Ripensare il neorealismo. Cinema, letteratura, mondo
 8861560288, 9788861560284

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© 2008 by Metauro Edizioni S.r.l. - Pesaro http://www.metauroedizioni.it [email protected] ISBN 978-88-6156-028-4 __________________________________________________________________

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STUDI

20 Collana diretta da

Corrado Donati

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Ripensare il neorealismo: cinema, letteratura, mondo

a cura di Antonio Vitti

Metauro

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Indice

ANTONIO VITTI Ripensare il neorealismo: cinema, letteratura e mondo

9

ENRICO BERNARD Esiste un teatro neorealista?

17

CLAUDIO BONDÌ La balena di Rossellini

29

FABRIZIO BORIN Filmare l'aria intorno alle cose. Il neorealismo di Federico Fellini

43

GIAN PIERO BRUNETTA Dal neorealismo al neorealismo?

63

LINO CAPOLICCHIO La voce il volto il corpo. L'attore nell’ottica neorealista

77

ANDREA CICCARELLI Fra (neo/)realismo e sogno: Io non ho paura

81

ROBERTO M. DAINOTTO Documento, realismo e reale

99

ROBERTO ELLERO Il neorealismo che non passa (di moda)

121

LUIGI FONTANELLA Neorealismo e neorealismi italiani: alcuni appunti

127

GIUSEPPE FAUSTINI Riso amaro di Giuseppe De Santis: ovvero tra bandiera rossa e boogie-woogie

133

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VOLTI DELL'ITALIA NEOREALISTA (IMMAGINI FOTOGRAFICHE)

151

FEDERICO LUISETTI Vedere nel cristallo. La forma del tempo nel cinema di Roberto Rossellini

161

GIULIANA MINGHELLI Neorealismo: Anacronismo/Avanguardia

197

DOMENICO SCARPA Un neorealista immaginario. Il cielo è rosso di Giuseppe Berto

223

GINO TELLINI Tra letteratura e cinema: il neorealismo eccentrico di Palazzeschi

237

TONINO VALERI Oggi e allora, il Neorealismo rivisitato

253

ENRICA VIGANÒ NeoRealismo – la nuova immagine in Italia 1932-1960

259

ANTONIO VITTI Fontamara, ovvero le disavventure di un romanzo rivoluzionario neorealista

267

Indice dei nomi

287

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9

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ANTONIO VITTI

Ripensare il neorealismo: cinema, letteratura e mondo

Difficile dare una definizione al neorealismo, tanto meno una data precisa di quando sia iniziato. Il termine per primo fu usato all’inizio del ventesimo secolo in filosofia, per definire una scuola che manteneva che l’oggettività dei fatti è indipendente dal pensiero umano. Poi fu ripreso dalla critica letteraria per “etichettare” il romanzo Rubè (1921) di Giuseppe Antonio Borgese, definizione poi estesa ai cosiddetti Realisti degli anni Trenta: C. Bernari, A. Moravia, V. Pratolini e E. Vittorini che ancor oggi vengono spesso indicati come precursori, perché avevano reagito all’ottimismo superficiale del Regime e si erano sforzatati di rinnovare l’uomo nel suo intimo, oltre a cercare un rinnovo strutturale ed espressivo dell’arte. Essere fascista voleva dire appartenere allo strato più basso dell’umanità, essere antifascista essere più uomo, “mas ombre” come direbbe Vittorini che definisce il neorealismo: … l’espressione della frattura storica che si nutrì … di un nuovo mondo, di una morale e di una ideologia nuova che erano proprio della rivoluzione antifascista. In cui vi era la consapevolezza del fallimento della vecchia classe dirigente e dell’affermarsi, per la prima volta ... sulle scene della società civili le masse popolari.1

La linea di continuità storica fra l’anteguerra e il dopoguerra crea degli equivoci, sia chiaro che l’uso di quest’ultimo termine è soltanto denominativo e non implica alcun giudizio di natura morale 1

E. Vittorini, Americana, Milano, Bombiani, 1968, pp. 963-964.

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o letteraria. Un’equivocità che si attenua nel campo cinematografico o per lo meno non esiste per molti registi che negano l’esistenza di film che possano essere chiamati neorealisti nel periodo antebellico in quanto segnano l’inizio del neorealismo con la Resistenza contro il nazi-fascismo e la liberazione della patria. Basti pensare che il regista Giuseppe De Santis, aiuto regista e anche collaboratore della sceneggiatura di Ossessione (1943) di Luchino Visconti, ha sempre sostenuto, riferendosi al film in questione che: il film anticipa sicuramente le scelte che poi farà il cinema neorealistico perché nasce prima della caduta del fascismo, … penso, però, che il neorealismo nasca da un nodo storico. C’è una guerra, c’è la caduta del fascismo, c’è una Resistenza e gli italiani conquistano la democrazia, senza questo nodo storico il Neorealismo non sarebbe potuto nascere.2

Posizione che si contrappone a quella dall’operatore cinematografico Mario Serandrei che usò il termine con un nuovo significato, quando per definire Ossessione, affermò: «Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l’appellativo di neo-realismo». Non si trova consenso neanche nel rifiutare l’appellativo di scuola, l’interpretazione che molti hanno seguito dopo la pubblicazione della prefazione di Italo Calvino al suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, in cui scrisse: Il “neorealismo” non fu una scuola. … Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche – o specialmente – delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l’una all’altra – o che si supponevano sconosciute, - senza la varietà dei dialetti o dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato “neorealismo”. Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dire sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo.3 2 G. De Santis in Peppe De Santis secondo se stesso. Conferenze, conversazioni e sogni nel cassetto di uno scomodo regista di campagna, a cura di A. Vitti, Pesaro, Metauro, 2006, p. 147. 3 I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964, p. 9.

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Anche su questo fronte non tutti sono d’accordo nel dire o nel pensare che il neorealismo non sia una scuola. Difatti lo storico e regista Carlo Lizzani, protagonista del movimento, gli da anche questo appellativo riconoscendo in esso un fenomeno complesso che ha rappresentato un movimento culturale che ha avuto all’interno delle personalità diverse che si sono ritrovate d’accordo su aspetti fondamentali della loro stagione culturale in quanto ha portato a un cambiamento e re-invenzione del linguaggio cinematografico che ha influenzato il formato, la composizione del fotogramma e il montaggio. Tutto questo verificabile in tutti gli autori, porta dunque a vedere un dato comune che contraddistingue quel momento storico come una stagione e una scuola. Il convegno organizzato a Casa Artom oltre a ripensare il ruolo avuto dal neorealismo nella cultura e nel cinema italiano servirà per riaprire il discorso su questo fenomeno che dall’estero viene visto e studiato come il più importante movimento culturale italiano. Il 1415 maggio 2008 si sono radunati docenti e studiosi italiani e americani per discutere e riflettere su questo appassionante e sfuggente fenomeno che continua a far parlare di se anche nel cinema italiano contemporaneo con il filone di cinema chiamato neo-neorealista ma anche con registi come Gianni Amelio e Mimmo Calopresti che sebbene non si possano definire neorealisti hanno dei legami stilistici e tematici con quel fenomeno. Insieme al prof. Roberto Ellero e alla dottoressa Laura Graziano si è voluto organizzare questo incontro per approfondire meglio le diverse istanze e modalità del neorealismo, ma soprattutto per noi che dall’estero abbiamo continuato a confrontarci con questo complesso fenomeno. Il convegno è stato un’altra occasione per avvicinarci a capire meglio l’Italia attraverso il neorealismo secondo l’approccio zavattiniano che vedeva in esso: «una vera carità di tempo, di occhi e di orecchi, data ai fatti, alla gente del proprio paese». Ripensare al neorealismo è anche un modo di rivisitare la grandezza di quegli artisti che smentendo il concetto che i veri neorealisti fossero soltanto gli artisti che coglievano la realtà al suo stato puro, senza mediazione, hanno svelato il trucco dietro la macchina da presa per mostrare aspetti del nostro vivere che prima di allora era rimasto nascosto, mi riferisco non soltanto alle realtà sociali ma

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anche a modalità linguistiche e gestuali che grazie a quegli artisti sono apparse sul grande schermo. Il convegno è servito anche a riaprire il caso Ignazio Silone e Fontamara, oltre a mostrare l’influenza che il teatro napoletano di Eduardo De Filippo ha avuto su quella felice stagione. Forse è proprio l’entusiasmo nel costruire una nuova immagine dell’Italia, attraverso le storie che non hanno fatto storia, ma hanno tessuto la vera trama di quello che siamo oggi, il motore primo di tutto il progetto. Il convegno e la pubblicazione delle relazioni hanno lo scopo di dare una lettura coerente e articolata del periodo che va dagli anni trenta ai nostri giorni, dando visibilità a tesi di varia natura in uno stesso contesto. Il movimento neorealista, infatti, si concentrò in uno sforzo di divulgazione e di scoperta della realtà di tutti i giorni, a misura di uomo e ad una critica contro la letteratura della prosa d’arte e la poetica dell’assenza storica. Lo scrittore del tempo si sentiva spinto da una missione neo-illuminista e conoscitiva. La letteratura doveva essere sganciata dal fatto puramente personale, autobiografico, per investire la società nel suo insieme. La guerra forzò il letterato a prendere una posizione. L’esempio di Giaime Pintor come lezione d’impegno del nuovo letterato resta nella lettera testamento scritta da Napoli il 28 novembre 1943, tre giorni prima di cadere su una mina tedesca a Castelnuovo al Volturno nel tentativo di raggiungere le formazioni partigiane. Rovesciando la posizione degli intellettuali italiani del XX secolo Pintor scrisse: Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari … Soltanto la guerra ha risolto la situazione … a un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell’unità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento …. Dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti.4

G. Pintor, Il sangue d’Europa, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1965, pp. 186-187. 4

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Secondo A. Gramsci il mondo moderno, con la nuova organizzazione del lavoro ha gettato le basi materiali che rendono possibile un collettivo salto di classe per un intero ceto sociale. Il nuovo intellettuale non deve sentirsi traditore a livello individuale perché abbandona la propria classe di provenienza: la borghesia, perché ci sarà un intero e progressivo mutamento di una classe intera. Che cosa avrebbe dovuto fare l’intellettuale durante quella fase? Secondo Gramsci egli avrebbe dovuto assumere un ruolo importantissimo perché a livello culturale avrebbe combattuto l’egemonia della borghesia nella lotta con il proletariato. Il nuovo letterato sarebbe dovuto andare verso il popolo per farsi promotore della letteratura nazionale popolare, cioè arte impegnata per una nuova cultura. Questa teoria ebbe molta influenza sul Neorealismo postbellico contribuendo però a rafforzare le tendenze provinciali e locali e molto spesso è stata critica sia da destra che da sinistra come nel caso di A. Asor Rosa in Scrittori e popolo. La scoperta dell’opera gramsciana, a prescindere dal valore teorico, aprì in Italia un dibattito che condizionò e costrinse molti scrittori italiani a fare delle scelte e portò allo scoperto aspetti irrisolti della cultura italiana come la questione della lingua e il ruolo storico dell’intellettuale a partire da Dante. Il problema della lingua cioè come far parlare i personaggi, non credo che venne mai posto in maniera teorica nel mondo del cinema, ma venne fuori lavorando e discutendo sulle varie sceneggiature, almeno questo fu un problema affrontato da De Santis durante la lavorazione dei film ambientati in Ciociaria. Se il Neorealismo significava prima di tutto radicarsi nelle varie problematiche nazionali, molto spesso, per ogni film che si faceva nelle varie realtà locali e regionali, veniva spontaneo di far parlare questi personaggi in dialetto o per lo meno, non tanto in un dialetto stretto che poteva rendere incomprensibile il sud al nord e il nord al sud, ma in una lingua italiana che fosse contaminata, che avesse un accento, con qua e là ogni tanto la battuta direttamente in dialetto. Questo era il problema che veniva fuori attraverso il lavoro di sceneggiatura che gli sceneggiatori di volta in volta facevamo attraverso le varie esperienze. Visconti, ad esempio, ne La terra trema – Episodio del mare (1948) nella copia originale fece parlare tutti i pescatori di Aci

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Trezza, in dialetto siciliano stretto, persino incomprensibile a Visconti stesso, perché loro non conoscevano la lingua italiana. Per Visconti, ovviamente, era una scelta politica oltre che una provocazione polemica. Visconti lo fece per sottolineare che la decantata unità d’Italia era un’unità con molte sfasature, con molte ingiustizie, appunto per denunciare che il sud a quell’epoca veniva abbandonato. Per altri registi questo modo di fare cinema significava isolarsi dal rapporto con il pubblico nazionale e intendevano invece lavorare in una direzione in cui il pubblico fosse il destinatario dei loro film, perciò quell’operazione di Visconti fu considerata un’operazione radicalizzante, che poi il regista stesso stesso dovette alterare accettando di far mettere i sottotitoli in italiano oppure il doppiaggio del film in una lingua un tantino più comprensibile. Mario Alicata, allora portavoce della politica comunista nel meridione era contrario all’inserimento del dialetto nei film regionali, locali, e sosteneva la tesi che in realtà il cinema essendo finzione, anche la lingua poteva essere una lingua di finzione, e che i personaggi, sia pure appartenenti a società e a civiltà locali, oppure essendo borghesi, operai o contadini, dovessero parlare una lingua che fosse non solo comprensibile, ma il più possibile poetica e il più possibile ricavata o di diretta dipendenza dall’italiano. Alicata portava ad esempio i romanzi di Verga, dove sia pure nel periodare, nelle frasi e nel componimento della lingua, c’era un substrato e una derivazione dal dialetto siciliano, ma il dialetto non veniva mai parlato in modo diretto, ma veniva semmai mediato attraverso quello che questo dialetto aveva accumulato nella sua storia dalle altre influenze linguistiche delle varie occupazioni dell’isola. Per concludere vorrei soffermarmi sull’elogio al neorealismo fatto da Pier Paolo Pasolini con una poesia modellata sull’orazione di Antonio a Cesare nel Giulio Cesare di Shakespeare, partendo da una critica al saggio di Carlo Cassola del 1958. Pasolini, sebbene affermi di non voler fare un elogio al neorealismo, traccia quelli che ne considera i meriti: stile misto, difficile e volgare che ha allargato il vocabolario della lingua italiana e ha aperto le porte al proletariato. Pasolini vede in quel movimento un rinnovamento storico di portata ideologica e rivoluzionaria che comunque si è esaurito negli anni cinquanta ma che ha lasciato in eredità Calvino, Morante, Gadda,

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Levi, la rivista «Officina», Bassani e lo stesso Cassola. La critica venuta dopo, negli anni sessanta, nella sua ricerca antirealista e neoavanguardista non ha tenuto molto in considerazione la situazione storica che ha dato vita al neorealismo. Calvino stesso, nel 1964 nella già citata prefazione, riferendosi alle ragioni extraletterarie che contaminavano o restringevano il lavoro letterario conferma che gli scrittori si erano posti il problema di trasformare in opera letteraria quel mondo che era per loro il mondo. Noi oggi invece ci poniamo il problema di capire quel mistero che per loro era “il mondo.”

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ENRICO BERNARD

Esiste un teatro neorealista?

Moravia e Bernari – considerati i precursori del neorealismo – non hanno mai gradito una schematizzazione rigida. Infatti, pur apprezzando il cinema del dopoguerra, questi scrittori hanno ripetutamente insistito sulle diversità tra le loro opere e il cinema neorealista. E più la critica ha puntato per comodità ad un “contenitore” unico per il cinema neorealista del dopoguerra e la letteratura del periodo 1927-1934, più Moravia e Bernari hanno mostrato insofferenza ed hanno preso anche strade diverse e contraddittorie rispetto a certe “riduzioni” scolastiche delle rispettive più complesse poetiche. Entrambi, insomma, si sono sempre sentiti un po’ stretti e stritolati nei panni degli eterni “antesignani” delle arti della seconda metà del XX secolo. Di quali differenze si tratti, è presto detto. Il primo cinema neorealista del Rossellini di Paisà e Roma città aperta, dei De Santis, Lizzani, Maselli de Il sole sorge ancora, tende per scelta ideologica al documento e ad una visione critica della realtà, ma con un soggettivismo limitato allo stretto necessario (con alcune significative eccezioni come Umberto D. e Sciuscià di De Sica, grazie anche alla collaborazione con Zavattini che modifica lo stile neorealista). Al contrario la letteratura di Moravia e Bernari non può prescindere da una visione psicologica, interiorizzata, esistenziale e surreale del mondo. Qui le strade tra letteratura e cinema neorealista si dividono: per la letteratura il rapporto con la realtà è un meccanismo per entrare nell’ambito del contenuto esistenziale dei personaggi, invece il cinema neorealista degli anni ’44-’50 “usa” l’individuo per descrivere una realtà storica o sociale. Così, mentre nelle

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opere d’esordio di Moravia e Bernari, Gli indifferenti del 1929 e Tre operai del 1934, il contesto fa da sfondo al dramma interiore dei personaggi, nel cinema il “contesto sociale” è “ideologicamente” prevalente. Il che non è una critica, ma una constatazione oggettiva delle diversità tra i due generi, film e romanzo neorealisti. Differenze che, peraltro, si manifestano e si attenuano di volta in volta essendo ovviamente ogni caso abbastanza specifico e a se stante, soprattutto parlando di artisti legati dalle tante vicissitudini umane, dalla lotta politica e dall’ideologia. In una conferenza tenuta negli Stati Uniti e raccolta da Antonio Vitti, uno dei Maestri del neorealismo, Peppe De Santis, spiega che le influenze letterarie sul suo cinema sono prevalentemente “americane” (Steinbeck, Hemingway ecc.), limitando il suo rapporto con la letteratura italiana a soli due casi: Gente in Aspromonte di Alvaro e Tre operai di Bernari. … ma insomma, salvo questi rari esempi in cui la narrativa italiana prendeva contatto con la grande realtà italiana, soprattutto delle classi subalterne, bisogna risalire solo ad un grande scrittore che è Giovanni Verga.1

La questione di un velato e critico distacco tra la letteratura italiana e il cinema neorealista è evidente nelle parole e nei pochi riferimenti testuali citati da De Santis. È d’altra parte pur vero che il cinema “neorealista” ha avuto una sintonia di intenti ideologici, un comune sentire con gli scrittori considerati precursori di questo genere. Non si può certo ignorare l’influenza che un romanzo come Tre operai può aver avuto su Ladri di biciclette, per esempio. Allora la stretta parentela tra il cinema e la letteratura neorealisti è data dalla “posizione” etica e morale dell’autore che si esprime ideologicamente e politicamente, tanto per cominciare dalla scelta del tema del racconto o dello scenario, nonché dalle finalità – diciamo chiaramente rivoluzionarie e marxiste – che si propongono queste opere, certamente non realizzate per l’intrattenimento.

1

A.Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso, Pesaro, Metauro, 2006, p. 2.

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Non si tratta quindi di minimizzare i legami tra letteratura e cinema neoralisti, bensì di riesaminarli nella loro giusta luce. Non è del resto un caso se delle tre opere narrative considerate “antesignane” del neorealismo (Gli indifferenti di Moravia, Gente in Aspromonte di Alvaro e Tre operai di Bernari), nessuna ha avuto una significativa trasposizione cinematografica. E ciò nonostante i tentativi non pienamente riusciti di un regista del calibro di Citto Maselli che cerca di fare letteratura col cinema, mentre Bernari e Moravia pensavano piuttosto a far cinema con la letteratura. Scrive il Mereghetti a proposito della versione filmica de Gli indifferenti girata da Citto Maselli del 1964: la lettura è discutibile perché non riesce se non in parte a far affiorare il groviglio malato delle psicologie dei suoi personaggi.2

Naturalmente questo giudizio verte sul fatto che il regista, in pieno pathos neorealista, coglie sì l’aspetto sociale della critica alla classe borghese, ma lascia come in sospeso il rovello interiore dei personaggi. Maselli descrive insomma l’ambiente sociale e le “contraddizioni”, ma perde di vista il dramma esistenziale fortemente presente nell’opera di Moravia. Aggiungo che l’unico esempio di un felice incontro letteratura\cinema neorealisti resta il film scritto da Bernari e Pratolini per Nanni Loy: Le quattro giornate di Napoli. Si tratta però di un evento conclusivo del primo neorealismo: siamo infatti nel 1962 e il cinema sta per dar vita alla “Commedia all’italiana” di cui lo stesso Loy, con la sua vena surreale, sarà protagonista, fino al grottesco Mi manda Picone del 1983. Occorrono del resto venti anni dal 1962 delle Quattro giornate e quasi mezzo secolo dall’uscita di Tre operai, affinché il cinema recuperi il vero contenuto esteticamente espressionista e ideologicamente “socioesistenziale”, - mi si perdoni un ossimoro che rende però l’idea di una crisi individuale che scaturisce dal cortocircuito con la società, - della letteratura neorealista degli Anni ’20 e ’30. Mi riferisco a Le occasioni di Rosa di Piscicelli del 1981 in cui la Napoli grigia e postindustriale di Tre operai trova un possibile cor2

Cfr. Dizionario dei film, Milano, 2005, p. 1295.

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rispettivo cinematografico. Non a caso il cosiddetto “neo-neorealismo” di Salvatore Piscicelli – uso una formula lanciata anche in questo caso da una critica un po’ schematica e superficiale – è molto più affine alla letteratura “neorealista” (uso le virgolette per distanziarmi dallo schema generico) di quanto non lo sia stato il cinema di Rossellini, De Santis, Lizzani, Maselli. Il mio discorso – ripeto a scanso di equivoci – non allude ad una scarsa sintonia tra gli scrittori precursori del neorealismo e i cineasti dell’immediato dopoguerra: sarebbe inutile sottolineare le affinità, le simpatie, le collaborazioni, insomma il “comune sentire”, l’impegno e gli ideali dei protagonisti della letteratura e del cinema tra il 1927 e il 1950. Resta il fatto però, e qui voglio dare un ulteriore contributo analitico, che parlando di rapporti cinema-letteratura neorealista bisognerebbe chiamare in ballo un terzo soggetto, o meglio un alleato: il teatro. Naturalmente non mi riferisco ad un parallelismo strutturale tra la rappresentazione teatrale e il cinema: sarebbe fin troppo facile osservare che entrambe le arti sono costituite da immagini e dialoghi; e che la scrittura teatrale (il copione) è in realtà una forma di sceneggiatura che Bernari sperimenta in Tre operai. Non mi dilungo su questo argomento che ho già trattato in uno scritto apparso sul Nr. 4 - 2006, pag. 5-26 di «Esperienze Letterarie» direttore Marco Santoro. Voglio invece dire che la letteratura neorealista ha attinto dal teatro a piene mani, ad esso restituendo – ecco come la letteratura considerata “incunabolo del neorealismo” perviene all’anticipazione del cinema contemporaneo – una costruzione letteraria più per la scena che per la pagina o, se vogliamo, più cinematografica, cioè fatta di didascalie, punti di vista, espressioni fortemente evocatrici di immagini e dialoghi. Le arti naturalmente si toccano sul piano temporale della conteporaneità e si influenzano vicendevolmente; così i fumi delle ciminiere e i chiaroscuri delle ombre umane della pittura di Sironi si trasferiscono nell’immaginario narrativo di Bernari che anticipa il bianconero neorealista (per altro difficilmente raffigurabile a colori). Ma il teatro – e di ciò si è parlato finora poco – interviene ben più in profondità sulla scrittura di Bernari e di Moravia. Il teatro determina uno “spostamento” ideologico dell’autore che non è più come in Manzoni o come nel verismo di Verga osser-

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vatore esterno e passivo dei drammi umani e sociali. Grazie al teatro, nella narrativa neorealista lo scrittore scende in campo, sale alla ribalta, partecipa al dramma come un protagonista sulla scena. La narrativa del ‘900 che si apre al soggettivismo e al relativismo coglie così l’attualità della scrittura teatrale – e vi si adegua – trasformando la figura del narratore nel tipico “deus ex machina” del Teatro, cioè l’Autore che non è mai – drammaturgicamente parlando – estraneo alla rappresentazione. Ricordiamo che Dioniso – Autore per eccellenza – è sempre presente nella tradizione teatrale con un posto in sala a lui dedicato. Ho già brevemente accennato all’argomento formale della scrittura teatrale (dialogica e per didascalie utili ad immaginare la scena) di cui si serve la narrativa del ‘900 che assorbe anche dalla pittura, oltre che dal teatro, per tendere ad una forma creativa oserei dire “cinematografica”, non semplicemente neorealista, ma anche espressionista, surrealista, ecc. nell’ambito di una forte e feconda contaminazione delle arti (vedi il romanzo del 1915 Si gira! di Luigi Pirandello). Voglio solo aggiungere che la passione teatrale e cinematografica di Bernari e Moravia è testimoniata da molti testi, saggi, recensioni anche di mostre e di pittori ed artisti del presente e del passato. Soprattutto Moravia è stato autore teatrale di una certa importanza nel panorama della drammaturgia italiana (ricordo solo per brevità La cintura, Beatrice Cenci, Il Dio Kurt) dedicandosi al cinema, al pari di Bernari – che pure qualche testo teatrale lo ha prodotto (Roma 335, L’angelo vendicatore), – come autorevole voce critica. Insomma, i due scrittori antesignani del neorealismo, come vengono definiti dalle antologie, hanno sempre tenuta aperta la loro bottega rinascimentale ad una forma di creatività sintetica di più arti. Non può perciò stupire che mentre i Maestri del cinema del dopoguerra hanno accolto senza avanzare riserve l’etichetta di “neorealisti”, la stessa cosa non è avvenuta per Moravia e Bernari che hanno sempre percepito riduttiva e fuorviante una simile definizione. Proprio un grande personaggio del teatro ci offre un chicca a proposito del malumore nei confronti degli schematismi critici che servono solo a fare di ogni erba un fascio, forse facilitando il com-

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pito degli studiosi ma alterando e travisando il significato ed il valore delle opere letterarie. Eduardo in Ditegli sempre di sì del 1932 fa dire al Poeta provinciale e pedante Luigi Strada una frase molto ironica e significativa sull’abuso della critica: Avverto subito l’uditorio che, mentre la tematica delle mie composizioni è un fatto tutto personale, il ritmo, al contrario, si stacca, è vero, dalla formula ermetica, ma si aggancia alla corrente realistica e impressionistica, fatta di chiazze opache e di spiragli allucinanti, il cui filone trova larvati riscontri in tutta la letteratura valida avanguardistica degli ultimi vent’anni...3

Posso aggiungere un curioso episodio di cui sono testimone oculare. Nel settembre dei primi Anni ’60 accompagnai mio padre Carlo Bernari in gita a trovare Eduardo nella sua villa sulla costiera amalfitana. Mettendoci a tavola per la cena ci fu una scherzosa disputa tra mio padre e Eduardo che rifiutavano di sedersi a capotavola in qualità di “Maestri” – tantomeno del neorealismo. Etichetta che Bernari definì «un pressappochismo dei critici». La risposta di Eduardo non si fece attendere: «Carlé, chille, ‘e criteche, ‘n capiscon ‘nu cazzo». L’episodio ebbe un seguito perché Eduardo scrivendo la sceneggiatura di Ditegli sempre di sì per la versione televisiva corresse il termine “Realismo” pronunciato dallo pseudopoeta Luigi Strada in “Neorealismo”, volendosi comunque agganciare ad una querelle che era nell’aria. Certamente, al di là del goliardismo con cui Eduardo vuol rappresentare il suo personaggio, il riferimento è degno di nota perché l’Autore mette alla berlina una certa ottusità della critica che parla di «letteratura neorealista antesignana del cinema neorealista», dimenticando la grande tradizione “realista e popolare” del teatro napoletano di Antonio Petito e del grande Raffaele Viviani, di cui Eduardo – figlio di un altro notevole autore e attore napoletano, Scarpetta – a partire dalla seconda metà degli Anni ’20 è il prosecutore ideale e naturale. Questa “prosecuzione” del realismo della tradizione teatrale napoletana da parte di Eduardo sfocia nel 1932, – Moravia ha appena 3

Ditegli sempre di sì, in Cantata dei giorni pari, Torino, Einaudi, 1956, p. 165.

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esordito e Tre operai di Bernari è in corso di stampa, – in un capolavoro della letteratura teatrale contemporanea: Natale in casa Cupiello. Il fatto curioso è che la genesi di Natale procede di pari passo con quella del romanzo Tre operai di Bernari, cioè a partire dal 1929 circa, da un punto di vista non solo temporale, ma anche intellettuale, tematico e ideologico. Il protagonista del romanzo di Bernari, Teodoro, è uno “spostato” che tra l’altro ha grandi difficoltà ad alzarsi la mattina, proprio come Nenniniello di Eduardo il cui ossessivo «Non mi soso» (non mi alzo) fa eco alla lamentela di Teodoro: «Chi ha stabilito che bisogna alzarsi la mattina presto per andare al lavoro!». Entrambi, Teodoro e Nenniniello, aspirano ad una vita migliore, rifuggono il lavoro e finiscono per vivere di espedienti. Certo, le esigenze teatrali spingono la figura di Eduardo verso la macchietta, mentre a Teodoro spetta il dramma esistenziale dell’eterno fanciullo insoddisfatto e irrealizzato nella società. Ma al di là delle diverse esigenze narrative, i due personaggi hanno insospettabili punti in comune, anche sotto l’aspetto fisico: a loro manca sempre terreno sotto i piedi, sono instabili e come in bilico sull’orlo del destino (Nenniniello ruberà le scarpe allo zio). E se ci si chiedesse da dove derivino queste due figure, la risposta sarebbe semplice: naturalmente dalla tradizione napoletana di Felice Sciosciammocca ripresa dal padre di Eduardo, Scarpetta, che Bernari (nato nel 1909), napoletano e avido di cinema e teatro, ben conosce fin da ragazzo. Ma le affinità tra il romanzo di Bernari e l’opera teatrale di Eduardo non finiscono qui. La figura del padre laborioso di Teodoro trova un’eco nel personaggio di Lucariello, l’industrioso protagonista alle prese col suo presepe. Ed anche la figura morale della madre di Nenniniello, così tragicamente consapevole del proprio ruolo e del dramma esistenziale che si sta vivendo al di là della farsa, ha tanto da spartire con la madre di Teodoro che assolve nel romanzo di Bernari ad una funzione di voce della coscienza del protagonista. Le ambientazioni popolari del romanzo nella sua prima versione intitolata Gli stracci e dell’opera teatrale sono pressoché identici, la piccola borghesia napoletana. Con l’unica benché forte variante del tema politico e la raffigurazione di una nuova classe sociale a Napoli: il proletariato e la fabbrica. Infatti nei Tre operai (versione

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ultima del romanzo di Bernari) – e in ciò consiste lo “scarto” in fatto di modernità critica di Bernari rispetto ad Eduardo, – siamo alle prese con un mondo nuovo, la fatiscente industrializzazione del sud, di fronte alla quale lo Sciosciammocca-Teodoro è un disadattato non solo sociale (Eduardo) ma anche e soprattutto politico e ideologico (Bernari). Ma in Napoli milionaria del 1945 Eduardo affronterà con più vigore i temi ideologici e politici del neorealismo cari al cinema coevo: la guerra, la resistenza e la ricostruzione. Temi che pure Bernari tratta in un romanzo che vede la luce in questi anni, Prologo alle tenebre scritto tra il 1943 e il 1946, a cui farà seguito Speranzella nel 1949. Tra buio e luce, sole e notte, speranza e delusione, la visione di Eduardo e Bernari è pessimistica: la liberazione non ci ha liberati dal vero e nemico dell’umanità, il Capitalismo, di cui il fascismo è una delle tante facce, come dichiara anche il pasoliniano intellettuale-corvo in Uccellacci-uccellini del 1966. Allora, la vera liberazione non può avvenire che “per magia” come allude il capolavoro del neorealismo magico del binomio De Sica-Zavattini, Miracolo a Milano. La questione che però ponevo inizialmente è quella legata allo stretto rapporto tra la tradizione teatrale napoletana e il primo “neorealismo” di Bernari. Vi sono innumerevoli riscontri di questi fermenti e delle atmosfere che passano da un’opera all’altra, da un genere all’altro. Basti pensare che se il teatro napoletano popolare fu osteggiato dalla corrente intellettualistico-borghese del verismo della Serao e dell’estetismo lirico di Di Giacomo, è proprio Bernari a schierarsi contro la poesia digiacomiana a favore del crudo e cupo lirismo popolare sia di Viviani che di Ferdinando Russo, poeta del quale Bernari ha curato nel 1986 l’opera completa.4 È comunque evidente che Bernari ed Eduardo (ricordiamo che Bernari è di nove anni più giovane di Eduardo che nasce nel 1900) attingono a piene mani alla tradizione popolare del teatro napoletano. Realismo che tocca punti di grande modernità con diverse opere di Raffaele Viviani, ad esempio I pescatori del 1926 che forse

4

F. Russo, Poesie, a cura di C. Bernari, Napoli, Bideri, 1984.

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ha pure ispirato qualcosa a Rossellini per Stromboli. Posso del resto personalmente testimoniare l’influenza di Viviani su Bernari, il quale amava spesso citare alcune battute teatrali del grande autore teatrale partenopeo, atteggiandosi spassosamente anche ad imitare la vivianesca figura di Scartellatiello nel fingere un’inesistente zoppìa che mandava in bestia mia madre. Il critico e pittore napoletano Paolo Ricci sostiene che il teatro di Viviani: nella sua folgorante sintesi anticipa uno stile che avrà poi sviluppi illustri nella letteratura come nel teatro e che troverà riconfermati, successivamente, in Brecht e Garcia Lorca, fino a Gadda, Pasolini e Bernari, gli esempi più convincenti del modo come, alimentandosi di linfe popolari, accogliendo il linguaggio e a volte il gergo della plebe, si possano raggiungere contenuti universali e livelli poetici sorprendenti.5

Con l’analisi di Paolo Ricci tocchiamo un punto cruciale del discorso. Anzitutto, devo ricordare che Paolo Ricci è fin da giovane amico, compagno e ispiratore di Bernari. Sono proprio Ricci e Bernari, col filosofo Guglielmo Pierce, a firmare nel 1929 il manifesto dell’UDA, Unione Distruttivisti Attivisti, un movimento che cerca di spostare l’asse del futurismo verso il socialismo, anticipando il tema della Macchina che può trasformarsi in forma di oppressione se non viene utilizzata per liberare l’uomo dalla schiavitù del lavoro. Ed è proprio Paolo Ricci a mostrare l’anello di congiunzione mancante tra il neorealismo di Tre operai e il realismo popolare napoletano di Viviani, un rapporto che crea come effetto-catena un successivo passaggio, cioè da Viviani-Bernari ad Ugo Betti: ...tentai di sviluppare un discorso inteso alla valorizzazione del teatro vivianesco. A questo proposito, nei miei rapporti con Carlo Bernari, anch’egli estimatore di Viviani, ebbi più volte occasione di parlarne. Era il momento del grande successo teatrale di Ugo Betti e in particolare del dramma Frana allo scalo nord. Betti era amico di Bernari, pregai perciò quest’ultimo di invitare Betti a considerare 5

P. Ricci, Ritorno a Viviani, Roma, Editori Riuniti, 1979, p. 64.

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26 l’ipotesi di una sua collaborazione con Viviani. Il 14 giugno del 1937 Bernari mi scrisse: Caro Paolo, ho parlato a Betti di Viviani. È entusiasta... Viviani ha qui, nell’ambiente intelligente, degli amici insospettati. E molti già parlano di un Betti vivianizzato...6

Se Bernari esagera un po’ nel parlare a Ricci di un Betti “vivianizzato”, pur se dal carteggio Viviani-Ricci-Betti-Bernari emerge una forte sintonia tra questi scrittori, è anche vero che Ricci stesso mischia le carte in tavola con qualche enfasi parlando di un Viviani “bernarizzato”: Non a caso Viviani si aggancia ai temi della letteratura mitteleuropea del primo novecento, riallacciandosi, peraltro, allo scrittore a lui più affine, cioè a Carlo Bernari e ai suoi Tre operai.7

L’opera di Viviani è però, in gran parte, antecedente alla data di pubblicazione di Tre operai, 1934. Il che significa che è Viviani, (nato nel 1888) il punto di riferimento di Bernari e, naturalmente, di Eduardo, – non viceversa. È altresì interessante notare come il teatro di Viviani non subisca solo una osmosi “naturale” in Eduardo ma, attraverso un narratore come Bernari, vada ad influire su un altro autore, diverso per origine, estrazione, cultura e tematiche, come Ugo Betti, che di professione fa il giurista. Betti (nato nel 1892) ottiene il primo successo con Frana allo scalo nord, dramma scritto nel 1932, pubblicato nel 1935 e rappresentato la prima volta al Teatro Goldoni di Venezia nel 1936. L’opera drammatica di Betti suscita subito l’interesse di Bernari che scorge nell’autore originario di Camerino un “alter ego” teatrale. Cosa collega Bernari a Betti? Guarda caso: tre operai. Infatti il dramma di Betti inizia da un “neorealistico” fatto di cronaca: una frana che ha sepolto tre operai. Ora, il romanzo di esordio di Bernari si intitola nella prima versione del 1929-1930 Gli stracci, mentre il titolo e la stesura definitiva di Tre operai sono del 1932. C’è di più: mentre il Teodoro de Gli stracci è un giovane di estrazione piccolo-borghese, improvvisamente nella stesura successiva del 1932 (Tre operai 6 7

P. Ricci, op. cit., p. 172. P. Ricci, op. cit., p. 174.

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appunto) diventa il figlio di una famiglia operaia. Le date, le ricorrenze e le concomitanze non escludono, anzi sembrano proprio avvalorare l’ipotesi di un continuo rapportarsi della letteratura al teatro e viceversa, soprattutto in questi anni. Certo, stilisticamente Frana allo scalo nord e Tre operai sono differenti. Tanto per cominciare Betti ambienta il suo dramma in un’aula di tribunale dove si crea un’atmosfera kafkiana già dai nomi dei protagonisti: l’imprenditore Gencker, l’operaio Bert, il pubblico ministero Goetz e il giudice Parsc. Invece Bernari tende ad una visione che definerei più un’anticipazione dell’esistenzialismo politico di Sartre. Aggiungo, tanto per complicare le cose, che il secondo romanzo di Bernari L’ombra del suicidio ovvero Lo strano Conserti (del 1936 data stesura, ma pubblicato postumo) rafforza quelle tendenze kafkiane e surreali che porteranno anche Betti al suo capolavoro teatrale, Corruzione a Palazzo di Giustizia del 1945. Non posso qui dilungarmi su questo argomento, perché un confronto tra l’opera rimasta a lungo inedita di Bernari e Corruzione di Betti necessiterebbe di un saggio a parte. Basti sapere che gran parte della successiva narrativa di Bernari, fino alla metà degli Anni ’80, sarà dedicata al tema della corruzione e della caduta degli ideali (Era l’anno del sole quieto, Tanto la rivoluzione non scoppierà, Il giorno degli assassinii). In conclusione è possibile affermare che come il teatro di Machiavelli, Aretino e soprattutto Goldoni ha creato i presupposti del grande realismo manzoniano, così il teatro di Viviani anticipa gli elementi “neorealisti” del teatro di Eduardo e di Betti e della narrativa di Bernari che sarà protagonista dell’apertura di un terzo fronte: il cinema. Infatti l’osmosi di temi, atmosfere e personaggi dal teatro al cinema trova in Tre operai di Bernari, come pure nei tre operai protagonisti della Frana di Betti, un esempio della possibilità di trasformare il romanzo in cinema partendo dal teatro. Come? Attraverso l’invenzione di una nuova forma di scrittura: il trattamento. Uno stile che Bernari elabora proprio nel suo capolavoro d’esordio sotto l’influenza del cinema surrealista, della pittura di Sironi e – soprattutto – del teatro popolare di Viviani. Sembra quindi impossibile impostare qualsiasi discorso sul cinema e sulla letteratura neorealista senza capire l’importanza del tea-

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tro nella formazione della narrativa di Bernari e Moravia che hanno in Viviani e in Pirandello modelli drammaturgici di riferimento. Gli stessi modelli che Eduardo e Betti hanno ben presenti nella stesura di una drammaturgia che a buon diritto possiamo definire “incunabolo neorealista”.

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CLAUDIO BONDÌ

La balena di Rossellini

Gli anni americani di Rossellini sono gli ultimi e, con la perversione della casualità, sembrano chiudere un cerchio. Un percorso cinematografico e intellettuale, segnato da cambiamenti radicali di stile, di generi, persino di mezzi d’espressione, ricostruisce una sua simmetria. Rossellini in America ritorna sui suoi primi passi.1

A quasi quarant’anni di distanza s’intuisce che i viaggi e le permanenze americane di Roberto Rossellini dal 1969 al 1977, tra New York, San Diego, Houston, Santiago, Buenos Aires, Rio de Janeiro, più che spinti dalla sua oggettiva curiosità per le cose e per il mondo furono il frutto di aver anticipato dentro di sé, come molto altro, ciò che oggi chiamiamo globalizzazione. Rossellini, in pratica, si muoveva là dove accadevano le cose, dove gli era possibile attingere e confrontarsi con i momenti cerniera della storia, con le anticipazioni del futuro. Houston nel Texas, la Rice University, il Media Center della stessa Università, gli anfitrioni Jean e Dominique de Ménil, conosciuti a Parigi, rappresentarono il fulcro dell’attività nei primi anni settanta. I coniugi de Ménil, petrolieri miliardari emigrati dalla Francia nel 1940 – lei ereditiera della grande famiglia Schlumberger, collezionisti d’arte, mecenati che avevo contribuito a realizzare il Media Center dell’università, furono tra i primi a promuovere ed assecondare la sua antica passione per la tecnologia, la biologia, la scienza. 1

G. Bruno, «Filmcritica», n° 374-375, anno XVIII maggio-giugno 1987.

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30 Rossellini in America, a Houston, a Rice University sembra tornare sui suoi passi d’esordio. Aveva cominciato, infatti, nel 1936 con un documentario sulla natura, Il ruscello di Ripa sottile e poi nel 1937 con Fantasia Sottomarina un documentario sui pesci il cui movimento egli stesso organizzava attraverso dei fili. Lì, a Houston, l’interesse per la natura, per la biologia, ritornano: Rossellini “scoprì” la cultura scientifica e tecnologica dell’America e trovò le condizioni per lavorare ad un vasto progetto incompiuto di un film della durata di circa dieci ore che chiamò semplicemente La scienza.2

Nella città texana era capitato negli anni in cui la scienza, appunto, la tecnologia erano sotto i riflettori di tutto il mondo: gli anni della gara spaziale con l’Unione Sovietica, dei viaggi sulla Luna, del centro aerospaziale della NASA, dell’istituto di cardiochirurgia, ecc. Nei suoi ultimi dieci anni papà stava moltissimo a Houston e ci parlavamo moltissimo lo stesso, ma per telefono. Papà [...] sentiva la necessità di fare una grande esperienza scientifica, cioè capire l’evoluzione della scienza, capire in che direzione andava il pensiero umano.3

Scienza, televisione e storia che l’allunaggio del luglio ‘69 aveva coniugato tra loro, erano connesse alla posizione artistica ed ideologica del Rossellini di quegli anni. Da un cinema che intendeva rendere visibile la realtà senza diaframmi interpretativi, «io non voglio dimostrare nulla» diceva spesso, il passo verso la televisione fu un atto conseguenziale, automatico. L’interesse di Roberto Rossellini per la televisione durava ormai da quasi venti anni, dai documentari indiani in poi, poiché aveva intuito, prima di altri, che questo mezzo gli consentiva di offrire visibilità e documentazione diretta di fatti e conoscenza, e dunque contribuiva ad educare il pubblico. «E la scienza – linguaggio ritenuto inaccessibile ed oscuro ai più – suscitava la dissacratoria tentazione di svelarne codici e meccanismi come egli andava insinuando nei film storici per la televisione».4 G. Bruno, op. cit. R. Rossellini, in F. Faldini e G. Fofi, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984, Milano, Mondadori, 1984, pp. 110-111. 4 G. Bruno, op. cit. 2 3

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Proprio nei film televisivi di quegli anni Blaise Pascal del 1971 e Cartesius, l’ultimo del 1974, per strade traverse, tutta la consapevolezza scientifica acquistata nei soggiorni americani trovava una via di comunicazione, un anticipo dello sviluppo che l’evoluzione della tecnologia e delle scienze hanno significato per la storia: quella con la S maiuscola. Così la circolazione del sangue in un’anguilla, o il telescopio in Cartesius, come la calcolatrice di Pascal derivano direttamente dalle immagini della circolazione extra corporea del sangue nella macchina cuore-polmoni filmata a Houston, come dalle riprese sul grande telescopio di Arecibo di Portorico, lo strumento d’osservazione dello spazio tra i più avanzati agli inizi degli anni settanta. Chi scrive ha fortunosamente ritrovato alcuni anni fa nel fondo dimenticato di una borsa un pacco che contiene il trattamento originale in inglese e la traduzione italiana del progetto La scienza, scritto in collaborazione con il biologo Clark Read. L’elenco totale (?) dei materiali girati e conservati tra Rice University (2h in 16 mm colore) de Menil Foundation di Houston, State University of New York a Buffalo (4h, 30’ h: 5 videocassette U matic), 4 Ampex Helican scanner video conservati a Houston senza minutaggio e con il titolo «Rossellini Conference» non più visibili a Houston perché il riproduttore video magnetico più vicino del sistema Ampex Helican Scanner (ormai tecnologicamente obsoleto) dicevano si trovasse ad Atlanta, Science 16mm b&w c/o William Colville Smithville Texas. Più altri materiali registrati presso la rete televisiva locale KUHT channel 8. Insieme a queste pagine sono accluse copie di lettere di presentazione presso istituzioni americane interessate al progetto Science, fotocopie di articoli di giornali americani sull’attività e la filmografia di Rossellini dal 1946 al 1974. Di questi materiali alcuni sono conosciuti e sono stati montati a Roma tra il 71 e il 73: come la ripresa della prima macchina per la circolazione extra corporea messa a punto dal Centro di cardiochirurgia di Houston, o la visita e il funzionamento del telescopio di Arecibo a Portorico e infine l’esame delle pietre lunari con Rossellini presente. Nelle carte ritrovate non si fa cenno ai contenuti degli altri materiali audiovisivi. È stato emozionante sul piano personale (ho lavorato come aiuto regista per Roberto Rossellini dal 1971 al 1973) ritrovare all’im-

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provviso una parte di vita che in qualche modo era stata un po’ mia, ma ancora di più scorrere il progetto incompiuto La scienza nel quale si riconosce la metodologia d’approccio che fu il nodo centrale degli ultimi anni di Rossellini. Lo script, ora in parte pubblicato,5 rivela una concezione di scienza che diventa sinonimo di conoscenza.6 Rossellini voleva indagare, sulla natura: la fisica, la chimica, la biologia: il sapere scientifico unito al medium cinematografico e televisivo si costruiva secondo la sua ipotesi attraverso un processo dialogico in cui coinvolgere ricercatori e scienziati. Rossellini avrebbe voluto proporre, attraverso questi dialoghi, una sintesi tra cinema e scienza, tra scienziato e cineasta. Egli amava ripetere, con un po’ di understatement, che nella sua lunga carriera aveva girato sempre un unico film: dai documentari, al periodo neorealista, da Viaggio in Italia alle ricostruzioni storiche per la TV. Aggiungeva che in fondo «aveva parlato solo dell’uomo» e questo sarebbe stato chiaro a tutti se si fossero proiettati i suoi films in ordine di cronologia interna : da Socrate a Rogopag passando per gli Atti degli apostoli, Il Messia, Agostino d’Ippona, Francesco Giullare di Dio, Giovanna d’Arco al rogo, L’Età dei Medici, La presa di potere di Luigi XIV, Pascal, Cartesius, Vanina Vanini, Viva l’Italia!, ecc. ebbene, nella proiezione dell’opera omnia egli immaginava che La Scienza sarebbe stato il capitolo della sintesi e delle prospettive future. La descrizione, per quanto necessariamente sommaria, dell’attività di Rossellini negli Stati Uniti e quindi nell’America latina serve da prefazione per far comprendere che quanto si dirà in seguito o meglio quanto si racconterà, non è in contraddizione con le pagine precedenti ma anzi ne rappresenta un originalissimo corollario. Rossellini non ha mai cessato di essere un neo-realista intendendo questa definizione come un comunicatore di “cose viste”. Non trovava nell’approccio alcuna differenza tra la trilogia della guerra e il suo cinema successivo. Considerava cinema anche la sua esperienza 5 AA.VV., Roberto Rossellini, progetto multimediale Ente autonomo di gestione per il Cinema, in occasione del festival Italy in Houston, 22-31 ottobre 1987 da pag. 169 a pag. 211, in lingua inglese. 6 cfr. C. Bondì, Roberto Rossellini, sognando la scienza, per Format Rai Tre, dur. 55’, 1997.

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televisiva, poiché la televisione era la messa in onda, la grande sala, non la tecnica di ripresa,7 o l’impianto della struttura narrativa. Proprio mentre alternava viaggi e soggiorni negli Stati Uniti, la scrittura del Caligola e le riprese di Blaise Pascal fu raggiunto a Houston dove stava insegnando al Media Center di Rice University, da una telefonata del figlio Renzo che così ricorda: Io avevo cominciato a lavorare per Salvador Allende in Cile, per illustrare le difficoltà economiche ereditate, dal precedente governo, da Allende e la sua Unidad popular. Avevo organizzato un aereo di giornalisti e intellettuali europei da portare in giro per il Cile, l’Operacion Verdad. Avevo portato una mia troupe [...] che documentasse questa Operazione Verità. Niente! Commentavamo con Allende, nessun giornale in Europa parlava di niente. Proposi allora ad Allende di rilasciare un’intervista televisiva a mio padre per incrinare il muro di silenzio. Allende accettò. Telefonai a papà a Houston, e lui accettò entusiasta e si precipitò a Santiago del Cile. Lo presentai ad Allende, si piacquero e cominciarono a parlare per preparare l’intervista. Realizzarono un primo incontro alla Moneda, la presidenza della Repubblica [...] il giorno successivo ci spostammo per le riprese a casa di Allende a calle Tomàs Moro.8

Era il maggio del 1971. Rossellini s’innamorava delle persone ed era oggetto d’amore. Torna dal Cile con materiale documentario sulle miniere di rame a cielo aperto filmate dal figlio per un documentario, e «le immagini fotografiche delle galassie riprese dall’osservatorio di Cerro Tololo»9 quindi l’intervista viene montata e successivamente mostrata al presidente cileno. Poi ritorna in Italia a Roma, sta cominciando la preparazione di Agostino d’Ippona, con un’idea, la trama di un film ispirato ad un 7 Girò tutte le biografie televisive con una macchina da presa Mitchell con negativo colore 35 mm, registrando una colonna guida dei dialoghi e quindi doppiando in studio di registrazione. 8 Renzo Rossellini, filmografia completa di RR in Roberto Rossellini, Islam, Roma, Donzelli, 2007. Roberto Rossellini, La forza e la ragione, intervista a Salvador Allende, maggio 1971 dur. 45’/36’, regia Emidio Greco, fotografia Roberto Girometti prod. San Diego cinematografica, Roma. 9 Renzo Rossellini, op. cit.

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fatto di cronaca: il 28 ottobre del 1971 una grande balena si era arenata sulla spiaggia di una località a centocinquanta chilometri a nord di Santiago, Playa de Los Vilos. Da questo fatto Rossellini aveva tratto un apologo, una specie di parabola sulla ricchezza e sulla felicità. Propose a chi scrive di realizzarne un film sotto la sua supervisione. È Renzo Rossellini che ha trovato tra i numerosissimi fascicoli del padre, sceneggiature, progetti, appunti, un ritaglio di giornale del 28 ottobre del 1971. Recita così «El Mercurio» in un articolo a cinque colonne con fotografie: “Ballena Agoniza en la Playa de los Vilos”. Un hermoso ejemplar de ballena adulta herida por un arponazo, se debatìa, agotada por la hemorragia, entrel las agitadas aguas de El Totoralillo, unos 15 kilòmetros al sur de Los Vilos...[...] El cetaceo de unus 21 metros de largo e 25 toneladas de peso... 10

e casualmente Renzo ha chiesto a me, se ne sapessi qualcosa. Proprio a me, che quel giorno ero andato a trovarlo per regalargli una copia del mio libro La balena di Rossellini,11 e, come in un gioco di specchi, domandare a lui se conoscesse questo soggetto dimenticato. I lenti cerchi concentrici della storia arrivano a lambirci, a volte, come per una necessità: qualcosa cioè che spinge le persone e le cose verso una direzione, l’indizio che fa scoprire il colpevole, il biglietto ritrovato che vince alla lotteria. Chi ha avuto la fortuna di affiancare Roberto Rossellini, lavorarci insieme, ma anche soltanto conoscerlo e passare un’ora con lui, non può dimenticare, oltre l’umana simpatia, la capacità di seduzio10 G. Trejo, Ballena Agoniza en la Playa de Los Vilos, «El Mercurio», Jueves 28 de Octobre de 1971 trad: Una balena agonizza nella baia dei Los Vilos: un poderoso esemplare di balena adulta, ferita da un arpione, si dibatteva, indebolita per l’emorragia, tra le acque agitate del Totoralillo a 15 chilometri a sud di Los Vilos [...] Il cetaceo lungo 21 metri e di 25 tonnellate di peso.... 11 C. Bondì, La balena di Rossellini – autobiografia tra memoria e speranza, prefazione di L, Ginzburg, «Il vissuto sociale», collana diretta da M. I. Macioti Milano, Guerini e Associati, 2005.

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ne, il coraggio e l’intelligenza, la quantità continua di progetti, d’idee, di congetture che, come un fiume carsico, emergevano all’improvviso tra le sue parole, magari a pranzo, o durante un’intervista, al telefono, o in viaggio. Egli è stato l’ispiratore e l’anticipatore di tanto, tutto, – verrebbe da dire –, il cinema della seconda metà del ‘900, e questo ruolo maieutico gli è stato riconosciuto tra gli altri dalla nouvelle vague, dal free cinema di New York, dal cinema novo brasiliano. Decine d’autori in tutto il mondo sentono in lui il maestro. Federico Fellini interrogato in proposito disse con un’intelligente metafora: «Roberto è stato il vigile che, prendendomi per mano, mi ha aiutato ad attraversare la strada». Il soggetto che segue, fa parte di tanto cinema immaginato, raccontato o scritto, ma non realizzato, che Rossellini portava con sé aspettando il momento giusto o la persona con cui parlarne. Insieme ai lungometraggi che non trovarono posto nella filmografia, da Pulcinella, – la storia di un carro di comici napoletani verso la Francia di Luigi XIV – a La storia della rivoluzione industriale, da Caligola a Denis Diderot, alla Storia della rivoluzione americana, L’Islam ecc. ed appartiene del tutto al pensiero e alla poetica di Rossellini, anche se – bontà sua – sarei stato io a doverlo girare. Una premessa: di questo fatto non c’è stato e non c’è nulla di scritto, credo, se non l’articolo del quotidiano cileno «Il Mercurio» di giovedì 28 ottobre 1971. Lo riporto così come me lo racconta Roberto Rossellini a novembre del 1971, seduto dietro la scrivania della sala di presidenza del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove mi ero da poco diplomato.

In Cile, ottobre 1971 Un villaggio di pescatori sulla costa dell’Oceano Pacifico, in Cile. Sono poverissimi. Tanto poveri che non hanno attrezzi per la pesca, reti, barche, ma si limitano a raccogliere i granchi sulla battigia quando si ritira la marea e lascia scoperte centinaia di metri di fondo marino. Più che pescatori sono dei raccoglitori. Esercitano ancora la prima attività dell’uomo sulla terra.

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Il loro villaggio, benché povero, è un’oasi felice. Si scambiano l’un l’altro favori, gentilezze, le famiglie sono affiatate, i bambini piccoli seguono i genitori appena possono, nell’unica attività che conoscono: la raccolta dei granchi. C’è una famiglia, padre madre un vecchio nonno e quattro piccoli bambini, che è tra le più in vista del villaggio. Il vecchio è veramente un centenario sapiente e suo figlio forse il più abile raccoglitore di granchi: non si sa come, ma i suoi crostacei sono sempre i più grandi e i più belli. Ogni anno passano al largo enormi branchi di balene in viaggio dal sud al nord. Il villaggio intero si reca su una collina per osservare i cetacei, le enormi code, gli schizzi di vapore, il mare che sembra ribollire. Come sempre dopo un paio di giorni, finita la transumanza marina, tutto torna uguale: l’attesa del ritiro della marea, la corsa sulla piattaforma oceanica per raccogliere i granchi che escono spaesati dai loro buchi nella sabbia. Ma un giorno un evento inatteso rompe la quiete. Sulla spiaggia, proprio dove i pescatori si recano per il loro lavoro si è arenata una grande, immensa, balena. Tutti sono intorno al cetaceo, lo toccano, osservano i grandi occhi aperti che sembrano lacrimare. La balena è ancora viva. Anche la famiglia di Santiago, il pescatore più bravo, è intorno all’animale e i ragazzini, in un impeto di coraggio lo toccano più volte fuggendo via, subito dopo. Poi all’improvviso un tremito scuote il cetaceo, la balena muore. Tutti applaudono. Il villaggio si riunisce per decidere cosa fare di quell’immensa, insperata e provvidenziale ricchezza. Intanto si organizzano turni di guardia intorno al corpo dell’animale, mentre altri s’abbandonano tra le capanne a danze, solenni ubriacature, sonni ristoratori in vista dell’imminente opulenza. Ma quasi subito nascono i problemi su come dividere la balena e a chi dare le parti migliori: a chi l’ha vista per primo? Ai più anziani? Alle donne? Alle famiglie numerose? O in parti uguali a tutti ? E poi non sono d’accordo su come impiegare l’animale: chi vorrebbe avvisare il villaggio più vicino, dove ci sono pescatori veri, che sanno cosa fare di una balena, e chiedere il loro aiuto, chi invece vorrebbe

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mantenere il segreto e cercare di tagliarla lì, dividerla immediatamente tra tutti, prima del ritorno dell’alta marea. Insomma iniziano a discutere. Si formano dei partiti opposti. Gruppi di persone che si uniscono fuori dai legami di parentela, degli affetti, soltanto perché del medesimo parere su come utilizzare quel ben di Dio. Anche la famiglia di Santiago si sfascia. La moglie con i figli aderisce al partito del “Tutto e Subito “, mentre il vecchio nonno e il figlio sono tra quelli che vorrebbero avvisare il villaggio vicino. Passa l’intero giorno e passa anche la notte. Il mare minacciosamente ribolle nell’imminenza della nuova marea. Al villaggio le discussioni continuano tra urla, spintoni, disordine. Ognuno vuole parlare e ciascuno pensa di avere la soluzione giusta. Finalmente il vecchio saggio padre di Santiago riesce a far passare la sua proposta: interrogare un eremita, mezzo frate e mezzo stregone che vive alle pendici dei monti che si vedono poco lontano. Pare che tutti siano d’accordo e poco dopo parte un manipolo di giovani per interrogare il sapiente. Il villaggio s’addormenta. Al sorgere del sole si vedono i primi avvoltoi intorno al gran corpo morto, mentre il mare comincia ad avanzare. Inutilmente i più forti cercano di imbracare la balena per trascinarla ancora di più verso l’interno. È impossibile. I giovani intanto camminano lungo l’erta che porta al rifugio del vecchio eremita. Ma non sono nemmeno sicuri che esista veramente quest’uomo. Il sole si fa sempre più alto e oltre agli avvoltoi, mute di cani randagi cominciano ad avvicinarsi al grande animale morto. I più accorti girano con un fazzoletto intorno alla bocca e alle narici perché la carcassa comincia a puzzare. Le ore passano e la folla muta dei pescatori si raccoglie intorno al corpo della loro grande, inutile, ricchezza. I granchi cominciano ad aggredire anche loro le parti molli dell’incredibile preda. Finalmente a sera sopraggiungono di ritorno i giovani con la risposta sibillina del frate sapiente: «Non tutto il grano diventa farina ma tutta la farina diventa pane». Con queste parole nelle orecchie si chiudono nelle capanne a dormire.

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Il giorno dopo il mare ha raggiunto la coda del cetaceo che puzza in modo orribile, nessuno riesce più ad avvicinarsi. L’acqua sopraggiunge rapidamente e ricopre il corpo della balena. Com’era arrivata, la ricchezza se ne va all’improvviso. A cena non c’è nulla da mangiare, né granchi da bollire, né frittelle, né riso. I pescatori se ne vanno tristi nelle capanne, a digiuno. Un giorno ancora e sulla battigia non c’è più traccia del grande cetaceo ma al suo posto, nella buca profonda che ha lasciato prima di scomparire, formicolano centinaia e centinaia di granchi. Uomini e donne li raccolgono, i bambini corrono appresso a cuccioli di cane, e i vecchi preparano le ceste per portare i crostacei al mercato, in città. Ma la situazione politica in Cile si complica e non è possibile mettere in cantiere il piccolo film sulla balena, un docufiction si direbbe oggi. Sono molto deluso e dispiaciuto. Rossellini lo capisce e mi chiede di andare a fare l’aiuto regista nella prossima biografia storica televisiva Agostino d’Ippona da girare a dicembre e gennaio tra Pompei, Ercolano, Paestum, Stabia, Roma. È così che inizio a lavorare in televisione. Oggi, di quella storia non realizzata, mi colpisce intanto la simmetria tra la ricchezza promessa al villaggio di pescatori di Los Vilos per via della fortunata vicenda del cetaceo spiaggiato, e le speranze suscitate dall’esordio del governo di Salvador Allende «Nella più antica democrazia dell’America latina» come ebbe modo dire il generale Pinochet a Roberto Rossellini12. La storia della balena, come molti altri soggetti rosselliniani non realizzati, penso a San Bonino immaginato da Rossellini subito dopo Francesco giullare di Dio e tratto da una predica di San Bernardino da Siena, a Pulcinella con Eduardo De Filippo protagonista, ha in sé la forza dell’apologo e la semplicità della parabola. L’illu12 Testimonianza di Renzo Rossellini a Claudio Bondì: «Il generale Pinochet fu presentato a papà da Salvador Allende in quanto Capo di stato maggiore dell’esercito. Quando papà nell’incontro preliminare chiese ad Allende come avrebbe reagito l’esercito alle riforme, Allende disse: “Glielo faccio dire dal Capo di stato maggiore” e fece convocare il generale Pinochet».

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sione che il grande capitale e la fortuna possano dare la felicità si smonta come la marea, il sole e i giorni che passano smontano il corpo del cetaceo. Oggi mi piacerebbe andare a cercare, ritrovare i luoghi, le persone che avevano colpito Roberto Rossellini durante i suoi viaggi a Santiago per l’incontro col presidente cileno ed in seguito fino all’autunno di quell’anno: fare il ritratto del Cile, riproponendo la cornice storica nella quale si muove l’episodio della balena agonizzante. Non si tratterebbe certamente di rifare il film, né di mettere in scena un audiovisivo con il gusto alessandrino di imitare uno stile, quello di Rossellini. Piuttosto di immaginare le suggestioni, le curiosità che lo avevano spinto ad interessarsi a questa favola, ricostruendo anche la “tensione”, il contesto storico del Cile in quell’anno. Alla base del soggetto c’è un fatto vero, come in molti film di Rossellini: la “transumanza” da sud dei cetacei verso il grill dei mari del nord o l’attività dei villaggi situati sulla costa settentrionale del Cile. Famiglie intere che vivono (o vivevano trentasei anni fa) della raccolta di granchi nelle immense spiagge del Pacifico al ritiro della marea. E al tempo stesso un segnale per immaginare intorno all’evento – è frequente lo spiaggiamento delle balene su quella costa –, il senso di un insegnamento politico, morale: la ricchezza improvvisa, l’oro che piove dal cielo, la mancanza di condivisione, non danno la felicità. La felicità si conquista un poco alla volta, con fatica, sembra volerci dire Rossellini. Se potessi rifare il film non ho la prefigurazione di un modulo per raccontare La balena di Rossellini. La storia s’è mossa per vie troppo inconsuete per racchiuderla in una struttura narrativa rigida. Immagino piuttosto un movimento di andata e ritorno tra interviste, villaggi di pescatori, il villaggio del ‘71, la Playa de Los Vilos, le balene, i granchi, la curiosità di Rossellini e la sua cocciuta passione per il vero, la ricostruzione del grande cetaceo agonizzante sulla spiaggia e il pugno di contadini del mare che se ne contendono il corpo, la ricchezza; e tutto questo insieme ai ricordi di Renzo Rossellini, la voce di Salvador Allende dall’intervista di Roberto Rossellini, forse anche qualche considerazione sull’esperienza di lavoro con lui e su questo soggetto che ha dormito per trentacique anni nella mia memoria e nella pagina del quotidiano ritrovato.

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Ho riportato questo episodio perché col passare del tempo mi sono convinto, sostenuto anche dalla critica più attenta alla modernità del lavoro di Roberto Rossellini, che la suddivisione schematica in cui fu divisa la sua cinematografia mostra ormai la corda. La trilogia della guerra contrapposta alla trilogia dei sentimenti, la svolta religiosa all’interesse per la storia ecc. Credo invece che l’atteggiamento di fondo sia sempre stato quello di andare «dritto alle cose, a quello che si deve raccontare»13, come ripeteva spesso, spinto non soltanto dalla curiosità ma dall‘impegno di voler comunicare agli altri, a tutti, la complessità e la realtà del mondo. Certo come tutti gli innovatori si muoveva aprendo all’improvviso orizzonti sconosciuti, spesso incompresi – basta accennare all’insuccesso iniziale di Roma città aperta e non ripercorrendo mai le strade già fatte. Roberto Rossellini avrebbe potuto vivere di rendita artistica sui suoi tre film del dopoguerra e invece cambiò temi, contenuti, approccio. Ma non lo stile, penso, che restò diretto, essenziale, ruvido. Questo sguardo “impressionistico” – anche se l’aggettivo non rende completamente il senso dell’approccio di Rossellini –, uno sguardo apparentemente distratto e che invece memorizzava i gesti, le azioni, i fatti necessari, scartando il superfluo, fa pensare alle sculture michelangiolesche “non finite”, che non hanno avuto bisogno di rifiniture appunto, perché già classiche all’apparire. È in questo senso, credo, che il neo-realismo di Rossellini non sia stato soltanto, come anche lui stesso affermava, collegato alla penuria di mezzi in un’Italia distrutta, sconfitta, sfinita dalla guerra, ma piuttosto un suo originale imperativo: raccontare ciò che vedeva, mostrando le cose e cercando di farle comprendere senza aggiungere a queste la propria interpretazione del mondo. Un po’ come la regola del giornalismo anglosassone: “i fatti separati dalle opinioni”, ma il tutto con una grazia e una sensibilità poetica, non ricercate, ma miracolosamente accadute.

Intervista a RR di Fernaldo di Giammatteo sul set del Blaise Pascal in Roberto Rossellini- Blaise Pascal, back stage di Claudio Bondì, edizione restaurata nel 2006, prod. Cem srl Roma. 13

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Provate a ricordare l’inizio di Francesco giullare di Dio, quei frati che cercano di sfuggire la pioggia battente correndo alla ricerca di un riparo. Una necessità umana, banalmente quotidiana. Non c’è uno stacco, un dettaglio, un montaggio. Che so, uno schizzo di fango sulle tonache, la pioggia scrosciante sulle facce in primo piano e molte altre cose che avrebbero fatto di quella scena un attacco spettacolare. Nulla di tutto ciò. La macchina da presa immobile, un’unica inquadratura, mostra quella corsa senza alcuna indulgenza all’effetto e raggiunge, – per caso? mi chiedo –, una sintesi lirica presentando in nemmeno un minuto e con naturalissima semplicità il mondo ingenuamente felice che fu quello di Francesco e dei suoi confratelli. Nella cinepresa inchiodata per terra, nell’immobile inquadratura, stanno racchiuse tutta la forza, il coraggio, la poesia del cinema di Roberto Rossellini.

Bibliografia Roberto Rossellini, Il mio metodo, a cura di A. Aprà, Venezia, Marsilio, 1989. Roberto Rossellini, Utopia Autopsia dieci alla decima, Roma, Armando, 1974. Roberto Rossellini, Islam, con una filmografia completa a cura di Renzo Rossellini, Roma, Donzelli, 2007. AA.VV., Roberto Rossellini, Roma, Ente Gestione Cinema, 1987. Pio Baldelli, Roberto Rossellini, Roma, Samonà e Savelli, 1972. Claudio Bondì, La balena di Rossellini – autobiografia tra memoria e speranza, Milano, Guerini e Associati, 2005. Giuliana Bruno, «Filmcritica», n. 374-375, anno XVIII, maggio-giugno, Roma 1987. Franca Faldini e Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984, Milano, Mondadori, 1984. Guillermo Trejo, Ballena Agoniza en la Playa de Los Vilos, «El Mercurio», Jueves 28 de Octobre de 1971, Santiago del Cile.

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Programmi televisivi Luciano Scaffa, Marcella Mariani Rossellini, Rossellini 10 anni, regia di Claudio Bondì, cinque puntate da 55’, Rai uno, 1987. Claudio Bondì, Roberto Rossellini/Blaise Pascal, back-stage sul set del film nel palazzo Odescalchi di Bassano Romano (la casa parigina di Pascal) girato nell’estate del 1971, 16 mm b&w dur. 30’. Riedizione e copia restaurata nel 2006 con il patrocinio della fondazione RR, e il contributo della Regione Lazio, prod. CEM srl cinema&media Roma. Claudio Bondì, Roberto Rossellini – sognando la scienza, dur. 50’, Format Rai tre, 1997.

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FABRIZIO BORIN

Filmare l’aria intorno alle cose. Il neorealismo di Federico Fellini

Roma città aperta, 1945: siamo al secondo tempo del film di Roberto Rossellini alla cui sceneggiatura partecipa appunto il giovane Fellini. Don Pietro (Aldo Fabrizi) viene a sapere dai ragazzi che nella casa popolare, in terrazza, c’è Romoletto che nasconde un fucile ed una bomba artigianale che intende lanciare sui tedeschi impegnati in un’operazione di rastrellamento alla ricerca degli uomini da deportare in Germania e dell’esponente comunista della Resistenza, l’ingegner Manfredi (Marcello Pagliero). Le sequenze che vanno da questo punto alla morte drammatica di Pina (Anna Magnani), divenute un’icona del neorealismo cinematografico italiano, ma anche della storia del cinema mondiale, se riconsiderate dal punto di vista di alcuni piccoli nuclei narrativi e di situazione – fasi di apparente alleggerimento, quasi vere gag di commedia più propriamente accenni graffianti di macchiette regionali – consentono di verificare alcune caratteristiche davvero interessanti e adatte ad introdurre le tematiche del titolo di queste considerazioni. Seguendo l’ordine del racconto, dopo l’affermazione serissima del ragazzino Marcello («Noi dovemo da annà, a casa ce so’ ‘e bombe»), il primo personaggio ad entrare in gioco è il brigadiere: napoletano, segaligno, dignitoso e soprattutto provvisto di quella calma saggezza popolare che gli consente di barcamenarsi alla meno peggio tra i civili italiani, i fascisti ed i tedeschi. Infatti, quando questi ultimi prendono posizione ed inizia il rastrellamento, il brigadiere, del quale naturalmente gli stessi soldati tedeschi non si fidano più di tanto, viene paradossalmente fatto sostare proprio nel punto centrale degli snodi narrativi della macrosequenza, da dove in certo

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modo si rende utile. E questa posizione gli permetterà di fungere da cerniera: sia sull’arrivo di don Pietro con il ragazzino-chierichetto (i due, dopo un breve dialogo con il sospettoso fascista toscano, salgono per dare l’estrema benedizione ad un vecchio “moribondo” non trasportabile); sia all’arrivo delle donne che, prima di unirsi alle altre, riescono a sussurrare rapidamente al brigadiere che il nonno non è voluto scendere. A questo punto il fascista chiede al nostro brigadiere chiarimenti sul piano dell’appartamento di questo malato grave e l’uomo: «Mah, non so. Al terzo, al quarto...» e aggiunge, in un appena accennata ma chiaramente espressa attestazione di dignità, anche allo scopo di opporre alla sicurezza germanica, una testimonianza di ruolo pubblico utile alla collettività: «Non faccio mica il portiere…». Poco convinto, il graduato – che evidentemente, come una guardia di confine, si crede un buon conoscitore dell’animo umano quando questo si appresta a mentire – decide di salire con due soldati a controllare direttamente, e per due ragioni. La prima perché, afferma, «sono anche un po’ dottore», vale a dire che oltre ad essere un militare è pure pratico di medicina, anche se però non in senso completo, dato che lui stesso ammette di esserlo parzialmente; e, secondariamente, perché, rivolgendosi al brigadiere gli dice: «La tua faccia non mi piace». Le fasi che portano alla “padellata” e, prima, il tipo del soldato fascista toscano che è anche un po’ dottore, non solo non indeboliscono l’episodio del rastrellamento quando i tedeschi portano via Francesco e la contemporanea morte di Pina, ma anzi lo caricano, lo preparano. Bene, è molto probabile che, come in altri passaggi di film precedenti non rosselliniani, tutto questo abbia visto emergere la vena comica e di scrittura per dir così, anche leggera di Federico Fellini, una congenialità che, sarebbe inutile ricordarlo, prima che nella sceneggiatura e nella regia ha avuto modo di essere sviluppata e affinata in molta pratica di disegno e di impegno letterario, teatrale, radiofonico.1 1 Data l’enorme letteratura esistente, a puro titolo esemplificativo, si ricordano qui F. Fellini, Racconti umoristici, Torino, Einaudi 2004; Federico Fellini autore di testi. Dal “Marc’Aurelio” a «Luci del varietà» (1939-1950), a cura di M. Filippini e V. Ferorelli, Atti del convegno di Bologna, 29-30 ottobre 1998; F. Borin,

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Quest’episodio, forse per un curioso richiamo sonoro al secco rumore del colpo di padella che non si vede e non si sente, ma è come se si vedesse e sentisse perché l’espressione in dialetto romano del ragazzino – «Ammazza che padellata che j’ai dato, don Piè» – arrotondando e arrotando molto le vocali come il dialettale popolare usa fare, ottiene che la parola “padella”, piena di vocali, assuma una sorta di risultato audiovisivo implicito; insomma, rimane l’impressione di vedere e sentire il colpo di padella che Fabrizi affibbia all’arzillo e per niente “moribondo” sor Biagio; anche perché quest’ultimo è steso a letto, svenuto che più svenuto di così non si può, mentre la padella appare dal basso dell’inquadratura, impugnata dal ragazzino nella mano destra mentre la gira e rigira quasi a controllare che non ci sia la traccia dell’ammaccamento, del “ficozzo” che verosimilmente invece potrebbe apparire sulla testa del vispo vecchietto antifascista. Il quale, solo poco prima aveva indirettamente chiamato la padella e la cucina quando aveva ricordato «Se famo ‘na magnata» per festeggiare l’imminente matrimonio di Pina e Francesco ed aveva imprecato contro i tedeschi ed i fascisti: «Ma io me ne frego... de li tedeschi... de li fascisti! Io je faccio un…», prima che un pronto don Pietro gli metta una mano sulla bocca per farlo tacere. Sonorità, questa, che sempre per pura assonanza – efficacissima, anche se solo ideale dato che la situazione è, in qualche modo, ribaltata – fa venire alla mente il rumore prodotto dal proiettile sparato dalla rivoltella del gerarca fascista in Amarcord, diretto da Fellini nel ’72, nelle sequenze notturne dei festeggiamenti al borgo riminese il 21 aprile, anniversario del Natale di Roma. Il grammofono, issato sul campanile a segnare l’opposizione al regime, alle sue parate ed esibizioni ginniche, comincia a diffondere le note dell’Internazionale, mentre il gruppo di militari, nel bar, è tutto impegnato al biliardo alle prese con una «palla difficile» da colpire; saranno invece tutti costretti, dalle note musicali, ad uscire e colpire, prendendo a revolverate, la tromba del grammofono, finché una pallottola, con il colpo secco di cui s’è detto, Federico Fellini. A Sentimental Journey into the Illusion and Reality of a Genius, Roma, Gremese 1999; Le favole di Fellini. Diario ai microfoni della Rai, Raccolta di interviste scelte e riproposte da P. Del Bosco, Rai-ERI, 2000.

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contribuirà poi a far tacere la voce del dissenso politico e a scatenare l’ennesima vendetta contro la gente del paese, nella quale sarà peraltro coinvolto anche il padre “anarchico” del giovane Titta. Allora, padella, grammofono… e per completare questi esempi di lotta partigiana affidata a normalissimi oggetti della vita quotidiana, ci si può anche spingere verso quella sorta di citazione rosselliniana del ferro da stiro con cui Elena (Lea Massari) ammazzerà il tedesco con un unico colpo, sordo e precisissimo, salvando così la vita al giornalista combattente Silvio Magnozzi (Alberto Sordi) in Una vita difficile (1961) di Dino Risi. La retata di Amarcord per le vie di Rimini, come il rastrellamento romano, e il fascista – anche qui un toscano – con l’olio di ricino fatto bere al padre di Titta quale punizione per la sua massima “sovversione” (pare che una volta sia stato sentir dire: «Se Mussolini va avanti così... io non lo so...») può richiamare l’ironia della situazione in Roma città aperta nel breve scambio di battute tra la donna con la secchia del bucato alle fontane e lo stesso graduato che con i suoi uomini comincia a perquisire l’edificio dal tetto. Lui: «Che fate voi qui?». Lei: «Sto’ a pijà la robba mia». Lui: «Fuori. Fuori. La vostra roba non ve la tocca nessuno. Ci siamo noi!». Lei: «Eh già, che stupida, nun c’avevo pensato».

Allora se, come detto poco sopra, questa parentesi “comica”, questa piccola serie di fenomeni “leggeri” all’interno del film e apparentemente – ma solo apparentemente – esterni all’azione, all’intreccio, alla trama, ai personaggi che stanno tutti vivendo l’occupazione e la guerra con le sue crudeltà e le sue morti anche tra i civili, non solo non riduce il pathos ma anzi lo nutre e lo facilita nel suo sviluppo così come voluto da Rossellini e da Fellini che collabora con il regista alla sceneggiatura, potrebbe risultare poco importante attribuire con il bilancino critico ad uno dei due l’ideazione piuttosto che la concatenazione ovvero i tempi comici. Maggiormente utile sarà piuttosto tenere presente quanto lo stesso Fellini ricorda a proposito del suo cosiddetto “maestro” e della sua posizione circa il neorealismo:

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47 …Ecco, da Rossellini mi pare di avere appreso – un ammaestramento mai tradotto in parole, mai espresso, mai trasformato in programma – la possibilità di camminare in equilibrio in mezzo alle condizioni più avverse, più contrastanti, e nello stesso tempo la capacità naturale, di volgere a proprio vantaggio queste avversità e questi contrasti, tramutarli in un sentimento, in valori emozionali, in un punto di vista. Questo faceva Rossellini: viveva la vita di un film come un’avventura meravigliosa da vivere e simultaneamente raccontare. Il suo abbandono nei confronti della realtà, sempre attento, limpido, fervido, quel suo situarsi in un punto impalpabile e inconfondibile tra l’indifferenza del distacco e la goffaggine dell’adesione, gli permetteva di catturare, di fissare la realtà in tutti i suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori contemporaneamente, di fotografare l’aria intorno alle cose, di svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita. Il neorealismo non è forse tutto questo?2

Al giovane Fellini rimane impressa la capacità di vedere e filmare l’aria che circonda le cose nel senso di acquisire la consapevolezza che preliminarmente, appunto, ci sono «le cose» della vita vera, reale, concreta ed immediata alle quale ci si deve abbandonare per servirle e raccontarle, quelle cose, senza orpelli intellettuali, aggiunte ideologiche, abbellimenti estetico-espressivi, eccetera; quelle «cose» che poi sono, con le parole di Fellini, la capacità rosselliniana di fissare la realtà in tutti i suoi spazi, di guardare le cose dentro e fuori contemporaneamente, di svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita. E lo sarà talmente che l’aria, l’idea e l’utilizzazione del vento saranno elementi narrativi decisivi del cinema felliniano, senza i quali quel cinema non avrebbe quasi senso. Un sistema dinamico, il vento, che aiuta il cineasta a creare stupendi viaggi-da-fermo, ovvero a ideare sensazioni di vario tipo: preparazione dell’evento, sensazione scontornata dell’attesa, anticipazione di un pensiero o di una notizia, atmosfere di contesto, vagheggiamenti di chimeriche ed “esotiche” sorprese, reinvenzioni della memoria, vaghi profumi dell’inconoscibile, senso dell’avventura immaginata, dosi stranianti nella magia del suo specialissimo realismo, 2

F. Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1976, p. 46.

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inserimento sonoro, musicale in modulazione sulle particolarità di personaggi “lunari”, ambienti stranianti, proiezioni ideali solo sognate. E però l’aria, origina atmosfere inquietanti oppure tranquillizzanti, è potente ed efficacissimo congegno di montaggio, visivo o sonoro e non di rado applicato nelle combinazioni di entrambi, che nell’autore di Otto e mezzo si rivela adatto ad aprire o chiudere sequenze, ovvero a legarle tra loro in maniera difforme dalla consuetudine; e questo “semplicemente” impiegando delle macchine apposite, dei ventilatori, delle tende (ottenendo enormi effetti narrativi e di rappresentazione con un minimo dispendio economico di mezzi, quasi a smentire, almeno in questo, le enormi spese sul set lamentate dai produttori). Si tratta a tutti gli effetti di un anello audiovisivonarrativo squisitamente cinematografico molto forte, paradossalmente e forse con troppa prevedibilità definibile come felliniano se non fosse davvero il caso di impiegare qui l’abusatissimo aggettivo, dal momento che può esaltare, confondendolo, ad un tempo il suono e l’immagine proprio perché apparentemente solo accessorio, ingannevolmente superfluo, invisibilmente non controllabile, ingombrante perché straniante. Invece, nei film di Fellini il vento gioca un ruolo importante, decisivo, è, come s’usa dire, un personaggio che ruota circondando corpi di attori e comparse, oggetti e figure, scenari. Basta ripercorrere rapidamente la filmografia per verificare come questo elemento (naturale) produce i suoi effetti (artificiali): l’inizio dello Sceicco bianco (fin dai titoli di testa e poi è un colpo di vento a scatenare la confusione di Wanda e di Nando in barca a vela); I vitelloni (quando, ad esempio, il fischiare del vento vicino al nero mare d’inverno indurrà il “drammaturgo” Leopoldo a sfilarsi dalle avances del “grande attore” Majeroni, dopo lo spettacolo e la noiosissima lettura del suo testo all’osteria); La strada (nella storia di Gelsomina, tra gli altri momenti, è un soffio leggero che riporta alle orecchie di Zampanò il notissimo motivo rotiano che la donna suonava con la tromba; Le notti di Cabiria (la scena di trance “candido” vissuto dalla prostituta Cabiria ad opera del prestigiatore sul palcoscencio del cinema); La dolce vita (ad esempio, al finale sul bagnasciuga Marcello non sente le parole della fanciulla anche a causa del vento); Otto e mezzo (l’incubo dell’incipit sarebbe impensabile senza l’angoscia soffocante del vento, e poi è una tor-

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menta di neve appena accennata ad introdurre l’intero episodio dell’harem vagheggiato dal regista Guido); Giulietta degli spiriti (episodio da Bishma, ma poi diffusamente in diversi affioramenti dell’inconscio espressivamente artefatto); gli affreschi pompeiani che si sfarinano sotto l’azione dell’intrusione indebita dell’aria nell’episodio degli scavi per la costruzione della metropolitana di Roma. Per non dire di Amarcord, il film sulla memoria re-inventata e volontaria delle stagioni della vita del borgo natìo che si apre e chiude sulle primaverili brezze che portano le “manine” o il matrimonio campagnolo di Gradisca; e ancora, Snàporaz sul taboga della Città delle donne; e il mare finto con le ventate liriche e poi di guerra sul ponte di E la nave va; non tralasciando naturalmente le folate visive paradossali, gotiche, riassuntive e apologetico-politiche, “leopardiane” con cui sono costruiti nell’ordine, Le tentazioni del dottor Antonio, Toby Dammit, Bloc-notes di un regista, Prova d’orchestra, La voce della luna ai quali è doveroso far precedere, a mo’ di sigillo, il mitico, sofferto e irrealizzato viaggio fantastico di Mastorna, impensabile senza la funzione poetica dello struggente vento di morte che non smette di far sentire la sua fatale insistenza tra le commoventi pagine della sceneggiatura.3 Tutte opere in cui l’aria felliniana – analogamente al motivo del volo, privilegiato spunto per l’esplicazione dei sogni – sempre portatrice di qualcosa di imprevedibile, misterioso, impalpabile, sognante – o vogliamo dire di inafferrabile, di arcano, di magico come nella definizione del neorealismo secondo Federico Fellini? – eppure concretamente assai influente, trova nel Casanova alcuni istanti privilegiati. Si comincia, proprio al Carnevale, con l’affondamento della polena, «la testa di una gigantesca donna, simbolo di Venezia»4 (anticipazione della gigantessa Angelina ed ennesimo richiamo alla Grande Madre Mediterranea): quando la maschera in bianco, Casanova, riceve il biglietto, allo stacco sul mare finto, comincia a sibilare il vento per introdurre l’episodio della monaca; e il vento resta in sottofondo a lungo, praticamente per l’intero blocco, almeno fino alF. Fellini, Il viaggio di G. Mastorna, Milano, Bompiani, 1995. Così recita la sceneggiatura: F. Fellini, B. Zapponi, Il Casanova di Fellini, Torino, Einaudi, 1976, p. 6. 3 4

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l’amplesso che si consuma sotto il discreto occhio osservatore dell’ambasciatore francese; e poi, quando il veneziano lascia la villa, si vede, si torna a vedere, il vento e il mare in tempesta – col mare rigorosamente sempre di plastica – nella quale si viene a trovare la sua barca e durante la quale viene dichiarato in arresto per ordine della Serenissima. Un secondo passaggio di vento si ha con Casanova ospite nella casa di campagna del gobbo Du Bois, prima della rappresentazione dell’operina: il vento viene citato dallo stesso gentiluomo quando, a proposito della sua leggerezza e delle qualità femminili, cita un antico proverbio: «Che cosa è più leggero di una piuma? La cenere. E che cosa è più leggero della cenere? Il vento. E che cosa è più leggero del vento? La donna. E che cosa è più leggero della donna? Niente». Ancora presenza di vento lontano si ha a Londra, all’alba, dopo che il circo ha smontato le tende e successivamente all’assopimento di Casanova sulle parole della cantilena zanzottiana della gigantessa Angelina. È questo uno snodo cruciale perché in qualche modo ora l’avventura ed il viaggio di Casanova sono ferme, in stasi e occorre ripartire, dunque l’aria rappresenta la fantasia creativa, l’energia dinamica operante sulla continuazione della storia e perciò sulla stessa immaginazione di Fellini. Il vento c’è poi pure nell’addio alla madre dopo lo spettacolo su Orfeo ed Euridice al teatro di Dresda. Neve, grigio, bianco, freddo accompagnano l’invasione di un vento gelato che sembra già portare, con qualche novità, anche presagi di morte. Difatti, continuando a seguire l’ordine narrativo del film, ancora l’aria serve per unire il finale del coro e degli organi alla corte di Württenberg con il rosso della brace e l’episodio con la bambola meccanica Rosalba. Il sibilare continuato di un gelido vento lontano arriva alla fine dell’amplesso notturno di Casanova con Rosalba, un flusso continuato indispensabile per aprire la scena successiva sulle prime tenui luci del giorno entrante, quando l’uomo si riveste, si pettina, si incipria, lega il nastro ai capelli, indossa il mantello prima di allontanarsi sull’ultimo scomposto movimento meccanico della bambola supina sul letto… Si tratta, nuovamente, di un sistema di montaggio, espressivo e progressivo, posto in essere forse per indurre nello spettatore l’idea e la sensazione fisica della lunghezza dei duri e freddi inverni in

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Boemia, con la forza del vento che accompagna le fasi del ritrovamento del ritratto di Casanova nelle latrine – è quello eseguito dall’incisore Berka per l’edizione del suo romanzo fantascientifico Icosameron – affisso con le feci dai suoi due acerrimi nemici, il maggiordomo Feltkircher e il suo “sgherro” Wiederholt, servitori alla corte di Dux. Nelle fasi finali della pellicola si annoverano due esempi, connessi tra di loro, ed entrambi nel nome del vento. Interrotto e disturbato dai troppo distratti amici del giovane duca nella recitazione dei versi dell’amatissimo Ariosto, Casanova fissa l’ineducata compagnia e il fischio del vento accompagna il suo definitivo commiato dalla poesia e dalla vita pubblica mentre sale lento e con mestizia lo scalone per ritirarsi nel suo alloggio. Spazio dove infatti troverà conclusione la sua vicenda secondo Fellini, e con essa il film. Cambiati gli abiti, indossati quelli assai più sobri e comodi da camera, si siede in poltrona e, complice l’arrivo brusco e inconsciamente sospirato dell’aria, potrà partire il terminale tuffo nei bei momenti del passato. L’astuccio di legno con l’uccello meccanico, fedele compagno di tante prestazioni sessuali, è mal in arnese e vecchio come il suo padrone, ormai preso dalla realtà dei ricordi. Lontano, fuori, s’annuncia violento e arriva improvviso come una freccia sibilante, un forte vento che, di colpo, si fa vicinissimo, esigente perché porta, con la memoria, la nostalgia per la Venezia alla quale il vegliardo non farà più ritorno. Il vento apre così al sogno conclusivo di Casanova e rimane per la sua intera durata: la laguna gelata, attraverso la quale si intravede la polena affondata all’inizio, alcune donne della sua vita, la carrozza d’oro con il Papa ammiccante e l’anziana scheletrica madre, fino al carillon e ai lievissimi circolari passi di danza: lievissimo balletto di un giovane Giacomo con la bambola meccanica, due silhouettes in controluce che riempiono gli occhi stanchi ed arrossati e scaldano il cuore per l’ultima volta. L’insistenza sul motivo del vento, motivato dalle cose (la realtà, la vita e niente altro si potrebbe dire citando il film di Bertrand Tavernier del 1989) e dall’aria (l’umanità di quella stessa vita) rosselliniane, è anche servito ad evidenziare il motivo della leggerezza, strepitosa condizione felliniana che accompagnerà, avvolgerà come un soffio lieve e terribile, la cifra del suo cinema e, prima ancora,

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dei suoi primi passi in quella rutilante e imprevedibile ma tanto sognata ir-realtà cinematografica. Dal marzo 1939 Fellini si stabilisce a Roma e, per accontentare la madre, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Vorrebbe fare il giornalista, un mestiere del quale ha una visione eroica ispirata dall’eleganza trasandata di Fred McMurray, ma si accontenta di piccole mansioni presso i giornali «Il Piccolo» e «Il Popolo». Roma è città amica, una specie di set della vita nel quale fare esperienze e conoscere i primi amici, come il pittore Rinaldo Geleng, suo futuro collaboratore in molti film. Insieme sopravvivono con lavori saltuari, anche se il cuore dell’aspirante reporter batte per il mitico «Marc’Aurelio», giornale umoristico bisettimanale di grande tiratura diretto da Vito De Bellis, al quale presentandosi con una cartella di vignette è subito assunto in quella fucina di cervelli umoristici che, trasferiti nel teatro, passeranno al cinema. Oltre alle vignette, scrive circa settecento “pezzi”, dalla rubrica d’esordio Raccontino pubblicitario al tormentone Ma tu mi stai a sentire? maturando uno stile personale che, dal surreale zavattiniano, passa a più frequenti ispirazioni autobiografiche. Risalgono alla fine del ‘39 e al ‘40 i quadri umoristici ispirati dai personaggi dell’avanspettacolo, comici e ventriloqui, ballerini e prestigiatori che torneranno nelle immagini di Luci del varietà (1950) e nell’episodio del teatrino della Barafonda in Roma (1972), memoria delle gloriose giornate dell’Ambra-Jovinelli. Autobiografismo e autoironia animano Seconda liceo, Primo amore e Oggi sposi i cui protagonisti, Cico e Bianchina, adombrano Federico e Bianca Soriano, una passione riminese troncata dall’invadenza materna. Queste rubrichette, molto apprezzate dai lettori, diventano ben presto testi radiofonici con una rilevante modifica personale: Bianchina, ribattezzata Pallina, è interpretata da Giulietta Masina, che Fellini sposerà cinque anni dopo. Allo stesso periodo appartiene l’interessante libretto Il mio amico Pasqualino5 cui seguirà, nel 1945, La bomba atomica. Definitivamente inserito 5 Pubblicato nella collana «Umoristi moderni» per le Edizioni dell’Ippocampo, è ristampato nel 1997 a cura della Fondazione Fellini. Il raccontino del capitolo VII, «Il sole tramonta, e al nostro simpatico vagabondo vengono strane idee che ci costringono a dare al presente capitolo un titolo piuttosto vago: “Ore 19,30:

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nell’ambiente romano, lavora ai programmi radiofonici 6 e frequenta il varietà per conto dei settimanali «Cineillustrato», «Il Travaso», «Cinemagazzino». Per quest’ultimo cura «Che cos’è l’avanspettacolo?», una serie di interviste ai protagonisti del momento: Anna Magnani, Totò, i De Rege, Nino Taranto e Aldo Fabrizi. Il teatro leggero del tempo, rappresentato sia dalle lussuose riviste di Erminio Macario, Carlo Dapporto, Wanda Osiris e dalla compagnia Za Bum, sia dal più plebeo avanspettacolo di Fanfulla, dei Maggio e Aldo Fabrizi (ospite straordinario nel finale di spettacoli altrui), si avvaleva di non poche battute e macchiette marc’aureliane modellate sui gusti delle composite platee medio-borghesi. Un pubblico specularmente opposto a quello popolare, ridanciano e gladiatorio dell’avanspettacolo, caravanserraglio sperimentale a cui il cinema sottrarrà i talenti naturali, almeno fino al consolidamento della commedia all’italiana che li vedrà nel ruolo di ottimi caratteristi, «spalle» perfette nell’adattamento ai nuovi tempi comici. Fellini conosce Fabrizi al cinema Corso e l’iniziale simpatia reciproca si trasforma in amicizia stretta; con Ruggero Maccari suole accompagnarlo per la Roma notturna, incantato dai suoi racconti che, in qualità di sceneggiatore e futuro regista, riprenderà più volte per evocare personaggi, storie, emozioni. Intanto scrive per il teatro leggero Divagando e Hai visto com’è? cedendo al capocomico i diritti, secondo l’uso del tempo, e inizia a fare lo sceneggiatore. Per Avanti c’è posto… (Mario Bonnard, 1942) sviluppa, collaborando per la prima volta con Piero Tellini e lavorando con Cesare ZavatPasqualino, qualche volta”», nella figura gentile, realistica e candida della prostituta felliniana, anticipa acerbamente già un’idea di Cabiria. 6 In particolare, tra il ‘40 ed il ‘43 nascono testi decisamente interessanti in ordine alle future epifanie poetiche del suo cinema. Alcuni di essi – La rivista sotto il tovagliolo, Il cerino, Fuori programma, La canzonetta, Il viaggio ideale, La panchina, L’avventura di Pisolo – sono stati riproposti da Radiotre tra il 23 dicembre 2000 ed il febbraio 2001. La descrizione leggera e dai tratti accattivanti del fascino del treno, delle ballerine del varietà, della dolce soubrettina che fantastica per una irraggiungibile Parigi, della dimensione-rifugio del sogno felliniano qui popolato di ometti vestiti d’azzurro, giganti buoni ed un «maghino» chiamato Ciclamino, sono gli ingredienti che fanno certamente ricordare Invenzioni, ovvero le disavventure di un impresario in tournée con la sua compagnia di quart’ordine: una vera e propria prima stesura del soggetto di Luci del varietà.

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tini, la macchietta del bigliettaio creata per Fabrizi, interprete nelle sue corde per la vena comica popolare da personaggio sfortunato e faceto – non riesce mai a scandire bene lo scioglilingua “stizziscitici” propostogli in continuazione dal collega autista (Andrea Checchi) – che affronta le disavventure con la bonomia pacioccona del «romano de Roma». Sempre per Fabrizi scrive Campo de’ Fiori (1943, Bonnard) e L’ultima carrozzella (1943, Mario Mattoli), opere minori eppure non prive di un primitivo abbozzo neorealistico. Neorealismo, per Fellini, significa guardarsi attorno senza pregiudizi e lui di spirito di osservazione ne ha da vendere, curioso del mondo e affascinato dalla scrittura di gruppo e dalla varia umanità che gravita intorno al cinema. Nel 1944 ritrova Roberto Rossellini – conosciuto negli uffici di Alleanza Cinematografica Italiana di Vittorio Mussolini, direttore di «Cinema» – che, nella città invasa dagli americani (Fellini con gli amici del «Marc’Aurelio» gestisce il “Funny Face Shop” che ripropone caricature in costume da antico romano) gli chiede di convincere Fabrizi, attore bonario ma uomo intransigente e permaloso, ad accettare la parte dell’eroico don Morosini per il suo nuovo cortometraggio. Il film, tratto dal soggetto di Alberto Consiglio riadattatto da Sergio Amidei e dallo stesso Fellini (solo per il personaggio del prete) diventerà nel ’45 Roma città aperta. Il rapporto continua per la co-sceneggiatura di Paisà (1946) dove Fellini sostituisce il regista nella scena della damigiana nell’episodio fiorentino. Un’esperienza importante perché quel modo di girare all’aria aperta gli fa scoprire il film come «viaggio, avventura, odissea» e il cinema come forma d’espressione più congeniale alla sua sregolata curiosità della vita: l’anti-magistero rosselliniano, grande lezione di umiltà ed intelligenza, di fiducia «nelle cose fotografate, negli uomini, nelle facce», produrrà in lui un approccio diverso, fors’anche opposto al lavoro di sceneggiatura, quando passerà dietro la cinepresa. Nello stesso anno prende a collaborare con Tullio Pinelli per Il delitto di Giovanni Episcopo (1947, Alberto Lattuada); viene poi Il miracolo che, con La voce umana tratto dall’atto unico di Jean Cocteau e interpretato da Anna Magnani allora compagna di Rossellini, forma L’amore (1948). Nell’episodio, elaborazione d’un ricordo infantile di diaboliche leggende contadine, Fellini, irriconosci-

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bile nella parte di un biondo San Giuseppe, esordisce come attore. Sempre con il regista romano parteciperà a Francesco giullare di Dio (1950) e intanto con Pinelli e Zavattini contribuisce a scrivere Il Passatore (1947, di Duilio Coletti) e per Matarazzo Fumeria d’oppio (1947), per Lattuada Senza pietà (1948) e Il mulino del Po (1949), per Pietro Germi Il cammino della speranza (1950), La città si difende (1951), Il brigante di Tacca del Lupo (1952). L’anno prima è tra gli sceneggiatori di Persiane chiuse (1951) per il quale, dopo la rinuncia del debuttante Gianni Puccini, in attesa di Luigi Comencini, dirige la scena della polizia al ritrovamento del cadavere nel Po. Una prova incoraggiante che indurrà il produttore Luigi Rovere a finanziare il suo primo film, Lo sceicco bianco (1952). È infatti questa circostanza fortuita a deciderlo per la regia giacché Luci del varietà, quasi per intero diretto da Lattuada7, l’aveva visto occuparsi, con Ennio Flaiano, quasi esclusivamente del testo. Il film – storia d’una compagnia di varietà di terz’ordine guidata dal «fucinatore d’ilarità» Checco Dalmonte (Peppino De Filippo) còlta tra le difficoltà della vita quotidiana e le astuzie femminili dell’aspirante soubrette Liliana (Carla Del Poggio) – chiude amaramente il rapporto con l’amico-padre Fabrizi che, accusandolo di essersi troppo ispirato ai suoi racconti sull’’avanspettacolo, gli oppone il controfilm Vita da cani (1950, Steno e Mario Monicelli). Dopo I vitelloni, con il quale pure aveva vinto il Leone d’argento alla Mostra di Venezia, consapevole di dover continuare una carriera perigliosa dopo le esperienze produttivamente fallimentari delle prime due pellicole, Fellini dirige Agenzia matrimoniale, episodio del collettivo Amore in città (1953). Cesare Zavattini, fautore del film-inchiesta ed estensore della teoria del pedinamento, gli richiede uno stile giornalistico diretto, per ottenere l’effetto realistico di documenti drammatici (inventati, per la verità, di sana pianta). Fellini e Pinelli scrivono la storia di un reporter (Antonio Cifariello) che fin7 Bianca Lattuada, sorella del regista e nel film direttore di produzione, ricorda che le sequenze da lui girate sono tre: il malinconico ritorno alla stazione del gruppo di artisti all’alba dopo la cena a casa dell’avvocato, il trombettista nero che suona nella Roma notturna e deserta e il risveglio all’albergo dei poveri. Cfr. L. Boledi, R. De Berti, a cura di, Luci del varietà. Pagine scelte, Quaderni della Fondazione Cineteca Italiana, 2, Milano, Il Castoro, 1999.

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ge di cercare una moglie all’amico licantropo e incontra, tramite un’improbabile agenzia, una ragazza disposta ad accettare pur di sottrarsi all’indigenza familiare. Un piccolo divertissement questo episodio, ma oltremodo interessante perché prefigura lo stile del realismo poetico futuro e anticipa i segnali del personaggio di Gelsomina: Rossana infatti si adatta a tutto, è «una che si affeziona», proprio come la female clown della Strada (primo Oscar per il miglior film straniero). Nella dolente fiaba tragica di Zampanò si potrà verificare come il forte seme originario stia conducendo Fellini alle opere della seconda metà degli anni Cinquanta, Il bidone, Le notti di Cabiria, propedeutiche alla potente carica innovativa costituita, nel 1960, dalla Dolce vita, che tanto ha influito sul cinema contemporaneo non solo europeo. Tornando al discorso principale, si può convenirne o meno, ma le parole a metà tra il “fantastico” e il “preveggente” di Federico Fellini sul neorealismo cinematografico sopra ricordate (fotografare l’aria intorno alle cose, svelare ciò che di inafferrabile, di arcano, di magico, ha la vita) sono una sintesi lapidaria delle caratteristiche di quell’irripetibile clima culturale – non un movimento omogeneo, non una corrente con un progetto politico-rivoluzionario, non una “scuola” estetica – sono parole definitive, di un’estrema chiarezza, lucidità e secchezza giacché si mostrano come un’istantanea antiretorica, l’immagine cine-critica del variegato fenomeno neorealistico, delle sue applicazioni e riflessioni: Perciò, quando si parla di neorealismo ci si può riferire solo a Rossellini. Gli altri hanno fatto del realismo, del verismo, o hanno tentato di tradurre un talento, una vocazione, in una formula, in una ricetta.

Si tornerà tra breve sulla questione della «formula» neorealista, però prima non si può non rammentare che le poche righe sopra scritte, aprono alle ulteriori considerazioni sul tema da parte di Fellini, che riportiamo per esteso di seguito perché chiariscono il punto di vista del regista – sul quale, per quello che vale, chi scrive concorda pienamente – relativamente agli sviluppi didattico-pedagogici del successivo e “nostalgico” cinema-televisivo di Roberto Rossel-

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lini: Finché la realtà fu quella dolente, sconnessa, tragica, inafferrabile, del dopoguerra, c’è stata una coincidenza miracolosa tra questa realtà e l’occhio asciutto di Rossellini che la osservava. Dopo, quando le cose sono cambiate e questo stile, questo modo di guardare avrebbe avuto bisogno di un maggior approfondimento perché la realtà diventava più complessa, più dissimulata, meno esteriore, meno esteriormente drammatizzata, Rossellini che era innamoratissimo della vita e gli piaceva viverla in maniera avventurosa, totale, senza rinunce e senza ritegni, probabilmente ha pensato che costava troppo star fuori dalla vita per guardarla, meditarci, rifletterci sopra e riproporla con un occhio che avesse sempre quella purezza, quell’intensità. Forse ha pensato che la vita valesse più la pena viverla piuttosto che starne fuori a perfezionare o a mantenere integro e intatto questo strumento di percezione, a preservarlo dagli appannamenti, dalla miopia delle passioni, dei desideri, dell’avidità. Non avendolo fatto, è entrato in polemica con questa parte di se stesso, allontanandola da sé, negandola, sostenendo che questa è una parte immatura, infantile, viziata, aristocratica e di cui non c’è nessun bisogno. Ma in quest’ansia di affermare, come faceva da alcuni anni il suo dissenso, il suo disprezzo per tutto ciò che non è dichiaratamente pedagogico, mi sembra di scorgere appunto la nostalgia, il risentimento e l’imbarazzo di chi sa di aver rinnegato e tradito qualcosa. 8

Per un verso allora, l’indicazione del guardare le cose ad un tempo dentro e fuori, lascia per Fellini in qualche modo il passo alla sola sfera interiore, istintiva, individuale. E, per altro verso, permette all’autore di Le notti di Cabiria di compiere un gesto di affettuosa cortesia amichevole verso il grande “padre inevitabile”, verso il regista de La prise du pouvoir per Louis XIV (1966) quando affida la conclusione di queste sue note sul “tasso” neorealistico rosselliniano ad una sorta di formale autorimpianto fatalistico per non aver egli stesso fatto la medesima scelta: Ma forse questa è un’interpretazione mia del tutto personalistica, 8

F. Fellini, Fare un film, cit., pp. 46-47.

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58 la proiezione altrettanto viziata dall’imbarazzo e dalla nostalgia di chi non ha saputo o potuto essere diverso. Rossellini è stato una specie di metropolitano che mi ha aiutato ad attraversare la strada. […] Gli riconosco, nei miei confronti, una paternità come quella di Adamo: una specie di progenitore da cui siamo tutti discesi. […] È stato un incontro importante, sono stati importanti i film che ho fatto con lui: in maniera di destino, però, senza che ci fosse volontà o lucidità da parte mia. Io ero disponibile per qualche impresa e lui era lì.9

Sarà probabilmente soltanto una pura coincidenza (non dunque una delle sincronicità junghiane tanto care a Fellini) che vale tuttavia la pena segnalare, ma, circa la disponibilità, Federico si esprime quasi allo stesso modo di quando ricorda Nino Rota, il musicista di tutti i suoi film fino a Prova d’orchestra, ed i termini della loro amicizia e lunga, felicissima, “misteriosa” collaborazione: Tra noi c’è stata subito un’intesa piena, totale, fin da Lo sceicco bianco, il primo film che facemmo insieme. La nostra intesa non ha avuto bisogno di rodaggio. Io mi ero deciso a fare il regista e Nino esisteva già come premessa perché continuassi a farlo. Aveva una immaginazione geometrica, una visione musicale da sfere celesti, per cui non aveva bisogno di vedere le immagini dei miei film. Quando gli chiedevo quali motivi aveva in mente per commentare questa o quella sequenza avvertivo chiaramente che le immagini non lo riguardavano: il suo era un mondo interno, in cui la realtà aveva scarsa possibilità di accesso.10

Ecco, se si tratta allora di dare la giusta importanza e collocazione all’orizzonte del neorealismo rosselliniano osservato con acuti occhi felliniani, rimane all’attenzione anche un altro degli aspetti ricordati. Si tratta della faccenda di riuscire a camminare in equilibrio tra condizioni difficili, contrastanti, fors’anche ostili e riuscire, con grande naturalezza istintiva e di carattere, a farle diventare sentimento, valori emozionali, un punto di vista. Beh, questa situaIvi, p. 47. Brano citato in F. Borin, a cura di, La filmografia di Nino Rota, Archivio Nino Rota, Fondazione Giorgio Cini Venezia, Firenze, Olschki, 1999, p. IX. 9

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zione è precisamente la dimensione, tipicamente felliniana – ma ora sappiamo anche mutuata da Rossellini – di sentirsi, Fellini, a suo agio nella vociante confusione del set dove paradossalmente trova concentrazione e ispirazione per fare, organizzare, suggerire, provare, dirigere, filmare. Ad un tempo le cose e la loro aria circostante. L’equilibrio fa inoltre venire in mente il piccolo ferroviere Guido al finale de I vitelloni: cammina in bilico sulla rotaia mentre, dalla parte opposta, il treno porta Moraldo-Fellini a Roma, o quantomeno via dal soffocante borgo d’origine, via dalla triste e vuota Rimini invernale. Con I vitelloni siamo nel 1953 e questo consente di riprendere quanto, in quello stesso anno, Franco Fortini sollecita a riflettere e comprendere.11 Vale a dire l’apparizione sulla scena italiana di nuovi soggetti – privati e sociali – che possiamo riconoscere come l’emergente classe media. E qui trovano espressione anche le problematiche per un verso connesse alla stanchezza della formula neorealista e per altro verso al suo progressivo superamento antipopulista – il logorato cronachismo con il realismo critico. Ciò porterà in seguito alla ricerca di autori e scrittori per il cinema che cominceranno a misurarsi con la realtà che cambia molto rapidamente – e allora: autori, generi, estetica – che è esattamente quanto rilevava Fellini a proposito della sterzata pedagogica di Rossellini e circa la necessità mancata di procedere alla intercettazione dei cambiamenti prodottisi nell’Italia e nella società dei primi anni Cinquanta, che Fellini invece intuisce e inizia magistralmente a raccontare.12 Questo clima, questo climax di realismo e fantasia lo troviamo, ad esempio, nelle considerazioni teorico-critiche di un prete, vicino a Rossellini, che per qualche tempo frequentò anche Fellini, prima di conoscere e stringere un solido rapporto con il gesuita padre Angelo Arpa. Si tratta del domenicano padre Felix Morlion che, tra la fine degli anni Quaranta ed i primi anni del decennio successivo, 11 Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa («Cinema Nuovo», 13, 15 giugno 1953. 12 Chi sono infatti i personaggi, i tipi, le famiglie piccolo-medio borghesi dei film del primo Fellini, quello di tutto il decennio se non rappresentanti della classe media in rapidissima formazione identitaria?

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oltre a volersi autorendere inventore dell’espressione “scuola cinematografica neorealista”, anche diceva che il cinema neorealista si proponeva di aprire una finestra magica sul reale. Il neorealismo parte da una visione del reale all’interno del quale compie, con una libera scelta, un’operazione che consente di percepire, al di la’ delle cose visibili, la presenza dell’invisibile. E cosa fa Fellini per tutta la sua carriera se non questo? In questi primi anni Cinquanta c’è un’altra tappa di avvicinamento-distanziazione di Fellini dal neorealismo e si riferisce ad Agenzia matrimoniale (in L’amore in città, film a episodi diretti da Lizzani, Risi, Antonioni, Maselli-Zavattini, Lattuada) che cronologicamente sta tra I vitelloni e La strada. È un segmento del filminchiesta zavattiniano che “pedina” Antonio Cifariello in una finta inserzione per trovare un’anima gemella, e la povera Rossana sarebbe disposta a sposare anche un lupo mannaro pur di sfuggire alla miseria. A proposito di questi 32 minuti di film dell’«incredibile [girato] in modo diretto», come disse il cosceneggiatore Tullio Pinelli, così si espresse Fellini: Poiché Zavattini mi dava quest’opportunità stabilii di girare un cortometraggio nello stile più neorealistico possibile, con una storia che in nessun caso poteva essere vera, neanche “neo-vera”, Pensavo: “Cosa farebbero James Whale o Tod Browning se dovessero girare Frankenstein o Dracula in stile neorealista?”. E così nacque Agenzia matrimoniale.

E invece quello che nelle intenzioni doveva essere un film gotico, nero, per ironia della sorte fu accettato dalla critica come un esempio di neorealismo (in specie la parte iniziale); cosa che, in qualche modo, si manifestò come una specie di imprevista rivincita rispetto al poco considerato quando non stroncato realismo del regista nei film precedenti. Poi, dalla favola feroce di Gelsomina e Zampanò in avanti, il percorso del realismo visionario felliniano è quello che tutti conosciamo, ma che non sarebbe stato possibile se egli non avesse incontrato sul suo destino, il “pizzardone”, il «metropolitano» Roberto Rossellini che l’ha aiutato ad attraversare, guarda caso, proprio La strada, intesa come uno dei film-cerniera della sua poetica. Un

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cammino che Fellini, come del resto Antonioni, non seguirà se non per l’idea – questa sì tanto neorealista da trasferirsi nel futuro grande cinema politico e sociale o d’impegno civile italiano dei De Santis, Rosi, Petri, Damiani ecc. – del cinema come inchiesta. Al punto che chi scrive è convinto di poter definire La dolce vita un potente film-inchiesta sull’Italia della Crisi, del Boom economico e del cinismo incombente. Che I clowns, oltre ad essere un atto d’amore per l’universo del circo, è un film-inchiesta su un mondo e su un tipo di linguaggio comico avviatosi vero una lunga, forse inarrestabile agonia mortale. Che Prova d’orchestra è un film-inchiesta, un apologo triste sulle macerie dei mali di una società ottusamente imprevidente e arrogante. Che Ginger e Fred è un film-inchiesta che anticipa grottesco, brutture e guai da vuota autoreferenzialità delle televisioni commerciali. Che Il Casanova di Federico Fellini è un film-inchiesta sul mito di un avventuriero che anticipa la moderna idea di Europa e sul Settecento, il secolo della Rivoluzione francese. Ma queste sono vicende, personaggi, storie di altre inchieste e di altri film...

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GIAN PIERO BRUNETTA

Dal neorealismo al neorealismo*

«Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere insieme pellicole quanto mai semplici e povere nella messinscena, pellicole senza artifici, girate come si può dal vero. È appunto la verità che fa difetto nei nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare le macchine da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire in strada, fermarsi in un posto qualsiasi e osservare quel che accade durante mezzora, con occhi attenti e senza preconcetti di stile, per fare un film italiano, naturale e logico. Arrestatevi all’angolo di una via del centro o del sobborgo, rimanete estranei a quel che v’accade intorno e osservate con calma ogni cosa come se v’apparisse nuova». C’era una volta… Cesare Zavattini ! …diranno subito i miei lettori. No, signori, avete sbagliato, c’era una volta Leo Longanesi che, col suo articolo L’ occhio di vetro sul numero monografico della rivista L’Italiano 1933, dedicato al cinema sembra fissare i punti cardinali e i modi del vedere della successiva poetica neorealista. Questo testo, unito a una serie di microsoggetti (Motivi per un film italiano) sul meccanico di biciclette, sulla stazione di provincia, sulla ferrovia, sulla fiera italiana, sulla pensione milanese ecc. non costituisce certo un unicum. Anzi va subito opportunamente *Riprendo in parte un saggio dal titolo Il lungo viaggio del cinema neorealista apparso nel catalogo alla Mostra Neorealismo. La nuova immagine in Italia curato da E. Vigano, Milano, Admira, 2006.

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riportato a un clima non solo italiano: L’occhio di vetro mette a fuoco realtà strapaesane e stracittadine, ma respira cultura europeaemitteleuropea, dal momento che nello stesso numero vengono pubblicati articoli di Chaplin e Bela Balázs. A cavallo del sonoro, tra il 1928 e i primi anni trenta, in una sorta di unanime bisogno di ritorno all’ordine, si nota nei dibattiti culturali di molte riviste italiane anche un’altrettanto crescente richiesta di recupero di radici culturali e iconografiche che affondino nella grande tradizione naturalistica e realistica ottocentesca. Dopo aver tentato di affermare la libertà assoluta del regista il cinema vuole ritrovare il valore del gesto comune e il significato primo delle cose assieme alla forza di una tradizione. Se guardiamo al di fuori del cinema italiano sicuramente il cinema di Jean Renoir è senza dubbio l’esempio alto del modo naturale in cui si sviluppa nel cinema europeo degli anni trenta il cammino verso il realismo nel solco della grande tradizione pittorica e letteraria ottocentesca. Non si tratta certo di una frontiera avanzata e tuttavia per molto cinema sarà questo il passaggio obbligato per fare i conti con la modernità. La rivoluzione sovietica aggiunge a questa tradizione il valore ideologico e utopico di immaginazione di prospettive e orizzonti futuri. Anche se, già a partire dal I° Congresso degli scrittori sovietici dell’agosto 1934 ai codici culturali verrà sostituita una normatività ideologica rigida e limitativa che farà regredire in modo drammatico la ricerca espressiva in Europa. Verso la fine degli anni venti, soprattutto per merito delle poetiche di Ejzenstejn, Pudovkin, Vertov, che cominciano a circolare nell’Europa occidentale, sembra possibile vedere una naturale confluenza delle avanguardie in un movimento capace di avvicinare le nuove realtà sociali. Grazie a una serie di spinte che giungono dall’Unione Sovietica e dalla Francia si viene costruendo un nuovo orizzonte culturale orientato in prospettiva verso modelli naturalistici e realistici. Lo stesso mito ruralista sovietico ha modo di circolare in Francia e in Italia nei film d’ esordio di Blasetti che sicuramente ha sentito molto parlare dei film sovietici, ma non ha potuto vederli. Il cammino verso il realismo non presenta comunque una direttrice unica: anzi appare come il frutto della confluenza tra forze contrapposte. Prima di giungere ai film di Rossellini, è necessario

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tener conto dello scambio e dell’interazione di molteplici forze in campo... Non si può per esempio comprendere la fase di gestazione del neorealismo, senza tener conto del formidabile sviluppo del dibattito culturale che coinvolge in Italia, verso la fine degli anni venti, gli intellettuali militanti fascisti e antifascisti che si prodigano per la rinascita di una cinematografia ridotta a zero. La presenza continua del termine «neo-realismo» negli scritti di Umberto Barbaro e Libero Solaroli verso la fine degli anni venti, si associa a una serie di pulsioni costrette a rimanere allo stato virtuale1. Se in una prima fase si utilizza in Italia questo termine avendo come riferimento privilegiato la cultura sovietica, verrà inclusa in seguito in maniera esplicita la letteratura tedesca e in particolare il movimento della Neue Sachlichkeit, di cui il vocabolo italiano è un calco esplicito. La Nuova Oggettività tedesca, alcuni film che la rappresentano e il cinema sovietico ( nonché alcune suggestioni dell’espressionismo) appaiono come i modelli che interagiscono e sono in grado di influenzare direttamente sia Sole e Terra madre di Blasetti che Rotaie di Camerini. Il punto d’ arrivo in Italia di questa fase di formazione di un humus culturale destinato ad agire sul medio-lungo periodo sembra riconoscibile nell’Introduzione di Barbaro nel 1932 a Il soggetto cinematografico di Pudovkin: «Quanto al realismo c’ è purtroppo da deplorare che all’Ennerreffe ( la «Nouvelle Revue Française» n. d. a.) abbiano idee così poco chiare in fatto di estetica e di conseguenza anche quelle dei nostri intellettuali siano ancora un po’ confuse: certo si è che tra realismo, neo-realismo, realismo magico, Proust, Joyce, Neue Sachlichkeit e magari surrealismo ci sono relazioni abbastanza strette...»2. «È probabile che in Italia, la formula del neo-realismo formale non attecchisca... se ci si limita alle risposte date nell’ambito dell’inchiesta «esterni naturali» o «esterni in studio» sembrerebbe che l’esperienza neo-realista sia ormai superata in Italia: questo non è affatto vero... Si potranno trascurare le discussioni sul neorealismo solo quando questa tendenza sarà stata capita, assimilata e superata» L. Solaroli, Esterni dal vero, esterni in studio, «Cinematografo», III (1929), n. 12. 2 U. Barbaro, Prefazione a V. Pudovkin, Il soggetto cinematografico, Roma, Le Edizioni d'Italia, 1932, p. 4. 1

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Ma a questo punto è opportuno evocare le grandi figure di operatori che hanno affiancato il lavoro dei grandi registi, ne hanno esaltato le poetiche e aperto le diverse vie del vedere neorealista. In effetti – salvo un ottimo saggio di Fernaldo Di Giammatteo (Anni di luce e di storie per l’Italia del cinema), in un volume del 2000 sui Cineoperatori italiani dal 1941 al 2000) - nessuno ha mai riconosciuto, la centralità e il ruolo determinante degli operatori italiani nel conferire valore aggiunto alle storie e nel fissare alcuni elementi di identità di una grande cinematografia. Questo elenco comprende figure che coprono un periodo di tempo piuttosto vasto e ci aiutano a capire come siano giustificate alcune ipotesi sulla continuità di alcune esperienze. Il semplice accostamento di alcuni titoli distribuiti nell’arco dei decenni ci sembra rendere autoevidente il discorso. Ubaldo Arata, ad esempio, è l’operatore di Rotaie di Camerini, di La signora di tutti di Ophüls, di Passaporto rosso di Brignone e di Roma città aperta di Rossellini. Solo in alcune scene, quelle della tortura si riconosce l’influenza di una matrice espressionista presente con forza nella prima parte del film di Camerini. Per non parlare di Carlo Montuori, operatore dal 1913 e direttore della fotografia di Sole, Resurrectio, La tavola dei poveri di Blasetti e negli anni quaranta di Sissignora di Gioventù perduta, Ladri di biciclette e negli anni cinquanta di Pane amore e gelosia. O di Massimo Terzano, che pure esordisce nel 1913, è l’operatore del primo film sonoro La canzone dell’amore del 1930 e racconta l’ingresso del paese nella modernità da Gli uomini che mascalzoni di Camerini del 1932 ad Acciaio di Rutmann dell’anno successivo per filmare nel dopoguerra molto materiale di Giorni di gloria di Serandrei del 1945 e Due lettere anonime di Camerini del 1946. O Otello Martelli, che accompagna Balbo nella traversata dell’Atlantico del 1932 per poi essere a fianco di Rossellini per Paisà e Francesco Giullare di Dio (1950), di De Santis per Riso amaro del 1949, e poi di Fellini per I vitelloni e La strada. E Aldo Tonti che dirige la fotografia di Fari nella nebbia di Franciolini del 1941, di Ossessione di Visconti del 1943, di Europa ’51 di Rossellini del 1952. Nel dopoguerra andranno ricordati Leonida Barboni (almeno per In nome della legge e Il cammino della speranza di Germi e I sogni nel cassetto di Castellani 1956), Anchise Brizzi per Sciu-

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scià, 1946, Piero Portalupi per Non c’ è pace tra gli ulivi del 1950 e Bellissima del 1951 Ultimo e non minore Aldo R. Graziati ( G.R. Aldò) per La terra trema, di Visconti (1948), Cielo sulla palude di Genina del 1949, Miracolo a Milano di De Sica( 1950), Umberto D. del 1952.; morto nel 1954 sul set di Senso e forse il più dotato tra tutti gli operatori italiani fino agli anni cinquanta, promosso per primo da Luigi Chiarini ad autore del film degno di stare a pieno titolo accanto al regista. Lo sguardo degli operatori diventa una sorta di protesi visiva dello sguardo del regista, dà una forma al vedere, fissa dei rapporti all’interno dello spazio tra paesaggio, ambienti, cose e persone. Torniamo al punto da cui siamo partiti: dalla metà degli anni trenta, quando una serie di germi messi a coltura in vitro iniziano a circolare e agire in profondità sui giovani aspiranti registi. Anche se poi le leggi del caso porteranno imprevedibilmente un regista fino a quel momento autore di film di propaganda come Rossellini, ad assumere il ruolo di individuo messianico e ad assumersi la paternità di un fenomeno nato dall’incontro naturale tra macchina da presa e realtà. Non è difficile, dai primi anni trenta assistere al moltiplicarsi di discorsi che chiedono al cinema di guardare con occhi nuovi alla realtà. Alla formazione della poetica neorealista concorreranno modelli culturali e cinematografici e luoghi finora mai osservati dalla macchina da presa dal Po alla Sicilia: «Vorremmo una pellicola avente a protagonista il Po - si augura Antonioni - e nella quale non il folclore, cioè un’accozzaglia di elementi esteriori e decorativi destasse l’interesse, ma lo spirito...»3. Quasi nello stesso periodo Visconti compie un viaggio di scoperta del profondo Sud, fino a quel momento conosciuto soprattutto grazie alla letteratura verista: «Viene naturale, per chi crede sinceramente nel cinematografo, di volgere gli occhi con nostalgia alle grandi costruzioni narrative dei classici del romanzo europeo e di considerarli oggi la fonte forse più vera di ispirazione... Con la testa piena di questi pensieri, girando un giorno per le vie di Catania... m’innamorai di Giovanni Verga..»4. M. Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», a. III (1939), n. 68, p. 225. L. Visconti, Tradizione ed invenzione, in Stile italiano nel cinema, Milano, D. Guarnati, 1941, p. 78. 3 4

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Pur nella varietà delle posizioni, c’ è una riconoscibile convergenza nei diversi discorsi sul dover essere del cinema: il pittore Domenico Purificato su «Cinema» esalta «l’obiettivo nomade»5, Zavattini immagina nel 1942 di filmare «un minuto di cinema»6, Lattuada nella prefazione al suo libro fotografico, L’ occhio quadrato, teorizza l’urgenza di tornare «a guardare gli uomini con gli occhi dell’amore»7, e Alicata e De Santis sostengono nel 1941 che «fu nella tradizione realistica che il cinema trovò la sua strada migliore»8. Come per l’ America di Pavese e —, anche la Sicilia immaginata da Visconti, De Santis, Pietrangeli, Alicata, si presenta come ponte e luogo che agisce da tessuto connettivo con la tradizione realistica. Nel cinema, come in letteratura, viene accolta in Italia la parola d’ ordine del ritorno a Verga e il verismo è assunto come chiave d’ accesso privilegiata alla realtà. Verga diventa un interlocutore quotidiano e la sua opera un breviario per l’ideale viaggio di risalita morale di un gruppo di giovani riuniti attorno a Visconti e alla rivista «Cinema». Alicata e De Santis, dopo il richiamo a Verga allargano lo sguardo al presente: «Vogliamo portare la nostra macchina da presa nei campi, nei porti, nelle fabbriche del nostro paese». Negli anni di guerra, prima che appaia l’articolo Neo-realismo di Barbaro sul numero di «Film» del 5 giugno 1943, nelle riviste cinematografiche italiane termini come realtà, realismo, reale, circolano non solo negli articoli di autori che sembrano voler esibire l’insegna antifascista. La guerra, oltre a costringere anche gli uomini del cinema italiano a effettuare un vero esame di coscienza e a compiere delle scelte, li spinge a liberarsi del peso di modelli culturali che di fronte all’enormità della tragedia e alle «lacrime delle cose» si rivelano inutili. Con Rossellini e poi De Sica-Zavattini si riparte da zero: ripartire da zero significa recuperare la verginità dello sguardo e una capacità di riscoprire il mondo come se lo si guardasse per la prima D. Purificato, L’ obiettivo nomade, «Cinema», III (1939), n. 78, p. 195. R. G., Un minuto di cinema, «Cinema», VII (1942 ), n. 136. 7 A. Lattuada, Occhio quadrato, Milano, Corrente, 1941, p. XIV. 8 M. Alicata e G. de Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema», VI (1941), n. 127, p. 216. 5 6

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volta, come se fosse la realtà a guidare lo sguardo della macchina da presa e a imporre la sua verità. Ci si libera dal peso della tradizione e si ha l’impressione di scoprire e creare il mondo, rimisurandolo a partire dall’uomo che muove i suoi primi passi in un’Europa completamente ridotta in macerie. Ma non si butta via certo il patrimonio professionale accumulato dagli operatori nei decenni precedenti. L’occhio degli operatori si adatta come una nuova pelle alla nuova forma della realtà e aiuta in qualche modo a ricomporla. Gilles Deleuze, in una delle tante illuminate intuizioni del suo viaggio nomadico nell’immagine cinematografica, osserva che alla fine della guerra mondiale l’Italia per prima, rispetto alla Francia e alla Germania, giunge ad avere una coscienza intuitiva della nuova immagine che sta per nascere e del tipo di racconto che rimette in questione il modello dell’immagine-azione del cinema americano e riporta il cinema all’anno zero della sua storia9. Far rinascere il cinema come linguaggio, come etica ed epica collettiva, vuol dire restituire allo sguardo e alla sua intelligenza la pienezza dei suoi poteri, fargli riscoprire le possibilità di esplorare il visibile nella sua totalità. È quello che riescono a fare Rossellini con Roma città aperta prima e Paisà poi e De Sica Zavattini con Sciuscià, pur rispettando non poche regole della grammatica e sintassi del cinema tradizionale. Il neorealismo ridefinisce le coordinate del cinema dalle fondamenta, ne riformula i principi formali, strutturali e di poetica, offrendo a tutti nuovi paradigmi narrativi e rappresentativi, restituendo allo spettatore la capacità di “vedere”. Grazie a un gruppetto di film italiani il cinema raggiunge quella condizione privilegiata per cui la visione delle cose consente il riconoscimento delle vicende individuali nelle storie corali e quello della totalità nella storia singola. Per qualche tempo il meridiano del cinema mondiale passa per Roma città aperta e da lì segna il tempo del cinema internazionale. Tra il 1945 e il 1948 le opere di Rossellini, Zavattini- De Sica, De Santis, Visconti, Germi, Castellani, Lattuada, sprigionano una forza di novità, un’energia e una potenza tali da cambiare le coordinate, i sistemi di riferimento, i paradigmi culturali, la prosodia, la sintassi e le poetiche di tutto il cinema mondiale. 9

G. Deleuze, L’ image-mouvement, Paris, Editions de Minuit, 1983, p. 285.

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Il neorealismo ha appena mosso i suoi primi passi e già ha contribuito a formare una nuova identità del cinema europeo e inventato una tradizione, un’etica del vedere e del narrare e una capacità di investire il più anonimo gesto quotidiano del senso e del valore di un’epopea collettiva. La “petite histoire évenémentielle” di anonimi personaggi, colti a caso dalla macchina da presa nel loro agire quotidiano, si trasforma nella Grande Storia, nella storia di tutti. L’occhio della macchina da presa incontra la Storia e se ne fa cronista e cantore. Di fatto il cinema “sembra” ripartire da zero ed essere in grado di ridisegnare i propri orizzonti, ridefinendo, o definendo per la prima volta i rapporti tra tutti gli elementi e fattori concorrenti alla realizzazione del film. L’abbandono delle certezze a favore di un procedere facendosi guidare dal caso è un carattere costitutivo anche dell’opera di Zavattini. Nulla è precostituito o previsto. Si potrebbe parlare di perfetto esempio di serendipity di sensazione di liberazione completa da lacci di qualsiasi tipo e di percezione del presente e futuro come territorio di possibilità infinite. Le vicende della vita non sono regolate da meccanismi prevedibili. Da qui il suo polemizzare fin dai primissimi passi con le regole narrative, il birignao attoriale, le convenzioni drammaturgiche, le imposizioni produttive. Nella fase in cui elabora, senza alcuna intenzione programmatica, la sua poetica Zavattini prevede che chiunque, partendo dalla più semplice realtà microcellulare, possa raggiungere infiniti universi di racconto. «Partiamo tutti insieme – scrive nel 1954 –partiamo in venti per realizzare il programma Vista di un paesucolo… dopo il primo metro anche prima, ciascuno prende la direzione che crede e che può e ciascuno penetrerà la vita del paesucolo a seconda della forza dei suoi occhi … La partenza è comune e non si pongono limiti al neorealista». La poetica del neorealismo non nasce dunque – come ormai è stato chiarito da tempo - da alcun progetto comune ideato a tavolino, quanto piuttosto da una perfetta coincidenza di fattori tra cui, in primis, la capacità autorappresentativa del reale, la forza e il dramma scritto nelle cose di un paesaggio sconvolto, devastato, ferito e tuttavia portatore di una fortissima carica di speranza e di spinta propulsiva verso il futuro. Alla percezione della durata, che nasce grazie al

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montaggio di elementi diversi, si sostituisce un rapporto con il visibile in cui i procedimenti stilistici paiono dissolversi e i vari elementi che compongono la scena sono in grado di raccontare storie differenti all’interno di una sorta di coro o di movimento sinfonico. Autori molto diversi, come Rossellini, Visconti, Germi, Blasetti, Camerini, Castellani, Zampa, Soldati, per qualche anno coabitano e si muovono in maniera indipendente in un medesimo campo di tensioni. Dall’indomani di Roma città aperta nasce – in ogni caso - un differente modo di guardare all’uomo (non di “spectare”, ma di “ìdein” e di “istorèin”), ai suoi rapporti e alla coscienza di questi rapporti con il contesto sociale e storico in cui vive. Il regista si sente investito del ruolo di cantore visivo e interprete della storia di tutti. Una storia piena d’ombre, di dolore, di sangue, ma una storia che va a toccare il cuore del paese. La macchina da presa, contrariamente a quello che si è detto a lungo, è un testimone tutt’altro che neutro ed oggettivo. La tradizione dell’epopea popolare trasmessa per via orale dai cantastorie e cantafavole, di cui si è riconosciuto debitore anche Italo Calvino trova nella macchina da presa il nuovo mezzo privilegiato. Grazie soprattutto a Rossellini a De Sica, ma anche a Zavattini e alla sua consapevolezza poetica di poter reinventare il mondo: «Ci pare di essere alla vigilia di ritrovare plasticamente il valore della nostra immagine. Questo del resto era il cinema sin dal primo aprirsi dell’obiettivo alla luce del mondo… Fu il momento più incontaminato e promettente del cinema. La realtà sepolta sotto i miti, riaffiorava lentamente. Il cinema cominciava la sua creazione del mondo: ecco un albero, ecco un vecchio, una casa, un uomo che mangia, un uomo che dorme, un uomo che piange. Li avrebbe spiegati davanti a noi come delle tavole sinottiche…». Il cinema sembra liberarsi di colpo della tradizione letteraria, teatrale, figurativa, ma si collega, a sua volta, a una tradizione orale, sceglie la via della equivalenza tra il racconto orale e il racconto per immagini e recupera quei legami con il realismo pittorico «fiorito nell’Italia laica, socialista, umilmente impegnata del tempo risorgimentale» come ha suggerito Federico Zeri10 . PotenzialmenF. Zeri, La percezione visiva dell’Italia e degli italiani, Torino, Einaudi, 1989, p. 63. 10

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te i registi hanno la sensazione di andare alla scoperta di tutti i possibili luoghi della realtà italiana. Soprattutto scoprono forme inedite di comunicazione verbale e gestuale e di integrazione perfetta tra l’uomo e il suo ambiente. Riescono, per qualche anno, a far parlare i silenzi, i volti, il vuoto, il paesaggio, gli oggetti. Riscoprono significati e funzioni in oggetti insignificanti, nobilitano ogni minimo elemento. Lo sguardo neorealista non è uno sguardo passivamente mimetico, né è uno sguardo neutro: è uno sguardo inclusivo e totalizzante che punta ad abbracciare il territorio italiano nella sua massima estensione, ma che sa creare un mondo a partire dal corpo di un partigiano ucciso che galleggia trascinato dalla corrente in uno dei rami delle foci del Po.. Basterà però che passino alcuni anni e già riaffiora il tessuto letterario. Basti pensare alla forza delle osservazioni del diario di Jean Cocteau: «Abbiamo visto i film italiani prima beneficiari e poi vittime dell’etichetta neorealista. Orbene questi film erano racconti di autori orientali. Come in Oriente in Italia si vive in strada. Il califfo, anziché dissimularsi in uomo del popolo si trasforma in cinepresa alla ricerca dei misteriosi intrighi che si svolgono nelle vie e nelle abitazioni. In Miracolo a Milano De Sica spinge all’estremo il racconto orientale»11. Anche Paisà e Il cammino della speranza potrebbero sembrare esempi tardi di romanzo picaresco, di ballata di un cantastorie in quanto raccontano, usando una tecnica di accumulazione di quadri distinti, di viaggi che dalla Sicilia conducono fino al Nord . Zavattini pensa fin dal 1944 a un viaggio in Italia (a cui darà il titolo di Italia mia), che è proprio Le mille e un’ Italia. Per lui la culla della civiltà italiana è la Padania, fecondata dal fiume che la traversa («Il Po è il padre e la madre, è la vita, è la terra»). Concepito invece come l’ouverture di una trilogia popolare e in parte realizzato sotto il segno della pittura di Guttuso e del cinema di Ivens e Flaherty La terra trema è un grande viaggio di catabasi, di ritorno alle madri, di discesa alle radici della cultura popolare nazionale. Il primo Visconti è uno degli autori che più immerge il proprio

11

J. Cocteau, Le passé défini, Paris, Gallimard, 1983, p. 351.

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realismo nelle strutture fondanti del mito. Dagli anni cinquanta il corpo neorealista esplode e i frammenti ricadono nel terreno circostante e continuano anche a fecondare e influenzare realtà diverse e lontane nello spazio e nel tempo, sia nel cinema di finzione italiano e straniero, nel cinema di genere o nel documentario. Per la verità una storia del documentario italiano è ancora tutta da scrivere. Mi sembra importante sottolineare come, per tutta una fascia della produzione lo spazio del documentario consenta la difesa e il mantenimento di caratteristiche che si stanno ormai perdendo al piano nobile della produzione. In pratica, nella produzione documentaristica prendono la parola, si esercitano, e compiono i loro primi esperimenti autori che si sentono a lungo gli eredi più legittimi della parola neorealista. E ciò che non sarà più possibile affrontare, nell’ambito della produzione maggiore, si continuerà a far circolare – come possibile – nel documentario. Restano invece aperti e praticabili temi e significati cari alle poetiche neorealiste, destinati a diventare le prime manifestazioni e i primi luoghi entro cui si esprime la poetica dei nuovi autori. Questo è vero in particolare per Antonioni (Gente del Po 1943-47, Nettezza Urbana, 1948, L’amorosa menzogna, 1949, Superstizione, 1949), Vittorio De Seta (Lu tempu de li pisci spada, 1954, Isole di fuoco, 1954, Sulfatara, 1955, e soprattutto Pastori a Orgosolo e Un giorno in Barbagia del 1958, che costituiscono gli appunti e i sopralluoghi preliminari per il suo primo lungometraggio), Dino Risi (Barboni, 1946 e Cortili, 1946, Buio in sala, 1949), Luciano Emmer e Gras (Isole nella laguna, 1949), Carlo Lizzani (Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato, 1950); Renzo Renzi (Le fidanzate di carta, 1951), Florestano Vancini (Delta padano, 1952 e Tre canne un soldo, 1953), Valerio Zurlini (Pugilatori, 1951 e Mercato delle facce, 1952), Giulio Questi (Donne di servizio, 1953), di Gillo Pontecorvo (Porta Portese, 1954), Paolo e Vittorio Taviani e Valentino Orsini (San Miniato luglio ’44), 1954, Luigi Comencini (Bambini in città, 1946), Francesco Maselli (Bagnaia paese italiano, 1949, Bambini e Ombrellari, 1951, Stracciaroli e Fiorai, 1952), Ermanno Olmi (La pattuglia del passo San Giacomo, 1953, Tre fili fino a Milano, 1958, Un metro lungo cinque, 1959). Per tutti il documentario è l’anticamera della regia del lungometraggio, e il momen-

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to in cui già si fissano temi-chiave o cifre stilistiche. Il documentario insegna a guardare e ad impadronirsi di tutti gli aspetti del processo creativo e realizzativo, a conoscere e padroneggiare il linguaggio visivo, invita ad esplorare nelle realtà vicine mestieri che scompaiono e gesti quotidiani che caratterizzano la storia di un luogo o di un’economia, insegna a viaggiare nello spazio e nel tempo, a varcare zone considerate tabù, a portarti a contatto con realtà arcaiche e riti magici o con zone di sottosviluppo - seguendo ad esempio le orme e gli studi d’Ernesto De Martino come Sud e magia - che residuano ad un passo dalle aree più avanzate del paese12. I primi veri contatti con le realtà profonde e sconosciute della Sicilia, Sardegna, Puglia, Basilicata avvengono grazie ad alcuni memorabili documentari di Luigi Di Gianni o di Vittorio De Seta, mentre il primo vero ingresso a contatto con la realtà quotidiana, con i gesti del lavoro operaio, oltre al documentario di Pontecorvo Giovanna del 1954 ci viene dai documentari di Ermanno Olmi nei cui credits possiamo trovare anche Pier Paolo Pasolini o Tullio Kezich (La diga sul ghiacciaio, 1953; Michelino I B,1956; Tre fili fino a Milano, 1958; Un metro lungo cinque, 1961). Il documentario raccoglie il testimone del neorealismo e della lezione zavattiniana – oltre alle lezioni dei grandi maestri da Joris Ivens a Robert Flaherty – ed ha la possibilità di entrare a contatto con temi che il cinema ha rimosso dal suo orizzonte visivo, ma anche può accedere alle realtà industriali assai prima di quanto non farà il cinema di finzione. Non pochi registi sperimentano la sintassi, la metrica, la ritmica ed esplorano alcuni argomenti che poi svilupperanno nei film di finzione successivi. È il caso di Olmi, De Seta, Vancini… Quando Rossellini vede il documentario industriale di Olmi, Un metro lungo cinque nel 1960 dice: «Questo modo di fare il cinema significa scoprire il mondo». E in questa frase si potrebbe vedere un perfetto passaggio di testimone da una generazione ad un’altra. Ma è possibile vedere questa azione del neorealismo spingersi ancora oltre. Mi piace chiudere citando una pagina del 2005 di Martin D. Carpitella, Film etnografico e mondo contadino in Italia, in P. Sparti, a cura di, Cinema e mondo contadino, Venezia, Marsilio, 1982. 12

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Scorsese, i, cui ricorda le emozioni prodottegli dalla visione dei documentari di De Seta: «L’inquietudine, il senso di spaesamento mi hanno accolto dalle prime immagini, mi sentivo impreparato di fronte a ciò che stavo vedendo. Sono stato sopraffatto da un’emozione intensa, come se avessi oltrepassato lo schermo e mi fossi ritrovato in un mondo che non avevo mai conosciuto, ma che improvvisamente riconoscevo… Quello che stavo guardando era la mia cultura ancestrale, che volgeva alla sua fine, a un passo dal suo ingresso nella sfera del mito... Ma non mi ero limitato ad oltrepassare lo schermo, adesso stavo entrando nell’occhio del regista, come se nell’atto di reimpossessarmi delle nostre radici comuni avessi visto il mondo di De Seta. Stavo condividendo la sua curiosità e il suo stupore e realizzando con tristezza… che quella era l’ultima volta che la vitalità di una cultura incontaminata veniva filmata. Era la Sicilia sullo schermo, una Sicilia che nella mia famiglia i miei nonni furono gli ultimi a conoscere. Una Sicilia dimenticata. Un luogo in cui la luce del giorno era preziosa e le notti completamente buie e misteriose. Un luogo rimasto inalterato per secoli, in cui lo stile di vita era sempre lo stesso, dove le calamità naturali facevano parte dell’esistenza. Un luogo in cui la religione rivestiva un’importanza primaria… Erano i figli di Sisifo che aveva imprigionato Thanatos per evitare il decesso dei mortali, i figli di Prometeo che aveva rubato il fuoco agli dei per donarlo ai mortali, e per questo erano stati puniti per l’eternità. Gente che cercava la redenzione attraverso il lavoro manuale: nelle viscere della terra (Solfatara), in mare aperto (Contadini del mare), sulle colline (Parabola d’oro)- tirando le reti, tagliando il grano, estraendo lo zolfo. Gente che sembrava pregare attraverso la fatica delle mani. Era il cinema nella sua essenza, in cui il regista non registra la realtà, ma la vive in prima persona»13.

Il tesato è stato scritto per una brochure pubblicata dalla Cineteca di Bologna in occasione del restauro di Banditi a Orgosolo presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2005. 13

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LINO CAPOLICCHIO

La voce il volto il corpo. L’attore nell’ottica neorealista

Il neorealismo è anzitutto un cinema profondamente etico/morale. C’è in questo un impegno, un’urgenza della coscienza per un pronto riscatto sociale, civile, politico, umano del Paese ITALIA. È un cinema che storicamente cerca di recuperare un’identità, di raccogliere i fili di una comunità oltraggiata dalla guerra, sfigurata dalle bombe, sopraffatta dalla fame e dalla miseria. E così l’estetica cinematografica, la sua dinamica espressiva diventano una poetica straordinaria che serve a lenire le ferite, ma a guardare al futuro, con speranza e orgoglio. L’eroismo della volontà, il non rassegnarsi, sembra guidare con forza quei registi che si cimentavano con pochi mezzi, pochi soldi, ma uniti da una solidarietà, da un entusiasmo commovente. Così è nato per germinazione spontanea quel movimento che ha travalicato le frontiere e commosso il mondo. Perché l’arte, quando è tale, è comprensibile a chiunque, soprattutto se sa raccontare i bisogni primari degli uomini, senza sovrastrutture, ma con la psicologia interiore delle reazioni umane di fronte alla vita. Naturalmente a quei registi, si poneva un problema fondamentale, dare voce e volto a delle storie di tutti i giorni attraverso non degli attori professionisti, volti già noti o comunque viziati dalla professione, ma di gente, facce, volti, presi a prestito dalla strada che rappresentassero la verità, una verità senza infingimenti, una verità diretta, registrata dalla macchina da presa e sapientemente orchestrata dal regista.

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Ed ecco che Lamberto Maggiorani in Ladri di biciclette diventa l’icona di una verità insostituibile. E nessun altro attore potrebbe essere più vero, più intenso, perfetto per quel ruolo. È lui dunque che diventa il simbolo, di quel riscatto di un paese che cerca di uscire dalle sue rovine. Lui diventa il messaggero nel mondo del dolore e della sofferenza, ma pronto ad un domani migliore. Ed ecco sorgere un nuovo problema, un problema di non facile soluzione. Come far parlare quell’attore preso dalla vita? Tre sono le fonti espressive di un attore-interprete professionista: il volto, la voce ed il corpo. Strumenti essenziali ed ineludibili. Ma se al volto ed al corpo togli l’espressività della voce, che succede? È qui si verifica uno scarto che porterà negli anni successivi ad effetti deleteri nel rapporto fra l’attore ed il cinema all’interno della produzione cinematografica. L’attore viene “doppiato”. Ora, fino a quel momento raramente gli attori venivano doppiati, solo nel caso del tutto eccezionali, ma in questo caso è giocoforza, non si può rinunciare a quel volto e si sacrifica il sonoro a cui verrà posto rimedio nella fase di post-produzione, sincronizzando le battute della presa diretta che diventa in questo caso solo una guida sonora di appoggio al lavoro che verrà fatto successivamente. Potrebbe esserci una vistosa contraddizione in tutto questo. Se si ricerca una verità, la si dovrebbe perseguire fino in fondo. Ma in realtà, la verità dell’arte non ha nulla a che vedere con la verità della vita, è qualcosa che appartiene alla vita, le assomiglia, ma non è la vita. L’arte travalica la vita, la sublima nella sintesi di un gesto, un’emozione, l’arte è astrazione, e qui sta la sua bellezza, la sua essenza. Naturalmente ogni regista ha la sua personalità, e quindi usa un metodo diverso per ottenere dagli attori non professionisti un risultato di buon livello, amalgamando il tutto a volte con risultati eccezionali. Sul piano stilistico, a parte quel capolavoro che è La terra trema, un risultato per me eclatante è la sequenza dell’uccisione della prostituta in Rocco ed i suoi fratelli, dove Visconti mette in scena due attori lontani anni luce tra loro per esperienza e preparazione attoriale, e noi non ce ne accorgiamo: Renato Salvatori, un bagnino di Livorno prestato al cinema, ed una delle migliori attrici francesi di

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teatro Annie Girardot; Visconti compie un capolavoro di sintesi ed equilibrio stilistico, la scena è perfetta, di alta intensità emotiva e ci chiediamo quali dei due attori sia il più bravo. Naturalmente la tradizione dell’attore preso dalla strada o dalla vita proseguirà a lungo nel cinema italiano, anzi forse non è mai finita. Due straordinari esempi sono Accattone di PierPaolo Pasolini, che non solo usava facce e volti di tutti i giorni ma imponeva poi, che fossero loro stessi a doppiarsi; e Gillo Pontecorvo con La Battaglia di Algeri. L’espressività di quei volti rimane scolpita nella nostra memoria in maniera indelebile. Quale attore professionista avrebbe saputo fare meglio? Sul piano personale anch’io, nel mio primo film da regista Pugili, ho preso due ragazzini, quindicenni, pugili veri, e li ho trasformati in attori. Naturalmente il problema era di rendere la loro “recitazione” spontanea, naturale, seguendo un copione scritto, sul quale ero, peraltro, assolutamente intransigente. La difficoltà maggiore, per me, in questi casi è di mettere i ragazzi a proprio agio trovandosi sul set per la prima volta, e dovendo vincere un naturale riserbo una sorta di pudore, di timidezza. Ho chiesto loro di darmi del tu, e quindi facilitando una sorta di familiarità, sempre improntata ad un grande rispetto, togliendo però al regista una sorta di “aurea sacrale” con cui venivo percepito. Tutto è andato per il meglio e sono rimasto molto soddisfatto del risultato finale. Possiamo quindi dire che in definitiva “il neorealismo” è stato una grande scuola, una rivoluzione, che ci ha fatto scoprire dei grandi “autori” (è proprio con il neorealismo infatti che il regista diventa autore a pieno titolo) ma attraverso il suo cinema ci ha fatto scoprire noi stessi e forse, anzi sicuramente, ci ha resi migliori.

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ANDREA CICCARELLI Fra (neo/)realismo e sogno: Io non ho paura

Sappiamo che a partire dal periodo neorealista, il rapporto fra produzione cinematografica e produzione letteraria, in Italia, è diventato sempre più diretto e proficuo. La produzione filmica italiana, d’altronde, sin dai suoi esordi, è sempre stata molto attenta, forse più di altre culture, al legame con i testi letterari, italiani o meno. Sarebbe sufficiente nominare l’interesse di D’Annunzio e Pirandello per il cinema per confermare tale forte contatto fra letteratura e film in Italia1. A partire dagli anni ’40, al di là della ripresa di opere tratte da classici (quali, ad esempio, I promessi sposi di Mario Camerini, 1941; La terra trema, Visconti, 1948; oppure Il Decamerone di Pasolini, 1971), questa tendenza, restando nell’ambito della letteratura italiana, è proseguita soprattutto per opere letterarie post-belliche che avevano ottenuto immediata attenzione critica e successo di pubblico. Si pensi, fra i tanti titoli, a Cronache di poveri amanti (Lizzani, 1953, il romanzo di Pratolini era del ’47); alla Ciociara (De Sica, 1960, il lavoro di Moravia era del ’57); al Gattopardo (Visconti, 1963, il romanzo era uscito postumo nel ’58); al Giorno della civetta (Damiani, 1968, il libro di Sciascia era del ‘61); al Giardino dei Finzi Contini (De Sica, 1970, il romanzo di Bassani era del ‘62); al Conformista (Bertolucci, 1970, il libro era 1 Sulla relazione fra le figure letterarie e il cinema in formazione v. G. P. Brunetta, Storia del cinema italiano 1895-1945, Roma, Editori Riuniti, ma su Pirandello e il cinema v. anche M. Gieri, Contemporary Italian Filmmaking: Strategies of Subversion: Pirandello,Fellini,Scola,and the Directors of the New Generation, Toronto, University of Toronto Press, 1995.

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del ’51) o, in anni più recenti, a Porte aperte (Amelio, 1990, il racconto di Sciascia era del 1987); Tempo di uccidere (Montaldo, 1991, il romanzo di Flaiano era del ’47); oppure, alla Tregua (Rosi, 1997, il libro di Primo Levi era del ’63). Allo stesso tempo, non si devono certo trascurare operazioni cinematografiche che hanno invece reso note opere letterarie altrimenti oscure, quali Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni (1987), fonte della Voce della luna di Fellini (1990), per fare un solo, ma significativo esempio2. Non sorprende, perciò, che molti registi italiani, anche fra quelli che più di altri hanno prediletto soggetti originali, abbiano di frequente girato film tratti da opere letterarie più o meno classiche o note3. Fra i registi che hanno acquistato notorietà critica e di pubblico negli ultimi vent’anni, Gabriele Salvatores è forse uno di quelli che più si è distinto per aver spesso scelto di filmare storie tratte da romanzi o racconti più o meno di successo. Infatti, forse tranne che nel caso dei film adattati dai romanzi di Ammaniti (Io non ho paura, 2003 e Come Dio comanda, 2008), è stata proprio la versione La bibliografia sul rapporto fra cinema e letteratura è vastissima. Fra le opere generali più recenti v. B. McFarlane, Novel to Film: An Introduction to the Theory of Adaptation, Oxford, Oxford University Press, 1996 e i saggi raccolti da J. che nel libro da lui curato, Film Adaptation, New Brunswick, Rutgers University Press, 2000. Nell’ambito del cinema italiano, fra i molti, v. G. P. Brunetta (a cura di), Letteratura e cinema, Bologna, Zanichelli, 1976; M. Marcus, Filmmaking by the Book: Italian Cinema and Literary Adaptation, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 1993; A. Costa, Immagine di un’immagine, Torino, UTET, 1993; C. Testa, Masters of Two Arts: Re-creation of European Literatures in Italian Cinema, Toronto, University of Toronto Press, 2002; V. Zagarrio, Letteratura & film nel cinema italiano contemporaneo, in «Esperienze letterarie», XXXI, (2006), 4, pp. 117-124. Nello stesso numero della rivista, v. anche l’intervento di C. Lizzani, Cinema e letteratura, pp. 125-128 e il saggio di A. Vitti su Gianni Amelio, pp. 107-116 (ma sul rapporto fra Amelio e la letteratura contemporanea v. il volume dello stesso Vitti, in uscita presso University of Toronto). Per i singoli autori/ film citati rinvio alla bibliografia specifica in P. Bondanella, Italian Cinema from Neorealism to the Present, New York, Continuum, 2001 (III ed.), pp. 507-530. 3 Si pensi, fra i maestri del post-neorealismo, a registi ben diversi fra loro come Scola o Monicelli, i quali, pur concentrandosi quasi esclusivamente su soggetti originali, hanno anche loro girato film tratti da opere letterarie, quali, ad esempio, Passione d’amore (Scola, 1981, da Fosca di Tarchetti) e Il male oscuro (Monicelli, 1990, il romanzo di Berto era del ’64). 2

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cinematografica a rendere poi noto al grande pubblico il libro stesso 4. Sin dagli esordi, la cinematografia di Salvatores si è contraddistinta per l’eterogeneità delle sue scelte tematiche, nonché per la sua capacità di affrontare soggetti fra loro molto diversi. E questo vale sia per soggetti di derivazione letteraria che per soggetti originali. Basti pensare a qualche titolo, per avere un’idea immediata della varietà tematica del regista che ha vinto l’oscar per un film (Mediterraneo, 1991) apparentemente sulla seconda guerra mondiale ma che, in realtà, tocca tematiche quali l’amicizia, l’amore, l’esilio, la viltà, le aberrazioni ideologiche, il crollo degli ideali politici. La filmografia di Salvatores, a volte, può dare l’impressione di insistere su temi quali la fuga dalla civiltà urbana o la condanna del consumismo; in realtà, le sue lenti passano con facilità da film «on the road» in stile ironico-nostalgico (Marrakesch express), a thriller psicologici e cupi come Quo Vadis, Baby?, un noir che fotografa personaggi e ambienti poco consoni all’immagine tipica dell’Italia che si vede nei film stranieri. Oppure inquadrano problemi esistenziali causati dall’irrompere del mondo virtuale (Nirvana e va notato che il film è del ’97, cioè di un periodo in cui, in Italia, si cominciava appena a discutere di tali problemi); in altri casi (Denti) si soffermano su un soggetto straniante, pirandelliano e kafkiano, basato sul crollo di una relazione e la conseguente presa di coscienza di un inaspettato cambio d’identità psichica e fisiologica, una metamorfosi che il regista esplora come assurdo conflitto fra norma e scarto. Alla varietà tematica, corrisponde una varietà stilistica, naturalmente e, in proposito va subito detto che, nel rapporto fra testo e film, una delle caratteristiche del cinema di Salvatores è sicuramente quella di rispettare il testo di partenza, per poi imporre sottilmente la propria interpretazione stilistica e tematica, grazie a leggere, ma significative modifiche. Nella strategia narrativa dei suoi film, ad 4 Fra gli altri, possiamo ricordare che Puerto Escondido (1992) è tratto dal romanzo omonimo di Pino Cacucci (1990); Denti (2000), dal libro di Domenico Starnone (1996); Quo Vadis, Baby? (2005), da un noir di Grazia Verasani (2004). Perfino il debutto ha radici letterarie, visto che Sogno di una notte d’estate (1982) era tratto, naturalmente, da Shakespeare.

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esempio, risalta l’abilità di convertire passi descrittivi o realistici in immagini oniriche –che però non tramutano la realtà in un universo necessariamente sognante, anzi, spesso sono depositarie di immagini fosche, di incubi visivi che riflettono un’angoscia interiore che poteva essere rimasta nascosta al lettore. Per verificare dall’interno come si svolge il rapporto fra testo e film nel cinema di Salvatores, in questo saggio desidero soffermarmi su Io non ho paura (il film è del 2003, il romanzo, Torino: Einaudi, 2001 – edizione da cui si cita indicando la p. o le pp. corrispondenti). Libro e film, si sa, hanno entrambi ottenuto enorme successo di pubblico e di critica (in quest’ultimo caso, con le solite eccezioni del caso)5. Nel romanzo come nel film, la storia tocca più o meno direttamente, e in modo realistico, temi cari al meridionalismo, quali l’analisi economico-sociale di una zona rurale negli anni settanta non ancora raggiunta dal benessere che, negli ultimi due decenni del ventesimo secolo, ha parzialmente emancipato molte aree del Sud. Credo, infatti, che uno dei punti di contatto intellettuale maggiore fra Salvatores e Ammaniti sia dovuto proprio all’ambientazione geo-sociale nonché alla sua cronologia che colloca l’azione alle soglie di quello che può essere definito l’arrivo dell’agognata modernità e dei suoi benefici (e malefici) – modernità che è metafora del passaggio dall’infanzia all’età adulta da parte dei protagonisti bambini6. La sceneggiatura è stata curata dallo stesso Ammaniti in collaIl film ha avuto grande successo in Italia e all’estero, è stato distribuito in decine di paesi e fra i vari riconoscimenti ha ricevuto la candidatura all’Oscar, un David di Donatello e il premio del Sindacato dei Giornalisti Cinematografici. Il romanzo ha vinto il premio Viareggio e in poco più di un anno aveva venduto duecentomila copie e, alla fine del 2007, le vendite avevano raggiunto la quota record di settecentomila. 6 L’interesse di Salvatores per i problemi che affliggono certe zone del mezzogiorno sono evidenti anche e soprattutto in Sud (1993), un film sugli effetti deleteri della disoccupazione che il regista ha voluto girare dopo aver vinto l’oscar, ovvero in un momento di successo in cui avrebbe potuto fare qualsiasi film. L’aver scelto come soggetto un tale argomento dimostra la sua attenzione per il tema meridionalista. 7 Francesca Marciano, sceneggiatrice di successo (fra le più recenti, La bestia nel cuore di Cristina Comencini, 2005), ha anche partecipato alla sceneggiatura di un altro film di Salvatores, Turné (1990). La Marciano è anche autrice di due 5

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borazione con Francesca Marciano7; non sorprende, perciò, che il film segua piuttosto fedelmente la trama e i risvolti del libro benché vi siano pochi, ma significativi, cambiamenti rispetto alla prosa originale. Il mio interesse verte soprattutto sulle ragioni estetiche dietro alcuni di questi cambiamenti, per verificare se, al di là delle normali differenze dettate dai due diversi codici artistici, questi scarti fra libro e film segnalino delle differenze interpretative tanto nella rappresentazione dei personaggi quanto dell’atmosfera socio-culturale del film rispetto al libro. Sarà forse bene ricordare la trama. Siamo nell’estate del 1978 in un piccolo centro del Sud circondato da campi di grano8. Un bambino di nove anni (dieci nel film), Michele Amitrano, mentre gioca con gli amici nella campagna vicino alla frazione, Acqua Traverse, dove vive insieme a poche altre anime, scopre casualmente un buco nel terreno, un nascondiglio, dove è tenuto un suo coetaneo, Filippo Carducci. Filippo, figlio di un industriale lombardo, è stato rapito da una banda a cui appartengono tutti gli adulti di Acqua Traverse, incluso il padre (Pino) e la madre (Teresa) di Michele. Michele, vinta l’iniziale paura, comincia a conversare e diventa amico di Filippo, che visita di nascosto. Nei primi incontri, Michele non ha idea che il bambino sia stato sequestrato. Presto, però, finisce per

romanzi scritti prima in inglese e poi tradotti da lei stessa in italiano (Cielo scoperto, Milano, Mondadori, 1998 – Rules of the Wild, ambientato in Africa e Casa rossa (Milano, Longanesi, 2003 e New York, Knopf, 2003). Quest’ultimo romanzo è ambientato nel sud d’Italia, in Puglia, e la casa del titolo fa da sfondo a sessant’anni di storia familiare. Anche Niccolò Ammaniti, che ha collaborato con Salvatores pure per Come Dio comanda, ha grande esperienza nel campo della sceneggiatura, avendo sia redatto soggetti originali (Il siero della vanità, regia di Alex Infascelli – 2004) che cooperato con vari registi per l’adattamento di suoi altri lavori quali il romanzo Branchie (Torino, Stile Libero Einaudi, 1997), uscito con lo stesso titolo nel 1999 per la regia di Francesco Martinotti, e il film di Marco Risi L’ultimo capodanno dell’umanità (1997), tratto da uno dei racconti di Fango (Milano, Mondadori, 1996). 8 Ammaniti ha poi specificato in diverse interviste che l’idea geografica gli è nata da un viaggio in Puglia. Ma anche ad una semplice lettura si intuisce che siamo in Puglia, ma nell’entroterra, verso il confine con Campania e Basilicata; non a caso il film è stato girato nel comune di Melfi, in Basilicata, ma vicino alle altre due regioni.

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scoprire la verità e si confida, in cambio di un regalo, con un suo amico, Salvatore, che lo tradisce. Michele è quindi obbligato a dimenticarsi tutto dal padre, mentre Filippo viene spostato in un nuovo nascondiglio. Quando però Michele apprende che il padre e gli altri hanno deciso di uccidere Filippo perché le indagini si stanno facendo sempre più pressanti, si precipita a cercarlo, lo salva, ma rimane lui stesso ferito da un colpo di pistola tirato dal padre che pensava di sparare al bambino sequestrato. Il libro e il film finiscono con il padre, disperato, che tiene in braccio un Michele semi-cosciente, mentre viene circondato dai carabinieri. Ma nel film, va detto subito, c’è una variante essenziale: Filippo torna indietro a sincerarsi delle condizioni di Michele, viene quasi ricatturato dal peggiore dei rapitori, Sergio, poi costretto ad arredendersi alle forze dell’ordine. L’immagine finale coglie i due bambini che si toccano le dita e si sorridono. Il romanzo invece si chiude con Michele che, dopo aver implorato un recalcitrante e impaurito Filippo di scappar via, implora a sua volta il padre di fuggire, prima di perdere conoscenza. Il finale diverso rientra, come si vedrà, nel tentativo di rendere il tono del film meno aspro di quello del libro, in cui il contesto familiare e sociale si affida ad una ricostruzione più fedele, nei modi e nei dialoghi, alla realtà rappresentata. Il romanzo è scritto con uno stile asciutto, diretto, che riflette la semplicità dei dialoghi dei bambini e la scarsa eloquenza degli adulti, siano essi criminali incalliti (Sergio) o persone semplici (tutti gli altri). La storia, nei suoi risvolti umani, sociali e esistenziali è vissuta principalmente attraverso gli occhi del protagonista bambino: Michele. Ma c'è una differenza basilare: nel libro è lo stesso Michele che, a distanza di ventidue anni, racconta la vicenda; mentre nel film tutto è vissuto e scoperto sul momento. La strategia narrativa del romanzo ci avverte di continuo che il narratore (Michele) filtra la propria vicenda fisica ed esistenziale al vaglio della memoria e delle molteplici esperienze acquisite negli anni. La differenza fra chi seleziona dalla propria memoria, e chi invece vive e subisce gli eventi al presente è evidente: la riflessione sull’esperienza successiva consente al protagonista (ormai adulto) del romanzo di ripensare le esperienze anteriori, proponendole come definitive. Un vantaggio della memoria è sicuramente quello di poter indicare oltre.

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Per esempio, da una parentesi aperta da Michele nel romanzo, sappiamo che dieci anni dopo l’accaduto, andrà a sciare sul Gran Sasso, dove rivive psicologicamente una delle lezioni impartitegli dalla sua esperienza giovanile (p. 29). Siamo all’inizio dell’intreccio e poco di rilevante è accaduto all’altezza di questo episodio; parrebbe quindi strano voler dare un’informazione sull’evoluzione del personaggio Michele, a meno che non serva a fornire, indirettamente, un’indicazione geografica (il Gran Sasso non è una delle mete sciistiche di chi vive in Puglia, ma lo è, semmai, per chi vive sul versante tirrenico del centro Italia) e socio-economica della sua vita posteriore all’estate del ’78 (sciare costa: sarà stato adottato o assegnato a un istituto dopo gli eventi in questione?)9. Il tema della miseria sociale che fomenta il crimine e spinge verso il consumismo e la ricchezza come ambiti sbocchi antropologici da parte dei protagonisti adulti è ben presente sia nel libro che nel film: siamo in una misera zona rurale dove si sopravvive grazie al lavoro agricolo stagionale unito ad altri mestieri più o meno fissi (camionista, barbiere, meccanico). Il contrasto fra la bellezza luminosa del paesaggio, la gioia di vita dei bambini e la fatica del vivere mista alla gelosia rancorosa degli adulti è evidente e non necessita spiegazione alcuna. Ma sia Ammaniti che Salvatores, in misura diversa, non puntano su questa componente sociale come fulcro della storia, bensì ne sottolineano la realtà attraverso gesti e pensieri indiretti, generati dalla visione di Michele. Così, per esempio, l’ambizione economica e sociale del padre di Michele, prima ancora che si sappia del suo ruolo fondamentale nel rapimento, s’intravede dal regalo – il modellino di una gondola – che fa ai figli. Un dono che, in 9 Il mutamento sociale dovuto alla tragedia vissuta da Michele lo si arguisce anche da altri riferimenti ad avvenimenti successivi a quello narrato, ad esempio la sua conoscenza dell’opera lirica: «Mamma [...] mi ha abbassato i pantaloni [...] e ha cominciato a farmi le chiappe rosse [...] Alla radio una voce cantava. ‘Croce. Croce e delizia. Delizia al cor’. Me lo ricordo come fosse ieri. Per tutta la vita, quando ho ascoltato la Traviata, mi sono rivisto con il sedere all’aria, sulle gambe di mia madre che, seduta composta sul divano, mi gonfiava di botte» (p. 84). Nella storia, eccetto una radiolina che gracchia canzonette – sempre di di musica leggera tranne che nell’episodio qui riportato – non vi sono tracce di elementi culturali che lascino pensare ad un’educazione musicale, se non, appunto, in una fase posteriore.

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realtà, come ben intuisce Michele, è diretto a se stesso; è un feticcio della sua sognante ambizione sociale. Un oggetto dei desideri, inutile, che rappresenta la favolosa città-mito del turismo per eccellenza. Ma è l’inutilità della gondola come giocattolo (non è un regalo pratico o divertente), a far trapelare il suo valore di balocco adulto: «– Il regalo! Dacci il regalo! [...] – Una barca! – ho detto. – Non è una barca, è una gondola, – mi ha spiegato papà [...] Era molto bella [...] Ma abbiamo scoperto che non la potevamo prendere. Era fatta per essere messa sul televisore. E tra il televisore e la gondola ci doveva essere un centrino di pizzo bianco. Come un laghetto. Non era un giocattolo. Era una cosa preziosa», p. 40)10. Non a caso, la gondola viene situata in bella vista sull’unico altro oggetto che rappresenti la presenza del superfluo e della ricchezza nella povera casa degli Amitrano: il televisore. Ed è proprio la televisione una protagonista nascosta e inquietante, quasi fosse una reificazione del male di tutta la storia. Lo slancio con cui il gruppo dei rapitori si precipita davanti alla TV per ascoltare i notiziari è in parte funzionale alla buona riuscita del rapimento, ma è soprattutto dovuto al fatto che si parla di loro («Il telegiornale! Ecco il telegiornale [...] Alza! Teresa, alza! E spegni la luce [...] – Forse non ne parlano. Ieri non ne hanno parlato. Forse non interessa più», 90). Sono loro, anonimi rapitori che vivono fra quattro case di un borgo sperduto, ad aver provocato una notizia sensazionale, ad essere protagonisti nascosti di un’impresa che vorrebbero gridare ai quattro venti, se la notorietà non portasse all’arresto. Molte delle distinzioni fra libro e film rispondono a normali esigenze dovute ai due diversi codici artistici, oppure servono semplicemente a rendere il film accessibile al più vasto pubblico del cinema, nonché ad un pubblico non italiano e contemporaneo (alcuni riferimenti a fatti di costume legati agli anni settanta e poco riconoscibili fuori da un contesto etnico e culturale preciso, vengono mutati o 10 E più avanti si ritorna su questo concetto: «Mi aveva regalato una stupida barca di Venezia da mettere sopra il televisore. E non potevo neanche toccarla» (p. 137). 11 Per fare un esempio, l’amico che poi tradisce Michele, Salvatore, gioca con il subbuteo, gioco popolarissimo e richiestissimo dai ragazzi dell’epoca, e non con delle macchinette come nel film.

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espunti)11. In alcuni casi, però, Salvatores affida ad un simbolo quello che era sviluppato più naturalisticamente nel romanzo. Il libro si apre con una gara di corsa dei bambini nei campi di grano, mentre il regista comincia la propria opera con una carrellata che sonda il sottosuolo ove, lo scopriremo più avanti, giace Filippo e da lì – annunciati dal gracchiare di un corvo che pochi secondi dopo quasi sbatterà contro Michele – risale verso gli assolati campi di grano dove corrono i bambini. La macchina da presa risale dal buio alla luce indugiando sulle radici di un albero che si inerpicano faticosamente verso l’alto: statico emblema della profondità del male di vivere che incombe sulla gioia luminosa dei bambini. Da questa immagine iniziale si passa a quella, non meno emblematica, di una gallina impalata in cima alla collina dove poi Michele troverà il rifugio di Filippo. Nel film non abbiamo alcuna spiegazione di questo simbolo macabro che Michele e la sorella si ritrovano davanti mentre cercano i loro compagni d’avventura. Nel libro, la gallina doveva essere lanciata ai maiali affamati di un vicino porcile, e l’idea era stata proprio di Michele: «perché non prendiamo una gallina [...] così la gettiamo nel recinto dei maiali e vediamo come la spolpano?». Nel romanzo, una volta fallita la spedizione verso il porcile, il “Teschio”, il bullo del gruppo, propone d’impalare la gallina sulla collina, alla fine di una gara di corsa. La funzione simbolica, nella versione cinematografica, è forse ancora più suggestiva: nell’assenza di spiegazione, questa lugubre apparizione da magia nera richiama indirettamente la meticolosa inquadratura d’apertura che risale lentamente dal buio di quella che poi si rivelerà la prigione di Filippo, ed è un ulteriore segnale premonitore che l’ambiente bucolico e assolato di cui siamo entrati a far parte nasconde un segreto di morte e violenza che aleggia, al pari dei corvi, su questo inizio quasi magico, con le vedute infinite del cielo azzurro e delle distese di grano in cui corrono i bambini12. L’incantesimo dei colori dell’estate si trasforma di colpo in magia nera che arresta Michele e lo spettatore: entrambi ripartono da lì con un senso 12 Le immagini dei corvi che svolazzano sul grano ricordano il famoso Campo di grano con corvi di Van Gogh, ove il conflitto fra vita e morte era appunto affidato al contrasto fra i colori fiammeggianti del campo e bluastri del cielo semicupo e macchiato dal nero dei corvi.

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di quiete interrotta che non si ricompone più fino al momento finale. Le scene che denotano una diversa lettura del soggetto fra libro e film vertono comunque principalmente sulla caratterizzazione dei personaggi. Il libro, ad esempio, è più crudo nel riflettere l’ambiente sociale dove si svolge la storia. La casa degli Amitrano è persino più povera di quella rappresentata nel film: la camera da letto di Michele e della sorellina Maria, per esempio, è così stretta che i letti devono essere messi per lungo, e non in parallelo, come nel film. Michele è più selvatico e meno gentile nel romanzo, come già segnalato dall’idea della gallina da dare in pasto, viva, ai maiali. Non ci pensa due volte a prendere a pugni e calci Filippo, seppure per scuoterlo dal suo torpore di carcerato. Maria, pur nella sua innocenza, nel libro è più conscia e partecipe delle prepotenze e dei rituali violenti (le “penitenze”) degli amici di Michele. Il libro, insomma, implica una maliziosa consuetudine di soprusi e di angherie che sono in linea con il suo tono più realistico. Allo stesso tempo, nel romanzo, Salvatore, l’amico che tradisce Michele, è di un livello sociale più elevato degli altri, essendo il figlio del proprietario terriero della zona, un avvocato che fa avanti e indietro con Roma. Nel libro si scopre che è proprio lui il boss nascosto di tutta l’operazione criminale. Nel film, invece, non solo il padre di Salvatore non compare, ma Salvatore appartiene alla stessa classe sociale di Michele e gli altri. L’annullamento della differenza di classe fra Salvatore e Michele (e fra le varie famiglie coinvolte) crea un contrasto maggiore fra l’unita comunità di carcerieri-contadini di Acqua Traverse, compatta anche socialmente, e Sergio, l’odiato capetto arrivato a dettare legge fra i rapitori. Nel film, Sergio resta l’unico personaggio che stona: è più agiato dei suoi complici – ha una «mercedes di merda», una casa in Brasile, è lui che comanda – ed è, soprattutto, decisamente più spietato. Sulla rappresentazione di questo personaggio, e la conseguente limatura degli spigoli più violenti nel padre e nella madre di Michele, si gioca la differenza maggiore tra film e romanzo. Il contrasto caratteriale fra i vari rapitori, con il gruppo locale da un lato e Sergio, l’intruso da Milano (ma da Roma nel romanzo), dall’altro è fondamentale per un giudizio indiretto sulle loro motivazioni e sulla loro volontà passiva o attiva di accettare le conseguenze del loro gesto violento a scopo di lucro. Se nel libro si

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intuisce e si legge un senso di colpa da parte dei carcerieri di Acqua Traverse, nel film è notevolmente più evidenziato, specie per il contrasto con l’ulteriore aura negativa che circonda Sergio. Nel libro è romano, ha 67 anni, è magro e mal ridotto, con i capelli raccolti in un codino, tanto che Michele lo descrive come «secco, gobbo» dalla «pelle flaccida, appesa a quelle ossa lunghe come se l’avessero cucita sopra»; un uomo anziano che, sciolto il codino, «sembrava un vecchio Tarzan malato» (p. 120). Scopriamo che è stato in prigione per delle rapine a mano armata, il che gli assegna una reputazione da duro e lo qualifica come un balordo di vecchia data, e che poi è emigrato in Brasile dove si è risposato con una donna molto giovane e ha comprato una bella casa13. Non vi sono tratti che lo redimono, tranne, in parte, quando si confida con Michele e gli parla di un figlio che, a sentir lui, è stato circuito e assassinato dalla moglie durante il viaggio di nozze. Ma anche in questo sfogo conferma tutti i suoi pregiudizi e la sua aridità d’animo (la moglie del figlio era «una troietta [...] mezza slava» e gli «slavi sono i peggiori», p. 121). Quando poi parla della moglie brasiliana non c’è nessuna emotività: l’ha sposata perché è giovane («Quella vecchia l’ho lasciata. Questa ha ventitrè anni»). È un uomo incallito, privo di scrupoli, che pensa solo a fare quello che gli serve per eliminare gli ostacoli14. La sua ostilità nei confronti degli altri complici, considerati degli inetti, è palese ed è sottolineata proprio dal fatto che l’unico interlocutore con cui si senta di parlare di sè sia proprio Michele. La sostanza del personaggio non cambia nel film, ma ci sono variazioni importanti dedicate a creare ancora più contrasto e a rendere Sergio ancor più malvagio e lontano dall’umanità tormenta13 Grazie all’operazione in flashback del romanzo, Michele può fornirci una biografia, a posteriori, di Sergio: «Ho saputo poi che si chiamava Sergio Materia. All’epoca aveva sessantasette anni e veniva da Roma, dove era diventato famoso, vent’anni prima per una rapina in una pellicceria [...] e un colpo alla sede della banca dell’Agricoltura [...] i carabinieri lo avevano incastrato [...] si era fatto parecchia galera, per buona condotta era tornato in libertà ed era emigrato in Sud America» (p. 87). 14 Per esempio, dalla storia arguiamo che, una volta arrestato, non aveva esitato a comportarsi da prigioniero modello per poter ottenere al più presto la condizionale, coì come poi non esita a non andare al funerale del figlio proprio perché, avendo violato la condizionale, sarebbe arrestato di nuovo.

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ta dei genitori di Michele. Nella versione cinematografica, Sergio non è di Roma, ma di Milano; non è anziano e filiforme, ma di mezza età e corpulento (Diego Abatantuono). Nel libro Sergio parla in italiano, semmai, utilizza dei regionalismi, ma non parla in dialetto; nel film, l’utilizzazione del milanese in momenti di nervosismo da parte di Sergio, sottolinea ancor più il suo disprezzo per gli altri i terroni non professionisti che non lo possono capire e con cui è costretto a condividere la fine di questa vicenda avviata al peggio. Il conflitto sociale, in altre parole, è rinforzato sull’asse Nord-Sud, certo non una novità nei film di Salvatores. Davanti all’assenza di alcuni dettagli presenti nel romanzo, l’astio di Sergio per i complici sembra infatti relegato, in buona parte, alle ragioni biografiche, al contrasto settentrionali-meridionali. Nel romanzo, ad esempio, nella scena cruciale in cui Michele, spiando dalla propria camera, apprende che hanno deciso di ammazzare Filippo, Felice, il più giovane e disperato dei rapitori, aggredisce Sergio e lo colpisce con un pugno, prima che questi, ripresosi a fatica («Si è attaccato con le mani al bordo del tavolo e lentamente si è tirato su», p. 197), risponda ad un altro attacco del giovane puntandogli la pistola in fronte e raggelando l’intero ambiente. Sergio, nel libro, è un vero duro che non ama perder tempo e far mostra di machismo. La scena nel film è meno violenta, nei gesti e nelle parole. Sergio, in piedi, insulta («Tu sei un cagasotto, un culattone») e affronta Felice. Quando Felice gli si scaglia contro finiscono fuori inquadratura e intuiamo dai gesti di Sergio che si rimette gli occhiali che probabilmente è stato colpito. Nel romanzo, invece, l’alterco degenera a causa di un’offesa ben precisa di Sergio ai danni di Felice, un insulto non digeribile in un ambiente di duri o di aspiranti tali: –Io? Ha detto [Felice] –Sì, tu – ha fatto il vecchio [Sergio]. Era seduto a tavola, con una gamba poggiata su un ginocchio, una sigaretta tra le dita e un sorriso perfido [...] –Io sarei frocio? Recchione? – ha chiesto Felice. Il vecchio ha confermato. –Esattamente. –[...] E... e come lo avresti scoperto? –Si vede da tutto. Sei frocio. Non c’è niente da fare. E... [...] Lo sai qual è la cosa peggiore?

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93 Felice ha aggrottato le ciglia interessato. – No, qual è? [...] [...] È che non lo sai. Questo è il tuo problema. Sei nato frocio e non lo sai. Hai una certa età, non sei più un pischello. Renditi conto. Staresti meglio. Faresti quello che fanno i froci, ossia prenderlo in culo. Invece ci fai il duro, ci fai l’uomo, parli e straparli, ma tutto quello che dici suona falso, suona frocio (pp.195-96).

Subito dopo Felice colpisce il vecchio («Secondo te questo è un pugno di un recchione?», p. 197). Questo dialogo, assente nel film, delinea in modo palese il carattere di Sergio e il suo disprezzo per i complici, Felice in testa15. Un disprezzo affidato ad un linguaggio e ad un ragionamento che stonerebbe in un contesto diverso, ma che rientra in pieno in quello disegnato dal libro. Nel film, l’assenza di uno scambio così preciso e diretto (l’unico residuo del dialogo nel film è l’insulto milanese “culattone”) fa sì che la rissa nasca dalla discussione su se e chi debba uccidere il bambino e si colora, semmai, di toni razziali (con Sergio che accusa tutti di essere contadini, terroni incapaci e “cagasotto”). L’attenuazione della violenza e l’eliminazione del ragionamento provocatore di Sergio fa il paio con l’attenuazione di un’altra scena violenta, il litigio tra Teresa e Felice, reo di aver maltrattato Michele dopo averlo scoperto nel nascondiglio di Filippo. La figura della madre di Michele nel romanzo è più esasperata ancora che nel film. Il contrasto fra il suo orgoglio e il male che la circonda e di cui è partecipe, si sfoga in violenza nei confronti dei figli, specie Michele. Il film rende sufficientemente bene le frustrazioni della donna, schiacciata fra la sua vita solitaria (il marito, Pino, è camionista) e le privazioni materiali, a loro volta acuite dall’indisciplina di Michele. La situazione criminale di cui si trova a far parte, suo malgrado, divisa fra sogno (il miglioramento economico) e senso di colpa, non può che aggravare le tensioni che già innervano il suo carattere. La descrizione della lite fisica fra Teresa e Felice, con quest’ultimo che cerca di difendersi dalla furia della madre, ha Il disprezzo maggiore per Felice nasce dal suo esibizionismo, ma anche dal fatto che Sergio teme (forse a ragione) che Felice, proprio per vantarsi, si lasci scappare qualcosa (v. p.130). 15

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una connotazione fortemente sensuale che nel film è meno netta. La violenza dell’azione, nel libro culminata con il padre di Michele che sorprende Felice sopra la moglie e lo scaraventa a terra e lo prende a calci, è sicuramente minore nella rappresentazione cinematografica. Salvatores lascia intuire molto bene che Felice, pur essendo l’aggreddito, nella scena, diventa improvvisamente un pericoloso potenziale aggressore una volta che ha la meglio sulla madre di Michele. Il quale reagisce e salta su Felice per aiutare la madre che si divincola, solo quando questi, pur continuando a gridare alla donna di fermarsi e di smetterla, sembra effettivamente l’aggressore. Il film, forse anche per ragioni di rating, non è esplicito e grafico quanto il libro: Mamma, in sottoveste, era seduta al tavolo [...] era scalza, ma lo ha colpito lo stesso con un calcio nei coglioni. Il povero Felice ha emesso un verso strano [...] ed è caduto in ginocchio [...] Mamma non ha avuto nessuna pietà. Ha preso la padella dal lavello e ha colpito Felice in faccia. Lui ha ululato ed è crollato a terra. Mamma ha sollevato di nuovo la padella, lo voleva ammazzare, ma Felice l’ha presa per una caviglia e ha tirato. Mamma è cascata [...] Felice le si è buttato sopra con tutto il corpo [...] le ha afferrato le braccia, le si è piazzato sullo stomaco e l’ha tenuta ferma. Mamma mordeva e graffiava come una gatta. Le si era sollevata la sottoveste. Si vedeva il sedere e il ciuffo nero tra le gambe e una spallina si era strappata e un seno le usciva fuori bianco e grande con il capezzolo scuro. Felice s’è fermato e l’ha guardata. Ho visto come l’ha guardata. Sono sceso dalla sedia e ho cercato di ucciderlo [...] sono entrati papà e il vecchio. Papà si è gettato su Felice [...] Papà prendeva a calci Felice e Felice strisciava sotto il tavolo e il vecchio cercava di trattenere papà (pp.156-57).

La furia selvaggia di Teresa non è dettata solo da amore materno, ma deriva in buona parte dalla sua rabbia repressa causata dalla sua aspirazione ad essere una brava madre («Avranno pensato che sono una madre che non vale niente», p. 83) che però non riesce a salvare il figlio dal tremendo segreto che incombe su tutti. Felice, non a caso il più vanaglorioso del gruppo, diviene l’oggetto di un’ira sproporzionata («Gli ho dato un calcio nel sedere. E che sarà mai?», p. 156),

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perché diventa la personificazione dei sensi di colpa di Teresa. Non diversamente dallo scontro Sergio-Felice, nel film c’è meno violenza. Non ci sono padellate in faccia, non c’è nudità esplicita, non c’è primo piano dello sguardo stupratore di Felice; il padre tira via Felice e lo sbatte contro il muro, ma non lo prende a calci. D’altronde, anche la figura del padre nel film non trasuda di fastidioso machismo o di una netta predisposizione alla violenza fisica quanto nel romanzo. Il film elimina o modifica scene che avrebbero dato un’idea ben diversa del padre. Nel romanzo è il padre (e non Felice come nel film) a gridare di voler tagliare tutte e due le orecchie del bambino rapito mentre ascolta l’appello della madre di Filippo alla televisione. Una scena fondamentale non solo perché rivela il carattere non pacifico di Pino, ma anche perché si ricollega ad un nodo centrale della storia: l’incomunicabilità tra padre e figlio, un’incomunicabilità che causa la tragedia. Nel romanzo, dopo che Michele ha avuto il coraggio di scendere per la prima volta nel buco di Filippo, corre a raccontare tutto a suo padre, che invece lo zittisce e lo rimprovera perché ha fatto tardi: –Papà! [...] Aspetta, ti devo dire una cosa. –Tu non mi devi dire niente, devi uscire da quella porta. Ho implorato. – Papà, è una cosa importante... – Se non te ne vai entro tre secondi mi alzo da questa poltrona e ti prendo a calci [...] vattene via! Ho fatto di sì con la testa. Mi veniva da piangere (p. 55).

La storia avrebbe potuto finire qui e, invece, è qui che veramente comincia a srotolarsi nel libro. Michele vuole confidarsi con il padre, ma è proprio la mancanza di un rapporto in cui si possano scambiare confidenze che causa la tragedia finale. Ancora una volta, il linguaggio dell’opera letteraria anticipa e evidenzia la durezza maggiore della figura paterna. Nel raccontare l’episodio, Michele ricorda di aver implorato il padre («Ho implorato – Papà...»); lo stesso verbo poi usato due volte dalla madre di Filippo nell’appello televisivo: «Vi imploro, non fategli del male [...] Vi imploro di trattarlo bene [...] Avete minacciato di tagliargli un orecchio. Vi prego, vi supplico di non farlo» (p. 91). Ed è l’appello che svela a Michele la verità della situazione, perché vede la foto di Filippo alla televisone;

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ma è un appello che ha lasciato non solo indifferente il padre, ma lo ha persino aizzato a maggior violenza: «– Due orecchie gli tagliamo. Due» (p. 92). È l’incapacità del padre di ascoltare le implorazioni di chi soffre ad aprire la ferita insanabile fra padre e figlio, come si evince chiaramente nel romanzo: «“Attento, Michele, non devi uscire la notte”, mi diceva sempre mamma. “Con il buio esce l’uomo nero e prende i bambini” [...] Papà era l’uomo nero» (p. 92). Di queste due scene in cui il padre è protagonista negativo e violento, nel film c’è solo quella della televisione, dove però, s’è detto, è Felice a pronunciare la frase del taglio delle orecchie16. In conclusione, dunque, le scarse ma significative differenze di rappresentazione qui brevemente analizzate denotano la volontà, da parte del regista, di emancipare il film, almeno in parte, dal contesto socio-culturale del romanzo per raccontare invece una storia in cui la violenza, nei genitori del protagonista, nasca da sentimenti conflittuali, meno netti di quelli del romanzo. La limatura in positivo dei caratteri di Teresa e Pino da un lato, e l’amplificazione in negativo di Sergio dall’altro, nel film servono non tanto ad indicare i confini fra bene e male, ma fra male (i genitori e gli altri carcerieri) e male assoluto (il male irredimibile incarnato da Sergio). Una volta scelta la narrazione in diretta, non filtrata dalla memoria come nel romanzo, le sfumature diverse, i toni meno accesi nel pennellare il carattere del padre e della madre, servono ad ancorare la narrazione ad una visione contemporanea all’azione. La visione, in sostanza, di un bambino che ancora si aggrappa alla speranza che i genitori non siano poi tanto coinvolti negli eventi tremendi che lo circondano; che il padre non sia veramente “l’uomo nero”, come invece appare 16 Per evitare di appesantire con esempi ripetitivi evito di ricordare altri episodi che confermano la negatività volgare e violenta del padre di Michele. Bisogna sottolineare, comunque, che, quando ordina al figlio di non recarsi più a trovare Filippo, Pino denota un misto di umanità e compassione, se non altro per la situazione imbarazzante di dover ricostruire la propria immagine eroica agli occhi del bambino: «Ci sono cose che sembrano sbagliate quando uno... – Aveva la voce rotta e non trovava le parole. – Il mondo è sbagliato, Michele. Si è alzato e si è sgranchito la schiena e ha fatto per uscire»(p. 162). La figura del padre, in tutta la sua complessità e bruta semplicità è racchiusa in questa confessione abortita: dall’ammissione del male solo in apparenza («sembrano»), allo scaricarlo sul mondo che «è sbagliato», allo scrollarselo fisicamente di dosso («si è sgranchito»).

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chiaramente nel romanzo. Alla fin fine, quindi, pur nel rispetto quasi totale della trama del romanzo, la discrepanza su pochi, importanti, dettagli risulta fondamentale perché fa scivolare ai margini del film gli aspetti più asciutti, più duri della narrazione scritta – se si vuole gli aspetti più realistici. Entrambe le opere guardano e scoprono il mondo per mezzo degli occhi di un bambino. Ma il romanzo, grazie alla funzione della memoria, alterna visione infantile e visione adulta; il film inserisce quest’ultima totalmente nella prima.

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ROBERTO M. DAINOTTO

Documento, realismo e reale

Con l’inizio della mobilitazione partigiana a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, tensioni già presenti nella cultura italiana convergono in una reiterata richiesta di “nuova” cultura. Già il 28 settembre, in quella che sarebbe stata la sua ultima lettera al fratello, scritta prima di perdere la vita su una mina tedesca che gli avrebbe impedito di raggiungere le forze partigiane in difesa di Roma, Giaime Pintor scriveva, più che un’autotanatografia, il primo capitolo del Bildungsroman di una generazione di giovani intellettuali che, affrettandosi a lasciare dietro di se un’idea di letteratura intesa come fantasia beauvariana di incontri tra i sessi, intendeva adesso «trasferire la [propria] esperienza sul terreno dell’utilità comune» (Pintor, 187): la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari: avrei discusso i problemi dell’ordine politico, ma soprattutto avrei cercato nella storia dell’uomo solo le ragioni di un profondo interesse, e l’incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina…. Soltanto la guerra ha risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto con un mondo inconciliabile (Pintor, 186).

Si trattava insomma, in un momento in cui dopoguerra significava già nuovo impegno di guerra partigiana, di tirare l’intellettuale italiano fuori dai «comodi ripari» in cui il corporativismo fascista lo

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aveva sistemato e isolato esaltandone «i caratteri di ceto e di categoria “separata”» (Luperini e Melfi, 4). Da figura “tecnica”, per usare una terminologia dell’ancora impubblicato Gramsci, l’intellettuale si avviava a diventare figura “organica” all’interno delle “possibilità vitali” della storia. Il tutto cominciava con una rinuncia ai “privilegi” corporativisti, sola via, questa, per aprire all’intellettuale le porte della creazione di una “nuova cultura” dalla portata niente meno che rivoluzionaria: Musicisti e scrittori dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la loro parte (Pintor , 187).

In quegli stessi giorni di settembre, sul numero 173-174 della rivista «Cinema», Luchino Visconti (il cui Ossessione era stato presentato nel 1942 dal montatore Mario Serandrei come film “neorealista”– prima epifania di un termine che raggiungerà popolarità fra il 1943 e il 1948) andava proponendo un simile rinnovamento della cultura cinematografica italiana, fino ad ora «lontan[a] dalla realtà attuale… prestata a colpevoli evasioni dalla realtà, e in parole più crude: al trasformarsi in una vile astensione» (in Milanini, 32). Anche per Visconti si trattava insomma di capire «quale deve essere la parte» del cinema e della cultura in generale nel radicale rinnovamento dei valori. E nell’editoriale di «Società» del numero 4 del 1945, ancora e ripetutamente veniva constatandosi l’anacronismo di qualunque posizione intellettuale che rifiutasse il pintoriano brutale contatto con il mondo: Siamo disarmati di fronte ai fatti: e questi, più che averci deluso, in un certo senso ci hanno vinto, ed hanno fissato davanti a noi una nuova realtà… Esiste ormai, in ciascuno di noi, un bisogno di chiarezza interiore, proprio di fronte a quei “fatti” di cui prima abbiamo parlato… oggi si chiede molto all’arte. Tutti, anche attraverso la letteratura, vogliono acquistare un senso nuovo della vita: e impongono allo scrittore un “contenuto” che egli deve realizzare, per se stesso e per gli altri. Non c’è da meravigliarsi, quindi, se oggi

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101 non leggiamo vere opere d’arte, e neppure le chiediamo, perché, nella provvisorietà della nostra esistenza, non saremmo forse capaci nemmeno di riconoscerle… “Letteratura d’occasione” quindi… Accettiamo che gli scrittori parlino della nostra guerra, delle nostre sofferenze di ieri, perché è impossibile, oggi, parlare d’altro; accettiamo la provvisorietà di questa cultura, mettendone in rilievo gli aspetti positivi, l’immediatezza, cioè, e la sua efficacia fra gli uomini (in Milanini, 49-51)

Già in tutte queste affrettate pagine “d’occasione” scritte tra il 1943 e il 1945 negli anni della resistenza, private o pubbliche che fossero, si veniva in sostanza già precisando quella tendenza del dopoguerra italiano che tornava a dare alla cultura una sua «responsabilità» (Milanini, 33) civica, e, assieme a questa, una sua coerenza estetica incentrata su quello che presto si sarebbe venuto chiamando il “problema del realismo”. “Problema” perché, come già ricordava Francesco De Sanctis nei Nuovi saggi critici del 1869, di realismo in Italia si era sempre saputo poco; la sua tradizione, come quella del romanzo a cui Balzac, Defoe e Zola l’avevano legata, era virtualmente inesistente nelle lettere patrie. Di realismo, è pur vero, si era cominciato a discutere sull’onda del positivismo, ma in mancanza, appunto, di una tradizione paragonabile a quella francese o inglese, “di realismo”, scriveva De Sanctis, «molto si parla tra noi in arte e scienza, ma generalmente in modo vago e confuso» (De Sanctis, 478). Preoccupato già di non confondere il realismo con l’empirismo e il fattualismo positivista, colpevole, come poi dirà in La scienza e la vita del 1872, di separare appunto osservazione scientifica da vita sociale e collettiva (il “mondo” di Pintor), De Sanctis, in quello che rimane un raro contributo teorico della letteratura italiana al tema del realismo, proponeva di intendere quest’ultimo alla luce di quella riforma napoletana dell’hegelismo che tendeva a mettere l’uomo storico e sociale al centro della dialettica: Il realismo non si ha a confondere con l’empirismo e il sensismo, rozzo avviamento a quello. E non è lo stesso che il materialismo, venuto su da un uso assai superficiale del pensiero nella trattazio-

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102 ne della materia. Lo stesso Hegel biasima l’empirismo, ma non potrebbe biasimare il realismo nella sua forma presente. Perché il realismo pone così alto il pensiero come fanno gl’idealisti. La differenza è in questo, che l’idealismo considera il pensiero come l’esclusiva e immediata sorgente dell’essere… dove secondo i realisti la esistenza non si può conoscere se non con la percezione, e il pensiero non ha altro compito che di lavorare il contenuto dato da quella… e tirando di quivi il generale in forma di concetti e di leggi (De Sanctis, 478).

Presentando il problema come una dialettica interna all’opera d’arte tra forma (pensiero) e contenuto (reale), De Sanctis vedeva quindi nel realismo non uno stile o un accidente di genere, bensì una componente essenziale e fondamentale della letteratura: «Il realismo non è una Minerva uscita ora improvviso dal cervello di un Giove; il suo principio è stato adoperato sempre» (De Sanctis 490). Realista è qui il “contenuto” dato dalle percezione–contenuto, poi, che nella dialettica interna dell’opera letteraria, prende una “forma”, si generalizza in concetto, parola, immagine, “intuizione sensibile” del reale: Senza la percezione mancherebbe al pensiero il contenuto dell’essere. L’esistente ha un contenuto e una forma. Come contenuto, passa all’anima col mezzo della percezione nella forma del sapere, di un conosciuto (De Sanctis, 479).

Per essere più precisi, il “contenuto” non è qui definito noumenicamente come “essere” per sé, bensì, fenomenologicamente, come “percezione”; mentre “forma” viene conseguentemente intesa, hegelianamente, come “rapporto” e “relazione” tra i vari esistenti, e tra questi e il pensiero che li sistema in artistico concetto (De Sanctis, 484). Oltre che essenziale e indispensabile alla creazione artistica, il realismo diventava quindi per De Sanctis importante “criterio” per correggere, e per così dire, riformare l’hegelismo stesso: Non solo il realismo nega gli altri sistemi, ma è un criterio eccellente a scoprire in essi il falso, mostrando dove si allontanano dalla natura e cadono in errori e contraddizioni (De Sanctis, 489).

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Come vedremo, sarà proprio questa versione de sanctisiana del realismo come “correzione” dell’idealismo ad informare il dibattito italiano, tra gli anni Trenta e il dopoguerra, su questo tema; sarà proprio la dichiarata essenzialità del “contenuto” e del “reale” che garantirà la partecipazione dell’intellettuale alle vicende, brutali o altro, del mondo. Perché in De Sanctis, a differenza che nell’hegelismo romanticheggiante di destra, non è tanto la “Natura” a diventare oggetto e traguardo del realismo; bensì, anticipando appunto la discussione sul neorealismo, oggetto e traguardo diventa la dimensione sociale – potrebbe anche dirsi “politica”– del lavoro intellettuale: «Solo nel realismo possono i filosofi… uscire dal loro isolamento dal ristretto circolo degl’iniziati e dei credenti, ed entrare in comunione vivente… con tutti gli uomini» (De Sanctis, 491). È, quello del realismo de sanctisiano, un “contenuto” essenzialmente umano, descrizione oggettiva dei rapporti sociali, e, soprattutto, descrizione “sentita” del “calore” umano dei sentimenti che fanno storia e società (De Sanctis, 491). Così De Sanctis nel saggio su Émile Zola: Lasciamo la rettorica e facciamo del realismo. Benissimo. Ma come l’ideale senza un vivo sentimento del reale è vuoto e astratto, così il tuo realismo rimarrà stupido e insipido, se tu non hai un vivo sentimento del reale (De Sanctis, 392).

La lezione di De Sanctis è quindi quella di un realismo non tanto empirico e scientifico, quanto umano – umano nel senso “sentimentale”, ma, soprattutto, nel senso vichiano del termine – umano come formatore di storia e società. Ed è proprio a questa lezione de sanctisiana, più che a quella positivista e naturalista, che si rifarà il neorealismo del dopoguerra italiano. Come avrebbe bene sinetizzato Luchino Visconti, Il nostro realismo è stato soprattutto una reazione al naturalismo, al verismo, che ci venivano dalla Francia, e che avevamo in parte accettato. Ora noi, attraverso esperienze umane e esperienze sociali, come la guerra, la Resistenza, da un lato ci siamo liberati di quelle

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104 scorie, dall’altro ci siamo trovati quasi involontariamente a guardare i fatti con quella attitudine morale… che ci ha consentito di fotografarli con un’assoluta verità. E verità non vuol dire verismo (Milanini, 234-235).

Il realismo italiano del dopoguerra si configurava in sostanza come analisi e studio del “genere umano” storicamente inteso (Pintor e Gerratana), o, nella dicitura viscontiana, come realismo “antropomorfico”, dell’“esperienza umana” come esperienza “sociale”: coscienza della propria esperienza… sviluppo dialettico della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini… sofferta esperienza, quotidianamente stimolata da un affettuoso e obbiettivo esame dei casi umani…. (Milanini, 32).

E se Cesare Pavese, sulle pagine de «l’Unità» del 20 maggio 1945, auspicava un «ritorno all’uomo», mentre l’editoriale di «Solaria» del 1945 richiamava la generazione dei nuovi scrittori alle «loro responsabilità di fronte agli uomini» (Milanini, 53), era la pubblicazione del primo numero del «Politecnico» a canonizzare, una volta per tutte, i termini della questione. Anticipando il Silone della Dignità dell’intelligenza e l’indegnità degli intellettuali (1947) che rimproverava una mancanza totale di qualunque «condotta esemplare degli intellettuali nei trascorsi decenni» (Silone, 2, 1120), Vittorini cominciava dalla necessità di un completo abbandono di quella che fino ad ora era stata la cultura – italiana, se non occidentale tout court: Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli? (Milanini, 46-47).

Prima di essere un compito letterario, la questione della nuova cultura era un problema etico e politico – un’«esigenza morale» (Asor Rosa, 2, 1610) (oltre che essere, ovviamente, esigenza prati-

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ca dettata anche dalle pure marginali purghe defascistizzanti). Si trattava, insomma, di accettare la sfida di una nuova cultura – non da ricostruire ma da creare ex novo. E se compito di tale cultura era, ancora una volta, “l’uomo nuovo” da poter creare, il suo auspicato funzionamento era l’abbandono di ogni astrazione, bellettrismo, illusione e idealità – abbandono della mitologia fascista della gloria e della morte eroica; abbandono dell’idea romantico-crociana dell’opera d’arte come “intuizione lirica”; e abbandono, perfino, di quegli “astratti furori” del primo antifascismo che avevano informato lo stesso Vittorini (Vittorini, Le opere narrative, 1, 571). Il traguardo era segnato dal confronto (termine che poi, finirà per confluire nel sartriano engagement) con il mondo reale – non il mondo introspettivo dell’“anima” e del racconto intimista e psicologico, ma il reale materialmente inteso e sentimentalmente, antropomorficamente appreso: La cultura italiana è stata particolarmente provata nelle sue illusioni. Non vi è forse nessuno in Italia che ignori che cosa significhi, la mortificazione dell’impotenza o un astratto furore. Continueremo, ciò malgrado, a seguire la strada che ancora oggi ci indicano i Thomas Mann e i Benedetto Croce? Io mi rivolgo a tutti gli intellettuali italiani che hanno conosciuto il fascismo. Non ai marxisti soltanto, ma anche agli idealisti, anche ai cattolici, anche ai mistici. Vi sono ragioni dell’idealismo o del cattolicesimo che si oppongono alla trasformazione della cultura in una cultura capace di lottare contro la fame e le sofferenze? Occuparsi del pane e del lavoro è ancora occuparsi dell’“anima”. Mentre non volere occuparsi che dell’“anima” lasciando a “Cesare” di occuparsi come gli fa comodo del pane e del lavoro, è limitarsi ad avere una funzione intellettuale e dar modo a “Cesare” (o a Donegani, a Pirelli, a Valletta) di avere una funzione di dominio “sull’anima” dell’uomo. Può il tentativo di far sorgere una nuova cultura che sia di difesa e non più di consolazione dell’uomo, interessare gli idealisti e i cattolici, meno di quanto interessi noi? (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 21).

E mentre una conciliazione tra marxismo e cattolicesimo appariva già negli schermi con Roma città aperta (a dispetto quasi della rottura laicista rappresentata dal Gott mit Uns di Renato Guttuso), la

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cultura cattolica si faceva carico del compito assegnatole da Vittorini. Nella coeva Lettera di un cattolico, Francesco Balbo reiterava: Noi non sappiamo cosa farcene di una cultura che consoli… che non serva alla società per difendersi e lasci libera la Belva dei fascismi. Noi cristiani vogliamo costruire una nuova cultura, fare la storia (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 42).

Consolatoria, per intenderci, era quella letteratura di superomismi e miti imperiali del Ventennio, se non quell’intera tradizione aulico-letteraria italiana (la letteratura delle élites, per dirla con Gramsci) scritta, come lamentava Angelo Mele, «con spirito contemplativo, arcadico, amante delle pastorellerie ariostesche e, perciò stesso, schivo d’un tormentato intervento sulla realtà» (Mele, 7). Nel sommario tracciato da Luperini sulla cultura del dopoguerra leggiamo: L’esperienza della guerra e della resistenza al fascismo e al nazismo, le istanze rivoluzionarie legate alla lotta armata del popolo, le speranze di profondi cambiamenti nella struttura sociale del nostro paese imposero nel dopoguerra un’esigenza di radicale rinnovamento della nostra letteratura… II periodo della chiusura ermetica era finalmente terminato, ed ora l’intellettuale pensava di poter nuovamente aspirare ad un nuovo e autonomo ruolo sociale, magari nell’ambito di un nuovo mandato sociale e di una nuova committenza di carattere popolare… La ripulsa della prosa d’arte o d’argomento intimistico, l’aspirazione ad una letteratura popolare per contenuto, linguaggio e interIocutore sociale, l’uso della cronaca, la netta prevalenza della facoltà mimetica rispetto a quella fantastica, il ritorno ad esiti naturalistici, il populismo, la retorica dello scriver male: questo fu il “neo realismo” postbellico nei suoi aspetti positivi e negativi… (Luperini e Melfi, 12)

Ma se rimane apparente come il radicale mutamento storico precipiti, nell’Italia dell’immediato dopoguerra, una richiesta di rinnovamento della cultura italiana in senso realista – o realista-umanista – sarebbe forse incauto legare il rinnovamento estetico alla Ricostruzione storica entro una logica di effetto e causa – o, come fa Maria Corti, pensare il neorealismo tipico della Ricostruzione

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come soluzione estetica “involontaria”, interamente dettata dai tempi e dalle occasioni, «violentemente condizionat[a] da una situazione storica d’eccezione» (Corti, 412). A dispetto dei richiami a una “letteratura d’occasione”, più che «frattura storica» (Salinari, 39) con la cultura del Ventennio, il ritorno al realismo tipico del dopoguerra ripresenta problemi e continuità di un fermento culturale che era già cominciato, non senza richiami al realismo idealista di De Sanctis annunciato dalla parola d’ordine del “ritorno a De Sanctis” (Longo, Bellucci), in piena epoca fascista. Tendenze in senso realista, nonché richieste di “cultura nuova”, si registrano infatti in Italia già negli anni Trenta, all’interno di un accesa «battaglia per il realismo» (Sechi, 63) portata avanti dal “fascismo di sinistra” (Pratolini, Bilenchi, Vittorini…) intesa a ritrovare una nuova incidenza sul reale del lavoro intellettuale segregato dal regime corporativo del fascismo. La fondazione del «Saggiatore» nel 1930 (assieme alla nascita dell’«Universale» nel 1931 e del «Bargello» nello stesso anno), all’indomani quindi del Concordato e nel contesto di una percepita crisi dello slancio vitale e rivoluzionario di un fascismo ormai divenuto Stato, s’inquadra ad esempio all’interno di un generale impegno di “realismo” inteso come, da un lato, aderenza al vitalismo della “vita contemporanea”, e, dall’altro, rifiuto critico dell’idealismo sia liberale (Croce) sia istituzionale (Gentile). È sulle pagine del «Saggiatore» che Francesco Orlando, in Fuori dalla metafisica, polemizza contro l’idealismo gentiliano, visto ormai dalle nuove generazioni di intellettuali fascisti nostalgici del perduto richiamo rivoluzionario, come “soggettivismo speculativo” e “filosofia della trascendenza”. Accusato di un irrigidimento in dogmi autoritari, l’idealismo diventa sintomo, per Orlando, di una cultura – filosofica ma anche politica e sociale – fondamentalmente astratta e conservatrice, che ha perduto ogni iniziale slancio vitale per sclerotizzarsi in una stasi istituzionale. È contro quanto di astratto e formale si trova nell’idealismo che Orlando propone, come via di uscita dalla crisi, un recupero del realismo – infatti una vera e propria «rifondazione materialistica» (in Sechi, 70) – della filosofia, che parta da un adeguamento del pensiero umanistico alle nuove scienze del reale, sperimentali e positivistiche. Per dirla con Roma-

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no Luperini, il «dissenso volto soprattutto contro le ideologie ufficiali del regime» andava presentandosi come generica «affermazione di un “realismo”… sostanzialmente empirico» (Luperini e Melfi, 3). Con occhio rivolto agli sviluppi della meccanica e della fisica quantistica, Massimo Cimino, sempre sulle pagine del «Saggiatore», insiste sul «desiderio di procedere oltre sulla via della realtà» (in Sechi, 74-75), staccandosi una volta per tutte dai soliti, “eterni” problemi della filosofia idealistica. E se l’ostilità a Gentile politico, uomo delle istituzioni, è certamente implicita in tanta critica dell’idealismo nel nome del ritorno al reale, la critica a Gentile filosofo rimane spesso un bersaglio esplicito del «Saggiatore». All’attacco gentiliano del 1931 contro l’estetica empirista basata sull’aberrante nozione della pre-esistenza al pensiero di una «così detta realtà (una realtà immediata, che si intuisce perché si presenta al pensiero, ma non si costruisce da questo)» (Gentile, 38) rispondono Carella e Riccio in Morte dell’idealismo: Una riflessione che non nasce dalla coscienza viva della nostra realtà, ma da un esame critico portato sulle varie teorie preesistenti, di cui l’esigenza interiore si dimostra inattuale, dovrebbe venire senz’altro condannata come mero tentativo filologico (in Sechi, 77).

I temi dell’inattualità (per così dire) dell’attualismo gentiliano; dell’odore di muffa filologica della Filosofia dell’arte di quest’ultimo; della metafisica incapacità di confrontare una scientifica «coscienza viva della nostra realtà» obliterata dietro il vecchiume dell’empirismo spinoziano o dello pseudo-idealismo crociano; e una eco, infine, della Lebensphilosophie tedesca (il contrasto tra Forma e Vita che preoccuperà Pirandello e Tilgher), e della filosofia bergsoniana del divenire – tutti questi temi ritornano in un corsivo redazionale del 1931, che conclude: affermiamo una concezione realistica della vita… senza l’orpello di nessuna forma di superstruttura intellettuale o di mistica illusione, concezione [la nostra] che crediamo essere l’unica e vera espressione spirituale [e vitale] dell’epoca nostra (in Sechi, 86).

Sul piano del realismo letterario, le novità di rilievo degli anni

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Trenta erano rappresentate, da un lato, da «l’introduzione in Italia del realismo Americano» contigua a «l’espandersi della coscienza antifascista» (Salinari, 42), e, dall’altro, dall’apparire di un nuovo «Realismo germanico», Neue Sachlichkeit (da cui il calco “neorealismo”), di cui dava annuncio proprio il «Saggiatore» in un breve articolo di Francesco Bruno: Allo slancio, alla tempesta interiore, essi [romanzieri della Neue Sachlichkeit] fanno seguire una forza metodica di volontà, un realismo lucido e sconcertante che, mentre non dissolve l’impeto ispirativo, ordina ed elabora, in nitide forme fantastiche, la propria ansia artistica (in Sechi, 88).

Se la nuova categoria di “neo-realismo,” inteso come miscela di vitalismo espressionistico, romantico Sturm und Drang, e positiva attenzione al reale, serviva per archiviare come vetero-realiste esperienze politicamente sconvenienti al regime quali Gli indifferenti di Alberto Moravia (1929), Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro (1930), e Tre operai di Carlo Bernari (1934), essa serviva anche a rilanciare la possibilità di un nuovo romanzo inteso come “realistico” adeguamento del bello scrivere a una positivista fenomenologia delle emozioni. Bruno nuovamente: Bisogna, perché l’opera d’arte sia ad un tempo vera e costruita, che l’idea architettonica perda ogni carattere di trascendenza e si formi come una figura duttile, pronta ad accogliere i dati emozionali della realtà. Non altrimenti la scienza contemporanea coordina le serie discontinue di fenomeni con i suoi sistemi d’ipotesi al massimo grado liberi e flessibili (in Sechi, 99).

Su questa riga, il giovane Mario Pannunzio insisteva nel suo Del romanzo su una ormai superata crisi del genere: diventato ormai “metodo di ricerca” comparabile alle scienze positive, il nuovo romanzo realista non si accontentava più di essere “verosimile”, ma diveniva rappresentazione “esatta” della realtà emozionale e interiore dei personaggi. Scrivendo nel 1934, Francesco Jovine non può che constatare

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l’avvenuta «riconquista della realtà» da parte di nuovi scrittori, che hanno, nel giro di pochi anni, dato un colpo tremendo e mortale a idealismo, vacua retorica, rondismo ed altre esperienze calligrafiche. Ed è proprio nel momento del trionfo che il realismo, secondo il memento di Jovine, rischia di divenire nuova ortodossia: In antitesi con una letteratura vuota di contenuto, ridotta a vane esercitazioni stilistiche, si tenta di contrapporne un’altra che tragga dalla realtà presente le sue ragioni di vita…. [ma] Per sfuggire alla retorica della pura forma i neo-realisti minacciano di crearne un’altra: quella del puro contenuto (in Milanini, 7-8).

Gli anni che seguiranno saranno quelli delle irrisolte ambiguità tra realismo e non – gli anni, per intenderci, degli «astratti furori» di Vittorini, o della scoperta del mito di Pavese. Saranno anche gli anni dell’apogeo di consenso per il fascismo, che dopo la guerra in Etiopia e la partecipazione alla guerra civile spagnola, liquida il “fascismo di sinistra” dissenziente, e, con essa, i fermenti di «Saggiatore», «Universale», e «Bargello». Ad essi si sostituirà, sintomaticamente, il «Primato» di Bottai, che farà rifluire ogni tentativo di apertura intellettuale al mondo reale entro generici richiami corporativistici di «dovere di categoria» (Luperini e Melfi, 5). È solo nel 1941, dopo l’entrata in guerra dell’Italia e il riaprirsi di una nuova crisi di consenso nei confronti del fascismo, che la sinistra italian rialzerà la testa, e il dibattito sul realismo potrà ricominciare. Giuseppe De Santis e Mario Alicata, con Verità e poesia. Verga e il cinema italiano, pubblicato sulla rivista «Cinema» diretta da Vittorio Mussolini, potranno allora affermare: fu nella tradizione realistica che il cinema trovò la strada migliore: visto che il realismo, non come passivo ossequio ad una statica verità obbiettiva, ma come forza creatrice, nella fantasia, d’una “storia” di eventi e di persone, è la vera ed eterna misura d’ogni espressione narrativa (De Santis e Alicata, 273).

E in mancanza, come non aveva mancato di osservare Francesco De Sanctis nel 1869, di una tradizione narrativa realistica in

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Italia, era al singolare caso di Giovanni Verga che Alicata e De Santis potevano solo rifarsi adesso: Giovanni Verga non ha solamente creato una grande opera di poesia, ma ha creato un paese, un tempo, una società: a noi che crediamo nell’arte specialmente in quanto creatrice di verità, la Sicilia omerica e leggendaria dei Malavoglia, di Mastro don Gesualdo, dell’Amante di Gramigna, di Jeli il pastore, ci sembra nello stesso tempo offrire l’ambiente più solido e umano, più miracolosamente vergine e vero, che possa ispirare la fantasia di un cinema il quale cerchi cose e fatti in un tempo e in uno spazio di realtà, per riscattarsi dai facili suggerimenti di un mortificato gusto borghese…. i racconti di Giovanni Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera (De Santis e Alicata, 276).

Piegare il conservatore e latifondista Verga alle esigenze di un’«arte rivoluzionaria» poteva certamente essere una forzatura. Del resto, l’insistenza verghiana sul realismo del «documento umano» (Verga, Gramigna, 202), dello «studio sincero e spassionato… [del] movente dell’attività umana… [e del] meccanismo delle passioni» umane (Verga, I grandi romanzi. I Malavoglia, Mastrodon Gesualdo, 5), veniva bene a confondersi con le esigenze sociali e umane della tradizione realista italiana che da Francesco De Sanctis al fascismo di sinistra degli anni Trenta sarebbe presto confluita nel realismo “antropomorfico” di Visconti. Negli anni dell’immediato dopoguerra, questo umanesimo verghiano si sarebbe presto drammatizzato nella dimensione melodrammatica e passionale del neorealismo rosselliniano di Roma, città aperta. Si sarebbe anche precisato concettualmente nel richiamo ad «Una nuova cultura» che avesse «influenza civile sugli uomini» (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 19-20) con cui si apriva il primo numero del 29 settembre 1945 del «Politecnico», giornale programmaticamente inteso come strumento di lavoro per mezzo del quale: 1. gli intellettuali possano sforzarsi di porre i problemi della cultura nel modo più proficuo ai fini della rigenerazione sociale e del progresso civile; 2. gli altri

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112 lavoratori possano sforzarsi di prendere interesse e partecipare all’elaborazione dei problemi culturali per la rigenerazione sociale e per il progresso civile (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 33).

Non diverso, del resto, l’editoriale di Piero Calamandrei al numero di apertura di «Il ponte», altra rivista che vede luce nel 1945, intenta a sua volta a gettare un ponte tra passato e futuro. Spinto da una fondamentale “fede nell’uomo”, il proposito di Calamandrei è: di contribuire a ricostruire l’unità morale dopo un periodo di profonda crisi consistente essenzialmente in una crisi di disgregazione delle coscienze, che ha portato a far considerare le attività spirituali, invece che come riflesso di un’unica ispirazione morale, come valori isolati e spesso contraddittori, in una scissione sempre più profonda tra l’intelletto e il sentimento, tra il dovere e l’utilità, tra il pensiero e l’azione, tra le parole e i fatti (Isnenghi, 87).

Fede e responsabilità verso “l’uomo”; responsabilità della cultura a formare, realisticamente, i “fatti”; “dovere” e lavoro “civile”– questi gli assunti fondamentali della cultura italiana del primissimo dopoguerra. Il problema era intendere le modalità attraverso cui la “nuova cultura”, così opposta alla vecchia ininfluente e consolatoria, avrebbe dovuto o potuto esercitare una sua “influenza civile sugli uomini”. Vittorini, sulle pagine del «Politecnico» ci si sarebbe sinceramente provato. Ma gli inaspettati risultati del referendum e delle elezioni per la costituente del 2 giugno 1946, con l’inaspettata sconfitta delle sinistre, il ritorno trasformista del vecchio potere borghese, il nulla è cambiato, avrebbero presto nutrito i primi dubbi sulla validità dell’operazione vittoriniana: quale nuova cultura? Quale influenza civile? La polemica avrebbe preso le mosse da un articolo di Mario Alicata sul numero 5/6 di «Rinascita», dove si rimproverava a Vittorini di non essere riuscito, in fin dei conti, né a parlare alle masse,

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né ad attirare intellettuali al marxismo. La critica di Alicata era rivolta a un Vittorini troppo intellettuale e troppo poco politico; interessato eccessivamente alla letteratura americana, e non abbastanza alla più rivoluzionaria letteratura sovietica. Quella di Alicata era una asserzione, insomma, del fallimento “realistico” di Vittorini, che si era rivelato incapace, con il «Politecnico», di esercitare una vera, reale «influenza civile sugli uomini». Se Vittorini aveva voluto sminuire il valore della polemica, vedendo anzi nello scritto di Alicata «una conferma che in seno al mio Partito si possono avere opinioni culturali anche contrastanti» (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 149), l’intervento dello stesso Palmiro Togliatti, che sul numero 10 di «Rinascita» chiariva come «il fondo delle osservazioni di Alicata mi trova consenziente» (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 175), metteva Vittorini con le spalle al muro. Bisognava in qualche modo rispondere alla questione posta da Togliatti: come separare, se non attraverso un crociano isolamento dell’estetica tipico della vecchia cultura, politica e cultura, tra cui invece – a questo Vittorini ci credeva – «passano legami strettissimi di dipendenza reciproca»? Come «separare con una barriera… il passaggio dalla prima [politica] alla seconda [cultura]…?» (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 177). Lo scontro verteva insomma su quella che Vittorini veniva chiamando «autonomia per la cultura» (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 203). Come bene sintetizza Romano Luperini: Vittorini muoveva dal presupposto… di una autonomia della cultura concepita essenzialmente… come autonomia dalla politica, come ricerca avente in se stessa i propri fini, il proprio valore ideologico, la propria carica progressista e rivoluzionaria (di qui la richiesta della “cultura al potere”). D’altro canto i dirigenti del PCI (Sereni, Alicata, Togliatti) finivano nei fatti per non riconoscere lo specifico e distinto (il che non vuol dire separato) ruolo della cultura, il suo peculiare spessore, il suo contributo, anche, all’elaborazione di una linea di sinistra (Luperini e Melfi, 6-7).

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La risposta di Vittorini arrivava con l’editoriale Suonare il piffero per la rivoluzione? sul numero 35 del «Politecnico» del gennaio-marzo del 1947: Ora io non voglio dire che politica e cultura siano perfettamente distinte e che il terreno dell’una sia da considerarsi chiuso all’attività dell’altra, e viceversa… Ma certo sono due attività, non un’attività sola; e quando l’una di esse è ridotta (per ragioni interne o esterne) a non avere il dinamismo suo proprio, e a svolgersi, a divenire, nel senso dell’altra, sul terreno dell’altra, come sussidiaria o componente dell’altra, non si può non dire che lascia un vuoto nella storia (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 195).

Tra politica e cultura Vittorini stabilisce lo stesso divario che corre tra contingenza e immediatezza da un lato, e storicità e mediazione dall’altro: la politica agisce tenendo conto della realtà anche sotto il suo aspetto più contingente e adeguandosi anche al suo aspetto più contingente, mentre la cultura si svolge tenendo conto della realtà sotto il suo aspetto più largamente storico senza bisogno di commisurarsi alla contingenza (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 199).

Tenendo conto della “realtà”, la cultura è si realismo; è perciò «indispensabile, senza dubbio, che la cultura abbia una comprensione anche politica della realtà storica nella quale si trova radicata» (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 196). Ma tale realismo non può essere sclerotizzato, per Vittorini, nelle formule dello zdanovismo o del realismo sovietico, e ciò per almeno due ragioni: La stessa letteratura sovietica, nella misura che ci è dato giudicarla attraverso le traduzioni, fa dell’arcadia o del lirismo… E lo scrittore rivoluzionario che milita nel nostro Partito dovrà rifiutare le tendenze estetiche dell’U.R.S.S. non solo perché sono il prodotto di un paese già in fase di costruzione socialista; e non solo perché sono tale prodotto in un modo particolare alla Russia che non è detto debba essere il modo della costruzione socialista italiana o france-

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se; egli dovrà rifiutarle anche perché contengono il pericolo che contengono (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 218).

Pericolo, appunto, di quell’arcadia e di quel lirismo che la generazione degli anni Trenta aveva liquidato come “idealismo”. E se non era lo zdanovismo a fornire ipotesi consone per un realismo nostrano, del «modo della costruzione socialista italiana», tali ipotesi venivano invece dall’italianissimo Antonio Gramsci: Antonio Cramsci in Italia è grande sotto questo stesso aspetto. Egli ci dà, nelle sue opere, ogni possibile premessa per una posizione culturale del marxismo (Vittorini, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, 202).

Il Gramsci a cui si riferiva Vittorini era forse non tanto quello delle Lettere dal carcere che «Il Politecnico» aveva cominciato a pubblicare nei numeri 33-34 del 1946 a cura dello stesso Vittorini, bensì il Gramsci della «storia degli intellettuali italiani» a cui aveva accennato un anonimo articolo (probabilmente di Togliatti) apparso con il titolo di L’eredità letteraria di Gramsci su «l’Unità» di Napoli del 30 aprile 1944, e che un nuovo articolo dell’aprile 1946 di Felice Platone, su «Rinascita», dava come di imminente pubblicazione. Si trattava insomma di quel Gramsci che Togliatti stava per pubblicare nel primo volume tematico dei Quaderni, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, che sembrerebbe proprio Vittorini avesse avuto la possibilità di leggere in anteprima – il Gramsci che, pur rimarcando la fondamentale politicità dell’arte, tuona contro «l’ossessione politico-economica (pratica, didascalica) [che] distrugge l’arte» (Gramsci, 302). A cominciare dalla diatriba Vittorini/Togliatti, la questione intorno al ruolo della cultura, come quella intorno al significato di “realismo”, andavano in sostanza traducendosi in un diverbio di cui l’auctoritas di Gramsci veniva chiamata a giudicare. Era l’inizio di quel fenomeno di cui Chantal Mouffe avrebbe commentato: Since his death in 1937, Gramsci has been subject to multiple and contradictory interpretations, ultimately linked to the political line

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of those who claimed and disclaimed him. So we have the libertarian Gramsci, the Stalinist Gramsci, the social democrat Gramsci, the Togliattian Gramsci, the Trotskyist Gramsci, and so on (Mouffe, 1).

Non che Gramsci avesse avuto tanto da dire su questioni di realismo. A parte una banale nota su Balzac in Q 14 § 41, poi in Letteratura e vita nazionale, in cui Gramsci ammira: la sua [di Balzac] concezione del mondo in quanto si è realizzata artisticamente, il suo “realismo” che, pur avendo origini ideologiche reazionarie, di restaurazione, monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in atto (Gramsci, Letteratura 150);

e a parte qualche nota su Verga e il suo «realismo provinciale» che vede il popolo con «distacco» (Gramsci, Quaderni, Q. 23 § 56, pp. 2249-2250), Gramsci di realismo non si era veramente occupato. Si era invece preoccupato, e programmaticamente, del ruolo dell’intellettuale e della cultura nella difesa dello status quo o nella sua trasformazione. Quale appunto, questo ruolo? Quello organico, come funzionario all’interno di un togliattiano moderno principe? O quello, vittoriniano, di coscienza artistica di una realtà sociale storicamente determinata? Abbandonato nel dicembre 1947 il progetto del «Politecnico», Vittorini ritorna polemicamente sulla questione l’anno dopo, all’indomani della nuova crisi delle sinistre in seguito alle elezioni del 18 aprile 1948, con la prefazione al Garofano rosso , scritto negli anni Trenta, ma solo adesso pubblicato per la prima volta: A chi appartiene [Il garofano rosso]? Alla società alla quale io appartengo; alla generazione alla quale io appartengo… Anche dove sono “ mio” e il mio libro è “mio”, dove il mio libro è diventato “realtà letteraria” io appartengo alla mia società e alla mia generazione… un libro è come se fosse stato scritto impersonalmente, da tutti coloro che hanno avuto o conosciuto o comunque sfiorato la mia stessa esperienza, vale a dire è un documento… (Vittorini, Le opere narrative, 445).

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E ancora: Il principale valore documentario del libro è tuttavia nel contributo che può dare a una storia dell’Italia sotto il fascismo (Vittorini, Le opere narrative, 448).

Il romanzo come “documento”, dunque, di una generazione e di un’epoca; il romanzo come scrittura che si fa da sè, dalle cose, “impersonale” appunto. L’eco del verghiano Amante di Gramigna è inconfondibile: compito dell’arte, e dell’arte realista in particolare, rimane quello di offrire della realtà, non un’opinione politica, apertamente schierata, come vuole il coevo dogma delle due culture zdanovista, bensì un documento umano. O, come lo stesso Vittorini ripete al Rencontre International di Ginevra nell’agosto 1948, compito dell’arte è documentare: la comune realtà storica e mutevole, ma presa nella sua mutevolezza “di fondo” che riguarda i nostri affetti, e non nella sua mutevolezza “di superficie” che riguarda solo le nostre opinioni… Nell’engagement naturale dell’arte… l’artista… è engagé… E lo risulta… “indipendentemente” dalla posizione politica e filosofica che può aver preso. Ma lo risulterà nella misura in cui saprà sfuggire gli engagements velleitari che sempre gli hanno richiesto sacerdoti o… politici (in Milanini, 82-83).

Anche se, proprio nello stesso 1948, Vittorio De Sica, parlando di Ladri di biciclette e del «tanto dibattuto realismo», ricordava come quest’ultimo «non può essere, a parer mio, un semplice documento» (in Milanini, 59), sarà proprio quest’idea dell’arte (e del realismo) come “documento”, come sequenza di «fatti rappresentati» (per dirla con le parole della didascalia a La terra trema, sempre del 1948) a costituire la via italiana al realismo, tra esigenze civiche da un lato e cooptazione politica dall’altra, tra ritorno a Verga e zdanovismo, tra «letteratura di arte» e «letteratura di propaganda» (Francesco Jovine in Milanini, 71-76). La questione non si sarebbe certo risolta qui, con il “documento” e nella generale confusione del 1948. L’esplosione del fenomeno

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Gramsci l’anno seguente, con la pubblicazione, fra l’altro di Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura e del moderno principe nelle Note sul Machiavelli sulla politica e sullo Stato moderno; la pubblicazione poi dei Saggi sul realismo di György Lukács nel 1950, con la teorizzazione del “tipo” come cardine dell’estetica realista; lo scontro teorico tra Gramsci e Lukács; la pratica del “realismo non funzionale” nei «Gettoni» di Vittorini a partire dal 1951 – tutto questo, ed altro, avrebbero contribuito allo svilupparsi di una poetica e una teoria del realismo in Italia. Per questa occasione, ci accontenteremo di finire qui, un po’ arbitrariamente con la data del 1948, data in cui la crisi politica delle sinistre non vede una concomitante crisi della cultura alla stessa sinistra ispirata, ma anzi un accendersi dei dibattiti sul significato, il ruolo stesso di cultura e realtà. Dei fermenti di quella cultura, come avrebbe detto Pasolini, «Le opere e gli atti che il Realismo vi lascia / gli sopravvivono» (in Milanini, 241). Ma forse, neanche per molto. O almeno, per dirla con Carlo Salinari, restano certo quelle opere, quegli agitati dibattitti, quel sentore di una speranza che fu, ma tutto questo, oramai per noi ha acquistato il sapore amaro della delusione, del cedimento, della disfatta, e non quello eccitante della conquista di una umanità più ricca (Salinari, 185).

Opere citate Asor Rosa Alberto, La cultura, in Storia d’Italia, vol. 4, Torino, Einaudi, 1975. Bellucci Novella, La riproposta critica di Binni nel dibattito sul ritorno a De Sanctis fra gli anni ’30 e ’50, in Poetica e metodo storico-critico nell’opera di Walter Binni, a cura di M. Costanzo et al., Roma, Bonacci, 1985, pp. 494-504. Corti Maria, Reale e realismi, in Letteratura italiana del Novecento :

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119 bilancio di un secolo, a cura di A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2000, pp. 410-421. De Sanctis Francesco, Nuovi saggi critici, 18692, Napoli, A. Morano, 1879. De Santis Giuseppe, Mario Alicata, Verità e poesia. Verga e il cinema italiano, in Rosso fuoco. Il cinema di Giuseppe De Santis,1941, a cura di S. Toffetti, Torino, Museo Nazionale del Cinema, 1996, pp. 273-276. Gentile Giovanni, La filosofia dell’arte, 1931, Firenze, Sansoni, 1950. Gramsci Antonio, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, 1948, Roma, Editori Riuniti, 1996. — Letteratura e vita nazionale, 1948, Roma, Editori Riuniti, 1996. — Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 4 voll., Torino, Einaudi, 1975. Isnenghi Mario, Dalla Resistenza alla desistenza: l’Italia del «Ponte» (19451947), Roma, Laterza, 2007. Longo Nicola, Il ritorno di De Sanctis. Storia, ideologia, mistificazione, Roma, Bulzoni, 1980. Luperini Romano, Eduardo Melfi, Neorealismo, neodecadentismo, avanguardie, in Letteratura italiana Laterza, 65, Roma-Bari, Laterza, 1980. Mele Angelo, Il realismo dopo Verga, Napoli, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, 1960. Milanini Claudio, a cura di, Neorealismo. Poetiche e polemiche, Milano, il Saggiatore, 1980. Mouffe Chantal, a cura di, Gramsci and Marxist Theory, London, Routledge & Kegan Paul, 1979. Pintor Giaime, Il sangue d’Europa (1939-1943), 1950, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 19662. Salinari Carlo, La questione del realismo, Firenze, Parenti, 1960. Sechi Mario, Il mito della nuova cultura. Giovani, realismo e politica negli anni Trenta, Manduria, Lacaita, 1984. Silone Ignazio, Romanzi e saggi, a cura di B. Falcetto, 2 voll., Milano, Mondadori, 1998. Verga Giovanni, I grandi romanzi. I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, a cura di F. Cecco e C. Riccardi, Milano, A. Mondadori, 2006. — L’amante di Gramigna, in Tutte le novelle, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1979, pp. 202-210. Vittorini Elio, Cultura e libertà. Saggi, note, lettere da «Il Politecnico» e altre lettere, a cura di R. Corvi, Torino, N. Aragno, 2001. — Le opere narrative, a cura di M. Corti, 2 voll., Milano, Mondadori, 1974.

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ROBERTO ELLERO

Il neorealismo che non passa (di moda)

«La volontà e la necessità della testimonianza, lo slancio degli uomini che penetrano la realtà fino negli angoli più reconditi e ne colgono il senso grazie alla propria qualità di artisti, ripercorrendo le sue calde vene e rivelando la sostanziale ingegneria dell’ingranaggio, non è una cosa che possa “passare di moda”»1. Così, a proposito del neorealismo, Alfredo Guevara, in quello che è considerato il manifesto del “nuovo” cinema cubano, variante caraibica, nella sua immediatezza rivoluzionaria, delle molte altre nuove ondate caratterizzanti il panorama cinematografico mondiale a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma la persistenza del richiamo al neorealismo è un elemento che travalica la temporalità di quegli anni e la temperie “nuovista” di quelle esperienze, collocandosi con autorevolezza tra i riferimenti irrinunciabili di molto cinema successivo, naturalmente d’autore, indipendente e preferibilmente ai margini geopolitici dell’impero-mercato, in corrispondenza di quelle cinematografie “nazionali” che nel vasto Sud del mondo hanno visto la luce in seguito ai processi di decolonizzazione, formale e sostanziale. Non c’è, infatti, autore africano, medioorientale o sudamericano (ma anche soltanto indipendente, nel novero delle cinematografie maggiori) che non riconosca nel neorealismo una delle matrici, se non la principale, delle proprie ragioni espressive, anche se spesso – curiosamente – il riferimento è ricondotto a A. Guevara, Realidades y perspectivas de un nuevo cine, in «Cine Cubano», n. 1, 1960; ora Realtà e prospettive di un nuovo cinema, in Teorie e pratiche del cinema cubano, Venezia, Marsilio, 1981, pp. 6-7. 1

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principi di ordine, apparentemente, extraformale: l’urgenza etica dell’affrontare con gli strumenti propri dell’indagine neorealistica le contraddizioni dell’esistente, in una considerazione eminentemente critica della prassi cinematografica, e la virtù economica del mettere a profitto in termini estetici le inevitabili ristrettezze del basso costo. Ma davvero, nel caso del neorealismo, è ancora possibile distinguere nettamente l’etica dall’estetica? E l’etica e l’estetica dall’economia? Ogni autore e ogni film sono frutto di tanti padri, permeati di molteplici visioni, letture ed influenze, esplicite ed implicite, in un insieme di assonanze raramente riconducibili ad un unico modello. Valga come esempio di postneorealismo (o di neo-neorealismo) il cinema dei fratelli Dardenne (Rosetta, L’enfant, Le fils), dove rigore bressoniano e pratiche di cinéma-vérité esaltano poetiche di “pedinamento” dal sapore quasi zavattiniano (un pedinamento, quello di Zavattini, tanto teorizzato, quanto, com’è noto, assai poco praticato dal suo stesso latore). E, per altri versi, si guardi all’universo indigente e marginale in cui si muovono gli antieroi di Aki Kaurismäki (quello de La fiammiferaia, Nuvole in viaggio, L’uomo senza passato), dove la precarietà del reale viene spinta radicalmente sino ai suoi limiti, sconfinando in un parossismo quasi surreale. Ma quel che è certo è che dove e quando la lezione (e nozione) di neorealismo fa capolino, a motivarne la sussistenza sono fattori e soluzioni di natura, al contempo, etica, estetica ed economica. Uno sguardo nuovo sulla realtà, dunque sulla complessità del suo essere al di là delle ingannevoli apparenze, si dà nell’istante stesso in cui più impellente si fa il bisogno di svelare l’inganno, denunciandolo. E vi è certamente un’urgenza etica, in quel proposito di svelamento, che per risultare efficace necessita di strumenti formali appropriati, la costruzione di una visione e di una narrazione non compromesse dall’immediatezza delle apparenze e radicata, piuttosto, in un territorio di indipendenza la cui libertà è paradossalmente garantita dalla stessa (auto)sufficienza dei mezzi. Come ricorda Martin Scorsese nel suo bel Viaggio personale attraverso il cinema americano2, Con riferimento tanto al film documentario A Personal Journey with Martin Scorsese through American Movies, (1995), quanto al libro (Hyperion, 1997; tr. it. Archinto, 1998). 2

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prima ancora che a Hollywood sorgesse il mito dei nuovi autoriproduttori (Spielberg, Coppola), a determinare la più profonda, benché spesso soltanto subliminale, messa in crisi del modello americano concorsero negli anni Cinquanta/Sessanta taluni registi del BMovie (Jacques Tourneur, per dire) che con i loro film a low budget, girati in piena autonomia produttiva e rigorosamente all’interno dei generi, insinuavano dubbi e sospetti destinati a germogliare anche sul versante più propriamente politico e sociale dell’identità americana, nell’epoca di quella che è stata definita la graduale acquisizione della “perdita dell’innocenza”: «Meno denaro, più libertà. Il mondo dei film di serie B era spesso più libero e più utile all’innovazione e alla sperimentazione. I registi trovarono che potevano esercitare più controllo in un progetto a basso costo che in un prestigioso film di serie A. […] Potevano introdurre tocchi inusuali, tessere motivi inaspettati e qualche volta trasformare il materiale di routine in una espressione molto più personale. In un certo senso diventavano contrabbandieri. Imbrogliavano e se la cavavano sempre. Era tutta una questione di stile»3. Quando, oggi, un’autorevole voce coeva come Carlo Lizzani rievoca le vicende del neorealismo, di cui è stato giovane protagonista4, ponendo l’accento sui valori di una rivoluzione che seppe essere anche e forse soprattutto formale nella sua capacità di elaborare un linguaggio cinematografico nuovo (la voluta “confusione” dei generi, la dialettica dei rapporti fra individuo protagonista e coralità dei soggetti sociali, la profondità di campo mirante a consentire pluralità di eventi all’interno di una stessa inquadratura, la rilevanza del paesaggio come elemento connotativo e non più soltanto descrittivo), autorizza col senno di poi un’estensione semiologica dell’esperienza neorealistica che, facendo giustizia di tanti equivoci ontologici (la presunta sudditanza “riproduttiva”) e semantici (l’omogeneità

M. Scorsese e M. Henry Wilson, Un viaggio personale con Martin Scorsese attraverso il cinema americano, Milano, Archinto, 1998, p. 98. 4 Si fa riferimento all’intervento di Carlo Lizzani al convegno Ripensare il neorealismo. Cinema, letteratura, mondo, tenutosi a Venezia (casa Artom) nei giorni 14 e 15 dicembre 2007, per iniziativa della Wake Forest University, in collaborazione con il Circuito Cinema del Comune di Venezia. 3

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contenutistica, che a fatica vi si potrebbe scorgere), ancor meglio motiva e spiega la persistenza di un mito che va ben al di là della fattuale esistenza del movimento che l’ha determinato, nonché delle evidenti diversità che l’hanno pur contraddistinto, nella pluralità degli autori e delle loro predilezioni e tendenze. La stranezza che deve far riflettere, semmai, riguarda il fatto che proprio in Italia, e presso registi e critici del cinema italiano, la tendenza a confinare il neorealismo entro i suoi apici storico-temporali, fra la fine della guerra e i prodromi della ricostruzione, abbia contribuito a ridurne la portata, pur tenendo conto del periodico riproporsi di un dibattito critico nei suoi riguardi, particolarmente intenso e proficuo in occasione delle rivisitazioni offerte dalla Mostra di Pesaro negli anni Settanta, comprensive di apposite chiose intorno al sostanziale populismo di quell’esperienza, sulla sorta di un’analoga memorabile indagine svolta in ambito letterario da Alberto Asor Rosa nel suo Scrittori e popolo. In altre parole, l’impressione è che, qui da noi, a viziare l’eredità del patrimonio neorealistico, a nasconderne la “modernità”, siano stati quegli elementi di contrapposizione ideologica che per molto tempo hanno irrigidito lo stesso dibattito culturale, sin dai tempi dei “panni sporchi” di andreottiana memoria e del conseguente arroccarsi della “resistenza” neorealista sulla linea dell’opposizione comunista, certo non priva essa stessa di retaggi e di ambiguità nel disapprovare ed osteggiare talune espressioni più spregiudicate o soltanto disinibite del movimento, quale ad esempio il cinema di De Santis, in odor di sospetto perché troppo romanzesco, popolare, in una parola “di successo” anche presso il grande pubblico (in particolare Riso amaro, la cui fascinazione molto deve alla fisicità conturbante, desiderante, divistica di Silvana Mangano, personaggio certo non edificante secondo i parametri etici della critica marxista più ortodossa dell’epoca)5. Largamente inesplorata, non a caso, rimane l’analisi intorno agli elementi di continuità del neorealismo nella massima e più compiuta espressione di genere della produzione nazionale, la commedia alCfr. M. Grossi e V. Palazzo, RISO AMARO nel fuoco delle polemiche, in «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis», n. 3, s.d. 5

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l’italiana, non tanto nella versione “rosa”, paesana e consolatoria, anni Cinquanta, dei “poveri ma belli” e dei “pane, amore e..”, su cui si è pur scritto ripetutamente, quanto in quella assai più sarcastica e graffiante dei due decenni successivi, dove i Risi, Monicelli, Comencini, Loy, Scola danno il meglio di sé, non di rado concorrendo in maniera determinante alle trasformazioni del costume nazionale. Se l’Italia degli anni Settanta si scopre improvvisamente “laica” agli appuntamenti con i diritti civili (divorzio, interruzione di gravidanza), smentendo lo stereotipo del paese bigotto, quanto deve, in profondità, a quel suo cinema di commedia? Quanto al versante più marcatamente autoriale (diciamo Fellini e Antonioni), come non rilevare il rischio di aver relegato quelle poetiche in mondi a parte, segnalando più gli scarti e le differenze, con il neorealismo di partenza, che non le affinità, almeno iniziali? Un po’ “sospesi”, nelle loro personalissime elaborazioni, parranno successivamente anche le presenze di Pasolini, da un lato, e dei Bertolucci e Bellocchio, dall’altra, associati quest’ultimi ad una nozione di “nuovo” cinema italiano che certo non può dirsi frutto del caso o della sola aria dei tempi (nuovi). Di rimozione in rimozione, più spesso sottraendo che aggiungendo, si arriva infine disarmati ai giorni nostri, alle opere di Amelio, Soldini, Mazzacurati, Ferrario, Luchetti, Salvatores ed altri ancora, che il lungo tempo trascorso dalle dispute e dal clima di sessant’anni fa impedisce naturalmente di ascrivere all’eredità neorealistica ma che, pure, qualche motivo di adesione a quell’opzione di fondo potrebbero continuare a vantare: nella costruzione dei personaggi, nell’interazione degli elementi ambientali e sociali, nella moralità – minoritaria, va pur detto, oggi come allora – di punti di vista non convenzionali e non omologati al pensiero e ai gusti dominanti. Visto da fuori, da lontano, dall’estero, il neorealismo sembra ancor oggi – come s’è detto – una sorta di lingua franca universale del cinema, oltre che l’espressione forse più matura dell’intera culturale novecentesca nazionale; da vicino, da dentro, suggerisce nel pensiero corrente l’idea di un’esperienza irrimediabilmente datata, di una lingua morta, buona per occasioni e considerazioni inevitabilmente soltanto retrospettive. In tempi non sospetti, Nietzsche diceva degli antichi e solitamente maltrattati filosofi sofisti che erano stati a loro modo dei rea-

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listi, in quanto capaci di riformulare «tutti i valori e le pratiche più comuni elevandole al rango di valori», con «il coraggio, proprio di tutti gli spiriti forti, di conoscere la loro immoralità»6. Forse un giorno anche il cinema italiano finirà per tornare a riconoscersi davvero nei Rossellini, Visconti, De Sica, Zavattini, De Santis, insomma negli autori del neorealismo e di quella “moralità” dello sguardo filmico che consisteva nel non occultare, ed anzi palesare, le immoralità dell’esistente. E, cosa più importante, forse tornerà, un certo cinema italiano, a riconoscersi, mutatis mutandis, con tutte le differenze del caso e della storia, in quei valori fondativi che, altrove, altri registi e altre cinematografie (basti pensare a Ken Loach e a tutto il folto filone sociale dell’odierno cinema inglese) non hanno esitato ad adottare e a far propri, recuperando all’espressione cinematografica quella dimensione critica nei confronti del reale che, al di là degli ideologismi e dei “collanti” provvisori, resta il principale portato della stagione neorealistica.

F. Nietzsche, Der Wille zur Macht. Versucht einer Umwerthung aller Werthe, ora La volontà di potenza, Milano, Isis, 1992, pp. 238-239 6

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LUIGI FONTANELLA

Neorealismo e neorealismi italiani: alcuni appunti

[…] voglio dire è un modo per intenderci quello di chiamarlo neorealistico, in ogni caso è un cinema profondamente legato alla realtà. Mentre la scelta di Ladri di biciclette è realistica, quella di Miracolo a Milano è favolistica. Ma l’importante è essere fedeli alla sostanza della realtà e della verità. GIUSEPPE DE SANTIS

Circa trent’anni fa accingendomi a scrivere il mio primo volume saggistico, frutto della mia tesi di dottorato di ricerca a Harvard, mi chiedevo se in Italia fosse esistito un surrealismo italiano (l’argomento della mia dissertazione era proprio questo), in quanto era mancato nel nostro Novecento un movimento surrealista “ortodosso” e programmaticamente organizzato come invece si era avuto in Francia. Quel mio studio – lo riporto come puro dato cronachistico – sarebbe poi uscito qualche anno dopo in volume (Il surrealismo italiano, Bulzoni, 1983; titolo voluto dall’editore ché quello originale era Il surrealismo in Italia). Non avrei, oggi, gli stessi dubbi per il neorealismo che, sviluppatosi prevalentemente in Italia, ebbe una variegata stratificazione (ancorché mancante di un “manifesto”), evidente in più di un campo espressivo, e con risultati complessivamente non omogenei fra di loro. Da qui, la giustificazione dell’esergo desantisiano e del titolo da me scelti per questo mio breve e schematico intervento, che vuole prima di tutto sottolineare una generale tendenza neorealista manifestatasi in vari rami della cultura italiana (letteratura, cinema, pittura, architettura) fin negli anni Trenta. Ricordiamone sommariamente qualche momento-chiave, a partire dal termine in questione, quando per la prima volta venne usato dal critico Arnaldo Bocelli (1900 -1974), uno studioso che oggi in

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Italia ricordano in pochi. Eppure Bocelli è stato un fine italianista, attento ai cambiamenti di “clima” della nostra cultura, specialmente protonovecentesca, con saggi e volumi critici ancora oggi illuminanti, come quello, riassuntivo, uscito un anno dopo la sua morte, Letteratura del Novecento (Sciascia, 1975; fondamentali le pagine dedicate ad alcuni scrittori neorealisti). E bene ha fatto dieci anni fa Biagia Marniti, brava poetessa lanciata a suo tempo da Ungaretti, allieva di Bocelli, a curare insieme con Laura Picchiotti, l’inventario relativo ai carteggi bocelliani; un volume appassionato, e direi preziosissimo per chi abbia voglia di studiare i fitti rapporti tenuti da Bocelli con tutti i maggiori intellettuali italiani dagli anni Trenta agli anni Settanta (Il carteggio Bocelli. Inventario, Sciascia, 1998). Tornando al termine in questione (“neorealismo”), fu per l’appunto proprio Bocelli a usarlo nel 1931, all’indomani della pubblicazione di due romanzi importanti: Gli indifferenti di Alberto Moravia e Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, usciti rispettivamente nel 1929 e nel 1930. Due romanzi e due autori che non solo si distaccavano nettamente dal formalismo della prosa d’arte, instaurata, in particolare, dal gruppo della «Ronda», ma che prendevano le distanze dall’ottimistica Italia ufficiale del fascismo per presentare una realtà più consona e veritiera, nella quale c’erano tanti problemi d’ordine sociale ed economico. A ridosso di questi due romanzi incipitali, di lì a pochi anni sarebbero uscite altre opere altrettante significative in tal senso. Ne cito almeno tre: Un uomo provvisorio di Francesco Jovine (1934); Tre operai di Carlo Bernari (dello stesso anno); Lavorare stanca di Cesare Pavese (1936). Ma sarebbe stata soprattutto la guerra e la terribile miseria che ne sarebbe derivata a lanciare in maniera più concreta e drammatica l’esperienza neorealista e la cosiddetta “letteratura d’impegno”, di cui Jean Paul Sartre sarebbe stato in Europa il leader indiscusso. La letteratura – in particolare la narrativa – s’incanalava nella cronaca nuda e diretta della realtà, vista e presentata nei suoi risvolti più duri e dolorosi, nella convinzione che i fatti presentati avessero in se stessi una loro forza estetica senza la mediazione d’una forma letteraria precostituita.

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Naturalmente quest’ultimo aspetto avrebbe rappresentato, per alcuni critici, anche il lato più vulnerabile del neorealismo, secondo i quali mancava l’elaborazione teorica d’una vera progettazione linguistica e stilistica. Oggi sarebbe perfino ovvio obiettare che la piattaforma teorica era insita nei contenuti, man mano evidenziati nelle opere (la guerra, la lotta partigiana, le rivolte contadine, le ingiustizie sociali, la disoccupazione, l’alienazione, l’emancipazione operaia e la rinascita del nostro paese, ecc.) ; qui si potrebbero fare nomi emblematici di scrittori come Fenoglio, Cassola, Jovine, Bernari, Berto, fino a Pasolini, il primo Volponi, Ottiero Ottieri, ecc. Insomma, vertiginosamente sintetizzando, si potrebbe dire che a quell’altezza (siamo fra gli anni Quaranta e inizi anni Cinquanta) il neorealismo italiano si presentava e caratterizzava come un diffuso e risentito sentimento civile, oppure come uno stato d’animo comunemente diffuso fra i maggiori intellettuali italiani, piuttosto che il coagularsi in una precisa corrente o movimento culturale. Anche da ciò derivano i vari “neorealismi” che rinveniamo nelle opere di scrittori e registi diversificati fra loro sia nel tempo (perché il neorealismo dagli anni Quaranta si estende fino agli anni Sessanta: basti pensare a due scrittori esemplari come Pier Paolo Pasolini e Franco Fortini nonché il parallelo “laboratorio” svolto dalla rivista «Officina») sia nello spazio letterario che loro competeva. Ho usato il plurale (“neorealismi”) proprio pensando alle tematiche diversificate che li compongono: gli avvenimenti di tipo familiare (Vasco Pratolini e pochi anni dopo Natalia Ginzburg); quelli in chiave marxista-freudiana (Alberto Moravia); quelli impiegati come indagine del profondo e “magico” Meridione (Carlo Levi, Anna Maria Ortese, ecc. ); quelli, perfino, in chiave magica-fantastica: penso al primo romanzo di Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno) del 1947, sulla guerra partigiana vista non soltanto con l’occhio analitico della letteratura engagée, ma anche o soprattutto con quello ingenuo e fantastico di un bambino (qui il ricorso al “modello” bontempelliano sarebbe d’obbligo). Sto vertiginosamente sintetizzando, e me ne scuso con i miei lettori. Il 1947 è anche l’anno di Il cielo è rosso di Giuseppe Berto, il cui neorealismo diventa lirico e pervaso da problematiche religiose (si pensi, sempre di Berto, a Le opere di Dio del 1948). E, visto che

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ho menzionato Berto, è lecito ascrivere al neorealismo altre opere di scrittori come Carlo Cassola (i racconti sulla Resistenza); Domenico Rea (Spaccanapoli è del 1947); Libero Bigiaretti; Renata Viganò: celebre il suo romanzo L’Agnese va a morire del 1949 (Premio Viareggio), tra i più intensi della narrativa ispirata alla resistenza, da cui Giuliano Montaldo avrebbe tratto un film ventisette anni dopo. Chi non ricorda la vicenda della lavandaia emiliana (nel film interpretata da Ingrid Thulin) che in seguito alla deportazione del marito paralizzato da parte dei tedeschi scopre l’impegno sociale, uccide un soldato nazista e si unisce ai partigiani? Va qui ricordato, per inciso, sempre di Montaldo, il film d’esordio Tiro al piccione (1961) dall’omonimo romanzo di Giose Rimanelli, da quest’ultimo scritto quando aveva meno di vent’anni. A questo punto e a quest’altezza temporale va di forza evidenziata la grande stagione neorealista avutasi nel cinema italiano. Ma non è mia intenzione soffermarmici più di tanto. Qui – per quanto mi riguarda e per ritornare al titolo da me dato a questo scritto – dirò solo che forse è soprattutto in campo cinematografico che il neorealismo si dirama in tanti rivoli diversificati, in tanti “neorealismi”, appunto. Da Roma città aperta di Rossellini (ma il vero capolavoro rosselliniano per me resta Paisà del 1946), film crudo e antiretorico, film-simbolo del neorealismo, alla “poesia della realtà” di Ladri di biciclette (1948) di De Sica, alla “coralità” viscontiana di La terra trema (1948), al dramma a sfondo sociale di Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis dove la pianura vercellese diventa teatro di lotte politiche e travolgenti contrasti personali; fino all’aerea ma anche tragica leggerezza di La strada (1954) di Fellini (non dimenticando che Federico era stato uno degli sceneggiatori di Paisà), che in qualche modo segna il limite del neorealismo, qualcuno ha detto la fine, ma io non sarei d’accordo. Un film, quest’ultimo, che si distingue(va) per il gusto della fabula all’interno della realtà, che proprio grazie alla sua aerea leggerezza ne riscatta(va) i risvolti cinici e brutali. Un quadro, come si evince pur da questi appunti sommari, quanto mai mosso, ampio e diversificato, a meno che non si voglia dare al neorealismo – come fortemente credeva De Santis, e con il quale, beninteso, si può anche concordare – un significato prettamente

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socio-politico (su questo punto rimando il lettore all’ottimo volume di Antonio Vitti, Peppe De Santis secondo se stesso (Metauro Ed., 2006). Per concludere, direi che con il neorealismo (o con i neorealismi) a essere analizzata è comunque e sempre la realtà italiana, ma con un’ottica di volta in volta diversa come accade ai registi canonici sopra indicati. Un’ottica difforme che in non pochi casi, occorre aggiungere, veniva perfino anticipata: non ho qui il tempo – né l’economia di questa Nota me lo consente – per soffermarmi su questi precursori. Ma – cito frettolosamente solo qualche film emblematico – in alcune scene e modalità espressive non sono forse già antesignani del neorealismo film come Gli uomini, che mascalzoni… di Mario Camerini (1932), o 1860 di Blasetti (1934), o ancor più Fari nella nebbia di Gianni Franciolini (1942)? E, sempre parallelamente alla grande stagione neorealista, se non in lieve anticipo rispetto ad essa, come non ricordare film come Avanti c’è posto (1942) e Campo de’ Fiori (1943) ambedue di Mario Bonnard con Aldo Fabrizi che esordisce proprio con Avanti c’è posto, L’ultima carrozzella (1943) di Mario Mattoli con lo stesso attore (celebri le riprese in Santa Maria a Trastevere) e I bambini ci guardano (1943) di De Sica, tanto disprezzato dalla cultura fascista? Sono film (questi ultimi cinque) tutti girati fra il 1942-1943; fra l’altro Fari nella nebbia ebbe tra gli sceneggiatori Corrado Alvaro, e vi si trovavano già alcune delle atmosfere torbide, sensuali, cupe, aggressive (anch’esse non tollerate dal regime fascista) che esploderanno di lì a poco in Ossessione di Visconti), tipiche, insomma, di una “segnaletica” che voleva chiudere i conti con il cinema dei “telefoni bianchi” e mettersi in maggiore sintonia con il disagio esistenziale della vera Italia, quella più autentica e profonda. Un anno, il 1943, davvero fondamentale per il cinema neorealista, che annunciava un’altra personalità, Michelangelo Antonioni. Il quale proprio nel ’43 iniziava a girare Gente del Po. Più tardi il grande regista confesserà : «Eravamo nel ’43: Visconti girava Ossessione sulle rive del Po, e sempre sul Po, a pochi chilometri di distanza, io giravo il mio primo documentario», (cito da Guido Aristarco, Il cinema fascista. Il prima e il dopo, Ed. Dedalo, 1996, p. 112).

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GIUSEPPE FAUSTINI

Riso amaro di Giuseppe De Santis: ovvero tra bandiera rossa e boogie-woogie

Con questo studio si vuol fare una lettura del film Riso Amaro di Giuseppe De Santis, inserendolo nel biennio dal ’47 al ’49, gli anni dall’ideazione al periodo della sceneggiatura fino ai mesi estivi del film che conclusero col difficile montaggio e i primi risultati critici dell’autunno del ‘49. Ovviamente si tiene in considerazione il clima storico-politico e culturale di quegli anni difficili. A distanza di quasi 60 anni dalla prima proiezione del film a Firenze, del 12 agosto 1949, Riso Amaro figura tra le opere più importanti e significative del nostro periodo neorealista. Col passar degli anni, Riso Amaro divenne soprattutto un vero documento d’epoca. Il film contiene non solo i tempi del dopoguerra, ma rispecchia come scrive Lizzani, «la poetica del neorealismo … la poetica delle ricostruzioni, la ricerca nella società degli aspetti genericamente (anche se non superficialmente) umanitari»1. La riscoperta del cinema di Giuseppe De Santis risale alla retrospettiva sul cinema neorealista italiano che ebbe luogo a Pesaro più di trent’anni fa, nel settembre del 1974. Questa retrospettiva diede vita ad una riscoperta dell’opera omnia cinematografica di Giuseppe De Santis. Da giovane, De Santis esordì da scrittore di racconti e scrisse un romanzo tutt’ora inedito e si stabilì da recensore sennonché da critico cinematografico per la rivista «Cinema», diretta da Vittorio Mussolini, il cinofilo figlio del duce, nei primi anni C. Lizzani, «Riso amaro»: un film diretto da Giuseppe De Santis, Roma, Edizioni Officina, 1978, p. I. 1

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Quaranta, tra cui collaboratori furono giovani cineasti maggiormente di sinistra come Michelangelo Antonioni, Luchino Visconti, Mario Alicata, Gianni Puccini. Questi giovani cineasti si dichiararono contro il cinema d’allora e si schierarono insieme a Visconti che scrisse una specie d’articolo-manifesto intitolato «Cadaveri», apparso su «Cinema» del 10 giugno 1941. Ed è proprio in quest’ambiente culturale e politico dei compagni in cui De Santis elabora le sue idee sul cinema militante, rifacendosi ai modelli sovietici postrivoluzionari d’Ejzenstejn, Pudovkin, Dovzenko, e in imitazione del cinema francese del fronte popolare di Renoir e Clair, e di quello tedesco di Lang e Pabst. Inoltre De Santis si era anche appassionato al cinema americano di Ford, Welles, Capra, e soprattutto di King Vidor, e della letteratura americana tradotta da Vittorini e Pavese. De Santis si era fatto una cultura cinematografica americana dei vari generi: dal musical al western, dal melodramma al gangster. L’idea di girare un film sulle mondine, ci ha più volte raccontato De Santis, gli venne in mente nel settembre del ’47 alla stazione di Milano dove lui vide una centinaia di donne che ritornavano dalle risaie alle loro case nel Veneto e nell’Emilia-Romagna. Lizzani ci informa che il soggetto «fu scritto nell’ottobre del 1947»2, dopo un loro viaggio esplorativo nelle risaie del piemontese. Durante l’inverno tra il ’47 e il ’48, il regista insieme a Carlo Lizzani e Gianni Puccini preparano il trattamento e, secondo Lizzani, la sceneggiatura «fu ultimata in aprile»3. Ai tre sceneggiatori, la casa cinematografica, la Lux di Dino De Laurentiis, ci aggiunse Ivo Perilli e Carlo Musso come i loro rappresentanti e collaboratori per varie fasi, e De Santis si rivolse allo scrittore calabrese Corrado Alvaro per le sue capacità di rappresentare il mondo contadino. Lizzani ci precisa che De Santis chiese ad Alvaro di «rivedere tutti i dialoghi, di scrivere i ritornelli delle mondine»4. Nel dettagliatissimo saggio introduttivo alla sceneggiatura di Riso amaro del 1978, e nel recen2

C. Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, Torino, Einaudi, 2007, p.

86. 3

Ibidem. G. Michelone e G. Simonelli, a cura di, Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», Vercelli, Mercurio, 1996, p. 44. 4

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tissimo studio, Il mio lungo viaggio nel secolo breve (2007), Lizzani ci aggiunge nomi d’altri collaboratori che furono consultati, tra cui appaiono quelli di «Steno, Monicelli e Fellini,» anche se quello del riminese «rimase soltanto un progetto» perché questo riteneva il copione «privo di senso»5. De Santis e gli sceneggiatori si erano proposti di rappresentare anzitutto l’aspetto “sociale” del mondo delle mondine con tutte le loro ansie e le loro difficoltà sociali ed economiche. Per gli sceneggiatori, la storia delle mondine doveva nascere come un racconto popolare, in altre parole, doveva far parte di una nuova letteratura e cinema nazionale e popolare. Dato che De Santis e i suoi collaboratori si ponevano come fine unico di svelare la vita faticosa delle mondine, il film fu immediatamente ritenuto, secondo Eduardo Nardi, «un film rosso e dunque pericolosissimo»6. De Santis aveva consegnato la sceneggiatura alla LUX proprio in clima delle elezioni dell’Aprile 1948 e la casa cinematografica se la tiene per «due mesi dopo le votazioni» perché, secondo Lizzani, Riso amaro «era già un film troppo rosso, un film da non far più»7. Inoltre le mondine, delle risaie di Lignana a pochi chilometri da Vercelli, provenivano dal modenese e dall’Emilia-Romagna, tutti perlopiù paesi rossi. Nonostante i numerosi ritocchi alla sceneggiatura, De Santis e i collaboratori sviluppano e costruiscono la storia dei quattro personaggi e diminuiscono quella delle mondine. Perciò il soggetto neorealista delle mondine diventa un vero racconto letterario sviluppato in tal modo che «nelle sue diverse componenti,» scrive Emanuele Nardi, «si profila una sorta di film-romanzo con personaggi vigorosi ed eloquenti»8. Benché De Santis si fosse proposto il problema sociale come base e al centro della sceneggiatura, la realtà storica della sconfitta della sinistra del 18 aprile 1948 ebbe gran peso sulla sceneggiatura in tal modo da incidere e da sminuire la

C. Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, cit., p. 87. G. Michelone e G. Simonelli, a cura di, Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 13. 7 A. Parisi, Il cinema di Giuseppe De Santis tra passione e ideologia, Firenze, Cadmo, 1983, p. 77. 8 E. Nardi, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 44. 5 6

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storia sconfortante delle mondine ed a sviluppare quella del racconto romanzato dei quattro personaggi. De Santis non riuscì a fare di Riso amaro un film documentario neorealista, ma il film si svia a documento romanzato. Oltre alla sconfitta del Fronte Popolare, De Santis girava il film nella pianura vercellese nell’estate del ’48 proprio quando ci fu l’attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio, giorno in cui il regista decise di non filmare. A proposito di Togliatti, lui trovò Riso amaro un film «molto bello»9. In quegli anni della trilogia della terra, De Santis afferma di favorire un realismo socialista, ma in realtà questo suo didascalismo culturale che è presente nelle mondine, è assente nei personaggi principali. De Santis ci ha affermato più volte che, per capire bene la sua opera cinematografica, la chiave che penetra e svela il pensiero e il suo mondo poetico è proprio legata al Partito Comunista Italiano di quegli anni. Secondo il regista, il P. C. I. era l’unico partito che si dedicava a migliorare la vita dei contadini e degli operai, ed anche del piccolo borghese da cui provenivano i personaggi dei suoi film. In Riso amaro, De Santis mette in risalto l’andamento della cultura popolare nazionale, e della nuova società italiana dell’immediato dopoguerra che si pone sulla strada del consumismo americano. L’Italia in questi anni si avviava verso un nuovo mondo neocapitalista. De Santis aveva intuito questo passaggio culturale anche se non condivideva il risultato. Quindi il duplice filone del film: da una parte lo sfruttamento delle mondine e dall’altra la storia romanzata dei quattro personaggi, si privilegia quest’ultima a spese della prima. In quegli anni dell’effettuazione di Riso amaro, dal ’47 al ’49, De Santis è costretto a minimizzare in parte il conflitto sociale delle lotte tra i padroni e le mondine e a concentrarsi di più sulla dimensione narrativa dei quattro personaggi, la cui storia è realizzata in primo piano al posto di quella delle mondine che passa al secondo piano. Malgrado questo rovesciamento dell’enfasi delle due storie, gli sceneggiatori non tradiscono gli ideali che si erano proposti: cioè, di mettere in risalto le condizioni lavorative delle mondine senza far scattare

9

G. Michelone e G. Simonelli, op. cit., p. 65.

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una rivoluzione di classe tra di loro e i padroni delle risaie. Lo stesso Lizzani ha riconosciuto questa realtà quando ha dichiarato: «Se non avevamo affrontato di petto il conflitto sociale, questo serpeggiava in tutto il racconto»10. In Riso amaro, De Santis parte dall’inchiesta sociologica sulla vita dura e faticosa delle mondine, ma si sperde subito appena la storia si trasforma in una specie di fotoromanzo. Il film inizia con una struttura da cinegiornale che rende l’attualità e l’ideologia proposta non solo immediata ma anche impegnata. De Santis s’ispira agli ideali del neorealismo, ma con lo sviluppo della storia dei quattro personaggi chiavi, il film subisce una trasformazione romanzesca, anche se termina rifacendosi alla cornice d’apertura con il commento del radiocronista che aveva introdotto la storia e qui chiude il suo reportage. In Riso amaro De Santis è dimezzato tra il suo impegno politicosociale e dalle influenze culturali e cinematografiche americane. Benché il regista voglia farne di Riso amaro, un’opera di cinema nazionale e popolare, De Santis è travolto da queste due anomalie: l’amore per la cultura americana e l’impegno convinto per le lotte sociali della politica del P. C. I.. Da cineasta d’impostazione politica e culturale che deriva dalla sua formazione umanistica e civile, De Santis si era formato culturalmente dalla narrativa italiana ed europea della seconda metà dell’Ottocento, tra cui troviamo l’opera di Verga. Tra l’altro, mentre De Santis si dedica a Riso amaro, Visconti è impegnato ad Aci-Trezza a girare La terra trema, rifacendosi al romanzo verghiano dei Malavoglia. Secondo Lizzani11, in quegli stessi anni, Visconti aveva in preparazione i copioni per Rosso malpelo e L’amante di Gramigna, anche se non vennero mai realizzati. Riso amaro è strettamente legato alle vicende storiche del dopoguerra, agli eventi culturali e al dibattito sulla didascalia dell’arte e del cinema. De Santis ha più volte affermato che la cultura italiana degli anni di Riso amaro «veniva conquistata lentamente nel modo profondo dalla cultura d’Oltreoceano»12, in pratica, quella C. Lizzani, «Riso amaro»: un film diretto da Giuseppe De Santis, cit., p. 35. Ivi, p. 16. 12 G. De Santis, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 97. 10 11

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americana. De Santis aggiunge che la cultura del proletariato italiano era quella «dei fotoromanzi e del boogie-woogie»13. Perciò il regista si difende dalle critiche di sinistra che non accettavano le sue mondine perché ballavano il boogie-woogie, indossavano le calze nere e i pantaloncini. In Riso amaro ci sono tantissimi riferimenti alla cultura americana: dalla danza del boogie-woogie al chewing gum, dal personaggio gangster di Walter al divismo di una Rita Hayworth della Mangano, dalla canzone Mamma mia dammi cento lire che in America voglio andare al riferimento della pena di morte in America dove si servono della sedia elettrica, dalla lettura dei fotoromanzi (Grand Hotel) alle recitazioni delle attrici americane come la Doris Dowling. La storia di Riso amaro si sviluppa con quattro personaggi: Silvana, Francesca, Walter e Marco. La vita di Silvana inizia bene ma finisce tragicamente. Invece, quella di Francesca inizia da ladra ma si salva e riesce a far parte del mondariso. Marco aiuta Francesca a ritrovarsi, e rimane quel personaggio positivo e virtuoso in contrasto all’unico personaggio nettamente negativo, il ladro Walter. Quest’ultimo è l’unico che non si trova nell’ambiente della risaia ed è quello che rispecchia un mondo lontano dalla vita delle mondine ed è quindi estraneo alle loro lotte sociali. Walter è costruito in opposizione a Marco: il primo viene presentato come un gangster di un film americano, e il secondo rappresenta la speranza del popolo. Walter rappresenta la forza negativa e distruttiva in contrasto alla morale e alle virtù di Marco. Il mondo delle mondine si basa sul binomio del male e del bene. La fatica delle mondine è rappresentata in contrasto allo sfruttamento dei padroni. Il furto, prima della collana e poi del riso, è rappresentato in contrasto al riso per cui le mondine si sgobbano. Il canto tradizionale delle mondine è posto in contrasto al boogie-woogie di Silvana e Walter. Il mondo di Riso amaro è in transizione tra una società agraria e feudale ad una società moderna e capitalista. In apertura del film, la coppia di Silvana e Marco si contraddistinguono da Walter e Francesca, ma queste si capovolgono alla fine con la tragica morte di Walter e Silvana e la redenzio13

Ivi, p. 97.

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ne di Francesca e Marco. In Riso amaro, De Santis chiaramente favorisce il mondo delle mondine: vale a dire, un mondo di donne lavoratrici che lottano per la giustizia sociale. Riso amaro, ha dichiarato più volte il regista, è «un documentario antropologico-sociale»14 sulla vita delle mondine e il mondariso. Riso amaro fu girato tutto in esterni per questo il regista acconsente in pieno alla poetica neorealista ed è attuale. In Riso amaro si riconoscono alcuni stilemi cinematografici: dagli insoliti usi della gru alle ricerche di un paesaggio con tutti gli elementi ai movimenti di macchina dal primo piano alle carrellate, alla propensione di far notare l’aspetto corale, e dalla lunga piana sequenza. Lizzani ci informa che dopo il successo di Caccia tragica, il regista «aveva subito proposto alla Lux di portare sullo schermo la coralità femminile della risaia»15. De Santis è tra gli innovatori del cinema che favoriscono altri media soprattutto la radio, il fotoromanzo, la danza (il boogiewoogie) e la musica (il canto popolare) di cui il regista si serve in chiave mimetica per arricchire i sogni e il fantastico del mondo contadino-popolano. Nell’immediato dopoguerra nasce e subito esplode un nuovo genere di letteratura popolare che si manifesta nel fotoromanzo: vale a dire, l’incrocio tra la fotografia e il fumetto. Il fotoromanzo si trasforma nel cineromanzo, che Antonio Parisi definisce come «il fotoromanzo adattato al cinema»16. In effetti, mentre De Santis girava Riso amaro nell’estate del ’48, ne uscì l’edizione de «Il fumetto di Riso amaro»17, pubblicata sulla rivista settimanale della CGIL, «Il Lavoro» del 12 giugno 1948. L’anonimo disegno racconta la storia del film in fieri dello stesso De Santis. «Il fumetto di Riso amaro» ebbe gran successo popolare. Non a caso, nel film Silvana legge il fotoromanzo Grand Hotel. 14

T. Repetto, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit.,

p. 61. C. Lizzani, Il mio lungo viaggio nel secolo breve, cit., p. 85. A. Parisi, op. cit., p. 88. 17 «Il fumetto di Riso amaro» apparve su un numero speciale della rivista «Il Lavoro», settimanale della CGIL del 12 giugno 1948. L’anonimo disegno racconta la storia del film Riso amaro (1949) di Guseppe De Santis. 15 16

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I quattro personaggi primari sono riconoscibili proprio nei personaggi dei fotoromanzi di quell’epoca, cioè, quei racconti di storie d’amore e d’evasioni, raccontati per fotografie e fumetti indirizzati particolarmente alle donne come le tante storie di Grand Hotel. La storia dei quattro personaggi acquista degli aspetti da fotoromanzo. Walter è un tipo di gangster che si rifà ai tanti film di Hollywood. Silvana balla il boogie-woogie e mastica il chewing gum mentre legge i fotoromanzi. Francesca subisce il controllo di Walter ma eventualmente riesce a separarsi da lui e dai suoi furti. Silvana e Francesca si scambiano i ruoli, da mondina ad eroina tragica (la prima) e da eroina tragica a mondina (la seconda). Infine c’è Marco il sergente che rappresenta il bene in contrasto a Walter. In termini storici e culturali, De Santis dilata e estende il personaggio di Silvana non più modellato su quello di una Pina di Roma, città aperta o addirittura su quello di una mondina contemporanea, ma il regista le attribuisce delle caratteristiche dei personaggi di fotoromanzi, di una Silvana inebriata dai sogni fantasticati e irreali dalla lettura dei fotoromanzi. De Santis fu il primo a capire le nuove tematiche e i nuovi mezzi di comunicazione dei contadini e degli operai anche se politicamente e socialmente lui non condivideva la nascita di questi personaggi, come Silvana e Walter, che trasgredivano dal mondo neorealista a quello immaginario e illusivo dei fotoromanzi. Silvana e Walter, i due personaggi tragici, rispecchiano i tipici personaggi da fotoromanzi che qui De Santis condanna perché loro aspirano ad un mondo di valori americani. I quattro personaggi si possono ridurre a quattro macchiette da fotoromanzo: personaggi che solitamente si possono chiamare: la bella, la cattiva, il brutto, e il buono. Paola Valentini afferma che Riso amaro è un film «in cui insieme al mondo delle risaie troviamo il mondo dei fotoromanzi e accanto alla realtà delle mondine il mondo possibile dei gangster all’americana; è un film in cui in generale è offerto allo spettatore quell’impasto di istanze realistiche e convenzioni tipicamente cinematografiche che caratterizza tutta la produzione del regista»18.

18

G. Michelone e G. Simonelli, op. cit., p. 31.

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L’incipit di Riso amaro, dalla voce fuori campo al giornalista di Radio Torino, ci presenta delle inquadrature di stampo documentario. La voce narrante dell’apertura fa sì che la storia del film acquisti un’oggettività e quindi un’attendibilità. Questa viene a meno con le sequenze che presentano i personaggi. La loro storia stabilisce una duplice programmazione tra la vita dura delle mondine e quella dei quattro protagonisti in cui si sviluppa la storia della collana e del gangster Walter e del mondo del boogie-woogie e del Grand Hotel di Silvana. L’alternarsi e lo sviluppo di queste due storie, di queste due vicende, due traiettorie benché s’incrocino e s’intreccino, si sviluppano come due binari e che stabiliscono una dialettica fra di loro che rendono la prima più credibile della seconda. Questa dialettica, tra realtà (la prima) e la finzione (la seconda), fa di Riso amaro due storie e quindi né risultano due film: il primo un documento neorealista sulle mondine e l’altro un film gangster hollywoodiano. L’oscillazione fra la vita delle mondine e quella della vita facile di Walter rinforza la dialettica tra attendibilità e incredibilità, o tra il vero e l’immaginato che rispecchia la vita di Silvana. De Santis intendeva fare un film che in qualche suo modo migliorasse la vita del popolo (le mondine), ma invece il regista si fa trasportare dalla narrazione essendo lui portato, secondo De Marchi, ad essere uno «story-teller»19. In effetti, De Santis è spesso chiamato regista che racconta con le immagini proprio perché nasce da scrittore. Lizzani lo ha dichiarato «regista molto visuale ed un gran creatore d’immagini»20. Il realismo, secondo De Santis, «non esclude affatto una finzione, né tutti i mezzi classicamente cinematografici»21. Con Riso amaro, De Santis diede vita al “divismo italiano” attraverso il personaggio rappresentato da Silvana Mangano, vestita di calze nere e in pantaloncini. La Mangano subito diventa una sex-symbol italiana, e fu anche chiamata la bomba italiana e viene paragonata alla Rita Hayworth del poster che Antonio Ricci appende in Ladri di biciclette. Il personaggio di Silvana diventa in mano 19 E.De Marchi, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. X. 20 E. Nardi, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 45. 21 G. Michelone e G. Simonelli, op. cit., p. 31.

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al regista una figura femminile insolita. Silvana è donna moderna che trasuda l’eros e passa da eroina a donna trasgressiva e tragica. Il corpo e la bellezza di Silvana Mangano esprimono una sensualità fisica che dà scandalo, ma stabilisce l’attrice come sex-symbol non solo del cinema italiano, ma anche di quello internazionale. Ed è proprio questa sensualità femminile del film che alcuni critici, come Gian Piero Brunetta, ritengono l’innovazione del film. La sensualità della Mangano in Riso amaro è paragonata ad: Anna Magnani con quindici chili di meno, Rita Hayworth con dieci di più, Ingrid Bergman con temperamento latino, e con più sex appeal di May West e Jane Russell 22.

De Santis sforza la rappresentazione e lo sviluppo del carattere di Silvana, per cui il regista fu criticato dalla destra e inaspettatamente anche dalla sinistra che non volle riconoscere in lei quella compagna che doveva lottare per la condizione femminile e per i diritti delle mondine. La Silvana di De Santis sogna un mondo più facile, una vita all’americana, e perciò è trasportata nel mondo del male che la conduce a sparare a Walter e poi a suicidarsi. Silvana passa da mondina e diventa una dei tanti personaggi tipici da fotoromanzo alla Grand Hotel che lei legge religiosamente, ma ormai lei s’affida e acquista delle caratteristiche tragiche proprio come i personaggi della rivista che lei ammirava. Oltre allo sviluppo e all’importanza dei quattro personaggi, la presenza, la fisionomia, la notorietà dei quattro attori (la Mangano, Gassman, Vallone, e la Dowling) fanno sì che sviano il conflitto sociale delle mondine soffermandosi di più sul racconto. Nella trilogia della terra, il cineasta si appropria del folclore popolare che si esprime anzitutto nel canto, che serve da mezzo collettivo d’espressione per cui le mondine esprimono i loro pensieri, la loro condizione, e la dura fatica da lavoratrici. Qui ci si potrebbe applicare il proverbio: canta che ti passa, ma il canto ha soprattutL. Fonda, in Visione moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 128. 22

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to una funzione vitale per le mondine e loro se ne servono per esprimersi. Col canto le mondine spesso sdrammatizzano una situazione drammatica e di sofferenza come quella dell’aborto di una delle ragazze nella risaia. In tal caso, il canto diventa il loro unico modo d’espressione perché si sostituisce alla parola e diventa l’unico mezzo di comunicazione sia individuale e collettivo. Così pure afferma lo studioso Antonio Parisi quando si rifà all’episodio di una vecchia mondina che avverte una più giovane quando le dice: Non si parla sul lavoro. Qui si fa come in carcere: se vuoi dire qualcosa alle tue compagne, si può solo cantare23.

Quindi il canto in Riso amaro ha una duplice funzione: il loro modo di esprimersi e di rendere la vita delle mondine più felice o almeno più sopportabile. Il canto ci dà quegli episodi più lirici e politici del film. Così pure possiamo dire della funzione della danza in Riso amaro: ad esempio, il ballo del boogie-woogie. Ma questa danza ha un duplice aspetto positivo e negativo in quanto serve da festività ed espressione corporale e popolare, ma qui è però d’esportazione americana ed è interpretata in funzione erotica che dà scandalo. Questa danza acquisisce per De Santis un atteggiamento ambivalente e dialettico perché il cineasta la intendeva come espressione femminile del corpo, ma Silvana si esprime e si serve della danza come desiderio di una vita americana. Nella seguenza dell’aborto della ragazza nella pioggia della risaia, De Santis riesce a mettere in risalto una coscienza collettiva delle mondine, le quali si aggirano attorno alla ragazza come fanno i petali del fiore che si racchiudono di notte e si aprono di giorno. L’unica a non parteciparvi è Silvana. Dall’altra parte Francesca partecipa col gruppo nel loro tentativo di salvaguardare la giovane ragazza. Dalla recente rivalutazione del film Riso Amaro e dell’opera omnia desantisiana si è riuscito a correggere tante delle polemiche 23

A. Parisi, op. cit., p. 62.

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lanciate al regista anche da parte degli intellettuali di sinistra, per cui le mondine dovevano ballare solo delle danze tradizionali e non potevano ancora slegarsi dagli schemi di donna-madre, più vicina al mondo tradizionale ed arcaico a cavallo tra l’Otto/Novecento. Anche se De Santis era tra i pochi che avevano ben capito questa trasformazione della condizione femminile, che stava per verificarsi nell’immediato dopoguerra, c’è ancora nel regista un’ideologia un po’ ambigua nel trattamento dei personaggi femminili. I primi critici, specialmente di sinistra, si aspettavano dal regista un’opera militante o almeno un film ideologicamente più vicino alle idee del P. C. di quegli anni. Tanto è vero che lo stesso si può dire anche del film La terra trema di Visconti, però il Milanese non ricevette delle critiche acerbe come quelle rivolte al regista di Riso amaro. Per De Santis, il dibattito ideologico e politico si basava sulle questioni sociali, le lotte sindacali delle mondine, la riforma agraria, e il mondo contadino. Riso amaro rispecchia le stesse ambivalenze, le stesse contraddizioni e ambiguità presenti in Italia di quegli anni che oscillano tra la politica e l’arte: in pratica, tra la rivoluzione russa e di quella cinese (da un lato) e il cinema hollywoodiano e la presenza americana (dall’altro). Riso amaro è all’incrocio tra il mito russo e quello americano: cioè, il film è rappresentativo proprio perché De Santis era al bivio tra politica ed arte e voleva imboccare su una strada di cinema politicamente vincolato negli ideali della sinistra. De Santis era, ed è sempre stato, regista impegnato, ma qui accolse ambedue mondi: quello che favoriva le lotte delle mondine, e nel frattempo il regista aveva una gran passione per il cinema straniero. In Riso amaro convivono due tendenze, due tensioni che il regista, a mio avviso, non riesce a risolvere. Il film è teso tra gli obbiettivi politici e quegli artistici: tra le lotte sociali e il mondo culturale del dopoguerra che si voltava in direzioni opposte. Riso amaro si dovrebbe collocare proprio in quel crocevia tra Mosca e Hollywood, tra quel mondo politico a cui molti intellettuali di sinistra s’ispiravano e a quell’altro mondo artistico che loro imitavano. In Riso amaro, De Santis riesce a cogliere proprio quell’esprit du temp, che è radicato nell’anima di quegli anni e nel dibattito intellettuale sennonché politico del dopoguerra.

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Uno dei primi a recensire il film Riso amaro fu Ugo Casiraghi su «l’Unità», venerdì 9 settembre 1949. Casiraghi ritiene che Riso amaro è un film: spettacolare ed avvincente… De Santis usa ispirarsi a fatti veri, trasponendoli nel clima del film, dove sono destinati ad ampliarsi, ad “epicizzarsi”, ad assumere significati simbolici e di denuncia realistica. Spesso De Santis rischia infatti di strafare, nella sua ricerca del sensazionale… e così anche tende a rappresentare fatti non tipici ma anormali 24.

Qualche mese dopo Davide Lajolo, il responsabile de «l’Unità» di Torino, scrive pure sul giornale del P.C.I. del 15 ottobre 1949, accusando De Santis di aver tradito il suo compito di fare un film sulle mondine e i loro sacrifici. Il critico, che servì anche da guida al regista nel vercellese, si affretta a dire che il regista si è fatto prendere dalla «cronaca nera… l’avventura… un po’ d’americanismo…»25. Sempre su «l’Unità», del 3 dicembre 1949, Edgardo Macorini rende evidente il fatto che Riso amaro ha suscitato commenti, consensi, e tanti dissensi. Macorini si sofferma sulla sensualità di Silvana Mangano e mette in risalto il funzionamento dei movimenti della macchina da presa. Dal punto di vista tecnico, Macorini ritiene che Riso amaro è «uno dei più abili e accurati film italiani del dopoguerra»26. Il critico discute a lungo la «felice fusione» del regista per aver articolato la musica e la fotografia dell’interpretazione della Mangano e di Vallone. Fernaldo Di Giammatteo recensisce Riso amaro sulla rivista Bianco e Nero (Roma), del 12 dicembre 1949. Questo critico ritiene che Riso amaro: segna invece, inaspettatamente, una battuta d’arresto … La complicata e astrusa struttura ideologica del film si complica ulteriormente e il personaggio di Silvana, lungi dal chiarire intendimenti del regista27. U. Casiraghi, in «l'Unità», 9 settembre 1949. D. Lajolo, in «l'Unità» (Torino), 15 ottobre 1949. 26 E. Macorini, in «l'Unità», 3 dicembre 1949. 27 F. Di Giammatteo, in «Bianco e Nero» (Roma), 12 dicembre 1949. 24 25

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Il critico accusa il regista di sfruttare in particolare il corpo e la sensualità della Mangano: con una minutissima caratterizzazione esterna, che va dalla sottoveste e dalle calze nere, alla fotografia incollata sul muro ed al grammofono. Il fisico di Silvana Mangano è inoltre sfruttato nella più ampia misura possibile28.

Quindi le prime recensioni non furono affatto favorevoli. Infatti, De Santis fu inaspettatamente criticato dalla sinistra, ed anche da alcuni suoi compagni, perciò i cattolici e la destra non sentirono l’obbligo di pronunciarsi. Di recente, il critico Gian Piero Brunetta corregge la critica che ha stroncato il film di De Santis: cioè, quella critica per lo più marxista che riteneva il film come espressione da romanzo d’appendice o un film da fotoromanzo. Per Brunetta, De Santis aveva utilizzato vari codici e vari generi cinematografici e quindi in Riso amaro «convivevano il Neorealismo, il cinema Sovietico di Dovzenko e il riferimento iconico all’avanguardia artistica romana insieme al fotoromanzo alla Grand Hotel alle canzonette e allo stile di vita appena esportati dall’America»29. Riso amaro è stato per lo più ignorato dagli studiosi fino al 1978 quando è apparso lo studio di Carlo Lizzani (Roma, 1978) che contiene anche la sceneggiatura. Questo studio servì a dar vita a diversi studi monografici sull’opera omnia cinematografica del regista di Fondi, che era stata trascurata dal pubblico e ignorata dagli studiosi. Inoltre lo studio di Lizzani (1978) è fondamentale per tutti gli studiosi che si sono occupati di Riso amaro. Infatti negli ultimi tre lustri Riso amaro, e tutta la filmografia di De Santis è stata rivalutata ed approfondita. In particolare vorrei sottolineare alcuni studi, ad esempio, Rosso Fuoco, il cinema di Giuseppe De Santis (Lindau: Torino, 1996), Le Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro» (Mercurio; Vercelli, 1996), «Riso amaro», il 28

Ibidem. L. Fonda, in Visione moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 126. 29

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film, la storia, il restauro (Edizioni Falsopiano, 1999), i vari volumi della collana dei «Quaderni dell’Associazione Giuseppe De Santis» (Fondi), e l’anno scorso è apparso il volume Peppe De Santis, secondo se stesso, a cura di Antonio Vitti (Metauro, 2006). Quest’ultimo studio è una raccolta voluminosa di saggi su e di Giuseppe De Santis che ci rivelano e chiariscono tantissimi punti sulla filmografia del regista di Fondi. In conclusione, Giuseppe De Santis aveva 31 anni quando girò Riso amaro che risultò come maggior incasso internazionale. In termini tecnici, Riso amaro è senz’altro ritenuto un capolavoro del cinema italiano. Riso amaro ebbe immediatamente e inaspettatamente un enorme successo non solo in Italia, ma soprattutto in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti. Nel ’49 l’incasso nazionale di Riso amaro fu di Lire 426,487,000, il settimo incasso più alto dell’anno30. Dalle tante locandine, Riso Amaro ebbe pure un poster pitturato da Renato Guttuso, ed eventualmente un francobollo emesso dalle poste italiane. Dopo le tante critiche negative dei primi recensori, il film è stato rivalutato a partire dagli anni ottanta quando «si è cominciato a veder Riso amaro per quello che effettivamente era, e non quello che avrebbe dovuto essere in base al modello neorealista cristallizzato presso i critici»31. I primi critici volevano che De Santis avesse denunciato lo sfruttamento delle mondine e perciò non ci entrava la storia dei quattro personaggi. Il valore di Riso amaro, secondo lo stesso De Santis, sta proprio nel «grande valore antropologico»32. Quindi Riso amaro è, a mio avviso, un film classico che testimonia la vita delle mondine e il paesaggio delle risaie piemontesi. Nel ’50 De Santis, Lizzani e Puccini ricevettero la nomination all’Oscar per il miglior soggetto originale, ma la statuetta di Hollywood fu asse30 L’incasso di Riso amaro fu al settimo posto dopo i film: (1) Catene di Matarazzo; (2) La sepolta viva di Brignone; (3) Totò cerca casa di Steno/Monicelli; (4) Fabiola di Blasetti; (5) Il lupo della sila di Coletti; (6) Il nome della legge di Germi. 31 L. Fonda, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 129. 32 G.Vertunni & P.Corazzi, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p. 147.

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gnata ad Edna e Edward Anhalt per il soggetto di Bandiera Gialla di Elia Kazan. Vorrei finire questo mio intervento con le parole di Lizzani che ritiene questo film «come la più suggestiva metafora del neorealismo storico»33. De Santis si è spento a Roma nel ’97 all’età di 88 anni.

33

E. Nardi, in Visioni moltiplicate: immagini culturali in «Riso amaro», cit., p.

47.

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VOLTI DELL’ITALIA NEOREALISTA

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FEDERICO LUISETTI

Vedere nel cristallo. La forma del tempo nel cinema di Roberto Rossellini

«Me ne infischio di fare dell’arte» Roberto Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma». «... il dominio del limite (peras, limes, Grenze)» Jacques Derrida, Timpano.

«Come un corpo può presentarsi allo stato amorfo o cristallizzato, l’arte di Rossellini sa dare ai fatti, di volta in volta, la loro struttura più densa ed elegante: non la più gradita o “bella” ma la più acuta, la più diretta o la più tagliente»1. Anticipando le posizioni di Deleuze, il quale scorge nell’«immagine-cristallo» la forma specifica dell’«immagine-tempo» inaugurata da Rossellini e dal neorealismo italiano, Bazin ricorre ai processi di cristallizzazione per descrivere lo stile di ripresa di Rossellini. Nonostante il cinema di Rossellini non abbia nulla a che spartire con la perfezione formale delle gemme, nonostante l’apparenza amorfa e il non-finito delle sue immagini, nonostante l’assenza di movimenti geometrici dei personaggi e della macchina da presa, nonostante la verità sia per Rossellini «sempre sbracata, sfocata, sbrindellata»2, secondo Bazin la sua arte si basa su principi genetici simili a quelli che regolano la nascita dei cristalli. Il cinema di Rossellini produce immagini acute, pietre da A. Bazin, Difesa di Rossellini, testo pubblicato in «Cinema nuovo», 1955, n. 65 e ristampato in P. Baldelli, Roberto Rossellini, Roma, Samonà, 1972, p. 323. La versione francese è raccolta in A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma, Poitiers, Èditions du Cerf, 1975, p. 356. 2 R. Rossellini, Film vecchi e nuovi orizzonti, in Id., Il mio metodo. Scritti e interviste, a cura di A. Aprà, Venezia, Marsilio, 1987, p. 351. 1

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taglio, immagini-rasoio. Da questo punto di vista, la decisione di Rossellini di abbandonare le teorie estetiche per dedicarsi ad opere didattiche si spiega con la necessità di lasciarsi alle spalle i «falsi problemi»3 artistici e girare film «acuti», lame di pensiero. Bazin associa esplicitamente la forma cristallina delle immagini a un’ontologia bergsoniana della durata: «Per la prima volta, l’immagine delle cose è anche quella della loro durata ...»4. L’immagine fotografica su cui si basa la tecnica cinematografica è temporalità resa visibile, un cristallo che assorbe il tempo e lo metamorfosa in strutture spaziali. La fotografia non riproduce artisticamente una realtà esterna ma lascia sedimentare il tempo, gli attribuisce un’estensione. Il tempo è un ambiente fluido e magmatico; non si srotola come una superficie liscia ma scorre come un fiume, incontrando ostacoli, dividendosi in correnti, avvitandosi in mulinelli e rivoli eccentrici5. L’ultimo episodio di Paisà, l’intersezione dei flussi spaziotemporali del fiume e delle azioni dei partigiani lungo il delta del Po, è un esempio eclatante d’immagine-tempo: le prerogative della scena e della narrazione tradizionali vengono soppiantate da un tessuto di temporalità eterogenee, sostenute dai movimenti differenziati del fiume, degli oggetti e degli uomini. Nel gergo tellurico di Gaston Bachelard, a sua volta intriso di bergsonismo, i cristalli e le gemme sono «i solidi più naturali, i meglio definiti, i soli che possiedono una durata in qualche modo visibile»6. In Rossellini, più che uno spiritualismo o un realismo, una morale o un’estetica, è presente una filosofia della natura e, al suo interno, il problema del rapporto tra il tempo del mondo e quello dei soggetti. Anche la storia non rappresenta per Rossellini un’unità in sé ma risulta dall’intersezione di azioni umane e forze naturali. In La prise de pouvoir par Louis XIV, l’arte minerale di Rossellini 3 R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», in Id., Il mio metodo, cit., p. 177. 4 A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma, cit., p. 14, trad. it. mia. 5 Per una ricognizione dell’insistente motivo del gorgo in Europa 51, cfr. E. Dagrada, Le varianti trasparenti. I film con Ingrid Bergman di Roberto Rossellini, Milano, LED, 2005, pp. 176-177. 6 G. Bachelard, La terre et les reveries de la volonté, Paris, Librairie José Corti, 1948, p. 290, trad. it. mia.

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vale come tecnica d’integrazione dei circuiti temporali: l’organizzazione colbertista delle forze produttive cristallizza la sua efficacia nella cerimonialità estetica della corte di Luigi XIV, che a sua volta interagisce, nella scena finale, con la temporalità atopica del libro: La massima di La Rochefoucauld letta in solitudine da Luigi XIV aggiunge al racconto i ritmi dell’esistenza individuale, interferendo con la costruzione ieratica della sovranità del potere. Assumendo il punto di vista della costruzione temporale dei fenomeni, Rossellini può collocarsi con libertà nel tempo storico, di cui non rispetta l’integrità monumentale o la paradigmaticità ideologico-politica. Ciò spiega la facilità con cui il Rossellini dei film per la televisione smantella l’intera storia dell’umanità e la riassembla seguendo la trama di alcune «componenti» privilegiate7. Che si tratti della lavorazione del ferro o delle vita privata di Garibaldi, la storia politica si dissolve in un repertorio enciclopedico di flussi temporali, ognuno dotato di intensità ed elasticità propria, come la pluralità delle durate bergsoniane. La passione di Rossellini per l’Oriente e la sua denuncia della «schiavitù delle idee», dei «falsi problemi» e della «politicizzazione» dell’Occidente8 vale come una presa di coscienza di questo naturalismo della temporalità: «L’uomo, nella società moderna e nel mondo intero, salvo forse in Asia, è diventato l’ingranaggio di una macchina gigantesca, immensa. È diventato uno schiavo. ... La schiavitù delle idee»9. Come si combattono le false idee? Innazitutto, come 7 R. Rossellini, Un cinema diverso per un mondo che cambia, in Id., Il mio metodo, cit., p. 305. 8 «Tutti sono disgraziatamente troppo contaminati dalle idee politiche. Il mondo di oggi è un mondo eminentemente politicizzato, ed è politicizzato perché vive sotto un’insegna ipocrita che è l’insegna della libertà, tanto è vero che il mondo ha sempre avuto la libertà fino a che non l’ha enunciata. Dal momento che la parola libertà è stata pronunziata e che si è fatta la prima rivoluzione nel mondo sotto l’insegna della libertà, da quel momento si sono messi in atto tutti i metodi per ammazzare la libertà», ivi, p. 317. Il rifiuto rosselliniano della «politicizzazione delle idee» a vantaggio della presentazione diretta della vita affettiva e della collocazione spazio-temporale dei corpi individuali e sociali, testimonia l’implicito riconoscimento del terreno biopolitico su cui si gioca la partita politica dell’Occidente. 9 R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 178.

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in Oriente, scongiurando la concezione borghese dell’arte: «Vede, da noi un artista quasi sempre è latore di un messaggio: una rappresentazione per gli altri (a volte un’aggressione). In India l’arte è sempre una specie di gioia intima ... L’indiano resta sempre in intimità con le grandi cose nel gesto più banale, nell’atto più quotidiano»10. Questo naturalismo, che intercetta il progetto biopolitico foucaultiano, giustifica il disprezzo dell’ultimo Rossellini per il dibattito critico di matrice ideologica ed estetica, oltre che la sua preferenza per un’arte didattica. Ma che cosa deve insegnare quest’arte? Non certo le tecniche di rappresentazione della verità, sia essa intesa in senso storico o spirituale, bensì il metodo della ricerca di un godimento, un’ars erotica in cui «la verità è estratta dal piacere stesso»11, l’«intimità» tra le molteplici componenti della temporalità: i tempi lunghi delle «grandi cose», i tempi brevi dei gesti quotidiani, i tempi biologici dei corpi e quelli ecologici della vita animale12.

1. I cristalli di tempo Riprendiamo la formulazione di Bazin: Rossellini crea immagini dense e cristallizzate, come corpi taglienti ed acuti. Sinora abbiamo esaminato esclusivamente un presupposto della posizione di Bazin: i corpi filmati da Rossellini sono cristalli di tempo, tempo stilizzato R. Rossellini, Uomini drappegiati e uomini cuciti, in Id., Il mio metodo, cit., p. 185. 11 M. Foucault, La volontà di sapere, trad. it. P. Pasquino e G. Procacci, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 53. Qui Foucault contrappone l’ars erotica orientale alla scientia sexualis occidentale. La prima, come nella società arabo-mussulmana e nella Roma antica, estrae la verità dal piacere stesso, «secondo la sua intensità, la sua qualità specifica, la sua durata, le sue riverberazioni nel corpo e nell’anima» e «non è in relazione ad una legge assoluta del lecito e del proibito», ibidem. L’orientalismo di Foucault, come quello di Rossellini, ricorre al linguaggio bergsoniano della durata e delle qualità intensive. 12 Marxismo e cattolicesimo non interessano Rossellini sul piano ideologico, ma in quanto progetti di riorganizzazione delle durate, dei rapporti sociali e dell’uomo con la natura. La cinematografia di Rossellini si conclude con Il messia e con il progetto – mai portato a termine – di un film su Marx, senza che ciò significhi un suo ritorno all’ordine. 10

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che penetra le cose e i personaggi con l’intensità di una memoria piuttosto che con la violenza impersonale della storia. Nel riprendere il topos del cristallo di tempo13, Deleuze rilancia la riflessione di Bazin ma, con l’aiuto di Rossellini, la spinge dal sublime all’incommensurabile: «Come dirà Bazin, l’immagine cinematografica si contrappone all’immagine teatrale in quanto va dal fuori al dentro, dalla scena al personaggio, dalla natura all’uomo (anche se muove dall’azione umana, ne muove come da un fuori, anche se muove dal volto umano, ne muove come da una Natura o da un paesaggio)»14. L’immagine è un pezzo di natura, temporalità setacciata dai mezzi di riproduzione, ma tale natura è un’allucinazione piuttosto che un pezzo di realtà o un rapimento mistico; è un limite, una potenza sovra-umana che Rossellini non fa rientrare negli schemi del sublime: nel suo cinema l’incommensurabilità del personaggio al cospetto delle forze e delle traiettorie temporali della natura – l’ascesa del vulcano da parte di Karin in Stromboli – non rimanda a «idee della ragione» interne al personaggio stesso. Natura e facoltà cognitive non sono concatenate, Karin non accede a nessuna rivelazione sul suo destino. La natura è indifferente e non dialettizzabile. In Cinema 1 e Cinema 2, una ricapitolazione enciclopedica dell’estetica post-baziniana, il cinema di Rossellini occupa una posizione ambigua. Da un lato, Paisà introduce la «nuova immagine» che sostituisce l’immagine-movimento del cinema classico: la realtà è dispersiva e lacunare, non forma una totalità modificabile dalle azioni dei personaggi. In questa situazione – segnata dalla rottura del legame senso-motorio tra personaggio e natura e tra personaggio e società, ciò che Deleuze definisce crisi dell’«immagine-movimento» del cinema classico – sono possibili soltanto incontri frammentari e traiettorie spezzate. Inoltre, al mondo-ambiente del cinema d’azione si sostituisce un «regno dei cliché», una densa coltre di false idee in cui sono immersi i pensieri e le emozioni dei personaggi. La tetralogia rappresentata da Germania anno zero, Stromboli 13 Gilles Deleuze, riprende questo concetto da Félix Guattari, L’incoscient machinique, Paris, Ed. Recherches, 1979. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, trad. it. di L. Rampello, Milano, Ubulibri, 1989, p. 97. 14 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 181.

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terra di Dio, Europa 51 e Viaggio in Italia, radicalizza queste tendenze, conducendo il neorealismo alla sua perfezione15. Non potendo agire, i personaggi di Rossellini diventano dei veggenti, quel che conta è per loro imparare a guardare, elaborare le conseguenze dell’impossibilità della presa sul reale: «Un nuovo tipo di personaggi per un nuovo cinema. Poiché quel che capita loro non gli appartiene, non li riguarda che a metà, essi sanno estrarre dall’avvenimento la parte irriducibile all’accadere: quella parte di inesauribile possibilità che costituisce l’insopportabile, l’intollerabile, la parte del visionario»16. Il «cinema del veggente» rosselliniano racchiude i caratteri salienti dell’immagine-tempo: primato della ripresa sul montaggio, centralità di situazioni puramente ottiche e sonore, personaggi «stranamente vibranti», colti «durante una mutazione»17, sistematicità dei falsi raccordi, privilegio della dimensione corporea e mentale rispetto alle interazioni tra personaggio e ambiente, ricorso alle esperienze-limite e agli «spazi qualsiasi». Benché Rossellini inauguri il regime dell’immagine-tempo – della cui struttura cristallina Deleuze si occupa nelle parti centrali del secondo volume – i riferimenti alla sua cinematografia scompaiono sino ai capitoli conclusivi di Cinema 2. Qui, insieme al Dreyer di Gertrud, Europa 51 e Giovanna d’Arco al rogo vengono definiti «una svolta» interna all’immagine-tempo, una fuoriuscita dai canoni della produzione artistica in direzione di un cinema di «pura credenza», in grado di ricostruire all’esterno dei confini dell’arte il legame perduto tra uomo e mondo: «solo la credenza del mondo può legare l’uomo a ciò che vede e sente. Bisogna che il cinema filmi, non il mondo, ma la credenza in questo mondo, il nostro unico legame»18. Lungo questa strada, il cinema post-estetico di Rossellini – la cui prodigiosa semplicità equivale alla neutralità visiva dei ready-made duchampiani piuttosto che una pratica ascetica dell’immagine – non G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 12. G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 31. L’esempio più volte ripreso da Deleuze è quello della visione della fabbrica da parte della protagonista di Europa 51; cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-movimento. Cinema 1, trad. it. di J.-P. Manganaro, Milano, Ubulibri, 1984, p. 145, L’immagine-tempo, cit., pp. 12, 32, 59. 17 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 31. 18 Ivi, p. 192. 15 16

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incontra la spiritualità cristiana ma una radicale pedagogia audiovisiva. Così, per Deleuze il Rossellini dei film televisi offre una «prima manifestazione di grande pedagogia» degli atti di parola e della costruzione stratigrafica degli spazi: «è come se Rossellini avesse saputo reinventare una scuola elementare, assolutamente necessaria, con la sua lezione di cose e la sua lezione di parole, la sua grammatica del discorso e la sua manipolazione di oggetti»19. Si tratta di una didattica dell’«andirivieni fra parola e immagine», di un’archeologia, nel senso foucaultiano, degli atti di parola e degli spazi stratificati (il riferimento è soprattutto a La prise de pouvoir par Louis XIV). Ciò che è più importante, a partire dall’ultimo Rossellini, dalla sua archeologia della composizione conflittuale di traiettorie spaziali e di parola, l’immagine-tempo esplode nelle sue componenti visive e sonore, sotto la spinta di «interruzioni irrazionali», di soglie tra epoche e immagini che non si concatenano più secondo gli schemi senso-motori dell’azione e della narrazione classica: «Il nuovo regime dell’immagine si costruisce su questa base pedagogica. ... le sequenze non si concatenano più attraverso interruzioni razionali, che portano a termine la prima o danno inizio alla seconda, ma si riconcatenano su interruzioni irrazionali, che non appartengono più a nessuna delle due e hanno valore per se stesse (interstizi)»20. Stranamente, nonostante il Rossellini di Deleuze radicalizzi le proprietà dell’immagine-tempo, il suo cinema non si presta ad un’analisi condotta secondo le articolazioni formali dell’immagine-cristallo, che si racchiudono nelle figure dello specchio e del germe21. Nel primo caso, le azioni dei personaggi sono interamente assorbite dalla moltiplicazione delle immagini virtuali prodotte dagli specchi (la casa degli specchi de La signora di Shangai), nel secondo un piccolo germe funziona come polo di cristallizzazione di un ambiente amorfo che lo circonda (il segreto alchemico del cristallo rosso di Ivi, p. 273. Ivi, p. 274. 21 A queste due figure corrispondono rispettivamente le modalità dell’opera riflessa nell’opera e dell’opera colta nel suo farsi (l’opera allo specchio e l’opera in germe. Cfr Ivi, p. 88 e sgg. 19 20

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Cuore di vetro). Anche a partire dagli stati che assume il cristallo – cristallo perfetto in Ophüls, cristallo incrinato in Renoir, cristallo in via di formazione in Fellini o in decomposizione in Visconti22 – non si giunge alle immagini di Rossellini. Il regista che, secondo Deleuze, ha condotto alla perfezione l’immagine-tempo, non sembra in grado di offrire modelli di immagini-cristallo. Per quale ragione? Per rispondere a questa domanda dobbiamo esaminare i presupposti della concezione deleuziana del cristallo di tempo e metterli a confronto con le immagini taglienti che Bazin attribuisce a Rossellini. In Deleuze l’immagine cristallina vale come presentazione diretta del tempo – contrapposta a quella indiretta dell’immaginemovimento – soltanto a patto di concepire il tempo come una scissione che sgorga da un limite esterno ad esso, l’interruzione irrazionale, il «punto di indiscernibilità»: «Il tempo consiste in questa scissione, è essa, esso che si vede nel cristallo ... Nel cristallo si vede l’eterna fondazione del tempo, il tempo non-cronologico, Kronos e non Chronos. È la potente vita non-organica che rinserra il mondo. Il visionario, il veggente, è colui che vede nel cristallo .. Nel cristallo si vede dunque uno sdoppiamento che il cristallo stesso continua a far girare su di sé ...»23. Al di là della classificazione degli stati del cristallo, degli atti della sua formazione e delle figure di ciò che si vede in esso, la funzione che Deleuze attribuisce al cristallo è lo scambio – in sé extra-temporale, una commutazione ontologica – dei regimi di immagini: «il tempo deve in ogni istante sdoppiarsi in presente e passato, differenti per natura uno dall’altro ... l’immagine cristallo non era il tempo ma si vede il tempo nel cristallo ... il cristallo vive sempre al limite ... non cessa di scambiare le due immagini distinte che lo formano: l’immagine attuale del presente che passa e l’immagine virtuale del passato che si conserva»24. Nel regime delle immagini-tempo le immagini vengono dissociate e ri-concatenate da un neutro senza spessore corporeo o temporale: il cristallo. Il cristallo è uno strumento ottico che mostra «la forza del fuori»25, l’operatore disgiuntivo puro, il meccanismo più Ivi, pp. 97-112. Ivi, p. 96. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 234.

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segreto delle funzioni trascendentali che producono il tempo noncronologico. Se il presente si sdoppia in passato e futuro, biforcandosi nei getti divergenti della pura virtualità di ciò che non può più agire e della pura attualità di ciò che può solo agire, è perché a fondamento del tempo Deleuze pone uno schematismo logico-trascendentale, una facoltà non-temporale in grado di scindere il tempo, di produrre «l’interruzione irrazionale, l’interstizio o l’intervallo»26, il cristallo: «Non crediamo più a un’associazione di immagini, che supera anche dei vuoti, crediamo a interruzioni che acquistano un valore assoluto e si subordinano ogni associazione»27. Questa concezione del tempo rappresenta un’interpretazione della descrizione bergsoniana del circuito tra l’attuale e il virtuale; dove il cristallo sostituisce il circuito, e la differenza di natura che Bergson assegnava al passato nei confronti del presente, viene riscritta da Deleuze con l’ausilio delle caratteristiche morfologiche dei cristalli. Il paradigma cristallino, luce strutturata e visione visibile, intensità luminosa istantaneamente efficace, offre a Deleuze la possibilità di mostrare delle funzioni puramente logico-trascendentali di trasformazione delle immagini. Il kantismo deleuziano – «Bergson è molto più vicino a Kant di quanto non creda egli stesso»28 – elaborato nella teoria delle sintesi temporali di Differenza e ripetizione e delle lezioni su Kant29, fa del tempo una forma pura, incastonata in una dimensione trascendentale e non cosmologica o biologica: «Nel cinema moderno, al contrario, l’immagine-tempo non è più né empirica né metafisica, è ‘trascendentale’ nel senso kantiano del termine: il tempo esce dai suoi cardini e si presenta allo stato puro»30. Mentre nel sistema delle immagini-movimento – elaborato in Cinema 1 e ricalcato sul primo capitolo di Materia e memoria – è il corpo che funge da centro senso-motorio, assorbendo percettivaIvi, p. 275. Ivi, p. 234. 28 Ivi, p. 97. 29 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, trad. it. di G. Guglielmi, Milano, Cortina, 1997, pp. 115-129 e Id., Fuori dai cardini del tempo. Lezioni su Kant, a cura di Sandro Palazzo, Milano, Mimesis, 2004. 30 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 300. Cfr. il rimprovero al mancato kantismo dello «stile trascendentale» di Paul Schrader, ibidem, nota 22. 26 27

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mente le immagini e restituendole in vista dell’azione possibile sulle cose, nel regime delle immagini-tempo descritto in Cinema 2 il meccanismo genetico è costituito da un intervallo cristallino, da un’interruzione-rifrazione31 che sostiene lo «stato puro» delle «immagini trascendentali» del tempo con cui il cinema moderno deve fare i conti. Poiché sono viste dentro il cristallo, ossia colte nella regione «pura» della loro genesi, queste immagini vengono descritte da Deleuze come «situazioni puramente ottiche». Esse abitano la dimensione trascendentale dischiusa dalle sintesi-rifrazioni del cristallo. Come in Kant, in Deleuze è una logica trascendentale che fa deragliare la vocazione mimetica del cinema moderno, sostituendo incessantemente i movimenti vincolati dell’immagine-movimento con i movimenti liberi della presentazione diretta del tempo, una creazione delle forme pure del tempo32. Più che un commento a Bergson, le tesi di Deleuze vanno lette come una riscrittura del kantismo e, più segretamente, come risposta all’influente lettura heideggeriana dell’ontologia di Kant, all’interpretazione dello schematismo kantiano quale pura «veduta» (Anblick) del tempo33. E infatti, la posizione di Deleuze si sovrappone spesso a quella heideggeriana, ricalcandone l’argomentazione e la Cfr. la corrispondenza tra questo livello ontologico «superiore» e la funzione sintetica più elevata assegnata da Deleuze alla «cesura» o «incrinatura» nella terza sintesi temporale di Differenza e ripetizione: «È famosa la risposta di Kant: la forma sotto la quale l’esistenza indeterminata è determinabile dall’Io penso, è la forma del tempo ... Le conseguenze che ne derivano sono radicali: la mia esistenza indeterminata può essere determinata solo nel tempo, come l’esistenza di un fenomeno, di un soggetto fenomenico, passivo o recettivo che appare nel tempo. ... Ma che cosa significa forma vuota del tempo o terza sintesi? Il principe di Danimarca dice che “il tempo è uscito dai propri cardini”. ... Il tempo cessa di essere cardinale e diviene ordinale, puro ordine del tempo. Hölderlin dice che cessa di “rimare”, poiché si distribuisce in modo ineguale da una parte e dall’altra di una “cesura” rispetto alla quale principio e fine non coincidono più. ... La cesura, e il prima e il dopo che essa ordina una volta per tutte, costituiscono l’incrinatura dell’Io (la cesura è esattamente il punto d’origine dell’incrinatura)», op. cit., pp. 115, 119. 32 Questa logicizzazione dell’intervallo è affine alla prassi cinematografica di Godard: un formalismo dell’interruzione – l’enciclopedia dei falsi raccordi di Godard – a cui corrisponde un cinema teorematico e progammatico. 33 Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, trad. it. di M. E. Reina, Roma-Bari, Laterza, 2000. 31

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terminologia: la «conoscenza ontologica ... crea la veduta pura»34, ossia immagini pure del tempo35; queste non vanno riportate alla «presenza» – gli schemi senso-motori dell’immagine-movimento deleuziana – ma sono una presentazione diretta del tempo, una exhibitio originaria36; lo schematismo dei concetti – ossia le categorie che in Deleuze sostengono l’azione e la rappresentazione – si fonda sulla «libertà di movimento dell’immaginazione trascendentale» e questa sul tempo come immagine pura; il tempo-immagine kantiano – l’immagine-tempo di Deleuze – è «autoaffezione pura», ossia la sua struttura rimanda soltanto a se stessa, come nel caso del cristallo. La divergenza fondamentale tra Deleuze e Heidegger, che spiega la dissonanza tra il bergsonismo di Deleuze e quello rosselliniano, riguarda soltanto la collocazione di questo tempo-cristallo37. Dov’è dunque il tempo? Dove sono collocate le immagini-cristallo di Deleuze e le immagini-veduta di Heidegger? Per Heidegger nella temporalità «esistenziale» dei soggetti finiti. L’autoaffezione pura non rimanda all’autonomia del conoscere ma alla gettatezza del soggetto finito: «l’Io è ‘stabile e permanente’ solo nella misura in cui è temporale, ossia in quanto se-stesso finito»38 . La decisione fondamentale di Heidegger, il suo smarcarsi da Kant, è una scelta topologica: il tempo in quanto autoaffezione pura, struttura ontologica originaria, «lungi dal trovarsi ‘nell’animo’»39 è posto in un soggetto finito di conoscenza, nel soggetto esistenziale dell’ermeneutica heideggeriana. E per Deleuze, dov’è il tempo? In quale montatura sono incastonati i suoi cristalli di tempo? Riprendendo e stravolgendo – questa volta in chiave spinozista – un altro motivo bergsoniano, quello della Ivi, p. 106. Ivi, p. 94. 36 Ivi, p. 118: l’essenza dell’immaginazione trascendentale consiste nella sua capacità di «intuire senza la presenza». 37 Nella prospettiva aristotelica ripresa da Bergson, è il dove, il «luogo», la posta più alta in gioco nella speculazione ontologica sul tempo e il movimento. Cfr. la tesi latina su L’idea di luogo in Aristotele (Quid Aristoteles de loco senserit, Alcan, Paris 1889); trad. it. in H. Bergson, Opere, Mondadori, Milano, 1986 38 Ivi, p. 166. 39 Ivi, p. 165. 34 35

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«macchina d’acciaio» e del misticismo macchinico del Bergson de Le due fonti della morale e della religione, Deleuze colloca i propri cristalli di tempo negli ingranaggi sfavillanti di un «automa spirituale»: «il grande automa spirituale che segna l’esercizio più alto del pensiero, la maniera in cui il pensiero pensa e pensa se stesso, nello sforzo fantastico di un’autonomia»40. Giunto al nodo dell’autoaffezione del tempo, della sua originarietà e autoreferenzialità, Deleuze dà un calcio alla scala heideggeriana, abbandona le relazioni conoscitive finite e si arrocca nell’autonomia spinozista del pensiero in sé. Per questa ragione, il «cinema è l’automatismo diventato arte spirituale»41.

2. Tohiishi E Rossellini, dove colloca i suoi cristalli di tempo? Se il «cinema del veggente» di Rossellini è caratterizzato dalla presentazione diretta del tempo, quale forma del tempo si scorge dentro i suoi cristalli? Per quale ragione il suo bergsonismo non si lascia catturare dalla rete concettuale del bergsonismo deleuziano? A differenza di Deleuze, che riconduce il bergsonismo all’automatismo superiore di un’ontologia trascedentale kantiano-spinozista – la cui funzione principale è di mantenere in funzione il circuito del virtuale e dell’attuale – Rossellini colloca i suoi cristalli di tempo nella struttura della molteplicità continua propria della durée bergsoniana. Bazin nota la «densità» dei «fatti» caratteristica del cinema di Rossellini, e la paragona a quella di un corpo cristallizzato. Allo stesso modo, per Bergson «ogni durata è spessa»42, dal momento che lo spessore è proprio di ciò che non si può dividere, degli atti di cui si compongono i movimenti: «si può dividere una cosa, ma non un atto»43. Bazin osserva come la specificità del neorealismo di G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 290. Ibidem. 42 H. Bergson, Durata e simultaneità, trad. it. di F. Polidori, Milano, Cortina, 2004, p. 53. 43 H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, trad. it. di F. Sossi, Milano, Cortina, 2002, p. 73. 40 41

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Rossellini consista nel vietarsi «di dissociare ciò che la realtà ha unito»44 e nel considerare «la realtà come un blocco, non certo incomprensibile ma indissociabile»45. Forse a causa del peso esercitato sull’agilità del giudizio dalla sua ontologia dell’immagine fotografica, Bazin non ha esplorato tutte le conseguenze di queste intuizioni critiche. Cerchiamo pertanto di ripartire là dove si è arrestato Bazin, la cui concezione del neorealismo è comunque «infinitamente più ricca di quella che combatteva»46. Costruire immagini-cristallo significa per Rossellini realizzare delle immagini dense, «immagini-fatto», spesse come la durata bergsoniana. Per raggiungere questo risultato è necessario innanzitutto abbandonare le tecniche di dissociazione escogitate dal cinema classico, dimenticare le regole formali di distribuzione dei corpi nel quadro e delle sequenze in un montaggio e rifiutare la scienza dei raccordi e dei falsi raccordi. L’anti-formalismo di Rossellini, la sua ostilità per quanto è linguaggio cinematografico e convenzione narrativa, è un sintomo dell’impulso più profondo da cui scaturisce il suo «metodo»47. Lo spessore delle sue immagini corrisponde all’eterogeneità qualitativa propria della durata bergsoniana. Il tempo-durata si distingue dal tempo cronologico così come il cinema di Rossellini dal cinema classico. La durata non è un mezzo omogeneo, composto di sezioni raccordabili attraverso elementi di transizione, il cinema di Rossellini non si basa sull’unità formale di inquadrature raccordate ad altre inquadrature. La durata è percorsa da forze e qualità che ne increspano la superficie, le riprese di Rossellini mostrano ambienti (naturali o sociali, collettivi o individuali) e situazioni emotive non ulteriormente analizzabili, fatti puri, blocchi intensivi di realtà, una topologia delle forze piuttosto che una geometria del movimento. L’eterogeneità della durata, una continuità di un atto e non uno stato, presuppone in Bergson la fusione di elementi distinti. La A. Bazin, Difesa di Rossellini, cit., p. 321. Ivi, p. 320. 46 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 11. 47 «La tecnica non è niente, è una sciocchezza», R. Rossellini, Il mio metodo di lavoro, in Id., Il mio metodo, cit., p. 410. 44 45

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durata è ciò che si conserva in modo indivisibile nelle continuità dei mutamenti interni, un progresso dinamico opposto a una successione o a una rappresentazione simbolica48. Allo stesso modo, il metodo di Rossellini presuppone la continuità del suo stile di ripresa. Una continuità posta in una dimensione profonda del metodo, che si sottrae alle analisi condotte secondo i criteri del «linguaggio» cinematografico. Così, la continuità della costruzione della scena non impone a Rossellini la centralità dogmatica del piano-sequenza, che può venire abbandonato o frammentato a seconda delle esigenze drammaturgiche49. Fondamentale è però che la scena possieda «il ritmo giusto»50, una condizione che si ottiene creando una continuità di movimento tra le due componenti non dialettizzabili delle immagini cinematografiche: i movimenti dei corpi e delle cose e i movimenti della macchina da presa: «... col montaggio c’è un ritmo che non è naturale, che è totalmente costruito. Muovendo la macchina da presa si ottiene un ritmo naturale»51. La somma di questi due elementi, l’eterogeneità qualitativa e la continuità, determina in tutta la sua complessità la nozione bergsoniana di molteplicità continua e caratterizza anche lo «stile» di Rossellini. Questo tipo di molteplicità è descritta da Bazin attraverso il celebre paragone con il guado di un torrente: le pietre da taglio che compongono un ponte «s’incastrano perfettamente per formare la volta. Ma dei blocchi di pietre sparpagliati in un guado sono e rimangono delle pietre, la loro realtà di pietra non è alterata dal fatto che, saltando dall’una all’altra, me servo per guadare il torrente»52. Il paragone riproduce esattamente la distinzione bergsoniana tra le due molteplicità: da un lato una divisione della materia e la sua ricomposizione nella struttura architettonica di un ponte (molteplicità quantitativa del tempo spazializzato); dall’altro la continuità indivisibile del movimento del guadare – attraversare un torrente in questo modo significa trovare una misura ritmica continua del movimento H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., pp. 80-81. Il «nuovo tipo di drammaturgia» invocato da Rossellini come ambizione suprema del suo metodo; cfr. R. Rossellini, Il mio metodo di lavoro, cit., p. 418. 50 Ivi, p. 409. 51 Ivi, p. 414. 52 A. Bazin, Difesa di Rossellini, cit., p. 322. 48 49

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– ottenuta combinando fatti complessi e chiusi in sé, le pietre del torrente (molteplicità qualitativa della durata). Chi ha avuto modo di frequentare i giardini giapponesi in cui sono collocati i piccoli padiglioni in cui si svolge la cerimonia del tè sarà rimasto colpito da questo paragone, che rimanda inconsapevolmente sia all’estetica zen che all’orientalismo di Rossellini. Nella cerimonia del tè occupa infatti un posto privilegiato il sentiero di pietre grezze che conduce alla capanna dove si svolge la cerimonia del tè. L’andatura a cui costringono questi sassi (tohiishi), con il suo ritmo inconsueto, escogitato per introdurre alla temporalità densa della casa del tè, ricorda da vicino l’arte naturalistica dei movimenti di macchina di Rossellini. A causa dello spostamento dell’osservatore lungo il sentiero irregolare di pietre, l’esperienza dell’intero giardino è posta in una dimensione temporale eccentrica, indisponibile alla contemplazione statica o alla costruzione di una veduta sincronica del paesaggio. La mobilità altera lo spazio, inaugurando nuovi regimi temporali. Rifiutandosi di comporre l’inquadratura secondo macro-strutture narrative fondate su micro-unità visive, Rossellini mira ad agganciare il movimento della macchina da presa alla durata delle cose e dei corpi, estraendo in tal modo la loro temporalità dalla loro mobilità. L’intersezione tra questi movimenti scatena le tonalità emotive (le «affezioni» di Bergson), ora incontri rivelatori, ora azioni tragiche; in ogni caso, rappresenta una costruzione dinamica di unità indivisibili di movimenti naturali e movimenti di macchina. Come nella durata bergsoniana, la «forza» e l’«alterazione»53 sostituiscono le vedute statiche e i raccordi. Anche quando le scene di Rossellini appaiono scarne e rarefatte, esse contengono una densità inanalizzabile di «fatti», prodotti dalla semplice interazione tra il tempo della messa in scena e il tempo e la posizione «giuste» della macchina da presa: bisogna abituarsi ad «inventare tanti piccoli fatti dentro le cose ... C’è un tempo per ogni cosa, ogni aspetto dev’essere utilizzato al momento giusto ... Sento subito dov’è che va messa la macchina da presa ... Devo trovare il punto più giusto da dove cominciare, un punto per tutta la scena»54. 53 54

H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza, cit., p. 81. R. Rossellini, Il mio metodo di lavoro, cit., pp. 414-415.

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La predilezione di Rossellini per una drammaturgia fondata su unità episodiche deriva dalle esigenze e dai limiti di questo metodo: un episodio non è nient’altro che un’amplificazione della scena centrale attorno a cui esso è costruito. L’unità sequenziale della narrazione classica è sostituita dalla densità e indivisibilità dell’immaginefatto centrale, intorno a cui si cristallizzano le altre scene. Si leggano a questo proposito le dichiarazioni di Rossellini: «In effetti ogni film che realizzo mi interessa per una data scena, per il finale che, magari, ho già in mente. ... Tutta la mia preoccupazione non è che di arrivare a tale fatto. Gli altri, gli episodi cronachistici, mi rendono come balbettante, come distratto, estraneo. ... Io non mi sento sicuro che nell’episodio decisivo. E Germania anno zero, se debbo esser sincero, è nato proprio per l’episodio del bimbo che vaga solo tra le rovine. Tutta la parte precedente non mi interessava minimamente. Anche Il miracolo è nato per l’episodio dei ciotoli di latta. E dell’ultima parte di Paisà avevo in testa quei cadaveri che passavano sull’acqua, lentamente naviganti sul Po, con cartello che recava la scritta ‘Partigiano’»55. Poiché l’immagine centrale racchiude una continuità indivisibile di fatti spazio-temporali56, essa si cristallizza in forme taglienti, in lame di significato. Come in Bergson, il metodo dell’intuizione e la conseguente collocazione all’interno della durata fa sì che «tutto si riporti a un punto unico», a un «qualcosa di semplice, di infinitamente semplice»57. Uno «sforzo» nel caso di Bergson, la ferita affettiva delle situazioni centrali di Rossellini, sentimenti «sottili» e «brucianti»58, i tagli provocati dai cristalli di tempo.

R. Rossellini, Colloquio sul neorealismo, in Id., Il mio metodo, cit., p. 89. Bazin ha colto questa legge che presiede alla costruzione di immagini-durata: «Quando ciò che è essenziale in un avvenimento dipende dalla presenza simultanea di due o più fattori dell’azione, il montaggio è proibito», Montage interdit, in Id., Qu’est-ce que le cinéma, cit., trad. it. mia, p. 59. 57 H. Bergson, L’intuizione filosofica, in Id., Pensiero e movimento, trad. it. F. Sforza, Milano, Bompiani, 2000, p. 100. 58 R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 174. 55

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3. Limiti Il bergsonismo kantiano di Deleuze, la sua ottica delle superfici lucide e germinali, non può riconoscere la lama cristallina delle immagini-tempo di Rossellini. Immagini che restano dentro il territorio del movimento, estraendo da esso la sua pura natura temporale. Come afferma Bergson in Materia e memoria, «... l’analisi ci riporta sempre al movimento stesso. Ma perché cercare altrove?»59. Per Bergson l’azione e i movimenti nello spazio non sono una realtà impura, non si svolgono in una regione ontologica derivata rispetto alla purezza delle sintesi temporali originarie. Al contrario, non vi è alcuna sintesi trascendentale, poiché il tempo è un fatto, e la sua immanenza è radicata nella mobilità stessa delle cose. Il pensiero metafisico è intuitivo nella misura in cui accetta di collocarsi nel movimento, e soltanto a partire da esso estrae «la mobilità che ne è l’essenza»60. Si tratta dunque di una pedagogia, non di una logica del movimento; per vedere, al di sotto delle apparenze ingannevoli di una temporalità omogenea, la struttura della durata dell’uomo e la sua interazione con le molteplici durate della vita naturale, è sufficiente fissare «la mobilità, quest’atto indiviso che la vostra coscienza coglie nei movimenti che voi stessi eseguite»61. Come Bergson, Rossellini resta nei confini dell’immagine-movimento, ma per coglierne la struttura temporale: «i suoi personaggi sono come ossessionati dal demonio della mobilità»62. Rossellini indica nelle molteplici forme dell’attesa la sostanza del tempo filmico: «Intervistatore: Che cosa trova di essenziale nel racconto cinematografico? Rossellini: A mio modo di vedere, l’attesa: ogni soluzione nasce dall’attesa. È l’attesa che fa vivere, l’attesa che scatena la realtà, l’attesa che – dopo la preparazione – dà la liberazione ... L’attesa è la forza di ogni avvenimento della nostra vita: e così anche per il cinema»63. Che cosa significa questa frase? H. Bergson, Materia e memoria, trad. it. di A. Pessina. Bari-Roma, Laterza, 2004, p. 165. 60 Ibidem. 61 Ivi, p. 175. 62 A. Bazin, Difesa di Rossellini, cit., p. 323. 63 R. Rossellini, Colloquio sul neorealismo, cit., pp. 91-92. 59

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Bazin riconduce l’attesa rosselliniana ad una logica della posteriorità: «L’unità del racconto cinematografico in Paisà non è il ‘piano’, punto di vista astratto sulla realtà che viene analizzata, ma il ‘fatto’. Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo ed equivoco, il cui ‘senso’ si mostra soltanto a posteriori grazie a degli altri ‘fatti’ tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti»64. Di questa osservazione merita conservare il riconoscimento dei limiti che costituiscono un «fatto», un’unità di racconto. Poiché l’attesa è sempre attesa di qualche cosa, ogni sequenza-attesa è un fatto delimitato da un altro fatto, un’intersezione di avvenimenti. È questa la logica dei finali-svolta tipici della drammaturgia incompleta ed episodica di Rossellini: i fatti non sono significativi in sé, ma in quanto possono venire trattati temporalmente, come unità di attesa e forze di interruzione. L’attesa è la forza di ogni avvenimento, perché essa non è temporalità sciolta ma durata orientata alla propria catastrofe. I personaggi di Rossellini non attendono mai in modo indefinito, attendono la chiusura dell’attesa, che conferisce ad essa la sua natura. La forma ontologica dell’attesa rosselliniana è l’attesa della fine dell’attesa, sia questa un irreparabile o un godimento, la vita o la morte: «Prenda ad esempio l’episodio della tonnara, in Stromboli. È un episodio che nasce dall’attesa. Si viene creando, nello spettatore, una curiosità per ciò che dovrà succedere: poi è l’esplosione della mattanza dei tonni»65. La chiusura dell’attesa non significa, come suggerisce Bazin, che la realtà sia in se stessa informe e che il senso sia prodotto soltanto a posteriori, dopo che l’attesa si è compiuta. L’attesa di una risoluzione è altro dalla ricostruzione di un passato. La fine dell’attesa, il suo limite, è presente in ogni suo momento. Il limite di una temporalità vissuta come attesa non giunge mai dall’esterno. In tal caso non si tratterebbe di attesa ma di uno scorrere indefinito del tempo interrotto da un limite esterno a ciò che viene delimitato. Il limite è sempre presente nell’attesa, benché in modo soltanto virtuale: l’attualizzazione del limite non aggiunge nulla alla sua realtà, se non l’esistenza. A. Bazin, Le réalisme cinématographique et l’école italienne del la libération, in Id., Qu’est-ce que le cinéma, cit., trad. it. mia, p. 281. 65 R. Rossellini, Colloquio sul neorealismo, cit., pp. 91-92. 64

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Bazin potrebbe legittimamente sostenere questa logica della «posteriorità» soltanto se il limite dell’attesa assumesse in Rossellini la forma di una rivelazione apocalittica. E proprio servendosi di questo inadeguato lessico ebraico-cristiano – attesa della salvezza, ascesi e rivelazione – viene spesso mutilato il cinema di Rossellini. Così come l’attesa, anche i suoi limiti, che le sono strutturalmente interni, sono una forza e non uno scioglimento, un’eternità. Come Bergson, Rossellini fa dipendere il movimento dalla mobilità, e quest’ultima da un unico presupposto: che la mobilità sia cambiamento, che sia trasformazione qualitativa e non addizione quantitativa. Ma perché il cinema dell’immagine-movimento liberi l’immagine-tempo che esso racchiude segretamente al proprio interno, i limiti dell’atto devono essere colti come forze virtuali, la loro natura deve escludere ogni istantaneità66. Un atto viene colto nella propria durata soltanto a questa condizione, che il suo limite sia un cambiamento, una forza, e non una parte o un istante: «io sono sicuro della realtà del movimento quando lo produco dopo averlo voluto produrre ... Vale a dire che tocco la realtà del movimento quando mi appare, internamente a me, come un cambiamento di stato o di qualità»67. Mentre Deleuze pone la genesi dell’immagine-tempo nell’automatismo spirituale dell’intervallo irrazionale, Rossellini attraverso il metodo dell’attesa amplifica gli intervalli temporali racchiusi dai tagli-forza dei movimenti. Le lunghe riprese ad inseguire i movimenti dei personaggi – uno stile che si afferma compiutamente nei film con Ingrid Bergman68 – interrotte bruscamente da soggettive che fanno a meno dei buoni raccordi classici69, convertono il movimento in attesa. Queste sequenze, delimitate dagli stacchi delle soggettive, sono puri intervalli-attesa. I tempi morti diventano la sostanza dei film di Rossellini e rendono inutili i raccordi funzionali. Così in Viaggio in Italia non accade nulla, «nulla tranne l’attesa; una lunga 66 «L’indivisibilità del movimento implica dunque l’impossibilità dell’istante», H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 160. 67 Ivi, p. 165. 68 E. Dagrada, Le varianti trasparenti, cit., p. 27. 69 Sul rapporto fra «buoni raccordi» e «falsi raccordi», cfr. A. Bergala, Faux raccords, in Roberto Rossellini, a cura di A. Bergala e J. Narboni, Paris, Cahiers du cinéma, 1990, pp. 57-60.

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attesa dilatata per tutto il film», delimitata dalla scena conclusiva della processione di Maiori70. Dunque per Rossellini, una ripresa è sia continua che limitata, un blocco di tempo che si sottrae a ogni costruzione trascendentale, agli automatismi temporali: «Riprendo le cose sempre in movimento. E me ne infischio completamente di arrivare alla fine del movimento per raccordare il piano successivo. Quando ho fatto vedere l’essenziale, taglio: è quanto basta»71. Mentre Deleuze descrive una logica dell’intervallo, Rossellini pratica una pedagogia dell’attesa. L’attesa, a causa della sua irriducibile temporalità vissuta e della natura dei suoi limiti, non può convertirsi in un fondamento logicotrascendentale, nell’automatismo spirituale deleuziano che scompagina i vettori temporali e li ricompone secondo linee di fuga macchiniche. Il tempo dell’attesa, come nella durata bergsoniana, non è un flusso indistinto ma una continuità indivisibile, sostenuta da un limite qualitativo, le soggettive il cui ritmo non umano intervalla le sequenze narrative. La durata si avvolge su se stessa – l’ossessiva figura del gorgo di Europa 51 – a partire dal «centro attivo»72 dell’atto di movimento; l’intervallo di tempo compreso nei confini dell’attesa coincide con l’autoaffezione delle immagini-tempo. Rossellini produce una molteplicità di sequenze-durata a partire dai tagli delle soggettive. In Europa 51 le immagini della diga, le visioni della fabbrica e delle borgate, la tromba delle scale da cui precipita Michel e i corridoi della clinica in cui viene rinchiusa Irene, sono altrettanti limiti-forza che racchiudono le forme dell’attesa e ne fanno delle sequenze-durata chiuse su se stesse come cristalli di tempo. Il cinema classico si è costruito sull’orizzonte psicologico della tensione e della risoluzione della tensione, suspense e scioglimento. In questo modo esso ha distrutto l’attesa e con essa l’elasticità di un intervallo temporale pieno, benché presente a se stesso soltanto nell’esperienza del ritardo. I tempi morti dell’immagine non sono tempi vuoti ma tempi pieni; la loro purezza non-narrativa mostra l’autoaffezione della temporalità, lo spessore e la densità della Ivi, p. 311. R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 176. 72 G. Bachelard, La terre et les reveries de la volonté, cit., p. 295. 70 71

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durata. Rossellini sostituisce i meccanismi dello spettacolo con una pedagogia della pazienza: saper aspettare significa, per lo spettatore cinematografico, lasciar crescere dentro di sé i ritmi della durata, abituarsi a riconoscere negli atti dei personaggi la continuità indivisibile delle forme dell’attesa73. Nei film ad episodi di Rossellini, e in modo programmatico in Paisà, non sono le soggettive o gli inserti extra-diegetici a delimitare la continuità dei blocchi di durata, quanto degli avvenimenti posti ai limiti delle sequenze narrative: «A ben guardare, Paisà è tutto fatto di attese. Ogni episodio non è altro che la lunga attesa d’un evento che, seppure incombente, si manifesterà soltanto alla fine, in maniera brusca e definitiva»74. Così nell’episodio finale, ambientato nel delta del Po, la prima ripresa del cadavere del partigiano trascinato dalle acque segnala l’apertura di una durata di attesa che verrà chiusa dall’annegamento dei partigiani. Esordio e conclusione delimitano i confini di ciò che la molteplicità continua della sequenza può mostrare: morte e scorrere delle acque sono le facce del cristallo entro cui si ripartisce addensandosi la temporalità delle riprese. Che cosa vediamo dentro il cristallo? Lo scorrere del fiume, i movimenti impacciati delle barche e degli uomini nell’ambiente lagunare, il soffiare lento e teso del vento tra le canne, esplosioni isolate e scontri a fuoco repentini, l’immobile cielo stellato e i rumori degli aerei, i dialoghi dei combattenti e il pianto del bambino di cui è stata massacrata la famiglia. Queste prospettive non aggiungono niente all’immagine centrale del cadavere galleggiante del partigiano, e nemmeno ne ritardano il senso, che non è liberato a posteriori dalla morte dei partigiani, già anticipata nella scena iniziale. In se stessi, i limiti dell’episodio non possiedono alcun significato, essi sono principi di trasformazione della temporalità slegata in blocchi di durata indivisibile. Dentro questa durata i fatti diventano significativi, assumono il ritmo dettato dalle forme dell’attesa. L’attesa assorbe 73 «Intervistatore: Il lirismo ha sempre, nel suo caso, qualcosa di folgorante. Si aspetta e poi si è fulminati, illuminati. Rossellini: Poco fa ha detto una parola molto giusta: la pazienza. La pazienza è anch’essa una virtù! Dopo c’è la scintilla», R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 368. 74 G. Rondolino, Roberto Rossellini, Torino, UTET, p. 102.

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virtualmente la fine nell’inizio, addensa il tempo, fa esplodere l’impossibile presenza del presente in una molteplicità di piani di contrazione ed espansione, compresi tra i poli della contemplazione del cielo stellato e delle azioni degli uomini.

4. Il dentro Questa concezione dell’immagine-attesa rilancia il bergsonismo – una delle matrici profonde della cultura italiana del Novecento, basti pensare al futurismo, a Pirandello e Gadda – percorrendo una via alternativa rispetto alla lettura kantiano-spinozista dell’immagine-tempo deleuziana. Sullo sfondo, due visioni incompatibili del vitalismo. In Rossellini, la filosofia della natura incontra il vitalismo orientale: la temporalità del mondo e quella dei soggetti viventi si formano all’interno di un unico campo d’immanenza. È questa la prospettiva del filosofo giapponese Kitarô Nishida: «Nel mio saggio La vita ho scritto che il mondo della vita, a differenza del mondo della materia, contiene al suo interno un’autoespressione ... In altre parole, è un mondo che esiste e si muove da se stesso. ... In questo mondo, quando una cosa agisce ... tutto questo deve dirigersi verso l’autoformazione del mondo stesso. ... Il tempo deve avere il proprio contenuto»75. Deleuze elabora invece un vitalismo spinozista del pensiero puro, in cui il tempo è autoaffezione del concetto. Perciò, l’automa spirituale «segna l’esercizio spirituale del pensiero, la maniera in cui il pensiero pensa e pensa se stesso, nello sforzo fantastico di un’autonomia»76 e il «cervello vissuto» è il territorio del cinema moderno: «Il cervello diventa il nostro problema o la nostra malattia, la nostra passione ...»77. L’essenza del cinema «ha come obiettivo più elevato il pensiero, nient’altro che il pensiero e il suo funzionamento»78. 75 Kitarô Nishida, La logica del luogo e la visione religiosa del mondo, trad. it. di T. Tosolini, Palermo, L’Epos, 2005, pp. 98-99. 76 G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 290. 77 Ivi, p. 234. 78 Ivi, p. 188.

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Le tracce che ci permettono di distinguere i due orientamenti si riassumono nelle caratteristiche attribuite rispettivamente da Deleuze e da Rossellini ai limiti-interruzione del tempo narrativo. Per Deleuze è paradigmatico il metodo «interstiziale» di Godard: la proliferazione di falsi raccordi e falsi movimenti79, l’esplosione della temporalità cronologica, l’intervallo irrazionale come metodo fondato sulla disgiunzione delle inquadrature e tra immagini e suoni80. In Rossellini, le interruzioni intersecano la durata delle scene portanti come forze ritmiche e non-narrative, soggettive e sequenzeinquadrature extra-diegetiche, svincolate dalla logica dell’azione dei personaggi: immagini vulcaniche in Stromboli e Viaggio in Italia, paesaggi industriali in Europa 51. Questa collocazione delle interruzioni all’esterno delle sequenze continue spiega l’insofferenza di Rossellini per il vocabolario del montaggio e la sua repulsione per il «nesso logico» del soggetto: «Il nesso logico del soggetto è il mio nemico. ... Io non mi trovo bene che là dove posso evitare il nesso logico»81. Date queste premesse, è ovvio che i passaggi «utili per una narrazione continua» – correlazione delle scene tra loro attraverso i raccordi – risultino «estremamente fastidiosi»82 e che Rossellini prediliga narrazioni tese ed episodiche. All’interno delle singole scene, Rossellini si preoccupa invece di costruire una continuità stratificata, che corrisponde alla natura delle molteplicità di fusione descritte da Bergson. In questo caso, l’interazione tra i movimenti dei corpi, degli oggetti e della macchina da presa, libera una pura mobilità di cambiamento, un ritmo di durata che varia per ogni scena. Come aveva intuito Bazin, l’unità del piano sequenza è il procedimento ideale per rendere l’indivisibilità di una durata al tempo stesso continua e solcata da movimenti eterogenei. Così Rossellini preferisce «girare una scena per intero con una ripresa unica»83. Una ripresa in cui, per produrre la stratificazione interna della durata, si ha «bisogno di tutto: dei primi piani, «Il movimento è diventato aberrante per essenza», ivi, p. 300. Ivi, p. 278. 81 R. Rossellini, Colloquio sul neorealismo, cit., p. 91. 82 Ibidem. 83 R. Rossellini, Il mio metodo di lavoro, cit., p. 407. 79 80

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delle reazioni degli altri ... di sapere da che angolazione riprendere la scena»84. Anche quando interviene il montaggio, il suo utilizzo non è che un prolungamento dei movimenti della macchina da presa, una messa a fuoco o un pedinamento delle azioni che prosegue l’interazione tra gli elementi interni alla continuità della scena. La proverbiale rapidità con cui Rossellini monta i propri film deriva da questa indivisibilità di ogni sequenza, che si sottrae alla logica di retrospezione e al formalismo del montaggio. Per dare avvio alla cristallizzazione dell’immagine-durata, Rossellini procede come in una reazione chimica. A seconda delle esigenze drammaturgiche, prende a prestito e rifunzionalizza le tecniche cinematografiche tradizionali, utilizzando metodi di sintesi differenti. Prendiamo il caso della «soggettiva libera indiretta» teorizzata da Pasolini. Rossellini se ne serve in modo limitato, ma quando ciò avviene le modalità sono quelle anti-formalistiche e non-estetiche di trucchi tesi ad estrarre la temporalità dei ritmi di durata dalla mobilità pura delle immagini, e quest’ultima dai movimenti dei corpi nello spazio. È ciò che avviene nella scena della cappella Brancacci affrescata da Masaccio nel film per la televisione L’età di Cosimo de’ Medici. Il mercante inglese Wadding, precipitato nell’universo sconosciuto della civiltà fiorentina del XV secolo, si ritrova al cospetto degli affreschi del Masaccio. Accompagnato da un frate, che durante tutto il piano sequenza pronuncia soltanto la frase «Sono gli affreschi del Masaccio!», Wadding entra nello spazio della cappella. Qui due pittori sono intenti a lavorare all’affresco ancora in fase di realizzazione. Wadding, colto di sorpresa dalla realtà incomprensibile degli affreschi, interroga il frate e i pittori sul significato di quest’arte. Nel mentre, cammina avanti e indietro nello spazio della cappella, seguito dallo zoom della macchina da presa che nel mostrare il suo movimento coglie di volta in volta particolari differenti degli affreschi, che non vengono mai mostrati in campo lungo. Poiché né il frate né i pittori rispondono alle domande di Wadding, e vengono mostrati soltanto di schiena, la sequenza si trasforma in una soggettiva libera indiretta, nella quale pur osservando Wadding dalla prospettiva della macchina da presa, siamo catturati dal suo involontario monologo e 84

Ibidem.

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vediamo, sovrapposti, ciò che egli vede e le immagini degli affreschi filtrate dal prisma dello stile di ripresa di Rossellini. Questa soggettiva libera indiretta si sottrae sia al formalismo estetico di Antonioni che al vernacolare espressionista di Pasolini: Rossellini è interessato piuttosto ad intuire la compenetrazione tra la temporalità figurativa degli affreschi e quella delle riflessioni di Wadding. Perciò lo stratagemma della soggettiva libera indiretta contribuisce al metodo di costruzione delle molteplicità continue, alla pedagogia della durata. La doppia articolazione dello stile di Rossellini, scene-durata continue e interruzioni-forza extra-diegetiche, elimina la dialettica tra campo e fuoricampo. L’introduzione nei film televisivi della carrellata ottica – e la conseguente piattezza dell’immagine, con successive apparizioni delle azioni all’interno di un campo visuale autosufficiente e indeterminato – segna la perfetta corrispondenza tra tecnica di ripresa e presupposti estetici. Ogni volto e azione, ogni movimento naturale e intenzionale, ogni gesto e immobilità sorge dentro la continuità di lunghi piani sequenza. Ma il movimento della macchina da presa non è significativo in sé. Come nel cinema classico, «non si sente la macchina», ma in questo caso l’oggettività ricercata è quella dei ritmi della durata e non quella della trasparenza del racconto. In Rossellini il movimento della macchina da presa è invisibile poiché non è una fonte autonoma di visione, essendo posto al servizio dell’alternanza tra gli sfondi virtuali confusi – a causa della mancanza di profondità di campo – da cui promanano gli avvenimenti e le immagini piatte in atto dei movimenti e delle espressioni che sgorgano dentro i confini inalterabili della ripresa (che corrispondono all’indivisibilità dei singoli ritmi di durata)85. 85 Citiamo per intero l’ottima descrizione di Adriano Aprà delle caratteristiche della mise-en-scène di Rossellini nei film per la televisione: «Two-dimensional elements prevail over three-dimensional ones. Generally, one or two actors stand on the set as if they were facing an audience and the space behind them is like a backdrop. … Off-screen space is absent. The surface of the frame absorbs the camera’s and the spectator’s interest. Tricks of perspective and depth of field play a minimal part. … Camera movements are used to follow characters or, in some cases, to ensure continuity of the sequence-shot. They are “invisible”, though sometimes refined, movements. … the optical movement of the zoom maintains the tendential flatness of the images …», Adriano Aprà, Rossellini’s Historical Encyclopedia, in Roberto Rossellini. Magician of the Real, cit., p. 137.

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Un esempio di questo procedimento sono i lunghi piani sequenza che aprono L’età di Cosimo de’ Medici. La scena si svolge dentro l’ambiente notturno dei saloni di casa Medici. In questo spazio chiuso – non nel senso geometrico-cognitivo dell’immagine-azione, ma secondo i limiti di tensione di uno spazio della durata che, come un corpo elastico, si distende e contrae dentro i propri limiti – si svolgono molteplici azioni che si susseguono sovrapponendosi alle voci fuoricampo del vescovo e del coro, oltre che all’immagine centrale della salma di Giovanni di Bicci de’ Medici, mostrata all’inizio della sequenza e intersecata più volte dai movimenti e dalle parole dei personaggi. Pochi piani sequenza alternati da alcuni stacchi in piano medio e controcampo costruiscono la temporalità al contempo continua e molteplice dell’azione, che compenetra dimensioni temporali eterogenee: il tempo morto centrale del corpo-salma di Giovanni di Bicci, la durata cerimoniale della litania funebre del coro, il lento incedere rituale di amici e avversari del defunto, il tempo mondano del commercio e della lotta politica nei pettegolezzi tra i gentiluomini convenuti in casa Medici. Questa molteplicità di piani temporali emerge grazie ai movimenti e alla messa a fuoco compiuti sulle azioni in atto dalla macchina da presa, sullo sfondo continuo del piano virtuale della durata del piano sequenza: lo sfuocato delle azioni e dei luoghi, l’andirivieni elastico della visione. Deleuze collega l’espansione incontrollata delle interruzioni proprie dell’immagine-tempo alla penetrazione del «fuori» nel tessuto delle immagini. Il «fuori», nella sua forma più essenziale, è la «forza pura del tempo», l’irrazionalità di un cambiamento che travolge il «dentro» delle immagini, delle narrazioni e dei personaggi. La logica dell’interruzione si sdoppia in un linguaggio tecnico-formale del montaggio irrazionale e in una tavola delle categorie del «fuori», vera e propria enciclopedia delle forze che annullano ogni movimento naturale: l’inevocabile di Welles, l’indecidibile di Resnais, l’inesplicabile di Robbe-Grillet, l’incommensurabile di Godard, l’irriconciliabile degli Straub, l’impossibile di Marguerite Duras, l’irrazionale di Syberberg86.

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G. Deleuze, L’immagine-tempo, cit., p. 306.

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Come si noterà, a questo elenco mancano le interruzioni di Rossellini. Avendo forse presagito la loro refrattarietà alla poetica del «fuori», Deleuze le ha tenute ai margini del sistema dell’immaginetempo. In Rossellini, il rapporto tra sequenze continue e interruzioni-forza non rimanda infatti a uno scontro tra un «dentro» e un «fuori» del pensiero e dell’immagine, a un automatismo dello scambio ineguale tra il piano attuale delle immagini-movimento e quello virtuale delle immagini-tempo. Come in Bergson, in Rossellini i ritmi della durata delle sequenze portanti appartengono a centri corporei – siano essi umani o animali, come in India, matri bhumi – che incrociano ritmi eterogenei di durata, caratteristici dei movimenti e degli orizzonti temporali della natura (i film con Ingrid Bergman) o della storia (la guerra in Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero, economia e tecnologia nei film televisi). Il Rossellini neorealista, quello spiritualista e quello pedagogico-enciclopedico incarnano aspetti diversi del Rossellini bergsoniano, maestro di una drammaturgia vitalistica che sorge all’interno del campo di tensione tra le pluralità delle durate: «Questo preteso tempo omogeneo ... è un idolo del linguaggio ... In realtà non c’è un ritmo unico della durata, si possono ben immaginare dei ritmi differenti ... Questa rappresentazione di durate dall’elasticità ineguale è forse difficile per il nostro spirito ...»87. Un cinema-miniera in cui si cristallizzano i movimenti divergenti della durata; un «dentro» limpido e profondo di sequenze continue e interruzioni-forza, durate esistenziali e durate delle cose, tempi dei personaggi e tempi del mondo: «Una volta piazzata la macchina da presa guardo dentro, perché quello che c’è fuori non deve esistere»88.

H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 174. R. Rossellini, Il mio metodo di lavoro, cit., p. 415. «There’s no off-space in Rossellini’s storyworld, writed Charles Tesson, except the set’s “fourth wall” (the camera), toward which Ingrid Bergman exposes herself and risks herself ...», T. Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini, New York, Da Capo Press, 1998, p. 365. 87 88

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5. Il volo degli sciacalli L’immagine-tempo di Rossellini custodisce sia i ritmi continui della durata che la pluralità delle durate. In entrambi i casi, è l’attesa la forma assunta dalla temporalità quando l’interruzione che delimita ogni blocco di durata, ogni cristallo di tempo, penetra all’interno del presente e ne fa esplodere l’istantaneità. Come in Bergson, anche in Rossellini non esistono presenti inestesi ma soltanto presenti distesi o contratti, intervalli di attesa e di memoria. Fissare le immagini-cristallo di Rossellini significa osservare la struttura interna della durata, riconoscere le molteplici forme dell’attesa. Nel vitalismo naturalista di Rossellini e Bergson, i movimentidurata non sono manifestazioni di un intervallo trascendentale quanto forze immanenti. Ma anche gli intervalli che delimitano le unità di durata non sono limiti inestesi quanto, a loro volta, come in un gioco di scatole cinesi, intervalli densi, interruzioni complesse e misteriose, molteplicità qualitative «ultra-sottili». Infra-mince («ultra-sottile») è un termine coniato da Marcel Duchamp per descrivere la complessità estesa delle interruzioni di durata e lo spessore bergsoniano dei limiti che separano fenomeni eterogenei: «=à chaque fraction de la durée (?) se reproduisent / toutes les fractions futures et antérieures – Toutes ces fractions passées et futures / coexistent donc dans un présent qui n’est / déjà plus ce qu’on appelle ordinairement / l’instant présent, mais une sort de / présent à étendues multiples»89. Le affinità strutturali tra il cinema di Rossellini e l’arte concettuale di Duchamp sono sorprendenti, a partire dal fatto che anche per Rossellini non è rilevante l’immagine quanto l’idea: «Ciò che importa sono le idee, non le immagini ... Le immagini in sé non hanno niente, sono delle ombre e basta»90. Il cinema di Rossellini, come l’arte visuale di Duchamp, è concettuale e non astratta. In entrambi i casi la realtà esterna non vale in senso rappresentativo-documentaristico ma come rottura del soggettivismo estetico e strumento ottico di 89 Marcel Duchamp, Marcel Duchamp, Notes, a cura di P. Matisse, Boston, G. K. Hall & Company, 1983, nota 135. 90 R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 176; R. Rossellini, Film vecchi e nuovi orizzonti, cit., p. 350.

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precisione per cogliere la durata. Il realismo di Rossellini corrisponde all’epistemologia concettuale del ready-made di Duchamp. Poiché sono posti all’intersezione di una molteplicità di ritmi ineguali di durata, i corpi e, nel caso degli esseri umani, il volto, rappresentano le regioni di attesa più sottili e strutturate. Le combinazioni dei movimenti sprigionano effetti che si leggono sui volti. Il conflitto delle durate si mostra nei volti come su una mappa. Che il tempo sia la forma dell’attesa è evidente nei primi piani che affollano le riprese di Rossellini. Eccitazione, disperazione, pietà e tutta la gamma delle emozioni non sono che affezioni corrispondenti alle modalità dell’attesa. Il cinema di Rossellini si svolge pertanto nel campo di ciò che Deleuze definisce «immagine-affezione»: il corpo come centro di interruzione e sospensione dell’azione, luogo di assorbimento e trasmissione ritardata dell’azione91. Per esigenze sistematico-architettoniche, Deleuze colloca l’immagine-affezione all’interno dell’immagine-movimento, ma in realtà essa possiede tutte le caratteristiche dell’immagine-tempo. Oltre che ad appartenere ai corpi e ai volti, l’attesa vive entro i confini dell’impossibilità e della ripetizione. Ciò che i corpi biologici attendono senza poterne assorbire il limite che li definisce e ne racchiude la continuità vitale è la morte, l’esperienza dell’annullamento di ogni attesa e memoria, la soppressione della densità temporale e lo sbriciolamento del cristallo di tempo. A questa fenomenologia dell’attesa corrispondono forme di esteriorità radicale: in Stromboli i pescatori aspettano sotto il sole che si compia la mattanza dei tonni, in Europa 51 Irene assiste all’agonia e alla morte della prostituta Ines. All’estremo opposto troviamo la quasi-istantaneità dell’attesa, la ripetizione come abitudine, le costanti senso-motorie ed intellettuali, i clichè. In questo caso l’attesa dei personaggi è una ripetizione, un’abitudine di reazione ad uno stimolo previsto, e dunque l’azione dissolve lo spessore del tempo non perché ne renda impossibile l’occorrenza ma al contrario perché ne intensifica l’attualizzazione, riducendo la virtualità di realizzazione di cui è intessuta l’attesa a un movimento riflesso, a un’automatismo senso-motoG. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 130. Qui Deleuze descrive i «primi piani taglienti» di Dreyer. 91

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rio. È questo il territorio del comico, praticato da Rossellini in modo rigorosamente bergsoniano: «... trattare la vita come un meccanismo a ripetizione, come effetti reversibili e scene interscambievoli. La vita reale è un vaudeville nella misura esatta in cui produce naturalmente effetti del medesimo genere, e per conseguenza nella misura esatta in cui dimentica se stessa, poiché se fosse continuamente attenta, sarebbe continuità variata, progresso irreversibile, unità indivisa»92. Ritroviamo la polarità del cinema di Rossellini: da un lato una visione attenta, i tempi lenti e continui dell’attesa, delimitati dal progresso irreversibile verso le interruzioni-catastrofe che fanno delle micro-sequenze e dei macro-episodi delle unità indivise. Dall’altro scene comiche che segnalano il prevalere dell’abitudine e della ripetizione, e con esse la sconfitta della durata e della differenziazione, il trionfo dell’incomprensione e l’affermarsi della violenza. L’episodio dell’assedio di Viterbo in Francesco giullare di Dio mostra, in puro stile slapstick, il legame tra meccanicizzazione e commedia. Il tiranno Nicolaio (Aldo Fabrizi), le cui truppe stanno assediando la città di Viterbo, è imprigionato in una gigantesca armatura che ne limita e irrigidisce comicamente i movimenti. Violenza e potere, in quanto ripetizioni di comportamenti strumentali, automatismo dell’azione, si prestano soltanto al riso. Di contro, il goffo Fra Ginepro incarna la perfetta inefficacia delle convinzioni francescane e dunque il loro spessore di durata: Fra Ginepro non ritaglia il proprio comportamento – il messaggio pacifista – sulla natura della situazione, non prevede e dunque attende l’impossibile, lascia che la virtualità della soluzione riposi in se stessa. Un altro esempio della dimensione comica del cinema di Rossellini è la gag di Viaggio in Italia, in cui assistiamo ai disperati tentativi di Alex Joyce di farsi riempire dai domestici napoletani una caraffa di vino. Alex ripete con insistenza di avere sete, compie ripetutamente gesti inappropriati, vaga da un locale della villa ad un altro per portare a termine il suo compito, tratta con arroganza i domestici H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, trad. it. F. Stella, Milano, Rizzoli, 2001, p. 95. 92

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a causa della loro incapacità di comprenderlo e infine, portato a termine il suo proposito, raggiunge Katherine che sta riposando in terrazza. Qui non trattiene il disprezzo per i tempi morti della cultura mediterranea, ironizzando sui servi che dormono come se fosse notte. Palesemente, il contenuto di questa scena comica è il mancato incontro tra due ritmi di durata: i tempi della cultura napoletana, fedeli alla natura del luogo (durata del vino e della calura) e i tempi del protagonista anglosassone, preoccupato di vendere la proprietà dello zio e ritornare agli affari (durata del commercio e delle transazioni economiche). Poiché i due ritmi sono incompatibili – è questa una convinzione profonda di Rossellini, espressa attraverso la metafora della diversità di natura tra gli «uomini drappeggiati» del sud e quelli «cuciti» del nord – l’unico stile di narrazione possibile è il vaudeville, lo scontro tra l’implacabile coazione a ripetere dei luoghi comuni. E poiché i due flussi di durata non appartengono all’unità indivisibile di un’unica molteplicità ma all’esteriorità di durate spazializzate, la fusione dei tempi cede il passo all’estraneità geografica. Il secondo asse dell’attesa è compreso tra i limiti dell’attesa rimemorante e dell’attesa pianificante. La forma più pura di attesa rimemorante è rappresentata dal vuoto oggettuale. La memoria pura, come in Bergson, è assoluta virtualità. Essa non può attendersi nulla dall’esistenza materiale. Non poter assegnare un contenuto all’attesa significa rovesciare l’attesa come una fodera, mostrando il rovescio della memoria. È questa la condizione affettiva di Irene in Europa 51. La morte del figlio inaugura l’impossibilità di attendere qualcosa di attuale. L’attesa stessa sembra perciò impossibile e con essa la costruzione della durata vissuta, la possibilità di vivere. In questa condizione limite Irene scopre la follia e la santità, ossia un rapporto assoluto con l’attesa rimemorante, la virtualità del contenuto dell’attesa. Irene ricorda ossessivamente il figlio e lo attende come vuoto di ogni possibilità di presenza nel mondo dell’attesa pianificante, delle abitudini motorie e delle convenzioni sociali. Le ripetizioni e i progetti diventano impossibili. Bisogna lasciarsi vivere, penetrare nel vuoto assoluto della memoria pura, nella sua pura virtualità. Qui Irene è travolta dalle durate degli altri: la povertà delle borgate, l’agonia di Ines, il lavoro meccanizzato (la fabbrica), la follia, ossia i tempi della scarsità, della sofferenza, del lavoro e della perdita di sé. L’ottusità della

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protagonista, la sua impenetrabile testardaggine, segnalano la formazione di cristalli di tempo dotati di un ampio potere di assorbimento. L’attesa rimemorante, per la sua autonomia dalle costrizioni della vita attiva, esprime il dato originario della durata: l’autoaffezione del tempo. All’estremo opposto, l’attesa pianificante si rivolge agli oggetti e ai corpi esistenti, è finalizzata alla manipolazione del reale: pura efficacia e attualità di contro all’inefficacia e ricettività dell’attesa rimemorante. In Europa 51 questa forma di attesa è incarnata dal marito di Irene, George, e dal cugino André. Il primo, un borghese conservatore, analizza la situazione in vista della conservazione delle condizioni esistenti; il secondo, un comunista rivoluzionario, si confronta con la realtà per introdurvi dei mutamenti. In entrambi i casi, l’unità indivisibile dei blocchi di durata – il tempo compreso tra il presente e la rivoluzione o tra il presente e l’egemonia della borghesia – è occupato dai ritmi dell’azione finalizzata: la crudele etichetta dell’etica borghese, l’aggressiva intelligenza dell’agire politico. Irene penetra in una dimensione virtuale, e da questa prospettiva scopre che l’impossibilità dell’attesa nasconde un’altra realtà, interna a questo mondo ma scandita da ritmi incommensurabili di durata. L’episodio conclusivo di India, matri bhumi mostra lo sfondo naturale dell’attesa, la sua radicale immanenza: «Non ho messo quell’episodio alla fine perché più drammatico, ma perché rappresenta la regola perfetta della natura. Gli avvoltoi attendono, ma non mangeranno l’uomo che non è morto. Bisogna attendere il decreto di morte. Bisogna che, in qualche modo, sia legalizzata la morte dell’uomo per far sì che gli avvoltoi, parte della natura, si muovano e vadano a compiere la loro funzione nella natura. ... Allora, morto il suo padrone, la povera scimmia, che non è più né una scimmia né un uomo, prova il bisogno di andare nello stesso tempo dalle scimmie e dagli uomini, di tornare indietro e di andare avanti»93. Un saltimbanco accompagnato da una scimmia vestita sta attraversando un’arida steppa per raggiungere un villaggio. Sorpreso dalla calura si addormenta e infine muore. Inizialmente la scimmia gli resta a fianco, cercando di svegliarlo e poi di scacciare gli avvoltoi che li sorvolano, ma quando si accorge che il suo padrone è morto lo 93

R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 174.

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abbandona e raggiunge il villaggio, dove non riesce più a trovare posto né tra gli uomini né tra le scimmie. L’episodio ricorda la conclusione di Stromboli e di Paisà. Invece di svolgersi orizzontalmente, le traiettorie dei personaggi si addensano sull’asse verticale: cielo e terreno vulcanico in Stromboli, notte stellata e laguna in Paisà, volo degli avvoltoi e deserto in India. In questa situazione le interazioni senso-motorie tra i personaggi s’inceppano, sostituiti da una sorta di campo-controcampo tra l’alto e il basso, i personaggi ed il cosmo. A causa di questa disfunzione della percezione attiva, l’immagine-cristallo si riduce alle sue componenti essenziali: l’attesa dell’interruzione e la pura mobilità dell’alternanza tra immagini slegate dai contesti senso-motori. Il volo degli avvoltoi, la loro complessa danza, è un effetto dell’attesa della morte. Nell’attendere l’interruzione che ne definisce la funzione naturale, gli avvoltoi temporalizzano il cielo. La «regola perfetta della natura» è la convertibilità del movimento in mobilità pura e della mobilità nella temporalità dell’attesa. Il volo è danza, la danza è attesa del decreto di morte. Questa sequenza vale come una definizione della forma naturale dell’attesa: il movimento. Così come il camminare ossessivo di Ingrid Bergman in Europa 51, il volo degli avvoltoi è una cristallizzazione dell’attesa del limite, la descrizione della virtualità del limite prima del compimento dell’interruzione. Nella durata l’interruzione accompagna l’attesa come sua dimensione virtuale. L’attualizzazione di ciò che era reale, pur vivendo soltanto di un compimento virtuale, non aggiunge nulla allo spessore della durata. La temporalità del cinema di Rossellini non è orientata teleologicamente alla parusia, è un fenomeno naturale, la «regola perfetta della natura». Non è necessario il cristianesimo per vivere nell’attesa, è sufficiente osservare il volo degli avvoltoi con gli occhi degli indiani per comprendere che il movimento è impregnato della sua cessazione virtuale. Ma se l’attualizzazione dell’interruzione – la morte del saltimbanco e la conclusione del volo degli avvoltoi – non aggiunge nulla al volo-attesa degli avvoltoi e alle urla-attesa della scimmia – che sono unità dense di durata, cristalli virtuali di tempo delimitati da strutture genetiche di cristallizzazione dell’evento che li definisce – ciò non significa che i limiti non esistano e le interruzioni non siano

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efficaci. Attraverso il suo cinema «incompleto» Rossellini mostra come l’avvenire del limite, la sua attualizzazione, sprigioni la seconda dimensione della durata: il mutamento. Dopo la morte del suo padrone la scimmia cambia di natura. Quando il limite delle molteplicità qualitative è virtuale, la durata si presenta come continuità indivisibile dell’attesa, i tempi morti del cinema di Rossellini; quando è attuale come discontinuità radicale del mutamento, gli eventi definitivi, lo scandalo di esperienze non assimilabili. I ritmi di durata, così come le vite degli uomini e i tempi del mondo, sono separati da soglie irriducibili alla coerenza di un destino o all’autonomia dello spirito. Dunque tra di essi non esiste commensurabilità e le unità di durata non sono raccordabili se non attraverso esperienze di non comunicabilità (santità e follia, natura estranea e distanza del passato, geologia ed umanesimo)94. L’insofferenza di Rossellini per il «nesso logico» tra le sequenze, il suo rifiuto di un cinema di sceneggiatura solidamente costruito su una prassi narratologica dei buoni raccordi – o su una logica decostruzionista dei falsi raccordi – rispecchia il suo profondo bergsonismo della durata.

6. Il metodo dell’intuizione In Cinema 1, Deleuze espone una tesi che sembra rubata ai cliché di Viaggio in Italia: Rossellini e il neorealismo italiano possiedono una conoscenza intuitiva dell’immagine-tempo, a differenza della nouvelle vague che ne sviluppa intellettualmente i presupposti95. L’ipotesi che ho sostenuto in questo intervento è un’altra: la 94 Viaggio in Italia rappresenta un caso estremo del protagonismo delle forze telluriche, che impone nuove modalità di racconto. Cfr. Laura Mulvey, Vesuvian Topographies: The Eruption of the Past in Journey to Italy, in Roberto Rossellini. Magician of the Real, a cura di D. Forgacs, S. Lutton, G. Nowell-Smith, London, BFI, 2000, pp. 95-111. 95 «... il cinema in Francia non potrà rompere con la propria tradizione che molto tardi, e attraverso una svolta riflessiva e intellettuale quale fu quella della nouvelle vague. Tutt’altra era la situazione in Italia ... Gli Italiani potevano dunque avere una conoscenza intuitiva della nuova immagine che stava nascendo ...», G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 240.

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divergenza tra Rossellini e la nouvelle vague, così come la sua distanza da Deleuze, va ricercata nell’incompatibilità tra due sviluppi del bergsonismo. Nel caso di Rossellini, la tecnica cinematografica non è posta al servizio della costruzione formale dell’intervallo, non è un circuito per commutare il piano logico nell’esperienza, i concetti nei corpi. L’esattezza dell’intervallo, l’unica posizione «giusta» in cui mettere la macchina da presa e iniziare i movimenti, esprime l’intuizione della durata, la collocazione più precisa dentro i ritmi dell’attesa. Come in Bergson, l’intuizione rosselliniana – il suo rigetto del formalismo e dell’autorità della sceneggiatura – non rimanda a una poetica dell’ambiguità, della metaforicità e dell’allusione simbolica. L’intuizione è un metodo, il metodo di collocarsi con precisione dentro la durata: «Ciò che più è mancato alla filosofia è la precisione»96. Il termine intuizione, dichiara Bergson, è fuorviante. Esso può trarre in inganno, non a causa della sua vaghezza, ma nel suggerire un luogo sbagliato per l’intuizione. Ad esempio, «uno Schelling, uno Schopenhauer ... poiché credevano che l’intelligenza operasse nel tempo, ne hanno concluso che oltrepassare l’intelligenza consistesse nell’uscire dal tempo»97. L’errore di queste posizioni è topologico. La collocazione più difficile, che richiede maggiore sforzo, corrisponde all’intuizione della «mobilità originale», la capacità di prendere posto nella «sostanzialità del mutamento»98. L’intuizione è una pedagogia del movimento e della sua temporalità. Intuire significa per Bergson, come per Rossellini, assorbire dentro l’immagine la «fatica di attendere»: «Sappiamo bene, sin dai nostri anni di collegio, che la durata si misura attraverso la traiettoria di un mobile e che il tempo matematico è una linea. ... La misura del tempo non riguarda mai la durata in quanto durata; viene contato soltanto un certo numero di estremità di intervalli o di momenti, vale a dire, in definitiva, di arresti virtuali del tempo. ... Tra le estremità potrà ac96 H. Bergson, Sviluppo della verità. Movimento retrogrado del vero, in Id., Pensiero e movimento, cit., p. 3. 97 H. Bergson, La posizione dei problemi, in Id., Pensiero e movimento, cit., 23. 98 H. Bergson, La percezione del mutamento, in Id., Pensiero e movimento, cit., 139.

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cadere qualsiasi cosa: il tempo potrebbe accelerarsi enormemente e anche infinitamente, ma nulla cambierebbe per il matematico, per il fisico, per l’astronomo. La differenza sarebbe tuttavia profonda per ciò che riguarda la coscienza ... la fatica di attendere non avrebbe infatti lo stesso significato dall’oggi al domani, da un’ora all’ora seguente. Di questa attesa determinata e della sua causa esteriore la scienza non può tenere conto ...»99. Per Rossellini l’intervallo è un metodo e il metodo non rappresenta una struttura trascendentale. Pur senza essere «realistico» – cosa c’è di realistico nell’autoaffezione dello sforzo e dei tagli dell’intuizione della durata? – il suo cinema resta avvinghiato al mundus praesens, si sottrae al kantismo della durata. A queste condizioni il cinema di Rossellini è politico: intuire la durata significa infatti mostrare le conseguenze tecnologiche, sociali ed affettive della collocazione nell’universo dell’attesa. Alla falsa politicizzazione della cultura Rossellini risponde con una pedagogia dell’immagine. Ai falsi problemi artistici sostituisce lo sforzo della visione. Perché la violenza è impazienza e all’Occidente «manca il tempo» per vivere e vedere 100.

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H. Bergson, Sviluppo della verità. Movimento retrogrado del vero, cit., p. 5. R. Rossellini, Intervista con i «Cahiers du cinéma», cit., p. 173.

100

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GIULIANA MINGHELLI

Neorealismo: Anacronismo/Avanguardia

Parlando del neorealismo letterario e cinematografico, il discorso critico ha spesso sottolineato il carattere ibrido di questo fenomeno culturale. Le molte contaminazioni che lo attraversano tendono a mettere in gioco varie gerarchie interne all’universo artistico: la contaminazione linguistica tra lingua letteraria, lingua parlata e dialetto; la contaminazione di generi (in letteratura tra romanzo, cronaca, favola; nel cinema tra film di finzione e film documentario); la contaminazione tra codici appartenenti a diversi media (principalmente la letteratura e il cinema); e infine la contaminazione regina di tutte le contaminazioni, quella tra elementi letterari e extra-letterari, tra poesia e ideologia. «Sigillato col sangue partigiano e la passione dei marxisti», il neorealismo, scrive Pasolini, è un «realismo impuro»1. Una simile dichiarazione in una cultura imbevuta di pensiero crociano, non poteva che suonare come un atto di condanna. Ed infatti, partendo dalla constatazione del carattere ibrido del movimento, Maria Corti, in Viaggio testuale, conclude che il neorealismo non ha prodotto «codificazione letteraria» o «sensazione di rottura», il neorealismo è effetto letterario mancato. Ma, nonostante questa sua conclusione, la Corti riconosce il seme di un fenomeno profondamente nuovo in questo movimento che non è un movimento, e cioè la tradizione orale di fatti e di linguaggio: Purtroppo della tradizione orale non si può fare veramente storia, ma ci sembra che qui si sia di fronte a due dati reali importantissimi: P. P. Pasolini, In morte del realismo, in Neorealismo poetiche e polemiche, a cura di C. Milanini, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 240. 1

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198 comunicazione anche dal basso, cioè falde di popolo comunicante, e circolazione delle storie tra emittenti e destinatari; c’era di che far nascere una letteratura epico-popolare. Perché non è nata e al suo posto è nato il neorealismo? (35)

Il neorealismo presenta una resistenza alla codificazione e interpretazione che spinge infine la Corti a lamentare la nascita di un intrattabile «monstrum» stilistico, «un’anguilla che sfugge di mano» (25). L’anguilla è animale d’acqua dolce e salata. Il ritorno insistente alla natura ibrida del fenomeno suggerisce come forse, proprio in questo aspetto, va rintracciata la sua specificità e profonda novità. Questo saggio si propone di studiare la contaminazione come momento fondante e innovativo dell’esperienza estetica del neorealismo. La coesistenza tra elementi moderni e «sopravvivenze» sconcertanti, come l’anacronismo di recuperare la tradizione orale nell’età del romanzo e del cinema, saranno al centro della riflessione svolta in queste pagine sul cinema neorealista. Parlare di anacronismo in relazione al neorealismo cinematografico non è cosa nuova. Legato all’esperienza della liberazione e del dopoguerra e velocemente invecchiato con questa, già dai primi anni cinquanta il neorealismo diviene emblema nella cultura italiana di una sopravvivenza anacronistica, un fossile ingombrante che, nonostante le dichiarazioni di morte ed estinzione, continua a rivisitare – con la sua religione della realtà, il progetto di racconto di una storia collettiva, il suo occhio immerso nel mondo – la scena cinematografica. Archiviato in Italia come “rispecchiamento” di una stagione storica ormai tramontata, all’estero il neorealismo conosce piú lunga e illustre vita. Coerentemente con la sua apertura al reale e non tanto per debolezza progettuale, il neorealismo non produce poetiche ma fa della sua stessa pratica cinematografica il manifesto di un nuovo modo di vedere e di raccontare il mondo. La radicaIl saggio di Pasolini Il “cinema di poesia” può essere letto come una riflessione e teorizzazione a posteriori del contributo neorealista. Questo anche se Pasolini, nel suo scritto del 1965, salta dal cinema classico Hollywoodiano “di prosa” al “cinema di poesia” della produzione a lui contemporanea (Godard, Antonioni, Bertolucci e lui stesso) lasciando convenientemente ed ambiguamente in ombra la specificità della lezione neorealista. 2

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lità di questa rivoluzione stilistica è rimasta invisibile alla cultura italiana per molti anni2. Letto come monstrum o anacronismo, il neorealismo, salutato da André Bazin nel 1946 come una rivoluzione estetica, riportato al centro del discorso teorico da Gilles Deleuze negli anni ottanta, potrebbe in realtà essere letto come l’unico momento veramente d’avanguardia e di rottura, l’unico modernismo che l’Italia abbia avuto3. Per situare il neorealismo nel piú ampio contesto della storia e teoria del cinema internazionale, questo saggio vuole ripensare la pratica del cinema neorealista alla luce della riflessione di Walter Benjamin sull’arte cinematografica e il suo rapporto con forme artistiche piú arcaiche come il racconto orale. In questa prospettiva critica la rivoluzione narrativa e visiva introdotta dal neorealismo può essere compresa partendo proprio dagli elementi anacronistici che lo contraddistinguono, come la tradizione orale e la figura del cantastorie4. In che senso il neorealismo può essere letto come effettiva manifestazione di quel cinema del futuro che Benjamin tentava di teorizzare a ridosso della seconda guerra mondiale? Forse è proprio dall’incontro tra il cinema, l’arte del futuro, e l’anacronistico risorgere dell’arte del racconto radicato nell’esperienza, disponibilità al mondo, ascolto, che viene alla luce una nuova immagine cinematografica, uno sguardo che segna la nascita del cinema della modernità5. Nel 1936 Walter Benjamin cominciò a lavorare su due saggi destinati ad avere un enorme impatto: Il narratore. Considerazioni 3 G. P. Brunetta nella sua Storia del cinema italiano, Roma, Editori Riuniti, vol. 3, osserva: «In effetti, non c’è alcun altro momento della cultura e dell’arte italiana del novecento (neppure quello del futurismo) che abbia agito da modificatore di un sistema su scala mondiale con un’eguale gittata ed eguale durata», p. 367. 4 Questi anacronismi sono costitutivi non solo, come è stato riconosciuto da Corti e più recentemente da Lucia Re, del neorealismo letterario, ma soprattutto di quello cinematografico. Vedi L. Re, Calvino and the Age of Neorealism, Stanford, Stanford University Press, 1990, pp. 36-52. Re, fermandosi all’analisi iniziale di Benjamin ne Il narratore, nega la possibilità di rinascita del racconto orale, ma così facendo manca di spiegare la specificità del passaggio dall’ermetismo e solipsismo letterario del primo dopoguerra alla febbre di racconto, e condivisione di esperienze del secondo dopoguerra. 5 G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche, 1993.

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sull’opera di Nicola Leskov e L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica6. Un saggio guarda indietro nostalgicamente all’arte ormai persa del cantastorie; l’altro coraggiosamente in avanti verso i nuovi orizzonti espressivi aperti dal cinema. Mentre Il narratore tratta di una reale pratica narrativa del passato, L’opera d’arte esplora l’idea di un cinema ipotetico. Il neorealismo, cinema nato dal naufragio della modernità tecnologica con cui il pensiero di Benjamin si era misurato, può essere letto come l’effettiva materializzazione storica del cinema del futuro auspicato da Benjamin a cavallo tra i due saggi: simultaneamente il punto di coincidenza tra la nostalgia/anacronismo del cantastorie e la modernità della macchina da presa, un’unità basata sull’esperienza, comunicazione, arte e tecnica. Leggendo il neorealismo all’intersezione di queste due prospettive critiche apparentemente opposte e tuttavia dialetticamente e produttivamente intrecciate da Benjamin, si può cominciare a comprendere la natura profondamente innovativa del progetto neorealista che recuperando l’arte perduta del racconto orale all’interno della forma moderna del cinema, ridà voce e redime una modernità negata e umiliata dall’esperienza della guerra. Neorealismo quindi come avanguardia anacronistica e anacronismo d’avanguardia. Questo ossimoro evoca la figura dell’Angelus novus del quadro di Paul Klee scelto da Benjamin a emblema dell’angelo della storia. L’angelo ha il viso rivolto al passato dove si accumulano macerie su macerie mentre una tempesta lo spinge irresistibilmente verso il futuro a cui volge le spalle. Il doppio movimento risulta in una stasi momentanea, una W. Benjamin aveva iniziato a lavorare su Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit a Parigi nell’autunno del 1935. Una seconda versione del saggio risale al 1936, questa versione formerà l’ossatura del saggio apparso sullo Zeitschrift für Sozialforschung nel maggio del 1936. La terza versione, certamente nelle intenzioni di Benjamin ancora non definitiva, è quella del 1939. Questa è la versione pubblicata nel volume einaudiano del 1966. La complessa storia di questo saggio di Benjamin, continuamente ripensato e riscritto, rappresenta in pieno il carattere progettuale, in costante sviluppo del suo pensiero sul cinema e sull’arte nell’era della modernità. Ho seguito la traduzione einaudiana basata sulla versione del 1939, modificandola occasionalmente. Tutte le citazioni appariranno nel testo con numero di pagina. In un paio di occasioni ho citato la versione del 1936, le traduzioni di questa versione sono mie e ogni volta saranno segnalate nel testo. 6

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sospensione che ben rappresenta la peculiare temporalità del cinema italiano del dopoguerra: col volto rivolto all’immediato passato e tuttavia irresistibilmente trascinato verso il futuro, una spinta doppia e contrastante che si risolve artisticamente nella poetica del momento presente, dell’evento, della quotidianità, come storia colta nell’atto. Ma per capire appieno questo rapporto con la temporalità e la particolare posizione che il neorealismo occupa nella storia del cinema è necessario a questo punto seguire in qualche dettaglio la riflessione benjaminiana sull’arte nell’era della modernità. In Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov Benjamin afferma che l’uomo moderno non può piú raccontare storie. Capita sempre piú di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve e l’imbarazzo si diffonde sempre piú spesso quando, in una compagnia c’è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la piú certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze7.

Due nuovi modi di comunicazione hanno causato la lenta estinzione della vecchia arte orale, collettiva e anonima del cantastorie: il romanzo – collegato con la stampa, la prima grande meccanizzazione dell’arte – e l’informazione. Nata e consumata in uno spazio collettivo, la storia occupa una posizione antitetica rispetto al mondo solitario dello scrittore e lettore di romanzi. Espressione di un’intelligenza che viene da lontano – un mondo di viaggi e tradizioni che confinano con il miracoloso – la storia si oppone anche al mondo dell’informazione: verificabile, immediatamente accessibile, totalmente spiegato. La storia non informa l’ascoltatore; piuttosto, incapsulata in una narrativa tenuta rigorosamente libera da ogni spiegazione, la storia dà consiglio, saggezza. Non solo la sua struttura narrativa profonda, ma le sue modalità di consumo sono radicalmente differenti. Mentre i lettori di giornale consumano avidamente le notizie quotidiane e i lettori di romanzi si W. Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962. Da ora in avanti il riferimento apparirà nel testo con numero di pagina. 7

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nutrono «della fiamma da cui è consumato [il destino altrui]» nella speranza «di riscaldare [una] vita infreddolita alla morte di cui [leggono]» (265-66), gli ascoltatori di storie assaporano la resistenza della storia ad essere consumata totalmente. La storia, ci dice Benjamin, «somiglia ai chicchi di grano che sono rimasti ermeticamente chiusi per millenni nelle celle delle piramidi e che hanno conservato fino ad oggi la loro forza germinativa» (255). All’inizio del suo saggio, Benjamin situa l’antica arte del racconto all’interno di una parabola storicamente irreversibile: il declino dell’esperienza e della sua trasmissibilità. Con la [prima] guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è piú arrestato. Non si era visto, alla fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non piú ricca, ma piú povera di esperienza comunicabile?... Poiché mai le esperienze furono piú radicalmente smentite di quelle strategiche dalla guerra di posizione, di quelle economiche dall’inflazione, di quelle fisiche dalla guerra dei materiali, di quelle morali dai detentori del potere... nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo. (248)

La moderna esperienza della guerra ha assestato un colpo letale al «racconto passato di bocca in bocca». Mentre nel saggio su L’opera d’arte questo è un punto conclusivo da cui muove l’utopia di un nuovo modo di percezione e di rappresentazione artistica, nel Narratore questo è piuttosto un punto di partenza per una esplorazione di vari modi di comunicazione e affabulazione8. È il declino dell’esperienza una verità storica ineluttabile? O non è vero piuttosto che la Questo stesso passo appare verbatim all’inizio del saggio Esperienza e povertà (1933). In questo primo contesto, il riconoscimento della fine dell’esperienza legata al racconto portava all’accettazione di questo impoverimento come punto di partenza per una reinvenzione dell’esperienza – l’esempio di Mickey Mouse come nuova forma di affabulazione, punta al cinema come momento di articolazione di questa alternativa. Nel Narratore invece la crisi dell’esperienza e l’impossibilità di raccontare porta a un excursus antropologico sulle forme di comunicazione. Questa mossa può essere letta come un tentativo di comprendere cosa del passato andava abbandonato e cosa invece poteva o doveva essere recupe8

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funzione antropologica del racconto è un elemento inalienabile dell’umano, e che invece di scomparire, si eclissa in vene sotterranee, e eventualmente riappare mutata in altri modi di rappresentazione quali informazione, fotografia, cinema? Nell’ormai lontano 1964, parlando del secondo dopoguerra e del suo romanzo del 1947 Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino in un saggio esemplare, sia per il contenuto che per il suo movimento stilistico, fatto di incertezze, riprese e abbandoni del filo espositivo, riflette sul suo lavoro e sull’atmosfera storica e culturale che lo aveva espresso, vale a dire il “neorealismo.” Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, piú forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. L’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno, stabiliva un’immediatezza di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico: si era faccia a faccia, alla pari, carichi di storie da raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno aveva vissuto vite irregolari drammatiche avventurose, ci si strappava la parola di bocca. La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare... il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. (1186)

Il ricordo di Calvino è condiviso da molti suoi contemporanei. Per questa generazione di italiani il carattere collettivo dell’esperienza storica della seconda guerra mondiale, ha fatto sì che la costellazione dell’esperienza ed il racconto orale che ne è espressione, dati per perduti da Benjamin, facessero un’inaspettata ricomparsa. Il riferimento a «un anonimo narratore orale», «l’esperienrato nel contesto della moderna comunicazione di massa. Cinema e fotografia non sono menzionati nel saggio anche se nei testi su cui Benjamin lavorava in contemporanea, L’opera d’arte e il Passagen-Werk, sono al centro della sua riflessione sui compiti e sul destino dell’arte nella modernità.

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za», «la voce anonima dell’epoca» sottolinea il riemergere di un antico modo di comunicazione, non l’epica grandiosa e impossibile degli inizi mitici che si auspicava la Corti, ma il genere piú umile, quotidiano, e contaminato del racconto orale, vicino alla cronaca, a metà strada tra le categorie aristoteliche di poesia e storia, non proprio narrazione e nemmeno documento, ma «storia» 9. Tuttavia, scomparsi gli ultimi bivacchi attorno al fuoco, esaurite le storie nei memoriali e nell’epopea picaresca di Pin, la voce anonima del narratore orale non poteva che spegnersi al confine con la pagina scritta10. È nella tecnologia ad esso temporalmente piú lontana che questa “voce” trova la piú travolgente rinascita espressiva: il cinema. Fin dalle sue prime recensioni dei film neorealisti André Bazin parla del neorealismo come di un cinema che predilige la dimensione dell’oralità su quella della scrittura. Così, descrivendo la tecnica narrativa di Rossellini, Bazin usa parole che rieccheggiano profondamente forme e valori della storia benjaminiana: «[Nel film di Rossellini] i fatti si susseguono e lo spirito è costretto ad accorgersi che si raccolgono e che, raccogliendosi, finiscono per significare qualcosa che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole, la morale della storia» (297). Detto in altre parole il film non consegna allo spettatore una trama, ma piuttosto lascia libera la storia «nell’atto di riprodurla, da ogni sorta di spiegazioni... il nesso psicologico degli eventi non è imposto al lettore. Che rimane libero di interpretare la cosa come preferisce» (Benjamin, 253). Se il racconto anticamente ap9 Aristotele definisce la poesia e la storia in modo antitetico; la prima è unificata, intelleggibile, e costruita organicamente per soddisfare il desiderio umano di ordine narrativo, mentre la seconda è aperta, difficile da contenere, e sconnessa nella sua successione di eventi eterogenei e contraddittori riportati secondo un ordine paratattico che tende a dare, per quanto possibile, una cronaca oggettiva e completa del fatto. 10 Interessante a questo riguardo la riflessione di Giovanni Falaschi, nel suo intervento intitolato Letteratura e cinema della resistenza tenutosi nella sessione «Guerra e Resistenza oggi» alla conferenza AAIS di Genova nel 2006. Falaschi lamentava il fatto che in Italia non si fosse prestato abbastanza orecchio ai racconti dal basso, alle parole di tutta quella «gente che parlava sul treno», ai modi in cui in quei giorni le persone comuni cercavano di fare i conti col passato. Racconti che non fanno letteratura e che tuttavia avrebbero potuto dare espressione a un’etica nazionale.

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portava «consiglio» e «saggezza», la moderna arte cinematografica offre a sua volta, non tanto un corpo di conoscenze, quanto un piú umile apprendistato nell’interpretazione di una realtà frammentata e caotica. Ma come può il riemergere anacronistico della “storia” adattarsi al mondo post-orale del romanzo, dell’informazione e del cinema? Contrariamente a quanto pensava la Corti, non c’è nulla di fortuito o improvvisato in questa contaminazione. Come Benjamin cercava di articolare tra Il narratore e L’opera d’arte, è proprio la nuova arte cinematografica a mettere in luce una copresenza di forme e funzioni artistiche moderne e primitive. La contemporaneità dei due saggi benjaminiani continua a lasciare perplessa la critica a causa dei punti di vista opposti su passato e futuro, l’arte pre e post-tecnologica. E nondimeno, la riflessione sul cinema ne L’opera d’arte si riaggancia costantemente alla considerazione di forme artistiche arcaiche, cosicché il saggio sul cantastorie può essere pensato come vero e proprio sfondo alle teorizzazioni sul film. Ma è il neorealismo a rivelare la necessaria contemporaneità delle idee di Benjamin unendo i loro impulsi nella sua propria tensione strutturale tra queste due arti. In che senso racconto orale e cinema sono profondamente accomunati? Prima di tutto nell’origine delle loro funzioni. Benjamin pensa la tecnologia del cinema come un momento di distacco radicale dal passato – fine dell’aura, dell’autorità dell’opera d’arte – e come continuità antropologica delle funzioni primitive mimetiche e di gioco. Nel saggio su Leskov Benjamin così descrive la funzione svolta dalla favola, prima tutrice dei bambini e dell’umanità: L’incantesimo liberatore di cui dispone la favola non mette in gioco la natura nella sua forma mitica, ma punta alla sua complicità con l’uomo liberato. (267) La cosa piú saggia – ha insegnato la favola anticamente all’umanità, e insegna ancora oggi ai bambini –, è affrontare le potenze del mondo mitico con astuzia e spavalda allegria. (267)11 11 Ho mutato lievemente la traduzione, rendendo «Übermut», tradotto nel testo einaudiano con un letterale «sopracoraggio» e «impertinenza», con «spavalda allegria» evocando esplicitamente le parole di cui Calvino fa uso nella Prefazione per descrivere l’energia della Resistenza e del dopoguerra, p. 1185.

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Questa stessa funzione liberatoria rieccheggia nella descrizione dei compiti del cinema, così articolati da Benjamin nella versione del 1936 de L’opera d’arte: La funzione sociale primaria dell’arte oggi è di offrire uno spazio di gioco [tra natura e umanità]. Questo è specialmente vero per il film. La funzione del film è di addestrare gli esseri umani nelle percezioni e reazioni necessarie per interagire con un vasto apparato che sta assumendo un ruolo sempre piú preponderante nelle loro vite. [traduzione mia]

Mettere in atto un’interazione e complicità tra natura – prima o seconda – e uomo, è il compito che il cinema condivide con la favola diretta antecendente del racconto orale. Il cinema, come la favola, guida per mano l’uomo nel viaggio di scoperta che è anche educazione e addestramento al mondo sconosciuto e costantemente cangiante della modernità. In secondo luogo, cinema e racconto orale condividono lo stesso carattere collettivo. Entrambi sono prodotti per un pubblico popolare e, idealmente, (Benjamin cita il caso del cinema russo) dal popolo. Il cinema del futuro per Benjamin, come piú tardi nella visione utopica di Cesare Zavattini, dovrebbe muoversi tendenzialmente oltre il controllo del mercato di sogni hollywoodiano, verso uno scambio di immagini e di storie legato alla democratizzazione della macchina da presa. Idealmente, il cinema dovrebbe trasformarsi da semplice intrattenimento per le masse a strumento nelle mani di ciascun spettatore e mettere in questione la divisione tra produttori e consumatori. In questo senso, la fluidità e intercambiabilità di funzioni tra narratore e ascoltatore, lo scorrere della storia orale, ricreata ad ogni racconto, costituiscono la frontiera utopica contro cui Benjamin proietta le potenzialità del nuovo mezzo cinematografico. In terzo luogo, cinema e racconto orale si avvicinano nelle modalità di ricezione. L’esperienza della moderna metropoli ha profondamente mutato i circuiti percettivi: shock, ripetizione, frammentazione dello spazio e tempo dominano la percezione del moderno spettatore. «Il pubblico [cinematografico] è un esaminatore», osserva Benjamin, «ma un esaminatore distratto» (46). La ricezione-in-distrazione che caratterizza l’arte post-auratica viene a sostituirsi alla contem-

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plazione di fronte all’opera d’arte tradizionale. Benjamin identifica nell’architettura il prototipo di un’opera d’arte che, come il cinema, è ricevuta collettivamente e in uno stato di distrazione12. E tuttavia, sebbene mai menzionata nel saggio, la storia orale rappresenta un altro possibile prototipo per il cinema. Legata al ritmo delle attività manuali quotidiane come tessere o filare e alla noia e distrazione indotti dalla ripetizione dei compiti, la storia orale, come l’architettura, è fruita collettivamente e in uno stato di distrazione. Come l’architettura, l’oralità da cui nasce il racconto e a cui esso ritorna, costituisce un ambiente che circonda e avvolge narratori e ascoltatori. Le leggi che governano la ricezione dell’architettura coinvolgono il corpo umano in modo totale, attraverso la vista ma soprattutto il tatto; la trasmissione e ricezione della storia coinvolgono in modo altrettanto completo il corpo umano che ascolta e lavora13. Come gli edifici, fruiti soprattutto attraverso l’uso, le storie orali non inducono un atteggiamento contemplativo, piuttosto un’immersione. Come a rispecchiare il doppio binario, il movimento a spola tra passato e futuro, che informa il discorso sulla nuova tecnologia cinematografica, L’opera d’arte avanza in realtà due idee di cinema, due diversi scenari per il dispiegarsi dell’interazione tra natura e umanità messa in atto dal cinema. Dall’individuazione di questi due momenti contrapposti dipende un’esatta comprensione dell’idea di cinema avanzata dal neorealismo. Mentre il cinema, mediante i primi piani, mediante l’accentuazione di certi particolari nascosti di sfondi per noi abituali, mediante l’analisi di ambienti banali, grazie alla guida geniale dell’obbiettivo, aumenta da un lato la comprensione degli elementi costrittivi che 12 Si può pensare a questo gesto di Benjamin di mettere a fuoco modalità artistiche e di esperienza primitive che sopravvivono nelle forme della modernità, come parte di una metodologia basata sull’anacronismo per creare un corto circuito nella comprensione di nuovi fenomeni quali il cinema. 13 «Degli edifici si fruisce in un duplice modo: attraverso l’uso e attraverso la percezione. O, in termini più precisi: in modo tattico e in modo ottico. […] Non c’è nulla, dal lato tattico che faccia da contropartita di ciò che, dal lato ottico, è costituito dalla contemplazione. La fruizione tattica non avviene tanto sul piano dell’attenzione quanto su quello dell’abitudine», L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, cit., p. 45.

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208 governano la nostra esistenza, riesce dall’altro anche a garantirci un margine di libertà enorme e imprevisto. Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; così noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine. (41)

È su questo ground-zero metaforico, divenuto nel giro di pochi anni terribilmente letterale, che nascerà il neorealismo. Ma vediamo in dettaglio le due idee di cinema avanzate in questo passo. Il significato sociale del cinema – e prima ancora della fotografia – è legato alla scoperta di un inconscio ottico. «Da un lato», dice Benjamin, il compito del cinema si definisce attraverso un’educazione alla visione. La presupposizione sottesa a questo compito è che la realtà sia una quantità sconosciuta, da penetrare e comprendere nei suoi elementi costitutivi e costrittivi. Si noti come l’obbiettivo, la fotografia e cioè la densità del singolo fotogramma, giochino un ruolo di primo piano in questo compito14. «Dall’altro», attraverso la dinamite del decimo di secondo, il cinema garantisce «un margine di libertà enorme e imprevisto», crea uno Spielraum, spazio di gioco. Il pensiero corre al cinema rivoluzionario di Dziga Vertov e Sergei Ejzenstejn, ma il linguaggio, sebbene rovesciato in senso emancipatorio, alla luce dell’imminente distruzione letterale di «bettole, uffici, fabbriche e stazioni», si avvicina pericolosamente alla retorica di Marinetti e dei futuristi citati alla fine del saggio. Il punto di contatto implicito è la svalutazione e indifferenza alla “realtà”, concepita come una quantità “oggettiva”, conosciuta, una prigione da scomporre, smontare, triturare in un collage di fotogrammi, in cui poi muoversi, in un sogno di invulnerabilità, come spensierati turisti tra le rovine. Sospeso tra un’idea di cinema come distruzione e cinema come educazione a un’inconscio ottico, quale strada seguirà il cinema del futuro? 14 Il concetto di inconscio ottico riporta il cinema alle sue origini fotografiche; la fotografia sacrificata/repressa in quanto stadio primitivo della tecnologia, rispetto alla forma matura del cinema, ritorna come momento costitutivo e conoscitivo irrisolto in questa riflessione sull’arte cinematografica.

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A cavallo tra i due saggi, tra foreste primigenie e giungle tecnologiche, storicamente sull’orlo di un precipizio, l’idea di cinema di Benjamin si ferma all’esempio immediato della cinematografia rivoluzionaria russa. E qui si ferma anche l’operatività del modello del racconto orale. La tecnica filmica su cui si costruisce il film d’avanguardia che lavora con la dinamite del decimo di secondo, è puramente moderna. Parlandone, Benjamin svaluta l’apporto del cameraman e pone l’accento sul lavoro di post-produzione, è lì che ha luogo la scelta artistica. Importanza fondamentale è data al montaggio: il racconto cinematografico si delinea come opera di taglio, scomposizione e riassemblaggio del reale. In questa logica, la macchina da presa è descritta come “apparato”, mondo tecnologico altro, un meccanismo che innerva e ricondiziona l’umano e di fronte al quale l’attore è alienato da se stesso. Il rovesciamento piú radicale introdotto con il neorealismo, è legato forse proprio alla posizione della macchina da presa vis à vis l’uomo (attore, spettatore, cameraman, regista, raccontatore di storie). Come già nei film di Vertov, l’apparato discende nella strada dove dà vita a un’azione duplice e reciproca: la vita recita per l’apparato, ma l’apparato, a sua volta, recita per la vita. Con un movimento opposto a quello descritto da Pirandello ne I quaderni di Serafino Gubbio e citato da Benjamin ne L’opera, nel neorealismo non è piú tanto l’attore ad essere alienato nell’apparato, ma è la macchina da presa ad assumere caratteristiche umane, ad essere innervata. Fondendosi con la mano e l’occhio, la macchina da presa manifesta qualità tattili che ne fanno un nuovo strumento di visione, ascolto e racconto, perfetta incarnazione dell’«anonimo narratore orale» evocato da Calvino. Nato in un mondo in rovina, il neorealismo rovescia la vocazione del cinema da distruttore a occhio umanizzato, che si pone con umiltà di fronte al mistero della realtà e educa all’attenzione. Nata in un mondo profondamente violato dalla tecnologia, la macchina da presa neorealista, da meccanismo che simulava la distruzione, diviene tocco e sguardo volto a rifondare il rapporto dell’uomo col mondo. Il neorealismo rende operativa la prima concezione di cinema di Benjamin – cinema come addestramento all’attenzione – ma, muovendosi oltre le riflessioni del filosofo tedesco, nasce come risposta

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al fallimento del cinema di fronte alla storia, fallimento denunciato da Zavattini, nel convegno internazionale sul cinema tenutosi nel 1949 a Perugia. Quanti film erano stati fatti durante la lunga vigilia preparatoria del grande macello? Un numero incalcolabile in 50 anni: 1895-1944. Cinquant’anni di cinema, sembra una lapide... Il cinema non ci ha aiutati15.

Secondo Zavattini il neorealismo nasce come reazione a un cinema cieco. Per vedere ancora una volta, il cinema deve recuperare il senso di scoperta e meraviglia verso il reale delle prime visioni dei fratelli Lumière, il neorealismo rappresenta questo ritorno. Tecnicamente questo fatto si esprime con un recupero della visione d’insieme, del paesaggio: la profondità del fotogramma, il campo lungo, il piano sequenza, sostituiscono campi e controcampi, primi piani e l’uso preponderante del montaggio. In queste scelte linguistiche e stilistiche il cinema neorealista si riallaccia alla tecnica del racconto orale. Come il racconto orale predilige l’assenza di spiegazione e di elaborazione psicologica, la macchina da presa neorealista, caratterizzata, nelle parole di Bazin, dalla «perfetta imparzialità nell’attenzione», assiste e partecipa allo svolgersi del mondo con distanza e «rispetto» degli eventi rappresentati. Parallelamente decade l’idea dell’immagine come risultato di una costruzione («Gebilde»). Da un’idea della realtà come un tutto oggettivo e totalizzante che deve essere smontato e ricostruito in sede di montaggio, si passa al riconoscimento che la realtà è parziale e frammentata, fatta di una serie di eventi, che una volta investiti dall’attenzione, appaiono misteriosamente correlati. Nel nuovo cinema del dopoguerra la macchina tende alla resa della fluidità degli eventi, l’immagine acquista un valore in sé, il montaggio viene in buona parte delegato allo spettatore. In questo senso, il neorealismo si spinge oltre la concezione di cinema analizzata da Benjamin incentrata sul montaggio, gli studios cinematografici, gli attori professionisti e reC. Zavattini, Il cinema e l’uomo moderno, Relazione al convegno internazionale di cinematografia, Perugia 24-27 settembre 1949, in Opere Cinema, Milano, Bompiani, 2002, pp. 678-679. 15

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cupera invece un cinema degli esterni – il paesaggio e la strada – la valenza del singolo fotogramma, la commistione tra attori professionisti e non. Ma soprattutto, col cinema neorealista, la banalità e il quotidiano da prigione si trasformano in momento di epifania. Nell’ultimo capitolo di Mimesis, Erich Auerbach descrive il progetto della scrittura modernista degli anni venti e trenta come un «transfer of confidence» dai grandi eventi al quotidiano, un passaggio illuminante per comprendere le scelte fatte dal neorealismo nel decennio immediatamente successivo. There is confidence that in any random fragment plucked from the course of a life at any time the totality of its fate is contained and can be portrayed... [The modernist writers] hesitate to impose upon life, which is their subject, an order which it does not possess in itself... the things that happen to a few individuals in the course of a few minutes, hours, or possibly even days – these one can hope to report with reasonable completeness. And here, furthermore, one comes upon the order and the interpretation of life which arise from life itself... [they] put an emphasis on the random occurrence, to exploit it not in the service of a planned continuity of action but in itself. And in the process something new and elemental appeared: nothing less that the wealth of reality and depth of life in every moment to which we surrender ourselves without prejudice... It is precisely the random moment which is comparatively independent of the controversial and unstable orders over which men fight and despair; it passes unaffected by them as daily life. The more it is exploited, the more the elementary things which our lives have in common come to light. (547-549; 552)

Spostata l’attenzione dalla realtà del flusso mentale al flusso della realtà percepita, il progetto estetico perseguito da Virginia Woolf e Roberto Rossellini, per fare il nome di due protagonisti, è lo stesso: il rifiuto di imporre un ordine aprioristico sulla realtà, e l’elezione dell’effimero e del quotidiano come unici punti fermi della rappresentazione. Il neorealismo è modernismo cinematografico, l’epica moderna di ciò che Auerbach definisce «the common life of mankind on earth». Alla luce di questa estetica si possono comprendere in modo unitario le diverse pratiche e poetiche dei vari registi neorealisti, il loro

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amore per il “reale”, così spesso confuso con uno zelo sociologico o documentario, ma simile piuttosto a quello del perfetto artigiano descritto da Benjamin che «ha accesso alla cella piú intima del regno creaturale» (Il narratore, 272). La profonda attenzione dedicata all’oggetto rappresentato dalla macchina da presa neorealista trova una risonanza nelle parole di Paul Valéry citate da Benjamin: «L’osservazione artistica... può toccare una profondità quasi mistica. Gli oggetti che essa investe perdono i loro nomi. Ombre e luci formano sistemi e presentano problemi affatto speciali, che non dipendono da nessun sapere, né derivano da alcuna prassi, ma acquistano la loro esistenza e il loro valore esclusivamente da certi accordi singolari fra l’anima, l’occhio e la mano di chi è nato per coglierli in sé e per produrli a se stesso». (272-273)

«Anima, occhio e mano sono messi... in un solo e medesimo nesso – commenta Benjamin – interagendo reciprocamente, essi determinano una prassi. Oggi questa prassi non ci è piú consueta... Questa antica connessione di anima, occhio e mano che affiora nelle parole di Valéry, è quella artigianale, che ritroviamo dove è di casa l’arte del narrare» (273). E tuttavia è precisamente questa arte, che coinvolge tatto e percezione visiva, che André Bazin evoca nella sua descrizione della macchina da presa neorealista quando osserva che La macchina da presa italiana conserva qualcosa dell’umanità della Bell-Howell da reportage inseparabile dalla mano e dall’occhio, quasi identificata con l’uomo, prontamente accordata alla sua attenzione. (294)

In parole che tradiscono l’influenza del saggio benjaminiano su L’opera d’arte, Bazin parla dell’operatore neorealista come di un chirurgo che, diversamente da un pittore, deve lavorare velocemente, nell’urgenza del momento e, per questa ragione, ha bisogno di piú sicurezza di sé e precisione. È solo a questo prezzo che il cinema italiano possiede quell’andamento da reportage, quella naturalezza piú vicina al racconto orale

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che alla scrittura, piú allo schizzo che al dipinto... la [sua] macchina da presa possiede un tatto cinematografico... (293; enfasi mia)16

Visto in questa prospettiva il progetto del neorealismo perde quel carattere di pastiche, di contaminazione fallita, di «effetto mancato». Potremmo dire piuttosto che riesce nella misura del suo fallimento, vale a dire riesce come un’arte che unisce strutture narrative e tecniche pre-tecnologiche e post-tecnologiche, storia orale e cinema. Il neorealismo è il tentativo, di breve durata, e tuttavia d’impatto dirompente sul cinema mondiale17, di dare espressione all’utopia di una tecnologia redenta e di un’arte rinnovata da una pratica allo stesso tempo progressiva e anacronistica, una pratica che nasce dall’incontro tra l’uomo, la macchina e il mondo della sua esperienza: il movimento di una mano e un batter d’occhio. In Farewell to an Idea lo storico dell’arte TJ Clark rivisita, a chiusura di secolo, i sogni e le sconfitte che hanno segnato il progetto modernista attraverso una rilettura di alcuni artisti chiave. Partendo da Jacques-Louis David, Clark approda, attraverso Paul Cezanne, Pablo Picasso, Jackson Pollock, in un contesto cinematografico, letterario e linguistico inaspettato. There are always many modernisms ... The modernism that mattered most to me in the beginning – for years I had a blow-up from Roberto Rossellini’s Paisà on my wall – was that of film and literature in Italy after 1945. Modernism from Italo Calvino’s Path to the Nest of Spiders (1947), roughly, to Antonioni’s The Cry (1957) and L’avventura (1960)... Bland promises, great collective dreams... All this got called «neo-realist» when it was happening; though, as Calvino said in retrospect, the label largely flattened the filmmakers’ and novelists’ engagement with the modernist past. «Italian lite16 Interessante la genealogia del concetto di tatto e del ruolo che gioca nei nuovi mezzi di comunicazione di massa. A partire dalle riflessioni di Benjamin, può essere seguito attraverso le osservazioni di Bazin sulla macchina da presa neorealista e infine nel concetto di «haptique», come un «afferrare», «a touching which is specific to the gaze» di cui parla Deleuze in Cinema 2. The Time-Image, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2001, p. 12-13. 17 Vedi per un recente studio della diffusione e dell’impatto internazionale del neorealismo, il recente volume Italian Neorealism and Global Cinema, Detroit, Wayne State University Press, 2007.

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214 rary and figurative culture had missed the appointment with expressionism in the post-World War I period», wrote Calvino, «but it had its great moment after World War II». Modernism has repeatedly thrived – and will go on thriving, I think – on such picked-up threads and uneven development through history... For me it is right that the moment of modernism I begin and end with belongs to Rossellini as much as Pollock. (405)

Il modernismo di Rossellini e dei neorealisti riassume per Clark la tensione che attraversa l’arte della modernità: la spinta centrifuga verso l’esterno, la storia, il “reale” e quella centripeta formale e riflessiva. «The bland promises and great collective dreams» del neorealismo assumono una forza emblematica delle aspirazioni e delle sconfitte dell’arte modernista di fronte al dispiegarsi della modernità. Si staglia, attraverso le citazioni di Clark, un diverso percorso del modernismo, un percorso in cui l’esperienza cinematografica e letteraria italiana occupa una posizione definitoria. Il neorealismo cinematografico non solo solleva in modo urgente la necessità di costruire infine diversi canoni del Novecento italiano, ma, allo stesso tempo, come abbiamo visto, contribuisce a complicare la nozione stessa di modernismo. Il neorealismo voleva narrare per immagini la complessità del mondo, vincere la scommessa estetica estrema di rappresentare il caos dell’evento senza imbrigliarlo in una forma prestabilita, di lasciare emergere storia e forma dalla realtà. Questa fede incredibile nel reale, alla fine dei conti, nel suo primitivismo disarmato, mette in questione e spiazza lo sforzo prometeico, da tempo associato al modernismo, di creare ex-novo, dando forma all’informe. Il neorealismo unisce modernismo e fede nella mimesis, intesa non come rispecchiamento del reale ma piuttosto come antico rituale di ripetizione e gioco tra uomo e mondo. L’analisi delle aspirazioni moderniste/“neo-realiste” di guardare il mondo in modo nuovo portano TJ Clark alle terzine delle Ceneri di Gramsci e all’apparente esautoramento di questa visione, «in questo vuoto della storia, in questa ronzante pausa in cui la vita tace». Oltre le intimazioni di una fine imminente – del neorealismo, del mito della liberazione, delle speranze di rinascita politica con l’avvento degli anni cinquanta – le terzine di Pasolini citate da Clark evocano con un interrogativo la persistenza di storia e passione:

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215 eccoli, miseri, la sera: e potente in essi, inermi, per essi, il mito rinasce... Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai piú con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?

Pasolini potrà ancora operare, ma non piú o solo con la poesia o con il romanzo, ma con un altro mezzo che gli permetterà di forgiare una nuova lingua per raccontare storie, di riconquistare un linguaggio che abbia una verità e presa collettiva, che ancora sappia comunicare. Il realismo è morto, dichiara Pasolini nel 1959 In morte del realismo, il realismo rinasce nel 1960 nelle immagini di Accattone. Il neorealismo è morto, rinasce il neorealismo, e la sua rinascita per Pasolini è legata alla scoperta del cinema. Si possono ancora, per ora, raccontare storie, la macchina da presa potrà mediare tra l’ideale dell’intellettuale e la passione e il mondo. La macchina da presa come anonima voce collettiva che ha parlato nei primi film neorealisti diviene, attraverso la soggettiva indiretta libera teorizzata da Pasolini, uno sguardo ibrido sovrapersonale e sovrastorico, dove idealmente la visione del poeta incontra e si fonde col mondo, un occhio calato nel mondo, ma che dal mondo finirà per allontanarsi sempre piú, fino a stravolgere la possibilità di una collettività di “ascoltatori”/spettatori all’altezza di Salò. Questo esempio limite, solleva la questione della validità dell’idea di cinema come cantastorie entro e oltre il perimetro storico del neorealismo. Il cinema neorealista ha rinnovato profondamente il linguaggio cinematografico e si è fatto cantastorie al di fuori dei meccanismi commerciali hollywoodiani. Detto questo, bisogna ancora fare i conti col fatto che, sia come espressione estetica avanzata, che come racconto popolare, il cinema neorealista ha suscitato i piú grandi entusiasmi all’estero piú che in Italia18. Come mai? Si deve forse 18 Nondimeno rispetto ad altre opere moderniste che per lunghissimo tempo sono rimaste appannaggio di un pubblico di élite, il neorealismo, pur non raggiungendo la popolarità dei melodrammi di Raffaello Matarazzo ha raggiunto un pubblico impensabile per un testo letterario d’avanguardia. Si veda inoltre lo studio di C. Wagstaff, Italian Neorealist Cinema. An Aesthetic Approach, Toronto, University

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concludere che la figura del cantastorie è irrimediabilmente obsoleta all’interno dei meccanismi di un’industria culturale di massa, dove il circuito che lega narratore ad ascoltatore è inevitabilmente spezzato nelle opposte posizioni di produttore e consumatore? È veramente possibile nell’età del cinema una collettività di ascoltatori/ spettatori? Che senso ha parlare di un cinema come cantastorie? Un cantastorie e spettatore di eccezione suggerirà alcune riposte a questi quesiti conclusivi. In Autobiografia di uno spettatore (1974) Calvino rivisita tempi e luoghi della sua iniziazione artistica avvenuta, non nella biblioteca, ma nella sala cinematografica. Due spazi si affiancano paralleli: la vita nella sonnacchiosa San Remo fascista – una realtà senza forma, ordine o fascino alcuno – e il mondo altro delle stars hollywoodiane, coerente e sfavillante come un gioiello contenuto nel nero vellutato della sala cinematografica. È dall’incrocio di sguardi tra un grigio “qui ed ora” e l’impossibile altrove, che nasce per Calvino il piacere irripetibile dell’esperienza cinematografica fatta alla fine degli anni trenta. L’esperienza quotidiana, ossessiva del vedere film si trasforma in riflessione sull’ethos politico dell’Italia fascista, dove, dentro e fuori la sala cinematografica, il cittadino/spettatore era parte di uno spettacolo ritualizzato. Ma se ritualità e uniformità dominavano la vita familiare e civile dell’adolescente Calvino, l’andare al cinema era anche e sopratutto occasione (e illusione) di trasgressione. Prima di tutto per il modo anarchico di vedere i film, entrando indifferentemente all’inizio, metà o fine della pellicola. Per ogni film, Calvino ricorda, si veniva a creare una particolare sequenza narraof Toronto Press, 2007, dove si denuncia la vulgata che vuole i film neorealisti impopolari: «The poor performance asserted for neorealist film in general is not supported by the data. We are forced to conclude that two considerations have led to the reigning orthodoxy: first, the poor performance of oustanding films like La terra trema . . .; second, the general performance of neorealist films has been compared with the most successful genre films (such as melodramas), rather than with genre films in general. It is easy to receive a false impression of the performance of neorealist films relative to that of melodramas and comedies, because with far more of the latter being made and released in a given year, a handful of each group’s best performers totally outnumbers the entire output of neorealist films», p. 18.

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tiva: lo spettatore spinto a ricostruire una storia smontata, spesso risalendo dalla scoperta dell’assassino all’attimo prima del delitto, metteva in pratica stilemi propri dell’arte d’avanguardia19. Questa fruizione fluida e aperta del cinema appare a posteriori come figura del particolare rapporto allora instaurato con la storia: il fascismo, dice Calvino, era come «un film di cui avevo perduto l’inizio e di cui non sapevo immaginare la fine» (46). Ma il cinema sembra legato, per Calvino, prima ancora che a un bisogno estetico o politico, a un bisogno antropologico di distanza. [Il cinema] rispondeva a un bisogno di distanza, di dilatazione dei confini del reale, di veder aprirsi intorno delle dimensioni incommensurabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che con il mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti. (46)

È in relazione a questo bisogno di distanza che Calvino abbozza una valutazione del cinema italiano del dopoguerra: Dal dopoguerra in poi il cinema è stato visto, discusso, fatto, in modo completamente diverso. Il cinema italiano del dopoguerra non so quanto abbia cambiato il nostro modo di vedere il mondo, ma certo ha cambiato il nostro modo di vedere il cinema (qualsiasi cinema anche quello americano). Non c’è un mondo dentro lo schermo illuminato nella sala buia, e fuori un altro mondo eterogeneo separato da una discontinuità netta, oceano o abisso. La sala buia scompare, lo schermo è una lente di ingrandimento posata sul fuori quotidiano, e obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi. Questa funzione ha – può avere – la sua utilità, piccola, o media, o in qualche modo grandissima. Ma quella necessità antropologica, sociale, della distanza, non la soddisfa. (46-7; corsivo mio)

Calvino è critico troppo sottile per abbracciare un’idea di neorealismo come pura oggettività, come documentarismo di breve reCalvino scherza, ma forse varrebbe la pena esplorare i possibili rapporti tra il procedere elittico ed episodico del cinema neorealista e la prassi tutta italiana di essere spettatori cinematografici. 19

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spiro, e tuttavia sembra suggerire che l’inconscio ottico perseguito dal neorealismo, ingrandisca un quotidiano che lo spettatore è «obbligato a fissare», e che tuttavia rimane quotidiano, una prigione dove non c’è possibilità di fuga e non c’è nulla da scoprire. Per fuggire a questa prigione, Calvino, dopo la stagione fortunata del cinema americano degli anni trenta, si è rivolto altrove, fuori dal contesto italiano, «per ricrearsi il piacere del cinema», per divenire di nuovo puro spettatore con i film del passato «che mi illuminino sulla mia preistoria» e quelli tanto nuovi «da potermi forse indicare come sarà il mondo dopo di me» (49). Si può essere puri spettatori nella nostra preistoria e nel futuro, ma non nella storia a noi contemporanea. La storia, la storia spicciola quotidiana è l’anti-mito, non fa cinema, non permette di essere spettatori, perché ci «obbliga a fissare ciò su cui l’occhio nudo tende a scorrere senza fermarsi»20. Ma il disamore per un cinema che ha raccontato, in contemporanea con lui giovane scrittore/partigiano, le storie di un’Italia reduce dal fascismo, guerra e resistenza è legato alla constatazione conclusiva, che «guardarci direttamente negli occhi è difficile» (48). Calvino, autore di Pin, moderno cantastorie, è nato nella sala cinematografica; come lui stesso confessa, il cinema è stato la sua prima educazione all’affabulazione. Alle radici e in contrapposizione con la voce collettiva dell’anonimo cantastorie che si è levata nel dopoguerra e di cui si leggeva nella prefazione del 1964, si pone l’esperienza ugualmente anonima e collettiva dello spettatore ne L’autobiografia. Qual è il rapporto tra queste due esperienze?21 In questo senso, tutto il cinema a lui contemporaneo nega l’esperienza della distanza: «Ciò che il cinema dà adesso non è più la distanza: è il senso irreversibile che tutto ci è vicino, ci è stretto, ci è addosso. E questa osservazione ravvicinata può essere in un senso esplorativo-documentario o in un senso introspettivo, le due direzioni in cui possiamo definire oggi la funzione conoscitiva del cinema», Autobiografia di uno spettatore, in La strada di San Giovanni, Milano, Mondadori, 1995, p. 49. 21 Interessante pensare in questo contesto alla posizione di Pin, il bambino protagonista del Sentiero. Pin riunisce in sé la duplice natura di cantastorie e spettatore, non protagonista, della resistenza. Pin ascolta e ripete – canzoni, linguaggi, racconti – ma anche osserva, voyeuristicamente inosservato, il mondo adulto della storia. Nascosto nel buio di un cespuglio o in uno sgabuzzino, Pin osserva come su uno schermo gli avvenimenti a lui vicini e lontanissimi di cui è spettatore, ascoltatore, ripetitore. 20

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Proiettando un cono di invisibilità su se stesso, Calvino riconosce in Federico Fellini il solo della sua generazione che sia riuscito a rovesciare l’esperienza di spettatore in affabulazione, a trasformare la storia personale di oscuro spettatore in storia collettiva. Con lui «il buio della sala si è trasformato in cono di luce», con lui «la macchina da presa... volta[te] le spalle al set» ha saputo rappresentare «la giovinezza insoddisfatta di spettatori cinematografici» (50) sulle battigie di San Remo o Rimini al tempo di Mussolini. Le riflessioni conclusive di Calvino sul cinema di Fellini, cinema che recupera la “storicità” della sua giovinezza, contestualizzano storicamente il desiderio di distanza, che aveva definito inizialmente l’esperienza cinematografica. Calvino osserva: «Fellini riesce a disturbare fin in fondo: perché ci obbliga ad ammettere che ciò che piú vorremmo allontanare ci è intrinsecamente vicino» (54-55). E conclude: Il cinema della distanza che aveva nutrito la nostra giovinezza è capovolto definitivamente nel cinema della vicinanza assoluta. Nei tempi stretti delle nostre vite tutto resta lì, angosciosamente presente; le prime immagini dell’eros, e le premonizioni della morte ci raggiungono in ogni sogno; la fine del mondo è cominciata con noi e non accenna a finire; il film di cui ci illudevamo d’essere solo spettatori è la storia della nostra vita. (55)

Anche nella storia del cinema l’ontogenia ricapitola la filogenia: dall’adolescenza hollywoodiana, si passa alle disillusioni dell’età di mezzo con il neorealismo, alle intimazioni della mortalità con il tardo Fellini. Con il neorealismo il cinema è cresciuto. Dal mondo della favola è passato al un mondo di storie quotidiane, nelle parole di Sandro Bernardi, dal «tempo dei miti» del grande cinema hollywoodiano al «tempo della riflessione» del cinema neorealista (55-84). Il neorealismo con il suo mondo umile e provinciale fatto di polvere e di stracci, così vicino e banale e avulso ai sogni voleva avvicinare gli spettatori allo schermo, portare lo schermo nelle strade e viceversa proiettare le strade sullo schermo. Riducendo la distanza tra cinema e mondo ha voluto introdurre anche un’altra idea di spettatore. Una tensione utopica che trova forse nella progettualità di Zavattini la sua realizzazione ideale, un cinema fatto di spettatori attori e atto-

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ri spettatori, una comunità di ascoltatori e narratori che tende verso un’idea di cinema come moderno cantastorie. Come ci ricorda Benjamin, ci sono due tipi di cantastorie: quelli che ritornano da lontano e raccontano l’esotico, e quelli che senza essersi mai mossi viaggiano nel passato. I moderni cantastorie, i cantastorie nati all’ombra di Freud, rinunciano alla distanza, parlano del presente, rendendolo strano, distante e inquietante. Questi sono i viaggi piú difficili e perigliosi. È con queste storie che, anche quando sognano, come quelle di Fellini, sono troppo vicine per rassicurare, o permettere l’evasione, o un finale consolante, si gioca la vocazione popolare e la rottura estetica di un’avanguardia anacronistica come il neorealismo italiano.

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Bibliografia Auerbach Erich, Mimesis. The Representation of Reality in Western Literature, Princeton, Princeton University Press, 1974. Bazin André, Che cos’è il cinema?, Milano, Garzanti, 2000. Benjamin Walter, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962. — L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1980. — Selected Writings, Vol. 3, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2002. — Selected Writings, Vol. 4, Cambridge, MA, Harvard University Press, 2006. Bernardi Sandro, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002. Brunetta Gian Piero, Storia del cinema italiano, Vol. 3, Roma, Editori Riuniti, 2001. Calvino Italo, Autobiografia di uno spettatore, in La strada di San Giovanni, Milano, Mondadori, 1995. — Prefazione 1964 al Sentiero dei nidi di ragno, in Romanzi e racconti. Vol. I, Milano, Mondadori, 1991, pp. 1185-1204. Clark Timothy J. Farewell to an Idea, New Haven and London, Yale University Press, 1999. Corti Maria, Il viaggio testuale, Torino, Einaudi, 1978. Deleuze Gilles, Cinema 1. The Movement-Image, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2003. — Cinema 2. The Time-Image, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2001. De Vincenti Giorgio, Il concetto di modernità nel cinema, Parma, Pratiche Editrice, 1993. Hansen, Miriam Bratu, Room for Play: Benjamin’s Gamble with Cinema, in «October», n. 109, Summer 2004, pp. 3-45. Milanini Claudio, a cura di, Neorealismo poetiche e polemiche, Milano, Il Saggiatore, 1980. Parigi Stefania, Paisà, Venezia, Marsilio, 2005. Re Lucia, Calvino and the Age of Neorealism: Fables of Estrangement, Stanford, Stanford University Press, 1990. Ruberto Laura e Wilson Kristi, a cura di, Italian Neorealism and Global Cinema, Detroit, Wayne State University Press, 2007. Wagstaff Christopher, Italian Neorealist Cinema. An Aesthetic Approach, Toronto, University of Toronto Press, 2007. Zavattini Cesare, Opere Cinema, Milano, Bompiani, 2002.

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DOMENICO SCARPA

Un neorealista immaginario Il cielo è rosso di Giuseppe Berto

1. Nel primo capitolo di Il cielo è rosso si descrive un paesaggio. È un paesaggio dell’Italia settentrionale: c’è un fiume, c’è una grande pianura «limitata in distanza dalla linea del mare», ci sono catene di monti da cui scende il fiume e, prima dei monti, «la linea dei colli, i quali erano di differenti forme, alcuni alti e a punta come coni, altri bassi e tondi, come delle gobbe». Si vedono, a meno che non ci sia nebbia, case e prati, alberi di castagne, filari di viti. Questa descrizione procede per sei pagine, e si raccomanda ai lettori di non saltarle, essendo tra le più belle del romanzo, indispensabili per sentire il clima della storia. Proseguendo nella pianura i canali si univano, e assumevano a poco a poco l’aspetto di fiume, benché permanessero alle sponde due larghe strisce paludose con canne ed erbe, che davano una nota solitaria e quasi segreta, e sempre malinconica e dolce, mentre durava la visione dei colli, e delle catene di monti più lontano.

In questo primo capitolo Berto va in cerca del proprio paesaggio come a tentoni, con qualche decimo di alterazione lirica; l’imperfetto sognante che sta adoperando equivale a un passato remoto. Tutto è nitido e tutto è lontano, separato da una distanza di cui non conosciamo la natura. Berto scrive con i gesti ampi e arrotondati di chi nuota a rana, senza fatica apparente. La prosa scorre flessuosa, ammortizzata, priva di spigoli. L’intenerimento lirico è prodotto dalla lunghezza di quelle frasi che si allargano a estuario.

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Sul principio di questo libro anche le transizioni fra una scena e la successiva sono tenui. Il racconto passa di mano dal paesaggio ai personaggi, e di personaggio in personaggio, con una morbidezza femminile da lavoro domestico. Nel secondo capitolo vediamo trascorrere un intero decennio, gli anni ’30, dopodiché tutto si rompe: «Crollò il governo e l’ordine della nazione, e il popolo fu diviso. Quasi tutti vissero aspettando. La guerra sarebbe finita un giorno o l’altro, forse presto». Della storia politica e civile sapremo poco più di quanto ci dicono queste indicazioni perentorie e vaghe. Sono assenti il fascismo e i fascisti, i partigiani e i tedeschi: per adesso, la storia è una pressione bruta e anonima. «Molto tempo passò con lentezza, e fuori pioveva leggermente». Berto sa tutto quello che serve al racconto che deve svolgere, ma lo sa momento per momento. Se l’orizzonte geografico è vasto, quello narrativo si va formando capoverso dopo capoverso. Chi narra sente il bisogno d’illuminare la scena poco per volta, in modo che il lettore la vada scoprendo ed esplorando così come ha dovuto fare lui stesso. Berto non anticipa e non ritarda. Non anticipa conclusioni e non si attarda sull’attimo, ma non salta un passaggio. «Le cose gli si presentavano alla mente ad una ad una, e il resto del mondo rimaneva come sfumato o ignorato». Questa annotazione che riguarda Daniele, il ragazzo ex seminarista che sarà, con Carla e Giulia e Tullio, uno dei quattro protagonisti del romanzo, vale per l’andamento del libro intero. Berto ha un modo di raggiungere l’oggettività che sta tra l’indifferente e il trasognato. Quel fluttuare tra le cose che succedono e che, proprio come chi le contempla e attraversa, non si tengono insieme, ha il corrispettivo nello stile: la sintassi di Berto morbida, sciolta, veloce, ci restituisce la sua maniera di stare al mondo. Si sente che questo libro è stato scritto avendo a disposizione una quantità di tempo illimitata. È stato scritto senza impazienza, con una pietà meticolosa ed esatta: con disinteresse totale e dimenticanza di sé, con la voce degli anonimi che appartiene a una borghesia piccola e povera. Quando la storia incomincia ci troviamo nell’Italia piovosa e ferma dei primi anni ’30 dove il fascismo è già pietrificato al potere e dove dura il ricordo dell’inverno 1929, quando il termometro scese ai venti sottozero. Il cielo è rosso succede in una nazione

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che è l’Italia, in una regione che è il Veneto, in una città che è Treviso. Ma Berto ha rinunciato a nominare i luoghi e a numerare con precisione i mesi e gli anni. Luoghi e tempi di questa storia sono immaginari nel senso più completo della parola. 2. Nell’autunno 1940, poco dopo l’intervento dell’Italia in guerra, Berto comincia a insegnare latino e storia nell’istituto magistrale «Duca degli Abruzzi» di Treviso. Ha ottenuto il posto quale ex combattente in Africa Orientale, pluridecorato. Era rimasto in Abissinia, come volontario, per ben quattro anni, dal ’35 al ’39: «un volontario sincero» come scriverà più tardi ne Il male oscuro. Gli esami universitari li darà quasi tutti al ritorno in patria, diciotto nel giro di soli sette mesi. Si laurea il 21 giugno del ’40 con una tesi orale sul Canaletto, voto 102/110. Ha quasi ventisei anni, essendo nato il 27 dicembre 1914 a Mogliano Veneto, nel trevigiano. In quell’estate 1940 pubblica anche il suo primo racconto, La colonna Feletti, un episodio della guerra coloniale: un testo asciutto, impaziente. Si direbbe che sia proprio l’impazienza a orientare la sua vita in quel periodo; quando nel ’41 si trova a sostituire il segretario politico del Fascio di Treviso che è stato richiamato alle armi, si stufa rapidamente ed entra in urto con le autorità superiori. Frattanto è passato a insegnare italiano in un istituto per geometri: Fu un professore poco preparato nelle materie ma insolito, nel senso che tendeva a stabilire contatti diretti con gli alunni e ad allargare senza limitazione gli argomenti di cui si poteva discutere a scuola. Dai due anni d’insegnamento ricavò la persuasione che quello non era il suo mestiere, oltre a un sentimento di generica simpatia per le maestre e a un inestinguibile ribrezzo per i geometri.

Il brano è tratto da un testo autobiografico scritto in terza persona nel giugno 1965, titolo L’inconsapevole approccio. Il prosieguo della storia ci dice che Berto si decide a rinnovare la domanda di arruolamento come volontario e che nella primavera del ’42 viene richiamato; lo destinano però a un corso di perfezionamento per allievi ufficiali, a Parma. Veterano d’Africa, Berto non ne vuole sapere di nuove esercitazioni e accademie; adduce un’ulcera

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duodenale e si fa esonerare, ma presenta una seconda domanda di arruolamento, stavolta presso la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale di cui è membro: andrà dunque in guerra non con l’esercito ma con il VI Battaglione Camicie Nere Africa Settentrionale. Il 1° settembre del ’42 sbarca a Tripoli; poco dopo, a El Alamein, si spezza il fronte dell’Asse. Non resterebbe che contenere l’avanzata inglese, ma di andare a combattere non se ne parla, anzi, i volontari delle camicie nere possono misurare con i loro occhi giorno per giorno la gravità della disfatta italo-tedesca. Dobbiamo aspettare la fine di marzo del ’43 per trovare Berto impegnato nella battaglia di El Hamma, ma solo come addetto ai rifornimenti. Subito dopo, però, riceve l’onore di raccogliere i superstiti dello scontro e formare una Compagnia che si unisce al X Battaglione Camicie Nere «M», dove naturalmente l’iniziale sta per Mussolini. L’esercito nazifascista ha le settimane contate e lo sa. Il 13 maggio 1943, a Enfidaville, dopo aver distrutto le armi e le munizioni che gli restano, Berto e i suoi camerati si consegnano a una pattuglia senegalese. Li portano in camion a Casablanca. Nel gruppo quasi nessuno di loro – sono un migliaio – accetta di dichiararsi «prigioniero collaboratore»: vengono perciò imbarcati in nave e condotti verso un Fascist camp oltreoceano, a Hereford nel Texas. Dopo l’otto settembre tra quei prigionieri, tutti nominalmente fascisti, cominciano a manifestarsi svariate fazioni politiche: anarchici, badogliani, monarchici fedeli al re o fautori della successione, fascisti repubblicani o repubblichini; spuntano anche dei leninisti, la cui centrale è proprio la baracca dove alloggia Berto, che potrà usufruire di un qualche indottrinamento marxista. A Hereford, del resto, mettere a disposizione il proprio sapere e le proprie abilità è la regola; chiunque sappia fare o insegnare qualcosa si dedica ai propri compagni di prigionia, e le gerarchie militari ne risultano sovvertite. Nascono varie riviste manoscritte che circolano in copia unica; una di esse s’intitola «Argomenti»; Berto vi pubblica una prosa che lui stesso definisce frutto del dannunzianesimo più languido: è intitolata La vicenda delle stagioni. «Io ero allora un prodotto assai scadente dell’educazione scolastica fra le due guerre». Ma sullo stesso numero di «Argomenti» un suo amico, il prisoner of war Gaetano Tumiati, ha pubblicato un breve racconto, Nostra grande via. Berto

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ne rimane impressionato. Lettore di Saroyan, di Faulkner, di Hemingway, di Steinbeck, Tumiati ha modellato su di essi il suo stile, la misura dei dialoghi; Berto, digiuno di queste letture, lo sceglie per maestro. Nei mesi successivi saranno intensi gli scambi con lui, con il futuro magistrato-scrittore Dante Troisi e con Alberto Burri, che ha appena deciso di abbandonare la medicina per la pittura. Ecco una testimonianza di Tumiati sul Berto di quei mesi: «Ironizzava su tutto: sulle sue origini, sui suoi amori, sulle sue guerre, sulle sue ferite, sulle sue medaglie, in un modo tutto suo, dolce e pungente, morbido e caustico, che costituiva l’essenza stessa della sua personalità». Sono pronti per nascere quelli destinati a essere i primi due libri pubblicati da Berto. Viene scritto per primo, in un mese (marzo 1944), Le opere di Dio, che uscirà nel 1948. Poi, dal principio dell’estate e per otto mesi, Berto si lascia andare a una lunga narrazione con titolo provvisorio La perduta gente. La stesura è incominciata pochi giorni dopo l’arrivo di un nuovo gruppo di prigionieri italiani; Berto fa appena in tempo a trovare fra loro un concittadino, al quale chiede notizie di Treviso. Risposta: i bombardamenti l’hanno distrutta. Cominciai a scrivere nel 1944, mentre mi trovavo in un campo americano per prigionieri di guerra. L’Italia stava allora al centro della guerra e in me vi era un senso di sconfinata partecipazione alle sventure del mio popolo e un senso di acuta responsabilità per la parte di colpa che io personalmente potevo avere in quella catastrofe. Questo spiega la straordinaria oggettivazione dei miei primi libri che furono scritti nel campo, ossia il totale trasferimento di me stesso nei miei personaggi che erano sempre gente travolta dalla guerra […]. Spiega anche il diffuso senso di pietà […] che è poi un modo di sostenere l’innocenza del popolo di fronte alla guerra.

L’intervista dove si legge questo brano appare nel marzo 1964 sul bimestrale «L’Europa letteraria». Il male oscuro è stato appena pubblicato; Berto accompagna quell’anamnesi psichica con un autocommento in cui tira le somme della propria vicenda umana. Il nuovo libro è il referto tragicomico di una lunga claustrofobia, che ha trovato finalmente liberazione e libertà nella scrittura. Ma anche Il cielo è rosso, scritto giusto vent’anni prima, nasceva da un con-

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trasto non troppo diverso. Le aperture di paesaggio nei primi capitoli del Cielo sono anche una reazione al recinto della prigionia. L’infinita disponibilità di tempo di cui la narrazione sembra bearsi è il corrispettivo psicologico del divieto di spazio: il deserto texano è grande, ma guardarlo stando chiusi in un recinto non può bastare. Il primo romanzo di Berto è anche uno sfogo per quel «male del reticolato» che deve il nome a un poeta italiano, Vittorio Sereni, rimasto anche lui prigioniero (in Algeria) per due anni. Quello spaziale-affettivo non è l’unico segno lasciato sul Cielo dalla prigionia militare. «Non avevo un vocabolario e mi trovavo benissimo senza. Nella mia mente c’era il dialetto. I dialoghi de Il cielo è rosso, che tanto ricordano Hemingway, sono pensati in dialetto veneto e tradotti in italiano il più pedissequamente possibile». La lingua, certo: anche se per prima cosa va detto che ne Il cielo è rosso Berto descrive disastri di guerra di cui non è diretto testimone, devastazioni e miserie che può ricostruire solo per forza d’immaginazione, ma di cui ignora la portata, il contesto politico, la dinamica, la cronologia; è il più vistoso dei caratteri che rendono unico il suo romanzo. Però, in un’opera letteraria, situazioni di questo genere lasciano il segno innanzitutto sull’uso delle parole. Nella guerra e nel dopoguerra che Berto s’impegna a inventare (nel Cielo è rosso la pace in Europa arriva nell’ottobre ’44: s’era fidato di previsioni troppo rosee) troviamo non uno, ma due esercizi di traduzione letterale: se il primo, come lui stesso ci dice, riguarda il dialetto veneto trascritto in dialoghi italiani, il secondo riguarda l’inglese d’America, il cui spazio sonoro avvolge l’autore nel campo di Hereford. Nel Cielo vediamo muoversi e parlare soldati americani ma non incontriamo truppe tedesche, con le quali Berto pure aveva una certa dimestichezza, avendole frequentate negli ultimi mesi di guerra. Non credo sia per reticenza, o per coprirne le malefatte in Italia. Piuttosto, scrivendo Il cielo è rosso Berto affronta i suoi luoghi cruciali, l’America dov’è costretto a stare e Treviso dove gli è proibito di tornare e partecipare. Sono, entrambi, luoghi fisici e luoghi linguistici, presenti in forma dissimulata nel suo libro. Tre brevi esempi per l’americano: «Cinque miglia avanti»; «Vieni a vedere quel figlio di puttana che abbiamo scorto poco fa»; «Ne parlava

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poco fa di questo suo fratello che si chiama Bill»: sono vistosi il calco di avanti su forward e di scorto su spotted, e la costruzione del possessivo. Berto rientra in Italia nel febbraio del ’46. Propone i suoi manoscritti (a Hereford ha composto anche racconti) a Bompiani e a Garzanti, senza esito. Nel frattempo riesce ad avvicinare Giovanni Comisso che abita a Zero Branco, paese poco distante da Mogliano. La reazione di lettura è fulminea: la lettera trascritta qui di seguito, indirizzata a Leo Longanesi che ha appena avviato a Milano la sua attività di editore, è datata 6 settembre 1946. Caro Leo, una lieta sorpresa ho trovato qui vicino a Mogliano Veneto un giovane scrittore che non ha mai pubblicato niente in Italia, egli oltre al racconto che ti spedisce ne ha scritto altri e un romanzo che è interessantissimo. Questo romanzo attualmente è in lettura da Garzanti ma dubito che ne capiscano qualcosa, vorrei che lo rifiutassero perché tu avessi la fortuna di lanciarlo e rivelarlo. Anzi interroga Vergani e fatti passare il libro, perché giuro che non si accorgeranno delle grandi qualità che vi sono dentro. Tu vedessi nel romanzo certi dialoghi di ragazzette che si avviano a quella che sarà la loro vita di prostitute che sorprendente umanità hanno. Il romanzo è sulle trecento pagine e ti assicuro che rappresenta una svolta nella letteratura italiana.

Queste frasi dalla sintassi senza puntello non sono l’unica segnalazione che Comisso dirama in quei mesi. Prima ancora che il romanzo venga stampato, dà a una rivista francese («L’Arche», n. 21, novembre 1946) un breve saggio dal titolo Littérature de la Résistance en Italie: dove racconta che ultimamente ha avuto occasione di leggere il manoscritto di un romanzo «qui marque dans la littérature italienne une apparition d’une importance exceptionnelle». Un romanzo, conclude, che sbalordirà l’Italia e non soltanto l’Italia. Il cielo è rosso esce da Longanesi con la data 1947 negli ultimissimi giorni del ’46. L’editore ha rifiutato il titolo La perduta gente, che gli pareva iettatorio, sostituendolo, come l’autore voleva, con un’espressione presa dai Vangeli, ma senza rivelargli in anticipo quale. Ha anche sfoltito il testo, soprattutto nel primo capitolo, dove le descrizioni erano ancora più lunghe.

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3. Il cielo è rosso racconta le peripezie di quattro ragazzi, tra i quindici e i diciassette anni, in una città devastata dai bombardamenti alleati. Carla e Giulia sono cugine, cresciute nella stessa casa. Carla è figlia di una serva, Giulia di una prostituta. I padri non si sono mai visti, le madri vengono a mancare presto; rimane solo una nonna, che non può tenerle a bada e che morirà sotto le bombe. Giulia è taciturna, schiacciata dalla mortificazione; la sua dedizione per gli altri è quella della vittima predestinata. Carla al contrario ha prontezza di spirito e di parola, economia di pensieri, umori volubili, a volte perversi altre volte malinconici. Guadagna prostituendosi ma resta legata, non si sa fino a che punto, con Tullio, la guida naturale del gruppo, il più adulto con i suoi diciassette anni. Tullio è comunista ma vive di furti e traffici. Ai tre si unisce Daniele, che ha appena abbandonato un seminario-prigione; nei bombardamenti ha perso la famiglia, per la quale d’altronde era sempre stato un peso, e non ha dove andare. Rispetto a Tullio e alle ragazze è di condizione superiore: l’essere un piccoloborghese cresciuto fra i preti basta a impacciarlo nei sentimenti e nei commerci che garantiscono la sussistenza. Il quadrilatero dei protagonisti cambia forma secondo le linee che si tendono tra loro, in particolare tra Daniele e le due donne, tra Daniele e Tullio che s’impone come modello di adultità: «Tullio faceva sempre pensare alle cose difficili della vita». Ulteriore perturbazione è la presenza di una bambina di nove anni, Maria, semimuta e di cervello lento, ma portatrice di affetto, e di uno sguardo che misteriosamente assorbe e registra ogni cosa: «in quei pochi minuti che avevo pianto contro il muro della chiesa ero diventato grande, perché avevo conosciuto una quantità di sconforto che un bambino non è in grado di sopportare restando bambino». Quest’ultima frase, che non proviene dal Cielo è rosso bensì dal Male oscuro, ci dà la radice di quel primo romanzo. Berto pratica una scrittura sotto anestesia, che ti lascia contemplare il dolore senza infliggertelo. I suoi personaggi sono una vegetazione nuova che cresce su terra bruciata, un’erba frastagliata e senza nome. Come forse si sarà capito, preferisco dire il minimo possibile sull’intreccio. Nel raccontare questa città, Berto non manifesta vergogna della sconfitta e della miseria, ma nemmeno compiacimento. Non ha reticenza nel guardare dritto alla realtà, sia pure

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una realtà ricostruita per indizi mentali. «Perché noi non stiamo tanto a vedere se le cose che facciamo sono buone o cattive, basta che siano cose che servono». La cronaca del bombardamento e distruzione della città, che occupa i capitoli tre e quattro, è una scheggia di potenza: il più cospicuo tra gli sforzi di empatia visionaria esercitati verso il paese lontano. Eppure chi a questo punto si aspettasse un’opera apocalittica si accorgerebbe subito di essersi sbagliato: «il romanzo che alle prime scene s’imposta quasi come una infernale macchina di guerra, subito dopo si scarica e poi si effonde con la desolata tenerezza di un carillon». L’avvertimento è di Pietro Pancrazi, che elogia il Cielo sul «Corriere della Sera» (6.7.1947). Di fatto, superati i capitoli del bombardamento, la storia procede con lentezza e larghezza. Il cielo è rosso non è un libro simmetrico; è l’opera di un esordiente, e manca di sagacia costruttiva. Dal quinto capitolo in poi è visibile lo sforzo dell’immaginazione che deve costruire e raccontare ciò che non sa. La lingua resta armoniosa sempre, mentre la storia si fa ruvida e multicolore, cucita come una coperta patchwork col filo dell’imbastitura ben visibile. Negli anni ’80 fu un giovane critico-scrittore, Eraldo Affinati, a dire meglio di chiunque altro come funziona il Cielo: La narrazione è molto lenta e spesso avvertiamo il tipico ronzio stilistico di una macchina da presa bloccata nei piani sequenza, ma la ragione di questa scelta affonda le sue radici nel cuore del testo: gli incontri e le esperienze iniziatiche degli adolescenti di Berto alludono costantemente all’estraneità di qualunque destino, come se vivessimo dentro un’incubatrice e non riuscissimo a nascere per davvero. Anche i soldati americani, i preti, i vecchi e tutti i personaggi di Il cielo è rosso sembrano scolari svogliati che eseguono un compito noioso.

Il conflitto tra linguaggio e intreccio va addebitato in gran parte alla preoccupazione moralistica che pesava su Berto durante la stesura. Se Comisso si infervora tanto per quel libro, non è solo per la qualità dello stile, ma anche perché gli pare che il Cielo sia un libro congruente con quel «neoromanticismo» e quella «riscoperta dei sentimenti» di cui s’è fatto promotore fin dal ’43. E basta mettere in moto i personaggi, soprattutto Daniele e Giulia, perché quel-

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la musica si faccia udire, e affinché la luce da lui prediletta scenda a tingere il paesaggio; si tratta di una luce veneta: «Berto è uno scrittore veneto “spaccato”, quasi fradiciamente veneto» scrive Andrea Zanzotto, che con Berto ebbe una lunga amicizia antagonistica. Se Il cielo è rosso resta un nodo nella letteratura del ’900 italiano lo si deve alle contraddizioni sotto il cui segno ha preso forma. La storia personale di Berto – la giovinezza qui schizzata in breve, e più ancora la maturità – ce lo mostra come un autore dotato di quel cinismo naturale, che accomuna i maggiori scrittori nativi del Veneto ed è il rovescio della pietà universale di cui è imbevuto Il cielo è rosso. Per cinismo naturale intendo quel distacco da se stessi che non si capisce mai se sia indice di maturità o d’incoscienza, sicché si comincia a sospettare che maturità e incoscienza possano in qualche caso andare d’accordo. Giacomo Debenedetti, che pure giudicò Il cielo è rosso un romanzo-omogeneizzato, un abile trucco di carte pronto per trasformarsi in sceneggiatura cinematografica (non per niente la sua recensione s’intitola Berto o del tresette: «l’Unità», edizione romana, 29.6.1947), ne apprezza «l’andatura maleducata e simpatica, il passo dinoccolato nell’attraversare le proprie tristezze, il fare disincantato nel buttarsi dietro le spalle le momentanee allegrie». Questo carattere veneto è la solitudine etica che accomuna Fogazzaro e Comisso, Piovene e Parise: un modo di guardare il mondo, e di scriverne, con egoismo limpido e tranquillo, con un atteggiamento disarmato e disarmante. Scegliere di stare soli come per un gesto di sedizione malinconica, utile a degustare tanto il piacere quanto la tristezza. «Bisognava esser soli, e diventare più forti, e non avere molte speranze per la vita»: ecco una frase chiave di Il cielo è rosso. Berto è un animale che tiene perfettamente pulita la propria tana, basti pensare all’igiene stilistica di un romanzo come Il male oscuro, che può apparire torrenziale e fangoso solo a uno sguardo disattento. Berto è autore rettilineo; per quanto lunghe, anche le sue digressioni sono rettilinee. Nelle quattrocento pagine e passa del Male non s’incontra una sola parentesi. Ora, il cinismo naturale è lo strumento con cui uno scrittore scopertosi tale in prigionia, sospeso middle of nowhere, sente la ne-

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cessità di regolare i conti con l’Italia di prima, l’Italia della sua giovinezza politica e affettiva e culturale, che gli pesa sulla nuca come una maledizione. La adora e la detesta. Desidera distruggerla per ricostruirla. Come liberarsene? e come accoglierla? È qui che si serra il nodo tra sentimento e moralismo. Tutte le morti che segnano le fasi del Cielo è rosso sono morti sacrificali, morti che si slanciano a un orizzonte ultraterreno per poi inflettere qui sulla terra, tra chi è sopravvissuto, un’onda luminosa di ritorno che abbaglia e consola; un’onda, una volta di più, di luminosità veneta: «ho assorbito attraverso un’educazione in gran parte religiosa un concetto del tutto escatologico del dolore», dice Berto di sé nel Male oscuro. E se torniamo all’intuizione di Affinati sui personaggi del Cielo – «sembrano scolari svogliati che eseguono un compito noioso» – avremo la conferma definitiva che il fascino di questo libro sta nell’imprecisione dei fatti, nell’incompletezza dei personaggi, nell’indecisione del tono narrativo. Non che l’autore sia stato così furbo da far fruttare al massimo i propri difetti; non ne era consapevole fino a questo punto; i suoi veri colpi di fortuna sono stati invece la condizione in cui si è trovato a scrivere e la casella vuota che Il cielo è rosso è andato a occupare nella letteratura dell’immediato dopoguerra. Molti anni fa, in una conferenza tenuta il 6 dicembre del ’61 nella cittadina natale di Berto, Zanzotto offriva questa sintesi: Che cosa rende valida quest’opera? Con poche altre di quegli anni essa costituisce un’imprevedibile riuscita di un «linguaggio di transizione» che risulta autosufficiente, in qualche modo, proprio nella sua transitorietà: specchio della necessaria transitorietà del clima «après le déluge», post-bellico nell’accezione più ristretta, chiuso all’incirca tra il ’45 e il ’50. Soltanto dopo si verificherà una strutturazione diversa e diversamente completa delle istanze culturali, non solo letterarie. E si potranno avere allora a disposizione, anche nel trattare gli stessi temi, strumenti più perfetti, di più crudele e matura perspicuità: ma queste prime opere hanno la fragranza della verità colta nell’attimo, nel documento che anela ad essere cultura e che pur si confonde con quanto vuol documentare. In questa fragranza, che è poi aspra vitalità, scompaiono le loro «debolezze», le loro faglie.

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Berto trascrive questo lungo brano nell’Inconsapevole approccio, che si può definire un ritratto dell’artista come autodidatta. L’approccio cui si allude è quello con il Neorealismo, del quale Berto non sapeva di candidarsi come capofila. Quando esce Il cielo è rosso, infatti, saranno in tanti a evocare Hemingway. Oggi è facile avvertire quanto la sintassi di Berto sia rotonda e lievitata. Il tempo ha lavorato, non solo sulle superfici di uno stile che pareva secco e non era. Il tempo ha trasformato anche il contenuto di questa storia, che bastò per schierare contro Berto i benpensanti della letteratura, tanto i critici conservatori quanto le bestie nere ossessivamente evocate nel Male oscuro: i radicali, gli snob romani del «Mondo» di Pannunzio e dell’«Espresso». Ciò che nel 1947 sembrò un partito preso di promiscuità sessuale e di pauperismo sociale si manifesta oggi come un racconto impiantato sulla castità e sulla dignità. Scritto da lontano, Il cielo è rosso è un romanzo sul destino dell’Italia. Per Berto, combattente e poi prigioniero fascista che mancò l’occasione della guerra civile ’43-’45, che non ebbe modo di scegliere da quale parte stare, per Berto l’Italia non poteva crescere, farsi adulta e completarsi combattendo. Il «volontario sincero» era finito dietro un reticolato del Texas, e non poté fare altro che inventarsi una lunga storia dove i personaggi si muovono sempre limitati da quattro pareti, o dai confini di un paio di quartieri. Il lettore di questo romanzo vedrà che i migliori (gli stracciati, gli sconosciuti: eccolo il romanticismo) devono scomparire per ingiustizia del fato o sotto la pressione di una colpa senza nome. Il fatto che Berto ci suggerisca di identificare quella colpa con le deficienze morali e politiche della nostra borghesia lascia il tempo che trova. Il cielo è rosso non vale per le sue diagnosi etico-ideologiche, vale per il modo in cui vi si manifestano disperate energie che s’incarnano in pochissimi personaggi circoscritti ai margini della «zona infetta», quella parte di città dove non c’è stato il tempo di recuperare le vittime delle bombe e si è dovuta spargere calce viva sulle macerie. Nel Cielo troviamo personaggi, misure del tempo e luoghi che Berto ha inventato a distanza di migliaia di chilometri sulla base di memorie, frammenti di notizie incontrollabili e poi ancora di suggestioni, impuntature nervose, scatti di odio e amore ugualmente

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incontrollabili. La lega umana che vediamo agitarsi in questo libro con rassegnazione febbrile stringe i denti e sopravvive finché può, contando su resti di vitalità biologica. Solo in questo senso Il cielo è rosso è un’opera della resistenza. Il lettore può anche attribuire l’iniziale maiuscola alla parola, purché si renda conto che qui la paura più viva non è la guerra o la fame o la malattia, ma la paura di chiedere e di ricevere amore. Non credo sia un caso che Berto copra sempre questa paura con l’autoironia. Aveva detto una volta: «Sono uno dei venti che si considerano il maggior scrittore italiano vivente».

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GINO TELLINI

Tra letteratura e cinema: il neorealismo eccentrico di Palazzeschi

«A 65 anni tutti vanno in pensione, io entro in un impiego, tutto alla rovescia per me»: così, con l’autoironia che gli è abituale, Palazzeschi commenta con l’amico editore Enrico Vallecchi, da Roma, il 29 giugno 1950, l’incarico di critico cinematografico che terrà sulle colonne di «Epoca», tra l’ottobre 1950 e il luglio 1951, per complessivi trentasette film recensiti, in un totale di quaranta articoli. Nella sua breve stagione di battitore libero, che gioca fuori casa, gli accade «di tenere a battesimo – come ha notato Tullio Kezich – il binomio vincente del cinema futuro: Antonioni (Cronaca di un amore) e Fellini (Luci del varietà); e va detto che, a differenza di molti fra i recensori patentati, seppe farlo con fiduciosa autorevolezza»1. Ma il «saltimbanco» e ex futurista, padre dell’uomo di fumo, non ha alcuna voglia di prendersi troppo sul serio nel ruolo di critico cinematografico. Quando Alberto Mondadori, direttore di «Epoca», gli invia la lettera-contratto che lo recluta ufficialmente, Aldo risponde, con il tono di celia con cui si dicono verità che non si vorrebbero confessare: Mio Carissimo Alberto, firmando la lettera che mi hai mandato mi chiedevo se per caso non fossimo impazzati tutti e due, ma il vero pazzo sono io, di erigermi a giudice in una cosa che conosco superficialmente, rubando il posto a un critico vero. Quando vieni a Roma avvisami, per favore: bisogna che tu mi dica una scelta di libri che io devo leggere per T. Kezich, Palazzeschi. Al cinema lasciatevi divertire, in «Corriere della Sera», 30 aprile 2001, p. 21. 1

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238 mettermi al corrente soprattutto del cinema americano. Conosco assai bene, come tutti gli Italiani, il nostro, e discretamente il cinema francese, per il resto sono all’oscuro. Ho visto un’infinità di pellicole americane senza occuparmi chi erano i registi, chi gli autori dei soggetti... Insomma: vedremo di combinare una collaborazione originale, ricca di evasioni, naturalmente, come posso fare io se la poca conoscenza della materia non mi renderà timido e incolore. Speriamo di no. La cosa più importante sarà la faccia che faranno i nostri amici vedendo a quel posto il mio nome. Quell’effetto è sicuro, dopo viene la parte difficile2.

Non c’è ombra di quella supponenza, anche un po’ altezzosa, del letterato di grido che si camuffa da addetto ai lavori su un terreno non suo. Dichiara, anzi, di rubare «il posto a un critico vero», denuncia la propria scarsa «conoscenza della materia», chiede lumi e consigli. Di qui il tratto distintivo della sua rubrica Cinema, dove non si pronunciano verdetti, bensì si assume il punto di vista dello spettatore comune, dell’utente disinteressato, ovvero non professionale, che si tiene fuori dai binari convenuti, dalle parole d’ordine del mestiere e dalle regole del gioco, per pensare con la sua testa, per riflettere liberamente, e spassosamente, vigile e curioso, sulle emozioni e sulle idee sollecitate dallo spettacolo. «Insomma: vedremo di combinare una collaborazione originale, […] come posso fare io». E chi dice «io» è il poeta del Controdolore, il manifesto futurista che ha ispirato il cortometraggio Mondo baldoria (oggi perduto), uscito il 15 febbraio 1914, girato dal regista Aldo Molinari e prodotto dalla Vera Film di Roma: «Di questo manifesto – ha ricordato Palazzeschi – venne fatto a quel tempo un cortometraggio, con le suore che ballavano nelle corsie di un ospedale e molte altre cose che il manifesto contiene. Il pubblico invece di indignarsi fischiando e abbandonando la sala in segno di protesta, si abbandonava alla più sfrenata ilarità, torcendosi sopra le sedie per la violenza delle risate»3. 2 A. Palazzeschi a Alberto Mondadori, Roma, 25 aprile 1950, in Arnoldo e Alberto Mondadori-A. Palazzeschi, Carteggio 1938-1974, a cura di L. Diafani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2007, p. 14. 3 A. Palazzeschi, [Prefazione] a Scherzi di gioventù (1956), in Tutti i romanzi, I, a cura e con introduzione di G. Tellini e un saggio di L. Baldacci, Milano, Mondadori, 2004, p.1660.

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L’incontro di Aldo con il cinema è dunque d’antica data e fa registrare poi, circa un decennio prima dell’imprevista esperienza del critico-recensore su «Epoca», un’ulteriore e più significativa convergenza con l’adattamento per lo schermo delle Sorelle Materassi, per la regia di Ferdinando Maria Poggioli (sceneggiatore il tedesco Bernard Zimmer), girato tra il novembre 1942 e il febbraio 1943. Ma l’uscita nelle sale è ritardata, per veto governativo, al gennaio 1945. Il romanzo, da un lato, e il film, dall’altro, per quanto organismi interdipendenti ma artisticamente distinti e autonomi, consentono qualche considerazione sul cosiddetto «nuovo realismo» nella nostra narrativa degli anni Trenta, come sul pre-neorealismo cinematografico dei primi anni Quaranta. Il romanzo, nel 1934, è espressione di quel ritorno all’ordine tipico della cultura europea nel ventennio tra le due guerre. Ma per l’ex avanguardista “incendiario” si tratta di un ordine esclusivamente di facciata, perché testimonia l’esigenza di una tenuta narrativa più coesa e più compatta, ma al tempo stesso la parodizza, sì che la solidità della materia risulta elettrizzata da un demone irrisorio e antisentimentale che decompone la quiete apparente di un apparente teatrino di paese, senza alcuna concessione al primato, negli anni Trenta ancora trionfante, del frammento, del calligrafismo, della bella pagina. Da questo imperativo della purezza lirica, che considera il romanzo genere infetto e spurio, troppo compromesso con le asperità della vita, Aldo si è tenuto sempre lontano e ne è rimasto anzi ferito, tanto che, anche a distanza di tempo, ripensandoci, lascia da parte il suo abituale garbo di affabile persona beneducata: «Solo la bella pagina! – ha esclamato in un’intervista a Arbasino nel febbraio 1974 – La bella pagina! Nient’altro che la bella pagina! Con che pesantezza veniva imposta! Comandavano solo loro! E sono durati tanto! E invece io ho sempre odiato la bella pagina! Con la bella pagina mi pulisco il culo!». E in terra fiorentina – nonostante le aperture europeistiche di «Solaria» e, su opposto fronte, le dure resistenze strapaesane – il primato della forma si respira nell’aria, sui marciapiedi delle strade, tra il raffinato stilismo di Giuseppe De Robertis e l’eleganza umanistica di Pietro Pancrazi. E proprio con l’amico De Robertis, che trova da ridire sulle prime cinquanta pagine delle Sorelle Materassi, Aldo ammette, il 5 febbraio 1935, quasi

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in una sorta di monologo con se stesso: «Come è difficile crearsi una prosa bene aderente alla personalità!»4. Che non vuol dire una bella prosa. Le Sorelle Materassi appartengono, dunque, a quel fronte del cosiddetto «nuovo realismo»5 che negli anni Trenta, senza in nulla cedere al costruttivismo ideologizzato e strumentale propagandato dal regime, mette sul tavolo carte decisive anche per la successiva vicenda, nell’immediato secondo dopoguerra, della narrativa neorealistica. Ma proprio su questo variegato fronte del «nuovo realismo» la storia delle zitelle fiorentine occupa una posizione eccentrica, perché nel loro caso (diversamente da quanto accade con Moravia o Vittorini o Pavese o Silone o Alvaro o Bernari…) il mordente realistico è di matrice umoristica. In una cultura come la nostra, poco incline a trattare il comico con la dovuta serietà, l’umorismo che intride le pagine palazzeschiane ha finito per risultare fuorviante e penalizzante, tanto da condizionare riduttivamente la lettura del testo. L’ambientazione provinciale, circoscritta tra le quinte di Santa Maria a Coverciano, i personaggi un po’ smunti da vecchia stampa d’epoca, le situazioni caricaturali da bozzetto oleografico ravvivate dal sorriso, dal lazzo e dalle capriole d’un osservatore ilare e smaliziato che gioca con la fantasia, hanno indotto i primi recensori a iscrivere il romanzo «all’ordine del giorno di Strapaese», come vorrebbe l’anonimo articolista6 che si pronuncia su «Il Selvaggio», il 31 ottobre 1934. Questo l’esito per chi ha cassato la componente umoristica. Ma anche lettori più avveduti, vaccinati contro gli equivoci d’un’interpretazione così miope e sensibili invece alla componente umoristica, hanno salutato le Materassi come opera spassosa, rubricata all’insegna del «lasciatemi divertire», come se questa formula volesse dire non altro che sollazzo, diporto domenicale, in4 A. Palazzeschi a G. De Robertis, Firenze, 5 febbraio 1935, in G. Tellini, Lo scrittore e il suo interprete. Il carteggio di Palazzeschi con Giuseppe De Robertis (1999), in Le Muse inquiete dei moderni. Pascoli, Svevo, Palazzeschi e altri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2006, p. 190. 5 In proposito, cfr. G. Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Bruno Mondadori, 1998, 20002, pp. 377-382. 6 Anonimo, Prediche varie. Sorelle Materassi, in «Il Selvaggio», XI, 11, 31 ottobre 1934, p. 62.

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trattenimento da avanspettacolo. L’umorismo della scrittura palazzeschiana ha agevolato un consumo o tendenzioso o unidimensionale. Per chiarire meglio la questione, si pensi alla figura di Remo, il personaggio-chiave che aziona la macchina narrativa, il nipote bellissimo che irrompe all’improvviso, come un turbine, nella vita grigia e parca delle avvizzite zitelle, per portarvi eccitazione emotiva e sensuale, sconquasso, debiti, ipoteche, umiliazioni. Chi è Remo? Remo è «la fatalità della bellezza», risponde nel 1935 Vittorini7. La bellezza che turba e seduce, e fa perdere la testa. E allora il sorriso del narratore e del lettore invade la scena, di fronte alla femminilità castigata e repressa delle zie cinquantenni, vestitissime, pie, morigerate, che scoprono all’improvviso di avere un corpo, un corpo vivo, con antichi appetiti insoddisfatti e inconfessati, sì da agghindarsi come bertucce, per diventare patetiche insieme e grottesche. La linea interpretativa più accreditata, e di gran lunga più resistente, assegna a Remo un ruolo senz’altro positivo, in quanto campione di una giovinezza solare e disinvolta, sciolta da inibizioni e da vincoli moralistici; eroe di una spavalda spensieratezza, di una gioiosa voglia di vivere, ansioso di divertirsi, di godere e di non lavorare; esponente della modernità disinibita, di contro a un passato taccagno e sparagnino, inibitorio e soffocante. È la linea inaugurata da Pancrazi, appena uscito il romanzo: Direi che l’invenzione di Remo ha avuto un effetto vivificante, oltre che sulle Materassi, anche su Palazzeschi che non aveva mai acceso tanti e così scoppiettanti razzi alla sua girandola, come adesso per lui. Si sa che Palazzeschi ha il gusto artistico e un tantino anche morale, della «sconvenienza»; è il suo sale crepitante; e bisogna vedere questa volta quel ragazzaccio di Remo, nella stanza di lavoro delle zie, tra i corredi delle spose... Ma nell’invenzione di Remo forse c’è qualcosa di più. Dire umorismo, non basta: quando Palazzeschi parla di Remo, a volte sorpren7 «Remo, il giovane nepote in mutandine di sportivo, finisce per impersonare la “fatalità della bellezza”» (E. V. [E. Vittorini], Il romanzo di Palazzeschi, in «Il Bargello», VII, 11, 17 marzo 1935, p. 2, poi in Letteratura arte società. Articoli e interventi 1926-1937, a cura di R. Rodondi, Torino, Einaudi, 1997, p. 849).

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242 di in lui un altro sentimento: quel bel ragazzo, quel suo piacere sano e animale di vivere, quella gioia e quel riso che da lui si propagano, non solo gli piacciono, ma anche un po’ lo commuovono [...]. Remo è quello che è: creatura còlta, ora affettuosamente, ora umoristicamente, nel più degradato costume della vita d’oggi: ma quel crepitante piacere di vivere di Remo, e che da lui si comunica a tutti intorno, è pure a suo modo un dono di umanità8.

Ecco, appunto, e detto anche molto bene: un ragazzaccio simpatico, vivificante per le zie e per l’autore; un ragazzaccio all’insegna della «sconvenienza», ma crepitante e commovente, un «dono di umanità». E poi bello, magnetico, affascinante, proprio un gran «bel ragazzo», con tutto ciò che la bellezza, anzi la «fatalità della bellezza», comporta. Però non basta, per ricorrere all’espressione dello stesso Pancrazi. Non basta, perché il ruolo di Remo non è solo questo, positivo. Un altro ce n’è, importante, e negativo. Occorre infatti meglio indagare in quel «ragazzaccio», spogliando il termine del suo alone affettuosamente complice, e occorre meglio indagare in quel «degradato costume della vita di oggi». È quanto ha fatto, nello stesso giro di mesi, un altro lettore della prima ora, Giovanni Ansaldo, che in questi termini si è rivolto a Palazzeschi, da Genova, il 18 novembre 1934, dopo avere letto il romanzo sulla «Nuova Antologia» (dove è uscito in cinque puntate, tra il 1° agosto e il 1° ottobre 1934, mentre il volume appare, presso Vallecchi, a metà dicembre): Il Suo non è, soltanto, il romanzo delle donne senza amore. Questa definizione è molto comoda per i recensenti, e forse per la diffusione tra il pubblico; ma non rende bene la portata del romanzo. Perché in questo, oltre alle Sorelle Materassi, c’è Remo; e a un certo punto la narrazione si sposta e si impernia, quasi, su di lui; è lui che ha l’iniziativa dell’azione. E Remo è splendido, per l’analisi sottile con cui Lei lo ha reso, Lei ha dato un tipo di quella gioventù meccanicosportiva del dopoguerra, che non se ne va più via dalla memoria. 8 P. Pancrazi, Un romanzo di Palazzeschi, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 1934, poi, con il titolo Umorismo e umanità di Palazzeschi I, in Ragguagli di Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di C. Galimberti, MilanoNapoli, Ricciardi, 1967, 3 voll., III, pp. 29-30.

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243 Lei ha veduti certi tratti amorali, rigorosamente amorali, della gioventù di oggi, e li ha resi in modo potente. [...] Nel libro non si fanno accenni e riferimenti a movimenti politici di sorta; ma il lettore vigile ed esperto fa subito, fulmineamente, i collegamenti e i raffronti. Io non so se Lei abbia pensato a questo; ma comunque, il suo romanzo è andato molto lontano. Ed è molto, molto di più che la semplice storia di due donne senza amore! Non Le dico poi, come e quanto sono innamorato di Niobe. [...] Lei fa dire a Niobe cose argutissime. Le cito soltanto l’ultime battute, della penultima pagina, quando Niobe parla dei giovanotti moderni, che ora son tutti tirati su in mutandine, come Remo, e così si abituano franchi, e senza rigiri, e più di buon cuore; quel “di buon cuore”, attribuito a un bel pendaglio da forca come Remo, è una frecciata contro tutta l’educazione moderna ginnico-sportiva, che di più acuta io non saprei trovarne9.

Remo, lo «splendido» Remo, la figura che nel romanzo «ha l’iniziativa dell’azione», si delinea questa volta – nella lettera privata di Ansaldo – soprattutto come «un bel pendaglio da forca», un prototipo dei «tratti amorali, rigorosamente amorali, della gioventù di oggi», cioè della gioventù littoria messa in vetrina dall’Italia fascista. Questa linea interpretativa, che scava sul versante negativo di Remo, non ha avuto fortuna. Non è in ballo, semplicemente, il profilo d’un personaggio, bensì in ballo sono lo spessore e la profondità del libro, il suo sostrato dolente che umanizza la comicità e la rende pensosa, umoristica. Questa linea non ha avuto fortuna, però viene in luce, nel buio inverno di guerra tra il 1942 e il 1943, nella riduzione cinematografica di Poggioli. È noto che un medesimo testo letterario può dare vita a una miriade di film diversi. A riprova di ciò, conviene ricordare che, in anticipo di sei anni su Poggioli, si occupa Mino Maccari delle Materassi come soggetto cinematografico, e ne scrive a Palazzeschi, il 13 dicembre 1936, prospettando tre differenti tipi di sceneggiatura: Secondo me, varie interpretazioni potrebbere esser fatte, e cioè una ironica, satirica, elegante e capricciosa, tipo René Clair, con balletti musica briosa, scherzi fotografici ecc.; una drammatica, genere “amaro”, tipo Stroheim (non so se hai visto Femmine Folli), col travol9

Cfr. Notizie sui testi, in A. Palazzeschi, Tutti i romanzi, I, cit., pp. 1591-1592.

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244 gimento di fragili creature sotto il cinismo del protagonista: da far strappar le lacrime ai sassi; una psicologica, “intimistica”, tipo Delitto senza passione con Claude Rains. Ma da noi bisogna tener conto della scarsa disponibilità di attori, specie maschi, tutti cafoncelli, impacciati, ridicoli, sciocchi10.

È chiaro che anche per Maccari il cardine del romanzo è il bellissimo nipote. Tra le tre soluzioni interpretative ipotizzate, l’opzione di Poggioli – nell’adattamento andato poi in porto –più si avvicina alla terza, quella psicologico-intimista, ma appoggiata, ciò che più importa, a un Remo, impersonato da Massimo Serato, abbastanza prossimo alla tipologia del bellimbusto cinico e freddo, del «pendaglio da forca». Dal carteggio di Palazzeschi con Enrico Vallecchi, conosciamo tanti retroscena del film, tanti dettagli sui tempi di lavorazione, sulle incertezze riguardo agli esterni, sulle riprese fotografiche, sulle difficoltà di regia, e anche sulla delicata e controversa scelta del protagonista maschile: «È quasi impossibile informa Aldo, da Roma, l’11 settembre 1942 - trovare il ragazzo quale dovrebbe essere, e anche questo è facile capirlo, oggi un giovane bello e forte, dai 20 ai 25 anni, bisogna andarlo a cercare solo in una caserma, e non si può toglierlo dal servizio militare per fare un film. Bisognerà contentarsi di qualcosa di mediocre che è qui sulla piazza»; quindi continua, il 17 novembre: «Il guaio non superato, insuperabile, è che manca ancora il ragazzo, manca al completo. Provini su provini non hanno dato il minimo risultato, ed è davvero un guaio che abbasserà molto il film. Il ragazzo, nel film, è ancora più importante che nel libro»; poi, il 27 novembre: «L’attore per quel personaggio [Remo] non c’è ancora, però ieri mi hanno detto di una sorpresa all’orizzonte. Può darsi che la provvidenza abbia provveduto all’ultimo momento, se no c’è Massimo Serato che è disponibile, e che farebbe molto volentieri quella parte. Il fisico non è proprio quello, però ha dei numeri per quella parte, ed è già attore esperto». La «provvidenza» non ha «provveduto», neanche «all’ultimo momento», e Serato s’è preso la parte che voleva. Fatto sta che il 10

Ivi, p. 1634.

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Remo della pellicola ha suggerito a Mino Argentieri l’inconfondibile fisionomia del giovinastro fascista11, non per convinzioni ideologiche, perché quella di Remo non è una testa pensante, ma per affinità con la mitologia del regime, per la vitalistica iattanza che recalcitra all’etica dello studio e del lavoro, pronta a eccitarsi di fronte agli spassi, ai soprusi violenti, alle gozzoviglie e al rombo dei motori. Poggioli, analista raffinato, viene dalla pittura d’ambiente della commedia sentimentale degli anni Trenta, e tratteggia un Remo ostentatamente seduttivo, opportunista e ipocrita, che smentisce il brio e la godibilità della commedia, tanto da introdurre, o insinuare, nell’impianto d’un codice brillante ampiamente collaudato, una frizione angolosa, acre e amara. Annuncio, o presagio, di quella disabbellita realtà del neorealismo che è alle porte. Nell’elegante intrattenimento della cornice, s’infiltrano una nota di risentimento morale, una vena di squallida mediocrità, un’ombreggiatura cupa e severa, ovvero il tratteggio beffardo d’un comportamento e d’un costume che sono verdetto di condanna contro l’insolente amoralità dell’Italia fascista. La struttura della commedia non si spezza, com’è naturale e giusto, ma la guardatura disincantata che s’avverte nel film smorza il sorriso dello spettatore. Forse il veto governativo, che impedisce nel 1943 l’uscita della pellicola, ha a che fare proprio con questa pungente sconsacrazione della maschilità trionfante. Nel 1951, a Napoli, Vitaliano Brancati tiene una conferenza sul comico nei regimi totalitari e parla delle zitelle palazzeschiane e del loro nipote, definendolo «un molto virile, rozzo e spregiudicato ragazzo». Nelle Materassi – continua Brancati – «parve di vedere la storia dell’Italia, della onesta, laboriosa, povera Italia che d’un tratto s’innamorava di un avventuriero. Guardato così, il romanzo è anche profetico». Brancati muore nel settembre 1954 e il testo della sua conferenza appare postumo, il mese successivo, su «Il Mondo». Lo legge un letterato raffinato come il celebre parodista Paolo Vita-Finzi e ne resta trasecolato, essendo abituato, secondo la norma vulgata, a vedere in Remo «un simpatico mariuolo; mariuolo sì, Cfr. M. Argentieri, 1940-1943. I “formalisti” italiani, nell’opera collettiva La bella forma. Poggioli, i calligrafici e dintorni, a cura di A. Martini, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 181 sgg. 11

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ma simpatico»12, ovvero il frutto d’una fantasia allegra e innocente. Vita-Finzi si consulta con Pietro Paolo Trompeo, illustre francesista alla Sapienza di Roma, e anche Trompeo casca dalle nuvole e resta trasecolato, tanto da giudicare la posizione di Brancati «stranissima e cervellotica». Trompeo però vuol vederci chiaro e scrive, il 22 gennaio 1955, a Palazzeschi, che è suo amico. Lo scrittore ritarda nel rispondere, ma risponde, il 2 marzo. Come in altre occasioni s’è dichiarato a favore della linea interpretativa inaugurata da Pancrazi, questa volta dà invece ragione a Brancati, ovvero anche a Poggioli e a Ansaldo: «il mio libro S. M. – sostiene Palazzeschi – aveva realmente intenzioni frondiste ben precise». Al che Trompeo si ricrede, ammette di essere stato troppo precipitoso nel rifiuto e riconosce «preziosa» l’indicazione di Aldo. Rigido, invece, nel negare quest’interpretazione resta Vita-Finzi, che sospetta addirittura una burla dell’ex saltimbanco: «Dobbiamo quindi rinunziare – si domanda perplesso – a vedere nel libro […] una gioiosa esaltazione della vita spontanea, al di là del bene e del male?»13. Sì, dobbiamo rinunciare. La risposta di Palazzeschi vale quello che vale, perché è il romanzo che importa e non la voce dell’autore, a distanza di vent’anni. E il romanzo dice che sono due i volti di Remo, antitetici e compresenti, sì da renderlo ambiguamente poliedrico e complesso, capace di comunicare un fascino malefico. Determinante, nell’edificio dell’opera, è questo suo bifrontismo di an12 P. Vita-Finzi, Un’allegoria di Palazzeschi, in «Nuova Antologia», ottobre 1972, pp. 226-229. L’articolo, che rievoca circostanze legate alla lettura del saggio di Brancati nell’ottobre 1954, prende spunto dal rinnovato interesse per le Sorelle Materassi dovuto alla riduzione televisiva del settembre 1972 (sceneggiatura di Luciano Codignola e Franco Monicelli, con la collaborazione di Fabio Storelli, regia di Mario Ferrero). 13 Sull’intera vicenda Brancati, Vita-Finzi, Trompeo e Palazzeschi, cfr. G. Tellini, L’ambiguità di Remo, nell’opera collettiva Studi sul 900 toscano offerti a Giorgio Luti in occasione del suo 80° compleanno, a cura di E. Ghidetti e A. Nozzoli, Firenze, Comune di Firenze, 2006, pp. 133-147. Per altre esplicite dichiarazioni di Palazzeschi in merito alle «intenzioni frondiste» del romanzo, cfr. almeno L. Rèpaci, Palazzeschi l’olimpico, in «Tempo», Milano, 27 giugno 1957, pp. 38-40 e 42, poi, con il titolo Aldo Palazzeschi, in Compagni di strada, Roma, Canesi, 1960, pp. 15-28; A. Chiesa, Palazzeschi in salottino, in «Il Mondo», 12 marzo 1963, pp. 10-11.

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gelo benefico e di despota nefasto. Coabitano in lui, la «fatalità della bellezza», l’eclatante fisicità, la gioiosa spensieratezza dei sensi e, insieme, la violenza dello scazzottatore, l’arrogante alterigia di chi si sente capo e dominatore. Si sa che la carta stampata è una cosa e che il film è tutt’altra cosa, la quale deve rispondere ai requisiti d’un differente codice espressivo. La riduzione cinematografica di Poggioli s’allontana dall’ardua tessitura che tiene in equilibrio nel romanzo il bifrontismo di Remo. Batte altre strade, condensa, taglia e aggiunge, impiega altri accorgimenti, ricorre a proprie specifiche risorse tecniche. Però va notato che nella fortuna delle Materassi – a parte l’antecedente della lettera privata di Ansaldo – il film di Poggioli è il più significativo attestato pubblico del controcanto drammatico che connota la figura del bellissimo nipote, rivelando il volto oscuro d’un personaggio abitualmente celebrato come diurno e solare. E non è un caso se la pellicola può essere proiettata per la prima volta, nelle sale di Roma, soltanto nel gennaio 1945. Ho considerato sin qui, in sintesi, i dati relativi alla storia effettiva dell’incontro di Palazzeschi con il cinema. Ma un’altra storia esiste, non effettiva ma virtuale, e riguarda non i risultati raggiunti ma le trasposizioni concordate e rimaste allo stadio di progetto. Non intendo considerare il romanzo Roma, del 1953, che ha acceso invano l’interesse di tanti registi e che non pochi tratti ha in comune con Roma (1972) di Fellini. Anche in Palazzeschi la topografia urbana diventa persona e la città acquista ruolo di protagonista; anche la sua fantasmagorica Roma scaturisce da un liberissimo montaggio di figure, di pannelli, di sequenze, da una variegata matassa di rapporti e di antitesi: «Roma: – scrive Palazzeschi – giovane e decrepita, povera e miliardaria, intima e spampanata, angusta e infinita»14. E nel film di Fellini il personaggio del regista commenta con il ricorso, se non alle stesse parole, alle stesse coppie ossimoriche: «Roma aristocratica e stracciona, tetra e buffonesca». Desidero invece riferirmi, sempre in rapidissima sintesi, a I fratelli Cuccoli, che escono nel 1948, nel pieno vigore della stagione A. Palazzeschi, Roma, in Tutti i romanzi, II, a cura e con introduzione di G. Tellini, Milano, Mondadori, 2005, p. 665. 14

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neorealistica. Si afferma di solito che il romanzo, nel quadro delle parole d’ordine allora vigenti, va contromano o controcorrente. Meglio, invece, dire che propone una variante eccentrica del neorealismo, così come eccentriche sono le Sorelle Materassi nel clima del «nuovo realismo» degli anni Trenta. Anche nei Cuccoli – secondo i canoni della narrativa coeva – entrano in scena il tema della guerra appena conclusa e il dramma dei lutti di guerra, il passaggio del fronte sull’Appennino tosco-emiliano, l’umile realtà d’un ceto medio-borghese indaffarato nella difficile ripresa postbellica, e altro ancora. Anche nei Cuccoli s’affaccia la questione dell’“eroe positivo”, che tanto ha affaticato teorici e critici militanti e accademici nei dibattiti degli anni Cinquanta. Però l’acrobatico Palazzeschi non può appagarsi al referto della cronaca o della memoria o del fatto accaduto. Ha bisogno di attraversare la superficie delle cose, per scoprirne le risonanze inascoltate, ha bisogno di interrogarle, di vederle in una luce che le liberi dalla piattezza dell’assuefazione. D’accordo in questo con l’amico Gadda che, in Un’opinione sul neorealismo, del 1950, ha contestato la «tremenda serietà del referto» cara ai cronisti neorealistici, dalla quale, a suo parere, «risulta al racconto quel tono asseverativo che non ammette replica, e che sbandisce a priori le meravigliose ambiguità di ogni umana cognizione». Sempre Gadda: Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni e le irragioni del fatto… Il fatto in sé, l’oggetto in sé, non è che il morto corpo della realtà, il residuo fecale della storia… Scusa tanto15.

L’“eroe” del romanzo palazzeschiano, l’esile e fragile Celestino Cuccoli, biondo con gli occhi azzurri, cerca di vivere quella che Saba chiama la «calda vita», cerca di attingere nel grigiore del quotidiano il miraggio della libertà e della leggerezza. Rifiuta la nozione del possesso, dei soldi, dell’avere, per dare ascolto alla voce delC.E. Gadda, Un’opinione sul neorealismo, in I viaggi la morte, Milano, Garzanti, 1958, p. 212. 15

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l’essere, a un’istintiva e puerile naturalezza, al mistero di una libido festosa, al piacere creaturale di esistere, alla letizia del sacrificio di sé, alla gioia di regalare senza limiti la felicità a chi gli vive accanto. È stato facile parlare di evasione fantastica. Ma non è così. Palazzeschi va sempre per suo conto, ma non è mai indifferente o distratto dinanzi alle ragioni della storia, al dramma della storia. Il candido Celestino deve misurarsi con l’opacità del mondo durante la guerra e il dopoguerra, con gli antagonismi e le resistenze della società, con gli ostacoli e le barriere del giorno per giorno. Perciò nel romanzo è guardato in controluce dall’angolo visuale di quanti lo considerano un pazzo, secondo l’etica economica dell’opinione comune, perché la realtà – l’esperienza della convivenza associata che chiamiamo realtà – pare debba imporre un codice di leggi non scritte ma tassative, che prescrivono misura, limite, calcolo, profitto. Ma anche da parte del narratore traspare una velatura umoristica che ammonisce sull’eccezionale diversità di questa celeste leggerezza, che non è moneta d’uso corrente. Se l’impulso edonistico e libertario è riversato su un personaggio anomalo, esposto alla luce radente dell’ironia, significa che quella libertà, quell’innocenza, quell’istintiva naturalità, quella vocazione all’amore, riflesse in uno specchio che le fa apparire abnormi o assurde, si rivelano anche agli occhi dell’autore, per quello che sono: un dono raro e prezioso riservato a pochissimi, perché pochissimi sono gli spiriti liberi. Palazzeschi «non è – ha scritto Gadda – e non può ritenersi un grosso calibro dell’epica: nella più o meno stridula o affiatata orchestra, degli scrittori nostri del secolo, egli non è di certo il trombone [...], egli è [...] l’aedo triste d’una labile, d’una momentanea felicità. La felicità sembra sfiorarci un attimo […] e già si dissolve nel nulla»16. Nel clima di alta tensione dell’Italia 1948, sulle macerie di un paese semidistrutto, mentre vige l’obbligo dell’impegno e della militanza sociale, mentre la narrativa europea reclama istanze di carattere ideologico, professioni di fede politica, registrazioni d’eventi, resoconti d’esperienze vissute e di fatti accaduti, I fratelli Cuccoli Id., I tre imperi, in «Il Mondo», 15 giugno 1946, poi in Il tempo e le opere. Saggi, note e divagazioni, a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1982, pp. 169-170. 16

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dischiudono, leopardianamente, uno spiraglio enigmatico e surreale sul tema dell’umana felicità. L’arte di essere infelice s’intitola uno dei tanti “disegni letterari” che Leopardi si è proposto invano di scrivere: «Quella di essere felice» ha annotato «è cosa rancida; insegnata da mille, conosciuta da tutti, praticata da pochissimi, e da nessuno poi con effetto». Celestino Cuccoli è tra i «pochissimi» che l’hanno praticata, e (per quanto sta in lui) non senza «effetto». L’eccentrico Palazzeschi non devia e non evade dalle ragioni storiche che premono alla coscienza della derelitta e operosa Italia nel periodo della ricostruzione, ma anzi collabora a una nozione di narrativa neorealistica più mobile e più libera di quanto comunemente si crede. Dopo l’esperienza delle Sorelle Materassi, anche per I fratelli Cuccoli sembra presentarsi la possibilità d’una riduzione cinematografica. Aldo ne parla con Enrico Vallecchi, da Roma, il 28 luglio 1948: «mandami a dire, per favore, con la possibile sollecitudine, se tu hai nulla in vista o in ponte per il Cinematografo, perché a me si presenta un’occasione che non voglio lasciare intentata». Poi il 3 settembre: «Ora bisogna stare attenti per il film, anche la “Lux” mi hanno detto, lo sta discutendo. Io so che non si presta per un film, ma se ci fosse un regista straordinario, forse Castellani, potrebbe riuscire». L’«occasione» che non vuole lasciare «intentata» riguarda la Lux Film, come conferma una lettera che Riccardo Gualino, fondatore e presidente della Casa cinematografica, invia a Palazzeschi, da Roma, il 23 giugno 1948: Conosco pressoché tutte le opere Sue, ma questa [I fratelli Cuccoli] mi pare fra le sue più belle. Che tipo quel Signor Cuccoli, e quanto inaspettato! Nei Suoi libri Lei ci ha presentato sovente dei campioni di umanità molto originali che balzano d’improvviso dalla narrazione come da una scatola a sorpresa, ma quel Cuccoli che adotta quattro figli e s’innamora in tarda età e si decide poi a morire il giorno delle nozze è d’un imprevisto e d’un comico e d’una malinconia eccezionali.17

Nonostante l’interessamento della Lux Film e l’ipotesi d’una regia affidata a Renato Castellani, il progetto non decolla. Ma l’idea del 17

Cfr. Notizie sui testi, in A. Palazzeschi, Tutti i romanzi, II, cit., pp. 1423-1424.

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film resiste nel tempo e sappiamo che, sotto la regia di Mauro Bolognini18, il ruolo di Celestino è proposto a Totò, che avrebbe dovuto interpretarlo nel 196719, se la morte non l’avesse sorpreso all’improvviso, nell’aprile di quell’anno. Celestino Cuccoli impersonato da Totò avrebbe reso raggiante Palazzeschi, che dell’attore ha parlato molti anni prima, su «Epoca», nel gennaio 1950: A questo mondo si soffre, si piange, si muore ma non dimentichiamo di ridere. Diffidate di quelle civiltà nelle quali non fiorisce l’umorismo, diffidate dei tempi nei quali s’inaridiscono le sorgenti del ridere. Abbiamo attraversato ore di angoscia e di dolore, di umiliazione, privazioni e sofferenze fisiche d’ogni genere, i nostri migliori registi le hanno sapute cogliere con passione in film che rimarranno famosi, ma c’eravamo dimenticati di ridere, avevamo perduto la gioia di vivere. Totò è il richiamo all’ordine della civiltà. Per questo la parte semplice del pubblico, immensa parte, segue con fedeltà questo artista, lo ama, e qualunque cosa faccia, gli piace. Totò è, probabilmente, il solo comico che abbiamo. Molti sono buoni a fare della comicità, mille espedienti aiutano per farne, ma il comico genuino è, come il poeta, un fatto naturale. [...] Totò si nasce. […] Totò è apparso all’orizzonte del cinema come arcobaleno dopo il temporale20.

Palazzeschi ama Totò, senza riserve e senza sofismi intellettuali, perché si schiera dalla «parte semplice del pubblico», lui che confiderà a Mondadori, nel 1958: «Vorrei essere amato dalle creature semplici e non discusso dai sapienti di letteratura»21. Sente Totò 18 «Bolognini medita inoltre per lui [Totò] la riduzione cinematografica di I fratelli Cuccoli di Palazzeschi e la scelta di Totò ha tutto il consenso dello scrittore» (Totò, a cura di G. Fofi, Roma, La Nuova Sinistra, 1972, p. 41). 19 Cfr. A. Anile, I film di Totò. 1946-1967. La maschera tradita, Recco-Genova, Le Mani, 1998, pp. 389 e 438. 20 A. Palazzeschi, Totò, in «Epoca», 9 dicembre 1950, p. 75, poi in Cinema, a cura di M.C. Papini, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura-Università degli Studi di Firenze, 2001., pp. 23-25. 21 A. Palazzeschi a Arnoldo Mondadori, Venezia, 21 settembre 1958, in Arnoldo e Alberto Mondadori-A. Palazzeschi, Carteggio 1938-1974, cit., p. 74.

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non solo a sé congeniale, ma consanguineo: «il comico genuino è, come il poeta, un fatto naturale». La gioia di vivere, che riscatta dalle ore di disperazione e di angoscia, che libera dalle umiliazioni e dalle sofferenze fisiche, la naturalezza dell’esistere, la comicità come antidoto alla pena, il riso come «controdolore», l’«arcobaleno» che sopraggiunge dopo il «temporale»: ogni pensiero rivolto a Totò è un pensiero rivolto a Celestino Cuccoli, all’“eroe” d’una aerea leggerezza che significa istintivo amor vitae e che riesce a rendere tangibile il miraggio della felicità. Non la felicità di sapore classico, che è calma interiore e pacatezza dello spirito, ma la felicità che nasce dal piacere anche effimero e istantaneo, anche dall’intensa emozione del desiderio. La felicità che può fiorire in mezzo alle macerie. Non vuol dire evasione nell’utopia, perché è Leopardi a ricordare che «A goder della vita, è necessario uno stato di disperazione» (Zibaldone, 2555, 6 luglio 1822). Quando su «Epoca», nel febbraio 1951, Palazzeschi presenta Miracolo a Milano di De Sica, dichiara d’ammirare senza limitazioni gli «scoppi di gioia» che animano la «colonia felice»22 dei barboni, fieri della loro libertà di spirito e di fantasia, mentre è disturbato dalle dissonanze caricaturali che richiamano quelle figure al loro triste ruolo di subalternità sociale. L’amor vitae palazzeschiano è una condizione dell’essere, indipendente dalla sfera dell’avere: ulteriore prova, nel 1948, di un eccentrico neorealismo.

A. Palazzeschi, Miracolo a Milano, in «Epoca», 17 febbraio 1951, p. 71, poi in Cinema, cit., p. 49. 22

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TONINO VALERII

Oggi e allora, il Neorealismo rivisitato

Prima di dare inizio a questo mio contributo sul tema che ci impegna, vorrei che credeste che non è qui che mi sento a mio agio e che sarei molto più felice a sedere fra voi ad ascoltare i molti che sull’argomento ne sanno più di me. Tema che è di quelli da far tremare i polsi anche a persone, a professionisti, che alla materia hanno dedicato una vita. Un incitamento mi è venuto dalle splendide lezioni sul neorealismo tenute l’estate scorsa al Middlebury College dal professor Vitti che ringrazio per l’invito; e sempre nello stesso periodo l’invito rivoltomi dall’Istituto tedesco di cultura di Roma alla proiezione di una copia restaurata di Germania, anno zero di Roberto Rossellini. Il film è del 1947 una data che traccia una linea di demarcazione tra la guerra ancora non conclusa e il primo mortuario dopoguerra. Rossellini che ha perso da poco il primogenito, durante la realizzazione del film sembra ottenebrato da un oscuro cupio dissolvi. Si accinge quindi a tracciare il ritratto di un adolescente il cui agire viola gli stessi comandamenti di Dio. L’adolescente, Edmund, unico sostegno della famiglia composta dal padre inabile, una sorella maggiore prostituta suo malgrado e un fratello imboscato, si guadagna da vivere disseppellendo le vittime dei bombardamenti per dargli onorata sepoltura. Lavoro che compie con impegno malgrado l’esigua figura adolescenziale e denutrita. Su istigazione di un suo vecchio maestro ex nazista avvelena il padre invalido, inutile bocca da sfamare. E dopo aver vagato come un automa in una Berlino ridotta ad un cumulo di macerie, si toglie la vita. Dalle stragi di guerra (Paisà) e dalle torture (Roma, città aperta) Rossellini

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approda alla più tremenda delle trasgressioni, quella al dettato di Dio: “Onora il padre e la madre” e “Non uccidere”. Quando si reca dal suo ex insegnante per portargli la notizia del delitto che ha commesso, di fronte alla isterica negazione di averglielo mai suggerito, Edmund disperato fugge fra i cumuli di macerie – metafora di quelle interiori – cerca aiuto dai suoi coetanei ma non ne riceve; si sofferma ad ascoltare la musica sacra che gli giunge dai ruderi di una chiesa; recupera l’innocenza dell’infanzia giocando su un percorso tracciato sullo sconnesso marciapiede; si copre gli occhi per resistere all’orrore e infine si lascia andare dalla cima di un palazzo semiabbattuto, nel vuoto. Secondo il parere di molti esegeti con Germania, anno zero e l’ultimo episodio di Paisà, Rossellini tocca l’apice dell’arte sua e, aggiungerei, di tutto il neorealismo. Il cattolico Rossellini traccia consapevolmente un percorso iniziatico e rivela la veritiera natura della sua visione della vita e della fatica che l’uomo, qualunque uomo, deve affrontare per giungere a una sola irredimibile verità: la vita segue un tragitto di cui all’uomo è negata la conoscenza e che ne fa un eroe per il solo fatto di percorrerlo. Le riflessioni indotte dal prof. Vitti e l’impatto dalla visione del film di Rossellini sono state importanti per riaprire nei miei ricordi un varco profondo ed emotivo. Il neorealismo, ovvero quel breve intenso segmento della nostra storia del cinema cui si fa riferimento ogni qual volta si citi il cinema dell’ultimo periodo della seconda guerra mondiale, cioè dell’occupazione nazista, della liberazione, ma anche dell’Italia sommersa che non aveva avuto voce e che esigeva di essere narrata, si pone ormai a una distanza ragguardevole. Questa Italia irruppe all’improvviso sullo schermo con una veemenza certo inaspettata. Non che non ve ne fosse stato sentore. Già nelle opere degli anni precedenti s’erano intravisti segni di un certo cambiamento; per esempio: Fari nella nebbia del millenovecentoquarantadue aveva orientato il trentenne Gianni Franciolini, a frugare nel mondo inquieto della gente che si guadagna da vivere faticosamente, fra i camionisti e gli ambienti che frequentano; fra incontri notturni, strade polverose, trattorie, caffetterie, mercati, postriboli molto distanti

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dagli ambienti lucidati a specchio, saloni con mattonelle bianche e nere, che apparivano nei film cosiddetti dei telefoni bianchi. Franciolini srotolava, senza neanche tanta fantasia, la storia di un adulterio proletario (cosa mai vista nel cinema fino ad allora e per averne ulteriori esempi si dovette aspettare prima Ossessione di Luchino Visconti, quindi Il grido di Michelangelo Antonioni del 1957, da ascrivere – a ragione – fra le sue opere più intense e più riconducibili al neorealismo). Pure, film del genere se ne vedevano nel cinema francese, in quello tedesco, e finanche in quello americano che arrivavano dosati col bilancino, ormai anche nel nostro paese. Nella Francia del front populaire di Leon Bloom, e delle “maisons du peuple” agivano registi come Jean Renoir (La Marsigliese); Marcel Carné (Les visiteurs du soir, Les enfants du Paradis); Renè Clair (Sotto i tetti di Parigi, Parigi che dorme, Quattordici luglio). Questi registi mostravano operai, piccoli borghesi, bottegai in quartieri pulsanti di vita, di amori, e di delitti, dando della Francia un ritratto veridico e commovente. Così come da oltre oceano giungevano le voci di autori come John Ford (Furore), King Vidor (La folla, Alleluia), Frank Capra (È arrivata la felicità) e moltissimi altri – ma come citarli tutti? – dalle cui opera si levava la voce stessa della gente comune. Dalla cinematografia tedesca arrivava, invece, il fenomeno dell’espressionismo, una specie di sismografo che aveva registrato il lento inesorabile cammino che avrebbe portato la Germania «from Caligari to Hitler». Anche Roma, città aperta nella scena della tortura dichiara un debito nei confronti dell’espressionismo nell’inquadratura del torturato messa a confronto con un torchio riflesso dietro di lui. In Italia i sintomi che preannunciarono il neorealismo furono due, non necessariamente ispirati alle cinematografie sopracitate, ma che tuttavia davano forma a qualcosa capace di rimettere in moto processi narrativi obsoleti, il mostrare l’uomo e le sue capacità di indignazione. Il primo di essi è I bambini ci guardano di Vittorio De Sica tratto da un romanzo di una certa notorietà: Pricò di Cesare Giulio Viola; l’altro, Ossessione di Luchino Visconti tratto dal romanzo Il

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postino suona sempre due volte dell’americano James Cain. Diversi fra loro quanto lo erano nella vita i due registi, avevano in comune un variegato sentimento del tempo ed una irrefrenabile necessità di raccontare o meglio di mostrare paesaggi e personaggi dal basso. Nel film di De Sica tutto passava attraverso lo sguardo dolente di un bambino, testimone dell’adulterio materno, in quello di Visconti un rude bianco e nero registrava uno scenario del tutto nuovo. La bassa padana sostituiva la realtà americana e rendeva protagonista della storia uomini e donne sradicati e in cerca di emozioni poco rappresentate. Sullo schermo irrompono vagabondi, disoccupati, reduci di improbabili guerre, prostitute che alludono o praticano comportamenti trasgressivi, personaggi border line, che passano come meteore. La provincia americana degli assicuratori, dei benzinai, dei commessi viaggiatori, delle pianure punteggiate di pompe di benzina e motel, si trasforma in Ossessione in una vasta, assolata e polverosa bassa ferrarese; nelle osterie come quella del Bragana, nelle fiere e nei concorsi canori e nel postribolo di Ferrara. Ma bisogna farne ancora molta di strada prima di intravedere il neorealismo. Bisognerà aspettare che nel paese si verifichi una svolta di storica portata: che si determini, cioè, quel sollevamento popolare capace di scuotere le coscienze e convincere il popolo a prendere la via della montagna. Un po’ di mesi prima che ci lasciasse, durante una delle tante conversazioni con Giuseppe De Santis, Peppe – come affettuosamente si lasciava chiamare dagli amici – pronunciò una frase che mi colpì. Cito a memoria: «Il neorealismo, che sarebbe più giusto chiamare neo-umanesimo ebbe molti padri incerti ed una sola autentica madre. La resistenza». Quanto al termine neo-umanesimo lo coniò per sottolineare in quel movimento la centralità dell’uomo. L’uomo che lavora, che soffre che «fa crescere il grano» come recita il titolo di un suo soggetto mai realizzato per l’avversione dell’industria e delle istituzioni, nei confronti di tematiche socio-antropologiche emergenti. Quanto alle incertezze di paternità De Santis ne faceva carico alle troppe definizioni à la main, che attribuivano la nascita del nuovo soggetto a fatti contingenti come l’occupazione dei teatri di posa;

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dall’irreperibilità degli attori; dalla mancanza di energia elettrica e pellicola. Sicuramente delle concause che comunque non impedirono a Rossellini, De Sica e Visconti di realizzare i loro film. De Santis assisté alla nascita del neorealismo da un osservatorio privilegiato: il set di Ossessione. Al fianco di Visconti egli contribuì a definire e a delimitare quella griglia dentro i cui parametri si sarebbero mossi tutti i film della corrente neorealista (tra cui il suo Caccia tragica) e che costituirono il nucleo più avanzato di quel soggetto politico-culturale che avrebbe assunto il nome di neorealismo. Di quel mito cosa resta ai nostri giorni? Cosa resiste di quella spinta che anticipò la nascita della nuova Italia? Autori come Rossellini, De Sica, Visconti e De Santis gettarono una semenza che alimentò per un decennio circa la crescita di molti giovani che si gettarono con entusiasmo a fare il cinema. Perciò quella semina diede abbondanti frutti. Ma dei maestri che ne è stato? Vittorio De Sica moriva nel 1974. I funerali rappresentarono un evento di portata mondiale. La folla straripante, le notizie innumerevoli. Poi con calcolata lentezza tutto fu riassorbito. Eppure, di Vittorio De Sica, Cesare Pavese ebbe a scrivere che lo si poteva considerare «il più grande narratore del secolo». Mentre di Ladri di biciclette Orson Welles, ma non solo lui, disse senza infingimenti che lo considerava il più bel film che avesse mai visto. André Bazin infine scrisse che per definire De Sica «si è imperiosamente portati al principio stesso della sua arte intrisa di tenerezza e amore. Ho parlato di amore ma avrei potuto dire anche poesia. Essendo la poesia nient’altro che la forma attiva creatrice dell’amore, la sua proiezione nell’universo». Destino peggiore toccò a Rossellini da cui tutto aveva avuto inizio. Solo in Francia sua patria elettiva il suo nome continuò a rifulgere per merito di una generazione che si riconosceva nella sua lezione di umanesimo. L’aristocratico Visconti aveva i suoi canali privilegiati e fu l’unico che lasciò allievi che seppero tramandarne l’arte e la memoria. L’intellettuale, il nobile, il marxista Visconti non dovette fare alcuna fatica per appuntare il suo ritratto nella galleria della storia del

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cinema. Vero è che fu l’unico che tenne e seppe rinnovare il suo stile e le sue tematiche ad un livello di prestigio. Ma tornando a Pavese su De Sica: non vi sareste aspettati un premio letterario intestato al Maestro? non vi sareste aspettati una riflessione di qualche altro tipo su Roberto Rossellini? Certo l’opera di Rossellini non è meno importante delle decine di libri, romanzi e/ o memorie di guerra, resistenza, e liberazione passati dai magazzini degli editori ai remainders clubs. Né mi sento di affermare che la poesia di Paisà e di Germania anno zero non meriti uguale attenzione di opere letterarie ben diversamente giudicate. Chi lo dice che l’opera di Rossellini debba cedere il passo ai romanzi di Berto e di Calvino? Chi può sostenere che il bellissimo personaggio della sora Pina tratteggiato dalla Magnani con commovente bravura, sia inferiore a quello de La romana di Moravia? E chi può infine sostenere che Germania anno zero debba inchinarsi a tanti film sulle macerie morali della guerra? Ammettiamolo: la mia è una provocazione. Ma chiunque si accinga a mettere in atto un ripensamento sul o del neorealismo, qualsiasi ripensamento, dovrà dare risposte a queste incomode domande.

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ENRICA VIGANÒ

NeoRealismo – la nuova immagine in Italia 1932-1960

In una lettera che mi scrisse Mario Giacomelli ai tempi in cui iniziai ad occuparmi di neorealismo ritrovo una sintesi – sotto forma di versi – del mio sentimento verso questo fenomeno della storia fotografica italiana: «Realtà come noi stessi / come disciplina interiore / come pelle e anima». Nella miriade di immagini, che in dieci anni ho visto e raccolto, ho percepito infinite volte sottili vibrazioni di pelle e anima. L’approccio scientifico mi ha condotto poi a fare dei distinguo ben precisi tra le diverse istanze e modalità del neorealismo, ma quell’incanto verso «una vera carità di tempo, di occhi e di orecchi, data ai fatti, alla gente del proprio paese» – per citare Cesare Zavattini – è rimasto intatto1. Forse è proprio l’entusiasmo nel costruire una nuova immagine dell’Italia, attraverso le storie che non hanno fatto storia, ma hanno tessuto la vera trama di quello che siamo oggi, il motore primo di tutto il progetto. Il volume e la mostra cercano di dare una lettura coerente e articolata del periodo che va dal 1932 al 1960, dando visibilità a materiali di varia natura mai raccolti in uno stesso contesto. Negli Annali Einaudi del 1979 Carlo Bertelli2 individua già nei primi decenni del secolo i germi del neorealismo. La poetica neorealista risulta, infatti, da una concatenazione di eventi storici e spinte E. Taramelli, Viaggio nell’Italia del Neorealismo, Torino, S.E.I., 1995, p. 131. C. Bertelli e G. Bollati, Storia d’Italia, annali 2, L’immagine fotografica 18451945, Torino, Einaudi, 1979, p. 122 e p. 188. 1 2

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ideali che non possono esaurirsi e spiegarsi nella convinzione finora più diffusa, e cioè che alla fine della guerra sorga improvvisamente una nuova fotografia, grazie semplicemente alla ritrovata libertà e in reazione agli anni bui del fascismo. Circoscrivere questo fenomeno al dopoguerra è fuorviante, anche se effettivamente il neorealismo in fotografia raggiunge i suoi splendori e la sua maggiore popolarità proprio negli anni ’50, sulla scia del successo del cinema neorealista. Ma prima, molto prima, la documentazione della realtà aveva già trovato modo di crearsi una nuova strada nel linguaggio fotografico. Nel 1932 la mostra della rivoluzione fascista consacra la fotografia come mezzo di comunicazione di massa, connotandone il valore educativo e divulgativo. Grande spazio e attenzione vengono riservate dal regime all’immagine fissa, in aggiunta a tutte quelle novità tecnologiche emerse in breve sequenza: la radio, il rotocalco e il cinema sonoro. Elementi funzionali ai grandi apparati informativi dei regimi e dei governi degli anni Venti e Trenta, capaci di amplificare la pressione comunicativa degli apparati sui cittadini. Le immagini fotografiche costituivano la “prova” delle dichiarazioni di Mussolini, testimoniavano in modo “inequivocabile” la verità e l’affidabilità delle sue parole. Era ancora difficile distinguere tra informazione e propaganda, ma intanto il popolo analfabeta aveva scoperto un linguaggio accessibile a tutti, dal nord al sud, al di là dei dialetti e del ceto sociale. Ovviamente la maggior parte della produzione fotografica, come i famosi cinegiornali, era sotto lo stretto controllo della censura fascista. Anzi, a prescindere da questa, era ben chiaro a tutti quello che era conveniente documentare e quello che non lo era, ma come sempre nelle maglie di una struttura rigida si annidano eccezioni e contraddizioni. I fotografi addestrati a riprendere il “mondo reale” si trovarono tra le mani uno strumento che offriva molte più potenzialità di quelle sfruttate dal regime. Succede quindi che, accanto alle immagini dei lavoratori orgogliosi e sorridenti per il “benessere” creato dal Duce, gli obiettivi inquadravano anche situazioni di arretratezza e miseria o tradizioni popolari in netto contrasto con la

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modernizzazione proclamata dal fascismo. Autori come Luciano Morpurgo, Pasquale De Antonis, Giacomo Pozzi Bellini in quegli anni pensarono bene di custodire certe immagini nei loro cassetti, in attesa di momenti migliori in cui il loro integro sguardo potesse essere apprezzato. Nei tardi anni ’30 si sviluppa anche un altro importante veicolo del realismo, il fotogiornalismo dei rotocalchi. Le riviste illustrate saranno un altro luogo di verifica delle potenzialità del linguaggio fotografico. In quell’epoca la maggior parte delle immagini vengono fornite gratuitamente ai periodici dall’Istituto Luce, ma altre pieghe della rigida struttura vengono a formarsi tra le pagine dei giornali, che accanto alla contemplazione delle gesta del Duce riescono a volte a inserire scene di vita vera. È il caso di riviste come «Omnibus» di Leo Longanesi illustrata con le fotografie di Cesare Barzacchi, settimanale di attualità politica e letteraria, che verrà chiuso dalla censura fascista dopo meno di due anni di attività. Oppure «Tempo» di Alberto Mondadori, che adotterà il foto-testo come formula per narrare i fatti, con il contributo innovativo dei fotogiornalisti Lamberti Sorrentino e Federico Patellani. Sfugge alla censura anche l’uscita di Occhio Quadrato di Alberto Lattuada, pubblicato da Corrente nel 1941, che persegue l’obiettività dello sguardo a dispetto della dominante ricerca formale. Il quadro che qui presentiamo del periodo prima della Liberazione non poteva non includere altre esperienze fondamentali nell’evoluzione linguistica della fotografia italiana, come i paesaggi antipittoreschi dell’architetto Giuseppe Pagano e i fotomontaggi di Luigi Veronesi applicati alla grafica e alla pubblicità; senza tralasciare l’esperienza di Stefano Bricarelli o esempi di reportage professionale come quelli di Fedele Toscani e Tullio Farabola. In tutto ciò non bisogna dimenticare che il dibattito sulla fotografia in Italia è ancora in mano per lo più ai circoli fotoamatoriali, dediti alla ricerca formale e scevri da ogni preoccupazione di documentare la realtà. Bisognerà aspettare il dopoguerra per sentire le prime voci alzarsi contro l’estetismo fine a se stesso. Da questo

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dissenso nasceranno nuove associazioni di fotografi, prorogando per lunghi anni la diatriba tra le fazioni opposte. Una sintesi di queste dinamiche era necessaria nel nostro excursus per poter seguire le tappe dell’evoluzione della grammatica visiva: con Giuseppe Cavalli e Riccardo Moncalvo da una parte e Paolo Monti e Pietro Donzelli dall’altra, per fare solo alcuni nomi. La caduta del fascismo segna l’esplosione del neorealismo. La libertà d’espressione e la necessità di ricostruire una nuova identità italiana, stimolano la febbre della documentazione, della testimonianza del vero e dell’indagine sul territorio. Aprono numerose testate illustrate, iniziano gli studi etnografici, aumenta la voglia di conoscere come si vive nelle lontane province. La società è un fermento di vicende umane, che ha bisogno di essere fotografato in tutte le sue contraddizioni e in tutti i suoi luoghi. La domanda di immagini è crescente, la fotografia invade ogni genere di supporto della comunicazione: da quello più alto, rivolto ad un pubblico colto, come il periodico «Il Politecnico», in cui le narrazioni illustrate di Luigi Crocenzi godono di autonomia espressiva, fino alle brochure dei film che vengono raccontati con la formula del fotoromanzo. Nella fase di rinascita del paese prevale un tentativo di identificazione collettiva e la fotografia può esserne lo strumento, ricalcando la funzione formativa, ben sfruttata in epoca fascista, ma mettendola al servizio della democratizzazione. Si sviluppano una consapevolezza sociale e una ricerca dell’autenticità delle genti d’Italia, che segnano un felicissimo momento della fotografia, considerata oramai il mezzo per eccellenza della comunicazione visiva di massa. Il bisogno di una «riconquista del reale» (per usare un’espressione di Giulia Fanara)3 coinvolge ogni forma espressiva. Nel dibattito tra registi e autori di cinema, tra cui spicca sempre il nome di Cesare Zavattini, si troveranno le definizioni delle istanze del neorealismo. 3

G. Fanara, Pensare il neorealismo, Roma, Lithos, 2000.

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Le parole d’ordine sono: oggettività, scopo informativo, intento didattico e creazione di una coscienza sociale. Il neorealismo in fotografia, invece, non ha dei codici o, meglio, non si auto-identifica in una scuola e rimane un insieme di voci libero e, per certi versi, contraddittorio. Autori che “arbitrariamente” riconduciamo alla poetica neorealista hanno lavorato con approcci culturali assai lontani tra loro per obiettivi e intenzioni: il modo di leggere le loro opere nel contesto del neorealismo passa attraverso concetti elaborati in seguito. Siamo andati quindi a indagare e circoscrivere alcuni campi concettuali per ricollocare gli elementi che compongono questo straordinario ritratto d’Italia. Per cominciare è indispensabile andare oltre l’idea più diffusa di una connotazione prevalentemente ambientale del neorealismo, non essendo lo scenario popolare a fare di una foto un’immagine neorealista. Il fenomeno tutto italiano trova, infatti, significato in quelle pulsioni civili che contagiarono i diversi approcci: professionali, amatoriali, scientifici, politici e idealisti. Il campo più pertinente è senza dubbio quello dell’indagine-progetto. Questo è il livello che soddisfa tutte le istanze neorealiste, dall’oggettività alle finalità informative e didattiche, in sintonia con le teorie di Zavattini. L’inchiesta fotogiornalistica ne è un’espressione molto attinente, tanto più quando l’autore scompare e diventa un documentatore al servizio della realtà. Ma in questa voce si trova anche un’esperienza che ha segnato la cultura del nostro paese nel dopoguerra: lo studio etnologico che utilizza la macchina fotografica come testimone imparziale della ricerca. La scoperta del sud è il leit motiv delle missioni etnografiche di quegli anni ed Ernesto de Martino ne è il guru indiscusso. Fotografi di valore come Franco Pinna, Arturo Zavattini e Ando Gilardi ricevono da lui l’incarico di documentare i viaggi – allora assai avventurosi – di esplorazione e investigazione in regioni isolate e arretrate. «Il carattere sistematico dell’osservazione, il soggiorno sul terreno, gli appunti e i taccuini di campo, la verifica dei materiali con i nativi», come elenca Francesco Faeta4, sono metodologie coerenti con le istanze ne4

F. Faeta, I viaggi nel sud di Ernesto De Martino, Torino, Boringhieri, 1999, p. 57.

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orealiste, di cui alcuni fotografi si appropriano. Più rigoroso il Gilardi per restituire «informazioni esatte al laboratorio dell’etnogolo»5, più aperto il Pinna che scattava anche in «funzione della stampa progressista per la quale lavorava»6. Accanto all’indagine scientifica codificata, si diffonde comunque un’attitudine alla registrazione di realtà specifiche e magari in via d’estinzione che fa rientrare numerosi lavori in questo campo concettuale: la serie accurata di Tranquillo Casiraghi alla Torretta di Sesto S. Giovanni, struttura contadina alla periferia di Milano o la testimonianza di Renzo Chini, che a Piombino documenta capillarmente gli effetti della chiusura della fabbrica che reggeva l’economia della città. La fratellanza tra cinema e fotografia si concretizza anche sulle pagine della rivista «Cinema Nuovo», in cui vengono pubblicati servizi fotografici come spunto per potenziali produzioni cinematografiche strettamente neorealiste. Ricordiamo alcune pietre miliari: Borgo di Dio di Enzo Sellerio, Le invasate di Chiara Samugheo, Cronache dalla Bassa di Carlo Cisventi. Un secondo campo si può individuare con la definizione di viaggio conoscitivo, inteso come esplorazione del territorio, come raccolta di una memoria visiva del proprio vissuto. Un approccio più individuale, che mantiene però il rispetto per l’oggettività. Spesso coincide con un itinerario ideale che vuole dimostrare tesi: per esempio la necessità del progresso per combattere la miseria, o all’opposto la denuncia del pericolo che l’industrializzazione possa cancellare società arcaiche, tradizioni e identità locali. Nei fotografi viaggiatori erano frequenti l’impegno civile e la sensibilità politica, ma lo stimolo poteva scaturire da sete di conoscenza per niente influenzata da scelte di partito. Il mosaico si fa quindi più variegato e ci restituisce le cento Italie attraverso lo sguardo di narratori come Nino Migliori con Gente dell’Emilia, Pietro Donzelli con il delta del Po, Enrico Cattaneo, Ugo Zovetti e Mario Carrieri con la loro Milano, Enrico Pasquali con le mondine, Mario Giacomelli con la serie sulla Puglia, Mario Cattaneo con i vicoli di Napoli, Alfredo Camisa 5 6

F. Faeta, op. cit., p. 83. F. Faeta, op. cit., p. 76.

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con i suoi spaccati di ambienti rurali e urbani; e Piergiorgio Branzi, Fosco Maraini, Mimmo Castellano, Mario Ingrosso, Mario De Biasi, Cecilia Mangini, Tino Petrelli, Fulvio Roiter con l’infinita scoperta del Sud. Il terzo campo concettuale include tutta quella fotografia di genere che si allontana dalle istanze neorealiste, ma mantiene una fondamentale relazione con la realtà. Coincide per lo più con la fotografia di strada, a volte con un taglio pittoresco o bozzettistico. Senza alcuna intenzione di creare una coscienza sociale, ma con la tendenza comunque a raccontare stralci di vita popolare. Ne fa largo uso la rivista «Il Mondo» che pubblica singole immagini di fotografi quali: Paolo di Paolo, Carlo Dalla Mura, Gianni Berengo Gardin, Roberto Spampinato. Il fotogiornalismo però, dopo l’ubriacatura dell’immediato dopoguerra, si trova davanti a un problema: la guerra fredda. Voleva dire essere costretti a scelte di campo: le testate si dovevano schierare, i cineasti venivano consigliati fermamente di cessare «l’impietosa ostentazione dei panni sporchi»7 e i fotografi erano spesso coinvolti per illustrare l’una o l’altra prospettiva. Ma la fotografia di per sé non era un’industria come il cinema, che riceveva consistenti sovvenzioni dallo stato; le minacce non potevano incidere più di tanto sul lavoro dei fotografi e, forse anche per questo, essi conservarono più a lungo la libertà e la passione di scoprire i mille volti di un’Italia ancora lontana dall’omologazione. Il loro sguardo, più o meno consapevole, continuava a interpretare la poetica neorealista nella sua massima espressione, perché (come sostiene Fabio Amodeo) «in fondo cinema e letteratura potevano fare realismo, ma sempre fiction era», mentre la visione dei fotografi aveva a che fare con persone autentiche, paesaggi veri, storie corali che vibravano di pelle e anima.

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E. Taramelli, op.cit., p. 58.

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ANTONIO VITTI Fontamara, ovvero, le disavventure di un romanzo rivoluzionario neorealista

La storia dell’utopia è …la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace. (I. Silone in L’avventura di un povero cristiano) II fascismo è la palese dittatura terrorista più reazionaria, più sciovinista, più imperialista del capitalismo finanziario. (P. Togliatti in Lessons on Fascism1 [la traduzione è mia])

È ben nota l’attività militante socialista di Ignazio Silone, (pseudonimo2 e poi, dagli anni 1960, anche nome legale di Secondo Tranquilli; Pescina, 1° maggio 1900 – Ginevra, 22 agosto 1978). A quindici anni si iscrisse all’Unione Giovanile Socialista, nel 1919 fu schedato dalla questura romana come sovversivo e nel gennaio del 1921 a Livorno era tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia. Iniziò così la militanza comunista che lo portò prima a Trieste, nella redazione de «Il Lavoratore», e all’arresto del 1923. Dopo un breve periodo in Spagna dove era stato mandato dall’Internazionale Giovanile, si rifugiò a Parigi dove lavorò alla redazione de «La Riscossa», arrestato ed estradato fece ritorno in Italia nel 1925 e si rifugiò nel suo paese nativo da dove iniziò una corrispondenza con Antonio Gramsci che lo incaricò alla Commissione stampa e propaganda. Nel 1926 entrò nella clandestinità e da Sturla si occupò della stampa de «l’Unità». Nel 1927 si recò a Mosca con Togliatti come deleP. Togliatti, Lectures on Fascism, International Publishers Co., Inc. 1976. Tutti i riferimenti alla posizione di Togliatti riguardo al fascismo in questo saggio provengono da questo testo e in particolare alla lezione numero 8, pp. 117 – 33, Fascism’s Policy in the Countryside. 2 S. Tranquilli assunse lo pseudonimo nel 1923, mentre era in prigione a Barcellona in Spagna. 1

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gato al VII Plenum dell’Internazionale dove fu decretata l’espulsione degli oppositori di Stalin3. Nel 1928 il fratello di Silone, Romolo Tranquilli, fu arrestato sotto l’accusa di essere il responsabile di una strage che causò 20 morti e 23 feriti4, l’accusa fu cambiata in tentato attraversamento del confine con condanna a 12 anni di reclusione. Romolo morì in carcere a Procida nel 19325. Nel frattempo la posizione di Silone nel partito comunista si era aggravata a causa dell’accusa di essersi allineato con i dissidenti della linea togliattiana composta da Pietro Tresso6, Alfonso Leonetti7 e Paolo Ravazzoli8. Come fuoruscito antifascista in Svizzera, il 4 luglio 1931, Silone fu espulso tramite un comunicato del partito comunista svizzero che lo raggiunse a Dovos in sanatorio9. Esule, senza l’aiuto del partito, malato di tubercolosi e senza mezzi di sostentamento, Silone iniziò a scrivere narrati3 I riferimenti alla vita di Silone e alla sua attività politica giovanile provengono da http://it.wikipidia.org/wiki/Ignazio_Silone#Bibliografia. 4 Il 12 aprile 1928 a Milano ci fu attentato prima dell’arrivo del Re Vittorio Emanuele III. 5 Il dolore e il rimorso per la morte del fratello non si appagarono mai; secondo Silone il fratello non era comunista ma affrontò la morte pensando di seguire l’esempio del fratello proprio nel periodo in cui Silone iniziava a vedere il comunismo staliniano come un dio traditore. 6 Tresso (Magrè di Schio 30 gennaio 1893 – 27 ottobre 1943). Dopo essere stato tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e amico di Gramsci, venne espulso sotto accusa di essere trotzkista e fu tra i fondatori della Quarta Internazionale. Fu ucciso in Francia da emissari di Stalin. 7 Leonetti (Adria, 13 settembre 1895 – Roma, 26 dicembre 1985). Oltre ad essere tra i fondatori del PC d’I, fu anche il primo direttore de «l’Unità». Dopo l’espulsione del 1930 visse in Francia, non aderì alla Quarta Internazionale e nel 1962 rientrò nel PCI. 8 Ravazzoli (Stradella 1894 – 27 febbraio 1940) si iscrisse al PSI da giovane quando lavorava come meccanico e poi aderì al nuovo PCd’I come sindacalista. Fece parte delle pubblicazioni clandestine di «Battaglie Sindacali». Dopo l’espulsione dal PC diede vita all’organizzazione autonoma Battaglie Sindacali, nel 1935 si iscrisse nel PSI. 9 Silone politicamente era vicino alla posizione antistaliniana e di conseguenza antitogliattiana che si era allineata con Stalin prima contro Trosky, poi contro la linea conservatrice di Nikolai Buchanin, e quella di sinistra rappresentata da Radek, Preobrazensky e Smilza. Silone era accusato anche di essere vicino al gruppo di Tresso, Leonetti e Ravazzoli, molti sospettavano che lui fosse l’ispiratore della corrente opposta a Togliatti e a Ruggero Grieco.

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va e in pochi mesi, nel 1930, scrisse Fontamara pubblicato in traduzione tedesca a Zurigo nel 193310 e Pane e vino pubblicato in varie lingue nel 1936. I due romanzi trovarono larghissima diffusione e entusiastici apprezzamenti all’estero, ma non furono neanche diffusi tra i fuoriusciti per ragioni ideologiche; ebbero così inizio le disavventure di Silone letterario e quelle di Fontamara, romanzo rivoluzionario ignorato dagli intellettuali italiani dell’epoca e sconosciuto ai giovani in cerca di modelli letterari per creare una nuova letteratura. L’opposizione di Silone al fascismo e al comunismo di stampo sovietico fu espressa in un articolo in tedesco, nel 1938, La scuola dei dittatori, che in Italia venne pubblicato soltanto nel 1962. L’intransigenza di Silone con il tempo maturò in una visione spesso definita come una terza via a un socialismo più autentico, antitesi alle democrazie e ai fascismi dell’epoca, e divenne parte della battaglia dell’autore abruzzese contro i partiti e le istituzioni per un socialismo a cui non erano estranee suggestioni cristiane e istanze libertarie e contro ogni forma di burocratizzazione della vita associata e in opposizione a ogni dogmatismo ideologico11. Le attività di Silone in Italia prima del suo esilio rimangono molto discusse dai critici, specialmente dopo la scoperta, nel 2000, da parte degli storici Dario Biocca e Mauro Canali12, di una documentazione ritrovata negli archivi fascisti, che a loro parere avvalora la tesi di una attività spionistica di Silone a favore della polizia fascista e ai danni del PCd’I; una posizione mantenuta per tutti gli anni Venti che finì con il travolgere lo scrittore provocandogli una depressione e Il romanzo fu pubblicato in tedesco con la traduzione di Nettie 86 a Zurigo dal libraio Oprecht grazie alla prenotazione di ottocento sottoscrittori. Lo stesso anno uscì anche un’edizione molto rara in italiano pubblicata a Parigi. La prima edizione del romanzo in Italia appare nel 1949 presso Mondadori. 11 Dal 1931 data dell’uscita di Silone dal PC italiano, lo scrittore abruzzese era diventato un socialista indipendente. Già prima della II guerra mondiale Silone aveva definito la sua posizione politica «Terzo Fronte» e nel 1942 «L’Avvenire dei Lavoratori» pubblicò la sua tesi sul socialismo in un testo di 13 punti. Nel terzo Silone scriveva che il socialismo era l’unico avversario capace di battere il fascismo. Negli altri lo scrittore promuoveva una Federazione europea e la liberazione dei popoli dell’Africa 12 Biocca, Dario e Canali, Mauro, L’informatore: Silone, i comunisti e la polizia, Milano, Luni Editore, 2000. 10

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una crisi di coscienza, soprattutto dopo la morte del fratello, che lo portò a lasciare il partito e lo spionaggio e a dedicarsi alla letteratura. L’innocenza di Silone dall’accusa di doppiezza è stata sostenuta da Giuseppe Tamburrano13, ma la creazione di quello che poi è stato chiamato «Il secondo caso Silone»14 persiste tuttora. A nostro avviso, il ruolo impreciso di Silone in Italia prima del suo esilio in Svizzera, la sua posizione come spia o semplicemente come comunista disilluso del PCd’I, da un punto di vista critico non sono fondamentali alla comprensione né del ruolo del personaggio di Berardo in Fontamara né del romanzo stesso, visto nell’ambito del dibattito sul neorealismo e sull’importanza che tale opera avrebbe potuto avere in Italia nella ricerca di una letteratura realista negli anni Trenta, così come sul ruolo dell’intellettuale e sulla nascita o sulla mancanza di un legame tra letteratura e vita nazionale, argomento già trattato nel 1930 in Italia e poi ripreso da Antonio Gramsci in Letteratura e vita nazionale e Gli intellettuali. A mio avviso il discorso dovrebbe essere incentrato non sulla posizione politica di Silone, ma sulla particolarità della collocazione di Fontamara (e di Pane e vino) la quale nasce dal fatto che, non essendo pubblicato in Italia a causa della censura fascista, la sua assenza fu anche usata per portare avanti una linea politica stalinista e togliattiana dal partito comunista. Inoltre, la mancata pubblicazione e diffusione non permisero al romanzo di servire come termine di confronto all’interno della produzione letteraria italiana durante il periodo antecedente alla seconda guerra mondiale, quello in cui nacque il realismo o la letteratura di opposizione antesignana del neorealismo15. Soltanto nel dopoguerra, le summenzionate opere furono, infatti, pubblicate, Fontamara con l’edizione definitiva nel 1953 dalla Mondadori e Pane e vino con il titolo Vino e pane nel G. Tamburrano, Silone spia? Un nuovo caso Dreyfus in «Mondoperaio», novembre-dicembre 2000, pp. 67-71. 14 Si veda: Introduction: Il caso Silone in E. Leake, The Reinvention of Ignazio Silone, Toronto, University of Toronto Press, 2003, pp. 3-16. 15 Il romanzo di Silone appartiene insieme a Gli indifferenti (1929) di A. Moravia, Tre operai (scritto dal 1929 al 1934) di C. Bernari, Gente in Aspromonte (1930) di C. Alvaro e L’uomo nel labirinto (1929), anche di Alvaro, alle opere che anticiparono il ritorno all’impegno sociale dello scrittore e riportarono la letteratura italiana a livello europeo e mondiale. 13

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1955, dando vita al primo caso letterario di Silone. Il riconoscimento della critica italiana arriva nel 1965 con la pubblicazione di Uscita di sicurezza16; prima di allora lo scrittore abruzzese era considerato un autore della letteratura del “Fuoriuscitismo,” di scarso valore artistico e incline ad un’attitudine moralistica, interpretazione che omette perfino di considerare l’anomalia della mancata diffusione tra i fuoriusciti17. Fontamara e Silone non sono nemmeno inclusi nel volume Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea di Alberto Asor Rosa, benché lo scopo dello studio sia di analizzare il rapporto che gli scrittori hanno con il popolo e porre l’esigenza di una scelta ideologica dell’intellettuale italiano di fronte all’impegno sociale, e alle scelte stilistiche e linguistiche18. Una lettura di Fontamara priva di preconcetti ideologici stalinisti rivela che la poetica di Silone scrittore è molto vicina a quella nazionale popolare auspicata da Gramsci, in quanto lo scrittore riesce a far suoi i sentimenti, le superstizioni e la mentalità dei “cafoni”. Inoltre l’analisi degli effetti del fascismo sui contadini presentata nel romanzo è simile a quella tracciata da Palmiro Togliatti nelle lezioni tenute nell’ex Unione Sovietica, ma sotto forma di creazione letteraria. Silone riesce a utilizzare la sua esperienza politica trasformandola in un’arte che aderisce al mondo dei poveri e degli emarginati restando scrittore appartenente al mondo degli sfruttati e non al partito o allo stato. Nel presente saggio saranno messi in risalto gli aspetti di Fontamara che lo fanno rientrare nella letteratura popolare gramsciana, inoltre saranno mostrati i legami tra il modo in cui Silone presenta gli effetti del fascismo sui cafoni meridionali e l’interpretazione togliattiana del fascismo come dittatura 16 Questa raccolta di saggi vinse al Marzotto, ma secondo alcuni non vinse al Viareggio a causa di un intervento di Palmiro Togliatti. L’evento conferma che lo scrittore abruzzese nel dopoguerra si trovò contro da una parte un forte monopolio culturale conservatore a cui non piacevano i suoi temi e dall’altra lo sbarramento culturale e ideologico del PCI. 17 Dopo la pubblicazione del 1932, Fontamara fu tradotto in ventisette lingue diverse e Pane e vino in diciannove. Negli Stati Uniti ambedue divennero subito letture obbligate della controcultura. 18 Silone non appare neache nel volume di G. Contini, Letteratura dell’Italia Unita 1861-1968, Firenze, Sansoni, 1968.

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reazionaria del capitalismo finanziario; infine attraverso la figura modello di Berardo sarà mostrato in che modo Fontamara è da considerare un romanzo rivoluzionario. Antonio Gramsci in Letteratura e vita nazionale, in polemica con una nota di «Critica Fascista» del I agosto 1930, trattando del concetto di «nazionale-popolare» rimprovera gli autori dell’articolo, – che biasimano la pubblicazione da parte di due grandi quotidiani nazionali di romanzi francesi popolari – di non trattare la non esistenza nella letteratura italiana di una letteratura popolare. La polemica gramsciana continua asserendo che in Italia il termine “popolare» ha un significato ristretto e non coincide con ciò che è veramente popolare perché gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione, e sono invece legati a una tradizione di casta che non è mai stata infranta dal basso, in quanto essa si sente libresca e astratta e l’intellettuale tipico moderno è più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. La battaglia dei giovani intellettuali comunisti per un cambiamento era già iniziata con il settimanale «Ordine Nuovo» di cui faceva parte anche Silone, il cui intento era di sviluppare forme di una nuova intellettualità per determinare un rinnovamento di concetti; il successo andava ricercato in una impostazione corrispondente ad aspirazioni latenti e conforme allo sviluppo delle forme reali di vita, assenti nella cultura letteraria italiana. Secondo Gramsci l’intellettuale di partito avrebbe dovuto compiere un’azione per capovolgere il consenso «spontaneo» dato dalle grandi masse popolari all’indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante, un consenso che nasce «storicamente» dal prestigio e dalla fiducia derivante dal gruppo dominante, dalla sua posizione e dalla sua funzione nel mondo della produzione. Gli intellettuali di tipo “rurale” che secondo Gramsci erano di stampo tradizionale, cioè legati alla massa sociale campagnola e piccolo borghese di città, specialmente nei centri minori, dovevano svolgere il ruolo di mettere a contatto la massa contadina con l’amministrazione statale o locale. Nel discutere l’atteggiamento del contadino nei confronti dell’intellettuale, Gramsci tratta anche della duplice e contraddittoria ammirazione e del dispregio, invidia, rabbia e rancore che “i cafoni” provano per gli intellettuali. Atteggiamenti che,

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secondo l’intellettuale comunista, sono necessari per capire, studiare e analizzare il loro rapporto con la vita collettiva e per approfondire la loro subordinazione effettiva agli intellettuali tradizionali: prete, avvocato, maestro, notaio, medico e padrone. Lo sviluppo organico delle masse è legato ai movimenti degli intellettuali e ne dipende, ad esso è legata la questione della lingua in quanto essa viene usata come strumento di potere nei loro rapporti ed è determinante per capire la funzione tradizionale avuta dagli intellettuali. Gramsci raccomanda che il rapporto con le masse sia anche analizzato attraverso i gradi della religione e della scrittura che mostrano un’espressione della completa separazione degli intellettuali dal popolo. Il partito politico, a detta di Gramsci, avrebbe dovuto procurare la saldatura tra intellettuali organici di un dato gruppo, quello dominante, e l’intellettuale tradizionale. Nel romanzo di Silone, Fontamara è un paese che non è stato mai libero da un potere straniero, per cui i cafoni vedono lo stato come un’entità nemica. I fontamaresi sono poveri ed emarginati e non sono mai stati partecipi di un movimento popolare che sia riuscito a cambiare la loro oppressione culturale ed economica. L’essere stati sempre sottomessi a un potere forestiero significa che, per sopravvivere, i fontamaresi hanno veramente bisogno di un “galantuomo” (l’intellettuale tradizionale) il quale li rappresenti e li protegga contro tutto quello che minaccia la loro esistenza. Il galantuomo appartiene alla società dominante, cioè al potere temporale che regna sopra i fontamaresi. I contadini dipendono da lui. In cambio, il popolo serve al galantuomo come mano d’opera a basso costo o per coltivare la terra come braccianti. Nel romanzo, il fascismo, nuovo potere, come i precedenti, opprime il popolo fontamarese come dimostra la seguente citazione: Come raccontano i vecchi, i Borboni avevano preso il posto degli spagnoli e i piemontesi il posto dei Borboni. Ma donde provenissero e di che nazione fossero i nuovi governanti, a Fontamara non si sapeva ancora con certezza… ogni Governo è composto di ladri19. I. Silone, Fontamara, a cura di Judy Rawson, Manchester, Manchester University Press, 1977, p. 118. Tutte le citazioni dal romanzo provengono da questa edizione. 19

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Questo potere, come tutti quelli che si sono susseguiti nella Marsica, è a loro sconosciuto. La differenza tra il nuovo governo e gli altri è che il fascismo finge di coinvolgere i contadini e di includerli nelle decisioni da prendere, come avviene con la petizione portata dal Cavaliere Pelino per la spartizione dell’acqua che i cafoni devono firmare senza sapere per cosa, oppure con la farsa della convocazione alla riunione ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla questione del Fucino. Il fascismo peggiora la loro perenne povertà. Visto che i fontamaresi non fanno altro che lavorare la terra, quando la loro acqua è tolta, non resta altro che morire di fame. La mancanza dell’acqua diventa “la novità” che si può collegare con il nuovo potere fascista che sostiene il capitalismo finanziario20. L’esistenza dei cafoni è minacciata e ora devono scegliere di accettare la realtà imposta loro dai Fascisti senza ribellarsi, oppure morire di fame. In più, la legge che conoscevano, rappresentata da Innocenzo La Legge, con il nuovo governo è cambiata21, ed ora i contadini non possono nemmeno emigrare da Fontamara, «una nuova legge… sospese tutta l’emigrazione» (Fontamara, 90) che era sempre stata l’unica risoluzione ai problemi della società contadina meridionale. Questo vuole dire che lo stesso sistema di governo che toglie ai fontamaresi l’acqua, risorsa basilare dalla quale dipendono, ora richiede loro di rimanere a Fontamara e morire di fame, ribellarsi o conformarsi e lavorare per l’impresario. Oppressi, affamati e ignoranti, i fontamaresi non sanno che fare, soprattutto perché hanno sempre pensato soltanto “ai fatti propri” e non hanno una “coscienza collettiva.” Le nuove calamità che si abbattono sui cafoni peggiorano il loro perenne sfruttamento. Per loro rimane anche il problema della lingua che il regime fascista non risolve, basti pensare all’incontro con il Cavalier Pelino, all’esame sulle gerarchie, e alla spartizione dell’acqua. I cafoni non parlano la stessa lingua dei regnanti o dei Il fascismo nega ai braccianti di poter diventare fittavoli, una vecchia aspirazione dei cafoni. 21 Il romanzo si sviluppa sui cambiamenti portati dal fascismo concentrandosi sul taglio della luce elettrica, la spartizione dell’acqua e la divisione delle terre del Fucino, che fanno parte degli strani avvenimenti che cambiano e sconvolgono la vita dei Fontamaresi. 20

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cittadini, non riconoscono le autorità e non si identificano con l’identità nazionale. Benché le terre del Mezzogiorno d’Italia siano state unite nella stessa realtà storica statuale, ordinata sempre, tranne le brevi repubbliche del 1647-164822 e del 179923 nella forma monarchica prima dell’unità nazionale, per Silone non esiste un’autentica storia nazionale ma soltanto la storia di sovrani e di ordinamenti succedutisi nel corso dei secoli. Con la questione della lingua e dell’identità, Silone riapre il dibattito che Benedetto Croce aveva creduto di aver chiuso, ritenendo che una nazione nasce da una personalità morale, da una volontà e da una coscienza che nell’Italia meridionale si formarono nel moto spirituale di Giannone24 e di Genovesi25. Silone dimostra, invece, che l’ideale crociano di patria riduce la storia dell’identità nazionale di questa parte d’Italia a quella del ceto intellettuale settecentesco, e gli eventi storici, da quell’epoca in poi, diventano un lungo prologo all’unificazione politica della nazione. Nel romanzo Silone mostra che, in realtà, gli intellettuali non ebbero mai una posizione egemone e non furono in grado di rappresentare le esigenze della popolazione, per cui non si fecero mai espressione di una nazione. Essi non riuscirono mai a raccogliere intorno a sé l’anima del paese. I rapporti tra le classi sociali a Fontamara dimostrano che la tradizione popolare venne dissolta nel più vasto ambito della nazione italiana senza mai consolidare i valori etnici e gli ideali politici ai quali le masse aspiravano. Per il cafone 22 Repubblica Napoletana proclamata dopo la rivolta guidata da Masaniello e la sua decapitazione. 23 Nel 1799 in seguito alla Prima Campagna d’Italia delle truppe della Repubblica francese dopo la rivoluzione a Napoli fu istituita la Repubblica Napoletana o Partenopea che durò sei mesi. 24 Pietro Giannone, 1676-1748. Laureatosi in giurisprudenza a Napoli, si interessò di filosofia, autore Dell’istoria civile del regno di Napoli che gli procurò problemi con la Chiesa e fu costretto a lasciare Napoli. Dopo aver vissuto a Vienna, Padova da dove fu espulso, si rifugiò a Torino, arrestato spese diciassette anni in carcere e fu forzato a firmare un atto di abiura. Morì in carcere a 74 anni dopo una vita di persecuzione per il suo anticlericalismo. 25 Antonio Genovesi, 1713-1769. Abate, filosofo ed economista. A Napoli insegnò metafisica ed etica e fu il primo in Europa ad avere una cattedra di economia politica. Insegnava in italiano invece che in latino. Seguace dell’illuminismo propugnò l’istruzione del popolo e delle donne.

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siloniano la nazione è estranea ai bisogni e agli interessi dei suoi abitanti; infatti, da parte della classe dirigente, manca una consapevole accettazione, conservazione ed elaborazione del patrimonio dei valori civili e spirituali ricevuti in eredità dai padri, cioè della civiltà contadina. Nel romanzo Silone, con ironia, mostra come l’unione forzata del Mezzogiorno al regno d’Italia ha determinato la spoliazione economica e la dispersione di una parte rilevante delle ricchezze naturali della zona, con il dono del Fucino ai Torlonia da parte dei reali di Casa Savoia in cambio dell’appoggio politico. Nella prefazione a Fontamara, Silone scrive che Torlogne (Torlonia) ricevette le terre del Fucino in proprietà perpetua e il titolo di duca e in seguito quello di principe. Il nuovo governo al potere continua lo sfruttamento del popolo con l’assegnazione del Fucino a chi lo coltiva. Sentenzia l’impiegato a Berardo che vuole sapere della spartizione delle terre: Fucino deve essere liberato dai piccoli fittavoli miserabili e concesso ai contadini ricchi. Quelli che non hanno grandi mezzi di fortuna non hanno diritto di affittare terre a Fucino (Fontamara, 130).

La maniera in cui è affrontata la questione delle terre del Fucino dimostra che il fascismo la risolve assegnandole agli agrari ricchi e non ai braccianti. Nella vita di tutti i giorni il personaggio dell’impresario è la personificazione della politica fascista a servizio del capitalismo finanziario. Questo nuovo potere è rivelato attraverso le romanzate vicende tra i Fontamaresi e l’impresario e la maniera in cui quest’ultimo prende il potere nel paese e spodesta i vecchi “galantuomini” come don Carlo Magna, servendosi anche dell’appoggio della chiesa e delle banche: «egli rappresentava la Banca… I vecchi proprietari incominciarono a tremare di fronte a lui…» (Fontamara,60). Agli occhi dei cafoni l’impresario «ha a disposizione una grande fabbrica di biglietti» che sfrutta per aumentare il suo potere economico, che agli occhi dei Fontamaresi all’inizio sembra un patto con il diavolo. In effetti l’impresario è la rappresentazione romanzata della interpretazione del PCd’I riguardo agli effetti del fascismo e del capitalismo finanziario sul mondo agrario.

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Nel 1935 Palmiro Togliatti tenne delle conferenze-lezioni a operai italiani a Mosca che frequentavano la scuola di partito nell’allora Unione Sovietica. In una di queste lezioni, Togliatti affronta anche il tema del fascismo nelle zone agricole. La lezione disegna le basi della politica fascista in Italia e la natura classista del fascismo e i mezzi ideologici e organizzativi usati per crearsi un consenso di massa. Togliatti fa una profonda analisi del carattere di questa base e dei problemi che le forze democratiche e comuniste in Italia devono porsi e suggerisce dei metodi di strategia politica da intraprendere nelle difficili circostanze create dal regime fascista. Indicando gli effetti della politica fascista sull’economia negli ultimi anni Trenta e la crisi economica, Togliatti afferma che molti strati della popolazione agricola sono ridotti a uno stato di povertà che peggiora giornalmente e che bisogna trovare a ciò una soluzione. Secondo la sua tesi la crisi non sta causando un impoverimento di tutta la classe operai ma soltanto di certi strati culturali e allo stesso tempo rende altri più forti. Una parte si arricchisce e le difficoltà forzano la classe medio-alta a vendere. Il fascismo ha reso più forti le industrie e ha rafforzato la posizione delle banche. Il che per Togliatti non significa che abbia sradicato il feudalesimo meridionale, perché è proprio su di esso che il fascismo fa leva, appoggiando i grandi latifondisti che ricevono anche i grandi prestiti. La penetrazione dei capitali, infatti, rafforza il latifondismo nel Meridione. Nella creazione letteraria di Silone la tesi di Togliatti si personifica attraverso la figura dell’impresario e dei Torlonia che si arricchiscono con l’aiuto del governo e a spese dei non possedenti. All’affermazione dell’impresario che l’America è nel lavoro, i cafoni rispondono: «quelli che più lavorano sono i più poveri», (Fontamara, 60). Lo sbarramento politico nei confronti di Fontamara e del suo autore non permisero una lettura non ideologica da parte dell’apparato culturale del PCI. La chiusura è confermata dal fatto che bisogna arrivare agli anni Ottanta per la realizzazione filmica del romanzo, che fu promossa dalla televisione di stato e dal produttore Edmondo Ricci, il quale suggerì per la regia il nome di Carlo Lizzani. La realizzazione del film omonimo illustra perfettamente la posizione della sinistra. In un’intervista privata, Lizzani ha dichiarato che un film tratto da Fontamara fu sognato da molti autori italiani

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nell’immediato dopoguerra così come un film tratto da Cristo si è fermato ad Eboli, ma poi ci fu l’eclisse del mondo contadino e soltanto il successo di Padre padrone (1977) dei fratelli Taviani e di Olmi con L’albero degli zoccoli (1978) riportarono l’attenzione su quel mondo26. Lizzani sfogliò il libro nel dopoguerra, ma era prevenuto contro quanto odorava di folclore, con il Sud senza mediazioni di tipo favolistico. Invece nel 1979 quando, in seguito all’offerta della RAI, rilesse il libro, lo trovò bello, ne avvertì lo spessore profondo e gli parve una grande occasione per un nuovo capitolo della storia del Novecento e soprattutto quella tra il 1922 e il 1945. Il romanzo gli parve l’occasione per arricchire con un’altra storia di “umili” quello sguardo sul Novecento che era la linea portante del suo cinema. Anzi fu proprio Fontamara a fargli capire che in fondo già il suo primo film Achtung! Banditi! (1950) era una vicenda di “umili” operai partigiani. Storia continuata con i cornacchiai di Pratolini, umili di città, con la realizzazione di Cronache di poveri amanti (1956), e i diseredati dei quartieri popolari romani con Il Gobbo (1960). Lizzani ritiene che la chiamata da parte della RAI venne al momento giusto perché si erano superati il clima da Komintern degli anni ’40 e ’50 e gli antichi pregiudizi nei riguardi di Silone. Dalla sua uscita dal comunismo tutti, nel partito e vicini ad esso, subivano l’immagine negativa che il partito dava dello scrittore: un transfuga, un avventuriero, un avversario di Togliatti e di Gramsci, per questo Lizzani aveva soltanto sfogliato il romanzo e non solo l’odore di folclore del romanzo lo rendeva diffidente27. La posizione di Lizzani nei confronti di Fontamara concorda con quella di Pietro Ingrao, che alla domanda sull’influsso del romanzo, ha riposto: Io lo lessi alla fine degli anni trenta, … però non mi fece molta impressione. Noi non avevamo molta stima di Silone, anche per L’intervista ha avuto luogo a Venezia durante il convegno sul neorealismo svoltosi nel dicembre del 2007 presso la sede italiana della Wake Forest University. Tutti i riferimenti al film da parte di Lizzani vengono da questa intervista. 27 Alla mia domanda riguardo all’accusa di spionaggio contro i comunisti da parte di Silone, Lizzani ha risposto che il sospetto, data l’antica diffidenza e i dati precedenti, fu un fulmine a ciel sereno. 26

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279 ragione politica, lui era in una collocazione politica diversa, rompeva con la direzione del PCI, e noi eravamo allora comunisti fedeli… Adesso dovrei rileggerlo, ma ricordo che c’è la rappresentazione di una società ancora più arretrata di quella che conoscevamo noi delle campagne del Meridione28.

Quando gli fu offerto il film, Silone era già morto e Lizzani non ebbe occasione di parlargli o di conoscerlo. Ebbe, però, rapporti cordiali con la vedova alla quale piacque il copione e la realizzazione cinematografica. Il film può essere visto come un risarcimento dopo anni di ostracismo ma, essendo stato realizzato così tardi, quando ormai i contadini non erano più al centro della cultura italiana e il dibattito sul realismo si era esaurito, poteva soltanto avere un valore storico senza poter trasmettere l’istanza rivoluzionaria del romanzo. La forza del romanzo sta nel fatto che negli anni Trenta i fontamaresi, schiacciati dal governo fascista e dalla sua violenza e cecità, acquistano una coscienza politica rivendicativa che li porta alla ribellione aperta e alla consapevolezza che solo politicamente e con l’unità sociale si possono combattere e sopportare i soprusi e le violenze. Seguendo l’evoluzione politica di Berardo si può analizzare e capire chiaramente questo processo di maturità sociale e politica. Berardo Viola non è il rivoluzionario capo dei giovani, come qualche critico lo ha definito29, che finirà in carcere per dimostrare l’impossibilità di operare rivendicando la dignità dell’uomo. Berardo rappresenta la maturazione politica dell’individuo, che accetta e capisce il suo atto politico ponendolo come esempio e non accetta la morte puramente come sacrificio per la rivendicazione della dignità dell’uomo. Tutti i fontamaresi sono gente povera, assuefatta alle abitudini, agli abusi e alla sofferenza. La loro vita è una vita di stenti e di sofferenze per sopravvivere. La loro esistenza è controllata dal tempo e dalla terra stessa come ciclo stagionale che si ripete da anni e generazioni. Essi vivono in un mondo arcaico, appartato dalle inno28 P. Ingrao, in Peppe De Santis secondo se stesso. Conferenze, conversazioni e sogni nel cassetto di uno scomodo regista di campagna, a cura di A. Vitti, Pesaro, Metauro, 2006, p. 431. 29 C. Marabini, Silone, in «Nuova Antologia», n. 504, 1968, p. 334.

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vazioni moderne e sociali fino a quando degli eventi straordinari non li spingono alla mobilitazione sociale. L’atto collettivo e politico lo compiono solo dopo la morte di Berardo che muore per tracciare un esempio politico per il riscatto collettivo e non per interesse personale. Per questa ragione l’azione di Berardo deve essere interpretata come il primo atto di un processo politico consapevole, quello di un contadino che si stacca dalla ristretta mentalità dell’interesse personale per abbracciare l’interesse comune e sociale. Tutto questo accadrà solamente dopo la conversione politica di Berardo che passerà da uno stato anarchico di ribellione e di violenza all’accettazione di un atto politico cosciente per il bene e come esempio per gli altri cafoni. All’inizio Berardo Viola è un giovane eccezionale, dotato di una forza fisica superiore al normale e con una tradizione familiare di brigantaggio, dominata da un destino avverso. È presentato mentre scaglia sassi contro le lampadine dei lampioni nella notte, dopo che il paese è stato privato della luce elettrica. Le sue relazioni con gli altri personaggi sono dominate dalla sua forza fisica. Egli aveva perso tutto in un tranello giocatogli da don Circostanza, il cosiddetto Amico del Popolo. Berardo è temuto dai paesani ed ammirato, ma non è mai considerato da prendere come esempio dagli anziani del paese. Nel III capitolo la personalità di Berardo è approfondita: egli appare come uomo leale, forte, iroso, che accetta quasi con buon umore la sua sventura di non avere terra. Molto spesso si lascia andare ad atti di violenza contro le autorità statali e comunali, ma tutti giustificano le sue azioni con il fatto che non abbia niente da perdere. La sua forza anarchica e l’ascendente sui giovani gli permettono di essere considerato il promesso della più bella ragazza del paese, Elvira, che più tardi sarà la causa del suo cambiamento. Più tardi, nel racconto, conosciamo un altro aspetto della personalità di Berardo, il suo orgoglio che sarà importante alla fine della storia e della sua vita. La sua fierezza gli impedisce di sposare Elvira perché lei ha una dote, mentre lui non ha terra. Per guadagnare denaro e ricomprarsi la terra Berardo decide di andare a Roma e di lavorare il doppio. Prima che egli parta, in una discussione nel locale paesano con il cursore comunale, scopriamo un altro aspetto della sua filosofia sulla vita. Berardo è d’accordo nell’abolire il ragiona-

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mento e la discussione politica perché la proibizione è conforme alla sua filosofia che sostiene che non vale la pena discutere tanto il cafone perde sempre. Comunque, da persona pratica ma molto semplice, Berardo non riesce a capire il potere della persuasione e dell’indottrinamento politico. Egli sostiene che il cafone ragiona e perciò può essere persuaso ad accettare il digiuno e la sofferenza, invece la bestia, essendo irragionevole, non accetta niente altro all’infuori di quello che gli spetta come bestia. Soltanto alla fine del libro Berardo sarà capace di capire l’altra faccia del potere della persuasione e si lascerà convincere dall’Avezzanese e dalla sua politica. Il suo cambiamento è lento, infatti, ancora una volta, la sua forza devastatrice ed anarchica si scatena contro i soprusi dell’Impresario che stava cercando di impadronirsi di un terreno che da millenni apparteneva a tutti. La staccionata di legno messa dal comune va in fumo durante la notte. Il mito anarchico di Berardo, forza naturale che si abbatte contro l’autorità, che non si discute, continua ad arricchirsi, ma quando il paese ha veramente bisogno del suo aiuto per difendere l’unica bolla d’acqua del paese Berardo si ritira. Le parti si sono alternate, adesso i proprietari vogliono difendere i propri interessi; allora vogliono l’aiuto di Berardo, l’unica forza capace di ribellarsi ai soprusi. Berardo che aveva trascorso la notte con Elvira, dopo la spedizione punitiva dei fascisti a Fontamara, si sente obbligato a sposarla, ma non può, data la sua posizione di inferiorità di cafone senza terra. Adesso è Berardo che non vuole compromettersi perché vuole andare a Roma in cerca di lavoro. L’amore per Elvira e il suo orgoglio lo fanno cambiare e pensare ai suoi interessi personali. Il suo nuovo atteggiamento si svela nella casa di don Circostanza, il quale gli offre la paga ridotta secondo le nuove leggi fasciste per alleviare la disoccupazione. Berardo accetta la riduzione per amore d’Elvira. Comunque la grande sorpresa per tutti si avvera il giorno della spartizione dell’acqua, Berardo non si fa vedere affatto. Sembra che senza di lui non si possa agire o reagire, egli era sempre stato il simbolo della ribellione. Infatti Scarpone andava in giro domandando: «“Tu sai dov’è Berardo… Dimmi dove si trova e lo mando subito a chiamare. Lui non può mancare in una giornata come questa. Proprio lui non può.”… Ma Berardo faceva ormai vita di solitario e lo si vedeva di rado” (Fontamara, 176), i progetti per

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rivendicare l’acqua rubata lo lasciavano indifferente. Ormai lui pensava solo ai fatti suoi, non era più un ragazzo; doveva emigrare. Tutta la sua forza e volontà erano concentrati in quel desiderio di far soldi per comprarsi la terra per poter sposare Elvira. Per realizzare questo scopo avrebbe fatto qualsiasi atto o sacrificio, proprio come prima avrebbe fatto qualsiasi cosa per essere rispettato e per vendicare gli abusi dell’autorità. Tutto questo lo si può vedere chiaramente durante il suo ultimo giorno a Fontamara. A Sulmona è scoppiata la rivoluzione dei cafoni e si aspetta l’aiuto di Fontamara, ma qui nessuno si muove senza Berardo. Egli fa finta di non capire e pensa solo ai suoi interessi personali. Adesso Berardo la pensa come prima la pensava il paese, i ruoli si sono invertiti. Berardo non è diventato un vigliacco, ha solo cambiato la prospettiva del suo fine o scopo della vita. Infatti l’autore ci dice che Berardo era interamente concentrato in una sua idea: quella di riuscire a trovare lavoro. Egli era disposto a tutto, nessuno scrupolo l’avrebbe trattenuto. A Roma, con il passare del tempo, in cerca di lavoro senza trovarlo, Berardo incomincia a perdere la fiducia nel successo e nell’interesse personale. Comunque il suo sogno svanisce e si frantuma solo quando gli arriva la notizia della morte d’Elvira. Solo alla fine del libro il lettore saprà che Elvira ha offerto la sua vita per salvare Berardo. Salvarlo da cosa? La risposta ce la dà Elvira stessa, perché prima della partenza di Berardo vedendolo così cambiato gli aveva detto: «Se è per me che ti comporti in quel modo, ricordati che io cominciai a volerti bene, quando mi raccontarono che tu ragionavi nel modo contrario» (Fontamara, 195). Bisogna anche aggiungere che Berardo stava vivendo un processo di maturazione, perché aveva capito che la violenza non può far niente contro l’astuzia. Nel suo dialogo con il figlio di Giovanni egli afferma: Ma non è questione di coraggio. . . Né di forza. L’Impresario si è forse servito della violenza contro di noi? Niente affatto. L’Impresario non ha impiegato contro di noi né il coraggio, né la forza, ma l’astuzia. E così si è preso il ruscello (Fontamara, 205)

Quando gli arriva la notizia della morte di Elvira, aggiunta alla disperazione di non riuscire a trovare lavoro Berardo perde ogni desiderio di vita. Ormai la sua esistenza non ha più scopo, i suoi

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sogni si sono frantumati a contatto con la realtà e con il mondo. La donna che spingeva il suo orgoglio di uomo, legato a vecchi costumi atavici, ad agire in quel modo non esisteva più; Berardo non poteva tornare ad essere il ragazzo violento di una volta, aveva imparato che la violenza non può far niente contro l’astuzia e l’organizzazione. L’incontro con l’Avezzanese arriva proprio al momento opportuno, quando Berardo ha bisogno di ritrovare uno scopo nella vita. Vengono arrestati come sospetti e durante la loro prima notte in carcere l’Avezzanese spiega a Berardo il ruolo e la funzione del Solito Sconosciuto. In questo colloquio Berardo capisce il valore della persuasione e si rende conto che anche gli altri strati della società, all’infuori dei cafoni, soffrono e sono poveri e sfruttati. L’Avezzanese fa leva su uno degli aspetti più forti della personalità di Berardo, il suo orgoglio di uomo fiero. Il loro discorso procede lentamente perché Berardo da buon cafone siloniano non si fida di nessuno e non riesce a capire come mai un cittadino voglia aiutare i cafoni abruzzesi. Tutto questo è contro la sua concezione della vita. Ma, preso dal suo lato sensibile, l’orgoglio, Berardo subisce un cambiamento di prospettiva e la vita ha di nuovo un senso. Tutte le vie che si erano chiuse per Berardo, cioè la possibilità di farsi i fatti suoi, di trovare lavoro e di comprare un pezzo di terra, non hanno più senso. Berardo è tornato l’uomo di una volta, ma adesso non sarà più il ragazzo violento, apolitico, adesso è cosciente di aver dormito troppo durante la vita. Adesso Berardo dovrà insegnare a tutti i cafoni di Fontamara il significato dell’azione collettiva, cioè dell’azione politica come gli aveva spiegato l’Avezzanese. A questo punto il suo grande desiderio di amicizia e il suo temperamento lo spingono a rivelarsi come il Solito Sconosciuto, egli non si rende pienamente contro del suo atto e del rischio che corre, vuole solo fare uscire di prigione lo studente avezzanese. Egli crede di star giocando; infatti appena raggiunto lo scopo pensa di poter smettere la finzione e uscire. Quando si accorge che non può finire così, decide di dire la verità, ma il Solito Sconosciuto ha sparso di nuovo il giornale con il titolo a grandi caratteri «VIVA BERARDO VIOLA» (Fontamara, 227). Questo basta per far decidere Berardo ad accettare qualsiasi cosa, anche la morte. Durante le ore della notte incomincia il suo tormento, non è ancora convinto dell’azione politi-

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ca che sta facendo, ma alla fine esclama: «Sarò il primo cafone che non muore per sé, ma per gli altri» (Fontamara, 228). Berardo ha scoperto l’atto politico che servirà da esempio agli altri cafoni, adesso è maturo e può ritrovare la pace interna. L’importanza di questo atto può essere determinata solo se si prende in considerazione l’impatto della sua morte. Per la prima volta nella storia del paese e dei suoi abitanti, nasce un atto collettivo: il primo giornale dei cafoni sotto la direzione di Scarpone, l’erede morale di Berardo. Essi si ribellano alla loro esistenza fatta di sopravvivenza, soprusi ed angoscia e per la prima volta, uniti, si chiedono che fare. Non sanno darsi una risposta positiva, ma il fatto che Berardo è morto e che il giornale porta il suo nome basta per farli muovere insieme. Questo rappresenta il primo passo verso l’azione e l’organizzazione politica che nasce per prendere l’eredità di Berardo, primo cafone morto per gli altri, per cercare di salvare Fontamara dalla dannazione eterna. Questa è l’importanza di Berardo e il fine della sua lenta maturazione che passa dall’azione anarchica, violenta, individuale all’azione politica da essere presa come esempio per il bene collettivo e l’unità sociale. Per concludere in Fontamara vediamo realizzarsi in modo semplice ed efficace il processo che consiste nell’andare verso il popolo senza l’intellettualismo o il cerebralismo borghese tipico della letteratura italiana impegnata. Silone si fa portatore dei sentimenti, delle aspirazioni e delle angosce dei contadini senza ricorrere a nessuna mitologia umanitaria populista e mistica, che diventerà tipica della letteratura anti-fascista resistenziale italiana. Il popolo non diventa mai atteggiamento letterario o mistico, ma viene rappresentato nella sua naturale semplicità ed ignoranza. Il personaggio di Berardo lotta attivamente contro lo stato che lo opprime. La “rivoluzione personale” di Berardo è anche un atto politico che si manifesta nel suo martirio e nella trasformazione da un essere umano socialmente passivo a un rivoluzionario che si libera dall’oppressione sociale diventando consapevole della sua vera essenza di uomo oppresso. Nella sua trasformazione Berardo rispecchia la lotta umana per capirsi, e comprendere l’essere umano mediante la maturazione politica. Secondo il pensiero di Silone, una società passiva e individualistica non genererà mai un miglioramento collettivo fino a quan-

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do non si raggiungerà una coscienza collettiva capace di compiere un atto rivoluzionario. La rivolta dei cafoni rappresenta un’utopia mai raggiunta né dalla politica del PCI né dagli altri scrittori del dopoguerra italiano. Senza l’ostracismo della sinistra e dei conservatori Fontamara sarebbe stato riconosciuto a pieno titolo come il romanzo precursore della corrente neorealistica impegnata ma soprattutto come esempio di un’utopia rivoluzionaria precedente alla lotta di liberazione per il riscatto delle masse.

Testi consultati Aliberti Carmelo, Ignazio Silone, Foggia, Bastogi, 1990. Alfonsi Ferdinando, Ignazio Silone o la ricerca del permanente, Catanzaro, Carello, 1991. Biocca Dario, Silone, la doppia vita di un italiano, Milano, Rizzoli, 2005. De Core Francesco, Silone, un alfabeto, Napoli, l’Ancora, 2003. D’Eramo Luce, Ignazio Silone, Rimini, Riminesi, 1994. Falqui Enrico, I settant’anni di Silone e i quarant’anni di «Fontamara», in «Il Dramma», 46.5, 1970, pp. 84-87. Farmer Paul, Pathologies of Power, Berkley, University of California Press, 2005. Forbice Aldo, Silone, la Libertà, Milano, Guerini, 2007. Giannantonio Valeria, La Scrittura Oltre la Vita, Studi su Ignazio Silone, Napoli, Loffredo, 2004. Guerriero Elio, Silone l’Inquieto. L’avventura umana e letteraria di Ignazio Silone, Torino, Paoline, 1990. Haller Hermann, Cronilista nei romanzi d’esilio di Ignazio Silone, in «Modern Language Studies», 12.1, 1982, pp. 20-35. Hanne Michael, The Power of the Story, Fiction and Politcal Change, Providence, Berghan, 1994. Leake Elizabeth, The Reinvention of Silone, Toronto, University of Toronto, 2003. Muzzioli Francesco, Le Teorie delle critiche, Roma, Carocci, 20073. Orlando Francesco, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 19873. Paynter Maria Nicolai, Ignazio Silone, Beyond the Tragic Vision, Toronto, University of Toronto, 2000.

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286 Pryce -Jones David, «The Exemplar: Ignazio Silone», 20.1, 2001, pp. 28-32. Rawson Judy, «Che Fare?»: Silone and the Russian «Chto Delat?» Tradition, in «The Modern Language Review», 76.3, Jul., 1981, pp. 556-565. Silone Ignazio, Fontamara, Torino, Mondadori, 198822. Silone Ignazio, Memoir from a Swiss Prison, Trans. S. G. Pugliese, Merrick, Cross-Cultural Communications, 2006.

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Indice dei nomi

ABATANTUONO D., 92 AFFINATI E., 231, 233 ALFONSI F., 285 ALIBERTI C., 285 ALICATA M., 14, 68, 110-113, 119, 134 ALLENDE S., 33, 38, 39 ALVARO C., 18, 19, 109, 128, 131, 134, 240, 270 AMELIO G., 11, 82, 125 AMIDEI S., 54 AMMANITI N., 82, 84, 85, 87 AMODEO F., 265 ANHALT EDNA ,148 ANHALT EDWARD, 148 ANILE A., 251 ANSALDO G., 242, 246, 247 ANTONIONI M., 60, 61, 67, 73, 125, 131, 134, 185, 237, 255 APRÀ A., 161, 185 ARATA U., 66 ARETINO P., 27 ARGENTIERI M., 245 ARIOSTO L., 51 ARISTARCO G., 131 ARPA A., 59 ASOR ROSA A., 13, 104, 118, 124, 271 ASOR ROSA A., 119 AUERBACH E., 211, 221 BACHELARD G., 162, 180

BALÁZS B., 64 BALBO I., 66, 106 BALDACCI L., 238 BALDELLI P., 41, 161 BALZAC H. DE., 101, 116 BARBARO U., 65, 68 BARBONI L., 66 BARZACCHI C.,261 BASSANI G., 15, 81 BAZIN A., 161, 162, 164, 165, 168, 172-174, 176-179, 183, 199, 204, 210, 212, 213, 221, 257 BELLOCCHIO G., 125 BELLUCCI N., 107, 118 BENJAMIN W., 199-213, 220, 221 BERENGO GARDIN G.,265 BERGALA A., 179 BERGMAN I., 187, 193 BERGMAN I., 68, 179 BERGSON H., 169-177, 179, 183, 187, 188, 190, 191, 195, 196 BERNARDI S., 219, 221 BERNARDINO DA SIENA (SAN)., 38 BERNARI C., 9, 17-27, 109, 128, 129, 240, 270 BERTELLI C., 259 BERTO G., 82, 129, 223-235, 258 BERTOLUCCI B., 81, 125 BETTI U., 25-28

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288 BIGIARETTI L., 130 BILENCHI R., 107 BIOCCA D., 269, 285 BLASETTI A.,64-66, 71, 131, 147 BLOOM L., 255 BOCELLI A., 127, 128 BOLEDI L., 55 BOLLATI G., 259 BOLOGNINI M.,18 251 BONDANELLA P., 82 BONDÌ C., 32, 34, 38, 40, 41, 42 BONNARD M., 131 BORGESE G.A., 9 BORIN F., 58 BOTTAI G., 110 BRANCATI V., 245, 246 BRANZI P., 265 BRECHT B.,25 BRICARELLI S., 261 BRIGNONE G., 66, 147 BRIZZI A., 66 BROWNING T., 60 BRUNETTA G.P., 81, 82, 142, 146, 199, 221 BRUNO G., 29, 30, 41 BRUNO F., 109 BUCHANIN N., 268 BURRI A., 227 CACUCCI P., 83 CAIN J.,256 CALAMANDREI P., 112 CALOPRESTI M., 11 CALVINO I., 10, 14, 15, 71, 129, 203, 205, 209, 216-219, 221, 258 CAMERINI M., 65, 66, 71, 81, 131 CAMERINO V., 149 CAMISA A., 264 CANALI M., 269 CAPRA F.,134, 255 CARELLA D., 108 CARNÉ M.,255

CARO A., 272 CARPITELLA D., 74 CARRIERI M.,264 CASIRAGHI T., 145, 264 CASSOLA C., 14, 15, 129, 130 CASTELLANI R., 66, 69, 71, 250 CASTELLANO M., 265 CATTANEO E., 264 CATTANEO M., 264 CAVALLI G., 262 CAVAZZONI E., 82 CECCO F.,119 CEZANNE P., 213 CHAPLIN C., 64 CHECCHI A., 54 CHIARINI L., 67 CHIESA A., 246 CHINI R., 264 CIMINO M.,108 CISVENTI C.,264 CLAIR R.,134, 255 CLARK T.J., 213, 214, 221 CLEOPAZZO G., 149 COCTEAU J., 54, 72 CODIGNOLA L., 246 COLETTI D.,147 COMENCINI L., 55, 73, 84, 125 COMISSO G., 229, 231, 232 CONSIGLIO A., 54 CONTINI G., 271 COPPOLA F.F.,123 CORAZZI P., 147 CORTI M., 106, 118, 119, 197-199, 204, 205, 221 CORVI R., 119 COSTA A., 82 CROCE B., 105, 107, 119, 275 CROCENZI L., 262 DAGRADA E.,162, 179 DALLA MURA C., 265 DAMIANI D., 61, 81

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289 D’ANNUNZIO G., 81 DANTE A., 13 DAPPORTO C.,53 DARDENNE J-P., DARDENNE L., 122 DAVID J.L., 213 DE ANTONIS P., 261 DE BELLIS V., 52 DE BERTI R., 55 DE BIASI M., 265 DE CORE F., 285 DE FILIPPO E., 12, 22-28, 38 DE FILIPPO P., 55 DE LAURENTIIS D.,134 DE MARCHI E., 141 DE MARTINO E., 74, 263 DE MÉNIL D. E J., 29 DE REGE (F.LLI), 53 DE ROBERTIS G., 239, 240 DE SANTIS G., 10, 13, 17, 18, 20, 61, 66, 68, 69, 110, 111, 119, 124, 126, 127, 130, 133-148, 256, 257 DE SANCTIS F., 101-103, 107, 111, 119 DE SETA V., 73-75 DE SICA V., 17, 24, 67-72, 81, 117, 126, 130, 131, 252, 255-258 DE VINCENTI G., 199, 221 DEBENEDETTI G., 232 DEFOE D., 101 DEL BOSCO P., 45 DEL POGGIO C., 55 DELEUZE G., 69, 161, 165-177, 179, 180, 182, 183, 186, 187, 189, 194, 195, 199, 213, 221 D’ERAMO L., 285 DERRIDA J., 161 DI GIACOMO S., 24 DI GIAMMATTEO F., 40, 66, 145 DI GIANNI L., 74 DI PAOLO P., 265 DIAFANI L., 238

DONEGANI G., 105 DONZELLI P., 262, 264 DOVZENKO A., 134, 146 DOWLING D., 138, 142 DREYER C.T., 166, 189 DUCHAMP M., 188, 189 DURAS M., 186 EJZENSTEJN S.M., 64, 134, 208 ELLERO R., 11 EMMER L., 73 FABRIZI A., 43, 45, 53, 54, 55, 131, 190 FAETA F., 263, 264 FALASCHI G., 204 FALDINI F., 30, 41 FALQUI E., 285 FANARA G., 262 FARABOLA T., 261 FARASSINO A., 149 FARMER P., 285 FAULKNER W., 227 FELLINI F., 35, 43-61, 66, 82, 125, 130, 135, 168, 219, 220, 237, 247 FENOGLIO B.,129 FERORELLI V., 44 FERRARIO D., 125 FERRERO M., 246 FILIPPINI M., 44 FLAHERTY R., 72, 74 FLAIANO E., 55, 82 FOFI G., 30, 41, 251 FOGAZZARO A., 232 FONDA L., 142, 146, 147 FORBICE A., 285 FORD J., 134, 255 FORGACS D., 194 FORTINI F., 59, 129 FOUCAULT M., 164 FRANCIOLINI G., 66, 131, 254, 255 FREUD S., 220 GADDA C. E.,14, 25, 182, 248, 249

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290 GALIMBERTI C., 242 GALLAGHER T., 187 GARCIA LORCA F., 25 GARIBALDI G., 163 GASSMAN V., 142 GELENG R., 52 GENINA A., 67 GENOVESI A., 275 GENTILE G., 107, 108, 119 GERMI P., 55, 66, 69, 71, 147 GERRATANA V.,104, 119 GHIDETTI E., 246 GIACOMELLI M., 259, 264 GIANNANTONIO V., 285 GIANNONE P., 275 GIERI M., 81 GILARDI A., 263, 264 GINZBURG L., 34 GINZBURG N., 129 GIRARDOT A., 79 GIROMETTI R., 33 GODARD J.-L., 170, 186 GOLDONI C., 27 GRAMSCI A., 13, 100, 106, 115-119, 267, 268, 270-273, 278 GRAS E., 73 GRAZIANO L., 11 GRAZIATI A. R., 67 GRECO E., 33 GRIECO R., 268 GROSSI M., 124, 149 GUALINO R., 250 GUATTARI F., 165 GUERRIERO E., 285 GUEVARA A., 121 GUGLIELMI G., 169 GUTTUSO R., 72, 105, 147 HALLER H., 285 HANNE M., 285 HANSEN M. B., 221 HAYWORTH R., 138, 141

HEGEL G.W.F., 102 HEIDEGGER M., 170, 171 HEMINGWAY E., 18, 227, 228, 234 INFASCELLI A., 85 INGRAO P., 278, 279 INGROSSO M., 265 ISELLA D., 249 ISNENGHI M., 112, 119 IVENS J., 72, 74 JOVINE F., 109, 110, 117, 128, 129 JOYCE J., 65 KANT I., 169-171 KAURISMÄKI A., 122 KAZAN E., 148 KEZICH T., 74, 237 KLEE P., 200 LA ROCHEFOUCAULD F. DE, 163 LAJOLO D., 145 LAMBERTI SORRENTINO, 261 LANE J.F.,149 LANG F., 134 LATTUADA A., 54, 60, 68, 69, 261 LATTUADA B., 55 LAWTON B., 149 LEAKE E., 270, 285 LEONETTI A., 268 LEOPARDI G., 250, 252 LESKOV N., 205 LEVI P., 15, 82 LEVI C., 129 LIZZANI C., 11, 17, 20, 60, 73, 81, 82, 123, 133-135, 137, 139, 146-149, 277-279 LOACH K., 126 LONGANESI L., 63, 229, 261 LONGO N., 107, 119 LOY N., 19, 125 LUCHETTI D., 125 LUIGI XIV 163 LUKÁCS G., 118 LUMIÈRE (F.LLI), 210

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291 LUPERINI R., 100, 106, 108, 110, 113, 119 LUTTON S.,194 MACARIO E., 53 MACCARI R., 53, 243, 244 MACHIAVELLI N., 27 MACIOTI M.I., 34 MACORINI E., 145 MAGGIO (F.LLI), 53 MAGGIORANI L., 78 MAGNANI A., 43, 53, 54, 258 MANGANARO J.-P., 166 MANGANO S., 124, 138, 141, 142, 145 MANGINI C., 265 MANN T., 105 MANZONI A., 20 MARABINI C., 279 MARAINI F., 265 MARCIANO F., 84, 85 MARCUS M., 82, 149 MARIANI ROSSELLINI M., 42 MARINETTI F.T., 208 MARNITI B., 128 MARTELLI O., 66 MARTINI A., 149, 245 MARTINOTTI F., 85 MARX C., 164 MASACCIO, 184 MASELLI C., 17, 19, 20, 60, 73 MASI S., 149 MASINA G., 52 MASSARI L., 46 MATARAZZO R., 55, 147, 215 MATISSE P., 188 MATTOLI M.,131 MAZZACURATI C., 125 MCFARLANE B., 82 MCMURRAY F., 52 MELANI M., 149 MELE A., 106, 119 MELFI E.,100, 106, 110, 113, 119

MEREGHETTI P., 19 MICHELONE G.,134-136, 140, 141, 149 MIGLIORI N., 264 MILANINI C., 100, 101, 104, 110, 117119, 197, 221 MOLINARI A., 238 MONCALVO R., 262 MONDADORI ALBERTO, 237, 238, 251, 261 MONDADORI ARNOLDO, 238, 251 MONICELLI M., 55, 82, 125, 135, 147, 246 MONTALDO G., 82, 130 MONTI P., 262 MONTUORI C.,66 MORANTE E., 14 MORAVIA A., 9, 17-22, 28, 81, 109, 128, 129, 240, 258, 270 MORLION F., 59 MORPURGO L., 261 MOUFFE C., 115, 119 MULVEY L., 194 MUSSO C., 134 MUSSOLINI V., 54, 110, 133 MUSSOLINI B., 219, 226, 260 MUZZIOLI F., 285 NARBONI J., 179 NARDI E., 135, 141, 148 NAREMORE J., 82 NIETZSCHE F., 125, 126 NISHIDA K., 182 NOWELL-SMITH G.,194 NOZZOLI A., 246 OLMI E., 73, 74, 278 OPHÜLS M., 66, 168 ORLANDO F., 107, 285 ORSINI V., 73 ORTESE A.M., 129 OSIRIS W., 53 OTTIERI O., 129 PABST G.W., 134

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292 PAGANO G., 261 PAGLIERO M., 43 PALAZZESCHI A., 237, 238, 240-252 PALAZZO V., 124, 149, 169 PANCRAZI P., 231, 239, 241, 242, 246 PANNUNZIO M., 109, 234 PAPINI M.C., 251 PARIGI S., 221 PARISE G., 232 PARISI A., 135, 139, 143, 149 PASOLINI P.P., 14, 25, 74, 79, 81, 118, 125, 129, 184, 185, 197, 214, 215 PASQUALI E., 264 PASQUINO P., 164 PATELLANI F., 261 PAVESE C., 68, 104, 110, 128, 134, 240, 257, 258 PAYNTER M.N., 285 PERILLI I., 134 PESSINA A., 177 PETITO A., 22 PETRELLI T., 265 PETRI E., 61 PICASSO P., 213 PICCHIOTTI L., 128 PIERCE G., 25 PIETRANGELI A., 68 PINDEMONTE I., 272 PINELLI T., 54, 55, 60 PINNA F., 263, 264 PINOCHET A., 38 PINTOR G., 12, 99-101, 104, 119 PIOVENE G., 232 PIRANDELLO L., 21, 28, 81, 108, 182, 209 PIRELLI A., 105 PISCICELLI S., 19 PLATONE F., 115 POGGIOLI F.M., 239, 243-247 POLIDORI F., 172 POLLOCK J., 213 PONTECORVO G., 73, 74, 79

PORTALUPI P., 67 POZZI BELLINI G., 261 PRATOLINI V., 9, 19, 81, 107, 129, 278 PREOBRAZENSKY E.A., 268 PROCACCI G., 164 PROUST M., 65 PRYCE -JONES D., 286 PUCCINI G., 55, 134, 147 PUDOVKIN V., 64, 65, 134 PURIFICATO D., 68 QUESTI G., 73 RADEK K.B., 268 RAMPELLO L., 165 RAVAZZOLI P., 268 RAWSON J., 286 RE L., 199, 221 REA D., 130 READ C., 31 REINA M.E.,170 RENOIR J., 64, 134, 168, 255 RENZI R., 73 RÈPACI L., 246 REPETTO T., 139 RESNAIS A., 186 RICCARDI C., 119 RICCI E., 277 RICCI P., 25, 26 RICCIO A., 108 RIMANELLI G., 130 RISI D., 46, 60, 73, 125 RISI M., 85 ROBBE-GRILLET A., 186 RODONDI R., 241 ROITER F., 265 RONDOLINO G., 181 ROSI F., 61, 82 ROSSELLINI R., 17, 20, 25, 29-35, 3841, 43, 46, 47, 54, 56-60, 64, 6669, 71, 74, 126, 130, 161, 162168, 172-196, 204, 211, 214, 253, 254, 257, 258

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293 ROTA N., 58 ROVERE L., 55 RUBERTO L., 221 RUSSO F., 24 RUTMANN W., 66 SALINARI C., 107, 109, 118, 119 SALVATORES G., 82-85, 87, 89, 92, 94, 125 SALVATORI R., 78 SAMUGHEO C., 264 SANTORO M., 20 SAROYAN W., 227 SARTRE J.P., 27, 128 SCAFFA L., 42 SCARPETTA E., 22, 23 SCHRADER P., 169 SCIASCIA L., 81, 82 SCIOSCIAMMOCCA F., 23, 24 SCOLA E., 82, 125 SCORSESE M., 75, 122, 123 SECHI M.,107-109, 119 SELLERIO E., 264 SERANDREI M.,10, 66, 100 SERAO M., 24 SERATO M., 244 SERENI V., 113, 228 SFORZA F., 176 SHAKESPEARE W., 14, 83 SILONE I., 12, 104, 119, 240, 267279, 284, 286 SIMONELLI G., 134-136, 140, 141, 149 SIRONI M., 20, 27 SMILZA I., 268 SOLAROLI L., 65 SOLDATI M., 71 SOLDINI S., 125 SORDI A., 46 SOSSI F.,172 SPAMPANATO R., 265 SPARTI P., 74 SPIELBERG S., 123

STALIN J., 268 STARNONE D., 83 STEINBECK J., 18, 227 STELLA F.,190 STENO (VANZINA S.). 55, 135, 147 STORELLI F., 246 STRAUB J.-M., 186 SUTRO N., 269 SYBERBERG H.-J., 186 TAMBURRANO G., 270 TARAMELLI E., 259, 265 TARANTO N., 53 TAVERNIER B., 51 TAVIANI P., 73, 278 TAVIANI V., 73, 278 TELLINI G., 53, 238, 240, 246, 247 TERZANO M., 66 THULIN I.,130 TILGHER A., 108 TOFFETTI S., 119, 149 TOGLIATTI P., 113, 115, 136, 267, 268, 271, 277, 278 TONTI A., 66 TOSCANI F., 261 TOSOLINI T., 182 TOTÒ 53, 251 TOURNEUR J., 123 TRANQUILLI S. (V. SILONE I.), 267 TRANQUILLI R., 268 TREJO G., 34, 41 TRESSO P., 268 TROISI D., 227 TROMPEO P.P., 246 TROTSKY L., 268 TUMIATI G., 226, 227 UNGARETTI G., 128 VALENTINI P., 140 VALÉRY P., 212 VALLECCHI E., 237, 244, 250 VALLETTA V., 105 VALLONE R., 142, 145

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294 VAN GOGH V., 89 VANCINI F., 73, 74 VERASANI G., 83 VERGA G., 14, 18, 20, 67, 68, 111, 116, 117, 119, 137 VERONESI L., 261 VERTOV D.,64, 208, 209 VERTUNNI G., 147 VIDOR K., 134, 255 VIGANO E., 63 VIGANÒ R., 130 VIOLA C.G., 255 VISCONTI L., 10, 13, 14, 66-69, 71, 72, 78, 79, 81, 100, 103, 111, 126, 131, 134, 137, 144, 168, 255-257 VITA-FINZI P., 245, 246 VITTI A., 10, 18, 82, 131, 147, 149, 150, 253, 254, 279 VITTORINI E., 9, 104-107, 110-119, 134, 240, 241

VITTORIO EMANUELE III, 268 VIVIANI R., 22, 24-27 VOLPONI P.,129 WAGSTAFF C., 215, 221 WELLES O., 134, 186, 257 WHALE J., 60 WILSON M.H., 123 WOOLF V., 211 ZAGARRIO V., 82 ZAMPA L., 71 ZANZOTTO A., 232, 233 ZAPPONI B., 49 ZAVATTINI C., 17, 24, 53, 55, 60, 63, 68-72, 122, 126, 206, 210, 219, 221, 259, 262, 263 ZERI F., 71 ZIMMER B., 239 ZOLA E., 101, 103 ZOVETTI U., 264 ZURLINI V., 73

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2008 Metauro Edizioni s.r.l., Pesaro Finito di stampare nel mese di giugno 2008 presso la tipografia Litocolor (Pesaro) Printed in Italy

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