L'infanzia non è un gioco. Paradossi e ipocrisie dei genitori di oggi 8858120566, 9788858120569

Quando guardiamo i bambini degli altri, stiamo guardando il nostro. Il bambino che portiamo dal pediatra, che addormenti

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L'infanzia non è un gioco. Paradossi e ipocrisie dei genitori di oggi
 8858120566, 9788858120569

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i Robinson / Letture

Stefano Benzoni

L’infanzia non è un gioco Paradossi e ipocrisie dei genitori di oggi

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione gennaio 2013

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017 2018 Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0517-7

grazie soprattutto ad Adam, Alberto, Ciacco, Edo, Elena, Giacomo, Grazia, Ilaria, Francesca, Franz, Lavinia, Luca, Marta, Massimo, Paola, Pietro, Rossana, Sonia

Indice

Introduzione

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Prologo. Benvenuti nella giungla

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Non un minuto di noia: ovvero come gli adulti confondono l’educazione al gioco dei bambini con l’intrattenimento di sé stessi

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Intermezzo. La versione di Eric

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A colpi di touch screen: la nuova infanzia senza pedagogia

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Intermezzo. Fin da piccoli

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Sotto la maschera del Teddy Bear: il corpo censurato dei bambini «normali»

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Intermezzo. Storia minima di un tipo cattivo

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Gli innocenti che fanno molta paura

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La pedofilia e i suoi nemici

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Intermezzo. Reale vs immaginario

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Sex and the children

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Epilogo. Meraviglioso e perdente

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Postfazione obbligata

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Bibliografia 125

­­­­­VII

Introduzione

Forse abbiamo tutti una certa idea di che cosa sia l’infanzia e di come ci si debba comportare con i bambini. Come educarli, cosa aspettarsi, cosa pretendere, cosa desiderare, cosa temere. E sebbene l’infanzia sia, senza alcun dubbio, un fatto biologico, la prospettiva da cui guardiamo questo «fatto» finisce per trasformarlo in «cose» spesso molto diverse tra loro. Ogni famiglia stabilisce ciò che i bambini dovrebbero o non dovrebbero essere e questa idea si confronta ogni giorno con le rappresentazioni pubbliche della loro identità. I discorsi pubblici sull’infanzia hanno così da tempo superato gli argini delle discipline tecnico-scientifiche e sono diventati a tutti gli effetti discorsi culturali di massa. I media sono saturi di campagne periodiche sulla difesa dell’infanzia. Che siano i pedofili, l’inquinamento, l’eccesso di violenza, il bullismo, il lavoro minorile, gli alimenti OGM, i giocattoli d’importazione, i programmi televisivi da bollino rosso, i videogame violenti. Non vi è o quasi piega della società che non nasconda qualche potenziale nemico per i nostri bambini. E i pareri degli esperti si moltiplicano per spiegare in che modo questi possibili nemici minaccino la loro purezza e innocenza. La difesa dell’infanzia è diventata, così, uno dei principi etici fondamentali delle società occidentali, una delle nostre bandiere da esportare. E la felicità dei nostri figli è talmente importante che l’industria del loro intrattenimento – video­­­­­IX

game, blockbuster, fantasy, giocattoli e parchi ricreativi – è uno dei pochi mercati ancora in espansione. Tuttavia questa infanzia intoccabile, da difendere strenuamente contro ogni nemico e appagare a costo di indebitarsi, nasconde un lato oscuro. Con una mano chiediamo che i bambini siano tutelati dagli aspetti più immorali del mondo degli adulti. Con l’altra ci aspettiamo che vi si immergano fin da subito, assorbendone i principi e le regole. Ci indigniamo per le fabbriche stipate di bambini che confezionano altrove le nostre scarpe da tennis, ma ordiniamo ai nostri figli di crescere in fretta e determinarsi alle scelte consumistiche di ogni buon adulto, così che possano ripercorrere rapidamente la parabola che ha soggiogato l’uomo del Novecento: da vittima del lavoro a vittima del consumo. Li vorremmo magri e atletici ma li sommergiamo di cibo. Ci aspettiamo che scelgano la fidanzatina e comprino scarpe con il tacco già ad otto anni, ma li vorremmo vergini e intonsi. Ci facciamo scudo sulla stampa dei loro disegni quando crolla una casa o cadono le bombe, ma poi ne ignoriamo sistematicamente le esigenze in ogni piega del vivere sociale. Li sbattiamo seminudi sulla copertina di «Vogue», salvo poi indignarci e dare fuoco alle pire della strega o del pedofilo di turno. Queste contraddizioni interrogano in profondità la funzione simbolica dei bambini nella nostra società. A che cosa serve la loro innocenza e la loro purezza? Per quale motivo ciò che corrompe queste qualità è catalogato tra i peggiori mali sociali? Cosa chiediamo esattamente ai bambini quando ci aspettiamo che ci assomiglino e ci imitino? Che si divertano e si intrattengano? In che modo quello che facciamo in nome della difesa dell’infanzia ha a che fare con la loro felicità? In questo libro propongo alcune risposte attraverso esempi di vita comune, interviste, riferimenti a film, libri e spettacoli di massa. La tesi è che la ferrea distinzione adulti/bambini sulla quale poggiano molti baluardi etici spesso ostentati come vessilli è in realtà profondamente ambigua e ­­­­­X

contraddittoria. E mentre le «teorie» ufficiali ci dicono che questa distinzione ha fondamenti «naturali», le rappresentazioni pubbliche dell’infanzia mostrano invece che ciò che abitualmente giudichiamo come «tipicamente infantile» ha ben poco di naturale. L’innocenza, la purezza, la fragilità, la creatività sono le qualità del bambino docile, indotto all’autocontrollo dalla puntuale azione dei suoi tutori, vergine e curioso, smisuratamente grato e riconoscente, domato e ripulito da ogni istinto brutale, ma preservato in quella parte di istinti «naturali» o presunti tali la cui manifestazione pubblica gratifica tanto gli adulti. Questa infanzia modello funziona come l’intermediario dei nostri rapporti con i bambini reali. E assolve una funzione precisa: il ruolo degli innocenti oggi è quello dell’Altro che possa credere ai principi che promulghiamo in pubblico, affinché in privato sia possibile continuare a trasgredirli in pace. Gli effetti perversi di questo compromesso sono tanto più tenaci quanto più sono legati a doppio filo con il nostro posto nella società dei consumi. Il mondo degli adulti nelle economie liberali è ormai interamente governato dall’ethos infantilista e il mito dell’eterna fanciullezza è diventato la chiave specifica per determinare il rapporto tra l’individuo, la ricchezza e il lavoro. La giovinezza è ciò che lega bisogni e desideri. Ci aspettiamo così che il bambino puro e innocente sia anche felice. E il passo dalla felicità al consumo è ovviamente assai breve. Con il risultato che sempre di più le nuove frontiere dell’educazione si aprono alla libera scelta dei bambini come liberi consumatori. Innocenti e felici. Satolli e grati. Scevri da ogni contaminazione. Edenici e intoccabili. Ma anche prematuramente adultizzati. Autonomi nelle scelte. Determinati a perseguire i loro desideri come fossero bisogni. Seduttivi e avidi. Erotizzati e ambigui. Voraci ed egoisti. ­­­­­XI

E così, proprio a causa di queste contraddizioni, ciò che facciamo «per i bambini» ha scopi molto diversi da quel che appare. Nel chiedere ai bambini di comportarsi da piccoli adulti – consumare, intrattenersi, agghindarsi e imitarci – esercitiamo in modo ancor più radicale quel controllo un tempo svolto dalla segregazione fisica e pedagogica. Al punto che l’adultizzazione precoce dell’infanzia costituisce oggi il modo specifico attraverso cui, nelle società post-ideologiche, funziona la censura. Saturiamo la loro cameretta di giochi affinché non possano inventarne mai uno nuovo, in grado di corrompere l’ordine che ci governa. Rendiamo le loro fantasie prevedibili per stabilirne con esattezza il confine. Sorvegliamo i loro desideri per reprimere ogni possibile trasgressione sul nascere.

L’infanzia non è un gioco

Prologo

Benvenuti nella giungla

La notte del primo agosto ti imbarchi sull’ammiraglia Mobylines che collega Genova a Olbia. Sali con la Scala Verde dai garage nella stiva sino al ponte numero 6, adibito all’intrattenimento diurno, allo shop center e ai bar panoramici, e sbuchi diritto in mezzo alla scena clou di Mad Max. Un ring gigante chiuso in una gabbia, una specie di arena romana ma in 3D, dove si combatte nelle tre dimensioni. Lì dentro, in Mad Max, se le davano di santa ragione avanzi di galera in canotta e parrucchino, appesi ad accrocchi tipo liane meccaniche, con cui si lanciavano l’uno sull’altro. Fuori era una gazzarra anche peggiore, una calca d’altri avanzi di galera, assetati di sangue, appesi alla griglia di metallo del ring. L’aria condizionata a otto gradi della Mobylines, la moquette a chiazze e le facce stralunate dell’equipaggio, non cambiano di molto la tua impressione. La nave è ancora in porto, ma qui è come se la scena andasse avanti da ore. Un’intera ala del ponte, proprio dove sbuca la scala da sotto, è dedicata all’intrattenimento dei bambini. Una specie di parchetto giochi fatto di scivoli, ponti, torrette in plastica colorata, un percorso sopravvivenza per marines nani e daltonici, come ce n’è ormai ovunque nei centri commerciali. Su una superficie quadrata, racchiuso in una rete, è al momento parzialmente nascosto alla vista da una calca chiassosissima. Tutt’intorno adulti in bermuda e canottiera, cinti di borselli e marsupi, strillano rivolti verso il ring. Dentro, una calca ancora più fitta di gambine e braccine, 3­­­­

pantaloncini e magliettine, bambini festanti e iperattivi che si calpestano a vicenda nell’allegra finzione del divertimento controllato. Una specie di Child Pride, un carrozzone dove c’è chi soccombe alla sua stessa euforia, chi è schiacciato dalla foga dei molti in sovrappeso, chi, comprensibilmente intimorito, tenta di tenersi ai margini. Genitori e succedanei si sgolano in richiami, in dritte, in veri e propri ordini, palesemente inconsapevoli dell’inutilità di tanto affanno. All’ingresso del ring si accalcano altri bambini ancora più eccitati, smaniando invano di farsi ammettere. Frignano e scalpitano come gli gnu che sulle rive del fiume agognano il tuffo, nonostante la mandria già combatta la corrente e i coccodrilli. Intorno, un secondo girone di genitori e tutori incattiviti paga dazio alla santa felicità infantile, prefigurando nella frustrazione del figlio anni a venire di file alla discoteca e di esclusioni da sedicenti feste private e privatissime. Indifferenti allo spettacolo e al muro di rumore, coppie di giovani vacanzieri si adoperano nelle vicinanze del parco giochi a gonfiare materassini e sistemarsi per la notte, ostentando un’incomprensibile flemma, come di chi sia sotto metadone o abbia appena tolto l’apparecchio acustico. Forse già sognano procreazioni multiple a cui dedicare ogni santissima cura.

Non un minuto di noia: ovvero come gli adulti confondono l’educazione al gioco dei bambini con l’intrattenimento di sé stessi

Se sei già stato in un parco giochi sai di che cosa sto parlando. La malinconia che da sempre mi prende non appena ci metto piede ha certamente a che fare con il senso greve e appiccicoso di una richiesta pressante: «divertiti bambino!». Il fatto è che l’imperativo del divertimento per legge rende sostanzialmente impossibile ogni godimento. Qualcosa nello scalmanato dispiegamento di decibel, pompe idrauliche e luci colorate ammicca al paradigma preindustriale dello scivolo e al suo obbligato vicolo cieco dello sballo, su per una scaletta come un patibolo e poi giù a capofitto, raschiarsi il culo sulla lamiera rovente e poi planare di nuovo nel mondo fatto di spigoli, selciato, polvere e altri bambini in coda. Fatti un giro in un qualsiasi Disneyworld o Funland di questa terra, dalle versioni ormai archeologiche delle giostre di paese, alle iperboli delle nuove generazioni di ottovolanti con o senza giochi d’acqua, e non tarderà a coglierti una verità sacrosanta: nei parchi di divertimenti non ci sono giochi. Certo, si può esser tentati di dire che proprio il fatto che molti bambini in quei parchi si divertano costituisce una dimostrazione della presenza di giochi. Ma non è così. Ce lo dicono molti utili esempi, ma forse il più efficace è quello degli atti di sadismo collettivo, che ai giornalisti piace chiamare «bullismo». Bambini che vessano i più deboli: nessun gioco ma molto divertimento. Un’altra possibile obiezione, più radicale, potrebbe essere quella che non esiste nulla come un concetto universalmente condiviso di gioco: «Che cosa è comune – si chiedeva 5­­­­

Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche – a giochi da scacchiera, giochi di carte, giochi di palla, gare sportive, e via discorrendo?». Ciò che chiamiamo gioco non è né sempre divertente, né sempre legato alla competizione, né collettivo, né solitario, né solo di abilità, né di sola fortuna. Pensa agli scacchi, al girotondo e al tennis: tutte attività accomunate solo da una «rete complicata di somiglianze» rispetto alle quali concludeva Wittgenstein: «Non posso caratterizzare queste somiglianze meglio che come somiglianze di famiglia»1. Tuttavia, forse è proprio l’assenza di una definizione rigorosa che tracci un confine oggettivo tra ciò che rientra e ciò che non rientra nel concetto, a dirci che questa somiglianza di famiglia suggerisce qualcosa della funzione che il gioco riveste per il giocatore. La cosa diventa più chiara se anziché immaginare la somiglianza di famiglia come una specie di limite (l’impossibilità di stabilire a priori che cosa è o non è un gioco) proviamo a immaginarla come una potenzialità. Proprio la porosità della definizione rende possibile che il gioco rimanga tale anche se subisce trasformazioni «da dentro», al punto che la qualità più radicale di un gioco sembra essere proprio la sua «versatilità». Ogni gioco risponde a una sua legge ufficiale e oggettiva (il «come si gioca»), ma il gioco diviene tale soltanto nel momento in cui quella regola è trasformata da una persona nel «suo gioco», cioè nella «sua versione personale della Legge». Il gioco può darsi così solamente in una forma individuale, che comporta necessariamente la trasformazione della regola nella sua versione compatibile con i «desideri» del giocatore. Per giocare è necessario corrompere la Legge, ma corromperla solo sino a un certo punto. La creatività del gioco e il suo intrinseco divertimento risiedono proprio qui, nella possibilità di spingersi nel territorio dell’illegalità e della 1  L.Wittgenstein, Ricerche filosofiche (1967), Einaudi, Torino 2009, parr. 66-67.

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trasgressione sotto la spinta della propria eccitazione. Ma è una trasgressione tollerata, e dunque ha un definito punto di equilibrio che funziona solo in quel modo particolare ammesso da quel gioco e per quella persona. Questa qualità essenzialmente privata del gioco è ciò che rende possibile la somiglianza di famiglia: i giochi si assomigliano tutti perché «funzionano» – in rapporto a questo meccanismo – nello stesso modo: che si tratti di un gioco collettivo o individuale, competitivo o no, dinamico o statico, il tratto trasversale comune è che per poter essere «giocato» il gioco deve subire una trasformazione delle sue regole da parte del giocatore. È evidente che nella festanza obbligata dei parchi di divertimenti sembra non esservi traccia di questa nozione di gioco, perché essi sono per definizione aree circoscritte in cui la Legge pubblica è temporaneamente sospesa e sostituita da un suo apparente surrogato benevolo: l’imperativo «divertiti bambino!». Nei parchi di divertimenti non è possibile giocare proprio perché è obbligatorio divertirsi. Niente a che fare con quella «libera manifestazione del mondo interiore» che già all’inizio del 1800 Froebel – padre del mito romantico del gioco infantile, insieme a Pestalozzi – indicava come «il più alto grado di sviluppo del bambino e del genere umano»2. Un campo di espressione, quello del gioco, che dovrebbe essere quanto di più vicino allo stato di natura, un luogo dove ai bambini è permesso interagire liberamente con il mondo, in una forma se possibile complementare a quella che ritrovano quotidianamente a scuola. E invece prevale il confine asfittico di un terreno illusoriamente illimitato: «godi bambino! divertiti!». È proprio quest’ordine a rendere impossibile il godimento. Nel senso radicale che il piacere del bambino che gioca è sostituito dal godimento   G. Catalfamo, Antologia froebeliana, Editrice Radar, Padova 1968, p.

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38.

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che l’adulto vive al posto suo. Che si diverta o no, il suo divertimento non ha più a che fare soltanto con il bambino. Così, l’esperienza della giostra – nella sua forma pura ed essenziale – altro non è che l’esperienza di un ritorno nel morbido grembo materno ove subire accelerazioni impreviste e frenate attutite. Un luogo che – proprio perché indefinitamente appagante – comporta anche l’assenza di qualsiasi desiderio. Non vi è in questo intrattenimento esercizio creativo possibile, né la più sfumata chance di una trasgressione alla regola del godimento per legge. E dunque nulla di assimilabile a quella somiglianza di famiglia che accomuna tutti i giochi, se appunto il suo tratto «universale» è proprio che l’esperienza soggettiva del gioco comporta la trasformazione traumatica delle sue regole «da dentro». È per queste ragioni che il paradosso dei parchi giochi senza giochi è solo apparente, dal momento che il gioco c’è ma non si vede. È fuori dal soggetto, decentrato e sottratto alla sua esperienza. Si trova altrove, nella relazione con gli altri che lo circondano, e si chiama adulti che intrattengono i bambini. Gli adulti travestiti da eroi dei cartoni animati all’ingresso di ogni Funland che si rispetti stanno lì per quello: dicono che il vero gioco a cui stai per giocare è in realtà un rito per adulti, in cui adulti sadicamente benevoli – nella veste di ipertrofici ed euforici pelouche – acconsentono al tuo sballo obbligato. È un esercizio potenzialmente dirompente. Pericolosissimo. E le regole perciò devono essere ferree. Le risate controllate. Gli spari di adrenalina circoscritti al tempo di un tanto di accelerazione, un tanto di sbandamento, un tanto di frenata. Ti faccio spaventare ma solo per ridere. Ti faccio cacare sotto ma niente escrementi, please. Esattamente come la zerobirra. È birra, ma non c’è l’alcool. Stesso gusto, zero realtà. E non c’era bisogno di spingersi alla costruzione di cattedrali da due miliardi di volt che catapultano sedili in kevlar a centinaia di metri da terra (mangiate leggero, toglietevi gli 8­­­­

occhiali, e assicurate ogni protesi al vostro corpo). Bastava la regola aurea e circolare del buon vecchio calcio in culo: «Prendi il codino bambino, forza, dài, prendi il codino, vinci un altro giro!». Una voce maschile e cavernosa da fuori, la voce di un padre ambiguo, che si materializza dalla cabina dei comandi, a scuotere il tuo sistema nervoso; divertiti ancora un po’ bambino per vincere ancora il diritto alla trasgressione, ma solo finché lo dico io. Non un minuto di noia. Non è forse questo l’approdo naturale di ogni società evoluta? Il mito dell’intrattenimento della prole come misura massima della qualità delle cure parentali e della nostra educazione? Il metro della nostra civiltà esportabile? L’educazione al gioco è forse la dimensione più importante e primitiva dell’educazione. E anche quando veste i panni del rito del gioco, l’educazione – cito Hannah Arendt – continua a essere il braccio secolare dell’ideologia. Per questo ovvio motivo il modo in cui la intendiamo ha in realtà profondamente a che fare con quegli aspetti dell’infanzia che oggi riteniamo «naturali» e intoccabili, ma che in realtà di naturale hanno ben poco. Nello scegliere le regole della finzione infantile, la finzione del gioco e di tutti gli spettacoli pubblici di ciò che, come il gioco, consideriamo tipicamente infantile, definiamo con esattezza la funzione pubblica dell’infanzia. In questo articolato esercizio di potere stabiliamo i confini, le regole e i limiti. Scegliamo i giochi per i più piccoli sulla base dei nostri gusti, costruiamo spazi di divertimento a immagine e somiglianza di club privé per soli adulti, spremiamo la volontà dei più grandi perché diventino liberi e coscienti consumatori in modo da lasciare che sostituiscano i nostri consigli, sempre più confusi, con quelli di testimonial e promoter pubblicitari. Vi è ben altro che la semplice definizione di uno spazio. Le immagini e le regole del gioco diventano per i nostri figli 9­­­­

la griglia ordinata entro cui si muoveranno le loro personalità. In questo modo esercitiamo un controllo sulla parte più profonda e ambigua del gioco, che è appunto il viaggio libero della fantasia. Zero fantasia zero pericoli. Con una puntuale inversione: non facciamo questo perché loro ne hanno bisogno, ma perché siamo noi ad averne inconsapevolmente bisogno. Lavoriamo alacremente alla costruzione dei loro bisogni obbligati così da sapere in ogni istante che cosa desidereranno. Ci adoperiamo con dedizione encomiabile al rito dell’adulto che fa giocare i figli, tutti tesi alla felicità di un bambino ideale, che però, proprio a causa del nostro comportamento, finisce per assomigliare sempre di più all’oggetto dei nostri desideri anziché a un individuo in grado di corrispondere ai propri. Che tipo di rito è allora quella forma speciale di attività collettiva che si chiama «adulti che intrattengono i bambini»? In quale rapporto sta questo rito collettivo, con la funzione trasgressiva del gioco infantile che dovrebbe garantire e promuovere? In che senso il rito dell’adulto che fa giocare un bambino influenza le regole del gioco? Frequenta qualche coppia di amici con prole e presto le risposte si materializzeranno in una dura realtà: i figli sono diventati il loro gioco preferito. Come se la loro presunta felicità fosse talmente cruciale che giocare a fare il bravo genitore sia più importante che esserlo. Nell’illusione tipicamente post-ideologica che il genitore divertito – in quanto individuo realizzato e appagato – sia anche un bravo genitore, misurano la qualità dell’educazione dal livello di intrattenimento con cui riescono a compiacere sé stessi e la creatura. È un esercizio che costa caro, questo dell’intrattenimento della prole. Non a caso, chi può spendere si distingue parecchio da chi non può. Così oggi la presenza di spazi specialmente dedicati all’intrattenimento dei figli è divenuta una misura della qualità di un servizio alberghiero, come un tempo lo erano la tv in camera e l’aria condizionata. 10­­­­

Concedersi il lusso di una vacanza childfree, ma portandosi appresso la prole. Affidarla alle cure di babysitter sottopagate, ma motivate a suon di mance quel tanto che basta per la coscienza e per prevenire ritorsioni ai danni dei figli. Oppure, per i meno abbienti, accontentarsi di consegnare i bambini in ostaggio all’animatore di turno, che però ne deve controllare almeno altri dieci, è solo, confuso e certamente provato dalla calura. Così che al tuo ritorno il bilancio dell’intrattenimento conterà alcuni contusi o alla peggio qualche disperso. Al limite, se stiamo parlando di un villaggio a tre stelle e tu sei tra quei milioni di genitori che lo stipendio lo sudano e comunque non basta, sarà il caso di accontentarsi del gettone per l’accesso a un campo giochi, dotato almeno di recinto però, a fare le veci del genitore che se ne sta a leggere il giornale sulla panchina e lascia l’esercizio d’ogni suo più alto dovere alla coda dell’occhio. Divertitevi bambini. La realtà è piena di cose buone per voi. Seppelliamo i bambini di giochi nell’illusione che crescano il più in fretta possibile così da placare la nostra angoscia prestazionale di genitori insicuri. Ma la crescita, come una conversazione, necessita di spazi. Di silenzio. Di pause. A questo, invece, serve la realtà satolla che proponiamo loro: a impedire qualsiasi vero sviluppo. Saturiamo il mondo di intrattenimenti affinché non cambi nulla. Non un minuto di noia, appunto. Sempre indaffarati ma sotto il controllo di adulti in progressiva ritirata dai loro compiti educativi, gradualmente sostituiti da un’opera di compiaciuto intrattenimento. Per questo motivo non è importante che un gioco sia davvero creativo. È molto meno dannoso un gioco semplicemente in grado di intrattenere per ore. Tutto prevedibile. Tutto pieno. Tutto già stabilito. Fuggiamo la loro noia come un male pericoloso perché nella noia c’è, in realtà, l’unica possibilità per noi di divenire imprevedibili. Una rappresentazione piuttosto efficace di quanto questa 11­­­­

imprevedibilità possa essere dirompente si trova già nel dipinto di Bruegel del 1560, Giochi di bambini. Un paesaggio urbano e oltre 250 bambini intenti a giocare, da soli, a coppie o in piccoli gruppi. Nessun adulto a sorvegliare. Un catalogo quasi enciclopedico dei giochi infantili, in cui si riconoscono molte attività ancora oggi familiari. Eppure, osservata da una certa distanza l’immagine ha l’aria sinistra di una grande rissa, di una rivolta di strada, di un tumulto popolare. Come a suggerire che i giochi dei bambini, quando sono davvero liberi di invadere le delimitazioni concrete dello spazio familiare, irrompono come un’attività fondamentalmente primitiva e in grado di corrompere le regole più elementari del patto sociale. Quando un bambino si annoia fa domande. Che cosa vuoi tu da me? Che cosa desideri tu da me? Come posso sapere che cosa desidero io veramente? Fino a che punto io devo essere felice perché tu (adulto) sia felice? In che senso la mia soddisfazione, il mio piacere, hanno a che fare con il tuo? Domande scomode, molto scomode. Che cosa desideriamo noi dai bambini? Come desideriamo che siano? Li vogliamo docili e appagati. Meglio se appagati di spettacoli che piacciono anche a noi. In questo senso, l’onnipresenza del fantastico negli intrattenimenti per bambini è forse uno dei fenomeni più evidenti del modo in cui i genitori oggi tendono a confondere l’educazione al gioco con il proprio intrattenimento. Il bimbo buono sa starsene buono e godere degli spettacoli fantastici che piacciono anche a mamma e papà. Non senza effetti collaterali. Non c’è bisogno di apocalittiche dietrologie per riconoscere che le «cose» che mettiamo dentro al mondo delle favole per bambini sono tutt’altro che neutre. Dall’inesauribile sequel Harry Potter ai Teletubbies, dalla sanguinaria saga del Signore degli Anelli alle moltiplicazioni di marchi di fabbrica Pixar. La realtà sembra semplicemente troppo noiosa per i bambini di oggi. Non vi è forse in questa radice una scelta ideologica precisa? 12­­­­

Non è sempre stato così. Dal basso medioevo in poi, e per almeno tre secoli e mezzo, le favole fantastiche sono state considerate il riflesso di una cultura popolare oscura e fondamentalmente deviante, in grado di corrompere gli animi più sensibili come quelli dei fanciulli e delle donne, confonderne i principi morali, distoglierli dalla «verità». Sino a quando, con i fratelli Grimm, si forma il nucleo di una cultura europea della narrazione fiabesca che eredita e traduce per la nuova borghesia le fiabe popolari rinascimentali. In quest’opera di divulgazione còlta – per la prima volta esplicitamente dedicata ai bambini – prenderebbe vita una sorta di analogia tra «popolo» e «infanzia», nel senso che la funzione della favola nel mondo borghese diventa quella di rievocare, insieme ai «mitici» tempi perduti della fanciullezza (contemporaneamente celebrati nei romanzi di formazione), anche le radici «pre-storiche» e popolari della borghesia3. Non solo. Le storie che la nutrice racconta ai figli della borghesia nascono da una «preistoria» di popoli oppressi. Il popolo di cui la borghesia parla ai propri figli è a un tiro generazionale o poco più. Sta ancora lì. È l’oggetto fisico su cui insiste la sua forza economica. Lo vede tutti i giorni uscendo di casa. Il fantastico di oggi risente di ben altre sensibilità e il ritorno di massa a maghi e stregoni per l’infanzia cela qualcosa di più profondo che non la semplice scoperta di un mercato florido di blockbuster e gadget annessi. Cosa distingue allora la funzione del fiabesco oggi da quella di un secolo fa? Per quale motivo ai bimbi bravi si chiede di intrattenersi con guerre di orchi, streghe ed eserciti in battaglia? Forse per i bambini di oggi la realtà è troppo noiosa semplicemente perché lo è prima di tutto per gli adulti. Non a caso il fantastico mainstream del cinema e dei suoi indotti culturali è pensato anche per gli adulti. Anzi, funziona pro3  D. Richter, Il bambino estraneo. La nascita dell’immagine dell’infanzia nel mondo borghese, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2010, p. 253.

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prio perché piace anche agli adulti, né più né meno come quasi ogni altro gioco per bambini. I continui riferimenti pop e i doppi sensi di film come Shrek, gli Incredibles o Nemo, non potrebbero essere più eloquenti. Nel gioco adulto-bambino che si costruisce attorno ai prodotti cinetelevisivi per bambini, l’adulto di fatto «trascina» sul proprio terreno il figlio. Lo immerge nella sua lingua. Il fantastico che piace all’adulto comporta così già l’accesso a un mondo per adulti e a un «discorso» da adulti. Al bambino si chiede di «crescere» precocemente – di accedere in modo precipitoso alla lingua dell’adulto – e questo permette di tenerlo a bada, di controllare le sue fantasie, di esercitare una censura preventiva sui suoi pensieri che altro non è se non un mezzo per gestire gli aspetti più problematici connessi al mito romantico dell’innocenza e della purezza infantile. Non a caso il fantastico che oggi piace tanto a grandi e piccini è letteralmente centrato su una rievocazione nostalgica della «preistoria». Ai fatti si sostituisce sempre la leggenda. Le catene di cause «razionali» che nella storia rendono conto dei comportamenti dei personaggi e spiegano la successione degli eventi, lasciano il posto a forze incastonate quasi sempre in una definita etica della persona, della famiglia, della società e inevitabilmente anche della politica. Sotto l’equivalenza nostalgica infanzia = popolo finisce così per celarsi quasi sempre l’esaltazione del più radicale individualismo e del mito tradizionale della famiglia. Il populismo delle saghe si mangia la cultura popolare. Si tratta di una prospettiva profondamente antistorica e tutt’altro che ideologicamente neutra. Coltiva in realtà quasi sempre un modello di contrapposizione buono/cattivo, bello/ brutto, figo/sfigato sempre più vicino ai principi che governano ogni altra forma di dialettica sociale a qualsiasi livello, dalle battaglie politiche alle campagne pubblicitarie. È evidente così che il successo milionario dei fantasy è il riflesso di un fenomeno culturale e antropologico nuovo, 14­­­­

che comporta una precocissima adultizzazione del paesaggio delle fantasie infantili. Il momento dell’accesso al mondo del fiabesco non è più – come un tempo – quello in cui il bambino entra in uno spazio «meraviglioso», fatto di oggetti e immagini permutabili, libero di lavorare con la propria fantasia alla «lingua» in cui è immerso. Una specie di luogo magico dove è ancora possibile fare esperienza di una propria identità adulta: lavorare con la fantasia alla costruzione della propria lingua e quindi della propria «storia». Non è un momento di dissoluzione o di sospensione dell’alleanza con il Padre, attraverso cui sperimentare nel gioco modelli alternativi dell’autorità e della Legge. Non vi è dunque alcun possibile esercizio «creativo» dal momento che non sono ammesse distorsioni e trasgressioni alla Legge. Si tratta, invece, di una vera e propria vaccinazione. Al bambino buono si chiede di tornare nell’Eden insieme al Padre, in un rito di conferma reciproca dell’Alleanza. Gli si chiede di fidarsi di lui e insieme a lui godere dell’immersione in una «Pandora» – per dirla con Avatar – che confonda le differenze tra il fanciullo e il vecchio. C’è qui un’inversione precisa della celebre storiella ebraica con cui Hillman apre il suo Puer Aeternus4. Come è noto, si racconta di un padre ebreo che chiede al figlio di gettarsi fiducioso da un gradino, nelle braccia del genitore. A ogni giro il padre chiede al bambino di salire più in alto e di saltare, in un patto di fiducia totale. Giunto su un gradino abbastanza alto, il bambino si lancia ma il padre gli volta le spalle e quello finisce lungo disteso e sbatte con violenza la testa. A questo punto il genitore si rivolge al bambino coperto di sangue e gli dice: «Non fidarti mai di un ebreo neanche se è tuo padre». Quel che qui ci interessa, naturalmente, non è l’ovvio sapore antisemita. La vicenda – osserva Hillman – è infat4 

J. Hillman, Puer Aeternus, Adelphi, Milano 1999.

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ti un’esemplificazione potentissima del nesso che c’è tra la funzione del padre e il tradimento. Come Dio «tradisce» Gesù lasciando che sia crocefisso (ed è solo il più clamoroso di una lunghissima serie di esempi biblici) così – suggerisce Hillman – la funzione specifica di ogni buon padre sembra necessariamente legata all’imposizione di un tradimento. Il solo modo attraverso cui il padre permette al figlio di crescere è attraverso il tradimento del patto dell’Eden: la fiducia primitiva e assoluta dello stato edenico può essere superata solo attraverso una rottura traumatica. Qualcuno nella storia deve fare la parte del cattivo e il genitore che non vuole o non sa «essere cattivo» non impone questa dissoluzione al patto originario e dunque mantiene soggiogato il figlio. In questa sacra unione il figlio è buono proprio nella misura in cui sa essere riconoscente e accettare il dominio dell’autorità, dissimulato sotto le parvenze di un’alleanza immutabile. Cioè contraria alla storia e a qualsiasi evoluzione o trasformazione. Il bagno familiare nella vasca del fantastico mainstream serve perciò esattamente a questo: permette a genitori in crisi con la loro autorità di coltivare l’illusione dell’alleanza primitiva con il figlio. Il gioco della fiaba è sostituito con il rito del fantasy per famiglia. La creatività scambiata con l’obbedienza. La castrazione lubrificata con il miraggio di un’ammissione precoce a un mondo di intrattenimenti per grandi. La giungla che approntiamo nella santissima intenzione di non far mancare nulla di buono è piena di cose cattive. Non c’è da stupirsi se un macaco che si sveglia ogni mattina su un ramo pieno di banane, diventi in breve tempo un animale poco curioso, ingordo e quasi certamente obeso.

Intermezzo

La versione di Eric

Funziona così – dice Eric, un tipo di trent’anni che disegnava giochi per una multinazionale del giocattolo. Partiamo da un’idea, qualcosa che per qualche motivo ci sembra cool. La psicopedagogia fai bene a leggerla ma poi, se vuoi fare il mio lavoro, è meglio che te la dimentichi. Costruiamo il gioco a partire da questa idea e sappiamo che dobbiamo rispettare certe regole. La prima è che i giochi devono piacere alle mamme. Non ai bambini. Sono loro che mettono le mani nel portafoglio, sono loro che scelgono, no? Un gioco deve sembrare utile e buono per loro. Le mamme hanno un gioco molto personale che si chiama «mio figlio che gioca». È una delle forme di gratificazione passiva meglio conosciute dagli esperti di marketing. Il bambino che gioca è il loro premio santissimo. È come un rito, mi capisci? Vuoi un esempio? L’altr’anno abbiamo venduto migliaia di pezzi di un gioco per bambini tra 8 e 14 mesi. Un gioco con pezzi colorati e lettere da incastrare, che formavano figure o parole brevi. Abbiamo sbaragliato la concorrenza e sai perché? Era un gioco bilingue. E a chi, secondo te, piaceva che il gioco fosse bilingue? Ai bambini che nei nostri test usavano comunque quei pezzi colorati solo per sbavarci sopra e poi lanciarli sul tappeto il più lontano possibile? O alle mamme? Dici come fai a saperlo. È chiaro. Noi i giochi li proviamo con gruppi di bambini in una stanza apposta, con le telecamere, gli specchi monodirezionali e tutto quanto. Li chiamano test clinici. Invitiamo a venire a guardarli anche esperti di 17­­­­

psicologia dell’infanzia. Sai il tipo con la gonna di tweed, le scarpe basse e la voce rauca da ex fumatrice? Alla fine di ogni sessione di gioco facciamo un focus e ascoltiamo tutti quanti quello che dice la psicologa. Un focus è una riunione in cui si fa finta di essere tutti allo stesso livello. Di solito la psicologa parla del livello simbolico del gioco e di quello che «si percepisce» o si «coglie» nel rapporto tra il bambino e l’o-g-g-e-t-t-o. Pronuncia questa parola con la stessa enfasi di un prete che dica «spirito santo» o «perdono di Dio». Come vedi, psicologi, preti ed esperti di marketing si assomigliano molto. Ovvio. Neanche te lo devo dire. Dopo che ha parlato la psicologa ogni volta scatta una diarrea di commenti. Una mia collega con un matitone rosso tra i capelli e un blackberry più largo che lungo tra le mani dice sempre cose tipo «non capisco perché ogni cosa deve essere presa come un simbolo fallico». È come un ritornello personale e ognuno di noi avrebbe una buona risposta per lei. Per lo più aspettiamo tutti che la psicologa finisca il suo elenco sulle moltitudini di peni che ha intravisto nelle protuberanze del nostro progetto, e di vagine negli incavi. Qualcuno fa disegnini sul blocco. Io di solito gioco a tetris. In realtà l’unica cosa che ci interessa è quella che riguarda la regola numero due di ogni fabbrica di giochi: evitare che i giochi possano essere pericolosi per chi li usa. A questo soprattutto servono i test clinici. Non ce ne frega niente che i bambini si divertano. Prima di tutto non si devono ammazzare. L’anno scorso girava questa notizia buffa. Una casa nota per la cura maniacale che impone alla sicurezza dei suoi prodotti mette sul mercato un bel trenino meccanico. La locomotiva ha un piccolo meccanismo a carica sul fondo che le permette di andare da sola. Dopo poco che è in commercio un bambino, appena uscito dalla doccia, lo prende e la prima cosa che fa è avviare la locomotiva e poi mettersela tra le gambe. Manco a dirlo il meccanismo sul fondo si impiglia nel suo prepuzio e scoppia un casino. 18­­­­

Dal che se ne ricavano due principi. Primo, a volte è utile credere alle psicologhe quando vedono peni dappertutto. Secondo, forse i test clinici dovremmo farli su bambini nudi. Insomma, quando la psicologa ha finito di parlare i focus servono soprattutto a capire quali pezzi del gioco dobbiamo eliminare perché rischiano di essere pericolosi. Una volta passati per questo duro lavoro di sterilizzazione, i giochi possiamo sottoporli alle madri. Sono le mamme a dover essere contente. E alle mamme, in genere, piacciono oggetti fatti con alcune semplici regole. Il gioco deve avere uno scopo esatto, una funzione evidente; si deve capire a che cosa serve. Quelle dei giochi multiuso, delle cose che puoi far diventare questo e quello con la fantasia sono tutte cazzate. Noi non vogliamo che i bambini ci mettano la loro fantasia. Vogliamo che lo usino per il dannato scopo per cui lo scelgono le loro madri. O che almeno sembri così. È chiaro? Deve avere pochi pezzi, perché i pezzi quando si sparpagliano creano disordine e alle madri non piace troppo il disordine. Lascia perdere quei best seller mondiali come Lego. Quelli sono eccezioni che confermano la regola. Sono una specie di status symbol del gioco. Ma, credimi, quando passiamo al vaglio delle madri un nostro pezzo finisce sempre che è come andare dal parrucchiere per i soldati. Spunta di qua e spunta di là... alla fine sono pettinati tutti uguali. I giochi normalmente sono la morte della fantasia. Li chiamano gradi di libertà. È la misura della tua possibilità di usare quell’oggetto per uno scopo diverso da quello per cui è stato concepito. Meno sono e meglio è per la casa che li produce. Se il gioco che ti stiamo vendendo è fornelli elettrici con cucina, bene, noi faremo di tutto per far sì che al bambino non passi per l’anticamera del cervello di usarlo in una maniera diversa da una simulazione esplicita della cucina di un adulto. Certo, dirai, magari al bambino farebbe bene inventarsi un nuovo modo di usarlo. Ma l’adulto che gliel’ha comprato vuole intimamente che il dannato gioco funzioni per le stesse ragioni per cui lo ha scelto. 19­­­­

Per questo ai miei figli periodicamente i giochi glieli getto via quasi tutti. L’unico gioco che stimola la fantasia dei bambini è la mancanza di giochi. Un bastoncino di legno. Una pozzanghera. Ecco il gioco perfetto. Eric finisce di bersi la birra, ne ordina un’altra e poi riattacca. La mia ditta subappaltava le ricerche di marketing a un’azienda specializzata. Ce ne sono molte. Quella che usavamo noi va fino a Napoli a fare le indagini di mercato. Pare che le madri napoletane siano le migliori. Zero peli sulla lingua, concretezza, niente fronzoli. E soprattutto una specie di conoscenza collettiva, di intelligenza di gruppo. Quando intervisti una madre della media borghesia – il tipo che votava Letizia Moratti ma che in pubblico criticava la sua acconciatura –, quella si siede in punta di sedia ma si capisce che non vede l’ora di dispiegarti tutto il suo amore per i figli e la profondità della sua sensibilità educativa. Ha un senso per l’ecologia, un senso per l’educazione, un senso per l’importanza delle regole, un altro per il primato della creatività, uno per la libertà di scelta e – naturalmente – anche quella venuta con il Cayenne ha un senso per il rapporto qualità-prezzo. Una madre napoletana, invece, di solito si siede con un piede fuori dalla stanza, come a dire «perdiamo poco tempo e arriviamo al sodo». E il sodo è che il gioco meno noie dà e meglio è. E cosa vuoi di più se il bambino riesce a fare tutto da solo? Una volta stavamo in questa stanza a Napoli per un focus group. Manco a dirlo faceva un caldo tremendo e c’erano le finestre aperte. Avevamo lasciato che le mamme guardassero per qualche minuto un gioco per neonati fatto da due api di plastica a carica che dovevano essere appese sopra alla culla. Io assistevo ma non si capiva nulla, urlavano, litigavano e in un quarto d’ora avevo solo capito che una era preoccupata che il movimento delle api le svegliasse il figlio. Un’altra si 20­­­­

lamentava del fatto che il movimento durava poco e che bisognava alzarsi continuamente per ricaricarlo. Su questa storia, senza un motivo, scatta una gazzarra incredibile tipo manco stessero facendo la lotta nel fango. Mi schiarisco la voce, chiedo silenzio, poi alla fine urlo «cazzo per favore state zitte è il mio focus group non il vostro!». Alla fine me ne sono tornato a Milano e su loro suggerimento abbiamo aggiunto le batterie e un telecomando al gioco: le api che battono le ali va bene dicevano, ma almeno non fatecele ricaricare a noi. Poi ho saputo che a New York hanno fatto un test molto simile. Sai come è andata a finire? Hanno aggiunto piccoli pannelli solari sulla schiena delle api. Le mamme dell’Upper East Side sono molto sensibili ai problemi ecologici. Naturalmente alla ricarica solare ci pensano eserciti di nannies messicane. Ma forse è proprio questa la parte del gioco che piace di più a quelle mamme lì.

A colpi di touch screen: la nuova infanzia senza pedagogia

C’è un altro dipinto di Bruegel del 1556 che fa al caso nostro. Nell’Asino a scuola è raffigurata l’irruzione del quadrupede in una classe elementare mentre un maestro è intento a impartire a suon di bacchettate la sua lezione a un’informe massa di bambini avvinghiati tra loro in pose a dir poco brutali. Dalle fattezze adultizzate, mezzi storpi, mezzi nudi, sono ritratti mentre camminano a quattro zampe e si contorcono, al punto da indurre l’osservatore a chiedersi quale sia il vero animale. Educarli tutti. Ricondurre quella massa primitiva e indifferenziata alle forme riconoscibili dell’infanzia che serve agli adulti. Ordinata, profumata e possibilmente in grado di leggere. Come si vede l’infanzia sembra venire dopo l’educazione, esserne la conseguenza piuttosto che la premessa. L’infanzia come la conosciamo oggi esiste in un certo senso da quando scuola e famiglia sono divenuti i luoghi preposti al controllo del corpo e della mente dei fanciulli per garantire la loro segregazione fisica1. Tanto che – secondo molti studiosi – la crescente attenzione di cui godono i bambini nella storia sarebbe dovuta non a un avvicinamento tra adulti e bambini, ma, al contrario, ad una progressiva accentuazione delle reciproche differenze. Una volta segregati, circoscritti e delimitati, i bambini possono diventare oggetto delle amorevoli cure dei loro genitori secondo i dettami della pedagogia.   D. Richter, Il bambino estraneo, cit.

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In tempi recenti questo modo di guardare all’infanzia – in generale pacificamente condiviso dalle diverse tradizioni accademiche – ha subìto qualche scossone. Che cosa accade ai principi di questa rigida segregazione pedagogica quando i bambini riescono ad avere accesso all’educazione al di fuori della scuola? In altre parole, se l’invenzione della stampa e l’iniziale creazione di isole di alfabetizzazione hanno tracciato una linea di demarcazione netta che stabiliva che i bambini erano diversi dagli adulti perché erano persone alle quali era divenuto necessario insegnare a leggere e scrivere, cosa accade a questa distinzione se i bambini hanno accesso alla lettura e alla scrittura in modo autonomo? Se decade il monopolio degli istituti pedagogici? Il saggio ormai datato del sociologo Postman dall’inequivocabile titolo La scomparsa dell’infanzia2 è forse l’esempio più significativo del tipo di discorsi circolati negli ultimi decenni attorno a questo tema. Postman sosteneva che l’invenzione della tv fosse il punto di non ritorno della distinzione adulti/ bambini. La diffusione di massa delle telecomunicazioni e in particolare della tv avrebbe dissolto le ragioni fondamentali della distinzione, dal momento che rispetto all’immagine siamo tutti ugualmente vergini, tutti ugualmente analfabeti. Con l’arrivo della tv non è più possibile suddividere la società in «alfabetizzati» e analfabeti, in persone che possiedono la capacità di accedere al sistema culturale e altre che ancora devono esservi ammesse. Quando il processo di alfabetizzazione non è più mediato dalla scrittura e dalla testualizzazione alfabetica della realtà, l’accesso al mondo delle immagini libererebbe quei segreti che invece rimanevano protetti dalla segregazione fisica degli scolari, cosicché il confine tra adulti e bambini si dissolve. A trent’anni di distanza possiamo dire che le cose sono andate diversamente e che quel confine è sopravvissuto non 2  N. Postman, The disappearance of childhood, Delacorte Press, New York 1982.

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solo al tv color ma persino allo tsunami della rivoluzione digitale. L’accesso all’alfabeto prima oliato dalla tv, oggi ha porte e finestre spalancate e qualunque bambino di tre anni mediamente dotato maneggia con destrezza telecomandi e smartphone dei genitori senza conoscere – nel senso ortodosso delle scienze pedagogiche – nemmeno uno dei linguaggi che vi sono riprodotti. Eppure l’infanzia è ancora qui, più forte e onnipresente di prima. Solo che non è più l’argine fisico dei banchi di scuola a delimitarne l’identità e i confini. Del resto la diffusione di massa della tv fu solo uno dei molti passaggi che rivoluzionarono l’assetto della famiglia, solo uno degli snodi attraverso cui si articolò quella trasformazione. Non l’origine e tantomeno l’approdo. Che dire, per esempio, del progressivo abbandono da parte delle donne del ruolo forzato di angelo del focolare, che lascia ampio spazio proprio alla televisione e ai suoi succedanei, innescando un domino di imprevedibili cambiamenti? Non a caso i cartoons giapponesi che hanno invaso i palinsesti televisivi erano all’inizio costruiti attorno a variazioni sul tema romantico del bambino orfano, nel suo viaggio alla scoperta del mondo. Una specie di rifrazione e continua rilettura del Libro della giungla di Kipling, appunto diventato un classico della cinematografia infantile. Una specie di romanzo di formazione pop che mette in scena i «nuovi» modi di accesso alla cultura: l’infanzia non scompare affatto ma ha una nuova scuola e forse anche un nuovo confine. Tv, computer, videogiochi e internet hanno gradualmente reso porosa la membrana e i bambini hanno cessato di essere un gruppo di persone distinte dagli adulti perché il loro accesso alla cultura era precluso dalle barriere di una segregazione pedagogica. Tuttavia proprio per questo motivo è divenuto quanto mai necessario ripristinare pubblicamente la ferrea distinzione tra i due mondi. Distinzione che non potendo più essere assicurata da un gioco di contenitori fisici, di ambiti di potere 24­­­­

circoscritti, si è trasferita, radicalizzandosi, al dominio della funzione simbolica dell’infanzia e delle sue rappresentazioni collettive. Il limite è passato dalla sfera degli argini concreti a quelli puramente simbolici. Questo campo apparentemente vago e astratto è il luogo in cui oggi «funziona» la distinzione adulti/bambini. Ma le ricadute di ciò sono tutt’altro che astratte. Se un tempo i muri della classe regolavano l’accesso ai segreti dell’età adulta, oggi l’inaccessibilità del segreto è stata nascosta tra le pieghe del nostro immaginario. Così che il bambino che ha pieno accesso alla cultura attraverso il suo intrattenimento (tele)visivo è tutt’altro che privato di ogni controllo e indiscriminatamente esposto ai più reconditi segreti. Al contrario. Nell’opera di apparente reciproca mimetizzazione tra adulti e bambini si realizza uno dei paradossi più intricati della distinzione tra i due: proprio perché le distanze materiali si attenuano, diviene necessario inasprire le censure, le barriere morali e i divieti. Il bambino immerso precocemente nella lingua dell’adulto vi troverà così, insieme all’illusione di un crescita prematura, anche i nuovi impalpabili confini della sua condizione. E questo perché – sostiene Agamben – cessare di essere bambini comporta in qualche misura una perdita della dimensione privata dell’esperienza e l’ingresso in una sfera di riferimenti simbolici che ci permette di operare sugli altri. Questa trasformazione, però, ha un costo e comporta una perdita fondamentale. Il superamento dell’infanzia richiede infatti il passaggio dalla lingua «privata» del bambino al sistema di riferimenti oggettivabili dell’adulto, e con essi la perdita della capacità di fare esperienza della realtà in una dimensione squisitamente soggettiva. Il bambino accede al mondo degli adulti nel momento in cui impara a «raccontarsi» la realtà con la loro lingua3.   G. Agamben, Infanzia e storia, Einaudi, Torino 2001.

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L’apparente «trasparenza» del mondo degli adulti agli occhi dei bambini, indotta dalla precoce esposizione ai nuovi media, finisce così per funzionare in modo parecchio subdolo. Piuttosto che dischiudere segreti ne fissa la portata traumatica. Piuttosto che lasciare libero corso alle fantasie più incontrollate impone loro un controllo imperativo immettendole nel discorso «adulto» e già alfabetizzato dei linguaggi di massa, la cui onnipresente legge è imperativa e senza modulazioni: «Godi! Realizzati prima che puoi! Fa’ come noi, intrattieniti e divertiti! Godi bambino, godi!». Le immagini sanno sedurre in maniera infallibile e permettono al colpo di arrivare diretto. E non appena il neonato sarà in grado di manipolare tasti e consolle, sarà libero di sprofondare non già nel mondo dei segreti dell’età adulta, ma nella jacuzzi con le bolle delle sue rappresentazioni più muscolari e appaganti. Nell’immergersi nella realtà frenetica degli intrattenimenti elettronici i bambini sono costretti a un bagno ideologico dominato dal compromesso feticista di cui parlava Marx: quel tipo di sostituzione che ci spinge ad attribuire vita propria e autonomia ai prodotti che costruiamo, a «naturalizzare» la nostra dipendenza dal consumo, a pensare che sia semplicemente parte di un ordine naturale delle cose, inevitabile, immodificabile e puro. Questo chiediamo ai bambini quando ci aspettiamo che si intrattengano con noi e non si annoino mai. E questo cerchiamo nelle nuove forme di pedagogia «collaborativa» e motivazionale. Chiediamo loro di realizzare i desideri e nell’accedere al sistema di simboli veicolato dai media imponiamo il come. Con quali principi. Con quali valori. L’esposizione precoce a questa diffusa anarchia pedagogica funziona così esattamente come l’aspettativa che il bambino non si annoi mai. C’è una nuova «scuola» che segrega i bambini e stabilisce i tempi e i modi del loro accesso all’alfabeto dei grandi e questa scuola dispone gli argini, regola i principi, in una misura tanto più subdola ed efficace quanto più le regole e i confini 26­­­­

scivolano sotto la pelle di schermi LCD a mille colori. Così il nostro impegno e il nostro compiacimento per l’alfabetizzazione accelerata a colpi di touch screen è semplicemente l’altra faccia del vuoto di autorità genitoriale che conduce diritto diritto a un’ossessionante paura per i bambini annoiati. Ogni liturgia ha il suo Dio e nel caso della scuola si chiama scienza pedagogica, oggi più che mai ispirata ai principi sacri dell’apprendimento motivazionale. La ricerca ostinata di una motivazione positiva dei bambini tradisce chiaramente il timore che abbiamo della loro noia, e la sfiducia che solitamente nutriamo sulle loro capacità di intraprendere attività difficili. Come se, appunto, ci aspettassimo molto più dall’educazione di quanto non ci aspettiamo dai figli. Sentimenti che altro non sono se non la conseguenza diretta dell’indebolimento dell’autorità dell’adulto4. E non è certo casuale che nonostante si continui a parlare dell’importanza dell’educazione persino per rilanciare le economie in crisi, i genitori sembrino di fatto occuparsi sempre meno della formazione scolastica e culturale dei loro figli. Lasciano che i governi imperversino sulla scuola con le riforme e controriforme più strampalate, assistendo estranei alle proteste dei figli, spesso lasciati soli in piazza a rivendicare qualcosa che nemmeno loro sanno. Così, anche quegli adulti che si dilettano la domenica a leggere sulle pagine culturali l’infinito dibattito su «smartpad e palmari renderanno superflui i libri?» sembrano non accorgersi che nell’attigua cameretta dei figli – non appena questi possono scegliersi liberamente le loro letture – i soli libri cartacei che sopravvivono si leggono dal fondo all’inizio, da destra a sinistra, e sono manga giapponesi. E andar bene che le maestre ancora esigano qualcosa come libri di scuola, ché ormai i nuovi metodi di insegnamento hanno dissolto il concetto di sussidiario o manuale in un as4  F. Furedi, Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona, Vita e Pensiero, Milano 2012.

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sortimento confuso di ritagli, di schede e schedine che avviliscono ogni nozione di cultura. L’educazione scolastica sembra sempre più declassata alla stregua di un dovere impersonale e alieno che i genitori delegano volentieri a un sistema pedagogico che subiscono pedissequamente, salvo poi attaccarlo in pubblico – non di rado anche di fronte alla prole – secondo le convenienze e le mode del momento. La loro partecipazione alla scuola è spesso condensata nel circoscritto rito del colloquio con gli insegnanti, dove il profitto del figlio può essere arricchito di quei commenti e quelle sfumature che irrimediabilmente si perderebbero nella sterile sinossi dei numeri a fine semestre. Rassicurati alla meglio, persuasi che nel corpo insegnante non vi siano eccessi pedagogici, pregiudizi, o addirittura vere e proprie forme di accanimento ai danni del figlio – ché ogni insegnante oggi sa quanto è facile attirarsi gli strali della famiglia se solo si azzarda a sollevare qualche interrogativo o qualche critica –, i genitori se ne tornano a ritagliarsi la fettina gratificante del gioco in famiglia (gioco educativo si intende!). Tutt’al più, almeno in Italia, dedicano quel che resta della loro attenzione civica alla scuola partecipando alle commissioni qualità della mensa scolastica, come se – appunto – il solo «cibo» che si pretendesse di qualità per i figli fosse quello che si mettono in pancia e non già nel cervello. Dall’altra parte del muro, gli insegnanti sono lasciati soli e con sempre meno strumenti (sempreché non si tratti di istituti privati...) alle prese con gli effetti di trasformazioni che, essendo state imposte, sembrano non trovare alcun tipo di riscontro in quelle prassi e quei metodi che – belli o brutti che fossero – almeno erano nati come il meticoloso compromesso tra tradizioni, esperienze e bisogni di chi la scuola la costruisce dal basso. Contemporaneamente si assiste a quel fenomeno ben il28­­­­

lustrato da Furedi5 per cui la società appare ossessionata da periodiche riforme dell’educazione dominate dal dogma del cambiamento: in un mondo che cambia rapidamente è necessario che l’educazione si evolva. Principio che ha come suo corollario inevitabile l’idea che siccome il mondo cambia rapidamente gli apprendimenti di oggi – diventando ben presto obsoleti – serviranno in realtà ben poco agli adulti di domani. Così che l’idea stessa dell’educazione scolastica sembra naturalmente implicare il superamento del concetto di scuola, forse un giorno sostituito da permanenti corsi di formazione aziendale, nell’illusione quasi mistica che sia possibile creare dal nulla – con un puro atto di volontà, meglio se a colpi di maggioranza – quel corpo di tradizioni e fondamenti che, radicati nella cultura e nella storia, dovrebbero rappresentare il vero significato di ogni educazione. Se gli insegnamenti del passato sono superati perché dobbiamo adeguarci ai supposti cambiamenti radicali imposti dal precipizio post-ideologico e telematico in cui ci troviamo, il risultato perverso è che corriamo il rischio che presto il mondo sia popolato da nani che – parafrasando il celebre aforisma – sulle spalle dei giganti non riusciranno mai a salire semplicemente perché Google non li aiuterà a trovarli. E delle tradizioni culturali su cui abbiamo costruito quel po’ di civico che ci circonda – incluso quel che resta dell’Illuminismo – residueranno forse riti rauchi a fondovalle, simboli celtici e mitologie sincretiche. L’infanzia resta dunque ben salda e ancorata ai suoi vincoli di dipendenza e subalternità al mondo degli adulti anche quando il contenitore degli istituti pedagogici gradualmente si dissolve, le regole auree della pedagogia arrugginiscono e gli orizzonti dell’apprendimento permanente sconfinano sino a includere ogni possibile esperienza di vita, anche la più strampalata ed eccentrica, purché si possa postarla su Face  Ibid.

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book, e linkarla al proprio portfolio elettronico registrato su un server in Cina. Il bambino è spinto in questo modo a una precoce adultizzazione che costituisce anche la cifra specifica della sua irrimediabile castrazione. La realtà – lasciata alle più creative forme di apprendimento autoinflitto – non potrà che gradualmente presentarsi nella forma di un omogeneizzato banale e possibilmente facile da digerire. Così che lo stato di minorità, cioè quella subalternità all’altro che deriva dall’incapacità di utilizzare liberamente la propria intelligenza e che è alla radice della distinzione tra chi è «minore» di fatto e chi non lo è, non potrà che protrarsi indefinitamente. La nuova alfabetizzazione funziona così come una vera censura poiché attraverso l’accesso a questo sistema organizzato della regolazione del piacere e della cultura gli adulti stabiliscono in modo particolarmente efficace il ruolo dei bambini. Nell’invasione sistematica del loro campo di fantasie, nell’occupazione della lingua infantile fin nelle pieghe più private del gioco e dell’educazione, esercitiamo un controllo ostinato sulla distinzione adulti/bambini. Il mondo là fuori è pieno di pericoli ma i genitori del XXI secolo hanno pochissima fiducia nella loro autorevolezza, mancano di riferimenti psicopedagogici chiari, si muovono in un terreno fatto di opinioni mutevoli e spesso interscambiabili. Un anno va il lilla, un altro il nero. Un anno sono di moda le scarpe tacco 8, l’altro le ballerine. Una stagione è permissivismo, l’altra è severità. D’autunno l’approccio analitico, in primavera quello olistico. Basta leggere qualche statistica. Negli Stati Uniti, nove americani su dieci sostengono che oggi è più difficile che in passato crescere «brave persone»6. Due genitori su tre sono convinti di essere genitori peggiori di quanto non lo furono i propri. Il risultato è che l’educazione dei bambini è diventata 6  G. Cross, The cute and the cool, Oxford University Press, New York 2004.

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una negoziazione sempre più paritetica tra adulti e bambini, un braccio di ferro governato da regole, limiti e principi privi di un’autorità certa7. Una specie di impotenza pedagogica collettiva ben rappresentata da serie televisive come il commovente Mamme che amano troppo in onda sui canali Realtime tv: sul sito puoi trovare persino un vero e proprio decalogo dove la conduttrice Lenore Skenazy, editorialista reduce da un biasimo planetario per aver pubblicamente ammesso di aver lasciato viaggiare da solo suo figlio di 9 anni in metropolitana a New York, cerca di convincere le madri ad essere meno apprensive. Spettacoli per adulti senza bussola in cerca di riferimenti preconfezionati e possibilmente facili da usare. Ma è inevitabile. Non vi è un solo «valore» collettivamente condiviso che gli adulti possano rappresentare ai figli come intangibile: non il rispetto per la vita umana, non quello per l’ambiente, non l’onestà, non la coerenza, non la sobrietà, non il rigore professionale, non il valore del bene comune, né quello della cultura. Il mondo degli adulti fa parecchio schifo, ma te ne accorgi solo se fai tre passi indietro e due di lato. Se ti ci immergi da subito e non ti annoi mai, ti parrà semplicemente tutto normale, liscio e inevitabile. La realtà a cui i figli hanno accesso ogni giorno, quella dei loro genitori, finisce per avere l’aspetto rotondo e grasso di un Carnevale permanente. L’unico valore universalmente tangibile è la tensione di ciascuno rispetto al mito del soddisfacimento e della realizzazione individuale. Quasi una trance collettiva che annulla le differenze tra le persone: tutti impegnati in un mantra ripetitivo e solenne: «divertiti». 7  H. Cunningham, Children and childhood in western society since 1500, Longman, London-New York 1995.

Intermezzo

Fin da piccoli

È la stessa multinazionale del giocattolo delle api a carica. Grossa, grassa e famosa. Nella meeting room c’è il clima tipico delle riunioni tra creativi. Due ragazze annoiate compulsano un minuscolo display con unghie perfette. Un tizio uscito da un canale per soli uomini serve due tipi diversi di acqua minerale naturale. Due ragazzi italiani con pantaloni attillatissimi mormorano tecnicismi in inglese e scoppiano a ridere in lingua originale. Ormai assuefatto ad anni di riunioni nelle stanze quasi sempre ammuffite della sanità milanese, con l’aria spessa di rivendicazioni instradate all’eternità delle carte bollate, l’atmosfera pura e ormonale di quel posto mi dà immediatamente alla testa. Cerco di ostentare dimestichezza, ma non ho il passo e sono sempre o troppo molle o troppo rigido. In un luogo così puoi essere a tuo agio solo se il tuo lavoro consiste nel rendere appetibile qualcosa che non lo è. Fortuna che arriva il capo. Si materializza senza annunci da una porta leggerissima. E in tre passi su un tacco 8 a base larga – sexy ma con un occhio all’ergonomia – affonda il culo spigoloso in una Eames taroccata. Alla sua sinistra siede l’assistente. Vent’anni. Emo. Pallidissimo. Una passione per la gommina e i block-notes di carta riciclata. La faccenda è talmente seria che i block-notes sono intonsi e probabilmente resteranno così sino alla fine del suo stage. Ma è talmente «self conscious» che potrebbe anche avere successo, e magari dopo questo stage gliene propongono un altro. «Dunque – fa lei – se ci siamo tutti volevo parlarvi di una 32­­­­

nostra nuova proposta». Usa il plurale – mi dice l’amico che mi ha invitato ad assistere alla riunione – ma è tutta roba sua. Il capo ha unghie affilatissime e fa un uso generoso del gesto delle virgolette; talmente generoso che dopo un po’ hai perso il conto e ti viene persino il sospetto che nel mondo smussato dei designer quel gesto significhi tutt’altra cosa. Invece no. «Il concept – prosegue scandendo – è gioca-sicuro. Non giochi-sicuri, mi raccomando, ma gioca-sicuro. Si tratta di un prodotto base, della nostra fascia tra i 12 e i 36 mesi e vuole proseguire la nostra policy sull’empowerment, l’emancipazione e la capacitazione dei bambini, per renderli il più possibile indipendenti nell’esplorazione del mondo e in grado di compiere scelte autonome. Come nel prodotto di Nickelodeon, Dora l’Esploratrice, che sapete essere un best seller mondiale, lo scopo non è educare o intrattenere, ma fornire strumenti che fungano da cornice all’esperienza che i n-o-st-r-i bambini fanno del mondo. Promuovere l’esplorazione della realtà, non sostituirci ad essa». Io sono tentatissimo di chiedere perché ha messo anche la parola «essa» tra virgolette, ma tutto fila talmente liscio che mi sento come uno sbronzo tra sobri. O un sobrio tra sbronzi, la cosa è uguale. Creativi e designer, invece, hanno l’aria abulica di chi conosce a memoria il manifesto e attende solo qualche brutta notizia. Che infatti arriva subito. «Quindi – fa lei come se ci fosse un nesso tra prima e dopo – proprio perché sappiamo quanta importanza riveste il tema della sicurezza anche nelle nostre città abbiamo pensato a un casco. Un casco sì, su cui vorrei sentire un giro di idee». «Un casco? – fa una delle ragazze con le unghie perfette – Mi pare che il mercato dei caschi specifici per bici, hockey, skating, sci, sia già piuttosto saturo». «Non ci siamo capiti – la interrompe il capo –. Io dico un casco per casa. La casa è il luogo più pericoloso per i bambini. Lo dicono le statistiche. Ci sono spigoli ogni trenta centimetri. Ci sono superfici taglienti e corpi contundenti. Il 33­­­­

nemico più grosso dei nostri figli è il vostro comodino. E noi vogliamo che siano liberi. Vogliamo dare questo messaggio: ‘Genitori, lasciate i vostri figli liberi di correre anche se non sanno ancora farlo. Lasciate che esplorino ma che lo facciano in piena sicurezza’. Gioca-sicuro, appunto. Naturalmente il tutto va fatto con un’attenzione alla peculiarità del prodotto. Deve essere sobrio, ma convincente. Leggero, ma protettivo e bla bla. Insomma, per questo vi paghiamo, no?», conclude con un sorriso come di chi pensa di aver fatto una battuta ironica e intelligente, ma presto la smorfia si prosciuga. Passano venti secondi o forse anche solo tre ma sembrano venti. Stanno tutti zitti. Poi uno con due spalle così, capelli lunghi neri e accento straniero, si schiarisce e dice che non è sicuro di aver capito, che forse è un problema di lingua, che non gli sembra che la cosa abbia molto senso, che il prodotto potrebbe essere frainteso, che gli pare ci sia un eccesso... come si dice... di paura, che insomma, l’idea – se ha capito bene – fa abbastanza cacare. Lo dice proprio così, senza le virgolette, e forse anche per questo il capo lo guarda corrucciando quel che resta delle sue sopracciglia. Dopo altri dieci secondi di silenzio, nella stanza c’è un caos incredibile, tutti parlano con tutti, i due tizi che sembravano d’accordo in inglese ora se le cantano in italiano, i toni sono concitati, c’è gente che si alza, uno strappa un foglio da un blocco, un altro risponde al telefono, lo stagista è abbacchiato al punto tale da far nascere il sospetto che il progetto del casco sia suo, il capo ingolla un bicchiere d’acqua senza neanche controllare da quale delle due bottiglie proviene, poi si alza e chiude la porta dicendo non finisce qui. E difatti anche per questa sua uscita il tizio con le spalle larghe e i capelli lunghi dopo un po’ di tempo perde il lavoro e va a disegnare giochi per qualcun altro. Alla fine l’azienda grossa-grassa-e-famosa rinuncia al progetto, ma l’idea circola e il casco finisce per essere prodotto da un’altra ditta e pare che le vendite non vadano neanche male. 34­­­­

Siamo tutti in pericolo. Fin da piccoli. E questo vogliamo dai nostri bambini: che imparino presto a essere autonomi, a difendersi. E là dove non arriva ancora il loro sviluppo arriva – grazie alla scienza e all’ingegno delle migliori menti della società – la nostra previdente cura.

Sotto la maschera del Teddy Bear: il corpo censurato dei bambini «normali»

Nessuno nei primi anni del Novecento avrebbe scommesso un soldo su una bambolina di pezza confezionata in un umido negozio di Brooklyn da una coppia di immigrati russi, Morris e Rose Michtom. Invece quella bambolina, divenuta poi il Teddy Bear, si è trasformata nell’icona universale dell’infanzia. Un marchio che, secondo alcune stime, vale, con i suoi affini, circa un miliardo di dollari l’anno. La storia del Teddy Bear è una specie di parabola perfetta. Il 14 novembre 1902 il presidente Theodore (Teddy) Roosevelt parte per l’abituale battuta di caccia con il suo staff. Non riesce a pigliare nulla e allora qualche zelante yesman pensa bene di presentargli come bersaglio un orsetto legato a un albero. Quello si indigna, e rifiuta il sacrificio dell’animaletto indifeso1. Quale mitopoiesi migliore per l’infanzia? Il simbolo universale dell’innocenza infantile nasce attraverso la riabilitazione dell’icona pagana per eccellenza, l’orso malvagio dei riti celtici che la tradizione cristiana aveva nei secoli demonizzato e bandito. Compiuto l’esorcismo, l’immagine pubblica dell’infanzia assume la forma esplicita di un Altro vittima, preservato al suo destino dal nostro onnipotente arbitrio. Innocente e indifeso, l’orsetto sta-per il bambino, da conservare e proteggere. Ma anche di cui disporre a proprio piacimento, esattamente   M. Pastoreau, L’orso. Storia di un re decaduto, Einaudi, Torino 2008.

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come si fa con un fantoccio. Una condensazione efficace delle contraddizioni che oggi connotano l’immagine pubblica dei bambini. Al punto che la sua naturale evoluzione iconica è un posto in prima fila in molte delle campagne pubblicitarie dei sistemi di «parental control», per internet e network via cavo. Non a caso l’orsetto di pelo si afferma proprio negli stessi anni in cui si assiste a un mutamento radicale nel modo in cui gli adulti rappresentano e trattano l’infanzia. È in quegli anni infatti che nasce la nozione «moderna» di cuteness, attributo che non ha traduzione efficace in italiano se non ricorrendo a perifrasi piuttosto goffe, ma che indica quella qualità tra dolcezza e malizia che assume una connotazione intrinsecamente seduttiva2. Se fino agli inizi del secolo scorso il termine cute (probabile trasformazione slang di acute) aveva un’accezione negativa – che in italiano potremmo forse assimilare all’aggettivo «monello» – gradualmente la qualità assume una connotazione positiva. Nello stesso periodo anche le bambole umanoidi modificano la loro rigida espressione d’epoca vittoriana mutando le loro fattezze in quelle tipiche della cuteness dei bambini, fino ad assumere le fattezze caricaturali dei manga giapponesi. Occhioni azzurri e lacrimevoli, boccucce a fiore, guance rosee. Come «l’adorabile Flossie Flirt», la cui pubblicità del 1928 declamava, senza equivoci: «la bambola che allegramente ruota i suoi occhi ammiccanti da destra a sinistra con incredibile malizia». Come si vede, l’iconografia borghese di inizio Novecento è già alle prese con un problema piuttosto spinoso: il corpo dei bambini innesca fantasie talmente scabrose da non poter essere guardato senza filtri. Se non può essere rappresentato pubblicamente, la sua funzione deve essere mediata e condensata in qualche oggetto intermedio sufficientemente sterilizzato; una cosa il cui significato ai nostri occhi sia del   G. Cross, The cute and the cool, cit.

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tutto trasparente: la naturale cuteness dell’orsetto si sostituisce alla seduttività dell’infanzia e la purifica degli aspetti che non possono essere apertamente rappresentati. Rende «visibile» lo stato di natura trasformandolo in una specie di suo sostituto vaccinato. E difatti non c’è alcun tentativo di rendere l’orsetto in qualche modo realistico. Nelle sue versioni successive sarà invece deliberatamente «umanizzato» sino ad assumere la posa del bebè in culla, braccia e gambe aperte, inerte e alla mercé. Naturalmente il travestimento è inerente all’immagine dell’infanzia prima di tutto perché ha a che fare con la rappresentazione collettiva e la funzione del corpo infantile. L’orsetto funziona in un certo senso come la pecetta delle censure, la banda nera che copre le salienze più scabrose e fa sì che i corpi non siano identificabili attraverso i dettagli. Non a caso una delle pubblicità più popolari di fine anni Ottanta utilizzava l’orsetto «coccolino» come testimonial di una campagna per un noto detersivo per bucati. L’orsetto sta lì precisamente per quello: lava via ogni macchia che si accumula nelle pieghe più intime della vita familiare. Ma c’è qualcosa in più: la pecetta della censura necessita di un quid più evoluto, stratificato e complesso per diventare icona pubblica. L’orsetto dissimula e contamina. Come se alla banda nera, alla censura nuda e cruda si sostituisse una falsa immagine che confonde quella originaria, modificandone le qualità. E l’oggetto fisico a cui in primo luogo il travestimento si sostituisce è il corpo. Non è che nella nostra società non si parli del corpo dei bambini. Solo che questi «discorsi» pubblici da almeno quarant’anni hanno quasi sempre una connotazione tecnica. Negli anni Settanta era la volta del corpo buono per gli ortopedici, fatto di posture corrette da esaltare nell’esercizio fisico. Irrobustite le spalle a suon di diete ipercaloriche è stata la volta delle curve di crescita e del corpo disinfettato della scienza, fatto di classificazioni, indici, tabelle. Dalla metà degli anni Novanta è venuto il turno delle 38­­­­

performance cognitive e dell’intelligenza squadernata nei suoi surrogati prestazionali che piacciono tanto alle maestre d’ogni valle e provincia: attenzione e apprendimento. E così – guarda caso – le malattie di quest’ultimo ventennio sono diventate dislessia e disattenzione. In tutto ciò scompare, evidentemente, il corpo «soggettivo». Il corpo degli individui, visto da loro, vissuto da loro. Come vedono il proprio corpo i bambini? Che cosa rappresenta per loro? Che cosa è per i bambini «il corpo» in una società in cui le sue rappresentazioni collettive sembrano assolvere prevalentemente una funzione commerciale? In quali forme i bambini manifestano la loro sensazione di avere un corpo? L’assenza di una cultura positiva del corpo infantile è un fatto che – ad eccezione di alcune nicchie pedagogiche che ancora resistono dagli anni Sessanta – si percepisce in ogni piega delle manifestazioni pubbliche dell’educazione e spesso persino della cura dei figli. Il segno forse più lampante è la segregazione sociale e anche fisica cui ancora sono costretti – barriere architettoniche a parte – i bambini che hanno qualche handicap fisico o che molto più semplicemente sono solo un po’ più goffi dei coetanei. Prendi un bambino in sovrappeso e mettilo in una palestra durante l’ora di ginnastica, e la scuola stessa, prima ancora che la naturale ferocia dei compagni, vanificherà ogni sua speranza di usare il corpo per esprimersi. La natura intrinsecamente performativa delle attività che sono abitualmente proposte nell’ambito della cosiddetta educazione fisica altro non è che lo specchio dell’ethos della «forma fisica» – si intende, ovviamente, secondo i canoni delle varie mode – come primo strumento per raggiungere il tanto agognato appagamento individuale. La felicità. Vittime predestinate, dunque, tanto che se ne accorge pure la scienza (quella vera). Nel maggio 2010 l’autorevole rivista «Pediatrics» pubblica un articolo in cui si dimostra che i bambini in sovrappeso hanno molte più probabilità dei 39­­­­

coetanei di essere oggetto di atti di bullismo. Né è un caso che uno dei capitoli della psicopatologia che più si è arricchito negli ultimi decenni sia quello delle malattie psicosomatiche dell’infanzia. Quando il corpo del bambino è ostinatamente negato, ignorato, dissimulato, oppure semplicemente piegato ai bisogni dell’adulto, finisce per ammalarsi3. Da questo strabismo non sembra immune molta parte di quegli operatori sanitari che si confrontano quotidianamente con i bambini e le loro famiglie. Ancora troppo spesso accade che pediatri e altri specialisti dell’infanzia si rivolgano ai genitori come se il bambino non fosse presente, così che la «malattia» finisce per prevalere sulla sofferenza, trasformandosi in un racconto «pubblico» che cessa di appartenere al soggetto. La madre dice come sta il bambino. Il medico dice come dovrà stare. Ma al bambino nessuno chiede né come è stato né come starà. Al punto che non di rado medici e sanitari per l’infanzia ignorano che persino il loro stesso codice deontologico, oltre che le convenzioni internazionali dei diritti dei minori, richiederebbero che i bambini fossero direttamente coinvolti nelle scelte sanitarie che li riguardano. Perché il corpo appartiene a loro, ed è una delle dimensioni attraverso cui la loro individualità ha diritto di esprimersi liberamente, almeno in una forma commisurata alle loro capacità di discernimento. Del resto è sufficiente sfogliare per qualche settimana periodici e quotidiani per cogliere quale sia l’approdo iconografico della nostra cosiddetta «attenzione» per l’infanzia. In Italia, ad esempio, il codice deontologico dell’Ordine dei giornalisti stabilisce una serie di regole molto rigide per la pubblicazione di immagini di bambini. Con il risultato paradossale che le sole immagini di fatto riproducibili sono quelle di bambini vittime di rapimenti, talora di criminali, e sempre di piccoli fotomodelli della pubblicità. 3  A. Melucci, Il corpo dentro. Come i bambini immaginano l’interno del corpo, Emme Edizioni, Milano 1980, p. 35.

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Sebbene in teoria dal 2004 sia lecita «la diffusione di immagini che ritraggono un minore in momenti di svago e di gioco»4, il Garante ha comunque stabilito «l’obbligo per il giornalista di acquisire l’immagine stessa correttamente, senza inganno e in un quadro di trasparenza, nonché di valutare, volta per volta, eventuali richieste di opposizione da parte del minore o dei suoi familiari». Sarebbe dunque possibile pubblicare foto di bambini «normali» e persino, a discrezione del giornalista, senza il consenso degli interessati. Ma ciò, solitamente, non avviene. Per quale motivo per parlare della canicola estiva si pubblicano foto di anziani boccheggianti senza chiedere loro la liberatoria, ma se nell’inquadratura c’è un bambino la foto viene automaticamente pixelata? Per quale motivo nella nostra società il diritto alla privacy dell’anziano (o di un adulto qualsiasi) «vale meno» di quello di un bambino? La realtà è che la nostra cultura della tutela dell’infanzia bandisce di fatto le foto dei bambini «normali», dei figli di famiglie normali còlti in momenti qualsiasi della loro vita sociale. Quelle immagini sono censurate, le foto sgranate e illeggibili come si fa per le cose oscene. Le sole rappresentazioni ammesse sono quelle di bambini che per qualche motivo assolvono una funzione desoggettivata e simbolica. Che stanno per qualcosa d’altro. Le vittime magnificano la nostra naturale sensibilità per la cura dell’infanzia, e i bambini angelici delle pubblicità si sostituiscono ai bambini normali, per esaltarne le supposte qualità fotogeniche. Il corpo normale dei bambini normali non può apparire. Del resto, proprio questo statuto speciale delle immagini dell’infanzia è il riflesso di una specie di aberrazione «naturale» alla quale sembriamo ormai del tutto assuefatti, un fenomeno pubblico che è a tal punto diffuso da risultare al nostro sguardo spesso trasparente. È chiaro infatti che il motivo per cui i bambini sono naturalmente fotogenici non è da ricer4  Cfr. la Carta di Treviso (poi integrata dal Vademecum del 25 novembre 1995 e ulteriormente modificata il 10 ottobre 2006).

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care in qualche loro supposta innata qualità esibizionistica. Né tantomeno è possibile immaginare che tutto possa essere ridotto alla mera constatazione che «i bambini sono sempre belli e quindi vengono bene in fotografia». Piuttosto, è vero il contrario. È il modo stesso in cui funziona il nostro giudizio su un ritratto a implicare automaticamente che i bambini siano fotogenici. Giudichiamo fotogenico ciò che si presenta filtrato da una maggiorazione estetica; nel caso dei bambini questa maggiorazione avviene ancor prima dello scatto: la realtà della loro rappresentazione pubblica è infatti intrinsecamente «maggiorativa». Il dogma della bellezza infantile è, in altre parole, anteriore alla rappresentazione dei bambini attraverso immagini pubbliche. Ne è il presupposto e la cornice. Così – in modo ancor più subdolo di quel che accade con il tanto vituperato uso commerciale del corpo femminile – la «naturale» cuteness dei bambini è diventata una delle forme attraverso cui oliare i meccanismi del consumo. La storia recente e passata della pubblicità è legata a doppio filo a questo utilizzo «sporco» della fotogenia infantile. Che in Italia ha funzionato – non a caso – anche nelle campagne politiche. Forse molti si sono dimenticati che poco prima della famosa «discesa in campo» del Cavaliere, Milano fu tappezzata da poster giganti con il volto di un neonato sorridente che, su un fondale poi risultato di un azzurro non casuale, esclamava «FOZZA ITALIA!». Tutto questo lavoro di trasfigurazione e travestimento dei bambini ha a che fare chiaramente con la loro funzione pubblica. Se – come osserva Wajcman – è intimo ciò che è protetto dallo sguardo altrui, in una società in cui lo sguardo dell’Altro è ubiquitario, ove non vi è fessura dell’esistenza che non sia osservata, misurata e riverberata ai nostri amici di rete veri o fittizi, assistiamo a una dissoluzione profonda del senso di intimità, al punto che la possibilità di «nascondersi» è diventata il solo mezzo per trovare sé stessi5.   G. Wajcman, Intimate extorted, intimate exposed, in «Umbr(a)», 2007.

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Solo che, nel pretendere che i nostri bambini si identifichino con quelle maschere patinate con cui siamo convinti di proteggerli, realizziamo il paradosso di un travestimento che serve a precludere, non a preservare l’intimità. Crediamo di difendere i nostri figli dallo sguardo dell’Altro malevolo senza accorgerci che quell’Altro siamo noi. Ignari del fatto che nel momento stesso in cui chiediamo ai bambini di essere ciò che non sono, di piegarsi alle esigenze di una loro forma pubblica edulcorata e purificata per essere sempre «presentabili» allo sguardo dell’Altro, stiamo precisamente privandoli della loro intimità. Stiamo cioè impedendo che si crei nella loro mente qualcosa di autenticamente protetto dallo sguardo altrui; uno spazio delimitato e privato, dove le fantasie possano razzolare in libertà. In questo senso «l’intimità» funziona – in rapporto alla Legge – proprio come il gioco. Così come è possibile giocare «veramente» solo se il soggetto è libero di giungere al punto di compromesso tra la Legge (la regola ufficiale del gioco) e i suoi desideri, così anche l’intimità è quel luogo ove la Legge viene a patti con le spinte più opache e inafferrabili della nostra mente. È, in altre parole, il luogo segreto dove il soggetto riconosce sé stesso, entra in contatto con lo sguardo di sé su di sé. E senza segreto non vi è infanzia. La prima ragione per cui orsetti e pupazzi condensano in modo tanto efficace in quasi tutto il mondo la bellezza e l’innocenza dell’infanzia è dunque perché permettono di sterilizzare il corpo infantile piegandolo a una sua funzione del tutto desoggettivata. Privato di ogni qualità che non corrisponda a quelle universalmente riconosciute come «tipicamente infantili», il bambino può essere finalmente oggetto dell’attenzione dell’adulto. Oggetto appunto. Non persona. Questo gioco diventa manifesto quando, come spesso accade, gli adulti domandano ai bambini qual è il nome del loro orsetto e questi di solito rispondono semplicemente «orsetto». Ci aspettiamo che il bambino dia un nome proprio 43­­­­

all’oggetto che ne media simbolicamente l’identità, perché in fondo gli chiediamo di offrirsi volontario nell’operazione dell’autocensura e dell’autocastrazione; di identificarsi con l’orsetto e con i suoi precisi confini libidinali; di essere per i suoi genitori orsetto nel senso più elementare e fisico: inerte, incredibilmente morbido, senza pulsioni e facile da riporre. Per questo motivo le versioni pubbliche e contaminate dell’immagine dell’orsetto hanno un’importanza particolare nel rappresentare il modo in cui pensiamo a ciò che è tipicamente infantile. Di orsetti di pelo se ne sono visti di ogni tipo. Ma sono quelli più torbidi e ambigui a rivelarci quanto è scivolosa la nostra idea dell’infanzia. Nel 1991 l’artista americano Mike Kelley espone una serie di pupazzi di stoffa, poi finiti anche a decorare l’album di una delle band più cool d’Oltreoceano, i Sonic Youth. Nel gadgeting annesso alle mostre c’era un Teddy Bear con una spilla sul petto con scritto «abbracciami sono sporco». In un altro lavoro (Nostalgic Depiction of the Innocence of Childhood, 1990) Kelley fotografa adulti nudi intenti ad accoppiarsi con pupazzi di pezza. L’accostamento tra il simbolo primitivo della purezza e l’immagine schietta di ciò che comunemente la società cataloga come sporco e censurabile rende la scena intrinsecamente oscena. Pochi anni prima, chi si fosse fatto un giro per le montagne svizzere avrebbe rischiato di imbattersi in due adulti travestiti da topo e orsetto. Li avrebbe visti rotolarsi nell’erba, farsi una nuotata nel fiume, canticchiare allegramente come bambini all’esplorazione di un nuovo parco giochi. Sotto il travestimento avrebbe trovato Peter Fischli e David Weiss, due artisti geniali intenti a girare Der rechte Weg, un video diventato un classico dell’arte di quel periodo. Questo modo di lavorare all’intrusione di forme infantili nella realtà degli adulti è tipico dell’arte e dell’industria musicale e permette di sollevare un interrogativo inquietante: in che senso ciò che per noi è «naturalmente» infantile ha davvero a che fare con i bambini? 44­­­­

L’iconografia planetaria dell’orsetto buono ci permette di rendere onnipresente il mito primitivo e nostalgico dello stato di natura e delle sue qualità perdute, tenendo contemporaneamente sotto controllo ciò che di questo mito può rivelarsi potenzialmente pericoloso per il sistema. È dunque una nostalgia molto particolare, dal momento che tutta questa tensione rispetto a un passato primitivo, fertile e innocente è puramente fittizia. Non è volta a recuperarlo e renderlo attuale. È tesa piuttosto a rappresentare «l’assenza», «l’irrecuperabilità» come una qualità costitutiva dell’oggetto stesso. Esiste solo a patto che le presunte qualità «naturali» dell’infanzia possano essere tenute sotto controllo attraverso un costume di pelo. Il travestimento diventa il «modo» specifico attraverso cui rappresentiamo queste qualità perdute. Prima fra tutte la cosiddetta naturale creatività dei bambini. La questione è talmente centrale che quasi ogni avanguardia artistica ha finito per confrontarsi più o meno esplicitamente con il mito della presunta verginità creativa infantile. E come ogni mito anche questo ha una sua iconografia e alcune regole. Una specie di decalogo di luoghi comuni su ciò che è naturalmente infantile, che tratta l’infanzia come una sorta di oggetto a sé stante, indipendente dai contesti culturali, dall’ideologia dominante, dall’organizzazione della società e dalla funzione simbolica delle sue rappresentazioni pubbliche. Rivivere la «parte migliore dell’infanzia». Recuperare quel senso fecondo di «inaccaparrato e quindi di fuorviato» che ne pervade i ricordi6. Ecco un punto centrale qui. Da dove proviene la nostra sensazione di aver smarrito qualcosa di fondamentale? In cosa consiste la poetica della riesumazione di questa qualità perduta? Quando artisti come Picasso – ma la lista è pressoché infinita – ripetono il mantra «quando ero piccolo sapevo di  A. Breton, Manifesti del surrealismo (1924), Einaudi, Torino 2003.

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pingere come Raffaello, mi ci è voluta una vita intera per imparare a disegnare come un bambino», stanno più o meno dicendo l’opposto di quel che potrebbe apparire. Non: è necessario spogliarsi delle cose apprese per essere nuovamente vergini e puri come bambini. Ma piuttosto: la nostra idea di ciò che è tipicamente infantile è talmente stratificata e densa dal punto di vista culturale, che ho dovuto lavorare una vita per imparare a fare cose che fossero considerate «infantili». Se ritornare a essere come bambini richiede cotanto sforzo, è semplicemente perché ciò che riteniamo tipico dell’infanzia ha in realtà molto a che fare con il nostro mondo adulto. Adulti, abbiamo visto, sempre più impegnati nel rito puerile dell’adulto che fa giocare il bambino, alla ricerca di un appagamento individuale che ben poco ha a che vedere con i presupposti educativi del gioco infantile. Forse il riflesso più chiaro, in questo campo, del trionfo dell’ethos infantilistico dominante è il successo di artisti che, come Maurizio Cattelan, fanno del loro infantilismo un’icona. Cattelan gioca esplicitamente con la dialettica tra gioco e rito, tra simulazione e creazione, tra bambini-adulti e adultibambini. Non a caso una delle sue prime opere consisteva proprio in un orsetto giocattolo che correva in bici su un filo. La statue del bambino al deschetto con le mani trafitte da due matite, o quelle dei bambini impiccati a un albero non sono che la controparte del cavallo imbalsamato e sospeso, del foglio di denuncia del quadro invisibile, o del cartello d’artista da appendere fuori dalla galleria con scritto «torno subito». Giochi da bambini o giochi sui bambini. Come dire che non c’è nessuna opera d’arte da scoprire là fuori – o là dentro – dal momento che il mito della creatività dell’artista si risolve nel rendere visibili le nostre contraddizioni attorno a ciò che – come la creatività – consideriamo tipicamente infantile. E, per simmetria, in questo gioco tra bambini-adulti e adulti-bambini la rappresentazione pubblica dell’infantilismo creativo di Cattelan permette anche di gettare uno sguardo 46­­­­

sulla natura delle presunte qualità fondamentali (e perdute) dell’infanzia. Dal punto di vista simbolico, infatti, l’infanzia non è oggi «l’insieme delle qualità naturali del bambino romantico» che per ragioni storiche «sono purtroppo andate perdute» perché l’infanzia, così come la rappresentiamo, orsetti di pelo inclusi, comporta necessariamente la perdita di una qualità. Tanto che la perdita di quelle presunte qualità naturali è per noi precisamente il carattere specifico dell’infanzia. E dunque questa perdita fondamentale – come mostra la storia del Teddy Bear – non ha nulla di «naturale» e biologico ma piuttosto è inerente a un preciso discorso di potere. Non si tratta allora di recuperare una sorta di mito dell’infanzia alternativo alla rappresentazione dei bambini che oggi troviamo su ogni magazine in edicola. Al contrario, potremmo accontentarci di affermare che non esiste alcuna infanzia «vera» là fuori che aspetta di essere scoperta. Tutto ciò che oggi chiamiamo infanzia è ciò che siamo disposti ad appiccicarci. Non a caso facciamo molta fatica a rappresentare in termini positivi il corpo infantile, se non attraverso la mediazione di oggetti neutralizzati. In altre parole, il travestimento è il modo in cui rappresentiamo quella perdita, dissimulando i veri contenuti proiettivi della nostra rappresentazione. Sotto una patina di glassa su cui c’è scritto «i bambini sono puri e innocenti», infiliamo strati delle peggiori contraddizioni che governano l’etica del nostro mondo. Ciò che alla fine risulta «veramente infantile», ciò che l’infanzia è, l’identità stessa dei bambini, assume così la forma di una sorta di miraggio collettivo, una specie di show delle marionette fatto per blandire i piccini e appagare la foga pedagogica dei grandi. Il punto non è spogliarsi di questo costume, levare la maschera per scoprire cosa ci sta sotto. Non è inseguire il mito di un utopico mondo primitivo in cui l’infanzia era pura e incontaminata. Il punto è guardare in profondità a ciò che chiamiamo infanzia per comprendere con maggiore chiarezza «a 47­­­­

che cosa ci serve». A che cosa ci servono i suoi travestimenti. Le dissimulazioni e le opacità attraverso cui ne presentiamo le cosiddette qualità naturali. In questo senso l’arte di Cattelan è scandalosa proprio perché mette a nudo un compromesso molto diffuso nella nostra società: la distinzione bambini/adulti funziona soprattutto nella misura in cui siamo disposti ad appiccicare ai bambini un’identità fittizia e stereotipata, interamente asservita al mantenimento di un’economia libidinale fondata sull’eterno infantilismo dell’adulto. Così quando a Lincoln, Nebraska, Jayla Hamm e il suo compagno Corde Honea immobilizzano per punizione il figlio di lei, di soli due anni, incollandolo con lo scotch al muro, a braccia larghe, e poi mostrano divertiti le foto ai loro amici – vicenda che nel giro di poco tempo provoca l’arrivo di un’auto bianca con luci rotanti blu e una sequela di denunce per maltrattamento – il gioco tragico e comico tra infanzia e adulti, tra rito e gioco, tra finzione e realtà, chiude la sua traiettoria: pochi anni prima lo stesso Cattelan aveva crocefisso un gallerista con lo scotch al muro della sua galleria. È quella che il politologo Benjamin Barber descrive come la transizione del capitalismo globale dall’etica protestante all’etica «puerilista»7. La devozione ascetica al lavoro, al sacrificio individuale come missione di dedizione ai valori della nuova famiglia post-industriale tipica del protestantesimo, ha lasciato il posto, nelle nostre società, al mito dell’eterna fanciullezza come chiave specifica per determinare il rapporto tra l’individuo, la ricchezza e il lavoro. La giovinezza è ciò che lega bisogni e desideri. In un’epoca in cui ciascuno rifiuta di vivere la propria età, lo scambio continuo tra le identità di adulti e di bambini è il compromesso tacito su cui si regge l’apparenza della ferrea distinzione tra i due. Il mercato globale – spiega Barber – è interamente go7  B. Barber, Consumed. How markets corrupt children, infantilize adults, and swallow citizens whole, W.W. Norton, New York 2007.

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vernato dai gusti dei più giovani, che costituiscono l’unico riferimento estetico omogeneo, in quasi tutte le aree del mondo. Perché dunque stupirsi se nel 2005 si è tenuta la Youth Market Conference a Parigi intitolata «Come acquisire e mantenere i consumatori nella fascia 0-25 anni»? Fidelizza un bambino e ti assicuri un mercato eterno. Ciò permette di distillare un principio molto semplice: se vuoi sapere che cosa è l’infanzia, l’unica maniera è andare alla radice. Toccare da vicino il modo in cui questa cosa misteriosa diventa materia. Quanto presto un bambino è Puma o Adidas? Gucci o Armani? È una torta che, solo negli Stati Uniti, vale miliardi di dollari. «Il mio pannolino è pieno!... pieno di chic», recita la pubblicità dei costosi pannolini Jeans prodotti da Huggies. E Pampers non vuole essere da meno: un comunicato ufficiale recente pubblicizza l’arrivo di una nuova collezione di pannolini che sarà disponibile in colori pastello, in varie fantasie specificamente pensate per bambini e neonati. Già negli anni Ottanta in Giappone potevi iscrivere tuo figlio ancor prima della nascita al Baby Circle, una specie di «club» della grande catena commerciale Seibu. Appena nato, Seibu ti mandava a casa il primo catalogo di prodotti dedicati insieme a un biglietto di auguri e congratulazioni ai tuoi genitori con allegata questa bella poesia: Dopo la voce di mamma Dopo un volto sorridente Quali saranno le cose Preferite di tuo figlio? Le note gentili di un carillon Giocattoli di mille colori Perfetti per le sue piccole manine Forse il primo incontro Tra il bambino e il mondo.

Dalla moda ai gadget scolastici, dai giocattoli alle produzioni televisive dei canali monotematici per bambini, dai 49­­­­

blockbuster hollywoodiani al mercato indotto dei prodotti annessi: i bambini incontrano il mondo, cioè vengono alla luce, nel momento in cui iniziano a consumare. Vedi La ricerca della felicità, osannata pellicola di Gabriele Muccino che tanto è piaciuta ai trenta-quarantenni tutti facebook e precariato. È la storia – vera, pare – di un padre caduto in disgrazia, marginalizzato dalla società e dalla moglie, che decide di risalire la china. Tutto troppo facile, e allora mettiamoci anche che decide di tenere con sé il figlio di cinque anni. Un tripudio di luoghi comuni sull’amore genitoriale e contemporaneamente sul mito americano del «farsi da sé». Una specie di condensato caricaturale del principio: «l’amore batte ogni cosa». Allo stesso tempo, però, è anche una rappresentazione delle peggiori contraddizioni del nostro rapporto con l’infanzia. Nel film il bambino funge chiaramente da pretesto per giustificare l’arrivismo e la fame di riscatto sociale del padre, che alla fine ottiene il proprio successo barando con furbizia. La ricerca della felicità altro non è che la ricerca di una riuscita sociale – con annesso conto in banca – anche se fatta a spintoni, gomitate, e chissenefrega del prossimo. Cane mangia cane, bambini, ma non temete, papà vi vuole bene! Poco importa se in questa lotta il bambino vivrà di stenti (nel film) fino al roboante botto del conto in banca. La funzione specifica del piccolo Christopher, la funzione dei bambini nel nostro ordine sociale, è quella di un Altro-innocente che possa giustificare ogni incrinatura della morale collettiva. Un Altro-vergine a cui insegnare che in una società «realmente libera» – o meglio liberalizzata – la ricerca della felicità corrisponde alla ricerca della realizzazione individuale. In una delle scene topiche del film, padre e figlio giocano a basket sul tetto di un grattacielo, sullo sfondo di uno skyline e una bella bandiera americana al vento. Appena il figlio si annoia e rinuncia, convinto d’essere una mezza schiappa (come non capirlo – il canestro è a circa un paio di metri sopra la sua testa), il padre, trasfigurato in uno sguardo da vitello, gli 50­­­­

dice: «Non lasciare mai che qualcuno ti dica ‘questo non lo puoi fare’! nemmeno io! Se hai un sogno devi proteggerlo... se vuoi qualcosa, vai e prenditela!». A questo servono i bravi genitori nella nostra società: a convincere i figli che desideri e bisogni coincidono. Che sono la stessa cosa. Perseguire i nostri desideri come fossero bisogni serve a cucirci addosso gli abiti della nostra identità. E questo vale naturalmente anche per i bambini. La nostra ideologia post-capitalista necessita di un innocente a cui nascondere lo spettacolo scandaloso della realtà. Un soggetto vergine che giustifichi ogni censura. Questo ruolo esige vincoli certi. Il bambino deve essere puro e innocente come il Teddy Bear. E proprio perché puro e innocente, ci aspettiamo anche che sia felice. Ma il passo dalla felicità al consumo è ovviamente assai breve. Innocenti e felici. Satolli di stimoli. Scevri da ogni contaminazione. Edenici e intoccabili. Ma anche prematuramente adultizzati. Autonomi nelle scelte. Determinati a perseguire i loro desideri come fossero bisogni. Ci aspettiamo che sotto la nostra guida diventino grandi imparando a scegliere ciò che li rende felici, ma i principi che governano questa identità, seppure abbelliti dai paroloni vaghi della psicopedagogia – empatia, accudimento, sostegno, risorse, adattamento, eccetera – nascondono in realtà compromessi piuttosto ovvi. E in fondo non è affatto casuale che la cultura della «protezione» dell’infanzia nasca proprio a cavallo della rivoluzione industriale, quando le profonde contraddizioni della società rispetto all’immagine ideale dell’infanzia assumono una loro visibilità pubblica. I figli della classe operaia crescevano in condizioni che erano contemporaneamente contrarie ai principi illuministici e romantici. La realtà tragica del lavoro minorile, la vita promiscua delle famiglie del Quarto Stato, nei ghetti sudici delle città industriali di mezza Europa, mettono in piazza lo iato tra l’ideale di ogni teoria (illuminista o romantica che fosse) e la cruda realtà del capitalismo. 51­­­­

Porre fine al lavoro minorile diventa così lo specifico campo di battaglia attraverso cui preservare l’idea aurea dell’infanzia. Un obiettivo che può essere perseguito solo con un ritorno alle origini. Curiosamente quella battaglia termina proprio a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, quando nella società che si appresta a disporre le condizioni che determineranno scenari da «fine della storia» e trionfo del capitalismo globale, si compie la definitiva sostituzione. Né più né meno come gli adulti, con un trentennio di ritardo anche i bambini gradualmente si trasformano da vittime del lavoro in vittime del consumo. Così non sorprende che le speranze di resurrezione delle economie occidentali – e di milioni di piccoli potenziali consumatori oggi frenati dalla crisi della liquidità e costretti a consolarsi a colpi di sconti a 9,99 euro – siano appese al cappio delle economie di Paesi che ancora sfruttano in lungo e in largo il lavoro minorile. Paradossalmente, oltre un secolo di battaglie in difesa dei diritti dei bambini, di lotte per sconfiggere i peggiori mali con cui gli adulti vessavano e martirizzavano le anime indifese, e chilometri di pagine scritte sulla loro diversità biologica dagli adulti, hanno prodotto una graduale adultizzazione dell’infanzia. E come ogni adulto anche ogni bambino ha sul mercato un valore definito. L’infantilismo dilagante che domina l’ethos delle economie liberali ha dunque come suo corollario il graduale assottigliamento dei principi che regolavano la distinzione concreta adulti/bambini. Si chiede agli individui di essere felici attraverso la realizzazione di ogni più intimo desiderio. Se questo è ciò che ci aspettiamo da un adulto, questo è quello che chiediamo a ogni bambino affinché cresca e diventi un adulto «realizzato». Così, molto prima che i bambini possano essere indipendenti ed emancipati, ci aspettiamo che assorbano come spugne il brodino individualista, in base al quale la qualità della persona si misura dalla sua capacità di autodeterminare la propria felicità. La capacità di godere. 52­­­­

Chiediamo ai bambini di essere in grado il più in fretta possibile di compiere scelte che altro non sono che la pragmatica del consumo. Abbandonata in mezzo al guado la zattera delle utopie educative anni Sessanta, oggi eserciti di genitori entusiasti non vedono l’ora di apprendere le tecniche attraverso cui emancipare quanto prima la prole. Così che i bambini, ingordi di desideri, sappiano determinarsi alla scelta dei loro bisogni, come docili e consapevoli consumatori. Sino ai confini estremi del marketing: il sito inglese Dubit pare che conti circa mezzo milione di iscritti minorenni. Fornisci i tuoi dati, i gusti, le tue preferenze eccetera. Poi, con la promessa di compensi economici, Dubit ti invia pubblicità di prodotti di cui ti chiede di farti promoter personale sul circuito dei tuoi contatti sui social network. Ufficialmente, sotto i sedici anni è necessario il consenso dei genitori, ma le associazioni di tutela dei minori sostengono che in realtà sono molti i casi in cui i controlli si possono facilmente eludere. Empowerment, autonomizzazione. Un processo che in realtà non serve che a nascondere la sua necessaria controparte: per ogni bambino che cresce prematuramente c’è un adulto che coltiva con compiacimento i propri lati infantili. Bambine che giocano alla pole dance e indossano wonderbra a otto anni, e adulti che riempiono gli smartphone di applet ricreative. Ragazzini che lavorano al loro curriculum elettronico prima ancora di saper scrivere, e adulti che imbellettano i loro profili sui social network, giocando con amici immaginari. A ogni livello trionfa la delegittimazione dei beni pubblici a vantaggio di quelli coltivabili nel privato della propria cameretta. Un inno alla gratuità microscopica delle nostre più inutili inclinazioni, che il colosso Diesel ha trasformato in una campagna pubblicitaria mondiale sulla supremazia della stupidità (leggi innocenza/spontaneità e creatività infantile) contro l’intelligenza (metodo/ragionamento/prammatica). Per questo, nella nostra società, l’unico individuo icono53­­­­

graficamente maturo, compiuto e intoccabile è l’adolescente. Sospeso tra i due mostri – il bambino prematuramente emancipato e l’adulto infantile – è la perfetta sintesi delle contraddizioni che il sistema economico richiede e ricerca nelle persone. Un paradosso ben rappresentato dal successo commerciale delle storie di Hank Zipzer il protagonista dei best seller – parliamo di milioni di copie – scritti da un tizio cotonato di nome Henry Winkler, meglio noto come l’Arthur Fonzarelli di Happy Days. Quale migliore immagine del trionfo dell’ethos infantilista? Il torello da bar, trasformato in vitello da nursery. Il bullo di una generazione, l’inguaribile bambinone ormonale, sexy nonostante i suoi capricciosi infantilismi, oggi torna a essere appetibile – chi lo sa, forse anche sessualmente – proprio grazie al suo lato infantile. Un sistema passato dalla confezione di beni alla manipolazione di bisogni, dalla corsa alla produttività alla corsa al consumo, necessita che gli individui che lo abitano siano governati da spinte molto primitive. Il consumatore ideale è una persona infantile, vorace, volubile, gelosa, insicura, costantemente bisognosa di conferme, di nutrimenti, di gratificazioni. Preferisce il gioco al lavoro, l’impulsività alla riflessione, i sentimenti alla ragione, le immagini alle parole, il privato al pubblico, l’individuo alla società, il sesso all’erotismo. In sintesi – precisa Barber nel volume citato – questa dialettica si risolve in poche coppie dicotomiche: facile/difficile, semplice/complesso, veloce/lento. Che a ben guardare sembrano corrispondere in modo sempre più preoccupante ai principi con cui giudichiamo ogni cosa che riguardi i bambini, dalle qualità di un gioco alle radici stesse della pedagogia. Anche in questo caso non c’è bisogno di teorie. La realtà supera sempre la fantasia e se nel maggio 2012 ti avessero invitato insieme a vip, politici e top manager al ricevimento organizzato dal governatore di San Pietroburgo, Georgy Poltavchenko, a margine del Forum economico internazionale, ti saresti potuto imbattere in una sorta di statua vivente. 54­­­­

Una grande fontana argentata dentro la quale erano immerse quattro bambine, pure d’argento abbellite, che soffiavano su barchette di carta. Accorrete signori ad ammirare come la purezza e la leggerezza infantile servono a oliare i peggiori marchingegni delle economie di mercato! Sotto alla superficie calda e pelosa del Teddy Bear si nasconde questa brutale contraddizione. Il corpo che vi abita è quello del maiale ingordo e primitivo, che muove la macchina della felicità delle democrazie evolute.

Intermezzo

Storia minima di un tipo cattivo

Superata la sinossi di cifre e annotazioni antropometriche che ogni bambino che si rispetti matura nei primi due anni di vita, il primo vero punteggio della sua esistenza arriva a quattro anni. Centoventi. Centoventi punti di quoziente intellettivo generale, centotrenta di verbale e cento e qualcosa di non verbale. Di un po’ sopra la media. La cosa di per sé non è sorprendente. Kevin sembra il prodotto automatico di una di quelle famiglie borghesi che la crisi non le sfiora nemmeno e che, fatti tre figli, potevano anche fare il quarto «ma poi abbiamo rinunciato perché forse sarebbe stato più giusto adottarne uno». Capelli biondi e una rigida predilezione per le Adidas, nonostante il fratello da anni avesse scelto la via – per molti irreversibile – di un paio di Nike al mese. La psicologa conta e riconta. Nel punteggio della scala di intelligenza per bambini niente che lì per lì spieghi il palese disinteresse di Kevin per le attività didattiche. Né la sua inclinazione per cose tipo: tirare i capelli senza un motivo, buttare i vestiti degli altri fuori dalla finestra, mettere le scarpe dell’unico compagno di colore nel water, nascondersi nel sottoscala e farsi cercare tre ore dalle maestre, mettere un mazzo di chiavi (poi risultato appartenere alla bidella capo) nella borsa della direttrice scolastica. In primavera, durante un colloquio con le educatrici della scuola materna e la psicologa, i genitori sentono pronunciare le seguenti espressioni: «un po’ vivace», «monellino», «un 56­­­­

po’ dispettoso», «tratti di ipercinesia», «tendenza alla trasgressività». L’incontro si conclude – tutti d’accordo – con la decisione di fare qualche approfondimento. Un breve «percorso di senso», dice la psicologa e anche se la proposta appare un po’ pomposa alla madre, e al padre fa venire in mente cose tipo la misteriosa «aromaterapia» pubblicizzata nella sua palestra, i due accettano. Kevin è sottoposto a otto sedute e a un’intera batteria di test psicometrici. Ai genitori spettano un colloquio congiunto e due colloqui individuali con un’altra psicologa. Nella dettagliata relazione conclusiva, costata il corrispettivo di circa 450 euro, i clinici stabiliscono che il bambino è molto intelligente (sic!), creativo, curioso, emotivamente equilibrato ma un po’ insicuro, ben inserito in una famiglia accogliente e apparentemente priva di tensioni. Vi si legge inoltre, scritto in corsivo, che ha «interiorizzato un sistema di regole dal quale tuttavia tende a distaccarsi come per affermare la sua individualità, in modo provocatorio». Tre giorni dopo Kevin rompe la testa a una sua compagna con uno sgambetto per le scale. La faccenda viene subito archiviata come incidente, ma l’anno dopo i genitori decidono di cambiare scuola materna. Undici anni più tardi. Una stanza al piano terra di un edificio appartenente al dipartimento di salute mentale di un ospedale milanese. Un neuropsichiatra infantile prende un faldone spesso così di carta azzurrina da una pila di altre cartelle cliniche. L’assistente sociale parla della situazione, del fallimento del «progetto di inserimento», del rischio di reiterazione del reato, del fatto che nessuno sa più che pesci pigliare. Gli educatori provano a dire che in fondo è un bravo ragazzo, uno dei migliori che hanno avuto e che proprio non si capisce cosa non abbia funzionato. Il neuropsichiatra dice che Kevin gli ha chiesto di leggere loro questa breve lettera: «Caro dott, sono quello che all’asilo 57­­­­

lo avevano accusato di aver picchiato un compagno anche quando ero assente. Ma questo me lo dice mia madre. Sono quello che alle elementari andavo bene, tanto per le cazzate che ti insegnano lì... ma almeno ho vinto il record di crocette per cattivo comportamento in un anno e anche quello per i pallini di demerito in un giorno. Sono quello che alle medie tutti si aspettavano chissà cosa, e invece io pulito e tutto tranquillo: forse non gli andava giù, ma ero pure capocannoniere. Mi ricordo che poi il calcio non mi interessava più, mi ricordo anche che l’istituto commerciale era una vera merda. Mi ricordo il culo che mi sono fatto con i miei per fargli cacciare i soldi per il Booster. E poi tutto questo progetto di recupero, di inserimento di sostegno come lo chiamate voi... Io ho partecipato ma era solo per il perdono giudiziario e la cancellazione della pena. Alla fine anche quel mese al Beccaria che mi sono fatto per rapina e detenzione... sai che roba, un etto di hashish... non è stato poi così male, ma certo preferisco star fuori. E comunque il recupero era il vostro progetto. La condanna era il mio problema e stop. A me interessano poche cose: conoscere le persone giuste, avere soldi e bei vestiti. Se devo contare qualcosa devo essere così. Vi capisco, in un certo senso vi voglio anche bene, ma io non voglio che mi mettano i piedi in testa, non voglio le tue scarpe da supermercato. A te va bene così e stai bene così. Preferisco farmi rispettare in un certo modo che essere preparato, simpatico e intelligente. Se va bene tra due mesi sono di nuovo fuori. Lo dite voi ai miei che non mi dispiace?».

Gli innocenti che fanno molta paura

Da dove viene il nostro timore per i bambini? Per i pericoli che corrono nel mondo, i rischi e le minacce che incombono in ogni piega della realtà? E se fosse che la paura per i bambini altro non è che un modo per tenere sotto controllo la nostra paura dei bambini? Una specie di collettiva pedofobia? L’idea che i bambini siano possibili vittime funziona per un motivo molto semplice: sono le vittime ideali. Anche se, a prima vista, l’immagine della vittima a volte nasconde il suo doppio. Del resto, non può sfuggire che proprio l’icona aurea del puer, la «prima immagine positiva» del fanciullo, è quella di Gesù. Né sfugge che l’affermazione di questa icona, mai prima del cristianesimo rappresentata pubblicamente con la stessa forza, è come originariamente minata dal suo opposto, la sua controparte brutalizzata, il Cristo crocefisso. Il puer senza peccato, dunque, è rappresentato originariamente nelle due dimensioni di «intoccabile/brutalizzato». Questo doppio sembra aver segnato con forza il destino iconografico dei bambini, e soprattutto la loro rappresentazione pubblica, almeno dal momento in cui ciò ha assunto una funzione simbolica precisa. In fondo non c’è bisogno di complesse analisi storiche o politologiche per cogliere quello che sta accadendo: viviamo un’epoca in cui sembra non esserci alternativa a una politica che si occupi solo di amministrare e «vendere» ai cittadini sicurezza e felicità individuali. Questo edonismo individualistico della «società alla fine della storia» – per dirla con Fukuyama – ha una controparte 59­­­­

retorica necessaria: deve esistere un Altro-innocente che soffrirà per il nostro eccesso di piacere. E la versione negativa di questo argomento è più o meno questa: se l’operare comune «serve» alla sicurezza individuale, è necessario che vi sia tra noi qualcuno da difendere che giustifichi il nostro eccesso di aggressività nei confronti di potenziali aggressori. Ogni comunità ha bisogno dei suoi persecutori. E ogni persecutore ha bisogno di vittime. Non c’è puer senza croce. Quale «oggetto» migliore dei bambini, per proiettarvi il nostro pervasivo timore? Il timore del prossimo che invade il nostro spazio, sia esso nella forma della violenza individuale (come nel caso del serial killer, dello zingaro che rapisce i bambini o del pedofilo) o collettiva (come nel caso dei disastri naturali e dell’inquinamento)? Come osserva Wajcman, «la sola proibizione rimasta, l’unico solo valore sacro che sembra rimanere nella nostra società, ha a che fare con i bambini. È proibito toccare financo un capello delle loro piccole testoline bionde, come se i bambini avessero riscoperto quell’angelica purezza su cui Freud era riuscito a spargere qualche dubbio»1. Non si butta via niente. Sulle pagine web di «Corriere della Sera», «l’Espresso» e «Panorama» di metà aprile 2009 c’è la riproduzione del disegno di un’ambulanza. Quello di persone all’aperto. Quello di una casa. Le tende della Protezione civile. Sono trascorse solo poche ore dal terremoto che ha appena ucciso 150 persone all’Aquila, e mentre una cricca di imprenditori, intercettata al telefono, gongola allegramente per l’imminente scorpacciata di appalti di ricostruzione, siamo costretti a sorbirci la solita ressa di articoli fitti di psicologismi sul senso dei commoventi disegni di bambini a cui il tellurico ha distrutto le mura e divelto i tetti di casa. Disegni non diversi da quelli dei bambini colpiti dai terre  G. Wajcman, Intimate extorted, intimate exposed, cit., p. 47.

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moti d’ogni dove o dalle catastrofi più roboanti, non ultima quella dell’11 settembre; disegni simili a quelli utilizzati dal ministero dell’Interno tedesco per una campagna a tappeto su tutte le autostrade per la sicurezza alla guida. O, ancora, da quelli riprodotti più di recente in occasione delle rivolte in Egitto, Siria e Libia. Al punto che il disegno infantile è diventato una specie di figura retorica a sé stante, in grado di reggere la sigla introduttiva di uno show milionario, come il recente telefilm fantascientifico Falling Skies. Una versione homevideo della Guerra dei Mondi, che si apre proprio con una carrellata di disegni infantili – case scoperchiate, mostri verdolini che sparano, bambini in lacrime – mentre le voci fuori campo di bambini malinconici raccontano l’invasione aliena. Una specie di rito collettivo, che «serve» a confermare l’ordine simbolico: i bambini non mentono, l’innocenza infantile ci mostra le conseguenze reali delle nostre sciagure. La deriva millenarista sulla condanna per l’uomo malvagio che violenta la terra segue spesso inevitabilmente, insieme con i discorsi sul «trauma» e su come aiutare i poveri bambini a fare i conti con il dramma delle ferite. Il supplemento di senso del disegno è tuttavia esattamente opposto a quello per cui lo si riproduce. Non il dramma è a tal punto ineffabile che colpisce anche i bambini e che può solo essere raccontato attraverso il loro sguardo innocente e traumatizzato, ma piuttosto i bambini rappresentano la realtà nella forma non traumatica di una storia che include la ferita e già la sua riparazione. Come dire che quando un bambino racconta un cataclisma o una sciagura attraverso un disegno sta solitamente compiendo un’operazione opposta a quella che gli attribuiamo nel riprodurre quel disegno sui media. Ciò che utilizziamo per rappresentare una ferita ha in realtà la funzione di un cerotto che sta per: ecco il reale puro e semplice, nella sua natura intrinsecamente violenta, ecco come la narrazione – il linguaggio e la storia – riparano le ferite del reale. 61­­­­

Nella versione mediatica il messaggio è invece capovolto. Siamo «noi» (adulti) che cancelliamo quelle storie individuali, le spolpiamo riducendole a icone da incollare alla meglio, affinché non debordino dalla cornice dell’ideologia dominante: ecco il trauma nella sua forma essenziale e pura, attraverso gli occhi innocenti di bambini indifesi. Il punto è che tutta questa operazione – lungi dall’avere qualcosa a che fare con il senso profondo di ciò che è rappresentato in ciascun disegno – esegue un chiaro mandato ideologico: è una sorta di rappresentazione concreta dell’Altro vergine e innocente. I bambini ci guardano e ci mostrano quanto male fanno queste cose: la ripetizione di questa nenia ci permette di congelare il nostro compromesso per conservarlo intonso. Sappiamo bene che non dovremmo costruire case con cemento e sputo su un terreno dove invece dovrebbero vigere ferree norme antisismiche, e invece nella realtà ce ne freghiamo. Sappiamo bene che la violenza chiama violenza e che le nostre guerre pulite, fatte di droni e lanci di razzi da cinquanta chilometri, provocano molti più morti nelle popolazioni civili di quelli causati da ogni attacco kamikaze sino ad oggi perpetrato, eppure continuiamo a rifiutarci di prendere in considerazione tutto ciò come se non appartenesse al campo delle cose che realmente accadono. Questo bisogno di spostare il punto di vista, di narrare le sciagure, specie quando sono causate dall’uomo – come nel caso delle guerre – attraverso lo sguardo di un «Altro supposto innocente», tradisce senza ambiguità lo sfondo su cui si consuma lo spettacolo mediatico. Al contrario di quel che suggerisce il sociologo Marcel Gauchet, l’infanzia sembra non essere affatto «la nostra ultima utopia politica, [...] la nostra ultima speranza di vedere realizzato un mondo diverso da quello che conosciamo»2. 2  M. Gauchet, Se vogliamo crescere un bambino immaginario, in «Vita e Pensiero», 2010, 2, pp. 45-55.

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La sua funzione è piuttosto il rovescio di un ideale utopico a cui tendere o in cui sperare: «serve» per confermare l’ordine ideologico in cui siamo immersi, non per scardinarlo. Esattamente come il rito dell’adulto che intrattiene i bambini gratificando sé stesso ed eludendo il proprio scacco nel campo dell’educazione, anche la vittimizzazione mediatica dell’infanzia è, a tutti gli effetti, uno dei meccanismi attraverso cui impediamo che «un mondo diverso» (un modo diverso di organizzazione della società e degli individui) possa farsi strada. Lasciamo che questo mito saturi ogni altra possibile immagine dell’infanzia affinché non ci sia lo spazio perché emerga una sola obiezione. Difendiamo «gli innocenti» solo per nascondere sotto il tappeto le nostre contraddizioni più oscure. In fondo, quale rappresentazione più efficace di questa ossessione collettiva per «i poveri bambini» del carrozzone di USA-for-Africa, la band che negli anni Ottanta ci ha tormentato con il ritornello We are the world we are the children? Non mancava nessuno. C’erano i nasali cantilenati di Dylan, le raucedini di Springsteen, la tinta arcobaleno di Cindy Lauper, le paillettes di Michael Jackson. Una dosata giostra di maniaci dell’ego alle prese con il problema dell’altruismo. E contemporaneamente una parata efficace di quel multiculturalismo liberale che sarebbe presto diventato egemonico, alla stessa stregua della cultura di una fittizia tutela dell’infanzia. Tutto costruito a tavolino, con una scienza e una tecnica che neanche la NASA. Una specie di debunking preventivo: «Qualunque cosa diciate dell’America, farete i conti con la nostra santissima sensibilità per i poveri bimbi di tutto il mondo». Niente è più lontano dall’occuparsi dell’infanzia, dal tutelarla o capirne la natura e i nuovi bisogni, che prendere in modo strumentale quattro fogli di carta in una scuola elementare e riprodurli in serie. Rappresentare il «trauma» attraverso lo sguardo dei bambini ci permette infatti di fingere che lo «scandalo» riguardi qualcun altro. Sino a che vi è qualcuno 63­­­­

a cui preservare lo spettacolo della realtà, la realtà può continuare a essere il dominio in cui prevale il compromesso: «tutto può accadere, purché loro non sappiano». Non è un caso che i discorsi sull’infanzia – anche quelli della lingua tecnico-scientifica – siano oggi a tal punto centrati sul tema della sua tutela che il loro naturale oggetto retorico latente (il bambino da tutelare) è diventato un imprendibile e misterioso oggetto che il mondo efferato degli adulti contamina. Questo oggetto costituisce una sorta di postulato essenziale della nostra ideologia post-ideologica. In un mondo in cui la vita umana ha un valore del tutto relativo – la vita di un bambino del Darfur, per esempio, vale quasi nulla e, dice l’UNICEF, la mortalità infantile nei paesi più poveri è 30 volte più alta che in quelli ricchi e ci sono 25 milioni di bambini impiegati nel lavoro minorile – è necessario che vi sia qualcuno che crede alle cose che diciamo in pubblico. L’Altro-innocente che deve poter credere ai cosiddetti valori che regolano la nostra società, è così anche il perfetto interprete del ruolo della vittima. C’è, in questo, una coincidenza puntuale con ciò che già anni fa scriveva il sociologo ungherese Frank Furedi3 quando parlava della fascinazione per i discorsi sulla vittimizzazione e sul trauma tipici di ogni società il cui sfondo etico sia la realizzazione individuale. Il mito collettivo dell’infanzia minacciata, l’infanzia da proteggere e tutelare è in questo edificio un pilastro portante. E la convinzione ormai dogmatica che l’infanzia sia vulnerabile e «a rischio», si accompagna a una diffusa perdita di fiducia sulle capacità di recupero dei bambini. Si crede comunemente «che i bambini non siano in grado di fare i conti con le loro esperienze negative e che siano poco 3  F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, Milano 2008.

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capaci di recuperare i traumi precoci»4, nonostante le scienze psicologiche abbiano dimostrato quanto articolate siano le capacità di recupero dei più piccoli di fronte ad eventi avversi. Per questa ragione l’infanzia da tutelare evoca l’ambiente nella retorica ambientalista. Un’entità pura e in equilibrio, al punto da assumere, come ormai è sotto gli occhi di tutti, una connotazione quasi mistica. Da venerare e difendere. Adorare e inseguire. Così, quale migliore rappresentazione di questa funzione dell’infanzia che il suo utilizzo nelle campagne a sfondo ambientalista? Per alcuni giorni, alla fine dell’estate 2010, non c’è stato quotidiano nel mondo che non abbia riprodotto l’immagine dei bambini di Azakhel, uno spigolo di Pakistan non lontano da Peshawar. Sdraiati in una tenda, coperti di mosche, sopravvissuti all’alluvione e a quella concatenazione inesauribile di iatture che di volta in volta le lingue tecniche si peritano di dispiegare: crisi umanitaria, catastrofe ambientale, scandalo politico, eccetera. Quel che è successo è che per una imponderabile sequenza di accidenti sul Pakistan ha piovuto che neanche una maledizione dell’onnipotente. Le stradine sono diventate torrenti, i fiumi laghi, le colline si sono liquefatte in fango. E – sorpresa – chi già viveva nelle baracche se l’è passata parecchio male. Poi metti un abile fotografo, metti due fratellini – Reza e Mohammad – in una tenda con un caldo incredibile, e condisci di escrementi, deiezioni e mosche. Ed ecco pronta l’immagine definitiva capace addirittura di dare un corpo a quell’entità misteriosa che sono «i lettori». «Reza Khan finalmente beve il suo latte dopo la risposta dei lettori!», titola con corpo 48 «The Guardian». Il nostro senso di colpa ha funzionato ancora una volta. Ottimo insetticida, per quello spettacolo. Non sia mai che 4  F. Furedi, Paranoid parenting. Why ignoring the experts may be best for your child, Allen Lane, London 2001.

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lasciamo che i poveri bambini soffrano quelle pene indicibili, perché in fondo il global warming è anche un po’ colpa nostra. Le nostre democrazie sono sane proprio perché riescono ancora a commuoversi. E se ci commuoviamo possiamo continuare a non occuparci dei problemi. Non a caso le redazioni si prodigano quasi sempre nel corredare queste immagini di didascalie che esercitano la stessa funzione. L’abuso ormai consolidato dell’espressione «foto choc» altro non serve che a sostituirsi alle nostre emozioni; la didascalia sta allo choc come le risate finte delle sitcom stanno al nostro divertimento. Si «emoziona» al posto nostro. Serve a certificare: «non preoccuparti lettore, anche se ormai questa foto, come tutte le altre, non ti fa quasi nessun effetto, ci pensiamo noi a rendere pubblico l’effetto che dovrebbe farti»5. Foto e didascalia stanno lì precisamente per permetterci di finire con calma la colazione al bar e poi correre a lavorare per un ditta che acquista prodotti sotto prezzo confezionati in Pakistan con materie prime cinesi, per rivenderli qui al miglior offerente. In questo ordine retorico la didascalia ha lo scopo di far sì che l’immagine del bambino funzioni non malgrado la nostra assuefazione bensì proprio grazie ad essa. Serve, insieme all’immagine, per sostituirsi all’effetto che dovrebbe farci. Se c’è qualcuno che soffre al posto nostro, possiamo continuare a rincorrere liberamente il nostro appagamento. Basti pensare all’efficacia con cui la foto di Kim Phuc, la bimba ustionata che fugge piangendo da un villaggio bruciato dal napalm, è riuscita a condensare simbolicamente le sofferenze inferte al Vietnam dalla guerra americana. Nel frattempo – e non a caso – Kim è diventata cittadina di un rispettabile Paese occidentale e nel 1997 è stata nominata ambasciatrice dell’Unesco. Perché una bambina e non un soldato? O un anziano capo villaggio? O un religioso? 5  S. Žižek, Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

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La risposta la trovi nell’ormai celebre Napalm di Banksy (2004), dove l’immagine della bambina è ritagliata e incollata tra un Mickey Mouse gigante e un clown di McDonald’s, che la conducono festanti, come in trionfo. Così, per tragica analogia – si pensi alla particolare scarsità di immagini che ci sono giunte di bambini iracheni o siriani in condizioni certamente simili –, abbiamo visto solo l’immagine della bambina di Kabul con occhi azzurro pantone, buona appunto per una bella mostra in un qualsiasi tempio dell’arte contemporanea – a testimoniare forse semplicemente il miglior controllo sulle immagini da parte dei servizi di intelligence. Infanzia e martirio sono ormai fuse in un’unica icona autosufficiente e planetaria. Che non ha bisogno di didascalie o sottotitoli. Non a caso il fantasma dei bambini vittime si avvita su sé stesso nelle periodiche polemiche – dai toni non di rado grotteschi – sui presunti eccessi e abusi di potere perpetrati proprio dalle autorità pubbliche preposte alla tutela dell’infanzia. Come per gli articoli sul riscaldamento globale, a cicliche ondate la stampa prende allegramente a cornate giudici, psicologi e assistenti sociali, colpevoli di intervenire in modo autoritario e violento, allontanando i poveri bambini dalle loro famiglie, per motivi del tutto futili o addirittura per «alimentare» un mercato parallelo di comunità, centri di accoglienza e servizi pubblici vari. Impugnato il randello, e accecata dal demone della tutela dei poveri bambini indifesi, la redazione – quella stessa redazione che dieci pagine oltre pubblica foto di bimbe ammiccanti per oliare la vendita di qualsiasi cosa – finisce per soccombere ai medesimi mali che denunciava. Approssimazione del giudizio, frettolosità, preconcetto, ipocrisia, interessi. Non è forse questa una manifestazione precisa della natura ambigua e bifronte della nostra sensibilità per l’infanzia e i suoi diritti? Come in una matrioska, ogni feticcio ne nasconde un altro: le stesse trasformazioni culturali che hanno garantito la 67­­­­

diffusione di una cultura dei diritti per i bambini finiscono per dar vita anche a movimenti che, in nome degli stessi diritti, attaccano le autorità preposte alla loro tutela pubblica. Quale migliore rappresentazione del fatto che i discorsi pubblici sulla vittimizzazione dei bambini hanno profondamente a che fare con la pancia, le viscere e i travasi di bile della nostra ideologia dominante? Il caso del best seller Toxic Childhood di Sue Palmer6, un saggio sul «modo in cui il mondo moderno danneggia i nostri figli» (sic!), non potrebbe essere più rappresentativo delle conseguenze che ciò ha sulla nostra percezione dell’infanzia: «I bambini del mondo sviluppato, specie nei Paesi più ricchi [...], sono colpiti da un’epidemia di ‘tristezza’». Una vera e propria «sindrome» che sarebbe attestata anche dalla crescente evidenza che le malattie psichiatriche sempre più spesso colpiscono anche i più piccoli. Questa tesi condensa in modo paradigmatico lo sfondo su cui si gioca la partita: i bambini sono tristi nonostante facciamo di tutto per renderli felici e sono vittime designate nonostante siano al centro della nostra santissima attenzione. Se si guarda in trasparenza, tuttavia, la realtà può apparire anche sotto una prospettiva assai diversa: non sono i bambini dei Paesi ricchi ad essere colpiti da un’epidemia di tristezza. Al contrario, è la necessità imperativa di «un’epidemia di felicità» a generare l’impressione che i bambini siano vittime. La dilagante ricchezza, le migliori opportunità, il benessere dei Paesi evoluti sono la «causa» dell’infelicità dei bambini dal momento che sono proprio queste evoluzioni culturali ad aver permesso il consolidarsi dell’equivalenza infanzia = innocenza = felicità. In altre parole, quella qualità esiste solo nel momento esatto in cui viene persa. Il bambino triste della società dei consumi esiste solo nel 6  S. Palmer, Toxic Childhood. How modern world is damaging our children and what we can do about it, Orion, London 2006.

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momento in cui si pone la sua felicità come un totem imperativo. Il bambino «toxic», avvelenato dalla modernità, è la conseguenza inevitabile e necessaria del bambino edenico della società dei consumi. Il bambino martirizzato è la controparte del puer intoccabile e intonso. Esiste in quanto il concetto stesso di «innocenza infantile» è inerente al discorso di potere che governa l’organizzazione simbolica della società. In fondo, senza bisogno di scomodare la psicologia e la sociologia, vi è in questo modello la trascrizione di un paradigma molto semplice. La «naturale innocenza» del bambino comporta anche che sia «naturalmente amorevole e felice». E dunque ogni ferita all’innocenza infantile produce necessariamente infelicità. E nulla è più degradante in una società in cui i soli individui «promossi» sono quelli «felici» e realizzati. Del resto, il paradigma funziona perfettamente in tutte e due le direzioni e ciò spiega la frequente e abbondante utilizzazione di immagini di bambini sofferenti nella pubblicistica e sui media. Tutto ciò che fa soffrire i bambini è in sé assolutamente malefico. Questo dogma è messo in scena con precisione dall’onnipresenza dei bambini nei film horror. I tre grandi classici dell’horror, che hanno poi ispirato la successiva inesauribile produzione cinematografica, Rosemary’s Baby di Ira Levin (1967), The Other (1971) di Thomas Tryon e L’Esorcista di William P. Blatty (1971), raccontano storie di famiglie borghesi la cui vita ordinata è corrotta da incarnazioni demoniache dei propri figli. Naturalmente, non è casuale che il successo di queste storie si affermi quando la società assiste alla rivolta di massa di un’intera generazione di giovani, evidentemente non più paghi del loro statuto di figli coccolati, nella culla piena di cure della migliore famiglia borghese. E infatti ciò che rende in prima istanza pericolosi i bambini dei film horror è il loro sfuggire proprio a quei canoni etici e a quelle qualità psicologiche che giudichiamo tipicamente infantili. I bambini dell’horror sono alieni, imprevedibili e oscuri. 69­­­­

Tutto questo non è contradditorio? Viviamo in una società che fa della difesa dell’infanzia uno dei suoi marchi di fabbrica, da esportare e difendere come un copyright e poi riempiamo i film horror di bambini malvagi? Che nesso c’è tra i bambini malvagi e il mito romantico dell’infanzia pura, sana e giusta che fa da sfondo alla nostra sensibilità nei confronti dei bambini? L’infanzia perduta, in contatto con la natura e con le energie del mondo? Il mito dell’innocenza perduta è ovviamente una «scelta» ideologica e va a braccetto con l’idea che i bambini siano tutti «naturalmente» buoni. Il figlio cattivo che non sa compiacersi dell’alleanza eterna con il padre, costituisce una tale minaccia al sistema corrotto dell’autorità genitoriale da dover essere potentemente censurato. E non è certo casuale che questa particolare segregazione si ritrovi anche nelle ricorrenze popolari, prima di tutte Halloween. Solo le forze oscure con cui flirta questa festa, gli immaginari primitivi e pagani che le fanno da sfondo, rendono possibile sospendere la regola aurea «bimbi = innocenti»: ai bambini si chiede di uscire ed essere cattivi, come piccoli untori a esorcizzare il fantasma del bambino «naturalmente malvagio». Tanto che negli anni Ottanta, alcune comunità protestanti degli Stati Uniti avevano preso a distribuire opuscoli che denunciavano la natura peccaminosa di questa festa pagana e persino mettevano in guardia i bambini dal rischio di possibili caramelle avvelenate7. Dolcetto/scherzetto. In fondo è un topos classico della narrazione di genere. La tensione, poi debitamente corretta in orrore, scaturisce anche da questo contrasto: ciò che si suppone essere puro e innocente cova invece intenzioni malefiche. Ma nella riabilitazione di questi riti pagani c’è qualcosa di molto più profondo. Non a caso il rito dolcetto/scherzetto   G. Cross, The cute and the cool, cit.

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di Halloween mette in scena l’inversione di uno dei grandi classici della letteratura morale illuminista: le storie di ghiottoneria in cui il bambino era naturalmente cattivo, vorace, aggressivo, avido, vendicativo, irrequieto e pigro, incapace di dominare i propri istinti più elementari come la fame e il sesso; tutte qualità primitive, preborghesi, inconciliabili con gli ideali illuministi, da trasformare e correggere con un’opera pedagogica assillante, di cui ovviamente l’Emilio di Rousseau non è che la punta dell’iceberg. Il naturale «disordine» primitivo del bambino va piegato alle condotte appropriate dell’adulto e l’esempio letterario costruisce lo sfondo retorico di quest’opera di correzione: le infinite storielle morali create appositamente per i fanciulli, in cui per esempio il piccolo Fritz di turno apprendeva suo malgrado che quel che aveva rubato dalla cucina era arsenico per topi e non zucchero, costituivano lo strumento culturale attraverso cui si affermava un modo di intendere l’infanzia e i principi di una sua corretta educazione. Tanto più che le storie di ghiottoneria permettevano di toccare temi molto diversi e tutti fondamentali, come l’autocontrollo, il piacere, la proprietà. Il bambino che rubava il cibo sino ad avvelenarsi per pura ingordigia era infatti la sintesi perfetta del deviante libidinoso, incapace di sfamarsi e disposto a tutto pur di piegarsi agli imperativi di madre natura8. Per quale motivo, dunque, i bambini opulenti e obesi di oggi dovrebbero mai dannarsi a fare il giro dell’isolato alla ricerca di quegli stessi dolciumi con cui si consolano tutto il santo giorno di fronte alla playstation in beata solitudine? Si direbbe che il rito di Halloween ha avuto successo non solo perché è, banalmente, l’ennesima occasione per creare un commercio di prodotti indotti, l’ennesimo capitolo della moltiplicazione dei consumi. Piuttosto la riabilitazione di questo rito pagano ha permesso una specie di esorcismo al   D. Richter, Il bambino estraneo, cit.

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contrario: si concede al bambino il diritto di esercitare la propria «naturale» voracità. «O mi dai questo o io mi vendico!». Ciò che il gioco dolcetto/scherzetto consente è di mettere in scena il mito della repressione educativa parentale, di riattualizzare la sua funzione simbolica seppure nella forma di una trasgressione «autorizzata», in un contesto sociale dove questa funzione è in realtà quotidianamente indebolita. È funzione specifica di ogni potere quella di rendere possibili le trasgressioni purché ciò avvenga sotto un controllo stretto. La trasgressione altro non è che la rappresentazione della regola e delle contraddizioni necessarie affinché il potere regga. E il gioco della trasgressione funziona tanto meglio quanto più tocca regole fondamentali. Non a caso anche nel gioco dolcetto/scherzetto si mette in scena la trasgressione a una regola fondamentale: i bambini veri sono tutti buoni. Il bambino di Halloween è un bambino che grazie al suo travestimento è autorizzato a farsi guidare dalla sua «naturale» ingordigia, a tornare ad essere naturalmente infido e pericoloso, ad essere sopraffatto dalle pulsioni, a perdere il controllo. Il bambino gira per il quartiere in bande, liberato dall’autorità genitoriale, seguendo nuove regole di appartenenza e nuove gerarchie. Eppure in questo gioco deve continuare a rispettare la proprietà e suonare diligentemente la porta. Il potere ammette una trasgressione purché questa sia sottoposta a regole ferree. Cosicché sotto le vesti della trasgressione si dissimula in realtà una perentoria azione pedagogica conservatrice. Liberi sì, ma guai alla proprietà privata! Ingordi sì, ma suonare il campanello ragazzi! Selvaggi sì, ma riconoscenti! Voraci sì, ma mercanteggiate! Esattamente come per la presenza dei bambini nei film horror, il senso di questa censura risulta in realtà opposto: proprio perché siamo costretti a confinare certi ruoli infantili entro un genere, entro i limiti di una cornice metafisica extraordinaria, ciò significa che le fantasie che i bambini mobilitano sono minacciose per il nostro ordine sociale e dunque 72­­­­

debbono essere allontanate da noi «preventivamente». Poste entro un mondo alternativo, al di fuori del reale. Proprio per questo sono le storie cinematografiche in cui ai bambini si appiccica esplicitamente il ruolo della vittima a smascherare le contraddizioni e i compromessi più torbidi che si celano dietro al dogma «infanzia-innocenza-vittimizzazione». L’esempio forse più chiaro in questo senso è quello del film Poltergeist (1982), scritto e prodotto da Spielberg e diretto dallo specialista di carneficine Tobe Hooper, in cui una famiglia americana modello è minacciata dall’intrusione di esseri che incombono dall’Aldilà e cercano di rapire la figlia più piccola Carol. La seduzione esercitata dal video con il segnale di disturbo è un passaggio chiave. Nella quiete del soggiorno in penombra lo schermo si accende all’improvviso e la bambina corre e si siede a osservarlo divertita. Da dove provengono le istanze malefiche che corrompono la famiglia? Anche in questo caso si potrebbe leggere la vicenda secondo due prospettive opposte. A prima vista siamo di fronte a un paradigma classico: i bambini innocenti sono le prime vittime del male. Le forze malefiche che disintegrano la famiglia vengono dall’esterno. L’ordine familiare è corrotto dai messaggi provenienti dai media, che rapiscono i nostri figli, sottraendoli al dominio della nostra autorità genitoriale. Tutto nella mise en scène concorre a suggerire questa lettura: l’infanzia, in questa versione, rappresenta l’oggetto incontaminato che viene stuprato dall’intrusione di un elemento estraneo, proveniente dal mondo degli adulti. Tuttavia è anche possibile una lettura meno «automatica», suggerita dalla stessa Carol: «They are here!» («loro sono qui!»), dice la bambina. Il male non è fuori, ma dentro. Carol, bionda e purissima, in realtà è come attratta dal segnale «sporco» del video. All’inizio il suo flirt con lo schermo è un’interazione giocosa. Lasciata a sé stessa, nella dimensione solitaria del gioco, finisce per penetrare proprio nell’oggetto più impuro del focolare domestico: la tv nel momento di 73­­­­

segnale «bianco». Gli esseri malvagi che la cercano trovano in lei un «canale» attivo. La bambina funge da antenna, per immettere nella famiglia i contenuti del segnale sporco del video. Nel fare da tramite tra i non morti e l’ordine delle cose viventi i bambini all’interno della famiglia ne rivelano il lato oscuro. Non è forse questa una rappresentazione chiara del modo in cui le pulsioni infantili irrompono negli equilibri familiari attraverso il gioco, veicolando fantasie, dando «parola» a un rumore di fondo che altrimenti rimarrebbe semplicemente ignorato o coperto dai discorsi adulti? E il video senza segnale non diviene forse semplicemente uno «specchio» che rimanda all’interno, verso la famiglia, le fantasie infantili non più filtrate? Carol è sedotta dal segnale disturbato e «prediscorsivo» della televisione, il segnale elettrico puro: lo schermo «bianco» è il luogo dove proiettare le proprie fantasie più primitive, dove i pensieri dalla lingua primordiale dell’infanzia possono penetrare il campo delle relazioni domestiche. Nella fissazione a questa dimensione ancora soggettivata del linguaggio – intima, ineffabile, non-storica – è come se rivendicasse il proprio status infantile, il rifiuto di «crescere» opposto alle aspettative della famiglia. Del resto non è casuale che l’immagine eterea della bambina, sapientemente sfruttata nel primo episodio (Carol ha 5 anni), sia stata ripresa in modo quasi caricaturale nelle due versioni successive, per conservarla il più possibile identica «all’originale». Frangetta, occhioni, guanciotte, abiti candidi. Questa accentuazione dei tratti infantili svela con chiarezza il trucco sottostante, che vale per Carol così come per gli altri bambini protagonisti di film che mettono in scena la loro vittimizzazione ad opera di una qualche oscura forza soprannaturale. Come per esempio la piccola Newt, nel secondo episodio della saga Alien, una bambina che ha «miracolosamente» trovato scampo nelle intercapedini di pavimenti e soffitti, in una 74­­­­

colonia umana su un pianeta disperso dove i mostri alieni hanno banchettato uccidendo tutti gli adulti. Newt, come Carol, altro non è che la «controparte», la «controfigura» umana dell’alieno o del demone di turno. Che ci sembra indispensabile rappresentare sotto gli abiti di una vittima proprio perché il suo ruolo di carnefice ci appare intollerabile. Le piccole vittime dei film sono così la migliore rappresentazione del motivo per cui la nostra santissima preoccupazione per i bambini indifesi tocca da vicino e si confonde con la paura che abbiamo del lato oscuro dell’infanzia. Non c’è niente di sorprendente in tutto questo. Non è che la rappresentazione di ciò che Giorgio Agamben descrive con precisione a proposito dei riti funebri. La loro storia, nei secoli passati, in molte etnie e religioni diverse, racconta che la morte non produce automaticamente morti, ma mezzi morti o non morti. «Larve», le chiama Agamben, fantasmi o mostri diremmo con un linguaggio più vicino al cinema. E le cerimonie funebri servono a indirizzare il fantasma mezzo morto al mondo irreversibile dei morti. Ma dall’altro capo del filo le cose non vanno diversamente. «Come la morte non produce direttamente antenati, ma larve, così la nascita non produce direttamente uomini, ma bambini, che in tutte le società hanno un particolare statuto differenziale». Mezzi uomini, che «possono in ogni momento trasformarsi nel proprio opposto». Creature pericolose alle quali le società, nel tempo, hanno riservato un particolare «esorcismo» attraverso i riti di iniziazione9. I bambini sopravvivono a demoni e alieni solo perché, anziché combatterli, sono come naturalmente in grado di rifugiarsi nello stesso luogo dove proliferano. Non la realtà linda e tecnologica del sopra, ma quella sudicia e primitiva dei cunicoli, delle fogne, dei tunnel di servizio.   G. Agamben, Infanzia e storia, cit., p. 88.

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Questo punto di vista comporta un ribaltamento della versione «buonista»: la violenza non irrompe nella famiglia nonostante i figli o loro malgrado (le forze malefiche se la prendono con i figli) bensì proprio grazie a essi. Sono i bambini che «lasciano entrare i mostri» nella famiglia attraverso pulsioni e fantasie primitive che albergano sotto la superficie e poi affiorano in modo traumatico quando gli adulti le disconoscono, le negano e infine le alienano sino a «proiettarle» su una malefica entità esterna. Questa dimensione primitiva dell’infanzia, che mette in crisi l’alleanza tra genitori e figli e scopre le contraddizioni su cui si regge, è una sorta di collettivo buco nero, la necessaria controparte all’immagine edulcorata e stereotipa dell’età «fragile e vulnerabile», dell’età da venerare alla stregua di una vittima sacrificale predestinata, come una sorta di totem intoccabile. Meno male che c’è South Park. Nell’undicesimo episodio della sesta stagione, Child abduction is funny («i rapimenti di bambini sono divertenti»), i genitori di South Park sono presi dal terrore che orde di malintenzionati stiano per rapire i loro figli per farne scempio. «I bambini non sono sicuri nemmeno a casa loro!», tuona il cronista delle news all’inizio della puntata. Subito dopo i genitori corrono a spiegare al piccolo Tweak le nuove misure di sicurezza della famiglia. Coprifuoco e serrature speciali alla cameretta. Ma il panico dilaga e la comunità si rivolge al proprietario del ristorante cinese, scelto come l’ideale costruttore di una muraglia contro i rapitori, mentre i bambini sono costretti a girare con buffi cappellini elettronici che fungono da localizzatore. Poi il colpo di scena. La tv annuncia che nuovi studi dimostrano che i rapitori di bambini non sono da cercare tra gli sconosciuti, ma tra persone che i bambini abitualmente frequentano. E naturalmente tutti a casa, sequestrati in salotto, a diffidare dei vicini. Alla fine la chiosa con fuochi d’artificio: in tv dicono che in 9 casi su 10 sono proprio i genitori a rapire i loro figli. A quel punto moglie e marito litigano, interrogandosi su 76­­­­

chi dei due deve salire in camera a controllare che il figlio stia bene. Ma il problema è irrisolvibile: «Cosa dovremmo fare? – sbotta lui – Come proteggerlo da noi stessi?».

La pedofilia e i suoi nemici

Primavera 2010. Dopo otto anni di martellamento mediatico sulla malvagità dei musulmani, con tanto di foto riprodotte in ogni tiratura possibile dell’immagine della sposa-bambina di Nouakchott in Mauritania – foto dell’anno Unicef 2007 – (leggi: «gli islamici oltre ad essere terroristi sono anche pedofili; il punto di fine della storia, di trionfo globale del capitalismo, comporta lo scontro di civiltà anche perché questi barbari travolgono uno dei baluardi su cui si fonda la nostra società occidentale, ossia la distinzione bambini/adulti e il diktat morale di tutela dell’infanzia che include il divieto di pratiche sessuali con i bambini»), finalmente l’Occidente si sveglia in piena bufera preti-pedofili. Tra teste di prelati che saltano qua e là per il mondo e voci sempre più insistenti che toccano i suoi più stretti collaboratori di sempre, Joseph Ratzinger esorta i preti a «essere come Angeli». Non sfugge che, al di là del rigoroso rimando teologico sottostante, nella sublime analogia preti-angeli si cela un contenuto popolare «trasparente»: per l’iconografia religiosa, gli angeli sono bambini seminudi o, tutt’al più, presenze efebiche sul cui sesso ancora inutilmente ci si interroga. Poche settimane più tardi la polizia belga perquisisce tombe di prelati nella cripta di una abbazia, alla ricerca di carte segrete su casi di pedofilia insabbiati. Angeli e demoni appunto. Botta e risposta. Nel caldissimo luglio 2010 ecco servito da Santa Romana Chiesa il documento «tolleranza zero» per la pedofilia, redatto dalla Congregazione per la dottrina 78­­­­

della fede, che modifica il Delicta Graviora (il documento pubblicato nel 2001 contenente le prime linee guida per trattare i casi di pedofilia). Tra gli altri provvedimenti, prescrizioni raddoppiate sino a venti anni per gli autori di abusi, ma ancora nessuna esortazione alla collaborazione con le forze dell’ordine. Tolleranza zero o quasi. Ma anche comprensione quasi zero: che senso ha dichiarare un nuovo corso di severità per un fenomeno sulle cui vere cause non si è apparentemente fatta chiarezza? La confusione del Vaticano al riguardo è evidente e il suo riflesso più appariscente è la concomitante recrudescenza di attacchi all’omosessualità nel clero, come se i due fenomeni – abusi sessuali sui minori e orientamento sessuale dei preti – fossero direttamente collegati. Tesi in realtà superata definitivamente, non solo grazie ad approfonditi studi sul tema provenienti dal mondo laico universitario1, ma anche da pezzi della Chiesa stessa. Cinque anni fa la Confederazione dei vescovi americana finanzia il John Jay College of Criminal Justice di New York con 1,8 milioni di dollari (parte dalle casse della Congregazione, parte dalle offerte dei fedeli ma con una cospicua offerta anche del dipartimento di Giustizia) per il più autorevole studio mai condotto sulla pedofilia nel clero. Le conclusioni – pubblicate sul «New York Times» e riprese in Italia da ilpost.it – sono a dir poco sorprendenti. Dimenticarsi la storia dei preti costretti a molestare gli innocenti a causa delle «aberrazioni» imposte da celibato e omosessualità: la maggior parte degli abusi si è verificata negli anni successivi al 1968 e dunque si è trattato di un vero e proprio «effetto Woodstock»: la pedofilia tra i preti sarebbe il frutto del permissivismo degli anni Sessanta. Anzi, il progressivo aumento di preti omosessuali nel clero 1  M.G. Frawley-O’Dea, V. Goldner (a cura di), Atti impuri, Raffaello Cortina, Milano 2009.

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è corrisposto a una graduale diminuzione degli episodi di abusi sui minori. Non solo. I preti pedofili non avrebbero potuto essere identificati in anticipo perché – in base a quanto emerso nello studio – non presentano «particolari caratteristiche psicologiche» o disturbi psichici. Ma se la causa di questi eventi è puramente esterna alla Chiesa significa che è un fenomeno che non la riguarda? Che non la tocca in «modo strutturale» se non per un’ovvia questione di presentabilità morale? Per molti cattolici ortodossi sembrerebbe proprio di sì. Anche in Italia. Rispondere – come fa l’autorevole sociologo Introvigne in un recente saggio in difesa di Ratzinger – che i pedofili nella Chiesa non sono più numerosi che in altri contesti della società e che i casi accertati sono «solo» frutto di devianze individuali, sarebbe come dire che la questione lascia del tutto intatto il campo dell’organizzazione simbolica dell’istituzione2. L’alternativa è che abbiano ragione filosofi come Žižek quando dicono che i casi di pedofilia all’interno della Chiesa sono rilevanti proprio (e forse solo) nella misura in cui rivelano il modo di funzionamento della Legge. Come le canzoncine sconce che in ogni parte del mondo fanno parte del «bagaglio culturale» di qualunque esercito che si rispetti – insegna su tutti il sergente Hartman in Full Metal Jacket – ogni istituzione, per sopravvivere, deve rendere possibile l’eccesso che la sua norma «ufficiale» proibisce3. E forse in pochi altri casi come nel fenomeno della pedofilia, il lato oscuro della Legge è buio profondo, e discuterne ci permette di sollevare un poco il velo della funzione simbolica dei bambini nella collettività. Da dove nasce questa foga per la caccia al pedofilo, che 2   M. Introvigne, Preti pedofili: la vergogna, il dolore e la verità sull’attacco a Benedetto XVI, San Paolo Edizioni, Milano 2010. 3  S. Žižek, In difesa delle cause perse. Materiali per la rivoluzione globale, Ponte alle Grazie, Milano 2009.

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poi scatena la mattanza? Siamo proprio sicuri che quando i pedofili sono preti il problema della mattanza riguardi un eccesso di anticlericalismo? In realtà sembrerebbe che a scrivere i documenti più efficaci contro la Chiesa cattolica siano, come spesso accade, proprio i cattolici che ce l’hanno con i laicisti. Ed è curioso che l’altro argomento portante del libro di Introvigne consista nella tesi secondo cui l’attacco mediatico alla Chiesa – transitato dal noto documentario BBC e dalle «inchieste» del «New York Times» – è frutto di un «panico morale» fondato su numeri gonfiati e giudizi sommari. Come se la storia stessa «dell’allarme pedofilia», dagli anni Ottanta in poi, non fosse esattamente la storia di un panico morale planetario, con la stampa impegnata in una campagna a tappeto4: «decine di migliaia di bambini scomparsi ogni anno, rapiti quasi sempre per essere sfruttati sessualmente!». Salvo poi scoprire che tutte le cifre ufficiali parlavano di dati ben più modesti e comunque incerti. Un panico morale alla cui costruzione, tuttavia, ha contribuito non poco proprio l’atteggiamento moralistico del cattolicesimo più radicale, specie negli Stati Uniti. Non a caso le sottocomunità o i «gruppi» a turno accusati d’essere responsabili dell’ondata di abusi sessuali sui bambini – psicopatici, gay, zingari, ebrei, misteriose lobby internazionali, satanisti, stravaganti permutazioni dei suddetti – erano precisamente quei gruppi di individui che sfuggivano alla norma della famiglia cattolica tradizionale (o se si vuole «integralista») e del familismo radicale delle comunità parrocchiali statunitensi. E che, non potendo essere ricondotti all’ordine morale ortodosso, diventavano «automaticamente» oggetto delle peggiori proiezioni paranoidi della società. 4   Leggi i molti dettagliati saggi su questo tema, per esempio J. Silverman, D.Wilson, Innocence Betrayed. Paedophilia, the media and society, Polity Press, Cambridge (UK) 2002, e C. Critcher (a cura di), Moral panic and the media, Open University Press, Maidenhead (UK) 2006.

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Forse certi cattolici dimenticano che la caccia al pedofilo è un genere letterario che non ha certo inventato la stampa laicista anticlericale. Non è necessario risalire ai tempi della caccia alle streghe per farsene un’idea. Basti pensare a ciò che accadde a cavallo tra 1800 e 1900, quando l’Europa cattolica prima e la Germania nazista poi coltivavano l’immagine dell’ebreo-fornicatore, travolto dalle passioni al punto da minacciare anche i bambini. Del resto, anche questo attacco altro non era in fondo che la «naturale» prosecuzione della vecchia storia degli ebrei che rapivano i bambini, per poi ucciderli in riti privati5. «Mafiosi e pedofili? Meglio se si suicidano! Sono sicuro che molte persone la pensano come me!», dice il deputato leghista Buonanno nel giugno 2010 in un’intervista per affaritaliani.it, poi ripresa dalla «Repubblica». Un anno più tardi, l’altro grande quotidiano nazionale pubblica un articolo su «Firenze: Uomo accusato di pedofilia. Folla assedia casa per linciarlo. Decine di persone sono arrivate davanti alla casa, anche con bottiglie di benzina. La polizia mette in salvo l’uomo» («Corriere della Sera», 29 giugno 2011). Anche in tempi recenti, come si vede, la caccia al pedofilo è rimasta quel tipo di produzione narrativa al cui testo ha contribuito in modo meticoloso quella stessa «sensibilità» politica su cui hanno attecchito le derive populiste cui assistiamo in tutto l’Occidente democratico, specie dopo ogni allarme sociale che minaccia l’ordine costituito. La questione ha radici antiche. Il mito romantico dell’innocenza infantile si fondava su una specie di equivalenza: i bambini restano innocenti nella misura in cui sono protetti dal sesso e dalla morte. Naturalmente non sfugge che questa equivalenza può essere letta in senso opposto: non sono sesso e morte a corrompere l’innocenza ma, piuttosto, è la nostra stessa definizione di innocenza a implicare l’assenza 5  D. Sonenschein, Pedophiles on parade, vol. 1: The Monster in the media, D. Sonenschein, San Antonio (TX) 1998.

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di sesso e morte. Appiccichiamo l’attributo «innocente» a ciò che sfugge la contaminazione di questi due dominii, che evidentemente riteniamo sporchi. Con il romanticismo, tuttavia, si costruisce anche un preciso discorso sulla «bellezza» dei bambini: la loro purezza, infatti, veniva considerata come diretta emanazione delle forze più oscure della natura. La controparte negativa di questa poetica della «potenza» infantile era però l’idea che i bambini, come le donne, fossero ipersensibili alle passioni e dunque incapaci di consentire liberamente a qualunque passione intensa, specie quelle connesse alla sfera erotica. Come si vede, questo «discorso» – che comportava automaticamente il divieto di pratiche sessuali tra adulti e bambini – è inerente a una visione dell’infanzia che nulla ha a che fare con la cosiddetta cultura della sua tutela, più giovane di almeno un secolo. Non sorprende dunque che il fantasma della tutela del corpo erotizzabile dei bambini – come un tempo quello delle donne – sia diventato una sorta di baluardo fondamentale della società, ciclicamente minacciato da folli e orde di barbari o delinquenti variamente assortiti. Da combattere, scovare e porre alla pubblica gogna. Tanto che negli Stati Uniti esistono alcuni registri pubblici consultabili (childmolester. com e sexoffender.net) con la lista dei «cattivi» e il luogo di residenza. Un comodo «chi è chi» della colpa, per la gioia di onesti padri di famiglia. È evidente che ciò che qui ci interessa non è quanti siano effettivamente i pedofili e se nelle istituzioni religiose ve ne siano di più che in altri contesti, cosa che curiosamente sembra interessare più chi difende l’operato del Vaticano anziché chi lo attacca. L’aspetto più rilevante è: come è possibile che nell’opinione pubblica si formi qualcosa come un panico morale per il pedofilo? Per quale motivo la caccia al pedofilo funziona così bene dal punto di vista del coinvolgimento emotivo delle persone? Di quale tipo di «desiderio» è fatto oggetto il pedofilo dalle masse bramose di scovarlo e punirlo? 83­­­­

Che la distinzione adulto/bambino comporti il divieto morale di rapporti sessuali tra adulti e bambini è un fatto assodato e sacrosanto. Quale sia il senso profondo di questo divieto è invece assai meno chiaro e, paradossalmente, sembra ancor meno chiaro proprio a molti tra coloro che dovrebbero erigere questa norma a imprescindibile argine etico. È del resto significativo che, se si affronta la questione in questi termini, si corre il rischio di passare per stravaganti difensori di un qualche relativismo morale in base al quale, in fondo, il problema degli abusi sessuali sui minori sarebbe solo un fatto «culturale». È ovvio invece che non si tratta affatto di ridimensionare i supposti principi che bandiscono i rapporti sessuali fra adulti e bambini nella nostra società, riesumando versioni del tanto vituperato relativismo post-moderno, sulla falsariga di quei gruppi e quelle associazioni di pedofili che fino agli anni Sessanta, in nome della libertà all’autodeterminazione della persona, predicavano l’amore libero anche con i bambini. È esattamente il contrario. Si tratta di comprendere fino in fondo qual è il loro senso, proprio per poterli difendere con maggiore forza. È qui che diviene fondamentale il concetto di «trasgressione intrinseca» al potere. Žižek riprende l’idea di Foucault secondo cui potere e contropotere intrattengono una dialettica ineludibile sicché qualunque atto di regolamentazione dei comportamenti tra individui finisce per promuovere proprio quei comportamenti che intendeva reprimere. Ma va oltre e mostra come questa dialettica si svolga tutta all’interno del potere e ne sia la condizione fondativa: non basta dire che la «repressione» di un certo contenuto erotizza l’atto stesso, per cui la repressione finisce per promuovere quel contenuto represso: «questa ‘erotizzazione’ del potere non è un effetto secondario del suo esercizio sul proprio oggetto, ma è la sua autentica fondazione rimossa». In altre parole, questo meccanismo osceno non accade «per caso», ma rappresenta 84­­­­

il modo attraverso cui funziona la Legge. Per funzionare deve concedere l’esistenza di un lato oscuro6. L’argomento non potrebbe essere più pregnante se la repressione, la norma, si applica – come nel caso delle politiche sull’educazione dalla fine dell’Ottocento in poi – ai comportamenti sessuali dei minorenni. «Le vesti» di cui in pubblico ci ammantiamo in realtà dentro sono sudice. L’esercizio del potere deve includere, per essere efficace, la regola della sua trasgressione. E nel rito pubblico della caccia al pedofilo, nel proclamarci nemici dell’ovvio, altro non facciamo che mettere in scena la dialettica della trasgressione intrinseca al potere e della sua natura intrinsecamente violenta. Così, per tornare all’esortazione di Ratzinger – «I preti siano come Angeli!» –, risulta evidente che non si tratta affatto di una gaffe o di un’uscita infelice. Nulla è più meticolosamente calcolato di ciò che è scritto o detto dal Vaticano. La dialettica latente di quell’espressione – i preti siano puri guerrieri di Dio, i preti siano creature efebiche dall’incerta sessualità – è invece inerente al discorso del potere e alle sue contraddizioni. È solo un’altra rappresentazione della «trasgressione interna» di cui necessita la Legge. Nell’era post-ideologica, infatti, l’ideologia si presenta secondo Žižek principalmente in questa forma «negativa»: consiste nel sistematico e subdolo disconoscimento dei «valori» fondativi che la società ufficialmente promulga. Non a caso solo i fondamentalisti sembrano «credere veramente» in ciò che la regola ufficiale promulga. E non a caso questo ci spaventa. La norma è un puro esercizio formale che può esistere solo a condizione che se ne possa tollerare la sistematica trasgressione. Un lato «indicibile» è necessario all’esistenza stessa della nostra società. A questo serve l’infanzia, oggi. La sua idealizzazione, la   S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma 2007, p. 48.

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coltivazione collettiva del mito dell’innocenza e la distinzione tra il mondo pulito dei bambini e quello corrotto degli adulti rappresentano infatti la controparte necessaria di questo «stato» dell’etica7. Un sistema in cui il vero motore etico dei comportamenti delle persone all’interno della società sia l’imperativo «godi!», necessita di alcune regole fittizie superficiali e di molti pubblici baluardi morali. I baluardi hanno la funzione di rendere possibile la censura. Servono a poter dire: «gozzovigliate pure, assaltate l’economia, fate pur scempio dello Stato, inquinate, depredate, date scandalo, rendete questo mondo invivibile per i vostri figli ma perché possiate farlo qualcosa deve resistere, qualcosa di astratto e ‘ideale’ che sia puro, che sia intoccabile». Qualcosa per cui tutto questo «ufficialmente non succede». Qualcosa «che non sappia ancora» come vanno le cose veramente nel mondo degli adulti. Non c’è bisogno di scavare molto nelle pieghe della realtà per trovare conferme a questa teoria. È la realtà stessa che la rappresenta in tutta la sua violenza. Quando il 9 febbraio 2011 l’ex premier italiano è assediato dalla stampa nazionale e internazionale per l’accusa di prostituzione minorile, durante una conferenza stampa dichiara: «Sono un ricco signore che può passare il resto della sua vita a fare ospedali per i bambini del mondo, ché l’ho sempre desiderato». Infanzia, istruzioni per l’uso: agitare la soluzione, versarne il contenuto in un catino di acqua tiepida, mettere le mani sudice a mollo, risciacquare bene in pubblico. La struttura stessa di ogni «credenza» necessita della credulità di un altro che creda al posto nostro. Sembriamo «credere nei valori» della nostra società solo nella misura in cui riusciamo a immaginare qualcuno per cui questi valori siano intoccabili e assoluti, in modo da poterli sistematicamente 7  S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano 2011, p. 198.

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trasgredire. Proprio per questo motivo l’intoccabilità – anche fisica – dei bambini costituisce un baluardo invalicabile; e ogni trasgressione a questo principio assurge – come nel caso della pedofilia – a crimine dei crimini. Come se la società trovasse nei discorsi pubblici sulla pedofilia e nelle sue rappresentazioni variamente assortite, una sorta di rito di castrazione pubblica. A cui, come si vede, non sfuggono nemmeno categorie di insospettabili paladini della tutela dell’infanzia. Ed è proprio la centralità etica di questa funzione simbolica dell’infanzia a «spiegare» per quale motivo istituzioni come il Vaticano abbiano fatto tanta fatica ad ammettere, prima di tutto, che i fatti denunciati fossero reali. Cosa che non sarebbe accaduta se tali fatti avessero avuto il senso di mere devianze individuali. Fortunatamente, oggi nessuno che si ritenga un pedofilo ha cittadinanza per esprimere la sua «visione» del mondo e delle relazioni. E non vi è dubbio che chiunque si collochi entro l’ambito delle relazioni civili debba con forza rifiutare ogni forma di abuso sessuale sui minori. Tuttavia, la nostra «naturale» sensibilizzazione verso questo tema e la supposta insindacabilità dei suoi principi, hanno in realtà ben poco di «naturale». La difesa della vita umana non dovrebbe essere un principio «superiore» a quello della generica tutela dell’infanzia? Non dovrebbe essere un suo «naturale» presupposto? Tuteliamo i bambini in quanto tutti gli esseri umani hanno diritti fondamentali inviolabili? Il primo dei quali è il diritto alla vita? E la negazione del primo non comporterebbe in qualche modo anche la decapitazione del secondo? Se i diritti fondamentali degli individui possono essere piegati alla discrezione degli Stati e delle persone, che valore residuo hanno? Non è forse questo il segno più tangibile del fatto che i nostri cosiddetti principi morali sono tutt’altro che intoccabili? E che la loro difesa segue in realtà gerarchie ove l’etica è un feticcio declinabile a piacimento, in base alle convenienze e alle circostanze? 87­­­­

La guerra di Putin in Cecenia che i governi dell’area NATO, incluso quello italiano, non hanno mai apertamente denunciato non è stata forse la controparte simbolica – non certo banalmente la causa – della violenza brutale e selvaggia consumatasi nella strage di bambini in una scuola di Beslan? Eppure – come di fronte a qualsiasi atto terroristico – ogni discorso sul nesso tra le due violenze è stato pubblicamente bandito. Avevamo tra le mani la pièce perfetta: «Ecco le prove che i terroristi musulmani bruciano i bambini». La superiorità delle nostre democrazie risiede proprio nell’insindacabilità dei principi di tutela dell’infanzia. Solo che proprio il fatto che questi principi sono «insindacabili» ci permette di trasgredirli con successo: qualcuno ha mai visto immagini di bambini martoriati a Grozny? Delle case sventrate? Delle famiglie distrutte? Delle scuole rase al suolo? La storia si è ripetuta con tragica puntualità nel marzo 2012. Robert Bales, specchiato veterano dell’esercito degli Stati Uniti uccide sedici civili tra cui nove bambini in un angolo dimenticato della provincia di Kandahar. Così, senza un motivo. Il Pentagono ci mette una settimana a farci sapere come si chiama il colpevole della strage e a quel punto tutti i giornali del mondo si affrettano a precisare che il poverino – che mai aveva dato segnali di instabilità! – era in preda a un raptus. Un momento di follia. Come nel caso delle impennate antisemite di Mel Gibson, puntualmente rattoppate con atti di postuma autocensura in cui però la responsabilità viene interamente scaricata su presunti momenti di offuscamento alcoolico dell’intelletto, ancora una volta la lingua delle scienze mediche va in soccorso ai nostri più oscuri compromessi etici. E stai sicuro che se i morti fossero stati occidentali (meglio se americani, francesi, britannici, eccetera) staremmo ancora oggi a parlare di strage terroristica, degli eccessi del fondamentalismo, del disprezzo per la vita umana di questi incivili e primitivi, e in quella settimana già avremmo lavorato a una ritorsione in grande stile. Poi, stese le bandiere, avremmo 88­­­­

esposto a tutto il mondo le foto delle piccole vittime. Che in questo caso sì che è possibile mostrare il corpo dei bambini! Non ci facciamo mancare nulla: i «consigli per gli acquisti» si aprono con la figura di Ennio Doris, patron di banca Mediolanum che vende un prodotto bancario e annuncia che «per ogni conto aperto un bambino di Haiti potrà studiare per un mese». Stacco, due poppe, un fondoschiena, e le telecamere riprendono l’ingresso in campo delle squadre per la partita di Champions League. Davanti ai calciatori schierati, una bella fila di bambini con la maglia della squadra avversaria. E poco importa se lo stipendio settimanale di ciascuno dei giocatori è sufficiente perché un bambino di Haiti si compri una casa. Per lui e per i suoi dodici fratelli. I quali, peraltro, mentre i filantropi di banca Mediolanum si adoperano alacremente al loro recupero scolastico pro tempore, muoiono per strada di colera e quindi a scuola non ci arriveranno mai. Le contraddizioni in cui cadiamo ci dicono con chiarezza che la funzione simbolica dell’Altro supposto innocente svolge per l’equilibrio sociale delle nostre esportabili democrazie un ruolo evidentemente assai diverso da quella dell’Altro supposto colpevole. Semplicemente, è molto più importante ciò che siamo disposti a proiettare sugli altri che non ciò che gli altri sono veramente. Il «prossimo» diventa così un concetto mobile e in questo senso del tutto «relativizzabile»: nel momento in cui cessa di esistere ed è trasformato in una nostra proiezione simbolica, l’Altro non esiste più. Esistono solo le sue proiezioni. Esiste solo ciò che a noi fa comodo. È così che i nemici del vituperato «relativismo della post-modernità», i paladini di tutti i principi morali, difendono l’Altro? Non c’è bisogno di scomodare le vecchie storie sulla tutela dei bambini nell’antica Roma (l’infanticidio è stato rubricato a crimine solo verso il 370 d.C.) o sull’assenza di determinazioni chiare, dettagliate e univoche contro i rapporti sessuali tra adulti e bambini nei testi sacri delle tre religioni monotei89­­­­

ste per comprendere quanto tutto ciò sia strettamente legato al modo di funzionare della nostra società. È sufficiente pescare nell’iconografia della metà del secolo scorso, prima che scoppiasse la new wave della caccia al pedofilo: negli Stati Uniti si vedevano cartelloni con l’immagine di un poliziotto che tiene tra le braccia un bambino esanime e gli pratica la respirazione bocca a bocca. Sotto, a caratteri cubitali, si leggeva: «Some call him pig, I call him sir» («qualcuno lo chiama porco, io lo chiamo signore»). Questa immagine, ripresa da un lavoro dell’artista e architetto italiano Gianni Pettena, è tratta da una campagna pubblicitaria della fine degli anni Sessanta in difesa delle forze dell’ordine, contro le ondate protestatarie dell’epoca. Proviamo ora a immaginare l’effetto di quella stessa immagine ai giorni nostri. Immaginiamola appesa di fronte a una scuola elementare. Non avrebbe immediatamente, senza bisogno di alcun sottotesto allusivo, e senza alcuna malizia, una connotazione intrinsecamente ambigua? Non la intenderemmo forse come un’esplicita allusione alle inclinazioni pedofile delle forze dell’ordine, con un ovvio ribaltamento di senso? Il modo in cui la nostra fantasia satura il senso di un’immagine di questo tipo ci dice esattamente quanto profondamente radicato sia quel «panico morale». E quanto tutto ciò abbia a che fare con il ruolo cruciale che assolve la nostra comune idea dell’infanzia e della sua funzione nell’ordine sociale. L’iperbole iconografica di questa sotterranea guerra di angeli e demoni – che usa l’innocenza infantile come ubiquo lubrificante ideologico – guadagna un suo definitivo apice nella primavera 2012, quando i media annunciano che dopo l’eliminazione di Osama Bin Laden la sua casella nel gran poster dei dieci super-ricercati più famosi dell’FBI è stata sostituita dalla foto di Eric Justin Toth, trentenne americano sospettato di pedofilia. Quale migliore rappresentazione del posto che l’infanzia occupa nelle nostre coscienze ubriache? Non è un caso che l’abuso sessuale sia diventato, nei di90­­­­

scorsi tecnici delle discipline scientifiche come in quelli popolari, la madre di tutti i possibili crimini. Ma la questione è molto seria, dal momento che le discipline tecnico-scientifiche che si occupano di queste cose sembrano ormai accodate – soprattutto negli Stati Uniti – a una specie di pensiero unico che ha, tra i suoi principi fondamentali, la cosiddetta teoria del trauma sessuale a catena. L’abusatore è stato probabilmente abusato in passato e, viceversa, un bambino abusato sarà quasi probabilmente un adulto abusante. Cosicché – in questa archeologia del trauma – è facile risalire a ritroso sino a scovare pericolosi e precocissimi potenziali futuri pedofili. Da sottoporre sollecitamente – a ogni ragionevole costo – a terapie e programmi di cura, anche in tenera età. Come prevedibile, negli Stati Uniti questo paradigma ha già dato i suoi frutti muscolari. Levine8 descrive una quantità di casi in cui l’eccesso di allerta per la connotazione sessuale di comportamenti «inappropriati» di minorenni ha finito per smembrare intere famiglie. Come nel caso di Tony, che a soli 9 anni è stato spedito per due anni, insieme alla sorella Jessica, in una comunità di recupero perché la bambina aveva raccontato a un compagno che il fratellino l’aveva toccata nelle parti intime. Ci sono bambini persino più piccoli – dice Levine – iscritti in programmi di riabilitazione per aver manifestato comportamenti sessualmente inappropriati con compagni e compagne di scuola. Ma che cosa nella nostra società satolla di stimoli sessuali può ritenersi sessualmente inappropriato? È sorprendente come questa teoria automatica del trauma a catena «regga» benché dal punto di vista logico soffra di un problema piuttosto evidente: come possiamo fare ipotesi su cosa accadrà nel futuro di persone abusate sessualmente quando erano bambini, se non sappiamo quante e quali sono queste persone? 8  J. Levine, Harmful to minors. The perils of protecting children from sex, Thunder’s Mouth Press, New York 2002.

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La psicologia sembra rispondere che le storie «osservate» in ambito clinico suggeriscono l’esistenza di un «legame costante» tra questi fenomeni. Perfetto. Ammesso che l’osservazione clinica sia un luogo in cui si raccolgono davvero «evidenze» – e su questo argomento esistono tonnellate di libroni spessi così, piuttosto critici –, c’è da chiedersi: chi sono le persone osservate in ambito clinico? Se – come affermano i più seri esperti della lotta alla pedofilia – il fenomeno è in larga parte sommerso, allora dobbiamo ammettere che le storie che osserviamo (incluso chi scrive) in ambito clinico sono solo una parte «speciale» e minoritaria che per motivi speciali è venuta allo scoperto. Motivi che spesso sono alla radice stessa delle conseguenze del trauma. Perché sono storie di violenza feroce o prolungata. O perché «scoperte» proprio a causa del disagio che provocavano. Del resto, non è forse la tradizione più ortodossa della psicologia ad averci spiegato per oltre un secolo che l’abuso sessuale – specie se subìto nell’infanzia – è precisamente quel tipo di esperienza che spesso rimane inaccessibile al soggetto, sotterrata e rimossa? Non è questo uno dei paradigmi fondamentali della dottrina di Freud? La più elementare grammatica della psicologia ci dice che alla domanda «sei mai stato abusato nell’infanzia?» esistono solo due possibili risposte: sì e non lo so. Il che comporta che non è possibile conoscere con esattezza il numero di persone che hanno subìto traumi e violenze durante l’infanzia. Così che la sola cosa davvero certa è che il loro numero è largamente sottostimato. «Ogni anno in Italia sono 41.000 i nuovi casi di violenza sui minori [...], ma per ogni episodio denunciato ce ne sono cento che non vengono denunciati». Così scrive Ferruccio Pinotti9, in un saggio dal sottotitolo assai eloquente: «Pedo9   F. Pinotti, Olocausto bianco. Pedofilia, nuovo cancro sociale. Lobby potente che divora i nostri bambini. In famiglia, nella Chiesa, nella società, Rizzoli, Milano 2008.

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filia nuovo cancro sociale. Lobby potente che divora i nostri bambini [...]». In realtà i molti studi che si sono concentrati su questi temi hanno tutti raggiunto la medesima conclusione: le statistiche – basate su questionari sottoposti direttamente alle persone – indicano un’incidenza di abusi sessuali nell’infanzia variabile dal 6 al 62% nelle femmine e dal 3 al 13% nei maschi10. Una forbice troppo ampia, che evidentemente ha un solo significato chiaro: la nostra capacità di comprendere il fenomeno e di indagarlo è ancora molto modesta. I ricordi personali sono un pessimo strumento di indagine. Il punto qui è che se tutto questo apparato teorico rispetto alle conseguenze dell’abuso ci sembra calzante non è certamente per la sua particolare solidità scientifica. Piuttosto, funziona su un livello molto più basso. Parla alla pancia delle persone. Funziona perché è come se descrivesse, con tutta la fascinazione e l’autorità del linguaggio medico, una delle leggi della nostra società. Ci dice perché siamo così facilmente disposti a vedere i bambini come vittime: ci dice che lo sono veramente e molto più di prima. Il che non fa che confermare il nostro ordine simbolico al centro del quale abbiamo posto la naturale innocenza infantile. E questo in fondo ci rassicura, al punto da essere disposti a passare sopra ai paradossi lampanti generati dalla nostra «teoria». Per fortuna la nostra società ha fatto molta strada nella lotta ai maltrattamenti e agli abusi sessuali infantili, grazie anche al lavoro, spesso intricato e complesso, di esperti, psicologi, psichiatri e giuristi. Il cui primo merito, forse, è stato quello di sollecitare e promuovere una diffusa sensibilizzazione per sgombrare il campo da ogni possibile ambiguità e pregiudizio: il tema della pedofilia merita che si dica con molta chiarezza che il fenomeno è grave, sottovalutato e assai più esteso 10   Vedi le fittissime rassegne in J. Lee, Pervasive Perversions, Free Association Books, London 2005; e C. May-Chahal, M. Herczog, L’abuso sessuale sui minori in Europa, Sapere, Roma 2000.

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di quel che appare. E se il fenomeno si è gradualmente svelato in tempi recenti è anche in virtù di una nuova cultura del diritto, contraria all’idea omertosa che la questione del rapporto tra genitori e figli sia un fatto sostanzialmente privato11. Ma il problema è che la chiarezza in questo campo non può fare a meno di altrettanta chiarezza sulla nostra idea di infanzia e sulla sua funzione nella nostra società. Non si tratta affatto di relativizzare la violenza, ma di comprendere quale sia la funzione delle sue rappresentazioni pubbliche. A che cosa serva nell’immaginario collettivo il gioco spesso tragico tra vittime e carnefici. Se guardiamo con attenzione a questi fenomeni sforzandoci di sospendere il moto di indignazione che ci coglie ogni volta che ne abbiamo notizia, riusciremo forse a riconoscere che la partita in cui si giocano queste vicende umane, sempre diverse le une delle altre, sempre private, è una partita i cui termini fondamentali – adulti e bambini, persecutori e vittime – e le cui forze in campo – desiderabilità e innocenza – ci appaiono molto più chiari di quanto in realtà non siano. Riusciremo forse a trovare il coraggio di ammettere che le cose vanno diversamente. Il fatto che siamo così precipitosamente inclini a vedere i bambini come vittime potenziali prescinde in realtà dalla effettiva «entità» del rischio a cui sono esposti. Piuttosto, il rischio ci appare incombente proprio perché il loro posto naturale nella nostra società – e nell’ordine simbolico che oggi governa la distinzione adulti/bambini – è quello delle vittime ideali. Sono i principi stessi che fondano la distinzione tra i due mondi a presupporre, come radice essenziale della differenza, la «naturale innocenza» infantile. Ed è il fatto che ci appare così calzante l’immagine del bambino vittima a farci sembrare sensata ogni teoria e ogni notizia – anche la più lacunosa – sui rischi che corrono i nostri figli. 11   V. Belotti, R. Ruggiero (a cura di), Vent’anni di infanzia. Retorica e diritti dei bambini dopo la convenzione dell’Ottantanove, Guerini e Associati, Milano 2008.

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Il mondo degli adulti necessita di un Altro puro e innocente – depositario di quei valori che nella realtà sono continuamente negati e violati –, e ciò fa dell’Altro un ideale oggetto del desiderio. E la sua vittimizzazione è il solo modo per poter pubblicamente rappresentare questa «desiderabilità». Non solo. Il gioco diventa perverso perché intrinsecamente circolare: proprio il loro essere vittime innocenti nell’immaginario collettivo li rende oggettivamente desiderabili. Il gioco, in altre parole, rende «pubblica» la loro desiderabilità seppure nella forma neutralizzata e già repressa della caccia al pedofilo. Nello scovare le fantasie più torbide nella mente dell’insospettabile, lavoriamo alacremente a un esercizio di continua delimitazione e censura delle fantasie che la società cova in segreto. Rappresentiamo la «desiderabilità» infantile evitando accuratamente il sempre scandaloso tema delle fantasie incestuose (che invece interrogherebbe ciascuno in modo diretto e personale), e la confiniamo entro un «discorso che genera la colpa, e quindi la colpevolezza di chi lo riceve». Il discorso di potere della Legge che reprime, il potere della scienza che diagnostica e determina il grado di devianza sessuale del pedofilo, il potere delle forze dell’ordine che incarcerano il colpevole. Del resto l’intero saggio di Pinotti, che ben ritrae il modo in cui si tende a rappresentare pubblicamente il tema della violenza sui minori, è costruito su una tesi capovolta: la pedofilia è l’epidemia del III millennio. Il cancro delle nostre «democrazie» industriali. I dati disponibili indicano un’esplosione del fenomeno, in crescita soprattutto nel mondo occidentale: a dimostrazione del fatto che i bambini sono divenuti gli oggetti di consumo dell’economia capitalista; la frontiera debole su cui si scarica la violenza della società avanzata12.

È così sicuro Pinotti che nei secoli passati i bambini se la passassero meglio di quelli di oggi? Fossero più rispettati, an  Ivi, p. 10.

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che sessualmente, degli adulti? Di quali dati dispone Pinotti per affermare che il fenomeno è in aumento e addirittura esploso? Basta farsi un giro in una qualsiasi città dell’Asia, del Nord Africa, in molte regioni del Sud America per concludere che è di gran lunga più verosimile il contrario, e per ammettere che nel cosiddetto «mondo occidentale» i diritti dei bambini, come qualsiasi altro diritto umano, sono tutto sommato un po’ più rispettati che nel passato. Non sarà vero piuttosto che è aumentata la nostra attenzione per il fenomeno? Non sarà che proprio questo è oggettivamente epidemico, e cioè il fatto che oggi più che mai siamo disposti a parlarne come di un male in aumento che dimostrerebbe qualcosa di speciale della nostra società? Una specie di crampo morale che costringe, sino a strozzarla, anche la nostra capacità di pensare? È necessario essere molto onesti e ammettere che proprio la risonanza pubblica per il fenomeno della pedofilia ha comportato – insieme con il meritorio progresso della nostra tutela dell’infanzia – anche la magnificazione mediatica di molte delle nostre più problematiche contraddizioni etiche attorno al tema dell’infanzia. Salita sul palcoscenico, accesi i riflettori, la nostra sensibilità pubblica per l’infanzia ha assunto così una tinta più presentabile ma forse non meno oscura di quando se ne stava torbidamente celata dietro alle bocche chiuse. Non a caso molti studi sociologici confermano che quando l’infanzia passa attraverso i media è spesso strumentalmente presentata in termini drammatici come oggetto passivo di violenze13. Parlare di maltrattamenti e abusi è ovviamente fondamentale, ma il modo in cui lo si fa è tutt’altro che trascurabile. E dovremmo forse avere il coraggio di ammettere – diversa13   V. Belotti (a cura di), Cappuccetto Rosso nel bosco dei media. Comunicare l’infanzia e l’adolescenza in quotidiani e televisioni in Italia, Guerini e Associati, Milano 2005.

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mente da quanto afferma la stessa retorica che ci vende continuamente storie di bambini vittimizzati – che la frequenza degli abusi o delle violenze sui minori non dimostra alcunché. Piuttosto, è il fatto che siamo inclini a persuaderci che il fenomeno sia «esploso» che dimostra «a che cosa serve l’infanzia» nella nostra società. Non sono i casi di pedofilia a indicare che «i bambini sono divenuti gli oggetti di consumo dell’economia capitalista» – argomento, questo, che accomuna curiosamente la retorica dei populismi di destra e sinistra – esattamente come succede per la lotta al potere psichiatrico e agli psicofarmaci. È piuttosto il contrario. È il fatto incontrovertibile che anche i bambini sono divenuti soggetti attivi in un sistema consumistico sempre più spregiudicato e assillante, che ci spinge a lavarci la coscienza con i discorsi sui bambini vittime della pedofilia. Se la nostra società ha un «cancro», un male oscuro che cresce a nostra insaputa, ebbene questo cancro non è più – per fortuna – la violenza sui minori. Per la prima volta nella storia dell’umanità, infatti, oggi esistono almeno diritti riconosciuti da legislazioni, convenzioni internazionali, schiere di esperti, ordini professionali, istituzioni obbligatorie, allarmi sociali, dibattiti pubblici, campagne mediatiche. Se un cancro c’è, sta nel fatto che i minori sono diventati attori del consumismo. Sono soggetti, non oggetti del consumo. E come al solito la realtà supera ogni fantasia: nell’autunno 2010 accendi la tv sul canale tedesco RTL2 e ti guardi Tatort Internet, un reality costruito come una scientifica spettacolarizzazione della caccia al pedofilo. Ragazzine esca che si spacciano per tredicenni, danno appuntamento ad azzimati signori incontrati su internet e al momento buono sbuca la troupe a inchiodare i suddetti signori e riprenderne l’arresto in flagrante. Passano alcune settimane e la multinazionale Mattel emette una nota ufficiale per rispondere alle preoccupazioni dell’FBI dopo che alcuni consumatori avevano fatto notare che 97­­­­

la nuova Barbie con videocamera incorporata poteva essere utilizzata da pedofili in cerca di immagini di bambini. Il 2010 volge al termine, ma non è ancora finita. Mentre le famiglie italiane si stanno godendo il sempiterno Cenerentola di Walt Disney sulla rete nazionale, ecco che nello stacco pubblicitario irrompe lo spot di Porta a Porta, il talk show noto per i suoi «speciali» pruriginosi su sbudellamenti e massacri vari, con tanto di plastici del luogo del delitto: «Chi protegge i nostri bambini?», si chiede il conduttore corrucciato e pensoso all’indomani della scomparsa di una tredicenne nel Bergamasco, del tutto indifferente all’effetto allarmante che ciò potrebbe avere su genitori e prole. Tanto che l’Osservatorio per i minori, un ente di sorveglianza e tutela dei diritti dei minori nei media, «risponde» con una nota velenosissima, parlando di «intervento nefasto» dell’osannato conduttore nostrano. Hai voglia a dire «Tranquilli genitori, mica è la realtà» perché purtroppo la realtà, ogni giorno di più, assomiglia sempre di più ai plastici di quel talk show. Nessuna teoria può spiegare meglio di questi esempi a che cosa ci servono i bambini e a che cosa ci serve la loro purezza intangibile. In una popolare vignetta di inizio Novecento Robert Minor ritrae Anthony Comestock, paladino della repressione sessuale negli Stati Uniti, mentre trascina una donna in vestaglia di fronte al giudice: «Vostro Onore, questa donna ha partorito un bambino nudo!». Il fatto che a distanza di oltre un secolo la vignetta sia ancora efficace dimostra che non bastano le periodiche cacce al carnefice di turno a rinforzare un baluardo oggi travolto non già dai pedofili, ma dai meccanismi stessi con cui funziona la nostra società. Sbarazzarsi dei mostri è solo una parte del problema. L’altra è costruirli.

Intermezzo

Reale vs immaginario

Maicol (scritto così) ha dieci anni ed è stato adottato da un’ottima famiglia torinese quando era così piccolo che lui manco se lo ricorda. Ha capelli corvini e un cardigan da impiegato postale, da cui spunta una camicetta bianca abbottonata a puntino. Si siede alla scrivania e ha una storia molto breve da raccontare. «Vedi – dice, sorridendo – ho una cosa da dirti molto divertente oggi. Praticamente ieri stavo in camera da letto dei miei e mio padre stava lavorando al computer, no? e io però ho visto che non stava scrivendo ma stava guardando una cosa, no? io pensavo youtube, no? quindi a un certo punto è andato di là e io mi sono messo al computer. Ma io pensavo che stava guardando youtube, no? una di quelle serie che scarica in streamin (sic!), no? invece no. Invece, scusa eh, mi fa molto ridere (infatti ride molto), invece era un porno! Un p-o-r-n-o capisci? Era un porno con ragazze negre vestite di rosa! E lui mi dice ‘Maicol lascia stare il computer che sto lavorando, smettila di qua e smettila di là’ e io dico ‘sì buonanotte’. Va bene, scusa, mi fa ridere questa cosa. Cioè mio padre stava guardando un porno, no? allora io adesso penso che lo ricatto e gli dico ‘se tu non mi compri la nuova play XL io lo dico ai tuoi colleghi di lavoro’. Cose così, no? Poi che ridere, io anche li guardo i porni (sic!), ma non quei porni ridicoli. Io guardo i porni cartoon, tipo manga no? quelli sì che sono r-e-a-l-i, no? non quelle ragazze tutte rifatte con le labbra finte della roba che guarda mio padre, no? le 99

negre vestite di rosa! Nei manga porno ci trovi minorenni vere con tutte le curve al punto giusto, e sai che sono curve r-e-a-l-i! quello sì che è figo!».

Sex and the children

Non ti preoccupare non lo hai fatto mai. Mentre ti togli i vestiti ti prendo una coca Non arrossire ti prego facciamo l’amore E levati la minigonna fatti guardare sei bellissima Mi sta salendo il cuore in gola L’adrenalina mi va sempre più su E vola via il mio pantalone, emozionato qui vicino a te.

Nel video di questo pezzo cantato da Giuseppe Jr., neomelodico napoletano di circa 9 anni, il protagonista e la sua fidanzatina coetanea amoreggiano su un letto matrimoniale. Lui la prega di spogliarsi, lei non batte ciglio. Un po’ rigidini nelle pose, ma perfettamente a loro agio, la messa in scena è un capolavoro del trash, secondo i canoni della migliore tradizione neomelodica. Tempo che il video faccia il giro del sottobosco di feste di matrimonio e compleanno e sia rimpicciolito per passare attraverso la rete, e in men che non si dica scoppia lo scandalo. Con la prevedibile levata di scudi moralisti immancabilmente branditi da una prima linea di insospettabili per legge: prelati, onorevoli, pubblici ufficiali, signori e signore in divisa. Il fuoco di questa indignazione incendia sempre la stessa paglia: l’indebita erotizzazione dell’infanzia è vista come qualcosa di aberrante, scabroso e sostanzialmente violento. Il fanciullino pascoliano trasfigura così, per effetto di questo eccesso, da angioletto del presepe a lascivo animale di fogna. Ma Giuseppe Jr. è in ottima compagnia. Prendi per esempio il video del pezzo La piccola Anna di un altro bambino di 101

circa 10 anni, tale Giggino O’ Bello. Una bambina – anche lei di 10 anni e forse anche meno – sculetta in minigonna e si mette in posa come neanche Jessica Alba: È inutile che chiami tutti i giorni sul telefonino Mi scoccio di rispondere e dai fastidio con questi messaggini Ti ho detto mille volte non insistere, già sono fidanzata L’innamorato mio, Giggino O’ Bello, è un uomo assai [geloso Se scopre che per caso tu mi vieni a dar fastidio Con uno schiaffo ti spezza l’osso del collo Poi ti fa una polpettina piccolissima così. L’innamorato mio Giggino O’ Bello senza offesa è un [fotomodello È guappo, fresco e tosto e prepotente e il suo soprannome [è malamente L’altro giorno un giovanotto solamente per guardarmi Quattro punti in mezzo alla testa l’ha mandato a medicare L’innamorato mio Giggino O’ Bello è un animale quando [butta le mani Ragazzo se non vuoi finire all’ospedale non osare neanche [chiamarmi

Tra ali di adulti plaudenti, Giggino e fidanzatina scosciata traversano le vie di un rione napoletano, su un bel chopper tutto gas e ferraglia. Una vera e propria «investitura» popolare. Non diversa da quella del video di Giuseppe Jr., che non a caso è girato nella camera matrimoniale «vera» dei suoi «veri» genitori. Quale migliore immagine della confusione che regna nella distinzione adulti/bambini? Che diavolo succede? Che significa tutto questo? Siamo proprio sicuri che sia l’eccesso di erotizzazione a generare questo effetto? A suscitare le polemiche e l’indignazione generale? L’imperativo individualistico «godi!», che governa l’intera economia delle cosiddette democrazie occidentali sembra aver prodotto almeno un paio di mostri. Prima di tutto ha trasformato la liberazione sessuale in 102­­­­

una liberalizzazione sessuale. Con il risultato che mentre la liberazione ti rende libero di fare ciò che stavi facendo prima o ciò che intendevi fare, cioè rende disponibile un bene «nativo» rimuovendo le barriere dell’interdizione sociale, la liberalizzazione semplicemente libera il commercio di beni in precedenza regolamentato o proibito: in altre parole, è soltanto un modo per rendere il possesso di quei beni non più «nativo» al soggetto, a meno che il soggetto non apprenda le regole del consumo. Essere sessualmente liberato dovrebbe significare che puoi anche permetterti di essere libero dal sesso1. Se davvero sei sessualmente liberato, non dovresti poter fare sesso o meno, a seconda di come ti aggrada? E dunque anche potervi rinunciare del tutto? Come è noto, però, nella nostra società non avere desideri sessuali è diventato un’onta, qualcosa che è in grado di abbrutire l’individuo estromettendolo di fatto dalle logiche che regolano ogni altra forma di consumo nella società, ovvero dai meccanismi che determinano la collocazione identitaria delle persone. Non c’è bisogno di complicate analisi sociologiche. Basta lo spettacolo ormai sempre più grottesco della cosiddetta «senilità attiva» (cioè sessualmente attiva) che non a caso emerge come categoria sociologico-commerciale quando i sessantottini liberati (in realtà liberalizzati) sessualmente sfiorano lo spettro di una abdicazione irreversibile al tanto agognato «su e giù». Se della sessualità non è possibile liberarsi, allora tanto vale ricomprarsela a suon di pasticche, iniezioni, e un meticoloso dosaggio di uppers e downers. Rimanere aggrappati al sesso, anche dopo che il fisico vi ha rinunciato, come ultimo obolo alla nostra funzione di consumatori. Perderla equivale a morire. Tutto ciò ha direttamente a che fare con l’infanzia per due 1  M. Grief, Afternoon of the sex children, in D.F. Wallace (a cura di), The Best American Essays, Houghton Mifflin Company, Boston 2007.

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fondamentali motivi. In primo luogo, il passaggio liberazione/liberalizzazione sessuale riguarda tutti gli individui, non solo quelli sessualmente sviluppati, dal momento che le logiche di funzionamento del marketing fanno leva su principi molto semplici. Con un paio di poppe e un fondoschiena vendi pure il cibo per gatti – vedi la recente campagna pubblicitaria per Almo Nature che ha invaso l’Italia nel 2009, firmata da Oliviero Toscani. A queste logiche ovviamente non sfuggono neppure i prodotti per bambini. Davvero c’è bisogno di elencare le strategie con cui il marketing bombarda i bambini di stimoli sessuali? Stando a un’inchiesta ripresa dal «New York Times», già nel 1988 il mercato pubblicitario televisivo nelle fasce orarie viste dai bambini dopo il ritorno dalla scuola valeva all’incirca 100 milioni di dollari. Nel 1982 il valore era prossimo allo zero. Basta leggersi libri come Consuming Kids2 o This Little Kiddy Went to Market3 per farsene un’idea: 93 situazioni a contenuto esplicitamente sessuale all’ora sui canali monotematici di video musicali, tipo MTV, in base ad accurate analisi dei media. Ecco spiegato come il vituperato rapper Eminem potesse essere tra le nomination per Kid’s Choice Awards 2003 del canale per bambini Nickelodeon. Negli stessi anni, le tv per bambini si riempiono di pubblicità di bambole come le Bratz, tutte labbroni e curve, ammicchi e seduzioni, con cui giocano anche bambine in età prescolare. È trionfo. Tripudio. Saturazione e successo. In Italia, per citare un esempio a caso, Lavinia Borromeo Elkann e Giorgia Caovilla creano una linea di scarpe Junior: una sessantina di modelli in collezione e la minilinea Baby-Diva, con tacco «a rocchetto» di due centimetri e mezzo. Subito fotografata 2   S. Linn, Consuming Kids. The hostile takeover of childhood, New Press, New York 2004. 3  S. Beder et al., This Little Kiddy Went to Market: The Corporate Capture of Childhood, Pluto, London 2009.

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indosso alla figlia di Tom Cruise, precocissima e consapevole fashion victim, già assaltata da orde di paparazzi. Non saranno più i tempi dei dibattiti pubblici sulla pedagogia e sono scomparse «le tre infanzie» tardo ottocentesche, quella rurale, quella operaia e quella borghese. Ma proprio per questo motivo, con il definitivo dominio dell’economia di mercato e le trasformazioni sociali annesse è arrivato anche un appiattimento delle differenze tra le diverse infanzie. Così, oggi, tra i figli profumati delle migliori borghesie metropolitane – barche a vela, scuole inglesi, ville nel Chiantishire, quattro diverse attività sportive a settimana – e la prole sparuta e bucata delle sottoclassi precarie si assiste a una mimetizzazione tipicamente post-capitalista. Non vi è «sottile differenza» che tenga. I bambini sexy e ammiccanti dei patinati settimanali d’ogni quotidiano che si rispetti non sono diversi dalle loro versioni trash dei ghetti popolari. I reggiseni imbottiti per bambine di Abercrombie & Fitch o i pantaloncini attillati con scritto Juicy (succoso) sulle natiche, dell’omonima casa di moda americana, stanno agli ammicchi sessuali di Giggino e Giuseppe Jr. come le Harley Davidson ai motorini truccati. Sono semplicemente lo stesso oggetto. Solo con qualche zero di differenza. In secondo luogo, la confusione liberazione/liberalizzazione riguarda i bambini in quanto la liberalizzazione sessuale ha comportato una naturale trasformazione dell’oggetto latente della desiderabilità: dalla bellezza alla giovinezza. Il vero totem cui si inchina il mondo dell’industria pubblicitaria e dell’immagine non è quello della bellezza bensì quello della giovinezza. La questione è molto semplice: ciascuno di noi è stato giovane nella vita, ciascuno di noi ha memorie di sé stesso più giovane; la bellezza, invece, è un fantasma minaccioso e astratto, troppo distante e assoluto per poter diventare l’oggetto del desiderio, da perseguire a ogni costo. L’imperativo del godimento comporta inevitabilmente come suo corollario un secondo imperativo: se per godere devo 105­­­­

desiderare di rimanere giovane, per essere desiderato devo essere giovane. Qui risiede un paradosso particolarmente tenace all’interno dell’economia collettiva del desiderio: la giovinezza viene rappresentata e proposta come totem onnipresente della desiderabilità, ma contemporaneamente siamo ossessionati dal connubio infanzia/innocenza. È come se la rivoluzione sessuale avesse accentuato le radici oscure dell’infanzia del Romanticismo4. In quell’epoca il mito nostalgico della purezza infantile aveva reso possibile il trionfo di personaggi «desiderabili» come Alice nel Paese delle meraviglie, mentre nel mondo reale i bambini del nascente proletariato perdevano braccia e gambe dentro alle macchine della rivoluzione industriale, sfruttati come forza lavoro peggio degli animali. Quel mito è stato paradossalmente rafforzato dalla rivoluzione sessuale, che ne ha reso ancora più evidenti le contraddizioni. La più appariscente delle quali è – contrariamente a quanto si ammette in pubblico – che il mito dell’innocenza e della purezza va mano nella mano con quello della «sensualizzazione» dell’infanzia. L’immagine aurea del bambino contiene già la sua controparte erotizzata e l’antica ossessione – mai davvero abbandonata – per il nesso tra verginità e ignoranza, buono per i bambini oggi come per le donne un tempo, ne è la controparte socialmente accettabile e ripulita. Tutto questo non è contraddittorio? Se l’immagine universalmente accettata del bambino-innocente comporta, per equivalenza stretta, quella del bambino precluso all’esperienza sessuale – innocente uguale vergine e ignorante –, come può accadere che intere comunità di adulti siano così disponibili a rappresentare i bambini nei termini scabrosi dei video di Giggino O’ Bello and friends? La versione upper class della faccenda la trovi sulla prima 4  J.R. Kincaid, Erotic innocence. The culture of child molesting, Duke University Press, Durham (NH) 1998.

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pagina di «Vogue Francia» del gennaio 2011. Lo specialista di scolli e natiche Terry Richardson fotografa per Ralph Lauren la piccola Thylane Lena-Rose Blondeau, una bambina di 10 anni in tutto simile alla migliore Brigitte Bardot, al netto degli ormoni, mentre ammicca in pose inequivocabili, «vestita» come una modella di Helmut Newton. Trucco, tacchi e luci soffuse. Immediata si scatena la salva di indignazioni collettive che non risparmia nessuno. Sui blog del sottobosco di stilisti e designer, sui siti delle associazioni in difesa dell’infanzia; ne parlano periodici e quotidiani. Il tam tam assume presto toni caricaturali. Vigilant Citizen.com titola «Disturbante gattina sessuale: il servizio di ‘Vogue Francia’ sui bambini». «Vogue genera pedofili?», si chiede il sito di Foxnews. «Credo che Vogue, Abercrombie e Juicy creino pedofili solleticando oscuri e illegali desideri in uomini che non li avrebbero mai coscientemente percepiti, e men che meno agiti», scrive perentorio Keith Ablow, psichiatra e autore dell’articolo per Foxnews. La posizione è paradossale, dal momento che sarebbe come sostenere che le onnipresenti immagini di ragazze svestite fomentino gli stupratori, o che l’esibizione di altri «oggetti» desiderabili faccia l’occhiolino ai ladri. Il punto è che la posizione di questa reazione indignata non solo è paradossale, ma è anche molto subdola. L’argomento implicito sottostante a queste reazioni indignate è infatti che chi non prova indignazione, chi non sentisse quelle immagini come «disturbanti» sarebbe automaticamente un pedofilo. Tutto molto subdolo. Bisogna diffidare di quelle reazioni collettive che non lasciano spazio ad alcuna alternativa dialettica. Cosa significa che le immagini sono disturbanti? Disturbanti per chi? Che cosa disturbano? Quale è la regola che viene corrotta dalla rappresentazione, sino al punto di «disturbare» la sensibilità dello spettatore? Naturalmente sarebbe fin troppo facile affermare che il desiderio sta negli occhi di chi guarda e che se qualcuno 107­­­­

percepisce le immagini come disturbanti è perché suscitano fantasie che lo disturbano. Questo può essere vero per le persone, per i singoli. Ma per la collettività le cose stanno diversamente: che cosa disturbano queste immagini all’interno della collettività? E quale è la funzione pubblica di questa indignazione? A che cosa ci serve? Perché la società plaude ai video dei neomelodici e celebra la bellezza infantile sulla più ambita e sofisticata delle riviste planetarie, e poi batte in ritirata gridando all’orrore e invocando la repressione? Si tratta dello stesso compromesso alla radice del successo di serie come CSI5, che non potrebbe spiegare più efficacemente la diffusa ipocrisia attorno al tema della sessualità infantile. Così come CSI è il racconto trionfale della sterilizzazione delle deiezioni, il maquillage del nostro sguardo asettico – luci blu e montaggio impeccabile – sulla realtà fittizia della scena del crimine, allo stesso modo il nostro sguardo può posarsi sul mondo oscuro e torbido della sessualità infantile solo grazie a una finzione. Accesi i riflettori, tirato il nastro isolante giallo, disposti gli strumenti di una minuziosa deumanizzazione, la realtà un po’ sudicia dello sviluppo sessuale può al fine essere disciplinata. In questa operazione ogni pezzo, ogni singolo dettaglio può finalmente essere restituito a un racconto presentabile, al prezzo di una fondamentale ipocrisia: se proprio non possono essere vergini che almeno siano sterili. Sterili, cioè sterilizzati. La verità è che il servizio di Richardson o il video di Giggino O’ Bello hanno «la colpa» di rappresentare senza finzione non già la sessualità infantile, bensì la diffusa erotizzazione dell’infanzia cui assistiamo in ogni piega degli spettacoli quotidiani. Funzionano come il «dietro le quinte» di una serie televisiva. Ne rivelano i meccanismi e dunque debbono essere   G. Wajcman, Les Experts. La police des morts, PUF, Paris 2012.

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oscurati, ovvero repressi. Disturbano la collettività perché ne svelano il lato nascosto e osceno necessario al suo funzionamento. Non sono osceni perché svelano troppo. Sono osceni perché svelano come funziona la censura. E per questo motivo, come si fa con un intervento di censura troppo palese, vanno violentemente negati con una nuova censura ancor più goffa della prima. Le ragioni che dovrebbero indurci a rifiutare questo tipo di rappresentazioni sono perciò esattamente opposte a quelle che comunemente si scatenano. Ciò che di traumatico e distorto alligna in queste rappresentazioni non è la connotazione intrinsecamente erotica della relazione tra bambini, ma piuttosto che quest’esperienza sessuale assuma una forma narrativa non-infantile. Ciò che vi è di aberrante non è che i bambini abbiano interessi sessuali, né che questi interessi prendano la forma di pratiche sessuali tra pari. I bambini «fanno sesso» tra di loro. Lo fanno inventandosi giochi, esplorando, aggredendosi, accarezzandosi. Il problema è che queste pratiche sessuali diventano «distorte», quando vengono travolte e stravolte dai modelli adulti. È il modo stesso attraverso cui rappresentiamo l’infanzia – orsacchiotti di pelo inclusi – che ci costringe a negare la «naturalità» dei suoi risvolti più scabrosi. La pelle retorica sotto la quale dissimuliamo l’infanzia nelle sue rappresentazioni pubbliche svolge la funzione di sottrarre alla nostra vista le cose dell’infanzia che sono scomode per continuare ad essere adulti infantili. È questo il motivo per cui le immagini dei bambini erotizzati, da Giggino a quelli su «Vogue», sono disturbanti per la collettività. Perché sono la rappresentazione esplicita che la censura oggi funziona attraverso una precoce e adultizzata erotizzazione della sessualità infantile. Non vi è nulla di nuovo in tutto questo. La storia dell’infanzia – per come la conosciamo oggi – è anche la storia delle pratiche di controllo della sessualità infantile. Sono due concetti e due campi di potere interconnessi. L’uno determina i 109­­­­

limiti dell’altro. E in un mondo in cui gli oggetti vengono sempre più frequentemente sostituiti dalla loro rappresentazione collettiva (la fama si sostituisce alla ricchezza, la popolarità alle persone, i sondaggi ai voti) il controllo della sessualità infantile non si esercita più sulla repressione e la segregazione dei corpi ma sulla loro rappresentazione collettiva. A questo serve la massiccia erotizzazione dell’infanzia. La migliore forma di controllo della sessualità infantile è quella che inibisce le fantasie, prima ancora di reprimere i corpi, che stronca sul nascere ogni impulso prima ancora di proibirlo. Precludere loro qualsiasi esperienza; seppellire l’esperienza sul nascere minando la struttura stessa della fantasia. Non c’è modo migliore, per impedire la fantasia, che occupare la lingua. Espropriare il soggetto della possibilità di costruire un discorso autonomo su quell’esperienza, imponendone uno posticcio. Se è vero che la sessualità ha bisogno dei corpi, Žižek – ancora lui – suggerisce (nel bel documentario The pervert’s Guide to Cinema) che ciò che nel sesso è essenziale sono le parole. Perché quello che rende possibile il sesso è la fantasia, e la fantasia non esiste senza il suo naturale supporto «materiale»: il «discorso sessuale», la narrativizzazione. È il discorso sessuale che distingue la sessualità umana da quella animale, e che genera le principali differenze tra sessualità maschile e sessualità femminile, come pure i modi della sessualità infantile da quella adulta. Il paradosso di questa erotizzazione dell’infanzia dunque è che l’esperienza viene forzatamente raccontata attraverso il repertorio dei più grevi luoghi comuni del corteggiamento e della gozzoviglia tra adulti. Se ci fermassimo alla nostra superficiale reazione emotiva, finiremmo forse per accodarci a quanti hanno richiesto interventi di censura e provvedimenti repressivi nei confronti degli autori di quei video, come nei confronti dei reggiseni pompati di Abercrombie. Come se la loro stessa esistenza e il successo di cui godono non fossero invece l’espressione di 110­­­­

fantasie collettive sui bambini, che hanno una funzione molto precisa. Quale? Se la sessualità comporta l’accesso a un regime organizzato simbolicamente che attiene ai ruoli sessuali, questo accesso alla sfera simbolica, questa intrusione del «discorso» nella sfera sessuale è ciò che – di fatto – distingue la sessualità adulta da quella infantile. L’organizzazione simbolica dell’esperienza sessuale richiede infatti una rappresentazione del desiderio dell’Altro. Di ciò che l’Altro vuole da me. Questa dipendenza dal desiderio dell’Altro espropria il soggetto dell’esperienza del godimento puro. Si può dire che tra tutti gli istinti quello sessuale è il solo che per definirsi – nei termini di una fantasia sessuale – abbia bisogno della «fantasia altrui». È facile, quindi, comprendere che la prematura imposizione ai bambini di un discorso sessuale «adulto», di una narrativizzazione obbligata dei comportamenti in termini esplicitamente sessuali, agisca a tutti gli effetti come una castrazione violenta. Li derubiamo della loro ineffabile e naturale sensualità e gliene appiccichiamo una posticcia, esplicita e traumatica, per piegare i loro comportamenti e le loro fantasie, sino ad averne il pieno controllo. Paradossalmente, il genitore che erotizza il figlio immergendolo in questo linguaggio esercita su di lui una violenza di matrice sessuale proprio nella misura in cui preclude al figlio di vivere in modo infantile la propria sessualità. Non stupisce che sempre più spesso si parli del fenomeno della pubertà precoce come di una trasformazione legata ai cambiamenti socioculturali. Come dice Bourdieu, «la forza simbolica è una forma di potere che si esercita sui corpi, direttamente, e come per magia, in assenza di ogni costrizione fisica. Ma questa magia opera solo poggiandosi su disposizioni depositate, vere e proprie molle, nel profondo dei corpi»6. La funzione simbolica dell’infanzia oggi comporta una ca  P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano 1998, p. 48.

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strazione talmente traumatica da spingere i corpi dei bambini ad adattarsi «in assenza di costrizioni» ma sotto la spinta di molle profonde. Nell’immergere i bambini in questo invadente sistema organizzato della simbolizzazione del sesso, li costringiamo a subire la perdita fondamentale della libertà d’accesso al godimento. Esercitiamo un governo sul piacere solo un po’ meno cruento della tanto vituperata infibulazione, appannaggio di quei popoli incivili e primitivi la cui esistenza commuove tanto le nostre migliori coscienze. Anche in questo caso, non si tratta affatto di una dialettica tra potere e contropotere. Tra norma e trasgressione. Ma della chiara manifestazione che un sistema di potere necessita di una «trasgressione intrinseca». La norma implica necessariamente la sua trasgressione. La norma ufficiale della tutela dell’infanzia come baluardo intoccabile delle nostre società evolute comporta che, per preservare l’equivalenza infanzia-innocenza, l’infanzia debba subire un’erotizzazione traumatica «da dentro». Come dire che l’unica possibile rappresentazione che possiamo dare dell’erotismo infantile necessita di una castrazione traumatica che avviene applicando ai bambini il nostro sistema di riferimenti simbolici. Come si vede, ciò che fa acqua qui non è il concetto di tutela ma quello di infanzia. È la nostra idea dell’infanzia che ci impone di castrarla preventivamente, nel tentativo di «tutelarla». In altre parole, la castrazione dell’eros infantile è ciò che rende compatibile il mito dell’equivalenza infanzia = innocenza con la dilagante sovraesposizione erotica dei bambini nelle economie capitaliste. Non è, come vorrebbe la retorica dominante della controcultura di massa, che i bambini siano diventati i nostri oggetti di consumo sessuale «per colpa» del capitalismo. Al contrario. È per continuare a coltivare l’immagine aurea del bambino innocente – fondamentale per garantire il compromesso etico alla base della nostra ideologia capitalista – che siamo costretti a rappresentare la 112­­­­

sua dimensione erotica nella forma castrante e posticcia di un discorso erotizzato adulto. Come altro si spiegherebbe, se non con una preventiva castrazione, che fenomeni come Giuseppe Jr. e Giggino O’ Bello si manifestino proprio in quei contesti sociali dove le persone godono in realtà di libertà sessuali – prendi, ad esempio, lo stato ancora arretrato di emancipazione della donna – apparentemente assai più limitate che in altre aree del Paese? Se è vero, infatti, che i costumi e l’orizzonte morale «di facciata» di questi contesti sono quelli di una strenua difesa di determinati supposti principi morali della famiglia ortodossa – retaggio della tradizione preindustriale, ancora viva in molti ambienti – è altrettanto vero che contesti urbani come Napoli sono precisamente i luoghi dove il controllo sul corpo dei bambini – assai presente in tutte le altre dimensioni sociali – è allentato o quasi assente. Il tasso di abbandono scolastico è ancora altissimo e nell’ambito domestico persistono spesso situazioni di condivisione promiscua di ambienti poco differenziati tra adulti e bambini. Uno scenario che ricorda molto la condizione dell’infanzia nell’Europa di inizio Novecento, dove la questione aperta dell’incesto aveva finito per influenzare le politiche sociali, educative e le scuole psicopedagogiche degli anni a venire. Non è forse proprio questo eccesso di promiscuità che deve essere tenuto a bada in un rito di castrazione collettiva pubblico e trionfale? Non sono forse le fantasie incestuose intrinsecamente connesse alla sessualità infantile a costringerci ad un’azione di censura preventiva? Acceleriamo lo sviluppo sessuale dei bambini, gettandoli nella vasca ormonale da cui, ormai da settant’anni, pesca il marketing. Così facendo mettiamo la sordina a un dilemma mai risolto e ancora patente: la sessualità infantile comporta l’attivazione di scenari fantasmatici connessi a pratiche incestuose. Non molta strada sembra stata fatta da quando LéviStrauss scriveva che «la proibizione dell’incesto non è di ori113­­­­

gine puramente culturale, né di origine puramente naturale; [...] essa costituisce invece il passo fondamentale grazie al quale [...] si compie il passaggio dalla natura alla cultura»7. Un passaggio che, però, non è acquisito nella forma di un dato immutabile, ma è continuamente interrogato nelle relazioni adulti/bambini, genitori/figli. E che necessiterebbe, anziché di un’opera di censura preventiva, di una vera cultura «positiva» della sessualità infantile. È forse casuale che ogni discorso pubblico, ogni dibattito e ogni residua possibilità di costruire un discorso positivo sull’educazione sessuale nelle scuole sia di fatto cessato proprio con la cosiddetta liberazione sessuale? Del resto, è sufficiente rispolverare i palinsesti televisivi anni Settanta, quando l’anti-eroe della lotta alla pedofilia imperversava sotto le spoglie secolari dell’insuperabile Alvaro Vitali, alias Pierino. La saga del giamburrasca erotomane – che certo si potrebbe pure liquidare come l’ennesimo capitolo da buttare del cinema italiano, non fosse che prima o poi sarà riabilitato da qualche retrospettiva francese – rappresenta un fenomeno particolarmente significativo. Non sorprende infatti che negli anni Settanta le famiglie piccolo-borghesi che hanno subìto le bordate ormonali del decennio precedente senza condividerne i presupposti ideologici, liberano quell’energia sessuale in grossolani banchetti televisivi a base di incesti e gozzoviglie confuse tra zie scosciate, nipotini e scolari tumebondi. Finirà che, prima o poi, ci sembrerà una buona idea prendere a modello l’assurda esperienza svedese di Egalia, una scuola materna da cui sono per legge banditi i pronomi personali maschili e femminili, sostituiti dalla forma neutra hen. Tutti de-sessualizzati per legge, ossia tutti lasciati soli a risolvere il problema della propria identità sessuale alle prese con i totem ormonali della società dei consumi. 7  Cl. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2003, p. 67.

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Epilogo

Meraviglioso e perdente

Roma, giugno 2010. Da un giorno all’altro viene annullato il Memorial Tribute per Michael Jackson perché – si dice – sono stati venduti pochissimi biglietti. Peccato. Ci siamo persi gli odiosi fratelli Jackson, tra mossette e paillettes, a banchettare ancora una volta sulla tomba del fratellino prodigio. Dopo che per sei mesi l’industria discografica ci ha assillato con Billie Jean anche al cesso, forse è la volta buona che la stella di Gary, Indiana, è davvero sepolta. Ma chi immaginasse che ci siamo liberati del suo fantasma commetterebbe un errore ingenuo. Su JJJ ne abbiamo sentite e lette di tutti i colori. Negli ultimi tempi la foga sanguinaria della caccia giornalistica al Jacko pedofilo aveva lasciato il posto a un recidivo prurito per tutti quegli strati di mascherine, veli e occhialini, fino al nuovo volto della sfinge, pronta – si diceva – all’ennesima resurrezione. Invece basta un medico sbadato e come nella migliore tradizione rock’n roll, da Elvis in giù, in un battibaleno la gloria si fa agonia e poi salma. Adesso che è saltato anche il Tribute mi pare evidente che ciò che più di ogni cosa distingue JJJ non è la mostruosità del dopo-plastiche, l’assurdità di quelle fattezze che cascavano sulle ossa spigolose in rughine mummifiche, ma l’incredibile noncuranza con cui la mostruosità del «prima» era tranquillamente assurta a icona pubblica. Michael Jackson in realtà muore all’incirca nel 1981. Alcuni anni più tardi, quando nel video di Thriller esce dalla terra, imbrattato e ricoperto di stracci, il passaggio dal chirurgo 115­­­­

plastico e le cure cui si è sottoposto dopo l’album Off the wall lo hanno riportato indietro. La macchina della produzione ha schiacciato ‘rewind’; la morte, se proprio non lo ha fatto bello, lo ha reso più giovane. Giovane e replicabile all’infinito. Tutto concorre a determinare la sua grandezza barocca. È proprio con l’album Thriller che inventa il moonwalk, un gioco di gambe che ti fa indietreggiare anche se dai l’impressione di stare camminando in avanti. Con la luna non c’entra niente. C’entra molto, però, con la distinzione adulti/bambini. Negli anni in cui si scrivevano libroni sul concetto di tutela dell’infanzia, gettando le basi per nuovi insindacabili principi morali e convenzioni internazionali sui diritti del fanciullo, il corpo di Michael, sottratto ai banchi di scuola, sfruttato in ogni centimetro prima dai suoi stessi familiari e poi dagli agenti, diventava icona pubblica. Quasi avesse preso alla lettera i discorsi psicologistici sull’importanza di «rimanere bambini» e sul «coltivare le parti infantili», Jacko si immola pubblicamente nel tipico gesto «suicida» del fondamentalista che crede davvero nel mondo di latte e miele promesso dal divino, ed è disposto a qualunque cosa per meritarselo. Gli ormoni rinculano a forza di altri ormoni, la pelle si sbianca. Le esuberanze del crine si placano. E il chirurgo smussa centimetro dopo centimetro fino alle ossa. Poi ali di flash e ragazzine schiumanti celebrano il suo gesto, sovvertendo cent’anni o quasi di ordinato accumulo di certezze scientifiche sul perché e il per come dello sviluppo individuale. Sul sopra e il sotto delle relazioni tra adulti e bambini. Lo sviluppo diviene improvvisamente un tragitto reversibile. Bambini si può diventare. La famiglia – già transitata dalla struttura piramidale degli anni Quaranta a quella poliedrica dei Sessanta – è pronta a trasformarsi in un contenitore sferico per pesci, in cui può ufficialmente regnare un’allegra anarchia. Il fatto che si fosse quasi sempre costretti a osservare solo attraverso i teleobiettivi l’assurda gazzarra di Neverland – la 116­­­­

casa-zoo-giardino di divertimenti dove Jacko riposava in camere iperbariche, tra una paccatina e l’altra – ci aveva ingannato; la si sbirciava come qualcosa di eccentrico e distante. Ma era un errore ottico. Neverland era già qui, sotto gli occhi di tutti, accalcati, ai piedi di un palco chilometrico. Lì sopra il divo, sempre più pallido e ossuto, sempre più laido e ambiguo, prendeva a fregarsi a ritmo i genitali, in allegra compagnia del suo corpo di ballo. E subito dopo – un flash, due sbuffi di fumo e un plissé – decollava nuovamente per il mondo delle fiabe, dove si amano tutti i bambini di un amore purissimo, e ce la si prende con gli adulti che inquinano, sprecano, ammazzano, in barba alla santa innocenza infantile. Il suo essere asessuato e al tempo stesso ostentatamente sexy, il suo ammiccare in modo quasi obbligato alla femmina – come ci si aspetta che faccia ogni docile bambino delle elementari nei confronti della mamma, della maestra e giù sino alla fidanzatina – e l’essere contemporaneamente così effemminato, quel suo ripetitivo stringersi a tempo le mani tra le gambe, più come l’impubere che deve orinare ma non ha il coraggio di chiedere il permesso che come il teenager alle prese con incontenibili pruriti, lentamente partorivano un’icona mostruosa e ambigua che si è impadronita del pubblico attraverso gli stessi meccanismi con cui penetrano nella nostra mente gli zombie e i non morti della fantascienza. Così, il fatto che tutto fosse proprio nato da un video di zombie chiudeva definitivamente il cerchio di una trasformazione che riguardava l’immaginario collettivo molto più di quel che si era disposti ad ammettere pubblicamente. Il «non sesso» di Michael era la rappresentazione pubblica di un tabù ancora oggi quasi impronunciabile, cioè la natura intrinsecamente genitale della sessualità infantile. Come gli zombie, Michael era l’incarnazione dei pensieri che la gente per bene normalmente nasconde in privato. La sua sessualità era infantile perché connessa a un’energia inesauribile, che non poteva trovare appagamento, allo stesso 117­­­­

modo dello zombie che non si placa né sazia dopo aver sbranato un umano. L’energia vitale dello zombie è la pulsione di morte di cui parla la psicologia. È la fonte inestinguibile di una voracità che non conosce il divieto morale e che per questo risulta pubblicamente scandalosa. Così non è affatto casuale che Neverland abbia finito per aprire definitivamente le porte – suo malgrado – all’opera di dissezione giudiziaria, conseguita alle accuse di abusi sessuali. Il santuario della sua ambiguità di bambino eterno, padre impubere, efebo bizzoso consacrato da chilometri di pagine di gossip e voyeurismi autorizzati, non poteva dischiudersi al pubblico se non con un’intrusione traumatica. Forse la sequenza di immagini che più resterà impressa di quella vicenda è il footage dell’interrogatorio alla star in un ufficio di polizia. La qualità sporca così diversa da ogni immagine ufficiale del divo, l’assurdo cappello da personaggio di Alice nel Paese delle meraviglie, l’espressione tra stupore (di cosa?) e sarcasmo quando sente contestarsi il reato. Un sorriso amaro, come di chi dicesse: «ho giocato con l’ambiguità della sessualizzazione infantile tutta la vita, ci ho fatto spettacoli e una fortuna, e voi l’avete celebrata in ogni modo, avete zoomato e stretto le vostre inquadrature; ho reso la sessualità di un bambino prepubere un’icona mondiale, e ora mi chiedete se avevo un interesse sessuale per i bambini? Ma di che cazzo state parlando?». Nel 2003, poco dopo l’esplosione del caso giudiziario, Michael autorizza una lunga intervista documentario dentro Neverland. La prima parte si svolge in uno degli studi musicali e Michael racconta che il padre frustava con la cintura lui e i suoi fratelli quando sbagliavano i passi di danza durante le prove. Accenna a commuoversi, si lamenta con il giornalista per le domande (gli dice, «perché mi stai facendo questo?»), ma l’intervista naturalmente prosegue. Si tratta di costruire meticolosamente l’immagine di una vittima per poter dire che proprio perché ha tanto sofferto ora è innocente. Ama tutti i bambini e non torcerebbe loro neanche un capello. 118­­­­

Sullo sfondo, sopra a sintetizzatori e amplificatori, si intravede un quadro gigante, incorniciato d’oro. Un San Sebastiano – nota icona gay – stile Antonello da Messina, ma senza orpelli cruenti. Raffigura Michael nelle sue spigolose sembianze post-chirurgiche, pallido come Kate Moss, cinto di una stola, adulato da putti che gli infilano fiori nei capelli. Angeli e demoni, come si vede, sono molto più vicini di quel che si vorrebbe ammettere. Ciò che rendeva Michael così inquietante e scivoloso agli occhi dei media era esattamente questo: l’incarnazione sensuale e ammiccante, santa e diabolica, dell’ambivalente immagine del puer – putto e martire, vergine e dannato, puro e crocefisso. La morte di un divo lascia immancabilmente sul campo folle di invasati senza bussola, probabili candidati a trattamenti riabilitativi pluriennali. Ma, soprattutto, lascia sola la sua controfigura, il contro-eroe perfetto: nel caso di Jacko, il cantante e artista americano Daniel Johnston. Anche Daniel viene da una famiglia ultrareligiosa e numerosa, anche lui inizia giovanissimo a giocare con la musica e l’arte. Soprattutto, anche Daniel è fin da subito una persona tremendamente sola, al punto da inventarsi relazioni con fidanzate immaginarie. Un disadattato cronico, uno costretto dai propri «problemi» a trascinarsi a vita il fantoccio della sua infanzia. Ispirato dalla tradizione del pop e del rock più classico, Johnston costruisce una perfetta estetica «della bassa qualità», dell’amatorialismo tipico del dodicenne in preda agli ineffabili dolori del suo sviluppo mai compiuto che sfiora la realtà muscolare che lo circonda senza alcuna speranza di potersi confrontare alla pari. Se Jacko era un monumento di talento, spremuto a furia di cinghiate, esibito come un totem, Johnston è puro genio in cerca di nascondigli. Dove il corpo del primo si assottigliava per meglio flettersi a tempo di musica, quello di Daniel ac119­­­­

cumulava strati di grasso, rendendolo privo di una forma. Se il primo appare sempre più un bambino mostruoso e sexy, il secondo è sempre più simile alla rappresentazione classica del pedofilo: ambiguo, disadattato e possibilmente in sovrappeso. Un beautiful loser, schivo e ossessionato dal demonio. Al liceo lo conoscevano come il ragazzo che disegnava palle degli occhi, si racconta nel bellissimo documentario del 2006, The Devil and Daniel Johnston. Era fissato. Trovavi palle sui muri, sui poster, sui libri di scuola. Un occhio appeso lì, in mezzo alla fronte di un politico su un manifesto elettorale. Oppure disegnato su una scatola di fagioli. Poi il crollo e l’ospedale psichiatrico. E mentre gli specialisti si occupavano di Daniel ricorrendo al classico repertorio di lenimenti e costrizioni, Michael incontrava i chirurghi per trasformare la sua immagine dall’efebo ancora afro-americano di Thriller al freak sbiancato e aguzzo di Bad. Se il pupazzo del bambino Michael, ricoperto d’oro e creme antirughe, era parecchio piaciuto ai media, che avevano riprodotto la sua assurda icona in ogni salsa – gli stessi media che nel frattempo oliavano gli scandali sulle lobby internazionali di rapitori di bambini –, Johnston continuava invece a trascinare il suo fantoccio di bambino come un cadavere sporco e ingombrante. Qualcosa di straordinariamente primitivo irrompe nei suoi disegni di supereroi sgraziati, nella sua voce rauca e un po’ stonata, nella sua goffaggine. Daniel è uno che alla fine dei concerti, senza alcuna posa autoironica, ringrazia la gente per averlo ascoltato. Non è forse questa sua trasparente brutalità la rappresentazione più potente del lato oscuro dell’infanzia? Qualcosa che con ostinazione è nascosto allo spettacolo della realtà – soffocato nei media, censurato pubblicamente – perché sfugge alle logiche posizionali con cui siamo abituati a misurare successo, relazioni e lavoro? Qualcosa che non può essere venduto nello stesso mercato dei prodotti che consumiamo? Qualcosa che semplicemente non funziona con il mito della 120­­­­

famiglia tradizionale, che non potrebbe entrare in una soap né è compatibile con l’immagine dei modelli impuberi di Calvin Klein? Il suo incedere da pachiderma sfiora la cristalleria delle fantasie e tocca molto da vicino ciò che oggi resta di vitale nel concetto di infanzia. Non più il pupazzo intonso e smaltato da esibire al circo e alle cerimonie, da addestrare ordinatamente al consumo, protetto sotto la campana delle nostre battaglie ipocrite, bensì un oggetto opaco e misterioso, diseguale e incerto. Qualcosa ancora in grado di scompigliare le carte dei nostri giochi ordinati, di rivelare il lato oscuro del mondo.

Postfazione obbligata

Sono molti quelli che, leggendo il manoscritto nella sua forma provvisoria, hanno sentito la mancanza di un capitolo conclusivo. Dicevano: «D’accordo, hai parlato di ipocrisie e finzioni sull’infanzia di oggi, ma come fare i conti con i bambini reali se questa è la realtà in cui vivono?». Naturalmente avrei potuto tentare di convincerli che questo non è un libro di buoni consigli. Non lo è, in effetti. E che andassero a cercarseli magari in edicola o in tv. La stampa è piena di decaloghi e le trasmissioni televisive ospitano spesso truccatissimi esperti di ogni disciplina gravidi di sapienza. Invece ecco qui il capitolo conclusivo. Molto sintetico. Quando guardiamo i bambini degli altri, stiamo guardando il nostro. Stiamo mettendoci gli occhiali che servono per comprendere, delimitare e regolamentare. Per scegliere, desiderare e descrivere. Per disporre, risolvere e reprimere. Il bambino che portiamo dal pediatra, il bambino che addormentiamo la sera, il bambino che siamo convinti di conoscere profondamente e di cui parliamo con l’insegnante a scuola o al quale dispensiamo le nostre massime di vita – anche se per qualche motivo pensiamo che sia del tutto speciale – è esattamente come il bambino degli altri. È come il bambino seminudo e ammiccante delle pubblicità e il bambino sgranato e censurato delle foto sui giornali. È come il bambino saltato per aria da qualche parte nel fango su una mina fabbricata in Padania o in Texas, ma chissenefrega. È come il bambino che sa sparare meglio di Clint Eastwood e dorme più armato di Stallone. È come il bambino 122

che ha tre tate, dieci case e quattro barche a vela. È come il bambino che ha spaccato la testa a un altro bambino e non ci si capacita proprio di come e perché. Non sei immune dai vizi di tutti. Non sei speciale. E tuo figlio non è più speciale degli altri. Funziona nello stesso modo. Appartiene alla stessa infanzia. Avrà gli stessi sogni. Combatterà le stesse battaglie. Per quanto sia consolatorio illudersi che non sia così, essere consapevole che il nostro modo di pensare collettivamente l’infanzia determina con precisione i confini, il ruolo e le aspirazioni di ogni singolo bambino – anche del tuo – ti servirà almeno per spostare ogni tanto il punto di vista. Per guardare le cose che vedi tutti i giorni in un modo un po’ diverso. E chiederti in che senso le cose che fa o dice il tuo bambino sono cose «infantili». In che senso sei infantile tu. E dove finisce l’una e dove inizia l’altra cosa. E forse, così, diventerai più capace di scoprire quale persona si nasconde sotto le finzioni. Scoprirai, forse, che sotto al pelo del placido orsacchiotto c’è un bambino che fa domande, solleva dubbi e interroga la tua realtà presentandoti il conto di anni di compromessi con cui credevi di aver regolato ogni debito. Un essere scomodo e ruvido, ancora capace di scompigliare le regole del gioco. Un bambino che, a differenza dei leoni della savana, in lungo e in largo delimitati dall’occhio sterile dei parchi nazionali – potrà diventare libero di lasciare che qualcosa di primitivo e vergine irrompa nel tuo salotto. Se saprai ascoltare le sue domande, se fuggirai alla tentazione di pensare che siano troppo scabrose per poter avere davvero a che fare con quella creatura intonsa e profumata che immaginavi fosse tuo figlio, allora sarà arrivato il momento in cui fare il genitore rappresenterà forse un’esperienza nuova. E sarà il momento di scoprire cosa c’è di nuovo in tuo figlio, oltre a quello che già tutti sanno e tutti dicono. Scoprirai, forse, che nella nobilitazione pomposa della genitorialità che accompagna i discorsi pubblici di massa come pure le lingue tecniche delle scienze sanitarie, spesso si 123­­­­

dimentica di spiegare che il «mestiere» di genitore ha a che fare anche con la sconfitta, con la perdita, con la mancanza e con l’incertezza. Sarà – soprattutto – il momento in cui scoprirai gradualmente in che senso l’educazione ha a che vedere con i segreti e in che senso ogni segreto serve a tracciare un confine. Ti sorprenderai, forse, mentre insegni a tuo figlio – molto più spesso di quanto credi – quanto è importante far credere agli altri di non sapere. Dal momento che fingere di non sapere è l’approdo ultimo di ogni pedagogia che si creda liberata dalle ideologie. E questo aiuterà tuo figlio a scoprire sé stesso e a crescere forse un po’ più libero. Oppure puoi continuare a credere che il tuo sia un bambino speciale. Immune dagli stereotipi che tu stesso applichi con inconsapevole generosità ai bambini degli altri. Puoi continuare a coltivare l’illusione miope che in un mondo post-ideologico dovrà semplicemente crescere in fretta, molto in fretta, per determinarsi alle scelte del libero consumatore e realizzare le sue più recondite aspirazioni. E se domani la creatura dovesse mostrare qualche incrinatura nel guscio morbido e profumato che gli hai cucito addosso, la prima cosa che ti verrà in mente sarà che la colpa è di qualcun altro, che tuo figlio è una vittima e che il carnefice è altrove. E in questo caso ti sembreranno molto utili i consigli di qualsiasi rubrica periodica «lo psicologo risponde».

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