 1969) Regista, studiosa di letteratura e cinema, figlia del regi­ sta Vittorio Taviani. Ha svolto attività didattica e di ricerca presso l’Università degli Studi di Siena e l’Università di Roma Tre. Ha pubblicato diversi saggi e recensioni sulla letteratura del Novecento e il cinema, com­ piendo in particolare ricerche sull’adattamento cinematografico e rea­ lizzando video didattici per le scuole. Ha collaborato con le riviste «Alle­ goria», «Cinecritica» e «Eidos». I nostri 30 anni. Generazioni a confronto è stata la sua opera prima presentata al Torino FF, seguita da Ritorni (Festa del Cinema di Roma del 2006) ed infine da Fughe e approdi (Mostra del Cinema di Venezia 2010). Ha fondato nel 2007 il SalinaDocFest di cui è direttrice artistica.

Filmografìa I nostri 30 anni. Generazioni a confronto (2004); Ritorni (2006); Fughe e approdi. Ritorno alle Eolie tra cinema e realtà (2010). Terlizzi Cosimo (Bitonto, 1973) Ha seguito studi artistici (Istituto d’Arte, Accade­ mia di Belle Arti e DAMS Arte a Bologna) e percorso una ricerca per­ sonale che spazia dalla fotografia al video alla performance. I suoi sog­ getti sono spesso umani, parte dal singolo per arrivare al sociale e spesso usa il ritratto come strumento d’indagine della nostra epoca. Nel 1999 riceve dalla Fedic Milano il premio “Claudio Pasotri” per la migliore ricerca audiovisiva, mentre nel 2003 con Rocca Petrosa con­ quista il premio Alberto Farassino per la migliore opera a Bellaria. Il road-movie Murgia vince il primo premio ai Corti di Natura 2008 ed è presentato al London International Documentary Festival 2009. Nel 2011 la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro gli ha dedicato una per­ sonale.

Filmografìa Aiuto! Orde barbare al Fratello (1996); Nadia Luca & Roberto (1996); Es (1997); Il sonno di Michele (1998); Pepicek&Aninka (1999); La rosa necessaria (2000); Ritratto di famiglia (2001); Rocca Petrosa (2002); Nudo di adolescente (2003); Une saison en enfer (2004); S.N. via senza nome casa senza numero (2008); Fratelli Fava (2008); Regina (2008); Murgia 3 episodi (2008); Il solstizio di San Giovanni Battista (2010); Folder (2010).

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Vaccaro Francesco (Crotone, 1968) Si muove tra videoarte e cinema, esponendo i suoi lavori in gallerie private, spazi pubblici e festival, in Italia e all’estero. La pitta ha ricevuto il premio del pubblico al Festival Intemazionale di Videoarte Festarte 2010 (Macro Testaccio Roma) mentre Lettera d'amore a Robert Mitchum, con Piera Degli Esposti, è stato selezionato per la Festa del Cinema di Roma 2007 e distribuito nelle sale italiane da Lucky Red. Filmografia Elisa Montessori 2003 (2004); Segno e metacrilati (2004); Bruno Lisi (2004); La pitta (2004); Separati in casa (2005); Pozzanghere (2005); The Russian Tea Room (2005 ) ; Chimes (2005 ); Polidori Adorno: Danza (2005 ); Hortus conclusus (2005); Claudioadami notes (2005); Cara cera (2005); Pro Eo (2005); Affascinato (2006); VLA (2006); Lettera d’amore a Robert Mitchum (2007); Madura (2009); Una luna (2010).

Vendemmiati Alberto (San Dona di Piave, Venezia, 1965) È laureato al DAMS di Bologna e diplomato in regia al Centro Sperimentale di Cinematografìa. E co-regi­ sta con Fabrizio Lazzaretti (v.) di Jung - Nella terra dei Mujaheddin, girato in sette mesi in Afghanistan e presentato in numerose manifestazioni, tra cui la Mostra del Cinema di Venezia, l’International Documentary Film Festival Amsterdam (Silver Wolf Award 2000) e il Vancouver Film Festi­ val 2001 (Best Documentary Award). Afghanistan: effetti collaterali?, coprodotto da Rai, BBC e PBS, rappresenta la continuazione dell’espe­ rienza in Afghanistan all’indomani dell’ll settembre. Nel 2005 termina La persona De Leo N., presentato in concorso in diversi festival, trasmesso da Rai 3 e distribuito in sala nel circuito di Documé. Filmografìa La grande acqua (1993); Due (1994); Cadabra (1994, co-regia di Andrea Aurigemma e Fausto Brizzi); Crucifige (1998, co-regia di F. Laz­ zaretti); Le voci fuori (1998, co-regia di E Lazzaretti); Jung - Nella terra dei Mujaheddin (2000, co-regia di F. Lazzaretti); Afghanistan: effetti col­ laterali? (2002, co-regia di F. Lazzaretti); Agricantus in tour (2004); La persona De Leo N. (2005); Left By the Ship (2010).

Vicari Daniele (Castel Di Torà, Rieti, 1967). Laureato in Storia e critica del cinema presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dal 1990 al 1999 collabora 204

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con le riviste «Cinema Nuovo» e «Cinema 60». Esordisce alla regia col lungometraggio Velocità massima, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, che gli è valso il David di Donatello come miglior regista emer­ gente. Nel 2005 Eorizzonte degli eventi viene presentato alla Semaine de la Critique a Cannes. Nel 2006 gira 11 mio Paese, premiato come miglior documentario ai David di Donatello. Il 2012 è l’anno di Diaz, presentato alla Berlinale (Sezione Panorama) e incentrato sui fatti accaduti durante il G8 di Genova 2001. Filmografia Il nuovo (1993); Mari del Sud (1996); Partigiani (1997, co-regia di Guido Chiesa, Davide Ferrario, Antonio Leotti, Marco Simon Puccioni); Comunisti (1998, co-regia di D. Ferrario); Domini e lupi (1998); Pajram (1998); Sesso, marmitte e videogames (1999); Non mi basta mai (1999, co­ regia di G. Chiesa); Morto che parla (2000); Velocità massima (2002, fict.); Eorizzonte degli eventi (2005, fict.); Il mio Paese (2006); Il mio Paese 2.0 (2008); Il passato è una terra straniera (2008, fict.); Foschia pesci africa sonno nausea fantasia (2010, co-regia di Andrea De Sica); Diaz (2012, fict.); La nave dolce (in produzione).

Visalberghi Marco (Aosta, 1947) Dal 1980 avvia una collaborazione continuativa con il programma scientifico “Quark” di Piero Angela. Nel 1999 fonda Doclab Productions, una società specializzata nella produzione di documentari storici, scientifici e naturalistici per il mercato televisivo nazionale ed internazionale. Collabora con emittenti straniere quali Discovery Chan­ nel, NOVA/WGBH, Nature-WNET, National Geographic Channel, BBC, Channel 4, WDR, Spiegel TV e NHK. Attorno a lui si riunisce un gruppo di autori e produttori che sviluppa documentari, con attenzione ai nuovi linguaggi e strumenti espressivi, come la computer-grafica e l’Alta Defi­ nizione. Con Venezia e la Galea perduta vince il primo Festival Interna­ zionale del Cinema Archeologico. Filmografia Venezia, una città che affonda (2001, co-regia di Gianfranco Pannone); Nicola II rultimo zar (2003); Venezia e la Galea perduta (2006); Il carne­ vale di Venezia (2009, co-regia di Maurice Ribière); Caravaggio. Il corpo ritrovato (2010); Artemisia. Una donna appassionata (2011).

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