Il cinema di Arthur Penn 8880124625, 9788880124627

Celebre e celebrato tra gli anni Sessanta e Settanta, Arthur Penn è oggi un regista un po' dimenticato, quasi scava

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Il cinema di Arthur Penn
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Il cinema di Arthur Penn Prefazione di Goffredo Fofi

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L’Editore si dichiara disposto ad assolvere i suoi impegni nei confronti dei proprietari dei diritti di riproduzione di immagini qui pubblicate che non è riuscito a raggiungere nel corso della preparazione del volume.

© 2008 Le Mani - Microart’s Edizioni, via dei Fieschi 1 16036 Recco - Genova Tel. 0185 730153 /57 / 11- fax 0185 720940 www.lemanieditore.com e-mail: [email protected] Grafica di Marco Vimercati ISBN 88-8012-462-7 ISSN 1824-1417

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Alla memoria di mio padre I travestimenti sono studiati per trasformare la verità in un’entità che faccia parte della nostra vita – o dalla quale, sforzandosi di vivere, si possa sperare di essere salvati. James Baldwin, Dimmi da quanto è partito il treno

Il fatto che scrivere sia un atto dell’immaginazione sembra confondere e far infuriare chiunque. Philip Roth, La lezione di anatomia

Un giorno, all’ora del tè, stava leggendo Henry James quando sbottò: «E muoviti!». Alan Bennet, La sovrana lettrice

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Per aver facilitato il reperimento di materiali e informazioni, ringrazio Francesca Betteni, Alice Cati, Sara Cortellazzo, Bruno Fornara, Andrea Fornasiero, Mauro Gervasini, Veronica Innocenti, Arturo Invernici, Adriano Piccardi, Anna Sica, Simone Spoladori, Brad Stevens, Deborah Toschi. Un ringraziamento particolare a Pier Maria Bocchi, fonte preziosa di consigli fin dalla prima versione del libro, e a Nuccio Lodato, all’origine di questo progetto (come, in passato, di altri). Grazie, infine, ad Arthur Penn, che ha avuto la pazienza di rispondere alle mie tante e-mail di “interrogatorio”.

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Indice

Al diavolo Hollywood! di Goffredo Fofi

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2. La scoperta di se stesso: televisione, teatro, cinema (1951-1958) » La furia del cinema »

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1. Arthur Penn: antico, moderno, civile

3. Il cinema, sicuramente. Primo tempo (1962-1966) Il cinema è la continuazione della politica con altri mezzi Teoria della caccia, atto primo

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4. Tempi duri, cinema nuovo. Secondo tempo (1967-1976) L’impossibilità di essere normali Il mistero di un volto Una questione personale Girando a vuoto, nella notte Teoria della caccia, atto secondo

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5. Eclettismo e fine della Storia. Terzo tempo: 1981-1996 (e oltre) Sui padri e sui figli Un regista in prestito Con la televisione non si scherza Ritratto di famiglia

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Filmografia Bibliografia Indice dei nomi e dei film

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Al diavolo Hollywood! di Goffredo Fofi

Era ora. Nonostante sporadici omaggi, Arthur Penn non aveva ancora avuto nel nostro paese, e peraltro la situazione non mi sembra così diversa negli altri, il saggio complessivo sulla sua opera cinematografica che ampiamente meritava. È venuto spesso in Italia, paese che ha conosciuto subito dopo la seconda guerra mondiale quando è stato a Perugia come studente dell’Università per stranieri, grazie a una borsa che gli Usa destinavano ai giovani reduci, e in seguito perché la moglie veniva a Milano in qualità di allieva e collaboratrice di una grande psichiatra, Mara Silvini Palazzoli, che curava, a partire dal disagio di un singolo, l’intera famiglia. E fu “Linea d’ombra” a invitarlo per uno dei suoi convegni, negli anni Ottanta, tramite due suoi amici provati, Maria Nadotti e Paolo Mereghetti, mediando successivamente un bellissimo incontro con il pubblico e un seminario con giovani attori, al teatro Argentina di Roma quando era diretto da Mario Martone. L’estrema gentilezza e affabilità del regista non nascondevano una sicurezza profonda, di matrice morale, e più da Penn quacchero della Pennsylvania (dove egli è cresciuto) che da Penn dell’immigrazione ebraico-russa a cavallo di secolo, da cui proveniva. Con la guerra, con Perugia – la Perugia che era allora quella dei Centri di orientamento sociale e dei Centri di orientamento religioso di Aldo Capitini –, l’altra esperienza giovanile importante fu per Penn la permanenza presso la fondazione che ospitava un famoso cenacolo di artisti tra i migliori degli Usa d’allora, dove egli poté confrontarsi con molti che facevano della libertà della ricerca e dell’espressione la loro bandiera: e resterà questo uno dei suoi capisaldi morali. Il giovane Penn aveva appreso presto la durezza della vita e imparò presto a sapere cosa chiedere, e quando era ne9

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cessario fermarsi. Umile ma forte, duttile e intransigente, aperto alla trattativa ma pronto a fermarsi e a dire no quando le richieste di chi pagava e il compromesso che ne derivava si facevano per lui inaccettabili. Dalla televisione al cinema al teatro all’insegnamento – la sua carriera è stata un’alternanza di successi e di insuccessi, ma si ha l’impressione che non ci sia stata una sola sua scelta che non fosse meditata e calcolata, anche rispetto alle basilari esigenze di sopravvivenza ma sopra tutto a quelle espressive ed etiche, e si può anche dire, in molti casi civili. Insomma e in breve: a me pare che Arthur Penn sia uno dei grandi personaggi della cultura americana radical della seconda metà del secolo, uno dei grandi registi della storia del cinema e una delle persone più simpatiche, generose, sanamente impegnate in senso culturale-politico-morale che mi sia capitato di conoscere. Il saggio di Luca Malavasi, ammirevole per la letteraria precisione, necessità e fluidità della scrittura e per l’acutezza delle sue analisi (basta con i semiologi!) sa accostarci Penn seguendo il filo della sua attività registica, e cioè dei suoi film, senza mai dimenticare che essa è la parte più rilevante di un corpus di altre realizzazioni, teatrali e televisive, e che la sua esclamazione “Al diavolo Hollywood!” egli ha dovuto applicarla in più momenti, quando trattare con Hollywood voleva dire vender l’anima e l’arte. I tentativi di mediazione non hanno prodotto le sue opere più felici, ed è stato non cedendo ai ricatti delle grandi produzioni (dei mezzi tecnico-economici, del denaro, del potere) che egli ha realizzato i suoi capolavori. Un artista libero, un uomo libero. Non sono molti gli esempi di autori come lui, dentro il contesto americano, e oggi sono meno delle dita di una mano. Di quelli che lo hanno immediatamente preceduto, mi piace ricordare Elia Kazan, che è stato vittima col tempo di un ostracismo eccessivo per le sue passate viltà (e i moralisti che lo condannavano non erano certo migliori di lui, oltre che artisticamente inetti…), e che rimane, volenti o nolenti, autore di capolavori indiscutibili come Un volto nella folla, Fango sulle stelle, Splendore nell’erba, America, America e Il compromesso, nei suoi anni davvero d’oro, quelli dell’autoanalisi, della riflessione. Penn, come altri della sua generazione, non ha vissuto gli anni trenta e il fallimento dell’utopia, è venuto dopo e le dure scelte della guerra fredda ha potuto schivarle, ma certamente appare di un’altra 10

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capacità di resistenza rispetto a Hollywood e al “sistema” – con una spina dorsale più diritta. Da Kazan ha comunque, a mio avviso, molto appreso: un modo di girare, il rapporto con gli attori e cioè “il metodo”, e la sua finale libertà e capacità di non cedere al committente. “Al diavolo Hollywood!”. Il paragone si fa invero più istruttivo con i registi migliori della sua generazione, che dentro Hollywood hanno voluto adagiarsi, talora soffocandoci: Altman e Coppola, Pollack e Mulligan e altre speranze del periodo migliore del cinema hollywoodiano, dentro la sua crisi più grave e definitiva – il periodo migliore per la libertà degli artisti dopo gli anni venti della vera invenzione di un linguaggio poi perduto (quello dei capolavori del muto) se non dai grandissimi come Welles e Kubrick. La libertà degli anni sessanta e settanta fu una libertà determinata dalla crisi, e fu la crisi a rendere i produttori disponibili all’azzardo, permettendo lo sprigionare di idee e di energie davvero nuove, e il risveglio di quelle addormentate e avvilite dalle precedenti stagioni. Nulla a che fare con gli opportunisti successivi (la mala pianta degli all americans stellari (stelle e strisce forever, e our country right or wrong, poiché we are in the money anzi we are the money) alla Spielberg… L’unico regista che ha dialogato fino all’ultimo con il sistema senza dichiararsi sconfitto, ma che infine è stato piegato, fu Peckinpah – e la sua morte ha segnato davvero la fine di un’epoca, la fine del secolo del cinema americano – ma, se possiamo dire, Peckinpah era un anarchico, fino in fondo individualista, mentre Penn è un radical, con qualche venatura liberal, un radical del tipo più rigorosamente riformista, che non rifiuta il dialogo perché sa benissimo quand’è che bisogna fermarsi. I suoi film hanno molte particolarità: la presenza sovente del doppio o di più doppi, l’attenzione e il rispetto per una marginalità obbligata o scelta, per la difficoltà delle scelte. E un modo di affrontare i modi in cui la storia travolge vite e speranze con un humour ora stridente e ora tenero. La sua grande epoca va dalla fine dei cinquanta agli inizi degli ottanta – da un Ordine che scricchiola, finalmente, a un Ordine che si impone di nuovo dopo la grande stagione della novità, della lotta, di un’utopia la cui realizzazione sembrava a portata di mano. Il disagio e la rivolta di giovani sono la sua prima cifra: il racconto di una rivolta confusa, ma che pure è rivolta, sacrosanta rivolta… la giovinezza come esigenza di novità, di 11

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un’altra giustizia e di un’altra libertà da quella dei padri… Alle spalle, sicuramente, c’erano la cultura e le istanze del movement (e Dwight Macdonald, il Goodman di Growing Up Absurd e perfino Marcuse; certamente con, ma altrettanto certamente oltre Freud, e oltre il dominio della psicologia del profondo secondo l’Actor’s Studio). Ma con un più di giudizio, perché Penn affabula e aderisce, ma anche discute, si mette dalla parte del “basso” anche nel caso di quella geniale contrapposizione e incontro di due forme di oppressione o di (massiccia) marginalità che si incontrano e confondono nel protagonista di Il piccolo grande uomo, ma si scontrano sul terreno del potere: il “popolo degli uomini” in lotta con il popolo degli immigrati cacciati da un’Europa matrigna. Il doppio, si diceva, che è Billy the Kid e Mickey One ai limiti della schizofrenia, che è risolto in Bonnie and Clyde nella bipolarità della coppia, che è ai limiti del comico – in fin dei conti è una satira puritana – in Missouri, che in Alice’s Restaurant e Gli amici di Georgia parla direttamente del movement e, nel primo e dentro quegli anni, offre una galleria di rivolte ma se ha al centro quella mite e cosciente di Arlo ha come suo controcanto quella edipica del ragazzo Shelly, erede dei “senza causa” degli anni cinquanta (e cioè, in cinema, di James Dean). In Gli amici di Georgia, la coralità è liberata dalla psicanalisi, che nonostante tutto attraversava e distruggeva l’utopia della famiglia allargata e di tipo nuovo del “ristorante di Alice”. Qui è lo sguardo del dopo a cercare e trovare riconciliazione con le esperienze, ora profondamente sagge e ora profondamente nevrotiche, del movement. E alla fine è sull’uomo solo di Bersaglio di notte, il private eye che vede il male e non ce la fa a contrastarlo, che con una saggezza ormai molto amara, dettata dalla conoscenza che viene con la maturità ma anche dal fallimento di un movimento collettivo sul finire di una “terza guerra mondiale” che abbiamo definitivamente perduta contro il male del potere a ovest e a est (Marker)… E che con noi hanno perduto tutti, forse l’intero genere umano. Come stupirsi se Penn e Hollywood si sono rifiutati a vicenda? Quale accordo poteva esserci ancora tra Hollywood e un vero artista, un artista eminentemente lucido e morale, libero e inventivo e in dialogo costante con il suo tempo e preoccupato delle sorti della verità e della giustizia, oltre che della bellezza, negli Usa dei Reagan e dei Bush? 12

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Il saggio di Luca Malavasi affronta tutto questo con molta precisione e con molto acume, risultato della sua simpatia per l’autore. Penn non è un autore qualsiasi sul quale un giovane studioso di talento deve provare la sua intelligenza e la sua abilità, è un autore che in tutta evidenza lo ha prima incuriosito e poi appassionato. Per averlo amato e capito e per aver saputo raccontarlo così bene, io – e credo tanti della mia generazione e della successiva che in Penn ci siamo specchiati e con Penn abbiamo condiviso un po’ di sguardo o molto, un po’ d’anima o molta – gli sono sinceramente grato.

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1. Arthur Penn: antico, moderno, civile «Dopotutto, Arthur Penn è uno dei migliori registi del mondo». Ingmar Bergman1

I partecipanti sono di riguardo, come impone la serietà del tema: “Politique des auteurs”, con un punto di domanda alla fine. Si tratta di una tavola rotonda registrata su magnetofono e poi pubblicata dai «Cahiers» nel novembre del 1965, anno già sufficientemente lontano dalle origini della Nouvelle vague per consentire un primo bilancio sul doppio fronte della politica degli autori e del cinema americano, «i punti più infuocati e i passaggi più difficili della storia e della geografia della cinefilia». Ne discutono Comolli, Fieschi, Téchiné, Guégan, Mardore, Ollier. Temi all’ordine del giorno: la nozione d’autore, i criteri della sua attribuzione (stile? messa in scena? carattere?), il problema del “controllo” dell’opera, la ricaduta dell’uso della categoria nell’analisi del film, il ruolo e la professione del critico, le aberrazioni dello sguardo cinefilo, il rapporto tra Europa e Stati Uniti… L’incontro si pone dunque obiettivi ambiziosi, e non manca di un piccolo retrogusto autocelebrativo, per quanto dissimulato: se la “lotta” per l’accettazione simultanea della politica degli autori e del cinema americano è ormai sostanzialmente vinta, lo si deve in primo luogo proprio al lavoro del mensile fondato da Bazin. La vittoria, anzi, ha assunto la forma di un vero e proprio trionfo, al punto da aver prodotto una serie di conseguenze impreviste a cui la tavola rotonda intende porre rimedio. Comolli e soci lamentano in particolare una dogmatizzazione della teoria e una valorizzazione sistematica e di fatto acritica del cinema americano; è dunque necessario rivedere tutto, aggiornare gli strumenti in base all’evoluzione cui è 1. Intervista a Ingmar Bergman, «Cinema & Film», n. 5-6, estate 1968. 15

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andato incontro il cinema (europeo e americano), rinfrescare le categorie e ridar loro senso e rigore, contro una certa volgarizzazione prodotta dall’uso e dalla “moda”. La discussione, bella e densa, si chiude così su un rigoroso schema in cinque punti, in cui la nozione d’Autore è associata al riconoscimento della “novità stilistica”: «Può essere indispensabile, in effetti, al punto in cui siamo, parlare del cinema in termini di invenzione formale», valorizzando la presenza di un “tono” nuovo, di quella “piccola musica” che segna una differenza. E negli ultimi cinque anni di cinema americano (1960-1965), concludono gli intervenuti, solo due registi hanno saputo creare queste “forme nuove”: Jerry Lewis2 e Arthur Penn. Peccato che dall’altra parte dell’Oceano, in quel quinquennio di piccole rivoluzioni che anticipano la più grande stagione del cinema americano post-classico, le opinioni siano del tutto diverse. In quel momento Arthur Penn, con tre film all’attivo, può sperare davvero soltanto nell’affetto degli europei, un po’ come l’Allen/Val Vaxman di Hollywood Ending, che dopo la trionfale accoglienza parigina tributata al suo primo film – stroncato in patria – dopo anni di Tv commercials, conclude: «Qui sono un poveraccio… ma laggiù… un genio! Grazie a Dio ci sono i francesi», i loro critici e il loro pubblico, che sanno riconoscere gli autori, coccolarli, amarli (e pagare per vederne i film). Vaxman e Penn non rappresentano certo un’eccezione. L’elenco degli autori americani “scoperti” e incoronati in Europa (o tardivamente riconosciuti o recuperati), e poi rispediti al mittente col pedigree rifatto, una rassegna stampa altisonante e una manciata di premi s’allunga cronologicamente a coprire l’intera storia del cinema, infittendosi a partire dai secondi anni Cinquanta, quando la politique des auteurs sembra dotare i giovani critici del vecchio continente di un radar (o di schemi in cinque punti) quasi infallibile nella ricerca, anche retrospettiva, dell’Autore. Ma in questa ipotetica lista (che sarebbe utile, oltre che divertente, compilare per davvero, dalla A di Altman alla W di Welles) Arthur Penn, nato a Philadelphia il 27 settembre 1922 e newyorkese d’adozione, dovrebbe figurare a caratteri cubitali, soprattutto per quan2. Dal serissimo Dizionario Snob del cinema di David Kemp e Lawrence Levi (Sellerio, Palermo 2006, p. 42): «I Cahiers du Cinéma si sono resi corresponsabili della mania dei francesi per Jerry Lewis, avendolo dichiarato “le Roi du Crazy”».

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to riguarda i primi film. Se infatti la distribuzione internazionale di Furia selvaggia-Billy the Kid (The Left-Handed Gun), nell’autunno del 1958, suscita l’entusiasmo della critica francese e, a ruota, di quella italiana, subito pronte (soprattutto la prima) a officiare la nascita di un nuovo autore, il film, in patria, passa sotto silenzio, e le pochissime recensioni sono, per lo più, stroncature, come quella di Howard Thompson apparsa sul «New York Times», in cui il film viene accusato di essere laboriosamente arty (colpa, anche, del suo interprete: «Paul Newman sembra alternativamente a un provino per il Moscow Art Players e il Grand Old Opry»3). Un destino analogo e un analogo salvataggio franco-italiano toccano, qualche anno dopo, al terzo lungometraggio del regista, Mickey One (Id., 1965), “capito” davvero solo in Europa (a Venezia sfiora il Leone d’oro) e, in fondo, almeno secondo i critici statunitensi, un po’ inevitabilmente, perché troppo europeo: nelle intenzioni di Penn, in effetti, il film interpretato da Warren Beatty rappresenta il tentativo di «spingere il cinema americano in quell’area in cui si sono mossi Fellini e Truffaut»4 (fino a «negare le proprie origini americane», secondo Robin Wood). E, ancora, si potrebbero citare La caccia (The Chase, 1966) e, a conferma della resistenza del trend, Missouri (The Missouri Breaks, 1976), affondati in patria e accolti invece con favore in Europa, ma anche, sulle prime, il più grande successo di pubblico di Penn, Gangster Story (Bonnie and Clyde, 1967), che negli Stati Uniti divide la critica e, paradossalmente, ha il suo più strenuo difensore nell’autorevolissima e temutissima Pauline Kael (avversa alla moda del «director is everything»), che nelle quaranta pagine della sua accorata difesa pubblicata sul «New Yorker» riesce a incoronare il film come uno dei migliori del decennio, liquidando come quasi “accidentale” il contributo del regista alla sua riuscita5. Nel 2007, 3. H. Thompson, The Left-Handed Gun, «New York Times», 8 maggio 1958.

4. Arthur Penn intervistato dal «Times», 8 ottobre 1963. 5. P. Kael, Bonnie and Clyde, «The New Yorker», 21 ottobre 1967, ristampato in L.D. Friedman (a cura di), Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, Cambridge University Press, Cambridge 2000, pp. 178-198 (citiamo da questa edizione). Stabilito che Penn non è un nuovo Bergman né un nuovo Fellini, la Kael, a metà del suo intervento, si lancia in una difesa degli sceneggiatori contro i registi, concludendo che Benton e Newman «sono abbastanza bravi da unirsi a questa catego-

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infine, è il Festival di Berlino (ricordandosi forse degli ottantacinque anni compiuti in settembre, e dei quasi cinquanta trascorsi dal debutto) a consegnare a Penn il suo primo premio alla carriera di valore internazionale6. La vicenda potrebbe complicarsi ancor di più, ma questo assaggio può bastare. Anche perché, da un certo punto di vista, l’affaire Penn, almeno nelle sue fasi iniziali, è una questione che attiene soprattutto alla storia della critica e della ricezione: storia della cultura cinematografica, vincolata – e non potrebbe essere altrimenti – al particolare momento in cui i film appaiono e circolano, e che spesso, del singolo film, finisce per consegnare ai posteri un ritratto eccessivamente caricato di valori extratestuali. È anche vero, d’altra parte, che, al di là delle differenze di percezione, di mezzi analitici a disposizione e cultura (la Nouvelle vague, tra la fine dei Cinquanta e i primi Sessanta, è ancora una questione molto francese), lo “sdoppiamento” di Penn tra una “versione” americana e una europea (la nascita di un Autore in Francia, il faticoso decollo di un director come tanti negli Stati Uniti), suggerisce già un primo ritratto del regista come di un autore contemporaneamente in bilico su numerose frontiere diverse: geografiche, per l’appunto (e all’interno, East Coast contro West Coast), ma anche mediali (televisione, cinema e teatro), estetiche (classicismo e autorialità), stilistiche (tradiria di uomini innominabili che fanno quello per cui i registi sono glorificati» (p. 193); come a dire che la riuscita di Gangster Story è, tutta o in gran parte, merito loro. A riprova, la Kael cita Mickey One («un film d’arte nel peggior senso della parola»), in cui si vede chiaramente come il contributo di Penn non sia riuscito a salvare la povertà dello script. Penn è accusato di essere «un pochino sgraziato e piuttosto stravagante», troppo interessato «a essere cinematograficamente creativo e “artistico” per accorgersi quando affidarsi allo script: Gangster Story sarebbe migliore se fosse più semplice» (p. 194). Lo stesso Penn, in un intervento incluso nel libro curato da Friedman (Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde), osserva che nel suo pezzo Pauline Kael riesce quasi a «comunicare l’impressione che il film sia venuto alla luce a dispetto dei miei sforzi» (p. 21). 6. “Minori”, o di nicchia, in effetti, appaiono al confronto i riconoscimenti alla carriera tributati al regista in patria: due da parte di altrettanti giovani festival “locali” (il «The Director’s View Film Festival» di Stamford, in Connecticut, e il «Savannah Film and Video Festival«, in Georgia, entrambi nel 2003), uno, nel 2002, da parte della «Los Angeles Film Critics Association».

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zionalismo e sperimentazione, vecchia e nuova Hollywood), ideologiche (impegno e riservatezza)… Quel primo sdoppiamento è andato a poco a poco sparendo e, a un certo punto, la “novità” del cinema di Penn e la nascita di un autore sono stati debitamente celebrati anche in patria. A ricordarlo è però nata molto presto un’etichetta che resiste tutt’ora, quella di Penn come “il più europeo dei registi americani”: ristretta e superficiale come tutte le etichette, il suo uso contemporaneo non fa che testimoniare i molti malintesi di cui Penn e il suo cinema sono ancora vittime, anche a causa di uno scavo critico del tutto insufficiente. Un altro e altrettanto indicativo (ma più motivato) sdoppiamento patisce poi, ancora oggi, Penn: quello per cui, all’interno della sua filmografia, si è soliti distinguere tra una stagione aurea coincidente grosso modo con i margini cronologici della New Hollywood (tra Gangster Story e il terminale Missouri) e un secondo tempo minore se non addirittura trascurabile, frutto, sembrerebbe, dell’incapacità del regista di adeguarsi al cambiamento di regime del cinema americano, scandito nella seconda metà degli anni Settanta dall’avvio dell’epoca dei blockbuster, dal ritorno in salute delle Majors, dalla trasformazione del ruolo del cinema in rapporto alla società e dal mutare “ontologico” della ricerca estetica nelle mani dei cosiddetti movie brats7. «Arthur Penn – ha scritto Kolker, sintetizzando un’opinione comune – ha dato l’impressione di essere a suo agio con i margini confusi della produzione post-studio della metà degli anni Sessanta. I suoi film erano popolari, sebbene la loro popolarità derivasse da un senso di sconfitta che sembra aver rovinato il loro creatore. Come regista, Penn è giusto sopravvissuto negli anni Ottanta, e a tale sopravvivenza si è accompagnato un declino nel controllo formale e un incremento dei contenuti reazionari»8. Non a caso, la cesura più importante all’interno della sua opera coincide con il quinquennio che fa da sfondo al passaggio da una prima a una seconda versione della rinascita hollywoodiana, trasformando Missouri e Gli amici di Georgia (Four Friends, 1981) nei testimoni di due età del cinema vici7. Cfr. G. King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era dei blockbuster, Einaudi, Torino 2004.

8. R.P. Kolker, A Cinema of Loneliness. Penn, Kubrick, Scorsese, Spielberg, Altman, Oxford University Press, New York-Oxford 1988, p. 7.

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ne eppure lontanissime9. Un lustro che vale un cambio di paradigma e di generazione, durante il quale, tra i “nuovi” registi della prima ora, matura il sospetto e poi la dolorosa certezza che «i disadattati, i ribelli e gli outsider sono stati necessari al “sistema” prima per aggiustare, poi per rinnovare se stesso»10. Tra i due film, non a caso, ci sono molto teatro (a cui Penn torna dopo un decennio di assenza) e molto cinema abortito, per ragioni spesso indicative del suo disadattamento nei confronti del “nuovo”: alla fine degli anni Settanta, per esempio, dopo aver lavorato a lungo con l’amico Paddy Chayefsky sul romanzo Altereted States pubblicato da quest’ultimo nel 1978, Penn abbandona il progetto perché «gli effetti speciali non mi interessavano, volevo concentrarmi sull’aspetto umano della vicenda»11: e nel 1977, si sa, a proposito di effetti speciali, esce Guerre stellari (Star Wars, George Lucas), segnando una delle rotte principali di tutto il cinema a venire. Certo, appare oggi legittimo chiedersi di chi sia (stato) il problema, se di Penn o dell’industria del cinema americano; o se il vecchio problema di Penn con l’industria del cinema americano – che gli sottrae il final-cut dei primi film e, nella persona di Sam Spiegel, gli fa assaggiare con La caccia il modo di produzione da studio, vecchio e amaro12 – non si sia semplicemente manifestato, a un certo punto, in tutta la sua evidenza, senza trovare soluzione, dopo una continua alternanza di felici compromessi, cocenti delusioni e sdegnosi ritorni al teatro: del resto, per molti se non per tutti, l’estinzione dei fermenti della New Hollywood somiglia alla fine di una tregua momentanea (e reciprocamente vantaggiosa) tra industria e 9. Per D.A. Cook, Lost Illusions: American Cinema in the Shadows of Watergate and Vietnam, 1970-1979, Charles Scribner’s Sons, New York 2000, il fallimento commerciale di Missouri «conclude il ruolo di Penn come protagonista nella Hollywood post-Lo squalo», p. 75. 10. T. Elsaesser, American Auteur Cinema. The Last – or First – Picture Show?, in T. Elsaesser, A. Horwath, N. King (a cura di), The Last Great American Picture Show: New Hollywood Cinema in the 1970s, Amsterdam University Press, Amsterdam 2004, p. 44. 11. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, «Positif», n. 252, marzo 1982. 12. Di cui non ha mai smesso di lamentarsi, e che sembra all’origine della sua decisione di non tornare più a lavorare a Hollywood; ancora nel 1982, intervistato da «Positif» su Gli amici di Georgia (M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, cit.), afferma: «Non tornerò mai più a Hollywood. Girandovi La caccia ho conosciuto le sofferenze dell’inferno!».

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autori. E quando la prima sembra improvvisamente riaversi, riguadagnando terreno soprattutto in termini decisionali e rintuzzano un certo clima anarchico (complice, soprattutto, un più generale ritorno all’ordine), i secondi si vedono costretti a cambiare pelle, almeno un po’. Pelle o estetiche e temi o modi di produzione, variamente interpretando quel passaggio cruciale da un cinema funzionale («cinema specchio della realtà») a un cinema spettacolare («cinema nel cinema») che, sintetizzando un po’, segna l’ingresso nell’estetica postmoderna13. Per quelli come Penn, che hanno fatto la seconda guerra mondiale, sono cresciuti professionalmente in televisione, hanno una formazione teatrale e letteraria e sono approdati al cinema in piena “contestazione”, il passaggio è tutt’altro che indolore14. Alcuni, come Altman, vanno avanti per la propria strada, liberandosi del rapporto con le Majors e rinnovando ma anche inasprendo un cinema pensato come work in progress, senza prestare ascolto alla violenza delle critiche e alle fluttuazioni del favore del pubblico («Anche se fa più film di me, non è certo il regista che abbiamo amato negli anni Sessanta»15); altri, come Lumet, azzardano un salto mortale da film come Quinto potere (Network, 1976) e Equus (Id., 1977) alla fantasmagoria rutilante di I’m Magic (The Wiz, 13. Cfr. F. La Polla, Il nuovo cinema americano (1967-1975), Marsilio, Venezia 1985. 14. I registi americani della generazione di Penn, nati negli anni Venti, seguono un itinerario professionale in molti casi simile, approdando al cinema tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta dopo una più o meno lunga carriera televisiva. Altman è del ’22, e dopo aver fatto il pilota d’aviazione in Indonesia e nel Borneo, rientra negli Usa cominciando a lavorare in televisione, per poi debuttare nel lungometraggio nel ’55 con The Delinquents. Robert Mulligan (1925) combatte la seconda guerra mondiale in marina, lavora per Fred Coe alla NBC e passa al cinema nel ’57; Sidney Lumet, classe 1924, entra alla NBC nel ’49, lo stesso giorno dell’assunzione di Mulligan, e debutta al cinema nel ’57 con La parola ai giurati (Twelve Angry Men); per un po’, frequenta anche l’Actors Studio, ma se ne va insoddisfatto. Stuart Rosenberg, del ’27, newyorkese, gira moltissima televisione a partire dalla fine degli anni Cinquanta, per poi esordire nel lungometraggio nel 1960 con Sindacato assassini (Murder, Inc.). John Frankenheimer, classe 1930, lavora in televisione fin dai primi anni Cinquanta, ed esordisce nel ’57. E, ancora, si potrebbero citare i percorsi analoghi di John Cassavetes, Martin Ritt e Franklin J. Schaffner. 15. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, «Linea d’ombra», n. 48, 1990.

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1978): sopravvivono, ma i danni sono ingenti. Oppure, in certi casi, c’è chi percorre la strada di un certo disfattismo: la nostalgia si rivela un’ottima soluzione estetica e commerciale (molto meno “sentita” di quanto in genere si pensi); concilia vecchio e nuovo, ammorbidisce il passaggio e offre qualche riparo ideologico, al limite dell’alibi: Pollack, per esempio, appena più giovane di Penn, affronta il giro di boa con Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman, 1979), prima di convertirsi alla commedia con Tootsie (Id., 1981). Altri ancora, come Mike Nichols, esordiente incendiario, finiscono alla deriva, spesso in modo definitivo. E ci sono anche, infine, quelli che non si rianno più, come Robert Mulligan, o che alla luce di un nuovo sole mostrano di essere stati bravi solo a giocare astutamente con stereotipi, forme e necessità dell’epoca (Frank Perry). Il cambio di paradigma alla metà degli anni Settanta, inoltre, coincide con un salto generazionale tra i più marcati della storia del cinema americano: e il nuovo possiede un profilo così diverso – per formazione, esperienze e obiettivi – da costringere alla rincorsa molti degli ancor giovani autori “new” degli anni Sessanta. I cui film, improvvisamente, sembrano staccarsi da loro, per andare a comporre una costellazione di piccoli e grandi capolavori che sono già e subito storia, recente passato, utopia e modello, assimilati e impacchettati come “l’ultimo grande spettacolo americano”16. Come gli anni Sessanta e i primi Settanta, allontanati frettolosamente sullo sfondo da un altro tipo di restaurazione17. Il cursus penniano sembra dunque soffrire in modo peculiare del giro di vite impresso dall’industria e dai nuovi autori al cinema americano della metà degli anni Settanta. Come suggerisce sbrigativamente Kolker, Penn resta indietro, ancorato a un’idea poco disponibile ad aggiornarsi, fedele a pratiche, valori e ideali che c’entrano poco con la rivoluzione in corso, che mira – almeno sul fronte dell’industria – ad assog16. È la traduzione del titolo del migliore studio sul cinema della New Hollywood: T. Elsaesser, A. Horwath, N. King (a cura di), The Last Great American Picture Show... cit., (con la Faye Dunaway di Gangster Story in copertina). 17. Per una ricostruzione sintetica ma efficace del passaggio dagli anni Sessanta al decennio successivo, con particolare riferimento al clima culturale, si veda G. Corsini, Dagli anni ’60 agli anni ’70, in AA.VV., Hollywood 1969-1979. Cinema, cultura, società, Marsilio, Venezia 1979, pp. 19-34.

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gettare (di nuovo) l’estetica al consumo e a ristabilire con chiarezza i margini del cinema commerciale (inaugurando così un decennio, gli anni Ottanta, ricordato non a torto come uno dei peggiori della storia del cinema, non solo americano). Penn resta indietro e indietreggia, sfiorando la lamentela reazionaria – proprio lui, mai ribelle, certo, ma sempre solidale con le grandi e piccole battaglie dei rivoluzionari anni Sessanta. Come dimostrano precocemente Spielberg e Coppola, per sopravvivere e far soldi sono adesso necessarie un po’ più di furbizia, una maggiore elasticità produttiva e creativa e un’attitudine più disinibita nel coniugare “arte” e affari; la tecnologia, poi, ha assunto un ruolo decisivo mentre tornano centrali le vecchie logiche “sistemiche” (studio e soprattutto star). Col tempo, inoltre, è cambiato anche il pubblico, e con quello che comincia a sedersi al cinema negli anni Settanta Penn sembra non riuscire più a dialogare, al punto da cadere nella trappola autoindulgente di attribuire gli insuccessi commerciali dei suoi film di quegli anni (Bersaglio di notte, Missouri, Gli amici di Georgia) proprio a un ritardo degli spettatori americani. Ma più che restare indietro, nella seconda metà degli anni Settanta, a quasi sessant’anni, Penn sembra non avere alcuna voglia di “aggiornarsi”: la tecnologia corre troppo in fretta, l’industria si sta ricostruendo in una forma che non gli piace ed è vittima di una crisi personale (che ne riflette una generazionale) in cui si intrecciano vita privata, cinema e attivismo politico. Il decennio reaganiano lo atterrisce: «Negli anni Ottanta è cambiata l’America. […] È salito al potere Reagan e la sua filosofia individualista ha pian piano conquistato tutti. E per i registi, il primo problema è stato quello di riuscire a trovare i soldi per i loro progetti. Una volta cercavi prima le storie, le sceneggiature, le star: adesso devi cercare prima i soldi. Prima passi in banca, poi viene tutto il resto. E naturalmente i soldi te li danno per fare certi film e non altri. Oggi sarebbe impossibile rifare Piccolo grande uomo. Chi ha i soldi li investe in film decisamente meno inusuali, meno eccentrici rispetto alla produzione corrente. Quello che ha caratterizzato gli anni Ottanta è stato proprio il trionfo dei Grandi Affari. Specie negli Stati Uniti, dove la dipendenza del cinema e più in generale delle arti dal grande capitale è totale, assoluta»18. 18. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, cit.

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Col tempo, dunque, i film si diradano, allontanandosi l’uno dall’altro, e quasi smettono di somigliare a una filmografia; e dopo due ennesimi insuccessi di pubblico come Gli amici di Georgia e Target-Scuola omicidi (Target, 1985), i film successivi saranno praticamente invisibili al di fuori del mercato americano, mentre l’elenco dei progetti abortiti si allunga, arrivando quasi a eguagliare il numero di quelli realizzati. Fermo a metà strada, Penn non si adegua al nuovo decalogo per incompatibilità profonde, né riesce a traghettare sulla sponda opposta del cinema d’autore e a riqualificare la propria posizione in rapporto alle mutate esigenze del mercato. Il suo vecchio problema con l’industria hollywoodiana, con le sue logiche capitalistiche e il suo sempre più marcato e ignorante managerismo si accentua ulteriormente e finisce per trasformarsi, anche se involontariamente e a volte solo di riflesso, nel tema dei suoi film più recenti: Con la morte non si scherza (Penn & Teller Get Killed, 1989) è una satira situazionista sul rapporto malato tra arte e mezzi di comunicazione, mentre è fin troppo facile sganciare l’ossessiva metafora dell’accecamento su cui si regge Urla dal buio (Inside, 1996) dal suo rapporto diretto col tema dell’Apartheid per riferirla alla condizione personale del regista; e c’è anche chi ha visto nel (finto) regista paralitico di Omicidio allo specchio (Dead of Winter, 1986), impegnato in una produzione fantasma, una metafora della condizione reale di Penn. Accade così che, presi in blocco, i film che coprono la seconda parte della carriera del regista (a quelli citati va aggiunto il televisivo Ritratti [The Portrait, 1993]), somiglino a un gruppo un po’ eccentrico e disperso, singole occasioni e progetti isolati, accettati talvolta per necessità; “semplici” film senza una firma particolare perché troppo legati al genere (Omicidio allo specchio) se non addirittura “di servizio”, come Con la morte non si scherza, in cui Penn sembra prestarsi a una registrazione passiva delle performance dei due celebri comici protagonisti, o come nel senile Ritratti, dove la regia si fa invisibile per lasciare spazio a Lauren Bacall e Gregory Peck: nulla a che vedere, insomma, con i film che l’hanno reso celebre, dotati al contrario di una forte continuità e coerenza interna. Non a caso, poi, sia Ritratti sia Urla dal buio vivono dei soldi (e hanno il formato piccolo) della televisione. Condizioni produttive a parte, guardando alle pellicole degli anni Ottanta e Novanta si ha l’impressione che il cinema di 24

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Penn, dopo Gli amici di Georgia, abbia virato verso un intimismo che prima non possedeva, per metà prodotto delle sue difficoltà a farsi finanziare i film che vorrebbe davvero realizzare, per metà frutto di una specie di isolazionismo creativo (una versione inasprita e disincantata dei “gran rifiuti” di cui è stato capace in altri momenti). Un intimismo di storie – più piccole, private, di respiro minore; un intimismo espressivo, caratterizzato da pochissimi azzardi stilistici e da una decisa riapertura verso quel classicismo che ha sempre e comunque nutrito il suo cinema; un intimismo ideologico, effetto di una radicale perdita di riferimenti generazionali e collettivi, per cui i film viaggiano come fossero singole entità, staccate da una riflessione più ambiziosa dietro la quale sia possibile cogliere la presenza determinante di “una visione del mondo”. La seconda parte della carriera di Penn finisce così per certificare indirettamente l’impossibilità di rinnovare quel contatto diretto, quell’immediatezza comunicativa, quella trasparenza di significati e quella condivisione di valori che qualificava l’“esperienza” del cinema (suo e degli altri) negli anni Sessanta e nei primi Settanta. E mentre l’occhio invecchia e il cinema cambia pelle, anche il reale, a poco a poco, sembra svuotarsi di storie, personaggi, eventi: l’America «è diventato un paese senza motivi di interesse. Qui da noi non succede quasi più niente che valga la pena di essere raccontato e poi filmato»19. L’appeal dei suoi film si fa di conseguenza sempre più post o neo classico, a tratti manierista, e a volte, del vecchio Penn, sembra non restare nulla: come puntualizza Bénoliel recensendo Urla dal buio, «certi registi epurano il loro stile invecchiando, dando così a vedere l’architettura segreta della loro arte. Altri ne mostrano lo scheletro»20. Letterario o di impianto teatrale, il secondo tempo della produzione penniana enfatizza l’idea di messa in scena e ragiona sul senso della finzione e dello spettacolo secondo un dettato “ingenuo” e tradizionale, fedele a un’idea di rappresentazione neppure lontanamente sfiorata dai turbamenti del postmoderno. E proprio il legame con il teatro, in altri momenti intelligentemente riutilizzato in chiave cinematografica, si rende adesso più esplicito (Ritratti, Urla dal buio), affermando in modo indiretto una specie di ritorno alle origini e al primo, vero amore. Come alla fine degli 19. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, cit. 20. B. Bénoliel, Inside, «Cahiers du Cinéma», n. 513, maggio 1997.

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anni Cinquanta, in effetti, Penn, da almeno un ventennio, è soprattutto un regista teatrale, sporadicamente impegnato al cinema o in televisione, rispetto ai quali manifesta un interesse intermittente e modellato solo in parte sulle proprie esigenze espressive. E inevitabilmente o di conseguenza, i suoi film più recenti hanno perso a poco a poco visibilità e potere d’impatto, quando invece, in passato, belli o brutti che fossero, sono sempre riusciti a imporsi all’opinione pubblica per la forza del loro impegno. Si riaffaccia così, in modo più determinante, il problema dell’autorialità, dividendo ulteriormente il campo: al Penn americano e a quello europeo si aggiungono l’Autore (negli anni Sessanta e primi Settanta) e la sua progressiva negazione. Una terza dicotomia, ancora attuale come la precedente e anzi da essa derivata e in fondo confermata, segmenta e filtra criticamente l’opera penniana: quella che distingue tra i film e il loro autore, e che ha una specie di atto di nascita proprio nel già citato articolo della Kael, per la quale Gangster Story deve la sua forza e intelligenza alla particolare sintonia degli sceneggiatori – la celebre coppia formata da Robert Benton e David Newman – con il materiale di cui trattano in rapporto alla società americana del tempo e, più in generale, a una specie di “spontaneismo” connesso alle libertà ideative, realizzative e produttive della New Hollywood. Non è un caso, del resto, che si sia scritto e si scriva ancora moltissimo dei film (dei soliti film) e pochissimo del loro regista (in termini di “autore”): le sole pagine dedicate a Gangster Story superano di gran lunga il totale di quelle delle monografie consacrate a Penn, che continuano a essere poche e poco aggiornate, perfino nella Francia che ancora si vanta di averlo “scoperto”. A qualcuno, del resto, Penn comincia ad apparire oggi, proprio a causa dei lavori più recenti, il regista “per caso” (dimenticato dalle nuove generazioni e poco amato dai cinefili, che in genere gli preferiscono i contemporanei Peckinpah e Corman) di una manciata di film rimasti nella storia, figli del particolare momento vissuto dalla società e dal cinema americani lungo gli anni Sessanta: un’epoca di cui egli sarebbe stato soprattutto un attento osservatore e un testimone acuto, al posto giusto nel momento giusto e al centro di una rete di nuovi “autori” in cui il director non pesa, almeno nel caso di Penn, più di altre figure – quasi fosse il cantore 26

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anonimo di un’epica che non ha bisogno di autori. Così facendo, ci si dimentica non soltanto dell’autore a vantaggio dei film, ma anche dei film stessi, per assumerli come “prodotti culturali”: un destino peraltro comune a molta produzione New Hollywood che, rivista oggi, sembra valere soprattutto come «specchio più puntuale di una generazione e della sua cultura», meritevole di averla accompagnata «attraverso la ribellione, il disincanto e la paura»21. Eppure sarebbe come minimo restrittivo riconoscere all’opera di Penn un valore esclusivamente testimoniale, e adottare di conseguenza (perché così vogliono i film) uno sguardo inclinato verso la sociologia. Del resto, anche nelle opere più “attuali” o schierate, come Alice’s Restaurant (Id., 1969) e Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970), il côté “politico” o didascalico non prevale mai. Penn si mantiene sempre a distanza di sicurezza sia dall’instant-movie, destinato prima o poi a scadere (come nel caso di certi film della controcultura studentesca), sia dal documentarismo travestito; e quando decide di lavorare con immagini “dal vero”, come in Urla dal buio, le confina significativamente ai titoli di testa. Si mantiene a distanza e preferisce prenderla larga: colpito al cuore dall’assassinio Kennedy22, non ne parla, se non per piccoli cenni, ne Gli amici di Georgia, ambientato in quegli anni, ma piuttosto ne La caccia, costruendo un dramma classico e iperrealista sui conflitti di classe, sesso e coscienza del profondo Sud, per risalire dal piano fattuale a quello antropologico se non addirittura spirituale. Indagando insomma le cause profonde e le ragioni antiche e allargando il quadro dell’inchiesta al malessere di tutti, dentro tutti, al di là del piano basso della cronaca. Sbaglia insomma Kolker quando sostiene – all’interno di un discorso comunque interessante, e che parte proprio dal 21. E. Martini, Verso la New Hollywood, in Id. (a cura di), Innamorati e lecca lecca. Indipendenti americani anni ’60, Lindau, Torino 1991, p. 102. 22. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, «Positif», cit: «… avevamo questa figura romantica, questo uomo intelligente con una moglie splendida, questo difensore delle arti che tentava di imporre l’idea di cultura nel Paese – e poi tutto si è brutalmente fermato». Il ricordo dell’assassinio di John Kennedy torna in moltissime interviste e, come si vedrà, lascia segni importanti ed espliciti in molti film del regista. Non soltanto dal punto di vista politico, può essere senz’altro assunto come l’episodio della storia americana che, in chiave traumatica, ha più influenzato la “visione del mondo” di Penn.

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considerare l’intreccio profondo e complesso tra il cinema di Penn e la società americana – che certi suoi film degli anni Sessanta, e particolarmente Piccolo grande uomo e Alice’s Restaurant, per il fatto di essere stati «barometri acutissimi del proprio momento, passato quel periodo hanno perso di interesse, fino a diventare prodotti culturali, più che cinematografici»23; Kolker, del resto, è di quelli per cui Penn non sarebbe esattamente un grande regista ma piuttosto «un indicatore importante di ciò che accade nel cinema, soprattutto per quanto riguarda la sua risposta nei confronti della situazione culturale presente»24. Sbaglia, e di tanto: anche a volerlo ricondurre esclusivamente al suo contesto, un film come Alice’s Restaurant rivela infatti di non essere per niente un barometro del “movimento” o della controcultura, tanto da essersi attirato, all’epoca, le accuse degli attivisti. Guardare in questi termini – soltanto in questi termini – al cinema di Penn significa inoltre sopravvalutare la sua dipendenza, artistica ma anche politica e ideologica, dalla realtà che lo circonda, alla quale egli partecipa nei panni dell’osservatore/narratore piuttosto che dell’attivista; e significa, in secondo luogo, disconoscere il valore propriamente poetico di quei piccoli travestimenti necessari grazie ai quali riesce, sempre e comunque, a contemplare il suo tempo al di fuori del tempo, penetrando l’orizzontalità del reale con la verticalità del simbolo per consegnare storie e personaggi che parlano, contemporaneamente, dell’America di quegli anni e dell’America di sempre. Così, se proprio si dovesse indicare, tra i suoi film, quello più direttamente legato alla “generazione degli anni Sessanta”, la scelta dovrebbe ricadere non tanto sul ritratto della comune governata da Alice e Ray (su cui Penn posa uno sguardo malinconico ben lontano dalla vivacità o dalla critica interclassista, risolta normalmente a favore dei giovani, di altre pellicole coeve) ma al dramma dell’immigrato iugoslavo Danilo di Gli amici di Georgia, aspirante musicista, figlio e marito in un Middle-West che negli anni Sessanta somiglia ancora molto al sud razzista e reazionario di La caccia, e in cui i conflitti portati alla luce dai movimenti giovanili del decennio sono osservati da un’angolatura al tempo stesso privata e universale, grazie alla straordinaria capacità di Penn di riconnettere 23. R.P. Kolker, A Cinema of Loneliness, cit., p. 19. 24. Ivi, p. 20.

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ogni volta il piano più immediato del racconto a quello profondo e inalienabile della storia degli Stati Uniti. A dar troppo peso al valore testimoniale del suo cinema – che pure, certo, non va né rimosso né sottostimato – si rischia insomma di rinnovare ed estendere ad altri film il punto di vista della Kael su Gangster Story o, seguendo Kolker, di guardare al lavoro di Penn come al risultato di una serie di spunti ideativi e di suggestioni creative semplicemente ben colti (e ancor prima vissuti) all’interno di un particolare momento della storia e dell’industria cinematografica statunitensi, in cui la forza dell’azione sembra tradursi linearmente in una reazione di ordine artistico. Un punto di vista tanto più ingannevole oggi, quando la distanza da quel momento e da quella storia potrebbe o dovrebbe condurre a una rilettura radicale e meno soggetta al potere di certe mitologie. Si rischia, per altro verso, di eleggere un criterio di valutazione che, tutto sommato, sembra funzionare bene per i film degli anni Sessanta ma un po’ meno per quelli (e sono metà filmografia) realizzati a partire dai secondi anni Settanta, quando un certo “clima” e un certo modo di fare cinema entrano definitivamente in crisi; con la conseguenza, che somiglia a un’impasse critica simmetrica e opposta a quella della “ricerca dell’autore” a ogni costo, di archiviarli come una serie di passi falsi. Vista com’è andata al cinema di Penn e al modo di guardarlo e di scriverne, verrebbe quasi da pensare a lui come a un regista che, più di altri, ha patito il legame con la Nuova Hollywood e la precoce “sacralizzazione” del movimento, e che è stato per certi versi scavalcato e ridimensionato dai suoi stessi film e dal “peso”, tra il mitico e il generazionale, che alcuni di essi hanno guadagnato all’indomani della loro uscita e ancora conservano intatto, primo fra tutti Gangster Story. Non solo: qua e là, anche se con un certo pudore, si trova qualche critico pronto a sollevare il dubbio che molti dei film della New Hollywood (comprese certe pellicole penniane), se sottratti dall’aura mitica che ancora li circonda e riletti alla luce dei sacri valori atemporali dell’estetica cinematografica sarebbero, proprio a causa di una specie di deficit autoriale, opere minori. Il che significa, per altro verso, far coincidere l’autorialità di questi film con una sorta di funzione bardica: ciò che, per definizione, mette fuori gioco l’esigenza di autori in carne e ossa.

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Eppure, nel bene e nel male, è proprio la stagione della Nuova Hollywood che appronta, anche per il futuro, un’idea di cinema e un modello d’autore destinati, nel caso di Penn, a resistere a lungo, nonostante le ammaccature e i segni del tempo, contro il mutare degli scenari mediali e il ribilanciamento dei pesi e dei poteri assegnati all’immagine cinematografica nel suo rapporto con la società degli spettatori – al punto che il problema di Penn con l’industria del cinema americano (di ieri e soprattutto di oggi) assume, a partire dagli anni Ottanta, anche il valore di un referto generalmente pessimistico circa la possibilità di continuare a praticare un certo tipo di cinema e di continuare a essere un certo tipo di autore. Tale resistenza si spiega col fatto che le piccole e grandi rivoluzioni/rivelazioni che vanno sotto il nome di New Hollywood s’innestano, nel caso di Penn, su un’inclinazione personale già orientata in quella direzione, al punto da trasformarlo in una sorta di padre, più che di prodotto, della rinascita americana. Guardando alla prima manciata di lungometraggi, sperimentalmente in cerca di forma e di cinema, si riconoscono infatti già all’opera, da un lato, un’idea funzionalista della creazione artistica e, dall’altro, una fiducia – destinata non a caso a incrinarsi sulla scena contemporanea – nelle risorse del cinema (ispirata dalle verifiche compiute a teatro) di agire effettivamente nella realtà, contribuendo di volta in volta a svelarla, illuminarla, arricchirla. Due componenti fondamentali del mestiere penniano, che hanno origine nella sua storia, sensibilità e cultura personale, e che s’incontrano felicemente con le pratiche e i valori del cinema moderno (rinnovatosi proprio in direzione di un più immediato e critico rapporto tra cinema e società); due componenti che incorporano direttamente un’idea di spettatore molto lontana dal disimpegnato pubblico semplicemente vedente del cinema commerciale, e più vicina allo spettatore attivo e creativo della platea teatrale. Questa “ispirazione” non è passeggera, e vale anzi come premessa a tutti i film di Penn, prima e dopo i confini cronologici della New Hollywood; essa è inoltre all’origine del “passo indietro” che egli è sempre disposto a compiere rispetto all’opera (per l’opera) e della decisione di non radicarsi mai, più o meno narcisisticamente, in una poetica o in una politica: come pochi altri registi della sua generazione, egli, per esempio, sa sempre distinguere, preliminarmente e a vantaggio del risultato complessivo, se un film può diventare “d’autore” o se 30

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gli si domanda “soltanto” di dirigerlo. Il film è la cosa più importante: più importante della firma, della continuità autoriale, del piacere personale o dell’urgenza espressiva; e la sua visione del cinema, coerentemente, si rivela per molti aspetti più classica che “new”, umana e di bottega, artigianale e collettiva, in cui il buon esito non dipende dalla libertà del regista di impossessarsi completamente dell’opera, ma dalla possibilità di orchestrare in modo armonioso il dialogo tra le molte voci coinvolte: le amarezze causatagli dalla lavorazione di Furia selvaggia e La caccia non dipendono soltanto dal fatto di essere stato escluso dalla fase di montaggio, ma dai troppi conflitti nati sul set, tali da rendere difficile se non impossibile lo scambio professionale e umano. Anche per questo, a volergli attribuire un solo aggettivo, il cinema di Penn si potrebbe definire, semplicemente, civile. Per il suo impegno, la sua ambizione e il ritorno puntuale se non ossessivo al mito, all’origine e al paesaggio americani, esso sembra inoltre inserirsi idealmente in quella tradizione di grandi scrittori statunitensi, metà letterati e metà pensatori, che fin dall’Ottocento hanno saputo raccontare il loro Paese partecipando attivamente alla costruzione di una tradizione, di un repertorio di figure e, insieme, di una lingua; e vien facile, per via della somiglianza delle etichette, sovrapporre Rinascimento americano e Hollywood Renaissance, e fare di Penn un novello Cooper (più che un Irving)25. Di certo, da quella tradizione libertaria discende al regista uno sguardo al tempo stesso amorevole e arrabbiato che torna cocciutamente – ma senza programmi, portato da un bisogno intimo – a posarsi sulla mappa geografica, culturale e politica della società americana, sui suoi modelli di comportamento, sulla sua storia, sulle sue contraddizioni e i suoi interrogativi; cent’anni dopo, del resto, il cinema ha tutte le carte in regola per prendere il posto del romanzo come luogo di elaborazione e passaggio, e nelle mani di Penn si trasforma puntualmente in uno strumento capace di connettere presente e passato, di proiettare un’immagine attuale e retroproiettare lo scheletro della storia, di continuare sulla strada del “grande racconto” di formazione riannodando il mito alla cronaca e magari polverizzando l’epica. Rinuncian25. Sul Rinascimento letterario americano si veda G. Fink, M. Maffi, F. Minganti, B. Tarozzi, Storia della letteratura americana, Sansoni, Firenze 1994.

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do sempre, come anticipato, a un discorso per sé: tra tutti i grandi autori della modernità (americana e europea), Penn è, non a caso, quello dallo stile meno riconoscibile, più sfuggente e mutevole (e al limite anonimo), in cui la ricerca sul mezzo percorre sentieri privi di un’autonomia forte, applicandosi di volta in volta al progetto in corso e pensando la forma come risposta espressiva “locale”, non come firma o visione del mondo imposta alle cose. Da un film all’altro, si osserva piuttosto il ritorno ossessivo di certi temi, primo tra tutti quello della violenza, riconosciuto fin da Furia selvaggia come il termine dominante e identificativo della cultura americana. L’autorialità, più o meno cercata e esibita, è di conseguenza pensata in rapporto all’occasione, di volta in volta selezionando ciò che si dà come evidenza, urgenza, problema, e accettando di alternare film “d’autore” a film da “regista”. Ogni film di Penn, sottotraccia, rappresenta una sfida, piccola o grande, nei confronti dei “colletti bianchi” di Hollywood, la «factory town» dove i film si facevano e ancora si fanno in serie. Ma proprio in virtù di una percezione elastica e non ideologica del ruolo del regista-autore, il suo rapporto con gli apparati produttivi della vecchia e nuova Hollywood riesce sempre a raggiungere, dopo le prime difficoltà, un equilibrio vincente, tanto da consentirgli, anche se in forme spesso miste, di lavorare con tutte o quasi la grandi case di produzione americane senza diventare mai un “loro” regista. In molti casi, per sottrarsi almeno un po’ al controllo del capitale, gli è sufficiente mettere centinaia di chilometri tra il suo set e gli uffici californiani delle Major e trasferire il montaggio nella sua amata New York; altre volte, è pronto a rinunciare a stanziamenti milionari per qualche libertà in più; altre volte ancora, benché a malincuore perché ciò significa disperdere tempo ed energie sottraendole alla direzione del film, accetta il ruolo di produttore. Penn, del resto, non dà mai l’idea, in nessun momento della sua carriera, di voler essere a ogni costo un indipendente “puro”, all’europea; con gli Studios preferisce negoziare: le possibilità che gli offrono – in primo luogo i grandi attori con cui desidera lavorare – controbilanciano, almeno in parte, gli eventuali limiti imposti alla sua libertà. Solo gli Studios, poi, possono garantirgli certe possibilità di budget (anche i suoi film più “poveri” non lo sono mai del tutto) e, soprattutto, quella visibilità pubblica che, da sola, dà senso al (suo) cinema. 32

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Accanto alla matrice civile è ben viva, in Penn, un’attitudine che si potrebbe definire fenomenologica: sono lo stato e la forma delle cose a decidere, prima di tutto, della loro apparizione, del loro accadere e del loro mostrarsi. E, su un altro piano, della loro eventuale “cinematograficità”, come rivela l’avanti e indietro tra cinema e teatro: non una semplice alternativa ma una duplice possibilità, in cui la scelta dell’uno o dell’altro sembra nascere di volta in volta da una verifica di fattibilità polemica, come risultato di un’indagine permanente sulla reale efficacia del “mezzo” di interagire con il tessuto sociale (un’idea di mobilità pragmatica che è l’altra faccia delle oscillazioni sopra indicate): «Negli anni Sessanta, il teatro mi è sembrato inadeguato per esprimere il malessere e l’inquietudine dei tempi, mentre il cinema era il mezzo più adatto. Immagine, azione, violenza, tutto sembrava l’idioma del giorno»26.

Viceversa, il decennio successivo – alla metà del quale gli insuccessi di Bersaglio di notte e Missouri rivelano drammaticamente all’autore che i tempi, ormai, sono cambiati – segna un deciso ritorno al teatro: «Negli anni Settanta penso di aver smarrito la via. La vita politica e sociale del paese non mi piaceva. Il caso Watergate e i fatti che ne seguirono erano più di quanto avrei potuto prevedere. Mi sentivo immobilizzato. Avevo la sensazione di non riuscire ad aggrapparmi ad una maniglia che in qualche modo mi desse una spinta. In quel momento ho sentito che dovevo recuperare le mie origini; gironzolando per l’Actors Studio e per i teatri di Broadway ascoltavo giovani scrittori che ricominciavano a discutere di drammi e non più di happenings. È stato un segno meraviglioso e così sono tornato al teatro»27. La carriera cinematografica di Penn, presa in blocco e guardata un po’ dall’alto, è anche questo: un diagramma di flussi in cui strappi, oscillazioni, pause, andate e ritorni contengono un commento implicito sullo stato di salute dell’immagine in rapporto alla realtà, nonché ai luoghi della sua 26. A. Penn, Prefazione a A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, L’Epos, Palermo 2000, p. 9. 27. Ibidem.

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produzione e ricezione. Una filmografia in cui non c’è un solo film fatto soltanto per fare un film, perché lo si deve a qualcuno o perché è necessario realizzarlo, anche controvoglia, per restare attivi e visibili («Non ho nessuna intenzione di fare un film […] pensato solo per incassare e non per dire qualcosa di mio. Non mi interessa. Posso vivere ugualmente. Preferisco lavorare a teatro. Niente di eccezionale ma mi permette di non andare a Hollywood a elemosinare una regia»28). È una filmografia, quella di Penn, le cui interruzioni sono sempre piene di qualcos’altro, di teatro, certo, ma anche di film mancati o rifiutati, e che in quanto sguardi sulla società americana valgono quasi come un film fatto, mentre il loro non farsi si traduce spesso nel segno di un disinteresse o un’impossibilità indicativi. Il problema, vecchio e annoso e al tempo stesso emblematico di Penn con l’industria hollywoodiana ne incrocia e ne sottintende dunque un altro: quello di Penn con la società, la politica e la cultura statunitensi, di cui il cinema è da sempre un avamposto armato e fin troppo consapevole di quello che si può e deve dire. Se tutta la sua produzione compresa tra l’apripista Gangster Story e il commercialmente fallimentare Missouri vale ancora oggi come emblema della New Hollywood, è proprio per l’evidenza con cui il modificarsi degli equilibri e dei rapporti di forza tra immagine, cinema, società e industria vi si riflettono. E per lo “spirito dei tempi” che, col suo umanissimo alternarsi di conquiste e fallimenti, speranze e disillusioni, marchia senza troppi filtri le sue storie, i suoi personaggi e il suo sguardo. Il silenzio cinematografico di Penn, e in anni più recenti la sua vera e propria impotenza, somigliano allora a una specie di censura, in parte autoimposta; per altro verso, il disinteresse dell’Industria del Cinema nei suoi confronti non è del tutto neutro: l’ultimo film non fatto «è un progetto europeo, con Isabelle Huppert, la storia di un giovane americano, figlio di emigrati europei che, dopo l’89, torna in Europa, alla ricerca delle proprie radici, e scopre l’amore»29. Una specie di sequel de Gli amici di Georgia, da girare in Jugoslavia, che dopo le trasferte un po’ turistiche di Target avrebbe dovuto riportare 28. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, cit. 29. M. Gottardi, E io continuo a dire di no. Intervista ad Arthur Penn, «Segnocinema», n. 99, settembre-ottobre 1999.

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Penn nel Vecchio Continente, dove ha fatto la guerra e dove ha provato a girare Il treno, prima di essere protestato da Burt Lancaster. Fin troppo facile, dieci anni dopo l’avventura di Danilo, non leggere in questo ritorno una fuga, e nella fuga una critica all’“ospitalità” americana e, probabilmente, un giudizio sulla fine della guerra fredda. Sarebbe stato, assieme ad altri film non fatti, come quello più volte annunciato sull’Appalachia e incentrato sulle perversioni del capitalismo, l’ennesimo tassello di quell’affresco mobile della storia americana composto, senza alcuna intenzione “scolastica” o sistemica, dai film di Penn. È infatti sufficiente scrostare appena un po’ la superficie spesso vigorosamente letteraria e “immaginaria” dei quindici lungometraggi centellinati tra uno spettacolo teatrale e l’altro per rinvenire, secondo una cronologia interna segnata dalle pietre miliari della Storia, un ritratto complesso, autonomo e originale – ossia smarcato da consorterie politiche o intellettuali – dell’America degli ultimi cinquant’anni, della sua società, cultura, storia e politica, tessuto all’incrocio tra riferimenti puntuali, anche se non diretti, a questo o a quell’evento, e allusioni atmosferiche allo “spirito del tempo”. Parallelamente, il cinema di Penn appare ossessionato dall’origine e dalla rappresentazione costante della dialettica «tra lo schema evolutivo dell’essere umano e quello che governa il destino delle nazioni»30: ossessionato dal ritorno delle origini, inteso come fatalistica coazione a ripete la storia e i suoi drammi (un movimento tragico dipendente dalla sfiducia nella capacità dell’uomo di imparare e ricordare o di sfuggire alla “lezione”), e dal ritorno alle origini, inteso come richiamo inalienabile alla natura prima da cui è stata plasmata la società americana, una natura violenta e omicida che il popolo americano, consapevolmente o meno, sembra destinato ciclicamente a omaggiare. Per Penn – come per Richard Slotkin, che pubblica il suo primo e fondamentale studio sul costume e la mentalità americana all’inizio degli anni Settanta31 – gli Stati Uniti affondano infatti le loro radici in un mito violento: sono una gunfighter nation 30 G. Haustrate, Linee di forza. Per orientarsi meglio in un’opera a scatole cinesi, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, Il Castoro, Milano 1999, p. 22. 31. R. Slotkin, Regeneration Through Violence: the Mythology of the American Frontier, 1600-1860, Middletown, Wesleyan University Press 1973. Slotkin ha continuato la sua ricerca in due volumi successivi,

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di cui il suo primo eroe cinematografico, Billy the Kid, è al tempo stesso un emblema e un relitto anacronistico. L’amara consapevolezza di un collasso o di una catastrofe onnipresenti e opprimenti (e non un semplice pessimismo) contagia di conseguenza molti suoi film, tanto che il cinema di Penn, come quello di Altman, appare costantemente attraversato «dalla sensazione di un imminente o reale rottura delle radici su cui poggia il cuore della società capitalistica»32. Nella storia degli Stati Uniti a lui contemporanea è dunque piantato il primo seme di ogni film di Penn, ma è sullo sfondo del grande movimento unitario della storia americana che essi fioriscono, e senza limiti di spazio e tempo sfiorano conflitti più profondi e fondamentali, primo tra tutti quello del rapporto tra individuo e società. Se molti film di Penn “durano” ancora oggi, è perché il bersaglio è stato centrato e l’anima svelata: perché, come accade solo ai «grandi lavori d’arte», essi, «simultaneamente, riflettono il periodo della loro creazione e lo trascendono»33. I piccoli e grandi movimenti della cronaca, della politica, del costume funzionano perlopiù come miccia dell’invenzione e della scrittura, in un corpo a corpo tra vita e arte che non solo lega indissolubilmente cinema e società, ma assegna al primo un particolare valore etico e politico e vede nella seconda una materia pericolosamente inerte, da risvegliare per mezzo del racconto e da riconnettere ogni volta a un disegno più vasto. La testimonialità del cinema di Penn sorpassa volentieri la testimonianza, rendendolo al tempo stesso storico e mitologico: pochi film come i suoi «hanno saThe Fatal Environment (1985) e Gunfighter Nation (1992), che arriva a comprendere il periodo post-Vietnam. La trilogia, pur con qualche variazione interna, sostiene la centralità assoluta della violenza nella cultura statunitense. 32. R. Wood, Hollywood From Vietnam to Reagan… and Beyond, Columbia University Press, New York 2003 (seconda edizione rivista e ampliata), p. 25. Secondo Wood, tale sentimento di disintegrazione è all’origine dei maggiori film di Penn, Schatzberg e Altman, rivelandosi «ora all’interno di una singola personalità disturbata (Mickey One, Mannequin-Frammenti di una donna, Images), ora all’interno di un contesto sociale o di una comunità (La caccia, Alice’s Restaurant, Nashville), ora nei rapporti interpersonali (Bersaglio di notte, Panico a Needle Park, Lo spaventapasseri, California Poker)». 33. L.D. Friedman, Arthur Penn’s Enduring Gangsters, in Id. (a cura di), Arthur Penn’s Bonny and Clyde, cit., p. 7.

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puto così efficacemente spiegarci il suo paese, e in futuro serviranno a ripercorrerne i dilemmi essenziali»34. Storia, politica e società, infatti, finiscono sempre distillati da un vibrante umanesimo di fondo, sensibile agli ideali e non alle ideologie (da regista «di traverso nella storia dell’America, di traverso nella storia del cinema. Come di dovere»35): i suoi film reagiscono alla storia, e particolarmente a quella americana, vi si intrecciano e indubbiamente ne parlano ma, al tempo stesso, la filtrano e la sorpassano, fino a centrare quel “problema” più grande e universale che è l’uomo contemporaneo. Consapevole che i “dilemmi essenziali” del suo Paese riecheggiano, particolarmente nel secondo Novecento, quelli di tutta la società occidentale, Penn non solo «ha espresso le sue idee sull’America, e di film in film ha affrontato una riflessione di tipo etico e sociale sulle connotazioni e gli sviluppi di quella società»36, ma è anche riuscito a calare (e stemperare) la storia nel dramma e, per altri versi, più oltre su questa strada, a coniugare l’epica e il mito, consegnando di film in film una radiografia lucidissima della natura più vera e immutabile dell’uomo – una visione classica come il teatro antico da cui discende la sua passione per il palcoscenico. Sebbene gli Stati Uniti rappresentino il riferimento immediato di molti suoi film – il loro bersaglio, il loro referente diretto, il loro humus – il suo cinema respira insomma un’aria universale o più esattamente (pensando anche al piano della forma) cosmopolita, riflesso diretto del cosmopolitismo culturale del suo autore. I film più riusciti di Penn sono, non a caso, quelli in cui s’incontrano tradizione americana e “nuovo” europeo, ben al di là delle mode moderniste degli anni Sessanta, quando metà dei registi indipendenti americani subisce, spesso superficialmente, il fascino del montaggio dissonante di Godard o della decostruzione narrativa di Resnais. L’operazione di contaminazione di Penn è, al contrario, propriamente culturale, e si propone di guardare alla società americana impiegando la “lingua nuova” offerta dalla sperimentazione francese; per vedere meglio e mettere le cose a distanza: «Penn è un grande regista america34. G. Fofi, Come in uno specchio. I grandi registi della storia del cinema, Donzelli, Roma 2008, p. 243. 35. G. Fofi, Un grande momento, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, cit., p. 31. 36. Ibidem.

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no. Benché ovviamente più “intellettuale” di registi come Hawks o Hitchcock […], egli appartiene essenzialmente alla grande tradizione del cinema commerciale americano – il valore del suo lavoro come regista proviene dal suo modo concreto di maneggiare materiali concreti come l’azione, il plot, i dialoghi, le star, la camera, il décor – con l’intuizione che gioca un ruolo vitale e vitalizzante. Allo stesso tempo, Penn è chiaramente influenzato del cinema europeo, un cinema di “idee” consapevolmente intellettuali»37. Come ha osservato giustamente Robin Wood, per alcuni registi (sicuramente per Penn), l’esempio della Nouvelle vague francese «ha agito come una liberazione piuttosto che come un’influenza determinante»38. C’è qualcosa di profondamente romantico in questo impegno presente e vigile di Penn, e in questa volontà oltre-estetica di ricondurre ogni volta il discorso artistico al piano sociale, e di far nascere il cinema dal brusio del mondo (alla ricerca di quei pezzetti di mondo che rumoreggiano a distanza) per ridarlo al mondo stesso, in forma di “tema” o problema o icona. C’è qualcosa di romantico e di profondamente “antico” in questa idea di cinema e di arte, e nella relazione diretta che lega quest’ultima alla vita e ai tempi; resiste tutt’ora, in Penn, un’idea di cinema non sfiorata dal dibattito contemporaneo sulla natura e la filosofia delle immagini in rapporto alla realtà, come se l’epoca digitale non avesse lasciato tracce e l’ubriacatura postmodernista alcun postumo. Penn è un antico moderno che ha mancato l’appuntamento con il o i post che ne sono seguiti, e per il quale il cinema ha continuato a svilupparsi come “critica sociale”, come “una guerra condotta con altri mezzi”. Senza per questo trasformare il cinema in un barometro sociale; semmai, in un termometro passionale. In fondo, Penn si è sempre sforzato di fare lo stesso tipo di cinema (non di film: questo lo si può dire degli “autori”): spesso incapace di scendere a compromessi (o a compromessi eccessivi), ha preferito, in anni più vicini a noi, chiudere con il cinema, la sua industria, i suoi produttori e le sue logiche “capitalistiche”. Al tempo stesso, i pochi film distribuiti lungo gli anni Ottanta e Novanta offrono – anche quando non completamente riusciti – una specie di immagine riflessa del37. R. Wood, Arthur Penn, Studio Vista, London 1967, p. 76. 38. Ibidem.

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l’orientamento prevalente, contro il quale Penn sceglie di scontrarsi, trasformando il momento della messa in scena in una critica di doppio livello: critica di ciò di cui racconta e critica alla possibilità stessa di raccontare – oggi, nel cinema e nella società – certe storie e certi personaggi, fino a consumare i film nel gioco di genere e nella direzione delle star o inasprendoli nell’esotismo teatrale di Urla dal buio. E il suo stesso esilio, più volontario che imposto, emerge infine come il simbolo di una condizione “positiva”: «Penn è nella crisi del cinema che si ritrova ma che non sa andare oltre la linea dell’oltre. Da qui, in Penn, il rifugio nell’ombra, nel dolce sgomentato abbandono all’abbraccio della notte»39. La forte matrice etica della sua ispirazione ammette insomma, fino a renderla flagrante, la difficoltà stessa di continuare a fare film. Penn ha sempre evitato di rinnovare una formula (l’assenza di sequel o remake dalla sua filmografia, ma anche l’interruzione temporale di “filoni” particolarmente fortunati e identificativi, come il western, ne sono un indizio), preferendovi la fedeltà a un’idea di cinema con la quale misurare il passare del tempo, mettendo contemporaneamente alla prova la possibilità che il cinema stesso si traduca in un luogo di elaborazione critica e “impegnata” di contenuti sociali. Il narcisismo (fino alla chiusura cinefila di Omicidio allo specchio) che trapela dalla seconda parte della sua produzione è sia un effetto dei tempi, sia l’esito di una riflessione continuamente aggiornata sul ruolo delle immagini in quanto strumento di cultura e comunicazione. E lo scacco è quasi inevitabile, e epocale, per chi, ancora oggi, nelle interviste che ormai sostituiscono i film, non smette di riflettere sul fatto che il cinema dovrebbe continuare a “criticare” la realtà, e sul modo in cui può riuscirci, riconoscendo in questo un dovere morale e insieme artistico. L’insofferenza precoce per Spielberg e Lucas, mai corretta, nasce dalla consapevolezza di quello che i loro film, a partire dalla metà degli anni Settanta, hanno fatto non soltanto al mondo del cinema ma, più radicalmente, alle immagini e alla realtà. Urla dal buio ne prende atto, benissimo: frammenta lo spazio, lo rabbuia, e segmenta il corpo dell’attore tra un’assenza impotente e una presenza esclusivamente fisica. E affidandosi a una messa in scena teatrale fa del guar39. G. Turroni, Bersaglio di notte, «Filmcritica», n. 257, 1975.

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dare il problema, perché «lo sguardo del cinema chiede di restare aperto, attento, lucido»40. Anche, se non soprattutto, quando l’occhio umano non può o non vuole più vedere, e la realtà si rivela difficile o addirittura impossibile da riconoscere e afferrare.

40. G. Gariazzo, L’occhio aperto. Conversazione con Arthur Penn, «Filmcritica», n. 475, maggio 1997.

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2. La scoperta di se stesso: televisione, teatro, cinema (1951-1958) Non pensavo al cinema in quel momento. E andavo raramente al cinema. Il mio interesse era il teatro, vivere sul palco.

Arthur Hiller Penn nasce a Philadelphia il 27 settembre 1922 da genitori che si separano quando ha solo tre anni. Il padre, Harry, è un immigrato ebreo-russo, di professione orologiaio, mentre la madre, Sonia Greenberg, lavora in ospedale, prima come donna delle pulizie, poi come assistente del direttore del personale. In seguito al divorzio, Arthur e il fratello Irving, maggiore di cinque anni (e in futuro celebre fotografo), seguono la madre, lasciando Philadelphia per il New Jersey e poi New York, dove trascorrono un’infanzia di stenti e privazioni: «Se esci da una famiglia divorziata e cresci, come ho fatto io, una vita piena di spostamenti… e se sei povero – cosa molto dolorosa durante la Depressione –, questo deve necessariamente avere un effetto sulla tua personalità»1. Sulla personalità del piccolo Penn hanno grande influenza anche le diverse famiglie a cui è costretta ad affidarlo la madre, troppo povera per occuparsi di due bambini, uno dei quali, Irving, gravemente malato di febbri reumatiche. La sua prima destinazione è il New Hampshire: Arthur ha otto anni e per un anno e mezzo vive assieme a due missionari episcopali di ritorno dalla Spagna. Tornato a New York, viene nuovamente dato in affidamento, ma questa volta si tratta di «gente che conoscevo, di gente molto simpatica», una grande famiglia ebrea con cui trascorre un altro anno. Torna a vivere con la madre solo quando Irving, dopo aver compiuto quattordici 1. Intervista ad Arthur Penn in J. Gelmis, The Film Director as Superstar, Doubleday and Company, New York 1970, p. 206.

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anni, si trasferisce dal padre; la stessa sorte, cinque anni dopo, toccherà ad Arthur: Sonia è convinta della necessità che i suoi figli entrino in contatto con la «presenza di un uomo». A Philadelphia, nel 1936, Arthur ritrova dunque il fratello e rivede dopo molto tempo il padre, un uomo «introverso, taciturno, fastidioso», e lì conclude gli studi presso l’Olney High School. «Mio padre […] aveva un’enorme ammirazione per mio fratello, perché Irving aveva dimostrato molto precocemente i suoi talenti d’artista e già da ragazzino disegnava e dipingeva benissimo. […] Io invece non avevo alcun talento e mio padre non mi prendeva in alcuna considerazione, anzi non gli piacevo affatto. Penso che fosse molto scontento di me. La cosa, del resto, era del tutto ricambiata»2.

Harry vorrebbe avviare il figlio alla professione di orologiaio, ma gli interessi del giovane Arthur si stanno già orientando verso il teatro e la radio – lavora per qualche tempo presso quella locale, leggendo servizi di drammatizzazione delle news. Quando il padre si ammala di un tumore alla vescica – Irving intanto si è trasferito in Messico con la sua futura moglie – Arthur resta solo a sopportare le sue follie paranodi (è convinto che il figlio gli rubi il denaro) e a tentare, senza successo, di salvaguardare il suo commercio. Alla morte di Harry, avvenuta nel 1943, Penn torna a New York, in attesa della chiamata alla leva. Tra il 1943 e il 1946 è fuciliere e mitragliere a Fort Jackson, in South Carolina, a poca distanza da Columbia: è qui, e per l’esattezza presso il Town Theatre, che trascorre la maggior parte del suo tempo libero, diventando amico del direttore e factotum del piccolo teatro cittadino, il venticinquenne Fred Coe, una figura cruciale per la sua futura carriera in televisione, a teatro, al cinema. Il primo incontro tra i due risale al maggio del 1943, quando Penn 2. M. Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, «Cineforum», n. 472, marzo 2008. Senza abbandonarsi a facili conclusioni di ordine psicoanalitico, è tuttavia indubbio che il difficile rapporto col padre abbia influito in modo determinante non soltanto sulla vita privata di Penn ma anche sul suo cinema, in cui ricorrono figure di giovani ribelli in aperto conflitto con l’autorità, spesso violenta, di padri e tutori della legge. Maria Nadotti approfondisce questo aspetto nell’intervista citata.

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si reca a teatro per assistere a una replica di Pigmalione. Da quel momento in poi, il Town Theatre si trasforma in una specie di seconda casa, al cui fabbisogno Penn contribuisce con cibo e bevande sottratti alla caserma: «Il teatro era una piccola oasi di cultura […] Se avevi un permesso di tre giorni e nessun posto dove dormire, Fred ti diceva di restare pure lì, e così noi dormivamo sul pavimento. Fred era sempre molto generoso»3. L’ultima parte del conflitto porta Penn in Francia, in Germania e poi di nuovo in Francia, nei pressi di Parigi: «Andai in Europa nel settembre o nell’ottobre del 1944. Ero nella fanteria, assegnato al 15esimo quartier generale. Ci muovemmo attraverso il nord della Francia, passando da Rheims diretti in Belgio. Eravamo stanziati in un castello delle Ardenne quando i tedeschi lanciarono il loro contrattacco [16 dicembre]. Fummo così costretti a tornare verso Bruxelles e poi in Francia. Quando la battaglia del Bulge terminò [alla metà del gennaio 1945] e i tedeschi furono ricacciati indietro, li seguimmo in Germania, e così mi trovavo lì quando si concluse la guerra in Europa. Ma quelli di noi arruolati nella fanteria non vennero congedati perché vi erano piani per un attacco massiccio contro i giapponesi che non si erano ancora arresi. Venni trasferito a Parigi e lavorai con un gruppo di soldati e di donne inviati dallo Stato a uno spettacolo teatrale, Golden Boy. Ero il direttore artistico e andammo in tournèe con lo show in attesa di essere spediti in Giappone; ma poi la bomba atomica fu sganciata e la guerra finì»4.

La Soldiers Show Company, diretta da Joshua Logan e Alan Campbell, era stata promossa qualche tempo prima dallo stesso Eisenhower per intrattenere le truppe al fronte nel momento in cui l’avvicinarsi della fine del conflitto le avrebbe lasciate con ben poco da fare: il suo scopo era quello di organizzare spettacoli per i soldati ma anche rappresentazioni rivolte ai civili, con protagonisti i militari5. In quel momento, sul fronte 3. J. Krampner, The Man in the Shadows. Fred Coe and the Golden Age of Television, Rutgers University Press, New Brunswick-New Jersey 1997, p. 23. Coe si trasferirà a New York nel giugno del 1944, abbandonando per sempre il teatro di Columbia. 4. Intervista mia (dicembre 2007-giugno 2008). 5. Cfr. le memorie di Joshua Logan, My Up and Down, In and Out Life, Delacorte Press, New York 1976, in particolare le pp. 212 s.

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francese, fanno parte della compagnia anche l’attore Mickey Rooney e uno dei più importanti drammaturghi del secondo Novecento, Paddy Chayefsky, con cui Penn, durante i suoi anni in televisione, avrebbe collaborato per la messa in scena di A Gift from Cotton Mother, The Strong Woman e Catch My Boy on Sunday6. Ed è assieme a Chayefsky che Penn ha il suo primo incontro ravvicinato (ma di fatto ininfluente) col cinema: i due accettano infatti di partecipare come comparse alla realizzazione di un film francese ambientato a Marsiglia e di cui è direttore della fotografia Claude Renoir7. Alla conclusione del conflitto, Penn decide di trattenersi un altro anno in Europa per dirigere, da civile, la Soldiers Show Company; rientra in America soltanto nel 1946 e si diploma in recitazione presso il Black Mountain, in North Carolina, uno dei college più all’avanguardia dell’epoca, fondato nel 1933. Il Black Mountain nasce come progetto di incontro interdisciplinare tra letteratura e arti visuali, e si trasforma ben presto in un luogo di formazione cruciale per l’avanguardia poetica americana; vi soggiornano, nel ruolo di docenti o studenti, scrittori come Charles Olson, Robert Duncan, Fielding Dawson, Joel Oppenheimer, e artisti come Franz Kline, Willem de Kooning, Robert Rauschenberg, Susan Weil, Cy Twombly. Tra corpo docente e alunni, il Black Mountain ospita soltanto un centinaio di persone, non ci sono curricula, classi vere e proprie, diplomi; è piuttosto un luogo di scambio tra artisti che vi si recano per portare a termine i propri progetti. «Ho frequentato il Black Mountain College per due anni, tra il 1947 e il 1948. Ho studiato letteratura, pittura, storia, filosofia e molte altre cose. C’erano tante grandi personalità in quella piccola scuola. Alla fine dei corsi diressi un testo di Eric Satie. […] Il Black Mountain è stata, per me, un’esperienza cruciale»8. 6. I tre plays fanno parte, rispettivamente, delle serie NBC First Person (11 settembre 1953) e Philco Television Playhouse (29 novembre 1953 e 12 dicembre 1954). 7. Ma Penn non ricorda il titolo del film, né il suo regista; ipotizza che possa non essere mai stato completato. Cfr. S. Considine, Mad As Hell. The Life and Work of Paddy Chayefsky, iUniverse.com, Lincoln 1994, p. 25. 8. Intervista mia.

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Il testo, diretto nell’estate del 1948, è la “commedia lirica” La piège de Méduse, e rappresenta la prima esperienza teatrale di Penn. John Cage supervisiona il progetto e cura le musiche, Willem de Kooning progetta la scena; Frisette è interpretata dalla moglie di quest’ultimo, il barone Medusa da Buckminister Fuller, mentre Merce Cunningham danza il ruolo di Jonas, la scimmietta meccanica. La formazione di Penn si completa tra il 1949 e il 1950 con un soggiorno di quasi due anni in Italia, dove segue corsi universitari sulla pittura rinascimentale e la poesia stilnovista. «Andai in Italia nel 1949, a Perugia, per imparare l’italiano, e poi, l’anno dopo, mi spostai a Firenze, dove mi occupai soprattutto di poesia. Non imparai molto bene la lingua, ma ero comunque capace, con un po’ di sforzo, di leggere la Divina Commedia e altri poemi rinascimentali»9. «Non è facile dire da che cosa si è stati influenzati. Ovviamente, quando ero al college ho letto molto teatro greco, e successivamente ho avuto l’opportunità di stare due anni in Italia, a studiare la letteratura rinascimentale e a guardare quadri. Quattro anni durante i quali sono stato esposto a molte belle cose, ed è ovvio che una buona parte di queste cose sia entrata in me, in una forma o nell’altra. Non necessariamente in modo consapevole»10.

Tornato alla fine del 1951 in America, Penn comincia subito a lavorare presso gli studi della NBC a Los Angeles, entrando nello staff di uno degli show di punta della televisione dell’epoca, il Colgate Comedy Hour (rivale diretto dell’Ed Sullivan della CBS): è prima assistente di studio poi “associate director” (alla produzione lavora invece Sam Fuller), e si occupa in particolare degli effetti sonori e della scenografia11. Dagli studi della NBC passano alcuni dei migliori intrattenitori, comici e cantanti dell’epoca, da Dean Martin e Jerry Lewis a Bob Hope e Jimmy Durante, che permettono a Penn di familiarizzare con i modi e tempi della commedia; l’apprendistato si rivelerà essenziale poco dopo, quando, dall’autunno del 1953, si troverà a lavorare – questa volta in qualità di regista – per la serie 9. Ibidem. 10. G. Kindem, The Live Television Generation of Hollywood Film Directors. Interviews with Seven Directors, McFarland, Jefferson, North Carolina 1994, pp. 7 s. 11. Cfr. J. Krampner, The Man in the Shadows, cit., p. 66.

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Philco Television Playhouse, sempre prodotta dalla NBC ma trasmessa da New York: «Philco […] era una vera serie: forte, coinvolgente, che si trattasse di soggetti drammatici o comici. Dei tre registi, ero l’unico che poteva fare la commedia, e così mi ritrovai a dirigere degli episodi veramente divertenti e strani, oltre a quelli più seri. Ne avrò diretti una quindicina»12.

Gli altri due registi “fissi” a cui Penn va ad aggiungersi sono Vincent Donehue (morto prematuramente nel 1966) e Delbert Mann (mentre Gordon Duff figura come assistente alla produzione), e insieme formano lo “staff” della serie prodotta da Fred Coe a partire dal 1948 e che nel biennio 1952-53 sta cambiando pelle, abbandonando a poco a poco l’adattamento di classici per la realizzazione di testi originali (Coe, da parte sua, dopo aver diretto molti episodi nei primi anni di trasmissione, si sta ritagliando in quel momento un ruolo esclusivamente produttivo). Prima, però, Penn viene coinvolto nella produzione di First Person Playhouse, una serie pensata da Coe in sostituzione della sitcom The Life of Riley. «Un giorno ricevo una telefonata, era lui: “Hey, Puppy! Sono Fred Coe. Ti ricordi di me?”. E io dico: “Oh, cavolo, sì! Sono stato a guardare Philco come un pazzo e ho visto il magnifico lavoro che hai fatto”. E lui mi dice: “Cosa ne diresti di venire a Est a dirigere uno show sperimentale che voglio tentare?”. Lasciai la California correndo come un pazzo»13.

Come suggerisce il nome, la serie – programmata per circa un anno a partire dall’autunno del 1952 – è interamente centrata sulla “prima persona”: in ogni episodio, della durata di mezz’ora, il personaggio principale coincide con i bordi della macchina da presa, e tutto risulta filtrato dal suo sguardo. Si tratta in altre parole di uno show in soggettiva, molto «interessante» e all’avanguardia, anche se, «dal punto di vista drammatico, per via di quello stratagemma non funzionava troppo bene»14. Ma creare l’estetica dello spettacolo si trasforma ogni volta – per regista e produttore – in una sfida avvincente: 12. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, Il Castoro, Milano 1999, p. 104. 13. J. Krampner, The Man in the Shadows, cit., p. 66. 14. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 104.

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«Ricordo un giorno, stavo parlando con Fred, e gli chiesi: “Cosa si starà guardando quando è una ‘prima persona’ a raccontare una storia?”. Se la storia dice: “Era un giorno caldo e niente si muoveva”, cosa vedrà lo spettatore? – rispondendo alla sua stessa domanda, Penn conclude – se dici, “Era un giorno caldo e i vestiti mi si incollavano addosso”, c’è qualcosa per la camera da catturare. Sviluppammo una specie di linguaggio visivo pensato per creare l’atmosfera, il clima, e fornire le circostanze»15.

Del resto, la caratteristica principale della televisione dell’epoca è la sua estrema libertà sperimentale: non è ancora un business assestato, l’utenza è limitata, gli inserzionisti pubblicitari non esercitano, per il momento, alcun reale controllo, e un singolo show costa relativamente poco (una puntata della serie Philco si aggira sui venticinquemila dollari). Grazie a un pubblico tendenzialmente upper, urbano, amante del teatro, sofisticato e piuttosto uniforme, niente sembra inoltre precluso all’immaginazione di produttori, scrittori e registi, nonostante le notevoli complicazioni legate alla trasmissione live. Il controllo dell’apparato tecnico e, contemporaneamente, degli attori e della scena, impone infatti una direzione continua e assoluta da parte del regista e una supervisione simultanea di tutti i livelli della messa in scena, dalla ripresa al montaggio, nonché una spiccata sensibilità sia per gli aspetti cinematografici, sia per quelli teatrali. Come osserva un altro grande testimone della Golden Age della televisione americana, Delbert Mann, la trasmissione live «combinava le tecniche del film e del teatro in una nuova forma del tutto peculiare. L’uso delle camere e dei microfoni era comparabile a quello del cinema, ma le prove e la recitazione del testo erano molto più vicine a ciò che accade in teatro»16.

Penn ricorda quei giorni come estremamente eccitanti ma, anche, faticosi; ricorda la pressione e la paura, la difficoltà di tenere tutto contemporaneamente sotto controllo e la rapidità quasi disumana con cui era necessario pensare e agire: 15. J. Krampner, The Man in the Shadows, cit., p. 67. 16. D. Mann, Looking Back… at Live Television and Other Matters, A Directors Guild of America Publication, Los Angeles 1997, p. 7.

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«Incredibile. Era incredibile. Era semplicemente al di là di ogni ragione. Era un lavoro devastante, quasi impossibile da descrivere alle persone che non l’hanno vissuto»17. «Nella televisione live avrebbe potuto esserci soltanto una persona responsabile di tutto poiché si era perennemente a contatto con il caos. Non potevi essere una persona gentile, dovevi essere assolutamente fermo e prendere continuamente decisioni, e queste decisioni dovevano essere le sole che tutti avrebbero seguito. Era come la guerra; era davvero simile a una guerra. E non era casuale che molti di noi fossero stati davvero in guerra…»18.

A Penn, dunque, la televisione “in diretta” offre, tra l’altro, l’occasione di continuare a coltivare la sua prima e per il momento unica vera passione, il teatro (nei primi anni Cinquanta, mentre è a Los Angeles, frequenta i corsi di Michael Cechov, nipote di Anton). La messa in scena degli show non prevede infatti interruzioni (tolte quelle pubblicitarie) né la possibilità di registrare e montare il materiale in un secondo tempo; la loro preparazione assume quindi un carattere prevalentemente teatrale e insiste soprattutto – e tanto più nel caso di Penn – sullo studio puntuale del testo e sull’interpretazione degli attori. Ma oltre che una palestra preziosa e un luogo di osservazione determinante, gli anni in televisione finiscono anche per segnare in modo indelebile l’atteggiamento generale di Penn – che per il momento non pensa al cinema – nei confronti del racconto per immagini e della sua traduzione “tecnologica”, soprattutto in termini di libertà di scelte e autodeterminazione. Non a caso, i suoi primi conflitti con Hollywood nasceranno da questioni legate al controllo del film: v

«Facevo parte della generazione che ha cominciato con la televisione in diretta. Molti di noi erano soldati, eravamo appena tornati dalla guerra. La televisione era allora agli inizi, quindi era un medium molto libero. Non c’erano videocassette, non c’era pellicola: quello che facevamo era in diretta e, con la messa in onda, scompariva nell’aria. Nessuno faceva troppa attenzione a quello che combinavamo, dunque, potevamo realizzare progetti molto arditi e inusuali. E poi avevamo a di17. G. Kindem, The Live Television Generation of Hollywood Film Directors, cit., p. 57. 18. Ivi, p. 9.

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sposizione un’intera generazione di ottimi scrittori per la Tv. Gente come Paddy Chayefsky e Horton Foote. Inoltre, visto che dovevamo anche usare le telecamere, ho imparato molto sulla fotografia, il che mi è tornato utile quando ho iniziato a dirigere film. La televisione in diretta è durata cinque o sei anni, nel corso dei quali ho avuto occasione di realizzare parecchi programmi»19.

First Person, noto anche come Gulf Playhouse perché sponsorizzato dalla Gulf Oil Corporation, ottiene un buon successo di pubblico (merito della sterzata di genere, dal dramma iniziale alla commedia) mentre la sua originalità viene riconosciuta e lodata, anche grazie al valore letterario dei testi, firmati da alcuni dei migliori autori della scuderia di Coe, tra cui i già citati Foote e Chayefsky. L’esperimento, tuttavia, è destinato a esaurirsi in fretta, assieme all’entusiasmo dei suoi ideatori: Coe decide allora di tornare alla produzione, mai del tutto abbandonata, di Philco; e questa volta, come anticipato, decide di portare con sé Penn, introducendolo stabilmente tra i registi “in rotazione”. Iniziata il 3 ottobre del 1948, la produzione di Philco Television Playhouse (dal 1951 Philco-Goodyear) avrebbe segnato in modo indelebile la Golden Age della televisione americana, trasformandosi nella palestra di una nuova generazione di autori e registi, mentre gli attori fanno a gara per ottenere un ruolo, favoriti dalla collocazione del programma20: «Philco ha avuto un’opportunità davvero unica di avere accesso a tutti i più grandi attori che in quel momento erano al lavoro a Broadway, perché andava in onda la domenica sera. E la domenica sera a Broadway non c’era mai spettacolo. E così si poteva disporre di straordinari attori “intrappolati” in spettacoli di successo che volevano disperatamente fare qualcosa di diverso, e sfuggire alla routine della loro professione»21. 19. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 103. 20. La NBC vara il progetto di Philco ispirandosi al Kraft Television Theatre, il primo esempio di antologia di drammi televisivi sponsorizzati. L’enorme successo riscosso dal marchio a seguito del suo passaggio televisivo spinge altre aziende americane a legare il proprio nome alla produzione di serie televisive. 21. G. Kindem, The Live Television Generation of Hollywood Film Directors, cit., pp. 31 s.

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È però soprattutto il particolare coinvolgimento, fortemente voluto da Coe, di un manipolo di straordinari drammaturghi (attivi in futuro anche al cinema, talvolta accanto ai registi conosciuti in televisione) a distinguere la serie da analoghe produzioni: oltre a Foote e Chayefsky, scrivono per Philco Gore Vidal, Tad Mosel, Robert Alan Aurthur, Arnold Shulman, Locke Elliott. Il loro lavoro, inoltre, non si limita alla stesura dei testi: Coe li vuole accanto a sé durante tutta la fase di pre-produzione, e li consulta sugli aspetti più diversi, dalla scelta del cast alla costruzione della scenografia; spesso, sono loro ad avere l’ultima parola. Alla fortuna della serie contribuiscono poi i registi: Penn, Vincent Donehue, Delbert Mann (il più attivo, autore di quasi cento episodi tra cui il celebre Marty) e Robert Mulligan. Avrebbero tutti seguito Coe nelle successive produzioni, traghettando infine, con lui, alla CBS per Playhouse 90, il cui elenco di directors in rotazione si allunga a comprendere John Frankenheimer, George Roy Hill, Arthur Hiller, Franklin J. Schaffner, Ralph Nelson, Sidney Lumet. Tra gli episodi diretti da Penn per Philco, tutti della durata standard di un’ora e trasmessi tra il febbraio e il maggio del 1955 dallo Studio 8G dell’RCA Building ospitato presso il Rockfeller Center: Assassin, su un testo di Bernard Wolfe, l’autore di Limbo; The Pardon Me Boy, firmato da J.P. Miller, e My Lost Saints scritto da Tad Mosel e incluso da Gore Vidal in una raccolta “best of” datata 1956 assieme a plays di Chayefsky, Serling e Foote22. Nel 1954, intanto, Coe era stato chiamato a sostituire Leland Hayward alla guida di Producers Showcase, una serie di drammi da novanta minuti, in onda il lunedì sera, fortemente voluta dal presidente della NBC Pat Weaver, nella speranza di superare finalmente la rete avversaria; per l’occasione, si trasmette da un nuovo studio della East Coast, il Brooklyn One, attrezzato per la proiezione a colori. Si tratta dello show più costoso realizzato fino a quel momento dal network, e segna per Coe l’apice della sua carriera di produttore. Ma gli indici d’ascolto del primo episodio sono sconfortanti. Per recuperare, Coe chiama Penn a dirigere State of the Union, basato su un celebre testo teatrale del 1946, vincitore del Pulitzer, incentrato su un politico costretto a compromettere i propri 22. G. Vidal (a cura di), Best Television Plays, Ballantine Books, New York 1956, pp. 69-107.

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ideali per vincere le elezioni; alla revisione dello script mettono mano gli autori dell’originale, Howard Lindsay e Russel Crouse. Nel ruolo del protagonista c’è Joseph Cotten, mentre Margaret Sullavan ne interpreta la moglie; trasmesso il 15 novembre, State of the Union si rivela uno straordinario successo di critica e pubblico. Nell’autunno del 1955 Coe è al lavoro su una nuova serie televisiva finanziata dalla Pontiac: lo sponsor vorrebbe figurare nel titolo ma il produttore impone Playwrights ’56 come omaggio agli autori dello show, la sua abituale “Coe-teria of tip-top dramatic boys” («Variety»), a cui si aggiunge per l’occasione David Davidson. Playwrights ’56 somiglia molto alla formula di Philco, ma ha una vita commerciale molto diversa (e breve, chiudendo già nel giugno del ’56), dovuta all’infelice decisione di trasmettere il martedì sera, quando la CBS programma uno degli show di maggior successo della rete (e della televisione dell’epoca), The $64,000 Question. Di tanto in tanto, comunque, Playwrights ’56 riesce a rubare un po’ di pubblico al rivale: accade, per esempio, con la produzione più importante della serie, diretta da Arthur Penn, The Battler, sceneggiato da Aaron Edward Hotchner e Sydney Carroll a partire da uno smilzo racconto di Hemingway, The Battler, appunto23. Per il ruolo del protagonista – che per tre 23. Lo si può leggere in E. Hemingway, I quarantanove racconti, Mondadori, Milano 1988, pp. 127-136 (Il lottatore). Il racconto è un classico hemingwaiano: dialoghi secchi, nessuna concessione alla psicologia dei personaggi (se non rivelata dai gesti), scarne indicazioni ambientali e un tempo tra il realista e il metafisico. Hotchner vi aggiunge un prologo destinato a illuminare il personaggio di Nick Adams, un flashback sulla giovinezza del pugile Ad Francis (quando rompe con la sorella-manager-moglie) e un altro ambientato nella prigione in cui finisce – ormai deturpato in volto – una volta che il successo, i soldi e l’amore si sono involati. E proprio grazie al maggior spazio concesso a Nick (che infine, dopo aver parlato con Ad ormai ridotto in miseria, sceglie di tornare a casa, anziché continuare il suo viaggio alla ricerca della fortuna), l’adattamento chiude sulla “lezione morale” incarnata, letteralmente, proprio dal fallimento del pugile. Dopo questa prima riduzione, Hotchner diventerà un esperto in materia, nonché un caro amico di Hemingway: limitandoci ai lavori televisivi di quegli anni, riduce Fifty Grand (Cinquanta bigliettoni) per il Kraft Television Theatre (diretto da Sidney Lumet e trasmesso nel 1958) e For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana) per Playhouse 90 (diretto da John Frankenheimer e trasmesso, in due parti, nel 1959).

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quarti recita nascosto sotto un pesante trucco che ne deturpa il volto – Coe contatta James Dean, ma l’attore è destinato a morire di lì a poco; in sostituzione, e su consiglio dello stesso Penn, a due sole settimane dalla messa in onda viene scelto Paul Newman, che Robert Mulligan aveva diretto l’anno precedente in The Death of Billy the Kid, uno dei play di maggior successo di Philco, scritto da Gore Vidal, e che rappresenterà, tre anni dopo, lo spunto per il primo lungometraggio di Penn, prodotto da Coe e interpretato proprio da Newman. Per Playwrights ’56 Penn dirige un altro dramma, Lost, trasmesso il 17 gennaio 1956 e scritto da Arnold Schulman, in cui il protagonista, Steven Hill, sofferente di amnesia, tenta di riconquistare la propria identità: «un superbo esempio di ciò che può essere chiamato Tv Noir, fatto di molta oscurità, scenografie astratte e narrazione a flusso di coscienza, come quando Hill attraversa una serie di diversi spazi urbani in cerca di se stesso»24. E anche The Battler, quanto a soluzioni tecniche e qualità della recitazione, si stacca dalla media degli show televisivi dell’epoca: per gli abili flashback (strutturati a ritroso) con cui la narrazione hemingwaiana viene arricchita e precisata; per la capacità di spalancare cinematograficamente lo spazio ristretto della ripresa da studio (televisivo); per l’impiego psicologico del chiaroscuro. E i personaggi di Steven Hill e Ad Francis rappresentano due progenitori importanti per il cinema di Penn: entrambi vittime di un dramma dell’identità ed entrambi incapaci di arrendersi e, al tempo stesso, di sfatare completamente il destino rovinoso a cui sembrano oscuramente destinati – fino a consumarsi, fra immolazione e semplice rovina –, essi anticipano il complesso e contraddittorio rapporto tra desiderio e predestinazione, razionalità e istinto che si ritroverà in figure come Billy the Kid e Bonnie e Clyde. L’avventura televisiva di Penn, sempre accanto a Coe, prosegue e si conclude alla CBS (dalla costa occidentale) con Playhouse 90, una delle serie più importanti dei secondi anni Cinquanta ma, al tempo stesso, canto del cigno per la live television. Da un lato, infatti, la morsa di sponsor, agenzie e network si sta stringendo sempre di più, con la conseguenza di limitare moltissimo le scelte e il lavoro di produttori, scrittori e registi: i novanta minuti di una puntata di Playhouse 90, per fa24. J. Krampner, The Man in the Shadows, cit., p. 107.

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re un esempio, subiscono in media cinque interruzioni pubblicitarie, contro le abituali due per uno show da un’ora. Dall’altro lato, invece, si sta realizzando una rivoluzione tecnologica dovuta alla diffusione capillare del videoregistratore, introdotto qualche anno prima25; nel caso di Playhouse 90, esso viene impiegato regolarmente a causa della complessità dello show. «Quando hanno iniziato con i programmi registrati, che è anche il momento in cui ho abbandonato la televisione, il business stava diventando sempre più commerciale. C’erano molte interferenze da parte degli inserzionisti pubblicitari. E stava diventando meno interessante»26.

25. Il primo videoregistratore della storia viene presentato ufficialmente dalla Ampex nel febbraio del 1956: si chiama VR-1000, funziona in bianco e nero, ha le dimensioni di un armadio e costa 75 mila dollari. In precedenza, soprattutto per ovviare al problema del fuso orario (le reti trasmettevano quasi tutte da New York, con la conseguenza che gli spettatori della costa occidentale vedevano il medesimo programma con tre ore di anticipo), era stato impiegato un macchinario noto come Kinescope: tramite una speciale telecamera in grado di registrare le immagini da un tubo catodico impressionandole su pellicola in bianco e nero, esso registrava i programmi televisivi nel momento in cui venivano trasmessi sulla costa orientale. La pellicola impressionata veniva sviluppata immediatamente e poi caricata su un proiettore che trasmetteva lo show per gli spettatori di Los Angeles e dintorni: tutto il processo di ripresa, sviluppo e proiezione doveva avvenire entro le tre ore del fuso orario. In considerazione della complessità e dei ritmi di lavoro il Kinescope venne impiegato piuttosto raramente e messo definitivamente in crisi dall’avvento del videotape, che registrava su nastro magnetico, consentiva di rivedere immediatamente il girato e di riutilizzare il nastro: riduzione di tempi di lavorazione e costi. Il processo di sviluppo e diffusione del videoregistratore continuò nel 1957, con la produzione del primo apparecchio a colori, il TRT-1. Entro il 1958 tutti i network americani erano ormai equipaggiati con videoregistratori in bianco e nero e a colori. Cfr. F. Rovida, Dalle forbici alla timeline: l’evoluzione del montaggio tra saperi artigianali e pratiche informatiche, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pavia, a.c. 2002/2003, pp. 106-113. 26. J. Krampner, The Man in the Shadows, cit., p. 107. Ha detto Fred Coe: «Nel momento in cui ogni cosa, in questo business, andò in direzione della videoregistrazione, si congelò; qualsiasi cosa tu guardi è come congelata», cit. in Max Wilk, The Golden Age of Television. Notes from the Survivors, Silver Spring Press, Chicago 1999 (prima edizione 1977), p. 137.

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«La televisione ci permetteva di ritrarre la società in diretta, anche quando si facevano commedie e drammi. Era il cosiddetto kitchen realism. Poi si diffusero le trasmissioni registrate e me ne disamorai»27.

Coe diventa produttore di Playhouse 90 nel 1958, quando Martin Manulis, l’iniziatore dello show nel 1956, lo abbandona per passare – con poca fortuna – al cinema. Penn dirige cinque episodi, spaziando dal thriller alla fantascienza alla commedia: The Miracle Worker con Teresa Wright nel ruolo di Annie Sullivan (7 febbraio 1957), sulla cui base verranno in seguito costruiti lo spettacolo teatrale e il film, entrambi frutto della collaborazione tra Penn e Coe; Invitation to a Gunfighter di Leslie Stevens (futuro sceneggiatore di Furia selvaggia) con Anne Bancroft, tratto da un racconto di Hal Goodman e Larry Klein, successivamente portato sul grande schermo da Richard Wilson28 (7 marzo 1957); il remake di Charley’s Aunt di Brandon Thomas, adattato per l’occasione da Leslie Stevens (28 marzo 1957); The Dark Side of the Earth di Rod Serling, l’autore della più importante serie di fantascienza dell’epoca, The Twilight Zone, che contribuisce a Playhouse 90 con undici soggetti, alcuni dei quali, come The Dark Side of the Earth, non di genere (nella fattispecie, il dramma, trasmesso il 19 settembre 1957, verte sulla rivolta ungherese contro il dominio russo)29; e Portrait of a Murderer di Abby Mann, con Tab Hunter, anche in questo caso riscritto per lo schermo da Stevens (27 febbraio 1958). A differenza degli show prodotti per la NBC sulla costa orientale, Playhouse 90 trasmette da Los Angeles con il preciso intento di avere accesso ai grandi nomi hollywoodiani. Intanto, tra uno show televisivo e l’altro, Penn, complice Coe, debutta sia al cinema sia a teatro, portando a Broadway, 27. M. Gottardi, E io continuo a dire no. Intervista ad Arthur Penn, «Segnocinema», n. 99, settembre-ottobre 1999. 28. Invito a una sparatoria (Inviation to a Gunfighter) con Yul Brinner e Janice Rule, 1964. 29. Per Playhouse 90 Sterling sceneggia anche uno dei primi “meta-drammi” della televisione dell’epoca, The Velvet Alley, parzialmente autobiografico, con protagonista uno scrittore all’apice del successo. In rapporto alla live television, si tratta di un documento piuttosto illuminante sulle dinamiche tra scrittori, registi e produttori; in quello tratteggiato da Sterling, interpretato da Leslie Nielsen e troppo affezionato al Bloody-Mary, è stato riconosciuto Fred Coe, soprattutto per via dell’importanza che assegna agli scrittori.

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qualche mese dopo la fine delle riprese di Furia selvaggia, Two for the Seesaw, il primo lavoro di un caro amico di Penn, William Gibson: era stato proprio il regista, assieme alla moglie Peggy Maurer (terapista famigliare, sposata nel ’55 e da cui avrà un figlio, Matthew, e una figlia, Molly), a incoraggiare Gibson a concludere il testo dopo averne lette alcune parti. Una volta terminato, tuttavia, nessun produttore sembra disposto a finanziarlo, probabilmente a causa della vicenda, interamente centrata sulla relazione, complessa e “moderna”, tra un avvocato in crisi del Nebraska, Jerry Ryan, e un’ebrea giovane e libera del Bronx, Gittel Mosca. Alla fine, Penn sottopone il copione a Coe che, in un solo week-end, decide di produrlo. Per il ruolo della protagonista viene scelta un’attrice non ancora famosa, suggerita a Coe (che avrebbe preferito un grosso nome) da Richard Basehart, e amica di Leslie Stevens: basta un provino perché produttore e regista decidano che Anne Bancroft – già conosciuta sul set di Invitation to a Gunfighter – sarà una Gittel perfetta. La scelta del protagonista maschile si rivela più complessa, a causa del rifiuto di una lunga lista di nomi, tra cui Paul Newman, Jack Lemmon e Jack Palance. Alla fine Coe invia il testo a Henry Fonda, che lo trova “interessante” anche se ritiene che il personaggio maschile sia scritto meno bene di quello femminile. Gibson procede dunque a una revisione, e solo dopo aver letto la nuova versione Fonda accetta. Two for the Seesaw apre il 16 gennaio 1958 e resta in cartellone al Booth Theatre per più di un anno e mezzo (per un totale di 750 repliche), riscuotendo uno straordinario successo di critica e pubblico, suggellato dall’attribuzione di due Tony alla Bancroft, al suo debutto a Broadway (Best Featured Actress in a Play e Theatre World Award), e rilanciando la carriera di Coe come produttore teatrale e, di fatto, inaugurando quella di Penn dopo un paio di prove non proprio esaltanti30. 30. The Lovers, prima regia di Penn per un teatro di Broadway, si rivela un sonoro flop e interrompe le repliche dopo solo quattro serate nel maggio del 1956; il debutto, un anno prima, con Blue Denim di James Leo Herlihy, lo sceneggiatore di Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, J. Schlesinger, 1969), era avvenuto in Connecticut. Blue Denim sarebbe stato ripreso da Joshua Logan, questa volta a Broadway, nel 1958, trasformandosi in un notevole successo; il film, diretto da Philip Dunne, è invece del 1959. Penn si ricorderà di Herlihy, con cui ha studiato al Black Mountain, per la parte del suicida signor Carnahan in Gli amici di Georgia.

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Il quale, a proposito dello spettacolo, ricorda soprattutto gli attriti con Fonda, mai del tutto a suo agio in un personaggio che continuava a ritenere “inferiore” a quello femminile e non troppo segretamente preoccupato di sfigurare a confronto con la straordinaria bravura della Bancroft («Henry è come al solito eccellente – scrive dopo la prima il critico del «New York Post» – ma la Bancroft è una sorpresa entusiasmante»31). Durante le prove Fonda si rivela «molto nervoso e piuttosto impertinente», tanto che Coe deve intervenire in più occasioni per chiedergli di smetterla di chiamare il regista “boy”. All’origine dell’attrito tra attore e regista, comunque, ci sono soprattutto divergenze di tipo artistico, dovute al “metodo” Penn: «Durante le prove di Two for the Seesaw, Henry Fonda mi disse: “Credevo fosse una messinscena tra due incantevoli personaggi, lei (Anne Bancroft) invece sta piangendo, fa il muso, tira su con il naso e io non posso baciarla. E non riesco a capire cosa vuoi che faccia adesso”. Risposi che volevo verità e che quel tipo di comportamento mi sembrava fosse la base del testo. Se non avessimo creato un altro livello di recitazione emotiva, non avremmo avuto una rappresentazione. Se la messinscena fosse stata costruita sulla disperazione, quella disperazione si sarebbe trasformata in commedia. Henry era dubbioso e pensava di essere finito tra le mani di un lunatico, anche perché quella era la mia prima regia a Broadway. […] Fortunatamente lo spettacolo è stato un grande successo. Per ironia della sorte Fonda, la sera della prima, rilasciò una dichiarazione che, secondo contratto, avrebbe lasciato la produzione dopo sei mesi. Dovette farlo»32.

Il metodo Penn è già il metodo, interpretato autonomamente a partire dalla lezione di Lee Strasberg, che conosce nel 1953 e dal quale viene subito invitato a unirsi all’Actors Studio in qualità di membro onorario; da quel momento in poi, e nonostante gli impegni cinematografici, Penn cercherà di non mancare mai alle tradizionali riunioni settimanali della famosa scuola newyorkese, e ne diventerà presidente tra il 1995 e il 1998, prima di dar vita al “suo” Actors Studio Free Theatre, col quale, dopo quasi un decennio di silenzio, torna a dirigere al 31. Cit. in J. Krampner, The Man in the Shadows, cit., p. 118. 32. A. Penn, Prefazione a A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., pp. 11 s.

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ritmo di uno spettacolo all’anno33. Al lavoro meta-teorico sul metodo di Strasberg, tuttavia, Penn preferisce, fin da subito, il lavoro a partire dal metodo, memore anche dell’insegnamento di Michael Cechov: tutto, in sintesi, deve ruotare attorno al work e alla scoperta del testo e dei personaggi: v

«Lavorando per la televisione e poi con gli attori dell’Actors Studio ho capito che il significato del work sta nel comprendere che le parole del testo sono essenzialmente una sorta di codice per gli attori e il regista»34.

Le parole, la narrazione, il dialogo e i personaggi arrivano, per Penn, sempre alla fine, come risultato di una riscrittura intima orientata dal contesto oggettuale della scena: «Le parole di un testo sono il distillato conclusivo di una scena e non la materia dalla quale iniziare. Il testo può diventare una forma imprigionante, senza appello, che impedisce ogni sviluppo psicologico del personaggio. Il mio sforzo come regista è di rendere gli attori liberi dalle parole ma non dai fatti e dalle circostanze, sulle quali invece dobbiamo lavorare»35. Con ciò, nessuna contraddizione tra l’attenzione che Penn ha sempre rivolto al momento della sceneggiatura (e al ruolo dello sceneggiatore: il background letterario e l’eredità di Fred Coe esercitano un’influenza a lungo termine) e un approccio in cui il testo e l’idea stessa di racconto appaiono il punto d’arrivo di un percorso di costruzione del personaggio concepito al di fuori dei codici più o meno imprigionanti della parola. Il percorso, al cinema come a teatro, si sviluppa più esattamente come un doppio movimento: a partire dal testo (e da alcune sue caratteristiche particolari, i sentimenti e le circostanze in primo luogo) per tornarvi, dopo un processo di esplorazione, a “prendere parola”, con una consapevolezza nuova e una vo33. The Actors Studio Free Theatre, fondato da Penn nel 1997 assieme ad amici e colleghi come Paul Newman, Estelle Parsons, Shelley Winters, Norman Mailer e Ellen Burstyn, è in realtà un’emanazione produttiva dell’Actors Studio, a cui Strasberg aveva già pensato nei primi anni Sessanta, senza riuscire a realizzare il progetto. Gli spettacoli della compagnia vengono preparati e allestiti nell’ambito dell’Actors Studio e poi trasferiti sui palcoscenici di Broadway (cfr. capitolo 5). 34. A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., p. 10. 35. G. Fofi, Un grande momento, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, cit., p. 31.

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ce “vera”. Il nesso parola/voce spiega la necessità di appropriarsi e articolare la prima solo dopo aver dato forma al personaggio, dopo averne compreso il profilo emotivo, psicologico e comportamentale: la parola detta è infatti traccia sonora, e il personaggio è anche voce, intonazione, pronuncia, gestualità; non sorprende che nei suoi corsi Penn consigli di leggere il testo una sola volta per poi abbandonarsi all’improvvisazione. Il work si realizza dunque attraverso una pratica di capovolgimento dell’ordine «degli oggetti, dei ruoli, dei generi, dei personaggi»36, verso le incognite dell’improvvisazione: «Il work è per il regista l’allontanamento dal testo come narrativa lineare e ciclica: il racconto viene riformulato in funzione degli effetti provocati dall’improvvisazione che segue al “lavoro dell’attore” sul testo. L’improvvisazione sviluppa una narrazione spontanea, dove le circostanze che scivolano fuori dal centro del racconto finiscono comunque per assumere un valore consequenziale». Il testo è dunque inteso come la «fase finale di un lungo processo di ricerca e quindi di creazione, a partire dal naturalismo stanislavskiano, riscritto da Strasberg in un processo creativo globale»37. Oltre che dall’intuito teorico di Strasberg, il lavoro teatrale di Penn viene precocemente influenzato dal contatto con Elia Kazan (a cui sarà più volte avvicinato dalla critica dell’epoca38), che gli consente di assistere alle prove di Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar Named Desire, 1951) presso il Barrymore Theatre di Broadway: il lavoro, tra improvvisazione e riflessione psicoanalitica, con cui Kazan e Brando esplorano il carattere di Stanley Kowalski lascerà un’impronta potente sul work penniano, di cui si coglie un primo e maturo riflesso nell’allestimento di The Miracle Worker, scritto da Gibson, dopo il successo di Two For the Seesaw, appositamente per la Bancroft.

36. Arthur Penn intervistato da James Lipton per il programma televisivo Inside the Actors Studio. 37. A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn. Dal “metodo” al work, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, cit., pp. 96 s. 38. Penn ha sempre indicato in Kazan uno dei più grandi direttori d’attori del cinema e del teatro americani; cfr. J. Hillier, Arthur Penn, in J.G. Cawelti (a cura di), Focus on Bonnie and Clyde, Prentice-Hall, New Jersey 1973, p. 8.

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La furia del cinema Tra la fine del 1959 e il 1960 Penn è in scena a Broadway con cinque spettacoli: alla chiusura delle repliche di Two for the Seesaw, in novembre, debutta The Miracle Worker; in febbraio si alza il sipario su Toys in the attic di Lillian Hellman (futura co-sceneggiatrice di La caccia), ambientato a New Orleans e incentrato sulla figura del trentaquattrenne Julian Bernies, diviso tra le cure un po’ troppo amorevoli di due sorelle zitelle e l’amore violento, segnato dall’isteria, della ricca moglie Lily39; in ottobre apre lo sperimentale An evening with Mike Nichols and Elaine May, una satira acida precorritrice del teatro di improvvisazione, mentre un mese dopo è la volta di All the Way Home di Tad Mosel, basato sull’autobiografico A Death in the Family di James Agee, in cui si racconta della morte di un uomo e del modo in cui i singoli membri della sua famiglia reagiscono al dolore, e particolarmente il giovane figlio40. Nel 1960, poi, un fugace ritorno alla televisione, sempre accanto a Fred Coe: regista e produttore vengono contattati per ottenere consigli in vista del dibattito televisivo che John Kennedy deve tenere con il vicepresidente Nixon (il primo della storia della politica americana): «Consigliai il team di Kennedy su come fotografarlo, in modo tale che avesse un vantaggio su Nixon. Consigliai in particolare l’uso di molti primi piani; e queste regole sono state seguite per tutti e quattro i confronti»41.

Per poco tempo, nel 1968, Penn avrebbe lavorato anche per Robert Kennedy, realizzando con lui uno spot radiofonico appena prima che venisse ucciso (nel team del candidato figura anche Frankenheimer). L’immersione profonda di Penn nel teatro, alla fine degli anni Cinquanta, assume il tono di un ritorno definitivo alla sua originaria passione dopo la prima esperienza cinematografica. 39. Adattato per il cinema, con lo stesso titolo, da George Roy Hill nel 1963, con Dean Martin nel ruolo del protagonista. 40. La NBC ha prodotto due versioni televisive di All the Way Home, una nel 1971 (per la regia di Fred Coe), una nel 1981 (per la regia di Delbert Mann). Il testo di Mosel è inoltre servito da soggetto (accanto al libro di Agee) per Al di là della vita (All the Way Home, A. Segal, 1963). 41. Intervista mia.

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La produzione di Furia selvaggia, uscito nelle sale americane nel maggio del 1958, lo ha infatti profondamente amareggiato, spingendolo il più possibile lontano dal mondo fasullo e rapace di Hollywood per tornare a New York, all’Actors Studio e ai palcoscenici di Broadway, di cui conosce e governa le regole senza problemi. Non a caso, quando deciderà di rimettersi dietro la macchina da presa, lo farà per un film che nasce direttamente da una sua regia teatrale, Anna dei miracoli, e che ha già diretto per la televisione. Il cinema, del resto, non ha mai rappresentato un richiamo particolarmente potente, neppure da spettatore: Penn vede il suo primo film a cinque anni ed esce talmente spaventato dalla proiezione che non metterà più piede in una sala per altri cinque. Ma quando l’amico di sempre, Fred Coe, gli offre l’opportunità di esordire, Penn non se la lascia scappare, seguendo l’esempio di molti amici e colleghi suoi coetanei (Fred Zinnemann, qualche tempo prima, lo aveva avvertito: «Finirai anche tu nel cinema»42). La seconda metà degli anni Cinquanta vede infatti traghettare verso il cinema un gran numero di professionisti formatisi in televisione: qualcuno non fa che realizzare un sogno più antico, per altri si tratta di una vera e propria fuga da un mondo che sta barattando la propria libertà creativa con i soldi degli sponsor; quasi nessuno, se non sporadicamente, tornerà indietro. Hollywood stessa favorisce il processo, rivolgendosi ai maggiori network in cerca di storie e procedendo in molti casi a veri e propri remake di originali televisivi43. Così, come nel caso di Penn, il passaggio da un medium all’altro avviene quasi senza soluzione di conti42. L’episodio è raccontato da Penn nell’intervista rilasciata a A. Monda, M. Sesti, e pubblicata in P. Bertetto (a cura di), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, Minimum Fax, Roma 2007, pp. 295 s. Il più anziano regista aveva insistito affinché Penn passasse a trovarlo durante la lavorazione di Un cappello pieno di pioggia (A Hatful of Rain, 1957): «Fu una lezione molto dolce perché non provò a impormi niente, e perciò gli fui molto grato». 43. Cfr. L.L. Nichols, Tv Opens the Screen to New Playwrights, in «The Quarterly of Film Radio and Television», Vol. 10, n. 4, Summer, 1956, pp. 337-343. Per un quadro delle sinergie tra industria del cinema e televisione negli anni Cinquanta, si veda J. Wasko, Hollywood and Televisione in the 1950s: The Roots of Diversification, in P. Lev (a cura di), The Fifties. Transforming the Screen 1950-1959, History of the American Cinema, vol. 7, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 2003, pp. 127-146.

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nuità: per fare solo qualche esempio, Delbert Mann, nel 1955, debutta con un “autoremake”, Marty, vita da timido (Marty), scritto da Paddy Chayefsky e già diretto per la serie PhilcoGoodyear Television nel 1953; lo stesso fa, due anni dopo, John Frankenheimer con Colpevole innocente (The Young Stranger), rigirando Deal a Blow scritto da Robert Dozier e trasmesso nell’agosto del 1955 dalla CBS, 38esimo episodio dello show Climax!; Sidney Lumet debutta nel 1957 con La parola ai giurarti (Twelve Angry Man), tratto da un originale televisivo di Reginald Rose (uno dei pochi autori della Golden Age con cui Coe non ha mai lavorato); Nel fango della periferia (Edge of the City, 1957), con cui esordisce Martin Ritt, è invece il remake di A Man Is Ten Feet Tall, scritto da Robert Alan Aurthur e trasmesso due anni prima da Philco per la regia di Robert Mulligan, anch’egli esordiente al cinema nel 1957 con Prigioniero della paura (Fear Stikes Out). Diverso il percorso di Robert Altman, che debutta molto presto con documentari e corti e realizza il suo primo lungometraggio, The Delinquents, nel 1957, per approdare solo in seguito alla televisione e riesordire idealmente alla fine degli anni Sessanta con Conto alla rovescia (Countdown, 1967) e soprattutto M.A.S.H. (Id., 1970), ispirato, com’è noto, a una fortunata serie televisiva. Il passaggio è insomma, quasi per tutti, piuttosto morbido; e se pure, nel caso di Penn, non esiste un particolare desiderio di tentare la strada del cinema, è indubbio che l’esempio di Kazan, avvertito come un modello se non proprio come un maestro, capace di alternare con successo cinema e teatro e soprattutto di rinnovare la sua ricerca sull’attore sperimentando su un doppio fronte, abbia finito per rappresentare una spinta decisiva. Se da un lato il passaggio di Penn sembra infatti rientrare, per modi e tempistica, nel grande movimento migratorio di autori dalla televisione al cinema di cui si è detto, dall’altro lato esso segue un percorso più privato e marginale, che connette direttamente teatro e cinema (col tramite “artigianale” della televisione) nel segno della ricerca attorno al “metodo”. Non a caso, l’interprete di Furia selvaggia è Paul Newman, un attore cresciuto partecipando, fin dai primi anni Cinquanta, alle “sedute” dell’Actors Studio, e che ha già indossato i panni del leggendario fuorilegge in un episodio di Philco, The Death of Billy the Kid (1955), diretto da Robert Mulligan e scritto da Gore Vidal. 61

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Il lavoro sulla sceneggiatura di Furia selvaggia parte proprio dall’originale di Vidal, ma Penn lo trasforma profondamente grazie all’intervento dell’amico Leslie Stevens44: l’idea di base è girare un film «non sul West ma su un certo West, tentando un’opera originale nonostante la modestia dei mezzi»45 messi a disposizione dalla Warner Bros., che in quel momento ha sotto contratto Paul Newman e affida la produzione a Coe e alla sua Harrol Production. Ma per quanto piccolo e indipendente, Furia selvaggia è un film hollywoodiano a tutti gli effetti, e Penn, peccando di ingenuità e inesperienza, sembra credere di poterlo realizzare come ha fatto fino a quel momento con i suoi show televisivi, ossia esercitando un controllo totale sull’intero processo produttivo e decidendo in prima persona di tutti gli aspetti tecnici, comprese le procedure di ripresa: «Si spendevano ore, giorni, settimane, mesi, anni in quella dannata control room, lavorando con gli attori e i cameraman… dicendo loro di togliere un cinquanta millimetri e mettere un trentacinque. Voglio dire, caricavo le lenti nella mia testa, sapevo tutto di quelle cose, e non c’era niente che mi spaventava all’idea di trovarmi su un set di Hollywood con una camera e una lente. Non mi spaventava: quello che mi spaventava era cercare di superare la trincea di “good old boy” di Hollywood. Ed erano forti»46.

44. Vidal avrebbe voluto dirigere il suo dramma, ma Coe, approfittando dell’assenza dello scrittore, mette insieme un “pacchetto” diverso, escludendolo completamente, salvo poi scusarsi con lui per ciò che ha fatto; Penn, al proposito, ricorda soltanto che, in quel momento, «Vidal era indisponibile». Il giudizio dello scrittore sul film sarebbe stato sprezzante: riferendosi a Furia selvaggia e a Un marziano sulla terra (Visit to a Small Planet), scritto nel 1955 per Philco Television Playhouse e portato al cinema cinque anni dopo da Norman Taurog, ha dichiarato: «Io avevo già mancato per due volte la mia occasione di fare dei film basati sul mio lavoro […]. In ambedue i casi il regista sbagliato aveva fatto il film sbagliato», in R. Peabody, L. Ebersole, Conversations with Gore Vidal, University Press of Mississippi, Jackson 2005, pp. 74 s. 45. A.S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, «Cahiers du Cinéma», n. 140, febbraio 1963. 46. G. Kindem, The Live Television Generation of Hollywood Film Directors, cit., p. 103.

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L’attrito coi “bravi ragazzi” di Hollywood è immediato, e alcuni sono davvero forti, primo tra tutti il direttore della fotografia, un vecchio leone come J. Peverell Marley, con alle spalle un centinaio di film: «Quando fu il momento di iniziare le riprese, andai sul set con un foglietto di carta che fissai al pavimento accanto a ciascuna cinepresa: tu sei sul 50, tu sul 35, e così via. Non l’avessi mai fatto! Il direttore della fotografia andò su tutte le furie e mi disse che nessun regista poteva permettersi di dirgli che lenti usare e a che punto. “Mi puoi dire dove vuoi che metta la macchina – urlava – ma non sognarti di dirmi che obiettivo devo usare!”»47. E la lezione sulla divisione e il rispetto dei ruoli all’interno dell’industria cinematografica continua tre settimane dopo, a riprese ultimate, e con un esito ancor più doloroso: «Quando mi dissero che dovevo cedere il campo al montatore [Folmar Blangsted], ne rimasi traumatizzato. Non riuscivo a credere che qualcuno avrebbe preso il mio posto, perché in televisione regia, riprese e montaggio erano una sola cosa. Ne fui così scioccato che lasciai la California giurando che non avrei mai più fatto un film. Per me quel sistema era intollerabile»48. 47. M. Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, cit. La stessa decisione di Penn di usare più camere (com’era solito fare in televisione) risulta destabilizzante: «Trovai molta resistenza nel rapporto con il direttore della fotografia. […] A un certo punto, io volevo utilizzare due macchine da presa e lui disse: “Non lo faccio, non mi piace utilizzarne due, preferisco lavorare solo con una”. Io risposi: “Ok, io comunque voglio due camere in questa scena, non mi preoccupa il fatto di come combinarle”. Alla fine piazzò due cineprese ma poi scrisse sul ciak “In protesta”» (A. Monda, M. Sesti, Intervista con Arthur Penn, cit., p. 292). Come ricorda David Bordwell, in quel momento, a Hollywood, l’uso di due o più camere (in genere, una con focale corta e una con focale lunga) per scene diverse da un disastro automobilistico, un’esplosione o il crollo di un palazzo, è del tutto inusuale; il loro impiego simultaneo si diffonde solo negli anni Sessanta, fino a diventare lo standard attuale, grazie a registi come Penn, appunto, ma anche Richard Lester, Peckinpah e Cassavetes (che è solito usare la seconda camera per gli “accenti”, ossia primi piani stretti del personaggio o dettagli della scena); cfr. D. Bordwell, The Way Hollywood Tells It: Story and Style in Modern Movies, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 2006, pp. 153 s. 48. M. Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, cit.

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Cominciano dunque subito, fin dal primo lungometraggio, i problemi di Penn con i soldi, i modi e i produttori di Hollywood, una «factory town i cui prodotti sono i film» e rispetto alla quale si sente subito «poco ortodosso»49. Col tempo, a poco a poco, imparerà le regole, il “galateo” del set e ad approfittare dei compromessi, pretendendo il director’s cut e circondandosi, quando possibile, di collaboratori fidati, Gene Lasko e la montatrice Dede Allen in primo luogo. Lungo gli anni Sessanta, inoltre, l’autonomia del director è destinata a crescere con l’avanzare di nuove forme di collaborazione tra Major, produttori e “autori”, incoraggiate dal successo di piccoli film indipendenti (il più indipendente di Penn, Mickey One, sarà però un fiasco al botteghino) e dalla crisi del vecchio sistema degli studios. In ogni caso, le libertà concesse dal modo di produzione della live television e soprattutto dal lavoro in teatro resteranno un modello irraggiungibile. Dall’altra parte, è proprio il set – quello ricco e hollywoodiano – a concedergli di lavorare con alcuni dei più grandi attori “moderni”, influenzati come lui dal “metodo” e habitué dalle sedute bisettimanali dell’Actors Studio, a partire da Paul Newman, col quale, in Furia selvaggia, dà vita a un prototipo molto influente di anti-eroe, fragile e tormentato, portando al cinema, dopo gli esempi offerti dalla collaborazione tra Kazan, Brando e James Dean, un modello di recitazione “fisica” e psicologicamente sottile. Far vedere l’emotività del personaggio è del resto una delle più evidenti e resistenti caratteristiche della regia penniana, sempre pronta a sottomettere il dialogo, l’orchestrazione melodrammatica e la logica ordinata delle cause e degli effetti al racconto del corpo e del volto; la regia stessa, in molti casi, si sottomette completamente all’attore, non tanto al “ruolo” ma alla sua recitazione: «Tutto quello che faccio per quanto riguarda il posizionamento della macchina da presa viene dagli attori. Non progetto le riprese prima di realizzarle. Andiamo sul set, cominciamo a lavorare e lascio la situazione molto sciolta e libera. Poi la scena comincia a prendere corpo da sola. A un certo punto dico: “Bene, questa è la strada giusta”. In quel momento capisco dove mettere la macchina da presa e in che direzione andare»50. 49. Intervista mia. 50. A. Monda, M. Sesti, Intervista con Arthur Penn, cit., p. 289.

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Penn, pur con qualche inevitabile differenza (soprattutto per quanto riguarda la tecnica dell’improvvisazione), continua dunque a Hollywood, con complici ben scelti, la sua personalissima ricerca sul “metodo”, impiegando il corpo dell’attore come superficie sensibile e metronomo emotivo del sentire più profondo e segreto del personaggio, e rimandando al movimento, al gesto, all’espressione facciale ciò che le parole non possono o non riescono o non bastano a dire; nulla a che vedere, insomma, con il corpo della tradizione classica, impiegato perlopiù come supporto della recitazione, maschera e veicolo della parola (o come semplice involucro divistico). Di questo aspetto del cinema di Penn, che proprio Furia selvaggia e il successivo Anna dei miracoli enfatizzano a mo’ di manifesto, si accorge molto presto uno dei suoi primi critici, Robin Wood, che già nel 1967 scrive: «Ciò che colpisce nei film di Arthur Penn può apparire a un primo sguardo un aspetto superficiale, ma conduce dritto all’essenza della sua arte: un’intensa consapevolezza di, e un’enfasi su, l’espressione fisica. Le sensazioni fisiche (spesso, ma non necessariamente, violente) sono costantemente vivide nei suoi film più che in quelli di qualsiasi altro regista. Ancora e ancora egli trova un’azione – spesso inusuale e improvvisa – adatta a comunicare un “sentire” fisico allo spettatore, e impiega tutte le sue risorse – direzione degli attori, posizione e movimenti di macchina, montaggio – per rendere questo “sentire” il più immediato possibile, suscitando una vivida risposta empatica»51.

La peculiare fisicità della regia di Penn celebra un felice incontro non semplicemente fra cinema e teatro ma fra teatralità e fotogenia: nasce dalla ricerca di un’origine del sentire del personaggio che sta prima e oltre la “lettera” del testo (fino a contraddirla, se serve) e che si realizza nel rapporto, sempre studiatissimo (al limite della “posa psicologica”), tra attore e cinepresa, tra l’esserci fisico del primo e la ricchezza di possibilità prossemiche della seconda; lo rivelano bene, per esempio, l’evidenza e il valore semantico che assumono nei suoi film il parametro della distanza dei soggetti dalla macchina da presa, 51. R. Wood, Arthur Penn, Studio Vista Limited, London 1967, p. 6. Il libro, nel 1973, è stato tradotto in francese e aggiornato con l’aggiunta dei capitoli su Alice’s Restaurant e Piccolo grande uomo, e di una lunga e interessante intervista.

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l’uso frequente del long-shot (e non del piano sequenza “modernista”), il ricorrere del primo piano in “tele”, i cambiamenti di obiettivo per ridisegnare i rapporti tra figura e sfondo. Da un lato, dunque, vi è la ricerca sul personaggio-persona, psicologicamente complesso e fisicamente connesso alla propria storia, passata e presente, al proprio pensare e sentire: quando il tempo glielo consente, Penn fa precedere al lavoro con gli attori sul set sedute di studio e improvvisazione52. Dall’altro lato, la dimensione fisica si offre a Penn come dato aperto e mutevole, suscettibile di infinite possibilità di configurazione e significazione: nel suo cinema il corpo vale infatti sia come elemento di identificazione ed espressione, sia come “oggetto” e materia puri, sia, infine, come palinsesto di dati storici e antropologici, imponendosi non semplicemente come centro logico-visivo dell’azione ma, spesso, come fulcro e termometro del racconto, tanto che il senso ultimo di molti suoi film è riflesso in primo luogo proprio dalle trasformazioni figurative cui va incontro il corpo del personaggio. Il risveglio della coscienza dello sceriffo Calder di La caccia, il declinare dell’avventura di Bonnie e Clyde, il peso dei ricordi di Jack Crabb (Piccolo grande uomo), il coming of age del protagonista di Gli amici di Georgia o la progressiva presa di coscienza dell’attivista Marty Strydom di Urla dal buio sono impressi a fuoco sulla pelle del personaggio e scanditi visivamente dalle “pressioni” fisiche a cui sono sottoposti i loro corpi. Ed è proprio nella “messa in scena dei corpi” e nella loro valorizzazione anti-classica che il teatro e il cinema di Penn, al di là degli sfioramenti di temi, idee e forme del tutto inevitabili tra due carriere a lungo parallele e intrec52. Per Gli amici di Georgia, per esempio, prova per tre settimane con gli attori in una stanza, concentrandosi sull’improvvisazione e trascurando di leggere il copione; allo stesso modo, sul set di Piccolo grande uomo invita spesso Dustin Hoffman a liberarsi dello script: «prova la scena senza fare uso delle parole, chiediti le ragioni del tuo comportamento, indaga in te stesso, arriva ad una conclusione credibile. Vivi solamente quell’attimo, agisci, non fermarti per dire che cosa sta succedendo, agisci e basta, “go, go Dustin!”» (A. Penn, Prefazione a A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., p. 10). Non diversa e altrettanto cruciale l’improvvisazione concessa per Missouri a Jack Nicholson e, soprattutto, a Marlon Brando, i cui momenti di “libertà” recitativa in La caccia (per lo più eliminati in montaggio per volere del produttore Sam Spiegel) vengono ricordati da Penn come alcune delle cose migliori del film.

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ciate, si incontrano e reciprocamente vivificano: in particolare, il regista cinematografico, alle prese con un dispositivo che sul corpo – sul racconto dei corpi e sul racconto a partire dai corpi – ha costruito la sua «proprietà ontologica e definitiva»53, ruba a quello teatrale una lezione duratura in termini di verità drammaturgica ed estetica. La sua prima lezione all’attore resta dunque valida anche al cinema: «ci vuole più ritmo, più fisicità, “get into the rythm”, mettete più recitazione fisica»; «siate originali nell’usare il vostro corpo, le vostre esperienze private, esercitatevi a creare suggestioni fisiche delle vostre esperienze»54. Da questo punto di vista, appena prima dei “giovani turchi” francesi (diciamo quindi in contemporanea con Bergman e, sul fronte americano, Kazan), Penn offre una lezione che si sarebbe poi trasformata in una delle regole auree della modernità cinematografica, inseguendo la verità “carnale” del personaggio contro la stereotipia del ruolo e/o del divo, la sublimazione del sentimento nel gesto vissuto (anziché recitato), l’oggettivazione dei moti interiori nella cinetica, necessariamente imprevedibile, violenta e originale, perché individuale, del corpo. Penn infonde peso alle cose e ai corpi, spingendo il cinema a terra e trasformandolo così, prima di qualsiasi discorso ideologico o politico, in un luogo prossimo al reale. E del resto è proprio la particolare consistenza delle cose a rendere moderno il cinema degli anni Sessanta: Penn la scopre passando dall’Actors Studio e dal dispositivo “pesante” e presente della televisione in diretta (altri vi arrivano dal documentario o dalla militanza politica). E la conquista assieme ai “nuovi attori” (nati come lui a teatro) che, prima o poi, saranno, suoi attori: Paul Newman, Warren Beatty, Marlon Brando, Robert Redford, Dustin Hoffman, Gene Hackman, Robert Duvall, Anne Bancroft, Jane Fonda, Faye Dunaway. Il lavoro sul linguaggio del corpo, sulla complessità psicologica e comportamentale del personaggio e sul ruolo dell’acting nell’indagine dei sentimenti, sempre di chiara matrice naturalistica, rappresenta dunque non soltanto una delle costanti del cinema di Penn, ma anche un orizzonte di ricerca privilegiato e, retrospettivamente, una delle sue eredità più 53. A. De Baeque, Le lieu à l’œuvre. Fragments pour une histoire du corps au cinéma, «Vertigo», n. 15, 1996, p. 11. 54. A. Sica, La regia teatrale di Arhur Penn, cit., p. 42.

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preziose. Egli ha infatti consegnato alla storia del cinema e all’immaginario moderno una straordinaria galleria di “individui” e, insieme, una preziosa lezione di “disegno dal vero”; oltre che un grande narratore, Penn è stato e continua a essere un formidabile ritrattista: il suo cinema e le sue storie nascono sempre dallo studio del personaggio, colto per lo più in una fase di passaggio e di identificazione, nel momento di una lotta fisica e sentimentale che ha per obiettivo il raggiungimento di una saldezza di contorni razionali ed emotivi. E sono, i suoi, ritratti di individui dotati del potere di diventare icone, modelli, archetipi, dal Giovane Billy al Ribelle Arlo di Alice’s Restaurant all’Immigrato Danilo di Gli amici di Georgia; sullo sfondo, la società americana: perché la figura e l’identità hanno origine nella lotta col mondo, nel corpo a corpo tra motivazioni individuali e cornici storiche. Questa inclinazione della regia penniana, al tempo stesso naturalistica e moderna, realistica e simbolica, verso una scena vivida e materica, occupata dal “racconto del corpo”, è già evidente nel lungometraggio d’esordio, in cui Billy non è semplicemente ciò che fa (secondo l’adagio, tra genere e stereotipo, del cinema classico, tanto più vivo nel caso del western) ma fa ciò che è, a partire da una logica che sottomette azione e reazione alla psicologia del personaggio: il suo movimento, sullo schermo, scaturisce normalmente da quello interiore, ben più oscuro e inconoscibile, e da un intreccio complesso di ricordi, istinto e desiderio. Il personaggio è così sottratto a una grammatica evenemenziale di immediata leggibilità (anch’essa di matrice classica: ad azione segue reazione), il dramma trascolora in psicodramma e il presente continuo degli eventi rilancia senza sosta un conflitto di coscienza in cui si confrontano storia passata e obiettivi futuri. La narrazione assume di conseguenza un andamento originale e parossistico, sviluppandosi a partire dai movimenti sussultori della psiche del personaggio; il tanto discusso “barocco” penniano ha qui la sua origine, in questo impasto di percettivo, sensibile e razionale. Non a caso, due letture principali e in sostanza opposte si sono spartite il campo a proposito del primo eroe penniano: da un lato, una lettura di impronta psicoanalitica, interessata a indagare la complessa architettura psicologica del personaggio (immaturo, istintuale, latamente omosessuale, guidato da un evidente complesso edipico…); dall’altro lato, una lettura più aderente ai dati della messa in 68

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scena, interessata soprattutto a rilevare il movimento sottile di stati d’animo e stati di corpi, cose e azioni con cui Penn imbastisce un discorso genuinamente tragico, tirato tra denuncia sociale e simbolismo westener. Comunque lo si avvicini, Furia selvaggia resta «uno dei western più eterodossi degli anni Cinquanta»55, in cui, da buon moderno, Penn affronta il genere come tipologia narrativa e modalità discorsiva, mettendo in scena il meccanismo stesso della nascita del mito (di Billy e del West), il suo conflitto con la realtà e il ruolo dei mezzi di comunicazione nella sua propagazione (in particolare la paraletteratura di frontiera). Da un certo punto di vista, Penn sembra applicare al mito di Billy lo stesso processo “metodista” a cui è solito sottoporre la pagina scritta in vista della messa in scena teatrale o cinematografica: cerca di andare oltre le parole, di aprirle se non addirittura di ignorarle, per trovare qualcosa che stia prima e oltre, qualcosa di intimo che le parole non possono che corrompere o semplificare troppo. Sulla scena del duello finiscono così, sui fronti opposti di una classica pistolettata di genere, l’uomo e il personaggio, la falsificazione romanzesca e la verità dell’azione. Ma, anche, una tradizione di fonti leggendarie e ideologicamente piantate di cui il cinema si è a lungo nutrito, contro un approccio intenzionato a scalfire la solidità del mito, per andare a stanare quell’ideologia pur restando dentro il genere: il rovesciamento di prospettiva si compie a partire dalle stesse retoriche di genere, che vengono aperte, trasformate in materia del racconto e rivelate, prosciugando l’entertainment. Mentre il genere, nei secondi anni Cinquanta, si avvia al cambiamento, tra ultimi fuochi di vecchio stile (il superwestern) e anticipazioni di rinnovamento (Johnny Guitar [Id.], N. Ray, 1954; Quaranta pistole [Forty Guns], S. Fuller, 1957), Penn è già oltre, e anziché approfittare della tradizione in chiave simbolica, proiettandovi un riflesso del presente, suggerisce senza mezzi termini che i miti discendono da una distorta interpretazione della realtà e che la Storia è una costruzione ingannevole a cui i mezzi di comunicazione (cinema compreso) contribuiscono consapevolmente. Non a caso, l’altro western di Penn sarà il western politico per eccellenza del55. M. Morandini, voce Arthur Penn, in R. Bellour (a cura di), Il western. Fonti, forme, miti, registi, attori, filmografia, Feltrinelli, Milano 1973, p. 320.

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la New Hollywood, Piccolo grande uomo: un’esplosione picaresca della materia bassa del genere e un itinerario allucinato tra le sponde opposte delle frontiere morali su cui esso si regge, fino a vanificare il nocciolo duro del conflitto. Missouri chiuderà il percorso frammentando l’essenza tragica del genere (il “duello”) e virando verso l’astrazione le opposizioni – di valori e ideologia – che lo sostengono. «Il personaggio di Hurd Hatfiled [Moultrie] in Furia selvaggia si confronta continuamente con un mito che egli stesso ha formato nella sua testa attorno alla figura di Billy the Kid. Il suo evidente disappunto quando scopre chi è Billy realmente, e la sua incapacità di riconciliare le due immagini, lo spinge a tradire Billy. La necessità di avere eroi genuinamente eroici mi sembra un’assurdità e un’intenzione folle, e quando qualcuno come Hatfiled viene deluso, la sua vendetta non ha limiti»56.

La demistificazione del mito si compie dunque attraverso l’indagine delle strategie della sua costruzione e diffusione, nella messa in scena del “dispositivo” e nell’assimilazione narrativa, accanto agli eventi e ai personaggi di cui tratta, dell’“autore” (Moultrie rimanda, per assonanza, a qualcosa di ammuffito e dunque di parassitario); in Piccolo grande uomo, invece, l’operazione sarà tenuta sulle nuances della parodia, condotta dalla viva voce del testimone-personaggio Jack Crabb. Ma la demistificazione non assume mai toni ludici o disimpegnati, virati verso il puro visibilismo o la contemplazione della forma vuota. Il processo di dismissione ideologica, all’interno del genere per eccellenza della mitologia e di un certo ordine (mentale e figurativo) della storiografia americana, ha di mira, da un lato, la sconfessione del mito in quanto tale (inteso come narcotico seducente e fraudolento della realtà) e, dall’altro, la riconnessione della sua materia di partenza al flusso della storia (in vista di una verifica al presente). Il mito, infatti, come Penn sa bene, «si costruisce attraverso la dispersione della qualità storica delle cose: le cose vi perdono il racconto della loro fabbricazione»57: al recupero di questa qualità mirano invece sia Furia selvaggia, sia Piccolo grande uomo, e 56. E. Sherman, M. Rubin (a cura di), The Director’s Event. Searching, Fascinating in-Depth: Interviews with Five Leading American Film-Makers, The New American Library, New York 1972, p. 116. 57. R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1974, p. 222.

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l’integrazione della “fabbricazione” del mito ne diventa un aspetto cruciale. Furia selvaggia assume così l’andamento di un doppio studio del personaggio, dalla sua nascita alla sua morte, attraverso le sue molte nascite e le sue molte morti («la passione dall’infanzia alla morte»)58: da un lato, l’invenzione di Moultrie e il suo sguardo (a cui Penn attribuisce evidenti connotazioni omosessuali); dall’altro, un itinerario che, ricondotto alla semplicità e all’evidenza dei fatti, riscopre un andamento tragico e testimoniale (e un mito incarnato): «Penn, ossequiando la sua inclinazione primaria, si rifà all’alveo sorgivo della tragedia e della sacra rappresentazione; reinveste mediatamente e criticamente il codice teatrale»59. Proprio la tragedia, a partire da Furia selvaggia, si impone come una sorta di macro-genere trasversale a tutto il cinema di Penn, assunta in quanto filtro ineliminabile, originario, intrinsecamente umano e “americano”; e s’afferma di conseguenza la scelta, già evidentissima nel film d’esordio, di un registro stilistico e retorico fondato sull’intensità degli “effetti di realtà” (fino a giustificare la deformazione iperrealistica): tragedia e realismo sono, del resto, le due facce di una stessa medaglia, poiché è il mythos “autunnale” della tragedia che, prima e meglio di altri mythoi, ha iniettato nella poesia «il senso dell’autentica base dei temperamenti umani», affrancando i personaggi dall’idealità, vincolandoli all’ordine naturale e collocandoli in una posizione intermedia tra il divino e il troppo umano, da cui scaturisce la dimensione testimoniale della loro esistenza: «Nel paesaggio umano gli eroi tragici sono le punte più alte, sì da sembrare gli inevitabili conduttori delle forze e delle energie vicine a loro, come grandi alberi che sono più facilmente colpiti dal fulmine»60. Destinati, per questo, all’isolamento. Tra divino (di qualunque tipo esso sia) e troppo umano sta Billy the Kid: in tensione tragica tra l’olimpo degli dèi del west e una dimensione “bassa”, materica e istintuale, agitata da un’inquietudine a tratti segreta e imperscrutabile. E in questo spazio sta solo, di volta in volta provvisoriamente legato a figure destinate a morire o a rifiutarlo. E solo, del resto, compare 58. F. Carlini, Arthur Penn, Moizzi, Milano 1977, p. 11. Anche Carlini riconosce una sorta di predestinazione tragica al personaggio di Billy, che ha come fine ultimo e inevitabile il sacrificio. 59. S. Arecco, «Filmcritica», n. 209, 1970. 60. N. Frye, Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, Einaudi, Torino 1969, pp. 275 s.

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sullo schermo durante i titoli di testa, conducendo un fardello più simbolico che reale che gli rallenta il passo, nascendo da uno spazio brullo e irregolare (verso il quale si volta a guardare un’ultima volta prima di incontrare il suo destino) e avvicinandosi a poco a poco alla macchina da presa, di fronte alla quale cade, per poi rialzarsi: il primo di molti movimenti di caduta (e successiva ascesa) che segnano il suo percorso, privo di un orizzonte e uno scopo e articolato piuttosto come il riflesso di un processo interiore di conoscenza e perdita di sé, di condivisione della legge e di deragliamento morale e fisico; un andamento sussultorio, un botton-top dell’anima che segna molti personaggi del cinema di Penn61. Il destino (accecante) di Billy è una coppia simbolica che associa principio vitale e morte: contro la luce del sole, il primo oggetto che si offre allo sguardo del personaggio è un fucile puntato contro di lui; e gli occhi si abbassano, dalle altezze del cielo all’evidenza della minaccia. Il primo tempo dell’avventura di Billy è una ricerca di legami: appartieni al signor Morton? gli viene chiesto; e poi, Come ti chiami? Billy the Kid vuole essere, semplicemente, William Bonney. Non ha neppure un cavallo, è lontano da casa (Kansas City), cerca un lavoro ed è affamato. Billy è l’esatto opposto dell’iconografia classica del cavaliere che torna dopo molto tempo e trova, ad attenderlo, una casa e una famiglia, come il prototipo incarnato dall’Ethan di Sentieri selvaggi (The Searchers, J. Ford, 1956). Billy non torna, fugge; non va da nessuna parte, se non là dove nessuno possa riconoscerlo e ricordarne la storia. Come un trovatello, viene raccolto da Tunstall, sulla fiducia e nell’attesa di rivelarsi. Qualcuno decide di chiamarlo Billy, per far prima; qualcun altro propone William: il nome è sdrucciolevole come l’identità. Ma il ragazzo porta la pistola bassa, e perfino legata: non è detto che sia un bandito, ma di certo non è un predicatore. Però qualcuno, tra gli uomini di Tunstall, ha sentito parlare di lui, del padre che lo ha abbandonato e del guaio in cui si è cacciato a soli undici anni, pugnalando e uccidendo un ubriacone che aveva offeso la madre. Da allora è 61. Billy cade tre volte (escludendo la morte finale): all’inizio, come detto; una seconda volta quando fugge, ferito, dalla casa in fiamme del predicatore; un’ultima volta quando, ormai alla fine del suo viaggio, liberatosi delle catene, incontra dei messicani e crolla, stanco, sotto la loro carovana. Andamento tripartito che possiede qualcosa di cristologico, come invitano a pensare molti altri simboli disseminati lungo il film.

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trascorso molto tempo, ma quel passato è ancora lì: quella piccola bugia sulla sua origine è subito scoperta (le sue radici sono a El Paso, non a Kansas City), e William Bonney torna immediatamente a essere Billy The Kid, non un semplice assassino ma il “kid” abbandonato e costretto a cavarsela da solo in anticipo sui tempi; non semplicemente un soggetto violento ma il frutto di una serie di atti di violenza, perpetrati dentro un contesto in cui proprio la violenza regge il gioco e decide il destino: «La tradizione orale di Billy the Kid aveva distorto la consistenza fisica del personaggio; ne aveva operato una deformazione, togliendo all’eroe il senso di una dimensione alterna. Ha fissato cioè il carattere violento del bandito e ha escluso l’elemento melico del canto, della tristezza, della malinconia, il carattere della sua solitudine, l’ambiguità dei modi, i difficili rapporti con gli altri»62. Penn accoglie la lezione (indicando fin d’ora nella violenza un oggetto privilegiato della sua riflessione) ma reintegra anche gli aspetti espunti dalla tradizione e appiattiti dal mito, fino a renderli centrali, e trasforma il personaggio di Billy in una figura tragica da cui estrarre una verità complessa sull’origine della storia e dell’epopea americane (riprese e approfondite in Piccolo grande uomo). Con molta tenerezza, il regista dona a Billy l’innocenza di una vittima delle circostanze, inseguita dal passato e per questo costretta a ripetere all’infinito uno schema imperfetto in cui i conti non tornano mai e ogni nuova nascita – come quella che inaugura il film – è in realtà l’inizio di una dolorosa replica, perchè Billy non può davvero ricominciare, non da zero almeno, come vorrebbe. Solo più tardi, richiamato a sé dagli eventi, capirà che il suo destino consiste nel sacrificio, e che solo la morte può interrompere il filo ingarbugliato e sempre identico del fato – morte rituale anticipata dall’immagine della “Pascuas”, in cui i messicani «costruiscono un uomo di paglia e poi gli danno fuoco, lo bruciano»; Billy osserva il rito e non capisce: ma per mano di Moultrie anche lui, di lì a poco, sarà “replicato” in un uomo di carta e poi bruciato nella spirale perversa dello scontro tra realtà e finzione. L’impossibilità di essere normali, di sfuggire al fato e di ricominciare dentro una simmetria di relazioni più tradizionale si manifesta nel film fin dall’inizio. Tunstall, che incarna un 62. E. Bruno, Popolarità come struttura del film, «Filmcritica», n. 175, marzo 1967.

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principio contrario a quello di Billy («Il solo modo di non avere guai con le armi è non possederne») gli è subito sottratto, ucciso dai suoi rivali. Billy, dapprincipio, lo insegue e lo studia, in modo un po’ selvatico, poi gli si concede quasi come un figlio, perchè l’uomo ha la statura morale e il sapere saldo di un padre, e come un padre e un maestro si offre di insegnargli a leggere e cita la Bibbia, proprio come faceva sua madre quando lui era bambino; il ragazzo, del resto, gli piace, perché, da buon discepolo, «fa domande intelligenti», ha la mente sveglia ed è svelto. Il gioco delle opposizioni potrebbe dar vita a un’altra storia, per Billy e per il West: la saggezza dell’anziano contro la selvatichezza del ragazzo, la Bibbia contro la pistola, i nemici contro gli amici; Tunstall potrebbe salvarlo, perchè capisce subito qual è il suo problema, riassunto nell’immagine del vedere «attraverso un vetro, oscuramente» (dalla Lettera di San Paolo ai Corinzi): vale a dire, in modo annebbiato e distorto, oppure senza certezze, come quando si guarda qualcosa ingannandosi sulla sua verità, un amico che forse è un nemico e viceversa. Billy riunisce in sé le due distorsioni, che non rappresentano soltanto il riflesso dell’accecamento di cui è vittima – la difficoltà di conoscersi, dirsi e capirsi – e dei turbamenti prodotti, a un certo punto, dal confronto col proprio mito. La metafora biblica introduce anche uno dei temi più ricorrenti del cinema di Penn, legato, in termini più generali, alla riflessione sul vedere: se stessi, certo, ma anche il mondo che ci circonda, le trame che lo agitano, il senso che lo percorre. La facoltà stessa del vedere è, per molti personaggi penniani, una proprietà da ricercare o difendere contro le menomazioni imposte dal destino (Anna dei miracoli) o le minacce esterne (Mickey One); a rimarcarne la centralità, il ricorrere dei più diversi dispositivi ottici, dagli occhiali neri di Annie Sullivan a quelli, con una sola lente rossa, di Clyde (Danilo ne indosserà un paio quasi identico), dagli specchi deformanti di Bersaglio di notte agli obiettivi fotografici di Furia selvaggia e Piccolo grande uomo, per non parlare del binocolo-puntatore con cui il regolatore Lee Clayton inquadra le sue prede in Missouri. Correlativamente, assieme al tema del vedere assume una rilevanza simbolica molto forte, fin da Furia selvaggia, la figura dell’accecamento, che dal piano fisico richiama costantemente quello morale, e che da Anna dei miracoli arriva fino a Urla dal buio, in cui «il pericolo della luce» e la ristrettezza del punto di vista (gli 74

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spioncini della prigione) restituiscono l’immagine di una vulnerabilità ottica e al tempo stesso conoscitiva, immagine sintetica e perfetta del regime dittatoriale del Sudafrica63. La tematizzazione «del rapporto di tensione tra vedere e riconoscere, tra percezione e conoscenza»64 (con l’affermazione di un limite insormontabile alla piena conquista della seconda a causa degli ostacoli che minacciano continuamente la prima) assume tuttavia in Furia selvaggia una centralità particolare, sostenuta non soltanto dal ricorrere della metafora biblica, ma anche dalla disseminazione di altri simboli riferiti alla tecnologia o al processo del vedere (il piano tratteggiato nel vapore da Billy, la fotografia che gli scattano nel corso delle nozze di Garrett…) e, soprattutto, dall’articolazione del racconto attorno al movimento degli occhi del personaggio, che si aprono e chiudono come dissolvenze sulla sua vita e sembrano in molti casi reagire alle visioni di una scena interiore, piuttosto che alla luce o al movimento di ciò che lo circonda. Billy è condannato a vedere le cose come attraverso un vetro, oscuramente. E così, quando si trova a casa del pastore McSween, seduto accanto alla bara di Tunstall, Penn decide di metterlo in scena come se non vedesse nulla, immobile e abbandonato sulla sedia. I suoi occhi restano a lungo puntati su un’immagine assente e viva soltanto nella sua mente. E quando quell’immagine finalmente si mette a fuoco – l’immagine della vendetta – il suo corpo ne è quasi travolto: si alza, è adesso in piedi accanto al feretro, poi comincia a indietreggiare lentamente, seguendo un punto lontano e un ordine via via sempre più chiaro e impellente, senza mai incrociare lo sguardo del suo interlocutore, puntato dritto su di lui; una dissolvenza al nero chiude la scena, sfumando sui suoi occhi chiari, spalancati e infuocati, in primo piano (vedi inserto pp. 1 e 2). Proprio il richiamo della vendetta – «quell’altro modo» che «va contro Dio», gli spiega McSween, intuendo le intenzioni del ragazzo – è ciò che qualifica Billy come eroe tragico. Nel momento stesso in cui decide di farsene carico (ma più che una scelta è un’inevitabile conseguenza di ciò che è stato fatto a Tunstall), egli mette in moto il classico movimento binario del racconto tragico, la cui conclusione porta inesorabilmente alla manifestazione della legge, quella stessa legge – di Dio o degli uomini – 63. Al proposito, si vedano le interessanti osservazioni di R. Müller, «Through a glass darkly»: motivi ed estetica nel cinema di Arthur Penn, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, cit., pp. 53-65. 64. Ivi, p. 57.

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che Billy decide di sfidare (o che non può non sfidare, guidato da una visione delle cose che lo eccede) e che alla fine del film sceglierà non soltanto di accettare ma letteralmente di testimoniare, offrendosi, disarmato, alla pistola di Pat Garrett. Il quale non si accorge della fondina vuota dell’amico – «Io non potevo vederlo», dirà. In questo caso – per la prima e ultima volta – è Billy, e solo lui, ad aver visto tutto chiaramente. In questo film controllatissimo, in cui Penn allestisce una messa in scena densa di rimandi interni e di simboli dissimulati sotto la coltre del genere, rubando al western classico, al melodramma sudista alla Tennesse Williams e ai film di Kazan, l’ingresso di Pat Garrett nella vita del giovane fuorilegge s’annuncia come l’arrivo – dopo Tunstall – di un secondo termine cruciale per la (de)costruzione della sua identità; la prima inquadratura su Pat, non a caso, è “oscurata” dallo spessore di un vetro. Penn lo presenta come una figura al tempo stesso identica e altra rispetto a Billy, dotata del potere di rifletterne l’immagine (come lui, si è nascosto a lungo quand’era ragazzo, in fuga dalla legge) e, al tempo stesso, di rovesciarla nel suo opposto, incarnando quell’alterità seducente (la legge, la norma, la famiglia....) da cui Billy desidererebbe ricominciare e che Pat realizza attraverso il suo matrimonio e il suo incarico di sceriffo, consegnando un racconto lineare e progressivo di crescita e miglioramento, opposto a quello ciclico e reiterativo di Billy. L’uno il riflesso dell’altro, nel corso del primo incontro spianano le pistole nello stesso istante, assumendo un’identica posizione: solo che Billy veste una camicia bianca, un fazzoletto nero e un cappello chiaro, Pat una camicia nera, un fazzoletto bianco e un cappello scuro65. Billy regge la pistola con 65. Anche in seguito, nel film, in modo analogamente sintetico e simbolico, Penn caratterizzerà l’opposizione e la minaccia in termini prima di tutto cromatici: per esempio, quando i soldati giungono presso Madero, dove Billy si è rifugiato, un senso di inquietudine nasce in primo luogo dal contrasto netto tra il candore degli abiti dei cittadini e del luogo e il nero delle divise dei soldati. Billy, in questo caso, veste significativamente pantaloni neri e camicia bianca, a puntualizzare la sua natura “mista” e, nella fattispecie, il suo ruolo di vendicatore “giusto”, contro le ingiustizie della legge. Lo scontro che ne segue, più farsesco che western, si risolve in una vittoria “cromatica”: le guardie a terra, stordite e imbiancate di farina. Un altro caso emblematico di opposizione cromatica si ha in occasione delle nozze di Pat: tutti vestiti di chiaro (anche Billy), tranne Hill, il “condannato a morte”, l’ultimo dei quattro ancora in vita. Veste tutto di nero.

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la sinistra (left handed gun), Pat con la destra: proprio come in uno specchio, che rovescia l’ordine delle cose e inganna. E portare fin nel titolo quella piccola deviazione dalla norma, facendone così uno dei caratteri distintivi del personaggio, è già di per sé significativo della relazione sinistra – ossia impura, minoritaria, sbagliata – di Billy con le cose e il mondo66. Similmente alla cecità di Helen Keller (Anna dei miracoli), all’impotenza di Clyde Barrow, alle ossessioni ingiustificate di Mickey One e all’anacronistico senso della giustizia dello sceriffo Calder di La caccia, il mancinismo di Billy finisce così per restituire in forma visibile il marchio di un destino diverso, fonte di uno scontro più o meno violento con ciò che lo circonda, e che pur mirando segretamente alla cura della diversità sfocia in genere nella sua esasperazione, lungo l’asse di un movimento sussultorio di assimilazione e rifiuto. In questo dibattersi, i personaggi penniani, spesso «dei primitivi al di qua delle leggi sociali o delle leggi naturali»67, svelano il mondo e, nel farlo, acquistano senso e valore. Ma sfidare il destino, nel caso di Billy, rappresenta soltanto metà dell’opera: l’altra metà – da vero eroe tragico – consiste nel trovare e nel testimoniare il proprio destino, raggiungendo nell’estasi della morte o della sconfitta un ruolo sociale (connettendo così storia e tragedia, poetica e filosofia), «nel senso dell’azione rappresentativa, nella quale si annunciano nuovi contenuti della vita del popolo»68. È per questa via che il cinema di Penn, quand’anche lontano nell’archetipo tragico, nella storia o nel dramma, riesce sempre e comunque a realizzarsi come discorso al presente, 66. Com’è noto, fin dai tempi più antichi le mani sono state viste come simboli della dualità morale; alla destra si associano abitualmente il bene, il puro e il vero, alla sinistra il male, l’impuro, l’errore; la distinzione è chiaramente testimoniata, ancora oggi, dalle metafore costruite sui termini “destro” e “sinistro” (sguardo sinistro, parole sinistre in quanto “sbagliate”, il sinistro del gergo assicurativo etc.). Penn enfatizza questo dato, anche se pare che il mancinismo di Billy fosse in realtà dovuto all’inversione del suo ritratto sul manifesto che lo annunciava come ricercato. Sul mancinismo, con riferimento anche a Billy the Kid, si vedano P.-M. Bertrand, Dizionario dei mancini, Edizioni Magi, Roma 2006, p. 38 e Id., Storia dei mancini. Ovvero sulla gente fatta a rovescio, Edizioni Magi, Roma 2003. 67. C.-J. Philippe, Au commencement était le verbe, «Cahiers du cinéma», n. 140, febbraio 1963. 68. P. Szondi, Saggio sul tragico, Einaudi, Torino 1996, p. 65.

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come “documento” di un conflitto o di una dialettica luttuosa riferita alla contemporaneità. Il vitalismo un po’ folle di Billy lo avvicina al riconoscimento, dapprincipio imperfetto, del proprio ruolo sacrificale. Alla morte di Tunstall subentra in lui un desiderio di vendetta che “approfitta” dell’episodio per darsi una specie di legalità ma che in fondo scaturisce egoisticamente dal suo desiderio, ancora una volta frustrato, di appartenere a qualcuno o a qualcosa («Noi gli apparteniamo», replica Billy all’amico e complice Tom, che gli fa notare che Tunstall era per loro un capo, uno che gli dava una paga, e poco più). Pat Garrett entra in scena a questo punto: nel saloon, vede Billy portato meccanicamente dalla musica, in prenda a una trance da cui non uscirà più e che fa il paio, fisico e ritmico, col suo sguardo annebbiato e la sua mancinità comportamentale. I suoi sensi, d’ora in poi, resteranno in subbuglio, accesi e ferini, e come la sua vista finiranno per “capire” altro, diversamente: al funerale di Tunstall, per esempio, confida a Charley e Tom di aver sentito «le mosche sul vetro, e poi delle voci che borbottavano» e che si sono fatte nomi: Brady, Morton, Moon, Hill. E «come attraverso un vetro», ma chiaramente, Billy anticipa la vendetta, tratteggiandola nel vapore del bagno e aprendo direttamente lo sguardo, suo e degli spettatori, sulla sparatoria che sta per compiersi69. Perché «io sono la legge», dichiara, reagendo al crollo della legalità (Brady, lo sceriffo, è implicato nell’omicidio di Tunstall) e al comandamento che gli impone di punire un omicidio tanto odioso (Tunstall viaggiava disarmato). E di lì a poco, quando la casa di McSweeny sarà mangiata dalle fiamme con lui dentro, la moglie, che ha solo potuto osservare, si chiederà tra le lacrime: «Dov’è la legge?». Nell’incendio si ritiene morto anche Billy, mentre Moultrie – spettatore, assieme a un gruppetto di bambini, della spara69. «In quel film, oltre a cambiare le regole del “genere”, avevo cominciato a giocare col tempo. Ad esempio, in una scena si vede Billy seduto davanti a una finestra. All’improvviso l’obiettivo della cinepresa zooma sull’esterno, su quello che si vede attraverso i vetri sui quali Billy ha tracciato un segno con la mano. Invece di un flashback, avevo costruito un flashforward. I produttori continuavano a dirmi che non potevo farlo, che era fuori dalle convenzioni filmiche. Per fortuna, anche se poi fui escluso dal montaggio, quella scena non poterono toccarla, perché era girata tutta insieme ed era impossibile smontarla» (M. Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, cit.).

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toria – si aggira tra le macerie, ambiguo e spettrale come uno sciacallo; ma il fuoco, per il giovane bandito, è al tempo stesso principio di morte e resurrezione, e più avanti nel film egli affermerà il suo ritorno alla via della vendetta proprio attraverso la metafora delle fiamme, dichiarando di voler “prendere fuoco”. All’incendio della casa del pastore, dunque, egli sopravvive, morendo ancora una volta, gettato a terra dal peso della sua sventura e riportando gravi ustioni al suo prezioso e dannato braccio sinistro, per poi rinascere e tornare alle vaste distese desertiche da cui sembra venuto come dal nulla. Penn non è avaro di simboli: «Hai nove vite», commenta Pat Garrett vedendolo arrivare a Madero, mentre Charley, scherzando nel corso della sua prima visita all’amico convalescente, finge di omaggiare la sua salma arsa dal fuoco: «Che terribile disgrazia, morire tanto giovane e tanto bello». E mentre gli copre il viso col lenzuolo bianco, gli appoggia sul petto una scatola a forma di bara, contenente una lucertola cornuta, un tipico rettile mimetico del deserto messicano, che si difende dai predatori spruzzando un po’ del suo sangue dagli occhi, per distrarli e fuggire non visto: un po’ quello che ha appena fatto Billy, complice le fiamme, convincendo tutti della sua morte (vedi inserto p. 2). Assieme a Billy “rinasce” a questo punto Furia selvaggia, inaugurando un secondo tempo di cui sono attori, con lui, Pat Garrett, Saval e la sua bella moglie Celsa, elementi ambigui di un dramma poco pistolero e molto psicoanalitico, riuniti presso il piccolo villaggio messicano di Madero (“fantasma” scenografico usato vent’anni prima per Il conquistatore del Messico70), perfetta cornice – orizzontale, bianca e metafisica – per dare alla tragedia una virata intimista, significativamente opposta al luogo della “legge” rappresentato, nella prima parte del film, da Lincoln City. Saval e Celsa, infatti, sono per Billy un padre e una madre vicari (dopo averlo soccorso, si confrontano come se parlassero di un bambino scapestrato, che va e viene e dovunque porta dolore), ma a poco a poco si trasformeranno rispettivamente in un rivale e in una preda sessuale, mentre Pat Garrett preme sulla sua coscienza, incarnando un doppio ordine attraverso le nozze e l’incarico di sceriffo; un’immagine di stabilità e legalità profondamente in contrasto con il senso dell’avventura di Billy: «La difficoltà 70. Juarez, diretto da William Dieterle nel 1939.

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d’essere, l’incapacità del nomade o del sognatore di adattarsi alla terra degli uomini radicati nella loro sedentaria virilità, diventa una specie di maledizione che si accolla all’uomo solitario, la cui vita errante e senza rifugio resta solo un’avventurosa attesa della morte»71. Come gli accade ciclicamente, Billy, grazie alle cure di Celsa e alla placida atmosfera di Madero, non solo guarisce ma sembra levarsi di dosso – dagli occhi – la “vecchiaia” che la donna gli ha visto impressa durante il loro primo incontro dopo due anni. Trascorre le giornate al sole, a pulire la pistola, a “provare” la riconquistata velocità del suo braccio sinistro e a scherzare con Charley e Tom, tornando per un po’ a essere semplicemente un “kid”: ma l’obiettivo apotropaico del teatro funebre (la visita al “morto” sopra citata e poi la maschera fantasmatica che resta sul volto di Billy dopo la lotta con la farina) è in realtà soltanto una temporanea sospensione della tragedia, e anziché scacciarlo prefigura il vortice luttuoso in cui il “ragazzo mancino” sarà trascinato di lì a poco; e quando ricompare Moultrie – invitato alla festa che anticipa il matrimonio di Pat – un vento gelido torna a spirare. La festa si trasforma nella scena (classica) della rivelazione; nel caso di Billy, di una doppia rivelazione, perché Moultrie gli si presenta come il narratore delle sue gesta, offrendogli in dono un pezzetto di giornale in cui si descrive la sua morte, trasformandolo così, d’un colpo, in una specie di cadavere ambulante («Io non sono più morto, ormai. Mi sono risvegliato»), a cui la morte è appiccicata come un orpello permanente e che la morte – assieme al dolore – è destinato a spargere dovunque vada. Di nuovo, un’euforia selvaggia si impossessa di Billy («Hai la febbre», commenta Celsa), un istinto animalesco e meccanico, portato dal richiamo della vendetta. E come un animale seduce – per l’ennesima volta – la donna, dopo aver rifiutato anche solo di guardare le ragazze invitate alla festa: seduzione che, da un lato, vale come metafora di un’omosessualità repressa che si sfoga nell’abbraccio edipico (e che il film suggerisce nella forma di un’impreparazione sentimentale alla sessualità: Billy è eternamente kid, non guarda le ragazze e gioca, da solo, con la sua pistola); dall’altro lato, il “calore” animalesco di Billy nei confronti di Celsa assume il sapore di un’ennesima affermazione violenta e rovinosa ai danni della 71. H. Agel, Romance américaine, Cerf, Paris 1963, cit. in F. Carlini, Arthur Penn, cit., p. 12.

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genuinità dei legami “naturali”. Si rivolge a Celsa puntandole contro il dito indice del braccio sinistro, penetrandola e al tempo stesso minacciandola, e infine stringendola in un abbraccio dal forte eco mortale, visivamente sovrapposto alle fiamme: «Sono tornati, il mio braccio, la mia mano», esclama Billy, di nuovo posseduto da quel corpo e dal suo oscuro richiamo. Tutta la seconda parte del film afferma il dato simbolico dell’esistenza tragica e “sinistra” di Billy, facendolo rinascere dalla sua stessa morte («Mi hanno ucciso finora»), complice il fuoco della fornace in cui lascia cadere il ritaglio donatogli da Moultrie e che lui stesso alimenta di una rabbia incontenibile: scaldato dalle fiamme, Billy decide di non aspettare più, di andare per primo; di fare ciò che vuole, di smettere di nascondersi. Qui, come altrove nel film, Penn non va per il sottile, scandendo dialoghi dal peso teatrale dentro inquadrature iperrealiste fitte di simboli. E, al tempo stesso, si sottrae definitivamente allo schema dell’avventura western, facendo montare nel suo eroe un sentimento privo di corrispondenze con la cronaca del racconto e svuotando di senso il tema portante della vendetta (la morte di Moon, il terzo degli assassini di Tunstall, somiglierà a una patetica esecuzione). Billy e, prima di lui, il suo corpo, sono letteralmente invasi da un desiderio di affermazione violenta, che ha le sue ragioni in Billy stesso, e soltanto in lui. E anche lo spettatore, a questo punto, comincia a vedere “oscuramente”, e in modo nuovo: nell’accentuazione dello scollamento tra il fare e l’essere, tra l’azione e il personaggio, tra i fatti e i misteri dell’anima, si annuncia il tempo di una comprensione “moderna” del racconto. Così, dopo l’uccisione di Hill, il quarto e ultimo degli assassini di Tunstall, Billy non trova alcuna pace, e i segni della morte gli restano incollati addosso come un’effige inconsapevole, preannunciati dal gioco: quello con la corda, fuori dalla catapecchia in cui si è rifugiato assieme a Tom e Charley dopo l’assassinio di Hill, sembra anticipare l’impiccagione a cui sarà di lì a poco condannato72. Il racconto, a questo punto, usciti 72. Senza voler insistere troppo sul simbolismo cristologico disseminato lungo il film, vale tuttavia la pena notare che il giorno scelto per l’impiccagione è il venerdì, e che poco prima di essere arrestato da Pat, Billy esce dalla baracca in cui si era rifugiato aprendo le braccia all’altezza delle spalle, proprio come se fosse crocefisso. Un altro tassello a questo circuito di richiami simbolici è rappresentato dal finale originariamente girato da Penn, ma scartato dalla produzione; se ne discute più avanti nel testo.

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di scena anche i due amici (morti a causa dell’irruenza incontrollabile di Billy), si restringe ulteriormente, riducendosi a uno dei moduli narrativi più ricorrenti del cinema di Penn, quello della caccia (nella fattispecie, di Pat nei confronti di Billy) e spostando definitivamente l’attenzione verso il processo interiore di quello che gli abitanti del luogo – la “civilissima” Lincoln – indicano ormai come “selvaggio”. Proprio come fosse un animale pericoloso e al tempo stesso esotico (la gente accorre dai paesi vicini pur di vederlo), Billy è condotto in catene in prigione: la sua mancinità, segno disturbante e fatale di opposizione ai principi del maschile, dell’identità e della realtà73, si precisa adesso per mezzo della metafora tipicamente western della wilderness, declinandosi nella forma di una radicale “selvatichezza” attorno alla quale ragioneranno anche altri film del regista. Selvaggi o barbari, nel senso di non conformi ai principi della società civile e dunque alieni, sono infatti molti personaggi del cinema penniano; e tutti, come Billy, finiscono per incarnare una minaccia, non perché radicalmente “altri”, ma perché diversi: mai semplicemente fuorilegge ma portatori di uno sguardo e un modo di essere di per se stessi provocatori, capaci di offuscare le linee che separano la legge, la giustizia e la norma dal loro contrario; mai semplicemente ribelli ma disturbanti, perché forzano l’ordine a riaffermarsi attraverso la riscoperta dei mezzi violenti e disumani su cui si fonda. L’avventura di queste figure di ribelli e outsiders spesso inconsapevoli, perché vittime di un destino a cui non sembrano poter sfuggire, è sempre segnata drammaticamente; Penn, del resto (questione di cultura e anagrafe e di un pessimismo di fondo inestirpabile e “tragico”), non ha mai intonato, neppure negli anni più caldi del “movimento”, il canto della controcultura, né è mai stato un alleato imparziale del nuovo contro il vecchio. Per altro verso, egli concede ai suoi personaggi qualcosa di simile all’eroismo del martire e al riscatto finale della testimonianza duratura, se non proprio o non sempre il potere di una preveggenza inconsapevole: è attraverso il loro supplizio “singolare”, infatti, che Penn svela le contraddizioni più radicate e feroci della società americana, tanto vecchie quanto l’America stessa, mentre il dramma identitario (che ac73. P. Vernaglione, Arthur Penn, Il Castoro, Milano 1987, p. 17.

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comuna Billy, Bonnie e Clyde, Mickey One e il Calder di La caccia, ma anche i personaggi di Piccolo grande uomo, Missouri, Bersaglio di notte e Target) si estende all’esterno, trasformando lo scontro inter e intra personale nel riflesso di una conflittualità più vasta. Penn ha bisogno del personaggio e del suo dramma individuale, del suo filtro umano e della sua mediazione sentimentale: è il risvolto estetico della sua impostazione umanistica. La ricetta scende dritta dal teatro e gli ha consentito, diversamente da molti suoi colleghi del cinema “impegnato” degli anni Settanta, di evitare i film “su” (guerre, scandali politici, rivoluzioni di costume etc.), riuscendo comunque, di volta in volta, a intercettare contenuti sociali presenti e attuali. Così accade anche in Furia selvaggia, dove l’ultimo atto oppone non tanto due diverse idee della legge ma due personaggi, Pat Garrett e Billy the Kid, nati dalla stessa terra: il primo tutore dell’ordine e anello cruciale della comunità civile, il secondo testimone di una diversità e di un disordine necessari. In questa necessità sta il nucleo tragico dell’avventura di Billy ma, anche, la sua innocenza, senza che, per questo, il sacrificio equivalga ad affermare implicitamente i valori messi in crisi dalla sua esistenza; al contrario, la sua morte (“innocente” anche perché egli non impugna alcuna arma) riafferma la fragilità dell’istituzione che lo condanna, mette in luce tutta l’ambiguità della giustizia e inquina la possibilità di distinguere pacificamente tra vinti e vincitori. All’origine di Pat e Billy, vale a dire all’origine degli Stati Uniti, sta infatti un medesimo principio di morte e sopraffazione, solo diversamente interpretato e realizzato. E con un ultimo rovesciamento, è Pat, alla fine, a specchiarsi in Billy, ritrovando un doppio ineliminabile e un fantasma. Una delle caratteristiche del cinema “nuovo”, del resto, è proprio la fragilità delle distinzioni di ordine morale e l’ambigua spartizione del campo tra buoni e cattivi, bene e male; la produzione di genere lo rivela bene, modificandosi a partire dagli anni Sessanta soprattutto attraverso un processo di rinegoziazione della chiarezza dei conflitti di valori, idee, punti di vista disseminati lungo il testo; in molti casi, l’opposizione è destinata a restare irrisolta oppure – come preferisce Penn – a moltiplicarsi drammaticamente, senza una soluzione definitiva né, tanto meno, un accomodamento catartico. Talvolta grazie all’enfasi sull’identità molteplice (o, meglio, la molteplicità 83

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tura, appare una luce, una candela, e una donna vestita di nero esce da un atrio. La segue un’altra donna, e poi un’altra ancora… Ce n’è anche una quarta. Provengono da più punti, e man mano che avanzavano, l’inquadratura si allarga il più possibile. Questa era la fine del film»74.

Al posto di questa iconografia martirologica perfettamente intonata al Billy fin lì raccontato da Penn, e che evoca, grazie al ruolo delle donne e alle loro preghiere, la (ri)fondazione del mito, la Warner sceglie di chiudere il film su una rassicurante immagine fordiana, con Pat e la moglie che si allontanano verso un orizzonte che promette, finalmente, la pace. Accelerando così, grazie al fuori campo sul cadavere del giovane, la sua rimozione, e riducendo la complessità morale del racconto a un conflitto tra bene e male, concluso col trionfo della giustizia. Ma la rimozione del finale originariamente girato non è che la punta dell’iceberg di un più generale intervento di ripulitura “normativa” condotto in fase di montaggio dai producer della Warner. Nel film finito, per esempio, non resta quasi nulla dell’ambiguità con cui Penn e Stevens avevano deciso di caratterizzare le inclinazioni sessuali di Billy, suggerendo una latente omosessualità. Scompare, per esempio, una scena rivelatrice come quella in cui una specie di “principe degli assassini” entra nel bar di Lincoln e si comporta come un innamorato tradito; si appoggia al bancone e dice che Billy non deve continuare a uccidere così, bisogna impedirglielo: «Il che significa, in realtà: “Lui non può ignorarmi più a lungo”»75; altri tagli interessano invece la torrida relazione tra Billy e Celsa e la complessità del rapporto con Hatfiled. Ciò nonostante, Penn non è mai arrivato a disconoscere il film ma, tutt’al più, a dolersi per quanto manca e, soprattutto, per certi errori di “ritmo” prodotti dal montaggio. Ma anche così, Furia selvaggia figura ancora oggi in cima alla lista dei western che hanno cambiato la storia del genere e del cinema e rappresenta, in rapporto a Penn, un debutto già pienamente maturo e una premessa importante ai film del futuro. È nato un autore, senza dubbio, anche se nel 1958, soprattutto in America, non se ne accorge quasi nessuno.

74. B. Cohn, Entretien avec Arthur Penn, «Positif», n. 126, aprile 1971. 75. C.-J. Philippe, Au commencement était le verbe, cit.

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3. Il cinema, sicuramente. Primo tempo (1962-1966) Bob Fosse mi diceva: «Come diavolo sai dove piazzare la macchina da presa?». E io rispondevo: «Non ci penso mai. Semplicemente va dove deve andare».

La distribuzione di Anna dei miracoli nell’estate del 1962 vale, almeno in rapporto al pubblico e alla critica americana, come una specie di secondo debutto cinematografico per Arthur Penn. Come si è visto nel capitolo precedente, infatti, negli Stati Uniti l’uscita di Furia selvaggia, quattro anni prima, era passata quasi sotto silenzio, e la stessa Warner si era data ben poco da fare per recuperare un investimento di dimensioni peraltro assai ridotte. A riprese ultimate, escluso dal montaggio, Penn se n’era tornato di corsa a New York e al teatro, lasciandosi volentieri alle spalle i soldi di Hollywood: se infatti la carriera televisiva comincia a declinare con l’estinguersi dei fermenti della Golden Age e quella cinematografica stenta a decollare, a Broadway, in quel momento, colleziona un successo dopo l’altro. Il solo allestimento di The Miracle Worker, in scena al Playhouse Theatre dall’ottobre del 1959 al luglio del 1961 (per un totale di 719 repliche), si guadagna cinque Tony Awards1, un costante tutto esaurito e un entusiasmo critico con pochissime eccezioni. Anche per lo stesso Penn la versione cinematografica del dramma di Gibson, ispirato all’autobiografia di Helen Keller, rappresenta una specie di secondo, e più felice, debutto. Memore delle amarezze sperimentate durante la lavorazione di Furia selvaggia e finalmente nella posizione di negoziare con maggiore autorità proprio grazie ai risultati ottenuti a teatro («Eravamo forti ed eravamo bravi»), Penn – suggerito alla United Artists da Coe e Gibson – pretende questa volta massima libertà, sia nella scelta del cast, sia nel controllo della produ1. Per la regia, le interpretazioni della Bancroft e della Duke, lo spettacolo (Gibson e Coe) e lo “stage technician” John Walters.

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zione. Riesce così a imporre Anne Bancroft («l’attrice più gratificante con cui abbia mai lavorato»2) al posto delle star suggerite dalla United (Elizabeth Taylor e Audrey Hepburn, che il ruolo di una cieca l’avrebbe interpretato poco dopo ne Gli occhi della notte3) ma, soprattutto, ottiene il final cut: «Fu grazie a questo film che cominciai a imparare a fare davvero cinema e a capire una volta per tutte che il cinema è in primo luogo esclusione del non necessario»4. Vale a dire, selezione, montaggio e ritmo: «Il montaggio è davvero il cuore del buon cinema. L’ho imparato girando Anna dei miracoli e da quel momento il cinema non ha più smesso di eccitarmi»5: «Credo sia stato George Stevens a dire che la creazione cinematografica si divide in tre parti, la preparazione dello script, le riprese e il montaggio, e che la prima e la terza sono le più importanti. È un’opinione che sottoscrivo volentieri. Le riprese effettive, per quanto possano essere spesso appassionanti e molto soddisfacenti, sono nondimeno la fabbricazione di una specie di minerale dal quale si cercherà successivamente di estrarre un film»6. «Il montaggio è la fase della produzione di un film che mi diverte di più. Si possono inventare così tante soluzioni ritmiche per energizzare un film e creare sorpresa, intervenire sulle aspettative degli spettatori, oppure offrire in tutta la sua ricchezza il piacere della performance di un attore. Le nuances e spesso il “comportamento inappropriato” che un attore mette nel suo lavoro sono rivelati, scoperti, e si mostrano attraverso la loro precisa collocazione nella vita emergente del film. È un’alchimia emozionante; lavoro duro, ma spesso il montaggio scopre l’oro»7. 2. A. Monda, M. Sesti, Intervista con Arthur Penn, in P. Bertetto (a cura di), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, cit., p. 297. 3. Wait Until Dark, T. Youg, 1967. Nel 1966, subito dopo la fine delle riprese di La caccia, Penn mette in scena a Broadway il copione di Frederick Knott da cui è tratto il film. 4. M. Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, «cit,, p. 67. 5. Ibidem. 6. R. Wood, Le cinéma selon Arthur Penn, «Movie», London, n. 19, inverno 1970-1971 (ripubblicato in Id., Arthur Penn, Seghers, Paris 1973, p. 123). 7. A. Penn, Making Waves, in L.D. Friedman (a cura di), Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, cit., p. 16.

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A partire da Anna dei miracoli, salvo rare eccezioni, Penn parteciperà al montaggio di tutti i suoi film e, grazie all’avvio del sodalizio con Dede Allen8, lo vivrà sempre più come un momento di ricerca e sperimentazione fondamentale: insieme per cinque film (più il corto The Highest), regista e montatrice sviluppano un’idea di montaggio interamente fondata sulla nozione di ritmo, che Penn concepisce in primo luogo come movimento interiore dell’immagine e del racconto, appoggiandosi non tanto a una «teoria avanzata» ma a «qualcosa di molto viscerale». Il tempo del racconto, così, non è mai, semplicemente, quello “realistico” della storia o degli eventi ma somiglia piuttosto a un’energia irriflessa (ossia non necessariamente dipendente dalle “idee”) e a una forza che anima il film, si accumula, distende, esplode; è una grandezza astratta che elabora la sensazione a partire, in molti casi, dal movimento interiore, psichico e affettivo, del personaggio. Ed è in virtù dalla giustezza (misurata “di pancia”) del ritmo di una scena o di una sequenza che i film trovano, per Penn, la loro forma definitiva: la struttura possiede spesso un’eco musicale (con la musica mai “d’accompagnamento”) mentre il racconto si srotola come fosse un continuum fatto di accelerazioni, rallentamenti, spezzature, impennate e frenate, molto lontano dal ritmo del cinema di parole e storie della Hollywood di ieri e di oggi. Al fondo dell’idea di montaggio di Penn si coglie piuttosto una componente fisica molto schietta, vicina alla sua concezione dell’attore come perno senso-motorio del film: l’idea di “violenza realista” di cui si è discusso a proposito dell’acting sembra allargarsi a comprendere il corpo 8. Dede Allen (1925), una delle più influenti montatrici della scena newyorkese durante la New Hollywood, ha esordito alla fine degli anni Quaranta, infittendo la sua attività a partire dalla collaborazione a Strategia di una rapina (Odds Against Tomorrow, R. Wise, 1959) e Lo spaccone (The Hustler, R. Rossen, 1961). Oltre al sodalizio con Penn, per il quale ha montato Gangster Story, Alice’s Restaurant, Piccolo grande uomo, Bersaglio di notte, Missouri e il cortometraggio incluso in Ciò che l’occhio non vede, ha lavorato, tra gli altri, con Elia Kazan (Il ribelle dell’Anatolia [America, America], 1963), George Roy Hill (Mattatoio 5 [Slaughterhouse Five], 1972, e Colpo secco [Slap Shot], 1977), Sidney Lumet (Serpico [Id.], 1973, Quel pomeriggio di un giorno da cani [Dog Day Afternoon], 1975, e I’m magic [The Wiz], 1978). Per un approfondimento sulla figura di Dede Allen, si veda la bella intervista rilasciata a Ric Gentry, in «Film Quarterly», vol. 46, n. 1, autunno 1992, pp. 12-22.

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del film e l’unità delle sue parti, attraversate da un’analoga serie di esplosioni e discontinuità. Lo stesso Deleuze, del resto, discutendo il concetto di immagine-azione a partire dalla ricerca dell’Actors Studio, lo estende quasi naturalmente dal territorio della recitazione alla struttura generale del film, ritrovandolo in azione nella sua concezione generale, nel suo svolgimento, nel funzionamento delle singole inquadrature, nei modi della selezione e del montaggio. La formula della “violenza realista”, generata dall’alternanza di momenti di impregnazione (del personaggio e della scena, in uno scambio continuo di valori e attributi) e momenti di esplosione (o anche, sempre secondo il lessico deleuziano, alternanza di vibrazioni tra un polo vegetativo, statico ma in movimento, e un polo animale, in spostamento violento), interessa dunque tanto il piano del racconto quanto quello strutturale, senza per questo implicare una rifrazione pedissequa dell’andamento del primo sul secondo9. Gangster Story, con la sua «esaltazione extra-temporale» che finisce per staccare i fatti «da un naturalismo illustrativo»10, con le sue improvvise variazioni ritmiche, la sua rude discontinuità fondata sul taglio netto e i suoi repentini cambiamenti di scena e punto di vista, rappresenta ancora oggi il vertice di una ricerca che parte già con Anna dei miracoli e trova il suo punto d’arrivo nel kafkiano (molto più di Mickey One) reticolo senza uscita di Bersaglio di notte. E proprio il lavoro di Penn sul montaggio svela, assieme alla ricerca sul corpo e sul realismo, la consonanza della sua sperimentazione con quella dei rappresentanti della Nouvelle vague, di cui, fin dai primi anni Sessanta, conosce e stima il lavoro, e nei confronti dei quali non ha mai negato un certo debito: «Ho subito l’influenza di Truffaut e Godard. Dopo aver visto i loro film, non si può più fare cinema come lo si faceva prima. La scuola di Godard e Truffaut ha cambiato tutto, in particolare il montaggio»11.

La lezione francese è però subito assorbita all’interno di un progetto d’autore e amalgamata a una prassi creativa già molto personale, la cui forma, sviluppatasi lungo un decennio di la9. Cfr. G. Deleuze, L’immagine-movimento, Ubulibri, Milano 1984, in particolare pp. 182-186. 10. E. Comuzio, Gangster Story, «Cineforum», n. 77, 1968. 11. Ibidem.

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voro tra televisione e teatro, è decisamente lontana dall’esclusivismo cinefilo di certi registi della Nouvelle vague e dal loro atteggiamento rivoluzionario e maudit. A differenza di altri autori della New Hollywood, per i quali le novità d’oltreoceano valgono talvolta solo come marchio o “moda”, Penn, fin da subito, sa rileggerle autonomamente, ribadendo al contempo una consonanza più profonda ed essenziale con i colleghi europei, fondata sulla centralità attribuita a una serie di obiettivi politici, culturali e umanistici comuni a tutto il cinema moderno. Più che direttamente ispirato o contagiato, Penn è “liberato” dall’esempio di Godard e Truffaut: «Vedendo il lavoro di François, in Mickey One sono diventato più coraggioso»12. Per inseguire tali obiettivi, Penn è sempre stato disposto a rinunciare alle star e ai grossi budget – e in anni più recenti, emblematicamente, al cinema stesso, preferendogli il teatro. Succede anche con Anna dei miracoli, il cui stanziamento iniziale di due milioni di dollari viene ridotto a settecento mila dopo il rifiuto del regista di scritturare la Taylor o la Hepburn. Il film assume così la misura “piccola” e semi-indipendente tanto cara a Penn, che sul set ritrova il gruppo dello spettacolo teatrale, che è poi, con l’eccezione delle due attrici protagoniste, lo stesso della versione televisiva, andata in onda il 7 febbraio 1957 all’interno di Playhouse 9013. Le riprese si svolgono tra il giugno e l’agosto del 1961, a New York, e in qualità di aiuto compare per la prima volta Gene Lasko, futuro produttore o “consulente” di molti film di Penn14 e all’epoca impegnato nell’attività del National Theatre of the Deaf, un gruppo di attori non udenti formatosi a New York e poi sviluppatosi in una vera e propria istituzione. Complessivamente, la lavorazione del film dura dieci mesi. Sulla strada che conduce alle opere maggiori, Anna dei miracoli, dopo il debutto con Furia selvaggia – la tragedia e il western – e appena prima dell’esperimento modernista di Mickey One, costituisce, in primo luogo, una prova generale di dialogo tra palcoscenico e cinema, l’incontro di due saperi e la convergenza di due carriere (in termini di fama, il teatran12. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 109. 13. In cui Annie Sullivan e Helen Keller sono interpretate, rispettivamente, da Theresa Wright e Patty McCormack. 14. Gene Lasko figura come produttore associato di Mickey One e Alice’s Restaurant, e produttore di Piccolo grande uomo, Bersaglio di notte, Gli amici di Georgia; per quest’ultimo (e per Target) è accreditato anche come regista della seconda unità.

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te va in aiuto al cineasta…). Quest’ultimo, del resto, ha appena cominciato a sperimentare, e continuerà a farlo, in modo più apertamente “laboratoriale”, almeno fino a Gangster Story: a sperimentare non semplicemente col cinema – questo non verrà mai meno – ma il cinema, alla ricerca di una sintesi tra vecchio e nuovo, estetica televisiva e spazio cinematografico (set e formato), tradizione americana e suggestioni europee, racconto per immagini e drammaturgia teatrale, attori e parole, spettacolo e impegno. Il film capostipite della New Hollywood coinciderà con la fine di questa fase di assestamento, fatta di film belli e imperfetti, in cui l’ampio orizzonte dei riferimenti visivi e culturali di Penn e la varietà delle sue esperienze a cavallo tra cinema, televisione, letteratura e teatro conducono a risultati sotto certi aspetti più interessanti per la loro eccentricità che per la loro compiutezza o perfezione. Tutto il lavoro che precede Gangster Story, dal troppo teatro di Anna dei miracoli – il film per altro verso più scopertamente cinefilo di Penn – al troppo cinema (europeo) di Mickey One, incorniciati dai compromessi produttivi e estetici di Furia selvaggia e La caccia, andrebbe insomma rivisto oggi come una potente e dissonante ouverture. E, anche, come il primo segnale di quella mobilità ideativa, stilistica e produttiva che caratterizza l’autorialità penniana, al tempo stesso tipicamente modernista e tradizionalmente americana. Lungo questo percorso, in cui le ampie pause tra una regia e l’altra, riempite di teatro, finiscono un po’ inevitabilmente per accentuare le differenze e gli scarti, Anna dei miracoli rappresenta il film “americano” per eccellenza, in cui confluisce una vasta tradizione culturale, tematica e figurativa a cavallo tra teatro, cinema e letteratura. Il terreno di caccia è vasto ma uniformemente governato dall’idea di realismo: il dramma di Eugene O’Neill, Tennesse Williams e Thornton Wilder, la narrativa “sudista” di Faulkner e Steinbeck, la stilizzazione di Orson Welles, Robert Aldrich e William Wyler (e il ricordo di Ford); più in generale, l’esaurimento del classicismo e i suoi rigonfiamenti enfatici, pronti a esplodere tra le mani dei “new”, offrono al regista preziosi spunti espressionisti, spolverati “a tono” sull’eccesso drammatico del testo di Gibson. L’amato Welles15 15. Amato anche, se non soprattutto, per la sua capacità di mostrare la violenza sullo schermo: «Mi piace la violenza nei film. Penso che i film debbano essere “cinetici”. Sono un grande ammiratore di Orson Welles, uno che ha trattato la violenza molto bene, forse meglio di chiunque altro. Quando Kane distrugge la stanza verso la fine di

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lo influenza più di tutti, con i suoi long shoot, le sue inquadrature sghembe, il suo “tutto a fuoco” e lo scontro abbacinante tra bianco e nero, a cui il direttore della fotografia Ernesto Caparrós, impegnato in quegli anni nella produzione del televisivo Naked City16, aggiunge echi noir e thriller (si veda la prima apparizione di Helen Keller, sui titoli di testa, inserto p. 3) e, più in generale, una discreta dose di ambiguità, come nella splendida sequenza del viaggio in treno di Annie, in cui una serie di dissolvenze incrociate (da modernismo anni Venti) ne prefigurano il dramma (vedi inserto p. 3). Il difficile rapporto con Helen, di lì a poco, più che mettere alla prova le sue doti di insegnante, facendole temere fino all’ultimo il fallimento, avrà l’effetto di spalancare le porte del tempo: l’analogia tra le due donne (solo superficialmente fondata sulla cecità) e quella, più determinante, tra Helen e Jimmy, il fratellino di Annie, innescano infatti, molto presto, un doloroso processo intimo e memoriale, ingigantendo il senso dello “sforzo didattico” fino a trasformarlo nella dimostrazione, pura, semplice e drammatica, dell’umano potere di cambiare e salvare il mondo. Il primo dei dolorosi flashback che sembrano ogni volta sorprendere Annie, più simili ad allucinazioni incontrollabili che a memorie consapevolmente recuperate (realizzati con una tecnica molto originale per l’epoca), compare subito, durante il viaggio che la conduce dai Keller: sui suoi occhialischermo, impiegati da Penn come superficie di inscrizione e (retro)proiezione, prende forma l’immagine del fratellino più piccolo, malato di tubercolosi ossea e morto a soli undici anni, con il quale la donna ha condiviso la terribile esperienza dell’orfanotrofio (vedi inserto p. 3). Gli occhiali, qui e in seguito, somigliano a una membrana sottile, una seconda pelle che, nel separare Annie dal mondo, proteggendola e sottraendone lo sguardo all’interlocutore (cosa di cui si lagneràil padre di Helen, il Capitano), riflettono ossessivamente il suo passato di cecità, orfanezza e abbandono, connettendolo al presente. La dolorosa esperienza dell’infanzia (proprio come Quarto potere, si tratta di un vero cataclisma. La scena è violenta nel modo in cui lo è un terremoto» (M. Lindsay, Interview with Arthur Penn, «Cinema», Beverly Hills, vol. 5, n. 3, 1969). 16. Prodotto dalla ABC e trasmesso tra il 1958 e il 1963, Naked City, come rivela il titolo, trae spunto dal celebre film di Jules Dassin del 1948, e come questo impiega uno stile semi-documentaristico ed è ambientato a New York.

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nel caso di Billy the Kid) si impone infatti come un’origine ineliminabile, che filtra la visione del mondo di Annie, determinandone sentimenti, pensieri, azioni; al tempo stesso (proprio in virtù di tale legame), l’esperienza di salvazione messa in atto nei confronti di Helen vale, simbolicamente, come cura e soluzione retroattiva del dramma di Jimmy, come vittoria sulla sofferenza, come risarcimento e rinascita («Il film è la storia di una donna che ha bisogno di una resurrezione»17). E, non da ultimo, vale come espiazione di una colpa: per quanto frammentari, i flashback (e particolarmente il secondo, successivo alla celebre sequenza della lotta in sala da pranzo tra Annie e Helen), lascia intuire che la donna, dopo aver promesso a Jimmy che sarebbero rimasti per sempre insieme, ha finito con l’abbandonare il fratello pur di inseguire il proprio desiderio di crescita e libertà, simboleggiato dalla scuola. Indici dell’alterità di Annie, gli occhiali neri assumono dunque il valore di un varco spalancato contemporaneamente sul presente e sul passato, sul suo mondo interiore e sulla realtà esterna, e definiscono “teatralmente” la sua condizione di non appartenenza. Annie Sullivan non è semplicemente il secondo dei tanti personaggi border-line descritti (amorevolmente) da Penn; incarna piuttosto, come il kid del film precedente, la difficoltà di far combaciare i bordi della propria personalità con quelli della realtà circostante, di trovare e mantenere il proprio posto nel mondo, di conoscersi e identificarsi nel rapporto con l’altro. Più di tutto, non a caso, Annie teme il sole e i suoi raggi, da cui è stata originariamente accecata: venire alla luce è solo il primo atto di una sfida continuamente rilanciata nei confronti dello sguardo altrui e dell’evidenza, spesso accecante, delle cose (contro una luce al tempo stesso creatrice e distruttiva avanza Billy nell’incipit di Furia selvaggia). La luce evoca una violenza primigenia, quella di essere vivi nel proprio tempo e nella propria storia, di trovarsi “allo scoperto” e di non potersi sottrarre al destino: nell’antica cecità di Annie sono dunque indicate una missione e una condanna. Il bianco e nero wellesiano, spalmato su tutto il film, rilancia il senso di questa lotta tra luce e ombra, tra visibilità e cecità; ma in film come Quarto potere (Citizen Kane, 1941) e soprattutto L’orgoglio degli Amberson (The Magnificent Amberson, 1942) Penn sembra trovare soprattutto un precedente utile 17. A.S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, «Cahiers du Cinéma», n. 140, febbraio 1963.

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per trapiantare il teatro al cinema, e in particolare un repertorio di possibilità plastiche e figurative con cui popolare cinematograficamente lo spazio ristretto dell’azione. A Welles, per esempio, fa pensare la studiatezza dell’attrito, reale e simbolico, tra l’immobilità della famiglia Keller, governata dall’insopportabile e reazionario Capitano e “messa in scena” secondo moduli fotografici, e la vivacità sconcertante dell’azione “didattica” di Annie Sullivan; la rara ma incisiva mobilità della macchina da presa, tolta dal cavalletto e usata a spalla, gli viene però dai nipoti francesi del regista americano, Truffaut in testa, e anticipa gli inseguimenti metafisici di Mickey One. La coabitazione di stilemi europei e “normalizzazione” classica è del resto uno dei tratti più comuni nel cinema dei “nuovi autori” nei primi anni Sessanta, come rivela bene, oltre a Penn, John Cassavetes, regista, nel 1963, di un film, Gli esclusi (A Child Is Waiting), che fa pensare ad Anna dei miracoli non soltanto per una certa affinità tematica, ma anche per il modo con cui scava e descrive la realtà. L’arrivo di Annie, metafora dell’azione e del cambiamento (introdotta allo spettatore mentre sale su un treno in corsa), finisce così per far lievitare lo stile, in opposizione alla statica orizzontalità della vita agreste e cristianamente timorata dei Keller: Penn anticipa lo sconvolgimento “vitalistico” condotto dalla giovane insegnante yankee, bostoniana doc, facendo sfilare davanti a un cimitero la carrozza che l’accompagna a destinazione. Dall’arrivo di Annie, i Keller, non senza fatica, si troveranno di conseguenza relegati al ruolo di spettatori, per metà incuriositi e per metà irritati (soprattutto il Capitano) dai modi bruschi di quell’educatrice un po’ troppo giovane. La loro condizione è resa esplicita da uno dei tanti tocchi di classe con cui Penn impreziosisce e movimenta l’impostazione teatrale del film, e in cui, al confronto con Furia selvaggia, dà a vedere una maggiore maturità nell’uso del linguaggio cinematografico. Giunta presso la casa dei Keller, Annie, scendendo dalla carrozza su cui ha viaggiato con la madre di Helen, stringe sbrigativamente la mano al Capitano e poi chiede quando potrà vedere (see) la bambina; l’inquadratura cambia, rivelandola, in campo medio, a un lato della porta d’ingresso della grande casa, sola e immobile (Penn gioca astutamente con le proporzioni, prefigurando la lotta che Annie dovrà intraprendere con la famiglia per sottrarre la bambina alle loro cure soffocanti e controproducenti). Dalla destra dell’inquadratura, lentamente, Annie “entra in scena”, attraversando in diagonale il vialetto 94

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che la separa da Helen; fuoricampo, come si trovassero a teatro, si odono le voci del Capitano e di sua moglie: lui comincia a parlarle («Katie…»), lei lo zittisce subito. Annie raggiunge Helen, ancora immobile, siede sui gradini accanto a lei, poggia rumorosamente la valigia a terra e la bambina, finalmente, si anima, voltandosi verso quel suono: la rappresentazione è cominciata (vedi inserto p. 4). D’ora in poi, Annie sarà accanto a Helen per tutto il film, spesso seduta a terra, inginocchiata, gattoni: aperto da un’inquadratura violentemente dal basso, coincidente con la posizione della neonata Helen sdraiata nella culla, Anna dei miracoli sceglie volentieri di mantenere basso lo sguardo, aggiustando l’angolatura della macchina da presa o la sua altezza, non tanto, però, per aderire al punto di vista della bambina quanto, piuttosto, per rivelare l’inclinazione, l’asservimento del mondo degli adulti (e del film stesso) alla sua esistenza, riportando così l’immagine, quasi ossessivamente, al luogo originario, a quella culla in cui ha preso corpo il dramma di Helen e della sua famiglia di Tuscumbia, Alabama. A un certo punto, questa famiglia di spettatori indisciplinati, sempre pronti a interferire col copione di Annie, uscirà completamente di scena per volere della donna, consapevole che la salvezza di Helen dipende, in primo luogo, dalla radicale dismissione del ruolo cui l’hanno condannata il padre e, soprattutto, la madre (alla quale Annie spiega: «Il peggior handicap di Helen… sono il suo amore e la sua pietà»). Il procedimento possiede qualcosa di teatrale, applicandosi, mutismo e cecità a parte, al problema – comune a tutto il cinema di Penn – dell’identità: Helen, prima di essere cieca e muta, è vittima di una recita sociale, è il prodotto di una rappresentazione ostinata della normalità, in cui l’“errore” e la malattia sono curati nell’incosciente normalizzazione dell’alterità («È solo una bambina…» si sente più volte ripetere). Una scimmietta e un animale da compagnia, ecco ciò che il Capitano e sua moglie hanno fatto della figlia; osservati dal punto di vista di una critica alla mentalità borghese delle grandi famiglie latifondiste del Sud (le stesse, cinquant’anni dopo, fatte di banchieri e petrolieri, a cui s’indirizzerà polemicamente La caccia), la cecità e il mutismo di Helen somigliano agli effetti di una condizione sociale e culturale, anziché di una complicazione genetica. Il work demiurgico di Annie, “lavoratrice del miracolo”, si carica dunque di un preciso valore politico, con95

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figurandosi come un assalto ai valori dell’ideologia borghese e reazionaria incarnata della famiglia di Helen18. Per “dissotterrare l’anima” della bambina è necessario non avere pietà («Niente pietà, per nessuna delle due»), com’è scritto nel manualetto che Annie ripassa di tanto in tanto (ma il suo sapere proviene in primo luogo dall’esperienza personale); per poterla guarire, è necessario trattarla per ciò che è, una bambina cieca e muta, e aiutarla a estrarre dalla sua condizione una forza nuova e un desiderio di riscatto: alla fine del film, all’apice del dramma, Helen non dimostrerà, banalmente, di aver imparato a “riconoscere” l’acqua e di saperne articolare la parola; dimostrerà, piuttosto, di voler pronunciare quella parola, di desiderare la guarigione, di essere pronta a lottare contro i propri limiti e a combattere l’handicap che l’affligge. È esattamente ciò che Annie ha imparato dal proprio passato di cieca e orfana durante gli anni in orfanotrofio (in verità, un luogo più simile a un manicomio), circondata di pazzi, malati, sgualdrine e morti; e quando racconta della propria infanzia ai signori Keller, al primo cenno di compatimento da parte della donna Annie reagisce bruscamente, fermando le lacrime e rispedendo al mittente la pietà: inutile dispiacersi, spiega, perché tutto quell’orrore, al contrario, è stato utile, l’ha resa forte e ha donato un senso alla sua vita; dalla sventura, ha saputo estrarre un insegnamento duraturo e una volontà nuova. La violenza del cinema di Penn – su cui si è scritto troppo e spesso a sproposito – rivela qui, come già in Furia selvaggia, di non essere mai semplicemente spettacolo, artificio o strumento: connaturata all’esistenza umana, ne costituisce, in chiave filosofica, un termine essenziale, sia come forza fondatrice (La caccia), sia come principio costitutivo del rapporto intersoggettivo (Furia selvaggia, Anna dei miracoli, Piccolo grande uomo…), sia, infine, come termine identitario (Furia selvaggia, Bersaglio di notte, Urla dal buio…). 18. Si vedano, per esempio, le argomentazioni di Freddy Bauche in «Jeune Cinéma», n. 5, febbraio 1965. La stessa Helen, una volta “guarita” e adulta, diverrà consapevole dell’arretratezza intellettuale e affettiva della propria famiglia, da cui si staccherà in modo definitivo. Della vita adulta di Helen, lontano dall’Alabama e dalla famiglia, racconta il seguito (teatrale) di Anna dei miracoli, Monday after the Miracle, scritto sempre da William Gibson a partire dall’autobiografia della Keller e messo in scena da Penn nel 1982 (vedi capitolo 5).

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Come molti altri personaggi del cinema di Penn, e in primo luogo Billy, Annie deve insomma soffrire, morire e rinascere, prima di poter incontrare se stessa e il proprio destino: simbolicamente ma letteralmente perché di questi movimenti di caduta e rinascita, come accadrà anche a Mickey, a Bonnie e Clyde, a Jack Crabb, restano una memoria pungente e qualche cicatrice; e un po’ come il mancinismo di Billy e l’energia bestiale che gli percorre la mano, gli occhiali neri di Annie e il loro potere di riflettere il passato e il suo groviglio di sentimenti restano lì, tra il marchio e l’amuleto, a ricordare l’origine del personaggio e il senso profondo della sua esperienza. Da questo passato doloroso e ineliminabile (nessuna concessione alle cure dell’oblio: Penn si dimostra americano anche per questo legame insistito con la storia e la sua predestinazione), scaturisce infatti per Annie, come per Billy, un’indicazione – poco importa se dolorosa o oscura – sulla propria identità. Il suo “work” miracoloso e salvifico nei confronti di Helen non può dunque compiersi se non nella sofferenza, attraverso la sofferenza: nella morte e nella resurrezione, per rinascere finalmente “a nuova luce”. E la lezione possiede un valore universale: «Penn ne ha fatto il dramma della conoscenza, il conflitto fra due opposte maniere di concepire non solo l’educazione ma la vita stessa»19. Helen è così sottratta ai genitori, idealmente abbandonata, trasferita nella catapecchia accanto alla villa di famiglia e affidata alle cure di Annie. Spogliata di tutto e costretta a imparare «il sì dell’intelligenza» e a dipendere completamente dalla donna, in un ruolo misto tra la madre e la divinità, anche se percorsa da bellissimi cedimenti umani. Il tempo della relazione tra insegnante e allieva, soprattutto nei suoi frangenti più violenti, si fa dunque centrale, senza sconti allo spettatore: sfidando il “senso” della durata, Penn racconta la lotta “in diretta”, i nove minuti della sequenza in sala da pranzo e poi i sette, in piano-sequenza, dello scontro notturno, approfittando sapientemente della cornice melodrammatica e della legittimazione all’eccesso che ne discende, costeggiando il limite e trovando una doppia ragione all’uso diretto/frontale del linguaggio. L’incipit, del resto, chiarisce subito che la matrice espressionista del film non interessa soltanto lo stile ma anche l’elaborazione dei sentimenti, sottratti a ogni sfumatura intermedia e restituiti nella forma 19. A. Aprà, Anna dei miracoli, «Filmcritica», n. 127-128, novembre-dicembre 1962.

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della lotta violenta di estremi passionali. Ma se il melodramma funziona, in Anna dei miracoli come altrove in Penn, è soprattutto perché la violenza delle passioni e la loro estenuazione, oltre a liberare un piano “filosofico”, s’incontrano con una pratica moderna di lavoro sui corpi e le cose. Molto si è detto, a partire da Robin Wood, e spesso giustamente, sull’evidenza materica che Penn sa donare ai dati della scena, appoggiandosi solo in parte alla sua esperienza teatrale (e si veda il capitolo precedente); l’esempio di Welles e dei francesi lo mette sulla pista giusta, e l’incontro del loro cinema col melodramma di origine teatrale fa di Anna dei miracoli uno dei testi chiave della ricerca realista e “fenomenica” su cui si fonda il cinema moderno. Comprensibile, dunque, che, all’epoca della sua uscita, quando tale ricerca, in Europa come in America, era appena all’inizio, Anna dei miracoli venisse scambiato da molti per un film “teatrale” se non addirittura hollywoodiano; oggi, al contrario, non va neppure dimostrato il legame profondo che il film intrattiene con quella particolare linea di sviluppo della modernità cinematografica che consiste nel mettere in primo piano la pratica, il lavoro sui materiali, l’esibizione della “sostanza” e del procedimento, «come se il senso non fosse più possibile, oggi, se non nella tangibilità e nella concretezza degli esseri e delle cose»; di qui l’essenza del realismo di molto cinema moderno, compreso quello di Penn («realtà dei dati manipolati, realtà della manipolazione, realtà dello schermo»); di qui, «il corpo dell’attore come centro irriducibile», sia dell’esperienza teatrale, sia di quella cinematografica20. Da questo punto di vista, anzi, Anna dei miracoli, non meno dei primi film di Alain Resnais («Mi interessa molto, ma non ho ben capito Marienbad»21), appare un testo (involontariamente) teorico. Il “caso” di Helen pone infatti un problema di “connessionismo” tra componenti e strati diversi dell’esperienza umana, gli stessi che, su un altro piano di discorso, sono al centro della “molecolarizzazione” operata dal cinema 20. Cfr. G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993; le citazioni dalle pp. 64 s. Osserva P. Vernaglione, Arthur Penn, cit., p. 28: «Senza una cultura cinematografica, senza una eredità filmica alle spalle, Penn si richiama al grande cinema dei Murnau, dei Lang, dei Rossellini, di coloro che, ancora nel 1962, continuavano a rappresentare la storia viva di un cinema in crisi e in trasformazione». 21. A.S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, cit.

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moderno nei confronti della trasparenza classica, a vantaggio dell’urto fisico contro l’immediatezza del dato e l’ambiguità temporale dell’esistenza incarnata. Il problema di Helen (umanissimo e generale) è, nella fattispecie, quello di connettere gestualità, significato e parola, corpo, mente e linguaggio; fino alla fine, sembra incapace di donare un logos a percezioni e sentimenti. In questo, la bambina ricorda Billy, la difficoltà è comune come un certo grado di cecità e deformazione percettiva; e, in modo analogo, il loro handicap sembra riflettere, tra impossibilità e negazione, il problema tipicamente modernista di scavalcare la datità del racconto, del personaggio, del genere e dello stereotipo per (ri)trovare un momento di verità costituiva e originale, il momento in cui il senso e l’immagine, al di fuori di ogni schema di comportamento o previsione, s’incontrano e realizzano per la prima volta. In gioco, c’è la conquista suprema di un linguaggio, di un modo d’essere e dirsi attraverso il linguaggio: per indicare la realtà e, soprattutto, se stessi. Lo sforzo demiurgico di Annie doppia dunque quello di Penn, che con la sua storia e i suoi personaggi combatte affannosamente per raggiungere, attraverso il corpo del cinema e le sue risorse, l’idea: come Annie dalla testa di Helen, così Penn cerca di estrarre da Anna dei miracoli non semplicemente una parola o un film, ma un linguaggio, un “modo di pensare” per immagini22; quel modo che è proprio del cinema, e del cinema soltanto, e in cui Penn possa riconoscersi e grazie al quale parlare; un modo di pensare non meno misterioso di quello di Helen, ma altrettanto necessario. Alla fine, il linguaggio sarà trovato, e la sua conquista testimoniata: il venire alla luce di cui racconta il film vale tanto per Annie e Helen quanto per lo stesso Penn. L’“apprendistato” penniano continuerà qualche anno dopo con Mickey One, ma lungo il percorso che conduce alle opere della maturità Anna dei miracoli, presentato al festival di San Sebastian nel 1962, dove Anne Bancroft si aggiudica il premio per la migliore interpretazione, e accolto da uno straordinario successo di pubblico e di critica (suggellato dagli Oscar alle due attrici), rappresenta senza dubbio il capitolo più importante e, in prospettiva, influente. La “scena pri22. Il rimando è a J. Aumont, A cosa pensano i film, ETS, Pisa 2007, in particolare l’Introduzione e il capitolo II.

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maria” della lotta tra Annie e Helen si ritroverà più o meno scopertamente al centro o all’origine di molti altri film di Penn, così come l’attrazione per il registro melodrammatico, la ricerca sul realismo, la “tenuta” drammaturgica infiltrata di sperimentalismi modernisti. La “concentrazione” di Anna dei miracoli si rivelerà insomma più preziosa e duratura delle eccentricità di Mickey One, e l’“europeismo” stilistico (e mai tematico) di Penn è già tutto testimoniato da questa americanissima vicenda ambientata in Alabama. Il film successivo, un po’ paradossalmente, servirà a convincerlo di non poter essere un regista europeo, e a misurare una volta per tutte distanze e incompatibilità; La caccia, appena prima di Gangster Story, riparerà al temporaneo sbandamento cinefilo ricordando a Penn che cos’è Hollywood. A dire il vero, appena prima di restare impigliato nella tormentata realizzazione di La caccia, la Hollywood “vecchio stile” – estetica del dollaro, logica manageriale e capricci delle star –, di cui Penn sta imparando a non fidarsi e dalla quale cercherà sempre di star lontano (o non troppo vicino), anche a costo di compromettere la propria carriera, gli offre una bella e profetica dimostrazione del proprio modus operandi commissionandogli la regia di un film, salvo poi licenziarlo a pochi giorni dall’inizio delle riprese. La vicenda è arcinota: «Fino ad allora non avevo guadagnato molto. Anna dei miracoli era stato un successo, ma io non avevo alcuna partecipazione finanziaria al film. Furia selvaggia non aveva incassato molto. Un po’ guadagnavo con il teatro, ma con il cinema, ancora nulla. A un certo punto la United Artists mi chiese come mai non facevo un film commerciale. Avevano un grosso archivio pieno di sceneggiature che avevano acquistato, ma di cui non si era mai fatto nulla. Mi dissero di leggere quello che volevo. Così saltò fuori questo copione sui nazisti che rubano oggetti d’arte in Francia. Mi sembrava una buona storia, quindi la presi, ci lavorai, e conclusi che la parte del ferroviere francese sarebbe stata adatta a Burt Lancaster. Non lo avevo mai incontrato ma, quando lo chiamai, mi disse subito che avrebbe fatto il film. In quel periodo era a casa con l’epatite. Io partii per l’Europa, per preparare tutto. Avevamo un cast francese, Jeanne Moreau, Paul Scofield, Michel Simon… tutti questi attori meravigliosi. E iniziai persino a girare delle scene che i francesi non volevano che girassimo in pieno giorno, come ad esempio i nazisti in Place de la Concorde. […] Quando arrivò Lancaster, girammo insieme una mattina, pranzam100

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mo e, la sera stessa, mi dissero che ero licenziato. Dal mio film! Ero stato licenziato dal mio film!»23.

Il film in questione, Il treno (The Train, 1964), tratto da un romanzo di Rose Valland, sarebbe stato poi diretto, e bene, da John Frankenheimer, senza significativi cambiamenti rispetto alla sceneggiatura originale, il cui senso profondo risiede, secondo Penn, nel «conflitto fra l’arte e la guerra, l’atteggiamento contemplativo e l’atteggiamento distruttivo, la costruzione e la demolizione»24. L’episodio lascia dietro di sé molta delusione e un po’ di rabbia, anche perché il film avrebbe offerto a Penn l’occasione di tornare nell’amata Europa dopo gli anni della guerra e di girarvi un film con un grande cast internazionale25; come detto, inoltre (e come dimostrano, per l’appunto, Anna dei miracoli e il progetto già in fase di elaborazione di Mickey One26), in quel momento della sua vita egli è particolarmente attirato dall’Europa e dal suo cinema, Parigi in testa. E se a omaggiare i registi della Nouvelle vague ci penserà proprio il film del 1965 (non potendo attraversare lui l’oceano, ingaggia il direttore della fotografia di Resnais, Malle, e di lì a poco di Bresson), prima di girare in Europa dovrà aspettare vent’anni, vale a dire la lavorazione di Target. A consolarlo ci pensa, ancora una volta, il teatro: tra la fine del 1962 e l’inizio del 1963 lavora su In The Counting House di Leslie Weiner e Lorenzo di Jack Richardson, e nell’ottobre del 23. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., pp. 111 s. 24. A.S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, cit. 25. E, retrospettivamente, non fa che confermare l’incompatibilità di Penn con il “modello” da studio, anche per quanto riguarda il lavoro con gli attori: «Lancaster è una “star”; prima ancora è uno di quegli attori, per fortuna in via di estinzione, a cui non piace interpretare personaggi umani, che preferiscono rivestire la parte dell’eroe, del superuomo» (M. Foglietti, Gravi conflitti di coscienza. Incontri: Arthur Penn, «Rivista del Cinematografo», n. 12, dicembre 1971). Giudizio un po’ severo: qualche anno dopo, Lancaster avrebbe consegnato uno dei più commoventi ritratti di “personaggio umano” degli anni Sessanta con il cheeveriano Un uomo a nudo (The Swimmer, F. Perry, 1968). 26. Nella già citata intervista a A.S. Labarthe, rilasciata da Penn a San Sebastian durante l’anteprima di Anna dei miracoli, il film si chiama ancora The mob: «I “mob” sono i gangster che “comprano” un giovane cantante o un giovane attore, lo sostengono nella sua carriera e lo portano al successo. E a quel punto egli deve pagare. The Mob sarà dunque la storia di un attore che pensa di avere un debito, ma che ignora a chi deve pagarlo».

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1964 debutta con la versione musical di Golden Boy, il celebre dramma scritto trent’anni prima da Clifford Odets per il Group Theater di Strasberg e soci e divenuto, nel frattempo, un film di Mamoulian, Passione (Golden Boy, 1939), con William Holden nel ruolo del protagonista, l’italo-americano Joe Bonaparte, interessato alla boxe ma incoraggiato dal padre a continuare la carriera di violinista27. L’aggiornamento della versione diretta da Penn e curata da Odets (morto prima del debutto) assieme a William Gibson, Lee Adams e Charles Strouse riguarda (musica e canzoni a parte, scritte dagli ultimi due) proprio l’identità del protagonista, che adesso si chiama Joe Wellington, ha la pelle nera, viene da Harlem e deve combattere in primo luogo il razzismo che lo circonda; la boxe si trasforma così nel mezzo privilegiato per riscattare le umili origini e fare fortuna. Le correzioni al profilo del protagonista dipendono dal fatto che a interpretarlo c’è la star del “Rat Pack” Sammy Davis Jr., ma servono anche a mantenere viva e anzi ad aggiornare la dimensione polemica del testo, applicandola questa volta alla questione razziale. Più che contribuire al dibattito in corso, tuttavia, Golden Boy finisce per sollevare un gran polverone scandalistico, dovuto in particolare alla relazione interrazziale, “on stage”, tra Joe e Lorna Moon (Paula Wayne), l’amante del mefistofelico manager Eddie Satin (Billy Daniels). Così, dopo le polemiche seguite alle prime rappresentazioni di prova a Detroit, le istanze di critica sociale alla base del testo di Odets vengono ampiamente annacquate e trasferite dal protagonista (ridotto a un angry man e psicologicamente assimilato ai suoi cazzotti) al personaggio secondario del fratello, un attivista del CORE di Roy Innis, il Congress of Racial Equality molto attivo negli anni Sessanta nella battaglia per l’uguaglianza tra neri e bianchi. Golden Boy resta in cartellone al Majestic Theater per quasi seicento repliche, merito anche di un grande cast di comprimari in cui spiccano Lola Falana e Louis Gossett (il cui figlio, Louis Gossett Jr., sarà protagonista di Urla dal buio). Penn, nel frattempo, vara la produzione di Mickey One, lasciando Broadway per Chicago e la questione razziale per un film piccolo e metafisico (e «di transizione»28), che riguarda tutti, bianchi e neri, e che rappresenta ancora oggi una delle riflessioni 27. Penn ha precedentemente curato un allestimento di Golden Boy durante il suo impegno nella Soldiers Show Company (vedi capitolo 2). 28. T. Gallagher, Night Moves. Interview to Arthur Penn, «Sight and Sound», n. 2, primavera 1975.

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più audaci del cinema “civile” del regista, oltre che un caso esemplare dell’influenza esercitata in quegli anni dal nuovo cinema europeo sulla tradizione, estetica ma anche produttiva, dell’industria americana.

Il cinema è la continuazione della politica con altri mezzi «Negli anni Cinquanta l’ottimismo per la vittoria in guerra, l’euforia per il clima di prosperità, venne meno. Il cinema fino ad allora aveva esaltato un tipo di americano ottimista, eroico, erede della tradizione del cinema di Frank Capra, per il quale tutto era possibile. Poi l’americano cominciò a guardarsi attorno e si accorse che tutto quello che si diceva e si raccontava in quei film non corrispondeva alla verità delle cose. Si accorse che c’era un’altra America, il ruvido dell’America ricca e opulenta, il risvolto dell’America felice; che c’erano i diseredati, i poveri, gli emarginati. Così nacque il realismo sociale, sull’esempio del neorealismo italiano, che era un modo di tenersi stretti al reale. Oggi c’è questa tendenza a guardarsi dentro. Gli Stati Uniti attraversano un periodo di grave crisi: l’americano degli anni Settanta è un individuo tormentato da gravi conflitti di coscienza. Ci sono la guerra in Vietnam, l’intolleranza razziale, le sperequazioni sociali. Pare che niente sia cambiato in tutti questi anni. Il cinema, almeno certo cinema responsabile, sta affrontando di nuovo questa realtà, una realtà che parla all’uomo dell’uomo. E questo credo sia il miglior modo, e forse l’unico, di fare cinema»29.

La citazione data agli anni Settanta, ma l’avvio del filone più esplicitamente politico all’interno della filmografia di Penn risale ai primi Sessanta, quando mette mano (anche in qualità di produttore, assieme a John G. Avildsen) al progetto di Mickey One, finanziato con un milione di dollari dalla Columbia (che impone a Penn solo il rispetto del budget, liberandolo perfino dall’obbligo di sottoporre la sceneggiatura ai produttori) e travestito da film europeo grazie alla fotografia del “nouvellevaguista” Ghislain Cloquet, al volto internazionale di Alexandra Stewart (raccomandata da Truffaut, suo compagno) e all’impiego di stilemi tipicamente modernisti; proprio Truffaut e Godard, all’inizio della lavorazione, si recano in visita sul set, benedicendolo. E le strade dei tre registi s’incroceranno di 29. M. Foglietti, Gravi conflitti di coscienza. Incontri: Arthur Penn, cit.

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nuovo, di lì a poco, per Gangster Story, inizialmente proposto dagli sceneggiatori Benton e Newman ai due francesi. All’epoca, in parte proprio per la sua anima europea made in Usa, Mickey One, presentato alla Mostra del cinema di Venezia nell’anno di Pierrot le fou (dove, secondo Sacchi, «la nouvelle vague americana vince su quella francese»30), viene accolto con recensioni molto tiepide: tutti vi riconoscono – a volte lodandolo – il tentativo di sperimentare una nuova forma di racconto, ma il risultato non soddisfa quasi nessuno, compresi i produttori e lo stesso Beatty, che in seguito ne avrebbe parlato come di un film troppo pretenzioso. Parte della stampa francese e italiana critica in particolare l’atteggiamento da “intellettuale all’europea” di Penn, più una posa che una realtà31, mentre sulla ricezione americana pesa negativamente il giudizio di Andrew Sarris, che trova il film meno riuscito dei due precedenti32. Ma a nessuno sfugge che Mickey One tenta in modo originale la radiografia di una crisi, individuale e collettiva, tutt’altro che simbolica33. Certo, di un senso anche politico è già intriso il paesaggio umano del lungometraggio d’esordio – “politico”, del resto, è il destino storico del mito; e la doppia lotta di Annie, con James e Helen Keller (sullo sfondo di un’America sudista), è sta30. Per il critico di «Epoca» il girare alienato di Mickey one, «tutto giocato su un piano inclinato semiesistenziale», è più interessante dell’«asciutta e allucinata emozione» di Pierrot le fou; in N. Lodato (a cura di), L’epoca di Filippo Sacchi, Falsopiano, Alessandria 2003, p. 163; la cronaca da Venezia è datata 19 settembre 1965. 31. Valga, per molti se non per tutti, la recensione di Ermanno Comuzio («Cineforum», n. 48, 1965): «Il film ha spezzature ritmiche e movimenti di macchina molti sciolti, quasi da avanguardia, ma tutto gira a vuoto nel senso che la storia individuale di Mickey non riesce ad apparire “esistenziale”, a farci partecipare al suo travaglio, a farci sentire che quella minaccia è anche la nostra, insomma ad inquietarci veramente. […] È uno scampolo felliniano che dà soltanto fastidio». 32. A. Sarris, «Village Voice», 30 settembre 1965. Sarris, com’è noto, si fa in quegli anni portavoce americano della “riforma” politica e estetica della Nouvelle vague. 33. Tra i sostenitori italiani della pellicola, vale la pena citare Edoardo Bruno, per il quale Mickey One è «una ballata densa di richiami, di visioni assurde, di stupefacenti emozioni sull’America di oggi; ha in sé le smanie poetiche di Dos Passos e gli esatti deliri dell’America di Kafka… un saggio sulla paura…» (Venezia ’65: film d’autore, «Filmcritica», n. 159-160, 1965).

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ta fin da subito letta, tra l’altro, come «dichiarazione di guerra alla morale capitalistica del sogno americano»34. È però col piccolo film indipendente e «eccessivo» del 1965, girato in bianco e nero a Chicago, scritto da Alan Surgal e interpretato da Warren Beatty, che Penn affronta di petto, per la prima volta, la “critica sociale”. E la strategia, enfatizzata come in un saggio di prova, è già quella di tutti i film politici del futuro: opacità dei riferimenti alla storia e alla cronaca (con la sola e parziale eccezione di Alice’s Restaurant), scrittura contemporaneamente metaforica e sineddotica, “spostamento” narrativo e chiusura soggettiva, da cui spremere una sintesi di elementi essenziali e costitutivi – forze, motivi, contraddizioni – che sono al tempo stesso del presente e del passato della società e della cultura americane, e che finiscono quasi inevitabilmente per prevederne il futuro (è facile, oltre che legittimo, riconoscere nelle ossessioni di Mickey una versione precedente di angosce molto contemporanee legate all’anonimato del controllo sociale e alla crisi dell’identità). La lezione scende dritta dal teatro, da quello classico, che ha insegnato a Penn il potere della scrittura “simbolica” e obliqua, e dal “neorealismo” di quello contemporaneo; e se in Mickey One la strategia del “parlare per metafore” è forse troppo esibita (là dove in Furia selvaggia e soprattutto in Anna dei miracoli il simbolo era centellinato e potente), già a partire da Gangster Story il regista si dimostrerà capace di diluire quest’attitudine drammaturgica e interpretativa in una scrittura potentemente naturalistica, rispettoso del primato della narratività e tutto dalla parte del personaggio, cui viene demandato il compito (e affidato il destino) di assumere su di sé – in modo inevitabilmente doloroso se non propriamente sacrificale – una testimonianza di ordine universale. Fin da Furia selvaggia, poi, il rifiuto del “costume” e di una posizione apertamente contestataria a vantaggio dell’indagine dei movimenti, sussultori ma ciclici, della storia e soprattutto della mentalità americane, contribuisce al senso di eterno presente, da «apologetica atemporale e irreversibile»35, che sempre solleva e proietta il cinema di Penn e i suoi personaggi al di là del contesto storico a cui reagiscono. E se alcuni dei suoi film sono o sembrano più “politici” (ma mai politicizzati) di altri, è solo 34. A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., p. 21. 35. E. Maraone, Arthur Penn: il dramma dei corpi, C.S.C. 1968.

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questione di “circostanze”, per dirla col lessico impiegato abitualmente dal regista teatrale, dell’evidenza e del potere delle circostanze di influenzare, intralciandola o illuminandola, l’esistenza del personaggio. Tra Billy the Kid e Micky One la differenza è tutta qui: il primo è ostaggio di un’ossessione autistica che filtra la realtà sempre e soltanto dal suo punto di vista, distorto e autoriferito, inclinando il rapporto con gli altri e col mondo verso il possesso delirante o lo scontro suicida; Mickey, invece, è piuttosto un burattino mosso da una volontà di cui non comprende né la forma né lo scopo, e che ridefinisce inaspettatamente il corso della sua esistenza. E mentre Billy affronta un percorso di conoscenza interiore e affermazione, Mickey insegue l’oblio e si rifugia nell’ombra. Per questo, fugge. Con un decennio d’anticipo su Missouri, Penn offre un primo saggio sul tema della fuga (subito seguito dalla riflessione sul suo termine opposto e simmetrico, la caccia), sottraendogli coordinate e motivazioni che non siano, tautologicamente, quella del fuggire in sé. Un po’ come il Jack Nicholson del film del 1976, braccato da un personaggio che sembra intenzionato semplicemente a inseguirlo e a catturarlo, senz’altro obiettivo che non sia la riuscita dell’inseguimento e la soddisfazione della cattura (vale a dire, un esercizio di stile e una dimostrazione di forza: la replica grottesca, perché priva di finalità, di un tracciato ideale dell’archetipo americano del “cacciatore”), così Mickey One fugge da non sa bene chi o cosa verso non sa dove, per evitare non sa quale punizione per non sa quali errori commessi: altrettanto tautologicamente, fugge perché “colpevole di non essere innocente”. La sua tragedia dipende per metà dalla pressione enigmatica di una serie di circostanze, per metà da un azzardo interpretativo: non per questo lo si può liquidare come un semplice visionario paranoide. I suoi salti bruschi, di sguardo e di coscienza, il suo onirismo diurno e la sua cecità a occhi aperti sono, al contrario, simboli e sintomi di un’idea “comune” dell’uomo contemporaneo: Penn non ha mai fatto mistero di aver concepito Mickey One come risposta «a un preciso momento storico-politico contrassegnato da una notevole attività repressiva in campo politico. Era la fine del periodo maccartista, quel periodo in cui – in un Paese la cui tradizione è sempre stata quella di rispettare le libertà individuali e di lasciare ai singoli la massima libertà di pensiero e di 106

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espressione – sorse una generazione di individui che avevano paura di parlare. Il punto era: di che cosa avevano paura? La mia opinione è che essi avessero paura di perdere quelle cose che in effetti non avevano mai guadagnato. Pertanto quel film era, sì, una specie di parabola sulla paura metafisica dell’uomo d’oggi ma anche una descrizione di quella che spero sia stata l’ultima generazione di infelici della storia americana»36.

Ma, come detto, il discorso penniano rifiuta volentieri – tanto più quando la scrittura si declina soggettivamente come in Mickey One – una referenzialità storica e una leggibilità di primo grado: così, il percorso deviante del cabarettista-cantante-pianista Mickey (che tanto ricorda le fughe dell’Aznavour di Tirate sul pianista [Tirez sur le pianiste, F. Truffaut, 1960]) s’adatta bene non soltanto a descrivere le nevrosi individuali o collettive di altre e successive generazioni di americani più o meno infelici e spaventati, ma vale ancora oggi come ritratto compiuto (e sempre meno simbolico, soprattutto per quanto riguarda i rapporti uomo/macchina e la progressiva disincarnazione del controllo sociale) del soggetto contemporaneo, travolto dalla coscienza di essere parte – nel ruolo di vittima – di un disegno di cui sa o sente di non poter comprendere il senso e la (dis)misura; soltanto Operazione diabolica (Seconds, 1966) di Frankenheimer, in quegli anni, riesce a toccare le stesse corde con altrettanta intelligenza apocalittica. Mickey, in particolare, sperimenta l’angoscia di essere continuamente e completamente visto senza poter ricambiare lo sguardo (come suggerisce la sequenza del provino), condannato a una prigionia materiale e morale originata da cause diverse da quelle di Billy ma ugualmente restituita attraverso il ricorso a una serie di metafore visive e ottiche (specchi, occhiali, contrasti netti tra luce e ombra…), a un clima di travestimento carnevalesco (la camicia indossata al contrario in tutta la parte finale, lo scontro con le guardie in costume) e a un preciso “racconto degli occhi” (che “soffrono”, stravedono, si chiudono verso l’interno per prendere delle decisioni…). Il cinema stesso è così implicato nel processo, come la paraletteratura lo era nella vicenda di Billy e il racconto giornalistico lo sarà nell’avventura di Bonnie e Clyde (e con la vulgata storica dovrà confrontarsi il protagonista di Piccolo grande uomo): la 36. A.S. Labarthe, Entretien avec Arthur Penn, cit.

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riflessione sui mezzi di comunicazione attraversa tutto il cinema di Penn, emergendo normalmente dal conflitto tra il fatto e l’emozione, l’oggettività della cronaca e l’esperienza o la memoria dei personaggi. Un po’ come un Josef K. di Chicago (ma il riferimento kafkiano37 è filtrato da Welles, omaggiato attraverso il nome del locale di Chicago, Xanadu), Mickey è a poco a poco indotto dalle circostanze a sentirsi colpevole al di là di ogni prova, condannato comunque, vittima di una sensazione che sta prima di ogni evidenza reale e che si autoalimenta ossessivamente; prende atto di non poter conoscere davvero, fino in fondo, la realtà (di non averne la possibilità, gli strumenti e neppure il tempo), e di doversi dunque affidare a un istinto di sopravvivenza animale: questione più politica e culturale che filosofica (kafkiana solo a metà) perché, come rivela anche La caccia, il reale non è di per sé inattingibile ma lo diventa nel momento in cui qualcuno ne rivendica (o pensa di poterne rivendicare) la proprietà a danno degli altri, inquinando le regole del gioco e condannando l’individuo a un conformismo ottuso o a una reazione sconsiderata. Al di sotto delle disavventure di Mickey si intravede così l’impalcatura ideologica di tutto il cinema di Penn, particolarmente reattivo nei confronti delle libertà negate (dalla società, dai padri, dai paladini di una giustizia fatta in casa, dalle disuguaglianze date per scontate), degli atti di appropriazione indebita (come quello di cui è vittima, sia da indiano sia da confederato, il protagonista di Piccolo grande uomo), delle verità contraffate e delle esperienze pilotate (i “gialli”, più psicologici e metafisici che reali, di Bersaglio di notte, Omicidio allo specchio e Target). E il momento liberatorio coincide inevitabilmente con un conflitto diretto, di ordine melodrammatico, tra la vita interiore del personaggio, le sue percezioni e passioni, e le resistenze di senso e forma offerte dall’ordine della realtà: se ne può uscire vinti o vincitori, vivi, morti o rinati, ma infine si è. Mickey, «uomo moderno» diviso tra «essere e voler essere, immagine e realtà, desiderio e sua realizzazione»38, porta su di sé tale conflitto accettando infine di uscire dall’ombra per guardare in faccia la fonte delle sue paure (luminosa e accecante, 37. Reso ulteriormente esplicito dal cognome del manager dello Xanadu, “Castle”, interpretato da Hurd Hatfiled, il Moultrie di Furia selvaggia. 38. P. Vernaglione, Arthur Penn, cit., p. 32.

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materna e matrigna come quella all’origine della storia di Billy e Annie), consapevole dei rischi ma adesso disposto a correrli fino in fondo, dopo aver toccato l’abisso della negazione, cominciato col falò in cui, a Detroit, brucia i suoi abiti e assume un’identità in prestito. La riappropriazione del sé coincide dunque con un’affermazione dal sapore suicida, in una pausa dalla fuga per affrontare il conflitto, nella possibilità di una relazione (cinematografica) tra campo e controcampo, tra presenza e assenza, tra vittima e carnefice. La ricerca è cominciata, la protesta è innescata: l’arco drammatico è, come sempre in Penn, “non-storico”, e il ribellismo coincide con la ricerca essenziale dell’uomo, quella del possesso della propria identità. Se da un lato, dunque, Mickey One, benché liquidato da molti come un passo falso e una deviazione “europeizzante” nell’ancor povera filmografia di Penn («un delirio del nuovo»39), si sistema armoniosamente nel percorso di riflessione inaugurato da Furia selvaggia e proseguito con Anna dei miracoli, aggiornandone i sottotesti grazie a una più marcata prospettiva politica, dall’altro esso svolge un fondamentale ruolo di ricerca in rapporto alla dimensione soggettiva del racconto. I modelli francesi (ma anche la complessa e ambigua scrittura felliniana40) gli servono soprattutto per portare alle estreme conseguenze l’indagine intimista avviata nei film precedenti, sottomettendo il linguaggio alla percezione del personaggio. Penn, questa volta, si diverte a fare a pezzi alcune consuetudini del racconto cinematografico (anziché bucherellare qua e là, lavorare di lima e rivoluzionare con garbo come sarà sua abitudine), a demolire l’unità di tempo e luogo, a intaccare la “tenuta” figurativa dell’insieme e a oscurare la rete delle motivazioni del protagonista (senza però arrivare fino in fondo, come dimostra il flashback centrale, a servizio della comprensione); ma la rinuncia ai canoni della chiarezza del racconto, dopo un film scolpito e “orizzontale” come Anna dei miracoli, non è il frutto acerbo di un’infatuazione superficiale o il tentativo maldestro di rinnovare improvvisando: Mickey One potrà pure sem39. Come sostiene Carlini nel suo libro (Arthur Penn, Moizzi, Milano 1977). Non si può invece che concordare con l’affermazione che Mickey One «cade a proposito come confessione-sfogo-autocatalogo, come riassunto del lavoro precedente e apertura per il dopo», p. 15. 40. M. Caen, «Cahiers du Cinéma», n. 180, luglio 1966, che lo accosta inoltre ad Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, 1965) di Godard, con cui condivide un chiaro intento parabolistico.

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brare, e non del tutto a torto, un “esercizio di stile” (più mitteleuropeo che Nouvelle vague), ma la ricerca formale appare sempre ricondotta, e così giustificata, al “racconto del personaggio” (per un esempio opposto si veda, in quello stesso 1965, la critica al capitalismo del “modernista” Il caro estinto [The Loved One] di Richardson). E dopo aver messo a distanza quello di Annie, tenuto un po’ lontano dal racconto verbale (solo in parte controbilanciato dai flashback), prova adesso, a rischio di eccedere in senso contrario, a entrare in quello di Mickey, rubando al cinema moderno tutta una serie di stilemi necessari a dare forma alla soggettività del personaggio e a trasformarla nel centro di gravità del racconto. Un repertorio di forme per altro verso intonato alla modernità della nervosi di Mickey e al dramma della sua percezione confusa, fatto di lunghe dissolvenze incrociate che lasciano sullo schermo due o più ritratti o realizzano un intreccio scomposto e indifferente dei luoghi che attraversa; un repertorio fatto di jump-cut e discontinuità di tempo e azioni, col passare del primo inabissato nella contraddizione tra le seconde; fatto di sovrimpressioni, montaggio “sinfonico” (nel racconto della città), overlapping editing, ralenti, accelerazioni, sfocature, flashforward e flashback… L’uso non nasconde del tutto un’attrazione ludica e sfrenata (ma in chiave “storica”), e in relazione a un altro progetto, mai realizzato, contemporaneo a Mickey One, proprio l’impiego virtuosistico dello stile moderno viene indicato da Penn come una priorità: il film avrebbe dovuto essere «una sorta di “capriccio”, una commedia selvaggia per la quale vorrei utilizzare tutte le tecniche possibili. Si tratta di mostrare il carattere capriccioso della vita moderna. Racconta del problema di un uomo che vive lontano dalla città, dal telefono… Non c’è una vera e propria storia: accadrà quel che accadrà. Gli attori non dovranno sapere in quale momento saranno filmati né quando smetteranno di esserlo»41. Una bella sintesi del mondo-puzzle di Mickey, coi suoi tanti set scomposti ma comunicanti, ispirati alle ombre del cinema piuttosto che alla realtà, è rappresentata dalla sequenza dei titoli di testa, accompagnati da una musichetta jazz di Eddie Sauter che, assieme a Stan Getz (accreditato per le sue “improvvisazioni”), firma la colonna sonora. 1) L’incipit mostra Mickey – cappotto nero allacciato stretto, nera bombetta 41. A.S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, cit.

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magrittiana e sigaro accesso – al centro di una sauna, circondato da un gruppo di signori grassocci, vestiti soltanto di una pezzuola bianca, che ridono sguaiatamente (vedi inserto p. 5); 2) per strada, di giorno, a Detroit: Mickey guida una decappottabile, accanto a lui una ragazza bruna; si ferma, e così fa un’altra decappottabile dietro di lui, dalla quale si sporge, dal posto del passeggero, una procace bionda. Mickey riparte e fa segno al guidatore di seguirlo; 3) notte, da qualche parte in campagna: la ragazza bionda è distesa sul cofano e guarda vogliosa Mickey, ancora seduto al volante (l’altro uomo tamburella con le dita sul cofano della sua macchina; la ragazza bruna non si vede più); 4) in plongé, la bionda si lascia cadere su un letto, spargendo attorno a sé delle margherite che, nell’inquadratura successiva (ma cronologicamente precedente) stringe tra le mani; Mickey la raggiunge; 5) l’applauso del pubblico di un locale notturno introduce Mickey sul palco, con il suo inseparabile sigaro; 6) la ragazza, vestita, nuota sottacqua in piscina, per essere poi trascinata via da un uomo di cui non vediamo il volto; 7) Mickey e la ragazza in camerino mentre si baciano appassionatamente sporcandosi il volto con la crema per struccarsi; 8) nascosto dietro un angolo, non visto, Mickey osserva due uomini che picchiano un terzo, legato a una sedia e imbavagliato, prima che la ragazza lo sorprenda, gli si sieda in grembo e cominci a baciarlo (le due situazioni, avvicinate dal grandangolo e affondate nel nero, sembrano al tempo stesso confinanti e impermeabili l’una all’altra); 9) uno dei due picchiatori della scena precedente parla al telefono mentre osserva (apparentemente non visto, come Mickey poco prima) quest’ultimo mentre scherza tra i tavoli di un sofisticato locale da gioco con la ragazza che, allontanandosi, lascia cadere a terra delle fiche; 10) il volto di un uomo con la barba, di nuovo la ragazza inquadrata dall’alto mentre balla coprendosi in parte il viso con una sciarpa trasparente, Mickey che beve; l’inquadratura su di lui si allarga, definendo i rapporti tra i tre (il primo suona la batteria, la ragazza balla, Mickey la guarda); il locale chiuso, con le sedie sui tavoli; 11) Mickey sputa ciò che sta bevendo, e subito dopo lo vediamo cacciato all’interno del locale di prima: si avvicina a un tavolo da gioco e punta qualcosa. Ne esce subito dopo, ubriaco, il suo volto in primo piano e fuori fuoco, il viso tirato e il papillon sfatto. Torna al locale notturno: l’imma111

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gine della sciarpa abbandonata su un piatto della batteria lascia intendere che la ragazza e il musicista sono andati via insieme. Dice: «Capolinea», e al primo piano di Mickey si alternano quelli, piuttosto inquietanti, di due tizi che guardano da dietro un vetro, uno da sinistra, l’altro da destra, come se stessero accerchiando il comico. «Ero in trappola», commenta. E come Billy all’inizio di Furia selvaggia, l’avvio del racconto mostra il personaggio mentre si massaggia la fronte e chiude forte gli occhi. È a quegli occhi, aperti e chiusi, sbattuti troppo in fretta, continuamente distolti (perché “specchio dell’anima”), che si guardano ossessivamente attorno ma vedono soltanto ciò che cercano (e cercano sapendo già cosa trovare), che Penn affida il montaggio del film, trasformandolo nella realizzazione delle paure di Mickey. Come Otello che, ossessionato dalla gelosia per Desdemona, finisce per trovare comunque la prova del suo tradimento, vittima di una suggestione che rifà il volto alla realtà, così Mickey, convinto oltre ogni ragionevole dubbio che qualcuno lo voglia morto, iperinterpreta gli eventi in cui si trova coinvolto a partire dalla lente deformante della propria ossessione, che gli fa riconoscere una minaccia dietro un fatto ordinario e una trama occulta in una serie di circostanze casuali. Facendo il gioco di chi lo vuole morto (ma davvero qualcuno lo vuole morto?), Mickey sparge la sua insicurezza dovunque, popolando il mondo del racconto coi fantasmi di una visione che non ha bisogno del confronto con la realtà per esistere o trovare giustificazione, e alla quale, a poco a poco, si sostituisce. Un po’ come Billy, Mickey finisce insomma per vedere il mondo non per quello che è (ammesso che lo si possa fare) ma per ciò che vale per lui. E il racconto del personaggio assume di conseguenza una forma mostruosa. Il simbolismo, così, non si scioglie (come invece accadeva in Furia selvaggia e Anna dei miracoli), l’onirismo prende il sopravvento, gli ondeggiamenti della percezione hanno la meglio sull’ordito dell’intreccio: l’avventura di Mickey è visionaria, non ammette altra realtà al di fuori della sua costruzione persecutoria e non può essere raccontata se non condividendone il punto di vista. Penn sa che, a meno di non voler comporre un profilo comportamentale dal tono scientifico, la nevrosi di un simile personaggio non può essere detta ma so112

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lo vissuta. E accetta (come dovrebbe fare lo spettatore) la conseguenza inevitabile di non poter capire o sapere tutto, a partire dal nome del protagonista (proprio come accade ne Il processo): Mickey One, infatti, è il nomignolo affibbiatogli dal suo primo datore di lavoro, che lo crede un tale e impronunciabile Miklos Wunejeva (quello vero è stato pestato e forse ucciso da un gruppo di ladruncoli, uno dei quali – un nero con occhiali a specchio – ha consegnato a Mickey il libretto di lavoro del malcapitato). La delega scopica, narrativa e morale al personaggio interpretato da Warren Beatty tiene alto il tasso di ambiguità: allo spettatore non è mai offerta la possibilità di scegliere tra le visioni/interpretazioni di Mickey e la (presunta) realtà dei fatti. Così, per esempio, tutta la sequenza iniziale ambientata presso uno sfasciacarrozze e introdotta dalla voce metallica di un poliziotto che descrive la sequenza della “morte totale” di un uomo pressato e incenerito a bordo della propria vettura, assume un valore sinistro soltanto perché Mickey si sente a poco a poco accerchiato dalle scavatrici e dalle gru in movimento, e perché si convince che il racconto del poliziotto, in qualche modo, parla (anche) di lui. E lungo il film i suoi occhi continueranno a cercare sempre e soltanto segni di disfacimento, crollo, morte (palazzi distrutti, un funerale…): e, naturalmente, li troveranno, perché è l’unica cosa che riescono davvero a vedere. Lo smaccato simbolismo della messa in scena si genera a partire dall’accoppiamento provvisorio tra lo sguardo di Mickey e i fatti più o meno ordinari che gli capita di vivere durante la sua fuga, nella forma di piccole epifanie ossessive. Quando entra nella “New Life Mission”, per esempio, lo accolgono un uomo e una donna di mezza età; il primo gli porge un piatto di riso, la donna tace e sorride, e di lì a poco seguirà con le labbra il marito mentre legge, faticosamente e balbettando, una pagina della Bibbia. La scelta, dopo la Lettera ai Corinzi di Furia selvaggia, va questa volta a Geremia, 37, 1617, e non a caso: è il passo in cui Geremia viene arrestato e incarcerato perché scambiato per un traditore intenzionato a unirsi ai Caldei, nemici del re Sedecia. Mickey ignora la vicenda, ma quando sente pronunciare la domanda che il re pone a Geremia – «C’è una parola da parte del Signore?» – qualcosa scatta in lui (sottolineato dal passaggio al primo piano), volta lo sguardo verso l’uomo e smette di mangiare. Che cosa è successo? Nulla, se non negli occhi e nella testa di Mickey. 113

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In altre scene del film saranno invece le soggettive del personaggio a introdurre un regime ambiguo o sospeso: la sua concentrazione su dettagli secondari, figure marginali o gesti apparentemente privi di significato (come il monotono battito di mani con cui una donna, alla fiera, richiama il pubblico al suo padiglione di chirurgia nasale) assumono a poco a poco un valore ottuso, equivalente a una minaccia. E non diversamente accade in termini sonori: a sottolineare le dissonanze del peregrinare di Mickey non contribuisce soltanto un tappeto onnipresente di variazioni e spezzature jazz, ma anche l’enfasi acustica e del tutto soggettiva, ancora una volta riferibile all’attenzione percettiva del personaggio, assegnata a certi rumori di fondo che finiscono in primo piano, violenti e assordanti. Penn, da parte sua, definisce il look del film all’incrocio tra noir classico e gangster movie anni Cinquanta, contaminando l’uso “impressionistico” della voce fuori campo e l’impasto simbolico del bianco e nero con l’attitudine più realistica del recente cinema della “mala”, ricorrendo al suo amato Welles per l’uso deformante del grandangolo e la costruzione di una scena profonda di relazioni dimensionali inattese tra le figure, e recuperando certe atmosfere algide e severe del cinema di Malle più che di Truffaut; molto si deve a Ghislain Cloquet, che per il primo ha fotografato Fuoco fatuo (Le feu follet, 1963), ha collaborato ai documentari di Resnais e dal set di Penn passerà direttamente a quello di Au hasard Balthazar (Id., R. Bresson, 1966); e la ricerca cromatica deve qualcosa anche alla grana documentaristica del cinema hollywoodiano di quegli anni e, in particolare, al lavoro della coppia KazanKaufman. E se da un lato il noir, proprio perché introiettato, non è mai stato così “scuro” (Penn lo fa essere spazio, materia e personaggio), dall’altro il regista non rinuncia ad ambientare l’avventura di Mickey in una metropoli “vera” (Chicago), molto lontana dai vicoli da studio del genere di riferimento, citando il chiasso metallico di Fuller e Dassin e consegnando volti e oggetti a un’esistenza puramente fisica e materica, accentuandone il “peso” e di conseguenza la minaccia per l’esistenza volatile e fantasmatica di Mickey (sottolineata dalle trasparenze delle molte dissolvenze incrociate). Parte del fascino del film sta proprio nella tensione tra il realismo della cornice e l’ottusità semantica di situazioni, oggetti e personaggi, piegati al significato supplementare che attribuisce loro Mickey. E il progressivo cambiamento di “stato” della vita del fuggitivo è 114

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rimandato simbolicamente dalla sequenza dell’opera d’arte, prima integra, poi “accesa” di fuochi d’artificio, infine distrutta e in fiamme e quindi ricoperta di schiuma dai vigili del fuoco. Dallo spettacolo alla sua disastrosa e totale evanescenza42. Oltre a essere un film pieno di cinema e, sottotraccia, una parabola della società dello spettacolo, con l’occhio di bue che diventa sguardo assassino, occhio di Dio e pistola, Mickey One è anche un film sul teatro (della vita) e sulla “costruzione del personaggio”. Mentre i francesi, in quegli anni, stanno usando il cinema per liberarlo da se stesso e ristabilire il confine tra realtà e finzione, Penn trova nel suo primo amore il lessico più adatto a cogliere e a descrivere la condizione presente. E fa di Mickey un attore in cerca di personaggio, costretto a vivere recitando, senza alcuna possibilità di uscire dalla finzione. La sua performance è perenne, sul palco e in privato (come nel lungo dialogo con Jenny, che ricorda il duetto Belmondo-Seberg in camera da letto di Fino all’ultimo respiro [A bout de souffle, J.-L. Godard, 1960]), e inabissa la possibilità stessa della realtà: Mickey – la recita, il falso, il ruolo – è la sola possibilità di vita dentro un mondo di carne morta e macellata. L’immagine, verbale o visiva, torna più volte, idealmente replicata da quella delle carcasse di automobili che apre e chiude il film (anticipando il “cimitero” della sequenza finale di La caccia): dentro una cella frigorifera ha il suo ufficio Rudy Lopp, il primo manager di Mickey, interpretato da Franchot Tone43, e nei quarti di bue appesi al freddo (un’immagine più pop che surreale, tra macellazione dell’identità e consumismo) Mickey si specchia per quello che davvero è; ha creduto di essere libero e invece niente gli appartiene, altri hanno deciso del suo destino e della sua fortuna, concedendogli e adesso rifiutandogli i soldi e il succes42. Ne è protagonista l’“artista” Kamatari Fujiwara, suggerito a Penn da Kurosawa e qui alla sua prima e unica apparizione in un film non giapponese. 43. Ormai a fine carriera (sarebbe morto nel 1968), Tone aveva cominciato a recitare alla fine degli anni Venti all’interno del Group Theatre di Strasberg (progenitore dell’Actors Studio), lasciando il teatro per il cinema con i primi anni Trenta. Quando Penn lo scrittura, egli è però già tornato da qualche tempo a Broadway, dove nel 1963 è nel cast di uno dei maggiori successi della stagione, la versione di Strange Interlude di O’Neill formata dal regista José Quinterno, con Jane Fonda, Geraldine Page e Ben Gazzarra.

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so, le macchine e le donne, i viaggi e perfino il dentista. Scopre insomma di essere (stato) ciò che altri (gli altri, “they”) gli hanno permesso di essere; scopre di non dover loro ventimila dollari ma «tutta la vita»: scopre di essere la creazione di qualcun altro, il temporaneo divertimento di una volontà estranea e inconoscibile che adesso torna a reclamare i suoi diritti di vita e di morte. «Che cosa vogliono? Non basta quello che faccio? Chi mi ha in mano? E perché?»: la dismisura del ricatto e dell’inganno non può essere compresa dalle domande di Mickey. Che smette allora di porsele e comincia a spogliarsi, bruciando i vestiti e cambiando identità, nascondendosi nell’ombra e liberandosi di sé, secondo un tragitto in sottrazione solo apparentemente contrario a quello di Billy: il punto d’arrivo, comune e ugualmente doloroso, è la conquista di un’identità sciolta da ogni determinazione esterna. Per Billy coincide infine con la morte, per Mickey con un ritorno alla vita, un’uscita dall’ombra e una perenne esposizione alla morte (di nuovo, l’immagine del “venire alla luce”). E in entrambi i casi il percorso del personaggio assume il valore tragico di una testimonianza: la morte di Billy, come la risoluzione potenzialmente suicida di Mickey, rendono infine nominabile, se non proprio visibile, l’ordine imprigionante a cui cercano di sottrarsi. Penn non s’inganna: sa benissimo che non v’è alcuna possibilità di contrastare l’azione di una “forza” come quella di cui Mickey è o crede di essere (e in ogni caso si sente) vittima. E se ha fatto di Mickey One un saggio allucinato di antropologia della paura è perché ritiene impossibile o forse poco produttivo e comunque lontano dalle sue corde affrontare il problema “oggettivamente”. E del resto, dieci anni dopo, anche il più piccolo ma non meno opaco intreccio di Bersaglio di notte è destinato a sfuggirgli di mano. Nel 1965 non può ancora sapere che l’America partorirà molte altre generazioni di infelici.

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Teoria della caccia, atto primo «È terribile lavorare a Hollywood con tanti tecnici attorno; ognuno di essi sa esattamente come dovrà essere realizzata la vostra idea, e quel che viene fuori da tutti questi sforzi congiunti non è più la vostra idea ma l’archetipo dell’idea hollywoodiana, il luogo comune, il trionfo della banalità»44.

Raccontando di un sentimento diffuso, originato dalla pressione di forze che minacciano la libertà individuale e che non possono essere combattute nel quadro della “legge” (Mickey tenta una sola volta, e del tutto inutilmente, di rivolgersi alla polizia), Mickey One inaugura un sottogenere squisitamente americano del noir – di per se stesso destinato a diventare, lungo gli anni Settanta, specchio dell’“ansietà morale”45 – che avrà grande fortuna nel decennio successivo, il cosiddetto paranoid conspiracy film, alimentato direttamente dagli inquietanti intrecci di potere via via svelati dagli scandali politici o da un nuovo attentato presidenziale. I molti film riferibili a questo filone, da Azione esecutiva (Executive Action, 1973, D. Miller, sceneggiato da Dalton Trumbo) e Il giorno del delfino (The Day of the Dolphin, M. Nichols, 1973) fino a Capricorn One (Id., P. Hyams, 1978) e Sindrome cinese (The China Syndrome, 1979, J. Bridges), passando per il dittico di Pakula Perché un assassino (The Parallax View, 1974) e Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men, 1976), avranno per protagonisti, tendenzialmente eroici, figure in qualche modo legate al mondo della politica, dei mezzi di comunicazione o della giustizia, e per mano loro l’antropologia “passionale” della società americana disegnata da Penn in Mickey One sarà sostituita da uno sguardo indagatore, razionale e impudico sulla rete dei poteri occulti che amministrano la verità. Mickey One resta così, per certi versi, un precursore e un unicum, e consegna alla storia del cinema americano “complottista” l’esito possibile di una sindrome silenziosa a cui i film del futuro, meno solipsistici, proveranno a porre riparo. Uno scarto che non apparterrà mai al cinema di Penn, costituzionalmente incapace di celebrare l’eroismo, quand’anche comune e minore, o di predisporre una soluzione lineare del conflitto o, ancora, di ipotizzare una salvezza – nei valori o nelle azioni – a portata di mano. Con pochissime eccezioni, infatti, la sua 44. M. Foglietti, Gravi conflitti di coscienza. Incontri: Arthur Penn, cit. 45. D.A. Cook, Lost Illusions, cit., p. 188.

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attitudine tragica lo tiene sempre lontano dalla consolazione sentimentale e sul suo cinema, pur fatto di grandi emozioni e eccessi drammatici (in linea con una certa tradizione americana), pesa una coscienza morale troppo sviluppata, distaccata e consapevole per non rifrangere continuamente l’ombra della sconfitta, l’agguato della sofferenza, la persistenza del male. Pervaso di un pessimismo che non risparmia niente e nessuno è il film immediatamente successivo, La caccia, secondo titolo di un’ideale tetralogia, assieme a Mickey One, Gangster Story e Missouri, di colpevoli innocenti, di uomini braccati e piegati dal potere, di vittime del destino, di martiri controvoglia, di anti-eroi per caso in fuga disperata o spinti inevitabilmente alla morte. I movimenti della caccia e della fuga determinano l’azione: un percorso incerto, fuori dal tempo e dallo spazio, peregrino, reattivo e non programmatico che, spogliato di significati ulteriori e dell’idea di una progressione positiva, riflette il destino comune a tutti o quasi i personaggi di Penn, protagonisti di un andare irrisolto e fatale. Lo sviluppo interno, da una pellicola all’altra, è emblematico: dopo l’avventura solitaria di Mickey, condannato da un potere senza volto, La caccia allarga e storicizza il cast in un affresco comunitario, dipingendo la corruzione, l’abuso di potere, la miseria affettiva e la perversione dei costumi e dei comportamenti sociali dei bianchi, medio e alto borghesi, di una cittadina del Texas, Terrell («noiosa ma carina»), fino al linciaggio finale, in cui Penn, riprendendo il discorso di film come Furia (Fury, F. Lang, 1936) e Alba fatale (The Ox Bow Incident, W. Wellman, 1943), vale a dire quello di una giustizia senza legge, dipinge la crisi di un’intera società in una sorta di baccanale grottesco. A margine di questa high society famelica e insoddisfatta, alternativamente tirato dentro per convenienza e sputato fuori per indegnità, sta un tipico personaggio penniano, lo sceriffo Calder (Marlon Brando), protagonista, testimone e infine capro espiatorio della rabbia inesplosa dei cittadini che “gli pagano lo stipendio”: Calder è il simbolo sfocato di una forma di giustizia destinata a essere sovvertita dall’istinto primordiale di un ethos antico, che si fa beffe delle regole e della legge. E i titoli di testa, stilizzati e polizieschi, con le loro immagini di caccia e fuga, danno immediatamente conto delle coordinate antropologiche del mondo del film, fatto di prede e predatori, vittime e carnefici (vedi inserto p. 6). Un mondo dove i rapporti sociali si definiscono sulla base di una prova di forza continuamente 118

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rinnovata e di un allineamento degli individui sull’uno o sull’altro fronte di uno spazio diviso da una guerra costante. Nel 1966, quando il film esce nelle sale, un simile ritratto senza speranza e tutt’altro che metaforico si attira prevedibilmente critiche aspre e qualche rimprovero, a partire da quelli, particolarmente “pesanti”, di Pauline Kael, che deplora La caccia per l’attacco senza riserve rivolto ai bianchi del Sud46, e di «Sight and Sound», a cui il film appare fuori controllo, «un sintomo del malessere americano piuttosto che una sua diagnosi»47; altrettanto prevedibilmente, viene invece difeso da una consistente parte della stampa francese (Prédal ne loda proprio la capacità di criticare “ferocemente” una certa parte della società americana48) e italiana (Cavallaro, su «Bianco e Nero», lo incorona «uno dei migliori film degli ultimi tempi»49). A nessuno, comunque, sfugge che La caccia, benché vicino alla sensibilità di Penn e tutto sommato coerente coi suoi precedenti lavori, patisce, soprattutto in termini di “confezione”, il peso di un modello produttivo lontano dalle sue corde e mostra all’esterno tutta la fatica di una lavorazione lunga, complessa e dolorosa, su cui il regista è tornato molte volte in seguito e che risulta ancor più amara per contrasto con l’avventura libera e indipendente di Mickey One 50. Come suggerisce Cook, tuttavia, è proprio a causa di quel film “d’autore” e del suo tonfo economico che Penn finisce sorvegliato e punito51: l’addestramento hollywoodiano, dopo il montaggio “rubato” di Furia selvaggia e il licenziamento dal set de Il treno, 46. P. Kael, The Chase, «McCall’s», aprile 1966. 47. D. Wilson, The Chase, «Sight and Sound», n. 4, autunno 1966; al critico sembra fuori controllo anche l’immaginazione di Penn. 48. R. Prédal, La poursuite impitoyable, «Jeune Cinéma», n. 18, novembre 1966. 49. G.B. Cavallaro, La caccia, «Bianco e Nero», n. 11, novembre 1966. 50. M. Argentieri, La caccia, «Cinema 60», n. 60, 1966: «La caccia di Arthur Penn viene da Hollywood e dell’opificio californiano reca impresso il marchio di fabbrica… Materia scottante, ma che scaturisce con un turgore più melodrammatico che realistico. Hollywood, anche quando accantona i cattivi propositi, non si smentisce, pretende dai suoi cavalier serventi – inclusi i migliori – che lo svolgimento narrativo sia tenuto qualche nota al di sopra delle righe e che il campo visivo assuma le dimensioni di un palcoscenico esposto agli artifizi più scontati e a una teatrale sonorità. Il termine “messa in scena” diventa appropriato e insostituibile…». 51. D.A. Cook, Lost Illusions, cit., p. 73.

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non è ancora terminato, e dalla parte dei cattivi, questa volta, c’è nientemeno che Sam Spiegel, il produttore-tycoon di Il ponte sul fiume Kwai (The Bridge on the River Kwai, D. Lean, 1957) e Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, D. Lean, 1962), che impartisce a Penn una nuova lezione di (vecchio) stile hollywoodiano. Una lezione dolorosa ma, al tempo stesso, preziosa e duratura: grazie all’abisso toccato con La caccia, Penn sembra infatti stabilire una volta per tutte il limite dei compromessi che è disposto a tollerare e, d’ora in poi, si dimostrerà più abile a intuire meglio e a evitare del tutto quei film che non corrispondono alla sua idea di cinema o, come nel caso di Missouri, a piegare il “sistema” dall’interno. In realtà, nei rapporti tra Major, produttori e autori le cose stanno già cambiando da qualche tempo, e Anna dei miracoli e soprattutto Mickey One sono lì a dimostrarlo: nel 1965, quando parte la lavorazione di La caccia, non è Penn a essere in anticipo, ma Spiegel in ritardo, come del resto dimostra il rapido declino cui andrà incontro la sua carriera lungo gli anni Settanta. «Sam era l’eminenza grigia la cui figura, come un titano hollywoodiano, incombeva su ogni cosa. Avrei dovuto affrontarlo e chiedere maggiore controllo sul film, oppure abbandonare tutto. Ma non feci nessuna delle due cose. Continuavo a ingannare me stesso dicendomi che questa era Hollywood e che molti ottimi film erano stati fatti in quel modo. Questo era vero, ma erano stati fatti da registi molto più abili di me a manovrare il sistema»52.

Viceversa, Spiegel ci mette poco a capire che Penn appartiene a una nuova generazione di autori, lontana da quella con cui ha lavorato (e riscosso Oscar e successo) fino a quel momento. Penn potrà anche essergli sembrato, sulle prime e a distanza, il “nuovo Kazan” (la carriera teatrale, la partecipazione all’esperienza dell’Actors Studio, un certo gusto per la messa in scena che traspare dai primi film, i legami sociali e culturali con la scena newyorkese…), ma si rivela ben presto interprete di un’altra idea di cinema, un’idea nuova, prossima a realizzarsi, e che con la Hollywood di Spiegel avrebbe chiuso almeno in parte, almeno per un po’. Eppure, benché La caccia resti, tra le altre cose, uno dei film più irrisolti della 52. A. Penn, Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde, cit., p. 15.

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carriera di Penn (e di Spiegel), è proprio grazie al clamore suscitato da questo blockbuster “sociale” all-star che, almeno in termini di fama e riconoscibilità, il regista cinematografico comincia a staccare quello teatrale (Gangster Story, l’anno dopo, chiuderà definitivamente la questione). Quando Spiegel lo sceglie per dirigere La caccia, infatti, Penn è ancora e soprattutto, per molti ma anche per se stesso, un regista teatrale, e particolarmente negli Stati Uniti dove, con l’eccezione di Anna dei miracoli, i suoi film hanno riscosso scarso successo e attirato uno sguardo poco più che distratto da parte della critica; appena può, del resto, Penn torna a Broadway, per amore del teatro ma anche alla ricerca di consolazione dal mondo del cinema. La “chiamata” di Spiegel, non a caso, arriva grazie alla mediazione di Lillian Hellman, amica comune di produttore e regista: nel 1960 Penn ha portato al successo Toy in the Attic e, assieme alla moglie, è stato accanto alla scrittrice durante la malattia e dopo la morte del suo compagno, Dashiell Hammett, avvenuta nel 196153. Spiegel la ingaggia in sostituzione del fidato Micheal Wilson (impegnato sulla sceneggiatura di La caccia fin dal 1956) perché «è una voce molto potente del teatro» e «regina degli intellettuali» di New York»54, ma anche per riscattarla pubblicamente: nel 1952, infatti, la Hellman era finita nella rete delle inchieste maccartiste, e dopo il suo rifiuto a collaborare (riassunto in una frase rimasta celebre: «I cannot and will not cut my conscience to fit this year’s fashions») 53. Spiegel, in effetti, non aveva mai preso in considerazione il nome di Penn. E se sceglie di seguire immediatamente l’indicazione della Hellman è anche perché, nel 1965, pronto per partire, non ha ancora un regista. Fino a quel momento, infatti, ha incassato solo una lunga lista di rifiuti, da Kazan (di cui ha prodotto Fronte del porto e con cui realizzerà, vent’anni dopo, Gli ultimi fuochi, ideale ma anche ironica chiusura di carriera per tycoon e regista), David Lean (col quale sperava di bissare il successo dei due precedenti), Mankiewicz (che avrebbe voluto due attori neri per Bubber e la moglie), Fred Zinnemann e William Wyler (coi quali, in precedenza, aveva cercato di realizzare alcuni progetti poi abortiti). Spiegel “compra” Penn quasi a scatola chiusa: quando vedrà Mickey One – letteralmente “odiandolo” – si è già alla vigilia delle riprese. 54. N. Fraser-Cavassoni, Sam Spiegel. The Incredibile Life and Times of Hollywood’s Most Iconoclastic Producer, the Miracle Worker Who Went from Penniless Refugee to Show Biz Legend, and Made Possibile The African Queen, On the Waterfront, The Bridge on The River Kwai, and Lawrence d’Arabia, Simon & Schuster, New York 2003, pp. 267 s.

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aveva incontrato qualche difficoltà lavorativa, soprattutto a Hollywood. Penn, da parte sua, è entusiasta per l’opportunità: non può ancora prevedere quanto lontana dalle sue aspettative e abitudini sarà la produzione del film, e del resto le premesse contrattuali e le promesse di Spiegel non glielo consentono. Anche se qualche segnale d’allarme arriva subito, proprio con l’avvio della fase di scrittura. Perché mentre Penn e la Hellman lavorano a New York (Spiegel, intanto, completa il cast dall’altra parte del Paese), qualcun altro, simultaneamente, procede all’adattamento del copione originale di Horton Foote, secondo una delle più classiche strategie hollywoodiane: coinvolgere più sceneggiatori nello stesso progetto, gli uni all’insaputa degli altri. Nel caso di La caccia, tuttavia, questo sceneggiatore fantasma (probabilmente Wilson) avrebbe avuto un ruolo del tutto secondario, anche se, aggiunto ad altri elementi disturbanti, contribuisce molto presto a fiaccare l’interesse della Hellman per il progetto, fino a rendere necessario il diretto coinvolgimento di Foote (chiamato inizialmente a “ritoccare” il dialetto parlato dai personaggi), che Penn conosce bene e stima fin dai tempi del suo lavoro in televisione55. Ma se da un lato l’arrivo di Foote giova al film, dall’altro non fa che acuire il risentimento della Hellman (allontanatasi nel frattempo da New York per la più “salutare” California), che finisce per ricadere anche su Penn. E alla lista degli sceneggiatori si aggiunge infine Ivan Moffat: in breve, «That was a mess!»56, un tipico “casino” hollywoodiano. I problemi più grandi si presentano però sul set, impiantato tra Calabasas e Chico, in Texas, e dipendono tutti o quasi dalla presenza fin da subito ingombrante del produttore, che oltre a dirigere in prima persona ogni aspetto del lavoro, di tanto in tanto, e del tutto inaspettatamente, fa recapitate alla troupe nuove pagine di sceneggiatura (provenienti dall’“altra” sceneggiatura o forse scritte dallo stesso Spiegel), in genere contenenti nuove porzioni di dialogo. Solo a questo punto Penn intuisce di trovarsi in una «true Hollywood industrial 55. Penn e Foote, nei ruoli di regista e sceneggiatore, hanno in precedenza collaborato a The Death of the Old Man e The Tears of My Sister, entrambi trasmessi nel 1953 all’interno di First Person, e, nello stesso anno, a John Turner Davis per la serie Philco Television Playhouse. 56. A.S. Labarthe, J.-L. Comolli, Entretien avec Arthur Penn, «Cahiers du Cinéma», dicembre 1967.

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production», vale a dire: nessuna reale “authorship” ma solo un accumulo di ispirazioni minori, rispetto alle quali può fare poco o nulla, sentendosi progressivamente privato di un ruolo “centripeto”57. E ciò è in parte dovuto anche al temperamento del regista, poco a suo agio con le dimostrazioni di forza e autorità, incline piuttosto al dialogo e alla negoziazione, allora come in futuro. Così, per esempio, non riesce mai a trovare un punto di incontro con l’agguerrito direttore della fotografia Joseph LaShelle, chiamato al posto di Robert Surtees, ammalatosi poco prima dell’inizio delle riprese. Tra le tante “ispirazioni minori” che contribuiscono al risultato finale, spesso in conflitto tra loro e governate davvero soltanto da Spiegel, quella di LaShelle è la più determinante; egli arriva sul set carico della sua gloria e con un progetto ben preciso in testa, senza nessuna voglia di farsi comandare da un giovane regista come Penn: «Il direttore della fotografia […] voleva a tutti i costi che la luce del film fosse tale da meravigliare e sbalordire l’occhio dello spettatore. Notte dopo notte noi sedevamo, questo cast magnifico e io, mentre lui illuminava e illuminava e riempiva la notte di luce e si fermava soltanto quando sentiva di aver scolpito la notte. Il cast e io ci eravamo nel frattempo affaticati e la nostra ispirazione era svanita. “È tutto vostro”, diceva. Ma spesso era già l’una del pomeriggio…»58. Ma l’affronto maggiore di Spiegel ai danni di Penn, e l’ultimo atto della progressiva sottrazione del film al suo controllo, coincide con la fase del montaggio. Il regista aveva infatti chiesto – e apparentemente ottenuto – che la post-produzione si svolgesse a New York, dove aveva in programma di cominciare le prove di Wait Until Dark di Frederick Knott, con Lee Remick e Robert Duvall, subito dopo il termine delle riprese del film (che sarebbe uscito a due settimane di distanza 57. Durante la lavorazione del film Penn cerca comunque – se non altro per il bene del film – di sminuire il malcontento generale. Ne fa fede una polemica scoppiata col «New York Times», a seguito della pubblicazione di un’intervista rilasciata dallo stesso Penn a Rex Reed (13 febbraio 1966), in cui si parla ampiamente dei problemi del set. Il regista replica il 20 febbraio, accusando Reed di inaccuratezza e sconfessando molte delle difficoltà di cui accenna la cronaca. 58. A. Penn, Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde, cit., p. 16.

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dal debutto dello spettacolo, in cartellone all’Ethel Barrymore Theatre di New York dal 3 febbraio 196659). Questa situazione avrebbe permesso a Penn di lavorare contemporaneamente al montaggio del film e alla regia dello spettacolo: Spiegel, invece, decide all’improvviso – senza offrire alcuna motivazione inequivocabile – di trasferire il lavoro a Londra, e di finire il film assieme a Gene Milford, suo fidato collaboratore fin dai tempi di Fronte del porto. L’affronto risulta tanto più indigesto nel caso di Penn che, come si è visto, attribuisce al montaggio un ruolo determinante nella riuscita di un film; nel caso di La caccia, poi, è facile immaginare che, dopo le molte difficoltà incontrate sul set, egli considerasse il momento del montaggio indispensabile a risolvere certi problemi e, soprattutto, a rendere il film un po’ più suo. Ma la decisione di Spiegel gli sottrae questa possibilità, chiarendo definitivamente il suo ruolo: che è quello, artigianale e un po’ di servizio, del director. E allora: «Al diavolo Hollywood. Posso vivere felicemente facendo teatro»60: per la seconda volta, dopo Furia selvaggia (anche in quel caso la rottura con la produzione era avvenuta a causa dell’esclusione del regista dal montaggio), Penn sbatte la porta del cinema e torna a Broadway e alla sua New York. E subito dopo Wait Until Dark, che debutta mentre si esauriscono le repliche del fortunato Golden Boy, mette in scena un capolavoro del teatro contemporaneo americano, The Skin of Our Teeth di Thornton Wilder, chiamando la sua Anne Bancroft (che in quell’anno sceglie di lavorare solo per lui, in cerca di rejuvination), l’amica di sempre Estelle Parsons e Frank Langella (che avrebbe ritrovato quasi quarant’anni dopo in Fortune’s Fool) per interpretare una storia di sapore biblico che, dopo aver evocato il cammino dell’uomo attraverso le vicende di una famiglia di origine greca, gli An59. A breve distanza da Anna dei miracoli, Wait Until Dark, ultima collaborazione tra Fred Coe, anche co-produttore del film della Warner diretto da Terence Young, e Penn, riporta il regista a confrontarsi col tema della cecità, che in forme più o meno esplicite ne attraversa tutta la filmografia (fino all’esercizio sulla visione di Urla dal buio). Lo spettacolo si rivela un grande successo di critica e pubblico, con un anno di repliche e la candidatura ai Tony come migliore attrice per la Remick. 60. A. Penn, Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde, cit., p. 17.

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tropus, si chiude ciclicamente su uno scenario di sconfitta e colpevole reiterazione61. Un tema, quello del ripetersi della storia e soprattutto dei suoi errori e delle sue logiche perverse, comune alla pièce e al film da poco terminato (ma non “finito”), nel quale i conflitti di classe o di razza sono (e significano) molto di più e, una volta svelata la trama violenta che li sorregge, si traducono nei simboli di un’aberrazione che è al tempo stesso cifra caratteristica e radicale negazione dell’umano. Idea più che mai penniana: l’uomo si dà a vedere in prossimità del baratro, sulla linea di confine che lo separa da una definizione qualificante, nel momento di una crisi che ne svela le contraddizioni insolubili. E prima o poi tocca a tutti: nella ritrattistica di Penn l’unità della figura va sempre incontro, presto o tardi, a un momento di esplosione, più che di pura e semplice manifestazione violenta, un momento di apertura e rivelazione (melo)drammatica, fisica e sentimentale: una spaccatura verso la verità. Ciò che manca a La caccia, almeno stando a Penn, è proprio questa logica dell’esplosione che, di norma, non interessa soltanto i personaggi ma l’andamento stesso dei suoi film; seppure «abbastanza ben montato», infatti, La caccia soffrirebbe, secondo il regista, di un ritmo «un po’ troppo stolido e lontano dall’essere “significante”. Ma la più grande perdita sofferta dal film nella fase del montaggio è comunque legata a certe straordinarie improvvisazioni di Brando non sopravvissute all’ortodossia di Sam e alla sua tacita autorship»62.

La collaborazione con Marlon Brando, che sarà rinnovata dieci anni dopo per Missouri, resta probabilmente il miglior ri61. Con l’allestimento di The Skin of Our Teeth, Penn si misura a distanza con l’amico Elia Kazan, che aveva messo in scena il testo di Wilder, vincitore del Pulitzer, nel novembre del 1942, l’anno della sua pubblicazione; nel 1975 vi si confronterà un altro grande del nuovo teatro americano, José Quinterno. Sul “metodo” con cui Penn affronta l’allestimento, rimando a A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., pp. 34-36. Il testo viene presentato al festival teatrale di Stockbridge, una delle attività dello Stockbridge Theatre, fondato dallo stesso Penn assieme a William Gibson nel 1964, grazie ai finanziamenti della Fondazione Rockfeller. La prima compagnia “stabile” comprende oltre agli attori di Skin of Our Teeth, Gene Hackman e Dustin Hoffman. 62. A. Penn, Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde, cit., p. 17.

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cordo legato alla realizzazione del film. Penn, che ha avuto modo di lavorare con tutti o quasi i maggiori attori della New Hollywood (solo ne La caccia, oltre a Brando, ci sono Robert Redford, Robert Duvall e Jane Fonda), non ha mai fatto mistero della sua particolare stima per Brando – interprete autonomo, come lui, del “metodo” – nata già alla metà degli anni Cinquanta, quando viene invitato da Kazan ad assistere alle prove teatrali di Un tram che si chiama desiderio: «Il più grande attore del Novecento resta Marlon Brando. Marlon ha portato avanti una sorta di rivoluzione teatrale nei confronti della tradizione britannica, dove predomina un’ottima pronuncia e un’eccellente imitazione; né Piscator né Strasberg si sono assunti la responsabilità di realizzare una rivoluzione sulla scena. È stato Brando che, di fatto, ha avuto il coraggio di rischiare»63. Proprio il lavoro di ricerca sul personaggio di Calder, realizzato in stretta collaborazione con Brando, appare uno dei segni più genuinamente penniani all’interno di La caccia. E benché certi azzardi interpretativi dell’attore e certe sue divagazioni dalla “lettera” del testo, suggeriti dal gioco dell’improvvisazione molto caro a regista e attore, siano stati in parte narcotizzati dal final-cut di Spiegel, la figura dello sceriffo s’impone, per complessità e ricchezza di sfumature, su tutto il film; Calder, del resto, è l’unico personaggio che intraprende un vero percorso di conoscenza e maturazione lungo l’interminabile sabato notte attorno al quale si concentra il crescendo dell’azione. Molte altre trame si rivelano, molti altri personaggi escono allo scoperto, ma tutto è destinato a tornare come prima appena smaltita la sbornia della sera precedente, come lasciano intendere le panoramiche conclusive sulla città deserta nell’alba della domenica. Calder, invece, alla fine se ne va, dando seguito a un desiderio sopito, quello di tornare alla campagna da cui proviene (alla natura e alla sua natura), al lavoro nei campi e a una condizione “fertile”. Il simbolismo, tra le mani della Hellman, si spreca: Calder e la moglie Ruby (Angie Dickinson) non hanno figli perché il primo non vuole far crescere dei bambini “sopra una prigione” e in una città come Terrell, 63. A. Penn, Prefazione a A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., p. 12.

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dove sembrano tutti impazziti, «hanno il cervello vuoto e non hanno mai letto un libro». La casa di Calder è infatti ospitata al primo piano della centrale di polizia affacciata sulla piazza del paese, e la contiguità dei due spazi, interrotta soltanto dal legno fragile di una porta, la dice lunga sulla condizione del personaggio, che sarebbe già altrove se non avesse bisogno di racimolare il denaro necessario a ricomprare la fattoria del padre (rifiuta infatti le ricorrenti offerte, di soldi e di terra, di Val Rogers, il “padrone” della città). La dice lunga, anche, sulla rimozione (o marcescenza) del lato umano dei personaggi, e sulla loro coincidenza con il ruolo. E questo vale anche per gli altri, soprattutto per gli altri: per lo spietato e mellifluo Val (E.G. Marshall); per Bubber Reeves (Robert Redford), destinato alla colpevolezza contro ogni prova di innocenza, una figura quasi hitchcockiana «che sa che tutto è andato storto ma non riesce a capire perché», la cui parziale colpevolezza serve a Penn per mettere in luce la totale assenza di innocenza dei suoi inseguitori; per Lester (Joel Fluellen), che è nero e per questo inevitabilmente armato, irrispettoso e pericoloso… La condizione di atemporalità in cui galleggia il film, complice la dilatazione temporale dell’azione e la bellissima fotografia iperrealista di LaShelle (che in modo analogo aveva illuminato il sud faulkneriano di La lunga estate calda [The Long Hot Summer, M. Ritt, 1958]), deriva in buona parte proprio da questo appiattimento dei personaggi nel ruolo, al limite delle stereotipo e del tic, e dalla mano pesante, e per niente complice, con cui la sceneggiatura li caratterizza: per sommi e sgradevoli capi, insistendo soprattutto sui quei risvolti violenti, potenzialmente assassini e bellicosi che finiscono per imparentare uomini e donne, giovani e vecchi, ubriaconi armati e placidi vecchietti (come l’affarista-strozzino che fiuta le disgrazie altrui, in cerca di qualche vantaggio economico). E senza lasciar nulla all’immaginazione, Penn, dopo aver raccontato la miseria umana dei petrolieri invitati dai Rogers per il compleanno del capofamiglia assieme alle loro mogli stupide e volgari, passa a descrivere il divertimento in corso a casa di Ed e Emily Stewart (Robert Duvall e Janice Rule), stabilendo un’analogia che azzera le differenze di ceto e rende tutti uguali e ugualmente bestiali. Qui, nella middle-class, si è solo un po’ più espliciti e scostumati: a un certo punto Emily, amante non troppo segreta di un collega del marito, Damon Fuller (Richard Bradford), guida gli amici in un’orgia di follia e disperazione e, affondata 127

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la coscienza nell’alcol e portati dal ritmo frenetico della musica, tutti insieme inscenano una performance liberatoria, impugnando delle armi immaginarie e simulando una violenta guerra domestica destinata a prolungarsi nella piccola guerra civile che scoppierà di lì a poco (vedi inserto p. 7). Ripensato oggi, in effetti, il valore di La caccia non risiede tanto nella critica sociale indirizzata alla mentalità e alla cultura del sud degli Stati Uniti, e particolarmente al suo decifit di civiltà e al suo inestirpabile razzismo. Degli Stati Uniti – di tutti gli Stati Uniti –, negli anni dell’escalation della guerra in Vietnam, il film documenta piuttosto la deriva civile e il risveglio incosciente o la sopravvivenza inconsapevole e normalizzata di quell’ethos guerriero che rappresenta l’ingrediente essenziale della “socialità” americana, in qualsiasi tempo e luogo; e più che del pamphlet politico o ideologico, La caccia ha le sembianze e la struttura di un war movie, il primo e il più riuscito della filmografia di Penn. Il quale, da sempre solidale con i movimenti pacifisti e non solo, sfuggendo ancora una volta il cinema militante o il film di propaganda, approfitta del teatro crudele e claustrofobico concepito assieme alla Hellman e a Foote per riflettere l’immagine contemporanea di una nazione (ri)posseduta, per l’ennesima volta, da quello spirito violento e omicida, culturalmente elaborato in chiave positiva e progressista, tra la predestinazione e la missione civilizzatrice, all’origine della civiltà statunitense; la pistola, vera o simulata, ne è l’effige onnipresente, il simbolo e la sintesi, una protesi e un vessillo identitario, sottoposta nel film a un’ampiezza di significazioni che eccedono di gran lunga il suo valore d’uso. L’habitus ideologico e comportamentale dei cittadini di Terrell possiede il potere simbolico di rimandare l’immagine antica e originaria di una gunfighter nation, riflettendosi in una serie di emblematici comportamenti microsociali: l’uso deideologizzato e quotidiano della violenza, l’istinto della caccia (all’uomo), la legge su misura, la predominanza di una logica della vendetta (privata), il mantenimento delle differenze razziali e sociali a vantaggio dei bianchi e dei ricchi, la sostituzione del valore della giustizia con la legge della forza e del potere... Il male, nell’America in miniatura di Terrell, affonda radici profonde, non è né un semplice prodotto della società capitalistica né una dannazione inconsapevole, che renderebbe tutti, a ben vedere, innocenti: la violenza, al contrario, si riscopre compromessa con l’origine e il sacro, e fondata sul sacrificio rituale. 128

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Calder è l’unico in grado di cogliere la distorsione al di sotto di questi comportamenti, tanto diffusi da risultare del tutto normali e generazionalmente trasversali, come rivela la continuità stabilita dal regime di “festa” del sabato sera, che riunisce a distanza non soltanto gli anziani invitati da Val e le giovani coppie riunite da Ed, ma anche gli adolescenti nella casa di fronte. Calder non vi partecipa; Calder sa, capisce e vede: vedere meglio o diversamente è il marchio di tutti gli anti-eroi penniani, simbolo della loro maggiore consapevolezza e complessità, e non bisogna attendere molto prima che essi si ritrovino a dover scontare in qualche modo, come dei martiri o degli alieni inaccettabili, questo dono innato o prodotto da circostanze particolari – che va dallo stravedere di Billy the Kid all’ipervedere di Mickey One, dal vedere più ampio del protagonista di Piccolo grande uomo a quello, “resuscitato”, di Annie Sullivan, da quello ossessivo del Clayton di Missouri a quello politico dello Strydom di Urla dal buio. Calder è un soggetto estraneo e problematico, e rovescia all’esterno la critica svelata dalla sua diversità inassimilabile: la manifesta continuamente, anche se involontariamente, ogni volta che rivolge lo sguardo e la parola ai suoi concittadini, e ogni volta che rifiuta (perché gli è impossibile accettare) le generose offerte di Val Rogers, che governa la terra (attraverso una teoria di insegne) e il cielo (dove il suo nome si accende come una costellazione durante la festa di compleanno) e che vorrebbe addomesticare Calder e appropriarsene, colmando al tempo stesso una ferita personale. Calder somiglia infatti al figlio che Val non ha, e che egli un po’ paradossalmente, nonostante tutto, desidera, più consapevole di altri della necessità di una “cura”. In quello legittimo, Jack (James Fox), infelicemente sposato alla moglie “secondo contratto” e amante di Anna (Jane Fonda), privo di valori e ideali, Val vede infatti rispecchiato non soltanto un fallimento personale ma anche la traccia di una depravazione generale e di una condanna di sapore biblico alla sterilità, reale e simbolica; Calder rappresenta al contrario la possibilità di una nuova generazione e di una nuova “specie”. E non è certo per semplice filantropia che Val progetta per la “sua” città un college a lui intitolato: ciò che desidera è non far scappare altri giovani e non perdere altri “figli”, come lui ha perso, per sempre, il suo. Ma il progetto ha il sapore dell’endogamia sociale e riflette una volta di più la condizione terminale e la follia reazionaria degli abitanti di Terrell. 129

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Calder galleggia agli estremi di questo universo autoriferito, solo formalmente incaricato del ruolo di sceriffo; quando si tratta di fare davvero giustizia, il suo distintivo non vale nulla. E, simbolicamente, per toglierlo di mezzo gli verranno chiusi gli occhi. L’esito del pestaggio ai danni di Calder viene sintetizzato da Penn nella forma di una ferita agli occhi, alla loro capacità di vedere chiaramente: quando, insanguinato e barcollante, esce dalla stazione di polizia per recarsi al deposito di macchine dove si nasconde Bubber (ormai ridotto alla misura animale di una possibile preda), Calder scruta la folla ma le sue soggettive sono opache e la messa a fuoco è resa difficile dal gonfiore e dal sangue (vedi inserto p. 7). Chiudere gli occhi allo sceriffo, più che disarmarlo, ossia annullare la sua minacciosa capacità di vedere e prevedere, capire e conoscere, è il vero obiettivo di Damon e dei suoi due amici, che per tutta la notte si sono trovati Calder tra le scatole, proprio nel momento in cui si preparavano a spianare le pistole e a sfogare una rabbia che non ha bisogno di ragioni, “invasati” dalle danze a casa degli Stewart. Il correlato oggettivo della stereoscopia, visiva e morale, dello sceriffo, è infatti una proprietà narratologica tipica degli eroi, vale a dire la possibilità di abitare tutti gli spazi della scena e di attraversare liberamente le soglie che la delimitano e segmentano64; non appartenendo a un luogo in particolare, egli può abitarli e conoscerli tutti. Calder si rivela così l’unico elemento mobile del film, e questa mobilità, oltre a rimarcare l’autonomia del personaggio, la sua tridimensionalità e la sua condizione di non appartenenza, funziona da collante tra gli spazi non comunicanti della piccola città di Terrell. Le soglie si sbriciolano soltanto in occasione del baccanale finale, una delle sequenze più belle e complesse di tutto il cinema di Penn, ambientata (per volere del regista) in un cimitero di macchine molto simile a quello da cui partiva e a cui tornava l’avventura di Mickey One, e che possiede qui lo stesso valore simbolico che aveva in quel film. Tutti i cittadini di Terrell convergono verso il luogo della caccia ai danni di Bubber, metà mostro e metà leggenda, il cui nome viene intonato dalle ragazzine con un sentimento misto di eccitazione e paura, mentre gli uomini cercano di stanarlo dando fuoco alle carcasse delle automobili. E l’episodio si trasforma, nel rispetto della traccia clas64. Cfr. J.M. Lotman, B.A. Uspenskij, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano 2001, cap. II.

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sica su cui si regge il testo, in un momento di agnizione: Bubber riabbraccia Anna, la moglie, a due anni di distanza, ritrova l’amico Jake e scopre la loro relazione; ma l’agnizione più vera e commovente, che chiude un altro tema classicamente penniano rimasto fino a quel momento sullo sfondo, vale a dire quello dei rapporti tra padri e figli, intercorre tra Jack, ferito a morte, e Val, che è l’unico a essere accorso non per cacciare Bubber ma, in controtendenza, per facilitargli la fuga e salvare così il figlio. Per la prima volta, Val sembra davvero capire Jack, e nella sua morte riconosce la propria colpa: è un’agnizione a specchio, in cui Jack, rivelando i propri desideri (che includono l’amore per Anna e una vita diversa, come aveva tentato di realizzare frequentando il college lontano da casa), rimanda al padre la verità di un rapporto rimasto fino a quel momento incompiuto a causa dalle esigenze degli affari, della convenienza sociale, del peso del denaro e del buon nome della famiglia. La doppia morte su cui si chiude il film, quella di Jack e quella di Bubber, ucciso a colpi di pistola da uno sconosciuto appena prima che Calder possa metterlo al sicuro dietro le sbarre65, s’impone, non diversamente da quelle altrettanto “rituali” di Billy e di Bonnie e Clyde, come l’effige di una tragedia laica che si consuma non a caso appena fuori del “tribunale” della legge, lasciando a terra due corpi innocenti. Se infatti c’è qualcuno di innocente nel film, questo, in modo tipicamente penniano, è proprio il “colpevole”, ossia Bubber. E con lui, e per ragioni simili, sono “colpevoli innocenti” anche Jack e Anna: tutti e tre possiedono l’innocenza di figli in fuga, per istinto o calcolo, e di ribelli senza causa, più insofferenti che consapevolmente protestatari, soffocati da un ordine che sono incapaci di scalfire (Jack), impossibilitati a modificare (Anna, che per potersene andare ha bisogno dei soldi del patrigno ed è vittima delle indecisioni dell’amante) o condotti fatalmente a contraddire nel modo sbagliato (Bubber). Queste tre figure di giovani inadatti o border-line, più che ribelli in senso pieno, non guardano avanti, anticipando il mito del ribellismo giovanile del nuovo cinema hollywoodiano, ma si volgono indietro, a incontrare idealmente certe figure di disadattati del cinema degli anni Cinquanta e dei primi anni Sessanta, dal figlio in cerca di un padre e una madre di La valle dell’Eden (East fo 65. Molti hanno letto nell’episodio una citazione dell’omicidio di Lee Harvey Oswald, l’assassino di John Kennedy, per mano di Jack Ruby.

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Eden, E. Kazan, 1955) al barman-aspirante attore-gigolò di La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth, M. Ritt, 1962), passando per gli innamorati in tempo di depressione di Splendore nell’erba (Splendor in the Grass, E. Kazan, 1961) e gli eroi del sud senza più epica di McMurtry (Hud il selvaggio [Hud, M. Ritt, 1963]) o di La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof, R. Brooks, 1958). In tutti questi film, come in La caccia, compaiono figure di giovani, uomini e donne, vittime di un disagio o di un malessere che in futuro diventerà (anche) generazionale, sboccerà in una coscienza tutta nuova e avrà a portata di mano una soluzione “progressista”, ma che per ora è soltanto una questione privata e una condizione colpevole, irredimibile se non attraverso la morte, l’umiliazione definitiva, l’emarginazione o la sconfitta senza appello: la società è già rappresentata «come moralmente corrotta, il luogo di una cultura ipocrita e noncurante, ma le soluzioni alternative sono in genere formulate nei termini di una salvezza personale piuttosto che politica»66. E non è un caso che nei film citati, come in La caccia, la tragedia alligni volentieri sullo sfondo del sistema patriarcale delle grandi famiglie sudiste di agricoltori o neo-capitalisti, tra i campi di cotone e le trivelle dei giacimenti di petrolio, e nelle società chiuse di città e paesi in cui non soffia alcuno spiraglio di novità, come se non vi fosse altro tempo se non quello “bloccato” della tragedia stessa. La “novità” si risolve per ora in un attrito generazionale tra padri e figli, e assume la forma di una diversità colpevole e di un’insofferenza incurabile: così, per esempio, la deviazione dalla norma di Bubber è ricondotta dalla madre a un problema “educativo”: «Ho riflettuto moltissimo. Dove ho sbagliato? Altre persone avevano ragazzi difficili… Ma tutti hanno superato le loro meschinità giovanili. Dove ho sbagliato io?». Anche per questo, La caccia possiede un notevole fascino retrò, e più che un film della seconda metà degli anni Sessanta e l’antecedente (almeno cronologico) di Gangster Story, ne sembra piuttosto una specie di progenitore lontano, così come i giovani puliti e appena un po’ spettinati di Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, N. Ray, 1955) sono una lontana anche se per certi versi diretta origine di quelli definitivamente affran66. A. Simon, La struttura narrativa del cinema americano, 1960-1980, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, tomo II, Einaudi, Torino 2000, p. 1655.

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cati e on the road di Easy Rider (Id., D. Hopper, 1969) o di quelli, laconici e apolitici, di Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop, M. Hellman, 1971). Penn, del resto, non è mai stato un alleato del giovanilismo controculturale dell’epoca (come prova esemplarmente Alice’s Restaurant), e di quel periodo, non foss’altro per ragioni anagrafiche, coglie soprattutto, nel momento stesso in cui si realizza, la portata universale delle fratture generazionali, ideologiche e culturali alla base dell’emersione del nuovo. Anche dal punto di vista strutturale, La caccia sembra appartenere a una stagione del cinema americano ancora lontana dal rinnovamento delle strutture del racconto promosso dai registi della New Hollywood, e la sua solidità drammaturgica contrasta non poco sia con la scrittura libera e soggettiva del precedente Mickey One, sia con le spezzature ritmiche e il deciso sperimentalismo visivo del successivo Gangster Story. Al suo debutto nell’uso del cinemascope, tuttavia, Penn (che lo impiegherà soltanto un’altra volta per Piccolo grande uomo) si rivela già capace di intendere in senso moderno il formato, trasformandolo in una lente di ingrandimento per lo studio dei personaggi e in uno spazio virtualmente totale nel racconto della città – rafforzando così il dialogo-contrasto tra singolo e collettività, identità soggettiva e pluralità anonima; ma la struttura complessiva del film, fondata su un crescendo continuo che culmina in un’esplosione finale (che a Prédal ricorda l’andamento de Gli uccelli [The Birds, A. Hitchcock, 1963])67, con una prima parte di lenta preparazione e scavo nelle vite dei personaggi e nelle trame di Terrell, e una lunga sequenza finale verso cui tutto converge, deve molto al turgore e all’esasperazione tipicamente melodrammatici del cinema classico, a cui si sovrappone la lezione di Tennesse Williams e del suo psicologismo; e forse, per il finale, Penn si ricorda di L’asso nella manica di Billy Wilder (Ace in the Hole, 1951)68. L’unità di tempo, azione e luogo viene però dritta dal teatro antico. 67. R. Prédal, La porsuite impitoyable, «Jeune Cinéma», n. 18, novembre 1966. 68. A proposito di Billy Wilder, Sandro Zambetti, recensendo il film su «Cineforum» (n. 63, marzo 1967), fa intelligentemente notare la somiglianza dell’azione di La caccia con il “sabato del villaggio” di Baciami stupido (Kiss me Stupid!, 1964), «la più feroce demistificazione della “sana” vita di provincia».

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Nonostante questa struttura monumentale che qualche critico ha malignamente definito alla Peyton Place (ma il romanzo della Metalious è ambientato a Nord) non è tuttavia difficile scorgere ne La caccia il tipico “levare” narrativo di Penn, in cui la violenza si realizza, esplodendo in chiave melodrammatica, come estensione del conflitto narrativo: di questa estensione La caccia è una specie di film teorico, in cui, appena al di sotto della levigata superficie iperrealista della messa in scena, si mostra il diagramma essenziale, tra western (c’è chi ha evocato Mezzogiorno di fuoco [High Noon, F. Zinnemann, 1952] per il finale) e war movie, di un’opposizione netta, insolubile e concettualmente bellicosa tra tutti gli elementi in gioco. Penn, del resto, non è un creatore di contrasti: ne è piuttosto, come rivela anche Anna dei miracoli, uno straordinario scopritore; non usa mai il racconto per inscenare il conflitto ma, da vero cineasta moderno, estrae dalla superficie della realtà la natura violenta dei meccanismi profondi che la regolano, rivelando ed estendendo tale violenza attraverso la narrazione; l’obiettivo finale è sempre “civile”: stanare i conflitti che governano la cultura americana. E se i suoi film, nessuno escluso, non finiscono mai nel e col duello a cui pure tendono, non vi si risolvono né semplificano, è proprio perché Penn non si accontenta di impiegare il conflitto come semplice strategia di articolazione narrativa o morale, come lievito del racconto: il conflitto e la sua deflagrazione violenta rappresentano, in sé, l’attitudine più sintomatica dell’essere umano, di cui la caccia è il modello di comportamento archetipico.

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Eravamo nella guerra in Vietnam, e questo film [Gangster Story] non poteva essere immacolato e “disinfettato”. Doveva essere dannatamente sanguinoso.

«Realizzando Gangster Story non ci siamo resi conto che si trattava dell’inizio di un’epoca di liberazione dagli studios, sia in termini di soggetti, sia in rapporto ai film che avremmo potuto fare. […] E tutti i nuovi film nati all’epoca non sarebbero stati fatti se Gangster Story non avesse ottenuto successo»1. Dopo aver mandato al diavolo Hollywood per la seconda volta, Penn, come anticipato, torna al teatro con Wait Until Dark e The Skin of Our Teeth, ottenendo un notevole successo di critica e di pubblico. Il legame col cinema, tuttavia, non s’interrompe completamente: su invito del dean della School of Art and Architecture di Yale, Penn accetta di insegnare in un corso postlaurea, un pomeriggio la settimana, di fronte a una classe di sei persone. Si tratta di un’esperienza nuova e curiosa, non facile ma estremamente produttiva, che a poco a poco alimenta nel regista il desiderio di tornare dietro la macchina da presa: «Lentamente stavo sviluppando la voglia di strappar fuori un film dal caos dei miei sentimenti. E appena finito l’anno di insegnamento, Warren Beatty mi chiamò per Gangster Story»2. Solo l’insistenza dell’attore, unita alla profonda amicizia che lega i due fin dai tempi di Mickey One, riesce però a convincere definitivamente Penn a riprendere il progetto di Gangster Story, accantonato qualche anno prima perché la storia, il genere e il profilo dei personaggi – due teppistelli armati troppo attenti ad autopubblicizzarsi – non lo avevano 1. A. Penn, Song of the Open Road, «Sight and Sound», agosto 1999. 2. A. Penn, Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde, in L.D. Friedman (a cura di), Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, cit., p. 17.

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convinto; più di tutto, però, lo aveva infastidito l’eccessiva importanza attribuita alla bisessualità di Clyde. Le cronache d’epoca relative alla vita del bandito originario del Texas, alla base della sceneggiatura di Robert Benton e David Newman3, riportano infatti che egli non disdegnasse di coinvolgere un terzo (scegliendolo di volta in volta tra gli autisti della gang) nella sua relazione con Bonnie, allo scopo di riuscire a “funzionare” sessualmente4. Fin dalla prima stesura, Benton e Newman (che all’inizio degli anni Sessanta lavorano a Esquire rispettivamente come art director e editor, sono dei cinefili sfegatati e non hanno mai scritto una sceneggiatura) decidono di valorizzare questo aspetto, unificando i tanti amanti di una notte in un unico personaggio, C.W. Moss (immaginato come un «dumb stud, simple and sweet»5, tutto il contrario dell’attore che l’avrebbe interpretato, Michael J. Pollard), e facendo del triangolo amoroso uno dei fuochi del racconto, convinti del suo potere rivoluzionario e avant-garde. L’obiettivo dei due autori è infatti di “scandalizzare” la mentalità borghese, trasformando due semplici rapinatori di banche in “aesthetic 3. L’impianto storico dello script di Benton e Newman deriva in larga parte da The Dillinger Days, pubblicato nel 1963 da Jonh Toland e tradotto in italiano nel 1965 per la Longanesi (I giorni di Dillinger). Al canovaccio offerto dal volume, i due sceneggiatori hanno poi aggiunto numerosi altri dettagli, consultando la stampa dell’epoca e recandosi in Texas, dove la memoria delle gesta dei due banditi era, al tempo, ancora molto viva e già ampiamente mitizzata. 4. Un’eco del triangolo sessuale, più che amoroso, disegnato da Bonnie, Clyde e C.W. Moss si trova in una delle scene tagliate dal montaggio finale, e oggi visibili negli extra della special edition pubblicata in occasione dei quarant’anni del film, assieme al documentario Love and Death. The Story of Bonnie and Clyde prodotto da History Channel. La scena in questione ha per protagonisti Moss, a mollo nella vasca da bagno, Bonnie, che canticchia il motivetto di The Gold Diggers appena udito al cinema, e il cappello di Clyde, con cui la ragazza scherza seduttivamente, prima di abbandonarlo su una sedia per accarezzare Moss. Ma il gioco ha un andamento confuso e animalesco, Moss reagisce spaventato, Bonnie sembra non sapere bene che cosa desidera davvero. La scena restituisce chiaramente la dolorosa scissione di cui è vittima la ragazza: Moss rappresenta infatti l’elemento sessuale (e sessuato), Clyde quello amoroso; senza il primo, il secondo resta confinato in uno spazio ideale che a poco a poco sconvolge l’emotività di Bonnie. 5. D. Newman, R. Benton, Lightning in a Bottle, in S. Wake, N. Hayden (a cura di), The Bonnie and Clyde Book, Lorrimer, London 1972, p. 28.

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revolutionaries”, interpreti della sensibilità anarchica, romantica e innovatrice dei giovani degli anni Sessanta; il gesto che meglio descrive questa loro attitudine sarebbe, secondo gli sceneggiatori, il tatuaggio “hippie” con cui, a un certo punto, marchiano Moss: il volto di una donna circondato da due uccellini e dalla scritta love6 (vedi inserto p. 8). E in effetti, alla fine del film, quando il ragazzo si rifugia assieme ai due gangster feriti presso la casa del padre, quest’ultimo è più infastidito dal grande tatuaggio che gli copre il ventre che non dalla sua svolta criminale (gli rimprovera anzi di non essere diventato un bandito di successo: il suo nome, gli fa notare con disprezzo, non figura mai sui giornali). Dietro questa impostazione si riconosce facilmente l’influenza del mood di un film molto amato da Benton e Newman, il “triangolare” Jules e Jim7 (amato, tra l’altro, anche per la sua capacità di evocare il presente raccontando il passato), mentre Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, 1960), con la sua originalissima mescolanza di dramma e commedia, gangsterismo e umanità, violenza e dolcezza, ispira loro la combinazione azzardata di registri espressivi apparentemente inconciliabili. Non sorprende dunque scoprire che la sceneggiatura di Gangster Story venga scritta da Benton e Newman pensando proprio a Truffaut come al regista ideale per dirigerla; seriamente interessato, il francese valuta per qualche tempo la possibilità, ma è poi costretto a declinare l’offerta, essendo già 6. «Se Bonnie e Clyde fossero qui oggi, sarebbero stati “hip”. I loro valori sono stati assimilati nella nostra cultura – non certo il derubare banche o l’ammazzare persone, ma il loro stile, la loro sessualità, la loro bravado, la loro delicatezza, la loro colta arroganza, la loro insicurezza narcisistica…» (Ivi, p. 19). 7. Benton ricorda che «tutto il tempo, dovunque andassimo, la sola cosa di cui parlavamo io e Newman era il cinema. In due mesi, ho visto Jules e Jim dodici volte», in P. Biskind, Easy Riders, Raging Bulls. How the Sex-Drugs-and-Rock’n’Roll Generation Saved Hollywood, Simon & Schuster, New York 1999, p. 26. Accanto al film di Truffaut, l’altro (prevedibile) “testo di riferimento” dei due sceneggiatori in erba è Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle, 1959) di Jean-Luc Godard. In perfetto clima “politica degli autori”, poi, non stupisce scoprire che l’ultimo, determinante stimolo verso la decisione di cimentarsi nella scrittura di una sceneggiatura sia derivato dalla visione di una retrospettiva dedicata dal MOMA ad Alfred Hitchcock nel 1964 (Cfr. D. Newman, R. Benton, Lightning in a Bottle, cit., pp. 13-30).

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in pre-produzione con Fahrenheit 451 (Id., 1966)8. Chiede comunque delle modifiche e offre dei suggerimenti e, una volta ricevuta la seconda versione dello script, consiglia ai due di rivolgersi a Godard, l’altro regista europeo di cui Benton e Newman conoscono i film a memoria. Ma l’incontro con la produzione si rivela fallimentare, e quando Godard, che nel mese successivo ha già in programma le riprese di Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, 1965), dichiara di voler realizzare Gangster Story subito, in tre settimane, dovunque (anche a Tokyo, dato che le condizioni meteorologiche in Texas non sono favorevoli), la produzione chiude ogni discorso e congeda il regista, che riparte da New York di lì a un’ora9. Qualche tempo dopo (Benton e Newman, nel frattempo, esordiscono trionfalmente a Broadway col musical It’s a bird… It’s a Plane… It’s Superman, in scena dal marzo al luglio del 1966), torna a farsi sentire Truffaut, adesso disponibile, ma il “pacchetto” di Gangster Story, inviato a tutte le grandi e piccole major (con la sola eccezione di quella che l’avrebbe finanziato, la Warner), viene seccamente rifiutato, in parte proprio a causa della presenza di un “inaffidabile” regista francese. Finché, per l’appunto, non interviene Warren Beatty, informato del progetto proprio da Truffaut, dal quale si reca nel 1966 per proporgli un film su Edith Piaf: alla ricerca di un personaggio capace di lanciarlo definitivamente nell’empireo delle grandi star dopo i mediocri Spogliarello per una vedova (Promise Her Anything, A. Hiller, 1965) e La truffa che piaceva a Scotland Yard (Kaleidoscope, J. Smight, 1966), e di un film col quale dimostrare di essere bravo, oltre che attraente – il modello, suo e di una generazione, è Marlon Brando – Beatty te8. Benton e Newman raccontano che Truffaut passò tre giorni con loro, a New York (l’ultimo giorno arrivò anche Godard), a discutere della sceneggiatura, offrendo numerosi spunti, in alcuni casi rimasti nel film girato da Penn: per esempio, è del regista francese l’idea di articolare la sequenza in cui Bonnie legge il “loro” poema passando, senza soluzione di continuità temporale, dal taccuino della ragazza al volto di Hamer, che lo legge già stampato sul giornale (Ivi, pp. 20 s.). 9. La coppia di banditi in fuga di Gangster Story avrebbe costituito, nel 1965, il canovaccio di Il bandito delle ore undici (Pierrot le fou), in cui il riferimento alla cronaca (il “vero” bandito Pierre Carrot) si mescola, com’è normale per Godard, a riferimenti al cinema americano e alla letteratura e al teatro romantici. Cfr. A. Farassino, Jean-Luc Godard, Il Castoro, Milano 2002, pp. 69 s.

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lefona immediatamente a Benton, passa a ritirare la sceneggiatura dopo un quarto d’ora e l’indomani decide di produrre il film. E a dirigerlo chiama Arthur Penn. La revisione del copione – in cui Beatty coinvolge lo “script doctor” Robert Towne (non accreditato, come non lo sarà per Missouri) – ruota essenzialmente attorno al motivo centrale della sceneggiatura originale, quello del ménage à trois. L’attore vi vede una minaccia alla propria virilità, mentre Penn considera la bisessualità di Clyde un elemento pericoloso e deviante: enfatizzandola, si corre il rischio di appiattire la figura del ragazzo, subordinandone sentimenti e azioni a una “diversità” pruriginosa; così, per mantenere vive le difficoltà del rapporto tra i due banditi e le forti tensioni prodotte dai problemi sessuali di Clyde, si sceglie, per esclusione, la strada della più prosaica (ma al tempo stesso “virile”) impotenza. In accordo con un’immagine del periodo al tempo stesso reale e stereotipata e consapevolmente semplicistica, Penn pensa infatti ai rapinatori di banche della Grande Depressione come a dei country folk, agricoltori o allevatori, zotici e analfabeti; e pensa a quegli anni – che ha vissuto, anche se di striscio – come a un sistema “dickensiano” e per l’esattezza “scoorgiano”, alimentato dal potere anonimo delle banche e delle istituzioni finanziarie (che nel film sono insegne e cartelli puntualmente forati dai proiettili di Clyde) ai danni di agricoltori e piccoli commercianti, costretti, prima o poi, a cedere le loro proprietà, stretti nella morsa dei debiti e delle ipoteche. Una dinamica rapace anticipata dallo strozzino di La caccia, che attende, come un avvoltoio, il fallimento dei poveri a cui presta denaro ad alti tassi di interesse; una dinamica dalle conseguenze inevitabili: «A un certo punto, il risentimento contro l’establishment e i suoi bastioni economici esplose. Per gli agricoltori senza più casa e per i loro figli fu un passo tutto sommato breve imbracciare alcune delle molte armi che avevano a disposizione e puntarle contro i depositi in cui erano custoditi, secondo loro, i soldi»10. «Era da questa prospettiva consapevolmente semplicistica che volevo vedere il film. Naïf e fondati su relazioni emozionalmente povere, era così che volevo descrivere i caratteri. Benton e Newman erano d’accordo con me che le sottigliezze 10. A. Penn, Making Waves. The directing of Bonnie and Clyde, cit., pp. 17 s.

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sessuali presenti nello script originale non avrebbero contribuito utilmente al film che adesso intendevamo realizzare. Parlammo e ci muovemmo in direzione di un racconto più semplice, un racconto di narcisismo, di ribellione e, almeno per quanto riguarda Clyde, di timidezza sessuale. I nostri discorsi erano estremamente divertenti e precisi. E mi hanno istillato un ancor più grande fiducia e entusiasmo nei confronti del film. Come un ragazzo ai tempi della Grande Depressione, avevo sviluppato una certa simpatia per quelle persone che resistevano alle circostanze prevalenti nel loro paese. La mia famiglia, divorziata, era povera, molto povera. Nella mia percezione di bambino c’era la sensazione che ciò che osservavo della nostra vita americana fosse ingiusto»11.

Nelle mani di Penn e Beatty, la vicenda di Gangster Story perde insomma un po’ dell’allure europea e cinefila della sceneggiatura originale per richiamarsi più direttamente alla storia americana e alla sua morale, alla semplicità dei fatti, all’essenzialità degli eventi e al clima della Depressione (pur senza occultare il riferimento al presente). Lo dimostra bene una delle scene iniziali, aggiunta ex novo dallo stesso Penn, in cui Bonnie e Clyde incontrano degli agricoltori ridotti in miseria e prestano loro le pistole per sfondare i vetri della casa “rubatagli” dalla banca. Assieme a Robert Towne, poi, il regista interviene in modo significativo sulla parte centrale dello script, spostando, tra le altre cose, la sequenza dell’incontro con Velma e Eugene (interpretato da Gene Wilder, al suo debutto cinematografico dopo qualche ruolo televisivo) prima della riunione famigliare di Bonnie: in questo modo, il desiderio della ragazza di riabbracciare la madre appare motivato non soltanto da un malessere generale (causato dal rapporto insoddisfacente con Clyde, dall’insofferenza per Blanche, dall’ironia di Buck verso i suoi tentativi di scrittrice) ma, più concretamente, dal sinistro presagio incarnato dall’undertaken Eugene e da una più precisa consapevolezza della fine tragica che accompagna fatalmente la sua decisione di vivere la vita di un gangster. Consapevolezza resa ancor più dolorosa proprio dalle parole della madre nel suo dialogo con Clyde, anch’esso riscritto da Towne: il ragazzo rassicura l’anziana donna, dicendole che si occuperà di sua figlia e promettendole che, grazie al denaro accumulato, presto si trasferiranno a vivere accanto a lei. Ma la madre taglia corto: «Se farai questo, non vivrai a lungo». Bonnie ammutoli11. Ibidem.

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sce, voltandosi verso Clyde; anch’egli tace. Il presagio della morte si fa più netto, assieme alla coscienza della solitudine e dell’incessante vagare associati ai ruoli che hanno scelto; nessuna possibilità di una “casa” o di un ritorno alla vita precedente: nel film, come del resto nella realtà storica, Bonnie e Clyde sono destinati a vivere in macchina, sulla strada, in un perenne movimento di fuga. In molti altri casi, poi, Towne si trova a fare da intermediario se non proprio da paciere tra Penn e Beatty, che pretendono di discutere insieme ogni minimo aspetto della sceneggiatura, continuando poi sul set (impiantato in un piccolo paesino del Texas visitato in gioventù da Benton), dove prima di ogni ciak lo scambio di opinioni si fa spesso lungo e acceso. Ma su un aspetto sono tutti e subito d’accordo: la violenza del film deve essere scioccante. «C’era una regola non scritta per cui non si poteva sparare e vedere la persona colpita dallo sparo nella stessa inquadratura; tra i due momenti ci doveva essere un taglio. Ci dicemmo che non dovevamo ripetere quello che gli studios avevano fatto per così tanto tempo»12. La regola è subito infranta – a mo’ di manifesto – nel corso della prima rapina, quando Clyde, dalla macchina in fuga, spara a uno dei banchieri: la sua mano, la pistola e il volto raggiunto dal proiettile coabitano nella stessa inquadratura, disegnano una geometria scioccante mentre esplode sullo schermo il rosso del sangue e gli occhiali della vittima vanno in frantumi13 (vedi inserto p. 8). Guardando a questo primo episodio “violento”, poi, non è difficile capire perché Penn abbia scelto di girare Gangster Story a colori (la Warner aveva inizialmente valutato la possibilità del bianco e nero): oltre a scongiurare qualsiasi effetto remake o documentario – Penn, fin dall’inizio, intende fare un film “sull’oggi” – il colore contribuisce a rendere la violenza più reale e efficace14. Da questo punto di vista, 12. A. Penn in P. Biskind, Easy Riders, Raging Bulls, cit., p. 35. 13. L’immagine sembra citare consapevolmente La corazzata Potëmkin (Bronenose? Potëmkin, S.M. Ejzenštejn, 1925). 14. A proposito del colore di Gangster Story: quando Bergman vide il film si espresse, com’è noto, in termini estremamente entusiastici, incoronando Penn uno dei migliori autori americani in circolazione. Aggiungendo, però, che l’unica cosa che avrebbe cambiato era, per l’appunto, il colore: «Per me i colori hanno rovinato un film come Gangster

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dunque, il regista continua la sua riflessione sulla “condizione americana”, e ai tanti critici e giornalisti che nel corso delle centinaia di interviste rilasciate dopo l’uscita di Gangster Story gli hanno chiesto il perché di tanta e tanto esplicita violenza, egli ha sempre risposto nello stesso modo (lo stesso modo con cui aveva risposto alle domande sulla violenza di Furia selvaggia e La caccia, usando le stesse argomentazioni che userà anche in seguito): «Credo che la violenza sia parte del carattere americano. È cominciato tutto con il West, con la frontiera. L’America è un paese di persone che mettono in pratica la propria visione delle cose in modo violento – non esiste una vera tradizione di persuasione, ideazione e legalità. Basta guardare alla storia: Kennedy è stato ucciso. Siamo in Vietnam, a uccidere persone e a essere uccisi. Siamo sempre stati coinvolti in una guerra in ogni momento della mia vita. I gangster sono fioriti durante la mia giovinezza, ero in guerra all’età di diciotto anni, poi c’è stata la Corea, adesso il Vietnam. Noi abbiamo una società violenta. Non è la Grecia, non è Atene, non è il Rinascimento – è la società americana, e desidero descriverla dicendo che è una società violenta. E allora, perché non fare film a proposito della violenza?»15. Tuttavia, per quanto ampiamente giustificata dalle necessità drammaturgiche del racconto e dal contesto storico, oltre che in linea con una riflessione d’autore al riparo da scandalismi e gratuità e già da tempo chiara nei suoi termini essenziali, proprio la violenza rappresentata nel film e soprattutto il modo della sua rappresentazione hanno fatto di Gangster Story il più celebre “caso” cinematografico degli anni Sessanta e, almeno in America, gran parte della stampa quotidiana ha risposto all’aggressività del film con critiche feroci. Rilevando, accanto a quello della violenza, altri “problemi” in genere coincidenti con gli elementi più innovativi del racconto e destinati a influenzare in modo determinante lo sviluppo del “nuoStory. Almeno quel film, avrebbe dovuto essere fatto in bianco e nero, in un timbro intenso, un bianco e nero magnifico». Intervista a Bergman apparsa in «Cinema & Film», n. 5-6, estate 1968, originariamente pubblicata in «Chaplin», n. 79, febbraio 1968. 15. A. Penn, Bonnie and Clyde. Private Integrity and Public Violence (From questions at a Press Conference in Montreal, 1967), in S. Wake, N. Hayden (a cura di), The Bonnie and Clyde Book, cit., pp. 9 s.

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vo” cinema americano: un’eccessiva opacità nel profilo dei personaggi, avvertiti come eccentrici e mutevoli, psicologicamente troppo lavorati, in bilico tra tragedia e commedia (per molti, Clyde è, semplicemente, uno psicopatico); la simpatia e l’affetto di cui il regista circonda i suoi eroi, quasi dimenticando che si tratta di due spietati assassini; il clima semi-favolistico e in molti casi ilare del racconto, in contrasto con la cruda realtà dei fatti; l’ambiguità della “lezione morale”…16 Per il loro valore storico e i loro effetti a lungo termine nell’ambito della critica cinematografica, le vicende legate alla ricezione americana di Gangster Story meriterebbero un capitolo a sé, e un altro dovrebbe essere consacrato all’analisi delle centinaia e centinaia di pagine dedicate al film nel corso di quarant’anni. Fin da subito, infatti, Gangster Story – al di là degli isterismi moralistici della stampa quotidiana – sollecita un interesse analitico prima d’allora raramente concesso a un film contemporaneo di produzione americana, e normalmente riservato alle opere di pochi registi europei (Bergman, Fellini, Antonioni…)17. E di nuove letture Gangster Story non ha mai smesso di produrne, rilanciato nel tempo dal mutare delle metodologie d’analisi, mentre la sua presenza costante all’interno dell’immaginario e del costume americani ha finito per imporlo come una specie di oggetto inevitabile con cui confrontarsi dai più diversi ambiti del sapere. Un interesse testimoniato, in anni recenti, dalla pubblicazione di una nuova raccolta di studi (Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, curato nel 2000 da Lester D. Friedman per la Cambridge University Press), e preconizzato da John Cawelti, che già nel 1973 dedica al film una primo volume collettaneo e una lunga e sofisticata analisi: «Nessun critico può essere sicuro di quali cambiamenti culturali trasforme16. Un florilegio del modo in cui la critica americana accoglie il film all’indomani della sua uscita si trova in chiusura a S. Wake, N. Hayden (a cura di), The Bonnie and Clyde Book, cit., il primo volume dedicato al film, non a caso edito in Inghilterra. 17. W.J. Free, Aesthetic and Moral Value in Bonnie and Clyde, «Quarterly Journal of Speech», n. 54, ottobre 1969 (ripubblicato in J.G. Cawelti [a cura di], Focus on Bonnie and Clyde, cit., pp. 99-107). Lo stesso Penn, reagendo su «Variety» alle critiche della stampa (vedi oltre), osserva che se fosse stato un regista francese, «i critici avrebbero anche potuto non amare il film, ma sicuramente avrebbero capito che cosa stavo cercando di dire» (cit. in S.A. Carr, From “Fucking Cops!” to “Fucking Media!”. Bonnie and Clyde for a Sixties America, in L.D. Friedman [a cura di], Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, cit., p. 84).

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ranno il modo in cui un’opera d’arte contemporanea è compresa e valutata, o quanto le sue preoccupazioni e attitudini personali lo spingano a sopravvalutare o a trovare un interesse eccessivo in aspetti che possono rivelarsi di valore momentaneo. Nondimeno, sono sicuro che Gangster Story è molto più che un oggetto passeggero e che sarà considerato […] come uno dei maggiori classici americani»18. L’affaire critico scatenato da Gangster Story all’indomani della sua distribuzione americana è parte integrante della sua statura di classico: perché il film, per quanto involontariamente, non si limita, come altre opere giovani e “nuove” di quegli anni, a agitare temporaneamente le acque più o meno stagnanti della critica, ma stabilisce una specie di punto di non ritorno, scavando un solco tra il vecchio e il nuovo anche per quanto riguarda il modo di parlare di cinema e la capacità degli addetti ai lavori di fiutare e sostenere la rivoluzione allora in corso nell’industria cinematografica americana. Lo testimonia esemplarmente il conflitto interno, ospitato sulle pagine del «New York Times», tra Bosley Crowther, che stronca Gangster Story senza appello, e Pauline Kael, che invece lo difende come non si era mai dovuto fare prima, incoronandolo il «più eccitante film americano dai tempi di The Manchurian Candidate»19 (Crowther avrebbe ammesso tacitamente la propria inadeguatezza nei confronti del nuovo corso dimettendosi dal giornale l’anno successivo); e lo testimonia ulteriormente il mea culpa di Joseph Morgenstern sulle pagine di Newsweek, il quale, a distanza di una settimana da una sonora stroncatura, pubblica un secondo articolo entusiastico, scusandosi con la produzione per non aver capito fin da subito che Gangster Story è «il laboratorio ideale per studiare la violenza in cui tutti siamo immersi oggi»20. Un altro e forse ancor più simbolico passaggio di consegne incrocia il destino di Gangster Story: a poche settimane dalla fine delle riprese, il “colonnello” Jack Warner, ormai settantacin18. J.G. Cawelti, The Artistic Power of Bonnie and Clyde, in Id. (a cura di), Focus on Bonnie and Clyde, cit., p. 40. 19. Contro Crowther, inoltre, si scaglia Andrew Sarris, accusando il critico (un «bigotto… che ricorre alla falsa retorica della legge e dell’ordine») di aver approfittato del suo potere per vendicarsi personalmente di regista e attore («Village Voice», 24 agosto 1967). 20. J. Morgenstern, Bonnie and Clyde, in S. Wake, N. Hayden (a cura di), The Bonnie and Clyde Book, cit., p. 218.

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quenne, annuncia la vendita della sua casa di produzione alla piccola Seven Arts Productions per quasi duecento milioni di dollari. Il canadese Eliot Hyman subentra come nuovo chief executive officer, mentre il figlio Kenny è nominato responsabile della produzione. I neo-proprietari credono fermamente nella necessità di concedere maggior controllo artistico ai registi, e lo dimostrano ingaggiando Sam Peckinpah per Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) e La ballata di Cable Hogue (The Ballad of Cable Hogue, 1970), dopo che il regista era stato virtualmente “blackballed” dagli studios a causa del suo temperamento ribelle21. La “nuova” Warner sembra dunque più adatta a accompagnare l’uscita di Gangster Story, accolto dai precedenti quadri dirigenziali con grande scetticismo, in particolare da Ben Kalmenson, capo della distribuzione, che lo trova “a piece of shit”, e dallo stesso Jack Warner, che sembra non capirlo (e del resto non avrebbe voluto produrlo), come dimostra la sua incontenibile voglia di andare al bagno... Prima che cominci la proiezione privata organizzata in giugno, subito dopo la fine del montaggio, Warner avverte infatti Penn e Beatty che «se durante il film sento il bisogno di alzarmi e fare pipì, saprete che è una schifezza». Il ricordo conservato da Penn dell’episodio merita di essere riportato per intero: «Vennero scambiate alcune brevi cortesie, e poi la proiezione cominciò. Eravamo ancora al primo dei dieci rulli che costituiscono il film quando Jack si alzò e lasciò la stanza. Ci guardammo l’un l’altro, indecisi se interrompere la proiezione oppure continuare. Continuammo. Jack tornò e si sedette. Il film cominciava a guadagnare velocità e pensavamo che ormai ne fosse in qualche modo coinvolto. Niente affatto. Si alzò di nuovo, andò a pisciare, ritornò, guardò, pisciò, tornò, pisciò, e poi il più lungo e diuretico film nella memoria umana finì. Silenzio. “Cosa diavolo è questa roba?” disse il Colonnello. Silenzio. Brevi commenti nervosi. “… diavolo è questa roba? disse di nuovo. Warren Beatty si alzò e cominciò a parlare dei grandi gangster film per i quali la Warner Brothers era stata famosa per diversi decenni. Alla fine, concludendo, disse: “Insomma, Jack, questo è, in un certo senso, un homage a quei grandi film”. 21. Cfr. P. Biskind, Easy Riders, Raging Bulls, cit., pp. 35 s.

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Silenzio. “… cosa cazzo è un homage?” […] Alla fine, Jack sorrise e scrollò il capo. La sentenza era passata. il Colonnello aveva approvato… in qualche modo».

E “in qualche modo”, a poco a poco, il film – presentato in anteprima al festival di Montreal – riesce a scrollarsi di dosso le accuse della stampa e, dopo un avvio lento, si trasforma in uno dei più grandi successi della New Hollywood, ripagando i due milioni e mezzo di investimento con ventiquattro di incassi (solo in America), guadagnandosi dieci candidature agli Oscar (ma solo due premi: a Estelle Parsons e al direttore della fotografia Burnett Guffey) e consegnando all’immaginario novecentesco la coppia formata da Warren Beatty e Faye Dunaway22. E il successo di Gangster Story fa bene a tutto il “nuovo” cinema americano, imprimendo una spinta definitiva verso la sperimentazione e sgretolando lo scetticismo residuo degli studios nei confronti del cinema “giovane”, nell’anno in cui escono anche Il laureato (The Graduate, M. Nichols), Senza un attimo di tregua (Point Blank, J. Boorman), La calda notte dell’ispettore Tibbs (In the Heat of the Night, N. Jewison), A sangue freddo (In Cold Blood, R. Brooks) e Frederick Wiseman esordisce con Titicut Follies. Il 1967 ha finito così per conquistarsi una specie di primato all’interno della storia del cinema americano23, e ancor oggi si è soliti indicare in quell’anno la nascita della New Hollywood, preparata lungo la prima metà del decennio da una manciata di produzioni particolarmente innovative sia sotto il profilo industriale, sia dal punto di vista contenutistico e stilistico (firmate da Penn, Preminger, Frankenheimer, Kazan, Kubrick, Fuller…) e, sul fronte della critica, dalla divulgazione della teoria francese, grazie soprattutto all’opera di Andrew Sarris che, a cavallo tra il 1962 e 22. Il ruolo di Bonnie era stato inizialmente offerto a Tuesday Weld. 23. Precocemente riconosciuto: nel dicembre del 1967 «Time» consacra la copertina alla comparsa di quelli che si annunciano come i film inaugurali di una new wave del cinema americano. Sul valore rivoluzionario dei film comparsi in quell’anno si veda, tra gli altri, M. Harris, Pictures at a Revolution: Five Movies and the Birth of the New Hollywood, Penguin, 2008. L’analisi di Harris si concentra in particolare sui cinque candidati all’Oscar come miglior film nel 1967: Gansgter Story, Il laureato, La calda notte dell’ispettore Tibbs, Indovina chi viene a cena e Il favoloso dottor Dolittle.

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il 1963, pubblica Notes on the Author Theory in 1962, seguito nel 1968 da Toward a Theory of Film History24. Varrà la pena ricordare, inoltre, che proprio nel 1967 il codice Hays, già messo a dura prova lungo il decennio, cessa di esistere, almeno nella pratica (il sistema del rating entra ufficialmente in uso nel novembre dell’anno successivo). Al di là del suo valore storico e contestuale e dell’influenza a lungo termine esercitata sul cinema americano di ieri e di sempre, Gangster Story assume una posizione non meno decisiva e per certi versi inaugurale anche in rapporto al percorso penniano, di cui rappresenta un momento cruciale di scambio e transizione tra passato e futuro e la perfetta cristallizzazione di un’idea di cinema inseguita fino a quel momento e finalmente realizzata senza compromessi, indecisioni o censure. Penn riprende il discorso di Furia selvaggia e Mickey One e vi aggiunge una quota di novità che si ritroverà anche in Alice’s Restaurant e Piccolo grande uomo i quali, assieme a Gangster Story, compongono una trilogia molto compatta (e una sintesi della Nuova Hollywood), segnata da una forte continuità di registri espressivi e stilistici (alternanza di commedia e dramma25, montaggio ellittico e musicale, realismo e romanticismo), dal rinnovamento della riflessione attorno a un numero ristretto di temi e motivi e da una più mirata opzione critica nei confronti della società americana. Penn corregge lo sperimentalismo a volte fuori controllo dei precedenti, interiorizza definiti24. Più di ogni altro, Sarris disegna “in diretta” il profilo del nuovo, che è tale sia per quanto riguarda l’assetto produttivo (a seguito dell’estinzione della logica degli studios), sia per quanto riguarda il potere, la coscienza e il ruolo finalmente conquistati dall’“autore”, sia, infine, per quanto riguarda la presenza di un’audience rinnovata grazie soprattutto all’apporto dei giovani legati agli ambienti universitari, che proprio a partire dai primi anni Sessanta contribuiscono a sostenere la diffusione del cinema europeo. Il quale, riconosce Sarris, anche se per certi versi in negativo, assieme all’avanguardia newyorkese e al nuovo documentarismo forgia il carattere del nuovo cinema americano. Oltre ai testi originali di Sarris, si veda in proposito la rilettura che ne dà A. Simon in La struttura narrativa del cinema americano, 1960-1980, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Gli Stati Uniti, vol. 2, tomo II, cit. 25. L’alternanza tra commedia e dramma caratterizza quasi tutti i film di Penn; nell’uso dei due registri, tuttavia, si osserva un preciso sviluppo dalle prime opere (Anna dei miracoli compreso), in cui essi, per l’appunto, si alternano, a quelle della maturità, in cui Penn tende piuttosto a mescolarli e impastarli, spesso arditamente.

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vamente la lezione del nuovo cinema europeo (per cui il film, come osserva giustamente Guido Fink, somiglia semmai «all’imitazione americana di un film francese che a sua volta si ispiri al filone hollywoodiano degli anni Trenta»26), sgrava il suo sguardo dalle zavorre del sapere teatrale e, libero dai compromessi industriali della vecchia Hollywood, distilla un cinema realista e socialmente impegnato ma al tempo stesso romantico, epico e profondamente cinefilo. Godard e Truffaut non sono più, a questo punto, semplici modelli “liberatori” ma veri e propri compagni di viaggio, da citare e omaggiare: gli occhiali rotti di Clyde, per esempio, assumono il valore di una strizzatina d’occhio al primo e al suo Michel, che in Fino all’ultimo respiro ne indossa un paio molto simili27. La “giusta distanza” è insomma finalmente conquistata: in Gangster Story Penn esalta l’uso del linguaggio e della messa in scena, dello spazio già segnato cinematograficamente e del corpo divistico, scopre la verosimiglianza ambigua dell’immagine attraverso il naturalismo, lascia perdere la denuncia e impone la critica sociale come palinsesto e riscatto morale del racconto, esplora la psiche registrando i gesti, taglia corto con le regole imponendone di nuove, esalta l’energia della sessualità e la normalità della violenza, declina lo “spirito dei tempi” in stile e disperde l’ipotesi di una morale in uno spettro spiazzante di umanissime ragioni. Per questo, Gangster Story resta il film più perfetto di Penn, quello che, richiamandosi ai precedenti e incrociando il vecchio e il nuovo del cinema americano e la ricerca francese e italiana, distilla un sistema formale profondamente segnato in termini autoriali e destinato a durare, oltre che a imporsi come termine di riferimento per il cinema di un quindicennio almeno (e molto di più per quanto riguarda la rappresentazione della violenza, il rinnovamento del genere gangster e la mitologia della “coppia in fuga”). Da questo momento in poi, fino a Gli amici di Georgia compreso, Penn è (anche) un autore nel senso pieno del termine e, assieme a Robert Altman, l’autore per eccellenza della New Hollywood. Meglio di altri, si dimostra capace di richiamare sullo schermo 26. G. Fink, «Cinema Nuovo», n. 191, 1968. 27. Un confronto serrato tra i primi film di Godard e Gansgter Story si trova in R.B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, Princeton University Press, Princeton 1985. L’analisi, tuttavia, ha un po’ il sapore della ricerca fine a se stessa e dell’enumerazione colta.

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tutta la complessità della società e della cultura statunitensi e di rilanciarne in termini specificamente cinematografici le contraddizioni di valori e punti di vista, elaborando al tempo stesso, in modo originale, l’analisi dell’intreccio complesso e talvolta perverso che lega cinema e Storia, immagine e realtà, racconto e cronaca, mezzi di comunicazione e società. Proprio il piano “meta” – in un’accezione (ancora) funzionale, politica e modernista – si impone oggi come uno degli aspetti di maggiore interesse di Gangster Story, ben al di là dell’euforia cinefila dei movie brats e del gioco, già molto in voga all’epoca, di riscrittura dei generi tradizionali. Già presente in Furia selvaggia, nelle rifrazioni prodotte dalla scrittura di Multrie a partire dal corpo idealizzato di Billy (e infine a danno della sua autopercezione), la riflessione sul rapporto tra immagine e realtà ritorna con maggior evidenza in Gangster Story, incrociando più direttamente un altro tema penniano (e all’epoca d’“attualità”), quello della costruzione dell’identità – e, di rimorchio, quelli dell’utopia giovanilistica, del desiderio di cambiamento, della fuga dal proprio destino, dello scarto generazionale, del rifiuto anticonformistico. Il lavoro sulla messa in scena, in bilico tra enfasi stilistica, travestitismo e rincorsa dello spazio verso il décor e del corpo nudo verso il personaggio (nudo e da vestire: perché impotente, come quello di Clyde, o perché privo di valore, come quello di Bonnie), rafforza ulteriormente l’ironia del gioco di specchi tra cinema, storia e racconto, favorendo, tra l’altro, il rimando al presente e a un set ben preciso di valori e preoccupazioni. A differenza di Billy, che per un po’ si diverte e sembra lusingato dal tributo cartaceo di Multrie, salvo poi scacciare inorridito il suo alter ego letterario (e una forma d’amore che può solo consumarlo), Bonnie e Clyde mettono in pratica un consapevole processo di costruzione identitaria, rinnegando il presente (il lavoro di cameriera della prima, il passato di galeotto del secondo) e un destino già segnato. Scelgono l’avventura della vita del fuorilegge, modellando la propria condotta sull’esempio offerto dai miti del West con cui sono cresciuti e in cui intravedono un possibile riscatto: «Di Jesse James conoscete la storia, la sua vita, la sua morte – recita la prima strofa del poema di Bonnie. – Se volete sentire quello che ho da dire, di Bonnie e Clyde conoscerete la sorte. Formano entrambi la banda Barrow. Saprete già dai giornali che sono delinquenti senza eguali, e chi prova a far loro un torto, viene 149

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trovato moribondo o morto…»28. L’immaginario è però già vecchio (riattualizzato momentaneamente dal clima della Grande Depressione), l’anacronismo inevitabile, il travestimento esplicito («Bonnie e Clyde […] erano dei ritardati»: in ritardo sulla storia e sul “costume”29): l’abito è già indossato come “moda” e cambiato troppo spesso, l’artificio costoso da mantenere, lo scarto tra realtà e mito spesso doloroso per la mancanza di un idealismo più forte che ripaghi o santifichi (anche retroattivamente) il sacrificio; così, le molte citazioni presenti nel film, più che altro d’atmosfera e d’immaginario, sono da intendersi non come omaggio o legame cinefilo col cinema di genere (gangster, europeo e noir), ma come il riflesso di questa coscienza imitativa, come l’adeguamento dell’immagine a un’immagine. Penn, tuttavia, ha la mano leggera, e amministra questo gioco di specchi e seduzioni senza mai costeggiare il grottesco o la parodia, e riuscendo benissimo a far finta di credere alla storia mentre dona ai personaggi una coscienza contemporanea. Gran parte del fascino del film – della sua ironia, della sua umanità, della sua intelligenza – deriva proprio dall’ambiguità con cui vi è descritta la formazione del mito, ripresa “in diretta” ma con la consapevolezza (tragica) di chi già conosce la storia e il suo epilogo. Questa specie di sdoppiamento si legge, in filigrana, anche nel processo con cui Bonnie e Clyde conformano la propria esistenza all’immaginario gangsteristico, consapevoli della recita, degli effetti e, progressivamente, delle conseguenze: si ripropone così, come spesso accade nel cinema di Penn, la “scena primaria” della lotta del personaggio col proprio destino, segnata però – come già in Furia selvaggia e Anna dei miracoli – in senso tragico, perché 28. Il poema continua così: «Li chiamano assassini di rara crudeltà, feroci e dal cuore spietato. Ma io conobbi Clyde, lo dico senza umiltà, quando era un uomo probo e onorato. Poi arrivò la polizia e se lo portò via, e lo rinchiuse in una cella. E lui mi disse: “Sarò rinchiuso in eterno, ma ne incontrerò alcuni all’inferno”. Se ammazzano un agente a Dallas, ma non trovano nessun indizio, se non si trova il mostro infame – è stato così fin dall’inizio – al delitto viene associato il loro nome. Se provano a vivere da cittadini onesti, in una piccola e bella casetta, dopo tre notti saranno già desti, a colpi di mitraglietta. Un giorno se ne andranno. Accanto nella tomba riposeranno. Dolore di pochi, sollievo per la legge, ma è la morte di Bonnie e Clyde». 29. E.J. Hobsbawm, I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, Einaudi, Torino 2002, p. 102.

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il destino non è una forza estranea o un agente esterno, ma l’altra metà delle scelte o della natura del personaggio – una metà non vista o riconosciuta o, come nel caso di Bonnie e Clyde, consapevolmente rimossa. L’intreccio e la lotta che ne seguono rinnovano quella condizione border-line comune ai protagonisti di tanti film del regista, “fuori” per forza, messi ai margini da una società reazionaria che vi riconosce una diversità disturbante e minacciosa e il segno di una trasformazione inevitabile: «In Furia selvaggia l’interesse di Penn è tutto per un ragazzo i cui sentimenti sono troppo grandi e troppo primitivi, che soffre e causa sofferenza a dispetto dei suoi tentativi di fare diversamente. In La caccia la sofferenza è il risultato di un’intolleranza meschina, crudele e repressiva. In Gangster Story si raggiunge una specie di combinazione e di trasformazione. Billy the Kid e il Bubber Reeves di La caccia diventano la Barrow gang, benché la gang manchi delle motivazioni psicologiche dei primi personaggi. Al tempo stesso, i cittadini di La caccia si traducono nell’autorità generalizzata e oppressiva che vuole a ogni costo distruggere la gang»30.

La continuità disegnata da Kolker tra i personaggi dei tre film citati si regge su un aspetto generale già discusso, quello dell’estraneità e dell’alterità di molte figure del cinema di Penn in rapporto al mondo che le circonda. Una condizione che imparenta non soltanto gli outlaw come Billy the Kid, il Bubber di La caccia, Bonnie Parker e Clyde Barrow: “fuorilegge” sono anche Anna (La caccia) e Jack Crabb (Piccolo grande uomo), Annie Sullivan e Mickey One, i quali, pur non sparando, rubando o uccidendo, danno luogo – con un buon grado di inevitabilità tragica – a un conflitto o magari anche solo a un attrito tra sé e il mondo che li circonda, a cui non riescono a conformarsi pur facendone legittimamente parte; e anziché fuggire, inseguiti o all’inseguimento, questi outorder finiscono per trasformare la loro presenza e “socialità” in una specie di protesta passiva non meno scomoda e rivelatrice di quella, attiva e armata, dei fuorilegge propriamente detti. Il discorso penniano, proprio perché sganciato, per insufficienza fiduciaria, dalla possibilità morale e storica di riaffermare, attraverso il racconto e i suoi conflitti, la presenza di una giustizia dell’uomo per l’uomo, tende ad assimilare una vastità apparente30. R.P. Kolker, A Cinema of Loneliness, cit., p. 51.

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mente inconciliabile di personaggi out e border-line, parificando idealmente fuorilegge e ribelli, contestatori e innovatori, idealisti e diversi, e impiegando tutte queste figure non certo per condannare l’out o inneggiare banalmente alla vita ai margini ma, al contrario, per rendere manifeste le logiche più o meno perverse che garantiscono l’ordine e tracciano l’architettura del vivere civile. Il quale, come rivela bene La caccia, si regge proprio sulla persecuzione contro il diverso (non necessariamente ostile), in un progetto di epurazione più ludico e muscolare (la caccia, appunto) che morale, e in cui l’identificazione della minaccia e la sua correzione non sono inquadrati e disciplinati come semplice soluzione “sociale” ma come strumenti vitali di riaffermazione violenta dell’ordine e di costruzione di un corpo sociale unificato. Non viceversa: è, questo, uno dei tratti caratteristici dell’ethos americano, che si riflette sul piano dei comportamenti microsociali a partire da una relazione specifica e peculiare tra cultura e esercizio della violenza, compreso quello “legittimo” degli eserciti: «In altre epoche e in altre situazioni i rigurgiti di fervore nazionalistico cono spesso serviti a preparare una guerra, ma negli Stati Uniti il rapporto di causa-effetto sembra ribaltarsi, e la guerra e analoghi interventi militari servono, e a volte danno l’impressione, di essere usati a questo scopo, per montare ondate di entusiasmo nazionalistico»31. Penn è consapevole della stortura, impiega l’avventura di Bonnie e Clyde a titolo dimostrativo e finisce per rivelare, della giustizia e della legge, un lato oscuro troppo spesso rimosso o giustificato. Non parteggia per nessuno (anche se ha più simpatia per i due banditi) e con un certo distacco osserva le conseguenze della propagazione dell’utopia incarnata da Bonnie e Clyde sullo sfondo umanamente disperato della Depressione. Dapprincipio romantica e privata, la loro avventura, svolgendosi come un itinerario di realizzazione dell’utopia (l’utopia di essere diversi, di cambiare, di sostituire il proprio destino con un altro, più esotico ed eroico), finisce per trasformarsi in spettacolo, rendendo essenziale la partecipazione del pubblico. Così, il rapporto col presente è subito innescato: quella vissuta da Bonnie e Clyde è infatti un’utopia comune alla generazione dei Sessanta a cui Penn pure non appartiene ma che elegge a destinatario privilegiato del film, esaltandone 31. B. Ehnrenreich, Riti di sangue. All’origine della passione della guerra, Feltrinelli, Milano 1998, p. 201.

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l’energia e in fondo la necessità, non senza rivelarne, però, la metà tragica: come in Alice’s Restaurant, la disillusione è sempre pronta a travolgere l’ottimismo, il fallimento minaccia continuamente la vittoria e il tonfo della morte annuncia il suo arrivo soffocando lo slancio della giovinezza. Bonnie e Clyde sono due giovani che desiderano essere ricordati, due attori in cerca di un ruolo (di successo), un ragazzo e una ragazza inorriditi dall’anonimato, dalla normalità, dal conformismo del quieto vivere, dalla vecchiaia. Si credono – o vogliono provare a credersi – destinati a qualcosa di più grande e diverso, e traducono l’insofferenza in estraneità, cercando di donare al proprio malessere una forma e una soluzione: la dice lunga, in proposito, la coincidenza dei ruoli di eroe e narratore nel caso di Bonnie. Sono e si sentono, del resto, due specie di orfani (la sequenza in cui Bonnie rende visita alla madre rimarca, di fatto, l’irrecuperabilità del legame causata dalla sua scelta32), e al pari di molti giovani degli anni Sessanta si percepiscono come due satelliti sciolti dalla continuità storica e generazionale: fuori dalla storia, senza storia, non possono che scegliere tra un’affermazione violenta o un annullamento totale. In questo senso, somigliano a due comunissimi teenager, in lotta privata col resto del mondo e, in particolare, con le ipoteche poste dai “padri” sul loro destino: lungo il film, Penn dissemina tutta una serie di indizi destinati a sottolineare questo lato fanciullesco se non proprio infantile del carattere di Bonnie e Clyde, rendendo per esempio impossibile il rapporto sessuale33 oppure sottolineando certi impacci gestuali del ragazzo, come quando rivede dopo molto tempo il fratello Buck (Gene Hackman) o dichiara sfrontatamente ai legittimi proprietari di una casa sequestrata «Noi rapiniamo banche», salvo poi chinare il capo preso da una timidezza improvvisa. L’utopia, del resto, possiede sempre qualcosa di naïf: Bonnie e Clyde ne interpretano una solare e divistica, se non proprio mitomane, priva di zavorre ideologiche o politi32. «Quale mamma? – dirà poco dopo a Clyde, che cerca di consolarla ricordandole che, nonostante tutto, è pur sempre sua madre. – È solo una vecchia, ora. Non ho una mamma». 33. E quando, finalmente, faranno l’amore, sarà come una prima volta, impacciata e piena di errori, e non soltanto per il meno esperto e impotente Clyde (che, preso da un entusiasmo tipicamente fanciullesco, chiede a Bonnie di sposarlo). Come ha più volte dichiarato Penn, la scena di sesso tra Bonnie e Clyde è stata suggerita da Faye Dunaway

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che; giocano a fare i gangster fingendo di non sapere come andrà a finire (e come due ragazzi che si sono spinti troppo oltre, a un certo punto vorrebbero tornare indietro, soprattutto Bonnie) e arrivano impreparati al finale: e che si tratti di una messa in scena, fa parte dello schema. Penn, pur considerandoli assassini per caso, non li scusa né li tratta da innocenti, ma ci tiene a indicare una sproporzione tra il gioco finito male di Bonnie e Clyde e la violenza cieca e brutale della giustizia che vi mette fine: gli spari dell’ultima sequenza – troppi, troppo a lungo, da troppe armi – provengono, non a caso, da uno spazio “fuori scena”, da cecchini in platea, nascosti tra gli alberi, che di quel gioco non hanno capito niente, neppure la disperazione; lo sceriffo Hamer (Denver Pyle) e i suoi hanno semplicemente “un lavoro da fare”34. Il poema scritto da Bonnie segna il passaggio definitivo da un fare per scherzo a un fare per davvero, dopo che l’avventura ha cominciato chiaramente la sua china discendente con la morte di Buck, l’arresto di Blanche e il grave ferimento di Bonnie e Clyde. Consegnando i loro ritratti all’eternità della scrittura, la ragazza sancisce la nascita del mito e la definita emigrazione delle loro precedenti identità verso quelle dei gangster Bonnie e Clyde, in parallelo all’annunciarsi della fine. Al contempo, è proprio quel gesto di destinazione e allontanamento della propria storia da sé ad accelerare fatalmente l’estinzione della vita terrena (nel momento stesso in cui la scrittura tenta di curarla e abbellirla: la composizione del poema, non a caso, accompagna la convalescenza). E come nella migliore tradizione melodrammatica, contaminata di trame e immagini classiche, l’avvicinarsi della fine coincide, simbolicamente, con il primo rapporto sessuale tra Bonnie e Clyde, che ha l’effetto di ricondurre il mito all’esistenza elementare del corpo e di esporre, letteralmente, tutta la vulnerabilità dell’essere umano. L’amplesso è così “coperto” (e non censurato) dall’incontro tra il padre di C.W. Moss e lo sceriffo Frank Hamer, durante il quale viene ordito il tranello in cui, di lì a poco, moriranno i due banditi. Penn “schiaccia” l’episodio utilizzando il teleobiettivo, occulta suoni e parole e riduce la scena a una pura sequenza di gesti: 34. Per quanto possa sembrare eccessivamente violenta e, per l’appunto, sproporzionata al bersaglio, la sparatoria finale ricalca la realtà storica: sul corpo di Bonnie e Clyde, uccisi il 23 maggio 1934, vennero contati ottantasette fori d’entrata.

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«A un certo punto, un evento drammatico può essere solo bidimensionale… In questo tipo di tradimento schematico, non ci interessa quello che i due si stanno dicendo o stanno facendo o che cosa succederà esattamente. È azione pura, un’azione umana, e dovrebbe essere il più possibile bidimensionale. Se ne avessi l’occasione, tornerei indietro e girerei la scena con un 800 mm [anziché con un 400mm]!»35.

A questo momento – a questo incastro perfetto di commedia e dramma, di amour à mort, di desiderio di vita e consapevolezza della fine – Penn arriva descrivendo in parallelo un arco discendente (in relazione all’esistenza terrena di Bonnie e Clyde) e uno ascendente (con riferimento alla costruzione del loro mito): più la morte s’avvicina, più cresce la loro fama; il rapido approssimarsi della fine – segnato dall’incremento della violenza, dal maggiore impegno profuso dagli inseguitori, dal tradimento e dall’estinzione della gang – sancisce l’esistenza stessa di una mitologia e la realizzazione del “progetto” gangsteristico. Per due come Bonnie e Clyde (per due giovani che hanno scelto quella strada), l’euforia vitalistica non può che coincidere con la caduta definitiva, e il momento “autunnale” della loro avventura porta inevitabilmente a coincidenza una prova generale di morte e il loro primo amplesso. La seconda parte del film si incarica di introdurre Bonnie e Clyde alla realtà tragica del linguaggio del mito, là dove la prima ruotava essenzialmente attorno all’incastro imperfetto tra il registro basso delle loro esistenze ai blocchi di partenza e la tensione verso il “modello”, declinando volentieri verso la commedia; segnano questo passaggio definitivo la morte e la rinascita dei due gangster, successive alla sparatoria in cui Buck viene ferito e alla prima fuga da Hamer. Fino a quel momento Penn, non senza divertimento (suo e degli spettatori), ha raccontato non il poema ma la commedia di Bonnie e Clyde, alle prese con la realizzazione del loro desiderio divistico di fuga e affermazione, lasciando aperta, per un po’, la porta di un possibile ritorno alla condizione precedente – invocato in ritardo da Bonnie. La ricerca del “personaggio” e il perfezionamento del ruolo da parte dei due banditi impongono quasi naturalmente un registro comico, donando al racconto la forma del romanzo di formazione. Fin 35. A. Penn, in E. Sherman, M. Rubin, The Director’s Event, cit., p. 117.

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dalla prima rapina, in effetti, sia l’andamento dell’azione, sia, soprattutto, il comportamento dei due suggeriscono l’idea (confermata dal ritmo del montaggio, dall’accompagnamento musicale e da piccoli dettagli slapstick) che stiamo assistendo a una messa in scena approssimativa e al tentativo di un frettoloso adeguamento al ruolo del gangster, fin lì solo immaginato o desiderato (anche da Clyde, benché si dichiari un esperto rapinatore di banche): l’automobile sbanda correndo per la campagna, e sbandano i due giocando a fare, da subito, la coppia criminale, con Bonnie già nella parte dell’“amante del bandito” – un personaggio che ha probabilmente sognato di diventare, sfogliando le riviste durante una pausa dal suo lavoro di cameriera, oppure al cinema, sola o accompagnata dagli uomini rozzi che ha sempre temuto di dover sposare. Clyde, invece, indossa un costume tutto nuovo, ha un passato non comune e svolge una professione eccitante. È un avventuriero da romanzo rosa, arrivato all’improvviso per portarla via, quasi chiamato, sotto le sue finestre aperte, dall’intensità carnale della sua insoddisfazione (attirato dalla “carrozzeria”). Ma Clyde sembra aver bisogno di una spalla, più che di un’amante: il suo ruolo maieutico nei confronti di Bonnie («Tu sei differente, sei come me, vuoi cose diverse… niente per te è abbastanza, hai il diritto di avere quello che desideri»), mira a ingaggiarla, più che a farne la propria donna. Insieme possono viaggiare per il Paese, e «tutti sapranno di noi». La dimensione favolistica o da vera e propria commedia romantica di Gangster Story non va sottovalutata, almeno nella prima parte. Non va sottovalutata perché Bonnie accetta di seguire Clyde non certo sedotta dall’idealismo o dalle istanze politiche della “professione” del bandito (benché il modello sia Jesse James), ma dal riscatto che il ragazzo le promette, dalla fuga che le offre non soltanto dal presente ma anche dal futuro che, inesorabilmente, l’attende, incarnato da un’anziana cameriera che, come Bonnie, porta un ricciolo attorno all’orecchio: il marchio di un’identità a cui Clyde pone subito rimedio, domandando a Bonnie di eliminarlo. Un piccolo ma significativo rito di passaggio, grazie al quale la cameriera di provincia compie il primo passo per diventare una rapinatrice di banche. E favolistico è anche, per la rapidità con cui si svolge, per il ritmo che lo sostiene e per il commento musicale che lo punteggia, il tono generale dell’apprendistato di Bonnie, a cui Clyde insegna prima a sparare e poi a diventare una partner 156

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criminale; quando s’avventurano verso la loro prima banca, Penn riprende la coppia, in macchina, ricorrendo a un uso smaccato del trasparente, per accentuare in questo modo sia la dimensione fictional sia quella propriamente avventurosa. E la rapina avrà un esito comico, del tutto intonato allo spirito sgangherato di questa coppia ancora in rodaggio: la banca che Clyde cerca di rapinare è fallita tre settimane prima, e per timore di non essere creduto conduce il cassiere da Bonnie, affinché sia lui a spiegarle la situazione. Tragicomica è anche la scena successiva, con Clyde che fa la spesa enumerando gli articoli con un sacchetto in una mano e la pistola nell’altra, finché non viene assalito da un uomo armato di coltello; ne segue una zuffa e un po’ di sangue sporca la camicia immacolata del ragazzo. Che, una volta in macchina, comincia a ripetere ossessivamente «Non avevo niente contro di lui», quasi non capisse il significato dei suoi gesti, inconsapevole della “narrazione” a cui sta dando avvio. Una seconda dissolvenza al nero spezza l’idillio: quelle macchie di sangue sulla camicia di Clyde, la minaccia del coltello, la fuga improvvisa e la paura negli occhi di Bonnie segnano un salto di qualità; una nuova soglia è superata, Clyde incontra la propria menzogna, Bonnie il personaggio di cui desidera vestire i panni, ed entrambi sperimentano il lato brutto di un progetto fino a quel momento solo immaginario. I due teenager crescono in fretta, e attraverso il dolore e la paura (nella rapina successiva ci scappa il morto) incontrano il proprio destino, fino a quel momento prefigurato in termini ideali e giocosi. Dal fare per scherzo o spinti da un desiderio astratto, Bonnie e Clyde passano a un fare per davvero; i sentimenti cominciano a mescolarsi, i sorrisi si fanno più rari, la felicità incerta: il ruolo porta con sé racconti imprevisti, la figura, rubata al mondo delle immagini e calata nella realtà, non mantiene tutte le promesse. A partire da questo momento Bonnie si trasforma nel termometro passionale di un percorso che a poco a poco devia dalle aspettative originarie e assume toni sempre più cupi e disperati, traghettando il film verso la tragedia ma, soprattutto, sancendo la morte progressiva di un sogno all’origine puro se non addirittura infantile. Gangster Story è anche, se non soprattutto, un romanzo di formazione – Bonnie aspetta, nuda, che qualcuno venga a salvarla e a “vestirla” –, il racconto di due giovani in cerca di un’identità nuova e soddisfacente, perché stanchi e delusi da quel157

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la “originale”; due giovani di campagna, poveri e un po’ rozzi, desiderosi di un ruolo e di una storia nella sostanza più divistici che eroici: un progetto privato che con la storia, la Depressione, la povertà degli altri e la violenza dei capitalisti non ha niente a che fare e che invece, secondo un dettato psicologico molto comune e umano, lavora a esorcizzare il passare del tempo e la morte, approfittando del mondo come di un luogo indifferente, utile soltanto ad alimentare il mito dei “rapinatori di banche” (come amano ripetere agli sconosciuti). La Storia entra nel film di scorcio, incrociando l’avventura: Penn non forza mai l’intreccio, né dona ai suoi personaggi una coscienza che non possono possedere. Assieme a un grande di Hollywood, Dean Tavoularis (con cui lavorerà anche per Piccolo grande uomo), preferisce collocare il documento sullo sfondo, lavorando di dettaglio e inserendo un paio di episodi corali: quello, già citato, dell’incontro con la famiglia sfrattata; quello, magnifico, in cui Bonnie e Clyde, feriti e in fuga con C.W Moss, vengono aiutati da un gruppo di disperati senza più nulla, Okies di steinbeckiana memoria, in fuga verso la California: qualcuno li riconosce, i bambini chiedono se sono famosi, un uomo tocca incredulo la mano di Clyde, mentre Bonnie, priva di conoscenza e sanguinante, non si accorge di nulla; la scena è bloccata e raggelata, come il tempo immobile della Depressione («Era una specie di omaggio a John Ford; pensavo a Furore [The Grapes of Wrath], 1940»36). La natura egocentrica e “mediale” del progetto di Bonnie e Clyde (collaboratori indiretti ma consapevoli della stampa) e la “trama” di immagini e racconti che nutre la fantasia della ragazza si rendono espliciti subito dopo la prima rapina, quando i due (ai quali si è aggiunto nel frattempo C.W. Moss) si rifugiano in un cinema in cui si proietta La danza delle luci (Gold Diggers of 1933, M. LeRoy, 1933). Del film, assieme a loro, vediamo la celeberrima coreografia sulle note di We’re in the Money, canzone simbolo dell’epoca della Depressione che opera un rovesciamento grottesco delle reali condizioni del Paese; la scena ha un sapore quasi godardiano (benché negli stessi anni Anna Karina incontri se stessa guardando Giovanna d’Arco37) per come suggerisce l’importanza del cinema nella costruzione dell’identità e il suo potere di sostituirsi alla 36. A. Penn, intervista pubblicata in «Cineforum», n. 77, settembre 1968. 37. In Il maschio e la femmina (Masculin féminin) del 1966.

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vita (come di fatto accade nella testa di Bonnie) e di incidere sull’immaginario di un intero Paese. L’immagine cinematografica è oro doppiamente falso, copertura e fuga dalla conoscenza della realtà, come l’oro dei gioielli che alimentano i sogni di Bonnie e che la ragazza indossa poco dopo, mimando la danza scintillante del film davanti allo specchio di una lurida stanza di motel. Dentro la sala cinematografica, negli occhi della ragazza già dimentichi dell’uomo ucciso a freddo qualche ora prima, Penn cerca l’origine di una condizione diffusa di falsificazione della realtà, di incertezza ontologica e di indifferenza morale che gli anni Sessanta, con le loro pressanti richieste di rinnovamento, hanno avuto il merito di rivelare. La critica al potere deformante dell’immagine è uno dei temi che oggi, forse un po’ intossicati di postmoderno, emerge più di altri dalla (re)visione di Gangster Story. Da questo punto di vista, il film porta a maturazione, moltiplicandolo, un motivo già presente in Furia selvaggia: l’avventura di Bonnie e Clyde somiglia in effetti a una messa in scena consapevole e sempre pronta a tradirsi, a un carnevale un po’ folle e a un travestimento collettivo. Bonnie, più di tutti, asseconda questa finzione, desiderandola fin dall’inizio; spesso sembra davvero vestita da gangster, in posa, alla ricerca dell’immagine “giusta”38; più di tutti, alimenta questa finzione scrivendo un poema, firmando le rapine, posando per l’obiettivo di Clyde: quando le chiede un sorriso lei resta seria, con la pistola in una mano e il sigaro in bocca; lei fa sul serio, mentre l’uomo, poco prima, si era divertito scioccamente a imbracciare il mitra e fingere di essere un gangster. Le cronache pubblicate dai giornali completano il quadro e le fanno temporaneamente dimenticare i morti, la violenza, le urla insopportabili di Blanche: gode a veder scritto il proprio nome, ed è lei a avere l’idea di farsi fotografare assieme allo sceriffo Hamer e poi mandare l’immagine ai giornali, non del tutto consapevole del lato tragico dell’esposizione. Come saggio di iniziazione alla vita, Gangster Story ha un andamento cupo e un epilogo tragico (o “alto”, come impone l’avvio in forma di commedia): Penn parla dei giovani spediti 38. Una delle scene scritte da Benton e Newman ma non girate mostra Bonnie e Clyde mentre acquistano dei vestiti nuovi (cfr. M. Bernstein, Perfecting the New Gangster: Writing Bonnie and Clyde, «Film Quarterly», vol. 53, n. 4., estate 2000, pp. 16-31).

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in Vietnam (e in tutte le altre guerre) e della società americana depressa e rapace (non solo negli anni Trenta, non solo nel sud immobile di La caccia) che alimenta uno schematismo brutale di cui quelli come Bonnie e Clyde e C.W. Moss non sono semplici eccezioni ma un risultato inevitabile e anzi necessario; la citazione dell’assassinio Kennedy (dalla testa di Clyde, durante la sparatoria finale, si stacca un pezzetto di cervello) non è messa lì a caso. Non innocenti nei fatti, Bonnie e Clyde (come il Bubber di La caccia) lo diventano in quanto prodotti di una logica che li eccede; e nel momento stesso in cui provano a sfidarla, sottraendosi a un altro tipo di violenza (quella piccola e quotidiana a cui sono inevitabilmente condannati una cameriera e un ex galeotto negli anni della Depressione), accettano di dover morire, proprio come accade a Billy the Kid quando decide di (continuare a) essere se stesso. Dietro il ruolo del gangster si nasconde dunque quello, simbolico e fondativo, dell’eroe tragico, la cui storia e il cui sacrificio rituale si rivelano necessari a garantire l’ordine. E tornando a lavorare sul mito, questa volta Penn lo rende disponibile, sullo sfondo degli anni Sessanta, a una lettura per certi versi “aberrante” e al limite anti-sociale, in cui la rappresentazione cruda e infine spettacolare della violenza (il ralenti dell’epilogo è al tempo stesso estetico e brutale39), è non soltanto giustificata ma anche politicamente funzionale. Il sangue, sporcandola, narcotizza la favola del racconto mitico, ne umanizza i protagonisti e la riporta seccamente all’evidenza bruta dei fatti. La connessione tra presente e passato è così ritrovata non per mezzo del semplice recupero di due figure ormai entrate nel patrimonio della tradizione americana e abbellite di connotati moderni, ma attraverso questa operazione 39. Penn: «Nella scena del massacro finale volevo cambiare lo spazio e il tempo. Volevo che rallentasse a mano a mano che scorreva il sangue. Avevamo quattro macchine da presa, ciascuna delle quali girava a diversa velocità. Abbiamo ripreso quattro volte la scena. Avevamo velocità differenti, obiettivi differenti, inquadrature differenti. Alla fine c’era tanta pellicola impressionata da fare un film intero con la scena del massacro. Volevo che restasse nella mente dello spettatore che si trattava di un film tragico, perché quella era un’epoca tragica»; «Volevo due tipi di morte: quella di Clyde doveva essere simile a una danza, quella di Bonnie doveva manifestarsi come un shock fisico. Per questo le abbiamo filmate con tante camere diverse» («Cineforum», n. 77, settembre 1968).

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di “abbassamento” e scassinamento del mito, che dà a vedere, contemporaneamente, l’incrostazione dell’archetipo e la sua brutalità materiale. Mostrare la violenza si rivela così il primo strumento di una critica non ideologica alla commun way of life americana. Prima e meglio di altri, e al di fuori dell’attrazione un po’ modaiola di molti film della New Hollywood per la rappresentazione pseudo-documentaristica dei lati più oscuri della società, Penn impone al pubblico americano un confronto non protetto e “moralizzato” con lo spettacolo della violenza: una violenza apparentemente “giusta” (coi i buoni in divisa che uccidono i cattivi un po’ fricchettoni) che però giusta, fino in fondo, non è o non riesce a essere o a dimostrarsi tale. Prima di Gangster Story lo aveva fatto ne La caccia, riprendendo con un’asciuttezza e un distacco profondamente disturbanti il lungo pestaggio “in tempo reale” di Calder, un tempo vuoto, sproporzionato, gratuito40: il racconto non ha bisogno di tutta la scena, che si prolunga (come il finale di Gangster Story) fino a diventare pura rappresentazione di un atto, immagine cristallo della violenza di tre uomini colpevoli contro un solo innocente disarmato. Tutto in campo, fino alla fine, dentro il gigantismo del cinemascope. Mostrare la violenza come pura impressione, come atto e performance, sganciandola dalle necessità drammaturgiche e morali del racconto per farla valere in quanto tale e circondarla di un valore che eccede la descrizione (nell’esibizione ripetuta del sangue sta il “messaggio” del film), rappresenta il punto d’arrivo di una poetica d’autore che è al tempo stesso indagine sul costume americano e ricerca di una nuova verità scenica. Il primo tempo del cinema del regista è scandito, tra l’altro, dalla ricerca coerente e progressiva, all’interno dei generi e dei codici dell’istituzione cinematografica (censura compresa), di un modo nuovo (nuovo, soprattutto, nel suo accordo col “costume” e lo spirito dei tempi) di rappresentazione della violenza: un percorso di emersione che parte dall’astrazione simbolica di Furia selvaggia per approdare alla pienezza sen40. Frutto, come molte cose del film, della collaborazione tra attore e regista: «Brando stesso ebbe un certo numero di idee per la scena della scazzottata. Dapprima l’abbiamo filmata a velocità normale, poi l’abbiamo rifatta a una velocità maggiore, a 16 fotogrammi»; intervista di A.S. Labarthe e J.-L. Comolli, «Cahiers du Cinéma», dicembre 1967.

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soriale, pittorica e materica di Gangster Story, attraverso la densità passionale di Anna dei miracoli e il simbolismo kafkiano di Mickey One. Penn non è, semplicemente, un regista di personaggi violenti o di storie violente, come troppo a lungo si è scritto, sospettando qua e là un’attrazione insana e morbosamente spettacolare per il tema; è piuttosto un regista violento, per ciò che mostra o per l’ambiguità morale dei “finali di partita”, certo, ma anche, se non soprattutto, per la verità sensibile, l’immediatezza materica e la prepotenza fisica con cui i suoi personaggi vivono e sentono, e per la forza con cui riesco a diventare reali. Violenta, in questo senso, è la prima, folgorante apparizione di Bonnie, subito dopo i silenziosi titoli di testa (in cui i nomi degli attori e dei personaggi sfumano dal bianco al rosso sangue), col dettaglio delle sue labbra socchiuse, oscene e desiderose di qualcosa che sta per arrivare («… come una “cagna”, uscita da una pagina di Erskine Caldwell»41, vedi inserto p. 9). Ma la violenza di Gangster Story, attraverso le primissime inquadrature («una delle più audaci e scioccanti sequenze nella storia del cinema americano»42), rivela subito di essere una questione di modi, oltre che di temi e immagini: violenta, in questo caso, è la modalità con cui l’immagine è offerta allo spettatore. «In Gangster Story – ha osservato giustamente Kolker – non si perde tempo e nessuno spazio è consentito tra spettatore e personaggi»43: così, nel passaggio da un’inquadratura all’altra dell’incipit, la continuità del movimento salta ed è come se mancasse una manciata di fotogrammi; i raccordi diventano piccoli movimenti isterici, del tutto sintonizzati all’insofferenza del personaggio, e il secondo dettaglio, questa vol41. M. Morandini, Fragrante delitto, «Ombre rosse», n. 4, 1968. 42. M. Bernstein, Model Criminals. Visual Style in Bonnie and Clyde, in L.D. Friedman (a cura di), Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, cit., p. 101. Da una telefonata di Bernstein a Penn, riportata nel saggio: «Non mi interessava la continuità dell’azione. Mi interessava l’idea dell’appetito: volevo stabilire l’appetito di questa donna per qualsiasi cosa avrebbe potuto rimpiazzare la noia della sua vita. Ecco perchè abbiamo cominciato a sviluppare questa idea partendo dal primissimo piano della sua bocca. E questo stabilisce il tono di tutto il film. Attraverso il montaggio, volevamo produrre scoppi nervosi di energia, in modo da mostrare i sentimenti di Bonnie». Ricordando l’amore di Penn nei confronti di Welles, non è da escludere una memoria del dettaglio delle labbra di Kane in Quarto potere, posto anch’esso in apertura del film. 43. R.P. Kolker, A Cinema of Loneliness, cit., p. 32.

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ta sugli occhi, svela come non sia la macchina da presa ad avvicinarsi al soggetto, ma Bonnie a urtare idealmente contro i limiti dello spazio in cui si sente intrappolata, come fosse un animale in gabbia. Da un serraglio analogo, quello della bella scrittura hollywoodiana (di cui La caccia è una specie di ultima prova già consapevolmente manierista), esce in molti punti del film anche la regia di Penn, ritrovando le spezzature ritmiche e il dettato soggettivo di Mickey One, interpretati però questa volta non come risorse stilistiche un po’ indifferenti e spettacolari, ma come procedimenti mimetici di una nuova realtà – di un nuovo ritmo, di un nuovo statuto dell’immagine, di un nuovo dis-ordine delle cose. Mickey One resta, da questo punto di vista, una specie di prova generale, ludica e per eccesso, di possibilità che, in futuro, saranno calate, in modo più controllato, nel corpo del cinema classico e nel quadro di una più precisa “politica” della forma. Alla sola andata (direzione Parigi) di Mickey One, Gangster Story oppone insomma, dal punto di vista stilistico, un’andata e un ritorno, portando in dono alla storia del cinema americano non esotici souvenir di un cinema straniero e lontano ma una serie di innovazioni già “addomesticate” e contaminate con altri stimoli indigeni. E molto si deve alla collaborazione tra Penn e Dede Allen, che qui comincia. Ricorda la montatrice: «Arthur voleva dare al film molta energia. Continuava a dire: “Riguarda il film. Fallo andare più veloce” […] Ho infranto numerose regole in relazione al montaggio della storia e nel modo in cui dovevano svolgersi le scene. Penso che molti, all’epoca, non considerassero il film ben montato. In seguito, Gangster Story ha guadagnato questa dimensione “mitica” ed è stato molto imitato. Perfino il modo in cui sono oggi montate le pubblicità televisive, con tutte queste accelerazioni, deriva da quello che abbiamo cominciato a fare con Gangster Story. Era l’idea di Arthur. Era il suo ritmo»44.

44. R. Gentry, An Interview with Dede Allen, «Film Quarterly», vol. 46, n. 1, autunno 1992, pp. 11 s. Interessante, anche se centrata sulle trasformazioni introdotte nel montaggio dall’avvento del digitale, l’intervista di Mia Goldman, Dede on Digital, «The Motion Picture Editors Guild Magazine», vol. 21, n. 4, luglio-agosto 2000.

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L’intenzionalità della “sgrammaticatura” fa pensare naturalmente a Godard e compagni: la sua necessità, del resto, nasce da un desiderio analogo, riassunto nella ricerca quasi ossessiva di una maggiore velocità, di un ritmo più serrato e, complessivamente, di un linguaggio che, scartando le regole tradizionali, nasca ogni volta, direttamente, dal “sentire” del regista e da una necessità interna alle immagini e alla storia45. Anche questa ricerca, all’epoca, è stata avvertita come una violenza. Molte scene d’azione risultano osservate (aperte, chiuse e ritmate) dal punto di vista dei protagonisti, soprattutto Clyde; la soggettività, di conseguenza, predomina, e lo spettatore si ritrova spesso a condividere uno sguardo criminale (Jack Warner, che a un certo punto avrebbe voluto licenziare la Allen, temeva per l’appunto che il pubblico finisse per «confondere i cattivi con i buoni»46); la vecchia regola dell’establishing shot è volentieri tradita; la durata delle inquadrature è in molti casi brevissima; il contrasto tra primi e primissimi piani e long shot destabilizzante; l’uso delle dissolvenze spiazzante47. Penn trova in questo modo, per il cinema, un linguaggio analogo a quello vissuto e parlato dai suoi giovani eroi: non si accontenta di raccontarne la storia, intende rifletterne i sussulti emotivi, l’energia e le incertezze. Così, proprio per il suo stile (nuovo e violento), Gangster Story appare ancora oggi, soprattutto se confrontato a certi film “a tema”, il più lucido dramma degli anni Sessanta dedicato a esplorare la comunicazione interrotta tra la generazione dei padri e quella dei figli e la crisi in cui stanno rapidamente colando regole e ruoli tradizionali; e, in controluce, intona un definitivo canto del cigno per il sogno americano: i giovani, in cerca di riscatto, scoprono di non avere alcuna possibilità di riscatto; i vecchi, ingrigiti e resi violenti, perpetuano il potere sopprimendo la minaccia del nuovo. 45. A proposito di velocità di montaggio, Gangster Story ha un’“average shot length” (cioè una lunghezza media del fotogramma) di 3.8 secondi, ossia meno della metà della media del periodo (1963-1969), che è di 7.7. Cfr. B. Salt, Film Style and Technology: History and Analysis, Macmillan, New York 1992, p. 265. 46 A. Acker, Reel Women: Pioneers of the Cinema. 1986 to the Present, Continuum, New York 1991, p. 226. 47. Per un’efficace sintesi delle principali innovazioni introdotte da Dede Allen e da altri montatori attivi negli anni Sessanta in America si veda P. Monaco, The Sixiest. 1960-1969, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 2001, capitolo 6.

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Sia in relazione a questo conflitto, sia in rapporto all’esplorazione del tema della violenza, Gangster Story – come del resto tutti i film di Penn – non suggerisce una soluzione: come ne La caccia e nel successivo Alice’s Restaurant, il regista prende piuttosto atto del collasso dei valori tradizionali, della disintegrazione dei legami sociali, di un malessere diffuso nell’America del tempo; li stana e disseppellisce, e li mostra sotto una luce nuova, accecante e vivida. Come accade nel contemporaneo cinema di Altman o Schatzberg, Penn non “risolve”, perché non possiede una vera alternativa. E quando sceglie di esplorarla più direttamente (gli hippy di Alice’s Restaurant, i cheyenne di Piccolo grande uomo, la famiglia allargata di Gli amici di Georgia…) ha l’intelligenza, disincantata e realistica, di non promuoverla unilateralmente. Alla sinistra del tempo, in Italia come in America, questa posizione è piaciuta sempre poco, e Penn è stato talvolta accusato di pessimismo o criticato per un’eccessiva prudenza che lo avrebbe tenuto lontano da un affondo più deciso nelle questioni a cui pure, coraggiosamente, ha dedicato la sua attenzione. Oggi, guardando indietro, è facile rendersi conto che la ragione è dalla parte di Penn. Non, banalmente, perché la Storia gli abbia dato ragione (e potrebbe comunque essere vero); ha ragione perché, alle chiusure dell’ideologia o all’ottusa sicurezza dei partiti presi, egli preferisce sempre il dubbio e il conflitto, l’alternativa e l’orizzonte aperto delle possibilità, avendo di mira non tanto, o soltanto, la “questione politica” o “sociale”, ma la complessità dei comportamenti umani. Anche per questo i film di Penn, non solo Gangster Story, continuano a vivere e parlare, al di là della Storia e delle sue ragioni.

L’impossibilità di essere normali «È un film decostruito che corrisponde allo spirito dell’epoca; i migliori film degli anni ’65-’70 sono film fatti dentro questo spirito»48.

Dopo il clamore suscitato da Gangster Story, Penn sceglie di mantenere un “profilo basso”, e anziché approfittare produttivamente del successo decide di tornare in televisione, al48. J.-P. Coursodon, Entretien avec Arthur Penn, «Cinéma 77», maggio 1977.

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la NBC in cui ha fatto il suo debutto all’inizio degli anni Cinquanta, per dirigere e produrre l’ormai invisibile Flash and Blood, un “disastro” di due ore scritto da William Hanley e interpretato da Edmond O’Brian, Kim Stanley e Robert Duvall, trasmesso il 26 gennaio 1968: «Quello che ricordo di Flesh and Blood è che si tratta di una cosa terribile, inutile da vedere qualora fosse ritrovato»49. Vi si narra la storia di un operaio siderurgico di New York, Harry, il cui fratello decide di andarsene dalla casa in affitto che condividono. La sofferenza prodotta in lui da questa decisione si aggiunge ad altre: il timore di aver causato la morte di un giovane operaio durante il suo turno in fabbrica; il dolore per la perdita di un figlio in guerra e per il ritorno di un altro senza più le mani. Ma prima di andarsene, il fratello del protagonista svela di essere il vero padre della nipote: la ragazza ne è scioccata, fugge, e la notte di preoccupazioni che ne segue si trasforma, per tutta la famiglia, in una sincera confessione reciproca, nel tentativo di ricomporre l’ordine infranto. Terribile o meno (ma anche il «Time» lo stronca: «Neppure un cast tanto formidabile può sostenere due ore di lenti e indifferenti segreti inconfessabili»50), Flesh and Blood, oltre a continuare la riflessione di Penn sulla “struttura” e le logiche della famiglia americana, anticipa un tema centrale della pellicola successiva, quello della guerra e, soprattutto, della sua presenza sul “fronte interno” della società civile. Come uno dei figli di Harry, infatti, anche il ragazzo nero della comune di Alice’s Restaurant – prodotto dalla United Artists e opportunamente distribuito in America il 20 agosto 1969, ossia due giorni dopo il festival di Woodstock – ha perduto una mano, e al suo posto esibisce un moncherino metallico simile a un artiglio; e come Harry, anche Ray e Alice, padre e madre di una famiglia allargata ma in fondo tradizionale, vivono con preoccupazione il possibile coinvolgimento dei loro “figli” nella guerra in corso – quella terribile, lontana e disumana del Vietnam. Una delle sequenze più celebri e divertenti del film è ambientata proprio negli uffici dell’esercito americano a New York, durante la vista di leva del protagonista, Arlo Guthrie: Penn non va per il sottile, e la caratterizzazione delle logiche militari e dei loro interpreti in divisa assume un tono 49. Intervista mia. 50. «Time», 2 febbraio 1968.

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grottesco, come nella scena in cui il giovane capellone proclama insieme a uno strizzacervelli, esaltato quanto lui, di voler uccidere e squartare, suscitando l’entusiasmo di un sergente che gli applica seduta stante una medaglia dichiarando «You’re our boy»51. Ma poi Arlo, a causa delle sue vicissitudini con la legge, viene spedito nel girone dei “W”, tra gli inadatti al servizio militare, ladri, assassini e stupratori di madri e padri. Con cui, naturalmente, familiarizza senza problemi: «Everything was fine, we was smoking cigarettes and all kinds of things». Il tema della guerra in Vietnam resta tuttavia sullo sfondo. Come al solito, Penn è più interessato alle “cause” che agli “effetti”, e la comune cantata da Guthrie in Alice’s Restaurant, la ballata all’origine del film, gli serve adesso, dopo la provincia reazionaria di La caccia e il recente passato “depresso” di Gangster Story, per aggiungere un nuovo territorio alla sua esplorazione di quel vasto e contraddittorio mosaico che sono gli Stati Uniti. E lo “studio”, come al solito, è sentimentale e comportamentale, dal basso e ad altezza d’uomo, anziché ideologico o propagandistico: benché solidale con molti dei motivi della sinistra rivoluzionaria dell’epoca, Penn «penetra la comunità del film restandone a margine, senza mai farne parte. Una conseguenza della complessità di questa attitudine è di farci sentire che i personaggi si trovano all’interno di un mondo fondamentalmente molto vicino al nostro: noi comprendiamo che essi hanno a che fare con problemi esistenziali che si pongono a tutti noi»52. In effetti il divertente brogliaccio offerto dai diciotto minuti dell’eponima chanson de geste di Arlo Guthrie (che nel film interpreta se stesso), a partire dai quali lievita la sceneggiatura firmata dal regista e Venable Herndon, lascia nel film finito ben poco del suo carattere giocoso e, soprattutto, della sua 51. Così nella ballata dello stesso Arlo da cui prende le mosse il film: «And I went up there, I said, “Shrink, I want to kill. I mean, I wanna, I//wanna kill. Kill. I wanna, I wanna see, I wanna see blood and gore and//guts and veins in my teeth. Eat dead burnt bodies. I mean kill, Kill,//KILL, KILL”. And I started jumpin up and down yelling, “KILL, KILL” and//he started jumpin up and down with me and we was both jumping up and down//yelling, “KILL, KILL”. And the sargent came over, pinned a medal on me,//sent me down the hall, said, “You’re our boy”». 52. R. Wood, Arthur Penn, Seghers, Paris 1973, p. 70.

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“centratura” politica53. Più che epicizzare, anche se in tono minore, gli ideali di una nuova generazione, o imboccare la strada dell’affresco “pittoresco” della comunità hippy di cui Arlo è parte e voce, Penn dilata gli spunti narrativi contenuti nel testo della canzone, popola il mondo del racconto di nuovi personaggi e situazioni (per esigenze drammatiche e mai dimostrative) e, soprattutto, sceglie, quasi paradossalmente, di rendere protagonisti gli “anziani”, Alice e Ray: la loro relazione di coppia, il loro ruolo all’interno della comune e i loro rapporti coi “figli” diventano così il fuoco del racconto, che si sviluppa a questo punto in un crescendo nostalgico anziché trasformarsi (come avrebbe dovuto, secondo il regista Michael Wadleigh, molto critico nei confronti dell’operazione di Penn) in un prezioso documento sociologico sullo stile di vita degli hippy. Ne esce, piuttosto, una specie di dramma del “rimatrimonio”, molto intimo e molto romantico54. Le premesse, in effetti, potevano favorire una soluzione più “militante”, a partire dal rispetto della realtà storica. La comune raccontata in Alice’s Restaurant è infatti realmente esistita, e la canzone dedicatale da Arlo nel 1967 l’aveva resa, al tempo, particolarmente celebre55. Penn ne viene a conoscenza per puro caso durante uno dei suoi “ritiri” nella piccola Stockbridge, in Massachusetts, dove ancora oggi possiede una casa e dove, nel 1964, Alice, pittrice e designer, e il marito Ray, architetto, avevano acquistato per duemila dollari una chiesa sconsacrata per trasformala in una comune hippy (la stessa in cui si svolge buona parte del film). Penn, incuriosito, comincia a interrogare alcuni “sopravvissuti” per poi entrare in contatto, oltre che con 53. Inizialmente Penn e Herndon avrebbero voluto ampliare la canzone e farne la “scaletta” del film; resisi conto dell’impossibilità di lavorare in questa direzione, hanno utilizzato il brano solo come spunto, procedendo poi a raccogliere tutto il materiale disponibile su Arlo, Ray, Alice e Pete Seeger. Lo stesso Arlo, partecipe di tutta la lavorazione del film, ha contribuito in modo determinante a arricchire la sceneggiatura con i suoi ricordi personali della comune e dei suoi “adepti”. 54. Il riferimento è, naturalmente, a S. Cavell, Alla ricerca della felicità. La commedia hollywoodiana del rimatrimonio, Einaudi, Torino 1999. 55. Il titolo corretto della ballata di Arlo è Alice’s Restaurant Massacre, poiché prende spunto dall’episodio del “massacro” dei rifiuti successivo alla grande festa del ringraziamento del 1965, che occupa una porzione molto ampia del film. Nel 1991 Gurthie ha comprato la chiesa sede della comune, passata negli anni tra le mani di diversi proprietari, per aprirvi un centro di incontro interreligioso.

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Arlo, con i “veri” Alice e Ray, separatisi nel frattempo. Quando decide di realizzare il film, può dunque contare sui loro racconti per arricchire narrativamente la ballata di Arlo, in primo luogo per quanto riguarda l’analisi del burrascoso rapporto sentimentale tra i due “fondatori”. Trattandosi di eventi recenti, inoltre, riesce in molti casi a recuperare ambienti e attori “originali”: sia il poliziotto (William Obanhein, Obie nel film), sia il giudice cieco (James H. Hannon), per esempio, sono quelli “storici”, mentre i veri Alice e Ray fanno un paio di comparsate; e dalla realtà provengono perfino alcuni oggetti di scena come le decine di “seven eight-by-ten colour glossy photographs” scattate sul luogo del “crimine”, vale a dire la discarica abusiva in cui Arlo e compagni depositano i rifiuti della festa del Ringraziamento. Allo scopo di mantenere vivo questo carattere vagamente documentaristico, accanto a coloro che interpretano se stessi e ai pochi attori professionisti nel ruolo di persone realmente vissute, Penn sceglie di completare il cast con attori non professionisti e di coinvolgere, accanto ad Arlo, un altro mito vivente della musica folk, Pete Seeger, per farli suonare insieme, in ospedale, “la canzone del treno” (Car-Car Song), in omaggio a Woody, il padre di Arlo, uno dei principali interpreti della riscoperta della radici “popolari” della musica americana. Un altro protagonista della rivoluzione musicale del tempo, Lee Hays, amico di Woody e Seeger, compare nei panni di un reverendo invasato che prega a un meeting evangelico osservato a distanza da Arlo, mentre verso la fine del film, in occasione del funerale di Shelly, compare Joni Mitchell, che canta – come una divinità discesa dal cielo ad accompagnare il rito – la sua Songs to Aging Children, dedicata ai “bambini che invecchiano”, proprio come i giovani del film che, di lì a poco, lasceranno Alice e Ray. Le scelte di regia vanno di conseguenza: muovendosi esclusivamente in luoghi reali e desideroso di assottigliare la distanza tra messa in scena e ripresa, Penn gira il più possibile con luce naturale, asseconda il “momento”, muove la macchina con piglio documentaristico e valorizza lo “sporco”; un saggio subito all’inizio, quando alla musica dei titoli di testa si sovrappongono i discorsi “in presa diretta” di alcuni ragazzi in attesa di essere iscritti nella lista di leva, che parlano senza ordine di guerra, Vietnam, bombe, morte. E la sensazione, qui come altrove nel film, è quasi da home movie: Penn contamina la sua proverbiale compostezza con riprese veloci, quasi im169

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provvisate, con camera a spalla e in teleobiettivo, approfittando sapientemente della recitazione dei giovani non attori, tutta di sguardi, istanti, emozioni, più che di battute e “testo”. Dal punto di vista produttivo, del resto, è libero come non gli era più capitato dai tempi di Mickey One: condizione necessaria per un soggetto come quello di Alice’s Restaurant, per ottenere la quale accetta di lavorare con un budget molto ridotto e una piccola troupe di fidati collaboratori; ne esce il suo film più artigianale, indipendente e New Hollywood, altmaniano più che godardiano, “collettivo” e polifonico come la comune di cui parla. Al riparo, però, dalle pressioni dell’“attualità”, in particolare la rivolta studentesca, che proprio tra il 1968 (anno degli assassinii di Robert Kennedy e di Martin Luther King) e il 1969 tocca il suo apice, con l’esplosione della questione razziale e dell’opposizione alla guerra in Vietnam. La posizione “geografica” del film, appartata e provinciale, riflette direttamente quella, morale, di Penn, fondata su una partecipazione vera e diretta, ma a distanza e riflessiva. D’altra parte, le particolari condizioni produttive non gli impediscono né di organizzare una sceneggiatura perfettamente compiuta, né di “appropriarsi”, in chiave autoriale, dei materiali di partenza56: la canzone di Arlo, del resto, fornisce soltanto lo spunto per i due blocchi narrativi principali, quello della festa del ringraziamento e del conseguente episodio della discarica, con tanto di carcerazione e processo, e quello della visita di leva, concluso con la definitiva “liberazione” del cantautore dal giogo della chiamata alle armi. Penn mantiene viva la centralità, anche simbolica, dei due episodi, ma li stacca dal flusso del racconto come fossero blocchi autonomi, rimarcando la loro provenienza attraverso la voce “recitante” di Arlo, che riprende puntualmente i versi della canzone57. Grazie alle altre 56. Per la prima e ultima volta nella sua carriera, Penn è accreditato come sceneggiatore. Ciò non esclude, naturalmente, una sua costante e diretta partecipazione alla sceneggiatura di tutti i suoi film, come l’analisi di ognuno di essi mette in luce. Nel caso di Alice’s Restaurant, tuttavia, il suo ruolo in questa fase risulta continuo e diretto, a dimostrazione di una più marcata impronta “autoriale”. 57. R. Wood (Arthur Penn, cit., pp. 75-77), sottolinea l’indipendenza delle due sequenze direttamente ispirate ai fatti cantati da Arlo Gurthie suggerendo che «si potrebbero separare dal resto e mostrarli come un cortometraggio». Sono, a suo giudizio, interludi dannosi alla tenuta complessiva del film, in contrasto con la sua complessità.

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fonti citate, come detto, arricchisce il racconto ma, soprattutto, abbandona il punto di vista di Arlo (e lo stile “comico” della sua ballata) per aderire a quello di altri protagonisti, primi tra tutti Alice e Ray (i cui ruoli, proprio per la loro centralità, vengono affidati ad attori professionisti), intrecciando alla loro vicenda quella del maudit Shelly, la figura più lontana dallo spirito della ballata. Al tempo stesso, dallo sfondo “comunitario” procede a staccare via via numerosi personaggi secondari che per una scena o anche solo un’inquadratura guadagnano il primo piano, arricchendo l’affresco di bellissimi dettagli. Il momento cruciale della sistemazione formale è, come spesso accade nel cinema di Penn, il montaggio. Realizzato ancora una volta assieme a Dede Allen, esso ripensa sapientemente il “live”, rispettandone però retorica e estetica: il racconto, ispirato dall’andamento libero, blues e country, a “blocchi” di strofe, della canzone di Arlo, si sviluppa così attraverso una scansione rapida, ellittica e talvolta brusca, fondata sulla cancellazione puntuale dei raccordi spaziali e temporali, sulla giustapposizione di momenti contraddittori, sull’estensione emozionale di certi episodi e sulla contrazione di altri58. Come ha puntualizzato lo stesso Penn, «non c’è, nel film, una sola scena autonoma che sia autosufficiente dal punto di vista significante. Vi è sempre un insieme di temi paralleli che hanno lo stesso genere di ritmo nervoso»59. A cucire tra di loro episodi e personaggi, ci pensa, qua e là, proprio la voce di Guthrie, non completamente assorbita dalla sceneggiatura e dal personaggio: da un lato sopravvivono alcune strofe della canzone, dall’altro Penn gli affida un ruolo di vero e proprio commentatore, più che di narratore, con l’obiettivo di sottolineare, non senza una certa naïveté, il contrasto tra la propria visione del mondo e la società che lo circonda. L’andamento narrativo risulta in definitiva sussultorio e centrifugo, fondato sulla frantumazione dell’organicità della “storia”, sulla soppressione di una cronologia quantificabile a vantaggio di un clima atemporale, sulla decostruzione di una causalità “forte” e sulla continua emersione di sub-plot: per questo, secondo Manny Faber e Patrica Patterson, il film costi58. Quanto a velocità di montaggio, Alice’s Restaurant rappresenta il “record” della Allen negli anni Sessanta, con un’“average shot length” di 2.6 secondi; cfr. D. Bordwell, The Way Hollywood Tells It: Story and Style in Modern Movies, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 2006, p. 141. 59. R. Wood, Arthur Penn, cit., p. 124.

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tuisce, assieme a I compari (McCabe and Mrs. Miller, R. Altman, 1971) e Mean Streets (Id., M. Scorsese, 1973), un esempio emblematico e per l’epoca molto influente di dispersed movie, in cui spicca in particolare un «movimento brusco e irregolare […] che riprende il ritmo di una ballata»60. E anche in rapporto al percorso di Penn, la libertà strutturale di Alice’s Restaurant rappresenta una conquista e una “dimostrazione” importante: la felice collaborazione con Dede Allen, una maggiore autonomia produttiva e la lontananza dal palcoscenico favoriscono l’avvio di una ricerca che continuerà, in modo coerente, fino a Gli amici di Georgia, concentrandosi in particolare sulla torsione (più che sulla frantumazione) della drammaturgia classica, verso forme disincantate e aperte, bucherellate e “sciolte”; una ricerca che troverà nella spy-story di Bersaglio di notte una delle sue più interessanti realizzazioni. Anche sotto il profilo drammatico, in particolare nel caso del tumultuoso rapporto di coppia tra Alice e Ray e della vicenda del ribelle senza causa Shelly, Penn procede preferibilmente per salti e istanti, piuttosto che dispiegare un racconto dei sentimenti lineare e progressivo. Una certa musicalità all’origine del progetto è incorporata alla struttura del film, e il montaggio rinuncia alla buona condotta narrativa per abbracciare un ritmo dolce e variato, già per certi versi picaresco, come sarà quello di Piccolo grande uomo, in cui risultano esaltati la “molecolarità” del racconto e un incedere tra l’aneddoto e il riassunto, nella tensione tra grandi ellissi di raccordo e durate “reali” nello svolgimento dei singoli episodi. E Alice’s Restaurant prepara il film immediatamente successivo anche per quanto riguarda l’uso del registro umoristico, direttamente prodotto dal “tono” del racconto, dall’andamento del montaggio e dai commenti del personaggio/narratore: un contrappeso alla drammaticità del discorso e, al tempo stesso, un elemento essenziale per l’emersione del tragico. Lo stesso Guthrie, riflettendo in seguito sul riuscito incontro tra la sua ballata e le immagini di Penn, ha indicato in Ali60. M. Farber, P. Patterson, Kitchen Without Kitsch: Beyond the New Wave, «Film Comment», n. 13, novembre-dicembre 1977. A partire dall’analisi della struttura narrativa, accanto alla categoria del dispersed movie i due autori ne individuano una seconda (shallowboxed space), comune a molti altri film del periodo, e caratterizzata da una sensibilità “minimalista”, dalla centratura del racconto su un singolo personaggio o una singola azione ripetitiva e dalla prevalenza di uno spazio teatrale.

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ce’s Restaurant una sorta di progenitore del video musicale, e non è da escludere una diretta influenza della doppietta beatlesiana di Tutti per uno (A Hard Night, 1964) e Aiuto! (Help!, 1965) di Richard Lester, modelli originali, per l’epoca, dell’integrazione della musica nel racconto per immagini61; d’altra parte il “film musicale”, proprio allora, sta cambiando pelle anche in America, grazie a una nuova generazione di documentaristi. E Penn, ancora una volta, trova il modo – come sua abitudine un po’ dall’alto e da fuori, lontano dalle mode ma fiutando il presente – di far sue alcune novità, anche stilistiche, che stanno maturando in quel momento soprattutto a New York. In Alice’s Restaurant, in particolare, lasciandosi portare (senza però farsi troppo sedurre) dalla curiosa origine del progetto e adeguandosi allo “spirito” dei materiali, abbandona la sua propensione allo studio del personaggio per imbastire con molta grazia e leggerezza un film corale – strutturalmente corale –, col quale dar voce a un’intera comunità, rappresentata dai “nuovi” giovani, hippy e capelloni, antimilitaristi e apolidi per scelta, che in quel momento stanno occupando le strade e le piazze americane ed europee, ma anche il cinema mainstream e d’avanguardia. Al tempo stesso, tuttavia, sono proprio la coralità del racconto e il suo sapiente divagare, spinto dalla molteplicità sfuggente dei volti e dei vissuti, a tenere il regista lontano dal documento sociologico, dal manifesto ideologico, dal film politico. A Penn, come sempre, non possono bastare una sola versione del mondo o una sola visione delle cose, quand’anche vicine alla sua sensibilità, e la comune di Alice e Ray gli interessa meno come “progetto” e più come microcosmo di storie e personaggi. E al suo interno, prevedibilmente, vi trova ed esalta, accanto a un principio vitale e positivo, uno contraddittorio e terminale: in modo tipicamente penniano, gli slogan, gli ideali, i riti e i miti (in breve, l’immagine, il costume e la Storia) sono messi da parte a favore del racconto di uomini e donne molto semplici e molto comuni, coi loro desideri e le loro passioni contrastanti e viscerali, egoistici e carnali, con l’effetto di slegare completamente il racconto dalla situazione. In particolare, la vicenda di Alice’s Restaurant offre a Penn l’occasione per tornare a riflettere sui rapporti generazionali, 61. Secondo R.B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1980, cit., proprio Tutti per uno di Lester sarebbe il film cruciale nella diffusione americana del repertorio di innovazioni stilistiche elaborate dalla Nouvelle vague.

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sull’idea di famiglia, sui limiti tragici dell’alterità e sulle reali possibilità di una conversione del sogno in realtà. Così, più che su Arlo e i suoi compagni di viaggio, incaricati di testimoniare il nuovo, egli punta l’attenzione su Ray e Alice, praticamente assenti dalla ballata. Sono questi due personaggi romanzeschi e melodrammatici i veri motori del racconto: in quanto “principi d’ordine”, riconosciuti e simboleggiati dalla chiesa riconsacrata al culto della libertà a cui richiamano i figli dispersi per il mondo, attorno a loro si coagulano a poco a poco, tra dramma e commedia, le dinamiche centrifughe dei tanti personaggi del film. Per tutti, del resto, Ray (James Broderick) e Alice Brock (Pat Quinn) rappresentano un padre e una madre, offrono una casa e del cibo e realizzano il sogno, loro e di una generazione, di dar vita a una famiglia diversa, fondata sulla condivisione degli ideali anziché sui legami di sangue, in cui i ruoli sono instabili e i figli e le figlie possono tranquillamente trasformarsi in amanti. La loro infertilità – indice dell’apertura della coppia e della fuga dalla logica borghese – fonda per reazione un progetto egualitario, a distanza di sicurezza dalle logiche perverse della famiglia tradizionale: quando Arlo è dichiarato inadatto a unirsi all’esercito (l’altra “famiglia” per eccellenza della società americana), questa attitudine sperimentale nei confronti delle relazioni interpersonali risulta sancita anche all’esterno – si tratta, in fondo, del marchio d’estraneità e di quella solitudine speciale cui sono condannati tutti gli outcast penniani. In cerca di riparo e riposo, Arlo si rifugia da Alice e Ray (appena entrati in possesso della chiesa) a un quarto d’ora dall’inizio del film, dopo aver già combinato un sacco di cose tra università, visita di leva, scazzottate, incontri con la polizia e visita al padre morente. Intanto suona, e presso il piccolo locale dove si esibisce gratis incontra la prima di una serie di figure “dannate” con cui Penn sfoca l’immaginario ottimistico degli anni Sessanta, mostrando il lato oscuro e autodistruttivo dell’essere giovani e ribelli. Si tratta della tredicenne Reenie, troppo magra, sola e un po’ disperata, che dopo il concerto conduce Arlo in una casa fatiscente in cui vivono altri hippy come lei, attaccati alla cannuccia di un narghilé oppure fatti su un materasso senza lenzuola e, tirando su col naso, gli si offre sessualmente «perché forse registrerai un album»: la sua vita si consuma così, alla ricerca di partner più o meno famosi con cui passare la notte in cambio di un cimelio. Arlo la ascolta e poi le dona il suo fazzoletto: «Non voglio prendermi il tuo raffreddo174

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re». E non vuole prendersi neppure quello di Ruth, una specie di Reenie cinquantenne, padrona del locale in cui suona: la donna si offre di pagare gli ottanta dollari necessari a riscattare la roba di Shelly, ancora custodita nell’appartamento in cui viveva prima di finire in ospedale per droga, perché anche lei – coetanea di Alice e Ray – ha fatto parte del “movimento”, e nel movimento si faceva così, quello che possedevi era di tutti. Ma questa lady ha ormai sepolto il suo passato rivoluzionario sotto il trucco e i bei vestiti, e in cambio vuole qualcosa, perché il mondo, fuori dal movimento, funziona così; Arlo rifiuta i suoi baci, confessa di non trovarla attraente e se ne va: il movimento non solo non l’ha salvata, l’ha anche condannata a una solitudine inguaribile, la stessa a cui sembra destinata Reenie. In controluce, questi due personaggi femminili anticipano la drammatica vicenda di Shelly, scultore e motociclista, la cui dipendenza dalla droga è sintomo di una dolorosa mancanza di fiducia in se stesso e negli ideali che informano la vita di Ray e Alice, i quali manifestano nei suoi confronti un atteggiamento contraddittorio da genitori/amanti; una targa appesa a una parete della chiesa, in cui si celebra la “fedeltà fino alla morte”, suona ai suoi occhi come un insulto. Nel caso di Shelly non bastano una chiesa, un credo, tanto amore e una libertà sconfinata di essere e fare ciò che più si desidera; come altri personaggi del cinema di Penn, Shelly è tragicamente “fuori”, doppiamente fuori: dal mondo e ai margini della comune di Stockbridge, inadeguato come certe figure di giovani del cinema degli anni Cinquanta, incapace di credere davvero in qualcosa e in viaggio senza riferimenti, come suggeriscono la sua passione suicida per le moto e la fragilità aerea delle sue sculture, simili a quelle di Calder. Penn usa la sua inquietudine conflittuale per svelare come anche l’ordine della comune sia, in fondo, un sistema e un “linguaggio”; e attraverso il rapporto problematico tra Shelly, Alice e Ray introduce nel progetto idilliaco della chiesa di Stockbridge un principio di crisi: un principio tutto interno, diversamente da quanto accade in altri film del periodo come L’impossibilità di essere normale (Getting Straight, R. Rush, 1970), La guerra privata del cittadino Joe (Joe, J. Avildsen, 1970) o Panico a Needle Park (The Panic in Needle Park, J. Schatzberg, 1971), in cui il mondo del ribellismo giovanile collassa (spesso a titolo “dimostrativo”) a causa della violenza borghese. 175

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Con la sua esperienza disperata ma vera del mondo, Shelly svela dunque il parziale autismo della comune e la sua natura terminale. Più che un’alternativa alla mentalità borghese, Alice e Ray hanno edificato un casa-rifugio al riparo dalle scosse della storia e dal passare del tempo: se la percezione di una cronologia verosimile degli eventi sfuma a poco a poco, calando il film in una condizione atemporale, è perché il tempo, nella comune, sembra essersi fermato, con la realtà chiusa fuori. Durante la gara motociclistica, quando lo speaker ricorda il sacrificio dei giovani americani impegnati nella guerra in Vietnam, Alice ne è turbata, volta le spalle e se ne va. E contro questo deficit di realtà, contro l’autoreferenzialità della chiesa di Stockbridge, reagirà alla fine del film lo stesso Arlo, mettendosi in viaggio assieme alla fidanzata orientale (vietnamita?): un’immagine “fertile” che contrasta dolorosamente con il rimatrimonio “secondo le regole” e un po’ disperato di Alice e Ray, e con l’immagine della sola Alice, (tra)vestita da sposa, su cui Penn chiude il film, spiandola per tre interminabili minuti dalla “coinvolta distanza” del teleobiettivo, in un lungo e meraviglioso carrello che esprime benissimo la sconfitta di un personaggio da melodramma, fermo al di là dalla porta della sua casa-prigione, con lo sguardo puntato verso l’orizzonte62 (vedi inserto p. 12). Dice la canzone di Arlo: «You can get anything you want, at Alice’s Restaurant //Excepting Alice…». Similmente ad altri personaggi penniani, diversi e inassimilabili e dunque minacciosi, anche se in forma passiva e involontaria, Shelly finisce dunque per trasformarsi in un elemento disturbante che inalbera, all’interno della comune e in particolare nei rapporti tra Alice e Ray, un principio distruttivo contrario alle premesse su cui si fonda la comune di Stockbridge; non fa nulla, in realtà, se non stanare gli uomini dietro i loro ideali e i limiti delle loro utopie. Ray, secondo uno schema autoritario non lontano dalla struttura patriarcale della famiglia borghese, cerca di trasformare il giovane “recuperato” in un figlio, un seguace e un erede, modellandolo a sua immagine e somiglianza; ma il conflitto tra i due si fa a poco a poco insanabile, il disagio di Shelly aumenta, la sua inadeguatezza lo riconduce verso la droga. Alice, da parte sua, alterna incestuo62. La scena ricorda da vicino, per impaginazione e modalità di ripresa, il finale di Stéphane, una moglie infedele (La femme infidèle, 1969) di Claude Chabrol.

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samente affetto materno e possesso carnale, e sembra cercare in Shelly il Ray di un tempo, così che l’intesa tra l’uomo e il ragazzo finisce per risultarle insopportabile e, al tempo stesso, per alimentare questo perverso gioco di specchi; per ritrovarsi e risposarsi, dovranno attendere che il ragazzo muoia. Fintanto che è con loro (tra loro), la dissimmetria nei rapporti tra Alice, Ray e Shelly fa emergere dinamiche di coppia da dramma borghese: per esempio, dopo la notte d’amore tra la donna e il ragazzo, Ray irrompe nel ristorante comportandosi come un marito geloso e violento, ma più che della moglie reclama il possesso di “Shel”: Alice li guarda, e ancora una volta sembra vedere in Shelly un figlio, un amante e una controfigura del marito (accentuata dall’abbigliamento identico dei due uomini). Poco dopo, invece, sarà lei, nella cucina del locale, a reagire come una moglie gelosa e a scappar via gridando, infastidita dall’intesa tra Ray e Shelly: gelosa del ragazzo, naturalmente, e delle mani pesanti di Ray che lo toccano e lo divertono. Ma, soprattutto, delusa di se stessa e della propria vita, stanca dei troppi uomini e dei troppi amori: fugge allora a New York, da Arlo, a cui confessa: «Sono come una cagna che ha avuto troppi cuccioli. Non potevo continuare ad allattarli tutti». E poi, tra le lacrime, decisa a toccare l’abisso, domanda al ragazzo «Vuoi?», offrendo se stessa come fosse il piatto del giorno del suo ristorante, come fosse una Ruth qualsiasi. Arlo l’aiuta ad addormentarsi suonando per lei. Le cose, promette l’indomani mattina Ray, cambieranno: ha capito che Alice non ha dormito con Arlo (a Penn, da grande maestro nel racconto dei sentimenti, basta una soggettiva per comunicarlo allo spettatore), le sfiora il seno e se la porta via: bisogna cucinare per la festa del ringraziamento. Ed è inevitabile che il ritrovarsi di Alice e Ray rappresenti una specie di condanna a morte per Shelly. Al termine della festa, quando si appartano a fare l’amore, il ragazzo li osserva baciarsi, turbato come un figlio alla vista dei genitori avvinghiati e offeso come un amante doppiamente tradito. Shelly resta fuori, anche narrativamente: nel corso della festa del Ringraziamento e dell’episodio della discarica, che riporta nel racconto l’eco della ballata di Arlo e il suo andamento comico, egli è poco più che una comparsa. Nella scena in tribunale che chiude la lunga sequenza, è l’unico a restare fuori dall’aula, dopo aver malamente ordinato a Ray, che vorrebbe stare con lui, di lasciarlo in pace; seduto in disparte, accarezza il marmo freddo e legge le 177

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targhe commemorative di alcuni notabili della città, anticipando ancora una volta (come già era accaduto con la lapide nella chiesa) il suo destino tragico. Che si manifesterà di lì a poco in una delle scene più belle del film, in cui Ray, disperato, lagnandosi come un padre («Gli ho dato tutto ciò che voleva, tutto ciò che avevo»), proietta su una parete della chiesa un filmino amatoriale di Shelly a una gara motociclistica, mentre Alice, frapponendosi tra il proiettore e l’immagine, avanza verso Ray con le mani tra i capelli e il primo piano del ragazzo riflesso sul suo seno, in un gesto, al tempo stesso simbolico e reale, di incorporazione materna e offerta sessuale (vedi inserto p. 10). Il ménage à trois, rifiutato in Gangster Story, diventa in Alice’s Restaurant il fulcro melodrammatico della vicenda. In direzione contraria procede il percorso di Arlo, che una volta “libero” dall’esercito si reca dal padre malato e ridotto al silenzio, al quale confida che «nella mia vita le cose buone derivano dal non fare quel che non voglio fare»: una doppia negazione più che emblematica, segno di una condizione inattiva e attendista di cui è ormai stanco e a cui, di lì a poco, sostituirà una piena affermazione, lasciando la “riserva” di Ray e Alice per cominciare a realizzare davvero i suoi sogni. Quali? Non importa saperlo: «per scoprirlo dovrò fare un viaggio lungo e difficile»; cominciare a vivere, spinto dalla fretta di «sapere quale sarà il mio destino». I percorsi di Shelly e Arlo, anche se in modi e con epiloghi diversi, finiscono entrambi per svelare i limiti del “progetto” di Alice e Ray, limiti sentimentali più che politici, tra autodistruzione e inazione. Non a caso, mentre l’avventura di Arlo si chiude col desiderio di fare – un fare ancora incognito, ma poco importa – quella di Alice e Ray termina con un rifare, con una replica, anche se di poco variata, di gesti già compiuti e di promesse già scambiate. Il loro rimatrimonio non suggella una rinascita ma un incerto tentativo di lieto fine e una chiusura di coppia, in cerca di salvezza, con i figli in partenza e Shelly ormai seppellito, contemporaneamente al padre di Arlo (Alice: «Forse la nostra bellezza non traspariva»; Ray: «Forse non siamo poi tanto belli ultimamente»). Il matrimonio assume dunque la forma di un festino funebre e disperato: nasce, del resto, come reazione a una doppia morte e possiede una logica contraria, arrivando alla fine di tutto, dopo la costruzione di una casa e quando i figli sono ormai grandi e pronti ad andarsene; al termine della festa, Ray vorrebbe trat178

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tenere tutti, e continuare a brindare e cantare; forse, dice, potrei vendere la chiesa e comprare un po’ di terra per tutti noi, ricominciare da capo, ancora una volta, come dovrebbe suggerire quel nuovo matrimonio. Alice, in disparte, lo ascolta con molta pena. «Tutti quei ragazzi se ne sono andati, e invece dovevano restare»: Ray li vorrebbe ancora con sé, per sé, così «saremmo una famiglia»; ma intanto sono rimasti solo lui e Alice, in una chiesa troppo grande. «Il film è di una bellezza esemplare, persino accademica, ma non siamo all’accademia della protesta dei contenuti, a tutto il ciarpame della “contestazione” nelle università o nei viaggi sulle motociclette»63; e non siamo neppure alla bellezza accademica del cinema classico: Penn, come anticipato, parte da materiali “veri”, li riscrive ampiamente e riorganizza, cercando al tempo stesso di mantenere viva la loro “verità” fattuale. Con grande maestria, riesce a stare per tutto il film «sulla soglia degli eventi», realizzando uno dei saggi più riusciti, per continuità e coerenza, di quel cinema fisico, concreto, tutto spostato verso il racconto dell’umanità vibrante di uomini e donne che, secondo Robin Wood, costituisce la parte migliore del suo talento narrativo. In termini più generali, il regista offre con Alice’s Restaurant un esempio ancora validissimo di racconto in bilico tra fiction e documentario, se non addirittura un metatesto sul modo in cui la realtà arriva al cinema e su come il cinema, quello “di finzione narrativa”, può rispettarla senza rinunciare a se stesso. Molto del fascino del film deriva in effetti dall’ambiguo documentarismo romanzesco che cuce con molta grazia gli eventi, mettendoli in tensione tra ricerca del racconto e immediatezza espressiva. La “storia” non è la priorità, e tanto meno lo sono la sua chiusura o l’“idea” (Haustrate parla giustamente di un film di domande, più che di risposte64), mentre la descrizione si risolve spesso in un impatto non mediato con i materiali della scena; si avverte, qui, l’eco di una libertà produttiva non comune e del ruolo felicemente ammesso dell’alea; questo, per Penn, è il vero cinema d’autore: «Citerei Alice’s Restaurant come esempio della versione americana del film d’autore; era perfettamente possibile, per esempio, progettare una cosa e, quando si veniva a sapere 63. G. Turroni, «Filmcritica», n. 214, 1971. 64. G. Haustrate, Arthur Penn, Edilig, Paris 1986, p. 49.

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che l’indomani mattina ci sarebbe stata la neve, lasciar semplicemente perdere tutto quello che avevamo intenzione di fare – abbiamo girato tutta la sequenza della sepoltura nella neve in un solo giorno»65.

Nell’estate del 1969, a proposito di cinema d’autore “all’americana”, assieme a Alice’s Restaurant esce una manciata di film destinati a incidere profondamente sulla storia del cinema (non soltanto americano): Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, J. Schlesinger), Easy Rider (Id., D. Hopper, P. Fonda), Putney Swope (Id., R. Downey Sr.), Quel freddo giorno nel parco (That Cold Day in the Park, R. Altman), la biografia del Che di Fleischer, Brevi giorni selvaggi (Last Summer, F. Perry) e If dell’inglese Anderson; tra la fine dell’estate e l’inverno escono invece il primo lungometraggio di Paul Mazursky, Bob & Carol & Ted & Alice (Id.), Non si uccidono così anche i cavalli (They Shoot Horses, Don’t They?, S. Pollack, 1969) e La ragazza di Tony (Goodbye Columbus, L. Peerce, 1969), dal romanzo d’esordio di Philip Roth. Dopo e forse più del 1967, «l’estate del 1969 – come ha scritto Stephen Farber – potrebbe apparire come uno dei momenti cruciali nella storia del cinema americano. […] Quasi tutti i grandi, costosi e stilisticamente tradizionali film commerciali hanno fallito miseramente […] Il nuovo pubblico ha definitivamente indicato le sue preferenze per i film giovani66». Con Alice’s Restaurant, come già due anni prima con Gangster Story, Penn finisce così nel mucchio un po’ selvaggio del nuovo cinema americano, a cui tuttavia sembra appartenere più che altro per un “effetto di sistema” in molti casi retrospettivo. Egli incrocia infatti il “nuovo” da una posizione di grande autonomia intellettuale e politica, e a partire da una 65. R. Wood, Arthur Penn, cit., p. 138. Curiosamente, i «Cahiers du Cinéma» e buona parte della stampa quotidiana francese vedono invece in Alice’s Restaurant un esempio di film hollywoodiano classico. 66. S. Farber, End of the Road?, «Film Quarterly», 23, n. 2, winter 1969-70. Ma l’anno successivo avrebbe già dimostrato una contrazione, sia per quanto riguarda il successo commerciale del genere “youth-cult films”, sia per quanto riguarda l’originalità della loro ispirazione. Lo dimostrano film come L’impossibilità di essere normale, Fragole e sangue (The Strawberry Statement, S. Hagmann), Dai… muoviti (Move!, S. Rosenberg), Lo spavaldo (Little Fauss and Big Halsey, S.J. Furie): cfr. T. Schatz, Old Hollywood/New Hollywood. Ritual, Art and Industry, UMI Press, Ann Arbor 1983.

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storia, personale e artistica che, oltre a tenerlo a distanza dai trend e dalle furbizie commerciali (Alice’s Restaurant è un film che riesce a scontentare quasi tutti, in primo luogo gli hippy stessi), lo proietta sullo sfondo della New Hollywood in modo spesso conflittuale, in un ruolo di “padre” e coscienza critica per certi versi inassimilabile (l’altro caso è Altman). Alice’s Restaurant non rappresenta il contributo di Penn al cinema giovane; arriva, al contrario, come esito inevitabile di un percorso molto personale («sarebbe stato sorprendente che Penn non avesse fatto un film sul movimento hippy»67). Penn approfitta della diversità di Arlo, Alice, Ray e compagni, senza farsene completamente sedurre: approfitta di queste figure “eccessive” e storicamente determinate per continuare un discorso antico secondo modalità nuove. A differenza di Billy the Kid e Mickey One, infatti, ma anche degli irresponsabili teenager Bonnie e Clyde, “out” perché portatori di una diversità eccedente, inassimilabile e pericolosa (imposta dal destino o tragicamente inevitabile), i protagonisti della comune vogliono essere e fare altro, sono interpreti consapevoli di una diversità, di un’opposizione e, nella fattispecie, di una positiva drammatizzazione politica, culturale e sociale della loro condizione. Un po’ perversamente, dunque, questa volta Penn non lavora sull’attrito estraendo il tragico dalla commedia umana e il destino e il suo significato dal disordine delle azioni e delle passioni; compie invece, per certi versi, il percorso contrario, introducendo un principio drammatico là dove sembrerebbe non esserci (non c’è, di fatto, nella canzone di Arlo) e mandando in mille pezzi la solidità del volere e l’ordine dei valori. Verifica un po’ pignola e disincantata ma affettuosa di un’alterità in cui Penn non può vedere un’alternativa (perché sarebbe troppo semplice e perché il mondo degli uomini non va così), Alice’s Restaurant procede dunque a ricondurre parole e azioni sia alla natura concreta e complessa dei legami affettivi da cui i personaggi tentano di affrancarsi inneggiando alla libertà dell’amore, sia al problema del fare e dell’essere nella storia e nel tempo. Incrociando il romanzo di formazione di Arlo e Shelly all’elegia funebre di Alice e Ray, Penn predispone una controscena inaspettata ai codici della comune, riducendo le fratture del conflitto generazionale e l’aleatorietà politica del “movimento” all’umanissima logica dei sentimenti 67. R. Wood, Arthur Penn, cit., p. 69.

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e al piccolo teatro dei rapporti tra uomini e donne, padri e figli: così, a poco a poco, l’unità si disintegra, la finzione si svela, i personaggi vengono inchiodati alle loro responsabilità individuali e le cose sono riportate a se stesse, alla loro “lettera”, prima e oltre il tentativo di sospendere la realtà e le sue regole messo in pratica dall’utopia di Ray. Tale processo si manifesta molto bene nell’evoluzione semantica cui va incontro quel particolare personaggio che è la chiesa: sconsacrata all’inizio del film e riconsacrata da Ray al culto dell’amore, torna a essere, alla fine, una chiesa come tutte le altre, con una sposa vestita di bianco fuori dal portone al termine di un matrimonio, mentre gli invitati se ne vanno. Penn, del resto, se da un lato non si accontenta di una sola visione del mondo e di una sola versione delle cose, dall’altro condivide con i maggiori autori del cinema americano di quegli anni (Altman in primo luogo) un atteggiamento cauto e anti-ideologico, e alla proposta di un’alternativa sostituisce un sincero coinvolgimento affettivo e una comprensione priva di preconcetti. L’analisi della crisi è il cuore del suo cinema, l’assenza di una soluzione ne è il risvolto intellettuale e morale, il disincanto e una perenne inquietudine il versante emotivo: dice tutto questo, e bene, lo sguardo prolungato e partecipe ma al tempo stesso distante e sfuggente con cui sceglie di chiudere il film.

Il mistero di un volto «Forse pecco di presunzione, ma ritengo che la storia degli indiani d’America non sia mai stata raccontata in una chiave giusta. Questo credo sia stato il motivo per cui ho accettato di fare un film sull’epopea dell’Ovest»68.

Concluso il montaggio di Alice’s Restaurant, Penn si mette subito al lavoro su un altro film, Piccolo grande uomo, passando dal set intimo della comune di Alice e Ray ai grandi spazi aperti dell’epica americana per realizzare finalmente un vecchio desiderio. Alla rilettura di uno dei temi cruciali del western americano, vale a dire la lotta tra esercito federale e tribù pellerossa, Penn lavora infatti già da alcuni anni assieme a Jack Richardson su un soggetto originale, senza tuttavia ap68. M. Foglietti, Gravi conflitti di coscienza. Incontri: Arthur Penn, «Rivista del Cinematografo», n. 12, dicembre 1971.

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prodare a una conclusione soddisfacente; così, quando legge un riassunto del romanzo Little Big Man, pubblicato nel 1964 da Thomas Berger, uno degli autori di punta della narrativa new western accanto a Theodore V. Olsen e Larry McMurtry, decide di abbandonare il vecchio progetto per la riduzione del libro, passando dalla MGM, che vorrebbe farne un film multimiliardario, a una casa di produzione più piccola, la Cinema Center Films. Il film viene girato tra Hollywood (per gli interni), il Montana e l’Alberta (la sequenza del massacro di Washita). Penn è conquistato dall’ironia del romanzo e dal suo ritmo incalzante, vicino al sapore da ballata dei due film precedenti, con cui Piccolo grande uomo compone una specie di ciclo interno alla produzione del regista (non più interrotta da sdegnosi ritorni al teatro69), una chanson de geste in cui, alle avventure di uno o più personaggi principali, s’incrocia un racconto collettivo di sapore storico, e la struttura narrativa si apre verso un andamento più libero e calcolatamente dispersivo. Come, del resto, ci si può legittimamente attendere da un western, ma non se dietro la macchina da presa c’è Penn, che sia nel precedente Furia selvaggia, sia nel successivo Missouri diluisce l’afflato epico e la geografia del genere fino al dramma da camera. Ma dopo il documentarismo travestito di Alice’s Restaurant, il regista sembra aver voglia di continuare un discorso al plurale, con riferimenti più o meno diretti alla storia in corso e, almeno questa volta, sceglie il western (al di là del “tema” dello sterminio degli indiani) per le sue qualità popolari ed epiche, e perché proprio e forse soltanto il western – inteso come genere cinematografico e come retorica naziona69. Anche perché, mentre il cinema americano vive una delle sue stagioni più innovative e entusiasmanti, Broadway, almeno secondo Penn, sta al contrario cadendo in una crisi profonda: «Sto perdendo interesse nei confronti del teatro, a vantaggio del cinema. I palcoscenici di Broadway sono pensati per un piccolo pubblico che può permettersi di pagare dieci dollari per vedere How to Succeed in Business [il musical Come far carriera senza lavorare, rimasto in cartellone per quasi quattro anni, fino al 1965, e diventato un film omonimo nel 1967 per la regia di David Swift]. Di conseguenza, questo pubblico non è serio. Del resto, guardiamo in faccia la realtà: non ci sono copioni seri a Broadway. I cosidetti drammi seri hanno l’aria di essere nobili e letterari, ma non scalfiscono davvero alcun valore fondamentale del pubblico. I film lo fanno», A. Penn, Bonnie and Clyde. Private Integrity and Public Violence, cit., p. 10.

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lista – consente di svelare più chiaramente l’intreccio talvolta perverso tra mito, storia e attualità. La produzione, a differenza di Alice’s Restaurant, ha una caratura hollywoodiana – cinque milioni di dollari di budget, una manciata di star, tempi e costi da rispettare – ma il produttore è un caro e vecchio amico di Penn, Stuart Millar (che due anni dopo avrebbe esordito alla regia con un western realista, crepuscolare e malinconico, Quando le leggende muoiono [When the Legends Die]), e accanto a lui c’è il fidato Gene Lasko. Ma se il passaggio dal set libero e moderno di Alice’s Restaurant a quello un po’ più industriale di Piccolo grande uomo si compie agilmente, è anche perché Penn, grazie alle deludenti esperienze hollywoodiane del passato, ha ormai imparato la lezione. Così, se da un lato accetta di sdoppiarsi nel ruolo di produttore (cosa che preferirebbe evitare) per tenere alto il controllo sul film, dall’altro accoglie con maggiore serenità i limiti creativi imposti alla sua autorship da una progetto di questo tipo, ammettendo preliminarmente la possibilità che il film (alla cui sceneggiatura non collabora direttamente) possa anche non diventare un film veramente personale. Il metodo di lavoro si adegua, Penn guarda avanti, al momento della post-produzione (ancora una volta accanto a Dede Allen), e per salvaguardare la continuità della recitazione e predisporre un ampio materiale in vista del montaggio gira diverse volte la maggior parte delle scene, dal principio alla fine, variando punto di vista dall’una all’altra, ampiezza del campo e obiettivo; un metodo tutto sommato tradizionale, che però Penn porta alle estreme conseguenze, come già aveva fatto in Anna dei miracoli70. Complessivamente, dal punto di vista produttivo Piccolo grande uomo costituisce il film della “maturità”: del regista “New Hollywood”, dell’autore disposto a sacrificare certe ambizioni per approfittare della piattaforma industriale offerta dagli studios, dell’intellettuale “organico” ma non allineato. L’intelligenza e “l’esemplarità” culturale della sua regia risiedono anche in questa capacità di coniugare limiti strutturali e ricerca personale, e di intervenire per piccoli tocchi sul modello offerto dal sistema di produzione del cinema tradizionale: un 70. Un interessante documento sul metodo di lavoro di Penn sul set di Piccolo grande uomo è offerto dal capitolo Le tournage de Little Big Man contenuto in R. Wood, Arthur Penn, cit.; Wood, su invito dello stesso Penn, ha presenziato alle riprese del film per quattro giorni, assistendo in particolare alla realizzazione della scena del massacro di Washita.

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modello che, proprio perché non rifiutato a priori ma accolto nella piena consapevolezza dei suoi limiti (ma, anche, delle sue possibilità), nelle mani di un regista rivoluzionario ma non sovversivo come Penn può continuarsi e, allo stesso tempo, rinnovarsi; del resto, avendo di mira la sconfessione dell’ideologia, egli sa riconoscere nella “forma” (Alice’s Resturant) e nel genere (Gangster Story) un fondamentale territorio di sfida. Oltre che comporre coi due precedenti una trilogia molto compatta, Piccolo grande uomo ne rilancia, anche se in modo diverso, la riflessione attorno al versante “meta” del racconto, non soltanto cinematografico. Nel film del ’67, come già in Furia selvaggia, è una frattura interna ai personaggi tra un’identità originaria e una “truccata” e mediale (cercata o imposta dall’esterno) a porre l’accento sugli scarti tra realtà e finzione, storia e racconto; Alice’s Restaurant esplora il tema incorporandolo in termini stilistici, nella tensione tra documentario e fiction, secondo un’operazione di ibridazione che può richiamare certi esperimenti letterari dell’epoca, in primo luogo la non-fiction di A sangue freddo, pubblicato nel gennaio del 1966, in cui Truman Capote coniuga l’“orizzontalità” del resoconto storico e della cronaca giornalistica con la “verticalità” e l’esplorazione profonda della narrazione. Piccolo grande uomo è, dei tre, quello che elabora in modo più “militante” il vasto problema della finzione, intrecciando tradizione cinematografica, rappresentazione storica, memoria e identità; il racconto, in modo emblematico, scaturisce dalla memoria di Jack Crabb come reazione a un certo modo di scrivere e tramandare la storia, alla sua impersonalità, alla sua approssimazione dall’alto («Ci raccontiamo un sacco di bugie sulla storia. […] La storia è una bugia a cui scegliamo di credere»71). E dei tre, Piccolo grande uomo è anche il più beffardo, disincantato, relativista. Non a caso, se da un lato ripropone un’operazione analoga a quella di Alice’s Restaurant, contaminando liberamente finzione e personaggi e eventi storici (il generale Custer, la battaglia di Little Big Horn), dall’altro elegge a testimone oculare un’incredibile figura di 121enne, incoronandola unico narratore del film72. 71. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 120. 72. Nel passaggio dalle quattrocento e più pagine del romanzo di Berger allo script di Calder Willingham (drammaturgo, romanziere e sceneggiatore di pochi ma significativi film del periodo come Il laureato e La gang), si perdono molti altri personaggi storici e semi-leggendari che incrociano, più o meno direttamente, l’avventura di Crabb (Wyatt

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Il western fa il resto. Per la sua particolare funzione all’interno della storia e della cultura americane, il genere rappresenta infatti un luogo ideale per manifestare una crisi dei sistemi di riferimento (visivi, narrativi, sociali) e per stanare i processi di approssimazione e falsificazione nella costruzione-racconto della Storia, le rotte perverse della mitogenesi e la persistenza di un immaginario massmediale tutto sommato indifferente alla realtà. Jack Crabb prende parola per reagire a un’idea della storia astratta e libresca, sostituendovi la sua verità sullo scontro tra indiani e confederati; e lo fa con un’impazienza che sembra riflettere la posizione di Penn nei confronti della tradizione cinematografica. Di fronte a Jack, nella casa di riposo in cui vive solo, affaticato più dai ricordi che dall’età, siede infatti un giovane storico “progressista” che usa parole difficili (“genocidio”) e considera Little Big Horn e il generale Custer roba da “leggende e avventura”. Per quanto ispirata da un sentimento rinnovato sul conflitto tra americani e indiani («Sterminio… è quello che abbiamo fatto agli indiani»), la visione del professorino difetta di una qualità che è esattamente quella che i mezzi di comunicazione di massa hanno contribuito a eliminare dalla tradizione storica, ossia la verità fisica, incarnata e sensibile dei fatti. È, la sua, una visione della storia ormai saldamente ancorata alla neutralità apparente di una versione generale, recintata e protetta dai fatti, dalle date, dai nomi e dai documenti ufficiali. Rinunciando al tempo stesso alla retorica della mitologia western e all’impersonalità delle conclusioni dello storico, interprete di testi anziché di eventi, Penn accetta dunque la scommessa di un film interamente guidato dalla memoria di un testimone oculare come Crabb, nonostante i dubbi e le incertezze che accompagnano inevitabilmente il suo racconto (la locandina originale del film recita: «Was Either the Most Neglected Hero in History or a Liar of Insane Proportion!»); accetta il rischio perché Crabb gli consente di entrare nella storia – in un momento cruciale della storia americana – e di riviverla, anziché, più semplicemente, ripensarla. Accade così che Piccolo grande uomo, prima ancora che il più importante western Earp, Buffalo Bill, Kit Carson, Calamity Jane…): selezione naturale e inevitabile, a cui s’accompagna però il desiderio di restringere ancor di più il fuoco del racconto sul protagonista, interpretato dal neo-divo Dustin Hoffman, l’ennesimo new actor con cui Penn sembra naturalmente destinato a lavorare.

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revisionista degli anni Settanta accanto a Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, A. Polonsky, 1969) e Soldato blu (Soldier Blue, R. Nelson, 1970)73, valga oggi soprattutto come raffinato saggio di “microstoria”, come lezione morale sulla costruzione della memoria collettiva e come riflessione (del tutto in linea con la ricerca europea di quegli anni) sul rapporto tra immagine e realtà, rappresentazione e conoscenza. In particolare, la forte propensione umanistica che attraversa e unifica il cinema di Penn lo conduce in questo caso a ripensare la storia come «ricerca della verità relativa al modo conflittuale e attivo degli uomini di agire nel mondo», come «un paradigma imperniato sulla conoscenza dell’individuale»74: una via di fuga dai palinsesti e dalle retoriche del racconto d’invenzione e della cronaca storica che mira a ritrovare, a partire dall’esempio indiziario, una sorta di antropologia collettiva e originaria – l’uomo prima della storia, i suoi pensieri e i suoi sentimenti prima delle azioni, la realtà del mondo prima dei fatti. Attorno alla figura di Jack Crabb si restringe dunque, a poco a poco, la narrazione, trasformandolo da testimone e agente passivo in protagonista, e facendo della conquista della sua storia (non della sua versione della storia) il punto d’arrivo morale del film. Parte largo, descrittivo e avventuroso, Piccolo grande uomo, per chiudersi progressivamente sull’esperienza di un solo uomo, sui suoi sentimenti e sul carico pesante della 73. Com’è noto, la revisione dei canoni del western in chiave filo-indiana era cominciata già negli anni Cinquanta, con film come L’amante indiana (Broken Arrow, 1950) di Delmer Daves (che avrebbe continuato la sua riflessione quattro anno dopo, con Rullo di tamburi [Drum Beat]), Hiawatha (K. Neumann, 1952), su un’America pre-europei, e Furia indiana (Chief Crazy Horse, G. Sherman, 1955), che racconta dal punto di vista dei Lakota la leggendaria vita e le altrettanto leggendarie imprese di Cavallo Pazzo. Per quanto riguarda il western revisionista degli anni Settanta, Penn, a ragione o a torto, ha rivendicato in più occasioni una sorta di primogenitura: «[Piccolo grande uomo] è stato il primo. Altri film ci hanno preceduto in sala, ma solo perché ho impiegato sei anni per farlo. Così, nel frattempo, si veniva a sapere della sceneggiatura. Uno di questi film è Soldato blu, dove credo abbiano copiato delle cose da noi» (G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 120). Come in Piccolo grande uomo, tra l’altro, nel film di Nelson la rappresentazione della tragedia indiana richiama in alcuni punti, più o meno esplicitamente, il coevo conflitto vietnamita. 74. G. Levi, A proposito di microstoria, in P. Burke (a cura di), La storiografia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1993, p. 112.

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memoria, come suggerisce il ritorno malinconico del finale, con quel carrello indietro simile al congedo di Alice’s Restaurant. Penn compie dunque una doppia operazione: da un lato, filtra il racconto della Storia attraverso la memoria di un uomo (sempre e soltanto la sua, mancando del tutto racconti o memorie seconde); dall’altro lato, anziché assottigliarne a poco a poco la presenza (avvantaggiandosi della specifica stortura temporale del cinema, che fa subito dimenticare la natura passata degli eventi), trasforma quella stessa memoria in “materia” del film, chiudendo sul silenzio del soggetto e inchiodando una volta per tutte il racconto all’esperienza vissuta. Come a dire che la Storia è fatta dagli uomini e filtrata dalle loro passioni, e gli eventi non esistono al di fuori del loro modo di viverli e concepirli attraverso l’esperienza; non, almeno, per uno come Penn, il cui cinema, fin dalle prime prove, appare consacrato all’indagine dell’uomo e dei suoi sentimenti, in difesa della soggettività contro il piano neutro dell’oggettività. Se dunque Piccolo grande uomo, come la critica ha ormai sancito, può essere considerato il più importante western revisionista della storia del cinema americano, ciò non dipende soltanto dall’inedita umanità con cui vi è trattato il popolo pellerossa; il revisionismo della pellicola deriva piuttosto da un rinnovato atteggiamento nei confronti del racconto storico, dalla delega alla soggettività testimoniale, dal gesto “vero” di introdurre un narratore interno, eliminando l’autorità di uno onnisciente. Tutto il resto segue; e se ancora oggi il film conserva intatta la sua forza polemica nei confronti della rappresentazione vulgata, al cinema e non solo, di un momento cruciale della storia degli Stati Uniti, è proprio per la sostituzione che compie in merito alla voce. Con la quale, accettando i limiti di ogni revisionismo (e volendo intelligentemente evitare la controideologia), Penn indica la necessità di ridare umanità al racconto della storia e di ammettere una pluralità di sguardi e una maggiore disponibilità a contaminare la “grande storia” con il punto di vista interno dei protagonisti: l’obiettivo non è rifare la Storia, ma inquinare la certezza dei suoi assunti e delle sue conclusioni, mandandola a gambe all’aria attraverso una versione bassa, processuale e umanistica potenzialmente concorrente. Il revisionismo di Piccolo grande uomo risiede insomma nella sua capacità di avvicinare, umanizzandola, la tragedia dei pellerossa, e di “quotidianizzare” l’epopea western, rendendole entrambe accessibili alla diversa sensibilità degli anni Sessanta. Un processo di avvicinamento comune ad altri film di Penn – 188

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sempre sensibilissimo ai rapporti tra film e spettatore –, essenziale a liberare la dimensione politica del racconto. Piccolo grande uomo si rivela così, al tempo stesso, una riflessione sulla storia passata e su quella presente, idealmente unificate dal ripetersi di un identico dramma: quello, privato, di Crabb, e quello, su larga scala, dell’espansionismo imperialista americano, sorretto dal principio della “rigenerazione attraverso la violenza” («metafora strutturante dell’esperienza americana») e giustificato dal complesso para-religioso del Manifest Destiny75. Passato e presente condividono lo stesso ethos guerriero e un’identica «concezione della violenza come cultura» e come «strumento rigenerativo e strutturante per la stessa identità nazionale»76: con Piccolo grande uomo il regista risale il corso della storia fin quasi all’origine, soffermandosi sul momento cruciale e vagamente anarchico in cui la mitologia della frontiera e l’archetipo dell’hunter trascolorano nella figura del “buon soldato”, sovrapponendo idealmente la marcia dei frontiersman ai movimenti militari dell’esercito dei moderni Stati Uniti77. Con ciò, il film non si risolve in un semplice atto d’accusa verso il genocidio dei nativi (a differenza di altri western revisionisti), ma si allarga a analizzare «la mentalità e i primi sviluppi del “complesso militare-industriale” dell’America», approfittando di un momento particolarmente rappresentativo della storia statunitense, di passaggio e formazione, per coglie75. R. Slotkin, Regeneration Through Violence: the Mythology of the American Frontier, 1660-1880, Middletown, Wesleyan University Press 1973, p. 5. Per un approfondimento sul tema del Manifest Destiny, si veda S.W. Haynes, C. Morris (a cura di), Manifest Destiny and Empire. American Antebellum Expansionism, Texas A&M University Press, Texas 1997. 76. G. Mariani, Le parole e le armi. Tra Omero e l’America, in Id. (a cura di), Le parole e le armi. Saggi su guerra e violenza nella cultura e letteratura degli Stati Uniti d’America, Marcos y Marcos, Milano 1999, p. 36. 77. Sull’intreccio tra i due racconti, si veda J.W. Gibson, Warrior Dreams: Paramilitary Culture in post-Vietnam America, Canada, HarperCollinsCanadaLtd 1994. Gibson indica proprio nell’uccisione di Custer e nella sconfitta di Little Big Horn, con il conseguente e definitivo trasferimento degli indiani nelle riserve, la capitolazione della figura e della mitologia del pistolero solitario a favore dell’altra storia di cui si compone la cultura bellica degli Stati Uniti, quella del «buon soldato, dipendente dalle strutture istituzionali dell’esercito o della polizia, che combatte in difesa dell’onore nazionale», p. 56.

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re l’origine di «quella sorta di sciovinismo culturale e ideologico che avrebbe portato a situazioni quali il Vietnam»78. Proprio il coevo conflitto asiatico è uno dei principali bersagli del film, anche se resta un sottotesto, come nell’altro “revisionist combat film” del 1970, M.A.S.H. (Id., R. Altman): tra lo sterminio dei pellerossa e la guerra in Vietnam si suggerisce una relazione che taglia trasversalmente la storia degli Stati Uniti e poggia le sue fondamenta nel cuore profondo della cultura americana79, senza però scadere in qualunquismi comparativistici e evitando di imporre una visione dall’alto, proprio grazie alla scelta di una narrazione in prima persona e all’intreccio continuo, in forma di verifica, tra vicenda personale e movimenti della storia. Per mezzo di un testimone oculare come Crabb («L’unico sopravvissuto bianco della battaglia di Little Big Horn»), il passato rivive infatti nella sua essenza: «Conoscevo il generale George Armstrong Custer per quello che era, e conoscevo anche gli indiani per quello che erano», dichiara all’inizio del suo racconto. Nel quale non si parla di eserciti, strategie di guerra, spartizioni territoriali e decisioni politiche (insomma, non si “fa la storia”, neppure col senno di poi); si parla invece di uomini e donne, mariti, mogli e figli, e le date della cronaca affondano nella sintassi tumultuosa delle sue memorie picaresche. E il registro perennemente in bilico tra satira e parodia che caratterizza il racconto nasce proprio da qui, da questo abbassamento della storia al piano dell’esperienza vissuta e dell’esistenza non idealizzata (quella di un man, appunto, al tempo stesso grande e piccolo): nonostante l’inverosimiglianza anagrafica del narratore, il film ne guadagna in termini di realismo, dissolvendo contemporaneamente l’aura magica che circonda i simboli dell’epopea western. Ma se il racconto privato di Crabb finisce per abbracciare, non soltanto cronologicamente, una vasta porzione della storia dell’Ottocento americano, è anche per il particolare profilo del personaggio, in bilico tra i ruoli di attore principale, osser78. T. Schatz, Old Hollywood/New Hollywood, cit. 79. Il rapporto è evocato più esplicitamente nel film attraverso la citazione diretta di immagini provenienti dal Vietnam: per esempio, come venne subito notato dalla stampa dell’epoca, il massacro presso il fiume Washita, in cui l’esercito guidato da Custer stermina senza pietà donne e bambini indiani, riprende le testimonianze iconografiche del massacro di My Lai, diffuse dai giornali a partire dalla seconda metà del 1968.

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vatore partecipante e testimone oculare. Nipote del Candido80, Jack Crabb cede agli urti del destino e alla ruota del fato, con lo sguardo sempre un po’ dal basso (little), perennemente alla periferia degli eventi o inconsapevolmente nell’occhio del ciclone. Soltanto un anti-eroe come Crabb, del resto, potrebbe scivolare così liberamente lungo la superficie della storia, senza fermarsi mai: fosse un eroe come si deve, avrebbe una missione tracciata con chiarezza e un destino capace di modificare il corso degli eventi. Crabb, invece, si limita a sopravvivere, cercando di contenere i danni grazie a una spiccata intelligenza pratica, incrociando la sua vita con quella di personaggi sempre al limite dello stereotipo e della caricatura, come il furbastro impersonato da Martin Balsam, la cui eccentricità è già tutta nel cognome, Merriweather. E oltre che un nipote del Candido, Crabb è anche un progenitore del futuro Forrest Gump, per via di una coscienza politica praticamente assente e per quel fatale trovarsi in mezzo alle cose, in controtendenza rispetto alla sua attitudine, che lo spingerebbe naturalmente ai margini. E quando, nel corso dell’imboscata tesa da Custer agli indiani ormai chiusi in una riserva, Crabb esce dalla tenda assieme a Vecchia Capanna81 e attraversa incolume il campo di battaglia perché in quel momento è “invisibile”, il cerchio – e il senso – del suo continuo rinnovarsi e trasformarsi si chiude idealmente sull’annullamento e la sparizione. Jack Crabb è, in breve, un principio passivo della storia, non un agente attivo; tutto accade, semplicemente: «l’eroe non cessa di essere bianco con i Bianchi, indiano con gli Indiani, attraversando nei due sensi una minuscola frontiera, nel corso di azioni poco distinte. Il fatto è che l’azione non può essere mai determinata da e in una situazione preliminare; al contrario, è la situazione che scaturisce man mano dall’azione»82. Ma proprio per questo, gli è concesso di esplorare la complessità antropologica del suo tempo, zigzagando tra le sponde oppo80. Il romanzo, e in particolare la sua strategia narrativa e il profilo del personaggio principale, rappresentano per Penn un precedente consapevolmente assunto: «In fondo, Piccolo grande uomo era il Candido» (M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, «Positif», cit.). 81. Interpretato da Chief Dan George, premiato con l’Oscar come miglior attore non protagonista e divenuto in seguito un attore molto richiesto al cinema e in televisione: è l’unico “vero” indiano del cast, capo di una piccola tribù di pellerossa residente a Vancouver. 82. G. Deleuze, L’immagine-movimento, cit., p. 194.

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ste degli schieramenti che si dividono il campo. In più, Crabb possiede la mobilità della maschera e l’indefinitezza del doppio: nato bianco, dopo la morte della madre e del padre – uccisi da un gruppo di pawnee – viene allevato dai cheyenne e “adottato” dal capo tribù, Vecchia Capanna: impara la lingua dei nativi (“gli esseri umani”), le loro strategie di caccia e di guerra, e resta affascinato dalla loro filosofia; ribattezzato Piccolo Grande Uomo, diventa un valoroso guerriero, nascondendo il bianco della pelle sotto uno strato di terra. Ma il rito d’iniziazione indiano non è che il primo di una lunga serie di nuovi inizi e riti di passaggio, di adattamenti, morti e rinascite, a cui s’accompagna il tentativo, normalmente frustrato, di entrare a far parte di una comunità: Crabb, in fondo, è cera molle nelle mani di personaggi più forti e rappresentativi, ma la sua adesione a questo o a quel gruppo di individui, al loro costume e ai loro ideali, non è mai superficiale o opportunistica; egli è davvero, a seconda del luogo in cui si trova e delle persone che lo circondano, un uomo diverso – un indiano cheyenne, un fervente cristiano, un pistolero, un piccolo commerciante, un furfante, un ubriacone (uscito da Un dollaro d’onore [Rio Bravo, H. Hawks, 1959]), un marito, un padre, un membro dell’esercito di Custer... Rispetto al settecentesco Candido, infatti, accanto al comune problema di non sapere esattamente dove andare e in chi o cosa credere, Crabb testimonia del dramma, tutto contemporaneo, di non sapere esattamente chi essere – volere, dovere o poter essere; un dramma dell’identità che, oltre a imparentarlo a Billy the Kid, Mickey One e Bonnie e Clyde, fa pensare a un’altra icona della seconda fase della Hollywood Renaissance, Leonard Zelig83, con cui divide una personalità trasparente e un trasformismo camaleontico, e l’obiettivo, piccolo e grande insieme, di essere accettato e amato. Per molti critici, come Haustrate, sta qui il cuore del film: «Piccolo grande uomo è soprattutto un’epopea rivelatrice: quella di un bambino perduto alla ricerca di una giustificazione di se stesso»84. Nessun sospetto, dunque, circa la sincerità della fede di Crabb, qualunque essa sia, a partire da quella cristiana a cui viene iniziato dalla signora Pendrake (Faye Dunaway), moglie del reverendo Silas, dopo essere stato “rapito” agli indiani e 83. Zelig (Id.), Woody Allen, Usa, 1983. 84. G. Haustrate, Arthur Penn, cit., p. 59.

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restituito alla comunità a cui appartiene85. Nella vita agitata di Crabb, del resto, non c’è spazio per la nostalgia: egli vive – voltairianamente – in una sorta di presente continuo, in cui il passato semplicemente scompare, assorbito dalle profonde ellissi temporali che scandiscono il racconto e reso quasi invisibile dai repentini cambi di scena, secondo un andamento che deve probabilmente qualcosa sia al Tom Jones (Id., 1963) di Richardson, tratto da un romanzo picaresco della metà del Settecento, sia alla sveltezza della narrazione altmaniana86. La sintesi morale e il confronto ideologico prodotti dall’urto tra un set e l’altro sono un processo rimandato quasi interamente alla coscienza dello spettatore, a partire dai contrasti introdotti dal montaggio, che opera sulla storia come in Alice’s Restaurant lavorava sui sentimenti dei personaggi. Crabb, del resto, oltre ad assecondare lo spirito presente della narrazione cinematografica (nonostante l’architettura a flashback), è prevalentemente un narratore di azioni e sentimenti vissuti, e manca – non potrebbe essere altrimenti – di una capacità critica di “messa a distanza” degli eventi in corso. Ciò consente a Penn non soltanto, come detto, di riscaldare il racconto della storia con un impasto vivo di colori e sensazioni, dal basso e dal vero; lo tiene altresì a distanza da una promozione univoca e acritica della cultura dei nativi americani, della quale non manca di mostrare le ombre (la violenza cieca dei pawnee) e sulla quale si permette di ironizzare, benché il senso profondo del “patto” con la natura e il reciproco rispetto che governano la comunità cheyenne finiscano per opporsi chiaramente alla spietatezza dei rapporti tra i bianchi e alla loro innata rapacità: la caccia, tra gli indiani, è una necessità controllata e al massimo un divertimento, non la forma belluina del comportamento sociale. 85. Faye Dunaway è qui alla sua seconda e ultima collaborazione con Penn, dopo il successo di Bonnie e Clyde. E in omaggio al film cheha lanciato l’attrice, Penn gira una delle scene più belle e sentimentalmente complesse di Piccolo grande uomo, quella del bagno di Crabb assistito dalla signora Pendrake: si tratta infatti di una specie di remake di un’analoga scena girata ma non montata per il film del ’67. 86. M.A.S.H. esce in America nel gennaio del 1970, quando Penn è ancora al lavoro su Piccolo grande uomo, distribuito nel dicembre dello stesso anno. Viceversa, pellicole come I compari (Mc Cabe and Mrs. Miller, 1971), Gang (Thieves Like Us, 1973) e Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians, 1976) incorporano senza dubbio la lezione del western di Penn.

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Penn si guarda attorno e, al termine di uno dei decenni più drammatici e sanguinosi della storia americana, non può che consegnare il ritratto senza centro di un mondo allo sbando, portato da un testimone necessariamente incapace di raggiungere una sola conclusione e di ricondurre la storia a un principio d’unità e a un solo senso che la giustifichi. La posa pensierosa di Crabb con cui termina il film rimanda all’incomprensione cui egli è condannato in rapporto alla storia, analoga all’irrisolto dramma identitario di cui è vittima e nella cui impasse si riflettono le fratture della storia e le sue contraddizioni. Fatto di blocchi giustapposti in cui è il caso a decidere l’ordine di successione anziché la volontà del protagonista, e ritmato dalla bellissima musica di John Paul Hammond, Piccolo grande uomo è un testo multiplo e aperto, in cui la mobilità descrittiva della scena e la ricchezza di dettagli del punto di vista del protagonista prevalgono sul desiderio di moralizzazione del racconto. Proprio come il Candido, Piccolo grande uomo possiede qualcosa di feroce sotto la superficie del divertimento sardonico; Penn racconta di un mondo letteralmente impazzito, violento nei fatti e nelle parole: «Sono storie simili, basate su un personaggio che va in giro e scopre, giorno dopo giorno, che il mondo è veramente uno strano posto…»87. Quel che non si trova più, proprio come finiva per capire il protagonista del romanzo di Voltaire, è un ordine superiore: «Sembra che non sappiano dov’è il centro della terra», commenta un cheyenne di fronte alle rovine di un campo indiano saccheggiato dall’esercito americano e disseminato di cadaveri di donne e bambini. E il continuo andirivieni di Crabb è esso stesso indizio di un’instabilità collettiva e di una pluralità di condizioni irrelate che non rimandano alla complessa varietà di un insieme ma al tumulto dell’anarchia, fondata sulla violenza e il reciproco sterminio: rimandano a una paesaggio con rovine in cui tutti sono in guerra contro tutti, ognuno portato dalle sue buone ragioni e sostenuto da una fede incrollabile e “giusta”. E in fondo Crabb, almeno in un primo tempo, non è meno affascinato da Custer – anche se per ragioni opposte – di quanto lo sia da Vecchia Capanna. Indossa tutte o quasi le divise dell’epopea americana, e di volta in volta, rinascendo in un nuovo mondo, cambiando nome, colore di pelle, professione e indu87. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, cit.

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menti, ne porta in primo piano la verità “particolare”. Quello di Crabb è un destino antologico, un insieme di testi e di esperienze, unificati da una logica violenta. Come notò a suo tempo Mino Argentieri, capendo subito come il film fosse da considerarsi superiore ai numerosi altri «che spezzano una lancia a favore dei poveri pellerossa depauperati e uccisi nella vorticosa bolgia delle guerre indiane», Piccolo grande uomo si risolve piuttosto in un attacco «al “sogno americano”, inzeppato di individualismo, miraggi di successo, supremazia, competitività e violenza»88. E così il western, per quanto rivisto, corretto e smitizzato, mantiene inalterata la sua capacità di toccare il cuore della società e della cultura americane. Penn, come Altman, non procede a una distruzione delle strutture di genere, né a una loro estinzione ludica, ma cerca «di rendere tutto più accettabile, ossia di distruggere l’idea del modello»89; e “più accettabile” significa, anche, più attuale, sintonizzato ai gusti che cambiano e al cinema che evolve nel suo rapporto con la società. Per i Penn e gli Altman il genere, per i suoi valori e le sue cifre “ideali”, continua a rappresentare un mezzo privilegiato di manifestazione del nuovo, perché è nell’azione contro il modello che si coglie meglio la deviazione, è nella distanza dalle routine narrative e figurative scandite dal genere che si inserisce con maggiore evidenza lo scarto. E l’oggetto privilegiato di questa operazione, sia in Penn che in Altman, è l’eroe, che 88. M. Argentieri, «Cinema 60», n. 83-84, 1971. La critica italiana manifesta nei confronti di Piccolo grande uomo un’accoglienza perlopiù favorevole, valorizzando in molti casi il contenuto ideologico del film: Goffredo Fofi, per esempio, ne loda il gesto politico di allineamento “dall’altra parte”, quella degli indiani, pur rimproverando a Penn di arretrare «di fronte all’insegnamento finale, quello più concreto: la rivolta armata a fianco degli oppressi», «come se – pur sapendo bene che questo è impossibile – bastasse passare dalla porta dei buoni “disarmati” perché Custer (e Nixon) siano sconfitti» («Quaderni Piacentini», n. 44-45, ottobre 1971); Sandro Zambetti vi vede invece un’intelligente operazione di demistificazione della mistificazione, un rovesciamento della parabola di Buffalo Bill, ridotto negli ultimi anni della sua vita a rivivere la gloria del passato sulla pista di un circo: «qui, gli eroi del western (e, in genere, della storia patriotticamente falsificata) si rivelano autentici come personaggi da circo e contraffatti, invece, sino a far sorridere di sé, come protagonisti del tutto immaginari di vicende reali» («Cineforum», n. 105-106, 1971). 89. F. De Bernardinis, Robert Altman, Il Castoro, Milano 1990, p. 32.

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smette di essere «l’epicentro dell’azione: non gli spetta più […] la segmentazione logico-temporale della vicenda […] L’eroe è semplicemente un frammento di realtà all’interno di una logica […] che richiede o un pronto adeguamento alle sue leggi o la cancellazione sia storica che individuale»90. La figura di Crabb resta, nella galleria dei personaggi penniani, una delle più riuscite e complesse, anche grazie alla straordinaria prova di Dustin Hoffman: vittima del fato come Billy the Kid e Annie Sullivan, egli si trova al centro di una storia di cui non riesce a contemplare l’ordito generale e a afferrare il senso, proprio come Mickey One e il Moseby di Bersaglio di notte; come tutti, cerca di affermarsi e definire la propria identità dentro e contro le oscillazioni della storia. Nasce una prima volta come cheyenne, nasce una seconda volta in seno alla comunità cristiana: in entrambi i casi, è un figlio in cerca di legami, e in entrambi i casi deve superare un rito di iniziazione. I cheyenne lo “provano” in guerra, e lodandone il coraggio lo ribattezzato Piccolo Grande Uomo; nella comunità dei Bianchi il rito assume invece la forma canonica del battesimo, cui segue un “periodo religioso” dominato dalla fede nella parola di Dio e dalla fuga dalle tentazioni. L’intreccio perverso tra religione e guerra e le loro affinità profonde si trovano così realizzate e già “secolarizzate” nella “piccola” figura di Crabb, e se il suo volto anziano è una maschera di rughe (come piste e storie intrecciate), è perché i suoi volti, per una sola vita, sono stati tanti e forse troppi. Ma è proprio quel volto quasi mostruoso il vero oggetto del film: ridargli voce, vita e bellezza è il compito dello “storico” Penn.

Una questione personale «[Negli anni Settanta] eravamo tutti increduli e disorientati, non riuscivamo a capire che cosa stesse accadendo. Io realizzai un poliziesco in cui il protagonista è alla ricerca della verità; ma cercai di rendere tutto chiaro attraverso le immagini, dato che le parole erano inutili per comunicare le sensazioni che provavamo allora»91. 90. Ivi, pp. 32 s. 91. D. Del Pozzo, Arthur Penn tra divi e Majors, «Cinema Sessanta», n. 251, gennaio-febbraio 2000.

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Piccolo grande uomo ottiene un discreto successo commerciale negli Stati Uniti (appena sufficiente a coprire i costi), ma è l’Europa, e particolarmente la Francia, ad accoglierlo con vero entusiasmo, tanto da incoraggiare una seconda e più fortunata distribuzione americana. Il film chiude un po’ in anticipo sui tempi (degli altri registi e della New Hollywood) la fase più “ribellistica” e vitale di Penn, quella più apertamente reattiva e polemica nei confronti della società americana, più ravvicinata e civile, più impegnata e presente – per quanto, come detto, il regista sia sempre rifuggito dalla trascrizione in presa diretta dell’evento, quand’anche in odore di Storia, e abbia sempre preferito, alla guida delle passioni (civile, morale, contestataria…), il vaglio di una riflessione a freddo, personale e autonoma, alla larga dai facili entusiasmi. A partire dal film successivo, inoltre, comincia a declinare anche la “fortuna” di Penn, che neppure con Missouri, lanciato come si farebbe oggi con un blockbuster natalizio, riesce a ottenere un vero successo di pubblico; la critica americana, da parte sua, spegne a poco a poco i riflettori sul regista e le sue “provocazioni”, le critiche si fanno spietate e liquidatorie e i tempi delle candidature agli Oscar sembrano ormai remoti; la delusione maggiore arriva però dalla Francia che lo ha tanto amato fin dall’inizio: nel 1975 Maurice Bessy, direttore del Festival di Cannes, rifiuta infatti di selezionare Bersaglio di notte (e Penn, l’anno dopo, si vendica non mostrandogli Missouri, pronto in maggio). Il decennio dei Settanta si apre all’insegna di una crisi personale molto forte, per chiudersi su uno scenario ancor più cupo, in cui, al perdurare di un malessere dovuto allo “stato delle cose”, si somma il problema (mai davvero risolto) di rimettere a fuoco il ruolo del cinema (o di certificarne un nuovo) in rapporto alla propria storia, all’orizzonte degli spettatori e alla società americana: una condizione diffusa che però Penn, a differenza di altri registi, sembra cogliere e testimoniare con maggiore consapevolezza92. Tra Piccolo grande uomo e 92. R. Wood, Hollywood From Vietnam to Reagan… and Beyond, Columbia University Press, New York 2003, p. 44: «La società [negli anni Settanta] sembra trovarsi in una condizione di avanzata disintegrazione, senza tuttavia alcuna seria possibilità di emersione di un’alternativa coerente e complessiva. Questo dilemma – normalmente vissuto in termini di dramma personale e non necessariamente in forma consapevole – può essere rinvenuto al di sotto di molti dei più importanti film dei tardi anni Sessanta e degli anni Settanta». L’analisi di Wood si

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il lungometraggio successivo si inserisce così un silenzio di cinque anni, e altri cinque separano la ravvicinatissima doppietta di Bersaglio di notte e Missouri da Gli amici di Georgia. Non a caso, dopo più di un decennio di assenza dal palcoscenico (ma la collaborazione con l’Actors Studio non si è mai interrotta), nel 1976 Penn decide di tornare a teatro, al primo amore e al suo rifugio dalle difficoltà del cinema, mettendo in scena un dramma sull’avidità dell’epoca contemporanea (anche se l’ambientazione è fine Ottocento), Sly Fox di Larry Gelbart93, ispirato al Volpone, di cui, un decennio dopo, vorrebbe realizzare una versione cinematografica ambientata in Francia anziché a San Francisco. Di questa crisi personale che travolge la sua vita lungo gli anni Settanta Penn, anche se con molta reticenza, ha accennato in molte interviste: «Dopo Piccolo grande uomo ho passato un periodo molto difficile […] Ho perduto la mia identità. Ho abbandonato la partita, mi sono smarrito»94; «Durante quel decennio ho perso il mio cammino, nel momento in cui dei registi interessanti facevano la loro comparsa. Non sapevo come afferrare di nuovo la realtà, vedevo persone come Altman e Coppola farlo, e questo mi disorientava»95.

La possibilità stessa di un dialogo con la società e la storia americane, di cui si è sempre nutrito il cinema di Penn, sembra incrinarsi sotto la spinta del ritorno invocato da Nixon a un (falso) ordine fondato sui valori conservatori e reazionari della “maggioranza silenziosa”, mentre il particolare contesto produttivo della New Hollywood sfiorisce a poco a poco, a vantaggio di un ritorno in forza delle Majors e di una radicale trasformazione della politica dell’industria cinematografica e del “gusto” del pubblico: nel 1975, vero e proprio “anno sparconcentra in particolare su Taxi Driver (Id., M. Scorsese, 1976), In cerca di Mr. Goodbar (Looking for Mr. Goodbar, R. Brooks, 1977) e Cruising (Id., W. Friedkin, 1980). 93. Il testo resta in scena per più di un anno, tra il dicembre del 1976 e il gennaio del 1978, ottenendo un notevole successo di pubblico e di critica; nel 2004 lo stesso Penn ne ha diretto una nuova versione per l’Ethel Barrymor Theatre. 94. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, «Ecran», ottobre 1976. 95. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn (sur Four Friends-Georgia), «Positif», cit.

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tiacque”, cambiano non a caso i dirigenti dei due studio responsabili dei maggiori film della New Hollywood, la Paramount e la Warner (John Calley viene significativamente sostituito dall’agente di Spielberg, Guy McElwaine), mentre lo straordinario successo ottenuto da Lo squalo (Jaws) riaccende l’interesse per i blockbuster nel momento in cui una buona parte dei maggiori registi attivi dagli anni Sessanta inanella una serie di flop. «Ironicamente, il grande successo della New Hollywood, anziché rendere lo studio sistem obsoleto, come Hopper e Penn avevano immaginato, lo ha profondamente rinvigorito»96. Ma si tratta di una sorpresa solo a metà: il fenomeno della New Hollywood non è mai stato un’opposizione ma un’alternativa “organica”, tanto che già nel 1980 Emanuela Martini, dalle pagine di «Cineforum», notava che il cinema americano della metà degli anni Settanta sembrava riproporsi «come favola e cultura […], attestandosi su un fantomatico ed elastico confine: a mezza strada tra l’industria e l’off, tra il piacere della narratività e il rigore ideologico, tra la metafora e l’analisi. Tra il “cinema” e l’“anti-cinema”. Sam il Leone, Philip Marlowe, Alvy Singer, Pike e compagni ci hanno parlato contro Hollywood con i tempi e i colori di Hollywood»97. Il problema – reso esplicito da un film “a metà” come Bersaglio di notte – è che un simile compromesso è destinato a non durare. In questo clima, Penn legge molte sceneggiature e lavora a qualche progetto, senza trovare un solo film che abbia davvero voglia di realizzare98; intenzionato a non lasciare la sua amata New York, frequenta assiduamente l’Actors Studio e accetta di buon grado di passare più tempo coi figli, ormai adolescenti. E da una posizione sempre più ritirata osserva con crescente disincanto gli eventi che scuotono la politica americana, a partire dallo scandalo Watergate e dalla difficoltosa conclusione del conflitto vietnamita, che occupano grosso modo il biennio ’73-’75. Come molti altri artisti “impegnati”, Penn patisce la rapida estinzione dei fermenti degli anni Ses96. P. Biskind, Easy Riders, Raging Bulls, cit., p. 281. Biskind chiarisce come il progressivo ingresso degli agenti ai livelli di controllo della produzione conduca, a partire dalla metà degli anni Settanta, a un’inversione delle pratiche produttive, con la nascita della logica del “package”. 97. E. Martini, Il piacere e la qualità, «Cineforum», 1980. 98. Rifiuta, per esempio, la regia de L’esorcista (The Exorcist, W. Friedkin, 1973)

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santa, la chiusura reazionaria della società americana e la disgregazione di quel senso di appartenenza e condivisione alimentato dalle lotte democratiche della sua generazione, e assiste impotente all’affermazione di quella cultura narcistitica e individualista che prenderà piede con l’avvento dell’epoca reaganiana. E non è senza conseguenze un altro episodio cruciale della storia internazionale dei primi anni Settanta, a cui egli partecipa direttamente: il rapimento e l’uccisione di undici rappresentanti della squadra olimpionica israeliana da parte di un commando di terroristi palestinesi nel corso delle Olimpiadi di Monaco nel 1972. Penn si trova in quel momento in Germania assieme a Milos Forman, Kon Ichikawa, Claude Lelouch, Yuri Ozerov, Michael Pfleghar, John Schlesinger e Mai Zetterling per “rappresentare” gli Stati Uniti all’interno di un documentario, Ciò che l’occhio non vede (Visions of Eight), ideato dal produttore televisivo Stan Margulies per la Wolper Production e musicato da Henry Mancini99. Ma il segmento di Penn, Il più alto (The Highest), della durata di dieci minuti e dedicato al salto in alto (inizialmente avrebbe voluto lavorare sulla boxe, raccontando la quotidianità di un atleta nero in vista dei giochi100), è quasi 99. In apertura al film, proiettato a Cannes nel 1973 nella sezione “Etudes et compétition”, si legge: «Sunflowers are familiar to millions, yet no one ever saw them the way Vincent Van Gogh did. So with the Olympics: a recurring spectacle familiar to people around the world. This is no chronological record, no summary of winners and losers. Rather it is the separate visions of eight singular film artists». Nell’ordine: The Beginning di Yuri Ozerov, URSS; The Strongest di Mai Zetterling, Svezia; The Highest di Arthur Penn, Stati Uniti; The Woman di Michael Pfleghar, Germania dell’Ovest; The Fastest di Kon Ichikawa, Giappone [già autore, nel 1965, di un imponente reportage sulle olimpiadi del suo paese, Tokyo Olympiad (Tôkyô Orimpikku)]; The Decathlon di Milos Forman, Cecoslovacchia; The Losers di Claude Lelouch, Francia; The Longest di John Schlesinger, Gran Bretagna. Chiude il film un cartello con la famosa “massima” del barone Pierre de Coubertin: «The most important thing in the Olympic Games is not to win but to take part, just as the most important thing in life is not the triumph but the struggle. The essential thing is not to have conquered but to have fought well». 100. Nelle intenzioni di Penn, il film «sarebbe stato un documento puramente sociologico in cui i giochi non si sarebbero visti che alla fine, grazie a una ripresa che avrebbe dovuto mostrare la vittoria o la sconfitta. Sfortunatamente, all’ultimo momento ha perduto un combattimento e non è stato selezionato, così che, al momento di parti-

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completamente muto e silenzioso, a eccezione di alcune serie di applausi e fischi che intervengono di tanto in tanto a commentare l’azione, come provenendo da uno spazio irreale. La scelta si lega alla straordinaria “visione” realizzata assieme al direttore della fotografia Walter Lassally e alla fidata Dede Allen: una totale scomposizione dell’azione, condotta sia attraverso la moltiplicazione dei punti di vista, sia attraverso la frammentazione del gesto, sia, infine, attraverso un prezioso gioco di sfocature (particolarmente all’inizio e alla fine) e ralenti in cui Penn porta alle estreme conseguenze il fascino puramente plastico per la superficie dell’immagine già esplorato in alcuni lungometraggi. Così, all’inizio, e per un paio di minuti, lo schermo risulta pieno soltanto di macchie, linee e colori immersi nel silenzio (Penn è l’unico a non introdurre il suo lavoro con un breve commento); a poco a poco, da quell’ammasso informe emergono gli atleti e i loro salti: questi ultimi, però, mai ripresi per intero. A Penn sembra infatti interessare di più la scomposizione del gesto e l’analisi dettagliata di ciò che accade durante il salto, e soprattutto il momento del volo, spesso ritagliato da ciò che segue e precede e dilatato temporalmente. Il corpo, il gesto atletico, il flettersi dei muscoli, il movimento dell’asta si impongono allo spettatore in tutta la loro bellezza plastica e figurativa, pur restando parte di un racconto – nella fattispecie, la finale del salto con l’asta chiusa dall’avvincente testa a testa tra il tedesco Wolfgang Nordwig (oro) e l’americano Bob Seagren (argento). Tra i registi coinvolti nel documentario, Penn è quello che, più di tutti, evita la testimonianza documentaria (a cui non sfugge neppure il giapponese Kon Ichikawa, che pure ricorre re per Monaco, mi sono trovato senza soggetto». Penn, che fino a quel momento ha già girato molto materiale, decide comunque di continuare a seguire la storia del boxeur, recandosi a Charleston, in Carolina del Sud, dove si trova in carcere; ne approfitta per realizzare alcune scene in prigione e per intervistare le persone con cui egli è cresciuto; ottiene anche il permesso di riprendere il funerale (tradizionalmente “black”) del nonno. Alla fine, tuttavia, delle due ore abbondanti di girato, proprietà del produttore David Wolper, non è mai stato fatto nulla: «Un vero peccato, perché quelle riprese sono state per me un’esperienza unica, e c’era in esse la materia per un film davvero appassionante», J.-P. Coursodon, Entretien avec Arthur Penn, «Cinéma 77», maggio 1977. Tramite la stampa dell’epoca non è sato possibile recuperare il nome del boxeur, che Penn non ricorda più.

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ad analoghe soluzioni arty per raccontare la finale dei 100 metri), esasperando la dimensione cinematografica a contatto con una materia abitualmente destinata alla regia impersonale e descrittiva della camera televisiva o della fotografia di reportage. E, in assenza del personaggio, si concentra sul corpo e le sue acrobazie, e sull’alterità seducente di movimenti e posizione innaturali; non gli interessa l’agonismo ma la recitazione dell’atleta, il suo sforzo e la sua interpretazione, la drammaturgia interna di una sequenza infinitamente ripetibile di gesti; e gli interessa, come sempre, offrire allo spettatore uno scarto percettivo, trasformando la ricerca del salto “più alto” in un momento di forte concentrazione simbolica.

Girando a vuoto, nella notte «Non vedevo più nulla che mi interessasse al cinema ed è per questo che ho fatto Bersaglio di notte e Missouri: per ritrovare la sicurezza dei generi tradizionali. Conoscevo la loro forma classica e questo mi avvantaggiava visto che non avevo alcuna idea su come esplorare una nuova forma»101.

Stando a Penn, Bersaglio di notte e Missouri sarebbero due film «completamente fortuiti» e rappresenterebbero un tentativo di riavvicinamento al cinema in un momento di forte crisi personale; due occasioni giunte dall’esterno (in entrambi i casi sono già pronti sceneggiatura e “pacchetto produttivo”) e vissute come una specie di rialfabetizzazione102. E se il secondo sarà fatto anche per soldi e «senza passione», il primo viene scelto del tutto a caso: in quel momento, per Penn (e per dire quanto Penn stia attraversando una fase di incertezza), una storia vale l’altra: «Quando ho deciso che volevo tornare a girare, ho scelto la prima sceneggiatura che mi è capitata tra le mani. Sotto la 101. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, cit. 102. Al proposito, Stuart Byron e Terry Curtis Fox, nella lunga intervista realizzata nel 1976 per «Film Comment», fanno osservare a Penn che i “pacchetti” produttivi di Bersaglio di notte e Missouri non sono esattamente quello che ci si aspetterebbe da un regista della sua “statura”. Penn risponde così: «Quello che è accaduto con Bersaglio di notte è che la situazione che mi inibiva a un certo punto ha cessato di esistere, e ho avuto l’impulso di tornare a lavorare il giorno dopo».

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spinta di un impulso, senza riflettere, ho detto “d’accordo, realizzerò questo script di Alan Sharp!”»103.

Fin dalla prima versione, tuttavia, Bersaglio di notte (in origine The Dark Tower) è tutto fuorché un racconto di genere, e l’intervento del regista contribuisce a trasformarlo in una diagnosi esplicitamente generazionale, approfittando della figura di Moseby, molto riscritta («Il personaggio mitologico è diventato un tipo umano non sempre simpatico… collerico e geloso»104), per dar voce a quelli che, come lui, hanno ormai capito «che non ci sono soluzioni» e guardano il mondo con pessimismo e disincanto: «Penso davvero che abbiamo fallito, e che l’esperienza del Watergate sia solo il colpo di grazia. […] Con l’assassinio di Kennedy e l’insulso arrivo della tribù di Nixon sulla scena, siamo finiti tutti in uno stato di stupore indotto»105.

Harry Moseby, «una delle migliori figure di perdenti che il cinema offre negli anni ’70»106, è figlio di questo stupore collettivo, che prova in qualche modo a vincere scrutando il mondo, formulando continuamente domande, cercando una soluzione; il suo destino, tuttavia, è di compromettere a poco a poco la propria lucidità di sguardo, accontentarsi di risposte futili o insufficienti e incappare negli eventi fino a perdere il filo della storia. Anche a causa di una malsana sovrapposizione tra vita privata e vita professione: a far domande e ricer103. Alan Sharp, scozzese, dopo un po’ di televisione debutta al cinema nei primi anni Settanta, firmando, prima di Bersaglio di notte, le sceneggiature di L’ultima fuga (The Last Run, R. Fleischer, 1971), Il ritorno di Harry Collings (The Hired Hand, P. Fonda, 1971), Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana’s Raid, R. Aldrich, 1972), La mia pistola per Billy (Billy Two Hats, T. Kotcheff, 1974). A proposito di Bersaglio di notte ha dichiarato: «Si tratta essenzialmente di un’allegoria su quella che considero la consapevolezza americana, sulla sua forza e i suoi punti ciechi, e Moseby è il tizio che la rappresenta. Era il momento di un certo tipo di consapevolezza: la consapevolezza che il mondo è più complesso di quanto si credeva e che ci sono cose che semplicemente non possono essere risolte» (cit. in A. Hunter, Gene Hackman, W.H. Allen, London 1987, p. 112). 104. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, cit. 105. T. Gallagher, Night Moves. Interview to Arthur Penn, «Sight and Sound», n. 2, primavera 1975. 106. P. Vernaglione, Arthur Penn, cit., p. 77.

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che, a spiare e pedinare, Harry ha infatti cominciato per un’esigenza molto personale, quella di scoprire dove vivono i genitori che l’hanno abbandonato quand’era bambino – anche se poi, trovato il padre dopo un lungo inseguimento, non ha il coraggio di parlargli: si limita a guardarlo mentre legge il giornale al parco, nascosto a pochi metri di distanza. Soltanto quando la sua promettente carriera di giocatore di football si interrompe a causa di un infortunio, decide di trasformare quell’attitudine, più simile a un’ossessione, in un lavoro; tutto avviene tra la morte di un Kennedy e l’altra, come spiega a Paula (la compagna di Tom, il patrigno della bambina scomparsa che ha l’incarico di ritrovare), «simbolo della generazione perduta degli anni Sessanta e dei compromessi morali dei Settanta»107, che gli domanda a bruciapelo «Dov’eri quando è morto Kennedy?» (ma Harry: «Quale Kennedy?»). Quando uccisero John, Harry era diretto a San Diego per un partita di football; quando spararono a Bobby, era già un investigatore privato, e se ne stava seduto in una macchina, in attesa che un tizio uscisse da una casa con la sua amante: «E in uno dei due casi avrei voluto fare altro». La scandalosa violenza della politica americana marchia a fuoco la vita privata di Harry, e la crisi di un’intera nazione si trova idealmente riflessa nella decadenza dei suoi sogni e della sua felicità, segnata dalla fine della carriera sportiva e dall’avvio dell’attività, grigia e alimentare, di detective. Come un intero Paese, Moseby, tra il 1963 e il 1968, ha dovuto rinunciare al sogno e alla realizzazione personale per invecchiare senza più speranze e con troppa consapevolezza. E come il tempo del film, che passa senza farsi sentire, misurato da un montaggio nervoso ed ellittico (ancora una volta opera di Dede Allen), che chiude la scena sempre un po’ prima per aprirla sempre un po’ in ritardo e accavalla dialoghi, rumori e pensieri, indebolendo la sensatezza dei raccordi e spostando 107. G. Man, Movies and Conflicting Ideologies, in L.D. Friedman (a cura di), American Cinema of the 1970s: Themes and Variations, Rutgers University Press, New Brunswick-New Jersey 2007, p. 143. Interessante il rapporto istituito da Man tra Bersaglio di notte e Shampoo (Id., H. Ashby, 1975): «Se Shampoo prefigura la disillusione degli anni Settanta collocando la sua azione a Beverly Hills alla vigilia delle elezioni di Nixon nel 1968, Bersaglio di notte conferma questa disillusione attraverso la sua ambientazione noir contemporanea, che si estende per tutto il Paese, da Los Angeles alla Florida».

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nello spazio, di forza, storia e personaggi, anche il tempo di Moseby, semplicemente, passa, noioso e violento, non diversamente da quello di altri investigatori anti-eroi del periodo, dal Marlowe di Il lungo addio (The Long Goodbye, R. Altman, 1973) all’Harry Caul di La conversazione (The Conversation, F.F. Coppola, 1974). Hackman, «un attore molto viscerale […] dotato di notevole intelligenza, anche se non recita senza coinvolgere al tempo stesso la dimensione istintuale»108, misura direttamente su se stesso la distanza dalla tradizione e l’“invecchiamento” del modello, imparentandosi da un lato al suo personaggio coppoliano (ma anche al protagonista di Marlowe il poliziotto privato [Farewell My Lovely, D. Richards, 1975]) e distanziandosi, dall’altro, dalla maschera che l’ha reso famoso, il Popeye Doyle di Il braccio violento della legge, uno e due (French Connection, W. Friedkin, 1971; French Connection 2, J. Frankenheimer, 1975). Quella di Doyle è infatti un’azione ancora fiduciosa in se stessa e nelle proprie possibilità, si nutre di motivazioni che esulano dall’intimità del personaggio e si svolge in uno spazio dotato di un “connessionismo” ragionevole; per quanto complesso possa essere l’intreccio, un finale è a portata di mano, perché dipende da un personaggio capace di arrivare alla fine di qualcosa. La statura “anti-genere” del racconto e del protagonista di Bersaglio di notte si rende manifesta fin dall’inizio, grazie alle citazioni “imperfette” di alcuni topoi classici, derivati da Il grande sonno (The Big Sleep, H. Hawks, 1946) e La fiamma del peccato (Double Indemnity, B. Wilder, 1944). Per due volte, per esempio, nel corso della prima sequenza, quando Moseby entra ed esce dall’ufficio, lo spettatore ha modo di leggere il suo nome stampato sulla porta a vetri; in entrambi i casi, tuttavia, mancando del tutto un’inquadratura dall’esterno, la lettura avviene al contrario, rendendo impossibile identificare esattamente il personaggio. A segnalare la distanza (inevitabile) di Moseby dall’archetipo dell’investigatore old fashion, quello del cinema “innocente”, ci pensa poco dopo – e non a caso – la prima cliente, l’ex attrice Arlene Iverson, domandando a Moseby se lui «è forse il tipo di detective che quando si attacca a un caso, niente glielo fa mollare – botte, minacce e il fascino di un corpo di donna». Moseby sorride compassione108. Cit. in A. Hunter, Gene Hackman, W.H. Allen, London 1987, p. 113.

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vole: «Un tempo esistevano, prima di Lincoln». E i pochi in circolazione si vedono ormai soltanto al cinema: durante il loro primo incontro, l’amante della moglie, lo zoppicante Marty (un anticipazione di altri avversari fisicamente fragili come lo Schroeder di Target e il dottor Lewis di Omicidio allo specchio), chiama ironicamente in causa Sam Spade (Sean Connery nella versione italiana) per suggerire la distanza di Moseby dal modello. Del resto, governare gli eventi come sapevano fare Spade e compagni sembra ormai impossibile: «Durante quello che chiamo il periodo “innocente” del cinema, il thriller poggiava su un personaggio anonimo, il detective privato alla Marlowe. Era onnisciente, furbo, impersonale e, alla fine del film, non lo si conosceva più che all’inizio»109. Quell’innocenza, che è del cinema come della società americana, è ormai perduta (mentre cambia la faccia di crimini e criminali), e con essa la figura centripeta di un eroe positivo e la possibilità stessa di una detection al riparo dal fallimento, dalla deviazione, dalla contaminazione con altri generi, prima di tutto quello, debole e drammatico, della coscienza e del privato. Da questo punto di vista, al di là del genere di riferimento, la figura di Moseby rappresenta il punto d’arrivo di un processo iniziato almeno dieci anni prima e di cui proprio Penn è uno dei principali artefici: un processo di progressiva disgregazione del profilo dell’eroe classico, «psicologicamente o moralmente motivato», che si ritrova così, nel caso del “giallo”, senza più l’ordine cristallino di «un caso su cui investigare, un nome da chiarire, una donna (o un uomo) da amare, uno scopo da raggiungere». E la crisi cui va incontro lo statuto dell’eroe lungo gli anni Sessanta e Settanta non è che l’epitome di una più ampia e generale trasformazione che interessa, oltre al piano dei contenuti, quello delle strutture narrative, segnata dall’abbandono progressivo di un’impostazione «affermativo-consequenziale» a vantaggio di un’articolazione «più aperta e non-finita, meno strutturata e perdente»; di questo passaggio, Bersaglio di notte rappresenta uno dei testi cruciali, testimoniando in particolar modo l’emergenza di quel del regime dell’“incoerenza” che, secondo Robin Wood, accomuna molto cinema americano degli anni Settanta: vale a dire, bloc109. Ibidem.

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caggio del pensiero, assenza di un’alternativa radicale e positiva, incoerenza come «impossibilità di risolvere i temi e i conflitti che i film drammatizzano all’interno del sistema, all’interno dell’ideologia dominante»110. Questo particolare versante della New Hollywood, cronologicamente posteriore alla ricerca dell’autenticità individuale che caratterizza la prima e più militante fase del nuovo cinema americano111, si dà a vedere proprio nel confronto con la tradizione dei generi, dei quali film come Bersaglio di notte contribuiscono non soltanto a decostruire la logica ma, in prospettiva, a rinnovarla. Il regime dell’incoerenza si riflette direttamente nella crisi delle forme, ne è una causa e un effetto, come rivelano, negli stessi anni, anche Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia, S. Peckinpah, 1974), Chinatown (Id., R. Polanski, 1974), Yakuza (The Yakuza, S. Pollack, 1975), Detective Harper: acqua alla gola (The Drowing Pool, S. Rosenberg, 1976). Questi e altri film non vanno confusi con i numerosi esempi di quella “poetica della nostalgia” altrettanto diffusa nel cinema americano del periodo, in cui dominano «un desiderio di recupero del passato, uno sguardo affettuoso a ciò che è stato, un’aspirazione a osservare il presente con la consapevolezza dell’esistenza di esperienze precedenti»112: quelli “di mezzo” e indipendenti come Penn, Altman e Peckinpah ne stanno alla larga, lasciando l’afflato nostalgico ai più giovani e cinefili (Coppola, Bogdanovich, Spielberg…). La nostalgia, nel caso di Penn, non scatta mai (neppure con un personaggio “predisposto” come Moseby): manca di un referente reale e appare bloccata dalla pressione di un’insoddisfazione incurabile e di una consapevolezza pessimistica orientata sia al futuro, sia alla rilettura del passato. Più che nostalgico, Moseby è un personaggio schizofrenico, doppio e dimidiato: è due individui senza più legami tra loro, due momenti e due tempi di una biografia senza continuità, due entità inassimilabili proprio come gli Stati Uniti del “prima” e del “dopo”; e la nostalgia è un sentimento troppo debole, femmineo e “organico” per suturare una frattura di tale portata. 110. R. Wood, Hollywood From Vietnam to Reagan… and Beyond, cit., in particolare pp. 41-62. 111. Cfr. A. Horwath, A Walking Contradiction (Partly Truth and Partly Ficion), in T. Elsaesser, A. Horwath, N. King (a cura di), The Last Great American Picture Show... cit., p. 97. 112. F. La Polla, Il nuovo cinema americano... cit., p. 93.

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Il film stesso possiede un andamento irrisolto, in due tempi governati da forze diverse: il pubblico e il privato si spartiscono il campo, si sovrappongono e si separano, finendo però per coincidere proprio nel momento in cui il protagonista vorrebbe tenerli lontani. Dopo un’ora, il versante giallo di Bersaglio di notte, più esotico e avventuroso, sembra chiudersi, caso risolto, Delly è stata trovata e riportata dalla madre, come richiesto. Nel corso dell’indagine Harry sembra aver dimenticato, almeno un po’, i suoi problemi con la moglie Ellen, complice l’atmosfera sospesa e erotica della Florida e le attenzioni di Paula (una versione adeguata ai tempi, al tempo stesso solare e disperata, della femme fatale della tradizione), con cui ha trascorso un’intensa notte d’amore. Allontanandosi dalla casa di Arlene Iverson, a cui ha riconsegnato Delly, vede madre e figlia litigare e picchiarsi, in presenza di Quentin, uno dei tanti “freak” che le due donne sembrano contendersi in una specie di sfida sessuale. Ma Harry sgomma via per non vedere e alza in fretta il finestrino per non sentire: quello non è più affar suo. Si apre a questo punto un secondo tempo, nel quale l’uomo torna a occuparsi dei problemi della sua vita privata, senza dimenticare i modi bruschi del detective: irrompe nella casa dell’amante della moglie, sapendo di trovarvi Ellen, per annunciarle di voler lasciare l’agenzia, non per lei (che glielo chiede da tempo), ma per se stesso; sebbene incapace di spiegare perché (o semplicemente intenzionato a non farlo), è evidente che il caso appena concluso gli ha riconfermato una volta di più l’impossibilità di risolvere davvero qualcosa. Dietro di sé ha infatti lasciato una situazione forse ancor più tragica di quella di partenza, consegnando Delly a un’esistenza malsana in cui si specchia la sua esperienza di figlio abbandonato. La vita di Moseby (e il tempo del film), sembrano adesso esclusivamente dedicati alla dimensione privata e sentimentale; un inatteso messaggio di Delly, registrato in segreteria, resta a metà, interrotto dall’arrivo di Ellen, con cui, poco dopo, è a letto, dove le racconta per la prima volta l’episodio del mancato incontro col padre, correggendo una precedente versione (episodio che va idealmente ad aggiungersi ad altri incontri – veri, mancati o vicari – tra padri e figli nella filmografia di Penn, da quello tra Billy e Tunstall a quello tra Jake e Val Rogers alla fine di La caccia, da quello tra Bonnie e la madre a quello, in absentia, tra Marty Strydom e suo padre in Urla dal buio). Tra la morte di un Kennedy e l’altra, Harry 208

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sembra aver smarrito, tra le altre cose, anche la capacità di capirsi, riconoscersi, definirsi, spiegarsi; al massimo, parla per metafore sportive, irritando Ellen. Non diversamente da tanti eroi penniani, infatti, anche Moseby è, prima di tutto, vittima di un dramma dell’identità, colorato in questo caso di evidenti sfumature politiche, con un rimando puntuale all’atmosfera dell’America di quegli anni, al clima complottista e paranoide prodotto dal doppio assassinio Kennedy e dallo scandalo Watergate, in cui anche le parole, non solo le azioni, sembrano perdere valore e significato, il sospetto per un connessionismo infinito incide sulla possibilità stessa di considerarsi parte di qualcosa, i punti di riferimento crollano, la saldezza nella tradizione e la fiducia nella continuità e evidenza del mondo scompaiono a poco a poco. Nel 1973 esce L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon113. La seconda metà del film procede in caduta libera: prima coinvolto nel caso “per lavoro”, Moseby si lascia adesso tirar dentro, di nuovo, per ragioni personali, guidato da un generico desiderio di giustizia e dal riconoscimento di una continuità “tematica” fra la propria storia di figlio abbandonato e quella di Delly, abbandonata due volte; la scena in cui il detective si reca dalla madre della ragazza in cerca di spiegazioni è una delle più belle e toccanti del film. Penn tiene i due personaggi a distanza, Moseby in casa e Arlene a bordo piscina, e attraverso il breve racconto della donna, ubriaca e barcollante, che ricorda la propria difficile giovinezza e i troppi uomini a cui si è dovuta concedere per denaro, aggiunge un altro tassello alla rappresentazione terminale della famiglia americana, la cui disgregazione – tema tipicamente penniano, qui moltiplicato e variato dalla testimonianza di ogni singolo personaggio – rimanda la figura di un’unità spezzata, un ammasso di macerie in cui sembra impossibile riconoscere la traccia di un passato organico. L’avventura di Moseby, come la struttura stessa del film, certificano l’ampiezza di tale rovina: nella seconda parte di Bersaglio di notte, un po’ come quando gioca a scacchi, Moseby prova comunque a istituire dei legami tra i singoli elementi, coinvolgendoli tutti in un disegno unitario, a partire non 113. Sugli aspetti “paranoidi” e cospiratori della cultura americana del secondo Novecento, si veda, tra gli altri, P. Knight, Conspiracy Culture. From Kennedy to X-Files, Routledge, London and New York 2000.

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tanto da una prova ma da un’ossessione per la chiusura, guidato dall’automatismo delle domande e portato dall’inerzia della propria professione; nessuno, però, ci crede più, Penn per primo, che lascia andare il film e strafare e straparlare il personaggio. Forse memore di Blow-up (Id., M. Antonioni, 1966), lo fa perfino sedere in una saletta per visionare i ciak del film in cui, durante un inseguimento finito male, è morta Delly. Moseby guarda la stessa scena ripresa da diversi punti di vista (Point of view si chiama la barca di Tom e Paula) e poi procede al montaggio: sul set riconosce Quentin, chiamato a riparare la macchina che ha sbandato, ucciso la ragazza e gravemente ferito Joey, un vecchio amico di Harry coinvolto nella produzione; Quentin, forse, è l’amante di Arlene; Arlene intascherebbe un sacco di soldi dalla morte di Delly, a cui il padre ha lasciato un vitalizio che, fino al 25esimo anno di età, spetta alla madre. Ma quando Harry prova a spiegare il suo punto di vista a Joey, questo gli risponde che non riesce «a vedere la connessione». Alla fine, Harry ne scoprirà involontariamente un’altra, diversa dalla sua, mentre i cadaveri si accumulano al suo passaggio (Delly, Marv, Quentin, Paula, Joey; Tom in fin di vita) e il giallo del film resta scoperto: chi ha ucciso la ragazza, e perché? E allo spettatore restano altri pezzi tra i quali sembra esistere qualche risonanza ma nulla più come, per esempio, il ricorrere dell’oggettistica antica: Ellen lavora in un negozio d’antiquariato (come la donna del Detective Harper), il suo amante possiede diversi pezzi rari, Tom e Paul smerciano “cianfrusaglie” da migliaia di dollari avanti e indietro dallo Yucatan con la complicità di Joey e Marv (ma che tipo di complicità?). L’indizio lascia il piano della trama per diventare qualcos’altro – una distrazione, un simbolo, un vuoto. E alla fine Penn abbandona il suo eroe in mezzo al mare, ferito e sanguinante, mentre la Point of view comincia a girare su se stessa: si riafferma così, al di là della tempra focosa e muscolare del personaggio, la sua condizione di passività, molto diversa però da quella di Jack Crabb: quella di Harry è prodotta da uno stato di impotenza e piccolezza, da un dialogo interrotto con la storia, la sua e quella che lo circonda, e dall’assenza di un orizzonte verso il quale dirigere i propri sforzi (vedi inserto p. 11). Harry non muore ma è come se lo fosse: «Ho pensato che la sua vita sarebbe andata avanti così, disegnando dei cerchi concentrici per il resto dei suoi giorni»114. Uno scacco finale alla possibilità 114. T. Gallagher, Night Moves. Interview to Arthur Penn, cit.

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stessa del gioco, ideato da Penn in sostituzione di quello scritto da Alan Sharp, in cui Moseby e Paula avrebbero dovuto fuggire insieme col tesoro recuperato, forse verso un amore futuro, e decisamente più pessimistico rispetto alla prima ipotesi del regista, che avrebbe voluto offrire una chance al ricongiungimento tra Moseby e la moglie. Castrando ogni felice ritorno e ogni riconquista affettiva e coniugale, Penn sembra infine ricordarsi dell’adagio di Chandler: «Un buon detective non si sposa mai»; ma se Moseby è sterile, come molti altri investigatori della tradizione cinematografica, con una moglie in fuga e senza figli, ciò non deriva da un desiderio di eccellenza, né coincide con l’effetto inevitabile di una simile scelta professionale: nel caso di Harry, la logica si rovescia, e se a un certo punto della sua vita ha accettato un lavoro solitario, privato e violento come quello del detective, è proprio a causa della sua sterilità. In questo senso, Bersaglio di notte rappresenta l’ennesima riflessione penniana sulla famiglia (americana), sul rapporto tra padri e figli, sul legame di sangue, sulla storia osservata dal punto di vista del ricambio generazionale; più che in passato, però, la deriva sembra questa volta dipendere direttamente dalla condizione “ambientale” in cui si muovono i personaggi (che non si riproducono e confondono i ruoli, come anche in Klute e Chinatown) e dalla dissipazione dell’ordine che li circonda. La non appartenenza comunitaria, l’impossibilità di fondare una generazione e di continuarsi nella storia e nel tempo assumono così una sfumatura ancor più tragica: lo sceriffo Calder di Marlon Brando, alla fine di La caccia, riusciva comunque a “tornare alla terra” e, per quanto asfittica, la comunità di Alice’s Restaurant offriva comunque un rifugio all’ideale; Jack Crabb perdeva sorella, moglie e figlio sulla strada della storia e nel vortice degli eventi, ma in fin dei conti aveva “seminato” qualcosa di sé per il mondo. Qui, alla fine, non resta invece che una solitudine ferita e un ottuso movimento circolare: la freccia del tempo e della storia gira su se stessa, autisticamente. Dopo gli stili di vita alternativi descritti (se non proprio abbracciati e condivisi) in Alice’s Restaurant e Piccolo grande uomo, Bersaglio di notte non offre più nulla, neppure un risarcimento danni finale: solo una manciata di illusioni che durano il tempo della loro fugace apparizione. Neppure la relazione tra Ellen e Harry chiude: si parlano ancora una volta in un luogo estraneo e impersonale come l’aeroporto, un dialogo 211

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teso e senza chiarimenti, lui parte e lei resta lì. Siamo ben al di là del finale aperto, ormai di moda, in quel momento, anche nel cinema americano: Bersaglio di notte è piuttosto un film che non può chiudersi (senza per questo restare semplicemente aperto), e i cui interrogativi privi di risposta si piegano su se stessi, nell’atonia di un seguito impossibile. Non è né un film nostalgico né, semplicemente, un esercizio di stile in cui il cinema di genere è utilizzato per misurare la distanza tra il presente e un recente passato; non è neppure un aggiornamento New Hollywood del poliziesco. È piuttosto un film sull’illusione, sulle false apparenze, sulla difficoltà di muoversi (nella notte dei tempi) e di riconoscere e capire le mosse altrui: la metafora scacchistica è un po’ smaccata ma pertinente, come lo sarà in Omicidio allo specchio. Bersaglio di notte, con molta coerenza, rimanda lo spettacolo di una dispersione e di un allontanamento, azzerando la linearità della prima parte col connessionismo un po’ specioso della seconda, e imprimendo al film una scansione drammaturgica piena di salti, pause, interruzioni, accelerazioni improvvise. Procede per omissioni e ibridazioni, sconfinamenti e decentramenti, ma non possiede il disordine ordinato di altri esperimenti analoghi. Per certi versi, è un film (superbamente) fallito; Penn, del resto, non ha di mira la sostituzione di un’idea o di un modello con un altro, o la semplice denuncia di un’impasse estetica attraverso un contro-modello, ma la (di)mostrazione beffarda – in un film tutto di superficie, in cui non sembra esserci niente al di là di ciò che si vede e sente – della crisi del modello, e dell’impossibilità stessa di avvicinarlo o recuperarlo; un po’ come in certo cinema europeo di quegli anni, Bersaglio di notte testimonia, tra l’altro, «la perdita di fiducia nella possibilità di essere (ancora) capaci di raccontare una storia»115. Anche per questo, e più ancora di Missouri, il film si candida a rappresentare il capitolo terminale della New Hollywood, così come Gangster Story viene tradizionalmente collocato al suo principio. Contaminando il ritorno ai generi annunciato dai successi di Spielberg, Coppola, Lucas e Scorsese con le abituali preoccupazioni del cinema “impegnato” degli anni Sessanta (riflessione politica e sociale, realismo della messa in 115. T. Elsaesser, The Pathos of Failure: American Films in the 1970s. Notes on the Unmotivated Hero, in T. Elsaesser, A. Horwath, N. King (a cura di), The Last Great American Picture Show... cit., p. 181.

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scena, prossimità tra rappresentazione e audience, impegno civile…), Bersaglio di notte elabora una soluzione fallimentare delle contraddizioni tra immagine e realtà e cinema e società che il cinema postmoderno, di lì a poco, si sarebbe incaricato di risolvere, mettendo ordine e semplificando un po’, a vantaggio di un ritorno in forze dell’intrattenimento, del coinvolgimento emotivo, del grande racconto di finzione. Le minacce, per Moseby come per Penn, sono ormai dappertutto, vengono dalla terra, dal mare e dal cielo; Paula chiede al detective (e come tutte le domande della donna significa altro): «Puoi immergerti per ottanta piedi?». Naturalmente non può. E non può – immergersi, cercare, riportare alla luce – neppure Penn: «Siamo parte di una generazione che sa che non ci sono soluzioni»116. Continuare a fare domande è allora perfettamente inutile. E tuttavia Penn non può accontentarsi delle soluzioni facili, preferisce sbandare e realizzare un film per sé, lasciando suonare l’allarme di una domanda senza (possibilità di) risposta. E che Bersaglio di notte e Missouri siano film della crisi e un po’ sconfitti, lo rivela, in primo luogo, il profilo dei rispettivi protagonisti: Harry Moseby e Tom Logan, l’avversario del regolatore Clayton, sono infatti due banalissimi common man in cerca di pace, ordine e stabilità, e somigliano davvero poco ai classici outcast degli altri film di Penn. Oltre a indicare una trasformazione in corso (ma ancora priva di un punto d’arrivo), questo aspetto vale, di per sé, come un segno sconfortante: se non esistono più i Billy, i Bonnie e Clyde e i Mickey One non è semplicemente perché l’opposizione (al sistema, alla regola, al destino, al potere, all’ingiustizia…) è andata a farsi benedire con la fine del clima degli anni Sessanta e il suo spirito ribelle. Più sottilmente, è adesso diventato difficile se non impossibile riconoscere l’avversario, identificare il pericolo, distinguere il volto e il senso della minaccia e quindi armarsi e lottare. Sotto questo profilo, Bersaglio di notte è un film perfettamente paranoide, molto intonato al registro dominante della cultura americana dell’epoca: non riflette soltanto una condizione socialmente diffusa in cui sembra ormai oltre la portata del singolo (detective o no) dare o cercare delle risposte, riconoscere e riunire degli indizi e vederci chiaro; suggerisce anche una difficoltà più tragica e originaria, quella di identificare senza dubbi o riserve colpa e colpevoli, di distin116. T. Gallagher, Night Moves. Interview to Arthur Penn, cit.

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guere gli amici dai nemici e le vittime dai carnefici. E del resto il film, nel momento in cui, dopo un’ora circa, sembra ripartire, lo fa rinnovando e in alcuni casi rovesciando radicalmente profilo e valori associati fino a quel momento ai personaggi. L’ambiguità del noir lascia così il posto a un’imprevedibile reversibilità tra bianco e nero e a una mobilità di segni e valori che non distingue tra schieramenti e opposizioni. Come in un gioco di rovesciamenti infiniti tra polo positivo e polo negativo (anche in senso fotografico), Penn sottomette gli elementi del film alla possibilità di un imminente ribaltamento: si veda, per esempio, il doppio arrivo di Moseby presso la casa di Tom e Paula in Florida, il primo solare e pacifico, con Paula che nutre i delfini, il secondo notturno e inquieto, col cadavere di Quentin nella vasca. Siamo tuttavia lontani dalla “sorpresa” del poliziesco: il gioco delle rivelazioni inattese è infatti guidato dall’insicurezza morale. L’altro processo critico – destinato a svilupparsi in epoca contemporanea – posto al centro di Bersaglio di notte coincide con questa indistinzione del Bene in un clima di persistenza del Male, prodotta dal rinfocolarsi, accanto alle più antiche preoccupazioni legate alla guerra fredda, di una condizione di insicurezza nazionale e di incertezza valoriale. Secondo Thimoty Melloy, la proliferazione di una “cultura della paranoia” incide infatti, in primo luogo, sul modo in cui il singolo percepisce e vive il proprio ruolo all’interno della collettività, sviluppando, accanto all’ansia personale per la progressiva perdita di controllo, la sensazione di essere mossi da un potere esterno, superiore e inconoscibile; ne sono testimonianza i personaggi di molti film e romanzi del periodo, tragicamente consapevoli della propria posizione di characters in plots, di pedine manovrate da qualcun altro e da un luogo irraggiungibile117. La ricaduta e la chiusura più o meno paranoidi nell’“inward” sono dunque inevitabili, e la preminenza della dimensione soggettiva di Moseby nel film non nasce semplicemente dall’abitudine di Penn di focalizzare le sue storie “per” e a partire dal personaggio, impiegandolo come centro propulsore della messa in scena. Il personaggio rappresenta questa volta l’unico rifugio possibile, e non per trovare risposte o spiegazioni (la difficoltà di riconoscersi è una condizione comune al 117. Cfr. T. Melley, Empire of Conspiracy: the Culture of Paranoia in Postwar America, Cornell University Press, Ithaca and London 2000.

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soggetto e a ciò che lo circonda), ma, più semplicemente, un punto di osservazione, un private eye da cui esplorare il “divisionismo” della realtà circostante. Tante, dunque, le soggettive di Harry nel film, vere e false; cruciale il ruolo del suo sguardo e, correlativamente, di superfici riflettenti, specchi e oggetti che rimandano al problema della visione e, soprattutto, alla sua moltiplicazione e sfocatura (sfocato, per un attimo, è lo stesso Harry quando scopre il tradimento della moglie, che incontra l’amante fuori da un cinema in cui ha appena visto il “very arty” La mia notte con Maud [Ma nuit chez Maud, E. Rohmer, 1969], (vedi inserto p. 11). La voce del narratore, dopo il protagonismo di Jack Crabb, si abbassa e perde in forza, capacità di articolazione e lucidità: a Penn non resta che l’ancoraggio al corpo e alle facoltà percettive del personaggio, a cui rimanda sotterraneamente il ruolo di guida, accettando il rischio di un vedere e di un sapere parziali e il filtro immaginativo di un individuo “qualunque”. Non c’è film, nella filmografia del regista, più chiuso sul personaggio, più dipendente dalla sua presenza, più ristretto al suo campo visivo. Senza che ciò dia accesso alla complessità della sua dimensione psicologia e affettiva, introducendo la possibilità di un altro racconto; il narratore, e con lui lo spettatore, si colloca piuttosto in una posizione ibrida, vicinissimo al personaggio eppure fuori da lui, e il film si consuma in una specie di spettacolo piatto, freddo e superficiale, in un guardarlo guardare che impone i dati della messa in scena in tutta la loro immediatezza ed evidenza ma, anche, atonia significante e relazionalità debole e indecisa col resto del racconto. Allineato al punto di vista di un personaggio come Harry, Bersaglio di notte non può dunque rimandare che a uno spettacolo della parzialità, dell’incertezza e dell’errore. La particolare sintassi del film scaturisce da questa dipendenza esclusiva del racconto dal punto di vista di Harry. I fatti sembrano allinearsi in blocchi relativamente autonomi, indebolendo il passaggio degli eventi alla statuto di racconto, secondo un dettato che a qualche critico (primo tra tutti Tag Gallagher) ha fatto pensare a Rossellini. Turroni ha giustamente parlato di «tecnica divisionista»118, mentre lo stesso Penn, per spiegare il montaggio del film, ha fatto riferimento alla pittura cubista. L’andamento è spezzato e il dramma, pro118. G. Turroni, «Filmcritica», n. 257, 1975.

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cedendo, anziché crescere o gonfiarsi, si astrae e disperde, (ri)aprendosi verso un finale che non risolve nulla; del resto, si chiede giustamente Gaston Haustrate, richiamando Furia Selvaggia, «tutta questa avventura non è forse stata vista “come dietro un vetro, confusamente”?»119. Assieme alla scelta di focalizzare il racconto dal punto di vista di Harry, proprio il montaggio, nascendo “spontaneamente” dall’interno del racconto, contribuisce a rimandare il film (l’ennesimo film di Penn) al problema della visione. In questo caso, al problema della visione mediata, all’inconsistenza della prova (visiva), alla difficoltà di raccogliere un senso dietro le immagini e di rimandarle a un altrove al di là di esse. Dopo aver visionato i ciak della morte di Delly, Harry non può che sbagliare conclusione: la Storia americana degli anni Settanta preme su Penn e il film, ma sembra ormai impossibile raccontarla. Si avverte soltanto l’eco di un malessere. «Era un’epoca, a differenza di quella odierna, in cui molti cineasti immaginavano che il fatto di avere un pubblico diverso implicasse un mondo in fase di mutazione»120: Bersaglio di notte è il film della disillusione e della crisi anche per quanto riguarda il futuro del cinema.

Teoria della caccia, atto secondo «Ho fatto questo film a causa di Nicholson e Brando. Non potevo perdere un’occasione simile di lavorare con due attori tanto straordinari. In un certo senso, non c’è alcuna tesi nel film; è stato piuttosto un “avvenimento”, qualcosa che si è costruito nell’istante, in funzione della disponibilità dei due attori»121.

Bersaglio di notte si rivela un discreto insuccesso al botteghino, anche a causa delle titubanze distributive della Warner Brothers, indecisa sul modo di gestire commercialmente un thriller tanto atipico; lo stesso Penn, pur amandolo molto, riconosce di averlo preparato e realizzato troppo in fretta: il la119. G. Haustrate, Arthur Penn, Edelig, Paris 1986, p. 74. 120. A. Sarris, After The Graduate, «American Film», luglio-agosto 1978, tradotto in AV.VV., Hollywood 1969-1979. Cinema, cultura, società, Marsilio, Venezia 1979, p. 137. 121. S. Byron, T. Curtis Fox, What is a Western?, «Film Comment», n. 4, luglio-agosto 1976.

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voro sulla sceneggiatura, in particolare, viene ostacolato da tre mesi di sciopero della categoria, conclusosi pochi giorni prima dell’inizio delle riprese. Stando al regista, tuttavia, il fallimento commerciale di Bersaglio di notte non dipenderebbe tanto dal film in sé quanto dall’orientamento degli spettatori americani alla metà degli anni Settanta (esce nel giugno del 1975), poco disponibili, ormai, «ad apprezzare un film che viola le leggi sacre del genere in pieno periodo rétro. È arrivato con qualche anno di ritardo, durante il Watergate, ed era già il momento del ritorno degli eroi. L’anti-thriller non era più di moda»122. Pauline Kael, un anno prima, aveva preconizzato: «Non c’è più audience per film originali»123, e in effetti, in quel periodo, finiscono puniti al botteghino altri film “anti” come le rivisitazioni altmaniane di Gang, Il lungo addio e Buffalo Bill e gli indiani, e lo stesso Missouri, lanciato come un blockbuster, si rivelerà di lì a poco il più grande flop commerciale della carriera di Penn, mentre funzionano, per l’appunto, film rétro come Chinatown o, restando al genere poliziesco, i titoli del filone inaugurato qualche anno prima da Il braccio violento della legge e Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry, D. Siegel, 1971). Ma se negli Stati Uniti le recensioni favorevoli si contano sulle dita di una mano (Penelope Gilliatt lo incensa però sul «New Yorker»), l’accoglienza europea al nuovo film di Penn è, come al solito, decisamente migliore, anche se, almeno in Francia (dove «Ecran» e «Positif» lo recensiscono con grande entusiasmo), il film va incontro a una distribuzione piuttosto infelice; e tra le pagine delle riviste europee, anziché rimpiangere, come in America, il regista di Anna dei miracoli e Gangster Story, si riconosce giustamente in Bersaglio di notte il punto d’arrivo, e di svolta, di una ricerca d’autore molto coerente. La stessa stampa, del resto, aveva molto amato (a differenza di quella statunitense) il terzo lavoro di Penn, Mickey One, di cui Bersaglio di notte, più di ogni altro film realizzato dal regista nei dieci anni che intercorrono tra l’uno e l’altro, riprende i motivi di fondo, l’atmosfera paranoide e la narrazione irrisolta. Le stesse differenze che li separano, soprattutto per quanto riguarda la fisionomia dei personaggi e la tipologia della loro azione – il non-vedente Mickey contro il private eye Harry, il 122. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, cit. 123. P. Kael, There’s no Audience. On the Future of Movies, «New Yorker», 5 agosto 1974.

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primo in fuga e il secondo all’inseguimento, il primo sprofondato nella sua ossessione deformante, il secondo sconfitto da una realtà imprendibile –, somigliano a una specie di rima interna, e marcano una trasformazione esemplare in rapporto al tema, molto penniano, della ricerca e della costruzione dell’identità sullo sfondo della storia. Proprio la pressione del contesto sociale e politico, incluso direttamente nella crisi del personaggio, rende Mickey One e Bersaglio di notte due testimoni della disgregazione sociale cui è andata incontro la società americana tra gli anni Sessanta e Settanta: così, se Mickey fatica a riunire i frammenti dispersi della (dalla) sua ossessione, riuscendovi qua e là solo per via di un connessionismo un po’ folle, Harry, attraverso la sua azione, finisce per certificare l’impossibilità di un ritorno del frammento all’unità; in entrambi i casi, il mondo parla poco, per mezze frasi oscure, perché la minaccia è troppo grande o lontana, e piega i personaggi a una condizione di non appartenenza – alla Storia, a una storia, e prima di tutto alla propria storia personale. Il circolo è vizioso e lo scacco inevitabile: il dialogo interrotto tra soggetto e mondo è al tempo stesso causa e effetto di una perdita di consistenza – in termini di storicità, verità e programmaticità – del legame dell’individuo con ciò che lo circonda. Mickey e Harry subiscono, così, le trame dei loro film, senza alcuna possibilità di tornare indietro (come desidera il primo) o di guardare avanti (come ha deciso Harry, ripromettendosi di tornare da Ellen appena chiuso il caso). A differenza di altri film di Penn (Furia selvaggia e Anna dei miracoli soprattutto), in cui il destino tragico che avvolge il personaggio ha origini antiche e imperscrutabili, in Mickey One e Bersaglio di notte è la trama stessa degli eventi a spedire fuori pista i protagonisti e a lasciarli, come Moseby nell’ultima scena del film, al largo e fuori rotta, a girare all’infinito su di sé (vittime di un point of view, uno solo, da cui ormai non si vede più niente), o, come nel caso di Mickey, a interrogare il riflesso del proprio fallimento in un cimitero di macchine. Tra Furia selvaggia e Bersaglio di notte, inoltre, Penn ha progressivamente sublimato il proprio côté letterario e teatrale, realizzato nella Storia il personaggio-modello e disciolto il simbolo in forme cinematografiche, mentre la storia stessa degli Stati Uniti usciva dal binario della cronaca per trasformarsi in una grande metafora di se stessa: «Una delle ragioni per cui ho avuto molte difficoltà a girare dei film negli anni Settanta è che tutta l’azione si svolgeva or218

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mai a Washington: Nixon vi realizzava un film migliore di tutti quelli che avremmo potuto fare noi»124.

Missouri nasce dalla stessa disillusione, sfiducia e crisi personale di Bersaglio di notte, e come quel film patisce il confronto con il deprimente “spettacolo” della politica americana e la sua opacità semantica. Dopo il thriller Penn decide di affrontare per la terza volta il western, un genere a lui molto caro e familiare, ma le ragioni polemiche, revisioniste e civili che lo hanno portato qualche anno prima verso Piccolo grande uomo sono adesso sostituite da motivazioni più concrete e personali, e il “pacchetto” di Missouri, arrangiato da Elliot Kastner, uno dei produttori di riferimento della New Hollywood, viene vissuto dal regista non soltanto come un secondo momento di verifica in una fase di forte incertezza, ma anche come puro e semplice “business”: «All’inizio era lavoro puro e semplice, ma durante le riprese fu molto eccitante lavorare con i due attori. Tuttavia, non posso dire che nessuno dei tre abbia mai creduto di essersi imbarcato in un progetto che chiedeva il meglio di noi. […] Non ho fatto Missouri per passione e in modo appassionato. L’ho fatto per tre ragioni: volevo lavorare con Brando e Nicholson, avevo bisogno di soldi e volevo dirigere qualcosa in quell’estate del 1975»125.

Penn tuttavia (come del resto gli attori) non dice subito di sì: trova la sceneggiatura di Thomas McGuane “interessante” ma non è intenzionato a girarla. Solo l’astuzia, il forte potere contrattuale di Kastner e la sua amicizia con Marlon Brando, di cui ha prodotto un paio d’anni prima Improvvisamente un uomo nella notte (The Nightcomers, M. Winner, 1972) e, nel 1968, La notte del giorno dopo (The Night of the Following Day, H. Cornfield), riescono infine a combinare gli ingredienti del “pacchetto”. Il produttore prende accordi individuali, strappando a ciascuno la promessa che avrebbe fatto il film a patto che ci fossero gli altri due; in questo modo, senza aver incassato un vero e proprio sì da nessuno dei tre, riesce a riunire un regista ancora molto stimato e due dei più grandi attori viventi (Nicholson ha appena vinto un Oscar per Qualcu124. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, cit. 125. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, cit.

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no volò sul nido del cuculo [One Flew Over the Cuckoo’s Nest, M. Forman, 1975]) in quello che vuole essere, prima di tutto, un film-evento. E per certi versi Missouri continua a essere, ancora oggi, proprio questo, un “grande progetto” produttivo in cui si celebra l’incontro di uno dei registi più rappresentativi della New Hollywood con due grandissimi attori o, se si vuole, l’unione di tre personaggi un po’ “arty” e defilati, difficili e umbratili, sempre a cavallo tra industria e cinema d’autore, impegno e spettacolo. Il trailer del film parla chiaro: prima delle immagini, una scritta informa lapidariamente che il 19 maggio 1976 (data della distribuzione americana) «la storia del cinema si compirà: due dei più elettrizzanti attori americani appariranno insieme per la prima volta. Nel più elettrizzante film dell’anno». E lo stesso Penn, nelle decine di interviste rilasciate a proposito di questo film fatto “senza passione”, ricorda il lavoro con Brando e Nicholson come l’unico aspetto piacevole e degno di nota (artistica). Missouri – il film – resta sullo sfondo, come un’occasione strumentale. Un po’ inevitabilmente, inoltre, la volontà di trasformare Missouri nell’incontro di queste tre “forze” finisce per influenzare ogni aspetto della lavorazione, e non sempre a vantaggio della riuscita del film. Al proposito, lo stesso Penn, in un’intervista senza censure rilasciata a «Ecran» nell’ottobre del 1976, offre un esempio emblematico: nella sceneggiatura originale (in cui molti hanno riconosciuto un’infelice riscrittura in chiave drammatica di un precedente lavoro dello stesso McGuane, Scandalo al ranch [Rancho Deluxe, F. Perry, 1975])126 i personaggi di Brando e Nicholson, rispettivamente Robert Lee Clayton e Tom Logan, si incontrano una sola volta, e brevemente: «quando ci siamo trovati di fronte due nomi simili sotto contratto, abbiamo capito che era troppo poco. Allora ci siamo messi a riscrivere febbrilmente i ruoli, servendoci dello script originale come base, per farli incontrare quattro volte. In tutta fran126. In effetti, tra i due film vi sono molti punti in comune: in particolare, i personaggi principali vivono rubando bestiame, e in entrambi i casi un ricco proprietario terriero, vittima dei furti, ingaggia un detective per risolvere il caso. Del tutto diversi, però, sono il tono e lo sfondo del racconto, visto che Scandalo al ranch ha un andamento prevalentemente comico e un’ambientazione contemporanea; slabbrato e diseguale, il film di Perry possiede tuttavia una dolce malinconia molto New Hollywood e racconta efficacemente lo scontro tra i desideri dei giovani e la sonnolenta società che li circonda.

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chezza, però, devo dire che non vedo alcuna ragione per cui i due personaggi si debbano incontrare quattro volte, una basterebbe. Non c’è alcuna necessità drammatica per rinnovare i loro incontri, né progressione drammatica dall’uno all’altro»127.

La revisione della sceneggiatura in funzione delle due star continua idealmente durante la fase delle riprese, soprattutto nel caso di Brando, che elabora autonomamente il suo personaggio, pensato all’origine come una specie di killer contemporaneo travestito da cow-boy, e non come un indiano schizofrenico e sadico: dall’attore, per esempio, deriva la decisione di sottolineare la natura ambigua e inafferrabile di Clayton attraverso continui cambiamenti d’abito, fino al travestimento femminile – forse memore del guanto da donna indossato in Fronte del porto (On the Waterfront, E. Kazan, 1954). Ma se l’improvvisazione e l’invenzione sul set guadagnano in Missouri uno spazio ben superiore al normale (al “normale” del cinema e a quello, già un po’ meno normale, di Penn), è anche perché, a causa del poco tempo dedicato alla preparazione (meno di sei settimane), non si arriva mai a avere una sceneggiatura del tutto soddisfacente; quando parte il progetto di Missouri, tra l’altro, McGuane sta montando in Inghilterra il suo primo e unico film da regista, 92° all’ombra (92° in the Shade, 1975). Anche per questo, a riprese già iniziate, viene chiamato Robert Towne (non accreditato) a ritoccare alcune scene o a scriverne di nuove, spesso a partire dalle richieste degli attori, silenziosamente in gara tra di loro: «Nicholson riteneva che il suo personaggio non “portasse a termine un bel niente” – era questa la frase – e che Brando avesse tutte le scene d’azione. Jack era intimidito da Brando. Così, quando Brando lasciò il set, Jack chiese, anzi pretese dei cambiamenti. Penn mi chiamò e mi chiese se potevo introdurre alcuni cambiamenti nel personaggio di Jack, ma io risposi di no. Così chiamarono Robert Towne per aiutarli a cambiare la fine. Il risultato è questo straordinario momento in cui il padre si sta facendo tagliare i capelli nel suo ranch, e Nicholson entra e c’è questa scena in cui il padre ha una pistola puntata contro il suo grembiule da barbiere, e poi Nicholson gli spara. Towne ha scritto questa scena»128. 127. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, cit. 128. B. Torrey, Conversation with Thomas McGuane, University Press of Mississippi, Mississippi 2006, p. 113.

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Il progetto iniziale di McGuane, del resto, è molto lontano dal blockbuster stellare immaginato strada facendo da Kastner: «Ho scritto un film chiamato The Missouri Breaks pensato per essere così piccolo ed economico che avrei voluto chiedere di poterlo dirigere. A quel tempo, un film poco costoso stava al di sotto dei due milioni di dollari. Ma si riuscì a persuadere Marlon Brando, con un milione di dollari, a recitare per dieci giorni, e allora, a quel punto, la produzione si dimostrò riluttante a usare le location austere e l’approccio semplice alla “fisicità” del film che avevo pensato, e così trasformarono il film in una specie di La ballata della città senza nome [Paint Your Wagon, J. Logan, 1969], dipendente in parte anche dal background teatrale di Penn. E la co-star del film, che era un personaggio minore nello script, divenne Jack Nicholson, e così fu impossibile che continuasse a essere una co-star. Tutti mi dicevano “Hai sprecato Jack Nicholson nel film”, e io rispondevo “Non ho mai scritto Jack Nicholson nel film”»129.

A oscurare il film, trasformandolo nell’incontro dei due attori, ci pensa infine la stampa, di settore e non, che cavalca l’evento. Il gossip fiorisce, si ricama sulle intemperanze di Brando e sui suoi conflitti con Nicholson, sui faraonici sconfinamenti di budget (limitati in realtà a poche migliaia di dollari, niente per un film costato otto milioni) e perfino sulla “vendetta” che Penn avrebbe inflitto al primo – colpevole di un comportamento intollerabile – mostrandone il fisico già sfatto nella scena (anch’essa aggiunta da Towne) in cui Logan lo sorprende nella vasca da bagno; sul set, poi, c’è per qualche tempo Margot Kidder, allora moglie di McGuane e attrice in 92° all’ombra, che gira un documentario ormai invisibile sulla lavorazione del film, catturando momenti “proibiti” e eccessi dei due attori. Il battage pubblicitario – scandalistico o promozionale – non aiuta comunque la vita commerciale di Missouri, che nell’anno del successo di Rocky (Id., J.G. Avildsen) e Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon) di Kazan (vale a dire, dell’inizio di una stagione e della fine di un’altra) si rivela un disastroso flop, resistendo in sala per sole quattro settimane, nonostante il “periodo favorevole” attentamente studiato dalla United Artists130; e per Penn si tratta dell’ennesimo insuc129. Ivi., p. 27. 130. La distribuzione sceglie di anticipare di molto l’uscita del film per approfittare di un momento in cui la concorrenza risulta debole. La

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cesso al botteghino dopo quello appena precedente di Bersaglio di notte, con cui appanna definitivamente la sua “affidabilità” commerciale. Ma se dopo Missouri il regista decide di stare fermo per altri cinque anni (una pausa analoga a quella che apre il decennio), è perché il ritorno al cinema non sembra essere riuscito a curare il malessere, l’insoddisfazione e l’incertezza (sua e della generazione a cui appartiene) di cui proprio Bersaglio di notte e Missouri sono, al tempo stesso, una reazione e una testimonianza. La crisi personale e artistica che accompagna la prima metà degli anni Settanta è destinata infatti a acuirsi nel quinquennio successivo, in parallelo a un vero e proprio cambio di paradigma all’interno della società, della cultura, della politica e, non da ultimo, dell’industria cinematografica americana. Penn torna allora a teatro (Sly Fox nel 1976, Golda l’anno dopo e The Wild Duck nel 1980131), senza tuttavia smettere di pensare a un nuovo film, anche se nessun produttore sembra più disposto a sostenere i suoi progetti, in cui si legge il tentativo di rideclinare la partecipazione di un tempo in indignazione civile: dopo aver sbattuto tante porte in faccia a Hollywood, questa volta sembra che sia Hollywood a mettere il regista alla porta. I tempi stanno davvero cambiando e il fallimento commerciale di Missouri pare «concludere il ruolo di Penn come protagonista nella Hollywood post-Lo squalo»132. I cinque anni che separano Missouri da Gli amici di Georgia coincidono in effetti con il passaggio definitivo da una prima a una seconda versione della rinascita hollywoodiana, tanto che i due film appaiono oggi come i testimoni di due età decisione costringe Penn a terminare tre mesi prima del previsto e a mettere al lavoro, contemporaneamente, tre montatori, ognuno su un pezzo di film diverso (Jerry Greeberg, Stephen Rotter e, solo in un secondo momento, Dede Allen, impegnata nel progetto, poi non concluso, di Bogart Slept Here di Mike Nichols). 131. Sly Fox, ambientato in California durante la corsa all’oro, è una riscrittura de Il Volpone firmata da Larry Gelbart, quello del M.A.S.H. televisivo; debutta il 7 dicembre al Broadhurst Theatre, restandovi per più di un anno. Golda è invece in scena al Morosco Theatre dal novembre del ’77 al febbraio dell’anno successivo: scritto dall’amico William Gibson e interpretato da Anne Bancroft, è una mega-produzione incentrata sulla figura della statista israeliana Golda Meir (Gibson ha rimesso mano al testo nel 2003, trasformandolo in un monologo interpretato da Tovah Feldshuh). Anche la versione cinematografica di Sly Fox va inserita tra i progetti non realizzati da Penn. 132. D.A. Cook, Lost Illusions, cit., p. 75.

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del cinema americano vicine eppure lontanissime; tra l’uno e l’altro, molto cinema abortito, per ragioni spesso indicative del disadattamento di Penn nei confronti del “nuovo”. Alla fine degli anni Settanta, per esempio, dopo aver lavorato a lungo con l’amico Paddy Chayefsky sul romanzo Altereted States pubblicato da quest’ultimo nel 1978, abbandona il progetto perché «gli effetti speciali non mi interessavano, volevo concentrarmi sull’aspetto umano della vicenda»133: e nel 1977, si sa, a proposito di effetti speciali, esce Guerre stellari (Star Wars, G. Lucas), segnando una delle rotte principali di tutto il cinema a venire. Oppure, in modo altrettanto emblematico, lungo quei cinque anni di silenzio produttivo, i film non decollano perché nessuno è disposto a investire in progetti legati a un’idea di cinema “civile” molto New Hollywood, molto inattuale, tipicamente penniana: allo stadio di sceneggiatura resta un film ambientato in Cambogia, su un gruppo di giornalisti internazionali riuniti a Pnom-Penh, col quale il regista avrebbe voluto dimostrare come le informazioni ricevute venivano ritrasmesse da ciascuno secondo i propri pregiudizi e partiti presi (con la sceneggiatura di Larry Gelbart). Un altro progetto, sempre in quel quinquennio, A time to Die, tratto dal libro omonimo di Tom Wicker, verte invece sulla ribellione dei carcerati del penitenziario di Attica, spenta nel sangue nel settembre del 1971 («La sceneggiatura era meravigliosa ma nessuno voleva dare tre milioni di dollari per un tale soggetto»134). Un altro film, infine, pensato per la Fox e scritto con James Lineberger, avrebbe dovuto sollevare il problema dell’Appalachia, rivelando – in epoca pre-reaganiana – gli orrori del capitalismo: «È un po’ lo stesso problema del petrolio in Medio Oriente: è una regione molto povera e improvvisamente vi si scopre un giacimento di carbone. Le compagnie vi si installano, compra133. E continua: «Abbiamo avuto dei disaccordi in proposito e mi sono ritirato due settimane e mezzo prima dell’inizio delle riprese avvertendo Paddy che i rischi erano troppo grandi. Allora i produttori hanno chiamato Ken Russel e a quel punto fu Paddy a ritirare il suo nome dai titoli di testa!» (M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, cit.). 134. Ibidem. Nell’intervista alla Clouzot, datata ottobre 1976, Penn dà per certo quest’ultimo progetto (scritto con Don Petersen), e dichiara che le riprese sono in programma per l’anno dopo; la produzione è targata Warner Bros.

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no il terreno a prezzo dell’oro e le persone che ci vivevano nella più grande miseria diventano improvvisamente molto ricche e la loro nuova fortuna sconvolge la loro vita»135.

La sceneggiatura, a cui Penn lavora subito dopo Missouri, verte su un tema a lui molto caro e, in questo momento della sua vita, particolarmente sentito, quello della perdita dell’identità: la storia ha per protagonista una donna vittima del mondo degli uomini, «divisa tra un padre e un marito che si credono e comportano come dei rivali. E lei non sa più qual è il suo posto e perde la sua identità»136. E è facile capire perché, alla fine degli anni Settanta, rifiuti Popeye, poi diretto da Altman (1980). Con la sua perdita di identità – sua e di una generazione – Penn farà davvero i conti solo con Gli amici di Georgia; per il momento, prima di tornare al teatro e di veder fallire questo lungo elenco di progetti, prova a fare di Missouri – come già di Bersaglio di notte – un momento di verifica e ulteriore sperimentazione, ricorrendo ancora una volta al western (rivisto e corretto, e più che mai tradito) per parlare della società americana di ieri e di oggi, della sua violenza originaria e inestirpabile, dei suoi meccanismi perversi, della sua poca innocenza e dei suoi miserabili valori. Ne esce un film diseguale e sfuggente ma al tempo stesso libero e sperimentale, uno di quei film che lo stesso Penn distingue da quelli veramente personali, e in cui la sua partecipazione si limiterebbe al “lavoro” di regista. Ma mentre finge di stare al gioco, butta all’aria tutte le sacre regole che avrebbero potuto fare di Missouri il blockbuster sognato da Kastner, approfittando degli ampi margini di riscrittura lasciati in eredità da una sceneggiatura non proprio di ferro e spalancati dal lavoro d’improvvisazione con gli attori per metterci molto di suo; sul set, inoltre, dopo le tante difficoltà incontrate in passato con i tecnici di Hollywood, si trova benissimo accanto al direttore della fotografia Michael Butler, «rapido come un francese, con una piccola equipe di cinque o sei persone che mi dava la possibilità di girare come volevo»137. E, come d’abitudine, Penn gira molto, ripetendo pochi ciak della stessa scena ma riprendendola da molte angolature 135. Ibidem. 136. C. Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, cit. 137. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, cit.

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diverse138. Se lo spazio di Missouri, riflettendo la natura dei rapporti tra i personaggi, è tanto ampio quanto frastagliato, astratto e al tempo stesso impreciso e mutevole, è anche grazie al barocchismo puntuale delle riprese e del montaggio che, fingendo un contegno classicista, dissoda l’azione in un caleidoscopio instabile di piccole variazioni. Più che in termini generali, è in questa scrittura minuta e ricchissima, e in un montaggio senza più interesse per l’epica e i suoi contrasti, che il film disattende le regole di genere, introducendo un ritmo modernista. Questa volta, del resto, il mito esplorato in Furia selvaggia e in Piccolo grande uomo è storia e memoria lontana e il West non somiglia più a uno spazio impervio e anarchico, né tanto meno esotico o leggendario, ma è una società a tutti gli effetti, avviata, sembrerebbe, verso la sua maturità139. Per certi versi, Missouri è ciò che resta del West dopo che la civilizzazione di cui raccontano i film di Ford, Wyler o Hawks («il più bravo dei tre, a mio parere»140) si è ormai compiuta e la frontiera è diventata un limite territoriale che separa chiaramente uno Stato dall’altro. E di questa società in miniatura, molto vicina a quella di La caccia (i due film si somigliano anche per la presenza di un certo registro iperrealista, mentre si oppongono nettamente quanto all’organizzazione dello spazio), Penn fotografa in particolare il processo di definitiva stabilizzazione, tra costruzione del potere e costituzione della legge; così che il modulo della “rapina al treno”, omaggiato da Logan e compagni all’inizio del film, non può che andare incontro a una conclusione tra il comico e il parodistico: ripassando un topos del genere, Penn chiarisce subito che la componente anti-we138. «Uno dei tecnici mi ha detto di non aver mai lavorato con un regista che girasse tanto materiale di “copertura”, la stessa scena ripresa da molte angolazioni diverse», T. McGuane, Introduzione a Missouri (sceneggiatura del film), Mondadori, Milano 1976, p. 7. 139. Come ideale proseguimento di Missouri (e quarto western in carriera), alla fine degli anni Ottanta Penn lavora a una sceneggiatura dal titolo The Last Cowboy, «un film sul mondo del business, sul mutamento delle colture agrarie nella società occidentale, con la scomparsa del cowboy e la trasformazione del territorio. In realtà fu solo un progetto; nemmeno la Warner ne sa nulla» (M. Gottardi, E Io continuo a dire no. Intervista ad Arthur Penn, «Segnocinema», n. 99, settembre-ottobre 1999). 140. S. Byron, T. Curtis Fox, Interview with Arthur Penn, «Film Comment», luglio-agosto 1976.

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stern di Missouri è prima di tutto una qualità del racconto, dipendente dall’epoca in cui si svolge e dal profilo dei personaggi. Il lavoro di decostruzione matura infatti dall’interno, a partire dall’ingresso della storia nella leggenda e dalla conseguente “normalizzazione” del repertorio figurativo: tutti i personaggi del film stanno in bilico tra realtà e archetipo, e mentre crollano i miti, le retoriche si svelano e la narrazione assume la secchezza di una dimostrazione. Trascendendo il genere, Penn, come ne La caccia, mira a esaltare le dinamiche di forza in vigore nella società americana di ieri e di oggi, e un momento specifico del western – l’inseguimento/fuga – si dilata e moltiplica, rilanciando ancora una volta l’immagine originaria dell’hunter americano, cacciatore per forza, per richiamo del sangue e ricerca di un senso. E proprio il senso (della ricerca) si perde a poco a poco, mentre l’urgenza di “risolvere il caso” passa in secondo piano: Clayton non porta semplicemente a termine un “lavoro”, ma allestisce una complessa messa in scena che ha il sapore della sacra rappresentazione, rendendo il momento della caccia (e non quello della cattura) un processo rituale tutto sommato disinteressato all’epilogo (sul quale, giustamente, si taglia corto)141. Penn ci ricama su (complice Brando, i suoi cambi d’abito e i suoi monologhi), ma non è tempo perso: Robert Lee Clayton (la cui strategia di morte «gli viene immaginariamente dal suo omonimo, il generale confederato Robert E. Lee»142) è la “figura teorica” del film, metà uomo metà mostro, assassino e filosofo, che s’aggira come un avvoltoio attorno alle sue prede, rimandando il momento della cattura per prolungare il piacere dell’appostamento, e da lontano spia e uccide, senza più alcun rispetto per le sacre regole del duello (non solo western). Per raccontarci dell’uscita dal mito e dell’ingresso nella 141. Benché McGuane non l’abbia mai confessato, il personaggio di Clayton deve probabilmente qualcosa alla figura di Tom Horn (1860-1903), soldato, pistolero e assassino, ricordato soprattutto per aver lavorato come detective nell’ultimo decennio dell’Ottocento, uccidendo settanta persone, molte delle quali colpevoli di aver rubato bestiame. Della parentela sospetta del resto lo stesso Penn: cfr. What is a Western? Arthur Penn interviewed by Stuart Byron and Terry Curtis Fox, «Film Comment», n. 4, luglio-agosto 1976. Al personaggio di Horn è stato dedicato anche un film, Tom Horn (Id.), diretto da William Wiard e interpretato da Steve McQueen nel 1980. 142. F. Carlini, Arthur Penn, Moizzi, Milano 1977, p. 36.

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storia degli uomini, della rapacità dei tempi e della follia del potere e del denaro, Penn non poteva scegliere personaggio migliore di questo “regolatore” che ammazza senza incontrare gli occhi delle sue vittime e attraverso le lenti del suo binocolo (l’ennesima traccia di un meccanismo visivo nel cinema di Penn, deformante e irreale) studia con la stessa attenzione, portandoli idealmente a coincidenza, uomini e animali; e del resto Clayton tratta gli uomini come fossero animali – Little Tod preso al lazo e trascinato nel fiume – e gli animali come uomini – i duetti quasi d’amore e gli scambi di cibo con i cavalli. Quando morirà, sarà preso alle spalle e finalmente guardato, come ucciso dallo sguardo ravvicinatissimo di Logan, più che dal suo coltello, da qualche parte fuori campo. La follia schizofrenica, la complessità ambigua e il mondo rovesciato di Clayton rappresentano, per altro verso, una faccia della sovrapposizione instabile di valori, culture e storie nella società in trasformazione del film, col passato che sbiadisce e il futuro che s’annuncia; il modo di uccidere del regolatore, per esempio, rimanda a un “mestiere delle armi” moderno, igienico e tecnologico, mentre nella società in divenire di Missouri Breaks si vive ancora a cavallo, di furti e orticelli, e i poteri forti (proprietà terriere, tribunale e chiesa) si sovrappongono143; i cowboy del luogo, del resto, sono «uno strano miscuglio: barbieri di Minneapolis, agricoltori falliti, mezzosangue scandinavi, cacciatori di lupi e taglialegna, garzoni disonesti, zatterieri, malviventi…». E a spostare avanti le lancette della storia, verso la civiltà del commercio e degli affari, e a imporre con forza una regola di vita, se non proprio una legge, necessaria a amministrare il melting-pot del Paese, 143. Ambientato presumibilmente nell’ultimo quarto dell’Ottocento, Missouri confonde un po’ le idee e accentua questa condizione “tensiva” e cronologicamente ambigua, introducendo nello spazio del West elementi moderni e contraddittori. Come osserva Haustrate (Arthur Penn, cit., pp. 81 s.): «Nella scena ambientata presso la capanna, all’inizio, i compari di Tom scherzano e ironizzano con una finezza poco conforme alla psicologia tradizionale dell’uomo del West. E l’insistenza è tale che non si può parlare di errore o di goffaggine. Nel caso di Tom e Jane, ciò è ancora più manifesto. I loro scambi verbali […] sono piuttosto stupefacenti. Nel corso del primo incontro, si misurano in termini etici sul tema della decapitazione; in occasione della loro passeggiata a cavallo, flirtano e dialogano come dei personaggi di Woody Allen; la loro libertà sessuale, poi, s’accompagna a una raffinatezza verbale piuttosto inattesa».

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ci pensa l’intreccio perverso di capitale e giustizia, detenuto da un solo uomo, David Braxton (John McLiam): decadente e funebre, colto e misantropo, troppo simile a un colono europeo della prima ora, senza più moglie (fuggita per disperazione) e legato da incestuosa gelosia alla figlia (una sua proprietà tra le altre), ragiona per percentuali e non conosce pietà, e inaugura il film con una battuta che taglia in due la Storia: «La prima volta che vidi questo Paese, c’erano erbacce e fiori selvatici che arrivavano fino alle staffe. L’anno dopo, avevamo ottomila capi di bestiame texano mezzosangue e più di tremila volumi di letteratura inglese nella mia biblioteca… È un Paese magnifico». Braxton possiede la terra, gli animali e la parola (i libri, accanto alle armi, sono gli strumenti che maneggia più spesso), e possiede, grazie a entrambi, il dominio degli uomini, su cui decide senza appello, come per il giovane Sandy, arrivato fin lì da Rhode Island con l’esercito, amico di Logan e impiccato durante la prima sequenza del film (a beneficio di un gruppo di passanti in gita: la giustizia deve servire da lezione; poco dopo, Braxton è in poltrona a leggere Sterne). Il processo di un altro personaggio, accusato di numerosi furti, assumerà poco dopo la forma di una rappresentazione teatrale, col pubblico assiepato un po’ dovunque: la farsa dà il tono all’episodio, riflettendosi nell’incongruenza del rituale e della scenografia, nella richiesta del giudice Braxton di costruire una difesa divertente perchè la vita di frontiera è molto noiosa, e nell’appello del condannato di “essere ricordato”, «specie dai forestieri, qui nel West», come Lonesome Kid, “il ragazzo solitario”; si ride, si muore, e poi tutti a bere. Come già in Piccolo grande uomo e Gangster Story, secondo un andamento più dipendente dalla “lettera” dei materiali che non da una scelta stilistica, Missouri alterna registri diversi, facendo convivere a lungo dramma e commedia romantica, e narcotizzando lo “spettacolo della morte” tra un’ellissi e l’altra, come figura del tutto usuale del paesaggio umano: la violenza sta anche nella mancanza di una “ritualità” cinematografica nel seppellire i cadaveri accumulati dalla storia. A differenza del racconto di Jack Crabb, tuttavia, quello a distanza di Missouri, in cui il possesso dello sguardo circola tra i personaggi (senza appartenere davvero a nessuno), non sconfina mai verso la mezza parodia o i moduli del racconto folkloristico, e anziché di opposizioni e dualità, vive di contraddizioni e antitesi all’in229

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terno di un organismo di pares. Il realismo della messa in scena ne guadagna in verità e ferocia: accade così, come nella sequenza d’apertura, che il tono elegiaco del discorso e la lenta ripresa in continuità, innamorata degli spazi aperti del West (e non dissimile proprio da quella di Piccolo grande uomo), sfumino in una “festa di morte”, tra l’indifferenza (in teleobiettivo) degli astanti e una sorpresa subito estinta (l’impiccagione di Sandy); e accade inoltre che per una buona parte del film il vasto spazio della prateria (che sostituisce il forsennato montaggio alternato dell’altro western) ospiti, l’uno accanto all’altro, l’idillio d’amore di Logan e Jane Braxton (Kathleen Lloyd), la ricerca al momento voyersitica di Clayton e il furto di cavalli messo in opera dai compagni di Logan sul confine col Canada. Tre storie che valgono tre film e in cui il conflitto interno non è dato all’origine, ma cresce a poco a poco, mentre le premesse si complicano: Logan, grazie all’amore di Jane, scopre il desiderio (già di Calder) di tornare alla terra, di smetterla coi furti e le fughe, di impiantare un orto e “fare” casa; intanto, a distanza, Clayton osserva: sospetta di Logan, ma lo sguardo cerca altro e si soddisfa da sé, grazie all’immagine rubata. Proprio il gioco sullo spazio e la prossemica tra i personaggi dentro lo sconfinato paesaggio del West guadagna – attraverso la consueta “delicatezza” simbolica di Penn, ormai lontana dalle metafore degli esordi – uno statuto “morale” ben preciso, degradando verso il piano metacinematografico. A uno sguardo più “strutturale”, il racconto di Missouri si rivela infatti una danza (macabra, spesso) di avvicinamento e allontanamento, sopraffazione fisica e competizione dello spazio. Penn colloca le storie intrecciate o solo parallele del film entro spazi distanti e potenzialmente invisibili l’uno all’altro, facendo del progressivo avvicinamento dello sguardo dei personaggi il punto di svolta drammatico. La scansione dei rapporti tra Logan e Clayton lo rivela benissimo. Il primo incontro, dopo circa 45’ di film, li oppone a grande distanza: Logan sta domando un puledro quando, un po’ più in alto, alle sue spalle, sopraggiungono Clayton e Braxton. Il campo/controcampo è privo di relazioni di contiguità, ognuno è solo nella sua inquadratura, dall’alto quelle di Clayton, dal basso quelle di Logan, che già sente il fiato (o lo sguardo) sul collo, e domanda all’altro se per regolatore non si intenda «uno che spara alla schiena… senza mai avvicinarsi». Gli chiede anche che cosa ci faccia col binocolo, e Clayton risponde che ha cominciato a os230

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servare gli uccelli sospetti: a questo punto avvicina lo strumento agli occhi e l’inquadratura successiva, una falsa soggettiva, presenta Logan a grandezza maggiore: l’uomo è stato visto e mirato. A questo punto, Clayton e Braxton scendono verso Logan, mentre la conversazione sull’uccidere a distanza prosegue: almeno, osserva quest’ultimo, quando si impicca qualcuno gli si concede di dire qualcosa, fare un saluto, recitare una preghiera, ma quando si spara da un miglio di distanza sorprendendolo mentre sta facendo tutt’altro… Soprattutto, osserva Logan, quando si spara da 500 metri, come fa Clayton col suo Creedmore, non si è costretti a guardarlo negli occhi. È questo – conclude – che fa tutta la differenza. Vedere in faccia le persone che muoiono è il problema sollevato qualche scena prima da Jane, nel momento in cui fa la conoscenza di Logan: lei ha guardato in faccia Sandy mentre veniva impiccato; se anche Logan fosse stato lì, osserva, egli non sarebbe, come suo padre, a favore della necessità di uccidere i ladri di bestiame. Tutto il rapporto tra Logan e Clayton, prima del successivo incontro, è improntato a questa dissimmetria del vedere da lontano, e sfocato, e soprattutto unilateralmente. Clayton lo spia mentre si diletta a riconoscere i rapaci della zona, rendendo esplicita la sovrapposizione tra Logan e “gli uccelli sospetti”: da questo momento in poi, l’uso (assai frequente in Penn, e qui più del solito) del teleobiettivo, rimanderà in ogni caso allo sguardo del regolatore, quand’anche libero dal riferimento a Clayton, introducendo un regime ambiguo e minaccioso. La metafora animale, invece, interesserà anche altri personaggi destinati a cadere nella rete del suo sguardo: quando avvista a grande distanza Little Tod, Clayton sta cucinando una lepre uccisa poco prima (con una strana arma con la quale finirà Cal); lo insegue come ha fatto con l’animale e poi lo uccide lasciandolo annegare nel Missouri, legato com’era prima il cavallo. L’incontro successivo, dopo un quarto d’ora dal precedente, mette questa volta Clayton e Logan sullo stesso piano: il primo, furtivamente, giunge presso la casetta di Tom, spuntando da dietro un angolo, a piedi. Ma la distanza tra i due resta stabilita dal fuoco della pistola, con cui Clayton offre una dimostrazione di forza, e dalla dialettica del campo/controcampo, che Penn amministra in modo quasi barocco, variando continuamente distanza e angolo di ripresa. La prossemica tra i due personaggi è dunque quella dello scontro: l’uno di 231

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fronte all’altro, a distanza di duello, alternativamente armati (ma quando Clayton cede la pistola all’avversario, i proiettili sono finiti). Terzo incontro, l’unico in interni, a 25’ dal precedente: questa volta i rapporti di forza sono invertiti, lo sguardo dal basso appartiene a Clayton, dall’alto guarda Logan, in piedi di fronte alla vasca da bagno in cui l’altro si sta lavando. Un breve dialogo teso, poi Logan estrae la pistola, ancora una volta accusando il “regolatore” di essere semplicemente uno che “uccide a distanza”: lui, invece, gli è vicino, vicinissimo, forse troppo (gli interni, in Missouri, non si addicono alla morte); Clayton è disarmato e, avendo ormai compreso il “codice” antico, western e cavalleresco del ladro di bestiame, gli volta semplicemente la schiena, impedendogli di guardalo negli occhi e, di fatto, disarmandolo: se Logan sparasse, diventerebbe Clayton. Non sangue, dunque, ma acqua scorre alla fine dell’incontro, straripando dalla vasca/bara in cui è immerso il regolatore (piena di ghiaccio ormai sciolto è la cassa da morto di Pete Marker, il braccio destro di Braxton, ucciso probabilmente dagli uomini di Logan: si trova al centro del salotto di casa quando compare per la prima volta Clayton). Prima del quarto e ultimo incontro, il regolatore uccide i tre della gang: nel primo caso è una semplice pallottola nella notte, nel secondo agisce di giorno e la sua presenza si annuncia allo spettatore attraverso alcune soggettive in teleobiettivo, nel terzo Clayton si fa vedere, ma è quasi irriconoscibile, travestito da “nonna”. Facendo correre una lampada a petrolio su un filo che conduce alla casa acquistata da Tom, le dà fuoco e la distrugge; ne esce Cal, al quale rivolge alcune domande prima di chiudergli gli occhi, letteralmente, colpendolo a quello sinistro. L’esecuzione di Clayton, invece, è rapida e priva di scenografia, e, come se si trattasse di un animale, Logan lo sgozza risvegliandolo dal sonno; la scena è breve, l’azione fuori campo: Penn lascia parlare gli occhi dei due attori, alla fine vicinissimi (vedi inserto p. 12). Il percorso del regolatore si chiude dunque circolarmente: arrivando da Braxton, aveva sorpreso Jane nascondendosi dietro un cavallo («Mi avete spaventata, vedevo soltanto i due cavalli»; «Beh, non dovevate vedere altro»); adesso è lui a non vedere e a essere sorpreso. Logan gli concede però di guardarlo, anche se per un attimo, di sfuggita, prima di godersi lo spettacolo della sua morte. Il percorso di Tom cresce come uno sbandamento progressivo, fino all’uccisione di Braxton, e lo strattonamento fatale di 232

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cui è vittima ricorda quello di Billy. E sebbene quest’ultimo sia in lotta contro una forza interiore a cui sembra non poter sfuggire – là dove il percorso di Tom devia e s’incurva soprattutto a causa degli eventi –, sia in Furia selvaggia che in Missouri i personaggi principali finiscono per testimoniare una specie di impotenza di cui però sono le vittime, non i responsabili. Alle loro spalle e all’origine di tutto, uno schema violento e ferino regola i rapporti tra gli uomini: il West, come il Sud di La caccia, ne è l’epitome e la sintesi. Il problema di molti personaggi del cinema di Penn non è quello di sottrarsi al destino, o di combatterlo, come la vulgata critica non smette di ripetere da più di quarant’anni, a partire dalle pur convincenti ma ristrette argomentazioni di Robin Wood; il problema, in una società di mezzo come quella di Missouri (ma in tutte le società, e particolarmente in quella americana, di ieri e di oggi) è semmai quello di non poter essere soltanto una cosa, di non poter cambiare o assecondare fino in fondo la propria storia e dunque se stessi; di non potersi donare, liberamente, al proprio destino, scritto dentro di sé, sotterrato nella propria biografia oppure incontrato sulla strada della vita. Il tema dell’identità (della sua ricerca, della sua conquista e soprattutto della sua conservazione), spesso intrecciato a quello della violenza, è l’altra metà di un solo problema – americano, moderno, novecentesco, e al tempo stesso antico quanto l’uomo. Con Missouri, dunque, Penn torna a riflettere, riannodando una serie di fili che s’allungano a richiamare i film d’esordio, sul conflitto tra individuo e società, sui limiti che la seconda impone al primo, sul gioco di forze, violento e impersonale, che allontana il desiderio, sull’imperfezione della legge degli uomini (Stato-Capitale-Dio), sulle ambiguità di una società che fa coincidere slancio vitalistico e autodistruzione (temi, questi ultimi, su cui lavora, negli stessi anni, l’altro “violento” di Hollywood, Sam Peckinpah). Nel West bucolico e mortifero di Missouri, Logan è un ladro di cavalli che sperimenta il “ritorno alla terra”, scoprendo al tempo stesso una serie di valori e una possibile alternativa a cui viene violentemente sottratto: la sua marginalità è dunque duplice, la sua mancata integrazione radicale. Per occuparsi dell’orto e della casa, mette da parte le armi; ma gli eventi lo costringono a riprenderle in mano, e a trasformarsi in assassino. Clayton è lì per forzarlo a diventare come lui (a ricordargli che è anche come lui), e la sua ubiquità, assieme al suo trasformismo, ne fanno il miglior sim233

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bolo del richiamo alla violenza e all’autodistruzione su cui si fonda il mondo nell’universo penniano (nelle sue pallottole a distanza torna invece l’immagine del “sicario” che ha deciso il corso della politica americana lungo gli anni Sessanta). Clayton, Logan e Braxton sono in fondo simili, perché partecipano tutti, più o meno inconsapevolmente, alla distruzione di ciò che possiedono: quello è il loro “lavoro”, perché costretti a farlo, perché rapiti dal turbine della vendetta o perché desiderano denaro e “cose” o vogliono conquistare il potere della legge. Quello di Missouri è un mondo molecolare e eccentrico, in cui a Penn bastano tre personaggi per esemplificare l’attitudine alla distruzione e allo spreco, in attesa che nuovi coloni e nuovi padroni rubino la terra, impicchino, scrivano leggi ingiuste. Di questi tre, però, Logan è il “giovane”, e lungo il film è l’unico che cambia, devia, si trasforma, e a cui il regista concede una sofferenza moderna, fondata sul conflitto tra desiderio e necessità, tra sopravvivenza e progetti per il futuro. È dunque sul suo percorso che Penn misura la “morale” di Missouri, che per qualcuno è tra le più ottimistiche del suo cinema, anche se la trasformazione degradante del personaggio – ladro di cavalli, coltivatore, assassino – lascia intendere il contrario. Quando, nell’ultima sequenza, irrompe armato di fucile in casa di Braxton, Jane sembra quasi non riconoscerlo: si guardano per un po’, entrambi devono assorbire un cambiamento senza ritorno. E poi, ancora una volta, Tom si trova a reagire, costretto a fare quello che sarebbe anche disposto a non fare, rincondotto alla violenza a cui vorrebbe sfuggire. Penn chiude la stagione della New Hollywood riaffermando quell’orizzonte di perdita continua e inarrestabile già al centro di La caccia. Il West del film non è né conquistato, né modernizzato, né rimpianto, né ricondotto nostalgicamente a un’età precedente: è solo perduto, fallito, mancato; disincarnato e svuotato, ormai irriconoscibile. Quando, nella scena conclusiva, Logan e Jane se ne vanno – per strade diverse ma con la promessa di rivedersi di lì a sei mesi “vicino al Missouri” – lasciano un luogo ormai inabitabile e fuggono da una specie di sterminio (quasi tutti quelli che si sono visti dall’inizio della storia sono ormai morti); l’orto di Logan è ormai secco, la fattoria dei Braxton in vendita, senza più nessuno che si occupi del bestiame. Penn lascia vivi solo loro due, giovani e ancora innamorati, e fa dire a Jane: «Non voglio passare il resto della mia vita a vendicarmi di qualcuno»; lui è d’accordo. Jane e Tom sono, per certi versi, gli antesignani di un’alternativa a cui 234

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Penn crede, o vuole credere; quelli come Braxton, del resto, non hanno saputo o voluto lasciare nulla dietro di sé. Ma è più probabile che il tempo e la storia si ripetano, perché la colonizzazione americana – un certo tipo di colonizzazione – non è un accidente della Storia ma una condizione stessa dell’essere americani. Penn, ancora una volta, parla sottovoce di sterminino degli indiani e di guerra in Vietnam, di mancata integrazione razziale e di lotte di potere e violenza. Tom e Jane, insomma – non più della comunità di Alice’s Restaurant – non valgono una riposta, né, tanto meno, somigliano, neppure vagamente, a un’alternativa possibile. Penn non si scrolla di dosso quel disincanto tragico con cui, da quasi un ventennio ormai, osserva dal basso, senza pregiudizi e con molta partecipazione, la società americana. Il mito del West, assieme al suo cinema, si spegne a poco a poco, e insieme con quello si bruciano gli uomini: come il Calder di La caccia, anche Jane e Tom si lasciano alle spalle una terra in fiamme, giusto in tempo per non essere bruciati ma ormai marchiati da una violenza a cui cercano infine di sottrarsi. La loro diversità (Jane è l’antitesi di Braxton, e la sua modernità, di parole e comportamenti, anticipa direttamente quella di Georgia144), rendendo impossibile l’integrazione, è ciò che li tiene in vita, anziché disintegrarli (come accade a Billy); li tiene in vita e li mette in movimento, alla ricerca di un nuovo inizio. Proprio il film successivo, Gli amici di Georgia, chiarirà la difficoltà – per quelli come Tom e Jane, scampati alla devastazione ma sporcati dalla sua violenza – di ricominciare o, semplicemente, di stare. Missouri completa così la galleria dei personaggi out o border-line del cinema di Penn, anticipando la figura dell’esule-emigrante Danilo e facendo della fuga (quand’anche in forma di viaggio, insofferenza alla stabilità, richiamo al cambiamento…) una condizione insuperabile e in fondo una dannazione. È, del resto, l’altra metà di quel principio della caccia che Penn ha saputo individuare, capire, raccontare meglio di ogni altro regista americano del suo tempo. E la cui indagine, nel 1978, passerà idealmente, fin dal titolo, a Michael Cimino, che degli esordienti degli anni Settanta è quello che gli somiglia di più. 144. Mentre il padre conta il bestiame e guarda commosso la terra che possiede, Jane confida a Tom di pensarla come Samuel Johnson: «Un filo d’erba è un filo d’erba, ora parlatemi di esseri umani».

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Mi manca Cassavetes.

Del lungo silenzio tra Missouri e Gli amici di Georgia si è già detto: di ciò che significa, delle difficoltà che lo accompagnano, del tanto cinema rimasto sulla carta che vi sta in mezzo, del ritorno al teatro che, ancora una volta, sembra salvare Penn, consentendogli, tra l’altro, di continuare a sperimentare: con Sly Fox, dopo molti anni, riprova la commedia, mentre con The Wild Duck di Ibsen affronta la regia di un classico “irrinunciabile” e il lavoro con una compagnia stabile, il BAM (The Brooklyn Academy of Music Theatre Repertory Company)1. E forse ci voleva proprio quella lunga pausa dal cinema per portare a termine l’incubazione di una crisi che nel personale riflette il generazionale e che ne Gli amici di Georgia idealmente si cura e risolve, compendiando la stagione che ha cambiato il volto dell’America e la mente di chi l’ha vissuta: Gli amici di Georgia è l’“urlo” di Penn, il suo amarcord, uno dei tre capolavori – assieme a Furia selvaggia e Gangster Story: uno per decennio, anno più anno meno – della sua carriera. Ci voleva del tempo, prima di un film del genere, perché le cose prendono tempo, e tanto, come osserva alla fine Georgia, riabbracciando finalmente Danilo, l’amore continuamente mancato della sua vita. Le cose, come le persone, hanno bisogno di tempo per ritrovarsi e rivelarsi; e Penn, lungo gli anni Settanta, ha avuto bisogno di due film volutamente “provvisori”, con un piede nel presente e uno nel passato, di due lunghe pause dal set (a inizio e fine decennio) 1. L’allestimento rappresenta il primo vero insuccesso teatrale di Penn, le cui cause – legate principalmente alla sfiducia degli attori nel suo metodo di improvvisazione – sono analizzate da A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., pp. 36-39.

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e di tre spettacoli teatrali per conquistare la lucidità necessaria a riguardare ai Sessanta, ricapitolandone la cronaca e il suo intreccio con la vita attraverso le biografie dei four friends Georgia, Danilo, Ted e David. In un film piccolo e indipendente costato dieci milioni di dollari e girato in due mesi, che produce personalmente assieme all’amico Gene Lasko, avvalendosi per la seconda volta del lavoro (straordinario) del francese Ghislain Cloquet, scomparso poco dopo. Adesso, all’inizio degli Ottanta, le cose, i fatti e le persone possono finalmente mostrarsi per quello che sono (state): il film prende atto della loro lontananza e, al tempo stesso, più radicalmente, sancisce l’esaurimento di una stagione e la fine di un’epoca. Con un pizzico di nostalgia ma senza piagnistei o qualunquismi comparativi: l’operazione possiede qualcosa di terapeutico e apotropaico, tanto che, per la prima volta nella sua filmografia Penn, alla fine, non si limita a “tenere in vita” i suoi personaggi, ma concede loro l’inizio di un nuovo movimento. E questo vale anche per il regista, che grazie a Gli amici di Georgia – film riepilogativo di molti temi e figure della sua opera – sembra chiudere i conti con la stagione maggiore del suo cinema e con gli anni della giovinezza, elaborando una volta per tutte la “perdita dell’innocenza” dei Settanta per imboccare nell’immediato futuro una strada consapevolmente diversa (meno rabbia e più disincanto). Un po’ come il padre di Danilo, che alla fine del film lascia l’America per tornare nella sua Jugoslavia (sorridendo, finalmente), Penn, grazie a Gli amici di Georgia, sembra congedarsi senza traumi da una “territorio” tanto importante della propria esperienza di americano e di artista: senza rimpianti, mostrandone anche il lato brutto, ma circondando il ricordo di una tale spregiudicatezza e di una così potente fiducia nelle possibilità di cambiare se stessi e il mondo che, per quanto ritirato nella storia se non addirittura nella biografia, esso suona come un monito al presente, a partire dal confronto interno col tempo bloccato e spiraliforme dei due film della crisi, in cui si riflettono direttamente i rivolgimenti di valori e mentalità cui sono andati incontro gli Stati Uniti nel periodo compreso tra lo scandalo Watergate e l’avvio della restaurazione reaganiana. Gli amici di Georgia, scritto da Steve Tesich a partire dalla propria esperienza autobiografica di jugoslavo immigrato nell’Indiana alla fine degli anni Cinquanta, è in effetti un film sul passare del tempo, sulla difficoltà di tenere vivi i propri sogni mentre la storia ci spinge avanti, sul cambiamento, guidato o 237

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imposto, sul passaggio cruciale dalla giovinezza all’età adulta, sul riconoscersi strada facendo, sui conti che infine bisogna tirare con la propria vita e sul modo in cui il semplice fatto di viverla giorno dopo giorno ci trasforma senza che ce ne accorgiamo. Anche per questo Gli amici di Georgia è il film di Penn (di un Penn anziano, anche se non vecchio), l’unico che è facile rimandare direttamente al piano personale (è il primo e unico ambientato in buona parte nell’amata New York), il solo in cui sembra infiltrarsi un discorso intimo se non addirittura privato, dopo i tanti alimentati dall’impegno politico e dalla partecipazione collettiva alla Storia. Nel film, in particolare, «c’è il mio rapporto molto forte con gli anni Sessanta. Vivendo a New York e a Stockbridge, ho vissuto in pieno questo periodo di agitazione, di movimento, di lotta contro la guerra in Vietnam. […] Ho molto ammirato ciò che è successo negli anni Sessanta, benché non abbia mai davvero pensato che si potesse arrivare alla rivoluzione, nonostante essa fosse un argomento di conversazione molto frequente e una fonte di angoscia per molti!»2.

Gli amici di Georgia parla della persistenza delle immagini, di quelle alimentate dai sogni dell’adolescenza e di quelle, reali, rimandate dallo specchio e dallo sguardo degli altri (il continuo rivedersi dei quattro amici somiglia a una verifica costante dei cambiamenti in corso); parla della difficoltà di tenerle insieme, queste immagini fluttuanti, e del confronto con l’abisso che finisce, prima o poi, per separarle. Non a caso, l’avventura di Danilo è scandita, prima di tutto, dal sensibile mutare del suo aspetto fisico: glabro e coi capelli corti all’inizio, egli porta una barbetta semita al college, una più folta quando sta per sposarsi, poi i capelli lunghi e da ultimo gli occhiali; la fine della giovinezza, per Georgia, sarà invece rappresentata da un ciuffo di capelli bianchi che le spunta improvvisamente da un giorno all’altro, mentre David ricorre a un toupé per nascondere una calvizie precoce. Sul tempo e il suo trascorrere, del resto, è costruito il plot del film: non c’è nessun’altra pellicola, tra quelle precedenti e successive di Penn, organizzata, come Gli amici di Georgia, sull’estensione temporale e segnata così chiaramente dal tra2. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn (sur Four Friends-Georgia), «Positif», cit.

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scorrere degli anni e dal mutare dello sfondo storico, essendo infatti la mirabolante confessione del “piccolo grande uomo” un flashback sussultorio, in cui l’intervallo tra gli episodi relativamente autonomi della sua vita conta poco o nulla, e anziché un racconto progressivo egli organizza un insieme incredibilmente eterogeneo, in cui ciò che colpisce è proprio la coesistenza contemporanea delle tante facce e biografie del personaggio. Ne Gli amici di Georgia, al contrario, il tempo passa, ordinatamente, sganciato dall’azione dei personaggi (che sembra infine dipenderne), e il suo stesso trascorrere diventa molto presto il vero tema del film, con la cronaca a segnare le distanze: i volti di Jonh Kennedy e sua moglie su un pallone da spiaggia fatto volare in cielo durante la festa in cui si diplomano i quattro amici (1961, inserto p. 14); un minuto di silenzio osservato allo stadio, due anni dopo, in ricordo del Presidente assassinato; le proteste contro la guerra in Vietnam per le strade di New York; il primo uomo sulla Luna (1969). E, sullo sfondo, la televisione, coi suoi giochi a premi e le sue dirette3. Il decennio c’è tutto, ci sono il suo movimento e il Movimento, osservato a distanza da Danilo e vissuto in prima persona da Georgia, anche se nelle sue pieghe già warholiane e glitter, nel disordine di una vita consacrata a sovvertire le regole e a dispensare fino allo spreco un amore troppo grande di cui Tom, David e soprattutto Danilo sono stati i primi destinatari. I quattro amici, all’inizio, formano una piccola comune che poi, col passare degli anni, si disperde, ritrova, ricompone, realizzando di volta in volta una diversa geometria degli affetti; al centro di tutto proprio lei, Georgia, incapace di stare al suo posto e di accettare le regole, che sogna di diventare (come) Isadora Duncan e nel frattempo fa un figlio con Tom ma sposa David, amando senza riuscirci Danilo e abbandonando ciclicamente tutti e tre per stordirsi in qualche peccaminoso party newyorkese, dove l’eccesso vitalistico può condurre senza soluzione di continuità alla morte, come accade a una sua amica4. 3. Sul ruolo che assume la televisione nel film (comprendo in due sequenze brevi ma fondamentali, la partecipazione di Danilo a un quiz e la diretta dell’allunaggio), rimandiamo alle interessanti osservazioni di A. Monda, La magnifica illusione. Un viaggio nel cinema americano, Fazi, Roma 2003, pp. 275-277. 4. E l’animo da solista affiora presto, già durante il concerto di fine anno, durante il quale improvvisa un assolo quando invece dovrebbe starsene seduta tra gli altri musicisti.

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Senza schematismi melodrammatici, e con una leggerezza tipicamente sua, mescolando commedia e dramma come succede nella vita, Penn centra il film su Danilo e Georgia, facendo del loro amore imperfetto il simbolo del difficile (e a volte mancato) incontro tra due anime dell’America del tempo (quella suburbana e operaia e quella beatnik), e tra due diversi modi di accettare il confronto con la realtà, il cambiamento e al limite l’estinzione del sogno assieme alla giovinezza; concede comunque a Tom e David due ruoli altrettanto significativi, mandando il primo in Vietnam, a testimoniare un terzo modo di essere giovani e americani in quegli anni, e bloccando il tempo del secondo: mentre cammina solo, con aria “triste e miserabile” come un personaggio di Malamud per le strade dell’Indiana dove la vicenda inizia e si conclude, David (fuori campo) si augura che nessuno noti che tragica figura è ormai diventato. Ogni personaggio, in modo diverso, fa insomma i conti col passare del tempo, confrontandosi con la difficoltà di realizzare i propri desideri – tema ricorrente nel cinema di Penn – e di accettare un destino eventualmente contrario alle “meravigliose cose” a cui, secondo Georgia, sono tutti e quattro destinati (complice l’epoca). David, come detto, si arrende subito, mette da parte la musica e invecchia in fretta, lasciando che l’azione dei “cromosomi ebraici” lo trasformi nel proprio padre: «Sto diventando sempre più come lui. I miei capelli stanno cadendo e il mio sedere sta diventando enorme. E non voglio!». Neppure il mantra ideato da Georgia (Isadora Duncan, Isadora Duncan, Isadora Duncan…) può far nulla contro “la diabolica influenza della middle-class”, e di lì a poco ritroveremo David ingrassato, calvo e impiegato presso la ditta paterna di pompe funebri, anche se, nel finale, saprà – meglio di altri – trovare un senso (senza troppi rimorsi) al proprio destino di common man, accanto a una “vera” moglie e futura madre dei suoi figli, dopo aver fatto da padre al bambino di Georgia e Tom. Quest’ultimo è la figura più sfumata del film: non deraglia ma si normalizza, accettando di combattere nella guerra contro cui protestano (ma più in cuor loro che per le strade della rivolta giovanile) Danilo e Georgia. Penn gli concede infine la serenità, se non proprio la felicità: come un’ombra, si muove sullo sfondo delle vite diversamente tragicomiche degli altri tre, e testimonia il cambiamento “epocale” sposando una donna vietnamita. 240

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Danilo, al contrario, è la figura più complessa del film, quella su cui Penn misura il passare del tempo in termini storici, intrecciandone più direttamente la biografia alle tappe principali della cronaca. Egli, del resto, immigrato di seconda generazione, è la vera coscienza politica dei quattro, quello che, mettendo in discussione se stesso, finisce automaticamente per interrogarsi sull’immagine dell’America e sul senso dell’essere americano. Il desiderio di riscatto e il tentativo di realizzare le “grandi cose” a cui si crede destinato si colorano, nel suo caso, di un valore storico e ideologico ben precisi, e il conflitto col padre – che, a differenza di quanto accade a David, resta traumatico e irrisolto fino alla fine – si impone fin da subito come il luogo di questa saldatura testimoniale tra dimensione privata e coscienza politica. La costruzione dell’identità di Danilo si compie, in altre parole, attraverso una doppia negoziazione: una, comune ai tre amici, mette in dialogo sogni adolescenziali e realtà; l’altra oppone la sua idea di America a quella incarnata dal padre, operaio in un’industria siderurgica che, dopo una vita nell’Indiana, non ha ancora perduto il suo accento balcanico e pronuncia America con una durezza in cui si riflettono il suo odio e la sua delusione per un Paese in cui continua a sentirsi straniero. La sua America, del resto, è una terra di sacrifici e povertà: «Io sono in America, e lavoro»; in che America vivi tu, chiede al figlio? «Ti fai gioco della mia vita coi tuoi sogni… Sono stanco e devo andare a lavorare. Questa è l’America». Quella di Danilo è invece una terra di possibilità, speranze, incontri, finché l’America che conta – bianca, ricca e reazionaria – non gli offre una lezione di vita per molti versi definitiva, impedendo quello che l’America immaginata da Danilo dovrebbe invece permettere, ossia l’unione di uno jugoslavo di umili origini, di sinistra, musicista e sognatore, senza soldi e lavoro, con la ricca ereditiera di una fortuna wasp e repubblicana. A questo serve la straordinaria sequenza di sguardi (su quello che potrebbe essere) e di violenza razziale e monetaria (prelevata idealmente da La caccia) del matrimonio di Danilo con la ricca Adrienne Carnahan, sorella del suo roommate Louie, durante il quale il padre della ragazza (lo scrittore James Leo Herlihy5) spara ai due sposi: uccide la figlia, a cui è 5. Con un dramma di Herlihy, Blue Denim, Penn aveva esordito a teatro nel 1955. Cfr. nota 30, capitolo 2.

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legato da un rapporto incestuoso, ferisce Danilo (che per un po’ perderà la vista) e poi si suicida, estinguendo così un’intera famiglia piuttosto che accogliere uno “straniero”. E si estingue, agli occhi (feriti) di Danilo, quel mito americano che, nella sua forma più perfetta e con tutto il suo carico di ingenuità, ha cullato fino a quel momento (come gli fa notare Louie, non dice mai “Stati Uniti” ma “America”, «con la commozione degli stanchi eroi di Ford, con la buona fede degli ingenui paladini di Capra»6): lo ha cullato e alimentato scrivendo poesie d’amore, suonando per le strade di notte, intonando l’inno nazionale allo stadio con la mano sul cuore e insultando, per quanto involontariamente, il padre, uomo di “fatti”, perché i “padroni” contro cui protesta sono gli stessi che danno da mangiare alla famiglia Prozor. Ma Danilo non può non ribattere, durante i giorni di “orientamento” scolastico, a un industriale che sostiene che l’America «è stata costruita sull’acciaio»: per lui, è «cresciuta da un sogno». Nell’intreccio confuso di ribellione domestica e lotta di classe, il padre finisce inevitabilmente assimilato al nemico pubblico ma, al tempo stesso, Danilo comprende che rinnegarlo equivarrebbe non soltanto a rinunciare al legame con lui ma anche a quello con la sua terra: un dilemma identitario e una doppiezza, tanto comuni ai personaggi penniani, scritti nell’oscillazione cui va incontro il suo nome, tra lo jugoslavo Danilo, a uso dei genitori, e l’americano Danny. E se alla fine egli arriva a somigliare al padre, imparando a accontentarsi di ciò che ha, riscoprendo le proprie tradizioni all’interno della comunità jugoslava di una cittadina della Pennsylvania, lavorando in una fabbrica siderurgica e vivendo una vita umile, quel risultato, a differenza dell’accettazione supina di David, sarà il punto d’arrivo di un percorso di crescita e maturazione. Danilo non diventa semplicemente suo padre, ma lo ritrova percorrendo una strada analoga, scontando in prima persona la propria diversità mentre il mito americano crolla violentemente attorno a lui, per le strade, nelle notizie riportate dai giornali e nella vita in caduta libera di Georgia. Eppure sarà proprio con Georgia, principio del cambiamento, indecisa fino alla fine se mettere da parte i sogni ancora da realizzare (la danza, la musica, il successo) e arrendersi al passare del tempo (un piccolo orologio le copre un occhio 6. S. Rulli, Gli amici di Georgia, «Quaderni piacentini», n. 5, 1982.

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nel giorno delle sue nozze con David), che Danilo sceglierà infine di vivere, nel momento stesso in cui la ragazza capisce di non potersi sottrarre all’amore “qualunque” per un unico uomo, dopo aver tentato, senza riuscirci, di amare contemporaneamente e allo stesso modo Danilo, Tom e David. Del resto, passati gli anni della giovinezza e spuntato fino all’ultima voce l’elenco dei desideri, sembra finalmente possibile, adesso, ricominciare, riposizionando l’istinto alla ribellione e l’insofferenza generazionale per ripensare il proprio rapporto col passare del tempo, nel gioco continuo e infinito della perdita: nell’ultima sequenza del film Danilo, dopo aver ottenuto la cittadinanza americana, brucia sulla spiaggia, in compagnia degli amici, una cassa piena di vecchie cose; David, commuovendosi fino alle lacrime, osserva che «un giorno potremmo ripensare a tutto questo, e non ricordarci niente». L’epilogo segna dunque una cesura: introducendo il tema dell’oblio come necessità («sono stanca di essere giovane», ha detto poco prima Georgia), il film rilancia la freccia del tempo verso un futuro libero dalle zavorre dei sogni giovanili e da quelle, ancor più pesanti, della nostalgia che ha cominciato subito a circondare i quattro amici, non appena la prova dei fatti ha rivelato, di quei sogni, l’evanescenza. Penn, coraggiosamente, chiude un film alimentato dall’amore per ciò che è stato guardando con ottimismo al futuro: le fiamme, come già in Furia selvaggia, non si limitano a consumare ma liberano qualcosa di nuovo, per quanto enigmatico. E delle sorprese che il futuro ha in serbo per loro discutono Georgia e Danilo nell’ultimo dialogo del film. Vi pensano come a un’eventualità, senza più progetti, sogni o fantasmi da inseguire; sanno che restano ancora molte cose da fare, perché l’America è un grande paese, in tutti i sensi. Ma hanno imparato a aspettare, e a dare alle cose il tempo di cui hanno bisogno. L’utopia (non meglio identificata nel film, così come non lo era in Alice’s Restaurant) non scompare, ma si trasforma, diventando, per certi versi, qualcosa di più “praticabile”, «la molla essenziale che muove l’individuo, che lo fa vivere, che lo costringe a confrontarsi con la Storia ma non lo fa mai appiattire o scomparire dentro le sue pieghe»7. In quest’accezione, l’utopia di Georgia e Danilo, per quanto proiettata sullo sfon7. P. Mereghetti, I sogni di Danilo, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, Il Castoro, Milano 1999, p. 88.

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do degli anni Sessanta, è il basso continuo di tutti i personaggi penniani, è il movimento dell’uomo nella storia (senza bisogno di alcun Movimento): una volta di più, con Gli amici di Georgia Penn si dimostra interessato alla «concretezza dell’individuo» e non alla «pesantezza dell’ideologia», e alla Storia per come si riflette nella vita. Un interesse che plasma direttamente la forma: in questo caso, dopo la trasversalità di Bersaglio di notte e Missouri, Penn sceglie l’immediatezza della testimonianza diretta, perché è proprio la testimonianza vissuta e proiettata soggettivamente, come insegna Piccolo grande uomo, che consente di mettere a distanza di sicurezza l’ideologia e la sua monodimensionalità, ponendo automaticamente il suo cinema al di fuori della tradizione americana, «che vuole storie di personaggi finalizzate alla rappresentazione della Storia e piccoli eventi trasformati in grandi accadimenti»8. Come nell’altro film sul Movimento, Alice’s Restaurant, egli, al contrario, moltiplica e accumula, preferendo il dubbio e l’indecisione, l’indefinitezza dell’azione e la confusione morale e politica. Georgia e Danilo sono, idealmente, tutta la storia degli anni Sessanta, non soltanto una sua parte (e tanto meno quella destinata al mito); rappresentano la difficoltà di viverne e comprenderne la ricchezza e la complessità e di compiere delle scelte quando sembra inevitabile farlo. E questo vale soprattutto per Danilo, spesso ritratto nel momento di un’indecisione più che simbolica o di uno sdoppiamento del simbolo: come quando, mentre guida verso la tenuta dei futuri suoceri, è affiancato da un pulmino e un suo amico dei tempi della scuola, divenuto nel frattempo un “attivista”, lo invita a seguirlo verso Selma; o come quando, per le strade di New York, assiste alla protesta di un gruppo di antimilitaristi che danno fuoco alla sua amata bandiera americana. Penn, ancora una volta, non chiude e non sceglie al posto dei suoi piccoli eroi, non risolve a favore di un’unica soluzione e non saluta lo spettatore offrendogli in dono un giudizio storico e morale compiuto; come in Alice’s Restaurant, preferisce non armonizzare l’insieme, lasciando convivere la pluralità dei punti di vista incarnati dai diversi personaggi (che ha lasciato tutti parlare, alternando senza gerarchie la “proprietà” della voce fuori campo). Gli amici di Georgia, del resto, è un testo governato da una domanda rivolta al futuro (di Penn e 8. P. Vernaglione, Arthur Penn, cit., p. 95.

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di tutti quelli che hanno vissuto gli anni Sessanta), una domanda destinata a restare senza risposta: come si può conciliare il proprio amore per l’America con l’America stessa? Come si può continuare a amare l’idea di America con il corso della sua storia? E ancora: come si fa a non perdersi inseguendo il sogno che essa sembra promettere? Come si può ritrovare il senso dell’utopia degli anni Sessanta dentro il movimento via via sempre più incerto e opaco della Storia? Il problema conduce Danilo allo strabismo e, lungo gli anni Settanta, ha condotto Penn all’impasse da cui sono nati Bersaglio di notte e Missouri. Il primo, a un certo punto, quando molto è già successo, molta innocenza e idealismo sono già perduti e le pallottole del futuro suocero gli hanno procurato una temporanea cecità, indossa un paio di occhiali con lenti diverse, una normale e l’altra appannata, un po’ come gli occhiali “bifasici” di Clyde. Ed è a quel punto che davanti ai suoi occhi brucia la bandiera americana: in ralenti, però, come accade talvolta nel cinema di Penn, soprattutto quando la violenza del gesto deve colpire allo stomaco. Penn affonda le mani negli anni Sessanta per intervenire sul mito, reso forse troppo scintillante dal day-after e, più in generale, per riaprire ancora una volta i conti con la storia, opponendole il racconto dell’esperienza vissuta (altre volte lo ha fatto smontando i generi della tradizione americana). Quante Americhe ci sono, comprese quelle del mito e del sogno adolescenziale? Quante se ne possono sperimentare e sopportare? E quante ne sono rimaste o sopravvivono dopo il confronto ideologico degli anni Sessanta? Danilo e Georgia ne hanno conosciute tante, forse troppe, mentre Tom e David, per dovere o per scelta, hanno deciso quasi subito chi essere e (in) che America vivere. Il cinema di Penn, fin dall’esordio, ha provato a raccontarle tutte, queste Americhe, senza alcuno “spirito di sistema”, ma lasciandosi portare dal cambiamento del paesaggio. Se Gli amici di Georgia somiglia a un film riepilogativo è anche perché, riattraversando il decennio dei Sessanta, Penn riesce a rimandare lo spettacolo volutamente disordinato e eccentrico di questa pluralità di modi e forme dell’essere americano, e dell’esserlo dentro la storia (e grazie a una storia senza centro, in cui perfino un personaggio secondario come Madame Zoldos può prendere parola, trasformandosi in narratore). La ricerca è, per forza, solitaria, nonostante la continua tentazione del gruppo, della comuni245

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tà, della “setta”: nella geometria plurale e non corale del film, si legge facilmente il ritorno, da un lato, di un tema tipicamente penniano, quello della difficoltà dell’appartenenza e del radicamento, comune a molti suoi personaggi, costretti da un’inquietudine antica a non fermarsi davvero mai; dall’altro lato, Gli amici di Georgia evoca nostalgicamente un modello di comportamento libertario e inventivo e, al tempo stesso, critica i valori perduti e i patti di solidarietà traditi dalla generazione che avrebbe voluto cambiare il mondo. Penn lascia insomma lavorare per tutto il film «l’imperativo contraddittorio del cambiamento»9, come già aveva fatto in Alice’s Restaurant, ma questa volta trova un aggiustamento alla polifonia; e sebbene i quattro amici, alla fine, non tornino a suonare insieme le stesse note, come all’inizio della storia, riescono però a ritrovarsi e a riconoscersi (a differenza di Ray e Alice, sposi solitari e abbandonati): il confronto, anche soltanto iconico, tra il gruppo unito e compatto dei liceali con quello di individualità singole ma somiglianti della sequenza finale comunica meglio di tante parole la natura dei cambiamenti cui sono andati incontro i quattro amici, e prefigura al tempo stesso un nuovo modello di solidarietà, capace di accogliere in forme nuove l’utopia del cambiamento. Sono, adesso, quei quattro ragazzi e i loro sogni, tre famiglie, molto diverse eppure simili: “mista” quella di Tom, borghese quella di David, “moderna” quella formata da Danilo e Georgia e dal bambino che ha avuto con Tom. Al termine del film, il rapporto mito-realtà esce insomma dal vicolo cieco degli anni Settanta, quello di una dialettica negativa e a senso unico, per tornare a essere un processo narrativo “aperto”: a questo rimanda il commovente invito che la madre di Danilo, in partenza per la Jugoslavia, rivolge a suo figlio, “l’americano”: l’invito a diventare interprete e al tempo stesso narratore di una grande storia, una storia nata dal sogno e di cui possa essere orgoglioso. Perché in America «non si finisce di vivere quando si diventa adulti. […] La possibilità di cambiare, la libertà di fare, questo appartiene all’esperienza democratica»10. In America, «oltre gli scogli, i fallimenti, le accettazioni, non si è obbligatoriamente “perdenti” o “vincenti”: può esserci accettazione-rifiuto nella vigilanza, e 9. A. Masson, Quatre amis, «Positif», n. 252, marzo 1982. 10. M. Ciment, Entretien avec Arthur Penn, cit.

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soprattutto nel segno della piccola comunità di scelta, del gruppo che si colloca di sbieco nella storia e cerca un proprio spazio, una propria piccola utopia non riconciliata. […] Ecco un modello che pochi hanno saputo, là in Usa e soprattutto qua in Europa e in particolare in Italia, considerare e costruire, dopo gli anni di furia»11.

Sui padri e sui figli «Quando mi hanno proposto Target, era semplicemente un film d’avventura sulla CIA. Così, non mi interessava. Ci volevo inserire un altro grado di significazione e così i rapporti tra padre e figlio sono diventati l’elemento centrale senza che ciò andasse a detrimento dell’azione»12.

Gli amici di Georgia si rivela un discreto insuccesso al botteghino, anche a causa di alcune incertezze nella distribuzione dovute ai passaggi di mano della proprietà del film13. Ma mentre i flop di Bersaglio di notte e Missouri erano stati addebitati dallo stesso Penn a un presunto ritardo del pubblico, ormai incapace, a suo giudizio, di accettare pellicole non del tutto allineate alla logica dei generi, questa volta il ritardo sembra tutto dalla parte del film. Gli amici di Georgia possiede in effetti l’aspetto di un racconto d’altri tempi, complice la ricercata patina d’antichità spolverata da Cloquet; poco intonati ai tempi nuovi (del cinema ma non solo) risultano poi gli “effetti speciali” del realismo intimista di Penn e la sua regia di piccoli tocchi impressionisti, nonché il rifiuto di guardare agli anni Sessanta nella forma del film “in costume” in odore di archiviazione. Gli amici di Georgia vive in un tempo ambiguo in bilico tra passato e presente, forza senza revisionismi il con11. G. Fofi, Un grande momento, in L. Gandini (a cura di), Arthur Penn, cit., p. 29. 12. Penn intervistato da C. Jauberty, «Sept à Paris», 1° gennaio 1986. 13. Il film viene venduto dai primi proprietari mentre non sono ancora finite le riprese: «E poi, quando lo abbiamo finito, chi lo aveva comprato lo aveva già venduto a sua volta. Era una di quelle situazioni terribili in cui nessuno, in tutta l’America, voleva il mio film. Mi sembrava di essere tornato ai tempi di Furia selvaggia. Alla fine non sapevo nemmeno più chi fosse il proprietario del mio film. […] Nessuno era davvero interessato a Gli amici di Georgia. Volevano solo fare un investimento finanziario». G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 129.

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fronto politico e sentimentale e evita il bilancio ideologico. Ha insomma tutte le carte in regola per passare inosservato se non addirittura temuto. Ma Penn è consapevole di aver fatto un film bello e importante, e ancora una volta sono soprattutto gli europei – francesi in testa – a accorgersene prima degli altri; sa anche, Penn, di aver fatto il film che aveva bisogno di fare da quasi un decennio, e al quale resterà sempre molto affezionato. E se, concluso il montaggio assieme a Marc Laub14 e Barry Malkin (a cui partecipa, su invito del regista, anche Tesich), si affretta a tornare a teatro, questa volta non lo fa per curare le ferite del set. Vi torna, al contrario, con uno spirito pacificato, sentendo di aver chiuso un conto rimasto troppo a lungo in sospeso; e vi torna, sull’onda del confronto interno inaugurato da Gli amici di Georgia, per riprendere una storia cominciata vent’anni prima, quella di Annie Sullivan e Helen Keller, di cui William Gibson ha scritto nel frattempo un seguito (“dieci anni dopo”), Monday after the Miracle, destinato a trasformarsi in un mediocre film per la televisione nel 1988 per la regia di Daniel Petrie. E mediocre, a dire il vero, è anche il risultato dell’allestimento, rappresentato per la prima volta all’Eugene O’Neill Theatre nel dicembre del 1982, anche se frutta un Theatre World Award a Karen Allen, che nei panni di Helen Keller fa il suo debutto a Broadway. Come per Anna dei miracoli, Gibson trae spunto dall’autobiografia della Keller, La storia della mia vita15, riprendendo il racconto nel momento in cui la ragazza, ormai ventenne e “guarita”, studia presso il prestigioso Radcliffe College in Massachusetts, sempre accanto ad Annie Sullivan (Jane Alexander). Si è dunque all’inizio del Novecento e la Keller, proprio grazie alla sua autobiografia, sta per diventare celebre in tutto il mondo. Ma Gibson restringe volutamente lo sguardo e, dopo averlo costruito assieme a Penn, mira in qualche modo a decostruire il “miracolo”, raccontando del “lunedì”, ossia del giorno dopo, del ritorno alla normalità e delle sfide meno attraenti ma altrettanto difficili imposte dalla quotidianità. Sceglie così di concentrarsi sulle dinamiche relazionali tra la ragazza e la sua inse14. Laub, anche se come montatore dialoghi, ha collaborato in precedenza con Penn per Piccolo grande uomo e Missouri. 15. Pubblicata negli Stati Uniti nel 1903, è stata tradotta per le Edizioni Paoline nel 1959 e in seguito più volte ristampata.

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parabile insegnante e di raccontare del lato femminile, sentimentale e non da ultimo carnale dell’“angelo” Sullivan, «l’eroe superbo che la normalità trasforma in un disadattato»16, la quale, questa volta, anziché salvare una bambina sordomuta, si innamora come una donna qualunque. L’uomo in questione è John A. Macy, un giovane e attraente insegnante di Harvard, fervente socialista (come lo sarà in futuro anche la Keller), incaricato di aiutare la ragazza nella scrittura. Nonostante che sia più giovane di undici anni, Macy ricambia immediatamente l’amore di Annie, ma prima di legarsi in matrimonio la donna pretende la benedizione di Helen, preoccupata che le nozze della sua precettrice possano riportarla dai genitori in Alabama; solo grazie alle rassicurazioni dei due innamorati si convince infine che nulla di ciò che teme accadrà: dopo il matrimonio, le promette Annie, potrà stare con loro. Insieme si trasferiscono dunque a Wrentham, ma la convivenza, soprattutto per John, si rivela fin da subito complicata, e il legame tra Helen e Annie rischia continuamente di compromettere quello tra marito e moglie; la vicinanza di un uomo della sua età, inoltre, risveglia in Helen desideri femminili mai contemplati, fino a sfiorare la reciproca seduzione. L’esito drammatico della pièce rispecchia la realtà, concludendo la vicenda dieci anni dopo: John esce infine dalla vita delle due, cade in disgrazia, si risposa (con una scultrice sordomuta…) e ha un figlio; Annie finisce invece preda di una profonda depressione, mentre Helen dirotta il suo impegno verso la politica. Molto più riuscito e fortunato (e vicino alla sensibilità di Gli amici di Georgia) si rivela l’allestimento di Hunting Cockroaches, una commedia del polacco Janusz Glowacki, l’autore del celebre Antigone in New York, il cui tema – quello del sogno americano visto con gli occhi dell’Est e destinato a infrangersi miserabilmente – è anche al centro del testo diretto da Penn e ospitato al Manhattan Theatre Club nel marzo del 1987. Ne è protagonista un’attrice molto famosa a Varsavia, Anka (l’allora alleniana Dianne Wiest), emigrata dalla Polonia assieme al marito Jan (Ron Silver), scrittore, in cerca di fortuna ma anche per sfuggire, come lo stesso Glowacki, le repressioni del regime comunista. Ma New York, pur con tutta la sua libertà (o forse proprio a causa di questa), si rivela per i due una città strana e difficile, e per colpa del suo accento Anka, celebre in patria 16. A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., p. 25.

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per le sue interpretazioni di personaggi classici (entra in scena vestita come Lady Macbeth), non riesce a trovare lavoro, mentre Jan sente di non aver nulla da scrivere a proposito dell’America. La pièce occupa il tempo di una notte e segue marito e moglie dentro e fuori dal letto, tra crisi d’insonnia, deliri onirici, pensieri preoccupati per gli amici lasciati in Polonia e per il futuro di indigenza che li attende; l’atmosfera oscilla tra la commedia, il dramma e l’allucinazione kafkiana, come del resto suggeriscono gli scarafaggi del titolo (che però a New York perdono la loro aura metaforica per trasformarsi in semplici e “letterali” insetti). Le “diversità” del comunismo, benché riletta alla luce delle spy-story dei romanzieri americani, fa da sfondo anche al secondo lungometraggio che Penn gira negli anni Ottanta, poco prima dell’allestimento di Hunting Cockroaches e a quattro anni dal precedente (perché: «Io non so fare film di fantascienza o film per bambini…»17). A differenza de Gli amici di Georgia, però, Target rappresenta – come Bersaglio di notte e Missouri alla metà del decennio precedente, risultati a parte – un classico film su commissione. Penn lo accetta per ragioni alimentari e per non uscire del tutto “dal giro” (gli insuccessi commerciali cominciano a essere troppi, e tutti di fila), ma anche per l’occasione che gli offre di girare a Parigi, Berlino e Amburgo: innamorato dell’Europa, dopo il licenziamento dal set de Il treno non è mai riuscito a realizzarvi un film. Il soggetto porta la firma, prestigiosa, di Leonard Stern, mentre la sceneggiatura è di Howard Berk (José Luis Navarro) e Don Petersen; prodotto per la CBS Entertainment dagli “indipendenti” Richard Zanuck e David Brown (artefici, tra l’altro, di Lo squalo e Cocoon [Id., R. Howard, 1985]), il film ha un budget di dodici milioni di dollari e esce negli Stati Uniti, dopo sedici settimane di lavorazione, nel novembre del 1985. Accanto a Penn, con la sola eccezione di Gene Lasko, accreditato per il casting e come special consultant (è la loro ultima collaborazione), nessuno degli abituali partner; alla fotografia, dopo Cloquet, un altro emigrante francese, Jean Tournier. Senza troppo rimpiangere l’intimità autoriale de Gli amici di Georgia, Penn si lascia insomma coinvolgere in un classico film hollywoodiano “a pacchetto”, costruito attorno a un solido plot di genere, esotico e adrenalinico quanto basta, e com17. A. Penn, cit. in P. Vernaglione, Arthur Penn, cit., p. 102.

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prensivo di giovane e talentuosa teen-star, Matt Dillon, lanciato qualche anno prima dalla doppietta di Coppola I ragazzi della 56a strada (The Outsiders, 1983) e Rusty il selvaggio (Rumble Fish, 1983), accanto al “divo” Gene Hackman, che dagli anni Settanta recita al ritmo di una/due pellicole l’anno. E Penn, che col tempo ha perduto un po’ della sua intransigenza giovanile, si adegua, avendo ormai imparato le regole del vivere hollywoodiano e a accettare, di tanto in tanto, di fare soltanto il regista, mettendosi al servizio di progetti intellettualmente poco ambiziosi e per niente “militanti”. Ciò gli permette, lungo gli anni Ottanta, di dirigere comodamente “prodotti” anonimi e di genere come questo Target e il successivo Ritratto allo specchio e, al tempo stesso, da uomo di antico mestiere, di infilarci comunque qualcosa di suo. La rabbia, del resto, è ormai sfumata, e il disincanto per le sorti dell’industria del cinema americano si è voltato col tempo in un’accettazione, per quanto critica, del nuovo corso; così, pur senza scendere mai oltre un certo livello, e armato di una buona dose di saggezza, Penn può anche accettare, adesso, di fare ciò che un’industria con cui non ha più voglia di lottare gli propone: l’importante è essere consapevoli dei compromessi e dei limiti, di ciò che si può e soprattutto non si può (più) fare: «Oggi le Majors non rispettano più registi come me. Adesso mi sarebbe impossibile realizzare un film come Missouri»18. Target è un bell’esempio di questo gioco d’equilibrio tra “doveri contrattuali” e interessi personali, e rimanda l’immagine di un regista finalmente capace, dopo le intemperanze del passato, di muoversi con maggiore astuzia negli ingranaggi della macchina hollywoodiana. Penn gira un film di spionaggio attirato dai risvolti intimisti e in fondo secondari del racconto, e mentre omaggia il genere con un paio di grandi scene di inseguimento e una logica narrativa che non è esattamente la sua, amplifica il sottotesto dei rapporti tra padre e figlio, riportando il film a sé e alla propria filmografia. In questo è facilitato dalla somiglianza sotterranea tra il primo e il secondo detective interpretato per lui da Gene Hackman: Walter Lloyd sembra infatti, dieci anni dopo, il futuro realizzato dell’Harry Moseby di Bersaglio di notte, che vorrebbe uscire dal giro (o così fa credere alla moglie) e costruirsi un’esistenza come si deve, magari banale ma normale, anche se poi, alla pro18. J.-P. Chaillet, Entretien avec Arthur Penn, «Première», gennaio 1986.

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va dei fatti, chiuso un caso si lascia subito coinvolgere nel successivo. Lloyd (Duke Potter all’anagrafe), al contrario, ce l’ha fatta: dopo alcuni anni nella CIA, a inseguire spie e informazioni tra Berlino Est e Ovest, ha capito di averne abbastanza e, con una moglie e un figlio piccolo, ha messo fine a quella vita, sparendo all’improvviso, senza lasciare tracce e ricominciando in un’altra città (Dallas), con un nuovo passato e un nuovo nome. Adesso, come ci mostra il film nella prima sequenza, è un tranquillo e socievole signore di mezz’età, impiegato presso una falegnameria, guida con prudenza, non possiede armi e il vero giallo della sua vita è trovare un modo per andare d’accordo col figlio ribelle, che ha lasciato l’università per fare il meccanico (Matt Dillon continua il personaggio cucitogli addosso da Coppola). Certo, qua e là, lungo il film, come nella confessione parigina al figlio o nel dialogo con la vecchia amica e collega CIA Lise, si avverte una sottile nostalgia (in forma di compiacimento) per quella lontana stagione della sua vita, pericolosa ma eccitante, legata alla libertà della giovinezza e al fascino delle capitali europee. Ed è forse per placare quel sentimento ricorrente che Duke, prima di addormentarsi nella sua camera da letto un po’ pacchiana da americano medio di Dallas, legge certi romanzi: quando riceve la telefonata che gli comunica il rapimento della moglie, Donna, partita qualche giorno prima per Parigi, sta sonnecchiando con gli occhiali sulla punta del naso e un romanzo di Len Deighton, l’inventore di Bernard Samson, aperto tra le mani: facile pensare che Duke Potter (non Walter Lloyd) ritrovi più di una somiglianza tra sé e il protagonista di Gioco a Berlino19 (vedi inserto p. 14). Quel piccolo indizio letterario dice però molto di più: come i riferimenti a Sam Spade e agli investigatori “vecchio stile” in Bersaglio di notte chiarivano subito che Harry Moseby e il film erano ben lontani da un certo tipo di tradizione letteraria e cinematografica, così il romanzo di Deighton serve a Penn – questa volta in positivo – per suggerire l’appartenenza di Target a una nuova stagione del thriller, in cui le spie hanno ormai perduto il loro fascino cosmopolita e mondano e la loro leggerezza da supereroi, e un realismo crudo e violento, in 19. Oltre al personaggio di Samson, Deighton è l’inventore dell’anti-eroe Harry Palmer, portato per la prima volta al cinema da Michael Caine in Ipcress (The Ipcress File, S.J. Furie, 1965).

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cui alla morte non sempre si sfugge, si è sostituito alle trame luccicanti alla Fleming. Nel passato di Potter ci sono brutalità e squallore, dentro la cornice tutt’altro che letteraria della guerra fredda, più impiegatizia che avvincente; il suo solo amore spionistico, Lisa, non è stato che un sogno o un atto mancato, e somiglia adesso al rimorso di un’impossibile vita parallela. L’avventura in cui è trascinato (Gioco a Berlino è anche un’anticipazione di ciò che lo attende) non possiede nulla di seducente, e ai fuochi d’artificio dell’azione spionistica si sostituisce una molto prosaica lotta per la sopravvivenza. Penn cavalca l’“umanizzazione” dell’eroe dilatando lo schema e tenendo l’intrigo alle spalle degli “uomini”, per lavorare soprattutto – come al solito – sul personaggio, la sua psicologia e le sue passioni, mentre dipinge il momento storico della guerra fredda – ormai in fase terminale – con dettagli che, per l’appunto, rimandano all’estinzione e alla morte, a partire dalla caratterizzazione delle figure secondarie. Così, il doppiogiochista Taber è uno squallido dirigente, preoccupato soltanto di mettere a tacere un passato vergognoso; Schroeder è un anziano in carrozzella, che vive da qualche parte nella campagna di Berlino Est e alimenta la sua vendetta contemplando le tombe della moglie e dei due figli, uccisi, molti anni prima, dalla CIA; il “colonnello”, ossia il capo di tutte le operazioni condotte in passato da Potter, è invece un vecchietto infermo a letto, tenuto in vita da una bombola d’ossigeno. Ma è proprio Lisa (Viktoriya Fyodorova) il personaggio che, per quanto rapidamente abbozzato, testimonia, anche per contrasto con le scelte di Duke (di cui è stata a lungo innamorata) il lato meno attraente della vita della spia: il carico dei rimorsi, la difficoltà di continuare a sostenere le scelte compiute in passato, l’instabilità del presente e l’incertezza del futuro. Quel tempo, del resto, è ormai passato (finito nelle pagine dei blockbuster letterari), e tutti, in quel mestiere, hanno ormai fatto la stessa fine: sono morti oppure se ne sono andati, scappati da una parte o dall’altra; Lisa, invece, deve ancora scegliere. Un’eco hitchcockiana traspare qua e là (ma non proviene dai capolavori: si pensa soprattutto a Topaz [Id.,1969] e Frenzy [Id., 1972]), nelle caratterizzazioni marcate dei “cattivi” (mostruosi e intelligenti) e nel profilo psicologico del protagonista, la cui azione, per metà, ha origine in un groviglio sentimentale e in un’impasse identitaria; come non vedere, poi, nel detective Duke, accusato di un delitto che non ha commesso, e la cui unica possibilità di salvezza consiste nel trovare il ve253

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ro colpevole, un classico personaggio hitchcockiano?20 Ma dal maestro del giallo sembrano discendere anche l’evidenza materica dell’intreccio e la forzatura delle pieghe melodrammatiche: sono queste ultime, in particolare, a interessare maggiormente Penn, perché gli consentono di ricondurre il film al piano individuale e umano, e di elaborare un tema a lui molto caro, quello dei rapporti (conflittuali) tra padre e figlio, riportati però, questa volta, a un piano letterale, depurati cioè da implicazioni politiche e dotati di una minore densità simbolica rispetto a quelli che governano l’intreccio di Alice’s Restaurant e Gli amici di Georgia. Una buona metà del film, “interrotta” dal giallo, assume in effetti la forma di un dialogo intimo tra Duke e Derek Potter, e gli spari, le fughe e gli inseguimenti somigliano agli accidenti fatti dramma del loro confronto esplosivo. In gioco non c’è, semplicemente, la chiarificazione di un rapporto, ma la sua completa ricostruzione, a partire dalla verità sui nomi, che non sono Walter e Chris ma, appunto, Duke e Derek. Il passato riscritto/occultato dal primo torna dunque a infrangere l’ordine presente, non diversamente da quanto accade a altri personaggi penniani, costretti prima o poi a riviverlo o a farci i conti, per continuare, per ritrovarsi, per cancellare davvero quello che è stato semplicemente messo a margine. E l’“avventura intima” dell’ex agente segreto interpretato da Gene Hackman rimanda, come quelle di Billy the Kid o dei quattro di Gli amici di Georgia, alle sfocature del doppio con, in più, un’evidente allure hitchcockiana. Duke Potter possiede due nomi, due storie, due anime, vittima della più grande opposizione tra America e Europa, Occidente e Russia, capitalismo e comunismo, libri d’avventure e spionaggio vero; travolto dagli eventi, è costretto a tornare indietro, rivestire i vecchi panni smessi e occultati alla moglie e al figlio, attraversare di nuovo l’oceano (lui che non vorrebbe più viaggiare), risolvere un ultimo caso (fon20. Arthur Penn: «Mi interessava raccontare una buona storia, assente in molti film recenti che erano così “cool” ma che manifestavano un’attitudine piuttosto falsa nei confronti degli eventi che raccontavano. Pensai che sarebbe stato divertente andare al cuore del racconto, andare dritto per quel tipo di eccitazione alla Hitchcock. Quando hai a che fare con un film con un così alto grado di intreccio, è come mettere insieme i pezzi di un orologio. Poi, attraverso la recitazione, puoi schiudere altri aspetti: con un attore come Hackman puoi continuamente svelare cose sempre più sottili», cit. in A. Hunter, Gene Hackman, W.H. Allen, London 1987, pp. 189 s.

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dato sullo scambio di persona) e infine tornare, una volta per tutte, a essere quel Walter Lloyd che ha scrupolosamente costruito. Ma i conti, Duke, deve farli prima di tutto con quella parte nata dal rifiuto di un’identità precedente: in gioco c’è dunque la verità sull’origine, e il mistery, di conseguenza, non appartiene tanto all’intrigo (che assume un andamento piano e volutamente forzato21) ma al confronto tra padre e figlio. “Gialle”, per davvero, sono le tante scene in cui i due si guardano negli occhi (spesso sfuggendo reciprocamente lo sguardo, per imbarazzo o incredulità) e provano a raccontarsi e a dirsi la verità. Alla fine, secondo una traiettoria ottimistica, virile e molto americana, in cui il rifiuto e la diffidenza iniziali sono risolti e superati nel nome di una causa comune, padre e figlio riusciranno a colmare la distanza, facendo sgusciare dal dramma un principio di rinnovata solidarietà. I padri, una volta tanto, dimostrano di avere (ancora) qualcosa da insegnare ai figli (sciocchi e immaturi), e l’ombra del passato di Duke, travolgendo Derek, si rivela un inestimabile rito di passaggio. Continuando idealmente il discorso di Gli amici di Georgia (ma con minore finezza e complessità), Penn chiude Target riaffermando il valore della famiglia, anche se in questo caso si tratta di quella “media” alimentata dall’immaginario americano; forse ci crede (e secondo Kolker manifesterebbe una chiusura reazionaria22), forse (più probabilmente) ha accettato, con la firma del contratto, di risolvere il giallo senza inquinarlo, per una volta, con le ombre che circondano abitualmente i suoi finali. Lungo il film, del resto, non dà mai segno di voler giocare con le convenzioni di genere: affronta il giallo e le sue regole con molta serietà, si diverte a infiorettare il racconto di pezzi di cinema “vero” e a raccontare fino in fondo, come si deve, una storia; a questo Penn non si può chiedere di più, e di più, del resto, non sembra disposta a concedergli l’industria americana. Ci mette una bravura antica, un solido talento affabulatorio e il solito gran lavoro sugli attori: per un film come Target può bastare. Il regime è un po’ da sopravvivenza, e anche il discorso critico – più o meno legittimamente tentato di ritrovare rimandi più sottili ai film del passato o di scovare l’ombra dell’autore e qualche forma di consapevolezza critica se non 21. Penn: «Si tratta di un melodramma vecchio stile, senza troppi dettagli sofisticati: la madre intrappolata nell’esplosivo dentro l’hangar è come l’eroina legata alle rotaie del treno», Ibidem. 22. R.P. Kolker, A Cinema of Loneliness. cit., p. 7.

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proprio di distacco ironico – rimbalza contro l’ottusa bidimensionalità del racconto e la sua stolida serietà. Questo Target è letterale, giusto e d’“intrattenimento”, e va bene così; per certi versi, è il risultato di ciò che l’industria del cinema americano degli anni Ottanta ha fatto, più o meno involontariamente, a alcuni dei suoi migliori vecchi “nuovi” autori: vedere, per credere, cosa girano in quel periodo Mike Nichols, Robert Altman, Sidney Lumet, George Roy Hill…

Un regista in prestito Penn, tuttavia, porta le ferite con grande classe, come rivela anche la seconda delle «due operine casuali e solo ben fatte»23 (per altri, due «uninspired genre pieces»24) girate a metà decennio, l’immediatamente successivo Omicidio allo specchio, uscito negli Stati Uniti nel febbraio del 1987 e accettato in extremis per fare un favore a due amici del figlio Matthew, oggi produttore televisivo: «Quello non è un film completamente mio: ho accettato di dirigerlo per dare una mano a due amici di mio figlio, Marc Shmuger e Mark Malone. Insieme avevano scritto la sceneggiatura del film: era una bella sceneggiatura ma non trovavano i soldi per dirigerla. La solita storia: erano giovani, non avevano esperienza, non ci si poteva fidare, eccetera eccetera. Siccome erano compagni di studi di mio figlio Matthew, sono venuti a cercarmi per avere una mano. E io ho come fatto da garante con la MGM per loro: se non avessero funzionato sarei intervenuto. Così hanno cominciato le riprese, ma dopo due settimane la MGM mi ha chiamato: o prendevo io la regia o loro fermavano tutto. In effetti lo script era molto buono ma le loro riprese non altrettanto. E così mi sono messo dietro la macchina da presa, ma più per mantenere la parola data (e per non far cominciare la carriera a quei due ragazzi con un licenziamento in tronco) che per vero amore per quel film»25. 23. G. Fofi, I grandi registi della storia del cinema, Donzelli, Roma 2008 (nuova edizione rivista e accresciuta), p. 243. 24. S. Prince, The Filmmakers, in Id. (a cura di), A New Pot of Gold. Hollywood Under the Electronic Rainbow, 1980-1989, History of the American Cinema, vol. 10, University of California Press, Berkley-Los Angeles-London 2000, p. 232. 25. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, «Linea d’ombra», n. 48, 1990.

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Penn si trova tra le mani una sceneggiatura “giovane”, cinefila e citazionista, influenzata dai macchinosi psicodrammi della Hammer, dalle immagini, dalle storie e dalla musica del De Palma di Le due sorelle (Sisters, 1973), Complesso di colpa (Obsession, 1975), Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) e dalle atmosfere e da certe pieghe morbose del noir classico; non mancano, naturalmente, i prelievi da Hitchcock: la scena del bicchiere di latte di Il sospetto (Suspicion, 1941) è ripetuta identica (anche se le inquadrature “storte” della soggettiva arrivano un po’ dopo), mentre a La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) rimanda il personaggio secondario del marito della protagonista, fotografo, spione e voyeur, con tanto di gamba ingessata (ma le foto, in questo caso, non servono a nulla); il primo accoltellamento, poi, sembra uscito da Psyco (Psycho, 1960), assieme agli animali impagliati che abbelliscono il salotto della casa in cui si svolgono tre quarti del film; e da Hitchcock, più in generale, sembra discendere un certo disinteresse per la verosimiglianza del racconto, controbilanciata dalla tenuta della suspense. Non sorprende, infine, scoprire che proprio dal noir classico arriva il canovaccio del film: Omicidio allo specchio lievita infatti a partire da un interessante B-movie un po’ dimenticato del 1945, Mi chiamo Giulia Ross (My Name is Julia Ross, tratto a sua volta da un romanzo di Anthony Gilbert, The Woman in Red) diretto da Joseph Lewis26. Regista e film sono omaggiati (in assenza di informazioni nei credits) attraverso il nome del folle dottore che ordisce il ricatto (Jan Rubens) e quello di uno dei tre personaggi interpretati (benissimo) da Mary Steenburgen, Julie Rose. In sintesi, almeno sulla carta, niente di più lontano dalla sensibilità di Penn, notoriamente insofferente, tra l’altro, alla moda dei rifacimenti di ogni genere e grado27. Eppure è proprio con spirito cinefilo e ludico che lavora alla messa in scena: libero da ogni tipo di responsabilità “politica” o intellettuale, gestisce perfettamente il meccanismo della suspense, cita e 26. Omicidio allo specchio si ispira Al film di Lewis, in particolare per quando riguarda l’avvio della vicenda; svolgimento e conclusione sono, invece, marcatamente diversi. 27. Ma, a quanto dichiara lo stesso Penn, seppe dell’“omaggio” al film di Lewis soltanto a riprese iniziate: «I ragazzi che lo avevano scritto lo sapevano, io no. Me lo fece presente un mio assistente, ma io non avevo mai visto quel film di Joseph Lewis, che tra l’altro è un ottimo regista« (G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., p. 130).

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ripete (bene) piuttosto che rinnovare e sembra trovarsi a suo agio nello spazio ristretto della “old dark house” del dottor Lewis (parente stretto, per via della provenienza geografica e della paralisi alle gambe, dello Schroeder di Target), abitata per metà dal dramma psicologico e per metà (la seconda) dall’azione thriller, mentre fuori, a censurare l’esterno e a arricchire il piano simbolico del racconto, scende fitta la neve (il film, ambientato nello Stato di New York, è girato in Ontario). Penn interpreta dunque nel modo giusto il grado di superficialità richiesto dal genere (soprattutto per quanto riguarda la definizione psicologica dei personaggi) ma scalda lo stereotipo di belle sfumature umane e introduce qualche piccola ossessione personale, a partire dal riferimento al presidente americano ucciso (McKinley, questa volta) e dal ruolo simbolico rivestito dal gioco degli scacchi, già presente in Bersaglio di notte; il lavoro sugli attori è, come sempre, curatissimo, in particolare nel caso del “the servant” interpretato da Roddy McDowall, Mr. Murray. Tra le pieghe del racconto c’è chi vi ha visto una (involontaria) metafora della condizione stessa di Penn, e in particolare dell’impotenza che sembra accompagnare l’epilogo della sua carriera: al centro della trama di Omicidio allo specchio ci sono infatti un progetto cinematografico fantasma, un regista assente e un produttore fraudolento28. Di certo resta irrisolta, nel film, forse a causa dello scarto generazionale tra i suoi ideatori e primi registi e l’old fashion Penn, l’indagine di un altro livello “meta-cinematografico”, più vicino alla sensibilità del secondo: Omicidio allo specchio contiene infatti, sottotraccia, una riflessione non banale sulla pluralità dei modi di esistenza dell’immagine, rappresentata da un’escursione cronologica di sapore quasi teorico che va dalla citazione del classico all’“effetto speciale” del riflesso su specchi e vetri, dal travestimento destinato allo scambio di persona alla “domesticità” del videotape. In un altro momento della sua carriera Penn avrebbe probabilmente approfittato di questo aspetto per ridare slancio a un discorso ampiamente frequentato dal suo cinema, relativo, per l’appunto, allo statuto, al ruolo e alla “politica” dell’immagine. La riduzione del tema a divertissement, citazione e puro elemento “di servizio”, tuttavia, non segnala un cedimen28. R. Combs, Dead of Winter, «Monthly Film Bullettin», vol. 55, n. 649, febbraio 1988.

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to o un’involuzione “intellettuale” (se così fosse, non avremmo né Con la morte non si scherza né Urla dal buio); essa, piuttosto, come altre forme di rinuncia osservate in Target, è frutto di quella “strategia del disimpegno” che, lungo gli anni Ottanta, Penn adotta nei suoi rapporti con l’industria del cinema americano. La critica al “sistema” sopravvive, ma è silenziosa e disarmata, e si nasconde un po’ paradossalmente nelle pieghe del non fatto e può essere captata soltanto da una critica un po’ più “romantica”: «Allora è troppo romantico pensare che sia lo stesso Penn l’uomo che s’alza dalla sua poltrona di paralitico per dare il colpo di grazia al film, chiudere i nodi della narrazione e farsi ammazzare in soffitta?»29; il rischio della complicità è sempre e comunque evitato. Chiedersi retoricamente, come fa Morandini recensendo il film su «Letture»30, se ci si può e deve accontentare, “in un Penn”, di un film il cui unico elemento di interesse consiste nella perfezione della confezione, significa restare inchiodati a una visione “autorialista” (anche in passato poco adatta a Penn) e, nella fattispecie, anti-storica. La critica agli ultimi film del regista, e non solo in Italia, pecca di un’“attribuzione di responsabilità” per eccesso, e patisce il riferimento a un sistema di valori messo fuori gioco, all’origine, dall’autore e dai film stessi. Per come nascono i progetti, per l’evoluzione a cui è andato incontro il rapporto di Penn con il cinema, per la sua posizione nei confronti dell’industria e per lo stato dell’arte della produzione americana, l’ultima fase della sua carriera non può essere pensata come l’eredità, diretta e orizzontale, del cinema del passato; al contrario, le fratture e le interruzioni del modello auratico della continuità estetica e tematica devono essere riconosciute e valorizzate. Omicidio allo specchio è un film “salvato” da Penn, un thriller venato di horror molto anni Ottanta scritto e per un po’ diretto da due “figli” troppo ambiziosi, e poi finito da un “padre” che, come il Gene Hackman di Target, si trova costretto a rimediare ai guai commessi dall’erede. Forse Penn si diverte a fare “il vampiro sul lavoro dei ‘figli’”, di certo imprime una svolta classica al racconto (che inizia in modo piuttosto truculento) per offrire una grande lezione di misura e saggezza artigianale, senza troppo pacificare, nel finale, l’anima di personaggi e spettatori. Il film, nelle sue mani, invecchia un 29. G. de Marinis, Omicidio allo specchio, «Cineforum», n. 274, maggio 1988. 30. M. Morandini, Omicidio allo specchio, «Letture», n. 452, dicembre 1988.

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po’, ma diventa anche altro, riscattando la prima impressione di un thriller già visto «del tipo casa/foresta/neve/auto/telefono»31. Di certo, come osserva Morandini, non aggiunge niente alla fama del regista, e tanto meno al suo cinema; tuttavia, con grande stile e benevolmente (proprio come il Potter di Target), non sbagliando un’inquadratura e giocando a modo suo con retorica e estetica contemporanee, Penn, nascosto e travestito dentro Omicidio allo specchio, riesce comunque a sussurrare qualcosa di prezioso, tra la critica, la lezione e la dimostrazione sorridente, a quelli “di oggi”, figli e eredi, registi e spettatori.

Con la televisione non si scherza «Mi sono incontrato con Penn e Teller, e mi sono piaciuti molto. È un film un po’ matto, è un po’ un gioco. Giocare con la pellicola, ecco quello che abbiamo fatto. E loro sono così intelligenti, così bravi. Sono anche due tipi molto interessanti […]. È un film asciutto, con una visione quasi comica della morte. Ma, dal mio punto di vista, se si affronta un tema come la morte, bisogna avere un punto di vista più complesso di quello corrente. E questo fa parte del gioco del film»32.

L’ultima parte della carriera di Penn è, in diversi modi e a diversi livelli, contrassegnata dal rinnovarsi del legame con la televisione: sia Ritratti sia Urla dal buio sono prodotti da network televisivi, e in televisione (particolarmente il primo), trovano la loro unica distribuzione; nel 2000 figura come produttore della decima stagione della fortunata e longeva serie Law and Order, per la quale il figlio Matthew lavora fin dall’inizio come regista (oggi ne è produttore esecutivo); televisivo è il più recente impegno di Penn dietro la macchina da presa, per girare, nel 2001 (quasi per gioco) il sesto episodio (The Fix) della seconda serie di 100 Center Street, prodotta dall’amico Sidney Lumet per la A&E Television Network. E da uno studio televisivo, infine, prende le mosse Con la morte non si scherza, il film più invisibile di Penn e il suo ultimo “vero” lungometraggio, «un’opera minore, per un pubblico particolare da 31. G. de Marinis, Omicidio allo specchio, cit. 32. G. D’Agnolo Vallan, Conversazione con Arthur Penn, cit., pp. 130 s. Il film, inizialmente opzionato dalla Cidif, non è mai stato distribuito in Italia, dove è uscito direttamente in VHS nel 1989.

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costa occidentale»33, che accetta immediatamente di dirigere e produrre dopo aver incontrato i due celebri comici americani. A parte regista e attori, tuttavia, nessuno sembra aver voglia di “giocare” con un tema del genere, tanto meno i produttori della Warner Bros., entrati in possesso dei diritti del film a riprese già iniziate (il primo finanziatore è la Lorimar, che stanzia otto milioni di dollari). Il risultato spiazza gli executive della compagnia che, considerandolo immorale e pericoloso, decidono di bloccarne la distribuzione: li disturba, più di tutto, il finale, in cui i due comici, dopo aver approfittato di una diretta televisiva per sfidare il popolo americano a ucciderli, muoiono davvero, non però per mano di uno sconosciuto ma a causa dell’ennesimo gioco tra di loro. L’invito viene formulato all’inizio della pellicola, durante uno show televisivo in cui Penn e Teller allestiscono un numero di magia appesi a testa in giù (i bordi della televisione non svelano il trucco se non alla fine); il pubblico forse capisce, forse no: l’importante, continua a ripetere Penn (l’attore), è che lo show è “live”, tutto è live, niente trucchi, niente blue screen, le cose spariscono davvero, volano via, salgono verso il cielo anziché cadere a terra. Sembra di sentir parlare Penn (Arthur), che nella televisione in diretta, senza videoregistratori o trucchi digitali, ha cominciato la sua carriera alla metà degli anni Cinquanta, e che alla dimensione di immediatezza e verità del live è rimasto sempre molto affezionato: il recente impegno come produttore di Law and Order non ha fatto che confermare il suo disinteresse, misto a diffidenza, nei confronti della televisione di oggi. Allo stesso modo la pensano Penn e la sua spalla “muta” Teller, che fin dagli esordi hanno fatto del mondo dello showbusiness uno degli oggetti privilegiati della loro satira acidissima, immorale e a tratti macabra: contro le idee date per scontate, il buon gusto, la prudenza delle buone maniere, la censura e il perbenismo bigotto si scagliano ancora oggi, promuovendo una “filosofia” anarchica di demistificazione e condannando i media che si fanno carico di divulgare una cultura reazionaria34. Esibirsi in televisione a testa in giù, sfidando le 33. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, cit. 34. Lo show più famoso di Penn and Teller si chiama, non a caso, Bullshit! Giunto al quinto anno di vita, esso si propone di smontare idee, credenze e saperi socialmente diffusi e “take for granted”, sottopo-

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leggi di gravità senza ricorrere a alcun trucco, è già di per sé una bella metafora della loro strategia comica di capovolgimento della common life americana (vedi inserto p. 15). Ma la vera provocazione arriva poco dopo, durante l’intervista che segue l’esibizione, quando Penn rende reale la metafora dell’impiccagione invitando l’America a ucciderli davvero, mentre Teller – dopo essersi “spremuto” gli occhi – gli taglia la gola. L’appuntamento è a Las Vegas, dove si esibiranno nei giorni successivi. La provocazione è eccessiva ma coglie nel segno, facendo esplodere di colpo la distanza tra realtà e finzione, tra lo spazio della messa in scena televisiva (coltelli e sangue finto) e quello dell’azione concreta: la visione mediatica trascolora direttamente in esposizione mortale, ricordando all’America tutte le volte in cui i suoi divi/miti sono morti sotto i colpi di un attentato omicida (il pensiero, per l’ennesima volta in un film di Penn, torna all’assassinio Kennedy). L’invito del comico mette in crisi il principio fondamentale della salvaguardia della vita e, al tempo stesso, porta alle estreme conseguenze l’ossessione, molto contemporanea e americana, per la ricerca di un excitement capace di smuovere la monotonia della quotidianità: se Penn chiede di essere ucciso, infatti, è solo perché desidera rendere più elettrizzante la sua vita e trasformarsi almeno per un po’ in un eroe alla James Bond, braccato e perennemente a rischio. Da quel momento in poi, le avventure dei due comici saranno contrassegnate da una serie di episodi legati al tema della “fine”, a partire dal primo dei molti scherzi che i due si giocano reciprocamente: giunti all’aeroporto, Penn ammanetta Teller (mentre è al telefono, anche se non può parlare) e gli sistema tra le mani una pistola giocattolo, attirando l’attenzione degli addetti alla sicurezza. Poco dopo, invece, il sangue scorre a fiumi sul palco: il “trucco” (una serie di trapani che calano su Teller) non sembra riuscito, anche per colpa dei cinque spettatori invitati da Penn a coadiuvarlo, i quali, di fronte a quell’esito truculento, se ne tornano in platea un po’ confusi, balbettando delle scuse; ma qualcuno, dalla galleria, fa notare che, dopotutto, sono stati loro a chiedere di essere uccisi. nendoli alla feroce analisi del loro particolare “pensiero critico”. I più recenti episodi sono stati dedicati alla lotta contro la pornografia, alla medicina New Age e alle ipocrisie del movimento ecologista.

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Come se non si trattasse di una coppia di comici ma di un boia e un carnefice dai ruoli interscambiabili, Penn e Teller si divertono per tutto il film a giocarsi sconvolgenti scherzetti dai risvolti macabri. Teller, per vendicarsi di Penn, ne allestisce poco dopo uno davvero sublime, in cui l’amico, fino alla fine, sembra non capire di essere stato preso in ostaggio da tre falsi filippini e da un falso santone intenzionato a ucciderli. A volte, certo, viene il dubbio che si tratti, anche da parte della vittima, di una messa in scena, e che il divertimento consista proprio nel fingere di stare al gioco, fino in fondo e comunque vada, rendendo perfetto (in termini estetici e teatrali) lo scherzo. È però proprio l’ultimo, elaborato inganno, ordito da Penn per vendicarsi di Teller, a condurre la coppia (e Carlotta, la fidanzata del primo) a una fine reale: del resto, commenta la voce fuori campo dell’ormai morto Penn, il loro destino era scritto fin dall’inizio nel titolo del film. L’ultimo scherzo occupa metà film, ha una struttura molto complessa e incassa il thriller nella commedia: a un certo punto, quando Penn finge di essere minacciato da qualcuno che vuole ucciderlo e che gli ha già sparato a un braccio, i due si rifugiano in una squallida stanza di motel; l’immagine, a questo punto, passa al bianco e nero e un tipico accompagnamento musicale noir sottolinea l’azione: Teller si allena a combattere, Penn scrive le sue memorie in classico stile hard-boiled (vedi inserto p. 15). Il gioco va per le lunghe e lo spettatore dimentica a poco a poco di trovarsi in una finzione di secondo grado: il punto di non ritorno è segnato dall’acquisto di una pistola vera con la quale, alla fine, Teller ucciderà involontariamente Penn, per poi suicidarsi; lo stesso farà Carlotta, gettandosi a passo di danza fuori dalla finestra. Nell’epilogo, commedia e thriller cedono il posto alla tragedia e sembra quasi di trovarsi in un dramma shakespeariano: la recita è fallita, una morte ne chiama un’altra e un’altra ancora, e ai corpi di Penn e Teller si aggiungono via via quelli dell’attore ingaggiato per interpretare il folle omicida e quello di un suo amico; anche i due poliziotti attirati presso l’appartamento della sequenza degli spari finiscono per suicidarsi: quello giovane non riesce a sopportare la visione dei cadaveri (stava giusto dicendo, poco prima, di voler tornare al suo lavoro d’ufficio), mentre quello anziano non può tollerare la morte del compagno, che gli ricorda quella del suo collega di un tempo; del resto, è ormai vecchio, alcolizzato, senza moglie e odiato dai figli. E mentre la macchina da presa esce all’esterno e sale in 263

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cielo, dalla stanza arrivano molte altre voci e molti altri spari: «I started a joke – cantano i Bee Gees sui titoli di coda – which started the whole world crying…». Con la morte, è vero, non si dovrebbe scherzare, ma il gioco dei due comici (e i tanti giochetti dentro quello principale) rivela che, al contrario, si può e si deve, quando la vita vale così poco. Giocare con la morte è l’unico vero antidoto, macabro e estremo quanto si vuole, alla svendita di ideali, valori e verità nell’America della fine degli anni Ottanta, ubriacata da un’edonistica gioia di vivere che è il vero bersaglio della satira allestita da attori e regista. I due comici, come fanno abitualmente nei loro show, forzano dunque il confronto col tabù dei tabù e costringono il pubblico a ascoltare parole rimosse dal linguaggio abituale e a vedere morti, carne sanguinolenta e operazioni chirurgiche al di fuori di un anche minimo contesto in grado di “narrativizzarli” e renderli accettabili. Nel decennio della rinascita del genere, giocano con l’horror, senza però filtrare la visione: quello di Penn e Teller è piuttosto orrore, nudo e crudo, sfacciato, sovversivo e, si direbbe oggi, politicamente scorretto. Penn fa un po’ il regista di servizio, controlla il racconto, disciplina l’esuberanza degli attori e offre una confezione preziosa, soprattutto nella metà thriller, che ricorda certe belle atmosfere notturne di Bersaglio di notte e le finzioni continuamente raddoppiate di Omicidio allo specchio; fa, a dire il vero, quello che è giusto fare, a suo agio con l’aggressività irriverente di Penn e Teller; e forse, a ben vedere, sono questi ultimi “di servizio”, nel senso che gli servono a iniettare un po’ di sana polemica tra i film piuttosto imbelli della sua più recente filmografia. I temi che essi affrontano, del resto, sono, da sempre, temi anche suoi, a partire dalla critica al mondo dei media e al rapace perbenismo della cultura capitalista. E come in Omicidio allo specchio, l’immagine video (registrata) finisce per occupare un ruolo centrale, trasformandosi in una metafora delle falsificazioni apportate dalla televisione alla conoscenza della realtà: se alla fine Teller spara proiettili veri all’amico, uccidendolo, è perché, in quel momento, sta osservando la stanza in cui si trova attraverso l’immagine di una videocamera collegata al televisore che gli sta di fronte; un uomo gli arriva alle spalle e lui si sbaglia, prendendolo per un “vero” maniaco. Il film comincia riflettendo sullo stesso tema, e rilanciando in particolare il problema del punto di vista: grazie all’orien264

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tamento e alla centratura imposti dai bordi della televisione, durante lo show di Penn e Teller ci si inganna facilmente sul fatto che i due siano appesi a testa in giù. Il rovesciamento, funzionale alla magia, viene spiegato solo allo spettatore cinematografico di Con la morte non si scherza che, assieme al “trucco”, comprende quanto potente sia la capacità del mezzo televisivo di capovolgere la realtà e di farci guardare, in modo giusto, una cosa “sbagliata” (e viceversa); alla fine del film, invece, la televisione nasconde a Teller la vera identità di chi gli sta alle spalle, ma il problema, a ben vedere, è sempre lo stesso: l’immagine televisiva è parziale, ambigua, vede poco e male e, soprattutto, rischia di far male. E identico, nell’epilogo come nell’incipit, è il messaggio: con la televisione non si dovrebbe scherzare.

Ritratto di famiglia Lungo gli anni Novanta, accanto alla televisione torna a farsi centrale nella vita di Penn il teatro, mentre il cinema a poco a poco dirada. Proprio all’inizio del decennio va in fumo l’ennesimo film, Fidelity (da una poesia di D.H. Lawrence), per il quale Penn ha già fatto i sopralluoghi. Finanziato dalla Pathé e scritto da Tom Griffin, si tratta di «una storia d’amore molto particolare, ambientata in un’isola al largo della costa del Rhode Island che si chiama Black Island. Una storia ispirata a un caso vero: la bambina di una coppia in crisi scompare; i due prima si allontanano ancor di più poi, di fronte alla realtà della tragedia, tornano a riscoprirsi, a far fronte comune contro l’angoscia»35.

Va meglio, come sempre, a teatro. Nel 1990 dirige il “leggero” One of the Guys, “an urban comedy” scritta da Marilyn Suzanne Miller in cui si «racconta di come un gruppo di amici aiuta uno di loro a venir fuori da una crisi romantica»36, e nel 35. I. Bignardi, Ma perché l’America non ama Arthur Penn?, cit. Nel 1990 lavora inoltre alla versione cinematografica di Sly Fox, messo in scena a Broadway nel 1976. 36. P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, cit. La commedia, interpretata da Wayne Knight, Stephen Collins, Paul J Q. Lee, Bruce MacVittie, Don R. McManus, Kathleen McNenny, Vyto Ruginis, Ben Siegler, debutta il 30 gennaio all’interno del New York Shakespeare Festival.

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1995 è nominato presidente dell’Actors Studio, subentrando a Paul Newman, mentre la direzione artistica viene affidata tre anni dopo a Estelle Parsons. Assieme alla decisione di conservare le tradizionali sessioni laboratoriali del martedì e del venerdì, l’impegno maggiore del neopresidente consiste nel riprendere con spirito rinnovato un vecchio progetto del fondatore Lee Strasberg, il The Actors Studio Theatre, ossia un programma di produzioni originali elaborate all’interno della scuola. Il primo esperimento era stato di breve durata: aperto da Strange Interlude di O’Neil diretto da Quinterno nel 1963, aveva chiuso due anni dopo in seguito al sonoro insuccesso ottenuto da un allestimento delle Tre sorelle curato dallo stesso Strasberg37. Nel 1996 Penn decide di rilanciare il progetto, cambiandone però il nome (The Actors Studio Free Theatre) e, soprattutto, rivedendone la politica: le produzioni (in media sei all’anno) non sono più destinate ai palcoscenici di Broadway ma al più modesto e, appunto, “libero” palco del Raw Space, a poca distanza dalla sede storica dell’Actors Studio; ogni spettacolo resta in cartellone per quattro settimane, gli attori non sono pagati e l’ingresso è gratuito. Ed è proprio Penn, nel 1997, a inaugurare l’esperimento con la regia di Major Crimes di Jay Presson Allen, la sceneggiatrice di Marnie (Id., A. Hitchcock, 1964) e Il principe della città (Prince of the City, S. Lumet, 1981). Intanto, in parallelo, continua il suo impegno nell’MFA (Master in Fine Arts), un programma triennale di formazione (regia, drammaturgia, recitazione) ideato assieme a Paul Newman e James Lipton nel 1994 e nato dalla collaborazione tra l’Actors Studio e la New School for Social Research (la celebre trasmissione Inside the Actors Studio nasce all’interno del master, divenuto rapidamente uno dei più prestigiosi programmi americani di formazioni per lo spettacolo). Prima di far seguire all’allestimento di Major Crimes il lavoro di ricerca su Chambers di Jack Gelber (1997), Power Failure di Larry Gelbart (1999) e Who is Afraid of Virginia Wolf (1999), Penn, a quattro anni dal sonoro insuccesso di Con la morte non si scherza, trova anche il tempo di tornare al cinema (passando per la televisione). Questa volta, però, a differenza di 37. Cfr. A. Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, cit., pp. 75-79. Strasberg ci riprova, assieme a Penn, promuovendo tra il 1974 e il 1976 un secondo (e molto più modesto) programma di spettacoli: tre nella prima stagione, uno solo in quella successiva.

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quanto è accaduto trent’anni prima con la produzione cinematografica di Anna dei miracoli, anziché “staccare” rispetto al palcoscenico, il regista sembra trasferire sul set le sue preoccupazioni di autore teatrale per viverlo come nuova occasione di ricerca sull’attore, concedendo poco al cinema, al suo linguaggio, alla sua specificità. La scelta, tuttavia, si rivela in qualche modo necessaria, se non proprio obbligata: tratto da un celebre testo della commediografa Tina Howe (Painting Churches, rappresentato per la prima volta nel febbraio del 1983 a Broadway), Ritratti è in effetti un piccolo film televisivo prodotto da Robert Greenwald per la Turner, in cui il cinema, quello vero, e le sue possibilità espressive sembrano esclusi a priori; a favorire ulteriormente la dimensione teatrale del prodotto, facendone quasi automaticamente un classico “film d’attori”, ci pensano poi, per l’appunto, i due interpreti principali, i “mostri sacri” Gregory Peck e Lauren Bacall, rispettivamente 77 e 69 anni, e mai più insieme in un film dai tempi di La donna del destino (Designing Woman) di Minnelli del 1957. Affrontare la messa in scena di Ritratti prestando maggiore attenzione ai valori teatrali si rivela dunque non soltanto una scelta intelligente (la commedia “domestica” della Howe presenta pochissime variazioni di spazio, un’insensibile escursione temporale e si regge quasi completamente sul dialogo) ma anche, dal punto di vista registico, l’unico modo per approfittare sensatamente della presenza di due attori del genere (uno dei quali, la Bacall, pur non figurando tra gli adepti del “metodo”, frequenta il teatro fin dagli anni Sessanta) e, per Penn, di vivere utilmente l’esperienza di una produzione televisiva senza ambizioni, piccola e veloce. Il cinema si rende di conseguenza “trasparente” e la regia si limita a servire il testo e gli interpreti, articolando in modo invisibile l’andamento del racconto. Qua e là, solo qualche piccolo strappo a questa impostazione classica (e mai semplicemente televisiva), come nel finale, quando Penn prefigura l’arrivo dei genitori di Margaret (Cecilia Peck, a suo agio in un personaggio che fa rivivere la libertà di idee e comportamenti di Georgia, con la quale condivide anche l’amore per New York) attraverso un turbinio ossessivo di suoni e immagini soggettive. E qua e là, nonostante l’anonimato della confezione, Ritratti riporta alla memoria altri film di Penn, coi quali tuttavia stringe rapporti superificiali e forse accidentali: per l’insistenza sul tema dell’immagine-ritratto, per la centralità del motivo del ricordo e della memoria e, 267

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naturalmente, per l’indagine dei rapporti famigliari attorno alla quale ruota il plot. Gli elementi per uno sconfinamento simbolico del dramma, poi, ci sono tutti: la casa dei genitori messa in vendita e svuotata a poco a poco, il parallelo svuotamento della memoria del padre, Gardner, poeta e professore malato di Alzheimer (ma la malattia non viene mai citata), la centralità, portata fin nel titolo, del ritratto dei genitori, filtro inevitabile di uno sguardo nuovo e ossessivo che Margaret getta su di loro e infine su se stessa… Ma questo Penn non è più quello dei drammi saturi e gonfi degli anni Cinquanta e Sessanta, sente il minimalismo dei tempi e del mezzo e si adegua, portando a casa un “ballo di famiglia” solare e un po’ senile simile a un romanzo di Anne Tyler. Il testo della Howe, d’altra parte, riscritto da Lynn Roth, non graffia davvero mai, e il dramma affiora soltanto per essere subito risolto, mentre i “grandi temi” (conflitto generazionale, malattia e vecchiaia, rispettabilità sociale…) sono soltanto sfiorati e ammorbiditi dalla musichetta balorda di Cynthia Millar; Penn fa bene, allora, a concentrarsi sulla bellezza, semplice e umana, dei sentimenti in gioco. La Bacall giganteggia, in un ruolo da prima donna che le consente di tutto: al fascino del passato sostituisce un’intensità recitativa e una presenza straordinarie; Peck insegue, ha dieci anni di più e si vede: ma nel ruolo del vecchietto lunare e smemorato va benissimo. Di tutt’altro spessore, e profondamente voluto, è il film successivo, Urla dal buio, in cui Penn torna al cinema “politico” per realizzare finalmente una pellicola centrata sulla storia e la cultura del popolo africano e, in particolare, sul periodo della segregazione razziale in Sudafrica; a teatro, contemporaneamente, approfondisce il tema sullo sfondo della situazione contemporanea, portando all’Actors Studio Zoo Paradiso, una drammaturgia dell’italiano Riccardo de Torrebruna dedicata alla guerra, al razzismo e alla pulizia etnica nella ex-Jugoslavia, la terra di Danilo nella quale, alla fine del decennio, vorrebbe girare un film con Isabelle Huppert, «la storia di un giovane americano, figlio di emigrati europei che, dopo l’89, torna in Europa, alla ricerca delle proprie radici, e scopre l’amore»38; 38. E continua: «Avremmo dovuto girare in Jugoslavia, poi con la guerra in Kosovo è saltato tutto: non potevamo essere noi gli unici americani in Serbia! Ne riparleremo, spero», M. Gottardi, E io continuo a dire no, «Segnocinema», n. 99, 1999.

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«una storia molto triste sul problema della perdita dell’identità, per la quale non si sono mai trovati i soldi»39. Penn supervisiona l’allestimento di Zoo Paradiso, diretto dall’afroamericana Susan Batson, all’inizio del 1996, quando la produzione di Urla dal buio è ormai in fase terminale (viene presentato in aprile). Girato in Sudafrica, a Johannesburg e a Cape Town, il film è, come Ritratti, un prodotto televisivo (anche se destinato, in alcuni Paesi, alla distribuzione in sala) e, come il precedente, possiede la forma del dramma da camera e un’evidente impostazione teatrale. Questa volta, però, il restringimento dello spazio, la centralità del dialogo e la staticità della macchina da presa non rappresentano il riflesso di un limite (estetico e produttivo); al contrario, essi s’impongono come gli elementi portanti di una ricerca, etica ed estetica, in cui Penn riduce la regia a una specie di istanza originaria, costruendo il film sullo sguardo e la sua negazione, riportando così il cinema, come piace a lui, alla sua essenza – al vedere, al conoscere, al documentare. L’atto stesso del filmare si trasforma in un procedimento critico, e la possibilità dello sguardo – della sua apertura e delle sue potenzialità esplorative – in metafora politica. Urla dal buio pone insomma, a regista e spettatore, una triplice sfida, tecnica, visiva, drammatica: «Urla dal buio, il più recente dei miei film, ho accettato di girarlo proprio perché mi interessava la sfida visiva che poneva. Non è stata la sceneggiatura a sedurmi, ma lo straordinario problema visivo che bisognava risolvere: filmare attraverso un piccolissimo buco nel muro della cella di un carcere sudafricano, facendo coincidere l’obiettivo con l’occhio dell’attore»40.

Benché sia il problema formale, in cui Penn intravede fin da subito una potenzialità simbolica molto forte (e specificamente cinematografica), a sedurlo in prima battuta, anche la sceneggiatura, naturalmente, pesa sulla sua decisione di tornare a dirigere un film piccolo e povero, dopo il fallimento di una serie di progetti più ambiziosi; la “forma” del confronto attorno al quale ruota il soggetto (tra il dialogo, l’interrogatorio e la confessione estorta), inoltre, sembra recuperare il modulo fondamentale di molti suoi film, rilanciando in termini verbali il tema della caccia/fuga: nel tempo e nello spazio del39. Intervista mia. 40. M. Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, cit.

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la recente storia sudafricana il torturatore Kruger, “da fermo”, cerca di lasciarsi alle spalle i suoi tanti fantasmi, ma non può sfuggire alla memoria di quell’unico prigioniero miracolosamente sopravvissuto. Scritto da Bima Stagg, che ha esordito nel 1978 con un poliziesco ambientato in Sudafrica e che nel 2003 avrebbe continuato la sua esplorazione del tema dell’Apartheid col biografico Stander (diretto da Bronwen Hughes e dedicato al celebre rapinatore di banche), Urla dal buio, invitato a inaugurare la sedicesima edizione della Journées Cinématographiques de Carthage di Tunisi, riunisce insomma, sulla carta, l’amore di Penn per le dinamiche teatrali, la ricerca visiva e il cinema d’“impegno”, inteso adesso non più soltanto come controcampo essenziale del “fare arte”, ma anche come antidoto al dilagare di una produzione (americana) a suo giudizio detestabile, fatta di “film per tutti”, ingenui, privi di complessità e incapaci di dire alcunché di vero sulla realtà41. Anche per questo, forse, sceglie di cominciare il film (“Sudafrica, 1988”) con una durissima sequenza documentaria (lui che ha sempre evitato il “genere”, anche quando era a portata di mano come in Ciò che l’occhio non vede), mescolando senza soluzione di continuità colore e bianco e nero, riprese “di strada” e immagini d’archivio, felicità e raccapriccianti scene di morte e violenza, coppie a passeggio e uomini bastonati dalle forze dell’ordine, il consumismo della città (bianchi e neri) e la povertà della periferia (solo neri)42. 41. A partire dagli anni Ottanta, non c’è intervista in cui Penn non lamenti lo stato di istupidimento in cui, a suo giudizio, è caduto il cinema americano contemporaneo; Lucas e Spielberg vengono di solito citati come i primi e principali responsabili di questa china discendente. Recentemente interrogato da Antonio Monda (La magnifica illusione, cit.) in merito ai cineasti che apprezza, Penn indica due soli autori statunitensi, non a caso marginali e indipendenti, come Jim Jarmusch e Jonathan Demme. 42. «Ho visionato in Inghilterra oltre due ore di materiali di varia estrazione. Si trattava di newsreel, filmati di agenzie, documenti amatoriali girati in video che testimoniavano scontri, omicidi, torture, violenze di qualsiasi genere compiute per le strade sudafricane durante la repressione. Ho fatto una scelta, utilizzando solo immagini che sono sì altamente drammatiche ma ancora visibili. Mi creda, c’erano scene raccapriccianti che non avrei mai inserito in un film», in G. Gariazzo, L’occhio aperto. Conversazione con Arthur Penn, «Filmcritica», n. 475, maggio 1997.

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Il conflitto e la contraddizione, tratti distintivi della società sudafricana e principi antropologici da sempre al centro della riflessione penniana, sono così offerti in tutta la loro drammatica evidenza, e la minaccia e la violenza subito installate nelle pieghe della normalità, tra immagini “qualunque” e senza “separazione” (Apartheid, in lingua afrikaans, significa proprio questo), prima che il racconto, nascendo dalla strada, prenda corpo. Una panoramica verticale sale i piani di un edificio residenziale, mentre fuori campo esplode improvvisamente la brutalità verbale e fisica di un interrogatorio protetto da quelle mura: gli spazi della tortura e della rispettabilità sociale sono, come le contraddittorie immagini dell’inizio, del tutto contigui e indifferenti l’uno all’altro. Solo dopo mezz’ora si capirà che quel palazzo non è la sede della prigione in cui è rinchiuso e interrogato, nel 1988, il “bianco” Marty Strydom (Eric Stoltz, che Penn, nel 2004, chiamerà a teatro accanto a Richard Dreyfuss per la riedizione di Sly Fox), ma l’ufficio di un funzionario di colore (Louis Gossett Jr., anche produttore esecutivo) incaricato, “oggi”, di investigare in merito al ruolo svolto dagli apparati di polizia segreta nei confronti degli oppositori del regime. Penn moltiplica dunque il gioco delle simmetrie e delle opposizioni, innestando su questo interrogatorio “al presente”, civile e legale, ambientato in epoca post-Apartheid, la più antica, atroce e ufficiosa prigionia di Strydom; a collegare i due momenti, il mostruoso colonnello Kruger (Nigel Hawthorne, superbo), un tempo carnefice e adesso imputato di reati che credeva sepolti assieme ai prigionieri uccisi nel suo carcere, tra cui, per l’appunto, Marty, impiccatosi per la disperazione dopo essere stato spinto dal colonnello a tradire i suoi compagni di lotta e convinto fraudolentemente di aver perso l’appoggio di tutti, padre avvocato, fidanzata, amici. E a scontare la sua pena Kruger comincia proprio con l’interrogatorio, obbligato a difendersi dalla accuse mossegli da un nero, e più che i suoi duetti col “traditore” Marty, professore universitario di scienze politiche e figlio di una potente famiglia sudafricana, sono proprio queste sequenze a esplorare, in termini generali e “filosofici”, il tema della repressione razziale, approfondendo al tempo stesso il profilo psicologico del militare – un bianco di estrazione povera, che nella violenza contro i neri ha trovato soddisfazione alle sue molte frustrazioni. Il personaggio di Kruger, cambiamenti di spazio e tempo a parte, finisce così 271

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per richiamare la piccola borghesia bianca, repressa e vendicativa, di La caccia. Nella sua geometrica semplicità fondata sul montaggio alternato con tanto di agnizione finale (il padre, al posto del figlio, incontra il carceriere), Urla dal buio sembra suggerire la necessità di un nuovo ordine e una nuova sintassi dietro il grumo di immagini con cui si apre. Pace e guerra, normalità e violenza, vita e morte non possono continuare a convivere come se nulla fosse, e la salvaguardia dei propri diritti non può dipendere, semplicemente, dal colore della pelle; tra un momento e l’altro, tra un’immagine e l’altra, devono imporsi e rivelarsi una relazione, un rapporto di vicinanza e responsabilità, una contiguità problematica. Proprio a questo è costretto Kruger dal suo interlocutore: a stabilire, post facto, un confronto paritetico con Strydom, a guardarlo finalmente in faccia non in quanto prigioniero ma in quanto uomo; e il punto d’arrivo di questo processo è l’incontro, approntato presso la cella in cui il ragazzo è morto impiccato, col padre di Marty che, ancora straziato dal dolore, si avventa sull’aguzzino del figlio e comincia a malmenarlo, fermandosi però subito dopo: la consolazione del dolore non può venire da un ennesimo atto di violenza. Come i migliori film “politici” di Penn, Urla dal buio non dà mai l’idea di essere, semplicemente, un film sul Sudafrica: è, più in generale, una riflessione sulla normalità della violenza, sulla faccia pulita del male, sulla difficoltà di riconoscerlo e punirlo “nel giusto modo”. Con una grande economia di mezzi, il settantaquattrenne regista restituisce benissimo l’incertezza del prigioniero, le cui parole non valgono più nulla e le cui confidenze agli altri detenuti possono trasformarsi in pericolose confessioni; fa un gran lavoro su Stolz, umiliandone a poco a poco l’umanità verso una condizione bestiale e usando il suo corpo per comunicare la claustrofobia, fisica e psicologica, della detenzione. Lo spazio della prigionia di Marty (come quello mentale di Annie Sullivan, ostaggio del passato), si spalanca soltanto sotto la spinta del ricordo condotto dalla musica (per il resto del tutto assente: in prigione non “suonano” che le grida dei detenuti e il ferro delle celle), attraverso rapidi flashback simili a allucinazioni: prima il volto della fidanzata, Christie, poi il ricordo della sua militanza dalla parte “sbagliata”, accanto a Mrwaki (che sarà poi arrestato), poi di nuovo Christie, nuda, a letto con lui, che però è solo un braccio che la tocca. Qui come in tutto il film, l’identificazione del punto di 272

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vista con il vedere e il saper di Marty è totale, così che la sua prigionia finisce per coinvolgere direttamente lo sguardo di Penn e quello dello spettatore: negli spazi preclusi al prigioniero non entra neppure la macchina da presa, e tutti i dialoghi tra Marty e gli altri detenuti (prima la “spia”, poi l’uomo della cella “Q”, il futuro funzionario) si svolgono, realisticamente, attraverso il “buco di Giuda”, ossia le piccole aperture nelle porte delle celle (vedi inserto p. 16)43. L’unità è insomma fatta a pezzi, lo spazio disintegrato, il tempo bloccato: il teatro è puro e semplice, il dramma ricondotto alla sua essenza e spogliato di ogni abbellimento cinematografico. La brutalità del luogo e dei modi è restituita, più che dalle parole, attraverso la frammentazione cui vanno incontro tutti gli elementi della scena e per mezzo della sublimazione dell’azione nell’“etica” del punto di vista; i corpi dei prigionieri, in particolare, sono ridotti a un occhio che scruta oltre lo spioncino o a un coro di voci senza sorgente, che parlano, cantano, accusano, mentre i dialoghi diventano una sequenza di occhi e orecchie, a indicare lo schiacciamento “animalesco” della funzione sull’organo. I carcerieri, viceversa, oltre a percorrere lo spazio, lo popolano minacciosamente con le ombre dei loro corpi e dei manganelli, moltiplicando i segni della reclusione. Più che per la questione razziale, per certi versi “risolta” dalla storia recente (ma l’iniziale sequenza documentaria suona come un monito alla facilità con cui il tempo cancella e narcotizza), Urla dal buio sembra interessare Penn soprattutto per il problema, generale e “filosofico”, del limite tra vendetta e giustizia, vissuto in prima persona dal prigioniero-funzionario, senza nome, interpretato da Gossett. Se infatti la storia, prima o poi, s’incarica quasi sempre di indicare i colpevoli, resta all’uomo il delicato compito di punirli: il problema dell’autorità è, da sempre, al centro del cinema di Penn, normalmente scettico nei confronti di una giustizia senza sbavature, di un ordine senza compromessi e del “buon uso” della punizione. Questa volta, però, finisce per forzare un po’ la chiusura, con43. In quella del prigioniero “Q” Penn entra soltanto alla fine, durante il suo ultimo dialogo con Marty, e solo dopo che l’uomo, nel corso dell’interrogatorio a Kruger, si è identificato come il prigioniero di un tempo, visitando assieme al suo aguzzino la cella in cui è stato a lungo rinchiuso.

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gedando lo spettatore su un finale non del tutto rassicurante ma, al tempo stesso, un po’ troppo unilaterale: dopo aver fatto sfogare il padre di Marty, lasciandogli insultare e picchiare Kruger, con fare paternalistico il funzionario interviene a separare i due bianchi, uno colpevole di assassinio, l’altro desideroso di una vendetta sanguinaria, per abbracciare ques’ultimo e consolarlo dall’alto di un’esperienza del dolore profonda e vera ma, anche, umanamente bloccata dal risentimento. Mancano insomma a Urla dal buio, e non solo nel finale, certe sfumature tipicamente penniane; per la prima volta in vita sua, del resto, Penn sembra sapere da che parte sta la giustizia: ha qualcosa da dimostrare e per cui parteggiare, senza troppi dubbi. Del miglior Penn, tuttavia, è la capacità di rimandare la storia e i suoi drammi a una scala universale, e del miglior Penn è anche l’assenza di trionfalismi: il finale chiude ma non consola, perché niente e nessuno può davvero farlo; certe cicatrici della storia sono troppo profonde per poter essere davvero curate. Queste, anzi, devono restare aperte: vinti e vincitori, innocenti e colpevoli sono ugualmente condannati a rinnovare, nel ricordo, la sofferenza di ciò che hanno vissuto, poco importa da quale parte della barricata, e il dramma di un popolo e di un Paese non deve restare confinato alla storia “locale”. Così, anche se in trasferta, Urla dal buio finisce per trasformarsi nell’ennesimo film di Penn dedicato a indagare storia e mentalità della cultura americana: conflitto e segregazione razziale sono infatti parte integrante della storia statunitense. In passato, se n’è occupato sempre e soltanto di striscio, a teatro (Golden Boy) e al cinema (Anna dei miracoli, Alice’s Restaurant): con Urla dal buio dà dunque forma (un po’ fuori tempo) a un vecchio desiderio e aggiunge una tessera cruciale alla sua radiografia dell’America. E mentre si trova a Johannesburg sul set del film, decide di dedicare al “tema” anche il suo contributo (uno dei più belli) al film collettivo Lumière et Compagnie, co-prodotto da Francia, Spagna, Danimarca e Svezia in occasione dei cent’anni del brevetto Lumière e presentato al Festival di Berlino nel 1995. Ai quaranta registi coinvolti si concede massima libertà nella scelta del soggetto ma si chiede di impiegare l’originale cinematographe e di attenersi a tre regole, mutuate (con qualche approssimazione) dalla tecnica di ripresa delle “vedute” dei fratelli lionesi: non superare i 52 secondi, girare un solo piano, niente audio sincrono. 274

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Penn rispetta la durata, si affida al silenzio e non ricorre al montaggio, ma esplora lentamente la scena prima in orizzontale, da destra a sinistra, poi in verticale, salendo di poco, con un movimento “moderno”, di scoperta e esplorazione progressiva, che i Lumière non si sarebbero mai sognati di utilizzare. E anziché rifare o aggiornare, come molti dei registi coinvolti, un “classico” del cinematographe, pone al centro del suo segmento una “composizione” di forte impatto simbolico: un uomo bianco e rasato, avvolto in un lenzuolo-sudario anch’esso bianco e legato stretto con dello spago (un prigioniero? il bozzolo di una crisalide?), è sdraiato sotto un letto di ferro senza materasso, sul quale è distesa una donna nera e incinta, che volge lo sguardo e allunga le braccia verso la macchina da presa; come colasse dalle sue gambe chiuse, un liquido scuro sgocciola verso l’uomo, che lo beve con avidità. Una continuità non accidentale lega infine Urla dal buio al trionfale ritorno di Penn a Broadway, dopo gli allestimenti, piccoli e indipendenti, nati all’interno dell’Actors Studio Free Theatre. Nell’aprile del 2002 mette in scena al Music Box Fortune’s Fool (Pane altrui), una commedia scritta tra il 1847 e il 1848 da Ivan Turgenev e adattata per l’occasione da Ivan Poulton, chiamando Alan Bates e Frank Langella a interpetare i ruoli di Kuzovkin e di Tropacëv. Il primo, come il Telegin di Zio Vanja, è un nachlebnik, vale a dire un nobile decaduto, ospitato (com’era abitudine fare, un po’ per dovere e un po’ per solidarietà di rango) dall’altrettanto nobile, ma benestante, Ol’ga Petrovna, moglie di Pavel Eleckij, mentre il secondo è un arricchito e volgare possidente terriero, vicino di casa della coppia. Kuzovkin è in realtà il padre di Ol’ga, e ha sacrificato le sue ricchezze per consentire alla figlia di sposarsi degnamente: alla fine del primo atto, in preda all’alcool e umiliato da Tropacëv e Eleckij, confesserà il suo segreto, riscattando agli occhi di chi intende sbeffeggiarlo la sua miserevole vita. La commedia, come Urla dal buio, è tutta dalla parte dei più deboli, e attacca senza riguardi, con una comicità beffarda e deformante, la stupidità dei ricchi, le loro misere preoccupazioni e l’infinito amore che nutrono per il dio denaro: gli stessi bersagli a cui si indirizzerà, due anni dopo, la critica sociale di Sly Fox, rimesso in scena (dopo la prima versione degli anni Settanta interpretata da George C. Scott) all’Ethel Barrymor Theatre. Richard Dreyfuss è Foxwell J. Sly («Ah Gold! God with an “l”!»), Eric Stolz il suo assistente Simon Able, incaricato v

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di diffondere la (falsa) notizia dell’imminente morte del suo padrone per rinfocolare l’avidità dei papabili eredi. Kuzovkin e Foxwell sono due begli esempi di anti-eroi tipicamente penniani: il primo soffrendo, il secondo allestendo una commedia (dal finale molto amaro, però), scompaginano l’ordine che li circonda per illuminarne le contraddizioni e svelare il cuore segreto degli uomini; folli e derelitti, umiliati e blanditi, mettono in gioco la propria vita, fingono e si trasformano, occultano il passato o ritoccano il presente per dar modo agli “altri” di rivelarsi per quello che sono: da poveri dimostrano la miseria dei ricchi; da morenti stanano la vacuità dei desideri umani. Con le loro messe in scena “didattiche”, Kuzovkin e Foxwell rappresentano insomma le più recenti, riuscite incarnazioni di quell’arte politica, al servizio (critico) della società e consacrata alla ricerca della verità che nutre tutto il lavoro di Penn, a teatro e al cinema. L’eco del suo impegno, lungo gli anni Ottanta e Novanta, si sarà pure affievolito, confinato alle assi dei teatri off-off di Broadway e a prodotti cinematografici piccoli, industriali e talvolta clandestini; il forte piglio morale che percorre le produzione del regista newyorkese è però rimasto immutato, e viva, scomoda e originale continua a essere la sua visione del mondo e dell’uomo, di cui non ha mai smesso di esplorare il segreto: «parlare all’uomo dell’uomo» è, fin dagli anni Cinquanta, l’obiettivo principale dell’arte di Penn.

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Filmografia 1958

Furia selvaggia-Billy the Kid (The Left-Handed Gun)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Leslie Stevens (dal dramma di Gore Vidal The Death of Billy the Kid); aiuto regia: Russ Saunders; fotografia: J. Peverell Marley; scenografia: Art Loel, William L. Kuehl; costumi: Marjorie Best; trucco: Gordon Bau; montaggio: Folmar Blangsted; suono: Earl Crain Sr.; musica: Alexander Courage; interpreti: Paul Newman (William Bonney), Lita Milan (Celsa), John Dehner (Pat Garrett), Hurd Hatfield (Moultrie), James Congdon (Charlie Boudre), James Best (Tom Folliard), Colin Keith-Johnston (Tunstall), John Dierkes (McSween), Bob Anderson (Hill), Wally Brown (Moon), Ainslie Pryor (Joe Grant), Martin Garralaga (Saval), Denver Pyle (Ollinger), Paul Smith (Bell), Mestor Paiva (Maxwell), Jo Summers (signora Garrett), Robert Foulk (Brady); produzione: Roberto Dandi per S. A. Film Internazionali; produzione: Fred Coe per Harroll Production e Warner Bros.; prima americana: maggio 1958; durata: 102’.

1962

Anna dei miracoli (The Miracle Worker)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: William Gibson, dal suo dramma omonimo; aiuto regia: Larry Sturhahn, Ulu Grosbard; fotografia: Ernest Caparros; scenografia: George Jenkins, Mel Bourne; costumi: Ruth Morley; trucco: Herman Buchman; montaggio: Aram Avakian; suono: Emil Kolisch, Richard Vorisek; musica: Laurence Rosenthal; interpreti: Anne Bancroft (Annie Sullivan), Patty Duke (Helen Keller), Victor Jory (Capitano Keller), Inga Swenson (Kate Keller), Andrew Prine (James Keller), Kathleen Comegys (zia Eve), Beah Richards (Viney), Jack Hollander (Mr. Anagos), Grant Code (dottore); produzione: Fred Coe per Playfilms e United Artists; prima americana: luglio 1962; durata: 106’.

1965

Mickey One

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Alan Surgal; aiuto regia: Russell Saunsders, Jim Hinderling; fotografia: Ghislain Cloquet; scenografia: George Jenkins, William Crawford; costumi: Domingo Rodriguez; trucco: Robert Jiras; montaggio: Aram Avakian; suono: Walter Goss; musica: Eddie Sauter (improvvisazioni musicali di Stan Getz); interpreti: Warren Beatty 277

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(Mickey), Alexandra Stewart (Jenny), Hurd Hatfield (Castle), Franchot Tone (Rudy Lopp), Teddy Hart (Georgie Benson); Jeff Corey (Fryer), Kamatari Fujiwara (artista), Donna Michelle (la ragazza), Ralph Foody (capitano di polizia), Norman Gottschalk (evangelista), Dick Lucas (uomo dell’ufficio di collocamento), Jack Goodman (proprietario del bar); produzione: Arthur Penn per Florin-Tatira Production e Columbia Pictures; prima americana: ottobre 1965; durata: 93’.

1966

La caccia (The Chase)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Lillian Hellman dal romanzo e dramma omonimi di Horton Foote (non accreditati: Michael Wilson, Horton Foote, Ivan Moffat); aiuto regia: Russell Saunsders, Bob Templeton; fotografia: Joseph La Schelle; scenografia: Richard Day, Robert Luthardt; costumi: Donfeld; trucco: Ben Lame; montaggio: Gene Milford; suono: Charles J. Rice, James Z. Flaster; musica: John Barry; interpreti: Marlon Brando (sceriffo Calder), Jane Fonda (Anna Reeves), Robert Redford (Bubber Reeves), E. G. Marshall (Val Rogers), James Fox (Jake Rogers), Angie Dickinson (Ruby Calder), Janice Rule (Emily Stewart), Robert Duvall (Edwin Stewart), Miriam Hopkins (signora Reeves), Martha Hyer (Mary Fuller), Richard Bradford (Damon Fuller), Diana Hyland (Elizabeth Rogers), Henry Hull (Briggs), Jocelyn Brando (signora Briggs), Katherine Walsh (Verna Dee), Lori Martin (Cutie), Marc Seaton (Paul), Paul Williams (Seymour), Clifton James (Lem), Malcom Atterbury (signor Reeves), Steve Ihnat (Archie), Ken Renard (Sam), Steve Whittaker (Slim); produzione: Sam Spiegel per Lone Star, Horizon e Columbia Pictures; prima americana: febbraio 1966; durata: 122’.

1967

Gangster Story (Bonnie and Clyde)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: David Newman, Robert Benton (non accreditato: Robert Towne); aiuto regia: Jack N. Reddish; fotografia: Burnett Guffrey; scenografia: Dean Tavoularis; costumi: Theodora Van Runkle; trucco: Robert Jiras; montaggio: Dede Allen; suono: Francis E. Stahl; musica: Charles E. Strouse; interpreti: Faye Dunaway (Bonnie Parker), Warren Beatty (Clyde Barrow), Michael J. Pollard (C.W. Moss), Gene Hackman (Buck Barrow), Estelle Parsons (Blanche), Denver Pyle (Frank Hamer), Dub Taylor (Ivan Moss), Evans Evans (Velma Davis), Gene Wilder (Eugene Grizzard), James Stivar (il droghiere), Mabel Cavitt (madre di Bonnie); produzione: Warren Beatty per Tatira-Hiller Production, Warner Bros., Seven Arts; prima americana: luglio 1967; durata: 111’. 278

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Filmografia

1968

Flesh and Blood

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: William Hanley; interpreti: Kim Stanley (Della), Robert Duvall (Howard), Edmond O’Brian (Harry), Suzanne Pleshette (Nona), Kim Darby (Faye); produzione: Arthur Penn per la NBC; prima televisiva americana: gennaio 1968; durata: 120’.

1969

Alice’s Restaurant (Alice’s Restaurant)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Venable Herndon, Arthur Penn dalla canzone The Alice’s Restaurant Massacre di Arlo Guthrie; aiuto regia: William C. Gerrity; fotografia: Michael Nebbia; scenografia: Warren Clymer; costumi: Anna Hill Johnstone; trucco: Irving Buchman; montaggio: Dede Allen; suono: Sanford Rackow; musica: Artlo Guthrie, Garry Sherman; interpreti: Arlo Guthrie (Arlo), Pat Quinn (Alice), James Broderick (Ray), Michael McClanathan (Shelly), Geoff Outlaw (Roger), Tina Chen (Mari-Chan), Kathleen Dabney (Karin), William Obanhein (agente Obie), Seth Allen (evangelista), Monroe Arnold (Bluegrass), Joseph Boley (Woody Guthrie), Vinnette Carroll (signora Clerk), Sylvia Davies (Marjorie), Simm Landres (Jacob), Eulalie Noble (Ruth), Louis Beachner (Dean), Shelley Plimpton (Reenie), Joni Mitchell (cantante al funerale), giudice James Hannon (se stesso), , Pete Seeger (se stesso), Lee Hayas (se stesso); produzione: Hillard Elkins, Joseph Manduke per Florin e United Artists; prima americana: agosto 1969; durata: 111’.

1970

Piccolo grande uomo (Little Big Man)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Calder Willingham dal romanzo omonimo di Thomas Berger; aiuto regia: Mike Moder; fotografia: Harry Stradling Jr.; scenografia: Dean Tavoularis, Angelo Graham; costumi: Dorothy Jeakins; trucco: Terry Miles; montaggio: Dede Allen; suono: Al Overton Jr., Bud Alper; musica: John Hammond; interpreti: Dustin Hoffman (Jack Crabb), Faye Dunaway (signora Pendrake), Martin Balsam (Allardyce T. Merriweather), Richard Mulligan (generale George Custer), Chief Dan George (Cotenna di Bisonte), Jeff Corey (Wild Bill Hicock), Amy Eccles (Raggio di Luna), Kelly Jean Peters (Olga), Carol Androsky (Caroline), Robert Little Star (Piccolo Cavallo), Cal Bellini (Orso Giovane), William Hockey (lo storico), Thayer David (reverendo Silas Pendrake), Philip Kenneally (signor Kane), Ray Dimas (Jack Crabb giovane), Alan Howard (Jake Crabb bambino); produzione: Stuart Millar, Arthur Penn per Stockbridge-Hiller Production e Cinema Center Films; prima americana: dicembre 1970; durata: 139’. 279

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1973

The Highest, episodio di Ciò che l’occhio non vede (Visions of Eight)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Arthur Penn; aiuto regia: Alex Grasshoff; fotografia: Walter Lassally; montaggio: Dede Allen; interpreti: Bob Seagren, Wolfgang Nordwig; produzione: Stan Margulies per Wolper Production, Cinema V, Bavaria Film; prima americana: agosto 1973; durata: 11’.

1975

Bersaglio di notte (Night Moves)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Alan Sharp, dal suo romanzo omonimo; aiuto regia: Jack Roe; fotografia: Bruce Surtees; scenografia: George Jenkins; costumi: Rita Riggs; trucco: Bob Stein; montaggio: Dede Allen; suono: Jack Solomon; musica: Michael Small; interpreti: Gene Hackman (Harry Moseby), Jennifer Warren (Paula), Susan Clark (Ellen Moseby), Melanie Griffith (Delly Grastner), Edward Binns (Joey Ziegler), Harris Yulin (Marty Heller), Kenneth Mars (Nick), James Woods (Quentin), Anthony Costello (Marv Ellman), John Crawford (Tom Iverson), Ben Archibeck (Charles), Dennis Dugan (Boy), Susan Barrister (Ticket Clerk); produzione: Robert M. Sherman per Hiller-Layton Productions (Warner Bros.); prima americana: giugno 1975; durata: 99’.

1976

Missouri (The Missouri Breaks)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Thomas McGuane; aiuto regia: Malcolm R. Harding, Cheryl Downey; fotografia: Michael Butler; scenografia: Albert Brenner, Stephen Berger; costumi: Patricia Norris; trucco: Robert Dawn; montaggio: Jerry Greenberg, Stephen A. Rotter, Dede Allen; suono: Jack Solomon, Dennis Maitland; musica: John Williams; interpreti: Marlon Brando (Robert E. Lee Calyton), Jack Nicholson (Tom Logan), Randy Quaid (Little Tod), Kathleen Lloyd (Jane Braxton), John McLiam (David Braxton), Frederic Forrest (Cary), Harry Dean Stanton (Calvin), John P. Ryan (Si), Sam Gilman (Hank Rate), Steve Franken (Lonesome Kid), Richard Bradford (Pete Marker), James Greene (allevatore di Hellsgate), Luana Anders (moglie dell’allevatore), Hunter von Leer (Sandy); Virgil Frye (Woody); produzione: Elliot Kastner, Robert M. Sherman per Transmaerica (United Artists); prima americana: maggio 1976; durata: 126’.

1981

Gli amici di Georgia (Four Friends)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Steve Tesich; aiuto regia: Steven Tramz, Cheryl Downey, Joseph Reidy; fotografia: Ghislain Cloquet; scenografia: David Chapman, Dick Hughes; costumi: 280

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Filmografia

Patricia Norris; trucco: Vince Callaghan; montaggio: Barry Malkin, Marc Laub; suono: Nathan Boxer, Ray Cymoszinski; musica: Elizabeth Swados; interpreti: Craig Wasson (Danilo Prozor), Jody Thelen (Georgia Miles), Michael Huddleston (David Levine), Jim Metzler (Tom Donaldson), Scott Hardt (giovane Danilo), Elizabeth Lawrence (signora Prozor), Miklos Simon (signor Prozor), Beatrice Fredman (signora Zoldos), Reed Birney (Louie Carnahan), Zaid Farid (Rudy), David Graf (Gergley), George Womack (signor Bellknap), Sharon Kemp (fidanzata di Rudy), Julia Murray (Adrienne Carnahan), Lois Smith (signora Carnahan); James Leo Herlihy (signor Carnahan); produzione: Arthur Penn, Gene Lasko per Filmways/Cinema ‘77/Geria Film/Florin; prima americana: dicembre 1981; durata: 115’.

1985

Target-Scuola omicidi (Target)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Howard Berk, Don Petersen, da un soggetto di Leonard B. Stern; aiuto regia: Alain Tasma, Vincet Macheras, Gene Lasko; fotografia: Jean Tournier, Robert Jessup; scenografia: Willy Holt, Richard James, Hans Zillmann; costumi: Marie-Françoise Perochon; trucco: Paul Le Marinel, Jimi White; montaggio: Stephen A. Rotter; suono: Bernard Bats, Rainer Jankowski, Bob Wald; musica: Michael Small; interpreti: Gene Hackman (Walter Lloyd), Matt Dillon (Chris Lloyd), Gayle Hunnicutt (Donna Lloyd), Victoria Fyodorova (Lise), Ilona Grübel (Carla), Herbert Berghof (Schröder), Josef Sommer (Barney Taber), Guy Boyd (Clay), Richard Münch (il Colonnello), Ray Fry (Mason), Jean-Pol Dubois (Glasses), James Selby (Ross), Ric Krause (Howard), Chaterine Rethi (infermiera), Werner Pochath (agente giovane); Ulrich Haupt (agente anziano); produzione: Richard D. Zanuck, David Brown per CBS Productions; prima americana: novembre 1985; durata: 118’.

1987

Omicidio allo specchio (Dead of Winter)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Marc Shmuger, Mark Malone, ispirata a My Name is Julia Ross di Joseph H. Lewis; aiuto regia: Tony Thatcher, David Till, David Vaughn; fotografia: Jan Weincke; scenografia: Bill Brodie, Alicia Keywan; costumi: Arthur Rowsell; trucco: Ann Brodie; montaggio: Rick Shaine; suono: Bruce Caewardine, Glen Gauthier; musica: Richard Einhorn; interpreti: Mary Steenburgen (Julie Rose/Katie McGovern/Evelyn), Roddy McDowall (Thomas Franklin Murray), Jan Rubeš (dottor Joseph Lewis), William Russ (Rod Sweeney), Ken Pogue (agente Mullavy), Wayne Robson (agente Huntley), 281

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Mark Malone (Roland McGovern); produzione: John Bloomgarden, Marc Shmuger per Mgm/Ua Communications; prima americana: febbraio 1987; durata: 100’.

1989

Con la morte non si scherza (Penn & Teller Get Killed)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Penn Jullette, Teller; aiuto regia: Lewis Gould; fotografia: Jan Weincke; scenografia: John Arnone; costumi: Rita Ryack; trucco: Carla White; montaggio: Jeffrey Wolf; suono: John Sutton; musica: Paul Chihara; interpreti: Penn Jillette (Penn), Teller (Teller), Caitlin Clarke (Carlotta/Celia McGuire), Bill Randolph (direttore di piano), John Miller (Steve), Ellen Whyte (truccatrice), Ted Neustadt (Bob), David Patrick Kelly (fan), Camille Saviola (agente di sicurezza dell’aeroporto); produzione: Arthur Penn per Lorimar Film Entertainment; prima americana: settembre 1989; durata: 89’.

1993

Ritratti (The Portrait)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Lynn Roth, dal dramma Painting Churches di Tina Howe; aiuto regia: Jerry Ballew; fotografia: Richard Quinlan; scenografia: Robert Guerra; costumi: Julie Weiss; trucco: Wayne Massarelli; montaggio: Janet BartlesVandagriff; suono: Douglas L. Hill, Richard S. Steele; musica: Cynthia Millar; interpreti: Gregory Peck (Gardner Church), Lauren Bacall (Fanny Chruch), Cecilia Peck (Margaret Curch), Paul McCrane (Bartel), Donna Mitchell (Marissa Pindar), Joyce O’Connor (Samantha Button), Mitchell Laurance (Ted Button), William Prince (Hubert Hayden), Augusta Dabney (Elizabeth Hayden), John Murphy (Charles Wicstorm), Marty McGaw (Amelia Wicstorm), John Bennes (Bradley), Ed Lillard (Alan), David Chandler (Andre); produzione: Philip Kleinbart, Gregory Peck, Carla Singer per Turner Network Television e Robert Greenwald Productions; prima televisiva americana: febbraio 1993; durata: 100’.

1995

Lumière et compagnie

Regia: Arthur Penn; fotografia: Sarah Moon, Philippe Poulet, Didier Ferry, Frederic Le Clair; produzione: Cinétéve (Francia), La Sept (Francia), Arte (Francia), Igeldo Komunikazioa (Spagna), Soren Staermose (Svezia); durata: 1’

1996

Urla dal buio (Inside)

Regia: Arthur Penn; sceneggiatura: Biga Stagg; aiuto regia: Willie Naude; fotografia: Jan Weincke; scenografia: David Barkham; costumi: Leigh Bishop; montaggio: Suzanne Pillsbury; 282

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Filmografia

suono: Alan Gerhardt; musica: Robert Levin; interpreti: Eric Stoltz (Marty Strydom), Nigel Hawthorne (colonnello Kruger), Louis Gossett Jr. (responsabile dell’interrogatorio), Ian Roberts (Moolman), Janine Eser (Christie Malcom), Louis van Niekerk (Martin Strydom Sr.), Jerry Mofokeng (Mzwaki), Patrick Shai (Bambo), Ross Preller (Potgieter), Joshua Lindberg (Koos), Desmons Dube (Scabenga); produzione: Hillard Elkins, David Wicht per Elkins Entertainment; prima americana: aprile 1996; durata: 94’.

Regie televisive 1953 GULF PLAYHOUSE: FIRST PERSON Produzione: Fred Coe per la NBC; durata degli episodi: 30’ The Death of the Old Man, scritto da Horton Foote (17 luglio) Comeback, scritto da David Shaw (24 luglio) One Night Stand, scritto da Robert Alan Aurthur (31 luglio) The Tears of My Sister, scritto da Horton Foote (14 agosto) Crip, scritto da Stewart Stern (21 agosto) Prophet in His Land, scritto da Doug Johnson (4 settembre) A Gift From Cotton Mother, scritto da Paddy Chayefsky (11 settembre) 1953-55 PHILCO TELEVISION PLAYHOUSE Produzione: Fred Coe, Gordon Duff, Robert Alan Aurthur per la NBC; durata degli episodi: 60’ 1953 The Happy Rest, scritto N. Richard Nash (4 ottobre) John Turner Davis, scritto da Horton Foote (15 novembre) The Strong Women, scritto da Paddy Chayefsky (29 novembre) The Glorification of Al Toolum, scritto da David Shaw (27 dicembre) 1954 Here’s Father, scritto da Robert Alan Aurthur (17 gennaio) The Broken Fist, scritto da David Shaw (21 marzo) The King and Mrs. Candle, scritto da Sumner Locke Elliott (18 aprile) The Joker, scritto da N. Richard Nash (2 maggio) Adapt or Die, scritto da Harry Muheim (13 giugno) Star in the Summer Night, scritto da Tad Mosel (22 agosto) Man on the Mountaintop, scritto da Robert Alan Aurthur (17 ottobre) Beg, Borrow, or Steal, scritto da Jay Presson (28 novembre) Catch My Boy on Sunday, scritto da Paddy Chayefsky (12 dicembre)

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1955 Assassin, scritto da Bernard Wolfe (20 febbraio) The Pardon Me Boy, scritto da J. P. Miller (15 maggio) 1954 PRODUCER’S SHOWCASE Produzione: Fred Coe per la NBC; durata degli episodi: 90’ State of the Union, scritto da Howard Lindsay e Russel Crouse (15 novembre) 1955 GOODYEAR TELEVISION PLAYHOUSE Produzione: Fred Coe per la NBC; durata degli episodi: 60’ My Lost Saints, scritto da Ted Mosel (13 marzo) 1955 PLAYWRIGHTS ’56 Produzione: Fred Coe per la NBC; durata degli episodi: 60’ The Battler, scritto da E. A. Hotchner e Sydney Carroll (18 ottobre) 1957-58 PLAYHOUSE 90 Produzione: Fred Coe, Martin Manulis, Herbert Brodkin per la CBS; durata degli episodi: 90’ 1957 The Miracle Worker, scritto da William Gibson (7 febbraio) Invitation to a Gunfighter, scritto da Leslie Stevens (7 marzo) Charley’s Aunt, scritto da Brandon Thomas (28 marzo) The Dark Side of the Earth, scritto da Rod Sterling (19 settembre) 1958 Potrait of a Murderer, scritto da Leslie Stevens (27 febbraio)

Teatro 1955 1956 1958 1959 1960

1962 1963 1964 1966

Blue Denim di James Leo Herlihy e William Noble The Lovers di Leslie Stevens Two for the Seesaw di William Gibson The Miracle Worker di William Gibson Toys in the Attic di Lillian Hellman An Evening with Mike Nichols and Elaine May di Mike Nichols e Elaine May All the Way Home di Tad Mosel In the Counting House di Leslie Weiner Lorenzo di Jack Richardson My mother, My Father and Me di Lillian Hellman Golden Boy di Clifford Odets Wait until Dark, di Frederick Knott The Skin of Our Teeth di Thornton Wilder 284

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Filmografia

1976 1977 1980 1981 1986 1990 1997

Sly Fox di Larry Gelbart Golda di Willian Gibson The Wild Duck di Henrik Ibsen Monday after the Miracle di William Gibson Hunting Cockroaches di Januz Glowacki One Of The Guys di Marilyn Suzanne Miller Major Crimes di Jay Presson Allen 1997 Chambers di Jack Gelber 1999 Power Failure di Larry Gelbart Who is Afraid of Virginia Woolf? di Edward Albee 2002 Fortune’s fool di Ivan Turghenev 2004 Sly Fox di Larry Gelbart

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Bibliografia*

Bibliografia generale (cinema e televisione) James Bernardoni, The New Hollywood. What the Movies Did with the New Freedoms of the Seventies, McFarland & Co., Jefferson 1991. Peter Biskind, East Riders, Raging Bulls. How the Se-Drugs-and-Rock’n’Roll Generation Saved Hollywood, Simon & Schuster, New York 1998. David Bordwell, The Way Hollywood Tells It: Story and Style in Modern Movies, University of California Press, Berkley-Los Angeles 2006. David Bordwell, Janet Staiger, Kristin Thompson, The Classical Hollywood Cinema. film Style & Mode of Production to 1960, Routledge, London 1985. Paul Buhle, Dave Wagner, The Hollywood Blacklistees in Film and Television, 1950-2002, Palgrave Macmillan, New York 2003. Noel Carroll, The Future of Allusion: Hollywood in the Seventies (and Beyond), October, vol. 20, spring 1982. Steven Cohan, Ina Rae Hark (a cura di), The Road Movie Book, Routledge, London-New York 1997. David A. Cook, Lost Illusion: American Cinema in the Shadow of Vietnam and Watergate 1970-1979, “History of the American Cinema”, vol. 9, University of California Press, Berkley-Los Angeles 2002. Timothy Corrigan, A Cinema Without Walls: Movies and Culture After Vietnam, Routledge, London 1991. Thomas Elsaesser, Alexander Horwath, Noel King (a cura di), The Last Great American Picture Show: New Hollywood Cinema in the 1970s, Amsterdam University Press, Amsterdam 2004. Lester D. Friedman (a cura di), American Cinema of the 1970s: Themes and Variations, Rutgers University Press, New Brunswick-New Jersey 2007. Mark Harris, Pictures at a Revolution: Five Movies and the Birth of the New Hollywood, Penguin, New York 2008. William Hawes, The American Television Drama: The Experimental Years, University of Alabama Press, Alabama 1986. Barry Keith Grant, American Cinema of the 1960s: Themes and Variations, Rutgers University Press, New Brunswick-New Jersey 2008. Geoff King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, Torino 2004. Gorham Kindem, The Live Television Generation of Hollywood Film Directors. Interviews with Seven Directors, McFarland & Co., Jefferson 1994. Jon Krampner, The Man in the Shadows. Fred Coe and the Golden Age of Television, Rutgers University Press, New Brunswick-New Jersey 1997.

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L’ordinamento delle indicazioni bibliografiche è alfabetico per le prime due sezioni, cronologico per le ultime due; nell’elenco delle recensioni si è preferito documentare in particolare il contributo della stampa italiana.

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Bibliografia

Franco La Polla, Il nuovo cinema americano (1967-1975), Marsilio, Venezia 1985 Peter Lev, American Films of the 70s. Conflicting Visions, University of Texas Press, Austin 2000. -, The Fifties. Transforming the Screen, 1950-1959, “History of the American Cinema”, vol. 7, University of California, Berkley-Los Angeles 2003. Jon Lewis (a cura di), The New American Cinema, Duke University Press, Durham-London 1998. Glenn Man, Radical Visions. American Film Renaissance, 1967-1976, Greenwood Press, Westport 1994. Delbert Mann, Looking Back… at Live Television and Other Matters, A Directors Guild of America Publication, Los Angeles 1997. Emanuela Martini (a cura di), Innamorati e lecca lecca. Indipendenti americani anni ‘60, Lindau, Torino 1991. Paul Monaco, The Sixties. 1960-1969, “History of the American Cinema”, vol. 8, University of California, Berkley-Los Angeles 2001. Stephen Prince, A new Pot of Gold. Hollywood Under the Electronic Rainbow, 1980-1989, “History of the American Cinema”, vol. 10, University of California, Berkley-Los Angeles 2000. Robert B. Ray, A Certain Tendency of the Hollywood Cinema, 1930-1950, Pinceton University Press, Princeton 1985. Eric Rhode, A History of the Cinema from Its Origins to 1970, Penguin Books, London 1976. Barry Salt, Film Style and Technology: History and Analysis, Macmillan, New York 1992. Thomas Schatz, Old Hollywood/New Hollywood. Ritual, Art, and Industry, UMI Press, Ann Arbor 1983. Frank Sturcken, Live Television: The Golden Age of 1946-1958 in New York, McFarland & Co., Jefferson 1990. Bruno Torri (a cura di), Hollywood 1969-1979. Immagini, piacere, dominio, Venezia, Marsilio 1980. Christopher Wicking, Tise Vahimagi, The American Vein: Directors and Directions in Television, Dutton, New York 1979. Max Wilk, The Golden Age of Television. Notes from the Survivors, Silver Spring Press, Chicago 1999. Robin Wood, Hollywood From Vietnam to Reagan… and Beyond, Columbia University Press, New York 2003.

Monografie e principali saggi in rivista e volume AA.VV., Vingt ans après: le cinéma américain et la politique des auteurs, «Cahiers du cinéma», n. 172, novembre 1965. AA.VV., Arthur Penn, Cinématheque de Nice, Nice 2004 (pubblicato in occasione della retrospettiva “Arthur Penn”, 20-25 aprile 2004, organizzata presso la Cinématheque di Nizza). Gérard Camy, Arthur Penn: un regard sévère sur les U.S.A. des années 60-70, «Jeune Cinéma», n. 166, aprile 1985. Fabio Carlini, Arthur Penn, Moizzi, Milano 1977. Alberto Cattini, Penn: lo strip-tease dei significati, «Cinema & film», n. 10, ottobre 1977.

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Goffredo Fofi, Come in uno specchio. I grandi registi della storia del cinema, Donzelli, Roma 2008. Lester D. Friedman (a cura di), Arthur Penn’s Bonnie and Clyde, Cambridge University Press, Cambridge 2000. John Gallagher, John Hanc, Penn’s Westerns, «Films in Review», n. 7, agostosettembre 1983. Leonardo Gandini (a cura di), Arthur Penn, Il Castoro, Milano 1999. Gaston Haustrate, Arthur Penn, Edilig, Parigi 1986. Robert Phillip Kolker, Bloody Liberations, Bloody Declines, in Id., A Cinema of Loneliness. Penn, Kubrick, Scorsese, Spielberg, Altman, Oxford University Press, Oxford 1988. Lars-Olav Beier, Robert Müller (a cura di), Arthur Penn, Bertz, Berlino 1998. Luca Malavasi, Un cineasta eccentrico, «Cineforum», n. 472, marzo 2008. Mauro Marchesini, Gaetano Stucchi, Cinque film di Arthur Penn, Centro Studi Cinematografici, Torino 1973. Giuseppe Rausa, Protagonisti e comparse nel cinema di Arthur Penn, «Gli argomenti di Schermo», n. 4, marzo 1984. Anna Sica, La regia teatrale di Arthur Penn, L’Epos, Palermo 2000. Paolo Vernaglione, Arthur Penn, Il Castoro, Milano 1987. J. S. Zucker, Guide to References and Resources, G. K. Hall & Co., Boston 1988 (il volume rappresenta un’accurata selezione di tutta la bibliografia – quotidiana, periodica, specialistica, saggistica etc. – apparsa tra il 1951 e il 1978 in lingua inglese, francese e italiana, con alcuni riferimenti a altri paesi, tra cui la Spagna). Sandra Wake, Nicola Hayden (a cura di), The Bonnie and Clyde Book, Lorrimer, London 1972. Robin Wood, Arthur Penn, Studio Vista, London 1967. Arthur Penn, Seghers, Paris 1973 (edizione rivista e ampliata rispetto alla precedente) The Chase: Flashback, 1965, in Id., Hollywood from Vietnam to Reagan, cit.

Sui singoli film Furia selvaggia-Billy Kid Gaetano Carancini, «La Rivista del cinematografo», n. 6, 1958; Morando Morandini, «Bianco e Nero», n. 9, 1958; Giuseppe Turroni, «Filmcritica», n. 77, 1958; Jean Domarchi, «Cahiers du Cinéma», n. 89, 1958; Jean-Louis Rieupeyrout, «Cinéma», n. 68, 1962; Oreste De Fornari, «Cinema & film», n. 78, 1969; Sergio Arecco, «Filmcritica», n. 209, 1970; Michel Bouvier, «Avantscène du cinéma», n. 141, 1973 Anna dei miracoli Adriano Aprà, «Filmcritica», n. 127-128, 1962; «Filmcritica», nn. 135, 136137 (sceneggiatura del film), 1962; «La Rivista del Cinematografo», n. 7, 1962; Gordon Gow, «Films and Filming», n. 12, 1962; Freddy Bauche, «Jeune Cinéma», n. 5, 1962; Raymond Borde, «Positif», n. 48, 1963; Claude-Jean Philippe, «Cahiers du cinéma», n. 140, 1963

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Bibliografia

Mickey One Edoardo Bruno, «Filmcritica», n. 159-160, 1965; Ermanno Comuzio, «Cineforum», n. 48, 1965; Adelio Ferrero, «Cinema nuovo», n. 177, 1965; Maurizio Ponzi, «Filmcritica», n. 159-160, 1965; Jean-André Fieschi, André Téchiné, «Cahiers du cinéma», n. 171, 1965; Michel Ciment, «Image et Son», n. 187, 1965; Gordon Gow, «Films and Filming», n. 10, 1966; Michel Caen, Le clan, «Cahiers du cinéma», n. 180, 1966; Louis Seguin, «Positif», n. 72, 1966; Frédéric Vitoux, «Positif», n. 83, 1967 La caccia Mino Argentieri, «Cinema 60», n. 60, 1966; Edoardo Bruno, «Filmcritica», n. 171, 1966; Giacinto Ciaccio, «La Rivista del cinematografo», n. 9-10, 1966; Giovan Battista Cavallaro, «Bianco e Nero», n. 11, 1966; Gian Franco Corbucci, «Cinema nuovo», n. 184, 1966; Luigi Martelli, «Cinema & film», n. 1, 1966-67; Sandro Zambetti, «Cineforum», n. 63, 1967; René Prédal, «Jeune Cinéma», n. 18, 1966; Frédéric Vitoux, «Positif», n. 83, 1967; David Wilson, «Sight and Sound», n. 4, 1966 Gangster Story Rita Porena, «Cinema 60», n. 65-66, 1967; Filippo Sacchi, «Epoca», 17 dicembre 1967; André S. Labarthe, «Cahiers du cinéma», n. 196, 1967; Edoardo Bruno, «Filmcritica», n. 187, 1968; Ermanno Comuzio, «Cineforum», n. 77, 1968; Manuel Dori, «Ombre rosse», n. 4, 1968; Guido Fink, «Cinema nuovo», n. 191, 1968; Enzo Natta, «La Rivista del cinematografo», n. 1, 1968; Manuel Dori, «Ombre rosse», n. 4, 1968; Morando Morandini, «Ombre rosse», n. 4, 1968; Arthur Penn, «Cineforum», n. 77, 1968; Michel Ciment, «Positif», n. 89, 1968; Robert Benayoun, «Positif», n. 93, 1968; Michel Delahaye, «Cahiers du cinéma», n. 199, 1968; Matthew Bernstein, «Film Quarterly», vol. 53, n. 4, 2000 Alice’s Restaurant Luigi Bini, «Letture», n. 11, 1970; Guido Cincotti, «Bianco e nero», n. 7/8, 1970; Goffredo Fofi, «Quaderni piacentini», n. 41, 1970; Franco La Polla, «Cinema nuovo», n. 208, 1970; Bernard Eisenshitz, «Cahiers du cinéma», 219, 1970; Margaret Tarratt, «Films and Filming», n. 4, 1970; Sergio Arecco, «Filmcritica», n. 213, 1971; Giuseppe Turroni, «Filmcritica», n. 214, 1971; Mino Argentieri, «Cinema 60», n. 81-82, 1971; Sandro Scandolara, «Cineforum», n. 103, 1971; Robert Benayoun, «Positif», n. 116, 1971 Piccolo grande uomo Philip French, «Sight and Sound»; Goffredo Fofi, «Quaderni piacentini», n. 44-45, 1971; Mino Argentieri, «Cinema 60», n. 83-84, 1971; Guido Aristarco, «Cinema nuovo», n. 213, 1971; Luigi Bini, «Letture», n. 5, 1971; Edoardo Bruno, «Filmcritica», n. 214, 1971; Claudio G. Fava, «Bianco e Nero», n. 5-6, 1971; Franco La Polla, «Cinema nuovo», n. 211, 1971; Antonio Mazza, «La Rivista del cinematografo», n. 5, 1971; Sandro Zambetti, «Cineforum», n. 105-106, 1971; Aline e Robin Wood, «Positif», n. 126, 1971

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Ciò che l’occhio non vede Michel Ciment, «Positif», n. 154, 1972; Giovanni Grazzini, «Il corriere della sera», 18 agosto 1978; Jan Dawson, «Montly Film Bulletin», X, 1979 Bersaglio di notte Antonio Mazza, «La Rivista del cinematografo», n. 12, 1975; «Il Falcone maltese», n. 8, 1976; Lorenzo Quaglietti, «Cinema 60», n. 105, 1975; Giuseppe Turroni, «Filmcritica», n. 257, 1975; Richard Combs, «Sight and Sound», 1975; Raoul Sanderman, «Positif», n. 175, 1975; Claude Benoît, «Jeune Cinéma», n. 90, 1975 Missouri Mino Argentieri, «Cinema 60», n. 113, 1977; Francesco Bolzoni, «La Rivista del cinematografo», n. 12, 1976; Guy Braucourt, «Ecran», n. 52, 1976; Charles Michner, «Film Comment», n. 4, 1976; Francesco Roberto, «La Rivista del cinematografo», n. 3, 1977; Olivier Eyquem, «Positif», n. 187 Gli amici di Georgia Pino Gaeta, «Cinema 60», n. 146, 1982; Elio Girlanda, «La Rivista del cinematografo», n. 4, 1982; Alain Masson, «Positif», n. 252, 1982; Stefano Rulli, «Quaderni piacentini», n. 5, 1982; Guy-Patrick Sainderichin, «Cahiers du cinéma», n. 332, 1982; Antonio Tricomi, «Cinema 60», n. 146, 1982; Linda Bellamore, «Segnocinema», n. 6, 1983 Target Roberto Cagliero, «Segnocinema», n. 22, 1986; Gianfranco Damiano, «Letture», n. 428, 1986; Chiara Zappoli, «Film», n. 4, 1986; Antoine de Baecque, «Cahiers du cinéma», n. 380, 1986 Omicidio allo specchio Giovanni Bogani, «Segnocinema», n. 34, 1988; Gualtiero de Marinis, «Cineforum», n. 274, 1988; Morando Morandini, «Letture», n. 452, 1988; Claudio Siniscalchi, «La Rivista del cinematografo», n. 7-8, 1988; Richard Combs, «Monthly Film Bullettin», vol. 55, n. 649, 1988 Con la morte non si scherza Pauline Kael, «New Yorker», 2 ottobre 1989; Stanley Kauffmann, «New Republic», 30 ottobre 1989 Urla dal buio Bernard Bénoliel, «Cahiers du cinéma», n. 513, 1997; Pierre Berthomieu, «Positif», n. 435, 1997 Ritratti «Hollywood Reporter», 12 febbraio 1993 Lumière et compagnie Sophie Bredier, «Cahiers du cinéma», n. 498, 1996

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Bibliografia

Interviste André S. Labarthe, Rencontre avec Arthur Penn, «Cahiers du cinéma», n. 140, 1963; Arthur Penn, American Report, «Cahiers du Cinéma», n. 150-151, 1963-1964; Adriano Aprà, Jean-André Fieschi, Axel Madsen, Maurizio Ponzi, Arthur Penn: Mickey One, «Cahiers du cinéma», n. 171, 1965; Martin Marcel, Arthur Penn et les symboles, «Cinéma 65», n. 101, 1965; Jean-Louis Comolli, André S. Labarthe, Entretien avec Arthur Penn, «Cahiers du cinéma», n. 196, 1967; Curtis Lee Hanson, Warren Beatty as Producer, Arthur Penn as Director, «Cinema», vol. 3, n. 5, estate 1967; Michael Lindsay, Interview with Arthur Penn, «Cinema» (Beverly Hills), vol. 5, n. 3, 1969; Eric Sherman, Martin Rubin, The Director’s Event: Interviews with Five American Film-Makers, New York, Atheneum 1970; Bernard Cohn, Entretien avec Arthur Penn, «Positif», n. 126, 1971; Mario Foglietti, Gravi conflitti di coscienza, «La Rivista del cinematografo», n. 12, 1971; Gordon Gow, Metaphor, an interview with Arthur Penn, in «Films and Filming», n. 7, 1971; Tag Gallagher, Night Moves, «Sight and Sound», n. 2, 1975 Stuart Byron, Terry Curtis Fox, What is a Western?, «Film Comment», n. 4, 1976; Claire Clouzot, Arthur Penn ou l’anti-genre, in «Ecran», 1976; Jean-Pierre Coursodon, Entretien avec Arthur Penn, «Cinéma 77», 1977; Michel Ciment, Entretien avec Arthur Penn (sur Four FriendsGeorgia), «Positif», n. 252, 1982; Jean-Paul Chaillet, Entretien avec Arthur Penn, «Première», 1986; Irene Bignardi, Ma perché l’America non ama Arthur Penn? Un incontro con il regista “dimenticato” dall’industria, «La Repubblica», 14 giugno 1990; P. Mereghetti, L’America che cambia. Incontro con Arthur Penn, «Linea d’ombra», n. 48, 1990; Tom Luddy, David Thomson, Penn on Penn, in John Boorman, Tom Luddy, David Thomson, Walter Donohue (a cura di), Projections 4. Film-makers on Film-making, Faber & Faber, London-Boston 1995; Giuseppe Gariazzo, L’occhio aperto. Conversazione con Arthur Penn, «Filmcritica», n. 475, 1997; Lorenzo Esposito, L’occhio del cinema, «Filmcritica», n. 498, 1999; Michele Gottardi, E io continuo a dire no, “Segnocinema”, n. 99, 1999; Paolo Vecchi, Un intellettuale contro, «Cineforum», n. 386, 1999; Antonio Monda, Intervista ad Arthur Penn, «La Repubblica», 7 giugno 2002; Antonio Monda, Mario Sesti, Intervista con Arthur Penn, in P. Bertetto (a cura di), Azione! Come i grandi registi dirigono gli attori, Minimum Fax, Roma 2007; Maria Nadotti, Conversazione con Arthur Penn, «Cineforum», n. 472, 2008; Michael Chaiken, Paul Cronin (a cura di), Arthur Penn: Interviews, University Press of Mississippi, Jackson 2008.

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Indice dei nomi e dei film A sangue freddo (In Cold Blood, R. Brooks, 1967), 146, 185 Agee, James, 59 Agel, Henri, 80 Agente Lemmy Caution: missione Alphaville (Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution, J.-L., Godard, 1965), 109 n., 138 Aiuto! (Help!, R. Lester, 1965), 173 Al di là della vita (All the Way Home, A. Segal, 1963), 59 Alba fatale (The Ox Bow Incident, W. Wellman, 1943), 118 Aldrich, Robert, 91 Alexander, Jane, 248 Alice’s Restaurant (Id., A. Penn, 1969), 27 s., 36 n., 65 n., 68, 88 n., 90 n., 105, 133, 147, 153, 165-168, 170-173, 176, 178-185, 188, 193, 211, 235, 243 s., 246, 254, 274 All the Way Home (film tv, D. Mann, 1981), 59 n. All the Way Home (film tv, F. Coe, 1971), 59 n. Allen, Dede, 64, 88 e n., 163 s., 171 s., 184, 201, 204, 223 n. Allen, Jay Presson, 266 Allen, Karen, 248 Allen, Woody, 16, 192 n., 228 n. Altman, Robert, 16, 21 e n., 36 e n., 61, 148, 165, 172, 180-182, 190, 195, 198, 205, 207, 225, 256 Amante indiana, L’ (Broken Arrow, D. Daves, 1950), 187 n. Amici di Georgia, Gli (Four Friends, A. Penn, 1981), 19, 20 n., 23-25, 27 s., 34, 55 n., 66 e n., 68, 90 n., 148, 165, 172, 198, 223, 225, 235-239, 244-250, 254 s. Anderson, Lindsay, 180 Anna dei miracoli (The Miracle Worker, A. Penn, 1962), 60, 65, 74, 77, 86-91, 94-96 e n., 98-101 e n., 105, 109, 112, 120 s., 124 n., 134, 147 n., 150, 162, 184-217 s., 248

Anno scorso a Marienbad, L’ (L’année dernière à Marienbad, A. Resnais, 1961), 98 Antonioni, Michelangelo, 143, 210 Aprà, Adriano, 97 n. Arecco, Sergio, 71 n. Argentieri, Mino, 119 n., 195 n. Ashby, Hal, 204 n. Assassin (episodio serie tv Philco, A. Penn, 1955), 50 Asso nella manica, L’ (Ace in the Hole, B. Wilder, 1951), 133 Aumont, Jacques, 99 n. Aurthur, Robert Alan, 50, 61 Avildsen, John G., 103, 175, 222 Azione esecutiva (Executive Action, D. Miller, 1973), 117 Aznavour, Charles, 107 Bacall, Lauren, 24, 267 s. Baciami stupido (Kiss Me, Stupid, B. Wilder, 1964), 133 n. Ballata della città senza nome, La (Paint Your Wagon, J. Logan, 1969), 222 Ballata di Cable Hogue, La (The Ballad of Cable Hogue, S. Peckinpah, 1970), 145 Balsam, Martin, 191 Bancroft, Anne, 54-58, 67, 86 s., 99, 124, 223 n. Bandito delle ore undici, (Pierrot le fou, J.-L. Godard, 1965), 104 e n., 138 n. Barthes, Roland, 70 n. Basehart, Richard, 55 Bates, Alan, 275 Batson, Susan, 269 Battler, The (episodio serie tv Playwrights ’56, A. Penn, 1955), 51 s. Bauche, Freddy, 96 n. Bazin, André, 15 Beatty, Warren, 17, 67, 104 s., 113, 135, 138-141, 145 s.

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Bee Gees, 264 Beginning, The (episodio di Ciò che l’occhio non vede, Y. Ozerov, 1973), 200 n. Bellour, Raimond, 69 n. Bénoliel, Bernard, 25 n. Benton, Robert, 17 n., 26, 104, 136139, 141, 159 n. Berger, Thomas, 183, 185 n. Bergman, Ingmar, 67, 143 Berk, Howard, 250 Bernstein, Matthew, 159 n., 162 n., Bersaglio di notte (Night Moves, A. Penn, 1975), 23, 33, 36 n., 39, 74, 83, 88-90, 96, 108, 116, 172, 196199, 202-209, 211-219, 223, 225, 244 s., 247, 250-252, 258, 264 Bertetto, Paolo, 60 n., 87 n. Bertrand, Pierre-Michel, 77 n. Bignardi, Irene, 265 n. Biskind, Peter, 137 n., 141 n., 145 n., 199 n. Blow-up (Id., M. Antonioni, 1966), 210 Bob & Carol & Ted & Alice (Id., P. Mazursky, 1969), 180 Bogdanovich, Peter, 207 Bonnie e Clyde vedi Gangster Story Boorman, John, 146 Bordwell, David, 63 n., 171 n. Braccio violento della legge, Il (French Connection, W. Friedkin, 1971), 205, 217 Braccio violento della legge n. 2, Il (French Connection II, J. Frankenheimer, 1975), 205 Bradford, Richard, 127 Brando, Marlon, 58, 64, 66 s., 118, 125 s., 138, 161 n., 211, 216, 219222, 227 Brandon, Thomas, 54 Brevi giorni selvaggi (Last Summer, F. Perry, 1969), 180 Bridges, James, 117 Brinner, Yul, 54 n. Broderick, James, 174 Brooks, Richard, 132, 146, 198 n. Brown, David, 250 Brunetta, Gian Piero, 132 n., 147 n. Bruno, Edoardo, 73 n., 104 n.

Buckminister Fuller, Richard, 45 Buffalo Bill e gli indiani (Buffalo Bill and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson, R. Altman, 1976), 193 n., 217 Buffalo Bill, 186 n., 195 n Burke, Peter, 187 n. Burstyn, Ellen, 57 n. Butler, Michael, 225 Byron, Stuart, 202 n., 216 n. Caccia, La (The Chase, A. Penn, 1966), 20 e n., 27 s., 31, 36 n., 59, 66 e n., 77, 83, 87 n., 91, 95 s., 100, 108, 115, 118-122, 124-126, 128, 132-134, 139, 142, 151 s., 160 s., 163, 165, 167, 208, 211, 226 s., 233, 235, 241, 272 Cage, John, 45 Caine, Michael, 252 n. Calamity Jane, 186 n. Calda notte dell’ispettore Tibbs, La (In the Heat of the Night, N. Jewison, 1967), 146 e n. Caldwell, Erskine, 162 California Poker (California Split, R. Altman, 1974), 36 n. Calley, John, 199 Campbell, Alan, 43 Caparrós, Ernesto, 92 Cappello pieno di pioggia, Un (A Hatful of Rain, F. Zinnemann, 1957), 60 n. Capricon One (Id., P. Hyams, 1978), 117 Carlini, Fabio, 71 n., 80 n., 109 n., 227 n. Carr, Steven Alan, 143 n. Carroll, Sydney, 51 Carson, Kit, 186 n. Cassavetes, John, 21 n., 63 n., 94 Cavaliere elettrico, Il (The Electric Horseman, S. Pollack, 1979), 22 Cavallaro, Giovan Battista, 119 Cavallo Pazzo, 187 n. Cavell, Stanley, 168 n. Cawelti, John G., 58 n., 143 s. v Cechov, Anton, 48 v Cechov, Michael, 48, 57 100 Center Street (serie tv), 260

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Chabrol, Claude, 176 n. Chaillet, Jean-Paul, 251 n. Charley’s Aunt (episodio serie tv Playhouse 90, L. Stevens, 1957), 54 Chayefsky, Paddy, 20, 44 e n., 49 s., 61, 224 Che (Id., R. Fleischer, 1969), 180 Chief Dan George, 191 n. Chinatown (Id., R. Polanski, 1974), 207, 211 Ciment, Michel, 20 n., 27 n., 191 n., 194 n., 219 n., 224 s., 238 n., 246 n. Cimino, Michael, 235 Ciò che l’occhio non vede (Vision of Eight, film collettivo, 1973), 88 n., 200 Cloquet, Ghislain, 103, 114, 237, 247, 250 Clouzot, Claire, 198 n., 202 n., 203 n., 217 n., 219 n., 221 n., 224 s. Cocoon (Id., R. Howard, 1985), 250 Coe, Fred, 21 n., 42 s., 46, 49-57, 5962, 86 e n., 124 n. Cohn, Bill, 85 Collins, Stephen, 265 n. Colpevole innocente (The Young Stranger, J. Frankenheimer, 1957), 61 Colpo secco (Slap Shot, G.R. Hill, 1977), 88 n. Combs, Richard, 258 n. Comolli, Jean-Louis, 15, 122 n., 161 n. Compari, I (McCabe & Mrs. Miller, R. Altman, 1971), 172, 193 n. Complesso di colpa (Obsession, B. De Palma, 1980), 257 Con la morte non si scherza (Penn & Teller Get Killed, A. Penn, 1989), 24, 259 s., 265 Connery, Sean, 206 Conquistatore del Messico, Il (Juarez, W. Dieterle, 1939), 79 n. Considine, Shaun, 44 n. Conto alla rovescia (Countdown, R. Altman, 1967), 61 Conversazione, La (The Conversation, F.F. Coppola, 1974), 205 Cook, David A. 20 n., 117 n., 119 e n., 223 n. Cooper, James Fenimore, 31

Coppola, Francis Ford, 23, 198, 205, 207, 212, 251 s. Corazzata Potëmkin, La (Bronenosec Potëmkin, S.M. Ejzenštejn, 1925), 141 Corman, Roger, 26 Cornfield, Hubert, 219 Corsini, Gianfranco, 22 n. Cotten, Joseph, 51 Coursodon, Jean-Pierre, 165 n., 201 n. Crouse, Russel, 51 Crowther, Bosley, 144 e n. Cruising (Id., W. Friedkin, 1980), 198 n. Cunningham, Merce, 45 Custer, George Armstrong, 185 s., 189-195 n. D’Agnolo Vallan, Giulia, 46 n., 49 n., 90 n., 101 n., 185 n., 187 n., 247 n., 257 n., 260 n. Dai… muoviti (Move, S. Rosenberg, 1970), 180 n. Daniels, Billy, 102 Danza delle luci, La (Gold Diggers of, M. LeRoy, 1933), 158 Dark Side of the Earth, The (episodio serie tv Playhouse 90, A. Penn, 1957), 54 Dassin, Jules, 92 n., 114 Daves, Delmer, 187 n. Davidson, David, 51 Dawson, Fielding, 44 De Baeque, Antoine, 67 n. De Bernardinis, Flavio, 195 n. De Coubertin, Pierre, 200 n. De Palma, Brian, 257 De Vincenti, Giorgio, 98 n. Dean, James, 52, 64 Death of Billy the Kid, The (episodio serie tv Philco, R. Mulligan, 1955), 52, 61 Death of the Old Man, The (episodio serie tv First Person, A. Penn, 1953), 122 n. Decathlon, The (episodio di Ciò che l’occhio non vede, M. Forman, 1973), 200 n. Del Pozzo, Diego, 196 n. Deleuze, Gilles, 89 e n., 191 n.,

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Delinquents, The (R. Mulligan, 1925), 21 n., 61 Demme, Jonathan, 270 n. Detective Harper: acqua alla gola (The Drowing Pool, S. Rosenberg, 1976), 207, 210 Dickinson, Angie, 126 Dieterle, William, 79 n. Dillon, Matt, 251 s. Dolce ala della giovinezza, La (Sweet Bird of Youth, M. Ritt, 1962), 132 Donehue, Vincent, 46, 50 Donna del destino, La (Designing Woman, V. Minnelli, 1957), 267 Dos Passos, John, 104 n. Downey, Robert Sr., 180 Dozier, Robert, 61 Dreyfuss, Richard, 271, 275 Due sorelle, Le (Sisters, B. De Palma, 1973), 257 Duff, Gordon, 46 Dunaway, Faye, 22 n., 67, 146, 152 n., 192 n. Duncan, Isadora, 239 Duncan, Robert, 44 Dunne, Philip, 55 n. Durante, Jimmy, 45 Duvall, Robert, 67, 123, 126 s., 166 Earp, Wyatt, 186 n. Easy Rider (Id., D. Hupper, 1969), 133, 180 Ebersole, Lucinda, 62 n. Ehnrenreich, Barbara, 152 n. Eisenhower, Dwight, 43 Ejzenštejn, Sergej Michajlovicv, 141 n. Elliott, Locke, 50 Elsaesser, Thomas, 20 n., 22 n., 207 n., 212 n., Equus (Id., S. Lumet, 1977), 21 Esclusi, Gli (A Child Is Waiting, J. Cassavetes, 1963), 94 Esorcista, L’ (The Exorcist, W. Friedkin, 1973), 199 n. Faber, Manny, 171 Fahrenheit 451 (Id., F. Truffaut, 1966), 138 Falana, Lola, 102

Farassino, Alberto, 138 Farber, Stephen, 172 n., 180 e n. Fastest, The (episodio di Ciò che l’occhio non vede, K. Ichikawa, 1973), 200 n. Faulkner, William, 91 Favoloso dottor Dolittle, Il (Doctor Dolittle, R. Fleischer, 1967), 146 n., Fellini, Federico, 17, 143 Fiamma del peccato, La, (Double Indemnity, B. Wilder, 1944), 205 Fieschi, Jean-André, 15 Fifty Grand (film tv, S. Lumet, 1958), 51 n. Finestra sul cortile, La (Rear Window, A. Hitchcock, 1954), 257 Fink, Guido, 31 e n.,148 Fino all’ultimo respiro (A bout de souffle, J.-L. Godard, 1960), 115, 148 First Person Playhouse (serie tv), 44 n., 46, 49, 122 n. Fix, The (episodio II serie tv 100 Center Street, A. Penn, 2001), 260 Fleischer, Richard, 180, 203 n. Flesh and Blood (film tv, A. Penn, 1968), 166 Fluellen, Joel, 127 Fofi, Goffredo, 37 n., 57 n., 195 n., 247 n., 256 n. Foglietti, Mario, 101 n., 103 n., 117 n. Fonda, Henry, 55 s. Fonda, Jane, 67, 115 n., 126, 129 Fonda, Peter, 180, 203 n. Foote, Horton, 49 s., 122, 128 For Whom the Bell Tolls (episodio serie tv Playhouse 90, J. Frankenheimer, 1959), 51 n. Ford, John, 72, 91, 158, 226, 242 Forman, Milos, 200 e n., 220 Fox, James, 129 Fox, Terry Curtis, 202 n., 216 n., 226 n., Fragole e sangue (Strawberry Statement, S. Hagmann, 1970), 180 n. Francis, Ad, 51 s. Frankenheimer, John, 21 n., 50 s., 59, 61, 101, 107, 146, 205 Fraser-Cavassoni, Natasha, 121 n. Free, William J., 143 n. Frenzy (Id., A. Hitchcock, 1972), 253

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Friedkin, William, 198 s., 205 Friedman, Lester D., 17 s., 36 n., 87 n., 135 n., 143 e n., 162 n., 204 n., Fronte del porto (On the Waterfront, E. Kazan, 1954), 121 n., 124, 221 Frye, Nortroph, 71 n. Fuller, Sam, 45, 69, 114, 146 Fuoco fatuo (Le feu follet, L. Malle, 1963), 114 Furia (Fury, F. Lang, 1936), 118 Furia indiana (Chief Crazy Horse, G. Sherman, 1955), 187 Furie, Sidney J., 180 n., 252 n. Furia selvaggia-Billy the Kid (The Left-Handed Gun, A. Penn, 1958), 17, 31 s., 54 s., 60-62, 64 s., 69-71, 74 s., 79, 83, 85 s., 90 s., 93 s., 96, 100, 105, 108 s., 112 s., 119, 124, 142, 147, 149-151, 159, 161, 183, 185, 216, 218, 226, 233, 236, 243, 247 n. Furore (The Grapes of Wrath, J. Ford, 1940), 158 Fyodorova, Viktoriya, 253 Gallagher, Tag, 102 n., 203 n., 211 n., 213 n., 215 Gandini, Leonardo, 35 n., 37 n., 46 n., 57 s., 75 n. Gang (Thieves Like Us, R. Altman, 1974), 185 n. Gangster Story (Bonnie and Clyde, A. Penn, 1967), 17-19, 22 n., 26, 29, 34, 52, 88 s., 91, 100, 104 s., 118, 121, 132 s., 135, 137, 138 e n., 140-149, 151, 156 s., 159, 161-165, 167, 178, 180, 185, 212, 217, 229, 236 Gariazzo, Giuseppe, 40 n., 270 n. Gatta sul tetto che scotta, La (Cat on a Hot Tin Roof, R. Brooks, 1958), 132 Gazzarra, Ben, 115 n. Gelbart, Larry, 198, 223 n., 224, 266 Gelber, Jack, 266 Gelmis, Joseph, 41 n. Gentry, Ric, 88 n., 163 n. Gibson, James William, 55, 58, 86, 91, 96 n., 102, 125 n., 189, 223 n., 248

Gibson, Matthew, 55 Gibson, Molly, 55 Gilbert, Anthony, 257 Giorno del delfino, Il (The Day of the Dolphin, M. Nichols, 1973), 117 Gioventù bruciata, (Rebel Without a Cause, N. Ray, 1955), 132 Glowacki, Janusz, 249 Godard, Jean-Luc, 37, 89 s., 103, 109 n., 138 e n., 148 e n., 164 Goldman, Mia, 163 n. Goodman, Hal, 54 Gossett, Louis Jr., 102, 271, 273 Gottardi, Michele, 34 n., 54 n., 226 n., 268 n. Grande sonno, Il (The Big Sleep, H. Hawks, 1946), 205 Greeberg, Jerry, 223 Greenberg, Sonia, 41 Greenwald, Robert, 267 Griffin, Tom, 265 Guégan, Gérard, 15 Guerra privata del cittadino Joe, La (Joe, J. Avildsen, 1970), 175 Guerre stellari (Star Wars, G. Lucas, 1977), 20, 224 Guthrie, Arlo, 166-172, 176 s., 181 Guthrie, Woody, 169 Hackman, Gene, 67, 125 n., 153, 205, 251, 254 e n., 259 Hagmann, Stuart, 180 n. Hammett, Dashiell, 121 Hanley, William, 166 Hannon, James H., 169 Harris, Mark, 146 n. Hatfiled, Hurd, 70, 85, 108 n. Haustrate, Gaston, 35 n., 179 e n., 192 e n., 216 e n., 228 n. Hawks, Howard, 38, 192, 205, 226 Hawthorne, Nigel, 271 Hayden, Nicola, 136 n., 142-144 Haynes, Sam W., 189 n., Hays, Lee, 169 Hayward, Leland, 50 Hellman, Lillian, 59, 121 s., 126, 128 Hellman, Monte, 133 Hemingway, Ernest, 51 e n. Hepburn, Audrey, 87, 90

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Indice dei nomi e dei film

Herlihy, James Leo, 55 n., 241 Herndon, Venable, 167 s. Hiawatha (K. Neumann, 1952), 187 n. Hill, George Roy, 50, 59 n., 88 n., 256 Hiller, Arthur, 41, 50, 138 Hillier, Jim, 58 Hitchcock, Alfred, 38, 133, 137 n., 254 n., 257, 266 Hobsbawm, Eric J., 150 n. Hoffman, Dustin, 66 s., 125 n., 186 n., 196 Holden, William, 102 Hollywood Ending (Id., W. Allen, 2002), 16 Hope, Bob, 45 Hopper, Dennis, 133, 180, 199 Horwath, Alexander, 20 n., 22 n., 207 n., 212 n., Hotchner, Aaron Edward, 51 e n. Howe, Tina, 267 s. Hud il selvaggio (Hud, M. Ritt, 1963), 132 Hughes, Bronwen, 270 Hunter, Allan, 203 n., 205 n., 254 n. Hunter, Tab, 54 Hyams, Peter, 117 Hyman, Eliot, 145 Hyman, Kenny, 145 I’m Magic (The Wiz, S. Lumet, 1978), 21, 88 n. Ibsen, Enrik, 236 Ichikawa, Kon, 200 s. If (Id., L. Anderson, 1968), 180 Images (Id., R. Altman, 1972), 36 n. Impossibilità di essere normale, L’ (Getting Straight, R. Rush, 1970), 175, 180 n. In cerca di Mr. Goodbar (Looking for Mr. Goodbar, R. Brooks, 1977), 198 n. Indovina chi viene a cena (Guess Whot’s Coming to Dinner, S. Kramer, 1967), 146 n. Inside vedi Urla dal buio Invito a una sparatoria (Inviation to a Gunfighter, L. Stevens, 1964), 54 e n. Ipcress (The Ipcress File, S.J. Furie, 1965), 252 n.

Irving, John, 41 Iverson, Arlene, 205 Jarmusch, Jim, 270 n. Jauberty, Christian, 247 n. Jewison, Norman, 146 John Turner Davis (episodio serie tv Philco, A. Penn, 1953), 122 n. Johnny Guitar (Id., N. Ray, 1954), 69 Juarez vedi Il conquistatore del Messico Jules e Jim (Jules et Jim F. Truffaut, 1962), 137 e n. Kael, Pauline, 17 s., 26, 29, 119 e n., 144, 217 e n. Kafka, Franz, 104 n. Kalmenson, Ben, 145 Kamatari Fujiwara, 115 n. Karina, Anna, 158 Kastner, Elliot, 219, 222, 225 Kazan, Elia, 58 e n., 61, 64, 67, 76, 88 n., 114, 120 s., 125 n., 126, 132, 146, 221 s. Kemp, David, 16 Kennedy, John, 27 e n., 59, 131, 142, 160, 203 s., 208 s., 239, 262 Kennedy, Robert, 59, 170, 204, 208 s. Kidder, Margot, 222 Kindem, Gorhan, 45 n., 48 s., 62 n. King, Geoff, 19 n., 170 King, Martin Luther, 170 King, Noel, 20 n., 22, 207 n., 212 n. Klein, Larry, 54 Kline, Franz, 44 Klute vedi Una squillo per l’ispettore Klute Knight, Peter, 209 n. Knight, Wayne, 265 n. Knott, Frederick, 87, 123 Kolker, Robert Phillip, 19 e n., 22, 27-29, 151 n., 162 e n., 255 e n. Kooning, Willem de, 44 s. Kotcheff, Ted, 203 Kraft Television Theatre, (antologia di drammi televisivi), 49 n., 51 n. Krampner, Jon, 45-47, 52 s., 56 n. Kubrick, Stanley, 146

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La Polla, Franco, 21 n., 207 n. Labarthe, André S., 62 n., 93 n., 98 n., 101 n., 107 n., 110 n., 122 n. Lancaster, Burt, 35, 100 s. Lang, Fritz, 118 Langella, Frank, 124, 275 LaShelle, Joseph, 123, 127 Lasko, Gene, 64, 90 n., 184, 237, 250 Lassally, Walter, 201 Laub, Marc, 248 e n. Laureato, Il (The Graduate, M. Nichols, 1967), 146 e n., 185 n. Law and Order (serie tv), 261 Lawrence, David Herbert, 265 Lean, David, 120 s. Lee, Paul J.Q., 265 n. Lee, Robert E., 227 Lelouch, Claude, 200 e n. Lemmon, Jack, 55 LeRoy, Mervyn, 158 Lester, Richard, 63 n., 173 e n. Lev, Peter, 16 n. Levi, Giovanni, 187 n. Levi, Lawrence, 16 n. Lewis, Jerry, 16 e n., 45 Lewis, Joseph H., 257 e n. Lindsay, Howard, 51 Lindsay, Michael, 92 n. Lipton, James, 58 n., 266 Lodato, Nuccio, 104 n. Logan, Joshua, 43 e n., 55 n., 222 Longest, The (La maratona, episodio di Ciò che l’occhio non vede, J. Schlesinger, 1973), 200 n. Losers, The (I vinti, episodio di Ciò che l’occhio non vede, C. Lelouch, 1973), 200 n. Lost (episodio serie tv Playwrights ’56, A. Penn, 1956), 52 Lotman, Jurij M., 130 Love and Death. The Story of Bonnie and Clyde (documentario) 136 Lucas, George, 20, 39, 212, 224, 270 n. Lumet, Sidney, 21 e n., 50 s., 61, 88 n., 256, 260, 266 Lumière et Compagnie (Lumière and Company, film collettivo, 1995), 274

Lunga estate calda, La (The Long Hot Summer, M. Ritt, 1958), 127 Lungo addio, Il (The Long Goodbye, R. Altman, 1973), 205, 217 M.A.S.H. (Id., R. Altman, 1970), 61 MacVittie, Bruce, 265 n. Macy, John A., 249 Maffi, Mario, 31 n. Mailer, Norman, 57 n. Mamoulian, Rouben, 102 Man, Glenn, 204 n. Manchurian Candidate, The vedi Vai e uccidi Mancini, Henry, 200 Mankiewicz, Joseph L., 121 n. Mann, Abby, 54 Mann, Delbert, 46, 47, 50, 59, 61 Mannequin-Frammenti di una donna (Puzzle of a Downfall Child, J. Schatzberg, 1970), 36 n. Manulis, Martin, 54 Maraone, E., 105 n. Mardore, Michel, 15 Margulies, Stan, 200 e n. Mariani, Giorgio, 189 n. Marinis, Gualtiero de, 259 s. Marlowe il poliziotto privato (Farewell My Lovely, D. Richards, 1975), 205 Marnie (Id., A. Hitchcock, 1964), 266 Marshall, E.G., 127 Martin, Dean, 45, 59 Martini, Emanuela, 27 e n., 199 e n. Marty, vita da timido (episodio serie tv Philco-Goodyer Television, D. Mann, 1953), 50 Marty, vita da timido (Marty, D. Mann, 1955), 61 Marziano sulla terra, Un (Visit to a Small Planet, N. Taurog, 1960), 62 n. Maschio e la femmina, Il (Masculin féminin, J.-L. Godard, 1966), 158 n. Masson, Alain, 246 n. Mattatoio 5 (Slaughterhouse Five, G.R. Hill, 1972), 88 n. Maurer, Peggy, 55 Mazursky, Paul, 180 McCormack, Patty, 90

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McDowall, Roddy, 258 McElwaine, Guy, 199 McGuane, Thomas, 219-222, 226 s. McLiam, John, 229 McManus, Don R., 265 n. McMurtry, Larry, 132, 183 McNenny, Kathleen, 265 n. McQueen, Steve, 227 n. Mean Streets (Id., M. Scorsese, 1973), 172 Meir, Golda, 223 n. Melley, Timothy, 214 n. Mereghetti, Paolo, 21 n., 23 n., 25 n., 34 n., 243 n., 261 n., Metalious, Grace, 134 Mezzogiorno di fuoco (High Noon, F. Zinnemann, 1952), 134 Mi chiamo Giulia Ross (My name is Julia Ross, J.H. Lewis, 1945), 257 Mia notte con Maud, La (Ma nuit chez Maud, E. Rohmer, 1969), 215 Mia pistola per Billy, La (Billy Two Hats, T. Kotcheff, 1974), 203 n. Mickey One (Id., A. Penn, 1965), 17, 18 n., 36 n., 64, 74, 77, 83, 89-91, 94, 99 s., 102-110, 115-121 n., 129, 133, 135, 147, 162 s., 170, 217 s. Millar, Cynthia, 268 Millar, Stuart, 184 Miller, David, 117 Miller, James P., 50 Miller, Marilyn Suzanne, 265 Minganti, Franco, 31 n. Minnelli, Vincente, 267 Missouri (The Missouri Breaks, A. Penn, 1976), 17, 19 s., 23, 33 s., 66 n., 70, 74, 83 s., 88 n., 106, 118, 120, 125, 129, 139, 183, 197 s., 202 e n., 212 s., 217, 219, 220-223, 225230, 232-236, 244 s., 247 s., 250 s. Mitchell, Joni, 169 Moffat, Ivan, 122 Monaco, Paul, 164 n. Monda, Antonio, 60 n., 63 s., 87 n., 239 n., 270 Monday after the Miracle (film tv, D. Petrie, 1988), 248 Morandini, Morando, 69 n., 162 n., 259 e n., 260

Moreau, Jeanne, 100 Morgenstern, Joseph, 144 e n. Morris, Christopher M., 189 n. Mosel, Tad, 50, 59 e n. Mucchio selvaggio, Il (The Wild Bunch, S. Peckinpah, 1969), 145 Müller, Robert, 75 n. Mulligan, Robert, 21 n., 22, 50, 52, 61 Murnau, Friedrich Willem, 98 n. My Lost Saints (episodio serie tv Philco, A. Penn, 1955), 50 Nadotti, Maria, 42 n., 63 n., 78 n., 87 n., 269 n. Naked City (film tv, A. Penn, 1958), 92 Nashville (Id., R. Altman, 1975), Nel fango della periferia (Edge of the City, M. Ritt, 1957), 61 Nelson, Ralph, 187 Nessuna pietà per Ulzana (Ulzana’s Raid, R. Aldrich, 1972), 203 n. Neumann, Kurt, 187 n. Newman, David, 17 n., 26, 104, 136139, 159 n. Newman, Paul, 17, 52, 55, 57 n., 61 s., 64, 67, 84, 266 Nichols, Leland L., 60 n. Nichols, Mike, 22, 117, 146, 223 n., 256 Nicholson, Jack, 66 n., 106, 216, 219222 Nielsen, Leslie, 54 n. Nixon, Richard, 59, 195 n., 198, 203 s., 219 Non si uccidono così anche i cavalli (They Shoot Horses, Don’t They?, S. Pollack, 1969), 180 Nordwig, Wolfgang, 201 Notte del giorno dopo, La (The Night of the Following Day, H. Cornfield, 1969), 219 92° all’ombra (92° in the Shade, T. McGuane, 1975), 221 O’Brian, Edmond, 166 O’Neill, Eugene, 91, 248 Obanhein, William, 169 Occhi della notte, Gli (Wait Until Dark, T. Young, 1967), 87

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Odets, Clifford, 102 Ollier, Claude, 15 Olsen, Theodore V., 183 Olson, Charles, 44 Omicidio allo specchio (Dead of Winter, A. Penn, 1986), 24, 39, 206, 212, 257-260, 264 Operazione diabolica (Seconds, J. Frankenheimer, 1966), 107 Oppenheimer, Joel, 44 Orgoglio degli Amberson, L’ (The Magnificent Amberson, O. Welles, 1942), 93 Oswald, Lee Harvey, 131 n. Ozerov, Yuri, 200 e n. Page, Geraldine, 115 n. Pakula, Alan, 117 Palance, Jack, 55 Panico a Needle Park (The Panic in Needle Park, J. Schatzberg, 1971), 36 n., 175 Pardon Me Boy, The (episodio serie tv Philco, A. Penn, 1955), 50 Parola ai giurati, La (Twelve Angry Men, S. Lumet, 1957), 61 Parsons, Estelle, 57 n., 124, 146, 266 Passione (Golden Boy, R. Mamoulian 1939), 102 Patterson, Patricia, 171 s. Peabody, Richard, 62 n. Peck, Cecilia, 267 Peck, Gregory, 24, 267 s. Peckinpah, Sam, 26, 207 Peerce, Larry, 180 Penn, Harry, 41 Penn, Irving, 31, Penn, Matthew, 55 n., 256, 260 Penn, Molly, 55 Perché un assassino (The Parallax View, A. Pakula, 1974), 117 Perry, Frank, 22 n., 101 n., 180, 220 e n. Petersen, Don, 224 n., 250 Petrie, Daniel, 248 Peverell Marley, J., 63 Pfleghar, Michael, 200 e n., Philco Television Playhouse (serie tv, 1948-56), 44 n., 46 s., 49 e n., 5052, 61, 62 e n., 122

Philco-Goodyear Television (serie tv dal 1951) 49, 61 Philippe, Claude-Jean, 77 n., 85 n. Piccolo grande uomo (Little Big Man, A. Penn, 1970), 23, 27 s., 65 s., 70, 73 s., 83, 88 n., 90 n., 96, 107 s., 129, 133, 147, 151, 158, 165, 172, 182-189, 191-195, 197 s., 211, 219, 226, 229 s., 239, 244, 248 n. Piscator, Erwin, 126 Più alto, Il (The Highest, episodio di Ciò che l’occhio non vede, A. Penn, 1973), 88, 200 e n. Playhouse 90 (serie tv, 1956-1961) 51-54 e n., 90 Playwrights ’56 (serie tv, 1955), 51 s. Polanski, Roman, 207 Pollack, Sydney, 22, 180, 207 Pollard, Michael J., 136 Polonsky, Abraham, 187 Ponte sul fiume Kwai, Il (The Bridge on the River Kwai, D. Lean, 1957), 120 Portrait of a Murderer (episodio serie tv Playhouse 90, A. Mann, 1958), 54 Poulton, Ivan, 275 Prédal, René, 119 e n., 133 e n. Preminger, Otto, 146 Prigioniero della paura (Fear Stikes Out, R. Mulligan, 1957), 61 Prince, Stephen, 256 n. Principe della città, Il (Prince of City, S. Lumet, 1981), 266 Producers Showcase (serie drammi tv, 1954-1957), 50 Psyco (Id., A. Hitchcock, 1960), 257 Putney Swope (Id., R. Downey Sr., 1969), 180 Pyle, Denver, 154 Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest, M. Forman, 1975), 219 Quando le leggende muoiono (When the Legends Die, S. Millar, 1972), 184 Quaranta pistole (Forty Guns, S. Fuller, 1957), 69

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Quarto potere (Citizen Kane, O. Welles, 1941), 92 s., 162 n. Quel freddo giorno nel parco (That Cold Day in the Park, R. Altman, 1969), 180 Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon, S. Lumet, 1975), 88 n. Quinn, Pat, 174 Quinterno, José, 115 n., 125 n., 266 Quinto potere (Network, S. Lumet, 1976), Ragazza di Tony, La (Goodbye Columbus, L. Peerce, 1969), 180 Ragazzi della 56a strada, I (The Outsider, F.F. Coppola, 1983), 251 Rauschenberg, Robert, 44 Ray, Nicholas, 69, 132 Ray, Robert B., 148 n. Redford, Robert, 67, 126 s., Reed, Rex, 123 n., Remick, Lee, 123, 124 n. Renoir, Claude, 44 Resnais, Alain, 37, 98, 101, 114 Ribelle dell’Anatolia, Il (America, America, E. Kazan, 1963), 88 n. Richards, Dick, 205 Richardson, Jack, 101, 182 Ritorno di Harry Collings, Il (The Hired Hand, P. Fonda, 1971), 203 n. Ritratti (The Portrait, A. Penn, 1993), 24 s., 260, 267, 269 Ritt, Martin, 21 n., 61, 127, 132 Rocky (Id., J.G. Avildsen, 1976), 222 Rohmer, Eric, 215 Rooney, Mickey, 44 Rose, Julie, 257 Rose, Reginald, 61 Rosenberg, Stuart, 21 n., 180 n., 207 Rossellini, Roberto, 98 n., 215 Rossen, Robert, 88 n. Roth, Philip, 180 Rotter, Stephen, 223 n. Rovida, Federico, 53 n. Rubens, Jan, 257 Rubin, Martin, 70 n., 155 n. Ruby, Jack, 131 n. Ruginis, Vyto, 265 n.

Rule, Janice, 54 n., 127 Rulli, Stefano, 242 n. Rullo di tamburi (Drum Beat, D. Davis, 1954), 187 n., Rush, Richard, 175 Russel, Ken, 224 n. Rusty il selvaggio (Rumble Fish, FF. Coppola, 1983), 251 Ryan, Jerry, 55 Salt, Barry, 164 n. Sarris, Andrew, 104 e n., 144 n., 146 s., 216 n. Scandalo al ranch (Rancho Deluxe, F. Perry, 1975), 220 e n., Schaffner, Franklin J., 21 n., 50 Schatz, Thomas, 180 n., 190 n., Schatzberg, Jerry, 36 n., 165, 175 Schlesinger, John, 180, 200 e n. Schulman, Arnold, 52 Scofield, Paul, 100 Scorsese, Martin, 172, 198 n., 212 Scott, George C., 275 Seagren, Bob, 201 Seeger, Pete, 168 s. Segal, Alex, 59 n. Sentieri selvaggi (The Searchers, J. Ford, 1956), 72 Senza un attimo di tregua (Point Blank, J. Boorman, 1967), 146 Serling, Rod, 50, 54 Serpico (Id., S. Lumet, 1973), 88 n. Sesti, Mario, 60 n., 63 s., 87 n. $64,000 Question, The (serie tv), 51 Shampoo (Id., H. Ashby, 1975), 204 n. Sharp, Alan, 203 e n., 210 Sherman, Eric, 70 n., 155 n, Sherman, George, 187 n. Shulman, Arnold, 50 Sica, Anna, 33 n., 56 -58, 66 s., 105 n., 125 s., 236 n., 249 n., 266 n. Siegel, Don, 217 Siegler, Ben, 265 n. Silver, Ron, 249 Simon, Art, 132 Simon, Michel, 100 Sindacato assassini (Murder, Inc, J.S. Rosenberg, 1960), 21 Sindrome cinese (The China Syndrome, 1979, J. Bridges), 117

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Slotkin, Richard, 35 e n., 189 n. Smight, Jack, 138 Soldato blu (Soldier Blue, R. Nelson, 1970), 187 e n. Sospetto, Il (Suspicion, A. Hitchcock, 1941), 20, 257 Spaccone, Lo (The Hustler, R. Rossen, 1961), 88 Spavaldo, Lo (Little Fauss and Big Halsey, S.J. Furie, 1970), 180 n. Spaventapasseri, Lo (Scarecrow, J. Schatzberg, 1973), 36 n. Spiegel, Sam, 20, 66 n., 120-124, 126 Spielberg, Steven, 23, 39, 199, 207, 212, 270 n. Splendore nell’erba (Splendor in the Grass, E. Kazan, 1961), 132 Spogliarello per una vedova (Promise Her Anything, A. Hiller, 1966), 138 Squalo, Lo (Jaws, S. Spielberg, 1975), 20 n., 199, 223, 250 Squillo per l’ispettore Klute, Una (Klute, A. Pakula, 1970), 211 Stagg, Bima, 270 Stander (B. Hughes, 2003), 270 Stanley, Kim, 166 State of the Union ((episodio serie tv Producers Showcase, A. Penn, 1954), 50 s. Steenburgen, Mary, 257 Steinbeck, John, 91 Stéphane, una moglie infedele (La femme infidèle, C. Chabrol, 1968), 176 n. Stern, Leonard, 250 Sterne, Laurence, 229 Stevens, George, 87 Stevens, Leslie, 54 s., 62, 85 Stolz, Eric, 272, 275 Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop, M. Hellman, 1971), 133 Strasberg, Lee, 56-58, 102, 115 n., 126, 266 e n. Strategia di una rapina (Odds Against Tomorrow, R. Wise, 1959), 88 n. Strongest, The (episodio di Ciò che l’occhio non vede, M. Zetterling, 1973), 200 n.

Sullavan, Margaret, 51 Surgal, Alan, 105 Surtees, Robert, 123 Swift, David, 183 n. Szondi, Peter, 77 n. Target-Scuola omicidi (Target, A. Penn, 1985), 24, 83, 90 n., 101, 108, 206, 247, 250-252, 255 s., 258260 Tarozzi, Bianca, 31 n. Taurog, Norman, 62 n. Tavoularis, Dean, 158 Taxi Driver (Id., M. Scorsese, 1976), 198 Taylor, Elizabeth, 87, 90 Tears of My Sister, The (episodio serie tv First Person, A. Penn, 1953), 122 n. Téchiné, André, 15 Thompson, Howard, 17 e n. Tirate sul pianista (Tirez sur le pianiste, F. Truffaut, 1960), 107, 137 Titicut Follies (F. Wiseman, 1967), 146 Tokyo Olympiad (Tôkyô Orimpikku, K. Ichikawa, 1965), 200 n. Toland, Jonh, 136 n. Tom Horn (Id., W. Wiard, 1980), 227 n. Tom Jones (Id., Richardson, 1963), 193 Tone, Franchot, 115 e n. Tootsie (Id., S. Pollack, 1981), 22 Topaz (Id., A. Hitchcock, 1969), 253 Torrebruna, Riccardo de, 268 Torrey, Beef, 221 n. Tournier, Jean, 250 Towne, Robert, 139-141, 221 s. Tram che si chiama desiderio, Un (A Streetcar Named Desire, E. Kazan, 1951), 58, 126 Treno, Il (The Train, J. Frankenheimer, 1964), 35, 101, 119, 250 Truffa che piaceva a Scotland Yard, La (Kaleidoscope, J. Smight, 1966), 138 Truffaut, François, 17, 89 s., 94, 103, 107, 114, 137 s., 148

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Indice dei nomi e dei film

Trumbo, Dalton, 117 Turgenev, Ivan, 275 Turroni, Giuseppe, 39 n., 179 n., 215 s. Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men, A. Pakula, 1976), 117 Tutti per uno (A Hard Day’s Night, R. Lester, 1964), 173 e n., Twilight Zone, The (serie tv), 54 Twombly, Cy, 44 Uccelli, Gli (The Birds, A. Hitchcock, 1963), 133, Ucciderò Willie Kid (Tell Them Willie Boy Is Here, A. Polonsky, 1969), 187 Ultima fuga, L’ (The Last Run, R. Fleischer, 1971), 203 n. Ultimi fuochi, Gli (The Last Tycoon, E. Kazan, 1976), 121 n., 222 Uomo a nudo, Un (The Swimmer, F. Perry, 1968), 101 Uomo da marciapiede, Un (Midnight Cowboy, J. Schlesinger, 1969), 55, 180 Urla dal buio (Inside, A. Penn, 1996), 24 s., 27, 39, 66, 74, 96, 102, 124 n., 129, 208, 259 s., 268-270, 272-275 Uspenskij, Boris Andreevic, 130 Va’ e uccidi (The Manchurian Candidate, J. Frankenheimer, 1962), 144 Valland, Rose, 101 Valle dell’Eden, La (East fo Eden, E. Kazan, 1955), 131 Van Gogh, Vincent, 200 n. Velvet Alley, The (episodio di Playhouse 90, 1959), 54 n. Vernaglione, Paolo, 82 n., 98 n., 108 n., 203 n., 244 n., 250 n. Vestito per uccidere (Dressed to Kill, B. De Palma, 1980), 257 Vidal, Gore, 50 e n., 52, 61 s. Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia, S. Peckinpah, 1974), 207 Voltaire, 194

Wadleigh, Michael, 168 Wake, Sandra, 136 n., 142-144 Warner, Jack, 144 s., 164 Wasko, Janet, 60 n. Wayne, Paula, 102 Weil, Susan, 44 Weiner, Leslie, 101 Weld, Tuesday, 146 n. Welles, Orson, 16, 91 e n., 94, 98, 108, 114, 162 n. Wellman, William, 118 Wiard, William, 227 Wicker, Tom, 224 Wiest, Dianne, 249 Wilder, Billy, 133 e n., 205 Wilder, Gene, 140 Wilder, Thornton 91, 124, 125 n. Williams, Tennesse, 76, 91, 133 Willingham, Calder, 185 Wilson, David, 119 n. Wilson, Micheal, 54, 121 s. Winner, Michael, 219 Winters, Shelley, 57 n. Wise, Robert, 88 n. Wiseman, Frederick, 146 Wolfe, Bernard, 50 Wolper, David, 201 n. Woman, The (episodio di Ciò che l’occhio non vede, M. Pfleghar, 1973), 200 e n. Wood, Robin, 17, 36 n., 38 e n., 65 e n., 87 n., 98, 167 n., 170 s., 179181, 184 n., 197 n., 206 s., 233 Wright, Teresa, 54 Wyler, William, 91, 121 n., 226 Yakuza (The Yakuza, S. Pollack, 1975), 207 Young, Terence, 124 n. Zambetti, Sandro, 133 n., 195 n. Zanuck, Richard, 250 Zelig (Id., W. Allen, 1983), 192 n. Zetterling, Mai, 200 e n. Zinneman, Fred, 60, 121 n., 134

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19/11/2008

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Finito di stampare nel mese di novembre 2008 presso la Microart’s S.p.A. - Recco (Ge)