I paradossi di Zenone 8843062670, 9788843062676

Che cos'è il movimento? È possibile darne una descrizione razionale? Questi sono gli interrogativi che si poneva Ze

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I paradossi di Zenone
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FILOSOFIA E SCIENZA

t• ristampa, luglio 20U

t• edizione, febbraio 20t2

© copyright 20t2 by Carocci editore S.pA, Roma Editing e impaginazione Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel luglio 20t2

dalle Arti Grafiche Editoriali Srl, Urbino

ISBN 978-88-430-6267-6 Riproduzione vietata ai sensi di legge

(art. 111 della legge 22 aprile 194t,

n.

633)

Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, a nche per uso interno o didattico.

l lettori che desiderano

informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele

oot86 Roma TEL

11,

229

06 42 8t 84 t7

FAX 06 42 74 79 3t

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Vincenzo Fano

l paradossi di Zenone

Carocci editore

A Lucia, Pigna e Tito

Ringraziamenti

Ringrazio Liana Lomiento e i suoi studenti, poiché ho presentato una prima bozza di queste riflessioni durante il suo corso di filosofia antica. So no grato poi ai colleghi di Utrecht, Dennis Dieks, Fred Muller e gli altri, che hanno commentato con il consueto acume un seminario sull'argomento della Freccia. Inoltre, è stato fondamentale per me lo scambio con MilosArsenijevié, dell'Universitàdi Belgrado, nonché con Monica Ugaglia, con la quale condivido la passione per la fisica di Aristotele. È stato molto importante il confronto quotidia­ no con i giovani che mi hanno dato spunti e suggerimenti: Adriano Angelucci, Claudio Calasi, Pierluigi Graziani, Giovanni Macchia, Tommaso Panajoli, Massimo Sangoi e Monica Tombolato. Mi sono confrontato su questi temi con molti altri colleghi e amici, fra cui Lars Aagaard-Mogensen, Fabio Acerbi, Alexander Afriat, Mario Alai, Stefano Bordoni, Mauro Dorato, Vittorio De Palma, Miche! Ghins, Francesco Orilia, Mario Piazza, Ferruccio Franco Repellìni, Ken Saito, Nicola Semprìni, Gino Tarozzì, Isabella Tassanì, Angelo Vìstolì e tutte le altre persone che senz'altro sto dimenticando. Un ringraziamento particolare a tutti coloro che hanno avuto la pazienza dì starmi vicino in questi tre anni di lavoro. Nota Il riquadro contrassegnato dalla bussola (§) contiene un approfondimento.

Indice Introduzione 1.

7

Nel re gno di Zenone

9

1.1.

Presentazione informale dei paradossi di Zenone

1.2.

Considerazioni storiografiche

1.3.

Attualità di Zenone

2.

La Dicotomia

17

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2.1. Form ulazione del paradosso 2.2.

20

Il solvitur ombulando di Diogene il Cinico

2.3. La sol u zione di Aristotele

22

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2.4. Infinita divisibilità 28 2.5. Definizione basata sulla nozione di densità 2.6. Lo spazio è un insie me denso di punti? 2.7. La densità del tempo

2.g. Sol u zione analitica del paradosso 2.10. La misurabilità del tempo

33

40

41

44

3.

L'Achille

3.1.

46

Formulazi one del paradosso

3.2. L'interpretazione di Russell 3·3· Il superc ompito di Achille

Il Grande e il Piccolo

46 50

52

57

4.1. L'argome nto contro la plura lità 4.2. Democrito

34

35

2.8. Bergson e la spaziali zzazi one del tempo

4.

9

15

57

62 5

4·3· Riformulazione del paradosso

65 4.4. Breve storia del continuo e dell'infinito 4-5· La soluzione 86

67

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5.

La Freccia

5.1.

Formulazione del paradosso

5.2. Eliminare la determinatezza

89 92

5.3. Eliminare la premessa della regione 5.4. Che cos'è il moto?

97

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5·5· Eliminare la premessa della quiete con la teoria at-at 5.6. La nozione di occupare una regione

6

Concl u sion i

119

Bibliografia

121

114

103

Introduzione La risposta di Aristorde è penosa.

Bayle (17-fO, Zenone dì Elea, p. 476)

In quesra breve risposta [di Aristotele] c'è tutto. Hegel (1825-26, p. 144)

Si tramanda (ad es. Diogene Laerzio 9, 25-29) che Zenone avesse orga­ nizzato una congiura contro il tiranno della sua città Elea. Dopo essere

stato arrestato, fu interrogato e denunciò come suoi complici gli amici del tiranno. Disse poi che voleva confessare, per cui il tiranno avvicinò l'orecchio alla bocca di Zenone che glielo morse e tenne la presa finché non fu ucciso. Altri dicono che, per non denunciare i suoi compagni, si tagliò la lingua con i denti e la sputò in faccia al tiranno. Come nota Giorgio Colli (1964, p. 32), anche se ammiriamo il coraggio di Zenone, non è detto che, dal nostro punto di vista, la sua posizione aristocratica fosse migliore di quella del tiranno che, per quanto sia, si basava sul consenso di almeno una parte del popolo. Di cerro Zenone conosceva il valore della parola e del silenzio. Come per tutti i filosofi precedenti a Socrate, di lui abbiamo pochi frammenti, ma su di essi si sono esercitate le migliori menti della filosofia, da Aristotele a Russell. E, soprattuno, Zenone è il primo filosofo che, a nostra conoscenza, invece di asseverare le proprie tesi le argomenta, tanto che viene consi­ derato da Aristotele l'inventore della dialettica, intesa come discussio­ ne razionale. In un recente libro su di lui, pubblicato in Italia nel1998, che raccoglie le lezioni tenute da Giorgio Colli nel 1964, Zenone viene presentato come un filosofo che, andando oltre Parmenide, sarebbe approdato alla sofistica. Colli (1964, pp. 53-4), però, che in queste pagine, per fortuna, di rado si abbandona a un linguaggio sapienziale, non coglie la differenza fra certezza e veritll, così chiaramente spiegata, ad esempio, da Marconi (2007, pp. 29 ss. ). Sicuramente Aristotele e forse anche Zenone erano consapevoli che non si può mai essere del tutto cerri delle proprie affermazioni, ma questo non significa che non ci siano credenze false e credenze vere e che la discussione argomentata 7

non sia il miglior modo di fàre trìonfàre le seconde a discapito delle prime. Forse Zenone è il primo ad aver compreso che la verità non si rivela in un'inmizione sovrasensibile, ma che ogni tesi va discussa; inoltre probabilmente non è arrivato a concludere che la discussione è un agone fine a sé stesso, come si attribuisce ad alcuni pensatori sofisti posteriori. Oggi, in un momento in cui varie forme di dogmatismo, non solo religioso, ma anche filosofico e scientifico, prendono piede, il valore liberatorio dell'argomentare va ribadito con forza. E questo lo si può fàre in modo eccellente riprendendo in considerazione i suoi paradossi e la loro fortuna. L'impatto di questi ragionamenti è stato sterminato, tanto che Enzo Melandri (1968, pp. 319-20) nota: ((Si potrebbe scrivere per intero o quasi una storia della filosofia riferen­ dosi alle argomentazioni che se ne sono volute trarre [dai paradossi di Zenone,N.d.R]». In un certo senso, in questo libro, abbiamo provato a realizzare contemporaneamente tre compiti: in primo luogo , abbiamo discus­ so, anche se in modo parziale, le fonti dei ragionamenti di Zeno­ ne, ipotizzando talvolta piccole varianti interpretative. Tuttavia, in seguito, ci siamo soffermati soprattutto sull'analisi teo rica dei paradossi, che ha portato al dispiegamento delle più diverse teorie fisiche, matematiche e metafisiche. Infine, non abbiamo trascurato di raccontare, anche se in modo incompleto, la storia della fortuna degli argomenti zenonianì. N el primo capitolo presenteremo i quattro problemi che intendiamo trattare in modo informale, aggiungendo poi alcune considerazioni generali di carattere storico e teorico . Mentre nei quattro capitoli successivi discuteremo i paradossi nel seguente ordine: Dicotomia, Achille, Grande e Piccolo, Freccia. Il libro non presuppone nessuna conoscenza particolare, né di filo­ sofia o matematica, né di fisica o logica, in quanto introduce breve­ mente tutte le nozioni che utilizza; tuttavia in alcune parti richiede al lettore un po' dì pazienza, perché l'argomentazione è molto articolata. Lo sforzo verrà però ripagato con la comprensione di alcuni aspetti fondamentali e spesso trascurati dell'immagine scientifica del mondo che l'uomo è stato in grado di mettere a punto in 2. 500 anni di ricerca. 8

1.

Nel regno di Zeno n e

Presentazione informa l e dei paradossi d i Zenone In questo capitolo introduttivo, procederemo nella maniera seguen­ te: per prima cosa forniremo una presentazione info rmale e un po' narrativa dei quattro paradossi di cui vorremmo trattare. Nel prossimo paragrafo, in particolare, daremo qualche succinta infor­ mazione documentaria e storica. Infine, proveremo a mostrare in che senso ancora oggi valga la pena occuparsi di tali paradossi sul piano teorico . 1.1.

1.1.1. La Dicotom ia Carlo è in casa con la sorella Gianna e ha visto che poco prima lei era in camera che studiava i paradossi di Zenone. Dalla sua camera, dove sta giocando al computer, Carlo si reca in cucina per bere una bibita, dove trova la sorella che si sta preparando il caffè. Dato che Gianna prima era in camera sua e adesso è in cuci­ na, egli deduce prontamente che "Gianna è andata dalla sua camera in cucina". Dove il verbo "andare" indica un moto. Immaginiamo a questo punto il seguente dialogo fra Carlo e Zenone: ZENONE

Gianna, per andare da camera sua alla cucina, ha dovuto percorrere la

prima metà del tragitto, giusto? CARLO

ZENONE

Certamente. Poi ha dovuto attraversare la metà della metà successiva, cioè il quarto, che

segue. Non ti pare? CARLO

ZENONE

� owio. E prima di raggiungere la cucina ha dovuto camminare per la successiva

metà di un quarto, cioè un ottavo, del percorso. Corretto? CARLO

Senz'altro.

CARLO

Non sbagli.

ZENONE ZENONE

E questa divisione può essere reiterata all'infinito, o sbaglio?

Dunque Gianna, per andare dalla sua camera alla cucina, avrebbe dovuto

attraversare una quantità infinita di tratti di percorso; per quanto essa vada veloce, per ogni tratto ha senz'altro impiegato una quantità finita di tempo; siccome qual-

9

siasi numero, anche piccolo, moltiplicato per infinito dà infinito, dovrebbe impiegare una quantità infinita di tempo per terminare il suo tragitto. Dato che il tempo trascor­ so da quando l'hai vista l'ultima volta in camera sua è senz'altro finito, Gianna non è ancora arrivata.

Carlo resta un po' perplesso, poiché Gianna è lì davanti a lui. Anzi no, è tornata in camera a studiare un libro sul grande maestro di Elea. Zenone avrebbe potuto causare l'inquietudine di Carlo anche in un altro modo: ZENONE

Gianna, per andare da camera sua alla cucina, ha dovuto percorrere la

prima metà del trag itto, giusto? CARLO

ZEN ONE

Certamente. Prima di arrivare alla metà, è però dovuta arrivare alla metà della metà,

cioè a un quarto, del percorso. Non ti pare? CARLO

ZENONE

� ovvio.

E prima di raggiungere un quarto del percorso ha dovuto camminare per la

metà di un quarto, cioè il primo ottavo, del percorso. Corretto? CARLO

Senz'altro.

CARLO

Non sbagli.

ZENONE ZENONE

E questa divisione può essere reiterata all'infinito, o sbaglio?

Dunque Gianna, per andare dalla sua camera alla cucina, avrebbe dovuto

attraversare una quantità infinita di tratti di percorso; per quanto essa vada veloce, per ogni tratto ha senz'altro impiegato una quantità finita di tempo; siccome qual­ siasi numero, anche piccolo, moltiplicato per infinito dà infinito, dovrebbe impiegare una quantità infinita di tempo per terminare il suo tragitto. Dato che il tempo trascor-

FIGURA 1 A

B

lO



Camera

Camera







..

.

Cucina

Cucina

so da quando l'hai vista l'ultima volta in camera sua è senz'altro finito, Gianna non è ancora arrivata alla metà del percorso.

Carlo resta di nuovo un po' perplesso, anche se Gianna è ormai immersa nello studio in camera sua. Nella figura 1a vediamo la situazione descritta nel primo dialogo, mentre nella figura 1b quella del secondo. A questo punto Carlo, dopo uno dei due dialoghi, potrebbe chiedere: CARLO

ZENONE

Ma io ho visto Gianna in cucina! Infatti, a rigore di logica quello che hai visto è un'illusione. Quante altre

volte i sensi ti hanno ingannato? Come dice il mio seguace Cartesio [1641, p. 198], «ora ho appurato che talvolta i sensi ingannano e che non è prudente fidarsi interamente di coloro da cui una volta siamo stati ingannati».

Ecco, questa è una formulazione informale del paradosso della Dicotomia. 1.1.2. L'Achille

Deve essere rimasto stupito il lettore medio ameri­ cano, nelle mani del quale sia capitata una delle milioni di copie del fortunato volume di Arthur Bloch (1 977, p. 31 ) , La legge di Murphy, leggendo l'Osservazione di Zenone secondo cui "l'altra coda va più veloce"! Come Don Abbondio all'inizio dell'viii capitolo dei Promessi sposi, egli si sarà chiesto: "Zenone, chi era costui?". Gli sarebbe bastato prendere in mano la traduzione inglese (1971 ) della raccolta Lapecora nera e altrefavole (19 69 ) dello scrittore latinoame­ ricano Augusto Monterroso, che narra in poche righe come nella gara la tartaruga arrivò prima, ma modestamente dichiarò alla stam­ pa che per tutto il tempo della corsa aveva avuto paura di perdere, dato che il suo avversario era sempre alle sue calcagna, tanto che un decimillesimo di un trilionesimo di secondo dopo di lei, come una freccia e maledicendo un certo Zenone di Elea, Achille tagliò il traguardo. Quel lettore stupito, per avere una spiegazione più precisa del paradosso di Achille e della tartaruga, restando in ambito letterario, avrebbe potuto anche avvalersi di J. L. Borges, che, nella 11

(§)

Achille nel paese delle meraviglie

L'idea d i Hofstadter d i i n serire n e l s u o l i b ro i dialoghi fra Ach i l l e e la ta rtaru ga proviene senz'a ltro dal dialogo p roposto dal matematico e scrittore i n g l ese Lewis Carro li (18 95 ) -l 'autore di Alice nel paese delle meraviglie- che, su lla rivista filosofica "Min d", i m ma gina che i l Piè velo­ ce abbia raggiu nto la tartaru ga e si sia sed uto comodam ente su di essa. Quest' ultima stu pita gli ch iede com e abbia fatto a riprenderla. l l guerrie­ ro greco le risponde semp licem ente che c'è riuscito- solviturambulando ("si risolve ca m mina n do")-; a l l ora l'animale gli propone u n regresso al l'infi nito a ncora più diffici le di quello zen oniano, che possiamo traslare i n l i n guaggio modern o, senza però travisarne il senso origin a l e: i n u n sistema formale L (che sia sufficientem e nte ricco), il teorema A è deriva­ bile su lla base delle regole di inferenza R dagli assiomi S. Qu esta d eri­ vazi one, tuttavia, non è detto che sia u n teorema di L. Dobbiam o q uindi introd u rre un sistema formale L1 in cui dagli assiomi S1 e dalle regole R1 sia d erivabile il teorema "Se S e R, a l l ora A". Ma q uesta derivazione, a sua volta, non è detto sia u n a proposizion e di L1• Per c u i dovrem o consi­ dera re u n u lteriore sistema formale L2 ecc. Come osserva al riguardo il fi losofo wittgen steinian o Peter Lyn ch (19 58, p. 5 7) la morale di Carrol l è ch e «l'effettivo p rocesso d i tra rre u n ' i n ferenza, c h e è dopo tutto i l cu ore della l ogica, è q u a l cosa c h e n o n p u ò essere ra ppresentato come u n a formula l ogica)). È possi bile che Carrol l in qu esta sua nota sia stato influenzato da u n dialogo scritto dal fi losofo i nglese Shadworth Hodgson (1880)- am ico di Wi l liam jam es- sem pre su "Mind", nel quale Zen one si fa convin cere da Fi lofrono (amante d e l la p rudenza) che il su o Achi l l e è sbagl iato. Filofrono confuta - s u l i n e e m olto si m ili a q u e l l e aristote­ l iche- sia i l fatto che Ach i l l e dovrebbe avere a disposizion e un tem po infi n ito, sia che d ovrebbe com piere u n i m possi bile s u percom pito (cfr. PAR. 3.3). Hod gson, a sua volta, si ispira agli scritti del poeta romantico Sam u el Taylor Coleridge (1818, vol. 111, p p . 114-5), seco ndo cui Ach i l l e riposa «su l trucco d i ass u m e re u n m i n i m o di tem po mentre nessun mini­ mo di spazio è ammesso assieme a l l ' esi gere da ciò che è intel ligibi l e ( noumena) le condizioni pec u l iari a g l i oggetti d e i sensi (phainomena))).

12

Metempsicosi della tartaruga- un brano della raccolta Discussione del 1932 (vol. I, pp. 393-4)- cosi lo descrive da par suo: Achille corre di eci volte più velocemente della tartaruga e le concede un vantaggio di dieci metri. Achille percorre quei dieci metri, la tartaruga percorre un metro; Achil­ le percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga un millimetro; Achille Piè veloce il millimetro, la tartaruga un decimo di millimetro e così infinitamente, senza raggiungerla ...

Forse però la presentazione più concisa ed efficace resta quella di Aristotele (Fisica, 239b, 15 ss., trad. it. 1973 p. 160) : Questo [ragionamento] intende provare che il più lento, correndo, non sarà mai sorpassato dal più veloce: infatti, necessariamente, l'inseguitore dovrebbe giungere prima là donde il fuggitivo è balzato in avanti ; sicché necessariamente il più lento conserva una certa precedenza.

Ricordiamo anche che i dialoghi fra la tartaruga e Achille percorrono l'intero poliedrico libro di Hofstadter (1979), Gode/, Escher, Bach, e che il Piè veloce, quando Zenone gli racconta il paradosso omoni­ mo, risponde: «Giuro che questi ragionamenti hanno un tallone d'Achille!» (ivi, p. 34) (cfr. riquadro di approfondimento) . 1.1.3. Il Grande e il Piccolo

La professoressa di matematica disegna un segmento alla lavagna e dice: "Ecco il segmento AB, contiene un numero infinito di punti". Paolo guarda un po' perplesso quell'ag­ geggio così piccolo che dovrebbe contenere infiniti punti e chiede: "Prof, ma quanto sono grandi questi punti?". La professoressa, presa un po' alla sprovvista, risponde: " Beh, sono piccolissimi". Paolo riflette ancora un momento e, mentre la professoressa sta per ripren­ dere a spiegare, interviene nuovamente: "Però, per quanto piccoli, un numero anche piccolissimo moltiplicato per infinito dà sempre infinito; ce lo aveva detto lei l'anno scorso!". La professoressa di matematica comincia ad annaspare: " Beh, hai ragione, in un certo 13

senso, i punti, essendo indivisibili, sono lunghi zero". Cosi l'inse­ gnante è convinta di essersela cavata, ma non aveva previsto l'inter­ vento di Francesca: "Prof, ma se i punti sono lunghi zero, anche se sono infiniti, zero moltiplicato per qualsiasi numero dà comunque zero, per cui risulterebbe che il segmento AB è di lunghezza nulla" . Paolo e Francesca hanno appena riformulato il paradosso di Zenone detto "del Grande e del Piccolo" e la loro professoressa di matema­ tica si è seduta alla scrivania in preda a fone disagio. 1.1.4. La Freccia Paolo sta curiosando nel ripostiglio fra le vecchie cose

del nonno e trova un disco in plastica di media grandezza. Lo apre e dentro appare un lungo nastro largo circa un centimetro, nero, tutto arrotolato. Guardandolo controluce si rende conto che esso è una serie lunghissima di piccole immagini translucide quasi tutte uguali nelle quali un bambino seduto sul vasino frigna e si agita. Paolo dubbioso corre da suo padre Carlo a chiedere lumi sullo strano ritrovamento. Quest'ultimo intenerito si rende conto che quello è un vecchio filmato in Super 8 ripreso da suo padre quando lui aveva poco più di un anno. Prova a spiegare a Paolo che quello è di fatto un video. Per Paolo i video sono di solito dei dischi di plastica iridescenti, per cui non capisce. Allo­ ra Carlo -che stava leggendo un poliziesco appassionante-gli spiega con un po' di impazienza che con un'apposita macchina si faceva passa­ re quella pellicola davanti a una lampada, cosicché quelle immagini stampate venivano proiettate su un muro e si vedeva cosl il film che lo rappresentava intento nel suo compito fisiologico. Paolo è sempre più interdetto e domanda: "Ma cosl si proiettano sul muro una serie di fotografie, non il movimento di re che fai la popò!". Il papà si rende conto del problema e spiega a Paolo che se quelle immagini vengono proiettate sul muro alla giusta velocità il nostro occhio non è in grado di distinguerle e cosl ci appare un movimento e non una serie di foro­ grafie. Allora Francesca, che stava ascoltando in silenzio, sbotta: "Ma allora forse tutto quello che noi vediamo muoversi non è altro che una somma di immobilità, cioè noi ci muoviamo a scatti come Paolo sul vasino nella pellicola? Potrebbe essere, quindi, che noi siamo sempre fermi, come in quelle vecchie fotografie? E che la percezione continua 14

del movimento sia solo un'illusione?". Carlo non vede l'ora di tornare al suo romanzo, ma Francesca ha ragione. Poco dopo la nascita del cinema, nel 1907,

un

famoso ftlosofo francese, Henri Bergson (1907,

parte IV), dirà proprio che la descrizione del movimento proposta dalla scienza moderna ha questo carattere "cinematografico". Egli propone la sua riflessione a partire da un ampio dibattito che coinvolse la filo­ sofia francese degli anni a cavallo dd secolo sui paradossi di Zenone e

in particolare su quello della Freccia che, come vedremo, assomiglia proprio al dubbio formulato da Francesca.

1.2. Considerazioni storiografiche I paradossi di Zenone che discuteremo sono tramandati essenzialmente da Aristotele in un lungo passo della Fisica (239b, 5 - 240a, 18), dove troviamo la Frec­ cia, l'Achille, la Dicotomia e lo Stadio- quest'ultimo non lo discu­ teremo. Per quanto riguarda il quarto che tratteremo, cioè quello del Grande e del Piccolo, la fonte principale è invece il commento alla Fisica aristotelica di Simplicio (139, 5- 140) . Si tenga conto che Aristotele vive poco più di un secolo dopo Zenone, mentre Simplicio vive nel VI secolo d.C., cioè t.ooo anni dopo. Egli, però, afferma di

essere ancora in possesso di un libro di Zenone (ivi, 140, 27). Zeno­

ne, invece, è vissuto nel v secolo a. C.

Zenone, come afferma giustamente Barnes (1982, p. 186), è una sorta

di "protosofìsta", nel senso che il suo contributo teorico è costitui­ to soprattutto di argomenti sottili senza una visione d'insieme. In effetti, Proda, nel suo commento al Parmenidedi Platone (694, 25) , riferisce che i paradossi erano quaranta. Nella storia recente dei paradossi di Zenone il punto di partenza è senz'altro l'opera di Paul Tannery (1885 e 1887) , il grande storico della filosofia e della matematica, noto fra l'altro per aver curato le opere di Cartesio. Egli si basa sul lavoro filologico di Zeller (1856 e 1869), ma ha una comprensione più profonda del valore logico dei frammenti dell'Eleate. A seguito anche dell'opera di Tannery, come raccontato

da Cajori (1915, pp. 255-8) , negli anni novanta del XIX secolo si svilup­

pa in Francia un vivace dibattito, sia dal punto di vista storico che da quello teorico. Tannery è anche colui che tiene a battesimo due miti 15

sto rio grafici, che avranno grande successo: in primo luogo che i quat­ tro argomenti riportati in sequenza da Aristotele abbiano un qualche ordine logico; in secondo luogo che Zenone, con i suoi ragionamen­ ti, voglia difendere la dottrina del suo maestro Parmenide contro l'atomismo matematico dei pitagorici. Su queste tesi lo storico della Hlosofia antica Barnes (1982, pp. 182-6) esprime giustamente un certo scetticismo. Benché non sia chiaro chi siano i critici di Parmenide, sembra però ragionevole, come raccontato da Platone (Parmenide, 128), che l'intento di Zenone sia stato quello di difendere le dottrine del maestro e in particolare l'assenza di molteplicità. Come afferma Simplicio (Phys., 139, 5) «colui che sostiene l'esistenza della molte­ plicità viene ad ammettere tesi contraddittorie» (Diels, Kranz, 1952, trad. it. p. 302). In questo senso Zenone è il primo a praticare in sede Hlosofìca la valutazione dei costi e dei benefici di una tesi; egli, infatti, se ha ragione Platone, difende il maestro, mostrando che chi sostiene la pluralità e il movimento va incontro a paradossi ancora più grandi di quelli che derivano dalla dottrina parmenidea dell'Uno. Il dibattito francese è stato punto di partenza di una svolta fonda­ mentale nell'ambito degli studi sui paradossi di Zenone, in quanto ha stimolato le geniali riflessioni del giovane e coltissimo Bertrand Russell (1901a, p. 327), il quale nei suoi Principi di matematica sentenzia cosi: In questo mondo capriccioso, nulla è più capriccioso della fama presso i poster i. Una delle più notevoli vittime della mancanza di senno è Zenone di Elea. Malgrado abbia inventato quattro argomentazioni tutte smisuratamente sottili e profonde, la stupi­ dità dei filosofi a lui successivi proclamò che Zenone non era altro che un ingegnoso giocoliere e le sue argomentazioni erano tutte sofismi. Dopo 2.000 anni di continua confutazione, questi sofismi sono stati nuovamente enunciati e formarono la base di una rinascita della matematica, a opera di un professore tedesco, il quale probabil­ mente non sognò che esistesse qualche legame fra lui e Zenone.

Il professore sopraccitato è il grande matematico W eierstrass e le analisi di Russell sono il punto di partenza di qualsiasi recente rifles­ sione sui paradossi di Zenone. N ella prima metà del Novecento sono stati compiuti numerosi studi 16

storìografici importanti sugli argomenti di Zenone, dei quali dare­ mo in parte conto nei prossimi capitoli. Però l'altra pietra miliare, da una prospettiva filosofica, nel dibattito sui paradossi sono senz'altro gli studi del filosofO della scienza Adolf Griinbaum, che culminano nel suo libro del 1968. Nei quarant'anni successivi non è successo molto dal punto di vista teorico, anche se la letteratura è tutt'altro che scarna. Molti punti sia tecnici che storici sono stati precisati, ma il quadro non si è più modificato radicalmente. Lo studio più recente e accurato è senz'al­ tro quello di Faris (1996) e dal punto di vista analitico la voce della Stanford Encyclopedia ofPhilosophy di Huggett (2009). Infine, l' ope­ ra che discute meglio il rapporto fra la fisica antica e quella contem­ poranea è senz'altro quella di White (1992), che finora non ha rice­ vuto tutta l'attenzione che meriterebbe. 1.3. Attualità di Zenone Uno dei pilastri della fisica contem­

poranea è senza dubbio il principio di indeterminazione di Heisen­ berg. che afferma l'impossibilità di una contemporanea misurazio­ ne della posizione e della velocità delle particelle. Questa scoperta ha suscitato in uno dei principali artefici della teoria, cioè Louis de Broglie (1947, p. 134), una riflessione per noi significativa. In un certo senso, la struttura teorica della meccanica quantistica sancisce l'incompatibilità fra una puntuale descrizione spazio-temporale di ciò che accade a livello microfisico -le variabili spazio e tempo, cioè la traiettoria- e una comprensione dinamica ed evolutiva dei feno­ meni -le variabili velocità ed energia. E questo, secondo Broglie, è esattamente ciò che affermava Zenone con i suoi paradossi sul moto: la freccia, ad esempio, non può essere in moto e allo stesso tempo occupare una precisa posizione nello spazio. In un recente articolo, il fisico russo Zurab Silagadze (2005) sviluppa un ampio discorso sul rapporto fra le teorie più recenti della fisica contemporanea e i paradossi di Zenone. In particolare si sofferma sull'effetto Zenone quantistico (cfr. riquadro di approfondimento a p. 117), sui supercompiti (cfr. PAR. 3.3), sui paradossi dell'infinito (cfr. PAR. 4.4) e anche sui problemi di localizzazione dei microgget17

ti dovuti all'indeterminazione quantistica. Alla fine del saggio egli afferma (ivi, p. 2920 ): la conclusione principale di questo articolo è che la fisica è bella. Questioni sorte 2.500 anni or sono ed esaminate diverse volte non si sono ancora esaurite. l paradossi

di Zenone trattano di aspetti fondamentali della realtà, come localizzazione. moto, spazio e tempo. Nuove e inaspettate sfaccettature d i queste nozioni si rivelano di volta in volta e ogni secolo trova meritevole ritornare a Zenone sempre di nuovo. li processo di awicinamento alla soluzione definitiva d ei paradossi di Zenone sembra senza fine e la nostra comprensione del mondo circostante è ancora incompleta e frammentaria.

È difficile non sottoscrivere pienamente queste splendide parole. In un articolo, molto informato, la filosofa canadese Trish Glazebrook

(2001) rilegge i paradossi di Zenone come una critica ai pitagorici, ma

non alloro presunto atomismo matematico - come

Tannery- bensl

alla tesi secondo cui la realtà sarebbe numero. Probabilmente questa interpretazione è insostenibile, poiché non ci sono evidenze testuali in tal senso; tuttavia, resta il fatto che, dopo la matematizzazione della fisi­ ca nel Seicento, a opera di Galilei, Keplero, Huygens e Newton, critica­ ta con acume a quel tempo da Berkeley e rimessa in discussione alla fine

dell'Ottocento da Mach, Bergson e Husserl, forse parte dell'attualità

degli argomenti di Zenone è proprio questa. Aristotele, nella sua Fisica, pur essendo un ottimo matematico, tende a usare il meno possibile la matematica e per buoni motivi: l'essenza della natura è il movimento e gli enti matematici sono immobili, per cui non si comprende come essi possano descriverla (Fisica, n, 2). La rivoluzione scientifica è riuscita in

qualche modo a superare questa difficoltà. Tuttavia la fisica del Nove­

cento è stata caratterizzata da una profonda revisione della sua struttu­ ra logica, a causa dell'avvento delle teorie quantistiche e relativistiche.

In questo contesto si è riproposto anche il problema dell'irragionevole efficacia della matematica nella spiegazione fisica del mondo, come affermava il grande fisico Eugene Wigner (1960). La lettura di Glaze­ brook, pur essendo storicamente discutibile, è teoricamente ragione­ vole e insiste proprio sulla rilevanza dei paradossi nella riproposizione

di questo problema (Glazebrook, 2001, pp. 194-5): 18

Intendo usare i paradossi di Zenone sul moto per sostenere che l'applicazione dei concetti matematici al mondo fisico porta paradossi. [ ]Questo saggio pone l'atten­ ...

zione sulla possibilità di leggere i paradossi per sostenere che la matematizzazione della realtà fisica non è un'assunzione innocente. [...] Suggerisco che il punto di Zeno­ ne potrebbe essere stato che la descrizione matematica del moto è problematica.

Questo non significa però che abbracciamo la tesi della filosofa italia­ na, docente nel Regno Unito, Alba Papa-Grimaldi (1996), secondo la quale le soluzioni matematiche dei paradossi non colgono il punto posto da Zenone- né mai lo coglieranno. In questa prospettiva, gli avanzamenti matematici non avrebbero alcuna rilevanza metafisica e troverebbero il loro uso appropriato solo nel "rendere più veloci i jet" (ivi, p. 300). Per cui tali considerazioni matematiche "nemmeno scalfiscono la superficie" del problema metafisica di Zenone, cioè la possibilità di concettualizzare il passaggio dall'uno ai molti (ivi, p. 305). Benché le diverse possibili formalizzazioni vadano sempre urilizzate con spirito critico, esse di fatto consentono una formulazione rigoro­ sa dei problemi e un'analisi delle possibili soluzioni che difficilmen­ te si possono raggiungere con il linguaggio ordinario della filosofia. Perciò prendiamo le distanze da queste forme di misticismo, che oggi punroppo sono alquanto comuni. Concludiamo riponando le parole del grande storico della filosofia ellenistica Richard Sorabji (1983, p. 321), che tanto ha fatto per riva­ lurare un'immensa mole di materiale teorico spesso trascurata, cioè quella dei commentatori tardoantichi di Aristotele: Spesso possiamo vedere che la conclusione scandalosa di Zenone non segue, ma nel cercare di scoprire esattamente dove egli ha sbagliato, impariamo le cose più sorprendenti sullo spazio e il tempo- cose che non avremmo appreso se avessimo tralasciato i paradossi considerandoli come cosa già sbrigata.

In pratica ancora oggi, dopo 2. 500 anni, vale la pena studiare i para­ dossi di Zenone non tanto perché di per sé stessi sono argomentazio­ ni convincenti, quanto perché aiurano a riflettere su spazio, tempo, continuo, discreto, materia e movimento. 19

2. La Dicotomia In questo capitolo entreremo nel corpo vivente dell'argomentare zenoniano. Sarà un percorso impegnativo, perché affronteremo alcu­ ni temi, come la divisibilità del continuo, la natura dello spazio, del tempo e del movimento, che poi, nei prossimi capitoli, daremo in parre per acquisiti. Prenderemo le mosse da una formulazione il più precisa possibile del paradosso trasmesso da Aristotele, che non tradi­ sca troppo lo spirito del testo tramandato. Dopo di che esamineremo la risposta dello Stagirita, mostrando come egli fosse consapevole dei due corni del problema, cioè quello dell'infinità temporale secondo la grandezza e secondo la quantità: ovvero l'apparente necessità che un moto duri un tempo infinito e che le sue tappe siano infinite. Analiz­ zeremo poi la natura continua dello spazio e del tempo e la nozione di punto spaziale e temporale, mostrando anche che la nozione antica di "infinita divisibilità" non è facilmente formalizzabile. In conclusione presenteremo la soluzione standard del paradosso, dopo una digres­ sione sul concetto di spazializzazione del tempo proposto da Bergson.

2.1. Form u lazione del paradosso Nel paragrafo 1.1. 1 abbiamo visto una presentazione informale del paradosso della Dicotomia; in pratica esso nasce dal fatto che un corpo non riuscirà mai a percorrere un tragitto, perché prima dovrà raggiungere il suo punto medio, poi il p unto di mezzo di quello che resta e cosi via all'infinito. Adesso, però, dobbiamo indagare questo argomento con maggiore dettaglìo e precisione. A tal fine proviamo a presentarlo per punti. 1. Supponiamo che un corpo C si muova da a a b, due differen­ ti luoghi spaziali, con velocità costante. Supponiamo inoltre, per semplicità, che la distanza fra d e b sia uguale a 1 m e il viaggio duri 1 s. Se ipotizziamo che la velocità di C sia costante, essa sarà di 1 m /s. Per intenderei questa è più o meno la velocità di una p ersona che passeggia tranquillamente, come ad esempio Gianna nella sua casa. Dobbiamo ora chiederci quanto tempo impieghi C ad attraversa­ re metà del percorso, cioè 0,5 m. Ricordiamoci che il tempo di un 20

tragitto è uguale alla distanza da percorrere divisa per la velocità del moto. Ad esempio, Firenze dista da Roma 300 km; se un'auto viaggia

mediamente a 100 km/h impiegherà: tempo

spazio

300km 100 km/h

velocità

3h

Questo significa che C per percorrere metà tragitto impiegherà:

tempo

=

spazio

velocità

=

O, 5 l

m

mis

=

O, 5

s=.! s 2

Analogamente, per percorrere un quarto della distanza, cioè 0,25 m: spazio 0,25 m tempo= --- = -- =0,25 velocità l rnls

l

s=- s 4

In generale, secondo la cinematica classica, C impiega esattamente

t/M unità di tempo per percorrere un qualsiasi tratto di lunghezza t/M contenuto in ab. 2.

Supponiamo poi che lo spazio compreso fra

a e b sia infinita­

mente divisibile. Più avanti (PAR. 2.4) vedremo che la nozione di "infinitamente divisibile" non è predsabile, per quanto ne sappia­ mo; ma per ora manteniamola ancora per parziale fedeltà storica. Resta comunque un'ulteriore ambiguità nell'infinita divisibilità che compare in questa ipotesi: vedremo (PAR. 4.4.2), infatti, che in base alla moderna definizione di infinito, contro la nostra intuizione, esistono diverse forme di infinito; in particolare una meno nume­ rosa, che è quella dei numeri naturali 1, 2, 3 .

. .

e una più numerosa,

che è quella dei numeri reali, cioè di tutti i numeri, compresi quelli con infiniti decimali che si succedono senza una regola, come ad esempio 7r (p i greco), il rapporto fra la circonferenza e il diametro di

un cerchio, che è uguale a 3,141592 .

.

. L'infinito "più piccolo" viene

anche chiamato "numerabile" e quello più grande "non numerabi­ le". In questo contesto ci riferiamo all'infinito numerabile, anche

21

se, per la moderna teoria dell'infinito, i punti di un segmento sono un'infinità non numerabile; ma adesso questo non ci interessa. 3· Allora possiamo dire che C. per andare da a ab, deve percorrere una serie infinita di intervalli di spazio adiacenti, il primo dei quali è lungo th m, il secondo 1/4- il terw t/8 ecc., che possiamo cosi indicare: l

l

l

2' 4' &····r-····

(t)

La successione è simile a quella della figura la. Prendiamo, infatti, in considerazione solo il caso in cui Gianna si avvicina sempre di più alla meta, ma non arriva mai, tanto l'altro, cioè quello in cui non riesce neanche a partire, è simmetrico. 4· D ato che C si muove a velocità finita, cioè 1 m/s, per attraversare ognuno degli intervalli della successione (t) impiegherà una quantità finita di tempo. 5· Una somma infinita di numeri finiti non può che dare infinito, per cui C adopererà una quantità infinita di tempo per andare da a a b. Dunque C non arriverà mai a destinazione. Vediamo cosi che i dubbi instillati da Zenone a Carlo hanno un certo fondamento logico. A una mente matematicamente educata apparirà subito qual è la fallacia nel ragionamento di Zenone, cioè l'enunciato del punto 5: "Una somma infinita di numeri finiti non può che dare infinito". Infatti, noi possediamo la matematica per affermare che la somma infinita dei membri della successione (t) dà 1 e non infinito (cfr. riquadro di approfondimento a p. 61). Detto questo, in un certo senso, si potrebbe affermare che la questio­ ne sia risolta. In realtà un esame storico-filosofico dell'argomento appena presentato aiuterà a comprendere molti aspetti non banali sullo spazio, il tempo, la loro quantificazione e l'infinito.

2.2. Il solvitur ambulando d i Diogene i l Cin ico Prima di affrontare la soluzione aristotelica del paradosso, vale la pena segui­ re un aneddoto, che in realtà riguarda tutti i paradossi di Zenone, contro la possibilità del movimento . Diogene Laerzio (111 secolo 22

d.C. ) è noto sopranutto per averci trasmesso un ampio tranato sulle biografie dei filosofi greci. Nel VI libro di tale volume si raccontano le vite dei cosiddeni " cinici", e in panicolare di Diogene di Sinope -quello che viveva in una botte, per intenderei. Secondo Diogene Laerzio, Diogene di Sinope, quando qualcuno provò a dimostrargli che il moto non esiste, si alzò in piedi e se ne andò. È probabile che la prova propostagli si basasse sugli argomenti di Zenone. E la risposta divenne proverbiale come solvitur ambulando (si risolve camminan­ do) , come a dire che bisogna basarsi sull'esperienza e sulla pratica per risolvere questo problema. Il senso performativo del gesto di Dioge­ ne di Sinope non è però risolutivo, poiché è vero che il movimento è empiricamente evidente, ma l'esperienza potrebbe comunque esse­ re ingannevole, soprattutto se la logica ci mostra che il movimento è impossibile. Si può anche dire cosl: molti sono d'accordo che il movimento è evidente e che coloro che lo ritengono un' illusione so no sulla strada sbagliata; ciò malgrado dobbiamo dimostrare in che senso i loro argomenti sono fallaci, cioè ci resta il compito di sostenere argomentativamente l'opinione più comune.

2.3. La soluzione di Aristotele I passi significativi per compren­ dere la discussione aristotelica della Dicotomia sono sostanzialmente tre e li riponiamo per intero qui di seguito. a) Il primo [argomento] intende provare l'inesistenza del movimento per il fatto che l'oggetto spostato deve giungere alla metà prima che al termine finale: ma questo ragionamento noi l'abbiamo demolito nei discorsi precedenti (Fisica, 239b, 11-14, trad. it. 1973 p. 160). b)

Perciò è falsa l'assunzione fatta nell'argomento di Zenone, che in un tempo finito

è impossibile attraversare infinite cose o toccare una ciascuna infinite cose. Difatti, tanto la lunghezza quanto il tempo, e, in generale, ogni cosa continua si dicono infiniti in due sensi, cioè o relativamente alla divisione o per gli estremi. lnvero, in un tempo finito non è possibile toccare cose infinite relativamente alla quantità, ma è possibile toccare cose infinite relativamente alla divisione, giacché in questo senso anche il tempo stesso è infinito. Sicché risulta che è nel tempo infinito, non nel tempo finito, 23

che si attraversa l'infinito, e che è con gli infiniti [momenti], non con i finiti, che si

toccano infinite cose (Fisica, 233 a, 21-30, traduzione di F. Repellini).

c) Allo stesso modo si deve replicare a chi, riprendendo l'argomento di Zeno­ ne, domanda se ammettiamo che la metà debba essere attraversata ogni volta, e che queste metà sono infinite, e che quindi è impossibile aver attraversato infinite cose; oppure ad alcuni che domandano in modo diverso, assumendo che insieme al percorrere la metà si ha il contare una ciascuna ogni metà che anteriormente si genera, sicché, una volta attraversata l'intera linea, risulta che si è contato un nume­ ro infinito; e su questo, c'è accordo che è impossibile.lnvero, nelle prime discussioni sul movimento abbiamo dato una soluzione dell'aporia, basandoci sul fatto che il tempo ha in sé stesso infinite [parti]; infatti, non c'è nulla di assurdo nell'assumere che in un tempo infinito si attraversino infinite [parti]: l'infinito inerisce allo stesso modo alla lunghezza e al tempo. Ma questa soluzione è sì sufficiente per rispondere a chi fa quelle domande (giacché la questione era se è possibile attraversare o conta­

re in un tempo finito infinite [parti]), però non è sufficiente riguardo alla cosa e alla verità. Infatti, se uno lascia da parte la lunghezza e la questione se è possibile attra­ versare in un tempo finito infinite [parti], e studia queste questioni riguardo al tempo stesso (giacché il tempo contiene infinite divisioni), allora questa soluzione non sarà più sufficiente; si deve invece asserire il vero, quello che abbiamo enunciato subito sopra. Se si divide la linea continua in due metà, ci si serve di un solo punto come di due; infatti, ne facciamo un inizio e una fine; così fa sia chi conta sia chi divide in metà. Se si divide così, non saranno continui né la linea né il movimento. Infatti, il movimento continuo è di un continuo, e in ciò che è continuo sono sì presenti infinite metà, però non in atto, bensì in potenza. Se si pongono metà in atto, non si produrrà un movimento continuo, bensì si produrrà arresto: proprio questo è chiaro che risul­ ta nel caso di chi conti le metà, giacché gli è necessario contare un solo punto come due; infatti, esso sarà la fine di una metà e l'inizio dell'altra, qualora non si conti la linea continua come una, ma come due metà. Sicché a chi domanda se è possibile attraversare infinite (parti) o nel tempo o nella lunghezza, si deve rispondere che in un senso è possibile, in un senso no. Se sono infinite in atto, non è possibile, se sono in potenza, è possibile. Infatti, chi si muove in modo continuo ha attraversato per accidente infinite (parti), ma in senso assoluto no: è accidentale per la linea essere infinite metà, ma è altro la sostanza e l'essere della linea (Fisica, 263a4-b9; traduzio­ ne di F. Repellini).

24

Il frammento a presenta brevemente il paradosso e presumibilmente rimanda al passo b. Quest'ultimo è inserito in quella pane della Fisi­ ca in cui si discute il continuo. In panicolare Aristotele ha appena dimostrato che se la grandezza (lo spazio) è infinitamente divisibile lo è anche il tempo ( cfr. PAR. 2.7). Dopo di che egli osserva che: «Nella metà di un dato tempo si percorre la metà di una data gran­ dezza e, insomma, in un tempo minore una grandezza minore: iden­ tiche, infatti, saranno le divisioni del tempo e quelle della grandezza» (Fisica, 233a, 14-17, trad. it. 1973 p. 142). Subito dopo Aristotele attacca con l'argomento di Zenone. Per cui possiamo con ogni probabilità parafrasare cosi il ragionamento dello Stagirita: abbiamo appena mostrato che non solo lo spazio (grandez­ za; Met., 1 02oa, 9 ss. ), ma anche il tempo è infinitamente divisibile. Inoltre, le divisioni del tempo possono essere in corrispondenza con quelle dello spazio. La divisione dello spazio che compare nel para­ dosso non è secondo le estremità (cioè non stiamo parlando di uno spazio infinito), ma secondo la divisione, ovvero è uno spazio finito infinitamente divisibile. Anche il tempo lo è. Quindi, non abbiamo una corrispondenza fra uno spazio infinito e un tempo finito, ma fra spazio e tempo infiniti nel senso della divisione. Questa è una prima ragionevole soluzione aristotelica del paradosso, che riformuleremo con maggiore precisione nel paragrafo 2.9. Il frammento c viene subito dopo che Aristotele ha discusso se un punto del moto di un corpo sia in atto o in potenza; e conclude che se è un punto in cui il corpo arriva e ripane- come ad esempio l' estre­ mo di un moto pendolare- allora è in atto, altrimenti un punto in mezzo a un moto è solo in potenza. Nell'argomentazione che segue sulla Dicotomia utilizzerà questa conclusione. Dopo di che Aristote­ le presenta nuovamente il paradosso; poi ricorda brevemente la sua soluzione e con ogni probabilità fa riferimento a quanto detto nel passo b. A questo punto egli nota un ulteriore aspetto dell'argomen­ to di Zenone, che non è riconducibile al fatto che per percorrere un insieme infinito di spazi finiti occorrerebbe un tempo infinito, ma che in generale non sia possibile compiere un insieme infinito di atti, per il semplice fatto che l'infinito non ha un ultimo termine (Faris, 25

1996, pp. 14-7; White, 1992, pp. 168 ss.). In altre parole non sarebbe possibile che il corpo C andasse da a a h, perché dovrebbe compiere un'infinità di attraversamenti e un' infinità non ha un termine finale,

per cui non può arrivare in b. Questo varrebbe indipendentemente dalla lunghezza degli intervalli. In altre parole, qui Aristotele si sta ponendo con ogni probabilità il problema che i moderni teorici dei supercompiti (ossia realizzare un numero infinito di atti in un tempo finito) sollevano rispetto alle soluzioni standard del paradosso della Dicotomia, cioè a quelle basa­ te sul fatto che la successione sn 1 - lhn per n che tende all'infinito =

tende a 1 (cfr. riquadro di approfondimento a p. 42). Per comprendere l' importanza della successione Sn per la Dico­ tomia, riconsideriamo la successione infinita (1 ) : 1!2, 1/4, 1/8 . . . Il termine generico di questa successione è 1!2n. Mano a mano che n

tende all'infinito esso misura quanto manca al corpo C per arrivare a destinazione. Sappiamo che il tragitto complessivo di C è lungo 1, quindi la successione sn l lhn rappresenta lo spazio percorso dal corpo C. Si può facilmente mostrare che tale successione, se n tende all'infinito, tende a 1, visto che 1hn tende a o. Dunque una somma infinita di intervalli non è detto che sia uguale all'infinito e il corpo può arrivare a destinazione. =

-

In termini moderni il problema dei supercompiti è duplice: in primo luogo non si comprende come si possa realizzare un numero infini­ to di moti in un tempo finito, indipendentemente dal fatto che la loro somma abbia lunghezza finita; in secondo luogo, il fatto che la successione S tenda a 1 per n che tende all'infinito riguarda i termini n della successione e non il punto d'arrivo; 1, infatti, non è un membro di tale successione. Quindi, avendo dimostrato che Sn tende a 1 non abbiamo ancora provato che il corpo C arrivi a destinazione. Quando, nel frammento c Aristotele afferma: Infatti, se uno lascia da parte la lunghezza e la questione se è possibile attraversare in un tempo finito infinite [parti], e studia queste questioni riguardo al tempo stesso (giacc hé il tempo contiene infinite divisioni), allora q uesta soluzione non sarà più sufficiente.

26

È probabile che si ponga proprio il primo dei due nuovi problemi.

Qui la questione non è più quella della finitezza del tempo e della lunghezza degli intervalli, ma quella di esaurire un compito infinito. La risposta di Aristotele a questo problema, è, come quasi sempre, straordinaria e verrà riscoperta da Griimbaum (1968, pp. 78 ss.) più di 2.000 anni dopo. La possiamo parafrasare come segue; il tratto di spazio ab, che il corpo C deve percorrere, può essere inteso in due sensi: o come continuo, cioè, secondo la definizione (Fisica, 22 7a, 10 ss. ) in modo che non ci siano limiti interni, oppure spezzettato in infiniti intervalli. Nel primo caso gli infiniti intervalli sono solo in potenza, nel secondo sono, invece, in atto. Non ci sono problemi a percorrere infiniti intervalli in potenza, mentre è ovvio che è impos­ sibile attraversare infiniti intervalli in atto. Infatti, se gli infiniti inter­ valli sono in potenza di fatto il corpo C li percorre solo accidental­ mente, mentre se sono in atto, allora sorge il problema. Una delle caratteristiche della scienza moderna è quella di aver rinunciato alla distinzione fra potenza e atto. Non tanto perché nella nostra antologia non possiamo ammettere enti possibili oltre a quelli reali - cosa che molti ftlosofi fanno - quanto perché un ente possibile è quasi sempre individuato in modo impreciso. Ad esempio, si noti la differenza fra queste due semplici definizioni: '' L'insieme dei vestiti che si trova nel mio armadio"; " L'insieme dei vestiti che potrebbe trovarsi nel mio armadio ". Il primo insieme è perfettamente deter­ minato, mentre il secondo non è definito con esattezza. Dunque, anche se la risposta aristotelica all'ulteriore problema che abbiamo posto è ragionevole, essa non è del tutto adeguata rispetto ai nostri standard di rigore. La distinzione fra divisione infinita in atto e in potenza è stata in un certo senso resa con precisione da Grii nbaum mediante la contrap­ p osizione fra staccato-run e legato-run. Il primo funziona così: il corpo C per andare da a a b, che distano 1 m l'uno dall'altro, impie­ ga, come sappiamo, 1 s; proviamo a immaginare che il moto di C sia così strutturato: nel primo quarto di secondo percorre mezzo metro, poi sta fermo un quarto di secondo; nell'ottavo di secondo successivo percorre un quarto di metro e poi sta fermo un ottavo di secondo e 27

cosi via. È chiaro che in questo caso C percorre un numero infinito di intervalli di spazio staccati l'uno dall'altro, cioè - direbbe Aristo­ tele - in entelechia (in atto) . Il legato-run, invece, è il percorso senza interruzioni. Per esso il problema non si pone neanche, perché di fatto si tratta di un unico moto. Cioè la questione di esaurire un numero infinito di compiti non sussiste. Anche cosi si potrebbe ancora obbiettare: benché non dividiamo effet­ tivamente la distanza ab, resta il fàtto che qualsiasi affermazione riguar­ dante la successione degli S11 non è detto che valga per il punto b, che non appartiene a essa. Come giustamente nota Laraudogoitia (2009, par. 3.2), per risolvere definitivamente questo problema, occorre invo­ care una sona di "principio di continuità": ovvero se lo spazio è conti­ nuo, allora non sussiste nulla fra la serie infinita degli intervalli compresi in ab e il punto d'arrivo b. Per cui il corpo C non può che arrivare in b. Questo non solo vale per la fisica contemporanea, ma era vero anche per Aristotele (cfr. White, 1992, p. 147). In definitiva Aristotele nel frammento b affronta con i suoi limitati mezzi il problema di attraversare un insieme infinito di spazi finiti in un tempo finito e nella seconda parte del frammento c mostra come sia possibile esaurire un presunto insieme infinito di compiti. È giunto il momento di indagare con maggiore precisione la nozio­ ne di " infinita divisibilità", che lo Stagirita poteva usare in accordo con la sua distinzione fra potenza e atto - si tratta, infatti, di infinita divisibilità e non di infinita divisione - mentre noi dobbiamo ragio­ nare in modo diverso.

2.4. I nfinita divisi b i l ità Nel passo 2 ( PAR. 2.1) della nostra formulazione del paradosso della Dicotomia abbiamo assunto che lo spazio fosse " infinitamente divisibile" . Questa nozione circola ampiamente nella Fisica di Aristotele, ma dal nostro punto di vista non è sufficientemente precisa. O meglio, come vedremo nel para­ grafo 4. 4, da Cantar in poi si interpreta l'infinita divisibilità di un segmento di spazio come l'affermazione che esso è costituito da un insieme infinito e non numerabile di punti. Ma questo comporta una rivoluzione completa rispetto alla concezione aristotelica e non 28

solo, secondo la quale l'infinito può esistere solo in potenza, poiché qui si parla di infinito in atto. Per cui, se vogliamo restare nello spiri­ to dell' antico dibattito, dovremo p rovare a definire con rigore la nozione aristotelica intuitivamente ragionevole di infinita divisibili­ tà senza avvalerci del moderno concetto di punto matematico. La locuzione " infinitamente divisibile" che dobbiamo esplicare riguarda la fisica e non la matematica, perché nell'argomento della Dicotomia è un tratto di spazio che dovrebbe essere infinitamente divisibile. Inoltre, non ci stiamo chiedendo se lo spazio sia o meno infinitamente divisibile, ma quale sia il senso di questa espressione. Poniamoci innanzitutto il problema di come si possa procedere all'in­ finito nella divisione. Anche se oggi i fisici teorici spesso prescindono completamente dalla struttura della percezione, sarebbe ragionevole supporre che quando introduciamo dei concetti della fisica ci atte­ nessimo almeno a un principio di percepibilità naturalisticamente inteso. Ovvero nelle nostre teorie fisiche possiamo ammettere solo quelle entità teoriche (non osservabili) per le quali siamo in grado di spiegare perché non le percepiamo o le percepiamo con una struttu­ ra

decisamente diversa da come la teoria le delinea. Possiamo allo­

ra procedere nel modo seguente: diciamo che un tratto di spazio è

infinitamente divisibile se,

presa una pane di esso piccola quanto si

vuole, essa è divisibile. Potrebbe sorgere qualche dubbio sull' espres­ sione " piccola quanto si vuole " , po iché sotto un certo limite di piccolezza non abbiamo nessuna possibilità fisica di controllare la divisibilità, comunque venga definita. Forse la tecnologia attuale ci consentirebbe di arrivare fino all' angstrom, ma quale sia il limite non ha imponanza perché è comunque finito.

È quindi chiaro che

l' espressione "piccola quanto si vuole" ci pona nell' ambito dell'inos­ servabile. D' altra parte possiamo concepire una tecnologia sempre più avanzata, che ci consentirà

di arrivare a livelli sempre più bassi,

per cui anche se una pane p iccola quanto si vuole non è osservabile, in linea di principio si potrebbe scendere nel piccolo sempre di più, per cui essa non è completamente avulsa dall' ambito della nostra percepibilità ( in linea del resto con quanto avrebbe pensato Aristote­ le, che era fonemente empirista) .

29

Dobbiamo affrontare adesso la seconda parte della nostra espres­ sione, cioè " divisibile" . Che cosa siano dei tratti di spazio " divisi" fra loro tutti lo sappiamo. Ad esempio nella seguente figura i tratti spaziali A e B sono divisi da una discontinuità percettiva. A

B

Il problema sta nello stabilire che cosa significhi che siano divisibili. Consideriamo per semplicità una striscia di spazio rettilinea senza divisioni percettive, come la seguente:

N el caso precedente una discontinuità sopravveniva rispetto alle due strisce - una bianca e una nera - per cui era semplice individuare all'interno del continuo bidimensionale un continuo unidimensio­ nale che fungesse da divisore. In questo caso, invece, non possiamo procedere alla stessa maniera, dato che nella striscia non sussistono discontinuità percettive. Roeper (2006, p. 212) sostiene che, anche se non consideriamo la striscia senza divisioni percettive come costituita da linee unidimen­ sionali, tuttavia tramite i metodi di Dedekind e Cantar per definire i numeri reali (cfr. PAR. 4.4.4) potremmo individuare al suo inter­ no dei continui unidimensionali che dividerebbero la regione. Se questo fosse vero, allora usando quelle procedure potremmo definire la divisibilità della striscia in questione. Occorrerebbe una discus­ sione dettagliata del problema, ma si ha la sensazione che i metodi del "taglio " o di un insieme di regioni con proprietà di convergenza presuppongano la divisibilità della striscia, piuttosto che definirla. Ci sono stati molti altri tentativi di rendere rigoroso l'antico concetto di infinita divisibilità, discuteremo però solo di quello di Brouwer. Atten e Dalen (2002, p. 517) affermano recisamente che « Brouwer è stato il primo a mostrare come incorporare nella matematica un punto già sottolineato da Aristotele: un insieme di elementi discreti 30

non può rappresentare il continuo geometrico o intuitivo». In altre parole il grande matematico olandese e fondatore dell'intuizionismo avrebbe trovato un modo per definire il continuo sulla base di una concettualizzazione simile a quella dell'infinita divisibilità di Aristo­ tele. Vediamo brevemente se questa affermazione è corretta. La tecnica sviluppata da Brouwer (193 0), e ripresa da Kreisel (1968) e Troelstra (1983), a grandi linee procede nella maniera seguente. Consideriamo le sequenze grandi quanto si vuole di o e 1. Sequenze di fatto sempre finite, ma che sono aperte, cioè che si possono svilup­ pare indefinitamente nel tempo. Il numero di tali sequenze, per quanto grande quanto si vuole, è finito. Tuttavia è possibile renderlo infinito numerabile considerando tutte le sequenze che sono espri­ mibili algoritmicamente, cioè con regole del tipo: " Il primo numero è o; se un elemento è o, il successivo è 1 e viceversa" . Questo algorit­ mo si sviluppa nella sequenza: 0101010 1 . . Sappiamo che l'insieme di questo tipo di sequenze è infinito numerabile. Chi è rigorosamen­ te intuizio nista (Swart, 1 992) - cioè non ammette nessun tipo di oggetto che non sia effettivamente costruibile avendo a disposizione un tempo lungo quanto si vuole - non accetterebbe questo passag­ gio, che effettivamente neanche Brouwer accolse, perché non è stata fornita una definizione intuizionista della nozione di sequenza che si sviluppa sulla base di una legge algoritmica. Possiamo tuttavia ampliare ulteriormente il numero di sequenze, considerando tutte le sequenze il cui principio generatore è del tutto libero, cioè non è determinato da una legge algoritmica. Vedremo nel paragrafo 4·4·4 che per il teorema della diagonale di Cantar tale numero è infinito più che numerabile. Qui bisogna però procedere con molta cautela. La matematica intuizionista ha necessariamente un elemento intensionale, cioè i suoi oggetti non possono essere iden­ tificati come insiemi infiniti di elementi, cosa che, invece, accade nella cosiddetta "matematica classica". N ella matematica intuizionista, che ammette solo oggetti effettivamente costruiti da processi mentali, da un punto di vista estensionale, il numero di sequenze libere, come vengono chiamate, è necessariamente finito, perché non possedia­ mo nessuna regola per sapere come estendere indefinitamente tali .

31

sequenze, essendo, appunto, libere, e per Brouwer tali sequenze devo­ no avere un numero finito di elementi, per quanto grande quanto si vuole. Noi sappiamo, però, che essendoci un numero infinito più che numerabile di sequenze infinite di o e 1, quelli che potremmo chiama­

re "i principi intensionali di generazione di tali sequenze" sono un'in­ finità più che numerabile, anche se non li possiamo rappresentare

tutti algoritmicamente.

È possibile fornire degli assiomi che determi­

nano questa infinità più che numerabile di sequenze libere. Possiamo poi considerare ognuna di queste sequenze come la generatrice di una

possibile divisione di un continuo, associando a 1 l' operazione "dividi a metà e prendi la parte destra", mentre a

o

"dividi a metà e prendi la

parte sinistra". Diciamo allora che qualcosa è infinitamente divisibile quando è rappresentabile come l'unione di tali sequenze. La procedura di costruzione del continuo appena delineata ha molte­ plici vantaggi. In primo luogo, le divisioni non sono mai ben defi­ nite, poiché di fatto la sequenza viene progressivamente individuata nel tempo, per cui esse non sono cosl puntuali come i numeri reali o i punti di un segmento; hanno cioè sempre una sorta di alone di indeterminazione, il che le rende p iù vicine all' intuizione. In secon­ do luogo, il numero delle divisioni possibili è infinito più che nume­ rabile, per cui il paradosso di Zenone del Grande e del Piccolo (cfr.

CAP. 4) non può essere formulato. In terzo luogo, per una tale strut­ tura è possibile dimostrare il teorema della non separabilità, che affer­ ma che, presi due gruppi di divisioni A e B tali che assieme costitui­ scano l'intero continuo e che non hanno alcun elemento in comune, necessariamente o A o B è uguale alla totalità delle divisioni. Questo significa che il continuo così costituito è effettivamente

continuo,

cioè non è un insieme di p unti. Sembra, quindi, che l'affermazione iniziale di Atten e Dalen sia corretta. Ma, come notato da Swart (1992), tale metodo non è del tutto intuitivo, poiché non esiste nessuna procedura effettiva per determinare l'insieme delle sequenze guidate da una legge né di quelle libere, per cui resta un ineliminabile elemento di astrattezza. Inoltre, la procedura presuppo­

ne i numeri

o

e

1

come entità autonome e non come caratteristiche

immanenti alle cose. Infatti, Aristotele (Fisica, 219b, 5 ss. ) ammette solo

32

numeri nel senso di dò che è numerato o numerabile. Questo si river­ bera anche nelle operazioni che abbiamo associato a o e 1, cioè "dividi a metà . . . , . Infatti, dividere a metà presuppone che si sia già individuato con precisione un punto del continuo. Rimaniamo quindi dell'idea che, nonostante il fascino della proposta intuizionista, la nozione aristo­ telica di infinita divisibilità resti molto difficile da formalizzare. In definitiva, per precisare il senso del passo 2 del nostro argomento, dobbiamo rivolgerei al moderno concetto di punto matematico che introdurremo nel prossimo paragrafo, per poi discuterlo più ampia­ mente nel capitolo 4· 2.5. Defi n i z i o n e bas ata s u l la n ozio n e d i d e n sità Nella prospettiva di Aristotele "essere infinitamente divisibile" ed " essere composto da in divisibili" sono due proprietà in contraddizione, cioè tali che l'una esclude l'altra. Egli, infatti, contro l'atomismo, dedica molti sforzi a dimostrare l'infinita divisibilità di spazio e tempo. La ragione intuitiva di tale contraddizione è che, se qualcosa è compo­ sto da indivisibili di grandezza finita non può che contenerne un numero finito, visto che qualsiasi cosa nell'universo aristotelico, compreso l'universo stesso, è di dimensioni finite. Nella prospet­ tiva moderna, invece, introdotta da Cantar, "essere composto da indivisibili" e " contenere un numero infinito di indivisibili" non sono due proprietà in contraddizione, neanche per un'entità finita. A patto che, come vedremo meglio nel capitolo 4, l'infinito sia più che numerabile. Dunque un segmento può essere composto da un'infinità più che numerabile di punti. Il punto è un particolare tipo di sottoinsieme del segmento che ha la caratteristica di non possedere sotto insiemi propri (un sottoinsieme A dell'insieme B si dice proprio quando non coincide con B) . Un segmento deve poter contenere infiniti punti, dato che i punti sono inestesi e quindi in un segmento ce ne possono stare quanti se ne vuole. Per adesso alla domanda come può l'unione di un insieme anche infinito di p unti inestesi formare qualcosa di esteso, come il segmento stesso, non rispondiamo . Ne riparleremo alla fine del capitolo 4· 33

Vedremo meglio che cosa significa un insieme continuo di punti, per ora è importante afferrare la distinzione fra un insieme infinito di punti ma discreto e un insieme denso. Per cogliere tale differenza, si pensi alla diversità fra i numeri naturali 1, 2, 3 . . e i numeri razionali, .

cioè le frazioni. I numeri naturali, pur essendo infiniti, sono tali che fra due di essi non sempre c'è un terzo elemento, così ad esempio il numero 3 segue immediatamente il 2. Per contro i numeri razionali sono tali che fra due di essi è sempre possibile trovarne un terzo, per quanto vicini li si scelga. Infatti, prese due frazioni quanto si vuole vicine fra loro, quali ad esempio 99l1o o e 98l1oo, ne individuiamo facilmente un'altra che è più piccola della prima e più grande della seconda, come 985/t. ooo. Lo stesso accade fra 985/t.ooo

e

986/t.ooo;

basta scegliere 9· 855l1 o.ooo e così via. Si può vedere un fenomeno analogo anche con la rappresentazione dei numeri razionali median­ e 0,98 c'è almeno il numero 0,985, fra 0,985 e 0,986 c'è almeno il numero 0,9855 ecc. Un insieme infinito che ha questa caratteristica si dice denso.

te numeri decimali: fra 0,99

Per quello che dobbiamo dire per adesso a proposito della Dicotomia, basta ipotizzare che lo spazio sia denso, cioè che un segmento di spazio contenga una quantità infinita di punti tali che presi due qualsiasi di essi, per quanto vicini, è sempre possibile trovarne uno che stia fra loro. Questa nozione, non coinvolgendo l'infinito più che numerabi­ le,

è più vicina al concetto antico di infinitamente divisibile.

2.6. Lo spazio è un insieme denso di punti? Quando si propo­ ne un'ipotesi matematicamente esatta sulla natura di un oggetto reale, è opportuno confrontarla con la percezione ( Grunbaum, 1968, p. 44). Questo perché, anche se la percezione è parzialmente illusoria, essa è la prima nostra fonte di conoscenza e quindi va rispettata. Un continuo spaziale percepito, come ad esempio un tratto di matita nera su un foglio bianco , non viene colto come un insieme denso di punti. Certo possiamo definire in esso dei minimi percepibili, considerando che la percezione visiva spaziale possiede una soglia. Possiamo anche dire che esso è in potenza formato da un insieme finito e discreto di minimi percepibili. Ma tali minimi non risultano

34

evidenti attualmente. Possiamo quindi affermare, con Grlinbaum, che la percezione non testimonia contro l'affermazione che lo spazio sia composto da un insieme denso di punti, anche se non testimonia neanche a favore di questa tesi. L'argomento più forte a favore del fatto che lo spazio fisico sia compo­ sto da un insieme denso di punti è, invece, il successo delle attuali teorie fisiche: meccanica classica, meccanica quantistica, relatività ristretta e generale, elettromagnetismo, elettrodinamica quantistica e modello standard. Tutte queste teorie presuppongono uno spazio fisico denso (in realtà continuo), per cui, se abbracciamo una forma di realismo scientifico, anche moderato, arriviamo alla conclusione che, per quanto ne sappiamo, lo spazio fisico è denso. Il realismo scientifico moderato, infatti, afferma che le migliori spiegazioni di un dato dominio di oggetti sono almeno in parte vere anche riguardo a ciò che non è osservabile. Dove il termine "vere" va inteso nel senso della verità come corrispondenza. Dunque è ragionevole supporre che lo spazio fisico sia effettivamente denso.

2.7. La densità del tem po Nel paragrafo precedente abbiamo esaminato i motivi a favore della tesi secondo cui lo spazio è denso, che è una premessa dell'argomento di Zenone. Abbiamo anche detto che la soluzione aristotelica del paradosso si basa sull'infinita divi­ sibilità del tempo ( PAR. 2.3 ). Dunque se vogliamo formulare una soluzione che sia consona allo spirito dello Stagirita, ma che rispet­ ti i nostri standard di rigore, dobbiamo argomentare a favore della densità del tempo. Per discutere il problema, così come abbiamo fatto nel caso dello spazio, dobbiamo prendere in considerazione un esempio concreto. Là era stata la spazialità insita in un tratto di matita su un foglio bianco, qui potrebbe essere la temporalità di una palla che si muove su una pista di bowling. Ciò che differenzia la palla da bowling dal tratto di matita è il movimento. Tratteremo a lungo questo concetto nel capitolo 5, adesso però notiamo che ci sono almeno due diver­ se concezioni del movimento che si contrappongono: la cosiddet­ ta " teoria at-at", secondo la quale " essere in movimento " signifi35

ca " essere in luoghi diversi in istanti diversi" , e quella aristotelica, secondo la quale il movimento è l'atto di ciò che è in potenza in quanto in potenza (ad es. Fisica, 201a, 10-11 e 201b, 4-5) . La prima è una teoria precisa e, di fatto, è quella accettata dalla maggior parte degli studiosi, ma è non solo poco intuìtiva, ma anche problematì­ ca, perché implica, come vedremo ( PAR. 5 . 5 ), una radicale forma dì ìndetermìnìsmo. La seconda, invece, è oscura, ma rende certamente meglio l'idea del movimento come qualcosa di non rappresentabìle in modo completo nello spazio e nel tempo ( cfr. riquadro di appro­ fondimento). Per fare un esempio, la teoria at-at afferma che se Gian­ na alle 15.20 è in camera sua e alle 1 5 . 21 è in cucina, allora sì è mossa. Per Bergson ( 1 889, pp. 64-70) questo non è il movimento, ma " il già mosso", cioè un fatto compiuto. In effetti, se Gianna sparisse dalla sua stanza alle 1 5 . 20 e ricomparisse in cucina alle 15. 21 non potremmo dire che fra le 1 5.20 e le 15.21 si stava muovendo, possiamo al massi­ mo dire che si è mossa, cio è che non è più nello stesso luogo. Per Aristotele, invece, il movimento implica necessariamente un' analisi antologica in termini di ciò che è attuale e di ciò che è potenziale. In prima approssimazione potremmo dire che il movimento è l'attuali­ tà di una potenzialità. Ad esempio, Gianna nella sua camera potr�bb� andare in cucina, e fra le 1 5 . 20 e le 15.21 r�alizza questa possibilità. Se questa fosse stata la definizione aristotelica di movimento, di nuovo faremmo confusione con il già mosso, cioè il passaggio dalla potenza all'atto sarebbe solo un modo antologicamente diverso di descrivere qualcosa di simile a quello che racconta la teoria at-at. È forse per questa ragione che Aristotele aggiunge quella strana postilla: il movi­ mento è l' attualità di una potenzialità in quanto in potmza. Infatti, quel "in quanto in potenza" sta a indicare che non stiamo parlando di " già mosso", ma di movimento, cioè questo passaggio deve conte­ nere in sé ancora potenzialità, ossia deve essere qualcosa di incom­ pleto (Brentano, 1862, pp. 52 ss. ; Kostman, 19 87; Ross, 193 6, p. 45) . Tutto ciò è molto interessante, ma irrimediabilmente impreciso (cfr. White, 1992, pp . 9 6- 101). Possiamo migliorare la teoria at-at del movimento dicendo che la palla da bowling è in moto in un certo istante t se, preso un lasso di 36

tempo tE piccolo a piacere, che comprende t, in istanti diversi dì tE essa sì trova in luoghi diversi. In pratica, affinché ci sia movimen­ to, deve esserci continuità del moto. In questo modo, usando una procedura ispirata al metodo rigoroso dì Weierstrass, abbiamo reso un po' più ìntuìtìva la teoria at-at (Russell, 1914b, p. 139). Dunque, data questa definizione del movimento, viene naturale affermare che la palla da bowling si muove nel lasso di tempo /1t, se si muove in tutti gli istanti che appartengono a !1t. Detto questo, vediamo subito qual è la differenza rispetto alla teoria at-at nuda e cruda: infatti, per quest'ultima, affinché Gianna si muova è sufficiente che si trovi alle

(§)

Aristotele e il movi mento

L' i nterp retazi o n e d e l c o n cetto di m ovi m e nto i n Aristote l e c h e a b bia m o a c c o l to n e l testo n o n è l ' u n i ca p ossi b i l e. P e r q u a nto rig u a rd a l a teo ria a ri stotel ica d e l m ovi m e n to, s u l l a bas e d e l passo

Fisica, 201a, 30

ss., la

m a gg i o r pa rte d eg l i i n terp reti, a d e s e m p i o H u ssey (198 3 , p p . 58 s s . ) e K os m a n (196 9) , s osti e n e c h e i l s e n s o è i l se g u e nte: c h ia m ia m o

c il

c o r p o ch e s i m u ove e C la p ro p rietà c h e resta i n va riata d u ra nte i l m ovi­ m e nto, m entre

A e 8 sono

r i s p ettiva m e n te la p r o p ri età ch e

c perde e

q u e l la c h e c acq u ista . A I I o ra q u esti a utori soste n g o n o c h e il m ovi m en to n on è i l passa gg io da

c( C, A) a c( C, 8),

m a il passa g g i o da

Q C, 8) , d ove c o n pB i n d i c h i a m o l a p ote n za

ci C. A. pB)

a

di essere B. l n rea l tà q u esta

i n t e r p retazi o n e n o n va d ' a c c o r d o c o n q u a nto Arist ote l e d i c e , s u b ito d o p o , d e l m ovi m ento i m p l i c ito in u n a c ostr u zi o n e e a n c o ra d e l fatto c h e il m ovi m e n to è un a tto i n co m p l eto. C ' è a n c h e u n 'a ltra interp reta ­ z i o n e , d ovuta a H e i n a m a n (19 94) . sec o n d o c u i i l m ovi m e nto s a re b b e i l p assa g g i o d a

c(C, pM)

a

ciC. 8) ,

d ove p M s a r e b b e l a p ote n z i a l ità d i

m u overs i . A q u esto si r i fe r i r e b b e l a p osti l l a " i n q u a nto i n p otenza". N e l testo, fra t u tte l e possi b i l i i n te r p retaz i o n i , a b b ia m o s c e lto n o n ta nto q u e l l a sto r i o g rafi ca m e n te p i ù fo n d ata , q u a nto q u e l l a teorica m e n te p i ù i n te ressa nte. I n q u esto s e n s o u n c o r po i n izia a m u ove rsi q u a n d o passa da

c(C. A) a c(C, pB) , cioè q u a n d o

non è p i ù A ed è in p otenza B. Si ve d a

a n ch e A n a g n o stopou l os (2010 ) .

37

15.20 in camera sua e alle 15.21 in cucina, mentre per la teoria at-at modificata questo non basta, perché deve muoversi anche in tutti gli altri istanti. Come vedremo meglio nel capitolo 5, questa definizione lascia dei problemi aperti, però è probabilmente il meglio che abbiamo potuto fare a tutt'oggi, grazie al genio di Weierstrass. Se il movimento è questo e siamo certi che la palla da bowling sia in movimento, allora il tempo non può che essere denso, perché nella nostra definizione di movimento abbiamo introdotto il concetto di "lasso di tempo piccolo a piacere" che ha senso solo se il tempo è infinitamente divisibile o meglio, in termini moderni, denso. Però, conformemente alla nostra ottica empirista, dobbiamo prendere in considerazione anche che cosa dice l'esperienza. Secondo molti autori il tempo percepito, a differenza dello spazio, sarebbe discontinuo. Si vedano ad esempio autori classici come James (1911, passim) e Whitehead (1929, passim), ma anche contem­ poranei quali Griinbaum ( 1968, pp. 45 ss.) e Dummett (2ooo); di opinione opposta è, invece, Mckie (1987) . La temporalità vissuta, infatti, sarebbe scandita dal farsi presente di situazioni successive. Tuttavia sembra più naturale affermare che, così come nel caso dello spazio, la continuità o discontinuità della temporalità dipenda dalla struttura percettiva di ciò che stiamo percependo: cioè se percepiamo il movimento della palla da bowling la sua temporalità sarà continua, mentre se stiamo percependo il battito del nostro cuore la tempora­ lità sarà discontinua. Questa tesi del resto è confermata anche dai più recenti studi di psicologia cognitiva (Fingelkurts, Fingelkurts, 2006). Dunque, dal punto di vista percettivo, rispetto al tempo siamo in una situazione simile a quella dello spazio, cioè non lo percepiamo necessariamente come composto da un numero finito di minimi indivisibili, né però, ovviamente, la percezione testimonia a favore della tesi secondo cui sarebbe composto da un insieme infinito di istanti. Anche in questo caso, tuttavia, possiamo affermare, come abbiamo fatto per lo spazio, che le migliori teorie fisiche presup­ pongono che il tempo sia denso; perciò abbiamo buone ragioni per

(§)

L'argomento di G runbaum

C h i a m i a m o "fatto" una certa e ntità fisica C m i n i m a m ente i n d ivi d u ata

che si trovi a u n certo ista nte in un d etermi nato l u ogo. Se u n a stesso enti­

tà fisica si trova n e l p u nto s pazia le o al tem po ta e nel p u nto spazi a le b a i

tem po tb, dicia m o che i d u e fatti Fa e Fb so no "ge n i de ntici". La relazione di gen ide ntità è una sorta d i prim itivo. P a rtia m o da q u esto pri n cipio.

In tutte le teorie fisiche attua l i , p resi due q u a l siasi fatti gen ide ntici Fa e

Fb, se o è d iverso da b, a l l o ra t è diverso da tb. Qu i d ovre m m o p re n d e re a

i n con sid e razio n e la n o n l oca l ità q u a ntisti ca, i n accordo con l a q u a l e sem b rerebbe c h e u n a pa rtice l la possa sta re i n d u e l u og h i diversi si m u l ­ ta n ea m e nte, a n c h e se i n m o d o p ro b a b i l isti co. Tuttavia la m ecca n i ca q u a ntistica è u n a teoria che n o n p u ò essere interp retata real isti ca m ente (Ta rozzi,

1 981), per cu i q u esta n o n l oca l ità è p i ù u n fatto m a te m atico che

u n a ca ratteristi ca del m o n d o. I n o ltre, più c h e n o n loca l ità , si tratta di n o n sepa ra bil ità , per cui l 'oggetto fisico u n ico si trova, i n u n certo senso, i n un u n ico a m pi o l u ogo c h e com p re n d e Q e b (cfr. Fa n o,

200 4).

O ra vi e n e i l p u nto a n to l o g i c o fo n d a m e nta l e c h e re n d e possi b i l e i l tra sferim e nto de l l a d en sità d e l l o spazio a l tem po. Se Fa e Fb so n o d u e fatti genidentici, c o n o d ive rso d a b, a l l ora esiste un

insieme l i n ea re e d enso di fatti gen i d e ntici risp etto a Fa e Fb c h e ha Fa e

Fb come estrem i , owe ro la trai ettoria d e l corpo C da Q a b. An c h e q u esto è ve ro in tutte le teo rie fisic h e conte m pora n ee. Occo rre rip ren d e re i n consid e razione il caso d e l la m ecca n i ca q u a n ti stica, c h e sem b ra vio la re ta l e pri n ci p io, in q u a nto in genera l e n o n è possi b i l e ri costru i re la tra i et­ to ria d e l l e partice l l e. Tuttavia, come d i ceva m o , la n o n l o ca l ità è i n rea ltà u n a n o n separa b i l ità . P e r c u i la trai etto ria esisterà a n ch e se sa rà m o lto l a rga. O ra p re n d ia m o u n a q u a l siasi c o p p i a di fatti g e n i d e ntici Fa e Fb rigu a rdanti i l corpo C; ess i , secon d o i l p u nto 1, n o n sa ra n n o si m u l ta n ei. M a , i n base al p u nto

2, esi sterà se m p re u n i n siem e d e nso e l i n ea re di

fatti (tutti g e n i dentici con Fa e

FJ c h e h a com e estre m i Fa e Fb; c h ia m ia ­

m o l o Fab· Tutti g l i e l e m e nti d i Fab s o n o ge n i d en tici fra l o ro, d u n q u e per

i l p u nto l, n ess u n m e m bro d i Fab sarà si m u lta n eo a un a ltro m e m bro di

Fab· Qu esto sign ifica c h e es i ste un insie m e d e n so d i ista nti te m p o ra l i .

39

ritenerlo tale. M a qui abbiamo un'ulteriore freccia al nostro arco. Già Aristotele (Fisica, 2 3 3 a, 1 3 ss. ) afferma che a causa del moto, che lega lo spazio con il tempo, se uno è infinitamente divisibile anche l'altro lo sarà. L'argomento aristotelico è stato inconsapevolmente rìformulato da GrUnbaum (1968, pp. 56 ss. ; cfr. riquadro dì appro­ fondimento) . Possiamo dunque affermare che, una volta accettata la densità dello spazio, siamo naturalmente portati ad assumere anche quella del tempo.

2.8. Be rgson e la spazia l izzazione del tem po Vale la pena notare che la tesi secondo cui il tempo sarebbe un insieme lineare di istanti è andata incontro a una critica radicale nel pensiero dì Berg­ son (1889, pp. 50 ss. ) . Il filosofo francese prende le mosse dal fatto che l'unico vero principio dì ìndìvìduazione dì cui disponiamo nella nostra rappresentazione è lo spazio; ovvero, se vogliamo rappresenta­ re un collenivo dì entità, inteso come un insieme dì unità, dobbiamo avvalerci della dislocazione spazìale delle unità stesse. Dopo dì che e gl i nota che, mano a mano che ci inoltriamo nella profondità dei contenuti della nostra coscienza, ci rendiamo conto che essi perdono la loro indìvìduazìone e sì compenetrano. Per cui Bergson distingue fra una temporalità spazializzata che dà origine al tempo della scien­ za e una durata in cui il tempo vissuto non è più un insieme dì istanti che sì susseguono. Dunque il tempo non sarebbe adeguatamente rappresentato da una serie lineare dì istanti. A questa analisi Bertrand Russell (1914a, pp. 13 ss. ) ha risposto che ci sono tre nozioni diverse di collettivo di unità che vanno tenute distinte, cioè un collenivo materialmente inteso, ad esempio " dieci mele", i singoli numeri, ad esempio " dieci", e il concetto generale dì " numero ". L'affermazione secondo cui per individuare i membri di un collettivo è necessaria la spazìalìtà è vera solo per la prima nozione, cioè quella concreta ('' dieci mele"). Perciò l' edificio argomentativo di Bergson poggerebbe su un piede instabile: non è vero che l'unico principio di indivìduazione delle entità è la loro dislocazione spaziale. A queste osservazioni il seguace di Bergson, H. Wìldon Carr (Russell, 1914a, p. 28), ha giustamente risposto che Bergson non ha affermato 40

l' impossibilità in generale di individuare un'unità senza la spazialità, ma l'impossibilità ndl'ambito della nostra rappresentazione, ovvero Bergson si riferisce di fatto solo al primo dei tre concetti distinti da Russ ell, per cui l'analisi di Russell non è una critica, ma una confer­ ma di quanto afferma il filosofo francese. Dunque il problema posto da Bergson sembra restare in piedi. Premessa nascosta dell'argomento di Bergson è, però, che un concetto abbia valore scientifico solo se può essere rappresentato. Il tempo, ndla fisica matematica, può essere definito senza alcun riferimento diretto alle nostre rappresentazioni, perciò chiamarlo "tempo spazia­ lizzato" è esagerato. Resta però il fatto che l'analisi standard del tempo nella scienza naturale non coglie tutti gli aspetti dd tempo vissuto. Il filosofo italiano Vittorio Mathieu (1954, cap. 2) ha notato che per Bergson esistono una serie di piani diversi della temporalità: di quelli più esterni, dove vale un principio di individuazione quantitativo, cioè spazializzante, si occuperebbe la scienza naturale matematizzata, mentre per quelli più interni, in cui domina il q ualitativo e lo spazio è assente, occorre un'analisi estranea alla scienza naturale. In pratica non possiamo negare la validità della rappresentazione dello spazio come insieme di istanti, anche se essa coglie solo una pane dell'am­ bito della temporalità. Bisogna però notare che questa distinzione raffigura forse in modo adeguato la situazione attuale delle nostre conoscenze, ma non è detto che permarrà in futuro. Ovvero, può essere che, nell'avvenire, sia possibile trovare opportune concettualizzazioni anche della dura­ ta, cioè degli aspetti più profondi del tempo, utilizzando strumenti diversi da quelli attuali (cfr. Fano, 1996a, p. 225, e 2009).

2.9. Soluzione ana litica del paradosso Possiamo così riassu­ mere la nostra argomentazione contro il paradosso della Dicotomia, restando il più possibile nello spirito di Aristotele. 1. Se lo spazio è un insieme denso di punti, allora anche il tempo è un insieme denso di istanti. 2. Allora il corpo C percorre l'intervallo di spazio 1/M nel lasso di tempo 1/M. 41



La somma di tempi

l

l

l

l

-+-+-+ ...+-+ ...

2

4

8

2"

(2)

si avvicina sempre di più a 1 senza superarlo. 4· Lo spazio è continuo, quindi C dopo 1 s arriverà effettivamente in b, cioè C non realizza un insieme infinito di compiti e non fa nessun salto per arrivare a destinazione. Per quanto riguarda il punto 1 vi abbiamo dedicato i paragrafi 2 . 6 e 2.7. Il fatto che l a somma (2), presentata nel punto 2 , non superi mai 1 è una cosa ben diversa dalla dimostrazione che essa converga a 1, lo dimostreremo nel successivo riquadro di approfondimento.

(§)

sn non supera 1

P o n ia m o:

(3) Divi d i a m o la (3) p e r 2 da entra m be l e pa rti:

(4 ) Sottra i a m o la

(4) d a l la (3) m em b ro a m e m b ro, otte n e n do:

Cioè:

( 5) D a l l a ( 5 ) si vede c h e n p u ò d iventa re g ra n d e q u a n to si vu o l e , m a Sn n on sa rà m a i m aggi ore d i

42

1.

(§)

Euclide e le serie

La P ro p osizi o n e 35 d e l L i b r o IX d e g l i Elementi di E u c l id e ha il s e g u e nte

.

e n u nciato (Ace rbi, 2007, p 1 223 ) : «Qu a l ora sia n o q u a n ti mai si vog lia n u m eri di s e g u ito in p r o p o rzi o n e c o n ti n u a , e s i a n o s ottratti sia d a l s e c o n d o c h e d a l l ' u lti m o u g u a l i a l p ri m o , sa rà co m e l ' eccesso d e l

seco n d o ris petto a l p ri m o , così l ' e ccesso de l l ' u lti m o ris p etto a tutti q u e l l i prima d i sé stesso». l n u m e ri i n p r o p o rzione co nti n u a fra l oro s o n o q u e l l i i n p ro gressi o n e geo m etrica:

a, aq, aq' , aq' ... , aq" Dove n p u ò essere gra n d e a p i a cere (''q u a nto si vog l ia " ) . I l seco n d o è

)

aq, l ' u lti m o è aq", il p ri m o è a. C h i a m i a m o S a som m a d i tutti i n u m e­ n ri eccetto l ' u lti m o. A l l o ra n e l n ostro l i nguaggio E u cl i de affe r m a che: aq - a a

=

aq" - a s._,

Da cui: Sn-1

- 1) = a(q" qJ

P e r cu i : Sn = Sn-i + aq" = a

Nella som m a

q" - I + q' - q q-J

(6)

(3) a = q = 1/2. Sostit u e n d o q u esti va l o ri

n el l a (6) otte­

n ia m o : sn = l -_!_ 2"

c h e è p ro p ri o l a

(5) . D u n q u e E u cl i de - e fo rse a n che Aristot e l e (Phys.,

206b, 16 ss.) - conosceva la d i m ostrazi o n e che S è sem p re m i n ore d i 1. n

43

Per risolvere la Dicotomia abbiamo deciso di usare questa afferma­ zione più debole, perché, contrariamente a quanto pensano molti studiosi (ad es. Huggett, 1999, pp. 42-3, e 2009, par. 3.3) è sufficiente (come mostrato da Griinbaum, 1968, p. 72) , e perché si tratta di un teorema che già Euclide, più giovane di Aristotele di poche decine di anni, conosceva, quindi non lontano dallo spirito dello Stagirita. Su tutto questo cfr. il riquadro di approfondimento alla pagina prece­ dente. Infine il punto 4 si riferisce alla questione dei supercompiti già esaminata nel paragrafo 2.3. 2.10. La m i s u ra b i l ità d e l te m po Nel paragrafo precedente abbiamo visto una riformulazione contemporanea della soluzione aristotelica del paradosso della Dicotomia. Ci rimane però un ulti­ mo tassello. Siamo sicuri che possiamo sommare la lunghezza degli intervalli temporali esattamente come sommiamo i numeri ? Ovvero, come si misura la lunghezza di un intervallo temporale e come si può presupporre che tali lunghezze siano additive ? In effetti, se il tempo fisico è rappresentabile come un insieme lineare (cfr. riquadro di approfondimento) e denso di istanti, lo possiamo mettere in corrispondenza biunivoca con i numeri razionali. Inoltre, possiamo costruire tale corrispondenza in modo che, se un istante è prima di un altro, allora il numero corrispondente è minore e se è dopo allora è maggiore. Dopo di che possiamo facilmente definire la "distanza temporale" o la "lunghezza di un intervallo temporale" fra

(§)

Ordine li neare

U n a re lazi o n e R è lineare rispetto a u n i n sieme T. q u a ndo, p resi d u e q u a l siasi elem enti d i T, t0 e tb, R è ta l e c h e o va l e t0Rtb o tbRt0; s e t0Rtb, a l l o ra n o n tbRt0 e viceversa se tbRt0 n o n t0Rtb; se t0Rtb e tb Rt,. a l l o ra t0Rt,. Cioè R è tota l e , a n tisi m m etri ca e tran sitiva . P e r g l i i stanti d e l tem p o fisico ( s e n o n p re n d ia m o i n c o n s i d e razio n e l e cu rve d i ti p o tem p o c h i u se d e l l a relatività gen era l e) R esiste, cioè è " p ri m a d i " o "dopo di".

44

due istanti come la differenza fra i due corrispondenti numeri razio­ nali. In questo modo otteniamo una misura delle distanze temporali. Ci chiediamo ora se tali distanze siano additive, cioè se esiste un' ope­ razione fisica, chiamiamola " o" , tale che presi due qualsiasi intervalli temporali T4 e Tb, se vale T4 0 Tb Te' allora la lunghezza di Te sia uguale alla somma della lunghezza di T4 e di quella di Tb. È chiaro =

che gli intervalli temporali non si possono spostare facilmente come quelli spaziali, però possiamo immaginare di formare l'intervallo � somma a panire dagli intervalli T4 e Tb, facendo iniziare Tb esatta­ mente quando finisce r:. Dunque, l'operazione "o" esiste, per cui la

misura delle lunghezze temporali è additiva (Carnap, 1966, cap. 8) . Ne segue che possiamo applicare il semplice calcolo ( 3 ) - ( 5) per mostrare che la somma degl i intervalli temporali non eccede mai l' unità. Di modo che il paradosso della Dicotomia di Zenone, già risolto da Aristotele, anche rispetto alla fisica e alla matemati­ ca contemporanea, risulta superato. Ricordiamoci, però, che nella nostra analisi ci siamo spesso avvalsi di istanze fondate empiricamen­ te, cioè la nostra argomentazione non è stata meramente concettua­ le, per cui il futuro della ricerca empirica potrà modificare queste

conclusioni.

45

3. L'Ach i l l e In questo capitolo il nostro compito sarà più facile che nel preceden­ te, perché, come già osservato da Aristotele, l'Achille è logicamente molto simile alla Dicotomia. Tuttavia questo paradosso, anche per il suo andamento narrativo, è forse quello che ha avuto più succes­ so fra filosofi, scienziati e letterati, per cui racconteremo un poco anche la sua storia. Prenderemo le mosse dalla formulazione analiti­ ca del paradosso, per poi esaminare una serie di possibili soluzioni, tutte più o meno equivalenti. In seguito discuteremo brevemente la fantasiosa interpretazione del primo Russell e accenneremo alla vasta letteratura nata dal concerto di "supercompito". Concetto che, però, come vedremo, pur essendo interessante dal punto di vista merafiSi­ co, non è molto rilevante per l'Achille in quanto tale.

3.1. Form u lazione del paradosso Risolto il paradosso della Dicotomia diventa relativamente facile affrontare il più famoso degli argomenti di Zenone, cioè quello della corsa fra Achille e la tartaru­ ga. L'argomento può essere formulato come segue. 1. Lo spazio è un insieme denso di punti. Di questa premessa molto ragionevole abbiamo già discusso nel paragrafo 2. 6. 2. Achille parte con una velocità costante Vdal punto A e si muove in linea retta verso il punto B, che è situato a una distanza dda A; da B parte la tartaruga con una velocità costante v minore di V, muoven­ dosi anch'ess a in linea retta e nella stessa direzione. 3· Se la velocità media è uguale allo spazio percorso diviso per il tempo trascorso, allora, data una certa velocità media V, il tempo necessario per coprire una certa distanza d è uguale a d diviso per V. Perciò dopo un tempo t1 = diVAchille arriva nel punto B. Ma nello stesso tempo la tartaruga è arrivata nel punto C la cui distanza da B è d1 = t1 v, dato che la tartaruga viaggia a velocità v. Sostituendo in quest'ultima uguaglianza il valore di t1, si ottiene d1 = dv/ V. Dopo un ulteriore tempo t2 = dJ V= dv/ V2 Achille è arrivato nel punto C, ma la tartaruga sarà nel punto D la cui distanza da C è d2 = dJ v = dvll V'-.

In pratica il distacco fra Achille e la tartaruga diminuisce progressi­ vamente seguendo la successione:

4· Dunque per raggiungere la tartaruga Achille deve attraversare un insieme infinito di tratti spaziali. 5· Ma per attraversare un insieme infinito di tratti spaziali occorre un tempo infinito, quindi Achille non raggiungerà mai la tartaruga. Una prima possibile soluzione potrebbe essere quella prospettata dal matematico francese Frontera (1892), il quale nota che se dividiamo il tempo della corsa fra Achille e la tartaruga in intervalli uguali T, la serie degli spazi percorsi dai due corridori sarà: s,.,, SAch

= d + (T + T + T + . . . )v

= (T + T + T + . . . )V

(8)

Se Tè diverso da o è chiaro che le serie (8) sono entrambe divergenti, cioè vanno all'infinito. Questo significa che Achille e la tartaruga non si muovono nel ristretto spazio in cui le limita Zenone. È anche ovvio che la serie sAch rapidamente supererà la serie start' dato che V è maggiore di v, colmando il divario dato dallo svantaggio iniziale d. Tuttavia questa soluzione non è adeguata, perché mostra solo come si possa argomentare a favore del fatto che Achille superi effettiva­ mente la tartaruga, ma non spiega quale sia l'eventuale errore nel ragionamento di Zenone. Il p aradosso sta proprio nel fatto che abbiamo molte ragioni per pensare che Achille sorpassi la tartaruga e quindi non si comprende come mai si possa anche dimostrare il contrario. Di fatto, come nota Aristotele (Fisica, 239b, 18-19), la soluzione del paradosso è molto simile alla precedente: «Questo ragionamento [l'Achille] è appunto quello della D icotomia» (cfr. anche Griin­ baum, 1968, pp. 1 05-9 ). Per cui la sua soluzione seguirà una via simile a quella tracciata nel capitolo precedente: 47

1. a partire dalla densità dello spazio occorre argomentare a favore della densità del tempo (PAR. 2.7) ; 2. bisogna poi mostrare che è possibile introdurre una metrica additiva per il tempo (PAR. 2.10); 3· infine, bisogna mostrare che la somma dei tempi

non supera mai un certo limite finito. Qui non è necessario ripetere le argomentazioni a favore dei p unti 1 e 2, già ill ustrati. Per quanto riguarda il punto 3, invece, con un meto­ do simile al riquadro di approfondimento a p. 42, si dimostra che: T '

=

d

V -v

-

' v

(1--) V'

(1 o)

Siccome Vè maggiore di v, vnt vn sarà sempre minore di 1; 1 meno un numero compreso fra o e 1 dà un numero minore di 1, quindi la parte fra parentesi tonde dell'equazione (lo) sarà sempre minore di 1 . Ne segue che Tn sarà sempre minore di di( V- v). Dunque la somma (3 ) sarà sempre finita. Chiediamoci a questo punto quale sia il significato fisico della quan­ tità di( V- v). Per quel che ne sappiamo, il primo che ha calcolato questa quan­ tità è stato Gregorio da S. Vincenzo, un matematico belga allievo di Clavio, che nel 1647 pubblica un voluminoso trattato dal titolo Quadratura circuii, in cui affronta il problema di Achille utilizzando la sua teoria delle serie infinite, uno dei primi abbozzi di tale discipli­ na della matematica moderna. Alla Proposizione So del Libro 11 della Parte II Gregorio dimostra che se prendiamo una serie di segmenti di lunghezza a, a/q, alq2 la loro somma infinita è pari a • • •

qa

q-i

48

(11)

Nella serie (9) abbiamo che a = d/ Ve q = V/v. Sostituendo questi valo­ ri nella (11) si ottiene che la somma infinita (9) è proprio dl(v - V) . Gregorio conclude nello scolio alla Proposizione 87 che Achille raggiungerà la tartaruga esattamente dopo un tempo pari a dl( v - V). Che quello sia l'istante in cui Achille raggiunge la tartaruga lo vediamo anche in modo più semplice, usando la cinematica e senza fare appello alle serie infinite (Ushenko, 1946) . Costruiamo due assi cartesiani e nelle ascisse rappresentiamo la posizione su s di Achille e della tartaru­ ga, mentre nelle ordinate il tempo che passa t (FIG. 2). Allora avremo che la posizione di Achille in funzione del tempo sarà rappresentata dalla retta s = Vt, mentre quella della tartaruga dalla retta s = d + vt. Uguagliando le due ascisse, cioè le due posizioni, troviamo Vt = d+ vt, da cui t = di( V- v) . Che è l'ordinata del punto O in cui si incontrano le due rette, cioè l'istante in cui Achille raggiunge la tartaruga. Dunque, se la somma (9) non supera mai la qùantità d/( V- v), questo significa che il ragionamento di Zenone dimostra solamente che Achil­ le non raggiungerà mai la tartaruga nell'intervallo temporale d/( V- v), cioè prima di raggiunger/a, il che è assolutamente ovvio. Il fatto che Aristotele fosse consapevole della logica sottostante alla soluzione del paradosso di Achille, che abbiamo appena ricostruito, anche se forse non di tutti i dettagli matematici, è desumibile dalla sua conclusione dell'analisi dell'argomento di Achille: >, ovvero il

moto assoluto è lo spostamento di un corpo da un luogo assoluto a un altro luogo assoluto. Nella letteratura filosofica anglosassone, questa definizione di origine medievale è stata chiamata la "teoria at-at del moto", cioè «at one place at one ìnstant an d at another place at another instant�> (Weinberg, 1948, p. 168 ) . L o stesso Russell ( 1 9 0 1 b , p . 1 0 9 ) , quando è meno " controlla­ to " , sostiene questa forma semplice di teoria at-at, come quella dì Newron: . Salvo poi aggiungere ( ivi, p . u o , corsivo mio ) : «