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Il testo affronta l'analisi dei dodici lungometraggi finora diretti da Peter Weir nell'intento di dimostrare c

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 8879161903, 9788879161909

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Tiziana Battaglia

IL CINEMA DI PETER WEIR

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ISBN 88-7916-190-3 Published in Led on Line - Electronic Archive by LED - Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto Milano http://www.ledonline.it/ledonline/battaglia.html Agosto 2002

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INDICE

Introduzione

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1. IL CINEMA AUSTRALIANO DALLE ORIGINI ALLA NEW

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WAVE E OLTRE

1.1. Società e miti (p. 11) – 1.2. Il cinema australiano dalle sue origini agli anni Quaranta (p. 15) – 1.3. Gli anni Cinquanta e Sessanta (p. 18) – 1.4. Gli anni Settanta (p. 19) – 1.5. Gli anni Ottanta (p. 23) – 1.6. Gli anni Novanta (p. 25) – 1.7. Peter Weir: la vita e lo stile (p. 27)

2. PERCORSI TEMATICI

35

3. ASPETTI TECNICI

91

2.1. La soglia e il viaggio (p. 35) – 2.2. Il ruolo della donna (p. 50) – 2.3. L'acqua (p. 63) – 2.4. Il tempo e l'immagine dell'orologio (p. 73) – 2.5. La natura (p. 81) 3.1. Primo piano e “ferite visive” (p. 91) – 3.2. Per un'estetica degli inizi (p. 105)

Conclusione

123

Ringraziamenti

125

Appendice 1.

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Appendice 2.

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Filmografia

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Bibliografia

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30/11/1999 - Conferenza stampa presso il Cinema Anteo di Milano

02/12/1999 - Incontro con gli studenti presso il Cinema Lumière di Bologna

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A Zio Dino

INTRODUZIONE

Il testo affronta l’analisi dei dodici lungometraggi finora diretti da Peter Weir nell’intento di dimostrare come il suo lavoro sia unito non solo da uno stile unico e accattivante, ma anche da una continuità di temi e figure che attraversano, come una sottile linea rossa, tutte le sue opere. Weir è un regista eclettico che ama attingere a diverse fonti, cambiare i generi di riferimento da film a film e spesso anche nel medesimo film, attuando quella che oggi viene da tutti chiamata la contaminazione di generi: attraverso di essa prima reinventa il cinema australiano, che negli Anni Settanta tenta di rinascere dalle ceneri di un passato glorioso, poi apporta una ventata di freschezza al cinema hollywoodiano, sempre più in cerca di storie da raccontare ma sempre meno capace di trovarle. Ne esce il ritratto di un uomo, come i suoi personaggi, diviso tra diverse culture e diverse realtà: l’Australia, sua terra d’origine, e l’Europa, la patria dei suoi antenati; l’Australia, suo abituale luogo di residenza, e gli Stati Uniti d’America, dove ormai lavora da anni; infine, sul piano più strettamente professionale, la dimensione di una ricerca autorale di storie da raccontare e la realtà del box office. Prima di introdurre la figura del regista si è effettuato un rapido excursus volto a delineare le origini del cinema australiano, la sua evoluzione/involuzione, la sua rinascita con la New Wave degli anni Settanta e le tendenze attuali. Questo perché Weir, pur lavorando a Hollywood da quindici anni, non ha mai perso il contatto con la cinematografia australiana e ne segue sempre con interesse la sue evoluzioni. Si è poi pensato di fornire alcuni cenni sulla vita artistica del regista per facilitarne l’inquadramento nell’ambito della cinematografia contemporanea. Il capitolo II affronta i film diretti da Weir optando per una discussione trasversale dei temi e delle figure di maggiore interesse conTiziana Battaglia - Il cinema di Peter Weir http://www.ledonline.it/ledonline/battaglia.html

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tenuti nelle sue opere (il viaggio e la soglia, la donna, l’acqua, il tempo e l’orologio, la natura). Si è cercato di offrire nuovi spunti di riflessione, rimanendo il più possibile fedeli alle immagini, visto che esse sono il mezzo di espressione preferito da Weir. Il capitolo III è dedicato all’analisi di alcuni elementi tecnici (l’uso del primo piano unito al flashback/flash forward, gli inizi dei film) nell’intento di attirare l’attenzione sul modo in cui Weir costruisce le sue pellicole. L’approccio scelto può forse risultare meno esaustivo (per quanto un testo lo possa essere) di un’analisi in ordine cronologico dei lungometraggi. Quello che si spera di aver evidenziato è l’unità del corpus delle opere weiriane nelle scelte tematiche e stilistiche pur nella diversità delle storie narrate. Seguono nell’ordine la filmografia e una bibliografia. Si noterà inoltre che i titoli dei film sono stati citati in lingua originale (nella filmografia se ne indicano le rispettive traduzioni) perché, nell’ambito della fedeltà al testo di cui si parlava prima, spesso le traduzioni sono fuorvianti quando non addirittura contraddittorie rispetto al testo filmico.

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1. IL CINEMA AUSTRALIANO DALLE ORIGINI ALLA NEW WAVE E OLTRE

1.1. SOCIETÀ E MITI Si è ritenuto opportuno fornire alcuni dati generali sull’Australia per permettere un più facile inquadramento del suo cinema. L’Australia, similmente agli Stati Uniti d’America, è un continente con una storia millenaria dal punto di vista degli aborigeni, ma con poco più di duecento anni di vita secondo i parametri del mondo occidentale. Chiaramente la storia delle due ex-colonie britanniche è assai diversa non fosse altro perché l’una si emancipava proprio quando l’altra iniziava ad essere colonizzata. Inoltre, in Australia i primi coloni furono galeotti inviati a forza sull’isola per svuotare le prigioni inglesi, mentre in America i primi colonizzatori abbandonarono più o meno volontariamente la madre patria per sfuggire alle persecuzioni e per creare un mondo migliore nel nuovo continente. Successivamente la Gran Bretagna tentò di mantenere la popolazione australiana in maggioranza bianca: fin dopo la seconda guerra mondiale infatti, l’immigrazione fu quasi ed esclusivamente costituita da inglesi, scozzesi, irlandesi o al limite da popolazioni europee che potessero facilmente integrarsi allo standard di vita anglosassone. Ancora oggi la conoscenza dell’inglese è requisito fondamentale per coloro che vogliono entrare nel paese. Risultato di questa politica è una società prettamente mono-razziale: pochissimi i neri, ma pochi anche i rappresentanti delle popolazioni asiatiche che sono sempre state viste dagli australiani come un pericolo per la loro

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ricchezza. Anche il numero degli aborigeni è molto ridotto: nel 1989, su un totale di 16.807.000 abitanti, solo lo 0,8% era costituito da aborigeni 1. Questo perché la popolazione indigena fatica ad adattarsi alla nuova situazione; gli occidentali hanno sfatato le loro credenze e ora una gran parte degli aborigeni vive nelle periferie delle città grazie ad un sussidio statale che viene per lo più speso nell’acquisto di alcolici. Gli aborigeni si stanno quindi autodistruggendo, ma non bisogna dimenticare che gli occidentali li hanno schiavizzati e persino cacciati come fossero animali: solo da pochi anni gli aborigeni sono riconosciuti come cittadini australiani a tutti gli effetti. Una gran parte della popolazione bianca sente adesso un forte senso di colpa per la situazione in cui versano gli aborigeni rimasti. Un altro aspetto del continente australiano è la distribuzione ineguale della popolazione. Su un territorio estremamente vasto (7.682.300 kmq) vivono circa diciassette milioni di abitanti, per lo più concentrati nelle città della costa, soprattutto quella sudorientale. Infatti l’85% della popolazione vive sulla costa e in particolare il 50% si concentra tra le città di Sydney, Melbourne e Brisbane 2. L’interno, il cosìddetto outback, è scarsamente popolato a causa delle sue difficili condizioni climatiche. La popolazione è a maggioranza maschile e le donne hanno ancora oggi un ruolo minore nella società. Si possono individuare le cause di questa situazione nel tipo di colonizzazione a cui è stata sottoposta l’Australia, nonché nell’asprezza della sua natura e del suo clima. I deportati erano per la maggior parte uomini; successivamente, quando giunsero le famiglie di coloni, le condizioni di vita soprattutto nell’interno non erano adatte alle donne: da qui la loro posizione di secondo piano nella vita australiana. Come la produzione cinematografica ci ha abituati a vedere, esse hanno il compito di aspettare il ritorno del loro myth-making master e devono sempre essere pronte a servirlo 3. Per quanto riguarda i miti, ogni nazione ne ha di suoi propri o se li crea: lo stesso è accaduto per l’Australia. La cultura australiana è stata 1 I dati sono stati ricavati dalla voce “Australia”, La Piccola Treccani, Roma, 1995, vol. I, pp. 859-860. 2 Cfr. voce “Australia”, La Piccola Treccani, op. cit., pp. 859-860. 3 Cfr. Brian McFarlane, Australian Cinema 1970-1985, Secker & Warburg, London, 1987, p. 17.

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fortemente influenzata da una sensazione di isolamento dalla cultura europea che l’ha generata, ma anche dal suo isolamento interno, viste le enormi distanze che dividono le varie parti del continente. Questo isolamento ha prodotto un grande senso di incertezza, soprattutto sulla propria identità, ma ha anche creato la coscienza di non potere contare su aiuti esterni, di dovercela fare da soli. Attraverso i miti l’Australia ha tentato di crearsi un’identità, una “australianità” e il cinema ha grandemente contribuito a questo lavoro. I registi australiani sono parte di questa industry of image-makers 4: forse per questo l’Australia ha prodotto un maggior numero di grandi registi piuttosto che di grandi attori. Tra i miti più interessanti e che si trovano con maggiore frequenza nel cinema australiano si analizzeranno: il bush (o outback), il bushman, il pioniere, la leggenda dell’Anzac e l’ocker. Per bush si intende lo sterminato territorio che si estende oltre le città della costa, al di là delle montagne. È un territorio molto vario, ma nell’immaginario collettivo e cinematografico è quasi ed esclusivamente visto come deserto. La natura per il popolo australiano è sempre stata, ed è tuttora, qualcosa di non posseduto, una realtà altra, o addirittura estranea ed avversa; il bush non è certo la natura come la intendono gli europei, non è uno specchio in cui riflettersi e riconoscersi. La sua caratteristica è la forza indomabile e da essa dipendono tutte le altre cose: l’idea della scontrosità della natura, infatti, è alla base dell’ethos nazionale australiano. Ciò che conta è l’esperienza del bush e le reazioni delle persone ad esso. È il fattore formante, quello che differenzia l’Australia dal resto del mondo. Il bushman è l’europeo che si insedia nel bush e lo sfida. Il risultato è la nascita di un uomo nuovo, l’australiano. Il bushman, vivendo nello sterminato outback, è indipendente e in un certo senso insubordinato al potere politico. La sua attività principale è la pastorizia, conduce una vita seminomade che condivide con compagni del suo stesso sesso. Da qui un altro mito fondamentale per l’Australia, il cameratismo (mateship). Il bushman ha una sorta di alter ego criminale nella figura altrettanto mitica del bushranger, cioè il bandito. Il pioniere, a differenza del bushman, è colui che prende dimora 4 Neil Rattigan, Images of Australia, 100 Films of the New Australian Cinema, Southern Methodist University Press, Dallas, 1991, p. 24.

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fissa in un luogo del bush; per lo più è da solo, al massimo con la famiglia: per la prima volta anche la donna ha un ruolo, seppur di secondo piano. Da notare che i pionieri, così come i bushmen, sono tutti uguali tra loro; ci si scontra qui con un altro mito dell’australianità: l’uguaglianza fra gli uomini. Il pioniere tenta di piegare la natura al suo volere, ma il ruolo centrale è comunque e sempre giocato dal bush, in qualità di antagonista. Anzac è acronimo per Australian and New Zealand Army Corps. Il mito nasce dall’eroica lotta e successivo massacro dei soldati australiani e neozelandesi a Gallipoli durante la prima guerra mondiale. I fatti di Gallipoli conferirono all’Australia lo status di nazione poiché avevano una portata ben più vasta della battaglia combattuta in un lontano paese. Riportavano infatti agli inizi della colonizzazione quando si diceva che: [...] the Australian experience would (and did) create a race of people who could stand proudly among the nations of the world without being considered, or considering themselves, to be inferior – a “degeneration” of the European stock. 5

Le qualità del soldato Anzac sono quelle del bushman: lealtà (all’impero, all’Australia e ai compagni), capacità di iniziativa e di resistenza, ingegnosità, affidabilità, coraggio e soprattutto cameratismo 6. In generale il mito si allarga al minatore: il soldato Anzac e il minatore sono due facce di una stessa medaglia. Si può aggiungere poi che le qualità del soldato sono quelle del maschio tipo australiano. L’ocker 7 è l’eroe ironico, il tipico australiano appartenente alla working class e per di più ignorante e maleducato. Il suo tipo appartiene all’ambito del clown. È un maschio sciovinista, è irriverente verso tutto 5 “[...] l’esperienza australiana avrebbe creato (e creò) una razza di persone che avrebbero potuto figurare con orgoglio tra le nazioni del mondo senza essere considerati, o considerarsi, inferiori - una degenerazione del ceppo europeo.”, Neil Rattigan, Images of Australia, op. cit., p. 30. Dove non diversamente citato, le traduzioni sono a cura di chi scrive. 6 Brian McFarlane, Australian Cinema 1970-1985, op. cit., p. 7. 7 Il Collins Concise English Dictionary, Third Edition, Harper Collins Publishers, Glasgow, 1992, alla voce “ocker” riporta: “Australian slang. An uncultivated or boorish Australian.”

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e tutti ma agisce comunque nella sfera della legalità. Si può tracciare una linea di evoluzione che partendo dalla figura del deportato porta all’ocker passando attraverso le figure del bushranger, cioè “an outlaw living in the bush” 8, e del larrikin 9, il teppista: la differenza fondamentale fra questi quattro tipi è che l’ocker, essendone il rappresentante più evoluto, è anche quello meno pericoloso per la società poiché è ormai totalmente integrato nella sua legalità.

1.2. IL CINEMA AUSTRALIANO DALLE SUE ORIGINI AGLI ANNI QUARANTA Già a partire dal 22 Agosto 1896, quando alla Melbourne Opera House avvenne la prima proiezione pubblica di un film, la cinematografia australiana non aveva nulla da invidiare alle altre cinematografie. Il primo film narrativo della storia è probabilmente l’australiano The Story of the Kelly Gang diretto nel 1906 da Charles Tait. Durava più di un’ora e raccontava la storia del più famoso bushranger australiano. La produzione agli inizi del secolo era fiorente e i temi trattati erano quelli che richiamavano l’attenzione del pubblico locale. Durante la prima grande ondata di cinema australiano (1910-1912) i film seguivano uno schema fisso: erano ambientati nel bush e avevano come protagonisti degli evasi. Raymond Longford era solito dire che per fare un film in quell’epoca si aveva bisogno di cavalli, uniformi, fucili e una diligenza. Ci si accampava per un breve periodo appena fuori dall’abitato e senza sceneggiatura si girava un film che di solito comprendeva un assalto alla diligenza, molte galoppate e una sparatoria finale. A partire dal 1912, però, i film sui banditi vennero messi al bando dalla polizia del New South Wales, che era responsabile della censura cinematografica. Questo provvedimento ebbe l’effetto di spostare l’attenzione verso tematiche e personaggi appartenenti alla sfera della legalità. Da qui tutta una serie di film sulla vita degli agricoltori, soprattutto quelli più ricchi, e sui cercatori d’oro. Le donne, nei film sui ricchi agricoltori, potevano trovarsi costrette a mandare avanti la proprietà familiare in assenza de8 9

Cfr. voce “bushranger” in Collins Concise English Dictionary, op. cit. Cfr. voce “ larrikin” in Collins Concise English Dictionary, op. cit.

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gli uomini, ma questo non accadeva mai nel caso di famiglie di agricoltori poveri. Il numero dei film prodotti andò crescendo fino al 1911 quando fu di circa cinquanta film, ma si ridusse nei tre anni successivi rispettivamente a trenta, diciassette e quattro film 10. Questo declino fu dovuto in parte alla concorrenza del prodotto estero e in parte all’accanimento della censura sui film sui bushrangers, ma fu soprattutto dovuto alla politica della combine 11 non interessata alle produzioni australiane. Così l’industria cinematografica in Australia si ridusse alla produzione dei cinegiornali, mentre il mercato della fiction veniva coperto dai prodotti americani e in parte da quelli britannici. Il cinema americano fu dall’inizio proiettato verso una sfera internazionale. Questo per via del pubblico a cui si rivolgeva, cioè gruppi di immigrati poveri e illetterati; inoltre i primi produttori erano per lo più di origini umili e spesso ebree e il loro principale interesse era quello di massimizzare i profitti. Ovviamente, il fatto che i film fossero muti aveva eliminato la barriera linguistica, barriera che nel caso dell’Australia non si sarebbe comunque posta neanche nel periodo del sonoro essendo l’inglese la lingua ufficiale dell’isola. Solo a partire dal 1913, quando Cecil B. De Mille si trasferì a Hollywood, si ebbe una concentrazione di studios in questa località e si assistette alla nascita dell’industria cinematografica americana. Il cinema prodotto era pieno di glamour, proiettava l’immagine di un mondo libero, ricco ed eccitante: gli australiani lo osservavano stupiti, combattuti fra sentimenti di ammirazione e di scetticismo. Per gli americani e per il mondo Hollywood era l’American Dream. Si può così capire perché i film australiani delle origini non catturarono l’immaginario nazionale. All’Australia mancava in primo luogo uno star system e questo perché le star americane erano troppo famose. Inoltre, gli USA disponevano di una popolazione più numerosa e di una maggiore ricchezza: basti pensare che Mary Pickford nel 1917 veniva pagata $350.000 per film, persino più del costo di produzione di alcuni film australiani dei primi anni Set10

cit., p. 6.

I dati sono tratti da Brian McFarlane, Australian Cinema 1970-1985, op.

11 La combine nacque dalla fusione di più case di produzione e distribuzione nonché di circuiti di proiezione. Si formò così un monopolio che comprendeva la Australasian Films per la distribuzione e la Union Theatres per la proiezione.

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tanta 12. Durante la prima guerra mondiale il cinema venne utilizzato come strumento di propaganda per promuovere lo sforzo bellico. Con la fine della guerra il cinema australiano entrò in crisi, soprattutto in concomitanza con l’avvento del sonoro. Hollywood godeva in questo periodo di superiorità tecnica ed economica e, così come succedeva per le altre cinematografie, anche i grandi personaggi del cinema australiano (Errol Flynn ad esempio) emigrarono in America. Incominciava per l’Australia quella situazione di dipendenza dagli USA che sarebbe continuata almeno fino alla New Wave. Infatti, l’Australia è sempre stata vista come un ottimo mercato per il prodotto americano oltre che come un luogo esotico e relativamente economico dove ambientare le produzioni hollywoodiane. La penetrazione dell’industria cinematografica americana nel sistema culturale australiano ha prodotto un certo grado di americanizzazione, ma anche di rifiuto e di denigrazione dell’american way of life (non molto diversamente da quello che accade in altri paesi, ad esempio in Italia). Le accuse mosse sono sempre le solite: istigazione alla violenza e all’immoralità. Inoltre i nazionalisti australiani accusavano i film americani di essere contro gli inglesi e di contaminarne la lingua. Nonostante lo strapotere americano, tra gli anni Venti e gli anni Quaranta in Australia si producono alcuni film degni di nota. Durante gli anni Venti il più interessante è The Sentimental Bloke (1919) di Raymond Longford, basato su un poema di C.J. Dennis. Ambientato in un sobborgo di Sydney, il film si sviluppa intorno alla storia d’amore tra the bloke e la sua ragazza, la quale riuscirà a riportarlo sulla retta via. Infine, i due troveranno la felicità in una idillica fattoria situata nel bush. Gli anni Trenta vedono il successo commerciale del film comico sulla famiglia che vive nel bush. Un nome da ricordare in questo ambito è quello di Ken G. Hall 13, che diresse un certo numero di film appartenenti a questo genere. In realtà, l’origine di questo genere risale al 12 Cfr. Glen Lewis, Australian Movies and the American Dream, Praeger Publishers, New York, 1987, p. 14. 13 Hall fu anche uno dei fondatori dei Cinesound Studios e ne fu a capo tra il 1932 e il 1956. Cinesound fu la casa di produzione australiana che più assomigliava a quelle americane, almeno fino al 1940. Produsse successi commerciali, tecnici specializzati e un piccolo star system.

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1917, quando Beaumont Smith diresse una serie di film sulla famiglia Hayseeds, una famiglia di poveri e rozzi agricoltori. Smith si rifaceva a sua volta ai personaggi di Dad e Dave Rudd protagonisti dei racconti di Steele Rudd. Lo stesso Longford diresse agli inizi degli anni Venti un paio di film che avevano per protagonisti questi due personaggi, ripresi poi da Hall negli anni Trenta. Negli anni Quaranta l’industria cinematografica australiana è a uno dei suoi livelli più bassi. Bisogna comunque ricordare il nome di Charles Chauvel che diresse alcuni tra i più famosi film sulla identità australiana, ad esempio Sons of Matthew (1949), che racconta la saga di una famiglia di pionieri durante tre generazioni. Il clima prodotto dalla seconda guerra mondiale porta inoltre al rafforzarsi del filone propagandistico.

1.3. GLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA Negli anni Cinquanta il lavoro dei cineasti australiani si riduce ai cinegiornali e alla pubblicità televisiva, nonché alla partecipazione nelle produzioni americane e britanniche che si fanno sull’isola. Gli americani utilizzavano l’Australia come sfondo esotico per storie che, con qualche piccolo ritocco, avrebbero potuto essere girate ovunque. Oltre tutto i loro rapporti con l’industria cinematografica locale erano sporadici perché essi preferivano portarsi dietro i propri tecnici oltre agli attori principali. Gli americani dimostravano inoltre scarsa attenzione per le specificità locali. Costringevano i propri attori a riprodurre l’accento australiano ottenendo scarsi risultati, come succede in On the Beach, film che Stanley Kramer diresse nel 1959; in alcuni film appariva il bush, ma era visto come sfondo inedito per varianti sul genere western dimostrando che in fondo gli americani vedevano l’Australia come l’ultima frontiera, una estensione del vecchio West (ad esempio Kangaroo realizzato nel 1952 da Lewis Milestone). Insomma, gli americani arrivavano, giravano il loro film destinato al loro mercato e se ne andavano, il più delle volte completando nel loro paese la fase di postproduzione. Gli inglesi, invece, cercavano almeno di fornire, per quanto possibile, versioni australiane del modo di vivere sull’isola, di-

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mostrando anche un certo interesse per la cinematografia locale. Un esempio può essere The Overlanders diretto nel 1946 da Harry Watt che non solo utilizza attori australiani nei ruoli principali ma cerca anche di fornire un’immagine accurata del bush australiano. Si può dire che i britannici dominarono la cinematografia australiana sia con produzioni artistiche sia con produzioni commerciali fino all’inizio della New Wave, ma in questo periodo di circa vent’anni descrissero l’Australia attraverso una sola immagine, quella del bush. L’introduzione della televisione, di cui si parlava già dal 1942, e che avvenne nel 1956 in coincidenza con le Olimpiadi di Melbourne, portò un altro duro colpo al cinema australiano. Il palinsesto, almeno fino a metà degli anni Sessanta, fu dominato dai prodotti americani, confermando la dipendenza australiana dalla cultura americana 14. L’unico campo di lavoro offerto dalla televisione era quello della pubblicità. Nei primi anni Sessanta, però, il governo decise di rivitalizzare il cinema australiano attraverso la produzione di drammi per la televisione e si passò quindi ad una progressiva australianizzazione del mezzo televisivo. Ed è in questo clima di rinascita delle produzioni australiane che si innesterà nel decennio successivo il fenomeno della New Wave.

1.4. GLI ANNI SETTANTA Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta si assiste in Australia a manifestazioni contro la guerra nel Vietnam e contro gli americani: da qui un’ondata di nazionalismo a cui aderisce una generazione di giovani intellettuali, molti dei quali scelgono il cinema come mezzo di espressione di un ritrovato sentimento nazionale. Questo gruppo di cineasti indipendenti inizia una campagna per spingere il governo a prendere provvedimenti a favore dell’industria cinematografica. Finalmente nel 1970 il governo dà vita all’Australian Film Development Corporation (A.F.D.C.), che viene sostituita nel 1975 dall’Australian Film Commission (A.F.C.): entrambi questi enti hanno il 14 Per maggiori informazioni sulla televisione australiana cfr. Glen Lewis, Australian Movies and the American Dream, op. cit., p. 54.

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compito di fornire assistenza all’industria cinematografica dalle fasi di preproduzione fino a quelle di promozione e distribuzione. Requisiti necessari per ottenere tale assistenza sono che il film abbia un significativo contenuto australiano e che sia di produzione, ideazione e troupe australiana. Nel 1972 poi viene fondata con decreto parlamentare la Australian Film and Television School con sede a Sydney (come l’A.F.C.) e succursale a Melbourne: tra i suoi primi diplomati si annoverano Gillian Armstrong e Phillip Noyce. In origine gli allievi venivano scelti in base alle loro attitudini artistiche ed immaginative, successivamente si è richiesto che ad esse fosse abbinata una specifica preparazione di tipo pratico. Verso la fine del decennio l’interesse del governo per il cinema si va notevolmente riducendo. È comunque del 1980 il Tax Assesment Act che dà la possibilità a privati cittadini di finanziare produzioni cinematografiche, purché completamente australiane, beneficiandoli con il 50% di detrazione fiscale sugli incassi del film stesso. Chiaramente il cinema australiano per decollare non aveva solo bisogno di interventi statali mirati al suo rilancio economico. L’Australia aveva infatti già all’inizio degli anni Settanta un pubblico affamato di cinema, ma tradizionalmente orientato verso il prodotto straniero. I nuovi registi dovevano in primo luogo conquistare credibilità agli occhi del loro pubblico producendo opere capaci di interessarli. Sul film che dà il via alla New Wave non c’è accordo tra i critici australiani e quelli stranieri. Per i primi è 2000 Weeks 15 diretto da Tim Burstal nel 1970; per i secondi invece bisogna aspettare fino al 1974-75 per parlare di vera e propria rinascita, in particolare per questi il film Sunday Too Far Away 16 di Ken Hannam è quello che ne segna l’inizio. Non ci sono dubbi invece sul genere che inizia la rinascita del cinema australiano e cioè le ocker comedies, come The Adventures of Barry McKenzie (1972) di Bruce Beresford o Alvin Purple (1973) di Tim Burstal 17, che sono state tra le prime a beneficiare del supporto dell’A.F.D.C. I protagonisti di questi film sono uomini volgari e maleducati, ossessionati 15 Per maggiori informazioni su questo film di Burstal cfr. David Stratton, The Last New Wave, Angus & Robertson Publishers, Australia, 1980, pp. 22-24. 16 Per maggiori informazioni su questo film di Hannam cfr. David Stratton, op. cit., pp. 98-105. 17 Per maggiori informazioni su questi due film cfr. David Stratton, op. cit., rispettivamente alle pagine 42-45 e 28-30.

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dai piaceri fisici quali il bere, il sesso e le donne: rappresentano una tipologia della popolazione australiana. Ovviamente, questi film hanno dato origine a critiche: li si è ritenuti di basso livello culturale e non adatti all’esportazione. Per molti erano fonte di imbarazzo e alla fine l’A.F.D.C. ha lasciato da parte questo genere più commerciale per dedicarsi alla produzione di film di qualità di cui la nazione potesse essere fiera. Secondo Susan Barber 18 questi film, in cui c’era una forte componente erotica, nascondevano la paura per l’emancipazione della sessualità femminile e per il potere che le donne volevano conquistare attraverso il movimento femminista che negli anni Settanta era particolarmente attivo. Il machismo dei film australiani sarebbe, sempre per Barber, un modo per mascherare la paura dell’uomo di fronte alla possibile perdita di potere, autorità e valore sessuale. Il periodo del decollo e consolidamento della nuova cinematografia australiana coincide con gli anni tra il 1975 e il 1980. La produzione in questi anni riprende per certi versi le tendenze del coevo cinema americano, ma è anche capace di produrre una serie di film caratterizzati da ottimismo, modestia e serietà. Molti sono ambientati in un passato non troppo remoto e sembrano voler alimentare il nuovo senso dell’identità nazionale; forse vogliono anche essere un rifugio dalla violenza del cinema americano. Frequentemente si discute il problema della repressione sessuale e del ruolo della donna, nonché l’educazione dei giovani e la loro crescita ed emancipazione. Picnic at Hanging Rock di Peter Weir e The Devil’ s Playground 19 di Fred Schepisi sono solo due esempi tra gli innumerevoli film che toccano questi argomenti. Altre caratteristiche del cinema di questo periodo sono la presenza di attori e storie aborigene e la forte componente di suspense e mistero unita all’interesse per l’inconscio (ad esempio The Last Wave di Peter Weir). È interessante ricordare che gli aborigeni sullo schermo compaiono solo alla fine degli anni Sessanta. Prima di questa data i personaggi aborigeni avevano solo ruoli di secondo piano ed erano interpretati da attori bianchi in black face, che, cioè, si dipingevano di nero il volto e le altre 18 Cfr. Susan Barber “The Adventures of Priscilla, Queen of the Desert”, Film Quarterly, 50/2, winter 1996-97, pp. 41-45. 19 Per maggiori informazioni su questo film di Schepisi cfr. Glen Lewis, Australian Movies and the American Dream, op. cit., pp. 89-90 e David Stratton, The Last New Wave, op. cit., pp. 130-133.

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parti di pelle visibili. La funzione degli aborigeni nei film era quella di connotare un luogo, di conferirgli esotismo; potevano anche essere un elemento di curiosità. Dopo la seconda guerra mondiale si producono di tanto in tanto film con aborigeni, ma nessuno di essi è diretto da un australiano: sembra quasi che la popolazione bianca dell’Australia abbia voluto completamente dimenticarsi dell’esistenza di questa minoranza. I film australiani non sono spettacolari, non hanno molto in comune con i blockbuster americani, ma per i registi della New Wave, che lottano per la creazione di un cinema nazionale e anche nazionalistico, questa differenza è qualcosa da celebrare e di cui andare orgogliosi. La fine del decennio per il cinema australiano porta la conferma della sua acquisita reputazione internazionale. I temi trattati sono di ampia portata sociale. Dai temi riguardanti la crescita si passa a temi più adulti sulla responsabilità e sulla scelta morale. Si delinea anche la figura dell’antieroe, ad esempio Mad Max interpretato dalla star nascente Mel Gibson nell’omonimo film di George Miller. Un altro filone è quello fantascientifico unito a quello del terrore (il già citato Mad Max e The Plumber di Peter Weir). Da notare che il paesaggio fondamentale che fa da sfondo alle storie narrate in questo periodo è il bush: è l’elemento che distingue l’Australia dal resto del mondo e in un clima nazionalistico quale quello degli anni Settanta è normale che i film vengano ambientati proprio lì 20. Man mano che il cinema australiano acquista popolarità, anche i suoi attori diventano sempre più famosi e si viene a creare una sorta di star system alternativo a quello americano. Si noti infine che la New Wave fu “[...] un fenomeno privo di precise linee programmatiche, tutt’altro che omogeneo e, soprattutto, scarsamente innovativo [...]” 21. Infatti l’orientamento principale delle produzioni privilegia la qualità della confezione e quindi segue i parametri del cinema tradizionale. In realtà man mano che il cinema australiano si consolida, si emancipa allo stesso tempo da una struttura classica andando verso una maggiore spettacolarità e arditezza visiva.

1.5. GLI ANNI OTTANTA 20 21

Cfr. I.1, p. 7. Cfr. Filippo D’Angelo, Cinema degli antipodi. Schermi australiani d’oggi, Ventitreesima settimana cinematografica internazionale, Verona, 1992, p. 6.

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In Australia nei primi anni del decennio non si producono più film di guerra, a parte Gallipoli di Weir, che però pone l’enfasi più su cosa voleva dire essere australiani nel 1915, sull’amicizia fra i due giovani protagonisti e sul loro processo di formazione, che sui temi della guerra 22. A livello di tematiche, il cinema australiano ha in comune con quello americano l’enfasi sull’innocenza, sulla purezza e su una sorta di ricerca spirituale. C’è però un idealismo che non ha paralleli nel cinema di Hollywood; i film, come ad esempio The Man from Snowy River 23 di George Miller o il già citato Gallipoli, sono imbevuti di orgoglio nazionale e di innocenza, i giovani protagonisti devono confrontarsi con l’autorità (sia essa la famiglia o l’autorità militare) e sconfiggerla, come sempre accade nella più classica tradizione del racconto di formazione. I film sulla situazione della donna hanno una certa popolarità in questo periodo, ma alcuni di essi sono così duri e pessimisti che non riescono a raggiungere un grande successo commerciale, a differenza di quelli americani che sono per lo più commedie. Sempre in questo ambito possiamo inserire quei film che mescolano una storia d’amore con la corruzione morale e politica e sono di solito ambientati in qualche esotico paese asiatico, ad esempio The Year of Living Dangerously ancora di Weir. Verso la metà del decennio l’attenzione si sposta su temi più tipicamente fantascientifici di visioni post-apocalittiche (Mad Max: Beyond Thunderdome 24 sempre di Miller) o sui problemi degli adulti nella società contemporanea, quasi a dimostrare che ormai il cinema australiano è diventato adulto. Interessante è anche l’esperimento di Faiman che, con il suo Crocodile Dundee 25 del 1986, rilancia il genere commedia che nella cinematografia australiana non aveva mai particolarmente brillato. In effetti, il genere comico dopo le ocker comedies non venne frequentato dai registi della New Wave. C’è sempre stata però una corrente sotter22 23

Cfr. Brian McFarlane, Australian Cinema 1970-1985, op. cit., p. 169. Per maggiori informazioni su questo film di Miller cfr. Glen Lewis, Australian Movies and the American Dream, op. cit., pp. 125-128. 24 Per maggiori informazioni su questo film di Miller cfr. Glen Lewis, Australian Movies and the American Dream, op. cit., pp. 154-157. 25 Per maggiori informazioni su questo film di Faiman cfr. Glen Lewis, op. cit., pp. 172-174.

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ranea di comicità (in Mad Max, ad esempio) in film che appartengono ai più diversi generi, e questo perché gli australiani tendono a considerare la comicità come un dato scontato per cui per diversi anni si può dire che si dimenticarono di fare film comici. Comincia anche una più stretta collaborazione con la cinematografia americana: attori e registi australiani si trasferiscono a Hollywood, purtroppo non sempre con risultati soddisfacenti. Due registi valgano d’esempio per tutti gli altri. Il primo è Bruce Beresford, che va in America e nel 1983 gira Tender Mercies che fa vincere un Oscar a Robert Duvall, ma due anni dopo va incontro a un fiasco con il suo King David, per poi tornare al successo prima con Crimes of the Heart (1986) e poi con Driving Miss Daisy (1989). L’altro regista è George Miller che per molti avrebbe dovuto avere un radioso futuro, visto il successo della trilogia di Mad Max, invece la sua avventura americana è segnata da alterna fortuna. Miller dovrà attendere il 1995 e la produzione australiana di Babe per tornare al grande successo. Malgrado l’emigrazione dei registi di punta della New Wave il cinema australiano non va incontro ad una recessione: alla fine del decennio si producono all’incirca venti lungometraggi all’anno, oltre a diversi cortometraggi e serie e film per la televisione 26. Nel 1988 viene fondata la Australian Film Finance Corporation, una sorta di banca adibita al sostegno della produzione cinematografica e televisiva che si aggiunge alla ormai comune pratica delle coproduzioni con l’estero. Alla fine del decennio, quando ormai la fama internazionale del cinema australiano è definitivamente stabilita, si pone il problema di vedere se i film saranno capaci di mantenere la loro identità, la loro australianità, continuando però a piacere a platee internazionali; si tratta anche di verificare se il successo non darà alla testa e non farà perdere la via agli operatori dell’industria. La reputazione internazionale dei film australiani si fonda sul loro seguire quasi sempre i canoni del cinema classico: storia lineare, personaggi ben sviluppati e buona tecnica cinematografica. Naturalmente, man mano che i temi si fanno più attuali, anche il modo di narrarli si attualizza e la storia comincia a perdere la sua linearità: il problema a questo punto è riuscire comunque a 26

p. 9.

Cfr. Filippo D’Angelo, Cinema agli antipodi. Schermi australiani d’oggi, op. cit.,

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mantenere una certa continuità di racconto. Già si è detto come anche in Australia si formi una specie di star system; purtroppo però alla fine del decennio non si ha ancora una stabilità e una sicurezza di impiego né per i registi né per gli attori, per non parlare delle attrici la cui situazione è ancora più precaria. Ovviamente non ci sono solo lodi per il cinema australiano. Proprio negli anni Ottanta una nuova generazione di cineasti e critici si lamenta per l’assenza nei film australiani dell’élan tipico di quelli americani. Inoltre si rimprovera al cinema australiano la mancanza di energie e di influenze che si possono trovare in altre forme di cultura popolare quali la musica, la moda, i fumetti e la televisione. Per Susan Dermody e Liz Jacka il modo di narrare raffinato ma un po’ obsoleto del cinema australiano ha bisogno di una iniezione di élan del cinema americano, ma anche di una dose di sperimentazione tipica del cinema d’arte europeo.

1.6. GLI ANNI NOVANTA Il cinema postmoderno non è quello che segue il cinema moderno, ma l’insieme dei film ch’è ancora possibile fare dopo la morte del cinema. 27

Sembra appropriato iniziare questo paragrafo con una citazione da un articolo scritto all’inizio di questo decennio, perché tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si assiste proprio alla morte del cinema, almeno del cinema così come si era abituati a conoscerlo. Il cinema non è più, se mai lo è stato, riproduzione della realtà, ma lancia segnali sul tipo di operazione che sta compiendo man mano che la compie. Nel cinema è morta la storia: certo si raccontano ancora storie, ma lo si fa con la consapevolezza che si sta raccontando. Il sapere, la verità non esistono più, sono relative: in fondo non importa quello che si sta raccontando perché tutto è già stato detto, importa come lo si dice. Di qui l’importanza dell’immagine e dell’atto del guardare, ma anche l’assoluta necessità di sospensione del giudizio. 27 Cfr. Marcello Walter Bruno, “I giochi proibiti”, Segnocinema, X/44, Luglio 1990, pp. 3-7.

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In Australia in questi anni si sta seguendo la politica di attirare sempre più produzioni straniere sul continente. L’organo preposto a tale operazione, l’Export Film Services of Australia (E.F.S.A.), incoraggia la cooperazione fra i vari organi della produzione cinematografica e organizza visite guidate per gli inviati degli studios stranieri per mostrare le capacità produttive e di location dell’Australia. La funzione principale di E.F.S.A. è di rendere noto al mondo quello che offre l’Australia. Quindi i produttori australiani in questo decennio sono stati piuttosto impegnati non solo con produzioni locali, ma anche con coproduzioni. Una delle tendenze della produzione cinematografica degli anni Novanta è quella di rivisitare il mito del pioniere alla luce del multiculturalismo, che diventa un nuovo mito della cultura australiana: si veda ad esempio il film di Buz Luhrmann Strictly Ballroom. Verso la metà del decennio, inoltre, due film riscuotono un buon successo a livello internazionale: The Adventures of Priscilla, Queen of the Desert di Stephan Elliott e Muriel’ s Wedding di P.J. Hogan. Queste due commedie iniziano un nuovo genere tipicamente australiano, la commedia kitsch; dipingono alcune caratteristiche tipiche della cultura popolare australiana, come la sfacciataggine, un certo prurito sessuale e un tipo di satira livellatrice della società, che ne fanno un’evoluzione della ocker comedy degli anni Settanta. Per di più The Adventures of Priscilla, Queen of the Desert si inserisce in quel filone che valorizza la ricchezza della diversità culturale in genere ed in particolare la ricchezza della cultura gay. I film di questo genere sembrano finalmente dire che anche in Australia succede qualcosa: si era infatti soliti credere che l’Australia fosse un posto isolato e desertico dove non succedeva mai niente e dove la novità poteva magari essere l’arrivo di un D.J. dalla costa, come accade in Love Serenade di Barrett. Infine, anche la cinematografia australiana riprende situazioni e atmosfere di film già visti, in una sorta di remake-citazione: Kiss or Kill di Bill Bennett, road movie alla Natural Born Killers di Oliver Stone, oppure The Interview di Monahan proiettato al Turin Film Festival 1998 che riprende le atmosfere e alcuni punti dell’intreccio da Una pura formalità di Tornatore e da The Usual Suspects di Bryan Singer. E' interessante notare che le opere di maggior successo degli anni Novanta sono quasi tutte opere prime o seconde: i registi che raggiungono la fama e riescono a confermarla con ulteriori successi tendono a

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trasferirsi a Hollywood, un po’ come era successo con i giovani registi della New Wave. L’Australia sembra capace di dare i natali e la formazione culturale a registi di successo, ma sembra incapace di trattenerli presso di sé.

1.7. PETER WEIR: LA VITA E LO STILE 28 Non si può parlare di Peter Weir senza tenere conto del fatto che egli è uno dei componenti di spicco della rinascita che ha interessato il cinema australiano a partire dagli anni Settanta. È inoltre uno dei pochi ad essere riuscito a crearsi una carriera hollywoodiana di tutto rispetto, mescolando la qualità al successo. Per tale motivo è interessante delineare velocemente il suo percorso formativo e artistico. Weir nasce a Sydney il 21 agosto del 1944; australiano di quarta generazione, i suoi antenati provengono da Irlanda, Inghilterra e Scozia. La sua infanzia non è molto diversa da quella degli altri ragazzini occidentali della sua epoca: passa molto tempo all’aperto, legge i fumetti (le letture “serie” verranno solo dopo la fine della scuola) e va al cinema il sabato pomeriggio per vedere i western e i film commerciali hollywoodiani. Frequenta la Vauncluse High School e poi lo Scots College. Si iscrive all’università di Sydney, dove fa parte di un gruppo teatrale alla Monthy Pyton: Weir scrive, cura la regia e il montaggio, recita, un po’ come faceva Terry Gilliam. Il sistema educativo però non lo soddisfa perché troppo “industriale”. Ancora prima di terminare il primo anno di corso lascia l’università e va a lavorare con il padre, un agente immobiliare. Proprio nella figura del padre Weir riconosce una delle maggiori influenze sul suo futuro di storyteller; egli, infatti, aveva l’abitudine di mettere a dormire Peter narrandogli delle storie di sua invenzione, dei veri e propri serial che andavano avanti per mesi (ma ce 28 Per questo paragrafo si sono presi come testi di riferimento: Marek Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, Twayne Publishers, New York, 1996; Jonathan Rayner, The Films of Peter Weir, Cassell, London & New York, 1998; Luisa Ceretto e Andrea Morini (a cura di), Al di là del visibile - Il cinema di Peter Weir, “I Quaderni del Lumière”, n° 30, Mostra Internazionale del Cinema Libero - ONLUS, Bologna, 1999 e le registrazioni degli incontri che Peter Weir ha tenuto a Milano e Bologna in occasione del suo recente viaggio in Italia.

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ne fu uno che durò più di un anno) a cinque minuti ogni sera. Lasciata l’università, Weir lavora con suo padre per circa un anno e mezzo, il tempo sufficiente per mettere da parte i soldi per comprare un biglietto per l’Europa 29. È il 1965, un anno vissuto pericolosamente, e sulla nave greca che fa rotta per Il Pireo Weir e due suoi amici producono una serie di show da trasmettere sulla televisione a circuito chiuso dell’imbarcazione. Il modello è The Mavis Bramston Show, un programma televisivo australiano allora molto famoso; per Weir si tratta del primo vero contatto con lo show business ed è in questo momento che matura la decisione di intraprendere la carriera televisiva. Di rientro in Australia non torna più a casa (si è sposato) né torna a lavorare con il padre. Nel 1967 viene assunto da Channel Seven (Sydney) come macchinista e nello stesso tempo comincia a produrre riviste a livello amatoriale. Grazie all’aiuto del suo amico Grahame Bond, attore e scrittore, e ai mezzi messi a disposizione dal Channel Seven Social Club riesce in questo stesso anno a produrre il suo primo cortometraggio, Count Vim’s Last Exercise. Si tratta di una bizzarra commedia di quindici minuti che vuole essere un’opera di falsa propaganda governativa. L’anno successivo produce The Life and Flight of the Rev. Buck Shotte, un cortometraggio parodistico dei culti religiosi. Il film viene inserito nel programma del Sydney Film Festival del 1969 (come era successo l’anno precedente per Count Vim’s Last Exercise), ma lo stesso Weir lo ritira dalla manifestazione in segno di protesta per la messa al bando che la censura decretò per il film I Love, You Love dello svedese Stig Bjorkman 30. Comunque, grazie al successo di questi due corti, a Weir viene affidata la regia di alcuni clip di The Mavis Bramston Show. La rete televisiva, però, gli rifiuta un aumento di stipendio sulla base della sua scarsa esperienza come regista e Weir si dimette per essere assunto nel 1969 dalla Commonwealth Film Unit (CFU). Al momento non c’è lavoro come regista, quindi è aiuto operatore e assistente alla produzione. È un’esperienza importante perché questa è la palestra e la scuola dove si formano alcuni dei registi più famosi della 29 A quell’epoca il viaggio in Europa era ancora parte fondamentale dell’educazione di ogni giovane australiano. 30 Lo stesso Weir ha avuto problemi con la censura solo per il linguaggio usato in The Cars that Ate Paris.

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New Wave (Donald Crombie, Arch Nicholson, Michael Thornhill). Si noti, infatti, che fino al 1973, anno in cui viene aperta la Australian Film and Television School, non esiste in Australia una scuola di cinema; d’altra parte, secondo Weir, per diventare registi bisogna esercitarsi partendo dalla produzione di corti per arrivare solo in un secondo tempo ai lungometraggi e tenendo sempre ben presente il tipo di pubblico a cui ci si rivolge. Dice il regista: “I think that being a director is something that happens to you, just like being caught in the rain” 31. Nel 1970 Weir dirige Michael, episodio del trittico Three to Go, con il quale vince il Grand Prix dell’Australian Film Institute, ma che allo stesso tempo appare il meno fortunato dei tre episodi. Nel 1971 dirige un mediometraggio di buon successo, Homesdale, una black comedy ambientata in una pensione situata su un isola dove gli ospiti sono invitati a dare sfogo alle loro fantasie. A questo punto Weir torna in Europa grazie ad una borsa di studio che gli permette di imparare il mestiere sui set dei film che si stanno girando nel Vecchio Continente. Al suo rientro in patria continua a lavorare per la CFU producendo dei cortometraggi a colori che vogliono essere di aiuto all’apprendimento della tecnica cinematografica. Intanto la CFU viene sostituita da Film Australia e Weir nel 1972 e 1973 dirige due importanti documentari: Incredible Floridas, sul compositore australiano Richard Meale e sul suo lavoro Incredible Floridas, un omaggio a Rimbaud; Whatever Happened to Green Valley?, un documentario nel documentario sulla vita di tutti i giorni degli abitanti di questo sobborgo di Sydney, Green Valley, appunto. Weir arriva così alla produzione del suo primo lungometraggio The Cars that Ate Paris (1974). L’idea per il film gli viene quando è in Europa. Mentre sta guidando attraverso la Francia arriva ad un blocco stradale e viene deviato su strade di campagna che attraversano paesini che non sono neanche segnati sulle carte. Al suo rientro a Londra legge in un giornale il numero di morti per incidenti stradali registrato nel fine settimana e giunge alla paradossale conclusione che se si dovesse eliminare qualcuno il modo più sicuro per farlo sarebbe coinvolgerlo in 31 “Penso che diventare regista è qualcosa che ti succede, è come essere sorpresi dalla pioggia.”, incontro con gli studenti presso il Cinema Lumière di Bologna, 2 dicembre 1999.

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un incidente automobilistico 32. La sua attrazione per il mondo dell’inspiegabile, che lo accompagna fin dall’infanzia, lo porta nel 1975 a trasporre in film il romanzo di Joan Lindsay Picnic at Hanging Rock. Il secondo film di Weir entusiasma pubblico e critica, vince una serie di premi ai festival internazionali e diventa il manifesto del cinema australiano nel mondo. Il suo film successivo, The Last Wave (1977), nasce nuovamente da un aneddoto vissuto in prima persona dal regista. Durante una visita a delle rovine in Tunisia, Weir trova la testa di una scultura che aveva spesso visto nei suoi sogni e si domanda cosa sarebbe successo ad una persona estremamente razionale, ad esempio un avvocato, se gli fosse accaduta la stessa cosa 33. Nel 1978 Weir dirige un film per la TV, The Plumber, basato su una storia realmente accaduta ad una coppia di suoi amici londinesi vittima delle visite di un idraulico troppo invadente. Il 1981 è l’anno di Gallipoli, uno dei capolavori del cinema australiano. È il film della maturità per Weir nonché il suo film più australiano, mentre per i detrattori non è altro che una rivisitazione annacquata della prima parte di Paths of Glory di Stanley Kubrick. Nel 1983 The Year of Living Dangerously, dall’omonimo romanzo di C.J. Koch, segna una svolta nella carriera di Weir. È stato il primo film australiano ad essere totalmente finanziato e distribuito da una major di Hollywood e dopo questo film Weir ha lavorato sempre e con buon successo in America. Per Weir il lato negativo di Hollywood è una forma mentis che esiste indipendentemente dal luogo geografico, è considerare il film come un prodotto, come un’auto da vendere. Già dopo Picnic at Hanging Rock il regista aveva ricevuto offerte di lavoro da Hollywood, ma non le aveva accettate. Dopo The Year of Living Dangerously sente la necessità di un cambiamento, di essere “a stranger in a strange land” 34. L’idea di Weir è che bisogna andare a Hollywood quando ormai si è acquisita una forte personalità al punto che ogni film fatto parli la lingua del regista e per tutti gli altri sia come se parlasse una lingua straniera 35. In particolare, prima di accettare di fare un film, Weir, 32 33 34

Cfr. D. Stratton, The Last New Wave, op. cit., p. 62. Cfr. D. Stratton, op. cit., p. 75. “uno straniero in una terra aliena.”, L. Ceretto e A. Morini (a cura di), Al di là del visibile - Il cinema di Peter Weir, op. cit., p. 48. 35 In questo modo per Weir si possono anche evitare i problemi legati alla mancanza del final cut.

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da vero storyteller, ha sempre raccontato agli executives in circa dieci minuti la storia, sotto forma di favola, come lui la vedeva 36. Il primo film hollywoodiano è Witness (1985), successo di pubblico e di critica che gli vale la prima nomination agli oscar come miglior regista. Il 1986 è l’anno di The Mosquito Coast, film che incontra scarso favore tra il pubblico ed è accolto tiepidamente anche dalla critica. Per capire l’idea stilistica alla base del film bisogna tornare alla fine degli anni Settanta per ripescare un’esperienza fondamentale per Weir: per fare un favore ad un amico gira un documentario su un maestro vasaio giapponese, Shiga. Shiga gli spiega come bisogna impegnarsi a creare oggetti utili all’uomo senza la presunzione di voler creare opere d’arte, lasciando l’ispirazione e il tocco che trasformano un’opera in capolavoro alla discrezione della fortuna. Questo è l’esperimento che Weir si propone di condurre: qui il cinema non è altro che un’attività di artigianato 37. Ricordiamo inoltre che Weir ritiene che: “Too much style can kill a career” 38. Nel 1989 Dead Poets Society vale a Weir una nuova nomination all’oscar come migliore regista. Questo film, tra i maggiori successi commerciali del regista, è stato amato dal pubblico e ha diviso la critica. È un’opera molto controllata in cui Weir si trova di nuovo a lavorare con un attore, Robin Williams, deciso a mettersi in discussione per scrollarsi di dosso la maschera che gli ha dato il successo (lo aveva già fatto con Harrison Ford, lo farà ancora con Jim Carrey). Green Card è il film che segna il ritorno di Weir alla scrittura. La sceneggiatura in questo caso è stata scritta apposta per Depardieu 39 e l’attore è stato la musa ispiratrice per Weir. Da un suo vecchio racconto trae il materiale per il film che nel 1991 viene accolto da un discreto successo. Il 1994 segna il ritorno di Weir a quello stile visivo che aveva caratterizzato le sue opere australiane. Fearless crea il senso dello straordinario a partire da avvenimenti reali e presenta visioni apocalitti36

1999.

Cfr. conferenza stampa presso il Cinema Anteo di Milano, 30 novembre

37

Cfr. G. Hentzi, “Peter Weir and the Cinema of New Age Humanism”, Film Quarterly, winter 1990-1991, p. 10. 38 “Troppo stile può distruggere una carriera.”, incontro con gli studenti presso il Cinema Lumière di Bologna, 2 dicembre 1999. 39 Cfr. L. Ceretto e A. Morini (a cura di), Al di là del visibile - Il cinema di Peter Weir, op. cit., pp. 59-60.

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che del disastro aereo molto simili nello spirito a quelle contenute in The Last Wave. Il film però non è accolto favorevolmente, soprattutto dal pubblico che viene spiazzato dalla sincerità con cui Weir dipinge il dramma del disastro e il senso di colpa per essere sopravvissuti. Nonostante una nota di speranza nel finale, il film risulta un pugno nello stomaco dello spettatore, ma ribadisce allo stesso tempo la grande capacità di Weir di evocare immagini di qualità onirica che difficilmente si scordano 40. Ultimo film ad oggi è The Truman Show (1998), che frutta a Weir la sua terza candidatura all’oscar come migliore regista. Il film si trasforma in un vero e proprio caso ancora prima di uscire nelle sale: al pubblico piace, mentre ancora una volta la critica si divide. Il tema trattato, quello di uno studio televisivo globale che ha imprigionato l’ultimo degli innocenti e lo costringe ad una vita perfetta, ma falsa, infastidisce perché, pur essendo un’estremizzazione della situazione attuale, ha molti legami con il mondo in cui viviamo. Weir non è l’unico ad affrontare questo tema: Plaesantville di Ross, Ed TV di Ron Howard e Happiness di Todd Solondz (tra i film della stagione preferiti da Weir insieme a The Sixth Sense di M.N. Shyamalan) sono alcuni esempi di un fenomeno che ancora non può essere definito movimento. The Truman Show si inserisce in questo filone costituendo uno degli esempi meno rassicuranti. Per quanto riguarda lo stile, Weir è soprattutto un regista di immagini. Anche se può sembrare una banalità, dato che un film è fatto di immagini, è comunque curioso come tutti i film di Weir vengano ricordati per una sequenza di immagini e non per una battuta memorabile. Nelle sue opere Weir riduce al minimo la presenza del dialogo. In origine si giustifica dicendo che la rinata cinematografia australiana ha bisogno di passare attraverso una sorta di periodo del muto per giungere alla maturità. Ma anche nell’epoca della maturità Weir predilige le immagini e spesso le battute risultano ridondanti. Il potere dell’immagine è aumentato dall’uso di sequenze in slow motion, di una fotografia che mette a fuoco solo alcune parti dell’inquadratura (soft focus) e dall’uso di immagini sovrapposte. Il continuo uso dello zoom appiattisce gli spazi e riduce la distanza tra la macchina da presa e il personag40 Cfr. D. Catelli, “Fearless”, Segnocinema, Maggio - Giugno 1994, p. 43 e S. Murray, “Fearless”, Cinema Papers, August 1994, pp. 67-68.

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gio, sottolineando la dimensione intimistica che è alla base di tutti i film del regista. Non dimentichiamo, inoltre, l’importanza delle fotografie nelle opere di Weir: sono presenti, in un modo o nell’altro, in ogni narrazione e vengono a formare un paradigma di significato parallelo, anche se intimamente correlato, a quello della storia principale. Jonathan Rayner scrive a proposito di questo argomento: “Photography allows exact duplication” 41. Duplicazione, in senso stretto, del significato all’interno del film, dunque; nel complesso dei dodici lungometraggi del regista, però, si possono notare inquadrature identiche o quasi contenute in film diversi; addirittura si potrebbe dividere tutta l’opera in coppie di film, ad esempio: The Cars that Ate Paris - The Truman Show; Picnic at Hanging Rock - Dead Poets Society; The Last Wave Fearless; The Plumber - Green Card; Gallipoli - The Year of Living Dangerously; Witness - The Mosquito Coast. Duplicazione in senso lato e su scala più ampia, quindi. Weir potrà non essere un regista innovativo, ma sicuramente ha il merito di aver saputo utilizzare e rielaborare il già visto creando uno stile suo proprio e inconfondibile, i cui dati salienti sono appena stati enunciati. L’atmosfera onirica e il simbolismo visivo tipico dei suoi film si costruisce su una serie di polarità: natura mito strano innocenza nuovo ideale isolamento

versus versus versus versus versus versus versus

cultura realtà familiare aggressione vecchio reale apertura 42

Queste polarità vengono molto spesso sottolineate dall’uso della musica. Come Kubrick in 2001: A Space Odyssey o Coppola in Apocalypse Now, anche Weir inserisce nei suoi film pezzi di musica classica noti e quindi facilmente identificabili dallo spettatore e spesso li contrappone a tipi di musica moderna, dalla musica elettronica di J.M. Jarre, al rock 41 “La fotografia consente una perfetta duplicazione.”, J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 86. 42 Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 130.

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degli U2, accentuando così il senso dell’inspiegabile nonché lo scontro tra due realtà che gli è così caro. Inoltre, dice Weir: “I love music and I play it while I work” 43. Usa la musica, quindi, per creare atmosfera sul set e per richiamare un certo tipo di emozioni. Per la sequenza finale di Dead Poets Society, ad esempio, le riprese andarono avanti per alcuni giorni durante i quali il regista metteva in sottofondo sempre lo stesso tipo di musica per aiutare gli attori ad entrare nell’umore del momento 44. Un’ultima annotazione va fatta per quanto riguarda la scelta dei finali. Per Weir, “ [...] there is no happy ending or sad ending, there is the appropriate ending, the right ending [...]” 45. Per cui in nessuno dei lungometraggi di Weir ci si trova di fronte al canonico lieto fine. A volte il film finisce su una nota positiva, ma non è detto che tutto quello che verrà dopo sia all’insegna della felicità. Così è la vita: piena di alti e bassi, un attimo si è felici, poi tristi e poi ancora felici. Inoltre, i finali devono, per Weir, essere in linea con l’umore del film in modo tale che non stonino. L’unico finale non appropriato è, forse, quello di Fearless: qui Max sembrava destinato a morire ma poi si salva negli ultimi minuti del film grazie ad un risveglio miracoloso in stile Bella addormentata nel bosco. D’altro canto, però, un film già così oppressivo sarebbe risultato insostenibile se funestato dalla morte del protagonista e il pubblico avrebbe probabilmente disertato le sale 46. In fondo, il cinema è un’industria, e Weir nel suo percorso d’autore non ha mai perso d’occhio i risultati al botteghino.

43 “Amo la musica e l’ascolto mentre lavoro.”, L. Ceretto e A. Morini (a cura di), Al di là del visibile - Il cinema di Peter Weir, op. cit., p. 50. 44 Cfr. incontro con gli studenti presso il cinema Lumière di Bologna, 2 dicembre 1999. 45 “[...] non esiste il lieto fine né il finale tragico, esiste il finale giusto, appropriato [...]”, incontro con gli studenti presso il Cinema Lumière di Bologna, 2 dicembre 1999. 46 Cfr. D. Catelli, “Fearless”, Segnocinema, Maggio - Giugno 1994, p. 43.

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2. PERCORSI TEMATICI

2.1. LA SOGLIA E IL VIAGGIO “Non esiste un modo solo”, dice Eli Lapp a suo nipote Samuel in Witness. Il mondo narrativo creato da Peter Weir non è un mondo semplice; non esiste una sola realtà, ammesso che esista una realtà in senso assoluto, una sola dimensione: esistono due o più universi “...eterogenei e reciprocamente irriducibili. Tra essi un personaggio chiave tenta di autonominarsi come punto di sutura” 1. I personaggi compiono un viaggio che dall’esterno li porta all’interno di un microcosmo fisico o psichico governato da leggi diverse da quelle che governano l’universo di provenienza. Attraversando la porta che si trova tra i due mondi il personaggio, e con lui lo spettatore, viene catapultato in un’altra dimensione: deve confrontarsi con essa e dall’incontroscontro delle due può uscirne vincitore oppure vinto. I film di Weir sono tutti ambientati sulla soglia, nel punto e nel momento in cui due o più mondi si incontrano e collidono. Sono la storia di uomini messi in crisi dall’irrompere del non comune all’interno della loro esistenza comune. È stato notato che l’esito del viaggio cambia a seconda che il film sia di produzione australiana o americana: nel primo caso sono storie di viaggi senza ritorno, nel secondo i protagonisti fanno ritorno o, 1 Roberto Nepoti, “L’antieroe dei due mondi”, in Ninni Panzera e Carmelo Marabello (a cura di), Peter Weir - Un cinema vissuto pericolosamente, Centro Studi Cinematografici, Taormina Arte, 1987, p. 23.

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tutt’al più, torna qualcuno di molto vicino a loro 2. Altrettanto interessante è sottolineare che i personaggi che riattraversano la soglia e tornano, ormai cambiati da un’esperienza che spesso sfugge all’interpretazione, sono quelli che non hanno intrapreso il viaggio volontariamente ma ci si sono trovati in mezzo per l’altrui volontà. Si partirà quindi da questa riflessione per analizzare l’immagine della soglia e del viaggio nella produzione cinematografica di Peter Weir 3.

2.1.1. Viaggi senza ritorno Dice Todorov a proposito di La principessa Brambilla di E.T.A. Hoffmann: “[...] Lo specchio è presente in tutti i momenti in cui i personaggi del racconto debbono fare un passo decisivo verso il soprannaturale [...] 4”. Le immagini riflesse sono importanti nei film di Weir, in un certo senso funzionano da porta. Il protagonista vedendo la sua immagine riflessa sembra essere cosciente della sua capacità di andare oltre, di attraversare lo specchio (come fa la piccola Alice) per entrare in quel mondo altro che fatalmente viene a contatto con quello del protagonista. Non sembra di poter dire che questo mondo altro sia l’aldilà inteso in senso cristiano; è piuttosto simile al tempo dei sogni della cultura aborigena 5, o forse è l’unione dei due. Si prenda ad esempio Picnic: le ragazze vengono presentate attraverso immagini riflesse, soprattutto Miranda, colei che con la sua assenza riempirà tutto il film. Miranda scompare sulla roccia senza lasciare alcuna traccia perché lei 2 Cfr. Gianni Canova, “Frames from Australia”, in Ninni Panzera e Carmelo Marabello (a cura di), op. cit., p. 15. 3 Da ora in poi si useranno le seguenti abbreviazioni per i titoli dei film: The Cars per The Cars that Ate Paris, Picnic per Picnic at Hanging Rock, The Year per The Year of Living Dangerously, Dead Poets per Dead Poets Society. 4 Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti Editore, Milano 1981, p. 125. 5 Secondo gli aborigeni il dream time, il tempo dei sogni, è il luogo dove si può entrare in contatto e ricongiungersi con gli spiriti ancestrali che un tempo crearono il mondo. Il dream time è il tempo e la dimensione del glorioso passato del mondo.

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sa cose che pochi altri sanno, come dice ad un certo punto Sarah, sua compagna di stanza nonché suo alter ego, suo doppio. In fondo, come si legge nello studio di Otto Rank 6, l’uomo e il suo doppio sono indissolubilmente legati: se muore uno, anche l’altro è destinato a perire. Anche Sarah scomparirà ma solo nel sogno del fratello Albert; nella realtà dell’Appleyard College si suicida nell’estremo tentativo di riunirsi alla sua amata Miranda. Nel sogno Albert chiede alla sorella di non andare, ma lei risponde: “Bertie mio, vorrei poter restare, ma sono chiamata.” Anche Miranda è chiamata, chiamata da una forza misteriosa che l’attira sulla roccia e non le permette di fare ritorno. Lei stessa va incontro a questa forza: è lei, infatti, a scendere dalla carrozza per andare ad aprire il cancello su cui è scritto “Hanging Rock Picnic Grounds”. Oltrepassato quel cancello finisce il viaggio alla Roccia e inizia il viaggio di Miranda e quello dello spettatore sulla Roccia, simbolo di antico sapere, in un mondo misterioso, in un universo senza tempo 7 dove si paga il prezzo della conoscenza con la sparizione. E Miranda scompare per ben due volte nel corso del film. La prima è ovviamente la sua sparizione sulla roccia, la seconda è la sparizione del cigno sotto gli occhi di Michael 8. Weir ha più volte suggerito di sovrapporre l’immagine del cigno a Miranda: così, quando Michael guarda il cigno nello stagno, immediatamente il suo pensiero e quello dello spettatore corrono a Miranda. Quando poi si sente lo sbattere delle ali e lo sguardo di Michael si posa sullo stagno vuoto c’è la consapevolezza che Miranda è di nuovo scomparsa e questa volta per sempre. Da questo punto in poi il film si avvia infatti verso la sua conclusione, che sarà di fatto una “non conclusione”. Il mistero non sarà risolto, le ragazze non verranno ritrovate e Miranda riapparirà per l’ultima volta in slow motion nelle immagini già viste che raccontano il momento in cui lei e le sue compagne si allontanano dal picnic per andare sulla roccia e per l’ultima volta scomparirà lasciando spazio ai titoli di coda. Altri ancora sono i viaggi senza ritorno nel cinema di Weir. In 6 7

Cfr. Otto Rank, Il doppio, Sugarco Edizioni, Carnago, 1994. Cfr. M. Sesti, “Peter Weir e il vuoto della ragione”, Bianco e Nero, n° 4, 1985, pp. 61-62. 8 Secondo Guido Fink Michael è il personaggio che funge da intermediario tra i due mondi: anche lui fa un viaggio sulla montagna ed è lui a ritrovare Irma. Crf. G. Fink, “Picnic at Hanging Rock”, Bianco e Nero, Marzo-Aprile 1977.

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Gallipoli il giovane Archy parte per un viaggio che lo conduce fisicamente in Europa e che spiritualmente lo fa diventare uomo. Anche qui i personaggi devono attraversare una soglia: l’arruolamento. Sia Archy che gli amici di Frank si arruolano volontariamente, Frank invece lo fa solo come riflesso alla decisione degli amici. Per questo si salverà, diventerà uomo e presumibilmente tornerà indietro per raccontare: senza volerlo sarà il punto di sutura fra il mondo dell’adolescenza e quello degli adulti. L’arruolamento è la porta d’ingresso per la guerra, ma è anche l’inizio di un viaggio di maturazione che porta alla consapevolezza. Archy crede nell’integrazione delle culture e per questo parte per una guerra combattuta in un altro continente. È alla ricerca di tale integrazione e vuole farsene il mediatore, ma questo ruolo è troppo grande per lui e nel momento in cui il suo idealismo e il suo ottimismo entrano in contatto con l’assurda realtà di morte della guerra Archy muore e sparisce. Alla fine del film il freeze frame della sua immagine si scurisce per lasciare spazio ai titoli di coda; Archy il ragazzo è scomparso, cosa riempirà la sua assenza? Se invece si assume Archy come simbolo dell’Australia l’esito del viaggio cambia: la morte prematura del ragazzo non gli consente di entrare nell’età adulta, ma consente all’Australia di diventare una nazione adulta. Scrive Marek Haltof: [...] for Archy and Frank, the Gallipoli battle marks their passage into manhood, and for Australia, the baptism of fire and, consequently, the birth of a nation. 9

Anche in The Year si incontra un personaggio che racchiude in sé le essenze di due mondi, quello orientale e quello occidentale. Billy, il nano, possiede la visione: è gli occhi di Guy sia come sua guida sia come suo fotografo. Debi Enker scrive: “[...] he is the keyhole through which Guy will come to understand Indonesia” 10, Billy è, cioè, il buco della serratura attraverso il quale guarderà Guy; ma se il giornalista deve 9 “[...] per Archy e Frank la battaglia di Gallipoli segna il loro ingresso nell’età adulta, e per l’Australia segna il suo battesimo del fuoco e , di conseguenza, la nascita di una nazione.”, M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, Twayne Publishers, New York, 1996, p. 52. 10 D. Enker, “The Year of Living Dangerously”, Cinema Papers, March 1983, pp. 64-65.

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guardare dal buco della serratura vuol dire che la porta è chiusa e il nano potrebbe aiutarlo ad aprirla se solo Guy avesse la chiave giusta per fare girare la serratura. La visione di Billy, il suo voler controllare le vite degli altri, va a cozzare contro quella che si rivela essere la realtà di morte, egoismo e arrivismo della società che lo circonda ed egli che si era autonominato tramite fra due culture non può che soccombere ad un ruolo che gli sfugge di mano. Il momento che scatena l’irrequietezza che lo condurrà al decesso è la morte del bambino che lui aveva adottato. Billy osserva i rituali funebri attraverso una porta socchiusa: questa immagine è emblematica della sua posizione di tramite. Billy non è né dentro né fuori, è sulla soglia ed ha la visione di entrambi gli universi, ma non può integrarli: diventa consapevole del suo fallimento e inizia il suo viaggio di degradazione psichica. In The Mosquito Coast Allie non fa ritorno perché è stato lui a decidere di intraprendere quel viaggio. È significativo che al momento della decisione di lasciare l’America Allie sia rinchiuso in cucina e la sua famiglia sia separata da lui da una porta chiusa. “Noi non possiamo entrare”, dice Jerry, il secondogenito. Fatalmente, proprio questa esclusione iniziale consente loro di salvarsi. Allie oltrepassa la soglia e intraprende un viaggio alla ricerca della sua visione di un microcosmo autosufficiente, perfetto e da lui governato (perché Allie è un visionario esaltato, che finisce ossessionato dalla sua stessa visione) durante il quale si trascina dietro una famiglia che sempre più si allontana da lui. È alla ricerca di “[...] un non-luogo, un punto qualunque che non sia sulle carte geografiche, in cui perdersi e sparire” 11. Il viaggio lungo il fiume è un viaggio che spiritualmente lo conduce verso l’alienazione e la pazzia 12 e che lo porta ad una sparizione: sparisce infatti quell’Allie Fox che la sua famiglia conosceva. Allie risulta un personaggio estremamente sgradevole, forse il più sgradevole della filmografia di Weir. Ma non è l’unico: altri due sono i personggi alienati e convinti di essere gli eletti: David in The Last Wave e Max in Fearless. Tutti e tre hanno il potere della visione e tutti e tre credono di essere uomini al di fuori del comune, che racchiudono in sé il seme dell’integrazione fra i mondi. 11 12

G. Canova, “Mosquito Coast”, Segnocinema, 7/28, Marzo 1987, pp. 64-65. Cfr. Josef Conrad, Heart of Darkness oppure Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.

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Ma si vedano più in dettaglio David e Max. David è un avvocato a cui viene assegnata la difesa di un gruppo di giovani aborigeni accusati di omicidio: in questo modo si deve confrontare con una cultura totalmente diversa dalla sua. David è in bilico fra due culture: della cultura occidentale conserva il razionalismo, di quella aborigena ha il potere della visione. David infatti fa sempre più fatica a distinguere tra realtà e sogno; fare sogni premonitori è una caratteristica che lo accompagna fin dall’adolescenza e più si trova sempre più coinvolto con gli aborigeni più si aliena dalla società occidentale, rappresentata in primo luogo dalla famiglia. Il rapporto che David ha con la moglie si deteriora con l’avanzare del film, il punto di svolta si ha quando Annie, dopo aver sprangato le porte contro la tempesta che imperversa fuori dalla casa, alle richieste di spiegazione del marito risponde: “Non riesco più a parlarti, non ti conosco più.” Infine David completa la sua alienazione nel momento in cui chiede alla moglie di andarsene: lei è seduta nel suo studio, lui è in piedi al di là di una porta aperta. Questa disposizione dei personaggi rimanda ad una sequenza precedente, quando David, seduto dove ora si trova Annie, fa un sogno in cui l’aborigeno Chris gli offre una pietra sacra. Chris nel sogno occupa la stessa posizione che David occupa nella sequenza con la moglie: la specularità delle posizioni indica che ha ormai superato la soglia ed essendo entrato in possesso dei segreti degli aborigeni non potrà fare ritorno: “Conoscere è morte”, gli dice infatti Chris. David si convince di essere il mulkrul 13, ma questa sua missione di mediatore è molto al di sopra delle sue capacità e finisce per trascinarlo verso la pazzia: David svilupperà una personalità schizofrenica 14 e uscirà perdente dal confronto. Il suo approfondire la conoscenza della cultura aborigena, la sua esplorazione dei luoghi sacri gli fanno compiere anche un viaggio nella profondità del suo essere. Al ritorno dal suo viaggio nelle viscere di Sydney, David trova la porta da cui era entrato chiusa (il che vuol dire che gli è preclusa ogni possibilità di ritorno al ruolo che occupava prima nella società) ed è costretto ad andare avanti 13 Nelle credenze degli aborigeni la vita è formata da cicli e ognuno di questi cicli finisce con una sorta di apocalisse, di solito un disastro naturale. L’apparire dei mulkrul (discendenti della popolazione sudamericana che abitò l’Australia durante la preistoria) segnala la fine di un ciclo e quindi la fine del mondo. 14 Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 43.

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per trovare un’altra via d’uscita, il buco di scarico delle fogne. Passando attraverso una soglia dalla forma circolare (come quella di Fearless) e dal colore scuro (come la porta da cui esce Truman) David si ritrova solo su una spiaggia in preda al suo sogno-premonizione (precedentemente Chris aveva spiegato a David che un sogno è l’ombra di una cosa vera) di un’ultima grande onda distruttrice. Certo, il caso non l’ha chiesto lui, ma è lui che volontariamente varca la soglia per compiere un viaggio nei segreti degli aborigeni. Nessuno glielo aveva chiesto; David l’avvocato ha voluto lasciare la sua dimensione perché ne aveva vista un’altra ed è sparito. In Fearless il viaggio e la soglia diventano protagonisti della vicenda. Max, un altro personaggio piuttosto indisponente, è fisicamente in viaggio tra San Francisco e Huston. Improvvisamente il suo aereo precipita, interrompendo così il suo viaggio fisico e consentendogli di iniziare un altro tipo di viaggio, verso una nuova dimensione, verso un universo senza tempo, un viaggio che gli consenta di scoprire ciò che è dentro ognuno di noi. Negli attimi che precedono l’atterraggio di fortuna Max intravede una luce, una soglia (che lo spettatore vedrà solo nel flashback che conclude il film) che egli vorrebbe attraversare, ma che gli è preclusa. Non importa sapere cosa c’è al di là della soglia (ogni spettatore può dare l’interpretazione che più gli aggrada a seconda delle sue credenze), quello che importa è che ancora una volta incontriamo un personaggio che ha intuito la presenza di un mondo altro, che forse lo ha anche visto e che potrebbe essere il tramite fra i due mondi, ma che alla fine viene psichicamente distrutto dallo scontro tra le due realtà. Poco dopo l’inizio vediamo Max in una camera d’albergo: si sta specchiando e si sta toccando per essere sicuro della sua fisicità (più avanti dirà di essere già morto e di essere un fantasma). Quello specchio è la soglia che lui ha riattraversato per tornare nel mondo dei vivi. “Sono vivo”, sussurra; ma questo suo essere vivo lo esclude da quella nuova conoscenza che egli avrebbe potuto acquisire attraversando la soglia. Il film diventa allora la ricerca di situazioni estreme che lo rimettano di fronte a quella porta in modo tale che lui la possa attraversare. Una grande paura produce euforia, spiega John Turturro nei panni dello psicologo assunto dalla compagnia aerea, ed è alla ricerca di questa euforia che Max rischia la sua vita continuamente: questa, invece, la spiegazione scientifica. Il primo vero grande pericolo

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Max lo affronta attraversando un corso con il semaforo rosso (certo aveva già mangiato delle fragole a cui è allergico, ma solo nella scena di chiusura del film lo spettatore capirà quanto pericolosa possa essere una fragola per Max): poco prima i suoi occhi erano stati colpiti da un bagliore accecante, la soglia che tanto vorrebbe vacare. Nel suo processo di ricerca Max, come David e come Allie, si è alienato dalla realtà familiare. Il suo matrimonio sembra finito: dopo una lite con Laura, sua moglie, abbandona la casa; non appena lui esce dalla stanza Laura gli sbatte la porta alle spalle, un gesto che chiude una soglia, che non permette alle due persone di entrare in contatto. Non a caso quando Max esce dall’ospedale per tornare a casa Laura lo va a prendere ma non entra: lo attende fuori, aspetta che sia lui a varcare la soglia per unirsi di nuovo a lei. Successivamente sarà Max ad andare da Laura che si trova in cucina, luogo della donna per eccellenza, il che sottolinea ancora di più come sia lui a voler riaprire quella porta che era stata chiusa nella camera da letto durante la lite, per chiederle di salvarlo. Ma ecco durante l’emblematica sequenza che chiude il film, Max mangia una fragola, il frutto proibito, come era stata in precedenza definita (in questa occasione, tra l’altro, la fragola gli era stata offerta da una cameriera di nome Faith, fede); ma il frutto proibito per eccellenza è la mela, quella mangiata da Biancaneve, ma anche il frutto dell’albero della conoscenza che Adamo ed Eva non dovevano mangiare. Adamo ed Eva invece mangiano la mela, acquisiscono la conoscenza del bene e del male, ma a caro prezzo: una volta cacciati dall’Eden, viene loro preclusa la possibilità di riattraversarne la soglia 15. Max ha una reazione violentemente allergica alla fragola e sta per morire. Sta portando a termine quel viaggio di ricerca della soglia: alla fine dell’ultimo flashback si vede finalmente questa porta, questa luce e Max si incammina verso di essa. “La luce è all’uscita del tunnel”, diceva il sindaco di Paris ai suoi concittadini e Max si trova in un tunnel, la fusoliera dell’aereo precipitato, al fondo del quale si vede la luce, la via d’uscita/entrata. Di qua c’è il mondo reale, il mondo dei vivi (e ci si chieda pure se queste definizioni hanno ancora un senso), di là c’è la luce, c’è il mondo dei fantasmi (“Siamo fantasmi”, aveva detto ad un certo punto Max a Carla per convincerla ad entrare nel centro com15

Cfr. Genesi 3.

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merciale con lui). Max non attraverserà la soglia richiamato indietro da Laura: la sua ricerca è fallita, il suo viaggio non ha dato risultati e lui è rimasto escluso. “Sono vivo”, mormora tra le braccia della moglie. Certo Max è vivo, ma chi è Max adesso? Come David, anche lui ha avuto la visione: Max l’architetto ha intravisto un’altra dimensione, si è smarrito nella ricerca del suo ingresso ed è sparito. Se il finale lascia sperare in un lieto fine in realtà sembra di poter dire che il Max che è stato sulla soglia ed è tornato indietro è un uomo nuovo che non può più assumere il ruolo sociale che aveva occupato fino a prima dell’incidente. Anche in Green Card si incontrano due mondi che entrano in collisione: quello tutto ordine e perfezione dell’ambientalista Bronte, e quello molto bohémien del francese Georges, sterile progressiveness vs what life is all about 16. Il loro primo incontro avviene attraverso il vetro di un bar: Bronte è dentro, Georges è fuori, non entra: è Bronte ad andare da lui. Quando riappaiono nella sequenza successiva sono già sposati ma in effetti i loro mondi si sono appena sfiorati, non hanno avuto modo di entrare in collisione. Nel momento in cui è necessaria la convivenza Bronte aprirà la porta del suo appartamento a Georges e da quel momento cominceranno i contrasti. Il viaggio che i due intraprendono è un viaggio che li porta verso l’amore, verso la conoscenza reciproca nonché verso la conoscenza di loro stessi. È un incontro che mette vicino tutta una serie di opposti: donna-uomo, alta borghesiaproletariato, idealiso-pragmatismo, USA-Francia, nuovo mondo-vecchio continente. Il punto di unione sembrerebbe già offrirlo l’amica di Bronte, Lauren. In realtà il percorso verso l’integrazione lo devono compiere Bronte e Georges e sarà un viaggio senza ritorno. L’elemento perturbante-misterioso è naturalmente Georges, il quale ha un po’ la stessa funzione di Keating: entra nella vita di Bronte e le fa vedere un mondo diverso in cui lei alla fine potrebbe integrarsi. Questo non può avvenire, almeno non sullo schermo e non in America. Paradossalmente i due coronano l’unione nel momento in cui sono fisicamente lontani, chiusi in due diverse stanze per rispondere alle domande degli ufficiali dell’immigrazione. Allo stesso tempo questo momento è anche il punto di inizio di un movimento di allontanamento visto che Geor16

M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 117.

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ges è espulso. Se comunione fra i due mondi può esserci dovrà essere Bronte ad attraversare la soglia e ad andare verso il mondo di Georges in Francia, in Europa, dove tra l’altro si trova anche Londra sede dell’istituto dove aveva insegnato Keating prima di approdare a Welton. Dal momento in cui i due decidono per il matrimonio di convenienza fino al momento della separazione finale il percorso che compiono li fa diventare inadatti per la vita che conducevano prima del loro incontro: per tanto il loro è un viaggio senza ritorno. Lo stesso si può dire per il viaggio che il protagonista di The Truman Show compie: è senza ritorno perché l’esperienza che fa gli impedisce di tornare ad occupare il posto che aveva precedentemente. Truman è protagonista inconsapevole di uno show e come tale è rinchiuso in un mondo creato apposta per lui, un mondo perfetto come gli fa notare il suo amico Marlon una sera mentre guardano il tramonto. “Noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta”, dice Christof, l’ideatore dello show. Insomma, l’uomo medio non si pone domande e accetta di vivere al meglio ogni situazione senza guardare più in là del proprio naso a meno che una serie di coincidenze non lo faccia riflettere, non gli faccia intuire che può esserci dell’altro. Questo è quello che accade a Truman ed egli diventa l’ultimo (in ordine di tempo) della serie di personaggi che Weir colloca in limine a due mondi. Recandosi al lavoro una mattina una serie di eventi strani 17 lo convincono ad intraprendere un viaggio alla ricerca di quell’altra dimensione che ha intravisto. Così, al posto di entrare nel palazzo dove lavora, fa due giri nella porta girevole 18 (la figura del cerchio è estremamente importante e presente nel film) e da questa sorta di limbo viene catapultato fuori in un mondo diverso da quello che era abituato a vedere tutti i giorni. Diverso non perché sia cambiato, ma perché lui, Truman, lo sta guardando da un diverso punto di vista (come già aveva 17 Todorov diceva che il fantastico implica avvenimenti strani che provocano un’esitazione nel protagonista. Anche il mondo di Truman è turbato da eventi strani, ma rimane da capire se il fantastico è in Seahaven o se è nel mondo fuori dal set. Cfr. Tz. Todorov, La letteratura fantastica, op. cit. 18 È interessante che la porta sia girevole: come si sa le rotazioni possono essere sia centripete che centrifughe. Per Truman il movimento rotatorio della porta è prima centrifugo e poi centripeto ed esprime molto bene la confusione e il disagio in cui si trova il nostro eroe.

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insegnato a fare Robin Williams/Keating in Dead Poets Society). Certo le vie d’uscita gli vengono continuamente precluse, ma Truman non desiste. Poco prima dell’inizio della sua fuga lo vediamo allo specchio e dietro allo specchio c’è una telecamera: Truman si specchia, ma allo stesso tempo sembra fissare i due addetti ai lavori che si trovano nello studio e che si domandano: “Ci sta guardando. Credi che abbia capito?” Poi Truman fa il suo solito show e i due si tranquillizzano; ma come scrive Todorov: lo specchio è lì prima che si passi in un’altra dimensione, per Todorov nel fantastico. Lo specchio è una porta, nel caso di Truman riflette sempre la stessa immagine ma che adesso ha un diverso grado di coscienza. Finalmente Truman riesce a eludere la sorveglianza delle telecamere scappando da un buco (come non pensare alla soglia circolare tanto cercata da Max in Fearless) e intraprende un viaggio via mare, quasi fosse un novello Ulisse, che gli permette di completare il suo processo di crescita 19. Ma il suo mondo è un mondo finito ed egli va letteralmente a sbattere contro l’orizzonte. Lì ovviamente troverà la soglia che si aprirà come un rettangolo nero contro il cielo azzurro (come non pensare al monolite di 2001: A Space Odyssey 20). Cosa c’è oltre quella porta Truman non lo può sapere, così come non sapeva da che cosa fuggiva né verso cosa fuggiva: ha raggiunto il limite del suo mondo e come Ulisse varcò le colonne d’Ercole, anche lui varcherà la soglia e sparirà nel buio. “Truman apre una porta sul buio, ma chi può essere certo che dall’altra parte non ci sia un mondo reale ancor più totalizzante dell’immaginario? 21”. Nessuno può dare una risposta; anzi, infinite sono le domande che si accumulano sull’ennesima sparizione nel cinema di Weir, destinata come le altre a restare insoluta. Truman l’assicuratore, Truman la star è scomparsa: non resta che la sua assenza. 19 Lo stesso Weir in un’intervista rilasciata a Paul Kalina definisce il suo film “[...] a rites-of-passage movie”, cfr. P. Kalina, “Peter Weir and The Truman Show”, Cinema Papers, October 1998, pp. 18-21, 56. 20 La prima volta che Kubrik mostra il suo monolite esso è un rettangolo nero che si staglia contro il cielo azzurro; inoltre funge da porta: fa entrare le scimmie in una fase successiva della loro evoluzione e alla fine del film fa entrare David in un’altra dimensione. 21 P. Cherchi Usai, “The Truman Show”, Segnocinema, Settembre-Ottobre 1998, pp. 91-92.

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2.1.2. Viaggi che lasciano intravedere la possibilità di un ritorno Anche in questo caso bisogna tenere conto del fatto che il protagonista si trova sempre nel punto di collisione tra due o più mondi ed egli è inconsapevolmente colui che può unirli in sé. È importante la sua inconsapevolezza perché è quella che gli consente di tornare: il personaggio compie un viaggio nel mondo altro, cerca di capirlo, ma non ci riesce, infine torna al suo mondo: certo è un uomo nuovo, ma fino a che punto l’esperienza l’ha cambiato? In The Cars Arthur si ritrova in un mondo apparentemente normale i cui abitanti però speculano sugli incidenti stradali che loro stessi causano. Arthur si trova lì non per sua volontà ma perché vittima di uno di questi incidenti. Sembra che una forza superiore governi le sue azioni: è l’unico outsider che riesce a penetrare nella chiusa comunità di Paris; l’altro outsider, il reverendo, viene assassinato. Come Truman ha paura dell’acqua ed è prigioniero sulla sua Seahaven, così Arthur ha paura di guidare ed è prigioniero di Paris. In realtà è libero, almeno secondo quello che gli dice il sindaco: “A lei la scelta: o prendere la mano che le si tende, o uscire da quella porta e andarsene con la sua macchina. Tocca a lei decidere.”; anche se poi nella notte in cui le macchine distruggono la città dirà che nessuno può entrare o uscire da Paris. In fondo Arthur è molto simile a Truman: sono entrambi prigionieri di un mondo chiuso, paradisiaco ma allo stesso tempo diabolico; cercano di fuggire ma hanno delle paure che li inibiscono; hanno una figura che vorrebbe controllare e dirigere la loro vita (Christof, il sindaco). Alla fine trovano la porta e si allontanano nel buio. Truman l’apre lui stesso, Arthur la trova aperta e dopo aver superato la sua fobia segue la fuga degli altri cittadini nella sua auto. Il suo è un ritorno: il suo viaggio di conoscenza dei segreti di Paris era iniziato con l’infermiera che gli apriva la porta dell’ospedale e lo immetteva nella vita cittadina (ancora a sottolineare il ruolo non attivo di Arthur) e dopo un periodo di permanenza eccolo sulla strada per il suo mondo guarito dalla sua incapacità di guidare e dai suoi sensi di colpa. The Plumber introduce lo spettatore nella tranquilla serenità della casa dell’antropologa Jill per mostrare come la presenza perturbante di

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Max possa minare il delicato equilibrio della donna 22. Jill si trova a contatto con la realtà dell’idraulico senza aver compiuto nessun atto di volontà. Max si presenta alla porta dell’appartamento senza che nessuno lo abbia chiamato. Jill lo lascia entrare ma subito l’incontro fra i due si fa scontro. Il territorio di Max è il bagno nel quale spesso lavora a porta chiusa costringendo Jill a stare al di là della porta e ad immaginare cosa lui stia facendo. Max è completamente a suo agio in casa di Jill mentre la donna si sente sempre più a disagio. L’antropologa decide quindi di non farlo più entrare in casa sua e di conseguenza finge di non sentirlo bussare. Ma se la porta di casa rimane chiusa Max entra nel suo territorio dal tetto: lui riesce sempre ad entrare. Saranno invece gli scienziati ad avere problemi a penetrare nel suo mondo. L’indiano, ospite illustre di Jill e Brian (quest’ultimo unicamente interessato alla sua carriere non si preoccupa minimamente di quello che sta succedendo alla moglie), si ritrova prigioniero nel bagno e per entrare gli altri devono abbattere con la forza la porta chiusa. La dimensione di Max è quindi penetrabile solo con la violenza, mentre Max non ha alcuna difficoltà ad entrare in casa di Jill: nei suoi due ultimi ingressi trova la prima volta la porta spalancata e la seconda viene addirittura chiamato per risolvere un allagamento. Sembra che ormai Jill si sia arresa, ma proprio quando Max sembra padrone della situazione lei riesce a liberarsi di lui accusandolo di furto e facendolo arrestare. L’antropologa che si era trovata involontariamente a contatto con una realtà diversa, quella di Max, riesce così a ritornare nella sua dimensione. The Year vede due protagonisti in un certo senso complementari tra loro, il nano Billy e il giornalista australiano Guy. Di Billy si è già parlato nel paragrafo 2.1.1; Guy è anche lui un uomo che si trova sospeso fra due culture, ma non per sua volontà: sono Billy e il lavoro che lo hanno costretto in questa situazione. Emblematico è il suo ingresso in Indonesia: avviene con l’attraversamento di un cancello che gli viene aperto e che Guy neanche tocca. Egli non ha scelto di andare 22 Marsha Kinder pone l’accento sull’influenza che le opere di Pinter possono aver avuto, anche a livello inconscio, su questo lavoro di Weir. Il regista infatti aveva studiato Pinter all’università. Cfr. M. Kinder, “The Plumber”, Film Quarterly, summer 1980, pp. 17-21.

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in Indonesia. Suo malgrado Guy si troverà sempre più coinvolto con una realtà diversa, ma egli non è interessato a diventare mediatore, a differenza di quello che crede Billy non ha nessun destino da compiere: vuole solo farsi notare nel suo lavoro. Guy non ha una visione (alla fine del film perderà un occhio, dopo che già aveva perso gli occhi di Billy). Il suo viaggio rimane un viaggio da testimone in una diversa realtà. Debi Enker scrive di lui: “He is a figure of powerlessness” 23, è un personaggio impotente. Cosa rimanga in lui di questa esperienza dopo che avrà varcato la soglia che lo condurrà al viaggio di ritorno non è dato sapere. È interessante però che l’uscita dall’Indonesia preveda che Guy passi attraverso una porta, come al suo ingresso, ma questa volta è lui stesso ad aprirla dopo aver lasciato indietro il suo registratore, simbolo del lavoro del giornalista. Witness presenta un doppio viaggio, un movimento chiasmico 24: quello di Samuel e Rachel a Philadelphia e quello di John Book nella comunità degli Amish. In entrambi i casi non si tratta di un viaggio intrapreso volontariamente, ma è sicuramente un viaggio che cambierà la vita dei suoi partecipanti. Dei tre viaggiatori Book e Samuel sono l’uno l’alter ego dell’altro: Samuel entra nel mondo “degli inglesi” portato dalla madre, Book entra nel mondo degli Amish portato da Rachel e da suo suocero: nessuno dei due agisce volontariamente ma per necessità. Per tutti il viaggio è la scoperta di un mondo altro, di un paese delle meraviglie che, come quello in cui si trova catapultata Alice, ha regole e leggi sue. Si tratta di scoprirle ed eventualmente adattarcisi in modo tale da poter operare una sintesi. I due mondi appaiono subito totalmente separati l’uno dall’altro, l’unico punto di fusione potrebbe essere l’unione fisica fra Rachel e Book. Tale unione non avverrà perché ci sono regole sociali degli Amish che impediscono a Book di restare. Book a sua volta è consapevole della sua totale alterità: se rimanesse infrangerebbe le regole e potrebbe arrecare danno a Rachel e a tutta la comunità Amish. C’è un movimento di avvicinamento fra Rachel e Book che culmina nella scena del bagno della donna. Book compie un 23 Cfr. D. Enker, “The Year of Living Dangerously”, Cinema Papers, March 1983, pp. 64-65. 24 Cfr. G. Canova, “Witness - Il testimone”, Segnocinema, 5/19, Settembre 1985, p. 98.

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movimento che dall’esterno della casa lo porta all’interno, sulla soglia della camera di Rachel. Lì lui la osserva attraverso una porta semiaperta. Abbiamo un’immagine riflessa di Book (ancora una volta uno specchio in un punto chiave della narrazione) e lui è sulla soglia: se la oltrepassasse entrerebbe in un mondo altro e non potrebbe fare ritorno. Book osserva ma rimane al di qua: le due dimensioni si sono sfiorate ma non è stato possibile per loro unirsi. Ormai l’occasione è stata persa e le due dimensioni cominciano un lento ma inesorabile processo di allontanamento. Molto chiara a questo riguardo è la sequenza dell’addio. Book è in piedi sotto il portico della casa di Rachel e alla sua destra c’è la porta d’ingresso, un rettangolo nero sullo sfondo chiaro della casa. Sulla soglia si affaccia Rachel, ma non esce. Lei e Book non parlano, si guardano e i loro sguardi sono più che eloquenti. Entrambi rimangono lì fermi sulla soglia e infine Book si allontana senza che ci sia un contatto, a parte quello visivo. Secondo Marek Haltof, sia Guy che Book sono come dei turisti che viaggiano in terra straniera 25: da qui l’importanza dello sguardo in entrambi i film. È interessante infine notare che dopo l’irruzione dei tre poliziotti corrotti nel mondo Amish, Book non è più visto in interni, anche i saluti avvengono tutti fuori dalla casa, quasi a voler sottolineare che i due mondi sono entrati in contatto ma che adesso sono separati l’uno dall’altro. Il protagonista di Dead Poets, il professor Keating, racchiude in sé due mondi: già una volta è entrato in contatto con il mondo rigidamente regolato dell’accademia di Welton perché ha studiato lì e ne è uscito per diventare un insegnante dai metodi molto liberali. Keating ritorna a Welton per lavorare e dovrebbe essere il mediatore, colui che porta in sé sia la cultura di Welton che quella esterna, identificabile con la Londra sede del suo precedente incarico, quella stessa Londra dove accanto ad artisti e avanguardie vivono i rappresentanti dell’establishment e i membri di una delle monarchie più vecchie e gloriose. Insomma, Londra come sede dei progressisti ma anche dei conservatori, due poli che dovrebbero essersi fusi nella persona di Keating. Alla sua prima lezione vediamo Keating attraverso una porta semiaperta: anche lui come Billy, come Book è sulla soglia e scruta. Entra in aula, l’attraversa ed esce da un’altra porta. Questo è il riassunto del 25

Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 81.

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suo viaggio all’interno di Welton: il suo è un passaggio, lui è il nocchiero, il capitano della nave che traghetterà i suoi studenti dall’età dell’innocenza all’età della coscienza. Keating è l’elemento fantasticoperturbante della storia; contro il suo universo si scontra l’universo di Welton. A farne le spese sono gli studenti che cercano di conciliare i due mondi. Abbiamo Neil, colui che ha la visione della possibile integrazione e che si butta coscientemente dentro la nuova dimensione che gli si è aperta davanti e che come tanti altri personaggi di Weir non reggerà e verrà schiacciato dall’urto fra i due mondi: il suo tentativo di assurgere a mediatore lo porterà alla morte. Il suo compagno di stanza, Todd, è affascinato dal mondo di Keating, ma la sua timidezza lo mantiene sempre o quasi sulla soglia. Quando finalmente l’attraversa lo farà perché trascinato da Keating e da Neil. La sua finale presa di coscienza 26 dimostra che per lui il viaggio è stato proficuo: gli ha permesso di passare dall’adolescenza all’età adulta, come era successo a Irma 27. La presa di coscienza di Todd avviene nel momento in cui Keating si trova sulla soglia e sta per andarsene: ancora una volta il fatto che il professore attraversi la soglia indica l’incomunicabilità tra i due mondi, quello dell’ordine e quello della ribellione, dell’immaginazione.

2.2. IL RUOLO DELLA DONNA Affrontando l’analisi di un testo narrativo Seymour Chatman distingue gli eventi narrati in nuclei e satelliti a seconda del loro valore. Più precisamente, i nuclei sono nodi o cardini della struttura del racconto: se vengono tolti la logica narrativa viene distrutta; i satelliti invece possono essere cambiati o eliminati senza che la logica della trama venga disturbata visto che non comportano una scelta, ma sono conseguenze 26 Occorre ricordare che per alcuni critici questa scena non indica una presa di coscienza o un affermazione del proprio essere individuo in quanto è semplicemente una vuota imitazione del comportamento esibizionista di Keating. 27 Irma è l’unica delle persone scomparse a Hanging Rock a fare ritorno. La sua esperienza, qualunque essa sia stata, l’ha trasformata da adolescente in donna.

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delle scelte fatte nei nuclei 28. Inoltre, secondo le teorie femministe che si diffusero a partire dagli anni Settanta 29 la donna nel cinema occupa spesso una posizione marginale nella diegesi: essa è oggetto passivo dello sguardo dell’uomo e dei suoi discorsi. L’uomo guarda e parla, la donna è guardata ed è parlata. Nei film di Weir la situazione della donna e il suo rapporto con la figura maschile è complessa. Bisogna tenere presente che Weir proviene dall’Australia, paese a maggioranza maschile e in cui le donne solo ultimamente sono venute ad occupare una posizione di rilievo nella società (cfr. I.1). Si analizzeranno quindi i personaggi femminili nell’opera di Weir tenendo presente sia le teorie femministe che l’opera di Chatman. In particolare, i film verranno raggruppati distinguendo tra quelli in cui la donna è nucleo ed è indispensabile per l’avanzamento della narrazione e quelli in cui la donna è satellite e la sua presenza non fa procedere la storia. 2.2.1. Il personaggio femminile come nucleo In Picnic l’universo femminile isolato 30, quello dell’Appleyard College, è contrapposto a quello maschile rappresentato da Michael e Albert. Le studentesse che salgono sulla roccia, ovvero Miranda, Marion, Irma e Edith, nella prima parte del racconto sono guardate, sono parlate. È interessante a questo proposito la sequenza dell’attraversamento del ruscello: le tre fanciulle (Edith essendo grassa non viene fatta oggetto di commenti ed è anche colei che non completerà la scalata alla roccia ma tornerà indietro terrorizzata) attraversano il corso d’acqua sotto gli occhi di Michael e Albert. I due ragazzi le guardano affascinati, Albert fa anche dei commenti sulla bellezza delle tre: per i due amici Miranda 28 Cfr. S. Chatman, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Pratiche Editrice, Parma, 1989, p. 52. 29 Cfr. F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 3° ed, Bompiani, Milano, 1996, pp. 243-258. 30 L’isolamento e la chiusura di questo mondo nonché i rapporti esistenti tra alcuni dei personaggi principali hanno dato adito a letture omosessuali del film. Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 31; oppure G. Fink, “Picnic at Hanging Rock”, Bianco e Nero, Marzo - Aprile 1977, pp. 129-130; oppure E. Roginski “Picnic at Hanging Rock”, Film Quarterly, summer 1979, pp. 22-26.

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e Irma, ma anche Marion sono oggetti di desiderio, ma allo stesso tempo appartengono all’universo del mito, sono esseri che vivono fuori dal tempo. Per questo il film viene anche definito come una voyeuristica fantasia maschile in cui le donne sono passivi oggetti del desiderio. Michael decide di seguirle, ma non appena oltrepassa il ruscello le ragazze sono fuori dalla portata del suo campo visivo: si sentono solo più le voci delle compagne che chiamano Miranda. In questo momento le fanciulle che prima erano state silenziosi oggetti dello sguardo maschile, si trasformano in pura voce e assumono il compito di far avanzare la diegesi fornendo il nucleo principale del film: di lì a poco infatti scompariranno. Dopo questo evento l’azione di tutti i personaggi, siano essi maschili o femminili, ruota intorno ad esso: la scomparsa delle studentesse è l’unico elemento che, se eliminato, fa scomparire anche tutto il film. Dopo aver fornito il nucleo al film le ragazze tornano nel ruolo che a loro è più congeniale: la loro assenza le trasforma in oggetto mitico, sono desiderate ed amate dagli uomini ma non possono essere toccate; non si fa che parlare di loro, anche di Irma, l’unica superstite. Johnston e Cook direbbero che la donna appartenendo all’universo del mito è collocata al di fuori della storia, è glorificata, ma allo stesso tempo è marginalizzata. Solo una parte delle teorie delle due studiose si può applicare al film perché, come già detto, Miranda e le sue compagne fanno parte della storia, se pur per breve tempo; anzi, sono la storia. In The Plumber è presente il confronto fra un personaggio femminile, la studiosa Jill, e un personaggio maschile, l’idraulico Max. La donna è fin da principio in balia dell’uomo: non ha nessun metodo per contrastarlo. L’unica soluzione sarebbe l’intervento di Brian, suo marito. Fa notare Rayner che Jill si atteggia a vittima e donna in cerca di protezione 31, ma in realtà non riesce ad attirare l’attenzione di Brian, troppo impegnato con la sua carriera e con la visita di scienziati delle Nazioni Unite. Non gli interessa molto se Jill sia contenta di andare a Ginevra o no e alla fine la vede come una sorta di passaporto per la Svizzera nel caso riesca a impressionare gli illustri ospiti con il suo famoso curry. Jill nei confronti di Max è in netta inferiorità. L’idraulico si 31 Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, Cassel, London and New York, 1998, p. 82.

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muove nella casa della donna come fosse a casa propria, mentre Jill esita, è goffa e a disagio. Max parla moltissimo mentre lei ascolta preoccupata, Max l’osserva e la desidera: è lui che detiene il potere dello sguardo ed è lui che muove l’azione o, per meglio dire, che la mantiene sempre ferma. “Ci sta guardando”, dice Jill a Brian: la donna, a differenza di Miranda, Marion e Irma, è consapevole di essere l’oggetto del desiderio di Max. Max parla in continuazione, e cambia la versione dei fatti riguardanti la sua vita. Prima dice di essere stato in carcere per stupro, poi lo nega e accusa Jill di essersi immaginata tutto. Le dice: “Hai troppa immaginazione.” Ed in fondo ha ragione: Jill chiusa nel suo appartamento, parla poco, ma usa molto la sua immaginazione sia per inquadrare il personaggio di Max che per immaginare cosa faccia in bagno, dove spesso lavora a porta chiusa. Per sconfiggere Max, Jill deve smettere di essere una casalinga e una donna: se rimane tale sarà sempre soggetta alla manipolazione degli uomini, siano essi l’idraulico o il marito 32. Finalmente riesce a contrastare Max sul piano dell’istruzione (fuori quindi dall’ambiente casalingo) correggendogli un errore di grammatica: da questo punto in poi il rapporto di forza fra i due cambia. Max aveva portato avanti la diegesi fino a quel momento attraverso la parola: come già si è detto, Max parla ma in pratica non agisce. Il fatto che Jill lo corregga vuol dire che lui non è più in grado di adempiere al suo compito, non ha più il controllo della narrazione e quindi abbandona la scena. Poco tempo dopo però il bagno di Jill si allaga e Max deve tornare; questa volta la permanenza dell’idraulico dovrà essere più lunga e per questo dovranno trovare il modo di andare d’accordo. Ormai però Jill ha perso il suo ruolo di oggetto e sta per ridiventare soggetto: non ha più bisogno di mettersi sul piano di Max e colpirlo nella parola. Jill non dice niente e proprio quando sembra essersi arresa passa all’azione: nascondendo nell’auto dell’idraulico il prezioso orologio che il marito le aveva regalato imprime un’accelerata alla diegesi e conclude la storia visto che l’idraulico verrà accusato del furto dell’orologio 33. La donna fornisce alla narrazione i due nuclei senza i 32Cfr. M. 33 Si noti

Kinder, “The Plumber”, Film Quarterly, summer 1980, pp. 17-21. l’importanza dell’orologio per Weir: esso infatti appare spesso anche sotto forma di cronometro, campanile, manometro a sottolineare l’importanza dell’elemento temporale nei racconti del regista.

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quali il film non esisterebbe: lascia prima entrare l’idraulico in casa e poi se ne libera. The Year presenta l’inglese Jill, donna passionale e romantica, che è oggetto degli sguardi dei personaggi maschili del film. Marina Cappa 34 definisce bene il personaggio di Jill quando la descrive come una bella ragazza dall’aspetto sano, appetibile dagli uomini ma non divoratrice degli stessi (lo si nota ad esempio dal suo abbigliamento semplice). Con la decisione di dire a Guy del carico di armi che sta per arrivare in Indonesia dà una svolta alla narrazione in due sensi: da un lato porta all’interruzione della relazione tra lei e Guy dall’altro porta Guy ad avvicinarsi al Partito Comunista per cercare conferme alla notizia di Jill e lo mette in pericolo di vita. Inoltre quest’azione della donna contribuisce, attraverso il tradimento di Guy, a portare alla morte Billy. La decisione di Jill fornisce il nucleo centrale del film, senza il quale la trama perde il suo sviluppo logico. Una speciale attenzione merita il personaggio di Billy. Scrive James Roy MacBean: [...] And although Linda Hunt’s excellent performance establishes Billy as a believably male protagonist within the fictional narrative of the film, we never completely lose sight of the fact that Billy is played by a woman . 35

Si viene quindi a creare una dicotomia visto che Billy è un uomo all’interno del film, ma una donna per quanto riguarda l’attore che gli dà corpo. Per cui diverse possono essere le interpretazioni da dare. Se si tiene conto della componente donna che l’attrice inevitabilmente porta al suo personaggio allora anche Billy è un personaggio femminile apportatore di nuclei: fornisce infatti elementi di cui il film non può essere privato senza stravolgerlo completamente. Ad esempio è Billy ad introdurre Guy alle persone che contano a Giacarta, ed è ancora lui a presentargli Jill. Ma forse è più interessante considerare Billy come un personaggio maschile così come la trama lo presenta, senza volerlo ca34 Cfr. M. Cappa, “Corpi? Persone (attori)”, in N. Panzera e C. Marabello (a cura di), Peter Weir - Un cinema vissuto pericolosamente, op. cit., p. 45. 35 “[...] Anche se l’eccellente prova di Linda Hunt dà corpo ad un credibilissimo Billy, personaggio maschile all’interno della storia del film, non ci dimentichiamo mai completamente del fatto che Billy è impersonato da una donna.”, J. R. MacBean, “Watching the Third World Watchers”, Film Quarterly, spring 1984, p. 9.

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ricare di ulteriori significati. È singolare comunque che in The Year Guy, l’unico personaggio che non dà adito a perplessità sul suo essere uomo, è l’unico che non ha nessun potere sullo scorrere degli eventi: li subisce; non solo, è anche oggetto di sguardi (da parte di Billy e di Kumar, ad esempio), lui che non sa guardare e che in certi momenti vorrebbe esprimersi, ma non ne è capace. Che sia lui ad occupare il posto della donna così come è descritto dalle teorie femministe? Green Card introduce lo spettatore in un mondo in cui la donna, Bronte, è oggetto del desiderio di due uomini, il suo fidanzato Phil e Georges che la desidera prima solo per avere la cittadinanza, poi in quanto donna di cui è innamorato. Bronte a sua volta desidera, ma desidera e sposa Georges solo per avere un appartamento con una bellissima serra. Tale serra è il suo posto speciale, il suo Eden in cui nessuno è ammesso, nemmeno Phil che non riesce mai a salire a casa di Bronte. In realtà l’unico che penetra nella serra è proprio Georges, il quale addirittura la modifica piantando delle nuove piante (i pomodori, ad esempio). Un po’ come succedeva a Jill in The Plumber Bronte si sente minacciata dalla presenza di Georges: Green Card, infatti, può essere visto come un remake di tale film 36. Qui però è la donna a detenere il potere della parola, visto che Georges non parla bene l’inglese; è lui invece a detenere lo sguardo. Là Max era padrone sia dello sguardo che della parola dal momento in cui Jill lo fa entrare in casa fino al momento in cui se ne libera. Bronte e Georges sono sullo stesso piano, sono complementari l’una all’altro e muovono la diegesi in egual misura: uno dei nuclei centrali della trama è fornito dal matrimonio di convenienza che entrambi decidono di contrarre anche se sulla base di diverse motivazioni. Successivamente quando sono insieme nell’appartamento è lei a dare inizio alla loro preparazione dopo che Georges le ha detto che sta aspettando che la sua vita cominci. Questa scena è anche emblematica per confermare quello che si diceva prima sullo sguardo e sulla parola: Bronte si racconta a Georges a parole e gli mostra delle foto; lui ascolta e guarda, guarda le foto, ma soprattutto guarda Bronte. Quando è il suo turno a raccontarsi, lo fa solo attraverso parole quasi a sottolineare che la sfera d’azione di Bronte è la paro36 Cfr. G. Canova, “Green Card - Matrimonio di convenienza”, Segnocinema, Maggio - Giugno 1991, pp. 37-38.

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la: per farsi capire deve comunicare attraverso essa e non attraverso la visione perché lei ancora deve imparare a guardare. Grazie a Georges imparerà a vedere e lui imparerà a parlare, a esprimersi; nella sequenza finale gli sguardi, i baci, gli abbracci che i due si scambiano forniscono il nucleo di una storia ancora tutta da raccontare. In Fearless Carla è stata sconvolta dall’incidente aereo che le ha portato via il suo bambino e le ha tolto la voglia di vivere. Il rapporto che si instaura tra lei e Max pone l’accento sulla dipendenza di Carla da Max. La donna non riesce ad esprimersi, soffoca dentro di sé il suo senso di colpa; dall’altro lato Max guarda e attraverso lo sguardo capisce, parla e attraverso la parola esprime solo verità. Egli desidera Carla e con gran semplicità e schiettezza confesserà a sua moglie di provare un forte sentimento d’amore per Carla. Nella coppia di sopravvissuti è sempre Max a prendere le decisioni fino a quando Carla non riesce ad impadronirsi della parola e a confessare la sua presunta colpa. Max allora andando a sbattere contro un muro con l’auto le dimostra che lei non avrebbe potuto fare niente per salvare il suo bambino e la guarisce. In questo momento Carla diventa attiva: prende la decisione di andare a parlare con Laura per spiegarle quello che c’è stato fra loro due; quindi va in ospedale da Max per dirgli che lei ormai è guarita e che adesso tocca a lui salvarsi. “Life is meaningless except for what we make of it”, scrive Scott Murray 37. Di fronte a Carla che sta autonomamente facendo avanzare la diegesi Max perde la parola; lui che con la sua voce aveva guidato i superstiti del disastro aereo verso la salvezza, ora non riesce ad esprimersi. Con l’addio che i due si danno Carla esce volontariamente di scena e per quanto la decisione possa essere dolorosa è quella che fornisce il nucleo che porta alla conclusione della narrazione. In The Truman Show Lauren/Sylvia (per comodità ci limiteremo a chiamarla Sylvia), la donna che fornisce uno dei nuclei principali del racconto e senza la quale la trama verrebbe a perdere gran parte della sua logica, appare per la prima volta sullo schermo dopo circa venti minuti, un po’ come avveniva per Jill in The Year. La sua presenza però è forte fin dall’inizio e ci si rende subito conto che gran parte dei pen37 “La vita è senza senso se non per quello che noi le diamo”, S. Murray, “Fearless”, Cinema Papers, August 1994, pp. 67-68.

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sieri di Truman è occupata dal ricordo di Sylvia, tanto che lui sta tentando di ricostruire la sua fotografia usando pezzi di foto prese da giornali di moda. Sylvia all’interno dello show è costretta al ruolo di comparsa silenziosa, ma diventa oggetto dello sguardo di Truman il quale la desidera. Malgrado questo non sia previsto dal copione e malgrado gli sforzi fatti dalla produzione per mantenerla lontana da lui, Truman riesce a chiederle di uscire. In questo momento Sylvia diventa parte attiva nella diegesi dello show, ma anche del film (spesso vengono a coincidere). A sottolineare la sua impossibilità di controllare il discorso dice: “Non mi è permesso parlare con te.” Subito dopo afferma il suo potere sul racconto scrivendo now, ora, su un foglio: se non le è permesso di parlare, nessuno però le può impedire di scrivere e di far vedere. Sylvia viene fatta scomparire dallo show e a Truman viene detto che soffre di schizofrenia (abbastanza ironicamente però l’unico che all’interno dello show non soffre di tale malattia è proprio Truman, mentre tutti gli altri partecipanti allo show conducono una doppia vita). Come avveniva per le ragazze scomparse a Hanging Rock, anche Sylvia entra a far parte dell’universo senza tempo del mito, ma questo non la marginalizza nella diegesi, anzi le dà una posizione di grande risalto nella mente di tutti a partire da quella di Truman per arrivare a quella dello spettatore extradiegetico, passando per Christof e per lo spettatore intradiegetico. 2.2.2. Il personaggio femminile come satellite In questo paragrafo si analizzeranno sia le pellicole in cui il personagio femminile è praticamente assente sia quelle in cui occupa un posto importante pur restando, come direbbe Mulvey, al di fuori della diegesi e lasciando all’uomo il compito di farla avanzare. In The Cars il mondo di Paris è a maggioranza maschile e le figure femminili fanno parte dello sfondo. Paris è una cittadina dell’outback dove in passato le condizioni di vita erano sicuramente difficili ed inadatte alle donne (cfr. I.1). Tutte le posizioni di potere sono occupate da uomini, le donne sono relegate ai lavori domestici, da qui l’importanza attribuita alla famiglia nel film, o tutt’al più sono infermiere. L’unico personaggio femminile di una qualche importanza è la moglie del sin-

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daco: il suo ruolo nello svolgimento della narrazione è nullo; la sua funzione è quella di essere una buona moglie e una buona madre (anche nei confronti di Arthur) e di esaudire i desideri del marito. La famiglia del sindaco, infatti, vuole essere una famiglia modello. Non è però chiaro se il sindaco veda comunque la moglie come un oggetto del suo sguardo, del suo desiderio e forse il fatto che le figlie della coppia siano state adottate sottolinea la sterilità del rapporto. La donna ha “second-hand children” così come ha un “second-hand fur coat” 38. E proprio la scena che gira attorno alla pelliccia è significativa per il ruolo occupato dalla donna. Lei mostra ad Arthur la pelliccia di visone che il marito le ha regalato e che lo stesso le permette di indossare solo in casa. Il suo intento dichiarato è quello di far ridere Arthur, ma allo stesso tempo tenta anche di attirare su di sé il suo sguardo e di assumere una anche minima importanza all’interno della diegesi, ma non ci riesce: anche per Arthur, come per il sindaco, rimane solo un’ombra, un pezzo dell’arredamento della casa. Il mondo di Gallipoli è un mondo maschile. Certo si tratta di un film che si rifà al genere dei film di guerra in cui il personaggio femminile è relegato in una posizione di secondo piano quando non è del tutto assente. Inoltre bisogna ricordare che il mito dell’Australianess e del mateship, che nasce o si rafforza proprio con questo episodio, è solo per uomini (per di più bianchi) per cui l’assenza delle donne a Gallipoli non deve stupire 39. Archy e Frank, i due protagonisti, sono per lo più circondati da figure maschili, sia a casa che poi in guerra, e quando cominciano la loro avventura sono simili a due orfani: non hanno famiglia, né mogli né fidanzate. Possono contare solo su loro stessi e sulla loro amicizia: per questo anche se inizialmente separati si riuniscono in Egitto 40. Le uniche donne che appaiono, siano esse crocerossine o prostitute, madri o fanciulle in età da marito, sono figure stereotipate che non hanno alcun potere sullo svolgimento della narrazione e che appartengono allo sfondo contribuendo a creare l’atmosfera tipica 38 39

pure I.1.

J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 41. Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., pp. 57-58; op-

40 Anche in questo caso come per Picnic ci sono letture critiche che sottolineano un rapporto omosessuale tra Archy e Frank. Cfr. G. Hentzi, “Peter Weir and the Cinema of New Age”, Film Quarterly, winter 1990-1991, pp. 2-12.

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dei film di guerra. Dead Poets è ancora una volta una rappresentazione di un microcosmo popolato da figure maschili in cui la presenza femminile è del tutto secondaria 41. Nella raffigurazione di un esclusivo e isolato college si possono individuare molti parallelismi con Picnic tanto da far quasi pensare ad una versione al maschile del precedente film 42. Le figure femminili nel film sono di due tipi: le madri e le ragazze, oggetto del desiderio; in entrambi i casi sono di importanza marginale rispetto allo sviluppo del racconto. Per quanto riguarda il primo gruppo, l’unica che ha un qualche peso è la madre di Neil: sembra capire le esigenze e le aspirazioni del figlio, ma non sa aiutarlo di fronte a un padre-padrone che ha già deciso il destino del figlio. Non parla, sta in un angolo o è vista di schiena; l’unica sua azione è piangere e poi disperarsi per la morte del figlio. Rappresentante del secondo gruppo è Chris, la ragazza di cui si innamora Knox. È la classica ragazza di cui tutti al liceo vorrebbero o si sono innamorati: è bionda, è carina, è intelligente, è leader delle ragazze pon-pon della sua scuola. La sua importanza nella narrazione è simbolica, serve per il subplot che fa capo a Knox: in fondo però questi poteva innamorarsi di lei come di una qualsiasi altra ragazza, e lei subisce la sua corte senza mai prendere una posizione definita né nei confronti di Knox, né nei confronti del fidanzato. Passando ora all’analisi del secondo gruppo, quello formato dai film in cui le donne pur essendo satelliti sono un personaggio forte, si può partire da The Last Wave. Annie, la moglie di David svolge più funzioni nel film: è sua moglie, è la madre delle loro figlie; inoltre funge da figura materna nei confronti di David, il quale ha perso sua madre quando ancora era un ragazzino. Durante le prime fasi del processo Annie non abbandona il marito, cerca di confortarlo, di aiutarlo, di dargli dei consigli. Man mano che David si trova sempre più coinvolto nella causa lei comincia ad avere paura, sente che delle forze misteriose stanno entrando in gioco e si accorge che suo marito si sta allontanando. Gli dice che ormai non parlano più e che lei non riesce più a co41 Come già accaduto per altri film, anche per questo si possono trovare approcci critici che fanno leva sui rapporti omosessuali latenti tra i ragazzi. Per tutti valga il già citato articolo di Hentzi (cfr. nota 40). 42 Per un confronto fra i due film si rimanda a M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., pp. 104-106.

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municare con lui. Malgrado tutto però non è intenzionata a lasciare il marito e rimane con lui fino a quando David non le chiede di andarsene. Annie non compie nessuna azione che sia fondamentale all’avanzamento della diegesi, ma è comunque una figura forte che tenta fino all’ultimo di stare accanto al suo uomo. Rientra perfettamente in quella tipologia di donna australiana che come dice bene Brian McFarlane ha il compito di stare a casa ad aspettare il ritorno del suo mythmaking master 43. Rachel in Witness è uno dei personaggi femminili più belli di tutta la filmografia di Weir. È una donna forte, intelligente e passionale, sensuale e vulnerabile. Il suo dramma è nel desiderare di poter agire pur sapendo che il suo ruolo è un ruolo di passività: seguendo il pensiero delle teorie femministe, si potrebbe dire che Rachel è soffocata nel suo desiderio d’espressione. Dice bene Jonathan Rayner: “Rachel commands the look but she does not control the narrative” 44. La donna infatti trattiene su di sé gli sguardi di Book e Daniel nonché quelli della comunità. Lei li ricambia, li ignora, li sfida, ma non può in alcun modo intervenire sullo sviluppo diegetico del racconto: è il campo degli uomini, in particolare di Book. La donna è continuamente parlata: moltissimi sono i riferimenti all’interno del film al fatto che la comunità parla di lei e di Book. Glielo dice Eli e glielo dice anche una donna più anziana. Per contrasto, Rachel non parla molto. La sua sfera di influenza è la visione; è del tutto naturale che sia così poiché è la madre di Samuel, il testimone oculare per eccellenza. Si prenda ad esempio la sequenza del bagno: non ci sono parole, ma solo sguardi. In questo momento è lei che controlla la narrazione, ma lo fa nell’unico modo che il suo ruolo le consente, offrendosi allo sguardo del poliziotto. Non può agire, può soltanto indicare una possibile strada (un possibile nucleo) e attendere che sia Book a far avanzare la diegesi. Book, colui che controlla la narrazione, decide di non agire lasciando, come si diceva prima, che Rachel soffochi nel desiderio di espressione. Il giorno dopo quando nel pollaio Book le dice: “If we would have made love last

43 44

Cfr. I.1, nota 3. “Rachel comanda gli sguardi, ma non controlla la narrazione”, J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 144.

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night, I would have to stay or you would have to leave” 45 lei è sul punto di spezzare il silenzio, di prendere in mano il corso degli eventi, si ha la sensazione che quello che dirà possa cambiare il corso della narrazione, ma la sua esitazione le fa perdere l’attimo: quando si decide a parlare Book non è più lì e lei è costretta a continuare nel suo ruolo di oggetto del parlare. Dice Gary Hetzi a proposito della protagonista di The Mosquito Coast: In the case of the wife (referred to only as “Mother”), the lack of a fully developed character is especially irritating, since it is to the most prominent female figure that one naturally looks for an alternative to AlliÈs patriarchal excess. 46

In questo film infatti Weir introduce lo spettatore in un microcosmo, quello di Geronimo, dove tutta la popolazione sembra avere un’unica madre, la moglie di Allie Fox che lui stesso, come tutti gli altri, chiama Mamma. La coppia, anche Allie viene chiamato da tutti padre o papà, sembra ricordare la prima coppia della storia, Adamo ed Eva. Mamma è una figura sempre presente che però non compie nessuna azione che possa influenzare la diegesi. Ecco un'altra donna australiana, ecco un'altra Annie. Inoltre, essendo una costola di Adamo 47, Mamma segue senza protestare le orme del marito, non si preoccupa neppure di instaurare un dialogo costruttivo con lui. La narrazione è sempre saldamente in mano ad Allie, uomo, padre, ma anche figlio: anche lui chiama la moglie Mamma ed entra sempre più in competizione con i suoi due figli maschi 48. Sono loro, infatti che cercano di contrastare il padre e di convincere la madre ad agire, mentre lei sembra paralizzata 45 “Se questa notte avessimo fatto l’amore avrei dovuto rimanere oppure tu avresti dovuto andartene.” Si è preferito citare questa battuta in inglese perché la traduzione italiana in circolazione aggiunge una sfumatura di significato inesistente nell’originale. 46 “Nel caso della moglie (chiamata semplicemente “Mamma”), è molto irritante la mancanza di un personaggio ben sviluppato, visto che è nel personaggio femminile di maggiore importanza che uno istintivamente cerca un’alternativa agli eccessi patriarcali di Allie”, G. Hentzi, “Peter Weir and the Cinema of New Age Humanism”, Film Quarterly, winter 1990-1991, p. 10. 47 Cfr. Genesi 2: 21-22. 48 Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 153.

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fin quasi al punto di lasciarsi distruggere dalle follie visionarie del marito. Fearless fa conoscere allo spettatore un’altra figura femminile oltre a Carla. Si tratta di Laura, la moglie di Max e madre del loro bambino (sono queste le due funzioni che ha nel film). È una donna forte che, come nel caso di Annie, non intende abbandonare il marito a meno che non sia lui ad obbligarla (in questo caso sarà lui a lasciarla). Laura non ha nessun potere di controllo sulla narrazione: è una spettatrice, può tutt’al più sfogare il suo desiderio di espressione parlando con Max, con lo psicologo, con Carla, oppure usando la musica e la danza. Durante tutto il film non fa altro che attendere, attendere che il marito si faccia vivo dopo il disastro, attendere che il marito si riprenda e torni a vivere (ancora una volta si ricorda il ruolo della donna australiana nei confronti del suo uomo). Significativa di questa sua funzione è la scena in cui Max esce dall’ospedale. Laura fuori dalle porte di quell’edificio sta facendo l’unica cosa che può fare: lo sta aspettando. Nella sequenza finale finalmente anche Laura può esprimersi salvando il marito: agisce, certo, ma la sua azione è conseguenza di un nucleo fornito dal marito nel momento in cui mangia la fragola; anche il suo risveglio grazie al primo soccorso fornitogli dalla moglie è conseguenza di un nucleo precedente dato dalla richiesta di Max a Laura perché lei lo salvi. In The Truman Show la controparte “passiva” di Sylvia è Meryl, la moglie di Truman. Interessante l’entrata in scena di Meryl: la si vede subito mentre sta parlando del suo ruolo nello show ed è introdotta da una scritta bianca sul fondo nero: “Hannah Gill, nel ruolo di Meryl”. Ancora non si sa chi è Meryl (anche se si può immaginarlo facilmente), ma questa scritta è importante perché introduce in una struttura diegetica che ricorda quella delle scatole cinesi 49. Successivamente si sente la voce di Meryl (anche se in teoria non si può ancora essere sicuri che si tratti proprio di lei), ma non la si vede: si stabilisce così il suo ambito di pertinenza: la parola. Truman guarda e agisce, Sylvia guarda, Meryl parla. Truman sottolineerà più volte questo ruolo della moglie chiedendole nei momenti in cui lui è più confuso con chi stia parlando o che cosa c’entri quello che sta dicendo. Meryl in teoria ha un certo controllo sulla diegesi dello show perché segue un copione che co49

Cfr. M. W. Bruno, “Isole”, [duel], Febbraio 1999, pp. 46-47.

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munque è soggetto a repentini mutamenti, posto che Truman non è un attore. Sulla diegesi del film non ha invece nessun tipo di controllo (là dove invece ce l’ha Sylvia) e le sue azioni sono reazioni a quelle di Truman: lei è totalmente in suo potere. Infine si potrebbe azzardare l’ipotesi che sul piano diegetico dello show sia Truman ad occupare il ruolo della donna. È in un universo senza tempo, è mitizzato e marginalizzato (sembra assolutamente incapace di agire non per causa sua, ma per l’intervento di una forza superiore identificabile con Christof), è oggetto di sguardi ed è continuamente parlato, fin dall’inizio del film quando Christof parla di lui. Insomma, Truman sembra rispondere perfettamente al ruolo della donna così come enunciato nelle teorie femministe. Colui che cerca di dirigere le sue azioni è un uomo, Christof, ma alla fine il desiderio di esprimersi di Truman è più forte della sua volontà e dalla passività il nostro eroe passa all’azione, compiendo il suo processo di emancipazione. Come dice lo stesso Weir in un’intervista rilasciata a Paul Kalina, Christof è simile a Zeus e l’unica cosa che Zeus non può fare è cambiare o influenzare il destino degli uomini 50.

2.3. L’ACQUA Hans Biedermann nell’Encilopedia dei simboli 51 pone l’accento sulla natura dicotomica del simbolo dell’acqua. Esso infatti simboleggia sia la vita che la morte; è un elemento di dissoluzione, annegamento, ma è anche un elemento di vita, di rinascita: la morte per acqua viene spesso vista come un nuovo inizio 52 non solo nella liturgia del battesimo, ma anche in tutti i miti di morte e rigenerazione. Inoltre Biedermann ricorda che l’acqua, popolata di pesci, è, per la psicologia del profondo, simbolo degli strati profondi e inconsapevoli della personalità. Pre50 Cfr. P. Kalina, “Peter Weir and The Truman Show”, Cinema Papers, October 1998, pp. 18-22, 56. 51 Cfr. H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Garzanti, Milano, 1991, pp. 49. 52 Cfr. T.S. Eliot, La terra desolata, Einaudi, Torino, 1995, sezione IV, vv. 312-321.

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mettendo che i vari significati sono compresenti in ogni film, di volta in volta uno di essi prende il sopravvento sugli altri. Si intende quindi raggruppare i film di Weir a seconda del significato simbolico predominante che l’acqua assume. 2.3.1. L’acqua come simbolo di morte-rinascita Scrive Piero Adorno a commento della figura di Venere nel dipinto del Botticelli La nascita di Venere: [...] Non è la nascita trionfale della divinità dell’amore, il cui slancio trascina il mondo: è piuttosto la coscienza della caducità delle cose [...] 53

Paragonando Miranda ad un dipinto del Botticelli (in particolare a La nascita di Venere, appunto) Mademoiselle carica la ragazza del doppio significato di vita e di morte contenuto nel dipinto: la Venere botticelliana nasce dall’acqua e i suoi occhi tristi e malinconici la fanno messaggera della coscienza della caducità delle cose. Similmente, Miranda nasce dall’acqua: al suo risveglio la vediamo lavarsi il volto in un catino pieno di acqua e fiori; durante la notte Miranda è morta alla vita del college e le sue abluzioni mattutine la vedono rinascere ad una nuova consapevolezza. Lo dice a Sarah: “Io non rimarrò con voi a lungo”; e successivamente lo dice Sarah a Mademoiselle: “Miranda conosce cose che pochi altri conoscono”. Infine, nel bel mezzo dell’ascesa a Hanging Rock Miranda esprime la consapevolezza della caducità delle cose dicendo: “C’è un tempo e un luogo giusto perché qualsiasi cosa abbia principio e fine”. Insomma, Miranda muore per rinascere (e scomparire) sulla roccia là dove Michael che la sta cercando cadrà e prono sulla nuda pietra sembrerà nuotare in un ambiente dove però non c’è acqua. Anche Irma, sicuramente tra i personaggi femminili più importanti del film, muore sulla roccia per tornare ormai donna e anche lei, in apertura del film, era stata vista sciacquarsi il volto in un catino. In The Last Wave l’acqua nelle sue varie forme permea tutto il 53 P. Adorno, L’arte italiana, vol. 2, casa editrice G. D’Anna, MessinaFirenze, 1991, p. 238.

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film, tanto da far scrivere a Marek Haltof che il continuo cadere dell’acqua, soprattutto come pioggia, ma anche come grandine, fango, rane, fornisce il trait d’union fra i subplot della storia 54. Non c’è un luogo o un momento totalmente asciutti: l’acqua o la sua idea sono richiamati continuamente dalle immagini, dalle parole, dai sogni. L’evento che mette in contatto David con un mondo diverso dal suo è la morte per affogamento di Billy 55, un aborigeno che vorrebbe entrare a far parte della tribù; questa almeno la versione ufficiale. Dopo il suo viaggio nei segreti della tribù, una specie di discesa agli inferi, David esce dalle fogne e si trova solo sulla spiaggia: lì si inginocchia e si lava il viso nel mare. Dopo questo atto rituale David, ormai morto al vecchio mondo “bianco”, rinasce per avere la visione dell’ultima onda che nelle credenze aborigene segna la fine di un ciclo e l’inizio di uno nuovo (un po’ come in tutti i Riti di Vegetazione o nei miti sulla fine del mondo). Si potrebbe anche azzardare un parallelo con la leggenda del Re Pescatore. Posto che, come ha dimostrato Jessie L. Weston nel volume From Ritual to Romance, questa leggenda ha origini nei più antichi Riti di Vegetazione, possiamo dire che David è il Re Pescatore (malato perché non sa più cosa sono i sogni), Chris è l’uomo puro di cuore che lo guarisce (nella leggenda trovando il Graal, qui dandogli l’accesso alla conoscenza del mistero) e la grotta sotto le fogne è la Cappella Perigliosa in cui si trova il Graal, in questo caso è il luogo dove David imparerà di nuovo cosa sono i sogni 56. Scrive Ludovico Stefanoni della scena acquatica di Gallipoli: [...] Neppure sotto le granate turche gli australiani smettono di scherzare, anche se qui l’allegria appare malata, come dimostra l’episodio del bagno in mare, con premio al primo che viene ferito dal nemico [...] 57 54 55

Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 44. T.S. Eliot nella sezione I mette in bocca alla cartomante Madame Sosostris le parole “...Fear death by water” (v. 55) che rimandano alla sezione IV intitolata “Death by water” dove a Fleba il Fenicio, morto per annegamento, capita di attraversare “[...] the stages of his age and youth” (v. 317). Quindi Fleba muore, conosce e si rigenera; Billy conosce, muore e permette a David di conoscere, di vedere la fine di un ciclo che prelude all’inizio di un altro. 56 Cfr. anche la trasposizione cinematografica della stessa leggenda effettuata da Terry Gilliam in The Fisher King. 57 L. Stefanoni, “Gli anni spezzati”, Cineforum, Giugno 1982, pp. 76-77.

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Tale scena presenta dunque al suo interno due sfumature. C’è la dimensione del gioco, ma c’è anche la sfida alla morte. Archy e Frank (come tutti gli altri) nuotano nudi sott’acqua; Frank imbraccia un fucile che ha trovato ed ecco arrivano le schegge provocate dalle esplosioni e i proiettili: il silenzio ovattato della scena viene rotto; qualcuno viene ferito e l’acqua si tinge di rosso. Si risale in superficie: il battesimo del sangue è avvenuto, a Gallipoli si muore davvero. Anche se non sono stati colpiti, i due amici sono morti e rinati nella consapevolezza che la guerra non è una bella avventura. Chiaramente, questa scena prelude a quello che sarà il battesimo del fuoco, cioè l’assalto alla fortezza del Nek che porterà Archy alla morte. Anche in The Year, come in Gallipoli, è presente una scena acquatica in cui si trova il doppio aspetto del gioco, in questo caso amoroso, e della morte. Guy e Kumar si sono fermati in una vecchia villa olandese per riposare durante un viaggio in auto alla ricerca di conferme sulla possibilità di un carico di armi in arrivo nel paese. Nel caldo tropicale Guy si addormenta e sogna di fare un bagno nella piscina con Tiger Lily. All’inizio sembra sia un gioco amoroso fra i due ma, d’un tratto, la donna tenta di affogarlo: sarebbe un’altra morte per acqua. In realtà è solo un incubo e al suo risveglio Guy tutto sudato si alza dal letto (su cui prima era steso in una posizione che ricorda quella del Cristo morto) per avvicinarsi ad un bacino in pietra posto nella stanza che ricorda il fonte battesimale. Lì si sciacqua il viso, si getta acqua addosso, si “battezza” e nasce ad un nuovo grado di consapevolezza: adesso sa che sia Kumar che Tiger Lily sono membri del Partito Comunista Indonesiano e allo stesso tempo ha la conferma dell’arrivo delle armi. Anche Billy subisce un battesimo, ma a lui capita per interposta persona. Nella scena dei rituali funebri per il bimbo morto vediamo la madre che lava il figlio con acqua e fiori (la stessa acqua presa dal fiume che presumibilmente ha ucciso il bambino infettandolo). La morte del bambino è simbolo della morte delle idee e delle convinzioni che hanno fatto vivere Billy fino a questo momento. Da questa morte Billy rinasce, tramite la visione delle abluzioni a cui il corpo del piccolo è sottoposto, in una realtà diversa da quella che aveva sempre visto, diversa perché diverso è il suo modo di guardare. Infine, anche in The Year si incontra una figura femminile, Jill, che come una Venere botti-

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celliana esce dall’acqua di una piscina, nasce per andare a conoscere il suo “principe azzurro”. L’incontro con Guy cambia la sua vita, in un certo senso anche lei muore per rinascere. Si noti inoltre che il subplot della storia d’amore tra i due è scandito nei suoi momenti essenziali da scene di pioggia. Si mette a piovere quando Guy e Jill seduti ad un bar parlano e l’attrazione fra di loro sta crescendo. Anche durante la fuga d’amore dal party all’ambasciata piove, così come piove quando Jill va da Guy per dirgli del carico di armi in arrivo nel Paese. Il fatto che in Witness John Book non sia mai visto in una scena d’acqua indica che egli non affronterà un processo di morte-rinascita. Fisicamente egli va molto vicino alla morte, ma spiritualmente è Rachel ad essere pronta a morire per poter rinascere. Non a caso è lei che viene vista mentre si lava: il suo bagno sembra un vero e proprio rito (si tenga presente che per gli Amish fare un bagno non vuol dire aprire un rubinetto e riempire una vasca di acqua calda) durante il quale si purifica. Particolare attenzione è posta sulla spugna e sull’acqua che esce da essa nonché sul suono prodotto dall’acqua stessa. Rachel, con l’apparire di Book sulla soglia, è pronta a sacrificare la sua esistenza Amish per rinascere in un altro mondo, qualunque esso sia. Questo non le sarà concesso, otterrà soltanto la conferma dell’impossibilità che ci possa essere un’integrazione acquisendo così un diverso grado di consapevolezza. Scrive Daniela Catelli a proposito del protagonista di Fearless: “[...] Max Klein rinasce dal disastro come una persona nuova [...]” 58. Non a caso subito dopo il disastro aereo ci sono due momenti in cui Max compie delle abluzioni. Il primo è quando in una stanza di albergo lo vediamo uscire dalla vasca: si è appena fatto una doccia e davanti allo specchio prende coscienza del fatto che non è morto. Per lui questa è una rinascita. Poco dopo, tornato a casa, lo vediamo intento a sciacquarsi il viso. Alla moglie che gli chiede perché non abbia telefonato per dire che era vivo risponde: “Non sapevo di esserlo”. Questi due momenti sottolineano l’acquisizione di un diverso grado di consapevolezza. Max ha attraversato la morte, lo dirà lui stesso a Carla. È morto ed è rinato; non è sicuramente un caso che Max assomigli tanto all’iconografia classica di Cristo. 58

D. Catelli, “Fearless”, Segnocinema, Maggio - Giugno 1994, p. 42.

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2.3.2. L’acqua come barriera da superare per giungere in un luogo altro Le grandi figure di viaggiatori appartenenti al mito o alla letteratura erano sovente costrette a muoversi via mare/fiume: così Ulisse, Enea, ma anche Dante. Non solo, spesso per raggiungere la loro meta dovevano attraversare ostacoli per lo più costituiti da acqua. È interessante che anche molti dei film di Weir prevedano un viaggio via mare, o quantomeno l’attraversamento dell’acqua. In Picnic ad esempio, Weir indugia molto sul momento in cui le ragazze attraversano il torrentello. Certo, così dà modo a Michael e Albert di osservarle, ammirarle ed eventualmente fare commenti; ma convoglia anche l’attenzione dello spettatore sul ruscello. L’unica delle ragazze ad avere problemi ad attraversarlo è Edith: ha paura di bagnarsi i piedi e le altre dubitano sulla sua capacità di passare al di là. Edith non sparisce sulla roccia, per questo forse la sua difficoltà nel guado. Le altre che lo attraversano con leggerezza avranno accesso al mondo “altro”. Impossibile a questo punto non effettuare un collegamento con un film molto simile, Dead Poets, in cui un gruppo di ragazzi si riunisce in un’umida grotta segreta che, guarda caso, si trova proprio al di là del fiume. Quello stesso fiume, però, nel suo lento scorrere o nel suo essere per metà coperto dal ghiaccio simboleggia il trascorrere regolare della vita: lì i ragazzi si esercitano nel canottaggio oppure suonano la cornamusa; bisogna andare oltre questo simbolo dell’establishment per trovare il diverso. Anche in Picnic c’è una sequenza che si svolge su un fiume/lago le cui acque cullano dolcemente l’imbarcazione su cui si trovano Michael e Irma. Sembra che la vita abbia ripreso il suo normale corso e lo si deduce sia dai discorsi dei due che dalla calma delle acque. Michael però spezza l’incantesimo nel momento in cui chiede a Irma cosa sia successo sulla roccia: la ragazza distoglie lo sguardo e la sequenza si conclude con una dissolvenza del volto di Irma nell’acqua. In Gallipoli ci sono diversi momenti in cui i due protagonisti sono costretti ad attraversare barriere d’acqua. Il primo è il lago (è chiamato così anche se si tratta di un deserto) che li separa da Perth, luogo dove Archy vuole arruolarsi. Archy si butta in questa sua impresa mettendo in serio pericolo la sua vita e quella di Frank, che lo segue. Successiva-

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mente devono entrambi attraversare l’oceano per giungere in Egitto. Infine, l’ultima traversata è quella che i due amici compiono per spostarsi dall’Egitto a Gallipoli. Stipati sui mezzi da sbarco ricordano le turbe dei dannati che Caronte traghettava da una riva all’altra dell’Acheronte 59. Archy e Frank sono sul Mar Egeo, ma quello che trovano a Gallipoli non è sicuramente molto diverso dall’inferno. Mosquito Coast è in effetti il racconto di un lungo viaggio, prima via mare e poi lungo un fiume, alla ricerca di un Paradiso perduto, di un angolo di terra che non sia su una carta geografica. Il primo viaggio verso Geronimo si svolge senza grossi intoppi: la tempesta che investe la nave nell’oceano non causa particolari danni e il fiume viene risalito fino a Geronimo trovando addirittura un nuovo passaggio. Quando nascono i problemi essi sono conseguenza di errore o presunzione umana. Così, ad esempio, il fiume inquinato dall’esplosione di “Cicciobomba” che dà il via ad un nuovo viaggio, altra acqua che va solcata per raggiungere un nuovo paradiso; la tempesta, similmente a quella shakespeariana, dà ad Allie e alla sua famiglia ancora un’altra possibilità: è come l’ultima onda, il diluvio, che conclude un ciclo, ma che, allo stesso tempo ne inizia un altro. Di nuovo in barca, la famiglia dei pionieri inizia per l’ultima volta la risalita del fiume, ma questa volta non c’è una meta. Il viaggio si trasforma in tragedia, la barca si lascia trascinare dalla corrente e il viaggio si conclude con un’immagine significativa: il fiume che sbocca nell’oceano, le acque sono tranquille e la vita ha ripreso il suo normale corso. Qualunque sia il luogo che Charlie (ormai è lui il capofamiglia) vuole raggiungere, c’è un’immensa distesa d’acqua da attraversare. “Un tempo avevo creduto in papà e il mondo mi era sembrato piccolo e vecchio. Ora era morto e io non avevo più paura di amarlo e il mondo mi sembrava senza limiti”, conclude la voce di Charlie. In The Truman Show il viaggio via mare è funestato da una tempesta che mette in serio pericolo la vita del protagonista. È interessante notare che qui l’acqua è mortale, come in The Last Wave. Una tempesta ha ucciso, nella finzione dello show, Kirk, il padre di Truman e ha creato un blocco nel ragazzo: egli ha il terrore dell’acqua. Quando fi59 Cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia - Inferno, III vv. 70-120 e il suo modello, il libro VI dell’Eneide di Virgilio.

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nalmente lo supera (il padre intanto è ricomparso sulla scena) Truman deve attraversare il mare per giungere in un luogo a lui sconosciuto, diverso da Seahaven. Ma così facendo Truman indispettisce il suo “creatore” il quale, come Poseidone adirato con Ulisse perché gli aveva accecato il figlio Polifemo, cerca di impedirgli in ogni modo di raggiungere la sua meta. “E tempesta fu”, dice l’assistente di Christof. Ma, così come Poseidone non poté impedire ad Ulisse il ritorno ad Itaca, neanche Christof può fermare Truman, l’uomo vero (il puro di spirito della leggenda del Re Pescatore?). Nel pre-finale lo si vede camminare “sull’acqua” e dirigersi verso una scala: ha superato il viaggio via mare e ora è giunto in un luogo altro, qualunque esso sia. Bisogna allora compiere un percorso, attraversare l’acqua per accedere alla nuova dimensione 60. In fondo, anche Israele nella sua fuga dall’Egitto verso la Terra Promessa deve attraversare dell’acqua, in questo caso il mar Rosso 61. A Weir non interessa certo quale sia la terra promessa, ciò che gli interessa è il viaggio che ad essa conduce. 2.3.3. L’acqua come specchio della coscienza Per la psicologia del profondo l’acqua, essendo popolata da esseri misteriosi (i pesci), è simbolo degli strati profondi e inconsapevoli della personalità. In particolare simboleggia l’inconscio, mentre i pesci sono i contenuti viventi, cioè sono contenuti che hanno a che fare con la fecondità e le energie vitalistiche 62. Sono due i film di Weir in cui si vedono stagni (pond) in cui ci sono dei pesci. Il primo è The Mosquito Coast. Allie, giunto a Geronimo, sta pianificando lo sviluppo della città e spiega ad un indigeno come deve accudire l’allevamento dei pesci. I due sono in una specie di stagno, Allie, che con un’asta sta misurando la profondità dell’acqua, spiega l’importanza dell’allevamento dei pesci e conclude dicendo: “Pulisci tutto intorno. Togli quelle schifezze dal60 Cfr. Stargate di R. Emmerich. La spedizione che viene mandata all’altro capo dell’universo si trova a dover attraversare una soglia di forma circolare e protetta da una membrana molto simile all’acqua. 61 Cfr. Esodo 14:21-31. 62 Cfr. H. Biedermann, Enciclopedia dei simboli op. cit., pp. 4-9 e S. Freud, L’interpretazione dei sogni, pubblicata per la prima volta nel 1900.

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l’acqua”. L’indigeno deve accudire i pesci, gli strati profondi e inconsapevoli della personalità di Allie (se si vuole dare credito alla teoria psicologica sopra accennata). Sembra quasi che Allie chieda agli indigeni di tenere la sua personalità pulita, di difendere le sue energie vitali come se presagisse che quel viaggio lo porterà al delirio e all’autodistruzione. Inoltre, Allie è andato nella giungla per portare il ghiaccio, che, secondo lui, è simbolo di civiltà. Decide, quindi, di effettuare una spedizione nell’interno per donarlo alla tribù dei “puri e incontaminati” che ha tanto cercato. Si potrebbe dire che Allie congeli il suo inconscio (qui, un’acqua priva di pesci) per consegnarlo a questo secondo gruppo di indigeni, così come al primo aveva assegnato la cura dello stagno. Quando li raggiunge, però, il ghiaccio si è sciolto, ovvero Allie ha perso il suo inconscio (non a caso questo è l’episodio che segna l’inizio della fine). Infine, il ghiaccio è il prodotto di “Cicciobomba” e ne simboleggia l’inconscio. È suggestivo pensare come, essendo il mostro creato da Allie 63 il suo alter ego, entrambi abbiano un subconscio sterile e siano per questo destinati alla morte. Green Card esemplifica bene i simboli della psicologia del profondo presi in considerazione. Quando Georges si trasferisce a casa di Bronte le porta in dono un pesce rosso. Aprendo la porta la donna non vede nessuno; si sporge e vede Georges che le porge il pesce (il pesce è anche un simbolo fallico) dicendole: “For your pond”. Nella scena seguente vediamo Bronte che libera il pesce nello stagno della sua splendida serra. Per Bronte quella serra è il suo posto speciale dove Georges non deve entrare: è la sua intimità. Pare quindi possibile interpretare lo stagno come simbolo dei lati nascosti della sua personalità e il fatto che esso sia privo di pesci, fino all’arrivo di Georges, sembra voler suggerire che l’inconscio di Bronte sia privo dei suoi contenuti viventi. Georges infatti le rinfaccerà di amare di più le piante che gli uomini e di essere simile ad un cactus; inoltre le urlerà contro: “You need a fuck”. Non sembra un caso che la mattina dopo il litigio avvenuto a causa di Phil, la scena si apra con un dettaglio del pesce nello stagno, poi di una coppia di pappagallini e infine di due paia di mutande stese, un paio da donna e uno da uomo. Attraverso queste immagini 63 Allie nel film parla della sua creazione come se fosse una creatura vivente e si paragona al dottor Frankenstein.

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si ha una panoramica dell’inconscio di Bronte introdotta dal pesce nello stagno, per cui lo spettatore è ormai sicuro che nelle zone più nascoste della personalità di Bronte c’è già la coscienza dell’amore. In chiusura, dopo l’interrogatorio da parte dei funzionari dell’immigrazione, Bronte si rifugia nella sua serra, nella sua intimità. Vede le piante dei pomodori che Georges aveva piantato, non c'è una soggettiva sullo stagno o sul pesce perché vorrebbe dire giocare a carte troppo scoperte e in un certo senso sarebbe una soluzione banale perché aspettata. In fondo, sappiamo che stagno e pesce sono lì, anche se non si vedono, e questo è già sufficiente. Se Green Card può essere considerato un remake di The Plumber (cfr. II.2.1 nota 36) allora anche in quest’ultimo film si può attribuire un significato psicologico all’elemento acqua. Max in un certo senso prende il posto del pesce, essendo il suo ambiente l’acqua. Si prende cura delle tubature, delle condutture (come non ricordare che il giorno dell’appuntamento con gli ufficiali dell’immigrazione Bronte e Georges rimangono bloccati nel traffico a causa della rottura di tubature dell’acquedotto?), è la materializzazione dei lati più nascosti di Jill e per questo le incute un gran timore. Questo riportare a galla quei contenuti viventi come la fecondità e le energie vitali dell’inconscio di Jill pregiudica il suo equilibrio per cui, ad esempio, non riesce più a capire quello che è reale e quello che è frutto della sua immaginazione. Lei soltanto vede Max come un pericolo: l’amministratrice si fida di lui, dice solo che è oversexed (tutto il contrario della sterile Jill, in questo molto simile alla botanica Bronte; se Max si esprimesse come Georges anche lui le direbbe: “You need a fuck.”), la sua amica ci chiacchiera tranquillamente e suo marito non trova nulla di male nell’idraulico, lo trova simpatico, purché non intralci la sua carriera. Jill lo sente come una minaccia perché rappresenta le sue paure, ma anche i suoi desideri repressi e inconfessati che, se affiorassero, provocherebbero la sua espulsione dalla società fredda e razionale degli studiosi. Nonostante tutto alla fine Jill, a differenza di Bronte, riuscirà ad eliminare Max per tornare ad essere la fredda e sterile antropologa che si trova perfettamente a suo agio nel mondo accademico. The Cars è un film anomalo all’interno del tema che si sta analizzando poiché l’acqua è totalmente assente. Ma proprio la sua assenza è a questo punto significativa. Arthur compie un viaggio nella cittadina

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di Paris che lo porta a conoscere il lato oscuro e ben celato della personalità dei suoi abitanti. Non c’è bisogno del simbolo dell’acqua per rimandarci a quest’altra dimensione dei personaggi e al loro inconscio perché in fondo nulla è totalmente celato: lo spettatore capisce immediatamente la stranezza di Paris e trova le conferme ai suoi sospetti man mano che Arthur fa le sue scoperte. E’ importante notare che Paris è una città sterile. La famiglia modello, quella del sindaco, ha due figlie adottate e la moglie del sindaco confessa apertamente ad Arthur la sua impossibilità di avere figli. Se ci dovesse essere dell’acqua a Paris potrebbe soltanto essere uno stagno privo di pesci visto che l’inconscio dei suoi cittadini sembra del tutto privo di quei contenuti viventi che, come si diceva prima, hanno a che fare con la fecondità e le energie vitalistiche.

2.4. IL TEMPO E L’IMMAGINE DELL’OROLOGIO Premettendo che si analizzerà esclusivamente il tempo diegetico, si noti come in quasi tutti i film di Weir sia possibile individuare uno scontro fra due flussi temporali contrastanti 64, il tempo di quello che può essere chiamato l’establishment, la tradizione, e il tempo del mondo altro. È interessante notare che il flusso temporale dell’establishment è associato all’immagine dell’orologio, sia esso da polso, da parete, da taschino, una sveglia o un campanile. Per cui la discussione rimarrà circoscritta al tema del tempo unitamente all’immagine dell’orologio. Ci sono poi due film, The Last Wave e Fearless, in cui, più che individuare i flussi temporali in contrasto, sembra rilevante far notare come il tempo si modelli sul modo di funzionare della psiche del protagonista. 2.4.1. L’orologio come simbolo dell’establishment The Cars introduce lo spettatore in un universo regolato da regole sue 64 Cfr. G. Canova, “Frames from Australia”, in N. Panzera e C. Marabello (a cura di), Un cinema vissuto pericolosamente, op. cit., p. 19.

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proprie, quello di Paris. Visto che il tempo di Paris è quello del mondo altro, non stupisce che non ci siano orologi. Il personaggio a cui sono collegati è il reverendo, il quale la mattina che deve celebrare la messa viene visto mentre, in auto, consulta il suo orologio solo per accorgersi che è in ritardo. Nello stesso tempo le campane della chiesa della cittadina suonano. Il reverendo non appartiene a Paris, è un outsider che proviene dall’establishment, per cui porta con sé i segni del tempo che appartengono a quel mondo. E’ lecito chiedersi come mai Arthur non sia associato ad orologi. Il suo stato di outsider è diverso da quello del reverendo, non solo perché è l’unico che entra ed esce vivo da Paris, ma anche perché i cittadini fanno di tutto per integrarlo nella loro comunità. La posizione privilegiata di Arthur viene subito enunciata dalla risposta del dottore alla domanda di Darryl sulla sorte di Arthur: “Diventerà un parigino”. Il primo episodio che lascia presagire che qualcosa di strano sta per succedere in Picnic è il blocco degli orologi delle persone che stanno partecipando al picnic ai piedi della roccia. “Un fenomeno magnetico”, spiega la fredda e matematica Miss McCraw, un suggerimento sul fatto che Hanging Rock non appartiene a questo mondo, perché il suo tempo è diverso, non è regolato da orologi: la roccia è un “microcosmo a tempo bloccato” 65. I due flussi di tempo in contrasto sono, quindi, quello di Hanging Rock e quello dell’Appleyard College, luogo dove la tradizione è indiscussa sovrana. La regina è la signora Appleyard (ricorda molto la regina Vittoria) che viene quasi esclusivamente vista nel suo studio, la sala del trono, dove il ticchettio di un orologio fa da costante commento sonoro alle vicende. Il collegio, infatti, è invaso dalla presenza di orologi: oltre a quello nello studio della direttrice, ce n’è uno appeso sulle scale che portano alle camere, e comunque il ticchettio di orologi è onnipresente. Nella sequenza che conclude il film questo ticchettio si fa più udibile e si blocca solo per lasciare spazio alla voce narrante che dice che la signora Appleyard è stata trovata morta ai piedi della roccia. Ancora una volta, nel mo65 G. Canova, “Witness - Il testimone”, Segnocinema, Settembre 1985, p. 98. Questa definizione, in realtà coniata per il mondo Amish in Witness calza anche a pennello per Hanging Rock.

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mento in cui si sta per raccontare l’ennesima sparizione ad Hanging Rock, l’orologio si blocca. È significativo, infine, che Miranda, colei che sparisce e che ne ha la coscienza ancora prima che il fatto avvenga, non porti più il suo prezioso orologio. Spiega di averlo tolto perché ne detestava il ticchettio sopra il cuore, in realtà si può dire che non lo porta più per sottolineare che lei già appartiene al mondo altro. Per contrasto, proprio Irma, colei che ritorna dalla roccia ormai donna e pronta ad assumere il ruolo che la tradizione e la società le attribuiscono, commenta che porterebbe sempre l’orologio di Miranda, soprattutto se glielo avesse regalato qualcuno: Irma, infatti, fa parte dell’establishment. Immediato appare il collegamento con un’altra scuola, l’accademia di Welton, dove l’orologio simboleggia di nuovo la tradizione. Lo si trova sulle scale che portano all’ufficio del preside, custode di tale tradizione, ed incombe sui ragazzi attraverso i rintocchi delle campane. In Dead Poets, però, il tempo non si blocca, non c’è nessun fenomeno magnetico. “[...] Unlike Picnic, the clock does not stop and the establishment retains control, answering poetic misteries with crushing conformity [...]” 66. Significativamente, il preside, a differenza della signora Appleyard, non muore e anche se può aver perso l’appoggio di alcuni suoi studenti, di sicuro non ha perso quello dei loro genitori. Todd è tra gli studenti quello che più spesso viene visto in contrapposizione con orologi. Subito in apertura, quando gli altri discutono sul gruppo di studio e lo invitano a farne parte è visto nell’atto di sincronizzare la sua sveglia all’ora dell’accademia (in sottofondo si sente il rintocco delle campane). Mentre gli altri sono già in sintonia con il tempo di Welton, egli, essendo l’ultimo arrivato, non lo è ancora. Dopo la prima lezione di Keating, Todd seduto alla sua scrivania sta per mettersi a studiare Storia (la scelta della materia non si direbbe casuale), ma prima scrive su un foglio le parole “Seize the day”, cogli l’attimo. Il foglio su cui scrive occupa la maggior parte dell’inquadratura, ma sulla sinistra è ben visibile il suo orologio da polso posato sulla scrivania e in opposizione alle parole scritte: tradizione vs innovazione, quindi. Infine, 66 “[...] A differenza di quello che avviene in Picnic, l’orologio non si ferma e l’establishment mantiene il controllo, rispondendo ai misteri della poesia con una conformità schiacciante [...]”, J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 175.

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quando Todd sale le scale per raggiungere l’ufficio del preside dove dovrà firmare il documento che accusa Keating passa sotto l’orologio a muro presso cui Knox aveva aspettato il professore che doveva accompagnarlo a conoscere Chris. Todd e Knox sono quelli che meglio assimilano la lezione di Keating, riuscendo ad unire i due flussi temporali, cosa che Neil e Charlie, invece, non riescono a fare. Neil, Charlie e Keating, non sono mai visti in opposizione a orologi: loro appartengono al mondo altro. In The Plumber l’orologio è il mezzo tramite il quale Jill riesce a riconquistare la sua casa, la sua libertà, la sua tranquillità. Nascondendo nell’auto di Max il prezioso orologio che il marito le aveva regalato lo fa accusare di furto e se ne libera. L’orologio è il simbolo della tradizione, dell’immutabilità. Jill lo possiede perché glielo ha regalato Brian; Max ne è attratto e lei lo sa, infatti, ogni volta che esce se lo porta dietro e non lo lascia mai solo con l’idraulico. Max rappresenta una minaccia all’establishment, come si è già più volte detto, appartiene al mondo altro e non può possedere l’orologio. Per questo è interessante che la sua sconfitta sia data proprio dall’accusa di aver rubato il prezioso orologio che Brian aveva regalato alla moglie. Ancora una volta dallo scontro dei due flussi temporali esce vincitore quello della tradizione. Il parallelo con Green Card ovviamente è d’obbligo. Due sono le inquadrature in cui l’orologio è centrale in questo film. In entrambe, l’orologio appartiene a Bronte e in entrambe il collegamento con l’ufficio immigrazione è evidente. Nel primo caso Bronte sta aspettando l’arrivo di Georges, colui che proviene dal mondo altro e che non possiede un orologio: sono quasi le 18:00 e subito dopo l’arrivo di Georges sono attesi anche i due ufficiali dell’immigrazione. Nel secondo, Bronte e Georges stanno litigando quando Georges vede che sono quasi le 9:00 e che stanno per fare tardi all’appuntamento con gli ufficiali dell’immigrazione. Bronte è un’evoluzione del personaggio di Jill, così come Georges lo è del personaggio di Max. I due flussi temporali possono forse unirsi se, quando e nel luogo dove la coppia si unirà, ma dovrà essere Bronte a lasciare il mondo dove regna l’orologio e non viceversa. L’orologio-cronometro di Gallipoli porta con se tutta una serie di significati. È il filo diretto che collega Archy a suo zio, ma è anche tutto quello che Archy avrebbe potuto essere, un velocista di fama e

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talento, se non fosse partito per la guerra. Inoltre, funge da bussola e guida i due amici nell’attraversamento del deserto: come spiega Archy a Frank, “Se punti le 12:00 verso il sole, il nord è a metà strada fra la lancetta delle ore e il sole”. È importante che sia Archy a possedere questo strumento perché egli è il simbolo dell’establishment per eccellenza: tra i due è sicuramente il meno progressista e il più legato all’Impero; inoltre, come già detto, la sua storia può essere vista come la storia della nascita dell’Australia come nazione. Frank, a metà strada fra la figura dell’ocker e del larrikin, non può certo possedere un orologio: è sempre al verde, è spesso al limite della legalità ed è l’elemento più progressista della coppia; appartiene al tempo del mondo altro che è in contrasto con quello di Archy. Anche gli ufficiali che comandano le truppe possiedono orologi perché difensori dell’ordine precostituito. Non è da sottovalutare il fatto che gli orologi degli ufficiali britannici non siano sincronizzati con quelli degli ufficiali australiani perché, oltre a contribuire all’inutile massacro dei soldati Anzac, questa asincronia è figura dell’inesorabilità del processo storico che vede l’Australia allontanarsi sempre più dalla Gran Bretagna. In The Year i due flussi temporali che si scontrano sono quello della Storia, che rappresenta l’establishment, e quello dei sentimenti. Non c’è in questo film il simbolo dell’orologio, ma c’è il coprifuoco che incombe su tutti i personaggi, per cui la vita deve svolgersi dal mattino fino al suo scoccare. La storia d’amore fra Guy e Jill, lui australiano, lei inglese, comincia proprio al di là di questo limite, perché appartiene ad un mondo altro. A nulla serve che il colonnello rincorra la sua assistente per ricordarle che a Giacarta vige il coprifuoco. Non solo, il giorno dopo la fuga d’amore, Jill arriva in ritardo al lavoro perché ha infranto le regole della tradizione, la sua vita ora è scandita dal tempo del mondo altro. Così è fino a quando Guy non decide di pubblicare la notizia del carico di armi: a questo punto Jill rientra nell’establishment, come farà Guy salendo sull’ultimo aereo in partenza da Giacarta. In fondo, i personaggi interpretati da Mel Gibson, Frank e Guy, sono in corsa contro il tempo, il primo per salvare Archy, il secondo per salvare sé stesso: forse sono alla ricerca del punto di unione dei due flussi temporali. Witness introduce subito l’opposizione temporale presentandoci una sequenza d’apertura che rimanda ai film in costume ambientati nei

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secoli passati su cui si sovrappone la scritta “Pennsylvania 1984”. L’opposizione continua nelle scene ambientate a Philadelphia, dove Samuel, un po’ come succedeva a Todd, è spesso visto in contrapposizione ad orologi. La città possiede il tempo dell’establishment: la sequenza della stazione si apre, non a caso, con un’immagine al cui centro si trova un orologio. Spesso l’orologio della stazione incombe su Samuel mentre passeggia. Nella stazione Samuel è asincrono, così come lo è in polizia (anche lì c’è un orologio) e i suoi movimenti sembrano fuori tempo, più lenti, perché il suo tempo è quello del passato, mentre il tempo di Philadelphia è quello della modernità. Contemporaneamente, però, è l’unico personaggio del mondo altro ad essere visto in opposizione all’orologio, perché, come Todd, potrebbe fondere in sé i due tempi. Alla fattoria dei Lapp non c’è orologio e la vita della comunità è scandita dalle ore di sole: qui vige il tempo del mondo altro, che è un tempo bloccato che segue i cicli della natura 67. L’orologio di Allie, il protagonista di The Mosquito Coast, simboleggia quell’America che l’uomo ha deciso di abbandonare e che ad un certo punto egli dice essere stata distrutta. L’America possiede gli orologi perché suo è il tempo dell’establishment, mentre Geronimo, la spiaggia su cui Allie e la sua famiglia costruiscono un nuovo villaggio, la stessa regione di Mosquitia, costituiscono il mondo altro. Nel momento stesso in cui elimina mentalmente l’America dicendo che è stata distrutta, Allie sente anche il bisogno di liberarsi del suo simbolo, pertanto regala l’orologio a Eddie. Con questo gesto l’uomo sottolinea il suo voler appartenere al mondo altro. La marca dell’orologio è Omega. La scelta non sembra essere casuale perché, essendo la ventiquattresima e ultima lettera dell’alfabeto greco indica, nel lessico comune, la fine. Anche se qui non avviene, essa è spesso unita alla prima lettera dell’alfabeto greco, alfa, che, sempre nel lessico comune, indica un inizio. In questo film l’alfa non viene citata ma per un processo di associazione non è difficile che essa venga comunque alla mente dello spettatore. Per Allie e la sua famiglia questa sequenza rappresenta una fine, ma anche un inizio; così come per Eddie che accetta l’orologio e lo scambia per una nuova barca a vela: egli non appartiene all’America e quindi non ha bisogno del suo simbolo. Per lui il tempo, come per gli Amish, 67

Cfr. II.4.1, nota 65.

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è scandito dal percorso del sole. In The Truman Show si considererà il mondo in cui vive Truman come mondo altro. Non ci sono orologi, né Truman è visto in opposizione ad essi. Il mondo fuori dal set costituisce l’establishment e la figura dell’orologio è rimpiazzata dai cartelli con il numero dei giorni di messa in onda: il tempo, quindi, è scandito dal passare delle giornate di show. Cosa succederà al tempo quando lo show finirà? Per quanto riguarda il tempo del mondo di Truman, si potrebbe quasi dire che segue un suo corso naturale di alternanza tra giorno e notte, di lavoro, svago e riposo, un po’ come avveniva nel mondo Amish. Questo è vero solo fino a quando Christof, per necessità di studio, non interviene sul tempo facendo sorgere il sole quando ancora dovrebbe essere notte. Tutti ne rimangono stupiti e si chiedono che ore sono, ad eccezione di Truman per il quale il tempo sembra diventato irrilevante. Forse in questo momento anch’egli sta vivendo, come le ragazze scomparse sulla roccia, in un universo senza tempo, o in cui il tempo si è bloccato. 2.4.2. The Last Wave e Fearless Il tempo in The Last Wave rispecchia il concetto che di esso hanno gli aborigeni: il tempo nel film non sembra avere due flussi in contrasto tra loro, ma sembra quello dell’età dei sogni, “[...] un Tempo dove immaginario e reale sono ancora confusi e intrecciati [...]” 68 (lo stesso vale per Fearless). Non ci sono orologi, si ha l’alternarsi di giorno e notte, sembra quasi un tempo mitico, un tempo al di fuori del tempo. Per gli aborigeni, come per molte popolazioni primitive, il tempo è ciclico e la struttura del tempo nel film di Weir è ciclica nel senso che c’è un continuo ritorno. Infatti, tutta una serie di cose che succedono nella prima parte del film ritornano nella seconda. Lo spartiacque è la seconda visita che David fa a Charlie e durante la quale trova la casa vuota. Forniamo alcuni esempi:

68 E. Girlanda, “Lo sguardo bambino”, in Peter Weir - Un cinema vissuto pericolosamente, N. Panzera e C. Marabello (a cura di), op. cit., p. 40.

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PRIMA DELLA SECONDA VISITA A CHARLIE allagamento delle scale della casa per straripamento della vasca da bagno Billy esce dalle fogne David sogna Charlie che gli offre una pietra

DOPO LA SECONDA VISITA A CHARLIE allagamento della casa per la tempesta David esce dalle fogne Charlie offre una pietra a David

Questi continui ritorni simboleggiano il viaggio che la mente di David compie per riuscire a giungere alla conoscenza. In effetti, il tempo sembra non procedere mai proprio perché le immagini e le situazioni non si evolvono, ma ritornano: sembra quasi di essere imprigionati in una sacca temporale. Il tempo di Fearless, come quello di The Last Wave, è circolare. Non si hanno due diversi flussi temporali che si oppongono: si ha un’unica dimensione in cui il tempo sembra annullato, bloccato. Max appare sospeso in una specie di limbo in cui il tempo sembra bloccato e l’unica notazione temporale che dice che dal disastro aereo sono passati tre mesi è assolutamente irrilevante. Il tempo sembra essere scandito dal funzionare della mente di Max che a poco a poco recupera i vari momenti dell’incidente procedendo per accumulo. Anche in questo caso c’è un ripetersi quantomeno di situazioni durante le quali Max mette in pericolo se stesso, tutte quante collegate al recupero della memoria dell’incidente. Come già detto, anche questo film ha una struttura ciclica e ripropone la visione che del tempo hanno gli aborigeni. Anzi, si potrebbe quasi dire che ne è una rappresentazione. Assumendo Max e Carla a simbolo dell’umanità, il disastro aereo è come l’ultima onda che termina un ciclo e ne inizia uno nuovo durante il quale i due vivono sospesi in un tempo simile al dream time, dove immaginario e reale si mescolano; ma anche questo ciclo è destinato a finire per mezzo di un evento violento e potenzialmente distruttivo e ancora una volta, dopo la morte, la rinascita. Anche se la struttura dei due film è diversa, il parallelo con The Last Wave è abbastanza evidente. Si veda, per concludere, il procedere parallelo delle indagini mentali di David e Max sulle quali si struttura il flusso temporale delle due pellicole: Tiziana Battaglia - Il cinema di Peter Weir http://www.ledonline.it/ledonline/battaglia.html

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THE LAST WAVE Sogni premonitori di David continua ricerca della conoscenza che porta alla morte visione dell’ultima onda

FEARLESS flashback di Max (e Carla) continuo rischiare la vita di Max disastro aereo, incidente in auto, reazione allergica alla fragola

2.5. LA NATURA L’importanza della natura nella filmografia di Weir è stata più volte notata e discussa. Lo stesso regista ammette di essere cresciuto in un mondo in cui la cultura (così come la intendiamo noi europei) era presente solo nei libri; per Weir, che fin da bambino ha vissuto a stretto contatto con la natura australiana, essa ha rappresentato la cultura e l’arte almeno fino a quando, durante il suo primo viaggio in Europa nel 1965, la cultura non si è materializzata davanti ai suoi occhi attraverso siti archeologici e musei 69. In questa sede la natura verrà analizzata in quelle che sembrano le tre funzioni principali che essa assume nella produzione del regista: la natura come attore, come setting e quella che si può chiamare natura urbanizzata. 2.5.1. La natura come attore70 Sono tre i film di Weir nei quali, se si togliesse l’elemento naturale, la trama perderebbe in logicità e in credibilità e in tutti e tre l’elemento 69

bre 1999.

Cfr. conferenza stampa presso il cinema Anteo (Milano) del 30 novem-

70 Seymour Chatman riporta le teorie di Robert Liddell sul modo in cui l’ambiente naturale si collega all’intreccio e al personaggio. In particolare il tipo di ambiente naturale definito simbolico sottolinea strette relazioni con l’azione per cui l’ambiente non è neutrale, ma simile all’azione. Cfr. S. Chatman, Storia e discorso, op. cit., p. 149.

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naturale protagonista è annunciato dal titolo. In Picnic l’importanza della natura, e in particolare dell’elemento che nel film la simboleggia, è stabilita dalle inquadrature iniziali che mostrano l’alba sulla roccia accompagnata dal cinguettio degli uccelli. La natura in questo film è rappresentata proprio da Hanging Rock e dalla campagna che si estende intorno ad essa e in cui la presenza umana è pressoché inesistente o insignificante. Il collegio nella sua totalità non è mai visto in primo piano, non occupa mai l’intera inquadratura. La sua struttura è vista in campo medio; tra esso e la macchina da presa si interpongono ora i prati ora gli alberi: insomma, il collegio deve sempre spartire l’inquadratura con la natura (anche se si tratta di quella tenuta sotto controllo dall’uomo) quasi a sottolineare la sconfitta che la natura, in particolare Hanging Rock, infliggerà all’Appleyard College. La roccia soprattutto, ma anche la campagna australiana, occupa spesso diverse inquadrature senza dividerle con altri e quando lo fa l’elemento umano è minuscolo di fronte alla loro grandezza, come accade durante il viaggio che dal collegio porta le ragazze alla roccia: la carrozza è vista come un puntino in mezzo alla distesa dei campi 71. Hanging Rock appare sempre enorme nei confronti degli umani che vengono spesso paragonati a formiche (è tipico del film instaurare queste equivalenze uomo animali: ad esempio, Miranda è associata agli uccelli e ai cigni, Sarah a un cerbiatto). Durante la loro ascesa alcune ragazze scompaiono assorbite dalla natura che le aveva attirate lì e il segreto non verrà svelato agli uomini perché depositaria ne è la natura stessa. Un uccello e un koala sembrano osservare Albert e Mike (soprattutto quest’ultimo) durante la loro ricerca sulla roccia; anzi, Mike scambia uno sguardo pieno di domande con un lucertolone che incontra quando ormai è quasi in cima alla roccia: il suo sguardo rimanda a quello del sergente che guarda interrogativamente il cane il quale, durante le ricerche condotte dalla polizia, abbaia in direzione della cima della roccia. Gli animali sanno, dunque. Infine è interessante notare le angolazioni di ripresa usate nelle inquadrature della roccia: sono spesso inquadrature oblique dal 71 Il paesaggio esprime lo spirito dell’Australia, di una terra in cui un gruppo di anglosassoni si sono trovati a lottare contro forze sconosciute e in cui hanno imparato a sopravvivere contando solo su loro stessi. Cfr. I.1 oppure M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 34.

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basso, quando non sono supine. In questo modo si conferisce ad Hanging Rock una maggiore imponenza che contrasta con la piccolezza dell’elemento umano spesso schiacciato in un’inquadratura a piombo. La natura insomma viene trattata narrativamente come un personaggio di primo piano nella storia. In The Last Wave la natura prende la forma del tempo atmosferico e in particolare dell’acqua. È uno dei protagonisti fondamentali del film, presente fin dalla sequenza iniziale, e non solo perché durante tutto lo svolgimento lo spettatore si aspetta di conoscere il motivo delle anomalie atmosferiche. La pioggia è quasi onnipresente sia nella realtà che nei sogni ed è interessante che pochi attimi prima dell’uccisione di Billy la pioggia smetta di colpo e quasi innaturalmente di cadere. La pioggia è lì sempre presente nella mente di David e fuori dalla sua casa; anche quando non la si vede se ne sente il rumore. La casa di David è assediata dalla natura 72: l’esito dell’assedio è noto fin dall’inizio quando si vede l’acqua scivolare giù dalle scale. La vasca da bagno è straripata perché qualcuno ha lasciato i rubinetti aperti dopo aver tappato il buco di scarico; presumibilmente sono state le bambine anche se loro lo negano. Il fatto è che la natura è già entrata nella casa e lo farà ancora senza poter mai essere efficacemente contrastata. Ad esempio, quando David e Annie tornano a casa dopo essere stati a cena fuori, la donna in preda ad un crisi isterica corre per la casa a chiudere le porte. Fuori c’è una tempesta con pioggia e vento. Annie qui riesce nel suo intento di tenere fuori dalla sua casa la natura, non ci riuscirà David al ritorno dalla sua seconda visita a Charlie. La casa ormai è invasa dall’acqua, la porta che prima Annie aveva chiuso viene sfondata da un albero e anche una finestra viene spalancata da rami frondosi, non c’è più la luce, lungo le scale non solo cola l’acqua, ma ci sono anche rami d’albero, il tutto sotto lo sguardo attento (qui come in Picnic) di un gufo, o forse di Charlie (in precedenza Chris aveva detto che Charlie poteva essere molte cose, anche un gufo). La natura, qui come in Picnic, ha vinto; cosa rimarrebbe del film se essa venisse eliminata dalla narrazione? Quasi nulla, neppure il titolo. Infine, anche in The Mosquito Coast la natura, l’ambiente in cui ha luogo l’azione è assolutamente protagonista: esso è l’antagonista di Al72

Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., pp. 77-78.

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lie, il film sembra quasi una partita a scacchi tra i due. Nei primi minuti viene presentata la natura americana fatta di campi arati e alberi: è una natura ordinata da cui Allie sente di dover fuggire per andare verso una natura selvaggia. Giunto a Mosquitia risale il fiume con una barca. Anche qui, come in Picnic, la natura è enorme a confronto dell’uomo: in mezzo alla natura di Geronimo gli uomini sono schiacciati in inquadrature oblique dall’alto. Nelle inquadrature sulla giungla la macchina da presa è appena più alta rispetto alle cime degli alberi. Geronimo è un piccolo paradiso all’interno della giungla e dopo una panoramica da sinistra verso destra, un breve dolly discendente ci porta all’altezza di Geronimo per poi mostrarci alcune inquadrature fisse (sembrano diapositive) di come Allie ha trasformato la città: come quella americana, questa natura è un susseguirsi ordinato di campi arati. La macchina per fare il ghiaccio ha la stessa statura della foresta, spunta dalla cima degli alberi e quindi le vengono dedicate le stesse inquadrature della giungla. A questo punto la natura però da spettatrice passiva diventa attrice. Ha tollerato Allie finché è stato ai suoi margini, ma quando egli penetra nella sua intimità, cioè nel cuore della giungla, per portare il ghiaccio ad una popolazione indigena che probabilmente non ha mai visto l’uomo bianco, la sua presunzione viene punita e la natura manda a Geronimo come nemesi tre fuorilegge ispanici, liberandosi allo stesso tempo di essi 73. Allie riesce ad ucciderli rinchiudendoli nella macchina del ghiaccio, ma la loro reazione provoca l’esplosione dell’invenzione. Secondo Allie i tre avrebbero dovuto stare distesi ad aspettare la morte, la loro reazione è imprevista, così come la natura, della cui forza distruttrice essi sono personificazione, è sempre imprevedibile. La famiglia ridiscende il fiume e si stabilisce sulla riva del mare. Ormai però la natura è loro avversa e si fa protagonista della loro rovina; il nuovo insediamento viene spazzato da una tempesta durante la quale la barca su cui si trovano è in balia delle forze naturali che a volte la cancellano totalmente alla vista. Anche se Allie continua nella sua sfida alla natura, ormai ha perso: voleva dominarla creando una sorta di “civiltà superiore”, il risultato è stato una ribellione della natura che nella sua imprevedibilità ha mostrato la piccolezza e la fallibilità dell’uomo quando si crede invincibile. 73

Cfr. K. Connolly, “The Mosquito Coast”, Cinema Papers, January 1987, p. 35.

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2.5.2. La natura come setting Scrive Seymour Chatman: “[...] Funzione normale e forse principale dell’ambiente è di contribuire a rendere lo stato d’animo della narrativa [...]” 74. Si analizzeranno qui i film di Weir nei quali l’ambiente, in particolare quello naturale, svolge questa funzione per vedere in che modo contribuisce alla creazione dell’atmosfera del film. In The Cars l’ambiente in cui si svolge la narrazione è un tranquillo paese, Paris, immerso in una campagna dall’aspetto pacifico e rilassante. Da subito si instaura un contrasto fra il paesaggio e quello che di sinistro avviene a Paris. Dopo il primo incidente, un dolly ascendente fornisce una panoramica della campagna australiana in cui è avvenuto l’incidente mortale: quello che si vede è un paesaggio bucolico che infonde calma e serenità in cui però avvengono strani incidenti che portano alla morte molte persone. Arthur e George sono le nuove vittime e George muore. L’inquadratura successiva all’incidente mostra Paris all’alba: sembra una cartolina ed è un’immagine fondamentale per Weir 75. A questo punto si può dire che l’atmosfera del film è data dal contrasto tra il tranquillo ambiente naturale e le attività di sciacallaggio compiute dagli abitanti di Paris. Il dottore dice che la scienza progredisce di più in campagna che in città perché in campagna si può sperimentare meglio: la campagna ha lanciato una sfida verso la città. La natura isola e protegge Paris da occhi indiscreti circondandola con un ambiente armonico e pacifico, in un certo senso è complice dei suoi abitanti, contribuisce alla creazione dell’atmosfera di mistero tipica del film. Paris potrebbe esistere così come potrebbe essere un paese fantasma: il fatto che sia immerso in un ambiente naturale non ben definito lo decontestualizza. Paris potrebbe trovarsi ovunque e le sue strade di campagna potrebbero portare ovunque oppure in nessun luogo: Arthur viene sempre bloccato nella sua fuga da macchine che gli sbarrano la strada o che lo inseguono. Nella sequenza finale riesce a mettersi per strada alla guida della sua auto e, come accade ai protagonisti 74 75

S. Chatman, Storia e discorso, op. cit., p. 147. Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 38.

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di Mad Max 76 o di In the Mouth of Madness (diretti rispettivamente da George Miller e da John Carpenter), in piena notte si dirige verso un luogo. Ma esiste veramente un luogo verso cui dirigersi? David Lynch e il suo Lost Highways insegnano. Per Gallipoli l’ambiente naturale è il deserto 77, sia esso quello australiano, quello egiziano o quello turco. Da subito si costruisce lo stato d’animo del racconto contrapponendo l’uomo al deserto. Nella convivenza fra i due (come abbiamo già detto al § 1.1), l’uomo sfida l’ambiente e cerca di piegarlo ai suoi bisogni: è una sfida, una gara per la sopravvivenza. In tutto il film, quindi, l’ambiente fornisce la collocazione geografica e ribadisce continuamente la dimensione di sfida e di gara che permea tutta la pellicola e che ne costituisce uno dei temi portanti. Nella sequenza d’apertura, al duro lavoro del cowboy australiano 78 si contrappone la sfida che implica una corsa attraverso i campi e il deserto fino alla fattoria. Archy deve correre a piedi, scalzo, mentre Les cavalca a pelo. Il ragazzo non sfida solo un uomo, sfida l’ambiente naturale rappresentato dal terreno su cui i suoi piedi correranno ma anche dal cavallo. Archy sconfigge la natura qui e anche quando decide di attraversare il deserto invece di aspettare il treno successivo per Perth, ma non può sconfiggere il suo destino né la follia della guerra: la sua morte sarà, quindi, inevitabile. Anche in Witness l’ambiente naturale fornisce lo sfondo su cui avrà luogo la vicenda e crea lo stato d’animo. Gli Amish spuntano dall’erba mossa dal vento, per cui fin dall’inizio si stabilisce il loro modo di vivere in comunione con la natura. La loro è una vita pacifica, semplice, fatta di valori legati alla famiglia e alla comunità 79. L’ambiente 76 Marek Haltof fa notare come questo lungometraggio di Weir preannunci l’epopea dell’eroe solitario Mad Max, cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 16. Per un confronto fra The Cars that Ate Paris e Mad Max cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., pp. 44, 46-47. 77 Marek Haltof fa notare come il direttore della fotografia Russell Boyd con le sue scelte enfatizzi proprio la vuotezza del paesaggio, cfr. M. Haltof, op. cit., p. 53. 78 È importante la dicotomia che Weir crea nel film facendo provenire Archy dal mondo della prateria e dell’allevamento e Frank dalla città. cfr. M. Sesti, “Peter Weir e il vuoto della ragione”, Bianco e Nero, n° 4, 1985, p. 65. 79 Cfr. M. Sesti, “Peter Weir e il vuoto della ragione”, Bianco e Nero, n° 4,

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del mondo Amish porta sempre con sé quest’atmosfera. La sequenza iniziale e quella finale sono in un certo senso speculari: nella prima la comunità spuntava dall’erba per unirsi al dolore della famiglia Lapp; nella seconda la comunità spunta di nuovo dall’erba per correre in aiuto ai Lapp in pericolo. La campagna della Pennsylvania sottolinea proprio questa armonia e questa unione dell’uomo alla natura, quello che manca invece all’ambiente di Philadelphia: in città il verde è pressoché assente, c’è caos (come nella New York di Green Card), non c’è armonia, né il senso dalla famiglia, né quello della comunità. Gli uomini sono soli: Book non è sposato, sua sorella è senza marito e cambia gli uomini in continuazione. In Dead Poets l’ambiente naturale serve a collocare l’accademia di Welton 80 in un luogo di campagna non meglio determinato, come accadeva per Paris, quindi Welton potrebbe trovarsi in qualsiasi luogo così come potrebbe anche non esistere. L’ambiente qui serve anche per sottolineare il passare del tempo per cui in apertura si è in autunno, mentre alla fine si è in inverno. Quasi tutto il film si svolge in autunno: le avventure dei ragazzi che grazie a Keating scoprono la gioia di vivere la loro vita al meglio sono accompagnate da immagini di una natura che sta per andare in letargo, ma che è straordinariamente bella nei suoi variegati colori, immersa nei caldi raggi del sole, turbata appena dal volo di uccelli spaventati ora dal suono delle campane, ora dalla bicicletta di Knox 81. Lo stato d’animo che questo ambiente sottolinea è simile a quello di Witness: anche qui si è di fronte ad una comunità isolata dal resto del mondo e in qualche modo privilegiata, in cui regna l’armonia e lo spirito di gruppo. L’autunno inevitabilmente si evolve in un inverno freddo e nevoso e lo stato d’animo del racconto cambia quasi all’improvviso 82. Così come la neve opprime la natura, la schiaccia sotto il suo peso e le impone un periodo di letargo, una specie di morte apparente, anche la vita dei ragazzi viene soffocata dalla tradi1985, p. 68. 80 Cfr. E. Comuzio, “L’attimo fuggente”, Cineforum, Ottobre 1989, p, 86 81 Marek Haltof sottolinea come le attività degli studenti si intreccino con immagini dell’ambiente naturale in cui è immersa l’accademia, cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 111. 82 Cfr. B. McFarlane, “Dead Poets Society”, Cinema Papers, September 1989, p. 58.

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zione. Charlie viene espulso, Neil muore e Keating deve lasciare la cattedra di Welton. L’atmosfera si è fatta pesante non solo per gli studenti, ma anche per lo spettatore. È emblematica a questo proposito la sequenza in cui Todd esce da Welton dopo aver saputo del suicidio di Neil. Il panorama che vede è ancora di straordinaria bellezza, ma è anche molto triste. Tutto è bianco, ricoperto di neve e il cielo incombe sulla campagna schiacciando i ragazzi tra due elementi indistinguibili perché dello stesso colore. Nevica; anche l’ambiente naturale, così come i ragazzi e lo spettatore, sembra piangere per la morte di Neil e per tutto quello che essa implica. 2.5.3. La natura urbanizzata In alcuni film di Weir l’ambiente naturale in quanto tale è assente e viene sostituito dall’ambiente urbano. Là dove non c’è la natura in senso stretto manca anche ai personaggi la capacità di relazionarsi con successo fra di loro. Green Card introduce il verde, colore della natura per eccellenza, fin dal titolo; ma la natura della storia è artificiale sia essa quella della serra dell’appartamento di Bronte, quella che Bronte e il suo gruppo costruiscono nelle zone povere della città o quella di Central Park. Non si può mai dimenticare che la storia ha luogo a New York, la città per eccellenza. La mancanza di verde naturale implica una certa aridità di sentimento. Bronte ama le sue piante, la sua serra, il suo lavoro nelle zone povere, ma è incapace di amare con passione. Georges la paragona ad un cactus, cioè ad una pianta capace di vivere in territori molto aridi. La conferma della nascita dell’amore tra i due avviene, non a caso, in sequenze ambientate a Central Park, un parco ideato e costruito dall’uomo in cui però si può facilmente dimenticare di essere nel bel mezzo di Manhattan. Non solo, il parco si trova a metà tra l’appartamento, territorio di Bronte, e la città, territorio di Georges 83. Là dove non c’è l’elemento naturale non c’è neanche la profondità di un sentimento d’affetto che permetta ai personaggi di interagire armoniosamente (ricordiamo che l’amore fra Rachel e Book in Witness non 83

Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 189.

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si sviluppa a Philadelphia, ma nelle zone rurali della Pennsylvania). Il parallelo con The Plumber è, ovviamente, d’obbligo. In questo caso lo spettatore si trova di fronte ad un film in cui la natura è totalmente assente dal momento che si svolge tutto all’interno di un appartamento. Jill non riesce a interagire con Max, lo percepisce come una minaccia; allo stesso tempo però è incapace di comunicare con suo marito. Anche lei, come Bronte, è chiusa nel suo universo accademico ed è incapace di vivere in armonia con il diverso. Non riesce ad avere altri sentimenti se non il desiderio che la sua vita continui senza turbamenti. Esempio chiaro di questo ne è la storia che racconta al marito del suo incontro con lo sciamano: totalmente incapace di reagire in maniera costruttiva attacca l’avversario con l’intenzione di distruggerlo; farà lo stesso con Max a differenza di Bronte che verrà sconfitta da Georges. Anche in The Year alla mancanza dell’elemento naturale sembra corrispondere l’artificiosità nelle relazioni umane. Marek Haltof ipotizza la sostituzione della natura con l’ambientazione asiatica 84, luogo irrazionale, regno dell’indeterminato e della contraddizione. Tutti all’interno del film stanno con gli altri per interessi, tutti sfruttano e sono sfruttati, tutti sono allo stesso tempo burattinai e burattini: Sukarno con il suo popolo; i giornalisti occidentali con le donne e i ragazzini. Billy, l’unico che crede alle relazioni umane e che vive in una parte di città dove c’è una parvenza di natura, verrà deluso nelle sue aspettative e condotto al suicidio. Guy, invece, mette a rischio il suo rapporto con Jill per realizzare uno scoop che gli permetta di avanzare nella sua carriera. Lo stesso si può dire per Fearless: in una San Francisco in cui non c’è l’elemento naturale, Max smarrisce la via e confonde gli affetti. Passa molto più tempo con Byron che non con suo figlio, dice di amare Carla mentre dovrebbe amare sua moglie Laura. Che egli sia incapace di avere dei normali rapporti interpersonali è detto da Carla a Laura: quello che lui aveva preso per amore per Carla non è altro che una splendida amicizia. La natura urbana, qui come altrove, è ancora una volta sinonimo di “deserto emotivo” 85. Ultimo della serie di personaggi incapaci di interagire con gli altri 84 85

Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 69. D. Catelli, “Fearless”, Segnocinema, Maggio - Giugno 1994, p. 43.

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è il protagonista di The Truman Show. Per lui però bisogna fare dei distinguo di notevole importanza. Seahaven presenta una natura: c’è il mare, c’è la foresta. Tutto però è altamente artificiale perché ricostruito all’interno di uno studio. Dal deserto emotivo si passa alla più assoluta assenza di emotività. Pertanto, anche tutti i rapporti umani all’interno del racconto sono assolutamente artificiali, stanno in piedi per adempiere ai bisogni del copione, dell’audience. Anche Truman se ne rende conto: ad esempio, guardando le foto del suo matrimonio vede Meryl che incrocia le dita mentre lo bacia; oppure, dopo la sua tentata fuga attraverso i boschi in prossimità della centrale nucleare ammette di aver capito che lei lo odia. L’unico rapporto vero e fecondo non può chiaramente consumarsi all’interno di questo mondo sintetico. L’amore che lega Truman e Sylvia è stato ostacolato perché non previsto e non artificiale, potrà coronarsi solo al di fuori del mondo artificiale di Seahaven.

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3. ASPETTI TECNICI

3.1. PRIMO PIANO E “FERITE VISIVE” 1 [...] La linearità del plot è spesso scalfita in Weir – oltre che dal lavoro sul tempo – anche dall’improvviso manifestarsi di vere e proprie ferite visive. Raramente si tratta di flashback [...] Sono allora – piuttosto – sogni, visioni, premonizioni, o slittamenti semantici verso forme di visibilità “diversa” (e – per così dire – archetipica) che “forano” il plot weiriano e ne frantumano la linearità. 2

Tutti i film di Weir presentano, per usare la bella definizione appena data, “ferite visive”, momenti in cui la linearità del racconto, ammesso che di linearità si possa parlare per il cinema di Weir, viene interrotta per fornirci una visione che non fa avanzare la storia ma che la arricchisce di infinite sfumature, a volte colma dei vuoti, altre volte crea delle aspettative. Queste ferite non sono solo visive, ma anche verbali: in quest’ultimo caso il regista non ci propone direttamente delle immagini sullo schermo, ma le evoca nella nostra mente tramite le parole. In 1 Cfr. G. Canova, “Frames from Australia”, in N. Panzera e C. Marabello (a cura di), Peter Weir - Un cinema vissuto pericolosamente, Centro Studi Cinematografici, Taormina Arte, 1987, p. 19. Per Daniela Catelli il primo piano in Weir è una rivoluzione espressiva, una nuova forma d’arte; rimuove le barriere fra l’oggetto acculturato e la macchina da presa per ritrovare la nudità e l’innocenza proprie dei bambini fino ad una certa età e delle culture tribali quando si trovano per la prima volta davanti ad un obiettivo cfr. D. Catelli, “Fearless”, Segnocinema, Maggio - Giugno 1994, p. 42. 2 G. Canova, “Frames from Australia”, in N. Panzera e C. Marabello (a cura di), op. cit., p. 19.

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entrambi i casi, immediatamente prima o, a volte, immediatamente dopo il presentarsi di questi squarci, si ha il primo piano di un personaggio. Certamente non è una nuova tecnica rappresentativa: il primo piano indica allo spettatore a quale personaggio attribuire la visione, le parole; sottolinea lo stato d’animo. Allo stesso tempo, però, isola dallo sfondo quei personaggi che assumono un ruolo di fondamentale importanza per l’economia della storia, quei personaggi per cui Weir tenta di eliminare le barriere che si frappongono fra essi e la macchina da presa. Si tratteranno, quindi, separatamente e in dettaglio prima le “ferite visive” e successivamente quelle che qui verranno chiamate “ferite verbali.” 3.1.1. “Ferite visive” In questo gruppo saranno inclusi tutti quei film in cui la linearità narrativa e temporale viene interrotta da visioni, sogni, flashback che il regista racconta attraverso immagini che scorrono sullo schermo. “La vita è sogno, soltanto sogno. Il sogno di un sogno.” Questa è la prima battuta pronunciata da Miranda in Picnic e immediatamente crea l’atmosfera onirica tipica del film: infatti, per usare le parole di Marek Haltof, “Picnic at Hanging Rock is replete with dream images” 3. Da subito, quindi, si crea un cortocircuito nella linearità perché le parole di Miranda sono seguite da un primo piano del suo volto al risveglio. Viene dunque da chiedersi se il pensiero di Miranda non sia in realtà un sogno, oppure se le sue parole non siano solo le prime di una lunga serie che riecheggerà durante il film. Uno dei tanti sogni di cui è composta la vita, secondo il credo di Miranda, è quello che fa Michael durante la ricerca delle ragazze scomparse. Su un primo piano del suo volto si sovrappongono prima le voci che ripropongono le battute salienti del picnic, poi le immagini di Miranda, Marion e Irma che scompaiono in uno dei crepacci della roccia, infine il primo piano di Edith che urla seguito dal brusco risveglio del ragazzo. Per lo spettatore queste immagini sono un flashback: sono già state viste e le parole sono già 3 “Picnic a Hanging Rock è zeppo di immagini oniriche”, M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, Twayne Publishers, New York, 1996, p. 35.

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Aspetti tecnici

state udite. Allo stesso tempo, però, il primo piano su Michael suggerisce di attribuire le immagini alla mente del ragazzo facendole diventare un delirio, una visione, visto che, per la coerenza della narrazione, egli quelle immagini non può averle viste. Lo stesso tipo di cortocircuito narrativo lo si può riscontrare nel flashback che, nella sequenza finale, ripropone le immagini in slow motion del picnic. Sono precedute da un primo piano della signora Appleyard su cui la voce off comunica l’avvenuta morte della donna ai piedi della roccia. A questo punto, mentre la voce off dice che le ricerche delle persone scomparse sono proseguite per parecchi anni, ma senza nessun risultato, partono le immagini che, quindi, dovrebbero essere attribuite alla mente della direttrice (il suo primo piano le precede), la quale però non le ha mai viste prima, non avendo preso parte al picnic. Se per lo spettatore sono un flashback, per la donna sono una visione, ammettendo che sia la sua mente a produrle. Inoltre, non si può trascurare l’ulteriore confusione creata dal fatto che la signora Appleyard è morta così come è detto dalla voce fuori campo, mentre il primo piano che di lei appare sullo schermo la ritrae ancora in vita, nonostante il suo funereo abbigliamento. È infine interessante notare come il primo piano di Miranda e l’immagine a lei collegata del cigno ritornino più volte durante il film, anche dopo la sua scomparsa, creando una sospensione temporale, una sorta di incongruità. La maggior parte delle volte è la mente di Michael a produrre quest’immagine, ma non è l’unica visto che Miranda è una presenza/assenza che perseguita in modo più o meno marcato tutti i personaggi. In The Year, l’incubo-rivelazione che Guy fa durante il riposo nella villa olandese è seguito, non preceduto, da un primo piano del volto del giornalista. Il sogno potrebbe essere l’ideale prosecuzione della sequenza in cui l’abbiamo visto osservare Tiger Lily che si tuffa in piscina, se non ci fosse l’interruzione data da un’inquadratura a piombo sul corpo di Guy steso a riposare. Dopo uno stacco di montaggio, la macchina da presa si trova all’altezza del letto su cui giace l’uomo e compie un lento movimento in avanti per scoprire parte del volto che fino ad ora, insieme ai piedi, è stato escluso dalle inquadrature. Non è un primo piano, ma una mezza figura di Guy: da qui prende il via il sogno. In realtà a questo punto non c’è modo di sapere se si tratta di un flashback, di un sogno, di una premonizione. Bisogna attendere il mo-

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mento del risveglio del giornalista perché il dubbio venga dissipato: si è trattato di un incubo con funzione di rivelazione, ma per alcuni istanti, anche in questo caso, si è avuto uno slittamento della linearità narrativa/temporale. The Truman Show presenta due “ferite visive” che non possono essere altro che flashback. Nel primo, Truman è seduto in riva al mare e ricorda la morte per annegamento del padre. Non ci sono dubbi qui sul fatto che le immagini siano frutto della sua mente: non solo perché è l’unico testimone ancora in vita di quel tragico incidente, ma soprattutto perché la sequenza è aperta e chiusa da una sua immagine (rispettivamente, una figura intera e un primo piano). Da notare che la sequenza viene narrativamente divisa in due parti: nella prima si narra la decisione, sollecitata da Truman bambino, di rimanere in mare nonostante il tempo stia peggiorando, nella seconda viene rappresentata la tragedia. Lo spartiacque fra le due metà è fornito da un primo piano di Truman mentre ricorda, su cui si sovrappone il rombo di un tuono. Ed ecco il cortocircuito: quel tuono a quale mondo apparteneva? L’ha sentito Truman nella sua testa come parte dei suoi ricordi oppure l’ha sentito a Seahaven? Infatti, non appena termina la sequenza del flashback, scoppia un violento temporale proprio sopra Truman, o forse è l’inizio del temporale ad interrompere il ricordo? Ancora più interessante il secondo flashback. Anche qui la sequenza si apre e si chiude con due immagini di Truman molto simili a quelle del flashback precedente (una figura intera di Truman seduto e un primo piano). Tra Truman e i suoi ricordi, però, abbiamo sia all’inizio che alla fine un’immagine cuscinetto: le cameriere del Truman Bar che stanno guardando lo show. L’incongruità in questo caso si crea nel momento in cui, attraverso la TV del bar, si vede l’immagine di Truman dissolversi per lasciare spazio alle immagini del flashback. Chi le ha prodotte? La mente di Truman o la regia dello show? Coerentemente con la storia, queste domande si possono porre anche per il primo flashback e quindi la linearità del racconto viene immediatamente cortocircuitata. È significativo che solo adesso, e non prima, le azioni di Truman vengano sempre più interrotte da immagini degli spettatori dello show oppure da immagini dello studio televisivo (la struttura di questa sequenza ne è un buon esempio). Il seme del dubbio è stato piantato in Truman e questo continuo passare da un piano all’altro non permette allo spettatore extradiegetico

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di dimenticarsi che si trova di fronte ad un raffinato gioco di scatole cinesi. Se l’immagine del personaggio che precede il flashback serve ad indicare chi è che lo sta immaginando, ma serve anche per produrre immedesimazione, con chi si deve immedesimare lo spettatore extradiegetico? Con Truman o con le cameriere? E se con il primo piano Weir tenta di “filmare l’anima”, allora il fatto che il ricordo di Truman ci giunga filtrato da uno schermo (che spesso si trova in primo piano) vuol forse dire che Weir sta cercando di filmare l’anima dello spettacolo, ammesso che ne abbia una? Particolarmente interessanti per la quantità di “ferite visive” che presentano sono due film realizzati a diciassette anni di distanza l’uno dall’altro eppure, per molti versi, simili tra loro: The Last Wave e Fearless. Per quanto riguarda il primo, il film è continuamente interrotto da sogni-visioni (sei in tutto) che spesso è difficile individuare come tali, tanto da far scrivere a Marek Haltof che il protagonista “[...] caught between two worlds, the worlds of dream and reality, [he] is incapable of distinguishing between them [...]” 4. I primi tre sono sogni che David fa, ma in tutti è difficile capire che si tratta di un sogno fino al momento del risveglio di David. Nel primo, ad esempio, si vede David in piedi davanti a una finestra mentre osserva un aborigeno sotto la pioggia; fino al momento del suo brusco risveglio non è dato sapere se l’immagine sia o no di origine onirica. Il secondo, in cui vede Chris che gli offre una pietra, ha una struttura più complessa, a scatole cinesi: David sta sognando un nubifragio in cui piovono rane; si sveglia e vede Chris che gli offre una pietra; ma a questo punto si sveglia ancora: nel suo sogno ha sognato di sognare. È ancora forte qui il ricordo delle parole di Miranda: “La vita è sogno, soltanto sogno. Il sogno di un sogno.” Così come non sbaglia Marek Haltof quando dice che The Last Wave ha la struttura di un sogno 5. Ancora più complessa è la struttura del terzo sogno: gli aborigeni si ritrovano fra di loro a parlare, quindi la macchina da presa fa un primissimo piano di Charlie che chiude gli occhi. Dopo lo stacco di montaggio, la macchina da presa compie un 4 “[...] intrappolato tra due mondi, quello del sogno e quello della realtà, è incapace di distinguere l’uno dall’altro [...]”, M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 43. 5 Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 46.

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movimento dall’esterno verso l’interno della casa di David per rivisitare gli spazi che già sono stati visti nella prima parte del film e si conclude nella camera da letto dell’avvocato con un primo piano del suo viso dopo un brusco risveglio: ha appena visto il volto dipinto di un aborigeno illuminato da una torcia. Ma chi sta sognando, quale mente produce queste immagini? Quella di David, quella di Charlie o entrambe? Se negli altri due casi era chiaro che la mente di David stava producendo le immagini che si vedevano sullo schermo perché erano precedute o seguite da un primo piano dell’uomo, qui la situazione si fa confusa, visto che il primo piano che inizia la sequenza è quello di Charlie, mentre quello che la conclude è di David: i due mondi si stanno congiungendo, e David sta sempre più abbandonando il proprio per inoltrarsi nel mondo “altro”. Da questo punto in poi i sogni perdono la loro qualità onirica per diventare visioni. La prima visione è di David: la macchina da presa chiude su un suo primo piano, poi si ha una soggettiva sulla radio che fa acqua, quindi lo sguardo di David si sposta su quello che avviene fuori dall’auto. Quest’ultima soggettiva mostra una visione subacquea di gente e di cose che vengono trasportate dalla corrente. La seconda visione è di Chris che in tribunale mentre è interrogato da David vede in aula Charlie: dopo un susseguirsi di primi piani dei volti dei tre personaggi, l’ultima inquadratura che per logica dovrebbe mostrare Charlie mostra invece la sua assenza, la sua scomparsa: Charlie era in aula oppure no? Infine, David ha la visione dell’onda che sommergerà Sydney mentre è inginocchiato in riva al mare: anche qui la sequenza inizia su un primo piano dell’avvocato. Questi sei sogni-visioni producono degli squarci temporali e narrativi nello svolgersi della vicenda contribuendo a creare quella struttura onirica di cui si parlava prima. È lecito chiedersi: chi è che sogna? Qualcuno sogna? Oppure tutto il film non è altro che un sogno-visione di Charlie, la figura che disegna sulle rocce in apertura della pellicola? Anche in Fearless le “ferite visive” sono sei, ma qui si tratta esclusivamente di flashback dei due personaggi principali. Quattro sono di Max, due di Carla e la loro durata varia moltissimo 6. Il primo è in realtà un sogno di Max. Da una inquadratura a piombo di Max steso sul letto si passa a un particolare, prima dell’occhio, poi dell’orecchio a 6

Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., pp. 126-127.

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cui è unito il rombo dei motori dell’aereo: a questo punto ci si trova dentro la mente di Max che sta rivivendo le fasi iniziali dall’incidente sotto forma di sogno. Il presente, con Laura che massaggia i piedi al marito addormentato, interrompe la sequenza narrativa per ricordare la distanza che ormai intercorre tra i due sposi. Max, infatti, non si sveglia e Weir mostra nuovamente un particolare dell’occhio chiuso dell’architetto che con il suo muoversi concitato indica che Max è entrato nella fase REM, cioè nel periodo di più intensa attività percettiva e cognitiva durante il quale si organizzano gli elementi del sogno; ed ecco ancora le immagini che riassumono le prime fasi della tragedia. Nella parte finale di questo flashback, Weir crea un’incongruità spostando le immagini dalla mente di Max a quella di Carla senza però indicarlo chiaramente: la sequenza potrebbe (dovrebbe) essere tutta frutto del sogno dell’uomo. Si vedano i dettagli della sequenza. Dal suo posto sull’aereo l’architetto si volta e in soggettiva vede Carla che non riesce a legare Bubble. Un cerchio di luce abbagliante illumina il volto di Max e il suo primissimo piano che, in slow motion, sembra fluttuare nel nulla conclude il suo sogno e ritornerà più volte nel corso del film. Nel silenzio più totale e innaturale si sente solo la voce del pensiero di Max che esprime la coscienza di essere alle soglie della morte. L’inquadratura successiva mostra un primo piano di Bubble in braccio a Carla: il movimento riassume la sua normale velocità e il rombo del motore in avaria si fa assordante. Il brusco stacco di montaggio sposta l’inquadratura dal primo piano di Bubble alla sua fotografia e, sul piano della colonna sonora, dal rumore al silenzio. Carla è a letto, forse stava dormendo, sicuramente stava ricordando. Quante delle immagini appena viste appartenevano alla mente di Max e quante alla mente di Carla? Questa confusione sulla matrice del ricordo indica l’unione delle due menti ancora prima che i personaggi si incontrino. Il flashback successivo è ancora di Carla. Lei e Max sono fermi in auto e parlano della morte. Il primo piano di Carla è seguito da quello dell’uomo (l’espressione del suo volto è quella già vista nella conclusione del flashback precedente) e il particolare sulle mani 7 della donna è una soggettiva di 7 Sono importanti nell’economia della storia: come dirà più avanti Carla è sicura di aver ucciso suo figlio perché non l’ha tenuto bene, ma ha aperto le mani quando l’aero ha toccato terra e il bimbo è stato sbalzato via. Per Max, invece, la

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Max. Da qui parte il ricordo degli attimi successivi all’atterraggio di fortuna, interrotto, per qualche istante, dal ritorno della macchina da presa su un primo piano di Carla. Dopo aver visto le immagini in cui la donna cerca Bubble ormai scaraventato chissà dove dall’impatto, la sequenza si chiude sul particolare delle mani giunte della donna seguito da due primi piani di Carla fra i quali si interpone quello di Max. Il quarto flashback è anche il più corto, essendo formato da due inquadrature piuttosto brevi. Dopo aver acconsentito a mentire per aiutare la vedova dell’amico Jeff, Max sale sul tetto dell’edificio e si va a sedere nell’angolo formato dall’incontro dei muri di protezione. La macchina da presa schiaccia l’uomo in quell’angolo rendendolo piccolo, indifeso, senza via di scampo. Il flusso della narrazione si interrompe, riappare il cerchio di luce e il primissimo piano dell’uomo che sembra fluttuare in un mondo dove non c’è gravità; nel silenzio, rotto appena dal lontano rombo dei motori, riecheggia la voce del pensiero di Max che termina il discorso lasciato a metà alla fine del primo flashback. Si ritorna quindi nel flusso della narrazione con un primo piano sul volto di Max. Il quinto flashback è introdotto da un primo piano della moglie di Jeff a cui segue un primo piano di Max: da qui parte il ricordo degli istanti in cui Jeff aveva tentato di chiamare la moglie, mentre Max si era rifiutato di chiamare Laura. La sequenza si chiude con un primo piano dell’uomo seguito da quello della donna mentre annuisce. C’è intesa fra i due, l’espressione del volto di Max ricorda quella vista nel primo flashback: è seduto a tavola con gli altri ma il suo volto sembra di nuovo sospeso in un luogo agravitazionale. Paradossalmente, anche se spesso Max sembra lontano da tutti, egli è molto vicino a Carla, alla moglie di Jeff, a Byron perché loro, a differenza di Laura e Jonah, hanno condiviso in tutto o in parte la sua esperienza. Il sesto e ultimo flashback è il più lungo e il più complesso. Si apre con un primo piano di Max dopo che ha inghiottito una fragola: il suo volto sembra nuovamente fluttuare nel vuoto e si sente la voce del pensiero di Max: tutti i flashback dell’uomo sono l’uno la continuazione dell’altro. In questo caso i due livelli narrativi, quello del ricordo e quello del presente, si compenetraparte del corpo che assume maggiore importanza sono gli occhi: attraverso essi ha visto la tragedia collettiva dei passeggeri, ha visto la morte, e quelle immagini sono fisse nei suoi occhi. Il suo sguardo limpido è onnicomprensivo, osserva e capisce.

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no. In un montaggio parallelo si dipanano gli ultimi attimi sull’aereo e le azioni che si stanno compiendo per salvare Max. Il mondo dell’aereo è un mondo che si muove al rallentatore e in cui manca quasi totalmente il dialogo: la voce di Max è l’unica che si sente. In casa, invece, i momenti in cui il movimento e il sonoro sono normali si alternano ai momenti in cui predomina il rallentatore e l’assenza di dialogo, quasi a voler dare due diverse prospettive: quella di Max (in slow motion e muta) e quella di Laura. Di nuovo i due sono vicinissimi fisicamente eppure lontanissimi spiritualmente, almeno fino al momento in cui la voce di Laura penetra il mondo percettivo di Max e lo richiama alla vita. Ancora una volta è dato chiedersi chi vede cosa, chi sente cosa. Il parallelo fra i due film e gli squarci che tormentano la linearità della narrazione ci sembrano ora evidenti. Li riassumiamo per chiarezza: THE LAST WAVE FEARLESS David sogna un aborigeno sotto la Max sogna le prime fasi del disapioggia stro David sogna Chris che gli porge una Carla sogna o ricorda il momento pietra sacra (sogno nel sogno) in cui l’assistente di volo le fa prendere in braccio il bambino (doppio sogno) David sogna Charlie che penetra Carla ricorda il momento in cui si nella sua casa (o è Charlie a sognarende conto di aver perso Bubre, o sognano entrambi?) ble David vede Sydney sommersa dal- Primo piano di Max sull’aereo (col’acqua scienza della fine imminente) Chris vede Charlie in tribunale Max ricorda Jeff che cerca di telefonare alla moglie David vede l’ultima onda Max ricorda le fasi finali dell’atterraggio di fortuna

The Mosquito Coast rappresenta, in un certo senso, l’estremizzazione del processo fin qui raccontato. Il film, infatti, si apre con un primo piano di Charlie su cui si sovrappone una voce narrante, quella del ragazzo stesso, che più volte interviene nella narrazione per raccontare o commentare ciò che sta accadendo. La sequenza d’apertura serve certamente per stabilire quale sia il punto di vista della narrazione, nonché

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per presentare l’unico personaggio in cui ci si possa ragionevolmente identificare. Ad un livello più astratto si può però dire che il primo piano di Charlie e la sua voce off conducano all’interno della sua mente. Tutto quello che si vede dopo può essere interpretato come un unico grande flashback, anche se manca un segno forte che indichi l’inizio del tempo del ricordo. È interessante, d’altra parte, che la voce di Charlie quando funge da narratore usi i verbi al tempo passato (il tempo del ricordo) creando così un cortocircuito tra il ragazzo che sulla scena osserva, agisce e usa i verbi al tempo presente e quell’altro ragazzo di cui si sente solo la voce, che è la stessa del Charlie agente, ma che potrebbe in realtà essere già un adulto o, addirittura, un vecchio. 3.1.2. “Ferite verbali” Come già detto, la linearità narrativa viene anche interrotta da pause in cui un personaggio racconta visioni, sogni o episodi avvenuti in un passato più o meno remoto 8. Ogni storia narrata è piena di queste pause, ci si soffermerà dunque solo su quelle che abbiano un certo peso nell’economia della narrazione. In The Cars Arthur, in primo piano, racconta di George alla moglie del sindaco, del fatto che il fratello maggiore non l’amava, ma che malgrado ciò si era preso il compito di educarlo, guarirlo dalla sua fobia di guidare (in precedenza Arthur aveva raccontato al sindaco di aver ucciso un vecchietto con la sua macchina e di non essere più in grado di guidare). Queste parole di Arthur richiamano alla mente le immagini viste all’inizio del film, prima che lui e George rimanessero coinvolti nell’incidente: in questa sequenza, i due fratelli non si parlano, non si scambiano sguardi di complicità, l’unico che sorride è Arthur, mentre le uniche parole pronunciate da George sono dirette a un benzinaio. I due sono fisicamente vicini solo perché l’auto non consente 8 “[...] As far as I’m concerned, I’m a story teller [...]”, L. Ceretto e A. Morini (a cura di), “Interview with Peter Weir”, in Al di là del visibile - Il cinema di Peter Weir, “I quaderni del Lumière”, n° 30, Mostra Internazionale del Cinema Libero ONLUS, Bologna, 1999, p. 52. Così come Weir, anche i suoi personaggi a volte sentono il bisogno di raccontare, di raccontarsi, di essere story tellers.

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loro di fare diversamente; non appena, però, scendono dall’auto, come quando si fermano per mangiare, sono seduti ad una certa distanza, quasi non si guardano e sono occupati in due diverse attività. Le parole di Arthur raccontano una storia di quotidiana sopportazione rimandando alla sequenza iniziale con una nuova consapevolezza: quelli che potevano apparire come due fratelli taciturni, ma affiatati ora appaiono come due quasi estranei costretti a viaggiare insieme. Per Marek Haltof nel suo complesso “[...] the film can be taken as the hero’s bad dream[...]” 9. In Picnic, quando ormai il film si sta avviando verso la sua conclusione, Albert in primo piano racconta a Michael il sogno in cui ha visto la sorella Sarah. Le parole del ragazzo evocano nella mente dello spettatore una serie di immagini e forniscono l’ultima conferma al fatto che Albert e Sarah siano fratelli. Alcuni degli elementi narrati da Albert sono figura del suicidio che Sarah ha già compiuto, per cui il racconto del ragazzo, nella sua qualità di sogno-flashback, crea un disorientamento della linearità del racconto. In particolare, nel sogno Albert vede la sua stanza illuminata mentre fuori è buio e sente un odore “come di margherite schiacciate”. Nella scena del suicidio, la camera dove si trova la ragazza è illuminata e diventa buia quando lei si uccide (è notte) mentre le margherite rimandano sia a Miranda (sono il suo fiore preferito) sia al luogo dove viene ritrovata Sarah, la serra. Nel prefinale di The Year, Kumar in primo piano saluta Guy raccontandogli un sogno che potrebbe essere sia un sogno ad occhi aperti che la proiezione di un desiderio. Kumar, infatti, chiede a Guy di pensare a lui quando in Europa starà seduto ad un caffè: nei suoi sogni, dice, è sempre seduto in buona compagnia a bere un caffè. Queste poche parole unite all’intensità del primo piano di Kumar fanno assumere al personaggio la grandezza tragica dell’eroe sconfitto, dell’uomo che, a differenza di Guy, credeva in un ideale, in un futuro di prosperità per il suo popolo, mentre ora le sue speranze sono andate deluse e alla luce di ciò tutte le azioni del suo personaggio assumono un diverso significato. In Witness le “ferite verbali” sono due. Dopo che Samuel ha rico9 “[...] il film può essere considerato come un incubo dell’eroe [...]”, M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 14.

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nosciuto in McFee l’assassino, Book va da Schaeffer e gli racconta l’antefatto del furto di una sostanza che serve per sintetizzare anfetamine. In un breve scambio di battute si racconta quella che potrebbe essere la scaletta per un altro film. Spostando l’asse temporale indietro di qualche anno si riesce a creare un forte senso di pericolo incombente sulla situazione attuale. La sequenza è impostata su un campocontrocampo dei primi piani di Book e Schaeffer, con la macchina da presa che si trova alternativamente alle spalle dei due uomini; quando si trova alle spalle di Book, per un interessante gioco di specchi, sul primo piano di Schaeffer incombe l’ombra del detective per sottolineare come Schaeffer non abbia via di scampo. Da qui si passa direttamente all’agguato che Book subisce nel garage ad opera di McFee: subito dopo aver visto Book in primo piano si sente nella sua mente il riecheggiare delle ultime parole che lui e il suo capo si erano scambiati. Solo loro due erano al corrente del coinvolgimento di McFee, pertanto anche il suo capo è un poliziotto corrotto. Nell’economia della narrazione questo breve flashback verbale può forse essere leggermente ridondante (fa riferimento ad una sequenza appena vista), ma è certamente utile per sottolineare la nuova consapevolezza di Book e comunicarla anche allo spettatore, aumentando quindi il grado di coinvolgimento emotivo. Allie, il protagonista di The Mosquito Coast, riesce attraverso le sue parole a descrivere quello che sarà di Geronimo e poi del villaggio sulla spiaggia (anche se in questo secondo caso il suo flash forward si rivelerà fallace); qui il racconto non riguarda un fatto già accaduto, ma qualcosa che accadrà. In entrambi i casi la macchina da presa indugia sul primo piano dell’inventore che descrive la sua visione. Ed è lui l’unico a vederla: nel primo caso alle domande: “Lo vedi Charlie/Lo vedi Mamma?” le risposte sono negative, nel secondo dice a Eddie: “Questo un giorno diventerà un grande villaggio fiorente in armonia con la natura. È così che io lo vedo perché io ho fantasia”. Chi non ha fantasia non può restare con lui: infatti, benché circondato dalla sua famiglia, morirà solo e da perdente, senza assumere la statura dell’eroe tragico che Weir aveva dato a Kumar. Ciò nonostante, le sue parole hanno un forte potere evocativo, soprattutto nel caso di Geronimo. Tutto quello che Allie aveva descritto (predetto) il giorno del suo sbarco nella città, creando aspettative, si avvererà.

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Dead Poets ha un unico ma interessante flash forward, riconoscibile solo a posteriori e che in effetti opera uno squarcio nella linearità temporale della narrazione. Durante la prima lezione tenuta da Keating i ragazzi sono invitati a riflettere sulla caducità della vita. La struttura è quella del campo-controcampo: da una parte abbiamo il professore, dall’altra gli studenti. Keating, in primo piano, parla della morte, la macchina da presa si sposta sul volto di Neil, che ascolta affascinato e forse un po’ a disagio, dedicandogli un lungo primo piano 10. Sembra di poter individuare nel primo piano di Neil e nelle parole di Keating un’anticipazione del suicidio dello studente nel prefinale. Il suo destino era già stato annunciato, non dissimilmente da quanto avviene per Sarah in Picnic. Irma, infatti, istituisce un paragone fra l’orfana e un cerbiatto che lei aveva tentato di salvare, ma che poi era morto. “Pareva avesse il destino negli occhi” dice Irma. Anche Sarah e Neil ce l’hanno e, quindi, muoiono. Scrive Jonathan Rayner a proposito di Green Card: “[...] the happy ending is prefigured in the creation of a happy past [...]” 11. Partendo da questa affermazione allora si può dire che tutto il film è una sorta di flash forward di una storia che verrà raccontata, forse, in un’altra occasione. Il loro passato Bronte e Georges lo costruiscono attraverso le parole e con l’ausilio di fotografie o al massimo dei tatuaggi che Georges ha sulle braccia. Al momento dell’interrogatorio con gli ufficiali dell’immigrazione il passato inventato e il presente reale entrano in cortocircuito portando alla nascita di una nuova dimensione narrativa che non viene qui sviluppata. La “ferita verbale” di Green Card è forse la più ampia nel lavoro di Weir ed è scandita da una frase di Georges, “When are you coming, chérie?”, che viene pronunciata quando i due cominciano seriamente e sistematicamente ad inventare il loro passato felice e in chiusura di film, quando la loro separazione diventa l’inizio di una nuova storia, probabilmente non molto dissimile da quella che hanno appena inventato. In due momenti di The Truman Show abbiamo dei flashback narrati 10 Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, Cassel, London and New York, 1998, p. 170. 11 “[...] il lieto fine è prefigurato dall’invenzione di un passato felice [...]”, J. Rayner, op. cit., p. 191.

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da un personaggio. Nel primo, Marlon ricorda i momenti salienti della sua lunga amicizia con Truman: i due sono visti in primo piano, seduti l’uno accanto all’altro. Il forte momento emotivo che potrebbe portare ad un’immedesimazione forse eccessiva viene rotto dalla nozione che le frasi che Marlon sta dicendo non sono sue, così come non suoi sono i ricordi. Quando ormai le parole del ricordo stanno lasciando spazio a quelle del presente, la voce e la figura di Christof entrano in campo con la funzione di suggeritori/ideatori. Ad un tratto, quindi, quei ricordi comuni ai due uomini che Marlon ha appena evocato con tanta efficacia diventano falsi, posticci, per cui quello che sembrava essere un racconto lineare ridiventa un gioco di scatole cinesi. Nel secondo caso è Christof stesso che ricorda a Truman (e a se stesso) i momenti salienti della sua vita. L’alternanza dei primi piani di Truman e il primissimo piano di Christof mostrano come qui il flashback che il regista sta tracciando assuma due diversi significati: per lui è il tentativo di convincere Truman a restare, e non soltanto per evidenti interessi economici, ma anche perché sembra chiaro che Christof consideri Truman alla stregua di un figlio. Per Truman invece si tratta della finale presa di coscienza che ribadisce il doppio livello di narrazione su cui si basa il film. “Non c’era nulla di vero?” chiede Truman. “Tu eri vero. Per questo era così bello guardarti” risponde Christof. Ma Truman non è convinto e se ne va. Il suo gesto recupera a questo punto la prima battuta che Truman pronuncia sullo schermo mentre in primo piano si guarda allo specchio: “Non ho più la forza; dovrai continuare senza di me”. Come avveniva per Neil in Dead Poets, queste parole prefigurano in apertura di film quello che accadrà nel finale. Sono una sorta di flash forward che manda in cortocircuito la linearità del racconto riassumendo in dieci parole lo sviluppo e la conclusione della pellicola. Infine sembra di poter includere in questa analisi anche Gallipoli, pur facendo notare che in questo film non c’è un vera e propria pausa durante la quale un personaggio narra di un evento passato. Il film si apre e si chiude con una sorta di frase-ritornello: Archy prima di sferrare l’attacco suicida al Nek ripete le parole che lui e suo zio si scambiavano in fase di allenamento e prima delle gare: Cos’hai nelle gambe? Molle, molle d’acciaio. A cosa ti serviranno?

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Aspetti tecnici A farmi correre in pista. E come ti faranno correre? Sempre più veloce. Più veloce come, ragazzo? Veloce come un leopardo. E allora vediamo come fai.

Mentre Archy ricorda a voce alta questa sorta di litania, la macchina da presa effettua un lento zoom in avanti passando da un primo piano ad un primissimo piano del volto del ragazzo. È un modo molto efficace per introdurci virtualmente nella sua mente mentre è sul punto di morire. Si dice che negli attimi antecedenti la morte la vita vissuta si ripresenti agli occhi del morituro; qui Weir saggiamente ci offre un primo piano di Archy e delle frasi che, rimandando all’inizio del film, rievocano il passato del ragazzo. Alla mente dello spettatore, quindi, non resta che ripescare e rivalutare le immagini di una vita spezzata ancora prima che iniziasse.

3.2. PER UN’ESTETICA DEGLI INIZI Nei minuti iniziali di una pellicola, così come nelle prime pagine di un romanzo, sono contenute informazioni utili ad identificare certi elementi della storia che verrà narrata. Di solito, dopo la prima sequenza lo spettatore è in grado di ipotizzare, con maggiore o minore precisione a seconda dei casi, che tipo di storia si accinge a vedere, dove e quando ha luogo, quali saranno i protagonisti. Anche se più difficilmente individuabili, nella prima sequenza vengono dati alcuni elementi che permettono di riconoscere lo stile predominante utilizzato dal regista nella realizzazione della pellicola; inoltre, a volte è possibile individuare il tema musicale del film. In questo senso i film di Weir sono molto indicativi, per questo si è deciso di analizzarne le sequenze iniziali. Si vedrà, quindi, quali sono le aspettative che il regista crea e in che modo, per sottolineare come uno spettatore attento può, dopo pochi minuti, avere un’idea di quello che sarà il film. In The Cars si può notare un doppio inizio, una sorta di “film-

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within-a-film” 12. La prima sequenza, una specie di prologo, è caratterizzata da musica e immagini di tipo pubblicitario. Una giovane coppia mentre sta facendo una gita nella campagna australiana prima incontra un pastore con un gregge di pecore che occupa tutta la strada (un luogo comune con cui si descrive l’Australia rurale) e poi si ferma per comprare un quadro. La macchina da presa indugia, in classico stile pubblicitario, ora su un pacchetto di sigarette Alpine (le stesse che ancora oggi Weir fuma) ora su una lattina di Coca-Cola. Improvvisamente la musica si fa drammatica, l’auto perde una ruota e i due finiscono fuori strada. La loro sorte non è interessante: non se ne sentirà parlare nel film così come non si vedranno più i due personaggi. In pochi minuti Weir ha fornito due informazioni interessanti: la pericolosità che si annida anche nel più pacifico e rilassante paesaggio di campagna e la commistione di generi e stili tipica del film. “[...] Stylistic ambiguity permeates the film from its very beginning [...]” 13.Ci saranno eventi drammatici, come l’incidente, ma allo stesso tempo il film strizza l’occhio allo spettatore, non si prende troppo sul serio e ci si può verosimilmente aspettare oltre all’intrusione dello stile pubblicitario anche quella di altri stili. A proposito di quello che si è appena detto, scrive Jonathan Rayner: [...] This dumb show suggests Cars’ combination of art film, horrorgenre piece and social satire. The diverse elements of this prologue [...] will be multiplied by the film proper [...] 14

Dopo la scena dell’incidente la macchina da presa compie un dolly ascendente per mostrare un tranquillo paesaggio da cartolina della campagna australiana. Qui hanno inizio i titoli di testa, durante i quali una coppia di uomini viaggia in auto trainando una roulotte. Ancora una volta la musica che accompagna la sequenza è rilassante, anche se non di stile prettamente pubblicitario, fino a quando l’auto su cui i due 12 13

“film nel film”, J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 37. “[...] L’ambiguità stilistica permea il film dal suo stesso inizio [...]”, M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 15. 14 “[...] Questa pantomima suggerisce l’unione in Cars del film d’autore, del film di genere dell’orrore e della satira sociale. I diversi elementi di questo prologo [...] saranno moltiplicati dal film stesso [...]”, J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 37.

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viaggiano si ferma e il guidatore guarda i cartelli stradali per scegliere la direzione: l’unico nome leggibile, perché a fuoco, è quello di Paris. La musica si interrompe, quindi si fa drammatica mentre inevitabilmente l’auto va in direzione di Paris e finisce rovinosamente fuori strada dopo che delle luci hanno abbagliato il conducente. Sono passati all’incirca sette minuti dall’inizio del film e lo spettatore ha già acquisito diversi ed importanti elementi per intuire che la storia si baserà su incidenti automobilistici, mentre le luci viste prima dell’incidente creano un’atmosfera di mistero. Sui protagonisti rimangono dei dubbi perché non è chiaro se qualcuno è sopravvissuto agli incidenti: si potrebbe, quindi, pensare che protagonisti siano le auto e gli incidenti (tenendo anche conto del titolo). Per la determinazione del luogo si può affermare che la storia avrà luogo in campagna e più precisamente a Paris, come suggerito dal titolo visto che l’unico nome di località intelligibile per lo spettatore è proprio quello della cittadina australiana. Weir ha creato delle aspettative più o meno precise: non resta che proseguire nella visione del film per rendersi conto di come esse non verranno deluse, ma soddisfatte, contribuendo al godimento dello spettacolo. In Picnic non c’è un vero e proprio prologo, ma una didascalia che ne espleta le funzioni. È interessante che la versione italiana differisca da quella originale in due punti. Si riporta qui di seguito il testo inglese e il testo italiano solo nei punti dove i due testi non collimano: ... picnicked at Hanging Rock near Mt. Macedon in the state of Victoria ... ... During the afternoon several members of the party disappeared without trace ...

... andò in picnic a Hanging Rock, località australiana nello stato del Vittoria ... ... Di ciò che accadde allora questo film è il resoconto ...

Viene da chiedersi il perché di tali discrepanze. Nel caso della prima si può affermare che per lo spettatore italiano sia più importante essere sicuro del fatto che lo stato del Victoria e Hanging Rock si trovino in Australia piuttosto che sapere che Hanging Rock si trovi vicino al Mt. Macedon che, in mancanza di ulteriori precisazioni, potrebbe trovarsi ovunque nel globo. La seconda discrepanza, invece, è interessante per-

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ché crea aspettative diverse negli spettatori. La versione inglese spiega, in un certo senso, l’intera trama 15. I puntini di sospensione lasciano presupporre che il film sarà una ricerca della spiegazione di quello che è avvenuto, e probabilmente in chiusura della pellicola lo spettatore avrà trovato le risposte al mistero. Per lo spettatore che si affida solo alla voce fuori campo in italiano viene a mancare la nozione della scomparsa senza lasciare tracce di alcuni partecipanti al picnic: secondo Guido Fink con tale distorsione si è voluto mantenere intatta la suspense 16. Qualunque sia il motivo della discrepanza fra i due testi, lo spettatore italiano si aspetta che il film sia il racconto di un’“avventura” delle ragazze sulla roccia, ma perde per il momento la dimensione del mistero. I titoli di testa cominciano a comparire su un’inquadratura un po’ nebbiosa (o con della foschia) della roccia e in sottofondo si sente il leggero cinguettare di alcuni uccelli. Quindi sull’immagine del collegio udiamo la voce di Miranda: “La vita è sogno, soltanto sogno. Il sogno di un sogno.” L’atmosfera del film è già introdotta: “[...] the film is dreamlike, mysterious, and filled with implications [...]” 17. Le inquadrature successive mostrano il risveglio di Miranda e la lettura del biglietto di S. Valentino che le dona Sarah. A poco a poco tutte le ragazze del collegio si risvegliano. Appare la scritta in sovrimpressione: “Appleyard College - St. Valentine’s Day 1900” e, come già era avvenuto in apertura, la voce di Miranda che canta si sovrappone ad un’immagine del collegio. Miranda mentre si pettina dice a Sarah: “Devi imparare ad amare qualcun altro oltre me. Io non rimarrò con voi a lungo.” Allo spettatore anglofono immediatamente suona un campanellino di allarme poiché questa frase lo rimanda alla didascalia d’apertura in cui si parlava di scomparse. Successivamente compaiono sullo schermo le insegnanti, già piuttosto caratterizzate nel loro modo di essere. Ultima appare la signora Appleyard che, augurando una buona giornata, mette allo stesso tempo in guardia tutte le partecipanti al picnic dalla pericolosità della roccia. Sono trascorsi dieci minuti, ma già uno spettatore attento può aver colto i vari rapporti di forza del film. 15 16

p. 129.

Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 26. Cfr. G. Fink, “Picnic at Hanging Rock”, Bianco e Nero, Marzo - Aprile 1977,

17 “[...] il film è simile ad un sogno, misterioso e pieno di implicazioni [...]”, M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 26.

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Da un lato il collegio, dall’altro Miranda e la roccia; l’affetto che lega Sarah a Miranda e la coscienza di quest’ultima della temporaneità della sua permanenza tra i mortali; le angherie a cui è sottoposta Sarah da parte della signora Appleyard e di Miss Lumley; la pericolosità della roccia. Il luogo e il tempo sono stabiliti dalla didascalia iniziale; la consistenza onirica delle immagini è data dalle prime inquadrature della roccia, dall’abbondanza del colore bianco, nonché dalla frase di apertura pronunciata da Miranda. Qualcosa di misterioso accadrà ad alcune delle ragazze sulla roccia, questo fatto colpirà tutti e causerà diverse reazioni nei vari personaggi. Non si tratterà presumibilmente di un film di avventura, ma di una storia il cui mistero porterà ad un’analisi intimistica. A questo punto della narrazione si può dire che le due figure che probabilmente assumeranno il ruolo di protagoniste saranno Miranda e Sarah; aiutante sarà Mademoiselle, villain, la signora Appleyard. Weir confonde lo spettatore, contraddice le sue aspettative, facendo sparire Miranda: un protagonista se esce di scena lo deve fare in chiusura di film, Miranda scompare relativamente in fretta e la sua assenza diventa protagonista in un film che delude ulteriormente le aspettative non offrendo una soluzione al mistero. In The Last Wave i titoli di testa scorrono sulle immagini di un aborigeno, Charlie, che sta disegnando su una roccia. In sottofondo si sente il vento e il cinguettio degli uccelli. Dopo il primo piano di Charlie, un breve pianosequenza scopre le pitture rupestri per soffermarsi sull’ultima: un volto stilizzato 18. Dalla dissolvenza di questa pittura emerge un villaggio del deserto australiano in cui improvvisamente prima piove, poi grandina a ciel sereno. L’inquadratura successiva è dedicata a una veduta dall’alto di Sydney sotto un cielo plumbeo: sta diluviando. Nel suo ufficio David si prepara ad uscire per tornare a casa. Mentre in auto rimane bloccato dal traffico alla radio sente la spiegazione scientifica di quello che è avvenuto nel villaggio nel deserto. La sequenza si chiude con il suo arrivo a casa. Di nuovo sono trascorsi poco meno di dieci minuti e il clima del film è già chiaro. Il luogo dell’azione sarà Sydney, il tempo, più o meno contemporaneo, è rivelato dalle pettinature, dai vestiti, dalle auto tipici degli anni Settanta. La sto18 Il soffermarsi su questo particolare fa supporre che questa pittura rupestre, e non altre, ritornerà nel film assumendo un ruolo di una certa importanza.

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ria presumibilmente riguarderà l’incontro/scontro della realtà anglosassone con quella aborigena: due figure sono viste quasi immobili e sole all’interno di un’inquadratura, David (l’anglosassone) e Charlie (l’aborigeno). David sembra essere uno dei protagonisti, ma non bisogna dimenticare l’importanza che il tempo atmosferico con le sue anomalie ha già assunto in questa prima sequenza. Lo spettatore non può certo aspettarsi un film spensierato: con ogni probabilità si tratterà di un film dall’atmosfera pesante, claustrofobica. L’acqua sarà onnipresente, i colori predominanti saranno di tonalità scura (nero, grigio, marrone), in contrasto a volte con una forte luminosità (si veda il contrasto tra la rupe su cui dipinge Charlie, la sua figura scura e il cielo chiaro alle sue spalle). Ci si aspetta anche che il racconto fornisca quantomeno una spiegazione delle anomalie atmosferiche, che creano un’aura di mistero intorno alla storia. Per quanto riguarda Gallipoli lo spettatore si trova nuovamente di fronte ad un doppio inizio. Dopo i titoli di testa, che, rossi come il sangue, scorrono su un fondo nero, la scena si apre su Archy che si sta allenando con lo zio: è l’alba in un paesaggio dell’out back australiano. Una didascalia indica chiaramente luogo e anno: “Western Australia May 1915”. Jonathan Rayner istituisce un’interessante parallelo fra Jack e la terra: il volto duro e rugoso, il capo coperto da capelli sempre più radi dell’uomo sono figura della terra bruciata dal sole e solo a tratti ricoperta di vegetazione. Archy trae la sua forza morale e fisica sia dall’uomo sia dalla terra e per questo forse si staglia spesso contro la terra; Archy e Jack in questa prima sequenza sono spesso visti nella medesima inquadratura con il volto di Jack maggiormente illuminato 19. La sequenza seguente presenta una scena che potrebbe anche appartenere ad un western americano: Archy ed alcuni suoi compagni stanno radunando una mandria nel recinto. Per una scommessa Archy dice di poter correre più veloce a piedi che non Les a cavallo: vincerà il primo che arriverà alla fattoria. Dopo la vittoria, Archy discute con lo zio della guerra: vuole arruolarsi ma è minorenne e i genitori non gli darebbero mai il permesso. Il ragazzo spera che lo zio gli dia una mano a convincerli, visto che più volte in gioventù aveva rischiato la vita. La risposta dello zio è lapidaria: “Calcolavo i rischi e poi mi regolavo. La 19

Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., pp. 108-109.

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guerra è diversa”. A cena si parla ancora della gara a cui Archy parteciperà nel fine settimana; poi lo zio viene visto mentre legge ai bambini da Kipling il capitolo in cui Mowgli lascia la giungla per andare con gli uomini 20; infine la sua piccola figura si staglia insieme a quella di Archy contro l’infinito paesaggio australiano al tramonto. Il primo inizio si conclude con Archy che legge sul giornale gli ultimi fatti della guerra: la mappa mostra una parte di Turchia e nei titoli si legge chiaramente il nome Gallipoli. Il giornale è l’elemento di raccordo tra i due inizi: in un altro luogo dell’out back australiano Barney sta leggendo le notizie dal fronte mentre Billy e Snowy sono accanto a lui; Frank, invece, è visto di schiena o addirittura escluso dalle inquadrature. Nel momento in cui il tema dell’arruolamento viene affrontato (Billy dice di volersi arruolare), la macchina da presa ci mostra un primo piano di Frank bagnato da una vivida luce solare, che si addice al suo cinismo e che lo oppone ad Archy per il differente tipo di illuminazione: il viso di Archy è illuminato da una luce morbida e calda per sottolineare la sua integrità, la sua innocenza, la sua moralità; il volto di Frank è illuminato da una luce ruvida e abbagliante che ne sottolinea il cinismo. Infatti, se Billy, Snowy e Barney decidono di partire per la guerra, Frank decide di lasciare il lavoro per le ferrovie, ma non di andare a combattere: “Se volete andare a farvi ammazzare, fate pure”. Sono passati quindici minuti e lo spettatore può già avere una chiara idea di quello che sarà il film. La storia narrerà l’”avventura” di questi ragazzi la cui vita è entrata in contatto con la guerra. Sarà probabilmente un film di guerra in cui però molto forte sarà il tema dell’amicizia virile, della competizione, dell’avventura giovanile. Il tempo è determinato dalla didascalia iniziale, è il 1915; il luogo, come è facilmente prevedibile, si scinderà tra l’Australia e Gallipoli. Per quanto riguarda i protagonisti, sono già tutti comparsi sullo schermo: il film sarà la loro storia, la storia di ragazzi entrati in contatto con la realtà incontrollabile della guerra. E allora lo spettatore si aspetta anche un film di formazione. In The Year è interessante analizzare la sequenza dei titoli di testa che scorrono su una rappresentazione del Wayang Kulit. Sullo schermo del Wayang, oltre ai titoli, appaiono le ombre delle marionette tra 20 Cfr. R. Kipling, Il libro della giungla, cap. 1; anche Archy lascia l’out back per andare a combattere tra gli uomini.

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l’ovazione del pubblico. Quindi la scena si allarga e mostra gli spettatori della pantomima; quando l’inquadratura torna a comprendere solo le ombre, tra esse e la macchina da presa passano delle persone (altre ombre?) per cui da subito si hanno diversi piani di visione e percezione 21. Nella sua bella monografia, Marek Haltof 22 cita il paragone suggerito da Margaret Yong tra il Wayang e il mito della caverna di Platone 23. Secondo Yong, gli spettatori del Wayang, come i prigionieri della caverna, possono solo osservare le ombre che occupano il posto della realtà: per capire la realtà devono affidarsi alla sua ombra. Questo è il destino dei personaggi del film di Weir, non solo degli spettatori del Wayang. Inoltre, che Baudry instaura un paragone tra gli incatenati del mito della caverna e gli spettatori in sala al momento della proiezione cinematografica, per cui The Year nella sequenza dei titoli di testa esprime anche la sua “[...] self-awareness of film as film [...]” 24. La prima sequenza dopo i titoli di testa ha struttura circolare, in quanto si apre e si chiude su un’inquadratura di Billy seduto alla sua macchina da scrivere. Subito in apertura la voce del suo pensiero si impone come voce narrante del film. Dà una data, 25 giugno 1965; fornisce il nome, la data di nascita e la professione dell’uomo che stiamo vedendo all’aeroporto; fornisce il luogo, Giacarta. Al suo arrivo Guy è atteso da Kumar e dall’autista che lo conducono all’hotel Indonesia “dove americani ed europei pagano per avere freddo”. Qui incontra i suoi colleghi e Billy e, attraverso i dialoghi tra i personaggi, si ribadiscono le difficoltà che Guy troverà nel proprio lavoro poiché è senza contatti; quindi con Billy va a fare una passeggiata nei bassi fondi di Giacarta. La conclusione della sequenza vede di nuovo Billy seduto alla sua macchina da scrivere e la voce del suo pensiero che sta dicendo: “Che sia tu l’amico mai incontrato?”. Sono passati solo sette minuti dall’inizio: il luogo e l’anno sono noti – Giacarta, Indonesia nel 1965 – anche quasi tutti i personaggi protagonisti della vicenda sono in campo. Lo spettatore si aspetta un racconto della carriera giornalistica di Guy e della sua amicizia con Billy, a cui faccia da sfondo la situazione politica del21 22 23 24

Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 116. Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 71. Il mito della caverna è contenuto nel libro VII della Repubblica di Platone. “[...] consapevolezza del film in quanto film [...]”, J. Rayner, The Films of Peter Weir, p. 116.

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l’Indonesia. Billy è il punto di vista da cui si narra la vicenda e lo spettatore si aspetta che il nano non abbandoni il film prima del finale. In realtà Weir, come aveva già fatto con Picnic, inganna lo spettatore facendo morire Billy a tre quarti del film, per cui nella sua conclusione viene a mancare la voce narrante. Come già detto, la rappresentazione iniziale del Wayang è importante perché subito crea l’atmosfera del film: bisogna guardare le ombre e non le marionette; inoltre le marionette, per definizione, sono manovrate da qualcuno. The Year è un film di ombre e di personaggi che manovrano o tentano di manovrare altri personaggi. I titoli di testa di Witness scorrono per metà su uno sfondo nero e per l’altra metà sulle prime inquadrature del film. Da un paesaggio rurale, dove l’erba alta si muove come fosse acqua, spuntano uomini, donne e bambini vestiti con abiti neri del Settecento. C’è una tendenza a mitologizzare il paesaggio e la comunità che vive lì: è una sorta di matrimonio tra i due 25. A questo punto appare la scritta “Pennsylvania 1984” che, in un certo senso, sorprende lo spettatore si aspettava un film in costume. Durante il funerale del marito di Rachel la macchina da presa isola tre personaggi, Rachel, Samuel e Eli, che vengono visti senza altri volti come sfondo e di cui si riesce a distinguere i nomi nel discorso tenuto in alto tedesco. Dopo la cerimonia la macchina da presa isola un altro personaggio, Daniel, e lo segue (è un pianosequenza) mentre si dirige da Rachel per comunicarle il suo dolore per la morte del marito. Un intermezzo con immagini rurali (quattro inquadrature) serve a ribadire il ritmo di vita degli Amish e il loro rapporto con la terra. Quindi si vede Eli che accompagna Rachel e Samuel alla stazione in carrozzino. A proposito di questo viaggio è interessante il confronto che Jonathan Rayner fa con il viaggio di Allie e Charlie verso Hatfield: Samuel osserva il mondo dalla parte aperta del carrozzino: non ci sono vetri e quindi il bambino è aperto a nuove esperienze; Allie e Charlie invece sono rinchiusi nell’abitacolo della loro auto, non si aprono al mondo esterno, sono ostili ad esso 26. A questo punto è forte il contrasto tra il mondo Amish e il mondo della Pennsylvania del 1984 e Weir lo sottolinea contrapponendo alle immagini del carrozzino quelle del 25 26

Cfr. J. Rayner, The Films of Peter Weir, op. cit., p. 131. Cfr. J. Rayner, op. cit., pp. 134-135.

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traffico automobilistico odierno. Alla stazione Daniel viene a salutare Rachel e Samuel e chiede alla donna di tornare presto, mentre Eli le dice di fare attenzione “laggiù in mezzo agli inglesi.” Arrivati a Philadelphia i due viaggiatori sono costretti a sostare per alcune ore nella stazione in attesa del treno per Baltimora. In questo ambiente nuovo e in un certo senso ostile Samuel assiste ad un omicidio. Infine appare Book, detective della polizia di Philadelphia: Samuel è l’unico testimone dell’omicidio. A questo punto sono passati all’incirca quindici minuti e ormai lo spettatore è a conoscenza di molti elementi per formulare delle aspettative. Il luogo dell’azione sarà con ogni probabilità l’ambiente rurale dove vivono gli Amish, con al limite qualche possibile parentesi a Philadelphia; l’anno è il 1984. Lo spettatore si aspetta una storia d’amore, per il comportamento di Daniel verso Rachel, a cui si aggiunge la complicazione che potrebbe nascere dall’incontro di Rachel e Book. Per un meccanismo di interpretazione che coinvolge la nozione che le star (Harrison Ford e Kelly McGillis) sono protagoniste dei film e, se di sesso diverso, di solito si innamorano, lo spettatore ha la tendenza ad aspettarsi che, se si svilupperà, la storia d’amore fra Rachel e Book sarà a lieto fine. Su questo punto Weir, come già capitato in precedenza, delude le aspettative. Inoltre, dato che la vita di Samuel, essendo egli l’unico testimone di un omicidio, può essere fortemente a rischio è plausibile che la storia assuma anche l’andamento di un thriller. In The Mosquito Coast, come accadeva in The Year, immediatamente dopo i titoli di testa Charlie assume il ruolo di voce narrante. Il ragazzo sta viaggiando in furgoncino con il padre Allie, il quale parla in continuazione sotto lo sguardo ammirato di Charlie. Dice il ragazzo: “Sono cresciuto con la convinzione che il mondo gli appartenesse e che tutto ciò che diceva fosse vero”. Charlie ammira suo padre, ma l’uso del tempo passato indica che quel periodo è terminato e che forse la sua opinione sul padre è cambiata. Allie è ipercritico nei confronti della società americana (e come si potrebbe non esserlo vedendo la decadenza che lo circonda), ma allo stesso tempo è nazionalista (non vuole comprare nastro adesivo fatto in Giappone perché non vuole che i suoi dollari si convertano in yen). Quindi nel granaio Allie spiega ai due figli maschi la sua ultima invenzione e poi con essi va a presentarla al suo datore di lavoro. La macchina per fare il ghiaccio non piace

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e sulla via del ritorno i tre si fermano per andare a visitare la povera casa dove vivono i braccianti di colore per la raccolta degli asparagi. Qui Allie completa il pensiero iniziato in precedenza: egli ogni giorno pensa di andarsene dall’America, vorrebbe andare nella giungla, ma per andare là ci vorrebbe un coraggio straordinario che ammette di non avere. In circa dodici minuti di pellicola le informazioni che vengono date allo spettatore sono innumerevoli. La storia sarà quella della famiglia Fox, il cui capofamiglia, Allie, è un inventore molto loquace, ipercritico nei confronti dell’America e angosciato dal presentimento di una imminente catastrofe. Il punto di vista è quello di Charlie, e fin da questi primi minuti si creano i rapporti di forza che regolano la famiglia: la madre occupa una posizione di secondo piano, mentre i due figli maschi, in particolare Charlie, hanno una maggiore importanza. Per quanto riguarda il tempo sembra essere un presente o al massimo un passato prossimo. Il luogo dell’azione è più vago, ma lo spettatore ha già il sospetto che teatro della storia non sarà Hatfield e l’America, ma piuttosto qualche giungla tropicale che, tenendo conto del titolo, si troverà nella Mosquito Coast. Molto probabilmente lo spettatore si aspetta la storia di una famiglia di pionieri in cui la frontiera (siamo alle soglie degli anni Novanta) si è spostata a sud degli Stati Uniti d’America. Anche in questo caso, lo spettatore verrà deluso nelle sue aspettative, perché questo non è un film che glorifica le imprese di una famiglia di pionieri americani: tutti gli sforzi di Allie si risolvono in altrettanti disastri ed egli sviluppa sempre più una personalità distorta, mettendo a rischio la vita della sua famiglia e finendo con il morire. Forse questa delusione delle aspettative è una delle cause dello scarso successo commerciale del film. L’inquadratura con cui si apre Dead Poets 27 (i titoli di testa hanno già cominciato a scorrere) mostra un affresco in cui vengono ritratti gli studenti dell’accademia di Welton. Non importa a quando risale, perché la caratteristica di Welton è la sua immutabilità nel tempo. L’aderenza alla tradizione è dimostrata anche dalla cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico, curata nei minimi particolari e accom27 Marek Haltof ricorda la somiglianza di atmosfera (e non solo) che unisce Picnic a Dead Poets fin dai titoli di testa, cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 104.

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pagnata dal suono della cornamusa prima e dell’organo poi. Inoltre, lo stendardo su cui più a lungo si sofferma la macchina da presa e a cui dedica un primo piano, è quello con sopra scritto “Tradition”. Il preside, Mr Nolan, indica con chiarezza in che anno situare la storia: il 1959, l’anno del centenario della Welton Academy. Durante la cerimonia vengono indicati i due protagonisti: sono i due ragazzi su cui la macchina da presa si sofferma più a lungo. Neil è isolato in un’inquadratura insieme a suo padre (è significativa l’assenza della madre) su uno sfondo di visi non a fuoco; Todd è visto due volte seduto in mezzo ai suoi genitori e poi ancora all’uscita quando salutano Mr Nolan. Anche Neil e suo padre sono visti mentre salutano il preside che dice a Neil di aspettarsi grandi cose da lui. Il ragazzo non risponde, lo fa il padre dicendo che non li deluderà e a Neil non resta che confermare. La scena si sposta nelle camere, in particolare in quella di Neil e Todd, dove lo spettatore è introdotto nella vita quotidiana degli studenti. L’arrivo del padre di Neil conclude la sequenza, ribadendo il fatto che Neil non è libero di fare quello che vuole, ma deve seguire il volere di suo padre. Il dubbio che Neil potesse non avere una madre viene qui fugato poiché la donna viene nominata. Da non dimenticare che durante la cerimonia viene anche presentato Keating, il nuovo insegnante di inglese. Mr Nolan lo presenta poi si volta verso il punto dove è seduto: è una sua soggettiva quella che fa scoprire i volti degli altri insegnanti che si girano nella direzione di Keating e infine la figura del professore che si alza. In tutto sono trascorsi nove minuti, ma lo spettatore ha già raccolto una serie di informazioni. L’accademia di Welton è la migliore degli Stati Uniti: qui avrà luogo l’azione del film e l’anno, come già detto, è il 1959. Welton è un luogo legato alla tradizione, alla disciplina, all’onore, all’eccellenza (sono i quattro pilastri su cui si regge il metodo di insegnamento dell’accademia), ma in questo 1959 arriva a Welton un nuovo insegnante dal curriculum più che meritevole, ma giovane e che negli ultimi anni ha insegnato a Londra. Inoltre alcuni ragazzi sono critici nei confronti del credo su cui si fonda l’accademia. Dei due protagonisti viene detto che Todd è estremamente timido, mentre Neil è in contrasto con il padre che non lascia spazio alla sua iniziativa. A questo punto lo spettatore si aspetta una storia che descriva la vita di questi ragazzi, la loro amicizia, il loro crescere insieme, l’affrontare e il risolvere i loro problemi. È facile immaginare che Kea-

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ting occuperà un ruolo importante nella storia, sarà dalla parte dei ragazzi, della moderata innovazione; Mr Nolan, invece, sarà l’antagonista, colui che è difensore della tradizione e sta dalla parte dei genitori. Lo spettatore si aspetta anche che l’amicizia centrale nella storia sia tra Neil e Todd e che entrambi riescano ad affrontare e risolvere il loro problema. Ma il racconto di formazione avrà esito positivo solo per Todd, Neil fallirà, così come ha fallito agli occhi del padre, deludendo tutte le aspettative che lo spettatore si era creato su di lui. Green Card inizia in modo piuttosto simile a Dead Poets: i titoli di testa cominciano a scorrere su un fondo nero, poi si sente il suono di percussioni e si vede una superficie bianca su cui battono due bacchette: un ragazzino (indossa una maglietta di New York: è importante per la determinazione del luogo) sta suonando un secchio di plastica rovesciato 28. Bronte appare mentre sta comprando un fiore, ma allo stesso tempo è fortemente attratta dalla musica che il ragazzo sta producendo; quindi sale in metropolitana e il fiore che ha comprato sembra occupare la maggior parte dei suoi pensieri. La scena si sposta al Caffè Afrika: qui Bronte incontra Anton e i due parlano dell’imminente matrimonio. Bronte chiede se sembra una futura sposa, mentre Anton le dice che quello che sta facendo è un bel gesto: frasi quasi di circostanza per mascherare il nervosismo o forse l’imbarazzo della situazione. Con l’arrivo di Georges la scena si sposta davanti ad un ufficio statale dove Bronte e Georges si sono appena sposati, Anton dà ad ognuno il certificato di matrimonio e quando Bronte augura buona fortuna a Georges per la sua attività di compositore lui sembra essere sorpreso. Quindi Bronte chiede ad Anton cosa succederà dopo e lui le dice che non dovrà più rivedere Georges. Sono bastati a Weir solo quattro minuti di pellicola per fornire allo spettatore le nozioni di base sulle quali creare le sue aspettative. Per quanto riguarda il tempo, è il presente; il luogo è determinato dalla maglietta indossata dal ragazzino all’inizio del film, ma anche dalla metropolitana tipica di New York. I protagonisti sembrano essere l’americana Bronte e il francese Georges 28 Il centro del fondo del secchio è costituito da un cerchiolino al cui centro c’è un puntino in rilievo. Il rimando è ad una scena successiva quando Bronte sbatte fuori di casa Georges e lo osserva attraverso lo spioncino che viene chiuso da una struttura di metallo con una forma molto simile a quella del centro del secchio.

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che contraggono un matrimonio di convenienza. I due appaiono subito molto diversi l’uno dall’altra e, quando Anton dice a Bronte che non dovrà più rivedere Georges, lo spettatore si aspetta che accada esattamente il contrario. Lo spettatore dunque prevede che questo matrimonio di convenienza abbia effetti destabilizzanti sulla vita dei due contraenti, ma che il racconto che seguirà non sarà drammatico, più probabilmente sarà una commedia in cui si svilupperà una storia d’amore. Due sono i segnali forti in questo senso: lo sguardo che Georges (soprattutto) e Bronte si scambiano attraverso il vetro del Caffè Afrika e l’affermazione di Georges secondo la quale non dimenticherà mai il posto dove si sono incontrati. Per quanto riguarda la commedia, è significativo che l’augurio di riuscire nella sua carriera di compositore non sia capito da Georges, forse perché non è corrispondente a verità. Si è sulla soglia di quella che potrebbe essere una commedia degli equivoci. Su uno schermo nero appare una striscia di luce su cui si legge la parola Fearless e nel bianco luminoso tra le sue lettere nere per alcuni istanti si intravedono delle foglie. La prima sequenza del film mostra delle persone che si fanno strada attraverso le foglie in un campo di granturco. Usciti da esso, una soggettiva di Max mostra alcuni uomini inginocchiati intenti a pregare, poi la macchina da presa segue Max che consegna Byron, un ragazzino, ai soccorritori e poi con un dolly ascendente apre sul luogo del disastro. L’inquadratura successiva dall’elicottero mostra una breve panoramica del luogo del disastro, che appare bizzarro, più surreale che tragico 29. Subito dopo la macchina da presa si sofferma sui soccorritori che cercano di portare via Carla dal relitto che sta per esplodere: lei non vuole perché là dentro c’è il suo bambino. Max intanto sta girando per i rottami cercando la madre del bambino che porta in braccio: si muove al rallentatore istituendo da subito quella opposizione tra slow motion e “velocità normale” che caratterizza il film 30. Nei confronti di un soccorritore Max nega di essere stato sull’aereo e dopo aver consegnato il bambino a sua madre (non è 29 30

Cfr. M. Haltof, Peter Weir - When Cultures Collide, op. cit., p. 121. Scott Murray fa notare come il variare fra le due velocità, a volte anche all’interno della stessa inquadratura, intensifichi la qualità onirica degli eventi sottolineando quell’alterità che di solito si associa con le esperienze spirituali, cfr. S. Murray, “Fearless”, Cinema Papers, August 1994, p. 67.

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Carla come ci si potrebbe aspettare 31) si allontana a bordo di un taxi per andare in un albergo. Qui, dopo aver fatto la doccia, si guarda allo specchio e dice: “Non sei morto.” Sono passati appena sei minuti e mezzo dall’inizio, eppure lo spettatore è già in possesso di tutta una serie di elementi utili a classificare il film. Dal punto di vista del racconto, si può facilmente ipotizzare che sarà un film drammatico, durante il quale, presumibilmente, si ricostruiranno le fasi del disastro aereo, vedendole magari attraverso i ricordi dei sopravvissuti e i loro sforzi per superare lo shock; non si tratterà comunque di un film d’azione, ma di una ricerca spirituale. Per quanto riguarda i protagonisti, Max è sicuramente uno di essi: di lui si sa che era sull’aereo, anche se lo nega, che è sopravvissuto, ma che qualcosa in lui non va, nonostante l’apparente normalità. I primi piani sul suo volto, in un certo senso alienato, i suoi occhi luminosi, il suo muoversi in slow motion, il suo stagliarsi sullo sfondo del disastro come se non ne facesse parte sottolineano la sua stranezza. La frase che conclude la sequenza, “Non sei morto,” indica chiaramente che Max pensava di non essere più vivo; adesso sa di essere passato attraverso la morte. È interessante che usi la seconda persona singolare del verbo essere e non la prima, indicando quasi una sorta di sdoppiamento (che si unisce a quello creato dalle differenti velocità di movimento) tra il Max “morto” e quello a cui si rivolge nello specchio. Per quanto riguarda il tempo e il luogo dell’azione, si può dire che il tempo è contemporaneo e il luogo sarà presumibilmente una città più o meno grande degli Stati Uniti d’America. Quando Buz Luhrmann diresse Romeo + Juliet per la sequenza iniziale di questo film, in cui la funzione del coro è svolta da una presentatrice in uno schermo televisivo, si parlò di funzione bardica della televisione 32. C’era la figura dello schermo nello schermo; la TV, lo schermo, erano associati a Shakespeare, il bardo per eccellenza, per cui diventavano il bardo della società a cavallo fra XX e XXI secolo. Anche l’inizio di The Truman Show presenta la figura dello schermo nello schermo. Truman viene presentato come imprigionato nel piccolo 31 Cfr. M. Haltof, op. cit., p. 124 oppure S. Murray, “Fearless”, Cinema Papers, August 1994, p. 67. 32 Cfr. J. Fiske e J. Hartley, “La televisione bardica”, in F. Casetti e F. Villa (a cura di), La storia comune, Nuova Eri, Roma, 1992, pp. 31-35.

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schermo: è un’immagine che da sola fornisce una informazione importantissima, cioè che Truman è prigioniero di un mondo televisivo. Sono indubbiamente molto interessanti le battute che i quattro personaggi centrali della storia pronunciano in apertura. Cominciamo con Christof: “Siamo veramente stanchi di vedere attori che ci danno false emozioni, esauriti da spettacoli pirotecnici ed effetti speciali [...] [Truman] non sarà sempre Shakespeare, ma è autentico. È la sua vita” 33. Christof dice che la storia del Truman Show è una storia autentica, una storia di vita quotidiana, una vita però quasi sacra, come dice Meryl, la moglie di Truman: “Non c’è alcuna differenza fra la vita pubblica e la vita privata. La mia vita è il Truman Show. Il Truman Show [...] è una vita quasi sacra, direi” 34. La vita rappresentata nello show è esemplare, per lo spettatore in quel mondo tutto è possibile, tutto è imprevedibile. “[...] It’s incredibly boring, but there’s always the potential that just when you’re watching you may see something exciting, or something real [...]” 35 dice Weir a proposito di JennyCam 36, e lo stesso può valere per gli spettatori dello show che, per non perdersi neanche un attimo di spettacolo, tengono accesa la tv ventiquattro ore su ventiquattro. Infine, Marlon dice: “Niente di quello che vedi nello show è finto. È semplicemente controllato.” Sono passati appena due minuti dall’inizio del film e quello che si è visto può essere interpretato come la sigla dello show stesso. Prima dell’apparire sullo schermo dei volti dei protagonisti una scritta bianca in campo nero fornisce il nome del personaggio e dell’attore che lo interpreta. Per Truman, ad esempio, è scritto 33 Weir è principalmente uno story teller e ribadisce in continuazione che lo stato di recessione in cui si trova il cinema contemporaneo è dovuto alla carenza di storie, per cui si punta molto sugli effetti speciali. Due sono i pensieri che sono emersi con chiarezza durante gli incontri che Weir ha tenuto in Italia in occasione dell’inaugurazione della retrospettiva che il Cinema Lumière di Bologna gli ha dedicato: “There is a kind of creative recession in the world” e “We need new creative fuel. The audience is waiting.” (“C’è una recessione mondiale della creatività” e “Abbiamo bisogno di nuovo carburante creativo. Il pubblico sta aspettando”). 34 Per la sacralità e la ritualità del Truman Show cfr. F. La Polla, “L’uomo in provetta creato dalla TV”, Cineforum, Settembre 1998, p. 21. 35 “[...] È incredibilmente noioso, ma c’è sempre la possibilità che mentre stai guardando accada qualcosa di eccitante, di reale [...]”, P. Kalina, “Peter Weir and The Truman Show”, Cinema Papers, October 1998, p. 22. 36 Una donna negli Stati Uniti nel suo appartamento ha una telecamera che la osserva continuamente: questo è JennyCam in onda su internet.

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“Truman Burbank nel ruolo di se stesso”. Si sa quali sono i personaggi, si sa che la storia si svolgerà sul set dello show, si sa che c’è un ideatore-demiurgo, il produttore Christof, e si sa che Truman è prigioniero della tv. Infine, proprio in apertura, Truman ammette di non farcela più: “Non ho più la forza. Dovrai continuare senza di me”. Detto direttamente guardando in macchina è come se si rivolgesse allo spettatore e gli dicesse di prepararsi perché il rito dello show sta per finire 37.

37 Cfr. J. Cazeneuve, “Valenze rituali della fiction televisiva”, in F. Casetti e F. Villa (a cura di), La storia comune, op. cit., pp. 42-45.

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CONCLUSIONE

If we shadows have offended, Think but this, and all is mended, That you have but slumber’d here While these visions did appear. And this weak and idle theme, No more yielding but a dream, Gentles, do not reprehend: If you pardon, we will mend. 1

Nel prefinale di Dead Poets Society, Neil recitando il monologo di Puck non solo conclude la rappresentazione di A Midsummer Night’s Dream, ma tira anche le fila del discorso filmico, cosa che anche si intende fare qui per quanto riguarda questo lavoro. La stesura di quest’opera è stata sicuramente un’avventura interessante. Molto è già stato scritto su Weir soprattutto in lingua inglese e la sfida che si voleva vincere era quella di riuscire, partendo dai film e dai testi già scritti, ad offrire nuovi punti di vista e nuovi momenti di riflessione. Rielaborando teorie critiche formulate da altri studiosi si è dimostrato come l’opera di Weir sia un corpus unico attraversato da varie tematiche e da una continuità stilistica che attinge ai canoni del cinema classico ma con un occhio sempre attento alle innovazioni stilistiche. I film del regista si prestano 1”Se l’ombre nostre v’han dato offesa, / Voi fate conto v’abbiano colto / Queste visioni così a sorpresa, / Mentr’eravate in preda al sonno; / In lieve sonno sopiti, ed era / Ogni visione vaga chimera. / Non ci dovete rimproverare / Se vana e sciocca sembrò la storia; / Ne andrà dissolta ogni memoria, / Come di nebbia se il sole appare; / Se ci accordate vostra clemenza, / Gentile pubblico, faremo ammenda.”, W. Shakespeare, Il sogno di una notte di mezza estate, trad. di Gabriele Baldini, Bur, Milano, 1988, pp. 180-181.

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bene a diverse interpretazioni proprio a dimostrare la composita formazione culturale di Weir e la sua ecletticità. Si è compiuta quindi su tutta l’opera un’operazione di sintesi a razionalizzazione inedite sul panorama italiano. Non resta ora che attendere il nuovo lavoro di Weir, The Far Side of the World per avere un ulteriore conferma delle teorie esposte in questo volume.

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RINGRAZIAMENTI

Vorrei ringraziare Paolo Rossi dell’Università Popolare di Torino e, in particolare, Stefano Boni del Museo Nazionale del Cinema di Torino, per l’aiuto datomi nel reperimento delle prime opere del regista, nonché il Cinema Lumière di Bologna, Andrea Morini e, in particolare, Luisa Ceretto, per aver messo a disposizione il materiale in loro possesso e avermi permesso di incontrare Peter Weir nell’ambito delle manifestazioni che hanno accompagnato l’inaugurazione della retrospettiva dedicata al regista stesso. Ringrazio inoltre il Prof. Gianni Canova per avermi insegnato ad avvicinarmi criticamente al fenomeno “cinema” aiutandomi ad attraversare lo specchio che ci separa da quel paese delle meraviglie e ad aprire la mente a tutte quelle realtà altre che si nascondono appena sotto le sfavillanti immagini cinematografiche. Infine un ringraziamento particolare va ai i miei genitori per avermi insegnato a credere nei miei sogni e a lottare per farli diventare realtà.

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APPENDICE 1

30/11/1999

Conferenza stampa presso il Cinema Anteo di Milano1

Domanda: Il successo di Truman è stato così eclatante in Australia come in Italia? Peter Weir: Non particolarmente D: In Italia è stato un grande successo ma anche un caso cinematografico. PW: Forse non me ne vado più. D: Come spiega l’ostracismo, inspiegabile, dell’Accademy verso Truman? PW: Sono incuriosito io stesso. E’ stato in un certo senso sorprendente… il Golden Globe indicava un certo interesse a dare delle nomination al film. Poi ricordo di aver letto mentre ero lì un articolo di un reporter di Hollywood. Diceva che questo film non piaceva a Hollywood e che quindi potevano esserci obiezioni alle nomination. Forse coloro che danno le nomination erano in qualche modo sensibili alla satira dello studio e del media globale D: Picnic è stato inserito nella classifica dei dieci film più importanti del secolo. Concorda con la scelta? PW: Impossibile rispondere. Chi l’ha detto? D: Mi pare Variety. PW: Ci sono così tante liste al giorno d’oggi. La fine del Millennio. I cento migliori, i dieci peggiori. Così tante liste. Mi piace pensare 1 La conferenza stampa tenutasi a Milano è stata organizzata dal Cinema Lumière di Bologna nell’ambito della retrospettiva dedicata al regista. La traduzione dall’inglese e gli adattamenti del testo sono a cura dell’Autore.

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che a qualcuno piace il film e lo ricorda, ma non mi piacciono le classifiche. D: Sta lavorando a un nuovo film? Ce ne può parlare? PW: No. No a tutte e due le domande. Che sfortuna! D: Le piacerebbe girare un film in Italia? Che tipo di storia le ispirerebbe l’Italia? PW: Sì, mi piacerebbe girare in Italia. Quali Sensazioni? I luoghi così pieni di immagini, con così tanta storia. Ancora una volta mi torna in mente il mio primo viaggio. Sono stato sopraffatto dai resti archeologici in Grecia e qui. Sono arrivato in nave. Quello era il modo in cui viaggiavamo nel 1965, un anno vissuto pericolosamente. Cinque settimane. Abbiamo veramente attraversato la storia del mondo. Attraverso l’Egitto per giungere in Grecia e Italia. Non ne avevo mai abbastanza dei siti archeologici. Ero così colpito dalle sculture, dall’architettura e dalle pietre al punto da collezionare alcuni piccoli pezzi di pietre. Quando tornai in Australia iniziai a scolpire per hobby. D: C’è un film che ama di più? O che le corrisponde di più? PW: Non so come gli altri registi rispondono a questa domanda. Non ho un film che preferisco agli altri. Preferisco leggermente quelli che hanno riscosso minor successo di critica e pubblico, in particolare i primi. D: C’è qualche film altrui che ha amato particolarmente? PW: Happiness e The Sixth Sense. D: Perché le è tanto piaciuto The Sixth Sense? PW: Per la sua semplicità, per la sua mancanza di eccesso tipicamente americano. C’erano luci e ombre e poi il ragazzino era stupendo. Il film ha due motori: la storia di fantasmi e la storia di un ragazzino che sta crescendo senza padre. Il pubblico in Australia di tutte le età e di entrambi i sessi sedeva in sala elettrizzato dal film. D: Che senso ha per un regista venire all’inaugurazione della retrospettiva a lui dedicata visto che non c’è un lato strettamente commerciale? PW: Ho sensazioni contrastanti. Ci penserò su quando tornerò a casa nel buio dell’aereo. Contrastanti perché non vorrei che finisse mai, ma allo stesso tempo è in qualche modo fastidioso guardare nel passato. Sono molto lusingato dal fatto che ci sia un pubblico pronto a vedere i film.

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Appendice 1

D: Nei prossimi giorni incontrerà giovani studenti di cinema. Come sarà la sua lezione? Cosa dirà loro? PW: L’ho già fatto altre volte. Preferisco rispondere alle loro domande. Non ho un dogma, né una polemica quindi tendo a sentire cosa vuole il pubblico in sala. Preferisco essere pratico piuttosto che filosofico. Vogliono vedere un essere umano. Vedendo un film, uno schermo, si aspettano un gigante. Vogliono vedere un uomo con le sue debolezze. Quando ero un giovane regista e studente ho passato due giorni sul set di Frenzy a Londra. Mi dissero di non parlare con Hitchcoch, di non fargli domande. Vederlo seduto sulla sua sedia mi riempiva di pace. Parlava molto raramente. Un giorno disse: “Cosa stiamo aspettando?” e il suo assistente rispose: “Il sole”. Pensai: “Persino Hitchcoch deve aspettare il sole!” D: A due attori comici sopra le righe come Robin Williams e Jim Carrey è riuscito a tirare fuori il lato drammatico. E’ stato un caso o una sfida? PW: Volevano cambiare ed erano pronti a correre dei rischi. Ogni qual volta un attore è pronto a correre dei rischi, soprattutto a carriera avanzata, è sempre molto eccitante professionalmente. Harrison Ford con Witness era pronto a rischiare: era prigioniero di Star Wars. Stava cercando di fare film diversi come era successo a Sean Connery con James Bond. E’ entusiasmante perché ritornano alla freschezza dei loro inizi. Lo stesso è successo con Depardieu che recitava in inglese. D: Come sono i suoi rapporti con Hollywood? PW: Hollywood è uno stato mentale. E’ possibile trovare il lato grottesco di Hollywood a Sydney e probabilmente anche a Milano. L’individuo tipo ha un particolare modo di pensare ai film e questo è il senso negativo della parola Hollywood. I film sono considerati prodotti, come le auto. Cerco di stare lontano da questo modo di pensare. D: Cerca di sfuggire da Hollywood ma fa film apprezzati in tutto il mondo. PW: Domanda interessante. Penso di aver iniziato nel modo giusto. Quando ho girato il mio primo film americano avevo già acquisito una notevole esperienza dopo cinque film in Australia e sono stato molto attento. Con la Paramount ho voluto incontrare la star e tutto lo staff prima di accettare. Dovevano capire come avrei girato il film al-

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trimenti non l’avrei fatto. Hanno capito. Nell’incontro mi hanno dato la storia, quasi fosse un regalo, e poi mi hanno detto arrivederci e buona fortuna! Ho risposto che io volevo raccontar loro la storia. Sono rimasti sorpresi perché hanno pensato che io volessi insegnar loro come girare la storia che loro avevano dato a me. Ho pensato che avrebbero capito meglio il film che avrei girato se avessi raccontato come io vedevo la storia. Quindi ho raccontato il film come se fosse una favola iniziando con c’era una volta… Ho fatto lo stesso con Dead Poets. I contratti erano già stati firmati. Alla fine di una cena mi sono alzato e come un bardo/cantore ho raccontato la storia di Dead Poets in dieci minuti. C’era una volta… l’inizio con i ragazzi che si preparano. Ho fatto così con tutte le sceneggiature. Le registro; faccio tutte le voci, gli effetti sonori (i cavalli ad esempio) e poi li ascolto mentre vado in giro in auto come se fossero un programma della radio. E li sento attraverso un altro media, sono racconti orali. D: Soltanto da tre film ha il final cut. Ottenerlo è stato dall’inizio il suo obiettivo. Nei suoi primi film a Hollywood ha corso dei rischi che qualcuno intervenisse e modificasse il progetto? PW: E’ vero. Penso però che se tu personifichi il film, se hai una forte personalità, il film per gli altri diventa una lingua straniera. Persino il punto di vista diventa molto forte ed è difficile per qualcun altro cambiarlo. E’ come se fosse un'altra lingua, come se si volesse cambiare la musica. Questa è stata la mia esperienza: non parliamo la stessa lingua. Mi chiedono se posso farlo e poi stanno a vedere se ci riesco (come si fa con le scimmie!) Il final cut è arrivato solo dopo Dead Poets. Prima ero molto diretto e onesto. Dicevo, guardate se abbiamo qualche problema ne parliamo insieme ma vi dovete fidare di me o licenziarmi. D: Ha mai avuto problemi con la censura? PW: No… Alcune bestemmie… Mi scuso, ho avuto problemi con The Cars. D: Mel Gibson è il suo attore feticcio. Non lavorate più assieme? Lo farete di nuovo? Ci sono stati dei dissapori? E’ troppo hollywoodiano? PW: No. Nessuna di queste ipotesi è esatta. A volte parliamo al telefono. Mel è molto impegnato. Deve dirigere la sua casa di produ-

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zione; fa il produttore, il regista, l’attore e in più ha una famiglia numerosa. Ha un programma molto serrato. Gli ho offerto di recitare in Fearless, ma era già impegnato in qualcos’altro. Non poteva proprio farlo. La cosa più importante è il personaggio della storia. Se è adatto a Mel bene, altrimenti non dovrebbe accettare l’offerta. D: Come vede lo stato di salute del cinema? In quale direzione lo vede andare? PW: L’olio nella lampada è quasi finito e stiamo aspettando nuovo combustibile dalle nuove generazioni. C’è una recessione nella creatività, c’è grande confusione. Dobbiamo aspettare che arrivino tempi migliori. La storia è composta di cicli. Oggi c’è confusione e paura. D: Ha paura? PW: No. Io la osservo. D: Negli anni Settanta nasce il movimento del nuovo cinema australiano. Ce ne vuole parlare? PW: Eravamo un movimento perché facevamo parte di questa rinascita, ma senza riconoscimento perché eravamo troppo individualisti. D: In che modo l’ambiente ha influenzato il suo cinema e il suo immaginario. PW: Sono cresciuto in un posto dove non c’è cultura, né arte, né storia. La cultura era solo nei libri. Era in un certo senso tagliata fuori. Ripensandoci ora, in un certo senso la natura era per me l’arte. Vivevo vicino al mare, nuotavo sempre, mi arrampicavo sulle rocce. Tutto questo avveniva prima dell’avvento della TV, quando si era liberi di essere. Ero sempre in acqua, come un pesce. D: Secondo lei anche la TV sta arrivando a un punto morto? PW: No. E’ parte della nostra vita ormai. Non possiamo pensare che scompaia. E’ compito dei genitori e non dei Governi controllarla, spegnerla, usarla in modo che i bambini possano sviluppare senso critico. E’ importante per i bambini sviluppare l’immaginazione. D: La TV è maggiormente dannosa per il bambino che deve crescere che non per un adulto? PW: Certo, perché l’adulto ha vissuto la TV in un ambito più ristretto della sua vita. Oggi gli schermi (TV, computer, internet) hanno un ruolo di primaria importanza. Ad Hong Kong i bambini sono di salute cagionevole e il numero di suicidi è in crescita. Questo fenome-

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no è dovuto al fatto che i bambini stanno sempre di fronte agli schermi. D: Cosa aiuta l’immaginazione? Tenere la TV accesa o spenta? PW: La cosa più importante è che i bambini devono sentirsi annoiati. Quando sei annoiato, quando non c’è niente da fare l’immaginazione si mette in moto, o almeno credo. Se il bambino è sempre impegnato l’immaginazione non si sviluppa e probabilmente neanche la capacità di distinguere la realtà dall’irrealtà. D: Questo forse può valere anche per gli adulti. Un eccesso di informazioni è forse un modo di spegnere ogni interesse per la realtà. PW: Sono più preoccupato per i bambini. Non sono contro la TV. Ma il modo di crescere i bambini oggi è così diverso da come era una volta. D: Tutto questo bombardamento informatico lo vede come una cosa reversibile o irreversibile? PW: Be’, come Truman, possiamo sempre salire sulla nostra barca. E’ una tirannia che controlliamo. La conferenza stampa è seguita da un pranzo in un ristorante di Milano dove emergono altre riflessioni interessanti sul cinema e sul modo. Se ne riportano di seguito le idee principali. La situazione in Australia è in continuo movimento. Ci sono grossi affari in vista soprattutto con la Fox. Film ad alto budget sono girati in Australia perché i prezzi sono abbastanza contenuti, anche se vanno crescendo di giorno in giorno. I film australiani sono distribuiti ma ai nuovi registi è data una sola possibilità: se il loro film non riscontra un successo di critica e/o commerciale la loro carriera è finita. Il cinema è in crisi perché mancano storie. Il pubblico ha fame di storie semplici, come in The Sixth Sense, ed è annoiato dagli effetti speciali. Dobbiamo recuperare la dimensione del sogno (il sogno nella fase di delirio è molto simile per tutti gli uomini), dobbiamo recuperare l’immaginazione, dobbiamo di nuovo essere annoiati (si pensi a Buddha e Gesù nel deserto). Purtroppo oggi siamo troppo stimolati. Sul doppiaggio, Weir è sicuro che fra cento anni la lingua dominante sarà un’altra. E’ inutile pensare che la lingua del cinema sarà sempre l’inglese, bisogna continuare a girare i film in varie lingue, anzi si potrebbe azzardare un film in latino…

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Appendice 1

La sua attitudine verso la critica è nell’insieme positiva. Legge le critiche, a volte è sorpreso, altre infastidito. Attraverso la critica scopre cose nei suoi film che ha fatto inconsciamente. In ogni caso la critica non influenza il suo lavoro. Su Spielberg dice che è molto bravo ma anche molto potente. Vuole che le sue storie siano girate esattamente come le ha pensate lui anche quando non è lui il regista. E’ un incredibile “artigiano” del cinema.

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APPENDICE 2

02/12/1999

Incontro con gli studenti presso il Cinema Lumière di Bologna1

Domanda: E’ necessario andare in una scuola di cinema per fare cinema? Peter Weir: Penso che diventare un regista sia semplicemente qualcosa che ti capita, proprio come essere sorpresi dalla pioggia. Puoi diventare un apprendista o andare a scuola. Nel mio caso è stato fare l’apprendista e poi dirigere io stesso i miei film. Non c’erano scuole quando ho iniziato negli anni Sessanta. Sono sicuro che voi potreste dirmi moltissime cose sulle scuole. D: Il lavoro di regia è un lavoro fatto anche di molte cose pratiche. Nel fare un film che cosa privilegia? La scrittura, la messa in scena, la direzione degli attori? PW: Mi piacciono tutte le fasi della creazione. Sono più bravo nella regia che nella scrittura. Trovo che scrivere sia una continua sfida. Penso che con il passare del tempo diventa sempre più difficile scrivere perché il regista che è in me diventa sempre più critico nei confronti dello scrittore. D: In che modo lavora con gli attori? PW: Attraverso il casting. Se capisci bene l’idea, se la tua idea è forte, intendo dire prima di arrivare al copione, e il casting è giusto sei già a metà dell’opera. Ecco perché in molte opere prime i registi sono 1 L'incontro con gli studenti è stato organizzato dal Cinema Lumière di Bologna nell’ambito della retrospettiva dedicata al regista. La traduzione dall’inglese e gli adattamenti del testo sono a cura dell’Autore.

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bravi. La loro tecnica cinematografica può essere grezza ma le idee sono molto forti e usano i loro amici o qualcuno di già affermato viene a lavorare con loro. Il risultato è sempre un’opera prima molto intensa. Se il mio casting è stato giusto, se sono le persone giuste, ci sono poche parole da spendere. C’è empatia. Cerco di non fare prove. Preferisco leggere la sceneggiatura oppure preferisco andare a cena e passare del tempo insieme chiacchierando, passeggiando. Mi piace visitare il set, provare i costumi e tutto il resto. Non parlo mai troppo di quello che stiamo facendo. In altre parole il mio non è un approccio teatrale: io non lavoro in teatro. D: Le sembra necessario che il regista aiuti nella scrittura della sceneggiatura? PW: Non in senso letterale, ma se non vi sono riconoscimenti, la risposta è sì. Per me non esistono generalizzazioni né dogmi. Per me la risposta è sì. Ogni pagina è riscritta da me in collaborazione con lo sceneggiatore. Penso che quello che cerco è una struttura forte. Se la struttura è molto forte, come la nostra spina dorsale, allora si possono fare cose fantastiche. Si può improvvisare ogni cosa e si possono prendere molte libertà se quella struttura è buona. Questo è il caso specifico di Witness. Ad esempio la sequenza in cui Kelly e Harrison ballano nella stalla. Eravamo a cena durante le riprese e abbiamo improvvisato (lo stesso è successo in altre scene). Anche agli attori piace. Quando sentono, come dovrebbero, che il film è vivo e che tutte le volte che si mettono al lavoro potrebbe succedere di tutto, non è come mettere in scena un documento e basta. D: Come ha iniziato? PW: Nel mio caso ho iniziato facendo dei cortometraggi per fini specifici. Sapevo sempre dove sarebbero stati proiettati: piccoli festival o produzioni per il teatro perché è lì che ho iniziato. Facevo teatro all’Università, un po’ in stile Monty Python. Facevo il film, scrivevo la sceneggiatura, recitavo, facevo i clip. Come Terry Gilliam, ma non facevo l’animazione. Non c’era un’industria del cinema in Australia quando ho iniziato per cui il contesto era speciale. Ho continuato a girare corti, poi film più lunghi fino ad arrivare a fare film quando il Governo ha cominciato a finanziare il cinema. D: E’ importante potersi avvalere sempre degli stessi collaboratori nella troupe? E quanto?

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Appendice 2

PW: Ha una sua vita. La collaborazione ha un suo ritmo e una vita propria. E’ bellissimo quando funziona bene e poi inevitabilmente, penso, arriva un momento in cui hai bisogno di nuovi collaboratori. Diventi troppo sicuro, hai bisogno di un po’ di tensione creativa per ricominciare. D: Il caso The Truman Show. E’ una nuova ondata? Il finale è stato criticato per il suo happy ending americano. PW: E’ una domanda molto vasta. Non abbiamo tempo per sviscerarla né sappiamo come farlo. Vado al cinema, come voi. Vedo dei segni, ma dipendiamo dagli individui. E gli Stati Uniti sono un sistema, sono una fabbrica, sono la fabbrica del cinema di Hollywood. Alcuni individui ce l’hanno fatta a personalizzare il sistema. Senza dubbio guardiamo ai nuovi giovani registi perché ci guidino attraverso nuovi sentieri. Miramax ha fatto sfoggio di un buon numero di giovani talenti. Ma non si tratta mai di un movimento, sono singole personalità. Todd Solodz, il regista di Happiness, è molto interessante. Ma non si tratta ancora di un movimento, né di una generazione, come avvenne ad esempio negli anni Settanta. Non siamo ancora arrivati a quel punto negli Stati Uniti, ci sono solo individui. Per quanto riguarda il lieto fine, i finali non sono mai facili da girare. In realtà non c’è un lieto fine o un finale triste, esiste solo il finale appropriato, quello giusto. Non sarebbe stato in tono con il film se Truman si fosse suicidato. Questo finale non apparteneva alla storia. Il problema è il pubblico. Quando entra dalle porte è esausto a causa della vita frenetica che conduce nelle grandi città. E qui sta il problema perché non esiste una terra di mezzo. E non esiste una terra di mezzo perché il pubblico si è inaridito. Le persone vogliono andare al cinema solo per vedere cose che non li facciano pensare. E’ molto difficile per i registi. D: Ci sono libri, poeti o filosofi che l’hanno ispirata quando era giovane? PW: Direi che la mia il mio background è nei fumetti. E mio padre era uno story teller, un cantastorie, solo per me. Da piccolo quando andavo a dormire mi raccontava storie a puntate, dei veri e propri serials, che in un caso durò un anno ed era una storia di pirati. Non ci sono molti libri nel mio passato, ma ci sono film, i film del sabato sera, i western... come nella cultura popolare della West Coast. La lettura per me è arrivata più tardi, quando non andavo più a scuola. La scuola per

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lungo tempo è stata la rovina dei libri. Poi ho cercato di ritrovare la strada che porta ai libri e ora leggere è il mio pane quotidiano. D: Ci sono modelli di ispirazione per la sua opera, magari appartenenti al cinema europeo? Antonioni ad esempio? PW: No, penso che le storie che racconto provengano dalla mia vita, dalle mie esperienze, dall’essere un europeo nato in Australia, in Asia. Sono di terza generazione ma senza uno stretto legame con l’Europa, né con l’Asia. Così a vent’anni sono venuto in Europa a bordo di una nave e in un certo senso non ho più fatto ritorno a casa, non alla casa della mia famiglia. Era il 1965, un anno vissuto pericolosamente. Ma non mi trovavo a mio agio neanche in Europa. Sono tornato a casa. Quando ho iniziato a fare film sapevo pochissimo sulla storia del cinema. Avevo solo visto film commerciali e gli amici dicevano che dopo aver girato i primi due film bisogna andare a vedere i grandi tesori del cinema. Non conosci i registi russi, Renoir, Kurosawa... Ho risposto che no, non avrei visto nulla fino a quando non mi sarei sentito pronto. Così dopo il terzo film (The Last Wave) mi sono concesso un anno durante il quale ho visto di tutto. Ero felice di non aver visto prima questi film, avevo paura che mi avrebbero inibito. C’era così tanto da imparare, così tanta strada da percorrere che potevo solo farlo quando avevo sufficiente confidenza in me stesso. Ho guardato con infinita meraviglia, ma al meno non ero spaventato. Amo molto Antonioni. Ho visto tutta la sua opera al Sydney Film Festival. Lo amiamo molto. D: C’è un film che l’ha fatta soffrire più degli altri? E se sì, perché? PW: Ce l’abbiamo tutti uno così. Non dirò il titolo perché mi farebbe soffrire troppo. E’ un film che ho iniziato, ma che richiedeva un paio di ritocchi in più alla sceneggiatura. Non sapevo bene cosa stavo facendo. Devi impersonare, incorporare il film. Ho una mia massima: il regista divora la sceneggiatura, la divora in modo che diventi il suo sangue, le sue viscere, in modo che il regista diventi il film. Questo mi ha aiutato a lavorare negli Stati Uniti a contatto con alcune persone molto difficili e dure. Sapete, tu... come posso dire, tu sei il film, e questo è quanto. Questa è la mia protezione, il mio modo di lavorare. D: Nel suo lavoro con gli attori, come interagisce con loro? PW: Cerco di non dire molto agli attori. Nel casting sei come un

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Appendice 2

detective che cerca una persona scomparsa. Hai una descrizione e trovi la persona scomparsa e loro sono le persone reali. Per me non sono attori, sono personaggi. Sono persone e quindi non hai molto da dire. Sono Jane o Harry. Il casting è qualcosa di molto misterioso perché la lista è fatta di parole, di nomi. Devono esserci dei sentimenti, dei sentimenti reciproci. La regia migliore è fatta di piccoli gesti. D: E’ soddisfatto di quello che ha fatto fino ad adesso? Ha rimpianti? Come si considera come regista? PW: Non ho ancora finito, quindi... E’ scomodo guardare indietro. Vi ringrazio per la retrospettiva perché è stata un’occasione per venire in Italia. Non penso troppo ai film a meno che li stia restaurando. Be’, non è del tutto vero. Mi frullano sempre qui [indica la testa]. Sono come Edit Piaff, je ne regrette rien. Ma non vedo l’ora di ricominciare a lavorare. E’ come una droga. Dimenticate l’eroina: se le persone potessero farsi una dose di regia le strade sarebbero piene di tossici. D: Il gioco di parole tra Truman show e false man show è voluto? Ha intenzione di fare qualcosa di falso, quindi vero? PW: No, non penso. Dipende. Non ho pregiudizi nei confronti di alcun argomento. Forse è divertente. D: E’ stato influenzato da Hitchcoch? PW: Sì, sono stato influenzato da Hitchcoch ma soprattutto Kubric, è stato la mia guida. D: Quali consigli darebbe ad un giovane che, come me, vuole diventare regista e sta studiando per diventarlo? PW: Risponderò a questa domanda con una storia. Mi sono fatto la stessa domanda e ho pensato a questa piccola storia fantastica. Vado dal guru dei registi, dal migliore in assoluto. Come dovrei essere come regista? Risponde: te ne deve importare e non importare allo stesso tempo. Sai cosa devi fare. Lo saprai. Non si possono dare consigli. D: C’è un’evoluzione nel rapporto tra i personaggi e la natura e c’è un’evoluzione che dalla natura australiana porta all’ambiente naturale artificiale di Truman. PW: Non lo so, non mi analizzo così. Mi piace pensare che a ogni storia metto da parte il mio ego perché penso che il mio ego sia pericoloso. Se c’è troppo di te nella storia prima o poi inizi a ripeterti. Quindi cerco di denudarmi, di purificarmi. Vado solo con la storia, che cosa deve raccontare, se la natura o la mancanza della stessa e cose di questo genere. Non ho mai voluto essere prigioniero dello stile. Trop-

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po stile può distruggere una carriera. D: Quanto conta l’emotività e qual’è la cosa che la coinvolge di più? PW: Come ho già detto mi piacciono tutte le fasi della realizzazione di un film, a parte la pubblicità. Peggiora ogni anno. Devo sentire il film e per farlo uso la musica, la uso per sentire le emozioni. E’ un tipo di meditazione perché zittisce la voce che ho nella mia mente. A volte posso toccare le emozioni. Un brano di musica rappresenta il film. La musica incorpora totalmente il film. A volte funziona anche con gli attori. Ad esempio nella scena finale di Dead Poets Society ho usato la musica per riportare gli attori al clima emotivo della classe. D: Come funziona la ricerca della sceneggiatura giusta? Si parte da libri o direttamente da sceneggiature? PW: Le sceneggiature mi arrivano attraverso il mio agente, sia come libri che come copioni. Faccio alcune note, scrivo qualcosa. D: Esiste nei suoi film un’ispirazione comune, un filo conduttore? PW: E’ inevitabile visto che sono tutti stati fatti dalla stessa persona. Vedo delle cose, degli schemi. Molte persone se ne vanno alla fine dei miei film, attraversano porte, muoiono. Per me è in primo luogo un mestiere. Poi ogni tanto come per miracolo un film attraversa la tua vita ed è un capolavoro e lo riconosci quando lo vedi. D: Cosa c’è dopo il film? Ad esempio cosa succede a Truman dopo che ha attraversato la porta? PW: Dopo il professore di Dead Poets è molto depresso e io non voglio filmare questo stato d’animo. Ritorniamo alla domanda sul lieto fine. Il film può finire su una nota positiva ma la vita non è sempre così. Si tratta solo di un momento positivo. D: Fellini una volta ha detto che i film esistono indipendentemente da tutto. Cosa ne pensa? PW: Ci penserò su. D: Perché Jim Carrey è protagonista di The Truman Show? PW: Per la logica del film ho pensato che se il pubblico aveva seguito lo show per trent’anni e Truman era diventato involontariamente una star, per la logica dovevo impiegare una stella del cinema. Così mi evitavo di dover dire al pubblico del cinema che quella era una persona famosa. Allo stesso tempo il copione prevedeva che Truman non fosse

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Appendice 2

una persona del tutto normale dopo aver vissuto così a lungo in un mondo artificiale nel quale non c’è nemmeno il sole. C’è qualcosa di un po’ strano in Jim. Sembra alieno e non penso gli dispiaccia. PW conclude l’incontro dicendo: C’è una specie di recessione creativa nel mondo. Abbiamo bisogno di nuova linfa vitale per i film. E allora, forza, che state facendo? Mettetevi al lavoro: il mondo sta aspettando, il pubblico sta aspettando.

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FILMOGRAFIA

THE CARS THAT ATE PARIS (Le macchine che distrussero Parigi) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Peter Weir, Keith Gow, Piers Davies; Fotografia: John R. McLean; Montaggio: Wayne Le Clos; Musica: Bruce Smeaton; Interpreti: Terry Camilleri (Arthur), John Meillon (il Sindaco), Melissa Jaffa (Beth), Kevin Miles (il dottor Midland); Produzione: Salt Pan Films/Royce Smeal Productions/Australia Film Development Corporation; Australia, 1974, 91’. PICNIC AT HANGING ROCK (Picnic a Hanging Rock) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Cliff Green, dall’omonimo romanzo di Joan Lindsey; Fotografia: Russell Boyd; Montaggio: Max Lemon; Musica: Bruce Smeaton; Interpreti: Rachel Roberts (Mrs Appleyard), Dominic Guard (Michael Fitzhubert), Helen Morse (Diane de Poitiers), Vivean Gray (Miss McCraw), Anne Lambert (Miranda), Karen Robson (Irma), Jane Vallis (Marion), John Jarrat (Albert), Margaret Nelson (Sarah), Kirsty Child (Miss Lumley); Produzione: Picnic Productions/Australia Film Corporation; Australia, 1975, 115’. THE LAST WAVE (L’ultima onda) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Peter Weir, Toni Morphett, Petru Popescu; Fotografia: Russell Boyd; Suono: Don Connolly; Montaggio: Max Lemon; Musica: Charles Wain; Interpreti: Richard Chamberlain (David Burton),

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Il cinema di Peter Weir Olivia Hamnett (Annie Burton), David Gulpilil (Chris Lee), Nandjiwarra Amagula (Charlie), Frederick Parslow (il reverendo Burton), Vivean Gray (la dottoressa Whitburn); Produzione: Ayer Productions; Distribuzione: Eurocopfilms; Australia, 1977, 104’.

THE PLUMBER (L’idraulico) Regia: Peter Weir; Soggetto e sceneggiatura: Peter Weir e Harold Lander; Fotografia: David Sanderson; Montaggio: Gerald Turney-Smith; Musica: Rory O’Donohue; Interpreti: Ivar Kants (Max), Judy Morris (Jill Cowper), Robert Coleby (Brian Cowper), Candy Raymond (Meg); Produzione: South Australian Film Corporation; Australia, 1978, 76’.

GALLIPOLI (Gli anni spezzati) Regia e soggetto: Peter Weir; Sceneggiatura: David Williamson; Fotografia: Russell Boyd; Montaggio: William Anderson; Musica: T. Albinoni; G. Bizet, J. Strauss, N. Paganini, J.M. Jarre, Gudge & Williams, S. Francis, Brian May; Interpreti: Mark Lee (Archy Hamilton), Mel Gibson (Frank Dunne), Bill Kerr (zio Jack), Bill Hunter (Maggiore Barton), Robert Grubb (Billy), David Argue (Snowy), Tim McKenzie (Barney Wilson); Produzione: Associated R and R Films; Australia, 1981, 110’.

THE YEAR OF LIVING DANGEROUSLY (Un anno vissuto pericolosamente) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: David Williamson, Peter Weir e C.J. Koch, dall’omonimo romanzo di C.J. Koch; Fotografia: Russell Boyd; Montaggio: William Anderson; Musica: Maurice Jarre; Interpreti: Mel Gibson (Guy Hamilton), Sigourney Weaver (Jill Bryant), Linda Hunt (Billy Kwan),

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Filmografia Michael Murphy (Peter Curtis), Bembol Roco (Kumar), Noel Ferrier (Wally O’Sullivan), Bill Kerr (Col. Henderson); Produzione: Metro Goldwyn Mayer/United Artists; Distribuzione: CIC; Australia, 1983, 115’. WITNESS (Witness - Il testimone) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Earl Wallace e William Kelley, da un soggetto di William Kelley, Pamela Wallace e Earl Wallace; Fotografia: John Seale; Montaggio: Tom Noble; Musica: Maurice Jarre; Interpreti: Harrison Ford (John Book), Kelly McGillis (Rachel Lapp), Josef Sommer (Paul Schaeffer), Lukas Haas (Samuel Lapp), Alexander Godunov (Daniel Hochleitner), Jan Rubes (Eli Lapp), Danny Glover (McFee); Produzione: Paramount Pictures Corporation; Distribuzione: UIP; USA, 1985, 112’.

THE MOSQUITO COAST (Mosquito Coast) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Paul Schrader, dall’omonimo romanzo di Paul Theroux; Fotografia: John Seale; Montaggio: Tom Noble; Musica: Maurice Jarre; Interpreti: Harrison Ford (Allie Fox), Helen Mirren (Mamma), River Phoenix (Charlie Fox), Jadrien Steele (Jerry Fox), André Gregory (reverendo Spellgood); Produzione: Saul Zaentz Company; Distribuzione: Medusa; USA, 1986, 117’.

DEAD POETS SOCIETY (L’attimo fuggente) Regia: Peter Weir; Soggetto e sceneggiatura: Tom Schulman; Fotografia: John Seale; Montaggio: William Anderson; Musica: Maurice Jarre; Interpreti: Robin Williams (John Keating), Robert Sean Leonard (Neil Perry), Ethan Hawke (Todd Anderson), Josh Charles (Knox Overstreet), Gale Hansen (Charlie Dalton), Norman Lloyd (Mr Nolan); Produzione: Touchstone Pictures; Distribuzione: Warner Bros.; USA, 1989, 128’.

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GREEN CARD (Green Card - Matrimonio di convenienza) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Peter Weir; Fotografia: Geoffrey Simpson; Montaggio: William Anderson; Musica: Hans Zimmer; Interpreti: Gérard Depardieu (Georges), Andie MacDowell (Bronte Parrish), Bebe Neuwirth (Lauren Adler), Gregg Edelman (Phil), Robert Prosky (avvocato di Bronte), Jessy Keosian (signora Bird); Produzione: Touchstone Pictures; Distribuzione: Warner Bros.; USA, 1990, 108’.

FEARLESS (Fearless - Senza paura) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Rafael Yglesias, dal romanzo omonimo di R. Yglesias; Fotografia: Allen Daviau; Montaggio: William Anderson; Musica: Maurice Jarre; Interpreti: Jeff Bridges (Max Klein); Isabella Rossellini (Laura Klein), Rosie Perez (Carla Rodrigo), Tom Hulce (Brillstein), John Turturro (Dr. Perlman), Benicio Del Toro (Manny Rodrigo); Produzione: Spring Creek Production; Distribuzione: Warner Bros.; USA, 1994, 123’.

THE TRUMAN SHOW (The Truman Show) Regia: Peter Weir; Sceneggiatura: Andrew Niccol; Fotografia: Peter Biziou; Montaggio: William Anderson; Musica: Burkhard Dallwitz; Interpreti: Jim Carrey (Truman Burbank), Laura Linney (Meryl Burbank), Noah Emmerich (Marlon), Ed Harris (Christof), Natascha McElhone (Sylvia/Lauren); Produzione: Paramount Pictures Corporation; Distribuzione: UIP; USA, 1998, 103’.

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BIBLIOGRAFIA

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