Gli etruschi
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Friedhelm Prayon

Gli etruschi

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UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 329 .

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FRIEDHELM PRAYON

GLI ETRUSCHI

IL MULINO

ISBN 88-15-06887-2 Edizione originale: Die Etrusker. G eschichte, R eligion, Kunst, M unchen, Beck, 1996, Copyright © 1996 b y C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung (Oscar Beck), Miinchen. Copyright © 1999 by Società editrice il M ulino, Bologna. Traduzione di M arinella M archesi. E vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettua­ ta, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non auto­ rizzata.

INDICE

Introduzione I.

L ’etruscologia e le sue fonti

IL

Territorio, città, società

p.

7 9 17

III.

Le origini, le prime fasi storichee la lingua

31

IV.

Espansione commerciale, fioritura e declino

45

V.

La religione

65

VI.

L’arte

85

Conclusione. Eredità e sopravvivenze

107

Letture consigliate

113

Indice dei nomi e delle cose notevoli

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INTRODUZIONE

«Ci rimane da parlare dei tirreni. Essi nei tempi antichi, se­ gnalandosi per coraggio, si impadronirono di molte terre e fon­ darono molte e importanti città. Parimenti, possedendo una po­ tente flotta ed esercitando il dominio sul mare per lungo tempo, ottennero che il mare che bagna l’Italia prendesse da loro il nome di Tirreno; perfezionarono l’armamento delle forze di ter­ ra e inventarono lo strumento che si chiama tromba, utilissima in guerra, che da loro prese il nome di “tromba tirrenica”; crea­ rono i simboli del potere per i generali insigniti del comando, assegnando loro i littori, il seggio d’avorio e la toga pretesta; in­ ventarono nelle case il peristilio, una comodità contro gli schia­ mazzi delle turbe dei servi. I romani adottarono la maggior par­ te di questi ritrovati e, dopo averli perfezionati, li introdussero nella loro comunità. I tirreni elaborarono ulteriormente le lettere, la scienza della natura e quella divina e, più di tutti gli altri uomini, praticarono l’osservazione del fulmine; perciò, anche ai nostri giorni, coloro che comandano su quasi tutta la terra ammirano questi uomini e se ne servono come interpreti dei segni fomiti dai fulmini. I tirreni abitano una terra che produce tutto e la coltivano con cura: hanno perciò prodotti agricoli in abbondanza, non solo sufficienti per il sostentamento ma tanti da permettere un ricco godimento e una vita lussuosa. Imbandiscono due volte al giorno mense sontuose, fornite di tutto quanto ben si addica ad un lusso smodato; preparano letti ornati con coperte ricamate, tengono a loro disposizione coppe di argento in gran quantità e di ogni tipo nonché un numero non piccolo di schiavi addetti al servizio, dei quali gli uni spiccano per bellezza, gli altri sono adorni di vesti troppo preziose per essere adatte a chi sia in con­ dizione servile. [...] Per dirla in breve i tirreni hanno rinunciato all’ardimen­ to che era oggetto di emulazione presso di loro sin dai tempi an­ tichi, e vivendo dediti al bere e ad una oziosità indegna di uomi­ ni hanno con giusta ragione perduto la fama che gli avi avevano acquisito in guerra».

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L ’autore di queste affermazioni sul popolo degli etru­ schi è Posidonio di Apamea, in Siria. Posidonio visse tra il 135 e il 51 a.C. e fu un filosofo e un diplomatico molto stimato. Nell’inverno tra l’87 e l’86 a.C. si recò a Roma per trattative, in qualità di inviato speciale dell’isola di Rodi. Questo viaggio gli offrì, tra l’altro, la gradita oppor­ tunità di occuparsi più da vicino degli etruschi e di redige­ re la breve descrizione sopra riportata, a noi tramandata dallo storico Diodoro (V, 40). Il valore di questo brano sta nel fatto che esso delinea il più efficace ritratto di questo popolo che abbiamo. Anche la datazione è interessante, dal momento che proprio l’anno precedente la sua stesura, cioè l’88 a.C., l’Etruria era stata annessa allo stato romano. Questo even­ to da un lato aveva consentito a tutti gli etruschi di acqui­ sire il diritto di cittadinanza romana, dall’altro, nello stesso tempo, aveva comportato anche l’assunzione del latino come lingua burocratica ufficiale, a scapito dell’etrusco. In breve, Posidonio si imbattè in un popolo che aveva perso da poco la propria identità etnica; il suo atteggia­ mento moralistico sottolinea come gli etruschi, il popolo un tempo più valoroso, più potente e più abile dell’Italia centrale, avevano compromesso il proprio destino per l’ec­ cessiva dissolutezza, della quale essi erano gli unici respon­ sabili. Come vedremo oltre, Posidonio, nel formulare il pro­ prio giudizio, ha certamente riportato l’opinione più diffu­ sa a suo tempo tra i greci e i romani. Ma tale opinione rendeva giustizia a questo strano popolo? Le scoperte ar­ cheologiche degli ultimi due secoli, in particolare, hanno notevolmente ampliato le nostre conoscenze, tanto che oggi, grazie alla ricca eredità che ci è stata trasmessa, pos­ siamo interrogare i loro monumenti e ricavare da essi un nostro personale parere.

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CAPITOLO PRIMO

L ’ETRUSCOLOGIA E LE SUE FONTI

Storia d elle ricerch e etru scologich e L ’interesse per gli etruschi si risvegliò nel Rinascimen­ to, quando, prima per caso, poi grazie a ricerche mirate, vennero scoperti i primi monumenti etruschi, come l’anti­ ca tomba a pseudo-cupola detta «della Mula», rinvenuta a ovest di Firenze nel 1494, la monumentale tomba a tumu­ lo di Castellina in Chianti (1507) o la grande scultura bronzea, ancora oggi unica nel suo genere, della Chimera di Arezzo (1553) e la statua di togato detta àc\YArringatore, proveniente dalla sponda settentrionale del lago Trasi­ meno (1566). Poiché nello stesso periodo si ridestò anche l’interesse per gli autori antichi, i quali poterono raggiun­ gere un più vasto pubblico grazie ai nuovi metodi di stam­ pa, vennero stabiliti almeno i presupposti filologici per lo studio di questo popolo scomparso. Gli etruschi, tuttavia, non erano mai del tutto caduti nell’oblio, dal momento che la conoscenza di singoli monumenti - come porte ur­ biche, tombe o cinerari - si era conservata nel tempo e il nome degli etruschi era onnipresente in toponimi come mar Tirreno, nel nome di località come Tuscania o nella denominazione della stessa regione Toscana. L ’intensa atti­ vità sugli etruschi durante questa prima fase degli studi spiega anche la pubblicazione, già nel 1498, di una raccol­ ta di iscrizioni etrusche ad opera di Annio da Viterbo. Sin dal principio l’interesse per gli etruschi si concen­ trò in Toscana, culla del Rinascimento. I suoi abitanti, pri­ mi fra tutti la famiglia dei Medici, si ritenevano - non sen­ za una punta di polemica nei confronti di Roma - legittimi successori degli etruschi, il più antico popolo civilizzato dell’Italia centrale e, perciò, furono attivissimi nello studio di tale etnia. Inizialmente, tuttavia, questa attività si limitò 9

alla raccolta di antichità e alle ricostruzioni del tutto fanta­ siose di monumenti ricordati solo dalle fonti antiche, quali il monumento funebre del leggendario re Porsenna di Chiusi. Nel Settecento cominciò la discussione scientifica sugli etruschi. Nel 1726 fu fondata a Cortona l’Accademia Etni­ sca, con la funzione di foro scientifico. Ad autori come Anton Francesco Gori, Mario Guarnacci e Luigi Lanzi spettò per primi il merito di una documentazione scrupo­ losa delle opere d’arte. Ma in essi si trovano anche le pri­ me conoscenze e le prime applicazioni di critica metodolo­ gica: Lanzi ad esempio allude alla provenienza greca dei vasi figurati, ritenuti (fino ad allora e ancora per lungo tempo) etruschi. Nell’Ottocento, sotto lo stimolo delle scoperte straor­ dinarie compiute in Egitto e in Grecia, le attività interna­ zionali spostarono la propria attenzione anche verso il campo delle ricerche etruscologiche. Furono soprattutto gli scavi estensivi effettuati in molte zone dell’Etruria, in particolare nelle necropoli di Vulci, Tarquinia e Cerveteri, a suscitare il maggiore interesse. Gli oggetti rinvenuti - il vero obiettivo di queste operazioni - giunsero in tutti i più importanti musei d’Italia e d’Europa, dove da quel mo­ mento cominciarono a formarsi importanti raccolte di ce­ ramica greca ed etrusca. In quel periodo vennero anche definendosi le basi scientifiche della storiografia, della filo­ logia e dell’archeologia, ancora valide ai giorni nostri. Un ruolo non irrilevante in questo sviluppo ebbe l’Istituto di Corrispondenza Archeologica di Roma, fondato nel 1829 da Eduard Gerhard, un centro internazionale nell’ambito del quale artisti e studiosi di antichità potevano incontrarsi e svolgere le loro attività di studio. Videro la luce le prime riviste e le prime importanti opere topografiche di stampo classico come Antica Etruria marittima di Luigi Canina (1846-1851) e The cities and c e ­ m eteries o f Etruria di George Dennis (1848); quest’ultimo libro è ancora oggi una valida lettura, ricca di spunti per ciò che riguarda la storia della civiltà. Tipiche di questa fase degli studi furono le miscellanee dedicate a manufatti arti­ stici etruschi, noti col nome di corpora , come Specchi etru­ schi di Eduard Gerhard (1839-1867) e I rilievi d elle urne 10

etn isch e di Heinrich Brunn e Gustav Kòrte (1870-1916). Infine venne avviato uno studio sistematico delle origini della lingua etrusca (soprattutto ad opera di Wilhelm Corssen, Carl Pauli e Gustav Herbig), e all’opera Die Etrusker di Karl Otfried Miiller (1828, completata da Wilhelm Deecke nel 1877) si deve la prima descrizione complessiva della civiltà etrusca fondata su basi scientifiche. Nel Novecento, parallelamente allo sviluppo delle altre discipline inerenti lo studio dell’antichità, si sono moltipli­ cati e perfezionati le metodologie e gli obiettivi della ricer­ ca; ci si è avvalsi in misura sempre maggiore delle cono­ scenze delle discipline tecniche e delle scienze naturali, de­ rivanti ad esempio dal campo delle analisi tecnico-scienti­ fiche dei materiali (contraffazione, determinazione dell’an­ tichità, analisi dei componenti) o dal rilievo e dalla docu­ mentazione fotografica (fotogrammetria, fotosonde) e, non ultimo, dall’elaborazione informatica dei dati. Nonostante ciò l’etruscologia è e rimane una disciplina umanistica con basi storiche, che si propone l’obiettivo di comprendere e di analizzare sia le specifiche peculiarità della cultura etrusca, sia i suoi punti di contatto con l’am­ biente italico e mediterraneo. Uno degli esiti di questo ampio spettro di interessi sono le mostre internazionali, come quelle del P rogetto etruschi , realizzate contempora­ neamente in diverse città dell’Italia centrale nel 1985, o anche l’esposizione tenuta a Parigi e Berlino nel 1992 con il titolo paradigmatico Gli etruschi e l’Europa. Nel campo degli studi si sta cominciando, soprattutto in Italia, a fare dell’etruscologia una disciplina autonoma nell’ambito delle scienze dell’antichità, mentre nel resto d’Europa e negli Stati Uniti essa resta parte delle discipline classiche quali l’archeologia, la filologia, la storia o la linguistica. Un ruolo fondamentale nello sviluppo della ricerca etruscologica in Italia svolge l’Istituto di Studi Etruschi e Italici, fondato a Firenze nel 1932. In particolare nei suoi anni iniziali, e più tardi sotto la direzione di Massimo Bal­ lottino, una delle figure scientifiche di maggior spicco de­ gli ultimi decenni, questo istituto, con le sue numerose at­ tività (colloqui e congressi periodici, progetti espositivi e pubblicazioni), ha acquisito un particolare prestigio nel campo delle scienze dell’antichità. 11

Le fonti antiche

Uno dei grandi problemi della ricerca etruscologica è la mancanza di una documentazione letteraria etrusca ori­ ginale. Per le notizie relative al periodo di maggiore fiori­ tura di questo popolo, cronologicamente collocabile tra il VII e il V secolo a.C., dipendiamo soprattutto dalle anno­ tazioni frammentarie e casuali lasciate dagli scrittori greci: per loro gli etruschi non furono mai degni di una tratta­ zione specifica, e quindi ne viene fatta menzione solo in maniera marginale e nell’ambito di temi particolari. Og­ getto di maggior interesse furono, in particolare, le «diver­ sità» degli etruschi rispetto ai greci, vale a dire, la loro lin­ gua, le loro origini e le loro usanze (Erodoto, Teopompo e altri). Più raramente vennero descritti anche avvenimenti storici, sebbene sempre ed esclusivamente considerati nel­ l’ottica degli interessi greci (Tucidide, Diodoro). Altrettanto parziale è l’interesse degli scrittori romani, che si orientarono principalmente verso le vicende storiche della città di Roma. Un simile stato della documentazione è disarmante, perché in questo modo gli eventi storici e politici interni all’Etruria rimangono pressoché del tutto sconosciuti. Si deve anche considerare che le osservazioni degli autori romani sono spesso tendenziose e finalizzate a una rappresentazione positiva della storia di Roma. Ciò no­ nostante dobbiamo soprattutto a storici come Livio e Dio­ nigi di Alicarnasso una serie di dati e di indicazioni impor­ tanti che, insieme alle iscrizioni e ai rinvenimenti archeolo­ gici, contribuiscono nel complesso a comporre un utile, quand’anche lacunoso mosaico. Esisteva però almeno un’opera che prendeva in esame in modo particolareggiato la storia degli etruschi. Da Svetonio sappiamo infatti che l’imperatore Claudio, prima della sua ascesa al potere nel 41 d.C., aveva composto «venti li­ bri» riguardanti gli etruschi, cioè, sulla base delle odierne suddivisioni, un libro costituito da venti capitoli. Non sem­ bra che questo lavoro sia stato proprio un best-seller; in ogni caso, non ne conosciamo purtroppo il contenuto, dal momento che - ad eccezione dell’accenno di Svetonio - in nessun altro luogo se ne trova menzione o citazione. Claudio ci ha lasciato tuttavia un altro importante do12

cumento, una tavola di bronzo iscritta rinvenuta a Lione. Su di essa è riportato il contenuto di un discorso che l’im­ peratore pronunciò nel 48 d.C. nella città gallica di Lione. Questo discorso riguardava il conferimento della cittadi­ nanza romana alle popolazioni galliche, opportunità per Claudio di dimostrare come Roma dovesse la propria grandezza alla libera integrazione politica degli stranieri, attuata fin dagli inizi della propria storia. Il rimando fatto da Claudio alla carriera dell’etrusco Mastarna, che a Roma era riuscito addirittura ad arrivare alla regalità - con il nome di Servio Tullio - è interessante non solo per il fatto che lo stesso Mastarna compare tra l’altro su una pittura murale etrusca (nella Tomba Francois a Vulci), ma anche perché Claudio, per questa notizia, afferma di basarsi su «fonti etrusche» (auctores Fusti). A tutt’oggi si possono fare solo delle ipotesi su questi auctores Fusti. Come a Roma, così anche in Etruria l’inte­ resse per il passato nazionale può avere indotto solo in età ellenistica a ricerche approfondite, per svolgere le quali più che agli scarsi archivi pubblici si ricorreva alla cospicua documentazione privata di singole famiglie aristocratiche. Rimane perciò necessariamente aperto il problema del­ l’esistenza e del carattere della storiografia dell’Etruria preromana; al contrario, sappiamo con sicurezza che in Etruria era presente una letteratura a carattere religioso di antichissima tradizione. La sua esistenza ci è confermata soprattutto dalle traduzioni in latino, eseguite in particola­ re all’inizio del I secolo a.C. da un certo Tarquitius Priscus (o Tuscus). E probabile che questo sapere religioso, noto come di­ sciplina etrusca , fosse ufficialmente a disposizione della sola classe sacerdotale, ma vi ebbero in parte accesso an­ che alcune personalità interessate e influenti provenienti dal mondo romano. Si ritiene perciò che Cicerone, in qua­ lità di augure romano, avesse ricevuto dal suo corrispon­ dente Aulo Cecina, un sacerdote etrusco, alcune informa­ zioni che trovarono poi spazio, tra l’altro, nelle opere De divinatione e De natura deorum. Durante tutta l’età imperiale vennero ridiscussi certi aspetti della religione etrusca. Grazie all’antica abitudine di citare testualmente brani di opere di epoche precedenti, 13

la stessa età imperiale ci ha trasmesso singoli particolari di grande importanza. Gli scrittori di quell’epoca offrono così informazioni tardive, ma del tutto attendibili, soprat­ tutto sulla religione etrusca, nell’ambito dell’animata di­ scussione tra sostenitori del paganesimo e fautori del cri­ stianesimo. La più tarda delle testimonianze antiche è l ’opera bizantina chiamata Suda , un lessico enciclopedico del X secolo d.C. costruito per lemmi. Qui compaiono isolatamente anche parole etrusche, nei casi in cui servano a spiegare l’etimologia di concetti latini.

M onum enti e iscrizioni Le testimonianze più importanti su cui si basa lo stu­ dio della cultura etrusca sono i monumenti e le iscrizioni superstiti. Anch’essi, come le notizie di cui si è trattato so­ pra, sono in gran parte lacunosi, ma rispetto alle informa­ zioni tramandate dagli scrittori antichi hanno due sostan­ ziali vantaggi: sono testimonianze dirette e la loro consi­ stenza numerica aumenta continuamente grazie ai nuovi rinvenimenti archeologici - e talora anche grazie a ricer­ che in fondi museali rimasti a lungo inesplorati. Come in passato, sono le tombe etrusche a presentare la più vasta gamma di testimonianze materiali: da una par­ te esse contengono ricchi corredi composti da oggetti in argilla (vasellame ceramico, urne cinerarie), in metallo (vasi, utensili, mobili, armi) e in pietra (sarcofagi, urne, sculture); dall’altra costituiscono l’attestazione diretta di una architettura funeraria straordinariamente eclettica, la quale non solo offre un ampio assortimento di strutture tombali - dalle tombe coperte da una collinetta rotonda (tumulo) della fase più antica, fino alle tombe a facciata tardo-etrusche, costruite su modelli templari - , ma presen­ ta anche una ricca articolazione interna ad imitazione della casa e il genere della pittura funeraria, che è di fondamen­ tale importanza per la conoscenza degli usi, della religio­ ne, dell’arte e della lingua degli etruschi. Inoltre, esiste una grande diversificazione regionale del corredo funera­ rio che può comprendere anche sarcofagi e urne, talora riccamente decorati. Su di essi si basano per lo più le no­ 14

stre conoscenze sia delle rappresentazioni mitologiche (greche) in Etruria sia dell’arte etrusca del ritratto. La seconda ampia fonte di testimonianze materiali è costituita dai santuari etruschi. Accanto ai resti architetto­ nici, soprattutto fondamenta di templi e di altari, si trova­ no lastre fittili, decorate con motivi ornamentali o figurati, e statue in terracotta, che originariamente fungevano da elementi di protezione e di ornamento delle travature e del tetto del tempio. Ad essi si aggiunge poi una grande quantità di oggetti votivi in bronzo o in argilla, dedicati ai singoli santuari. Questi ultimi oggetti si rinvengono di soli­ to in buono stato di conservazione, dal momento che, do­ vendo rimanere all’interno del santuario come proprietà della divinità, vennero «deposti» in fosse scavate apposita­ mente. Il terzo campo di ricerca archeologica, ancora relativa­ mente recente, che fornisce reperti materiali è quello degli insediamenti e dell’architettura domestica. Certamente al­ cune porte urbiche e alcuni tratti di muri di cinta sono ri­ masti sempre visibili, come a Volterra (lat. Volaterrae) o a Perugia (lat. Perusia ), tuttavia per lungo tempo nulla si è saputo a proposito delle tipologie di insediamento e delle strutture abitative etrusche, poiché fino alla fine dell’Otto­ cento gli scavi si sono limitati alle zone santuariali o di ne­ cropoli, più ricche di materiali. Solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento furono esplorati regolarmente an­ che insediamenti abitativi situati nel cuore dell’Etruria (ad esempio Acquarossa, Bolsena), e grazie a essi sono entrati a far parte della ricerca etruscologica i problemi riguar­ danti la continuità e le tipologie insediative oppure anche nuovi generi di materiali come la ceramica comune. I monumenti archeologici sono poi integrati dalle già citate testimonianze scritte. Ci sono rimaste circa 7.500 iscrizioni, prevalentemente incise su vasellame ceramico proveniente da tombe e da santuari, più raramente dagli abitati. Di norma esse riportano il nome di coloro che hanno posseduto l’oggetto o che l’hanno dedicato; non di rado, specialmente nei santuari, è nominato anche il desti­ natario della dedica, vale a dire la divinità. Nelle rappre­ sentazioni mitologiche le iscrizioni indicano prevalente­ mente i nomi dei personaggi raffigurati. 15

Un secondo grande gruppo di iscrizioni si trova su sarcofagi e urne in pietra o in terracotta. Queste contengono il nome del defunto, spesso forniscono anche indicazioni sulla sua genealogia e sull’età, raramente sulle sue cariche magistratuali. Si sono conservati invece pochi documenti scritti di carattere ufficiale, che sono al contrario numerosi nelle antiche culture orientali. Tuttavia non ci sono dubbi a proposito della loro esistenza, come dimostrano le lami­ ne d’oro di Pyrgi. Venivano inoltre redatti su metallo, su pietra e talvolta anche su argilla contratti tra famiglie e de­ creti pubblici. Stando alle testimonianze dell’arte figurati­ va, dovette rivestire un ruolo importante nella letteratura etrusca il liber linteus , una striscia di lino iscritta, che non veniva conservata arrotolata, bensì ripiegata in più parti sovrapposte. Uno straordinario caso fortuito ha fatto sì che un lenzuolo di lino di questo tipo si sia conservato nelle bende della Mummia d i Zagabria, tramandando così il più lungo testo etrusco finora conosciuto (vedi infra, cap. III).

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CAPITOLO SECONDO

TERRITORIO, CITTÀ, SOCIETÀ

La region e e le su e risorse L ’Etruria tirrenica, estesa tra Firenze e Roma, delimi­ tata a nord dall’Arno, a ovest dal mar Tirreno, a est e a sud dal Tevere e dagli Appennini (fig. 1), è una regione particolarmente fertile, caratterizzata da un piacevole cli­ ma mediterraneo, con estati calde e secche e inverni non troppo freddi e umidi. Dispone inoltre di risorse minera­ rie, in particolare nella zona dei Monti Metalliferi a sud di Volterra, i cui giacimenti di rame e di ferro, insieme a quelli situati nella prospiciente isola d’Elba, sono i più ric­ chi di tutto il bacino del Mediterraneo. Il loro sfruttamen­ to, risalente già agli inizi della prima età del ferro, costituì un fattore essenziale per la successiva prosperità e per lo sviluppo culturale deh’Etruria. Fu grazie a queste risorse minerarie che città come Populonia e Vetulonia (lat. Vetulonia), ma anche centri di la­ vorazione quali Vulci, Tarquinia e Cerveteri conobbero ben presto un grande sviluppo entrando a far parte della rete commerciale con greci e fenici. E fu così che già tra l’VIII e il VII secolo a.C. l’Etruria entrò in contatto con le principali culture mercantili del bacino del Mediterraneo (fig. 2). A tutto ciò si aggiunse una morfologia costiera par­ ticolarmente favorevole, che, al contrario della costa orien­ tale dellTtalia centrale, cioè quella adriatica, offriva approdi naturali e zone adatte alla costruzione di porti, ancora oggi caratteristica principale della costa tirrenica. Un altro importante elemento è la bipartizione geolo­ gica dell’Etruria, caratterizzata, a sud, da vasti paesaggi di tufo. Così come oggi, già nell’antichità gli affioramenti tu­ facei determinarono sia la dislocazione degli insediamenti su pianori rocciosi naturali sia le singole tipologie architet17

1. L’Etruria preromana.

toniche, costruite o, meglio, scavate nella stessa pietra tu­ facea, leggera e facile da lavorare. Lo sviluppo dell’archi­ tettura funeraria, con le camere sepolcrali interamente sca­ vate nel sottosuolo e con l ’articolazione interna ad imita­ zione delle strutture abitative (fig. 6), è strettamente vinco­ lato a queste condizioni geologiche ottimali, tanto quanto lo è la presenza della pittura muraria nelle tombe a camera dell’Etruria meridionale (fig. 14). Il paesaggio vulcanico delle zone meridionali, con i suoi grandi laghi, le innumerevoli sorgenti e i fiumi, offrì 18

2. L’Italia nel VII-VI secolo a.C.

condizioni di vita ideali e favorì il progressivo popolamen­ to non solo della fascia costiera, ma anche dei territori dell’entroterra, dove sorsero importanti insediamenti. Così, sia lungo le rive dei laghi e dei fiumi, sia nella valle del Te­ vere che era per lunghi tratti navigabile, si vennero for­ mando fiorenti centri come (partendo da sud) Veio, Volsinii/Orvieto, Chiusi e Cortona, i quali tra l’altro sono dislo­ cati lungo l’importante via di comunicazione tra la Cam­ pania e l’Italia settentrionale. 19

Per quanto concerne i principali centri produttivi delle origini non abbiamo notizie precise, perciò possiamo solo fare delle ipotesi sulla base dei rinvenimenti archeologici e della natura del suolo. Poiché essi abitano una terra fertile e facilmente coltivabile, raccolgono tutti i tipi di prodotti agricoli in grandi quantità: in­ fatti l’Etruria possiede un terreno adatto ad ogni genere di col­ tura, terreno che si estende su ampie pianure e su dolci, fertili e ondulate regioni collinari (Diodoro Siculo V 40, 3).

In realtà la regione compresa tra l’Arno e il Tevere è ancora oggi una delle più fertili d’Italia, e poiché gli etru­ schi erano famosi per le loro capacità in materia di irriga­ zione e di canalizzazione - a quanto dice Varrone gli etru­ schi venivano interpellati anche per la costruzione di pozzi artesiani - si deve supporre che lo sfruttamento intensivo del suolo fosse già cominciato in una fase certamente piut­ tosto antica. Venivano coltivate le più diverse specie di cereali, gra­ zie ai quali Roma potè più volte superare difficoltà di ap­ provvigionamento durante il V secolo a.C. Secondo Plinio (Naturalis historia 18, 83) gli abitanti di Roma, nei primi trecento anni della loro storia, si erano cibati quasi esclusi­ vamente di una sorta di polenta {puh) di grano (triticum dicoccum ), che veniva servita in grandi coppe etrusche. Probabilmente anche questo tipo di cereale veniva coltiva­ to in Etruria. I resti delle tombe arcaiche ci testimoniano, inoltre, la coltura di nocciole e olive. Dal momento che la parola etrusca per olio (eleiva ) è presa a prestito dal greco {elai[v\on), è del tutto plausibile l’ipotesi che la coltivazio­ ne stessa dell’olivo derivi dalla Grecia. Già nel VII secolo a.C. unguenti profumati, prodotti con l ’olio e contenuti in speciali vasetti d’argilla denominati «unguentari», veniva­ no esportati lungo le coste adriatiche, in Campania e nei territori punici. Diffusione ancora maggiore dovevano avere la coltiva­ zione della vite e il commercio del vino. Anche in questo caso il termine etrusco (vim ini , come in latino) testimonia la provenienza sia della bevanda sia della coltura dalla Grecia (il nome è derivato da [vjoinos), la quale a sua vol­ 20

ta ricevette entrambe dai fenici. A partire dal 630 a.C. cir­ ca fu impiantata nell’Etruria meridionale una attiva produ­ zione di anfore vinarie, che sono state ritrovate in grandi quantità durante recenti scavi effettuati nel sud della Fran­ cia e a Cartagine. Sulla base di simili rinvenimenti è lecito domandarsi se la conoscenza del vino nell’Europa proto­ celtica non sia stata probabilmente stimolata e diffusa dal­ le importazioni etrusche di vino. Le città deU’Etruria meridionale parteciparono anche al commercio internazionale attraverso l’esportazione di vasellame ceramico di gran pregio, come i prodotti in buc­ chero (Cerveteri), e, a partire dal VI secolo a.C., di opere e di vasi sbalzati in bronzo (Vulci). Queste attività com­ merciali aumentarono il benessere degli abitanti di quei centri. Finora è poco conosciuto, nel dettaglio, il rapporto tra beni di scambio e rispettivi centri produttivi primari, so­ prattutto per quanto riguarda le città dell’Etruria interna. Risale ad una fase piuttosto tarda uno scarno elenco di forniture, elargite a Scipione l’Africano dalle singole cittàstato etrusche nell’anno 204 a.C., in occasione della guerra tra Roma e Cartagine. Stando a Livio (XXVIII 43, 14 ss.), Cerveteri fornì cereali e viveri di ogni tipo per la flotta, Tarquinia lino per le vele, Volterra cera per il rivestimento delle navi e cereali, Populonia ferro, Arezzo (lat. Arretium) - un centro allora particolarmente fiorente - partecipò fornendo scudi, elmi, giavellotti leggeri e pesanti, lance, asce e altre attrezzature, e in seguito con il rifornimento di grano; Perugia, Chiusi e Roselle fornirono infine legno d’abete e grandi quantità di cereali.

Città e necropoli In molti insediamenti etruschi le testimonianze relative alle più antiche fasi abitative rimandano, in casi come quelli di Tarquinia o di Castellina di Civitavecchia, addi­ rittura all’XI-X secolo a.C. (fase protovillanoviana). Ad un periodo ancora precedente, e cioè alla fase della cultura appenninica della tarda età del bronzo (XIV-XII secolo a.C.), si datano le tracce di abitato rinvenute a Luni sul 21

Mignone, dove, tra l’altro, sono stati anche trovati fram­ menti di ceramica micenea. E vero, tuttavia, che per centri come questo le ricerche archeologiche devono ancora di­ mostrare se ci sia stata una effettiva continuità di frequen­ tazione fino all’epoca storica e, in generale, non è ancora del tutto chiaro se e da quando si possa cominciare a par­ lare di un vero e proprio popolamento etrusco per gli in­ sediamenti della tarda età del bronzo. Una caratteristica comune a quasi tutti gli abitati etru­ schi è la dislocazione su pianori posti alla sommità di un’altura e favorevoli dal punto di vista strategico. Una scelta insediativa di questo tipo è, per principio, del tutto diversa da quella che sarà alla base delle fondazioni colo­ niali del tardo periodo repubblicano e della prima fase im ­ periale romana, ed è perciò sicuramente da mettere in re­ lazione con la necessità di difendere da possibili assalti questi primi villaggi, evidentemente sorti in periodi di in­ stabilità politica. Importante era anche l’immediata vici­ nanza di fiumi o laghi; inoltre, ad eccezione di Populonia (lat. Populonia), centro che rivestì un ruolo particolare nel­ la lavorazione dei minerali di ferro provenienti dalla pro­ spiciente isola d’Elba, tutte le grandi città commerciali del mar Tirreno non sorsero direttamente sulla costa, bensì al­ cuni chilometri verso l’interno, per essere meglio difese da improvvisi attacchi nemici dal mare. La posizione strategica della maggior parte degli abita­ ti etruschi rese inutile, nelle fasi più antiche, la costruzione di mura di cinta complete, così che soltanto le strade di accesso e le zone più scoperte vennero rese sicure con bre­ vi tratti di fortificazione. A partire dal V secolo a.C. co­ minciò invece a comparire un numero sempre maggiore di cinte murarie, di pari passo con il progressivo migliora­ mento delle armi offensive; non è tuttavia ancora chiaro se queste mura siano state costruite per proteggere le città solo da nemici esterni, quali romani e galli, oppure anche dagli etruschi delle zone limitrofe. A questo proposito, la completa distruzione e il conseguente abbandono, intorno al 500 a.C., di alcuni piccoli centri dell’Etruria interna, come Acquarossa, fanno ipotizzare che i contrasti intestini abbiano contribuito allo sviluppo delle strutture difensive cui si è accennato. 22

In generale oggi conosciamo l’ubicazione delle città etrusche, e anche degli insediamenti minori. Da un lato, infatti, molti hanno continuato a vivere in età romana, e non pochi sono sopravvissuti senza interruzione, attraver­ so il Medioevo, fino ai nostri giorni (si pensi ad esempio a Perugia o a Volterra). Dall’altro lato l’esistenza di un abi­ tato etrusco ci viene rivelata dalla presenza di tombe e dal­ la distribuzione tQpografica delle necropoli più vaste. Come di consueto nell’antichità, la sepoltura dei de­ funti era permessa esclusivamente fuori della zona abitati­ va. Nelle fasi più antiche le tombe venivano distribuite lungo le strade extraurbane e, di preferenza, nelle vicinan­ ze deU’insediamento. Una volta occupate tutte le aree prossime all’abitato e quelle topograficamente migliori, nell’area della necropoli vennero inclusi anche spazi più lontani. Particolarmente interessante è la varietà tipologi­ ca, a livello regionale, delle singole necropoli, ciascuna delle quali ha conservato inalterati fino ad oggi i suoi in­ confondibili caratteri. A Cerveteri (lat. Caere) si trovano vere e proprie «città dei morti» (fig. 5), percorse da strade funerarie che si sno­ dano tra tombe con facciate del tutto simili a quelle delle case, dietro alle quali si nascondono camere funerarie riproducenti, nei minimi dettagli, l’interno delle abitazioni (fig. 6); ad esse si affiancano i grandi tumuli gentilizi del periodo orientalizzante. Nella vicina Tarquinia (lat. Tarquinii), invece, il visitatore rimane deluso dall’aspetto esterno delle vaste necropoli, poiché le strutture tombali non sono interamente scoperte; tuttavia all’interno della camera fu­ neraria, unica parte visibile della tomba, la delusione per la semplicità della costruzione architettonica è ampiamente compensata dalla presenza delle più belle pitture parietali di tutto il mondo mediterraneo (Egitto escluso). A Vulci (lat. Volci), la terza delle grandi città costiere dell’Etruria meridionale, le tombe, particolari per i loro ricchi corredi, furono sistematicamente e completamente scavate già nei primi anni dell’Ottocento, ma sono rimaste per lungo tempo poco conosciute. Qui prevalgono costru­ zioni con una grande anticamera a cielo aperto, i cosiddet­ ti «cassoni», cui si affiancano tombe caratterizzate da sof­ fitti imitanti la travatura lignea tipica delle coperture delle 23

abitazioni e, sporadicamente, da alcune pitture funerarie: tra di esse la Tomba Francois, che riprende il modello del­ l’antica casa ad atrio e riesce a fondere insieme struttura architettonica e decorazione pittorica in un modo unico nel suo genere. Del tutto diversa, invece, è la situazione nell’entroterra delle tre metropoli costiere, nella zona delle cosiddette ne­ cropoli rupestri, in cui sorgono le pittoresche «città dei morti» di San Giuliano, Blera, Norchia, Castel d’Asso e Sovana: qui, accanto alle tipologie tombali importate da altre zone dell’Etruria - il tumulo e la tomba a dado sono stati creati necropoli e tipi di strutture funerarie completamente diversi, sfruttando i vantaggi offerti dalle forre di tufo che caratterizzano il paesaggio di queste re­ gioni. Così come nell’Anatolia sud-occidentale (Licia, Ca­ ria), anche qui le facciate delle tombe sono scolpite nelle pareti di roccia che cadono a strapiombo e le singole co­ struzioni si affiancano e si sovrappongono le une alle altre, su più file; inoltre, soprattutto nelle necropoli ellenistiche di Norchia e di Sovana, il loro aspetto esterno tende ad assimilarsi a quello di un tempio. Anche nell’Etruria centrale e settentrionale si incontra­ no tradizioni regionali differenti. Le necropoli tardo-arcaiche di Orvieto, ad esempio, sono ordinate secondo una ri­ gida planimetria «a reticolo», che è evidentemente mutua­ ta dall’urbanistica etrusca coeva, di cui la città di Marzabotto è un chiaro esempio. Una pianificazione delle necro­ poli così sistematica non si riscontra, tuttavia, in nessun’altra zona dell’Etruria (è vero anche che, finora, sono stati effettuati ben pochi scavi di grande estensione). Di solito, infatti, come vediamo a Populonia, le tombe più antiche (= tumuli) si giustappongono a quelle più recenti (= tom­ be a edicola, sarcofagi) senza un sistema preordinato.

Stato e società Un vero e proprio stato etrusco, inteso secondo il con­ cetto di stato romano o dell’odierno stato nazionale, non è mai esistito. In Etruria si ha una situazione simile a quella dell’antica Grecia, con singole città-stato, come Tarquinia 24

o Vulci, forti di un vasto hinterland e in grado di sostene­ re una politica interna ed estera autosufficiente. Piuttosto, è possibile che fossero i vicini a considerare gli etruschi un’unità etnica e politica, mentre loro stessi continuarono sempre a considerarsi ceretani, veienti ecc. Ciò nonostante esisteva sicuramente un organo di coordinamento per gli interessi e le attività nel campo della politica estera, dal momento che progetti come quello della colonizzazione del territorio padano o della parziale etruschizzazione del­ la Campania poterono essere realizzati solo grazie alla coa­ lizione di più città-stato. Le fonti parlano di una federazione di dodici città, al­ l’interno della quale i singoli membri venivano sostituiti da altri, nel corso del tempo, a seconda delle alterne vicende delle città stesse, oppure dovettero essere necessariamente rimpiazzati, come accadde per Veio dopo la caduta nel 396 a.C. La forma politica della federazione di dodici città non è un’invenzione etrusca, giacché la si trova più volte appli­ cata nell’Asia Minore greca. Federazioni di questo tipo sono attestate dalle fonti anche per le città etrusche della pianura padana e della Campania, dove rispettivamente Mantova e Capua rivestirono il ruolo di centro dominante. La federazione dell’Etruria tirrenica non ebbe un uni­ co centro di potere; fece però capo ad un santuario cen­ trale, il Fanum Voltumnae, ubicato nel territorio di Volsinii/Orvieto. Si incontravano lì, ogni anno, i capi delle do­ dici città-stato per eleggere un capo supremo - indicato dai romani come praetor Etruriae - sui cui poteri non ci viene tramandato niente di più preciso. Questi sovrani, chiamati anche m ech l o lucumoni, nelle epoche più anti­ che detenevano probabilmente il potere sia civile sia reli­ gioso. Ad essi si affiancava un gruppo di aristocratici, a noi noti grazie ai gentilizi presenti nella loro onomastica e ai grandiosi edifici funerari sorti a partire dal VII secolo a.C. Al contrario di Atene e Roma, dove, secondo la tradi­ zione, la monarchia venne abbandonata a favore della de­ mocrazia verso la fine del VI secolo a.C., in Etruria pare che il sistema monarchico sia sopravvissuto più a lungo, come testimonia tra l’altro la presenza del nome di un re, Thefarie Velianas, sulle lamine d’oro del santuario di Pyrgi, databili alla prima metà del V secolo a.C. 25

Se dobbiamo credere alla tradizione degli autori latini, anche Veio (lat. Veil) fu governata, fino alla sua disfatta, da un re, come quel Larth Tulumne, che, verso la fine del V secolo, fu sconfitto e probabilmente ucciso durante la battaglia combattuta contro i romani per il possesso dei cippi di confine di Fidene. Come a Roma, anche in Etruria si assiste alla costante ascesa e quindi alla crescente pressione delle classi sociali inferiori. Emblematico è il caso di Volsinii/Orvieto, dove nel 264 a.C., secondo quanto riferisce Livio, gli schiavi riuscirono ad impadronirsi del potere grazie alla sconside­ ratezza dei gruppi aristocratici locali, per cui il patriziato in difficoltà chiese aiuto a Roma. La successiva distruzione di Volsinii e il conseguente trasferimento dell’intera popo­ lazione sulle rive del lago di Bolsena non sono una prova inconfutabile deU’attendibilità di questa testimonianza; tuttavia dovrebbe essere fuori di dubbio che in Etruria, come a Roma, nel IV e nel III secolo a.C. ci siano stati tensioni e cambiamenti sociali. Forse già nel V secolo a.C. era cominciato un qual­ che processo di democratizzazione, poiché nelle modalità di sepoltura è evidente il progressivo attenuarsi delle dif­ ferenze e la rinuncia, da parte delle antiche famiglie gen­ tilizie, all’esibizione di potere propria del periodo prece­ dente. A partire dal IV secolo a.C. è possibile invece os­ servare una tendenza regressiva. Sembra, infatti, che sia le antiche gen tes patrizie sia le nuove classi sociali emer­ genti abbiano consolidato il proprio potere, in virtù so­ prattutto del possesso di grandi proprietà terriere, gestite sempre più frequentemente in vasti latifondi. E possibile che la frattura tra i latifondisti da una parte e le classi subordinate dall’altra sia perciò diventata ancora maggio­ re, con un conseguente prevedibile aumento del numero di schiavi.

La vita privata e la fam iglia Le nostre fonti sulla vita privata e sulla famiglia nel mondo etrusco sono, da una parte, le testimonianze ar­ cheologiche - gli insediamenti e le abitazioni, le iscrizioni 26

funerarie, l’architettura e la pittura tombale - , dall’altra le affermazioni degli scrittori antichi, che mostrarono interes­ se verso le abitudini etrusche soprattutto per coglierne le differenze rispetto agli usi greci e romani. E questo atteg­ giamento sembra essere stato prevalente, se dobbiamo cre­ dere alle descrizioni di alcuni autori greci come Eraclide, Timeo e Teopompo. Particolarmente dettagliato è Teopompo di Chio (IV see. a.C.) che, come ci tramanda Ateneo nei D ipnosofisti (XII, 14, 517d-518b), nel XLIII libro delle sue Storie ri­ porta, tra le altre cose, le seguenti notizie: Presso i tirreni le donne sono di tutti; esse hanno molta cura del proprio corpo e spesso si esercitano insieme agli uomini, tal­ volta anche una contro l’altra [...1; non pranzano vicino ai propri uomini, ma con chi capita tra i presenti e bevono con chi voglio­ no. Sono infatti straordinarie bevitrici, e bellissime donne. I tir­ reni allevano tutti i bambini che vengono al mondo, senza sape­ re chi è il padre di ciascuno di loro. Questi bambini vivono anch’essi allo stesso modo di coloro che li hanno allevati. [...] Quando finiscono di bere e sono in procinto di andare a dormi­ re, i servi, mentre ancora bruciano le fiaccole, accompagnano presso di loro o delle etere, o dei bellissimi fanciulli o anche del­ le donne.

Altri scrittori come Posidonio, già citato all’inizio, stig­ matizzano la lussuria, lo stile di vita smodato degli etru­ schi e l’uso, durante i banchetti, di stare sdraiati sotto la stessa coperta con le donne. Inoltre, durante questi convi­ ti, le serve dovevano essere nude, almeno finché non ave­ vano raggiunto l’età adulta. Simili descrizioni poco lusin­ ghiere fissano dunque l’immagine che i greci e più tardi i romani hanno voluto lasciare della vita privata degli etru­ schi. A prima vista questo quadro così negativo sembra tro­ vare conferma negli stessi monumenti etruschi, anzi si ha quasi l’impressione che tale valutazione si fondasse sulla conoscenza delle pitture funerarie e dei sarcofagi: su pittu­ re parietali, sarcofagi e urne troviamo infatti veramente uomini e donne che giacciono «sotto un’unica coperta» (figg. 8 e 9). Altrettanto di frequente sono rappresentati scene erotiche e servitori nudi; e l’obesità dei personaggi 27

sui sarcofagi tardo-etruschi è addirittura una caratteristica tipica di questo genere artistico. Che gli uomini e le donne etrusche dessero grande im­ portanza al proprio aspetto esteriore, ce lo confermano anche le pitture tombali. Tuttavia gli studiosi moderni sono convinti del fatto che gli esempi citati a proposito della dissolutezza degli etruschi non solo siano esagerati, ma restituiscano anche un’immagine del tutto falsata di questa popolazione. Questa diversa visione prende le mosse dall’interpreta­ zione degli stessi monumenti etruschi: se un uomo e una donna vengono rappresentati insieme su un’unica M ine , non sono altro che una coppia di sposi, in un atteggiamen­ to certamente inconcepibile per i greci, presso i quali gli uomini e le donne mangiavano rigorosamente separati. Le scene erotiche sono comuni anche nell’arte figurativa gre­ ca, ma nel caso delle immagini funerarie etrusche possono essere considerate simbolo di fertilità e di continuazione della vita oltre la morte. Nello stesso contesto sepolcrale rientrano inoltre anche le scene di banchetto, in conside­ razione del fatto che per le pitture delle tombe tarde, in cui i personaggi raffigurati sono resi riconoscibili dalle iscrizioni, si tratta chiaramente di banchetti cui partecipa anche il defunto. In esse è infatti rappresentato il momen­ to in cui il morto viene accolto nel consesso dei propri an­ tenati. Non è invece del tutto chiara l’interpretazione delle scene di banchetto nelle tombe arcaiche, o meglio essa sembra andare in una direzione diversa da quella delle scene più recenti: analogamente alle competizioni sportive, in questo caso il banchetto è una celebrazione terrena in onore del defunto; si tratta dunque del pasto e dei giochi funebri. Quanto infine alla corpulenza dei defunti distesi sui sarcofagi dell’età tarda, essa è da interpretare come un segno di benessere, in linea con la sensibilità stilistica del­ l’arte ellenistica, la quale non disdegna la rappresentazione dettagliata delle situazioni reali, come l’obesità o la vec­ chiaia. Né più fondato è il biasimo dell’amore eccessivamente libertino, vale a dire nei confronti della scelta casuale del partner, al di fuori dei legami familiari. Al contrario le in­ 28

numerevoli iscrizioni funerarie, talvolta in forma di veri e propri alberi genealogici, testimoniano, per tutte le classi sociali e tutti i periodi storici, stretti vincoli e chiari rap­ porti di famiglia, per nulla inferiori a quelli della Roma re­ pubblicana. Lo stesso vale per gli elementi che caratteriz­ zano gli allestimenti interni delle tombe a camera etrusche. Anche da esse si può capire come gli etruschi avessero una struttura familiare precisa, con una sostanziale differenza rispetto a quella greca e romana: in Etruria la donna ripo­ sa o, meglio, viene deposta accanto al proprio uomo, gode degli stessi diritti di quest’ultimo, e nel vestibolo della tomba, del tutto simile a quello dell’abitazione, dispone di un proprio trono (fig. 6). Essa perciò, diversamente dalla donna romana, prendeva parte ai ricevimenti e alle riunio­ ni ufficiali tenute dal paterfamilias. La donna etrusca aveva dunque, nell’ambito della casa, una posizione di potere as­ similabile a quella dell’uomo. La considerazione in cui era tenuta è comprovata, non da ultimo, anche dal fatto che ogni donna, al pari di ogni uomo etrusco, aveva un pro­ prio nome personale (ad es. Clelia, Ati, Larthia), e non era, come le romane, solo una Claudia (cioè un’apparte­ nente alla famiglia Claudia) una Fabia o una Sabina. Diversamente da ciò che accadeva in Grecia e a Roma, la vita della donna etrusca non era limitata alla casa e alla famiglia. Spesso e volentieri essa andava fuori e, come dice Livio, gli sguardi degli uomini non la facevano arrossire. Prendeva attivamente parte alla politica, anche se una per­ sonalità come quella di Tanaquil, qualora la descrizione che ce ne fa Livio risponda al vero, dovette essere un caso eccezionale: per amore di suo marito, figlio di un aristo­ cratico fuggito dalla città greca di Corinto, lasciò Tarqui­ nia, la propria città natale, ed emigrò a Roma, poiché là vedeva migliori prospettive di carriera per lo sposo. Fu grazie all’aiuto di questa donna e alle sue capacità nell’in­ terpretazione dei segni celesti che il marito divenne re, col nome di Tarquinio Prisco, e pare che, più tardi, Tanaquil, con lo stesso grande talento e lungimiranza, abbia aiutato anche il figlio adottivo Servio Tullio a diventare re. Per le antiche popolazioni confinanti con gli etruschi era in realtà sorprendente e fuori dal comune il ruolo atti­ vo delle donne nella società etrusca, o per lo meno di 29

quelle di estrazione aristocratica. Non stupisce, pertanto, che la vita libera e il comportamento sicuro di queste don­ ne siano stati sufficienti a dar luogo e spazio a malintesi e calunnie del genere che abbiamo descritto.

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CAPITOLO TERZO

LE ORIGINI, LE PRIME FASI STORICHE E LA LINGUA

Il problem a d elle origini Come accade per la maggior parte dei popoli antichi, anche le origini degli etruschi sono avvolte dall’oscurità. Questo fatto non ci meraviglia, dal momento che un po­ polo è il risultato di un lungo processo, di uno sviluppo stratificato, per lo più inafferrabile, di cui noi molto spes­ so possiamo percepire solo la fase finale, vale a dire resi­ stenza di una comunità etnica. Storicamente è possibile trattare degli etruschi soltanto a partire dal momento in cui si comincia a parlare di loro o essi stessi lasciano trac­ ce inequivocabili, in primo luogo testimonianze scritte. Sul piano cronologico questi due avvenimenti sono coevi: in­ torno al 700 a.C. il poeta greco Esiodo nella Teogonia (1011 ss.) parla degli «illustri tirreni» e al passaggio tra l’VIII e il VII secolo a.C. risalgono le più antiche iscrizioni in lingua etrusca. Rinvenute nellTtalia centrale, esse defini­ scono la regione in cui vissero gli etruschi. Con ciò il problema sarebbe risolto se non ci fossero alcune questioni ancora aperte, sulle quali già i greci di­ battevano e che ancora oggi sono oggetto di animate di­ scussioni: la questione della lingua etrusca, che resta isola­ ta rispetto a quelle dei popoli italici confinanti, oppure il problema dell’ipotesi avanzata dai greci del tempo, i quali parlano di una migrazione degli etruschi dall’Asia minore occidentale. A questo proposito, dobbiamo anzitutto ri­ cordare lo storico Erodoto (I, 94) del V secolo a.C., che racconta di una carestia disastrosa nella Lidia microasiati­ ca, a causa della quale il re lidio Atys si vide costretto a la­ sciar partire per mare suo figlio Tirseno insieme alla metà del suo popolo. Dopo lungo vagare, alla fine essi si sareb­ bero stabiliti nella regione degli umbri, avrebbero fondato 31

delle città e avrebbero preso la denominazione di tirreni dal nome del loro comandante. In questo racconto, che secondo le convinzioni del tempo di Erodoto risaliva al XIII secolo a.C., alcuni dati di fatto si mescolano con nomi ed avvenimenti che ci ri­ portano su un terreno ignoto. Storicamente accertata - e contemporanea a Erodoto - è la presenza degli etruschi nell’Italia centrale. Particolarmente interessante, poiché di­ scussa anche in recenti studi, è la menzione degli umbri come possibile popolazione primitiva del centro Italia. Se­ condo Dionigi di Alicarnasso (I, 30 ss.) gli etruschi chia­ mavano se stessi Rasenna, testimonianza che sembra trova­ re conferma in iscrizioni come m ech l rasnal, nel senso di «re etrusco». Poiché questa indicazione compare abba­ stanza spesso e in contesti relativi a funzioni all’interno delle città-stato, in tempi recenti si sono accresciuti i dub­ bi su questo tipo di interpretazione. E comunque sicuro che la denominazione Tyrsenoi, o anche Tyrrhenoi, è greca e che ci troviamo di fronte al consueto tentativo degli storici greci di spiegare un nome noto attraverso un «fondatore» eroico. Oggi possiamo an­ che escludere che gli etruschi discendano dai lidi, dal mo­ mento che la lingua di questi ultimi, appartenente al cep­ po luvio-anatolico, non è imparentata con l’etrusco. Stando all’ipotesi di Ellanico, un contemporaneo poco più giovane di Erodoto, gli etruschi sono da identificare con i pelasgi, un popolo leggendario, anch’esso trasferito­ si, nell’oscura preistoria, dall’Egeo all’Italia. Anticlide (ci­ tato da Strabone V, 2, 4), nel III secolo a.C., combina par­ ti di entrambe le tradizioni, identificando il popolo guida­ to da Tirseno in Italia con i pelasgi e attribuendo ad essi l ’appartenenza alla stessa tribù di cui facevano parte gli abitanti delle isole di Lemno e di Imbro, nell’Egeo setten­ trionale, non lontano da Troia. I lemni vengono addirittu­ ra indicati direttamente come tirreni. Alla luce di queste notizie, possiamo affermare che i greci erano convinti del fatto che i tirreni fossero emigrati dalla zona egea verso l’Italia; ciò nonostante in età augustea lo storico Dionigi di Alicarnasso sostiene un’ipotesi del tutto differente. Dopo aver evidenziato la diversità de­ gli usi e dei costumi degli etruschi, egli giunge alla conclu­ 32

sione che si tratta di un popolo autoctono, vale a dire di un popolo stanziato fin dall’inizio in Italia. E questa l’opinione che ha trovato il maggior numero di sostenitori, nell’età imperiale romana nonché, specialmente in Italia, tra gli studiosi moderni. Essa può rivendi­ care a proprio favore la constatazione che tutte le testimo­ nianze a noi note degli etruschi, e soprattutto la loro ere­ dità materiale, provengono dall’Italia o, meglio ancora, qui sono state prodotte. Da questo punto di vista il problema sarebbe risolto se non esistesse una lingua antica, imparen­ tata con l’etrusco, la cui documentazione deriva proprio da quella zona che le fonti greche, in modo più o meno preciso, indicano come la patria d’origine degli etruschi: l’Egeo orientale nelle vicinanze della costa occidentale del­ l’Asia minore. Ci si riferisce in particolare all’isola di Lemno, che già Anticlide, tra l’altro, aveva messo in relazione con i tirreni. Le testimonianze scrittorie trovate in questo luogo, una stele funeraria su cui è incisa la figura di un guerriero e un gran numero di frammenti ceramici con iscrizioni, docu­ mentano che, fino al momento della conquista dell’isola da parte di Atene verso la fine del VI secolo a.C., la più anti­ ca, e finora unica, lingua scritta di Lemno ebbe caratteri autonomi, non confrontabili con la vicina lingua greca né con il lidio; al contrario essa concorda, tanto nella struttura grammaticale quanto nel lessico, con l’etrusco. Oltre a ciò, nelle iscrizioni di Lemno si trova un segno di divisione tra le parole in forma di doppio punto, un tipo di interpunzio­ ne comune finora solo nell’Etruria meridionale di fase ar­ caica. Tanto inusuale quanto sorprendente è anche l’indi­ cazione del nome della madre (matronimico) sia nelle iscri­ zioni tombali dell’Etruria sia sulla stele di Lemno. Certamente tutti questi indizi non bastano a stabilire con certezza che gli etruschi provenivano da Lemno, giac­ ché, se si prescinde dalle concordanze linguistiche e dalla tipologia della stele con guerriero, a Lemno non c’è nulla che, sul piano della storia della civiltà, sia paragonabile in qualche forma con l’Etruria. Al contrario, i lemni si dimo­ strano strettamente legati all’ambito culturale dell’Egeo nord-orientale. Questo vale non solo per i resti archeolo­ gici, dalla ceramica fino ai motivi figurati e alle forme ar­ 33

chitettoniche, ma in maniera evidente anche per le conce­ zioni religiose (inclusi gli dei), le quali costituiscono, per esperienza, un elemento culturale radicato assai profonda­ mente. Ma allora come si devono interpretare le concordanze linguistiche e la tradizione greca? Forse la somiglianza tra etrusco e lemnio era già stata notata dai greci, che avevano perciò creato la tesi dell’emigrazione? Sempre maggior consenso ha trovato in tempi recenti l’ipotesi di una migrazione inversa, di un movimento da ovest verso est. In questa prospettiva si potrebbe pensare che i pirati tirrenici, che stando agli autori greci rendevano insicuro l’Egeo, fossero gli etruschi, che si sarebbero stabi­ liti a Lemno, introducendovi la propria lingua. Ma anche questa tesi non è del tutto convincente. Pur prescindendo dal fatto che il processo di insediamento dei pirati etruschi a Lemno andrebbe fissato, per ragioni di tipo linguisticogenealogico, nell’età storica, tra il X e il VII secolo, mera­ viglia che gli antichi greci non ne fossero già a conoscenza e non ne abbiano tramandato notizia. Anche la già rilevata mancanza di influssi etruschi in tutti gli altri campi della cultura lemma non può certo essere addotta come elemen­ to a sostegno della nuova tesi. Non è neppure da prendere in considerazione il pro­ blema dell’origine orientale degli etruschi, sebbene uno degli argomenti preferiti dai profani sia la ricchezza di in­ flussi orientali nell’arte e nella cultura etrusca. Come verrà dimostrato più avanti, questi influssi non sono altro che il risultato di intensi scambi materiali e spirituali, che inte­ ressarono neH’VIII e nel VII secolo a.C. l’intera Etruria ma anche la Grecia - e determinarono la nascita di un pe­ riodo culturale di impronta orientale, che nella storia del­ l’arte viene indicato come «fase orientalizzante». Questa ondata orientale raggiunse perciò l’Etruria in un periodo che successivamente è stato interpretato come fase di pos­ sibili migrazioni dall’est. Inoltre questi contatti ci riporta­ no non all’Egeo nord-orientale, bensì al Levante e a Cipro, in alcuni casi anche alla Mesopotamia e all’Egitto; accanto ai greci, infine, intermediari e principali partner commer­ ciali furono senza dubbio i fenici, con i quali gli etruschi furono in contatto per diversi secoli. 34

Alla luce di queste argomentazioni si spiega perché il problema delle origini degli etruschi occupi nella ricerca un posto secondario rispetto a quello del loro sviluppo et­ nico e della loro presenza in Italia. Pur con tutti i com­ prensibili sforzi per risolvere finalmente il «problema delle origini» degli etruschi e per archiviarlo definitivamente, non si dovrebbe dimenticare che gli etruschi si manifesta­ no come etnia solo in Italia e che, se si prescinde da deter­ minati aspetti della lingua, sono strettamente legati all’am­ biente italico, in tutte le loro manifestazioni culturali. Questa affermazione trova ulteriore conferma nelle testi­ monianze materiali della fase più antica, denominata dagli studiosi «cultura di Villanova».

La fa se protostorica Nella tarda età del bronzo, il periodo cioè tra il XIV e il XII secolo a.C. durante il quale, secondo l’opinione dei greci, ebbe luogo l ’emigrazione degli etruschi, l’Italia cen­ trale è caratterizzata da un’economia agricola ad ampio raggio e da un’intensa attività di allevamento, soprattutto di bovini, ovini e suini. La cultura appenninica coeva è nota finora soltanto attraverso alcuni scavi d’abitato e, cosa singolare, poco attraverso le necropoli. La ceramica, a pareti sottili e fabbricata con argilla non depurata, si di­ stingue per le linee graffite o punteggiate che formano motivi a meandro o a spirale. Nell’Italia meridionale e in Sardegna sono presenti, anche se in modo molto sporadi­ co, frammenti di ceramica micenea, i quali dimostrano contatti con la zona egea in un periodo ancora lontano dalla colonizzazione greca dell’VIII e del VII secolo a.C. La presenza di questi frammenti micenei nell’area dei monti della Tolfa, particolarmente ricca di minerali, in in­ sediamenti come Luni sul Mignone o Monte Rovello, ha sollevato la questione se tali contatti non siano da mettere in rapporto con la grande necessità di minerali e metalli che il mondo miceneo aveva già a quel tempo. Non a caso le tavolette micenee in lineare B menzionano l’allume, di cui proprio i monti della Tolfa sono particolarmente ricchi e che era necessario sia per la concia delle pelli animali sia 35

nel processo di riduzione durante l’estrazione del metallo. E non è da escludere che già nell’età del bronzo i ricchi giacimenti di minerali ferrosi dell’Italia centrale abbiano spinto i micenei a stabilire stretti contatti commerciali con popolazioni autoctone a noi ignote. I successivi periodi della cultura subappenninica e di quella protovillanoviana (XII-X secolo a.C.) sono ancora poco studiati. Le innovazioni essenziali di queste fasi sono l ’introduzione del rituale dell’incinerazione e, di conse­ guenza, la diffusione dell’urna biconica (un vaso caratte­ rizzato da un corpo particolarmente espanso al centro e rastremato all’estremità superiore e inferiore), di forme ce­ ramiche più semplici e più piccole, di nuove armi di bron­ zo, come il giavellotto e la lancia a lama foliata, e di nuovi oggetti d’ornamento, come la fibula ad arco di violino. Tipici di questo periodo di passaggio dall’età del bron­ zo a quella del ferro sono gli innumerevoli «ripostigli», composti soprattutto da utensili e vasi di bronzo, fenome­ no che copre un’ampia parte dellTtalia. A proposito di questi ripostigli si deve ritenere che si tratti non tanto del­ l’occultamento di oggetti preziosi in condizioni di insicu­ rezza, come nel caso dei gruzzoli di monete, bensì di de­ positi rituali, poiché la tipologia degli oggetti suggerisce che fossero destinati in primo luogo al culto. Nel loro insieme i ritrovamenti testimoniano rapporti particolarmente stretti con la cultura dei campi d’urne del­ l’Europa centrale e con i Balcani, ma non meno consisten­ ti sono gli influssi provenienti dal bacino dell’Egeo. Le abitazioni diventano in questa fase più piccole e si rag­ gruppano in insediamenti d’altura favorevoli dal punto di vista strategico, che solo raramente sono difesi da impo­ nenti mura di cinta (Monte Rovello). In non pochi casi, come ad esempio a Tarquinia, la maggior parte degli abi­ tati, ancora piuttosto modesti, occupa già parte di quei pianori, su cui si svilupperanno, durante il periodo succes­ sivo, i grandi centri etruschi. Questa fase successiva è quella della «cultura di Villa­ nova», IX e V ili secolo a.C., e prende il nome da Villano­ va, un paese nei pressi di Bologna dove per la prima volta in maniera sistematica vennero alla luce reperti archeologi­ ci databili a questo periodo. In passato essa era stata con­ 36

siderata una fase preistorica precedente alla comparsa del­ la cultura etrusca. Oggi, grazie a scavi e a ricerche speciali­ stiche, sappiamo che i «portatori» della cultura villanovia­ na, almeno nella fase più tarda, erano già verosimilmente etruschi. Questo spiega in primo luogo la continuità di in­ sediamento cui si è accennato sopra. Elementi ulteriori sono l’ininterrotta evoluzione nella produzione artistica e il fatto che le iscrizioni etrusche più antiche risalgono alla fine della fase villanoviana, cioè aH’VIII secolo avanzato. La cultura di Villanova è archeologicamente molto ben documentata grazie alle grandi necropoli e agli oggetti di corredo funebre. Durante il primo periodo sono diffuse le deposizioni di incinerati in piccole cavità terragne (le co­ siddette tombe a pozzetto), mentre nel corso dell’V ili se­ colo a.C. si andò affermando sempre più la nuova forma di sepoltura ad inumazione. I morti non venivano infatti bruciati, ma venivano deposti in fosse scavate nella terra (denominate tombe a fossa). Per questo motivo i caratteri­ stici cinerari biconici villanoviani, muniti di un’ansa e co­ perti da una scodella, persero ovviamente il loro significa­ to. Il vasellame, noto col nome di ceramica di impasto, realizzato ancora senza l ’aiuto del tornio, era prodotto con argilla non depurata ed era per lo più rozzo, con pareti di grosso spessore. A partire dalla metà dell’VIII secolo a.C., sotto l ’in­ flusso delle colonie greche di nuova fondazione nel meri­ dione d’Italia, ebbe luogo un mutamento ricco di conse­ guenze: se già prima della metà del secolo si cominciano a trovare sporadicamente nelle tombe locali singoli esempla­ ri di ceramica greca (soprattutto a Veio), questa usanza di­ viene adesso sempre più diffusa. E solo poco tempo dopo, negli insediamenti in espansione come Tarquinia e Vulci, si stabilirono delle officine ceramiche, alcune delle quali imitavano il pregiatissimo vasellame greco, impiegando per la produzione il tornio e un’argilla di migliore qualità. Nello stesso periodo arrivarono in Etruria altri oggetti im­ portati dalla Grecia e dall’Oriente, i quali contribuirono in maniera fondamentale allo sviluppo artistico dell’epoca successiva, la cosiddetta «fase orientalizzante» della cultu­ ra etrusca. La fioritura della cultura villanoviana si ricollega ad 37

un’incessante crescita demografica. Sebbene finora gli abi­ tati siano rimasti ancora ampiamente inesplorati, sulla base dei rinvenimenti di superficie si può supporre che in que­ sta fase dovevano essere già occupate estensivamente le aree insediative in cui sarebbero successivamente sorte le grandi città etrusche. Certamente la tipologia degli edifici, per lo più case di quasi dieci metri di lunghezza a pianta rettangolare o ovale, non era ancora ben definita, tuttavia si può già sicuramente parlare di abitati protourbani con una struttura sociale differenziata; infatti, al contrario delle deposizioni risalenti alla più antica fase della cultura villa­ noviana, i cui corredi erano improntati a una notevole mo­ destia, nel corso deH’VIII secolo si può osservare una cre­ scente differenziazione tra tombe semplici e tombe ricche. Nelle sepolture maschili colpiscono la grande quantità e il ricco equipaggiamento dei guerrieri, che, come nel caso della Tomba d el guerriero di Tarquinia, sono sepolti insie­ me all’equipaggiamento completo e alle armi. Ciò può si­ gnificare una cosa soltanto, e cioè che la classe dei guerrie­ ri occupava allora una posizione sociale di spicco. La fase più recente della cultura di Villanova si caratterizza come il periodo in cui si ritrovano tracce della formazione di una società aristocratica, la quale solo poco più tardi, al­ l’inizio del VII secolo, si esprimerà chiaramente come tale attraverso la costruzione di colossali tombe gentilizie a tu­ mulo. Infine, è già stato notato da lungo tempo che l’area di diffusione della cultura villanoviana è del tutto identica a quella considerata dall’inizio del VII secolo a.C. come zona di insediamento etrusco: la madrepatria tra il Tevere e l’Ar­ no, una parte della pianura padana con Bologna (lat. Bononia ) e, in Campania, il territorio intorno a Capua, con l’im­ portante necropoli protoetrusca di Pontecagnano (fig. 2). Il breve riassunto qui presentato del periodo pre- e protostorico etrusco dovrebbe rendere chiaro che ci fu una sequenza di culture diversamente strutturate sul piano archeologico o, meglio, una sequenza di fasi culturali, ma che lo sviluppo - considerato nel suo complesso - proce­ dette comunque senza sostanziali interruzioni. Sulla base dei rinvenimenti archeologici non si può inoltre dimostra­ re che ci sia stata una immigrazione: gli etruschi, allonta­ 38

nandosi gradualmente dalle nebbie della preistoria, nel corso deH’VIII e nei primi anni del VII secolo a.C. entra­ rono sulla «scena del mondo» di allora come entità etnica ben definita.

Lingua e scrittura Un effetto immediato della colonizzazione greca nel­ l’Italia meridionale, con la fondazione di Pitecusa (Ischia) e di Cuma in Campania, fu l’influsso della cultura greca sugli etruschi, nei confronti della quale essi si mostrarono ben disposti. Non può sorprendere, pertanto, che le più antiche iscrizioni etrusche, databili agli anni tra l’VIII e il VII secolo a.C., siano redatte in un alfabeto del tutto simi­ le a quello dei primi coloni greci e proveniente dalla loro stessa madrepatria, cioè l’euboica Chalkis: si tratta infatti del cosiddetto alfabeto calcidese. Al VII secolo a.C. risalgono alcuni «alfabeti modello», come quello sulla tavoletta scrittoria di Marsiliana d’Albegna, situata nell’entroterra vulcente, che comprende tutte le lettere greche. E da rilevare il fatto che nella pratica gli etruschi non adottarono e non utilizzarono tutti i caratteri greci, ma mantennero solo quelli di cui avevano bisogno per mettere la propria lingua per iscritto. Così i caratteri corrispondenti al valore fonetico di b, d, g e o, che non esistevano in etrusco, non vennero mai utilizzati nella scrittura. Al contrario, gli etruschi ebbero necessità di un numero maggiore di sibilanti, perciò furono introdotti di­ versi segni per indicare tali suoni. A parte poche eccezioni (per esempio un suono «effe» connotato da una lettera a forma del nostro odierno nu­ mero 8), la scrittura si attenne all’uso delle lettere greche, tanto che la lettura dell’etrusco non ha mai creato partico­ lari difficoltà. Come nel greco, la forma delle singole lette­ re era soggetta a variazioni regionali e cronologiche. Dalla metà del V secolo a.C. venne inoltre progressivamente abolita l ’indicazione delle vocali brevi interne (ad esempio Menrva al posto di M enerva), perciò la linguistica distin­ gue tra etrusco antico ed etrusco recente. E invece problematica la comprensione, vale a dire la 39

traduzione dei testi etruschi, e la ricostruzione della lingua etrusca nella sua globalità. Questa affermazione sembra es­ sere a prima vista contraddetta dal fatto che la maggior parte delle quasi 7.500 iscrizioni finora note sono intera­ mente o almeno parzialmente comprensibili. La soluzione di questa apparente contraddizione sta nel fatto che si tratta per lo più di iscrizioni costituite da testi molto corti, cioè di iscrizioni funerarie recanti il nome e l’età del defunto o di iscrizioni di possesso e voti­ ve su vasellame. Diamo alcuni esempi. 1) Su una piccola anfora arcaica è inciso: m ini usile m uluvanice. La traduzione recita: «m i ha donato Usil». Si tratta dunque di un dono. Come accade in greco, il vaso parla di sé in prima persona {mini). Il donatore è al nomi­ nativo (Usile). Segue, come in molte altre iscrizioni, il ver­ bo al perfetto (m uluvanice ). 2) Su un cippo di pietra da Cortona (lat. Cortona ), cit­ tà dell’Etruria settentrionale si trova: tular rasnal. Entram­ be le parole sono ben note da altri contesti: tular come «confine» e rasnal come «etrusco», secondo la testimo­ nianza di Dionigi di Alicarnasso, stando al quale gli etru­ schi chiamavano se stessi Rasenna. Il cippo è stato quindi interpretato come «pietra di confine dell’Etruria». In altro contesto il termine rasnal è stato recentemente considerato un etnico di tipo regionale e non panetrusco, e dunque dell’iscrizione sul cippo è stata data la convincente tradu­ zione di «confine del territorio di Cortona»; dal momento che non esisteva un unico stato etrusco, non sembra infatti ragionevole ipotizzare che proprio a Cortona esistesse un limite confinario deU’Etruria. 3) Su un sarcofago di epoca tardo-etrusca da Tuscania è scritto: larisal larisalisla ©anachvilus calisnial clan avils huthzars. Si tratta del defunto Lar[is], figlio (clan) di Laris e di Tanachvil Calisnia. Costui visse 16 (?) (huthzars) anni (avils). Questi esempi dimostrano che si dispone di un lessico limitato, che, ricorrendo frequentemente, è per noi del tut­ to comprensibile. Si tratta in prevalenza di nomi di perso­ ne e di divinità, di rapporti di parentela, di dati numerici e indicazioni di età, di alcune particolari informazioni e ver­ bi di ambito sacro e funerario, nonché infine, di nomi di 40

vasi e di utensili, più raramente di titoli e cariche. Non po­ chi sono i termini di cui conosciamo il significato anche grazie a citazioni presenti in autori greci e latini. Queste parole, chiamate «glosse», sono tuttavia raramente utilizza­ bili, come nel caso del vocabolo aiser per «dei», e necessi­ tano in alcuni casi di ulteriori verifiche perché nella tarda antichità il loro originario significato era solo approssima­ tivamente noto. Per quanto riguarda la grammatica, nel corso dell’ulti­ mo decennio sono stati fatti notevoli progressi. È chiaro che l’etrusco era una lingua di tipo agglutinante, con una predilezione per i suffissi giustapposti, come dimostrano anche gli esempi sopra presentati. Oltre a ciò sono ricono­ scibili le flessioni essenziali dei sostantivi, quali ad esempio la differenziazione tra singolare e plurale clan/clenar («fi­ glio»/«figli») attraverso l’aggiunta di una desinenza -ar e (raramente) attraverso il cambiamento della vocale interna; o, ancora, la distinzione di persona attraverso la giustap­ posizione di una desinenza -i nel caso dei nomi femminili: Teitur (maschile) - Teituri (femminile). Restano per ora incomprensibili o di dubbia interpre­ tazione i testi più lunghi e quelli che presentano un lessico particolare. Ciò dipende soprattutto dal fatto che l’etrusco è una lingua isolata e perciò i vocaboli appartenenti ad al­ tre lingue possono essere stati presi in prestito solo in mi­ sura molto limitata. Questo dilemma ha fatto dell’etrusco il campo d’azio­ ne di linguisti più o meno competenti, che si sono sforzati sia di «decifrarlo» sia di classificarlo dal punto di vista lin­ guistico. Come si è già ricordato, la parentela più stretta è quella con l’idioma pregreco dell’isola di Lemno, nel­ l’Egeo nord-occidentale, dalla quale tuttavia provengono monumenti iscritti ancor più lacunosi di quelli etruschi. Nel corso degli studi il metodo per la comprensione dell’etrusco si è naturalmente trasformato e affinato. Ini­ zialmente ha predominato il cosiddetto metodo etimologi­ co, nel quale parole etrusche sconosciute venivano tradot­ te grazie ad altre foneticamente simili e appartenenti ad al­ tre lingue: un procedimento che, pur essendo del tutto sensato per le parole prese in prestito, comportava molte incertezze ed è pertanto caduto in disuso. Attraverso que­ 41

sto tipo di confronti lessicali e linguistici si è arrivati a po­ stulare la parentela dell’etrusco con molti idiomi, tra cui l’egiziano, l’albanese e l’armeno, il basco e il dravidico, l’ugrofinnico e il greco, l’ittita e il caucasico, il lidio e il li­ do, così come con le confinanti lingue italiche, senza che si riuscisse a giungere ad una classificazione convincente. Molto più efficace fu l’applicazione del metodo combi­ natorio, elaborato da Alf Torp, grazie al quale si provò a spiegare l’etrusco con l’etrusco, sia attraverso la compara­ zione reciproca dei testi, sia attraverso la comprensione dei singoli contesti archeologici. Il terzo e più recente metodo da ricordare è quello bilinguistico, nel quale - ricollegandosi con il metodo com­ binatorio - la struttura del testo, in particolare formule ed espressioni caratteristiche, viene confrontata con testi di tipo affine redatti in lingue ben note, come il latino, l ’um­ bro o il greco. Quando nel 1964, a Pyrgi, uno dei porti di Cerveteri, furono trovate tre lamine d’oro con testi in scrittura etni­ sca e fenicio-punica, fu grande la speranza di poter final­ mente disporre di una bilingue più lunga e, grazie ad essa, di poter meglio comprendere l ’etrusco, così come a suo tempo la bilingue di Rosetta aveva contribuito alla decifra­ zione dei geroglifici egiziani. Tuttavia ci si accorse subito che il testo semitico era solo un riassunto del più ampio testo etrusco e che la sua comprensione presentava mag­ giori difficoltà della stessa parte scritta in etrusco. Ciò nonostante le lamine d’oro ci hanno consentito di acquisire un prezioso nuovo documento, il cui contenuto, al di là dell’aspetto meramente linguistico, è del massimo significato storico e religioso. Infatti, tra le altre notizie, è qui tramandato attraverso il nome del fondatore del cul­ to, Thefarie Velianas, anche il nome di un re di Cerveteri dell’inizio del V secolo a.C. Dalle lamine apprendiamo inoltre che la divinità principale del santuario, Uni, era venerata insieme alla fenicia Astarte: abbiamo dunque a che fare con un santuario multiculturale, fatto che getta una luce particolare sugli stretti rapporti tra Cerveteri e i cartaginesi. Grazie alle testimonianze scritte, siamo ben informati soprattutto sul sistema onomastico degli etruschi. Così 42

come nell’antica Roma, i cittadini avevano un nome perso­ nale e un nome di famiglia, cosa che ci dimostra che già in età piuttosto antica, al più tardi intorno al 700 a.C., in Etruria esisteva un sistema sociale di tipo gentilizio, con­ fermato del resto anche dalla contemporanea costruzione dei tumuli monumentali. In virtù della ricca tradizione di nomi, l’onomastica è il settore della linguistica etrusca che è oggi maggiormente sviluppato. Accanto alle già citate brevi iscrizioni nelle tombe o su vasi e utensili e alle lamine d’oro di Pyrgi esistono pochi testi più consistenti, di contenuto liturgico o giuridico. Il più importante è la benda di mummia conservata nel mu­ seo di Zagabria, un lenzuolo di lino iscritto, avvolto stra­ namente intorno ad una mummia egiziana, la quale, verso la metà dell’Ottocento, giunse nella città allora chiamata Agram. Si tratta di un «libro», lungo in origine quasi 3,50 m e alto 35 cm, fatto di un lenzuolo di lino ripiegato (liber linteus ), che è testimoniato per l’Etruria da fonti letterarie e anche da raffigurazioni. Su diverse «pagine», vale a dire su almeno dodici colonne verticali, si trova accuratamente dipinto un testo rituale di età tardo-etrusca. E una sorta di calendario dei sacrifici e contiene quindi indicazioni su date e destinatari degli atti cultuali. Delle quasi 1.300 pa­ role conservate o che si possono desumere dal contesto, sono circa 500 quelle di cui è sicuro il significato. Sono menzionate più volte le divinità Nethuns (Nettuno), Veive (Veiove) e Catha. Esistevano evidentemente istruzioni precise riguardanti le modalità e le scadenze degli atti cultuali, perciò parole quali vinum («vino») o thapna e spanti, che si riferiscono alle forme dei vasi per il culto e che ci sono note dalle nu­ merose iscrizioni vascolari, sono ben identificabili. Il testo della Mummia di Zagabria è tematicamente affi­ ne a quello della Tegola di Capua, che a fine Ottocento giunse al museo statale di Berlino attraverso il mercato anti­ quario. La tegola, alta 62 cm e larga 48, è interamente occu­ pata da un lungo testo etrusco, che, sulla base del contenu­ to e dei segni alfabetici, dovrebbe appartenere all’inizio del V secolo a.C., quando la Campania etrusca e la città di Ca­ pua erano ancora nel pieno della loro prosperità. Come sulla mummia, così anche il testo sulla tegola ri­ 43

guarda essenzialmente istruzioni per cerimonie sacrificali. Le divinità citate, come Letham e Calu, sono però da attri­ buire al mondo infero, sicché si dovrebbe trattare di riti sacrificali di carattere funerario, come è tramandato per i libri A cherontici. Da notare in questo testo rituale è la fre­ quente menzione del nome gentilizio leni: questo porte­ rebbe a ipotizzare che si tratti di prescrizioni cultuali per una gens, e quindi di un culto familiare. Un altro importante monumento iscritto è il Cippo di Perugia, un blocco di travertino di circa 1,50 m di altezza, inciso sulla faccia anteriore e su uno degli spessori. Il testo si compone di 24 righe, ognuna di 20-24 lettere sulla fac­ cia anteriore, e di 22 righe di 8-9 lettere su quella laterale sinistra. Per quanto riguarda il contenuto, si tratta di un patto giuridico tra due famiglie, i Velthina di Perugia, più volte nominata nelle iscrizioni, e gli Afuna (di Cortona?). Oggetto dell’accordo è un contratto sul tracciato del con­ fine tra i territori delle due famiglie. Il cippo, databile tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C., era originaria­ mente collocato come pietra di confine ed era probabil­ mente coronato da un ritratto di Silvanus-Terminus, che, come dio protettore dei confini, vigilava sul rispetto del contratto. Un altro testo giuridico, inciso su una grande tavola bronzea, è stato recentemente scoperto nel territorio di Cortona. E ancora inedito, ma la sua lunghezza e il suo ricco vocabolario ne fanno probabilmente un documento di grande importanza per gli studi. Ciò che continua tutta­ via a mancare alla linguistica etrusca è una vera bilingue, un lungo testo etrusco affiancato da una traduzione lette­ rale in una delle lingue note, come il greco o il latino. Solo così si potrebbe definire precisamente il significato di mol­ te parole, che finora sono solo approssimativamente com­ prensibili sulla base del contesto, e lo stesso vale per i pro­ blemi grammaticali.

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CAPITOLO QUARTO

ESPANSIONE COMMERCIALE, FIORITURA E DECLINO

Il dom inio m arittim o e terrestre Stando alle notizie di Aristotele, tra cartaginesi ed etruschi era stato stipulato un trattato per la regolamenta­ zione del commercio, per la tutela della pace e per l’assi­ stenza militare reciproca. Questi accordi sono sicuramente databili al periodo arcaico e costituiscono un importante presupposto: stando a quanto è possibile ipotizzare sulla base delle scarse testimonianze pervenute etruschi e carta­ ginesi collaboravano effettivamente in campo sia economi­ co sia militare, soprattutto per opporsi all’espansione gre­ ca. Evidentemente esistevano sfere di interesse ben defini­ te, che dovevano essere rispettate da tutte le parti. Per gli etruschi questa sfera era soprattutto il mar Tirreno tra la costa ligure e la Campania. Poiché i rinvenimenti etruschi in quest’area risalgono aH’VIII secolo a.C., è lecito pensare che già in questo periodo disponessero di un forte potere marittimo, che successivamente, durante il VII e il VI se­ colo, divenne una vera e propria supremazia militare e po­ litico-economica (fig. 2). Se tali sfere di interesse così definite e tali accordi non venivano rispettati, si innescavano conflitti; in questi casi i greci parlavano di pirateria quando veniva esercitato il com­ mercio in maniera incontrollata o contro i loro interessi, o anche quando venivano assalite le loro navi. Le prime rap­ presentazioni etrusche o greche di navi da guerra, munite di imponenti rostri, ci restituiscono un’immagine chiara della ingegnosità e della brutalità con cui, già nel VII secolo, si svolgevano i combattimenti navali nel mar Mediterraneo. In ogni caso nella letteratura greca appare addirittura prover­ biale l’equazione tra tirreni e pirati, come in Eforo citato da Strabone (VI 2, 2), che racconta delle loro azioni davanti la 45

costa occidentale della Sicilia, avvenute, a quanto dice l’au­ tore, ancora prima della colonizzazione greca, o come nel­ l’inno omerico a Dioniso del VII secolo a.C. (inno VII), dove i tirreni sono mostrati come predoni e rapitori di Dio­ niso, o, infine, come in occasione del ratto delle donne da Brauron in Attica, che causò un conflitto armato contro Atene. I due ultimi avvenimenti ebbero luogo nelle acque dell’Egeo e, pur se si riferivano in linea di principio agli an­ tichi abitanti dell’isola di Lemno, furono poi arbitrariamen­ te imputati agli etruschi. Il primo obiettivo dell’espansione territoriale e della colonizzazione etrusca fu la Campania. Anticamente essa non era soltanto una regione fertilissima, ma anche un crocevia dei commerci internazionali. Non stupisce dun­ que che tanto i greci quanto gli etruschi cercassero di far­ ne una propria area di influenza. Le sepolture rinvenute in questa regione mostrano che già durante il periodo villa­ noviano, verso la fine deU’VIII secolo a.C., vi fossero stret­ ti contatti con l ’Etruria, soprattutto con Veio e con Cerveteri. Questi legami dovettero ulteriormente rafforzarsi nel corso del VII e del VI secolo a.C., tanto che si può parlare di una colonizzazione finalizzata all’occupazione di più ampie zone della Campania ad opera delle città dell’Etruria meridionale. Centro principale della Campania etrusca era Capua, sebbene per le fasi più antiche sia più significa­ tivo sul piano archeologico l’insediamento di Pontecagnano, che ha restituito ricchi corredi funerari dell’VIII e del VII secolo. L ’immediata vicinanza della città greca di Cuma causò diversi conflitti, che scoppiarono già alla fine del VI secolo a.C. I collegamenti con la Campania in parte erano assicu­ rati dalla potente flotta di Cerveteri e in parte sfruttavano la via di terra attraverso il Lazio, che pur se non divenne mai zona di insediamenti etruschi, era in gran misura etruschizzata sul piano economico e culturale, come hanno di­ mostrato, tra l’altro, le sontuose tombe principesche di Pa­ lestrina, strettamente imparentate con quelle di Cerveteri e di Pontecagnano. Agli anni finali del VII secolo a.C. si data l’inizio del­ l’influenza etrusca nel territorio a nord dell’Appennino, dove tuttavia, già prima d’allora, esistevano stretti rapporti 46

culturali con Verucchio e Bologna, la Felsina etrusca, la cui necropoli periferica di Villanova ha dato il nome a tut­ ti i fenomeni di quella cultura risalente alla prima età del ferro. La colonizzazione pianificata nell’area transappenni­ nica cominciò poco prima della fine del VI secolo a.C., come testimoniano gli scavi eseguiti a Marzabotto e nell’insediamento costiero di Spina, affacciato sull’Adriatico. A nord del Po fu fondata Mantova (lat. Mantua ), centro di una presunta lega di dodici città, conforme a quella in cui erano organizzati i centri della madrepatria etrusca, lega che tuttavia cadde sotto la crescente offensiva dei celti da nord.

I partner com m erciali e le popolazioni lim itrofe Gli etruschi devono il riscatto dall’anonimato della fase preistorica e la rapida trasformazione in un popolo civile di primo piano nell’Italia centrale ai contatti con fe­ nici e greci. Il retroterra di questo sviluppo storico-cultu­ rale determinante per ampie zone dell’Europa occidentale fu la colonizzazione del settore di ponente del bacino del Mediterraneo. Grazie alla fondazione di propri insedia­ menti sulle coste del nord Africa, della Spagna e dell’Ita­ lia sia i fenici sia i greci ebbero la possibilità, da una par­ te, di ridurre le eccedenze demografiche, dall’altra di con­ quistare nuovi mercati per l’approvvigionamento di mate­ rie prime nonché, poco più tardi, di trovare acquirenti per i loro prodotti finiti. In particolare, città fenicie come Tiro, Biblo e Sidone dipendevano strettamente dalle esportazioni delle eccedenze, dal momento che potevano mantenere la propria indipendenza dall’Assiria solo ver­ sando alti tributi. Anche gli etruschi approfittarono di questa espansione dei commerci sul Mediterraneo, a cui parteciparono a par­ tire dalla metà dell’VIII secolo circa, soprattutto smercian­ do i minerali di ferro dell’isola d’Elba, le cui cave a quel­ l’epoca non erano meno preziose delle miniere d’argento nel sud della Spagna, che erano nelle mire soprattutto dei fenici. Di notevole rilevanza per la comprensione di questa prima fase dei rapporti tra greci ed etruschi è il fatto che 47

la più antica e più settentrionale delle nuove colonie gre­ che, cioè l ’euboica Pitecusa a Ischia fu fondata in Campa­ nia e non nel territorio della stessa Etruria. Di conseguen­ za lo sfruttamento delle miniere etrusche era probabilmen­ te sotto il controllo delle popolazioni locali, così come l’in­ tera linea di costa etrusca e laziale. Le relazioni commer­ ciali tra greci ed etruschi, quindi, furono improntate ini­ zialmente alla collaborazione pacifica, altrettanto vantag­ giosa per entrambi i partner. In realtà lo sviluppo dell’Etruria mostra che la com­ parsa dei primi coloni ebbe come conseguenza una rile­ vante crescita culturale, che già neH’VIII secolo a.C. inte­ ressò Tarquinia e, poco dopo, Vulci e Cerveteri. A questo periodo si datano le prime iscrizioni etrusche, non a caso redatte in un alfabeto greco di tipo euboico, e sempre dall’Eubea proviene la più antica ceramica importata, che fu subito imitata e ulteriormente elaborata in Etruria. Dalla Fenicia o, meglio, da Cipro e dalla Siria del nord venivano importati preziosi utensili in metallo e ornamenti in avorio. Anche in questo caso vi furono riflessi immedia­ ti sull’artigianato artistico locale. La statuaria ceretana più antica è caratterizzata da un’impronta decisamente orien­ tale, e l’arte orafa, con le sue difficilissime tecniche della granulazione e della filigrana, può essere stata appresa da­ gli etruschi solo attraverso una conoscenza diretta dei gio­ ielli orientali (fig. 16). I greci di cui restano tracce in Etruria in questa fase più antica sono dunque inevitabilmente legati ad attività commerciali e artistiche: della prima metà del VII secolo a.C. sono il ceramista e pittore vascolare Aristonoto, che aprì una propria bottega a Cerveteri, e il nobile corinzio Demarato, emigrato a Tarquinia quasi nello stesso perio­ do, il cui arrivo fu determinante per lo sviluppo artistico in quella città. A ll’inizio del VI secolo, infine, il ricco mer­ cante Sostrato di Egina lasciò a Gravisca, il porto princi­ pale di Tarquinia, un’ancora votiva di pietra, recante un’iscrizione di dedica al dio Apollo. Naturalmente gli stranieri si stabilirono in primo luogo nelle città portuali: perciò nei grandi santuari legati ai por­ ti di Cerveteri e Tarquinia si trovano invocazioni a divinità come Era e Afrodite accanto ad iscrizioni di dedicanti e a 48

nomi di dei locali etruschi. A questo proposito sono signi­ ficative anche le già menzionate laminette d’oro di Pyrgi, iscritte in etrusco e in punico, in quanto documentano in forma ufficiale la venerazione della dea fenicia Astarte al­ l’interno del santuario dedicato all’etrusca Uni. Nelle fasi più antiche i rapporti economici, politici e culturali con i greci dell’Italia meridionale, della madrepa­ tria (Corinto, Atene) e dell’Asia minore ionica (Mileto) fu­ rono evidentemente molto stretti. E tuttavia da tenere pre­ sente che gli etruschi, come si è spiegato sopra, non for­ mavano una nazione unitaria, bensì, analogamente ai ge­ novesi e ai veneziani del periodo medioevale, erano divisi in singole città-stato; in considerazione di ciò occorre dun­ que prendere in esame i rapporti fra le singole città. Parti­ colarmente eloquente da questo punto di vista è il seguen­ te aneddoto: dopo la brutale distruzione della ricca città magnogreca di Sibari, ad opera della confinante Crotone, nel 510 a.C., gli abitanti di Cerveteri e di Mileto avrebbe­ ro manifestato profondo cordoglio, dal momento che en­ trambe le città erano legate a Sibari da speciali rapporti di amicizia, e non da ultimo per ragioni di tipo economico. Molto probabilmente in questo caso o in casi simili i pro­ fughi furono accolti dalle città amiche, si integrarono rapi­ damente nella nuova patria, secondo il loro rango sociale e le capacità artistiche e intellettuali, e contribuirono a de­ terminare la vita culturale locale. Viceversa anche nella madrepatria greca sono presenti evidenti tracce etrusche. A prescindere dai già citati «pre­ doni del mare tirreni», i quali fin da età molto antica avrebbero reso poco sicuro il mar Egeo e che di recente vengono messi in rapporto con gli abitanti dell’isola di Lemno, esiste una lunga serie di testimonianze storiche e archeologiche. Di particolare importanza sono in tal sen­ so alcuni piccoli scudi votivi del periodo villanoviano rin­ venuti nel santuario di Zeus a Olimpia, poiché suggeri­ scono una stretta familiarità culturale e religiosa tra etru­ schi e greci già neH’VIII secolo a.C. In questi rapporti dovettero rivestire un ruolo determinante, accanto ai già citati mercanti, soprattutto gli aristocratici: Pausania (V, 12, 51 ad esempio racconta che un re etrusco di nome Arimnesto fu il primo non greco ad aver offerto a Zeus 49

olimpio un dono votivo di carattere ufficiale, vale a dire il suo trono. Ancora più significativa per i rapporti tra greci ed etruschi è la notizia che i ceretani fecero innalzare un pro­ prio tesoro nel recinto sacro di Delfi, un privilegio che normalmente era riservato ai soli greci. Nulla illustra me­ glio lo stretto legame degli etruschi col mondo greco. E a questa testimonianza se ne ricollega un’altra, secondo la quale i ceretani si rivolsero all’oracolo di Delfi quando, dopo la lapidazione sacrilega dei prigionieri greci seguita alla battaglia navale di Alalia (535 a.C. circa), la popola­ zione fu colpita da paralisi e mutilazioni senza che le arti dei sacerdoti etruschi fossero in grado di debellare questa piaga (Erodoto I, 167). Anche l ’ambito della mitologia dimostra che già nel VII secolo a.C. gli etruschi avevano assimilato molti ele­ menti della cultura greca: Yepos greco non era soltanto materiale per le decorazioni figurate (fig. 10). Diversamen­ te da come noi oggi possiamo comprendere le epopee omeriche, esse costituivano per gli etruschi parte integran­ te del loro mondo spirituale, al punto che, analogamente a quanto accadeva nel mondo di lingua greca, in quei poemi epici, e soprattutto n ell’Iliade e n ell’O dissea , si sentiva un passato eroico comune. Infine queste epopee, e tra di esse l’Odissea, si svolgevano in parte anche in Italia, anzi la stessa Etruria era stata teatro delle vicende di Eracle du­ rante il suo viaggio di ritorno dalla Spagna. Risulta quindi comprensibile perché tanti insediamenti italici ed etruschi fossero considerati fondazioni di eroi greci di epoca micenea e da essi prendessero il nome, come ad esempio Talamone (lat. Telamon). E si spiega così anche la disinvoltura con cui gli etruschi poterono rappresentare nelle loro tombe elementi fondamentali del­ l’oltretomba greco, come Ade e Persefone, massimi dei dell’aldilà (in etrusco Aita e Phersipnai), che compaiono insieme agli eroi omerici nella Tomba d ell’Orco di Tarqui­ nia o insieme agli antenati defunti nella Tomba C olini di Orvieto. Così come gli eroi e i miti greci costituivano par­ te fondamentale della coscienza etrusca, anche l’oltretom­ ba dei greci era diventato l’oltretomba degli etruschi. Rispetto al rapporto con i greci, quello con le popola50

zioni italiche confinanti verso sud ebbe importanza analo­ ga ma caratteri differenti. Roma e l’Etruria, latini ed etru­ schi sembrano strettamente legati gli uni agli altri fin dal­ l’inizio, senza che questo rapporto debba essere stato ne­ cessariamente difficoltoso, come si potrebbe ipotizzare in considerazione delle sue fasi finali. Se in seguito fu Roma e non l’Etruria il partner di spicco in queste relazioni reci­ proche, ciò dipende essenzialmente dalle fonti antiche, tutte concentrate esclusivamente su Roma. All’inizio del primo millennio Roma era piuttosto ri­ volta verso le vicine popolazioni latine, stanziate a sud, verso quella cultura il cui centro era situato nel territorio dei laghi Albani; tuttavia sono documentati anche evidenti rapporti con la cultura villanoviana dell’Etruria. La stessa posizione geografica di Roma assicurava un brillante avvenire alla fondazione, inizialmente modesta, di Romolo: ubicata in un luogo che domina la foce del Tevere con il controllo sulle saline nella zona del futuro porto di Ostia, essa era il crocevia delle più importanti vie di comunicazione terrestre fra Etruria e Campania e fra mar Tirreno e mare Adriatico. All’inizio della storia della città i piccoli insediamenti sparsi sulle singole colli­ ne si dovettero unire in un centro organico unitario. Tale processo di formazione della città di Roma, con la fonda­ zione del Foro romano quale nuovo nucleo cittadino e centro politico, sembra essersi compiuto nel VII secolo a.C., quando le vallecole ancora parzialmente paludose tra Campidoglio, Palatino, Velia e Quirinale vennero pro­ sciugate. E significativo che le fonti latine attribuiscano a ingegneri etruschi la realizzazione di queste opere, ante­ cedenti alla più tarda Cloaca maxima. Nel VI secolo a.C. - l’insediamento sul Tevere era di­ ventato nel frattempo uno dei centri più popolosi dell’Ita­ lia centrale grazie a immigrazioni e trasferimenti coatti Roma può essere considerata, dal punto di vista culturale, una città etrusca: in primo luogo con Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo salirono al trono, uno dopo l’altro, tre re etruschi, e probabilmente risale al loro periodo l’acquisizione dei simboli esteriori della regalità quali le insegne del trionfo e quelle del potere (lituus , sella curulis, toga). In secondo luogo anche lo sviluppo artistico,

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soprattutto quello che interessa la plastica e le decorazioni templari, non è differente da quello che si riscontra in Etruria. Ed è tanto più credibile la notizia secondo la qua­ le per la realizzazione della statua di culto del tempio di Giove capitolino, da poco costruito, vennero chiamati de­ gli artisti dalla città etrusca di Veio, poiché gli artisti ro­ mani non disponevano ancora di tradizioni artistiche di uguale valore. D’altro canto sarebbe riduttivo limitarsi a considerare esclusivamente le relazioni tra l’Etruria e Roma. La strut­ tura sociale aperta tipica del VI secolo a.C. non solo rese possibile, a Roma, l’ascesa al trono di stranieri, ma consen­ tì anche altre innovazioni dello stesso tipo. L’esempio mi­ gliore lo fornisce il citato tempio di Giove sul Campido­ glio, una costruzione architettonica di dimensioni colossali (il lato frontale era largo 53 m), con la quale i re etruschi poterono competere con i tiranni e con le città-stato del mondo greco, come Samo, Efeso o Atene. Caratteristiche di questa fase sono anche le più antiche iscrizioni note a Roma: in latino, se di carattere ufficiale, come il cippo posto sotto il Lapis n iger del Foro romano, o in etrusco, come le dediche private nel tempio di Servio Tullio nel Foro Boario. Tra queste ultime si annovera an­ che una tavoletta d’avorio iscritta, a forma di leoncino, che un nobile etrusco consacrò alla divinità lì venerata. Il suo nome, Aranth Silquetenas Spurianas, rimanda ad una delle più importanti famiglie di Tarquinia, precisamente gli Spuriana/Spurinna, per i quali, ancora all’inizio dell’età imperiale, venne innalzato nel centro di Tarquinia un mo­ numento familiare, i cosiddetti Elogia tarquiniensia. Quanto «etrusca» fosse Roma nel periodo della mo­ narchia, viene evidenziato anche da una notizia marginale di Teofrasto (Historia Plantarum V, 8, 2) dalla quale ri­ sulta che Roma, già verso la fine del VI secolo a.C., ave­ va l’intenzione di fondare una colonia «transmarina» in Corsica, avvalendosi dell'aiuto della flotta di Cerveteri; tale progetto, tuttavia, non venne evidentemente mai rea­ lizzato. Il terzo dei grandi centri etruschi con cui Roma man­ teneva stretti rapporti era la vicina Veio. Originariamente il Tevere separava i territori delle due città, come testimo­ 52

niano ancora per il VI secolo alcune tombe a camera etni­ sche rinvenute a Sant’Onofrio, a nord-ovest del Vaticano. Ma forse già sotto i Tarquini parti di territorio al di là del Tevere divennero possesso di Roma, cosicché Veio perse sia il controllo sui commerci fluviali, sia il collegamento diretto col mare. E in queste perdite che va necessaria­ mente vista la causa dei futuri conflitti tra le due città. Dopo la cacciata da Roma di Tarquinio il Superbo, l’ultimo dei re Tarquini, e con l’inizio della repubblica nel 509-8 a.C., un’altra città-stato etrusca entrò in stretto contatto con Roma. Si trattava di Chiusi (lat. Clusium), insediamento dell’Etruria centrale, con il suo re e condot­ tiero Laris Porsenna. Su questo personaggio si raccontano numerosi aneddoti, tramandati e arricchiti dagli autori tardo-romani, che mettono in risalto la valorosa resistenza opposta dai romani all’assedio di questo re. Tra questi, la storia del cavaliere romano Muzio Scevola, il quale, da­ vanti agli occhi ammirati dei nemici etruschi, si arse la mano destra che aveva fallito nell’infliggere un colpo mortale a Porsenna, oppure la storia della valorosa Clelia, la quale, consegnata per due volte in ostaggio a Porsenna, impressionò profondamente il condottiero etrusco con la sua fuga coraggiosa. Secondo le ipotesi degli studiosi mo­ derni, dietro simili gesti eroici si celano esperienze ben poco onorevoli per la Roma del tempo, vale a dire la conquista della città da parte dell’esercito di Porsenna e le dure condizioni che questi impose, tra le quali il divie­ to di fondere e lavorare il ferro, cosa che equivaleva pra­ ticamente al disarmo. Sembra che gli etruschi abbiano intrattenuto stretti contatti commerciali, già in età antica, anche con le popo­ lazioni stanziate a nord e a ovest delle Alpi. Scavi condotti lungo la costa meridionale della Francia (a St. Blaise, Mar­ siglia e altrove) hanno portato alla luce negli strati insedia­ tivi databili tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C. quantità notevoli di frammenti di ceramica etrusca e greca. I rinvenimenti nei dintorni di St. Blaise, alle foci del Roda­ no, fanno inoltre supporre che già allora fosse praticato lungo le rive del fiume un intenso commercio diretto verso l’interno della regione, al quale alludono anche piccoli ri­ trovamenti, come ad esempio quelli di Bourges. 53

Quanto alla natura di questi scambi, possiamo per ora avanzare solo delle ipotesi. Tra la ceramica importata si trova sempre, oltre al vasellame in bucchero, una quantità straordinaria di frammenti di anfore etrusche, utilizzate come contenitori per il trasporto del vino. Se ne deduce che le popolazioni settentrionali dei liguri e dei celti devo­ no avere importato dall’Etruria grandi quantità di vino. Il prodotto commerciale offerto in cambio è ancora scono­ sciuto; l ’esportazione del sale, come più tardi in età roma­ na e nel Medioevo attraverso Arles, è solo una delle molte possibilità. Una conseguenza di questi antichi contatti commercia­ li con i popoli liguri e celti è, verso il 600 a.C., la fonda­ zione di Massalia/Marsiglia ad opera di coloni greci prove­ nienti da Focea, nell’Asia minore occidentale. Questo stanziamento non ebbe ripercussioni negative sugli stretti scambi commerciali con l’Etruria. Anzi, in seguito aumen­ tò la quantità di prodotti greci ed etruschi che, attraverso gli ormai consueti percorsi lungo il Rodano, giungevano nelle più remote località dell’Europa occidentale e centra­ le. In quei luoghi, tanto all’interno degli insediamenti abi­ tativi nonché nelle tombe a camera fastosamente arredate, si trovano ceramica attica e prodotti in bronzo di fattura greca, come il cratere di Vix (Borgogna), riccamente deco­ rato, oppure il bacile con leoncini da Hochdorf, nel Wurttemberg. Accanto a questi incontriamo numerosi prodotti di importazione etrusca, in prevalenza fibule di metallo e vasellame bronzeo, come le brocche a becco, più tardi imitate o, meglio, rielaborate dagli stessi celti. Senza tema di esagerare possiamo perciò concludere che, a partire dal V secolo a.C. (nel cosiddetto periodo della cultura di La Tène), l ’arte dei celti conobbe un note­ vole sviluppo grazie alle capacità e alle esperienze tecniche fortemente influenzate dai continui contatti con le culture mediterranee, soprattutto con i greci e con gli etruschi. Sappiamo ancora troppo poco riguardo alle più antiche strutture insediative dei celti (la cosiddetta fase di Hallstatt); possiamo tuttavia supporre che una chiara traccia dell’esistenza di tali rapporti sia da vedere nel muro di cinta di Heuneburg, presso Sigmaringen, un esempio fino­ 54

ra unico nel suo genere nell’area a nord delle Alpi, con i suoi mattoni d’argilla seccati al sole. Allo stesso periodo, cioè al VI secolo a.C., risale, se­ condo Livio, una prima invasione armata nell’Italia setten­ trionale da parte dei celti, in quella pianura padana, tra Alpi e Appennini che era dominio degli etruschi. Questa notizia, di cui si è inizialmente dubitato, va invece presa sul serio, tanto più ora, dopo la scoperta ad Orvieto del­ l’iscrizione funeraria di un tale Avile Katakina, il cui genti­ lizio deriva probabilmente dal nome celtico catac. Avrem­ mo quindi a che fare con un celta etruschizzato, stabilitosi direttamente in Etruria e qui naturalizzatosi, già intorno al 600 a.C., oppure addirittura discendente di un antenato celtico precedentemente immigrato. Le invasioni e lo stanziamento dei celti nell’Italia set­ tentrionale sono storicamente sicuri a partire dalla fine del V secolo. In queste zone furono distrutti o celtizzati gli in­ sediamenti preesistenti dei liguri, dei veneti e di altri popo­ li italici, ma anche gli abitati e le colonie etrusche. Dalla loro principale zona insediativa sull’Adriatico, a sud del Po, i celti o, per essere più esatti, le singole tribù celtiche dei galli, lanciarono le loro devastanti scorrerie verso sud terrorizzando i popoli italici. Ciò non avvenne in modo del tutto casuale, come si è creduto in passato: a quanto pare, i celti conoscevano bene la situazione della politica interna in Italia e ne approfittarono per raggiungere i propri scopi. Sappiamo così di operazioni militari ad ampio raggio e di conseguenti alleanze, come quella con l’ambiziosa città di Siracusa o anche con l’etrusca Chiusi, in questo caso ai danni di Roma, che nel 386 fu conquistata dal condottiero gallico Brenno.

I contrasti con i greci Mentre la fondazione di Marsiglia ad opera dei greci orientali di Focea, intorno al 600 a.C., evidentemente non guastò i buoni contatti commerciali tra greci ed etruschi nella zona delle foci del Rodano, un altro stanziamento co­ loniale dei focei divenne nel tempo una pesante costrizio­ ne per gli etruschi e portò infine al conflitto. 55

Verso il 565 a.C. un gruppo di focei si era insediato nella parte occidentale della Corsica dove aveva fondato la nuova colonia di Alalia. Con essa non era stato conquistato solo un importante centro nodale nel commercio con Mar­ siglia, ma era stata direttamente lesa la sfera di interessi del dominio marittimo etrusco, dal momento che Alalia si tro­ vava proprio di fronte alla costa tirrenica (fig. 2). Durante il primo periodo sembra che i rapporti tra focei ed etruschi siano stati pacifici. La situazione mutò però nel momento in cui i focei della madrepatria microasiatica caddero sotto la forte pressione dei persiani, al punto che gran parte di essi si videro costretti a cercare una nuova patria. Quando, nel 540 a.C., i focei potenziarono il preesistente insedia­ mento di Alalia e cominciarono a interferire massicciamen­ te nel commercio tirrenico, i cartaginesi e gli etruschi, come racconta Erodoto (I 166-167), strinsero un’alleanza e nel 530 a.C. assalirono con 120 navi la flotta da guerra dei focei davanti ad Alalia. Secondo Erodoto i focei risultaro­ no i vincitori della battaglia navale, ma persero 40 delle loro 60 navi, e anche le venti superstiti erano così rovinate da non essere più utilizzabili in combattimento. Dopo que­ sto scontro essi decisero di abbandonare Alalia e di inse­ diarsi nell’Italia meridionale, in territorio greco, dove fon­ darono la nuova colonia di Elea, la futura Velia. Dopo l’abbandono di Alalia l’egemonia degli etruschi fu ristabilita almeno nella parte settentrionale del Tirreno. E forse non è un caso che la data storica successiva alla battaglia di Alalia di cui abbiamo notizia, cioè il 524 a.C., sia relativa a scontri militari tra gli etruschi e la città greca che nel frattempo aveva assunto il ruolo di centro di pote­ re della Campania e della parte meridionale del mar Tirre­ no: Cuma, la più antica colonia fondata dai greci sulla pe­ nisola italica. Dionigi di Alicarnasso (VII, 3-4) parla di una coalizione etrusco-italica composta da 500.000 fanti e 18.000 cavalieri, che marciò contro Cuma e potè essere re­ spinta dopo violenti scontri soprattutto grazie al talento di Aristodemo, l’ultimo tiranno della città. Anche se è verosi­ mile che il numero degli uomini messi in campo dagli as­ salitori sia stato notevolmente esagerato dalle fonti, come spesso succede nell’antichità, dovette comunque trattarsi di un avvenimento rilevante per gli etruschi e per gli italici 56

loro alleati: scopo di questa azione era senza dubbio, come nel caso di Alalia, l ’annientamento di un importante con­ corrente commerciale. Questa sconfitta, tuttavia, non valse ancora a mettere in discussione il predominio degli etruschi sulla Campania. Anzi, i rinvenimenti archeologici dimostrano che, tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C., i centri etruschi co­ nobbero un eccezionale periodo di fioritura, sotto la su­ premazia di Capua. Con l’insuccesso del 524 a.C. comin­ ciò comunque la fine dell’espansione etrusca. Nell’ultimo decennio del VI secolo seguirono altri av­ venimenti di notevole importanza per lo sviluppo storico dell’Italia e deH’Etruria. Da un lato, nel 510 a.C., vi fu la distruzione della città magnogreca di Sibari, stretta alleata degli etruschi, ad opera della vicina Crotone, in seguito alla quale l’equilibrio commerciale risultò sensibilmente turbato; dall’altro, vi fu la cacciata della dinastia dei Tarquini da Roma. Quest’ultimo avvenimento, datato tradi­ zionalmente al 509-8, ebbe come conseguenza l’intervento di Laris Porsenna sovrano di Chiusi, che col suo esercito dominava l’intera Italia centrale, e di suo figlio Arruns. Essi, a conclusione del fortunato assedio di Roma, si pro­ posero ufficialmente di restaurare la monarchia dei Tarquini, ma miravano anche all’egemonia sull’intero Lazio. Si giunse così, nel 504 a.C. a una pesante sconfitta subita da Arruns presso la città latina di Ariccia ad opera di una coalizione composta da latini e cumani. Questi avvenimenti, che sulla base delle testimonianze degli storici greci possiamo collocare in Lazio e in Campa­ nia, devono evidentemente essere considerati in un conte­ sto più ampio. Anche prescindendo dal fatto che intorno al 500 a.C. all’interno dell’Etruria ebbero luogo degli scontri armati ipotizzabili ancora oggi solo su basi archeo­ logiche, attraverso gradi diversi di distruzione o di abban­ dono repentino di taluni insediamenti, comunque alla pe­ riferia orientale del bacino del Mediterraneo si erano veri­ ficati nuovi avvenimenti i cui effetti ebbero ripercussioni in occidente condizionando notevolmente la storia del pe­ riodo successivo. Quando nel 480 a.C. il re persiano Serse, dall’Asia mi­ nore, minacciò per mare e per terra la Grecia, i cartaginesi 57

pensarono che fosse il momento opportuno per occupare un’ulteriore parte della Sicilia. Il loro attacco ad Imera fece però scendere in campo la potente Siracusa e questa azione finì in una terribile catastrofe per le forze cartagine­ si. Secondo la testimonianza di Diodoro, solo pochi dei 300.000 cartaginesi sarebbero soprawissuti e avrebbero fatto ritorno in patria. Temendo un attacco contro la stes­ sa Cartagine, i punici si dimostrarono addirittura disposti a pagare un indennizzo di 2.000 talenti d’argento, una somma che servì tra l’altro a finanziare la costruzione del tempio di Imera, le cui rovine hanno fino ad oggi tenuto vivo il ricordo della storica vittoria dei greci. Ma la vittoria più significativa e più ricca di conseguen­ ze che i greci abbiano ottenuto nel Mediterraneo risale ad un periodo precedente. Nel 474 si svolse presso Cuma una battaglia navale che vide gli etruschi opposti a una coali­ zione Cuma-Siracusa. Essa terminò con una completa vit­ toria dei greci, entusiasticamente festeggiata da Pindaro come la liberazione della Grecia da una opprimente schia­ vitù. Dal vincitore Ierone di Siracusa sono giunti due elmi etruschi, bottino della battaglia, che egli offrì come dono votivo a Zeus nel santuario di Olimpia. Tale sconfitta sul mare ebbe per gli etruschi conse­ guenze disastrose, perché, oltre alla perdita del predomi­ nio marittimo, essi dovettero quasi totalmente rinunciare al controllo della via di collegamento terrestre con la Cam­ pania. Diminuì con ciò anche il loro potere su Roma, come dimostra la quasi totale assenza di nomi etruschi nel­ le liste consolari romane dal 474 a.C. in poi. Gli stessi lati­ ni aspirarono ad avere maggiore indipendenza, ma a loro volta si trovarono a dover fare i conti con nuovi nemici, cioè con quei popoli montani stanziati sulle pendici ap­ penniniche come gli equi e i volsci che, già dalla fine del VI secolo a.C. cominciarono a spingersi sempre più mi­ nacciosi verso le fertili pianure costiere. In breve, i traffici marittimi e terrestri etruschi verso il sud accusarono una notevole battuta d’arresto, tanto che nel V secolo a.C. lo sviluppo delle città costiere dell’Etruria, ma anche quello della stessa Roma ristagnò, anzi addirittura regredì visibil­ mente. Il radicale mutamento del panorama politico getta luce 38

anche su un avvenimento, menzionato solo marginalmen­ te, ma che è indicativo dei nuovi rapporti di potere: nel 348 a.C. Dionigi di Siracusa, in occasione di un viaggio per mare verso la Corsica con la sua flotta, saccheggiò l’importante santuario costiero di Pyrgi, nel territorio di Cerveteri, e fece ritorno in patria con un bottino ricchissi­ mo, senza che gli etruschi fossero in grado di impedire o di vendicare questa scorreria. Quella che un tempo era stata la più potente flotta del mar Tirreno era evidente­ mente già troppo debole, e lo stesso Tirreno era ormai prevalentemente sotto il controllo della Magna Grecia.

La romanizzazione d ell’Etruria Le notizie letterarie relative al rapporto tra Roma e le città-stato etrusche a partire dal V secolo a.C. sono abbon­ dantissime, soprattutto grazie all’opera storica di Tito Li­ vio, ma sono da considerarsi allo stesso tempo assai pro­ blematiche. Nel testo di Livio, infatti, gli avvenimenti non solo vengono esaminati esclusivamente dal punto di vista romano, ma la loro descrizione è anche molto di parte, in quanto gli etruschi vengono rappresentati quasi sempre come aggressori. Ne derivano enormi esagerazioni, false informazioni, simpatie e antipatie nei confronti di determi­ nati personaggi. Particolarmente grave in tal senso è la mancanza di testimonianze dirette etrusche e lo scarso in­ teresse degli storici greci per i rapporti etrusco-romani. Nel V secolo a.C. la storia di Roma, così come quella dell’Etruria si fa ancor più labile e confusa che nei periodi precedenti. Ciò è dovuto alla crisi politica ed economica che aveva interessato soprattutto le città costiere centro­ italiche. Solo verso la fine del V secolo a.C. Roma svilup­ pò di nuovo quelle energie espansioniste, che le avrebbero permesso successivamente di diventare una potenza mon­ diale. Nel 396 a.C., dopo un prolungato assedio e dopo ripe­ tute battaglie nella zona di confine di Fidene, fu conqui­ stata e distrutta Veio, la città immediatamente adiacente a Roma e sua diretta rivale, che era stata un tempo un po­ tente centro etrusco; il suo territorio fu quindi annesso al­ 59

l’area di dominio romano. Tale conquista non segnò tutta­ via la vittoria definitiva contro il vicino popolo etrusco. Ne derivò anzi un’insolita situazione: l ’azione di Roma contro Veio venne pienamente approvata dalle città-stato etrusche di Cerveteri e di Chiusi. I romani non si erano schierati dunque contro gli etruschi nella loro totalità; piuttosto, lo scontro era stato conseguenza di interessi po­ litici ed economici, sul fronte dei quali Roma sapeva di es­ sere appoggiata senza riserve dai vicini etruschi. Quando nel 386 il gallico Brenno con le sue truppe at­ taccò Roma, i romani spaventati trasferirono gli oggetti più sacri della città, i Sacra e i Libri sibillini, non in una località latina, bensì nell’etrusca Cerveteri. E poco dopo, quando le truppe vittoriose dei galli si spostarono da Roma di nuovo verso nord, i ceretani riuscirono a sottrar­ re ai galli il bottino e a restituirlo ai romani. A dimostrazione di quanto stretti e amichevoli fossero ancora nel IV secolo a.C. i rapporti tra le due città si può ricordare la notizia secondo la quale gli aristocratici roma­ ni preferivano mandare i loro figli a Cerveteri per lo stu­ dio della lingua greca (!). In considerazione di questi rap­ porti di buon vicinato non meraviglia che gli abitanti di Cerveteri siano stati i primi in Etruria a ricevere la civitas sine suffragio, nel 335 a.C., e con essa la condizione di «quasi» cittadini romani, che - a prescindere dal diritto di voto a Roma - li equiparava ai cives rom ani sotto l ’aspetto giuridico e sociale. Tuttavia questa onorificenza, di alto valore storico per gli studiosi, segnò allo stesso tempo un momento di svolta nelle vicende e nei rapporti tra questi due potenti centri confinanti: per la prima volta, infatti, si ruppe l’equilibrio e Roma prese il sopravvento. Solo poco tempo dopo i ceretani si sarebbero accorti in modo molto doloroso che d e fa cto la concessione dei diritti di cittadi­ nanza non era altro che un primo velato attentato alla li­ bertà della loro città. Un presunto complotto con Tarquinia ai danni di Roma servì come pretesto per sciogliere il gemellaggio tra le due città. Per scongiurare l’attacco militare incombente, Cerveteri si vide costretta a cedere a Roma una parte del proprio territorio, e dal 273 a.C., con la fondazione lungo la costa ceretana delle colonie di Fregenae, Alsium, Pyrgi 60

e Castrum Novum, il territorio dell’Etruria meridionale fu definitivamente assoggettato al controllo romano. Eviden­ temente i romani erano già proiettati verso il futuro: infatti a questo periodo, cioè al 264, risale l’inizio della prima guerra punica contro Cartagine, e il dominio su una parte consistente di costa tirrenica costituì un presupposto fon­ damentale per la felice conclusione del conflitto. Certo non tutte le città etrusche si arresero al proprio destino senza combattere. Tarquinia, la città situata a nord di Cerveteri, fu dalla fine del V secolo a.C. il centro più potente dell’Etruria. Già all’inizio del secolo successi­ vo essa dovette sostenere duri scontri con Roma e negli anni 394 e 388 si trovò costretta a cedere le fortezze di confine di Cortuosa e Contenebra, di cui non siamo anco­ ra in grado di localizzare la posizione nell’entroterra di Tarquinia. È interessante rilevare la corrispondenza cro­ nologica tra questi ultimi avvenimenti e la conquista di Veio nel 396: tale contiguità dimostra che la causa scate­ nante della guerra non dovette essere solo un atto provo­ catorio da parte dei veienti, ma fu soprattutto il progetto di espansione territoriale dello stato romano, motivo an­ che delle azioni militari contro le città del Lazio meridio­ nale nel IV secolo a.C. Dopo i duri scontri che ebbero luogo tra il 358 e il 351 a.C. e dopo ulteriori perdite per Tarquinia fu final­ mente stipulato un armistizio di quattro anni, che, a quan­ to sembra, venne scrupolosamente rispettato; nuove batta­ glie attestate solo dal 311 terminarono nel 281 con la defi­ nitiva sconfitta di Tarquinia e con la conseguente perdita di parte del proprio territorio. La condizione di Tarquinia divenne quindi simile a quella di Cerveteri: dipendenti da Roma nel campo della politica estera, i centri etruschi me­ ridionali continuarono ad avere un’autonomia comunale e culturale. All’espansione romana, quale è più volte testimoniata per il IV e l’inizio del III secolo a.C. nell’opera di Livio, non potè opporsi una reazione collettiva da parte degli etruschi perché mancarono i presupposti militari e, proba­ bilmente, anche economici. In effetti pare che anche nelle città-stato etrusche, analogamente a ciò che accadde a Roma nella lotta di potere tra patrizi e plebei, i disordini 61

interni abbiano turbato l’equilibrio economico. Così, se­ condo Livio, nel 264 a.C. le famiglie aristocratiche di Volsinii, che erano state spodestate da una rivolta degli schia­ vi, dovettero chiedere aiuti militari ai patrizi romani. Le conseguenze furono durissime e, soprattutto, inattese per coloro che avevano chiesto soccorso: la potente Volsinii, che già dal 280 a.C. circa era praticamente sotto il control­ lo romano, fu assediata e conquistata e l’intera popolazio­ ne di Orvieto venne trasferita con la forza sulle rive del lago di Bolsena, nel luogo in cui l’odierna città di Bolsena fiat. Volsinii n ovi ) conserva il ricordo dell’antico nome. Il tramonto di Veio e di Volsinii dimostra due cose: da una parte l’incapacità degli etruschi di cooperare nel cam­ po della politica estera, dall’altra l’errore che essi commi­ sero nel sottovalutare la politica di potere romana. A par­ tire dal II secolo a.C. troviamo nel senato romano membri dell’alto ceto etrusco. Ciò segna l’inizio di una graduale romanizzazione «dall’alto». Stando alla testimonianza delle iscrizioni funebri, la lingua latina inizialmente affiancò l’etrusco, per poi soppiantarlo definitivamente in funzione di lingua ufficiale all’inizio del I secolo a.C., in seguito alla concessione della cittadinanza romana, ufficializzata dalla lex lidia. Proprio con la lex lidia, infatti, il processo di romaniz­ zazione dell’Etruria ha un punto fisso, ma, ad un esame più approfondito, è evidente che tale processo si svolse nel corso di un secolo, con modalità differenti da luogo a luo­ go. Solo inizialmente, nel IV e all’inizio del III secolo a.C., sembra che tale processo abbia incontrato una tenace resi­ stenza. Nella sua fase finale, invece, cioè nel II secolo a.C. e nei primi decenni del I, Roma era già un centro politico e culturale di tale attrazione, che l’aristocrazia etrusca non ebbe alcun problema a considerarsi romana a tutti gli ef­ fetti, senza tuttavia rinnegare le proprie origini etrusche. Un esempio che ben chiarisce un simile processo di as­ similazione è fornito dalla figura di Gaio Mecenate, diplo­ matico e promotore delle arti e della letteratura sotto l’im­ peratore Augusto, che potremmo definire, con la termino­ logia di oggi, il primo ministro della cultura della storia. Discendente dall’alta nobiltà di Arezzo, centro dell’Etruria settentrionale, Mecenate fu uno dei più importanti pionie62

ri di quello che oggi consideriamo il contributo culturale specificamente romano. Nel programma augusteo, che Mecenate contribuì a elaborare, la lingua etrusca non ven­ ne accantonata, ma costituiva un elemento essenziale, come parte delle antiche tradizioni italiche. Sotto questo aspetto diventa allora secondario il problema se la soprav­ vivenza della parola m ecenate come sinonimo di promoto­ re delle arti sia da attribuirsi all’eredità etrusca o a quella romana. Lo stesso Mecenate, un po’ sorpreso e sicuramen­ te commosso, avrebbe probabilmente risposto: «Entrambe le ipotesi sono esatte. Io sono romano, ma cosa sarei senza il mio retroterra etrusco?».

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C A PIT O LO Q UIN TO

LA RELIGIONE

La «disciplina etnisca» Stando alle notizie degli autori romani, l’espressione disciplina etrusca indicava la tradizione religiosa degli etru­ schi, nella quale erano state messe per iscritto tutte le cose degne di essere conosciute. Posti sotto la severa custodia della classe sacerdotale locale che si componeva dei mem­ bri delle principali famiglie delle città-stato etrusche, tali scritti riguardavano principalmente la dottrina relativa ai fulmini (Libri fulgurales), sull’osservazione del fegato e dei visceri (Libri haruspicini ) e sui rituali (Libri rituales). La tradizione originale è perduta, così come l’intera letteratu­ ra religiosa degli etruschi, tuttavia gli scrittori latini del­ l’età tardo-repubblicana e imperiale, come Varrone, Festo, Cicerone, Seneca e Plinio, hanno tramandato, in maniera frammentaria, una tale messe di particolari su questo argo­ mento che lo studioso svedese Cari O. Thulin, all’inizio di questo secolo, ha potuto tentare di ricostruire una parte considerevole della disciplina etrusca. Questo lavoro è an­ cora oggi la base di ogni approccio alle fonti antiche ri­ guardanti la religione etrusca. Il senso intrinseco della disciplina etnisca era il rag­ giungimento del giusto rapporto con il volere degli dei, i quali, secondo la concezione etrusca, erano in continuo contatto con il mondo terreno, vale a dire sia con l’essenza dello stato nella sua totalità sia con il destino del singolo individuo. Riconoscere e interpretare questo volere divino - e se possibile anche influenzarlo - costituiva lo scopo primario della disciplina etrusca. I mezzi principali per ot­ tenere questi risultati erano quindi tanto l’osservazione e l’interpretazione dei visceri di determinati animali quanto l’interpretazione dei fulmini. Non è invece ancora possibi65

le capire in che misura l’auspicio, cioè la profezia attraver­ so l’osservazione del volo degli uccelli, praticato presso gli umbri e i romani, fosse diffusa anche presso gli etruschi o se addirittura quelle popolazioni l’avessero appresa dalla stessa Etruria. Mentre secondo i romani era consentito ri­ chiedere agli dei soltanto approvazione o rifiuto, in occa­ sione, ad esempio, di una guerra imminente o per la nomi­ na di funzionari dello stato, secondo gli etruschi era possi­ bile mettersi in comunicazione diretta con le potenze ul­ traterrene e in questo modo ottenere informazioni anche su avvenimenti futuri. Queste differenze strutturali sono di importanza fon­ damentale per comprendere la coscienza che di sé avevano rispettivamente gli etruschi e i romani. I primi si sentivano parte di un cosmo in cui mondo terreno e ultraterreno erano in continua comunicazione, cosmo che determinava e, in un certo senso, prestabiliva la vita di ogni essere e quella della collettività - sicché, per esempio, la durata della vita del popolo etrusco era prefissata allo stesso modo in cui lo era la vita del singolo uomo. Più distaccati dalle divinità si mostrano invece i romani, che ne avverto­ no l’influsso e ne tengono conto offrendo sacrifici, ma sono più concentrati sui bisogni della vita quotidiana. Il modo di vivere dei romani, più pragmatico e scarsa­ mente condizionato dalla religione, fu senza dubbio più realistico, soprattutto nella situazione di una res publica sempre più consolidata, e costituì una condizione essenzia­ le per la crescita della potenza di Roma nei secoli successi­ vi. Al contrario, anche considerando i monumenti funerari etruschi e la loro simbologia figurativa, si ha l’impressione che per gli etruschi la vita terrena fosse soltanto una tappa di passaggio, e che la vita nell’oltretomba continuasse con grande dovizia. La religione etrusca è una religione rivelata, come il cristianesimo o l’islamismo, ed è perciò in contrasto con le credenze greche e romane. A Tarquinia, che la tradizione etrusca considerava la città più antica, un contadino di nome Tarconte, durante i lavori di aratura, avrebbe fatto scaturire dal suolo un essere umano con il corpo di bam­ bino e la testa di vecchio. Questa creatura della terra, chiamata Tages, avrebbe trasmesso al lucumone etrusco 66

accorso sul posto delle rivelazioni religiose, che vennero annotate e servirono come base alla disciplina etnisca. Pro­ prio da Tarconte, fondatore della disciplina etrusca e suo primo sacerdote, la città avrebbe derivato il proprio nome. Il mito della fondazione di Tarquinia è probabilmente raf­ figurato su uno specchio etrusco rinvenuto a Tuscania (fig. 3). In presenza del fondatore della città (Tarchunes ) e di altri eroi e dei (tra cui Velthune) un sacerdote, raffigu­ rato al centro della scena, profetizza il futuro sulla base dell’osservazione di un fegato. Restano comunque a tutt’oggi frammentarie le notizie sulla religione, che, accanto alla lingua, è l’elemento più genuino della cultura etrusca. Le fonti di cui disponiamo talvolta divergono completamente e sono in parte anche contraddittorie. La base delle nostre conoscenze, costituita dalle testimonianze lasciate dagli scrittori romani, risale in massima parte al periodo in cui la cultura etrusca era or­ mai tramontata, e rimane ancora aperto il problema se i romani siano veramente riusciti a comprendere la religione degli etruschi, ad essi del tutto estranea e talvolta inacces­ sibile persino nel dettaglio. A questo proposito è indicati­ va l’osservazione ironica di Seneca (Naturales quaestiones n , 32, 1): Questa è la differenza che passa tra noi e gli etruschi, che hanno grande perizia nello spiegare esaurientemente il significato della folgore: noi crediamo che i fulmini si sprigionino perché le nubi vengono a collisione; essi invece pensano che le nubi venga­ no a collisione proprio per sprigionare i fulmini. Infatti, riferen­ do ogni cosa alla divinità nutrono questa credenza: che i presagi non dipendono dal fatto che i fulmini si sono verificati, ma che i fulmini si verificano perché destinati a presagire il futuro.

Altrettanto frammentarie sono anche le testimonianze scritte etrusche, come ad esempio alcuni testi rituali di dif­ ficile comprensione. Rinvenimenti casuali di iscrizioni etrusche di contenuto religioso, quali il feg a to di bronzo di Piacenza , oppure iscrizioni funerarie e votive ci permetto­ no di arricchire le nostre conoscenze in proposito, e ugualmente importanti sono i resti dei luoghi di culto (templi, altari), gli edifici funebri, le rappresentazioni di temi religiosi nella pittura funeraria e vascolare, e le opere 67

3. Disegno dello specchio di Tarconte da Tuscania, raffigurante il mito della fondazione di Tarquinia (III secolo a.C.). Diametro 12 cm.

delle arti minori, quali statuette di dei, di devoti o di sa­ cerdoti. Un ulteriore e più difficile problema nella definizione della religione etrusca è offerto dal suo carattere misto, in quanto la religione, così come altri aspetti della cultura etrusca, racchiude in sé vari elementi propri del mondo antico in generale. Già nelle fasi più remote, almeno a par­ tire dal VII secolo a.C., sono riconoscibili elementi orien­ tali, soprattutto greci, che sarebbero sopravvissuti anche in periodi recenziori. Si possono ricordare ad esempio gli in­ 68

flussi pitagorici, orfici o dionisiaci; questi ultimi furono talmente forti che Roma, nel II secolo a.C., dovette vietare i culti in onore di Dioniso.

Il pantheon etrusco Anche le divinità degli etruschi come quelle dei greci e dei romani vivevano in cielo (o negli inferi) e di là agivano sugli eventi terreni. Ma, al contrario dei greci e dei roma­ ni, gli etruschi avevano idee chiare e dettagliate riguardo ai luoghi in cui gli dei vivevano e ai modi che essi utilizza­ vano per far sentire il proprio influsso sulla terra. Il cielo, dunque, era assimilato ad un cerchio immaginario, diviso in quattro settori della stessa grandezza, orientati secondo i punti cardinali. Dei due assi ortogonali che dividevano il cerchio conosciamo solo le denominazioni romane cardo e decum anus , e sappiamo inoltre che tali assi, la cui origine è etrusca, costituivano anche la base delle fondazioni urbane romane. Come ancora riferisce Plinio, una delle nostre fonti più importanti, ognuno di questi quarti era ulterior­ mente suddiviso in quattro parti uguali. I complessivi 16 campi erano «abitati» da differenti divinità, le quali, da queste sedi divine, influivano sulla vita terrena. Questa «croce celeste» si riesce a ricostruire sostanzial­ mente grazie a due documenti: un modellino in bronzo di fegato di pecora, del periodo tardo-etrusco, sul cui margi­ ne sono incise 16 caselle con i nomi delle divinità, e le no­ tizie dello scrittore tardo-antico Marziano Capella, che ri­ porta in parte le stesse divinità, sebbene in forma latina e con lo spostamento di due campi. La figura 4 mostra la corrispondenza tra le due testimonianze. La lista completa dei nomi iscritti sul fegato di bronzo compare nella parte interna del cerchio, quella frammentaria di Marziano Ca­ pella nella parte esterna. L ’ordinamento degli dei in que­ sta croce celeste avveniva secondo uno schema ben preci­ so, in base al quale nel quadrante nord-orientale si trova­ vano le sedi abitative delle divinità celesti più importanti, nei due quarti meridionali venivano poi le sedi delle divi­ nità della natura e della terra, mentre nel quarto nord-oc­ cidentale erano insediate le divinità del mondo infero. Un 69

N

4. La croce celeste divisa in sedici settori, con le sedi abitative degli dei etruschi.

ruolo particolare spettava a Tinia, il più grande degli dei, che occupava tre settori posti a nord, due dei quali nelle regioni settentrionali del mondo sotterraneo, da dove sca­ gliava sulla terra i fulmini sterminatori (campi 15 e 16). Nella regione nord-orientale, considerata positiva per gli uomini, agiva Tinia/Zeus, il padre degli dei etrusco (cam­ po 1), e accanto a lui stavano la sua consorte Uni /Hera (campo 2) e la loro figlia Menerva/Tecum (campo 3). Neth[uns], il dio del mare (campo 5) era a capo degli dei della natura e della terra, seguito da Ca[v]th[a] (6), una di­ vinità solare, e da Fufluns, il dio del vino (7). Alla fine di questo gruppo di dei residenti nella metà meridionale del cielo sono insediati Cel (11) e Cul[sans?] (12), le divinità della terra, e da questa posizione Culsans, in qualità di cu­ 70

stode della porta (etr. cu i = «porta»), sorvegliava l’accesso al mondo sotterraneo, che ha inizio con il campo 13. Occorre tuttavia precisare che la croce celeste, così come compare nel tentativo di ricostruzione riportato alla figura 4, lascia tuttora aperti diversi problemi; tra questi, ad esempio, l’effettivo orientamento verso nord o l’identifi­ cazione di alcune divinità in essa nominate, quali Lvsl (campo 4) e Tluscv (campo 10); colpisce invece che vi manchino divinità centrali come il dio principale dell’oltre­ tomba Aita (gr. Hades), come Apulu (gr. Apollon), domi­ nante nel culto dell’arte figurativa, o come Turan (gr. Aphrodite). Questa particolare disposizione dei 16 campi celesti, dai quali gli dei influivano sulla terra, non si limitava, se­ condo l’idea etrusca, alla sfera celeste, ma comprendeva anche il microcosmo, cioè si rifletteva, nell’ambito terreno, sulla struttura degli insediamenti abitativi, degli edifici fu­ nerari, dei templi e di altri luoghi consacrati. Effettivamen­ te le ricerche archeologiche hanno confermato l’importan­ za fondamentale già attribuita a questo orientamento co­ smico dalle fonti letterarie. Un esempio è fornito dal reti­ colo stradale della città etrusca di Marzabotto, orientato secondo i quattro punti cardinali; sotto uno degli incroci stradali centrali si trovava anche un segnacolo di pietra (cippus ), sul quale era incisa una croce i cui assi presenta­ vano il medesimo orientamento delle strade. La stessa croce con assi orientati verso nord sta alla base delle prime tombe etrusche a tumulo. Gli edifici fu­ nebri pili antichi, soprattutto a Cerveteri, sono rivolti ver­ so nord-ovest, e sono quindi correlati con le regioni occu­ pate dall’oltretomba etrusco (fig. 5); infine, gli stessi anti­ chi tumuli ceretani sono accessibili, tramite rampe, pro­ prio da nord, vale a dire che il predominante allineamento nord-sud è già attestato nei grandi complessi funerari del VII secolo a.C. Gli dei etruschi avevano propri nomi, anche se si tratta per lo più di sinonimi di quelli greci e, in parte, anche di quelli latino-romani. Lo dimostra il seguente confronto fra alcuni dei più importanti nomi divini, in cui compaiono le denominazioni etrusche nella loro forma più tarda, dalla metà del V secolo a.C. in poi. 71

Etrusco

G reco

L atino-rom ano

Tinia Uni Menrva Aplu Artumes Turan Nethuns Laran Sethlans Fufluns

Zeus Hera Athena Apollon Artemis Aphrodite Poseidon Ares Hephaistos Dionysos

Jupiter Juno Minerva Apollo Diana Venus Neptun Mars Vulcanus Bacchus

La parziale concordanza tra i nomi divini è dovuta al fatto che fin dai tempi più antichi, cioè nell’VIII e nel VII secolo a.C., la cultura greca, quella latina e quella etrusca furono in stretto rapporto l’una con l’altra e che soprattutto i miti greci furono assimilati dalle popolazioni italiche. Di conseguenza gli etruschi identificarono le pro­ prie preesistenti divinità con quelle greche che avevano funzioni analoghe. Nel far questo, o conservarono i nomi autoctoni, come nel caso dei progenitori divini Tinia e Uni, oppure adottarono e mantennero le denominazioni greche, come nel caso di Apollon-Aplu o di Artemis-Artumes. Un simile intreccio di nomi si realizza anche per le divinità latine. A questo proposito si deve tuttavia te­ nere presente che gli dei etruschi, nella maggior parte dei casi, erano investiti di molte diverse funzioni, mentre le divinità greche o romane omonime ne assolvevano solo alcune. Per quanto riguarda le testimonianze relative agli dei etruschi, oggi disponiamo, oltre che di numerosissime fon­ ti letterarie ed epigrafiche - tra le quali soprattutto iscri­ zioni di dedica o testi riguardanti i sacrifici - di una gran­ de quantità di immagini pittoriche funerarie e vascolari e di opere figurative scultoree, per lo più statuette votive, mentre mancano quasi del tutto le statue di culto dei tem­ pli. Problemi interpretativi pongono soprattutto le rappre­ sentazioni mitologiche sui vasi e sugli specchi. Esse ripro­ ducono per lo più motivi mitologici greci, ma i nomi divi­ ni compaiono sempre in etrusco, cosicché si ricava l’im­ pressione che gli dei etruschi e quelli greci fossero assolu72

tamente identici, cosa abbastanza vera nell’ambito mitolo­ gico, ma non necessariamente in quello delle pratiche cul­ tuali. Tra le rappresentazioni di miti ve ne sono inoltre non poche che si distaccano dalla versione greca di origi­ ne, ad esempio per il fatto che in esse vengono inseriti personaggi altrove del tutto sconosciuti. In mancanza di una tradizione letteraria originale etrusca possiamo solo ipotizzare che in tali casi si tratti di versioni mitologiche propriamente etrusche, delle quali tuttavia non possiamo comprendere esattamente il contenuto. Qui di seguito sono brevemente presentate e caratte­ rizzate alcune divinità etrusche. - Aita è in Etruria il signore dell’oltretomba, come il greco Hades; a partire dal IV-III secolo a.C. appare, nelle pitture parietali, barbato e con un copricapo costituito da una testa di lupo, seduto in trono con la moglie Phersipnai (gr. Persephone). - Aplu o Apulu, il greco Apollon, è testimoniato da iscrizioni e da raffigurazioni statuarie e mitologiche già dal VI secolo a.C. Il culto di Apollo delfico ebbe grande im­ portanza anche in Etruria, come dimostra tra l’altro il già citato tesoro dei ceretani, costruito proprio nel santuario di Delfi. - Cavtha è una divinità solare, spesso nominata nelle iscrizioni e compagna del vero dio del sole Usil. - Culsans è un giovane dio bifronte. Come il romano Ianus, era soprattutto il custode delle porte (etr. cu i = «porta») e perciò anche dell’ingresso all’oltretomba. - Fufluns, il dio del vino, è rappresentato nel periodo arcaico vecchio e barbato; più tardi, ad esempio sugli specchi, giovane e glabro. - Hercle, che grazie alle proprie imprese eroiche si guadagnò l’ingresso nel mondo divino, corrisponde in par­ te al greco Herakles, ma racchiude in sé anche altre fun­ zioni particolari quale quella di dispensatore dell’acqua potabile e di dio salvifico. - Laran, il giovane dio della guerra, è sempre rappre­ sentato, come il greco Ares e il romano Mars, con l’arma­ mento completo (cfr. il M arte di Todi). La sua amata è Turan-Aphrodite, come nella mitologia greca. - Maris, inizialmente identificato in modo erroneo 73

Cronologia delle tombe:

1 VII see. a.C. VI see. a.C. |

i line VI e V see. a.C

j

| IV - Il see. a.C.

5. Cerveteri, porzione della pianta della necropoli della Banditaccia, con tombe databili tra il VII e il II secolo a.C.; n. 11: Tomba della capanna; n. 400: Tom­ ba dei rilievi.

t 00

150m

con il romano Mars, è una divinità dall’aspetto giovanile, relativa alla sfera dell’amore e della fecondità. - Menerva era, come Athena o Minerva, la più impor­ tante divinità celeste dopo i suoi genitori Tinia-Zeus e Uni-Hera, ma veniva venerata anche come divinità ctonia con possibili funzioni oracolari. - Nethuns, originariamente un dio italico delle sor­ genti e dell’acqua (dall’umbro nept = «um idità»), è, du­ rante la fase storica, del tutto simile al dio greco del mare Poseidon. - Northia è una dea del destino, con un culto partico­ lare a Volsinii. Nella parete del tempio veniva piantato an­ nualmente un chiodo, un’usanza che serviva per il calcolo del tempo ma che aveva anche una funzione magica. - Selvans, paragonabile all’omonimo dio romano Silvanus, era una divinità della natura e aveva probabilmente il compito di proteggere i confini, sia nell’ambito privato che in quello pubblico. - Sethlans è il dio protettore degli artigiani e degli ar­ tisti, paragonabile al greco Hephaistos. - Thesan, la dea dell’aurora, solitamente alata, analoga alla greca Eos, è per lo più connessa con Usil-Helios nel­ l’arte figurativa ed è strettamente legata a Uni-Hera nel campo cultuale (ad es. a Pyrgi). - Tinia, il dio di massimo rango, è il potente lanciato­ re di fulmini. A differenza di Zeus e di Jupiter egli rac­ chiudeva in sé anche alcuni aspetti ctoni. Tinia era raffigu­ rato per lo più barbato e, nelle scene mitologiche del pe­ riodo più tardo, anche di aspetto giovanile. - Turan (derivato dall’etrusco tur = «dare»), la dea dell’amore, della bellezza e della fertilità già testimoniata nel VII secolo a.C., è naturalmente raffigurata in prevalen­ za nell’ambito femminile, quindi sulle decorazioni degli specchi, ma è nota anche come divinità di culto, ad esem­ pio nel santuario portuale di Gravisca presso Tarquinia. - Turms si identifica pienamente con il messaggero degli dei greco Hermes, con la funzione anche di messag­ gero di morte per il dio dell’oltretomba Aita. - Uni incarna numerosi aspetti indigeni, accanto alle caratteristiche della greca Hera, sposa di Zeus. Unica fra le dee, dispone di un proprio tipo di fulmine. Era patrona 76

degli insediamenti abitativi e delle famiglie, soprattutto delle donne e delle madri. - Usil, il dio etrusco del sole, è rappresentato a partire dal 500 a.C. nelle figurazioni artistiche come un giovane uomo alato, con grandi raggi solari, che, nelle rappresenta­ zioni più tarde, assumono spesso la forma di un nimbo o di una sorta di disco posto dietro la sua testa. - Velthune, il cui culto nel 264 a.C. fu trasferito a Roma, era la divinità principale del santuario federale del Fanum Voltumnae, presso Orvieto (fig. 3).

La com unicazione con le divinità Il più importante degli dei etruschi, Tinia, era in pri­ mo luogo un «lanciatore di fulmini», come il greco Zeus e il romano Jupiter. I suoi fulmini costituivano il più eviden­ te e il più efficace di tutti i segni divini: attraverso di essi poteva essere deciso il destino di un intero popolo come quello di un singolo; se giustamente interpretati, la prove­ nienza, la direzione e il luogo di impatto, l’intensità e, so­ prattutto, il colore del fulmine potevano fornire agli uomi­ ni indicazioni sulla loro vita. Esistevano pertanto dettaglia­ te prescrizioni per il riconoscimento di simili segni ma an­ che per i riti d’espiazione. Diversamente da ciò che pensavano greci e romani, gli etruschi erano convinti che anche altri dei potessero lan­ ciare fulmini. Secondo Plinio (Naturalis historia II, 138), vi erano nove dei che disponevano di undici fulmini (m anubiae), tre dei quali erano però gestiti da Tinia: uno distrut­ tivo, uno meno favorevole e uno favorevole, scagliati di volta in volta da differenti regioni del cielo. Una delle fonti più importanti per la comprensione della religione etrusca è il feg a to di bronzo di Piacenza , rin­ venuto casualmente, nel 1877, in un campo nei pressi del­ la città emiliana. Questa riproduzione di un fegato di pe­ cora, della lunghezza di 13 cm, era evidentemente un mo­ dello per l’insegnamento dell’aruspicina ai sacerdoti etru­ schi. Del suo valore unico per la ricostruzione della suddi­ visione del cielo in sedici sedi divine si è già detto in pre­ cedenza. 77

Tutta la superficie del fegato bronzeo, e non solo il suo margine esterno, è però suddivisa in settori che recano incisi i nomi delle divinità. In questo modo l’intero fegato è immaginato come «abitato» da esseri divini. Attraverso le irregolarità del fegato di una pecora appena sacrificata si manifestava il volere di un dio e il sacerdote (haruspex) poteva riconoscere e interpretare il significato del messag­ gio divino. L ’analisi del fegato è evidentemente la parte principale e più specifica dell’arte divinatoria etrusca, che anche i romani apprezzavano. Gli aruspici etruschi veniva­ no ancora consultati in età imperiale in occasione di im­ portanti sacrifici di stato. Pur se nota anche presso altri popoli dellTtalia e prati­ cata nell’antica Grecia, l’analisi del fegato non fu certo mai esercitata nell’antichità classica con la perfezione raggiunta in Etruria. Soltanto nelle culture dell’antico Oriente, in particolare presso i caldei (babilonesi) in Mesopotamia, si riscontra un’antichissima tradizione con tecniche molto evolute, ed è perciò molto probabile che anche in questo campo, come in altri ambiti della loro vita culturale, le co­ noscenze essenziali fossero state trasmesse agli etruschi dalle popolazioni orientali, tanto più che l ’influsso di ap­ porti caldei in Italia è attestato anche in altri contesti. In una cultura come quella etrusca, in cui l’azione de­ gli dei era recepita come onnipresente e decisiva per il de­ stino di ogni cosa, era naturale che alla cura dei rapporti con gli dei fosse dedicato il massimo zelo. Davano testi­ monianza di ciò già i loro contemporanei quando definiva­ no gli etruschi come particolarmente religiosi ovvero parti­ colarmente attenti alle pratiche cultuali. La validità di que­ sta tradizione viene ulteriormente rafforzata dalla constata­ zione che negli scritti sacri della disciplina etrusca era riser­ vato uno spazio molto ampio ai rapporti cultuali con gli dei, anche sotto forma di prescrizioni concrete. I rinveni­ menti archeologici ci permettono di avallare questa tradi­ zione solo con riserva. Per aspetto e grandezza, infatti, i santuari non sono sostanzialmente differenti da quelli del mondo greco, e lo stesso vale per le statue di culto e per le raffigurazioni degli dei, che sono ampiamente analoghe a quelle greche. Pare tuttavia che la natura allo stato puro - i boschi, i 78

fiumi, i laghi - abbiano avuto proprio in Etruria un ruolo particolare nel campo cultuale, senza che ciò si sia tradot­ to nella costruzione di edifici sontuosi e nella scoperta, da parte nostra, dei resti di questi monumenti. Come sempre accade, l’immenso numero di offerte votive dimostra la grande devozione del popolo. Si annoverano tra queste immagini divine in bronzo e in terracotta, rappresentazio­ ni dei devoti in posizione di oranti, infine riproduzioni di parti del corpo di cui si invocava la guarigione. A questa prassi dei culti di guarigione si addiceva tra l’altro la geomorfologia dell’Etruria meridionale, la presenza di laghi e di sorgenti minerali o sulfuree, il cui potere salutare era noto e dipendeva secondo gli etruschi dalla benevolenza degli dei - così come l’intera vita sulla terra. Un tipico esempio di luogo di culto all’aperto si trova sul monte Falterona, nell’Etruria settentrionale, nella zona delle sorgenti dell’Arno. All’inospitale altezza di 1.400 metri si trovava un lago, oggi prosciugato, dal quale nel 1838 furono inizialmente recuperati per caso alcuni og­ getti, tra i quali una statuetta in bronzo di Eracle. Nelle settimane successive, dopo ricerche sistematiche, vennero alla luce circa 500 statuette di bronzo, e in totale, più o meno 2.000 oggetti, tra cui figurine di animali domestici, punte di freccia, monete e armi, insomma un vero e pro­ prio deposito di offerte votive in un contesto del tutto naturale.

La m orte e l’aldilà All’insieme delle precise concezioni sull’ordinamento dello spazio celeste e di quello terreno che erano trasmes­ se per iscritto nella disciplina etn isca , apparteneva anche la dottrina dei saecula e della limitatezza della vita umana. Così come l’essere umano vive diverse fasi d’età e finisce con la morte, anche l’esistenza di un’intera nazione ha una durata prestabilita e comprende, allo stesso modo, i perio­ di della crescita, della maturità e della decadenza. Nel caso degli etruschi erano previsti otto secoli (saecula ) o, se­ condo altre testimonianze, dieci. Il secolo etrusco non abbracciava, come in seguito a 79

Roma, cento anni, ma, stando alla dottrina etrusca, era compreso tra la fine del saeculum precedente e il momento in cui moriva l’ultimo di coloro che erano in vita all’inizio del saeculum stesso. Poiché la sua durata non era quantifi­ cabile attraverso semplici conteggi, la fine di un saeculum poteva essere determinata solo attraverso segni divini, come ad esempio i fulmini. Secondo Varrone i primi quat­ tro saecula durarono ciascuno 100 anni, il quinto 123, il se­ sto e il settimo 119, l’ottavo era in corso al momento della redazione del testo; dovevano poi ancora passare un nono e un decimo saeculum , e, dopo il loro compimento, sareb­ be arrivata anche la fine del «nome» etrusco. Lo schematismo di un simile sistema è evidente, so­ prattutto per i primi quattro saecula , risalenti chiaramente ad un tempo in cui non esisteva ancora l’uso di annotare gli avvenimenti in forma scritta. E comunque degno di nota che le date fissate da questa dottrina dei saecula per l’inizio e la fine del popolo etrusco (rispettivamente, intor­ no al 1000 a.C. e all’inizio del I secolo a.C.) si avvicinino moltissimo a quelle reali, se consideriamo otto saecula e non dieci. E tuttavia, quale libertà poteva rimanere al singolo uomo, se le tappe essenziali della sua vita e, soprattutto, la durata della sua esistenza erano prestabilite? La discipli­ na etrusca conferiva in primo luogo ai sacerdoti, i soli ca­ paci di analizzare e di trasmettere questo sapere, una con­ siderevole pienezza di poteri; è comprensibile perciò che nei tempi antichi il potere temporale e quello religioso fossero riuniti nelle mani del re (lucumone). Fino a tarda epoca il sacerdozio rimase però privilegio di alcune fami­ glie aristocratiche, che tramandavano il loro sapere di pa­ dre in figlio. Il destino del singolo non era tuttavia completamente prefissato o del tutto immutabile: la morte di una persona poteva essere rinviata per un massimo di dieci anni, la fine del popolo etrusco non oltre i trenta. Nel primo caso la proroga veniva approvata da Tinia, nel secondo interveni­ vano invece le Moire, che avevano potere anche sugli dei e il cui nome gli etruschi non potevano pronunciare. A proposito delle pratiche di sacrificio e di culto ne­ cessarie per predire il futuro, non sappiamo nulla di detta80

gliato. Esse erano però raccolte nei Libri fatales, che erano parte dei libri rituali. Gli stessi libri del destino conteneva­ no anche le nozioni grazie alle quali le anime umane, me­ diante il sacrificio di determinati animali a determinati dei, potevano ottenere l’immortalità. Il fatto che questi libri ve­ nivano detti anche Libri acheruntici ci fa supporre che in tali insegnamenti fossero confluiti, già in età antica, ele­ menti delle idee orfico-pitagoriche proprie della religione greca. A questo proposito pare che in Etruria la divinizza­ zione delle anime avvenisse non tanto in virtù di sacrifici compiuti durante la vita della persona, quanto piuttosto mediante sacrifici di risarcimento posteriori alla sua morte (hostiae animates, sacra resolutoria). Accanto agli dei etruschi, che ci dobbiamo immaginare assolutamente simili a quelli del pantheon greco e romano, esisteva una serie di esseri ultraterreni, che noi ben cono­ sciamo e che gli studiosi indicano senza eccezioni come demoni. Possono essere uomini vecchi e logori, oppure es­ seri misti antropomorfi, talvolta con becchi da uccello o teste animali. Vi sono inoltre giovani donne alate, indicate col nome di Vanth, che indossano larghe vesti bianche e svolgono, come i demoni maschili, la funzione di messag­ geri di morte, di accompagnatori dei defunti o anche di guardiani della tomba. Nell’ambito dell’ideologia religiosa rivestono particolare significato quegli esseri femminili ala­ ti che stringono in mano un rotolo scrittorio o che scrivo­ no su una tavoletta pieghevole: in questo caso abbiamo a che fare con le res gestae del defunto, con l’elencazione delle azioni compiute durante la vita e, di conseguenza, anche con la sua valutazione nell’aldilà. Non è ancora ben chiaro se si trattasse di una sorta di cursus honorum , come sembra risultare dai rotoli scrittori mostrati dai defunti e dai loro antenati nelle tombe di Tarquinia e di Orvieto, oppure se attraverso di esse avesse addirittura luogo un esame delle azioni buone e cattive compiute dal morto, vale a dire una specie di giudizio cui il defunto veniva sot­ toposto. Il gruppo rappresentato più frequentemente è quello dei Charun, vestiti con corti grembiuli sostenuti da bretelle incrociate e alti stivali. Il volto trasandato e barbato è ca­ ratterizzato per lo più da un naso adunco, il colore della 81

pelle è verdastro. Nella destra il Charun agita un poderoso martello. Interpretato inizialmente come strumento di tor­ tura, esso è oggi considerato dagli studiosi un simbolo del­ l’ineluttabilità del destino. È recente anche l’ipotesi secon­ do la quale questo martello serviva ad aprire la porta del­ l’oltretomba. Ma allora perché, come nella Tomba d ei Caronti di Tarquinia, appaiono raffigurati contemporanea­ mente più Charun che brandiscono un martello? Alcuni anni fa fu scoperta a Tarquinia la Tomba d ei T em on i , costruita e decorata interamente all’inizio del IV secolo a.C. Vi compaiono, accanto ad una scena di com­ miato e alla raffigurazione del defunto trasportato su una biga, diversi demoni e un battello, il cui nocchiero è pur­ troppo solo vagamente riconoscibile. Grazie a questa inu­ suale rappresentazione si è finalmente colmata una lacuna già da diverso tempo nota alla ricerca etruscologica: si è infatti capito che non solo il nome Charun era stato de­ dotto da Charon, il nocchiero greco dell’oltretomba, ma anche che in Etruria era nota l’idea greca del viaggio verso l’aldilà, compiuto attraverso il fiume infero con l’aiuto di una barca. Nelle tombe etrusche del periodo tardo si trova una grande quantità di esseri demoniaci, che anelano all’anima del defunto, e tra di essi anche quei Charun che accom­ pagnano il corteo funebre in presenza dei vivi. Ciò può si­ gnificare soltanto che i demoni partecipavano direttamen­ te aH’awenimento, come esseri spirituali, invisibili per i vivi ma concreti. Se tale ipotesi è valida, allora è più che probabile che i vivi si sentissero circondati e protetti da questi esseri spirituali, e avremmo perciò a che fare con una concezione paragonabile a quella degli angeli custodi cristiani. La particolare cura che gli etruschi riservavano ai de­ funti è connessa all’idea che questi, dopo la loro dipartita, non abbandonassero facilmente il mondo terreno, ma ri­ manessero legati ai superstiti. Ci si preoccupava perciò che al morto non mancasse nulla nell’aldilà. Per questo motivo il culto per i morti era particolarmente dispendioso; su di esso non è tramandato nulla nella letteratura, ad esempio nei già citati Libri rituales, ma possiamo capire molte cose dagli edifici e dai corredi funerari, oltre che, in parte, dalle 82

pitture parietali e dalle iscrizioni funebri. In conseguenza di ciò la tomba etrusca non era solo un luogo di sepoltura, bensì, nello stesso tempo, anche un altare monumentale, nel caso in cui l’edificio funebre fosse accessibile e sulla sua sommità potessero avere luogo atti sacrificali in onore del defunto. Ulteriori luoghi di culto si trovavano anche all’interno delle stesse strutture funerarie, a volte nel corri­ doio di ingresso (drom os ), a volte all’interno della camera di deposizione, dove non venivano stipati soltanto gli og­ getti di corredo, ma di tanto in tanto si trovavano anche altari attrezzati per le libagioni. La cura che gli etruschi mettono nella rappresentazio­ ne dell’immagine del defunto è molto maggiore rispetto a quella che si riscontra in Grecia o a Roma. Tale uso ha inizio addirittura nelle fasi più antiche, con gli ossuari vil­ lanoviani antropomorfi e i loro immediati successori, i ca­ nopi dell’area chiusina. Ad esso si ricollegano anche le fi­ gure scultoree sedute, le statue o le stele funerarie del VII e del VI secolo a.C., così come, più tardi, le riproduzioni plastiche dei defunti sui coperchi dei sarcofagi e delle urne (figg. 8 e 9) e, infine, le raffigurazioni delle pitture parietali di Tarquinia e di Orvieto, corredate anche di ric­ che iscrizioni sulle gesta in vita del defunto. L ’antichissima usanza locale di cogliere le sembianze dei morti contribuisce a differenziare sostanzialmente il culto dei defunti degli etruschi dalle pratiche in uso in Grecia e a Roma, mentre è avvicinabile alle tradizioni che conosciamo per l’Egitto e la Fenicia: le mummie e i sarco­ fagi antropomorfi di quelle zone non sono semplici imma­ gini dei defunti (come i ritratti degli antenati per i roma­ ni) ma sono i defunti stessi. La loro presenza fisica, quin­ di, era maggiormente sentita in quelle zone che nelle cul­ ture dell’antico mondo classico, e forse è questo uno dei motivi per i quali proprio in Egitto e in Etruria veniva at­ tribuito alla cura dei defunti un ruolo tanto centrale. D’al­ tro canto si può anche osservare che il costoso culto dei morti etrusco non solo garantiva al defunto una condizio­ ne felice nell’aldilà, ma che in parte teneva anche conto di un comprensibile diritto acquisito durante la vita terrena: quello dell’autocelebrazione del singolo e della sua gen s di appartenenza. Non sappiamo infatti con sicurezza se gli 83

etruschi credessero che la grandezza delle costruzioni fu­ nebri e il loro sontuoso arredamento potessero influire, come specchio del potere terreno, anche sulla condizione del defunto nell’aldilà, come è attestato per altre religioni, ad esempio per quella egiziana. Ciò, tuttavia, è molto pro­ babile.

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C A PIT O LO SESTO

L ’ARTE

La produzione artistica degli etruschi, come per molti altri settori della loro cultura, è fortemente influenzata dal­ la dominante arte greca, evidentemente recepita come esemplare. Questo vale per quasi tutti i più importanti ge­ neri artistici, come ad esempio l’architettura templare, la scultura, lo stile della pittura parietale, la forma e la deco­ razione della ceramica e infine anche per le opere d’arte minori e l’artigianato artistico. Ad una osservazione più minuziosa si scopre tuttavia che esistono diverse eccezioni a questa regola generale. Sono proprio queste differenze a determinare il fascino della civiltà etrusca, soprattutto se si riesce non solo a riconoscere tali differenze, ma anche a interpretarle e di conseguenza a comprendere la tipicità dell’arte etrusca. Lo sviluppo artistico in Etruria ha uno svolgimento parallelo a quello greco. Al periodo geometrico in Grecia (IX-VIII secolo a.C.) corrisponde la cultura villanoviana. L ’arcaismo, la vera fase di fioritura dell’Etruria (dal VII fino all’inizio del V secolo a.C.), fu inizialmente caratteriz­ zato dal dominante influsso delle culture antico-orientali sulla produzione artistica locale («fase orientalizzante»), mentre dal VI secolo a.C. in poi l’arte greca diviene mo­ dello di quella etrusca. Il classicismo (V-IV secolo a.C.), nella sua prima fase, ha soltanto limitati effetti sull’arte etrusca («arte subarcaica»), tanto che gli studiosi per que­ sta fase parlano di «periodo di passaggio». Nell’epoca suc­ cessiva, l’ultima dell’arte etrusca, l’ellenismo giunse in Etruria alla piena fioritura (Ili-inizio I secolo a.C.); furono i greci dell’Italia meridionale ad esercitare un’influenza de­ terminante sulla produzione artistica locale. Prima di prendere brevemente in esame le singole pro­ duzioni artistiche, è necessario sottolineare come gli etru85

schi siano stati gli unici tra i numerosi popoli italici a esprimere particolari capacità artistiche. La ricezione di motivi esterni e la loro conseguente rielaborazione in un linguaggio locale presupponeva infatti un grande talento artistico, al punto di poter affermare che in questo campo gli etruschi sono stati superati solo dai greci.

L'architettura: im pianti urbani ed edifici Le città etrusche avevano impianti sacri, dedicati agli dei e affidati alla loro protezione; di conseguenza esisteva­ no rigorose prescrizioni riguardanti i riti di fondazione e la costruzione degli insediamenti. Se a questo proposito di­ sponiamo di informazioni abbastanza dettagliate, è grazie al fatto che la stessa città di Roma sarebbe stata fondata etrusco ritu, cioè secondo il rituale etrusco. Vi erano preci­ se prescrizioni che riguardavano anche la struttura interna delle città, prescrizioni più tardi parzialmente adottate dai romani: le strade principali si dovevano intersecare per­ pendicolarmente e dovevano essere orientate secondo i punti cardinali, con il cardo allineato in senso nord-sud e il decum anus in senso est-ovest. Altre fonti riferiscono che ogni città etrusca doveva avere almeno tre porte e un tem­ pio, tutti consacrati a Tinia, Uni e Menerva. Nella realtà l’applicazione di queste norme è per ora scarsamente documentata, in mancanza di scavi appropria­ ti. Pare tuttavia che un sistema stradale ortogonale si sia affermato solo nel corso del VI secolo a.C. Nella già citata colonia di Marzabotto, fondata verso il 500 a.C., è stato portato alla luce un simile reticolato stradale, composto da strade ortogonali e orientato verso nord. Inoltre sotto ad uno degli incroci stradali è stato scoperto un segnacolo di pietra su cui era incisa una croce, i cui assi presentano lo stesso orientamento del cardo e del decum anus. Mentre l’indagine archeologica degli insediamenti abi­ tativi è ancora all’inizio - sono note tutt’al più alcune cinte murarie e alcune porte urbiche - le tombe e le necropoli sono state al centro dell’interesse fin dal Rinascimento. Spinti dal particolare culto dei morti e favoriti anche dalle vene di tufo, tenero e facile da lavorare, presente nell’area 86

meridionale e centrale dell’Etruria, gli etruschi, abbando­ nate le semplici tombe a pozzo e a fossa del periodo villa­ noviano, cominciarono già nel VII secolo a.C. a costruire sontuose camere funerarie coperte da collinette di terra emisferiche, i cosiddetti tumuli. In questa fase è chiara la forte differenziazione sociale tra gli inumati: più alto era il rango, maggiore era l’edificio funebre e più dispendiosa l’elaborazione architettonica della camera funeraria. Ciò vale soprattutto per gli am­ bienti funebri di Cerveteri, interamente scavati nel tufo, che possono addirittura essere considerati lo specchio del­ l’architettura domestica di quell’epoca, di cui rimangono solo testimonianze frammentarie. Da queste tombe possia­ mo dedurre che nel VII secolo a.C. era predominante un tipo di casa lunga con tetto a padiglione e colonne libere all’interno, che fungevano da sostegno ad una elaborata struttura tufacea di copertura. Nel VI secolo le «case funerarie» erano costituite da più camere: si tratta spesso di un tipo di tomba composta da uno spazioso atrio di ingresso e da tre camere posterio­ ri, tra le quali quella mediana è di solito leggermente più grande delle altre (il cosiddetto tipo a tre celle). Due sedie a grandezza naturale ricavate nella parete di tufo dell’atrio, come nella Tomba d egli scudi e d elle sed ie (fig. 6), simbo­ leggiano il fondatore della tomba e sua moglie, entrambi sepolti nella stanza centrale. Scudi e cornicioni nell’atrio, talvolta anche colonne con capitelli artisticamente decorati e soffitti piani intarsiati con motivi a scacchiera documen­ tano il protrarsi dell’usanza di allestire l’interno delle tom­ be ad imitazione della casa etrusca contemporanea, come dimostrano anche i muri di fondazione delle strutture rin­ venute ad Acquarossa. Intorno alla metà del VI secolo a.C. si può constatare nelle tombe ceretane un’innovazione, che avrebbe avuto un’importanza fondamentale nella storia dell’architettura dell’Italia antica: la camera centrale delle tre posteriori si fonde con la stanza trasversale anteriore a formare un uni­ co ambiente, che in proiezione orizzontale, assume la for­ ma di una T (rovesciata), con il conseguente raggrupparsi delle singole stanze di sepoltura. Perciò già nel periodo ar­ caico viene impostata quella disposizione delle camere 87

che, in forma più sviluppata, sarà ripetuta all’interno delle tombe etrusche gentilizie durante i secoli successivi. Mo­ dello di simili sfarzose strutture tombali è di nuovo l’archi­ tettura domestica contemporanea, questa volta nella forma della casa a cortile o ad atrio, il cui sviluppo, fino almeno alla fine del VI secolo a.C., si può ora seguire grazie a re­ centi ricerche anche a Roma. Il carattere più importante della casa ad atrio è la sua organizzazione pianimetrica se­ condo una simmetria assiale, con una disposizione stereo­ tipata delle singole camere intorno ad una stanza interna più grande, l’atrio, che può essere a cielo aperto oppure coperto. Accanto all’abitazione comune, il cui sviluppo dalla casa lunga con tetto a padiglione, attraverso la casa larga coperta da tegole fino alla casa con cortile o ad atrio si può per ora ricostruire solo a grandi linee, è attestato in Etruria un ulteriore tipo di residenza, indicato come pa­ lazzo o come regia (sede centrale del re). Di esso si distin­ guono due varianti: costruzioni monumentali di forma quadrata con lati lunghi fino a 60 m (Murlo, Cerveteri) ed edifici più piccoli composti da una o due ali (Regia di Roma, Acquarossa). Gli elementi architettonici comuni a tutte queste strut­ ture sono il legame spaziale tra un’area cortilizia e un por­ tico colonnato che lo recinge e la divisione in tre celle del­ l’edificio centrale, il cui tetto è rivestito da preziose deco­ razioni fittili. Mentre, per quanto riguarda Roma, siamo si­ curi, grazie alle antiche fonti scritte, dell’utilizzo della pri­ ma regia come sede amministrativa del re o meglio del re­ sacerdote e come dimora di diversi culti, per le restanti costruzioni le uniche informazioni di cui disponiamo ci derivano dai rinvenimenti archeologici. E perciò probabile che anche questi altri edifici fossero sfruttati in più modi: come santuari, come centri politici di un insediamento o anche come palazzi autosufficienti dal punto di vista am­ ministrativo e dotati di proprie officine artigianali. La predilezione per la planimetria a tre camere giu­ stapposte, spesso attestata nell’architettura funeraria e do­ mestica del VI secolo a.C., caratterizza anche le costruzio­ ni templari etrusche, sebbene tra di esse si possano rico­ noscere, sulla base dei resti delle fondamenta, numerosi al88

tri modelli formali, per lo più di derivazione greca. Ancora nella Roma della prima età imperiale era possibile trovare templi a tre celle del tipo «tuscanico», come testimoniano accanto ai reperti archeologici, anche le notizie letterarie (Vitruvio). Il tempio etrusco era molto simile per funzione e aspetto esteriore al tempio greco, ma per altri dettagli era completamente autonomo rispetto ad esso. Ad esempio la facciata del tempio etrusco non era orientata verso est, bensì, per motivi religiosi, verso la zona compresa tra sudovest e sud-est. Anche il tempio etrusco aveva un vestibo­ lo colonnato, un alto frontone decorato con soggetti figu­ rati e una stanza per la statua di culto, ma l’aspetto ester­ no era differente (fig. 7): il tempio «tuscanico» prevedeva un podio munito di una rampa centrale di accesso; era più corto e più largo rispetto al tempio greco, perciò le doppie o triple file di colonne sulla parte frontale occupavano cir­ ca la metà della lunghezza totale dell’edificio. Nella parte posteriore non c’erano altre colonne e neppure un secon­ do accesso. Il corpo dell’edificio era interamente proietta­ to verso la parte frontale, come sarà più tardi anche per il tempio romano. La cella con l’immagine di culto era af­ fiancata da due stanze della stessa profondità ma più stret­ te rispetto a quella centrale; la loro funzione è ancora poco chiara. La struttura portante del tempio etrusco era interamente di legno, tanto che per assicurarne la prote­ zione si rese necessario escogitare un sistema di rivesti­ mento dei margini esterni del tetto. Proprio alle lastre fitti­ li, utilizzate per questo scopo, decorate con scene figurati­ ve o con motivi ornamentali, o alle statue a tutto tondo, sempre di terracotta, dobbiamo una notevole conoscenza della forma e della cronologia dei singoli templi, e talvolta anche del tipo di divinità cui questi erano consacrati. Una particolarità etrusca è infine l’allineamento di grandi statue di terracotta lungo la trave di colmo del tetto. Esse hanno forse la funzione di compensare la mancanza di decorazione nel timpano, in quanto i frontoni dei templi etruschi, diversamente da quelli greci occupati da ricche decorazioni figurate, erano di regola aperti e l’unico loro ornamento era costituito da lastre fittili figurate, gli antepagtnenta, che rivestivano l’estremità delle travi lunghe del 89

tetto (fig. 10). Solo in età tarda, sotto l’influsso di un nuo­ vo impulso proveniente dalla Grecia ellenistica, si afferma­ rono anche in Etruria timpani chiusi decorati a rilievo.

Plastica funeraria, votiva e tem plare La scultura presso gli etruschi non godeva della stessa importanza di cui godeva nell’antica Grecia o nell’antico Egitto, e soprattutto non venivano utilizzate pietre dure e preziose, come il marmo, il granito o il basalto. I materiali preferiti erano la terracotta, specialmente per la plastica templare, e il nenfro, una scura pietra vulcanica usata per la scultura funeraria. Molto usati erano anche i metalli preziosi e il bronzo. Secondo Plinio, in occasione della conquista di Volsinii nel 264 a.C. furono depredate e por­ tate a Roma 2.000 statue di bronzo, che non dovettero es­ sere prese soltanto per essere esposte, ma soprattutto per­ ché interessava la pregiata materia di cui erano fatte. La scultura etrusca è in gran parte orientata verso i modelli dell’arte greca, ma, soprattutto nella fase più anti­ ca, assumono un particolare valore altre due componenti formali: la tradizione villanoviana locale e l’arte figurativa fenicio-orientale. E sempre più evidente, dunque, la derivazione delle prime forme scultoree di grande formato da queste radici, come, ad esempio, il cinerario villanoviano che si trasfor­ ma da semplice vaso a contenitore di forma umana, oppu­ re la statua funeraria a tutto tondo che ha origini antico­ orientali. Gli esempi più antichi di scultura, risalenti agli inizi del VII secolo a.C., sono dei busti di bronzo rinvenu­ ti nella zona di Vulci e delle statue in tufo o in nenfro del territorio di Cerveteri. In essi assume particolare significa­ to il trattamento formale del busto, in quanto viene riser­ vata una particolare attenzione alla raffigurazione della te­ sta, contrastante con una certa trascuratezza nella resa del corpo. Nel VI secolo a.C. questo fenomeno si verifica so­ prattutto in quei vasi cinerario-antropomorfi chiamati ca­ nopi, propri del territorio di Chiusi, ma esso rimarrà an­ che in seguito uno dei caratteri specifici della rappresenta­ zione umana etrusca. Lo ritroviamo ugualmente in capola­ 90

vori straordinari, come il tardo-arcaico Sarcofago degli spo­ si di Cerveteri (fig. 8) o l’urna tardo-ellenistica di Volterra (fig. 9): in entrambi sono riprodotti i corpi nella loro tota­ lità, ma la forza creativa dello scultore si concentra sulle teste, sulla parte alta del corpo e sulla gestualità delle braccia. Dello stesso periodo sono le teste arcaiche di Cer­ veteri, ricavate da un’unica matrice, mentre quelle elleni­ stiche dell’urna di Volterra sono lavorate singolarmente e intenzionalmente caratterizzate dai lineamenti propri della vecchiaia. Le decorazioni scultoree nei santuari si possono so­ stanzialmente dividere in due gruppi: la plastica architetto­ nica, con funzione di elemento di protezione e di orna­ mento del tempio e la plastica votiva, costituita dai doni consacrati dai devoti. Al centro della venerazione stavano poi le immagini di culto. Come in Grecia esse erano collo­ cate nella parte interna del tempio, e, come là, anche in Etruria di quelle statue, in prevalenza fatte di terracotta, si sono conservati solo dei frammenti o addirittura solo delle notizie indirette. Così riferisce Plinio (Naturalis historia 35, 157), citando Varrone, a proposito della statua di culto del tempio capitolino: «Vulca fu fatto venire da Veio poi­ ché Tarquinio Prisco voleva affidargli un’effigie di Giove da dedicare in Campidoglio; era di argilla e perciò veniva di solito dipinta con il minio». Quasi a conferma di questa testimonianza, nel 1916, durante gli scavi nel santuario di Portonaccio a Veio furono trovate delle statue fittili di divinità a grandezza naturale, databili proprio al periodo dell’erezione del tempio romano sul Campidoglio (seconda metà del VI secolo a.C.). Anche se non si tratta propriamente di statue di culto, queste scul­ ture erano poste sul colmo del tetto del tempio (fig. 7) e possono perciò restituire un’immagine attendibile di quelli che dovevano essere i caratteri stilistici delle più antiche statue di culto del tempio capitolino. E impressionante l’esecuzione magistrale e l’espressività di queste statue, che costituiscono una prova dell’abilità degli artisti veienti. Orientata, da un punto di vista formale, sui caratteri sti­ listici tardo-arcaici dell’arte greca, la statua di Apollo si di­ stingue per il trattamento spigoloso dei singoli tratti del viso, che contrastano in modo netto con il morbido model­ 91

lato del corpo, visibile attraverso la veste trasparente ma solcata da acute pieghettature (si veda l’illustrazione in co­ pertina). Grazie a questi accorgimenti stilistici le raffigura­ zioni scultoree etrusche assumono una particolare espressi­ vità e, allo stesso tempo, un’aria di severità - nonostante le labbra piegate verso l ’alto nell’atteggiamento del cosiddetto «sorriso arcaico». A ciò si aggiunge il fatto che le statue era­ no policrome: a quanto pare in Etruria erano preferiti i toni di colore tenui, mentre le tracce di dipintura presenti sulle statue di pietra della Grecia arcaica fanno pensare ad una colorazione dai toni più vivaci. Lo stile classico, che possiamo considerare il punto più alto della produzione artistica greca, ebbe, come già ac­ cennato prima, maggiori difficoltà ad affermarsi in Etruria. Non mancano tuttavia isolati esempi del primo classici­ smo, tutti di grande qualità, come il rilievo figurato che fungeva da antepagm entum sul frontone del tempio A di Pyrgi (fig. 10). Su questo altorilievo, in uno spazio molto ristretto, sono rappresentate alcune scene della più antica storia greca, relative all’intervento delle divinità nella guerra dei sette eroi per il possesso della città di Tebe. I corpi dei personaggi in azione, sovrapposti gli uni agli altri su più li­ velli, sono distribuiti sulla lastra secondo uno schema sim­ metrico, ancora alla maniera arcaica, sebbene le ampie for­ me dei visi e il trattamento delle capigliature siano al con­ trario improntate al cosiddetto stile severo del primo clas­ sicismo greco. Nella parte sinistra della lastra compare Atena, che porta, nella mano destra, la bevanda che dona l’immortali­ tà, per servirla a Tideo, il gigante raffigurato al centro del­ la scena. Questi sta conficcando i denti nella nuca del suo avversario Melanippo al fine di succhiargli il cervello, come sappiamo dai testi letterari. Sempre al centro del quadro è rappresentato anche Zeus che, con il fascio di fulmini nella mano destra (anda­ ta perduta), interviene in maniera decisiva nella mischia tra gli eroi greci. Su questa lastra sono quindi raffigurate due scene dello stesso mito: il momento più intenso e riso­ lutivo dello scontro che vede l’intervento degli dei maggio­ ri e l’atto sacrilego di Tideo. 92

Un altro chiaro esempio dello stile arcaicizzante o su­ barcaico è fornito dalla lupa di bronzo conservata al Mu­ seo capitolino, diventata poi il simbolo di Roma (fig. 11): il corpo dell’animale magro, teso e coperto da schematici ciuffi di pelo disposti l’uno vicino all’altro, si attarda an­ cora nello stile arcaico, mentre, di contro, la resa di singo­ li dettagli, quali gli occhi, le orecchie o le labbra è così naturalistica, che si deve ipotizzare una realizzazione tarda di quest’opera oppure, nel caso in cui la Lupa sia stata creata già nel V secolo a.C., è evidente che il suo artefice fu capace di riprodurre i dettagli anatomici con un natu­ ralismo del tutto inusuale e innovativo rispetto alle espe­ rienze greche. Lo stesso si può dire a proposito della testa fittile di un uomo anziano, appartenente al frontone di un tempio di Volsinii/Orvieto, databile al tardo V secolo a.C. (fig. 12): i caratteri della vecchiaia sono resi in maniera esplicita con profonde solcature sulla fronte e sulle guance e mediante le rughe intorno agli occhi. Nella scultura templare greca troviamo applicate simili caratterizzazioni della vecchiaia solo a partire dall’epoca ellenistica: si può quindi attribuire alla coroplastica etrusca una notevole precocità, nonostan­ te in generale il livello artistico della scultura etrusca del V e IV secolo a.C. sia comunque di gran lunga inferiore a quello greco coevo. Tale situazione mutò solo nell’epoca ellenistica, duran­ te la quale anche in Etruria giunse l’influsso deH’ultima fio­ ritura culturale greca. Ricche ornamentazioni, costituite da motivi figurati o decorativi, abbelliscono sia gli edifici tem­ plari sia le tombe, il cui aspetto esterno, nel III e nel II se­ colo a.C., diventa sempre più simile alla fronte del tempio, in quanto l’edificio funerario viene provvisto di colonne e di frontoni (in particolare a Sovana e a Norchia). Nella scultura a tutto tondo il materiale maggiormente utilizzato continua sempre ad essere la terracotta, così come rimane viva la tradizione di rappresentare episodi del mito greco. Verso la metà del II secolo a.C., quindi, sul tempio di Talamone, insediamento costiero dell’Etruria centrale, si ritrova il tema della guerra dei sette contro Tebe. Secondo i dettami dello stile dell’epoca le figure sono slanciate e al­ lungate, si muovono libere nello spazio, i corpi sono in 93

«nudità eroica» e contrastano con i panneggi svolazzanti come foglie. Come nel caso della lastra di Pyrgi, anche qui singoli episodi del mito tra loro differenti e che, stando alla tradizione letteraria, non hanno neppure svolgimento contemporaneo, sono composti in un unico grande scena­ rio: l’accecamento di Edipo, la fuga del re Adrasto dalla battaglia e la morte dell’indovino Anfiarao. Questo tipo di visione sinottica, nella quale viene mantenuta solo l’unicità del mito, mentre episodi separati nel tempo e nello spazio sono ricomposti in un nuovo insieme, differenzia l’arte fi­ gurativa etrusca da quella greca, la quale tendeva a conser­ vare l’unità del racconto mitologico, di tempo e di luogo. Oggi alcuni studiosi considerano romani i frontoni templari ellenistici d’Etruria poiché lo stesso stile figurati­ vo che essi presentano compare anche nelle opere delle colonie romane e poiché l’Etruria nel II secolo a.C. era già a tutti gli effetti sotto il controllo romano. Il problema se si tratti di opere romane o etrusche è proprio di un’epoca durante la quale anche nell’arte i confini etnici comincia­ rono a sfumare e il mondo etrusco prese ad assimilarsi gradualmente a quello romano, dopo aver conservato per secoli il predominio sulle culture dei popoli confinanti. Una scultura caratteristica di questa fase di passaggio è VArringatore dal lago Trasimeno, una statua di bronzo a grandezza naturale (fig. 13). Essa sembra raffigurare il ti­ pico uomo romano, connotato non solo dal caratteristico vestito, ma anche dal viso sbarbato e severamente atteggia­ to. In realtà si tratta di un etrusco di nome Avile Metele (lat. Aulus M etellus), al quale la città natale, in conseguen­ za dei suoi meriti personali, aveva dedicato questa statua consacrandola al dio Tinia, come riferisce un’iscrizione in­ cisa sull’orlo interno del mantello. Non sono dunque i caratteri della raffigurazione che ci permettono di capire se si tratta di un etrusco o di un ro­ mano. Come dimostrano anche le pitture parietali tardoetrusche, intorno al 100 a.C., data alla quale risale pure VArringatore, non era più possibile distinguere delle speci­ ficità etniche, e, del resto, non si sentiva neppure l’esigen­ za di farlo. Il passaggio dalla cultura etrusca a quella ro­ mana avvenne sommessamente, e l’arte etrusca si fuse pro94

gressivamente con quella romana sotto 1’awolgente man­ tello del tardo ellenismo.

Pittura funeraria I molti riferimenti alla pittura funeraria fatti nel para­ grafo precedente evidenziano quanto i due generi artistici della scultura e della pittura siano strettamente legati l’uno all’altro. Un ulteriore e più sorprendente parallelismo tra questi generi consiste nel fatto che tanto la nascita della grande scultura quanto quella della pittura sono strettamente dipendenti dalla comparsa della tomba a camera scavata, risalente agli inizi del VII secolo a.C. A Cerveteri e a Veio si trovano fregi ornamentali con motivi di caratte­ re orientalizzante, che sembrano soprattutto ispirarsi ai motivi decorativi presenti sui vasi corinzi di importazione. A queste raffigurazioni si affiancano, nelle sepolture più antiche, i fregi a loti e palmette dipinti sulle travi del tetto, i quali suggeriscono che questo tipo di pittura fosse pre­ sente anche all’interno delle abitazioni della prima fase etrusca. Da Acquarossa e da altre località provengono in­ fatti lastre di terracotta dipinte con motivi figurati o orna­ mentali, databili anch’esse al VII secolo a.C., le quali sono da interpretare come elementi decorativi del tetto di una casa. Nel VI secolo a.C. la pittura funeraria compare in tut­ ta l’area di diffusione della tomba a camera scavata. Il ful­ cro di questo fenomeno è Tarquinia, ma altri centri signifi­ cativi sono Orvieto e Chiusi, oltre a Veio e Cerveteri. Con una sorta di tecnica a fresco, i colori venivano applicati sull’intonaco parietale ancora umido. Grazie all’umidità naturale della roccia tufacea e alla temperatura general­ mente costante sia d’estate sia d’inverno queste pitture si sono mantenute pressoché intatte per oltre 2.500 anni. I colori naturali utilizzati, tra cui predominano il rosso, il nero, il giallo, il verde e il blu, sono ancora oggi dotati di una suggestiva luminosità, ma sono seriamente minacciati dal turismo degli ultimi anni. I temi raffigurati, sebbene creati per un contesto se­ polcrale, restituiscono una ricca immagine del modo di vi­ 95

vere etrusco. Nelle tombe arcaiche sono particolarmente amate le raffigurazioni dei giochi in onore del defunto, come le competizioni di cavalli, le corse, i salti, la lotta e la boxe; sono spesso rappresentate anche battaglie cruente, parti anch’esse dei riti di sepoltura. Nella Tomba d egli au­ guri, ad esempio, un uomo mascherato, indicato da un’iscrizione come «Phersu» (fig. 14), colpisce un altro uomo incatenato e con la testa incappucciata, il quale, allo stesso tempo, deve anche difendersi da un cane che lo sta mordendo. Questa «lotta del Phersu» è da interpretare come un gioco che anticipa la più tarda lotta tra gladiato­ ri, tipica dei romani. Risalgono sempre al VI secolo le prime scene di ban­ chetto, molto probabilmente a imitazione di motivi figura­ tivi propri della pittura vascolare greca, ma contemporane­ amente ispirate anche alla realtà etnisca. A differenza di quanto accadeva nel mondo greco, in Etruria non giaceva­ no sulla stessa kline solo uomini o uomini ed etere, ma an­ che coppie di sposi. Chi contempla le pitture funerarie etrusco-arcaiche non rimane affascinato soltanto dalla policromia delle sce­ ne, ma anche e soprattutto dalla gioia di vivere che esse emanano e dalla riproduzione del mondo naturale - albe­ ri, piante e paesaggi marini. Così nella Tomba della caccia e della p esca , sui frontoncini del tetto, sono rappresentate due scene di vita domestica, cioè il banchetto e il ritorno fortunato dalla caccia. Le pareti della tomba, invece, fanno spaziare lo sguardo sulla vastità del mare. Con amore per ogni singolo dettaglio è rappresentata una barca carica di pescatori, mentre un cacciatore mira ad uno stormo di uc­ celli di passaggio e un giovane si tuffa in mare da una co­ loratissima roccia, sulla quale sta salendo un secondo gio­ vane. Di fronte a questo vivace, colorato e allegro mondo ri­ prodotto nella pittura parietale etrusca del periodo arcai­ co, le scene dipinte nelle tombe di età tarda hanno un aspetto grave e triste. Fino a poco tempo fa si cercava di spiegare questo radicale mutamento attraverso la generale decadenza della cultura etrusca, iniziata a partire dal V se­ colo a.C., presupponendo anche un cambiamento nell’am­ bito delle concezioni riguardanti l’oltretomba. In realtà 96

7. Modellino ricostruttivo del tempio del santuario di Portonaccio a Veio (fine del VI secolo a.C.).

8. Sarcofago di terracotta con coppia di sposi, da Cerveteri (fine del VI secolo a.C.). Altezza totale 1,41 m. Roma, Museo di Villa Giulia.

9. Urna di terracotta con coppia di sposi, da Volterra (II secolo a.C.). Altezza 41 cm. Volterra, Museo Guarnacci.

10. Rilievo frontonale (antepagmentum) dal tempio A di Pyrgi con la «lotta dei sette contro Tebe» (metà del V secolo a.C.). Altezza 1,26 m. Santa Severa, Antiquarium.

11. Testa della Lupa capitolina (IV se­ colo a.C.). Altezza complessiva 75 cm. Roma, Palazzo dei Conservatori.

12. Testa di terracotta dal tempio del Bel­ vedere di Orvieto (fine del V secolo a.C.). Altezza 16 cm. Orvieto, Mu­ seo Faina.

13. Statua di bronzo delbArringatole, dal lago Trasimeno (fine del II se­ colo a.C.). Altezza 1,79 m. Firen­ ze, Museo archeologico.

14. Tarquinia, pittura parietale con scena di lotta e Phersu nella Tomba degli auguri (fine del VI secolo a.C,).

15. Cariatide in bucchero, da Vulci (fine del VII secolo a.C.). Altezza 9,5 cm. Monaco, Antikensammlungen.

16. Braccialetto in oro dalla Tomba Regolini-Galassi di Cerveteri (metà del VII secolo a.C.). Larghezza 6,70 cm. Vaticano, Museo Etrusco Gregoriano.

17. Statuetta di bronzo raffiguran­ te una donna dal santuario di Diana sul lago di Nemi (IV secolo a.C). Altezza 50 cm. Parigi, Museo del Louvre.

quello che cambia in questo periodo - come sempre sotto il determinante influsso dell’arte figurativa e della filosofia greche - è il modo di vedere o meglio l’interesse che sta alla base delle rappresentazioni. Elemento centrale delle raffigurazioni non è più la festa in onore del morto, ma è il morto stesso, che viene ritratto ed esplicitamente nomi­ nato, e il suo ingresso nel mondo ultraterreno. Inoltre si fanno sempre più frequenti, soprattutto nelle tombe etrusche più tarde (III-II secolo a.C.), le immagini di processioni di accompagnamento del defunto. Si tratta della rappresentazione dell’ultimo viaggio del morto, scor­ tato da suonatori, magistrati e famigliari superstiti, tutti in­ dicati con i rispettivi nomi. Contribuiscono poi a conferire un carattere malinconico a queste pitture funerarie tardoetrusche anche i numerosi esseri demoniaci, frequente­ mente indicati coi nomi di Charun o, nel caso di giovani demoni femminili, di Vanth. Accanto a questi temi di par­ ticolare significato religioso, nelle pitture tardo-etrusche troviamo anche un riflesso della crescente coscienza stori­ ca, presente già a partire dal IV secolo a.C. La raffigura­ zione e, talora, l’indicazione del nome del defunto in qua­ lità di partecipante alla processione conferiscono infatti ad una rappresentazione di tipo generico un carattere di indi­ vidualità, rendendola così un documento storico; lo stesso fenomeno si osserva contemporaneamente a Roma, dove culminerà nel fregio dell ’Ara Pads augustea.

Ceramica e pittura vascolare La nascita della produzione ceramica etrusca non è fa­ cilmente determinabile. Un motivo di ciò sta nel fatto che nello sviluppo della ceramica dell’Italia centrale non sono riconoscibili momenti di interruzione o nuove riprese. Tutt’al più si può azzardare che la nascita di questa pro­ duzione si collochi nel periodo di passaggio dalla ceramica appenninica dell’età del bronzo, costituita da vasellame fit­ tile decorato a graffito, alla ceramica di più piccolo forma­ to del periodo pro tovillanoviano. Lo sviluppo successivo procederà sostanzialmente senza soluzione di continuità. Quello che in assoluto conosciamo meglio è il vasellame 97

proveniente dai contesti tombali: cinerari biconici, anfore, orcioli, vasi potori. Si tratta di vasi plasmati e conformati a mano, ciò significa prodotti ancora senza l’ausilio del tor­ nio. Prima della cottura venivano rivestiti con una soluzio­ ne d’argilla e successivamente lucidati, in modo da farli ri­ splendere come i contenitori di metallo, un effetto sicura­ mente intenzionale, dal momento che le stesse tipologie vascolari erano prodotte anche in materiali preziosi, come il bronzo e l’argento. Talvolta gli stessi contenitori in ter­ racotta venivano decorati con lamelle metalliche applicate, anche se più consuete erano le decorazioni incise a motivi geometrici. L’argilla veniva depurata solo grossolanamen­ te, ed era internamente di un colore che variava da bruno a grigio scuro, mentre in superficie era per lo più di colore bruno scuro, con una gamma che andava dal rosso al nero. Questo tipo di ceramica, nota col nome di ceramica di impasto, è caratteristica del periodo villanoviano, cioè del IX e dell’VIII secolo a.C. Verso la fine di questo periodo comparve accanto ad essa un altro genere ceramico, che si distingueva per la maggiore eleganza delle forme, per la sottigliezza delle pareti e per la migliore cottura, oltre che per un ingobbio giallo pallido e ricche dipinture di colore rosso-bruno, nelle quali, oltre ai già noti motivi geometri­ ci, cominciarono a comparire motivi figurativi, soprattutto uccelli e talvolta anche rappresentazioni umane. Si tratta della cosiddetta ceramica italo-geometrica, una variante evoluta del più antico vasellame villanoviano. Determinan­ te per la sua nascita fu la conoscenza dell’arte vascolare greco-geometrica, che, già dalla metà dell’VIII secolo, sti­ molò il mercato centro-italico e spinse i vasai e i pittori va­ scolari autoctoni alla imitazione e a nuove creazioni di ca­ rattere locale. Inizialmente ciò avvenne con ogni probabilità sotto la guida di maestri greci, che, come il vasaio e pittore Aristonoto proveniente dalla Magna Grecia, si stabilirono in Etruria e qui impiantarono le proprie officine. L ’influenza di tali maestri fu enorme: da loro gli artigiani locali impa­ rarono l ’utilizzo del tornio e attraverso i motivi figurativi conobbero le epopee eroiche e i miti greci, soprattutto l'Odissea di Omero. Così verso la fine deU’VIII e la prima 98

metà del VII secolo a.C. sorsero importanti botteghe cera­ miche nei fiorenti centri costieri dell’Etruria meridionale. Non a caso le città interessate a questo fenomeno, cioè Vulci, Tarquinia e Cerveteri, furono quelle che nel mede­ simo periodo dominavano la scena del commercio interna­ zionale ed erano altamente ricettive nei confronti degli in­ flussi culturali provenienti dall’Oriente. La creatività propria degli abitanti delle città costiere etrusco-meridionali sopra citate si concretizzò nella loro capacità di non fermarsi all’assimilazione degli influssi cul­ turali in arrivo, ma di avviare uno sviluppo locale delle produzioni. Il migliore esempio di ciò è costituito dal va­ sellame in bucchero, un tipo di ceramica specificamente etrusco, che si contraddistingue per l’eleganza delle forme, il colore nero intenso e le decorazioni a stampiglie figurate e graffite. In particolare la prima produzione, chiamata an­ che «bucchero fine», si contraddistingue per la durezza metallica e la sottigliezza del materiale che - a differenza del vasellame di impasto di colore brunastro - è nero an­ che internamente. Come hanno dimostrato le ricerche mo­ derne, questo colore nero intenso dell’argilla fu ottenuto innanzitutto mediante la bruciatura dei vasi attraverso la riduzione dell’afflusso di ossigeno nel forno (processo di cottura riducente), cui si affiancava una depurazione parti­ colarmente accurata dell’argilla e l’aggiunta alla materia prima di additivi minerali. Il vasellame in bucchero - il termine deriva dallo spa­ gnolo e indica una ceramica nera, talora dipinta di rosso e di bianco - nacque prima della metà del VII secolo a.C. Fin da subito fu un prodotto da esportazione molto ri­ chiesto. Soprattutto gli eleganti vasi potori godevano di una grande popolarità nelle più lontane regioni del bacino del Mediterraneo, ad esempio sulle coste liguri, nel territo­ rio di Marsiglia, oppure nella Cartagine punica. Fulcro della produzione e massimo centro esportatore fu Cervete­ ri, dove già nel VII secolo a.C. esisteva una bottega, che graffiva sui vasi motivi mitologici greci accompagnati da iscrizioni onomastiche etrusche. Nel VI secolo a.C. sembra diventare Vulci il centro di fabbricazione più importante, ma anche nelle zone inter­ ne, come a Chiusi, Cortona, Orvieto e altri centri, fiorisce 99

la produzione del bucchero; in quei centri la decorazione incisa viene sostituita a poco a poco da motivi stampigliati. I vasi presentano ora pareti più spesse («bucchero pesan­ te»), perdono progressivamente il loro aspetto metallico, e la colorazione nera intensa tende al grigio («bucchero gri­ gio»). Si arrivò a un tale grado di degenerazione che nel corso del V secolo la produzione volse al termine. Rispetto ai livelli raggiunti nelle produzioni della cera­ mica di impasto e del bucchero, le prestazioni nel campo della pittura vascolare furono piuttosto modeste: la deco­ razione vascolare greca, soprattutto quella realizzata nelle grandi metropoli commerciali di Corinto e Atene era trop­ po diffusa e superiore da un punto di vista qualitativo. Non mancarono tuttavia i tentativi di imitazione del vasel­ lame greco di importazione, per cui troviamo riprodotti in Etruria quasi tutti i generi della ceramica greca e i rispetti­ vi moduli pittorici, anch’essi molto probabilmente realiz­ zati sotto la guida di vasai e ceramografi greci. NeH’VIII secolo a.C. predominarono lo stile euboico e quello geo­ metrico corinzio, nel VII secolo prevalsero di nuovo Co­ rinto e la microasiatica Mileto, città che, attraverso l’ap­ porto decisivo delle loro ceramiche da esportazione, in­ fluenzarono profondamente la produzione vascolare etni­ sca e contribuirono a creare lo stile etrusco-corinzio. Gli esemplari di alta qualità realizzati in questo periodo sono difficilmente distinguibili dagli originali greci tanto per la forma quanto per il decoro a fregi animali. Nel VI secolo, momento di fioritura della pittura va­ scolare greca a figure nere su fondo chiaro, si diffusero in Etruria due generi di vasellame, non inferiori per qualità e originalità alla ceramica greca di importazione. Lo stile de­ corativo che li caratterizza ha sicuramente le sue radici nell’arte greco-orientale ed è molto probabile che le offici­ ne dove venivano realizzati fossero guidate da maestri io­ nici. Nel primo caso si tratta dei «vasi pomici», la cui pro­ duzione è localizzabile esclusivamente a Vulci; sono vasi, soprattutto anfore, decorati con fresche e vivaci scene trat­ te dal mondo mitologico greco, nelle quali l’uso frequente del bianco sovraddipinto contribuisce ad accrescere ulte­ riormente la forza espressiva degli eroi in azione. Il secondo genere, i cui vasi sono noti praticamente 100

solo a Cerveteri, è costituito esclusivamente da contenitori a tre manici utilizzati per attingere l’acqua. Queste «hydriai ceretane» sono caratterizzate da una maggiore po­ licromia rispetto alle anfore pontiche, grazie all’uso diffe­ renziato dei toni del rosso e del bruno; inoltre le scene mi­ tologiche che le decorano si distinguono per la loro vivaci­ tà e originalità. Al contrario un altro genere di pittura va­ scolare a figure nere, noto quasi esclusivamente in Etruria, sarebbe stato invece prodotto ad Atene, nonostante venga chiamato «tirrenico». E quindi probabile che si debba ipotizzare per questo genere di vasi una produzione desti­ nata specialmente al mercato etrusco. Poiché nel VI e nel V secolo a.C. l ’importazione dei vasi ateniesi, straordinariamente impegnativi dal punto di vista artistico, fu piuttosto facile, la produzione etrusca in questo campo subì una battuta d’arresto. Solo quando nel V secolo a.C. i commerci con Atene diminuirono drastica­ mente e il fulcro della ceramografia si spostò nel meridio­ ne d’Italia grecizzato, anche in Etruria tornò a fiorire la tecnica della pittura a figure rosse (su fondo nero). E si­ gnificativo il fatto che i centri produttivi si spostarono dal­ la costa verso l’interno. E così da localizzare a Civita Ca­ stellana (lat. Falerii veteres) una fabbrica fondata da un va­ saio e ceramografo greco immigrato. Anche a Orvieto, Chiusi e Volterra fiorirono nel IV secolo varie officine ce­ ramiche, con stili pittorici originali. Si ispirano ai temi fi­ gurativi propri della pittura vascolare magno-greca le fre­ quenti rappresentazioni del mondo ultraterreno e le scene di commiato, soprattutto sui vasi, che, dopo la decorazio­ ne, venivano verniciati di nero. Si trattava quindi di conte­ nitori usati prevalentemente per il culto funerario, mentre in ambito domestico veniva preferito il modesto «vasella­ me a vernice nera» che negli ultimi anni di produzione spesso era privo di dipintura, e che sopravvisse fino al­ l’epoca della romanizzazione dell’Etruria.

Arti m inori e artigianato artistico Tra le opere più suggestive dell’arte etrusca sono da annoverare lavori in avorio e oro. Entrambi i materiali, 101

non reperibili in Etruria, dovevano essere importati da re­ gioni lontane e, almeno nelle fasi più antiche, dovettero essere introdotti in Etruria da mercanti orientali. Furono soprattutto i fenici che, all’inizio del VII secolo a.C., si in­ serirono nella scena commerciale grazie all’esportazione di alcuni prodotti finiti, ma che successivamente costituirono delle vere e proprie maestranze artigianali nell’Italia cen­ trale. A dimostrazione di ciò, ad esempio, sta la tecnica ti­ picamente orientale di rivestire con foglie d’oro statuette o piccoli vasi, per accrescere il valore dell’oggetto, tecnica che durante la fase orientalizzante troviamo applicata an­ che ad oggetti etruschi (fig. 15). Particolarmente significativi sono anche gli oggetti d’avorio rinvenuti a Cerveteri e nella città latina di Pale­ strina, oggetti da toeletta e di ornamento abilmente deco­ rati ad intaglio prima da motivi puramente orientali, più tardi anche da temi figurativi greci, così come significativa è l’oreficeria, nella quale gli etruschi raggiunsero una stra­ ordinaria perfezione tecnica ed artistica. La conoscenza di nuove tecniche e di nuovi materiali non determinò tuttavia l’abbandono dell’antica tradizione artigianale. Nelle fibule straordinariamente lussuose del periodo orientalizzante sopravvivono tanto la forma quan­ to singoli motivi decorativi propri del periodo villanovia­ no. Ciò che è del tutto nuovo, al contrario, è, oltre alle grandi dimensioni, il materiale utilizzato, cioè l ’oro e la decorazione a minuscole sferette (granulazione) o a fili d’oro (filigrana), che venivano saldati al corpo dell’oggetto mediante un legante di sali di rame e collanti organici. Le sferette, di circa 0,3 mm di diametro, ottenute da fili d’oro di spessore corrispondente sminuzzati e rifusi, venivano composte a formare motivi figurativi o ornamentali, spesso applicate anche su rilievi sbalzati e modellati a bassorilievo (fig. 16). Accanto a questo più diffuso tipo di granulazione esisteva inoltre la variante tipicamente etrusca della «gra­ nulazione a pulviscolo», nella quale le singole sferette sono così piccole (0,1 mm) che non sono neppure distinguibili ad occhio nudo. L incredibile livello tecnico raggiunto dall’oreficeria etrusca è chiaramente dimostrato dal numero straordinario di 120.000 sferette che furono saldate su una fibula d’oro di Cerveteri. 102

Mentre queste opere artistiche, uniche nel loro genere, rimasero sostanzialmente limitate alla fase orientalizzante del VII e dell’inizio del VI secolo a.C., e nel secolo succes­ sivo non fu mantenuto lo stesso alto livello produttivo, gli oggetti di bronzo etruschi, come gli utensili, i vasi e i rilie­ vi, riuscirono invece a conservare la propria assoluta sin­ golarità e originalità. Nel VII secolo a.C. erano diffusi vasi e utensili di tradizione orientale o greca. Già in questi pri­ mi oggetti era evidente la predilezione per le decorazioni figurative, costituite ad esempio da figurine plastiche ap­ plicate agli orli dei vasi rivolte verso l ’esterno, i cosiddetti «guardiani del vaso», o da altre figurine a tutto tondo sal­ date sui coperchi, per lo più guerrieri o acrobati, che ser­ vivano come elementi di presa e che ricorrono fino al pe­ riodo tardo-etrusco, composte in fantasiosi gruppi di più esemplari. Altrettanto vario è il repertorio delle cimase figurate dei candelabri o meglio dei supporti per candele, che tro­ vavano impiego sia in ambito domestico sia funerario. Di altissima qualità sono le lamine sbalzate di bronzo, specialmente quelle prodotte a Vulci, articoli da esportazione al­ l’epoca molto ricercati, al cui successo dovette contribuire soprattutto la ricca decorazione figurativa - nella maggio­ ranza dei casi costituita da scene mitologiche greche. Quelle che si conservano sono in prevalenza lastre di rive­ stimento di carri in legno da corsa o da parata, che veniva­ no deposti nella tomba come status-symbol del defunto. Anche i supporti per bacili, i cosiddetti tripodi Loebsch, presentano ricche decorazioni plastiche e sono anch’essi importanti testimonianze sia sul piano artistico sia su quel­ lo tecnico della bronzistica etrusca. Di una particolare considerazione gode da sempre un gruppo di singole statuette di bronzo, che nella resa del corpo non seguono il canone delle proporzioni anatomi­ che greche, ma si distinguono per un esagerato allunga­ mento delle membra, e nelle quali la realizzazione della te­ sta, come nel caso della statuetta votiva femminile prove­ niente dal lago di Nemi (fig. 17), spesso è molto dettaglia­ ta e di alta qualità artistica - a imitazione della bronzistica di grande formato. Le prime manifestazioni di questo modo non anatomico di costruire il corpo umano risalgo­ 103

no al periodo tardo-arcaico, ma il suo più estremo esem­ pio è costituito dalYOtnbra della sera di Volterra, una sta­ tuetta di un nudo maschile di 55 cm di altezza risalente al IV-III secolo a.C. Mentre le dimensioni della testa corri­ spondono circa alla larghezza della figura, il busto, le braccia distese lungo il corpo e le gambe sono così esage­ ratamente allungate, che la statuetta dà un’impressione di fragilità e di instabilità. Alberto Giacometti, le cui sculture mostrano impres­ sionanti concordanze con le opere etrusche, scrisse che le sue statue esprimevano la leggerezza del corpo umano vi­ vente. Non sappiamo se anche gli artisti etruschi, per altro capaci di produrre allo stesso tempo statuette anatomica­ mente «esatte», volessero esprimere questo stesso concet­ to. In ogni caso l’astrazione è uno dei contributi artistici etruschi più rimarchevoli, e forse anche uno dei motivi per cui la loro arte ha goduto di una particolare stima proprio nel Novecento. Di grande originalità sono anche gli specchi incisi e i contenitori di bronzo chiamati ciste, che facevano parte dell’ambiente domestico femminile e che venivano anche deposti nelle sepolture delle donne. Negli specchi, di forma rotonda, uno dei lati era levigato, l’altro era invece decorato da motivi figurativi, tra cui predominano scene della mito­ logia greca, in particolare quelle relative alla «sfera privata» degli dei. Sporadicamente venivano raffigurati anche temi locali, e poiché accanto alle figure rappresentate sono spes­ so incisi i nomi ad esse corrispondenti, questi specchi, più di ogni altro reperto artistico, forniscono informazioni sul­ l’onomastica degli dei e degli eroi etruschi, come nel caso dello Specchio di Tarconte di Tuscania (fig. 3). Le ciste sono incise con particolare accuratezza. Grazie all’ampiezza dei campi decorativi gli episodi potevano es­ sere raffigurati scenicamente; un esempio straordinario è fornito dalla Cista F icoroni al museo di Villa Giulia, a Roma, che illustra le avventure degli Argonauti durante il loro viaggio verso la Colchide, sul mar Nero. Il fatto che questo vaso, a causa della presenza della firma del suo ar­ tefice in latino arcaico (N ovios Plantios m ed Ròm ai fecid ), debba probabilmente essere attribuito ad un artista che la­ vora a Roma e che un’altra officina sia da localizzare a Pa104

lestrina, città latina, dimostra come da questo periodo in poi difficilmente si possa parlare di arte etrusca. Piuttosto siamo in presenza di prodotti di quella già citata k oiné ar­ tistica dell’Italia centrale ellenistica, che solo poco più tar­ di, durante la fase augustea, avrebbe conosciuto una nuo­ va fioritura, ormai con caratteri chiaramente romani.

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C O N CLU SIO N E

EREDITÀ E SOPRAVVIVENZE

I molteplici rapporti che unirono etruschi e romani durante la secolare vicinanza furono così intensi, che Roma, nelle sue fasi più antiche, poteva essere addirittura considerata a tutti gli effetti una città etrusca, sia sotto l’aspetto culturale sia sotto quello artistico: dal confinante popolo etrusco i romani adottarono nel VII secolo a.C. la scrittura, forse il sistema numerico, l’uso del prenome e del gentilizio. In generale si può ipotizzare che l’ascesa di Roma a principale centro di potere del Lazio nel corso del VI secolo a.C. sia opera degli etruschi, ai quali i romani dovettero i presupposti tecnici per l’urbanizzazione, oltre che i primi grandi edifici di culto e i loro prodotti artistici, comprese le immagini di culto e le terracotte architettoni­ che. Anche l'architettura domestica, in particolare la tipica casa romana ad atrio, affonda le proprie radici in Etruria, mentre è invenzione senza dubbio greca il peristilio, citato per la prima volta da Posidonio, e lo è almeno nella sua forma, cioè quella - che ritroviamo a Pompei - di giardino circondato da colonne e collegato al complesso architetto­ nico dell’atrio. II secondo ambito nel quale i romani subirono l’influs­ so etrusco è quello delle insegne di potere per il console e il trionfatore. La biga a due ruote, il mantello di porpora, il bastone ricurvo (lituus ), il fascio di bastoni (fasces) e la sedia pieghevole d’avorio (sella curulis) sono eredità della regalità etrusca. I romani rimasero invece estranei all’essenza della reli­ gione etrusca, in particolare alla diversa comunicazione che i sacerdoti instauravano con le potenze dell’aldilà at­ traverso l’interpretazione dei fulmini e l’osservazione del fegato, cioè a quel campo della cultura etrusca che i roma­ ni non riuscirono ad assimilare, ma che era considerato in107

dispensabile per le loro pratiche cultuali, soprattutto nel caso di decisioni vitali per la res publica, come nella scelta tra la guerra e la pace. Alla luce di queste considerazioni si capisce perché Posidonio considera i sacerdoti etruschi i soli che a suo tempo potevano ancora fattivamente tornare utili allo stato romano, e lo furono addirittura fino al pe­ riodo imperiale. Grazie ai romani alcuni elementi di origine etrusca sono sopravvissuti, sostanzialmente sconosciuti, fino ai no­ stri giorni, come la già citata tipologia architettonica della casa ad atrio coperta da un tetto di tegole o il modello di colonna chiamato da Vitruvio «tuscanico», noto agli studi di antichità fin dal Rinascimento. In rari casi si sono con­ servate alcune parole, come «persona», termine derivato, attraverso il latino {persona), dall’etrusco, dove la parola phersu aveva il significato di «maschera», significato con­ servatosi anche in latino. Mentre nell’Italia centrale il ricordo degli etruschi ri­ mase sempre presente grazie alla toponomastica ( Toscana , Tuscania, mar Tirreno) e ai monumenti (soprattutto le por­ te delle città), nell’Europa centrale il loro influsso fu epi­ sodico: nel periodo precristiano si collocano gli stretti con­ tatti commerciali con i celti, ai quali tra l’altro gli etruschi fecero conoscere il vino e la tecnica di fusione del bronzo; più tarda e indiretta è l’assunzione dell’alfabeto etrusco come base per la scrittura runica dei germani. Non ultimo il Rinascimento, con il suo sviluppo in To­ scana e la sua irradiazione verso l’area centro-europea, è connesso al crescente interesse per gli etruschi, in relazio­ ne alla scoperta di testi letterari antichi - ad esempio gli scritti di Vitruvio - e di monumenti come la Chimera di Arezzo, con le conseguenze che ne derivarono. Già dal Settecento il ritrovamento delle tombe e delle relative pit­ ture parietali influì sulla letteratura europea. Fu il mistici­ smo delle necropoli etrusche ad ispirare Arnold Bòcklin nella realizzazione del dipinto L’isola d ei morti. L ’impres­ sionante rappresentazione di morte e silenzio corrisponde pienamente al senso che si aveva in quel periodo della vita e ciò spiega la grande popolarità di cui questo e simili di­ pinti godevano presso la borghesia tedesca di fine Otto­ cento. Al contrario, in autori come Aldous Huxley e D.H. 108

Lawrence la cultura etrusca sembra trasfigurarsi nel mito di un mondo perduto, nel quale la personalità del singolo non era ancora sottomessa alle costrizioni di una società standardizzata e tecnicizzata.

Gli etruschi oggi Le tombe sembrano così confortevoli e accoglienti, nono­ stante siano state scavate sotto terra, nella roccia. Non ci si sente oppressi, quando vi si scende. Questo si deve in parte al fascino dell’armonia con la natura, propria di tutte le cose etrusche dei secoli puri, non ancora romanizzati. Dalla forma e dal movimen­ to dei muri e delle stanze sotterranee emanano una semplicità e al tempo stesso una naturalità singolare e spontanea, che subito dà consolazione. I greci facevano ogni sforzo per impressionare, e nel periodo gotico si tentava in misura ancora maggiore di stu­ pire. Non così gli etruschi. Le cose che essi crearono durante i secoli della loro fioritura sono tanto naturali e spontanee quanto lo è il respiro. Ed esse respirano una sorta di pienezza di vita. Questo vale anche per le tombe. E qui sta veramente quel qual­ cosa in più degli etruschi: nella loro spontanea naturalità e nella loro esuberanza di vita. Essi non sentono la necessità di imporre allo spirito o all’anima una determinata direzione. E la morte era per gli etruschi una felice continuazione della vita, con pietre preziose, vino e flauti che invitavano alla danza. Non c’era né una estatica felicità, un paradiso, né uno straziante purgatorio. Vi era semplicemente un naturale proseguimento della vita nella sua pienezza. Tutto trovò la propria espressione nei concetti di vita e di forza.

Queste righe, scritte da David Herbert Lawrence e tratte dal suo libro L uoghi etruschi , sono state intenzional­ mente riportate alla fine di un volumetto che si proponeva in primo luogo di fornire informazioni oggettive. Ma quando si tratta di motivare l’odierno interesse per gli etruschi, allora non è più sufficiente la nuda enumerazione dei fatti. Chi abbia visto le pitture parietali nelle tombe di Tarquinia e le necropoli di Cerveteri nel loro romantico ambiente, può comprendere l’entusiasmo di Lawrence e di migliaia di viaggiatori che prima e dopo di lui visitarono i luoghi etruschi. Indipendentemente dalla questione se le interpretazioni di Lawrence possano considerarsi scientifi­ 109

camente valide, esse corrispondono esattamente a ciò che il visitatore prova e che lo mette spontaneamente in comu­ nicazione con gli etruschi: è la loro apparente naturalità e vitalità, quello che li distingue dal calcolato classicismo dei greci e dalla razionale monumentalità dei romani. In realtà l’arte etrusca, nonostante tutti gli influssi greci, ha saputo mantenere in ogni momento una notevole autonomia, che variava sovrana tra il realismo e l’astrazione. Non a caso è sbalorditiva la somiglianza tra le statuette allungate di un Alberto Giacometti e la Diana del lago di Nemi (fig. 17) o YOmbra della sera di Volterra. Giacometti, attraverso l’estrema lunghezza delle gambe, ha voluto riprodurre l’in­ stabile leggerezza del corpo umano. Non conosciamo le intenzioni degli artisti etruschi, ma il risultato corrisponde al sentimento artistico astratto dei moderni e induce alla riflessione. Anche se non possiamo ascrivere agli etruschi nessun lascito culturale che abbia avuto la stessa importanza della filosofìa greca o del diritto romano, tuttavia basterebbe la loro arte a convincerci del fatto che possiamo annoverare gli etruschi tra i grandi popoli civilizzati dell’Europa anti­ ca. È quindi importante non dimenticare gli etruschi, per non restringere la nostra immagine della cultura antica esclusivamente ai retaggi dei due «classici» popoli mediterranei.

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LETTURE CONSIGLIATE

LETTURE CONSIGLIATE

Forniamo qui di seguito l’indicazione di alcuni titoli per il lettore che intenda approfondire le tematiche affrontate nel vo­ lume.

1. U etruscologia e le sue fonti G.F. Borsi (a cura di), La Fortuna degli Etruschi, Catalogo della Mostra, Milano, 1985. M. Cristofani, Storia di un problema, in M. Cristofani, L'arte de­ gli Etruschi. Produzione e consumo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 3-28. M. Pallottino, Introduzione alla conoscenza del mondo etrusco, in M. Pallottino, Etruscologia, VII ed. Milano, Hoepli, 1984, pp. 3-32.

La riscoperta degli Etruschi e i suoi riflessi sulla cultura europea moderna, in Gli Etruschi e l ’Europa, Catalogo della Mostra, Milano, Fabbri, 1992, pp. 273-482.

2. Territorio, città, società

La regione e le sue risorse L’alimentazione nel mondo antico. Gli Etruschi, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1987. G.A. Camporeale (a cura di), L’Etruria mineraria, Catalogo della Mostra, Firenze-Milano, Electa, 1985. M. Cristofani, Economia e società, in Rasenna. Storia e civiltà de­ gli Etruschi, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1986, pp. 79-156. G.A. Mansuelli, Topografia storica della regione etrusca, in Ra­ senna. Storia e civiltà degli Etruschi, cit., pp. 677-713.

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Città e necropoli

F. Boitani, M. Cataldi e M. Pasquinucci (a cura di), Le città etrusche, Milano, Mondadori, 1973. G. A. Mansuelli, L’organizzazione del territorio e la città, in M. Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, Catalogo della Mostra, Firenze-Milano, Electa, 1985, pp. 111-116. M. Torelli, Etruria, Bari, Laterza, 1980. Volsinii e le dodecapoli etrusche, Atti del Colloquio di Orvieto, Orvieto (Annali della Fondazione per il Museo Claudio Fai­ na, 2), 1985.

Stato e società G. Colonna, Le form e ideologiche della città, in Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, cit., pp. 242-244. M. Torelli, La società etrusca. L'età arcaica, l’età classica, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987. - Storia degli Etruschi, Roma-Bari, Laterza, 1990. M. Torelli e M. Cristofani, La società e lo stato , in M. Cristofani (a cura di). Gli Etruschi. Una nuova immagine, Firenze, Giunti, 1984, pp. 101-135.

La vita privata e la famiglia G. Camporeale, Vita privata, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etruschi, cit., pp. 241-308. J. Heurgon, La vie quotidienne chez les Etrusques, Paris, Hachette, 1961; trad. it. Vita quotidiana degli Etruschi, Milano, Mondadori, 1992. A. Rallo (a cura di), Le donne in Etruria, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1989.

3. Le origini, le prime fasi storiche e la lingua

Il problema delle origini C. De Simone, I Tirreni a Lemnos. Evidenza linguistica e tradi­ zioni storiche, Firenze, Olschki, 1996. M. Pallottino, Il problema delle origini etrusche, in Pallottino, Etniscologia, cit., pp. 85-110.

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La fase protostorica

G. Bartoloni, La cultura villanoviana. All’inizio della storia etrusca , Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1989. A. M. Bietti Sestieri, La cultura di villaggio, in Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, cit., pp. 27-30. B. d’Agostino, La formazione dei centri urbani, in Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, cit., pp. 43-47.

Lingua e scrittura G. Bonfante e L. Bonfante, The Etruscan Language, Manchester, Manchester University Press, 1983; trad. it. Lingua e cultura degli etruschi, Roma, Editori Riuniti, 1985. M. Cristofani, Introduzione allo studio dell etrusco, II ed. Firen­ ze, Olschki, 1991. M. Pallottino, Il problema della lingua, in Pallottino, Etruscologia, cit., pp. 403-517. - I documenti scritti e la lingua, in Rasenna. Storia e civiltà de­ gli Etruschi, cit., pp. 311-367. H. Rix, La scrittura e la lingua, in Cristofani (a cura di), Gli Etruschi. Una nuova immagine, cit., pp. 210-238. F. Roncalli (a cura di), Scrivere etrusco. Scrittura e letteratura nei massimi documenti della lingua etrusca, Milano, Electa, 1985. 4. Espansione commerciale, apogeo e declino

Il dominio marittimo e terrestre M. Gras, La Mediterranée archaìque, Paris, Armande Colin, 1995; trad. it. Il Mediterraneo nell’età arcaica, Paestum, Fon­ dazione Paestum, 1997. L. Malnati e V. Manfredi, Gli Etruschi in Val Fadana, Milano, Il Saggiatore, 1991. La presenza etrusca in Campania tneridtonale, Atti delle Giornate di Studio di Pontecagnano-Salerno, Firenze, Olschki, 1994. G. Sassatelli, La situazione in Etruria padana, in Crise et transfor­

mation des sociétés archaìques de ITtalie antique au Ve siede av. J.C., Atti della tavola rotonda, Rome, École frangaise de Rome, 1990, pp. 51-100.

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I partner commerciali e le popolazioni limitrofe J. Boardman, The Greeks overseas. Their early colonies and tra­ de , III ed. London, Thames & Hudson, 1980; trad. it. I Gre­ ci sui mari. Traffici e colonie, Firenze, Giunti, 1986 (si veda il capitolo dedicato ai rapporti tra greci ed etruschi). II commercio etrusco arcaico, Atti del Congresso di Roma, Roma, Quaderni del centro di studio per l’archeologia etrusco-itali­ ca, 1985. M. Cristofani, Gli Etruschi del mare, II ed. Milano, Longanesi, 1983. - Pirateria e commercio, in Id. (a cura di), Civiltà degli Etru­ schi, cit., pp. 225-226. - (a cura di), La grande Roma dei Tarquini, Catalogo della Mostra, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1990. R. De Marinis (a cura di), Gli Etruschi a nord del Po, Mantova, Campanotto, 1987. M. Gras, Trafics tyrrhéniens archaìques, Roma, École frangaise de Rome, 1985. Influenze dirette sull’Europa, in Gli Etruschi e l’Europa, Catalogo della Mostra, Milano, Fabbri, 1992, pp. 157-221. Magna Grecia, Etruschi, Penici, Atti del XXXIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto, Istituto per la storia e l’archeologia della Magna Grecia, 1994. M. Martelli, I luoghi e i prodotti dello scambio, in Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, cit., pp. 175-181. M. Ballottino, Origini e storia primitiva di Roma, Milano, Rusco­ ni, 1993. D. Vitali, I Celti in Italia, in I Celti, Catalogo della Mostra, Mila­ no, Bompiani, 1991, pp. 220-235.

La romanizzazione dell’Etruria G.A. Camporeale, La romanizzazione, in Gli Etruschi e l’Europa, cit., pp. 102-109. A. Carandini (a cura di), La romanizzazione dell’Etruria. Il terri­ torio di Vulci, Catalogo della Mostra, Firenze-Milano, Electa, 1985. L'età del declino, in Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, cit., pp. 309-398. G.A. Mansuelli, L'ultima Etruria, Bologna, Patron, 1988.

116

5 . La religione G.A. Camporeale, La «disciplina» etrusca: spazi celesti, spazi ter­ restri, in Gli Etnischi e l’Europa, cit., pp. 78-85. - L’oltretomba, in Gli Etruschi e l’Europa, cit., pp. 92-101. G. Colonna, Il culto dei morti, in Cristofani (a cura di), Civiltà degli Etruschi, cit., p. 290. A. Maggiani e E. Simon, Il pensiero scientifico e religioso, in Cri­ stofani (a cura di), Gli Etruschi. Una nuova immagine, cit., pp. 136-167. M. Torelli, La religione, in Rasenna. Storia e civiltà degli Etru­ schi, cit., pp. 159-237. 6. L’arte R. Bianchi-Bandinelli e M. Torelli, L’arte dell’antichità classica. II: Etruria-Roma, Torino, UTET, 1978. G. Colonna, voce Etrusca, arte, in Enciclopedia dell’Arte Antica, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1994, II supple­ mento (1971-1994), pp. 554-605. M. Cristofani, L’arte degli Etruschi. Produzione e consumo, Tori­ no, Einaudi, 1978. M. Torelli, L’arte degli Etruschi, Bari, Laterza, 1985.

Uarchitettura: impianti urbani ed edifici Architettura etrusca nel Viterbese. Ricerche svedesi a San Giove­ nale e Acquarossa 1956-1986, Roma, De Luca, 1986. G. Colonna, Urbanistica e architettura, in Rasenna. Storia e civil­ tà degli Etruschi, cit., pp. 371-530. F. Prayon, Fruhetruskische Grab- und Hausarchitektur, Heidel­ berg, F.H. Kerle, 1975. Santuari d ’Etruria, Catalogo della Mostra, Firenze-Milano, Electa, 1985. G. Sassatelli, La città etrusca di Marzabotto, Bologna, Grafis Edi­ zioni, 1989. S. Stopponi (a cura di), Case e palazzi d’Etruria, Catalogo della Mostra, Firenze-Milano, Electa, 1985. Plastica funeraria, votiva e templare M. Cristofani (a cura di), I bronzi degli Etruschi, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1985. 117

S. Haynes, Etruscan Bronzes, London, Sotheby’s Publications, 1985, M. Torelli, La création étrusque, in La sculpture. Le prestige de

l’antiquité du VHP siècle avant J.C. au Ve siècle après J.C., Genève, Skira, 1991. E.H. Richardson, Etruscan Votive Bronzes, Geometric, Orientali­ zing, Archaic, Mainz, Philipp von Zabern, 1983.

Pittura funeraria A.E. Feruglio (a cura di), Pittura etrusca a Orvieto, Catalogo del­ la Mostra, Roma, Kappa, 1982. M.A. Rizzo (a cura di), Pittura etrusca al Museo di Villa Giulia, Catalogo della Mostra, Roma, De Luca, 1989. S. Steingràber (a cura di), Etruskische Wandmalerei, Tokyo, Iwanami Shotens, 1984; trad. it. Catalogo ragionato della pit­ tura etrusca , Milano, Jaca Book, 1985. M. Torelli, «Limina Averni». Realtà e rappresentazione nella pit­ tura tarquiniese arcaica, in M. Torelli, Il rango, il rito e l’im­

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Ceramica, arti minori e artigianato artistico M. Cristofani e M. Martelli, L’oro degli Etruschi, Novara, Istitu­ to Geografico De Agostini, 1983. A. Maggiani (a cura di), Artigianato artistico in Etruria, Catalogo della Mostra, Firenze-Milano, Electa, 1985. M. Martelli (a cura di). La ceramica degli Etruschi. La pittura va­ scolare, Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1987. M. Scarpignato, Oreficerie etnische arcaiche, Roma, L’Erma di Bretschneider, 1985.

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INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

INDICE DEI NOMI E DELLE COSE NOTEVOLI

Acquarossa, 15, 22, 87, 88, 95 Ade, vedi Aita Afrodite, ved i Turan Afuna, famiglia, 44 Aita (Hades), divinità, 50, 71, 73, 76 Alalia, 50, 56, 57 Annio da Viterbo, 9 Antepagmentum, 89, 92, fig. 10 Anticlide, 32, 33 A p(u)lu (Apollon/Apollo), divini­ tà, 4 8 ,7 1 -7 3 ,9 1 Ara P ad s, 97 Aranth Silquetenas Spurianas, 52 Arezzo, 21, 62 Argonauti, 104 Arimnesto, re etrusco, 49 Aristodemo, tiranno di Cuma, 56 Aristonoto, 48, 98 Aristotele di Stagira, 45 Artumes (Artemis/Diana), divini­ tà, 72 Astarte, divinità, 42, 49 Atena, ved i Menerva Ateneo, 27 Atys, re di Lidia, 31 Augusto, Gaio Giulio Cesare O t­ taviano, imperatore, 62

Canina, Luigi, 10 Capua, 25, 38, 43, 46, 57 cardo, 86 casa a cortile o ad atrio, 88, 108 casa con tetto a padiglione, 88 Ca(v)tha, divinità, 43, 70, 73 Cecina, Aulo, 13 Cel, divinità, 70 Cerveteri, 17, 21, 23, 42, 46, 48, 49, 52, 59-61, 71, 87, 88, 90, 91, 95, 99, 101, 102, 109 necropoli di, 10, 46, 109 Charun (Charon), demone, 81, 82, 97 Chimera di Arezzo, 9, 108 Chiusi, 10, 19, 21, 53, 55, 57, 60, 90, 95, 99, 109 Cicerone, M arco Tullio, 13, 65 Cippo di Perugia, 44 Cista Ficoroni, 104 Claudio, Tiberio Druso G erm ani­ co, imperatore, 12, 13 Clelia, 53 Corssen, W ilhelm , 11 Cortona, 19, 40, 44, 99 Cratere di Vix, 54 croce celeste, 69-71 Culsans, divinità, 70, 73

Bacile di Hochdorf, 54 Bòcklin, Arnold, 108 Bologna/Felsina, 36, 38, 47 Bolsena,15, 26, 62 Brenno, 55, 60 bronzo, età del, 21, 22, 35, 36, 97 Brunn, H einrich, 11

decumanus, 86 Deecke, W ilhelm , 11 Demarato di Corinto, 48 Dennis, George, 10 Diana del lago di Nemi, 103, 110, fig- 17 Diodoro Siculo, 8, 12, 20, 58 Dionigi di Alicarnasso, 12, 32, 40, 56

Calu, divinità, 44

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Dionigi II di Siracusa, 59 Dioniso, ved i Fufluns disciplina etrusca, 65, 67, 78, 79, 80 dottrina dei saecula, 79, 80 Eforo di Cuma, 45 Ellanico di M itilene, 32 Elogia tarquiniensia, 52 Era, ved i Uni Eracle, ved i H ercle Eraclide Pontico, 27 Erodoto, 12, 31, 32, 50, 56 Esiodo, 31 Fanum Voltumnae, 25, 77 Fegato di Piacenza, 67, 77 ferro, età del, 17, 36, 47 Festo, Sesto Pompeo, 65 Fufluns (Dionysos/Bacchus), divi­ nità, 46, 69, 70, 72, 73 Gerhard, Eduard, 10 Giacometti, Alberto, 104, 110 Gori, Anton Francesco, 10 Guarnacci, M ario, 10 H erbig, Gustav, 11 H ercle (H erakles), divinità, 50, 73, 79 H uxley, Aldous, 108 hydriai ceretane, 101 Ianus, divinità, 73 Ierone di Siracusa, 58 Katakina, Avile, 55 Kòrte, Gustav, 11 Lamine di Pyrgi, 16, 25, 42, 43, 4 9 ,9 4 Lanzi, Luigi, 10 Lapis niger, 52 Laran (Ares/Mars), divinità, 72, 73, 76 Larth Tulumne, re etrusco, 26 La Tène, cultura di, 54 Lawrence, David Herbert, 108, 109 Letham, divinità, 44

122

lex Iulia, 62 liber linteus, 16, 43 Libri acheruntici o fatales, 44, 81 Libri fulgurales, 65 Libri haruspicini, 65 Libri rituales, 65, 82 lituus, 57, 107 Livio, Tito, 12, 21, 26, 29, 55, 59, 61 Lupa capitolina, 93, fig. 11 Lvsl, divinità, 71 M aris, divinità etrusca, 73 M ars, ved i Laran M arte di Todi, 73 M arzabotto, 24, 47, 71, 86 M arziano Capella, 69 M astarna (Servio Tullio), re di Roma, 1 3 ,2 9 ,5 1 Mecenate, Gaio Cilnio, 62, 63 M edici, fam iglia, 9 Melanippo, gigante mitologico, 92 M enerva (Tecum/Athena/Minerva), 70, 72, 76, 86, 92 Metele, Av(i)le (Aulus M etellus), 94 M iiller, Karl Otfried, 11 M ummia di Zagabria, 16, 43 Muzio Scevola, 53 Nethuns (Poseidon/Neptunus), d i­ vinità, 43, 70, 76 Nettuno, vedi Nethuns Northia, divinità, 76 Olimpia, santuario di Zeus, 49, 58 Ombra della sera, 104, 110 Omero, 98 Orvieto/Volsinii, 19, 24-26, 50, 55, 62, 76, 77, 81, 83, 90, 93, 95, 99, 101 necropoli di, 24 testa di uomo dal tempio di Belvedere, 93, fig. 12 Pallottino, Massimo, 11 Pauli, Carl, 11 Pausania, 49

Persefone, ved i Phersipnai Phersipnai (Persephone), divinità, 50, 73 Phersu, 96, 108, fig. 14 Pindaro, 58 Plautios, Novios, 104 Plinio il Vecchio, Gaio Secondo, 20, 65, 69, 77, 90, 91 Pontecagnano, necropoli di, 38, 46 Populonia, 1 7 , 21, 22, 24 Porsenna, Arruns, 57 Porsenna, Laris, re di Chiusi, 10, 53, 57 Posidonio di Apamea, 8, 27, 107, 108 Pyrgi, 16, 25, 42, 43, 49, 76, 60, 94 santuario di, 25, 59 tempio A, 92, fig. 10 Roma, cloaca maxima, 51 regia, 88 tempio di Giove Capitolino, 52 tempio di Servio Tullio, 52 Romolo, re di Roma, 51 Sarcofago degli sposi, 91, fig. 8 Scipione l ’Africano, Publio Cor­ nelio, 21 sella curulis, 51, 107 Selvans (Silvanus/Term inus), d i­ vinità, 44, 76 Seneca, Lucio Anneo, 65, 67 Serse, re di Persia, 57 Servio Tullio, vedi M astarna Sethlans (Hephaistos/Vulcanus), divinità, 72, 76 Silvanus, vedi Selvans Sostrato di Egina, 48 Specchio di Tarconte, 67, 68, 104, fig. 3 Spuriana/Spurinna, famiglia, 52 Statua deU’Arringatore, 9, 94, fig. 13 Strabone, 32, 45 Svetonio Tranquillo, Gaio, 12 Tages, creatura mitologica, 66

Tanaquil, moglie di Tarquinio Prisco, 29 Tarconte/Tarchunes, 66-68, fig. 3 Tarquini, dinastia, 53, 57 Tarquinia, 17, 21, 23, 24, 36-38, 48, 50, 52, 60, 61, 66, 67, 76, 81, 83, 99 necropoli di, 10, 109 Tarquinio il Superbo, re di Roma, 5 1 ,5 3 Tarquinio Prisco, re di Roma, 29, 5 1 ,9 1 Tarquitius Priscus o Tuscus, 13 Tavoletta scrittoria di M arsiliana d ’Albegna, 39 Tegola di Capua, 43 tempio «tuscanico», 89 Teofrasto, 52 Teopompo di Chio, 12, 27 Thefarie Velianas, re, 25, 42 Thesan (Eos), divinità, 76 Thulin, Cari O., 65 Tideo, gigante mitologico, 92 Timeo di Tauromene, 27 Tinia (Zeus/Jupiter), divinità, 49, 70, 72, 76, 77, 80, 86, 91, 92, 94 Tirseno, figlio di Atys, 31, 32 Tluscv, divinità, 71 tomba a camera scavata, 95 Tomba a pseudo-cupola «d ella M ula», 9 Tomba a tumulo di Castellina in Chianti, 9 Tomba degli auguri, 96, fig. 14 Tomba degli scudi e delle sedie, 87, fig. 6 Tomba dei Caronti, 82 Tomba dei Demoni, 82 Tomba dei rilievi, 74, 75, fig. 5 Tomba del guerriero, 38 Tomba dell’Orco, 50 Tomba della caccia e della pesca, 96 Tomba della capanna, 74, fig. 5 Tomba Francois, 13, 24 Tomba Golini, 50 Tombe a camera di Sant’Onofrio, 53

123

Tombe principesche di P alestri­ na, 46 Torp, Alf, 42 Tripodi Loebsch, 103 Tucidide, 12 Turan (Aphrodite/Venus), divini­ tà, 4 8 ,7 1 -7 3 ,7 6 Turms (Hermes), 76 Uni (Hera/Juno), divinità, 42, 48, 49, 72, 76, 86 Urna di Volterra, 91, fig. 9 Usil (Helios), divinità, 73, 76, 77 Vanth, demone, 81, 97 Varrone, M arco Terenzio, 20, 65, 80, 91 vasellame in bucchero, 99, 100

124

vasi pontici, 100 Veio, 19, 25, 26, 37, 46, 52, 53, 59-62, 95 santuario di Portonaccio, 91, fig. 7 Veive (Veiove), divinità, 43 Velthina, famiglia, 44 Velthune, divinità, 67, 77 Villanova, necropoli di, 47 cultura di, 35-38, 51, 85 Vitruvio Pollione, 89, 108 Volterra, 15, 17, 21, 23, 91, 101, 104, 110 Vulca, 91 Vulci, 13, 17, 21, 23-25, 37, 48, 90, 99, 100, 103 necropoli di, 10 Zeus, ved i Tinia

Finito di stampare nel febbraio 1999 dalla litosei via bellini, 22/4, rastignano, bologna

UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO

STORIA

Pekàry T., S to ria econom ica d e l m ondo antico Lotze D., S to ria greca Gschnitzer F., S to ria sociale d e ll’antica G recia Prayon F., G li etruschi Bringmann K., Storia rom ana Alfòldy G., S toria sociale dell'antica Rom a Vincent C., S toria d e ll’O ccidente m edievale Brunner O., S to ria sociale d e ll’Europa n e l M edioevo Fink K.A., Chiesa e papato n e l M edioevo Watt M., C ristia n i e m usulm ani Burke P., I l R inascim ento Braudel F., E spansione europea e capitalism o Huppert G., S to ria sociale d e ll’E uropa n e lla p rim a età m o d ern a Monter W., R iti, m itologia e magia in Europa a l l’inizio d e ll’età m oderna

Weisser M.R., C rim in alità e repressione n e ll’Europa m oderna Rady M., C arlo V e il suo tem po Tenenti A., D alle riv o lte a lle rivolu zion i Campbell P.R., L u ig i X I V e la Francia d e l suo tempo Le Rider J., M itteleuropa. S toria d i un m ito Outram D., L ’Illum inism o Forrest A., La R ivolu zion e fran cese Criscuolo V., N apoleone Betts R.F.,

L ’alb a illu so ria. L ’im p erialism o europeo n e ll’O tto ­

cento

Overy R.J., C risi tra le due guerre m o n d iali 1 9 1 9 - 1 9 3 9 Malia M., La rivo lu zio n e russa e i suoi svilu p pi De Grand A.J., L ’Italia fascista e la G erm an ia nazista Taylor A.J.P., S toria della seconda guerra m ondiale Wallace W., Le trasform azion i d e ll’Europa occidentale Pirjevec J., Serbi, Croati, Sloveni. Storia d i tre n azion i Prévélakis G., I B alcani

Grigg D., S toria d e ll’agricoltura in occidente Flinn M.W., I l sistem a dem ografico europeo (1 5 0 0 -1 8 2 0 ) Mokyr J., Leggere la rivolu zion e in d ustriale Wrigley E.A., La rivolu zion e in d u striale in In g h ilterra Toniolo G., S to ria econom ica d e ll’Italia lib erale 1 8 5 0 - 1 9 1 8 STUDI RELIGIOSI

Coggins R.J., Introduzione a l l’A n tic o Testam ento Cullmann O., Introduzione a l N uovo T estam ento Schneemelcher W., I l cristianesim o d elle o rig in i Brooke R. e Brooke C., La religione popolare n e ll’Europa

m edie­

vale

Merlo G.G., E retici ed eresie m edievali Schorn-Schùtte L., La riform a p rotestan te FILOSOFIA

Hollis M.,

In trod u zion e a lla filo so fia

Armstrong A.H., Introduzione a lla filo so fia Kerferd G.B., I sofisti Guthrie W.K.C., Socrate Melling D.J., F iaton e Ross D., F iaton e e la teoria d elle idee Ackrill J.L., A risto te le De Libera A.,

antica

La filo so fia tnedievale

Bloch E., F ilosofia d e l R inascim ento Cottingham J., C artesio Yolton J.W., Joh n Locke Ayer A.J., V o lta ire Hòffe O., Im m an u el K a n t Gallie W.B., F ilosofie d i pace

e guerra, K ant, C lausew itz, M arx, Engels, T olstoj Taylor C., H egel e la società m oderna Bloch E., K a rl M arx Murphy J.P., I l pragm atism o Schòpf A., F reu d e la filo so fia contem poranea Bernet R., Kern I. e Marbach E., Edm und H usserl Jay M., Theodor W . A d o rn o Roberts J., W a lte r Benjam in

Bleicher J., L ‘erm eneutica contem poranea Russ J., L ’etica contem poranea Bechtel W.,

F ilosofia della m ente

STORIA E FILOSOFIA DELLA SCIENZA

Grant E., La scienza n e l M edioevo Butterfield H., Le o rig in i d ella scienza m oderna Drake S., G a lileo Westfall R.S., La rivo lu zio n e scientifica d el X V I I secolo Harman P.H., Energia, fo rz a e m ateria. Lo sviluppo della

fisica

n e ll’O ttocento Coleman W., La biologia n e ll’O ttocento Allen G.E., L a biologia contem poranea

Granger G.G., La scienza e le scienze Kosso P., Leggere i l libro della natura.

In trod u zion e alla filo s o fia

d ella scienza

CRITICA LETTERARIA

Hoy D.C., I l circolo

erm eneutico. Letteratura, storia ed erm eneutica filo so fica Scholes R., Sem iotica e interpretazione Meyer M., La retorica Renzi L., Coinè leggere la poesia Beltrami P.G., G li strum enti della poesia. G uida alla metrica italiana

de Romilly La tragedia greca Wapnewski P., La letteratu ra tedesca d e l M edioevo Zink M., L a lettera tu ra fran cese d e l M edioevo Mòlk U., L a lirica dei tro v a to ri Dronke P., D an te e le trad izio n i la tin e m ed ievali Hòlscher-Lohmeyer D., G oethe Brombert V., S ten d h a l Frye N., T.S. E liot Kaempfer W., E rnst ] linger Lorenzini N., La poesia italia n a d el N ovecento MUSICA E SPETTACOLO

Dahlhaus C. e Eggebrecht H.H., C he cos’è la m usica? Besseler H., L ’ascolto m usicale n e ll’età m oderna

Bianconi L., I l teatro D’Amico F., I l teatro

d ’opera in Italia d i R ossini

Elam K., Sem iotica d e l teatro Maravall J.A., Teatro e le tte ra tu ra n ella Spagna barocca Taviani F., U om ini d i scena, u om in i d i libro. In trod u zion e

alla

le tte ra tu ra teatrale italia n a d e l N ovecento

PSICOLOGIA E SCIENZE COGNITIVE

Sanford A.J., La m ente Tabossi P., Intelligenza

d e ll’uom o n atu rale e in telligenza artific iale

DEMOGRAFIA

Vallin J., Véron J.,

La popolazione m ondiale P opolazione e sviluppo

SOCIOLOGIA

Elster J .,

Com e si studia la società. Una «cassetta d egli attrezzi» p e r le scienze sociali Giddens A., D urkheim Parkin F., M ax W eb er Hamilton P., Talcott Parsons

Coulter J., M ente, conoscenza, società Popitz H., F enom enologia d e l potere Poggi G., I l gioco d ei p o te ri Kaufmann J.-C., La vita a due. Sociologia della coppia Laslett P., U na n u ova mappa d ella vita. L ’em ergere d ella Willaime J.P., Sociologia d elle relig io n i Wilson B.R., La religione n e l m ondo contem poraneo Wolff J., Sociologia d elle a r ti ANTROPOLOGIA CULTURALE

Rivière C., In trod u zion e a l l’antropologia Schneider H.K., A ntro p o lo g ia econom ica Lewellen T.C., A n tro p o lo g ia politica

terza età

P O L IT IC A

Rosen K., I l pensiero politico d e ll’antichità Laurent A., S toria d e ll’individualism o Shklar J.N., M ontesquieu McLellan D., M arx Poggi G., Lo stato. Natura, sviluppo, p rosp ettive Kellas J.G., N azionalism i ed etnie Lijphart A., L e dem ocrazie contem poranee Moreau Defarges P., Introduzione a lla geopolitica Wallace W., L e trasfo rm azion i d e ll’Europa occidentale Lippolis V., La cittadinanza europea ECONOMIA

Dasgupta A.K., La teoria econom ica da Sm ith a K eynes Skidelsky R., K eynes Phelps E.S., S ette scuole d i pensiero. U n ’in terp retazio ne d ella

teo ­

ria m acroeconom ica Arndt H.W., Lo sviluppo econom ico. Storia d i u n ’idea

Lafay G., C apire la globalizzazione Dal Bosco E., L'econom ia m ondiale in trasform azione Grigg D., La dinam ica d e l m utam ento in agricoltura Cottrell A.Eh, A m b ien te ed econom ia delle risorse Solow R.M., I l m ercato d e l lavoro come istituzione sociale Stiglitz J.E., Il ru olo econom ico dello stato Zanetti G. e Alzona G., C apire le p rivatizzazion i DIRITTO

Ducos M., R om a e i l diritto Mcllwain C.H., C ostituzionalism o antico e m oderno Galgano F., L ex m ercatoria. S toria d e l d iritto com m erciale De Vergottini G., Le tran sizio n i costituzionali Giannini M.S., Il pubblico potere. S ta ti e am m in istrazio n i bliche

pub­

A partire dall’VIII secolo a.C. gli etruschi dominarono gran parte dell’Italia, intrattennero rapporti commerciali ad ampio raggio con fenici e greci, civilizzarono la prima Roma, per poi, nel corso del III secolo a.C., soccombere al suo potere. Ma chi era questo popolo rimasto a lungo tra gli enigmi della storia, le cui origini risultano controverse già nella tradizione storiografica antica? Cosa sappiamo noi oggi degli etruschi, delle loro condizioni di vita, della loro originale produzione artistica - si pensi alla grande pittura tombale, ai bronzi, ai sarcofagi in pietra - dei costumi, della lingua e delle concezioni religiose, che sembrarono tanto strani e meravigliosi ai contemporanei? Basato su nuove conoscenze archeologiche, questo libro fa il punto sulla storia, sulla religione e sull’arte di uno dei popoli più interessanti e inquietanti dell’antichità. F ried h elm P rayon è professo re di A rcheo lo gia e tru sco -ita lica n e ll’U n iv ersità di T ubinga.

Lire 16.000 (i.i.) Cover design: Miguel Sal & C.

Società editrice il Mulino 9788815068873