Non capiterà di nuovo. Il cinema di Miyazaki Hayao

Disegnatore, sceneggiatore, regista e cofondatore dello Studio Ghibli, Miyazaki Hayao ha segnato, con originalità e tale

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Non capiterà di nuovo. Il cinema di Miyazaki Hayao

Table of contents :
Introduzione
L’«invasione» dei cartoni animati nipponici
Dagli esordi a Si alza il vento
Dalla televisione al cinema
L'esperienza personale nella definizione dello stile
Tra Oriente e Occidente
L'epoca delle donne
Bambine
Ragazze
Donne (e mamme)
Nonne, balie, sciamane e streghe
Sophie, sintesi di tutti i ruoli femminili
Le figure maschili
Veri nemici
Falsi avversari
Compagni d’avventura
Padri e mentori
Le molte incarnazioni di un solo nonno
La solitudine del protagonista
Creature di altri mondi
Smontare il meccanismo
Schede filmiche
Filmografia
Bibliografia
Indice delle opere e dei personaggi di Miyazaki

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Anna B. Antonini

Non capiterà di nuovo Il cinema di Miyazaki Hayao Edizione aggiornata a Si alza il vento





Alla mia famiglia e a Sandro, grazie per avermi sopportato sin qui.

Indice Introduzione L’«invasione» dei cartoni animati nipponici

1.

Dagli esordi a Ponyo sulla scogliera Dalla televisione al cinema

2.

L’esperienza personale nella definizione dello stile Tra Oriente e Occidente

3.

L’epoca delle donne Bambine – Ragazze – Donne (e mamme) – Nonne, balie, sciamane e streghe – Sophie, sintesi di tutti i ruoli femminili

4.

La figure maschili Veri nemici – Falsi avversari – Compagni d’avventura – Padri e mentori – Le molte incarnazioni di un solo nonno – Jirō Horikoshi, la solitudine del protagonista

5.

Creature di altri mondi

6.

Smontare il meccanismo

Note Schede filmografiche Filmografia Bibliografia Indice delle opere e dei personaggi di Miyazaki AVVERTENZE Seguendo l’uso giapponese, i nomi propri vengono preceduti dal cognome. Per quanto riguarda la lettura dei termini in lingua giapponese, il sistema di trascrizione adottato è l’Hepburn. Le vocali sono pronunciate come in italiano, le consonanti come in inglese. Si noti inoltre che: ch viene pronunciata come la c dolce italiana in cesto; g è sempre dura come in gatto; h è sempre aspirata come nella parola

inglese hot; j è pronunciata come la g dolce italiana in gio co; sh si pronuncia con il suono italiano di sc seguito da i; u, quando si trova tra k e sh, ts e k, d e k, risulta praticamente muta (se si trova, all’interno di una stessa parola, tra ts e k e poi tra k e sh, la prima è muta, mentre la seconda viene pronunciata); w si pronuncia u. La lunga sulle vocali ne indica l’allungamento. Seguendo l’uso nipponico, tutti i nomi propri giapponesi vengono preceduti dal cognome. Quando non diversamente indicato, le citazioni da libri, riviste o siti stranieri sono tradotte dall’autrice. RINGRAZIAMENTI Si ringrazia il dottor Hideyuki Doi, il dott. Daniele Bertozzi e la dott.ssa Kawadura Naho per la consulenza linguistica. Si ringrazia Maria Teresa Santinato (www.terilid.com) per aver realizzato il disegno di copertina”. La prima edizione è stata pubblicata con il titolo “L’incanto del mondo. Il cinema di Miyazaki Hayao” per Il principe costante Edizioni, 2005.

Introduzione

Nel 1997, dopo aver scritto e diretto sei film di successo e aver collaborato a vario titolo ad altre produzioni dello Studio Ghibli, Miyazaki deve affrontare un forte esaurimento fisico e nervoso, ma non ha il tempo di rimettersi perché sta lavorando a La principessa Mononoke e la sopravvivenza dello Studio dipende dall’onorare le scadenze di consegna del nuovo lungometraggio. A qualche anno di distanza il regista ha ammesso: Ora mi rendo conto che l’annuncio del mio ritiro è stato un po’ prematuro. Ma mentre ero impegnato su Mononoke Hime, ero veramente convinto che avrei abbandonato il lavoro. Ero sempre più debole e non riuscivo ad uscirne. Poiché la professione di regista richiede soprattutto talento e non è strettamente legata alla condizione fisica, ho lottato con tutto me stesso per terminare il film, soprattutto perché ero consapevole che la stabilità finanziaria della società dipendeva dall’uscita del film. […] Profusi tutte le mie energie in quell’ultima battaglia, mettendo a dura prova anche tutti i miei collaboratori, ai quali chiesi di dare il massimo, come se anche per loro si trattasse dell’ultima impresa. E loro, che erano già sotto pressione, ne risentirono parecchio. Molti ebbero un esaurimento nervoso, e cominciarono a prendersela con me. Io ero convalescente e sentivo il peso di anni di lavoro. Per fortuna tutti i sacrifici fatti non sono stati vani.1 Nel settembre del 2013, dopo aver diretto altri quattro lungometraggi e aver scritto le sceneggiature di I racconti di Terramare e de La collina dei papaveri, i due film diretti dal figlio Gōro, Miyazaki annuncia il proprio ritiro dovuto a un inasprimento delle condizioni di salute, in particolare della vista. L’occasione per dare l’annuncio è la proiezione di Si alza il vento alla Mostra del cinema di Venezia, un luogo che ha un significato particolare sia per le produzione dello Studio Ghibli, sia

per la loro diffusione in Italia: qui è stato presentato in anteprima Il Castello Errante di Howl, a suo modo un evento, visto che in genere i film dello Studio escono prima in Giappone e poi all’estero; e qui Miyazaki ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera nel 2008. In questi anni i suoi film – insieme a quelli realizzati da Takahata Isao e dagli altri registi dello Studio Ghibli – hanno contribuito in modo significativo al superamento di alcuni pregiudizi verso l’animazione giapponese, pregiudizi ben radicati, se non nel pubblico, in una larga parte della critica italiana. Ma allo stesso tempo questi film hanno creato nuovi pregiudizi, certo positivi ma comunque fuorvianti: considerato che gli standard di qualità dello Studio Ghibli sono molto elevati, le modalità produttive e la riconoscibilità del tratto e delle storie hanno finito per imporre uno stile e creare delle aspettative simili a quelle che si possono avere in occidente quando si sente parlare di animazione disneyana. Sarebbe fare un torto a Miyazaki stesso immaginare che l’animazione giapponese, così vasta per generi e stili e così diffusa, si esaurisca con lui; ma sarebbe anche ingiusto non riconoscere quanta visibilità abbia dato alla stessa animazione, non tanto nel consumo domestico ma nella presenza nelle sale cinematografiche. Inoltre i film di Miyazaki e dei suoi colleghi hanno contribuito a convincere anche gli spettatori più riottosi che l’animazione non è solo per l’infanzia e se anche lo fosse ci sono modi per narrare l’infanzia complessi, avvincenti e non convenzionali. Prima di Venezia, si può dire che è stata l’assegnazione dell’Orso d’oro nel 2002 a La città incantata – ex equo con il documentario Bloody Sunday di Paul Greengrass – a sancire la mutata considerazione dell’Occidente verso il cinema animato in generale e verso quello giapponese in particolare. Si tratta di riconoscimenti di cui è impossibile non tenere conto, dal momento che il cinema d’animazione soffre di uno status che lo relega a genere quando in realtà si tratta, più propriamente, di una tecnica cinematografica alternativa alla ripresa dal vivo. Nell’Elogio del film d’animazione,2 Alexandre Alexeieff afferma che il cinema è nato dalle mani di Emile Reynaud quando questi disegnava con infinita pazienza le immagini per il suo théâtre optique e che solo in seguito sono arrivati i fratelli Lumière. Per Alexeieff, che fu artista e animatore, il cinema è «un caso particolare di animazione, una sorta di sostituto industriale a buon mercato».3 Si trovi in questo pensiero la malizia della provocazione o la pura

constatazione della verità, resta il fatto che, come se non più della ripresa dal vivo, quella animata è capace di abbracciare tutti i registri narrativi, dal più grossolano al più raffinato. E come il cinema dal vivo, anche quello animato può vincere i festival. L’unica differenza è che lo fa di rado. Infatti, è difficile trovare un precedente al verdetto della giuria di Berlino: in tutti i festival non specialistici si possono premiare film d’animazione, ma di solito ciò avviene in categorie ben distinte dal cinema «in carne e ossa». Se quest’ultimo può permettersi di essere indifferente agli Orsi, ai Leoni, ai globi, alle Palme e a tutti gli altri trofei dorati, per i lungometraggi animati – soprattutto se non provengono da studi statunitensi – un riconoscimento ufficiale segna il confine tra l’essere distribuiti nelle sale e l’esserne tagliati fuori. Ma anche quando la via della programmazione cinematografica è aperta, non basta da sola a garantire la visibilità: spesso le copie disponibili sono poche e mal distribuite. Ancora, un titolo che, per temi e immagini, non si adegua al target infantile può essere fatto rientrare in esso attraverso la collocazione nella programmazione pomeridiana, salvo poi esserne allontanato con l’accusa di non proporre contenuti adatti ai bambini – e infatti non tutti i disegni animati sono destinati al mondo dell’infanzia! Per restare all’interno della filmografia di Miyazaki, La principessa Mononoke, nella sua prima edizione italiana, è stato inserito ripetutamente in programmazioni di cinema per bambini sebbene si tratti di uno dei film più adulti e drammatici tra quelli diretti da Miyazaki. La complessità della trama, il tono cupo, il crudo realismo di alcune scene di battaglia e i numerosi protagonisti e comprimari possono essere capiti e apprezzati da un pubblico in grado di mantenere la concentrazione e una tensione emotiva costante. Davanti a La principessa Mononoke un bambino di quattro o cinque anni o si spaventa o si annoia, così come si annoierebbe se fosse costretto a vedere Il trono di sangue di Kurosawa. Indirizzando verso La principessa Mononoke i bambini, si alimenta il radicato pregiudizio del cinema d’animazione giapponese genericamente «violento», pregiudizio che, nel caso dei film di Miyazaki in particolare e delle produzioni Ghibli in generale, è assolutamente ingiustificato. Nessuno porterebbe un bambino di quattro anni a vedere Salvate il soldato Ryan, ma se lo stesso argomento trattato nel film di Spielberg fosse affrontato in una pellicola a disegni animati non sarebbe una sorpresa se molti genitori accompagnassero al cinema i loro figli sicuri del carattere innocuo e spensierato di ciò che stanno per vedere.

In questo contesto per molti versi ostile è avvenuta, quasi quindici anni fa, la prima comparsa nelle sale italiane di un film di Miyazaki. Risale infatti al 2000 l’accordo stretto tra la Disney e la Tokuma Shoten, una delle più grandi case di produzione e distribuzione giapponesi, per l’edizione internazionale dei titoli vecchi e nuovi dello Studio Ghibli. Il film che doveva celebrare l’accordo era proprio La principessa Mononoke (1997): distribuito in pochissime copie negli Stati Uniti, uscito in Italia nelle settimane che precedevano la chiusura estiva dei cinema, il film, atteso da molti, è stato visto da pochissimi. La logica conseguenza tratta dalla Disney è stata che l’Occidente non era ancora pronto per queste pellicole. Solo la potenza dei premi internazionali e del passaparola ha sottratto La città incantata a una vita altrettanto difficile. Ma, anche prima di questo accordo, la distribuzione dei film di Miyazaki in Occidente è stata tormentata: l’atteggiamento distaccato del regista rispetto alle platee internazionali è anche il risultato di alcune esperienze sgradevoli, non solo una presa di posizione a priori. Esemplare in tal senso è la prima versione statunitense di Nausicaä della Valle del Vento (1984): allo scopo di rendere il film più accettabile per il pubblico anglofono, esso è stato amputato nelle immagini, alterato nei dialoghi e privato delle musiche originali composte da Hisaishi Jō. Il disappunto prodotto da questa discutibile operazione e le sue conseguenze sono espressi con chiarezza da Takahata Isao, socio e cofondatore dello Studio Ghibli: Da allora non abbiamo più concesso i diritti per l’estero senza esaminare accuratamente le condizioni che ciò implicava. Tutti i film sono cresciuti radicandosi profondamente nella cultura giapponese e non vengono pensati con concessioni per una futura esportazione. Censurarli è peggio che tradirli.4 Eppure, ecco subito pronto un altro tentativo di censura. Ne Il mio vicino Totoro (1988), Satsuki e la sorellina Mei fanno il bagno insieme al padre: per gli spettatori giapponesi è la rappresentazione di una situazione quotidiana e nel film essa serve a ripristinare la routine dopo il trambusto prodotto dal trasloco. Vedere delle implicazioni morbose in una scena tanto innocente e limpida è in sé perverso, ma per non correre rischi il distributore statunitense avrebbe preferito eliminare la scena insieme a quella in cui le sorelle saltano sui tatami della vecchia casa, perché si tratterrebbe di momenti troppo «culturalmente connotati». L’esperienza di Nausicaä ha spinto lo

studio a pretendere che non venisse effettuato alcun taglio e così Il mio vicino Totoro è stato distribuito all’estero solo nel 1993. L’accordo tra la Disney e la Tokuma Shoten avviene negli anni di Michael Eisner, chiamato alla direzione della Disney Company da Roy E. Disney e poi obbligato dallo stesso a dare le dimissioni prima della scadenza del contratto con l’accusa di aver trasformato l’eredità di Walt in un’impresa “rapace e senz’anima”. Con queste premesse è probabile che da un punto di vista strettamente umano sia stata una scelta difficile per Miyazaki e Takahata stringere accordi con Eisner ma, come entrambi hanno dichiarato in diverse occasioni, si trattava di una scelta di responsabilità e riconoscenza nei confronti della società che aveva permesso loro di produrre e distribuire alcuni dei più importanti titoli dello Studio Ghibli: la Tokuma stava infatti attraversando un momento di crisi finanziaria e avrebbe potuto trovare sollievo nell’accordo con la Disney. Come Eboshi a Tataraba, Miyazaki e il socio si trovano nel punto in cui convergono interessi potenzialmente in conflitto e devono accettare non un’ideale armonia ma il male minore. Per il mercato italiano l’accordo prevedeva l’uscita in sala de La principessa Mononoke e dei film successivamente prodotti, insieme all’uscita in dvd dell’intero catalogo Ghibli. Di quest’ultima parte dell’accordo è stata portata a termine solo l’edizione di Kiki consegne a domicilio, la cui prima versione presentava grossolani errori di compressione del segnale video. Nel 2001 la Disney cede i diritti per la distribuzione al di fuori degli Stati Uniti e la versione italiana de La città incantata è presa in carico dalla Universal; a partire dal 2004 i diritti per la diffusione in sala e in dvd sono acquisiti da Lucky Red che non solo ha curato la distribuzione di nuovi film ma ha riportato in sala quelli che possono essere definiti i “classici” di Miyazaki, da Il mio vicino Totoro a Porco Rosso. Lucky Red ha anche portato al cinema i due lungometraggi diretti da Gōro Miyazaki e altri titoli dello Studio Ghibli, in alcuni casi adottando una strategia pubblicitaria legata alla creazione di un evento imperdibile, come nel caso de La collina dei papaveri: il film è stato proiettato in sala solo per una sera e poi è stato subito reso disponibile in dvd. Indubbiamente, la maggiore facilità di accesso ai film ha permesso di rendere il cinema dello Studio Ghibli familiare al grande pubblico italiano come non lo era mai stato prima e come meritava di essere. Resta il fatto che pur traendo soddisfazione, anche economica, da questi accordi con il mercato occidentale, la

concezione di animazione dello Studio Ghibli non è cambiata ed è rimasta spiccatamente giapponese nelle ambientazioni e nelle storie. Se Disney è arrivato ovunque adeguandosi ai contesti culturali che voleva raggiungere, si può dire che i film Ghibli hanno iniziato ad arrivare ovunque quasi controvoglia e sicuramente senza cercare di piacere ed essere comprensibili in modo sistematico. Qualsiasi discorso sul cinema di Miyazaki Hayao deve allora tener conto della specificità culturale in cui esso nasce, ma anche delle specificità culturali in cui viene visto. Con questa premessa si può ben comprendere come nel caso dell’Italia – dove si produce poca animazione e se ne vede anche meno – la questione sia ancora più articolata che altrove. A partire dagli anni Settanta i bambini italiani sono cresciuti a contatto con due sistemi narrativi e culturali: quello offerto dai «cartoni animati» americani e quello proposto dagli anime giapponesi. Mentre familiarizzavano con i futon e il sake, i geta e i ramen – prima che divenissero oggetti desiderabili o cibi alla moda –, imparavano soprattutto a vedere sotto una luce nuova storie occidentali che avevano perso la capacità di esprimersi in una lingua corrente. Ogni traduzione è un tradimento, ma è attraverso questo processo che la narrativa per l’infanzia, le fiabe o la mitologia classica sopravvivono di generazione in generazione. Del resto, un film non è una ricerca filologica, ma un’azione artistica e creativa. Si deve comunque notare che queste accuse non si limitano alle appropriazioni di testi di una cultura diversa, anche se i toni sono meno scandalizzati quando le operazioni di adattamento avvengono all’interno di uno stesso sistema culturale. Ad esempio, il Pinocchio o la Biancaneve di Disney hanno sollevato le critiche di alcuni osservatori pedanti che non hanno trovato nel film una copia fedele della versione letteraria, ma è considerato più «normale» che questi film abbiano diffusione in Oriente ed è «legittimo» per un occidentale manipolare la propria cultura e quella altrui. È ancora difficile ammettere che possa accadere il contrario.

L’«invasione» dei cartoni animati nipponici La prima serie animata televisiva prodotta al di fuori degli Stati Uniti ad arrivare in Italia nel 1975, Vicky il vichingo, è una coproduzione della tedesca Munchen Merchandising e della Tōei Doga, il colosso dell’animazione giapponese. Il design dei personaggi e delle ambientazioni non tradisce alcuna provenienza orientale e permette alle avventure del piccolo vichingo di essere trasmesse la domenica all’ora di pranzo in compagnia di altre creature ideate da Hanna & Barbera. Le critiche prendono avvio un anno dopo, quando Rai Uno programma Heidi, una coproduzione tra la Munchen e la nipponica Zuiyo di grandissimo successo e di proporzionate polemiche. In Heidi – come in Marco (1976), in Rémi (1977-78) o in Anna dai capelli rossi (1979) – viene attaccata una presunta tendenza allo «scippo culturale» degli sceneggiatori e dei registi giapponesi che, incapaci di inventare storie originali, si impossesserebbero dei classici per l’infanzia occidentali e, non paghi di ciò, arriverebbero a tradire la loro stessa cultura per rendere i prodotti più appetibili. Gli interventi di giornalisti, psicologi e critici cinematografici e televisivi in tal senso sono moltissimi, spesso allarmanti e raramente sereni.5 Queste opinioni sono importantissime da un punto di vista sociologico, ma allo stesso tempo forniscono poche informazioni tecniche attendibili. Una delle leggende allora più diffuse, infatti, riguarda la forma e la grandezza degli occhi dei personaggi animati: i character designer giapponesi li disegnavano così sia per irretire meglio i bambini europei attraverso un tipo fisico familiare, sia per ovviare a un presunto senso di inferiorità prodotto dall’avere occhi stretti e allungati. In realtà, questi grandi occhi sono un omaggio ai canoni fissati da Tezuka Osamu, padre del fumetto giapponese moderno e una delle personalità più importanti dell’animazione internazionale, capace di far coesistere nei suoi lavori elementi visivi sperimentali, arti figurative «alte» e intrattenimento popolare. I grandi occhi delle creature di Tezuka erano al contempo citazione di quelli di Bambi e implicito omaggio al talento di Walt Disney; in questo modo si sono tramandati alle successive

generazioni di animatori.6 Un’altra leggenda nata in quegli anni è difficile da sfatare ancora oggi. Con l’arrivo in Occidente dei «robottoni»7, si diffonde la voce che in Giappone esistano potenti e inquietanti computer capaci di ideare, disegnare e animare non solo un’intera serie televisiva, ma persino un lungometraggio. Questa leggenda ha un risvolto paradossale: il primo lungometraggio animato a usare fondali realizzati al computer è La sirenetta (1989) dei disneyani John Muskers e Ron Clements, mentre Hanna & Barbera sono stati i primi a costruire un repertorio computerizzato di movimenti dei personaggi. Per completare il paradosso, si può aggiungere che, fino al suo ritiro, Miyazaki è stato tra i pochissimi a usare la computer graphic con estrema parsimonia e a disegnare completamente a mano tutti i propri lungometraggi.8 C’è poi un altro fatto che indebolisce la crociata contro la serialità dei disegni giapponesi: nessuno degli accusatori spreca una critica per i fondali approssimativi di Hanna & Barbera, per la becera ripetitività delle versioni più recenti di serie storiche come Braccio di Ferro e Tom e Jerry o per lo scadimento dei personaggi Warner dopo che Tex Avery, Chuck Jones e Fritz Freleng hanno smesso di disegnarli e animarli. Il problema, infatti, non sono le scuole o i talenti, ma i tempi e i budget televisivi, entrambi contratti ed esigui. Se a riguardo dei disegni animati molti sono caduti nel trabocchetto del pregiudizio, dal 1978 – quando iniziano a diffondersi i robotsamurai di Nagai Gō9 e le saghe fantascientifiche di Matsumoto Reiji10– le cose da un lato peggiorano, ma dall’altro generano un sussulto di nostalgia che fa guardare a Heidi come a un raro esempio di edificante e lodevole animazione per l’infanzia.11 Non è un caso che si torni a parlare di Heidi, perché la bambina a cui «sorridono i monti e le caprette fanno ciao» è probabilmente la protagonista di una delle serie animate più note e amate in Italia e alla sua realizzazione ha lavorato anche Miyazaki. Certo Conan, Lupin e Sherlock Holmes – tutti personaggi che devono allo stesso Miyazaki la loro fortuna – sono certamente molto conosciuti e apprezzati, ma solo Heidi può vantare un pubblico molto eterogeneo per età e gusti. Chi oggi ne rivede i cinquantadue episodi continua a essere incantato dalla finezza del disegno, decisamente inusuale per una produzione televisiva. Gli elementi naturali – vette alpine, prati fitti di fiori e di erba, grandi alberi fruscianti, animali amichevoli, soffici nuvole bianche che fluttuano su un cielo cristallino – sono riprodotti con estrema precisione e realismo

e, allo stesso tempo, si distinguono per uno stile inimitabile. Anche gli elementi antropizzati del paesaggio e dell’ambientazione non mancano di un loro glaciale fascino: i vasti e severi saloni, i palazzi dell’alta borghesia di Francoforte, l’acciottolato delle strade e le carrozze contribuiscono a trasmettere lo stato d’animo della protagonista, trascinata lontano dalle cose e dalle persone che ama, frastornata e triste eppure curiosa di quanto la circonda. Quello in cui Heidi cresce è un mondo mosso da uno spirito vitale generato dal disegno e capace di trasformare tutti i paesaggi possibili in un unico scenario perfettamente definito. Il mondo di Heidi è un prodotto dell’immaginazione di Miyazaki, il cui talento ha giocato un ruolo fondamentale nella costruzione dell’immaginario infantile tanto giapponese quanto italiano. Oggi i suoi film sollevano gli entusiasmi e gli elogi di chi non ricorda di aver stroncato alcune produzioni che sono legate al suo nome, da Anna dai capelli rossi a Marco, da Lupin III a Conan, il ragazzo del futuro.12 Può darsi che i media abbiano mutato atteggiamento perché il successo aiuta a dimenticare in fretta le critiche e le «crociate» precedenti. Senz’altro molto è cambiato anche perché alcuni bambini degli anni Settanta ora non solo guardano la televisione, vanno al cinema, leggono manga e fumetti, ma producono storie o scrivono libri e articoli che nascono da quelle passioni infantili. L’unico fatto certo è che in tutti questi anni Miyazaki non ha mai deviato dal suo cammino. Il progetto su cui il regista si è sempre concentrato è simile a quello di molti animatori di cultura e provenienza diverse: un progetto che tende a dare al cinema di animazione credibilità, spessore e autonomia rispetto al cinema dal vivo. Per raggiungere questo scopo è necessario fondare un mondo a disegni in cui tutte le parti si articolino senza limitarsi a ricalcare il mondo sensibile. Una meta così ambiziosa si raggiunge attraverso l’attenzione ai dettagli, tendendo sempre alla complessità, mai alla semplificazione dei segni grafici, delle storie o delle psicologie dei personaggi. A rendere ancora più eccezionale il caso dello Studio Ghibli va aggiunto il clamoroso successo commerciale che accompagna l’uscita in Giappone di ogni suo film. Per queste ragioni Miyazaki viene indicato già da qualche anno come il «dio dell’animazione», lo stesso titolo riservato a Tezuka. Da parte di molti fan e critici, dunque, non si parla più di esseri umani dediti con impegno e passione a un lavoro che amano, ma ci si riferisce a divinità inscalfibili e perfette. Come

osserva Oshii Mamoru – regista di Ghost in the Shell (1995) e Avalon (2000) –, le intenzioni sono senza dubbio buone, ma il risultato lo è molto meno, perché il peso di una simile canonizzazione viene lasciato sulle spalle del solo Miyazaki, trasformato così in un essere mitico, bidimensionale, sottoposto a una sorta di ricatto che lo obbliga implicitamente a ricambiare l’onore e a coincidere con un’immagine già definita. Di questo rischio se ne è avuta prova proprio alla notizia del ritiro, accolta da molti come una sorta di “tradimento”. L’eccezionalità del talento e dei risultati ottenuti grazie a esso stanno invece nel non mancare di umanità, nel riconoscere di avere un carattere difficile e di aver bisogno di riposo e nell’esprimerlo in un modo franco e diretto che non solo non si conforma agli stereotipi sui giapponesi, ma è assai raro da trovare anche in Occidente. Miyazaki non è affatto una divinità inaccessibile, ma piuttosto un uomo capace di non dimenticare le proprie contraddizioni, le debolezze e i momenti di grandezza e generosità che nascono dai limiti umani. Il suo mondo animato, le sue creature, si reggono su questo nodo di sentimenti assonanti e dissonanti. E su una logica di ferro.

Dagli esordi a Si alza il vento Nel discorso pronunciato il 22 maggio 1988 al Nagoya City Imaike Hall subito dopo la proiezione di alcuni suoi film, Miyazaki ha dichiarato che solo all’avvicinarsi dei cinquant’anni poteva affrontare la propria infanzia e parlarne con relativa serenità. Ricordare i primi anni di vita lo portava infatti a fare i conti con la storia della sua famiglia e a mettere in discussione le scelte e le posizioni dei pur amati genitori. Se nei suoi film non ci sono soluzioni immediate, se non c’è una divisione manichea tra Bene e Male, se la dialettica prevale sull’imposizione, dipende anche da un puro fatto biografico: fin dall’infanzia il regista ha avuto la consapevolezza che ciò che per lui era bene per molte persone era male, perché la protezione e il benessere di cui godeva dipendevano da un’attività potenzialmente portatrice di morte. Nato il 5 gennaio del 1941 da una famiglia agiata residente alla periferia di Tōkyō, Miyazaki Hayao sembra avere davanti a sé una vita senza sorprese anche negli anni drammatici e precari del secondo dopoguerra: la ditta di famiglia, la Miyazaki Airplanes, costruisce componenti per aerei in tempo di guerra, ma continua a esistere anche in tempo di pace. Per Hayao non ci sarebbero state difficoltà a entrare in azienda e aggiungere il suo nome a quello del padre e dello zio. A questo proposito, la sua posizione è però sempre stata chiara: Durante la seconda guerra mondiale mio padre lavorava in una fabbrica che costruiva aeroplani e io non ho mai avuto l’intenzione di continuare a lavorare nel settore meccanico. Si trattava di un’attività proficua durante la guerra, ma in seguito l’aviazione militare giapponese scomparve. L’alluminio venne impiegato per fare cucchiai e forchette ed è quello che anche la mia famiglia ha fatto. Da bambino detestavo l’idea che mio padre si guadagnasse da vivere contribuendo alla guerra.13 Ogni giorno il giovane Hayao è messo di fronte al fatto di godere di privilegi impensabili per la maggior parte dei suoi coetanei, come frequentare continuativamente la scuola e partecipare alle attività

ricreative. La convinzione di occupare sin dalla nascita, senza alcun merito né ragione, un posto privilegiato lo rende precocemente sensibile alle questioni sociali, una caratteristica che non lo abbandonerà per il resto della vita. L’ammissione alla Gakūshuin University, la stessa in cui studiano gli eredi al trono imperiale, e lo studio delle materie economiche sembrano riavvicinarlo alla famiglia, ma si tratta di un passo compiuto con una certa furbizia e che intende proteggere una passione mai sopita, anche se spesso frustrata, per il disegno. A questo proposito Miyazaki ricorda: Ero un pessimo studente di economia perché, dall’età di diciotto anni, ho dedicato tutto il mio tempo al disegno. Fin dai tempi del liceo volevo fare animazione senza peraltro conoscere le tecniche per farlo. Non volevo frequentare la scuola di Belle Arti per imparare la tecnica perché non mi piaceva studiare. Perciò ho scelto la facoltà di Economia, perché era la sola di tutta l’università in cui non c’era bisogno di lavorare troppo! Ciò mi ha permesso di avere quattro anni di libertà: molto tempo libero per creare in cambio di un impegno minimo.14 L’università gli offre anche l’occasione di aderire a un circolo dedicato alla letteratura per l’infanzia in cui vengono letti testi di narrativa e fumetti giapponesi e occidentali. Non è da escludere che questa intensiva esposizione a racconti prodotti da culture e stili diversi abbia lasciato un segno nella successiva produzione dell’autore, a cominciare dalla sua capacità di guardare il mondo sposando il punto di vista dei bambini. Dopo anni passati a disegnare aerei e carri armati, dopo aver cercato di imitare i manga di Tezuka Osamu – e averli poi distrutti perché troppo pedissequamente uguali al modello –, dopo aver letto libri per bambini e scritto una tesi sull’industrializzazione giapponese postbellica, Miyazaki entra alla Tōei Doga e nel 1963, finiti i tre mesi di tirocinio, esordisce come intercalatore.15 Nel dopoguerra sia la produzione di fumetti sia quella di film animati erano in grande espansione. In quest’ultimo campo in particolare la sperimentazione e lo scambio di idee con i colleghi stranieri, interrotti dal conflitto, riprendevano con maggior forza grazie agli incoraggiamenti da parte del Civil Information and Education Section, l’organo del governo di occupazione che controllava la produzione

culturale e l’informazione. Ancora più rilevante in termini produttivi si è rivelata la richiesta, fatta a partire dagli anni Sessanta, di programmi con cui costruire i palinsesti televisivi. Almeno fino alla crisi economica degli anni novanta che ha messo in discussione un sistema produttivo diventato anche un sistema di organizzazione sociale, il paese ha reagito alla crisi post-bellica investendo su una produzione concorrenziale. In un simile contesto le regole che valgono per la produzione di auto o microchip valgono anche per l’animazione: tempi serrati, budget ridotti. Negli studi di animazione, una mole considerevole di lavoro manuale e artigianale era spesso svolta da lavoratori a contratto che venivano licenziati alla fine di ogni progetto per poi essere assunti di nuovo.16 Nelle condizioni di lavoro imposte dai tempi televisivi, gli animatori giapponesi hanno messo a punto una serie di espedienti tecnici e narrativi che permettono di risparmiare sul numero di disegni senza compromettere l’intensità emotiva dell’azione: Tecnicamente la faccenda si traduce così: non più 2 fotogrammi per ogni disegno, ma 5, anche 6, talvolta anche di più. Ovvero quando ci si muove lo si fa a (più o meno percettibili) scatti, mettendo da parte un elemento fondamentale dello stile americano: la fluidità. […] Le animazioni risparmiano naturalmente sui movimenti intermedi, lasciando quegli estremi […] fissi per varie pose. Così il personaggio che guarda atterrito una situazione avrà la goccia di sudore (tipica) ferma sulla tempia e un’enorme bocca a lungo spalancata. Il pensiero del personaggio o il racconto del narratore commentano fuori campo l’emozione evidente. […] Spesso i personaggi in avvicinamento sono risolti senza disegni intermedi, ma con dissolvenze incrociate. […] Le inquadrature sono scelte in maniera funzionale alla limitatezza dell’animazione e sono variate continuamente. E poi ci sono i movimenti di macchina, veri optional senza costi effettivi. Un primo piano fisso può essere ripreso con una lenta zoomata in avvicinamento, e reso ancora più particolare con la rotazione dell’obiettivo, o ancora con cambi di intensità di luce. Tutte operazioni che si fanno sotto macchina e che non prevedono il lavoro, e il costo, degli animatori.17 Iniziare una carriera nel mondo dell’animazione significa adeguarsi a questi vincoli, ma le ambizioni dell’intercalatore Hayao non sono

soddisfatte da un lavoro minuzioso e ripetitivo, per il quale non serve un particolare talento. Già deciso a lasciar perdere, assiste alla proiezione di un film di Lev Atamanov, Sněznaja koroleva (La regina delle nevi, 1957): come già era accaduto con Hakujaden (Il serpente bianco, 1958) di Yabushita Taiji, il film lo rassicura sulla capacità dei disegni animati di esprimere semplici, potenti e oneste emozioni. La speranza di poter fare un giorno qualcosa di simile trattiene Miyazaki dal cambiare mestiere. Nel 1964 è nominato responsabile dell’animazione dei key-frame della serie Shōnen ninja kaze no Fujimaru (Fujimaru il giovane ninja del vento); nel 1971 lascia la Tōei per la APro e nel 1973 passa alla Zuiyo Company (poi Nippon Animation) dove contribuisce in vari ruoli (scenografo, character designer, sceneggiatore, regista) alla realizzazione, tra gli altri, di Heidi (1974), Marco (1976), Conan, il ragazzo del futuro (1978) e Anna dai capelli rossi (1979). Nel 1979 dirige per la Tōkyō Movie Shinsha il suo primo lungometraggio, Lupin III: il castello di Cagliostro.

Dalla televisione al cinema Tra le produzioni televisive a cui Miyazaki ha partecipato ne vanno ricordate due: Conan, il ragazzo del futuro e Il fiuto di Sherlock Holmes (1984). Liberamente tratto dal romanzo The Incredible Tide dell’americano Alexander Key, Conan racconta la storia dei sopravvissuti al terzo conflitto mondiale dal punto di vista di un ragazzo che non ha conosciuto altro mondo se non la vasta distesa d’acqua punteggiata di isole che ha preso il posto dei cinque continenti. Immemore della catastrofe a cui il cattivo uso della tecnologia ha portato l’umanità, la classe dirigente dell’insediamento di Industria cerca di ripristinare lo stesso ordine economico, politico e militare esistente prima della guerra. Sull’isola di High Harbor, invece, le persone vivono pacificamente dopo essere riuscite a ristabilire un equilibrio con la natura e i suoi elementi. È inevitabile che queste due diverse filosofie di vita finiscano per scontrarsi e il futuro dell’umanità si giochi sulla pelle del dottor Rao, custode del sapere necessario per produrre energia solare, e della nipote Lana. Ideatore dei personaggi e dei numerosi macchinari presenti nella storia, autore dei layout, dello storyboard e della sceneggiatura, con Conan Miyazaki debutta come regista e dà alla storia un’impronta riconoscibile, concentrando in ventisei episodi temi e soluzioni visive che verranno sviluppati negli anni successivi. Ogni episodio è stato realizzato con tutta la precisione e la ricchezza concesse dai tempi televisivi e le scenografie combinano elementi naturali a vecchie e nuove tecnologie, producendo effetti di grande suggestione: i rampicanti crescono sulla carcassa di una navicella spaziale ormai inservibile; la plastica viene recuperata per estrarne il petrolio, una vecchia bicicletta arrugginita è salutata come un tesoro. Ambienti e oggetti sono disegnati in modo realistico: le navi, gli aerei, i robot mostrano le ancore, gli ingranaggi e le leve che li muovono e la mano che li disegna non è mai compiaciuta né esibisce il suo talento, ma è gioiosa e felice come può esserlo un bambino mentre guarda che cosa si nasconde dentro ai giocattoli. Le linee sono fluide, i visi espressivi e i colori brillanti o drammaticamente cupi: ai neri sotterranei in cui gli operai lavorano in condizioni misere per la gloria dell’ottuso Lepka si alternano isole un tempo sterili che ora brillano di infinite gradazioni di verde e trasmettono la piena armonia di

un mondo sopravvissuto ai disastri provocati dall’umanità. Nel presentare gli eccezionali poteri di una generazione destinata a ricostruire il mondo degli uomini, Miyazaki gioca sull’ironia e sul paradosso: l’eroe protagonista è magrolino, con i capelli arruffati e un’enorme bocca sorridente, ma trasporta sulle spalle pesi incredibili, resiste in apnea per moltissimo tempo ed è estremamente agile; il compagno di avventure Jimsey manifesta la sua forza straordinaria divorando ogni tipo di cibo, eccedendo nel bere e fumando; Lana possiede il dono di leggere il cuore e la mente di tutte le creature, è posata, determinata e a volte impaurita, ma le doti e la straordinaria saggezza che la caratterizzano non sono mai appesantite dalla retorica o dal moralismo. Le diverse inclinazioni dei personaggi sono rese in modo approfondito e articolato: davanti agli occhi degli spettatori si muovono individui a tutto tondo, non figure di cartone. E se i «buoni» hanno le loro debolezze, i «cattivi» hanno le loro ragioni, tanto che un personaggio negativo non deve necessariamente restare tale fino alla fine della storia. Se Conan sviluppa gradualmente una vicenda complessa variando di continuo il ritmo della narrazione, ogni episodio di Sherlock Holmes è modellato su uno schema preciso in cui all’attesa segue il crimine e al crimine seguono la soluzione e la punizione dei colpevoli. All’interno di questa struttura Miyazaki riesce però a inserire le cose che più lo appassionano: gli aerei, i meccanismi curiosi, i paesaggi naturali e gli eroi umanissimi. In particolare, l’episodio intitolato Le bianche scogliere di Dover anticipa molte caratteristiche del personaggio di Gina, la donna amata da Marco Pagot, l’aviatore deluso dall’umanità e da se stesso protagonista di Porco Rosso (1992). La governante di Holmes, Marie Hudson, si trova infatti costretta a rivivere una tristissima pagina della sua vita, ovvero la morte del marito, un pioniere del volo vittima di un incidente. Le immagini che riassumono visivamente il flashback assomigliano a vecchie foto color seppia dei primi del novecento e sono simili alle foto che su una parete dell’Hotel Adriano rappresentano il passato di Porco Rosso e dei suoi compagni di volo. Sebbene il tono dell’episodio televisivo sia più umoristico e scanzonato – in particolare quando racconta dell’amore folle provato da tutti i piloti per Marie e della loro delusione per il suo matrimonio – non manca di quella malinconia e di quel doloroso rimpianto che caratterizzano Porco Rosso ma anche Si alza il vento (2013), un film che per la sua

natura di congedo racchiude in sé tutti gli elementi tipici dell’universo costruito e animato da Miyazaki nel corso degli anni. Le bianche scogliere di Dover ha anche un altro legame con Porco Rosso: il nome del protagonista, Marco Porcellino, è un omaggio a Marco Pagot, titolare dello studio che ha coprodotto Il fiuto di Sherlock Holmes, figlio e nipote di due pionieri dell’animazione italiana. È quanto mai ironico che, proprio negli anni in cui l’Italia era percorsa dall’indignazione verso i cartoni animati giapponesi, due talenti provenienti dall’Italia e dal Giappone riuscissero a realizzare insieme un programma televisivo curato, divertente e piacevole da rivedere anche a distanza di anni. Lavorando per la televisione, Miyazaki stringe amicizie e legami affettivi destinati a durare per tutta la vita. Alla Tōei incontra la collega ōta Akemi, che sposa, e Takahata Isao, con cui collabora in numerose occasioni e con cui divide la stessa idea di animazione attenta ai dettagli, espressiva e complessa. In una parola: cinematografica. Da più di trent’anni la loro collaborazione si fonda sulla stima reciproca, sulla complementarietà e su animate, a volte furibonde, discussioni: Takahata non manca di sottolineare l’irruenza e lo spirito combattivo di Miya-san, appena temperati dall’età; mentre Miyazaki non perde occasione per ironizzare sulla passione di Paku-san per le storie lacrimevoli. Spesso l’incontro di due inclinazioni così diverse si è trasformato in uno scontro aperto. Miyazaki ricorda che per Nausicaä della Valle del Vento (1984) aveva voluto il collega e amico come produttore ma: Le nostre idee sulla realizzazione del film erano completamente diverse. Se discutevamo un piano di produzione, non c’era verso che arrivassimo a un accordo. […] In verità un regista non può produrre il lavoro di un altro regista. Se i due hanno una discussione faccia a faccia il risultato è una carneficina.18 La consapevolezza dei limiti e delle difficoltà che comporta l’essere produttori di un collega e amico non ha comunque impedito ai due registi di assegnarsi a più riprese l’ingrato ruolo, e sempre con ottimi risultati. Nel 1968, desiderosi di lasciare la televisione per il cinema, avviano un ambizioso progetto intitolato La grande avventura del

piccolo Principe Valiant. Il film è un omaggio allo stile semplice e flessibile di Mori Yasuji, il mentore di Miyazaki alla Tōei; a dispetto della sua gradevolezza, rimane nelle sale solo per breve tempo. Per Miyazaki e Takahata si tratta comunque di un’occasione preziosa, durante la quale mettono alla prova i rispettivi talenti e iniziano a definire un sistema di produzione tanto efficace quanto insolito per il mondo dell’animazione giapponese: tutti sono invitati a contribuire al progetto senza distinzione di gerarchia e anzianità e, perché ciò sia possibile, lo storyboard e il trattamento della sceneggiatura sono messi a disposizione di tutto lo staff. La realizzazione del loro primo film li rende consapevoli di come sia difficile trovare produttori o studi di animazione disposti a investire in standard tecnici e artistici tanto eccezionali. Al tempo stesso capiscono che tale eccezionalità ha bisogno non solo di nuove energie, ma soprattutto di una gestione delle stesse che abbia regole pensate su misura. Per soddisfare tutte queste esigenze Miyazaki e Takahata fondano, nel 1985, lo Studio Ghibli, battezzandolo sì con il nome del vento, ma soprattutto con il nome di un aereo da guerra italiano di cui Miyazaki ama particolarmente il design. La sede attuale dello Studio Ghibli si trova a Koganei19, un sobborgo di Tōkyō, e al suo interno è possibile gestire tutte le fasi di produzione e postproduzione delle immagini. Solo a partire da La città incantata (2001), è stata delegata una parte del lavoro allo studio di animazione coreano D.R. Digital Studio, una delle migliori società di produzione di immagini digitali del mondo, che ha dato prova delle sue capacità in altri due lungometraggi animati giapponesi di notevole complessità visiva ovvero Jinrō (1999) di Okiura Hiroyuki e Metropolis (2002) di Rintarō. Subappaltare una parte della produzione non è stata una decisione facile, ma si è resa necessaria per rispettare le scadenze nonostante la riduzione del personale causata dalla crisi economica. Riduzione comunque contenuta il più possibile, dal momento che lo studio ha una politica di trattamento dei dipendenti piuttosto atipica. Da sempre il coinvolgimento professionale dei due registi non si è limitato unicamente agli aspetti creativi e produttivi, ma si è concretizzato anche nell’attività sindacale, sulla base della convinzione che solo un lavoratore tutelato è un lavoratore disposto a dare il meglio di sé. Nel 1964 Miyazaki è già segretario del sindacato

laburista e partecipa a diverse manifestazioni avviate da una vertenza sorta poco dopo il suo arrivo alla Tōei. Nelle fasi successive della sua vita creativa l’esperienza nel sindacato si ripresenterà spesso con forza, e la stessa dialettica sindacale è riflessa nella struttura dello Studio Ghibli, dove non solo il confronto collettivo ha un ruolo importante ma l’eccellente livello produttivo è raggiunto assicurando allo staff un adeguato trattamento economico. Queste condizioni, per quanto eccezionali, non sono idilliache e trovare un posto è complicato alla Ghibli come altrove. Parlando di Kiki consegne a domicilio (1989) e de La città incantata, Miyazaki ha fornito un’illuminante chiave di lettura dei due film, assimilando le avventure delle protagoniste a un esordio nel mondo dell’animazione. In particolare, il viaggio di Chihiro potrebbe essere inteso come allegoria di un viaggio all’interno dello studio: Mi identifico con il ragnesco e impegnatissimo Kamaji, mentre la strega Yubaba è il signor Suzuki, il presidente dello Studio Ghibli. Il funzionamento e l’organizzazione del bagno termale sono in effetti molto simili a quelli della nostra società. Chihiro potrebbe essere considerata una giovane disegnatrice appena arrivata. Quando arriva, si imbatte in Yubaba che urla e impartisce ordini a tutti. Nel frattempo, Kamaji è costretto a lavorare moltissimo per obbedire agli ordini di Yubaba. Ha talmente tanto lavoro che non gli bastano più le braccia e le gambe per finirlo. Per quanto riguarda Chihiro, deve rendersi utile se non vuole che Yubaba la faccia sparire per sempre, praticamente il licenziamento!20 Anche in Si alza il vento è ricalcato un modello simile: Jirō Horikoshi arriva alla Mitsubishi Internal Combustion Engine Co ed è accolto dal suo superiore, il signor Kurokawa, nervoso, autoritario e dai modi spicci. Kurokawa mette subito alla prova il giovane progettista affidandogli un lavoro di per sé inutile ma pensato proprio per testarne l’abilità, la flessibilità e la capacità di eseguire sotto pressione un lavoro assegnato. Ancora più importante però è l’avviso che il neoassunto progettista riceve dal suo superiore riguardo al mischiare lavoro e amicizia. Quando Jirō chiede di avere nella squadra che progetterà lo Zero anche l’amico Honjo, Kurokawa rifiuta, assegnando il secondo alla squadra che progetta un nuovo modello di bombardiere

in modo da evitare che la competitività possa compromettere un’amicizia importante per la serenità (e dunque per la produttività) di entrambi i progettatori. Anche nello Studio Ghibli sono numerose le dichiarazioni che testimoniano la tensione, l’aggressività reciproca e la stanchezza che travolgono tutto lo staff al termine della realizzazione di progetti faticosi come, ad esempio, Principessa Mononoke (1997). Ma tutti questi scontri di personalità e di idee hanno trovato il modo di tradursi in opere armoniose e perfette, in cui il genio del singolo è supportato dalla professionalità di tutti. Per quanto questa organizzazione funzioni, non bisogna commettere l’errore di crederla condivisa da tutto l’universo dell’animazione nipponica. L’attaccamento di Miyazaki e Takahata a un mondo di scontri dialettici e rivendicazioni solleva, al contrario, qualche ironia tra i colleghi. Oshii Mamoru ha dichiarato che «per loro fare un film resta ancora una sorta di estensione del movimento sindacale», aggiungendo che lo Studio Ghibli potrebbe essere paragonato al Cremlino dei tempi che furono, con Miyazaki come presidente, Takahata nel ruolo di segretario di partito e Suzuki a capo del Kgb.21 I lungometraggi dello Studio Ghibli sono eccezionali così come lo sono le condizioni in cui vengono realizzati. Per il produttore Suzuki Toshio è un fatto tanto chiaro quanto inevitabile: Credo che lo Studio Ghibli occupi una posizione unica non solo in Giappone, ma in tutto il mondo. Ghibli produce soprattutto lungometraggi d’animazione originali. Poiché produrre film di questo tipo comporta sempre molti rischi, la maggior parte delle società di produzione producono film animati per la televisione o per il mercato dell’home video. […] L’obiettivo dello Studio Ghibli è produrre film di un tale livello qualitativo da attirare un pubblico molto vasto; al tempo stesso, vogliamo fare uscire i film d’animazione dal ghetto nel quale sono stati relegati da troppo tempo.22 Per Takahata e Miyazaki la nascita dello Studio Ghibli non ha comportato solo la soddisfazione di costruire, film dopo film, un mondo immaginato e inseguito dagli esordi. La sopravvivenza e la crescita di

un sogno si fondano sulla costanza, sul duro lavoro e sul perfetto equilibrio tra quanto si investe e quanto si ricava. Ogni forma artistica ha conosciuto nella sua storia il momento in cui è diventata merce di scambio. Sebbene sia diffusa la visione romantica dell’artista che non scende a compromessi e cresce il suo talento nella povertà di mezzi, nell’industria cinematografica c’è forse maggiore grandezza nel tutelare la propria arte quando questa richiede cospicui mezzi e vasti apparati. Se il cinema è un’industria costosa, il cinema d’animazione lo è ancora di più perché esso anima i disegni e gli oggetti senza vita con la folle onnipotenza del dottor Frankenstein. Non si tratta di creare una storia, ma di costruire un universo con tutte le sue relazioni, i suoi regni naturali, le sue leggi. Tanti più dettagli ci saranno, tante più sfumature verranno previste, tanto più grande sarà il talento in gioco. O tanto più grande sarà la sua insolenza. In ogni caso i mezzi difficilmente saranno esigui. Nella continua e felice ricerca di ciò che è bello da vedere e complesso da realizzare, lo Studio Ghibli non può prescindere dagli incassi dei singoli film. L’anomalia del caso in questione è confermata proprio dall’aspetto economico: i titoli dello Studio sono accompagnati da recensioni assai lusinghiere e allo stesso tempo occupano i primi posti nelle classifiche dei film di maggior successo in Giappone, un paese in cui il biglietto di prima visione costa approssimativamente 17 euro. Sapendo che nei primi due giorni di presenza nei cinema Il Castello Errante di Howl è stato visto da oltre un milione di persone e che nelle prime settimane di programmazione La città incantata ha richiamato nelle sale un decimo della popolazione giapponese ed è al primo posto nella classifica degli incassi di tutti i tempi, è facile immaginare quale sia l’ordine delle cifre in gioco. Spesso si fatica a immaginare che il cinema con caratteristiche autoriali sia anche capace di sostanziosi incassi, forse perché ciò accade assai raramente. O forse perché il successo economico, di qualunque tipo esso sia, è considerato come una colpa, una vergogna oscena da cui fuggire in nome dell’integrità del talento. Non è un caso che quando si vuole argomentare la decadenza della Disney si ricordino i suoi negozi monomarca zeppi di gadget a tema. Eppure, in Hayao Miyazaki Master of Japanese Animation, Helen McCarthy racconta di una visita allo Studio Ghibli in cui oggetti meravigliosi, provenienti dai film dei registi che lavorano nello studio, la circondano occupando ogni angolo della stanza. Si tratta degli stessi oggetti che si

possono trovare nei negozi, oggetti che un efficiente seppur piccolo team mette a punto all’uscita di ogni titolo, cercando di curarne i dettagli ed evitando che questo aspetto produttivo finisca per prendere il sopravvento sui film in sé. Il sogno di Suzuki è però quello di realizzare un film che possa essere indifferente agli incassi, ai gadget e al mercato home video; al contempo ammette che l’oggettistica ispirata a Il mio vicino Totoro (1988) ha tenuto lo Studio lontano dal deficit per più di una volta. Lo Studio Ghibli ha puntato sulla realizzazione di articoli che siano strettamente legati a un titolo specifico, non limitandosi a fornire sempre gli stessi pezzi con decorazioni diverse. Ciò comporta una scelta accurata delle ditte a cui vengono concesse le licenze e soprattutto un’attenta supervisione del processo produttivo. Quando la Tokuma ha stipulato l’accordo con la Disney per la distribuzione internazionale dei film, non sono stati compresi i diritti legati al merchandising. Il fatto può stupire se si ritorna ai Disneystore di cui sopra, ma si spiega perfettamente alla luce dell’importanza riservata alla produzione di questi oggetti e delle scarse garanzie fornite. Non si può non rilevare la lungimiranza dello Studio Ghibli, soprattutto se si considerano le altre «sviste» provocate da questo accordo. Attorno ai film Ghibli gravita infine un altro progetto che sembrerebbe avvicinare Miyazaki a Disney ma che, visto nella sua originaria prospettiva, ne rivela la diversa discendenza. Il Museo dell’animazione della città di Mitaka – chiamato anche Museo dello Studio Ghibli – è un parco tematico che permette di accedere a spazi espositivi in cui si possono seguire le diverse fasi necessarie a realizzare un film animato e vedere cortometraggi girati appositamente per la fruizione all’interno del museo. Inaugurata nel 2001 e interamente progettata da Miyazaki, la struttura ha un solo precedente in Giappone: il museo dedicato a Tezuka Osamu, vicino a Osaka. Più che un parco dei divertimenti con fini didattici come molti parchi disneyani, questo spazio ha lo scopo di portare nel mondo degli umani le creature animate e di spiegare attraverso esse come si svolge il lavoro alla Ghibli. Si tratta di un progetto ambizioso che, senza rinunciare a bellezza e originalità, ha saputo trasformarsi ancora una volta in un clamoroso successo. La lunga e ricca vita dello studio sembra il risultato della

combinazione di eventi spesso in apparente contraddizione tra loro. Un disegnatore formato in modo da inserirsi perfettamente nella produzione di un progetto tanto delicato quanto un lungometraggio d’animazione non può essere abbandonato alla fine del lavoro. Per conservarlo all’interno della struttura che ha investito su di lui bisogna fornirgli la sicurezza economica, e per farlo l’impresa deve produrre a ritmi serrati. Ma un film con gli standard qualitativi richiesti da Miyazaki e Takahata non può essere prodotto in poco tempo. L’unica soluzione è produrre più film contemporaneamente, con tutta la tensione e l’investimento di energie che questo comporta. Una delle situazioni più dure da affrontare è stata la realizzazione di Porco Rosso parallelamente a quella di Omohide Poroporo (Ricordi nostalgici) di Takahata, in cui Miyazaki ha lavorato senza assistenti perché questi erano impegnati a ultimare il progetto del collega. Ma anche la genesi de Il castello nel cielo (1986) non è stata meno convulsa: Il piano di produzione era tale che ho potuto preparare solo la metà delle scene prima di darle al mio staff. Poi ho dovuto ritoccare i loro disegni prima di ritornare ai miei e completarli. Era una tal confusione… La mia giornata tipo era organizzata in questo modo: sveglia, preparazione dello storyboard e via allo Studio. Qui ritoccavo i disegni dei miei collaboratori e alla sera tornavo a casa dove ricominciavo a lavorare allo storyboard. E poi a letto. Ho paura di essere il solo in Giappone a realizzare film d’animazione in questo modo perché nessun altro potrebbe sopportarlo.23 Quando in Occidente si vuole definire qualcosa di profondamente giapponese, si dice che è «zen», volendo dire con questo che l’oggetto (o la persona) in questione ha caratteristiche di essenzialità, equilibrio e semplice bellezza. Naturalmente si tratta di una semplificazione e di un fraintendimento. C’è però un altro concetto che appartiene non solo alla filosofia zen ma anche alla mentalità di molti coetanei giapponesi di Miyazaki: l’idea che la disciplina non sia un fine ma un mezzo e che l’esercitarsi ripetendo con esattezza segni e gesti non si esaurisca nella mera ripetizione di un’idea di perfezione, ma permetta di trasformare quegli stessi gesti in forme espressive perfette perché apparentemente spontanee. Da questo punto di vista, Miyazaki

può essere definito «zen»: non nel senso romantico e occidentale, bensì in quello impegnativo, faticoso e battagliero del paese che ha elaborato tale filosofia. Nella vita e soprattutto nell’arte la massima spontaneità richiede il massimo artificio, ma per poter essere arte ogni traccia di artificio e di sforzo deve essere scomparsa dal risultato finale. Nell’erba che si muove leggera, nelle nuvole che si spostano pigre, nel muschio che cresce ostinato su una pietra, sembra di cogliere tutta l’immediatezza e la spontaneità istintiva della natura. Ma per dare vita all’erba e al muschio bisogna osservarli e riprodurli infinite volte con infinita pazienza prima di ottenere un risultato adeguato. E un risultato adeguato è quello che fa dimenticare a chi l’osserva quanta applicazione e quanta costanza sia costato. Spesso viene riportato con meraviglia il fatto che Miyazaki sia capace di stracciare interi storyboard già completati perché insoddisfatto del risultato. Sarebbe stupefacente che accadesse il contrario. Ma, da un punto di vista delle pure risorse psicofisiche, i ritmi di lavoro che la sopravvivenza dello Studio Ghibli ha richiesto non possono essere sottovalutati. Nelle dichiarazioni di abbandono poi smentite che hanno preceduto il ritiro definitivo, non si deve quindi vedere un segno di incoerenza, quanto piuttosto la necessità di riprendere fiato. Chiunque si sia posto un obiettivo ambizioso e si sia impegnato a raggiungerlo non fatica a immaginare l’altalenarsi di entusiasmo e frustrazione, il desiderio di rinunciare per sempre a ciò che provoca questo stato e l’incapacità, non appena venga concessa una tregua sufficiente, di smettere di pensare alla prossima storia, al prossimo disegno, al prossimo progetto.

L’esperienza personale nella definizione dello stile Miyazaki Hayao ha quattro anni quando, nel luglio del 1945, assiste al bombardamento di Utsunomiya, la città in cui vive. È notte, le bombe incendiarie cadono e il cielo si colora di una luce crepuscolare rosa acceso. C’è una grande confusione e, mentre il fuoco sembra farsi più vicino e minaccioso, suo zio recupera il piccolo camion della ditta e porta la famiglia all’aperto, nei campi. Nell’istante in cui il camion si muove accade qualcosa che segna in modo indelebile l’esistenza del regista: una vicina di casa con in braccio una bambina chiede un passaggio. La donna ripete più volte la richiesta, ma il camion si allontana e la sua voce si fa sempre più fievole. Nel ricordo di un bambino di quattro anni gli eventi di cui è stato effettivamente testimone si sovrappongono ai particolari sentiti nelle conversazioni degli adulti; la verità non va dunque cercata nei dettagli, tanto più che Miyazaki dice di aver richiamato l’episodio alla memoria così tante volte da avergli dato una consistenza cangiante ed epica. Ma la sostanza del ricordo rimane: una donna ha chiesto aiuto e nessuno l’ha ascoltata. Miyazaki sperimenta nel pericolo il senso di quella matassa di contraddizioni umane che annoda il vivere civile, la morale e l’attenzione per il prossimo con l’istinto di sopravvivenza e l’incontrollabile fortuna; si chiede perché siano sopravvissuti proprio lui e la sua famiglia; soprattutto si domanda perché né lui né il fratello siano stati capaci di chiedere ai genitori di fermarsi. Questo evento lo ha accompagnato attraverso tutta la vita, assumendo significati diversi nel corso degli anni e generando giudizi di senso opposto sia su se stesso sia sugli altri. Il piccolo Hayao soffoca l’episodio insieme ai dubbi che ha sollevato; in seguito il ricordo riaffiora, ma per scacciarne il fantasma basta comportarsi con gentilezza ed essere ubbidiente. Da adolescente tutte le domande senza risposta esplodono con violenza e non possono che portare allo scontro con i genitori e con i loro insegnamenti.

Crescendo e diventando padre, Miyazaki comincia a capire le ragioni degli adulti: l’istinto di protezione di ogni genitore verso i propri figli e il pericolo che fermando il camion la gente lo prendesse d’assalto impedendo la fuga hanno inevitabilmente reso il padre, la madre e lo zio sordi a ogni richiesta d’aiuto. Oggi, in una situazione simile, Miyazaki ammette di non essere più sicuro della propria capacità di comportarsi in modo diverso, ma saperlo non basta come giustificazione: Se ci fosse stato un bambino capace di dire «falla salire», penso che un padre e una madre avrebbero subito fermato l’auto. Se sei un genitore e tuo figlio dice una cosa del genere, penso che lo faresti. Ma ci sono anche molte ragioni per non farlo. […] Lo capisco bene, ma comunque avrei voluto parlare allora. O vorrei che l’avesse fatto mio fratello. Naturalmente sarebbe stato meglio se i miei genitori si fossero fermati.24 La frattura prodotta dallo scontro tra principi educativi e comportamenti pratici ha rafforzato la convinzione del regista che, se il mondo è popolato da milioni di persone che assecondano gli istinti più immediati e vivono di conseguenza, allora bisogna cercare chi non crede all’inevitabile per generosità, per rigore etico o per un istinto eccentrico. E bisogna raccontarne la storia. Non solo: qualsiasi comportamento, anche il più discutibile, ha la sua logica e le sue ragioni, e per questo le persone vanno valutate di volta in volta. Si può dire che un fatto biografico è stato trasformato in una regola universale, applicata film dopo film: nessuno è completamente buono o cattivo, tutti possono cambiare in meglio o in peggio e gli esseri viventi vanno capiti più che giudicati. La convinzione che ogni azione non sia positiva o negativa in assoluto non è un invito a essere passivi, ma piuttosto permette di non ostentare cieca fiducia in se stessi, nelle proprie reazioni e nei propri valori. La personalità di ciascuno non smette mai di trasformarsi e può progredire o regredire all’improvviso. Questa mancanza di una progressione costante nell’evolversi delle psicologie umane è forse la ragione principale per cui Miyazaki non apprezza che i suoi film siano assimilati ai viaggi iniziatici. In occasione dell’uscita de La città

incantata il regista ha infatti dichiarato: Con questo film volevo smontare questo mito ridicolo: alla fine del film Chihiro ha imparato solo e semplicemente ad avere fiducia in se stessa. Neanche io, del resto, penso di essermi evoluto molto negli ultimi sessant’anni. Forse, l’unica cosa che ho ottenuto è di avere un po’ più controllo rispetto al passato.25 L’osservazione di Miyazaki è acuta e pertinente in termini strettamente antropologici: parlare di iniziazione in una realtà economicamente e culturalmente complessa come quella del Giappone contemporaneo potrebbe condurre a eccessive semplificazioni. L’iniziazione è infatti strettamente legata al rito di passaggio, ovvero a quella forma di regolamentazione con cui le società economicamente meno complesse o tribali celebrano i mutamenti di stato del singolo o di uno specifico gruppo di individui. Si tratta di trasformazioni che potrebbero rivelarsi pericolose per la conservazione dell’organizzazione sociale, dunque è necessario fornire un cerimoniale in cui ognuno sappia in che modo compiere determinati gesti e soprattutto perché compierli. I casi di passaggio di stato che necessitano di un rituale opportuno sono quelli che segnano il transito dalla mera vita fisica a quella sociale (attribuzione del nome al neonato); dall’infanzia all’adolescenza; dal nubilato e dal celibato alla vita matrimoniale e alla procreazione; e infine dalla vita alla morte.26 Nelle società preindustriali le regole valgono per tutti i membri della comunità: è molto difficile trovare un adolescente che si sottragga al rito di passaggio previsto dalla sua cultura; se lo facesse, verrebbe isolato, oppure cacciato o addirittura ucciso. Anche nelle società complesse e industrializzate esistono forme rituali che accompagnano le diverse fasi della vita di ciascuno (si pensi ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali, alla visita di leva o all’ingresso delle matricole all’università), ma si tratta di versioni del rito indebolite e spesso diventate facoltative o soppresse nel corso degli anni: pur esistendo in alcuni casi forme di pressione sociale (in particolare per i riti religiosi), non sono previsti come regola generale né l’esilio né la morte per chi non si sposa o non battezza i figli. Per quanto in certi contesti la dissidenza possa essere dolorosa e minacciosa, è comunque pensata e prevista.

I riti di passaggio e le iniziazioni hanno un’altra peculiarità, relativa alla concezione dello spazio e del tempo in cui ha luogo il rito: essi costituiscono una parentesi nel tempo quotidiano della comunità e segnano una soglia, un punto di congiunzione e di separazione tra due stati opposti. Secondo l’antropologo britannico Victor Turner, i partecipanti a un rito di questo genere si trovano in una situazione liminale, ovvero sono sul limen, sulla soglia che separa l’identità passata da quella futura. Il percorso tra l’una e l’altra è estremamente pericoloso, perché viene compiuto nell’indistinta possibilità del caos: per questo devono esserci delle prescrizioni capaci di guidare l’iniziato oltre la soglia. Ma Turner osserva anche che, nelle civiltà complesse e industrializzate, il numero delle persone è tale che le regole non valgono per tutti. L’esperienza quotidiana in qualsiasi città moderna rivela l’esistenza di persone appartenenti a etnie diverse, che professano credo differenti e custodiscono svariati usi e costumi. Si potrebbe obiettare che esiste una regola uguale per tutti, ovvero il diritto, ma di nuovo la più elementare esperienza quotidiana dimostra che le leggi non sono applicate sempre allo stesso modo. Riti e prescrizioni valgono per gruppi circoscritti di persone: una scuola, un ufficio, un circolo culturale, un gruppo di amici ma anche una comunità religiosa, una compagnia teatrale o una troupe cinematografica sono tutte realtà che prevedono delle regole, anche solo temporanee, da seguire e un sapere a cui bisogna essere iniziati. Si tratta però di esperienze facoltative, legate alla personalità, al gusto o a una necessità quotidiana. La stessa persona può far parte di comunità diverse nello stesso momento e può rifiutare o aderire a molte di esse nel corso della sua vita. Anche qui viene tracciata una soglia tra un prima e un dopo, ma si tratta di una soglia differente da quella considerata in precedenza. Per questa ragione Turner parla di una situazione liminoide, ovvero simile ma non uguale a quella liminale. Se La città incantata fosse un film che racconta di un’iniziazione e di un rito di passaggio, come l’età della protagonista e le prove che deve superare possono far credere, si tratterebbe di un passaggio particolarmente complesso, capace di rappresentare contemporaneamente una situazione liminoide e una liminale. Chihiro sta infatti cambiando città e questo significa una nuova casa, nuovi amici, una nuova scuola con nuovi insegnanti: tutte situazioni che

implicano trasformazione, rimpianto e adattamento. Ma mentre viaggia con i genitori lontano dalla vita che conosce e verso una realtà che ignora, ecco che il caos la rapisce e la getta in un mondo arcaico, economicamente semplice e in cui tutti conoscono e rispettano le stesse regole: la soglia che Chihiro attraversa trattenendo il fiato per non far avvertire la sua presenza a rei (spiriti) e kami (divinità) è una soglia liminale. La bambina gracile e annoiata perde identità e privilegi proprio come un qualsiasi adolescente impegnato in un rito di passaggio e rinchiuso con i compagni in una capanna lontana dal villaggio, in attesa di rientrare nello stesso completamente trasformato in una donna o in un uomo adulto. Non si può dire che ne sarà di Chihiro, quali tra le infinite possibilità offerte dal caos formeranno la sua nuova personalità. Il solo segno che la distingue da qualsiasi altra bambina e che costituisce la solida base su cui costruire una nuova personalità è il primo ideogramma che compone il suo nome, l’unico che la magia conserva quando «Chihiro» viene condensato in «Sen», il cui significato letterale è «un migliaio». Sen dunque sottolinea la natura a un tempo molteplice e unica della protagonista de La città incantata. Anche gli iniziandi perdono il loro nome di bambini, perché tutti i nomi appartengono loro allo stesso modo, almeno fino a quando un nuovo nome non li renderà uguali e distinti dal resto della comunità. Se si considerano le modalità con cui Chihiro raggiunge le terme di Yubaba, il castigo inferto ai genitori colpevoli di aver mangiato il cibo sacro, la presenza di prove da superare anche grazie all’aiuto di esseri soprannaturali, è facile riconoscere nel film una struttura simile a quella individuata da Propp ne Le radici storiche dei racconti di magia. Inoltre, la similitudine cui si è accennato in precedenza, suggerita dal regista a proposito di Kiki, la protagonista di Kiki consegne a domicilio, e di Chihiro – viste come due ragazze che vogliono affermarsi nel mondo dell’animazione –, farebbe pensare proprio a una forma di viaggio iniziatico. Eppure Miyazaki sostiene che La città incantata (e presumibilmente anche gli altri film da lui scritti e diretti) è la negazione di questa forma narrativa. E bisogna tener conto di questa affermazione. Osservando con cura, si può infatti rilevare che i film nel loro complesso sono davvero l’antitesi delle modalità del viaggio iniziatico: ciò risulta evidente nel modo in cui le storie si concludono. Si deve supporre, prima di tutto, che quando si parla di viaggio di iniziazione –

e conseguentemente di romanzo di formazione – si faccia riferimento a un particolare schema narrativo in cui una personalità informe viene plasmata dall’esperienza, dalla sofferenza, dal confronto con altre entità umane e non, animate o meno, e alla fine si trasforma in un individuo stabile e definito, dotato non solo della coscienza di sé ma anche di una profonda conoscenza del mondo. Si potrebbe dire che, completato il percorso, non ci sia più nulla da imparare perché si è trovata la strada attraverso la quale percorrere il mondo. Un viaggio di iniziazione è inoltre un viaggio che porta spesso in uno (o più) paesi lontani o soprannaturali, ma la sua finalità non è né di far perdere il viaggiatore né di trasformarlo in un emigrante o lasciarlo errare in eterno: il viaggiatore deve tornare a casa e deve portare la sua esperienza nella comunità d’origine. Al contrario, i viaggiatori di Miyazaki non tornano più e per svariate ragioni: restano nel luogo lontano che hanno faticosamente raggiunto (Kiki in Kiki consegne a domicilio, Ashitaka ne La principessa Mononoke e Ponyo in Ponyo sulla scogliera); la loro vera casa ha subito tali modificazioni da essere irriconoscibile (Nausicaä nell’omonimo film, Sheeta ne Il castello nel cielo e San ne La Principessa Mononoke); un trasloco li ha costretti a cambiare radicalmente abitudini (Mei e Satsuki ne Il mio vicino Totoro); non hanno per scelta una casa, una patria o una famiglia a cui ricongiungersi (Marco, il protagonista di Porco Rosso) oppure, se tornano a casa, non mancano di visitare regolarmente il luogo in cui hanno vissuto le loro avventure (Fio, ancora in Porco Rosso). Forse l’unica eccezione è rappresentata da Sophie che, decidendo di vivere con Howl nel Castello Errante, in teoria può accedere a tutti i luoghi in cui è stata prima e durante la sua eccezionale avventura, dalla città natale al giardino segreto in cui si rifugia il mago. Inoltre, il Castello, distrutto nel momento in cui Sophie getta dell’acqua su Calcifer per impedire alla Strega delle Lande di morire bruciata, una volta ricostruito può volare ampliando le sue possibilità di movimento. Le ragioni della scelta di Sophie di non ritornare sottolineano il legame con i protagonisti dei film precedenti: il Castello è un luogo che ha raggiunto con difficoltà; la guerra ha mutato radicalmente i connotati della sua città e della sua casa; le sue abitudini sono state stravolte. Eppure Sophie diventa a sua volta errante non per delusione ma per amore, un destino e un’attitudine che la trasformano in una versione positiva dell’esule volontario Porco Rosso.

Chihiro e i suoi genitori sembrano solo apparentemente contraddire questa regola. Essi tornano al punto di partenza, ma non si può dire che la radura in mezzo al bosco sia nel frattempo diventata familiare: non sanno nulla di quel luogo o della strada da percorrere per raggiungere la nuova casa, così come ignorano il vero senso del mondo che si trova oltre la galleria. E Chihiro può aver imparato qualcosa nelle terme di Yubaba, ma continua a non sapere come si torna a casa e dove questa sia. A riprova che Chihiro ha recuperato ciò che era suo (il nome) ma non per questo ha una conoscenza del mondo maggiore o è diventata una persona nuova, Miyazaki ha inserito all’inizio e alla fine del film le medesime inquadrature e i medesimi dialoghi. Nel cinema d’animazione, soprattutto a basso costo, può capitare di «riciclare» qualche inquadratura per risparmiare, ma questo non è davvero il caso dei film di Miyazaki. Dunque, se qualcosa viene ripetuto, ci può essere sì una ragione economica, ma solo di economia del racconto. Nello specifico, viene ripetuta la sequenza che si apre con il padre sulla sinistra mentre avverte di fare attenzione a non inciampare. La sua figura massiccia occupa il lato sinistro dell’inquadratura e sulle sue parole Chihiro e la madre entrano da destra. Tutti e tre escono a sinistra e la madre avverte Chihiro che, se continua a starle appesa al braccio, finirà per farla cadere. A questo punto il volto di Chihiro – tesa, impaurita e quasi sul punto di piangere o scoppiare a gridare per la rabbia – occupa lo schermo e vi rimane per qualche secondo, in modo che vi si possa leggere con agio il sovrapporsi delle emozioni. L’inquadratura successiva mostra il padre di spalle che si avvia verso l’uscita della galleria. Alla fine del film tutto si svolge allo stesso modo, usando le stesse posizioni dei personaggi, le stesse parole nei dialoghi e mantenendo la stessa durata. Tra la sequenza posta all’inizio de La città incantata e quella in chiusura c’è solo un’inversione nell’ordine delle inquadrature: nella prima Chihiro precede l’inquadratura del padre di spalle, mentre in chiusura accade l’esatto contrario. Inoltre, lo sfondo verso il quale il padre si muove è cambiato: all’inizio del film si scorge una parete rossastra, mentre nella sequenza finale si intravede il verde degli alberi. Ma ciò che non muta e che ha un grande peso drammatico e narrativo è l’espressione sul viso di Chihiro, identica a quella che aveva prima della sua straordinaria avventura. Chihiro non è una persona nuova: è la stessa bambina di sempre, ritornata in un mondo

che ne comprime le forze e l’energia, ma di cui non può fare a meno. Non sembra che le sue scelte siano positivamente determinate in virtù delle prove che ha appena superato. Più che da un modello letterario, narrativo o teorico, Miyazaki è ispirato dalla vita imprevedibile, scostante e mutevole. L’unica cosa di cui sembra sicuro è che si debba augurare a Chihiro di riuscire a conservare la fiducia in se stessa, e a Sophie di ricordare di essere stata saggia da giovane e temeraria da vecchia. Anche l’esperienza di Sophie ha solo l’apparenza di un viaggio di formazione, perché il repentino passaggio dalla giovinezza alla vecchiaia non modella né migliora la personalità della protagonista de Il Castello Errante di Howl, mentre ne rafforza i tratti salienti e modifica la fiducia della ragazza in se stessa. Fiducia che sta solo a lei mantenere e il cui perdurare non è garantito per sempre. La vecchiaia libera Sophie dal suo senso di responsabilità e di devozione verso la memoria del padre e la spinge a lasciare la casa e la modisteria per affrontare avventure complicate e incredibili. Sebbene lei stessa commenti con ironia che gli abiti che ha sempre indossato siano più adatti al suo corpo di novantenne piuttosto che a quello di una ragazza, è il suo carattere che sembra ringiovanire man mano che gli anni si accumulano. Se all’inizio Sophie viene presentata come una persona tanto assennata da mettere in secondo piano le proprie aspirazioni, la maledizione della Strega delle Lande mette in luce una natura positivamente insofferente, irruenta e risoluta, capace di esprimere con coraggio le proprie opinioni senza per questo diventare aggressiva o irritante. Anche in questo caso l’intervento magico, di per sé traumatico, si rivela una straordinaria opportunità per conoscere qualcosa di nuovo su se stessi e sulla complessità delle relazioni umane. Ponyo sulla scogliera appare speculare alla vicenda di Sophie sotto diversi aspetti. Entrambe le protagoniste hanno un rapporto privilegiato con il padre e un legame importante, ma meno stretto, con la madre spesso lontana; il carattere, la professione, le convinzioni dei rispettivi padri portano Sophie e Ponyo a reagire con energia per difendere il proprio punto di vista, sebbene queste azioni appaiano di segno opposto e seguano dinamiche influenzate dalla differenza d’età: per Sophie, giovane adulta e poi improvvisamente anziana, la memoria del padre è un valore da tutelare dedicandole la propria giovinezza e le proprie ambizioni. Anche quando incomincia a sviluppare una volontà

autonoma è sull’esempio del padre che Sophie fonda le proprie azioni. Per Ponyo, bambina dipendente dall’autorità di un padre vivo e presente, affettuoso sì ma anche impaurito e ansioso, la volontà e le convinzioni di Fujimoto sono un ostacolo da superare per ottenere qualcosa che va al di là della mera simpatia per Sōsuke e che rappresenta l’affermazione del punto di vista della pesciolina su di sé e sul mondo. In sostanza: il suo diventare adulta. La magia che scatena un evento traumatico è, per entrambe, l’espediente simbolico con il quale narrare questo processo di trasformazione ed emancipazione: Sophie subisce la magia della Strega delle Lande, Ponyo la provoca per sfuggire al controllo paterno e far riaffiorare in sé le tracce del patrimonio genetico umano che Fujimoto aveva con tanta fatica soffocato. Diventare umana e restare accanto a Sōsuke sono gli imperativi di Ponyo e l’egocentrismo tipico della sua giovane età le fa ignorare che i suoi desideri hanno sovvertito l’ordine naturale, modificando la vita di molte creature ignare; in questo modo il viaggio di Ponyo (e di Mei) diventa il viaggio dell’infanzia che deve imparare a mantenere la determinazione e insieme a stemperarla con la realtà e le esigenze altrui. Pur conservando diversi elementi della fiaba di Andersen, a cominciare dalla protagonista, creatura marina che vuole diventare terrestre, Miyazaki segue, secondo la sua inclinazione, una lettura più costruttiva, dinamica e laica: vale la pena combattere e correre il rischio di diventare schiuma del mare per un progetto apparentemente impossibile ma irrinunciabile. E in questa prospettiva Ponyo sulla scogliera si rivela, come i film precedenti, l’allegoria dei progetti ambiziosi quali l’ideazione di un film animato o la gestione dello studio incaricato a realizzarlo. Ogni conquista, ogni passo avanti non è per sempre, la crescita non è progressiva e i traguardi raggiunti, per quanto importanti, non sono una garanzia di poter ripetere l’impresa in futuro. I film di Miyazaki non si concludono con una morale, ma con un riepilogo delle esperienze fatte. I protagonisti sembrano dire: «A questo stadio ho raggiunto un determinato risultato: posso immaginare che in futuro mi muoverò da esso, ma non posso prevedere né in che modo né in quale misura. Ho imparato qualcosa su me stesso, ma ciò non mi garantisce una progressione infinita o una conoscenza assoluta: potrebbe accadere qualcosa che mi spinge a valutare la mia vita sotto una luce nuova; ciò che mi sembrava buono potrebbe non esserlo più; potrei

improvvisamente regredire invece di andare avanti. Però so di avere delle qualità e su queste devo contare». La capacità di vedere oltre l’apparenza di Sōsuke durerà davvero per tutta la vita oppure ci sarà un momento in cui, diventato adulto, anche il bambino si abbandonerà a commenti superficiali e sospettosi – magari correggendosi subito dopo – come fanno Risa riguardo a Fujimoto, Kumiko e la signora Toki rispetto a Ponyo o Fujimoto stesso riguardo a tutto il genere umano? E nel caso questa caratteristica si mantenga non si può dire che l’avventura vissuta da Sōsuke gli abbia insegnato a guardare al prossimo senza pregiudizio, quanto piuttosto che ha vissuto questa straordinaria avventura perché non aveva pregiudizi. Riconoscere e voler bene a Ponyo-pesce, Ponyobambinapesce e Ponyo-bambina non è una conseguenza del viaggio di formazione ma è una qualità che lo precede. Più che alla forma definitiva che caratterizza il romanzo di formazione, i personaggi immaginati da Miyazaki vengono educati a sopravvivere al mutamento nella sorte favorevole come in quella avversa. La citazione di Valèry reiterata nel film di congedo del regista (“Si alza il vento/bisogna cercare di vivere”) esplicita e riassume questo concetto. Lo stesso Jirō Horikoshi vive in un perenne stato liminoide, sospeso tra il sogno e la realtà, l’ideale estetico e la bruta pragmaticità. Fin dall’infanzia, infatti, intrattiene un fitto dialogo interiore con il conte Caproni, pioniere dell’aviazione e progettista visto dal giovane progettista come un esempio umano e creativo. A ogni soglia da varcare, a ogni decisione da prendere Jirō accede al regno dei sogni di Caproni, una sorta di oasi pacifica nella tempesta della vita, un giardino di Howl, una tana di Totoro, un magnifico e mostruoso stabilimento termale per gli dei estenuati. Come i suoi predecessori anche Jirō riannoda i fili spezzati della propria esistenza in questo spazio distinto dalla quotidianità avvilente della guerra, della malattia e dell’ignoto. Un viaggio iniziatico prevede una partenza e un arrivo, ovvero un prima e un dopo. Apparentemente sembra la chiusura di un cerchio, ma di fatto chi lo ha iniziato è radicalmente diverso da chi lo conclude. Durante il percorso il tempo può subire alterazioni, accelerare, rallentare o restare sospeso. All’apparente circolarità temporale corrisponde un’effettiva circolarità spaziale: la meta da raggiungere è molto lontana, ma il viaggio in sé si conclude ritornando verso ciò che è familiare. Si può tornare a casa fisicamente, ma anche

metaforicamente, quando le prove affrontate servono per ritrovare le proprie radici o la propria famiglia. Il modo di concepire lo scorrere del tempo influisce non solo sulla vita quotidiana, ma anche sul modo di narrare una storia e di costruire i personaggi che la vivranno. Nelle società complesse esistono due concezioni del tempo, che convivono non sempre pacificamente: il tempo lineare e diacronico del lavoro e quello circolare e sincronico della festa. Il primo è il tempo della produzione, il secondo è quello del sacro e della creazione artistica, o del «tempo libero» nelle società laiche contemporanee. Ciò è particolarmente vero per le culture occidentali, in cui l’affermarsi di sistemi di pensiero filosofico rigidamente ordinati e soprattutto l’imporsi delle dottrine ebraicocristiane hanno fatto prevalere la concezione lineare del tempo. Al contrario, la cultura giapponese «non si volge a ciò che è logico, astratto e sistematico ma preferisce indulgere nel concreto, nel nonsistematico, nell’istintivo».27 A ciò va aggiunto che: Nella mitologia giapponese il tempo non ha né inizio né fine, e tale concezione si riflette nel generale atteggiamento nipponico verso la storia nella quale l’ininterrotto corso degli eventi non è spezzato in parti e periodi, ma risale dalle parti verso il tutto.28 Mentre il pensiero occidentale va dunque dall’universale astratto al particolare, quello giapponese si muove dal particolare concreto verso una concezione di universale che mantiene una sua originaria concretezza. Il pensiero occidentale è innegabilmente influenzato dalle religioni monoteiste sviluppatesi nell’area mediterranea – quindi anche la dottrina cattolica con cui tutti gli italiani, anche i laici o gli atei, sono venuti in contatto –, per le quali esiste un unico principio universale e divino da cui deriva tutto e a cui tutto farà ritorno. Il tempo trascorso dagli uomini sulla Terra si risolve in un’attesa più o meno lunga alla quale seguirà la vita eterna, unica e vera perché presuppone il ricongiungersi con il principio creatore. In questa attesa si impara a distinguere nettamente la transitoria vita del corpo da quella immortale dello spirito: la prima va contenuta – e a volte decisamente mortificata

–, la seconda va coltivata e spesso esaltata. Il risultato è un pensiero duale in cui il Bene e il Male sono assoluti e in continua lotta e in cui il corpo è distinto dallo spirito, il peccato dall’innocenza, la caduta dalla salvezza. Anche la cultura giapponese è stata fortemente influenzata dal pensiero religioso, ma le differenze sono evidenti. La dottrina autoctona, una forma di raffinato e complesso animismo noto come shintō (via degli dei), non prevede un principio originario trascendente, ma una connessione diretta tra gli dei e gli uomini; inoltre, le divinità sono numerose e non si escludono a vicenda; infine, i princìpi su cui la religione si basa sono legati a circostanze particolari e non a valori universali. Ogni volta che il pensiero giapponese è venuto in contatto con sistemi filosofici e dottrine religiose più strutturati ha accettato alcuni dei loro tratti, ne ha rifiutati altri e in ogni caso ha adattato tali sistemi di pensiero al proprio, rimuovendo gli elementi teoretici e mantenendo le applicazioni pratiche. In questo modo e attraverso i secoli, i giapponesi hanno accolto e assimilato il taoismo, il confucianesimo, elementi dell’induismo e simbologie cristiane, ma anche il marxismo o la psicanalisi freudiana. Non sorprende che le dottrine cristiane, rigidamente organizzate e refrattarie ad adattarsi a un parziale assorbimento e alla manipolazione, siano state le uniche a non aver tratto vantaggio da questa attitudine.29 Un’altra differenza rispetto al cristianesimo consiste nel fatto che lo shintoismo conserva una concezione circolare del tempo: non esistono un inizio e una fine, una creazione e un giorno del giudizio. Tracce di un diverso modo di intendere la vita e i suoi ritmi si sono mantenute anche nelle tradizioni popolari occidentali che hanno convissuto – e ancora convivono – sia con la religione sia con il pensiero laico ufficiale. La vita umana è inserita nella stessa ciclicità che regola la natura: inizio e fine, nascita e morte, giovani e vecchi sono a stretto contatto. Ragioni storiche, sociologiche e ideologiche hanno relegato il nostro pensiero non lineare ai margini della cultura, valutandolo ora come barbaro e pericoloso, ora come non sufficientemente evoluto e razionale. Ma forse noi occidentali soffriamo ancora della soppressione di un tempo circolare e dell’obbligo di separare l’esistenza umana in opposti inconciliabili, e per questo restiamo

così affascinati e stupiti dalla capacità dei giapponesi di mantenere una concezione del tempo che coincide con quella del rito, del mito e della fiaba: circolare e sincronico, e non lineare e diacronico. Antonia Levi al proposito osserva che: Altre culture hanno perso le loro tradizioni o le hanno alterate per adeguarle alla retorica dell’Occidente imperialista del XVIII e XIX secolo. Qualcosa del genere è accaduto anche allo shintō quando il culto della dea del Sole è stato usato per fondare un nuovo nazionalismo. Comunque la maggior parte dei giapponesi ha mantenuto intatta la capacità di danzare mezzi nudi su una collina per celebrare il misterioso e l’incomprensibile. E ancora sono capaci di alzarsi il giorno dopo, andare in ufficio e destreggiarsi tra i bisogni del XX secolo senza alcun senso di discontinuità. Sono allo stesso tempo gli ultimi pagani e i primi postmoderni di successo!30 Sebbene sia frequente – anche al cinema e anche nei film di Miyazaki – lamentare l’oblio della cultura tradizionale nel Giappone contemporaneo, non è difficile immaginare che, persino mentre siede alle riunioni del G8, il primo ministro giapponese sia perfettamente conscio di questa rara quadratura del cerchio. Perché se in Occidente è stato laicizzato il tempo sacro, in Giappone il tempo produttivo è stato «sacralizzato». È allora impossibile pensare alla vita umana come a una progressione, a una crescita in linea retta che ordina un punto dopo l’altro. Nel cerchio non si smette mai di imparare e trasformarsi. Per non valutare il cinema di Miyazaki sulla base di classificazioni che gli sono estranee, non si può non tenere conto di tutto ciò: cercare di capire il suo talento e rispettarne le peculiarità può essere più utile per gli spettatori – e meno gravoso per il regista – del divinizzarlo. Miyazaki è indubbiamente laico nella sua visione del mondo ma, allo stesso tempo e senza che ciò risulti incoerente, condivide «la venerazione per le divinità ancestrali e il sentimento della comunione con esse e con tutti gli spiriti dell’universo».31

Tra Oriente e Occidente Sebbene sia spesso critico verso la letteratura giapponese per ragazzi, si dichiari ammiratore di autori occidentali per l’infanzia come Philippa Pearce, Rosemary Sutcliffe, Eleanor Farjeon, Arthur Ransome, abbia molto in comune con Carroll e conosca perfettamente le fiabe classiche, Miyazaki non può prescindere da ciò che è peculiare della sua cultura d’origine. Il risultato è una mediazione tra culture in cui l’armonia finale è data dal fondersi di diverse concezioni del mondo e del narrare. La scelta di tali elementi sembra seguire le modalità del pensiero giapponese: ciò che funziona, è suggestivo ed è concretamente utile all’economia del racconto viene conservato e assorbito. E poco importa se arriva da Oriente o da Occidente. In tal modo si può giocare su una ricca stratificazione di significati, capace di rendere i film adatti a ripetute visioni: ogni volta affiora un senso nascosto, un dettaglio sfuggito, una chiave di lettura trascurata. La «policroma gamma dei dettagli» di cui parla Katō a proposito della letteratura nipponica si ritrova anche nei film di Miyazaki, sia sul piano visivo sia su quello verbale. In Porco Rosso, Gina canta Les temps des cerises, una canzone popolare diventata l’inno dei comunardi francesi. Ascoltandola, molti occidentali riescono a cogliere, più o meno immediatamente, il riferimento storico e ideologico: di fronte alle sollevazioni del 1848 e all’esperienza della Comune parigina, il romanticismo e il classicismo hanno dovuto cedere il passo al realismo, al socialismo, alle discipline scientifiche e alle innovazioni tecnologiche. Non solo la società si stava trasformando, ma anche il mondo dell’arte si preparava ad accogliere le avanguardie artistiche e letterarie del novecento, il cui fermento creativo sarebbe stato duramente colpito dal primo conflitto mondiale e infine soffocato dall’avvento delle dittature fasciste. Anche per Marco, il protagonista di Porco Rosso, la prima guerra mondiale segna la fine di ogni slancio giovanile e il fascismo rappresenta tutto ciò che combatte: controllo della libertà, costrizione e sopraffazione. Ma nella dolcezza delle parole della canzone c’è anche un preciso riferimento stagionale a cui sono legati la speranza e il rimpianto. Le ciliegie mature non possono non far pensare a ciò che viene prima, a quei ciliegi in fiore che i giapponesi hanno eletto – insieme alle foglie dell’acero rosso – a emblema della bellezza più

suggestiva e intatta e dunque destinata a durare per un tempo brevissimo. L’estetica del mono no aware, della malinconia prodotta dalle cose belle o piacevoli destinate a durare poco, è forse una delle caratteristiche della letteratura e dell’arte nipponica più facili da riconoscere anche per il pubblico occidentale. E non stupisce che sia anche il tono dominante della storia di Porco Rosso. Nei film di Miyazaki accade qualcosa che gli spettatori trovano raramente altrove. Si dice che una delle caratteristiche peculiari delle produzioni disneyane sia la capacità di lavorare su più livelli: un primo sguardo mostra ai bambini la trama e i personaggi, sguardi più attenti e ripetuti rivelano ammiccamenti, citazioni e preziosismi destinati agli adulti. Anche nei film di Miyazaki la trama e i personaggi sono da subito evidenti, ma sin dall’inizio non è possibile sottrarsi alla complessità delle immagini, alle sfaccettature della psicologia dei personaggi, alle sfumature della storia. Il coraggio immaginativo che il regista chiede ai suoi personaggi è lo stesso che chiede agli spettatori: essi non possono restare a guardare passivamente, devono contribuire attivamente al senso delle immagini. Se il mondo moderno è un mondo che pone problemi complessi, il mondo postmoderno – quella realtà in cui, prima di altri paesi, il Giappone è stato gettato alla fine del secondo conflitto mondiale – è un mondo che non deve favorire la pigrizia mentale. E che non si può accontentare, in nessun campo, di risposte univoche: la conclusione de La principessa Mononoke è un esempio chiarissimo in tal senso. Nella versione giapponese Eboshi raccoglie attorno a sé i superstiti e, stupita di essere stata salvata da un cane selvatico, ovvero da uno dei suoi più agguerriti avversari, annuncia che ricomincerà tutto da capo e costruirà un buon villaggio. Il film si chiude con il commento del monaco Jikobo che suona più o meno così:«Non si può vincere contro i matti». Non si sa dunque se questo villaggio sarà buono perché in armonia con la natura o, più probabilmente, perché meglio attrezzato contro di essa. Nelle versioni doppiate si parla di «beau village», di «buena ciudad» e di «better town», e anche le parole di Jikobo non hanno un significato radicalmente diverso. Sorprendentemente, la prima versione della traduzione italiana, relativa alla distribuzione in sala pianificata dall’accordo con la Disney, ribalta le intenzioni del regista e trasforma in assoluta certezza quanto è stato lasciato volutamente sospeso.32 Eboshi infatti dichiara: «Oggi

ho capito che la foresta è sacra e nessuno ha il diritto di profanarla. Dov’è Ashitaka? Dobbiamo tutto a lui e alla ragazza. noi ricostruiremo questa città, ma sarà una città migliore». E Jikobo chiosa: «A quanto pare la natura stavolta ha avuto la meglio». Il risultato è che, basandosi sulla sola prima traduzione italiana, si potrebbe credere che Miyazaki sia un utopista o, nella peggiore delle ipotesi, un ingenuo. Probabilmente il motivo di una traduzione pacificatrice va cercato, ancora una volta, nel doppio pregiudizio che vuole i film d’animazione destinati ai bambini e i bambini incapaci di cogliere la complessità e l’ambiguità della vita. Al contrario, il regista ha fiducia nella loro capacità di afferrare un’idea senza bisogno di troppe spiegazioni. Da questo punto di vista, è emblematico il modo in cui vengono forniti dettagli essenziali per immaginare la vita dei protagonisti senza rendere ridondante la storia. Il fatto di accennare a un futuro oltre i titoli di coda significa anche che la loro storia non è conclusa né si concluderà finché vivranno. E questo porta di nuovo al perché il viaggio iniziatico in senso stretto è estraneo al cinema di Miyazaki. I margini dei titoli di coda o qualche breve sequenza aggiunta dopo di essi servono per dare tutte quelle informazioni che sono pertinenti al racconto ma che diversamente verrebbero trattate in un modo frettoloso, contrastando con l’impianto complessivo della sceneggiatura. Molti film di Miyazaki non si adeguano alla sempre più diffusa abitudine di interrompere la proiezione o abbandonare la sala prima del completo scorrimento dei titoli. E nemmeno rinunciano alla parola «fine», quell’invito a tornare alla realtà che ormai si incontra raramente nel cinema contemporaneo perché i film non finiscono più, si dileguano. Miyazaki aggiunge invece ancora una piccola storia, capace di accompagnare gli spettatori verso l’uscita: da studioso e amante della letteratura per bambini, sa come sia importante distinguere il tempo della routine quotidiana dal tempo del gioco e dell’immaginazione in cui la parola d’ordine è «facciamo finta che eravamo…». Quando il regista rileva la tristezza dei bambini moderni, il loro senso di noia, le loro vite a tempo pieno e la totale mancanza di spazio per l’ozio intellettuale, attesta la fine dell’ultima esperienza del sacro, della finzione, della recita, del gioco e della creazione artistica rimasta alla portata di ciascun individuo. Anche per i bambini esiste solo la produzione – di compiti, di saggi di fine anno, di voti –, a cui si contrappone un tempo libero che non può essere sprecato e che deve

produrre un surplus di esperienze, di conoscenze, di abilità. E non si tratta di una condizione che riguarda solo i bambini giapponesi. Da un punto di vista stilistico, considerare i titoli di coda come uno spazio utile per il racconto permette di evitare soluzioni scontate come le scene corali di gioia, le risate collettive o le imbarazzanti dichiarazioni di affetto in cui si sprecano i «ti voglio bene». Il film finisce così con un tono più naturale e realistico, in cui dolce e amaro non sono separati. Alle spalle dell’isola fluttuante di Laputa in orbita attorno alla Terra, la notte lascia il posto al giorno, le nuvole si addensano e si dissolvono, cade la pioggia e splende il sole, il mare passa dall’azzurro al blu cupo, i pianeti seguono le loro orbite e una cometa attraversa veloce lo schermo: indipendentemente dalle intenzioni degli uomini, la natura prosegue il suo cammino. I disegni preparatori dei fondali de La città incantata riportano Chihiro e gli spettatori nel mondo a cui appartengono: i colori più tenui, le linee sfumate che definiscono i luoghi soprannaturali in cui la protagonista ha smesso di essere una bambina debole e capricciosa sembrano suggerire che quel mondo non è più nel presente di Chihiro, ma si conserva nella memoria. I titoli di coda de Il mio vicino Totoro e Kiki consegne a domicilio testimoniano della trasformazione di uno stato eccezionale in quotidianità. Nel primo film, nello stesso stile infantile e colorato dei titoli di testa, un taxi riporta a casa la madre finalmente guarita di Satsuki e Mei. Le immagini successive raccontano di un rapido e allegro ritorno alla routine: le due sorelle giocano con i bambini del villaggio, fanno il bagno insieme alla madre o si accoccolano nel letto accanto a lei per ascoltare una fiaba. Parallelamente vengono mostrate scene di vita quotidiana dei tre Totoro, le divinità del bosco un po’ gufi e un po’ gatti che devono il loro nome al modo in cui Mei storpia la parola troll. Le loro giornate riflettono quelle degli umani, così come il loro comportamento è spesso speculare a quello delle sorelle e del padre: il grande Totoro (ōtotoro) offre protezione e trova le soluzioni ai problemi; il Totoro di mezzo (Chūtotoro) conosce già molti segreti della foresta e sa come muoversi nel mondo; il Totoro più piccolo (Chibitotoro) sta crescendo e imita il «fratello» proprio come Mei imita Satsuki. In modo analogo Kiki consegne a domicilio si chiude con Tombo e Kiki che sorvolano i prati e il mare, l’uno sulla macchina volante e

l’altra sulla scopa; Osono li saluta mentre il marito tiene in braccio il loro bambino appena nato; il gatto Jiji è seduto su un muretto di mattoni insieme ai suoi figli, tre indolenti gattine bianche e un gattino nero. L’integrazione di Kiki nella città è simboleggiata da immagini di quest’ultima: le barche nel porto, la panetteria di Osono, le persone affacciate alle finestre per ricevere i pacchi che la giovane strega consegna volando. E quando il film sembra concluso, ancora pochi minuti di pellicola riportano al villaggio e ai genitori di Kiki e li mostrano mentre leggono la prima lettera della figlia, quella lettera che aspettavano con ansia perché ne conoscono il significato: la ragazza ha trovato la sua strada nel mondo e il suo affetto per loro crescerà insieme alla sua indipendenza. Ma è nel finale di Porco Rosso che si capisce meglio quale profondo contrasto esista tra il diffuso didascalismo e il modo in cui Miyazaki racconta le sue storie, suggerendo delle conclusioni e lasciando allo spettatore il tempo e lo spazio per immaginarle. Trasformatosi in un maiale perché disgustato da se stesso e dal genere umano, Marco riacquista alla fine l’originaria fisionomia e gli spettatori lo apprendono dalle esclamazioni di Curtis, il pilota rivale di Porco Rosso. In una simile circostanza molti registi – non solo di cinema d’animazione, non solo disneyani – avrebbero mostrato il viso del protagonista, ne avrebbero fatto vedere le espressioni di sorpresa e con ogni probabilità gli avrebbero fatto esclamare: «Oh, mio Dio, non posso crederci!». Sempre senza mostrare il protagonista, Miyazaki sottintende un altro dettaglio ironico: Marco ha appena terminato di fare a botte con Curtis e, anche se il suo viso è ritornato umano, di certo è tumefatto e sfigurato da ematomi e graffi che lo rendono praticamente irriconoscibile. L’importanza espressiva dei titoli di coda è confermata dall’apparente contraddizione di quelli su fondo nero che concludono Principessa Mononoke: quando la storia riproduce se stessa, quando le ferite sono insanabili e la comunicazione faticosa, il futuro rischia di assomigliare al passato. Anche Il Castello Errante di Howl sembra chiudersi in un modo simile, più definitivo e senza aggiunte narrative. D’altra parte, si tratta di un film con un lieto fine dichiarato, in cui il penultimo fotogramma è dedicato a un bacio tra i protagonisti, conclusione di un legame adulto e aperto verso il futuro, diverso dalle storie adolescenziali e idealizzate o dai sentimenti segnati dalle ferite del passato proposti nei film

precedenti. Eppure anche in questo caso non bisogna allontanarsi prima dello scorrimento dei titoli di coda, o almeno non bisogna sottovalutarli: le parole della canzone di chiusura, La promessa del mondo, sono un’importante chiave di lettura della vicenda e del conflitto che l’attraversa. Vista in questa prospettiva, anche l’ultima inquadratura di Ponyo sulla scogliera, con la bambina sospesa in aria, perfettamente perpendicolare a Sōsuke e bloccata un attimo prima di ricevere quel bacio che la renderà per sempre umana, conserva lo stesso significato. Sebbene questo non significhi che sia meno profondo e motivato di quello degli adulti, quello di Ponyo e Sōsuke resta comunque un amore tra bambini e come tale viene illustrato. Anche i titoli di coda, con i disegni infantili e l’allegra canzone a due voci, sottolinea la dimensione anagrafica dei protagonisti, destinata a subire trasformazioni nel tempo, e insieme la loro determinazione a mantenere costante l’affetto reciproco. Si alza il vento ribadisce il proprio ruolo di film di congedo offrendo al pubblico una carrellata di tutti i luoghi in cui Jirō ha vissuto. Sono luoghi riprodotti con estrema cura, rifiniti in ogni dettaglio e contraddistinti dalla totale assenza di presenze umane. Negli studi di progettazione, nelle vie, nelle fabbriche e nelle case non c’è più nessuno: forse è arrivata l’ora della chiusura; forse si è consumato un evento drammatico e paradossale che ha fatto evaporare le persone per lasciare le cose intatte; forse gli esseri umani si sono allontanati perché è l’ora in cui gli ottomila dei shintō tornano a riva per raggiungere le terme. Qualsiasi sia la risposta il senso di ineluttabilità, di conclusione e di abbandono si percepisce nettamente: un’epoca è finita e non tornerà più, nel bene e nel male. I personaggi dei film di Miyazaki sono formati per ora, sono individui che domani saranno altro. Addirittura, sono individui che possono far coesistere due nature opposte, rivelandole a seconda delle circostanze. Spesso si imputa a Miyazaki l’incapacità di definire personaggi interamente cattivi, e anzi di fornire una motivazione alla loro cattiveria: persino il Tatarigami, il dio cinghiale trasformato in demone a cui Ashitaka deve l’inizio del suo viaggio in Principessa Mononoke, non incarna il Male ma è il risultato della paura, del rancore e dell’incapacità di sopportare il dolore inflitto dalla ferita procuratagli da Eboshi. Se la convinzione occidentale che nell’uomo esistano due elementi in costante antagonismo è estranea al pensiero

giapponese, allora cade anche l’idea di un Bene e di un Male assoluti: per ogni comportamento c’è una ragione e una circostanza, se queste mutano possono mutare pure le reazioni dei personaggi. Ciò potrebbe essere discutibile se avvenisse in modo inspiegabile e antitetico all’economia del racconto, ma non è il caso del cinema di Miyazaki. In Laputa Ma Dola e i suoi figli – così come la banda di pirati volanti Mamma Aiuto in Porco Rosso o come Lupin – sono fuorilegge bramosi di ricchezze, ma all’occasione rivelano una generosità eccezionale; Kushana è guidata dal pragmatismo militare e dal personale desiderio di vendetta, ma sa commuoversi alla vista del sacrificio di Nausicaä; ne La principessa Mononoke l’accanimento di Eboshi nell’aggredire la foresta non le impedisce atti meritori quali dare rifugio, lavoro e dignità a ex prostitute e lebbrosi, così come la strenua tutela dei propri interessi non le vieta di ammirare il coraggio e la determinazione di San; ne Il Castello Errante di Howl si rivela la doppia natura di Suliman e della Strega delle Lande, entrambe superbe, permalose e potenti ma capaci di atti di generosità nei confronti di Sophie non appena deposta la loro terribile veste ufficiale. Infine Fujimoto, padre apparentemente inflessibile e autoritario di Ponyo, arriva a chiedere a Sōsuke di perdonarlo per la sua intransigenza, nata dalla preoccupazione dell’incolumità della figlia piuttosto che dal desiderio di esercitare il proprio potere sulla volontà della stessa. Diverso è il caso di Si alza il vento. Qui gli antagonisti sono le collettività, i governi, i committenti militari, il Giappone di Horikoshi e i suoi alleati, la Germania di Junkers e l’Italia di Caproni – e nessuna di queste istituzioni sembra aver mai modificato in modo significativo le proprie intenzioni e motivazioni. Sebbene Miyazaki dedichi a tutti loro la propria ironia – le commissioni militari vocianti e chiassose, i saluti marziali nazifascisti trasformati nel gesto del capotreno che suona la sirena del locomotore – non dimentica l’aspetto violento e crudele del potere e della dittatura, come testimoniano le scene di bombardamenti, l’aggressione a cui Jirō e Honjo assistono durante il soggiorno in Germania o le riflessioni di Castorp durante il soggiorno in montagna. Avida e arrogante, Yubaba ne La città incantata perde tutta la sua boria davanti al figlio, un mostruoso neonato che vive rinchiuso in una camera stracolma di giochi. Lo scarto tra la donna d’affari e la madre amorosa è enorme e repentino: nella sequenza in cui Yubaba si rassegna a prendere Chihiro al suo servizio, la donna riesce a parlare

alla ragazzina con tono sprezzante e allo stesso tempo a sussurrare parole affettuose al bambino. Al contrario, Zeniba vive ritirata in una casa di campagna e la sua personalità è unica, solida e compatta. Bada agli aspetti essenziali della vita e ciò le permette di essere rispettata senza bisogno di alzare la voce e le persone stanno bene accanto a lei perché si sentono utili piuttosto che sfruttate. Se Yubaba rappresenta la realtà della maggior parte delle persone, obbligate a scindere la vita professionale da quella privata, Zeniba incarna ciò che tutti vorrebbero essere. In questa rappresentazione della doppia identità che ciascuno assume nella vita contemporanea si manifesta una volta in più il segno della capacità di Miyazaki non solo di osservare la realtà, ma di riprodurla in modo simbolico e universale. Se, come si è osservato, le donne protagoniste dei suoi film sono scisse tra atteggiamenti di conciliazione e spirito battagliero, ciò non è dovuto al loro vivere con disagio la femminilità, quanto piuttosto al fatto di agire in società incapaci di rendere serenamente possibile la fusione di caratteristiche tradizionalmente separate in femminili e maschili: come mostrano, tra gli altri, San e Porco Rosso, non occorre essere un guerriero per essere intrepidi e non occorre essere una donna per rinunciare alla lotta. Ancora in Porco Rosso, è Fio Piccolo a farsi portavoce di tutte le eroine sue coetanee chiarendo la sua posizione davanti alle esitazioni di Marco nell’affidarle il progetto delle modifiche dell’amato idrovolante: «Non posso smettere di essere donna, ma lasciatemi provare». Il problema delle eroine di Miyazaki non è di essere a disagio con se stesse, ma di non avere un posto nella società. Anche qui non si tratta di una questione esclusivamente giapponese. Se si pensa ai modelli femminili offerti dal cinema occidentale, difficilmente se ne troveranno di altrettanto sfaccettati, eroici e umani come quelli offerti dai suoi film. La produzione cinematografica di massa conta in abbondanza lolite, adolescenti al tempo delle mele, ragazze disadattate o spiriti combattivi che però gettano le armi non appena trovano una spalla adulta o maschile – e spesso entrambe le cose – a cui appoggiarsi. In definitiva, la maggior parte delle storie descrive l’infanzia e l’adolescenza dal di fuori, attraverso gli occhi e i desideri degli adulti; inoltre, questo sguardo ignora spesso quella «terra di nessuno» che va dai nove agli undici anni. Con La città incantata, Miyazaki è

consapevole di aver contribuito a popolare un deserto: Ho iniziato a leggere alcuni shojo manga (fumetti per ragazzine). Lo stile narrativo e il disegno erano romantici, ma in maniera estrema, tali da risultare stucchevoli. […] Tranne pochi ed eccellenti autori come Osamu Tezuka, mi sono reso conto che non c’è nessuno, nemmeno io, che si preoccupi dei problemi e delle esigenze delle ragazzine. […] è per questo che ho scelto di scrivere qualcosa che arrivasse soprattutto alle bambine. Qualcosa a cui potessero pensare e fare riferimento quando immaginano il loro futuro e i loro rapporti con la società.33 È dunque lecito domandarsi se l’intenzionalità di Miyazaki non stia alla base anche della trasformazione che hanno subito le principesse disneyane con l’arrivo di John Lasseter alla direzione artistica dello Studio. Ammiratore del cinema dell’illustre collega giapponese, produttore esecutivo del Castello di Howl e produttore esecutivo per l’edizione in lingua inglese di Ponyo sulla scogliera, Lassater è anche produttore di Rapunzel-L’intreccio della torre e Brave-Ribelle due film essenziali per la ridefinizione del ruolo della principessa. Non si narra più la storia di una fanciulla fragile e indifesa, rinchiusa nella convenzione sociale (simboleggiata dalla torre, dal castello o da un sortilegio che ne simula la morte) che la priva di identità se non in funzione del ruolo di moglie e madre, ma si raccontano le avventurose vicende di Rapunzel, che usa la padella come un bastone, e di Merida, l’unica principessa disneyana ad aver rifiutato un matrimonio senza perdere il proprio rango e il proprio potere. Costruirsi un identità solida e autonoma è la prima urgenza – e forse l’unica possibilità –, per instaurare rapporti costruttivi con gli altri. Analoghe considerazioni si possono trarre a riguardo della rappresentazione della vecchiaia, un’altra fase della vita femminile oggetto di leziosità, caricature o rifiuti legati alla sua scarsa spendibilità quale oggetto di seduzione e attrazione. In realtà, la vecchiaia, come l’infanzia, permette una notevole libertà d’azione. Anche se fragili e indifesi, gli individui in queste due estreme fasi della vita sono sottoposti a un numero minore di vincoli sociali e comportamentali: per ingenuità o saggezza, bambini e anziani possono dire e fare cose che agli adulti sono vietate nel modo più assoluto, e così facendo si

ritagliano un ruolo attivo anche lì dove si preferisce enfatizzarne solo la bassa efficienza produttiva ed economica. Non è un caso che nella grafica e nel carattere ci siano tanti elementi in comune tra Mei, Ma Dola e Sophie novantenne; e non è un caso che, ne Il Castello Errante di Howl, quest’ultima sia affiancata da Markl, un bambino che si traveste da vecchio barbuto prima di affrontare gli estranei. Spesso Miyazaki prevede un gruppo di donne anziane che sembrano sostenere il ruolo del coro che accompagna l’eroina. Esse rappresentano diversi modi di invecchiare e i loro caratteri sono spesso complementari. Sono così le donne che lavorano nell’officina Piccolo in Porco Rosso, l’anziana signora e la sua domestica in Kiki consegne a domicilio e le ospiti della Casa dei Girasoli, il pensionato in cui lavora Risa. La signora Toki è bisbetica e malcontenta, le signore Yoshie e Noriko sono serene e allegre nonostante gli acciacchi dell’età, ma tutte e tre sono sinceramente affezionate a Sōsuke e determinate a difendere il bambino contro ogni pericolo o delusione. Un’immagine così positiva e anticonvenzionale della vecchiaia può senza dubbio risalire al ricordo dell’affettuosa e risoluta madre di Miyazaki, e allo stesso tempo non è estranea all’enfasi con cui l’autore ricorda a ogni film di essere sempre più vecchio per la professione che si è scelto. Ma è altrettanto vero che si tratta di una sfida narrativa e visiva che il regista non poteva sottovalutare, perché appartiene a quel genere di storie eccezionali e statisticamente improbabili a cui Miyazaki ama dare almeno un’opportunità per realizzarsi.

L’epoca delle donne Nell’immaginario collettivo occidentale si è depositata un’idea ben precisa di che cosa sia una donna giapponese: una geisha. E se non è una geisha, è comunque una creatura delicata, elegante, servizievole, subordinata e rispettosa. Non potrebbe essere altrimenti, visto che vive in una società gerarchica, maschilista e patriarcale. Purtroppo ci si dimentica spesso di aggiungere che anche la società italiana – per limitarsi a ciò di cui si ha esperienza diretta – ha caratteristiche assai simili, senza per questo essere composta da donne omogeneamente subordinate. In comune i due paesi hanno anche una tradizione secolare di madri energiche, quando non dispotiche, e di figli formati, quando non deformati, dal loro vigoroso esempio. La madre giapponese – come quella italiana –, è ugualmente amata e temuta dai suoi figli. Se una donna abbraccia un ruolo tradizionale che la impegna nell’organizzazione della casa e nell’istruzione dei figli, la sua capacità di decisione sarà piuttosto consistente. L’applicazione di questo potere passa anche attraverso un atteggiamento particolare nei confronti degli uomini, grandi e piccoli, giovani e vecchi: coccolati, vezzeggiati e viziati, gli uomini sono trasformati in bambini, e i bambini, per quanti capricci facciano, sono controllabili. Antonia Levi osserva che questa attitudine da supermamma comincia a essere applicata anche nell’ambito pubblico, sebbene non trascuri di ricordare come l’adesione a nuovi modelli di vita – prima di tutto avere un lavoro differente da quello di casalinga o il desiderio di una carriera – abbia indebolito il potere di controllo esercitato dalle donne. Esattamente come in Italia, in Giappone i sentimenti verso le donne che lavorano fuori casa sono piuttosto contrastanti: da un lato il loro allontanarsi dal focolare domestico libera tutta la famiglia dall’ordine e dalla disciplina; dall’altro priva la stessa di quei vantaggi pratici e di quelle comodità quotidiane a cui nessuno rinuncia volentieri. Questo amore-odio verso la figura femminile, sia essa presente o assente, è riflesso in tutta la cultura popolare, dal fumetto all’animazione al

cinema. Nell’anime la madre viene tenuta lontana dall’azione: spesso non c’è perché ha lasciato la casa o perché l’eroe se ne è allontanato; più di frequente le madri sono morte perché «la morte è preferibile a ciò che ci si può aspettare se restano in circolazione».34 Anche nella letteratura occidentale per ragazzi, l’eroe si trova libero dall’autorità familiare: può sottrarsi a essa per un breve periodo, essere orfano oppure vivere in una famiglia a cui non appartiene perché adottato o scambiato alla nascita. Solo in questo modo può compiere tutte le straordinarie imprese che di solito compiono gli eroi. L’animazione giapponese insiste però con troppa sollecitudine sulla scomparsa della madre perché ciò non sia il risultato di un sentimento profondo, forse esasperato da necessità drammatiche o comiche, ma comunque riconducibile all’esperienza quotidiana. Persino in una situazione realistica come quella presentata da I sospiri del mio cuore, il film tratto dal manga di Hiragi Aoi e diretto da Kondō Yoshifumi su sceneggiatura e storyboard di Miyazaki, la sfuggente figura materna, assorbita dagli studi universitari, permette alla protagonista di uscire fisicamente e mentalmente dalla famiglia, di conoscere nuove persone e di impegnarsi in una sfida con se stessa che influenzerà positivamente il suo futuro. Ma quando dovrà essere richiamata all’ordine perché passa il tempo a scrivere il suo primo racconto invece di prepararsi per i temutissimi esami liceali, la madre e la sorella maggiore – una specie di surrogato materno – trovano il tempo per riprenderla con durezza, sebbene non fossero mai riuscite a trovare quello necessario ad ascoltarla. La vita non è semplice e lineare per nessuno, né uomini né donne, in Giappone come altrove. La ridefinizione dei ruoli sociali produce ulteriori problemi di adattamento che non possono essere valutati sulla breve distanza, e pertanto non possono essere risolti con rapidità. La difficoltà nel seguire modelli che appaiono superati ha prodotto e produce mode e movimenti culturali giovanili che cercano di manifestare l’angoscia e la fatica nel trovare un ruolo femminile al di fuori della tradizione.35 Nello stesso tempo, la generazione più adulta riconosce i propri paradossi, le crudeltà e il risentimento quotidiano nell’umore cupo di romanzi grotteschi come Le quattro casalinghe di Tokyo di Kirino Natsuo, storia di quattro donne che lavorano part-time nell’industria alimentare e che, abituate a fare a pezzi carne e pesce, scoprono di essere altrettanto efficienti nell’aiutare la più giovane a disfarsi del cadavere del marito, un uomo indolente, violento e con il

vizio del gioco. Nel parlare del ruolo della donna nella società giapponese e della sua rappresentazione nella cultura popolare non bisogna confondere l’aver minore peso economico, politico o strategico con l’essere deboli di carattere. E nemmeno si deve pensare che la cultura nipponica manchi di eroine o che si trovi a disagio con esse, dal momento che offre un grande numero di esempi in questo senso. Una delle prime donne con cui i giovani giapponesi fanno i conti – oltre alla propria madre – è Murasaki Shikibu, autrice del Genji monogatari36, un romanzo composto all’inizio dell’XI secolo, che sta alla letteratura giapponese come il Decameron a quella italiana. L’unica differenza è data dal fatto che il romanzo di Murasaki è molto più familiare ai giapponesi di quanto non lo sia l’opera del Boccaccio agli italiani: non solo Genji monogatari è stato oggetto di una trasposizione animata, ma è così proverbiale che riferirsi a esso, anche per parodiarlo, è possibile proprio perché il vasto pubblico televisivo o i lettori di manga sanno di che cosa si sta parlando. Ad esempio, nella serie televisiva Urusei Yatsura (1981-1986) – nota in Italia come Lamù – l’oggetto delle avances della splendida aliena in bikini tigrato, Moroboshi Ataru, vive una situazione simile a quella di Genji, ma in chiave parodica. Sentendolo chiamare Genji, il pubblico giapponese pensa subito a un uomo molto bello, affascinante, colto e raffinato, amante delle donne e da esse ricambiato senza sforzo, e poi lo confronta con questo ragazzo impacciato, non particolarmente elegante, incapace di esprimere i propri sentimenti con chiarezza e perseguitato da un’aliena che vuole sposarlo.37 Un’altra suggestiva figura femminile è quella di Himiko, regina storico-leggendaria capace di raccogliere su di sé le caratteristiche della regalità politica insieme alla venerabilità conferitale dai poteri sciamanici. A riprova della sua popolarità, si può ricordare che con il suo nome è stata chiamata la regina degli Yamatai, i malvagi di Jeeg Robot d’acciaio; inoltre la sua storia e il suo mito sono tra le molte fonti storiche e leggendarie che Miyazaki ha utilizzato e fuso ne La Principessa Mononoke. Strettamente legata a Himiko è la miko, la sacerdotessa shintō. Le miko esercitarono i poteri di sciamane e oracoli fino agli anni Trenta del novecento, quando vennero dichiarate fuori legge perché le loro

pratiche apparivano troppo arcaiche per la rilettura nazionalistica dello shintō che si stava affermando. Le miko esistono ancora, spesso danzano nelle feste shintō e ancora più spesso hanno trovato posto nelle nuove religioni sincretiche derivate dalla religione tradizionale. Antonia Levi sospetta però che il vero luogo di elezione delle miko moderne sia quello dell’anime: basta osservare con attenzione le serie televisive, soprattutto a sfondo magico o paranormale, per averne la conferma. Non bisogna infine dimenticare Amaterasu, la dea del Sole, che con il fratello Susanō, dio del Vento, ha dato origine alla linea genealogica da cui discende la famiglia imperiale. Non è questa la sede per affrontare un problema storico e antropologico tanto vasto e complesso quale la presenza e la durata del matriarcato in Giappone, ma non di meno va ricordato che, nella cerimonia che precede l’incoronazione, l’imperatore si identifica con Amaterasu e implicitamente riconosce che il potere maschile di cui è rappresentante gli deriva da un’entità femminile. Per il fatto di affidare ogni film a solidi caratteri femminili, il cinema di Miyazaki è stato salutato come onna no jidai, ovvero come l’epoca delle donne. Indubbiamente le sue eroine sono figlie della cultura giapponese, ma, invece di limitarsi a essere l’ennesima variazione sul tema, si propongono come nuove figure esemplari, spesso con l’aiuto di prestiti dalla cultura occidentale. Con la stessa eleganza e precisione de Le tre età della donna di Klimt, esse incarnano l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia e rappresentano i ruoli di figlia, madre e nonna senza trascurarne alcuno.

Bambine A eccezione dei brevi ma significativi incisi dedicati all’infanzia di Clarissa, Nausicaä e Sheeta, nei film di Miyazaki le bambine sono protagoniste di Il mio vicino Totoro, La città incantata e Ponyo sulla scogliera. In realtà due di queste – Satsuki e Chihiro – si trovano sulla soglia di quell’età di mezzo in cui l’infanzia comincia ad allontanarsi ma l’adolescenza non è ancora arrivata, e così le uniche «vere» bambine sono Mei, la sorella di Satsuki che per prima ha il privilegio di vedere i Totoro, e Ponyo, la pesciolina che decide di infrangere tutte le regole naturali per diventare una bambina umana. L’infanzia di Clarissa, Nausicaä e Sheeta è mostrata in flashback e serve a definire con più precisione gli ideali che guidano le ragazze. Clarissa soccorre Lupin ferito nel parco del castello: quello che negli anni diventerà un temuto ladro internazionale, è alla sua prima rapina e, a causa della poca esperienza, è stato seriamente ferito. Tutte le squisite doti di Clarissa sono evidenti sin da qui: mette al sicuro Lupin, lo cura e, come è facile immaginare, se ne innamora perdutamente. Per Nausicaä, il tentativo di salvare un cucciolo di Ohmu38 rivela la consapevolezza e il coraggio della principessa e la natura benigna degli abitanti della foresta. In Laputa, i ricordi di Sheeta riaffiorano quando è prigioniera di Muska e dell’esercito: la ragazza si rivede bambina mentre piange la perdita dei genitori e viene consolata dalla balia che le insegna un incantesimo di protezione. Il luogo in cui Sheeta vive prima di essere rapita dagli uomini di Muska si trova in una zona isolata, agricola e di grande bellezza. La casa in cui abita è costruita in solida pietra e al suo interno ci sono solo il focolare e l’arcolaio, fatto questo che crea un significativo contrasto con il mondo da cui proviene, ovvero l’ipertecnologica Laputa. Per Sheeta il tempo dell’infanzia termina insieme all’esilio, mentre le esperienze che sta per affrontare faranno scorrere via in un attimo l’adolescenza. Chi vive in tempo di guerra cresce più in fretta di chi lo fa in tempo di pace. La differenza d’epoca in cui si svolgono le vicende narrate è la prima ragione della grande distanza che esiste tra Satsuki e Chihiro, sebbene abbiano entrambe undici anni. Satsuki e la sua famiglia vivono tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta: la guerra

è passata, ma non la memoria delle sue conseguenze, e l’urbanizzazione non è giunta ovunque. Chihiro vive all’inizio del nuovo millennio, ovvero dopo la crisi economica del 1995 che ha colpito la società giapponese alterando gli assetti definiti nel corso del secondo dopoguerra. Nel mondo contemporaneo l’urbanizzazione è dilagata ovunque e la memoria di un passato contadino è svanita. Per quanto difficile possa essere la vita materiale di Satsuki, essa è comunque sostenuta dall’affetto e dalla presenza degli adulti e da ottimismo, slancio e curiosità verso il mondo. Chihiro vive invece una vita protetta, in cui non manca nulla di materiale, ma è annoiata, impaurita e mossa da una rabbiosa indifferenza. Anche fisicamente le due ragazzine sono molto diverse: Satsuki è agile e vivace, ha corti capelli indisciplinati e, pur essendo di costituzione minuta, ha l’aspetto di una persona forte e sana, che gioca e si muove all’aria aperta; al contrario Chihiro è goffa e maldestra, ha il viso pallido e il corpo lungo e sottile come il fusto di una pianta conservata in una stanza buia. Caratterialmente la differenza è ancora più profonda. Satsuki è sorridente e allegra, e la sua attitudine fiduciosa verso il mondo muta solo per ragioni molto gravi; non ha problemi a fare amicizia con i compagni di scuola ed è educata ma spontanea anche con gli adulti. Eppure in lei si avvertono delle improvvise timidezze che non vanno attribuite solo alla situazione eccezionale che sta vivendo – situazione che la carica di responsabilità riservate normalmente alla madre –, ma anche al suo graduale uscire dalla magia e dalla protezione dell’infanzia. Questo passaggio è sottolineato, per contrasto, dalla presenza di Mei, una bambina robusta, vivace, rumorosa e dalla curiosità incontenibile. Come scrive Helen McCarthy: Mei […] è il bambino allo stato naturale, ed è lei stessa una specie di spirito nella spensierata indifferenza verso i noiosi dettagli del mondo reale. Si trova ancora nell’età in cui i suoi desideri e le sue necessità, così come le sue reazioni, possono legittimamente costituire il centro del mondo senza che ciò la trasformi in un mostro.39 Chihiro, invece, non sorride quasi mai e ogni piccola contrarietà ne

accentua l’espressione imbronciata e scontenta. Si potrebbe dire che questa soffra di un eccesso di protezione, mentre le sorelle Kusakabe, senza la madre accanto, hanno bisogno di essere continuamente certe della vicinanza dei Totoro. Gli dei – e Miyazaki – sanno che, in un mondo che non lascia il tempo ai bambini di sperimentare, sbagliare e imparare, l’aiuto che possono offrire loro è diverso da quello necessario in un contesto meno opprimente. Per questo Haku, Kamaji e Linn incoraggiano Chihiro ma, allo stesso tempo, la spingono a essere autonoma; i Totoro, invece, fanno in modo che Satsuki e Mei non restino troppo sole nei momenti più tristi. Le differenze che distinguono le protagoniste si riflettono nelle sequenze di apertura dei due film: la situazione è la stessa, ma cambia il modo di viverla. Il trasloco della famiglia Kusakabe è un’allegra anarchia: i mobili sono stipati su un camioncino, le sorelle ridono, salutano i passanti, mangiano caramelle e sono impazienti di arrivare. Chihiro è sprofondata sul sedile di un’impeccabile Audi ed è circondata da borse e sacchetti tra cui si distingue un disegno di coniglietti nello stile dei pupazzi Sanrio. La sua voce, ora ansiosa ora contrariata, rivela un’attitudine negativa verso ogni novità: quando i genitori le indicano la nuova scuola, la bambina si solleva dal sedile e fa le boccacce all’edificio e a tutto quello che esso rappresenta. Ma Chihiro ha anche molta paura di ciò che non conosce. Si potrebbe obiettare che, davanti alla misteriosa galleria che permette il passaggio tra il mondo degli uomini e quello degli dei, chiunque avrebbe paura – tranne due sconsiderati quali i suoi genitori. Eppure Satsuki e la sorellina Mei non fanno che ripetere «Non ho paura» anche davanti a fenomeni che non appartengono al mondo umano e ridono a squarciagola per scacciare gli spiriti dalla vecchia casa. Ma loro hanno a fianco persone che, pur non essendo temerarie, sanno come comportarsi: da bambina la vicina di casa vedeva i Susuwatari (letteralmente «fuliggine mobile» e chiamati in italiano nerini della polvere), le creature fatte di fuliggine che abitano le case abbandonate, e il padre le capisce per consuetudine ma anche per interesse professionale. Da una telefonata di Satsuki, si apprende infatti che Kusakabe Tatsuo lavora a Tōkyō presso un laboratorio universitario di archeologia ed è evidente il suo interesse per usi e costumi tradizionali. La città incantata riprende sia gli elementi paesaggistici sia quelli soprannaturali di Totoro, in modo da sottolineare il cambiamento non

solo di epoca ma anche di mentalità e cultura, con le conseguenze che esso implica nella formazione degli individui. La presenza più evidente è quella dei Nerini della polvere, che in Totoro abitano la vecchia casa fino all’arrivo rumoroso e travolgente delle sorelle Kusakabe, e che ne La città incantata sono costretti ad aiutare Kamaji ad alimentare il fuoco che riscalda l’acqua delle terme. In Totoro sono oggetto della curiosità invadente delle bambine, che li cacciano di stanza in stanza finché i Nerini della polvere non decidono di lasciare il mondo degli uomini e rifugiarsi nel bosco; Chihiro invece prova per loro un misto di curiosità e pena e, cercando di aiutarli nel loro faticoso compito, riesce solo a combinare guai. Eppure il suo slancio generoso ne conquisterà la fiducia e li trasformerà nei custodi dei suoi abiti. Nel paesaggio, la prima cosa che attrae l’attenzione di Satsuki e della sorella Mei è il secolare albero della canfora che troneggia accanto alla loro casa e in cui vivono i Totoro. Il padre dichiara di aver scelto quell’abitazione non solo perché vicina all’ospedale in cui è ricoverata la moglie, ma anche per lo splendido albero che la sovrasta. Una delle prime inquadrature de La città incantata mostra, con un movimento dal basso verso l’alto che ne rivela la magnificenza, un enorme albero della canfora assediato da strade e svincoli, tanto che l’auto su cui viaggia Chihiro sembra passare attraverso il giardino dei Kusakabe. Analogamente, la palude in cui vive Zeniba assomiglia moltissimo alle risaie che Satsuki percorre di corsa alla ricerca della sorella, con l’unica differenza che quelle erano coltivate e queste sono appunto paludi. Anche lo stato degli altari shintō è molto diverso nei due film e ribadisce una radicale trasformazione nella mentalità e nella cultura popolare. In Totoro gli altari non hanno solo un valore decorativo, ma forniscono indicazioni etnosociologiche e narrative. Nella sequenza iniziale del trasloco e in quella in cui Satsuki e Mei incontrano ōtotoro alla fermata dell’autobus, si vedono dei piccoli altari shintō dedicati a Kitsune, la volpe custode e messaggera di Inari, il kami del riso e della prosperità nei raccolti, negli affari e nella salute. L’altare della scena d’apertura è inoltre ornato da un torī, un arco votivo laccato di rosso tipicamente associato a Inari. Il tempietto in cui si rifugiano Satsuki e Mei durante il temporale è dedicato a Jizō, insieme a Kannon e Amida la divinità buddhista più venerata in Giappone, protettore dei bambini, delle donne incinte, dei pompieri, dei viandanti, dei pellegrini e di coloro che soffrono

all’inferno. Quando la statua di Jizō non è sola ma costituisce un gruppo di sei – come nell’inquadratura in cui Mei, scappata di casa per raggiungere la madre, sta per essere sopraffatta dalla stanchezza e dalla paura –, rappresenta le vie verso l’inferno da cui le sei personificazioni del Bosatsu40 aiutano a tenersi lontani. Inoltre Jizō ha con sé un bastone con sei anelli che, scossi, risvegliano le persone dalle illusioni e dagli inganni che esse comportano. Una sola inquadratura è dunque capace di fornire agli spettatori giapponesi una grande quantità di informazioni e anticipa la lieta conclusione della ricerca di Satsuki: né lei né la sorella imboccheranno un sentiero senza ritorno, Jizō avrà cura di loro in quanto bambine e viandanti e le illusioni in cui entrambe si sono trovate avviluppate – Satsuki crede che la madre si sia aggravata e stia per morire, Mei crede che sia possibile raggiungere con le sue piccole gambe l’ospedale – stanno per diradarsi. Analogamente, quando Ponyo insegue l’auto di Risa, correndo lungo la costa sorretta dalle sorelle e dalle gigantesche onde marine generate dalla magia che la bambina-pesce esercita inconsapevolmente, la sua corsa è interrotta da una brusca curva che la macchina asseconda ma che le onde non riescono ad affrontare. L’acqua si infrange contro una roccia e Ponyo precipita in mare, ma ai piedi della roccia è evidente un tempietto che contiene una statua di Jizō: nemmeno Ponyo perderà la via né in senso figurato né concreto. In tutti i casi si tratta di riferimenti religiosi che hanno una parte attiva nella vita quotidiana: i recinti sacri sono in ordine, le offerte sono deposte ai piedi delle statue e queste sono ornate di grandi bavaglini necessari a evitare che i kami si macchino consumando il cibo – la sporcizia e la contaminazione sono forse gli unici, veri «peccati» contemplati dallo shintoismo.41 Anche i comportamenti da tenere in questi luoghi sono parte integrante della vita quotidiana: sorpresa dal temporale, Satsuki chiede il permesso alla divinità ospitata di rifugiarsi con la sorella nel tempietto lungo la strada; in un’altra occasione, le due bambine sono accompagnate dal padre ai piedi dell’albero della canfora per ringraziare i Totoro di aver avuto cura di Mei; infine, Satsuki va a rivolgere la sua richiesta d’aiuto nella boscaglia davanti a una delle aperture da cui Mei ha raggiunto l’interno dell’albero. In Ponyo sulla scogliera l’equipaggio della Koganei maru scambia Granmammare per la dea della misericordia e come tale inziano a pregarla. Ciò che colpisce, soprattutto se osservato con occhi

occidentali, è la profonda commistione di rispetto e familiarità contenuta in questi gesti. I segni del sacro che Chihiro intravede dall’auto sono, al contrario, sbiaditi e trascurati, resti di un passato che ha perso significato per la contemporaneità. O almeno così sembra a uno sguardo frettoloso. Sulla soglia tra città e campagna, marcata dall’interruzione dell’asfalto, la stessa che segna il confine tra il mondo profano degli uomini e il bosco sacro dei kami, si vede un albero la cui chioma sembra essere stata mozzata. Sul tronco è appoggiato un torī, mentre poco più in là Chihiro vede delle casette di pietra accatastate le une sulle altre senza un ordine apparente. Interrogata, la madre risponde che si tratta di piccoli templi: non solo la risposta non va oltre, ma anche la sua espressione nel risponderle non tradisce un particolare interesse per il soggetto. Pietre dalla forma strana occhieggiano nel sottobosco; lo stesso mondo degli dei è scambiato dal padre per un parco tematico abbandonato. Che cosa ha trasformato il mondo pieno di magie e sorprese di Satsuki e Mei nel mondo minaccioso e ostile di cui Chihiro fatica a imparare le regole? E, soprattutto, perché a sostenere il peso del sacro sono delle bambine? La prima domanda ha una risposta relativamente semplice: in poco più di una generazione il Giappone – come l’Italia, del resto – da paese prevalentemente agricolo è divenuto un paese industrializzato. Non c’è stato il tempo per assimilare un cambiamento così radicale, con il risultato che i punti di riferimento tradizionali sono svaniti prima che se ne formassero di altrettanto radicati e universali. Da questo fenomeno sociologico ed economico derivano le possibili ipotesi di risposta alla seconda domanda. Si può, ad esempio, ipotizzare che per Miyazaki sia piuttosto immediato pensare a individui di sesso femminile quando vuole descrivere esseri umani con una particolare sensibilità per il naturale e il soprannaturale, soprattutto facendo riferimento a quanto detto a riguardo delle figure femminili legate allo shintō e alle pratiche sciamaniche. Una simile attitudine riscontrabile persino nelle produzioni televisive e in particolare in Lana, uno dei personaggi principali di Conan. Coetanea di Satsuki e Chihiro, Lana è una ragazzina dotata di poteri telepatici e condivide con Nausicaä e Sheeta un carico di responsabilità eccessivo che le conferisce un’espressione grave, sebbene illuminata da radiosi sorrisi. Lana è il personaggio di cui Miyazaki mostra esplicitamente una trance

sciamanica: nell’ultimo episodio della serie, la ragazza non solo entra in contatto telepatico con il suo gabbiano Tiki per ritrovare Conan, ma diventa il gabbiano stesso. Ricorrere a protagoniste femminili, qui come altrove, consente una grande libertà d’azione, perché i caratteri maschili sono più rigidi e chiusi dentro funzioni sociali e narrative specifiche; l’età delle protagoniste permette poi di introdurre registri diversi, mantenendo tratti spensierati e allegri accanto al senso di minaccia e di inquietudine causato dalla malattia, dalla guerra o dall’oppressione generata dall’incontrollato esercizio del potere. Anche in questo caso Miyazaki lavora per addizione, ricostruendo con precisione realistica la psicologia delle bambine senza dimenticare che la realtà è fatta di sfumature, di toni apparentemente contrastanti e di mediazioni tra gli opposti. Nei bambini la disponibilità a credere nell’impossibile è particolarmente spiccata, mentre si indebolisce negli adulti e spesso scompare per sempre. Pure in una bambina come Chihiro – cresciuta in un mondo prosaico dove esiste sempre una risposta logica e razionale – questa predisposizione è solo assopita e non schiacciata per sempre. Più o meno all’età di Mei, Chihiro è stata salvata da un intervento divino che si avvicina, nel suo significato protettivo, a quello dei Totoro nei riguardi delle sorelle Kusakabe. Chihiro non ha però le parole per dare un nome a chi le ha salvato la vita, e naturalmente è cresciuta credendo a una diversa versione dei fatti: caduta nel fiume, vi è stata tratta in salvo da un essere umano, non certo dal kami del fiume che ora, privato del nome e conosciuto come Haku, la aiuta a sopravvivere nelle terme di Yubaba. Satsuki e Mei hanno le parole e i disegni per raccontare i fatti straordinari che hanno visto o vissuto, mentre Chihiro non solo è stata privata del suo nome dalla strega, ma è stata privata di un intero vocabolario fantastico dai suoi genitori e dal mondo in cui vive. Nel caso di Ponyo le cose si ribaltano: la bambina è il Totoro o l’Haku della situazione, l’essere soprannaturale che si manifesta a un coetaneo non solo e non tanto per proteggerlo ma soprattutto perché le piace e vuole stare con lui. A Ponyo non mancano le parole per spiegarsi e per difendersi e dove queste sembrano inefficaci le viene incontro la magia; a sua volta Sōsuke vive in una situazione ibrida, in quanto appartiene al mondo contemporaneo giapponese ma è protetto

da una rete di affetti solida come quella che accoglie Mei a Satsuki. Entrambi i protagonisti di Ponyo sulla scogliera hanno modi per esprimere stupore e sorpresa e non sono impauriti dalla propria insicurezza – al contrario di Chihiro, né Ponyo né Sōsuke hanno problemi di autostima! Il tema su cui invece il film insiste è quello dell’apparenza, dell’aspetto che l’amato assume agli occhi dell’amante: Ponyo è una graziosa bambina dai capelli rossi ma anche uno strano essere a metà tra il pesce, il volatile e il mammifero, sul suo corpo e sul suo viso affiora tutta l’evoluzione e con modalità a volte grottesche. Per questo Ponyo deve trovare qualcosa che non sia esclusivamente fisico e visivo per farsi riconoscere da Sōsuke. Come per la voce della Sirenetta di Andersen, anche in questo caso si tratta di qualcosa di distintivo, qualcosa a cui non si può rinunciare senza perdere se stessi. Nel caso di Ponyo si tratta del suo carattere determinato, esuberante e fiducioso, energico e brillante come il rosso dei suoi capelli. Ciò che a un primo livello di lettura dei due film sembra riguardare solo delle bambine, a un livello più profondo riguarda anche gli adulti e la società in cui essi vivono. Una società che ha voluto cancellare come tracce di un’epoca barbara e arretrata ciò che apparteneva al passato mitico e leggendario, alle tradizioni e alle credenze popolari in nome di un razionalismo più «moderno». Ma la superstizione, le credenze o, nel caso delle religioni occidentali, i dogmi sono stati sostituiti da un pensiero eccessivamente fiducioso nel progresso e da una forma di rigida divulgazione scientifica di massa. Eppure Paul K. Feyerabend, filosofo e scienziato anarchico ed eretico, scrive: La scienza è quindi più vicina al mito di quanto una filosofia scientifica sia disposta ad ammettere. Essa è una fra le molte forme di pensiero che sono state sviluppate dall’uomo, e non necessariamente la migliore. È vistosa, rumorosa e impudente, ma è intrinsecamente superiore solo per coloro che hanno già deciso a favore di una certa ideologia, o che l’hanno accettata senza aver mai esaminato i suoi vantaggi e i suoi limiti. E poiché l’accettazione e il rifiuto di ideologie dovrebbero essere lasciati all’individuo, ne segue che la separazione di stato e chiesa dovrebbe essere

integrata dalla separazione di stato e scienza, che è la più recente, la più aggressiva e la più dogmatica istituzione religiosa. Una tale separazione potrebbe essere la nostra unica possibilità di conseguire un’umanità di cui siamo capaci, ma che non abbiamo mai realizzato compiutamente.42 Alle sue bambine Miyazaki sembra inoltre chiedere di rappresentare qualcosa che riguarda la sua vita adulta: conciliare quella che definisce «una forma di animismo» con il pensiero marxista, la tutela dell’ambiente e una concezione realistica del mondo e delle sue relazioni economiche, sociali e politiche. Anche Satsuki, Mei, Chihiro o Ponyo riescono a mediare tra la realtà quotidiana e tutto ciò che colpisce i sensi e l’intelletto senza per questo poter essere spiegato razionalmente. Una tale attitudine permette di essere elastici, aperti alla meraviglia e non tristemente dogmatici. Miyazaki e le bambine tengono aperta la porta, agli adulti non resta che cercare di entrare o dissolversi come schiuma del mare.

Ragazze Il prototipo cinematografico di tutte le ragazze disegnate e animate da Miyazaki è Clarissa, se non altro per una ragione cronologica. La bellezza, la sensibilità, il carattere romantico e allo stesso tempo coraggioso e responsabile che caratterizzano la protagonista di Lupin III: il castello di Cagliostro si ritroveranno nelle sue «sorelle», così come l’amicizia mista a rivalità con una donna adulta e più esperta – qui la scaltrissima Fujiko – verrà declinata da Miyazaki in molte varianti. Ma nonostante ciò non è comunque errato decidere di assegnare il ruolo di «prototipo» a Nausicaä. La principessa della Valle del Vento ha molto in comune con quella del piccolo stato di Cagliostro, ma tra le due c’è una differenza sostanziale: Clarissa ha una parte importante e indubbiamente attiva, ma per ovvie ragioni è Lupin III a essere incessantemente alla ribalta; Nausicaä invece, ha un ruolo centrale e la storia ruota attorno a lei, al suo coraggio, alla sua saggezza e al suo altruismo. È vero che i film di Miyazaki spesso prevedono scene corali, con molti comprimari e personaggi secondari trattati con la stessa cura riservata ai protagonisti, ma è innegabile che tra essi spicca sempre un’eroina – con le sole eccezioni di Lupin III: Il castello di Cagliostro, Porco Rosso e Si alza il vento. Sebbene alcuni studiosi e appassionati abbiano visto nel videoclip animato On Your Mark43 un congedo dall’eroina eccezionale per indole, bellezza e qualità morali, è difficile non trovare nella San de La principessa Mononoke la stessa determinazione di Nausicaä, la sua capacità di comunicare con la natura e il suo fascino per nulla scontato. Allo stesso tempo Kiki, pur nella sua singolare condizione di strega, è una ragazza comune: la nascita non le assicura un posto nel mondo e anche nell’aspetto i suoi vestiti modesti e i capelli lisci trattenuti da un semplice nastro rosso creano un doloroso contrasto con le eleganti e indisponenti amiche di Tombo. Se si ritorna poi per un attimo alle bambine, non si può non rilevare che la normalità di Mei e Satsuki le avvicina alle «nuove eroine» de La principessa Mononoke e de La città incantata, mentre la bellezza che progressivamente illumina Chihiro – e che viene dall’armonico svilupparsi del suo animo prima ancora che del suo fisico –, ha la stessa origine di quella dei modelli degli anni passati: conoscenza e rispetto di sé, da cui derivano amore e rispetto per il prossimo, insieme

a capacità di immaginare soluzioni non convenzionali, coraggio e determinazione nel metterle in pratica. Queste caratteristiche sono state appunto definite nel personaggio di Nausicaä, nata da una delle sintesi tra la cultura occidentale e quella orientale tanto frequenti nel cinema di Miyazaki. Nausicaä deve il suo nome alla principessa dei feaci che soccorse Ulisse ferito, lo ospitò nella sua reggia e se ne innamorò a tal punto da spingere i genitori a pregare l’ospite di lasciare la loro casa non appena rimessosi. Ma deve molto anche alla protagonista del racconto Mushi mezuru himegimi (La principessa che amava gli insetti), un racconto contenuto nella raccolta Tsutsumi chūnagon monogatari (Storia del secondo consigliere di Tsutsumi), che Miyazaki conosce fin da bambino: Una giovane donna, appurato che le belle farfalle nascevano da pelosi bruchi, cominciò ad amarli e rifiutò di curare il suo aspetto con la scusa che tutte le artificiosità create dall’uomo non dovevano essere prese in considerazione, che si doveva andare alle origini e non badare al risultato, e che i parametri di bellezza e bruttezza, o di bene e di male erano mere convenzioni. Tutti gli altri personaggi vivono secondo le loro emozioni, solo «colei che ama gli insetti» vive coerentemente le sue opinioni. Ma c’è di più: questo tipo di personaggio è raro non solo nella narrativa Heian, ma in tutta la storia letteraria giapponese; viene quindi da pensare che lo Tsutsumi chūnagon monogatari sia andato al di là di una semplice parodia, mettendo in luce verità fondamentali della condizione umana.44 Sebbene bambino, Miyazaki è colpito da questa ragazza e assai preoccupato per la sua sorte: Mi sono sempre chiesto come sia vissuta dopo la conclusione della storia. Al giorno d’oggi riuscirebbe certo a trovare qualcuno in grado di comprenderla e amarla, ma l’epoca Heian (794-1185) prevedeva tabù e convenzioni sociali molto rigide: che ne sarà stato di lei in un periodo storico del genere?45

Con i suoi film, Miyazaki ha in un certo senso costruito un luogo in cui la giovane aristocratica che non voleva piegarsi alle norme estetiche della sua epoca e si rifiutava di rasare le sopracciglia e annerire i denti potesse vivere secondo le proprie inclinazioni. Nella principessa che amava gli insetti e in quella dei feaci rapita dai racconti di Ulisse si potrebbe vedere il riflesso dello stesso Miyazaki al lavoro, consapevole della singolarità del proprio talento ma anche dei suoi limiti, dubbioso circa le capacità di resistenza Come sempre, Miyazaki non racconta la storia con il più alto indice di probabilità di avverarsi nella realtà o quella che soddisfa il maggior numero di luoghi comuni, ma parla di eccezioni, di eventualità, e crea un contrasto armonico tra l’originalità delle storie e l’estremo realismo visivo con cui sono raccontate. In spettatori frettolosi o orientati secondo precise ideologie, questa attitudine solleva spesso perplessità. Una delle obiezioni più frequenti rileva che le ragazze di Miyazaki non hanno un diretto corrispettivo nella realtà: la loro indipendenza mentale, decisionale e affettiva, insieme a un’empatia eccezionale, sembrano troppo idealizzate. Non solo, ognuna di loro ha poteri eccezionali che l’avvicinano a un modello culturalmente familiare per gli spettatori giapponesi come quello della miko, ovvero della sacerdotessa e sciamana shintō di cui si è detto in precedenza. Nausicaä ha il potere di comunicare con gli animali e questo potere è condiviso sia con Lana sia con San, sebbene quest’ultima parli con i kami e non con semplici animali. Tra Sheeta e Kiki, protagoniste rispettivamente di Laputa e Kiki’s Delivery Service, la caratteristica comune è il volo, un’abilità che è stata trasmessa loro dalle rispettive madri. Naturalmente la distinzione non è così netta, perché a volte chi sa volare parla con gli animali (Kiki) e viceversa (Nausicaä). A riguardo di questa capacità condivisa non bisogna però dimenticare una differenza presente nel personaggio di Kiki. La giovane strega parla con il suo gatto Jiji – e questi le risponde – in un linguaggio umano. Di per sé Kiki non parla né comprende il linguaggio degli altri animali: quando sta volando insieme alle oche selvatiche, non capisce che i loro richiami servono a prepararsi alla potente folata di vento che sta per colpire lo stormo; e poco dopo, quando è scambiata dai corvi per una ladra di uova, non riesce a comunicare con loro e non può placarne l’ira. In entrambi i casi è Jiji a farle da interprete, ma nel momento in cui Kiki perde la capacità di volare anche il suo gatto inizia a emettere solo miagolii.

La fine della magia coincide per entrambi con la scoperta di nuove persone e nuovi affetti: Jiji ha trovato la gatta Lily e Kiki ha incontrato Tombo. Non è un caso che le capacità di capire il gatto e di volare scompaiano dopo un pomeriggio iniziato nell’allegria e conclusosi con la brusca partenza di Kiki in seguito all’arrivo degli amici – e soprattutto delle amiche – del ragazzo. Lo sguardo improvvisamente indurito di Kiki, lo scambio di battute secche con Tombo, il passo deciso della ragazza sulla via di casa e il buttarsi a faccia in giù e a corpo morto sul letto sono una delle più acute e precise descrizioni di quel rapido passaggio dalla gioia all’irritazione e poi allo sconforto tanto frequenti nell’adolescenza. Solo chi ha una grande capacità di dimenticare può credere, da adulto, che l’adolescenza sia un’unica, luminosa giornata d’estate, perché nella realtà improvvise nubi attraversano l’orizzonte: il rimpianto dell’infanzia, la vergogna nel provare una simile nostalgia, il desiderio di essere uguale e allo stesso tempo di distinguersi dai coetanei. Eppure questo è il prezzo da pagare per recuperare in modo più consapevole i privilegi dell’infanzia. Quando Kiki segue Ursula nella foresta, si scopre che la pittrice ha sviluppato un tale livello di confidenza con i corvi che questi capiscono le sue parole, e quando Kiki rivolge loro le scuse per aver portato scompiglio qualche giorno prima, gli uccelli finalmente comprendono e si quietano. Se Ursula è l’incarnazione dell’equilibrio tra isolamento artistico e contatti umani – e non va dimenticato che Ursula stessa sta lavorando in questo senso e non è ancora arrivata a un punto di perfetta conciliazione, visto che vive sola in una piccola casa nella foresta –, il suo riuscire a comunicare con i corvi pur continuando a esprimersi nel suo linguaggio ha davvero il senso di una vittoria: come Ursula comprende i corvi perché ha imparato a conoscerli, così Kiki ricomincerà a capire il suo gatto senza che nessuno dei due venga meno alla sua specificità. Parlando di doni magici, sembrerebbe che Clarissa e Fio siano le uniche a non averne, anche se in realtà quest’ultima possiede un talento nel progettare e disegnare aerei che può essere considerato una sorta di dono magico. Così resta solo Clarissa a non avere una particolare abilità distintiva, e il suo ruolo sembra determinato dalla sola nascita. Indubbiamente ha molte qualità positive, ma forse la più grande malvagità compiuta dal Conte di Cagliostro nei suoi confronti è di averle impedito di scegliere liberamente il suo futuro per costringerla a un matrimonio d’interesse: di lei non conosciamo sogni, passioni o

desideri; sappiamo solo che non vuole e non deve sposarsi. Forse per questo Clarissa sembra mancare della vivida tridimensionalità che altre ragazze ricavano dall’avere qualche debolezza da vincere. Nausicaä deve controllare l’impulsività e Sheeta deve sconfiggere la paura; per Kiki è necessario superare lo sconforto provocato dalla perdita dei suoi poteri, mentre Fio ha bisogno di adattare alla realtà il proprio slancio vitale; San, infine, deve imparare la mediazione tra gli opposti per non divenire un guerriero incapace di fermarsi o un demone spinto dall’odio. Ognuna convive con il proprio lato debole, ognuna si sforza di domarlo e smussarlo, ma ciò non comporta un sicuro successo. Costruendo personaggi positivi ma segnati da un dubbio sulle proprie capacità o sul proprio destino, Miyazaki ottiene caratteri molto complessi e realistici in cui l’alternarsi di speranza e sconforto avviene in modo fluido e naturale, con grande vantaggio per la credibilità dei personaggi stessi. La ricerca della verosimiglianza attraverso i registri dissonanti proposti dalle protagoniste femminili è spiegata da Miyazaki in modo efficace e lineare. La prima spiegazione, istintiva, è che, in quanto uomo, trova più interessante vedere in azione una ragazza valorosa e dal passo baldanzoso piuttosto che un ragazzo con lo stesso atteggiamento. Ma, in quanto artista che ama contraddire le regole, è facile immaginare quanto una donna d’azione sia per lui preferibile: gli esempi sono rarissimi, mentre le possibilità di realizzare qualcosa di non prevedibile sono enormi. Scegliere un personaggio femminile come protagonista libera da molti stereotipi relativi al film d’avventura e alla definizione dell’eroe: le motivazioni non sono più il narcisismo legato al compimento di un’impresa impossibile o alla vendetta e lo scontro non si limita all’eroe e all’antagonista, ma diventa universale. Secondo Miyazaki, infatti, gli eroi maschili sono adatti a situazioni circoscritte in cui la storia si basa sull’assunto che una volta eliminato il malvagio tutto andrà bene. La conclusione logica è che, non essendo interessato a questo tipo di storie «confortevoli», deve ricorrere alle eroine per poter raccontare di un mondo che preveda il bruco e la farfalla, il Bene e il Male, Nausicaä e Kushana, Sheeta e Muska, San ed Eboshi. Per questo, il voler vedere nei suoi film un’intenzione femminista o un desiderio di esclusione degli uomini dalla storia non solo si allontana dalle intenzioni del regista – orientate verso la complessità e la simultaneità e non verso la semplificazione e gli aut aut –, ma le

manipola in modo tanto scorretto quanto inutile. Come osserva Helen McCarthy a riguardo della pietra che Sheeta ha ricevuto dalla balia, essa sembra trasmessa per via matrilineare, ma il giudizio verso questo ipotetico potere matriarcale non è necessariamente positivo, dal momento che Laputa è stata governata da un’élite sprezzante e crudele.46 Tolleranza, capacità di ascolto, altruismo e compassione sono in realtà doti legate alle inclinazioni individuali, non al genere. È importante ricordare che, nel distribuire tra le protagoniste – comprese tra un’età approssimativa di tredici e diciotto anni – caratteristiche proprie delle miko, Miyazaki sta facendo riferimento a modelli culturali familiari, ma non sta scrivendo né un pamphlet politico né un saggio in sostegno del matriarcato. Si può piuttosto affermare che, ancora una volta, ricorre a un’immagine consueta al suo pubblico d’elezione per esprimere un concetto universale. E se il pubblico giapponese apprezza tutte le sfumature di ciò che vede e ascolta, questo non impedisce al pubblico occidentale di comprenderne il senso: come i poteri delle miko emergono nell’adolescenza per affinarsi con l’età e la pratica, così i «poteri creativi» – quello che comunemente chiamiamo talento – si precisano in questa fase evolutiva. E spesso i problemi che sollevano sono simili. Nausicaä è all’oscuro di un’antica profezia che indica in un essere alato vestito di blu l’elemento di pacificazione tra il mondo degli uomini e quello della natura: soltanto combattendo per ciò che ritiene giusto potrà capire se la profezia la riguarda o meno. Anche Sheeta ha un potere ereditario di cui ignora la provenienza e la portata, e solo la volontà di conoscere le darà delle risposte. Quando Kiki non riesce più a volare e trova rifugio da Ursula, scopre che l’amica ha attraversato un periodo di crisi creativa assai simile, nei sintomi e nelle conseguenze, all’improvvisa scomparsa delle doti su cui la giovane strega faceva affidamento. Ed è proprio Ursula ad accostare la pittura alla magia e a incitare l’amica a coltivare un’inclinazione naturale che, come tutti i doni innati, ha bisogno di pratica e costanza per crescere e radicarsi. Contrariamente però a quello che si potrebbe pensare, Ursula non consiglia a Kiki di ostinarsi, ma piuttosto di liberare la mente e lo spirito da tutto ciò che la confonde e la inquieta: le novità della vita quotidiana, Tombo, le scarpette rosse, l’anziana signora gentile e la sua giovane, insolente nipote, la nostalgia di casa, il dolce delle vittorie e l’amaro delle

sconfitte. Per farlo Kiki non deve accanirsi in maniera ottusa, ma deve passeggiare, guardare il paesaggio e «perdere tempo», perché solo così può fare davvero sue le esperienze e le lezioni che ha imparato. Come i poteri della strega – e della sciamana, che ugualmente si stacca da terra –, anche quelli della pittrice occupano tutto lo spazio e il tempo disponibili, dando tanta gioia quanta è l’amarezza e lo sconforto che riescono a provocare. Per questo Kiki ha lasciato la casa dei genitori e porta la divisa di apprendista, e per questo Ursula vive nella foresta e i suoi vestiti vengono scambiati per quelli di un ragazzo: in questa fase della loro vita lo spirito della pittura e quello della magia le assorbono completamente. Per uscire dall’adolescenza e accedere alla maturità, devono esplorare i limiti del loro talento, qualunque esso sia. I dubbi e gli slanci delle due ragazze sembrano riflettere la biografia dello stesso Miyazaki alla loro età, quando il desiderio di disegnare superava quello di capire come farlo. Se Ursula è per età ed esperienza prossima a comprenderlo, Kiki deve imparare che un’inclinazione ereditaria ha comunque bisogno di essere coltivata per poter essere gestita in modo personale, senza cedere alla tentazione di imitare lo stile altrui. Ereditare un talento è un buon punto di partenza, ma è un fallimentare punto d’arrivo. Considerata la loro età, non sorprende che queste ragazze appartengano a due mondi in cui si sentono egualmente estranee: Nausicaä è divisa tra il mondo abitato dagli esseri umani e quello abitato dagli Ohmu; Sheeta è letteralmente sospesa tra cielo e terra; Kiki è mossa tra la nostalgia di casa e l’eccitante bellezza della nuova città; Fio appartiene tanto alla sicurezza del laboratorio quanto all’Adriatico su cui vola libero Porco Rosso; San nasce tra gli uomini ma cresce tra gli dei. Tutte non hanno ancora scelto tra comportamenti maschili o femminili e così deve essere: Miyazaki fissa l’attenzione su di loro proprio perché stanno cercando una via, non perché l’hanno trovata. Senza negare l’importanza dell’amore e dei legami di amicizia, rifiuta la tendenza della maggior parte degli shōjo manga e, invece di enfatizzare temi legati ai rapporti sentimentali, si concentra sullo sviluppo della personalità sociale e pubblica delle eroine. Forse è vero che nella realtà non esistono ragazze come quelle disegnate da Miyazaki, e forse è ancora più vero che l’animazione usa

la sua capacità ricreativa per allestire delle grandi bugie, ma l’esempio che fornisce alle coetanee di Nausicaä, Sheeta, Kiki o San è quanto di più attivo e propositivo possa offrire loro il cinema di oggi e di ieri, in Oriente come in Occidente.

Donne (e mamme) Accanto a ogni bambina e a ogni ragazza c’è sempre una donna adulta che, a seconda del contesto, può esserne amica, rivale o madre. O tutte e tre le cose insieme. Per gli appassionati di Lupin III, Fujiko è un personaggio proverbiale, non solo per la sua bellezza ma soprattutto per le sue straordinarie doti di ladra, spia e trasformista. Nelle storie di Monkey Punch47 – così come nelle serie televisive o in altri lungometraggi ispirati al manga – il suo ruolo è forse più spiccato di quanto non lo sia ne Il castello di Cagliostro, eppure in questo film il personaggio si definisce con particolare precisione grazie al confronto con Clarissa. La diversità dei loro caratteri è evidente già nell’aspetto: Fujiko – il cui cognome, Mine, significa «picco» o «sommità» e ben si adatta sia all’acutezza del suo ingegno sia al fisico prosperoso – è perfettamente consapevole dell’effetto che produce la sua avvenenza, ha capelli lunghi e voluminosi che spesso nasconde sotto parrucche e quando non è travestita da governante indossa abiti attillati, mimetici e accessoriati di armi di ogni tipo. In Clarissa, i tratti virginali sono accentuati in modo da sottolinearne la scarsa conoscenza del mondo e la natura gentile e fiduciosa: spesso è vestita di bianco o con giudiziose gonne e tranquille camicette, senza nulla nel viso, nel corpo o nell’atteggiamento che tradisca sensualità o provocazione. Clarissa rappresenta il lato luminoso della famiglia Cagliostro e tutto in lei deve essere delicato, fragile, bisognoso di protezione, senza però essere passivo o lezioso. La differenza di esperienze e aspettative si manifesta più nettamente quando si osservano i comportamenti tenuti dai due personaggi nei confronti di Lupin. Il ladro internazionale e Fujiko sono legati in modo funzionale alle vite che hanno scelto: ora complici e ora rivali, si attraggono e si respingono in un continuo gioco di fughe e inseguimenti professionali e sentimentali. E non potrebbe essere altrimenti, visto che Lupin non può avvicinare una ragazza senza corteggiarla e Fujiko non può resistere alla tentazione di sedurre – e derubare – ogni ricco pollo che le passa accanto. Il loro motto potrebbe essere «né con te né senza di te» e sotto tutti i punti di vista sono perfettamente assortiti.

Nel rapporto tra Fujiko e Clarissa è sottintesa la rivalità, perché la prima cerca qualcosa (il tesoro) che è di proprietà di Clarissa e la seconda, pur in modo discreto, gentile e quasi involontario, vorrebbe sottrarre a Fujiko qualcuno (Lupin) che, pur in maniera altalenante, le appartiene. Non per questo una sarà meno leale verso l’altra, e anzi la vicinanza di Fujiko non mancherà di infondere coraggio alla principessa. Per una persona tanto indipendente e determinata è inconcepibile vedere una ragazza costretta a subire la volontà altrui. Se poi si riesce a portar via qualcosa di valore mentre la si libera, tanto di guadagnato! Una coppia di personaggi legati da un rapporto di rivalità e amicizia si trova anche in Porco Rosso, sebbene in Gina e Fio gli estremi siano meno marcati e dunque risultino più realistici. Gina ha conosciuto molte gioie e ha patito altrettante delusioni: è stata sposata con tre piloti tra loro amici che, uno dopo l’altro, sono morti; ora l’unico legame con il passato è rappresentato da Marco che, pur amandola da sempre, ha rinunciato a lei così come ha rinunciato alla propria umanità. Gina è una donna dall’eleganza semplice e raffinata, una vera signora capace di azioni illegali se queste servono a tutelare la libertà delle persone che ama, la cui sensibilità è temperata da un’intelligente ironia. E, infatti, quando Marco sembra incapace di battere Curtis e di sottrarre Fio a un indesiderato matrimonio, lei gli indirizza una battuta che da sola riassume la loro lunga e silenziosa storia di amicizia e amore: «Stai per rendere infelice un’altra donna?». L’età e l’esperienza non l’hanno resa cinica o delusa: piuttosto sembrano averne addolcito la vitalità e l’entusiasmo. Queste caratteristiche sono ancora intatte in Fio Piccolo che, a diciassette anni, si trova a sostituire i progettisti della sua famiglia, emigrati all’estero in cerca di fortuna. Fio vuole essere presa sul serio da Porco Rosso perché è consapevole delle sue straordinarie capacità professionali: sul lavoro dimostra ben più di diciassette anni. Ma, da un punto di vista sentimentale, è assolutamente vulnerabile: per lei Marco non è solo un’opportunità per mettere alla prova il proprio talento, ma è un uomo misterioso e affascinante. Anche Marco non è insensibile a Fio e a tutto ciò che essa rappresenta: giovinezza, speranza e fiducia nel mondo. E il reiterato «Giù le mani» con cui il nonno di Fio previene i desideri e i sentimenti di Marco rende comico ciò che potrebbe facilmente diventare

frustrazione, malinconia e rimpianto. Più decisa, indipendente e intraprendente di Clarissa, la giovane Piccolo ha un aspetto sportivo, veste abiti da lavoro e l’unico vezzo che si concede è un cappellino di paglia. Anche in questo caso, ciò che distingue la donna dalla ragazza è la consapevolezza della propria femminilità, insieme alla convinzione che questa non sia un ostacolo per vivere una vita avventurosa e interessante. E Miyazaki sottolinea che: Se incontrassi una donna come Gina e una femminista assolutamente «politically correct», penso che preferirei parlare con Gina. Questo perché cerca di essere se stessa e anche in una società dominata dai maschi prova a esprimere i suoi sentimenti e desideri. Anche in circostanze difficili una donna può esprimere se stessa se è forte, e credo che Gina lo sia.48 Non sempre la rivalità si risolve in amicizia, perché esistono antagonismi insanabili generati dall’ideologia o dallo stile di vita. In ogni caso nei film di Miyazaki non viene mai meno il rispetto, nemmeno per l’avversario più accanito. In questo secondo tipo di relazione, legata a un diverso approccio esistenziale, le parti sembrano invertite: chi conserva tratti più profondamente femminili – legati alla compassione e alla tutela degli esseri viventi – sono le ragazze, perché le donne hanno dovuto assumere responsabilità, ruoli e atteggiamenti maschili. Questo è sicuramente il caso di Nausicaä e Kushana: la prima manifesta sin da piccola un desiderio profondo di capire le creature viventi, la seconda è apparentemente mossa da una rigorosa logica militare. Ma, in realtà, la ragione principale che muove Kushana contro gli Ohmu è il desiderio di vendetta, e allora la differenza tra lei e la principessa della Valle del Vento diventa ancora più radicale perché, quando Kushana le uccide il padre, Nausicaä rinuncia a vendicarsi e cerca solo di fermare la folle corsa degli esseri umani verso la distruzione. Se Nausicaä è l’ideale di comunione e comprensione a cui tutti dovremmo tendere per poter sopravvivere, Kushana sembra essere la constatazione di ciò che normalmente è l’umanità: convinta delle proprie ragioni al punto da divenire sorda al dolore altrui. Per questo, se è difficile provare simpatia per la guerriera di Tolmekia, è altrettanto difficile per gli spettatori odiarla in modo schietto e puro così

come accade con il Conte o con Muska. Ancora più difficile è provare odio per Eboshi, grazie soprattutto al tempo, alla cura e all’affetto con cui Miyazaki ha lavorato al suo personaggio, immaginando per lei una storia che non è destinata ad apparire sullo schermo ma di cui si vedono le conseguenze: fuggita dal marito e obbligata a prostituirsi all’estero, è ritornata nel paese natale portando con sé le armi da fuoco. La prosperità in cui ora vive la signora e padrona di Tataraba nasce dal dolore e dall’umiliazione: questo forse non rende condivisibile l’accanimento di Eboshi contro la foresta e i suoi abitanti, ma in qualche modo lo spiega. La donna adulta che ha visto il mondo anche contro la sua volontà riesce a guardare molto più lontano di quanto non siano capaci di fare la feroce generosità e disperazione di San. Quello che San non ammette ed Eboshi sa è che la foresta dello Shishigami, così come è conosciuta, è destinata a soccombere: forse rinascerà sotto altre forme, ma il tempo che rappresenta è passato per sempre. Se Porco Rosso aveva affidato a Gina il compito di riportare Fio nel mondo reale, Eboshi –, che ha ridato indipendenza e dignità a tutte le donne segregate nei bordelli circostanti – sembra caricarsi di questa responsabilità quando dichiara che la fine della foresta del Dio Cervo porterà ricchezza e soprattutto riporterà San al mondo che le appartiene. Il problema è: a quale mondo appartiene San? Nella sua lotta per sopravvivere, Eboshi non ha più il tempo per i dubbi morali che assillano Jean Itard, lo scienziato, osservatore, custode e padre sostitutivo de Il ragazzo selvaggio di Truffaut. Ma la ragazza che corre con i cani selvatici e la donna che soccorre prostitute e lebbrosi sono più vicine di quanto non siano disposte ad ammettere. Le molle che le muovono sono simili – sopravvivenza, conservazione di sé e del proprio mondo –, solo che in San queste agiscono con l’immediatezza di un istinto primitivo, mentre in Eboshi trovano la mediazione della civiltà e della tecnologia: i simboli di San sono la maschera e la pelliccia bianca da lupo, quelli di Eboshi il fucile e il martelletto per saggiare la qualità del ferro. E, come osserva Ashitaka, entrambe sono possedute da un demone. Il pragmatismo di Eboshi, il suo non avere alcun timore del sacro, la convinzione che ci sia un posto per ogni cosa e persona sembrano anticipare il senso pratico della madre di Chihiro, con la differenza che la freddezza di quest’ultima non nasce per autodifesa ma piuttosto per mantenere una situazione di pacifico benessere. Accostando le donne

presenti in Porco Rosso, La principessa Mononoke e La città incantata, ovvero Gina, Eboshi e Yūko, si può notare che adoperano tutte il trucco: sul viso di Gina completa l’elegante femminilità di un abbigliamento raffinato; in Eboshi sottolinea, insieme agli abiti impeccabili e alla pettinatura ricercata, il suo status di padrona morale e materiale della città del ferro; su Yūko, infine, accentua l’aspetto da signora «come si deve» e le sottrae colore e calore in una progressiva perdita di fascino. La madre di Chihiro è piuttosto atipica perché manca della capacità di ascoltare, sostenere e comprendere, non per un eccesso di personalità – come Eboshi –, ma per una forma di pigrizia mentale. Così, vedere Chihiro aggrappata al suo braccio mentre attraversano la galleria ha un doppio significato: anche la madre più rigida è necessaria ai suoi figli ed è necessaria persino quando li assilla in situazioni innocue – come presumibilmente accade a Chihiro –, e non riconosce le circostanze in cui sono davvero minacciati. Il suo corrispettivo più prossimo è Yubaba, talmente devota al piccolo Bō da tenerlo rinchiuso nella sua cameretta sepolto sotto cuscini e giochi e ossessionato dalla paura dei germi pronti ad aggredirlo. Al contrario, Linn – per Chihiro una guida, un’alleata e una sostituta della madre –, riesce, con i suoi modi disinvolti e burberi, a spingere Chihiro verso l’indipendenza rendendola più sicura di sé e del proprio valore. Quali fossero i rapporti tra la madre e il padre di Sophie, prima della morte di quest’ultimo, non è specificato ne Il Castello Errante di Howl, ma sicuramente la figura paterna doveva avere un ascendente – non solo dal punto di vista professionale –, così forte sulla figlia da spingerla a compiere scelte non condivise dal resto della famiglia. Lettie, la sorella di Sophie, e sua madre sono estremamente femminili nei modi e la loro somiglianza è palese: capelli biondo fragola, occhi e bocca truccati con cura, ornamenti e abbigliamento non eccessivi ma comunque dai colori vividi. Il contrasto con gli abiti dimessi, il viso acqua e sapone e i capelli scuri di Sophie è netto e lascia supporre che lei sia una versione femminile del padre. Ciò che davvero distingue la madre da Lettie è l’atteggiamento verso Sophie: mentre la seconda la solleva dalle preoccupazioni con cordiale gaiezza e affetto sincero, la prima consuma tra mille rimorsi un grave tradimento diventando uno dei molti mezzi usati da Suliman per raggiungere Sophie e, attraverso di lei, Howl. Se tra Sophie e la madre esiste un rapporto conflittuale e

antagonistico, questo non è tanto dettato dalla cattiveria della donna quanto piuttosto da una certa superficialità che le fa preferire un ruolo sociale sicuro – si è risposata con un uomo gentile e, soprattutto, ricco e senza dubbio con una posizione di potere –, ma anche facilmente esposto al compromesso e alla convenienza. Come per la madre di Chihiro, anche per quella di Sophie la forma prevale sul contenuto, impedendole di svolgere il suo ruolo: questa donna fragile si getta tra le braccia di una figlia dall’aspetto e dalla saggezza di una nonna perché Sophie può darle protezione ma non viceversa. Nell’ideare i diversi tipi di madre, Miyazaki è sempre partito da un identico modello, la sua stessa madre, di cui tutte queste figure femminili conservano una traccia. A questa si fa riferimento a proposito di Totoro, sia perché l’esperienza di Satsuki e Mei è basata sui ricordi d’infanzia del regista e sulla lunga malattia della madre, ma anche perché la forzata assenza non ne ha mai indebolito il ruolo all’interno del nucleo familiare, esattamente come accade per Kusakabe Yazuko. La famiglia si è trasferita per starle vicino, il marito e le bambine la fanno partecipe di tutti i dettagli della loro nuova vita e lei ricambia ascoltando con interesse, facendo progetti per quando saranno di nuovo insieme e osservando come le personalità di Mei e Satsuki si sviluppano e si differenziano. Nella dinamica della narrazione Ponyo sulla scogliera è quasi speculare a Il mio vicino Totoro: se in quest’ultimo è il padre a svolgere tutti i ruoli domestici a causa della mancanza temporanea della moglie, nel primo è Risa a essere il capofamiglia in carica, mentre Koichi, capitano di una nave, è spesso lontano da casa. Risa è energica e determinata, un punto di riferimento per il figlio e il marito ma anche per le anziane ospiti della Casa dei Girasoli in cui Risa lavora. In lei affetto e modi risoluti, senso pratico e accettazione dell’incredibile trovano un equilibrio plausibile: come Granmammare a Ponyo, Risa fa “un sacco di paura” a Sōsuke ma allo stesso tempo è impossibile non volerle bene. La natura schietta e indomita della donna la rende capace di affrontare la tempesta che la magia di Ponyo ha scatenato e ad accettare l’assurdità di un pesce che, diventato bambina, mangia ramen nella sua cucina, e senza smettere, nel frattempo, di trovare soluzioni concrete allo stato di crisi. Se Koichi viene trascinato lontano dalla tempesta e Fujimoto è trascinato ancora più lontano dalle proprie

ambizioni, dall’amore e dalla soggezione verso Granmammare, Risa sta ben salda sulla scogliera e da lì fa in modo che la situazione non sfugga di mano in modo irreversibile. Di fatto la donna affronta la vita come affronta la strada costiera che collega la sua casa al pensionato: con piglio risoluto e una non piccola dose di incoscienza. Ma Risa non è una super-eroina, è un essere umano che prova sconforto e delusione, così, quando Koichi non mantiene la promessa di tornare a casa, si lascia prendere dalla rabbia, dalla delusione e dallo sconforto in modo così realistico e psicologicamente articolato da suscitare il sospetto che a una scena del genere Miyazaki abbia assistito da bambino e che, una volta adulto, l’abbia a sua volta provocata. Si tratta di un sospetto piuttosto legittimo se si considera che per la definizione di Sōsuke il regista si è ispirato al proprio figlio Goro quando questo aveva circa cinque anni. Tutta l’energia che la figura materna possiede esplode con vivacità in altre tre madri, tutte con i capelli rossi o rosso-castani, tutte dall’ampia figura e dalla risata cordiale. La moglie del Boss, il capo di Pazu, è l’esatto corrispettivo del marito: grazie al corpo massiccio e all’ampio seno, è capace di mandare al tappeto con un colpo di padella ben assestato chiunque minacci la sua famiglia, di cui Pazu – e Sheeta –, fanno naturalmente parte. Dai modi più cordiali e sereni ma egualmente terribile all’occasione, anche Granmammare incede avvolta nei suoi fluenti capelli rossi, enorme nella sua forma divina, più piccola ma sempre imponente quando si fa vedere dagli umani. La sua saggezza e il suo affetto, il suo trattare la figlia in modo insieme responsabile e coraggioso, appoggiandola nel sottoporsi alle prove della vita invece di sottrarsi, contrasta con i timori e le paure di Fujimoto, tutto teso a evitare alla figlia ogni delusione e turbamento. La spontaneità, il calore umano e la generosità si ritrovano in Osono, solare icona materna dai capelli rossi che dà a Kiki riparo, lavoro e fiducia in se stessa. Osono è vistosamente incinta e la condizione le si adatta perfettamente, così come è adatto a lei il lavoro nella panetteria, a stretto contatto con il mondo. Il suo personaggio rappresenta una riuscita mediazione tra la famiglia e il lavoro, così come Kokiri, la madre di Kiki, sempre mostrata nella sua serralaboratorio intenta a preparare filtri e pozioni curative. Non più mosse, per età ed esperienza, dallo slancio utopico di quelle che sono o potrebbero essere le loro figlie, esse restituiscono al ruolo di donna lavoratrice, di madre o di moglie la complessità che si può osservare

nella vita reale: nel bene e nel male non è trascurata alcuna sfumatura. Nahoko Satomi è in questo senso emblematica. Fisicamente fragile e malata, è però il fulcro della vita umana e professionale del marito. Allo stesso tempo, è anche un segno del destino e un’allegoria. Il primo incontro tra Jirō e Nahoko avviene sul treno che sta riportando il primo a Tokyo, pochi minuti prima del terremoto che sconvolgerà la provincia del Kanto nel 1923. È la ragazza a citare per prima la poesia di Valèry che dà il titolo al film; dopo averlo fatto aspetta, con fiducia, che Jirō completi la citazione. Come Nahoko confesserà anni dopo, quando si rincontreranno casualmente durante una villeggiatura in montagna, quel giorno il giovane ingegnere le era apparso come un eroe, un’immagine conservatasi intatta per anni. Anche Jirō non ha dimenticato quell’incontro avvenuto in circostanze tanto drammatiche, sebbene un destino bizzoso avesse teso loro la mano solo per ritirala subito dopo. Nahoko potrebbe essere un personaggio debole, limitata com’è dalla tubercolosi e dalle convenzioni sociali49 eppure, all’interno di questo stato, manifesta determinazione, forza di volontà e indipendenza pari a qualsiasi altra donna immaginata da Miyazaki. Consapevole di non avere più tempo per iniziare a vivere secondo i propri desideri, forza i tempi, raggiunge il fidanzato a Nagoya, lo sposa e gli sta accanto durante la realizzazione del prototipo del caccia navale Zero e il giorno del collaudo lascia la città per sottrarre se stessa e il compagno al dolore e all’umiliazione della malattia ormai inarrestabile. In ogni suo gesto, anche in quelli di protezione e accudimento, c’è una forza d’animo e una volontà inscalfibile e fiduciosa che Jirō, da solo, non sarebbe in grado di trovare. Alla fine della guerra, accanto alla fantasmagoria di Caproni, è il ricordo di Nahoko a convincere Jirō a continuare a vivere, sebbene il vento si sia alzato impetuoso e abbia trascinato con sé il talento del progettista, la sua vita familiare e il Giappone tutto.

Nonne, balie, sciamane e streghe Quando si cita Il mio vicino Totoro come il film che descrive l’infanzia di Miyazaki, si ricordano i molti riferimenti scenografici – il grande albero della canfora, la scala in casa Kusakabe, il paesaggio agreste – e soprattutto il motivo che avvia la macchina narrativa, ovvero la malattia della madre. Viene allora spontaneo pensare che la madre del regista assomigliasse alla convalescente Yazuko: il viso pallido, i capelli raccolti e l’espressione dolce e affettuosa. Pare invece che, per i fratelli Miyazaki, il personaggio che ricorda di più il carattere della madre sia la Ma Dola di Laputa: un donnone grande e grosso, con due fitte trecce rosse, un paio di pistole infilate nella cintura e un’indole decisa, concreta e apparentemente spietata. In realtà Dola nasconde un cuore tenero ed è capace di gesti di grande altruismo. Di sicuro né i numerosi figli né Pa, il meccanico che si occupa di far funzionare l’aereo pirata con cui Dola va a caccia di tesori, si sognerebbero di prendere i suoi ordini alla leggera. E si potrebbe supporre che anche i fratelli Miyazaki – veri figli giapponesi di una vera supermamma giapponese – non avessero nessuna convenienza a sottovalutare i precetti della loro Ma Dola. Ma Dola è un personaggio che sta al limite tra le donne e le nonne. Il suo atteggiamento nei confronti di Pazu e Sheeta è materno e protettivo, mentre il suo aspetto è simile a quello delle obāsan50 degli altri film di Miyazaki: viso largo, naso pronunciato, pochi denti, abiti di un’altra epoca, non importa se occidentale o giapponese. Il ruolo delle nonne – ma anche delle balie e delle sciamane – è quello di mettere i protagonisti a parte di informazioni essenziali per il buon esito dell’avventura in cui sono impegnati. E non potrebbe essere altrimenti, visto che conservano il sapere e la memoria di un’epoca o di un mondo lontani. È una di queste donne a svelare a Nausicaä il significato del dipinto in cui si preannuncia l’arrivo di un salvatore vestito di blu che, giungendo nella Valle del Vento su un mare d’oro, riporterà l’equilibrio tra il genere umano e la natura; gli incantesimi di difesa e quello terribile di distruzione sono stati insegnati a Sheeta dalla balia, ed è l’anziana vicina di casa a rassicurare Satsuki e Mei dicendo che è del tutto normale trovare dei Nerini della polvere in casa o dei Totoro nella

foresta. Persino in un film come Porco Rosso, in cui non c’è un ruolo preciso per le nonne, viene ritagliato un piccolo spazio per loro: le tre anziane aiutanti dei Piccolo con i grandi nasi, i vestiti neri, lo spirito arguto e la battuta pronta sono la riproduzione di quella che per Miyazaki è una nonna italiana degli anni trenta. Attorno a Kiki si raccolgono invece tre anziane signore, tutte ugualmente ben disposte nei suoi confronti. Dora, cliente di Kokiri, è una vispa vecchietta dallo sguardo miope ma acuto, l’espressione benevola e un guizzo di civetteria riflesso dal cappellino decorato con rose di stoffa. Madame è colei che affida a Kiki una delle prime delicatissime missioni: consegnare un pasticcio alla festa della nipote, una delle ricche, viziate e insolenti amiche di Tombo. L’eleganza, la raffinatezza e la gentilezza della signora creano un piacevole contrasto con la terza «versione» di donna anziana: la rumorosa governante di Madame, capace di comici entusiasmi infantili, appassionata di aerei e di tragedie televisive trasmesse in diretta. Anche per Chihiro, l’aiuto e le indicazioni di Zeniba sono essenziali per ritrovare i genitori e il fermacapelli che riceve in dono da questa non solo la protegge nell’ultima prova, ma è l’unica tangibile traccia della sua esperienza nel mondo degli dei. Il soggiorno a casa di Zeniba le permette inoltre di capire meglio la vera natura di Yubaba: a dispetto della sua collera, del suo potere e dei suoi incantesimi, poco prima della fine del film Chihiro la saluta chiamandola nonna. E sebbene si sforzi con mille smorfie di manifestare indifferenza, Yubaba ne è sorpresa e commossa. Simili caratteristiche si ritrovano ne Il Castello Errante di Howl anche in Suliman e nella Strega delle Lande, due donne anziane e legate da una precisa gerarchia: la prima è una fattucchiera di corte, istruisce i giovani maghi e tutela ed è tutelata dal potere ufficiale; la seconda è con ogni probabilità un’ex apprendista arrogante e presuntuosa destinata a perdere un potere che non riesce più a controllare con le sue modeste forze. L’una è la negazione dell’altra: Suliman è minuta e vestita in modo sobrio, la Strega ama gli abiti e i cappelli vistosi e la sua mole è tale da essere a stento contenuta nella portantina in cui viaggia; la prima è arguta, fredda e calcolatrice, apparentemente distaccata da ogni impulso o passione; la seconda, impulsiva e avventata, resiste a fatica al desiderio di divorare, alla sua veneranda

età, un giovane cuore maschile. In altre parole, Suliman incarna la vecchiaia potente e oppressiva, mentre la Strega rappresenta quella capricciosa, petulante e infantile. Al contrario della coppia formata da Zeniba e Yubaba, che si dividono i ruoli di aiutante e avversaria di Chihiro, Suliman e la Strega delle Lande sono per Sophie un ostacolo: non solo la Strega le ha lanciato una potente maledizione che nessun essere umano può sciogliere, ma entrambe hanno individuato nella ragazza il punto debole del mago Howl e dunque non la risparmiano in alcun modo. Eppure, se non ci fosse stato quel sortilegio, Sophie sarebbe rimasta chiusa nel suo bozzolo e, se non ci fossero state le parole taglienti e provocatorie di Suliman, non avrebbe preso coscienza del suo amore per il mago. Quando Suliman si arrende all’inevitabile lieto fine distendendo i tratti del suo volto impassibile, non si può non attribuire tale attitudine all’età avanzata che ne smussa durezze e ambizioni. Risulta dunque evidente la continuità tra il suo comportamento e le molte occasioni in cui la Strega delle Lande, diventata una vecchietta rimbambita e simpatica, ascolta le accorate preghiere di una ragazza che ha smesso di essere la sua rivale e l’accudisce come fosse la propria nonna. Anche le tre ospiti della Casa dei Girasoli, che in Ponyo sulla scogliera svolgono la funzione di nonne d’elezione di Sōsuke, rappresentano tre diversi modi di invecchiare, determinati da tre diverse attitudini verso la vita e le sue prove. Mentre la signora Yoshie e la signora Noriko rimpiangono quietamente un’età in cui le loro gambe erano ancora capaci di correre e hanno un atteggiamento affettuoso e accondiscendente verso il bambino, la signora Toki è nervosa, scontrosa, vede sempre il lato negativo di ogni cosa e non si fa riguardo di apostrofare Sōsuke. Yoshie e Noriko, come vere nonne, sono entusiaste di ogni regalino che il bambino porta loro e quando si presenta con il secchiello in cui ha sistemato Ponyo manifestano una curiosità e una gioia sincere; al contrario, Toki si spaventa e comincia a gridare che un pesce dal volto umano deve essere riportato subito in mare, altrimenti arriverà uno tsunami –, come effettivamente accadrà quando Ponyo comincerà a usare la magia in modo incontrollato. Toki è anche molto sospettosa e quando Fujimoto porta le anziane ospiti e Risa sott’acqua per incontrare Granmammare, la donna si rifiuta di seguirlo. Non solo: cercherà anche di convincere Sōsuke a non fidarsi del padre di Ponyo e, rivelando inaspettate doti atletiche,

cercherà di sottrarre il bambino alla prova che lo attende in fondo al mare. Ma dopo aver sfidato la pazienza di Fujimoto e aver perso, Toki si adatta alla nuova situazione: si unisce alla compagne, sostiene con loro Sōsuke nella prova che Granmammare ha previsto per lui e Ponyo e alla fine ritorna sulla terraferma più agguerrita di prima. In un film in cui è ribadita l’importanza di non giudicare dalle apparenze, questi personaggi, che rivelano una natura più generosa e disponibile di quello che sembra, acquistano una luce particolare, che si aggiunge a quella con cui viene illuminato quanto di valido e vitale c’è nella vecchiaia. Come per Fio Piccolo era importante andare oltre la giovane età per vedere il suo talento di progettista, così anche per i personaggi più anziani è importante che lo spettatore capisco quanto lo spirito delle persone, la loro determinazione e le loro capacità non sono e non devono essere limitati all’età anagrafica. L’unico protagonista maschile che si fa guidare dalla saggezza e dai poteri di una donna anziana è Ashitaka, ne La principessa Mononoke. Dopo l’aggressione del Tatarigami viene infatti soccorso da Hisama, autorità religiosa e politica del villaggio modellata sulla figura della regina Himiko. Hisama indossa abiti e ornamenti propri di una miko, officia un rito per placare lo spirito del dio adirato e, in seguito, predice il destino di Ashitaka usando la divinazione. Nelle sue parole è contenuto il senso di tutti i gesti, di tutte le rivelazioni e di tutti i discorsi pronunciati negli altri film dalle obāsan: bisogna guardare i fatti con sguardo limpido e privo di pregiudizi. Un’azione che solo i più giovani e i più vecchi sono in grado di compiere.

Sophie, sintesi di tutti i ruoli femminili Se quello dei film di Miyazaki è un mondo che, per difetto o per eccesso, sfugge ai limiti imposti dalla realtà quotidiana e dalla ragionevolezza della mezza età, è chiaro che ai giovani e agli anziani sono permesse libertà eccezionali. Non sorprende allora che il regista abbia accolto con entusiasmo la possibilità offerta dal romanzo di Diana Wynne Jones Il castello magico di Howl di dare vita a un personaggio in cui l’energia della giovinezza si salda con la disillusione della vecchiaia. Miyazaki descrive lo sconcerto e la fatica di una ragazza costretta nel corpo di una novantenne con la stessa libertà dagli stereotipi che lo ha guidato nella definizione dei personaggi dei film precedenti. Contrariamente al luogo comune che individua nella giovinezza l’età delle massime potenzialità, una giovane personalità può trovarsi limitata nei desideri e nelle azioni dalla propria inesperienza, dall’insicurezza o da un senso del dovere inderogabile. Pur senza che i propri princìpi siano compromessi, il trascorrere degli anni e l’accumularsi di esperienza sottraggono rigidità e aggiungono sicurezza, così che a un corpo più debole si può accompagnare uno spirito più tenace, intraprendente e scaltro. Da ragazza Sophie è gravata dalle responsabilità: ha immolato ogni inclinazione personale al proseguimento dell’attività paterna; la sua vita è semplice e virtuosa ma anche monotona e appartata; i suoi modi sono saggi e posati ma spesso mancano di gaiezza. Quando però l’incantesimo la priva della gioventù, Sophie non esita a lasciare il laboratorio, a lavorare per Howl, a sfidare potenti maghe e a scendere a patti con spiriti ambigui come Calcifer. Nel passaggio da un’età all’altra restano inalterati gli aspetti migliori della sua personalità. Sophie è sensibile, intelligente, compassionevole e dotata di una spiccata autoironia che la sostiene quando si risveglia in un vecchio corpo acciaccato ma finalmente adeguato ai vestiti grigi e dimessi del proprio guardaroba. La Sophie scaltra ma pietosa, mossa da desideri, passioni e curiosità sembra apparire solo quando è ormai troppo tardi. In realtà, c’è sempre un tempo supplementare se si riesce a mantenere viva la memoria di sé attraverso le diverse fasi della vita, armonizzandola con il mutare dello spirito e del corpo, che è proprio ciò che è negato a Suliman e alla Strega. In passato Suliman, oltre al potere, aveva anche la salute

fisica – la fattucchiera è al presente bloccata su una sedia a rotelle – e anche la Strega delle Lande conserva un ricordo della propria gioventù vivo ma puramente fisico: rimpiange il piacere di mangiare i cuori di giovani aitanti e la rievocazione di questo appagamento sensuale è tanto più doloroso dal momento che continua a riportarla a un’epoca che non potrà ritornare. Eppure, quando il lato più prosaico, aggressivo ed egoista sta per prendere il sopravvento, entrambe manifestano improvvise generosità e slanci che sembrano reiterate conferme del fatto che nella vecchiaia è contenuta l’infanzia e, tanto più aumenta il conto degli anni, tanto più si torna bambini. La morale sullo scorrere del tempo, le debolezze umane e la grandezza d’animo di cui chiunque può essere capace è sempre sottintesa nei disegni e nelle parole del regista. Miyazaki mette l’esperienza personale al servizio di tre personaggi ora nemici ora alleati, che sembrano essersela giurata in un giardino d’infanzia e continuano a sfidarsi nella sala comune di una casa di riposo. In ogni caso la vecchiaia non è presentata come un ostacolo o una menomazione così come l’estetica contemporanea vorrebbe. Della sua avventura Sophie non conserva solo un ricordo o un insegnamento, ma anche dei gradevoli capelli grigi che sicuramente nessuno la convincerà a tingere.

Le figure maschili Se partendo dai protagonisti dei suoi film si volessero ricavare degli indizi per ricostruire la personalità di Miyazaki, questi sarebbero rintracciabili in uguale misura nei caratteri femminili e in quelli maschili. C’è una traccia di Miyazaki in Kiki che vola sulla scopa e in Tombo che costruisce un aereo; nella rumorosa Mei, nella sensibile Satsuki e nello scontroso Kanta; in Ashitaka che cerca un compromesso e in San che non ne accetta alcuno; in Pazu che vuole raggiungere Laputa e in Sheeta che deve distruggerla; in Asbel che cerca vendetta e in Nausicaä che vuole concordia; in Chihiro che ha perso il nome e in Haku che lo sta cercando; e, infine, in Fio spinta da un’incontenibile energia creativa e in Porco Rosso convinto che non valga la pena di essere umano ma allo stesso tempo persuaso che valga la pena di volare e di lottare perché altri possano esprimere la loro umanità. Sdoppiarsi in attitudini complementari e concedere a uomini e donne la stessa complessità emotiva permette al regista di rendere i personaggi vivi, tridimensionali e concreti; lo porta a dimostrare che esiste almeno una possibilità di rappresentare in modo completo e dialettico il mondo e le sue relazioni, senza che l’essere uomo o donna vada a scapito dell’uguaglianza sociale. Anche nel raffigurare i personaggi maschili Miyazaki cerca di uscire dagli stereotipi e di dare spazio alle soluzioni meno immediate, inserendo in un contesto realistico storie che possono non essere riconosciute dall’esperienza quotidiana della maggior parte degli spettatori – o dei critici, o dei colleghi – ma che pure potrebbero esistere. Se l’arte di narrare una storia debba registrare la mera realtà delle cose o se debba provare a immaginare come dovrebbero essere, è una questione che ha accompagnato l’umanità attraverso i secoli e le culture. Probabilmente, non si tratta di scegliere che cosa sia più vero, ma di cercare di cogliere, caso per caso, la capacità o l’inettitudine del singolo talento a esprimersi secondo l’una o l’altra modalità. L’obiettività assoluta è un mito di cui non si smette di subire il fascino, ma che spesso fa dimenticare che ogni rappresentazione

della realtà – anche quando si chiama investigazione, ricerca sociologica, denuncia sociale o documentario – è in parte finzione, interpretazione, isolamento di uno o più particolari e ricostruzione degli stessi. Ma spesso è proprio questa operazione di «falsificazione» o riduzione artistico-creativa a permettere di guardare con più precisione la complessità del mondo reale, abituando non a dare giudizi ma a porsi domande. Ed eventualmente a cercare soluzioni. Il cinema d’animazione può concedersi delle libertà visive e narrative che il cinema dal vivo non sempre può permettersi, se non altro perché anche l’attore più dotato e flessibile possiede un punto in cui si spezza irrimediabilmente. Un personaggio animato, invece, non si rompe mai perché si elimina prima. La diversità di prospettiva può essere chiarita con due episodi celebri. Dal lato del limite umano si trova Shelley Duvall, in balia di Shining e di Kubrick ma sostenuta da Jack Nicholson che la rassicura sul fatto che l’incubo di quelle estenuanti riprese finirà prima o poi. La prova d’attrice della Duvall risulterà perfetta, ma sarà una delle ultime di una carriera che da allora si concentrerà quasi esclusivamente sulla produzione. L’onnipotenza del regista, invece, è celebrata dalla maliziosa ammissione d’invidia pronunciata da Hitchcock nei confronti di Disney, il quale, se era insoddisfatto di una prova d’attore, poteva letteralmente cancellare il responsabile dalla faccia della Terra. Nel cinema animato, il delirio di perfezione produce meno patimento ai personaggi per il fatto che attore e ruolo coincidono perfettamente e inevitabilmente. In compenso, a soffrire sono gli assistenti al regista, gli intercalatori, gli animatori e tutte quelle figure professionali la cui presenza fa sì che i titoli di coda di un film d’animazione siano lunghissimi. Che cosa comporta tutto questo? Che un regista d’animazione può creare il suo protagonista esattamente come lo immagina: dovrà fare i conti con problemi pratici o finanziari, ma non si troverà nella condizione di non poter avere quel volto o quell’atteggiamento – potrebbe non avere quella voce perché il doppiaggio richiede ancora l’intervento umano –, così come non si troverà costretto a rinunciare a una certa ambientazione perché difficile da riprendere o inesistente. Qualsiasi cosa desideri, sarà la sua fantasia – e i suoi collaboratori – a realizzarla. Forse per questo Miyazaki si è dimostrato poco entusiasta quando Kimura Takuya si è offerto di doppiare Howl: la sua voce, così famosa in Giappone, poteva creare delle aspettative errate attorno al personaggio.

Miyazaki può dunque immaginare che un maiale sia un pilota o che costruisca un enorme carro armato, marci sulla capitale e durante il viaggio rapisca una ragazza come «trofeo di guerra». Arrivato a questo punto, perché non potrebbe immaginare che il maiale si innamori della ragazza ma che, invece di possederla contro la sua volontà, incominci a corteggiarla e attenda pazientemente finché il soggetto della sua passione non avrà dimenticato ogni precedente amore umano per consegnare il suo cuore al maiale? Un simile comportamento non è realistico se riferito alla maggior parte degli esseri umani di sesso maschile? La questione del realismo non si pone quando si parla di maiali che costruiscono carri armati e, soprattutto per Miyazaki, si tratta di un falso problema: Davvero non sappiamo se un maiale che rapisce una ragazza cercherà di conquistarla in modo sereno e platonico. Ma se ci sono miliardi di maiali, deve esserci un maiale così. La maggior parte di loro sarà composta da individui violenti che non si faranno scrupolo di possedere la ragazza, così chi crede che questa sia la vera essenza del maiale seguirà questa linea per realizzare la sua idea di film realistico. Ma chi pensa che esista un maiale diverso, non importa se è uno su un milione, asseconderà questa convinzione nel proprio film.51 Non si tratta quindi di aderire alla realtà così come la si intende comunemente, ma di mostrare quanto la realtà sia un sistema complesso che non sempre coincide con ciò che ha più probabilità di realizzarsi. In questo modo, i film di Miyazaki si allontanano sia dall’antagonismo sia dalla subordinazione tra i sessi, cercando il confronto tra le parti piuttosto che assegnare il campo a una sola fazione. E, in accordo con il mondo reale, ai tanti protagonisti maschili che paiono pronunciare la frase: «Per favore, accetta il mio amore», se ne affiancano alcuni che non trovano necessario domandare e non trascurano così di dare spazio alla maggioranza.

Veri nemici Con queste premesse, è inevitabile che il cinema di Miyazaki presenti pochi villain granitici e incapaci di derogare alla loro malvagità o al loro egoismo. Perciò, quando un simile personaggio si presenta sulla scena, è logico che debba pagare. Ma non paga solo per aver ostacolato la protagonista: paga perché la sua intelligenza è ottusa, il suo egocentrismo letale e la sua sete di potere insaziabile. In ogni momento potrebbe riscattarsi e ripensare i propri obiettivi, perché la perdizione non è opera del destino o della divinità, ma è solo e semplicemente conseguenza di un agire insensato. Ne Il Castello Errante di Howl (come in Si alza il vento, nonostante la precisa collocazione storica di questo film) il nemico non è incarnato da un singolo personaggio, ma è presente in modo più astratto e insieme universale: il potere militare, la ragione di stato e la miopia politica mascherata da strategia sono i veri, inarrestabili avversari. Chi rappresenta queste categorie può anche essere un piccolo uomo sciocco oppure una potente forza più o meno occulta senza che se ne possa notare la differenza: la guerra con il suo carico di morte e distruzione smette di alimentarsi solo quando un’intera comunità arriva a ripensare i propri comportamenti e le proprie scelte. Se Miyazaki lascia ai suoi personaggi la libertà di costruire la loro salvezza, li lascia anche liberi di sprofondare nella disgrazia. La caduta è tutt’altro che metaforica. L’orribile Conte di Cagliostro rovina dalla torre dell’orologio nell’esatto momento in cui raggiunge l’agognato tesoro e il cinico Muska precipita dal trono di Laputa da cui si illudeva di dominare il mondo. I due malvagi si assomigliano fisicamente ed entrambi hanno più di un tratto in comune con Lepka, il piccolo, insignificante burocrate di Conan, il cui ruolo non è adeguato all’ambizione che lo abita. I tre personaggi sono disegnati in modo più massiccio e compatto degli altri e sembrano blocchi inscalfibili, quasi il corpo fosse un riflesso dell’ottusità della mente; tutti e tre sono eleganti, ma di un’eleganza tradizionale e classica, tanto tesa a essere rassicurante da inquietare. Lepka e Muska potrebbero essere coetanei, mentre il Conte sembra più vecchio, in modo che la differenza d’età con le rispettive eroine – Lana, Sheeta e Clarissa – sia sempre attorno ai vent’anni; contrariamente alla serie televisiva, nei due film è esplicita la stretta parentela tra il malvagio e la ragazza.

Nella brama di assoggettare le ragazze e nei gesti compiuti per raggiungere tale scopo, essi sono spinti dal desiderio di possesso che si realizza nella riduzione a mero oggetto delle ragazze stesse. Negli atteggiamenti insinuanti e minacciosi degli uomini non è estranea una certa tensione sessuale, non prodotta dall’attrazione ma dal puro esercizio del potere. nel caso di Lupin III: il castello di Cagliostro e de Il castello nel cielo si parla di matrimonio forzato e dell’unione di opposti che permetterà di accedere a ricchezze inimmaginabili: Sheeta e Clarissa sono belle e ciò non guasta, ma la libido di Muska e del Conte è messa in moto dal potere. Più squallidi dei miliardi di maiali che non sanno aspettare, questi uomini non capiscono nemmeno perché dovrebbero farlo: ogni contatto con i personaggi femminili è un mezzo per raggiungere una soddisfazione diversa. Naturalmente, se questo tema fosse esplicito, se la differenza di età tra i malvagi e le loro vittime fosse palesemente leggibile in termini di attrazione dell’uomo adulto e potente per la fanciulla graziosa e innocente, il risultato sarebbe piuttosto immediato e per questo banale. In realtà, senza escludere una componente più prosaica, nell’innocenza delle eroine e nella cupidigia dei persecutori Miyazaki riflette altre immagini e altre metafore. Non sapere nulla del mondo, essere mentalmente vergini e ignare delle brame che corrompono gli esseri umani trasformandoli in strumenti di distruzione, non avere nulla da perdere non per disperazione ma per integrità, mostra con più forza drammatica ciò che il Conte e Muska vogliono calpestare: non un singolo essere umano, ma un modo diverso di tutelare la vita degli esseri umani e di tutto ciò che li circonda. Analogamente, non è l’ombra dell’incesto a rendere aberranti tali unioni, quanto l’arroganza e la sicumera con cui vengono imposte e il fatto che, se si realizzassero, implicherebbero il soccombere delle eroine, con tutto quanto queste rappresentano. Non tutti i cattivi sono scolpiti nella roccia: spesso sono fatti di materiale di riporto e le loro motivazioni non sono legate a un grandioso, malvagio progetto, ma si mantengono sul piano della sopravvivenza, della breve gloria narcisistica, dei piccoli desideri veniali. Giovane come Muska, con piccoli baffi come il Conte, Kurotowa è il «cattivo» in tono minore di Nausicaä della Valle del Vento: vanitoso ma costretto nell’orbita di Kushana, le è devoto fin dove conviene e non esita a prenderne il posto quando questa è data per dispersa. All’ombra di Muska e sotto la sua minaccia opera il

generale, non buono né cattivo ma solo impegnato a prendere e dare ordini e dunque velocemente sacrificato; lo stesso si può dire dei servi più o meno coscienti del Conte, capace di sottomettere, ricattare ed eliminare l’Interpol, i governi e il suo stesso entourage. Ne La principessa Mononoke, Gonza avanza nella scia di Eboshi: non è un vero malvagio, ma solo una persona devota che cerca di proteggere con le parole e gli atti la signora a cui – come chiunque a Tataraba – deve tutto; analogamente i samurai che compaiono nello stesso film servono il loro signore attaccando la città del ferro. Ma esiste un altro tipo di avversario, tanto più temibile in quanto capace di apparire buffo, amichevole e gentile. Helen McCarthy osserva che uno dei punti di forza de La principessa Mononoke è il personaggio di Jikobo. La sua identità non viene mai chiarita con esattezza: agente di un misterioso ordine dei maestri, forse un ninja, forse un monaco dall’abbigliamento eclettico che richiama tanto la tradizione buddhista quanto quella shintō senza essere fedele a nessuna delle due. L’aspetto trascurato e l’atteggiamento ambiguo di Jikobo non sono così secondari perché rimarcano una natura troppo disincantata per potersi affidare alla sicurezza della forma e delle formalità e danno forza alle sue parole, forse opportuniste e ciniche ma non prive di equivalenti nella realtà e nella storia del genere umano. Da un punto di vista narrativo, il suo kimono chiuso distrattamente assomiglia alla ciocca di capelli che sfugge alla severità del velo indossato dalla manzoniana Monaca di Monza: la coscienza di essere – volontariamente il primo, all’inizio involontariamente la seconda – al di fuori di ogni regola. Jikobo non è un personaggio propriamente malvagio, ma lo potrebbe diventare per l’attitudine a servire nello stesso istante quanti più padroni possibile, cercando di trarre un vantaggio da tutti e assicurandosi la sopravvivenza in un mondo di squali. Non solo ritratto storico, il personaggio di Jikobo rimanda direttamente al cinismo e all’ingordigia contemporanei: a tutti piace identificarsi in San o Ashitaka, ma la maggior parte degli esseri umani deve scendere a patti con inclinazioni più simili a quelle del monaco. Ne La principessa Mononoke, Miyazaki ha portato a un elevato grado di complessità ciò che aveva affrontato in Nausicaä della Valle del Vento: la descrizione dei rapporti tra individui e tra questi e l’ambiente che li circonda. Con queste premesse non è tanto importante trovare un cattivo e punirlo, quanto mostrare che le migliori

intenzioni possono essere altrettanto devastanti delle cattive – come dimostrano i bellissimi aerei progettati da Jirō Horikoshi. La foresta dello Shishigami è minacciata da persone che lavorano e che dal lavoro ricavano sopravvivenza e riscatto morale; Tataraba è a sua volta attaccata dai samurai52 di Asano perché i villaggi a monte della città-fornace sono invasi dalle acque fangose provenienti dalla lavorazione del ferro, con la conseguenza che le risaie vengono compromesse; e i contadini, a loro volta, hanno abbattuto alberi e deviato corsi d’acqua per poter coltivare. Mostrando la complessità degli eventi e la loro ineluttabilità, Miyazaki insiste di nuovo sul fatto che non avere una risposta pronta è un punto di partenza più sicuro che averne in abbondanza. A Jikobo resta la considerazione finale che nulla si può contro la protervia degli uomini, e probabilmente Miyazaki include anche se stesso nel numero. E se l’autore non si sottrae alle conseguenze a cui porta il suo film, è bene che anche gli spettatori abbiano il coraggio di fare altrettanto. In qualche modo vicino a Jikobo è Donald Curtis, una persona che potrebbe diventare pericolosa per istinto di sopravvivenza, vanità, competizione o leggerezza. L’aviatore è il prototipo dell’americano spaccone, coraggioso ma senza tormenti etici, bello ma senza fascino, galante ma paternalista ed entusiasta fino all’invadenza. Una volta postosi un obiettivo, cerca di raggiungerlo senza curarsi se è alla sua portata: vuole sposare Gina, poi vuole sposare Fio e l’opinione di entrambe in merito è ininfluente; vuole battere Porco Rosso, ma non si ferma a chiedersi se l’alleanza con i pirati dell’aria può essere sconsigliabile. La personificazione più spaventosa dell’avversario è però presente ne Il Castello Errante di Howl, perché qui non esiste un solo nemico, ma una serie di forze politiche, militari e magiche coinvolte in un conflitto di cui si sono persi l’origine e il senso. Re e fattucchiere non si battono per la conquista di un oggetto prezioso, di un territorio oppure per la sopravvivenza – o almeno, se anche lo hanno fatto, ora trascinano la battaglia per il solo gusto di schierare armi sempre più potenti, quasi si trattasse di un gioco macroscopico e perverso di bambini impegnati a rivaleggiare con puntiglio capriccioso e volubile. Non dando un nome agli avversari che si scontrano sul campo di battaglia e omettendo le ragioni scatenanti del conflitto, Miyazaki dà implicitamente un giudizio duro sulla guerra, prodotto dell’ingordigia, della vanagloria e dell’ostinazione che si manifesta ovunque e in

qualsiasi epoca e da cui è spesso impossibile difendersi, come l’esperienza personale ha insegnato tanto al regista quanto alla scrittrice Diana Wynne Jones. Dal massimo grado di pericolosità sino alla cialtroneria, i villain del cinema di Miyazaki mostrano chiaramente l’origine del loro male: l’egoismo e lo scarso rispetto per le opinioni, i desideri e le necessità altrui. La sottrazione delle libertà di azione, pensiero e parola come suprema forma di malvagità storica si limita a una presenza che è intravista per brevi, drammatici istanti: si tratta del nazifascismo che sta per abbattersi sul mondo di Porco Rosso e che ha ormai travolto il Giappone di Si alza il vento, schiacciando la bellezza degli aerei e la vita stessa.

Falsi avversari Nel mondo di Miyazaki, problematico, non dicotomico né assoluto, esistono dei personaggi che più di altri non sono quello che sembrano. Possono essere legati a qualche forma di organizzazione malavitosa, ma anche rappresentare la legge; in ogni caso, avvertono che esistono circostanze e valori che hanno più importanza del ruolo sociale rivestito per caso o per vocazione. Davanti a Sheeta o Fio persino il più temerario pirata cede le armi. Sul fronte «criminale» gli avversari che si trasformano in alleati sono sempre bande organizzate (Lupin, Jigen e Goemon) o ciurme di pirati dell’aria (Dola Boys, Mamma Aiuto), mentre dalla parte della legge si tratta di singoli individui (Zenigata, Feralin) che, pur riconoscendole un valore imprescindibile, sono in disaccordo con uno specifico modo di amministrarla. Sebbene il Lupin di Miyazaki sia molto personale – e prova ne è l’irritazione di Monkey Punch per Lupin III: il castello di Cagliostro –, è inevitabile che conservi aspetto e caratteristiche fissati in un altro contesto e da un diverso autore. Lo stesso vale per Jigen e Goemon, eccezionali per modi, aspetto e trascorsi: originariamente ispirato al James Coburn de I magnifici sette, Daisuke Jigen è cool, misogino e ottimo tiratore, lavora bene da solo, ma l’amicizia per Lupin gli permette di farsi vivo quando c’è bisogno; Ishikawa Goemon XIII53 appartiene a un’antica famiglia di ladri e guerrieri, ha l’aspetto e l’attitudine di un samurai, attacca e si difende solo con la spada e il suo senso dell’onore, la lealtà e la fermezza equilibrano il lato più frivolo di Lupin. Di Lupin III basta dire che è un ladro gentiluomo, ovvero che l’ingordigia va di pari passo con il rispetto per gli avversari e le vittime dei suoi furti, soprattutto se sono donne avvenenti o graziose fanciulle. Ne Il castello di Cagliostro, Lupin si trova «incastrato» tra Fujiko e Clarissa, ma si dimostra all’altezza della situazione rivolgendosi a ciascuna nel modo più appropriato pur restando se stesso. Per averne una conferma, basta confrontare la scena in cui Lupin incontra Fujiko nel castello del Conte con la successiva scena in cui cerca di riportare il sorriso sul triste viso di Clarissa, dichiarando di essere un cavaliere venuto in suo soccorso e facendo giochi di prestigio. Il primo è un dialogo tra due adulti alla pari che si stuzzicano e si provocano; il

secondo è il dialogo tra due persone affascinate dalle differenze che scorgono nell’altro e, inevitabilmente, non è un dialogo tra pari. A causa o grazie alla poca esperienza, alla minaccia del Conte e alla sollecitudine di Lupin, Clarissa non prova per quest’ultimo né interesse professionale né attrazione fisica, ma struggente amore. E sebbene Lupin non possa non essere sensibile alla sua bellezza e dolcezza, l’imbarazzo è palpabile: il pensiero della ragazza seduta sul sedile posteriore della Fiat 500, magari con Jigen davanti, Goemon appollaiato sul tetto e Zenigata che li insegue, è quanto di più stonato si possa immaginare. Proprio per questo, l’addio tra il ladro e la principessa è toccante e malinconico. Lasciando Clarissa nel suo paese, Lupin le restituisce ciò che il Conte aveva tentato di sottrarle: non la ricchezza materiale, ma la possibilità di crescere, avere dei desideri e cercare di realizzarli. I Dola Boys de Il castello nel cielo e i Mamma Aiuto di Porco Rosso sono interamente creature di Miyazaki e anch’essi non restano indifferenti alla grazia di Sheeta e di Fio, capace di portare gioia, ordine domestico e bellezza nel loro mondo mascolino, spartano e disordinato. Intimoriti da una presenza femminile che non sia la burbera Ma Dola o la raffinata ma ferma Gina, si comportano come adolescenti imbarazzati e goffi: Sheeta si ritrova i pirati ammonticchiati sulla porta della cucina, ammirati, rapiti e pronti a obbedire a ogni suo comando; Fio è invece circondata da energumeni adoranti, rassegnati per amor suo a fare il bagno un po’ più spesso del solito. In entrambi i casi, l’effetto comico è assicurato dal contrasto tra le timidezze degli uomini e il loro aspetto fisico, che nel caso del Boss dei Mamma Aiuto è palesemente ispirato a Bluto, il rivale di Braccio di Ferro creato da quei fratelli Fleischer a cui Miyazaki ha spesso reso omaggio. Accanto alla freddezza di un Muska o alla vanesia sicurezza di un Curtis, essi sembrano ribadire il principio dell’eccezionalità: un corpo gigantesco da cui ci si aspetta forza e violenza spesso custodisce un cuore innocente e generoso, mentre un aspetto più comune e rassicurante può celare un abisso di malvagità. Inquadrati rispettivamente nella polizia e nell’esercito, Zenigata e Feralin sostengono il ruolo dei dissidenti, anche se solo in via eccezionale. Il senso del dovere e la necessità di essere all’altezza della fama acquisita dalla sua famiglia, una dinastia di investigatori che risale al periodo Edo (1603-1867), sono le ragioni per cui Zenigata si è imposto di catturare Lupin. E l’abilità di Lupin è la ragione per cui

l’esistenza di Zenigata è un inferno. Eppure, nelle segrete del castello di Cagliostro, si assiste a un’insolita alleanza tra il ladro e l’ispettore, alleanza che nasce da cause contingenti – entrambi sono prigionieri e soltanto coalizzandosi possono sperare di liberarsi –, ma anche da una profonda delusione di tipo etico e professionale subita da Zenigata: recatosi a una riunione dell’Interpol per denunciare i traffici del Conte, vede archiviare il caso come un tentativo di rapimento di Clarissa da parte di Lupin. Il Conte è un buon amico dell’Interpol come di altre importanti istituzioni, e le prove portate da Zenigata sembrano troppo fragili. Davanti alla corruzione il senso della giustizia prevale, ma non appena il Conte sarà battuto Zenigata si lancerà di nuovo all’inseguimento di Lupin, fedele al meccanismo «alla Tom e Jerry» ideato per loro da Monkey Punch. Feralin è uguale e opposto a Porco Rosso: quando quest’ultimo ha rinunciato al suo aspetto umano e al suo posto nell’aeronautica militare, il primo, pur non condividendo la situazione politica creatasi, ha continuato a servire il suo paese. Feralin non appoggia il fascismo, ma la sua natura rispettosa dell’ordine sociale e della legalità non gli permette un gesto anarchico e libero come quello compiuto da Marco. Pur riconoscendo il proprio limite, però, egli non dimentica che cosa sia l’amicizia e allerta Porco Rosso ogni volta che le pattuglie sono sulle sue tracce. Questo personaggio riassume la caratteristica fondamentale di tutti i «soccorritori malintenzionati» dei film di Miyazaki: ci sono circostanze e ci sono valori per i quali la disobbedienza è l’unica risposta all’ingiustizia. Sebbene in modo più ambiguo e interessato, anche l’accordo che Sophie stringe con Calcifer ne Il Castello Errante di Howl si basa su una simile convinzione. Il demone del fuoco che si è impossessato del cuore di Howl è allo stesso tempo prigioniero del mago e motore di quella meravigliosa macchina semovente che è il Castello: insediato nel camino della cucina, Calcifer lo protegge dai nemici e dai curiosi. Lo sguardo smaliziato di Sophie novantenne individua subito nella vanità il suo punto debole, riuscendo a domare il carattere riottoso e inaffidabile tipico di una simile natura. Perché si può disobbedire in modo plateale o in sordina, ma quel che conta, come sempre, è fermare la macchina e far salire il più debole.

Compagni d’avventura Nei film di Miyazaki i personaggi maschili sono spesso degli ottimi compagni d’avventura, degli ammiratori entusiasti o degli osservatori scettici. Raramente sono protagonisti. Escludendo Lupin, che rappresenta un caso a sé, solo Porco Rosso, Ashitaka e Howl occupano la scena allo stesso livello dei personaggi femminili, e il fatto che La leggenda di Ashitaka sia diventato alla fine Principessa Mononoke non sottrae spessore al giovane principe degli emishi.54 Per trovare un protagonist maschile bisogna arrivare a Si alza il vento, dunque al congedo di Miyazaki dalla regia. A un primo sguardo, non sembra esserci molto in comune tra Marco, Ashitaka e Howl. Il primo è preceduto dalla sua fama e tutti si attendono grandi imprese quando sfreccia nel cielo. Del secondo non sa nulla nessuno e anche quando compie azioni che possono essere definite, se non eroiche, assai generose, i beneficiati non lo ringraziano. Il terzo, infine, è tanto eroico quanto capriccioso: la sua reputazione è pari a quella di Porco Rosso, ma è una pessima reputazione perché si dice che, ovunque vada, seduca le ragazze e ne rapisca letteralmente il cuore. Il risultato è che la sua attività di guastatore su entrambi i fronti del conflitto è ignorata dalle popolazioni che cerca di proteggere, mentre il suo rifiuto di diventare un’arma nelle mani di Suliman o di chiunque altro lo rende sospetto agli occhi dei potenti. Nonostante ciò, le corrispondenze sono numerose. Prima di tutto, essi non appartengono ad alcuna comunità. Porco Rosso ha perso la sua in guerra, e la sequenza in cui vede gli spiriti dei compagni e dei nemici morti allontanarsi sui loro aerei è tanto splendida quanto straziante. Da questo momento Marco sceglie di ritirarsi nella piccola isola in mezzo all’Adriatico e smette di appartenere al mondo degli uomini. Ashitaka viene allontanato dal villaggio in seguito alla maledizione da cui è stato colpito e il suo non appartenere più alla comunità è sottolineato dal taglio dei capelli. Quando raggiunge Tataraba, è oggetto di sospetto: pur invitato da Eboshi a restare, viene costretto ad andarsene per aver difeso apertamente San, ma raggiunta la foresta dello Shishigami il ragazzo si sente ripetere da San e dai kami che

quello non è il suo posto. Alla fine del film Ashitaka potrebbe tornare al villaggio degli emishi, ma sarebbe una scelta insensata: non può portare San con sé e non può lasciarla; inoltre, la tecnologia di Eboshi non impiegherà molto a raggiungere le tribù del nord, modificando per sempre il suo paese d’origine. La provenienza e il passato di Howl sono oscuri: si sa che, molto giovane, ha consegnato il proprio cuore a un demone a cui è legato da un doppio sortilegio, e che è stato uno studente di magia il cui talento si è sprecato per un eccesso di sicurezza. Ma considerato che questa informazione viene dalla sua insegnante, quella stessa Suliman che sembra alleviare la noia di una vecchiaia da invalida alimentando la guerra in corso, si potrebbe supporre che lo spreco del mago non sia altro che un rifiuto di obbedirle. Anche Howl non appartiene a una comunità specifica: non ha contatti con altri maghi e vive in un castello che si sposta da un paese all’altro, per il quale non esiste un fronte invalicabile e che può aprire inaspettate porte su paesaggi sempre diversi. Uno di questi è un autentico luogo dell’anima, in cui Howl si rifugia sin dall’infanzia per trovare una serenità sempre più difficile da raggiungere tutelare, dal momento che anche quella meravigliosa area lacustre protetta dalle montagne è stata trasformata in un campo di battaglia. Infine, quando la pace ritorna, Howl continua la vita errante con Sophie. Marco, Ashitaka e Howl sono segnati da un fato che ne ha modificato profondamente i corpi, trasformando il primo in maiale, incidendo una ferita che è un marchio d’infamia sul braccio del secondo e obbligando il terzo a una metamorfosi straziante che ricorda quella di Haku ne La città incantata. I tre protagonisti non possono cambiare il passato, ma possono solo sperare di riuscire a convivere con esso nel futuro, speranza che il principe degli emishi potrebbe portare nel nome, visto che è quasi omofono (ma non omografo!) di ashita, ovvero «domani»; tutti loro si scontrano con la dissennatezza degli uomini e, infine, sono profondamente innamorati di una donna da cui vogliono o devono vivere separati o a cui possono essere riuniti sacrificando una parte di se stessi. Porco Rosso, Ashitaka e Howl hanno visto più di quanto un essere umano desideri vedere. L’ipotesi che tra di loro esista un’affinità – e che questa affinità li abbia portati a occupare nei film un ruolo di primo piano – è suggerita dalle immagini e dai dialoghi ma anche dalle dichiarazioni di Miyazaki:

Per i giapponesi il maiale è un animale per il quale si prova affetto ma non rispetto. Per me è un animale avaro, capriccioso e poco socievole. non segue nessuna regola, fuma e risponde solo a se stesso. In termini buddhisti, ha tutti i difetti degli esseri umani: è egoista, fa tutto ciò che non bisognerebbe fare, gode della sua libertà. Ci assomiglia tanto!55 E ancora: Ashitaka non è un ragazzo spensierato e sereno ma è melanconico e segnato dal destino. Sento di essere così anch’io, anche se finora non avevo mai realizzato un film con un personaggio simile. Ashitaka è vittima di una maledizione per un motivo assurdo. Sicuramente ha compiuto un’azione che non avrebbe dovuto compiere: ha ucciso il Tatarigami, ma da un punto di vista umano aveva diverse ragioni per farlo. Credo che ci siano delle somiglianze con la vita dell’umanità contemporanea e credo che l’assurdità sia parte della vita stessa.56 Anche in occasione dell’uscita de Il Castello Errante di Howl, Miyazaki ha sottolineato le somiglianze esistenti tra se stesso e Howl, capace di unire al senso del dovere e al perfezionismo quella spiccata coscienza di sé e quel narcisismo che spesso si incontrano nelle personalità artistiche. Non è difficile immaginare che Miyazaki si sia identificato con il lato più nobile del mago, ma di certo non si è sottratto a possibili assimilazioni con i tratti più frivoli. Da questo punto di vista, l’episodio in cui Howl cade in una profonda depressione a causa di una tintura per capelli sbagliata è costruito con esemplare ironia: anche gli individui capaci di imprese grandiose o sublimi hanno dei lati più prosaici e quando ci si inchina al loro talento non bisogna dimenticarsi di rispettare la loro umanità. Così Howl sembra l’estremo invito del regista a liberarlo dalla pesante responsabilità di essere paragonato a un dio. Naturalmente anche il protagonista di Si alza il vento incarna diversi aspetti biografici e caratteriali riscontrabili in Miyazaki, sebbene si discosti dagli altri personaggi per due elementi fondamentali: è di fatto il protagonista del film in un modo più esplicito

e articolato di quanto non accada in precedenza, e le sue debolezze sono descritte in un modo più realistico, sommesso e spesso amaro. La sua non è una storia con una fine lieta e nemmeno aperta, ma è la storia, assai diffusa, di come il regno del sogno possa diventare il regno della morte. Negli alter ego di Miyazaki sono concentrate contraddizioni tipiche del genere umano e, allo stesso tempo, sono racchiuse motivazioni più personali e profonde: non occorre una grande fantasia per riconoscere nelle sue parole e nei suoi disegni un riferimento alla propria situazione familiare e alla «maledizione» generata dai privilegi a questa connessi. Secondo John Grant,57 Miyazaki non ha completamente dimostrato di essere un abile creatore di personaggi maschili: a questo giudizio Grant sottrae soltanto Porco Rosso. A suo avviso, infatti, è difficile distinguere Asbel da Pazu o da Ashitaka, mentre i personaggi femminili hanno un’identità più forte e una gamma di espressioni più varia. Effettivamente, per le ragioni già esposte, Miyazaki predilige i personaggi femminili, ma in ogni caso l’opinione di Grant è forse un po’ troppo drastica: sebbene siano spesso comprimari (Asbel, Pazu, Haku), siano presenti solo in circostanze di particolare significato (Kanta, Tombo) o siano delle presenze silenziose (il marito di Osono), i rappresentanti del genere maschile permettono alle figure femminili di non chiudersi in un mondo ideale e omogeneo, ma di confrontarsi con realtà diverse dalla loro, costituendo così coppie di opposti. Di fronte alla morte della sorella, Asbel, principe dei pejiti, reagisce in maniera tipicamente maschile: cerca vendetta e si lancia nella battaglia. Ma nel momento del pericolo viene salvato da Nausicaä e con lei raggiunge il cuore della foresta, scoprendo che la giovane sta riparando i danni inflitti dagli uomini all’ambiente. Il modo di reagire al dolore e alle provocazioni di Asbel e di Nausicaä è antitetico ma ugualmente umano: entrambi agiscono secondo gli insegnamenti che hanno appreso, ma il primo segue l’istinto e la seconda l’empatia. Da un punto di vista narrativo, la scelta di trasformare la ragazza in salvatrice e il ragazzo in colui che viene salvato è sorprendente e di forte impatto perché inattesa. Un grande narratore si cura di ciò prima ancora di pensare alle implicazioni ideologiche che la sua scelta potrebbe avere. Il che non significa che tali implicazioni non intervengano in un secondo tempo, rendendo ogni nuova visione più ricca di senso. Anche l’entusiasmo di Pazu di conoscere si armonizza con il timore

– e insieme la necessità – di Sheeta di sapere tutto sulla propria origine, sugli incantesimi imparati da bambina, sulla pietra che porta al collo e sull’isola di Laputa. Pazu è un ragazzo solare, generoso e vivace nonostante le prove che in quattordici anni di vita ha dovuto affrontare: la morte dei genitori e il duro lavoro in miniera. Per dimostrare che il padre aveva veramente individuato l’isola di Laputa sta costruendo il suo aeroplano e, messo alla prova, non è soltanto serio, affidabile e determinato, ma rivela anche ottime doti di pilota e spirito di iniziativa. Il ruolo di salvatore resta a lui, ma è su un altro piano che Pazu e Sheeta sono complementari. Nel suo slancio cognitivo, il ragazzo non immagina le conseguenze della scoperta dei segreti di Laputa: per lui il progresso inteso come conoscenza e confronto con la tecnologia è in ogni caso positivo e, se non sempre senza conseguenze, di sicuro controllabile. Per Sheeta la conoscenza, la tecnologia che essa implica e il confronto con la sua origine non sono senza conseguenze: non sempre ciò che l’uomo scopre può essere controllato. In questo senso Pazu è un ragazzo che vive a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, ovvero in un’epoca in cui le miniere non sono state chiuse, le automobili non inquinano l’aria, il gas nervino non ha ancora colpito le trincee della prima guerra mondiale e l’atomica non ha messo fine alla seconda. L’origine di Sheeta è inscritta nel passato di Laputa, ma i suoi timori anticipano il futuro, ovvero ciò che per gli spettatori fa parte dell’esperienza quotidiana. Persino Haku, che non è un essere umano ma il kami di un fiume, è vittima del sapere e della conoscenza inseguiti a ogni costo: consegnatosi a Yubaba per poter diventare suo apprendista e impararne le arti magiche, si ritrova prigioniero nelle terme della strega, privato del nome e controllato da un incantesimo che lo obbliga a comportarsi in maniera malvagia e disonesta. Ma quando Chihiro si perde tra gli dei, l’eco di un ricordo si risveglia in Haku, spingendolo a soccorrere la ragazzina e a istruirla su come sopravvivere in quel mondo per lei sconosciuto e incomprensibile. Come altri personaggi de La città incantata, il ragazzo – se così si può chiamare il dio Nigihayami Kihaku Nushi – subisce lo sdoppiamento tra la personalità pubblica (controllata dalla strega) e quella privata (gentile e compassionevole), sdoppiamento che lascia Chihiro confusa e impaurita. La potenza della memoria è per entrambi essenziale, perché permette di ridare interezza alla loro identità

mutilata. Come alla bambina è rimasto solo il primo carattere del proprio nome originario, così anche al dio è rimasto, della sua magnifica e complessa forma, solo il prosaico e gerarchico titolo di haku, ovvero di superiore, di capo tra i subordinati ma pur sempre subordinato a Yubaba. In questo senso Chihiro e Haku si trovano sullo stesso piano e possono soccorrersi a vicenda: haku è omofono di “bianco” nelle parole composte e dunque, per il pubblico giapponese, fornisce, insieme al suo ruolo gerarchico, anche la perdita di identità che ha subito e che è affine a quella di Chihiro.58 Privandoli del nome, la strega li ha trasformati in fogli bianchi su cui può scrivere qualsiasi versione le porti vantaggio. Il concetto è ribadito anche visivamente e quando è inviato a rubare il sigillo di Zeniba Haku, nella sua forma originaria, è attaccato e ferito da taglienti figurine di carta bianca: le sorelle, pur su due piani opposti, usano le stesse armi, potenti proprio perché indistinte, apparentemente fragili ma inesorabili. Le affinità tra la bambina e il suo salvatore riguardano anche l’evoluzione del loro nome: entrambi conservano un ideogramma del nome originale, un indizio della vecchia condizione che possono ricordare solo aiutandosi l’uno con l’altra: se in Sen è nascosta la bambina di dieci anni che cerca i genitori, in Haku si conserva la traccia del suo essere un drago bianco, dunque un animale divino legato all’acqua. Anche ne Il Castello Errante di Howl esiste un equilibrio simile tra Sophie e Rapa, lo spaventapasseri che affianca la ragazza non appena questa lascia la città per cercare la Strega delle Lande e liberarsi dal sortilegio. Entrambi non sono quello che sembrano e per ritrovare se stessi devono affrontare un’avventura simile, sostenendosi reciprocamente: se Sophie è la vittima innocente della rivalità tra la Strega e Howl, Rapa è un giovane principe colpito da un maleficio che solo un amore disinteressato può spezzare. Con l’aiuto di Rapa, Sophie può proseguire nel cammino, e la sua compassione permette al principe di riprendere le sembianze umane, tornare al proprio paese e adoperarsi per fermare il conflitto. Nel dramma e nell’idillio familiare di Tonari no Totoro le apparizioni di Kanta non sono numerose, ma restano essenziali per dare completezza alle novità di cui sono testimoni le cittadine Mei e Satsuki. La curiosità e il sospetto di Kanta verso Satsuki e la sorellina sono ulteriori elementi realistici in un film che non trascura un solo dettaglio per rendere con fedeltà l’epoca e il luogo dell’azione. Kanta ha i modi

ruvidi dei timidi e nei riguardi di Satsuki il suo atteggiamento tradisce interesse proprio perché le riserva boccacce, occhiate in tralice e gentilezze selvatiche. Il fatto che Kanta impresti l’ombrello a Satsuki durante il temporale ma dica alla madre di averlo dimenticato esprime tutta la sua ritrosia e insieme tutta la sua generosità. Diversamente da Pazu o da Tombo, il ragazzino non sta costruendo un suo aereo, anche se ha una scena tutta per sé in cui gioca con un modellino: forse Miyazaki ha lasciato qualcosa della propria biografia non solo nella scenografia o in Mei, ma anche nella rumorosa allegria, assolutamente privata, di Kanta. La versione adolescente del ragazzino di campagna è l’urbano Tombo e stavolta i ruoli sono invertiti: non è lui a ignorare Kiki, ma è la ragazza a sottrarsi con altezzosa timidezza alla sua incontenibile curiosità. Spigliato e intraprendente, il ragazzo di città fa notare alla ragazza di provincia che si comporta come sua nonna. Tombo è colpito da Kiki sin dal suo arrivo, quando l’aiuta a sfuggire a un poliziotto che vuole multarla per volo spericolato. Il volo è il cardine attorno a cui ruota la loro conoscenza, l’amicizia del presente e l’amore del prossimo futuro. Kiki può volare e Tombo vorrebbe tanto esserne capace: ha fondato un club di aspiranti piloti e sta costruendo il suo «aereo», una bicicletta con un’elica che riuscirà a sollevarlo per pochi secondi prima di una caduta rovinosa. Ma l’abilità che Tombo non ha mai avuto permetterà a Kiki di recuperare il talento che aveva perso: la paura che al ragazzo possa capitare l’irreparabile la spingerà a volare di nuovo. Non con uno stile perfetto, non sulla sua bella scopa nuova, eppure con ottimi risultati: Tombo è salvo, gli abitanti della città l’acclamano e le mostrano quale sia il suo posto. Kiki e Tombo hanno imparato insieme che la vita e il volo riservano infinite gioie ma comportano anche delle responsabilità. Tra i comprimari maschili quello che occupa un ruolo narrativamente complesso e compie scelte determinanti per lo sviluppo della storia quanto la protagonista è Sōsuke. Come per Ashitaka anche in questo caso l’onore del titolo del film va all’eroina ma la presenza del bambino sullo schermo è articolata e su di lui, sulla sua famiglia e sui suoi interessi conosciamo più elementi di quanto non accada con Pazu e Tombo – per non parlare di Kanta. Modellato su Goro, il figlio del regista, e chiamato come il protagonista de La porta di Natsume Soseki, Sōsuke è un bambino

riflessivo, capace di cogliere la quotidianità nello straordinario e viceversa: non si scompone nel sapere che Ponyo può assumere forme diverse e ne capisce la natura magica e soprannaturale senza smettere di essere un bambino di cinque anni. Il suo ruolo è quello di intermediario tra le generazioni e tra due mondi paralleli e in diretta competizione. Tutti si rivolgono a lui: le coetanee, i genitori, le nonnine ma anche Fujimoto e Granmammare. Al contrario del principe della fiaba di Andersen, Sōsuke sa guardare oltre le apparenze e riesce a riconoscere Ponyo in ogni momento e in qualsiasi forma. La sua capacità di vedere con occhi sereni e imparziali lo rende saggio senza renderlo saccente. Come Ashitaka, anche Sōsuke piange senza vergogna, come farebbe chiunque sottoposto a una forte tensione emotiva; e, come Ashitaka, sa trovare un posto per sé e per la propria mononoke senza forzature e imposizioni. Indipendentemente dallo spazio che occupano nella storia, per Miyazaki la parola chiave di ogni relazione di amore o amicizia tra ragazzi e ragazze o tra uomini e donne, è «insieme», perché ci vuole più fatica, volontà e determinazione nel volersi tutti sullo stesso piano che lasciarsi trascinare dalla lusinga di pensarsi superiori e di volere gli altri inferiori.

Padri e mentori Se le figure materne sono la spina dorsale su cui si regge la famiglia, i padri sono la parte flessibile della stessa: più comprensivi, più affettuosi, a volte distratti a volte disinvolti, sono coloro che aiutano a rompere le regole e a dare inizio all’avventura. Sempre che il loro ruolo lo consenta. Ad esempio, in Si alza il vento il ruolo del padre di Nahoko Satomi è insieme fondamentale e sfumato. La madre di Nahoko è morta di tubercolosi e la malattia sta minando anche la salute della figlia così in Si alza il vento si assiste alla costruzione di una figura paterna che è insieme conciliante verso i desideri della figlia ma anche storicamente attendibile. Satomi infatti accompagna la figlia in villeggiatura, veglia sul suo benessere e sulla sua rispettabilità ma allo stesso tempo, forse perché sa che la sua salute è precaria, non si oppone al fidanzamento con Jirō Horikoshi e lascia alla coppia una libertà di decidere inusuale per l’epoca. A parte questo esempio, la figura di padre e mentore più complessa e articolata presente in Si alza il vento è quella di Giovanni Battista Caproni59. Fin da ragazzo Jirō lo ha eletto a modello e termine di paragone con cui confrontare i propri progetti; l’ammirazione è così grande da trasformare Caproni nell’interlocutore ideale, in una proiezione di sé e delle proprie aspirazioni che sopravvive all’infanzia e accompagna il progettista per tutta la vita. I loro dialoghi avvengono in sogno o in quei momenti in cui Jirō è insieme assorto e turbato; pur non fornendo mai risposte univoche, questo espediente narrativo permette agli spettatori di condividere i dubbi e le ambizioni che animano il protagonista. Accanto a questa vivida fantasmagoria, Miyazaki colloca i luoghi della quotidianità dei primi decenni del Novecento, ricostruendoli con precisione e pertinenza storica nella topografia, negli usi e nelle abitudini; al contrario, i luoghi del sogno sono idealizzati e deformati dall’immaginazione del bambino che sopravvive nell’adulto. Per esempio, ha sollevato perplessità la fisionomia caricaturale di Caproni, descritto come il tipico occidentale dal grosso naso e dagli occhi sgranati, ma è probabile che questa rappresentazione (per altro già presente in altri film, dalle nonne delle officine Piccolo in Porco Rosso alle streghe gemelle de La città incantata) folklorica, provinciale e simmetrica a quella diffusa in occidente del giapponese con occhi

simili a fessure, rappresenti l’immagine di Caproni che Jirō conserva dall’infanzia e in cui il realismo è stato sostituito da una forma mitica, per quanto grottesca. Lo stesso spirito infantile, unito al sarcasmo del protagonista adulto, mostra lo stato maggiore della marina giapponese come grossolano, rissoso e ridicolo; e trasforma il saluto fascista nel gesto del macchinista che aziona il fischio della locomotiva, un gesto che rimanda direttamente alla retorica futurista e ne condensa i risultati insieme grotteschi e mortali. Jirō non vede il mondo con gli occhi della maggioranza e per questo coglie sfumature e incongruenza per lo più invisibili. Accanto a questa figura, legata a una dimensione creativa, intellettuale e sostanzialmente atemporale, si affianca quella di Castorp, insieme citazione letteraria e messaggero della catastrofe incombente. Jirō incontra Castorp durante una vacanza in montagna ed è l’uomo – che poi verrà identificato come una spia – ad avvicinarlo citando La montagna incantata, il romanzo di Thomas Mann da cui lo stesso Castorp trae il proprio nome. Lo straniero sottolinea come quel luogo di villeggiatura sia gradevole e come inviti a dimenticare ogni affanno, ma contemporaneamente richiama un lungo elenco di eventi catastrofici: Junkers caduto in disgrazia perché non appoggia il governo di un volgare teppista qual è Hitler; la miopia del Giappone, lanciato nella guerra in Maunciuria e tanto arrogante da aver abbandonato le Nazioni Unite. Tutti questi eventi avranno un unico risultato: la Germania salterà in aria e lo farà anche il Giappone – letteralmente. La sera stessa del fidanzamento ufficiale di Jirō e Nahoko, Castorp, prima di allontanarsi all’improvviso dall’hotel, canta una canzone tratta da The Congress Dance (1932) di Eric Charell. Seduto al piano l’uomo intona: “Das gibt’s nur einmal, das kommt nicht wieder”60. L’eccezionalità dell’evento può riferirsi tanto a quello lieto che segna le vite dei protagonisti, quanto a quello nefasto che segnerà la storia del Giappone e del mondo. In entrambi i casi i padri possono o vogliono fare ben poco per sottrarre i figli all’ignoranza del destino che li attende. Ne Il castello errante di Howl, il padre di Sophie non può aiutare la figlia a venire meno alle regole di devozione e rispetto. La sua morte è per Sophie un obbligo morale a proseguirne l’attività senza tenere conto delle proprie personali inclinazioni. Questo padre invisibile e il vuoto che lo accompagna sono una presenza ingombrante e condizionano le scelte della figlia più di quanto non potrebbe fare un

genitore intransigente ma vivo. La stessa autorità cerca di esercitarla anche Fujimoto su Ponyo, ma nonostante il padre sia vivo e presente, per Ponyo si tratta di una presenza che non ha alcun potere sui suoi desideri e sulle sue aspirazioni. Similmente a Porco Rosso, Fujimoto è un essere umano che ha soffocato la propria umanità per ribellarsi all’ottusità ed egoismo dei suoi simili: il suo scopo infatti è riportare la terra all’età cambriana, quando la superficie marina superava quella delle terre emerse; solo così l’umanità sarà eliminata e le creature marine saranno libere dallo sfruttamento. Eppure, prima di uno scopo tanto ambizioso e ideologico, è probabile che per Fujimoto abbia contato l’amore per Granmammare, divinità marina tanto potente quanto materna e rassicurante. E forse proprio perché ha compiuto al contrario e con le stesse motivazioni il viaggio di Ponyo, Fujimoto non accetta il desiderio della figlia di diventare umana. Le sue sono motivazioni dettate dall’affetto e dalla preoccupazione, non di meno sono destinate a fallire: i figli vanno sempre nella direzione in cui i genitori vorrebbero non andassero, rimettendo in discussione traguardi raggiunti e sollevando questioni scabrose. Per quanto cerchino di evitarlo, ai genitori non resta che esclamare con Fujimoto: “Disdicevole, sempre più disdicevole!”, e rassegnarsi. In Lupin III anche il padre di Clarissa ha cercato di tutelare la propria figlia e l’ha mandata a studiare all’estero, probabilmente per proteggerla dalle mire del Conte, ma quest’ultimo, durante l’assenza della ragazza, ha dato fuoco al castello causando la morte dell’unica persona capace di ostacolare i suoi piani. Sebbene non si sappia altro, è possibile intuire che la presenza del padre per Clarissa fosse un importante riferimento. Malato all’inizio del film e ucciso poco dopo da Kushana, di re Jhil si conoscono pochi, essenziali fatti: è un uomo coraggioso e giusto, rispettoso del suo popolo e affezionato a Nausicaä. Ma nonostante il profondo legame tra i due, re Jhil non riesce a condividere la visione del mondo della figlia: per lui, ammalatosi a causa delle esalazioni tossiche, è difficile immaginare che la foresta stia ripristinando la vita piuttosto che seminare la morte. Ed è per tutelare il suo popolo, non per gretta crudeltà, che allontana la figlia bambina dal piccolo Ohmu. Kusakabe Tatsuo in Totoro soddisfa tutte le caratteristiche dello studioso assorto nel suo lavoro: ha capelli arruffati, dimentica di

mangiare mentre è concentrato sulle sue carte, e lascia vagare la piccola Mei nel giardino senza garantire uno stretto controllo. Proprio per questo, permette alle figlie di confrontarsi con il mondo che le circonda. Obbligato dall’assenza della moglie a ricoprire anche il ruolo di quest’ultima, non nasconde il piacere che prova nel condividere la routine quotidiana con le bambine e quando il soprannaturale entra nelle loro vite, ha pronte storie e accorgimenti per renderlo meno pauroso. In lui Mei e Satsuki trovano un riferimento, un punto d’appoggio che non diventa mai noioso o opprimente e che le invita a uscire, conoscere ed esplorare il mondo circostante. Anche Koichi, sebbene spesso lontano da casa per lavoro, è un padre presente e affettuoso che fa sentire la propria presenza a Sōsuke e Risa: quando passa al largo della scogliera comunica con loro con il codice Morse e non esita a illuminare la Koganei Maru a festa per attenuare la delusione della moglie quando è costretto a restare in mare. Il padre di Kiki, sebbene un po’ deluso dalla repentina partenza della figlia, non la trattiene in alcun modo ma approfitta dei preparativi per condividere gli ultimi istanti dell’infanzia giocando con lei. Okino61 è un uomo sbadato quanto Tatsuo: quando Kiki lo informa dell’imminente partenza, sta caricando sul tetto della Dyane il necessario per il campeggio e, per la sorpresa e l’affanno di correre ad avvisare parenti e amici, inciampa in una corda rovesciando tutto. Eppure non c’è un momento in cui Kiki non sia protetta, anche lontano da casa, dall’affettuosa presenza di questo padre tanto orgoglioso della sua indipendenza e allo stesso tempo tanto preoccupato per lei. Quasi a voler concentrare e concretizzare questo affetto nell’esiguo bagaglio, Kiki non dimentica la radio a transistor del padre, la stessa che le ha annunciato i venti favorevoli per la partenza, la stessa che le tiene compagnia la sera nella nuova città. Diversamente da Tatsuo, Okino e Koichi, l’Akio de La città incantata è massiccio, imperturbabile e razionale. Soprattutto non è capace di lasciare alla figlia quella fruttuosa libertà permessa dalla distrazione di Tatsuo, anche se il suo controllo – come quello della moglie – non è adatto a proteggerla dalle minacce dell’ignoto: è Chihiro, infatti, a dover essere padre e madre per i suoi genitori, sottraendoli alla sorte di maiali da ingrasso. Eppure è proprio da Akio che parte la sfida a esplorare la galleria, a rompere le regole e a dimenticare il trasloco, gli operai e tutte le cose pratiche che non solo definiscono la vita della

famiglia, ma la proteggono da ogni pericolo e da ogni minaccia. Ma persino quando ostentano sicurezza, questi genitori contemporanei appaiono più fragili, confusi e impacciati della figlia e così Chihiro si ritrova più orfana di Nausicaä, di Sheeta o di Pazu. La sua solitudine è ben più grande della loro, anche perché non ha al suo fianco un mentore o un «padre in seconda» che possa aiutarla da subito. Perlomeno non ne ha di umani, dal momento che Haku o Kamaji appartengono a un altro mondo. Sola e minacciata, Clarissa ha ancora chi si preoccupa per lei come se fosse una figlia: il fedele custode che vive tra le rovine del castello e nelle cui mani Lupin la affida prima di lasciare Cagliostro. Se l’esempio del padre farà di Nausicaä una straordinaria sovrana, sono gli insegnamenti di Lord Yupa ad aver trasformato la ragazza in un abile pilota, in una persona saggia e in un’acuta osservatrice della natura. Pazu ha Boss al suo fianco, un uomo grande e forte da cui dipende il buon funzionamento delle miniere. Pazu dovrebbe essere il suo aiutante, ma l’affetto di cui gode, insieme alla protezione e agli insegnamenti di Boss, lo aiutano a sentirsi meno solo e a prepararsi ad affrontare la ricerca di Laputa. Una presenza più quotidiana e discreta accompagna la crescita di Kiki: silenzioso, timido, spesso impacciato, il marito di Osono manifesta il suo attaccamento e l’ammirazione per la strega con espressioni buffe, ora allarmate ora cautamente felici. Ancora, in Si alza il vento, è Kurokawa a sostenere il ruolo del burbero mentore. Di aspetto grottesco, basso e occhialuto, accoglie il giovane progettista con modi spicci e nervosi, gli affida lavori inutili per testarne l’abilità e l’obbedienza e ne scoraggia le iniziative personali. Ma una volta sicuro del valore del proprio dipendente non solo gli affida progetti sempre più complessi e importanti, ma gli dà rifugio quando è cercato dalla polizia politica e accetta di celebrare il matrimonio tra Jirō e Satomi, arrivando a dare ospitalità alla coppia. Sebbene i legami di sangue siano importanti, ciò che conta è la presenza di qualcuno capace di rinsaldare la fiducia in se stessi, dando rifugio ma garantendo la possibilità di volare via.

Le molte incarnazioni di un solo nonno Una lunga serie di nonni, spesso molto simili nel fisico e nello spirito, attraversa i film di Miyazaki e trae la sua origine dalla coppia composta dal nonno di Conan e da Rao, il nonno di Lana. Pur con gradi di conoscenza e responsabilità diversi, tutti e due appartengono alla generazione responsabile del conflitto che ha sconvolto la Terra; di ciò non solo sono coscienti e addolorati, ma ne portano il peso al punto da sacrificare la propria vita per impedire che si ripetano le stesse follie del passato. Il nonno di Conan fa una breve ma essenziale apparizione nel primo episodio della serie e i suoi ricordi permettono di riannodare la storia di Conan a quella dei genitori; Rao, invece, si nasconde sotto gli abiti di Patch, il burbero ingegnere che dirige una piattaforma di Industria. Anche graficamente essi danno vita a due modi diversi di rappresentare il nonno: mingherlino, scarmigliato e con piccoli occhiali sul naso il primo; alto, imponente e dall’aspetto solenne il secondo. Nei film successivi alcune di queste caratteristiche ricompaiono con più frequenza di altre; in particolare, i grandi baffi e i capelli candidi del nonno di Conan sono diventati un tratto distintivo.62 Se Kamaji – l’essere dalle molte braccia che permette alle terme di Yubaba di funzionare con straordinaria efficienza – è definito da Miyazaki una specie di alter ego, è difficile non dare importanza al suo aspetto (occhiali spessi, grandi baffi e barba), al suo carattere (burbero, sbrigativo ma generoso) e alle sue abilità (profonda conoscenza del proprio lavoro e delle tecnologie necessarie per svolgerlo), dal momento che caratteristiche simili si ritrovano nell’ingegnere e nel vecchio minatore di Laputa, nel custode della Torre dell’Orologio di Kiki’s Delivery Service, nell’anziano guardiano del villaggio degli emishi ne La principessa Mononoke e persino nel nonno di Seiji ne I sospiri del cuore. Tutti quanti sembrano elaborazioni più o meno caricaturali dello stesso Miyazaki. Solo nonno Piccolo in Porco Rosso ha un aspetto diverso, più giapponese di tutti gli altri, o perlomeno più simile alla rappresentazione dell’uomo comune nell’anime: capelli scuri pettinati con ordine, occhiali, una bocca di ragguardevoli proporzioni, baffi radi e qualcosa di simile a due vibrisse su ogni guancia. Nonno Piccolo è

un nonno giovane, abile costruttore e affarista che, prima di avventarsi su un piatto di spaghetti, chiede perdono per usare delle donne nella costruzione di aerei da guerra, una frase che avrebbe potuto essere pronunciata dal padre di Miyazaki. O che Miyazaki avrebbe voluto sentirgli pronunciare. Tutti i nonni credono nelle possibilità dei loro nipoti veri o adottivi e se a volte il loro tono è ruvido, è solo per spingerli a reagire e a impegnarsi nelle cose in cui credono. Come le nonne – e in accordo con la tradizione comica giapponese in generale e dell’anime in particolare –, forniscono momenti di pura comicità anche nelle situazioni più drammatiche: solo quando arrivano da un nonno o da una nonna una battuta blandamente allusiva o un complimento non risultano mai fuori posto. Anche essi, come tutti i personaggi maschili creati da Miyazaki, cercano di affermarsi in ruoli non convenzionali e, quando la malvagità non li pietrifica in uno stato di sordo egoismo, tutti sembrano capaci di dire, con intensità diversa e in contesti diversi: «Non voglio importi nulla ma, per favore, accetta il mio amore».

La solitudine del protagonista Jirō Horikoshi63 è l’unico protagonista maschile interamente umano di un film scritto e diretto da Miyazaki. Operando in un contesto simile a quello di Porco Rosso e subendo simili, drammatiche disillusioni, si potrebbe pensare a Si alza il vento come a un prologo di Porco Rosso: nel primo film i pionieri dell’aviazione si stanno muovendo già sul confine tra progettazione e produzione bellica ma non hanno ancora sperimentato di persona il potenziale letale della loro immaginazione; nel secondo film è chiaro cosa possa fare la tecnologia nelle mani dell’ambizione e della prevaricazione umana. L’unica soluzione praticabile, a questo punto, è l’allontanamento da sé e dagli altri. In un cinema caratterizzato da protagoniste femminili deviare da una scelta narrativa così peculiare va considerato con la necessaria attenzione. Indubbiamente Si alza il vento ha acquisito un valore simbolico aggiunto quando, contemporaneamente alla sua uscita nelle sale, il regista ha annunciato ufficialmente il proprio ritiro. Se è vero che Miyazaki ha dichiarato in varie occasioni di aver messo una parte di sé nei personaggi maschili, fossero umani, animali o esseri soprannaturali, è anche vero che decidere di accomiatarsi con la biografia, per quanto romanzata, del progettista degli aerei Zero appare come la chiusura di un cerchio, un atto di corresponsabilità o, secondo un ordine di valori radicalmente giapponese, l’estinzione di un debito. Tutto il film può essere visto come la descrizione di un mondo consolidatosi nei secoli (il Giappone prebellico) che si disgrega nel giro di pochi decenni, prima sotto la spinta ottimistica e progressista di un’industrializzazione che ne mette a dura prova le risorse; e poi sotto la mortifera illusione nazionalista e colonialista che ne annulla la dignità. Al confine tra questi due mondi si trova Jirō, testimone insieme estraneo e compromesso, a cui non resta nulla: non un paese integro, non una famiglia e nemmeno una professione rispettabile. Paradossalmente, il poco che gli resta è ciò che ne ha segnato la vita: un talento nel disegno e un approccio idealista all’utilizzo dello stesso. Si alza il vento si apre con una lunga sequenza in cui Jirō sogna di pilotare un aereo di sua invenzione. Il bambino è libero e felice ma, ben presto, tanta felicità è offuscata da una bomba che colpisce

l’aereo, distruggendolo. Diventato uomo, le due forze contrapposte continueranno a convivere: da un lato la realtà, in cui progettare un aereo significa contribuire alla guerra; e dall’altra il sogno, in cui gli aerei sono creature magnifiche e pacifiche. In bilico tra queste due dimensioni, assorbito in ogni istante dal proprio talento, estraniato dalla confusione delle aule universitarie e degli studi di progettazione, Jirō non smette mai di pensare agli aerei, alla loro meccanica e alla loro forma: la spina di uno sgombro offre lo spunto per la curvatura di un’ala; la forma dei termosifoni progettati da Junkers rimanda ai bombardieri appena visti e ogni aspetto della vita quotidiana è automaticamente tradotto in disegno e in prototipo per un mondo a venire, al momento cristallizzato nell’immaginazione. La metafora con l’attività dell’animatore è qui più scoperta che altrove. Non solo la realtà e l’immaginazione convivono nella mente di Jirō, ma anche la collisione tra una modernità ambita e una tradizione sopportata a volte malamente sono i temi portanti di un film che, essendo nato come congedo, non può non riflettere sul rapporto tra un modo tradizionale di fare le cose e una nuova procedura più efficace, efficiente e veloce. L’amico e collega Honjo non perde occasione di puntualizzare quanto arretrato sia il Giappone rispetto al resto del mondo: le carlinghe non sono ancora completamente in metallo; ai test di volo gli aerei arrivano trascinati dai buoi; la vita è un continuo paradosso economico, politico e sociale. Jirō vede i paradossi, vede la difficoltà, ma allo stesso tempo è affascinato dai buoi che riposano nei loro recinti. Il suo talento, così precisamente concentrato su un obiettivo specifico, potrebbero farlo apparire come un uomo qualunquista, indifferente, egoista e privo di ogni riguardo, soprattutto verso Nahoko e la sua salute precaria. La ragazza potrebbe sembrare la vittima stritolata nel processo produttivo del caccia: Jirō ha poco tempo da dedicarle, a casa continua a lavorare a a fumare nonostante Nahoko, stesa al suo fianco, sia consumata dalla tubercolosi. Ma coerentemente con le donne che l’hanno preceduta, Nahoko – pur con tutti i limiti imposti a una ragazza di buona famiglia negli anni trenta -, non rinuncia mai a esercitare la propria volontà: è lei che rivolge la parola a Jirō la prima volta, che decide quando è il momento di essere ricoverata, quando è pronta a lasciare il sanatorio e quando è tempo di ritornarci definitivamente. Fuori dallo studio di progettazione l’uomo non saprebbe reggersi da solo senza la presenza stabilizzatrice della

propria compagna. Jirō riassume con misura e riservatezza i tratti essenziali delle figure maschili che lo hanno preceduto: l’entusiasmo infantile per il volo e l’amarezza adulta per la corruzione di un ideale; la passione per il proprio lavoro e l’affetto per la propria compagna; il coraggio nelle avversità e la serenità d’animo di chi è più impegnato a creare che a dimostrare di essere in grado di farlo. Se con lui Miyazaki può chiudere la propria carriera di regista e animatore là dove sentiva di averla idealmente aperta – sul camion dello zio che lo allontanava dal pericolo, nel punto d’incontro tra la bellezza e la mortifera potenza degli aerei – forse può chiudere anche un altro capitolo della propria esistenza, quella in cui un uomo assorbito dal proprio talento e dal proprio lavoro riconosce un debito di riconoscenza a chi – compagne, figli effettivi o possibili, fratelli, amici, colleghi, mentori – gli ha permesso di rimanere saldamente ancorato mentre la sua immaginazione andava sempre più lontano.

Creature di altri mondi In diverse occasioni, Miyazaki ha dichiarato di non essere particolarmente interessato alla fantascienza in senso stretto: i viaggi interstellari, le profondità del cosmo, i mondi alieni non lo attraggono quanto le piante, le nuvole e i paesaggi terrestri. Anche quando parla di epoche lontane che anticipano il futuro (Nausicaä della Valle del Vento), che recuperano un passato remoto (La principessa Mononoke) o che mostrano luoghi in cui si sono sviluppate una flora e una fauna bizzarre (Il castello nel cielo) le forme restano riconoscibili e riconducibili all’esperienza quotidiana. In fondo, persino chi si avventura negli abissi dello spazio finisce per trovare ispirazione sulla Terra: è il caso, famosissimo, della mostruosa creatura di Alien, la cui bocca riproduce quella di un vorace insetto a cui pochissimi hanno prestato attenzione prima e dopo il film di Ridley Scott. Tenendo gli occhi aperti sugli ecosistemi terrestri, riproducendo in modo realistico ciò che è irreale – o modificandolo leggermente ma sensibilmente rispetto al suo corrispondente reale – Miyazaki non intende sostenere il primato del nostro pianeta sul resto dell’universo; la supremazia di un’idea, una specie o un sistema su un altro è un concetto a lui estraneo: Non amo una società che si pone come l’unica società giusta. La legittimità degli Stati Uniti, dell’Islam, della Cina, di questo o di quel gruppo etnico, di Greenpeace, degli imprenditori… Tutti pretendono di avere ragione e invece obbligano gli altri ad adeguarsi ai loro standard.64 Nei precedenti capitoli si è detto che nei film di Miyazaki i rapporti tra individui diversi per sesso, età, cultura e convinzioni sono organizzati in modo non convenzionale, evidenziando pregi e difetti di tutti e sottolineandone il diritto a vivere. Un’ulteriore conferma di ciò viene dal fatto che il regista non fissa l’attenzione solo sui rapporti umani e non fa mai dei suoi personaggi, siano essi uomini o donne, l’arrogante

centro della storia. Anzi, parlando di Porco Rosso ha affermato: Sono disgustato dall’idea che l’essere umano sia il più evoluto, il prescelto da Dio. Credo invece che ci siano in questo mondo altre cose belle, importanti e per le quali vale la pena di lottare. Ho fatto del mio eroe un maiale perché ciò rifletteva al meglio le mie convinzioni.65 In termini di resa visiva questo significa che un filo d’erba e l’espressione scocciata di Chihiro hanno lo stesso valore e dunque vengono riprodotti con la stessa cura: entrambi contribuiscono a dare spessore e profondità al film. Ogni personaggio umano è immerso nel mondo in cui vive e agisce: molte sequenze de Il mio vicino Totoro si aprono con un’inquadratura in campo lungo o medio che illustra il paesaggio che circonda Satsuki e Mei e spesso, per ribadire l’importanza di ogni più piccolo contributo, in primo piano è disegnato un dettaglio altrimenti invisibile, come lo stelo di un fiore su cui si arrampica una lumaca. Con queste premesse, non stupisce di trovare nei film di Miyazaki una presenza costante di comprimari non umani per origine e non per scelta, come nel caso di Porco Rosso. I comprimari possono essere animali più o meno magici, rei, kami, esseri meccanici dotati di sensibilità come i robot de Il castello nel cielo, di personalità come il Castello Errante di Howl o di una vita biologica come il Soldato Invincibile di Nausicaä della Valle del Vento. In ogni caso, non sono «spalle» nel senso disneyano del termine: il loro ruolo non è costruito su un canovaccio immutato di film in film con lo scopo di allentare la tensione, strappare una risata o riportare all’ordine qualche gesto di insubordinazione. Sebbene riconducibili a qualche specie terrestre, spesso gli animali di Miyazaki sono il risultato, armonico e coerente, della combinazione di più razze. In sostanza sono animali che non esistono, ma che potrebbero esistere se solo un dettaglio della loro evoluzione fosse stato modificato: stabilire se Teto, l’animale che Yupa regala a Nausicaä, sia una volpe, uno scoiattolo o un fennec non è importante. Allo stesso modo non ha senso chiedersi se Heen, la bestiola dal fiato corto e dalle occhiate eloquenti che compare ne Il Castello Errante di

Howl prima come spia di Suliman e poi come prezioso alleato di Sophie, sia davvero un cane: scodinzola e abbaia afono, accompagna Sophie comportandosi come una versione ironica e acciaccata del cagnolino di Dorothy, la protagonista de Il mago di Oz, eppure ha zampe da volatile simili a quelle dello Shishigami. Il fatto essenziale è che la somma di caratteristiche fisiche o psicologiche familiari sia qualcosa di inaspettato. Secondo il regista, infatti, ciò permette di azzerare ogni meccanismo di anticipazione negli spettatori: se Yupa o Ashitaka usassero come cavalcature un qualsiasi animale destinato allo scopo, dal cavallo al cammello all’elefante, l’immaginazione degli spettatori li collocherebbe in un contesto usuale. Ad esempio, un giovane giapponese a cavallo, in abiti tradizionali e armato di frecce corrisponderebbe a un samurai. E questo non deve succedere. Così Yupa deve spostarsi grazie a Kui e Kai, una coppia di uccelli simili a moa, resistenti, veloci, affidabili e soprattutto affezionati a colui che è un compagno piuttosto che un padrone. E Ashitaka deve condividere i pericoli del viaggio verso ovest con Yakul, una specie di stambecco dall’aspetto mansueto, devoto come un cane e coraggioso come un leone. Sebbene inseparabili, Yakul e Ashitaka non riescono a comunicare tra loro a parole e assomigliano un po’ alla coppia composta da Kiki e Jiji nel momento in cui perdono la magia della comunicazione verbale. Ashitaka e Kiki sono la dimostrazione concreta che non occorre essere mononoke e correre con i cani selvatici per comunicare con gli animali: affetto e amicizia sopperiscono egregiamente alla logica del linguaggio. Proprio Jiji, di tutti gli animali protagonisti, è l’unico ad appartenere a una specie precisa, perché la sua eccezionalità non sta nell’aspetto ma nel fatto di saper parlare. Jiji è il più indipendente – non a caso è un gatto! – e forse l’unico animale di cui vengono raccontati con continuità episodi che non prevedono la presenza umana (nella fattispecie quella di Kiki): è protagonista di una divertente e imbarazzata sequenza in cui osserva il marito di Osono al lavoro; subito dopo è in una casa sconosciuta in balia degli eccessi d’affetto di un vecchio cane; infine vince la resistenza della vezzosa Lily e, durante i titoli di coda, si ritrova padre di quattro cuccioli. In nessun caso, però, le parole o le reazioni di Jiji sono la caricatura semplificata di un gatto reale. L’eccezionalità nella norma è incarnata in modo ancora più esplicito da Moon/Ball/Muta, l’insolente, placido e disinvolto gatto de I sospiri

del cuore, quasi una versione animata dell’enorme gatto descritto da Bulgakov nel romanzo Il Maestro e Margherita: a prima vista non ha nulla di differente da tanti gatti di razza imprecisata, a parte il fatto che si sposta in treno senza mai sbagliare coincidenza e attraversa la strada sulle strisce pedonali. Anche il ruolo di questo gatto è abbastanza simile a quello di Jiji, nonostante la loro diversa origine: entrambi guidano le protagoniste alla scoperta di un nuovo mondo in cui diventeranno grandi. Esteriormente Jiji e Moon sono completamente diversi: nero, magro e scattante il primo; grigio, robusto e simile alla gatta che, seguita dai gattini, chiude i titoli di coda di ogni episodio de Il fiuto di Sherlock Holmes il secondo. Non c’è dubbio che questi gatti-porcello sommano le caratteristiche più irritanti e affascinanti di entrambe le specie. Nel mondo rurale di Totoro si vedono galline e una capra, in Kiki consegne a domicilio oche selvatiche e corvi, ne Il castello nel cielo un maialino, ma si tratta di comparse: nei film diretti o comunque scritti da Miyazaki, i gatti sono gli unici animali domestici reali a essere protagonisti, una volta scartata l’idea preliminare di affiancare a Nausicaä un cane. E la ragione è chiara: la loro natura felina, domestica ma non assoggettata, rende più facile immaginarli non completamente piegati dalla volontà degli uomini. Quando le loro caratteristiche non coincidono esattamente con la realtà quotidiana, i gatti contribuiscono comunque alla creazione di personaggi sorprendenti, capaci di unire il mondo del fantastico occidentale con quello giapponese del divino. Il Nekobus che fa servizio tra le risaie e i boschi de Il mio vicino Totoro potrebbe essere leggendario e profondamente giapponese come il Manekineko dalla zampa sinistra alzata ad augurare fortuna o il mostruoso Bakeneko che mangia i bambini; ma quando è appollaiato sugli alberi e sorride sornione, è il parente più stretto e meglio riuscito del gatto del Cheshire di Alice nel paese delle meraviglie, con la sola differenza che il Nekobus è infinitamente più utile e meno irritante. Il gatto non è estraneo nemmeno ai Totoro, soprattutto a quello più grande: l’apparente indifferenza con cui osserva il corso degli eventi e la sua effettiva partecipazione agli stessi, nonché il sonno pesante, sono indubbiamente caratteristiche feline. I Totoro sono di fatto un piccolo compendio di tradizioni popolari e osservazioni naturalistiche: il suono delle loro ocarine ricorda il verso del gufo, così come i disegni sul pelo del loro petto ne richiamano il piumaggio; hanno qualcosa del

procione, la corporatura dell’orso da grandi e le dimensioni di un coniglio da piccoli. Alcuni degli animali da cui Miyazaki ha preso in prestito un orecchio, un naso o i baffi – soprattutto il gatto e il tanuki, il procione giapponese – ricoprono nei miti e nelle leggende il cosiddetto ruolo del trickster, della divinità burlona, capace di gesti di generosità e improvvisi scatti d’ira, spesso legata alla fertilità e alla creazione artistica66. Tutte le culture hanno i loro tricksters che rubano il fuoco, inventano la musica, irritano gli altri dei, creano la danza e in generale compensano l’indisciplina con scoperte che vanno a vantaggio degli uomini e rendono la vita terrena meno grama. I Totoro appaiono e scompaiono giocando a rimpiattino con Mei, ugualmente allarmati, divertiti e seccati; l’indole bonaria e protettiva in ōtotoro contrasta con il suo aspetto e i suoi potenti ruggiti. Affine al protettore di Mei e Satsuki è Oshirasama, il kami con cui ne La città incantata Chihiro si trova stretta nell’ascensore: enorme, bianco come la radice del rafano e con delle piccole radici al posto delle mani, potrebbe schiacciarla o denunciarne la presenza al personale delle terme. Invece l’accompagna fino agli appartamenti di Yubaba e si congeda con un cenno d’incoraggiamento. Un simile rapporto di complicità lega il demone del fuoco Calcifer a Howl e a Sophie. Essendo un demone, Calcifer ha una natura malvagia ed egoista: per salvare se stesso ha sottratto il cuore di Howl e l’attenzione che nutre per la sua salute è vincolata al fatto che, se il mago morisse, scomparirebbe anche lui. Eppure la lunga convivenza ha mitigato questo istinto di sopravvivenza e il demone dimostra una sincera preoccupazione quando Howl rientra prostrato dalle incursioni al fronte. Anche con Sophie Calcifer cerca di mostrarsi freddo e opportunista, ma la vecchiaia li pone sullo stesso piano e tra i due nasce un’alleanza dialettica e scontrosa che porterà il demone a liberare il cuore del mago. Il fatto che Miyazaki abbia curato personalmente l’animazione di questo fuocherello stizzoso e umorale ma capace, come un vecchio che si sente trascurato, di lasciarsi piegare dalla gentilezza, è significativo dell’importanza che il regista attribuisce ai caratteri complessi, profondamente realistici nella sostanza pur essendo fantastici nella forma. Da quanto detto, sembrerebbe che non ci sia soluzione di continuità tra gli animali e il mondo degli dei, e in effetti tracciare una precisa linea di confine è spesso difficile per la natura stessa della cultura

giapponese: se ogni oggetto o essere vivente ha un suo spirito e se ogni oggetto o essere vivente – una pietra, un albero, un animale – può nascondere un kami o un rei, non solo bisogna muoversi nel mondo con rispetto, ma bisogna usare cautela nelle classificazioni. Per dimensioni, aspetto, potenza e intelligenza gli Ohmu di Nausicaä possono incarnare il confine tra il semplice animale e il kami: i loro sereni occhi blu indicano che la vita di chi li avvicina sarà risparmiata, ma nei loro occhi rossi di rabbia le creature più piccole possono trovare facilmente la morte. Chi esprime continuità tra la vita e la morte nel modo più raffinato e complesso è lo Shishigami/Didarabotchi/Shinigami. A ogni nome corrisponde uno stadio diverso della divinità: cervo taumaturgo dal sereno volto umano, spirito immortale della natura che percorre il mondo di notte e nero dio della morte dai molti tentacoli letali e disseccanti. Nelle sue incarnazioni lo Shishigami – la cui forma di cervo deriva dalla mitologia celtica, che Miyazaki ha affrontato ai tempi di Laputa – rappresenta quella forza che genera e distrugge secondo ragioni che sfuggono agli uomini e a cui, nonostante la tecnologia e il progresso, anche gli uomini sono sottomessi. Mansueto e sereno nell’aspetto, non è una divinità pacificatrice ma una vera e propria incarnazione del sacro, di quella potente unione degli opposti, del Bene e del Male, della vita e della morte, che viene prima della ragione e che la religione organizzata separa in profano e santo, ossia in assolutamente cattivo o buono. Quando colpisce la terra la sua zampa genera felci, fiori e rigogliosi germogli; essi durano però un attimo e, quando la zampa si solleva, sono ridotti a una piccola massa avvizzita. Anche in Ponyo sulla scogliera Granmammare compie lo stesso “miracolo” quando attraversa il mare per raggiungere Fujimoto, appostato vicino alla casa di Sōsuke. Nel momento in cui nuota al di sotto della nave di Koici, Granmammare è accompagnata da una miriade di pesciolini dorati che, al contatto con l’aria o con gli esseri umani, perdono immediatamente colore, anneriscono e si dissolvono: proprio come regola la vita Granmammare ne regola anche la fine. A questa legge non sfugge nessun essere vivente, nemmeno Ponyo: la madre infatti propone di lasciar decidere a Sōsuke del destino della pesciolina, ben sapendo che se questo la rifiuterà Ponyo sarà trasformata in schiuma del mare. Ne La principessa Mononoke anche lo Shishigami non compie miracoli sentimentali o irrealistici: quando Moro, l’Inugami che ha

allevato San, e Okkotonushi, il signore dei cinghiali, vengono feriti dalle pallottole, non li risana perché la loro era è finita e non ha senso prolungarla oltre. Ma, allo stesso tempo, lo Shishigami non muore mai perché ha la capacità di rigenerarsi anche nelle condizioni più avverse: come la foresta contaminata in cui vaga Nausicaä, come l’isola abbandonata di Laputa, come le coste invase dal petrolio o le terre devastate dalle radiazioni. I due temi portanti de La principessa Mononoke sono la mancanza di comunicazione e la necessità di mediazione, temi che sollevano infinite domande senza una risposta immediata: a seconda del punto di vista che si abbraccia, tutti hanno torto e tutti ragione. Così, anche le divinità non rispondono allo stesso modo quando sono aggredite o sofferenti. I cinghiali sono più prossimi agli esseri umani nella loro impulsività e nel loro essere preda dell’odio e della furia: il film ha origine nel rancore e nella paura di morire che trasforma uno di essi in un Tatarigami; e anche il grande Okkotonushi, sfinito e sanguinante, sta per fare la stessa fine. I cani selvatici sono più fieri, resistenti e nobili anche nella sofferenza. Moro è per le soluzioni dialettiche e per i bersagli precisi e resta se stessa fino al momento in cui lo Shishigami la solleva dalla pena di una vita ultraterrena da demone: la sua testa mozzata, capace di mordere anche dopo la morte, si avventa su Eboshi e su nessun altro, al contrario del Tatarigami, spinto da un odio che gli fa cercare vendetta aggredendo gli innocenti. Così come gli Ohmu paiono trovarsi sul confine che trasforma un animale in kami, i cinghiali, i figli di Moro e le scimmie sono fermi sul confine che separa la divinità dall’animale comune. Le condizioni di vita a cui li hanno obbligati gli uomini hanno reso i cinghiali «sempre più piccoli e più stupidi», mentre nelle scimmie e nei cani selvatici è sottolineata la fame insaziabile: anche in loro il desiderio di consumare ha preso il sopravvento sull’equilibrio. L’utopia perseguita da Fujimoto in Ponyo sulla scogliera si ricollega direttamente alla difesa della foresta dello Shishigami e a una reazione drastica e astorica dettata dall’egocentrismo umano. Anche nel suo caso però una soluzione che preveda di spazzare l’umanità a favore di altri ecosistemi non è attuabile, o forse lo può essere nella realtà ma non nell’economia narrativa dei film di Miyazaki: il fine ultimo è trovare una soluzione di convivenza, non di sopraffazione di una parte sull’altra, e questo anche a dispetto di condizioni di partenza complesse e apparentemente indistricabili.

L’ingordigia è una maledizione che si propaga di film in film e ne La città incantata non colpisce solo i genitori di Chihiro. Questo demone moderno ha bisogno di una sua rappresentazione e, laddove non c’è una specifica creatura soprannaturale o non esiste una sua raffigurazione, Miyazaki la disegna e le dà vita. Le terme de La città incantata sono il luogo ideale in cui dare sfogo alla fantasia e il risultato è sorprendente proprio perché ha senso per qualsiasi spettatore: i giapponesi trovano le loro tradizioni popolari, gli occidentali possono riconoscervi un giardino di delizie che associano quasi automaticamente a Bosch; entrambe le attribuzioni sono legittime e hanno valore anche se i primi ignorano il pittore fiammingo o i secondi le ottomila divinità shintō. Da un punto di vista pratico, questo numero altrove impensabile di divinità, è una sfida all’immaginazione, perché se esistono ottomila esseri soprannaturali niente vieta, in caso di necessità, di disegnarne uno in più. Così è nato Kaonashi (Senza Volto). In esso Miyazaki ha condensato alcuni tratti che, seppure ispirati al Giappone contemporaneo, si adattano a numerosi altri paesi: Mi piaceva molto l’idea di questa divinità vagabonda che non ha nessun riferimento con la tradizione giapponese. Infatti Kaonashi rappresenta il Giappone contemporaneo. Molti sono convinti che i soldi bastino ad assicurare la felicità. Ma Kaonashi riesce veramente a rendere felice la gente regalando oro?67 Kaonashi, infatti, arriva alle terme e viene fatto entrare da Chihiro che lo scambia per un ospite. Da questo momento la nera figura con il volto celato dietro una maschera la segue cercando di comunicare con suoni spezzati e gentili che vorrebbero attirarne l’attenzione. Quando Chihiro ha bisogno di una tavoletta per ottenere i sali da bagno da Kamaji, Kaonashi gliene procura un secchio. Ma la bambina, obiettando che non ne servivano così tante, lo addolora molto. Il personale delle terme è invece molto più sensibile alle lusinghe: quando Kaonashi inizia a distribuire oro, tutti si precipitano cercando di ingraziarsi la misteriosa divinità. All’inizio nessuno si accorge – o finge di non accorgersi – che alcuni inservienti sono spariti e, quando la fame di Kaonashi diventa insaziabile perché più cibo trangugia più ne vorrebbe, è ormai troppo tardi. È a questo punto che si mostra per ciò

che è davvero: ha il corpo smisurato, il ventre prominente e la testa è un grosso grugno incassato nelle spalle sul quale è ancora appesa la maschera dall’espressione vagamente triste e gentile. Kaonashi sembra modellato su quegli individui che pensano di poter comprare il cuore e l’anima di chiunque, soprattutto di chi resta indifferente alle loro lusinghe. In questo è l’opposto simmetrico di tutti quegli uominimaiali che sanno aspettare e non insistono. Il tema dell’ingordigia, anche alimentare, che attraversa La città incantata è regolato dall’intervento di Zeniba, la più sobria ed equilibrata delle due gemelle, che riporta a dimensioni ridotte ciò che il mondo dominato dalla sorella ha reso ipertrofico. Non solo Kaonashi trova nella sua casa quell’affetto e quelle regole che gli impediscono di ricadere nella bulimia, ma anche Bō e l’uccello guardiano di Yubaba, rimpiccioliti da Zeniba, aumentano le possibilità di movimento: il primo diventa un topo e il secondo una specie di incrocio tra un corvo e una zanzara; quando l’incantesimo viene rotto, entrambi decidono di non riprendere subito le loro vere sembianze. Insieme formano una coppia comica insolita agli occhi occidentali: delicati, indifesi e allo stesso tempo volonterosi nel seguire Chihiro nel lungo, misterioso viaggio in treno. Le linee sottili con cui sono definiti, le forme arruffate dell’uccellino e quelle tondeggianti del topo, ricordano altri piccoli esseri benigni che solo l’ignoranza degli umani può temere: è il caso dei Susuwatari, annidati nella casa di Mei e Satsuki ne Il mio vicino Totoro e costretti a lavorare nelle terme ne La città incantata, e dei Kodama de La principessa Mononoke, gli spiriti che vivono negli alberi: bianchi e simili a buffi bambini, con la loro presenza garantiscono la buona salute della foresta. Vi sono ancora esseri come i pesciacqua che rispondono agli ordini di Fujimoto in Ponyo sulla scogliera, ma che non sono davvero minacciosi; e le sorelle di Ponyo, pescioline che si trasformano progressivamente, manifestando una forza potenzialmente pericolosa ma sempre usata per aiutare la sorella nel suo tentativo di diventare umana. Nella filmografia di Miyazaki ci sono poi altri esseri che non possono essere definiti umani, ma non sono nemmeno parte della natura o del mondo degli dei: si tratta di particolari artefatti che per la complessità della loro struttura riescono a sviluppare una specie di anima e a volte, se lasciati liberi, si ribellano allo scopo per cui sono stati creati. L’isola di Laputa è un organismo complesso fatto di cristallo e radici, vegetali,

animali e robot che sono diventati pacifici custodi della bellezza nonostante fossero nati per essere aggressivi protettori della tecnologia. Il Castello Errante ha un aspetto vagamente antropomorfo e si sposta su quattro zampe cigolanti, come la capanna in cui vive Baba Yaga, la strega del folklore slavo. Ma soprattutto il castello deve la sua esistenza al doppio patto che lega Calcifer a Howl e che anima l’edificio grazie al cuore pulsante del mago e al calore del demone del fuoco. Diversa è la situazione del demone che Kushana vuole scagliare contro la foresta: il Soldato Invincibile è stato creato per distruggere e, come un pesante, ottuso golem, marcia verso il suo obiettivo senza esitazione. Ma nella fretta di toglierlo dal suo bozzolo, gli esseri umani liberano l’embrione di un guerriero, fragile e inefficace. Nel manga la sua condizione infantile – dunque innocua in quanto priva dell’imprinting necessario per trasformarlo in una macchina di morte –, è resa esplicita: il dio guerriero, risvegliato troppo presto, è come un neonato indifeso che chiama Nausicaä mamma ed è battezzato da lei Innocenza. L’innocenza delle macchine – soprattutto delle macchine volanti –, chiude il cerchio in cui sono stretti il genere umano e la natura, per sempre indivisibili, per sempre inconciliabili.

Smontare il meccanismo L’universalità del cinema di Miyazaki permette a ognuno di riconoscervi la propria dottrina scientifica, religiosa o filosofica a patto che essa abbia come fondamento il confronto e il rispetto degli altri: in esso si possono ritrovare più di un principio ecologico, tratti essenziali dello shintō, dottrine della rigenerazione che comportano la morte e la rinascita della divinità e così via. Ma, allo stesso tempo, non è niente di tutto questo, dal momento che non è un cinema a tesi e non sostiene un pensiero a sfavore di un altro. Piuttosto raggiunge – anche senza cercare di farlo deliberatamente – una comune radice, la stessa che da secoli spinge gli uomini a chiedersi quale sia la loro origine e la loro fine, insieme al ruolo e al posto da occupare tra questi due eventi. Se il cinema di Miyazaki deve essere ricondotto a un principio, non può essere che quello del bambino che chiede perché. E la domanda è spesso più importante della risposta. Nel risvolto di copertina dell’edizione italiana di Nausicaä della Valle del Vento, l’editore giapponese elenca pregi e difetti del regista; tra i primi si trovano «sincerità, passione, energia, sguardo penetrante» e tra i secondi «infantilismo, timidezza, un amore sviscerato per il saké»: Bisogna anche riconoscere che il suo carattere ha una freschezza quasi infantile. Durante i viaggi di lavoro, se gli capita di sedere in aereo accanto a una persona che russa sonoramente, lui osserva a lungo il passeggero, con gli occhi sgranati, come fosse un bambino stupito.68 A prescindere dal talento innato – che, come dice la parola, non si può acquisire ma solo affinare – per lavorare con sempre rinnovato spirito creativo è dunque più importante essere un bambino che un dio. Il fatto di non avere una risposta precisa o una teoria generale sul mondo che chieda prepotentemente di venire confermata consente al regista di osservare le situazioni da più punti di vista: la Verità, se esiste, è fatta di infinite verità più o meno precise. E in questo Miyazaki

è effettivamente vicino allo spirito del Rashōmon di Kurosawa. Ma c’è un’affinità anche tra Miyazaki e un altro regista giapponese di cinema dal vero molto noto e amato in occidente, ovvero Kitano Takeshi. L’affinità riguarda non tanto lo stile o le storie raccontate ma il modo di rapportarsi alla propria cultura d’origine. Secondo Kitano – le cui dichiarazioni sono solitamente più polemiche e taglienti di quelle di Miyazaki –, un regista giapponese che ancora si ostinasse, davanti al pubblico occidentale, a parlare di haiku, zen o teatro tradizionale non difenderebbe la sua specificità culturale ma darebbe all’Occidente ciò che questo si aspetta: un’attrazione turistica. In questo modo entrambe le parti resterebbero ferme al 1899, quando Oscar Wilde scrisse che il Giappone è «pura invenzione», «squisita fantasia dell’arte» e non un paese o un popolo reale. Eppure Kitano ha diretto Dolls (2002), ispirato al Bunraku, il teatro delle marionette tradizionale, e Zatoichi (2003), un jidaigeki, ossia un film in costume, dedicato al personaggio di Zatō Ichi, figura radicata nella tradizione giapponese di guerriero errante che cela la sua identità sotto i panni di un massaggiatore cieco. I film di Kitano, come quelli di Miyazaki, sono impregnati della cultura in cui è nato e cresciuto il loro autore, ed è naturale che sia così. Ma l’atteggiamento di Miyazaki e Kitano di fronte all’essere giapponesi è la constatazione di un dato di fatto e non lo spunto per nostalgie conservatrici o recuperi nazionalistici. Deve esistere un punto di equilibrio tra l’esaltazione acritica della propria cultura e dei propri valori e l’esaltazione acritica dei valori e delle culture altrui, e ci dev’essere un punto in cui si può sottrarre la propria identità culturale al revanscismo e al nazionalismo. Entrambi i registi cercano un modo personale, dialettico e problematico di stare in equilibrio su quel punto. Le polemiche che hanno accompagnato l’uscita di Si alza il vento, in patria e all’estero, e che hanno visto Miyazaki dipinto ora come un nemico della patria ora come un negazionista, sono forse il migliore riconoscimento della volontà di spingere lo spettatore a porsi delle domande sul ruolo e sulla responsabilità di chi mette il proprio talento (e forse anche la propria buona fede o la propria ingenuità) al servizio della guerra, non importa se di aggressione o di difesa. Più importante del condannare le scelte di Jirō Horikoshi è dunque importante capire che chiunque avrebbe potuto trovarsi al suo posto e che ogni sogno di perfezione estetica può trasformarsi in un incubo di devastazione etica e morale. Ma spingere oltre il pensiero di Miyazaki, trasformare

Nausicaä in un pamphlet ecologista, Il castello nel cielo in un trattato sulla crisi economica dei minatori gallesi durante il governo Thatcher, La città incantata in un manifesto no global, Il Castello Errante di Howl in una precisa presa di posizione contro la guerra in Iraq o Ponyo sulla scogliera in un documentario sul periodo devoniano, è da un lato una forzatura e dall’altro uno sminuire la potenza delle sue opere: l’ecologia, i minatori, la guerra o l’identità personale e collettiva sono presenti in questi film, ma non si tratta di film a tema – e ciò è particolarmente vero quando la storia, l’identità culturale e il rapporto tra la progettazione e l’uso bellico della tecnologia convergono in un’unica storia come nel caso di Si alza il vento. Indubbiamente i primi destinatari di tali riflessioni sono il regista stesso e i suoi connazionali, ma questa precisa contestualizzazione invece di escludere il resto del mondo lo coinvolge e lo chiama in causa. Miyazaki ha spesso dichiarato di pensare i suoi film per il pubblico giapponese, senza preoccuparsi di milioni di altre persone di cui ignora gusti e aspettative e questo atteggiamento finisce per cogliere aspetti universalmente condivisibili con più precisione di chi, temendo di non essere compreso, parla un linguaggio standardizzato che diventa per questo generico e irrilevante. Inoltre, la consapevolezza della propria identità culturale permette di assorbire ciò che è più efficace per spiegare le proprie emozioni attingendo anche alla cultura altrui senza snaturarsi: il personaggio di Nausicaä è ispirato alla Gena Rowlands di Gloria di Cassavetes, Lupin III: il castello di Cagliostro trae spunti da Caccia al ladro di Hitchcock, Il mio vicino Totoro ha un guizzo di Carroll, Porco Rosso, Kiki consegne a domicilio e Il Castello Errante di Howl sono ambientati in luoghi che si presumono europei o italiani. Se la testimonianza e la documentazione della realtà sono importanti, per un animatore è ancora più importante non stancarsi di immaginare una realtà diversa da quella presente. Questo slancio utopico non si accompagna mai al desiderio di «mandare un messaggio» o di «far riflettere». Puntualmente chiamato in causa su questioni ecologiste o interrogato sulla sua attività sindacale, che implica il riconoscersi nelle idee socialiste, Miyazaki è sempre stato molto chiaro: Dall’uscita di Nausicaä nel 1984 e poi di Totoro nel 1988, mi è stata

cucita addosso l’etichetta di ecologista. Ebbene, non lo sono davvero: spreco un mucchio di carta, bevo caffè! […] Quando ero giovane volevo essere comunista e amavo molto questa canzone [Les temps des cerises]. Non ho potuto saltare il fosso perché ero in disaccordo con i regimi sovietico e cinese. La loro concezione del comunismo mi sembrava falsa. Mi sono reso conto che l’essere umano non poteva essere abbastanza intelligente per realizzare completamente il pensiero di Marx.69 E ancora: Non faccio film con l’intenzione di inviare messaggi all’umanità. L’unico scopo che ho è mandare a casa la gente contenta.70 Miyazaki non è un leader politico ma un artigiano – dal momento che non ama il termine «artista» – che ha il dono di essere comprensibile per molti individui diversi senza smettere di parlare la propria lingua: gli spettatori sono spinti a pensare in modo sincronico e articolato da questa lingua che può essere universale proprio perché nasce dal particolare. E forse imparano con più facilità che uno stesso fatto ha significati diversi e che non esistono quelli che gli americani chiamano quick fix, soluzioni rapide, proprio perché Miyazaki non ha nessun desiderio di impartire alcuna lezione. Questo non vuol dire che il regista viva isolato o non abbia sue precise opinioni. Al contrario, i mali del mondo hanno impresso ad alcuni film uno sviluppo e un tono diversi da quelli previsti all’inizio della lavorazione. In origine Porco Rosso doveva essere un film breve e leggero, capace di rilassare lo staff dello studio duramente provato dalla conclusione del film di Takahata Omohide Poroporo (Ricordi nostalgici), ma come ricorda Miyazaki: A poco a poco gli avvenimenti del mondo, in particolare la guerra tra serbi, croati e bosniaci e la caduta del comunismo, mi hanno impedito di proseguire il mio divertimento leggero e sono stato costretto a pensare a un vero e proprio lungometraggio.71 Spostando lo sguardo dalla sua famiglia al sicuro sul camion alla

vicina con la figlia e poi a ogni singolo abitante di Utsunomiya, fino a comprendere l’intero Giappone impegnato nella guerra, e allargando lo spettro di osservazione a tutti i paesi coinvolti in un qualsiasi conflitto, non è più possibile trarre conclusioni univoche: L’esistenza di un individuo bruciato in un raid o quella di qualcuno che invece si salva come la rapportiamo al fatto che il Giappone, in quanto nazione, ha commesso tanti atti orrendi come i massacri in Cina, nelle Filippine e in altri paesi del Sud-Est asiatico? Devo concludere che il Giappone nel suo complesso era un paese di aggressori e dunque la questione non è così semplice.72 Ogni privilegio e ogni responsabilità che da esso deriva possono smettere di essere una condanna solo cercando di superarli. Nel caso di Miyazaki, il processo consiste nel ribaltare il segno, il senso e lo scopo delle azioni – o degli oggetti – che hanno determinato i suoi privilegi. Si tratta comunque di risposte molto determinate, a volte quasi bellicose: i toni patetici e melodrammatici che contraddistinguono lo stile di Takahata sono estranei a Miyazaki. Nei suoi film non mancano emozioni e momenti toccanti, ma gli eroi e le eroine sono sempre attivi di fronte alle difficoltà e le superano scegliendo il gesto meno giudizioso. O almeno lo sono stati fino a Jirō Horikoshi che, legato alla realtà storica, è più vinto che battagliero, più stanco che indomito. Sebbene resti sempre lontano da qualsiasi manifestazione esplicita di disperazione è anche lontano dal distacco cinico di Marco Porcellino. Proprio la sua condizione di individuo storicamente esistito impedisce a Jirō un gesto di rinuncia volontaria: salito a bordo di un treno o di un aereo lanciati verso la distruzione non ha la forza di arrestarne la corsa ma può solo proseguire fino allo schianto – come accade spesso agli esseri umani in carne e ossa Sheeta invece formula l’incantesimo di distruzione che smantellerà l’apparato bellico di Laputa; Nausicaä si lascia travolgere dagli enormi insetti della foresta per dare a essa e agli esseri umani una possibilità di sopravvivenza; San si batte a fianco di quelle divinità che stanno per essere superate dalla storia; Porco Rosso rinuncia deliberatamente alla sua umanità, forse all’amore di Gina, sicuramente a quello di Fio; Howl sopprime il suo narcisismo, la sua fama di seduttore e l’orgoglio di mago per trasformarsi in un’arma lanciata contro la guerra; Ponyo

scompagina gli equilibri naturali e accetta il rischio di sciogliersi nella spuma del mare se il suo proposito di diventare umana non troverà il sostegno di Sōsuke. Tutti agiscono in base a un altruismo e a una determinazione che va oltre il buon senso e la cautela. Eppure il sacrificio di sé – sia esso totale come nel caso di Nausicaä, o limitato a certi vantaggi legati all’età e alla condizione sociale come per Kiki, Chihiro o Sophie – è sempre accompagnato da una volontà attiva e ottimista che non dubita del buon esito delle proprie azioni. In ognuno di questi personaggi c’è qualcosa del loro creatore, della sua cocciuta determinazione e del suo impegno a mostrare il mondo come dovrebbe essere e a renderlo plausibile. Se in Una tomba per le lucciole la progressione drammatica può portare solo alle soluzioni scelte da Takahata perché è di un episodio realmente accaduto che si sta parlando, nei film di Miyazaki è la possibilità di scrivere una storia diversa a marcare la differenza. E anche in Si alza il vento, dove questa possibilità sembra sottratta, resta un varco nei dialoghi con Caproni. Una storia diversa non necessariamente è una storia impossibile, ma è una storia insolita che si può scorgere solo se si hanno occhi abbastanza coraggiosi per vederla. Rispondendo ad alcune critiche mosse all’apparente idillio di Totoro e al felice rischiararsi delle zone d’ombra presenti nella vita di Satsuki e Mei, il regista ha spiegato che il film è nato dal desiderio che esistesse un mondo come quello: D’accordo, posso fare un film in cui qualcuno trasloca solo per scoprire che la vicina di casa è una vecchia indisponente che brontola in continuazione dicendo: «Non toccate la verdura del mio orto». Allora le due sorelle piangono e piangono… Ecco, sta venendo fuori un film come lo farebbe Paku-san.73 Di registi come Miyazaki, capaci non solo di creare un mondo nuovo ma anche di mostrarne il meccanismo, estendendolo per similitudine al mondo in cui tutti viviamo, ce ne sono molti ma non moltissimi. Il loro talento visivo e verbale è capace di prosciugare le parole e le definizioni. Forse per questo vengono tutti indicati con lo stesso aggettivo frettoloso e riduttivo: visionario. Con questa parola spesso si risolve il problema di dover recensire, analizzare o studiare film

estremamente ricchi sul piano visivo e accomunati dal fatto che sul piano narrativo si congedano dallo spettatore non con il sollievo di una risposta, ma con l’inquietudine di una domanda. Il loro ruolo, per quanto potenzialmente fastidioso, è simile a quello dell’uccello che gira le viti del mondo descritto nel romanzo di Murakami Haruki: se non fosse per lui, che ne controlla i giunti, il mondo cadrebbe a pezzi. Come l’isola di Laputa. I meccanismi, gli ingranaggi, l’insieme dei congegni, il loro funzionamento e la loro funzione sono un altro cardine su cui ruota il mondo della impossibile possibilità. Si parla spesso della passione di Miyazaki per gli aerei. non c’è film in cui non ne venga inserito uno o in cui non siano previste scene di volo: quelli che nelle mani del padre e dello zio erano strumenti di morte, nelle sue diventano strumenti per conquistare indipendenza e libertà. Gli aerei servono per parlare della bellezza delle forme ideate e plasmate dall’uomo, per raccontare il valore del lavoro artigianale, la potenza del sogno, l’intrinseca innocenza della macchina che solo la perversione del potere trasforma in un mezzo di sterminio. In Si alza il vento la capacità di conservare la macchina bella e innocente è vinta dalla realtà che vuole le macchine pensate per uno scopo pratico e aggressivo; eppure la volontà di Jirō di non perdere di vista un’ideale è ribadita dalle numerose sequenze in cui si mostra, materialmente, come dal progetto si arrivi prototipo e come si testino i punti deboli e quelli di forza. La quantità di termini tecnici inevitabilmente presente nei dialoghi mostra il piacere di parlare di come sono fatte le cose, un piacere che va ben oltre l’economia narrativa. Se l’animazione di Miyazaki ha origine in una fabbrica di componenti aerei, l’animazione di Miyazaki termina in una fabbrica di aerei trasformata nella metafora di uno studio di animazione. Tutto ciò che conosce Jirō può averlo conosciuto Miyazaki e con lui molti altri animatori: aggiustamenti tra impulso creativo e contingenze produttive e tra innovazione e tradizione tecnica, sacrificio del proprio tempo e di quello dei propri familiari, relazioni di amicizia messe alla prova dal continuo confronto professionale, e la sensazione di vivere in un mondo e parlare una lingua talmente specifica da poter trovare comprensione solo nei propri simili. La vera montagna incantata che separa dal resto del mondo non è un luogo fisico ma una passione, un talento che può logorare la salute. Dunque, nel raccontare una storia, il primo e più complesso

meccanismo di cui Miyazaki si preoccupa è l’animazione stessa: come Jirō Horikoshi, Boss o Pa, Porco Rosso o Kamaji, progetta nuove soluzioni, stringe i bulloni, sostituisce le pulegge logore e se necessario sblocca i motori ingolfati. Per tutta la vita Miyazaki ha utilizzato la tecnica del disegno animato, nota anche come cel animation in quanto il processo prevedeva l’uso di fogli di celluloide (celluloid, da cui il diminutivo cel ) trasparente, oggi sostituiti da fogli di policloruro di vinile (PVC), sempre trasparente. Le immagini che compongono l’animazione vengono trasferite per contatto o copiate per sovrapposizione sui diversi fogli, ovviamente modificando le parti coinvolte nell’azione in modo che, fotografate in sequenza una dopo l’altra, diano l’illusione del movimento quando vengono proiettate a ventiquattro fotogrammi al secondo. Un film a disegni animati – sia un corto, un medio o un lungometraggio – attraversa numerose fasi di lavorazione prima di arrivare nelle sale. Prima di tutto deve basarsi su un soggetto e avere una sceneggiatura e uno storyboard: questi ultimi raccontano lo svolgimento della storia, la prima a parole e il secondo con le immagini. Successivamente si prepara il layout, ovvero le indicazioni di movimenti di macchina e inquadrature74. Ogni personaggio che comparirà nel film deve ovviamente mantenere un aspetto e una psicologia coerenti scena dopo scena: i character designer realizzano molti disegni in cui studiano le fisionomie, gli abiti, le espressioni del viso e la gestualità dei personaggi. In questa fase vengono anche preparate delle tavole che, pur non essendo destinate al film vero e proprio, permettono di costruire al personaggio un passato, una memoria di sé e di quel mondo definito dagli scenografi e dagli artisti incaricati di disegnare gli sfondi e le ambientazioni. Per essere certi del buon funzionamento di tutti gli elementi che daranno al film il suo aspetto definitivo, i disegni vengono filmati in successione (line test) in modo da poter eventualmente correggere sia i movimenti sia il modo in cui sono stati ripresi. Fondamentale per l’omogeneità del film è il ruolo del direttore dell’animazione e dei suoi assistenti, incaricati di controllare che i disegni realizzati da mani diverse siano conformi al modello e si mantengano così dall’inizio alla fine. Ci sono infine persone che si occupano degli effetti speciali (come l’acqua o il fuoco) e naturalmente ci sono persone che colorano i disegni, seguendo anche in questo caso indicazioni che devono restare immutate scena per scena. La colorazione è una fase che

anche allo Studio Ghibli viene svolta al computer, perché risulta più veloce e meno costosa. Una volta che tutte le fasi di preparazione sono concluse, i disegni vengono ripresi, montati e naturalmente sonorizzati. La tendenza più diffusa è quella di scegliere le voci dei personaggi prima di iniziare a disegnare, in modo che i character designer tengano conto delle battute già recitate dagli attori. Allo Studio Ghibli si procede in modo opposto: sono gli attori ad adattarsi ai personaggi disegnati e questa scelta, come si vedrà tra poco, non ha solo implicazioni tecniche ma è anche espressione di poetica. Da quanto detto sinora emerge che il regista di un film d’animazione coordina un grandissimo numero di professionisti, rispetto al cui lavoro ha l’ultima parola, ma potrebbe anche non disegnare un solo dettaglio. Disney ha disegnato e animato solo i suoi primissimi lavori, raccogliendo in seguito nello studio che porta ancora oggi il suo nome le persone incaricate di farlo. E quella seguita da Disney è generalmente la regola. Miyazaki, al contrario, non solo sceneggia e dirige i film, ma realizza anche gli storyboard e interviene in fase di animazione, spesso rifacendo i disegni dei suoi collaboratori. non solo: tutto questo lavoro viene fatto a mano. Si può allora capire perché il regista ripeta spesso di essere diventato troppo vecchio per l’animazione: il carico di lavoro che si sobbarca è ugualmente ammirevole e folle. Spesso si ricorda che lo Studio Ghibli si è rassegnato solo a partire da La principessa Mononoke all’uso del computer, in particolare per semplificare la realizzazione di alcune animazioni molto complesse o per velocizzare la colorazione e l’animazione finale. Ma la diffidenza di Miyazaki verso alcune tecnologie create negli Studi Disney e poi diffusesi nel resto del mondo risale a ben prima dell’avvento del computer. In occasione della realizzazione di Biancaneve, negli Studi Disney venne messo a punto il rotoscopio, uno strumento che permette all’animatore di usare come traccia guida dei filmati realizzati attori che simulano i movimenti del personaggio da animare: Biancaneve, ad esempio, è stata «doppiata» dalla ballerina Marge Champion. Il movimento dal vivo viene quindi spezzato in un numero di quadri che rispettano la proporzione di ventiquattro disegni al secondo e poi è ricomposto nell’animazione. Di solito a questo scopo vengono usati

attori di teatro, perché la loro recitazione è più definita e i gesti più ampi e marcati di quelli degli attori cinematografici, quantomeno a partire dall’avvento del cinema sonoro. Il risultato è estremamente fluido, ma è una fluidità che deve molto alla realtà. Per Miyazaki forse anche troppo: In Giappone il rotoscopio non è diventato molto popolare. Non solo per motivi economici. Io stesso odio questa tecnica. Se gli animatori diventano schiavi dei film dal vivo il piacere dell’animazione è dimezzato. […] Ci sono molti fiaschi clamorosi prodotti dal rotoscopio. Il signore degli anelli di Bakshi non poteva essere un successo dal momento che si basava su una recitazione povera. Anche Cenerentola di Disney ha dimostrato che cercare dei movimenti «più realistici» usando il rotoscopio è un’arma a doppio taglio. Diversamente da Biancaneve, la ricerca di «maggiore realismo» non ha dato altro risultato che una qualsiasi ragazza americana, facendo perdere al personaggio e alla storia il senso simbolico e l’universalità.75 Benché il mancato diffondersi del rotoscopio in altri studi giapponesi o nelle produzioni televisive sia indubbiamente legato anche a fattori economici, per Miyazaki è l’aspetto estetico e poetico ad avere il sopravvento: Se ci si limita a tradurre la ripresa dal vivo in disegni, anche la recitazione di un grande attore si trasforma in qualcosa di indistinto e confuso. Questo perché recitare non è solo una questione di movimento: è anche una sottile modificazione di luce e ombra o il possedere uno stile più o meno asciutto. La successione dei segni è più veloce della scansione di ventiquattro fotogrammi al secondo.76 Ma c’è un altro problema. Se Disney aveva uno stile recitativo su cui basare il movimento dei personaggi che risultava omogeneo e riconoscibile, per Miyazaki la tradizione giapponese manca di un modello adatto a ciò che lui stesso vuole ottenere: i generi di teatro

come il Bunraku, il Kabuki, il Nō il Kyōgen forniscono una gestualità troppo lontana da quella che il regista vuole per i suoi personaggi, mentre il balletto e il musical di ispirazione occidentale non lo interessano proprio perché presi in prestito. D’altra parte, l’animazione ispirata ai manga tende a spezzare le emozioni dei personaggi nei singoli elementi del volto, sottoponendoli a deformazioni eccessive e ingiustificate per il gusto di Miyazaki: nei suoi film nessuna eroina ha occhi enormi che all’improvviso sono trasformati in puntolini dall’imbarazzo o dalla sorpresa. Ciò che il regista alla fine chiede a se stesso e ai suoi collaboratori è di identificarsi con il personaggio: È qualcosa che non ha a che fare con lo stile o con un metodo sofisticato, ma se sei capace di catturare la vera essenza di ciò che dovresti esprimere, un’immagine con una vera emozione sarà un’immagine forte. Amo questa forza più del movimento levigato che si ottiene con il rotoscopio.77 La raccomandazione di Miyazaki ai suoi collaboratori di disegnare sempre a mano ciò che dovrà essere animato sembra essere dettata dalla necessità di entrare in contatto con i personaggi e le loro emozioni, ma in sé non è un procedimento migliore o peggiore di tanti altri: i personaggi inventati da John Lassater sono completamente generati al computer, ma non per questo mancano di sfumature, spessore o credibilità. E lo stesso si può dire dei film di Oshii Mamoru, realizzati con l’ausilio del computer. E sarebbe altrettanto facile immaginare che il controllo che Miyazaki esercita su tutte le fasi della realizzazione di un lungometraggio – persino quelle che la maggior parte dei suoi colleghi delega – sia dovuto a una ossessione per la perfezione. Ma forse la risposta meno scontata è che l’avvicinare troppo il registro creativo dell’animatore alla realtà rischia di annullare la sua autonomia da questa. Si potrebbe obiettare che lo stile di Miyazaki è realistico e che riproduce con esattezza ogni dettaglio di ogni ambiente, ricordando le due squadre di scenografi e direttori artistici de La principessa Mononoke, una delle quali si è recata nel parco naturale di Shikarami, nel nord dello Honshu, e l’altra in quello di Yakushima, nel Sud-est del Kyūshū, per osservare dal vero ambienti naturali pertinenti alla storia da raccontare. In realtà, però, quello che viene riprodotto con la massima

precisione non è un parco naturale o un altro; è qualcosa che non è mai esistito o che non esiste più ma che appare per un attimo e subito viene fissato, simile nella sua brevità a quelle immagini del mondo fluttuante ed effimero che avevano infiammato l’immaginazione di tanti artisti occidentali tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento78. Il ritenere importante che un lavoro sia accurato e richieda anni per essere terminato non è in contraddizione con il fatto che sarà destinato a un’esperienza che durerà relativamente poco. Questo concetto è reso perfettamente da Miyazaki: Voglio che i miei film siano visti al cinema. Non m’importa se li si vede anche cinquanta volte, non è niente di più di musica di sottofondo.79 Tutto ciò è in contrasto con l’idea contemporanea che il cinema sia capace di contrarsi o dilatarsi in simulacri quali i dvd o lo streaming on demand, ma tutta l’attività del regista sembra in fondo spinta dallo sforzo di realizzare la mediazione impossibile de La principessa Mononoke: il vecchio e il nuovo, il particolare e l’universale, Oriente e Occidente, matite e computer, secondo un principio che permette di scegliere di volta in volta ciò che funziona o che si adatta meglio, senza la rigidità di un’ideologia, di un’ipotesi da dimostrare o di una tesi da sostenere. In un articolo di François de la Breteque80, si mette in risalto il fatto che il cinema di Miyazaki è interculturale, nel senso che prende dalla sua e dalle altre culture ciò che gli permette di esprimere meglio la storia che vuole raccontare. Questa capacità di articolare culture diverse non è però legata solo ai contenuti, ma si riflette nei mezzi che adopera. Si tratta del resto di una tendenza comune a tutto il cinema d’animazione che, meglio di quello dal vivo, sperimenta l’intersecarsi della tradizione con l’innovazione. Così la sintesi di culture diverse nei contenuti si ritrova nelle immagini che possono anche aver visto l’intervento della computer graphic, utilizzata però al solo fine di renderle ancora più simili al disegno tradizionale81. Tutti i film di Miyazaki ci invitano a guardare oltre i confini ristretti della nostra persona, del nostro clan, della nostra nazione o della nostra specie, offrendo al loro creatore e agli spettatori una possibilità di usare il pensiero e l’immaginazione in maniera differente. La sua capacità di parlare a persone di età e culture diverse ha in sé la

potenza della fiaba grande e tremenda con orchi e streghe, non quella ammaestrata dei nanetti e delle fatine. La fiaba dall’architettura nitida, semplice e lineare, capace di finire bene o di finire male e perciò drammaticamente complessa: Il piacere che proviamo quando ci lasciamo coinvolgere da una fiaba, l’incanto che avvertiamo, proviene non dal significato psicologico di una storia (benché anch’esso abbia il suo peso) ma dalle sue qualità letterarie: dalla fiaba come opera d’arte. La fiaba non potrebbe esercitare il suo impatto psicologico sul bambino se non fosse in primo luogo un’opera d’arte.82 Lo stesso si può dire dei film di Miyazaki: il piacere che essi danno nel guardarli resta alla fine l’unica cosa veramente importante.

Schede filmiche Lupin III: il castello di Cagliostro (Lupin sansei: Cagliostro no shiro, 1979) Regia e storyboard: Miyazaki Hayao. Sceneggiatura: Yamazaki Haruya, Miyazaki Hayao. Animazione, character design: Otsuka Yasuo. Supervisione: Otsuka Yasuo, Tomonaga Kazuhide. Direzione artistica: Kobayashi Shichirō. Musica: Ono Yūji. Durata: 100 minuti. Arsène Lupin III e Daisuke Jigen hanno messo a segno una spettacolare rapina al casinò di Monte Carlo, ma il bottino non vale la fatica: tutti quei soldi non sono altro che cartaccia. Lupin prova a immaginare da dove provengano dei falsi così perfetti e la sua esperienza di ladro internazionale gli viene in aiuto: per avere una risposta bisogna raggiungere il piccolo principato di Cagliostro, un delizioso paesino sulle Alpi. Il viaggio a bordo della Fiat 500 è tranquillo fino a quando non si buca una gomma. Mentre Jigen provvede al cambio e Lupin lo sfinisce di parole, una Citroën 2CV guidata da una ragazza li supera a tutta velocità, inseguita da degli uomini minacciosi. Dopo alcune scene mozzafiato, la ragazza perde i sensi, Lupin riesce a salire a bordo della 2CV, ma non può evitare che questa precipiti in una scarpata. Usciti indenni dall’auto, i due non hanno quasi tempo di parlare che sopraggiunge una barca su cui la ragazza è costretta a salire. A Lupin resta solamente un guanto bianco in cui è contenuto un anello d’argento con inciso un capricorno. Lupin e Jigen ripartono e, arrivati a Cagliostro, raggiungono quello che doveva essere un palazzo magnifico ma che ora è solo un ammasso di rovine consumate dal fuoco: apparteneva al padre di Clarissa, la ragazza inseguita e rapita. Lupin racconta a Jigen della sua visita a Cagliostro in occasione della sua prima rapina. Mentre stanno parlando, l’aereo del Conte di Cagliostro atterra nel castello di fronte e l’uomo raggiunge la torre isolata in cui Clarissa è tenuta prigioniera. Il Conte le afferra la mano per prendere l’anello che, insieme a quello in suo possesso, servirà a rivelare uno straordinario

tesoro. Non trovando il gioiello e immaginando dove possa essere, manda dei sicari sulle tracce di Lupin e Jigen. In una locanda Lupin viene a sapere che Clarissa è destinata a sposare il Conte per unire il lato oscuro e quello luminoso della loro famiglia così come indicato da una leggenda. Aggrediti dai sicari, Lupin e Jigen riescono a fuggire. Quando il Conte congeda il suo servitore, scopre che questi ha sulla schiena il biglietto da visita del ladro, attaccato in segno di sfida. La mattina dopo Goemon raggiunge i due compagni di rapine; arriva anche l’ispettore Zenigata, impegnato da sempre in una caccia senza tregua a Lupin e venuto a offrire al Conte la protezione dell’Interpol. Non sa che Lupin e Jigen sono già dentro il castello, pronti a esasperare lui e i suoi uomini con infiniti inseguimenti. Nel corso di uno di essi Zenigata non riesce a evitare un trabocchetto e scompare nelle segrete. Più abile, Lupin raggiunge le stanze interne dove trova Fujiko, una sua vecchia conoscenza, intenta a fingersi la governante di Clarissa. Fujiko gli rivela dove è nascosta la ragazza e Lupin corre in suo soccorso, affrontando una faticosa e rocambolesca scalata della torre. L’arrivo del ladro risolleva la ragazza, vinta dalla tristezza e dalla solitudine. Lupin le rende l’anello, improvvisando deliziosi giochi di prestigio che riescono a strapparle un sorriso e promettendole che la porterà in salvo. In quel momento arrivano il Conte e i suoi sicari: una botola aperta al momento opportuno e Lupin precipita in un pozzo senza fondo. Per Clarissa sembra non esserci più speranza. Per una volta Lupin e Zenigata devono allearsi se vogliono lasciare quelle gallerie umide, sinistre e completamente tappezzate di poveri resti umani. E soprattutto se vogliono fermare il Conte: falsario, assassino e sequestratore. Arrivati nel salone dove viene stampata moneta falsa, Lupin e Zenigata iniziano a bruciare le banconote. Quando Fujiko vede il fumo salire attraverso il pavimento della stanza in cui è rinchiusa Clarissa, si congeda da lei e riprende la sua vera identità. Anche Jigen e Goemon vedono il fumo: è il segnale convenuto per andare da Lupin. Per sfuggire agli uomini che li braccano, il ladro e l’ispettore rubano, senza saperlo usare, l’aereo del Conte, in modo da poter raggiungere la torre e liberare Clarissa. Sembrano quasi farcela, ma Lupin viene ferito e il Conte minaccia di ucciderlo se non gli riconsegnerà l’anello

con il capricorno d’argento. Riuscito a scampare al Conte grazie a un maldestro tentativo di salvataggio da parte di Zenigata, Lupin viene raccolto in pessime condizioni. L’ispettore fa intanto rapporto all’Interpol e scopre che i suoi membri sono controllati dal Conte: il caso è dichiarato chiuso e Lupin viene accusato del sequestro di Clarissa. Ripresosi con stupefacente velocità, Lupin racconta a Goemon e Jigen di come, durante la sua prima rapina, sia stato ferito e in seguito soccorso da Clarissa ancora bambina. Le nozze, stabilite per il giorno successivo, rimettono tutti all’erta. Approfittando del traffico che ha bloccato l’arcivescovo chiamato a officiare, Lupin prende il suo posto, facendo precipitare tutti i piani del Conte nel caos. Fujiko è presente durante la cerimonia come inviata televisiva e Zenigata la manda a riprendere il salone in cui il Conte contraffà il denaro. Il Conte non si dà per vinto e insegue Lupin e Clarissa sulla Torre dell’Orologio, il luogo in cui, secondo le iscrizioni contenute nei due anelli, dovrebbe essere rivelato il tesoro di Cagliostro. gli anelli vanno posti nelle orbite di un capricorno inciso sul quadrante dell’orologio ed è ciò che il Conte si appresta a fare dopo aver fatto cadere Lupin e Clarissa nel lago sottostante. Ma, appena colloca gli anelli al loro posto, le lancette lo schiacciano nella loro morsa. All’improvviso la diga che contiene il lago si rompe e l’acqua comincia a defluire. Dalla riva su cui sorgeva il palazzo del padre di Clarissa, Lupin e la ragazza ammirano il tesoro di cui parlava la leggenda, non destinato all’ingordigia di un solo individuo ma patrimonio di tutta l’umanità: una meravigliosa città romana che il ritirarsi delle acque ha portato alla luce. Per Clarissa è il momento degli addii: la ragazza vorrebbe restare con Lupin, ma il ladro sa che non potrebbe mai adattarsi alla sua vita avventurosa e sregolata. Quasi a confermare ciò Zenigata riprende l’inseguimento e Lupin, Fujiko, Goemon e Jigen sono di nuovo sulla strada. In un film come questo, in cui i caratteri e le situazioni non possono allontanarsi troppo da quelli resi familiari dal manga di Monkey Punch e dalla serie televisiva, il talento di Miyazaki si esprime pienamente proprio rispettando i limiti imposti. Già qui si osserva la combinazione di elementi propri della cultura giapponese (primo fra tutti il

personaggio di Goemon) e di icone occidentali quali il Cary Grant di Caccia al ladro (1955) e il malvagio Rupert descritto da Anthony Hope nel romanzo Il prigioniero di Zenda. L’architettura del castello di Cagliostro è un elegante omaggio al film d’animazione La bergère et le ramoneur/Le Roiet l’oiseau (1950/1979) di Paul Grimault.

Nausicaä della Valle del Vento (Kaze no tani no Nausicaä, 1984) Soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisore dell’animazione: Komatsubara Kazuo. Direzione artistica: Nakamura Mitsuki. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Takahata Isao. Produttori esecutivi: Tokuma Yasuyoshi, Kondō Michio. Produzione: Topcraft. Durata: 126 minuti. Durante i Sette Giorni di Fuoco la Terra è stata distrutta dalla tecnologia. Sulle regioni devastate dai veleni diffusi da potenti macchine da guerra biochimiche cresce la Giungla Tossica, una rigogliosa foresta popolata da insetti mostruosi. L’unico luogo completamente libero dai miasmi è la Valle del Vento, così chiamata perché venti incessanti la percorrono ripulendola dalle spore prodotte dalla foresta. Qui è cresciuta Nausicaä, figlia del re Jhil, una ragazza coraggiosa, altruista e attenta osservatrice della natura. All’inizio del film Nausicaä guarda ammirata il guscio che un Ohmu – uno degli enormi insetti che popolano la giungla – ha abbandonato durante la muta. Improvvisamente la sua attenzione viene attirata da uno sparo. Raggiunto il punto da cui proveniva, la ragazza trova un Ohmu inferocito che sta attaccando un viandante e le sue cavalcature, due uccelli a metà tra lo struzzo e il moa. Per consentire la fuga all’aggredito la ragazza distrae l’Ohmu e lo ammansisce emettendo un richiamo con una specie di fischietto. Scampato il pericolo, Nausicaä saluta con gioia l’uomo in cui riconosce Lord Yupa, suo mentore nonché fidato consigliere del re. Yupa ha con sé Teto, un animaletto spaventato simile a un incrocio tra una volpe e uno scoiattolo, e lo dona a Nausicaä, sapendo che solo lei può addomesticarlo. Al castello Yupa informa re Jhil dell’avanzare delle spore, mentre la Gran Dama cieca che vive a palazzo racconta a Nausicaä il significato del dipinto che ne orna la sala: un giorno un uomo vestito di blu attraverserà un campo dorato per guidare gli uomini in un luogo di pace e purezza. La notte stessa un aereo precipita nella valle. Yupa e Nausicaä

raggiungono il relitto in cerca di sopravvissuti e trovano Rastel, una ragazza in catene che si rivela essere la principessa dei pejiti. Rastel li prega di distruggere qualsiasi cosa si trovi a bordo dell’aereo; quando apprende che niente e nessuno è sopravvissuto si abbandona con serenità alla morte. La mattina successiva nella valle arrivano le truppe della bellicosa Tolmekia guidate dalla principessa Kushana e dal generale Kurotowa. Le peggiori ipotesi di Yupa si sono avverate: i tolmeki hanno sottratto ai pejiti il Soldato Invincibile, l’ultima delle armi biochimiche, per scatenarlo contro la foresta. I tolmeki chiedono aiuto agli abitanti della valle e quando re Jhil si rifiuta lo uccidono. Accecata dalla rabbia, Nausicaä vorrebbe vendicarsi, ma è trattenuta da Yupa: ora che il padre è morto, la giovane sovrana deve pensare alla salvezza del suo popolo, non a sfogare i suoi pur giustificati sentimenti. Alla fine il Soldato Invincibile, ancora allo stato larvale, viene custodito nel castello e Kushana riparte per Tolmekia portando con sé come ostaggi Yupa, il pilota Mito e Nausicaä. Prima di partire Nausicaä visita il laboratorio sotterraneo in cui coltiva le piante prelevate dalla giungla. Annaffiate con acqua incontaminata ed esposte all’aria pura, esse non producono spore velenose perché non sono tossiche, ma lo diventano nell’ambiente contaminato in cui le ha costrette la follia umana. Durante il viaggio l’Ala da guerra, l’aereo sequestrato da Kushana, viene attaccato da un caccia di Pejite ed entrambi i velivoli, gravemente danneggiati, precipitano nella foresta. Qui Kushana cerca di prendere il comando, ma l’improvviso apparire di numerosi Ohmu la getta nel panico: da bambina uno di loro le ha staccato un braccio e una gamba provocando in lei un inesauribile desiderio di vendetta. Nausicaä va in soccorso del pilota pejite, ma entrambi vengono inghiottiti da quelle che sembrano sabbie mobili. Un flashback mostra la principessa bambina insieme al padre e alla madre: Nausicaä cerca di proteggere un piccolo Ohmu e supplica il padre e i soldati di non fargli del male. Svegliatasi dal sogno la ragazza scopre di trovarsi in una caverna sotterranea insieme ad Asbel, il pilota pejite fratello gemello di Rastel. Nella caverna l’aria è pulita e perfettamente respirabile, segno che nei livelli più profondi della foresta il processo di purificazione è stato portato a termine. Intanto, simile a un mostruoso e deforme neonato, il Soldato Invincibile apre gli occhi.

Asbel e Nausicaä raggiungono la città dei pejiti e la trovano completamente devastata. I superstiti vogliono vendicarsi aizzando gli Ohmu contro i tolmeki e per fare questo devono passare attraverso la Valle del Vento. Nausicaä è fatta nuovamente prigioniera. A bordo dell’aereo cargo che trasporta i pejiti sopravvissuti, la madre di Asbel e Rastel aiuta Nausicaä a preparare un piano di fuga. Improvvisamente l’aereo è attaccato dall’esercito di Tolmekia, ma arrivano in soccorso Mito e Yupa: quest’ultimo prende il comando dell’aereo pejite, mentre il primo si dirige verso la valle con Nausicaä. In volo i due scorgono gli Ohmu che procedono minacciosi verso la Valle del Vento, incalzati da un aereo pejite che usa un cucciolo di Ohmu ferito come esca. Incapace di sopportare tanta crudeltà, Nausicaä salta sul mehve (che in tedesco significa «gabbiano» e qui indica una specie di aliante) e si lancia al salvataggio del cucciolo. La ragazza viene ferita gravemente, ma avvertendo che il piccolo è salvo gli Ohmu adulti si placano. Proprio in quel momento i tolmeki aprono il fuoco contro il branco; il Soldato Invincibile non è però ancora abbastanza potente. Nausicaä e il cucciolo si trovano in mezzo agli Ohmu che si fermano all’ingresso della valle circondandoli minacciosi. All’improvviso la ragazza viene sollevata da migliaia di tentacoli dorati. Con gli abiti diventatati blu a causa del sangue del piccolo Ohmu, e nonostante fosse stata lei stessa ferita, Nausicaä corre felice su un campo d’oro verso la sua amata valle, compiendo l’antica profezia. I tolmeki tornano a casa mentre i pejiti, ormai senza patria, decidono di restare nella valle. Nell’ultima sequenza Nausicaä, Asbel e Yupa si addentrano nel profondo di una giungla non più letale né minacciosa. La storia di Nausicaä della Valle del Vento è tratta dall’omonimo manga a cui Miyazaki ha lavorato dal 1982 al 1994. Le condizioni poste dal regista ad Animage, la rivista che lo pubblicava a puntate, erano due: la possibilità di interrompere il lavoro in qualsiasi momento, dando la precedenza all’animazione, e la libertà di sviluppare la storia senza tener conto di una successiva trasposizione cinematografica. Ben presto però il grande successo riscosso ha spinto Miyazaki ad accettare l’idea di fare un film: il manga e la pellicola raccontano una storia simile in due modi diversi, condensando alcuni passaggi al

cinema e dilatando il ritmo del racconto sulla carta. La versione cinematografica della storia di Nausicaä è arricchita dalla colonna sonora di Hisaishi Jō, che in seguito comporrà tutte le musiche originali dei film di Miyazaki.

Il castello nel cielo (Tenkū no shiro Raputa,1986) Soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisore dell’animazione: Tannai Tsukasa. Direzione artistica: Nozaki Toshio, Yamamoto Nizō. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Takahata Isao. Produttore esecutivo: Tokuma Yasuyoshi. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 124 minuti. Sheeta ha tredici anni e ha trascorso tutta la vita in una splendida vallata rurale prima di essere rapita da Muska. Pur non conoscendo le vere ragioni del rapimento, intuisce che il ciondolo che porta al collo è la causa principale della sua prigionia: prima di morire, la madre le ha raccomandato di non lasciarlo cadere in mano a estranei, e dunque si tratta di qualcosa di potente e misterioso. A bordo di un dirigibile in viaggio verso la capitale con il suo rapitore, Sheeta approfitta di un attacco dei pirati dell’aria guidati da Ma Dola – anche loro interessati al ciondolo – per afferrare il gioiello e gettarsi nel vuoto. Mentre Sheeta è in caduta libera, il suo coetaneo Pazu, appassionato di volo e di aerei, sta andando a prendere la cena per Boss, il minatore per cui lavora. Pazu avvista in cielo una curiosa luce blu e subito dopo vede Sheeta mentre scende a terra, leggera e svenuta. I due ragazzi fanno amicizia e Pazu mostra a Sheeta l’aereo che sta costruendo. Con quello conta di raggiungere la leggendaria isola volante di Laputa e di provare che il padre pilota non mentiva quando raccontava di averla avvistata e fotografata. Stringono allora un patto: Pazu aiuterà Sheeta a sfuggire a chi le dà la caccia e lei lo accompagnerà a Laputa. Le confidenze vengono interrotte dall’arrivo di Muska e dei pirati. Tutto il villaggio cerca di ostacolare gli inseguitori: sotto un fuoco incrociato Pazu e Sheeta precipitano in un baratro e la pietra ripete la sua magia, portandoli dolcemente verso il fondo. Qui incontrano il vecchio Pom, un uomo che ha passato la vita nelle viscere della Terra e ne conosce tutti i segreti. Pom mostra loro una parete di pietre simili a quella che Sheeta porta al collo e li avverte: si trovano in una situazione pericolosa, che conferma le leggende sull’isola di Laputa ascoltate da giovane. Ritornati in superficie, i ragazzi vengono catturati dagli agenti del

governo e portati nella capitale: Sheeta viene chiusa in una stanza della fortezza e qui, impaurita e triste, ricorda di quand’era bambina e degli incantesimi imparati dalla balia. Uno di questi, pronunciato a mezza voce, illumina improvvisamente la pietra. Muska è gentile con la ragazza, ma le fa anche capire che solo collaborando potrà garantire la libertà di Pazu. Il ragazzo viene rilasciato e ritorna al villaggio deluso, perché è convinto che l’amica abbia tradito il patto. Intanto Muska rivela a Sheeta la sua appartenenza alla casa reale di Laputa: il suo vero nome è infatti Lucita Troelle Ul Laputa. Inoltre le mostra un enorme robot su cui è impresso lo stesso simbolo presente sul suo ciondolo e le chiede di riattivarlo, in modo che questo possa indicare all’esercito la via per raggiungere Laputa. A casa Pazu si trova faccia a faccia con la ciurma di Ma Dola, un donnone dai modi bruschi ma dal cuore generoso. Dola è arrabbiata e stupita quando apprende che Pazu non ha capito il senso del gesto di Sheeta. Improvvisamente cosciente del sacrificio di Sheeta, Pazu si unisce ai pirati e va in suo soccorso. Alla fortezza si è intanto scatenato l’inferno. Il robot non ha esitato a distruggere tutto quanto minaccia la vita di Sheeta e, dopo averla portata su un torrione, emette un raggio luminoso che indica la collocazione dell’isola volante. Muska ha avuto ciò che voleva e, quando Pazu fa salire Sheeta su un flaptor (uno dei velivoli, simili a grossi insetti, con cui si spostano i pirati), non è né stupito né preoccupato. Pazu e Sheeta vengono accolti tra i pirati. Una notte, durante il turno di vedetta su un aliante agganciato all’aereo, Pazu è raggiunto da Sheeta e insieme avvistano il «nido del drago», un ammasso di nubi tempestose dietro le quali si cela Laputa. In quel preciso istante il dirigibile dell’esercito apre il fuoco e centra il cavo che tiene ancorato l’aliante. Pazu riesce a mantenerlo in volo, poi l’aliante entra nel fitto della tempesta e i due ragazzi raggiungono Laputa. La pace e la tranquillità che li attendono sono sorprendenti: sull’isola prospera una moltitudine di fiori e animali, mentre i robot, potenzialmente letali, sono diventati gentili custodi di tanta bellezza. Purtroppo anche l’esercito è arrivato a Laputa e i pirati sono stati fatti prigionieri. Sheeta viene catturata da Muska, che le rivela di

chiamarsi Romuska Palo Ul Laputa e di essere l’ultimo discendente di un ramo cadetto della stirpe reale. Nelle sue intenzioni, Sheeta è lo strumento per riattivare le armi letali che l’isola possiede, in modo da sottomettere la Terra e i suoi abitanti. Sheeta non può però permettere che questi folli piani vengano portati a compimento e decide di pronunciare il più spaventoso degli incantesimi imparati dalla balia, un incantesimo che può fermare Muska ma che forse le costerà la vita. Al suono di quelle terribili parole, il cristallo contenuto nel cuore dell’isola viene liberato. gli edifici e le armi da guerra, i micidiali robot e le inenarrabili ricchezze vanno in frantumi, ma le radici di un enorme albero cresciuto sulla cima dell’isola trattengono la pietra e permettono ai giardini e alla vita che li popola di sopravvivere. Illesi e con un consistente bottino, i pirati tornano alla loro vita errabonda, mentre Pazu e Sheeta fanno ritorno sulla Terra e raggiungono la pacifica landa in cui la ragazza è cresciuta. Con Il castello nel cielo lo Studio Ghibli inaugura la sua attività. Temi ricorrenti come la necessità della convivenza, l’innocenza dei manufatti – buoni o cattivi a seconda delle intenzioni di chi li usa – e l’amore per l’avventura aerea danno al racconto l’ampiezza e il respiro necessari a condensare influenze e suggestioni di provenienza eterogenea: da I viaggi di Gulliver di Swift alle fortezze volanti del Mahābhārata indiano, dalla strenua resistenza dei celti raccontata nel De bello gallico di Cesare all’attualità delle miniere gallesi annientate dal governo Thatcher negli anni Ottanta. Tutti questi elementi contribuiscono a creare un mondo solido e coerente, in cui la convivenza di vecchia e nuova tecnologia non è un anacronismo ma la dimostrazione che passato e futuro rischiano di assomigliarsi qualora il presente manchi di memoria e capacità di previsione.

Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988) Soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisore dell’animazione: Satō Yoshiharu. Direzione artistica: Oga Kazuo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore esecutivo: Tokuma Yasuyoshi. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 86 minuti. Lungo una strada di campagna avanza un furgoncino carico di mobili e bagagli: Kusakabe Tatsuo, studioso di archeologia, e le figlie Mei e Satsuki, rispettivamente di quattro e undici anni, stanno traslocando per poter stare vicini all’adorata moglie e madre Yazuko, ricoverata in un ospedale specializzato nella cura delle malattie respiratorie. La casa in cui andranno ad abitare è piuttosto vecchia e le bambine sono entusiaste e al tempo stesso intimorite dalle novità che le attendono. Nella casa accadono alcune cose curiose che attirano subito la loro attenzione: dal soffitto cadono delle ghiande ed entrando nelle stanze si sente uno strano fruscio. Più tardi l’Obāsan che vive accanto a loro spiega che si tratta dei nerini della polvere (chiamati, nella versione originale, makkuko kurosuke), creaturine di polvere che vivono nelle case abbandonate ma che le lasciano non appena vi avvertono delle presenze umane. Per accelerare la loro partenza e tenere lontani i fantasmi, Tatsuo suggerisce alle figlie di ridere felici e gridare a squarciagola. E infatti durante la notte i nerini della polevere volano verso il bosco in cerca di pace e silenzio. Il mattino dopo la famiglia parte in bicicletta per raggiungere Yazuko. La visita termina con la bella notizia che presto la donna potrà tornare a casa per un breve periodo. Un giorno, mentre Satsuki è a scuola e il padre è immerso nei suoi studi, Mei gioca in giardino. Seguendo la traccia delle ghiande lungo il sentiero, la bambina scorge nell’erba alta un essere con le orecchie appuntite. Accortosi di essere seguito, lo strano animale scompare. Mei non si dà per vinta e quando la «preda» riappare in compagnia di un’altra creatura simile ma più piccola, le insegue nel bosco che confina con il giardino. Cercando di afferrare una ghianda sul ramo di un imponente albero della canfora, la bimba precipita in una cavità celata nel tronco. Davanti ai suoi occhi si trova un’enorme creatura

azzurra che ha tratti del gatto, del gufo e del procione senza però assomigliare precisamente a nessuno di essi. Mei si arrampica sul suo soffice stomaco, gli solletica il naso e quando l’essere si addormenta la bambina lo imita. Ore dopo Mei viene ritrovata da Tatsuo e Satsuki in una radura. Eccitata, dice di aver visto dei Totoro, ovvero delle creature simili ai troll riprodotti in uno dei suoi libri illustrati. Mei teme che nessuno le creda, ma il padre la rassicura e le confida che potrebbe aver incontrato il re del bosco, lo spirito dell’albero della canfora. La sera, mentre Satsuki scrive alla madre, i tre Totoro suonano l’ocarina sulla cima dell’albero. In attesa che Satsuki torni da scuola, Tatsuo affida Mei all’Obāsan, ma con grande imbarazzo e sorpresa della sorella l’anziana vicina compare nel cortile della scuola con a fianco una Mei corrucciata e triste: la nostalgia è troppo forte e tutto ciò che la bambina desidera è restare accanto a Satsuki. Tornando a casa le bambine sono sorprese da un acquazzone. Una volta al coperto, Satsuki si ricorda che il padre è uscito senza ombrello e decide di andarlo ad aspettare alla fermata dell’autobus. Nell’attesa Mei è impaurita dagli strani rumori del bosco, ma presto l’agitazione lascia il posto alla stanchezza e Satsuki decide di prenderla in spalla. China sotto il peso della sorellina e con la visuale coperta dall’ombrello, Satsuki sente un rumore di passi che si avvicina e intravede una zampa: ōtotoro, il grande Totoro, con una foglia in testa per ripararsi dalla pioggia, è in attesa dell’autobus. Dapprima Satsuki è impaurita e preoccupata, poi facendosi coraggio allunga al kami l’ombrello destinato al padre e gli mostra come usarlo. Il rumore della pioggia sulla tela delizia la creatura e i suoi ruggiti svegliano Mei poco prima dell’arrivo dell’autobus. Quando questo sta per fermarsi, le bambine realizzano però che non si tratta del solito mezzo usato dal padre. Si tratta infatti di un Nekobus, ovvero di un gatto tigrato rosso con sei paia di zampe e un inquietante ghigno. Il corpo del gattoautobus, illuminato da topi-fanali, si modifica deformandosi per permettere al re del bosco di salire e accomodarsi sui sedili di soffice pelliccia. Prima di andarsene, ōtotoro consegna alle bambine un pacchettino con dentro delle sementi. Pochi secondi dopo arriva l’autobus di Tatsuo. A casa le bambine piantano le sementi in giardino e le osservano con impazienza. Una sera Satsuki vede i Totoro in giardino e li raggiunge insieme a Mei. Le creature stanno danzando attorno alle

sementi e le sorelle si uniscono alla danza: a ogni saltello gli alberi diventano più alti. La mattina dopo scoprono che gli alberi sono scomparsi, ma le sementi hanno germogliato. Nell’orto di Obāsan Mei sceglie una pannocchia di mais da dare alla madre quando verrà a casa per il fine settimana. I suoi progetti vengono però interrotti da un telegramma che invita la famiglia a mettersi in contatto con il medico curante. Satsuki si precipita a telefonare al padre, preoccupata che la madre possa essersi aggravata e morire. Mentre Obāsan la conforta, Mei, che ha ascoltato ogni parola, decide di raggiungere l’ospedale e consegnare alla madre quello che per lei è un mais miracoloso. La fuga di Mei getta Satsuki in uno stato di panico ancora più profondo: disperata corre attraverso campi e risaie chiedendo ai passanti se l’han no vista. Dopo un tempo interminabile è raggiunta da Kanta, lo scontroso figlio dei vicini, che le dà una brutta notizia: nello stagno è stato trovato un sandaletto che potrebbe essere di Mei. Accertato che il sandalo non è suo e considerato che il sole sta tramontando, Satsuki non può fare altro che invocare l’aiuto dei Totoro. Il tempo di confidare a ōtotoro la propria disperazione e Satsuki si trova in cima all’albero ad attendere il Nekobus. Trovata Mei, il Nekobus prosegue la sua corsa fino all’ospedale, in modo che la piccola possa lasciare la pannocchia alla madre. Sedute su un ramo nel parco dell’ospedale, le bambine vedono i genitori che parlano sereni: Yazuko ha un lieve raffreddore e il suo ritorno è solo rimandato. A casa Satsuki e Mei ritrovano il padre, Obāsan e Kanta: persino il ragazzino è così sollevato da dimenticare la sua ruvida timidezza. Nei titoli di coda è prefigurata la serenità futura delle bambine e dei genitori, nuovamente riuniti. Il mio vicino Totoro è un film ispirato ai ricordi d’infanzia di Miyazaki e dietro l’apparenza giocosa nasconde temi malinconici e dolorosi legati alla paura della perdita della madre, dell’infanzia e della sicurezza che entrambe rappresentano. Ciò che rende il film affascinante per gli spettatori di tutte le età e di tutte le culture è il modo in cui tali temi sono resi universali, sia raccontandoli da punti di vista diversi sia facendo un uso libero ma pertinente di icone della cultura giapponese e occidentale. Ad esempio, il Nekobus, oltre a conservare i poteri magici attribuiti ai gatti dalle leggende giapponesi,

è un omaggio al gatto del Cheshire dell’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, mentre i Totoro ricordano i Moomin creati da Tove Jansson.

Kiki consegne a domicilio (Majo no takkyūbin, 1989) Soggetto: dal racconto omonimo di Kadono Eiko. Sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisori dell’animazione: Otsuka Shinji, Kondō Katsuya, Kondō Yoshifumi. Direzione artistica: Ono Hiroshi. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Miyazaki Hayao. Produttore associato: Suzuki Toshio. Produttori esecutivi: Tokuma Yasuyoshi, Tsuzuki Mikihiko, Takagi Morihisa. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 102 minuti. Come la madre Kokiri, esperta nella preparazione di filtri medicamentosi, anche Kiki vuole diventare una strega. Sebbene l’inclinazione a esserlo si erediti, non se ne ereditano i poteri: questi vanno guadagnati allontanandosi dalla famiglia al compimento del tredicesimo anno. Così una notte, dopo aver salutato amici e parenti, Kiki prende il volo a cavallo della sua scopa magica insieme al gatto parlante Jiji. Il decollo è pieno di eccitazione, ma un improvviso temporale la obbliga a cercare rifugio nel vagone di un treno merci. Al mattino l’apprendista strega si prepara a riprendere il volo mentre il treno costeggia l’oceano, il luogo vicino al quale desidera trascorrere il tirocinio. Tra l’entusiasmo di Kiki e gli inviti alla prudenza di Jiji, la città di Koriko appare sotto di loro: è imponente, rumorosa, eccitante e soprattutto complicata. Kiki cerca di fare una buona impressione volando agilmente sopra la testa dei passanti, ma quasi si scontra con un autobus a due piani creando scompiglio e attirando l’attenzione di un poliziotto, fortunatamente distratto dalle grida d’aiuto di un passante scippato. Rifugiatasi in una strada tranquilla, viene avvicinata dal coetaneo Tombo, che la sommerge di domande sulla sua scopa e si vanta di averla salvata dal poliziotto fingendo un furto. Kiki è offesa dalla confidenza non richiesta e vola via. Senza un posto dove abitare e con la notte che si avvicina, il suo entusiasmo e la sua sicurezza cominciano a scemare. nel momento di massimo sconforto, vede uscire da una panetteria una donna incinta. La donna sta cercando di raggiungere una cliente che ha dimenticato in negozio il ciuccio del proprio bambino. Kiki si incarica di portarglielo e vola veloce verso la cliente. Di ritorno alla panetteria viene invitata a

entrare: Osono, la panettiera, ascolta la sua storia e alla fine le offre una stanza sopra il magazzino del negozio. Il costo della vita in città mette a dura prova i risparmi di Kiki, ma ancora una volta le viene in soccorso Osono: perché non offrire un servizio di consegne a domicilio? La prima cliente è una vicina di casa, che le affida un gattino di pezza da consegnare al nipotino per il suo compleanno. Durante il volo tutto sembra andare per il meglio: il panorama è splendido e Kiki vola insieme a uno stormo di oche selvatiche. Ma mentre queste avvertono l’arrivo di un’improvvisa raffica di vento, Kiki viene colta di sorpresa e precipita a terra, incastrandosi tra i rami di un abete. I corvi che hanno il nido sull’albero la scambiano per un predatore e l’attaccano con violenza. Quando Kiki si accorge che il gattino di pezza è andato perduto è ormai troppo tardi, perciò chiude Jiji nella gabbietta al posto del giocattolo, effettua la consegna e torna nella foresta a cercarlo. Qui trova la capanna di tronchi in cui vive Ursula, una giovane pittrice che si è ritirata in solitudine per mettere alla prova la profondità e il valore del proprio talento. In cambio della promessa di una visita futura, Ursula si offre di aggiustare il giocattolo che ha ritrovato nella foresta. Con grande sollievo di Jiji, Kiki consegna il gattino di pezza e lo riporta a casa. Qualche giorno dopo Tombo si presenta alla panetteria con una lettera: la ragazza la accetta, ma tratta l’ammiratore in modo brusco. È l’invito a una festa e Osono la convince ad andarci. Kiki viene chiamata a ritirare un pacco; quando arriva a destinazione, scopre che si tratta di un pasticcio ancora da cuocere. La vecchia signora che l’ha chiamata non riesce a far funzionare il forno elettrico: Kiki si offre di accendere quello a legna, ma alla fine si accorge di essere in ritardo per l’appuntamento con Tombo. Per di più viene sorpresa da un violento temporale ed è costretta a letto dal raffreddore. Appena Kiki si rimette, Osono la incarica di una consegna nel quartiere. La ragazza si avvia a piedi verso la casa del signor Koppori: quando scopre che si tratta di Tombo non è molto felice, ma i modi amichevoli del ragazzo hanno la meglio sulla sua diffidenza. Tombo ha quasi completato una specie di velivolo e vuole provarlo. I due raggiungono la costa dove un dirigibile si è fermato per un guasto. Arrivano anche gli amici e le amiche di Tombo e, sebbene invitata a

unirsi a loro, Kiki, improvvisamente intimidita, preferisce tornare a casa. Qui scopre che Jiji è diventato un gatto normale: affettuoso come sempre, ma incapace di parlarle. Cosa ancor più grave, scopre di non essere più capace di volare e durante alcuni disperati tentativi rompe la scopa. Depressa, Kiki accetta il suggerimento di Osono: dal momento che Ursula è venuta a trovarla, ne approfitterà per trascorrere un po’ di tempo con lei nella foresta. Confrontandosi con Ursula, conoscendo le difficoltà, i dubbi e le incertezze che questa ha dovuto superare per diventare pittrice, Kiki si rinfranca e ritrova il suo carattere ottimista e volonteroso. Ritornata in città viene a sapere che l’anziana signora l’ha cercata. Kiki raggiunge la casa e trova ad attenderla una bellissima torta decorata con la silhouette di una strega a cavallo di una scopa. La piacevole atmosfera è turbata da una notizia trasmessa dalla televisione: a causa del forte vento, il dirigibile ha rotto gli ormeggi e galleggia in aria senza guida né controllo. Al capo di una delle funi, sospeso nel vuoto, c’è Tombo. Kiki corre in suo soccorso: l’angoscia è ancora più grande perché sa che solo volando potrà aiutarlo, ma sa anche di non esserne più capace e di non avere una scopa. Afferrata quella di uno spazzino e facendosi coraggio, Kiki riesce a prendere il volo e, anche se in modo un po’ maldestro, raggiunge Tombo nel momento esatto in cui il ragazzo molla la presa della corda. Seduti sulla rudimentale scopa i due ragazzi scendono tra la folla festante. Il film si chiude con alcune scene di vita quotidiana e con una lettera ai genitori in cui Kiki li rassicura di aver trovato il suo posto nel mondo. Kiki consegne a domicilio è un film sui dubbi e le incertezze che nascono nell’adolescenza, quando la personalità si definisce e i sogni iniziano a trasformarsi in progetti concreti per il futuro. Più che di conflitti esterni, il film racconta di una crescita interiore: la protagonista si ritrova a doversi confrontare con individui e situazioni non familiari. La città di Koriko è testimone di questo processo di crescita ed è trattata da Miyazaki come un’ulteriore protagonista. In essa si ritrovano frammenti di numerose città di mare, da Genova a Stoccolma, da Amsterdam a napoli, da Lisbona a Trieste, insieme a un riferimento al celebre ponte di San Francisco e ad atmosfere parigine. Il risultato è un omaggio eclettico all’architettura europea, e contribuisce a rendere

universale l’identità profondamente giapponese dei personaggi.

Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992) Soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisore dell’animazione: Kagawa Megumi. Direzione artistica: Hisamura Katsu. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Suzuki Toshio. Produttori esecutivi: Tokuma Yasuyoshi, Toshimitsu Matsuo, Sasaki Yoshio. Produzione: Studio ghibli. Durata: 93 minuti. In un’isola appartata dell’Adriatico, un corpulento aviatore sta riposando su una sedia a sdraio. Si tratta del celebre Marco Pagot, noto anche come Porco Rosso: deluso dagli esseri umani, si è trasformato in maiale. All’improvviso suona il telefono e una voce gli annuncia che la famosa banda di pirati aerei Mamma Aiuto ha intercettato una nave sulla rotta di Venezia. Marco avvisa che il suo intervento non costa poco, poi avvia il suo amatissimo idrovolante Savoia S. 21 e parte alla caccia dei pirati. Dopo un breve inseguimento, questi accettano di riconsegnare gli ostaggi e metà del bottino e se ne vanno con l’aereo semidistrutto. Verso sera Marco raggiunge l’Hotel Adriano, gestito dall’amica Gina: qui alcuni suoi nemici hanno ingaggiato Donald Curtis, un asso dell’aviazione americana, per eliminarlo. Gina e Marco si siedono a un tavolo: sopra di loro c’è una foto che li ritrae ragazzi e in cui il volto di Marco è stato cancellato con un colpo di penna. Gina ha appena saputo che il corpo del suo terzo marito è stato ritrovato in India: moglie e vedova di tre piloti tra loro amici, ha in Marco l’unico legame con il passato. Il giorno dopo Porco Rosso raggiunge la terraferma per comprare nuove munizioni e assiste a una parata militare la cui roboante retorica lo lascia triste e infastidito. Le dittature nazifasciste si stanno diffondendo in tutta Europa e ovunque si parla di guerra: tutte cose che confermano a Marco le sue opinioni sul genere umano. Un guasto al motore lo fa dirigere verso l’officina Piccolo di Milano. Durante il volo viene attaccato da Curtis. Nell’officina Piccolo lavorano solo donne – gli uomini sono andati all’estero in cerca di fortuna – e, sebbene non ne sia entusiasta, Marco acconsente ad affidare a Fio, la nipote diciassettenne di Piccolo, il

progetto per le modifiche da apportare all’aereo. A Milano Marco incontra anche l’amico Feralin, un pilota dell’aeronautica. L’uomo lo informa che la polizia segreta lo sta cercando a causa dei suoi comportamenti giudicati antipatriottici. Questo vuol dire che ora non è a rischio solo la sua libertà personale, ma anche l’incolumità della famiglia Piccolo. Viene allora deciso che Marco fingerà di prendere in ostaggio Fio e la famiglia Piccolo dichiarerà di essere stata obbligata ad aiutarlo. Fio è colpita dalla bellezza e dalla tranquillità dell’isola che Porco Rosso ha scelto come rifugio. La calma viene però interrotta dall’improvviso apparire dei pirati e di Curtis. Per mettere fine a questa situazione si decide per una sfida aerea tra Marco e Curtis: nel caso vinca il primo, Curtis salderà al suo posto i debiti con Piccolo, altrimenti sposerà Fio. La ragazza, sicura della vittoria di Marco, accetta senza esitazione. La notte Fio viene a conoscenza delle circostanze che hanno portato alla trasformazione di Porco Rosso da uomo in maiale e, tra le luci e le ombre della candela, sembra per un istante di poter scorgere il volto umano di Marco. La notizia della sfida circola velocemente e il giorno stabilito spettatori da tutto il Mediterraneo si ammassano sulla piccola isola da cui i due piloti decolleranno. Lo scontro aereo è destinato a non avere un vincitore: le mitragliatrici si inceppano e i due sono costretti ad atterrare e a risolvere la questione facendo a botte. Nel frattempo Gina riceve un messaggio da Feralin: l’esercito sa della sfida e sta arrivando per catturare Marco. Gina si precipita sull’isola e trova Marco e Curtis svenuti nell’acqua: il primo a riprendere i sensi sarà dichiarato vincitore. Gina chiede a Marco se ha intenzione di rendere infelice un’altra donna; scosso dalle sue parole, Marco si alza e la sfida ha termine. Tutti si allontanano per sfuggire all’esercito e Porco Rosso affida la recalcitrante Fio a Gina. La ragazza riesce però a dare al pilota un bacio d’addio e Curtis è sorpreso di vedere ciò che gli spettatori non potranno vedere mai: il volto umano di Marco. Come tutti i film dello Studio Ghibli, anche Porco Rosso è stato un clamoroso successo in Giappone. Grazie al premio come miglior lungometraggio animato al Festival di Annecy, il nome del regista ha

cominciato a circolare con più frequenza anche in Europa. Originariamente il film doveva avere il tono di una commedia e Miyazaki contava di poter indulgere nelle sue passioni disegnando aerei, maiali e paesaggi capaci di fondere le coste dalmate con le isole del Mare della Cina. Inoltre l’eroina doveva ricordare Marilyn Monroe in La magnifica preda (1954) di Preminger, solo più giovane e innocente, mentre l’eroe doveva omaggiare nel nome l’amico e collega italiano Marco Pagot. Benché tutto ciò sia comunque rimasto nella versione finale del film, lo scoppio della guerra nell’ex Iugoslavia ha spinto il regista a un tono più serio, addolorato e oppresso da una minaccia incombente, capace di cancellare in un attimo l’azzurro del cielo e lo scintillare quieto del mare.

La principessa Mononoke (Mononoke hime, 1997) Soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisori dell’animazione: Andō Masashi, Kōsaka Kitarō, Kondō Yoshifumi. Direzione artistica: Yamamoto Nizō, Tanaka Naoya, Takeshige Yōji, Kuroda Satoshi, Oga Kazuo. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Suzuki Toshio. Produttori esecutivi: Tokuma Yasuyoshi, Ujiie Seiichirō, Narita Yutaka. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 150 minuti (edizione per il mercato occidentale: 134 minuti). Ashitaka è un principe degli emishi, un popolo indigeno confinato nelle terre a nord-est del giappone, ed è vittima di una maledizione per aver ucciso Nago no Kami, una divinità in forma di cinghiale che, ferita e straziata dal dolore, si è trasformata in un demone. Hisama, autorità religiosa del villaggio, spiega ad Ashitaka che per allontanare la sciagura dal suo popolo e la morte da se stesso dovrà lasciare il villaggio. Dirigendosi verso ovest, ripercorrerà il cammino di Nago e cercherà l’origine della sfera di metallo che è stata rinvenuta nel corpo del kami. Soprattutto osserverà ogni cosa senza pregiudizi. Ashitaka sella il fido Yakul, una specie di stambecco, e si allontana nella notte dopo aver ricevuto un pegno da Kaya, la sua innamorata. Durante il viaggio Ashitaka fronteggia numerosi pericoli, perché le campagne sono infestate da samurai che spesso lo credono un nemico. In un piccolo villaggio il principe errante incontra Jikobo, una strana specie di monaco che, ascoltata la sua storia, nega di conoscere la provenienza della sfera di ferro ma lo invita a visitare la foresta dello Shishigami (divinità dall’aspetto di cervo), un luogo in cui accadono molte cose strane. All’alba il ragazzo se ne va senza svegliare Jikobo. Nel frattempo una carovana si inerpica lungo un sentiero di montagna per raggiungere la città di Tataraba, una fortezza in cui si lavora il ferro. A capo della carovana ci sono Eboshi, la fondatrice della fornace, e Gonza, il suo vice. Entrambi temono un attacco di Moro e dei suoi figli, gli Inugami, divinità dall’aspetto di cani che vivono nella foresta. Tutto a un tratto appaiono due enormi cuccioli bianchi. Uno dei due porta in groppa una strana creatura dall’aspetto umano ma con il

viso coperto da una maschera zoomorfa. Davanti ai fucili spianati compare Moro con le fauci spalancate e la doppia coda ritta. Prima che una sfera di metallo uguale a quella che ha provocato la morte di Nago la colpisca, Moro infligge alla carovana numerose perdite. Costeggiando la foresta dello Shishigami, Ashitaka si imbatte in due abitanti di Tataraba, svenuti e feriti. Mentre tenta di soccorrerli, il ragazzo nota un enorme cane bianco che, affiancato da altri due più piccoli, giace su un fianco. Con loro c’è una ragazza, la stessa che, con il viso coperto dalla maschera, ha partecipato all’attacco alla carovana. I due si fissano per un lungo istante, poi la giovane scompare tra gli alberi. Ashitaka decide di attraversare la foresta, nonostante il terrore dei due uomini, impressionati dalle storie che hanno ascoltato e dalla vista dei Kodama, gli spiriti degli alberi. Poco prima di uscirne, Ashitaka intravede lo Shishigami e a quella vista la ferita infertagli a suo tempo da Nago ricomincia a pulsare; nello stesso momento uno dei due uomini si sente meglio. A Tataraba Ashitaka è accolto con sospetto da Gonza, ma gli abitanti gli sono grati per la sua generosità verso i compagni feriti ed Eboshi lo invita a vedere la fornace. Qui lavorano delle prostitute riscattate e degli uomini che hanno trovato una dignità e una sicurezza mai avute altrove. Quando Ashitaka affronta Eboshi mostrandole la sfera di ferro, la donna lo conduce in un’ala appartata in cui vivono dei lebbrosi raccolti e curati da lei stessa e che ricambiano le cure costruendo fucili. Ashitaka progetta di lasciare il villaggio il giorno successivo, ma nella notte gli Inugami vengono avvistati di nuovo. La ragazza che Ashitaka ha visto in riva al fiume e che tutti chiamano Mononoke Hime (principessa soprannaturale e mostruosa) è entrata nella fortezza. L’obiettivo di San – così la chiamano le creature con cui vive – è Eboshi e presto le due si fronteggiano, pugnali alla mano. Ashitaka le divide e invita tutti alla calma, mostrando i segni lasciati sul suo corpo dall’odio e dalla furia. Vittima di uno stress emotivo troppo forte, una delle donne che lavorano alla fornace spara, colpendo Ashitaka alla schiena: nonostante perda molto sangue, il ragazzo riesce a uscire dalla fortezza insieme a San e al fido Yakul. Pur non capendo le sue ragioni, San non può lasciare Ashitaka in balia di creature desiderose di sbranarlo. Così lo porta nella foresta e lo Shishigami, di ritorno dal suo viaggio notturno sotto le sembianze

del Didarabotchi (Colui che cammina nella notte), lo guarisce dalla nuova ferita ma non da quella infertagli da Nago. La mattina dopo Inugami e cinghiali si trovano nella foresta per studiare un attacco definitivo a Tataraba. Moro viene accusata di infedeltà perché ha permesso a San – che lei considera una figlia, avendola soccorsa e allevata dopo l’abbandono dei genitori – di partecipare all’incontro. L’irritazione cresce quando viene avvertita la presenza di Ashitaka e il ragazzo dichiara di aver ucciso Nago. Ma in sua difesa parlano Okkotonushi, kami dei cinghiali, e Moro. Tuttavia Okkotonushi avverte Ashitaka che se lo incontrerà di nuovo non esiterà a ucciderlo in quanto essere umano: per colpa degli uomini i cinghiali stanno diventando sempre più piccoli e stupidi. Nel frattempo Jikobo e alcuni agenti imperiali avvicinano Eboshi approfittando di un attacco dei samurai di Asano, signore delle terre che si trovano a valle di Tataraba, le cui colture di riso soffrono a causa delle scorie prodotte dalla fornace. Jikobo informa Eboshi che l’imperatore vuole la testa dello Shishigami perché essa garantisce l’immortalità. Eboshi sembra non potersi sottrarre a una richiesta che comunque le permetterebbe di sottomettere gli abitanti della foresta. La battaglia tra umani e divinità è terribile. Affranto dalla morte di tanti cinghiali e dalle ferite riportate, Okkotonushi si sta trasformando in un demone. Come era già accaduto ad Ashitaka con Nago, San è sopraffatta dallo spirito del kami in trasformazione, ma Moro riesce a metterla in salvo e affidarla al giovane principe. L’arrivo dello Shishigami segna la fine delle sofferenze di Moro e Okkotonushi: il loro tempo è scaduto e il dio ne decreta la fine. Lo Shinigami inizia quindi a trasformarsi in Didarabotchi ed è in questo momento che Eboshi lo colpisce mozzandogli la testa. Jikobo l’afferra al volo e la chiude in un contenitore. Tutto all’improvviso precipita nel caos. Dal corpo ferito del dio si diffonde una sostanza che dissecca ciò con cui entra in contatto. La testa di Moro azzanna Eboshi e le stacca un braccio. Tutti fuggono mentre Ashitaka aiuta Gonza a portare Eboshi al sicuro, anche se San vorrebbe ucciderla. I due ragazzi cercano di riconsegnare la testa al Didarabotchi che, dopo aver assorbito le energie dei morti, è diventato uno Shishigami, un dio della morte. Jikobo oppone un’ostinata resistenza, ma alla fine Ashitaka e San riescono a restituire la testa al kami. Il sole sta sorgendo e il Didarabotchi, che è una creatura notturna, precipita al

suolo. La morte sembra regnare ovunque, ma progressivamente e sempre più in fretta fiori ed erba ricominciano a ricoprire le pendici delle montagne. San e Ashitaka decidono di vivere separati ma vicini, Eboshi si accinge a ricostruire la fortezza e un Kodama appare tra i nuovi germogli. Ambientato nel periodo Muromachi (1392-1573), basato sugli studi dell’archeologo Fujimori Ēichi ma anche sulla suggestione delle leggende antiche, ambientato in luoghi ricreati grazie all’osservazione dal vivo di alcune delle più belle e selvagge foreste del Giappone, La principessa Mononoke descrive il passato per raccontare il presente. È un film sull’incomunicabilità tra stili di vita diversi ma anche sulle maledizioni che incombono sul Giappone moderno (e un po’ su tutto il mondo), dall’Aids al fanatismo religioso. Da un punto di vista tecnico, la pellicola segna l’inizio per lo Studio Ghibli dell’utilizzo – peraltro assai discreto – della computer graphic. È anche il primo film di Miyazaki a essere distribuito nelle sale italiane.

La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001) Soggetto e sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisore dell’animazione: Andō Masashi. Direzione artistica: Takeshige Yōji. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Suzuki Toshio. Produttore esecutivo: Tokuma Yasuyoshi. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 122 minuti. Chihiro è una bambina di undici anni e insieme ai genitori sta traslocando. Nei pressi della nuova abitazione, la strada asfaltata si interrompe bruscamente e la famiglia Ogino si trova su un sentiero scosceso che si addentra nel fitto di un bosco. In fondo al sentiero c’è un imponente edificio attraversato da una galleria che sembra non avere fine. I tre la percorrono e arrivano in una vasta stanza simile alla sala d’attesa di una stazione, oltre la quale si stende un bellissimo prato. Il padre non ha dubbi: si tratta di un parco tematico chiuso in seguito alla crisi economica. Attratti da un delizioso profumo, i genitori si dirigono verso un curioso villaggio. Sebbene siano deserti e apparentemente abbandonati, i ristoranti espongono montagne di cibo appetitoso. Incuranti della stranezza del luogo, i genitori di Chihiro si servono porzioni smisurate. La bambina invece si rifiuta di mangiare e, gironzolando nei paraggi, scopre un enorme edificio affiancato da una ciminiera: è uno yuya, tipico stabilimento termale giapponese. Mentre Chihiro sta tornando sui suoi passi, incontra un ragazzo dall’espressione enigmatica che le ordina di andarsene prima del tramonto del sole. Tornata di corsa dai genitori, li trova trasformati in enormi, ingordi maiali. Dietro il banco del ristorante e nelle strade del villaggio cominciano a delinearsi delle ombre scure e minacciose che invitano la bambina a mangiare quel cibo evidentemente stregato. Chihiro cerca di ritornare verso la galleria, ma là dove c’era il prato ora c’è una distesa d’acqua sulla quale avanza un battello. Quando questo attracca, scendono delle creature mai viste prima. All’improvviso Chihiro si ritrova accanto lo strano ragazzo incontrato alle terme: dice di chiamarsi Haku e di essere l’apprendista di Yubaba, la strega proprietaria di quelle terme destinate agli dei e ad altre creature soprannaturali. Haku conforta Chihiro e le svela che se vuole salvare i

genitori ed evitare di essere trasformata lei stessa in un animale commestibile, dovrà convincere Yubaba a farla lavorare. Seguendo le istruzioni di Haku, Chihiro raggiunge la stanza in cui lavorano Kamaji, l’addetto al funzionamento delle terme, e i suoi aiutanti, batuffoli di cenere simili ai nerini della polvere de Il mio vicino Totoro. Kamaji affida la bambina a Linn, un’inserviente delle terme. Attraverso stanze e corridoi popolati da esseri ora curiosi ora minacciosi, Chihiro raggiunge gli appartamenti della strega. Yubaba è difficile da convincere, ma Chihiro non si perde d’animo. Anche grazie ai capricci del figlio Bō, che continua a distrarre Yubaba, la bambina riesce a ottenere un lavoro, ma in cambio la strega la riduce in suo potere sottraendole il nome e ribattezzandola Sen. Nelle intenzioni della strega la bambina dimenticherà di essere Chihiro e il proprio proposito di ridare ai genitori sembianze umane. Quando Haku viene incaricato di accompagnarla negli appartamenti del personale, Sen è felice di vedere una persona amica anche se il ragazzo la tratta con freddezza. Ma all’alba del giorno dopo è proprio Haku ad accompagnarla dai genitori, rinchiusi nel porcile, e a renderle i vestiti che indossava prima di mettere la divisa delle terme. In una tasca Sen trova un biglietto d’addio dei suoi vecchi amici: ciò le permetterà di ricordarsi in ogni momento di essere Chihiro. Il lavoro è faticoso e le vasche e i clienti più sporchi vengono destinati a Sen. Quando arriva il kami di un fiume intasato di rifiuti è Sen a doverlo lavare; lo fa così bene che il potente dio la prende sotto la sua protezione e le lascia una pillola amarissima ma miracolosa. Nel faticoso incarico è stata aiutata anche da Kaonashi (Senza Volto), un essere dal viso coperto da una maschera che Sen ha fatto entrare nelle terme credendolo un cliente. Kaonashi è in realtà uno spirito che divora esseri umani e soprannaturali dopo averli adescati offrendo loro le cose che essi desiderano più vivamente. Nelle terme si scatena perciò una gara per compiacerlo, gara a cui Sen rimane completamente estranea. La bambina è invece preoccupata per Haku, che non vede da un po’ di tempo. Improvvisamente Sen avvista un drago inseguito da un nugolo di oggetti volanti, che si riveleranno essere delle sagome di carta. nelle sue mani gli oggetti sono inermi, ma sul corpo del drago lasciano ferite sanguinanti. Convinta che il drago sia Haku, Sen raggiunge l’ultimo piano del palazzo senza accorgersi di avere sulla schiena una delle

sagome. Nella stanza di Yubaba il drago giace stremato e Sen non può avvicinarlo perché gli aiutanti della strega – tre teste ruzzolanti e un uccello con la testa uguale a quella di Yubaba – glielo impediscono. All’improvviso la sagoma di carta sembrerebbe trasformarsi in Yubaba: in realtà si tratta della sua gemella Zeniba. Tra le due non corre buon sangue e pare che Haku, nelle sembianze del drago, abbia rubato il sigillo di Zeniba. La strega gemella trasforma Bō in un topo, l’uccello in un essere simile a un corvo ma con le dimensioni di una zanzara e le tre teste nella copia di Bō. Il drago la colpisce con la coda e la strega scompare. Al ritorno Yubaba non riconosce nel topo il figlio e, non trovandolo, si convince che lo abbia rapito la sorella. In forma di drago, Haku è moribondo e la strega vuole disfarsi di lui. Quando Sen, il topo e l’uccellino cercano di difenderlo, la strega risolve la questione aprendo una botola sotto di loro. Con le ultime forze il drago raggiunge la stanza di Kamaji e qui Sen lo obbliga a mangiare un pezzo della pillola che il kami del fiume le ha regalato. Il drago sputa il sigillo di Zeniba e si trasforma progressivamente in Haku, ma le sue condizioni restano gravi. Sen decide allora di raggiungere la casa di Zeniba per renderle il sigillo e pregarla di lasciar vivere Haku. La casa di Zeniba è molto lontana ma, grazie a Kamaji che le dona dei biglietti, Sen potrà raggiungerla in treno. Prima di partire deve però calmare Kaonashi che, esasperato per non essere riuscito a conquistarla, sta divorando senza sosta il cibo e chi glielo serve. Sen lo obbliga a inghiottire l’ultimo pezzo di pillola del kami del fiume e Kaonashi rigetta cibo e inservienti riacquistando la sua forma originaria. Sen, Kaonashi, il topo e l’uccellino raggiungono la casa di Zeniba. La strega spiega a Sen che l’incantesimo fatto a Haku dalla sorella è stato spezzato e che lei stessa lo ha perdonato del furto. Al momento di congedarsi Zeniba dà a Sen un talismano e Haku, in forma di drago, arriva per riportare tutti a casa. Solo Kaonashi sceglie di restare. Durante il viaggio Sen ricorda di quando, piccolissima, era stata salvata dal fiume in cui era caduta. Improvvisamente capisce perché Haku sapeva il suo nome fin dall’inizio e perché lei stessa aveva la sensazione di conoscerlo da tempo: chi l’aveva tratta in salvo è proprio Haku, il kami del fiume in cui Sen era caduta. Pronunciando il suo vero nome, la bambina lo libera definitivamente dall’incantesimo di Yubaba. Alle terme Sen è attesa per l’ultima prova: dovrà riconoscere i

genitori tra altri maiali. Quando afferma che non sono lì, l’incantesimo è spezzato. Con la promessa di rivedersi in futuro Chihiro saluta Haku e raggiunge i genitori. Se non fosse per la polvere accumulatasi sull’automobile sembrerebbero passati pochi minuti da quando hanno varcato l’ingresso della galleria. La città incantata è un film sulla potenza della parola: il nome definisce e conserva l’identità; l’incantesimo lega e imprigiona; la promessa mantenuta garantisce l’onorabilità dell’individuo, sia esso umano o divino. Tutto ciò è espresso attraverso un apparato visivo in cui l’animazione tradizionale e le più sofisticate tecniche digitali si armonizzano perfettamente. La città incantata è stato infatti il primo film di Miyazaki a essere colorato e masterizzato in digitale.

Il Castello Errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004) Soggetto: dal romanzo omonimo di Diana Wynne Jones. Sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisori dell’animazione: Yamashita Akihiro, Inamura Takeshi, Kōsaka Kitarō. Direzione artistica: Takeshige Yōji, Yoshida Noburo. Colore: Yasuda Michiyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Suzuki Toshio. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 119 minuti. A cavallo tra il XIX e il XX secolo, in una città europea e industriale vive Sophie, una ragazza di diciotto anni che lavora nella modisteria ereditata dal padre. Un giorno, nella campagna vicina compare una strana fortezza mobile e una delle lavoranti la identifica come il Castello Errante del potente mago Howl, noto ovunque per rubare i cuori alle fanciulle più belle. Sophie presta poca attenzione all’evento: non sentendosi bella, ritiene di non correre alcun pericolo. Più rischioso è camminare per le vie della città: il paese sta per entrare in guerra e ovunque ci sono soldati. Sophie viene fermata da due di loro e – quando la rozza galanteria dei militari sta passando la misura – appare un ragazzo che, presentatosi come il suo fidanzato, la prende sottobraccio e con il solo gesto di un dito obbliga i soldati ad allontanarsi. Il giovane chiede a Sophie di accompagnarlo per un tratto di strada, ma lungo la via lugubri ombre nere li inseguono sbucando dai muri ed emergendo dal suolo; così, afferratala, lo strano personaggio vola sopra la città e, dopo averla messa al sicuro, si congeda da lei. Quando Sophie informa la sorella Lettie dell’incontro, quest’ultima non ha dubbi: chi l’ha soccorsa è Howl ed è bene essere prudenti non solo per la presenza del mago, ma anche perché la Strega delle Lande è stata avvistata in città. Sophie è appena rientrata al negozio quando compare una donna grassa fino alla deformità: si tratta proprio della Strega delle Lande, che lancia sulla ragazza una maledizione e le raccomanda di salutare Howl. Sophie si guarda allo specchio e, con orrore, scopre che il suo corpo ora sembra quello di una novantenne. Il giorno dopo, Sophie si allontana dalla città alla ricerca della Strega. Per sostenersi lungo una salita, pensa di usare un bastone incastrato in un cespuglio, ma dopo averlo liberato dai rami scopre che

si tratta di uno spaventapasseri magico e lo battezza Rapa. Lo spaventapasseri le porge un vero bastone da passeggio e poi le indica un rifugio per la notte nel Castello di Howl fermo lì vicino. Sophie vi entra e, quando sta per addormentarsi, la fiamma nel camino le rivolge la parola, dicendo che la maledizione che l’ha colpita è sofisticata e difficile da sciogliere. Chi parla è Calcifer, uno spirito potenzialmente maligno che Howl è riuscito a domare. Calcifer propone a Sophie un patto: se lo aiuterà a capire che cosa lo lega a Howl e lo renderà di nuovo libero, lui la scioglierà dalla maledizione. Il Castello possiede un dispositivo che permette di uscire in luoghi diversi, e in ciascuno di questi luoghi la facciata dell’edificio varia per forma e stile. La mattina Markl, l’aiutante di Howl, riceve delle visite ufficiali: le autorità cittadine chiedono che Howl si schieri apertamente al loro fianco e partecipi al conflitto con il suo talento magico. Quando il mago rientra al Castello, Sophie si presenta come la nuova governante. Il padrone di casa è cordiale ma preoccupato: ogni giorno, assumendo l’aspetto di un enorme uccello nero, attacca bombardieri e incrociatori di entrambi gli schieramenti, ma ogni missione lo indebolisce e lo allontana dalla sua identità umana. Howl confida a Sophie che la Strega delle Lande lo sta cercando: per questo vive nascosto, protetto dal Castello e dagli amuleti ammassati nella sua camera. Anche le identità di copertura sono ormai insufficienti a garantirgli una vita libera dai ricatti del potere, perché quando è entrato alla scuola di magia ha stretto un misterioso patto con il re e soprattutto con Madame Suliman, la maga di corte. Sophie lo invita a parlare francamente al re, ma il mago ribatte che le cose non sono così semplici. Eppure c’è una possibilità: se Sophie fingesse di essere sua madre e andasse dal re dicendo che il proprio figlio è un inutile codardo, forse il sovrano non insisterebbe oltre. Howl consegna a Sophie un anello e le assicura che le starà vicino durante la visita a palazzo. Anche la Strega vorrebbe incontrare il re ma, giunta a palazzo, è condotta in una sala dove viene circondata da figurine antropomorfe che l’abbagliano. Sophie invece è fatta accomodare in un giardino d’inverno dove l’aspetta Suliman, pronta a raccontare la propria versione dei fatti: Howl è stato il suo miglior apprendista e a lui avrebbe desiderato lasciare il proprio posto, ma poi il Male si è

impossessato del cuore del mago e lui ha cominciato a usare la magia per scopi personali, acquisendo un potere sempre più grande ma perdendo la capacità di controllarlo. Se Sophie non lo terrà a bada, anche Howl farà la fine della Strega delle Lande, ovvero sarà ridotto all’ombra di se stesso: in tempo di guerra non si possono tollerare poteri incontrollati. A prova di quanto detto, la Strega viene portata al loro cospetto: del suo aspetto orgoglioso ormai non è rimasto nulla, è una povera vecchietta con il corpo e lo spirito completamente consumati. Sophie non è convinta della versione di Suliman: certo Howl è egocentrico, ma anche onesto e leale. Più Sophie si infervora nel difenderlo, più il suo viso ritorna a essere quello di una ventenne, al punto che la maga nota con ironia quanto giovane e innamorata sia la madre di Howl e come sia facile attirare quest’ultimo a palazzo una volta scoperto il suo punto debole. Quando Howl si presenta a palazzo, Suliman colpisce il pavimento con un bastone magico e lo trasforma in un mare in tempesta. Immobile, Howl trattiene Sophie che, suo malgrado, trattiene la Strega. Il mare scompare e i tre si trovano sospesi in aria mentre Suliman invita il mago a mostrare alla «madre» la propria natura mostruosa: le stesse figurine che avevano circondato la Strega si avvicinano e Howl inizia a trasformarsi in un minaccioso uccello dalle piume corvine. Non riuscendo a fermarlo, Sophie si frappone tra Howl e Suliman spezzando l’incantesimo. La ragazza si rifugia nel Castello; quando Howl vi fa ritorno a notte fonda, non riesce a riacquistare le sembianze umane. È così che lo trova Sophie quando gli dichiara il suo amore e si offre di aiutarlo a liberarsi dalla maledizione che lo affligge. Suliman le ha rivelato che Howl ha consegnato a Calcifer qualcosa di molto importante, ma questi non può smentire né confermare l’informazione a causa della sua natura maligna. Inoltre, le minacce sono inefficaci, perché se Sophie decidesse di punire Calcifer spegnendolo, ucciderebbe anche Howl. La necessità di sfuggire a Suliman muove il Castello verso un luogo in cui sarà difficile individuarlo. L’edificio si trova ora nella città di Sophie, e assume in tutto e per tutto la forma di casa sua. Howl vi aggiunge anche una nuova uscita, attraverso la quale si accede a una valle percorsa da fiumi e circondata da alte montagne. Il mago vuole condividere con Sophie quel giardino segreto e pacifico, in cui si rifugia fin dall’infanzia. I due stanno osservando il passaggio di un

bombardiere quando vengono attaccati da un nugolo di rettili volanti, servitori di Suliman. Howl assume nuovamente l’aspetto di uccello, fa rientrare Sophie e resta solo nel giardino. Sophie tenta di tenersi occupata, ma non riesce a concentrarsi: si sentono le sirene dell’allarme aereo, e nelle strade i servitori di Suliman stanno cercando l’ingresso del Castello. nelle stesse ore Howl attraversa una landa bruciata e insanguinata da cui i civili vengono fatti sfollare. La sera, la città viene bombardata. Calcifer è sempre più debole e dunque anche il Castello è facilmente raggiungibile dagli emissari di Suliman. Tutto sembra perduto: Sophie sta per morire sotto il bombardamento, quando Howl arriva in suo soccorso. Il mago ritorna sul campo di battaglia e Sophie osserva la città in fiamme. Presto la sua attenzione è attratta dal terribile combattimento che Howl sta ingaggiando con le creature di Suliman e, per impedire che il mago combatta fino alla morte, chiede a Calcifer di spostare il Castello. Lo spirito del fuoco non ha però abbastanza energie e l’unica soluzione è allontanarsi a piedi. Sophie prega un sempre più debole Calcifer di portarla dove si trova Howl e per questo sacrifica la propria treccia, gettandola nel fuoco. Sfruttando l’energia che gli deriva dall’aver inglobato in sé una parte di Sophie, Calcifer ritrova le forze. A questo punto, la Strega delle Lande decide di inghiottire il demone per mangiare il cuore giovane e pulsante di Howl, conservato all’interno del fuoco. Afferrare Calcifer e toglierlo dal camino non solo equivale a far crollare il Castello, ma significa rischiare di morire ustionati. La convivenza ha spinto Sophie a compassione per la sua nemica: per evitarle una morte orribile, la ragazza afferra d’istinto un secchio d’acqua e spegne Calcifer. La porta del Castello rimane però intatta e Sophie l’attraversa ritrovandosi nel giardino di Howl. Qui vede finalmente che cosa lega Howl a Calcifer, demone in forma di cometa ardente a cui il giovane ha consegnato il proprio cuore dopo averlo strappato da sé. La terra si apre sotto i piedi di Sophie, che precipita nel vuoto, non prima però di aver gridato a Calcifer e a Howl di ricordarsi di lei. Sophie ritorna tra le rovine del Castello. Lì trova Howl nella sua forma mostruosa ma con il volto ancora umano, che l’accompagna a raggiungere Markl, la Strega, Rapa e le poche, tiepide ceneri di Calcifer. La Strega non vuole consegnare queste ultime, ma Sophie la implora con tanta disperazione da smuovere il suo animo inaridito. Fedele al patto stretto, Calcifer accetta di restituire a Howl il cuore pur

sapendo che in questo modo decreterà la propria morte sia come demone sia come fuoco domestico. Invece, il suo gesto generoso spezza l’incantesimo che lo lega al mago e, mentre cadono a pezzi gli ultimi frammenti del Castello, Calcifer può ritornare libero e Howl può finalmente dirsi del tutto umano. L’intervento di Rapa, che impedisce ai protagonisti di precipitare in un burrone, muove a gratitudine Sophie: la ragazza lo abbraccia di slancio e spezza il sortilegio che aveva trasformato in spaventapasseri il principe del regno vicino. Questi, ritornato in possesso dell’identità e del rango, si affretta a raggiungere il proprio paese per fermare la guerra. L’intera scena è seguita da Suliman attraverso una sfera di cristallo: la maga si rassegna a convocare il governo e a mettere fine alle ostilità. Quanto a Sophie, l’incantesimo è spezzato ma le ha lasciato il segno indelebile di un’avventura fuori dall’ordinario: i capelli grigi. Dopo tre anni di sviluppo e venti mesi di produzione, nel 2004 Il Castello Errante di Howl ha partecipato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, diventando così il primo film di Miyazaki presentato in anteprima mondiale fuori dal Giappone. Una scelta tanto inconsueta è stata premiata con un’Osella per meriti tecnici: un riconoscimento forse un po’ riduttivo, ma riequilibrato l’anno successivo dall’assegnazione a Miyazaki del Leone alla carriera. Il film presenta quattro temi portanti: la guerra, l’amore, il rapporto tra giovani e anziani e la possibilità di tenere un comportamento eroico pur nei limiti della propria vanità e debolezza. Come per tutte le pellicole di Miyazaki, non si è trattato solo di raccontare una storia, ma anche di ricostruire un nuovo mondo in cui la realtà quotidiana dello Studio potesse organizzarsi secondo nuove regole, dimenticando le gerarchie che disciplinano i rapporti tra artisti giovani e anziani e dando la precedenza a chi può, per indole, età ed esperienza, interpretare al meglio lo spirito dell’opera. Se La città incantata parla della forza della giovinezza e dunque è stata realizzata da uno staff formato dagli elementi più giovani dello Studio, Il Castello Errante di Howl ha visto impegnati i componenti più anziani, che potevano rendere con maggiore efficacia la situazione di Sophie vivendola di persona. Oltre a dichiarare un’affinità con Howl, Miyazaki ha animato personalmente il personaggio di Calcifer.

Ponyo sulla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008) Soggetto: Miyazaki Hayao. Sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisori dell’animazione: Katsuya Kondō. Direzione artistica: Yoshida Noburo. Colore: Yasuda Michyo. Musica: Hisaishi Jō. Produttore: Suzuki Toshio. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 119 minuti. È notte e le navi prendono il largo dal porto di una città costiera. Nelle profondità marine Fujimoto, un uomo che ha abbandonato la superficie terrestre per amore della dea marina Granmammare, libera nell’acqua un liquido che brulica di vita: esseri unicellulari e avannotti si moltiplicano sotto il suo controllo. Mentre è immerso nei suoi esperimenti, la più grande delle sue figlie, la pesciolina Brunilde, saluta le sorelle, salta su una medusa e si lascia trasportare in superficie. Quando si sveglia Brunilde si trova davanti a un promontorio. All’improvviso una rete a strascico l’afferra e la trascina via insieme ai rifiuti depositati sul fondale; Brunilde riesce a liberarsi ma ha la testa incastrata in un vasetto di vetro e riesce a fatica a nuotare verso la riva. Nello stesso momento Sōsuke, un bambino di cinque anni che vive in cima al promontorio, scende verso il mare con una barchetta. Riza, la madre di Sōsuke, lo chiama dicendo di non fare tardi perché è quasi ora di andare: Riza lavora alla Casa dei Girasoli, un pensionato per anziani che confina con l’asilo frequentato da Sōsuke. L’attenzione del bambino è catturata dalla pesciolina che si dibatte nel vasetto, così la solleva dall’acqua, la porta a riva e rompe delicatamente il vetro. Una scheggia ferisce il dito di Sōsuke e Brunilde lecca la ferita, rimarginandola. Improvvisamente dal mare affiorano dei pesciacqua, creature marine simili ora a pesci informi ora a onde con gli occhi. I pesciacqua seguono i movimenti dei due bambini e cercano di afferrare Brunilde e riportarla nelle profondità del mare. Al loro comparire si alza un forte vento e nello stesso istante Riza chiama Sōsuke; il bambino afferra la barca e Brunilde e corre verso casa. Sōsuke riempie un secchiello d’acqua e vi immerge Brunilde, poi raggiunge la madre. Stanno per partire quando Fujimoto compare davanti a loro, spruzzando attorno a sé acqua marina incontaminata

per evitare la disidratazione. Riza lo apostrofa in modo spicciativo e l’uomo resta così interdetto da non riuscire a chiedere dove sia la figlia. Cerca allora di seguire dal mare il percorso dell’auto lungo la costiera, ma resta intrappolato nei rifiuti abbandonati in mare. Durante il viaggio Sōsuke mostra alla madre la pesciolina e scopre di non avere più la ferita sul dito; decide così di chiamare Brunilde Ponyo perché è magica, soffice e spugnosa. All’arrivo il bambino saluta le ospiti del pensionato, nasconde il secchiello sotto a un cespuglio e va all’asilo. Ma non resta lì a lungo e presto esce di nuovo in cortile per controllare come sta Ponyo. Quando lo raggiunge Kumiko, una compagna dell’asilo, Ponyo si ingelosisce e spruzza il vestito della bambina, facendola scoppiare in lacrime. Sōsuke si rifugia nel giardino del pensionato e mostra Ponyo alle ospiti. Le nonnine sono entusiaste della visita, ma la signora Toki, la più scontrosa e scontenta delle ospiti, inizia si spaventa e dice che un pesce dal volto umano qual è Ponyo porterà solo sventura: se Sōsuke non la ributterà in mare presto arriverà uno tsunami. Il tono aggressivo di Toki fa arrabbiare Ponyo: la pesciolina spruzza dell’acqua sulla faccia della donna e Sōsuke la porta via di fretta. Il bambino scende in riva tenendo ben stretto il secchiello e rassicurando la pesciolina che penserà lui a proteggerla. Riconoscente, Ponyo pronuncia distintamente il nome dell’amico. All’improvviso compare Fujimoto, lancia in acqua una manciata di pesciacqua che travolgono il bambino e gli strappano il secchiello di mano: quando Sōsuke riemerge Ponyo è scomparsa. Fujimoto si inabissa velocemente tenendo Ponyo intrappolata in una bolla d’aria. Riza e Sōsuke stanno tornando a casa: il bambino è triste per non essere riuscito a mantenere la promessa fatta a Ponyo, mentre la madre cerca di consolarlo spiegandogli che quanto successo fa parte del destino e per quanto duro sia il destino non può essere cambiato. A casa Sōsuke decide di lasciare il secchiello bene in vista, in modo che Ponyo possa riconoscerlo, poi raggiunge Riza che sta preparando la cena: Koichi, sta per rientrare. Se Sōsuke si rasserena all’idea di riabbracciare il padre, Riza diventa furiosa quando scopre che per quella sera il marito non rientrerà in porto. Quando ormai è notte Koichi passa davanti al promontorio ma Riza si rifiuta di rispondere ai suoi messaggi in Morse, se non ritrasmettendo insulti. Sōsuke si domanda se Ponyo starà bene e davanti alla tristezza del figlio Riza

cerca di contenere il proprio disappunto. Nelle profondità marine Fujimoto cerca di cancellare da Ponyo ogni traccia di contaminazione con il lurido mondo degli esseri umani, ma la pesciolina ha leccato il sangue di Sōsuke e questo ha attivato il carattere umano recessivo presente nel Dna. La volontà di Ponyo è incontenibile e le permette di fare appello alla forza magica ereditata dalla madre in modo istintivo e devastante. Mentre Fujimoto va a riporre l’ampolla di acqua di vita con cui conta di riportare la Terra al periodo devoniano, Ponyo, aiutata dalle sorelle, riesce a fuggire, apre accidentalmente la cassaforte in cui è custodita la pozione e avvia un processo di rapida alterazione degli equilibri naturali. Lei stessa si evolve rapidamente in una bambina vera e propria. Il mare si ingrossa e scoppia una tempesta che travolge le navi, compresa la Koganei Maru di cui Koichi è il capitano. L’uomo in mezzo alla tempesta vede qualcosa di sorprendente: una bambina dell’età di Sōsuke che corre felice sulle onde. Sulla costa sta cadendo una pioggia torrenziale. Uscito dall’asilo Sōsuke va alla Casa dei Girasoli e trova tutti in subbuglio perché manca la corrente elettrica. Tornando a casa Sōsuke è preoccupato per il padre e allo stesso tempo è incuriosito da quelli che gli sembrano enormi pesci che affiorano tra le onde – o forse sono le onde stesse. Tra le onde compare una bambina vestita di rosso che corre veloce mentre i pesci cercano di spingerla verso l’auto di Riza. Dal lunotto posteriore Sōsuke riesce a vederla in faccia. I due sembrano riconoscersi, ma la pendenza della salita è tale che i pesci non riescono a sostenerla e Ponyo precipita in acqua. Sōsuke grida che la bambina è caduta e Riza ferma l’auto e scruta il mare senza vedere nulla. Anche Sōsuke si affaccia e una folata di vento lo scaglia nel vuoto: Riza lo afferra, lo rimette in auto e riparte sgommando verso la cima della scogliera, ormai trasformata in un isolotto in mezzo a un mare in tempesta. Il vento ha anche sollevato il secchiello e lo ha trascinato tra le onde. All’improvviso una mano lo afferra: è Ponyo che correndo schiva Riza e raggiunge Sōsuke perdendo progressivamente la forma ibrida e diventando una comune bambina. Nel momento in cui Sōsuke la riconosce la pioggia cessa. Perplessa, Riza afferra i due bambini e li porta in casa. Il mare è ancora grosso e Koichi non risponde alla radio. Riza decide di lasciare a casa i bambini e di raggiungere il pensionato per controllare come stanno le nonnine.

Sulla Koganei Maru un marinaio annuncia che sta spuntando la luna e che si intravvedono le luci della costa, ma ben presto è chiaro che le luci provengono da centinaia di navi ammucchiate ai piedi di un’enorme montagna d’acqua che sembra lambire la luna: la magia di Ponyo ha modificato il campo gravitazionale terrestre. I motori della nave si bloccano e a poppa appare una luce che si muove veloce. Una gigantesca donna dall’aspetto sereno avanza sul dorso, circondata da una nuvola di picocli pesci dorati che, a contatto con l’aria, si scuriscono e tornano acqua.I marinai ne riconoscono la divinità e le rivolgono le preghiere destinate a Kannon, la dea della misericordia. Granmammare e stata chiamata da Fujimoto, sconvolto dalla determinazione della figlia. La dea cerca di tranquillizzarlo spiegando che l’equilibrio naturale alterato da Ponyo potrà essere ripristinato se Ponyo diventerà del tutto umana e rinuncerà ai poteri magici. Per farlo però dovrà essere accettata da Sōsuke sotto ogni forma: pesce, ibrido o umana. Se il bambino tentennerà Ponyo diventerà schiuma del mare, come del resto accade a tutti, prima o poi. Il sole illumina il mare calmo ma ancora innaturalmente alto. I bambini decidono di andare alla ricerca di Riza e Ponyo usa la magia per trasformare la barca giocattolo di Sōsuke in uan piccola imbarcazione capace di trasportare entrambi. Sotto di loro pesci preistorici nuotano pacificamente, mentre Ponyo ne indica entusiasta i nomi. Lungo la strada incontrano una coppia con un neonato su una barca a remi: Ponyo è affascinata dal bambino e da come la madre lo allatta. Una lunga colonna di barche e barconi si avvicina: sono gli abitanti della città che si stanno dirigendo in una zona ancora libera dalle acque. Da loro Sōsuke apprende che gli abitanti della Casa dei Girasoli si sono rifugiati lì vicino. Mentre stanno navigando nella direzione indicata Ponyo di addormenta e progressivamente i suoi poteri magici scompaiono, così anche la barca ritorna un giocattolo. Sōsuke percorre gli ultimi metri trascinando Ponyo e dove la strada riemerge dall’acqua i bambini trovano l’auto di Riza perfettamente intatta ma senza nessuno. In realtà Riza e le altre ospiti si trovano in fondo al mare, in una gigantesca bolla che permette loro di respirare e muoversi senza fatica. Con loro ci sono anche Fujimoto e Granmammare e tutti attendono di assistere alla prova di Ponyo e Sōsuke. I bambini devono attraversare una galleria fredda e buia. Tenendosi

per mano avanzano con decisione, sebbene Ponyo sia sempre più assonnata e il suo passo sempre più incerto. Prima di uscire dalla galleria Ponyo attraversa a ritroso tutte le fasi evolutive, ritornando pesce. Fujimoto emerge dal mare e invita Sōsuke e Ponyo a seguirlo, ma Sōsuke non si fida e si rifiuta di seguirlo. Da lontano compare la signora Toki e chiama il bambino e lo mette in guardia: quell’uomo dall’aspetto inquietante ha già trascinato le sue amiche e Riza sott’acqua e lei non vuole fare la stessa fine. Fujimoto, esasperato, ingloba i tre in una bolla d’aria e li porta sott’acqua. Sōsuke dichiara di voler bene a Ponyo in tutte le sue forme e Granmammare chiude la pesciolina in una bolla e l’affida al bambino, raccomandandogli di baciarla una volta tornato in superficie: in questo modo Ponyo potrà diventare umana definitivamente. In superficie è tutto un brulicare di navi e aerei arrivati a portare soccorso. Le ospiti della casa di riposo risalgono con slancio la ripida collina e Fujimoto chiede scusa a Sōsuke. I due si stringono la mano nel preciso istante in cui attracca la Koganei Maru. Ponyo con un guizzo balza verso l’alto e ricade sul viso di Sōsuke in modo che il bambino possa baciare la bolla, trasformarla in bambina e ristabilire l’equilibrio naturale. Per l’età dei protagonisti e per l’ambientazione fiabesca Ponyo sulla scogliera sembra collegarsi a Il mio vicino Totoro, riportando l’attenzione sull’infanzia non intesa come un’età di superficiale spensieratezza ma come il momento in cui gli individui sono più spontanei, determinati, sinceri nelle loro manifestazioni e capaci di assumersi responsabilità e prendere decisioni Davanti alla manifestazione della volontà dei bambini gli adulti reagiscono in modi che vanno dalla serenità delle madri alla preoccupazione quasi nevrotica di Fujimoto fino alla complicità delle nonne. Questa rilettura libera e positiva de La sirenetta trae comunque ispirazione dalla realtà: il personaggio di Sōsuke è stato ispirato a Miyazaki dal ricordo del figlio Gōro da bambino, mentre Ponyo è modellata sulla figlia del supervisore all’animazione Kondo Katsuya il quale, a sua volta, ha ispirato il personaggio di Fujimoto. Miyazaki si è inoltre riservato la realizzazione delle onde, ritenute dal regista la parte visiva più importante del film.

Si alza il vento (Kaze tachinu, 2013) Soggetto: Miyazaki Hayao. Sceneggiatura: Miyazaki Hayao. Regia: Miyazaki Hayao. Supervisore dell’animazione:****. Direzione artistica: ****. Colore: ****. Musica Hisaishi Jō. Produttore: Suzuki Toshio. Produzione: Studio Ghibli. Durata: 126 minuti. Nella camera da letto di una grande casa in stile tradizionale dormono due bambini: i fratelli Jirō e Kayo Horikoshi. Il primo sogna di arrampicarsi sul tetto di casa per raggiungere un aereo. Il bambino sale a bordo, avvia i motori e l’aereo decolla con delicatezza. Seguendo un canale arriva a un ampio fiume e poi a un centro abitato. All’improvviso, sulle nubi candide, si stagliano dei puntini neri: sono bombe legate con cavi sottili a un’enorme corazzata volante. Una delle bombe colpisce l’aereo, distruggendolo. Il ragazzino precipita e si risveglia nel proprio letto, si guarda attorno con sguardo miope, poi si alza, comincia a ripiegare le coperte e si avvia a scuola. Un insegnante presta a Jirō una copia di Aviation Aircraft Journal dedicata al conte Caproni. Di notte Jirō è steso sul tetto di casa e osserva il cielo stellato senza indossare gli occhiali. Kayo lo raggiunge e il fratello le spiega che sta cercando di rinforzare la vista debole, poi si perde a immaginare un cielo luminoso, popolato di aerei che si riflettono sul suo viso assorto. Si vede in piedi in un prato; gli aerei sono ovunque e quando volano raso terra si possono vedere le bombe fissate sotto le ali. Da un aereo si sporge Caproni e chiede a Jirō chi sia e perché si trova lì. Il ragazzo risponde di trovarsi nel suo proprio sogno. Caproni ribatte che quello è il suo sogno, ma finisce per convenire che c’è una possibilità che sia il sogno di entrambi. Il conte saluta gli artiglieri: stanno andando a bombardare la città nemica e solo pochi di loro faranno ritorno. Sopraggiunge un aereo civile e Caproni invita Jirō a salire. L’aereo, lussuoso e confortevole, è il sogno del conte, ciò che vuole realizzare quando la guerra sarà finita. Jirō chiede se potrà mai progettare aerei, perché sa che non potrà mai essere un pilota a causa della vista debole. Caproni lo rassicura: non è necessario saper pilotare per progettare; poi continua dicendo che gli aerei non servono per fare la guerra e nemmeno per fare soldi: gli aerei sono sogni meravigliosi che i progettisti trasformano in realtà.

Mentre Caproni si allontana sulla propria creazione la madre sveglia Jirō: lo ha sentito parlare nel sonno e si è preoccupata. Il ragazzo annuncia che diventerà un ingegnere aeronautico e la madre approva il suo desiderio. Il 1° settembre 1923 un treno percorre un paesaggio collinoso. Jirō, ormai studente universitario, sta tornando a Tokyo su un treno molto affollato. Per stare più comodo si sposta all’esterno dello scompartimento e legge. Dalla carrozza vicina esce una ragazza in abiti occidentali accompagnata da una donna: l’aspetto le definisce subito come una signorina di buona famiglia e la domestica che l’accompagna in viaggio. La ragazza è entusiasta del vento che sta soffiando e una folata più vivace solleva il cappello di Jirō. La ragazza lo afferra al volo, rischiando di cadere dal treno. L’incidente è il pretesto perché i due si rivolgano la parola. Jirō elogia la presa della ragazza e la ringrazia; la giovane risponde con una citazione di Valéry (“Le vent se lève”) che Horikoshi completa (“Il faut tenter de vivre”). La ragazza sorride compiaciuta e poi ognuno torna al proprio posto. Mentre il treno sta attraversando una vasta pianura, attorno a mezzogiorno, la terra comincia a tremare: il grande terremoto del Kantō sta per devastare Tokyo e le prefetture circostanti. Le rotaie si sollevano come un nastro di stoffa e il treno è costretto a fermarsi. Dopo un momento di silenzio i passeggeri fuggono mentre le colonne di fumo si levano all’orizzonte a causa dei numerosi incendi. Jirō raggiunge la ragazza, occorre la sua accompagnatrice che ha una gamba fratturata e poi i tre si allontanano dalla ferrovia. Lasciata Kinu in un posto sicuro, Jirō e la ragazza si dirigono verso Ueno, dove si trova la casa di quest’ultima. All’ingresso una piccola folla la saluta festante. Due uomini seguono Jirō e soccorrono Kinu, poi il ragazzo se ne va senza dire il proprio nome e raggiunge l’università. Qui l’amico Honjo lo informa che l’ala est è andata distrutta. I due si siedono su un muretto a fumare, mentre attorno a loro vorticano frammenti portati dal vento, tra i quali una cartolina con l’effige di Caproni. Jirō inizia un dialogo immaginario con il proprio eroe. Caproni è a bordo di una barca a remi assieme all’operatore che filma il decollo dell’imponente idrovolante. Tutto sembra andare per il meglio ma, all’improvviso, la struttura cede. Furibondo, Caproni fa a pezzi la pellicola. Poi dal suo regno immaginario, il conte chiede: “Il vento si sta levando ancora, ragazzo giapponese?” Senza smettere di combattere la furia del fuoco Jirō risponde citando Valèry.

Dopo due anni, mentre si trova in aula studio, un bidello avvisa Jirō che una signorina ha portato un pacco. Nel pacco si trovano, insieme a un biglietto, il fazzoletto, il righello e la camicia usati due anni prima per steccare la gamba di Kinu e portare da bere alle due donne. Jirō esce di corsa in cortile ma non c’è più nessuno. Più tardi la padrona di casa gli annuncia che una ragazza lo sta aspettando. Si tratta di Kayo, in città insieme alla madre. Kayo chiede di poter vivere con lui e frequentare la facoltà di medicina, ma il fratello risponde che per allora sarà già andato a lavorare come progettista in una fabbrica di aeroplani di Nagoya; in ogni caso intercederà per Kayo presso il padre. Le campagne sono assediate da folle di disoccupati in cerca di lavoro e anche a Nagoya la situazione non è migliore: l’economia è allo stremo e la crisi economica morde senza pietà. Lo stabilimento della Mitsubishi Internal Combustion Engine Company è però grande e la strada di accesso è brulicante di impiegati e operai. Il direttore, il signor Kurokawa, è piccolo, buffo e nervoso. Subito apostrofa Jirō per il suo ritardo e gli assegna il compito di disegnare il puntone dell’ala del Falcon, il nuovo caccia in fase di progettazione. Qualche tempo dopo Honjo e Jirō visitano il reparto assemblaggio e qui scoprono che Kurokawa aveva assegnato un compito che era già stato ultimato, solo per mettere alla prova il nuovo arrivato. Quel che è peggio però è che il puntone, così come è stato realizzato, provocherà sicuramente la rottura dell’ala. Durante una visita di Hattori, l’ingegnere capo, Jirō espone le sue perplessità e si offre di ripensare il pezzo; Kurokawa gli ordina di fare solo ciò che gli è stato chiesto ma Hattori non è della stessa idea. La sera, mentre lasciano lo stabilimento, Jirō e Honjo passano accanto al recinto in cui sono rinchiusi i buoi che servono a trainare i prototipi fino alla pista di decollo. Horikoshi li trova degli esseri straordinari ma per Honjo rappresentano lo stridente divario tra la tecnologia giapponese e quella occidentale. All’alba il Falcon decolla davanti ai rappresentanti dell’esercito. Tutto sembra andare per il meglio, ma quando il pilota cerca di spingere l’aereo al massimo le ali si spezzano. Jirō cerca di rassicurare Kurokawa: il problema è grave ma lo risolveranno con il Falcon 2. Kurokawa ne smorza subito l’entusiasmo: quella era la loro ultima opportunità, l’esercito ha scelto il caccia di un progettatore rivale e da quel momento si concentreranno su un bombardiere da costruire con l’aiuto degli stabilimenti Junkers. Jirō e Honjo, insieme a una

delegazione di progettisti e militari, partiranno per la Germania. La Germania appare moderna e imponente, mentre i tedeschi sono diffidenti e poco collaborativi. Spinto dalla curiosità Jirō lascia il gruppo e si ferma ad ammirare un caccia; subito due soldati lo bloccano. Honjo lo raggiunge e chiede ai soldati se quello è il modo di trattare gli ospiti; per tutta risposta i soldati dicono che i giapponesi copiano tutto quello che vedono e quella è tecnologia che appartiene solo alla Germania. Il diverbio termina quando lo stesso Junkers autorizza un giro di prova sul bombardiere. La sera, in albergo, Honjo elogia Junkers ma la compagnia gli pare ambigua; Jirō osserva i caloriferi, progettati dallo stesso ingegnere e simili, nella forma, al bombardiere; Honjo enfatizza l’arretratezza del Giappone; Jirō sostiene che possa fare con quel che ha, usando legno e tela al posto dell’acciaio; Honjo vede il Giappone come Achille che cerca di raggiungere la tartaruga; per Jirō il Giappone deve cercare di essere la tartaruga. Mentre passeggiano nelle vie deserte un uomo li sorpassa correndo e cercando di sfuggire agli inseguitori. Honjo e Jirō si avviano mentre il fuggitivo è raggiunto e picchiato. Horikoshi cammina in un campo innevato in cui spuntano le lamiere di aerei distrutti. In lontananza un treno si ferma, mentre dal cielo, carico di nubi, precipitano aerei giapponesi in fiamme. Compare Caproni e chiede se il vento si leva ancora e invita Jirō a seguirlo nel suo ultimo volo. I due saltano dal treno e la neve si trasforma in un prato fiorito; accanto un aereo gigantesco, pieno di gente, è pronto a decollare. I dipendenti di Caproni e le loro famiglie partecipano al viaggio organizzato prima di consegnare il bombardiere alla Francia. Per Jirō l’aereo è degno della tradizione di Roma classica; per Caproni è troppo grande, ma ai francesi piacciono le cose grandiose. Horikoshi racconta che il Giappone è povero e arretrato e mai potrà costruire qualcosa del genere, ma per il conte l’ispirazione è più importante della tecnologia e gli italiani non sono meno poveri dei giapponesi. Jirō dice di voler costruire degli aeroplani che siano belli come quello bianco e leggero che gli sta indicando Caproni, ma la strada è lunga per completare il progetto. Il conte lo approva e gli confida che sta per ritirarsi: la creatività autentica dura per circa dieci anni poi ci si ripete, perciò bisogna vivere al massimo il proprio tempo creativo. Sono passati cinque anni dall’arrivo di Horikoshi alla Mitsubishi quando, nel 1932, Kurokawa e Hattori gli affidano il progetto di un caccia navale. La prova del prototipo va molto bene e Jirō si prende un

periodo di vacanza in una località montana. Mentre passeggia nei dintorni dell’albergo, recupera l’ombrellone sfuggito a una ragazza che sta dipingendo sulla cima di una collina. Il giorno seguente scorge l’ombrellone e il cavalletto al limitare di un bosco. Seguendo un sentiero si addentra nel bosco, raggiunge una polla di acqua sorgiva e qui trova la ragazza. Quando Jirō la saluta questa volta le spalle, facendogli credere di non essere gradito. La ragazza invece lo trattiene spiegando che si è solo voltata a ringraziare la sorgente per aver esaudito il suo desiderio: da quando l’aveva soccorsa durante il terremoto aveva pregato di poterlo incontrare di nuovo e ringraziarlo. Ed è così che Jirō Horikoshi ritrova Nahoko Satomi. La sera Jirō raggiunge la terrazza dell’albergo e attende i Satomi. Prima che questi arrivino, un altro ospite dell’albergo attira la sua attenzione, il tedesco Castorp. L’uomo dice che i nazisti sono dei teppisti e che il mondo è destinato a saltare per aria, ma lì, in quel luogo di montagna, si può dimenticare anche tutto quello che coinvolge il Giappone: la guerra in Cina, lo stato fantoccio della Manciuria, l’uscita dalle Nazioni Unite, la trasformazione del mondo intero nel proprio nemico. Satomi si avvicina per avvisare che Nahoko ha la febbre e non scenderà per la cena. Quando Jirō si rivolge di nuovo a Castorp questo è sparito. Qualche giorno dopo Horikoshi chiede a Satomi il permesso di frequentare la figlia. Nahoko accetta il fidanzamento ma, avendo contratto la tubercolosi dalla madre, morta due anni prima, chiede di rimanare il matrimonio alla propria guarigione. Ritornato al lavoro Jirō copre di essere ricercato dalla polizia politica. Kurokawa lo nasconde nel proprio ufficio e poi lo alloggia nella propria casa: finché sarà necessario, l’azienda lo proteggerà. Quando il suo capo progettista manifesta stupore e non si spiega perché lo stanno cercando, Kurokawa dice che parecchi dei suoi amici sono stati arrestati senza una ragione apparente. Jirō trova assurdo che cose del genere accadano in un paese moderno ma gli viene spiegato che la sola idea che il Giappone sia un paese moderno è risibile. Alcuni giorni dopo Nahoko è colpita da un’emoragia polmonare. Arrivato a casa della ragazza, Jirō la trova convalescente e determinata a farsi ricoverare in sanatorio per rimettersi e sposarsi quanto prima. Ma la lontananza è insopportabile e Nahoko, uscita per una passeggiata, raggiunge la stazione e torna a Tokyo. I fidanzati chiedono ai coniugi Kurokawa di ospitarli e di far loro da testimoni: per

la legge giapponese un matrimonio così contratto è legale anche prima della sua registrazione ufficiale. Poco dopo il matrimonio, Kayo, ormai diventata medico, si reca in visita e fa notare al fratello la gravità della malattia di Nahoko e la necessità di riportarla in sanatorio. L’uomo è mortificato ma non può fare altrimenti: è consapevole della situazione ma ogni giorno passato insieme, seppure per poco, è prezioso per entrambi. All’alba di una bella giornata di primavera Jirō torna a casa, annuncia a Nahoko che il prototipo è finito ed esprime tutta la propria gratitudine alla moglie, certo che senza la sua presenza non avrebbe mai potuto terminare quel compito gravoso. Appena il marito esce di casa Nahoko saluta la signora Kurokawa e si allontana per una passeggiata. Dall’autobus Kayo intravvede la cognata e appena arrivata alla casa dei Kurokawa scopre che Nahoko ha lasciato tre lettere d’addio ed è tornata in sanatorio. La ragazza vorrebbe fermarla ma la signora Kurokawa glielo impedisce spiegandole che Nahoko voleva andarsene prima di essere sfigurata dalla malattia, in modo che Jirō potesse ricordarla al suo meglio. Mentre Nahoko compie il suo ultimo viaggio in treno il prototipo del caccia navale Zero decolla senza intoppi nell’entusiasmo collettivo; solo Horikoshi sembra lontano e indifferente. Piccoli aerei bianchi come modellini di carta solcano un cielo terso offuscato dal fumo degli incendi: la guerra è dilagata in Giappone e nel mondo. Jirō cammina attraverso un ammasso contorto di lamiere fino a raggiungere un prato; in cima a una collina lo aspetta Caproni. Il conte ricorda il loro precedente incontro nel regno dei sogni o forse, come osserva Jirō, nel regno della morte, visto che il frutto dei suoi dieci anni di massimo splendore creativo si sono conclusi con la distruzione. Caproni loda il perfetto design dei caccia ma Horikoshi sottolinea che nessuno di loro è tornato e, d’altra parte, non c’era più nulla a cui fare ritorno: gli aerei sono davvero sogni meravigliosi segnati da un destino maligno. Il conte annuncia che c’è una visita per Jirō e ai piedi della collina compare Nahoko: il suo messaggio è che deve sforzarsi di vivere. Una folata di vento porta via la ragazza e il suo ombrellone bianco, mentre Jirō si avvia con Caproni verso la casa del conte. Ispirato alla biografia di Jirō Horikoshi e a un racconto di Tatsuo Hori (Kaze Tachinu, 1937) incentrato su una donna che combatte la tubercolosi, Si alza il vento ha la solennità dei congedi definitivi. Il film

ha suscitato accese (ma spesso pretestuose) polemiche in patria e all’estero ed è stato caricato di significati simbolici che vanno al di là della storia narrata e chiamano in causa la passione del regista per gli aerei, il risarcimento per quell’infanzia protetta ma controversa che ha accompagnato tutta la vita artistica di Miyazaki e, ancora, la constatazione che, esaurita la propria forza creativa, bisogna essere pronti a mutare e seguire il vento appena comincia a soffiare. Da un punto di vista più concreto il film affronta un periodo e un tema particolarmente complessi per il pubblico giapponese. Come ha riassunto il fieramente anti-militarista Miyazaki: “La generazione a cui appartengo ha sentimenti contrastanti nei confronti della seconda guerra mondiale e gli Zero simboleggiano questo contrasto. Il Giappone entrò in guerra per folle arroganza, portò la distruzione nel resto dell’Asia e alla fine distrusse se stesso. Allo stesso tempo gli Zero sono stati uno dei nostri migliori risultati tecnici mai raggiunti.”83 Sebbene segnato dalla malinconia e dal rimpianto, il congedo di Miyazaki è un’ulteriore affermazione che le domande articolate sono sempre più numerose ed essenziali delle risposte univoche.

Filmografia Le serie televisive e i film sono indicati con il titolo originale e, tra parentesi, il titolo internazionale o, nel caso siano stati distribuiti in Italia, quello italiano.

Intercalatore (in-betweener) Wan Wan Chōshingura (Watchdog Woof-Woof/Watchdog Bow Wow, 1963), film. Ōkami shøonen Ken (Wolf Boy Ken, 1963), serie televisiva in 86 episodi. Gulliver no uchūryokō (Gulliver’s Space Travels, 1964), film. Shōnen ninja kaze no Fujimaru (Wind Ninja Fujimaru, 1964), serie televisiva in 65 episodi.

Key animator Hassuru Panchi (Hustle Punch, 1965), serie televisiva in 26 episodi. Rainbow sentai Robin (Rainbow Warrior Robin, 1966), serie televisiva in 48 episodi. Taiyō no Ōji Hols no daib Ōken (La grande avventura del piccolo Principe Valiant, 1968), film. Di questo lungometraggio, diretto da Takahata Isao, Miyazaki ha anche realizzato i fondali. Mahōtsukai Sally (Sally la maga, 1968), serie televisiva in 92 episodi. Miyazaki ha lavorato agli episodi 77 e 80. Nagagutsu o haita neko (Il gatto con gli stivali, 1969), film. Soratobu yūreisen (The Flying Ghost Ship, 1969), film.

Himitsu no Akkochan (Stilly e lo specchio magico, 1969), serie televisiva in 94 episodi. Miyazaki ha lavorato agli episodi 44 e 61. Dōbutsu takarajima (Gli allegri pirati dell’isola del tesoro, 1971), film. Miyazaki ha ricoperto anche il ruolo di art director. Ali Baba to yonjūppiki no tōzuku (Alì Babà e i quaranta ladroni, 1971), film. Sarutobi Ecchan (Hela Supergirl), serie televisiva in 26 episodi. Miyazaki ha lavorato all’episodio 6. Akadō Suzunosuke (1972), serie televisiva in 42 episodi. Miyazaki ha lavorato agli episodi 26 e 27. Kōya no shōnen Isamu (Sam, il ragazzo del West, 1973), serie televisiva in 42 episodi. Miyazaki ha lavorato all’episodio 15. Samurai Giants (1973), serie televisiva in 46 episodi. Miyazaki ha lavorato all’episodio 1. Flanders no inu (Il fedele Patrash), serie televisiva in 26 episodi. Miyazaki ha lavorato all’episodio 15. Araiguma Rascal (Rascal, il mio amico orsetto, 1977), serie televisiva in 52 episodi. Miyazaki ha lavorato agli episodi 4, 5, 6, 10, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 19, 20, 21, 22, 24, 26, 27, 28. Tetsujin 28 Gō (Super Robot 28, 1980), serie televisiva in 48 episodi. Miyazaki ha lavorato all’episodio 8. Space Adventure Cobra (1982), film.

Altri ruoli Panda Kopanda (Panda Child, 1972), film. Miyazaki vi ha partecipato come sceneggiatore e art director. Panda Kopanda amefuri circus no maki (Panda Child: Rainy Day Circus, 1973), film. Miyazakvi ha partecipato come sceneggiatore e art director. Alps no shōjo Heidi (Heidi, 1974), serie televisiva in 42 episodi. Miyazaki vi ha partecipato come art director e autore dei layout.

Haha o tazunete sanzenri (Marco, 1976), serie televisiva in 52 episodi. Miyazaki vi ha partecipato come art director e autore dei layout. Akage no Ann (Anna dai capelli rossi, 1979), serie televisiva in 50 episodi. Miyazaki vi ha partecipato come art director e autore dei layout per i primi 15 episodi. Yanakawa horiwari monogatari (The Story of Yanakawa Canal, 1987), film. Miyazaki vi ha partecipato come produttore. Omohide poroporo (Only Yesterday, 1991), film. Miyazaki vi ha partecipato come produttore. Heisei tanuki gassen ponpoko (Ponpoko, 1994), film. Diretto da Takahata Isao, si basa su un’idea di Miyazaki. Mimi o sumaseba (, 1995), film. Di questo lungometraggio, diretto da Kondō Yoshifumi, Miyazaki ha ideato soggetto, sceneggiatura e storyboard; ha inoltre svolto mansioni di produttore.

Regie Lupin sansei (Le avventure di Lupin III, 1971), serie televisiva in 23 episodi. Miyazaki ha diretto insieme a Takahata gli episodi 7-23. Mirai shōnen Conan (Conan, il ragazzo del futuro, 1978), serie televisiva in 26 episodi. Miyazaki ha diretto tutti gli episodi ad eccezione del 9 (Hayakawa) e del 10 (Takahata). Lupin sansei: Cagliostro no shiro (Lupin III: il castello di Cagliostro, 1979), film. Lupin sansei (Lupin, l’incorreggibile Lupin, 1980), serie televisiva in 155 episodi. Miyazaki ha diretto, oltre ad averne scritto la sceneggiatura e realizzato gli storyboard, gli episodi 15 e 145. Meitantei Holmes (Il fiuto di Sherlock Holmes, 1984), serie televisiva in 24 episodi. Kaze no tani no Nausicaä (Nausicaä della Valle del Vento, 1984), film. Tenkū no shiro Laputa (Il castello nel cielo, 1986), film.

Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro, 1988), film. Majo no takkyūbin (Kiki consegne a domicilio, 1989), film. Kurenai no buta/Porco Rosso (Porco Rosso, 1992), film. Sorairo no tane (The Blue Seed, 1992), cortometraggio. Nandarō (What is it?, 1992), cortometraggio. On Your Mark (1995), video musicale. Mononoke Hime (La principessa Mononoke, 1997), film. Sen to Chihiro no kamikakushi (La città incantata, 2001), film. Kujiratori (The Whale Hunt, 2001), cortometraggio proiettato in esclusiva al Museo Ghibli. Koro no osanpo (Koro’s Big Day Out, 2001), cortometraggio proiettato in esclusiva al Museo Ghibli. Hauru no ugoku shiro (Il Castello Errante di Howl, 2004), film. Gake no ue no Ponyo (Ponyo sulla scogliera, 2008), film. Kaze tachinu (Si alza il vento, 2013). film.

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agosto 2013, p. 36. TASSI Fabrizio, Il mondo salvato dai bambini (e dai pesci), «Cineforum», n. 484, maggio 2009, pp. 16-18. TESSIER Max, Hayao Miyazaki. L’enfant et les sortilèges, in «Positif», n. 494 (avril 2002), pp. 9-13.

Siti Internet http://www.nausicaa.net: sito non ufficiale ma ricchissimo di informazioni. Grazie ai numerosi link, il sito è un fondamentale punto di partenza per qualsiasi ricerca sullo Studio Ghibli, i suoi membri e le sue produzioni. http://www.awn.com: versione on line della rivista cartacea «Animation World Magazine». Il sito offre un ricchissimo archivio con numerose interviste a personalità del mondo dell’animazione e articoli di storia, critica e tecnica dell’animazione. http://www.ntv.co.jp/ghibli: sito ufficiale dello Studio Ghibli, ricco di informazioni (in sola lingua giapponese). http://utd500.utdallas.edu/˜hairston/nausicaa_lecture_1_p1.html: trascrizione di una lezione di introduzione al linguaggio dei manga tenuta all’interno di un corso di lettura e scrittura critica dei testi sia verbali sia iconici. Dopo un discorso introduttivo di tono generale, Marc Hairston analizza Nausicaä della Valle del Vento collegandola al resto della produzione di Miyazaki. http://www.askasia.org: sito di cultura generale riguardante vari aspetti della cultura dei paesi asiatici – religione, storia, letteratura – con numerosi rimandi a siti che trattano nel dettaglio specifici argomenti o paesi.

1. A. Baricordi (a cura di), «Spiritata» in Italia!, in «Kappa Magazine», n. 129 (marzo 2003), p. 6. 2. A. Alexeieff, Elogio del film d’animazione, citato in G. Bendazzi, Cartoons. Cento anni di cinema d’animazione, Marsilio, Venezia 1992, pp. XVIIXXIV. 3. Ivi, p. XVIII. 4. Intervista a Takahata Isao, citata in H. McCarthy, Hayao Miyazaki Master of Japanese Animation, Stone Bridge Press, Berkeley 2002, p. 79. 5. Per un’analisi approfondita della diffusione delle serie televisive giapponesi in Italia, delle polemiche da esse sollevate e degli sciocchezzai giornalistici che ne sono derivati si rimanda a M. Pellitteri, Mazinga nostalgia. Storia, valori e linguaggi della Goldrake-generation, Castelvecchi, Roma 1999, e a L. Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero dei cartoon da Disney ai giapponesi, Minimum Fax, Roma 2005. 6. L’omaggio fatto da Tezuka a Disney non può non richiamare un altro episodio simile ma di segno opposto. La casa di produzione fondata dallo stesso Tezuka ha intentato una causa internazionale per plagio agli studi Disney, il cui Re Leone, più che un omaggio a Leo, il re della giungla (Leo taitei), sembra essere la copia conforme del film di Tezuka, non accompagnata però da alcuna dichiarazione ufficiale di esplicito riferimento al disegnatore e

regista giapponese. 7. Vengono chiamati così i robot protagonisti di serie come Atlas Ufo Robot, Mazinga o Jeeg Robot d’acciaio. Futuristici nelle funzioni e nella tecnologia, mantengono sul piano iconico un forte legame con la cultura giapponese, riproducendo l’aspetto delle armature dei samurai. Spesso la loro continuità con queste figure sfugge agli spettatori e ai critici occidentali. 8. La decisione di Miyazaki di ritirarsi – imitata da Takahata Isao e da Suzuki Toshio – porterà a un radicale riassetto dello Studio. Le due trasformazioni più probabili e radicali sono la rinuncia ad assumere a tempo indeterminato tutti i dipendenti dello Studio e la rinuncia all’animazione tradizionale, non solo in fase di coloritura ma in ogni aspetto della produzione artistica. 9. Nagai Gō , nato a Wajima nel 1945, dopo aver visto i lavori di Tezuka Osamu da bambino decide di diventare mangaka. Terminato il liceo si ammala gravemente e durante la convalescenza realizza Kiro no Shishi (Black Lion). Nel 1970 fonda la Dynamic Production e nel 1972 realizza i manga di Devilman e Mazinga Z, che in seguito al grande successo diventano serie televisive. Tra i suoi maggiori successi si ricordano Il grande Mazinga (1974-75), Jeeg Robot d’acciaio (1975-76) e Atlas Ufo Robot (1975-77) 10. Matsumoto Reiji, nato a Karume nel 1938, inizia la

carriera di mangaka a quindici anni con Mitsubachi no boken (Le avventure di un’ape), a cui seguirono molteplici lavori che abbracciano generi diversi: dalla storia per ragazze Kuro hanabira (Petalo nero, 1961) all’avventura e ai libri per bambini. Il successo internazionale arriva con La corazzata Yamato (Uchū senkan Yamato, 1974), seguito tre anni dopo da Danguard (Wakuse Robot Danguard Ace). Dal 1977 dà vita a delle serie che presentano una nuova concezione della fantascienza, introspettiva, psicologica e basata sul drammatico scontro dell’individuo con la realtà che lo circonda: Capitan Harlock (Uchū kaizoki Captain Harlock) e Galaxy Express 999 (Ginga tetsudo) diventano anche serie animate televisive. 11. A tutt’oggi Heidi è non solo una delle serie tra le più replicate, ma è anche una delle poche che conservano indici di ascolto straordinariamente alti. 12. In Anna dai capelli rossi Miyazaki ha curato la scenografia e i layout dei primi quindici episodi e lo stesso ha fatto per l’intera serie di Marco. Di Lupin III, insieme a Takahata, ha diretto diciasette episodi su ventitré dal 1971 e gli episodi 145 e 155 della serie del 1980. Di Conan, il ragazzo del futuro (1978) ha infine curato la regia, lo storyboard, i layout e ha ideato i personaggi e i congegni meccanici. 13. 13. G. et M. Ciment, Entretien avec Hayao Miyazaki. Portrait d’un cochon volant, in «Positif»,

n. 412 8jun 1995), p. 82. 14. Ivi. 15. L’intercalatore (o in-betweener) è la persona incaricata di disegnare le fasi intermedie di un’azione o di un movimento utilizzando i disegni di partenza e di arrivo realizzati dall’animatore titolare. 16. Un chiaro e divertente esempio dell’alacrità e del caos di uno studio di animazione giapponese è offerto dall’episodio conclusivo della serie Golden Boy (1995) di Egawa Tatsuya. 17. L. Raffaelli, Le anime disegnate. Il pensiero dei cartoon da Disney ai giapponesi, Castelvecchi, Roma, 1998, pp. 132-133. 18. Intervista rilasciata alla rivista «YOM» nel giugno 1994, citata in H. McCarthy, Op. cit., p. 77. 19. Koganei Maru è il nome della nave di cui Koichi, il padre del protagonista di Ponyo sulla scogliera, è capitano. Anche nel lungometraggio La collina dei papaveri, sceneggiato da Miyazaki e diretto dal figlio Goro, compare una nave della Koganei Lines. Si tratta di una delle molte citazioni che Miyazaki lascia nei suoi film come fossero i sassolini che nelle fiabe aiutano a trovare la strada di casa: per esempio, in Kiki consegne a domicilio la protagonista quasi si scontra con un autobus su chi è scritto a grandi lettere «Ghibli», e ne La città incantata compare un Totoro di peluche mentre i soffitti della stanza del figlio di Yubaba richiamano

le scenografie di Heidi. 20. A. Baricordi (a cura di), «Spiritata» in Italia!, in «Kappa magazine», n. 129 (marzo 2003), p. 9. 21. Ishii, Interview with Mamoru Oshii, in «Kinejun Special Issue», n. 116 (16 July 1995), citata in H. McCarthy, op. cit., p. 48. 22. A. Baricordi (a cura di), «Spiritata» in Italia!, cit., p. 6. 23. Interview with Hayao Miyazaki, in «A-Club», n. 19 (June 1987), citata in H. McCarthy, op. cit., p. 42. 24. Dal discorso pronunciato da Miyazaki Hayao il 22 maggio 1988 al Nagoya City Imaike Hall. Il testo è riportato, tradotto in inglese, da Toyama Ryōko, sul sito www.nausicaa.net. La trascrizione è stata pubblicata per la prima volta sulla fanzine «Anipeke» edita dal Tokai Animation Circle. 25. A. Baricordi (a cura di), «Spiritata» in Italia!, cit., p. 8. 26. A questo proposito si veda A. Van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino 1981. 27. Katō S., Letteratura giapponese. Disegno storico, Marsilio, Venezia 2000, p. 4. 28. Ivi, p. 8. 29. Come ricorda Edwin O. Reischauer, l’arrivo dei primi missionari gesuiti nel 1549 venne accettato di buon grado sia perché i contenuti della loro catechesi ricordavano le sette popolari buddhiste, sia perché fu subito chiaro che i gesuiti erano sempre seguiti dai mercanti portoghesi, con tutti i

vantaggi economici del caso. Ma, nel 1592, gli spagnoli raggiunsero il Giappone portando con sé missionari francescani che non mancarono di polemizzare con i gesuiti; nel 1609 arrivarono i protestanti olandesi, a cui si aggiunsero poco dopo gli inglesi. L’intolleranza dei missionari cattolici per le altre religioni e le astuzie politiche dei protestanti finirono per alimentare il sospetto e la paura che dalla religione si passasse a minacciare la stabilità del governo. Poco prima dell’inizio del periodo detto Tokugawa o Edo (1600-1867) iniziarono le persecuzioni contro i missionari cattolici; nel 1616 gli inglesi lasciarono spontaneamente il Giappone, seguiti dagli spagnoli e dai portoghesi, i primi espulsi nel 1617 e i secondi nel 1639. 30. A. Levi, Samurai From Outer Space. Understanding Japanese Animation, Open Court, Chicago 2000, p. 35. 31. Ivi. 32. La seconda uscita in sala di Principessa Mononoke, effettuata da Lucky Red nel 2014, ha visto ripristinata, nel nuovo doppiaggio, la traduzione letterale e corretta del dialogo originale. 33. A. Baricordi (a cura di), «Spiritata» in Italia!, cit., p. 7. 34. A. Levi, op. cit., p. 120. 35. A questo proposito si veda A. Gomarasca (a cura di), La bambola e il robottone. Culture pop nel Giappone contemporaneo, Einaudi, Torino 2001.

36. Murasaki S., Storia di Genji, il principe splendente. Romanzo giapponese dell’XI secolo, Einaudi, Torino 1992. 37. Anche il personaggio di Lamù (o Lum) rimanda a un contesto di non immediata comprensione per il pubblico occidentale. Lamù infatti non è un’aliena ma una oni, un demone che nella sua forma originale si distingue per la taglia imponente, gli abbondanti capelli dai colori curiosi, le corna e gli abiti fatti con pelli di tigre. Gli oni hanno un appetito smisurato e spesso mangiano gli esseri umani. A esso è proporzionato l’appetito sessuale, e spesso rapiscono gli umani per soddisfarlo. Generalmente è un oni a rapire un’umana: scambiando i ruoli e mettendo Ataru nel ruolo di vittima, il tono parodico è accentuato. 38. Ohmu può essere inteso sia come trascrizione fonetica dell’inglese worm sia come contrazione del giapponese Omushi (re insetto o grande insetto). 39. H. McCarthy, op. cit., p. 136. 40. Bosatsu (o Bodhisattva) è colui che, pur avendo raggiunto l’illuminazione, rinuncia al Nirvana finché tutti gli esseri non saranno capaci di raggiungerlo a loro volta. Il suo ruolo è quindi alleviare le sofferenze e portare gli esseri viventi verso l’illuminazione. 41. L’uso di ornare le divinità buddhiste con questi indumenti e di costruire davanti ai loro templi dei tori è un’ulteriore prova del fatto che nella cultura

popolare giapponese le religioni – con le correnti artistiche o le scuole di pensiero – si intersecano piuttosto che escludersi a vicenda. 42. P. K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1990, p. 240. 43. Nel 1995 il duo pop Chage e Aska chiede a Miyazaki di realizzare un videoclip animato per la loro canzone On Your Mark. I due cantanti, raffigurati come due poliziotti, vanno in soccorso di una ragazza alata – un angelo o il risultato di un esperimento genetico? -, tenuta prigioniera – oppure custodita? -, prima da una setta e poi dalle autorità. Il video ha una forma volutamente ambigua che lascia allo spettatore una grande libertà interpretativa. Miyazaki ha inoltre pensato a due finali per questa storia che condensa in pochi minuti tanti fantasmi contemporanei, da Černobyl alla setta religiosa di Aum, la stessa che nel 1995 ha provocato l’attacco al Sarin nella metropolitana di Tōkyō. Nel primo finale i poliziotti vanno incontro a morte certa, mentre nel secondo escono dalla città e la liberano. 44. Katō S., op. cit., p. 90. 45. Miyazaki H., A proposito di Nausicaä, in Nausicaä della Valle del Vento, vol. I, Planet Manga, Modena 2000, p. 136. 46. H. McCarthy, op. cit., p. 102. 47. Monkey Punch è il nome d’arte di Katō Kazuhiro

(Kirittapu, 1937). Il suo primo manga risale al 1965, ma il grande successo arrivà nel 1967 con Lupin sensei (Lupin III). La fortuna delle avventure del discendente di Arsène Lupin fu tale che presto esse venenro trasposte al cinema e alal televisione. 48. Intervista rilasciata a «Manga Max», citata in H. McCarthy, op. cit., p. 171. 49. Come osserva Kayo, la sorella minore di Jirō, le possibilità concesse a un ragazzo negli anni trenta sono superiori a quelle concesse a una ragazza, per questo chiede a Jirō di intercedere presso il padre perché l’autorizzi a trasferirsi a Tokyo e studiare medicina. Anche Satomi, come ogni rispettabile ragazza di buona famiglia, non viaggia da sola ma è accompagnata prima da Kinu e poi da padre. La sua doppia fuga da e per il sanatorio è un atto che, nella sua semplicità, sottolinea il suo spirito indipendente e autonomo. 50. Obāsan vuol dire nonna. Il titolo indica rispetto per l’età e per la saggezza e le conoscenze che essa implica, qundi non viene necessariamente usato perché esiste una parentela di sangue. 51. Dal discorso pronunciato da Miyazaki Hayao il 22 maggio 1988 al Nagoya City Imaike Hall. Il testo è riportato, tradotto in inglese, da Toyama Ryōko, sul sito www.nausicaa.net. La trascrizione è stata pubblicata per la prima volta sulla fanzine «Anipeke» edita dal Tokai Animation Circle. 52. Più precisamente, ne La principessa Mononoke

Asano incita contro Eboshi i samurai di basso rango, ovvero quei guerrieri la cui sopravvivenza non dipende solo dall’attività militare ma anche dalla terra e dai suoi prodotti. Si tratta dunque di soggetti direttamente danneggiati dal clan di Tataraba. 53. In origine, Ishikawa Goemon era un ladro vissuto nella seconda metà del Cinquecento, la cui vicenda ha ispirato numerosi drammi Kabuki. Ishikawa venne condannato a essere bollito vivo insieme al figlio per aver attentato alla vita di Hideyoshi Toyotomi, il generale che contribuì all’unità del Giappone mettendo fine alle guerre civili e costituendo un unico potere sovrano capace di controllare i diversi potentati locali. La leggenda racconta che il ladro tenne il figlio fuori dall’acqua bollente fino a quando le forze glielo consentirono. 54. Il cambiamento non è stato prodotto per ragioni interne al film, ma da un motivo pratico e contingente: mentre Miyazaki era ancora indeciso tra La principessa Mononoke e La leggenda di Ashitaka, sono state vendute le opzioni sul film indicandolo con il primo titolo, ritenuto più potente ed evocativo dal punto di vista commerciale. 55. G. et M. Ciment, Entretien avec Hayao Miyazaki. Portrait d’un cochon volant, cit., p. 83. A questo proposito va ricordato che non solo i locali dello Studio Ghibli sono decorati con stormi di maialini con le ali, ma la stanza personale di Miyazaki

all’interno dell’edificio è detta butaya ovvero «ufficio del maiale». A scanso di qualsiasi errata interpretazione, Miyazaki sostiene che in giapponese «maiale» è sinonimo di uomo di mezza età che ha perso lo slancio e gli ideali della giovinezza: per questo è rassegnato e disincantato e prova un senso di impotenza verso i fatti e le ingiustizie del mondo. A questo Miyazaki aggiunge un’ulteriore spiegazione, forse prosaica ma chiara: ama disegnare i maiali. 56. Dal programma di sala dell’anteprima de La principessa Mononoke. 57. J. Grant, Masters of Animation, BT Batsford, London 2001, p. 167 e p.170. 58. Il bianco non è solo il simbolo delle infinite possibilità (spesso nei riti di iniziazione i partecipanti si dipingono o si vestono di bianco per simboleggiare il loro stato transitorio e la loro momentanea perdità d’identità) ma in Giappone è anche il colore del lutto e dunque della non esistenza. 59. Giovanni Battista Caproni, primo conte di Taliedo, nasce ad Arco, in provincia di Trento, nel 1886. Studia ingegneria civile a Monaco di Baviera e si appassiona all’emergente ingegneria aeronautica. Dopo qualche prova di costruzione che non riscuote particolare interesse, si trasferisce a Cascina Malpensa, nei pressi di Milano, e nel 1910 fa volare il suo primo aereo, seppure con risultati disastrosi: a

causa dell’imperizia del pilota all’atterraggio il velivolo è distrutto. Forse anche in seguito a quest’esperienza, Caproni fonda una Scuola di aviazione, mentre la progettazione si concentra sui biplani per passare, nel 1911, ai monoplani. Le idee innovative di Caproni non trovano un riscontro adeguato e quando la ditta rischia il fallimento interviene lo stato italiano che l’acquista lasciando il fondatore alla guida. Allo scoppio della prima guerra mondiale il governo austro-ungarico invita Caproni e rientrare in territorio austriaco e, in seguito al suo rifiuto, lo dichiara traditore. Durante il conflitto gli aerei Caproni vengono usati dall’aviazione italiana, britannica, francese e statunitense e sebbene rimanga nella storia il velivolo usato per il primo bombardamento aereo notturno, anche la progettazione di caccia è altrettanto all’avanguardia. Con la smobilitazione del primo dopoguerra Caproni idea un enorme idrovolante per il trasporto civile, pensato per riutilizzare i motori dei bombardieri. Questa attività non si rivela all’altezza delle aspettative e cessa del nel 1923 quando Mussolini istituisce la Regia Aeronautica e ricostruisce le flotte di caccia, bombardieri e ricognitori. All‘8 settembre del 1943 le officine passano sotto il controllo della Repubblica Sociale di Salò e solo il temporeggiare di Caproni impedisce il trasferimento di maestranze e attrezzature in Germania. Accusato di

collaborazionismo Caproni entra in latitanza fino al 1946, quando è prosciolto dalle accuse. Sebbene si rimetta al lavoro i tempi sono cambiati: l’aeronautica italiana acquista velivoli dagli Sati Uniti e l’attività delle officine si riduce alla mera sopravvivenza. Caproni muore a Roma nel 1957. 60. 60. “Succede una volta sola, non capiterà di nuovo”. 61. È interessante osservare che anche nel nome Kiki manifesta il perfetto bilanciamento tra l’eccezionalità della madre e l’umanità del padre: i due caratteri che compongono il suo nome sono gli stessi che si trovano al centro del nome del padre (Okino) e della madre (Kokiri). Davvero Kiki ha con sé il cuore di entrambi i genitori. 62. In realtà, anche Yupa ha enormi baffi bianchi che ne nascondono buona parte del viso. 63. Jirō Horikshi (1903-1982) nato a Fujioka, nella prefettura di Gunma, studia presso il Laboratorio di Aviazione dell’Università di Tokyo e si laurea in ingegneria nel 1927. Impiegato negli stabilimenti Mitsubishi di Nagoya come direttore dell’ufficio tecnico e capo progettista, realizza i primi caccia dell’aviazione nipponica, tra cui il più famoso è lo Zero, entrato in servizio nel 1940 e impiegato per le missioni suicide dei kamikaze. Alla fine della guerra e dopo aver lasciato la Mitsubishi, Horikoshi si dedica all’insegnamento. Nel 1963 pubblica un saggio sulla storia dello Zero e nel 1970 la propria

biografia. 64. Oshiguchi T., The Whimsy and Wonder of Hayao Miyazaki, in «Animerica 1», n. 5-6 (July-August 1993), citato in H. McCarthy, op. cit., p. 185. 65. Ivi. 66. Il tanuki è decisamente buffo, comico e burlone e in questo si distingue da kitsune (volpe), un trickster spietato e misterioso. Per la figura del tanuki nel folclore si veda anche il film Pom poko (1994) di Takahata Isao. 67. A. Baricordi (a cura di), , «Spiritata» in Italia!, cit., p. 9. 68. Ogata H., in Miyazaki H., Nausicaä della Valle del Vento, cit. 69. G. et M. Ciment, Entretien avec Hayao Miyazaki. Portrait d’un cochon volant, cit., p. 83. 70. Intervista rilasciata alla rivista «A-Club» e citata in H. McCarthy, op. cit., p. 89. 71. G. et M. Ciment, Entretien avec Hayao Miyazaki. Portrait d’un cochon volant, cit., p. 83. 72. Ivi. 73. Ivi. 74. Non bisogna dimenticare che lo storyboard e il layout sono spesso realizzati anche per film dal vivo, soprattutto se questi richiedono massicci interventi di effetti speciali, in particolare effetti in computer graphic o animazioni 2D e 3D. Se, ad esempio, un attore in carne e ossa deve combattere con un mostro che verrà generato al computer, è

necessario che mentre l’attore si muove su un fondale (il blue o green screen), sostituito in seguito dall’immagine che si vedrà nel film, si sappia esattamente dove si trovi il mostro e come debba essere inquadrato in modo che i due alla fine interagiscano in maniera credibile. 75. Miyazaki H., The Current Situation of Japanese Movie. Course on Japanese Movies 7, in «Iwanami Shoten», 28 January 1988. Il testo è riportato, tradotto in inglese da Toyama Ryōko, sul sito www.nausicaa.net. 76. Ivi. 77. Ivi. 78. Nella seconda metà dell’Ottocento si sviluppò, a partire dalla Francia, una corrente artistica che venne chiamata Japonisme e che, diffondendosi al di fuori dell’ambiente in cui ebbe origine, divenne ben presto una moda: dall’abbigliamanto al vasellame, dai rotoli dipinti alle stampe, tutto quanto arrivava dal Giappone era oggetto di studio, assimilazione ed entusiasmo. Le xilografie prodotte nell’ambito del movimento artistico ukiyoe (immagini del mondo fluttuante) lasciarono una traccia profonda, così come le opere di Hokusai e Hiroshige, in cui la vita quotidiana è ritratta in modo particolareggiato e allo stesso tempo simbolico. Tracce nella loro influenza si ritrovano nella produzione di Van Gogh, Signac, Manet, Monet, Beardsley, Touluse-Lautrec e altri. Va anche

ricordato che il termine manga ha un’origine assai più nobile del cartoon anglosassone o dei fumetti italiani: la parola significa infatti schizzo, disegno preparatorio. Le più celebri raccolte di manga sono quelle di Hokusai. 79. Dal documentario Manga Manga trasmesso da Bbc2 nel febbraio del 1994 e riportato in H. McCarthy, op. cit., p. 186. 80. F. de la Breteque, L’interculturalité dans les films de Hayao Miyazaki, in «Les Chaiers de la Cinématèque», n. 72-73 (novembre 2001), pp. 4754. 81. Esemplare da questo punto di vista è Hohokekyo tonari no Yamada-kun (I miei vicini Yamada). Il lungometraggio, diretto da Takahata Isao nel 1999 è colorato, con la sola eccezione di una sequenza, con la delicata evanescenza dell’acquerello, assai elegante ma ingestibile: mantenere l’omogeneità dei toni colorando a mano avrebbe richiesto un lavoro lungo che non avrebbe comunque garantito la qualità del risultato. La colorazione è stata fatta al computer, ma il risultato è tutt’altro che «sintetico». 82. B. Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1992, p. 18. 83. Sunaga T., Miyazaki turns to adult theme in new film, «Japan Times», 18 July 2013.