Gli Etruschi - La scrittura, la lingua, la società [Paperback ed.]
 9788843093090

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Gli Etruschi La scrittura, la lingua, la società

Vincenzo Bellelli, Enrico Benelli

Carocci editore

@ Studi Superiori

Carocci editore

@ Studi Superiori

Le iscrizioni etrusche sono estremamente ricche di informazioni sulla civiltà che le ha prodotte e illustrano in modo diretto numerosi aspetti delle istituzioni, della religione, dell'economia e dell'organizzazione sociale degli Etruschi. Il potenziale informativo di questi documenti, tuttavia, è stato raramente utilizzato in modo organico nelle indagini in materia. Il volume offre una trattazione sistematica dell'evidenza documentaria che permette al lettore di penetrare una materia spesso ritenuta, a torto, oscura. L'analisi delle testimonianze epigrafi.che consente di percepire un'immagine viva e multiforme della civiltà etrusca nel suo sviluppo storico, ii.no alla sua integrazione nel mondo romano. Attraverso una lettura innovativa di testi noti e meno noti, la quotidianità del culto, le strategie matrimoniali delle casate aristocratiche, le tracce scritte lasciate da artigiani e mercanti, il funzionamento della macchina politica accompagnano il lettore alla scoperta della storia della società etrusca tramite la viva voce dei suoi protagonisti. Vincenzo Bt>llelli. etruscologo, ricercatore presso il CNR e membro corrispondente dell'Istituto nazionale di studi etruschi ed italici, è responsabile degli scavi del CNR a Cerveteri e della relativa collana, e direttore della rivista "Mediterranea".

Enrico Bent>lli. etruscologo, ricercatore presso il CNR e membro corrispondente dell'Istituto nazionale di studi etruschi ed italici, è specialista di epigrafia etrusca e redattore del Corpus lnscriptionum Etruscarum e del Thesaurus linguae Etruscae.

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ISBN 978-88-430-9309-0

€ 24,00

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Vincenzo Bellelli

Enrico Benelli

Gli Etruschi La scrittura, la lingua, la società

Carocci editore

1' edizione, settembre lOI8 © copyright lOI8 by Carocci editore S.p.A., Roma

Realizzazione editoriale: Fregi e Majuscole, Torino Finito di stampare nel settembre lo18 da Grafiche VD srl. Città di Castello (PG)

ISBN 978-88-430-9309-o

Riproduzione vietata ai sensi di legge (are. 171 della legge n aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Premessa

II

I.

Aspetti generali

15

I.I.

18

r.3.

Il contesto della ricerca Lingua e origini Gli strumenti di lavoro

2.

La scrittura

2.I.

Un incunabolo di interpretazione controversa: l'iscrizione di Osteria dell'Osa L'introduzione dell'alfabeto greco in Etruria

1.2.

2.2.

15 21

l.l.I. I primi documenti/ l.l.l. Una trasmissione anomala/ l.l.3. Le scritture etrusche: area settentrionale e area meridionale

La diffusione della scrittura etrusca in Italia l.3.1. L'etrusco come modello / l.3.l. Il latino e il falisco / l.3.3. Il venetico / l.3-4- Il retico / l.3.5. Il leponzio / l.3.6. La siruazione in Campania/ l.3.7. La scrittura etrusca in area padana

2.4.

Le scritture etrusche: la fase arcaica

52

l.4.1. Periodizzazione delle scritture etrusche / l.4.l. Caratteristiche delle scritture arcaiche/ l.4.3. La riforma euboizzante / l.4.4. La scuola veiente / l.4.5. Il tardo arcaismo: dalla scuola chiusina alla riforma ceri te

2.5.

Le scritture etrusche: la fase recente l.5.1. Serie grafiche etrusche fra v e IV secolo a.C. / l.5.l. Il III secolo a.C. / l.5.3. L'alfabeto "nazionale" etrusco / l.5.4. L'arrivo della

scrittura latina

7

66

3.

La lingua

77

3.1.

I metodi nell'interpretazione dell'etrusco Elementi di lingua

77 81

3,2..

p .. 1. Fonetica e fonologia/ 3,2-.2. Morfologia/ 3.2.3. Tracci dialettali e varietà regionali

4.

Voci dal mondo etrusco. Il contenuto delle iscrizioni

l01

4.1.

Il lessico

101

4.1.1. Aspetti generali / 4.1.2. Termini istituzionali / 4.1.3. Parole del sacro / 4.1.4. Termini di parentela / 4.1.5. Lessico funerario / 4.1.6. Parole del quotidiano e "termini di cultura"/ 4.1.7. Didascalie e "bilingui figurate" / 4. 1.8. I numerali

4.2..

Il sistema onomastico

12.7

4.2.1. Principi generali / 4.2.2. Componenti della formula/ 4.2.3. I nomi degli dèi / 4.2.4. Emici e toponimi

5.

La società etrusca nella documentazione epigrafica

153

5.1.

Nascita e fase iniziale

153

5.1.1. Formazione di una cultura epigrafica/ 5.1.2. L'epigrafia delle aristocrazie: il possesso e il dono/ 5.1.3. Città aperte: la mobilità individuale/ 5.1.4. Artigiani che scrivono

5.2..

La piena fase arcaica e il tardo arcaismo

162.

5.2.1. La nascita di nuove classi epigrafiche/ 5.2.2. L'epigrafia funeraria/ 5.2.3. L'epigrafia sacra/ 5.2.4. La scrittura nel mondo di artigiani

e mercanti

5.3.

La fase recente

186

5.3.1. La palingenesi dell'epigrafia/ 5.3.2. L'epigrafia sacra/ 5.3.3. L'epigrafia funeraria: le esperienze meridionali nella prima parte della fase recente/ 5.3.4. L'epigrafia funeraria: crisi e cambiamento in Ecruria meridionale nella carda fase recente / 5.3.5. L'epigrafia funeraria: !'Etruria settentrionale/ 5.3.6. L'epigrafia pubblica/ 5.3-7. Epigrafia e artigianato in età ellenistica

5-4-

La transizione al latino

2.07

8

Referenze iconografiche

2II

Bibliografia

213

Indice lessicale

Indice dei luoghi

237

9

Premessa

Nell'immaginario comune, la dizione "epigrafia etrusca" può facilmente evocare una disciplina astrusa, riservata a pochi iniziaci, di.e, dissezionando parole arcane nelle lingue più oscure, giungono, dopo sforzi inauditi, ad almanaccare delle traduzioni che, un po' per l'uso di vocaboli desueti e oscuri, un po' per il miscuglio di parole, punti di domanda e segni cabalistici più o meno stravaganti, restano comunque incomprensibili ai più, trasmettendo in genere la vaga impressione che dietro quei guazzabugli di simboli si nascondano indefinibili verità esoteriche. Questa è l'idea che incarna il professor Guidoberto di Gianni Rodari, che dedica invano tutta la propria vita all'improbo compito della traduzione del Cippo di Perugia (apprendendo, nel corso della sua ricerca, duecentoquattordici lingue, che lo mettono in grado di illustrare il museo umbro a persone giunte dagli angoli più remoti del pianeta); e questa è l'idea ironicamente ricorrente negli scritti di Umberto Eco, che ha invocato più volte l'intervento dell'etruscologo come unico specialista in grado di decifrare messaggi sibillini (come i manuali di informatica degli anni Ottanta). Niente di più lontano dalla realtà. L'epigrafia etrusca, come tutte le epigrafie, con le quali condivide le linee metodologiche generali, è una disciplina storica, il cui obiettivo è capire come le informazioni contenute nei testi scritti possano contribuire a ricostruire frammenti di storia della civiltà etrusca. Certo, a tutti noi piacerebbe un giorno arrivare a tradurre quei pochi testi lunghi che ancora capiamo solo nelle linee generali; ma questo non è certo l'obiettivo primario della ricerca. Il fatto che non riusciamo a tradurre parola per parola una ventina scarsa di testi dal contenuto eccezionale non è particolarmente rilevante di fronte al fatto che riusciamo comunque a capire perfettamente più di diecimila iscrizioni dal contenuto più ordinario e che queste iscrizioni contengono un potenziale immenso di infor-

II

GLI ETRUSCHI

mazioni storiche. Compito dell'epigrafista è, prima di rutto, estrarre queste informazioni. Tutto ciò che sappiamo della struttura politica delle città etrusche deriva dalle iscrizioni. Anche per la religione potrebbe dirsi lo stesso, dato che le informazioni dei testi letterari si limitano praticamente a un solo aspetto della liturgia, la divinazione; per tutto il resto dobbiamo rivolgerci all'epigrafia, oltre che all'archeologia. E sono ancora le iscrizioni a darci la maggior parte delle informazioni in nostro possesso sulla società etrusca (e, incidentalmente, a permetterci di capire che le notizie in materia tramandate dagli scrittori antichi a noi pervenuti sono grossolanamente distorte), dal livello più elementare delle strutture della vita familiare fino al funzionamento delle alleanze matrimoniali tra le grandi casate aristocratiche. Il senso di questo manuale sta tutto qui: spiegare metodi e obiettivi di una disciplina che è parte integrante e imprescindibile della ricerca etruscologica. Da questo deriva anche la scelta di inserire in questo libro un numero di immagini relativamente elevato, che serve a rendere evidente l'importanza della materialità del testo epigrafico, senza la quale non può esservi lettura sensata. Perché le iscrizioni non sono testi letterari, sono qualcosa di diverso; ciò che caratterizza la scrittura epigrafica è il fatto che il messaggio viene trasmesso attraverso più canali. Il testo costituisce solo una parte di questo messaggio (a volte, nemmeno la più rilevante), che acquisisce senso solo quando viene letto insieme alle altre parti: la scelta di un determinato supporto, di una determinata posizione su di esso, di una determinata collocazione spaziale, di una determinata relazione - fisica e contenutistica - con altri testi, vicini e lontani. Decodificare l'insieme dei messaggi è ciò che chiamiamo "epigrafia". L'idea di scrivere questo libro è nata alcuni anni fa da una conversazione con Andrea Ercolani, amico e collega al CNR-ISMA. Parlando con lui del panorama editoriale di interesse etruscologico, e specialmente di quello destinato a un'utenza allargata, notavamo allora che uno dei settori in cui c'erano ancora margini per dire qualcosa di utile, oltre che di nuovo e originale, era forse quello della storia sociale. Approfondendo la questione, siamo poi arrivati alla conclusione che in un lavoro del genere poteva essere riversato con qualche profitto anche l' ingente patrimonio di conoscenze epigrafico-linguistiche sull'etrusco, che

12.

PREMESSA

spes~o, purtroppo, viene utilizzato senza troppi scrupoli da linguisti dilettanti, con scarso beneficio per il progresso delle conoscenze. Ne è scaturito questo libro, che si pone alla fine di un percorso di studio risultato lungo e non semplice, innanzitutto per organizzare l'architettura del lavoro, in secondo luogo per la difficoltà di raccogliere e presentare in maniera chiara al lettore informazioni talvolta molto tecniche, su argomenti spesso controversi. Sebbene ci sia stato da parte nostra un serio tentativo di semplificazione dei concetti, il libro non è rivolto esclusivamente agli studenti universitari, ma potenzialmente a tutti coloro che vogliono sapere qualcosa di più della società etrusca e sono attratti da questa affascinante civiltà del passato. L'opera rappresenta il frutto di un rapporto ventennale di amicizia e lavoro condiviso, presso il Consiglio nazionale delle ricerche ( CNR), dove hanno operato a lungo due maestri degli studi etruscologici: Massimo Pallottino e Mauro Cristofani. Due storici dell'antichità, occorre aggiungere, che hanno segnato i progressi della disciplina anche sul versante degli studi di epigrafia e linguistica. I debiti scientifici contratti nel tempo nei confronti di questi due maestri e nei confronti dei loro allievi che, non per caso, sono anche fra gli studiosi più frequentemente citati in questo libro, a cominciare da Giovanni Colonna e Adriano Maggiani (anche quest'ultimo con una importante "tappa" professionale al CNR!), risulteranno ovvi per il lettore più attento. Il libro, da questo punto di vista, è anche un omaggio al modo in cui essi hanno interpretato e ancora interpretano l'etruscologia: a tutto campo, in maniera trasversale, con tutta la prudenza necessaria, ma al tempo stesso con la necessaria consapevolezza critica, riversando nel magma della discussione scientifica anche una materia ostica come i dati epigrafici e linguistici. La stesura del testo è scaturita da una lunga serie di intense discussioni e da un confronto dialettico a tutto campo; di Vincenzo Bellelli sono i paragrafi 1.1-1.3, 2..1, 2..3.6, 2..3.7, 4.1.3, 4.1.6-4.1.8, 4.2..3, 4.2..4, 5.1.3, 5.1.4, 5-2..4 e 5.3-7; di Enrico Benelli i paragrafi 2..2., 2..3.1-2..3.5, 2..4, 2..5, 3.2., 4.1.2., 4.1.4, 4.1.5, 4.2..1, 4.2..2., 5.1.1, 5.1.2., 5.2..1-5.2..3, 5-3-1-5-3-6 e 5.4; di elaborazione comune, oltre a questa Premessa, sono i paragrafi 3.1 e 4.1.1. Data la vastità e la complessità della materia, a dispetto dello

sforzo di omogeneizzazione messo in atto, vi potranno essere qua e là alcune sovrapposizioni negli argomenti trattati e persino qualche difformità interpretativa (oltre che stilistica), di cui chiediamo venia al lettore.

13

GLI ETRUSCHI

Ringraziamenti Ringraziamo Andrea Ercolani per il suggerimento di scrivere questo libro e i nostri Maestri, diretti e indiretti, i cui lavori ci hanno ispirato. Per l'invio di fotografie e l'autorizzazione a pubblicarle ringraziamo il Museo gregoriano etrusco (Barbara }atta, Maurizio Sannibale) e la Sovrintendenza capitolina ai beni culturali ( Claudio Parisi Presicce, Antonella Magagnini, Angela Carbonaro); il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia (Valentino Nizzo, Alessia Argento) e il Polo museale della Toscana (Stefano Casciu, Mario lozzo, Maria Gatto, Maria Cristina Guidotti); il Museo civico archeologico di Bologna (Paola Giovetti, Laura Minarini); i Musei civici di Palazzo Farnese di Piacenza (Antonella Gigli, Silvia Inzani); il Civico museo di storia ed arte/Orto lapidario di Trieste (Claudia Colecchia, Marzia Vidulli); il Civico museo archeologico di Milano (Anna Provenzali); il Musée du Louvre, Département des Antiquités grecques, étrusques et romaines (Françoise Gaultier, Laurent Haumesser), la Bibliothèque Nationale de France, Département de la Reproduction. Fra i colleghi e amici che non ci hanno fatto mancare il loro sostegno, inviandoci immagini e informazioni, ringraziamo anche Luca Cappuccini e Simonetta Stopponi, nonché, per la speciale attenzione, Françoise Gaultier, Paola Giovetti, Laurent Haumesser, Mario lozzo, Antonella Magagnini, Laura Minarini, Anna Provenzali, Maria Cristina Pirvu e Maurizio Sannibale. Roma, gennaio 2018

14

I

Aspetti generali

I.I

Il contesto della ricerca La scrittura rappresenta il discrimine fra la preistoria e la storia e, in un certo senso, la pietra di paragone dello sviluppo culturale di un popolo. È dunque opportuno e rientra nella fisiologia della ricerca che lo studio di una civiltà del passato tenga nel debito conto le testimonianze scritte della lingua che essa ci ha tramandato e che l'archeologia riporta alla luce. Il caso degli Etruschi, a giudicare dal destino storiografico di questo popolo, è tuttavia straordinario, quando lo si metta a confronto con quello delle altre civiltà antiche e, in particolar modo, di quelle fiorite nella penisola italiana nel corso del I millennio a.C. (FIG. 1.1). Non esiste infatti nessun altro popolo del mondo antico di cui, quando se ne parli in termini generali, anche in sede scientifica, non si faccia riferimento al "problema" della lingua. Praticamente tutti i libri dedicati alla civiltà etrusca includono, da molti anni a questa parte, una sezione autonoma dedicata alla scrittura e alla lingua. Alla scrittura etrusca, inoltre, sono state dedicate alcune mostre documentarie rivolte al grande pubblico, di cui una recentissima ha raccolto per l'occasione, a beneficio anche degli studiosi, tutti i cimeli dell'antica scrittura etrusca, incluso il celeberrimo libro di lino custodito a Zagabria. L'operazione, dal punto di vista del marketing culturale, non appare del tutto scontata, se si pensa alle difficoltà di comunicazione e di presentazione al pubblico di temi molto tecnici (da "addetti ai lavori"), resi ancor più ostici dalla natura poco attraente della documentazione (poco adatta e difficile da "esporre", soprattutto quando si tratta di frustuli di vaso con qualche lettera graffita). Il mercato editoriale, inoltre, è inondato di pregevoli "Storie di città" etrusche

15

GLI ETRUSCHI

FIGURA I.I

Cartina etnolinguistica dell'Italia antica (situazione al sso a.C. circa; in grigio l'area culturale etrusca)

che includono, non diversamente, trattazioni specifiche dedicate alle testimonianze scritte dei centri esaminati ( Cerveteri, Orvieto, Chiusi, Arezzo, Spina e così via). Insomma: della scrittura e della lingua etrusca, per strano che sembri per una "civiltà del libro" di cui si è perso quasi tutto (a cominciare

I. ASPETTI GENERALI

dalla letteratura), si parla ovunque si avvii una riflessione generale su questa civiltà. Come si è appena visto, l'argomento appare persino degno di essere presentato al grande pubblico in maniera organizzata e criticamente filtrata, come richiedono gli eventi di carattere espositivo, che generalmente puntano su un diverso tipo di attrattiva (per esempio, e in primo luogo, sulle manifestazioni artistiche). Quali sono le ragioni di questa peculiarità storiografica degli Etruschi e di questa rilevanza accordata alle testimonianze epigrafico-linguistiche nello storytelling relativo a questa affascinante civiltà? In effetti, a ben considerare la questione, come dimostra la riflessione storiografica avviata di recente, le analisi retrospettive dei risultati conseguiti nella ricerca linguistica applicata agli Etruschi non sono mai mancate e nelle versioni più strutturate risalgono già al periodo compreso fra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento. A quest'epoca, infatti, risalgono le prime dettagliate rassegne di quanto fino ad allora si era prodotto, a proposito degli Etruschi, in campo epigrafico-linguistico. Non si tratta dunque di un indirizzo moderno della ricerca: la tendenza a produrre bilanci e rassegne degli studi linguistici può dirsi una costante della ricerca etruscologica, che può vantare a questo riguardo già una ragguardevole produzione di storia della storiografia (cfr. p. 18, Nota bibliografica). Considerato in un'ottica comparativa (con quanto avviene per le altre civiltà antiche oggetto di riflessione storiografica), il fenomeno ha però qualcosa di parossistico: infatti è come se si assistesse a un continuo ripiegamento riflessivo, motivato dalla necessità di monitorare frequentemente i progressi conseguiti e di descrivere un percorso critico che - più che in altri casi - sembra prevedere battute di arresto, pause di riflessione e ripartenze. Spuntata ormai l'alba del nuovo millennio, quali aspetti e quali potenzialità presenta lo studio epigrafico-linguistico applicato agli Etruschi e quali sono le prospettive della ricerca in questo campo? Prima di rispondere a questa domanda, invitando il lettore a leggere questo libro, val la pena di ricordare che nello scorcio del secolo appena trascorso si è determinato un vero e proprio tornante nello studio scientifico della lingua e della scrittura etrusche, che induce a guardare al futuro con cauto ottimismo. Pur con enormi difficoltà, ormai il patrimonio di conoscenze che si è accumulato nel tempo, su cui basare analisi e ipotesi ricostruttive, è diventato cospicuo e relativamente solido. Considerando che un monumento scritto, come insegnava il fondatore

17

GLI ETRUSCHI

dell'etruscologia moderna Massimo Palloccino, ha un significato linguistico, ma anche un significato culturale, si scopre che questo patrimonio, oltre che essere utilizzabile nello studio "tecnico" della lingua, è anche una miniera di informazioni preziose sulla società etrusca. Se, dunque, gli scudi epigrafico-linguistici sulla civiltà etrusca finora sono stati prioritariamente rivolti alla ricostruzione degli aspetti linguistici, è forse arrivato il momento di utilizzare tutto questo patrimonio di conoscenze acquisite anche per tentare una storia sociale degli Etruschi.

Nota bibliografica Le mostre dedicate alla scrittura etrusca cui si è facto riferimento in questo paragrafo sono Roncalli (1985) e Bruscherei et al (2.015); iniziative analoghe in ambito italico sono le mostre sulla scrittura dei Veneti e degli Umbri (AKEO: i tempi della scrittura. Veneti antichi. Alfabeti e documenti, 2.002.; Agostiniani, Calderini, Massarelli, 2.0u). Gli scritti epigrafico-linguistici inseriti in "Storie di città", cui si è fatta allusione, sono, senza pretesa di completezza, Benelli (2.0006; 2.0046) (Chiusi e Spina); Maggiani (2.003) (Orvieto); Agostiniani (2.0096) (Arezzo); Wallace (2.0166) (Cerveteri). Qualcosa di simile è stato fatto anche per Murlo: Tuck, Wallace (2.013). Per una riflessione collettiva sulla scrittura etrusca ricca di spunti: AA.VV. (1990 ). Gli altri temi generali trattati in questo paragrafo (storia degli scudi, storia della storiografia) sono affrontati in maniera sintetica ma efficace in uno scritto postumo di Paliottino (1996), che individua nella monumentale monografia di Corssen (1874) la data di nascita della moderna riflessione linguistica sull'etrusco. Punto di svolta nel dibattito scientifico possono essere considerati due scritti di Helmut Rix, il grande glottologo tedesco scomparso nel 2.004: l'articolo pubblicato nel 1971 e la trattazione inclusa nel volume collettaneo Gli Etruschi. Una nuova immagine (1984). Molti spunti di riflessione, inoltre, si trovano negli Atti dei Convegni di Amiens dedicati alla storia moderna dell'etruscologia (Haack, Miller, 2.015; 2.016; 2.017 ). Alla storia sociale degli etruschi, salvo eccezioni (Torelli, 1981; 1987; Amann, Aigner-Foresti, 2.018), non sono stati dedicati di recente studi di ampio respiro.

I.2

Lingua e origini Prima di procedere oltre ed entrare in medias res, è utile affrontare brevemente il tema cui è dedicata una parte considerevole della letteratura etruscologica, soprattutto in ambito para- e pseudoscientifico,

I. ASPETTI GENERALI

quello del cosiddetto "mistero" della lingua e delle origini etrusche. Come ha dimostrato Pallottino, il rapporto fra i due problemi scientifici - quello della posizione linguistica dell'etrusco e quello delle origini etniche degli Etruschi - è intimo e, per così dire, immanente nella ricerca etruscologica. Tale rapporto, in qualche modo, nonostante i progressi della ricerca scientifica, si presenta ancora oggi sotto forma di nodo inestricabile a causa del cortocircuito interpretativo che ha creato una notissima fonte letteraria: le Antichita romane di Dionigi di Alicarnasso ( I 3o). In due diversi passi di quest'opera, redatta ali' epoca dell'imperatore Augusto, il retore greco che studiava la storia di Roma fornisce al lettore due informazioni complementari sugli Etruschi che, semplificando, possiamo riassumere così: 1. gli Etruschi sono una popolazione originaria dell'Italia centrale, anche se Erodoto (1 94) e altri storici antichi credevano che gli Etruschi fossero arrivati in Italia dall'Asia Minore; 2.. gli Etruschi parlavano una lingua differente da tutte le altre parlate nel mondo allora conosciuto. Un'altra opera storica di età imperiale romana, quella di Tito Livio (v 33), adombra invece un rapporto genetico fra gli Etruschi e la popolazione alpina dei Reti, i quali avrebbero parlato una sorta di etrusco imbarbarito. In questo manipolo di fonti antiche è racchiuso il nocciolo della "questione etrusca": agli occhi degli antichi, che annoveravano la lingua fra i tratti connotativi dell' ethnos, il caso etrusco presentava aspetti di ambiguità: un popolo sui generis, linguisticamente isolato. Un caso storiografico simile è quello degli Elimi, popolazione stanziata nella Sicilia occidentale, linguisticamente "misteriosa", di presunte origini anatoliche, difficile da classificare già per la storiografia greca. Tale controversa caratterizzazione etnografica degli Etruschi (popolo di incerte origini, parlante una lingua isolata, con presunti legami in ambito sia occidentale - Reti - sia orientale - Asia Minore), abbinata all'intricatissimo problema della classificazione linguistica dell'etrusco (lingua indoeuropea oppure no?), ha determinato di fatto il "via libera" a interpretazioni globali della vicenda storica etrusca che, utilizzando gli argomenti in maniera circolare, ipotizzano rapporti linguistici ed etnici con i popoli più disparati dell'antichità, senza possibilità di verifica concreta. Fra i parallelismi più suggestivi (ma più difficili da verificare!), ricordiamo quelli etrusco-ittiti e quelli etruscominoici, rivelatisi finora privi di fondamento. A oggi, sappiamo di certo che la tradizione letteraria ci ha lasciato notizie non del tutto fededegne sulla "questione etrusca" e che gli an19

GLI ETRUSCHI

tichi, quando scrivevano su questo argomento, per un motivo o per un altro, davano una rappresentazione manipolata della realtà, ancorata a punti di vista fortemente condizionati dal contesto storico e culturale di riferimento (che poteva essere favorevole o meno agli Etruschi). Non c'è dubbio, tuttavia, che la ricerca antichistica abbia confermato la sostanza delle notizie trasmesse dagli antichi scrittori soprattutto sul versante linguistico, con riferimento a specifiche connessioni con l'ambito egeo-anatolico, da una parte, e con quello retico dall'altro. In particolare, è ormai pacifico che la lingua etrusca presenti affinità molto specifiche con la lingua pre-ellenica parlata nell'isola egea di Lemno, assai prossima alla penisola anatolica, ma al tempo stesso presenti affinità significative anche con la lingua parlata da una popolazione "minore" dell'Italia preromana, proprio i Reti di cui parlava Tito Livio. La critica è divisa su come interpretare queste correlazioni linguistiche trasversali: secondo alcuni studiosi, esse sarebbero la prova di una unità originaria (anatolica) del mondo "tirrenico", ramificatasi nella preistoria recente (fine del II millennio a.C.) in due rami, uno dei quali approdato in area occidentale a seguito di un evento migratorio (etrusco d'Italia); altri studiosi invece negano recisamente la possibilità che alle origini della vicenda storica etrusca vi sia stata una migrazione di massa da est che possa aver avuto ripercussioni linguistiche e, per spiegare le analogie fra Tirrenico d'Italia e Tirrenico d'Oriente (Lemnio), ipotizzano, al contrario, uno spostamento di gruppi umani dall'Italia verso l'Egeo in piena età storica. Resta inoltre sullo sfondo il problema del carattere indoeuropeo dell'etrusco, che al momento appare sostanzialmente irrisolvibile nei termini di una parentela secca, che non può né escludersi né essere data per certa: da un lato l'etrusco presenta tratti linguistici sicuramente non indoeuropei, dall'altro tratti indoeuropeizzanti almeno in parte originari e non causati da interferenze di età storica con le lingue italiche. La "questione etrusca" resta dunque aperta e solo nuove scoperte potranno consentire un chiarimento definitivo.

Nota bibliografica La dimostrazione scientifica dell'importanza del fattore linguistico nelle ricerche sulle origini emiche degli Etruschi è data con esemplare chiarezza da Pallottino (1977). I due opposti punti di vista richiamati nel testo sui rapporti con l'Oriente sono rappresentati dagli scritti pressoché contemporanei di 20

I.

ASPETTI GENERALI

Rix (1994) e de Simone (1996). Sul problema del Retico, in particolare, cfr. Rix ( 1998a). Sui rapporti fra etrusco e lingue italiche: Quattordio Moreschini (1985); Meiser (2009). Per un quadro generale sulla questione delle origini etrusche, con riferimento anche al problema della lingua, si rimanda a Bellelli (2012.c, con numerosi contributi e riferimenti bibliografici).

I.3

Gli strumenti di lavoro A conclusione di questa parte introduttiva, per agevolare il lettore poco esperto, diamo qui di seguito, con funzione di guida e a complemento della bibliografia generale, alcune indicazioni su come orientarsi nella "selva" della bibliografia ecruscologica, illustrando brevemente i principali strumenti critici a disposizione di chi studia la civiltà etrusca da un'angolazione epigrafico-linguistica. Per i concetti fondamentali e la terminologia il lettore ha a disposizione l'ottimo Dizionario di linguistica di Cardona ( 1988 ). I repertori epigrafici di riferimento per l'etrusco sono il Corpus Inscriptionum Etruscarum (c1E), il Thesaurus Linguae Etruscae (rhLE) e la "Rivista di Epigrafia etrusca" (REE). Il CIE è una raccolta sistematica di tutte le iscrizioni etrusche venute alla luce, sotto forma di schede corredate di facsimile e immagine fotografica del testo epigrafico e del suo supporto. Si tratta di un'impresa ti tanica, avviata nell'Ottocento da studiosi italiani e tedeschi, che ha prodotto finora un congruo numero di fascicoli organizzati topograficamente. Di recente ha visto la luce il fascicolo relativo all' Etruria padana (Adria). L'impresa scientifica del CIE è attualmente coordinata dall'Istituto di studi sul Mediterraneo antico (ISMA) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) (erede del glorioso Istituto di Archeologia etrusco-italica). I fascicoli sono di grande formato e sono scritti in latino in omaggio a una convenzione accademica che appare ormai obsoleta. Analoga funzione di repertorio, ma con un carattere più agile di raccolta epigrafica di aggiornamento, presenta la REE, rubrica periodica della rivista "Studi etruschi". Si tratta di una comoda sede scientifica in cui tutti coloro che rinvengono nuove epigrafi, più o meno importanti, nel corso di scavi e ricerche, possono presentare i risultaci delle proprie scoperte epigrafiche e offrirne una prima interpretazione. L'utilità di questa rubrica è accresciuta dal fatto di prevedere, accanto alla sezione de-

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GLI ETRUSCHI

dicata agli inediti, anche una sezione dedicata alle revisioni e al commento di testi già editi. In coda a ogni puntata della REE, è redatto un utile indice topografico e degli autori. Il terzo repertorio fondamentale per gli studiosi dell'etrusco è il ThLE, cioè la raccolta sistematica, organizzata alfabeticamente, di tutte le parole etrusche attestate finora. Giunto alla seconda edizione, che aggiorna la precedente del 1978, anche questo repertorio è realizzato dall'Istituto di studi sul Mediterraneo antico del CNR. Al di là dei corpora maggiori, gli studiosi di etruscologia interessati a recuperare velocemente i dati essenziali relativi ai testi etruschi editi hanno a disposizione repertori allestiti in forma di editio minor, cioè elenchi pressoché completi di tutte le iscrizioni edite, comprensivi delle trascrizioni dei testi, dei dati identificativi essenziali (contesto di rinvenimento e cronologia) e delle referenze bibliografiche fondamentali. Attualmente, il miglior testo del genere è la raccolta curata da Rix (Etruskische texte. Editio minor, ET), che ha ricevuto un recente aggiornamento a cura del suo allievo Gerhard Meiser nel 2.014 (ET'). A lungo, gli studiosi hanno potuto avvalersi anche di un'agile crestomazia tematizzata di testi etruschi (Pallottino, 1968 ), scritta dal fondatore dell'etruscologia contemporanea. Al di là di queste pubblicazioni, sono molto utili le rassegne bibliografiche pubblicate periodicamente in riviste specializzate come la tedesca "Glotta". Purtroppo, il review article è un "genere letterario" in declino nella pubblicistica etruscologica, che fa rimpiangere i Literaturberichte di Karl Olzscha degli anni Settanta. Segnaliamo infine che di tutti i maggiori etruscologi del Novecento e del secolo appena iniziato che si sono interessati di temi epigraficolinguistici esistono utili raccolte di scritti "minori': alcune delle quali estremamente ricche. Si tratta di opere pubblicate solitamente su iniziativa di allievi e sodali, per onorare la figura di studiosi che hanno raggiunto importanti traguardi in ambito accademico e una posizione di autorevolezza scientifica riconosciuta a livello internazionale. Si possono ricordare a questo proposito gli scritti scelti di Devoto ( 1967 ), Pallottino (1979), Heurgon (1986), Pfiffìg (1995), Cristofani (2.001; 2.ou), Rix (2.001), Agostiniani (2.004), Colonna (2.005; 2.0166), Sassatelli (2.017 ). Ad alcuni di questi studiosi sono state dedicate anche ricche miscellanee di studi di argomento linguistico, nel solco della tradizione degli "studi in onore di": Marchesini, Poccetti (2.003); Facchetti (2.008a); Rocca (2.0u). 2.2.

2

La scrittura

2.1

Un incunabolo di interpretazione controversa: l'iscrizione di Osteria dell'Osa Prima che attecchisse in Etruria, in area medio-tirrenica troviamo una precocissima attestazione della scrittura alfabetica nel Latium Vetus. Date le dirette implicazioni nei temi trattati, non possiamo non spendere qualche parola su questo cimelio epigrafico venuto alla luce in una tomba a incinerazione della necropoli laziale di Osteria dell'Osa (antica Gabii, a sud-est di Roma) (FIG. 2..1). Il rinvenimento è da considerarsi eccezionale da tutti i punti di vista (cronologico, topografico, culturale, epigrafico-linguistico) e giustifica gli innumerevoli tentativi di lettura e interpretazione storica che si susseguono a ritmo incalzante (cfr. p. 2.7, Nota bibliografica). Oggetto di discussione è un testo assai breve - cinque sole lettere - tracciato con mano maldestra sulla superficie convessa di un vaso a fiasca di impasto non tornito. Prima di analizzare il testo, riassumere le opinioni correnti e proporre una nuova interpretazione, conviene ribadire dati cronologici e di contesto. Il vaso faceva parte del corredo di una tomba a incinerazione - la n. 482. - identificata, non senza margini di dubbio, come di pertinenza femminile. Nel corredo, esso "faceva sistema" con un dolio che conteneva i resti combusti della defunta. Secondo gli scavatori, il contesto dovrebbe riferirsi alla fase laziale II 62., dunque, in termini di cronologia tradizionale, al 770 a.C. circa. Il breve testo di Osteria dell'Osa, se l'inquadramento cronologico è corretto, sarebbe stato scritto più o meno nel periodo in cui i Greci di Eubea arrivavano nell'isola di Ischia: avremmo in tal caso la più antica iscrizione alfabetica d'Italia e probabilmente una delle più antiche in assoluto. Per temperare l'ecceziona2.3

GLI ETRUSCHI

FIGURA

2..1

Corredo della tomba 482. di Osteria dell'Osa con vaso a fiasca iscritto (prima metà dell'vm secolo a.C.)

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Roma, Museo nazionale romano.

2.4

2. LA SCRITTURA

lità della scoperta, che capovolge gli schemi interpretativi tradizionali, qualcuno ha sollevato dubbi sull'affidabilità stratigrafica del contesto di rinvenimento, che in effetti è anomalo: secondo la proposta degli scavatori, la tomba che conteneva il vaso, infatti, sarebbe stata ritagliata in antico ali' interno di una fossa a inumazione maschile, di pochissimo precedente, e sarebbe stata successivamente, ma in maniera del tutto superficiale, intaccata da una tomba a fossa riferibile all'Orientalizzante tardo. Altri problemi insorgono quando si esamina il cesto e si tenta di contestualizzarlo: non a caso, le letture fornice fino a questo momento sono le più disparate e non si è raggiunto il consenso neppure sulla lingua adoperata dallo scriba. Mentre, infatti, la maggioranza degli studiosi e i primi editori propendono per il greco, altri hanno pensato che si tracci di un'iscrizione arcaicissima redatta in latino. Le opinioni sono contrastanti perché l'iscrizione ha un aspetto disordinato, con due lettere (la seconda e la terza contando da sinistra) molto ravvicinate e direzione dei grafi irregolare. Insomma, la lettura di questa iscrizione antiquissima è difficoltosa, se non disperata. Identificando, come fanno i più, le lettere, da sinistra a destra, rispettivamente come epsilon, ypsilon, lambda, iota e ny, si otterrebbe la sequenza "eulin", che effettivamente ha una vaga aria di famiglia greca, perché include il prefisso avverbiale "eu-" ("bene"), molto produttivo in greco. Se però si inverte la direzione di lettura e si considera l'iscrizione sinistrorsa, ma con lettere retrograde, si ottiene la sequenza "nilue': che suonerebbe meglio in latino (avremmo una forma verbale: imperativo negativo). Se si segue la prima opzione, avremmo una parola greca isolata di significato incerto ("eulin", o altre soluzioni, a seconda di come si legge la consonante finale), che si riferirebbe al/alla defunto/a, alla sua persona o alle sue qualità. Tra le varie traduzioni proposte, una delle più plausibili è quella suggerita dagli editori, la "buona filatrice", epiteto appropriato per una donna anziana che in vita certamente aveva praticato l'arte della filatura; in alternativa si è pensato a un riferimento all'abito indossato dalla donna ("dal bel vestito"). Una delle proposte più inverosimili dal punto di vista epigrafico, sebbene argomentata molto bene sul piano storico-culturale, è quella di Emilio Peruzzi che identifica nell'iscrizione il grido estatico delle Baccanti - "euoin" - con riferimento a un rituale dionisiaco effettuato con recipiente di uso cultuale utilizzato come una sorta di patera pertusa. Se invece si considera l'iscrizione latina, si ottiene un divieto di appropriazione che dovrebbe suonare più o meno così: "non mi sciogliere", nel senso di "non portar25

GLI ETRUSCHI

mi via", con riferimento alla possibilità che qualcuno sottraesse il vaso in maniera furtiva, recidendo la cordicella che lo teneva legato a qualcosa di fisso. In una delle interpretazioni più recenti si ritorna al greco, ma leggendo il nome come "eulis" anziché "eulin" si ottiene come risultato un elogio di ceramista anziché di tessitrice. L'elenco potrebbe continuare, ma il risultato non cambia: pur eleganti, tutte le interpretazioni fornite fino a questo momento presentano, ora più ora meno, un forte grado di congetturalità. In alcuni casi, con ogni evidenza, le ipotesi formulate forzano i dati in una direzione o in un'altra, fino al limite dell'inverosimile, trascurando alcuni dati oggettivi e di contesto (per esempio, si trascura spesso il fatto che il vaso - particolare importante era fornito di un tappo di chiusura ora perduto e si presenta forato sul corpo in maniera certamente intenzionale). Di conseguenza, il dibattito si è ormai avvitato in una spirale in cui fioccano le nuove interpretazioni, senza che si possa archiviare definitivamente quelle "vecchie': con il risultato di approdare a ricostruzioni complessive di grande portata storica, tutte più o meno verosimili, ma non sufficientemente ancorate al dato archeologico di partenza. Ne è un buon esempio la lettura in chiave bacchica testé ricordata, che avrebbe come corollario l'attendibilità della tradizione storica relativa alla paideia gabina di Romolo e Remo (fatto ricordato per esempio da Plutarco), in uno scenario in cui storia e leggenda troverebbero un punto suggestivo di incontro. Rispetto a tanta controversa materia di discussione, appare opportuno ripartire dal vaso e dal suo contesto, dando per affidabili i dati riportati nell'accuratissima edizione di scavo. Come hanno suggerito gli editori, si tratta di un vaso di foggia rara, forse da ricondurre ad ambito enotrio. Il defunto era una donna di età avanzata, incinerata e deposta con il suo corredo entro una tomba a fossa maschile che era stata scavata poco tempo prima. Dunque, la tomba era bisoma e fra i due individui doveva esserci un forte legame affettivo. Forse si trattava della vecchia nutrice (straniera?) del giovane adulto inumato? Oppure fra i due individui c'era un legame di sangue? Il prossimo passo è stabilire la funzione del vaso: come veniva adoperata questa fiaschetta? Tale vaso appare dotato di un labbro particolare, che in gergo archeologico si definisce "a colletto", cioè di una imboccatura destinata a essere chiusa con un tappo che evitasse la fuoriuscita del liquido che conteneva. Inoltre, come si è già ricordato, la fiasca presenta sul ventre anche un foro pervio intenzionale, praticato in epoca imprecisabile (in origine, per defunzionalizzare il vaso? In vista di un rituale che prevedeva una

2. LA SCRITTURA

libagione? Alla fine di un rituale?). È impossibile stabilirlo a posteriori. Di certo, però, il vaso aveva una funzione rituale e doveva contenere una sostanza liquida di una certa importanza, dispensata durante le esequie, oppure destinata ad accompagnare la defunta nel viaggio verso l'aldilà. Date le particolarità della sepoltura, dovrebbe trattarsi di un liquido utilizzato per un rito di purificazione o con poteri "magici" (qui le analisi cromatografiche dei residui interni potrebbero essere utili). Il foro dovrebbe spiegarsi alla luce di questa funzione: a meno che non si tratti di un foro defunzionalizzante, esso può essere interpretato con una sorta di dispenser/dosatore, cioè di un orifizio che doveva consentire al liquido speciale contenuto nella fiasca di fuoriuscire gradualmente, quasi goccia a goccia. Se il ragionamento fin qui condotto è corretto, il testo epigrafico potrebbe spiegarsi di conseguenza. Mentre la lettura "alla greca" dell'iscrizione non può essere agganciata in nessun modo alla nostra spiegazione, quella "alla latina" è non solo compatibile, ma illuminante, a patto che il significato del verbo individuato (luere) non sia "sciogliere", ma "versare", e che l'ammonimento suoni così: "non svuotare" (scii.: il vaso). La proposta è meno peregrina di quel che sembri. L'antiquario Sesto Pompeo Festo (107, 6), nella sua opera sul significato delle parole, ci fornisce per la parola "lues", derivata dal verbo in questione, il seguente significato: «lues est diluens usque ad nihil, tractum a Graeco Àùtv». Il termine "lues'' (-is) è attestato anche nel Carme dei Fratelli Arvali. Tirando le somme: facendo interagire l'analisi del vaso, che è il primo e più importante "contesto" dell'iscrizione di Osteria dell'Osa, con quella dell'iscrizione e della tradizione letteraria, si ricava un'ipotesi relativa a un 'offerta rituale accompagnata da un ammonimento espresso in latino.

Nota bibliografica L'iscrizione di Osteria dell'Osa è pubblicata con il rispettivo corredo in Bietti Sestieri (1992, pp. 686-7) e singolarmente in La Regina (1989-90 ). Le numerose interpretazioni del testo sono riepilogate nel recentissimo lavoro di Boffa (2015), da cui si può ricostruire tutta la storia critica del cimelio laziale. Per comodità del lettore si ricorda che l'interpretazione "bacchica" risale a Peruzzi (1998), le cui argomentazioni sono state confutate da Ampolo (1997 ). Si rinvia il lettore anche a Bartoloni, Delpino (2005), perché in questa opera collettiva si ritrovano molti interessanti interventi sul testo, per esempio quello di Bietti Sestieri (ivi, pp. 485-7) e Lazzarini ( ivi, pp. 4 77-8) e, in particolare, quello in chiave "latina" di Colonna (pp. 478-83), da cui si è tratto spunto per la nostra rivisitazione.

27

GLI ETRUSCHI

2.2

L'introduzione dell'alfabeto greco in Etruria 2.2.1. I PRIMI DOCUMENTI

Se si prescinde da alcune possibili esperienze scrittorie di alca antichità (cfr. PAR. 2.1), la cui identificazione è peraltro molto incerta e ancora in cerca di consensi, la scrittura alfabetica compare in Etruria nella seconda metà dell'vm secolo a.C. Allo stato attuale della documentazione, la più antica traccia della formazione dell'alfabeto etrusco è una sigla graffita su un vaso di legno decorato con borchie di bronzo, parte del corredo della Tomba del Guerriero di Tarquinia ( 730 a.C. circa); latamente coeva è anche una probabile sigla su un'anforetta di impasto da Bisenzio, resa nota solo di recente. La prima iscrizione vera e propria è invece posteriore di qualche decennio ( CIE 10159 = ET Ta 3.1). L'uso - ancora molto sporadico a una quota cronologica così alca - di sigle formate da una o più lettere dell'alfabeto fa pensare che sia trascorso un certo tempo fra l'acquisizione della scrittura e la comparsa delle prime iscrizioni, che richiedono la formazione di una cultura epigrafica, ossia di un codice di comunicazione attraverso testi redatti secondo determinati formulari e posti su determinati oggetti. Naturalmente, in Etruria come altrove, non possiamo dire quasi nulla per quanto riguarda gli usi non epigrafici della scrittura, dal momento che la nostra documentazione è quasi esclusivamente epigrafica. 2.2.2. UNA TRASMISSIONE ANOMALA

La storia dell'alfabeto etrusco segue strade del tutto diverse rispetto alla maggior parte delle scritture alfabetiche antiche del mondo euromediterraneo; di norma, infatti, i sistemi grafici erano immediatamente adattati alla realtà fonetica della lingua che erano chiamati a rappresentare, indipendentemente dalla loro sorgente. Gli Etruschi, al contrario, tennero fede in maniera quasi feticistica al loro modello greco-euboico, cercando di riprodurlo nel modo più fedele possibile, anche a costo di conservare una sequenza alfabetica non corrispondente alle esigenze della propria lingua. In passato - anche a seguito della documentazione relativamente abbondante, che permette di ricostruire questa storia abbastanza nel dettaglio - quel che avvenne per la scrittura etrusca è stato assunto a paradigma per tutti i processi di trasmissione alfabetica

2..

LA SCRITTURA

del mondo antico, creando un modello teorico generale che però, alla prova dei fatti, si rivela problematico per ogni altro sistema scrittorio al di fuori dell'etrusco stesso. Dobbiamo ormai prendere atto che la scoria della scrittura in Etruria ebbe un andamento del tutto eccezionale, diverso da quello che accadde regolarmente altrove. Nel momento in cui navigatori e coloni greci, sul finire della prima Età del Ferro, cominciarono a far sentire la propria presenza lungo le coste tirreniche, attivando un processo di profonda interazione culturale che sarebbe durato per secoli, esisteva già una scrittura greca, formatasi a partire da modelli semitici vicino-orientali. Il debito nei confronti di quelle popolazioni, genericamente note come "Fenici", era onestamente riconosciuto dalla stessa tradizione mitistorica ellenica; ancora nell'età imperiale romana, la città fenicia di Tiro avrebbe coniato monete di bronzo, nelle quali rivendicava con orgoglio il proprio ruolo di patria dell'alfabeto greco (anche se il concetto di "identità': nel Vicino Oriente di età romana, è alquanto ingarbugliato: la legenda della moneta è in latino, come richiedeva la condizione di colonia romana concessa alla città, mentre le didascalie della scena figurata, con il tirio Cadmo che consegna il modello della scrittura ai Greci, sono in greco). Se però, almeno a livello di VIII secolo a.C. (se non prima, ma questa è materia ancora dibattuta), una scrittura genericamente greca già si era ben formata, lo stesso non vale per i tipici alfabeti locali che avrebbero caratterizzato le varie realtà politico-culturali del mondo greco fra VII e v secolo a.C. La definizione delle scritture cittadine, che rappresentano un chiaro segno di identità, fu un processo sviluppatosi in modo graduale, contestualmente alla formazione delle identità stesse, anche in senso contrastivo (cioè di differenza ostentata rispetto ai propri vicini), e probabilmente conclusosi in tempi diversi da luogo a luogo. È anche possibile che l'affermazione di una scrittura cittadina sia avvenuta in modo non simultaneo a tutti i livelli di impiego; più che a diversificazioni diastratiche in senso proprio, si deve forse pensare a comportamenti differenziati nei diversi ambiti di cultura epigrafica (iscrizioni pubbliche o sacre, graffiti ecc.). Nelle regioni dove la documentazione del periodo più antico di uso della scrittura è sufficientemente ampia (come l'Attica e l'area euboica coloniale e metropolitana), vediamo convivere per un certo tempo più sistemi scrittori concorrenti, caratterizzati da scelte grafiche divergenti, che toccano anche il settore delle coppie legate (con questo termine si definiscono quelle coppie di segni quasi identici, le cui forme si influenzano reciprocamente: per esem-

GLI ETRUSCHI

pio, se si sceglie di usare la pi a due tratti, il gamma non può essere del tipo a uncino, perché altrimenti le due lettere potrebbero confondersi). La stessa cosa potrebbe essere accaduta a Corinto, dove, per tutto il VII secolo a.C., i pittori vascolari utilizzarono, a fianco dell'alfabeto tipicamente corinzio, un secondo sistema scrittorio, più simile a quello siracusano (o, per certi versi, a quello sicionio ); la differenza fra l' alfabeto di Corinto e quello di Siracusa, sua colonia, potrebbe quindi essere dovuta al fatto che la fondazione di quest'ultima città avvenne in un momento abbastanza antico, anteriore alla stabilizzazione di una sola scrittura corinzia. Solo mettendo in chiaro l'instabilità delle scritture greche ancora almeno per tutto l'vm secolo a.C. possiamo capire come mai la scrittura etrusca, nonostante le sue forme grafiche richiamino univocamente quelle euboiche (fatto non sorprendente, dato il ruolo pionieristico dei Greci dell' Eubea nei traffici e nella colonizzazione tirrenica), contenga al suo interno elementi contrastanti rispetto agli alfabeti che saranno poi caratteristici delle città euboiche. Uno dei segni della notevole antichità della nascita dell'alfabeto etrusco è la conservazione al suo interno della traccia della scelta di una soluzione molto particolare (e molto antica) per risolvere la coppia legata iota-sigma. Dal momento che nelle scritture greche lo fin fenicio (divenuto sigma) era stato ruotato di 90° e spesso semplificato tracciando solo tre tratti invece di quattro, il risultato era una potenziale omografia con lo yod (greco iota). Questo problema fu risolto in tre modi diversi (TAB. 2..1): o i due segni furono orientati in modo diverso (con la iota nel senso della scrittura e il sigma ribaltato sull'asse verticale) o si modificò la iota trasformandola in un semplice segno verticale (I) oppure ancora si modificò il sigma ruotandolo di ulteriori 90° e ottenendo così un segno a forma di M (definito convenzionalmente "san" dagli epigrafisti moderni, anche se probabilmente chiamato anch'esso dai Greci sigma). Nel tempo avrebbe prevalso la seconda opzione, che aveva l'ulteriore vantaggio di permettere la semplificazione del my, passato dalla forma a cinque tratti a quella a quattro - mentre gli alfabeti che usavano il san furono costretti a mantenere la versione a cinque tratti per evitare confusioni. L'alfabeto etrusco, dal canto suo, riflette anche in questo aspetto lo stato ancora indefinito dei sistemi scrittori greco-euboici al momento della sua origine: infatti, pur adottando la seconda opzione, conservò allo stesso tempo l'andamento ribaltato (apparentemente

l. LA SCRITTURA

TABELLA 2..1

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Oinochoe del Dipylon (Atene, metà VIII secolo a.C.)

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retrogrado) del sigma a tre tratti tipico della prima opzione, che è predominante in tutta l'epigrafia etrusca arcaica (persistendo sporadicamente fino alla fase recente) e che può essere stato acquisito solo a una quota cronologica decisamente alta, visto che nelle scritture greche non se ne hanno più tracce dopo l'vm secolo a.C. L'andamento (apparentemente) retrogrado del sigma si ritrova con notevole frequenza, e fino a quote cronologiche piuttosto recenti, anche in molte delle scritture alfabetiche dell'Italia derivate da quella etrusca. La sequenza alfabetica etrusca è ben documentata grazie al numero relativamente consistente di alfabetari (TAB. 2.2), ossia iscrizioni che riproducono, in tutto o in parte, le lettere dell'alfabeto secondo il loro ordine; allo stato attuale se ne conoscono circa un centinaio. Con una procedura che non ha alcun confronto nello spazio euromediterraneo (fatti salvi alcuni casi dubbi e comunque numericamente del tutto marginali), gli Etruschi non solo ritennero a lungo nella loro sequenza anche i grafemi greci del tutto inutili per la loro lingua ( i cosiddetti "segni muti"), ma acquisirono addirittura l'intera gamma dei segni utilizzati nei vari sistemi scrittori greco-euboici, compresi quelli reciprocamente incompatibili (come xi a finestrella e xi a croce, paradossalmente entrambe "mute" - solo la seconda sarà reimpiegata più tardi con altro valore fonetico e solo per breve tempo e in un'area geograficamente limitata). Coerentemente con questo atteggiamento e, anche in questo caso, in maniera del tutto isolata rispetto a ogni altro processo di trasmissione alfabetica a noi noto, vi fu un rifiuto pressoché totale arifunzionalizzare i segni muti (tranne il caso delgamma, del quale si dirà oltre); in sostanza, è come se gli scribi etruschi, per un buon secolo, si comportassero come se stessero utilizzando un alfabeto che concepi31

GLI ETRUSCHI

TABELLA 2.,2.

Serie alfabetiche documentate dagli alfabetari etruschi VII

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2.. LA SCRITTURA

vano più come greco che non come etrusco. Solo attorno al 600 a.C. si abbandonò finalmente questa finzione, creando una scrittura ormai genuinamente etrusca. Il risultato della combinazione in un'unica sequenza di più sistemi concorrenti produsse un risultato che ovviamente non ha confronti nel mondo greco; la deviazione più importante (che deriva, in buona sostanza, dall'unico accomodamento accettato fin dalla nascita della scrittura etrusca, in quanto probabilmente considerato indispensabile) è l'inserimento di due segni diversi per la sibilante sorda, il sigma e il san, mai compresenti nella documentazione greca, a parte un problematico alfabetario rupestre (sul quale è opportuno sospendere il giudizio fino alla pubblicazione completa del contesto, comprendente numerose altre iscrizioni). I due segni, come abbiamo visto, derivavano da diverse soluzioni della coppia legata iota-sigma e non potevano essere usati insieme. La compresenza di sigma e san comportò una modifica nella sequenza (problema che non si era posto al momento di collocare le due xi, una situata fra ny e omicron, l'altra verso la coda della serie): infatti, negli alfabeti greci, come è abbastanza ovvio, i due segni occupavano la medesima posizione. La soluzione prescelta fu brillante e andò a recuperare la posizione dello tzade fenicio, rimasta vuota negli alfabeti greci in quanto la lettera, ridondante per la lingua greca, non era stata utilizzata. Dal momento che lo tzade rappresentava una sibilante ed era per giunta di forma abbastanza simile al san, fu un passo naturale per i primi scribi etruschi (che evidentemente conoscevano la scrittura fenicia) porre quest'ultimo fra pi e qoppa. 2..2..3. LE SCRITTURE ETRUSCHE: AREA SETTENTRIONALE E AREA MERIDIONALE

La divergenza di usi scrittori fra area settentrionale (Etruria settentrionale e padana) e area meridionale (Etruria meridionale e Campania) è documentata almeno dalla metà del VII secolo a.C., ma non possiamo escludere che sia esistita già fin dall'origine. La differenza principale fra i due risiede nella scelta per la resa della velare sorda /k/, che al Nord è scritta sempre coerentemente con il kappa greco (riducendo quindi gamma e qoppa al ruolo di segni muti), mentre al Sud si elabora un sistema molto complesso, che prevede l'uso del kappa solo davanti alla vocale /a/, mentre davanti a /u/ si usava il qoppa (presente occasionalmente in alcune scritture greche davanti a/ o/) e in tutti gli altri casi il

33

GLI ETRUSCHI

gamma (che marcava in questo modo il leggero connotato di sonorità assunto dal fonema /k/ davanti alle vocali /e/ e /i/ e alle consonanti). Questo sistema macchinoso diede luogo a frequenti errori e semplificazioni, tanto da essere abbandonato entro la metà del VI secolo a.C., a favore di una generalizzazione del gamma. Un secondo elemento di divergenza fra area settentrionale e meridionale è nella scelta per l'uso dei due segni di sibilante sorda; come si è visto, l'etrusco possedeva due suoni che fu ritenuto indispensabile differenziare fin dai primordi della scrittura. Uno di questi, definito convenzionalmente "sibilante semplice", era probabilmente il suono I si; l'altro, indicato come "sibilante marcata", viene ritenuto dai più, per ragioni tipologiche, una sibilante palatale (/f/), ma senza alcuna certezza in merito, tanto è vero che è uso trascriverla convenzionalmente come /al (segno che non ha alcun significato fonologico ed è usato solo nella linguistica etrusca). Il sistema settentrionale usa il san (traslitterato ) per/ si e il sigma per /al. L'area meridionale è divisa in due regioni ben distinte: Vulci, Volsinii, Tarquinia e la Campania optano per un uso diametralmente opposto rispetto a quello settentrionale (con sigma che nota /s/ e san che nota /a/), mentre Cerveteri e Veio hanno inizialmente scrittura indifferenziata per i due fonemi, con uso prevalente del sigma (che può avere anche forma multilineare, con quattro, cinque o più tratti), rare apparizioni del san e, più tardi (vI secolo a.C.), anche della xi a croce (traslitterata ). In queste due città permane a lungo il rifiuto di codificare una differenziazione nella resa grafica dei due fonemi, come se si volesse cercare di nascondere qualunque aberrazione rispetto a una scrittura genuinamente greca; solo in pochissime iscrizioni, soprattutto veienti, si può individuare l'esistenza di un primo esperimento per la risoluzione di questa ambiguità, in concomitanza con il tentativo di trovare un impiego coerente al grafema . Il problema si risolse realmente però solo nel tardo VI secolo a.C., quanto meno a Cerveteri (la documentazione epigrafica veiente in fase tardoarcaica diventa alquanto rarefatta) in modo molto originale: il suono /s/ venne reso con il normale sigma a tre tratti, come nel resto dell'area meridionale, mentre per il suono /a/ fu adottata la variante del sigma a quattro tratti (traslitterata ). Gli alfabetari ceriti e veienti del VII secolo a.C., tuttavia, contenevano comunque il san, che di fatto restava quasi inutilizzato; per questo è probabile che la prima codificazione della caratteristica contrapposizione fra i due grafemi di sibilan-

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l. LA SCRITTURA

te sorda, che contraddistingue la scrittura etrusca fin dalle sue origini con tale uniformità che non può non essere stata pensata da un'unica scuola scribale (al di là delle soluzioni contrapposte poi scelte dalle due aree scrittorie), verosimilmente non dovette avvenire in una di queste due città. Purtroppo non è stato ancora trovato alcun alfabetario cerite (né veiente) posteriore alla riforma del tardo VI secolo a.C., perciò non sappiamo in quale posizione fosse stato collocato il sigma a quattro tratti, nel momento in cui si decise di usarlo in contrapposizione a quello regolare a tre tratti per indicare il suono /al. In mancanza di informazioni, gli indici lessicali etruscologici lo mettono nella stessa posizione alfabetica del normale sigma a tre tratti, posponendolo a esso in caso di omografie (per esempio, la voce sa si trova subito dopo sa). In ogni caso, non va dimenticato che la dottrina linguistica corrente a proposito del valore fonologico delle due sibilanti etrusche non è priva di qualche problema, e non si può escludere che in un futuro non troppo lontano la ricerca approdi a soluzioni molto diverse da quelle attualmente accettate. Nell'ultimo decennio, infatti, si è ormai consolidata l'idea che esistessero differenze dialettali fra città e città; questo porterà inevitabilmente a revisionare una ricostruzione fondata sull' idea, dominante fino agli anni Novanta del xx secolo, di una sostanziale unitarietà linguistica dell' Etruria. L'ultima tappa nella storia della formazione dell'alfabeto etrusco fu l'introduzione del segno a forma di 8, estraneo ai modelli greci (e probabilmente di origine sabina), per indicare il suono /f/, precedentemente scritto con la coppia di lettere (digramma) (o ). Questo grafema comparve già sul finire del VII secolo a.C., ma restò escluso dagli alfabetari per parecchi decenni, per essere poi finalmente inserito in ultima posizione. Non sorprendentemente, gli scribi ceriti e veienti, coerentemente con il loro comportamento grecizzante che li portava a rifiutare il raddoppiamento dei grafemi di sibilante sorda, respinsero anche questo segno palesemente anellenico molto a lungo; la sua accettazione avvenne solo nel tardo VI secolo a.C., contestualmente alla riforma grafica delle sibilanti. Quest'ultima modifica della sequenza alfabetica, però, strettamente parlando, porta già fuori dell'argomento trattato in questo capitolo, perché avvenne in maniera del tutto autonoma rispetto ai modelli greci. Lo stesso vale per la più tarda introduzione del grafema di invertita (traslitterato ), che nacque da dinamiche del tutto interne alla scrittura etrusca, per il quale si rimanda al paragrafo sulla scrittura di età recente (cfr. PAR. 2.5).

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GLI ETRUSCHI

Nota bibliografica Per le più antiche sigle alfabetiche etrusche: cfr. Babbi, Peltz (2.013, pp. 86-7) (Tarquinia, Tomba del Guerriero) e Sciacca (2.017, pp. 134-5, n. 48) (anforetta da Bisenzio, seconda metà dell'vm secolo a.C., con segno probabilmente interpretabile come lettera p inciso sotto il fondo). La ricostruzione più ampiamente accettata del processo di trasmissione della scrittura al mondo etrusco è quella di Pandolfini, Prosdocimi (1990); una parziale critica alla luce delle accresciute evidenze, soprattutto sul versante greco, si trova in Benelli (2.004a). Un alfabetario attico presentato l'anno successivo (Langdon, 2.005) sembrerebbe modificare il quadro noto; ma la mancata edizione, a tutt'oggi, del complesso di iscrizioni rupestri delle quali l'alfabetario farebbe parte impedisce di valutarne correttamente il valore documentario (compreso il cruciale problema dell'autenticità). Un problema simile viene posto da una serie di tre tavolette di rame indicate come provenienti dall' Egitto (ma la questione è poco chiara e tutta la loro storia collezionistica è abbastanza nebulosa), sulle quali sono state eseguite analisi che hanno dato risulcati contrastanti; il recente lavoro di Woodard (2.014) ne accetta l' autenticità, traendone conseguenze importanti per la formazione della scrittura greca. Le testimonianze epigrafiche greche risalenti ai primi decenni di uso della scrittura, soprattutto in ambiente euboico, sono oggi molco accresciute e confermano in modo sempre più evidente come la nascita degli alfabeti poliadici sia un processo avvenuto in modo graduale, come conseguenza della formazione delle identità cittadine, e non risalga ai primordi stessi della scrittura. Per Pithecusa cfr. Bartonek, Buchner (1995); per Eretria cfr. KenzelmannPfyffer, Theurillat, Verdan (2.005); le scoperte più recenti, da Merone, sono studiate in Strauss Clay, Malkin, Tzifopoulos (2.017 ). Per la possibile identificazione di un'iscrizione etrusca latamente coeva a quella tarquiniese citata nel testo e proveniente (molto significativamente) da Cuma, cfr. Colonna (1995) (ma la proposta non è accettata in modo unanime).

2.3

La diffusione della scrittura etrusca in Italia 2.,3.1, L'ETRUSCO COME MODELLO L'alfabeto etrusco, così come la cultura epigrafica etrusca, servì da modello per la nascita di altri sistemi scrittori nell'Italia centro-settentrionale. Sicura origine etrusca hanno, nella fase arcaica, l'alfabeto lati-

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LA SCRITTURA

no, quello falisco e tutte le scritture dell'Italia settentrionale, dal venetico ai sistemi più marcatamente instabili dell'area centro-occidentale (definiti convenzionalmente retico, camuno e leponzio). Nella fase recente, risalgono ancora a un modello etrusco la scrittura umbra e, in parte, quella osca. Non ha debiti con l'etrusco, viceversa, l'alfabeto sabino, dal quale crasse origine la tipica scrittura usata nell'epigrafia paleosabellica medio-adriatica e centro-appenninica (le cosiddette iscrizioni "sudpicene"). L'uso del gamma per indicare la sonora /g/ è infatti chiaro segno di derivazione diretta dallo stesso modello greco-euboico usato dagli Etruschi; i Sabini, però, a differenza degli Etruschi, non ebbero remore a rifunzionalizzare i segni muti: così 0 e X furono entrambi usati per esprimere delle vocali aggiuntive rispetto alle cinque presenti nella scrittura greco-euboica. L'indipendenza rispetto all'etrusco è ulteriormente marcata dal formulario delle più antiche iscrizioni parlanti, sempre redatte con il verbo "essere" in prima persona singolare ed ellittiche del soggetto: il costrutto è invertito rispetto a quello dell'etrusco, che, non avendo desinenze verbali di persona, utilizza sempre il pronome esprimente il soggetto e quasi mai il verbo. Questo modello fu trasmesso a tutte le culture epigrafiche di derivazione etrusca (come il latino e il falisco) che, a rigore, non ne avrebbero avuto bisogno. 2.3.2. IL LATINO E IL FALISCO

Il modello etrusco lasciò in eredità alle scritture latina e falisca il grande problema della indistinzione della velare sorda dalla sonora; il segno , che in greco valeva /g/, ma in etrusco (meridionale) valeva /k/, in latino e in falisco andò ad assumere il ruolo potenzialmente ambiguo di entrambe le consonanti. Le iscrizioni latine più antiche contengono tutti e tre i segni di velare dell'etrusco meridionale, , e , e il loro uso è promiscuo e confuso, con alcuni tentativi di distinzione fra /k/ e / g/ attraverso l'utilizzo dell'uno o dell'altro grafema, che tuttavia non restituiscono un sistema coerente, ma sembrano inventati ad hoc di volta in volta - anche se non si può escludere che questa sia una conseguenza della limitatezza della documentazione. Un problema che Latini e Falisci risolsero abbastanza velocemente fu quello della resa del suono /f/, che gli Etruschi, nella loro fedeltà

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GLI ETRUSCHI

assoluta al modello greco, scrivevano con il digramma (o, a volte, ); come si è visto, fu solo attorno al 600 a.C., quindi ben più cardi rispetto all'inizio della scrittura in ambito latino e falisco, che in Etruria fu adottato il segno a 8 di origine sabina. La scrittura falisca introdusse fìn da subito un grafema specifico, il segno a freccia, chiaramente formato rimaneggiando la etrusca; il suo impiego fu facilitato dalla caduca, per inutilizzo, della etrusca. Quella latina, viceversa, dopo una iniziale adozione del digramma etrusco, decise semplicemente di utilizzare il solo segno della etrusca (la cui forma, ricordiamolo, è F) per indicare la /f/, dal momento che il latino non possedeva un suono equivalente alla /v/ dell'etrusco e quindi il grafema era tecnicamente libero per un reimpiego. Il problema delle velari richiese più tempo; la scrittura latina giunse a una soluzione definitiva solo nel IV secolo a.C., con la soppressione di dall'uso scrittorio corrente (ma il segno fu conservato in alcune abbreviazioni e quindi rimase presence nella sequenza alfabetica) e l'invenzione di un nuovo grafema, una con un segno diacritico ( ), per indicare la /g/. Dal momento che, probabilmente, questa riforma avvenne contestualmente alla soppressione della (un segno etrusco che, nella lingua latina, era gradualmente diventato inutile), la andò a occuparne il posto nella sequenza. La sarebbe stata reintrodotta nel latino solo molto più cardi, alle soglie dell'età imperiale, per traslitterare parole greche: è per questo motivo che venne ricollocata alla fine della sequenza. 2..3.3. IL VENETICO

La crasm1ss1one della scrittura etrusca in Veneto fu un fenomeno abbastanza complesso, che probabilmente riflette l'esistenza di contatti prolungaci fra le due regioni. La scoria della scrittura venetica si divide infatti in due fasi ben distinte. In un primo momento venne formato, sulla base di modelli etruschi, un sistema scrittorio diffuso apparentemente in modo unitario in tutta l'area culturale venetica (ma la documentazione su questa scrittura cosiddetta "di prima fase" è ancora molto limitata). Anche se le più antiche iscrizioni venetiche non risalgono oltre il VI secolo a.C., è possibile che la formazione della scrittura sia leggermente anteriore, perché vi persistono alcuni tratti che rimandano ad aspetti caratteristici piuttosto dell'etrusco del secolo precedente, quali la mancanza del grafema (che si

2.,

LA SCRITTURA

diffuse in Etruria solo nel corso della prima metà del VI secolo a.C.: di conseguenza il suono /f/ in venetico fu scritto tramite il digramma , come nell'etrusco del periodo orientalizzante) e la regolarità dell'andamento apparentemente retrogrado della . Successivamente, entro la fine del VI secolo a.C., questo sistema venne riformato, con la definizione di una serie di varietà grafiche, in parte collegace a determinate realtà urbane, e con la contestuale introduzione di altri grafemi, anch'essi di origine etrusca (ma non usati nella "prima fase"), nonché dell'interpunzione sillabica. Come si vedrà meglio in seguito (cfr. PAR. 2.4.4), l'interpunzione sillabica è un sistema diacritico inventato in Etruria, probabilmente dalla scuola scribale attiva presso il santuario di Portonaccio a Veio, dove si concentra la grande maggioranza delle attestazioni; la sua diffusione fuori di Veio fu sporadica e nella città stessa il sistema scomparve dalla documentazione epigrafica durante il periodo tardo-arcaico. Paradossalmente, negli stessi decenni nei quali stava sparendo nel suo centro di origine, l'interpunzione sillabica apparve improvvisamente in altre due regioni: la Campania settentrionale interna e, appunto, il Veneto; e fu solo in Veneto che il suo uso fu evidentemente codificato come obbligatorio, tanto da accompagnare la scrittura fino alla sua fine. Questo processo fa pensare che il contatto, a livello di esperienze scrittorie, fra il mondo etrusco e quello venetico non dovette mai interrompersi, quanto meno nel corso del VI secolo a.C., favorendo la condivisione di successive innovazioni. Già fin dalla sua nascita il sistema scrittorio venetico mostra una notevole capacità di rielaborazione dei modelli etruschi da parte degli scribi locali, che non furono allievi passivi dei maestri etruschi, ma furono a loro volta maestri, in grado di esercitare scelte ben precise. Il riflesso dell'intervento consapevole da parte venetica si manifesta nel fatto che, fin dalla prima fase, si cercherebbe invano un modello univoco per il venetico all'interno dell'epigrafia etrusca arcaica. Infatti, se da un lato la scrittura venetica non usa , ma soltanto (secondo il modello etrusco-settentrionale), dall'altro la sibilante sorda è resa preferenzialmente con , come nei sistemi etrusco-meridionali, mentre la , pur presente nelle scritture venetiche, è di uso molto più rado; la contrapposizione a livello fonologico fra i suoni resi dai due grafemi non è perspicua e lascia il dubbio che la persistenza sia più che altro un riflesso del modello etrusco. Ma questo non è l'unico elemento contraddittorio. Infatti la scrittura venetica possiede la , ma non la

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GLI ETRUSCHI

né la : tutti grafemi "muti" in etrusco che, in base alla nostra documentazione, furono espunti contemporaneamente dall'alfabeto (teorico). Quindi, anche in questo caso non vi fu ricezione passiva di un modello completo e non negoziabile, ma elaborazione consapevole in base alle necessità della resa grafica della lingua venetica: si dovette recuperare, perché non c'era altro modo di rendere il fonema /o/, ma i fonemi !bi e /g/ vennero resi con i grafemi etruschi e , privi di corrispondenza in venetico. Ancora meno scontato il sistema di notazione delle dentali, con la etrusca a rendere !di e il etrusco (nella forma a croce, inventata a Vulci e diffusa soprattutto fra Orvieto e Chiusi) a notare /t/. Tutto questo fa pensare che gli inventori della scrittura venetica conoscessero perfettamente i segni "muti", soppressi negli alfabetari etruschi fra la fine del VII e l'inizio del VI secolo a.C., e che avessero operato un recupero selettivo in modo da discostarsi il meno possibile dal modello grafico etrusco (pur alterando il valore dei grafemi). L'adozione dell'interpunzione sillabica, che segnò l'inizio della "seconda fase" della storia della scrittura venetica, andò di pari passo con una riforma nella notazione delle dentali, che sembra avere avuto come scopo principale quello di distinguere in modo esplicito la scrittura di Este da quella di Padova; di conseguenza, nei due centri, l'uso di determinate scelte grafiche esprimeva, tra le altre cose, anche un valore di identità culturale e civica. A Padova venne introdotto un segno etrusco originariamente non presente nelle prime iscrizioni venetiche, il a circolo puntato, per notare la /t/; contemporaneamente, il segno a croce (originariamente, come si ricorderà, un < 0 > etrusco a croce, che indicava anch'esso /t/) fu riclassificato come variante grafica della e usato per notare la /d/. A Este, al contrario, persistette l'uso del a croce per il fonema /t/, ma fu il grafema a essere soppresso e sostituito dalla (apparentemente mai usata nelle iscrizioni della "prima fase") per indicare la /d/. I due fatti ( introduzione dell'interpunzione sillabica e definizione degli alfabeti atestino e patavino attraverso la riforma grafica) non furono perfettamente simultanei, ma vi dovette essere un periodo di aggiustamento, testimoniato da alcune iscrizioni con caratteristiche ibride. Al di fuori di Este e Padova è attestata una pluralità di sistemi scrittori, che potrebbero aver avuto anch'essi valore di identificatore di alcune regioni dell'area culturale venetica, anche se le testimonianze in questo senso sono spesso contraddittorie. 40

2.. LA SCRITTURA

2..3.4. IL RETICO

La storia dei sistemi scrittori retici non è facile da capire, anche per la grande difficoltà nella datazione della maggior parte delle iscrizioni, che sta cominciando a chiarirsi solo in tempi recentissimi. Dal momento che il retico è una lingua molto vicina all'etrusco, la scrittura non ebbe bisogno di particolari adattamenti: di fatto, l'epigrafia retica utilizza un alfabeto di tipo etrusco-settentrionale (come indica l'uso univoco di per /k/ e la mancanza di e ), privo della a 8 alla fine della sequenza. Dopo la sua acquisizione, la scrittura subisce una evoluzione disegnativa del tutto autonoma rispetto ali' Etruria, giungendo anche a soluzioni originali, come la riduzione della a quattro tratti, con il tratto finale abbreviato per distinguerla dalla (mentre in etrusco la rimase sempre a cinque tratti, con la sola eccezione delle tardive esperienze di a V invertita). È possibile che il fonema /f/ venisse reso, con significativa deviazione rispetto alla prassi etrusca, dal grafema , che nel retico ha un'incidenza percentuale infinitamente superiore rispetto all'etrusco (dove il suo uso fu sempre marginale). Allo stato attuale, infatti, non sono mai attestati nelle iscrizioni retiche né il segno a 8 né il digramma /. Alla serie etrusca furono aggiunti altri due grafemi esclusivi del retico, un segno a denti di sega e un segno a freccia; la loro precisa interpretazione è ancora discussa, anche se le occorrenze mostrano chiaramente che dovevano rappresentare un qualche fonema dentale, diverso rispetto a /t/. L'apparente assenza, allo stato attuale delle conoscenze, del segno etrusco fa pensare che in retico esistesse, nel comparto delle dentali, un'opposizione percepita come differente rispetto a quella operante in etrusco. Poiché il segno a denti di sega è esclusivo delle iscrizioni di Magrè, mentre quello a freccia si trova solo a Sanzeno, tradizionalmente si è operata una distinzione della scrittura retica in due diverse serie alfabetiche, definite appunto "di Magrè" e "di Sanzeno". In realtà, lo sviluppo delle conoscenze ha mostrato che, al di là delle scelte diverse operate per questi segni complementari, non esistono elementi che permettano di separare due serie alfabetiche strutturalmente diverse; oggi si preferisce pensare a un alfabeto retico unitario, con alcuni limitati sviluppi locali. 41

GLI ETRUSCHI

2.3.5. IL LEPONZIO

Il nome di "leponzio" identifica convenzionalmente l'epigrafia dei Celti d'Italia, sia di quelli presenti fin quanto meno da epoca protostorica nella parte occidentale della pianura Padana, sia di quelli giunti da Oltralpe a seguito delle invasioni storiche (inizi del IV secolo a.C.), che adottarono i sistemi scrittori elaborati dai primi. Anche per il leponzio esiste una differenza fra una fase arcaica (anteriore alle invasioni storiche) e una fase recente; anche se il numero relativamente modesto di iscrizioni non permette di tracciare una storia precisa della scrittura, né tanto meno di identificare luoghi e tempi di eventuali riforme, è comunque visibile un cambiamento nella prassi epigrafica e una generale regolarizzazione dei sistemi scrittori al passaggio fra le due fasi, segnato tra l'altro dall'abbandono di e (qui sempre nella forma a cerchio puntato o crociato). Anche se la derivazione delle scritture leponzie da un modello etrusco è fuori da ogni ragionevole dubbio (come si vede non solo dalle forme delle lettere, ma anche dalla mancanza di e , che pure sarebbero state necessarie per scrivere di una lingua celtica), anche in questo caso, come in quello del venetico, se ne cercherebbe invano il modello, segno che anche i primi scribi leponzi non si limitarono a ricevere passivamente un sistema intoccabile, ma elaborarono delle forme espressive proprie. Esattamente come nel caso del venetico, l'alfabeto leponzio sembra fare riferimento a un modello etrusco settentrionale (con e senza ), ma contiene anche un elemento diffuso soprattutto nelle scritture etrusco-meridionali ( la multilineare, poi cristallizzatasi nella forma a quattro tratti, che si alterna a quella a tre, statisticamente più comune) e soprattutto l'equivalenza = /s/. Ugualmente in parallelo al venetico, il leponzio recupera ma non < b> e (né un grafema specifico per/ d/) e mantiene il doppio grafema per la sibilante sorda, con affiancata da (quest'ultima nella forma "a farfalla", usata almeno in qualche caso a marcare il suono /ts/). A differenza del venetico, però, il leponzio evitò la rifunzionalizzazione di alcuni grafemi etruschi per distinguere le sorde dalle sonore. Nella fase recente le sonore !bi, !di e /g/ furono indicate in maniera indifferenziata dai medesimi grafemi usati per le sorde corrispondenti (

, e ), mentre in quella arcaica esistono apparentemente alcuni tentativi sporadici di differenziazione grafica che però sembrano seguire regole diverse da caso a caso, senza mai arrivare all'elaborazione di un sistema univoco. 42

2.. LA SCRITTURA

Nota bibliografica Sui sistemi scrittori arcaici delle lingue sabelliche cfr. Benelli (in scampa), con bibliografia precedente. Sul latino, gli ultimi interventi sono quelli di Maras (2.009a; 2.009b) (ma le tabelle con i riferimenti ai grafemi non sono prive di qualche omissione, che falsa in parte i risultaci). Per il falisco, l'opera di riferimento è Bakkum (2.009), che dedica varie sezioni del testo alla scoria della scrittura. Le conoscenze più recenti sul venetico sono raccolte in vari contributi in Gamba et al. (2.013) (anche se la nuova documentazione dall'area orientale non è stata ancora compiutamente inserita nello studio dei processi di genesi alfabetica). Per il retico, cfr. la recentissima silloge di Marchesini (2.015). Sul leponzio l'intervento più recente è quello di Maras (2.014 ), che tuttavia non esaurisce i problemi, soprattutto per quanto riguarda le oscillazioni nella resa di alcuni fonemi nelle iscrizioni più antiche; per una panoramica più ampia sempre ucili i lavori precedenti di Motta (2.000) e di Morandi, Piana Agostinetci (2.004). 2.3.6. LA SITUAZIONE IN CAMPANIA

La posizione della Campania nel quadro che si sta ricostruendo è problematica. Di una antichissima presenza etrusca nella regione siamo informati già da un manipolo di preziose fonti letterarie. Nonostante l'atteggiamento ipercritico di alcuni storici ottocenteschi, oggi, alla luce delle scoperte archeologiche, possiamo dire che tale informazione "di base" è sostanzialmente fededegna e che gli Etruschi erano saldamente stanziati in questa regione da epoca antichissima. Qui li ritroviamo in due ampi distretti territoriali non coincidenti, ove essi diffusero il modello urbano: la ferace Terra di Lavoro, nell'area centrosettentrionale della regione, e, più a sud, nelle zone pianeggianti costiere comprese fra l'entroterra nocerino-sarnese e il fiume Sele (l'amico Silaris), da considerarsi a questo proposito come un vero e proprio limite meridionale dell'espansione etrusca. In entrambi i distretti, gli Etruschi arrivarono prestissimo, agli inizi dell'Età del Ferro, prima ancora che nel Golfo di Napoli i Greci fondassero le proprie colonie. Si trattò di un vero e proprio movimento colonizzatore (con spostamento organizzato di gruppi umani), promanante dalle sedi dell' Etruria centro-meridionale per ragioni demografiche. Il fenomeno rappresenta la prima fase dell'espansione storica della civiltà etrusca. La diffusione geografica e territoriale della cultura villanoviana, a questo riguardo, è un indizio esplicito del processo espansivo delle compagini protoetru43

GLI ETRUSCHI

sche; a nulla sono valsi i tentativi della più autorevole scuola italiana di pensiero protostorico (che fa capo a Renato Peroni) di spiegare il fenomeno villanoviano in termini di semplice koine culturale e di rubricare il villanoviano di Capua come il semplice frutto di commerci e contatti culturali fra genti indigene ( Opici) e villanoviani (d' Etruria). Ciò stabilito in sede di premessa, occorre chiedersi quale lingua parlassero i portatori della cultura villanoviana in Campania. Tutto fa credere che essi parlassero già l'etrusco, come sappiamo avvenisse anche in valle Padana, dove ci sono analoghi problemi interpretativi per la fase iniziale. Di certo sappiamo anche che quando iniziano a lasciare in terra campana testimonianze scritte della propria lingua, queste popolazioni si esprimono in etrusco e utilizzano l'alfabeto etrusco, senza far ricorso alla mediazione culturale della colonia greco-calcidese di Cuma. Tutto fa credere, in altri termini, che nonostante la prossimità geografica di Cuma, cioè della colonia della Magna Grecia che trasmise l'alfabeto greco all' Etruria propria sin dalla fine dell' VIII secolo a.C., gli Etruschi della Campania appresero la scrittura direttamente dai propri connazionali, senza passare per Cuma, e non la elaborarono per proprio conto sulla base di modelli greco-occidentali acquisiti sul posto. Lo studio delle iscrizioni etrusche rinvenute in Campania suggerisce altresì che tempi, aree e direttrici di diffusione della scrittura alfabetica in Campania furono diverse. La prima area campana a essere investita dal fenomeno della diffusione della scrittura, allo stato attuale delle conoscenze, risulta quella meridionale. Pontecagnano, in particolare, detiene il primato delle più antiche testimonianze epigrafiche etrusco-campane (metà del VII secolo a.C.). Qui la scrittura sembra essere arrivata per via marittima da un centro dell' Etruria costiera, probabilmente Tarquinia o Vulci. Nella Campania settentrionale, invece, a giudicare dai documenti superstiti, la scrittura etrusca fu trasmessa più tardi, solo verso la metà del VI secolo a.C., seguendo itinerari interni (terrestri) di diffusione. In questo caso si è pensato a Cerveteri e a Veio per le origini dell'alfabeto e delle norme grafiche adottate. La documentazione epigrafica etrusco-campana, per i motivi appena esposti, si articola in due blocchi nettamente distinti, molto compatti, che presentano scarse analogie. Nei testi settentrionali (FIG. 2.2), ritrovati a Capua, Suessula, Cales e Nola, l'alfabeto usato è quello ceretano/veiente arcaico, caratterizzato dalla presenza di diversi segni a linea spezzata e a serpentina per notare la sibilante semplice e quella

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2. LA SCRITTURA

F!ClJRA 2.2

Coppa attica a vernice nera da Capua (450-400 a.C.)

Iscrizione etrusco-campana sotto la base, in scriptio continua e con interpunzione sillabica: mivenelus.num.danies. l'Jrigi. Musée du Louvre (inv. CA 604).

marcata. Vi ritroviamo per esempio non soltanto il sigma a tre tratti, ma anche il raro sigma a quattro tratti, di ascendenza ceretana, che appare precocemente diffuso in area capuana. Potrebbe trattarsi di una influenza culturale ceretana oppure, meno probabilmente, dell'esito di una trasmissione mediata dal Lazio oppure, meno probabilmente ancora, di un emprunt diretto da modelli alfabetici greco-occidentali. Nella pratica della scrittura, in ambiente settentrionale, appare documentato anche un altro segno, di forma bitriangolare, spesso denominato san "a farfalla". Si tratta di un segno probabilmente elaborato in loco per notare la sibilante marcata (palatale), evitando i problemi di omogratìa che altri grafemi (come il san) avrebbero eventualmente posto in un ambiente culturale che era comunque prossimo a un'importante area grecofona. Per gli stessi motivi (rischi di omografia e dunque di confusione nella lettura), il theta di queste iscrizioni etrusco-campane settentrionali reca all'interno del cerchiello la croce e non il semplice

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GLI ETRUSCHI

punto, che avrebbe potuto determinare per greci e bilingui il rischio di confusione con omicron. Fra le innovazioni locali possiamo annoverare anche il samek a "spina di pesce" - se di samek effettivamente si tratta che ricorre a Nola in una forma deviante rispetto al modello etrusco, adeguandosi apparentemente al modello fenicio privo di finestrella. In un alfabetario arcaico graffito su una ciotola di bucchero, rinvenuta sempre a Nola, è documentato infine anche il raro segno a freccia di origine falisca ( f ), utilizzato per notare il suono /f/ in maniera alternativa al segno a 8, che appare analogamente attestato in area nolana in un altro alfabetario (dipinto). Si tratta di indizi della vivacità e della originalità dell'ambiente litterato nolano nel recepire e rielaborare soluzioni grafiche che dovevano essere funzionali a risolvere i problemi legati all'espressione grafica di questo suono assente nella lingua greca. Fenomeno molto caratteristico a livello epigrafico, altrettanto qualificante a livello culturale, è il ricorso - nelle iscrizioni etruscocampane del distretto settentrionale - alla cosiddetta interpunzione sillabica (cfr. PAR. 2..4.4). Si tratta dell'uso (dotto) di inserire segni di interpunzione in testi redatti in scriptio continua per notare le sillabe non aperte (consonanti in sillaba chiusa, gruppi di consonanti in posizione iniziale o finale, secondo elemento di un dittongo, vocali in sede iniziale). In Etruria tale singolare sistema grafico fu adottato in un'area molto limitata per un periodo relativamente lungo, senza che per questo si possa parlare di continuità d'uso. Poi il sistema fu organicamente trasmesso al venetico (cfr. PAR. 2..3.3). Per l'elaborazione e la diffusione del sistema, la cui funzionalità concreta era connessa direttamente con la pratica dell'insegnamento della scrittura, sono stati chiamati in causa i santuari e le relative scuole di scribi (cfr. PAR. 2..4.4). Forzando i dati a disposizione, alcuni studiosi hanno anche ipotizzato che l 'apparizione dell'interpunzione sillabica in Etruria fosse un fenomeno di koine greco-etrusca e di survival/revival storico-culturale, il cui antefatto andrebbe rintracciato niente meno che nelle scritture egee di tipo sillabico (lineare A e B).Prova ne sarebbe il fatto che la tradizione letteraria, per l'introduzione della scrittura in Italia, chiami in causa non uno, ma due eroi culturali, Evandro e Demarato (cfr. rispettivamente Dionigi di Alicarnasso, Antichita romane r, 31, e Tacito, Annali xr, 14), che avrebbero operato a distanza di tempo, ma con lo stesso fine (civilizzare le popolazioni italiche, insegnando loro l'alfabeto greco). L'applicazione più sistematica dell'interpunzione sillabica in ambito etrusco-campano si riscontra nella Tabula Capuana (FIG. 2..3), testo

l. LA SCRITTURA

FIGURA

2..3

Calendario festivo di età arcaica noto come Tabula Capuana (inizi v secolo a.C.)

Redatto su tavola fittile, con resto distribuito in 6l righe suddivise in

10

sezioni.

Berlino, Staacliche Museen (Antikemammlungen, inv. ~0892).

principe dell'epigrafia etrusca, ma esempi eloquenti di interpunzione sillabica occorrono anche in brevi iscrizioni strumentali di tipo onomastico, tutte di V secolo a.e. In ambiente meridionale non si trova nulla di tutto questo (nuovi segni per notare le sibilanti, episodi di grafemizzazione più o meno spontanea e sperimentale, interpunzione sillabica). La scrittura alfabetica adoperata in loco, da Pontecagnano a Fratte, passando per Pompei, Stabia ecc., è assolutamente conforme a quella di tipo "centrale" di origine vulcente-tarquiniese e non presenta particolarità degne di nota. Se ne deve concludere, dunque, che la Provincia etrusca di Campania presentava al suo interno profonde differenze culturali, che si riflettevano anche nell'uso differenziato della scrittura. A margine di questa trattazione non può tacersi del problema delle iscrizioni (e delle particolarità grafiche) cosiddette "paleoitaliche" della Campania, perché - come si dirà - è questione strettamente

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GLI ETRUSCHI

collegata ai temi (di epigrafia etrusca) qui trattati. Oltre alla manciata di testi culturalmente qualificabili come paleo-oschi (v secolo a.C.), noti da tempo, alcuni siti della Campania centro-meridionale (Nocera, Vico Equense e Sorrento) hanno restituito anche un pugno di iscrizioni arcaiche culturalmente qualificabili come "opicie': che per aspetti grafici, morfologia, sintassi e lessico presentano spiccate analogie con le iscrizioni sud-picene. Le particolarità grafiche di queste iscrizioni strumentali in alfabeto "nucerino" (così viene definito in maniera convenzionale) sono il ricorso per la variante fonetica di /s/ al caratteristico segno ad alberello con aste oblique e a segni diacriticati (veri e propri incunaboli grafici) per le vocali intermedie. Ancora più notevoli sono le particolarità linguistiche (sintattiche) di questi testi: per esempio, contrariamente all'uso etrusco della formula dell'oggetto parlante, essi non lasciano il verbo sottinteso nell'enunciato, ma lo esplicitano, e non marcano al genitivo il nome del possessore, che viene espresso al nominativo. Secondo una recente proposta, si tratterebbe delle tracce dell'esistenza di un ramo sabellico all'interno della famiglia linguistica classificata convenzionalmente come osco-umbra, che si avvarrebbe nella scrittura di un alfabeto di tipo sud-piceno/sabino di creazione locale. Tale ipotesi prevede come inatteso corollario che l'alfabeto osco utilizzato dalle popolazioni italiche della Campania a partire dal v secolo a.C. non sarebbe di derivazione etrusca, ma deriverebbe direttamente da quello dei propri antenati italici stanziati sul territorio prima di loro (cioè gli Opici parlanti sabellico). L'ipotesi va contro l'evidenza attualmente disponibile, che documenta invece una dipendenza diretta, a livello alfabetico, della scrittura osca dal modello etrusco-campano. Certo è, in ogni caso, che in Campania coesistevano contemporaneamente diverse lingue e diverse tradizioni scrittorie e che in una determinata area della regione in cui il popolamento era misto si determinarono a un certo punto (la metà del VI secolo a.C.) le condizioni affinché nell'élite si affermasse - in maniera non sappiamo quanto effimera - un desiderio di autoaffermazione etnica e culturale in concorrenza con il polo etrusco.

Nota bibliografica Sull'introduzione dell'alfabeto etrusco in Campania, cfr. sinteticamente Cristofani (1972., pp. 484-6; 1978a, pp. 410-8) e Pellegrino (2.017). La documentazione è raccolta in CIE II, 2.. Per la Tabula Capuana: Criscofani (1995). Per le

2.. LA SCRITTURA

iscrizioni su ceramica attica: Stoppani (1990, pp. w5-6). Sull'interpunzione sillabica, con riferimento anche ai presunti antefatti micenei: Verter (1936), Slotty (1952.); Pfìffìg (1963); Wachter (1996). Per le singolarità dell'ambiente nolano: Bellelli (2.002.). Sui cesti in alfabeto nucerino esiste ormai una nutrita letteratura, che si trova compendiata e discussa in Agostiniani (2.013), con bibliografia precedente. La nuova ipotesi sugli alfabeti italici della Campania è argomentata in Rix (2.005). 2..3.7. LA SCRITTURA ETRUSCA IN AREA PADANA

Secondo una nota definizione di Catone, riportata dal grammatico Servi o ( Commenti virgiliani XI, 567 ), quasi l'intera Italia era sotto il dominio etrusco: «In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat». Genti etrusche erano stanziate anche nella valle Padana, dove diedero vita a una civiltà urbana fiorentissima, che ebbe il suo epicentro a Felsina (Bologna), Marzabotto e Spina. Per motivi diversi, ciascuno di questi tre ceneri può essere considerato il simbolo dell'ecruscità padana: essi hanno restituito numerose testimonianze scritte che indicano una alfabetizzazione precoce, diffusa e a tratti sorprendente. Felsina/ Bologna, per esempio, ci appare oggi in tutta la sua importanza di polo culturale della regione: essa partecipa precocemente (sin dagli inizi del VII secolo a.C.) al fenomeno della diffusione della scrittura alfabetica (per tramite etrusco) nell'Italia settentrionale. Al 600 a.C. circa risale il testo principe dell'epigrafia bolognese - l'iscrizione dell 'Anforetta Melenzani (FIG. 2.4) - che presenta una serie di enunciati complessi (elaborata formula di dono espressa con una trentina di parole e firma finale dell'artigiano) che non hanno nulla da invidiare alle coeve iscrizioni dell' Etruria meridionale. Ancora più antiche sono le iscrizioni etrusche documentate nel ripostiglio di bronzi di San Francesco, che consistono in un ampio repertorio di segni alfabetici e numerali risalenti all'Orientalizzante antico. L'iscrizione più interessante di questo complesso, l'antroponimo aie, inciso su un frammento di aes rude, pare doversi riferire a un personaggio di origine italica proprietario del deposito di bronzi, che lo occultò agli inizi del VII secolo a.C. Interpretata come valore digaranzia dell'unità ponderale, questa breve iscrizione onomastica indica che la scrittura etrusca era stata già introdotta da tempo (da genti provenienti dall' Etruria meridionale) in area bolognese, dove se ne erano impadroniti anche elementi italici che si erano colà trasferiti proba-

49

GLI ETRUSCHI

FIGURA 2..4

Anfo retta iscritta nota come "Anfo retta Melenzani" ( 600 a.C. circa)

Nella lunga iscrizione di dono è menzionato anche il nome dell'artigiano che fece il vaso. Bologna, Museo civico archeologico (inv. 23805).

bilmente per praticare il commercio. Questa iscrizione non è isolata. Dalle ricognizioni effettuate dell'ingente documentazione epigrafica bolognese, è emerso infatti un ricco repertorio di segni alfabetici e contrassegni (circa 500 occorrenze) che allineano Felsina ai centri principali dell' Etruria tirrenica nel fenomeno della diffusione della scrittura. In questo repertorio troviamo un po' di tutto, compresi segni - come il samek - che appaiono documentati in varianti grafiche (assenza della finestrella) sconosciute in Etruria meridionale, nonché segni che rinviano a contatti con l'area adriatica (cheta rettangolo vuoto, segno bitriangolare, lettere adagiate). Notevolmente ricca è anche la documentazione epigrafica restituita da Marzabotto, che ammonta ormai a svariate centinaia di documenti di grande interesse, molti dei quali provenienti dall'abitato, incluse le aree sacre. Alcuni preziosi alfabetari parziali ritrovati in questo centro indicano una diffusione della scrittura etrusca abbastanza precoce ri50

2.

LA SCRITTURA

spetto ad altri ceneri della regione, con apporti dall'ambito culturale chiusino e qualche parallelo significativo anche con altri ceneri dell'Etruria settentrionale (Vetulonia, Populonia, Roselle). Norme ortografiche e tradizioni scrittorie sono di tipo settentrionale: uso del kappa per indicare la velare sorda, ricorso al san per notare la sibilante non marcata. Un alfabetario parziale rinvenuto in una casa di Marzabotto indica inoltre l'utilizzo precoce (almeno dalla prima metà del v secolo a.C.) del segno a 8 per notare il suono /f/, con significativa anticipazione rispetto a quanto si registra altrove (per esempio a Spina e Mantova, dove il segno compare solo nel IV secolo a.C.). Complessi editi di recente, come le iscrizioni provenienti dalla casa I della Regio IV - insula 2.2, indicano una concentrazione di documenti scritti in alcune aree della città a dir poco sorprendente: il fenomeno forse è da ricollegare alla destinazione produttiva degli ambienti in cui sono state ritrovate le iscrizioni, che richiedeva l'ampio uso di marche e contrassegni. Il bucchero appare di gran lunga il supporto preferito delle iscrizioni etrusche di Marzabotto, insieme alla ceramica depurata acroma di fabbrica locale. Del tutto diversa appare la situazione di Spina, centro urbano dalla fisionomia particolare, caratterizzato a livello epigrafico dalla scarsa attestazione dei gentilizi e dalla frequenza di nomi semplici, indizio di una comunità formata da gente "nuova", in molti casi priva di lignaggio. In questo dossier variegato figurano anche numerose iscrizioni greche e alcune iscrizioni venetiche, a suggerire l'idea di una città aperta che ospitava anche comunità alloglotte. Per quanto riguarda le norme ortografiche e le tradizioni alfabetiche, anche in questo caso sono di tipo settentrionale: uso di in luogo di per la velare, distribuzione delle sibilanti, uso del theta a cerchiello e di quello chiusino arcaico a croce di sant'Andrea e forse il san a farfalla, che occorre tuttavia solo in posizione isolata. Oltre che nei siti ricordaci, la scrittura etrusca è documentata in maniera più o meno capillare anche in altre aree della pianura Padana, poste sia a nord che a sud del Po. Fra queste, hanno restituito testimonianze scritte in etrusco, in qualche caso di importanza significativa, il mantovano, il reggiano e l'area romagnola. Da Rubiera provengono due straordinari cippi iscritti risalenti al VII secolo a.C. che hanno restituito la più antica attestazione del termine magistratuale zila0 (per il significato cfr. PAR. 4.1.2). Da Imola, invece, provengono documenti epigrafici che indicano tratti culturali ibridi e forte interazione con l'elemento culturale etrusco-interno (area volsiniese). 51

GLI ETRUSCHI

Nota bibliografica Per tutta!' area padana si rimanda agli scritti di Sassatelli (2.017 ). Per le iscrizioni su ceramica attica rinvenute in Etruria padana: Stoppani (1990, pp. 106-7 ). Per quanto riguarda, in particolare, Bologna: cfr. Sassatelli (1981-82; 1985). Per Marzabotto: Sassatelli (1994); Sassatelli, Gaucci (20w); Govi (2016). Per Spina: Benelli (2.0046). Per il Mantovano: Pandolfìni (1986). Per il reggiano: Maggiani (1992.). Per l'area modenese: Gavi (1996). Sui cippi di Rubiera: de Simone (1992), con riferimenti bibliografici.

2.4 Le scritture etrusche: la fase arcaica 2..4.1. PERIODIZZAZIONE DELLE SCRITTURE ETRUSCHE

Con il termine "fase arcaica" si indica convenzionalmente il periodo compreso fra l'inizio dell'epigrafia etrusca (che, come si è visto, allo stato attuale delle conoscenze sembra collocarsi attorno al 700 a.C.) e il 400 a.C. circa, quindi i secoli che, in cronologia archeologica, sono definiti come fasi "orientalizzante", "arcaica" e "tardo-arcaica". Al passaggio fra ve IV secolo a.C. l'epigrafia, come molti altri aspetti della cultura degli Etruschi, attraversa una fase di cambiamenti rapidi e spesso radicali; la "fase recente", che segue questo momento di rottura, si differenzia in moltissimi elementi da quella arcaica. In epigrafia questo significa formulari diversi, uso diverso delle iscrizioni e diversi tipi di scrittura. È chiaro che tutto questo non è successo dall'oggi al domani; le cronologie archeologiche hanno un certo margine di oscillazione che rende difficile tracciare confini netti. Tuttavia, il passaggio dall'una all'altra fase dovette maturare nello spazio di non più di una generazione: il che, sulla scala dei tempi lunghi della storia della civiltà etrusca, equivale a una rivoluzione di straordinaria rapidità. 2.4.2. CARATTERISTICHE DELLE SCRITTURE ARCAICHE

Per quanto riguarda la storia della scrittura, ciò che differenzia maggiormente le due fasi è il modo in cui vengono create e utilizzate le diverse forme delle lettere, che sembra riflettere strategie molto diverse nella circolazione degli oggetti iscritti. Nel mondo etrusco

2..

LA SCRITTURA

l'alfabeto non assunse mai quel carattere evidentissimo di marca di identità cittadina che ebbe invece in quello greco; se si prescinde dalle differenziazioni regionali delle quali si è già parlato (fra scritture settentrionali, meridionali e ceriti/veienti), invano si cercherebbero forme alfabetiche caratteristiche di una sola città. Manca del tutto quel processo così caratteristico dell'epigrafia greca arcaica, per il quale l'adozione di forme spiccatamente diverse da quelle delle città confinanti serviva a sottolineare un'identità culturale locale. La ragione è probabilmente nel fatto che l'epigrafia greca assunse velocemente caratteristiche di "pubblicità" che quella etrusca non ebbe mai; mentre molte iscrizioni greche arcaiche erano concepite come espressioni dell'autorità pubblica, o come manifestazioni pubbliche dell'attività di singoli individui (per esempio, dediche più o meno monumentali nei santuari), ed erano collocate in modo tale che la loro presenza fosse più vistosa possibile, quelle etrusche coeve, viceversa, sono praticamente tutte destinate a una circolazione privata. Il fatto che una parte molto consistente della produzione epigrafica etrusca della fase arcaica servisse a marcare la circolazione ritualizzata di oggetti fra famiglie aristocratiche, con legami di classe che valicavano i confini cittadini e che avevano un significato evidentemente più forte che non l'appartenenza a un determinato corpo civico, si riflette in una circolazione di modelli scrittori praticamente universale nell'intero mondo etrusco, fatto salvo il rispetto delle diverse convenzioni ortografiche delle varie aree scrittorie. Addirittura, per il periodo orientalizzante e alto-arcaico, all'interno della sola città di Cerveteri, grazie al numero straordinariamente elevato di iscrizioni (superiore a quello di qualunque altro centro dell'Etruria in quel periodo), è possibile riscontrare un livello di variabilità tra modelli grafici che è più forte di quella verificabile fra una città e l'altra. Anche se nel corso del VI secolo a.C. i modelli di circolazione dei testi iscritti tipici del periodo orientalizzante tendono a modificarsi, con il coinvolgimento di una porzione più ampia della società nei processi di produzione e di uso dell'epigrafia e con la nascita di nuove classi epigrafiche in parte (minoritaria) anche destinate a un'esposizione pubblica, nulla interviene a cambiare realmente questo stato di fatto. Solo elementi minori permettono di distinguere alcune abitudini locali: fra questi si noterà soprattutto l'andamento della traversa della , ascendente in Etruria padana e settentrionale (tranne a Chiusi) e in Campania, prevalentemente ascendente

53

GLI ETRUSCHI

TABELLA 2..3 Schema riassuntivo delle forme principali attestate nelle scritture arcaiche d' Etruria

Forme regolari

A i4

Traslitterazione

Forme rare o di impiego occasionale"

a

b J

c

~

e

~

V

I

z

B

h

800

e

,8

X

I

li

k

.J "'1 IN\

m

'\ Y\

n

1

p

1

n

s

M

? -es). Nei temi in consonante, può essere inserita una vocale d'appoggio, che si ritrova identica in tutti i casi e che, negli antroponimi, non è mai soggetta a sincope, al contrario di quanto succede con i teonimi e gli appellativi. L'appellativo clan ("figlio") è l'unico nella documentazione etrusca a noi nota a presentare quella che appare come un'apofonia: tutte le forme declinate sono costruite sulla base clen-. Esempi Vel (prenome maschile), genitivo velus, pertinentivo velusi, ablativo veluis; Gana (prenome femminile), genitivo 0anas; Tarna (gentilizio maschile), genitivo tarnas, ablativo tarnes; clan ("figlio"), genitivo clens, pertinentivo densi; Turan (teonimo), genitivo turns (ma anche nella forma anaptittica turuns). 2. La seconda classe ha un genitivo che, in grafia arcaica, è reso come -a o -ala (quest'ultima uscita è attestata solo per i nomi femminili in -i e per i pronomi); in grafia recente è sempre -al nei nomi personali, mentre negli appellativi e nei teonimi può ridursi a -el, -ul, o anche solo -l. Il pertinentivo, formato come nella prima classe da un suffisso -i aggiunto al genitivo, ha forma -ale, esito della monottongazione di -ala-i, già ampiamente attestata nella fase arcaica. L'ablativo arcaico è -alas (e la sua forma recente sincopata è -als). Nei temi in -0 può comparire una -i- fra la radice e il suffisso; in alcuni casi questo fenomeno è legato a specificità dialettali: per esempio, il prenome maschile Lar0 ha genitivo arcaico Lar0a e Lar0ia, recente Lar0al e Lar0ial; queste ultime due forme sono normalmente compresenti in tutti i centri etruschi,

GLI ETRUSCHI

FIGURA 3.1

Apografi di iscrizioni etrusche (non in scala)

a)

W
~ 'ffi'"C:11 '7

~

~

? d)

tlfll-lVP,:Vf3;:f'.?,J

:2.A l .J YA:n-1 OA:Yt 1~ :11qA.J

(segue) 88

3. LA LINGUA

Didascalie a) Iscrizione su cippo funerario figurato da Vulci, noto come "Ara Guglielmi" ( C:IE 5321 = ET Ve 1.87 ), prima metà del III secolo a.C. (Roma, Museo nazionale etrusco di Villa Giulia).

eca: su0ic: velus: ezpus densi: cerine, "Questo e (la) tomba (sono) di Ve! Ezpu; 2

fu costruito da parte del figlio"

h) Iscrizione incisa su uno stipite della porta di ingresso della Tomba dei Volumni di Perugia, necropoli del Palazzone (CIE 3754 = ET Pe p), ultimo quarto del III secolo a.C.

arn0 lar0 velimnas arzneal husiur 3 su0i acil hece, 2

"Arne (e) Lare Velimnas, figli di Arznei, realizzarono (la) tomba" Si noti la mancanza di congiunzione, comune in etrusco fra soggetti al medesimo livello logico ( in questo caso, i prenomi dei due fratelli); il termine acil (''opera") è combinato con un verbo di "fare" per indicare la realizzazione della tomba (su0i). Iscrizione su sarcofago da Norchia, Tomba Lattanzi (CIE 5874 = ET AT 1.171), inizi del III secolo a.C.

e)

arn0 :;rurcles : lar0al: clan : ram0as : nevtnial: zilc: par;ris : amce marunu;r: spurana: cepen : tenu : avils: ma;rs semrpal;rls: lupu, "Arne Xurcles figlio di Lare (e) di Ramea Nevtni fu zilc par;ris, ha ricoperto tutti i marunu;r pubblici, è morto a 75 anni" 2

Si noti l'anomalia per cui il verbo essere è accoppiato al nome della carica (zilc) anziché a quello atteso del magistrato (zila0); non è chiaro se vada interpretato come un errore o come una locuzione non altrimenti attestata (Berlino, Staadiche Museen).

d) Iscrizioni pertinenti al medesimo defunto, da Chiusi o territorio; la prima è incisa sulla tegola che chiudeva il loculo (cIE 1654 = ET Cl 1.1701), mentre la seconda e la terza sono dipinte rispettivamente sul coperchio e sull'urna di terracotta (CIE 1655 = ET Cl 1.1702-1703). Metà del II secolo a.C.

laris vetu a0nu larisal aulias clan, "Laris Vetu Aenu figlio di Laris (e) di Aulia" laris vetu a0nu aulias, "Laris Vetu Aenu (figlio) di Aulia" ls vetu auliaf, "Laris Vetu (figlio) di Aulia" Si notino le differenze fra le formule onomastiche (Chiusi, Museo archeologico nazionale).

e) Iscrizione incisa sull'orlo del mantello della statua di bronzo nota come "Arringatore", dalla zona di Sanguineto (CIE 4196 = ET Pe 3.3), prima metà del II secolo a.C. (Firenze, Museo archeologico nazionale) (cfr. FIG. 5.8).

aulefi . metelis. ve . vesial • clenfi cen Jleref tecesansl. tenine 3 tu0inef. ;risvlid, 2

"Per conto di Aule Meteli figlio di Ve(!) (e) di Vesi questo fu posto al dio Tecesans dalla tu0ina ;risvlic"

GLI ETRUSCHI

FIGURA

3.2.

.

Apografi di iscrizioni etrusche (non m scala)

e)

e)

(segue) 90

3. LA LINGUA

Didascalie , 1)

Iscrizione graffita sulla staffa di una fibula in oro di provenienza ignota (REE

60,19 = ET OA 3.10 ), 630 a.C. circa.

mi mulu araBiale Bana;rvilus prasanaia, "lo dono da parte di Ara0 a 0anaxvil Prasanai" Il donatore, un uomo, è identificato dal solo prenome, mentre la donataria ha anche il gentilizio (Dallas, Museum of Art).

b) Iscrizione su sarcofago da Vulci, necropoli di Ponte Rotto, Tomba "dei Sarcofagi" (ET Ve 1.64), IV secolo a.C., conservato in situ. lar0: tutes : anc 'farBna;re: veluis 1 tuteis • Ban;rviluisc 4 turialsc, "Lar0 Tutes, il quale fu generato da Vel Tutes e da 0anxvil Turi" Si noti l'uso del cosiddetto "genitivo afunzionale" del gentilizio e l'eccezionale ripetizione della congiunzione enclitica -e in entrambi i componenti del nome della madre.

e) Iscrizione su sarcofago da Musarna, prima Tomba degli Ale0na ( CIE 5811 = ET AT 1.100 ), prima metà del III secolo a.C. L'iscrizione può essere integrata grazie ai disegni anteriori ai danni che ne hanno determinato la perdita parziale.

[aie ]Bnas arnB larisal zilaB tar;rnal0i a[mce], "Arn0 Ale0nas (figlio) di Laris fu zila0 a Tarquinia" Si noti l'inversione di prenome e gentilizio e l'uso del cosiddetto "genitivo afunzionale" (Viterbo, Museo civico).

d) Iscrizione dipinta sulla parete sinistra della Tomba 5512 della necropoli dei Monterozzi di Tarquinia (ETTa 1.84), metà-seconda metà del III secolo a.C.

p[u}slinei: vela: lar0al {:} se;r' apunalc: lar0ial {:} aninas 1 ve/Burus: ve/Burufla 4 puia : avils: XXXVIII lupu, "Vela Puslinei figlia di Lar0 e di Lar0i Apunei, moglie di Vel0ur Anina il (figlio) di Vel0ur, morta a 38 anni"

e) Iscrizione su cippo funerario rinvenuto presso la Tomba dei Rilievi, nella necropoli della Banditaccia di Cerveteri, e relativo alla costruzione della tomba stessa (CIE 6159 = ET Cr 5.3), seconda metà del IV secolo a.C.; conservato in situ, ali' interno della tomba.

ve/:" matunas larisalisa f' an : cn iu0i • ceri;runce, "Vel Matunas il (figlio) di Laris, il quale costruì questa tomba" Si noti l'errore di incisione, con un sigma a tre tratti in luogo di quello regolare a quattro (larisalisa in luogo di larisaliia).

tranne Chiusi (dove è quasi esclusiva la prima) e Perugia (dove è esclusiva la seconda). Per giunta, sempre in età recente, Lar0ial può anche rappresentare il genitivo del prenome femminile Lar0i, in concorrenza

91

GLI ETRUSCHI

con il più corretto Lar0eal, esito di monottongazione da "Lar0aial, genitivo della forma arcaica del prenome Lar0ai, attestata anche al genitivo Lar0aia (ma su altri valori per la formaLar0eal cfr. PAR. 3-2.. 3). Esempi Arn0 (prenome maschile), genitivo arcaico arn0(i)a, genitivo recente arn0(i)al, pertinentivo •arn0iale (attestato per ora nella documentazione solo nella forma arcaica ara0iale, che fa riferimento a una grafia alternativa, Ara0, molto meno comune di Arn0), ablativo arn0als; Culfanf (teonimo, grafia settentrionale), genitivo cu/Janfl. Il nominativo/accusativo (privo di suffissi) esprime soprattutto: r. il soggetto; 2.. l'oggetto; 3. il tempo continuato (FIG. 2..uh). Il genitivo esprime soprattutto: 1. il possesso; 2.. il destinatario di un dono, sia esso un essere umano o una divinità (FIGG. 2..ue e.f); 3. l'età (FIGG. 2..uge 3.IC). Il caso chiamato convenzionalmente pertinentivo è stato oggetto di un lungo dibattito, ed è stato ritenuto a lungo un caso dal valore ambiguo. Alcuni studi recenti hanno proposto di identificarlo con un dativo, come già indicato nella manualistica della metà del xx secolo; tuttavia, le iscrizioni sembrano suggerire piuttosto un significato diverso. Nelle iscrizioni di dono, il percinentivo esprime con estrema coerenza l'autore di un dono, che sia autore diretto o indiretto (ovvero quando il dono viene elargito materialmente da un soggetto, ma per conto di un altro) (FIGG. 3.1a e e e 3-2.a). È inoltre flesso al percinentivo il nome dei magistrati nelle formule di datazione, facto che rinforza la connotazione genicivale, piuttosto che dativale, del caso (FIG. 5.12.). L'ablativo esprime sempre l'agente in strutture formulari con verbi al passivo (FIG. 3-2.b). Casi meno comuni e posposizioni Oltre a quelli elencaci sopra, esistevano certamente in etrusco anche altri casi, che nella nostra documentazione sono molto rari, tanto da renderne molto difficile la comprensione. Fra cucci questi, l'unico che abbia un significato abbastanza perspicuo è lo strumentale/locativo in -i, comune a entrambe le classi, che può assumere anche valore temporale, come appare chiaro dalle formule di datazione, composte dal nome della carica con suffisso -i (solitamente, zilci, "durante lo zilacato"), seguito dal nome del magistrato al pertinentivo (FIG. 5.12.). In epoca recente, il suffisso -i applicato a una radice in -a può dare esito monoccongato (-a-i> -e). Il locativo è espresso anche con una posposizione -ti!-0i, che può anche essere applicata dopo un suffisso di genici92.

3. LA LINGUA

vo se si vuole esprimere localizzazione nel territorio di una città-Stato oppure all'interno del tempio di una divinità (FIG. 3-2.c). Di recente è stato proposto di identificare numerose forme di locativo, corrispondenti a diverse accezioni del caso (illativo, inessivo ecc.); l'interpretazione è coerente con la scarsa evidenza disponibile, ma non è l'unica possibile, e quindi è tutt'altro che cogente. L'avverbio ce;ra appare nella nostra documentazione come posposizione solo nel nesso clen ce;ra, equivalente al latino pro filio ("per conto del figlio/in favore del figlio"); si noci in questo contesto l'uso della forma clen, che è quella apofonica utilizzata normalmente con i suffissi dei casi. Altre posposizioni sono di significato meno chiaro. Plurale

È possibile isolare due suffissi diversi per il plurale: -er/-ar e -xva/-va. In linea generale, sembra che il primo sia caratteristico di nomi identificabili come animati (soprattutto termini di parentela), mentre il secondo dovrebbe contraddistinguere gli inanimati. I teonimi, come si è avuto modo di notare, possono essere trattati sia come animati, sia come inanimati, fatto che fa sospettare che queste categorie debbano essere in qualche modo riformulate. L'idea che il plurale -xva/-va contraddistingua, almeno in linea generale, dei soggetti inanimati è comunque sostenuta da un fenomeno sistematico, ossia la mancanza del suffisso del plurale quando il nome è preceduto da un numerale (FIG. 2.uh); il comportamento è meno regolare in presenza del numeratore cepen (che probabilmente significa "cucci", o qualcosa del genere): qui il suffisso può essere presence o meno (FIG. 3.1c). Ai suffissi del plurale possono essere agglutinaci quelli esprimenti i casi; nello specifico, -er/-ar utilizza i suffissi della prima classe (come acceso con un 'uscita in liquida), mentre -xva/-va usa quelli della seconda. Esempi clan ("figlio"), plurale clenar, genitivo cliniiaras (forma arcaica), pertinentivo clenarafi (grafia settentrionale); avil ("anno"), genitivo plurale avilxval; marunux (nome di carica magistratuale), plurale marunuxva. Può essere in qualche modo assimilato al plurale anche il suffisso -0ur (declinato secondo la prima classe), che sembra indicare degli insiemi di individui; applicato a un gentilizio, indica l'insieme della famiglia. Gli aggettivi non hanno mai suffissi di plurale, e quindi concordano con l'appellativo di riferimento nel caso, ma non nel numero.

93

GLI ETRUSCHI

Il determinativo enclitico

Il pronome più comune nella documentazione epigrafica etrusca è il determinativo enclitico -/rn/ (scritto -sa al Nord, -sa al Sud, -Ja a Cerveteri e Veio), che vale più o meno come il nostro articolo determinativo e concorda con l'appellativo al quale è riferito, nel caso e nel numero. Come tutti i pronomi, il plurale è formato con il suffisso tipico del genere inanimato, mentre i casi del singolare mostrano una sovrapposizione di suffissi della prima e della seconda classe. Quando -/aa/ segue -/s/, si verifica assimilazione regressiva (*-/s-aa/ > -/aa/) (FIGG. 2.uh e 3.2d).

La declinazione del determinativo enclitico sembra seguire le stesse norme degli altri pronomi, che si discostano in parte da quelle in uso per gli appellativi: è noto un genitivo -salai-ila (la prima forma è morfologicamente arcaica, anche se è attestata da un' iscrizione recente, forse per un ricercato arcaismo), un pertinentivo -sle, un genitivo plurale -svia e un pertinentivo plurale -svle (gli ultimi tre in grafia settentrionale). L'identificazione di altre forme non è univoca. Altri pronomi

I pronomi etruschi conosciuti sono molto numerosi e non a tutti è possibile riconoscere un significato preciso. Fra i meglio conosciuti si ricorderanno: - il pronome personale di prima persona singolare mi ("io"; accusativo mini, "me") (FIGG. 2.u/e pa); - i pronomi dimostrativi ica e ita (forme recenti eca, eta, ca, ta, queste ultime due anche enclitiche), il cui significato sembra traducibile in entrambi i casi con "questo", anche se dovevano esistere delle differenze ben precise fra l'uno e l'altro non perfettamente comprensibili (FIGG. 3.1a e e, 3.u); di questi due pronomi esiste ampia documentazione di forme flesse: quelle di interpretazione più chiara sono il genitivo arcaico -tala e i recenti -da e -tla, il pertinentivo -de, l'accusativo arcaico itan/ itunl etan e i recenti ecn, cn, tn (le ultime due forme anche enclitiche), i locativi ecl0i!cl0i e -te, gli ablativi teis e -tis (grafie settentrionali); il pronome relativo an (animato)/in (inanimato) (FIGG. 3.2b e e); - il pronome indefinito ena (FIG. 2.8e). 94

3. LA LINGUA

A fianco di questi esiste un'ampia serie di pronomi, in parte enclitici, le cui ricorrenze sono troppo poco numerose per poterne comprendere il valore preciso, per lo più ricadente nel campo dei relativi o dei dimostrativi.

Avverbi, congiunzioni, particelle La ricerca sta identificando un numero sempre crescente di avverbi e particelle; tuttavia, nonostante il loro significato sia spesso comprensibile in senso molto generale, resta sempre difficile darne delle traduzioni precise. Uno dei pochi avverbi ad avere un significato generalmente accettato è 0ui ("qui"), mentre fra le particelle, l'unica abbastanza ben identificabile è la negazione e/ en/ ei/ ein (FIG. 2.8e). La lingua etrusca sembra aver fatto un uso molto parco delle congiunzioni, con l'asindeto che è quasi una norma. Di fatto, si conoscono solo due congiunzioni, entrambe enclitiche: -ce -um (non è possibile stabilire se esistesse una differenza di significato fra le due) (FIGG. 2.11g, 3.1a e e).

Verbi Il verbo etrusco si presenta in numerose forme; solo per le più comuni è possibile stabilirne il valore con un buon margine di certezza. In particolare, vi è sostanziale consenso sulle seguenti: - la radice verbale priva di suffissi esprime l'imperativo; - il suffisso -a ha anch'esso valore imperativo. A differenza del caso precedente, può presentarsi associato con negazioni (e per questo è chiamato convenzionalmente "congiuntivo") (FIG. 2.8e); - il suffisso -ce indica azione compiuta, per lo più localizzata nel passato (FIGG. 2.11e e/, 3.1b e c, pc e e); - analogo al precedente è -xe, che però esprime la forma passiva

(FIG. pb); - il suffisso -e indica un altro tipo di modo finito, forse relativo a un'azione continuata; la differenza fra il valore di -e e quello di -ce non è chiara, dal momento che le forme ricorrono in contesti simili (per esempio, nelle iscrizioni funerarie, amce, "fu': si alterna con ame per esprimere azioni compiute in vita dal defunto); - analogamente, -ne esprime un altro modo finito al passivo (si può pensare a un equivalente passivo di -e, anche se i dati sono troppo esigui per trarre delle conclusioni) (FIGG. 3.1a e e);

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GLI ETRUSCHI

- il participio esprimente azione continuata è indicato da -( 0)as(a), senza che si riesca a capire l'eventuale presenza di sfumature precise espresse dalle varie forme che può prendere questo suffisso (FIGG. 2.uh eg); - il participio esprimente azione conclusa (che, in caso di verbi transitivi, sembra prevalentemente passiva) è indicato con -u (FIGG. 2.ug, 3.1c, 3.2a e a);

- il suffisso -ri sembra esprimere un necessitativo. Altro elemento piuttosto chiaro è che, contrariamente a quanto avviene di solito nelle lingue agglutinanti, l'etrusco non ha suffissi che identificano le persone del verbo (FIG. 3.1b ); il soggetto deve quindi essere sempre espresso. Oltre a questi, esistono anche numerosi altri suffissi, spesso agglutinati ai precedenti, il cui significato preciso sfugge; sono state avanzate numerose proposte, anche ben argomentate, che tuttavia, stante le condizioni della documentazione, sono ben lontane dal rappresentare qualsiasi certezza.

Nota bibliografica Per la lingua etrusca in generale, sempre insostituibili le due sintesi magistrali di Rix (1984; 2.004); utile anche Wallace (2.008). A questi lavori, così come a Benelli (2.017b) (chiuso nel 2.013, a parte alcuni inserimenti minori in bibliografia), si rimanda per la letteratura principale in maceria, mentre in questa sede si segnalano solo gli aggiornamenti più significativi editi nell'ultimo decennio: Adiego (2.007); Agostiniani (2.009a; 2.009b; 2.016a; 2.016b), Ambrosini, Belfiore (2.017); Belfìore (2.010; 2.012.a; 2.014a; 2.015; 2.016b); Bellelli, Xella (2.016); Benelli (2.014a; 2.015b); Biville, Boehm (2.009); Colonna (2.015); Haack (2.016); Maras (2.011); Massarelli (2.014); Rigobianco (2.013); van Heems (2.011). Un tentativo di sistematizzazione delle forme verbali è stato avanzato alcuni anni fa da Wylin (2.000 ), con proposte in sé plausibili ma non cogenti, per la scarsità della documentazione disponibile; per una revisione dell'opera cfr. Belfiore (2.001). La nuova interpretazione dei casi locativi alla quale si è fatto cenno è stata proposta da Hadas-Lebel (2.016a), ma l'evidenza a favore, come accennato, è tutt'altro che univoca. 3.2..3. TRATTI DIALETTALI E VARIETÀ REGIONALI

Fino a qualche decennio fa, la lingua etrusca era considerata sostanzialmente unitaria, fatte salve le evoluzioni diacroniche delle quali si è già avuto modo di discutere; anzi, questo aspetto di straordinaria unità era

3. LA LINGUA

ritenuto una delle caratteristiche più peculiari dell'etrusco. La ricerca più recente ha mutato prospettiva; l'incremento della documentazione e una migliore comprensione del funzionamento della lingua hanno infatti permesso di distinguere la presenza di varietà geograficamente delimitate. L'apparente assenza di tratti dialettali evidenti, di conseguenza, deve essere interpretata piuttosto come effetto del tipo di documentazione epigrafica disponibile: testi per lo più molto brevi, composti prevalentemente da antroponimi e da termini che ricorrono secondo formule codificate (che quindi possono nascondere eventuali varietà dialettali del parlato), e pochi testi lunghi che, essendo per lo più di carattere religioso se non addirittura liturgico, riflettono una lingua formale anch'essa presumibilmente isolata, almeno in parte, dalla realtà del quotidiano. Considerato il tipo di documentazione a nostra disposizione, non è sorprendente che la maggior parte degli indicatori di varietà linguistica provengano dall'antroponimia. Si sarà notato come a più riprese la città di Perugia mostri delle proprie specifiche peculiarità in questo campo (cfr. PAR. 4.2.2). In particolare, il fenomeno più evidente è l'uso insistito di un suffisso derivativo -i (almeno questo è l'aspetto che prende nella fase recente, mentre i suoi antecedenti arcaici ancora mancano nella documentazione) e l'esistenza di un grande numero di gentilizi epiceni, altrove quasi sconosciuti, in -i e in -ni, quest'ultima tipica evoluzione settentrionale dei nomi familiari arcaici in -naie. Per confronto, su un patrimonio complessivo che passa i 550 gentilizi, le forme epicene a Chiusi sono solo poche unità. Altra particolarità dell'onomastica perugina, che si è già notata, è l'uso del genitivo in -l per il femminile analogico in -unia dei nomi familiari (mentre altrove è sistematico l'atteso genitivo in sibilante). È senz'altro interessante il fatto che questa onomastica di tipo, per così dire, "perugino", non sia totalmente esclusiva di Perugia, ma si trovi anche in area cortonese, sia pure in percentuale minoritaria, andando poi a scomparire mano mano che si procede verso occidente. Questa evidenza sembrerebbe delimitare un'area dialettale ben specifica, collocata nell'estrema propaggine orientale dell' Etruria settentrionale, che valica i confini del territorio di una singola città. Sempre rimanendo nel campo dell'antroponimia, alcune serie onomastiche di ampia diffusione mostrano differenze di trattamento fra diversi territori che potrebbero essere anch'esse la spia di fenomeni dialettali. Pensiamo per esempio alla serie dei gentilizi a base

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GLI ETRUSCHI

An(ale)(i)n-, che ha alcune forme a diffusione diatopica talmente marcata da far ipotizzare fenomeni linguistici parzialmente differenziati: Tarquinia è l'unica città dove si trova il gentilizio formato con il solo suffisso -na (Anina, femminile Aninai/Aninei), mentre altrove vi sono varie forme derivate da un originario *-naie (a Cerveteri Aninie, femminile Anini; a Chiusi città Anaini, femminile Anainei; nel territorio chiusino settentrionale, a Cortona e Arezzo Aneini, femminile Aneinei; a Perugia Anani, femminile Aneinei, con singolare variazione fonetica interna). Nonostante sia possibile ricostruire numerose serie onomastiche con specifiche peculiarità diatopiche, la documentazione non permette di metterle compiutamente in parallelo, in modo da poter ricostruire con adeguata sicurezza fenomeni linguistici locali. Ma l'evidenza basta ad assicurarci che questi dovevano esistere. Un altro fenomeno che sembra definire una varietà dialettale è la trasforll)azione della sibilante semplice /s/ in /ts/ (resa in etrusco con il grafema ), che appare concentrata in modo particolare in area volsiniese, già a partire dalla fase arcaica. Anche se non mancano testimonianze da altre zone del mondo etrusco ( in particolare, da alcune iscrizioni tarde del confinante territorio chiusino), l'incidenza della documentazione a Volsinii è talmente alta che è possibile identificare questo fenomeno come un tratto dialettale. Lo stesso può valere per alcune forme onomastiche deaspirate (come Lart o Arnt in luogo di Lar0 o Arn0) che, pur essendo attestate sporadicamente pressoché ovunque, sono particolarmente concentrate nella fascia settentrionale e occidentale del territorio chiusino e nelle aree confinanti del territorio aretino e cortonese. Anche in questo caso parrebbe emergere una preferenza localizzata di un tratto dialettale (diastratico?) peraltro di ampia diffusione. Sempre rimanendo nel campo delle sibilanti, non è del tutto certo il significato da dare alla presenza costante del grafema nella terminazione degli antroponimi. A rigar di logica, questo grafema dovrebbe avere valore fonologico opposto in area meridionale e settentrionale, configurando quindi una marcata variazione dialettale (per esempio, il comunissimo prenome maschile Laris, che conserva questa forma in tutto il mondo etrusco, sarebbe stato pronunciato /laris/ al Sud e Ilaria-/ al Nord). Questa interpretazione ha sostenitori autorevoli; tuttavia non si deve tacere che uno degli argomenti statistici sui quali è stata basata è profondamente viziato. Infatti, come si è già avuto modo

3. LA LINGUA

di osservare (cfr. PAR. 3.2.1), in area settentrionale, a partire dalla prima metà del II secolo a.C., si verifica una sostanziale deriva delle sibilanti verso una generalizzazione del grafema ; non è chiaro se si tratti di un fenomeno fonetico (spostamento del punto articolatorio) oppure puramente grafico (interferenza della scrittura latina in favore di una semplificazione della scrittura). Certamente grafico è invece il fenomeno inverso, rarissimo e molto tardo, di uso di in luogo di , anch'esso documentato in area settentrionale: la datazione di almeno alcune delle iscrizioni che lo manifestano entro il I secolo a.C. fa pensare che si sia trattato di una reazione di iperetruschizzazione avvenuta in reazione alla diffusione della scrittura latina. Questo farebbe propendere per una spiegazione di carattere più grafico che non fonetico della deriva verso . Come che sia, la presenza di questo fenomeno inficia in modo radicale la statistica sulla distribuzione dei fonemi di sibilante. D'altra parte, vi sono altre anomalie nella distribuzione delle grafie di sibilante; esistono, per esempio, alcune serie onomastiche che mostrano una distribuzione pressoché uniforme di entrambe le grafie a nord e a sud, tanto che è impossibile capire quale fosse quella corretta. Altre, invece, sono scritte con il medesimo grafema in tutto il mondo etrusco, riproponendo, per le sibilanti interne, lo stesso problema già visto per quelle in fine di parola. Tutti questi fenomeni richiamano una spiegazione più complessa; l'unico tentativo coerente si deve a Rix, che un trentennio fa propose uno schema interpretativo che non ha incontrato consenso unanime: tuttavia, finora, non si è proposto di meglio. Oltre a quelli già discussi, si possono verificare anche altri fenomeni apparentemente localizzati, quali, per esempio, la chiusura di/ e/ in /i/ che si riscontra in alcune iscrizioni campane (Vinil per Venel; Cnive per Cneve), oppure il raddoppiamento di , frequente soprattutto a Cerveteri e in Campania - ma attestato anche altrove. Altra variazione (parzialmente) localizzata è quella dell'oscillazione, nella fase recente, fra le forme -al e -ial nel genitivo degli antroponimi in -0 alla quale si è già fatto cenno (cfr. PAR. 3.2.2). Allo stesso modo, la presenza, ugualmente attestata nella fase recente, di un'uscita -eal in luogo di -ial (che si sovrappone al più regolare genitivo -eal dei prenomi femminili, esito monottongato di -aia[) può anch'essa delineare l'affiorare di varietà dialettali, che siano diatopiche o diastratiche. In questi e altri casi simili, tuttavia, la documentazione è troppo limitata, per numero o per

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GLI ETRUSCHI

qualità, per poter affermare con qualche ragionevole certezza che ci troviamo di fronte a varietà ben identificabili. Questo, come già accennato, è un problema di carattere generale: spesso, di fronte alle numerose varietà che ci presenta il pur vasto corpus delle iscrizioni etrusche, i dati sono insufficienti per isolare dei fattori diatopici o diastratici che possano sostanziare l'esistenza di elementi dialettali nella documentazione epigrafica.

Nota bibliografica Lo studio delle varietà linguistiche dell'etrusco è comparso in letteratura solo molto di recente; per alcuni interventi principali cfr: Rix (1983); Agostiniani (2.007); Belfìore (2.012.b); van Heems (2.003; 2.011; 2.012.).

l00

4

Voci dal mondo etrusco. Il contenuto delle iscrizioni

4.1 Il lessico 4.1.1.

ASPETTI GENERALI

Le nostre conoscenze sul lessico etrusco sono modeste. Nelle rassegne linguistiche che ciclicamente vengono proposte in ambito scientifico, il computo delle parole traducibili con ragionevole certezza non supera le poche decine, diciamo fra cento e duecento unità lessicali, senza considerare dunque pronomi e particelle. Non per caso, fra tutte le imprese editoriali dell'etruscologia linguistica, la più difficile - l' impresa del domani - rimane la compilazione di un dizionario. La situazione cambia in maniera macroscopica se si presta fede e si dà credito a quelle opere pseudoscientifiche che propongono, in maniera spregiudicata e incontrollabile, traduzioni letterali sia dei testi lunghi sia delle iscrizioni più brevi: se tutte le proposte venissero confermate, si potrebbe disporre di un vocabolario di svariate centinaia di lemmi e le nostre conoscenze del lessico etrusco sarebbero molto più estese e approfondite. Tuttavia, scarsa se non nulla, salvo sporadiche intuizioni, è l'affidabilità di molte di queste traduzioni globali dei testi superstiti etruschi, che sono tanto più pericolose quanto più esse presentano, mimeticamente, il carattere formale ed estrinseco delle opere scientifiche (trattazioni con apparato critico e bibliografia finale più o meno congrua). A onta delle proclamate decifrazioni globali dell'etrusco e delle numerose traduzioni tentate dei principali testi etruschi, pertanto, la situazione è quella segnalata dai testi più seri e prudenti di etruscologia linguistica: le parole di cui conosciamo realmente il significato

IO!

GLI ETRUSCHI

sono relativamente poche. Ciò dipende sostanzialmente da due fattori, che combinati insieme producono un effetto negativo: 1. i testi più brevi, di carattere per lo più funerario, sono estremamente standardizzati e utilizzano, rispetto al numero elevato di attestazioni, un numero notevolmente scarso di unità lessicali; 2. i testi più lunghi sono di difficile e talvolta disperata lettura, e le difficoltà nell'analisi morfologica ostacolano anche l'identificazione dei significati delle parole.

Nota bibliografica Nonostante l'esiguità delle acquisizioni certe, sezioni sul lessico più o meno ampie si trovano in tutti i manuali di lingua etrusca: cfr. a titolo esemplificativo Wallace (2.008, pp. 123-34) e Marchesini (2009, pp. 131-5). Fra i cesti di etruscologia linguistica destinati al grande pubblico, più attenti ai problemi del lessico, ricordiamo infine Facchecci (2.000 ), che produce un numero elevatissimo di ipotesi di traduzione, che tuttavia non sempre sono verificabili. Per ulce,riori riferimenti cfr. PAR. 4.1.6. 4.1.2. TERMINI ISTITUZIONALI

L'epigrafia etrusca è la fonte principale per la ricostruzione della struttura amministrativa delle città, nonostante la notevole scarsità di iscrizioni pubbliche che la distingue in modo caratteristico da altre culture epigrafiche dell'Italia coeva ( in particolare quella romana e quella osca). Le iscrizioni funerarie (soprattutto di Tarquinia) possono contenere dei cursus honorum che permettono di ricostruire i nomi delle magistrature e, entro certi limiti, la loro sequenza gerarchica. Molte informazioni sulla struttura del territorio cittadino provengono inoltre da una fonte apparentemente insospettabile, il calendario liturgico conservato nel testo del Liber Linteus Zagrabiensis, che contiene alcune formule di invocazione che pregano la divinità di estendere i benefici derivanti dai rituali alle varie sezioni della comunità. Sul piano delle magistrature, è possibile distinguere un gruppo di uffici di rango superiore, defìni ti dal lessema zil (zifx/ zilc è il nome della magistratura, zila0 quello del magistrato, anche se a volte si può trovare il tema puro), e un gruppo di cariche inferiori definite dal lessema maru (con marunuxl marunuc che indica la magistratura e marunu, o il tema puro maru, a indicare il magistrato). La presenza di una ricca serie di 102

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

specificazioni (FIGG. 2.11h e 3.IC) fa capire che in un'amministrazione cittadina dovessero esservi più zila0 e più marunu, investiti di incarichi specifici. Anche se è molto probabile che esistessero differenze nelle forme di governo delle città etrusche, la relativa diffusione di questi termini fa pensare che, almeno per quanto riguarda la denominazione generica dei magistrati, vi fosse uno schema generico condiviso. La menzione dell'iterazione delle cariche (FIG. 2.11g) fa pensare che queste fossero a termine e verosimilmente elettive. Poiché le formule di datazione comprendono il nome di uno o due zila0 (uno a Cerveteri, due a Cortona, entrambe le opzioni a Tarquinia), queste cariche dovevano essere probabilmente annuali; l'uso in funzione eponima garantisce allo stesso tempo che gli zila0 (o almeno alcuni fra questi) rappresentassero i vertici del governo. I marunu, al contrario, dovevano collocarsi molto più in basso, tanto è vero che nei cursus honorum spesso non sono specificati i vari marunux ricoperti, ma si usa l'espressione generica marunux(va) cepen ("tutti i marunux"), a volte accompagnata anche dall'aggettivo spurana ("pubblico") (FIG. 3.1c): infatti la designazione marunux poteva riferirsi, oltre che a un gruppo di magistrature, anche a cariche sacerdotali (forse di presidenza di un collegio cultuale). Il verbo tecnico per l'azione di ricoprire magistrature è *ten-, attestato quasi sempre in una delle due forme di participio, tenu e ten0as (la prima esprimente azione compiuta, la seconda azione continuata: per ricordare cariche ricoperte in passato da un defunto erano evidentemente entrambe ammissibili) (FIGG. 2.11h e 3.1c); molto più raro l'uso del perfetto del verbo "essere" (FIGG. 3.1c e 3.u). Esistono anche verbi più specifici costruiti sul nome delle magistrature, per esempio *zilaxn-, noto da forme quali zilaxnce ("fu zila0") e zilaxn0as (participio con valore di azione continuata) (FIG. 2.11g). Oltre a questi, vi sono anche altri termini che possono essere identificati come designanti cariche magistratuali, o comunque incarichi pubblici, la cui collocazione all'interno degli ordinamenti cittadini resta incerta. La città-Stato, in etrusco, era definita spura (.{pura in area settentrionale; genitivo spura[), mentre la città come luogo urbanistico era il me0lum (equivalente al latino urbs, contrapposto al concetto politico di civitas ), genitivo me0lumes. Il termine cil0 indicava una parte fisica della città (l'arx?), mentre tu0ina era una porzione del territorio dotata di un certo grado di identità (e quindi, forse, di autonomia) (FIG. 3.xe). Ulteriore termine politico-istituzionale attestato dalle iscri-

GLI ETRUSCHI

zioni è rasna (rafna in area settentrionale) che indicava il complesso dei cittadini; è possibile che, analogamente al latino populus, rasna venisse impiegato anche per designare il popolo in armi: questo almeno è ciò che farebbe pensare l'evidenza di un tular rafnal ("confine della rasna") posto a un miglio circa dalle mura di Cortona, forse a identificare un'area entro la quale l'esercito non sarebbe dovuto entrare. Dal testo del Cippo di Perugia sembra che rasna potesse indicare anche un organo assembleare della città etrusca. Naturalmente, fra le parole etrusche di significato comunemente accettato ha qualche rilevanza istituzionale anche il già citato tular ("confine", che, nonostante l'apparente uscita di plurale animato, era in realtà un singolare; l'appellativo è costruito sul verbo tul).

Nota bibliografica Per i termini che designano le parti della città, è ancora fondamentale Colonna (1988). Per le magistrature l'intervento più completo è quello di Maggiani

(2.001). 4.1.3. PAROLE DEL SACRO

Sarebbe qui velleitario anche solo abbozzare una sintesi delle conoscenze relative al lessico religioso degli Etruschi che aspiri a essere originale ed esaustiva allo stesso tempo: la maceria è talmente complessa e i dati acquisiti con certezza talmente esigui da scoraggiare ogni tentativo in tal senso. È sufficiente confrontare le edizioni (e le numerose riedizioni) dei maggiori testi epigrafici etruschi di contenuto religioso (Liber Linteus, Tabula Capuana, lamina di Santa Marinella), nonché degli altri testi etruschi di lunghezza eccedente le poche righe, per rendersi conto che il consenso è stato guadagnato su un numero limitatissimo di lemmi. Per il resto, fioccano le ipotesi e i tentativi di traduzione letterale delle singole parole, più o meno argomentati, non si contano più. Questo campo di studio, in particolare, è stato spesso esplorato con indagini di tipo bilinguiscico (cfr. PAR. 3.1), che chiamano in causa cesti rituali italici molto noti, come le Tavole Iguvine. Come si è detto, in questo caso la nostra principale fonte di informazione è rappresentata da testi molto lunghi (con centinaia di parole diverse), conservati tuttavia in maniera incompleta, in cui il contenuto sacrale è però cerco. La circostanza assodata sia per il Liber Linteus

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

che per la Tabula Capuana, ovvero il fatto che si tratti di prescrizioni liturgiche articolate secondo il tempo ciclico del calendario, favorisce l'ipotesi che questi testi siano strutturati in maniera modulare, in cui si ripetono, con particolari diversi, descrizioni di rituali che venivano compiuti in diversi momenti dell'anno. Le parole del sacro di cui è lecito sospettare l'esistenza in questi testi riguardano dunque la sfera concettuale della preghiera, del sacrificio (cruento e incruento) e dell'offerta. In alcuni casi, non è possibile andare al di là di ipotesi generiche: è questo il caso del termine sacni e derivati, che attengono generalmente alla sfera del "sacro". Nei casi più concreti, in cui la prescrizione liturgica è puntuale e scende più nei dettagli, abbiamo probabilmente parole che si riferiscono a oggetti mobili (per esempio arredi di culto) che venivano impiegati nel rito e ad apprestamenti fissi, come potevano essere gli altari. Per esempio: la parola rax, menzionata nel Liber Linteus e altrove sembra doversi tradurre proprio con "altare". Fino a poco tempo fa si è creduto che la parola cletram significasse "portantina", "vassoio", con riferimento all'accessorio su cui venivano trasportate le offerte, ma oggi sappiamo che si tratta di un pronome. Per quanto riguarda il termine "vittima" sacrificale, esso è ovviamente presente: la parola etrusca con questo significato è probabilmentejler, mentre il derivato fiere è usato per designare in maniera generica l 'entità divina. La terminologia relativa ai luoghi di culto emerge invece in modo particolare dalle Lamine di Pyrgi da cui, alla luce della comparazione con il testo fenicio, è possibile guadagnare ipotesi di traduzione circostanziate per i termini heramfva, tmia e tamera. Essi significano rispettivamente "santuario" (o più probabilmente "statue", visto che la parola presenta il suffisso del plurale inanimato e corrisponde al fenicio m'f, "statua"), "tempio" e "cella". I testi maggiori, e in particolare il Liber Linteus e la Tabula Capuana, ci forniscono inoltre, incidentalmente, alcune preziose indicazioni sulle parole che in etrusco venivano adoperate per i riferimenti di tipo spaziale. Si tratta di locuzioni di significato incerto, per cui si sono proposte le coppie semantiche polari di "destra" /"sinistra", "sopra" /"sotto", "avanti" /"indietro": l'identificazione più solida appare quella della coppia hamrpe-/ laive-, che sembra corrispondere ali' opposizione "destra" /"sinistra". Data l'articolazione calendariale delle prescrizioni religiose contenute nei testi maggiori dell'epigrafia etrusca, siamo anche ben informati sui nomi di mese, peralcro ricordati anche nelle glosse, che ne riportano versioni latinizzate non sempre perspicue (velcitanus, "marzo"; cabreas, "aprile"; ampi/es, 105

GLI ETRUSCHI

FIGURA 4.1

Chimera di Arezzo (inizi del

IV

secolo a.C.)

Particolare dell'iscrizione incisa sulla zampa destra: tinfcvil ("oggetto sacro"?). Firrn,c, Museo archeologico nazionale.

"maggio"; adus, "giugno"; traneus, "luglio"; [h ]ermius, "agosto"; celius, "settembre"; Xosjèr, "ottobre"). Sempre da fonte glossografica apprendiamo inoltre che la parola etrusca che designava la divinità era ais, termine frequentemente attestato in età arcaica nella forma aisar (con suffisso del plurale animato) e in età recente come eiser. Questa acquisizione apre la strada all'identificazione di eventuali marche di consacrazione espresse con la sigla ai, digrafo che in effetti ricorre talvolta in aree sacre su stoviglie iscritte generalmente a crudo. Più difficili da interpretare sono le parole del sacro veicolate non dai testi epigrafici più importanti e dalle brevi iscrizioni sacre redatte su instrumentum, di cui si è trattato fin qui, bensì dalla vasta congerie di oggetti sacralizzati nelle aree di culto (per esempio le statuette di divinità o altri simulacri oggetto di consacrazione) che recano iscrizioni incise più o meno lunghe. Fra i gli elementi lessicali restituiti da queste iscrizioni "minori" apposte su oggetti rinvenuti nelle stipi votive figurano cver e tinfcvil, termini che tuttavia restano ancora sub iudice per l'aspetto !06

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

semantico. Il secondo di essi, fatto di grande interesse, è attestato su diverse categorie di oggetti consacrati, fra cui ritroviamo non solo ex voto celeberrimi come la Chimera di Arezzo (FIG. 4.1) e il lampadario di Cortona, ma anche apprestamenti cultuali, come gli altari, dove il lemma ricorre in associazione con il teonimo tinia. Grazie alla famosa iscrizione bilingue etrusco-latina di Pesaro conosciamo anche il significato di almeno due parole etrusche relative alle sakrale Personen, cioè agli operatori cultuali: si tratta dei termini netfvis e trutnvt, che in virtù della traduzione latina sappiamo avere il significato di haruspex efulguriator. A margine di quanto detto fin qui, si può ricordare infine che alcuni fra i testi sacri ricordati e, in particolare, quelli più ricchi di parole, menzionano talvolta alcune tipologie di offerte vegetali. Può così capitare che, analizzando le parole del sacro, lo studioso del lessico etrusco si ritrovi di fronte, incidentalmente, quelle del quotidiano (cfr. PAR.

4.1.6).

Nota bibliografica I testi maggiori dell'epigrafia sacra etrusca - la Tabula Capuana e il Liber Linteus - entrambi di rinvenimento ottocentesco, sono stati recentemente riediti: Cristofani (1995) e Belfiore (2.010) (in entrambi ampio spazio è dedicato al lessico). Un tentativo pionieristico di esplorazione semantica sulLiber Linteus è in Verter ( 1937 ). Per la raccolta dei dati, di qualche utilità rimangono ancora le monografie di Pfiffìg (1969; 1975). Ai fini degli argomenti trattati è ora fondamentale la lettura di Maras (2.000; 2.009d) e Massarelli (2.014). Utili messe a punto sui rapporti fra cultura scritta e religione, con alcuni spunti anche sul lessico, sono Bonfante (2.006) e Maggiani (2.015). Sulle indicazioni spaziali Giannecchini (1998). Sui nomi degli ortaggi offerti nel corso delle cerimonie religiose cfr. la recente trattazione di Giannecchini (2.016), ricca di proposte originali. 4.1.4. TERMINI DI PARENTELA

La concentrazione dell'epigrafia etrusca nel settore funerario fa sì che i termini di parentela siano non solo quelli più ampiamente attestati fra gli appellativi, ma anche quelli di significato più certo (comprovabile attraverso i rapporti genealogici fra le persone menzionate nelle iscrizioni). Il più diffuso, la cui traduzione risale addirittura a Luigi Lanzi, il decifratore dell'alfabeto etrusco (1789), è clan ("figlio")

GLI ETRUSCHI

(FIGG. 2.uh e g, 3.1a, e, de e); a questo si accompagna l'equivalente femminile se;:r (s'e;:r in grafia settentrionale, "figlia"), noto anche nella grafia deaspirata sec/ sec (FIG. 3.2d). I figli in generale, senza distinzione di genere, vengono definiti husur (husiur nell'unica attestazione in grafia settentrionale) (FIG. 3.1b). "Padre" e "madre" sono, rispettivamente, apa e ati, mentre "moglie" è puia (FIG. 3.2d). Il termine per "nonno" è papa (mentre non è chiaro se la locuzione ati nacna possa significare "nonna", oppure se sia un qualche tipo di qualificazione della madre); coerentemente, "nipote" è papals, senza distinzione di genere; esiste anche un altro termine per il "nipote", nefts, che sembra del tutto equivalente al precedente (forse la distinzione va vista nel fatto che nefts si riferisce solo a persone di genere maschile, almeno allo stato attuale della documentazione). Esistono anche termini che identificano parentele più lontane: per esempio, prums è impiegato una volta per il "pronipote" (nell'unica genealogia etrusca a noi pervenuta che risale addietro di tre generazioni). È possibile, ancorché non certissimo, che ruva indichi il "fratello". Un'iscrizione chiusina tramanda un ulteriore termine di parentela, danti, che dovrebbe identificare il figlio adottivo. Sono documentati anche alcuni verbi che esprimono la filiazione; uno di questi è noto solo in forma passiva,far0naxe: è costruito con l'ablativo (come tutti i passivi) e vale qualcosa come "nacque da" (FIG. 3,2b ). Di un altro si conosce invece il participio, acnanas(a), in formule che compaiono in alcune iscrizioni funerarie per ricordare il numero di figli (e talora di nipoti) lasciati da un defunto; il riferimento ai nipoti fa capire che acnanas(a) non va riferito a una generazione biologica (come probabilmente è il caso difar0naxe), ma alla formazione di una discendenza.

Nota bibliografica Dal momento che i termini di parentela sono fra i più ampiamente usati nelle trattazioni sulla lingua, cfr. p. 96, Nota bibliografica. 4.1.5. LESSICO FUNERARIO

Vista la consistenza dell'epigrafia etrusca, non è sorprendente che si conoscano molti termini collegati alla sepoltura. La parola più comune per designare la tomba in genere è su0i (settentrionale su0i, I08

4. VOCIDALMONDOETRUSCO

cerite su0i) (FIGG. 3.2e, 3.1a e b).A fianco di questo, esistono molti termini che identificano in modo specifico dei contenitori funerari; tra questi si segnalano soprattutto capra ("urna cineraria") e mutna ("sarcofago"), oltre a muri (settentrionale murs ), che sembra definire un luogo di sepoltura in genere. Con il termine tamera è indicata invece la camera funeraria; poiché questa parola è nota anche in contesti non funerari, è probabile che il suo significato vada piuttosto interpretato in senso spaziale ("spazio", nel senso di spazio consacrato, "vano" o qualcosa del genere). La parola manim sembra usata per designare una struttura funeraria nel suo complesso e compare di solito nell'espressione manim aree ("fece il manim"), posta in coda ad alcune iscrizioni funerarie in tombe di famiglia, probabilmente a ricordare la costruzione del sepolcro. Altri termini servono a identificare invece parti esterne della sepoltura: così per esempio ma ("cippo" o "stele", che compare per lo più su segnacoli); per contrasto, pen0na (che designa anch'esso un cippo) è usato, almeno nei limiti della nostra conoscenza, per lo più in contesti non funerari. Una designazione alternativa dei segnacoli funerari è cana, che però può indicare anche oggetti a destinazione non funeraria; è probabile che il suo significato vada cercato nel senso di "monumento", o qualcosa di simile. Verbo tecnico collegato alla sepoltura è cesu, impiegato soprattutto nella locuzione 0ui cesu ("qui giace", o "qui è stato deposto"). L'azione del costruire la tomba, oltre che dal semplice aree ("fece"), è indicata, tra gli altri, anche dai verbi cerixunce (con il relativo passivo cerine; il significato dell'infisso -xun-, che compare anche in altri verbi, non è chiaro), hec(c)e (anche nella locuzione su0i acil hece, con l'aggiunta del termine acil, equivalente del latino opus) e dall'hapax rpur0ce (FIGG. 3.1a e

b, 3-2,e).

In qualche modo collegate alla sepoltura sono anche le indicazioni dell'età di morte, che compaiono secondo tre diverse formule: la più semplice è costruita con ril ( abbreviato alla sola r nelle iscrizioni più tarde) seguito dalla cifra dell'età; la seconda prevede l'uso del verbo "vivere", sval-, che si trova sia nella forma svalce ("visse") sia nel participio sval0as ("avendo vissuto"), completato con l'indicazione dell'età in caso nominativo/accusativo (avil, "anni", più il numerale; come tutti gli inanimati, avil, in presenza di un numerale, non prende il suffisso di plurale); infine esiste una terza formula con il participio lupu ("morto"), seguito dall'indicazione dell'età al genitivo (avils + nu-

GLI ETRUSCHI

FIGURA 4.2.

Calice con piede a tromba di impasto da Cerveteri (metà del VII secolo a.C.)

L'iscrizione onomastica riporta luea mi tifa. Milano, Civico museo archeologico (inv. A.09.8ì88).

merale, anch'esso declinato al genitivo se è scritto per esteso invece che in cifre) (FIGG. 2.11g, 3.1c e pa).

Nota bibliografica Anche per il lessico funerario cfr. p. 96, Nota bibliografica; il contributo specifico più recente in materia è Belfìore (2.016c). Per la ricca gamma dei verbi esprimenti l'esecuzione di un'azione ("fare" ecc.) cfr. soprattutto Belfìore (2.0146). 4.1.6.

PAROLE DEL QUOTIDIANO E "TERMINI DI CULTURA"

La monotonia degli enunciati e la formularità testuale, nel caso delle epigrafi strumentali, possono essere incidentalmente di grande aiuto per l'interprete moderno e consentire di individuare un certo numero di valori semantico-referenziali certi. Mentre, infatti, nelle iscrizioni di dono e di possesso più semplici compaiono di norma solo nomi di persona, pronomi ed eventualmente forme verbali (FIG. 4.2), in alcune iscrizioni più complesse che ricorrono alla formula e ai moduli stilisti-

110

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

FIGURA

4.3

Brocca italo-geometrica da Cerveteri ( 630-600 a.C.)

Nell'"iscrizione parlante" sono menzionati il nome del proprietario (karkana) e il nome del vaso (qutum). Parigi, Musée du Louvre (inv. D 70).

ci del cosiddetto "oggetto parlante" (cfr. PAR. 5.1.2) viene esplicitato anche il nome dell'oggetto di cui si vuole dichiarare il possesso oppure il dono. In questa maniera, se l'iscrizione è strumentale e se l' intenzione è quella di registrare il nome del proprietario dell'oggetto, per esempio un vaso fittile, oppure del suo donatore, nel testo avremo verosimilmente, oltre ai nomi di persona, anche appellativi che registrano i nomi dei vasi posseduti, donati o ricevuti in dono. Se poi consideriamo che lo "scrivere su ceramica" è uno degli aspetti più importanti della cultura scritta di quel popolo, si intuisce che quello dei nomi etruschi di vaso è il settore del lessico che conosciamo meglio in assoluto. In particolare, si conoscono i nomi di tutte le classi funzionali relative alla ceramica da mensa e ai contenitori da dispensa: i vasi per versare liquidi (brocche monoansate) si chiamavano qutun/m (FIG. 4.3) e pruzum; le coppe potorie, se munite di anse, si chiamavano culizna,

III

GLI ETRUSCHI

FIGURA

4.4

Iscrizione graffita sul corpo di un'olla in impasto rosso da Caere (terzo quarto del VII secolo a.C.)

Nell'iscrizione è menzionato il nome del vaso (0ina). Milano, Civico museo archeologico (inv. A.O. 8786).

se invece ne erano prive 0afna (termine che indica una tazza a pareti verticali su piede); i piacei a tesa larga si chiavano spanti; i vasi con due anse verticali zavena; l'olla-cratere Bina (FIG. 4.4). Conosciamo anche il nome (grecizzante) dei flaconi per unguenti (le;ctum) e probabilmente quello dell'otre/anfora commerciale (naplan ), nonché una serie di altre parole relative a fogge vascolari di attestazione più rara. Alcuni di questi termini sono accescaci talvolta nella variante diminutiva-vezzeggiativa (presentano il suffisso -[u]za). In rari casi, su flaconcini e ampolline adoperaci per la cosmesi e per medicazioni troviamo l'indicazione del contenuto: per esempio, in due ampolline conservate al Louvre, è sericeo rispettivamente ruta ("ruta") e cuprum ("henné") (FIG. 4.5). All'analisi formale, molti di questi termini risulcano prestiti (dal greco) e rientrano quindi nella categoria dei cosiddetti "termini di cultura". I principali sono culixna (derivato dal greco ,cvÀ'Xva, kylix), pruxum (derivato dal greco 1r;oxovv ), qutum (derivato dal greco ,cc,;3Cvv, originariamente "fiasca da viaggio", successivamente "brocca") e lextum (derivato dal greco À11ev3ov ). A giudicare dall 'uscica, quasi cucci questi termini sono stati acquisiti nella forma dell'accusativo, ma recentemente è stata data una spiegazione più convincente di questa uniformità di desinenze per gli appellativi etruschi (-um ). Si traccerebbe, infatti, dell'esito dell'inclusione delle parole straniere nella 112.

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

FIGURA 4.5

Ampollina rinvenuta a Caere (v secolo a.C.)

Sull'ampollina è scritto il nome del contenuto (cuprum, "henné"). Parigi, Musée du Louvre (inv. D 134).

classe delle parole etrusche con referente inanimato, che prevedeva appunto la desinenza -um. L'ipotesi (che risale a Luciano Agostiniani) è congruente con quanto si sa - in generale - del prestito linguistico e tiene conto, in particolare, delle caratteristiche principali che gli scudi sull'interferenza linguistica hanno individuato nei prestiti lessicali: 1. forma e significato della parola straniera diventano modello stringente per la creazione linguistica locale; 2. il calco linguistico, tuttavia, per essere giustificato agli occhi dei parlanti nativi, viene integrato nel sistema morfologico locale (in questo caso attraverso la suffìssazione destinata alle parole aventi per referente un oggetto inanimato). Accanto ai nomi di origine greca, testé esaminaci, altri sono di sicura origine locale (per esempio zavena); altri ancora sono stati ritenuti in passato imprestiti italici, ma oggi si tende a credere che si tratti di termini genuinamente etruschi (spanti, "piatto': da span, "pianura"). In 113

GLI ETRUSCHI

un caso (naplan) si è postulato un prestito direttamente dal semitico oppure dal semitico ma attraverso mediazione greca (da nablan ). Nel complesso, la situazione dei prestiti lessicali riscontrata nell'etrusco rientra nella fisiologia dell'interferenza linguistica: vi sono classi "aperte" di nomi suscettibili di innesti dall'esterno, a seguito di contatti interculturali che sono facilitati quando l'ambito che fornisce il modello è considerato, per motivi diversi, prestigioso. Nel caso specifico (nomi dei vasi), con ogni evidenza, il modello di prestigio lo ha fornito la cultura greca, che ha influenzato un intero comparto del lessico etrusco, interagendo dialetticamente con la tradizione epicoria, di cui contribuiva a colmare i vuoti. Se si eccettuano i nomi di vaso, per il resto non possediamo informazioni dirette (cioè desumibili direttamente dai testi) sufficienti a una ricostruzione organica del lessico etrusco, a meno che non si faccia ricorso a fonti esterne, incluse quelle erudito-antiquarie e di tipo extralinguistico. Le più utili nel caso in questione sono ovviamente le glosse, che sono abbastanza numerose, e le cosiddette "bilingui figurate", discusse più avanti in questo libro (cfr. PAR. 4.1.7). Estraendo dagli scritti degli antichi glossatori e lessicografi e dai compilatori di opere di erudizione (Marco Terenzio Varrone, Verrio Fiacco, Isidoro di Siviglia, Esichio di Alessandria) tutto quanto riguardi l'Etruria, si ottiene un certo numero di significati di parole etrusche che altrimenti ignoreremmo: alcune si riferiscono al mondo degli animali, e in particolare alla famiglia degli uccelli rapaci (le glosse, per esempio, ci informano che i termini etruschi per "aquila" e "falco/falcone" - in versione grecizzata o latinizzata - erano rispettivamente andas/ andar e capys). Da altre preziose glosse, si ricavano nomi di mestiere latinizzati (lanista, gladiatore; subulo, "suonatore di auloi" ecc.) di presunta origine etrusca. Dall'analisi del materiale lessicale, inoltre, siamo in grado di ipotizzare che un certo numero di parole greche sono entrate nel lessico latino attraverso la mediazione etrusca: i casi accertati sono pochi, ma di grande interesse. Per motivi fonetici, potrebbero rientrare in questa categoria (ed essere state mediate dall'etrusco) la parolagroma (dall'etrusco *cruma, forma non attestata ma ricostruibile, a sua volta derivata dal greco yvCJµa ), la parola ancora (dall'etrusco •ancura, forma non attestata ma ricostruibile, a sua volta derivata dal greco dy1evpa), la parola sporta (dall'etrusco *spurta, forma non attestata ma ricostruibile, a sua volta derivata dal greco cn,vpl3a), la parola amorga (dall'etrusco 114

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

•amurca, forma non attestata ma ricostruibile, a sua volta derivata dal greco !t.µ6pya), nonché alcuni nomi di animale (serpente e balena). Altre referenze si ricavano dall'iconografia di vasi, gemme e specchi. Da un piccolo skyphos a figure nere apprendiamo, per esempio, che il nome della civetta era probabilmente hiuls (formazione onomatopeica); in alcune didascalie apposte su gemme e specchi leggiamo, inoltre, le parole leu ( = greco Àlu1v) e Bevru ( = greco Tavpoç), corrispondenti rispettivamente a "leone" e "toro". Altre possibili identificazioni sono malena, "specchio':jlere, "genio" /"nume" /"divinità" (cfr. PAR. 4.1.3 ), kanna, (tessuto di) "canapa" (dal greco ,cdvva~tç); altre identificazioni restano incerte: per esempio pen0una ="cippo"(?). Quest'ultimo lessema ha una travagliata storia critica: in passato, si è proposto che questa parola significasse "pignatta" e fosse all'origine dell'equivalente termine toscano (e italiano); oggi il significato di "cippo/ stele", dipende dall'interpretazione del cippo di Perugia e di altre iscrizioni perugine su cippo. Altre proposte interpretative, guadagnate per via linguistica e di grande suggestione, possono essere considerate abbastanza sicure. Questo vale, per esempio, per la parola Bi, per cui si è ipotizzato il significato di "acqua•: e per vinum, il cui significato di "vino" si ricava con certezza dal Liber Linteus. Infine, una fonte di conoscenza notevole per il patrimonio lessicale etrusco sono i soprannomi (cognomina) derivati da appellativi. Nel complesso, l'impressione che si ricava del lessico etrusco (con riferimento alla sfera quotidiana) dai dati presentati è evanescente. Il riconoscimento di numerosi prestiti, anche in campi semantici in cui le carenze del vocabolario locale sono, almeno in apparenza, incomprensibili (come poteva mancare nel vocabolario etrusco una parola indigena per "cesto"?), dà l'impressione sorprendente di una lingua estremamente permeabile alle influenze esterne. Inoltre, i pochi elementi che si ricavano per settori omogenei del lessico, come quello animale e quello botanico, ricordati sopra, si spiegano alla luce della fortuna presso i Romani della letteratura religiosa etrusca (che ha tramandato molti termini di piante e animali che avevano a che fare con le pratiche divinatorie). Nota bibliografica Non esiste uno studio sistematico sul lessico etrusco del quotidiano e questo campo di indagine rimane purtroppo oggetto di incursioni dilettantesche che producono ipotesi indimostrabili, se non risibili. Il settore più indaga-

115

GLI ETRUSCHI

to è quello dei nomi di vaso, per cui si rimanda allo studio base di Colonna (2005, voi. III, pp. 1773-85) e alla recente rivisitazione in Bellelli, Benelli (2010 ), da cui si può risalire a tutta la bibliografia di riferimento. Su questo stesso argomento cfr. anche Bagnasco Gianni (2000, pp. 109-17). Per i termini ruta e cuprum: Briquel (2016, pp. 253-9, nn. wo-1). La scoperta della tavola di Cortona ha aperto nuove prospettive di indagine: Agostiniani, Nicosia (2000), Maggiani, Pandolfini (2002). Sulla classe delle iscrizioni parlanti: Agostiniani (1982). Sugli imprestiti greci in etrusco: de Simone (1968-70). Sugli imprestiti etruschi in latino: de Simone (1988), Watmough (1997). Per le glosse: Pallottino (1968); Torelli (1976; 2003); Briquel (2006; 2009), con altra bibliografia. Sul nome della civetta: Lehmann-Hardeben, Fiesel (1935). 4.1.7. DIDASCALIE E "BILINGUI FIGURATE"

Fonte preziosa di informazione nell'analisi semantica, come si è visto nel paragrafo precedente, sono le didascalie, ovvero le scritte inserite in racconti per immagini più o meno articolati e complessi, con il fine di aiutare l'osservatore a identificare personaggi e oggetti. Tale tipologia di iscrizione è attestata in una gamma abbastanza vasta di classi monumentali - pitture parietali, vasi istoriati, specchi decorati, gemme - ma la prassi di apporre didascalie appare legata soprattutto al mondo degli specchi e dunque al mundus muliebris, specialmente se si esamina la questione da un punto di vista sincronico (documentazione di età classica ed ellenistica). Per il resto, purtroppo, si tratta di occorrenze occasionali, alcune delle quali da inserire in contesti iconografici (e interpretativi) di complessità a volte eccezionale. Dal punto di vista metodologico, queste iscrizioni, se relative a oggetti inanimati, possono essere considerate insieme al rispettivo referente iconografico delle "bilingui figurate", ovvero dei testi semplici (lemmi isolati in realtà) di significato sconosciuto, cui corrisponde una traduzione non in un'altra lingua, bensì in immagine. In questi casi, la situazione psicologica in cui si trova lo scriba-artigiano è ribaltata rispetto alle bilingui tradizionali ( in cui un testo unico viene dato in traduzione affinché se ne comprenda meglio il significato), perché il dato linguistico di partenza è dato per trasparente e scontato (sia per l'artefice che per il fruitore dell'immagine), mentre trasparente non è valutata (dall'artefice) la sua trasposizione iconografica. In altre parole, queste situazioni di ambiguità di lettura iconografica in cui incappava l'artigiano-scriba ci offrono incidentalmente occasioni insperate per penetrare nel lessico etrusco, con qualche ragionevole speranza di u6

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

FIGURA 4.6 Brocca etrusco-corinzia istoriata, nota come "Oinochoe della Tragliatella" ( 630 a.C. circa)

Il fregio figurato è arricchito da didascalie esplicative, fra cui il nome etrusco di Troia

(truia). Roma, Musei capitolini (inv. H8 Mob.).

successo, perché l'artigiano scriveva sotto l'oggetto rappresentato il nome dell'oggetto stesso. Le più antiche didascalie relative a oggetti inanimati o a concetti astratti identificate in etrusco si trovano su vasi orientalizzanti ( 640-630 a.C.) decorati con scene tratte direttamente o indirettamente dal mito greco, in cui anche i personaggi sono identificati con delle scritte esplicative, sia pure in maniera non sistematica, fatto di per sé rilevante. Si tratta delle scritte truia e kanna, apposte su due celeberrime brocche rinvenute a Cerveteri e nel suo territorio, che hanno fatto versare fiumi di inchiostro: l' Oinochoe della Tragliatella (FIG. 4.6) e l' olpe di bucchero con rappresentazione di Medea, Dedalo e degli Argonauti (FIG. 4.7 ). Se la prima di esse - truia - non pone eccessivi II?

GLI ETRUSCHI

FIGURA

4.7

Sviluppo grafico del fregio dell' olpe di bucchero da Cerveteri ( 630 a.C.)

Nel fregio sono raffigurati Medea, Dedalo e gli Argonauti e sono inserite didascalie esplicative (metaia, taitale, kanna). Roma. Museo nazionale etrusco di Villa Giulia (inv. 110976).

problemi esegetici, perché il riferimento alla città leggendaria di Troia appare trasparente, più problematica è l'interpretazione della scritta kanna che ricorre nell' olpe di Medea. Che significato può avere questa parolina scritta con ductus retrogrado su un lungo rotolo di tessuto trasportato dagli Argonauti? Contro la vulgata, che vorrebbe questa parola sinonimo del greco dyctÀf,lct, con riferimento alla veste preziosa vinta dagli Argonauti nei giochi di Lemno, in altra sede si è proposto che il significato sia invece "canapa", un prestito dal greco, con riferimento alla vela della nave Argo, che nell'economia della trasposizione del racconto in immagini può aver avuto un ruolo importante. In questo, come in tutti gli altri casi di bilingui figurate, l'interpretazione deve armonizzare il dato epigrafico-linguistico con quello iconografico (più in generale con i dati archeologici di contesto) e per questo la collaborazione fra archeologi e glottologi, che nella fattispecie si è verificata, è particolarmente fruttuosa. Un certo numero di didascalie si ritrova anche nella ceramica arcaica di fabbrica locale. Si tratta per lo più di nomi di personaggi del mito e dell'epica greca (per esempio Axmemrun/ Agamennone) scritti a esplicitare l'identità dei protagonisti delle scene rappresentate. Nel caso ricordato nel paragrafo precedente, la scritta esplicativa è apposta 118

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

accanto a un volatile notturno, una civetta, da cui si è dedotto che il significato del termine possa essere proprio quello di "civetta". I supporti sono sempre vasi locali a figure nere di stile atticizzante (anforette) e le iscrizioni sono realizzate a vernice, dunque sicuramente in bottega. In rari casi, però, l'iscrizione della presunta bilingue figurata è realizzata a graffito, e dunque potenzialmente fuori bottega, da qualcuno che poteva non coincidere con l'artigiano (il proprietario?). Come esempio si può ricordare la scritta tena0 graffita su una sagoma di persona su un vaso a figure nere del Gruppo 883 (REE, 1991, n. 37 ), identificabile, dal contesto iconografico, come giudice in una gara atlecica. Non appare scontato, a questo punto, osservare che le didascalie e le bilingui figurate si trovino esclusivamente nei prodotti di fabbrica locale, mentre non è noto nemmeno un caso di manufatto importato, per esempio un vaso attico figurato, che sia stato oggetto di un intervento di decodificazione scritta (a posteriori) delle immagini a mezzo didascalie. Evidentemente, come conferma in maniera eclatante il caso degli specchi, esaminato subito sotto, la prassi della bilingue figurata era intimamente collegata al lavoro dell'artigiano e forse alla natura degli strumenti che utilizzava in bottega (nel caso degli specchi: cartoni eventualmente commentati). In alcuni casi, tuttavia, è lecito pensare che sia stato non l'artigiano ma il proprietario del vaso ad apporre le didascalie. Un precedente illustre di questa pratica potrebbe essere proprio la testé esaminata Oinochoe della Tragliatella, in cui l'intervento del proprietario può essere stato giustificato dal desiderio di contaminare una saga greca (quella di Teseo e Arianna) con un repertorio di leggende locali, peraltro difficilmente attingibile in assenza di una tradizione letteraria che possa fornire riscontri diretti. Molto più regolare e sistematico appare l'uso delle didascalie sugli specchi decorati, ove la grande maggioranza delle scritte, com'è ovvio, è funzionale a svelare l'identità dei personaggi mitologici rappresentati. Se ne ricava, per i moderni, una bella iniezione di informazioni di prima mano sulla composizione del pantheon etrusco e, soprattutto, sulle proiezioni mitologiche (greche) delle figure divine che lo popolavano. Sebbene raramente, anche sugli specchi non mancano preziose didascalie relative a oggetti inanimati e a personificazioni di concetti astratti. Merita particolare attenzione, per le implicazioni metodologi-

"9

GLI ETRUSCHI

FIGURA 4.8 Specchio etrusco da Perugia (rv secolo a.C.)

Nella scena figurata: Tyria ( Tyro) con i figli Pelia e Neleo (Pelias, Ne/e), accanto a puteale da cui emerge una figura giovanile, con scritta fiere sul bordo. Napoli, Museo archeologico nazionale.

che, il caso della scritta fiere apposta in corrispondenza di un puteale da cui emerge il busto di un personaggio maschile circondato da una linea ondulata (FIG. 4.8). In passato, valorizzando il dato iconografico della presenza del puteale e la vaga assonanza con la parola greca rpp{ap ("pozzo") si è proposto che la parola etrusca fiere significasse "pozzo". Si tratta però di una falsa pista, con effetti banalizzanti sull' interpretazione, perché l'aspetto semantico può essere risolto più agevolmente alla luce delle ricerche linguistiche effettuate sul Liber Linteus e su altri testi di carattere religioso in cui compare il lemma: il significato, probabilmente, è "genio" /"nume" /"divinità". L'uso non infrequente di questa parola del lessico religioso di significato generico si spiega forse con la pratica di alludere alle divinità senza invocarne il nome specifico, come avviene nelle preghiere e nelle prescrizioni liturgiche in cui operavano tabù linguistici. 120

4. VOCIDALMONDOETRUSCO

FIGURA 4.9

Specchio etrusco da Riparbella (v secolo a.C.)

Nella scena figurata: Eracle (Hercle) si avventa con la clava su un doccione di fontana identificato dalla scritta $ipece. Berlino, Sraadiche Museen (Antikensammlungen ).

Più incerto è il caso della scritta dello specchio di Riparbella (FIG. 4.9 ), apposta in corrispondenza di un doccione di fontana a protome leonina, su cui una figura atletica di Hercle in schema di

smiting god sta per vibrare un colpo di clava. È questo uno di quei casi non perspicui, per di più con epigrafe di incerta lettura, in cui l'esegesi è scivolosa. Se per la scritta può accettarsi la lettura 0ipece, in luogo delle altre proposte (rpipece, hipece), dato il contesto iconografico - siamo di fronte a un mito di fondazione di un culto idrico! - forse la via giusta da seguire è quella che individua ali' inizio della sequenza la parola 0i ("acqua") (cfr. PAR. 4.1.6). Del resto, non si può negare che nel repertorio degli specchi incisi abbondino i casi di rapporti distonici fra immagini e sericee, dovuti a percorsi di trasmissione e utilizzo delle immagini che comportavano di frequente errori e sviste. I 2.1

GLI ETRUSCHI

Nota bibliografica La definizione di "bilingui figurate" si deve ad Ambros Pfiffìg. Un capitoletto dedicato alle didascalie si trova in Benelli (2007, pp. 244-52). Sul repertorio degli specchi incisi e iscritti si rimanda a: Van der Meer (1995); Pandolfini Angeletti (2000 ); De Angelis (2002); Facchetti (20086 ). Per le ciste iscritte: Franchi de Bellis (2005). Per le gemme: Ambrosini (20u). Per l'iscrizione dell' olpe ceretana con scritta kanna il nostro punto di vista, riassunto nel testo, è argomentato in Bellelli (2002-03), da leggersi contestualmente a Rix (2002-03). 4.1.8. I NUMERALI

Gli Etruschi adottavano un sistema di calcolo di tipo decimale, basato concettualmente sulla digitazione, come avviene in molte culture antiche e moderne. A differenza di quanto avviene in tutte le lingue antiche, però, il "pacchetto" dei numerali etruschi risulta unico nel suo genere e refrattario a qualunque comparazione diretta, sicché esso non offre dati di evidenza immediata per la individuazione di eventuali parentele linguistiche. In altri termini, gli Etruschi contavano come fanno gran parte dei moderni (da 1 a 10), ma chiamavano i numeri in modo completamente diverso da tutti gli altri popoli del mondo antico. La sequenza terminologica da uno a sei, pur tuttavia, è stata accertata su basi sicure grazie a una testimonianza unica nel suo genere, i cosiddetti "dadi di Tuscania" (il luogo del ritrovamento è in realtà Vulci), oggi conservati alla Bibliothèque nationale di Parigi (FIG. 4.10 ). Si tratta di dadi da gioco in cui i numeri non sono espressi con punti/ circoletti impressi come avviene in questo tipo di strumenti da gioco, bensì con i nomi stessi dei numeri riportati in lettere. Esempi del genere sono noti anche nell'epigrafia greca: il caso più utile a fini comparativi è il dado fittile iscritto proveniente da Taranto conservato al Civico museo di scoria ed arte di Trieste (FIG. 4.u). Sulle sei facce sono scritte sei paroline in greco, corrispondenti ai numeri da 1 a 6: ,cv(~oç) ("asso"), Jvo ("due"), rpfa ("tre"), rfro(peç) ("quattro"), nlv( re) ("cinque"), H! ("sei"). Nel caso dei dadi di Tuscania, la difficoltà era di trovare il cosiddetto "bandolo della matassa": per stabilire le coppie numero/ nome del numero bisognava trovare uno spunto iniziale che avviasse il processo 122

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

FIGURA 4.10

Dadi di avorio da Vulci con numerali etruschi da I a 6 espressi in lettere (rv secolo a.C.)

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Parigi, Bibliochèque Nationale (inv. De Luynes 816 e 817 ).

di interpretazione. Tale spunto è stato fornico da un facto banale: sapendo che la somma delle facce opposte dei dadi da gioco di tutte le epoche deve essere 7, si è prima guadagnata l'identità delle possibili coppie 1 + 6, 3 + 4, 2 + 5, e successivamente, con procedimento di tipo combinatorio, si è potuto assegnare a ciascun numerale il valore esatto. Per esempio, l'equivalenza di ci= tre è stata guadagnata grazie alla testimonianza delle Lamine di Pyrgi, la celeberrima quasi bilingue

123

GLI ETRUSCHI

FIGURA 4.11

Dado fittile da Taranto con numerali greci da VI secolo a.C.)

a 6 espressi in lettere (fìne del

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Trieste, Civici musei di storia ed arte (inv. 3968-T 412).

etrusco-fenicia scoperta nel 1964 nel porco di Cerveteri in cui verso la fine del cesto fenicio compare l'espressione "ere anni", cui corrisponde in etrusco l'espressione ci avi!. La sequenza dei numerali etruschi da uno a sei è dunque con certezza la seguente: 0u, zal, ci, fa, max, hu0. Sulla scia di questa acquisizione, è stato possibile identificare una serie di iterativi nei testi sacri e funerari più lunghi, che ricorrono nel contesto di locuzioni temporali riferite rispettivamente ad atti rituali e a cariche magistratuali (per esempio 0unz, "una volta"; ciz, "ere volce"). Il numero 10 è far (in grafia settentrionale). Più sofferta è stata e rimane tuttora l'identificazione di tutti gli altri numerali, a cominciare da quelli compresi fra 7 e 12. Per i numeri compresi da 7 a 9, tuttavia, come suol dirsi, il cerchio si sta stringendo: i termini in gioco sono solo ere (*sem~, *cezp, *nur~) e prima o poi la soluzione sarà raggiunta. Una delle acquisizioni più recenti, che ha già guadagnato un certo consenso, riguarda il termine snuia~, per cui si è proposto il significato di "dodici". L'identificazione, se confermata, avrebbe implicazioni dirette nell'interpretazione delle Lamine di Pyrgi, dove l'indicazione temporale "dodici anni" - se di questo si tratta - alla fine della lamina B è riferita a una iniziativa importante del

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4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

protagonista della dedica: il "re" di Cerveteri Thejàrie Velianas. È stata anche affacciata l'ipotesi, tuttavia, che il nome del numerale II o del 12 fosse un altro: enza. Il nome del numero 20 era za0rum. Si sa inoltre che le parole "trenta", "quaranta", "cinquanta" e così via erano formate in etrusco con i nomi dei numeri di base, cioè "tre", "quattro", "cinque", cui veniva aggiunto, con funzione di "moltiplicatore", il suffisso -afx. Di recente si è creduto inoltre di identificare anche il termine adoperato per il numerale 100: si tratterebbe della parola sran. È stato inoltre accertato che nei numerali etruschi è operante, come in latino, una procedura di tipo sottrattivo per la designazione dei numeri prossimi alle decine, con la differenza che in etrusco l'indicazione sottrattiva iniziava dalla settima unità e non dall'ottava. Pertanto, in etrusco "diciassette" si diceva ci-em za0rum (cioè "venti meno tre"), mentre, come avviene nei termini latini duodeviginti e undeviginti, che designano i numeri 18 e 19, dal significato letterale di "due meno venti" (cioè "venti meno due") e "uno meno venti" (cioè "venti meno uno"), gli stessi numeri sono espressi con le parole composte esl-em za0rum e 0u-nem za0rum, che possono interpretarsi allo stesso modo. Una analogia significativa con la cultura latina, com'è noto da tempo, si osserva anche nella rappresentazione grafica dei numerali. L'etrusco infatti rappresenta graficamente l'unità semplice con una barretta verticale (1), i numeri 2 e 3 con barrette verticali parallele (11, m), il numero s con la doppia asta unita per il vertice superiore (A), il numero 10 con la croce di sant'Andrea (x), il numero 50 con il segno ad àncora ( f ), il numero 100 con un asterisco (*), il numero 1.000 forse con un cerchietto con croce interna (ffi). Molti di questi simboli ricorrono identici nel sistema latino. Si tratta di una convergenza culturale abbastanza significativa, perché investe un settore della comunicazione scritta che aveva impiego concreto in molti ambiti della vita civile e religiosa. Per fare qualche esempio, i numeri potevano essere espressi graficamente negli epitaffi com bali per indicare l'età dei defunti, nelle botteghe degli artigiani per numerare partite di vasi, nei carichi delle navi per conteggiare le merci e così via. Gli studiosi di storia, epigrafia e linguistica si sono interrogati a lungo sulle origini di questo simbolismo matematico etruscolacino, producendo diverse teorie. Fino a qualche tempo fa si tendeva a credere che l'organizzazione di questo codice visuale condiviso fosse basata sul principio acrofonico, come in greco. Si è anche pensato che il sistema non fosse altro che la trasposizione grafica della digitazione e

GLI ETRUSCHI

che l'asta verticale semplice per indicare r, per esempio, corrispondesse al dico, la doppia asta unita per il vertice superiore per indicare scorrispondesse alla mano e così via. In realtà, seguendo la via della comparazione etnografica, è stato inoppugnabilmente dimostrato che si tratta di un sistema di notazione numerica di tipo "cesserico': che trova alcuni riscontri puntuali in sistemi organizzativi pertinenti a mestieri manuali che implicano conteggi, come quello dei pescatori del Veneto. Si tratta di un sistema generatore di simboli correlaci, semplice e ingegnoso allo stesso tempo, che utilizza, come origine, un unico simbolo astratto, l'asta verticale semplice, che viene graficamente modificata per generare i simboli dell'ordine gerarchico superiore. In questo modo si viene a creare una serie decimale progressiva (unità, decine, centinaia) graficamente coerente, in cui cioè i simboli grafici impiegaci per l'ordine superiore sono generati utilizzando il principio del raddoppiamento grafico e quelli dell'ordine inferiore quello del dimezzamento. Tale sistema prevedeva in concreto che dall' asta semplice (equivalente all'unità) si ricavasse per raddoppiamento grafico il segno a croce (equivalente al numero 10 ), che a sua volta generava per raddoppiamento il segno ad asterisco (equivalente al numero 100 ). I simboli denotanti i valori intermedi (se so), con procedimento inverso, erano ricavaci per dimezzamento grafico dei simboli della serie superiore. Per esempio A (s) era ottenuto dimezzando x (10) et (so) era ottenuto per dimezzamento di* ( 100 ). Cosa accadesse quando si voleva rappresentare graficamente i numeri più grandi, designanti le migliaia (per esempio 10.000 ), non lo sappiamo per difetto di documentazione, ma forse la lamina plumbea di Santa Marinella offre una indicazione preziosa in tal senso. Com'è stato individuato sin dalla prima edizione, infatti, questo enigmatico documento epigrafico presenta nella prima riga una sequenza di simboli grafici, sei per la precisione (due terne di simboli uguali), che indica probabilmente un numerale molto alto. Si tratta, procedendo da destra verso sinistra, di tre circoletti riempiti con croci individuate da punti e di ere simboli identici ai precedenti, ma con apicature alle estremità: evidentemente lo stesso simbolo, in un caso in versione "zero" e nell'altro in versione diacricicata. Se si applica la regola del dimezzamento/ raddoppiamento grafico appena descritta è stato ipotizzato che il simbolo diacriticato rappresenti il numero 10.000 e quello graficamente semplificato (per dimezzamento) il numero 1.000. Se ne otterrebbe la cifra di 33.000, utilizzata in un contesto espressivo di natura sacrale, per notare in maniera iperbolica una quantità molto elevata. 12.6

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

Nota bibliografica Trattazioni più o meno brevi sui numerali etruschi si trovano in tutta la manualistica etruscologica, inclusa (per ovvi motivi) quella che annovera l'etrusco fra le lingue indoeuropee: cfr. per es. Cristofani (1991, pp. 75-9 ); Morandi (1991, pp. 81-6); Marchesini (2.009, p. 135); Wallace (2.008, pp. 54-6; 2.016a). Cfr. da ultimo Maras (2.013), con ulteriore bibliografia. Sui numerali nelle lingue indoeuropee, sinteticamente Lehmann (1999, pp. 368-71). Per l'etrusco, testi base sull'argomento, inclusa la spiegazione "tesserica" dei simboli grafici, sono Agostiniani (19956; 1997 ). Sul termine per dodici: Giannecchini (1997 ), la cui proposta è revocata in dubbio da Adiego (2.016, pp. 148-9 ). L'ipotesi sul numerale per cento è di Hadas-Lebel (2.0166). I celeberrimi "dadi di Tuscania" sono stati recentemente ripubblicati in Bruschetti et al. (2.015, p. 52., n. 13) (scheda di M. Bats). Sul dado iscritto da Taranto: Arena (1996, p. 2.3). La brillante ipotesi sui simboli della lamina di Santa Marinella è di Massarelli (2.014, pp. 145-7). Alcuni spunti interessanti sul rapporto fra numerali etruschi e numerali romani si ritrovano in Prosdocimi (2.009, pp. 735-6).

4.2

Il sistema onomastico 4.2..1. PRINCIPI GENERALI

Dal momento che una grandissima parte delle iscrizioni etrusche contengono nomi di persona, è inevitabile che il sistema onomastico sia uno degli aspetti più diffusamente conosciuti e studiati dell'etrusco. L'onomastica personale etrusca, come quella di tutte le civiltà dell' Italia a sud del Po, prevedeva l'uso di un gentilizio ereditario, trasmesso per via patrilineare (come il nostro cognome); in tutta quest'area geografica, il gentilizio era ciò che contraddistingueva i cittadini liberi da tutti i non cittadini (stranieri e schiavi). L'uniformità dei sistemi onomastici dell'Italia era già nota alla ricerca nel XIX secolo, poiché i nomi di persona sono la parte più facilmente comprensibile delle iscrizioni, non solo etrusche; nella storiografia ottocentesca, questa circostanza veniva spesso addotta a prova di un'originaria unità culturale italica, anteriore all'espansione romana. Oggi, questa spiegazione, che traeva alimento dal vivace antiromanismo dell'epoca risorgimentale, è stata in gran parte abbandonata; tuttavia, non c'è dubbio che esistesse una notevole uniformità nei sistemi onomastici impiegati in tutta la 12.7

GLI ETRUSCHI

penisola al di là dei confini etnici, linguistici e culturali. La situazione è meno chiara per quanto riguarda il territorio transpadano, perché il tipo di documentazione epigrafica non permette di capire con chiarezza la natura dei numerosi "nomi aggiunti", che seguono il nome individuale in molte iscrizioni di quest'area. Ci sono casi, soprattutto nel mondo celtico, nei quali questi componenti devono essere identificati con grande verosimiglianza con aggettivi patronimici; in altri resta il sospetto, mai verificabile, che si abbia a che fare con dei veri e propri gentilizi ereditari. Il gentilizio a trasmissione patrilineare è una caratteristica esclusiva della penisola italiana nel contesto dell'intero spazio euromediterraneo; esiste una sola eccezione, il mondo celtiberico (cioè la parte della penisola iberica abitata da gruppi umani di lingua celtica), dove l'epigrafia - peraltro di epoca piuttosto tarda - attesta un uso apparentemente regolare di quello che sembra un gentilizio ereditario, a fianco dell'aggettivo patronimico comune a tutte le popolazioni di lingua celtica. I costrutti onomastici celtiberici, però, sono molto diversi da quelli italici, perché l'aggettivo patronimico è concordato con il prenome, mentre il gentilizio è indicato al genitivo plurale (in Italia, al contrario, è il gentilizio a comportarsi come un aggettivo e a essere concordato con il prenome). 4.2..2.. COMPONENTI DELLA FORMULA

Il nome personale etrusco che contraddistingueva gli ingenui, uomini e donne, era formato da tre componenti fondamentali: prenome, gentilizio e filiazione (prenome paterno al genitivo). Nell'interpretare il contenuto onomastico delle iscrizioni va sempre tenuto presente che, data la natura dell'epigrafia etrusca, scarsamente formalizzata e soggetta a frequenti variazioni di codice in relazione al contesto, non sempre i testi riportano tutti e tre questi componenti: anzi, molto spesso, soprattutto nella fase arcaica, ne riportano solo due, o anche uno. La mancanza di componenti onomastici, pertanto, non permette mai di affermare che l'antroponimo citato in un'iscrizione non appartenesse a un ingenuo; conclusioni in merito si possono raggiungere, nel caso, solo da un'osservazione a largo raggio delle caratteristiche di ogni singola iscrizione (supporto, cronologia, contesto di provenienza, comportamento abituale riscontrabile nelle iscrizioni di analoga cronologia e provenienza e/ o su supporti analoghi, dati prosopografici 12.8

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

o genealogici ecc.). Ulteriori elementi che costituivano il nome personale erano il cognome, il metronimico e il gamonimico. Gli ultimi due, in base alla distribuzione nelle iscrizioni, sembra che non dovessero far parte dell'onomastica ufficiale del cittadino (ammesso che nel mondo etrusco esistesse un qualche tipo di formula ufficiale, il che è possibile ma non dimostrabile con certezza) (FIG. 3.1d).

Il prenome I prenomi, inizialmente, erano molto numerosi, e tipologicamente molto variabili, anche se fin dalla fase arcaica, soprattutto avanzata, cominciò a emergere una netta preferenza per l'uso di alcuni di essi (quali i maschili Lar0, Aran0, Laris, Vel0ur, o i femminili Ramu0a, fJanaxvil ecc.), destinati a grande successo nella fase recente. Tuttavia, lo sbilanciamento statistico a favore di questi rimase sempre molto contenuto e le iscrizioni arcaiche, generalmente, rimasero caratterizzate da un'elevata variabilità nella scelta dei prenomi; un discreto numero di questi sono formati con i suffissi derivativi caratteristici dei gentilizi, canto che in più casi è testimoniato l'uso indifferenziato del medesimo antroponimo sia come prenome che come gentilizio. Questa circostanza può creare seri problemi di identificazione corretta degli elementi onomastici nelle iscrizioni arcaiche (relativamente abbastanza comuni) che ricordano solo un antroponimo isolato. Problemi analoghi si pongono nei casi, peraltro rarissimi nella fase arcaica, di inversione di posizione fra prenome e gentilizio nelle iscrizioni. Il fenomeno epigrafico dell'inversione si manifestò in modo molto più massiccio nella fase recente, in area meridionale (soprattutto a Tarquinia), con un picco nel corso del III secolo a.C. (FIGG. 3.u e d), ma in questo periodo prenomi e gentilizi avevano ormai assunto forme ben differenziate e non ci sono problemi nel distinguerli gli uni dagli altri. Infatti, !'Etruria, come buona parte dell'Italia peninsulare, conobbe, fra V e rv secolo a.C., un fenomeno di contrazione radicale nel numero dei prenomi ammissibili per un ingenuo (o un'ingenua). Le esigenze che portarono a questo mutamento importante nella forma dell'onomastica personale restano sconosciute, ma si dovette trattare certamente di fatti transculturali, dal momento che il cambiamento coinvolse in modo generalizzato e pressoché simultaneo il mondo etrusco, quello romano/latino e quello sabellico. Una delle conseguenze di questa fortissima riduzione nel numero dei prenomi fu l'introduzione delle

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GLI ETRUSCHI

abbreviazioni prenominali in molte culture epigrafiche dell'Italia peninsulare (etrusco, latino, osco, umbro ecc.). Nella fase recente, quasi cucci gli uomini etruschi usavano i prenomi Arn0, Aule/Avle (la prima forma preferita in area settentrionale, la seconda in quella meridionale), Lar0, Laris, Lauxme(s), Se0re, Vel, Vel0ur; a questi si aggiungono, nella sola area meridionale (con pochissime eccezioni), Cae,Larce (soprattutto a Tarquinia) e Marce (comune solo a Cerveteri e rarissimo altrove). Esistono anche altri prenomi, ma sono cucci di uso rarissimo e mostrano a volte idiosincrasie territoriali (per esempio, l'insolito Vefxe è abbreviato solo ad Arezzo e Fiesole, dove evidentemente doveva essere più comune che altrove, ma l'epigrafia aretina è troppo scarsa per capirlo) o familiari (come il prenome Pesna, che è usato solo dalla famiglia chiusina dei Tutna; altre famiglie magnatizie chiusine, come i Cumni, usavano a volte prenomi identici al proprio gentilizio, evidentemente percepiti come segno di distinzione). Per le donne i prenomi più comuni sono Arn0i, Hasti(a )I Fasti(a ), Bana, Banxvil, Lar0i(a ), Ram0a, Ran0u, Se0ra, Vel(i)a; ve ne sono anche altri, ma di uso decisamente più raro. Tipico della fase successiva all'incorporazione degli Etruschi nella cittadinanza romana dopo la guerra sociale è l'uso, molto raro, di prenomi latini traslitteraci in etrusco (Pupli, Cuinte, Nae), attestati solo in quelle aree dell'Ecruria settentrionale dove l'uso dell'etrusco nell'epigrafia si prolungò fino all'inoltrato r secolo a.C. Il sistema delle abbreviazioni non segue delle regole fisse, soprattutto quando si tratta di disambiguare prenomi con la medesima iniziale (per esempio, le comunissime abbreviazioni prenominali A e L sono di scioglimento impossibile, a meno che non vi sia il soccorso di altri elementi di evidenza). In alcuni casi, si possono riconoscere con una cerca sicurezza scelte diverse da città a città, ma anche da contesto a contesto; in altri sembra non esserci alcun criterio oggi comprensibile. In generale, i prenomi femminili che hanno le medesime iniziali di quelli maschili non sono mai abbreviati; le eccezioni sono pochissime. In alcune iscrizioni funerarie (soprattutto chiusine) del II secolo a.C. può verificarsi l'omissione del prenome femminile; alcune coppie di iscrizioni riferite alla medesima persona, dove il prenome compare in una sola delle due, attestano che questo è un fenomeno epigrafico, e non onomastico: in pratica, l'assenza del prenome in un'iscrizione non implica la sua assenza effettiva nella formula onomastica. Pur rientrando a pieno titolo nella grande variabilità nella resa dell'o130

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

nomastica che caratterizza tutta l'epigrafia etrusca (e soprattutto quella funeraria settentrionale di epoca avanzata), il fenomeno ha un suo interesse sia per la relativa diffusione, sia per la coincidenza che si viene a determinare con la formula onomastica femminile romana (che manca del prenome, anche se è noto che molte donne avevano un proprio prenome, ufficioso, usato nella vita quotidiana). Resta quindi aperta la possibilità che dietro questa moda epigrafica, che coinvolse in modo trasversale persone appartenenti ai più diversi livelli sociali, vi fosse una qualche influenza della prassi romana. In ogni caso, è interessante che nelle iscrizioni più tarde, del I secolo a.C., questa omissione non ricorre mai, e anzi i prenomi femminili etruschi diventarono, in quel momento, un segno identitaria fortemente distintivo per le persone che rivendicavano origine locale nelle città etrusche ormai incorporate nello Stato romano. In coda al paragrafo sui prenomi può essere utile ricordare l'esistenza di alcune forme derivate, che sono identificate abbastanza concordemente come ipocoristici (diminutivi-vezzeggiativi); dei sei suffissi identificati in questa funzione, quello di gran lunga più comune è -za (usato sia per prenomi maschili quali Arnza o Larza, sia femminili, quali Veliza o Lar0iza), seguito da -iu (maschile) e -cu (femminile). Che si tratti di forme prenominali di uso familiare e non ufficiale lo mostra la loro assenza quasi completa in sede di filiazione.

Il gentilizio I gentilizi sono concepiti sostanzialmente come degli aggettivi patronimici, esprimenti discendenza da un capostipite, e sono l'unica categoria di parole etrusche che abbia forme differenziate del maschile e del femminile; quest'ultimo è costruito sulla base del maschile, con l'aggiunta di alcuni suffissi specifici. Anche se questa caratteristica sembra avvicinare i gentilizi etruschi a quelli del resto dell'Italia peninsulare, permangono delle differenze molto profonde fra i due mondi. I gentilizi latini e sabellici, infatti, sono formati quasi tutti con uno o due suffissi derivativi, lì dove l'etrusco, viceversa, mostra una variabilità enorme, difficilmente riducibile a un modello univoco. È possibile che questo sia dovuto al fatto che il gentilizio in Etruria ha avuto un'origine particolarmente antica, con l'introduzione in modo inizialmente asistematico di forme antroponimiche ereditarie volte a marcare la discendenza da un unico capostipite; la sanzione del valore legale

GLI ETRUSCHI

di questo nome familiare (e la sua conseguente normazione) sarebbe sopraggiunta in seguito, quando già si erano sviluppati autonomamente tanti tipi diversi di gentilizio. Al contrario, nel mondo latino e sabellico sembra che l'introduzione del gentilizio sia avvenuta contestualmente alla sua definizione legale; molti nomi familiari sarebbero quindi nati in modo simultaneo, usando i medesimi suffissi derivativi. I suffissi di gran lunga più comuni nella formazione dei gentilizi etruschi sono -na e -ie; quest'ultimo è la resa etrusca del suffisso italico -ios (intendendo con "italico" la famiglia linguistica che riunisce il latino e le lingue sabelliche), che caratterizza la grande maggioranza dei gentilizi in quelle lingue. I nomi familiari etruschi in -ie, tuttavia, sono troppo numerosi per poter pensare che si tratti sempre di persone di origine non etrusca; al contrario, il suffisso appare tanto strutturalmente incardinato all'interno della lingua da farlo considerare con tutta probabilità un prestito linguistico. Relativamente diffuso è anche il suffisso -u. Come già accennato, vi è poi un gran numero di forme gentilizie meno comuni e molto varie, tra le quali, almeno in qualche caso, si possono distinguere con certezza dei suffissi derivativi ricorrenti (quali -ra e -nu, condiviso con il retico); in molti casi però la situazione resta meno chiara, soprattutto perché la grande maggioranza della documentazione è di età recente, e possono essere intervenuti dei processi di evoluzione linguistica che hanno in qualche modo mascherato o alterato le forme originarie, fondendo il suffisso derivativo con la radice. La situazione è complicata dal fatto che le radici dei gentilizi sono normalmente prenomi (o meglio "nomi individuali", come vengono chiamati convenzionalmente i nomi delle persone prive di gentilizio - in questo caso il nome del capostipite sul quale è stato formato il gentilizio stesso), che sono formati non di rado con i medesimi suffissi usati per i gentilizi. Un esempio di questo problema è il dubbio, per il momento non solubile in modo univoco, sull'esistenza di suffissi gentilizi in vocale quali -a o -e, dal momento che la documentazione mostra in modo molto chiaro che in etrusco era considerata accettabile anche la presenza di gentilizi a suffisso zero (i cosiddetti Vornamen- bzw. lndividualnamengentilicia: per esempio il gentilizio Vel0ur, identico a un prenome) e perciò, di fronte a un gentilizio con una di queste uscite, non potremo mai sapere se il suo suffisso è zero oppure no. Un esempio classico di questa ambiguità è il gentilizio della grande famiglia tarquiniese dei Velxa, che è formalmente identico a un prenome, che è anche

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

servito da base per la formazione di alcuni gentilizi ( Vefxara > Vefxra, • Vefxana > Vefxna, Vefxaie > Vefxe, usato raramente anche come prenome; altri sono costruiti sulla base Velxai, che potrebbe essere il femminile del prenome - ma sarebbe l'unico caso di capostipite di genere femminile, e resta quindi aperta la possibilità di un suffisso derivativo maschile in -i; altri ancora sono costruiti sulla base Velxas), ed è quindi un caso esemplare di Vornamen- bzw. lndividualnamengentilicium, che porterebbe a escludere l'esistenza di un suffisso derivativo -a. Altri casi, dove la documentazione della serie onomastica è meno copiosa, restano sub iudice. La situazione dei gentilizi in -e è ancora più complessa, dal momento che si tratta di un'uscita molto comune per i prenomi/ nomi individuali arcaici; oltretutto, il recente -e può essere esito di arcaico -aie (per esempio Vefxaie > Velxe; Le0aie > Le0e; Puraie > Pure; *Pupaie > Pupe ecc.) e quindi mascherare la presenza originaria di un regolare suffisso derivativo -ie. A complicare le cose, i suffissi -na e -ie sono usati anche nella formazione di prenomi/nomi individuali arcaici; forse è per questo che ci sono alcuni gentilizi che ci sembrano provvisti di un doppio suffisso derivativo, come le forme in -iena o quelle, più comuni, in -naie. L'arcaico -ie evolve normalmente in -i, tranne eccezioni delle quali a volte si può cogliere la motivazione: per esempio il gentilizio arcaico Lavtunie in età recente diventa Lautne (Lavtne in area meridionale) per evitare confusione con l'appellativo lautni/ lavtni ("liberto"). Al contrario, l'arcaico -naie evolve preferenzialmente in area meridionale in -nie o -ne, mentre in area settentrionale si preferisce -ni. Per concludere, va accennato anche all'esistenza di un suffisso derivativo -i, tipico di Perugia (e usato raramente anche nella contermine Cortona, molto più raramente altrove), noto in gentilizi quali Cai, Velxei, Titi e altri, del quale non è possibile capire gli antefatti, dal momento che la documentazione è concentrata nella sola fase recente. La formazione del femminile dei gentilizi, che avviene sempre sulla base del maschile, segue tre diverse possibilità; in ordine di frequenza si possono incontrare: il suffisso -i (che si è visto anche nei prenomi), il suffisso -a (probabile imprestito latino/ sabellico) o la costruzione analogica. Il primo di questi è senza confronti il più comune, tanto da poter essere individuato come forma standard del femminile del gentilizio; in area settentrionale ha normalmente esito monottongato se applicato alle uscite maschili in -a (•nai > nei, ne) - fenomeno solitamente evitato in area meridionale (dove persiste la forma femminile in -nai) -, mentre nel caso di gentilizi in -e quest'ultima vocale scompare

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GLI ETRUSCHI

del tutto, non è chiaro se per assimilazione o sostituzione, comportando anche la caduta (per contrazione) di una eventuale -i- precedente (per esempio Tamsnie, femminile Tamsni; Larce, femminile Larci). I gentilizi settentrionali (recenti) in -ni hanno normalmente un femminile -nei che dovrebbe essere interpretato come esito del femminile in -i costruito sulla forma arcaica (se non è una costruzione analogica); le forme epicene sono rarissime, tranne a Perugia, dove invece sono la norma. I femminili in -a sono prevalentemente riferiti a maschili in -i, oppure possono avere funzione disambiguante per un corretto riconoscimento del maschile di riferimento (per esempio, a Chiusi il gentilizio maschile Tite ha femminile Titi, mentre Titie ha femminile Titia). Questo non vale però a Perugia, dove anche i gentilizi in -i (come quelli in -ni) sono normalmente epiceni. Il femminile analogico è documentato in modo pressoché esclusivo a Chiusi e Perugia, ed è formato aggiungendo al maschile il suffisso -nei (oppure -unia, nel caso di maschili in -u); questo procedimento è documentato soprattutto nel caso di forme maschili con un'uscita di tipo poco comune (in consonante, per esempio), e molto più spesso nei cognomi rispetto ai gentilizi (ma sull'intercambiabilità dei due componenti cfr. infra), e ha come esito una sorta di normalizzazione del femminile. Il primo di questi suffissi (documentato quasi esclusivamente in area chiusina) riproduce la forma femminile dei gentilizi più comuni (in -na); in molti casi, sembra di poter pensare che la scelta dell'uscita analogica sia connessa con l' assenza (reale o solo percepita) di un suffisso derivativo nella forma maschile. Il secondo, distribuito uniformemente fra le due città, sembra usato preferenzialmente per distinguere i cognomi in -u dai gentilizi in -u (che hanno normalmente regolare femminile -ui), anche se le persistenti incertezze sulla corretta identificazione di molti nomi familiari lasciano sempre qualche margine di dubbio; non è chiaro se anche in questo caso la scelta del femminile analogico vada collegata con la percezione (corretta o meno) dell'assenza di un suffisso derivativo nel maschile. A questo proposito, come già notato (cfr. PAR. 3.2..3), si deve ricordare che il femminile analogico -unia può formare il genitivo in due modi diversi: a Chiusi si incontra l'attesa forma in sibilante, come di norma per un antroponimo in -a; a Perugia, viceversa, è impiegato regolarmente un genitivo in -unial, che riproduce quello regolare dei più comuni femminili (non analogici) in -uni. Fenomeno sul quale è necessario infine spendere qualche parola è il cosiddetto "genitivo afunzionale", che compare a cavallo fra VII e VI se-

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4. VOCIDALMONDOETRUSCO

colo a.C. per poi sparire gradualmente nel corso del III secolo a.C. (tranne a Perugia, dove persiste occasionalmente per tutto il II secolo a.C.). Per quattro secoli circa, tutti i nomi familiari (tranne quelli con il doppio suffisso -naie o *-raie) si presentano al caso zero del maschile con un'uscita in -s (al Sud) o -f (al Nord), identica a quella del genitivo. Il fatto che le due forme riproducano l'uscita del genitivo così come è resa graficamente nelle due aree scrittorie del mondo etrusco mostra chiaramente che questa sibilante non ha nulla a che vedere con l'uscita in -s (suffisso derivativo?) di alcuni antroponimi maschili (nomi familiari - prevalentemente, se non esclusivamente, cognomi, prenomi e nomi individuali) che ha sempre grafia con sigma, indipendentemente dall' area geografica. L'interpretazione di questo fenomeno resta incerta; si è proposto di leggerlo come una traccia del graduale indebolimento della percezione del valore del suffisso -na, che avrebbe richiesto un qualche tipo di rideterminazione per recuperare appieno il proprio valore derivativo; prova ne sarebbe la già citata assenza di genitivo afunzionale nel caso dei gentilizi già rideterminati da un secondo suffisso ( in -naie o *-raie). Una conferma potrebbe venire dal caso documentato dalle iscrizioni di dono incise su una serie di kyathoi monumentali di bucchero del pieno VII secolo a.C. (FIG. 2.10 ); in questi testi, alcuni dei donatori portano alternativamente i gentilizi Pai0inas e Pai0inaie. Se si tratta, come sembra possibile (ma non certo), di membri della stessa famiglia, questa potrebbe essere un'ulteriore prova in questo senso. Come che sia, è comunque piuttosto evidente che dovette trattarsi dell'esito di un qualche tipo di normazione, dal momento che l'uscita in genitivo afunzionale, nel periodo in cui è documentata, praticamente non ammetteva deroghe. Qualche anomalia si trova solo nel momento finale, fra la seconda metà del III e il II secolo a.C., quando la pratica stava cominciando a sparire dalla documentazione epigrafica (tranne a Perugia, dove persiste più a lungo); in questo periodo è possibile trovare, eccezionalmente, l'uscita del genitivo afunzionale applicata al solo cognome di un individuo, ma non al suo gentilizio. In una formula onomastica che comprendeva un nome familiare al genitivo afunzionale, era il caso grammaticale del solo prenome a determinare il ruolo sintattico dell'antroponimo all'interno dell'enunciato (FIG. 3.ie). In effetti, il gentilizio, quando ha questa forma, si comporta a tutti gli effetti come indeclinabile, tanto da non prendere neppure il suffisso del genere: nella piena fase arcaica può anche darsi il caso (relativamente comune a Cerveteri, ma attestato anche altrove)

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che un gentilizio al genitivo afunzionale (quindi in una forma apparentemente maschile) sia usato anche per designare delle donne, il cui genere è disambiguato solo dai prenomi. Il motivo per cui, nel corso del III secolo a.C., si ritornò gradualmente a trattare i nomi familiari come forme declinabili al pari dei prenomi, è ignoto tanto quanto quello che aveva portato all'introduzione del genitivo afunzionale.

Il cognome I cognomi etruschi erano un secondo (e, molto raramente, anche un terzo) nome familiare trasmesso per via patrilineare; per questo motivo si comportano in gran parte come i gentilizi; la loro presenza è molto rara nella fase arcaica (quando l'epigrafia preferiva formule più sintetiche, spesso incomplete) e diventa più diffusa in quella recente. La documentazione ha una distribuzione fortemente asimmetrica, con una maggiore concentrazione a Chiusi e Perugia e una presenza molto più modesta altrove (Volterra, Tarquinia ecc.). A Chiusi (come a Tarquinia e Volterra) l'uso del cognome sembra appannaggio delle famiglie di alto rango, dove svolgeva il ruolo di elemento di distinzione fra diversi rami della medesima famiglia (o, eventualmente, di diverse famiglie con gentilizio identico). Questo fa pensare che la corretta identificazione del lignaggio dovesse essere un elemento più importante proprio per le famiglie magnatizie, che potevano essere indotte a prestare più attenzione a far iscrivere anche il cognome insieme al gentilizio. Dal punto di vista morfologico, i cognomi hanno forme molto variate, in parte identiche alle numerose forme attestate per i gentilizi, in parte del tutto proprie (si pensi, per esempio, ai cognomi in -s); di conseguenza, quanto già visto per i gentilizi vale in linea di massima anche per i cognomi, sia in materia di formazione del femminile, sia a proposito del genitivo afunzionale. Esclusiva dei cognomi è una forma, comune a Chiusi e molto rara altrove, che aggrega il dimostrativo enclitico /rJ'a/ (in grafia settentrionale, -sa); il medesimo cognome può comparire in entrambe le forme (con e senza dimostrativo enclitico) nelle iscrizioni della stessa famiglia, segno che questa variazione non doveva avere valore normativo. Nel campo dei cognomi Perugia fa storia a sé, in modo ancora più forte che negli altri settori dell'antroponimia. In questa città, l'uso del cognome è molto più frequente che altrove, e qui i cognomi hanno

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

molto più spesso le medesime uscite che nel resto d'Etruria contraddistinguono i gentilizi. Il caso limite è rappresentato dall'uscita -na, che a Perugia è rarissima nei gentilizi (mentre altrove è sempre numericamente maggioritaria) ed è viceversa piuttosto comune nei cognomi (laddove, fuori di Perugia, i cognomi in -na sono quasi inesistenti). Un fenomeno epigrafico piuttosto comune in area settentrionale è l'omissione del gentilizio nelle iscrizioni (soprattutto funerarie) in presenza del cognome, che rende spesso difficile capire la vera natura dei nomi familiari. Se a Chiusi la preferenza per determinate forme per i due tipi di nomi familiari permette a volte di risolvere i casi ambigui, a Perugia la totale identità dei suffissi rende qualunque soluzione aleatoria, se non impossibile; una soluzione può arrivare solo da dati genealogici e contestuali, quando disponibili. L'uso di formule onomastiche incomplete, per quanto in età recente sia molto più raro che non in quella arcaica, è comunque un fatto ricorrente in tutta la cultura epigrafica etrusca; vi sono, per esempio, alcune grandi famiglie tarquiniesi le cui iscrizioni funerarie spesso omettono il gentilizio, che era reso evidente dal luogo di deposizione dei sarcofagi, la tomba riservata alla famiglia. La filiazione

La filiazione è formata dal genitivo del prenome del padre, a volte accompagnato dall'appellativo clan ("figlio") o se,r ("figlia"); indicazioni di antenati al di là del padre sono del tutto sporadiche. Il prenome paterno può essere abbreviato; viceversa, l'appellativo, quando compare, non è mai abbreviato, tranne a Cerveteri, dal pieno III secolo a.C. in poi, probabilmente per interferenza della cultura epigrafica romana (FIG. 5.12). A volte, il prenome paterno al genitivo, quando è scritto per esteso, può essere provvisto del determinativo enclitico -fa (in grafia meridionale; la forma è ovviamente -sa al Nord e -sa a Cerveteri). Il metronimico

Il metronimico è formato dal gentilizio della madre al genitivo, raramente accompagnato dal prenome. Anche se è attestato (molto sporadicamente) fin dalla fase arcaica, il metronimico trovò la sua consacrazione nelle iscrizioni funerarie delle aristocrazie meridionali, soprattutto tarquiniesi, del IV secolo a.C. In quel contesto sociale 1 37

GLI ETRUSCHI

esclusivo come pochi altri, e caratterizzato da pratiche strettamente endogamiche, l'indicazione del gentilizio materno serviva da garanzia ostentata di una discendenza nobile da parte di entrambi i genitori. Molto più tardi, a partire dalla fine del III secolo a.C., l'uso del metronimico si diffuse anche in area settentrionale e a famiglie di rango meno elevato; il motivo, probabilmente, non fu un fatto di imitazione di comportamenti tipici delle classi egemoni (le cui iscrizioni, nella Chiusi di IV-III secolo a.C., non usano praticamente mai il metronimico), ma un'esigenza strettamente pratica. Infatti, a partire dagli ultimi decenni del III secolo a.C., in tutta l' Etruria settentrionale interna si verifica un aumento vertiginoso nel numero delle sepolture raccolte in ogni tomba familiare; nelle camere potevano essere stipate anche numerose decine di urne. Dal momento che la reiterazione dei medesimi prenomi rendeva la filiazione poco significativa per capire la posizione genealogica dei singoli defunti (e quindi il loro diritto a essere sepolti nella tomba di famiglia), fu proprio il metronimico che poté sopperire con grande efficacia a questa funzione. Nelle iscrizioni funerarie settentrionali più tarde (n-I secolo a.C.) addirittura la filiazione può essere frequentemente omessa in presenza del metronimico, che era sufficiente a identificare le connessioni di parentela di ogni individuo all'interno della famiglia. In questo senso, è certamente significativo il fatto che nel testo della Tavola di Cortona, che contiene un atto di carattere privato (nonostante il coinvolgimento di autorità pubbliche), il metronimico sia stato usato con regolarità solo per identificare i personaggi che portano gentilizi molto comuni, mentre non compare per coloro che portano gentilizi di scarsa diffusione e che evidentemente non ponevano gravi problemi di omonimia. Nelle iscrizioni sintatticamente più complesse (soprattutto quelle delle grandi famiglie di area meridionale) il metronimico e la filiazione possono essere coordinati da una congiunzione e seguiti dagli appellativi clan o A volte, come nella filiazione, può anche comparire il determinativo enclitico.

sex.

Il gamonimico Il gamonimico è l'indicazione del gentilizio del marito al genitivo (a volte completato dal prenome), che può essere accompagnato dall'appellativo puia ("moglie"). Anche in questo caso, come per il metronimico, dopo alcune possibili comparse già di fase arcaica, la sua

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consacrazione formale si colloca nel IV secolo a.C., nel contesto delle iscrizioni funerarie magniloquenti delle famiglie dell'aristocrazia di area meridionale. E, anche in questo caso, sempre in parallelo con il mecronimico, si verifica una larghissima diffusione del gamonimico in area settentrionale in un momento più avanzato (dalla fine del III secolo a.C.), sempre con lo scopo di una corretta collocazione genealogica dei molti defunti ospitati nelle tombe familiari. In quest'ultimo caso, il prevalente comportamento virilocale nella deposizione delle donne sposate rendeva necessaria l'indicazione del gamonimico per sancire il diritto di una donna, di una famiglia apparentemente estranea, a essere inclusa nella tomba familiare del marito. Il gentilizio del marito al genitivo è spesso accompagnato dal determinativo enclitico, tranne che a Perugia, dove tutti i numerosi gamonimici ne sono sempre privi. Onomastica servile

L'onomastica dei servi è piuttosto sfuggente, dal momento che, come è facilmente comprensibile, si tratta della categoria di persone che più difficilmente varcava la soglia epigrafica. Per paragone con le altre civiltà del mondo classico, è altamente probabile che i servi avessero un semplice nome individuale; questo però non ci aiuta molto a identificare dei servi nelle iscrizioni, perché la cultura epigrafica etrusca, che non codificò mai la forma nella quale un nome doveva apparire nelle varie categorie di testi, rende molto difficile riconoscere la condizione degli individui in base a ciò che non è scritto. In sostanza, se è vero che la presenza di un gentilizio identifica con certezza un libero, non è però vero il contrario: la sua assenza può non avere alcun valore. Questo limite si manifesta in modo particolare nella fase arcaica, quando l' ambito di circolazione dei cesti iscritti era cale che solo molto di rado i nomi venivano iscritti per intero; l'enorme variabilità del patrimonio onomastico arcaico complica ulteriormente la situazione, rendendo spesso impossibile distinguere con certezza prenomi, nomi individuali e gentilizi. Nella fase recente la situazione migliora di poco; molti testi erano concepiti per una fruizione familiare o comunque ristretta, dove era sufficiente identificare gli individui anche tramite indicazioni incomplete, a volte addirittura mediante forme di tipo ipocoristico che cerco non facevano parte del nome ufficiale. Per questo motivo, anche se resta sempre possibile che alcune delle persone indicate nelle iscrizioni etrusche tramite un nome singolo

1 39

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fossero di condizione servile, questa resta quasi sempre indimostrabile, e perciò inutilizzabile per la ricerca. Le uniche identificazioni certe di servi si ottengono solo da quelle pochissime iscrizioni nelle quali un nome individuale è accompagnato da un gentilizio al genitivo, che esprime l'appartenenza a un padrone. Nella fase arcaica, però, era necessario inserire un ulteriore elemento di distinzione, per disambiguare i nomi servili da quelli degli ingenui, perché, da un lato, l'uso di un grande numero di prenomi poteva rendere non immediata la differenza fra prenome e nome individuale servile, dall'altro i gentilizi apparivano normalmente, almeno dall'inizio del VI secolo a.C., con un'uscita identica a quella del genitivo (è il cosiddetto "genitivo afunzionale" di cui si è parlato sopra). Per ovviare al problema, al genitivo del gentilizio del padrone si aggiungeva un pronome enclitico -sa, dando così al nome servile un aspetto inconfondibile (per esempio Kape Muka0esa, "Kape [servo] di Muka0e"; Aran0 Heracanasa, "Aran0 [servo] di Heracana"). Nella fase recente, la radicale diminuzione del numero dei prenomi ammissibili per un cittadino rese superfluo questo espediente, e si passò quindi all'uso del genitivo semplice; l'alterità del nome individuale servile era infatti sufficiente a identificare la condizione del personaggio (per esempio Muri/a Hercnas, "Muri/a [servo] di Hercna"). I liberti Meglio conosciuta è invece l'onomastica degli schiavi affrancati (liberti, in etrusco lautni, femminile lautni0a). Al di fuori di un'unica attestazione di epoca tardo-arcaica (FIG. 4.13), che testimonia dell' antichità della pratica, tutte le testimonianze si riferiscono a età recente; fra queste si contano alcune rare iscrizioni votive di area meridionale ancora di 111 secolo a.C., ma soprattutto due centinaia circa di iscrizioni funerarie, tutte settentrionali, di 11-1 secolo a.C. Cardine dell'onomastica libertina è la trasformazione del nome individuale servile in un gentilizio, con un procedimento completamente diverso rispetto a quello usato nel mondo romano. A Roma, infatti, il liberto prendeva il gentilizio dell'ex padrone (che ne diventava il patrono), entrando così a tutti gli effetti nel suo gruppo gentilizio, fatto che comportava tra l' altro l'assunzione di una serie ben definita di doveri nei confronti della famiglia di adozione (e soprattutto del patrono stesso). Il lautni etrusco, al contrario, con l'assunzione di un gentilizio del tutto proprio, sembra che recidesse, almeno formalmente, i vincoli con la famiglia

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

della persona della quale era stato schiavo; questo si riflette anche nel comportamento del tutto diverso di fronte alla tomba: mentre le famiglie romane spesso chiamavano i propri liberti e la loro discendenza a condividere la sepoltura, quelle etrusche li bandivano nel modo più assoluto (nelle rarissime eccezioni sembra che siano subentrati dei legami matrimoniali). Il sistema usato nel mondo etrusco per dare un gentilizio agli schiavi affrancati aveva anche un'altra conseguenza. Dopo la guerra annibalica, la maggior parte degli schiavi che lavoravano in Etruria (come nel resto d'Italia) proveniva dai mercati del Mediterraneo orientale e portava abitualmente nomi grecanici; questo faceva sì che i discendenti di un lautni rimanessero sempre abbastanza riconoscibili: gentilizi quali Apluni (=greco À7L"oÀÀc.Jvtoç) o Herclite (=greco '1/_paxÀEl3r;ç) suonavano certamente rivelatori a un orecchio etrusco. Le iscrizioni funerarie testimoniano una grande varietà di formule onomastiche libertine; tuttavia, vista la varietà altrettanto grande delle formule onomastiche usate anche nelle iscrizioni relative a ingenui, è prudente non pretendere di ricavarne più di tanto; in particolare, non è dimostrabile che abbia un significato la presenza o l'assenza nell'iscrizione di un prenome aggiunto al nuovo gentilizio dello schiavo affrancato. Nelle pochissime testimonianze anteriori al II secolo a.C. il prenome non compare mai, tanto che, in assenza dell'indicazione di condizione, il nome di un lautni poteva suonare identico a quello di uno schiavo; tuttavia, anche in seguito la sua presenza nei testi epigrafici non è mai costante. L'unica variazione che non è certamente dovuta a fattori di cultura epigrafica, ma che deve essere conseguenza di un fatto istituzionale, è rappresentata dalle iscrizioni (un quarto del totale circa) nelle quali il gentilizio del liberto appare identico a quello del patrono, come accadeva nel mondo romano. Su questo punto vi è stata in passato grande confusione, ma è chiaro che formule quali Vel0ur Caspref lautni, o Arn0 lautni Hulnif non possono essere in alcun modo uniformate a quelle del tipo senza prenome alle quali si è fatto cenno (per esempio Apluni Cumeres lautni o Certu lautni Tlesnaf). In queste ultime, il primo elemento onomastico ha una forma che rende certa la sua identificazione con un nome servile divenuto gentilizio; nelle prime, al contrario, il prenome da cittadino non può che essere il prenome assunto dallo schiavo dopo la liberazione: da questo consegue che il suo gentilizio, inevitabilmente, doveva essere identico a quello del pa-

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trono. Il fatto è ancora più chiaro quando l'unico gentilizio compaia al nominativo (per esempio, Ar Papni lautni) (FIG. 2.11a). In tutti questi casi, è evidente che la manomissione deve essere avvenuta in regime di diritto romano, quindi dopo il 90 a.C. Gli stranieri

È opinione largamente condivisa, ancorché indimostrabile, che gli stranieri ammessi nella cittadinanza formassero il proprio gentilizio da cittadini alla stessa stregua degli schiavi affrancati. Questo potrebbe giustificare un certo numero di gentilizi etruschi formalmente identici ad antroponimi non etruschi ( soprattutto latini e sabellici, ma anche venetici, celtici, messapici, greci ecc.). In altri casi, però, si trovano anche gentilizi costruiti su una base identificabile come un antroponimo non etrusco completata da un suffisso derivativo (tipicamente, ma non esclusivamente, -na); anche questi individui sono spesso ritenuti di probabile discendenza straniera. Non è chiaro quale fosse il comportamento codificato fra questi due, ammesso che ne esistesse uno; l'unica serie genealogica che risale dichiaratamente a un immigrato è quella del tarquiniese Laris Pulenas, che afferma di discendere da un bisnonno definito Laris Pule Creice. L'uso del prenome farebbe pensare che quest'ultimo avesse già ricevuto la cittadinanza di Tarquinia, adottando come gentilizio il proprio nome individuale (Pule = greco Ilo?Jr;ç; in questo senso, il successivo Creice, più che come cognome, andrebbe interpretato alla lettera come "il greco"). Il passaggio dei suoi discendenti al gentilizio Pulenas, con l'aggiunta del suffisso derivativo, resterebbe allora da spiegare: si tratta di una scelta aberrante o del riflesso di una norma? Resta anche aperta la possibilità che l'antenato, una volta diventato etrusco, si fosse chiamato anch'esso regolarmente Pulenas, e che la scelta di chiamarlo Pule nella pomposa iscrizione funeraria del pronipote sia dovuta alla volontà di ricordarne la grecità. Dal conto degli immigrati dovrebbero essere cautelativamente esclusi tutti quei gruppi familiari contraddistinti da gentilizi costruiti con un suffisso derivativo etrusco su nomi individuali di tipo sabellico, che sono talmente numerosi, soprattutto nelle città poste lungo il confine interno dell' Etruria, da permettere di escludere l'idea che si tratti sempre del prodotto di flussi migratori di età storica; probabilmente si tratta di gruppi alloglotti giunti in Etruria in epoca molto remota, forse in connessione con la poleogenesi, e quindi culturalmente etruschi in tutto e per tutto.

4, VOCI DAL MONDO ETRUSCO

Nota bibliografica

Il testo fondante degli studi moderni di onomastica etrusca è Rix (1972.), parzialmente superato. L'onomastica è generalmente discussa come parte delle presentazioni generali sulla lingua e sull'epigrafia etrusca; per le prime, cfr. p. 96, Nota bibliografica, mentre per le seconde si rinvia soprattutto a Benelli (2.007; 2.015c), per non appesantire ulteriormente il paragrafo con lunghe liste bibliografiche. Raccolte di studi recenti sull'onomastica si trovano in Poccetti (2.008; 2.009a) e in Haack (2.016). Tra i contributi più recenti, cfr. inoltre, in particolare, Belfiore (2.014a) e Benelli (2.ou; 2.013; 2.0146). Un' ipotesi sul significato del cosiddetto "genitivo afunzionale" è dovuta a Maggiani (2.000). 4.2..3. I NOMI DEGLI DÈI

La religione etrusca ha esercitato da sempre un grande fascino sugli studiosi ed è uno dei campi di ricerca più frequentati dagli etruscologi. Per quanto riguarda i nomi divini, molti progressi sono stati fatti soprattutto da quando le deorum sedes registrate su uno degli oggettisimbolo della civiltà etrusca, il "Fegato di Piacenza" (FIG. 4.12), hanno cominciato a svelare i propri segreti. L'analisi dei teonimi merita particolare attenzione, perché è in grado di illuminare, insieme ad altri indicatori, i complessi processi storici e socioculturali sottesi alle manifestazioni del sacro. Punto di partenza nell'analisi è la constatazione che la religione etrusca è una forma estremamente raffinata di politeismo, sviluppatasi come un "organismo vivente" in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali - l'Italia centrale - e di condizionamenti di vario tipo (socioeconomico, innanzitutto, ma anche di ordine ideologico). In questo contesto dinamico, il sistema di designazione delle personalità divine agì come un processo di stratificazioni progressive, intorno a un nucleo originario di credenze, che probabilmente si era formato già in età protostorica, se non preistorica. Uno dei risultati più interessanti della ricerca linguistica su questo versante è stato proprio il tentativo di identificare attraverso i nomi questo nucleo di divinità originarie, che nella mentalità religiosa degli Etruschi presiedevano alle attività fondamentali dell'uomo e, più in generale, al ciclo vitale dell'universo. Come accade presso tutti i popoli antichi, a quanto pare, anche presso gli Etruschi agiva l'idea che le manifestazioni naturali più importanti della vita dipendessero dalla presenza e dall'attività di entità soprannaturali. Possiamo identificarne agevolmente alcune: l'avvi1 43

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FIGURA 4.12.

Modellino bronzeo di fegato ovino noto come "Fegato di Piacenza" (fine del inizi del I secolo a.C.)

II-

Il modellino presenta un reticolo di deorum sedes identificare da iscrizioni nella faccia venerale piana. Piacenza, Musei civici di Palazzo Farnese (inv.

1101).

cendarsi dei giorni, la nascita e la crescita degli esseri umani, la fertilità dei campi e degli animali, la salute. Per questo, nella religione etrusca delle origini troviamo personificati concetti astratti come la luce del giorno, la forza vitale della natura, la fertilità e così via. Non sappiamo invece se sin dalle origini esistesse nella religione etrusca quella nebulosa fittissima di entità divine minori, corrispondenti agli indigitamenta della religione romana arcaica; di certo sappiamo che con il passare del tempo il pantheon etrusco iniziò a popolarsi di personalità divine minori, genii, dèmoni e altre entità soprannaturali di rango inferiore. È questa, ovviamente, una materia per gli storici delle religioni, ma i linguisti ci hanno aiutato a penetrare - attraverso lo studio dei nomi di questi dèi - nella ratio che aveva guidato presso gli Etruschi il processo di creazione delle personalità divine prima che intervenisse, su esempio greco, l'antropomorfizzazione (fenomeno che risulta evidente quando cominciano a comparire le testimonianze iconografiche). Non solo: i nomi divini etruschi, sottoposti alle analisi della linguistica storica, sono in grado di rivelarci, sia pure solo a livello di probabilità,

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4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

se una determinata divinità era stata presa in prestito da altri popoli oppure era stata creata localmente, pur in assenza di testimonianze di carattere archeologico e iconografico. I risultati di questo tipo di indagini linguistiche sono tutt'altro che scontati e rivelano l'esistenza nella religione etrusca di una commistione straordinaria di influenze e apporti diversi, non solo in piena età storica - il che, tutto sommato, è abbastanza scontato - ma anche nella religione etrufca delle origini. Scorrendo la lista dei nomi degli dèi più importanti m età arcaica, corrispondenti ai greci Zeus, Hera e Athena, per esempio, scopriamo, da un lato, che il nome della divinità suprema - Tinia ( = ZuJç/ luppiter) - è basato sul concetto di "luce del giorno•: come avviene nelle principali religioni indoeuropee, dall'altro che quello delle divinità femminili fondamentali corrispondenti a 'Hpa/ luno e ad J1.0r;va/ Minerva sono con buona probabilità due prestiti dall'italico: Uni (da luno) e Menerva (da Minerva). A prestiti dall'italico si è pensato anche per il cospicuo gruppo di divinità etrusche che portano un nome uscente in -ns, che parrebbero in effetti scaturiti da calchi (Se0lans, Selvans, Ne0uns e così via, derivati da,. Situlanus, Silvanus, Neptunus e così via). Cosa indicano tutti questi teonimi italicizzanti, in una fase in cui ancora non era all'orizzonte la pressione della cultura greca? Si è pensato, a questo proposito, che nella stratificazione del pantheon etrusco ci furono due tornanti epocali, di cui il primo, corrispondente alla fase formativa, sarebbe stato caratterizzato da un massiccio processo di "sabellizzazione" e "latinizzazione" dello stock di base dei nomi divini. Questo fenomeno tradisce una intensa interazione culturale fra i popoli dell'Italia centrale, da contestualizzare in età anteriore al cristallizzarsi del processo di regionalizzazione delle entità emiche e al definirsi di quelle culturali nella penisola italiana (fine del II millennio a.C.). Non tutti gli studiosi però hanno accettato senza riserve questa ricostruzione storicolinguistico-culturale che considera il mondo etrusco - è difficile negarlo - un po' subalterno e passivo rispetto a quello latino-italico e pensano, più prudentemente, all'effetto di interferenze culturali e prestiti da ambientare in piena età storica, a processo già avviato. Del resto, i nomi di alcuni fra i presunti dèi protoitalici introdotti anche in Etruria, come *situlanus, sono frutto evidentemente di costruzioni artificiali (ad hoc), di cui è impossibile (e sconsigliabile) una storicizzazione. Molto più chiara è la seconda ondata di prestiti linguistici (e cultu-

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rali) che si riscontra nella religione etrusca, quella ellenizzante di età arcaica, che è figlia del processo di maturazione degli istituti urbani. In questo caso, cosa sia avvenuto è suggerito in maniera convergente e limpidissima dalle testimonianze iconografiche e dall'onomastica divina: uno stuolo di divinità greche di primo piano (Artemide ed Eracle per esempio) penetrò, per contatto culturale, nella religione etrusca ufficiale, mantenendo il nome di origine, che venne soltanto etruschizzato (è questa una delle opzioni principali dell'interpretatio etrusca). In altri casi, invece, il processo fu più complesso e figure divine locali, come conferma l'iconografia, furono assimilate a quelle straniere, di cui però non fu conservato il nome (è il caso di Turms/Hermes e di Vei/Demetra). Alcuni casi indicano processi di assimilazione ancora più complessi e imperfetti, cioè con margini rilevanti di non sovrapposizione (per quanto attiene le sfere di competenza) fra le entità divine equiparate, perché implicarono probabilmente più passaggi e più referenti. Un buon esempio è costituito dalla coppia di divinità catactonie locali Suri e Cava0a, identificata sincretisticamente con quella greca di Ade e Persefone, benché la pertinenza originaria del paredro maschile - l'enigmatico Suri - sia da porre a metà strada fra la sfera apollinea e quella di un Giove infero. I nomi di queste due divinità sono stati "etimologizzati" con successo: Suri è il "buio" (letteralmente: "il dio nero") e Cava0a è, originariamente, la "ragazza" (esattamente come greco x6pr;). Questo caso consente anche di addentrarci brevemente nella questione, anch'essa esplorabile con l'analisi dell'onomastica divina, dell'esistenza di una organizzazione del pantheon etrusco di tipo parentelare. Cava0a, infatti, talvolta è qualificata nelle iscrizioni come "figlia" (se,r), mentre Vei, non a caso omologata a Demetra/Cerere, qualche volta porca come epiteto qualificante "la madre" ( in etrusco ati). Da questo sembrerebbe dedursi che le religioni greche dei misteri erano penetrate efficacemente nella dottrina etrusca, imponendo il modello della religiosità eleusina (due dee legate alla sfera agraria), che in effetti trovò una significativa proiezione mitologica nell' iconografia funeraria, se non anche nel culto. Più complesso è il caso del citato Suri, qualificato talvolta nelle epigrafi come apa, cioè "padre", forse da intendersi in questo caso non come attributo genitoriale ma in maniera generica, come indicatore di arcaicità e primordialità del culto.

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

Il variegato ventaglio dei nomi delle divinità minori, dei dèmoni e degli epiteti divini documentati nelle iscrizioni sacre etrusche consente di allargare ancora di più il campo di osservazione e di integrare nel nostro discorso, ancor più esplicitamente, alcune considerazioni di storia sociale. Questi elementi - cioè i nomi delle divinità minori e gli epiteti - presentano una immagine del pantheon etrusco organizzato sul modello della società umana, cioè come un sistema sociale organico che contempla ruoli diversi, ma complementari, figure di vertice e figure-satelliti, gruppi elitari e gruppi subalterni. Il sottoinsieme di cui si coglie meglio l'articolazione interna, in epoca classica ed ellenistica, è quello della sfera ctonia, dove, accanto alle proiezioni mitologiche greche a cui si è già fatto cenno - Ade e Persefone -, signori, come in Grecia, dell'Oltretomba, troviamo un folto gruppo di dèmoni infernali con nomi ora locali ora grecizzanti ( Van0, Culsu, Tuxulxa da un lato, Xarun/ Caronte dall'altro), alcuni dei quali addetti a funzione psicopompa (Turms-Aitas). Un altro sottoinsieme divino fortemente caratterizzato anche nella designazione onomastica è quello dominato da Turan/ Afrodite, documentato in maniera esuberante negli oggetti del mundus muliebris (ciste, specchi, oggetti da toilette) con racconti in immagini spesso arricchiti da iscrizioni che identificano in maniera precisa le varie attendenti della dèa della bellezza (Muntux, Malavisx). Esistevano inoltre, come in Grecia e a Roma, entità divine collettive, come le misteriose divinità ctonie tlusxva venerate a Orvieto (FIG. 4.13) e a Cerveteri in età arcaica, ma ancora menzionate fra le divinità di culto nel "Fegato di Piacenza", da identificarsi forse con le "Grazie" della religione classica, benché a giudicare dall'uscita del teonimo (che reca la marca del plurale) il referente è inanimato (cfr. PAR. 3.2.2).

L'identità di altri dèi (e dei rispettivi nomi) resta invece impenetrabile, a onta degli sforzi degli studiosi: è il caso di 0ujl, teonimo che compare su un bronzetto "dionisiaco" trovato a Vulci insieme al già noto fu(u)ri (FIG. 4.14). Per altro verso, alcune iscrizioni sacre apposte su arredi di culto ed ex voto che hanno restituito epiteti divini modellati su nomi gentilizi, lasciano intravedere l'esistenza di culci gentilizi paragonabili a quelli praticati a Roma ancora sullo scorcio dell'epoca arcaica, che godevano del patronato di alcune gentes eminenti che avevano evidentemente an1 47

GLI ETRUSCHI

FIGURA 4.13

Altare dal santuario di Orvieto, Campo della Fiera, con iscrizione in cui sono menzionate le divinità tlus}(Va (fine del VI secolo a.C.)

JfV11JJf1S a>~~1-1'H(iY'1A~ J

'1

; / ··-,.

Orvieto, Museo archeologico.

che le risorse economiche e organizzative per garantire lo svolgimento del culto e la sua fruizione collettiva nell'ambito della comunità. L'analisi dell'onomastica divina, infine, permette di ricostruire nel dettaglio il processo di antropomorfìzzazione cui fu soggetto il pantheon etrusco. Studiando i nomi degli dèi si comprende bene come l'opposizione maschile/femminile giocò un ruolo importante anche nell'organizzazione del sacro, proiettandovi tutte le implicazioni sociali del caso.

Nota bibliografica Non è questa la sede per rinviare il lettore alle numerosissime pubblicazioni generali relative alla religione etrusca, di cui ci limitiamo a ricordare Pfìffig (1975); Torelli (1986); Van der Meer (1987); Maclntosh Turfa (2012); Ancillotti, Calderini, Massarelli (2.016). Quel che interessa qui segnalare sono le

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

FIGURA 4.14

Bronzetto vulcente con iscrizione incisa sul fianco destro: muras.arnB. BujUuuris (2.50-2.00 a.C.)

Città del Vaticano, Musei Vaticani (inv. 39799).

trattazioni inerenti il problema dei teonimi e le implicazioni storico-culturali delle analisi linguistiche che possono ricavarsene. Una prima trattazione organica di questo tema, ampiamente superata, è quella di Stoltenberg (1957 ). Molti spunti si ricavano dalla lettura di Van der Meer (1987) e di Maras (2.009d), cui si rinvia anche per la ricca bibliografia. Alcuni casi particolari sono affrontati da Agostiniani (2.0166 ). Sui presunti prestiti italici nella teonimia etrusca in data risalente, in particolare, si rimanda soprattutto alla teoria sviluppata da Rix (1981; 19986), su cui sono intervenuti Maggiani (1997) e Torelli (2.011), accogliendo il nocciolo delle tesi di Rix (origine italica di numerosi teonimi). Più cauti: de Simone (1991, pp. 135-7) e Agostiniani (2.002., pp. 311-2.), le cui perplessità sono qui condivise. Si segnala inoltre che molte proposte originali sui teonimi etruschi (per esempio su Cava0a e Suri) si trovano negli scritti di religione etrusca di Colonna, utilmente raccolti in volume tematico (2.005, voi. 1v). Una efficace analisi semantica del teonimo Cavatha è in Giannecchini (2.008). Su Vei/Demetra: Bellelli (2.012.a). Sul problema di tlusiva: Maggiani (2.011). Sul processo di antropomorfìzzazione: Cristofani (1993a).

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GLI ETRUSCHI

4.2.4. ETNICI E TOPONIMI

Un ambito di studio molto interessante e informativo ai fini della nostra ricerca è quello relativo ai nomi di popolo e di luogo. Partiamo innanzitutto dagli etnonimi e dagli etnici, cioè dai nomi di popolo documentati in etrusco, e in primo luogo dal nome degli Etruschi stessi. Nelle fonti letterarie greche e latine il popolo etrusco è designato con gli etnonimi Tyrrhenoi (o Tyrsanoi) e Tusci, che presentano diverse varianti: essi paiono formati sulla base morfostrutturale di incerto significato ..turs. Significativamente rimanda alla stessa base anche un gentilizio di origine italica, documentato nell'etrusco di Chiusi - tursikina - che fornisce una conferma interessante del fatto che il nome etnico con cui gli altri popoli chiamavano gli Etruschi era formato effettivamente su questa base. Un etnico per "etrusco" creato sulla base .. turs - .. tursano sembrerebbe attestato anche nel venetico. Da un passo celeberrimo delle Antichita romane di Dionigi di Alicarnasso (1 30, 3), apprendiamo però che il nome con cui gli Etruschi designavano sé stessi nella propria lingua sarebbe stato tutt'altro: Rasenna. In questa voce, che trova effettivo riscontro epigrafico sin dal VII secolo a.C. (nel gentilizio Rasunie, attestato a Pontecagnano), avremmo effettivamente, secondo alcuni studiosi, l'autonimo (autodesignazione) genuino degli Etruschi; secondo altri studiosi, invece, il termine Ras(en )na avrebbe un significato diverso, ma non meno pregnante: esso non indicherebbe originariamente il nome generale del popolo etrusco, ma designerebbe in maniera collettiva solo quella parte della comunità in grado di imbracciare le armi (come in latino populus) (cfr. PAR. 4.1.2). Accanto a questi etnonimi, in etrusco sono documentati in abbondanza anche nomi di altri popoli, che troviamo incorporati nelle designazioni onomastiche di individui spesso privi di lignaggio, che si riferivano a sé stessi (o erano chiamati da altri) soltanto indicando il proprio paese di origine. La lista di questi oriundi è lunghissima: si possono ricordare a questo proposito Latine ( il "latino"), Venete ( il "veneto"), ..Rethe ( il "retico"), .. Celthe ( il "celta"), .. Cale ( il "gallo"), Feluske (il "falisco") e così via, fino ad arrivare a Rutile (da intendere forse come il "rutulo"), a Kursike (da intendere come il "corso") e via discorrendo. Com'è facile constatare dagli esempi riportati, da questo tipo di record epigrafico emerge tutta la variegata composizione dell'Italia preromana che era in contatto con il mondo etrusco, a cominciare dal mondo centro-italico. Qualche testimonianza epigrafica si riferisce tuttavia 150

4. VOCI DAL MONDO ETRUSCO

anche all'ambito extraitalico. Per esempio, in etrusco, è documentato, con varianti, anche il nome Creice, da riferire evidentemente a qualche personaggio che era designato semplicemente come il "greco", senza menzione del suo nome proprio. Forse nell' hapax puinel documentato sulla nota tessera hospitalis trovata a Cartagine, abbiamo anche un riferimento diretto a un personaggio di origine punica. Non meno interessante e ricco di informazioni è il settore dei nomi di luogo. Grazie alla documentazione epigrafica e letteraria conosciamo molti nomi originari (o ricostruibili) delle principali città etrusche, a cominciare da quelle che formavano la dodecapoli: Vei (Veio), *Kaisraie (Cerveteri), Tarx,una (Tarquinia), Vele- (Vulci), Velzna (Orvieto), Curtun (Cortona), Vetluna (Vetulonia), Pupluna (Populonia), Vela0ri (Volterra), nonché il nome di alcune città "periferiche" (per esempio Man0va/Mantova). Va peraltro notato che si tratta di forme attestate in maniera compiuta solo raramente, spesso estratte con procedure ricostruttive da una base documentaria abbastanza eterogenea (legende monetali, iscrizioni pubbliche di altro genere, citazioni letterarie). Un gran numero di questi nomi di città presenta una caratteristica uscita in -na, che in qualche caso rende questi nomi di luogo formalmente identici alla classe di gentilizi etruschi con analoga uscita. Si tratta del fenomeno dei cosiddetti "toponimi antroponimici", che esiste anche nelle lingue moderne, sebbene in forme non sempre riconoscibili. Il fatto degno di nota, debitamente notato dalla critica, è che dietro questo fenomeno linguistico possono celarsi gli effetti di processi storici e politici molto complessi, da ambientare all'epoca del primo urbanesimo etrusco: in particolare è possibile ipotizzare che alcuni nomi di città siano in origine nient'altro che nomi gentilizi uscenti in -na trasferiti per estensione a designare la città nel suo momento formativo, sulla quale lagens in questione esercitava il suo dominio. In altre parole, saremmo di fronte a uno scenario storico-toponomastico di tipo "feudale", in cui le famiglie dominanti assegnavano il proprio nome alle comunità di cui controllavano il territorio.L'ipotesi è molto seducente ed è in grado di spiegare la ratio con cui è stato definito il nome di alcune comunità etrusche minori e di fondazione coloniale, ma di certo non appare estendibile a tutta la casistica. Nel caso di fondazioni urbane di grandi estensioni, come i centri protourbani della prima Età del Ferro (Veio, Cerveteri, Tarquinia e Vulci), difficilmente infatti si può pensare a gruppi gentilizi influenti, in grado di imporre il

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proprio nome, some un sigillo di potere, alla città di nuova fondazione. Più probabilmente, in questi casi, il processo è stato più complesso e la promozione del nome gentilizio a nome di luogo ha avuto un passaggio intermedio: l'identificazione di un capostipite, corrispondente al pater gentis del clan più influente del luogo in cui era in atto il processo poleogenetico. Secondo tale prospettiva, per esempio, Tarx(u )na (Tarquinia) non significherebbe la "città della gens Tarx(u )na", bensì "la città di Tarx(u)" (capostipite dellagens Tarx[u ]na).

Nota bibliografica Gli argomenti affrontati in questo paragrafo sono estremamente complessi e a essi è dedicata una corposa letteratura. Per il quadro storico cfr. Torelli (1981), sempre attuale. Per le informazioni di base su etnici e toponimi cfr. Giacomelli (1960) e Pellegrini (1989 ). Sugli etnici, in particolare, cfr. Pallottino (1984); Maggiani (1999 ); Colonna (2.013). Sul nome etnico degli Etruschi: Marinetti (2.009 ). Alla base della discussione sul rapporto fra gentilizi e nomi di città vi sono alcuni lavori imprescindibili risalenti agli anni Settanta del secolo scorso: de Simone (1975), Colonna (1977 ). La definizione "toponimi antroponimici" si deve a Hadas-Lebel (2.009). Sulla toponomastica etrusca, da ultimi, Massarelli (2.009) e Colonna (2.0146).

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La società etrusca nella documentazione epigrafica

5.1 Nascita e fase iniziale 5.1.1. FORMAZIONE DI UNA CULTURA EPIGRAFICA

La nascita di una cultura epigrafica non è conseguenza necessaria e immediata della conoscenza della scrittura. In cucco il mondo antico esistono civiltà che, pur possedendo la scrittura, non hanno mai sviluppato una cultura epigrafica; in questi casi l'epigrafia, quando è presence, tende a riprodurre forme sviluppate da altri. Un esempio eclatante, ai confini stessi dell'Ecruria, è quello degli Umbri: le iscrizioni umbre, con la relativa regolarità della prassi scrittoria e l'adozione di grafemi adattati in modo specifico alle esigenze della lingua, tradiscono un uso della scrittura certamente non episodico; l'epigrafia, tuttavia, ha sviluppo molto limitato e privo di forme espressive proprie. Le iscrizioni umbre riproducono in maniera pedissequa aspetti della cultura epigrafica etrusca, che evidentemente dovevano essere ben riconoscibili almeno da un pubblico qualificato; non a caso, l'epigrafia umbra subisce anche una penetrazione eccezionalmente precoce da parte di elementi della cultura epigrafica romana. Con "cultura epigrafica" si intende quell'insieme di codici condivisi che rende comprensibile (e quindi realizzabile) il cesto epigrafico. L'epigrafe si distingue dalle forme scrittorie usuali per il facto di comunicare il proprio messaggio attraverso la combinazione di due elementi: il cesto e il supporto; nella scrittura usuale, viceversa, il cesto ha importanza esclusiva o comunque prevalente rispetto al supporto e non cambia valore al variare di quest'ultimo. Un cesto letterario o religioso, un contratto, una registrazione contabile conservano il proprio significato indipendentemente dal loro aspetto materiale; un'epigrafe

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no. Al variare del supporto, il medesimo testo può cambiare valore anche in modo radicale. Lo sviluppo di questi codici richiede sempre del tempo, che può essere molto variabile; ma la circostanza che, fatti salvi alcuni casi particolari, sia per noi impossibile ricostruire la storia di qualunque scrittura nella sua fase pre-epigrafica (dato che i documenti che abbiamo di quasi tutte le scritture antiche sono esclusivamente epigrafici), fa sì che la durata di questa fase sia destinata a rimanere sostanzialmente sconosciuta. Per quanto riguarda specificamente l'etrusco, sigle graffite su oggetti sono note almeno a partire dal 730 a.C. circa ( il riconoscimento di segni più antichi è ancora sub iudice, così come il significato e l'inquadramento di quella che dovrebbe essere la più antica iscrizione d'Italia, quella graffita su un vaso dalla necropoli laziale di Osteria dell'Osa, databile in piena prima metà dell'vm secolo a.C.; cfr. PAR. 2.1 ), il che testimonial'esistenza della scrittura almeno qualche decennio prima delle più antiche iscrizioni. 5.1.2. L'EPIGRAFIA DELLE ARISTOCRAZIE: IL POSSESSO E IL DONO

L'epigrafia etrusca nasce attorno al 700 a.C. e nasce per venire incontro a esigenze molto specifiche. Tutte le iscrizioni più antiche sono testi di possesso, redatti secondo la struttura dell'oggetto parlante (o iscrizione parlante) in prima persona: "io sono di ...". Questo formulario è largamente diffuso in molte culture epigrafiche, a partire da quella greca, che ha buone probabilità di essere stata il principale modello di ispirazione per la nascita della cultura epigrafica etrusca; tuttavia, le esigenze specifiche della lingua etrusca resero necessaria una modifica fondamentale della formula preferita in greco (verbo essere + genitivo dell'antroponimo), a causa della mancanza di desinenze di persona nel verbo etrusco. In etrusco, la formula standard prescelta per l'espressione del concetto del possesso fu quella con pronome personale di prima persona e antroponimo al genitivo, omettendo completamente la copula (che compare solo molto di rado, in iscrizioni che deviano dal formulario usuale). L'omissione della copula, piuttosto rara in greco (dove il pronome personale poteva anche comparire, ma di solito insieme al verbo) deve essere riconosciuta come una caratteristica evidentemente derivata dall'uso linguistico codificato in etrusco. Dopo un trentennio circa, accanto ai testi di possesso compaiono quelli di dono, che hanno il medesimo ambito di circolazione. Fino alla fine del periodo medio-orientalizzante ( 630 a.C. circa) queste due 154

5. LA SOCIETÀ ETRUSCA NELLA DOCUMENTAZIONE EPIGRAFICA

categorie rappresentano la quasi totalità delle iscrizioni etrusche; a esse si affiancano anche dei testi lunghi, spesso complessi e anche di difficile segmentazione, all'interno dei quali sono comunque sempre isolabili sequenze relative al possesso e/ o al dono. La circolazione degli oggetti iscritti, in questo periodo iniziale, è estremamente significativa. Pochissime di queste iscrizioni sono state trovate in un contesto puramente abitativo, a meno che non sia stato soggetto a distruzione repentina; quasi tutte provengono da tombe (con certezza, o comunque con notevole verosimiglianza, come nel caso degli oggetti integri senza indicazioni di provenienza), o da contesti in qualche modo riconoscibili come sacri. In sostanza, sembra che questi oggetti non venissero di solito gettati volontariamente tra i rifiuti dai quali sono formati la maggior parte dei depositi archeologici rinvenuti nei contesti abitativi. Le iscrizioni di possesso rinvenute nelle tombe mostrano che il proprietario finale dell'oggetto iscritto non era necessariamente la persona nominata nell'iscrizione; questo comportamento, che appare caratteristico della fase iniziale dell'epigrafia etrusca, persisterà a lungo. Nella documentazione, non solo del VII secolo a.C., ma addirittura fino quanto meno al principio del III, si trovano casi di iscrizioni di possesso con nomi maschili deposte in sepolture femminili (o viceversa), serie di più esemplari di oggetti con iscrizioni identiche distribuiti fra tombe di diversi individui, oppure, infine, più iscrizioni di possesso con nomi diversi nella tomba del medesimo individuo. Se pensiamo che la forma di sepoltura di gran lunga più comune in Etruria è la tomba a camera di uso collettivo (normalmente familiare), è altamente probabile che queste occorrenze siano grossolanamente sottorappresentate, perché in molte tombe a camera, soprattutto se già violate o scavate in tempi non recenti, è impossibile dividere gli oggetti fra le varie deposizioni. Che comunque dietro l'indicazione di possesso si nasconda spesso (e, almeno nella fase iniziale, probabilmente quasi sempre) il dono è fatto acquisito dalla ricerca. Se combiniamo questa evidenza con la distribuzione delle iscrizioni della fase iniziale, ne emerge un'illustrazione quasi perfetta di un tipo di circolazione che rispecchia ciò che in antropologia è definito "circuito del dono"; in questo sistema gli oggetti vengono scambiati non per il loro valore intrinseco (spesso modesto) ma come marche di riconoscimento di appartenenza al medesimo circuito sociale. Il vero valore di ogni oggetto, quindi, stava nel ruolo sociale del suo donatore; ciò che si è ricevuto da una persona di elevato prestigio faceva riverbe-

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rare questo stesso prestigio anche sul donatario: ecco perché era necessario ricordare da chi era stato donato ogni oggetto ricevuto nell'ambito di questi scambi altamente formalizzati, ed ecco anche perché il legame quasi magico che si costituiva fra l'oggetto investito di questo ruolo e colui che lo riceveva non poteva essere interrotto, se non con un ulteriore dono. La sua destinazione ultima, quindi, poteva essere o la tomba dell'ultimo possessore, o un santuario (la divinità non può donare a sua volta, e quindi blocca la circolazione del dono). L'introduzione dell'iscrizione di dono nel secondo quarto del VII secolo a.C. non annullò il significato precedentemente espresso da quella di possesso, ma semplicemente le si affiancò, esprimendo in modo più esplicito il fatto sotteso alla realizzazione dell'iscrizione stessa. La nascita dell'epigrafia etrusca, in sintesi, si caratterizza come un fenomeno strettamente collegato alle esigenze sociali e rappresentative di un'aristocrazia molto attenta a elaborare segni materiali inconfondibili del proprio ruolo e della propria esclusività: si tratta di quella stessa aristocrazia che nei medesimi decenni introdusse forme monumentali di celebrazione funeraria (che certamente saranno andate di pari passo con forme di distinzione analogamente monumentali nelle loro residenze, delle quali purtroppo possiamo cogliere molto poco) e che stimolò l'importazione e la produzione di oggetti rari e preziosi da esibire a propria maggior gloria. Una delle migliori illustrazioni di questo aspetto è fornita da una serie di kyathoi in bucchero che, per forma e decorazione, si possono facilmente identificare come vasi di rappresentanza destinati a essere esibiti dai loro possessori; sedici di questi sono dotati di un'iscrizione (normalmente sull'alto piede conico, in almeno un caso sull'ansa) (FIG. 2.10 ). Anche se i vasi sono stati prodotti probabilmente da artigiani diversi, e anche in luoghi diversi, è chiara l'ispirazione a un modello comune, verosimilmente elaborato a Cerveteri, centro in prima linea nella formazione dei segni materiali delle aristocrazie orientalizzanti, compresa la stessa epigrafia; la diffusione non geograficamente selettiva dei prodotti attribuiti ai vari artigiani fa pensare che tutti, o quasi, dovessero essere attivi nelle medesime botteghe. Nonostante alcuni adattamenti (peraltro solo parziali) alle norme grafiche correnti nelle città dei destinatari dei vasi, tutte le iscrizioni hanno un'inconfondibile aria di famiglia (ed è forse eccesso di acribia tentare di distinguere in modo troppo raffinato le mani di diversi scribi); quasi tutte sono tracciate a crudo, in caratteri accuratamente incisi, e riproducono sempre (lì dove siano conservati dei caratteri

5. LA SOCIETÀ ETRUSCA NELLA DOCUMENTAZIONE EPIGRAFICA

distintivi) un modello grafico molto particolare, noto altrimenti solo nella cavolecca eburnea con alfabetario da Marsiliana d'Albegna, che si scosta dall'alfabeto etrusco standard, adottando forme che vogliono ispirarsi più strettamente ai modelli euboici (cfr. PAR. 2.4.3). Anche se molte delle iscrizioni sono disperatamente frammentarie, i cesti, spesso lunghi e complessi, contengono sempre, lì dove ne sia conservata una parte abbastanza significativa, l'espressione del dono. L'ampia circolazione di questi manufatti da pompa contrassegnati in modo indelebile come doni, è la migliore testimonianza non solo dell'estensione dei rapporti fra famiglie aristocratiche e delle pratiche di scambio cerimoniale di oggetti che questi rapporti cementavano, ma anche del ruolo ormai acquisito dell'epigrafia nel marcare il processo. Caratteristica di questo processo è che i legami orizzontali fra pari valicavano agevolmente i confini degli stati cittadini; la solidarietà di rango appare più forte di quella politica, verticale, fra concittadini. Ancora alla fase medio-orientalizzante ( 680-630 a.C.) risalgono i primi esperimenti, rarissimi e tipologicamente isolati nella documentazione in nostro possesso, di iscrizioni di contenuto diverso rispetto al possesso e al dono di oggetti, che cominciano a introdurre tipi destinati a diffondersi solo in seguito: vi sono, per esempio, alcuni testi funerari (sempre nelle formule del possesso o del dono), oppure alcune didascalie apposte a scene figurate (cfr. PAR. 4.1.7 ). 5.1-3- CITTÀ APERTE: LA MOBILITÀ INDIVIDUALE

Il mondo orientalizzante, così come esso è riflesso nell'epigrafia, è sì aristocratico, ma al tempo stesso è "aperto" e inclusivo. Caratteristica di questo mondo era infatti la possibilità, allargata agli stranieri, di spostarsi più o meno liberamente da un luogo all'altro e di integrarsi in comunità e strutture sociali che non erano impermeabili, soprattutto al livello dei ceti dirigenti. Paradigma di questa fluidità sociale in epoca orientalizzante può essere considerata la storia del greco Demarato raccontata, con varianti, da numerosi autori antichi (Polibio, Storie VI, 11; Cicerone, La Repubblica II, 19-20; Dionigi di Alicarnasso, Antichita romane III, 46-4 7 e altri): corinzio di origine, questo personaggio, che sarebbe vissuto nella seconda metà del VII secolo a.C., dopo aver a lungo esercitato il commercio con I' Etruria, si sarebbe infine stabilito a Tarquinia, dove aveva buoni amici. Qui, unendosi a una nobildonna del luogo, avrebbe dato i natali a un personaggio predestinato al succes1 57

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so, Lucumone, che, trasferitosi a sua volta a Roma, sarebbe diventato re con il nome di Lucio Tarquinio (Prisco). Dettaglio interessante della storia (svelato da Plinio il Vecchio, Storia naturale xxxv, 152) è che Demarato arrivò in Italia con un seguito di artigiani specializzati forniti di nomi "parlanti" (EfJ;retp, "buona mano"; EfJypaµµoç, "buon disegnatore"; L1/01roç, "bravo con il traguardo"). Se questo è quanto raccontano le fonti letterarie sul caso più famoso di mobilità geografica relativa al mondo orientalizzante etrusco, non diversa è la situazione che emerge dall'analisi della documentazione epigrafica. Alcune formule onomastiche bimembri trovate in tombe etrusche di questo periodo rivelano infatti l'avvenuta integrazione, nella società locale, di elementi stranieri di diversa origine, sulla falsariga del "modello Demarato". Alcune di queste iscrizioni sono esplicite: si tratta di stranieri, portatori di nomi doppi, che svelano il meccanismo dell'integrazione: il rutile hipucrates che scrive il proprio nome sul fondo di una brocca trovata a Tarquinia nella tomba nota come "Tumulo del Re" è probabilmente un aristocratico greco integratosi nella società tarquiniese con un nome italicizzante affiancato a quello (greco) di origine, promosso per l'occasione a gentilizio. Altri casi rinviano, come atteso, a una profonda integrazione etrusco-italica, avvenuta nel crogiolo culturale del Lazio orientalizzante: Ate Peticina, Kalatur(u)