Peter Weir 8880335251, 9788880335252

Peter Weir (Sydney 1944) è da quattro decenni l'autore di punta del cinema australiano. Partendo da una condizione

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Italian Pages 192 [158] Year 2009

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Peter Weir
 8880335251, 9788880335252

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Alberto Morsiani è, dal 1992, direttore artistico dell’Associazione Circuito Cinema di Modena, per conto della quale realizza rassegne e programma sale pubbliche e private. È critico cinematografico del quotidiano «Nuova Gazzetta di Modena» e collaboratore fisso di «Cineforum» e di altre riviste e siti specializzati. Per la collana Il Castoro Cinema ha scritto anche: Anthony Mann (1986), Joseph Mankiewicz (1991/2006), Oliver Stone (1998/2008), Gus Van Sant (2004). Tra le altre sue pubblicazioni ricordiamo: Scene americane. Il paesaggio nel cinema americano (1994), John Ford. Sentieri selvaggi (2002), Quentin Tarantino (2004/2009), L’America e il western. Storie e film della frontiera (2007), Quentin Tarantino. Pulp Fiction (2008), Il cinema indiano (2009), Ribelli on the road. Moto e bikers del cinema (2013). Ai goannas del bush Il Castoro Cinema n. 235 © 2011 viale Abruzzi [email protected] www.castoro-on-line.it Edizione digitale 2013 www.ridigito.it In copertina: The Truman Show ISBN: 978-88-8033-717-1

Editrice

Il 72,

Castoro 20131

srl Milano

Alberto Morsiani

Peter Weir

PETER WEIR

Mi può fornire una traccia delle influenze di film e registi sul suo lavoro e di cosa ha provocato il suo primo interesse nel cinema? Da bambino ho trovato terrificante Il mago di Oz. Non so quanti anni avessi, forse sei o sette. Mio padre mi portava al cinema molte domeniche pomeriggio. Amavo i western. Il primo film australiano che ho visto è stato Jedda (di Charles Chauvel, 1955). Avevo circa dodici anni, e ne rimasi profondamente impressionato. Ancora oggi le immagini di quel film restano con me. Da adolescente mi ha molto colpito il lavoro di Jacques Tati, soprattutto Le vacanze di Monsieur Hulot (Les vacances de Monsieur Hulot, 1953). Amavo i film horror, in particolare quelli della Hammer Film. Poi ci sono stati Alfred Hitchcock e David Lean. Il primo film sottotitolato è stato Il salario della paura (Le Salaire de la peur, di Henri Georges Clouzot, 1953). L’ho visto giovanissimo, l’ho amato, ma alla fine ero esausto sia per la tensione sia per la fatica di leggere tutti i sottotitoli. Avevo dodici anni quando in Australia è arrivata la televisione. Ero solito infastidire i miei genitori insistendo perché spegnessero tutte le luci nel soggiorno per creare un’atmosfera “da cinema”. Adoravo i western, e la “Mezzora di Alfred Hitchcock”.

Negli anni Settanta c’è stata una specie di New Wave del cinema australiano. Cosa pensa di quel fenomeno e che opinione ha degli autori e dei film australiani di oggi? Sono stato fortunato a cominciare a fare film negli anni Settanta, un periodo molto stimolante per questo Paese. È stata un’epoca di pietre miliari – “il primo film australiano a essere stato un successo al box-office locale”; “il primo a essere accettato in concorso al festival di Cannes”; “il primo a ottenere una distribuzione americana” e così via. Ci conoscevamo tutti: Bruce Beresford, George Miller, Fred Schepisi, Gillian Armstrong, eccetera. L’atmosfera tra di noi era amichevole ma competitiva. La situazione al giorno d’oggi è molto differente da quella degli anni Settanta. I registi australiani sono influenzati dai cambiamenti globali dei gusti del pubblico – ci sono più film “infantili”, film fantasy in animazione, eccetera. È molto difficile per quelli che dirigono ciò che ora viene chiamato “dramma per adulti”. Penso che il lavoro più interessante che viene fatto adesso in Australia sia quello per la televisione. Questo è vero anche, io credo, per gli Stati Uniti. Ha sempre desiderato dirigere film a Hollywood? Lei sembra molto abile nel descrivere la vita americana. Non è mai stato un mio obiettivo dirigere film a Hollywood. Ero molto felice di fare film in Australia, ma dopo aver realizzato cinque film in dieci anni avevo voglia di sfide nuove, nuovi paesaggi – volevo lo stimolo di una cultura straniera. Pensavo più nei termini di lavorare “in America” piuttosto che a Hollywood. Noi condividiamo la lingua, siamo cresciuti con la loro cultura popolare del dopoguerra e abbiamo condiviso un passato coloniale. Tutti questi fattori hanno fatto sì che fosse relativamente facile lavorare laggiù. Ciò detto, ho scelto i miei soggetti con molta attenzione. Il mio primo film americano, Witness, aveva a che fare con un mondo dentro un mondo, quello degli Amish, un popolo poco conosciuto agli stessi americani. Amo la citazione attribuita a Hitchcock: «il film ha una nazionalità propria». In questa misura si può lavorare dovunque. Lei ha viaggiato molto in Europa prima di cominciare a dirigere film. È stata un’esperienza che ha ispirato il suo lavoro di artista? Ha avuto qualche contatto con registi europei prima di tornare in Australia? Il mio primo viaggio oltreoceano, a vent’anni, è stato in Europa. Ho fatto base a Londra dove lavoravo, guadagnando abbastanza per viaggiare un po’ dappertutto. Sono andato in Europa in nave. Un viaggio di cinque settimane che nel 1965 era il modo più economico di recarsi laggiù. Quel viaggio ha cambiato la mia vita – un letterale “rito di passaggio”. Ho sempre desiderato lavorare in quei Paesi, un soggetto europeo, e ho avuto la mia occasione con il film che ho completato di recente, TheWay Back. Cosa significa “libertà artistica” per lei? Qual è stata, in generale, la sua esperienza riguardo al finanziamento dei suoi film? Come definire la “libertà artistica”? Certamente aiuta il fatto di vivere in una società libera. Il significato più profondo? Forse è quello di lasciare libertà al proprio inconscio. Di addestrare l’intelletto a “lasciarsi andare”, di permettere alla parte meno conosciuta di se stessi di venire in superficie. Di essere privo di inibizioni, di non permettere nessuna censura. Di “sognare” il film, in un certo senso. Non ho mai pensato molto a come finanziare i miei film. Per prima cosa cerco di avere il soggetto giusto, i soldi seguiranno. Suona ingenuo, ma ho scoperto che è vero, che un’idea potente, un soggetto forte, attireranno i finanziamenti. Come si è trovato con lo studio system americano, in confronto con la sua prima parte di carriera in Australia? Ho scelto la gente con cui volevo lavorare nello studio system. Ho incontrato i dirigenti della maggior parte degli studios quando per la prima volta sono andato a Hollywood. Mi sono trovato bene con Jeffrey Katzenberg. Lui era alla Paramount, più tardi alla Disney, e abbiamo fatto tre film insieme. “Hollywood” è solo una parola. Quando viene usata in un senso dispregiativo si può

applicare anche alle modalità produttive australiane o di altri Paesi, esattamente come quelle diffuse negli Stati Uniti. Mi può spiegare in che modo utilizza la musica nei suoi film? Uso la musica per esprimere l’inesprimibile. Cerco ogni volta di fare un film che non abbia bisogno di musica, e finora ho sempre fallito. Se dovessi cambiare la mia professione con un’altra, sarebbe quella del compositore. Per me la musica è la fonte meravigliosa di tutte le arti. Come inizia a scrivere i suoi soggetti? La mia prima stesura è spesso nella forma di un breve racconto. Dopodiché comincio la prima stesura di una sceneggiatura. Il paesaggio ricopre sempre un ruolo molto importante nei suoi film, anche quando è “falso”, per esempio in un film come The Truman Show. Si può parlare di un legame con la pittura? E di un legame con gli spazi aperti del suo Paese nativo? In un senso più generale: essere australiano come ha caratterizzare il suo lavoro artistico? L’Australia è un Paese tanto giovane da avere poco a che fare con la “grande Arte”, pochi grandi dipinti, nulla come esempi di architettura, scultura, come voi avete invece in Europa… Forse la Natura è diventata la mia “galleria d’arte”. Non so. La maggioranza di noi vive sulla costa e raramente visita il grande interno. Ho passato la mia giovinezza nell’acqua – pescando con la lancia, nuotando, oziando vicino alla riva del mare. Con tanto tempo per sognare, per guardare le grandi navi di linea a vapore che uscivano dal porto di Sydney dirette in Europa. Progettando di essere a bordo un giorno, di partire per l’avventura. Molto spesso i principali personaggi dei suoi film (Allie Fox, David Butler, Christof…) sono sognatori, gente che fa il passo più lungo della gamba o, più esattamente, apprendisti stregoni: credono di controllare qualcosa o qualcuno che alla fine non possono maneggiare. Perché è così affascinato da questo tipo di personaggio? Non rifletto molto sui film e sui personaggi che ho creato. Ogni film è come un Paese che ho visitato, in cui ho vissuto per un po’, e da cui mi sono poi allontanato. Sto sempre guardando al “prossimo Paese”. Molti dei suoi film sono anche affascinanti racconti di formazione, avendo a che fare con personaggi che compiono un viaggio molto personale da una condizione di incomprensione o ignoranza a una nuova conoscenza sul mondo o su se stessi (Truman, i due antieroi di Gli anni spezzati, gli adolescenti di Picnic ad Hanging Rock e di L’attimo fuggente, Guy in Un anno vissuto pericolosamente, Book in Witness, Brontë, Max Klein.). Gli elementi educativi e formativi sono importanti per lei? Da bambino ogni domenica mia madre mi portava in chiesa. Mi piacevano gli inni ma trovavo sempre il sermone deludente. Questo perché il sermone era sempre una storia, e il nostro locale parroco era un buon narratore di storie, ma alla fine il racconto si rivelava nient’altro che un trucco per far passare un “messaggio”, e generalmente aveva dunque un finale deludente. Nei miei film, o nei film degli altri, io reagisco contro questo fatto. Non mi avvicino mai a una storia in questo modo, vale a dire per “educare” o per lanciare un messaggio come faceva il parroco nella chiesa, o un insegnante nella scuola. Preferisco che le cose siano ambigue, irrisolte, misteriose, non didattiche. In un certo senso i suoi film possono anche essere visti come grandi mappe geografiche che si estendono in ogni direzione: dall’Australia all’Europa, dagli Stati Uniti all’Indonesia, dalla Turchia all’Honduras, dal Sudamerica all’Egitto; dalle cittadine ai deserti, dalle metropoli alle giungle, dal bush e dall’outback a Seahaven, un set televisivo. Mi può dire qualcosa su questa sua predisposizione, su questo meraviglioso cinema topografico? Forse risale a quel mio primo viaggio in Europa? Nel lontano passato penso che sarei stato un trovatore di qualche tipo. Un cantastorie che viaggia di corte in corte, cantando per avere una minestra, e che poi si rimette in cammino.

Vi sono spesso, nei suoi film, mondi in conflitto e scontri di culture e di tradizioni. Molte volte il protagonista si erge da solo contro una società non così preoccupata e sollecita per il singolo individuo. Qual è il suo punto di vista sul mondo in cui viviamo ora? Cerco di trarre qualche comprensione di dove ci troviamo ora dallo studio del passato. Il mio maggior piacere, tra un film e l’altro, è la lettura, soprattutto la Storia. Spesso il mio studio è legato alla ricerca per un film, ma non esclusivamente. L’apparente caos del presente diventa così in qualche misura più sopportabile. Si può rintracciare un’opposizione fondamentale, nel suo cinema, tra la civiltà, o la cultura, da un lato, e la natura e la wilderness, dall’altro. In un certo modo, lei potrebbe essere definito un artista naturalistico, romantico. Vi sono molte figure di “uomini naturali” alla Rousseau (Max in The Plumber, Georges in Green Card, per esempio), e molti gruppi umani o etnici e comunità (aborigeni, indios, nativi, Amish, pescatori…) che non si adeguano alla società bianca, domestica, capitalistica, ricca. Animali, piante, acqua, fuoco, terra, eccetera nei suoi film sono simboli di un modo più naturale e giusto di vivere insieme. È d’accordo con questa valutazione? Ci può dire qualcosa al riguardo nella sua visione di artista? È difficile vedere se stessi in un modo che sia coerente, e questo vale anche per i miei film. Io sono “bianco, domestico, capitalista” e vivo in una “società ricca”! Spesso mi trovo in disaccordo con questa società proprio come i miei personaggi, e cerco di trovare la mia strada tra tutto questo – provando a vivere una vita. Io sono un narratore di storie di mestiere, forgiato dal mio background. Sono un australiano di terza generazione, le mie radici europee sono state troncate dai miei bisnonni immigrati, non sono interamente a casa mia in Europa ma neppure in Australia. Allora, è questa la natura della “personalità artistica”, non pensa?

Ogni punto della realtà è il centro del mondo e ha come circonferenza l’infinito. RalphWaldo Emerson

LE MAPPE GEOGRAFICHE DI PETER WEIR Realismo e romanticismo «È l’uomo, e non la natura, a dare inizio ai processi storici, ma è la natura, in larga misura, a controllarli». Si tratta della citazione da una celebre conferenza tenuta nel 1904 da Sir Halford J. Mackinder per la Royal Geographical Society di Londra, e si applica assai bene al nucleo del cinema di Peter Weir. Questo figlio d’Australia va scoprendo, nei suoi film, un mondo in cui la civiltà cerca di imporsi alla natura in nome della crescente globalizzazione, ma incontra vari ostacoli sulla sua strada. Il realismo di Weir lo porta a osservare che, nel mondo, l’ordine ha preso progressivamente il posto della liberta, in nome della paura dell’anarchia sociale. Così, la sua

attenzione si rivolge non tanto agli ideali universali, quanto piuttosto alle distinzioni particolari, da quelle etniche a quelle culturali e religiose. Ammettere che l’ordine sta al di sopra della libertà, perché quest’ultima diventa importante soltanto dopo che il primo è già stato stabilito, significa anche concentrarsi su ciò che divide l’umanità anziché su ciò che la unisce, come magari vorrebbero i sommi sacerdoti della globalizzazione. Il realismo di Peter Weir ha a che fare con il riconoscimento e l’accettazione di quelle forze che sfuggono al nostro controllo e che pongono dei limiti all’azione umana: la cultura, la tradizione, la storia, le cupe maree di passionalità che giacciono immediatamente sotto alla sottile patina di civilizzazione. Fra tutte le spiacevoli verità in cui il realismo è radicato, la più sgradevole, la più brusca e la più deterministica di tutte è la geografia. Weir come autore geopolitico per eccellenza? Certo, per lui le mappe geografiche, oltre che le leggi della natura, paiono determinare quasi ogni cosa, lasciando ben poco spazio alla libertà d’azione dell’uomo. Le mappe delle coste del Sudamerica consultate in continuazione dal capitano di vascello Aubrey in Master & Commander - Sfida ai confini del mare. Le cartine geografiche della selva dell’Honduras che Allie Fox tiene sul tavolo in Mosquito Coast e che costituiscono i prodromi cartografici del suo utopistico “sogno”. Ma anche la topografia del monolite di Hanging Rock attentamente discussa nella conversazione tra l’istitutrice Greta McCraw e l’autista del calesse. Spesso, i personaggi dei film di Weir si trovano a dover studiare o a prendere le misure di un territorio sconosciuto, a volte amichevole, più spesso ostile. L’idraulico Max penetrato in casa Cowper in The Plumber. I giovanissimi aussie Archie e Frank in Egitto e poi a Gallipoli in Gli anni spezzati. Il reporter Guy Hamilton spaesato nella Giacarta di Un anno vissuto pericolosamente. Il detective di città John Book alle prese con l’universo alieno della rurale Pennsylvania Amish in Witness - Il testimone. L’immigrato francese Georges sprofondato in una New York che non vuole accettarlo in Green Card - Matrimonio di convenienza. Max Klein, straniero in casa propria dopo essere scampato all’incidente aereo di Fearless - Senza paura. Anche il college maschile di L’attimo fuggente, come quello femminile di Picnic ad Hanging Rock, è presentato con una grande attenzione ai suoi dati topografici, al suo rapporto con il territorio circostante, con il bosco in particolare. Da questo punto di vista, non è molto distante dal mondo artefatto di Seahaven in The Truman Show: si tratta di universi claustrofobici, contornati da limiti tanto geografici quanto simbolici. La convenzione vi regna sovrana, creando ad arte comunità di esseri umani che sono plasmati da qualche ordine gerarchico o mente ordinatrice superiore. All’inizio di The Truman Show, il deus ex machina Christof osserva con sguardo topografico, dall’interno di una luna fasulla eternamente piena trasformata in cabina di regia, il “mondo” che ha creato per un solo abitante. Smalltowns Nei film di Weir, questo “mondo” geopolitico viene riportato ai più modesti tratti di una smalltown, proprio come i nostri pittori macchiaioli riportavano alla misura di una tavoletta di pochi centimetri gli infiniti spazi leopardiani della Maremma o del mar Tirreno. Smalltowns da cui è difficile uscire: la cittadina australiana di Le macchine che distrussero Parigi; i villaggi dispersi nel bush all’inizio di L’ultima onda e di Gli anni spezzati; il gruppo di fattorie Amish di Witness; il pueblo sperduto nella giungla honduregna di Mosquito Coast. Oppure i microcosmi claustrofobici: la fregata Surprise in Master & Commander, il college in Picnic ad Hanging Rock e in L’attimo fuggente, il set televisivo in The Truman Show, l’appartamento dei Cowper in The Plumber. Anche quando il film risulta ambientato all’interno di una metropoli (Sydney, Philadelphia, San Francisco, Giacarta, New York…), la dimensione urbana non assume mai una valenza allargata e complessiva, in qualche misura unitaria, ma si scompone, piuttosto, in una serie di anfratti separati, settori non comunicanti, cellule abitative disperse, quartieri marginali; si tende a offrire l’immagine visiva di una frammentazione che comunica smarrimento, sconcerto o addirittura angoscia ai protagonisti (David Butler in L’ultima onda, Georges e Brontë in Green Card, Max Klein in Fearless, Guy

Hamilton in Un anno vissuto pericolosamente, Jill Cowper in The Plumber). Esplorazioni Uscito dalla sua natia Australia Felix, con la posizione marginale che le è assegnata – anche e soprattutto simbolicamente – sulla mappa geografica del mondo, Peter Weir ha progressivamente allargato il proprio orizzonte. Il suo cinema è, prima di ogni altra cosa, una esplorazione di un mondo sospeso e colto tra globalizzazione e frammentarietà, tra unità e divisione: assomiglia al tragitto di scoperta della Surprise in Master & Commander, tra procelle e incontri con un universo nuovo, meraviglioso. Un’esplorazione che, dunque, si nutre del mistero della diversità, che comunica paura e angoscia ma anche eccitazione e brama di conoscenza. Weir attraversa con i suoi film mari e terre emerse, territori marginali (l’Australia, l’Indonesia, la Turchia, le coste del Sudamerica, l’Honduras…) e il centro stesso dell’impero, gli Stati Uniti, analizzati in tutte le declinazioni possibili, urbane ed extraurbane. Un tale “occhio” geografico non può certo essere casuale. Come il tema ricorrente dello “straniero in terra straniera”, che ritroviamo in molti film: il francese Georges nella New York di Green Card, l’australiano Guy Hamilton nell’Indonesia di Un anno vissuto pericolosamente, l’americano Allie Fox nell’Honduras di Mosquito Coast, l’equipaggio inglese della Surprise nel Sudamerica di Master & Commander… Questi continui crossovers geografici aiutano Weir a definire meglio i contorni di un universo enigmatico, sfuggente; dietro l’apparente ordine gerarchico e la patina di normalità conformista si agita, infatti, un sommovimento che si nutre, soprattutto, delle tensioni individuali. È importante sottolineare il fatto che un cinema come “esplorazione del territorio” presuppone innanzitutto una specifica cognizione del “dove si è” e del “da dove si proviene”. Il fatto che Peter Weir sia un figlio d’Australia non è affatto secondario. Essere australiani porta con sé, ad esempio, la cognizione generalista di un muto e profondo desiderio che la “vera” storia dell’Australia sia cominciata con l’avvento della rispettabilità: con il fiume di ricchezza nato dall’oro e dalla lana, con l’apertura del continente e la creazione di una borghesia autoctona. Ha invece scritto Robert Hughes in un libro bellissimo, La riva fatale. L’epopea della fondazione dell’Australia (Adelphi, 1995): «Dietro il luccicante diorama dell’Australia Felix, acquattati nella cupa penombra, centosessantamila forzati facevano risuonare le loro catene». Anche Peter Weir è il figlio di una rimozione: il desiderio di dimenticare le origini criminali dell’Australia incomincia con quelle origini stesse. Il retaggio alle generazioni seguenti della deportazione del 1787, anno in cui il governo britannico inviò una flotta carica dei suoi avanzi di galera a colonizzare l’Australia, non fu quella robusta e scettica indipendenza di cui gli australiani vanno così fieri, ma piuttosto un’intensa preoccupazione per la rispettabilità sociale e politica. Utopie negative Il fatto è che il processo storico in Australia è stato un’utopia al negativo, proprio come quella descritta in Mosquito Coast: non l’“uomo naturale” di Jean-Jacques Rousseau, ricco di virtù morali, che si muove fra contratti sociali liberamente pattuiti, ma l’uomo coatto, esiliato, strappato alle sue radici e gettato in catene. Non Rousseau, ma piuttosto Thomas Hobbes e il Divin Marchese de Sade. La classe criminale d’Inghilterra viene spazzata sotto il tappeto australiano: il Nuovissimo Mondo viene colonizzato per difendere la proprietà inglese non dall’invasore d’oltremare, ma dal malfattore nascosto dentro casa. L’Australia, dunque, viene vista come una cloaca in cui sbarazzarsi dei liquami maleodoranti. Agli occhi dell’Occidente, quel luogo appare non solo come una società di mutanti, ma addirittura come un altro pianeta: un mondo esiliato, noto con il nome di Botany Bay. Un mondo remoto e anomalo, agli occhi dei suoi creatori bianchi; un mondo strano e tuttavia vicino, così come l’inconscio è vicino alla coscienza. Un esperimento di architettura sociale, un gigantesco set, come quello che vediamo in The Truman Show. Una società creata dal nulla, se si prescinde da

alcune decine di migliaia di creature “selvagge”, gli aborigeni, ben presto messe ai margini o brutalmente eliminate. L’idea di una “macchia del forzato”, di una lordura morale incancellabile, ha da sempre dominato ogni discussione sull’identità australiana. Nomi di località come Norfolk Island e Macquarie Harbour diffusero una norma di terrore che doveva servire a imporre l’obbedienza. Dimenticare questa macchia è diventata una condizione del patriottismo australiano; un’amnesia che informa da allora la storia australiana. Così si spiega il commosso entusiasmo, dopo il 1918, per il mito e l’epopea di Gallipoli, le Termopili australiane, cui anche Peter Weir ha sentito il bisogno di dedicare un film, Gli anni spezzati. Bisognava dimostrare il proprio valore di australiani d’Australia, recidere le radici con un passato di servilismo culturale e di legami con la madrepatria inglese. Il paradosso è che, da una comunità formata da individui scelti a uno a uno per decenni unicamente per le loro “inclinazioni criminali”, è nata una delle società più disciplinate del mondo. Comunità e individuo L’attenzione di Peter Weir per le nozioni di comunità, di libertà dell’individuo, di legame con il passato, hanno precisamente questo sottofondo psicologico e culturale. Non si può prescindere da esso, se si vuole capire un cinema in cui esistenza di radici e necessità di reciderle vanno di pari passo; in cui ordine e libertà, conformismo e anticonformismo appaiono totalmente intrecciati. In cui il singolo individuo è sovente danneggiato dalla comunità cui appartiene, ma da cui non può prescindere. In cui la natura oppone un limite invalicabile alle propensioni espansionistiche dell’uomo. Il concetto di comunità, in particolare, appare molto importante in Weir. La comunità è un insieme di soggetti legati da uno o più fattori di diversa natura (etnica, territoriale, linguistica, religiosa, economica, politica, ecc.) e pertanto spinti a interagire tra loro più che con i membri di altre collettività. Collegato al concetto di comunità c’è dunque quello di identità, di senso di appartenenza, di formazione di rapporti di solidarietà. Il concetto di comunità, come aggregato sociale caratterizzato da una profonda unità dei soggetti, si differenzia da quello di società, gruppo di soggetti tesi al perseguimento di obiettivi individuali. Nel cinema di Weir, i due concetti entrano in costante conflitto: esempi di comunità, nei suoi film, sono gli Amish in Witness, gli aborigeni in L’ultima onda, gli indios in Mosquito Coast, i marinai della Surprise in Master & Commander, e anche gli ambientalisti integralisti in Green Card. Si tratta di gruppi umani fortemente coesi al proprio interno per legami di sentimenti, emozioni – dunque dalla “volontà naturale”. Costituiscono una “Gemeinschaft”, diversa dalla “Gesellschaft”, la società fondata, al contrario, sulla “volontà razionale”, un legame basato soprattutto sul calcolo dei mezzi atti al conseguimento dei fini prefissati. Queste comunità weiriane si rapportano in modo unitario alla realtà esterna, ma risultano fortemente penalizzate e spesso emarginate. Amish, aborigeni, ambientalisti, marinai vivono avulsi dal mondo di fuori, che tende a dimenticarsi di loro o addirittura a emarginarli o distruggerli. La “diversità” diventa la loro condanna – che si esprime nel risolino divertito di una madre di famiglia alla vista di un piccolo Amish in Witness, oppure nelle osservazioni, un misto di cinismo e superiorità razzista, che l’avvocato fa a David Butler per dissuaderlo dal difendere alcuni aborigeni dall’accusa di omicidio in L’ultima onda. Queste comunità fortemente coese vengono spesso associate, nei film, alla dimensione del passato: un passato mitico e ancestrale, nel caso degli aborigeni australiani; un passato culturale e materiale, nel caso degli Amish e degli indios. Sono stadi di sviluppo arretrati di un processo storico teso costantemente in avanti, verso il futuro; con la loro stessa esistenza, dunque, pongono una minaccia e una incrinatura alla coscienza di un mondo di consolidate certezze. Per questo sono viste con ostilità o disprezzo. Nei loro confronti, l’atteggiamento dello stesso Peter Weir è ambivalente; da un lato, esse sono valutate positivamente perché conservano il legame con le radici e con le tradizioni

da cui noi tutti proveniamo, soprattutto con la Natura e le sue leggi, con la Madre Terra, le origini ctonie del mondo in cui viviamo; dall’altro, diventano un fattore negativo quando, a volte, pongono dei limiti alla libertà e al potenziale vitale dei singoli individui che ne fanno parte. Ordine e libertà Uno degli aspetti più interessanti della comunità in senso weiriano è proprio che essa può risultare addirittura dannosa al singolo individuo, in quanto ne limita la libera scelta e lo costringe a comportamenti conformisti che lo uniformano a tutti gli altri. La sofferenza della vedova Amish Rachel, in Witness, impossibilitata ad abbandonare la sua comunità e dunque costretta a separarsi dall’uomo che ama, rappresenta uno degli esempi più evidenti di questa degenerazione. Le bizzarre leggi tribali che regolano la vita degli aborigeni inurbati a Sydney, in L’ultima onda, finiscono per mettere nei guai alcuni esponenti della comunità, e causano la morte di uno di loro e una condanna penale per altri. Se la comunità può risultare in qualche caso pericolosa per il singolo, la società è quasi sempre condannata: essa è vista da Weir come un’entità astratta, slegata ormai dal territorio e dalla legge di natura. La società si identifica con la civiltà: la civiltà occidentale dell’uomo bianco, che è convinto di possedere una verità superiore, ma che spesso si trova come un pesce fuor d’acqua a contatto con una realtà che non conosce e che gli sfugge. Guy Hamilton è afferrato in un vortice di segreti enigmatici nell’Indonesia di Un anno vissuto pericolosamente: è convinto di poter condurre lui la partita, e non si accorge di essere una marionetta nel complicato gioco di verità e apparenza che altri conducono a sue spese. Il poliziotto John Book deve imparare a riadattare continuamente se stesso, i propri comportamenti, le proprie opinioni se vuol far parte della comunità degli Amish in Witness. Allie Fox, in Mosquito Coast, si illude di poter gettare le basi di una civiltà simile a quella da cui proviene (solo più razionale) in un contesto totalmente diverso che non può assolutamente tollerarla. La società, in Weir, è un’entità governata non dalla Natura ma da leggi astratte, formali, che sembrano aver perso ogni significato per l’uomo. La Natura è stata soppiantata dalla Legge a cui si applicano con coscienziosità e pignoleria giudici e avvocati, come dimostrano bene L’ultima onda, Green card o Fearless. Una razionalità che prescinde dai reali sentimenti dell’individuo, che siano il desiderio per una nuova “casa” o la solidarietà verso gli altri o l’appartenenza a una comunità di diversi. Un rigido e conformista codice educativo informa il modello sociale rappresentato da Weir, come mostrano gli istituti scolastici raffigurati in Picnic ad Hanging Rock e in L’attimo fuggente. Del resto, i concetti di civiltà e di cultura indicano lo specifico patrimonio di conoscenze di cui una persona si è impadronita: sono il risultato della massima approssimazione al modello o ai modelli di uomo pienamente realizzato grazie a una educazione o formazione. Simulacri di società Paradossalmente, e anche ironicamente, il maggiore risultato di una civiltà così concepita appare il perfetto simulacro di mondo creato appositamente, in The Truman Show, per un unico, ignaro abitante. L’educazione e l’ampliamento della conoscenza hanno prodotto, nell’ottica del regista, una tecnologia di grado superiore capace, ormai, di creare dal nulla un mondo totalmente artefatto, fintamente pacificato, conviviale, in cui, appunto, comunità e società sembrano aver superato la loro storica dicotomia in nome dell’assicurazione della “felicità” a buon mercato. Ma si tratta di una finzione costruita con la tecnologia di cui finisce per essere vittima, una volta di più, il singolo individuo con la sua irrinunciabile autonomia di volontà e identità. Una tale grottesca, inquietante raffigurazione di un ipotetico, finale modello di società costruita “su misura dell’individuo” fa il pari con quella iniziale, ugualmente terrificante, del cinema di Peter Weir. Gli abitanti di Paris, in Le macchine che distrussero Parigi, sembrano uniti verso l’esterno da una finalità comune. Ma si tratta di una finalità macabra e perversa, che finisce per attirare sulla comunità del villaggio la vendetta di

forze irrazionali che si pensava di poter tenere a bada offrendo loro anomali sacrifici propiziatori – le vittime di incidenti automobilistici. In entrambi questi casi-limite si dimostra l’impossibilità di costruire modelli sociali ad hoc che riescano a contemperare le esigenze di una società “ordinata”, che metta al bando il caos, e quelle di un individuo a cui sia assicurata la necessaria libertà di scelta. Civiltà vs Natura Il concetto di cultura e civiltà si scontra così, in Weir, con il concetto di natura, in quella che appare la principale opposizione contenuta nel suo cinema. Richiamandosi al platonismo e ai presocratici, attraverso filosofi come Telesio, Campanella e Bruno, Peter Weir mostra una concezione della natura di ispirazione panteistico-vitalistica. La natura naturans infonde vita all’universo infinito, mescolandosi all’animismo e alla magia. È questa la vera origine filosofica di quella dimensione irrazionale, disturbante, così spesso annotata dalla critica a proposito del cinema dell’autore australiano. È facile un confronto con la spiritualità aborigena, certamente ben conosciuta da Weir. Le dimensioni del sacro, l’idea di un tempo mitico delle origini che gli aborigeni portano con sé nei loro spostamenti (temi ben evidenziati in L’ultima onda) sono concetti calati nel paesaggio stesso: ogni collina, ogni valle, ogni specie di animale o di pianta ha il suo posto in una totalità strutturata ancorché non scritta. Senza la natura e il territorio gli aborigeni sarebbero stati spogliati non di una “proprietà” (idea astratta, che può essere soddisfatta da un altro pezzo di terra), ma della loro storia concreta, del loro locus di miti, del loro “sogno”. Il territorio tribale rappresenta una fitta e antichissima rete di usi spirituali e simbolici che è materialmente impossibile trasferire a un’altra regione con un atto della volontà. Una cultura statica, congelata da millenni di “primitivismo”, immutata in un paesaggio immutabile: questo si pensa degli aborigeni. La mitologia del “buon selvaggio”, nondimeno, rappresenta una delle poche risposte possibili alla sfida di una civiltà ipertecnologica e materialista, che sacrifica al benessere l’esigenza di spiritualità del singolo. Le società mutano attraversando stadi successivi di progresso di cultura (o di civiltà). In realtà, viaggiatori ed etnologi si trovarono a descrivere il sistema di vita complessivo dei popoli “selvaggi” con cui veniva no a contatto (abitazione, vestiario, alimentazione, utensili e tecniche di lavoro, riti, cerimonie, costumi matrimoniali, credenze religiose) e ci si rese conto, così, che nessuna popolazione vive mai allo stato di “natura”. Weir mostra di aver compreso benissimo questa posizione e, nei suoi film, assume un punto di vista conseguente. A ogni condizione umana, che sia quella degli aborigeni o degli indios, e a ogni stadio di sviluppo (l’uccello senza ali e gli altri reperti “fossili” delle Galapagos in Master & Commander) viene data pari dignità. Non c’è mai un punto di vista privilegiato, superiore. L’Uomo Naturale Sintomatico l’utilizzo, nei film di Weir, di una figura del tutto caratteristica, che potremmo definire dell’uomo naturale. Si tratta di un personaggio, o di un gruppo omogeneo di personaggi, che, sulla scia dell’Emilio di Rousseau, portano dentro ai vari film il presupposto di una natura umana originariamente buona e poi corrotta da cattive istituzioni, da un “contratto sociale” andato a male. A contatto con il mondo delle cose, questi personaggi devono imparare a ridimensionare la loro infantile onnipotenza e a scoprire l’indipendenza del mondo naturale e delle sue leggi. Esempio tipico di weiriano “uomo naturale” è Georges in Green Card: infantile, goffo, animalesco, porta una ventata d’aria nuova nel mondo asfittico e artificiale della bella ambientalista Brontë, che pensava di poter confinare il ribollire degli istinti naturali nel chiuso della sua serra. In modo non dissimile, l’idraulico Max, rozzo e fuori controllo, irrompe, in The Plumber, nell’appartamento claustrofobico di Jill Cowper e lo manda letteralmente a pezzi. Gli aborigeni, in L’ultima onda, assolvono la funzione simbolica di una presenza dello stato di natura in un’Australia altrimenti sottomessa a un ordine conformista e gerarchico. Così gli indios in Mosquito Coast, laddove l’utopia di Allie Fox di

un “nuovo inizio” nella wilderness subisce un’amara e alla fine tragica disillusione. Il giovane Neil Perry, in L’attimo fuggente, riesce a essere completamente naturale solo quando, sul palcoscenico, impersona in Sogno di una notte di mezza estate il folletto dei boschi Puck, con tanto di ramoscello sulla testa. Truman Burbank, nel film di cui è protagonista assoluto, è l’unico “uomo naturale” in un mondo fasullo che, in realtà, non è altro che un gigantesco set televisivo. Il naturalismo diWeir può riguardare l’etica (o come edonistica naturalità delle passioni e del piacere; o come sottomissione della condotta morale alle leggi naturali – vedi lo stoicismo del capitano Aubrey in Master & Commander), l’estetica (i modi e l’aspetto istintivo, “selvaggio”, di Georges in Green Card, dell’idraulico in The Plumber, e anche di Max Klein – dopo l’incidente aereo – in Fearless), la pedagogia (i metodi di insegnamento basati sul contatto con la natura del professor Keating in L’attimo fuggente), il diritto (la difesa degli aborigeni da parte dell’avvocato David Burton in L’ultima onda). In tutti questi casi, la natura viene assunta come criterio del bene, contrapposto a una “civiltà” sede del male. Più che al materialismo meccanicistico degli atomisti, il naturalismo diWeir è più vicino indubbiamente al panteismo vitalistico degli stoici. Naturalismi A partire dalla svalutazione della natura effettuata dai neoplatonici fino all’età moderna, durante il lungo predominio del pensiero cristiano, il naturalismo scompare di scena. Anzi, le dottrine naturalistiche, identificate per lo più con la loro versione meccanicistica nota attraverso l’epicureismo, vengono a essere considerate come le dottrine empie per eccellenza, in quanto negatrici dell’esistenza di Dio, del soprannaturale, della creazione, della rivelazione, dell’immortalità dell’anima. Il naturalismo torna ad affermarsi in età rinascimentale, lungo due filoni che ricalcano quelli dell’antichità: l’uno panteistico-vitalistico e l’altro materialisticomeccanicistico. Al primo appartengono Telesio, Bruno, Campanella e, in senso lato, tutte quelle filosofie della natura che segnano una ripresa di motivi stoici. Successivamente confluiscono in questo filone anche Schelling e Goethe, insieme a molti romantici, ovvero quelle filosofie della natura che, agli inizi dell’Ottocento, reagiscono al meccanicismo della scienza sei-settecentesca. Peter Weir è pienamente all’interno di questo solco naturalistico stoico-romantico: basti pensare a un film come L’attimo fuggente, letteralmente traboccante di motivi letterari, figurativi, filosofici di ascendenza romantica. Oppure a Mosquito Coast e alla sua utopia negativa, in cui l’esuberanza della natura ha nettamente la meglio sulle pretese scientifiche di Allie Fox di ridurla alla ragione e alla misura. Il naturalismo di Weir si oppone con pervicacia al filone materialista ed empirista che, all’opposto – attraverso Hobbes, parte degli illuministi e poi i positivisti – ritiene che l’intera realtà coincida con i campi dell’esperienza e dell’attività pratica, tutti suscettibili di indagine scientifica. Da quest’ultimo punto di vista, è ad esempio assolutamente centrale il conflitto “filosofico” che oppone, in Master & Commander, il capitano Aubrey e il medico di bordo nonché scienziato Stephen Maturin. Il primo è il campione dello stoicismo weiriano, il cui dogma etico è “vivi secon do natura”, cioè secondo il logos divino che è in tutte le cose. Di qui un’etica del dovere razionale che si oppone all’edonismo e fa propria la dottrina cinica della “virtù” intesa come saggezza. Il secondo, al contrario, è il campione del materialismo empirista, la nuova dottrina scientifica che sfocia in quegli anni (primi dell’Ottocento) nell’evoluzionismo darwiniano. Anche se la figura di Maturin è osservata con molto rispetto e ammirazione, è facile capire per chi batta davvero il cuore di PeterWeir. Simboli Il naturalismo di Weir si manifesta, anche, in uno speciale trattamento simbolico. Grande risalto, ad esempio, viene concesso alle figure degli animali, che abbondano e molto spesso assumono valenze simboliche correlate all’azione centrale dei film. Animali di ogni genere appaiono in Picnic ad

Hanging Rock, L’ultima onda e Gli anni spezzati, tre film che sfruttano in modo impareggiabile la bizzarria e stranezza della fauna australiana – non dimentichiamo però le automobili-belve feroci di Le macchine che distrussero Parigi. Un film come Green Card trabocca, letteralmente, di metafore animalistiche, associate per lo più all’aspetto e al comportamento del “grosso orso” Georges. Folgorazioni simboliche relazionate, ad esempio, al volo di uno stormo di uccelli, sono contenute in L’attimo fuggente. Dell’utilizzo “filosofico” dei campioni di fauna delle Galapagos in Master & Commander si è già detto. Assieme agli animali, anche alberi e piante compaiono nei film di Weir per veicolare un messaggio naturalistico che scompagina l’ordine simmetrico della società. Spesso si tenta (invano) di confinare la natura all’interno di limiti ben delimitati: l’immagine della serra, ad esempio, ricorre sovente, in Picnic ad Hanging Rock come in Green Card. L’uso di un paesaggio sublime, nella scia del romanticismo, va anch’esso in questa direzione: il bosco che circonda il collegio in L’attimo fuggente, il bush minaccioso che delimita la cittadina di Le macchine che distrussero Parigi, la selva di Mosquito Coast, le montagne di Un anno vissuto pericolosamente, il misterioso monolite di arenaria di Picnic ad Hanging Rock, l’oceano di Master & Commander, i grandi spazi (deserti e praterie) dell’outback australiano che vediamo all’inizio di L’ultima onda e di Gli anni spezzati (in quest’ultimo film troviamo anche il deserto del Sahara e lo stretto dei Dardanelli). Un capitolo a parte, in questa logica di naturalismo stoico, andrebbe poi riservato all’utilizzo insistito e altamente simbolico che PeterWeir fa degli elementi primordiali: acqua e fuoco. Dalla pioggia incessante di L’ultima onda al mare finto di The Truman Show all’oceano vero di Master & Commander, attraversando laghi, fiumi, piscine, pozzanghere, neve, ghiaccio, e anche le perdite d’acqua di un appartamento o di un bagno, il cinema di Weir è innaffiato, letteralmente, dall’elemento liquido. In modo analogo, i film diWeir sono a tratti incendiati dal fuoco: il fuoco che carbonizza la selva in Mosquito Coast, il fuoco dei cannoni in Master & Commander, il fuoco dei fucili in Gli anni spezzati e Un anno vissuto pericolosamente, il fuoco dell’incidente aereo in Fearless, il fuoco dell’incendio in Le macchine che distrussero Parigi… Entrambi gli elementi, acqua e fuoco, sono sorgenti di vita, ma anche di morte; possono salvare, ma anche distruggere; esprimono l’anarchia del caos, ma anche un nuovo, superiore, ordine. Incarnano tutto il Bene e il Male di una natura che può dispensare saggezza, ma anche andare fuori controllo. Sottendono, in base alla psicologia del profondo, le energie inconsce. Strumenti, insieme, di salvezza e di pericolo, simboleggiano, in ultima analisi, la fondamentale ambivalenza del cinema di Peter Weir. Apprendisti stregoni Nella lotta selvaggia e primordiale tra natura e civiltà, in mezzo si staglia l’individuo, che sta in relazione precaria con il paesaggio sia sociale sia naturale che lo circonda. Un paesaggio che può guarire ma anche ferire in modo irreparabile. Un tale individuo, sballottato tra gli opposti di natura e civiltà, vero e falso, fuoco e acqua, esterno e interno, ordine e caos, comunità e singolarità, cerca in qualche modo di sopravvivere, stoicamente. Talvolta, però, esagera. Emerge allora l’ennesima e ultima figura simbolica ricorrente in Weir: l’apprendista stregone. Colui che cerca di maneggiare cose che poi sfuggono al suo controllo. Le intenzioni sono più che nobili, i risultati finali, spesso, sono l’opposto. Il professor Keating di L’attimo fuggente, Allie Fox di Mosquito Coast, Christof di The Truman Show, Max Klein di Fearless, David Burton di L’ultima onda, Billie Kwan di Un anno vissuto pericolosamente, John Book di Witness, Miranda di Picnic ad Hanging Rock, Archie di Gli anni spezzati: altrettante personificazioni di questa figura speciale e centrale. Anche se l’esito è negativo, rimane, però, il fatto straordinario di esseri umani che da soli si oppongono, insieme, alla dittatura della natura e a quella, molto peggiore, di una civiltà autoritaria, anonima, indifferente alla sorte dei suoi membri. Con essi, soprattutto, si identifica – senza peraltro coltivare illusioni – la componente di umanesimo del regista.

PETER WEIR, AUSTRALIA FELIX Lo stato dell’industria cinematografica australiana prima del cosiddetto revival degli anni Settanta del secolo scorso, quando prende avvio la carriera di Peter Weir, prefigura quello che è diventato l’atteggiamento ambivalente di oggi nei confronti dell’influenza del cinema americano, ora temuta ora auspicata. Non a caso, il periodo più prolifico della produzione australiana coincide con l’era del muto, quando la lontananza fisica del Paese permette lo sviluppo di un’industria davvero nazionale. In questi anni, gli spettatori australiani vedono esclusivamente film di produttori indigeni, senza l’influenza di convenzioni o pratiche straniere. Tutto cambia quando, subito dopo la Prima guerra mondiale, Hollywood assume il controllo economico internazionale: di conseguenza, cambiano i metodi di distribuzione e di esercizio. Le compagnie cinematografiche australiane, anelli di catene monopolistiche di proprietà americana o inglese, cominciano a favorire film d’importazione inglese e americana di costo più basso rispetto ai film prodotti sul territorio nazionale. Una volta che Hollywood riesce a diventare la maggior industria produttrice ed esportatrice di film del mondo, l’Australia è ben presto ridotta al rango di pura consumatrice. I pochi film prodotti sul suolo nazionale guardano, per stile e soggetto, all’America stessa: per rientrare dai costi potendo contare solo sul mercato domestico, sono infatti costretti a risultare appetibili a uno spettatore ormai totalmente assuefatto ai prodotti di Hollywood. Il declino continua inesorabile per tutti gli anni Cinquanta. Peter Weir, che è nato a Sydney il 21 agosto del 1944, in questi anni si mostra un adolescente appassionato frequentatore di sale cinematografiche. Per sua stessa ammissione, apprezza soprattutto il prodotto americano: «È stata un’esperienza eccitante per quelli della mia generazione, una generazione pretelevisiva: i primi film che abbiamo visto sono americani, i primi che abbiamo amato e che ci hanno toccato sono americani, dai film di serie b dei matinée agli horror, e perfino i film inglesi» (in Jonathan Rayner, The Films of Peter Weir, Letts, London, 1993). Tra un film e l’altro, Weir studia alla Vaucluse High School e allo Scots College per iscriversi poi all’Università di Sydney, che abbandona ben presto per andare a lavorare nell’agenzia immobiliare paterna. L’assenza di vivacità nella vita culturale australiana spinge Weir a viaggiare in Europa, per scoprire le fondamenta della società australiana. A vent’anni il primo viaggio a Londra. Questi viaggi gli fanno comprendere la distanza che esiste ormai tra l’Australia e la propria tradizione culturale: un’esperienza personale che pone le basi per i primi tre film e lo avvicina alla scrittura e alla regia attraverso la partecipazione a spettacoli di rivista per i passeggeri delle navi. Subito dopo il ritorno in Australia, verso la fine degli anni Sessanta, Weir decide di tentare la carriera televisiva: di film non se ne parla ancora, dato che non esiste, in questo momento, né un’industria né una scuola cinematografica nazionale. Weir incomincia così il suo apprendistato presso la stazione televisiva Channel 7. Weir può però beneficiare, a breve, della favorevole legislazione che il governo ha varato per ricreare le condizioni di una solida e fiorente industria cinematografica australiana. Weir tra il 1967 e il 1968 realizza i suoi due primi cortometraggi documentari, Count Vim’s Last Exercise e The Life and Flight of the Reverend Buck Shotte, che gli aprono le porte del popolare Mavis Bramston Show, un programma satirico di successo. Il secondo dei due corti dura 37’: la voce di uno speaker televisivo racconta la vita del reverendo Buck Shotte, che predicava e amministrava il culto degli uccelli; i suoi incontri, le conversioni realizzate e mancate, la sua uccisione finale da parte dei tanto amati uccelli. Nel 1969, Weir lascia improvvisamente la televisione per entrare a far parte della Commonwealth Film Unit (CFU) come assistente alla fotografia. In questo modo è il primo a trarre profitto dalle iniziative dell’amministrazione Gorton (premier australiano dal 1968 al 1971). Grazie ai suoi documentari, è uno dei tre giovani registi arruolati per il primo lungometraggio messo in cantiere dalla CFU, Three to Go (1969), e più tardi riceve un contributo dallo Experimental Film

Fund per la produzione indipendente di Homesdale (1971). In questi anni, Weir continua a lavorare con i collaboratori che erano già con lui al tempo degli spettacoli di rivista sulle navi: la sua scrittura e la sua regia tentano di differenziarsi dallo stile hollywoodiano prevalente. Il formato degli spettacoli di rivista per la Tv è, ad esempio, riconoscibile negli sketch e nelle clip di film su cui si basano sia Michael, l’episodio da lui diretto per la trilogia Three to Go, sia Homesdale. Privo di un background scolastico, Weir impara il mestiere direttamente sul set, e lo stile che ne risulta rivela una proficua miscela di opportunismo, sperimentazione e imitazione dei film stranieri contemporanei. Riconoscere le influenze iniziali di Weir significa gettare una luce nuova sui primi lungometraggi australiani del regista, e spiega la combinazione di tecniche popolari e di ambizioni artistiche sperimentata nei suoi film americani. Three to Go si compone di tre cortometraggi che cercano di documentare i problemi della gioventù australiana contemporanea. I tre segmenti del film sono diretti, rispettivamente, da Peter Weir (Michael), Brian Hannant (Judy) e Oliver Howes (Toula). L’episodio di Weir si apre in modo eclatante: un “film dentro il film” mostra la città di Sydney sotto assedio da parte dei giovani rivoluzionari, feroci scontri nelle strade tra gli studenti e l’esercito. La sequenza iniziale di Michael può essere presa a simbolo della simpatia che il film dimostra per i ribelli e per i giovani e del nuovo spirito che aleggia all’interno della stessa Commonwealth Film Unit. Del resto, il supino allineamento dell’Australia all’America nella partecipazione alla vituperata guerra in Vietnam ha già scatenato la protesta giovanile per la sudditanza coloniale del Paese. La (relativamente) giovane nazione australiana, incarnata dalla generazione verde di Michael, inizia a dire di no all’imposizione dei modelli culturali stranieri. La rivolta al controllo dei genitori in Michael diventa, così, emblematica della più generale opposizione australiana alle strutture di controllo ancora modellate su quelle dell’Impero britannico. Stilisticamente, Michael appare molto vicino ai film europei del periodo, con il suo materiale documentario, i salti di immagine e le numerose sequenze di montaggio. Uno stile consapevole di sé e riflessivo, che mette in contrasto la cultura basata sulle “icone” pop e la discussione politicamente motivata, e che non può non ricordare, in particolare, film di Jean-Luc Godard come Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962), Les Carabiniers (1963) e Weekend, un uomo e una donna dal sabato alla domenica (Weekend, 1967). In Michael, la sequenza successiva al “film dentro il film” è preceduta da un rapido montaggio di immagini, che accomuna volti e fucili, fotografie e icone culturali, e le parole “Youth” e “Quake”. Segue il primo piano di un vecchio schermo televisivo, in cui vediamo una donna che suona un organo come introduzione a una tavola rotonda intitolata “Youth Quake”. Il dibattito, condotto da uomini e donne di mezza età, è affiancato da un set di fotografie di Jimi Hendrix, James Dean e John Lennon. La tavola rotonda è coordinata da Neville Trantor, che spiega che il programma riguarderà i problemi della gioventù di oggi, con estratti di film e interviste ai giovani. Il primo estratto termina con il primo piano di Michael, e subito dopo vediamo vecchie fotografie famigliari mentre la voce di sua madre esprime i timori per la ribellione giovanile e per il crollo dei valori della famiglia. L’opposizione è così stabilita: da una parte, i giovani (Michael e le icone della cultura popolare che lo influenzano); dall’altra, la casa e la famiglia – l’establishment che ha nozione del proprio passato (le fotografie) e del proprio presente (l’obbedienza richiesta ai giovani). Insoddisfatto della vita famigliare, della routine dell’ufficio e della sua fidanza ta parimenti noiosa, Michael cerca per sé un ambiente più stimolante. Lo vediamo mentre attende l’autobus per il lavoro insieme a un gruppo di persone vestite tutte nell’identico modo. Michael incontra Neville Trantor che sta facendo interviste ai giovani per strada e li incita ad assumere davanti alla macchina da presa un aspetto aggressivo, arrabbiato. Scene del dibattito sui giovani e scene della vita di Michael (lo shopping con la fidanzata Judy) si alternano tra loro, mentre fanno la ricomparsa le fotografie delle icone pop. Michael inizia a mostrare indipendenza di pensiero e di azione. In un bar, abbandona i colleghi di lavoro e si immerge in una conversazione con Graeme, un attore, e la sua fidanzata

Georgina. La progressiva emarginazione di Michael si evidenzia nella sequenza successiva, che mostra il filmetto domestico di un barbecue seguito alla visita settimanale in chiesa. Michael rivede Graeme in un teatro e, insieme al nuovo amico, arriva in ritardo al compleanno di Judy. Graeme non è ben accolto dalla famiglia della ragazza. La giornata seguente Michael la trascorre insieme a Graeme, lasciando la sua cravatta su una statua nel parco e facendosi beffe degli ufficiali di marina al porto. Graeme introduce Michael nella sua cerchia di amici, dove si sorride ai suoi problemi famigliari: Michael ci viene mostrato come una figura rimpicciolita, inquadrata sulla soglia della stanza avvolta dall’oscurità, mentre gli amici fumano e bevono. Una volta di più, Michael appare una figura intermedia, bombardata da stimoli provenienti da gruppi sociali opposti tra loro. Il film termina infatti con l’immagine di Michael che lascia da solo la casa di Graeme nell’oscurità della notte, accompagnato da una canzone malinconica: la sequenza sottolinea la difficoltà del protagonista di integrarsi sia all’interno della cultura conservatrice sia di quella progressista. Con i suoi soli 30’ di durata, Michael non è in grado naturalmente di proporsi come un saggio approfondito sul fenomeno della cultura giovanile e della politica contemporanea, e appare anche un po’ semplicistico nell’analisi del fenomeno hippy. Suona però sincero e autentico, e soprattutto riesce a esprimere alcuni valori culturali correnti facendo ricorso a uno stile registico già maturo e consapevole. Il film vince infatti il Grand Prix dell’Australian Film Institute. Per la Commonwealth Film Unit, Peter Weir realizza nel 1970 un altro cortometraggio di 6’ intitolato Stirring the Pool. Il film descrive gelosie e malintesi, piccole malvagità, piccole ambizioni nella vita quotidiana di un ufficio: segretarie, dattilografe, un manager, la sua segretaria particolare che non troppo nascostamente attende da lui attenzioni sessuali. Dell’anno successivo è il ben più significativo Homesdale: se la ribellione giovanile di Michael trova le proprie radici nella cultura alternativa contemporanea e nell’esperienza diretta cheWeir ha fatto della contestazione degli anni Sessanta, l’allegoria contenuta in Homesdale racchiude, invece, una decisa critica del patrimonio culturale australiano, retaggio del passato coloniale inglese e degli stretti legami con gli Stati Uniti del secondo dopoguerra. Il film si apre con una canzone che, trionfalmente, giura lealtà all’istituzione del titolo, lo Homesdale Hunting Lodge che, ci informa un cartello, offre «Happiness in Hospice» e «A New Experiment in Togetherness». Le parole della canzone evocano l’obbedienza e l’entusiasmo di un’accademia militare o di una scuola pubblica, dove gli alunni sono plasmati per adattarsi alle istituzioni dell’establishment. I toni da commedia “nera” e dell’assurdo della canzone riecheggiano la presa in giro delle figure d’autorità di Michael, e anticipano la parabola macabra di Le macchine che distrussero Parigi, il lungometraggio d’esordio diWeir. A sua volta, l’incipit di Homesdale, con la glorificazione della residenza del titolo, anticipa quello di L’attimo fuggente, con la celebrazione dell’anniversario della Welton Academy organizzata all’interno della cappella della scuola: assai simile il trattamento che il regista propone degli effetti dell’autoritarismo sull’educazione. L’importanza che all’inizio viene data a Homesdale contrasta con i terreni troppo coperti di vegetazione e con il cancello di ferro arrugginito. L’edificio, che potrebbe essere un centro di vacanza, una casa di riposo o un’istituzione psichiatrica, serve gruppi svariati di ospiti. Dei due gruppi che vediamo nel film, tutti i membri, tranne uno, sono già stati a Homesdale almeno una volta. Quando il primo gruppo arriva in barca, ci accorgiamo di come l’unico ospite nuovo, il signor Malfry, scatti delle fotografie con la sua macchina che non contiene la pellicola. I membri del gruppo vengono sottoposti a una serie di “giochi” e di dure prove, organizzate in modo tale da permettere allo staff di Homesdale di tenere gli ospiti in una situazione di costante inferiorità. Durante la cena, il direttore terrorizza il gruppo riunito in assemblea con i suoi ricordi del cannibalismo da lui praticato durante la guerra e giustificato perché «parte di un lavoro che doveva essere fatto». La confessione stimola altri aneddoti da parte dei presenti: il ricordo della

signora Sharpe di quelli «che non sono tornati», e il racconto dell’ex-soldato Vaughn di come rise istericamente alla vista di un amico mortalmente ferito. L’uso ipocrita dei riti religiosi come forma di controllo istituzionale ritornerà in L’attimo fuggente, mentre l’atmosfera di dominio e di accusa che si respira a Homesdale si alimenta di un divenire da incubo. Il giorno dopo gli ospiti sono condotti nei terreni attorno all’edificio per una specie di caccia al tesoro. Ciascuno di loro si imbatte in oggetti o persone o animali che alludono alle loro più personali, recondite fantasie e fobie. Il processo di vittimizzazione di Malfry si accentua quando gli altri ospiti fanno ritorno dalla campagna. Malfry viene vestito come uno scolaretto, minacciato con un bastone ed esortato a comportarsi meglio. La sera, si finge di ucciderlo con un machete. Dopo l’annuncio che l’indomani sarà espulso da Homesdale, a Malfry cedono i nervi e, durante la notte, decapita uno degli ospiti. Una rapida ricerca all’interno dell’edificio porta alla scoperta dell’arma mortale, il machete, e del signor Malfry che siede calmo nell’ufficio del direttore. Il suo gesto di genuina violenza, suggerito in precedenza nel film da una parodia della scena della doccia di Psyco (Psycho, di Alfred Hitchcock, 1960) rappresenta il culmine del tormento psicologico da lui subito. L’epilogo del film ci mostra il protagonista divenuto membro dello staff di Homesdale, mentre sta porgendo il benvenuto alla nuova comitiva che arriva alla residenza, in particolare all’unico ospite nuovo del gruppo. Malfry è stato accettato nei ranghi dello Homesdale perché ha passato l’ultimo test, dimostrandosi capace di violenza quando provocato. Si è rivelato il più malleabile di tutti gli ospiti. L’autoritarismo esibito in questa fantasia macabra è utilizzato non a fini di pace e ordine, ma per manipolare e abusare dei più deboli. Alla fine Malfry, come l’Alex di Arancia meccanica (A Clockwork Orange, di Stanley Kubrick, 1971), ha imparato a far parte del sistema, perfettamente integrato nelle pratiche sadiche dell’istituzione. Mostrando come il più debole del gruppo diventi uno dei suoi guardiani, l’allegoria antiautoritaria di Weir evoca l’antica domanda: chi sorveglia i sorveglianti? La macchina fotografica senza pellicola di Malfry simboleggia la sua mancanza di una forma precisa e la sua docilità nelle mani del direttore, che può riplasmarlo come meglio gli aggrada. L’influenza del cinema di Stanley Kubrick sul film è riconoscibile anche nella descrizione di una follia istituzionalizzata, che richiama la parodia anarchica del Consiglio di Sicurezza americano in Il dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned To Stop Worrying and Love the Bomb, 1964) e l’incompetenza e crudeltà dei generali francesi della Prima guerra mondiale di Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957). L’allegoria di Homesdale racchiude l’embrione degli aspetti tematici e stilistici che troveranno piena espressione nei film successivi. In particolare, il tema dell’individuo contrapposto a una società autoritaria rimanda a Le macchine che distrussero Parigi e poi a tutti gli altri film australiani e americani. La rigida disciplina che regna a Homesdale anticipa quella dello Appleyard College in Picnic ad Hanging Rock e della Welton Academy in L’attimo fuggente. Gli orrori nascosti nel bush durante la caccia al tesoro scaturiscono dal carattere selvaggio sia dell’uomo che della natura, e rimandano all’esplorazione che le ragazze fanno di Hanging Rock. L’atmosfera contemporanea e la logica da sogno di Homesdale anticipano le domande metafisiche contenute in film come L’ultima onda e Fearless. Prima di esordire nel lungometraggio, PeterWeir dirige altri quattro corti. Heart Head Hand (1972), prodotto da The Crafts Council e The Australian Council e lungo 35’, è un documentario sull’arte degli artigiani vasai, sulla filosofia delle forme, sull’attività quasi demiurgica del vasaio che dall’informe produce, nel suo lavoro, la forma. Three Directions in Australian Pop Music (1972), prodotto dalla Australian Commonwealth Film Unit e lungo 15’, è la ripresa di quattro brani live di altrettanti gruppi australiani degli anni Settanta, Wendy Saddington, Teardrop, Captain Matchbox Whoopee Band, Indelible Murtceps. Incredible Floridas (1972), prodotto nuovamente

dall’Australian Commonwealth Film Unit e lungo 12’, descrive una giornata di lavoro di Richard Meale, il più importante musicista contemporaneo australiano e autore del brano del titolo. Weir concentra la narrazione sul momento dell’esecuzione. Versi di Arthur Rimbaud accompagnano immagini e musica del documentario. Whatever Happened to Green Valley? (1974), prodotto da Film Australia e lungo 57’, si occupa di Green Valley, un insediamento a venticinque miglia da Sydney, edificato nella prima metà degli anni Sessanta. In esso vivono circa trentamila persone. Attraverso le testimonianze dirette dei residenti, Weir racconta la vita di chi abita gli spazi rurali, così come essa si realizza e si svolge, cercando di cogliere la realtà tale quale si mostra, senza romanticismo e senza il sentimento elegiaco che spesso accompagna documentari di questo argomento. Il primo lungometraggio di Peter Weir, Le macchine che distrussero Parigi (1974) è realizzato grazie a un contributo dell’Australian Film Development Corporation, la struttura governativa che ha dato grande impulso alla “rinascita” del cinema australiano negli anni Settanta. È una bizzarra mescolanza di vari generi, horror, thriller e western. Il film viene presentato al Festival di Cannes. In America è distribuito dalla New World di Roger Corman, che però lo rimonta trasformando il protagonista in un turista australiano. In Italia ha avuto la sola edizione televisiva. Del 1975 è il film che sancisce il successo internazionale di Weir, Picnic ad Hanging Rock. Nella sola Australia il film incassa cinque miliardi ed anche in Europa e in Italia (dove esce due anni più tardi) ha una vasta eco. È tratto da un romanzo di Joan Lindsey, che dichiara di essersi ispirata a un fatto realmente accaduto. L’ultima onda (1977) mostra quanto a fondo Weir si sia documentato sulla vita e sulla cultura degli aborigeni australiani. The Plumber (1980) è scritto dallo stesso Weir e girato in 16mm. per l’emittente Tcn 9. In Italia ha avuto la sola distribuzione televisiva. Gli anni spezzati (1981) nasce da un viaggio fatto alcuni anni prima daWeir sul campo di battaglia del 1915, tra le spiagge di Anzac Cove, le trincee andate in rovina e i pezzi di vasellame sparsi ovunque. Per quattro anni Weir, insieme a David Williamson, lavora alla sceneggiatura. Due scrittori lo aiutano: lo storico C.F. Bean e il consulente militare Bill Gammage, il cui libro The Broken Years è il principale punto di riferimento del film. Un anno vissuto pericolosamente (1983) è prodotto dalla Mgm e segna l’entrata definitiva di Weir sul mercato internazionale. È presentato al festival di Cannes del 1984. Witness (1985) è il primo film di Weir prodotto interamente con capitale americano e da una delle più importanti majors di Hollywood, la Paramount. Il produttore Edward Feldman legge la sceneggiatura di Earl Fallace e William Kelley, contatta Harrison Ford, che accetta, e i due poi si rivolgono a Weir per la regia. Mosquito Coast (1986) è sceneggiato da Paul Schrader a partire dal romanzo di Paul Théroux, ed è un grande flop commerciale. L’attimo fuggente (1989), presentato con successo al festival di Venezia, grazie a una storia ambientata in un collegio americano alla fine degli anni Cinquanta rilancia alla grande l’immagine un po’ appannata del regista. Con Green Card (1990), Weir soddisfa una vecchia idea, quella di realizzare un film sulle nozze combinate con cittadini stranieri negli Stati Uniti; ma la pellicola nasce anche dalla grande ammirazione che il regista prova per Gérard Depardieu, che ha visto in Danton (Id., di Andrzej Wajda, 1982). Fearless (1993) è sceneggiato da Rafael Yglesias a partire da un suo romanzo, ed è forse il film più sottovalutato di Weir. Cosa che non si può certo dire di The Truman Show (1998), prodotto dalla Paramount su una sceneggiatura perfetta di Andrew Nicol, grande successo e collezionista di Oscar. Del 2003, infine, è Master & Commander, prodotto da Fox, Miramax e Universal dal decimo libro della popolare saga letteraria dell’inglese Patrick O’Brian (venti romanzi che narrano le avventure del capitano Aubrey e del medico Maturin). Ottimo successo, pioggia di Oscar. Andy Warhol nell’outback. Le macchine che distrussero Parigi Nel prologo del film, assistiamo all’incidente occorso a una spider bianca. La macchina da presa

si alza quindi sul paesaggio e partono i titoli di testa. Due uomini su un’auto avanzano trainando una roulotte. L’auto si ferma presso un ufficio di collocamento: i due cercano lavoro. I titoli dei giornali sono allarmisti sulla crisi economica. Dopo aver fatto benzina (solo un paio di galloni), i due proseguono nella notte. Vedono un cartello che dice che Paris dista cinque miglia; dopo aver guadato un fiume arrivano in prossimità della cittadina. Improvvisamente l’auto esce di strada. Ritroviamo il guidatore, Arthur Waldo, un tipo piccoletto con pochi capelli, ferito nella clinica del paese, che cerca di ricordare ciò che è successo. Il medico locale, il dottor Midland, gli dà il benvenuto e gli dice che il fratello George, che si trovava con lui sull’auto e che al momento dell’incidente era addormentato di fianco al posto di guida, purtroppo è morto. Arthur partecipa al funerale del fratello: la cerimonia avviene con una berlina di colore scuro, seguita da una piccola folla a piedi. Segue una riunione negli uffici del Comune, dove il sindaco mostra con entusiasmo il modello per la “futura” Paris e pronuncia un discorso in stile newdealista in cui promette più lavoro. Arthur è accolto in casa del sindaco, dove conosce sua moglie. Cena con la famiglia del sindaco (oltre alla moglie ci sono anche le due figlie) e cerca di riferire dettagli dell’incidente: racconta, in particolare, di “aver visto una luce”. Confessa inoltre di aver già causato, in passato, la morte di un uomo mentre si trovava alla guida di un’auto. Nei dintorni della casa intanto si aggira l’idiota del paese, Charlie. Più in generale, quella sera, si respira un’atmosfera inquietante. Il giorno dopo, abbiamo finalmente una chiara percezione della particolarità del luogo: il paese è diventato una sorta di discarica delle carcasse incidentate di automobili che giacciono un po’ dovunque. Alle carcasse, la popolazione asporta quasi tutto, pezzi meccanici ma anche i resti delle vittime, beni personali, soldi. Poi si diverte a bruciare le auto facendone grandi falò. La cittadina è un cimitero d’auto abbandonate. E il medico, nel frattempo, trapana crani, assumendo immediatamente la valenza di un “mad doctor”. Dopo aver fatto nuovamente visita al sindaco, Arthur improvvisamente decide di abbandonare quel paese che gli incute timore e si avvia per strada con due valige e una borsa a tracolla. Qui, Paris assomiglia moltissimo a un villaggio western con tanto di main street nel mezzo. Improvvisamente, di fronte ad Arthur, a sbarrargli la strada della fuga si parano due automobili semidistrutte che accendono i motori e lo bloccano. Arthur torna dunque indietro e decide di aspettare l’autobus. Da tutte le parti e in ogni direzione si mettono a sfrecciare numerose automobili rabberciate e colorate nei modi più strani e bizzarri, percorrendo il paese a forte velocità. Seguono alcune scene semidocumentaristiche sulla vita assurda che si svolge a Paris, sulla gente e sulle cose: le gomme vengono usate come moneta di scambio, si commercia in resti di vestiti. Dovunque, tante croci piantate sul terreno. Una vecchia signora realizza sculture utilizzando pezzi d’auto. Charlie il matto si diverte a trasportare in giro pezzi di carrozzeria sporcati dal sangue delle vittime degli incidenti. Il sindaco annuncia il suo progetto di ricostruire il Paris Base Hospital allargandolo e consolidandolo. Propone dunque ad Arthur di venire impiegato come infermiere al pronto soccorso della clinica cittadina: lui accetta ed entra nel ruolo con un bel camice verde. La moglie del sindaco confida ad Arthur che le ragazze non sono figlie sue, ma sono anch’esse due orfane di un ennesimo incidente stradale. L’indomani, tutti si ritrovano raccolti nella chiesa del paese per una funzione religiosa. Arrivano da ogni dove auto dipinte che scorrazzano in giro. Mentre fuori dalla chiesa avvengono corride di auto, con alcune vetture che si esibiscono saltando le file di carcasse allineate come in un circo, all’interno i cittadini cantano insieme “Siamo soldati di Cristo”. Il reverendo offre il proprio discorso trionfalistico sul passato glorioso di Paris e sul suo futuro possibile: si precisano così le figure delle tre autorità cittadine (il medico, il sindaco, il prete). Il sindaco dice ad Arthur che lo considera come suo figlio, gli propone di diventare parte della sua famiglia. Arthur accetta di essergli figlio adottivo: i due si stringono la mano, seduti sul cofano dell’auto davanti al paese circondato dal verde delle colline. Segue una riunione in cui il sindaco parla della posizione da assegnare al parcheggio e ripropone la propria immagine di costruttore del futuro di Paris; incarica poi Arthur della custodia del parcheggio cittadino, e gli porge una targhetta di “Parking Officer”, un simbolo della sua autorità. Fuori, le auto continuano a scorrazzare liberamente per le strade, una distrugge il recinto

dell’abitazione del sindaco, distruggendo anche il busto di un’aborigena. Avanzano degli uomini vestiti in modo truce e Arthur li affronta da solo in mezzo alla strada: una tipica scena da duello di film western, sottolineata in colonna sonora da una musichetta da spaghetti western in stileMorricone. I “nemici” calcano cappelloni rustici Akubra simili agli Stetson dei cowboy, uno addirittura un elmetto. La tensione è spezzata dall’arrivo del poliziotto del paese che convoca nel suo ufficio Arthur e gli altri, rimproverandoli per le loro bravate. Arriva anche il sindaco, che ordina di dar fuoco all’auto del colpevole e pronuncia un discorso di ammonimento nei confronti di chi infrange le leggi di Paris: parte a questo punto il falò dell’auto e la macchina da presa si sofferma a lungo sull’incendio. Viene successivamente rinvenuta la Mini Minor rossa del reverendo, distrutta e insanguinata. La versione di comodo è che è stato lo scemo del paese a sparare: si è trattato di un incidente di arma da fuoco. Arriva subito il medico, tutto gongolante in vista di nuovi esperimenti sanguinari. La strada viene bloccata: Arthur, terrorizzato, vorrebbe andarsene, ma il sindaco tuona: «Nessuno lascia Paris!». Defunto il prete, la leadership è sua. Viene organizzata, nella Paris Victory Hall, una festa celebrativa dell’anniversario della città, con palloncini colorati e musica, ma con un’atmosfera complessivamente triste. Tutti sono vestiti con costumi: Arthur si è travestito da marinaio. Qualcuno balla. Il medico è camuffato da mago e i pazienti dell’ospedale vengono fatti sfilare con la testa avvolta in sacchi di carta da parati. Il sin daco ricorda il defunto reverendo e, naturalmente, parla del futuro della cittadina, assai promettente: «Ci vuole molta forza per percorrere la breve distanza che ci rimane». Fuori, sotto un cielo gravido di nuvole nere, si avvicinano lentamente le automobili con minacciosi fanali accesi. Riprende la musica alla Morricone. All’interno, ora tutti stanno danzando il ballo dei pionieri. Fuori si ferma un’auto Volkswagen tutta coperta di lunghe lame metalliche, simile a un porcospino. È seguita da altre tutte dipinte con denti da squalo, dal look tremendamente aggressivo. Un operaio cerca di allontanarsi sul suo camion, ma viene circondato dalle auto. Intorno, si sentono suoni come prodotti da belve feroci. La distruzione di Paris ha inizio. Le auto sfondano le case di legno, entrano nelle stanze. Ogni cosa viene distrutta. Una delle auto ha ben visibili sul fianco delle svastiche naziste. Gli abitanti escono finalmente dalla Paris Hall. C’è chi reagisce. La macchina assume la valenza di animale, di natura distruttrice. Ci sono i primi morti. A un certo punto, come Agamennone o un eroe greco, un uomo impugna lancia e scudo contro l’auto-porcospino: viene travolto e ucciso, perforato dalle lame. Si scatena la battaglia tra le auto e la gente appiedata. Arthur si rifugia nella berlina del sindaco, che viene subito assalita. Fuori è il caos assoluto, il macello, come un gigantesco autoscontro. La gente comincia ad andarsene; il sindaco cerca invano di fermarli. Se ne vanno a piedi anche i pazienti dell’ospedale. Arthur prende la sua immacolata automobile bianca e cerca di partire, vanamente ostacolato dal sindaco, che è il solo a rimanere. Segue il primo piano del volto di Arthur che guida felice nella notte, mentre in sottofondo si ode una struggente canzone francese. Di fianco a lui, illuminata a intermittenza dai fanali dell’auto, la gente a piedi sulla strada. Ultima immagine: il sindaco, in piano medio, desolato in piedi.

FOT. 1

La struttura del primo lungometraggio diWeir è quella di un western, come capiterà anche in altre occasioni, da Mosquito Coast a Witness: in una turbolenta cittadina dell’Ovest selvaggio scorrazzano liberamente le forze ostili alla civilizzazione. Solo che, in questo caso, non arriva l’eroe

carismatico di turno a sistemare le cose ma, al contrario, un improbabile antieroe brutto e piccoletto (fot. 1) che aggiunge il suo caos personale al caos generale. La dimensione western è sottolineata continuamente, dal trattamento dello spazio della cittadina (la ripetuta inquadratura in campo lungo sulla main street, fot. 2; le colline che circondano Paris e che prefigurano una wilderness brulicante di pericoli; la Paris Victory Hall e la chiesetta triangolare che richiamano, con i loro balli dei pionieri e le funzioni religiose, i vacillanti capisaldi istituzionali di una “civiltà” ancora messa in questione dalle forze eversive e ostili al “progresso”), alle funzioni dei personaggi (le automobili bizzarramente acconciate che richiamano le torme ostili di comanches o apaches sbucate dal nulla sul sentiero di guerra per annientare la civiltà degli invasori bianchi; le ripetute scene di duello che hanno luogo nel paese; la battaglia finale che possiede quel gusto caotico e improvvisato tipico di tante scaramucce western), al continuo utilizzo di motivi musicali e commenti sonori tipici del genere, sia del western classico americano sia, e in misura anche maggiore, del morriconiano spaghettiwestern. Connaturato all’anima del genere è soprattutto il tema dell’autorità, che interessa moltissimo a Weir (il regista è per sua natura e indole ostile a ogni autorità costituita e favorevole invece all’autodeterminazione del singolo individuo, che deve farsi la sua strada da solo). Da questo punto di vista, è sintomatica la sequenza che chiude il film, con quel primo piano soddisfatto del volto di Arthur che fugge finalmente alle “lusinghe” della civiltà (fot. 3), come Ringo e Dallas nell’immortale finale di Ombre rosse (Stagecoach, di John Ford, 1939) (e a un altro capolavoro di Ford, Sfida infernale [My Darling Clementine, di John Ford, 1946], e alla celebre sequenza del ballo sulla piattaforma della edificanda futura chiesa di Tombstone, si può forse fare riferimento riguardo alla sequenza ambientata nella Paris Hall). Per Arthur, in un certo senso, il soggiorno a Paris è stato il corrispettivo di una terapia: una terapia che lo ha liberato dei fantasmi del passato (le due morti per incidenti da lui causati), ma soprattutto lo ha visto ingabbiato in numerose situazioni tipiche di un essere sottomesso: alle avances sperimentali e ai test del mad doctor, dapprima, e in seguito a quelle più melliflue e dunque più insidiose del sindaco-padre, che vede in lui il figlio che non ha avuto.

FOT. 2

FOT. 3

FOT. 4

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FOT. 6

Alcuni critici, ad esempio Jonathan Rayner nel miglior studio finora apparso suWeir (The films of Peter Weir, cit.), hanno parlato, a proposito di Le macchine che distrussero Parigi, di una «combinazione di film artistico, horror e satira sociale». Nulla da eccepire, se non che questa formulazione tende a occultare quella che ci sembra una corrispondenza precisa con alcune delle preoccupazioni maggiori del regista, soprattutto a livello psicologico se non addirittura psicanalitico. Weir esprime questa preoccupazione sia attraverso il personaggio di Arthur/Artù, questo moderno cavaliere della tavola rotonda che deve sfuggire al proprio destino di servo o di perdente (lo vediamo, all’inizio, cercare lavoro nel ventre di un’Australia rurale e depressa, mentre i giornali mandano messaggi preoccupati sulla disastrosa situazione economica della nazione), sia nella struttura di prigione che caratterizza la cittadina di Paris (che nome ironico, tra parentesi, con i suoi rimandi a una lontana, sofisticata civiltà europea così aliena alla rudezza dell’outback – ironia ripresa dalla morbida canzone francese del finale). Una prigione da cui l’intrappolato Arthur cerca vanamente più volte di fuggire, insieme chiedendo aiuto e respingendo le diverse figure di autorità che Weir gli fa incontrare di volta in volta: il sindaco (fot. 4, il potere politico), il reverendo (fot. 5, il potere spirituale e religioso), il medico (fot. 6, il potere tecnico e scientifico). Tre forme diverse ma complementari di manipolazione. Per liberare se stesso, Arthur deve liberarsi, una dopo l’altra, di queste tre figure d’autorità. Una spirale nota e cara al regista, che odia il potere istituzionale in ogni sua forma e manifestazione e che, in questo suo primo lungometraggio, si sbizzarrisce a metterlo alla berlina. Un sindaco che si esalta davanti all’illusorio modellino del suo sogno futuro, patetico e ben presto andato in pezzi; un prete che si sposta in Mini Minor rossa e utilizza il pulpito

per pompieristiche operazioni di immagine («Noi siamo i soldati di Cristo»); un medico che gode a trapanare i crani e considera il suo prossimo unicamente come soggetto di esperimenti diabolici, piccolo Mabuse rintanato nel bush. L’ostilità di Weir per il sistema di potere di Paris (cittadina ovviamente metaforica, che come in un ologramma nasconde il generale nel particolare, ritagliata su quella reale di Sofala, nel New SouthWales) va di pari passo, da un lato, con il procedimento di liberazione psichica di Arthur che riesce a sottrarsi, alla fine, alle tre figure di potere che si contendono la leadership della sua anima, e dall’altro, con la distruzione stessa di queste figure: il prete viene ucciso, il medico vede i suoi “pazienti” sfuggirgli per sempre, e il sindaco è colto nella sua finale solitudine e impotenza in quella che, non a caso, è l’inquadratura raggelata che chiude il film. Certo, il film non disdegna anche atmosfere più tipicamente horror e, sicuramente, esprime quel tasso di satira sociale che è una delle caratteristiche principali del regista. Dietro il paravento di Paris c’è indubbiamente l’Australia del 1974, che Weir considera un Paese in profonda crisi economica e spirituale. I fantasmi della depressione economica, evocati all’inizio, soprattutto nella scena della sosta dei due fratelli all’ufficio di collocamento (fot. 7) e poi in quella alla stazione di servizio, si mescolano con quelli dell’abbrutimento morale, che prende varie forme, spesso metaforiche. Impossibile non notare, ad esempio, il dettaglio del busto dell’aborigena che viene abbattuto da una delle auto (fot. 8), e non andare con il pensiero al dramma dell’emarginazione dei nativi così presente al regista. Tutta la gigantesca metafora delle automobili ribelli, poi, si colora con naturalezza di una radicale opposizione alla moderna civiltà delle macchine, impersonali e fanatiche, e al sottostante sistema capitalistico che di esse e grazie a esse si nutre vorace fondando il suo dominio delle anime sull’uso spregiudicato della tecnica. A questo proposito, però, bisogna notare nel film una notevole sottigliezza, che chiama in causa quello che è forse, secondo noi, il tema principale del cinema di PeterWeir, vale a dire l’antinomia irriducibile tra natura e civiltà. Vero è infatti, in prima battuta, che le automobili del film rappresentano le forze oscure della tecnica e della necessità che la tecnica impone alla libertà dell’individuo (massimamente agognata da Weir). Il loro ostile contenuto tecnologico è fuori discussione: non a caso non scorgiamo quasi mai, se non molto a fatica, le silhouette degli esseri umani che le guidano nei loro raid distruttivi. Questo carattere impersonale delle auto e delle macchine risuona anche nella logica misteriosa, quasi sovrannaturale, degli incidenti in cui sono coinvolte, e che sembrano quasi causare di propria iniziativa. Si noti la dinamica dei due incidenti dell’inizio, quello dei due fidanzati del prologo (fot. 9) e poi quello dei due fratelli in prossimità di Paris: eventi ineluttabili, quasi automatici, come se rispondessero alla spietata logica criminale dell’eliminazione tipica del sistema capitalistico, per il quale esistono solo vittime o carnefici, servi o padroni. Tipiche di un sistema capitalistico sono anche le abitudini dei cittadini di Paris, che con i resti delle vetture incidentate attuano, su scala localistica, le pratiche dello scarto, dell’immagazzinaggio, del riuso, dello scambio, del riciclaggio normali nell’economia capitalistica. Qui, macchina e uomo diventano rapidamente null’altro che merce pura, assoluta (c’è anche un mercato vero e proprio), sia che cadano nelle mani di un saldatore fantasioso sia di un medico sperimentatore. Diventano addirittura arte, come dimostra efficacemente la vecchietta che compone sculture industriali molto attente alle tendenze più avanzate della ricerca artistica contemporanea (fot. 10). A proposito di arte, come non collegare gli incidenti automobilistici (e le fotografie di essi che il medico mostra ad Arthur mescolate alle altre) con le coeve, celebri opere di Andy Warhol che hanno a tema, guarda caso, la rielaborazione seriale di fotografie di incidenti d’auto, eventi apocalittici eppur “normali” nel sistema capitalistico? Una squisitezza da pop-art, che fa il paio, nella genialità dell’artista americano, con le serie ugualmente “oggettive” delle immagini pubblicitarie di prodotti di largo consumo, dalle bottiglie di Coca-Cola alle scatole di minestra Campbell’s, o di quelle dei rotocalchi del cinema e della televisione, dai volti di Marilyn Monroe a quelli di Marlon Brando e Jackie Kennedy, alle violenze poliziesche.

Naturalmente, se viene spontaneo pensare all’agghiacciante serialità warholiana trasformata in opera d’arte, si può anche scegliere di andare avanti nel tempo, di giungere fino al romanzo di James G. Ballard Crash, e al film che ne ha tratto nel 1996 David Cronenberg. Non c’è, in Weir, lo stesso intreccio di eros e thanatos che domina in Ballard e Cronenberg, ma certo vi si rinviene la stessa ossessione feticistica per l’inarrestabile proliferazione delle forme tecnologiche. Dunque, le macchine del film sono una spia del potere malevolo della tecnica e quindi della degenerazione della civiltà capitalistica; ma sono, più sottilmente, anche un riflesso del potere misterioso della natura. Una natura irriducibile alla misura della civiltà costruita dall’uomo. L’automobile più terrorizzante del film ha l’immagine di un animale, un porcospino, irto di lamiere che sembrano aculei (fot. 11); un’altra, sul muso, ha effigiati i denti di uno squalo; le auto, nella loro furia orgiastica, emettono ruggiti come fanno le belve feroci. Insomma, sono tecnica ma anche natura, parti della catena di montaggio industriale ma anche della wilderness; sono una strana compenetrazione dell’una con l’altra. La minaccia è portata alla cittadina simbolica di Paris da auto che assomigliano a belve feroci spuntate improvvisamente (si noti il loro lento avvicinamento alle case nell’oscurità dell’inquadratura) dal bush australiano (che, si sa, a differenza della savana africana o della giungla asiatica o sudamericana non è popolata da fiere – la minaccia maggiore proviene semmai da rettili, coccodrilli e serpenti velenosi, e da certi insetti). La battaglia tra gli uomini appiedati e le auto assume toni epici, ma anche l’andamento di una corrida nella plaza de toros, in cui le vetture assumono la valenza di tori feroci che si scagliano contro il torero armato di spada e banderillas. Contro l’auto-porcospino, mentre l’eroe del film si nasconde o cerca di fuggire, l’eroe mitologico, come l’ardimentoso greco Achille o Ettore o Agamennone, non può che impugnare una lancia e uno scudo (fot. 12), ma finisce travolto: perché, nell’ottica filosofica di Peter Weir e nell’economia simbolica di questo e degli altri suoi film, se si può pensare di fermare in qualche modo la tecnica, non si può fare nulla quando eruttano le forze più profonde della natura (questo aspetto risulta assai più forte nel suo periodo “australiano”).

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L’antinomia weiriana natura/civiltà percorre altri momenti del film, anche in piccoli dettagli come spesso piace fare al regista: l’immagine simbolo del film potrebbe anche essere, subito all’inizio, quella del vitello caricato a forza nel bagagliaio di un’auto ferma accanto alla roulotte dei due fratelli Waldo (fot. 13). È come se, in questo preciso momento, l’auto stesse incorporando, a beneficio futuro, quella forza animale che poi erutterà violentemente nel finale del film. Un’antinomia, quella tra civiltà e natura, che sovraintende peraltro l’intera organizzazione e distribuzione spaziale del film, come pure lo specifico trattamento del paesaggio sia rurale sia urbano (un aspetto per il qualeWeir ha sempre la massima attenzione e cura). La cittadina di frontiera appare circondata da ogni dove dalle colline che chiudono l’orizzonte e rimandano a una wilderness ancora in grado di partorire minaccia. Una cittadina, quella di Paris, che si sforza di

apparire formale (ricorrendo spesso alle strutture codificate della cerimonia: il funerale del fratello di Arthur, la funzione religiosa nella chiesa, il ballo nella Victory Hall) e si presenta con un look asettico (le linee chiare, razionalistiche della clinica; la main street diritta che divide esattamente a metà l’abitato), ma che, alla fine, deve cedere di schianto alle forze oscure emerse dal di fuori che la distruggono completamente. Un impianto metaforico che prende parecchio a prestito, ancora una volta, dal grande western classico americano: il cinema della frontiera ha questa capacità ineguagliata e ineguagliabile di riflettere, insieme, il sorgere di una civiltà e l’estrema precarietà e fragilità di questa stessa civiltà.

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Un altro dei temi prediletti di PeterWeir, oltre alla propensione già ricordata per la critica sociale, è infine quello della famiglia. Weir appare sempre preoccupato per la libertà e autodeterminazione dell’individuo, ma vede il suo rapporto con un nucleo famigliare come qualcosa di naturalmente ambiguo: in questo film, da un lato, Arthur ha bisogno di far parte di qualcosa, dall’altro vede il rischio di essere fagocitato e di uscirne stravolto nella sua singolarità. Valuta le continue profferte del sindaco di entrare a far parte della sua famiglia (formata, tra l’altro, grazie a due figlie orfane di altri genitori) e della sua casa alla stregua di un figlio adottivo come qualcosa, insieme, di confortante e di umiliante. Da un lato, la famiglia del sindaco (del sindaco, non di uno qualunque ma del leader stesso della comunità) gli appare come la soluzione alla sua condizione di isolamento (ha appena perso il fratello, e se ne assume la colpa), dall’altro, all’opposto, come un problema: significherebbe la rinuncia definitiva a farsi strada da solo nella vita. Potrebbe così confondere il suo destino personale con il futuro roseo stupidamente promesso a ogni momento dal sindaco ai cittadini di Paris. Alla fine, la ribellione delle automobili/belve al loro banale destino di strumenti/contenitori di stupidi incidenti stradali per assumere un ruolo distruttivo ben più radicale di messa in questione di un modello di civiltà visto come innaturale (il passaggio da quelle “piccole apocalissi” di tutti i giorni che sono gli incidenti stradali – anche nell’accezione seriale warholiana – a quella Grande Apocalisse che già preannuncia un film come L’ultima onda) conduce, come conseguenza secondaria (o “bene collaterale”), al riscatto liberatorio e alla conquista della felicità da parte del protagonista. Lo scontro irriducibile tra natura e civiltà, per una volta, ha premiato l’Individuo. Cigni e rettili. Picnic ad Hanging Rock Sullo schermo una scritta: «Sabato 14 febbraio 1900. Un gruppo di studentesse del collegio Appleyard fece picnic a Hanging Rock vicino a Mount Macedon nello stato del Victoria. Nel pomeriggio parecchi membri del picnic sparirono senza lasciare tracce. Quello che segue è il resoconto di ciò che accadde». La prima inquadratura del film offre una veduta del bush da cui affiora la roccia coperta dal verde della vegetazione. Viene poi inquadrato il collegio. Segue il primo piano di una ragazza bionda che si sveglia; una sua compagna spalanca la finestra, un’altra si lava la faccia. Le ragazze sono abbigliate con sottovesti bianche, immagini leggiadre. È il giorno di San Valentino, il giorno dell’amore. Il volto della bionda, Miranda, appare incorniciato nell’ovale di uno specchio: la sua

compagna mora, Sara, è visibilmente infatuata di lei. Le ragazze scendono le scale, preparandosi al picnic. Ma a Sara è proibito andare. Tutte le ragazze sono vestite di bianco, con rose rosse e cappellini di paglia. Arriva quindi Miss Appleyard, direttrice del collegio, che dà le istruzioni per la gita. Sara guarda le altre allontanarsi su un calesse. Lungo il tragitto, attraverso villaggi dove i bambini si divertono a inseguire la carrozza, l’istitutrice, Greta McCraw, correggendo le osservazioni del cocchiere («Hanging Rock è alta 200 metri circa, è di origine vulcanica, vecchia di migliaia di anni»), descrive con precisione il luogo verso cui si stanno dirigendo: «È lava silicea, eruttata allo stato viscoso dalle viscere della terra con estrema violenza, ma è giovane geologicamente». Giunti sul posto, ci si accorge che altra gente sta facendo picnic. C’è in particolare una famiglia con un figlio adolescente ben vestito. Il ragazzo, Mike, si avvicina a un coetaneo di classe visibilmente inferiore, Albert, il suo cocchiere, che sta tenendo una bottiglia di vino in mano e cattura una grossa cicala che si è posata sul suo braccio. Le ragazze scendono dal calesse, e nello stesso istante un volo di cacatua attraversa il cielo, si sentono nitrire i cavalli, odiamo suonare il flauto di Pan: tutto conferisce al luogo un notevole pathos erotico. Si fa un brindisi e si taglia la torta di San Valentino, a forma di cuore, con un coltellaccio che la divide a metà. Intanto, nel collegio, Miss Appleyard catechizza Sara: «Hai imparato la poesia a memoria? Stai seduta dritta, ti sta venendo la gobba!». Sara reclina la testa e pronuncia a bassa voce il nome dell’amica Miranda. Ad Hanging Rock, la macchina da presa si muove tra le ragazze. Una recita una poesia, altre si accarezzano o giacciono sull’erba. Quando d’un tratto il cocchiere chiede l’ora, ci si accorge che tutti gli orologi sono fermi. Tre ragazze vogliono andare a prendere le misure delle rocce, si aggrega una quarta: «Torniamo all’ora del tè». Miranda, la leader del gruppetto, si volta e saluta una compagna mandandole un bacio. Quest’ultima tiene in mano un libro con l’immagine della Nascita di Venere del Botticelli e commenta: «Adesso so che Miranda è un dipinto del Botticelli». Le quattro ragazze guadano un ruscello osservate da Mike e Albert. In ralenti, Miranda, ultima della fila, fa un saltino per superare il rio. Albert commenta con voluttà. Attratto da Miranda, Mike si inoltra per un po’ nel bush, seguito a sua volta dallo sguardo di Albert. Le quattro ragazze avanzano nell’erba alta fino ai primi contrafforti della roccia: comincia l’ascesa in mezzo ad alte felci. La macchina da presa si muove lateralmente scoprendo gli eucalipti e il paesaggio intorno: un movimento circolare a 360° arriva infine a riprendere le quattro amiche che entrano in una stretta fessura nella roccia. Passano per un’altra fessura ancora più stretta, inquadrata dall’alto. Attraverso un pertugio scorgiamo Miranda, chiazza bianca tra lo scuro delle pareti. Sbucano in uno spiazzo, e qui si adagiano in pose voluttuose sulla roccia. Una delle compagne di escursione di Miranda, Irma, paragona Sara a un cerbiatto la cui morte è scritta negli occhi. C’è poi un ralenti con un movimento rotatorio della testa di Miranda, che va in sovrimpressione alla roccia: la sensazione di immersione nella natura è totale. Una calza viene levata, si vedono gambe nude e piedi scalzi di tre ragazze su quattro, che proseguono. Si fermano a osservare dall’alto, e una di loro commenta: «La gente è proprio buffa vista dall’alto. Sono piccole formiche. A volte penso che pochi esseri abbiano uno scopo, ma uno scopo esiste per tutti. Sono disegni misteriosi». Miranda aggiunge: «Ci sono un tempo e un luogo giusti perché ogni cosa abbia principio e fine». Le quattro si sdraiano a terra, ai piedi di tre guglie dall’evidente disegno fallico. Le formiche passano sui piedi, un grosso sauro (uno scinco) sfiora il braccio di Miranda. Rimasta al campo, la McCraw ride guardando su di un libro una forma geometrica che mette in relazione altezza e distanza. Un’inquadratura dall’alto mostra le quattro addormentate. Segue un primo piano di Miranda che apre gli occhi, sente il rumore del vento come un richiamo, e poi un ralenti di lei e delle altre che proseguono in fila come sonnambule. Una di loro, Edith, urla, poi corre via dalle altre, dirigendosi in basso. Nel collegio, la Appleyard guarda dalla finestra, mentre un gruppo di tacchini bianchi attraversa l’inquadratura. La sera, arriva la carrozza. Le ragazze scendono piangendo e singhiozzando. Si scopre che tre delle ragazze e la McCraw si sono perse sulla roccia. Sara è sgomenta. Cominciano subito le ricerche. La ragazza superstite, Edith, è a letto, e viene interrogata. Il medico accerta che ha solo dei graffi sulle gambe. Viene intanto rinvenuto un capo di Miranda, e viene poi fatta un’altra spedizione, infruttuosa. Nel frattempo Mike partecipa a una festa sontuosa in riva a un lago, alla

presenza di suo zio governatore, con musica e tendoni. Non si rassegna alla scomparsa di Miranda. Albert gli dice di mettersi il cuore in pace, ma Mike vuol tornare alla roccia e chiede all’amico di accompagnarlo. I due, all’alba, vanno così a cavallo fino alla roccia. La cavalcata è contrappuntata da continui primi piani sulla fauna: pappagalli, un ragno, un koala. I due salgono verso le guglie rocciose, perdendosi di vista. Mike lascia dei biglietti in giro, passa la notte sulla roccia. Al mattino, lascia altri biglietti, poi sale ancora, in ralenti, si adagia a terra, va in crisi. Striscia verso un’apertura vaginale nella roccia. Albert torna indietro e, seguendo i biglietti come Pollicino, ritrova l’amico in gravi condizioni. Torna quindi con polizia e medico, salvandolo. Mike, caricato sulla carrozza, gli porge il lembo di una sottoveste che ha rinvenuto. Allora Albert ritorna sulla roccia e trova una delle tre ragazze sparite, Irma, ancora in vita. La Appleyard, in classe, ringrazia per Irma e prega per Miranda, Marion e Miss McCraw, ancora non rintracciate. Irma trascorre la convalescenza a casa dello zio governatore di Mike. Viene visitata a letto dal medico, che riscontra solo qualche taglio e graffio, oltre a una piccola ferita sulla fronte. Anche lei è «integra, intatta». Non si trova però il suo corsetto. Nella serra del collegio, avviene una discussione tra il giovane servo, Tom, e il vecchio giardiniere. Si parla della possibilità di un rapimento, di una luce sospetta che si sarebbe vista in un porcile a un miglio dalla roccia. In un colloquio con Sara, la Appleyard le comunica che se il suo tutore non paga le rette in arretrato, dovrà andarsene entro Pasqua, e nel frattempo la priva di ogni extra, come danza e cucito. Intanto viene fatta un fotografia della squadra di salvataggio, sulla roccia c’è una vera e propria kermesse: arriva la stampa, vengono fotografati i luoghi e le persone. Miss Lumley, una delle istitutrici, fa visita a Irma e mostra di essere infatuata non poco di lei. Mike ricorda Miranda, continuamente associata all’immagine di un cigno. Viene messo un avviso di “missing person” per le tre donne scomparse. Irma raggiunge le compagne per un saluto, poi parte per l’Europa. La Appleyard riceve le dimissioni di una delle sue Miss, poi apre un cassetto e si versa abbondantemente da bere, per la disperazione. Da sola sul letto davanti a un quadro con Madonna, bambino e angeli, la direttrice ripete a se stessa «Non siamo qui per fare beneficenza». La Appleyard crolla e si mette a piangere nella sua stanza, davanti a foto e stampe, tra cui la regina Vittoria, una tigre, una donna che dorme. C’è anche un piccolo cigno di ceramica. Veniamo intanto a sapere che Albert e Sara sono fratello e sorella. Il tutore viene per portare via Sara dal collegio. Il vecchio giardiniere arriva nella serra, entra, sente mosche ronzare, uno squarcio nel tetto, il cadavere di Sara per terra. Allora corre a comunicarlo a Miss Appleyard, che appare tutta vestita a lutto, con una veletta. È l’anticipo dell’annuncio della sua morte, che una voce fuori campo ci comunica subito dopo: «Il corpo di Miss Appleyard fu trovato ai piedi di Hanging Rock venerdì 27 maggio 1900. Pare che la donna precipitasse nel tentativo di scalare la roccia». Ci viene poi comunicato che le ricerche delle ragazze smarritesi il giorno del picnic proseguirono senza risultati e che sulla vicenda domina ancora un forte mistero. Riprende il flauto di Pan, con immagini rallentate delle ragazze durante il picnic, con il saluto tra Miranda e Miss Lumley. L’inquadratura finale è un piano fisso sulla testa di Miranda girata.

Il secondo lungometraggio di Weir rappresenta un’autentica miniera di simboli e metafore, quasi tutte riferite all’antinomia fondamentale natura/civiltà, che in questo film celebra uno dei suoi maggiori trionfi. Naturalmente, all’origine c’è la bipartizione tra i due luoghi che si contendono il dominio del film (e delle anime dei personaggi): il collegio (fot. 14) e la protuberanza rocciosa di Hanging Rock (fot. 15). Il primo è nato per allevare e addestrare giovani fanciulle in fiore ed è soprattutto un luogo di contenimento, e al suo interno (un interno labirintico) sono all’opera potenti forze di repressione sessuale; il secondo viene proposto come luogo in cui le tensioni (sessuali e no) possono essere liberate. Il primo è un luogo in cui prevale il gruppo; nel secondo può manifestarsi appieno la potenza del singolo individuo. La finestra che viene spalancata (fot. 16) il mattino del giorno di San Valentino (la giornata dell’amore) assume il preciso significato di una disponibilità da parte delle ragazze all’avventura e al rischio. Questo però è solo lo schema di massima; è nel dettaglio visivo che si deve ritrovare l’espressione di un’efficacia artistica. Ricorrono, durante il film, molteplici simbologie che mettono in correlazione diretta natura e civiltà, suggerendo che la

civiltà di cui si parla (fondamentalmente, la società vittoriana trasferita di peso dall’Inghilterra alla sua colonia australiana, insieme al suo bagaglio di tabù, divieti e repressioni – il ben educato Mike, nipote del governatore, a un certo punto sottolinea come, in Inghilterra, non sarebbe stato permesso a delle ragazze di andarsene da sole per il bosco) non è costruita a misura dell’individuo, e dunque in qualche misura appare contro natura. Il gesto di introdurre una rosa dentro una scatola (fot. 17), subito all’inizio del film, suggerisce, come altre volte inWeir, il tentativo (vano) di comprimere l’elemento naturale all’interno di una struttura sociale artificiale che sia in grado di soffocarlo, contenerlo. Weir non crede alle virtù della comunità. Il libro che Miss McCraw tiene in mano mentre le ragazze compiono l’escursione fatale contiene il disegno di una forma geometrica che mette in relazione l’altezza e la distanza (fot. 18) – un tentativo patetico di prendere le misure di ciò che non è misurabile con precisione; la donna, una nubile di mezza età, guarda in alto verso le guglie rocciose e appare allora chiaro che nessun libro sarà in grado di dare la misura a quella natura così selvaggia. Sapremo poi che, subito dopo, si è lanciata anch’essa verso la roccia ed è stata avvistata senza gonna, in mutande. Un altro libro, tenuto in mano da una ragazza, contiene la riproduzione della Venere botticelliana (fot. 19). Miranda vi viene paragonata: anche qui, però, scaturisce un concetto di bellezza troppo angusto per le aspirazioni della ragazza e delle sue amiche. Lo squarcio che si produce nella serra rappresenta, anch’esso, l’irruzione dall’esterno in una natura che si pensava di poter contenere, addomesticare. La serra è appunto il tentativo di soggiogare la natura con la scusa di conservarla intatta. Le piante nella serra assomigliano alle fanciulle del collegio: però, anche le piante – osserva il vecchio – possono muoversi, esattamente come gli esseri umani. Ogni fase dell’ascensione ad Hanging Rock è connotata da precise simbologie, per lo più sessuali; è un dato di fatto che, in questo film, la liberazione individuale avviene soprattutto attraverso l’infrazione dei codici di repressione sessuale. I simboli sessuali sono ovunque. Delle guglie aguzze della roccia vengono a più riprese sottolineate dalla macchina da presa le caratteristiche falliche (fot. 20): verso di esse si dirige sovente, dal basso in alto, lo sguardo dei personaggi femminili del film. Le fessure nella roccia, a loro volta, contengono una precisa connotazione uterina, vaginale (fot. 21). D’altronde, la nascita stessa dello sperone roccioso era stato descritto, da Miss McCraw sul calesse in avvicinamento, con parole che esplicitamente fanno riferimento a un sottofondo sessuale: la «lava silicea eruttata allo stato viscoso dalle viscere della terra con estrema violenza» rimanda a una esplosione orgasmatica, a una eiaculazione di sperma maschile. Se la roccia possiede questa connotazione sessuale, così come i suoi labirintici anfratti, le sue guglie, le sue fessurazioni, l’ascesa a essa da parte dei vari personaggi diventa pari pari un’esperienza orgasmatica, con tanto di deliquii, perdite di coscienza, estasi, movimenti sonnambolici, abbandoni, svenimenti. Ciò coinvolge non solo Miranda e le sue amiche (e, non vista, Miss McCraw, che qui sembra voler finalmente perdere quella “mascolinità” che le rinfaccerà risentita Miss Appleyard nel suo amaro sfogo finale), ma anche Mike, quando, a sua volta, scala il monte alla ricerca di tracce delle scomparse. Il deliquio sessuale, autonomo o provocato, è lasciato giustamente nell’ambiguità più assoluta: le ragazze, dopotutto, sono rimaste “integre”, come sottolinea in due occasioni il dottore. Il film non è un thriller soprannaturale, come qualcuno ha detto: rappresenta, un po’ come era avvenuto per Arthur in Le macchine che distrussero Parigi, soprattutto un’esperienza liberatoria, senza ritorno se vogliamo. L’immersione, lo scioglimento quasi nella natura, nella wilderness, viene sottolineata ad esempio nell’uso della sovrimpressione, a cui il regista ricorre durante l’ascesa di Miranda: la sua testa si sovrappone alle rocce, diventa un tutt’uno con esse (fot. 22). La testa è colta in un movimento rotatorio all’indietro, e la stessa immagine viene ripresa nell’inquadratura fissa che chiude il film (fot. 23): sembra che la ragazza sia pienamente consapevole di quanto sta facendo, che il tutto sia una sua scelta libera, che anzi attraverso di essa riesca a realizzare pienamente la sua vera natura (dice, al culmine dell’ascesa: «Ci sono un tempo e un luogo giusti perché ogni cosa abbia principio e fine»). Che è poi quella del

cigno, a cui è a più riprese accostata nel film (fot. 24). Il cigno, con il suo collo flessuoso e il piumaggio bianco, è il simbolo tipico della purezza e della illibatezza. Perciò Giove scelse questa forma per avvicinarsi all’innocente Leda. Il cigno rappresenta anche la grazia e la bellezza femminile, e dunque sta benissimo assieme con la Venere botticelliana, a cui pure Miranda (che poi significa: “da guardare, da ammirare”) viene accostata. Vediamo cigni un po’ dovunque, anche sotto forma di una piccola statuetta che compare nella camera di Miss Appleyard. Spesso, è lo sguardo maschile ad associare Miranda all’immagine del cigno. Perché, se nel film c’è un preciso “sguardo” femminile connotato sessualmente, ce n’è anche uno, corrispettivo, maschile. Che è quello, ad esempio, di Mike, quando segue con gli occhi i movimenti leggiadri e rallentati di Miranda che inizia la sua ascesa estatica. Uno sguardo appena più plebeo è quello di Albert, il cocchiere, che si concentra soprattutto sul rigoglio fisico della ragazza, sulle sue «chiappette». Al “cigno” Miranda viene, del resto, contrapposto il “brutto anatroccolo” Sara, la mora di fronte alla bionda, legata a un destino di marginalità ed esclusione, verso la quale va peraltro la decisa simpatia del regista, attratto dalla sua condizione di “senza famiglia” e sempre pronto a solidarizzare con i deboli e i perdenti.

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Il cigno è peraltro solo uno tra i tanti esponenti di un “bestiario” quanto mai variegato e interessante, che sottolinea continuamente aspetti psicologici di questo o quel personaggio. L’utilizzo dei rettili striscianti (lo scinco, fot. 25 – che è un sauro serpentiforme australiano –, la pogona) possiede una chiarissima connotazione sessuale: tradizionalmente, il corpo del rettile è associato al pene e la testa triangolare alla vagina – anche se, va aggiunto, la lucertola ha una valenza positiva (rinascita, ringiovanimento mediante la continua muta della pelle, nostalgia per la luce spirituale). Lo scinco appare strisciando a fianco della gamba di Miranda addormentata, in un momento di sosta durante la scalata; la pogona appare durante un analogo momento di abbandono sessuale che capita a Mike durante la sua ascesa. Ai rettili, dai quali Miss Appleyard aveva messo in guardia le ragazze («temibili serpenti»), possono essere accomunati i tanti insetti, le «insidiose formiche» che divorano i resti del cibo o camminano sui piedi delle ragazze, un ragno, una cicala. Ma nel film compaiono molti altri animali, dal gruppetto di tacchini bianchi (fot. 26, uccelli non in grado di volare) che, agli occhi di una preoccupata Miss Appleyard, prefigurano una sorte infelice per le sue ragazze ugualmente vestite di bianco (fot. 27) alla tigre ritratta in una stampa nella camera della direttrice, allusiva forse alla sua natura dispotica e «malvagia» (Sara dixit), a un koala, al cerbiatto a cui Irma paragona Sara, ai tanti cavalli, persino ai maiali del porcile in cui «si è vista una luce sospetta». Senza dimenticare le numerose inquadrature di uccelli in volo, i cacatua e i pappagalli, che alludono alla ricerca di libertà da parte delle giovani. Le creature che si avvicinano al cielo per mezzo delle loro ali (a differenza dei tacchini) sono l’incarnazione del desiderio umano di staccarsi dal peso della vita terrena e di raggiungere come gli angeli sfere più elevate. Miranda e le sue amiche hanno

questa stessa ambizione: staccarsi dalla terra e rivolgersi verso l’alto, fino a trasformarsi in creature angelicate. Il mistero della loro scomparsa forse è tutto qui: volare libere nel cielo come uccelli, anime private del corpo, pura spiritualità. Miranda, guarda caso, è soprannominata “birdie”, uccellino, dalla sua spasimante Sara. Insomma, l’intera fauna autoctona australiana è qui convocata per convogliare sentimenti e passioni, ma anche, forse, per sottendere un certo spirito nazionalistico, in opposizione alle regole rigide importate dall’Inghilterra e inculcate ai giovani locali. Lo stesso dicasi per la flora, soprattutto i fiori e le rose di vario colore, che appaiono in ogni momento della storia e vengono scambiati tra i vari personaggi. Fauna e flora rappresentano, ovviamente, l’elemento naturale che si insinua e spinge ad aprirsi.

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Ma i simboli non si fermano qui: possiamo citare il coltellaccio che divide in due una torta a forma di cuore formando su di essa una sorta di vagina, il megafono infilato nelle fessure della roccia, il cappello a tuba di Mike che Albert si mette in testa, la bottiglia di vino agitata da Albert e offerta a Mike, la banana addentata da Miss McCraw, l’ombrellino parasole tenuto in mano dalle ragazze, il lungo bicchiere maneggiato da Albert, il flauto di Pan che risuona nel film nei momenti di maggiore smarrimento panico nella natura… Quasi tutti simboli più o meno espliciti di un desiderio sessuale ora represso ora agognato ora sottilmente evocato (soprattutto i continui scambi omoerotici di oggetti tra i due maschi del film, Mike e Albert). E che dire dei tanti orologi del film, che improvvisamente si fermano a mezzogiorno del 14 febbraio 1900? È proprio a partire da questa improvvisa sospensione della temporalità che si scatena, da parte di Miranda e delle altre, il desiderio di scalare la montagna. Più avanti, un’inquadratura fissa su di un pendolo rimanda alla fissità dello sguardo di Miss Appleyard, preoccupata del destino delle fanciulle.

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Sono all’opera, nel film, altre tematiche tipiche del regista, che ne arricchiscono il tessuto. Ad esempio, la già accennata propensione a una difesa/esaltazione dell’autoctonia australiana, vista come dimensione libera e selvaggia in contrapposizione alla rigidità della madrepatria britannica. Ciò è evidente nel modo diverso in cui sono presentati i due giovani maschi del film: Mike, nipote del governatore, è proposto per la prima volta con un look “ingessato”, che lo rende impacciato e anche un po’ ridicolo in mezzo al bush: bombetta, panciotto, cravattone (fot. 28). All’opposto, Albert, subito dopo, è presentato senza giacca, assai più sciolto e a suo agio, con una bottiglia di

vino in mano e un segno della wilderness, una grossa cicala, sul braccio (fot. 29). I due sono posti in diretta competizione nazionalistica, oltre che di censo e condizione sociale; dirà Mike: «agli australiani manca la testardaggine inglese». Miss Appleyard ricorda con nostalgia le proprie vacanze sulla Manica con il defunto marito, tutte uguali, stesso albergo, stesse persone. Dunque, la noia e la routine vengono accostate nel film all’Inghilterra, la novità e l’emozione al Nuovissimo Continente. Associato a questa preoccupazione, diciamo così, nazionalistica, sta l’ugualmente usuale interesse di Weir per le tematiche a sfondo sociale, in particolare per le differenze di classe. L’aspetto, ancora una volta, è particolarmente evidente nella contrapposizione tra Mike e Albert («Di fronte a certe faccende, signorino, siamo tutti uguali»), ma traspare anche nei personaggi di contorno, ad esempio i due inservienti del collegio, Tom eMinnie. I due, personaggi plebei, non a caso sono gli unici che nel film fanno davvero l’amore, godendone visibilmente, senza limitarsi a sognarlo o desiderarlo o reprimerlo. Mentre però Minnie prova pietà per le ragazze, Tom, indubbiamente un radicale, dice di odiarle per il solo fatto che sono ricche. Sara non ha nessuna possibilità di rimanere nel costoso collegio, dato che il tutore non si decide a pagarle la retta, e questo fatto economico la relega immediatamente in un rango di emarginata e isolata, oggetto di continue punizioni, rimproveri e umiliazioni da parte della formale, durissima Miss Appleyard. Albert, presso Hanging Rock, commenta con insolita durezza le abitudini del governatore e della sua famiglia: «Ce li vede lei a scalare la roccia?». Come sempre in Weir, l’isolamento dell’individuo scaturisce in prima battuta da un fattore economico che decreta l’esclusione dalla comunità: una comunità che spesso fa del male anche quando si propone di fare del bene. Da questo punto di vista, il collegio femminile Appleyard anticipa l’istituto scolastico maschile di L’attimo fuggente, e la sorte di Sara prefigura quella di Neil Perry in quel film (accomuna i due personaggi anche l’interesse per la poesia). Per non dire del francese immigrato illegale in Green Card. Analoga attenzione viene riservata a un’altra delle preoccupazioni diWeir: la famiglia. Più volte è sottolineata, nel film, la condizione di orfani di Albert e di Sara, e l’intera comunità del collegio è, in realtà, una grande famiglia formata da un solo sesso, in cui si scatenano dinamiche di attrazione e repulsione (Miss Lumley e Irma, Sara e Miranda, Miss Appleyard e Sara).

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Infine, ci preme sottolineare gli aspetti fiabeschi del film, presenti sia a livello narrativo sia a livello letterale. Tutta la vicenda assomiglia a quella di una favola, con le belle fanciulle che si smarriscono nel bosco stregato e sono vittime di un incantesimo. Spesso, Miranda viene inquadrata mentre sta dormendo o si sta appena svegliando, come se fosse La Bella Addormentata nel Bosco. Il frequente utilizzo di riprese rallentate aggiunge all’azione una dimensione sognante o sognata. Quel sogno che viene evocato subito all’inizio del film da una voce femminile fuori campo (è la prima voce che udiamo, e rappresenta a suo modo una indicazione di lettura di ciò che succederà in seguito): «La vita è sogno, solo sogno. Il sogno di un sogno». Come Biancaneve, Miranda si riflette in uno specchio ovale (fot. 30), e c’è anche la Regina Cattiva (Miss Appleyard, ovviamente, l’unica sempre vestita di nero, fot. 31). Anche il cerbiatto cui è paragonata Sara rimanda alla favola di Biancaneve, mentre la carrozza con i cavalli (e il ritorno entro un’ora prefissata) rammenta quella di Cenerentola di Perrault. Sara è il Brutto Anatroccolo di Andersen. Mike, da un certo punto in poi, si trasforma nel Principe Azzurro che in sella al suo destriero parte al salvataggio della bella principessa bionda in pericolo (fot. 32), seguito dallo scudiero recalcitrante (Albert). Come nella fiaba di Pollicino, Mike lascia dei biglietti disseminati lungo il percorso, ed è grazie a essi che Albert riesce a ritrovarlo. E poi le improvvise scomparse e riapparizioni, quasi magiche. E il bizzarro sogno del capanno che Albert racconta a Mike. Lo stesso paesaggio attorno ad Hanging Rock possiede una precisa qualità fiabesca, con quelle gigantesche felci e i suoi bizzarri animaletti che spuntano da ogni dove. Anche i ripetuti accostamenti dei personaggi a figurazioni o a una iconografia pittorica (oltre a Miranda/Venere di Botticelli, ricordiamo Miss Appleyard seduta da sola sul letto davanti a un quadro con la Madonna, il bambino e gli angeli, ironica allusione alla propria condizione di vedova senza figli e con gli “angeli” scomparsi nel nulla, e poi, di nuovo, accostata a una stampa con la regina Vittoria, sorta di suo alter ego) conferiscono al film una ulteriore qualità non realistica.

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Le piogge di Sydney. L’ultima onda Sui titoli di testa del film, un anziano aborigeno dipinge sulla parete rocciosa di una cavità. Usa colori ocra e gialli, è ripreso dal basso verso l’alto mentre disegna figure di animali. Dal primo piano di una figura a cerchi concentrici si passa all’inquadratura di due ragazzi aborigeni sulla strada. Hanno catturato un rettile, una pogona, e arrivano nei pressi di una catapecchia. Il campo totale della strada introduce nella scena anche un gruppetto di ragazzi bianchi che giocano con una palla. Si sente il soffio del vento, oltre a vari tuoni, nonostante il cielo sereno. Viene suonata una campanella per chiamare a raccolta gli alunni della scuola. Improvvisamente arriva una tromba d’aria e si scatena una pioggia torrenziale: irrompe il terrore, allorché cominciano ad abbattersi sulla scuola chicchi di grandine enormi. Sta piovendo anche in città, a Sydney. David è seduto a un tavolo e guarda preoccupato fuori. Esce in auto, sotto il diluvio, ma rimane ben presto bloccato nel traffico. Lo ritroviamo quindi a cena, insieme alla famiglia, la moglie Annie e due figlie. Improvvisamente nella casa si mette a cadere dell’acqua, scorre un rivolo giù per le scale, ma si tratta solo della vasca da bagno che trabocca. La notte, David sente un rumore, si sveglia, vede un aborigeno in casa: ma è solo un sogno. In una villetta, alcune persone fanno un barbecue. David è al telefono, parla del suo lavoro di avvocato. Il padre gli chiede se ha problemi in ufficio, e lui gli confida che sta facendo brutti sogni. Si adunano le nuvole, piove. Attraverso un buco nel recinto un aborigeno, Billy, penetra in quella che sembra una centrale elettrica. Corre all’interno, si imbatte in un uomo che gli dice: «Hai rubato le nostre cose. Tu muori». Allora scappa all’esterno. In un locale, un gruppo suona musica folk; entrano alcuni aborigeni. A un tavolo siede quello che abbiamo visto fuggire. Scoppia una rissa; mentre arriva la polizia, Billy cerca di scappare per strada. Si sente un ululato e smette di piovere di colpo. Suona un didgeridoo sulle immagini rallentate di lui che fugge e viene inseguito. Si ferma davanti a un’auto, a bordo c’è un aborigeno con la barba che gli punta contro qualcosa di affilato: Billy si porta la mano sul petto. La polizia scopre il suo cadavere. L’autopsia non chiarisce le cause della morte. Vengono accusati dell’omicidio gli aborigeni. A David viene chiesto di difenderli, dato che ha già avuto a che fare con loro ed è favorevole all’assistenza legale. Nella sede dell’Australian Legal Assistance, David incontra alcuni aborigeni, parla del rapporto di polizia, delle loro dichiarazioni, della colluttazione, terminata con Billy gettato in una pozza d’acqua e misteriosamente affogato. David ha dei dubbi sull’accaduto. Fa poi una serie di sogni: prima vede delle rane che piovono dal cielo, poi un aborigeno dentro casa che regge una pietra

con il disegno circolare dell’incipit. David si reca nel bar della zuffa, esamina quindi le carte con un collaboratore e gli racconta un aneddoto su di un uomo che uccise una donna: «Affidato agli anziani,lo trafissero tre volte alla gamba e fu la sua fine». David mostra di credere alle leggi tribali, ma il collaboratore è scettico: «Non ci sono tribù qui». Il collega spiega che la cultura aborigena sopravvive solo nei ceppi puri, al nord e in alcune parti del deserto; invita così David a sgombrarsi dalle idee romantiche sui nativi. Nel bar arrivano intanto quattro aborigeni, poi anche Chris Lee, che David riconosce come la persona che gli è apparsa in sogno: lo invita a cena a casa sua. La moglie è un po’ in imbarazzo per la visita. Arriva Chris con un altro aborigeno anziano, Charlie, che in precedenza lui aveva cercato in un quartiere degradato della città, e che riconosciamo come il pittore dell’inizio. David offre birra o vino, loro accettano acqua. Il vecchio non parla inglese, Chris traduce. David vuole sapere perché Billy è morto. «Ha preso cose che non doveva toccare. Anche tu muori se le prendi». Il vecchio appare lievemente minaccioso: «la legge è più importante dell’uomo». Parlano del disegno su un sasso, una specie di faccia insanguinata e del sogno in cui David ha visto Chris: «Un sogno è come sentire, parlare, il modo di sapere le cose. L’ombra di una cosa vera». Il giorno dopo il cielo è sereno. David va in auto a casa di Chris. David gli dice che se continuano a non parlare finiranno in prigione: «Dimmi i segreti e ti faccio assolvere. Avete ucciso un uomo!». Chris a sua volta lo mette in guardia da Charlie. David parla con il collega: «È tribale, mi hanno minacciato di morte». L’altro lo consiglia di abbandonare la causa e lo attacca ancora per le sue idee sugli aborigeni: «Il tuo borghesismo paternalistico nei confronti di questi negri mi fa venire la nausea. Ho lavorato per anni in questo ambiente mentre tu facevi una fortuna insegnando come evadere il fisco e ora vieni qui con queste stronzate romantiche, minacce di morte e aborigeni tribali». David allora decide di accettare l’incarico e difendere gli aborigeni. Esamina gli effetti personali di Billy, e scopre una pietra con il disegno di una faccia formata da cerchi concentrici. Fa fare delle fotografie della pietra e va poi in una galleria d’arte per parlare dell’immagine con un’esperta. «Il suo nome è Mulcrul, è uno spirito del tempo dei sogni. Gli aborigeni immaginano due forme del tempo, una oggettiva, giornaliera, in cui siamo confinati; l’altra un ciclo spirituale, infinito, il tempo dei sogni, che stabilisce valori, simboli, leggi della società primitiva, più vero della realtà». L’esperta spiega che il Mulcrul si esprime attraverso esseri umani, ha sogni premonitori incredibili. Esso appare alla fine di un ciclo, quando la natura deve rinnovarsi. Ogni ciclo finisce con un’apocalisse (che è un cataclisma naturale, un grande freddo, una piena, un nubifragio), poi c’è rinascita. Intanto si susseguono fenomeni atmosferici insoliti in tutto il mondo. A casa di David appare improvvisamente Charlie: la moglie è terrorizzata. Anche una figlia di David inizia a fare sogni strani. Lui decide a questo punto di seguire Chris e arriva fino a una casa in cui trova anche Charlie, che in realtà è in grado di parlare inglese. Gli chiede perché ha spaventato sua moglie. Charlie, seduto in mezzo a una stanza, ripete all’infinito «Tu chi sei?», comincia a mugolare, chiude gli occhi e oscilla la testa. Ripete in primissimo piano: «Sei un pesce? No. Sei un serpente? No. Sei un uomo? No. Se il Mulcrul? Sì». Ancora mugolii, note del didgeridoo. Charlie tira fuori un’ascia e dice a David di non parlare in tribunale. Pioggia nera, ora, su Sydney. Tesi: inquinamento da petrolio. David è in auto. Rivediamo la stessa scena dell’inizio. Nuovo sogno di David, che vede gente sott’acqua, corpi che nuotano fuori dall’auto. La moglie intanto legge libri sugli aborigeni, sulla loro simbologia. Un’inquadratura delle teste in fila l’una dietro l’altra dei cinque aborigeni apre la sequenza del processo. L’arringa dell’accusa invita la giuria a non guardare alle leggi tribali, a basarsi sulle leggi attuali. Il perito testimonia sulle cause della morte, asfissia. David controinterroga e mostra al medico un oggetto bianco e appuntito: «Un osso della morte aborigeno», gli stregoni lo puntano e la vittima muore. Il medico contesta: «Billy non era tribale, non è morto per l’osso». Nel processo, la ricerca della verità si mescola con la ricerca del segreto. Inquadratura della giuria, formata da soli bianchi. Incalzato da David, Chris ammette di essere un aborigeno tribale, che il suo territorio tribale è in città, in un luogo sacro: «Essere tribale – dice Chris – è sapere segreti. Se infrangi vieni punito. Billy non era stato accettato, ha infranto la legge tribale. Ha rubato». David perde la causa.

La casa di David trema, entra molta acqua, anche le piante sfondano le finestre. David vede Chris con la pietra. I due entrano nella centrale dove era stato Billy, passano nei sotterranei, nelle condotte, tra i topi. È una lunga sequenza al buio, illuminata da torce. Incontrano una sorta di monumento a forma di portale, di scultura. È il posto sacro del tempo dei sogni: Chris spiega che l’uomo vi ha costruito sopra le fogne, ma loro lo hanno sempre ingannato. «Ora, per colpa del tuo sogno, ti ho portato qui e ho violato la legge». Chris va via, David avanza nel buio, tra le statue. Vede Charlie nudo. Si trova ora in una grande camera interamente affrescata con figure umane colorate che reggono il Mulcrul. Il flash della torcia illumina la storia disegnata sulle pareti: pioggia nera, grandine, un’onda gigantesca. Ci sono scheletri umani e resti di animali, c’è una maschera del Mulcrul che assomiglia a David, che la solleva di fronte a sé. Rivede Billy arrivare, prende vari oggetti, colpisce con la pietra Charlie. David scappa per un pertugio ed esce dalle fogne. Torna indietro perché ha perso il bastone e la maschera, rimane chiuso dentro e piange. Entra in una conduttura ed esce all’aperto. Si trova in riva all’oceano: la fogna scarica direttamente nelle acque marine. Tra grida di gabbiani, si inginocchia nell’acqua della riva e si bagna il viso. Sente un rumore sordo e “vede” una grande onda che riempie a mano a mano l’inquadratura. Di nuovo, il viso di David che chiude gli occhi.

L’acqua percorre da cima a fondo fisicamente questo film, simbolo di una natura assolutamente non comprimibile, ma è divertente cercare il collegamento con il film precedente di Weir tramite la figura di un piccolo rettile autoctono, la pogona, uno dei simboli del deserto australiano. Una pogona compariva in Picnic ad Hanging Rock durante l’ascesa di Mike alla roccia stregata, una pogona compare qui, catturata da alcuni ragazzini aborigeni sulla via di casa, sotto il sole abbacinante e l’azzurro terso del deserto. È l’unica, e l’ultima, immagine idillica di un film cupo e tenebroso, giocato sugli scuri (delle case, dei sotterranei, del cielo plumbeo, dei notturni). Subito dopo, si scatena improvvisa la pioggia e la grandine, che flagellano la scuola dei bianchi (fot. 33), preludio di più grandi catastrofi naturali. È come se la cattura del rettile, ovvero il sacrilegio compiuto ai danni di un abitante di quella wilderness continuamente violata, avesse come conseguenza inevitabile la vendetta delle forze che né la meteorologia né la scienza possono spiegare, e tanto meno prevedere. Il grande tema di Weir, ovvero l’insopprimibile opposizione tra natura e civiltà, si trova già delineato nell’incipit del film: non a caso è la scuola, simbolo massimo della civiltà, veicolo dei valori di educazione e addestramento, la vittima prima dello scatenamento delle forze del caos primigenio. Che poi sia un avvocato il vettore di tale scatenamento, non deve sorprendere: non è l’avvocato il conoscitore principe di leggi e regole che sostengono la società moderna? Il collega di David ha buon gioco a rimproverarlo: «Ti sei arricchito insegnando come evadere il fisco, e ora fai il romantico a proposito degli aborigeni, che non conosci». Thriller apocalittico a parte, il film è ancora una volta, e soprattutto, la storia di una liberazione individuale da una società concepita come innaturale, contro natura: sotto la soffice coltre di professionista benestante, con casa e famiglia da invidiare, barbecue e terrazze sul mare, partite a tennis e aule di tribunale, habitat naturale fatto dalla città e i suoi agglomerati, David scoprirà gradualmente una nuova identità, addirittura una doppia personalità di Mulcrul, spirito del Dreamtime aborigeno. David è posto da Weir sul crinale accidentato tra elemento naturale ed elemento civilizzato: è lui, paradossalmente, a sostenere le ragioni della legge tribale a fronte di quella, come viene detto dalla pubblica accusa al processo, “attuale”. Quella che ha vinto. Infatti, non solo la legge tribale ma l’intera questione aborigena viene associata, nel film, al passato, e non solo al mitico “tempo dei sogni”. Al passato in cui il Paese era incontaminato, e le fogne, come vediamo alla fine, non scaricavano direttamente nelle acque dell’oceano. Al passato in cui la legge era giusta, e la giustizia era verità. Al passato dei cinquantamila anni da quando gli aborigeni si trovano sul suolo d’Australia, come impara la moglie di David dal libro.

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L’opposizione natura/civiltà, come sempre in Weir, assume l’aspetto del dettaglio metaforico e significante. L’acqua, nella casa di David, è contenuta in un acquario (fot. 34), prima di scatenarsi in ogni forma, di scorrere a rivoli dovunque (fot. 35). Le finestre della sua casa vengono sfondate dalle piante di fuori: la natura ha come suo obiettivo principale la casa, simbolo del tentativo di abitarla riuscendo a confinarla “di fuori”. Come avviene nello spirito marcatamente animalier del regista, la valenza minacciosa della natura è convogliata in immagini icastiche di bestie di ogni ordine e grado: non c’è solo la pogona, nel film. C’è un momento quasi estatico, in una delle prime sequenze, in cui David rimane bloccato nel traffico di Sydney. Prigioniero della macchina, come gli abitanti di Paris nel primo film di Weir, vede davanti a sé una serie di icone di una natura ormai prigioniera della società: lo stemma degli autobus Leyland riporta un leopardo inutilmente minaccioso (fot. 36), lo zoo Taronga si reclamizza bellamente da un’altra parte. C’è, anche, un tizio che va in giro con una pianta d’appartamento. Insieme all’acquario di David, tutto ciò allude alla pretesa della civiltà moderna di comprimere una natura che ormai si è addomesticata (come le serre di Picnic ad Hanging Rock e Green Card). Ma già la violenta pioggia sta iniziando a incrinare queste certezze. Vari animali impagliati, inoltre, sono sparsi per il film: un wallaby (un canguro di piccola taglia) nell’aula scolastica del villaggio (fot. 37) un cammello nella galleria d’arte (fot. 38). Gli animali impagliati sono un’altra spia di una natura che si tenta di immobilizzare, di evirare. Il bestiario prosegue con una capra, i topi nelle fogne, gli animali dipinti nelle pitture aborigene, il gufo cui viene paragonato Charlie, gli animaletti giocattolo della figlia di David, una pelle di canguro, l’aquila nel luogo sacro degli aborigeni, e soprattutto con le rane che piovono dal cielo, (fot. 39, molti anni prima di Magnolia [id., di Paul Thomas Anderson, 1999]). Naturalmente, la pioggia di anfibi assume l’aspetto della piaga biblica, mandata per punire l’umanità per i suoi peccati (non male, comunque, neppure la pioggia scura e solida). La rana è un animale che ha sempre avuto una grande fortuna in ambito simbolico. Per la sua prolificità, e per la vistosa metamorfosi da uovo a girino e da girino a quadrupede vagamente “umano”, è dall’antico Egitto il simbolo della rinascita e della continua rigenerazione della vita. Nella magia popolare la rana ha un ruolo molto importante, che già Plinio ricorda: se si desse retta ai maghi, le rane sarebbero più importanti di qualsiasi legge. Nella simbologia cristiana la “piaga d’Egitto” (“Esodo” 8, 2-14), o invasione delle rane, è un simbolo di devastazione confermato anche dall’“Apocalisse di Giovanni”.

La psicoanalisi freudiana vede nella viscida rana, che vuole saltare nel letto della principessina, un simbolo palese dell’organo sessuale maschile, il quale da appendice diviene un tutto soltanto quando viene accettato all’interno di un rapporto di coppia. Dunque, le rane del film assumono diverse possibilità di interpretazione, tutte peraltro coerenti con il tema (non dimentichiamo, rimanendo all’organo sessuale, che ci viene mostrata una rana dipinta dalla moglie di David su una delle pareti dell’appartamento – allusione, forse, a tensioni latenti a una famiglia che fa di tutto per mostrarsi felice). Per le sue valenze religiose, la rana si associa alla figura del padre di David, un reverendo che passa il tempo a rammentare al figlio i suoi poteri infantili di preveggenza (fot. 40), uno shining che solo ora viene riscoperto, nell’imminenza della catastrofe. Il rapporto di Weir con le figure religiose (quasi sempre presenti nei suoi film) è interessante, sta tra l’attrazione e la repulsione. Ci si ricorre, ma contemporaneamente non se ne ha molta fiducia. Talvolta, il carattere repressivo o regressivo della fede viene alla luce: la figlia di David ha un incubo in cui compaiono Gesù e gli angeli. Però il padre reverendo non è una figura negativa: ininfluente, piuttosto, sulla parabola del figlio. David, giunto in riva all’oceano, si inginocchia e si bagna la fronte con l’acqua come in chiesa. Alla religione formale dei bianchi viene contrapposto il carattere sacro delle credenze aborigene: qualcosa di non ufficializzato, anzi di quasi clandestino (però Chris, prima di deporre, è costretto a giurare su una Bibbia). È un po’ il dualismo che si crea, nel film, tra la legge tribale e quella praticata da David e sanzionata nei tribunali.

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Ovviamente, la metafora principe del film rimane quella dell’acqua, un elemento primordiale che Weir mostra di privilegiare su tutti (rammentiamo l’acqua che compare, abbondante, in The Plumber, Mosquito Coast, Master & Commander, The Truman Show…). In questo film vediamo l’elemento liquido sbizzarrirsi nelle manifestazioni più diverse: pioggia torrenziale, chicchi di grandine giganteschi, rivoli d’acqua nell’appartamento di David, vasca da bagno con rubinetto aperto, acquario, innaffiatore automatico, pozza d’acqua in cui cade e annega Billy, bicchiere d’acqua offerto da David ai due aborigeni, fogna, oceano. L’acqua è offerta in tutte le forme e volumi possibili. L’acqua come flusso primordiale, che rappresenta, in molti miti della creazione del mondo, la sorgente di ogni forma di vita, ed è insieme elemento di dissoluzione e annegamento. Spesso i diluvi universali interrompono cicli più antichi della creazione per annientare forme di vita non gradite agli dei. È la funzione che, nel film, viene riservata alla “grande onda” destinata a sommergere il mondo, concludendo, spiega l’esperta d’arte a David, un ciclo di esistenza per rinnovarlo dalle fondamenta. Da un lato l’acqua dà la vita e rende fertile, dall’altro allude all’affondamento e al declino: è dunque ambivalente. Spesso le acque che scorrono sotto la Terra sono associate al Caos originario; invece la pioggia che cade dal cielo sotto forma di pioggia è associata all’animazione, foriera di prosperità. L’onda del film possiede un effetto purificatore, non proprio solo del culto cattolico (l’acqua benedetta). Però l’acqua è anche il simbolo fondamentale di ogni energia inconscia, e pertanto è anche pericolosa quando, nei sogni, si presenta come inondazione, travalicando gli argini che le sono propri. Ora, l’onda del finale è reale, o è stata soltanto “sognata” da David? L’ultima immagine del film, che mostra un primo piano di David che

chiude gli occhi davanti all’onda che lo sommerge (fot. 41), potrebbe anche significare che il tutto è una faccenda che riguarda gli strati profondi e inconsapevoli della psiche del protagonista, non tanto con i fenomeni atmosferici anomali che stanno accadendo. Insomma, da questo punto di vista, David potrebbe anche essere l’incarnazione di quella figura che compare spesso nei film del regista australiano: quella dell’apprendista stregone. Quella di qualcuno, cioè, che con i suoi atti scatena forze che si rivelano fuori dal suo controllo, anche se probabilmente rispondono ai suoi impulsi più segreti, ai suoi desideri più nascosti. Queste forze hanno poi la possibilità di manifestarsi nella vita reale. In fondo, la distruzione di Paris in Le macchine che distrussero Parigi potrebbe anche derivare dall’incapacità, da parte del protagonista Arthur, di adattarsi alla vita nella cittadina, alla sua volontà di andarsene (a differenza di tutti i superstiti che l’hanno preceduto, che o si sono adeguati o sono impazziti nelle grinfie del medico del paese). Anche Miranda e le sue compagne in Picnic ad Hanging Rock scatenano forze oscure, quasi magiche, che le trascinano in un vortice (coinvolgendo anche Miss McCraw), proprio per seguire i loro impulsi di liberazione. David è un apprendista stregone nel senso che, dando fiducia e sostenibilità credibile ai propri sogni liberatori, finisce per renderli reali anche per gli altri. Il fatto è che, magari senza rendersene conto, David è il primo fan di una rigenerazione globale dell’universo proprio a partire da una insoddisfazione del tutto personale, egoistica. Il suo matrimonio non è poi così felice (stupisce che la famiglia vada immediatamente in crisi dopo l’intrusione di Charlie; che la moglie si faccia a tal punto terrorizzare, che perda fiducia nel marito; che David non veda l’ora di allontanare da sé moglie e figlie), e forse il lavoro routinario di avvocato fiscalista lo ha stancato del tutto. È probabile anche una sua insoddisfazione sessuale, se leggiamo in questo senso – e cioè come dichiarati simboli fallici – molti degli “oggetti” contenuti nel film (l’acqua che si scatena e zampilla dovunque, le rane, l’osso della morte, fot. 42, il didgeridoo, il pesce che non si può più acquistare per il barbecue «perché costa troppo», il bastone che lascia dietro di sé quando fugge dal sotterraneo nel finale…). La comunità locale intorno a lui, come sempre in Weir, non solo non pare in grado di supportare il singolo suo membro, ma sembra realizzarsi proprio alle spese di quest’ultimo. Sta di fatto che David, proprio come l’elemento acquatico che lo avvolge sempre di più fino a sommergerlo, appare del tutto ambivalente, a tratti conflittuale con se stesso: l’inquadratura in cui rivolge la maschera verso il proprio volto, in una delle sequenze finali del film, fa emergere questo carattere di sdoppiamento di personalità (fot. 43). In precedenza, agitando una lampada, Chris gli aveva fatto passare un’ombra sulla fronte – l’ombra, doppio misterioso dell’uomo, immagine della sua anima. È conteso tra l’aquila e il serpente, due animali che compaiono entrambi nel finale nel sotterraneo creando un’antinomia ben nota a chi ama i simboli: è conteso, dunque, tra luce e tenebra, bene e male. In definitiva, David sembra soccombere a questa sua ambivalenza: l’acqua dell’onda riempie l’inquadratura, David chiude gli occhi; si rifugia, forse, nuovamente nel tempo dei sogni, sfuggendo a una realtà che non sopporta e che non controlla.

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Piccole apocalissi. The Plumber Incipit sui titoli di testa: primo piano di un manometro, di un boiler, di tubazioni, del getto d’acqua di una doccia. Mani di un uomo che si lava, poi si asciuga i capelli guardandosi allo specchio, si mette gli occhiali. Campo totale di un palazzo a molti piani. I Cowper, Brian e Jill, vengono mostrati all’interno del loro appartamento: non grande, con maschere tribali alle pareti, libri, oggetti etnici, poster di mostre d’arte. Entrambi portano gli occhiali, sono degli intellettuali. Jill, seduta sul letto, sfoglia una pubblicazione di antropologia: osserva le fotografie di uno stregone. Dice al marito che costui era venuto alla sua tenda, cantando. Brian, che è professore universitario, esce di casa. In ascensore incontra un idraulico con guanti e borsa, che viene inquadrato dalla macchina da presa solo all’altezza del bacino. Lo vediamo nella sua interezza solo quando bussa alla porta e Jill, che stava rileggendo il manoscritto della sua tesi universitaria, gli viene ad aprire. Max, l’idraulico, porta un giaccone scuro con una scritta dietro («Liberal = Less Taxes»), cappellino di lana, ha capelli lunghi e ricci. Dice a Jill che si tratta di un controllo di routine, si scusa che non l’abbiano avvisata in anticipo, e spiega di dover controllare tutte le tubature, perché c’è qualcosa che non va in bagno. Una volta all’interno, si guarda in giro: «È un museo, qui». Entra in bagno, vede le mutande di Jill appese ad asciugare appoggiate alla doccia. Osserva anche una miniatura indiana in cui un uomo e una donna si accoppiano in una posizione del Kamasutra. Poi apre i rubinetti ed estrae gli attrezzi dalla borsa. Intanto Jill, a disagio, si riveste (era rimasta in camicia da notte). Max segna una X su una mattonella del bagno e comincia a picchiare con il martello. Chiuso dentro al bagno, Max si accende una sigaretta; emette strani gorgoglii, mugola mentre scende l’acqua. Fa la doccia. All’università, intanto, Brian sta facendo lezione in un’aula affollata: si parla di nutrizione, e del passaggio dai cibi tradizionali ai cibi-spazzatura. Quando gli portano un foglietto, mostra contentezza e se ne va, facendosi sostituire. Squilla il telefono a casa dei Cowper, è lui che telefona alla moglie, comunicandole che è arrivato un telex che annuncia l’imminente visita di una delegazione di scienziati di un’organizzazione di Ginevra interessata ai risultati della sua ricerca. A propria volta, Jill comunica al marito la presenza in casa dell’idraulico. Alla fine, Max esce dalla doccia dicendo alla donna che ha un problema serio alla tubatura: mentre la donna osserva i suoi capelli gocciolanti, la informa che tornerà il giorno dopo a finire il lavoro. La donna gli dice che sta completando un master di antropologia. Quando Max è uscito, Jill va in bagno a constatare i danni, e vede il sapone usato per lavarsi. Improvvisamente se lo

ritrova dietro a lei: è rientrato, si offre di spostare le cassette della spesa in cucina. Dopo un breve scambio di battute, l’idraulico esce, ma prima dice, strizzando l’occhio: «Il mio nome è Max!». Jill chiude a chiave, questa volta. Brian commenta con due colleghi le immagini di un documentario antropologico in cui si vede un uomo di colore che si lamenta e viene curato. Brian sostiene che si tratti degli effetti di pratiche di cannibalismo, gli altri non sono d’accordo. A casa, la sera, marito e moglie sorseggiano un aperitivo commentando la visita dell’idraulico. Poi parlano di loro stessi: Brian vorrebbe che la moglie lavorasse, ma Jill, mentendo, dice di stare bene a casa da sola. L’indomani, l’auto di Max, con un grosso tubo sulla capote, entra nell’area del residence. Intanto il marito, in giacca e cravatta, saluta la moglie ancora a letto, la bacia, le lascia un pacchetto-regalo: si tratta di un orologio, accompagnato da un foglietto. L’idraulico scarica gli attrezzi dal baule e si presenta con ogni cosa, compresi i tubi, nell’appartamento dei Cowper. Ricomincia a dare martellate sulle mattonelle, emettendo gridolini. Jill non riesce a lavorare, allora fa un caffè per Max, che osserva compiaciuto una statua tribale che si tiene con la mano un pene enorme. Jill gli spiega che si tratta di un simbolo di fertilità della Nuova Guinea. Lo informa che il marito lavora a un programma di salute per l’Unicef. I due siedono, chiacchierano. Max si lamenta del modo discriminatorio in cui la gente come lui, che non conta, viene trattata. Jill cerca ancora di lavorare, ma il rumore del martello e della musica che ha acceso l’idraulico la disturba. Entra in bagno, ma la porta sbatte contro la testa di Max, che inizia a sanguinare. Atterra un aereo: è la delegazione dei professori da Ginevra. Un’auto porta i visitatori all’Università, dove c’è Brian in attesa. Presentazioni. Tra gli studiosi ci sono un nero e un indiano. A casa dei Cowper, intanto, Jill sta cucinando. Invita Max, che è vegetariano, e gli dà un toast. A questo punto, Max comincia a girare in tondo, seguito dalla macchina da presa, inveendo un po’ contro tutti. Racconta di non essere un vero idraulico, e di essere stato in prigione per stupro. Rubava nelle case: ce l’ha con i ricchi, mostra di essere un estremista politico. Arriva a questo punto una ragazza carina con il basco, è un’amica di Jill: Jill prende cappotto e borsetta ed esce con lei, lasciando da solo Max in casa. Le due ragazze partecipano con altre allieve in una palestra del genere New Age a una seduta yoga, che è anche una lezione di autostima. Durante un break in palestra, le due amiche parlano dell’idraulico. Tornata a casa, Jill si spoglia e si mette la vestaglia, ma Max si trova ancora in casa sua. All’Università, nel frattempo, Brian e i suoi ospiti guardano delle fotografie di nativi, parlano di controllo delle nascite, di cannibalismo, di riti della fertilità, di guaritori. La sera, quando torna a casa, Brian trova la moglie a letto e il bagno praticamente distrutto. Segue uno scambio di battute in cui Jill si lamenta della giornata con Max in casa, ma anche Brian dice che i suoi interlocutori hanno trovato più interessante il curry che lei cucina delle sue ricerche. Jill, che vorrebbe preparare da mangiare, scopre che dai rubinetti non esce acqua. Fuori, Max sta spiando dalla finestra. La mattina, Brian decide di avvisare l’amministrazione per capire chi gestisce un idraulico simile. Max torna in casa Cowper, ma Jill non lo sente arrivare, poiché sta ascoltando al registratore una cerimonia di culto. Allora l’idraulico penetra nell’appartamento passando per un buco nel soffitto del bagno. Ormai impaurita, Jill chiama il marito. Max le offre tè e dolcetti, e scherzando le dice che si tratta di hashish. Poi se la prende, questa volta, con gli eruditi, gli intellettuali. Ritorna l’amica, Iris, che discute con Max dei bagni che ci sono in giro: «Si può imparare molto sulle persone dai loro bagni», è la filosofia dell’idraulico. Jill corregge l’uomo su una forma verbale e allora Max, che pure l’aveva definita «sexy, un uomo può perdere la testa», si arrabbia per l’umiliazione subita. Entrato in bagno, scrive con un pennarello nero su una piastrella «I’m me, Babe», come nella lezione New Age di Jill, poi «I’m free, Babe», e canticchia. Dopo che Iris se ne è andata, Max inizia a suonare la chitarra e l’armonica seduto sulla tavola del water (in precedenza aveva citato, tra i suoi eroi, Bob Dylan): canta in buono stile una ballata usando le parole scritte in bagno. Jill esce, bussa alla porta del custode, chiede di Max. Max la segue, la rincorre fino all’ascensore, entra con lei, inveisce ancora contro la gente istruita. Jill scappa fino all’appartamento, inseguita da lui che urla. Lei fa suonare un disco di musica tribale, ormai è guerra aperta.

A sera, arriva il marito con i membri della delegazione, che ha invitato a cena a gustare il curry della moglie. È una mossa per imbonirli. Dopo vari convenevoli, si siedono a tavola, ma il famoso curry si rivela decisamente troppo piccante, anche se gli ospiti abbozzano comunque commenti positivi, pur chiedendo dell’acqua. Il marito è furente. Dopo il gelato, l’indiano chiede di andare in bagno. Il bagno è ridotto a un cantiere, ma l’indiano fa lo spiritoso: «Se uno è stato in una toilette indiana, nulla può stupirlo». Mentre gli altri conversano a proposito di sci e di Svizzera, l’indiano si destreggia in un faticoso slalom tra i tubi per raggiungere il wc, ma rimane bloccato. Gli altri accorrono in soccorso e sfondano la porta con un tubo: sull’indiano è crollato il lavandino. Risolto il problema, la serata può continuare. Rimasti soli, Brian e Jill parlano ancora dell’ipotesi-Ginevra, ma lei ormai è ossessionata dall’idraulico. L’indomani, appena uscito Brian, si ripresenta Max con la radio a tutto volume. Lei lo minaccia, le saltano i nervi. Piange mentre l’idraulico riprende il lavoro. La sera, mentre Jill fa la doccia (il bagno sembra finalmente a posto), Brian torna con la notizia che hanno deciso di prenderlo a lavorare a Ginevra: pare che sia stato merito del lavandino crollato la sera precedente. In un chiassoso ristorante italiano, Jill e Brian brindano, si fanno coccole. A casa, Jill e l’amica sfogliano riviste sulla Svizzera, foto di montagne coperte di neve. Iris dice che andrà a trovarla. Improvvisamente salta fuori acqua da tutte le parti, dal water, dai buchi, dal pavimento, l’appartamento è allagato, tutto va a pezzi. Iris corre in cerca di aiuto, Jill cerca di tamponare le falle. Si presenta tutto sorridente ed equipaggiato Max, che ferma l’acqua. Jill, distrutta, gli chiede quanto ci vorrà per riparare tutto: «Dieci giorni, forse di più». La sera, Jill aspetta il rientro a casa del marito con la tavola apparecchiata, una icona della brava mogliettina. Taglia un frutto con il coltello, mentre il marito si accorge del disastro. Brindano alla Svizzera. Brian si accorge che l’orologio è sparito, lei dice che lo ha perduto. Quando il mattino seguente arriva Max in auto, alcune persone lo fermano e frugano nella sua attrezzatura. Salta fuori l’orologio, che lei ha messo di nascosto tra la sua roba. Dall’alto, Jill guarda in basso l’uomo, ormai sconfitto. Lui urla: «Sporca puttana!». Primo piano del volto di Jill, mentre si sentono musiche etniche. Fermo immagine su Jill.

Le prime inquadrature si ricollegano direttamente a quelle finali del film precedente, L’ultima onda: da una Grande Apocalisse siamo però passati a una piccola apocalisse quotidiana, casalinga. Tema unificante: l’acqua che esonda, che sfonda i confini. È come se l’ondata gigantesca sognata (?) da David Burton, invece di sommergere il mondo, si accontentasse, ora, di allagare un modesto appartamento. Ma il senso non cambia. Un ologramma, la parte per il tutto. In fondo, ci troviamo pur sempre a Sydney. L’acqua riempiva l’inquadratura; David, e noi spettatori con lui, chiudeva gli occhi, sgomento; qui, li riapriamo su inquadrature di oggetti legati all’acqua: un manometro, un boiler, una tubazione, il getto di una doccia (fot. 44). Anche questa è un’inquadratura “piena”, ma è come se l’inondazione, da generale, avesse deciso di diventare particolare, di accettare di ridursi alla misura di sessanta metri quadrati scarsi. Le somiglianze con il film precedente non si fermano certamente qui: si tratta, per molti versi, dello stesso film, anche se tarato su dimensioni più modeste. La famiglia dell’avvocato David Burton si trasforma, qui, nella coppia formata da un professore universitario e dalla moglie aspirante antropologa (fot. 45). I Cowper abitano un appartamento brulicante di richiami filtrati a quel mondo “naturale” che da loro accetta solo di essere studiato, decifrato, etichettato, mai vissuto. Maschere tribali alle pareti, fotografie, poster, statue, e ovviamente libri (fot. 46). I Cowper sono due intellettuali, che studiano il mondo, non lo abitano davvero. Anzi, si possono trovare fuori posto anche a casa propria: come dice a un certo punto lei stessa, Jill è «costretta a stare nella sua casa», mentre Brian sembra aspirare solamente ad andarsene in Svizzera, un luogo agli antipodi non solo geograficamente. David, pure, era abituato a considerare gli altri solamente attraverso l’ottica e il filtro di leggi e regolamenti, codici civili e penali. I civilizzati Cowper devono confrontarsi non con gli aborigeni, come doveva fare David, ma con un bianco ugualmente “selvaggio”, Max l’idraulico (fot. 47). Gli aborigeni avevano il potere di controllare la grande onda; più modestamente, un idraulico ha il potere di regolare i flussi

dell’acqua che riforniscono un’abitazione. In entrambi i casi, una questione di potere. I civilizzati e il selvaggio, la civiltà e la natura: la fondamentale antinomia weiriana è posta, ancora una volta, con chiarezza. Lo scienziato nutrizionista Brian studia i nativi dal punto di vista alimentare, appassionandosi di cannibalismo – una pratica che ha molto a che vedere con la sessualità; l’aspirante antropologa Jill ne sorveglia i riti cultuali. Pretese e arroganze della scienza, che non riconosce i propri limiti (come il medico di Le macchine che distrussero Parigi). Fotografie di uomini di colore compaiono sul manoscritto che Jill sfoglia (fot. 48), esattamente come fotografie di aborigeni comparivano nel libro esaminato dalla moglie di David. I “selvaggi” si possono studiare, ma riesce quasi impossibile capirli, e possono anche essere minacciosi, ribelli. L’irruzione di Max nell’appartamento dei Cowper ricorda quella di Chris e poi di Charlie nella villa dei Burton. Se la famiglia dei Burton vacillava, mostrando preoccupanti sintomi interni di esaurimento e stanchezza, che dire di quella dei Cowper, dove il marito si dà da fare per trasferirsi in Svizzera, senza preoccuparsi del destino della moglie, e pare assorbito interamente dalla carriera? La moglie vegeta da sola chiusa in casa, a gingillarsi con le icone di una vita naturale conosciuta solo attraverso i suoi “segni” esteriori, poster, maschere e fotografie, a sognare inconsciamente una chance di cambiamento, esattamente come David, altrettanto inconsciamente, sognava l’accesso a un mondo parallelo a quello reale, a costo di rischiare di pagare un prezzo alto. Solo in un’occasione vediamo Jill in una scena in esterni, ed è quando decide di sbarazzarsi di Max mettendogli l’orologio nell’auto. Max le aveva detto, mentendo, di aver rubato nelle case dei ricchi, ora lei dimostrerà che il desiderio può avverarsi.

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Il finale del film è solo apparentemente un happy end (lo sarebbe in un normale film horror, con la rimozione della minaccia a opera del protagonista/vittima). In realtà, Jill decide, freddamente, di eliminare la novità entrata improvvisamente nella sua vita, consegnandosi così, di nuovo, a un ruolo di supporter della vita regolata del e dal marito (il cui simbolo, naturalmente, è l’orologio che lui le ha regalato, fot. 49, e che è anche, incidentalmente, il simbolo di quella Svizzera, ordinato e monotono eldorado capitalista, cui Brian aspira per far carriera). Non a caso, peraltro, della delegazione venuta a testare la ricerca di Brian fanno parte due personaggi “esotici”, un nero e un indiano, due professori come lui (fot. 50). La componente “naturale” cui attingono i Cowper è attentamente filtrata, nel film, da vari supporti: manufatti tribali, fotografie, libri, sculture, immagini di documentari antropologici, diapositive. Ma anche da due figure di esotismo tranquillizzante e

innocuo come gli esaminatori di Brian. A differenza del marito, Jill appare consapevole di questo deficit di conoscenza. Appena prima di sbarazzarsi dell’intruso che ha invaso il suo solitario spazio domestico, Jill si propone al marito come l’icona della perfetta mogliettina, per la prima volta truccata e pettinata come si deve, brava e buona, che attende con la tavola apparecchiata (fot. 51), mette la frutta nel piatto e fa i complimenti a Brian appena tornato a casa dal lavoro (a differenza della moglie, Brian è in costante movimento, lo vediamo continuamente entrare o uscire di casa o dall’università – e poi Brian comunica, con il telefono, con il telex, si muove in auto). In questo momento, il gesto della ragazza di tagliare esattamente a metà un frutto con il coltello (fot. 52) assume così la valenza di una decisione definitiva di troncare un flirt pericoloso con l’elemento naturale impersonato da Max. Il gesto di deporre il frutto nel piatto del marito indica invece la sua decisione di sottomettersi alla sua volontà e al suo stile di vita. Ironicamente, e simbolicamente, è proprio grazie all’orologio regalatole dal marito che Jill elimina Max dalla scena, ma lo sguardo finale che la donna rivolge dall’alto del suo nono piano all’infuriato idraulico in strada rimane carico di ambiguità (fot. 53). Jill ha vinto o ha perduto? Il film non fornisce una risposta chiara, ma il destino della donna appare scritto sul fermo immagine che inchioda il suo volto, mentre il richiamo esotico di una possibile “diversità” resta iscritto nelle note di musica etnica che si sentono in sottofondo. L’irruzione di Max aveva avuto, nei confronti di Jill, soprattutto una valenza sessuale. È sì una minaccia (a un certo punto, l’uomo racconta alla donna di essere stato in galera per stupro, anche se poi confessa di aver scherzato), ma anche un richiamo, un invito implicito. Un’ambivalenza già presente in Weir, condivisa, ad esempio, da Miranda e dalle sue compagne di escursione ad Hanging Rock, ma anche da David. L’apparizione, tra minaccia e lusinga, del rozzo Max, è accompagnata da numerosi ammiccamenti sessuali, che contribuiscono a scuotere la vita ordinata ma carente di Jill. Per lei, Max rappresenta, nello stesso tempo, un invito ad abbandonare il suo tran tran per entrare in una dimensione maggiormente spontanea e naturale che finora ha relegato nello studio, e anche, ironicamente, l’occasione splendida di uno studio antropologico sul campo, simile a quello condotto con lo stregone del villaggio e riportato nel manoscritto (in fondo, lo stregone era venuto alla sua tenda cantando, esattamente come Max è venuto, fischiettando, al suo appartamento – poi canterà, anche, nello stile di Bob Dylan). La prima inquadratura di Max ce lo mostra a livello della cintola e del bacino (fot. 54), come se la macchina da presa volesse dirci che, di quest’uomo, dobbiamo guardare innanzitutto gli attributi sessuali. Un tale format viene proposto per un po’. Quando poi, finalmente, vediamo Max nella sua “interezza”, ci accorgiamo di come Weir ne abbia accentuato l’aspetto di Buon Selvaggio, rozzo, rustico, “naturale” appunto: capelli lunghi e ricci, giaccone nero fornito di scritta da ribelle, cappellino di lana. Max, in bagno, si esprime con mugolii, gridolini, che ricordano un orgasmo. Di Max viene sottolineata anche la diversità: è vegetariano, offre dolcetti farciti (scherza) di hashish. Un diverso, la cui natura umile e “plebea” è costantemente sottolineata. Il suo stesso mestiere, l’idraulico, lo associa a una dimensione “bassa”, quella dei bagni, su cui peraltro ha una sua precisa filosofia. Odia i ricchi ma anche, e forse soprattutto, gli intellettuali: rimane profondamente umiliato quando Jill lo corregge per una forma verbale sbagliata. È un plebeo, un potenziale ribelle; è un diverso ma vitale, che giustamente sottolinea come l’abitazione dei Cowper assomigli «a un museo». Con il suo arrivo, l’appartamento ammuffito di Jill improvvisamente si rianima. La connotazione sessuale di Max è esplicitata dal suo sguardo maschile, che si sofferma, via via, sulle mutande di Jill abbandonate di fianco alla doccia, su una erotica miniatura indiana di cui si compiace, su una statua tribale dotata di un pene enorme (fot. 55). Lo sguardo allusivo di Max fa il paio con quello indagatore di Jill, che è scocciata ma anche attratta da quest’uomo ispido e pasticcione, che porta caos e scompiglio nel suo claustrofobico spazio abitativo e nella sua vita ben ordinata come quel meccanismo ad orologeria che le ha regalato il maritino. Il rapporto tra i due coniugi, del resto, appare asessuato. Non li vediamo mai fare l’amore: l’unico momento di tenerezza fisica avviene quando Brian, per sfogare la

felicità di aver ottenuto il visto per la Svizzera, entra sotto la doccia dove già si trova la moglie; un momento, dunque, associato ancora una volta alla preoccupazione per la carriera dell’uomo. Del resto, subito dopo, Jill e Brian vengono mostrati all’interno di un ristorante italiano tipico (fot. 56), dove il sesso mancato viene sublimato attraverso il cibo raffinato (e, in qualche misura, ancora una volta “etnico”) e la canzone Non ti scordar di me. Consumo di cibo che contrasta con il cannibalismo studiato e rivendicato da Brian. Per il resto, i due non fanno altro che parlare, parlare al telefono, spesso litigare, per lo più a proposito delle incerte prospettive della loro unione. Nessun accenno ad eventuali figli, nonostante la presenza, in soggiorno, di una statua della Nuova Guinea, simbolo di fertilità. Stranamente, inoltre, Brian non appare mai geloso della presenza dell’idraulico in casa sua, da solo con la moglie. Insomma, passione ed eros: zero. Max, il caotico, irascibile Max, anche se non fa esplicite profferte sessuali a Jill (si limita a dire che la trova molto sexy e che la ammira), si pone di fatto come polarità opposta al marito. Il suo abbigliamento casual e la sua rozzezza si contrappongono al look sempre formalmente curato, giacca e cravatta, di Brian. Il film propone altre allusioni sessuali o falliche, dalle tubature alle eiaculazioni acquatiche, al dipinto di una donna nuda che fa capolino alle spalle di Brian mentre telefona alla moglie, alla frase di Max sulla “troppa pressione che c’è in alto”, ai colpi di martello che aprono buchi nella parete. La sequenza in cui l’appartamento letteralmente deflagra in mille zampilli sotto l’esplosione dell’acqua (fot. 57), oltre a richiamare analoghe immagini di L’ultima onda, rappresenta la punta più avanzata dell’offerta sessuale personificata da Max, ma è anche il momento in cui Jill capisce che non ci si può spingere oltre nel gingillarsi con un desiderio così rischioso. Da questo momento in poi, Jill non penserà che a riconciliarsi con il marito e a sbarazzarsi dell’“invasore”. Il caos e la distruzione sono andati troppo oltre.

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È interessante notare come i personaggi di Jill e di Max si trovino accomunati anche da un altro dei temi preferiti di Weir, quello dell’individualità e identità del singolo sotto la pressione negativa della società. Jill e Max sono entrambi esseri incerti, su se stessi e sul mondo che li circonda. Dell’autosegregazione di Jill si è detto. Max, dal canto suo, concepisce l’universo come qualcosa di totalmente ostile. Non ha nessuna fiducia negli altri. Odia quasi tutti, i ricchi soprattutto, ma anche gli “istruiti”, gli intellettuali. Il suo odio è sia di classe che di casta; si sente diverso da chi, secondo lui, ha trovato un posto sicuro all’interno della comunità. La sua rivolta è istintiva, sempre dalla parte dei deboli e degli emarginati. Non sogna la rivoluzione, ma è carico di rancore per una società ingiusta e discriminatoria. È il fratello bianco degli aborigeni di L’ultima onda: è impossibile non simpatizzare con questo estroverso rompiscatole. Jill e Max sono dunque accomunati dalla confusa rivendicazione di una propria identità, ben sintetizzata dalla frase «I am me», che Jill ripete come un mantra durante la lezione nella palestra New Age, e che Max scrive con il pennarello nel bagno (fot. 58) e poi, addirittura, mette in musica in una ballata debitrice della musica ribellistica dei menestrelli anni Sessanta. Max, a dire il vero, vi aggiunge la frase «I am free», perché, rispetto alla privilegiata Jill, ha consapevolezza sociale. Una finezza di dettagli che è un po’ il marchio di fabbrica del regista, più propenso a far intuire che a declamare a voce alta i propri principi. È utile sottolineare come, ancora una volta, sia basso, deludente, il profilo della comunità sociale e istituzionale che attornia i personaggi. I singoli individui, nel cinema di Weir, sono lasciati a loro stessi; spesso, anzi, è la comunità stessa a isolarli o a congiurare contro di loro. Il grido d’aiuto di Max, quando sottolinea l’egoismo della gente nei confronti dei diversi, echeggia ben alto, anche se inascoltato: l’unico aiuto che può ricevere, dalla comunità, è un pronto alloggio nella locale prigione, al primo accenno (falso, peraltro) di sgarro e infrazione. L’autorità non è il nemico principale soltanto di Max, ma anche di Peter Weir. I personaggi sono lasciati a combattere in perfetta solitudine per un posto un po’ più al sole, per un granello di felicità, o anche solo per salire di un piccolo gradino sulla scala della gratificazione e del successo sociale, in quella che appare una feroce gara a eliminazione diretta. Da questo punto di vista, lo sguardo finale di effimera vittoria di Jill, mentre, dall’alto in basso (anche le altezze sono importanti), osserva Max trascinato via dalla polizia, assume un’ambiguità ancor più ironica.

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Veloce come il leopardo. Gli anni spezzati Sui titoli di testa, l’Adagio di Albinoni. Un uomo anziano fa respirare un giovane atleta e lo incita. «Ho molle d’acciaio nelle gambe per correre più veloce in pista come un leopardo», ripete a se stesso il giovane Archie. Compare una scritta: «Western Australia, maggio 1915». Il ragazzo scatta a un fischio dello zio Jack e corre a perdifiato. Campo totale della pianura, pascolo di mucche, cowboy a cavallo che inseguono il bestiame. Sfida tra Archie e uno dei lavoranti: Archie correrà a piedi, l’altro a cavallo, il primo attraverso il deserto, l’altro sulla pista. La corsa di Archie è seguita dalla macchina da presa sul crinale di una duna, tra i cespugli, nel guado di un billabong. Al traguardo il cavallo si presenta senza il cavaliere, che è caduto: vince dunque Archie. A casa, lo zio Jack è preoccupato per le ferite di Archie, che ha corso a piedi nudi. Archie replica che ci sono cose più importanti delle corse, e annuncia allo zio che intende arruolarsi; lo zio è contrario. A letto, Archie prende il libro Every Boy’s Book. Sport and Pastime: all’interno c’è un ritaglio di giornale che riporta le gesta delle truppe australiane a Gallipoli e una cartina dei Dardanelli, in Asia Minore. Alcuni operai delle ferrovie leggono un giornale che descrive la situazione a Gallipoli. Uno del gruppo annuncia il suo arruolamento, Frank lo guarda perplesso. Discutono quindi sul fatto di arruolarsi o meno. Tutti insieme scappano su un treno che passa sui binari a fianco. In casa di Archie, intanto, viene inquadrata la foto di un atleta forzuto, Harry Lasalles, che corse nel 1899 le cento yarde in 9 e 1/4. Archie prende le scarpe e saluta la madre come se fosse l’ultima volta, prima di uscire per recarsi a una corsa. Al ritrovo della competizione, c’è aria di festa: viene suonata Tipperary. Stand ovunque. C’è anche Frank, che si iscrive alla gara: lo conoscono, è quello che parte in piedi. Scommette su se stesso venti sterline. La gara è dominata da Archie, che corre in 9 e 5/6, pur con i piedi feriti. Arriva quindi un reparto di cavalleria leggera per reclutare volontari. Archie dice allo zio che non tornerà a casa: lo zio regala un orologio al ragazzo. Al reclutamento, dato che non ha compiuto diciotto anni, non vogliono prenderlo. Ma lui dà una dimostrazione di abilità a cavallo saltando degli ostacoli e viene ammesso. Frank entra in un bar e incontra Archie, con cui si complimenta per la vittoria. Gli consiglia di andare a Perth, da dove lui proviene, se vuole arruolarsi. I due viaggiano clandestini su un treno, di notte. Si aiutano l’un l’altro a salire. Si svegliano sul treno fermo in mezzo al deserto, vicino a una catapecchia. Hanno perso la coincidenza per Perth e la successiva è dopo dieci giorni. Unica alternativa: attraversare un lago asciutto, cinquanta miglia di deserto. I due amici camminano nel deserto a lungo; Archie usa l’orologio per scoprire il Nord, grazie alla posizione del sole. Sabbia e cielo si confondono in immagini sfocate. «Dov’è il tuo sole adesso?», sfotte Frank. Finalmente avvistano delle tracce sulla sabbia: sono quelle di un cammello e del suo cammelliere, che raggiungono di corsa. Arrivano in una fattoria: si fanno belli, deridendosi per la brillantina. Una ragazza bionda serve a tavola la famiglia riunita. Si discute della guerra. Archie dice che sta andando a Perth per arruolarsi, Frank, imbarazzato, dice che è per affari. La bionda loda i cavalieri, le piacciono le uniformi della cavalleria. Il padre: «Se avessi un figlio si sarebbe arruolato». La madre: «I tedeschi crocifiggono i gattini nelle chiese in Belgio». Alla fine, brindisi al coraggioso Archie. Frank è sempre più a disagio, sta cambiando idea, pensa che si arruolerà anche lui in cavalleria. Il treno

arriva a Perth, invasa da ragazzi in festa. Frank falsifica il nome di Archie per farlo arruolare, cambiandolo in quello del mitico Lasalles. Poi lo “invecchia” con baffi fasulli. Si trovano a casa di Frank, il cui padre lo rimprovera: «Perché vuoi arruolarti? Gli inglesi hanno impiccato tuo nonno a un albero vicino a Dublino». All’arruolamento, Archie, con il nome falso, è subito preso in cavalleria, mentre Frank fallisce la prova: il suo cavallo neppure si muove. In una birreria, i due si salutano e si separano. Le reclute a cavallo sfilano tra le cornamuse e la gente festante: si parte in nave per Gallipoli. Le mogli accompagnano gli uomini e prendono ricordi. Sventolano le bandiere. In un bar, Frank è seduto a bere. Mentre alcuni litigano per il prezzo della lana, incontra i suoi ex colleghi della ferrovia. Si trovano lì per arruolarsi in fanteria. Frank si unisce a loro e tutti e quattro vengono arruolati. Una scritta dice: «Australian Training Camp, Cairo, luglio 1915». C’è un campo di tende di fianco alle piramidi, dove i fanti giocano a rugby. Frank e i suoi amici commentano la grandezza delle piramidi e subiscono le offerte di false antichità dei beduini. Ai soldati in libera uscita viene fatto un discorso in cui li si invita a diffidare delle «uova locali, dei liquori locali e dello scolo». I quattro amici vanno in giro per Il Cairo, tra la folla del vecchio bazar, comprano un mulo proprio mentre passano, a cavallo, due sussiegosi ufficiali inglesi, che li redarguiscono per la loro rozzezza. Pronto, Frank sale sul mulo, si mette un monocolo e si diverte a scimmiottare gli inglesi: «Mi sembra di aver visto una volpe laggiù!». In un locale, guardano fotografie di donne nude e commentano: «Le donne qui non hanno rispetto di se stesse». Uno degli amici ha comprato per due sterline un piccolo sarcofago da un antiquario: «Ha più di mille anni», ma un compagno lo sfotte, tirandone fuori uno identico: «Io l’ho pagato solo cinque scellini». Monta la rabbia: «Questa gente è nata per fregarci». Fanno una spedizione punitiva dall’antiquario, cominciano a sfasciare tutto e si fanno ridare i soldi, salvo poi accorgersi che si trattava del negozio sbagliato. In mezzo alla calca del suq si imbattono in alcune prostitute a culo nudo che rivolgono inviti lascivi. Tranne uno, Snowie, gli altri accettano di pagare quattro scellini per un rapporto. Stacco sulla marcia dei fanti nel deserto. Si tratta di un addestramento che prevede l’assalto frontale a una trincea nemica. I “nemici” sono quelli della cavalleria, oggi senza cavalli. Frank ritrova Archie, i due si abbracciano con calore e si sfidano a una corsa. La sera, salgono su una delle piramidi: scolpiscono i loro nomi, le iniziali del reparto e l’anno su un blocco di pietra, si danno la mano, provano l’eco, con il cielo rosso del tramonto sullo sfondo. Il maggiore Barton, capo della spedizione australiana, rifiuta che i due stiano assieme in cavalleria, ma alla fine si convince quando viene a sapere che gli amici sono due corridori. Frank, entusiasta, si presenta ai compagni rimasti in fanteria con un cappello piumato, ma questi non la prendono bene. Frank e Archie riescono a partecipare al sontuoso ballo per ufficiali delle infermiere australiane e neozelandesi, che si svolge in un grande salone, recapitando una lettera al maggiore Barton. La lettera annuncia che alle sei dell’indomani è previsto l’imbarco da Alessandria per Gallipoli. L’orchestra suona un valzer, coriandoli e stelle filanti ovunque. Improvviso stacco sullo sbarco nel buio a Gallipoli, luci che forano l’oscurità, barche a remi, atmosfera depressa in contrasto netto con la precedente. In colonna sonora, nuovamente l’Adagio di Albinoni. Sul bagnasciuga, i soldati australiani sono colpiti dalle cannonate: ci sono i primi caduti. Ci si sistema in tende di fortuna sopra le trincee. Intanto i tre amici di fanteria di Frank hanno raggiunto anch’essi questa postazione. In un’infantile prova di virilità, alcuni soldati, tra cui Frank e Archie, ormai diventati inseparabili, si immergono nudi nell’acqua. Si passa poi a una discussione tra gli ufficiali: risulta chiaro che l’attacco degli australiani funziona da diversivo per permettere lo sbarco alle truppe inglesi. Il maggiore Barton è molto perplesso; a suo modo di vedere l’attacco è un suicidio. I capi inglesi assicurano che l’attacco sarà preceduto da forti bombardamenti delle linee turche. Dei tre amici, Barnie è morto in un’azione, Snowie è ferito, solo Billy è tutto intero, ma sotto shock. Frank è angosciato, Archie lo rincuora. Il maggiore scopre la vera identità di Archie, e gli propone di fare il portaordini, dato che è molto veloce, ma Archie rinuncia a favore di Frank, senza che l’amico lo sappia. Il primo attacco, portato con baionette, senza pallottole in canna, si risolve in un macello. Dato che la radio non funziona, il maggiore spedisce Frank dal colonnello inglese per far cessare la carneficina. Inutilmente: l’attacco deve proseguire. Allora Frank va dal generale e, dato che lo sbarco degli inglesi è avvenuto senza

resistenza, quest’ultimo dice di cessare l’attacco. Frank vola allora per comunicare l’ordine, ma nel frattempo la radio ha ripreso a funzionare e il colonnello ordina di attaccare. Archie lascia l’orologio datogli dallo zio Jack e la medaglia vinta nella corsa in una giacca in trincea. Ripete mentalmente a se stesso: «Cos’hai nelle gambe? Molle d’acciaio. Veloce come un leopardo». Riprende il massacro. Archie viene seguito dalla macchina da presa mentre corre come se fosse in pista, fino a quando viene colpito. Fermo immagine su di lui colpito.

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Potremmo estrarre il senso del film limitandoci a seguire le vicissitudini dell’orologio di Archie. All’inizio, viene usato dallo zio Jack per prendere il tempo della corsa del prediletto nipote (fot. 59). Veloce “come il leopardo”, deve correre. In seguito, zio Jack regala l’orologio a Archie, quando il ragazzo gli comunica di voler partire per la guerra (fot. 60). È, insieme, un ricordo e un memento: ricordati di correre veloce, se vuoi portare a casa la pelle. L’orologio viene poi utilizzato dal ragazzo durante la traversata del lago asciutto: a mo’ di bussola, dovrebbe indicare la direzione giusta, a partire dalla posizione in cielo del sole (fot. 61). Un sole che però non si fa vedere. Dunque, l’orologio si dimostra inutile – e inutile era anche come strumento per prendere il tempo, dato che Archie ha deciso di sacrificare la gloria personale a quella del Paese. Infine, nella penultima sequenza del film, l’orologio ricompare un attimo solo per essere lasciato, assieme alla medaglietta vinta e alla lettera ai genitori, nella trincea da cui Archie sta per compiere il suo ultimo balzo in avanti (fot. 62). Una storia triste, tragica: l’orologio scandisce un racconto di formazione destinato a concludersi con una morte anonima in un Paese lontano, sconosciuto. Si potrebbe anche fornire una lettura del film a partire dalla presenza, o dall’assenza, di un elemento primordiale sempre così caro

a Weir: l’acqua. L’acqua che manca nel deserto, nei deserti del film (fot. 63), che però sono luoghi positivi, invitano alla comunione delle anime. L’acqua che invece abbonda a Gallipoli, trasportando al loro destino fatale giovani vite imprigionate tra bagnasciuga e alture rocciose. Orologio e acqua misurano quindi questo romanzo di formazione. Ne è principale protagonista un ragazzo sensibile, portato più alle amicizie maschili che non a quelle femminili («Le donne corrono, i ragazzi si battono», lo provoca un lavorante del ranch) non ancora maggiorenne. Un giovane che si sente vicino al Mowgly di Il libro della gungla quando decide di “diventare un uomo”; che, come un apprendista stregone, sta per essere travolto da forze oscure che ha ingenuamente evocato; che in realtà conosce il mondo “di fuori” quasi solo attraverso i racconti degli altri o le immagini (la fotografia del mito della corsa Lasalles, una cartina geografica dell’Asia Minore, i ritagli dei giornali con le gesta delle truppe australiane, fot. 64); che scruta l’orizzonte sognando la gloria al di là delle montagne (fot. 65). Ingenuamente nazionalistico, Archie rifugge però le smargiassate o le infantili dimostrazioni di virilità: è serio, misurato, come dimostra il perentorio orgoglio che scandisce la sua corsa. Archie è il più classico degli eroi giovani: è intrepido, altruista, corre e cavalca da dio. È Achille piè veloce. Legge ancora l’Every Boy’s Book. Come molti eroi giovani, è atteso da una morte prematura, ma per nulla gloriosa. Per certi versi, è l’uomo “naturale”, così caro a Peter Weir, prima di conoscere i guasti della civiltà – e che guasti, in questo caso. Il suo habitat naturale è un’Australia bucolica e affascinante, un tripudio di forme vegetali e animali, di orizzonti sconfinati, di pianure a perdita d’occhio, su cui la macchina da presa indugia con piacere sensuale (fot. 66); un luogo incontaminato, precedente al peccato originale.

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Al confronto di questo essere, una figura che sta tra l’angelo e il Cristo destinato al martirio, l’amico del cuore, Frank, è più scafato, conosce la vita ed è già diventato cinico, sospettoso, opportunista; è anche il genere dell’aussie spaccone e gaglioffo, rozzo e illetterato. Il suo nazionalismo non è dovuto ad alcun idealismo, ma più al “sentito dire”, alla tradizione di famiglia. Non vuole arruolarsi, non tanto per la paura di morire, quanto perché pensa che la guerra non lo riguarda. Certo, da uomo incolto e rozzo disprezza gli inglesi, con le loro arie di superiorità e i rigurgiti razzisti e colonialisti. Quegli inglesi che si diverte a mettere alla berlina facendo la caricatura della loro spocchia in sella a un mulo, mentre gira per Il Cairo (fot. 67). Il film, è difficile negarlo, lascia trasparire un’aria decisamente poco amichevole nei confronti dei britannici, sottolineando le loro stupide arie di superiorità, le stolte rigidità dei comandi militari, l’assoluto disprezzo per le vite degli “inferiori” australiani. Frank si convince ad arruolarsi solo quando si rende conto che la sua “diserzione” lo accompagnerà come un marchio di infamia per tutta la vita, lo renderà un isolato. Tiene testa ad Archie, che pure lo accusa di vigliaccheria, durante la traversata del deserto (simbolicamente, per lui, una sorta di espiazione biblica che deve purgarlo della sua “infamia”, in cui Archie svolge la funzione di diavolo tentatore); ma non riesce più a resistere quando, giunti alla fattoria, vede il diverso trattamento riservato dalla famiglia a chi accetta di compiere il proprio dovere e a chi, magari per ottime ragioni, decide di starne fuori. Alla fine sta a lui, paradossalmente, replicare alle accuse del padre, che non vorrebbe assolutamente che il figlio prendesse parte a una guerra degli inglesi. Se le giustificazioni per l’arruolamento sono anche molto concrete (l’ammirazione delle ragazze, la possibilità di “ritornare da ufficiale”), nondimeno è interessante analizzare le giustificazioni che Frank avanzava per la scelta opposta. Egli rivendica, infatti, la libertà di scelta: «Questo è un Paese libero». In fondo, se non può che ammirare il coraggio naïf e il disinteresse cavalleresco di Archie, Weir si sente più “vicino” al personaggio di Frank, meno idealizzato e idealista ma più “umano”, anzi più autenticamente “australiano”, perfino nei difetti. Entrambi i giovani, peraltro, vengono associati, nel film, agli ampi spazi aperti del bush e del deserto, una wilderness tipicamente australiana che la macchina da presa accarezza con rispetto quasi religioso – l’Eden della Bibbia, appunto. Si pensi alle emozionanti inquadrature dell’inizio, nelle quali la sterminata pianura australiana viene gradualmente scoperta o, talvolta, lasciata solo intuire. È a questo Eden bucolico che Archie è prima di tutto associato: una terra feconda delle opportunità e del

duro lavoro. Una terra che profuma di western, con i cowboy, i cavalli, il ranch. Da questo Eden, attraverso una serie di “stazioni” che la fanno un po’ assomigliare alla Passione di Cristo, la vicenda si dipana fino alla Gehenna finale. Questo è il film: una parabola cristologica dal paradiso all’inferno. Protagonisti due ragazzi diversi ma complementari, che come tutti i diversi fatalmente si attraggono (ma non c’è ombra di erotismo, se non casto). Le diverse stazioni di questa Via Crucis accompagnano anche spazialmente l’itinerario di formazione dei due ragazzi. Dopo l’Eden abbandonato volontariamente, anche se per motivi diversi, dai due amici (Archie in calesse, Frank in treno), troviamo la cittadina in cui gareggiano l’uno contro l’altro. La facile vittoria di Archie crea una prima disparità tra i due, rivali poi subito amici. Attrazione degli opposti, come si è detto. Di qui in avanti il film diventa anche un interessante studio sull’amicizia e il cameratismo virile. È l’avventura nel deserto inospitale che suggella questa speciale amicizia. L’essere scampati, miracolosamente, a questo inferno senz’acqua cementa la loro unione: gli scherzi che i due si fanno nel momento in cui avvistano i primi arbusti indicano come la loro confidenza reciproca sia cresciuta anche dal punto di vista fisico. La sosta nella fattoria, con la decisione di Frank di arruolarsi insieme all’amico, certifica ciò che il deserto ha decretato. Il deserto, infatti, è democratico per eccellenza. A Perth, luogo di arruolamento e di imbarco verso la gloria dell’avventura, riemergono però le differenze, che costringono i due a un’amara separazione. Frank, infatti, non supera l’ammissione: non sa andare a cavallo. Dunque, il deserto unisce; la città divide. La stazione egiziana del Cairo vede in scena, all’inizio, soltanto Frank, che ha ritrovato, in fanteria, i suoi antichi colleghi alla ferrovia: è rientrato nei ranghi, in qualche modo. È interessante notare come l’Egitto sia presentato nel film dal punto di vista degli australiani. All’inizio è proposto come un luogo molto differente dall’Australia: la gente – viene detto – vive per fregarti, qui, ed è implicito in questo giudizio, per contrasto, una valutazione positiva della propria correttezza e onestà. L’antiquario, peraltro, ribadisce come la civiltà egiziana sia antica, mentre quella australiana è “nuova”. Quando Frank e i suoi tre amici si imbattono in alcune prostitute in atteggiamenti lascivi, abbiamo davanti a noi l’icona stessa dell’aussie ingenuo e rude a contatto con i piaceri della carne e la voluttà, che possono corromperlo (fot. 68). Poco prima, davanti ad alcune fotografie di donne nude, uno degli amici era sbottato: «Le donne qui non hanno rispetto di se stesse». Anche se i quattro amici (tranne uno) non esitano poi ad approfittare di tale lascivia, si vede come Weir proponga qui, in un territorio “neutrale” come l’Egitto, lo stereotipo universale dell’australiano rude e bigotto, incolto e un po’ moralista. Del resto, quale maggiore contrasto tra la “chiusura” del paesaggio cittadino del Cairo, con i suoi vicoli stretti e il suq affogato dalla calca della gente, e 1’“apertura” della wilderness australiana, in cui le figure umane quasi si perdono? È istruttiva, per segnalare questa modalità di trattamento, la sequenza in cui i quattro amici, nell’intervallo di una partita di rugby, si fermano a commentare la presenza delle piramidi davanti a loro. In qualche misura, questa scena rammenta quella, analoga, in cui Miss McCraw e il cocchiere commentavano l’età e l’altezza di Hanging Rock. Billy, il “colto” del gruppo, è ammirato dalla loro grandezza, le definisce «il primo tentativo dell’uomo di sopravvivere alla morte». Insomma, si vede che ha letto qualcosa, che vuole sollevarsi dal cliché dell’australiano rozzo e ignorante. Invece Frank, che pensa solo a come vincere la partita (anche con mezzi non proprio leciti), definisce prontamente quella meraviglia «una montagna di sassi», riportandola alla sua nuda essenza naturale, senza sovrapposizioni di senso. Interroghiamoci, ora, su quale sia la posizione del regista in questo momento: l’impressione è che, pur ammirando lo sforzo ermeneutico di Billy, con il cuore stia piuttosto dalla parte del pragmatico, plebeo Frank. L’enigmatico volto della Sfinge, che Billy guarda con stupore rapito, non dice nulla a Frank. L’Egitto viene invece assimilato all’Australia e dunque reso “domestico”, non più esotico o alieno, quando si tratta di far riunire Frank e Archie. L’incontro con Archie avviene in un territorio familiare a entrambi: il deserto. Superando le assenze di questo luogo (acqua, ombra, vegetazione)

avevano stretto alleanza e comunione. La sequenza è introdotta da un campo lungo della fila di soldati in marcia sulla sabbia: difficile non pensare a Frank e ad Archie che camminano, uno dietro l’altro, nel lago asciutto. Il deserto egiziano appare qui un’estensione metaforica di quello australiano: due oceani senz’acqua. È in uno scenario di questo tipo che i due amici vengono fatti reincontrare. Da qui fino al termine della stazione egiziana l’atmosfera muta completamente. Frank lascia i tre amici e si accompagna, nuovamente, con Archie. La cosa è resa possibile dalla “promozione” di Frank in cavalleria: i due sono di nuovo uguali. Frank e Archie si sfidano subito in una gara di corsa che replica quella della cittadina australiana e che si conclude nei pressi di una piramide. Più tardi, quando ormai è sera e il silenzio è rotto soltanto dal canto di una preghiera, i due amici si arrampicano sulla piramide e suggellano il loro rapporto scolpendo su una lastra quello che appare a tutti gli effetti come una testimonianza d’amore (fot. 69). Sembra proprio l’appuntamento romantico tra due innamorati: il luogo eccezionale, il gesto di darsi la mano, la prova dell’eco, il tramonto rosso fuoco sullo sfondo. Ora che i due innamorati sono stati riuniti, è giusto che la loro condizione diventi nuovamente paritaria. Già la corsa tra i palmeti li aveva visti giungere appaiati sul traguardo; non resta che renderli uguali anche nello status. E infatti Archie riesce a convincere il maggiore a promuovere l’amico nella cavalleria; del resto, come vedremo, non è assolutamente indispensabile saper andare a cavallo, per quello che attende gli sventurati.

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La sezione egiziana si conclude con la sequenza del ballo, che da un lato “promuove” ulteriormente i nostri due protagonisti, che si muovono tra gli ufficiali come se lo fossero diventati anche loro,

dall’altro ha la funzione di creare un contrasto nettissimo di tono con la scena successiva dello sbarco a Gallipoli. La “democrazia” della scena del ballo è infatti del tutto illusoria, e viene ridicolizzata nell’ultima sezione e “stazione” del film. La più grande e democratica livellatrice è proprio la guerra: quando si muore tra le trincee si è tutti uguali. La stazione del film ambientata a Gallipoli ha il compito di edificare una nuova forma di “democrazia”, anche se macabra. Rimangono le punte di livore anti-inglese – con il colonnello ottuso e indifferente alle sorti dei suoi soldati e gli australiani utilizzati come diversivo e carne da macello – ma nel fango delle trincee e negli attacchi suicidi all’arma bianca non c’è differenza, ormai, tra fanti e cavalieri. Le ingenue forme di cameratismo o le prove infantili di virilità, come la gara a sfidare le pallottole standosene sott’acqua, sopravvivono, ma sono patetiche forme di resistenza a un destino che si fa sempre più incombente. La sorte dei due amici si divide nuovamente, e per l’ultima volta. Dovendo scegliere un portaordini, il maggiore aveva pensato al campione, Archie; ma questi (memore della sfida in Australia) rifiuta di “sopravanzare” ancora una volta l’amico e si sacrifica lasciandogli, all’insaputa di Frank, il ruolo che gli salverà la vita. Non rimangono, ormai, che due corse parallele finali, entrambe inutili: quella forsennata di Frank per consegnare l’ordine che eviterebbe la carneficina, e quella cieca di Archie verso una morte fin troppo attesa (fot. 70). L’urlo disperato di Frank quando capisce che è troppo tardi è quello di un innamorato che ha perso la persona amata; il fermo immagine finale dona ad Archie colpito la bellezza statuaria di un eroe greco immortalato per l’eternità.

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Il teatrino della politica. Un anno vissuto pericolosamente Sui titoli di testa, la macchina da presa si allontana scoprendo una rappresentazione del Wayang Kulit, il teatro delle ombre indonesiano, con i profili delle marionette. Il pubblico assiste, scopriamo il fuoco acceso dietro lo schermo per proiettare le ombre. La voce fuori campo del fotografo nano Billy Kwan ci comunica che siamo nel 1965, sotto il regime di Sukarno. Billy è seduto alla macchina da scrivere, sta compilando un dossier sul giornalista dell’Australian Broadcasting Service Guy Hamilton. Vediamo Guy arrivare all’aeroporto di Giacarta, accolto dai colleghi. Si presenta a Pete Curtis, corrispondente del «Washington Post» e conosce Billy. Insieme a Billy va in giro per Giacarta, attorniato ovunque da presenze spettrali, e visita un mercatino ambulante. Guy si reca poi al palazzo presidenziale, dove incontra Pete e gli altri corrispondenti. Insieme, vanno a sentire cosa ha da dire il presidente Sukarno. La rete non è

soddisfatta della sua corrispondenza, bisogna fare di più. Lui è nervoso, se la prende con il suo assistente indonesiano Kumar. Billy va a trovare Guy e gli chiede se ha avuto l’intervista che cercava. Mentre Guy fuma nervosamente, Billy si offre di aiutarlo a intervistare un membro del partito comunista. Fanno un patto: «Tu metti le parole, io le immagini». I due cominciano a collaborare attivamente. Su un giornale di Sydney compare la loro intervista: i colleghi, invidiosi, la leggono e si congratulano a denti stretti. Durante una cena, Pete e altri ridono come matti alle esibizioni di un orrendo nano che balla a comando, e Billy non la prende bene. La sera, Billy e Guy vanno insieme alla casa del primo, fuori città, quasi in mezzo alla giungla. Alle pareti sono appese anche le marionette del Wayang. Billy ne stacca alcune e le mette in movimento, offrendo una lezione sul Wayang a Guy: «In Occidente o è giusto o è sbagliato. Da noi non è così netto. Le forze della luce e delle tenebre sono in equilibrio. Devi capire le marionette e le ombre. Devi guardare le ombre, non le marionette». I due arrivano all’ambasciata. Continuando a fare da guida a Guy, Billy gli mostra il baffuto addetto del ministro britannico. Dalla piscina emerge intanto come una sirena Jill Bryant, impiegata all’ambasciata e probabile amante dell’addetto. I quattro si siedono a un tavolo, e l’addetto subito mostra la sua arroganza prendendosela con il cameriere che ha messo del ghiaccio nel suo gin tonic. Allora Guy prende per sé quel bicchiere. Imbarazzo. L’inglese lo sfida a una gara di nuoto: Guy potrebbe facilmente vincere, ma nelle ultime bracciate si fa superare apposta dall’inglese. In redazione, Kumar confida a Guy di avere problemi con i militari. Ha bisogno di soldi per sistemare un guaio causato dal padre e subito Guy gli allunga un rotolo di banconote. Arriva Billy che li invita a recarsi subito all’ambasciata fuori dalla quale ha luogo una manifestazione dei comunisti. Ci sono cartelli con la falce e martello e scritte «Fuori gli Usa». Eccitati, Billy, Guy e Kumar si trovano su di un’auto letteralmente assediata dalla gente. Il corteo si snoda vociante per la strada, diretto all’ambasciata americana. Giunti davanti al cancello presidiato dall’esercito, i dimostranti scaricano ghiaia da un carro e iniziano a lanciare sassi contro le finestre: i militari sono ormai pronti a entrare in azione. Guy si prende sulle spalle Billy, che continua a riprendere la scena, ma vengono aggrediti e devono rientrare nell’auto. Guy si accorge che Billy conserva un dossier su di lui, gli chiede per chi lavori in realtà: «Per i comunisti, per la Cia, perché mi hai preso di mira?». Billy gli risponde che deve avere fiducia in lui. Poi esce, di sera, per la città. Canti, gigantografie di Sukarno. A una festa dei corrispondenti, si beve, si balla, ci si diverte. Alla fine Jill deve andarsene con l’inglese: «Coprifuoco». La donna va poi a trovare sul lavoro Guy: i due vanno in giro per Giacarta in auto. Vanno al porto, si siedono a un tavolo a bere. Improvvisamente scoppia un forte temporale. I due, zuppi d’acqua, vanno in auto. Brindano, ridono, bevono una schifezza verde. Guy la accompagna all’ambasciata, tenta un approccio ma lei va via. Jill confida a Billy che tra dieci giorni se ne dovrà andare. A Guy arriva un invito per il ricevimento d’addio all’ambasciata inglese: al ballo, tra cornamuse e ostriche, ci sono tutti. Arriva Guy, subito trascina via Jill, e la bacia sul balcone. Lei si ritrae, lui allora se ne va in auto e sta per partire, quando Jill lo raggiunge. L’addetto, vestito da scozzese, inutilmente li rincorre. Si baciano in auto, e sfondano un blocco stradale, i militari sparano. Vanno a fare l’amore a casa di Billy. Il giorno dopo Jill, vestita di bianco e sorridente, arriva all’ambasciata e affronta l’addetto visibilmente alterato. A Jill giunge poi un telex importante, lei è scossa. In ralenti gira per strada sotto la pioggia, senza coprirsi. Raggiunge Guy in ufficio, vanno a letto. Fuori si sentono i tuoni. Jill svela a Guy il contenuto del telex: sono partite delle navi da Shanghai, arrivano i comunisti, bisogna andare via. Guy reagisce da giornalista, vuole prove su questa faccenda. Si dà da fare, cerca di sapere delle navi, offre soldi in giro in cambio di informazioni. Un’inquadratura dall’alto di una strada tra risaie a terrazzamenti mostra Guy che in auto sta andando verso le montagne dell’interno per saperne di più. Arriva alla casa di Kumar. I due bevono insieme in un tavolo all’aperto, mentre Tiger Lily, la donna di Kumar, si tuffa in una piscina piena di acqua sporca. Più tardi, Guy è sdraiato tutto coperto di sudore nell’oscurità di una camera da letto: la macchina da presa si avvicina. Guy sogna di andare in piscina, e di essere affogato da Tiger Lily. Si sveglia dall’incubo, si alza, si sciacqua la faccia. All’alba, esce per fumare e trova Kumar. La vista è sui terrazzamenti. Kumar, che è un agente comunista, gli conferma la notizia delle navi e parla delle

infelici condizioni del suo popolo. A Giacarta, tutti si apprestano a partire, Pete ha già i biglietti per Saigon. Pete e Guy festeggiano bevendo in un bar affollato, la gente li ascolta blaterare mentre suonano dei classici del rock. Pete balla da solo, poi con Guy avvicinano delle ragazze, ma spunta una pistola e i due vengono allontanati con le cattive. Vanno in giro in auto, ma arriva un branco di prostitute che assedia la macchina. Mentre Pete scende, Guy se ne va a cercare Jill all’ambasciata. Passiamo poi a seguire Billy, sconvolto da ciò che sta accadendo, deluso da tutto e tutti. Lo vediamo alla festa dell’albergo in cui è atteso Sukarno: prende la chiave di una camera e sale in ascensore. Nella hall i corrispondenti attendono l’arrivo del presidente, c’è anche Jill. Billy entra nella camera, ed espone alla finestra un lenzuolo con una scritta rossa: «Sukarno nutri il tuo popolo». Nel frattempo Sukarno sta arrivando in auto. Guy si accorge del lenzuolo e si mette a correre, ma alla camera 719 arriva la sicurezza, sfondano la porta: mentre Guy corre per strada, il corpo di Billy precipita dall’alto. Guy tiene la testa a Billy moribondo, che sorride. Il giorno dopo, non c’è nessuno per le strade; Guy va in giro in auto tra due file di militari, poi scende e si avvicina a un reticolato. Viene minacciato dalle guardie e poi colpito con il calcio di un fucile al volto. Si ritrova solo e ferito a casa di Billy, con una benda sugli occhi. Delira, gli sembra di sentire la voce di Billy, ma è Kumar. Fumano una Lucky Strike, parlano ancora del Paese, un Paese disprezzato. Kumar lo esorta ad andare all’aeroporto. L’esercito è dappertutto, la gente viene fucilata per strada: è il golpe militare. Guy mostra i documenti ai soldati, cerca di salvare il suo compagno. Li fanno passare per un pelo. Guy saluta Kumar ed entra nell’aeroporto pieno di gente, in totale caos. Dopo i controlli esce senza la valigia che ha lasciato dietro di sé e si avvia verso l’aereo. Ritrova e abbraccia Jill sulla scaletta.

L’incipit stabilisce il mood dell’intero film: nel gioco di luci e ombre delle marionette Wayang (fot. 71) si condensa, figurativamente, l’antinomia tra realtà e apparenza, contrasto e sovrapposizione, che domina Un anno vissuto pericolosamente. Un’antinomia che cela quella usuale di Weir: civiltà vs natura. La prima pretende di ergersi a unica verità, la seconda si incarica di smentirla. Trama simbolica e rete di relazioni interpersonali vanno, peraltro, di pari passo. L’illusione del marionettista che si sente in grado di tirare i fili e manipolare le persone è presente dovunque: è massima, naturalmente, nel personaggio di Billy Kwan, il nano che, proiettando un’ombra piccola, pensa di godere di un vantaggio relativo sugli altri (fot. 72). È nano forse anche per suggerire quella childishness necessaria per penetrare un mondo così misterioso e magico; tra l’altro, è interpretato da un’attrice, non da un attore, tanto per aumentarne l’ambiguità. Burattinaio esperto, è talmente sicuro di sé da mettere in scena un teatrino privato a casa sua, a beneficio esclusivo del suo “figlioccio” Guy. Quest’ultimo, nel teatrino, impersona ovviamente l’eroe, il principe Arjuna; la principessa da lui amata è Jill, mentre Billy riserva per sé il ruolo del nano servo e consigliere, Sima. Il problema è che manca il corrispettivo di Lord Krishna, il signore saggio, in quella che è la versione marionettistica della “Bhadavag Gita”, il nucleo filosofico e il cuore stesso del Mahabharata, il grande poema epico indiano del II secolo d.C. Probabilmente, Billy pensa che l’“ombra” di Lord Krishna possa anche essere il presidente Sukarno, verso cui ripone le massime speranze per il suo popolo («Penso che sia un genio. Ha fatto qualcosa per la gente»). Ma Sukarno, che nell’economia simbolica e nella fitta trama di relazioni “famigliari” rappresenta, per Billy, una figura paterna e autoritaria, non si dimostrerà affatto all’altezza delle aspettative del piccolo fotografo. Il fatto è che nessuno, in questo film, riesce ad andare al di là di una proiezione di se stesso, di un’ombra appunto. Neppure il sedicente marionettista, Billy. Nell’universo enigmatico e inafferrabile di Giacarta si aggirano, in mezzo a una folla di varia umanità – degradata (gli indonesiani) o indifferente (i corrispondenti esteri, la stessa Jill, in fondo) – i due personaggi principali, Guy e Billy. Da un certo punto di vista, il film è la storia della parabola fino all’impotenza e al fallimento di questi due personaggi: la volontà e la predisposizione non è loro sufficiente. Per certi versi anticipano (in particolare Guy), nella loro presunzione e nel loro entusiasmo, l’odissea del protagonista di Mosquito Coast.

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Guy, per metà americano, è bello e dinamico (fot.73): ci si aspetta che il suo contributo sia decisivo, come si conviene a ogni eroe che si rispetti. All’inizio, grazie all’intervento di Billy, ha successo: il nano vede in lui una sorta di “uomo del destino”, dimostrando dunque di confondere anch’egli realtà e apparenza, luce e ombra. Billy si fa affascinare da Guy, vede in lui – davvero – la proiezione dell’eroe Arjuna, in grado di avere il controllo delle proprie azioni, di sapersi distaccare da ciò che fa, come appunto insegna, nella “Bhadavag Gita”, Lord Krishna all’eroe. Il fatto è che anche Guy, come Arjuna nel poema, è “oscurato dal desiderio”. Del resto, Billy vede il mondo attraverso dei cliché: ha una visione stereotipata di Sukarno nel ruolo di salvatore del popolo (e alla fine lo inviterà a dargli da mangiare). Nonostante tutta la sua compassione sociale, Billy è intriso di luoghi comuni: per lui, il popolo non è un’entità autonoma, in grado di autodeterminarsi. È una lunga sfilata di vecchi sdentati, bambini moribondi, straccioni affamati seduti sul marciapiede, come ci fanno capire i continui spostamenti della macchina da presa per le vie di Giacarta. La “gente” di Giacarta è carpita da Billy in una lunga serie di immagini: sembra che esista quasi solo per finire appesa in fotografie alle pareti di casa sua. La conoscenza di Billy, dunque, non diversamente da quella di Guy, è filtrata da questa visione “estetica” (anche se lui lo nega, rivendicando piuttosto, con Guy, la qualità “realistica” delle proprie fotografie). Il popolo, nella visione offuscata di Billy: ha bisogno, per il suo riscatto, di salvatori, di uomini forti e carismatici; di un Sukarno, dittatore mascherato da benefattore o, in mancanza di meglio, di un Guy, il bianco che sembra rispondere così bene al cliché dell’occidentale forte, bello e determinato, arrivato nella periferia dell’impero. Billy, nella maggior parte delle inquadrature, passa il tempo a scrutare dal basso in alto ora Guy ora le gigantografie e i manifesti del presidente. Per il resto, se la suona e se la canta da solo, in perfetto solipsismo, snocciolando (a se stesso) in voce off commenti, valutazioni, strategie. Si è autoconvinto di trovarsi alle prese con le proiezioni di due divinità. E di poterle controllare, manovrare. Per ben due volte il film ci offre l’immagine di un Billy salito sulle spalle di altrettanti uomini (Guy e Pete), nella posizione di comando di un fantino in sella al suo destriero. Ma vi è anche un’immagine contraria, che riconsegna il sedicente burattinaio a una posizione assai meno privilegiata, ed è quella del nano osceno che, nel locale, balla tra le risate dei corrispondenti occidentali (fot. 74): una parodia grottesca che rivela all’improvviso il reale status di Billy (che infatti ne soffre). L’illusione di Billy, nel teatrino Wayang che è diventato l’intero film, lo porterà a una doppia, atroce delusione:

Sukarno non è il salvatore del popolo; Guy non è l’occidentale in grado di rovesciare le sorti della Storia. Weir mostra, qui, un notevole disincanto e anche una discreta acutezza: proprio perché accetta di compiere quest’opera di demistificazione con il filtro dello sguardo di Billy, accettando, cioè, uno sguardo “esotico” (Billy è per metà anche cinese) eppure già contaminato, anch’esso, dai cliché occidentali. È questa scelta che consente al film di evitare ogni piatta ricostruzione documentaria di avvenimenti ormai storicizzati (il colpo di stato del 1965 e la deposizione di Sukarno da parte della destra militare, con la scusa dell’aggressione comunista) e dunque vivacizzabili solo da qualche empito di idealismo e soprattutto da una bella, scontata storia d’amore.

FOT. 73

Per sua stessa ammissione, Weir è stato pochissimo fedele anche al romanzo di C.J. Koch (che già Coppola aveva preso in seria considerazione). Ha schivato ogni opzione realistica in favore di una narrazione confusa, ambigua, in cui l’allusione prevale sulla spiegazione, e di uno stile ellittico. Lo svolgimento degli avvenimenti è sempre affidato all’interpretazione dei vari personaggi, al loro punto di vista parziale; e dunque sfugge a una pretesa di oggettività. Analogamente a ciò che Billy dice a Guy quando gli spiega la filosofia del Wayang, non c’è, nel film, una linea precisa che separi torto e ragione, condanna e assoluzione. Il credo estetico di Weir è: «Penso che più cose uno mostra, meno reali esse diventano». Anche in un film storico Weir tende a muoversi “sotto” la superficie, sotto ciò che è percepibile all’istante, per raggiungere una dimensione “vera”, non reale. Come nel Wayang, appunto. Il “disturbante”, l’irrazionale è sempre in agguato nei suoi film: l’abbiamo già incontrato in Le macchine che distrussero Parigi, Picnic ad Hanging Rock, The Plumber, L’ultima onda, in fondo anche in Gli anni spezzati se consideriamo la guerra come un fatto totalmente irrazionale. Qui, non solo abbiamo le “ombre” che cercano di insinuarsi nella narrazione principale costellandola di lacune, mancanze di senso, enigmi; ma perfino le stesse improvvise apparizioni sulla scena dei mendicanti-spettri o dello sciame di prostitute che copre letteralmente l’auto (ricordando quelle nel suq del Cairo in Gli anni spezzati – identica è la funzione di shock culturale per gli occidentali) posseggono questa qualità disturbante. Al riguardo, notevole è l’osservazione di Billy, come sempre conteso da sentimenti di amore e di disprezzo per il proprio Paese: «La povertà è un grande afrodisiaco!».

FOT. 74

Se Billy si è illuso di essere un burattinaio di successo, non molto meglio va all’eroe, Guy. Il fatto è

che Guy non è realmente interessato alle cose che vede e che registra, non ha nessun destino da compiere se non quello del proprio successo personale e professionale: come il Tatum di L’asso nella manica (Ace in the Hole, di Billy Wilder, 1951), l’ambizioso Guy vuole soprattutto carpire delle cose, rubare, speculare, in fondo, sulle tribolazioni di un Paese. All’inizio, non soffre perché vede attorno a sé povertà e desolazione, ma perché non ha materiale abbastanza buono da inviare a Sydney. Per lui, Sukarno, i comunisti o i militari sono tutti sullo stesso livello. L’importante è stare sulla notizia, e in questa prospettiva è lui che, ingenuamente, è convinto di “usare” gli altri ai propri fini: Billy, Kumar, Jill. Non è però un “facitore”, come sperava Billy: è piuttosto un altro parassita della Storia, non così diverso dall’amico reporter che all’inizio critica. Incapace di comprendere davvero, vive di flash di notizie e di frammenti parziali di verità, sempre “esterno”. Verso la fine del film, viene simbolicamente mutilato proprio nella capacità di vedere: una benda va infatti a coprire i suoi occhi (fot. 75), e non gli resta che imbarcarsi sull’aereo che lo riporterà in un mondo di maggiori certezze. Forse Guy è autentico e sincero soltanto quando si invaghisce della bella principessa, Jill, mostrata per la prima volta quando esce grondante acqua e desiderio dalla piscina dell’ambasciata (fot. 76). Jill è associata al colore bianco (il vestito, il cappello di paglia) ed è disponibile per completare e tranquillizzare un eroe finora troppo nervoso (le innumerevoli sigarette…). Una relazione benedetta subito da Billy che, da un lato, ha bisogno che il suo eroe trovi una tranquillità emotiva in modo da meglio “agire”; dall’altro, ha pur sempre il problema di trovare a se stesso un ruolo in una famiglia immaginaria e vicaria, estesa fino a comprendere sia il gioco illusionistico del Wayang sia la situazione sociopolitica del Paese: dopo il “padre” Sukarno/Krishna e il “figlio” Guy/Arjuna, ecco ora la nuora/principessa Jill. Anche Jill, però, è una discreta figura di manipolatrice: “usa” disinvoltamente gli uomini, e li abbandona con altrettanta facilità. Passa dal giornalista partito per Saigon all’addetto dell’ambasciata a Guy, ma è già con un piede sulla scaletta dell’aereo.

FOT. 75

FOT. 76

Alla fine, tutti fuggono; tutti, tranne Billy, che in pratica si suicida. Quando prende la decisione di stendere il lenzuolo anti-Sukarno fuori dalla finestra dell’hotel, Billy agisce finalmente in prima persona (fot. 77). Smette, cioè, di delegare gli altri ad agire al posto suo. Anche perché ha ormai capito che ciò che gli fa difetto, il carisma per agire sulle situazioni e modificarle nel senso voluto, non è posseduto neppure dai suoi falsi idoli. Billy deve morire anche perché è il sedicente

“narratore” del film, colui che pretende di abbracciare più punti di vista. La sua fine, con il piccolo corpo sfracellato sulla strada, mentre Mel Gibson, come già in Gli anni spezzati, corre come un dispe- rato ma arriva troppo tardi, segna la rivincita della realtà, della sua pesantezza e tangibilità, sul reame dei fantasmi, delle ombre e delle illusioni. Naturalmente, il film offre anche alcune prelibatezze tipicamente weiriane. L’arroganza e il razzismo degli inglesi, al solito, vengono messi alla berlina, grazie a una serie di personaggi odiosi. Infine, come sempre, è possibile farsi un’idea della trama simbolica del film seguendo le modalità con cui viene proposto l’elemento acquatico. L’acqua che cola dal condizionatore guasto di Guy, spia della sua iniziale situazione di disagio; l’improvviso, violento temporale che scatena i sensi di Guy e Jill; l’acqua limpida della piscina dell’ambasciata da cui emerge come una seducente sirena Jill e in cui avviene la gara di nuoto tra Guy e l’arrogante addetto britannico; l’acqua sozza e putrida della piscinetta tra i monti in cui si tuffa Tiger Lily e nella quale Guy sogna di essere affogato dalla donna; la pioggia che cade in ralenti su Jill che non pensa a coprirsi dopo che ha ricevuto un telex fatale; l’acqua fetida del canale nello slum in cui Billy fa visita al bimbo malato di febbre; il ghiaccio nel gin tonic che l’inglese rifiuta e che Guy invece accetta: la rete di significati, corrispondenze e opposizioni del film si arricchisce anche grazie a questa puntuale immaginazione visiva.

FOT. 77

Com’era verde la mia valle. Witness - Il testimone Il film si apre sui titoli di testa con la veduta di un prato mosso dal vento. Gli Amish vestiti di nero emergono dal mare d’erba, fila di calessi scuri. Scritta: Pennsylvania 1984. Tutti piangono a una funzione religiosa, lutto per un defunto. Si parla in tedesco. Finito il funerale, si imbandisce una tavolata, ragazzi e donne in cucina. La gente conversa. Un giovane biondo, Daniel Hochleitner, raggiunge un gruppetto di donne, tra cui c’è anche la vedova, Rachel Lapp, e le porge le condoglianze. In questa scena, la luce entra lateralmente da una finestra come in un dipinto di Vermeer. Di nuovo, una veduta del mare d’erba mosso dal vento e del villaggio degli Amish fatto di casette, un canale con le oche, il tramonto sui campi: immagini idilliche. Gli Amish raccolgono balle di fieno. Un calesse va in città attraversando i campi. Giunto sulla strada, è tallonato da un lunghissimo camion e da una fila d’auto rallentate. Lo ritroviamo fermo a un semaforo. Sul calesse, Rachel e suo figlio Samuel, Daniel e il nonno di Samuel, Eli. Daniel porge un cavallo di cartone al ragazzo e si raccomanda a Rachel: «Stai attenta laggiù, in mezzo agli inglesi». Rachel e Samuel salgono sul treno, il ragazzo guarda dal finestrino una mongolfiera. Ritroviamo i due all’interno della stazione ferroviaria di Philadelphia, aspettano la coincidenza per Baltimora, che ha un ritardo di 3 ore. Samuel gioca con una fontanella, poi se ne va in giro, con il suo cappello e le orecchie a sventola; si avvicina a un uomo che pare un Amish, con la sua barba lunga. La macchina da presa lo segue nella hall della stazione. Samuel si ferma e guarda dal basso verso l’alto una gigantesca statua di un angelo che sorregge Cristo morto: è affascinato dal volto dell’angelo. L’inquadratura passa poi al punto di vista dell’angelo, con Samuel piccolo giù in basso. Arriva la madre e lo porta via. L’attesa si prolunga. Samuel va al bagno. Mentre è all’interno di uno degli scomparti, vede arrivare due uomini, di cui uno di colore, che aggrediscono

e uccidono un giovane in giubbotto nero che si sta lavando. Samuel è paralizzato dal terrore. Il nero preleva dal morto un taccuino e dei soldi. Poi credendo di sentire qualcosa, si mette a controllare i vari scomparti del bagno. Samuel si chiude dentro: il killer apre tutte le porte e trova chiusa quella di Samuel, che si è messo in piedi sul wc. Il killer se ne va. Arriva la polizia, tra cui c’è un certo John Book, che trattiene Rachel e suo figlio, che è testimone oculare. Vanno in un locale chiamato Happy Valley. Portano un nero di alta statura da Samuel per un riconoscimento, che è negativo. Book porta Rachel e il figlio a dormire a casa di sua sorella Elaine. Il giorno dopo Book li preleva e li porta alla stazione di polizia: vengono mostrate al ragazzo diverse foto di uomini di colore, ma nessuno viene riconosciuto. I tre vanno insieme in un bar, poi di nuovo alla stazione di polizia. Samuel familiarizza: mentre tutti lavorano, il ragazzo gira per gli uffici e si ferma davanti a una teca contenente statuette di poliziotti. C’è anche un ritaglio di giornale con la foto del killer e la scritta «Narcotics Officer McFee Honored for Youth Project». La macchina da presa zooma sul volto concentrato di Samuel. Il bambino guarda Book, che se ne accorge e si avvicina in ralenti, si piega. Samuel indica con il dito la foto del killer. Book va a trovare Paul Schaeffer, suo superiore e amico di famiglia. Gli dice che il ragazzo ha identificato McFee e ricapitola la vicenda di un sequestro di droga. Book chiede degli uomini per il controllo. Paul si fa dire dove sta il ragazzo. Nel garage della polizia, arriva Book. Dietro di lui compare McFee. Avviene una sparatoria nella quale Book rimane ferito. McFee fugge in auto. Book telefona subito a casa della sorella, le dice che gli serve la sua auto; poi passa a prendere Rachel e Samuel e li porta via. Telefona a un collega, Carter, gli dice di far sparire ogni incartamento del caso e lo avverte che è coinvolto anche Schaeffer. Schaeffer e i due killer trovano l’auto di Book nella rimessa, aprono il baule, poi vanno da Elaine e la minacciano. Book, Rachel e Samuel arrivano al villaggio Amish. Il bimbo corre dal nonno. In auto, Rachel si accorge che Book sta male. Lei scende, Book riparte, ma subito si accascia al volante e l’auto finisce contro una casetta per uccellini. Eli e Rachel decidono di non portarlo all’ospedale. Viene in visita una specie di dottore: il proiettile è entrato e uscito, ma lui ha perso moltissimo sangue. Eli dice che deve parlare della faccenda con gli anziani. L’auto viene nascosta nel granaio, mentre Book è assistito da Rachel. Intanto Schaeffer e soci cercano di localizzare l’Amish. Book si sveglia e si ritrova circondato dagli anziani Amish, i cinque capi della comunità. Samuel apre il cassetto con gli effetti personali di Book, c’è una pistola. Book gliela toglie e la scarica. Rachel dà all’uomo dei vestiti del marito defunto. Dal telefono dell’emporio del villaggio Book chiama Carter, che lo mette in guardia. Di nuovo nella fattoria, Eli invita Book a lavorare per lui, a mungere le mucche. Il poliziotto riesce a far ripartire la batteria dell’auto, e la radio trasmette della musica; lui canticchia e, quando arriva anche Rachel, i due si mettono a ballare nel granaio, quasi si baciano. Lui si sottrae all’ultimo. Nell’ufficio di Schaeffer, quest’ultimo parla con Carter, cerca di farsi dire dove si trova Book. Dagli Amish, c’è un fienile da costruire: Rachel si mangia con gli occhi Book, Daniel è divorato dalla gelosia. Ma tutti collaborano alla costruzione. Si mettono in fila a tirare su a mano con una corda la facciata del fienile, assistiamo a un campo totale della scena che cattura l’atmosfera da film di pionieri “alla John Ford”. Lavorano duro tutti assieme, Book se la cava. Poi tutti a tavola ben ordinati, con l’immancabile preghiera. Si riprende con le assi di legno, file di chiodi. Le donne cuciono e ricamano. Tutti cantano, Book è conquistato dall’atmosfera comunitaria; si siede sull’altalena, e osserva Rachel all’interno che gli si mostra a seno scoperto. Arriva in paese un autobus pieno di turisti, venuti a vedere i caratteristici Amish. Una vecchia vuole fotografare anche Book. Il poliziotto telefona intanto a Carter, ma non riesce a parlargli: gli comunicano che è morto in servizio la sera prima. Sconvolto, Book chiama Schaeffer e i due si minacciano. Sulla via del ritorno, in calesse: alcuni giovani importunano e sfottono gli Amish. Mettono del gelato sul naso di Daniel. Book scende dal calesse e dà un cazzotto a uno di loro. Un passante commenta: «Questo non fa bene al turismo», e poi avverte un poliziotto. A casa, Rachel manda a letto il bambino e guarda Book. I due si baciano con passione. Campo totale della strada, arriva una berlina che si ferma dietro un dosso. Sono in tre: Schaeffer e i due killer. Tirano fuori dal baule pistole e fucili, e si dirigono a piedi verso la casa sullo sfondo, azzurrina. McFee entra per primo, afferra Rachel. Il nonno, che porta del latte, avverte con un

grido Book, e McFee lo colpisce. Book si trova con Samuel nel granaio, vanno di sopra. Il bimbo corre via, Book si dirige verso l’auto. Il killer biondo arriva di fianco all’edificio con il fucile spianato. Book cerca di mettere in moto l’auto: il biondo gli spara, lui si nasconde e poi si butta giù tra le bestie. La musica sale sempre più di volume. Anche il biondo è tra le vacche; Book torna di sopra, ma non riesce a uscire dal cunicolo, è in trappola nel granaio. Però il biondo non riesce a vederlo perché è al buio. Ora il killer è dentro il condotto e Book fa cadere il grano che gradualmente lo sommerge. Samuel è tornato a casa. Schaeffer prende in ostaggio Rachel e il nonno. Book recupera in mezzo al grano il fucile del biondo: c’è un montaggio alternato di Book che scava più in fretta che può nel grano e il primo piano del volto sbarrato di McFee. Quest’ultimo corre ma Book è più rapido e gli spara alla base del condotto: McFee muore appoggiato al muro. Schaeffer punta la pistola su Rachel e Book è così costretto a buttare via il fucile. In quel momento arrivano tutti gli Amish dai dintorni e circondano Schaeffer che per un attimo rimane incerto, ma poi si arrende a Book che lo disarma. Arriva la polizia. Book parla coi colleghi, mentre Rachel, in primo piano, lo guarda dalla finestra. Book saluta Samuel. In una scena totalmente muta, Book e Rachel si separano guardandosi da lontano. Esce il nonno e guarda Book che si allontana in auto. L’auto, in campo lungo, incrocia Daniel che sta venendo a piedi alla fattoria di Rachel. I titoli di coda scorrono su un campo lunghissimo dell’auto che si allontana sempre più, e di Daniel che si avvicina.

Sotto la scorza dura del thriller poliziesco e il look spettacolare da western fordiano, il primo film “americano” di Peter Weir appare apparentato a ben vedere con i precedenti. La prateria australiana come gli sterminati campi d’erba mossi dal vento della Pennsylvania (fot. 78). Le immagini bucoliche iniziali, fuori dal tempo, richiamano immediatamente quelle analoghe dell’incipit di Gli anni spezzati: rappresentano un Eden incontaminato prima della Caduta, prima del peccato originale. La differenza è che, nel primo caso, Archie abbandona volontariamente il suo Eden risucchiato dalla violenza della Storia (e della guerra, naturalmente); nel secondo, è invece la violenza del mondo contemporaneo che irrompe a sconvolgere un Eden pacifico. Va detto, peraltro, che Weir non si fa troppe illusioni sulla capacità di resistere di un mondo senza motori, telefoni e tecnologia: i turisti, avanguardia del “progresso”, stanno già arrivando come locuste sui loro pullman (fot. 79), e non bastano certo i cazzotti di Book a tenerli lontano. Ben presto, anche gli Amish, come gli aborigeni australiani o i Navajos dell’Arizona, saranno ridotti a mero repertorio fotografico, a motivo folcloristico di divertimento (nella stazione di Philadelphia, una madre addita alla figlia «quel piccolo Amish così carino»). Insomma, il paradiso degli Amish è già ora contaminato: gli sforzi di Eli e degli altri anziani di preservarlo intatto appaiono destinati al fallimento.

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Ugualmente, possiamo con qualche logica paragonare gli Amish di questo film agli aborigeni di L’ultima onda. Entrambe le comunità sono ormai emarginate nel contesto più ampio dei loro Paesi: gli Amish abitano un piccolo lembo di Pennsylvania rurale, circondato da tutte le parti dagli avamposti della “civiltà” e attraversato da turisti con le macchine fotografiche; gli aborigeni vivono in alcune zone isolate dell’Australia e sono relegati ai margini delle città, in condizioni di totale abbrutimento. Sono entrambe comunità che appartengono al passato – gli Amish al diciottesimo secolo e gli aborigeni al periodo prima dell’arrivo dei bianchi (1788) – e ad esso rimangono affezionate per usi, costumi e culti, incomprensibili ormai all’uomo moderno. Nell’economia simbolica di Weir, rappresentano la voce “natura” a fronte della voce “civiltà”. Entrambe le comunità si trovano improvvisamente coinvolte in un fatto di sangue, un omicidio, che le costringe a venire in contatto con il mondo “di fuori”. Entrambe, infine, vengono “penetrate” da una figura esterna che deve garantire il rispetto della Legge: l’avvocato David Burton, il poliziotto John Book. Non c’è dubbio che il regista guardi con simpatia a una comunità come quella Amish, che vive in pace, non è preda dell’avidità, è solidale verso i propri membri. Il film trabocca di scene che, esplicitamente, rimandano a una visione collettivistica: la funzione religiosa (fot. 80), il lavoro nei campi, l’accoglienza riservata a Book ferito, la costruzione corale del fienile (fot. 81), che è un vero inno alla cooperazione tra uguali. Qui sono tutti per uno, laddove, in città, anche gli amici tradiscono. L’antinomia tra questo stato “naturale”, senza macchine, e la civiltà industriale moderna, dominata dalla scienza e dalla tecnica, è resa esplicita nella sequenza in cui il calesse della famiglia di Rachel rallenta la marcia di un gigantesco, lunghissimo autoarticolato (fot. 82). L’immagine del veicolo trainato da un cavallo, che procede lentamente rallentando la marcia dei veicoli a motore, è una bella metafora di una possibile alternativa slow a un mondo che va di fretta e spreca le energie.

Ai campi e alle casette linde degli Amish (fot. 83) si contrappongono gli edifici di Philadelphia, soprattutto una stazione ferroviaria inquietantemente anonima (fot. 84). In città, i gabinetti possono essere luoghi di morte; “Happy Valley” è solo il nome ironico di un locale pieno di brutti ceffi; il cibo è il junk food, gli hot dog consumati in fretta che Book compra per Rachel e Samuel al bar (altro che le succulente, comunitarie tavole imbandite degli Amish). L’anonimato urbano ha i suoi abitanti tipici, tra cui delinquenti, poliziotti corrotti e assassini.

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In particolare, John Book è l’archetipo stesso del poliziotto duro e solitario del film noir (fot. 85); nella sua solitudine e aggressività ricorda, per esempio, il protagonista di Neve rossa (On Dangerous Ground, di Nicholas Ray, 1951). Nel thriller di Ray, il violento poliziotto Wilson (Robert Ryan) viene spedito dalla città in una zona montagnosa per indagare sull’omicidio di una ragazzina. Scopre che l’assassino è un giovane squilibrato e s’innamora della dolce sorella cieca di lui. Torna purgato dalle proprie ossessioni, grazie al contatto con la wilderness e con la diversità. È esattamente lo stesso itinerario di Book: anch’egli abbandona per un po’ un mondo violento a cui sa reagire solo con la violenza, per immergersi in una sorta di stato naturale che in qualche modo lo purifica. Anche Book si innamora, di una dolcissima vedova. Alla fine, però, come Wilson, torna nell’unico mondo cui sa di appartenere. La condizione di paria solitario di Book gli viene rinfacciata da Rachel nella scena del bar (fot. 86); la donna, ripetendo le parole della sorella di lui, gli ricorda la mancanza di una famiglia propria, l’ossessione del lavoro perché in quell’ambito «crede di avere ragione su tutto», la paura della responsabilità. Il primo passo dell’emancipazione di Book (come molti altri film di Weir, anche questo racconta, soprattutto, un processo di “liberazione” psicologica e spirituale) sta, in effetti, nel decidere di prendersi la responsabilità della salvezza di Samuel, che casualmente si è venuto a trovare in pericolo come testimone oculare di un omicidio. Il ruolo di “salvatore” che il film assegna a Book viene simbolicamente anticipato nella scena in cui il bambino, girando per la hall della stazione di Philadelphia, si ferma a lungo a osservare la statua gigantesca di un angelo che regge il corpo di Cristo (fot. 87). Una qualche metafora cristologica o salvifica appare spesso, come si è visto, nei film di Weir (in Gli anni spezzati è resa assai esplicita). Il secondo passo, per Book, è l’immersione nel mondo degli Amish. Come nei grandi western classici, qui il paesaggio rigenera, ha una funzione curativa. Distese d’erba, canali con le oche, cavalli, balle di fieno, tramonti sui campi: il film sprigiona un romanticismo del paesaggio bucolico e idillico che il regista ha già mostrato di apprezzare. Tanto più struggente, in quanto tutti noi sappiamo benissimo che né gli Amish né gli aborigeni australiani possono sperare di sopravvivere a lungo in questo stato. Si parla dunque, anche qui, di “diversità” culturale. Gli aborigeni, in L’ultima onda, contrapponevano la loro legge tribale alla legge dei tribunali, esattamente come, qui, Rachel rivendica il fatto che il suo popolo «non ha nulla a che fare con le vostre leggi». Una rivendicazione orgogliosa ma purtroppo sterile, perché poi le leggi sono quelle dello Stato moderno, e tanto l’avvocato David Burton quanto il poliziotto John Book, due figure conservative del sistema, sono tenute a farle rispettare. Book entra nel mondo degli Amish portando con sé un oggetto che rappresenta bene il mondo “là fuori” della corruzione e della violenza: una pistola. Questa pistola, nel film, assume anche la valenza di un oggetto fallico, di una minaccia sessuale portata dal poliziotto alla giovane vedova: una commistione sessuale che il nonno teme massimamente e che la comunità potrebbe anche sanzionare con la messa al bando della colpevole. La pistola deve dunque essere, al più presto, scaricata e poi nascosta. Finisce, significativamente, immersa dentro un ingrediente da cucina, la farina (e più tardi, scherzando, Book dirà a Rachel di “non mettere le pallottole sotto spirito, come la frutta»). Verso la fine del film, del resto, Book recupera il fucile di uno dei due killer scavando a lungo dentro il grano caduto dall’alto (fot. 88). Il motivo delle armi da

fuoco nascoste sotto i simboli della vita domestica e agricola nella fattoria (la farina, il grano), “doppiano” quella che è la femminilizzazione progressiva dello stesso personaggio di Book, che perde, insieme alla pistola, il suo look e i suoi modi da “duro”. Il poliziotto tough e solitario, «bravo a picchiare la gente», subisce infatti un processo di metamorfosi. Va notato che Book entra nel mondo degli Amish con l’handicap di una ferita: ha perso molto sangue. È come se fosse stato all’improvviso svuotato di quel “sangue” che è un po’ il simbolo della città violenta da cui proviene (mentre il liquido simbolo degli Amish è l’acqua dello stagno con le oche, del mulino, del pozzo). Dunque si trova in una situazione di debolezza. Viene curato con ingredienti naturali: un decotto di latte e semi di lino. A un certo punto sembra morto, Rachel è raggelata. Ma, subito dopo, “rinasce”, e significativamente si trova attorniato dai famigliari di Rachel e dai cinque anziani capi della comunità, che simbolicamente “certificano” la sua ammissione e il suo nuovo status di membro del villaggio (fot. 89). Di colpo, Book non è più solo ma fa parte di un tutto. A partire da questo momento inizia la sua trasformazione. Dapprima, come detto, si sbarazza dell’oggetto fallico e aggressivo per eccellenza: la pistola. Ed è a questo punto del film che il vecchio Eli impartisce la sua lezione sulla necessità di non uccidere, neppure per legittima difesa, a un Samuel che era stato attratto dalla pistola. Qui Weir suggerisce che, avendo assistito in città a un omicidio, il bambino possa in qualche modo esserne stato contaminato. Il processo, dunque, può valere in entrambe le direzioni. Successivamente, ci viene mostrato Book che legge un libro sul concime, e in seguito mentre si veste con gli abiti del marito defunto di Rachel. I pantaloni troppo corti lo fanno assomigliare a uno spaventapasseri (fot. 90). Poi Book familiarizza con la fattoria: il mulino, la pompa del pozzo. Eli gli insegna a mungere (fot. 91), e qui c’è un passaggio divertente con la battuta sulla tetta della mucca: un modo per “svirilizzare” ulteriormente il personaggio. Che poi vedremo aggiustare la casetta degli uccelli che ha abbattuto con l’auto: un’allusione precisa alla sua possibile propensione a mettere su casa finalmente, a smetterla con una vita priva di una famiglia. Quando Book balla nel granaio con Rachel, si mette a canticchiare, sulle note della musica che esce dalla radio dell’auto What a Wonderful World It Would Be; le parole della canzone alludono, evidentemente, a quel “mondo meraviglioso” che potrebbe essere, che è, la fattoria Amish. A questo punto, la metamorfosi di Book è quasi completa: troverà la sua epitome nella sequenza corale dell’edificazione del fienile per la coppia che si è sposata; ormai non solo Book pare essere stato accettato come membro della comunità (lui, che come tutti quelli non Amish, veniva chiamato “l’inglese”), ma è anche diventato lui stesso un po’ Amish (questo fatto gli verrà riconosciuto nel saluto finale del vecchio Eli che, mentre il poliziotto se ne va, gli urla dietro di «stare attento laggiù in mezzo agli inglesi» – la stessa frase detta da Daniel a Rachel in partenza per Philadelphia).

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C’è solo un fatto che contrasta con l’assimilazione completa di Book nella comunità: la (possibile) relazione con Rachel. Una tale eventualità non è infatti contemplata dal rigido codice Amish. Chi infrange le regole della comunità chiusa, come era accaduto anche all’aborigeno che in L’ultima onda aveva sottratto degli oggetti dallo spazio sacro, ne viene immediatamente escluso. È l’unico mezzo per preservarsi. Naturalmente, Rachel non può abbandonare gli Amish: è una di loro. Non può formare, con Book padre putativo e Samuel, una nuova famiglia da qualche parte. Ciò conferisce alla relazione tra Book e Rachel una qualità problematica, sofferta. I due esitano a lungo, sapendo le conseguenze del loro gesto. Dopo la sequenza del ballo nel granaio e la dura reprimenda del vecchio, la loro relazione si sviluppa attraverso tre scene madri, che sono costruite su un complesso gioco di sguardi/non sguardi reciproci. La prima, che è anche la più sensuale, ha luogo al termine del lavoro di costruzione del fienile. Book siede sull’altalena, e guarda Rachel che è dentro la casa e si sta lavando con l’acqua di una tinozza. La donna si passa la spugna sulle braccia, poi sulle spalle; Book continua a guardarla senza che lei, apparentemente, se ne renda conto. Improvvisamente, lei si volta e mostra il seno scoperto all’uomo (fot. 92): Book istintivamente abbassa lo sguardo, lei invece continua a fissarlo quasi a volerlo provocare sessualmente; infine si volta anche lei. La seconda scena ha luogo la sera prima del giorno in cui Book ha deciso di partire per rintracciare Schaeffer e vendicarsi, dopo che ha saputo che il suo amico Carter è stato ucciso. Inizia con un lungo primo piano di Rachel: questa volta è lei che guarda Book mentre l’uomo sta sistemando la casetta per gli uccelli e non sa di essere osservato. Rachel medita, spegne la luce, si toglie la cuffia bianca. Questo gesto, naturalmente, ha un significato preciso: Rachel accetta di non essere più Amish pur di poter fare l’amore con l’uomo che ama. C’è poi un piano medio di Book che finalmente si volta. Lei si avvicina a lui, lui si muove verso di lei, e i due, in primo piano, si abbracciano e si baciano a lungo in mezzo al campo. Non ci viene mostrata alcuna immagine dei due mentre fanno l’amore, ma tutto lascia credere che sia successo. La sequenza immediatamente successiva mostra l’arrivo della berlina con i tre killer a bordo: è l’irruzione della realtà che spezza l’incantesimo. La terza e ultima scena è quella del commiato finale tra i due innamorati. Qui, il gioco degli sguardi incrociati è particolarmente elaborato. Dopo che Book, in riva al canale, ha baciato e detto addio al bambino (quindi noi già sappiamo che Book ha deciso di andarsene), ci viene mostrato un piano medio di Rachel ferma sulla soglia della fattoria. Segue un primo piano di

Book, poi uno di lei, poi ancora uno di lui che sorride (fot. 93). Dietro a Book, sullo sfondo, si vede nell’inquadratura un pezzo di strada. Seguono un primo piano di Rachel che gira la testa verso l’interno della casa e un primo piano di Book che, a sua volta, si volta in direzione della strada. A questo punto, Rachel torna a girarsi verso Book e lui verso di lei, quasi in lacrime. È lei a sorridere ora, e lui torna a girarsi verso l’auto e la strada. Questa volta Book si muove. Rachel lo segue a lungo con lo sguardo. Tutta la scena è muta, a parte la musica. Siamo dalle parti di John Ford, naturalmente, di Sentieri selvaggi ( The Searchers, 1956) in particolare. Andandosene, Book incrocia in auto Daniel, che a passo svelto viene in direzione della fattoria: chiaro come andrà a finire la faccenda. Anche in modo inatteso: quando Samuel aveva sostituito il cavallo di cartone che gli aveva regalato Daniel al momento della partenza in treno per Philadelphia con il giocattolo di legno costruito da Book, e quando quest’ultimo era intervenuto vendicando a cazzotti l’offesa subita proprio da Daniel (il gelato sul naso), avevamo tutti pensato che la storia d’amore si sarebbe conclusa nel modo più canonico, con l’eroe che si porta via la bella (o, al limite, si ferma con lei nel villaggio). Ma Weir non è mai scontato o canonico: la conclusione del film suona “giusta”, perché le differenze culturali non sono roba da ridere.

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Ghiaccio bollente. Mosquito Coast Un pickup rosso corre per i campi. La voce fuori campo di Charlie Fox commenta la genialità del padre inventore. Al volante, Allie Fox, berretto da baseball e occhialini, tiene una “lezione” al figlio Charlie commentando la mediocrità dell’America attuale. Fuori dal finestrino, passa il solito pattern americano di insegne di fast food, motel, stazioni di servizio, centri commerciali: il paesaggio del consumo. «Questo posto è un cesso», commenta Allie riferendosi alla cittadina di Hatfield. Padre e figlio entrano in un general store, e Allie continua la sua filippica. Charlie commenta ancora i continui sfoghi del padre: «Papà ha detto per tutto l’inverno che ci sarà la guerra in America». A casa, Allie lavora osservato dai due figli maschi, Charlie e Jerry. Paragona le parti dello strano elettrodomestico cui sta lavorando agli organi del corpo umano. In casa ci sono anche la moglie e le due piccole gemelle April e Clover. Telefona un agricoltore, Doc: è arrabbiato perché Allie avrebbe dovuto occuparsi dell’impianto di raffreddamento del suo granaio. Allie trasporta quindi un macchinario dall’agricoltore, insieme ai due figli più grandi. Una volta arrivato sul posto chiede un fiammifero e mezzo bicchiere d’acqua: dall’aggeggio esce un getto di fumo e l’acqua si

ghiaccia. Allie risale sul pickup e si ferma dove i braccianti di colore stanno raccogliendo gli asparagi nel campo. Commenta i problemi di refrigerazione nella giungla. Il pickup si ferma poi nei pressi di una stamberga abbandonata nel bosco, dove vivono i braccianti. Il padre mostra ai ragazzi come vive quella gente, dice che la vera giungla è quella dove vivono ora, infida e pericolosa. La sera, la madre rimbocca le coperte ai figli e cerca di tranquillizzare il marito, molto preoccupato. Charlie si accorge che il padre sta consultando una carta geografica su cui ha tracciato un circoletto. La macchina da presa zooma su di essa: Puerto Lempira, La Mosquitia, Honduras. Allie dà a Charlie una lettera da portare all’agricoltore, in cui c’è scritto: «Andiamo alla Mosquito Coast. Abbandono il lavoro e un triste Paese in rovina». In camicia hawaiana, Allie coordina i preparativi della famiglia per la partenza. C’è eccitazione. Poi salgono sul pickup e partono. Campo totale di un barcone nel porto. Di notte, il mare è in burrasca. Sotto coperta, il reverendo Spellgood si presenta alla famiglia: Allie si dimostra scettico sulla religione. Il capitano sconsiglia Allie di rimanere a Mosquitia. Sulla tolda c’è un altro scontro verbale tra Allie e il reverendo: per il primo, la Bibbia è una lettura da evitare. A bordo, una ragazzina bionda, figlia del reverendo, chiacchiera con Charlie: lei è di Baltimora, studia comunicazione. Charlie le dice che suo padre è un genio. Il barcone approda a riva, c’è molto caos. All’hotel, la sera, c’è un ballo tribale con tamburi e canti. La famiglia si dirige in barca a Jeronimo. Allie conversa con il pilota, Eddie: «Non c’è più spazio in America». Le acque sono molto basse, dunque Eddie scende in acqua e tira la barca sondando il fondo con una pertica; finalmente trova un passaggio. La lancia penetra nella giungla, al timone ora c’è Allie. Scimmie sugli alberi. Gente dell’etnia zambu sulle rive. Si arriva a Jeronimo. Entusiasmo. In realtà, il luogo è un ammasso di catapecchie in rovina sepolte dalla vegetazione. La famiglia è sconvolta dal nulla che li circonda, ma Allie non perde la fiducia e immagina una casa da costruire, il drenaggio delle pompe, il disboscamento, le coltivazioni. Si mette a tagliare le piante insieme alla popolazione locale, tra le felci giganti. Grande lavoro con il machete. Trascorrono la prima notte in una tenda, tra le strida della giungla. Allie tiene poi un discorso a tutti: non si sente il padrone. Organizza però il lavoro di tutti: la semina, l’allevamento dei polli, la piscicoltura. Viene costruita una grande casa in legno. Allie sovrintende la costruzione, concionando sulla cattiva vita in America, sulla criminalità, sullo spreco, sull’inflazione. Sulle immagini di un meccanismo di bilanciamento e di contrappeso inventato da Allie nel villaggio, la voce off di Charlie prosegue a commentare i pensieri del padre sulla scoperta della vera funzione delle cose, sull’incompletezza del mondo creato da Dio e sul conseguente compito dell’uomo di perfezionarlo, sui missionari odiati perché insegnano a sopportare le calamità della vita. È il trionfo di Allie inventore, che costruisce meccanismi che facilitano il lavoro manuale. Eddie porta in dono della stoffa ai nativi e la madre cuce per gli operai camici e braghe. Arriva in visita il reverendo con due nativi e cerca di convincere gli abitanti del villaggio a frequentare di più la casa del Signore. Di nuovo, si assiste a un conflitto tra lui e Allie. La macchina da presa è collocata dietro le spalle di Allie che ha le mani alla fondina (al posto della colt, un martello) come nella scena del duello di un film western. Sullo sfondo dell’inquadratura, il missionario con un bastone. Piano americano di Allie che deride il missionario: molti dei nativi ridono, ma qualcuno si fa il segno della croce. Si scatena un temporale. La città è stata edificata: festa, canti e balli. A tavola, padre e madre si presentano vestiti eleganti. Seguono immagini idilliche di un Eden: giochi nella giungla tra bianchi e nativi, dondolii sulle liane, bagni nello stagno. Viene costruito un gigantesco marchingegno che deve creare il ghiaccio nella giungla: pian piano si innalza nella giungla un grande monolite biancastro. La famiglia posa per una fotografia davanti al “mostro”. Allie lo accende con un fiammifero, come se fosse una gigantesca caldaia, esce una colonna di fumo, rumori come di una digestione, i nativi si fanno il segno della croce. Allie esce dalla macchina con una palla di ghiaccio che lancia in aria. La macchina produce acqua fredda e aria condizionata: da un mucchio di ghiaccio si fanno le palle di neve. Blocchi di ghiaccio scendono in basso per uno scivolo e vengono caricati dalle barche. Allie decide di portare del ghiaccio a una tribù indiana sulle montagne, a mezza giornata di marcia. Viene caricato un blocco di ghiaccio su una portantina, ma c’è un temporale e la marcia si rivela quindi assai difficile. Il ghiaccio gradualmente si scioglie. Si imbattono infine in una tribù armata e

ostile di indios in cui vivono tre bianchi: Allie pensa che si tratti di gente tenuta prigioniera. I tre in realtà sono mercenari armati che qualche giorno dopo compaiono improvvisamente nella serra di Jeronimo. Molti degli zambos sono già fuggiti. I tre si insediano nel posto, e cominciano a fare i loro comodi. Per scoraggiarli, Allie dice loro che c’è un’infestazione di formiche e comincia a demolire e bruciare tutto. Il villaggio inizia a cadere a pezzi, ma i mercenari non se ne vanno e cominciano anche a dare strane occhiate alla moglie di Allie, che architetta allora un piano per ucciderli. Sistema i tre in un piccolo ambiente all’interno della grande macchina e, di notte, insieme a Charlie, chiude la botola del soffitto. Accende poi la caldaia per congelare i mercenari. Questi però cominciano a sparare per aprirsi un varco all’esterno: tutto va rapidamente a fuoco. Le fiamme si propagano agli altri edifici. Il mostro esplode eruttando fuoco. Bagliori nella giungla. È la fine del sogno e dell’utopia. Campo totale del luogo completamente distrutto, carbonizzato. Ora ci sono solo rifiuti, come in America. Il fiume è contaminato dall’ossido di ammonio. Devono andare via per sempre. I Fox sono in barca sul fiume, arrivano fino all’oceano. La famiglia vorrebbe tornare in America, invece Allie li costringe a rimanere a vivere sulla spiaggia raccontando che l’America non c’è più: è stata distrutta da un cataclisma. Eddie li invita invano ad andare a vivere da lui. Costruiscono quindi una capanna, con latrina e orticello: si sistemano sulla spiaggia come Robinson Crusoe. Eddie porta cibo, uno specchio; li avverte che sono troppo vicini all’acqua, che verranno inondati. E l’acqua, infatti, durante un temporale, sommerge l’accampamento. Vengono spazzati via: la capanna si è trasformata in una zattera chiamata ironicamente “Victory”. La zattera procede lungo i canali in balia delle onde. Si ode un canto. Tra gli alberi fioriti c’è una chiesa, dove il missionario rivale di Allie dirige il coro. La famiglia è deliziata dal luogo, Allie lo chiama “campo di concentramento cristiano” (c’è del filo spinato). Al posto del missionario in carne ed ossa, c’è però un video con lui che tiene il sermone: gli indios stanno a guardare, tra il disprezzo di Allie. Mentre stanno dormendo sulla barca, arriva un’automobile: a bordo c’è il reverendo con la sua famiglia, tra cui la bionda Amy. Da lei, Charley apprende che non c’è stata nessuna distruzione dell’America: la famiglia cerca di andarsene su una jeep, con l’aiuto di Amy. Ma nel frattempo Allie, che ormai è impazzito, ha dato fuoco alla chiesa. La gente fugge terrorizzata, la madre prende le gemelle e scappa. Allie, con la tanica di benzina in mano, viene colpito da una fucilata del reverendo. I Fox, tutti insieme, riescono a fuggire in barca; procedono a remi. Allie sta steso sulla tolda. La barca risale la corrente. Allie muore quando sono in prossimità dell’oceano; la voce fuori campo di Charlie conclude il suo commento: «Un tempo avevo creduto in papà, che il mondo fosse piccolo e vecchio. Ora lui è morto e non ho più paura di amarlo, e il mondo mi sembra senza limiti».

«Non c’è più spazio in America», confida Allie al pilota della lancia che lo sta portando verso un nuovo inizio nella wilderness (fot. 94). Più avanti, a un piccolo nativo che lo guarda in modo interrogativo, dirà: «La gente non sopporta più di stare sola». È in passaggi come questi che possiamo apprezzare quanto Allie sia vicino all’utopia di Henry David Thoreau. Al tempo in cui Thoreau si trasferì nei boschi, ad almeno un miglio da qualsiasi vicino, l’esperimento collettivo della libertà americana era in pratica già terminato. I vicini già vivevano nell’inerzia. Fu semplicemente “per caso”, come egli dice, che Thoreau andò a vivere presso Walden Pond il giorno dell’Indipendenza del 1845. Forse è proprio la consapevolezza del fatto di non potere più trovare il senso dell’essere americano nel destino nazionale del suo Paese a rendere Thoreau – e Allie – così profondamente americano. In America, la libertà inizia immediatamente al di là dei confini dell’ordine istituzionale – a un miglio da qualsiasi vicino, nei boschi adiacenti Walden, dove la wilderness mette a tacere le chiacchiere e permette a ciascuno di scoprire l’America in se stesso e per se stesso. Thoreau, in nome della libertà di cui l’uomo deve disporre per trovare se stesso, si opponeva a qualunque obbligo da parte della società, negava non soltanto l’utilitarismo, ma anche la rivoluzione industriale, che autorizzava lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, e coerentemente cercò che la sua vita fosse quanto più possibile libera dai contatti e dai vincoli sociali. Analogamente, Allie Fox vede nell’America contemporanea un cumulo di macerie fisiche e

morali, e dunque decide di andarsene a costruire altrove un “nuovo inizio” per sé e la propria famiglia. Non lo cerca nella wilderness americana, non più incontaminata come ai tempi di Thoreau, ma al di fuori dei confini del Paese. L’immersione quasi mistica nella natura da parte di Allie ha il suo punto culminante nelle immagini di struggente bellezza del fiume argentato che si inoltra come un serpente nella giungla rigogliosa dell’Honduras (fot. 95). Allie, a bordo della lancia, ricorda il Fitzcarraldo di Herzog – che con il barcone risaliva il fiume amazzonico per costruire un teatro dell’opera in mezzo alla selva. In entrambi funziona un risvolto romantico, un’aspirazione all’eccezionalità, la volontà furibonda di perseguire un sogno utopistico. Weir e Herzog costruiscono le traiettorie dei rispettivi eroi a partire da immagini di una natura incombente, impressionante e, insieme, su quelle dei resti desolati del certificato fallimento della civiltà umana. Herzog, ideale punto d’arrivo del romanticismo tedesco in cui arte e vita sono strettamente intrecciate, tra Novalis e Friedrich, mette in scena lo scontro titanico con la natura e le sue leggi, senza però la pretesa di “addomesticarle”. Anche Weir proietta il suo eroe in mezzo alla natura; ne fa, alla fine, un sorta di Robinson Crusoe alla deriva, dopo che il suo progetto di trasformare la natura con la tecnologia è miseramente fallito. Produrre ghiaccio nella giungla con un macchinarioMoloch assume proprio l’aspetto di un’insensatezza in cui la hybris dell’“homo faber” non può che essere punita, alla fine. All’inizio, Allie si muove tra i detriti della civiltà industriale, tra supermarket pieni di merce inutile (fot. 96) e discariche ricolme di elettrodomestici gettati via (fot. 97): ai suoi occhi, è il trionfo fallace dello spreco consumistico. «Compra merda, vendi merda e mangia merda» è la formula che sintetizza il suo pensiero sul capitalismo e sull’America. Delitto, crimine, droga, perversione, moralismo e corruzione derivano come conseguenza necessaria da questa originaria corruzione economica e mercantile. A suo modo, Allie è un po’ marxista. La vera giungla, per lui, è quella dell’America, più infida e pericolosa di quella reale. Le sue invenzioni non sono considerate di nessuna utilità per gli schemi dello sfruttamento capitalistico, teso solo alla massimizzazione del profitto. Doc non sa che farsene della macchina fabbrica ghiaccio che Allie ha costruito: vuole solo un impianto di raffreddamento che “funzioni” per i suoi asparagi. Alla follia del sistema, Allie contrappone la sua follia personale, la lucida rivendicazione di un nuovo inizio: esattamente come Thoreau a Walden. Ora Allie deve trovare un nuovo Eden, prima della Caduta e della Colpa; prima della Civiltà. Un Eden che ricorda altri “paradisi” del regista: il bush australiano all’inizio di Gli anni spezzati, il mare d’erba della comunità Amish in Witness. Gli pare di poterlo trovare nella giungla dell’Honduras, in un luogo che ha il nome significativo di Jeronimo: il nome dell’apache che si è opposto alla violenza della civiltà dei bianchi in nome della purezza originaria, l’incarnazione paradossale degli autentici valori americani affidata alla vittima dell’espansione a Ovest. Il carattere western del film, simile in questo ad altre opere di Weir, è ribadito dalla sequenza del “duello” tra Allie e il missionario (fot. 98).

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Il viaggio di Allie è nello spazio ma soprattutto nel tempo: al pari degli aborigeni australiani e degli Amish della Pennsylvania, anche gli indios zambos e nam del Centro-America impersonano, nell’economia simbolica dei rispettivi film, figure di quel “passato” che la modernità industriale si è lasciata alle spalle, ha cancellato dalla geografia e dalla cultura (fot. 99). Per Allie, l’inventore, la salvezza è nel passato: un passato al riparo dalle lusinghe della civiltà e dalle trappole della Storia. In una sorta di eterno presente naturale, in cui tutto si può dare come prima volta. Dirà del resto Allie: «Le invenzioni non esistono più, si inventa solo ciò che già esiste». La tensione idealista porta Allie a isolarsi sempre di più dagli altri, anche dalla propria famiglia: è difficile per chiunque mostrarsi all’altezza di una tale intransigenza. Come tutti gli idealisti, può essere duro, dispotico: invita i figli a essere uomini; li punisce per la minima incertezza. Al pari di Fitzcarraldo, Allie ha la

pretesa di portare la civiltà e il benessere nelle zone più estreme e sperdute. Coltiva una disinvolta ideologia neoprimitivista («Questo luogo mi piace proprio perché è rimasto all’età della pietra»), perché ha bisogno di una sorta di lavagna vuota su cui tracciare i contorni di un nuovo progetto di civiltà («Cominceremo da zero, è vita, non una vacanza»; «Sono felice, siamo di nuovo liberi»). Il paradosso di Allie è che si tratta pur sempre di uno scienziato: il suo dogma è tecnologico. Vede il mondo come un intrico di rotelline, scivoli e pulegge. Tiene in mano una sega elettrica, una fiamma ossidrica. È nato per costruire, per edificare; dunque, fa parte di quella progenie che, in nome della scienza e della tecnica, ha edificato la prateria, disboscato la foresta, costruito la moderna società industriale che tanto dice di odiare. La prima cosa che fa, giunto a Jeronimo, è di sfruttare e incanalare le risorse naturali (fot. 100): fa costruire una serra (una delle numerose serre che compaiono nel cinema di Weir, da Picnic ad Hanging Rock a Green Card), dà l’avvio a un programma di semina, piscicoltura e allevamento di polli, fa disboscare la giungla per costruire abitazioni di legno. I doni della natura sono per lui, innanzitutto, beni da sfruttare. È insomma un tecnico di quella società che, nelle prime immagini del film, appare ai suoi occhi giunta a un punto di perversione consumistica. Allie consuma il territorio, la flora, la fauna; impiega metodi di divisione del lavoro capitalista (anche se dice di non essere un padrone, in realtà si comporta come tale). L’utopia mostra subito il proprio lato oscuro. Allie è il campione della civilizzazione, anche se dice di ispirarsi alla natura (le parti meccaniche della sua macchina sono ricalcate sugli organi del corpo umano), e pensa a se stesso come a una sorta di dio. Un dio laico, tecnologico, contrapposto al dio “che non funziona” della Bibbia, come rinfaccia all’odiato missionario.

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Allie entra immediatamente in diretta competizione con il reverendo Spellgood (“buona ortografia”) per il controllo delle anime e delle menti dei nativi, che, senza saperlo, sono l’oggetto di un assatanato esperimento di civilizzazione rapida, in diretta. Allie è l’evangelista tecnologico, Spellgood l’evangelista teologico: non è naturalmente un caso se il primo viene ammazzato dal secondo. Con ironia, però, Weir ci mostra come lo stesso reverendo abbia imparato a servirsi della tecnologia per sedurre gli indios: nella chiesa fa bella mostra di sé un video che lo mostra mentre sta tenendo il suo sermone (fot. 101). Se Spellgood uccide, anche Allie può farlo: si sbarazza dei tre mercenari architettando una trappola diabolica, e mette a rischio, continuamente, la vita dei suoi famigliari. Tra questi, Charlie ha un rilievo del tutto particolare.

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Si è detto che quasi sempre i film di Weir assumono la caratteristica di itinerari di crescita e liberazione psicologica o spirituale, di racconti di formazione. All’inizio, Charlie è prigioniero del padre: «Sono cresciuto nella convinzione che tutto ciò che diceva fosse vero». Nel corso del film, Charlie “diventa” la propria voce fuori campo (una delle numerose voci fuori campo che accompagnano i film di Weir illudendosi di fornirne il punto di vista: si pensi a quella di Billy Kwan in Un anno vissuto pericolosamente, per esempio) che commenta, in un modo asettico e distaccato, le varie performance del vulcanico padre. Rappresenta una sorta di coscienza critica: sul suo volto sempre impassibile, quasi rassegnato, va a infrangersi l’onda emotiva del film (fot. 102). Solo dopo che il padre è morto, Charlie è libero: libero di amare un padre ormai non più ingombrante, ma anche un mondo che gli pare, ora, senza limiti. L’ironia della faccenda sta nel fatto che, nella sua ansia di rendere il mondo qualcosa a misura delle pulegge e dei contrappesi, il padre aveva finito per farlo apparire, agli occhi del figlio, «piccolo e vecchio». Un’ironia pesante, visto il presupposto di Allie (vicino, in questo, alla filosofia dei personaggi herzoghiani), secondo cui il mondo è stato creato da un dio fallibile, eccentrico e incerto come l’uomo medesimo. Per Allie, la creazione divina è suscettibile di un grande miglioramento, che l’uomo è incaricato di compiere; se non lo fa, non compie il suo dovere di costruttore. Di questa creazione fallace e imperfetta abbiamo un esempio evidente, all’inizio del film, nella raffigurazione della cittadina di Hatfield, che diventa una sorta di ologramma (la parte per il tutto) per l’intero mondo occidentale ormai corrotto. Hatfield è vista con gli occhi di Allie. In realtà, non vediamo nulla di particolarmente brutto o scandaloso; le immagini più crude sono quelle dei rifiuti, degli ammassi di lamiere, dei cumuli di elettrodomestici mandati al macero. Per il resto, ci troviamo davanti l’agglomerato più tipico del suburb americano, con la sua infilata di fast food, motel, centri commerciali; uno spicchio di paesaggio insignificante che ritroviamo, incollato a un tratto di interstate o a uno svincolo di freeway, dovunque in America e ormai in tutto il mondo occidentale (fot. 103). Un “non luogo” in cui non si abita o si vive, ma si transita e si consuma. C’è inoltre il general store dove, con scandalo di Allie, si vendono prodotti “made in Japan”. Dunque, Allie è anche nazionalista; del resto, dirà: «non c’è nessuno che ama l’America come me: per questo me ne devo andare».

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FOT. 103

Al di là di queste immagini della “banalità” americana, importano, soprattutto, i commenti sprezzanti di Allie su praticamente ogni aspetto di una civiltà vista come irrimediabilmente decaduta; in effetti, quando blatera di un’imminente guerra nucleare, viene il sospetto che Allie non stia affatto mentendo e ingannando i famigliari, ma sia davvero convinto che ben presto ci sarà un lavacro purificatore. Logorroico e ossessionato, Allie si crogiola nel piagnisteo. Questo vittimismo, questo dolore, nasce per Allie dal mistero che ci circonda, di fronte al quale o si è vittime, martiri, vinti, oppure ribelli, eroi, titani; si può tentare la fuga, rifugiandosi in luoghi sconosciuti, lontani dalla civiltà, cioè nell’esotismo. Vittimismo e titanismo convivono in Allie, e sono i due poli di una medesima tensione esistenziale. Seguendoli, Allie va sempre di più all’indietro nel tempo e nello spazio: subito dopo che il suo esperimento della produzione “industriale” del ghiaccio nella giungla ha avuto successo, Allie è preso dalla noia esistenziale. Cerca altre esperienze a contatto con situazioni e persone ancora più estreme. Come gli eroi del romanticismo, Allie ha la coscienza della propria infelicità, ciò che distingue l’uomo dai bruti e lo induce alla malinconia, alla noia, alla disperazione. Anche la tribù sulla montagna è già stata “scoperta”: anzi, produce dal suo grembo ciò che distruggerà la felice comunità di Jeronimo. I tre mercenari vengono portati alla luce proprio dall’avventata spedizione di Allie, dalla sua volontà di portare il ghiaccio a un’etnia ancora più primitiva, incontaminata, per la quale “il ghiaccio è come un gioiello”. Crolla tra le fiamme il simbolo stesso della hybris di Allie, il monolite biancastro che spunta dalla canopia, un totemfeticcio (fot. 104) che ricorda, nella sua insolente equiparazione tra scienza e divinità, quello di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odissey, di Stanley Kubrick, 1968). L’Eden è rapidamente distrutto. Rimangono i resti, gli alberi carbonizzati, il fiume inquinato. I rifiuti dell’utopia assomigliano sinistramente, e anche ironicamente, ai detriti della civiltà industriale visti ad Hatfield e che Allie aveva etichettato come «squallidi rifiuti dei patri lidi»: dunque, il ciclo economico si ripresenta sempre uguale, dappertutto. Allie però è felice: lo aspetta un nuovo inizio, questa volta nelle vesti di naufrago sulla spiaggia, alla Robinson Crusoe (fot. 105). L’acqua, dopo il fuoco nella giungla, si incarica questa volta di spazzare via la nuova configurazione della sua utopia rovesciata. Regredito insieme ai famigliari allo stato di uomo selvaggio, naturale, Allie porta così al limite estremo la confusione che ha sempre avuto in testa tra i termini di “natura” e “civiltà”. A questo punto la civiltà si è plasmata proprio sullo stato naturale assoluto, senza più alcun dispositivo o invenzione tecnologica in grado di sostenerla (del resto, con gesto supremamente simbolico, Allie ha donato il suo orologio – il “meccanismo” per eccellenza – all’amico Eddie). Tutto è ormai affidato al caso, come dimostra la capanna sul bagnasciuga che, dopo la piena, si trasforma, quasi magicamente, in imbarcazione a motore. Alla deriva su di una zattera (fot. 106), Allie va alla resa dei conti con il potere teologico. La chiesa del reverendo viene distrutta dalle fiamme, esattamente come era successo all’altra cattedrale laica e scientista, il mostruoso macchinario fabbrica ghiaccio. Si potrebbe scandire l’intero film sull’alternanza continua tra acqua e fuoco, elementi primordiali in perpetuo scontro.

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Dell’acqua come presenza costante nei film di Weir già si è parlato più volte; qui, essa viene trasformata in piena che travolge i primi barlumi di una nuova civiltà che si pretende “naturale”; e soprattutto in ghiaccio, che rappresenta pur sempre, simbolicamente, qualcosa di ingannevole. Quando si dice che qualcuno “osa avventurarsi sul ghiaccio sottile”, si intende che questa persona è gravemente imprudente, mentre “mettere in ghiaccio qualcosa” significa differire. “Rimanere di ghiaccio” significa essere delusi e sbigottiti. Tutti significati che rimandano a qualche forma di debolezza. Il fuoco, a sua volta, brucia, scalda e illumina, ma può anche portare dolore e morte: è fortemente ambivalente. Non si deve dimenticare che la scoperta del fuoco, milioni di anni fa, ha segnato la prima fase della civiltà. È altamente ironico, dunque, che l’esperimento di “civiltà naturale” (un ossimoro) condotto da Allie si concluda in una lunga colonna di fumo e in fiamme altissime. Il fuoco brucia sia la macchina sia la chiesa (fot. 107 e 108): ogni possibile focolare (nella psicologia “fuoco” e “focolare” si equivalgono) è perduto per sempre. Ad Allie, privato di ogni patria e utopia, non resta che morire; rappresenta un’ulteriore incarnazione di quella figura così caratteristica di Weir, l’“apprendista stregone”, che diviene vittima delle stesse forze che ha oscuramente evocato. Dall’incendio dei due falsi idoli, dei due totem nella giungla, invece, può rinascere Charlie. In entrambi i casi, è stato il padre ad appiccare il fuoco. Un nuovo individuo sorge, ironicamente, dal fallimento di ogni progetto di edificazione di civiltà. Al termine di una vera e propria morality play, Allie si è sacrificato perché suo figlio potesse scoprire quanto è vario il mondo, a dispetto di ogni patetico tentativo di costringerlo dentro un’idea.

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Cibo per vermi. L’attimo fuggente Assistiamo agli ultimi preparativi per una festa. I ragazzi entrano in una chiesa affollata di gente al suono delle cornamuse reggendo bandiere che riportano le scritte «tradizione», «onore», «disciplina», «eccellenza». Il preside Nolan tiene il suo discorso sul centenario della scuola, continua tessendo un sentito elogio della Welton Academy, che definisce «la migliore scuola preparatoria degli Stati Uniti». Al termine, applausi scroscianti di genitori e studenti. Il preside presenta il nuovo professore di letteratura, John Keating, che si è diplomato a pieni voti proprio alla Welton. Fuori, gli studenti sciamano, i genitori si congratulano con il preside. Un padre presenta suo figlio, Neil Perry. Un campo totale ci presenta il luogo, immerso in boschi dalle foglie rosse, un lago, un campanile che svetta sugli alberi. Neil è in camera con Todd Anderson, fratello di un famoso Anderson, grande allievo della scuola. Gli allievi familiarizzano e si danno appuntamento la sera per un gruppo di studio con Richard Cameron e l’elegante Charlie Dalton. Il padre di Neil, intanto, obbliga il figlio a rinunciare alle attività extrascolastiche, come il giornale della scuola. Deluso, Neil viene raggiunto dai compagni che lo invitano a ribellarsi al padre-padrone. Gli studenti si affollano sul ballatoio di una scala, schiamazzando e scendendo le scale. Seguono tre brevissime sequenze con inserti di lezioni molto “formali”: una di chimica, una di latino e una di matematica. C’è dura disciplina. Inizia la prima lezione di Keating, che entra in classe fischiettando e senza giacca. Gira per la classe a lungo, poi esce. Sconcerto tra gli studenti, che lo seguono. Nell’atrio della scuola, inquadrato dall’alto, Keating fronteggia la classe: a sinistra teche con trofei, a destra fotografie alla parete. Keating recita: «O capitano, mio capitano», e chiede di chi sia il verso. Nessuno risponde. Allora Keating spiega che è di Whitman. Keating racconta di sé, di quando è stato nel college e non era la mente eletta che è ora. Esorta gli allievi a osare, a darsi una mossa. Mentre la macchina da presa si muove tra i volti delle foto d’epoca, Keating sussurra alle spalle degli studenti: «Carpe diem. Cogliete l’attimo, rendete straordinaria la vostra vita». Sotto la doccia, Knox Overstreet confida ai compagni di essere stato invitato a cena da amici del padre. Qui conosce e si innamora di Chris, fidanzata con Chat Danbury. Nuova lezione di Keating, che fa leggere l’introduzione del noiosissimo manuale Comprendere la poesia del professore emerito Pritchard. Mentre Neil legge, Keating traccia sulla lavagna due assi ortogonali: in orizzontale la “perfezione”, in verticale l’“importanza”: si tratta del metodo che Pritchard utilizza per stabilire la grandezza della poesia. Keating segna l’area di un sonetto di Byron e poi di

Shakespeare marcando l’area con il gesso. Poi fa strappare la pagina del libro e sbotta: «Escrementi, ecco cosa penso delle teorie di Pritchard. Non stiamo parlando di tubi, ma di poesia. Non è una hit parade». In sala mensa, il professor McAllister parla a Keating: «Corre un rischio a incoraggiarli a diventare artisti, quando capiranno che non sono Rembrandt o Shakespeare la odieranno». «Non artisti, liberi pensatori», ribatte Keating. Ma McAllister è scettico: «Non sono cinico, sono realista». I ragazzi raggiungono Keating, gli chiedono della “setta dei poeti estinti” cui apparteneva un tempo. Lui risponde che i poeti estinti erano dediti a succhiare il midollo stesso della vita. I ragazzi decidono di andare alla grotta dove si riunivano i poeti estinti. Neil legge un brano di Thoreau: «Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza, in profondità, e succhiare tutto il midollo della vita per non scoprire in punto di morte di non avere vissuto». I ragazzi si alzano di nascosto ed escono di notte sfuggendo alla sorveglianza. Le loro silhouette, in una sequenza di esplicito romanticismo, appaiono sul cielo blu. Indossano cappucci, spariscono nella nebbia, entrano nel bosco per un pertugio tra gli alberi. Si sente lo sbattere delle ali di un rapace notturno. C’è un lieve ralenti con una corsa nel bosco, i mantelli con il cappuccio svolazzanti, la nebbia azzurrina. La macchina da presa si sposta con loro. Una civetta emette un grido. Trovano la grotta, accendono un fuoco. Neil dichiara risorta la setta dei poeti estinti, sezione di Welton, e legge a tutti il brano di Thoreau. La nuova lezione di Keating è sul linguaggio e la comunicazione: il professore mima il modo ridicolmente ampolloso con cui si recita Shakespeare. Tutti ridono. Improvvisamente Keating sale in piedi sulla scrivania: dice di averlo fatto perché bisogna ricordare a se stessi che si devono guardare le cose da angolazioni diverse. Li fa salire tutti, a turno. Neil, nel frattempo si è convinto di voler recitare in Sogno di una notte di mezza estate, in allestimento da quelle parti. «Per la prima volta so cosa fare, e lo farò, nonostante mio padre». Comunica felice ai compagni di avere avuto la parte di Puck nella recita, e falsifica il permesso del padre da consegnare al teatro. Knox va a una festa di Chris. Si balla il rock, si beve. La fauna è piuttosto greve, c’è al completo la squadra di baseball di Chat. Nella grotta, le ragazze sono ammesse nella setta e Charlie recita per loro. Di nuovo alla festa: ormai sono tutti ubriachi, compreso Knox. Si trova Chris vicina, sbronza, e le accarezza i capelli, la bacia in fronte. Chat se ne accorge e lo massacra di pugni. Chris corre in suo soccorso. In grotta, si chiacchiera. Charlie mostra un articolo che ha scritto sul giornale della scuola in cui chiede che le donne vengano ammesse a Welton. La firma è quella della setta. In chiesa, c’è un’assemblea generale. Il preside attacca il pezzo sul giornale e invita il colpevole a farsi avanti e a parlare. Nell’ufficio del preside, Charlie riceve una strigliata. Deve chinarsi e ricevere delle botte sul sedere con una assicella di legno. Il preside vuole i nomi dei componenti della setta. Fuori, ci sono tutti gli altri in attesa. Arriva Charlie dolorante: «Devo fare i nomi, altrimenti sono espulso». Il preside chiede un incontro a Keating. Gli dice di avere sentito voci di metodi di insegnamento non ortodossi. Il padre di Neil accusa Keating di avere montato la testa al figlio. Keating esorta il ragazzo a parlare francamente con il padre della sua passione. Knox segue Chris fino in classe e recita una poesia davanti a tutti, con imbarazzo della ragazza. Vanno tutti a teatro. Sul palcoscenico, Neil, contro la volontà del padre, interpreta Puck, il folletto del bosco, con il copricapo e le mani fatte di rami dell’albero. In ritardo, arriva il padre di Neil, che rimane in piedi in fondo alla sala. Neil è bravissimo, si accorge del padre e in pratica parla a lui quando recita il finale: «Se noi ombre vi abbiamo offeso, fate conto di aver dormito. Se ci perdonate, rimedieremo». È un trionfo per Neil, gli amici urlano in coro: «Carpe diem». Il padre trascina via Neil dal teatro. Cerca di intervenire Keating, ma il padre lo minaccia. A casa dei Perry, la madre attende l’arrivo del marito e del figlio. Il signor Perry comunica al figlio di avere deciso di ritirarlo da Welton per iscriverlo all’Accademia Militare. Neil è come paralizzato, non riesce a parlare. Prima di andare a dormire, dice alla madre e a se stesso: «Sono proprio bravo». Nella camera da letto dei genitori, la madre piange, la macchina da presa si sofferma sulle pantofole bene in ordine del padre ai piedi del letto. Neil si toglie gli abiti, appoggia la corona di bacche di Puck, la tocca, apre la finestra, poi si mette la corona in testa, con un ironico riferimento alla bacca della laurea che i padre vuole fargli prendere a forza. Neil scende le scale lentamente,

guarda il padre che dorme, gli prende la chiave, apre il cassetto, prende una pistola. Scende in cantina, appoggia la pistola sul tavolo, si siede e la impugna. La macchina da presa retrocede lenta. Il padre si sveglia di colpo: «Cos’è stato?». Si alza, si mette la vestaglia e va alla porta della camera del figlio, vede la finestra aperta, scende le scale. In cantina vede prima la pistola, poi la mano del figlio, in ralenti urla e si lancia in avanti. La macchina da presa rimane fuori dalla porta e inquadra i due genitori che si abbracciano disperati. Un piangente Charlie sveglia Todd e gli dà la notizia. Nevica, i ragazzi sfilano, Todd vomita, poi si mette a correre urlando in mezzo alla neve fino a diventare un puntino lontano nel paesaggio. A scuola c’è un’inchiesta: dopo l’interrogatorio e la delazione di Cameron, Charlie è espulso. Quando tocca a Todd, trova insieme al preside i due genitori, che gli chiedono di denunciare Keating per avere incoraggiato Neil a fare teatro contro la volontà paterna. Tutti hanno firmato, ora tocca a lui. In classe, arriva il preside a far lezione. Ricomincia dal manuale di Pritchard. Bussano: è Keating venuto a prendere le sue cose. Il preside fa aprire il manuale, ma scopre che la pagina del libro è stata strappata. Dalla stanzina accanto, mentre raccoglie le sue cose, Keating guarda Todd. Quando sta per uscire, Todd si alza e gli dice: «Mi hanno costretto a firmare». Keating risponde che gli crede, mentre il preside gli urla di uscire. A questo punto Todd sale sul banco e dice: «Capitano mio capitano». Keating si volta verso di lui e sorride. Il preside strepita. Primo piano di Knox che sale anche lui sul banco e ripete il verso di Whitman. Poi anche altri, circa metà della classe. La musica sale sempre più di tono. C’è un’inquadratura di Keating dall’alto in basso; poi il punto di vista suo sui ragazzi saliti sui banchi; un primo piano di Keating; un primo piano di Knox con il groppo in gola dalla commozione; un primo piano di Todd; un primo piano di Keating che sorride commosso e dice: «Grazie figlioli, grazie»; un primo piano di Todd molto lungo, che chiude il film.

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Se si accetta il fatto, qui più volte argomentato, che ogni film di Peter Weir è, anche se non soprattutto, il resoconto di un processo di liberazione psicologica, il racconto di un itinerario di formazione da parte di uno dei personaggi, allora il passaggio di consegne ideale che avviene nell’ultima inquadratura tra Keating e Todd, dopo il loro lungo, reciproco, gioco incrociato di sguardi, racchiude il senso del film (fot. 109). Todd ci è stato presentato, in una delle prime scene, come un giovane fragile e incerto, oberato dal peso di un fratello esageratamente bravo e famoso, allievo modello di Welton. Dunque, il fardello della «migliore scuola preparatoria degli Stati Uniti» grava come un macigno su Todd attraverso la figura di un suo famigliare, evidentemente non diventato ancora «cibo per vermi», nella cruda definizione di Keating, al pari degli ex allievi che

compaiono sulle fotografie appese alla parete dell’atrio del collegio (fot. 110). Todd ha addirittura cambiato scuola per essere all’altezza del famoso fratello; è dunque il passato che lo condiziona. La sequenza in cui Todd confida il fatto al compagno di stanza Neil ha luogo, non a caso, nella corte goticheggiante dell’istituto, contornata da archi acuti (fot. 111). Qui e altrove, il collegio maschile Welton, non diversamente in questo dal collegio femminile Appleyard in Picnic ad Hanging Rock, assume il significato di un “passato” che grava e soffoca le aspirazioni dei suoi giovani abitatori. Se le ragazze del collegio Appleyard trovavano una via di fuga nell’ascesa mistico-erotica su di una roccia misteriosa e magnetica, i ragazzi del Welton, grazie all’anticonformista professor Keating, la trovano attraverso la libera espressione del loro autentico sé («liberi pensatori», li chiama Keating). Poesia, recitazione, eros – tutti collegati. Non è un caso, naturalmente, che in entrambi i film la “fuga” si risolva in modo tragico, con morti, sparizioni, suicidi o, più prosaicamente, espulsioni dalle due scuole. Il fatto è che, per Weir, nessun tipo di comunità, in nessun caso, è disposta a dare una mano al singolo individuo per crescere, maturare, esprimere se stesso in modo autonomo e originale. Anche se, ironicamente, si definiscono, come nel caso di Welton ed Appleyard, «scuole preparatorie alla vita». In realtà, la “vita” a cui preparano è quella anonima e amorfa del conformismo e dell’adattamento ai ruoli e alle gerarchie sociali prestabilite dal potere. Le lezioni di Keating sono destinate al fallimento, almeno nell’immediato. Però, su Todd, hanno un effetto benefico, che misuriamo alla fine. Todd, per tutto il film, è il più impaurito dei compagni di classe. Non riesce neppure a scrivere o a recitare in pubblico la sua poesia: è frenato dalla sensazione di inadeguatezza che lo accompagna come un’ombra. La sequenza in cui, finalmente, si libera è quella in cui Keating lo sottopone di forza a una specie di seduta terapeutica. Il professore scrive sulla lavagna un verso di Walt Whitman, e poi, letteralmente, tira fuori dal ragazzo un urlo barbarico e lo induce a una espressività verbale quasi automatica, a una trance liberatoria (fot. 112). Il “barbaro”, cioè l’elemento naturale, che c’è dentro Todd viene tirato fuori con le cattive dallo psicoterapeuta Keating, insieme al rauco grido «yawp». Todd, per alleviare la propria fragilità, si appoggia al compagno di stanza e migliore amico Neil: tra i due, a tratti, sembra instaurarsi un’attrazione quasi omoerotica, che non si esplicita mai: ricorda quella tra Frank e Archie in Gli anni spezzati. Nella sequenza in cui, a letto, Todd sta cercando disperatamente di scrivere una composizione, di cui non è soddisfatto, e Neil gli ruba il foglio con la poesia e l’altro lo insegue, saltando sui letti della stanza (fot. 113) e coinvolgendo nella corrida anche Cameron, c’è tra i due ragazzi uno scambio di sguardi lievemente ambiguo. La poesia, qui e altrove, diventa il tramite per l’eros. Quando Todd (anche questa volta a letto) apprende da Charlie del suicidio di Neil, ha una reazione assolutamente esagerata, da innamorato più che da amico: vomita, poi corre disperatamente in mezzo alla neve fino quasi a scomparire in lontananza, puntino nero nel bianco (fot. 114). È il momento, tra parentesi, più sconvolgente di un trattamento del paesaggio sempre attento alla più piccola sfumatura, in una delicata alternanza di scene in interni e in esterni, dove anche la presenza avvertita dei boschi attorno all’edificio goticheggiante del Welton assume un preciso rilievo.

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Se il film è il racconto della liberazione di Todd dal peso di un condizionamento sia famigliare che sociale, è però anche il resoconto di itinerari assai meno fortunati. Neil trova, per un attimo, la forza di contravvenire alla spietata volontà del padre-padrone e recita la parte del folletto Puck in una commedia di Shakesperare, Sogno di una notte di mezza estate, che ha il suo centro narrativo e tematico proprio nell’autorità dispotica di un re sulle vicende amorose dei diversi personaggi. Puck è il folletto del bosco, la sua natura è in parte vegetale. Sulle mani e sulla testa gli spuntano i rami degli alberi (fot. 115). Nel breve momento in cui Neil trova la forza di opporsi alla volontà paterna, Weir si premura di proporcelo con il look del Buon Selvaggio, di “uomo naturale”, la cui fusione nella wilderness, resa esplicita dalle caratteristiche del personaggio che interpreta, sembra funzionare come rigenerazione e cambiamento. La lezione di Thoreau e del suo Walden Pond, qui, per una volta, non è affidata solamente alla lettura di qualche bellissimo verso o a qualche suggestione culturale, ma diventa, per un attimo fuggente, anche prassi, comportamento, determinazione ad agire. Purtroppo, questa determinazione non si trasforma in aperta ribellione all’autorità paterna. In fondo, ironicamente, Neil trova il coraggio di essere se stesso solo quando interpreta qualcun altro, quando “recita”. Riportato nuovamente nello spazio angusto e claustrofobico dell’abitazione dei genitori (fot. 116), con quella terribile madre silenziosa e il padre dispotico per il suo bene, in cui la famiglia appare unita e felice solo nella fotografia che si vede in soggiorno, Neil cede definitivamente. Stretto tra una ribellione che gli appare troppo difficile e l’impossibilità di rinunciare al suo sogno, sceglie di morire. Prima di uccidersi, compie due gesti significativi: spalanca la finestra, per fare entrare aria in quell’ambiente soffocante; indossa, per l’ultima volta, la corona di rami che aveva segnato il suo momento di effimera gloria nei panni di Puck (fot. 117); una corona che ricorda, simbolicamente, sia la corona di spine di Cristo (la parabola cristologica, come si è visto, non è certo rara in Weir) sia e soprattutto la baccalaurea in medicina ad Harvard che il padre voleva assolutamente fargli conseguire – un macabro trofeo, ora.

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I destini opposti di Todd e di Neil bifocalizzano il ruolo simbolico di Keating. Il professore di letteratura è un modello fin troppo “alto”: l’annuario di Welton lo mostra eccellere praticamente in tutti i campi, perfino come dongiovanni. Rappresenta dunque un riferimento seducente, cui non è facile accostarsi da parte di giovani menti. Certo, lui si propone come il loro “liberatore”; ma può anche sconfinare in quell’altra figura così caratteristica del cinema di Peter Weir che è, come si è visto, l’“apprendista stregone”. Come David Burton o Allie Fox, John Keating scatena forze che poi non riesce a controllare. Instilla gocce di libertà e di autocoscienza nei suoi discepoli, ma questi possono equivocare e spingersi troppo lontano. Il professore da incendiario cerca allora di farsi pompiere, ma può essere troppo tardi. Charlie, per esempio, prende un po’ troppo alla lettera gli insegnamenti del maestro sul “carpe diem”, sulla necessità di essere diversi da tutti gli altri, sull’urgenza di realizzare i propri ideali, sull’opportunità di rendere straordinaria la propria esistenza. Un’iniezione di superomismo che a Charlie piace moltissimo, tanto da mutare il proprio nome in “Nuanda” e da cospargersi il corpo di segni rossi. Dopo Neil/Puck folletto dei boschi, ecco dunque Charlie/Nuanda, il secondo “uomo naturale” del film, che si ricollega direttamente, in un afflato di neoprimitivismo, ai pellerossa e agli indios. Il “selvaggio” diventa il veicolo per un’opposizione al sistema e alla civiltà in nome degli istinti naturali. Non a caso, del resto, la rivendicazione per cui Charlie diventa un elemento ostile a Welton è quella di consentire l’accesso delle donne nel collegio. La caratterizzazione di Charlie con una componente esplicitamente erotica è sottolineata spesso. È lui a mostrare, nella grotta, la fotografia di una donna nuda con un seno enorme (fot. 118). È Charlie a portare le due ragazze alle riunioni clandestine della setta (fot. 119). È ancora lui che suona il sassofono, strumento vagamente fallico, mentre declama la poesia. Per Charlie, la poesia è essenzialmente una libera espressione dell’eros, è eros. È una delle forme di vitalismo titanico che Keating ha saputo istigare nei suoi studenti. Poesia, recitazione, eros: forme diverse ma complementari di possedere la vita, “dominarla, non esserne dominati”. Il ruolo centrale della poesia, in particolare, è uno dei numerosi elementi che collegano L’attimo fuggente a Picnic ad Hanging Rock, dove le ragazze si dilettavano a leggere e comporre versi. A sua volta, la “setta dei poeti estinti”, nel suo passatismo («Eravamo un circolo ellenico, dei romantici, assaporavamo la dolcezza della poesia”, ricorda Keating), esplicito già nel nome, si collega ad altre “comunità” marginali e fragili che compaiono nel cinema di Weir: i poeti estinti come gli aborigeni di L’ultima onda, gli Amish di Witness, gli indios di Mosquito Coast, gli ambientalisti di Green Card. Sono

gruppi umani che guardano più al passato che al futuro, a disagio in un presente che li considera solo dei curiosi reperti; avviati, appunto, all’“estinzione” in un mondo civilizzato che non può ammettere una vera diversità culturale. Mosquito Coast, il film di Weir che precede immediatamente L’attimo fuggente, è strettamente collegato a questo da molti elementi, tra cui il riferimento centrale alla figura di Henry David Thoreau. In Thoreau, si esalta la figura dell’americano che cerca la purezza originaria corrotta dall’avvento dell’industrialismo, del consumismo e della modernità livellatrice. I versi di Thoreau, nel film, si alternano a quelli magnifici di Walt Whitman, poeta dell’io e della comunità, del presente e della democrazia, della natura e dei sensi. I versi dei due poeti contrappuntano il tentativo, da parte dei ragazzi, di recuperare una perduta condizione “naturale”, precedente a quella autoritaria, gerarchica e formale dominante a Welton. Il collegio, naturalmente, funge da metafora per l’intera società contemporanea. Thoreau e Whitman sono i profeti della libertà in tutto, dal verso all’amore – normale che, proprio come Keating, suscitassero ai loro tempi incomprensione e ostilità. Abilissimo, come sempre, a individuare pregnanti immagini simboliche, Weir mette in parallelo il volo di uno stormo di uccelli che si leva dalla superficie del lago con la schiamazzante fila di studenti che si affacciano sul ballatoio e scendono le scale del collegio (fot. 120). Il contrasto è reso esplicito. Al termine della sequenza, il rumore dello stormo di uccelli e quello dei ragazzi si confondono: anch’essi sono attesi a spiccare finalmente il volo verso la libertà. Il Walden Pond di Thoreau diventa la grotta nel bosco dei ragazzi, un luogo segreto introdotto, la prima volta, da una stupefacente sequenza di puro romanticismo stilistico e figurativo, con alcune sfumature da racconto gotico-horror. Il romanticismo è l’altro grande elemento culturale e simbolico che accomuna L’attimo fuggente, Mosquito Coast e altri film del regista. I riferimenti figurativi sono, quindi, i “primitivi”, che legano la cultura romantica a quella neoclassica. Condivisa dalle due è l’inquietudine spirituale che porta al rifiuto di atteggiamenti e modelli formali chiusi e codificati; la comunione con la natura, esigenza connessa al mutamento verificatosi nel rapporto tra l’ambiente e l’uomo con l’affermarsi dell’industrialismo; la fede nel divenire, che induce l’artista all’attenzione per l’ambiente sociale; il tormento dell’esistenza, da cui deriva l’esotismo (erede del mito illuministico del “buon selvaggio”); il senso dell’inaccessibilità dell’ideale, della frattura tra essere e dover essere. Sono questi i motivi, infatti, che innervano il film. Dietro L’attimo fuggente intravvediamo il grande Novalis, il primo ad assimilare romantico e poetico: «tutto in lontananza diventa poesia: monti lontani, uomini lontani, eventi lontani, tutto diventa romantico». Nella sequenza della scoperta della grotta (fot. 121), i ragazzi si alzano nell’oscurità della notte e vengono dapprima inquadrati attraverso l’arco ogivale del collegio, il che sembra collocarli precisamente in qualche luogo canonico del neogotico romantico, per esempio la Tinteln Abbey. Il cielo è blu cobalto, le silhouette dei ragazzi si stagliano contro di esso come in un dipinto di Füssli, Constable, Friedrich, Delacroix o il Piccio. I ragazzi indossano sinistri mantelli con il cappuccio che svolazzano quando si mettono a correre verso il bosco, inquadrati dalla macchina da presa in leggero ralenti. Sono avvolti da una nebbia azzurrina, un’altra costante romantica; si odono sbattere d’ali e grida di gufi e civette. I ragazzi penetrano nel bosco oscuro per un pertugio nella vegetazione e raggiungono infine la grotta, che prende la luce della luna soltanto da un’apertura in alto. È una sequenza che sembra la summa di suggestioni di letteratura, poesia e pittura romantica. Una volta nella grotta, può risuonare, perfettamente nello spirito della sequenza e del luogo, il celebre brano di Thoreau: «Andai nei boschi perché volevo vivere con saggezza…».

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La grotta, del resto, racchiude in se stessa la forma e il senso di un caldo, sensuale, confortevole utero femminile. La sua concavità a forma di vulva contrasta efficacemente con le linee rette, le diagonali, la razionalità degli ambienti chiusi del film. Impossibile, per esempio, non mettere in parallelo le linee curve della grotta con le due assi ortogonali nel disegno che Keating traccia sulla lavagna dell’aula e che dovrebbe misurare l’area geometrica dell’importanza poetica (fot.122). Dalla grotta trasuda una sensualità femminile che stimola l’eros e l’immaginazione creativa; il collegio Welton e gli altri ambienti chiusi del film sprigionano, al contrario, una geometria di linee e una razionalità repressiva e gerarchica tipicamente maschili. Il potere, nel film, è maschile; la sensibilità, femminile. Non a caso, i due ragazzi più sensibili, Todd e Neil, hanno una sessualità incerta. Nella grotta, i ragazzi si sentono protetti, e insieme eccitati nei loro sensi e nelle loro capacità. Più avanti nel film, in un insistito montaggio alternato, la grotta viene messa in parallelo con l’ambiente della festa a casa dei Danbury. La vitalità della prima contrasta con il sonnambulismo da alcol del secondo: un po’ della creatività della prima sembra però trasferirsi su Knox, che durante la festa trova il coraggio di “toccare” la ragazza che ama e che si è assopita. Non a caso, è durante questa sequenza, mentre Knox sta accarezzando Chris, che Charlie, nella grotta, informa i compagni di aver scritto un articolo che chiede l’ammissione delle donne a Welton.

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Nel film si confrontano due forme di leadership: quella, basata sulla tradizione, del preside (fot. 123), e quella, basata sul carisma, di Keating. La prima, coerentemente, sconfigge la seconda; ma Weir lascia intendere che è quest’ultima a lasciare i semi più duraturi e fecondi. Il preside e il professore di letteratura incarnano, anche, due opposte figure paterne, che si contendono l’anima degli allievi. Il primo è il patriarca punitivo, che agisce sugli studenti anche attraverso un’altra figura di padre, l’arido signor Perry; il secondo è il padre putativo e spirituale, che agisce anche attraverso figure di autorevoli “padri” letterari: Whitman, Thoreau. Keating “adotta” dei giovani e cerca di aprirli alla vita. Ogni processo di liberazione comporta però il rischio dell’eccesso. Il vitalismo che il film sprigiona si manifesta in numerose sequenze di esuberanza fisica e passionale, come quella in cui la partita di pallone è accompagnata dall’Inno alla gioia di Beethoven. Weir è però capace anche di “congelare” le situazioni: la triste parabola di Neil viene accompagnata da una nevicata sempre più fitta, quasi che la sua spontanea, effimera esuberanza passionale venisse estinta dalla temperatura improvvisamente ghiacciata dell’ambiente circostante. Pomodorini rossi. Green Card - Matrimonio di convenienza Delle bacchette di legno battono sul metallo di un bidone, a ritmo indiavolato. È un ragazzino di colore che si esibisce per strada. Brontë compra dei fiori e osserva il piccolo musicista, prima di incontrarsi all’Afrika Café con il suo sposo Georges. Il matrimonio combinato per fare avere la green card a Georges e un appartamento riservato alle coppie sposate a Brontë è una formalità svolta velocemente. Brontë entra nel suo nuovo appartamento: il giardino interno è pieno di piante, e lei ride felice. Insieme ad altri, per strada, lavora a piantare piante negli spazi pubblici. Il suo fidanzato Phil le dice di essere riuscito a trovare molto terriccio. Gli operatori scaricano terra, portano vasetti con le piantine, mettono del verde in un’area cortilizia tra squallidi caseggiati. Brontë, Phil e due amici si ritrovano in un ristorante, dove ai tavoli serve Georges: Brontë è in imbarazzo, propone di andarsene. Georges arriva al tavolo, offre fegato di vitello svizzero, o roast beef inglese (ma nel locale risuona il sirtaki greco). Phil non mangia carne, vuole solo verdura senza olio e sale, gli altri due ordinano del pesce. La scena si interrompe sull’ordinazione di lei: «E per mademoiselle, o forse madame?». Stacco su due pappagallini inseparabili chiusi in una gabbietta. Sul terrazzo di casa, la ragazza mette a dimora delle piantine con un igrometro. Si gode il vento. Rientra nell’appartamento pieno

di piante. Suonano alla porta, è l’ispettore Gorsky del Servizio Immigrazione insieme a una collega. Vengono per parlare con lei e il marito. Brontë torna al ristorante e chiede di Georges: gli dicono che è stato licenziato perché ha trattato male un cliente. Brontë rintraccia Georges e gli dà appuntamento a casa. L’uomo arriva: il custode gli dice che gli sembra appena uscito dalla giungla. Brontë guarda dallo spioncino e apre. Lo avverte che stanno per arrivare gli ispettori. Parlano del suo licenziamento al ristorante. Nervosa, Brontë lo rimprovera perché non prende sul serio la loro situazione. Suonano, lui si toglie le scarpe e si sdraia sul divano a leggere il giornale. Entrati gli ispettori, gestisce la situazione. Racconta di essere entrato in America da cinque mesi e di esserne estasiato: «È la terra delle opportunità». Poi mente dicendo che è stato in Africa a caccia di elefanti «per fotografarli». Gli ispettori sono scettici. Georges sostiene di essere un musicista al lavoro su una ricerca compiuta in Africa, che dovrebbe portare a un balletto. Chiedono come si sono conosciuti. Georges inventa una storia su un incontro fortuito per strada, mentre entrambi erano carichi di pacchetti. Gorsky chiede di andare alla toilette, e Georges, mentre Brontë è al telefono con Phil, non sa chiaramente dove si trova e apre diverse porte prima di trovare quella giusta. Brontë parla con un avvocato che le consiglia di far venire Georges a vivere a casa sua, dato che gli ispettori hanno chiesto un altro colloquio, non sono convinti. Dovrebbe fermarsi l’intero weekend. Questa volta saranno interrogati separatamente, in dettaglio. Brontë non vorrebbe uno “zoticone” per casa, ma l’avvocato le raccomanda di imparare bene la propria parte, dopo un po’ di tempo potranno divorziare. I due si incrociano sulla soglia di casa. Lui porta un sacchetto con due pesci rossi. Lei gli fa vedere la casa, mette i pesci in una vasca. Lui accende una sigaretta, lei gli dice di non fumare in casa. Georges fa il caffè, perché non apprezza il decaffeinato fatto da lei. Decidono di inventare una storia, lei suggerisce che lui si finga un amico gay venuto da Parigi. Lui non vuole fare il gay, vorrebbe impersonare un terrorista rifugiato. Alla fine concordano: un amico non gay. Vanno insieme al mercato, comprano frutta e verdura, poi in un supermarket. Incontrano un’amica di lei, Lauren, lo presenta come un vecchio amico. Lui la invita a cena. Lauren: «Nella mia vita tutto è francese, cucina, film». «Coincidence», conclude lui. Tornando all’appartamento, incrociano una vecchia inquilina molto impicciona che spettegola sulla visita degli ispettori. Stacco. Vediamo le mani abili di Georges che affettano l’aglio. Lauren, seduta con pantaloni tirati su e bicchiere di vino in mano, lo osserva compiaciuta. Lauren apprezza l’appartamento. Dopo cena dice a Brontë che i suoi genitori vorrebbero lasciare a lei e ai suoi “verdi d’assalto” tutte le piante della loro villa. Brontë è entusiasta, ma c’è un problema: la mamma non vuole saperne, è papà che vuole. Lauren, intanto, attratta da Georges, brinda con lui e parla male di Phil. Mani che smuovono il terriccio e mettono vasetti, è Georges che ha comprato pomodori e altre verdure. Brontë gli dice di stare fuori dalla serra, e lui: «Tu ami le piante più delle persone». Fanno pace, lei dice che si è sposata per avere la serra. Poi la avvisa che andrà a cena da Lauren. A tavola dai genitori di Lauren, si parla di arte e pornografia, poi di ambientalisti che piantano alberi. All’improvviso, si presenta Lauren insieme a Georges, Brontë inorridisce. Dice Lauren: «Era solo come un cane, mi è sembrato che volesse uscire». Si parla di Brontë, che non vuole sposarsi, del noioso Phil, di musica e di piante. La padrona di casa suona il pianoforte, molti si addormentano. Chiedono a Georges di suonare, lui si schermisce, poi parte con una musica folle, dodecafonica, pigiando con violenza sui tasti. Un vaso di fiori trema. Sconcerto. Poi però suona più dolcemente, e accompagna la musica con un testo poetico. La padrona di casa si commuove: concederà le piante ai verdi. Ormai Georges si è installato in casa. Mette le sue cose in bagno. Brontë gli porta le coperte per il divano, lo ringrazia per la canzone e la poesia, si apre raccontandogli la sua vita: il padre è uno scrittore, ha dato ai figli i nomi di famosi scrittori, voleva che lei diventasse un’artista. A sua volta, l’uomo mostra a Brontë i tatuaggi che scandiscono la sua vita, racconta di essere figlio di un meccanico, di aver lasciato la scuola a dieci anni, di essere stato in carcere per furto d’auto. Cominciano a scambiarsi informazioni private in vista dell’interrogatorio separato. Primo piano delle labbra di lei, lui le guarda. Lei va a letto. In un accurato montaggio parallelo, seguiamo lei che si toglie le calze, lui la camicia; lei la camicia, lui gli stivali; lei il reggiseno. Poi lei indossa la camicia da notte. Lui è eccitato. Lei va a letto, lui non riesce a dormire. Il giorno dopo, Georges scrive false lettere dall’Africa sugli elefanti. Anche Brontë scrive false

lettere d’amore in Africa a proposito dell’appartamento nuovo. Cominciano a scattare delle fotografie in cui compaiono vestiti da sciatori in luna di miele. Costruiscono un falso passato vissuto insieme, per esempio le vacanze al mare, con Georges in camicia a fiori, cappello di paglia, pallone a spicchi colorati, racchetta, sdraio, radiolina all’orecchio. Scattano foto false anche sul balletto politico in pose statuarie, e foto fasulle nella giungla con il machete e la faccia feroce scattate all’interno della serra. Arrivano in visita i genitori di lei. Brontë è sconvolta. Finge che Georges sia un idraulico, ma il padre di lei non la beve. I due però si prendono in simpatia. Passeggiando poi in Central Park, Georges e Brontë continuano a imparare a memoria la lezione da recitare agli ispettori. Ripassano il passato di lui, i suoi amori, la musica. Camminano sul marciapiede vicino a casa e vedono Phil. Brontë abbraccia il fidanzato e lo porta via: incrociano un corrucciato Georges, vestito di nero. Al tavolo di un ristorante, cena tra Phil e Brontë, che pensa a Georges. A casa, Georges prepara un finto album fotografico. Phil vorrebbe entrare in casa ma Georges urla e lo caccia fuori, dicendo che è un “carciofo”. Brontë, a sua volta, caccia di casa Georges. Brontë è in vestaglia. Sente dei rumori, è la vecchia inquilina, che ha sorpreso Georges steso a dormire per terra davanti alla porta dell’appartamento. I due si rimbrottano nuovamente. Sono ormai le 9, l’ora del colloquio. Si affrettano, ma il taxi rimane bloccato nel traffico. Allora corrono attraverso il parco, in mezzo alla vegetazione, tra i prati. Una corsa sfrenata. In extremis ripassano le date, i nomi, le marche dei prodotti. Per il colloquio vengono divisi. Georges si siede davanti a una scrivania vuota, arriva Gorsky. Brontë se la cava bene; anche Georges, finché si tradisce non ricordando il nome della crema Monticello. Escono, si fanno gli auguri per il divorzio. Lei gli ridà l’anello, lui la guarda, poi guarda in su verso il palazzo. La macchina da presa lo segue mentre si allontana. Brontë è ferma a un incrocio, la macchina da presa la segue. Qualcuno le offre un gioiello africano. Tramonto sulla terrazza di casa. Brontë è in crisi, la serra non basta più, vede le macchie rosse dei pomodorini di lui nel verde. Beve mentre fuori sta piovendo. Suona il campanello, corre sperando che sia Georges, invece è il custode. C’è una busta da parte di Georges che contiene la partitura musicale della canzone che canticchia continuamente, e la lettera d’amore falsa dall’Africa. Brontë si reca all’Afrika Café per attenderlo. Arriva Georges, che sorride. Lei esce, si abbracciano e si baciano per strada. Arriva anche Gorsky, e Georges le dice di avere fallito l’esame: «Se me ne vado subito, tu non perdi la serra». «Che mi importa della serra?», replica lei. Poi celebrano uno sbrigativo matrimonio per strada scambiandosi gli anelli, sotto lo sguardo allibito dei funzionari dell’Immigrazione. Lui promette di scriverle tutti i giorni. Mentre si sente uno spiritual, lui sale in auto e lei rimane ferma, inquadrata in piano americano.

«Terra delle opportunità». Così, ironicamente, Georges definisce gli Stati Uniti giustificando il proprio arrivo agli occhiuti ispettori del Servizio Immigrazione. È la stessa espressione, e anche la stessa ironia, adoperata da Allie Fox all’inizio di Mosquito Coast. È il punto di vista di due innamorati dell’America, entrambi delusi. Allie decide di andarsene a vivere nella giungla dell’Honduras, Georges viene cacciato e deve tornarsene in Francia. I due film esprimono una forte critica a un modello di società uniformata e conformista, che fatica ad accettare le diversità. La New York di Green Card appare come un grigio agglomerato, spezzato solo dal verde che alcuni volonterosi piantano tra un palazzo fatiscente e l’altro (fot. 124). Brontë si è da tempo convinta che, dovunque, c’è «caos e disperazione». Si è dunque scelta una causa parziale ma integralista: «Mi interessa solo il giardinaggio». In essa si è rifugiata, chiudendo la porta a qualsiasi alternativa. La sua dimensione è ormai quella della serra, in cui ci si può illudere di racchiudere pezzi privilegiati di natura (fot. 125). La serra è una delle immagini preferite di Weir, che l’ha adoperata in altri film: è il simbolo di una wilderness riportata alla misura dell’appartamento, del luogo chiuso, della proprietà privata, del godimento del singolo individuo. Dunque, una natura che non spaventa, che anzi consola, protegge e dà reddito. Nella sua serra, Brontë ricorda, anche nel suo destino di zitellaggio, Violet Venable nel giardino di piante cannibali in Improvvisamente l’estate scorsa (l’atto unico di Tennessee Williams portato sul grande schermo nel 1959 da Joseph L. Mankiewicz). A Brontë giungono dei richiami esotici dalla strada e dal territorio urbano: il ragazzino di colore che,

nella metaforica prima sequenza del film, suona un tamburo mentre lei sta comprando un fiore per la sua serra (fot. 126); il bar dal nome esotico di Afrika Café, in cui si ritrova assieme ai colleghi “verdi d’assalto” (fot. 127); il gioiello etnico che le viene offerto mentre è ferma a un incrocio. È l’ingresso nella sua vita di Georges, però, a scatenare quel processo di liberazione individuale che, al solito, è al centro dei film di Weir.

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Georges rappresenta l’ennesima incarnazione di “uomo naturale”. Anticipato da alcuni richiami esotici, appare per la prima volta davanti alla vetrina dell’Afrika Café (fot. 128), e al Continente nero, simbolo della wilderness più selvaggia e “fuori controllo”, è associato nel corso di tutto il film. Per giustificare la sua assenza, Brontë racconta che è andato in Africa; il custode nota che «sembra appena uscito dalla giungla»; nella fotografia taroccata lo vediamo nella finta giungla che è la serra con il machete e la faccia feroce (fot. 129); emette urla che sembrano quelle di una fiera, o di un primate. Georges rappresenta lo scatenamento, Brontë il contenimento degli istinti. Georges è associato all’animalità e alla carne, laddove Brontë è associata alle piante e a una dieta vegetariana. Georges si presenta al tavolo di Brontë e Phil magnificando il fegato di vitello dalla Svizzera e il roast beef dalla vecchia Inghilterra. Al mercato, compra della carne. Di fronte alla foto del vegetariano fidanzato di Brontë, fa il verso del maiale. È la carne che Georges porta nel mondo asfittico, asettico e formale di Brontë. «Odio i vegetariani!», urla. Chiama Phil “carciofo” e Brontë “cactus”. Accusa la ragazza di amare più le piante degli uomini. Un giudizio peraltro condiviso anche da altri, nel film: «Finirai per invecchiare circondata da piante», le viene detto durante la cena

a casa di Lauren. Georges fuma dove non dovrebbe, preferisce il caffè forte al decaffeinato della ragazza, suona pigiando sui tasti come un ossesso della musica incomprensibile (e, simbolicamente, il suono che emette fa vacillare un vaso con una piantina), danneggia dei quadri, si muove goffamente con il suo corpaccione: in una parola, non è comprimibile nel mondo ristretto di Brontë, che vorrebbe relegarlo al suo ruolo di marito di comodo, e invece si trova a dovere improvvisamente affrontare una vera e propria minaccia al suo ecosistema perfettamente bilanciato (con tanto di fidanzato “gentile, sensibile, vegetariano” che si può facilmente respingere quando propone timide avance sessuali). È Georges a portare l’eros nel mondo di Brontë, questa donna che ironicamente porta il nome della scrittrice di Cime tempestose, un romanzo che contrappone timido conformismo e passione distruttiva esattamente come fa il film di Weir. Un nome peraltro imposto dal padre scrittore, un padre che, al pari di altre figure paterne di Weir, incute timore e sentimento di inadeguatezza nella figlia, come intuisce subito Georges. Brontë percepisce immediatamente la carica eversiva impersonata da Georges: di volta in volta, lo chiama “zoticone”, “bue” (ancora, la carne…); mostra di considerarlo un impiccio, un imbarazzo per i suoi amici, per i genitori. Cerca di mascherarlo in tutti modi: gay, amico in visita, idraulico. A questo proposito, è impossibile non godersi il parallelo ironico con il protagonista di The Plumber che, come Georges, impersona una minaccia destabilizzante nei confronti di una giovane donna. Ma il film è anche un po’ commedia romantica e sentimentale, non ci sono i toni allarmanti che c’erano nell’altro. Brontë cede, lentamente, ma cede al fascino selvatico del “francese del cavolo”. Del resto, Georges porta del colore nel mondo di verde uniforme e omogeneo della ragazza: due pesciolini rossi, dei pomodorini rossi.

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Oltre che alla carne, Georges è associato dunque anche al colore rosso: il colore più “caldo”, il colore del sangue e della vita, un colore aggressivo, vitale, ricco di energia. Esso è legato al fuoco e all’amore. Dal canto suo, il colore verde è sì associato all’elemento naturale, positivo, ma può anche avere il significato di “immaturo”. Georges porta linfa vitale a Brontë, la costringe a mischiare il suo verde con il rosso, inducendola dunque a uscire dalla sua crisalide, a maturare. La ragazza si accorge di amare davvero Georges quando, dopo l’esame finale e la separazione, nota le macchie rosse dei pomodorini che l’uomo le ha portato spiccare nel verde della serra (fot. 130). Verde, del resto, sta anche per “alternativo”, per una visione della vita come qualcosa di naturale, distaccato dall’esasperazione tecnologica. I “verdi d’assalto” che compaiono del film possono essere avvicinati alle altre comunità separate ed emarginate dei film di Weir: gli aborigeni, gli Amish, la setta dei poeti estinti. Anch’essi, come i precedenti, guardano piuttosto al passato che al futuro: sognano un ritorno a un’epoca precapitalistica e preindustriale, addirittura preurbana, in cui il verde è dappertutto e la natura trionfa senza limiti e confini. Sono nostalgici di un utopistico “stato naturale” che è assolutamente irreale. Qui sta la sottile ambiguità del film: da un lato, il gesto di piantare alberi e verde tra i palazzi rappresenta il tentativo, ingenuo se vogliamo, di riportare la natura nel cuore stesso della civiltà; dall’altro, il gesto di racchiudere il verde all’interno della serra o del terrazzo di un appartamento denota una certa aridità del cuore, un’assenza di vere passioni. Georges “sveglia” Brontë, la riporta alla vita piena e autentica, un po’ come il professor Keating tenta di fare con i suoi discepoli del Welton College. Non è dunque casuale se in entrambi i casi le due figure di maestri vengono allontanate con la forza dall’autorità. Keating è cacciato dalla scuola, Georges dal Paese. Ma il loro seme ha fruttificato, almeno per una persona (Todd in un caso; Brontë nell’altro).

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Ma Green Card è pur sempre una commedia romantica, la prima diretta da Peter Weir: dunque, i due innamorati, si intuisce alla fine, sono solo momentaneamente divisi dal potere. Il progredire della loro attrazione reciproca passa attraverso fasi diverse di sempre maggiore comunanza. Quando si vedono per la prima volta, sono separati dalla vetrina di un bar. Si rivedono brevemente alla cerimonia del matrimonio, salvo poi dirsi addio in modo sbrigativo. Per Brontë la faccenda è chiusa: ci si vedrà per il divorzio. Ottenuto il sospirato appartamento, Brontë gioisce del suo momento di

trionfo: sulla terrazza invasa dalle piante si gode la carezza del vento (fot. 131). Ma l’arrivo degli ispettori la mette in agitazione. Rivede Georges, imbarazzata e facendo finta di non conoscerlo, nei panni del cameriere, e qui il film compie una brillante giravolta, perché ora associa l’uomo all’Europa, non più all’Africa. Non il continente selvaggio per definizione, ma quello sofisticato dell’arte e della cultura, rispetto al quale spesso sono gli americani a essere considerati “barbari”. Il locale si chiama Vecchia Europa, propone cibi da tutte le parti del Vecchio continente (Svizzera, Inghilterra), la musica è greca. Qui, nei panni del cameriere che serve ai tavoli, Georges sembra a suo agio, è massimamente “francese”, si esprime con termini francesi («Mademoiselle», «Madame», fot. 132). Questa doppia natura di Georges prosegue per tutto il film: agli occhi di Brontë, lui è un “africano”, un bruto, uno zoticone; agli occhi degli altri, soprattutto dell’amica Lauren, rappresenta al contrario la quintessenza dello stile e della classe francese. Lo dimostra la scena in cui Georges, sotto lo sguardo voglioso di Lauren, affetta con destrezza dell’aglio per preparare la cena: «Potrei stare a vederti per un giorno intero, bella fortuna avere uno chef francese!» (fot. 133). La cucina sofisticata come elemento culturale, seduttivo, erotico, laddove Brontë e Phil mostrano di prediligere solo cibi semplici, naturali, poveri: semi, yogurt, muesli, verdura «senza olio e senza sale». Brontë è poi costretta a rintracciare Georges per fargli fare la parte del marito. Il nuovo incontro si apre con un primo piano del dito di lui sul campanello della porta di casa di lei. Brontë guarda dallo spioncino e poi lo fa entrare, restandone, per tutto il tempo della visita, il più lontana possibile fisicamente. Durante il primo incontro congiunto con gli ispettori, i due si muovono in modo totalmente non sincronizzato (addirittura, lui la chiama per sbaglio Betty), al punto che, mentre la donna è al telefono con il fidanzato, Georges è costretto a tradirsi mostrando di non sapere dove si trovi il bagno dell’appartamento. Ora, dunque, dovranno per forza convivere, fisicamente vicini. L’incontro successivo si apre con una serie di primi piani dei piedi scalzi di lei e delle scarpe di lui, finché Brontë, con una smorfia di disgusto sul volto, lo lascia entrare. È qui che Georges reca con sé un sacchetto con i due pesci rossi (fot. 134), che fanno simbolicamente il paio con la coppia di pappagallini “inseparabili” nella gabbietta (fot. 135). Ironicamente assai, Peter Weir ci aveva fatto vedere i due uccellini a casa di Brontë subito dopo la sequenza al ristorante europeo e subito prima della scena in cui lei respinge le avance del fidanzato, con la ragazza piuttosto mogia che guarda la pioggia che cade sulle piante: un segno premonitore del suo destino di non più single. Un primo “disgelo” avviene nella sequenza della spesa al mercato, in cui i due cominciano a comunicare l’un l’altro anche attraverso gli opposti gusti alimentari. L’arrivo sulla scena del film di Laurel causa un nuovo, brusco allontanamento, perché, da un lato, Brontë è in difficoltà nel celare l’identità di Georges all’amica, dall’altro Laurel mostra subito una notevole attrazione nei confronti dell’uomo, cosa che, inconsciamente, suscita una certa gelosia in Brontë. Dopo che le prime due cene (al ristorante e a casa di Brontë) avevano suscitato l’imbarazzo della ragazza, una terza cena, a casa di Laurel, segna invece un momento di deciso avvicinamento della coppia. È in questa occasione, infatti, che Georges, esibendosi al pianoforte (fot. 136) e recitando una lacrimevole poesia “verde”, riesce per la prima volta ad affascinare Brontë scendendo sul suo terreno, quello ambientalista (tra parentesi, garantendogli anche l’acquisizione degli alberi). La convivenza diventa sempre più agevole e confidenziale: i due devono raccontarsi le proprie storie personali per potere superare l’esame ma, visibilmente, sono interessati davvero l’uno all’altra. I particolari diventano sempre più intimi, Georges mostra alla ragazza i tatuaggi che ha sul corpo e ne spiega il significato. È a questo punto del film che il regista inserisce la prima esplicita sequenza di desiderio erotico, che richiama quella analoga di Witness in cui Book osserva Rachel mentre si sta lavando. In un abile montaggio parallelo, seguiamo le scene alternate dei due che si tolgono gli indumenti uno dopo l’altro (fot. 137), finché, nello stesso modo di Book, Georges va a letto ma non riesce più a prendere sonno, eccitato com’é. La relazione si stringe ancor di più quando Georges e Brontë si “costruiscono” un passato fasullo, mettendo assieme un album di fotografie taroccate. È interessante notare che,

mentre il passato nei film di Weir spesso è un peso soffocante, in questo caso la falsa storia d’amore della coppia, ricostruita con la macchina fotografica e le pose più stereotipate, è un ulteriore tassello nella crescita della relazione. Per l’ultima volta, Georges deve poi impersonare, a beneficio di Brontë, un personaggio falso: l’idraulico. Paradossalmente, quest’interpretazione assai goffa, che deve ingannare i genitori della ragazza, porta a una sorta di positiva “fusione” di due figure maschili temute dalla ragazza. I due uomini, il padre e Georges, si piacciono, saldando una frattura emotiva in Brontë. La relazione si estende passando in esterni e abbandonando, finalmente, l’interno claustrofobico dell’appartamento: la coppia prosegue il ripasso della “lezione” passeggiando in Central Park. Sdraiati accanto a un albero, un albero “vero”, non trapiantato in serra, i due si raccontano i rispettivi amori, le ragioni del loro finto (provvisoriamente) innamoramento. Segue l’“espulsione” del fidanzato Phil, cacciato di casa da Georges dopo che, per la seconda volta, Brontë ne aveva respinto le avance sessuali. «Io sono suo marito!», gli urla Georges, che poi trascorre la notte sdraiato per terra davanti all’uscio di casa. La finezza del regista ci mostra una serie di inquadrature che pone in simbolica associazione i pesci rossi, gli inseparabili e un paio di mutande stese. Il colloquio fallito da Georges porta però alla finale, brusca separazione tra i due. Un secondo appuntamento, questa volta desiderato, all’Afrika Café, subito prima dell’allontanamento di Georges, e una seconda cerimonia di matrimonio sulla strada con scambio di anelli, non valida legalmente ma sicuramente più “vera” della precedente (fot. 138), mostrano la propensione di Weir per le corrispondenze simboliche e prospettano un futuro di felicità condivisa. Per la prima volta, nel cinema del regista, tra conformismo della comunità e isolamento del singolo, sembra trovare spazio la coppia.

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Il gusto delle fragole. Fearless - Senza paura Piante, nebbia: Max Klein si muove insieme a dei bambini, uno in braccio. Rumore sordo sullo sfondo. Arriva in una radura, ci sono dei messicani inginocchiati che si fanno il segno della croce. Dovunque rottami d’aereo. Arrivano altri scampati. La macchina da presa si alza, l’aereo si è schiantato nei pressi di una strada. Fumo, fiamme. Consegna il bambino alla madre. Poi prende un taxi e si fa portare in hotel. Campo totale del deserto con una berlina scura al centro, una Lincoln con una targa della California. L’auto va, la radio dà notizie dello schianto, Max cambia subito stazione e mette della musica. Guarda sulla cartina il tragitto tra Bakersfield e Los Angeles. Mette la testa fuori dal finestrino, ride e si gode l’aria in faccia. Va a trovare una donna bionda, che lo trova diverso. I due si recano in un diner, dove a Max portano pancakes con la fragola, ma lui vuole solo la fragola. Bussano poi al suo hotel tre agenti dell’Fbi, c’è un’emergenza. Gli mostrano la foto di un uomo. Deve partire in aereo per San Francisco. Sale anche il dottor Perlman, si siede di fianco a Max: è uno specialista di traumi post-incidente, lavora con i superstiti. Incontro tra Max e sua moglie Laura. Ci sono anche il figlio e l’avvocato Brillstein, che subito discute con Perlman. Max siede e beve, poi dà uno schiaffo a Perlman, che lascia il biglietto da visita e se ne va. Brillstein e Max escono in auto, è notte. L’avvocato chiede a Max se ha visto il cadavere del signor Gordon, il socio di Max che viaggiava accanto a lui, e se costui ha sofferto o è morto subito. Max caccia un urlo pazzesco, l’avvocato ferma l’auto. Max dice di non volere mentire. I due arrivano a un’abitazione lussuosa. Apre la porta la vedova Gordon, in lacrime; si abbracciano, lui la consola. A casa sua, Max si lava la faccia, Laura lo abbraccia di dietro. Nel giardino, Max accompagna il figlio ma c’è una folla di giornalisti. Trova anche il ragazzino che era sull’aereo, sorride e lo abbraccia. Lo presenta al figlio, che non pare contento. Poi si fa largo tra la folla fino allo scuolabus. Il padre del bambino lo chiama eroe. Lui si sottrae scappando di corsa per una strada in discesa. Max respira profondo, guarda la città. Immagini di un servizio televisivo sul disastro aereo sulla linea San Francisco-Houston. È Laura che sta guardando la Tv. Inquadratura dall’alto di Max sdraiato sul letto, con le mani sul petto: sembra un cadavere ricomposto. Primissimo piano dell’occhio chiuso, poi dell’orecchio. Si sente il rumore dell’aereo. Inquadratura dell’aereo che fa scia nel cielo azzurro. Max si ricorda. Lui si trova a bordo, di fianco a lui Gordon al computer. Max è stressato, ha paura del volo. All’improvviso si sente un botto, è il panico. Laura toglie le scarpe al marito. Primo piano su di lui, sull’occhio chiuso che pulsa. Di nuovo sull’aereo, Max terrorizzato. A bordo c’è la madre Carla Rodrigo con il bambino, la hostess le dice di tenerlo ben stretto a sé. Il volto di Max è accecato dalla luce che viene da fuori. Suono ovattato, primissimo piano del volto di lui, che ripete: «Non ho paura». Vediamo Carla a letto, con la fotografia del figlioletto morto sul comodino attorniata da candele accese. Ha un sonno agitato. Rientra il marito Manny, arrabbiato, apre la finestra, la invita a scuotersi. Chiama se stesso “buon samaritano”. Max, insieme a Perlman, si reca a casa di Carla. Sulla porta della camera della donna c’è scritto: «Jesus es mi mejor amigo», Max entra. Perlman parla con Manny, gli dice che Max nello schianto ha mostrato la parte migliore di sé. Nella stanza, Max e Carla si guardano. Max parla di sé, guardando l’altarino del bimbo. I due si confidano a bassa voce. Intanto, Manny comunica a Perlman di avere firmato per fare causa alla compagnia aerea. Max va in chiesa con Carla. Carla va davanti a un crocefisso e si inginocchia, accende una candela. I due parlano, si chiedono se sia giusto avere fede in Dio oppure no. Max afferma di non credere in niente. I due passeggiano per strada, lui la accompagna a casa, ma poi risalgono in auto, continuano a parlare della salvezza, della sicurezza. Flash sull’incidente: primo piano di Carla con le mani sporche del sangue del figlio. Max arriva a casa, dove il figlio sta giocando con un videogame violento insieme a un amico. Laura esce dalla doccia. Lui è seduto e le confessa di essere innamorato di Carla: «Non ho mai provato nulla così». Laura si ferma, inquadrata di nuca, mentre si sta asciugando. Ritroviamo Laura nella sequenza successiva, mentre sta insegnando danza ad alcune ragazzine. Arriva Perlman, che subito Laura coinvolge in un’esibizione di danza. Laura parla con Perlman. Lei gli dice di essere preoccupata, di trovare il marito «remoto, distante», che passa più tempo con il ragazzo scampato che con suo figlio. Perlman raduna i vari superstiti del disastro, c’è anche

Carla con il marito. Perlman invita tutti a raccontare storie «di morte e di salvezza». Si alza una ragazza che ha perso la sorella e il nipote seduti di fronte a lei. Dice che Max le ha salvato la vita. È venuta lì per ringraziarlo, come anche altre persone, ma Max non c’è. Al telefono, Manny parla con l’avvocato della causa: è a caccia di quattrini, monetizza la morte del figlio. La moglie lo sente e si infuria. L’avvocato Brillstein si trova con Laura, Max e la vedova Gordon. Brillstein chiede a Max di raccontare bugie, di dichiarare che Gordon ha sofferto in modo da spillare più soldi alla compagnia, ma Max non vuole scendere a patti. La vedova lo aggredisce. Alla fine Max sembra acconsentire; corre via dall’ufficio di Brillstein, esce sul terrazzo, cammina. Va in un angolo del terrazzo e si siede. Di nuovo, Max ritorna con la mente all’aereo, alla luce accecante che penetra dal finestrino, poi è nuovamente sul terrazzo, si aggrappa al balcone e guarda in basso. Sale sopra il cornicione e fa per tuffarsi di sotto. Urla. Apre le braccia come Gesù in croce, vince la paura, sorride; gira su se stesso. Arriva Laura che lo vede sul cornicione. A tavola, la famiglia è riunita. Laura cerca di parlare del loro rapporto. Gli chiede di farla partecipare a quello che gli sta succedendo, ma il marito dice che non è possibile. Piove, un’auto si ferma fuori dalla casa di Carla. Max dice a Carla di avere perso il socio e migliore amico, si baciano. Ma lei esce dall’auto: «Non voglio essere baciata». Durante una cena, Max ripensa all’incidente. C’è un passeggero con la bombola a ossigeno. Gordon telefona alla moglie, risponde la segreteria telefonica. I due amici si prendono la mano. Il figlio di Max lascia la tavola con il compagno, Max li segue e fa una scenata staccando il videogioco, vuole che lui torni a tavola. Litigio con la moglie, sembra la fine del matrimonio. Max è in hotel, si sdraia sul letto. Poi va in auto a prendere Carla. Fanno un giro per downtown, lui le spiega tutto quello che vedono, i palazzi, poi tornano nel triste quartiere ispanico di lei. È Natale, i due arrivano in un centro commerciale, tra pacchetti dono, Babbi Natale, consumismo. Chiacchierano a lungo su una panchina del figlio di lei. Fuori dal centro commerciale, la macchina da presa si solleva sopra di loro, i due si danno la mano. Max guida l’auto, Carla piange. Si fermano. La donna confessa di sentirsi in colpa per la morte del figlio: la confessione è seguita da una crisi isterica in auto. Max mette la cintura e parte a tutta velocità. Va diritto contro un muro coperto da un graffito raffigurante un cuore e l’occhio di Dio. La macchina è distrutta, Max è riverso sul volante. All’ospedale, Max è a letto. C’è anche Carla con un collare rigido. Brillstein e Manny confabulano sulla causa. Al capezzale di Max ci sono la moglie e il figlio. A casa, Laura incontra Carla. Le due donne parlano di Max, Carla esalta l’amicizia con Max. Laura ribatte che l’amicizia con il marito aiuta lei ma distrugge il suo matrimonio: «Max non è un angelo, è un uomo». In ospedale, Max disegna. Arriva Carla con dei cioccolatini. Dice all’uomo di volere tornare a vivere, di non voler più essere un fantasma. Lo saluta per sempre, i due si danno la mano, Max non rilascia la sua tanto presto. A casa, Laura osserva il disegno fatto da Max con l’incidente. Nei disegni di Max c’è il motivo del vortice, della spirale, del buco nero, che ricorda una riproduzione dell’Ascesa all’empireo di Bosch. con una scritta: «L’anima arriva alla fine del suo lungo viaggio e nuda e sola entra nel divino». Max esce dall’ospedale, Laura lo aspetta fuori. I due tornano a casa insieme. Arriva Brillstein con rose rosse e champagne; si complimenta con Max. Sta chiedendo un sacco di soldi all’assicurazione e alla compagnia aerea. Zoom sul volto di Max che sta per addentare una fragola, improvvisamente sta per soffocare, cade a terra in ralenti. Si ritorna per l’ultima volta alla luce che penetra dal finestrino dell’aereo, a Max che guarda il bambino, Gordon, poi si alza dal sedile. Gordon gli tiene la mano, tutti pregano ai loro posti. Max in piedi consola tutti, va dal ragazzino, guarda la cabina, alla richiesta della hostess si siede accanto al ragazzino, gli fa mettere giù la testa: «È tutto ok». Impatto con il suolo, incendio. Ogni cosa vola via, vortice di corpi. Laura fa la respirazione bocca a bocca al marito. Nella carlinga, Max prende il bambino in braccio e tutti gli altri lo seguono. Mentre Laura si dispera, Max è inquadrato di spalle nella carlinga dell’aereo. Lentamente, Max torna alla vita, è in braccio alla moglie, ride. La macchina da presa si solleva in alto sulla coppia che si abbraccia a terra.

Il film è costruito attorno a tre apparenti paradossi, tutti riguardanti il personaggio principale. Innanzitutto, Max, che è completamente agnostico e ostenta a più riprese il proprio nichilismo

(sostiene di non credere in nulla e che tutto accade senza una ragione), diventa agli occhi degli altri passeggeri una figura religiosa da venerare. Circondato da persone che pregano o si inginocchiano o accendono candele, Max si ricorda con benevolo e condiscendente affetto del padre, «un tipo religioso», perito in un incidente d’auto, ma ritiene che, per dare un senso all’esistenza, non sia affatto il caso di avere fede in entità superiori di qualsiasi tipo. Ha la posizione di partenza di un Allie Fox, il protagonista di Mosquito Coast, per il quale la Bibbia è un libro da buttare. Il problema è che diversi personaggi del film, tra quelli scampati all’incidente, lo considerano alla stregua di un Gesù o di un angelo, una figura salvifica apparsa improvvisamente per indicare loro la giusta strada. Questa iconografia cristologica viene sottolineata a più riprese, fin dalla prima sequenza sul luogo del disastro aereo. La scena ci mostra né più né meno un inferno in terra: rottami, fiamme, urla, vittime carbonizzate. Da un paradiso di nebbia azzurrina sbuca improvvisamente, in questo inferno, un Messia in trance (fot. 139). I pompieri possono portare un aiuto laico, materiale; ma il supporto psicologico fornito da Max appare assai più decisivo. Il Messia reca un pargolo in braccio, che consegna alla madre disperata, ed è seguito da un codazzo di “discepoli”; posa poi lo sguardo sui dettagli della tragedia, come a volerli fissare bene in mente. Sembra proprio Gesù che si sofferma sulle sventure umane e porta conforto. Max sembra Cristo crocefisso quando apre le braccia e pare sul punto di buttarsi giù dal terrazzo. Non a caso la moglie Laura, perspicace, gli chiede se per caso voglia «giocare a Dio». Chi vede in lui la figura del Salvatore è soprattutto la religiosissima Carla, che ha sull’uscio della camera da letto la scritta «Jesus es mi mejor amigo». Carla si libera in fretta di un marito che pure ha l’ardire di definire se stesso un “buon samaritano”. Manny appare totalmente inadeguato ad aiutare la moglie a elaborare il lutto per la perdita del figlio (fot. 140). Rappresenta un notevole campione di quella fauna umana mondana e materialista che pensa solo a come monetizzare o usare la disgrazia, comprendente anche l’avvocato e il terapeuta. All’opposto, Carla cerca un conforto e un perdono di altro genere e le sembra di rinvenirlo in Max, con il quale avvia una relazione ricca di sfumature psicologiche. Max, quasi per esorcizzare l’ingenua religiosità della donna, per prima cosa la accompagna in chiesa, dove avviene un transfert (fot. 141). Carla riversa su Max la devozione e la fede che fino a ora attribuiva all’autorità di Dio. In realtà, Max agisce su di lei più come un terapeuta che come un sacerdote della fede: riesce, infatti, a guarirla dal suo senso di colpa mettendo in scena una vera e propria “ricostruzione” dei fatti avvenuti sull’aereo. Carla rivive la propria tragedia, mentre l’auto di Max si schianta contro un murale che, simbolicamente, reca l’immagine dell’occhio di Dio, oltre che un cuore. L’impatto, metaforicamente, distrugge dunque sia il carisma religioso di Max sia il possibile romance tra i due. L’“occhio di Dio” era poi l’occhio di Max, inquadrato spesso in primo piano, in particolare nel momento in cui viene accecato e trasfigurato dalla luce semidivina che penetra dal finestrino dell’aereo (fot. 142); l’associazione tra Dio e Max è resa qui esplicita, soprattutto nell’autoconvincimento del secondo. L’agnostico o l’ateo può più facilmente sentirsi un dio. L’impatto dell’auto guarisce la donna e mette in crisi l’uomo: d’ora in avanti, sarà lui quello che avrà piuttosto bisogno di essere salvato.

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FOT. 142

Il secondo paradosso che caratterizza il protagonista è rappresentato dal fatto che Max viene acclamato come “fearless”, intrepido, ma in realtà è un uomo pieno di paura. Sull’aereo, prima della

luce, è il più terrorizzato e agitato di tutti. Uscito dalla carlinga in fiamme alla testa del suo gregge, Max è all’istante eletto nuovo “local hero” da parte della comunità. I giornali parlano di lui, il figlio colleziona di nascosto i ritagli che esaltano il suo coraggio. C’è dell’ironia in questo eroismo: alla fine, sarà proprio Max ad avere bisogno del coraggio della moglie. È un fatto che l’incidente aereo gli infonde, misteriosamente, più sicurezza in se stesso – la luce accecante lo “divinizza”. Il terzo e ultimo paradosso di Max è che l’essere sopravvissuto al disastro gli conferisce, insieme, la convinzione di essere in realtà morto e un maggiore “gusto” per la vita, come lui stesso sottolinea più volte. Max pensa davvero di essere defunto, e di essere poi “risorto” in altra natura – forse quella di una creatura angelicata. L’inquadratura dall’alto in cui lo vediamo disteso sul letto, con le mani sul petto (fot. 143), lo fa assomigliare a un cadavere appena ricomposto. È in questo momento che Max si ricollega, per la prima volta, con il se stesso intrappolato sull’aereo in avaria: è solo la prima di una serie di sequenze che gli fanno rivivere l’incidente e gli fanno credere di essere stato “trasformato”. La convinzione, da parte di Max, di essere già “morto” lo spinge a trovare conforto e comunione soltanto con gli altri superstiti, in particolare con Carla. Gli scampati del film costituiscono l’ennesimo gruppo umano che si ritrova isolato ed emarginato dal contesto più largo della società. Come gli aborigeni di L’ultima onda o gli Amish di Witness, i superstiti di Fearless faticano a trovare un loro posto in mezzo agli altri: si vivono, e vengono vissuti, come “diversi”. Come loro, guardano e in qualche misura appartengono al passato, a quella sciagura che ha segnato le loro vite per sempre: non a caso la loro cifra stilistica, nel film, è il flashback. Cadono facile preda delle manipolazioni della legge (l’avvocato Brillstein) e della medicina (il terapeuta Perlman), che li considera, al massimo, vittime da risarcire economicamente o malati da guarire. Le famiglie degli scampati vanno a pezzi. Max, inconsciamente, sostituisce la moglie legittima, Laura, con una donna appartenente al suo stesso “gruppo”; nel contempo, relega ai margini del suo interesse il vero figlio in favore del ragazzo che ha “salvato” sull’aereo. Il rapporto più stretto è quello che lo lega a Carla: insieme a lei, si aggira per San Francisco giocando a fare il “fantasma” in mezzo ai vivi inconsapevoli. La sequenza in cui la coppia entra, a Natale, nel centro commerciale e compra i doni per i “cari estinti” rappresenta forse il cuore del film (fot. 144). In questo luogo, misuriamo con precisione la distanza che separa esseri umani straziati o segnati negli affetti, ma proprio per questo in sintonia profonda tra di loro, dalla folla anonima, indifferenziata, dei consumatori – la qualità principale richiesta dalle società contemporanee. È la stessa distanza che si riscontra tra la comunità Amish e i turisti venuti a fotografarli, tra Allie Fox e gli abitanti della cittadina amorfa dove si reca a fare compere, tra gli ambientalisti verdi e i residenti dei quartieri poveri newyorkesi. Il centro commerciale, nella sua evidenza di “non luogo” o di luogo della banalità consumistica e materialistica, rappresenta il migliore contrasto possibile con l’intimità e la preoccupazione per la sorte degli esseri umani espresse da Max e Carla. Qui, durante la merenda, Max torna per la seconda volta a gustare la fragola, simbolo di una vita di nuovo, per lui, ricca di passione e colore (fot. 145, lo stesso colore rosso dei pomodorini e dei pesci portati da Georges nell’appartamento di Brontë in Green Card). Fragole erano già state consumate da Max durante il pranzo nel diner con la sua amica, e una fragola sta per inghiottire nel finale quando rischia di soffocare (come a dire: apprendista stregone, Max ha esagerato recitando la parte del dispensatore di vita e quasi soccombe alla sua stessa hybris). Nell’orgia di simbologie che spesso affolla i film di Peter Weir, qui la fa davvero da padrone il rosso, saporito frutto.

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Non compare solo il centro commerciale tra i luoghi del film. Il paesaggio americano come stato d’animo ritorna in altri momenti, e accompagna l’evoluzione del personaggio principale. Dopo avere lasciato il motel in cui ha passato la notte dopo lo schianto aereo, Max si ritrova in mezzo a un paesaggio desertico, appoggiato alla ruota della sua berlina di colore scuro (fot. 146). Un paesaggio archetipico, che noi viviamo attraverso lo sguardo di Max: sta evidentemente riflettendo sulla propria nuova condizione di superstite. Il paesaggio, accarezzato da una panoramica sull’azzurro lontano delle montagne, agisce qui da balsamo sull’uomo. Segue immediatamente dopo un momento di ebbrezza vitalistica che rivela il tipo di atteggiamento che Max ha deciso di assumere d’ora in avanti. L’auto corre veloce verso Los Angeles lasciando la cittadina californiana di Bakersfield (il luogo del “nulla” americano, se mai ve n’è uno, con il suo agglomerato di insipidi suburbs e l’indistinto nastro di motel, stazioni di servizio, diner, fast food, centri commerciali – l’epitome della “non vita” cloroformizzata e plastificata da cui Max e gli altri protagonisti di Peter Weir intendono fuggire). L’auto in corsa percorre solitaria una strada diritta verso l’orizzonte, inquadrata dall’alto: figura canonica dell’immaginario americano. Max accende la radio mettendo musica, alza il volume, ride tra sé, mette la testa fuori dal finestrino e si gode l’aria in faccia (fot. 147): è fatta, ha deciso che l’incidente aereo e il fatto di essere sopravvissuto e di essere stato “importante” per gli altri passeggeri gli concedono di cambiare vita (come Allie Fox in Mosquito Coast). È ciò che accade regolarmente nei film di Weir: succede qualcosa (una guerra, una catastrofe, un fatto di sangue, l’incontro con un individuo carismatico o “diverso” – comunque qualcosa di “perturbante”), ed ecco che il protagonista accede a una dimensione di cambiamento, a

una fase dell’esistenza più piena, vitale, anche se rischiosa. Max ha deciso di sfruttare una giravolta del “caso” per dare una svolta alla propria vita. Ciò comporta un’iniziale fase di isolamento, e la rottura con le persone che fino a quel momento erano tutto il suo mondo. Il problema è che, come sempre, l’audacia può travalicare i limiti e ritorcersi contro l’“apprendista stregone” che ha osato inserire il “perturbante” nel proprio schema mentale. Max si estranea non solo dalla famiglia, decidendo che moglie e figlio non devono condividere per nulla ciò che gli sta capitando, ma anche da una comunità che non ha più niente da dirgli. Una comunità, quella descritta nel film, fatta di avvocati intriganti, mariti gretti, terapeuti che vogliono guarire la gente a pezzi solo per ributtarla subito nella mischia di tutti i giorni. Max si ritrova nuovamente solo nel paesaggio, inquadrato ancora dall’alto da una macchina da presa che gioca a dio bizzoso o entomologo, quando, dopo avere attraversato la strada rischiando la vita («Sei salva perché sei già morta», dirà a Carla), si sdraia sul parapetto vicino all’oceano. È un momento simbolico nel percorso di Max: da un lato, la strada trafficata della pazzia quotidiana di una civiltà capitalista che va di fretta e consuma tutto e tutti; dall’altro, la serenità e la profondità anche psicologica della massa acquatica, un possibile ritorno a un sé più autentico (fot. 148). Nella scena immediatamente successiva, Max è ripreso mentre cammina da solo in mezzo alla corsia completamente deserta della strada – una scena quasi fantascientifica nella sua evidente implausibilità (fot. 149). Max cammina tra i palazzi che svettano sullo sfondo, e tira un respiro profondo scrutando la città improvvisamente lontana. L’alienazione del personaggio dalla brutalità e dal disinteresse della società moderna è resa, una volta di più, con immagini di icastica efficacia, inserendo la figura umana all’interno di un paesaggio fortemente simbolico.

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Max non può, però, continuare a rimanere isolato: deve trovare, insieme, un nuovo scopo personale, e la possibilità di una comunione di spirito. L’occasione gli è offerta dalla conoscenza di Carla, un’altra superstite. Il fatto di essere sopravvissuta allo schianto aereo la mette, all’istante, in sintonia spirituale con il “nuovo” Max: l’intimità tra i due è immediata, quasi fisica. Chi non si trova nella stessa condizione non può comprendere. La diversità diventa un valore in sé. Il film segue molto da vicino la progressiva confidenza tra i due, il loro inesorabile isolamento dalla grettezza e dal materialismo degli “altri”. Carla si allontana dal marito esattamente come Max si allontana dalla moglie. Il problema però è che, mentre il figlio di Carla è morto, Max non ha alcun lutto da elaborare. Carla ha perso qualcuno di caro nello schianto, Max non si trova sulla stessa lunghezza d’onda. Questa differenza tra i due, alla fine, porta alla brusca interruzione del rapporto; non prima, però, che Max abbia assolto alla propria funzione salvifica inscenando una reiterazione della tragedia. Un brano di dialogo è particolarmente significativo per spiegare questa differenza di condizione: Max dice a Carla che lei è salva perché tanto loro due sono già morti. Lei ribatte: «Mio figlio è morto!». La commozione e la complicità tra i due, soprattutto nelle due scene in automobile, non possono impedire che la relazione finisca. È la donna a imporre lo stop, dopo che è riuscita a venire a capo del proprio complesso di colpa. Persa Carla, Max è preda della disperazione: ha perso, insieme, lo scopo (la salvezza di lei) e la sola persona con cui aveva una vera intimità. In fondo, appunto, come dice Laura alla rivale, non si tratta di un angelo ma di un uomo come tutti gli altri. Non è “diverso” come pretende di essere, anche se riteneva di essere diventato “eccezionale, unico”. Dunque, la moglie che ha finora trascurato e tenuto lontana viene di nuovo buona. Laura aveva forse già salvato Max nella scena sul terrazzo, quando il marito, reduce dalla penosa discussione con

la vedova del suo socio a proposito del risarcimento, si arrampica sul cornicione e sembra sul punto di buttarsi di sotto. Nella sequenza finale, Laura, con la respirazione bocca a bocca, salva Max che sta soffocando; in montaggio alternato a questa scena, ci viene riproposto Max che, a sua volta, porta in salvo i passeggeri sull’aereo. Una doppia salvezza incrociata che si annulla e riporta le cose com’erano prima del crash: Max è inquadrato di spalle nella carlinga azzurrina, e improvvisamente torna in vita – quella di prima – tra le braccia della moglie. Per l’ultima volta, la macchina da presa si solleva e inquadra la coppia avvinghiata a terra. Il salvatore è stato salvato (fot. 150).

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Il sipario strappato. The Truman Show Primo piano di Christof, primo piano di Truman Burbank che compare nello schermo della Tv mentre passano i titoli di testa della serie The Truman Show, ideata proprio da Christof e di cui Truman è l’ignaro protagonista. Quest’ultimo sta concedendo un’intervista a una giornalista. Nuovo primo piano di Truman, davanti allo specchio, che parla a se stesso. Compare la scritta: giorno 10.909. Truman esce di casa e saluta una famiglia di colore: «Nel caso non vi rivedessi, buon pomeriggio, buona sera e buona notte!». Al lavoro, seduto alla scrivania di assicuratore, chiede il numero di un abbonato delle Figi. Un collega gli mostra una copia di «The Island Times» con la notizia che Seahaven è stata votata «il miglior posto sulla terra». Chiede sottovoce, al telefono, di Laureen o di Sylvia, ma non le trova. All’Harbor Island Ferry Terminal, poi, cerca di oltrepassare il pontile e salire su una barca, ma ha paura dell’acqua e torna indietro. Truman è in giardino, arriva la moglie Meryl in bicicletta, che gli mostra uno sbucciatore che le hanno regalato al supermarket. Truman si trova a giocare a golf con il migliore amico Marlon. A lui confida che sta pensando di lasciare perdere tutto: casa, lavoro, isola. Una luna piena illumina l’oceano e la cittadina di Seahaven. Davanti alle onde, Truman siede da solo sulla spiaggia. Si ricorda di lui bambino insieme al padre e rivede la scena in cui il padre cadde dal barchino con il

mare in tempesta e annegò. Da questo episodio è nato il trauma che gli fa avere il terrore dell’acqua. Truman rincasa e dice anche alla moglie di volere andare via da quel posto. Sulla strada per il lavoro, Truman incrocia un tipo anziano male in arnese che viene subito portato via da due persone in modo brusco. Lo riconosce come suo padre, cerca di inseguirlo a piedi ma viene intercettato da una corsa podistica. Il padre viene caricato su un autobus e Truman lo perde di vista. Truman parla con la madre, che gli dice che anche a lei spesso capita di vedere il marito in altre persone. Truman estrae da un baule un golfino rosso. Inquadrature di due commesse che guardano lo show in Tv: «Lei l’hanno fatta fuori, ma il ricordo è troppo forte». L’immagine sfuma sul passato, lui musicista in divisa e Laureen seduta vicino a un albero che lo guarda. Gli cade addosso la futura moglie Meryl, che si presenta. Laureen viene portata via dalla sala a forza. Mentre è in biblioteca a studiare, Truman vede al di là di uno scaffale di libri il braccio di una donna, con un braccialetto turchese. Sbircia e vede Laureen con il golfino rosso che sta studiando giapponese. I due si presentano. È un amore non autorizzato dallo show, infatti lei gli dice che non le è permesso parlare con lui. I due escono sotto la luna, corrono fuori dalla cittadina, vanno sulla spiaggia. Si baciano a lungo, ma arriva un’auto a portare via la ragazza. È il suo padre fasullo. Lei gli dice che tutti stanno fingendo, e afferma di chiamarsi Sylvia, non Laureen. Mentre porta via la “figlia”, il “padre” dice che si trasferiscono alle Figi. A Truman rimane solo il golfino rosso. Nuova inquadratura delle due commesse di prima, che commentano la scena. In auto, la radio ha un guasto, e Truman sente così delle comunicazioni di servizio che danno indicazioni su dove si trova l’uomo in ogni momento. Truman si rende conto che la radio commenta ciò che sta facendo in ogni preciso attimo. Inizia a capire che è tutto un trucco. Torna la moglie vestita da infermiera (quello è il suo lavoro). Dice che deve uscire, c’è un intervento improvviso. Truman inforca la bici e la segue fino all’ospedale. Cercano invano di fermarlo. In sala operatoria tutto sembra pronto. Truman si reca in un’agenzia di viaggi, che espone un poster con l’immagine di un aereo colpito da un fulmine e la scritta: «Potrebbe capitare a te». Vuole prenotare un viaggio per le Figi, gli dicono che c’è posto solo dopo un mese. Truman chiede allora un biglietto di autobus per Chicago. A bordo stanno imbarazzate comparse silenziose, l’autista prova a partire ma c’è un guasto; Truman rimane a bordo da solo. La moglie ha invitato degli amici per un barbecue. Truman insiste con lei per il viaggio alle Figi, propone di partire subito. Avvia la sua Ford, cerca di lasciare Seahaven, ma trova un blocco stradale: passano il ponte, sono liberi, ma poco più avanti trova un nuovo blocco. Gli viene detto che c’è stata una perdita nella centrale nucleare, che la zona deve essere evacuata. Uno dei poliziotti fa però un errore, lo chiama per nome. Allora Truman, angosciato, scende dall’auto e scappa a piedi. Di nuovo a casa, la moglie ringrazia i poliziotti, Truman è a tavola, sconsolato. Ha capito che anche la moglie è coinvolta. Nella cabina di regia dello show, dove Christof sta suggerendo le battute giuste agli attori, si organizza, per correre ai ripari, l’incontro di Truman con il padre. Alla fine, scroscianti applausi in regia, commozione nelle case davanti alla Tv. Primo piano di Laureen sul divano davanti alla televisione mentre guarda lo show, zoom su di lei mentre passa la pubblicità del Mococoa. Nel programma, intanto, una voce rievoca tutta la storia di Truman, dalla nascita fino a oggi. Vengono mostrati vari clip con i momenti caldi della storia dello show. L’anchorman intervista Christof a proposito dei tentativi di inserirsi dall’esterno nello show. A mano a mano che Truman cresceva, occorreva inventare modi per trattenerlo sull’isola. Così è nata l’idea dell’annegamento del padre: Truman è terrorizzato dall’acqua. Christof spiega che Truman è stato legalmente adottato da un network. Altra domanda: perché non ha mai scoperto nulla? Risposta: noi accettiamo la realtà del mondo così come si presenta. Telefona Laureen, dà del bugiardo e del manipolatore a Christof. Ma per quest’ultimo, «Seahaven è come il mondo dovrebbe essere». Christof commenta la fine della crisi e i previsti sviluppi dello show: un nuovo legame sentimentale, un concepimento in diretta televisiva. Lo show è definito «una pietra miliare nella storia del piccolo schermo». Christof guarda nel monitor nello studio un enorme ingrandimento verde di Truman che dorme, lo accarezza. Inquadratura di Seahaven all’alba. Truman esce come se nulla fosse cambiato, tutto si replica come nella sequenza iniziale. In ufficio gli presentano la collega Vivian, una bella ragazza

destinata a essere il suo nuovo legame sentimentale. Il tempo passa e Christof è nervoso, chiede di verificare il set. Fa telefonare, ma Truman non risponde. Allora viene inviato Marlon che, sceso in cantina, scopre che sotto la coperta c’è un pupazzo e un registratore che simula il respiro. Dietro la grande carta geografica delle Figi è celata una botola attraverso la quale Truman è fuggito. Dopo 10913 giorni la trasmissione, per la prima volta, è sospesa. Si cerca dovunque, vengono organizzate battute notturne con le torce, si usano dei cani. Il set viene addirittura illuminato prima dell’ora normale, viene fatto sorgere il “sole”. Truman è su una barchetta a vela con la prua a forma di aquila. La trasmissione viene ripristinata, la gente è eccitata per il tentativo di fuga del protagonista. Christof decide di usare un programma meteorologico: scatena una tempesta. La barca di Truman minaccia di rovesciarsi, lui finisce in acqua, come il padre, ma poi riesce a tornare sulla barca, gli spettatori fanno il tifo. Christof fa aumentare il vento, e la barca si rovescia. Truman però si è legato. Arriva una grande onda, la barca affonda. Fine della tempesta, cielo sereno. Truman si tira su, è ancora vivo, continua la fuga. Mentre si gode il sole in faccia, si sente un botto: la barca si è scontrata con un fondale di cartapesta colorato di azzurro. Truman è arrivato alla fine del suo “mondo”. Tocca con la mano il muro di cartongesso dipinto con le immagini del cielo e delle nuvole. Truman sfonda con il gomito il perimetro, poi piange. Passeggia sull’acqua fino a una scala con la scritta Exit, apre la porta, fa per uscire dal suo paradiso. Interviene Christof: «Sono il creatore di uno show tv che dà speranza, gioia e esalta milioni di persone». «E io?» «Tu sei la star». «Non c’era niente di vero» «Tu eri vero. Là fuori non troverai più verità di quanta ce n’è nel mondo che ho creato per te». Truman è in piedi davanti all’uscita, è incerto. Davanti alla Tv, Laureen sta pregando che Truman se ne vada. Prosegue Christof: «Hai paura, non puoi andartene. Ti ho seguito per tutta la vita, quando hai perso il primo dentino. Il tuo posto è qui con me. Parlami, sei in tv. Devi parlare». Tutto il mondo sta guardando. Truman si gira in primo piano verso la telecamera e ripete la sua formula arcinota: «Caso mai non vi rivedessi…», saluta, fa un inchino. Laureen ride. Truman apre le braccia ed esce dalla porta. Laureen corre giù per le scale, felice. Tutti applaudono e ridono davanti alla Tv. Primo piano di Christof distrutto. La trasmissione viene interrotta. Primo piano di due tecnici del programma: «Che danno adesso, dov’è la guida Tv?».

La grande onda che, verso la fine del film, sommerge la fragile barchetta di Truman (fot. 151) riecheggia quella che, nell’ultima inquadratura di L’ultima onda, sembra travolgere David Burton. Il mondo alla Norman Rockwell di Truman si è improvvisamente trasformato in un dipinto di mare di Winslow Homer, con la scialuppa in balia delle procelle. Se l’immagine è simile, il significato però è diverso. Si tratta sempre dell’antinomia, cara a Weir, tra natura e civiltà; ma, in questo caso, la natura, ironicamente, è stata contraffatta. L’onda, come tutto il resto, è creata dall’uomo. Laddove, in L’ultima onda, l’acqua sembra distruggere, in nome anche del popolo degli aborigeni nativi, una civiltà bianca fraudolentemente costituitasi sulla soppressione della “legge naturale”, in The Truman Show essa può essere agitata o calmata con un semplice comando della regia. Partito da posizioni radicali e ribellistiche, il regista sembra essere approdato a una triste consapevolezza che, ormai, i giochi sono fatti: la natura è stata totalmente addomesticata. Si può, naturalmente, considerare il film soprattutto come una violenta critica alla televisione e alla riduzione della realtà a semplice simulacro, per dirla con Jean Baudrillard. È indubbio che, nel processo di falsificazione del reale, l’uso spregiudicato della televisione sia importante. Più interessante, però, è collegare questo film ai temi solitamente cari al regista. Il primo è, appunto, il sorpasso della civiltà sulla natura, ormai relegata a simulacro ingannevole e cartolinesco. La natura a Seahaven è infatti ridotta allo stereotipo più mieloso e “romantico”: tramonti languidi sull’oceano (fot. 152), placide baie (fot. 153), angoli idillici (fot. 154). Una natura “aggiustata” a misura, insieme, delle esigenze televisive e di una comunità fintamente pacificata e conviviale. I raggi del sole, la pioggia, la tempesta sono creati artificialmente. Il cielo azzurro e le nuvole bianche sono vernice su cartongesso. La luna si alza a comando, è sempre piena e rotonda (fot. 155), e soprattutto – inganno più crudele – cela, dietro la sua immagine romantica, la cabina di regia di Christof. La

luna, che nella simbologia è vista prevalentemente come figura “femminile”, nel film contiene, infatti, il potere “maschile” del controllo dell’universo in cui è costretto a vivere Truman. A sua volta, Seahaven estremizza il mito, molto americano, della smalltown, che Hollywood ha del resto sempre accarezzato. Il genere smalltown movie si riallaccia a una più ampia concezione storica e culturale: l’America, fin dall’insediamento dei primi coloni inglesi nel New England, ha tentato di rivitalizzare il sogno, perduto in patria, di creare un villaggio ideale all’interno della wilderness. Le prime città furono costruite da una potente minoranza puritana, spinta dal desiderio di realizzare ideali utopistici di comunità: il progetto era di creare una società tenuta assieme dai legami dell’amore cristiano. Al cuore della smalltown c’era infatti la chiesa. Una certa forma di egualitarismo presiedeva la cittadina, nell’intento di eliminare gli eccessi di ricchezza e di povertà; semplicità e decoro erano i valori centrali. Naturalmente, è l’immagine dell’ideale, piuttosto che la sua realizzazione concreta, che assicura il posto centrale che la smalltown mantiene nella cultura americana. L’ideale ha infatti inanellato infinite imperfezioni e compromessi, tanto che, adesso, non esiste più nella realtà – se mai è esistito. Esso continua, però, a conservare un impatto ideologico, soprattutto nel suo significato profondo di promozione dei valori comunitari e di soppressione dell’individualismo, visto come minaccia. La storia americana si è peraltro incaricata di mettere al centro, come suo motore di sviluppo, proprio l’iniziativa del singolo. Dunque, l’idea di smalltown sopravvive solo come nostalgia di un ideale mai realizzato.

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Peter Weir si è spesso mostrato interessato a questo aspetto: è evidente, infatti, la sua passione per il tema della comunità, che lui vede piuttosto come una minaccia per la libertà dell’individuo. Si pensi alla tipologia da smalltown che esprimono la cittadina australiana di Le macchine che distrussero Parigi, il villaggio nel bush di Anni spezzati, la comunità degli Amish di Witness. Così come assolutamente nostalgico dell’ideologia da smalltown è Allie Fox in Mosquito Coast: il suo sogno utopico di creare una città nella foresta vergine dell’Honduras si ispira ai valori di uguaglianza e di comunità tipici della smalltown americana (in opposizione allo sfascio morale e materiale rappresentato, per lui, dalla cittadina “reale” di Hatfield). Grazie a The Truman Show, Weir può però spingere la sua critica della comunità al suo limite estremo, paradossale. Infatti, proprio la più ideale delle comunità, creata grazie alla congiura della tecnologia mediatica più raffinata e delle migliori intenzioni ideologiche (Christof ha le idee chiare in proposito: il mondo “là fuori” è malato, Seahaven è “come il mondo dovrebbe essere”), ha prodotto un individuo, Truman, infelice e desideroso soltanto di fuggire da quel “paradiso”. Christof è talmente consapevole della propria operazione teorica da cercare di inculcare in Truman i valori idealizzati della smalltown anche grazie a un serial che ne esalta proprio la bellezza. La sitcom sulla famiglia Abbott che Truman si sorbisce giornalmente esalta proprio le piccole città che non devono essere abbandonate, pena l’esclusione definitiva dalla comunità. L’unico libro che vediamo nel film e che viene letto da Meryl si intitola Dream Machine, la macchina del sogno. Tutto congiura, nel film, per convincere Truman di vivere nel migliore dei mondi possibili: pensare di andarsene diventerebbe pura follia. Naturalmente, il tutto è organizzato per l’audience televisiva e per gli sponsor, ma c’è, dietro, un’ideologia cui Christof crede davvero: non mente, quando dice di aver progettato un mondo in cui Truman può essere felice. Il fatto è che la “felicità”, per Truman, finisce per essere sinonimo di conformismo, ripetitività, abbandono di ogni velleità personale, mancanza di vera passione. Una vita al cloroformio, passiva e banale esattamente come il paesaggio all’interno della quale essa si svolge. Un paesaggio sia fisico che umano, beninteso. Il principale nemico a Seahaven è infatti la “diversità”, in tutte le sue forme. Weir ha modo di dare sfogo alla propria avversione per un concetto di comunità chiuso all’interno e all’esterno, costruendo una sorta di geografia sociale e fisica che epitomizza le sue preoccupazioni. L’immagine-simbolo di Seahaven e della sua impossibile utopia potrebbe essere quella del tratto di strada che si interrompe nel nulla dove

Truman e Marlon si ritrovano a giocare a golf – meglio, a lanciare palline da golf casualmente: non si sa dove (fot. 156). Seahaven, infatti, è una cittadina che non porta da nessuna parte, che è impossibile lasciare. La strada interrotta fa il paio con il grande fondale di cartapesta dipinto d’azzurro che racchiude un oceano che si vorrebbe enorme, e che invece è poco più di una pozzanghera (fot. 157). Un gigantesco trompe-l’œil che riflette l’illusione che è la stessa Seahaven, dove tutto è finto.

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Truman vive con la moglie nel più tipico dei suburbs americani, l’altro archetipo della vita a stelle e strisce. Il sobborgo, che allinea casette bianche, vialetti alberati, aiuole tutte uguali. Sembra di essere in un dipinto di Norman Rockwell, con la sua America aggraziata e infiocchettata pronta e incarnare il simbolo di una perfetta abitabilità (fot. 158). Fallite le utopie di Henry David Thoreau e Frank LloydWright, in realtà l’essenza dell’abitare americano si fonda ormai sul principio della chiusura architettonica, non dell’apertura. L’alienazione dovuta al fatto di vivere in una scatola, non compensata dalla disponibilità dell’impianto elettrico, dell’acqua corrente e di ogni altro comfort moderno, è per esempio una delle fonti principali del cinema horror. The Truman Show avrebbe potuto facilmente virare verso l’horror, se Weir avesse voluto. La wilderness è stata addomesticata, la prateria è stata edificata, e l’atomizzazione sociale e abitativa si è stratificata sul “culto” della casa come cellula autosufficiente. Seahaven è l’iperbole dell’America contemporanea: una società confortevole e iperprotettiva – la società più evoluta e più ricca del mondo, dopotutto –, uno scenario di abitazioni sepolcrali e sobborghi lindi dalla serenità truccata, con grandi vetrate e piante verdi dappertutto che ricordano un funerale. Le villette tutte uguali del film portano infatti alla mente un cimitero. Seahaven è una città funeraria, una necropoli dell’individuo e della passione individuale; rappresenta una delle raffigurazioni cinematografiche più radicali dello stato vegetativo a cui è ridotta la società occidentale affluente, che ha risolto ormai ogni bisogno materiale ma che ha smarrito l’idealità, il sentimento e l’emozione: in una parola, l’anima. L’unico abitante autentico (nel senso che non sa che si tratta di un trucco) di questo “paradiso” è proprio Truman; ma, paradossalmente, è anche l’unico essere vitale. Infatti, tutti gli altri abitanti della cittadina, comparse e attori, sembrano trovarsi a proprio completo agio in una comunità che, in fondo, non è molto dissimile da quella reale in cui risiedono quando non lavorano: è solo più “realizzata”. In altre parole, il grande set che è Seahaven (che si può vedere dallo spazio) riproduce quel set ben più ampio che è diventato il mondo “là fuori”. Truman è l’unico ribelle a questa utopia negativa: Christof deve inventarsene continuamente di nuove per trattenerlo.

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L’idea del trauma da annegamento è geniale, perché utilizza proprio quell’elemento primordiale – l’acqua, l’oceano – che dovrebbe comunicare il massimo della libertà. Simbolo fondamentale di ogni energia inconscia, fonte di vita, l’acqua diviene pericolosa quando diventa elemento di dissoluzione e annegamento. L’acqua che resta al suo posto (lo stagno o il fiume, ma anche il mare in calma) è un simbolo propizio, ma quando si muta in tempesta diventa messaggero di morte. Traumatizzato dalla finta morte del “padre”, Truman non riesce più ad attraversare l’acqua, e dunque è contenuto all’interno del set. È solo quando riesce a vincere questa paura che può lasciare il suo mondo, sfondando il fondale di cartapesta. Non prima che Christof sia quasi arrivato a farlo annegare scatenando l’ennesimo fenomeno meteorologico artificiale: un maremoto. Perché la natura è stata addomesticata anche nelle sue manifestazioni stagionali e meteorologiche. In uno dei passaggi più brillanti del film, per rintracciare il fuggitivo Truman si arriva addirittura ad anticipare l’arrivo del giorno: il sole viene fatto salire in cielo in anticipo sull’orario. Truman, ennesima incarnazione di quell’“uomo naturale” che appare in molti dei film di Weir, può solo opporre il proprio istinto animale alla perfetta programmazione ordita da Christof. È aiutato da qualche “buco” di regia: ogni tanto qualcosa si inceppa nel perfetto meccanismo di occultamento: uno strano oggetto precipita dal cielo, uno scroscio di pioggia cade solo su Truman, dalla radio a bordo dell’auto escono comunicazioni di servizio sui suoi spostamenti. Gradualmente, Truman si rende conto della grande manipolazione che lo avvolge. Ma è soprattutto l’istinto a salvarlo: per esempio, la sincera attrazione che prova improvvisamente per una donna non “prevista” dalla regia. Il rosso del golfino di Laureen assume dunque, simbolicamente, la stessa funzione di irruzione di un elemento reale e vitale che avevano il rosso dei pomodori e dei pesci in Green Card e il rosso delle fragole in Fearless – il rosso della moglie è invece stemperato su un vestitino bianco che accentua la sua posa languidamente artefatta mentre, sulle scale della cantina, comunica a Truman che quella sera «ha preparato i maccheroni» (fot. 159). Attorno a Truman è stato organizzato un mondo amichevole e su misura che, appunto, soddisfa ogni suo bisogno materiale, dai giornali ai maccheroni, ma lo rinsecchisce spiritualmente. Truman si sente monco, privo di una dimensione. Gli è preclusa anche la fuga nell’esotismo, dato che non può lasciare Seahaven e all’agenzia turistica il volo per le Figi è sempre pieno (fot. 160). Gli è precluso il vero amore, sostituito da una vita matrimoniale piatta e ripetitiva. Paradossalmente, circondato da una fauna umana così

amichevole con lui, Truman si è venuto a sentire sempre più solo, isolato. Lo dimostra, per esempio, la sequenza in cui siede da solo sulla spiaggia, davanti alle onde del “mare” (fot. 161). È il destino, peraltro, che attende l’individuo anche nella “nostra” società: sempre più soli, sempre più obbligati a risolvere il nostro destino con scelte puramente individuali.

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Il personaggio che più assomiglia a Truman è l’Allie Fox di Mosquito Coast: troviamo lo stesso conflitto tra istinto e razionalità, e soprattutto l’insoddisfazione per un modello di società fondato sul materialismo e la spinta irresistibile a “partire”, andare a vedere un altro pezzo di mondo. Il grande avversario, quasi invincibile, dell’uomo naturale Truman è il demiurgo Christof (fot. 162), una sorta di redivivo Rothwang di Metropolis. Christof si è dimostrato uno scienziato in grado di creare dal nulla un incubo di intrappolamento degno di Franz Kafka o, appunto, di Fritz Lang. Tutto per un unico attore, la star, come la chiama lui. Se Truman è l’uomo naturale, Christof è l’uomo tecnologico, che usa i dispositivi più sofisticati per manipolare la realtà e trasformarla in fiction. Crea un mondo senza classi né conflitti, apparentemente pacificato e conviviale. Un mondo alla Norman Rockwell. Ma non è in grado di creare l’individuo felice. È questo il suo smacco, il senso dell’inquadratura finale sul suo volto distrutto. Truman che se ne va per la porticina reale che interrompe bruscamente il set di cartapesta (fot. 163) e immette in quello che, a questo punto, sembra un aldilà che non è più il “nostro” mondo, rappresenta per il suo “creatore” un vero e proprio tradimento. L’uomo ha abbandonato il suo Dio per un altrove senza religioni di alcun genere. Un Dio che aveva peraltro un’ambizione quasi marxista, in direzione di una società di uguali, senza classi. Un’ambizione che, proprio come l’utopia marxista, finisce per sacrificare l’individuo alla collettività.

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Christof è presentato come un dio (il nome stesso lo attesta), ma anche come un artista: all’inizio, ci viene proposto con un basco alla Rembrandt. Dio e artista, dunque creatore. Ma anche padre putativo di Truman. Christof si sente il papà vero di Truman, e lo dice pure; certo, i “diritti” di Truman appartengono al network che lo ha “adottato”, ma è stato Christof a farlo crescere. Lo vediamo, per due volte, accarezzare il volto di Truman che appare ingigantito sul monitor (fot. 164). Il “padre” dello show, quello che prima è annegato e poi ricompare, agisce un po’ come tramite e strumento di Christof. Il capolavoro è quello di sfruttare la sua riapparizione per mettere un freno momentaneo all’irrequietudine crescente del giovane. Il tema della famiglia, caro a Weir, è qui nuovamente adombrato: alla famiglia taroccata dello show, dove le mogli cercano solo di essere “professionali” e i figli vengono rimandati alle prossime puntate per ingolosire gli spettatori, si contrappone dunque quella, paradossalmente assai più autentica, formata dal creatore e dalla sua creatura. Il figlio trova infine la forza di ribellarsi al padre, di ucciderlo metaforicamente. Non prima di averlo ingannato, in un bel contrappasso, con una messinscena non indegna dei suoi trompe-l’œil. Truman, infatti, per poter fuggire al controllo delle telecamere, allestisce nella sua cantina un vero e proprio set: mette un pupazzo sotto la coperta per simulare se stesso addormentato, accende un registratore per fingere il proprio respiro, e scava una botola dietro una grande carta geografica delle isole Figi. Insomma, il grande ingannatore è stato gabbato con le sue stesse armi: la finzione. Quando, sulla barca, Truman impugna saldamente la barra del timone (e del suo destino, finalmente), sembra sfidare direttamente il suo creatore. Christof, dunque, è anche l’apprendista stregone di turno in un film di Weir: colui che credeva di tenere sotto controllo le forze che aveva scatenato – in questo caso una vita umana, con la sua complessità e fragilità – e che ha finito per esserne distrutto. Il fatto è che l’individuo umano, ci dice Weir, è una cosa assai più grande di ogni piano o schema che pretenda di ingabbiarlo, di ogni movimento di dolly che intenda circoscriverlo, di ogni copione che pretenda di dettarne la storia.

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Il fasmide e il fantasma. Master & Commander - Sfida ai confini del mare Prima dei titoli, una scritta: «Aprile 1805. Napoleone è padrone dell’Europa. Rimane solo la flotta inglese a contrastarlo. Gli oceani sono il campo di battaglia». Sui titoli, l’inquadratura dall’alto dell’oceano e di una nave. Nuova scritta: «HMS Surprise, 28 cannoni, 197 anime, costa nord del Brasile. Ordini dell’ammiraglio al capitano J. Aubrey. Intercettare la nave corsara francese Acheron in rotta per il Pacifico con l’intento di portare la guerra in quelle acque. Affondarla, bruciarla o tenerla come bottino». All’alba, la nave si muove in direzione di un banco di nebbia. Viene richiesto uno scandaglio. L’allievo ufficiale di guardia, Hollom, scruta nella nebbia con il binocolo: gli pare di vedere qualcosa, ma non è sicuro. Primo piano del capitano Jack Aubrey seguito dalla macchina da presa mentre viene aiutato a vestirsi per poi dirigersi sulla tolda. Colpi di cannone si abbattono sulla Surprise. È il caos. Finalmente si vede la nave nemica. Aubrey dice al giovanissimo Boyle di esporre la bandiera da combattimento. Campo totale delle due navi affiancate, che si colpiscono a vicenda con i cannoni. Sulla Surprise gli effetti sono devastanti: morti, feriti, crollo dell’alberatura. Anche Aubrey è ferito leggermente, ma reagisce con ferocia. Sotto coperta si curano i feriti. La nave non si muove più. Si cerca di turare le falle, entra molta acqua. Aubrey ordina di portarsi in mezzo alla nebbia fitta per salvarsi: i marinai nelle scialuppe remano e trascinano la Surprise nel banco di nebbia. Scende un silenzio irreale. La Surprise scivola senza fare rumore. Aubrey si aggira per la nave, chiede notizie dei feriti, tra cui il giovanissimo Lord Blakeney, del cui padre è amico. Aubrey si fa curare la ferita alla fronte e riepiloga al dottor Stephen Maturin ciò che è successo, lodando l’abilità del nemico. Primo piano delle mappe della costa del Brasile. Aubrey studia la rotta, gli scogli nascosti, i fondali pericolosi. Durante la cena, gli ufficiali commentano l’accaduto e mostrano di temere la superiorità dell’Acheron. Campo totale della nave ferma, si sentono i colpi dei martelli per le riparazioni. A Blakeney viene amputato un braccio. Il dottore dà una dimostrazione chirurgica alla ciurma, facendo un’operazione a cranio aperto a un anziano marinaio. Aubrey visita Blakeney, gli dà un libro sulle vittorie di Lord Nelson. Il dottore e Aubrey suonano insieme la viola e il violino in una specie di minuetto da camera. Aubrey scrive poi una lettera alla moglie. Due giovani marinai mostrano al capitano un modellino in legno dell’Acheron, il “fantasma”. Aubrey mostra il modellino agli ufficiali. Ne è affascinato. Alcune canoe indigene accostano la Surprise, portando pappagalli, frutta, pollame, scimmie. Si scambiano merci. Si apprende che il nemico è diretto a Sud, ha tre settimane di vantaggio. Al pranzo degli ufficiali, tra l’allegria generale, Aubrey brinda alle mogli e alle amanti; poi racconta di quando servì ad Abukir con Nelson. Brindano a Nelson, poi Aubrey mostra al dottore due vermi e gli chiede di sceglierne uno. Fa una battuta: bisogna scegliere il minore tra due ani-mali. La sera, i marinai suonano e ballano sotto l’occhio degli ufficiali. Viene avvistata la Acheron, ancora sopravento. La Surprise deve scappare alla svelta. «È la seconda volta che me la fa – commenta Aubrey – non ci sarà la terza». Un vecchio marinaio parla della sfortuna che incombe, suggestionando la ciurma. Aubrey fa scendere uno degli ufficiali più giovani su una specie di zattera che sta sulla scia della nave con una luce accesa. Poi vengono spente le luci a bordo della Surprise: in questo modo l’Acheron segue la zattera. Aubrey con il vento a favore inquadra con il binocolo il nemico. Si scatena una tempesta: si manovra per proteggere la nave dalle onde. Il nemico è molto più vicino ora, ma le

onde sono altissime. La direzione è quella di Capo Horn. Aubrey non molla l’inseguimento, anche se la situazione è critica. Cade un albero con un uomo sopra. Vengono gettati dei barili fuori bordo, ma l’albero trattiene la nave e rischia di trascinarla a fondo. Bisogna decidere di abbandonare il disperso: Aubrey stesso taglia la corda e lo condanna. Per un po’, vediamo il marinaio nuotare verso la nave, poi l’uomo scompare alla vista. A bordo si sparge la voce che sia colpa del Giona, il malocchio. Al pranzo degli ufficiali, si brinda al passaggio del Capo. Ora si va verso Nord, verso il caldo e il sole. Primo piano di una mappa delle Galapagos, Las Encantadas. Il dottore è eccitato: «Sono piene di bestie strane e meravigliose». Potrebbe essere il primo naturalista a metterci piede. Aubrey gli promette che, se ci sono cibo e acqua, si fermeranno lì parecchi giorni. Campo totale di un’isola dell’arcipelago: un deserto brullo, specchi d’acqua, colline color turchese. Vengono issati a bordo dei naufraghi dell’Albatros. Uno di loro racconta dell’attacco subito da un «tre alberi nero come la pece». Aubrey chiede la rotta, e capisce che l’Acheron sta seguendo altre baleniere per fare bottino. Dà così l’ordine di salpare immediatamente. Il dottore protesta, propone di attraversare l’isola a piedi mentre la nave la circumnaviga, ma Aubrey non ne vuole sapere, non ha tempo per le “sciocche manie” del dottore; il quale lo accusa di pensare solo a distruggere. Bonaccia totale, nave immobile, marinai sudati a torso nudo, caldo torrido. La ciurma rumoreggia. I marinai parlano di colui che porta sfortuna, e cioè Hollom, l’allievo ufficiale che ha avuto paura di dare l’allarme quando comparve per la prima volta l’Acheron ed è poi stato l’unico superstite della propria squadra. Ormai la superstizione dilaga. Aubrey interviene e fa frustare un marinaio che ha urtato apposta Hollom. Poi convoca quest’ultimo e gli raccomanda di essere più duro. Durante la guardia notturna, Hollom si suicida gettandosi in mare. Durante le sue esequie arriva il vento, le vele si muovono, la nave può ripartire. Mentre il dottore osserva un albatro che sta seguendo la nave, un marinaio per abbattere l’uccello colpisce per sbaglio l’uomo con una fucilata al fianco. Viene chiamato Higgins a operarlo, ma costui è in difficoltà. In una tenda piantata sulle Galapagos l’operazione la fa lo stesso dottore. Il dottore esce puntellandosi con un bastone. Intorno, si gioca a cricket, si raccoglie verdura, si cucina. C’è rilassatezza. Blakeney porta al dottore campioni di insetti e di piante, appunti, disegni. Aubrey decide di fermarsi una settimana. Ormai ha deciso di tornare a casa. Insieme a Blakeney e a un marinaio, il dottore si incammina per l’isola a osservare gli animali, le foche, le iguane. Percorrono molte miglia alla ricerca del cormorano che non può volare. Il dottore misura le tartarughe giganti, cattura iguane piccole e grandi. Salito su una collina vulcanica, finalmente vede un cormorano. Mentre osserva uno scarabeo, vede in lontananza, in una baia dall’altra parte dell’isola, l’Acheron. La Surprise salpa, il nemico ha due ore di vantaggio. Guardando l’insettostecco, a Aubrey viene un’idea: fa camuffare la nave da baleniera, le cambia il nome, la bandiera, e le fa emettere fumo per farsi vedere dall’Acheron. I marinai si travestono da pescatori. Simulano una fuga precipitosa, i francesi abboccano. Aubrey assegna al monco Blakeney il comando della Surprise mentre lui guiderà l’assalto alla nave nemica. Inquadratura delle due navi ormai vicinissime. I francesi guardano ma non sparano, per non danneggiare la preda. La Surprise espone la bandiera inglese e fa fuoco con tutti i cannoni, con effetti devastanti. Cade l’albero maestro dei francesi. Si spara con i fucili. Fuori i rampini, si dà avvio all’arrembaggio. Aubrey si lancia per primo nella nave nemica con la pistola in mano. A bordo dell’Acheron sembra che tutti siano morti. Gli inglesi avanzano lenti con le pistole spianate tra i cadaveri. Improvvisamente i morti si rivelano vivissimi e cominciano a sparare. C’è un assalto all’arma bianca, una zuffa terribile, una carneficina. Il lancio di granate fa pendere la bilancia dalla parte degli inglesi. Aubrey salva la vita al dottore, ma un marinaio francese, nascosto, lo pugnala al costato. Aubrey, minacciandolo con la spada, gli chiede dove sia il capitano. Scende nella stiva, trova un medico che gli porge una sciabola e gli dice che il capitano è morto. Terminata la battaglia con la resa dei francesi, vengono cuciti i sacchi con dentro i defunti, poi gettati in mare. Le due navi vengono riparate. Il secondo ufficiale deve portare l’Acheron a Valparaiso, farla riparare e liberare i prigionieri. Aubrey tornerà con la Surprise alle Galapagos per caricare acqua e viveri, «e il dottore potrà cercare il suo volatile». Appuntamento a Portsmouh. Aubrey nomina il tenente Pullings capitano dell’Acheron. Alla precisazione del capitano che lui ha

conosciuto un medico francese, il dottore gli dice che il medico dell’Acheron è morto di febbre da mesi. Primo piano di Aubrey, alterato, che si alza e chiama il secondo ufficiale ordinandogli di cambiare la rotta per intercettare l’Acheron e scortarla a Valparaiso, e di mettersi tutti ai posti di combattimento. Inquadratura dall’alto della nave che cambia rotta e si dirige dietro l’Acheron che si vede in lontananza. La macchina da presa si solleva.

«O capitano, mio capitano». La poesia di Walt Whitman dedicata ad Abramo Lincoln che il professor Keating cita ai suoi studenti in L’attimo fuggente può ben adattarsi anche all’audacia del capitano Aubrey di Master & Commander. Aubrey trascina la sua ciurma recalcitrante sulle tracce di un “diavolo nero” dei mari, e deve anche vedersela con la contestazione di uno scienziato che gli rinfaccia di preferire la morte e la distruzione alla vita e alla ricerca. Mentre il dottor Maturin si estrania nella sua cabina studiando le nuove forme di animali e piante (fot. 165), Aubrey conduce il proprio equipaggio a uno scontro finale che, nella sua brutalità, ricorda la strage insensata di Gli anni spezzati (fot. 166). Aubrey non è però un ottuso: sa guardare al nuovo, e prendere il meglio di esso. Tutto sembra congiurare ai danni della sua nave Surprise, che lui difende da ogni critica: la superiorità in armamenti e numerica del nemico; la furia degli elementi atmosferici; la superstizione dell’equipaggio; la contestazione in nome della difesa della vita del dottore. Aubrey, incarnazione stessa dello stoicismo, deve vedersela di volta in volta con una minaccia di tipo diverso, ma tira diritto per la sua strada. Non per orgoglio, dice, ma per senso del dovere patriottico. È un eroe vero, non per caso, come il protagonista di Fearless. Appare, come altri personaggi di Weir, un uomo che guarda più al passato che al futuro: difende l’antico ordine della monarchia inglese contro il nuovo, rappresentato da Napoleone Bonaparte, che ai suoi occhi appare unicamente come un pericoloso conquistatore e dittatore. Aubrey si commuove al ricordo dell’ammiraglio Nelson e, un attimo prima della battaglia finale, per ispirare i suoi uomini paragona la Surprise alla patria, all’Inghilterra, «anche se ai confini del mondo». Personaggio conradiano nella sua pulsione e decisione a spingersi ai limiti e oltre, Aubrey può ricordare, per esempio, lo stoicismo del capitano MacWhirr, il protagonista del romanzo Tifone (1903). La violenza del cataclisma che si abbatte sul modesto piroscafo Nan-Shan in navigazione nei mari della Cina e la selvaggia lotta dei passeggeri cinesi per il recupero dei loro poveri tesori dispersi e sconvolti dalla furia del vento e del mare possono essere paragonati alle calamità di vario genere che si abbattono sulla fregata Surprise: la tempesta (fot. 167), la bonaccia (fot. 168), le cannonate della Acheron (fot. 169). Ugualmente, la calma, la sicurezza, l’impassibilità, l’eroismo del capitano MacWhirr, epica incarnazione delle più alte virtù marinare, si riallacciano alle doti stoiche del capitano Aubrey. Il film è conradiano anche in un senso più profondo. Nei personaggi di Master & Commander, così come nei protagonisti dei romanzi di Conrad, emerge un’anima che, pur nella sua moderna complessità, si rivela della stessa famiglia degli eroi del primo Romanticismo – un’epoca che già si è dimostrata di grande ispirazione per Weir, per esempio in L’attimo fuggente e Mosquito Coast. Sia in Conrad sia in Weir, lo strano e sinistro scenario esotico è come un adombramento e un simbolo di un misterioso paesaggio interiore. Il film trabocca di scene che trattano il paesaggio come un elemento del Sublime. Le inquadrature a volo d’uccello, in particolare, ci comunicano il senso di uno sprofondamento panico della nave e dei suoi abitanti in una natura immensa, primordiale (fot. 170). Eppure, quella nave che appare così rimpicciolita vista dall’alto, al cospetto del cielo e del gigante Oceano, rappresenta però l’avamposto di una civiltà in avanzata inarrestabile, anche aggressiva. È una nave da guerra, in fondo. Il capitano Aubrey deve servire la madrepatria contro le pretese egemoniche del Bonaparte; deve difendere i mari dal controllo francese; ma, nella sua folle rincorsa all’Acheron, pare anche mosso da un fatto personale, da una pulsione interiore. Il suo obiettivo ossessivo è l’Acheron, Acheronte. L’Acheronte è il fiume che debbono attraversare le anime per giungere nel Regno dei Morti. Un traghettatore, Caronte, è incaricato di trasportarle da una riva all’altra. Questo fiume è quasi stagnante: le sue rive sono ingombre di canne e cariche di melma. Pare che esistesse un fiume

chiamato Acheronte in Epiro: questo fiume attraversava una contrada selvaggia e, per un certo tratto, si perdeva in una faglia profonda. Quando riappariva, vicino alla foce, formava una palude malsana, in un paesaggio desolato. Dunque, la nave francese è associata all’acqua ferma e fangosa, in contrapposizione alle acque sempre cangianti e mosse dell’oceano. Agitate da onde ben reali, non come quella azionata da una regia televisiva in The Truman Show o quella mitica di L’ultima onda. Al pari del fiume Acheronte, anche l’Acheron del film appare e scompare all’improvviso. Sembra provenire dal nulla: la prima volta, sbuca dalla nebbia più fitta per sorprendere la Surprise (nomen omen in tutti i sensi) che, però, proprio grazie alla nebbia riesce a salvarsi (fot. 171); la seconda, appare improvvisamente sopravento all’orizzonte mentre l’equipaggio della Surprise è impegnato in canti e balli (fot. 172); la terza, viene avvistata dal dottore in spedizione naturalistica mentre è all’ancora in una baia riparata delle Galapagos (fot. 173). Sono apparizioni quasi incantevoli, estatiche; ma per la ciurma superstiziosa della Surprise l’Acheron è una nave fantasma, sembra pilotata dal diavolo in persona. La quarta e ultima volta, al contrario, è la Surprise (fedele, questa volta, al proprio nome) ad apparire all’Acheron, camuffata da baleniera (fot. 174). È solo con il trucco che si può vincere un nemico così superiore in mezzi e uomini. Del resto, Aubrey si era sottratto al nemico già due volte adottando una scaltra mimetizzazione: la prima volta, nascondendosi nella nebbia; la seconda, celandosi nell’oscurità e mandando la Acheron a caccia di una zattera illuminata. L’oscurità e il silenzio sono i migliori alleati di Aubrey; ma, per l’ultimo confronto, il capitano dimostra una astuzia ben maggiore.

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In questo frangente, Aubrey è in grado di assimilare la scienza dell’amico dottore ma soprattutto la genialità della natura da lui studiata. Il camuffamento della Surprise si ispira, infatti, a quello dell’insettostecco, che simula di essere qualcosa di diverso da sé per ingannare il proprio predatore. Alla fine, però, l’ingannatore sarà a sua volta ingannato, come Christof lo è da Truman in The Truman Show: il capitano dell’Acheron finge di essere il medico di bordo per sfuggire alla cattura (e già i suoi uomini si erano finti morti durante l’arrembaggio per sorprendere gli inglesi). Dunque, la caccia deve riprendere, forse all’infinito. Come quella del capitano Achab all’inseguimento di Moby Dick. Oltre a Conrad, infatti, è proprio Herman Melville l’altro grande nume tutelare del film. Non solo quello di Moby Dick (1851), ma anche e soprattutto, per ovvie ragioni, quello di Las Encantadas (1856). Il «tre alberi nero come una pece», «con un diavolo al timone», diventa dunque, come la balena bianca di Melville, la personificazione del Male opposto al Bene. Ma, nelle immagini del film come nelle pagine melvilliane, non si vogliono evidenziare ovvie differenze fra il Bene e il Male, ma scoprire e sottolineare rapporti, connivenze, filiazioni e segrete identità di fondo. Aubrey, alla fine, è reso uguale al capitano dell’Acheron; è il destino più che la scelta a incatenare la Surprise e l’Acheron, non più di quanto, ad esempio, l’esangue Benito Cereno sia vittima e insieme complice del demonio Babo, oppure il malefico maestro d’armi Claggart sia diviso tra odio e amore nei confronti del bellissimo Billy Budd, per citare due capolavori di Melville. La moneta ha sempre due facce, una bianca e una nera, ma sulla pagina di Melville e nelle immagini del film di Weir frulla vorticosamente, e i colori si confondono, sino ad assumere il tono grigiastro delle rocce delle Galapagos a cui entrambe le navi approdano (fot. 175). Le Galapagos, le “isole infernali” descritte da Melville nei dieci “pezzi” che formano Las Encantadas – uno dei più grandi esempi di letteratura di ogni tempo. Anche Charles Darwin (evocato nel film dal dottore/scienziato, che si chiede se i camuffamenti degli animali siano stati determinati da Dio oppure siano «opera loro», cioè dell’evoluzione) visitò le Galapagos nel corso del suo famoso viaggio sulla Beagle (che si traduce “bracchetto” da caccia) sei anni prima di Melville. Fu come lui impressionato da quei paesaggi aridi e corrosi, dalle spiagge laviche e basaltiche di Albemarle, dai vulcani solforosi in attività, e definì le isole «una regione infernale». Ma per il naturalista Darwin, come per il razionalista dottor Stephen Maturin del film di Weir, l’inferno si rivela in realtà un mondo favoloso, un paradiso perduto di creatu- re uniche, isolate, innocenti (fot. 176); per Melville le Galapagos rimangono invece

l’immagine stessa del male «intrisa nel corpo della morte cadaverica», vestiboli della degradazione minerale, animale e umana, luoghi dove non s’odono che sibili sinistri mentre nella «nebbia volano stridendo uccelli mai veduti sulla terra» – quei cormorani senz’ali che il dottore cerca disperatamente trovando, al loro posto, la sagoma infernale dell’Acheron celata in una baia. Un malvagio incantesimo sembra gravare su quegli spuntoni di lava, su quei depositi di ceneri equatoriali, senza storia, senza stagioni, circondati da correnti ingannevoli: Melville aveva letto non solo Spenser e Darwin, ma anche Milton e lo Shakespeare del Macbeth e della Tempesta. Ma anche nelle isole “incantate” il volto del Male e quello del Bene hanno lineamenti ambigui: «la tartaruga gigante, scura e melanconica quando giace sul dorso, possiede tuttavia un lato chiaro»; sotto le torri di roccia e i demoni che in esse albergano nella loro stessa struttura minerale, nuotano i bianchi capodogli «in armoniche scuole di chiglie fluttuanti». Tutto contiene tutto, anche i suoi opposti. Le Galapagos offrono riparo alla Acheron, che sembra avere in esse la sua “tana”, la casa più naturale e adeguata alla sua natura “infernale”; ma offrono, contemporaneamente, ospitalità alla Surprise, guariscono dalle ferite (il dottore si opera in una tenda sull’isola) e forniscono utili spunti di ogni tipo a chi sa coglierli. Il capitano Aubrey, a livello inconscio, mostra di comprenderlo, quando “copia” il mimetismo animale di un insetto trasferendolo sulla propria nave: certo, la sua finalità è pratica, ma si dimostra abbastanza aperto di mente per sfruttare le “stranezze” naturali delle Galapagos e farne arma di offesa.

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La trappola architettata da Aubrey richiama alla mente quelle analoghe escogitate da John Book in Witness (il killer soffocato dai chicchi di grano) e da Allie Fox in Mosquito Coast (i tre mercenari congelati nella macchina fabbrica-ghiaccio). La natura, qui, suggerisce se stessa per un uso ispirato alla volontà di potenza e di guerra. È uno dei punti più ambigui di quell’antinomia tra civiltà e natura che sembra quasi ossessionare Weir. Lo sfruttamento della natura dunque può non essere sacrilego, se ispirato a una giusta causa. Weir mostra di aver modificato un’opinione che era stata sempre assai più radicale. È anche curioso come, in questo film, venga esaltata quell’Inghilterra che, all’opposto, l’australiano Weir aveva sempre duramente bistrattato, soprattutto negli altri due suoi film ispirati direttamente a vicende storiche, e cioè Gli anni spezzati e Un anno vissuto pericolosamente. A un Weir problematico sotto la superficie di un film di avventure interessa, però, un discorso diverso: naviga, in tutti i sensi, in acque più ampie e profonde. Weir sembra mettere a

fuoco il senso della vita come ricerca senza fine. Il mare stesso del film, come nei romanzi di Conrad e Melville, è assai più che un ambiente: è il volto visibile, infinitamente ricco di analogie, dell’arcana realtà delle cose. È la sola forma sensibile che possa degnamente incarnare il cupo e ironico nocciolo demoniaco dell’universo. La nebbia che si condensa su di esso (che rimanda a quelle di L’attimo fuggente e Fearless) non si spiega solo con le predilezioni per il Romanticismo del regista, ma allude all’ambiguità e alla poca chiarezza che presiedono alle vicende umane. Anche i “tipi” umani della Surprise rispecchiano la volontà di dilatare i significati della vicenda. Essi, pure, hanno precisi riferimenti letterari. Il giovanissimo Blakeney (fot. 177) rammenta, per esempio, il protagonista di Linea d’ombra di Conrad, o il melvilliano William Budd: rappresenta l’anima naturalmente pura e incorruttibile, prima della rivelazione. La sua purezza ha per sfondo la bontà naturale di Rousseau, la cultura degli immortali principi passata al filtro di un cupo rigorismo morale. Il vecchio marinaio superstizioso (fot. 178), dal canto suo, fa venire in mente analoghi lupi di mare veterani e smaliziati come i melvilliani John Marr e Daniel Orme. Ispirandosi alla grande letteratura, Weir immette i suoi personaggi, insieme concreti e simbolici, in un periodo di febbre e di crescenza. Non c’è, sullo sfondo, solo la guerra contro il Bonaparte e lo scontro tra le potenze europee, ma anche l’irruzione di una nuova era in cui scienza e razionalità tecnologica hanno sempre più spazio; in cui nuove parti del mondo vengono scoperte; in cui, accanto a Dio, nascono altre leggi che spiegano il funzionamento dell’universo; in cui la natura è sempre più soggetta all’addomesticamento e allo sfruttamento. In cui, in una parola, sta nascendo il mito di un mondo nuovo, ben più grande della vecchia Europa, che comprende innanzitutto le Americhe. Nel film troviamo tutto ciò: il rapace individualismo, l’ingenuo patriottismo, superstizione e razionalità, le ragioni di Dio e quelle della natura. Ma soprattutto quelle del cuore.

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Il film è una radicale affermazione del cuore, a partire dall’innocenza essenziale, simbolica, dell’oceano. Un pensiero quasi eretico, ma centrale in Weir. Il bene può andare incontro alla sconfitta e alla morte, ma la sua radiosità può redimere la vita. Un ottimismo di fondo che qui traspare più che altrove, ma che concludeva anche film come The Truman Show, L’attimo fuggente, Mosquito Coast. Qui, esso si esprime non solo attraverso la “purezza” priva di corruzione dei giovani come Blakeney o lo spirito di sacrificio dello “jettatore” Hollom – il cui suicidio, causato dall’inadeguatezza a un contesto ostile, rimanda a quello di Neil Perry in L’attimo fuggente –, ma

anche attraverso lo stoicismo e il sostanziale laicismo del personaggio di Aubrey. Un “capitano, mio capitano” che respinge fede e dottrina, aperto alle ragioni della razionalità, ma anche a quelle del cuore. L’amore per la moglie, a cui scrive lettere appassionate (fot. 179) e che non tradisce con una procace indigena; l’amicizia con il dottore, con cui ha continui scontri dovuti al diverso senso che i due danno alla missione della Surprise, ma alla cui salute fisica non esita a sacrificare addirittura la caccia all’Acheron; l’attaccamento affettuoso alla patria lontana e ai suoi eroi come Nelson. Aubrey è certo uomo legato al passato ma, paradossalmente, è proprio lui l’uomo di un possibile futuro equilibrato, perché sa aprirsi alla diversità in tutte le sue manifestazioni. Cuore e ragione: Aubrey riesce, miracolosamente, a tenerli uniti. L’equipaggio della Surprise e il suo intrepido capitano tengono così assieme il vascello sbattuto con il suo carico di speranze, sogni, illusioni, gioie umane. Intorno a loro, ambiguità, solitudine, incomunicabilità, inimicizia: oceani, arcipelaghi, balene, navi ostili, tempeste e bonacce che rappresentano la nostra quotidiana geografia. La nostra “modernità” ambigua e liquida, che il film di Weir e la grande letteratura che lo ha ispirato annunciano. Infine, la risacca batte ancora, più violenta che mai, sui nostri scogli.

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La parabola dei nemici del popolo. The Way Back Quando Peter Weir legge The Long Walk, emozionante racconto della prigionia di un ufficiale polacco in un gulag sovietico e della sua fuga di quasi 6.500 chilometri dalla Siberia all’India, tra deserti e picchi nevosi e attraverso prove durissime di ogni genere, decide in fretta di ricavarne il suo prossimo film: «Come dimostrazione della resistenza, del coraggio e della tenacia dell’essere umano per sopravvivere, ho pensato che fosse superbo. L’idea mi si è impressa dentro». A proposito del libro di Sławomir Rawicz, esiste però una controversia, che data fin dal 1956, anno di uscita dell’autobiografia. Nessuno poteva dimostrare che gli avvenimenti raccontati fossero davvero accaduti: non c’erano documenti né prove di nessun genere. Nel 2006 esce un documentario della Bbc Radio 4 che solleva dei dubbi sulla veridicità dei fatti. Weir contatta subito il produttore del documentario, Hugh Levinson, e comincia a investigare. La conclusione è che Rawicz venne certamente arrestato e imprigionato, ma nulla prova che abbia davvero partecipato alla fuga. Anzi, alcuni documenti sembrano suggerire che non sia mai evaso dal gulag siberiano. Il giallo si complica, perché alla Bbc arriva una lettera anonima che suggerisce di contattare un certo Witold Glinski a Camborne, in Cornovaglia. Glinski è un anziano polacco, gentile e dotato di senso dell’umorismo, con una storia straordinaria da raccontare. Anche lui era internato nel gulag e, proprio come Rawicz, è fuggito durante una tempesta di neve. Ha percorso lo stesso tragitto di Rawicz, sopravvivendo al calore del deserto di Gobi e al gelo delle vette dell’Himalaya, come se lo spingesse un istinto primordiale. Glinski confida a Levinson: «Pensavo: prendo un aereo, mi addestro come pilota, poi volo in alto, sorvolo Mosca e rado al suolo il Cremlino. Era il mio sogno, era ciò che mi spingeva avanti. L’energia interna, la vendetta per ciò che avevano fatto i tedeschi e i russi». Glinski racconta di aver condiviso con Rawicz alcuni compagni di viaggio: una ragazza polacca morta lungo la strada, un enigmatico americano conosciuto solo come Mr. Smith. Era possibile che Glinski fosse il vero eroe e che Rawicz gli avesse rubato la storia? Forse. Levinson

non riesce a trovare nessuna prova che confermi il vivido ricordo di Glinski della fuga e del viaggio. Un bizzarro incontro avvenuto a Londra negli anni Quaranta sembra però far luce sulla vicenda. Glinski racconta di essersi imbattuto in due uomini, un ufficiale polacco e un inglese, che gli chiesero di dir loro come si era salvato e come era tornato in Inghilterra. Glinski non apre bocca con i due, ma in seguito scoprirà che l’inglese era un giornalista chiamato Ronald Downing – il ghost writer di The Long Walk. Il suo sospetto è che Downing si sia in qualche modo impadronito di una trascrizione dell’intervista in cui raccontava la sua storia, e che poi abbia cospirato con Rawicz facendo credere che il protagonista dell’impresa fosse quest’ultimo. Ci sono anche altri resoconti di seconda mano, che tirano in ballo folcloristici personaggi dall’India e dalla Nuova Zelanda. Di certo, non esiste una prova conclusiva che il libro racconti cose davvero accadute al suo autore. Quel che è sicuro è che qualcuno quel viaggio pazzesco lo ha davvero fatto. A Peter Weir ciò basta e avanza: «Per me c’era abbastanza per poter dire che tre uomini sono usciti dall’Himalaya, ed è per questo che ho dedicato il mio film a questi sconosciuti superstiti. Ho fatto essenzialmente un film di finzione». Per questo motivo il titolo del film è diverso da quello del romanzo, e il suo personaggio non si chiama Sławomir Rawicz. Un racconto di coraggio e resistenza. «È sulla lotta che tutti noi dobbiamo fare per sopravvivere ogni giorno», dice Weir. «Ha una dimensione epica, ma al suo centro sta la sopravvivenza, e ciò che ci spinge ad andare avanti nonostante le difficoltà, i dolori e le sfortune». Il film viene girato in India (Darjeeling, West Bengal), in Marocco a Erfoud e Ouarzazate, a Sofia e Wakarel in Bulgaria, ai New Boyana Film Studios di Sofia, e, per la postproduzione, a Sydney. Il film si apre con alcune scritte che ci dicono cosa è successo e con la dedica ai tre uomini che nel 1941 giunsero in India dopo un viaggio di 4000 miglia. Il titolo è in caratteri cirillici. Segue un cartello che colloca la vicenda: «Settembre 1939: Hitler invade la Polonia da est, Qualche giorno dopo, Stalin la invade da ovest. I due si dividono il Paese». La prima sequenza mostra l’interrogatorio del polacco Janusz da parte di un ufficiale russo. Viene portata la moglie, che, costretta, lo ha denunciato per critiche al partito e a Stalin. La macchina da presa aerea sulla tundra siberiana ci prepara alla realtà del gulag. Nel 1940, nel campo 105 vicino al lago Bajkal, numerosi “nemici del popolo” sono tenuti rinchiusi in condizioni proibitive. C’è una taglia su chi tenta di fuggire. Le prime scene ci mostrano la vita durissima nel gulag, la competizione per il poco cibo a disposizione. Emergono personaggi come un misterioso americano e Valka, un giovanotto russo prepotente e dal coltello facile. I prigionieri vengono portati ai lavori forzati: abbattono alberi e tagliano il legno, spaccano le pietre, scavano in miniera. All’interno del campo, i passatempi sono giocare a carte, raccontare L’isola del tesoro, disegnare donne nude, scambiarsi sigarette, il mercato nero. Si progetta di fuggire attraversando il confine con la Mongolia. Durante una marcia nella tormenta, diversi prigionieri muoiono. La spinta decisiva alla fuga è data dal lavoro in miniera, pericolosissimo e massacrante. Janusz ha una visione in cui gli appare la porta di casa sua: fa per uscire dalla miniera e l’americano gli salva la vita. Il piano di fuga si concretizza: viene spento il generatore, e, durante una tormenta, sette uomini scappano attraverso il bosco. Intorno, ululati di lupi. Per reggere il freddo, tagliano della corteccia con il coltello di Valka e se la mettono in faccia. A guidare il gruppo è Janusz, che riesce a orientarsi improvvisando una meridiana utilizzando un bastone e i raggi del sole. Il più giovane del gruppo, Kazik, che ha problemi di vista, si perde e muore congelato. Viene sepolto, e Janusz celebra «un uomo che è morto libero». Il cinico Valka dice invece che c’è uno in meno a spartirsi il poco cibo. Gli altri sei proseguono e si rifugiano in una enorme caverna. Scacciano dei lupi e si spartiscono la carcassa che stavano divorando. Cercano larve, uova d’uccelli. Non ce la fanno più, ma Janusz parte da solo e scopre il lago Bajkal a tre giorni di cammino. Si aggrega al gruppo una giovane polacca che si nascondeva nella foresta. Sul lago, la situazione dei fuggiaschi migliora. La ragazza, Irena, fa amicizia con l’americano, che si fa chiamare semplicemente Mr. Smith ed è un ingegnere. I due si raccontano le rispettive, tragiche storie: Irena ha visti trucidati i genitori, Smith ha perso il figlio che aveva portato con sé a Mosca. Valka ruba conigli e galline in un villaggio vicino: la sera si celebra il suo compleanno, si beve del liquore e si canta. Un

pescatore insegna loro come difendersi dai nugoli di zanzare che infestano il lago. Arrivati alla frontiera con la Mongolia, Valka lascia il gruppo e rimane in Russia: è un patriota, ha le immagini di Lenin e Stalin tatuate sul petto. Il paesaggio cambia: ora c’è la steppa. I fuggiaschi scoprono che anche la Mongolia è comunista: bisogna continuare a stare in guardia. Trovano una chiesa completamente distrutta con i resti dei cadaveri dei preti, come era successo in Russia. Si decide di procedere verso il Tibet, attraverso i picchi himalayani. Alcuni cavalieri mongoli danno loro un po’ d’acqua. Inizia il deserto del Gobi e la marcia sotto il sole. La scoperta di un pozzo allevia per un po’ le loro sofferenze, ma la prova è tremenda. Muore la ragazza. Poi muore anche Tomasz, il disegnatore: lo seppelliscono appendendo la sua matita alla croce. La marcia continua, apparentemente senza speranza di salvezza. Mr. Smith non ce la fa più, ma l’avvistamento di un serpente conduce a un po’ d’acqua. Bevono in circolo attorno alla pozza come avevano divorato la carcassa abbandonata dai lupi. Finalmente, all’orizzonte appaiono le prime montagne. Il gruppo comincia l’ascesa, ricompaiono neve e freddo. Dopo la Grande Muraglia Cinese, ecco il confine con il Tibet. I quattro superstiti vengono ospitati da alcuni monaci. Mr. Smith si ferma a Lhasa, per farsi rimpatriare dal consolato americano. Gli altri tre proseguono attraverso le montagne per raggiungere l’India, dove vengono accolti da contadini festanti e da un poliziotto. L’immagine dei piedi in marcia di Janusz viene affiancata dalle varie date che scandiscono la fine della guerra, l’imposizione del comunismo in Polonia, fino a Solidarnosc e al crollo del regime. Ritorna la visione della porta di Janusz, che questa volta entra, ormai anziano nel 1989, e abbraccia la vecchia moglie che lo attende sul divano.

È tutto vero quello che il libro racconta, e che il film descrive? Nessuno lo può dire con certezza. L’universo di The Way Back potrebbe essere fittizio e fasullo come quello di The Truman Show, costruito ad arte sulla menzogna e sull’inganno. Realisticamente, pare piuttosto improbabile che degli uomini fiaccati nel fisico dalla prigionia siano riusciti in una impresa ai limiti della fantascienza. Ma a Weir non importa il fisico, quanto lo spirito. Weir dà per scontato che tutto potrebbe anche non essere vero, e infatti spinge il pedale della fiction più che di una ricostruzione realistica. Costella il viaggio di immagini e simboli tutti suoi. Esalta l’indomito coraggio dell’uomo che lotta contro, da un lato, la civiltà, e, dall’altro, la natura. All’apparenza avventura escapista, ennesima “fuga per la libertà”, il film è un controcanto personalissimo che riassume i grandi temi del regista. Innanzitutto, si configura come un allargamento delle mappe geografiche così care al regista australiano. È come se il film offrisse un condensato di tutti gli aspetti di quella wilderness così a lungo esplorata dalla sua macchina da presa. Non manca proprio nulla: boschi, tundre, deserti, steppe, cime montagnose, vallate, fiumi. Caldo, freddo, neve, sabbia, sole, pioggia, vento si succedono implacabili. La natura, una volta di più, incarna quelle forze che sfuggono al controllo umano e pongono limiti a ogni azione e a ogni scopo. Nel film, i fuggiaschi, come i personaggi dei precedenti film di Weir, devono studiare e prendere le misure di un territorio completamente sconosciuto e quasi sempre ostile. Janusz cerca di orizzontarsi con una rudimentale meridiana fatta di un bastone e di un raggio di sole. È lui la guida del gruppo, a un tempo fisica e spirituale. Lo muove una motivazione che gli altri non posseggono: è lui a voler trovare la “strada del ritorno”, in direzione di una moglie perdonata e di una patria liberata. La natura, intorno, esprime le sue potenzialità più distruttive. Scatena gli elementi. Affama, asseta, smarrisce. La particolare geopolitica weiriana ha qui modo di allargarsi ulteriormente. Dopo l’Australia, l’Indonesia, la Turchia, il Sudamerica, l’Honduras, le giungle e gli oceani, ecco la Siberia, la Mongolia, il Tibet, l’India, steppe e deserti, le montagne dell’Himalaya. Una natura impressionante, fatta di estremi che provocano enormi sofferenze. Occorre un grande stoicismo e capacità di soffrire per reggere a questi luoghi. E una grande voglia di rivincita. L’ “occhio” geografico di Weir si esercita con grande sapienza: colloca nel paesaggio i suoi tipici “stranieri in terra straniera”. Qui, polacchi, russi e un americano sono dispersi in mezzo alla grande Asia. Una volta di più, cinema come esplorazione del

territorio, come cognizione del “dove si è” e del “da dove si proviene” e ancora più “dove si sta andando” (o, per stare al titolo e al senso del film, “a dove si sta ritornando”). Con la natura, gli animali. Il bestiario weiriano, spesso simbolico, conosce qui un altro dei suoi trionfi: dai lupi la cui voracità è annichilita da quella dell’ani-male-uomo nella sconvolgente sequenza dello spolpamento di una carcassa, ai cavalli dei mongoli che recano acqua, alle larve scovate tra le foglie, alle lucertole del deserto fonte di cibo, agli uccelli che svelano la presenza di una sor gente d’acqua, al serpente che guida i fuggiaschi a una pozza melmosa, ai grandi erbivori impantanati che si offrono come nutrimento. Quasi sempre, dunque, gli animali portano salvezza. La natura da un lato distrugge, dall’altro protegge l’uomo. Come sappiamo, il cinema di Weir sta sul confine sottile tra natura e civiltà. I fuggiaschi del film camminano in mezzo alla natura e scappano dalla civiltà. Non accettano più, non tanto la prigionia o il lavoro forzato, quanto una “civiltà” che sembra fondarsi sulla sopraffazione, la violenza, l’intolleranza, la discriminazione ideologica. Il comunismo, qui, diventa metafora per ogni attentato che la civiltà porta all’essere umano, all’individuo e alla sua libertà e autodeterminazione. Un comunismo tetro e asfittico, che viene graficamente immortalato fin dalla prima sequenza, nello squallido ufficio di un inquisitore fotografato con colori particolarmente cupi, il tavolo spoglio con il foglietto della confessione, il ritratto di Stalin sulla parete, il prigioniero Janusz terrorizzato ma non disposto ad arrendersi, e poi una donna piangente e accusatrice. Un regime e una ideologia, dunque, capaci persino di mettere marito e moglie l’uno contro l’altra. In modo appropriato, il film si concluderà rimettendo assieme i due esseri che all’inizio erano stati separati, nell’inquadratura finale dell’abbraccio in cui l’uomo, ormai vecchio, guarda al di sopra della spalla della moglie in direzione della macchina da presa, con residua aria di sfida (fot. 180). La compensazione, però, non può far dimenticare le terribili prove passate. Naturalmente, la civiltà ha in sé gli antidoti al veleno che sparge. Nel film, non mancano momenti in cui una diversa socialità è resa manifesta, in cui un rapporto umano più profondo pare possibile. Si pensi all’inquadratura in cui Janusz resta da solo con Smith moribondo e forma con lui una composizione dall’iconografia religiosa, una sorta di pala d’altare del Pontormo trasportata tra le dune del deserto di Gobi (fot. 181). Oppure alla generosità dimostrata dalle persone che i fuggiaschi incontrano sulla loro strada: il vecchio pescatore del Bajkal che spiega loro come difendersi dalle zanzare con collane d’aglio; il giovane mongolo a cavallo che porge loro un otre d’acqua; i monaci tibetani che li ospitano nella capanna del villaggio e offrono loro del tè.

FOT. 180

Nell’universo maschile del film fa eccezione il personaggio di Irena. Un personaggio di agnello sacrificale, come altri nel cinema di Weir. Destinata al martirio (anticipato dal regista, con il suo solito brillante simbolismo, dall’imposizione sulla sua testa di una corona di rami intrecciati che ricorda la corona di spine di Gesù), verrà sepolta non prima che le siano state messe in croce le mani. Irena è un personaggio che benefica i fuggiaschi: non solo perché ingentilisce e abbellisce il gruppo di disperati sporchi e barbuti, ma soprattutto perché porta al suo interno la capacità e la disponibilità ad ascoltare, capire e perdonare. È grazie a lei che Smith esce dal suo isolamento

ispido, dal suo cinismo totale (era stato lui a deridere la “gentilezza” debole e autolesionista di Janusz quando gli aveva soffiato l’avanzo di cibo nel cortile del gulag), e comincia a venire a patti con la propria disperazione e con il proprio senso di colpa. Anche Irena, del resto, conserva dei tragici segreti che, non riuscendo ancora a svelare, falsifica per l’ascoltatore.

FOT. 181

Il gruppo dei fuggiaschi forma quella che è l’ennesima comunità del cinema di Weir. Un aggregato sociale caratterizzato da una profonda unità dei soggetti, collegato ai concetti di identità, di senso di appartenenza, di formazione di rapporti di solidarietà. Per quanto diversi siano tra loro, anche per origine nazionale e livello sociale e culturale, i fuggiaschi trovano una coesione, fondata sulla ricerca della libertà, che li porta a interagire tra loro e all’esclusione dalla società che li circonda. I due concetti, comunità e società, sono quasi sempre in conflitto nei film di Weir. Qui, la società è vista come oppressiva e illiberale, finendo per coincidere con i totalitarismi di vecchio e nuovo conio (comunismo e nazismo). La sua manifestazione più piena è il gulag staliniano, luogo dove si è prigionieri e sfruttati, e si può essere lasciati morire per terra in mezzo a una tormenta. A essa si contrappone la nuova comunità dei fuggiaschi, tenuti assieme da uno spirito libertario e solidale che manca totalmente ai modelli di società che essi si sono lasciati alle spalle. Da questo punto di vista, i confini geografici diventano irrilevanti, raffigurati con semplici cippi isolati su un vasto territorio (l’effigie di Stalin su quello della Mongolia, le bandierine buddiste che sbattono al vento su quello del Tibet). La comunità, essendo formata da uomini liberi, è transnazionale. Il nemico da fuggire è l’orco comunista: grande la delusione dei nostri eroi quando si accorgono che anche la Mongolia è sotto il giogo di Stalin. Sentimenti ed emozioni, e dunque la “volontà naturale”, costituiscono il legame dei fuggiaschi, contrapposto al collante ideologico, che poi diventa elemento di divisione, che tiene assieme le società politiche. Come capita alle altre comunità weiriane, anche questa è penalizzata ed emarginata (gli Amish di Witness, gli aborigeni di L’ultima onda, gli ambientalisti di Green Card, i marinai di Master & Commander, gli indios di Mosquito Coast…). Una comunità che, come le altre, si fonda sul ricordo del passato, che non si deve dimenticare. Un’epoca in cui si era uomini liberi e felici. Il film è denso di memorie e di racconti di ciò che è stato e non è più: Smith rievoca il suo trasferimento a Mosca e la perdita del figlio; Janusz ha un ricordo ambivalente della moglie, che lo ha tradito ma che lui cerca ancora di perdonare; Irena ha addirittura due storie intercambiabili a proposito della sorte della propria famiglia; gli altri, a turno, si attaccano a ricordi o a tradizioni del passato, che possono anche contemplare una vecchia ricetta della cucina del pollo marinato con la paprika. La condanna della società non è forse mai stata tanto radicale in Weir. Non solo essa è vista, al pari degli altri film, come una entità astratta, slegata dal territorio e dalla legge di natura; qui finisce per coincidere con un inumano e barbaro ordine totalitario basato sulla dittatura dell’ideologia. Il direttore del gulag staliniano è talmente sicuro del fatto suo e dalla giustezza del suo “ordine” che crede di poter contare anche sulla natura come alleata: nel suo discorso iniziale dice ai prigionieri “nemici del popolo” che la Siberia, con «i suoi cinque milioni di miglia quadrate» di freddo e di foreste gelate, è la loro prima carceriera. La pretesa di asservire la natura è tipica delle società che

credono di essere forti e potenti e di avere la ragione dalla propria parte. All’inizio, vediamo alberi abbattuti e pietre spaccate dalle squadre dei carcerati. Fortunatamente, e ironicamente, proprio la vastità e la durezza della natura diventerà la migliore alleata dei fuggiaschi, che, resistendo alle sue durezze, riescono a sfruttarne le risorse per sopravvivere. Una tormenta di neve consente loro di fuggire dal campo quasi invisibili, dopo aver neutralizzato il generatore; il pezzo della corteccia di un albero diventa una maschera per proteggersi il volto dal gelo; i rami offrono il fuoco per scaldarsi (fot. 182); il deserto propone caldo torrido e assenza d’ombra e riparo, ma fa sgorgare sorgenti d’acqua per dissetarsi e alleva lucertole per sfamarsi. Il film, al di là di questi temi così weiriani, è anche, come già Master & Commander, un grande romanzo d’avventura. Avventura sottilmente evocata, ad esempio, nel racconto a voce che uno dei prigionieri fa di L’isola del tesoro di Stevenson davanti a un uditorio attentissimo. Quando Janusz propone di attraversare l’Himalaya, un compagno ribatte: «In che modo, con un tappeto volante?». Ai fuggiaschi in marcia nel deserto appaiono miraggi, come in un film esotico.

FOT. 182

Ogni personaggio principale del film è attentamente caratterizzato, proprio per distinguerlo dalla grigia e piatta uniformità della società comunista. C’è, per esempio, l’artista Tomasz, dall’abile pennello con cui tratteggia donnine nude e dall’animo gentile e delicato, non a caso uno di quelli destinati a soccombere. Durante la sosta nella caverna, si affretta a tracciare graffiti sulla nuda roccia rappresentando gli odiati simboli del gulag e del comunismo (fot. 183). C’è l’enigmatico Mr. Smith, che si è rifugiato in un atteggiamento risentito e cinico per sfuggire al senso di colpa per la morte del figlio. È il primo che osa sfidare apertamente il potere dei suoi carcerieri, quando, alla vista dei compagni che muoiono come mosche nella tormenta, si allontana sprezzantemente, dando la schiena alle pistole puntate, verso il bosco a cercare riparo, costringendo le guardie a lasciar andare anche gli altri. Bisogna notare, però, che Weir evita accuratamente di farne l’eroe del film; essendo l’americano, poteva essere una tentazione. Il vero eroe è il gruppo, ma un ruolo notevole spetta al personaggio di Janusz, marchiato a vita dal ricordo della moglie costretta ad additarlo come spia e traditore. Questa immagine è costretto a portarsela dietro per tutto il film, associata alla visione in soggettiva di lui che si avvicina alla porta di casa senza mai poterla penetrare. Solo alla fine, può prendere la chiave sotto la pietra ed aprirla: ritroverà la moglie vecchia quanto lui. Il personaggio di Valka è altrettanto bene caratterizzato. Oltre ai leader del comunismo, porta tatuati sul corpo falce e martello, ma il suo vero feticcio è rappresentato dall’inseparabile coltello, col quale minaccia, ruba e uccide; in seguito, però, il coltello si rivelerà indispensabile al buon esito della fuga. Valka è uno stupido isolato, un bruto pericoloso, uno sdentato analfabeta con una donna nuda incisa sul crocefisso, che, pur finito nel gulag, è rimasto fedele all’ideale comunista. «Stalin è un uomo d’acciaio, un grande uomo, prende ai poveri per dare ai ricchi», dice. È stato probabilmente internato dal regime perché è un contadino, un mugiko a cui sottrarre le terre, un diverso da gettare nella spazzatura. Non è un prigioniero politico, lui; ma troverà nella complicità con gli altri, finalmente, una ragione per provare ancora qualcosa che non sia la sola, brutale lotta per la sopravvivenza. Si propone come guardia del corpo di Janusz, a cui riconosce la capacità del leader.

Valka, nel film, rappresenta l’anello di congiunzione tra natura e civiltà nella direzione in cui queste due ultime vengono trattate: è il selvaggio scartato dalla società, a suo agio nella natura più di chiunque altro, e salvato dalla comunità. È l’Uomo Naturale rozzo e fuori controllo che abbiamo già incontrato spesso nei film di Weir: l’idraulico di The Plumber, Georges in Green Card. L’uomo originariamente buono, tutto istinti naturali, poi corrotto da cattive istituzioni, da un “contratto sociale” andato a male. Alla fine, non abbandona il suo paese: «L’America non è per me».

FOT. 183

Stalin «ha occhi e orecchie dappertutto», come viene detto nel film; ma non può nulla contro la voglia disperata di libertà. «Meglio morti fuori che vivi qua dentro»: è questa l’estrema scommessa, vincente proprio perché presuppone la disponibilità a sacrificare la propria vita. Una determinazione anticipata dallo sguardo in soggettiva di Janusz che, durante i lavori forzati, osserva la vetta della montagna che gli si para dinnanzi a chiudere l’orizzonte (fot. 184).

FOT. 184

La claustrofobia che caratterizza la prima parte del film, accentuata dall’utilizzo di una fotografia dai colori saturi, è contrapposta agli spazi aperti, pericolosi ma liberi, della seconda. All’inizio abbondano i primi piani dei volti e degli oggetti, in seguito i piani totali di figure perse nel paesaggio. Ciò non limita l’improvvisa condensazione in piani più ravvicinati, quando i membri del gruppo in fuga, che se stanno lontani l’uno dall’altro, vengono riuniti dall’obiettivo per sottolinearne la reciproca dipendenza e l’inevitabile solidarietà che ne scaturisce. Nelle scene del deserto, in particolare, questo gioco visivo viene utilizzato di continuo. All’inizio, nel gulag, vige la legge della lotta per la sopravvivenza. Solo il più forte sopravvive: un darwinismo sociale tipico del totalitarismo, che porta gli uni contro gli altri. Valka uccide per un

maglione; Smith arriva per primo su un boccone di cibo e deride la “gentilezza che può ucciderti” di Janusz. I più deboli vengono inesorabilmente schiacciati. In seguito, la lotta per la sopravvivenza, pur presente, viene sublimata non più nella guerra di tutti contro tutti, ma in uno sforzo comunitario per sopravvivere insieme (il solo Valka, all’inizio, pensa di uccidere uno dei compagni per sfamarsi delle sue carni). Paradossalmente, il vero “comunismo” viene messo in opera proprio dai “nemici del popolo” sfuggiti al gulag, laddove la società del gulag ispirata dai dogmi di Stalin ha prodotto competizione brutale, e l’hobbesiano homo homini lupus. «Nulla è per nulla, nel campo», viene detto. Fuori, nel deserto o sulle cime, invece, tutto è per tutti, e di tutti. Il gruppo è solidale al proprio interno, inclusivo e non esclusivo, come dimostra l’accettazione, pur dibattuta («ci rallenta»), della ragazza. Ognuno dei membri contribuisce con qualcosa, fosse anche fare barba e capelli agli altri. Il film finisce, così, per avere un andamento da parabola: la trasformazione dell’ambiente implica la parallela trasformazione dell’essere umano. Sotto diverse condizioni, ecco che i vari personaggi aprono il loro cuore a sentimenti che avevano ormai sepolto e di cui erano stati privati. Una parabola che ha anche evidenti colorature religiose e cristologiche. Per proteggersi dai cavalieri mongoli, i fuggiaschi si spacciano per pellegrini diretti a un santuario. La traversata del deserto assume a tratti le caratteristiche di un luogo in cui i peccati vengono purgati, e la sofferenza predispone l’anima a Dio, o almeno all’Assoluto. A un certo punto, Irena lava i piedi piagati di Smith come fosse la Maddalena col Cristo. Lei stessa indossa, come detto, una corona di spine e si incammina verso la propria Passione. Tutti i personaggi cadono, si rialzano, tornano a cadere, ritornano ad alzarsi, come Cristo sotto il peso della Croce. L’episodio del tempio buddista dato alle fiamme, con i teschi dei monaci sepolti nel cortile, sollecita immediati paragoni con le analoghe persecuzioni antireligiose di Stalin. Alla fine, dopo la traversata del deserto della Passione e un bagno/lavacro nelle acque purificatorie di un fiume che rievoca il sacro Giordano, le montagne lassù in alto promettono un più diretto contatto con l’Assoluto e la spiritualità. Come veniva detto in un romanzo western, «le montagne sono per l’anima». Oltre le montagne, ci sono i declivi a pascolo, le rigogliose coltivazioni di tabacco e banane, le valli e i versanti verdeggianti del Sikkim : una sorta di Eden ritrovato che accoglie i nostri eroi, in cui i contadini festeggiano e i poliziotti, finalmente, sorridono. Un’immagine forse stereotipata dell’India che, però, nel contesto simbolico del film, mostra di funzionare. Il film si propone, dunque, come un grande compendio dei temi cari a Weir, in cui l’ansia di libertà assume connotati religiosi e la condanna della società umana come si è storicamente configurata è pressoché totale. La natura è ambigua: distrugge e protegge. Il carattere riassuntivo del film risalta anche nelle citazioni e nei rimandi all’opera precedente del regista, soprattutto alle prime prove australiane: basti accennare alla presenza del monolite roccioso con le due cavità in alto, che rievoca in modo diretto l’analoga formazione di Picnic ad Hanging Rock, e la traversata del deserto (prove rudimentali di orientamento comprese) che richiama alla mente quella dei due protagonisti di Gli anni spezzati.

1967 | Count Vim’s Last Exercise | t.l. L’ultimo esercizio del Conte Vim Regia, sceneggiatura e produzione: Peter Weir; 16mm.; origine: Australia; durata: 5’. 1968 | The Life and Flight of Rev. Buck Shotte | t.l. La vita e il volo del reverendo Buck Shotte Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Piers Davies; fotografia: Ian McDonald; interpreti: James Dellit (Mr. Rolling Steam), Grahame Bond (cantante folk), Peter Weir (Reverendo Buck Shotte), David Scarpe (uomo del deserto), Sue Croucher (ragazza del trucco), Joabby Lockwood (generale Staub); produzione: Peter Weir; origine: Australia; durata: 37’. 1969 | Stirring the Pool | t.l. Agitando la piscina Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Martin Sanderson; fotografia: Bruce Hillyard e Kerry Brown; suono: Gordon Wraxall; montaggio: Wayne Le Clos; interpreti: Beryl Cheers, Judy Morris, Beryl Marshall, Howard Vernon; produzione: Commonwealth Film Unit; origine: Australia; durata: 31’. 1970 | Michael

Episodio del film Three to Go Regia e sceneggiatura: Peter Weir; fotografia: Kerry Brown; suono: Gordon Wraxall, Julian Ellingworth; musica: The Cleves; montaggio: Wayne Le Clos; interpreti: Matthew Burton (Michael), Grahame Bond (Graeme), Peter Colville (Neville Trantor), Georgina West (Georgina); Judy McBurney (Judy); produzione: Commonwealth Film Unit; origine: Australia; durata: 31’. 1971 | Homesdale Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Peter Weir, Piers Davies; fotografia: Anthony Wallis; suono: Ken Hammond; musica: Grahame Bond, Rory O’Donoghue; montaggio: Wayne Le Clos; interpreti: Grahame Bond (Mr. Kevin), Barry Donnelly (Mr. Vaughn), James Lear (Mr. Levy), Richard Brennan (Robert 1), Peter Weir (Robert 2), Phil Noyce (Neville); produzione: Richard Brennan, Grahame Bond; origine: Australia; durata: 50’. 1972 | Heart Head Hand | t.l. Cuore Testa Mano Regia e sceneggiatura: Peter Weir; fotografia: John Seale; montaggio: Bob Cogger; musica: The Renaissance Players; interpreti: attori non professionisti;produzione: The Crafts Council/The Australian Council; origine: Australia; durata: 35’. 1972 | Three Directions in Australian Pop Music | t.l. Tre direzioni nella pop music australiana Regia e sceneggiatura: Peter Weir; interpreti: Wendy Saddington, Teardrop, The Captain Matchbox Woopee Band, Indelible Murtceps; produzione: Australian Commonwealth Film Unit; origine: Australia; durata: 15’. 1972 | Incredible Floridas Regia: Peter Weir; fotografia: Bruce Hillyard; montaggio: Anthony Buckley; produzione: Australian Film Unit; origine: Australia; durata: 12’. 1973 | Whatever Happened to Green Valley? | t.l. Cosa è successo a Green Valley? Regia e sceneggiatura: Peter Weir; fotografia: Nick Ardizzone; montaggio: Barry Williams; suono: Tony Patterson, Tim Lloyd, Rod Pascoe; ricerche: Susan Varga; produzione: Film Australia; origine: Australia; durata: 57’. 1974 | The Cars that Ate Paris | Le macchine che distrussero Parigi Regia e soggetto: Peter Weir; sceneggiatura: Peter Weir, Keith Gow, Piers Davies; fotografia (Panavision, Eastmancolor): John McLean; scenografia: Neil Angwin; direzione artistica: David C. Copping; montaggio: Wayne Le Clos; suono: Michael Midlam, Ken Hammond; musica: Bruce Smeaton; stuntmen auto: Alf Blight; coordinamento stuntmen: Peter Armstrong; assistente alla regia: Ross Mathews, Chris Noonan; interpreti: Terry Camilleri (Arthur Waldo), John Meillon (sindaco), Melissa Jaffe (Beth), Kevin Miles (dottor Midland), Max Gillies (Metcalf), Peter Armstrong (Gorman), Edward Howell (Tringham), Bruce Spence (Charlie), Derek Barnes (Al Smedley), Charlie Metcalfe (Clive Smedley), Chris Haywood (Darryl), Tim Robertson (Les), Max Phipps (reverendo Mulray), Frank Saba (Con Lexux), Rick Scully (Gorge Waldo), Kevin Golsby (assicuratore), Joe Burrow (Ganger), Derick Barnes (Smedley), Herbie Nelson (l’uomo nella casa), Danny Adcock (poliziotto); direttore di produzione: Tom Hogan; produzione: Jim McElroy, Howard McElroy per Salt Pan Films/Royce Smeal Prods/Australian Film Development Corporation; distribuzione: Z; origine: Australia; durata: 88’. 1975 | Picnic at Hanging Rock | Picnic ad Hanging Rock Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Cliff Green, dal romanzo di Joan Lindsay; fotografia (Eastmancolor): Russel Boyd; fotografia sequenze naturalistiche: David Sanderson; scenografia: Graham Walzer; direzione artistica: David Copping; montaggio: Max Lemon; musica: Gheorghe Zamphir (flauto di Pan); musica addizionale: Bruce Smeaton; brani musicali: estratti dal Concerto N.21 per Pianoforte e Orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart e del Concerto N. 5 per Pianoforte e Orchestra di Ludwig van Beethoven; costumi: Judy Dorsman; consulenza costumi: Wendy Weir; assistente alla regia: Mark Egerton, Kim Dalton, Ian Jamieson; interpreti: Rachel Roberts (Mrs. Appleyard), Dominic Guard

(Michael Fitzhubert), Helen Morse (Dianne de Portiers), Jacki Weaver (Minnie), Vivean Gray (Miss McCraw), Kirsty Child (Dora Lumley), Anne Lambert (Miranda), Karen Robson (Irma), Jane Vallis (Marion), Christine Schuler (Edith), Margaret Nelson (Sara), John Jarrat (Albert Crundall), Ingrid Mason (Rosamund), Martin Vaughan (Ben Hussey), Jack Fegan (Doc McKenzie), Wyn Roberts (sergente Bumpher), Garry McDonald (Jim Jones), Frank Gunnell (Edward Whitehead), Peter Collingwood (colonnello Fitzhubert), Olga Dickie (Mrs. Fitzhubert), Kay Taylor (Mrs. Bumpher), Anthony Llewellyn Jones (Tom), Faith Kleinig (cuoca), Jenny Lovell (Blanche), Janet Murray (Juliana);produttore esecutivo: Patricia Lovell, John Graves per l’Australian Film Commission; produzione: Hal McElroy, Jim McElroy, per Picnic Productions, in associazione con Bef Film Distributors, South Australian Film Corporation e Australian Film Commission; distribuzione: Planfilm; origine: Australia; durata: 115’. 1977 | The Last Wave | L’ultima onda Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Peter Weir, Tony Morphett, Petru Popescu, da un soggetto originale di Peter Weir; fotografia: Russel Boyd (Atlab); consulenza colori: James Parsone; fotografia addizionale: Ron Taylor, Goerge Greenough, Klaus Jaritz; trucchi ottici: Optical & Graphic; scenografia: Goran Warff, Bill Malcolm; direzione artistica: Neil Angwin; effetti speciali: Monty Fieguth, Bob Hilditch; musica: Charles Wain; costumi: Annie Bleakley; suono: Don Connolly; consulenza aborigeni: Lance Bennett; assistente alla regia: John Robertson, Ian Jamieson, Penny Chapman; interpreti: Richard Chamberlain (David Burton), Olivia Hamnett (Annie Burton), Gulpilil (Chris Lee), Frederick Parslow (reverendo Burton), Vivean Gray (dottor Whitburn), Nandjiwarra Amagula (Charlie), Walter Amagula (Gerry Lee), Roy Bara (Larry), Cedric Lalara (Lindsey), Morris Lalara (Jacko), Peter Caroll (Michael Zeadler), Athol Compton (Billy Corman), Hedley Culen (giudice), Michael Duffield (Andrei Potter), Wallas Faton (medico legale), Jo England (babysitter), John Frawley (poliziotto), Jennifer de Greenlaw (segretaria di Zeadler), Richard Henderson (procuratore), Penny Leach (istitutrice), Merv Lilley (venditrice di bevande), John Meagher (impiegato dell’obitorio), Guido Rametta (Guido), Malcolm Roberson (Don Fisburn), Greg Rowe (Carl), Latrina Sedwick (Sophie Burton), Ingrid Weir (Grace Burton); direttore di produzione: Ross Matthews; produzione: Hal McElroy, Jim McElroy per Ayer Productions, in associazione con Derek Powel, South Australian Film Corporation, Australian Film Commission; distribuzione: AAA; origine: Australia; durata: 106’. 1980 | The Plumber | t.l. L’idraulico Regia e sceneggiatura: Peter Weir; fotografia: David Sanderson (16mm./Eastmancolor); musica: Gerry Tolland; suono: Ken Hammond; montaggio: G. Turney-Smith; scenografia: Wendy Weir; interpreti: Judy Morris (Jill Cowper), Ivar Kants (Max, l’idraulico), Robert Coleby (Brian Cowper), Candy Raymond (Meg), Henri Szeps (David Medavoy);produzione: Matt Carroll, per South Australian Film Corporation e Australian Film Commission; origine: Australia; durata: 76’. 1981 | Gallipoli | Gli anni spezzati Regia: Peter Weir; sceneggiatura: David Williamson, da un soggetto originale di Peter Weir ispirato al romanzo The Broken Years di Bill Gammage e dai racconti di guerra di C.E.W. Bean; fotografia: Russel Boyd (Panavision, Eastmancolor); fotografia subacquea: Ron Taylor; cameraman: John Seale; coordinamento scenografia: Wendy Weir; scenografia: Nick Van Roosendael, Jenny Miles; direzione artistica: Herb Pinter; effetti speciali: Chris Murray, Monty Fieguth, David Hardie, Steve Courtley, Bruce Henderson; montaggio: William Anderson; musica: Adagio di Tommaso Albinoni, eseguito dall’Orchestra da Camera Jean-François Paillard, Oxygène di Jean-Michel Jarre, eseguito dall’autore, Les Pêcheurs de Perles di Bizet, eseguito da Léopold Simoneau e René Bianco, Leggende della foresta viennese e Rose del Sud di Johann Strauss, Centone di Sonata di Niccolò Paganini, It’s a Long Way to Tipperary di Judge e Williams, Australia Will Be There di Skipper Francis; musica addizionale e direzione musicale: Brian May; costumi: Terry Ryan; suono: Don Connolly; casting: Fran Burke; ricerche storiche: Kristin Williamson; consulente militare: Bill Gammage; coordinamento stuntmen: Dennis Hunt, Vic Wilson; parrucchiera: Heath Harris; assistente alla regia: Mark Egerton, Steve Andrews, Marshall Crosby, Robert Pendlebury, Attef El Taieb; interpreti: Mark Lee (Archie Hamilton), Mel Gibson (Frank Dunne), Bill Hunter (maggiore Burton), Robert Grubb (Billy Lewis), Tim McKenzie

(Barney Wilson), David Argue (“Snowy”), Bill Kerr (zio Jack), Ron Graham (Fallace Hamilton), Harold Hopkins (Les McCann), Charles Yunupingu (Zac), Heath Harris (allevatore), Gerda Nicholson (Rose Hamilton), Brian Anderson (Angus), Reg Evans (primo ufficiale), Jack Giddy (secondo uffiale), Dane Peterson (banditore), Paul Linkson (ufficiale reclutatore), Jenny Lovell (cameriera), Steve Dodd (Billy Snakeskin), Harold Baigent (Stmpy), Robyn Galway (Mary), Don Quin (Lionel), Phyllis Burford (Laura), Marjorie Irving (Gran), John Murphy (Anne Barton), Ian Govett (medico militare), Geoff Parry (sergente Sayers), Clive Bennington, Giles Holland-Martin (ufficiali inglesi), Moshe Kedem (mercante egiziano), John Morris (colonnello Robinson), Don Barker (ufficiale al ballo), Kiwi White (soldato sulla spiaggia), Paul Sonkkila (cecchino), Peter Lawless (osservatore), Saltbush Baldock (sentinella), Les Dayman (ufficiale d’artiglieria), Stan Green (sergente maggiore), Max Wearing (colonnello White), Graham Dow (generale Gardner), Peter R. House (ufficiale alla radio), gli uomini di Port Lincoln e Adelaide, il 16° Reggimento di Difesa Aerea, i cadetti della Recruit Training Unit di Edimburgo, South Australia; produttore esecutivo: Francis O’Brien; produttore associato: Martin Cooper, Ben Gannon; amministratore di produzione (Egitto): Shawki Abu Ali; direttore di produzione: Su Armstrong, Ahmed Sami; produzione: Robert Stigwood, Patricia Lovell, per Associated R & R Films; distribuzione: Cic; origine: Australia; durata: 111’. 1982 | The Year of Living Dangerously | Un anno vissuto pericolosamente Regia: Peter Weir; sceneggiatura: David Williamson, Peter Weir, C.J. Koch, dal romanzo di C.J. Koch; fotografia: Russel Boyd (Panavision, Metrocolor); fotografia seconda unità: John Seale; cameraman: Nixon Binney; montaggio: William Anderson; direzione artistica: Herbert Pinter; coordinamento artistico: Wendy Weir; effetti speciali: Danny Dominguez; musica: Maurice Jarre; coordinamento musicale: Sven Libaek; programmatore sintetizzatore: Andrew Thomas Wilson; brani musicali: Settembre, estratto da Quattro ultimi Lieder di Richard Strauss, interpretato da Andrew Davis, Il bambino, estratto da Opera selvaggia di Vangelis; canzoni: White Cliffs of Dover di Burton e Kent, interpretata da Vera Lynn, Whole Lotta Shakin Goin On, di David e Williams, interpretata da Jerry Lee Lewis, Ain’t That Lovin’ You Baby di Jimmy Reed, interpretata dall’autore, Long Tall Sally di Johnson, Penniman e Blackwell, Tutti Frutti di Penniman, Labostrie e Lubin, interpretate da Little Richard, BeBop-a-Lula di SheriffTex Davis e Gene Vincent, interpretata da Gene Vincent, Beautiful Ohio Waltz di Mary Earl e Ballare MacDonald, interpretata da Frank Bourke e The White Rose Orchestra; costumi: Terry Ryan; abiti: Anthony Jones; casting: Fran Burke; consulenza tecnica: Pudji Waseso; suono: Gary Wilkins; supervisione: Ron Purvis; assistente di regia: Mark Egerton, Chris Webb, Michael Bourchier (Filippine), Wayne Barry, Ulysses Formanez, Ken Richardson, Robert Woolcott, José Angeles; interpreti: Mel Gibson (Guy Hamilton), Sigourney Weaver (Jill Bryant), Linda Hunt (Billy Kwan), Bembol Roco (Kumar), Domingo Landicho (Hortono), Hermino de Guzman (ufficiale all’immigrazione), Michael Murphy (Pete Curtis), Noel Ferrier (Wally O’Sullivan), Paul Sonkkila (Kevin Condon), Ali Nur (Ali), Dominador Robridillo (l’uomo Betjak), Joel Agona (guardia del Palazzo), Mike Emperio (presidente Sukarno), Bernardo Vacilla (il nano), Bill Kerr (colonnello Henderson), Coco Marantha (cameriere in piscina), Kuh Ledesman (Tiger Lily), Norma Uatuhan (Ibu), Lito Tolentino (Udin), Cecily Poison (Moira), David Oyang (Hadji), Mark Egerton (addetto d’Ambasciata), Joonee Gamboa (ufficiale di Marina), Pudji Waseso (ufficiale al bar), Joel Lamangan (primo vigile), Mario Layco (secondo vigile), Jabo Djohansjan (medico), Agus Widjaja (soldato sulla barriera), Chris Quivak (ufficiale all’aeroporto); direttore di produzione: Tim Sanders; produzione: James McElroy, per McElroy & McElroy Productions, una presentazione Freddie Fields in associazione con Mgm/Ua Entertainment Company; distribuzione: Mgm; origine: USA/Australia; durata: 115’. 1985 | Witness | Witness - Il testimone Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Earl W. Fallace, William Kelley, da un soggetto originale di William Kelley, Pamela Fallace, Earl W. Fallace; fotografia: John Seale (Technicolor); fotografia seconda unità: Chuck Clifton; cameraman: Dan Lerner; scenografia: Stan Jolley; design: Craig Edgar; effetti speciali: John R. Elliot; montaggio: Thom Noble; musica: Maurice Jarre; brani musicali: What a Wonderful World di Sam Cooke, Herb Alpert e Lou Adler, interpretato da Greg Chapman, Shocking Behavior di

Paul Chiten e Sue Sheridan, Party Down di Alan Brackett e Scott Shelly; costumi: Shari Feldman; suono: Barry D. Thomas e Humberto Gatica; consulente Amish: John D. King e Norma Dunfee (dialetto); coordinamento stuntmen: Glenn Wilder e Gary Epper; interpreti: Harrison Ford (John Book), Kelly McGillis (Rachel Lapp), Josef Sommers (ispettore Schaeffer), Lukas Haas (Samuel Lapp), Jan Rubes (Eli Lapp), Alexander Godunov (Daniel Hochleitner), Danny Glover (McFee), Brent Jennings (Carter), Patti LuPone (Elaine), Angus MacInnes (Fergie), Frederick Rolf (Stoizfus), Viggo Mortensen (Moses Hochleitner), John Garson (vescovo Tchantz), Beverly May (Mrs. Yoder), Ed Crowley (sceriffo), Timothy Carhart (Zenovich), Sylvia Kauders (turista), Marian Swan (Mrs. Schaeffer), Maria Bradley (la figlia di Mrs. Schaeffer), Rozwill Young (T-Bone), Paul S. Nuss, Emily Mary Haas, Fred Steinharter, John D. King, Paul Goss, Annemarie Valerio e Bruce E. Camburn (Amish), William Francis (l’uomo di città), Tom W. Kennedy (la bigliettaia), Ardyth Kaiser e Thomas Quinn (la coppia nel garage), Eugene Dooley, Victoria Scott D’Angelo, Richard Chaves, Tim Moyer, Nino Del Buono, James Clark, Joseph Kelly, Norman Carter e Craig Clement (detective), Robert Earl Jones (guardiano), Michael Levering, Cara Giallanza e Anthony Dean Rubes (gangster), Bernie Styles (cameriere), Blossom Terry (madre alla stazione), Jennifer Mancuso (la sua piccola figlia); co-produzione: David Bombyk; supervisione alla produzione: Wendy Weir; direttore di produzione: Ted Swanson; produzione: Edward S. Feldman per Paramount; distribuzione: Paramount; origine: Usa; durata: 112’. 1986 | The Mosquito Coast | Mosquito Coast Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Paul Schrader, dal romanzo di Paul Theroux; fotografia: John Seale, A.C.S.; montaggio: Thom Noble; costumi: Gary Jones; scenografia: John Stoddard; casting: Dianne Crittenden; abiti: Bruce Ericksen; suono: Chris Newman; direzione artistica: John Wingrove assistito da Brian Nickless; musica: Maurice Jarre; inserti elettronici sotto la direzione di Maurice Jarre: Michael Boddicker, Ian Underwood, Ralph Grierson, Nyle Steiner, Judd Miller, Michael Fischer; registrazione musiche: Joel Moss per Record Plant Scorino Inc; montaggio musiche: Segue Music; supervisione montaggio musiche: Jim Harrison; brani musicali: Clap Your Hands e Sing Alleluia di Gary Johnson, eseguiti da The Grace Chapel Primary School Choir, Gimme Soca di Anthony Carter, eseguito da Byron Lee e The Dragonaires, Chuluya Mama eseguito da The Larunihati Group, Mali Mali eseguito da The Isabel Flores Group, Saviour, Like a Shepherd Lead Us eseguito da The Ron Hicklin Singers sotto la direzione di O.D. Hall; estratti di poesia: Fragment of an Agon di T.S. Eliot; accessori: Ray Mercer; assistente alla regia: Mark Egerton; assistente di Peter Weir: Moya Iceton; interpreti: Harrison Ford (Allie Fox), Helen Mirren (la madre), River Phoenix (Charlie), Jadrien Steele (Jerry), Hilary Gordon (April), Rebecca Gordon (Clover), Jason Alexander (l’impiegato), Dick O’Neill (Mr. Polsi), Alice Sneed (Mrs. Polsi), Tiger Haynes (Mr. Sempre), William Newman (capitano Smalls), Andre Gregory (reverendo Spellgood), Melanine Boland (Mrs. Spellgood), Martha Plimpton (Emily Spellgood), Raymond Clare (il primo discepolo), Emory King (l’uomo al bar), Conrad Roberts (Mr. Haddy), Michael Rogers (Mr. Maywit), Aurora Clavel (Mrs. Maywit), Butterfly McQueen (Ma Kennywick), Michael Opoku (Bucky), Adolpho Salguaro (Drainy), Rafael Cho (Leon), Sofia Coc (Alice), Margarita Coc (Verny), Wilfred Peters (Dixon), Luis Palacio (Peaselee), Juan Antonio Llanes, Abel Woolrich, Jorge Zepeda (i mercenari); produttore esecutivo: Saul Zaentz; produttore associato: Neville Thompson; direttore di produzione: Stewart Krohn; amministrazione di produzione: Judi Bunn; produzione: Jerome Hellman per Saul Zaentz Company; distribuzione: Amlf; origine: Usa; durata: 118’. 1989 | Dead Poets Society | L’attimo fuggente Regia: Peter Weir; soggetto e sceneggiatura: Tom Schulman; fotografia: John Seale; operatore: Stephen G. Shank; montaggio: William M. Anderson; scenografia: Wendy Stites; direzione artistica: Sandy Veneziano; scenari: John H. Anderson; casting: Howard Feuer; costumi: Eddie Marks; effetti speciali: Allen Hall; suono: Alan Splett; musica: Maurice Jarre; montaggio musiche: Dan Carlin; brani musicali: Water Music, Suite III in Re - Allegro di Georg Friedrich Händel eseguita da Stuttgarter Kammerorchester, Sinfonia N. 9 di Ludwig van Beethoven eseguita da Berliner Philharmoniker; canzoni: Rainbow Voice scritta ed eseguita da David Hykes, The Fields of Athenry di Pete St. John, The Battle of New Orleans di Jessie Mae Robinson eseguita da Wanda Jackson, Ridgeway Fight Song di Jerry

Rehberg, Sound Off di Willie Lee Duckworth e Bernard Lentz, Stranded in the Jungle di Al Curry, James Johnson e Ernestine Smith, eseguita da The Cadets, Hey Little Girl scritta ed eseguita da Henry ‘Professor Longhair’ Byrd; assistente alla regia: Alan B. Curtiss; interpreti: Robin Williams (John Keating), Robert Sean Leonard (Neil Perry), Ethan Hawke (Todd Anderson), Josh Charles (Knox Overstreet), Gale Hansen (Charlie Dalton), Dylan Kussman (Richard Cameron), Allelon Ruggiero (Steven Meeks), James Waterston (Gerard Pitts), Norman Lloyd (Mr. Perry), Kurtwood Smith (Mr. Perry), Carla Belver (Mrs. Perry), Leon Powmall (McAllister), George Martin (Dr. Hager), Joe Aufiery (insegnante di chimica), Matt Carey (Hopkins), Kevin Cooney (Joe Danburry), Jane Moore (Mrs. Danburry), Lara Flynn Boyle (Ginny Danburry), Colin Irving (Chet Danburry), Alexandra Powers (Chris Noel), Melora Walters (Gloria), Welker White (Tina), Steve Mathios (Steve), Alan Pottinger (Bubba), Pamela Burrell (insegnante di regia), Allison Hedges (attore), Christine D’Ercole (Titania), John Cunningham (Mr. Anderson), Debra Mooney (Mrs. Anderson), John Martin Bradley (suonatore di cornamusa), Charles Lord (Mr. Dalton), Kurt Leitner (Lester), Richard Stites (Stick), James J. Christy (Spaz), Catherine Soles (manager teatrale), Simon Mein (parroco di Welton), Ashton W. Richards (insegnante di educazione fisica), Robert Gleason (padre di Spaz), Bill Rowe (portinaio del dormitorio), Robert J. Zigler III (Beans), Keith Snyder (Russell), Nicholas K. Gilhool (Shroom), Jonas Stiklorius (Jonas), Craig Johnson (Dewey), Chris Hull (Ace), Jason Woody (Woodsie), Sam Stegeman (Sam), Andrew Hill (studente anziano);produttore associato: Duncan Henderson; produzione: Steven Haft, Paul Junger Witt, Tony Thomas per Touchstone Pictures; distribuzione: Warner Bros.; origine: Usa; durata: 128’. 1990 | Green Card | Green Card - Matrimonio di convenienza Regia: Peter Weir; soggetto e sceneggiatura: Peter Weir; fotografia: Geoffrey Simpson (Technicolor); operatore: Ken Ferris, Hughes de Haeck; scenografia: Wendy Stites; direzione artistica: Christopher Nowak; coordinamento dipartimento artistico: Lindsey Smith; arredi: John Anderson; scenari: Peter G. Hackmann, John Ringbom, June Decamp; costumi: Marilyn Mathews; casting: Dianne Crittenden; musica: Hans Zimmer; brani musicali: Concerto per Clarinetto in La maggiore di Wolfgang Amadeus Mozart, Concerto per flauto N.1 in Do maggiore: Rondò e Adagio di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguito dall’Orchestra da Camera di Monaco, Concerto per flauto e arpa in Re maggiore: Andantino di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguito da Suddeutsches Kammerorchester Stuttgart; canzoni: Holdin’ On di Beresford Romeo, Simon Law eseguita dai Soul II Soul, Strossa Stroma Sou di Mikos Theodorakis, I. Kambanelli, River, Watermark, Storms in Africa di Enya, Roma Ryan, Nicky Ryan, Oyin Momo Ado composta e eseguita da Michael Olatunji; Surfin’ Safari scritta ed eseguita dai The Beach Boys, Everything Is Gonna Be Alright, Subway Drums composta e eseguita da Larry Wright, Eyes on the Prize di Harry Stewart eseguita da The Emmaus Group Singers; suono: Lee Smith; montaggio: William anderson; assistente alla regia: Alan B. Curtiss, Liz Ryan, John Rusk; interpreti: Gérard Depardieu (Georges Faure), Andie MacDowell (Brontë Parrish), Bebe Neuwirth (Lauren Adler), Gregg Edelman (Phil), Robert Prosky (avvocato di Brontë), Jessie Keosian (Mrs. Bird), Ethan Phillips (Gorsky), Mary Louise Wilson (miss Shehan), Lois Smith (madre di Brontë), Conrad McLaren (padre di Brontë), Ronald Guttman (Anton), Danny Tennis (Oscar), Stephen Pearlman (Mr. Adler), Victoria Boothby (Mrs. Adler), Ann Wedgeworth, Stefan Schnabel, Anne Shropshire, Simon Jones, Malachy McCourt e Emily Cho (ospiti alla festa), John Spencer (Harry), Ann Dowd (Peggy), Novella Nelson (celebrante il matrimonio), John Scanlan e Arthur Anderson (agenti immobiliari), Vasek Simek (maitre), Christian Mulot e Francio Dimaurier (camerieri), Ernesto Gasco (macellaio), Jeb Handwerger e Michael David Tanney (figli di Oscar), Conrad Roberts e Ed Feldman (autisti di taxi), Chris Odo (supervisore dell’ufficio dell’immigrazione), Michele Nevirs (impiegato dell’ufficio dell’immigrazione), Rick Aviles (Vincent), Abdoulaye N’Gom (passante), Clint Chin (fioraio), Larry Wright (batterista); produttore associato: Ira Halberstadt; produttore esecutivo: Edward S. Feldman; supervisore alla produzione: Todd Arnow; coordinamento produzione: Kathy Curtiss, Jane Rosenberg; ispettore di produzione: Ira Halberstadt; produzione: Peter Weir per Touchstone Pictures, con la partecipazione di Australian Film Finance Corporation; distribuzione: Warner Bros; origine: Usa; durata: 107’.

1993 | Fearless | Fearless - Senza paura Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Rafael Yglesias dal suo omonimo romanzo; fotografia: Allen Daviau; operatore: Paul C. Babin; montaggio: William Anderson, Armen Minasian, Lee Smith; scenografia: John Stoddart; direzione artistica: Christopher Burian-Mohr; arredi: John H. Anderson; costumi: Marilyn Matthews; casting: Howard Feuer; assistente alla regia: Alan B. Curtiss, William S. Beasley, John Rusk; effetti speciali: Ken Pepiot; coordinamento stuntmen: Chris Howell; musica: Maurice Jarre; montaggio musiche: Dan Carlin; brani musicali: Sinfonia N. 3: Lento Sostenuto Tranquillo ma Cantabile di Henryk Mikolai Gorecki, eseguita da London Sinfonietta, Mai Nozipo di Dumisani Maraire, eseguita da Kronos Quartet, Concerto N. 5 in Re minore per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven, eseguito da Wiener Philharmoniker sotto la direzione di Zubin Mehta, Polymorphia di Krzysztof Penderecki; canzoni: Where the Streets Have no Name scritta ed eseguita dagli U2, Sin Ella scritta ed eseguita dai Gipsy Kings, Christmas Festival arrangiata da Leroy Anderson, Jo’s Song di Josephine Hinds; suono: Lee Smith; interpreti: Jeff Bridges (Max Klein), Isabella Rossellini (Laura Klein), Rosie Perez (Carla Rodrigo), Tom Hulce (Brillstein), John Turturro (Dr. Bill Perlman), Benicio Del Toro (Manny Rodrigo), Deirdre O’Connell (Nan Gordon), John de Lancie (Jeff Gordon), Spencer Vrooman (Jonah Klein), Daniel Cerny (Byron Kummel), Eve Roberts (Gail Klein), Robin Pearson Rose (Sarah), Debra Monk (Alison), Cynthia Mace (Cindy Dickens), Rande Mell (Peter Hummel), Kathryn Rossether (Jennifer Hummel), Craig Rovers (primo agente Fbi), Doug Ballare (secondo agente Fbi), Molly Cleator (cameriera), Rance Howard (tassista calvo), Schylar Gholson (Sam Gordon), Trevor Gholson (Benjamin Gordon), Anne Kerry Ford (madre del bebé), Michael Mulholland (volontario della Croce Rossa), Cliff Gober Jr. (paramedico), Sally Murphy (Jackie O’Neil), Steven Culp (medico del Pronto Soccorso), John Towey (John Wilkenson), Stephanie Erb (Lisa), Cordis Heard (assistente di volo), Paul Ghiringhelli (reporter), Ryan Tomlinson (amico di Jonah), Eric Menyuk (venditore della Sears), Don Amendolia (superstite maschile), Rondi Reed (Veronica Castane), Elsa Rayen (signora dai capelli grigi), William Newman (uomo anziano), Jeanine Jackson (donna dai capelli rossi), Don Boughton (Ted Matlin), David Carpenter (Chester Tucker), Rome Owens (Leonardo ‘Bubble’ Rodrigo), Kevin Brophy (reporter Tv), Joe Paulino (secondo reporter), Michael Ching (portiere), Roger Hernandez (prete), Antoinette Paragine (sorella di Laura), Ramoncita Hernàndez (nipote), Isabel R. Martinez (zia), I. Rodrigo Martinez (zio), Mel Gabel (barbone), Jarna Smith (assistente di volo 2);produttore associato: Alan B. Curtiss, Christine A. Johnstone; coproduttore: William S. Beasley, Robin Forman; produzione: Mark Rosenberg, Paula Weinstein per Spring Creek Productions; distribuzione: Warner Bros.; origine: Usa; durata: 122’. 1998 | The Truman Show | Id. Regia: Peter Weir; soggetto e sceneggiatura: Andrew Niccol; fotografia: Peter Biziou; montaggio: William Anderson, Lee Smith; scenografia: Dennis Gassner; costumi: Marilyn Matthews; supervisione effetti visivi: Michael J. McAllister; effetti speciali: Larz Anderson; direzione artistica: Richard L. Johnson; arredi: Nancy Haigh; architetti: Thomas Minton, Odin R. Oldenburg; operatore: Don Reddy; operatore subacqueo: Mike Thomas; storyboard: Joe Griffith; suono: Lee Smith; montaggio effetti: Rick Lisle, Peter Townend; montaggio dialoghi: Tim Jordan, Andrew Plain; effetti speciali visivi: Cinesite; musica: Burkhard Dallwitz; brani musicali: Piano sonata N.11 in A Maggiore di Wolfgang Amadeus Mozart eseguita da Wilhelm Kempff, The Beginning, Living Waters, Anthem - 1°parte, Anthem - 2°parte, Opening composte ed eseguite da Philip Glass, Piano concerto N. 1 in E minore, opus 11 di Frederic Chopin, eseguita da Arthur Rubinstein, Horn concerto N. 1 in D maggiore di Wolfgang Amadeus Mozart eseguito da Philarmonia Baroque Orchestra; canzoni: Twentieth Century Boy scritta da Marc Bolan ed eseguuita dai The Big Siz, Scales to America scritta ed eseguita da David Hirschfelder, Love is Just Around the Corner scritta da Leo Robin, Lewis Gerscher, eseguita da Jackie Davis; casting: Howard Feuer; assistente alla regia: Alan B. Curtiss; interpreti: Jim Carrey (Truman Burbank), Laura Linney (Meryl Burbank), Noah Emmerich (Marlon), Natasha McElhone (Laureen/Sylvia), Holland Taylor (madre di Truman), Ed Harris (Christof), Brian Delate (Kirk, padre di Truman), Paul Giamatti (Simeon), Harry Shearer (l’intervistatore), Blair Slater (Truman bambino), Peter Krause (Lawrence), Heidi Schanz (Vivien), Ron Taylor, Don Taylor (Ron & Don), Ted Raymond (Spencer), Judy Clayton (agente di viaggio), Fritz Dominique, Angel Schmiedt, Nastassja Schmiedt (vicini di Truman), Muriel Moore

(insegnante), Earl Hilliard Jr. (lavoratore al ferry), David Andrew Nash (conducente del bus/capitano del ferry), Jim Towers (supervisore del bus), Savannah Swafford (ragazzina nel bus), Antoni Corone, Mario Ernesto Sanchez (guardie di sicurezza), John Roselius (uomo sulla spiaggia), Kade Coates (Truman a 4 anni), Marcia DeBonis (infermiera), Dave Corey (guardia di sicurezza dell’ospedale), Mark Allan Gillott (poliziotto), Jay Saiter, Tony Todd (poliziotti a casa di Truman), Harry Shearer (Mike Michaelson), Una Damon (Chloe), Philip Baker Hall, John Pleshette (esecutivi del network), O-Ian Jones, Krista Lynn Landolff (cameriere del bar), Mal Jones, Sam Kitchin, Sebastian Younggblood, Marco Rubeo, Daryl Davis, Robert David, R.J. Murdock, Matthew McDonough, Larry McDowell, Joseph Lucus, Logan Kirsey, Adam Tomei, Philip Glass, Al Foster, Zoaunne LeRoy, Terry Camilleri, Dona Hardy, Joel McKinnon Miller, Tom Simmons, Susan Angelo, Yuji Okumoto, Kiyoko Yamaguchi, Saemi Nakamura; coproduttore: Richard Luke Rotschild; produttore esecutivo: Lynn Pleshette; supervisore alla produzione: Philip Steuer; produzione: Scott Rudin, Andrew Niccol, Edward S. Feldman, Adam Schroeder per Paramount Pictures; distribuzione: Uip; origine: Usa; durata: 103’. 2003 | Master & Commander: the Far Side of the World | Master & Commander - Sfida ai confini del mare Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Peter Weir, John Collee, dai romanzi di Patrick O’Brian; fotografia: Russell Boyd; operatore: Jamie Barber; operatore steadicam: Harry K. Garvin; montaggio: Lee Smith; scenografia: William Sandell; costumi: Wendy Stites; direzione artistica: Bruce Crone, MarkW. Mansbridge; arredi: Robert Gould; trucco: Edouard F. Henriques, Kate Biscoe; coordinamento effetti speciali: Sergio Jara, Daniel Sudick; effetti visivi: Asylum/Industrial Light & Magic/Pacific Title; supervisione effetti visivi: Mark Freund (Pacific Title), Pablo Helman (Industrial Light & Magic), Mitchell S. Drain, Stefen Fangmeier, Nathan McGuinness, Marc Varisco; coordinamento effetti visivi: Darcie Tang (Asylum); supervisione costumi: Dawn Y. Line; musica: Iva Davies, Christopher Gordon, Richard Tognetti; brani musicali: Ghost of Time di Iva Davies, Christopher Gordon e Richard Tognetti, eseguito da Iva Davies e Icehouse, performance al violino di Richard Tognetti, Violin Concerto N. 3 Strassburg K.216, Terzo Movimento di Wolfgang Amadeus Mozart, Adagio from Concerto Grosso Op. 6, N. 8 in G Minore Christmas Concerto di Arcangelo Corelli, Preludio da Cello Suite N.1 in G Maggiore, BWV 1007 di Johann Sebastian Bach, eseguito al violoncello da Yo-Yo Ma, Boccherini La Musica Notturna delle Strade di Madrid N. 6, Op. 30 di Luigi Boccherini, Fantasia on a Theme by Thomas Tallis di Ralph Vaughan Williams, eseguita da New Queen’s Hall Orchestra, Endless Ocean di Christopher Gordon e Iva Davies, O’Sullivan’s March, tradizionale; Spanish Ladies, tradizionale; Don’t Forget Your Old Shipmates, tradizionale, Raging Sea/Bonnie Ship the Diamone, tradizionale; casting: Mary Selway, Fiona Weir; assistente regia: Alan B. Curtiss, Adrian Grunberg, Tyler Romary; interpreti: Russell Crowe (capitano Jack Aubrey), Paul Bettany (dottor Stephen Maturin), James D’Arcy (primo tenente Tom Pullings), Edward Woodall (secondo tenente William Mowett), Chris Larkin (capitano Howard, Royal Marines), Max Pirkis (Blakeney, aiuto nocchiere), Jack Randall (Boyle, aiuto nocchiere), Robert Pugh (Mr. Allen), Richard McCabe (Mr. Higgins, aiuto chirurgo), Ian Mercer (Mr. Hollar), Tony Dolan (Mr. Lamb, carpentiere), David Threlfall (Killick, assistente del capitano), Billy Boyd (Barrett Bonden), Bryan Dick (Joseph Nagle, aiuto carpentiere), Joseph Morgan (William Warley, capitano della Mizzentop), George Innes (Joe Plaice), William Mannering (Faster Doudle), Patrick Gallagher (Davies), Alex Palmer (Nehemiah Slade), Mark Lewis Jones (Mr. Hogg, baleniere), John DeSantis (Padeen), Thierry Segall (capitano francese); coproduttore: Todd Arnow, Meyer Gottlieb; produttore esecutivo: Alan B. Curtiss; produzione: Samuel Goldwyn Jr., Duncan Henderson, Peter Weir, per Twentieth Century Fox/Miramax Films/Universal Pictures/Samuel Goldwyn Films; distribuzione: Buena Vista International; origine: Usa; durata: 138’. 2010 | The Way Back Regia: Peter Weir; sceneggiatura: Keith R. Clarke, Peter Weir dal romanzo di Slawomir Rawicz The Long Walk: The True Story of a Trek to Freedom; fotografia: Russell Boyd; montaggio: Lee Smith; scenografia: John Stoddart; direzione artistica: Kes Bonnet; costumi: Wendy Stites; musica: Burkhard von Dailwitz; casting: Lina Todd; interpreti: Jim Sturgess (Janusz), Dragos Bucur (Zoran), Colin Farrell

(Valka), Ed Harris (Mr. Smith), Alexandru Potocean (Tomasz), Saoirse Ronan (Irena), Gustaf Skarsgärd (Voss), Mark Strong (Khabarov), Sebastian Urzendowsky (Kazik), Zahary Baharov (l’inquisitore), Sally Edwards (la moglie di Janusz nel 1939), Igor Gnezdilov (Bohdan), Dejan Angelov (Andrei), Stanislav Pishtalov (il Comandante), Mariy Grigorov (Lazar), Nikolay Stanoev (Yuri), Stefan Shterev (il cuoco), Yordan Bikov (il primo divoratore d’immondizia), Ruslan Kupenov (il secondo divoratore d’immondizia), Nikolay Mutafchlev (la prima guardia), Valentin Ganev (la seconda guardia), Pearce Quigley (il professore), Sattar Dikambeyev (il cavaliere mongolo), Termirkhan Tursingaliev (il giovane cavaliere mongolo), An-Zung Le (il pastore), Hal Yamanouchi (l’ufficiale), Meglena Karalambova (la moglie di Janusz nel 1989), Irinei Konstantinov (Janusz nel 1989), Bhawani Singh (il poliziotto indiano); produzione: Exclusive Films/National Geographic Films in associazione con Imagenation Abu Dhabi FZ/Monolith Films/On the Road/Point Blank Productions/ Polish Film Institute; origine: Usa; durata: 133’.

VOLUMI SU PETER WEIR E SUL CINEMA AUSTRALIANO

Tiziana Battaglia, Il cinema di Peter Weir, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2002. Massimo Benvegnù, Filmare l’anima - Il cinema di Peter Weir, Edizioni Falsopiano, Alessandria 1997. Ken Berryman, The Australian Film Industry and Key Films of the 1970s, Australian Film Institute, Carlton 1981. Gianni Canova e Fabio Malagnini, Australia New-Wave, Gammalibri, Milano 1984. Luisa Ceretto e Andrea Morini (a cura di), Al di là del visibile - Il cinema di Peter Weir, I Quaderni del Lumière, Bologna 1999. Filippo D’Angelo (a cura di), Cinema degli antipodi. Schermi australiani d’oggi, Catalogo della XXIII Settimana Cinematografica Internazionale, Verona 1992. Filippo D’Angelo, Carmelo Marabello (a cura di), L’ultima onda - Immagini del cinema australiano degli anni Settanta e Ottanta, La Casa Usher, Firenze 1987 (la voce “Peter Weir” è curata da Paolo

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RINGRAZIAMENTI Ringrazio naturalmente Peter Weir, per la sua cortesia, e i suoi gentili assistenti Kerry Dibbs di StageOne Sound e Sally Edwards. Un ringraziamento va anche al personale della Biblioteca “Renzo Renzi” della Cineteca del Comune di Bologna, a Ciak Video di Modena, a Serena Agusto, Luisa Ceretto, Michelina Borsari, Umberto Curi.

Indice «In un passato lontano sarei stato un cantastorie che viaggiava di corte in corte» Peter Weir LE MAPPE GEOGRAFICHE DI PETER WEIR Realismo e romanticismo Smalltowns Esplorazioni Utopie negative Comunità e individuo Ordine e libertà Simulacri di società Civiltà vs Natura L’Uomo Naturale Naturalismi Simboli Apprendisti stregoni PETER WEIR, AUSTRALIA FELIX Andy Warhol nell’outback. Le macchine che distrussero Parigi Cigni e rettili. Picnic ad Hanging Rock Le piogge di Sydney. L’ultima onda Piccole apocalissi. The Plumber Veloce come il leopardo. Gli anni spezzati Il teatrino della politica. Un anno vissuto pericolosamente Com’era verde la mia valle. Witness - Il testimone Ghiaccio bollente. Mosquito Coast Cibo per vermi. L’attimo fuggente Pomodorini rossi. Green Card - Matrimonio di convenienza Il gusto delle fragole. Fearless - Senza paura Il sipario strappato. The Truman Show Il fasmide e il fantasma. Master & Commander - Sfida ai confini del mare La parabola dei nemici del popolo. The Way Back Filmografia Nota bibliografica