Gli enigmi del caso [1st ed.]
 88-339-0067-3

Table of contents :
Gli enigmi del caso......Page 1
Colophon......Page 4
Indice......Page 5
Prefazione......Page 7
Introduzione......Page 9
Prologo. Come divenni un matematico......Page 21
1. Gli inizi......Page 25
2. Leopoli......Page 38
3. La ricerca del significato di indipendenza......Page 64
4. ‘On toast!’......Page 83
5. Cornell (I)......Page 99
6. Cornell (II)......Page 120
7. La Rockefeller University: il sogno che quasi divenne realtà......Page 133
Poscritto......Page 151
Note......Page 159

Citation preview

Saggi scientifici La transizione neolitica e la genetica di

Ammerman e Cavalli-Sforza popolazioni in Europa

Arens

Il mito del cannibale

Barbieri

La teoria semantica dell'evoluzione

Braitenberg

I tessuti intelligenti

Bruner e Garton

Crescita umana

Cloudsley- Tbompson Curio

La zanna e l'artiglio

Etologia della predazione

Dyson

Armi e speranza

Dyson

Turbare l'universo

E/dredge e Tattersall Espagnat, d'

I miti dell'evoluzione umana

Alla ricerca del reale: fisica e oggettività

Gell-Mann, Hoyle, Weisskopf e altri Griffin Heisenberg

Fisica e oltre: incontri con i protagonisti 1920-1965

Jones e Bodmer Kac

La natura dell'universo fisico

L'animale consapevole Futuro biologico

Gli enigmi del caso: vicissitudini di un matematico

Kuyk

Il discreto e il continuo: complementarità in matematica

Lieberman Lovelock Luria

L'origine delle parole Gaia: nuove idee sull'ecologia

Storie di geni e di me

Marrama, Pera e Puccinelli

Rapporto economico sulla Cina

Medawar

Consigli a un giovane scienziato

Medawar

I limiti della scienza

Medawar, Lance e Simpson Miller

La nuova immunologia

Il dramma del bambino dotato

Pierantoni

L'occhio e l'idea: fisiologia e storia della visione

Pierantoni

Riconoscere e comunicare: i messaggi biologici

Spaltro Vygotskij

Sentimento del potere Il processo cognitivo

MARK KAC

Gli enigmi del

caso

Vicissitudini di un matematico

Prima edizione giugno 1986

© 1986 Editore Boringhieri SpA, Torino, corso Vittorio Emanuele 86 diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla STAMPATRE di Torino CL 61-8947-4 ISBN 88-339-0067-3

Titolo originale Enigrnas of Chance

Harper & Row- New York - 1985 Traduzione di Umberto Sampieri Copertina di Federico Luci

INDICE

Prefazione

7

Introduzione

9

Prologo: come divenni un matematico

21

Gli inizi

25

2

Leopoli

38

3

La ricerca del significato di indipendenza

64

4

'On toast!'

83

5

Cornell

99

6

Cornell

7

La Rockefeller University: il sogno che quasi divenne realtà

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Poscritto

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Note

159

(l) (Il)

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PREFAZIONE

L'autobiografia di un matematico non può non trattare anche di mate­ matica, ma sfortunatamente alcuni concetti e problemi di cui mi sono occu­ pato nel corso della mia vita sono impossibili da divulgare. Il compromesso che bo scelto, come la maggior parte dei compromessi, è infelice. Lo specialista potrà giustamente tacciarmi di superficialità e incompletezza, mentre il let­ tore comune, con non minore ragione, potrà obiettare che l'argomento è nebu­ loso e difficile da comprendere. Invito comunque il lettore alle prime armi a dare almeno una scorsa alle pagine contenenti formule: può darsi che in tal modo gli giunga un riflesso della gioiosa esaltazione da me provata, soprattutto nei miei anni giovanili, via via che i concetti su cui mi affaticavo mi divenivano più chiari. A chi abbia dimestichezza con la materia, molto del materiale (specialmente quello del cap. 3) apparirà banale. Egli ba oggi, non dimentichiamolo, il van­ taggio di cinquant'anni di progresso e di cultura, mentre noi, negli anni trenta, eravamo dilettanti puri. Essere dilettanti e non avere una guida ci aiutò d'al­ tra parte a sviluppare un metodo che in seguito si dimostrò di grande utilità. L'importanza di ciò non sfuggirà al matematico esperto, né, mi auguro, al profano. Il Prologo fu originariamente scritto per "Rebovot", la rivista del Weiz­ mann Institute; 1 parte del Poscritto è tratta invece da un saggio precedente 2 apparso sul "Boston University ]ournal". È un vero piacere ringraziare coloro i quali banno reso possibile la realiz­ zazione di questo libro. ]oel Coben, della Rockefeller University ( fu lui a sug­ gerirmi l'idea) mi seguì pazientemente con un registratore lungo i corridoi dell'Università. Q]J.anto a Steve Wbite, tanti e tali sono i suoi contributi che mi è impossibile scegliere un unico motivo per il quale ringraziar/o: diciamo

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PREFAZIONE

che era sempre li dove ne avevo bisogno. L'intero comitato dei consulenti della Sloan Foundation fu costantemente al mio fianco con incoraggiamenti e con­ sigli. Dan Kevles passò un bel po' di ore ad aiutarmi nella ricerca di una forma di esposizione sufficientemente chiara delle parti matematiche, special­ mente quelle del terzo capitolo, di gran lunga il più difficile da scrivere dell'in­ tero libro; Bob Merton e Pau/ Samuelson furono prodighi di utili suggeri­ menti su problemi particolari; il dottor Tbeodore Porter effettuò le ricerche storiche e mi seppe ben consigliare. Ringrazio in particolar modo l'amica Juditb Cbodos, che ci regalò genero­ samente il suo tempo e la sua esperienza per migliorare il manoscritto. Gra­ zie anche ai miei figlioli, Micbael e Deborah, per avermi aiutato con le loro idee e in tanti altri modi ancora. Mia moglie Kitty, infine, che lavorò con me pazientemente, diligentemente, giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, per mesi e mesi: non bo parole per esprimerle la mia gratitudine. Il suo contributo ba fatto si che questo libro diventasse il "nostro" libro. M.K.

INTRODUZIONE

Toute acte de l'homme, donc toute oeuvre - créations et inventions - est autobiographique. Boris Rybak

Gli uomini creativi vivono in due mondi: uno

è il mondo ordinario

che dividono con gli altri e nel quale non si distinguono in modo parti­ colare. L'altro

è

Un mondo che

il mondo, tutto privato, ove ha luogo l'atto creativo.

è

teatro di passioni, entusiasmi, delusioni;

è

qui che,

se si raggiunge l'altezza di un Einstein, si può udire la voce di Dio.

I

due mondi sono tuttavia comunicanti, spesso in modo ambiguo. Ad esempio la gelosia, il desiderio di un riconoscimento da parte degli altri e la competitività, pur facendo parte del mondo ordinario, sono tra le forze che spingono nel secondo. A loro volta, gli ideali luminosi del secondo trovano modo di mescolarsi con aspirazioni, nient'affatto nobili, a gratificazioni materiali nel primo. Riuscire a dare di sé un'immagine coerente e veritiera in due sfere così diverse, e pure, così strettamente interdipendenti,

è

compito diffi­

cilissimo, e questo spiega in parte come mai siano state scritte ben poche autobiografie di scienziati. Negli anni recenti ne sono comunque apparse alcune: ognuna affronta a modo suo il problema di spiegare la doppia dimensione della vita dell'autore. Di queste autobiografie tre hanno per me un fascino particolare; le avevo lette molto tempo prima che mi venisse in mente di scriverne una io stesso e conosco personalmente gli autori. La dea bendata

è

stata davvero generosa con questi uomini.

A un'intelligenza di prim'ordine ciascuno unisce una cultura eccezio­ nale e soprattutto ciascuno ha il dono della creatività, che più indefinibile esista.

E

è

quanto di

tuttavia i resoconti delle loro vite presentano

una tale varietà di sostanza e di stile che

è difficile immaginare che essi

appartengano alla stessa comunità.

È

inconsueto che un autore premetta alla propria autobiografia un

IO

INTRODUZIONE

saggio su quelle degli altri. Spero che il lettore non si formalizzi e che trovi l' argomento appassionante come l'ho trovato io . Credo che que­ sto lo avvicinerà alla comprensione della vastità e complessità dell' in­ trapresa scientifica. Delle tre opere suddette, Heraclitean Fire di Erwin Chargaff è proba­ bilmente la più interessante, e senza dubbio la più ricca di sorprese. Pur essendo Chargaff di madrelingua tedesca, il suo inglese tocca ver­ tici di splendore abbagliante, al punto che la perfezione stessa della sua prosa la fa apparire un po' anificiale. I preziosismi stilistici di cui Char­ gaff si compiace sono del resto più consoni al francese che all'inglese. Quest'ultima lingua mi sembra troppo sbrigativa e dura per sopponare una densità elevata di "fronzoli" ; d' altra pane, egli sa essere stilista stu­ pendamente efficace, come si può vedere da una frase tratta da un suo articolo del 1 9 7 1 , Preface to the Grammar of Biology: "Il fatto che anche i pigmei proiettino ombre gigantesche è un segno che il giorno volge al termine." Chargaff nacque in Romania e studiò a Vienna. Ricevette un' istru­ zione rigorosamente classica, dalla quale trasse la ferma convinzione che per divenire qualcuno, anche uno scienziato dunque, occorra essere prima di tutto uomini di cultura. E cultura voleva dire, allora, conoscere greco e latino, e bene anche, almeno quest'ultimo . È però il greco il grande amore di Chargaff, ed egli ne è così preso che a sentirlo parlare di Ari­ stotele o di Eraclito si ha l'impressione che siano tutti colleghi del Colum­ bia University College of Physicians and Surgeons. Per quelli di noi che sono meno eruditi tutto quel profluvio di citazioni dall'originale greco può essere un po' fastidioso . Nessun dubbio comunque che Char­ gaff fosse sincero nel suo amore per l'antica Grecia e credesse ferma­ mente nell' insostituibile valore formativo dei classici. Questa sua cer­ tezza fu scossa, e brutalmente, in quello che è uno dei grandi drammi della scienza moderna. La storia del DNA è stata più volte raccontata dagli stessi protagoni­ sti, ma può essere utile ricordare alcuni fatti salienti. Nel 1 944 Oswald Avery, Colin MacLeod e Maclyn McCany, del Rockefeller lnstitute of Medicai Research, pubblicarono i risultati dei loro classici esperimenti, in cui dimostravano, sebbene forse allora in modo non definitivo, che il DNA è il ponatore dell'informazione genetica. Chargaff fu uno dei pochi biochimici che accettarono subito le conclusioni del terzetto del Rockefeller lnstitute. Riconoscendo la grande imponanza della loro sco-

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II

perta, modificò i programmi d i ricerca del suo laboratorio indirizzan­ dosi verso un completo e dettagliato studio del DNA. Il risultato fu la scoperta della famosa " regola di Chargaff" : A = T, C = G, ove A, C , G, T, sono le iniziali di adenina, citosina, guanina e timina, i quat­ tro nucleotidi che sono i costituenti fondamentali del DNA. Il DNA di specie differenti contiene diverse quantità di A, C, G, T, ma in tutte le specie, dall'ameba all'uomo, il numero di molecole di A è quasi uguale al numero di molecole di T e il numero di molecole di C è quasi uguale al numero di molecole di G. Questa impressionante regolarità fu uno dei più importanti indizi per arrivare a comprendere la struttura del DNA, ciò che costituisce la grande scoperta di J. D. Watson e di F. H. C. Crick. Nel suo libro Chargaff racconta brevemente dell' incontro , l' unico , che ebbe con Watson e Crick a Cambridge verso la fine del maggio 1 9 52. Ventisei anni dopo, nel 1 9 7 8 , quando il libro uscì, il suo livore verso gli scopritori della struttura a doppia elica del DNA non si era affatto mitigato . Senza dubbio il premio Nobel che i due ricevettero nel 1 962 contribuì ad alimentare l'amarezza che pervade Heraclitean Fire. Non solo Chargaff aveva perso la gara per decifrare la struttura del DNA (sebbene egli avesse sempre negato di considerarsi in gara) ma fu bat­ tuto da una coppia di principianti che dal suo punto di vista erano mano­ vali della scienza. Non solo Watson e Crick, la "coppia male assortita" (diceva proprio così), erano incolti, nel senso che non possedevano una cultura classica di tipo europeo , ma sembravano essere ignoranti per­ sino di chimica, "la più reale delle scienze esatte" . A questo alludeva la frase sui "pigmei" e sulle loro "ombre gigantesche" . Dopo aver letto il duro giudizio di Chargaff andai a rileggermi The Double Helix/ il libro di Watson . Ricordo che appena venne pubbli­ cato molti biologi furono assai critici e persino sconcertati. Ai loro occhi Watson era colpevole di aver infranto numerosi tabù tribali, sconfinando, per dirne una, in riserve di caccia altrui (in biologia, a differenza che in fisica, non si costruiscono teorie basate sui dati sperimentali ottenuti da altri). Ma ancor più grave fu l' aver tradito un segreto inconfessabile, l' aver rivelato cioè che non sempre la scienza ha a che fare con motiva­ zioni elevate come la ricerca della verità e simili, e che a volte l' incen­ tivo è l' ambizione più volgare, quando non il desiderio di fare le scarpe a un collega più anziano e famoso, in questo caso Linus Pauling. Ciò che Chargaff non notò, o che forse scelse di trascurare, sia nel 1 9 52 che nel 1 9 7 8 , fu che Watson era chiaramente ossessionato dal

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problema della struttura del DNA . Il suo manierismo, lo stile frizzante, irriverente, appartengono a tal punto al mondo ordinario che è facile trascurare gli accenni, che pure esistono , al suo sogno di comprendere la struttura della molecola del DNA, che è un qualcosa che appartiene decisamente all'"altro mondo" . Senza contare che quando si è comple­ tamente presi dal problema non lo si mette da parte per studiare siste­ maticamente la chimica, o qualsivoglia altro argomento. Si impara strada facendo! Questa non è, beninteso , la regola universale e non è neppure detto che sia consigliabile, ma qualche volta funziona. Quanto a me, la maggior parte di quanto ho imparato di nuovo in matematica dopo il conseguimento del dottorato l'ho appreso perché costretto da un problema. Quasi tutti i grandi scienziati hanno avuto come maestri altre perso­ nalità scientifiche importanti, in una sorta di "successione apostolica" cha ha pochissime eccezioni . E Chargaff è una di queste. Come rac­ conta lui stesso, si scelse come relatore per la sua tesi un giovane e oscuro assistente, perché ciò avrebbe comportato minori spese di laboratorio che se avesse deciso di lavorare con un illustre barone. A differenza della maggior parte degli scienziati, Chargaff dichiara di avere pochi maestri: Oswald Avery è uno di questi, ma il suo vero eroe è una nota figura del panorama letterario viennese, Karl Kraus, peraltro quasi sconosciuto in America, sebbene qualche anno fa sia uscito un libro su di lui .3 Ne sentii parlare dal mio maestro , Hugo Steinhaus, che lo ammirava. Non ebbi l'opportunità di legge me le opere in lingua originale, perché la mia conoscenza del tedesco era assolutamente inadeguata. Mi rincuora il fatto che anche Cbargaff avesse avuto le sue difficoltà quando lesse per la prima volta ''Die Fackel'' (La fiaccola) nel 1 9 1 5 o nel 1 9 1 6 (ma allora egli aveva solo dieci o undici anni!). "Die Fackel" era la rivista fondata da Kraus, che ne era anche l' unico redattore e autore. Non accettava pubblicità e sopravviveva solo grazie a sottoscrizioni. La cerchia dei let­ tori era formata da fedelissimi, sino al fanatismo: Steinhaus, che prima della guerra era benestante, mi disse che la più grave perdita materiale da lui subita durante la guerra era quella della collezione completa dei numeri di "Die Fackel" . Ricordo la raccolta nel suo studio, una serie di sottili libriccini rossi che, secondo lui, contenevano il distillato della saggezza. Ecco il tributo di Chargaff a Kraus: "Karl Kraus, il massimo polemi­ sta e scrittore satirico dei nostri tempi, fu critico feroce della guerra e

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lJ

della società che l' aveva originata. Egli influenzò più di ogni altro la mia personalità negli anni giovanili; la sua lezione morale e la sua visione dell' umanità, del linguaggio, della poesia resteranno vive per sempre nel mio cuore. Mi rese intollerante della mediocrità, mi insegnò ad aver cura delle parole come fossero piccoli bambini, a pesare le conseguenze di ciò che dicevo come se stessi testimoniando sotto giuramento . " In queste frasi si coglie l'eco del ventitreesimo salmo e posso capire che una tale venerazione non lasci posto per altri eroi. Che cosa rende Chargaff così originale come scienziato? Da ogni punto di vista egli non assomiglia a nessun altro che io abbia conosciuto per­ sonalmente o di cui abbia letto . Ma come, un biologo ha la fortuna di mettere le mani su uno scritto che gli svela i misteri dell'ereditarietà e addirittura apre nuove prospettive alla comprensione dei processi vitali e non fa nulla per mettersi in contatto con gli autori per saperne di più? Chargaff, che aveva compreso subito il significato della scoperta, doveva solo prendere un taxi per incontrare i tre del Rockefeller Insti­ tute: anche se Avery era forse già in pensione e si era trasferito nel Ten­ nessee, sia McCarty che McLeold erano facilmente abbordabili. E tut­ tavia, come notò George Uhlenbeck, mio collega alla Rockefeller University, che è più acuto di me in queste analisi, non vi è cenno, in tutto il libro, di una qualche iniziativa di Chargaff per cercare di comu­ nicare con gli autori. Sembra di sognare! Rispettoso com'era delle forme, può darsi che fosse riluttante ad avvicinare estranei senza esser stato loro presentato nei modi giusti, ma quando la posta in gioco è la possibilità di risolvere un problema fondamentale, chi si cura del cerimoniale? Cer­ tamente non Jim Watson, che di questi aspetti s' infischia altamente, oltrepassando a volte i limiti della decenza. Teoricamente in ognuno di noi vi è una componente alla Watson, un misto di avventatezza, curio­ sità, arroganza e, soprattutto , competitività. È possibile che Chargaff sia immune da questi difetti, o forse cerca di nasconderli dietro una fac­ ciata di poetico candore? No , non lo credo: la poesia è troppo bella e troppo sentita per essere una mera facciata. Penso solo che egli stia su un altro piano rispetto agli altri mortali. Cos' altro si può dire? Si potrebbe pensare che, essendo uno degli eletti che hanno la chiave di uno dei grandi segreti della natura, egli abbia potuto raggiungere una forma di serenità in questo mondo agi­ tato da convulsioni. Ma non è così . In ogni caso , il suo libro è un capo­ lavoro letterario e meriterebbe una maggior diffusione di quella avuta

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finora. In certi punti poi è semplicemente splendido ; quando scende di tono, beh, bonni soit qui mal y pense. Le Adventures of a Matbematician di Stanis!aw Ulam appartiene a un genere differente: è aneddotico, persino pettegolo, senza alcuna pre­ tesa di essere profondo . Ulam aveva un eccellente senso dell'umorismo. Non che l'umorismo manchi a Chargaff, ma il suo è di un tipo più pungente, satirico . Quello di Ulam è semplice, diretto ; ne fa fede ciò che disse una volta a Françoise, che poi divenne sua moglie: " Ho mol­ tissime colpe, ma la modestia mi impedisce di enumerarle tutte." Ancora migliore fu la sua risposta a un collega, a Los Alamos, che gli aveva chiesto che cosa stesse facendo , lui matematico puro, nel progetto. "Io fornisco il necessario don 't know-bow", replicò Ulam . Anche i suoi anni giovanili, come quelli di Chargaff, furono improntati dalle vestigia culturali dell'Impero austroungarico . Leopoli, sua città natale, assomigliava a tal punto alla città sorella, ben più famosa, da essere chiamata la piccola Vienna: persino nel periodo tra le due guerre, quando si trovava in territorio polacco, vi si respirava l'aria della vec­ chia capitale. Anche Ulam ebbe una formazione classica, ma senza tutto quel rigore, e in seguito non ne fu condizionato quanto Chargaff. Impa­ ziente per natura, quasi non si curava dello stile; l'autore di Heraclitean Fire rasenta invece il fanatismo nelle sue preoccupazioni formali. Tut­ tavia Stan apprezzava il bello scrivere, e non per nulla era ammiratore di Anatole France e conoscitore della sua opera. Unico tra i matematici, che tendono ad essere dei solitari, Ulam lavorò quasi esclusivamente in collaborazione. Tranne un primissimo e bril­ lante lavoro sulla teoria degli insiemi e sul problema della misura, la maggior parte della sua produzione scientifica fu il frutto di lavori di gruppo . Stan faceva matematica chiacchierando, uno stile di lavoro che risale agli anni giovanili di Leopoli, quando trascorreva buona parte del tempo nei caffè (soprattutto allo Szkocka, che in polacco vuoi dire "Caffè scozzese") discutendo senza fine problemi, idee e congetture. Questo modo non ortodosso di lavorare produsse grossi risultati, e Stan, la cui nostalgia per il periodo di Leopoli permea tutto il libro, cercò a distanza di anni di ricreare l'ambiente intellettuale di quei primi tempi . Da un certo punto di vista vi riuscì: ovunque si trovasse parlava di matematica a ruota libera, tirando fuori un numero impressionante di idee e di con­ getture. Aveva una mente eccezionalmente fertile e intuitiva, ma credo che non abbia lavorato sul serio neppure un giorno in vita sua. Le cose

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gli riuscivano facili ed egli seguiva dolcemente, e con successo, le sue idee. L'eroe di Chargaff, Avery, era solito dire che "l'idea non funziona se non ci si lavora" ,4 una regola pressoché universale. Le idee di Stan facevano eccezione: funzionavano da sé, mentre lui, beatamente, osser­ vava il processo dall'esterno . Ad esempio, tutti sanno ormai, ma vi è chi non nasconde una certa irritazione, che fu di Ulam l'idea decisiva che condusse alla bomba H . Tra l'idea e l a realizzazione dell'arma vi fu il lavoro defatigante d i cen­ tinaia di persone e un'enorme quantità di ore di calcolo, ma Stan vi partecipò solo sporadicamente, e questo fu probabilmente una fortuna visto che non se la cavava molto bene con i problemi noiosi. C'è da restare sbalorditi di fronte alla vastità di interessi di quest'uomo. Scopritore, assieme a Karol Borsuk, di uno dei più bei teoremi della topologia, fece una carriera invidiabile in matematica pura. Il teorema in questione, noto a quasi tutti i matematici con i nomi dei due scopri­ tori, afferma che se la superficie di una sfera, nello spazio euclideo tridi­ mensionale, viene applicata con continuità su una regione piana, c'è almeno una coppia di punti antipodali, sulla superficie della sfera stessa, cui corrisponde il medesimo punto del piano . Detto in termini più sem­ plici, ad ogni istante vi è una coppia di punti antipodali sulla Terra con la stessa temperatura e la stessa pressione. Il risultato non è così impor­ tante ai fini pratici, ma il fenomeno cui si riferisce è pur sempre sor­ prendente. Oltre ad avere contribuito allo sviluppo della bomba H, egli pro­ pose, assieme a C.J. Everett, suo collega di Los Alamos, di utilizzare esplosioni atomiche per sospingere i razzi. L'idea venne accettata dalla Generai Atomics e così nacque il progetto Orion . Freeman Dyson, che soffriva di quella che io chiamo claustrofobia galattica, vedeva nel razzo di Ulam un veicolo capace di esplorare il sistema solare e addirittura di uscirne per volare verso altre regioni della nostra galassia. Ulam si trasferì così alla Generai Atomics per lavorare al progetto, e un capi­ tolo del suo libro ("Saturno entro il 1 9 70") racconta le sue esperienze a tal proposito . Il progetto dovette essere abbandonato, principalmente a causa del negoziato tra le due superpotenze, che condusse al famoso trattato che bandiva gli esperimenti con armi atomiche nell'atmosfera. Un altro esempio della straordinaria poliedricità di Ulam ha a che fare con la ricerca biologica. Come ho ricordato dianzi, il DNA è il portatore dell'informazione genetica ed è composto di quattro nucleo-

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tidi: A, C, G, e T. Una catena di DNA (o piuttosto metà di essa, essendo l' altra metà complementare) può dunque essere vista come una parola in un linguaggio il cui alfabeto ha solo quattro lettere. Il fatto che la somiglianza tra gli esseri viventi possa essere legata alla "vicinanza" dei loro codici genetici è un'idea attraente. La vicinanza implica il concetto di distanza, e quindi dobbiamo definire una "distanza tra parole" . Ciò può sembrare strano perché generalmente tale concetto è associato ai punti nello spazio . Comunque i matematici lo estesero , molto tempo fa, a oggetti che non assomigliavano minimamente ai punti dello spazio in cui viviamo . La scuola matematica polacca si spinse più lontano di ogni altra nel definire le distanze tra strani oggetti. Per Stan , che ne era figlio, la distanza tra parole rappresentava dunque il pane quotidiano, e non appena gli fu spiegato qual era il problema diede la definizione che ora porta il suo nome. Per essere matematicamente corretta, la distanza deve godere di alcune proprietà, in particolare deve soddisfare la cosiddetta disuguaglianza triangolare: dati tre punti P, Q, R, la distanza tra P e Q è minore o uguale alla somma delle distanze tra P ed R e traR e Q. Cosa ancor più importante, la distanza deve riflettere la somi­ glianza biologica. Stan si limitò a darne la definizione e a mostrare che essa aveva i requisiti fondamentali richiesti. Peter Sellers, della Rocke­ feller University, che aveva seguito la conferenza di Stan sull'argomento, propose un ingegnoso algoritmo per calcolarne il valore con un elabo­ ratore, e ora la distanza di Ulam è diventata uno degli strumenti della biologia molecolare. L'eclettismo di Ulam, e quella sua tattica del "colpisci e fuggi" nel­ l' affrontare i problemi, possono far pensare a dilettantismo, un' impres­ sione rafforzata dalla lettura del suo libro . Tuttavia Stan era dilettante solo nel senso stretto della parola, era cioè "una persona che coltiva un' arte o un settore della conoscenza come passatempo" . Nel suo caso l'implicazione peggiorativa di superficialità è del tutto ingiustificata: certo, egli non fu un professionista nel senso in cui il termine viene usato oggi, ma non fu nemmeno un "amatore" . Nessun amatore sarebbe stato in grado di scoprire il teorema di Borsuk-Ulam o di giocare con i cardinali transfiniti con la facilità con cui lo faceva Stan . Le Adventures di Ulam appartengono tutte al mondo ordinario , e vi si cercherebbe invano uno spiraglio che faccia intravedere l'altro mondo per avere un' idea di come lavorava il suo notevole cervello . Quanti di noi lo hanno conosciuto sanno che avrebbe potuto dire molto di più su di sé nel suo libro.

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Freeman Dyson, il cui Disturbing tbe Universe è scritto meravigliosa­ mente,' cominciò come matematico . Fin dai primi anni universitari a Cambridge mise in luce doti non comuni. Quando si laureò aveva già ottenuto traguardi significativi, e ci si aspettava naturalmente che avrebbe continuato nel suo campo percorrendo una brillante carriera. Si trasferì invece alla Cornell University con una borsa di studio del Common­ wealth e si iscrisse a fisica. Vi è un aneddoto, probabilmente apocrifo, sul modo in cui Dyson annunciò la svolta. Un giorno , a Cambridge, passeggiava in compagnia di Harish-Chandra (allora assistente di Pau! Dirac) e di Nicholas Kem­ mer. A un ceno punto Harish-Chandra disse: "Sto lasciando la fisica per la matematica; trovo la fisica confusa, non rigorosa ed elusiva." E Dyson replicò : "Sto lasciando la matematica per la fisica esattamente per le stesse ragioni." E così fecero entrambi e furono colleghi all'Insti­ tute for Advanced Study a Princeton sino alla morte di Harish-Chandra nel 1 9 8 3 . Mi rendo conto che leggere nella mente degli altri è sempre rischioso (a dire il vero lo è ancora di più cercare di leggere nella propria) ma credo di capire che cosa si nascondesse dietro il cambiamento di Dyson. Qualche anno fa chiesi a un giovane molto promettente, che dopo essersi laureato in matematica aveva deciso specializzarsi in fisica, che cosa avesse motivato la sua scelta. La sua risposta fu, all'incirca, che quando si giunge a un nuovo risultato matematico si ha la sensazione che sia sempre esi­ stito ; in fisica, invece, si prova l'emozione di fare una vera sco pena. Tutto ciò è molto vago, ma contiene un germe di verità. Se si paragona la scienza a un gioco , si può dire allora che in matematica si è in gara con sé stessi o con altri matematici, mentre in fisica l' avversario è la natura e la posta è più alta. Dyson divenne un fisico , e per di più, quasi subito , famoso. Egli rag­ giunse la notorietà dimostrando che due interpretazioni, apparentemente eterogenee, dell'elettrodinamica quantistica, quella di julian Schwinger e di Shin ltiro Tomonaga e quella di Richard Feynman, erano in realtà equivalenti. La conseguenza fu che negli anni cinquanta i fisici impara­ rono l'elettrodinamica quantistica non dagli scopritori, ma da Dyson . Egli si occupò di numerosi altri problemi, e anche se nessuno , forse, è dell'importanza del primo, in ogni caso i suoi risultati sono di livello stratosferico. Conosco alcuni suoi lavori perché sono molto vicini a ceni miei interessi e posso garantire che si tratta di vere e proprie gemme.

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Per i suoi contributi alla fisica Dyson ha ricevuto i massimi riconosci­ menti e numerosi premi, tuttavia egli si giudica piuttosto modestamente: "Sono, e sono sempre stato, un risolutore di problemi, più che un vero creatore. Non riesco a stare seduto alla scrivania per anni, concentrato su un qualcosa di profondo, come fecero Bohr e Feynman . Mi inte­ resso di troppe cose. " Infatti l a maggior pane del suo libro non riguarda l a fisica, m a molte altre cose, e tra queste il disarmo, l' ingegneria nucleare, i viaggi spa­ ziali, la colonizzazione delle galassie. Horace F. Judson, nella sua recen­ sione a Disturbing tbe Universe, definisce Dyson "quasi un dandy della scienza" , come per dire che egli avrebbe potuto dare alla fisica un con­ tributo di idee eccezionale se solo non avesse perso il suo tempo in fri­ volezze. Mi rincresce di dire che il signor Judson non capisce gli scien­ ziati: per nulla al mondo si lascerebbero distogliere da quella che pensano possa essere una buona idea. E Dyson, che è un "risoluto re di problemi" , andava a cercarsene di nuovi proprio perché disperava di poter mai avere idee veramente grandi e profonde. Tenete anche presente che Dyson è un tipo incontentabile e che solo un'idea di prima grandezza potrebbe smuoverlo da un problema. Anni fa conobbi alla Cornell un giovane, già laureato, che suonava stupendamente il pianoforte. Lasciò il suo strumento per intraprendere una carriera nelle scienze applicate, dove riuscì molto bene. Una volta gli chiesi perché mai avesse abbandonato la musica ed egli disse: "So come dovrei suonare, ma non sono capace di farlo. " Piuttosto che sfor­ zarsi di raggiungere ciò che secondo lui era impossibile, scelse di dedi­ care la sua vita ad altri obiettivi. Credo che a Dyson sia accaduto qual­ cosa del genere. Sospetto che quando annunciò che stava per lasciare la matematica per la fisica avesse in mente la vita di uno strumentista virtuoso. In qualche modo, era giunto anche lui al punto di sapere come avrebbe dovuto suonare, disperando però di farcela. Lasciandomi ancora andare alle congetture, ritengo che sia stato il contatto stretto con Feynman, durante i primi anni della sua forma­ zione scientifica, a tarpargli le ali. Che Dyson fosse ancora capace di volare così in alto si deve al suo talento e alla sua forza di volontà, ma non credo affatto che, ritornato a Cambridge, quando decise di diven­ tare un fisico, fosse disposto a restare un risolutore di problemi. Fatemi continuare il mio ragionamento . Nella scienza, come in tutti i campi in cui l'uomo si è cimentato , vi sono due tipi di geni: gli "ordì-

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nari" e gli "stregoni" . Un genio ordinario è come uno di noi, e noi potremmo essere come lui se solo fossimo molte volte più bravi. Non vi è mistero su come la sua mente lavora: visto il risultato, sentiamo che sicuramente anche noi saremmo stati in grado di giungervi. Per gli stregoni è diverso. Quella è gente che vive in un altro mondo, per usare un'espressione matematica, nel "complemento ortogonale" del nostro , e i loro processi mentali ci sono completamente incomprensibili. Potremo capire il risultato finale, ma come vi siano pervenuti resterà sempre un mistero. Non potendo essere emulati, è difficilissimo che abbiano allievi: sarebbe infatti frustrante per una giovane promessa confrontarsi con l'im­ prevedibilità della mente dello stregone. Richard Feynman è uno stre­ gone di prima classe. Hans Bethe, che Dyson considera il suo migliore insegnante, è invece un genio ordinario , uno che può anche dare l'im­ pressione di non essere un genio . Ma fu Feynman , che era quasi un suo coetaneo (aveva qualche anno in più) a catturare l'immaginazione del giovane Dyson: essere un fisico per lui significava essere come Feyn­ man, e questo purtroppo era impossibile. E così egli ripiegò sulle tecni­ che matematiche, di cui aveva una padronanza assoluta; era questo il suo vero punto di forza. Pur se vi si colgono, qua e là, lievi segni di stanchezza, il libro di Dyson è frizzante e in questo è diametralmente opposto a quello di Char­ gaff. Per usare un cliché familiare, Dyson accende le candele, mentre Chargaff preferisce imprecare contro ciò che sente come oscurità. Pur scrivendo rare volte di fisica, Dyson riesce a comunicare l'entusiasmo che provò quando, mentre tentava di conciliare le due diverse interpre­ tazioni dell'elettrodinamica quantistica, vide le tessere del mosaico andare al posto giusto. È questa sensazione di entusiasmo, probabilmente, la più grande ricompensa alla creatività, ed è ciò che manca nei libri di Chargaff e di Ulam . La si riscontra, sebbene camuffata dalla prosa arti­ ficiosa, in quello di Watson . Sin dall'estate del 1 9 3 O, quando riderivai le formule di Cardano e assaggiai il frutto della scoperta, non ho desiderato fare altro se non della matematica, o meglio, della matematica applicata alla fisica. Ambi­ zioni manageriali non ne ho mai avute e ho sempre provato un senso di fastidio e di noia quando gli obblighi accademici, come l'insegnamento o la partecipazione a riunioni, interferivano con i miei interessi del momento . Mi rincresce persino di avere speso tanto tempo a scrivere questo libro, anche se devo ammettere che comincia a piacermi. Fortu-

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natamente mi tocca di destreggiarmi tra i problemi: se fossi attratto da uno in particolare le preoccupazioni del mondo ordinario, compresa quella di scrivere questo libro, verrebbero posposte sino al mio ritorno da un altro viaggio nell'altro mondo . Non che il prossimo problema debba essere di grande importanza; semplicemente sarebbe divertente lanciare ancora una volta la sfida e incrociare i guantoni con un nuovo avversario. E chi lo sa? Potrei uscirne vincitore. Come Dyson, mi considero un risolutore di problemi, solo che lo spettro dei miei interessi è più ristretto . Sebbene mi sia occupato di molti argomenti al di fuori della matematica, questi interessi sono in larga parte passivi. Per esempio la storia della scienza mi piace, ma non pen­ serei mai di prendermi un anno di aspettativa per lavorarci seriamente. Posso provare una sola passione, e quando lessi Heraclitean Fire mi mera­ vigliai che Chargaff potesse averne due. Ma poi giunsi alla conclusione che per lui la scienza, in cui pure è stato bravissimo e ha ottenuto grandi successi, non è in fondo vera passione. Lo fu per Ulam? Nonostante il suo libro non lo dia chiaramente a vedere, la risposta è quasi sicura­ mente "si", e sebbene i suoi veri interessi non coincidessero certo con i miei, i punti di contatto non erano pochi. Lo conobbi assai bene e lo posso garantire. David Sloan, un collaboratore di E. O. Lawrence, l'inventore del ciclo­ trone, una volta mi disse: "Quando ti viene una nuova idea non sai se porterà qualcosa di buono, ma ogni volta provi lo stesso entusiasmo." Accingendomi a scrivere la mia autobiografia mi auguro di riuscire a dare al lettore una qualche idea di ciò che è croce e delizia nella vita di uno scienziato . E vorrei anche chiarire quanto contino, nella sua for­ mazione e crescita, la famiglia, i maestri, i collaboratori e quegli impon­ derabili che sono le condizioni politico-sociali e i grandi rivolgimenti storici. Per ultimo debbo esprimere la mia riconoscenza alla signora capric­ ciosa e possente, la Fortuna, che non mi ha negato la sua benevolenza sebbene io abbia speso la maggior parte della mia vita di matematico nel tentativo di dimostrare che in realtà non esiste.

PROLOGO Come divenni un matematico

Era estate, l'estate del 1 9 3 0 a Krzemieniec, Polonia. Sedicenne, mi accingevo a frequentare il mio ultimo anno di scuola ed era ormai tempo di pensare seriamente alla mia carriera futura. Vista la mia attitudine per la fisica e per la matematica, indirizzarsi verso l'ingegneria sembrava di gran lunga la scelta migliore. "Un filosofo in famiglia è più che suffi­ ciente" , ripeteva mia madre. Il "filosofo" era mio padre. Laureatosi a Lipsia, aveva successiva­ mente ottenuto un diploma di specializzazione in storia e ftlologia all'U­ niversità di Mosca. Ma nonostante i suoi titoli, l'antisemitismo impe­ rante gli aveva precluso la via dell'insegnamento, tranne che per un paio d'anni in cui diresse una scuola Tarbut, destinata a breve vita. In seguito, quando gli affari di mio nonno, di cui era socio, si misero male, non gli restò che guadagnarsi a stento da vivere impartendo lezioni private. Era forse l'unico commerciante a conoscere l'ebraico, il latino, il greco e persino un po' di paleoslavo; competenza, quest'ultima, che si dimo­ strò assai utile, visto che alcuni dei suoi studenti erano allievi del Semi­ nario greco-ortodosso . Mia madre aveva ovviamente riposto in me ben altre speranze, e proprio per questo si era convinta che studiare da ingegnere fosse un passo nella direzione giusta. Ma in quell'estate del 1 9 3 O non era certo il mio futuro accademico a tenere occupata la mia mente. Ero stato colpito da un attacco acuto di quella malattia che, a intervalli irrego­ lari, affligge tutti i matematici, anzi tutti gli scienziati: l'ossessione per un problema. I sintomi, così noti alle mogli dei colpiti dal virus, sono facilmente riconoscibili: comportamento antisociale, insonnia, perdita di appetito . E nel mio caso si manifestarono con tale violenza da destare seria apprensione nella mia famiglia.

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PROLOGO

Il problema che mi tormentava non era poi di gran rilevanza. Riguar­ dava infatti la soluzione delle equazioni algebriche di terzo grado , e la risposta era ben nota dal 1 5 4 5 , anno in cui Cardano pubblicò le sue formule risolutive. Ciò che io non sapevo era come dedurre tali formule! Chi aveva elaborato i programmi di matematica per le scuole secon­ darie polacche aveva deciso di limitarli allo studio della risoluzione delle equazioni quadratiche. E ogniqualvolta uno studente curioso azzardava una domanda sulle equazioni di ordine superiore, riceveva risposte elu­ sive: "È un argomento troppo complesso per te" , oppure "Le affronte­ rai nei corsi di matematiche superiori." Tutto ciò non faceva che aumen­ tare il mio desiderio di capire, di conoscere. Presi un libro sull'argomento come lettura estiva. L'inizio della spie­ gazione suonava più o meno così : "Poni x = u +v." Sapevo già che la soluzione era la somma di due radici cubiche, e dunque quella scelta x = u +v costituiva una sleale anticipazione della risposta: non potevo ceno ritenermi soddisfatto . Mi ero imbattuto in uno dei nodi centrali della didattica della matematica: la differenza tra la strategia, il modo di attaccare un problema, che spesso si trova al di fuori della logica, e la tattica di dimostrazione con la sua consequenzialità, il suo rigore formale. Purtroppo, troppe volte si mette l'accento sul secondo aspetto, ceno meno affascinante del primo . 1 Non ero disposto ad accettare una derivazione formale senza capire le motivazioni che l'avevano ispirata e consideravo quell'ordine di porre x = u +v, senza alcun apparente motivo , come un vero e proprio affronto . Chiesi aiuto a mio padre, ma era troppo preso dalla difficile situazione dei suoi affari per occuparsi di questo mio problema. Gli dissi che avrei trovato una diversa e più soddisfacente derivazione di quelle formule ed egli fu così scettico da promettermi un premio di cinque sloti (una somma considerevole per l'epoca) se vi fossi riuscito . Nella mia vita ho avuto varie ricadute di quella malattia; in tanti casi i problemi che mi assillavano risultarono essere di reale interesse per la matematica e le scienze, ma mai come in quell'estate del 1 9 3 0 lavorai così febbrilmente. Mi alzavo presto, spesso saltavo il pranzo, e passavo le giornate riempiendo di formule risme di carta prima di cadere esausto a letto a notte fonda. Tentare di parlare con me era fatica spre­ cata: il malcapitato interlocutore aveva per risposta scarni monosillabi. Non vedevo più gli amici e avevo persino smesso di uscire con le ragazze. Privo di una strategia, mi muovevo a caso nelle più svariate direzioni,

COME DIVENNI UN MA TEMA T/CO

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ripetendo spesso inutili tentativi, cacciandomi da solo in vicoli ciechi. Ma una mattina, miracolo! , le formule di Cardano erano lì, sulla pagina zeppa di segni vergati nella mia calligrafia. Mi ci volle più di una giornata per ritrovare il filo del ragionamento in quella montagna di cana; alla fme l'intera deduzione era condensata in tre o quattro pagine. Mio padre vi diede un'occhiata e senza fiatare scucì il denaro . All'inizio dell'anno scolastico ponai il manoscritto al mio insegnante di matematica. Era un uomo conese, amante della vodka, che aveva ricevuto un'ottima preparazione all'Università di Pietroburgo ma che, almeno quando lo conobbi, aveva rimosso non poco di quanto aveva imparato e aveva comunque perso ogni entusiasmo. Ciò nonostante stu­ diò il mio scritto con attenzione e lo presentò per la pubblicazione alla rivista "Mlody matematyk" (Il giovane matematico). Sembrava però che la storia non avrebbe avuto un seguito: per mesi non ricevetti alcuna notizia dalla lontana Varsavia. Ai primi di maggio del ' 3 l , a poche settimane dagli esami finali, accadde l' imprevedibile. Era circa mezzogiorno e l'ora di religione stava per iniziare. Poiché nella mia scuola veniva insegnata soltanto la reli­ gione cattolica, io e alcuni miei compagni non cattolici avevamo un'ora libera. La campanella aveva già suonato e i corridoi, awolti nella penom­ bra, erano quasi vuoti. Ero un po' in ritardo e nella mia fretta di uscire quasi unai il prete che stava entrando in classe. Fu allora che vidi il preside venire alla mia volta. Sicuramente era con me che voleva par­ lare, perché le autorità laiche non presenziavano mai alle lezioni di reli­ gione, e inoltre lì vicino non c'era nessun altro e il corridoio conduceva soltanto alla mia aula. Gli incontri con il preside ben raramente, per non dire mai, preannunciavano qualcosa di buono, ma, mentre mi sfor­ zavo di immaginare che cosa potessi aver combinato per indurlo a lasciare il suo ufficio (piuttosto che esservi convocato, come aweniva usualmente) qualcosa nel suo contegno mi fece pensare che non sarei stato punito e che anzi, per qualche inspiegabile motivo, dovevo aspettarmi un elo­ gio . Prima ancora che aprisse bocca i suoi modi deferenti esprimevano una considerazione inimmaginabile nei rapponi con gli allievi, fossero pure prossimi alla maturità. Mi disse: "Sua Eccellenza il consigliere del ministro della Pubblica Istruzione, Antoni Marian Rusiecki, in visita alla nostra istituzione, desidererebbe incontrarla nelle sue stanze alle quat­ tordici e trenta." La scena sembrava tratta dall'Ispettore Generale di Gogol', solo che Antoni Marian Rusiecki esisteva dawero e che mi ci vollero

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ben pochi secondi per ricordare che "Sua Eccellenza" era anche il diret­ tore di "Mlody matematyk" . Alle quattordici e trenta in punto, tutto lindo e col vestito della festa, mi presentai al signor Rusiecki. Era un uomo alto , allampanato, con la barba rifllata e gli occhiali con la montatura d'oro . Mi parlò da pari a pari: "Abbiamo ricevuto il suo manoscritto, e la ragione del ritardo nel darle una risposta è che noi tutti, nel comitato editoriale, eravamo certi che il suo metodo fosse già noto . Vi sono molte derivazioni diverse delle formule di Cardano ed era assai probabile che lei ne avesse risco­ perta una. Ma dopo aver lungamente cercato nella letteratura, ci siamo convinti dell'originalità del suo metodo e pertanto pubblicheremo la sua nota. " E così fecero . Apparve pochi mesi dopo sotto il nome di Katz, perché pensavo che la scrittura tedesca del mio nome fosse più ricercata della slava Kac . Poco prima di congedarmi Rusiecki mi chiese dei miei progetti per il futuro . Gli dissi che in famiglia avrebbero voluto avere un ingegnere. "No - affermò - lei deve studiare matematica per­ ché ha certamente del talento . " Seguii quel consiglio ed ebbi salva la vita. Fui infatti sufficientemente bravo (e fortunato) da vincere, nel 1 9 3 8 , una borsa di studio post lauream per l'estero . La borsa era finanziata dai Parnas, una famiglia di ebrei polacchi molto ricca e perfettamente integrata, e, a termine di regolamento, uno dei due premi era riservato a un concorrente ebreo. Arrivai allaJohns Hopkins University nel dicem­ bre di quell'anno . Quando scoppiò la guerra ero ormai oltre oceano , al sicuro dall'orribile destino che avrei diviso con la mia famiglia e con altri sei milioni di persone se avessi studiato ingegneria. Pochi anni fa Gian Carlo Rota, una delle più giovani stelle della mate­ matica americana, e mio amico , tenne una conferenza sul calcolo "umbrale" alla Rockefeller University (era una nuova formulazione della teoria degli invarianti) durante la quale illustrò, fra gli altri, un famoso teorema di Sylvester sulle forme omogenee in due variabili, e, come per inciso , accennò a una utilizzazione di quel risultato alla risoluzione delle equazioni cubiche. Dopo le prime parole fui colto da una sensa­ zione di déjà vu: era il mio metodo, il metodo che avevo scoperto in quell'estate del 1 9 3 0 !

CAPITOLO l Gli inizi

Nacqui il 1 6 agosto 1 9 1 4, salutato dal rombo dei cannoni di quel mese fatale. Il mio certificato di nascita riporta la data del 3 agosto , poiché gli zar, quasi per mascherare l'arretratezza del loro impero, impo­ sero l'uso del calendario giuliano . Similmente il nome della mia città natale è incerto . Nel 1 9 1 4, così come adesso, apparteneva all'Ucraina occidentale, e la trascrizione del suo nome dal cirillico è Kremenec, ma sino alla fine del diciottesimo secolo e negli anni dal 1 9 1 4 al 1 9 3 9 è appartenuta alla Polonia con il toponimo di Krzemieniec. In entrambe le lingue tale nome significa "città della silice" , con riferimento alle note­ voli quantità di tale minerale che si trovano nelle cave di gesso che la circondano . L'eco di questa ambiguità linguistica trova riscontro per­ sino nel Wbo 's Wbo, laddove lsaac Stern trascrive il nome della mia città Kreminiecz, mentre io opto decisamente per la versione polacca corretta: Krzemieniec. Krzemieniec è nota ad ogni polacco per aver dato i natali a uno dei più grandi poeti romantici nazionali, Juljusz S!owacki, che costituisce in un certo senso la voce lirica del più noto autore epico Mickiewicz. Le sue poesie sono stupende, ma a causa delle difficoltà di traduzione sono in pochi a conoscerlo fuori dei confini nazionali. Quando nacqui, gli zar avevano distrutto quasi totalmente i segni della cultura polacca. La popolazione della città era prevalentemente ebrea, mentre i dintorni e i villaggi agricoli che la circondavano erano abitati da ucraini. I russi, pur essendo una stretta minoranza, ne con­ trollavano i centri nodali: la polizia, la magistratura, le scuole, l'ufficio postale e la banca. Erano incredibilmente disonesti, e la corruzione dila­ gava. Non vi era problema, di qualsiasi natura, che non si potesse riso!-

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CAPITOLO PRIMO

vere con il denaro. Il mio nonno materno ci raccontava la storia del suo contabile, arruolato nelle fùe dell'esercito russo nel 1 90 5 , durante il conflitto con i giapponesi. Dopo un periodo di addestramento egli fu inviato al fronte lungo la Transiberiana. In quei tempi il viaggio richie­ deva circa due settimane e il giovane, un po' tonto a dire il vero , decise a metà del tragitto che l'idea di andare a combattere non gli piaceva affatto. Scese e aspettò , nascosto per una settimana, il treno nella dire­ zione opposta (all'epoca la Transiberiana era a binario unico). Poco tempo dopo , terrorizzando i miei, si presentò in uniforme e armato di fucile sulla soglia della porta di casa di mio nonno . In tempo di guerra la diser­ zione veniva punita ovviamente con la morte, ma mio nonno riuscì a corrompere un ufficiale del reclutamento che bruciò tutti i documenti riguardanti il giovane disertore. Questi cessò di esistere legalmente, anzi non risultò essere mai nato; ciò nonostante continuò a lavorare per mio nonno, e non è dato sapere come riuscì a "resuscitare" nel 1 92 1 all' av­ vento dei polacchi. Nacqui dall'unione di due delle più ricche e importanti famiglie ebree di Krzemieniec. La famiglia di mia madre, i Roichels (in ebraico, "ven­ ditori ambulanti"), viveva a Krzemieniec dai primi del Settecento. Erano prevalentemente commercianti, anche se il mio bisnonno materno pos­ sedeva una cartiera in un villaggio vicino. Le origini della famiglia di mio padre sono ripercorribili solo dalla prima metà del secolo scorso, quando suo nonno giunse dalla Galizia, quella parte della Polonia che era stata ceduta all'Austria nella spartizione avvenuta alla fine del diciot­ tesimo secolo . La professione del mio bisnonno Mordecai, pur essendo assai lucrosa, non era delle più onorevoli: faceva l'usuraio. Accumulò una fortuna notevole, per quei tempi, e alla sua morte lasciò a ciascuno dei suoi ottanta nipoti abbastanza denaro per sollevarli dal bisogno di lavorare. Tutti tranne mio padre scelsero una vita di piaceri, che si pro­ trasse fino alla prima guerra mondiale, quando l'eredità fu completa­ mente dilapidata. Mio padre utilizzò parte della sua fortuna per darsi solide basi cultu­ rali, e a coronamento dei suoi studi ottenne due lauree prestigiose alle Università di Lipsia e di Mosca. Fu il primo ebreo a Krzemieniec ad avere tali riconoscimenti, ma la via per raggiungerli si presentò irta di ostacoli. Fu soprattutto grazie all'aiuto, alla comprensione e all'inco­ raggiamento del padre che riuscì a trovare la forza di perseverare. Mio nonno Meshilem , da cui ho preso il nome, morì poco prima

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che mio padre terminasse gli studi e si unisse in matrimonio con mia madre. Cosicché io non lo conobbi personalmente, ma dai racconti di mio padre, sia pur parziali, ne ebbi l'immagine di un uomo eccezio­ nale. Pur essendo nato in un ghetto , riuscì a sentire il fascino della cul­ tura laica fuori degli stretti confini dell'ortodossia ebraica cui era stato educato e ne fu conquistato . Suo padre bruciò i suoi libri, ma egli, per nulla intimidito, divenne uno dei capi del movimento di liberazione del giudaismo e fu anche uno dei primi sionisti in Ucraina. Partecipò ai primi congressi di Basilea e si impegnò attivamente nel giovane movi­ mento. Sicuramente avrebbe gioito sapendo che mio figlio Michael, alla terza generazione, possiede una laurea, e probabilmente lo divertirebbe il fatto che tutti e tre abbiamo conseguito il nostro titolo accademico in città i cui nomi iniziano con la lettera L: Lipsia, Leopoli e Los Angeles. Sotto gli zar gli ebrei erano privati per legge di molti diritti civili (ciò accade anche adesso, ma in aperta e palese violazione della legisla­ zione vigente). Essi erano costretti a risiedere in particolari distretti, neces­ sitavano cioè di permessi speciali per vivere in grandi città quali Mosca, Pietroburgo o Kiev. Solo una sparuta minoranza di ragazzi di origine ebraica veniva ammessa alle scuole legalmente riconosciute, e ancora più difficile risultava l'accesso all'università. Senza un diploma di scuola secondaria, il famoso certificato di maturità, era impossibile accedere all'istruzione superiore, e anche chi ne fosse in possesso doveva supe­ rare esami di ammissione molto severi e comunque architettati per discri­ minare ulteriormente gli ebrei e altri "elementi indesiderabili". Si poteva, naturalmente, ricorrere alla corruzione, e la famiglia di mio padre non mancava certo di mezzi adeguati per ogni necessità; mio padre tuttavia optò per una soluzione ben più impegnativa. La legge consentiva infatti di ottenere il diploma di maturità se si fosse superata una serie di esami pur non avendo frequentato le scuole regolari. Quelli che sceglievano questa strada, i cosiddetti "esterni" , si trovavano di fronte commissioni esaminatrici ostili, spesso al limite del sadismo . Le deci­ mazioni erano feroci, e pochissimi osavano presentarsi: mio padre era tra questi e finalmente, quando aveva già compiuto i vent'anni da un pezzo, riuscì a conseguire l' ambito diploma. Si iscrisse all'Università di Lipsia nel 1 90 7 , o nel 1 908 , all'età di ventisei anni e iniziò a studiare ftlosofia. Il personaggio di maggior spicco del dipartimento era Wilhelm Wundt, considerato da alcuni il padre della moderna psicologia. Mio padre tuttavia volle scrivere la sua tesi

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su un filosofo minore di origine ebraica, tal Salomon Maimon, giunto in Germania verso la fine del diciottesimo secolo da una piccola città della Polonia, ove aveva lasciato moglie e famiglia. Fu prima accolto amichevolmente, e poi snobbato , da Kant, e dopo la morte, avvenuta nel 1 800, all'età di quarantotto anni, fu pressoché dimenticato. La sua breve vita, dedicata alla " ricerca della verità" , fu funestata da tragedie. La sua autobiografia colpì Goethe e Schiller, al punto che il divino Wolf­ gang lo volle con sé a Weimar. Non so come e quando mio padre scelse Maimon per la sua tesi. Sicuramente non fu incoraggiato dal suo relatore, il professor Volkert . Questi desiderava infatti che il suo allievo affrontasse lo studio di Hegel o Fichte, o comunque di un altro grande della scuola filosofica tedesca. ' 'Signor Kac - ripeteva - perché mai intende occuparsi di simili oscuri personaggi?" Ma mio padre insistette e alla fine la spuntò . Ritengo che nel leggere l' autobiografia di Maimon fosse stato col­ pito dai paralleli tra la lotta eroica del filosofo e, sia pur su scala ridotta, la sua. "Nella ricerca della verità - scriveva il suo autore - ho lasciato la mia gente, il mio paese e la mia famiglia. E dunque non tradirò mai la verità per niente di meno . " Con ogni probabilità, furono le scelte di vita di Maimon a indirizzare mio padre verso la sua filosofia. Dopo essersi laureato e sposato, scoprì che in Russia il diploma rila­ sciato dall'Università di Lipsia non era legalmente riconosciuto, e che avrebbe dovuto seguire l' iter dell"'equipollenza" ; doveva cioè cercare un diploma russo equivalente a quello in suo possesso. Ciò risultò impos­ sibile: le università russe non rilasciavano la laurea in ftlosofia (questa era almeno la spiegazione ufficiale). Dopo notevoli lungaggini burocra­ tiche il verdetto finale fu che mio padre avrebbe dovuto frequentare qualche corso speciale per conseguire un diploma della Facoltà di Sto­ ria e Filologia. E così, all'età di trentadue anni, sposato e con un figlio, ini­ ziò la sua avventura di studente all'Università di Mosca. Nel frattempo, nel 1 9 1 5 , il mio nonno materno trasferì l'intera fami­ glia, compresi i miei genitori e me, verso est, lontano dal fronte. Ci trasferimmo a Berdicev, una cittadina nota solo per aver dato i natali aJoseph Conrad e per aver ospitato, intorno al 1 7 80, Levi Isaac, il famoso rabbino zadiq. Mio padre trascorreva la maggior parte del suo tempo a Mosca, ma, a parte questo, la vita procedeva nella normalità. Poi venne la rivolu­ zione del 1 9 1 7. Passò un certo tempo prima che l'eco di quegli eventi

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memorabili raggiungesse Berdicev, ma quando lo si poté udire iniziò un periodo di indescrivibile orrore che durò quasi quattro anni. lnnan­ zitutto vi fu una completa assenza di autorità civile, tanto che la città restò di fatto senza governo . Quando l'impero degli zar si disgregò e i suoi funzionari furono uccisi o fuggirono, Berdicev e dintorni si tra­ sformarono in un campo di battaglia. L'Armata Bianca, che all'inizio era riuscita a mantenere la sua organizzazione, combatteva contro l' Ar­ mata Rossa di nuova costituzione; un bandito di nome Petljura aveva poi organizzato una sorta di "Armata Ucraina" , che combatteva sia i rossi che i bianchi e comunque contribuiva al saccheggio e al pogrom degli ebrei. Poco tempo dopo il rinato stato polacco dichiarò guerra all'Unione Sovietica, aumentando , se possibile, il caos esistente. I Quattro Cava­ lieri attraversarono ripetutamente la regione lasciandosi alle spalle morte e distruzione. Milioni di persone morirono per la carestia, il colera, la peste bubbonica, il tifo e tutta una serie di altre malattie meno note. Dopo aver udito il rombo del cannone nella notte, la mattina seguente nessuno era in grado di stabilire chi comandasse sulla piazza. Uno dei più insistenti ricordi della mia prima infanzia è di venire svegliato nel cuore della notte, infagottato e portato al sicuro dai bombardamenti nelle cantine: ancora adesso mi domando come riuscimmo a sopravvi­ vere. Ricordo come fosse ieri il mio primo incontro faccia a faccia con il terrore. Un giorno stavo giocando per strada, probabilmente disob­ bedendo alle raccomandazioni dei miei, quando vidi avvicinarsi, da due o tre isolati di distanza, un uomo : camminava spedito, con le braccia che oscillavano ritmicamente. Quando fu prossimo al nostro isolato si udì un colpo secco, fragoroso . L' uomo stramazzò a terra e vi rimase inanimato, le braccia e le gambe contratte. Una faccenda rapida, pulita, non si vedevano macchie di sangue. Non capii che cosa fosse successo, ma avvertii il sapore della violenza e della tragedia e mi precipitai urlando da mia madre. Per quanto mi sembri oggi incredibile, fu in queste terribili circo­ stanze che imparai a leggere e che sentii per la prima volta parlare degli enunciati dei teoremi della geometria, senza peraltro capirci nulla. Imparai a leggere (in russo ovviamente) praticamente da solo, utiliz­ zando un alfabeto componibile scolpito su cubetti di legno. Probabil­ mente mi aiutò mia madre, che disponeva di una cultura decisamente superiore alla media delle donne della sua generazione: aveva letto molto,

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si intendeva di musica e aveva mille interessi. Parlava il russo, l'yiddish e un poco di tedesco . Mentre l'yiddish era la lingua riservata alle con­ versazioni private con mio padre, in casa si parlava generalmente russo. Comunque all'età di cinque anni, o forse prima, già leggevo avidamente, e anche quando non ero ancora in grado di leggere mi venivano letti libri nelle serate di tranquillità. Una delle prime letture fu Il principe e il povero di Mark Twain nella traduzione russa. Avevo una memoria formidabile e potevo recitare lunghe poesie di autori russi, soprattutto di Puskin . A parte ciò non ero un bambino prodigio, e anzi, con grande dolore di mio padre, mi mostrai assai lento nell'apprendimento della tavola pitagorica. Mio padre, che all'epoca era rientrato da Mosca dopo aver conse­ guito la sospirata laurea, si guadagnava da vivere impartendo lezioni di matematica, latino , greco e storia. Poiché non esisteva alcuna forma di moneta circolante, veniva pagato con cibo, vestiti, pezzi di oro e d'ar­ gento e altri beni che potessero essere oggetto di baratto . Era questa, infatti, la base del sistema economico in cui vivevamo . Gli studenti venivano a lezione a casa nostra e io spesso mi fermavo ad ascoltare mio padre, comprendendo ben poco a dire il vero. Per qual­ che ragione, affermazioni quali "fissato un punto esterno a una retta, per esso passa una e una sola parallela alla retta data" o "tutti gli angoli retti sono uguali" mi colpivano, e io insistetti a lungo affinché me ne venisse chiarito l'oscuro significato. Nel frattempo la confusione regnava sovrana intorno a noi. Il governo rivoluzionario di Lenin, dopo essere riuscito a stabilire un sia pur debole controllo sulla regione, si trovò impelagato in una vasta guerra sulla frontiera orientale della Polonia. Finalmente, il 1 8 marzo 1 92 1 venne firmato a Riga un trattato di pace tra Unione Sovietica e Polonia. Due clausole di quell'accordo segnarono profondamente la nostra vita. La prima riportava Krzemieniec in territorio polacco; la seconda consen­ tiva a coloro i quali erano nati all' interno dei confini del nuovo stato polacco di far ritorno ai rispettivi luoghi d'origine. Mio padre fece imme­ diatamente domanda per rimpatriare e così, verso la fine del 1 9 2 1 , tor­ nammo a casa. Subito mi ammalai di tifo petecchiale, un'epidemia che si era diffusa nella nostra regione e che rimase endemica sino al 1 924. Dopo la nascita di mio fratello, nel 1 92 3 , anche mia madre ne restò colpita e stette seriamente ammalata per varie settimane. Come mostra un semplice calcolo, mio fratello era nove anni più

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giovane di me, e tale differenza di età risultò in un primo tempo assai difficile da colmare. Quando uscii di casa per iscrivermi all'università egli aveva otto anni, ed era quindicenne quando lasciai la Polonia. Lo conobbi così ben poco, e i miei ricordi di lui sono confusi. Conseguì la maturità al liceo di Krzemieniec, ma, non essendo stato dall' inizio particolarmente brillante in quella scuola, soffrì costantemente il con­ fronto con il fratello maggiore. Fu comunque un ottimo sportivo e uno sciatore provetto ; del resto, negli ultimi anni di scuola i suoi interessi intellettuali erano maturati ed era diventato uno studente piuttosto bravo. Non ebbe però modo di mostrare sino in fondo le sue doti, poiché la sua vita fu stroncata a diciannove anni dai tedeschi. Spesso mi ramma­ rico per quanto ci sarebbe potuto essere tra noi se solo il destino ci avesse consentito di essere vicini. Ci trovammo ad essere cittadini di uno Stato di cui a malapena cono­ scevamo l'esistenza, la cui lingua ci suonava straniera, e il cui rientro nella famiglia delle nazioni, dopo un secolo e mezzo di sottomissione non era certo rassicurante. Il primo presidente eletto, Gabriel Naruto­ wicz, un liberale moderato, fu assassinato da un fanatico di destra durante la cerimonia di insediamento . Il suo successore, Stanis!aw Wojciechow­ ski, era una nullità, succube della maggioranza reazionaria del parla­ mento eletto . L'antisemitismo, seppur dichiarato illegale dalla costitu­ zione (imposta alla Polonia dal trattato di Versailles) imperava in forme ancora più subdole e sottili dei tempi degli zar. Plus ça cbange, plus ça reste la méme cbose, almeno per gli ebrei dell'Europa orientale. Tuttavia, se non altro, i cannoni non sparavano più e noi godevamo di una ragio­ nevole prosperità. Quando giungemmo a Krzemieniec il sistema scolastico non era ancora completamente funzionante e così i miei decisero di istruirmi privata­ mente. Pagarono dunque una istitutrice di madrelingua francese, la vedova di un ufficiale dell'Armata Bianca, perché venisse tutti i giorni da noi per mezza giornata a darmi lezioni. Severa e intransigente, la madama non mi consentiva di parlare in russo. La sua ossessione era la coniugazione dei verbi irregolari: passavamo un tempo che a me sem­ brava infinito a ripetere il congiuntivo di verbi come recevoir e moudre. La odiavo, ma quanto so di francese lo devo a lei piuttosto che ai mediocri insegnanti che ebbi nei sei anni di scuola pubblica. (Vi fu però un'ecce­ zione. Si chiamava Edmond Sémile ed era fantastico: a distanza di molti anni ricordo ancora la sua impeccabile lettura nel soliloquio dell'Alto

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Prelato nell'Atbalie di Racine). I miei genitori pagarono anche insegnanti di ane e di pianofone, ma io dimostravo una tale mancanza di talento che entrambi i progetti vennero ben presto abbandonati. In seguito, dopo un penoso tentativo come batterista, divenni un flautista passabile e suonai nell'orchestra e nella banda della scuola. In questo periodo mi accostai anche alle scienze, leggendo (nella tra­ duzione russa, naturalmente) A Sbort Histury ofScience di Arabella Buckley e le stupende Lectures on tbe Cbemical History of a Candle di Faraday. Continuavo intanto ad assillare mio padre sulla geometria piana. Viste le difficoltà che avevo avuto nell' apprendere la tavola pitagorica, egli temeva che sarebbe stata fatica sprecata tentare di insegnarmi la geome­ tria. È sveglio - lo sentii dire a mia madre - e sono sicuro che diven­ terà qualcuno, ma non ceno in matematica. " E fu questa l a seconda volta in cui l a sfera d i cristallo di mio padre si mostrò mendace. La prima volta fu quando, poco dopo la Rivolu­ zione d' Ottobre, si imbatté in un compagno di studi che aveva incon­ trato a Lipsia qualche anno prima e che ricopriva una posizione di rilievo nel primo governo rivoluzionario . Seduta stante, offrì a mio padre la carica di vicecommissario per l'Istruzione, o qualcosa del genere, ed egli senza esitare rifiutò . Mi disse poi che non pensava che "quei signori potessero resistere per più di due o tre settimane" . Nonostante le sue perplessità finì col cedere e iniziò a impanirmi, alla buona, lezioni di geometria. In men che non si dica mi impadronii della materia, riuscendo a risolvere difficili problemi. Imparai la geo­ metria, come tutti a quei tempi, con un metodo semintuitivo. Per quanto si ponesse l' accento sulla struttura assiomatica, essa era logicamente incompleta. Nei testi scolastici non si diceva nulla, ad esempio, sugli assiomi di ordine, molto probabilmente perché gli stessi autori non ave­ vano le idee chiare. La struttura assiomatica era rigidamente euclidea, ed era considerato ovvio che, tracciata una perpendicolare dal venice C di un triangolo isoscele sulla sua base AB, questa intersecasse la base in un punto D intermedio tra A e B. Nella matematica moderna biso­ gna far riferimento all' assioma di ordine per giustificare tale proprietà, ed è proprio l' insistenza su queste sottigliezze a far sì che i nuovi libri di testo appaiano non di rado pedanti e inconcludenti. Ciò che amavo maggiormente era affrontare esercizi difficili. Tra i libri di mio padre vi erano raccolte di problemi interessanti, scelti tra i temi di esame per l' ammissione alle varie scuole di ingegneria della Russia degli zar. Godevo nel risolverli! ' '

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Se non ricordo male, nel settembre del 1 92 3 mio padre divenne diret­ tore di una scuola Tarbut appena istituita. Tali scuole, diversamente dalle cbedarim o dalle yesbivotb, ove si insegnava prevalentemente il Tal­ mud, erano scuole laiche e vi venivano insegnate, in ebraico, tutte le materie. Non erano legalmente riconosciute e si reggevano grazie al con­ tributo delle comunità locali; inutile dire che non erano gradite alle auto­ rità. Come figlio del direttore mi iscrissi naturalmente a quella scuola e finché poté funzionare, un paio d'anni, la frequentai. Ricordo ben poco di quel periodo, a parte il fatto che appresi a parlare corrente­ mente l'ebraico (che poi, per mia negligenza, ho dimenticato). Imparai anche un po' di polacco, perché il suo insegnamento era obbligatorio . Nella primavera del 1 92 5 , quando la chiusura della scuola appariva ormai inevitabile, il problema della mia istruzione scolastica si presentò in tutta la sua gravità e urgenza. L' unica scuola legalmente riconosciuta era il liceo di Krzemieniec. Era stata una scuola famosa prima che la Polonia cessasse di esistere come nazione, e le autorità polacche vollero non solo conservarne il prestigio, ma fame un vero baluardo della cultura nazionale in una regione che per un periodo lunghissimo non aveva avuto niente in comune con i polacchi. Il controllo dei territori orientali, dopo il trattato di Riga, si risolse in una colonizzazione da parte di una potenza straniera, e non proprio amica, e il liceo divenne uno degli avamposti di tale processo . In particolare, sebbene i polacchi costituissero una minoranza nella regione, più del novanta per cento degli studenti ammessi al liceo era dei loro, e molti erano i figli di ufficiali. Nonostante la costituzione garan­ tisse a tutti uguali diritti, né gli ebrei né gli ucraini avevano molte spe­ ranze di potervi entrare e ciò era formalmente motivato con la loro scarsa padronanza della lingua polacca. A tarda primavera, comunque, con gioia e sollievo dei miei, superai gli esami di ammissione, e in autunno, all'età di undici anni, iniziai a frequentare la terza classe: questa volta era un inizio ufficiale. Il primo anno fu piuttosto infelice. I miei compagni di classe erano almeno un anno più vecchi di me, indisciplinati e crudeli. Mi tormen­ tavano continuamente accusandomi di ogni cosa, dal non cooperare nel loro sistema per superare gli esami copiando all'essere corresponsabile della crocifissione di Cristo . Pochi anni fa uno di loro mi scrisse. Il suo nome lo avevo dimenticato e mi riuscì difficile collocarlo in eventi acca­ duti più di mezzo secolo fa. Si scusava per il suo comportamento nei

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miei confronti e per non aver riconosciuto la mia superiorità. Mi invitò ad andarlo a trovare, la prossima volta che avessi visitato la Polonia, mostrando segni di sincero rammarico. Considerando l'enormità dei cri­ mini che furono commessi contro gli ebrei, trovai quel mea culpa di un compagno di infanzia ormai dimenticato bizzarro e toccante al contempo . La disciplina era ferrea e il corpo insegnante, senza eccezioni, catto­ lico . Politicamente la maggioranza era costituita da iscritti o simpatiz­ zanti del partito democratico nazionale, a quell'epoca il maggior par­ tito rappresentato in parlamento. Era una formazione di destra, rigidamente cattolica e apertamente antisemita; l'antisemitismo era anzi uno dei punti qualificanti del suo statuto, in aperto contrasto con la costituzione. A scuola, a onor del vero, fui trattato rispettosamente, e in talune occasioni persino con gentilezza. La qualità dell'insegnamento andava dal mediocre all'ottimo; l'inse­ gnante di scienze naturali, poi, era davvero in gamba. Autore di ricer­ che originali nel campo della geologia, era membro del Comitato polacco per le scienze geologiche, e sapeva insegnare la biologia in maniera diver­ tente e appassionante. Era uno dei pochi, tra gli insegnanti, ad avere uno spirito liberale: era umano, gentile, tollerante. Fu ucciso dai tede­ schi con alcuni suoi colleghi dopo la presa di Krzemieniec, nel giugno del 1 94 1 . Si chiamava Zdis-l"aw Opolski, e gli devo moltissimo : fu lui a insegnarmi la teoria dell'evoluzione, come si dividono le cellule, come si può decifrare la storia del pianeta Terra e come si formano le stalat­ titi nelle grotte calcaree. Verso la fine del mio primo anno di liceo, all'incirca alla metà di maggio del 1 92 6 , Pi-l"sudski rovesciò il governo con un colpo di stato militare. Il parlamento fu sciolto e il presidente costretto alle dimissioni. Molti deputati, soprattutto della sinistra, furono imprigionati, e in autunno la Polonia si configurava di fatto come una dittatura. Il potere era in mano ai "colonnelli" , i compagni d'arme di Pi-l"sudski nella Legione polacca che egli aveva precedentemente organizzato per com­ battere i russi. Della democrazia rimase solo la facciata: c'era un parla­ mento, anche se si erano rese necessarie due elezioni per avere la "giu­ sta" maggioranza. E c'era, regolarmente eletto, un presidente; il governo dei colonnelli era chiamato a rispondere, teoricamente, al parlamento . Quanto a Pi-l"sudski, rifiutò ogni incarico, ma rimase l'unico maresciallo dell'esercito polacco . Egli fu il solo eroe nazionale in Polonia nel dopo-

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guerra. La sua Legione fu immortalata in canzoni e leggende; era stato lui a bloccare l'Armata Rossa alle porte di Varsavia nel 1 920, compiendo quello che fu poi chiamato il "miracolo della Vistola" . I suoi detrat­ tori, e non erano pochi, attribuivano il miracolo al generale Weygand, che era stato mandato dai francesi in aiuto dei polacchi; viste le magre figure di Weygand nel 1 940, io propendo ora per la versione ufficiale polacca di quei fatti. I "colonnelli" , con poche eccezioni, erano delle nullità e si stenta a credere che il paese si sia potuto reggere in quegli anni, soprattutto dopo la morte di Pi!sudski nel 1 9 3 5 . Per quanto possa sembrare incre­ dibile, l'episodio che mi accingo a raccontarvi gettò il governo in una delle sue crisi più profonde. Quando Pi!sudski morì, fu sepolto sulla collina di Wawel, nell'antico palazzo reale ove riposano i re, i grandi poeti e altri notabili. Il custode del palazzo era per tradizione l' arcive­ scovo di Cracovia, che ali' epoca era l'irascibile arcireazionario cardinal Sapieha. Per ragioni che non mi furono chiare allora e che ancor meno lo sono adesso , il cardinal Sapieha decise di rimuovere le spoglie di Pi!sudski da una cripta all'altra. Per non essere stati informati di ciò , il primo ministro e l' intero Gabinetto rassegnarono le dimissioni! Que­ sto accadeva solo due o tre anni prima che Hitler invadesse la Polonia, quando - sembrerebbe - il governo avrebbe dovuto occuparsi di pro­ blemi ben più seri di un oltraggio alla memoria del grande leader. Tornando al liceo, il golpe segnò, inaspettatamente, l'inizio di un nuovo corso improntato a idee liberali, che si protrasse fino a quando conseguii la maturità e oltre. Il liceo, assieme ad altre due scuole, costi­ tuiva un complesso autonomo elevato al rango di distretto scolastico, e il preside rispondeva direttamente al ministro della Pubblica Istruzione. Le altre due scuole erano un istituto magistrale, che aveva il compito di formare gli insegnanti delle scuole elementari, e un istituto agrario. L'intero complesso era noto come liceo di Krzemieniec, sebbene l'isti­ tuto agrario fosse situato alcune miglia fuori della città e solo il liceo rilasciasse il diploma di maturità, necessario per accedere alle facoltà universitarie e agli alti gradi dell'istruzione professionale, quelli delle scuole di ingegneria industriale, veterinaria, medicina e ingegneria mmerana. A differenza di altre scuole in Polonia, il liceo aveva un vasto cam­ pus, sui cui prati sorgevano, oltre agli edifici scolastici e alla chiesa, i dormitori per gli studenti, gli alloggi riservati al corpo insegnante, gli

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uffici amministrativi, una sala per con ceni e un'eccellente biblioteca. C'erano anche due campi da gioco, un grande giardino e, vera rarità, un campo da tennis. Il governo era splendido nei finanziamenti. A presiedere questo piccolo reame fu chiamato Juljusz Poniatowski, discendente di una delle più antiche famiglie polacche (l'ultimo re polacco, Stanislao Augusto, fu un Poniatowski) . Aveva cultura e carisma e dava di sé un'immagine ben diversa da quella che ci eravamo fatti dei funzio­ nari mandati dal governo centrale a colonizzarci. Alla schiacciante mag­ gioranza ucraina offrì un rappono di collaborazione. Espeno di econo­ mia agraria e con la vocazione dell'insegnamento, sperava di poter stabilire proprio attraverso il liceo un modus vivendi, accrescendo il livello eco­ nomico e culturale della popolazione locale. Punroppo il tempo fu tiranno e non consentì la realizzazione di quegli ambiziosi progetti; quando i barbari tedeschi arrivarono trovarono gli ucraini complici entu­ siasti nel saccheggio e nello sterminio di ebrei e polacchi. Nella scuola i cambiamenti non si fecero attendere. Alcuni insegnanti vennero sostituiti; i loro successori erano di norma più giovani, più pre­ parati e soprattutto più apeni. La disciplina era sì rigida, il cattolice­ simo imperante, ma i modi oppressivi restavano un ricordo del passato . Sebbene alla scuola fossero ammessi sia i maschi che le femmine, i due sessi erano stati tenuti rigorosamente separati, perfino nei giardini del campus. Un po' alla volta queste assurdità scomparvero, tanto che alla fine fu possibile sedere in classe accanto a una ragazza senza sentire le fiamme dell'inferno . Gli studenti venivano trattati da esseri umani e si videro riconosciuti i primi diritti, tra i quali quello di panecipare ad assemblee. Venne persino organizzato una specie di ufficio stampa che teneva la popolazione studentesca informata sui fatti più impananti del mondo. lo ero il responsabile della redazione scientifica; uno dei momenti più gloriosi della mia carriera giornalistica fu quando annunciai, nel mag­ gio del 1 9 3 0 , la scopena di Plutone. L'anno migliore fu l'ultimo, quando fu nominato insegnante di let­ teratura polacca Kazimierz Groszynski, un giovanotto fresco di studi (quando venne, in effetti, non aveva ancora la laurea) entusiasta e desi­ deroso di dividere il fascino della parola scritta con chiunque avesse voglia di leggere o di ascoltare. Con lui l'interpretazione del testo letterario diventava un piacere e una rivelazione: se ho un qualche interesse uma­ nistico, il merito è suo . Kazimierz è ancor oggi vivo e vegeto e quando vado in Polonia mi reco sempre a trovarlo ; sebbene viviamo in mondi

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completamente diversi, i legami d i un'amicizia nata quando io avevo sedici anni e lui forse ventidue restano saldi. Fu una buona formazione culturale, la mia? Se cultura è quanto resta dopo che si è dimenticata la maggior parte delle nozioni scolastiche, direi di sì. Mi rincresce però di non aver imparato il latino, come mi rincresce che un certo moralismo cattolico mi abbia impedito di acco­ starmi ai Fiori del male, imponendomi quella noia mortale che è Atala. Anche la matematica avrebbe potuto essere presentata in modo più inte­ ressante. In questa materia ero piuttosto ferrato, ma non c'era nulla, nei programmi come anche nel modo in cui veniva insegnata, che mi attirasse particolarmente. Certamente non avevo mai pensato alla mate­ matica come a una possibile carriera futura sino a quando il signor Rusiecki non mi diede il fatidico consiglio . Avrei voluto capire meglio la fisica, approfittare maggiormente degli insegnamenti di quella gran signora che era Jadwiga Falkowska. E questo desiderio , nonostante sia stato professore visitatore di fisica a Leida e a Utrecht, è ancor vivo in me. Sul mio diploma di maturità compare un mia fotografia di quando avevo sedici anni. Quando mia moglie Kitty la vide per la prima volta disse: "Ah, questa è stata scattata prima che tu udissi la voce del dia­ volo . " Non esattamente. In quei giorni, in cui imperavano ostilità, ipo­ crisia e bigottismo, era difficile non sentire il diavolo parlare, ma durante i miei ultimi anni la sua voce era stata tacitata e per questo penserò sempre alla mia scuola con gratitudine.

CAPITOLO 2 Leopoli

L'Università di Leopoli era, dopo quella di Cracovia, la più antica della Polonia. ' Fu fondata nel 1 66 1 e prese il nome dal re Giovanni II Casimiro ( 1 648- 1 6 6 8) . La città si trova circa cento miglia a ovest di Krzemieniec e per raggiungerla in treno ci volevano poco più di cinque ore. Pur essendo situata ai confini con il mondo bizantino, nell'aspetto esteriore e nello spirito era decisamente occidentale, pur portando i segni delle numerose invasioni dall'est. Città elegante, illeggiadrita da parchi e viali alberati, ospitava - caso unico in Europa - le archidiocesi delle tre maggiori confessioni cattoliche: la romana, la greca e l' armena. La popolazione, in prevalenza polacca, comprendeva una consistente, e poli­ ticamente irrequieta, minoranza ucraina e una nutrita comunità ebraica. La regione in cui si trova Leopoli, la Galizia, divenne tutta provin­ cia austriaca nel l 7 9 5 , dopo la terza e ultima spartizione della Polonia, ma la liberalità dei governanti austriaci nei confronti delle minoranze etniche e religiose consentì ai polacchi piena autonomia culturale. In effetti, Leopoli, a differenza di Krzemieniec, ove la cultura polacca dovette essere reimposta con la forza, non perse mai la sua identità nazionale. Essa è ora in territorio sovietico, e mi chiedo spesso quanto sia rimasto della sua natura occidentale. L'Università ha preso ora nome da un poeta locale poco noto : lvan Franko . Mi vergogno ad ammettere che della sua storia prima degli inizi del ventesimo secolo non conosco quasi nulla, ma credo vi sia ben poco da sapere. Nelle scienze, e in particolare nella matematica, non si era mai segnalata in alcun modo . Inaspettatamente, tra il 1 905 e il 1 9 1 3 , Leo poli divenne il più importante centro di fisica teorica in Europa. Il merito indiscusso di questo salto alla notorietà va ascritto unicamente a Marian Smoluchowski.

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Smoluchowski nacque e studiò a Vienna, e quando, nel 1 8 9 9 , giunse a Leopoli come assistente era già un fisico affermato . Ma la pane più significativa del suo lavoro si sviluppò durante la sua permanenza in questa città, prima cioè che si trasferisse a Cracovia nel 1 9 1 3 come pro­ fessore di fisica sperimentale. Fu in quei pochi anni che la teoria ato­ mica della materia prese corpo e ci si rese conto delle sue enormi impli­ caziOni. Sembrerà strano, ma alla fine del secolo scorso la struttura atomica della materia era ben !ungi dall'essere universalmente accettata e tro­ vava addirittura oppositori accaniti in figure di primissimo piano quali Wilhelm Ostwald ed Ernst Mach; quest'ultimo, in particolare, non poté mai darsene una ragione. La dimostrazione della "realtà" degli atomi fu il risultato di un'attenta e brillante analisi di un fenomeno quasi dimen­ ticato, osservato nel 1 8 2 7 dal botanico irlandese Roben Brown . Egli, guardando al microscopio piccole particelle sospese in un liquido , notò che esse si muovevano caoticamente. Dato che le prime particelle osser­ vate erano spore vegetali, sembrò in un primo tempo che quel conti­ nuo agitarsi fosse una manifestazione di vita, sennonché si vide, subito dopo, che anche particelle sicuramente inanimate si muovevano di "moto browniano" , e il mistero intorno al fenomeno crebbe. La scoperta di Brown restò lettera morta sino al 1 905, quando in due lavori teorici di altissimo valore si dimostrò che il moto di quelle particelle poteva essere la risultante di uni con le molecole del liquido in moto caotico . L'idea non era nuova, ma era sempre stata scartata, poiché i vari modelli proposti per il moto molecolare erano regolarmente in disaccordo con quel poco che si sapeva, grazie all'osservazione, sul moto browniano . Quei due lavori non solo superarono questo ostacolo , ma suggerirono anche nuove proprietà teoriche. Dopo che Jean Perrin ne ebbe data una brillante conferma sperimentale, la realtà atomica non venne più messa in discussione. Uno dei due storici contributi si deve appunto a Marian Smoluchow­ ski; l' altro, di poco anteriore e totalmente diverso come impostazione, ad Alben Einstein . Fu una vera sfortuna per Smoluchowski il dover condividere la sua prima scoperta importante, così come varie altre, ad esempio la giustificazione del colore azzurro del cielo , con una simile primadonna. Fu forse uno degli esempi più clamorosi del cosiddetto "effetto san Matteo" , espressione coniata da Roben Menon per indi­ care la tendenza ad attribuire il merito di una scoperta, frutto di lavoro

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comune o raggiunta indipendentemente, al personaggio più famoso . 2 Infatti, come dice san Matteo ( 1 3 . 1 2), "a chi ha sarà dato, ed egli avrà sempre di più : ma a chi non ha sarà tolto ogni bene" . Durante la sua vita Smoluchowski non fu comunque vittima dell'ef­ fetto summenzionato . Era universalmente noto come uno dei più emi­ nenti fisici teorici e ricevette numerosi e meritati onori. Ma con il pas­ sare del tempo l'effetto san Matteo ebbe il sopravvento : pochi sanno oggi quale fu il ruolo di Smoluchowski nell' affermarsi della teoria ato­ mica e ancor meno che il suo lavoro si svolse a Leopoli. Molti anni dopo mi capitò un fatto abbastanza comico e imbaraz­ zante, proprio a causa di quell'effetto san Matteo di cui fu vittima Smo­ luchowski. Non molto tempo fa, l'Accademia delle Scienze polacca orga­ nizzò un ciclo di conferenze per onorare la memoria di scienziati polacchi defunti. Una di tali conferenze era in memoria di Smoluchowski, e io ebbi l'onore di essere invitato a Varsavia quale oratore, nell' inverno del 1 9 80. Nel comunicarmi l'invito mi fecero capire che, pur potendo parlare in inglese, avrei fatto loro cosa gradita se avessi tenuto la mia conferenza in polacco, in considerazione del carattere popolare della manifestazione. Accettai, non senza trepidazione. Il polacco non è più la mia lingua da molti anni, e quel che è peggio, allora ero in procinto di lasciare New York diretto a Utrecht, ove, a meno di imprevisti, non avrei avuto modo di esercitarmi. Ma l'impre­ vedibile accadde. All'Istituto di Fisica teorica dell'Università di Utrecht, ove mi trovavo in qualità di professore ospite, era appena arrivato un giovane fisico di Cracovia e con lui potei conversare abbastanza frequen­ temente in polacco . Di regola mi preparo e mi organizzo mentalmente le conferenze, e per molti anni l'ho fatto in inglese. Poco prima di partire per Varsavia mi risolsi finalmente a tradurre, sempre mentalmente, il testo inglese in un polacco passabile. E fu allora, con vivo disappunto, che mi accorsi di non conoscere la versione polacca di quel passo del Vangelo secondo Matteo ; e dire che volevo proprio parlare al mio uditorio dell'effetto san Matteo! Il mio giovane amico polacco non mi fu di alcun aiuto : apparteneva alla generazione atea postbellica, e in ogni caso i cattolici non hanno mai avuto una profonda conoscenza della Bibbia. Natural­ mente disperavo di trovare a Utrecht una copia della traduzione polacca della Bibbia, e sicuramente non volevo azzardare una libera traduzione della versione di Re Giacomo nel mio polacco zoppicante.

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Il tempo stringeva. Scrissi una lettera a Groszynski, il mio primo insegnante di letteratura polacca al liceo, pregandolo di inviarmi una copia della Bibbia; era improbabile, d'altra parte, che la lettera gli arri­ vasse in tempo e difatti partii per Varsavia senza aver risolto il problema del versetto 1 3 . 1 2 di Matteo . Arrivai a Varsavia un giorno prima di quello stabilito per la confe­ renza e fui accolto all'aeroporto da alcuni funzionari dell'Accademia. Dopo alcune strette di mano e le rituali frasi di saluto, mi ricordai del problema e chiesi ai miei ospiti se potevano farmi recapitare in albergo una copia della Bibbia in polacco. Ben deciso a non dare alcuna antici­ pazione sul testo della conferenza, per non rovinare l'effetto sorpresa, non fornii loro spiegazioni di sorta per quella che poteva sembrare una richiesta a dir poco singolare. Furono non poco stupiti; ciò nonostante ebbi in un'ora una copia della versione autorizzata di padre Dudziak, risalente al secolo scorso . La conferenza andò benone, e in particolare il riferimento all'effetto san Matteo trovò un'accoglienza divertita. I volti dei miei ospiti si diste­ sero in sorrisi ora che avevano capito il perché della mia strana richiesta del giorno prima. Il momento più esaltante dell'intera conferenza giunse tuttavia inaspettato e non aveva niente a che fare con Smoluchowski o san Matteo . Il gesso che stavo usando era particolarmente friabile, e dopo che un pezzo si fu rotto per la quinta volta in pochi secondi mentre tentavo di disegnare una figura alla lavagna, alquanto spazien­ tito esclamai: "Vorrei poter avere del gesso di Krzemieniec! " La mia uscita, del tutto involontaria, scatenò applausi a non finire. La cessione di Krzemieniec all'Unione Sovietica doleva ancora profondamente. Il secondo periodo di gloria dell'Università coincise con il venten­ nale dell'indipendenza della Polonia dopo la fine della seconda guerra mondiale. Da sempre la Polonia ha inseguito il sogno di divenire una grande potenza. Con la Germania da una parte e la Russia dall'altra, e con una tendenza a scegliersi come capi o romantici suicidi o veri e propri incompetenti, queste illusioni di grandezza erano patetiche non meno che stupide. Mentre le ambizioni al primato in senso geopolitico erano inevitabilmente condannate al fallimento , esse trovarono un' ina­ spettata realizzazione in tutt'altro settore: la matematica. Si trattò di un vero miracolo, considerata la totale assenza di tradi­ zioni matematiche e in generale scientifiche in quel paese. Smoluchow­ ski fu il primo grande scienziato teorico polacco dopo Copernico, dopo

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ben cinque secoli. Madame Curie, che fu certamente un grande fisico, era polacca solo di nascita e di sentimenti: tutta la sua formazione scien­ tifica e il suo lavoro si svilupparono in Francia. Pochi altri nomi ven­ gono alla mente e precisamente quelli di Zygmunt Wr6blewski e Karol Olszewski, diventati famosi per essere stati i primi a liquefare l'ossigeno, l'azoto, l'aria e il monossido di carbonio nel 1 8 3 3 . Forse andrebbe anche ricordato Jozef Hoene-Wronski ( I 7 7 6- 1 8 5 3) per un semplice ma utile strumento matematico, chiamato appunto "wronskiano" , che tuttora trova menzione in tutti i libri sulle equazioni differenziali. Durante gli ultimi anni del liceo ne sentii parlare come di un hegeliano romantico , che nei suoi scritti aveva ripreso la credenza popolare secondo la quale la Polonia era il Cristo delle nazioni, un Cristo crocifisso dalle sparti­ zioni. Questa bizzarra teoria contribuì a tener desta la speranza della Resurrezione, che si configurava nell' allegoria come il riemergere della Polonia tra le libere nazioni. Quando, all' università, mi imbattei per la prima volta nei wronskiani non riuscii a ricollegarli a quell'oscuro e poco comprensibile filosofo. Date queste premesse, si stenta a credere che durante il breve e piut­ tosto turbolento periodo dell'indipendenza abbia potuto fiorire in Polonia una scuola destinata a lasciare il segno in quella che è la disciplina intel­ lettuale astratta per eccellenza. La storia di quell'inizio, così ben documentata, è abbastanza sem­ plice. Nella scuola matematica polacca vi erano due correnti, una a Var­ savia e una a Leopoli. Il gruppo di Varsavia si formò per primo, secondo un programma elaborato da tre giovani brillanti: Zygmunt Janiszewski, l'anima del progetto, Wadaw Sierpinski e Stanislaw Mazurkiewicz. Si trattava di trovare una collocazione per la Polonia nella carta matema­ tica del mondo; la tattica che dava le maggiori speranze di successo sembrò quella di puntare su settori allora marginali e scarsamente frequentati nei centri maggiori. Visto che tutti e tre avevano già dato pregevoli con­ tributi in teoria degli insiemi e su certi aspetti della topologia, e poiché in questo campo la concorrenza era praticamente nulla, decisero di pro­ seguire per quella strada. Fu fondata una rivista, "Fundamenta mathe­ maticae" , per favorire la pubblicazione dei risultati ottenuti nel settore prescelto, e il progetto partÌ . 3 La scelta si rivelò quanto mai azzeccata. Topologia e teoria degli insiemi divennero subito estremamente popo­ lari e la nuova rivista si diffuse in tutto il mondo . Ben presto lo spettro degli argomenti pubblicati si allargò fino a comprendere scritti di logica

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matematica e altri ancora. Oggi la rivista conserva buona parte del suo carattere originale, pur avendo perso , ma la cosa non sorprende, il pre­ stigio dell'unicità. La scuola di Leopoli deve la sua esistenza a un fortunato incidente. Nel 1 9 1 6 Hugo Steinhaus, che aveva conseguito il dottorato a Got­ tinga nel 1 9 1 1 e che era allora un matematico "itinerante" , stava pas­ seggiando in un parco di Cracovia quando al suo orecchio giunsero fram­ menti di una conversazione in cui era usato il termine "misura di Lebesgue" . La misura di Lebesgue, che ora si studia nei corsi di analisi reale, nel 1 9 1 6 era praticamente sconosciuta al di fuori dei confini fran­ cesi, ove peraltro ben pochi avevano familiarizzato con tali concetti. Incuriosito, Steinhaus localizzò immediatamente tre giovani che stavano discutendo animatamente. Uno di loro era Stefan Banach . Stabilitosi a Leopoli, Steinhaus aiutò Banach a trovare un posto di assistente alla Scuola di Ingegneria e lo guidò nei primi passi della car­ riera accademica. La tesi di dottorato di Banach, scritta sotto l'amore­ vole protezione, se non proprio la supervisione di Steinhaus, segnò l'inizio dell'era moderna in analisi funzionale. Si rivelò il campo più fruttuoso e divenne il marchio della scuola matematica di Leo poli. Nel 1 92 9 il gruppo di questa città fondò la propria rivista, "Studia mathematica" , che al pari della sorella maggiore, i "Fundamenta" , acquistò rinomanza internazionale e viene ancor oggi pubblicata regolarmente. Banach fu sicuramente l' astro più fulgido della scuola matematica polacca e il suo nome è noto a chiunque si occupi di questa materia. Nei cinquantatré anni della sua vita (morì nel 1 945) riuscì a conciliare una esplosiva creatività intellettuale e una non comune attività mon­ dana. Nel suo necrologio , Steinhaus, che gli sopravvisse per ventisette anni, scrisse: "Egli unì la scintilla del genio con un imperativo interiore che gli rammentava di continuo le parole di Verlaine: 'Il n y a que la gioire ardente du métier. ' I matematici sanno che la loro arte e quella dei poeti dividono lo stesso mistero . " Non sapevo tutto questo quando scelsi l'Università d i Leopoli. Presi quella decisione perché quella sede era vicina a casa, e questo mi avrebbe consentito di fare alcune indispensabili economie. La mia famiglia non navigava certo nell'oro, e si contavano gli spiccioli. Mio padre era riu­ scito, non so come, a risparmiare abbastanza denaro da mantenermi, modestamente, per il primo anno, ma poi avrei dovuto pensarci da solo. Arrivai a Leo poli alla fine di settembre del 1 9 3 l , poche settimane

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dopo il mio diciassettesimo compleanno . Le università polacche sono sempre state scuole superiori o professionali; non vi è corrispettivo nel sistema scolastico americano. Diciassette anni possono sembrare pochini per accostarsi a studi superiori, ma non per questo io ero particolar­ mente precoce. Ero solo un anno più giovane della maggioranza dei miei colleghi. La struttura dell'Università rispecchiava l'organizzazione medievale delle corporazioni. Essa comprendeva le facoltà di Teologia, Giurispru­ denza, Medicina e Filosofia; in seguito quest'ultima si divise nella facoltà di Scienze e in quella di Discipline umanistiche. A parte la facoltà di Medicina, tutte le altre rilasciavano un diploma intermedio di magister: nella mia facoltà, magister philosophiae. Il conseguimento del dottorato era il primo passo verso la carriera accademica. In teoria vi poteva aspi­ rare chiunque fosse in possesso del titolo di magister presentando una dissertazione contenente risultati originali. In pratica, senza l' appoggio di almeno un professore che garantisse del valore scientifico dei suoi titoli, il candidato non aveva alcuna speranza di vedere non dico appro­ vato, ma neppure letto il proprio lavoro . Ciò significa che l'aspirante doctor philosophiae doveva avere già pubblicazioni al suo attivo . Di fatto , egli veniva invitato a scrivere una tesi che spesso era basata su lavori già pubblicati. Questo spiega come mai, tra il 1 9 1 9 e il 1 9 3 9, il periodo in cui Leopoli fu una delle capitali mondiali della matematica, abbiano conseguito l' ambìto titolo meno di venti magistri. Tutti erano destinati, con un paio di eccezioni, a una luminosa carriera. Per aspirare a una cattedra il dottorato non era però sufficiente. Il gradino successivo della carriera accademica era costituito dalla cosid­ detta "abilitazione" . Questa raffinata tortura traeva origine dal braccio di ferro che aveva avuto luogo tra gli studenti e il corpo accademico delle prime università medievali e la cui posta era il controllo sulla nomina o l'allontanamento dei docenti. Il conflitto si era risolto in un compro­ messo : gli studenti potevano scegliere i professori, ma solo all'interno di una rosa di candidati cui il corpo accademico avesse concesso la venia legendi, ossia l'abilitazione a insegnare. Questo stato di cose permane ancor oggi, anche se il ruolo degli studenti è ora assolto dallo Stato . Pertanto lo Stato può sopprimere una cattedra, così come di fatto è accaduto varie volte per ragioni economiche o politiche, ma non può privare il professore che la occupava della sua venia legendi. Egli infatti sarebbe ancora libero di tenere corsi su qualsiasi argomento, e il calen-

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dario delle sue lezioni sarebbe esposto m bacheca: gratuitamente, beninteso . L'abilitazione era l'insieme degli adempimenti necessari per ottenere la venia legendi. Per prima cosa l'intera facoltà prendeva in esame la "qualificazione professionale" del candidato. Se dava un parere favore­ vole, questi era invitato a presentare una specie di superdissertazione, che veniva poi sottoposta al giudizio di una commissione di esperti. Qua­ lora anche la dissertazione fosse stata approvata non restava che svol­ gere una lezione pubblica su un argomento scelto dalla commissione tra quelli presentati dal candidato: su quest'ultima prova si pronunciava nuovamente il corpo accademico di facoltà al completo . Il passo deci­ sivo era il primo . Sono sicuro che nella Polonia dei miei anni universi­ tari una commissione giudicante, dovendo esprimere un parere tecnico, non si sarebbe fatta influenzare dal fatto che a presentare la disserta­ zione fosse un ebreo , un socialista o un massone.4 Ma sono anche sicuro che, in quella stessa Polonia, alcuni di quegli integerrimi uomini di scienza che di fronte ai colleghi non si sarebbero mai permessi di mescolare il giudizio scientifico con le convinzioni personali, giocavano, eccome, sull'ambiguità della "qualificazione professionale" per far pesare i propri preconcetti. Si saranno certamente detti: "Ecco un elemento dotato, che potrebbe svolgere un ottimo lavoro; peccato che sia ebreo . Non vorremo mica regalare una cattedra a un ebreo! E del resto, a sen­ tire il professor X , ci sarebbe parecchio da eccepire sulla sua qualifica­ zione professionale. Voterò contro ! " Inutile dire che un professor X , pronto a scovare qualche neo nel passato del candidato, c'era sempre; ed è incredibile come le riserve si volatilizzassero se il candidato mani­ festava l'intenzione di convertirsi al cattolicesimo. L'antisemitismo polacco ha sempre avuto profonde radici religiose. Gli accenti razzisti, proba­ bilmente sempre esistiti, divennero manifesti solo dopo l'avvento al potere di Hitler in Germania. Superato lo scoglio dell'abilitazione e conquistato l'ambito titolo di docente, si potevano tenere corsi gratuiti ed entrare in lizza per l' asse­ gnazione di una cattedra quando, per la morte o il ritiro di un titolare, se ne fosse resa vacante una. In tal caso ogni professore scriveva una lettera in favore del suo candidato, e l'ultima decisione spettava alla facoltà presso la quale si era liberato il posto e al ministro della Pubblica Istru­ zione. In Germania, ove il sistema era più o meno lo stesso , si diffuse tra i giovani docenti il costume di sposare le figlie di professori influenti

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per aumentare le proprie chances in vista di una sistemazione. Circolava una battuta: "Nell'accademia il talento passa di padre in genero . " Persino per docenti d i primissimo piano l e speranze d i salire in cat­ tedra in un tempo ragionevolmente breve erano minime. Ed erano nulle per gli ebrei (viene alla mente il nome del matematico di Leopoli Juliusz Schauder, famoso in tutto il mondo, che non ottenne mai una catte­ dra) . Steinhaus era solito dire, scherzando, che gli Stati Uniti erano un paese più povero della Polonia, perché quest'ultima preparava ottimi matematici senza farne alcun uso , mentre gli Stati Uniti non potevano permettersi un tale spreco . Quando si è giovani, e a diciassette anni si è molto giovani, si vive pensando al � resente. Il futuro, anche quello più prossimo, è avvolto nell' irrealtà. E vero altresì che io maturai in fretta; pochi anni dopo non facevo che interrogarmi sul futuro , ma in quella fredda e nitida mattina di ottobre in cui entrai nel Palazzo Vecchio dell'Università per assistere alla mia prima lezione sulle "matematiche superiori" , tutto ciò che riuscii a pensare fu : "Chissà come andrà a finire?" Fu un'esperienza esaltante. Come la maggior pane degli studenti del primo anno mi ero iscritto al corso di Aritmetica teorica, a un semina­ rio introduttivo all'algebra, al primo corso di analisi, denominato Intro­ duzione all'analisi e al calcolo differenziale e integrale, e al corso di Fisica sperimentale con esercitazioni di laboratorio obbligatorie. La frequenza alle lezioni era facoltativa; in teoria il titolo di magi­ ster philosophiae si poteva ottenere anche senza aver assistito ad alcuna lezione. Si dovevano superare gli esami in otto materie, di cui una a scelta, con un indice rigidamente fissato e un esame finale su un argo­ mento specializzato . Bisognava inoltre presentare una tesi, non neces­ sariamente originale, e frequentare un seminario biennale nel campo di specializzazione prescelto. In pratica i corsi, con poche eccezioni, rispec­ chiavano il sillabo solo alla lontana. Degli otto esami prescritti, solo quattro riguardavano la matematica (cinque, se si includeva Meccanica teorica e sei se si sceglieva Logica come materia facoltativa). Erano obbli­ gatorie anche Fisica sperimentale e Filosofia. Riporto questi dettagli per sottolineare la differenza tra quel sistema scolastico e quello vigente nel mio paese d'adozione, gli Stati Uniti. La mia prima lezione fu di Aritmetica teorica. Il corso aveva lo scopo di introdurre, in modo assiomatico e rigoroso, il sistema dei numeri; iniziava con i famosi assiomi di Peano e finiva con i numeri irrazionali.

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Fu questo il primo incontro con la matematica astratta e fu per me come la prima esperienza di un anatroccolo con l'acqua. In effetti dovevo essere piuttosto bravo, se il titolare del corso, Eustachy Zylinski, mi chiese di aiutarlo a redigere le sue dispense (che allora venivano ciclostilate e, credo, vendute). Ero così lusingato di essere stato scelto che non feci caso al fatto che non mi sarebbe stato corrisposto alcun compenso per quella considerevole mole di lavoro . Il mio nome figurava sul fronte­ spizio, anche se meno in evidenza del nome del professore che pratica­ mente non aveva fatto nulla. Contemporaneamente frequentavo il semi­ nario di algebra e teoria dei numeri. Era assai poco legato al corso di Aritmetica teorica ed era sotto la supervisione nominale di Zylinski. A tenere le lezioni era però Marceli Stark, un assistente dell'Istituto di matematica. Oltre a Steinhaus, fu lui a influenzarmi maggiormente durante i miei anni da studente. Era assai giovane, avendo ottenuto il titolo di magister appena uno o due anni prima, eccezionalmente intel­ ligente e veloce nell'afferrare i problemi. La sua conoscenza della mate­ matica aveva del prodigioso, e aveva inoltre una sensibilità didattica non comune. Il seminario mi svelò un mondo nuovo e mi diede l' opportu­ nità di misurarmi su un ampio spettro di problemi interessanti. Marceli era perfezionista in tutto, e per questa ragione non pubblicò quasi niente, a parte un paio di, invero ottimi, libri di testo. Nel dopo­ guerra coordinò tutte le pubblicazioni avanzate di matematica in Polo­ nia. Il merito del notevole prestigio di cui esse godono nel mondo è interamente suo . Passò la guerra in un campo di concentramento lavo­ rando per l'aeronautica tedesca e trovò il modo di sabotare lo sforzo bellico della Germania salvando nel contempo la propria vita. Visti i miei risultati nel seminario, si interessò a me, aiutandomi in molti modi. Fu lui a tradurre in inglese, lingua che conosceva assai bene, il mio primo articolo di una certa importanza, Una serie trigonometrica, che apparve nel 1 9 3 4 nel ' 'Journal of the London Mathematical Society' ' . Mi costrinse letteralmente a imparare l a teoria dell' integrazione e della misura secondo Lebesgue, contro le quali avevo maturato un irragione­ vole pregiudizio. Fortunatamente questa idiosincrasia durò poco. La teoria di Lebesgue, dovrei aggiungere, è una pietra angolare dell' analisi mate­ matica, ed era il pane quotidiano della scuola di Leopoli. Come ho già detto, si deve ad essa se il genio di Banach fu scoperto da Steinhaus. Stark mi aiutò anche in un difficile momento all'inizio della mia car­ riera. Il seminario era già cominciato da alcune settimane quando il pro-

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fessor Stanis.law Ruziewicz, titolare della cattedra di Analisi matema­ tica, annunciò l'inizio del suo corso introduttivo.5 Avevo atteso questo momento con ansia perché già in passato avevo tentato, ma senza suc­ cesso, di impadronirmi del calcolo differenziale e integrale. Sarebbe stata la volta buona? L'inizio della prima lezione fu traumatico . "Signori - esordì Ruziewicz, ignorando la presenza femminile che costituiva un buon terzo del suo uditorio - voi conoscerete senz' altro la teoria delle sezioni di Dedekind . . . " E si lanciò poi a definire i delicati concetti di limite superiore e inferiore di una succesione di numeri reali. Il nome di Dedekind ( 1 8 3 1 - 1 9 1 6) mi era familiare, perché tra i libri di mio padre figuravano due suoi classici: Stetigkeit und irrationale Zablen (Continuità e numeri irrazionali) in cui le sezioni venivano introdotte e discusse, e il più popolare Was sind und was sollen die Zablen? (Che cosa sono i numeri, e cosa dovrebbero essere?) . Li avevo scorsi trovandoli total­ mente incomprensibili, e ora, non si sa come, veniva dato per scontato che conoscessi questa roba! Venivo da una delle migliori scuole della Polonia, ove l'insegnamento della matematica, e delle scienze in genere, era un po' come il fiore all'occhiello ; tuttavia più in là dei primi rudi­ menti della geometria analitica i programmi non si spingevano . Cono­ scevo, è vero, la geometria descrittiva, diciassette modi diversi per la risoluzione dei triangoli e tutto, proprio tutto, sulle equazioni quadra­ tiche, ma non mi serviva a nulla. Quando mai a scuola avrei dovuto sentir parlare delle sezioni di Dedekind? Ma mi rendo conto che questa è una domanda che risponde a una logica "americana" . Nella Polonia prebellica non veniva dato alcun peso alla continuità del processo for­ mativo, e il concetto di prerequisito era sconosciuto . La scuola secon­ daria certificava solamente una generica maturità ad affrontare gli studi superiori, non il possesso della necessaria preparazione per farlo . Il programma comprendeva le sezioni di Dedekind e suggeriva alcune letture per prepararsi all'esame di Calcolo ; a onor del vero non era obbli­ gatorio darlo al primo anno, ma io volevo comprendere e assimilare subito quella materia, anche se non riuscivo a vedere come sarei riu­ scito a farlo. Angosciato mi rivolsi a Marceli. Egli mostrò sorprenden­ temente poca comprensione per la mia situazione. "Ma io non ho mai sentito parlare delle sezioni di Dedekind" , protestavo . "Bene, vorrà dire che te le dovrai studiare" , commentò , e, unica concessione, mi consi­ gliò un libro. Così me ne tornai a casa e studiai quel libro; mentre leg­ gevo, la bellezza del concetto mi colpì con tale forza da !asciarmi in

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uno stato di euforia. Pochi giorni dopo ne parlavo a Marceli, con tale entusiasmo che si sarebbe detto che fosse una mia scoperta. "Forse hai davvero la stoffa del matematico" , osservò lui. Superata la crisi delle sezioni di Dedekind, tutto filò liscio e in poco tempo padroneggiai la materia. Fu così che, fatto piuttosto insolito, supe­ rai l'esame di Analisi l alla fine del mio primo anno . Gli esami si svol­ gevano alla fine di ogni trimestre, tranne che per le materie facoltative, per le quali la data poteva essere concordata secondo le esigenze dell'e­ saminando e del docente. La parte decisiva dell'esame era la prova orale, e solo in poche materie e nell'esame fmale vi era anche lo scritto, comun­ que non determinante. Gli studenti venivano assegnati a caso ai quat­ tro professori, in modo da assicurare a questi un'equa distribuzione delle indennità per le prove d'esame, che costituivano una considerevole fonte di reddito in più . Sostenni l'esame di Analisi l con Steinhaus, la cui severità era pro­ verbiale. Mi fece due domandine semplicissime e mi assegnò un A, cioè il massimo dei voti. Prima che mi congedasse gli chiesi di poter fre­ quentare il suo seminario l'anno successivo (il suo benestare era pro­ prio necessario , trattandosi del secondo anno di un corso biennale) ed egli mi firmò subito una dichiarazione. È curioso che in quattro esami su cinque mi toccasse come esaminatore Zylinski. La probabilità a priori di un tale evento è poco meno dell' l , 5 per cento , bassa quanto basta per fare alzare le "sopracciglia statistiche" di chiunque. Con me era di gentilezza squisita, e quando mi presentai nel suo studio per affrontare l'esame di Meccanica sollevò lo sguardo da alcuni scritti e disse: "Oh, è lei. Le do A." "Ma non mi fa nemmeno una domanda?" replicai, e lui: "Molto bene, che cos'è l'equazione di Schrodinger?" "Non lo so" risposi, e lui di rimando : "Non importa, A glielo do lo stesso . " L' equazione d i Schrodinger è un'equazione fondamentale della mecca­ nica quantistica non relativistica che non faceva parte del programma, e sono quasi convinto che lo stesso Zylinski non la conoscesse. Con Ruziewicz ebbi rari contatti, dopo il primo anno a Leopoli. Ciò non toglie che egli abbia avuto un ruolo importante nella mia vita: gra­ zie al suo interessamento ottenni una borsa di studio governativa che mi consentì di proseguire gli studi. Il caso volle che fosse lui stesso a tenere le esercitazioni settimanali (due ore) del suo corso di Analisi l . Generalmente questo era compito degli assistenti, ma per qualche ragione il corso del mio primo anno fece eccezione.

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Ruziewicz era molto timido e raramente volgeva lo sguardo all'udi­ torio, il che forse spiega come mai non avesse notato la presenza di ragazze nella prima lezione. Entrava in classe e, senza dire verbo, scriveva un problema alla lavagna; dopodiché si sedeva ad aspettare che qualche volontario tentasse di darne una soluzione. All' inizio i problemi erano abbastanza semplici e il numero di volontari era sufficiente, ma man mano che i problemi si facevano più tosti il numero dei volontari calò sensibilmente e non passò molto tempo che rimasi l' unico ad avere il coraggio di andare alla lavagna. Verso la fine dell' anno accademico mi si presentò il problema del mio sostentamento per l'anno successivo . Il governo concedeva un numero limitato di borse (non vi era modo di dar lezioni a pagamento) e io decisi di concorrere a una di esse; con poche speranze, in verità, perché la concorrenza era spietata e, antisemitismo a parte, le occasioni favorevoli erano assai ridotte. Ma per avere almeno una speranza occor­ reva una robusta raccomandazione. Stark non andava bene, perché troppo giovane, e su Zylinski non facevo molto affidamento. Restava Ruzie­ wicz, e sia pur riluttante mi rivolsi a lui: correva voce che fosse mem­ bro del partito democratico nazionale e quindi particolarmente preve­ nuto contro gli ebrei. Ma non avevo scelta. Mi accolse affabilmente e senza pensarci un attimo scrisse poche frasi sull'apposito modulo che avevo portato con me; poi, senza chiuderlo in una busta, me lo porse. Non appena ebbi lasciato il suo studio, la curiosità ebbe il sopravvento sulla discrezione e lessi lo scritto . Era strabiliante. Nelle sue esercita­ zioni, diceva, non gli era mai capitato uno studente così bravo, e aggiun­ geva che, dal punto di vista matematico, ero un "cavallo di razza" . Mi sembrava di toccare il cielo con un dito quando mi recai all'ufficio com­ petente per consegnare la mia domanda, cui avevo saldamente allegato la lettera di raccomandazione di Ruziewicz. Poco tempo dopo mi fu notificato che mi era stata assegnata una borsa a mezzo stipendio (solo in rarissimi casi ne venivano concesse a stipendio pieno) dell'importo di sedici sloti (circa dodici dollari al cambio di allora) al mese per dieci mensilità. Riuscii a cavarmela ugualmente, perché trascorsi i tre mesi di vacanze estive a casa e mi feci un po' di soldi impartendo lezioni private. La vita, del resto , costava assai poco in quei tempi in Polonia. Poche altre parole su Ruziewicz. Era un buon matematico e aveva al suo attivo parecchie pubblicazioni pregevoli. Non aveva certo la classe di Banach e di Steinhaus, ma allora pochi l'avevano . lnspiegabilmente

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la sua cattedra venne soppressa dal ministro della Pubblica Istruzione nel l 9 3 5 o nel l 9 3 6 , ma egli, che conservava la sua venia legendi, con­ tinuò a tenere regolarmente lezioni di teoria degli insiemi. Ebbe poi una cattedra nella locale Scuola di Amministrazione. Fu fucilato dai tedeschi alla ftne di giugno del 1 94 1 , assieme a cento intellettuali polacchi, molti dei quali erano famosi scrittori o studiosi. Tra loro vi era Kazi­ mierz Bartef, noto esperto di geometria descrittiva e di teoria della pro­ spettiva, più volte primo ministro agli inizi degli anni trenta, e Tadeusz Zeluski, che tradusse Molière in polacco e che sotto lo pseudonimo di Boy scrisse meravigliosi, arguti versi leggeri . Ma facciamo un passo indietro . All'inizio del primo trimestre fui coinvolto in una indegna gazzarra contro gli studenti ebrei inscenata da elementi nazionalisti. Ero nella sala di lettura dell' Istituto di Mate­ matica quando un gruppo di facinorosi, maschi e femmine, irruppe nella stanza urlando slogan antisemiti; prima ancora che potessi rendermi conto di che cosa stesse accadendo venni gettato a terra. I teppisti si eclissa­ rono rapidamente come erano venuti, ma restarono abbastanza a lungo perché potessi vedere i loro volti contratti dall'odio . Non ero ferito , ma dovetti portare la giacca in lavanderia. Fu un'esperienza avvilente, difficile da dimenticare. Data la loro autonomia (un altro ricordo di un passato medievale) le università godevano del privilegio dell'extraterritorialità; ovverosia la polizia non poteva entrarvi senza essere stata chiamata dal rettore. Non che la polizia sarebbe stata di grande aiuto : era notoriamente dalla parte degli aggressori. In quei tempi a Leopoli i rettori (il cui incarico era annuale) risolvevano il problema di questi disordini, che diventa­ vano sempre più gravi e frequenti, chiudendo l'Università. Ritengo che tra l'ottobre del 1 9 3 l , quando giunsi a Leopoli, e il novembre del 1 9 3 8 , quando lasciai la Polonia, l'Università sia rimasta chiusa per circa un terzo del tempo . Nella successiva manifestazione antisemita, nella quale non fui però coinvolto, gli studenti polacchi nazionalisti attaccarono un gruppo di autodifesa ebraico. In quell'occasione uno degli aggressori, colpito da un sasso , perse la vita. Ai suoi funerali, pochi giorni dopo, si sarebbe detto che un grande eroe nazionale era caduto per Dio e per la Patria. Il servizio funebre fu offtciato dal Magnifico Rettore, che in quell'anno era un sacerdote, professore di teologia. Il mio primo anno di università vide la moda delle coccarde, di color

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verde, che gfi studenti portavano all'occhiello della giacca come segno di riconoscimento, a indicare la loro fede antisemita. Se non altro, que­ sto consentiva di riconoscere subito, tra i colleghi, le poche persone moral­ mente sane. I disordini antisemiti dell'autunno del 1 9 3 1 furono solo l' inizio . La campagna contro gli ebrei, sia fuori che dentro le università, si stava intensificando . Dopo la morte di Pi.lsudski, nel 1 9 3 5 , il governo polacco, che sino ad allora aveva tentato , sia pur senza troppa convin­ zione, di contenere la crescente domanda di misure legali contro gfi ebrei che veniva dagli studenti, cominciò a cercare soluzioni di compromesso . La più vergognosa concessione risale all'autunno 1 9 3 7 , quando il mini­ stro della Pubblica Istruzione, un mediocre professore di chimica fisica, decretò che gli studenti ebrei sedessero, in aula, sul lato sinistro . Sem­ pre a causa della famosa autonomia delle università, questo ordine, che veniva a creare il cosiddetto "ghetto dei banchi" non poteva divenire esecutivo senza l'approvazione dei rettori. Ebbene, tutti tranne uno lo firmarono . L'eccezione fu Stanis-l'aw Kulczynski, noto studioso di impianti industriali, allora rettore della mia Università. Di idee politi­ che piuttosto conservatrici, egli si rifiutò di firmare e presentò la sue dimissioni in segno di protesta. Il messaggio che inviò al ministro era di questo tenore: "Distruggete una centrale elettrica e sarà buio subito ; distruggete l'Università e sarà buio tra cinquant'anni. " L'oscurità scese molto prima e portò con sé orrori tali da far sembrare irrilevante il ghetto dei banchi, ma il gesto di coraggio del rettore Kulczynski è degno di nota. Ma torniamo ai tempi dell'università. Superai gfi esami fmali per con­ seguire il titolo di magister philosophiae nel marzo del 1 9 3 5 , in tempo record . La mia tesi verteva sulle serie trigonometriche e sui sistemi di Rademacher, e, se la memoria non mi inganna, consisteva nella ristampa di due articoli già pubblicati e di poche pagine manoscritte contenenti alcune osservazioni sulle funzioni di Rademacher. Sul secondo, terzo e quarto anno di università non ho molto da rac­ contare, se non che le lezioni di Steinhaus mi entusiasmavano e che feci passi da gigante in matematica. Banach non lo vedevo quasi mai, ma ero assolutamente deciso a capire le equazioni differenziali iperboli­ che, e così seguii, per un trimestre, le lezioni di Schauder. Purtroppo l'argomento era ancora troppo difficile per me e Schauder come inse­ gnante non era dei più chiari. Lessi moltissimo per conto mio , soprat­ tutto sulla teoria delle serie ortogonali, un soggetto molto legato all'im-

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postazione data all'analisi funzionale da Banach e su cui Steinhaus e Stefan Kaczmarz stavano scrivendo una monografia. Cominciai anche a leggere Wabrscbeinlichkeitsrecbnung (Calcolo delle probabilità), il famoso trattato di A. A. Markov. Seppure non all' unanimità, fui ammesso alla sezione locale della Società matematica polacca (non era un grande onore, credetemi) e ini­ ziai a partecipare agli incontri, che si svolgevano regolarmente di sabato, alle otto di sera. Dopo la riunione i soci si trasferivano per lo più al Caffè Szkocka per un caffè o una birra. Situazione finanziaria permet­ tendo mi univo a loro; Steinhaus lo faceva raramente. Forse un aspetto della mia formazione universitaria merita di essere menzionato, e riguarda il mio interesse per la fisica. La fisica teorica in Polonia prese a declinare dopo la morte di Smoluchowshi nel 1 9 1 7 . Quando ero studente, gli unici fisici teorici conosciuti al di fuori dei confmi del paese erano Wojciech Rubinowicz e Leopold Infeld. Il primo, che insegnava al Politecnico di Leopoli (alla Facoltà di Ingegneria), era stato allievo, a Monaco, del grande Arnold Sommerfeld. Aveva al suo attivo molte pubblicazioni di rilievo ed era famoso internazionalmente. Infeld, molto più giovane, salì in cattedra all'Università di Leopoli all'in­ circa quando io cominciai a frequentare. Subito dopo, però , vinse una borsa per l'estero della Fondazione Rockefeller (una delle più ambite) e trascorse la maggior parte del tempo in Inghilterra a Cambridge, ove collaborò con Max Born . Pur avendo talento e originalità, Infeld non riuscì a sfondare nella carriera. Nella sua brillante e caustica autobiografia egli ricorda amara­ mente gli anni sprecati della giovinezza, quando anziché studiare sul serio la fisica, gli toccava di guadagnarsi un misero tozzo di pane inse­ gnando ai ragazzini in una scuola privata retta da ebrei.6 Nella stessa autobiografia egli si dilunga minuziosamente sulle manovre antisemite che gli avevano impedito di ottenere una cattedra, salvandogli per pura coincidenza la vita. Nel 1 9 3 6 , su invito di Einstein, si recò a Princeton e divenne poi professore all'Università di Toronto . Nel 1 9 50, lasciato il Canada a causa dell'inqualificabile atteggiamento delle autorità nei suoi confronti/ fece ritorno in Polonia, ove, praticamente da solo, creò un'ottima scuola di fisica teorica. Durante il breve periodo in cui ci trovammo entrambi a Leopoli seguii il suo seminario di meccanica quantistica, trovandolo estremamente duro (ma allora ero anche impe­ gnato in questioni matematiche che avevano per me la massima priorità).

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Quando ero studente io, la cattedra di Fisica teorica era tenuta tem­ poraneamente da Szczepan Szczeniowski,8 già allievo di Smoluchow­ ski. Per formazione e inclinazione personale egli era uno sperimentale; si convenì alla fisica teorica solo per tenere occupata la cattedra in attesa del titolare definitivo , ma svolse comunque il suo compito con compe­ tenza. Mi recai da lui nel ' 3 4, perché avevo deciso di scegliere Termo­ dinamica come materia facoltativa. In quel periodo mi stavo interes­ sando alla teoria della probabilità, e il programma di termodinamica includeva cenni di teoria cinetica, in cui, com'è noto , i concetti proba­ bilistici rivestono un ruolo importante. Mi fu prescritto lo studio della Tbermodynamik di Max Planck, un classico intramontabile, e di due capitoli sulla teoria cinetica del testo di Clemens Schaefer, allora in gran voga, Einfubrung in die tbeoretiscbe Pbysik (Introduzione alla fisica teo­ rica) . Presi i due libri in prestito dalla biblioteca e mi misi subito all'o­ pera: per prepararmi all'orale avevo due mesi di tempo . Imparare la fisica teorica da soli, senza la guida di un corso e senza poter chiedere chiarimenti ad alcuno , non è uno scherzo . Per me non lo fu davvero, e per la prima volta ebbi l'impressione di essere in balia dei flutti, incapace di dominare la materia. A quei tempi vi era un tale distacco tra studenti e professori, anche i semplici incaricati, che non pensai neppure per un attimo di rivolgermi a Szczeniowski per un aiuto . E così, in solitudine, sudavo le proverbiali sette camicie su quello che consideravo il punto estremo della conoscenza. Ero angustiato dal poco tempo a mia disposizione. Avrei potuto, è vero, farmi spostare la data dell'esame, ma in fondo sarebbe stato solo un posticipare il disastro ; accarezzai persino l' idea di scegliere un'altra materia, come Logica o Astronomia, che ero sicuro di poter affrontare in un tempo ragione­ vole. Un inspiegabile istinto suicida mi spingeva all'appuntamento fis­ sato , e vi andai, sicuro che quella sarebbe stata la mia esecuzione acca­ demica. Non fu così. Contrariamente alle mie previsioni, presi il voto massimo dopo aver brevemente illustrato la deduzione dell'equazione di Boltzmann (su questo argomento scrissi vari articoli molti anni dopo) e discusso , con simulata sicurezza, varie formulazioni del secondo prin­ cipio della termodinamica. Szczeniowski si complimentò persino con me. "Ma com'è possibile? - pensai tra me e me - non capire niente di questo dannatissimo argomento e fare un figurone!" Allora quel voto non lo meritavo, ma molti anni dopo sì. Nel 1 9 7 2 , quando Szczeniow­ ski mi onorò della sua presenza a una mia conferenza in Polonia su

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un argomento direttamente connesso alla termodinamica, gli chiesi se si ricordasse di avermi dato un A in quella stessa materia. Quando mi rispose affermativamente gli dissi: "Ora è meritato. " Non h o ben presente l a cronologia degli avvenimenti della mia vita nel periodo intorno al conseguimento del titolo di magister, ma ricordo, ed è ciò che importa, che in quel tempo i miei contatti con Steinhaus divennero più frequenti e personali. Frequentavo ovviamente il suo semi­ nario e due dei suoi corsi. Uno consisteva in una raffmata serie di lezioni sulle matematiche elementari da un punto di vista superiore, sull'esem­ pio di quanto faceva Felix Klein a Gottinga. Il corso non era molto seguito, e un giorno ad assistervi eravamo solo io e un altro studente. Steinhaus svolse la sua lezione senza dare alcun peso al numero dei suoi allievi e alla fine gli domandai quale fosse il numero minimo di ascolta­ tori cui si sentisse obbligato a tener lezione. " Tres facit collegium" , replicò. La lezione successiva ero rimasto solo. Quando Steinhaus cominciò a parlare lo interruppi chiedendogli: "Come la mettiamo con quel detto?" "Dio - replicò - è sempre presente" , e continuò la sua lezione. Stein­ haus era, per inciso, un ateo convinto . Un bel giorno, era la primavera del ' 3 5 , mi chiamò nel suo ufficio e disse: "Ho pensato a una classe di funzioni che propongo di chiamare stocasticamente indipendenti e che sono così definite" , e scrisse la defi­ nizione su un pezzo di carta. "Perché non ci pensa su e non cerca di cavarne fuori qualcosa di buono?" Non riuscivo ad afferrare il perché di quella definizione, che a dire il vero mi suonava piuttosto strana, ma il mio rispetto per Steinhaus era tale che non potei esimermi da quel compito . In matematica, detto un po' alla buona, si può essere creativi in due modi diversi. Si può, un po' come un alpinista che parta alla conquista di una vetta, risolvere un problema rimasto insoluto e di cui altri si sono già occupati. Ma si può anche, come Steinhaus mi aveva chiesto, esplo­ rare il nuovo . In seguito scoprii che il territorio in cui mi ero adden­ trato era tutt'altro che vergine, ma allora né Steinhaus né io ne era­ vamo a conoscenza. Durante l'estate ottenni alcuni risultati e fui piacevolmente sorpreso nel costatare che riuscivo a capire alcune parti del trattato di Markov che solo poco tempo prima mi erano apparse del tutto oscure. Le funzioni stocasticamente indipendenti di Steinhaus risultavano essere un modello concreto, meravigliosamente concreto, di quelle misteriose "variabili aleatorie indipendenti" che Markov, a

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mio parere, non era riuscito a defmire. La teoria della probabilità avrebbe potuto divenir parte della teoria delle funzioni di variabile reale (l' argo­ mento della mia specializzazione per conseguire il titolo di magister) e in special modo della teoria dei sistemi ortogonali, che era il cavallo di battaglia della scuola matematica di Leopoli. Non mi accorsi che, in forma diversa, gran parte di quanto avevo scoperto era già noto (lo era, veramente, a una ristretta minoranza e comunque si trattava di argo­ menti lontani anni luce dagli interessi allora prevalenti tra i matema­ tici) . Quando presentai il mio lavoro a Steinhaus, si infervorò e ideò tosto un'elegante applicazione di uno di quei risultati. Quando tornai a Leopoli, nell' autunno del ' 3 5 , cominciammo a collaborare e fino al giorno in cui lasciai la Polonia fummo inseparabili. Ormai non ero più uno studente, ma un magister philosophiae, e con buone prospettive di conseguire il dottorato in un tempo ragionevole. Steinhaus era sicuro che non avrei avuto difficoltà a preparare una tesi accettabile. Appog­ giò la mia domanda per una proroga della borsa di studio e difatti la ottenni, ma con un ritardo di tre mesi durante i quali feci letteralmente la fame. Quando ci vennero finalmente pagati gli arretrati con la fanta­ stica somma di centottanta sloti (trentasei dollari) io e un altro borsista ci recammo in un ristorante di lusso , ben al di là dei nostri mezzi, e ordinammo tre cene ciascuno . I nostri stomaci non ce la fecero a reg­ gere il brusco salto dall'inedia a quella crapula invereconda, e così a metà della prima cena entrambi dovemmo cedere le armi. Uno spreco enorme, ma ne era valsa la pena. In quel periodo (la fine del ' 3 5 o l' inizio del ' 3 6) Steinhaus mi assunse in qualità di assistente privato. Vista la sua abilità - oltretutto era effi­ cientissimo nell'organizzazione del lavoro - non aveva bisogno che lo aiutassi; semplicemente, voleva darmi una mano finanziariamente, e, nella sua sensibilità, temeva che avrebbe offeso il mio amor proprio se mi avesse semplicemente offerto del denaro. Comunque, dopo un primo periodo durante il quale fui più di impiccio che di aiuto , mi dimostrai effettivamente utile, soprattutto in relazione al suo progetto di un libro di matematica per immagini. Una vera cannonata! In quarantacinque anni (la prima edizione è del 1 9 3 8) Matbematical Snapsbots, questo è il titolo, ha avuto innumerevoli edizioni, è stato tradotto in dieci o più lingue ed è stato recentemente pubblicato in versione economica. Come Steinhaus sottolineava nell'introduzione, il libro intendeva rivolgersi "allo scienziato nel bambino e al bambino nello scienziato" e vi riuscì splen-

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didamente. Mi piacerebbe tanto poter dire di aver contribuito anch'io alla ideazione e alla realizzazione del progetto , ma non sarebbe la verità. Steinhaus ovviamente discusse con me vari argomenti e io suggerii uno degli esempi, ma il libro è opera sua. Uno dei miei compiti, come suo assistente, era comunque di occuparmi del materiale fotografico, e que­ sto mi condusse all'unica mia seria storia d' amore da questa sponda del­ l' Atlantico . Steinhaus voleva rappresentare un'ellisse usando la superficie dell'acqua come appare in un bicchiere inclinato e suggerì che fotografassimo il bicchiere tenuto da una mano femminile. Un pomeriggio sul tardi, mentre stavo sistemando sul pavimento dello studio alcuni oggetti per la ripresa fotografica, la porta si aprì ed entrò una giovane snella, con un cap­ pello a larga tesa. Fece con la mano un cenno di saluto , e io, che ero carponi sul pavimento, notai dal mio osservatorio privilegiato che quella era davvero una graziosa manina. Quale migliore opportunità di foto­ grafare la famosa ellisse? "Se mi presta la destra per pochi minuti - le dissi prima ancora che ci fossimo presentati - le prometto l' immorta­ lità." Mantenni la promessa, visto che le migliaia di lettori, in ogni parte del mondo , che hanno comprato , preso a prestito o rubato Matbematic­ al Snapsbots hanno ammirato l'elegante mano di Meri Dubinski. Tutto ciò accadeva proprio mentre avevo deciso di trovare il modo per lasciare la Polonia. Con la perseveranza di Catone, che finiva tutte le sue orazioni con un "delenda Cartbago" , io continuavo a ripetermi: "Devo lasciare la Polonia." Sapevo che per avere una sia pur esile spe­ ranza avrei dovuto mettercela tutta per raggiungere un minimo di noto­ rietà scientifica. In fondo, senza il dottorato e con i miei due o tre arti­ coli pubblicati ero un pivello , mentre i miei concorrenti tedeschi erano in molti casi celebrità mondiali. L' ultima cosa di cui avevo bisogno era di innamorarmi; e però , quando venne il momento, e potendo ancora scegliere, sal tai il fosso . Dopo una delle mie sedute fotografiche del tardo pomeriggio , a cui Meri partecipava con una certa regolarità, la accompagnai alla fermata dell'autobus. Mentre stavamo aspettando il suo disse: "Vorrebbe venire a casa mia per cena e conoscere mia madre?" Avrei potuto facilmente trovare una scusa, ma mentre la voce della ragione mi suggeriva di dire: "Sono spiacente, ma . . . " udii me stesso rispondere: "Con vero piacere." Meri era longilinea, con capelli castani ondulati e lineamenti piutto­ sto marcati che si addolcivano quando sorrideva. Quando la incontrai

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CAPITOLO SECONDO

si stava riprendendo da un'infelice storia d'amore e sulle prime era natu­ ralmente riluttante a farsi coinvolgere in qualcosa che rischiava di risol­ versi in un'altra delusione. Sapeva che stavo cercando di lasciare la Polonia e che il mio lavoro aveva per me la priorità assoluta. Quando il nostro coinvolgimento reciproco aumentò, Ste!nhaus, che aveva sempre avuto a cuore il mio destino quasi come un genitore, temette che sposandomi potessi perdere quella libertà di cui avevo così disperatamente bisogno per espatriare. Sospetto, pur non avendo alcuna prova, che egli avesse messo a parte i miei genitori di questa sua preoccupazione. Tuttavia, quando portai Meri a Krzemieniec per incontrarli, essi superarono l'esame comportandosi molto educatamente. Non vi fu calore, ma nemmeno l'ombra di ostilità. D'altra parte era difficile essere ostili con Meri, tanto era simpatica. I miei genitori non avevano di che preoccuparsi. Meri e io eravamo pragmatici a sufficienza per renderei conto che un matrimonio in quelle condizioni era improponibile e concordammo il seguente piano : se e quando avessi raggiunto gli Stati Uniti, avrei contattato a New York il fratello di sua madre, che aveva fatto una fortuna con gli impianti elettrici, e avrei cercato di persuaderlo a concedere a Meri una dichia­ razione giurata di supporto economico (senza la quale non si poteva nemmeno sperare di ottenere un visto d'entrata). E noi ci saremmo sposati non appena lei avesse raggiunto quella sponda dell'Atlantico . Questi erano i sogni della nostra innocenza; nemmeno un presagio dell'immane tragedia che stava per sconvolgere il mondo turbava l'immaginazione del nostro futuro insieme. Nonostante l'aggravarsi della situazione politica in Polonia, la cre­ scita continua del naiismo in Germania e le tremende notizie di epura­ zioni sanguinose in Unione Sovietica, la vita procedeva abbastanza tran­ quillamente. Con lo stipendio che mi passava Steinhaus e la mia borsa, mi potevo permettere talvolta una scorribanda con Meri in un buon locale per una cena e un ballo; cominciai anche a recarmi più di fre­ quente al Caffè Szkocka dopo gli incontri del sabato sera della Società matematica. Il lavoro procedeva bene. Sul finire del 1 9 3 6 avevo rac­ colto materiale sufficiente per mettere insieme una tesi di dottorato digni­ tosa, se non proprio brillante. Fu allora che conobbi Wladys.taw (Wladek) Hetper, che divenne poi il mio più caro amico . Era di Cra­ covia, e in quella città si era laureato in matematica. Fin da studente aveva sentito l'influenza di Leon Chwistek, un fùosofo e logico che

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intorno al 1 9 3 O si era trasferito a Leo poli per divenire il primo titolare della nuova cattedra di filosofia nella facoltà di Scienze. W.tadek lo seguì, ma con considerevole ritardo . Questo Chwistek era un tipo interessantissimo e sicuramente indivi­ dualista. Seguace di Bertrand Russell (si diceva che fosse l'unico, a parte gli autori, ad aver letto tutti e tre i volumi dei Principia Matbematica) fece parlare di sé per essere riuscito a migliorare, semplificandola, la teoria dei tipi di Whitehead e dello stesso Russell, una teoria nata per rendere conto dei paradossi di autoreferenza. Negli anni venti diede notevoli contributi alla logica, e agli inizi degli anni trenta cominciò ad architet­ tare un sistema logico che abbracciasse tutta la matematica senza lo spettro terrorizzante dei paradossi. Come filosofo Chwistek era vicino al Circolo di Vienna, il famoso gruppo cui appartenevano, tra gli altri, Rudolph Carnap, Kurt GOdei e Moritz Schlick. Ricordo la lezione di filosofia da lui tenuta il giorno in cui giunse la notizia dell'assassinio di Schlick da parte di uno stu­ dente folle. Dopo aver cercato coraggiosamente di rendere omaggio all'a­ mico, Chwisteck ebbe un crollo e scoppiò in lacrime. Diceva di essere un marxista non hegeliano, il che potrebbe sem­ brare una contraddizione in termini, ma aveva un tale disprezzo (che mi comunicò) per Hegel da scegliere l'eresia piuttosto che l'accettazione di qualunque cosa potesse scaturire dalla penna o dalla mente ottene­ brata (così almeno sosteneva Chwisteck) del pensatore tedesco . Il fùocomunismo di Chwisteck, fosse o non fosse di matrice hege­ liana, lo spinse a unirsi nel giugno del 1 94 1 all'esercito sovietico in riti­ rata e infine a raggiungere Mosca. Morì di infarto durante un banchetto al Cremlino cui era presente Stalin . Chwisteck fu anche il capofùa di un gruppo di pittori polacchi astrat­ tisti e fu egli stesso artista di talento . Molte delle sue opere sono espo­ ste al Museo Nazionale di Varsavia, nell'ala dedicata all'arte moderna. Affidò il suo credo filosofico a un libro, I limiti della scienza, opera asso­ lutamente disorganica e fin troppo personale, ma pur sempre lettura di grande interesse e a tratti addirittura esaltante. Contiene una versione provvisoria de Il sistema (non credo che quella definitiva sia mai giunta alle stampe). Per quanto sta in me giudicare, Il sistema non reggeva il confronto con le scoperte monumentali di GOdei, risalenti allo stesso periodo in cui il libro veniva scritto . Chwisteck sposò una delle sorelle di Steinhaus, ma i due cognati non andarono d'accordo, almeno scien-

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tificamente. Superai il prescritto esame di Filosofia (il sistema polacco prendeva molto sul serio la parola "filosofia" nel titolo di magister phi­ losophiae) accompagnando Chwisteck nelle sue passeggiate di mezzo­ giorno nei parchi di Leopoli. Di filosofia sapevo pochissimo e capivo ancor meno , ma Chwisteck era il più gentile degli uomini, e invece di bocciarmi, mi diede un A. Fece anche parte della mia commissione esa­ minatrice per il dottorato, assieme a Steinhaus e a Banach . Chwisteck cominciò a sviluppare Il sistema quando era ancora assi­ stente a Cracovia. Con lui collaborarono due brillanti studenti, Jan Herz­ berg e W!adys!aw Hetper. Herzberg, che incontrai una sola volta, era, se si potesse credere a una simile definizione, un comunista santo. Uomo di incredibile compassione e modestia, non poteva scendere a compro­ messi con un mondo pieno di sofferenze e di ingiustizie; in qualche modo si era convinto che il comunismo fosse l' antidoto a queste brutture, e per questo suo ideale scontò anni di galera. In Polonia la propaganda comunista era illegale, un reato per il quale erano previste pene seve­ nssime. W!adek Hetper aveva una dirittura morale non meno ferma, ma trovò la sua risposta nella religione. Grazie a lui ripresi in considera­ zione il mio atteggiamento nei confronti della religione cattolica e della cristianità in generale. La storia degli ebrei durante la diaspora seguita alla distruzione del Secondo Tempio è una storia di continue persecu­ zioni religiose, tutte nel nome di quel Cristo che predicò l'amore e il perdono. Se si considera l'abissale incongruenza tra il Discorso della Mon­ tagna e l'Inquisizione, si può, credo, essere perdonati dei propri pregiu­ dizi nei confronti della cristianità. Nella mia vita precedente, del resto , era accaduto ben poco perché una sorta di atavica sospettosità venisse cancellata con un colpo di spugna. W!adek cambiò tutto questo, dimo­ strandomi con l'esempio che l'innata raffinatezza spirituale può essere irrobustita e preservata da una fede profonda, quali che siano le forme . m cu1 essa s1 espnme. Non mi ricordo come e quando ci incontrammo; sta di fatto che si stabilì tra noi un'intesa immediata, tanto che decidemmo di affittare la stessa stanza e la dividemmo sino alla mia partenza. Anche W!adek era un borsista, a stipendio intero però, e si preparava per il dottorato ; era quattro o cinque anni più vecchio di me. Quando lo conobbi, si stava riprendendo da una grave tragedia personale: il suo unico fratello, dotatissimo nella poesia, era annegato nel Baltico . Era corsa la voce che .

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si fosse suicidato per una delusione d' amore, ma ovviamente non chiesi mai dettagli. W!adek era alto, biondo e con gli occhi azzurri. Era anche un atleta nato e, segno questo di grande amicizia, mi invitava talvolta ad accom­ pagnarlo nelle sue escursioni sciistiche. Nello sci io ero davvero malde­ stro, e W!adek doveva fermarsi continuamente per togliermi dai guai in cui mi andavo a cacciare, cosa che lo metteva di buon umore. Ricordo che ero abilissimo nel cadere in modo tale che poi mi fosse impossibile muovermi o almeno liberare dall' attacco uno sci. W!adek era anche un giocatore di scacchi di prima categoria. Solo raramente riuscivo a batterlo, e sì che a quell'epoca anch'io me la cavavo abbastanza bene. Un anno vivemmo in una stanza riscaldata da una stufa a carbone e a causa del pericolo di avvelenamento da ossido di carbonio eravano costretti a spegnere il fuoco la sera prima di coricarci. Gli inverni polac­ chi sono rigidi e spesso ci si alzava con il termometro sotto lo zero . Ogni giorno , a turno , uno di noi saltava giù dal letto, attizzava il fuoco e si rituffava sotto le coperte. Ci volevano circa quarantacinque minuti perché la stanza raggiungesse una temperatura vivibile e noi trascorre­ vamo questo tempo a elaborare mentalmente strategie scacchistiche. Durante questi periodi di "riscaldamento" W!adek, che conosceva a memoria l'Iliade e l'Odissea come quasi tutto Ovidio e Orazio , mi inse­ gnava frammenti tratti a caso da quei capolavori immortali. Posso ancora recitare i primi sette o otto versi dell'Iliade! Verso la fine del mese di maggio, nel ' 3 7 , sia W!adek che io supe­ rammo gli esami di dottorato e organizzammo le cose in modo che i nostri titoli ci venissero conferiti nel corso di un'unica cerimonia. Come voleva la tradizione, dovevano presenziare alla cerimonia, splendenti nelle loro toghe, il rettore, il preside della facoltà e naturalmente i rela­ tori, Steinhaus e Chwisteck nel nostro caso. Il pedel (uno speciale araldo), anch'egli in toga, percuoteva per tre volte il pavimento con il bastone, dopodiché il rettore leggeva un' antica formula rituale, e il candidato doveva rispondere "Spondeo ac polliceor" (prometto e giuro). Tutto andò per il meglio tranne che, nonostante i ripetuti insegnamenti di Stein­ haus, misi l'accento in spondeo sulla seconda sillaba invece che sulla prima. Steinhaus si fece piccolo piccolo , e così mio padre, che aveva viaggiato da Krzemieniec per assistere alla cerimonia (la madre di W!adek era venuta da Cracovia). E così, il 5 giugno, il mio amico W!adys!aw Het­ per e io divenimmo "dottori" .

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CAPITOLO SECONDO

Pochi giorni dopo mi fu comunicato che non avevo ottenuto la borsa per l'estero della Fondazione Parnas per la quale avevo concorso. Fu un colpo terribile, soprattutto poiché Steinhaus, che era il rappresen­ tante dell'Università nel comitato della Fondazione, aveva creduto che le mie possibilità fossero molto buone. Così, di colpo, divenni un dot­ tore disoccupato, senza prospettive immediate: ero abbastanza sicuro che l'anno seguente l'avrei spuntata, ma cosa dovevo fare nel frattempo? Il caso intervenne ancora in modo inaspettato. Una compagnia di assi­ curazione, i Feniks, con sede centrale a Vienna, fallì, e si rese necessa­ rio un intervento del parlamento polacco per curare il fallimento della filiale nel nostro paese. Il curatore aveva bisogno di attuari che mettes­ sero ordine nei conti prima di procedere a una liquidazione d'ufficio, e mi fu offerto un lavoro . Accadde così che io beneficiassi della sorte avversa di migliaia di persone che avevano perso i propri risparmi. Il lavoro era tremendamente noioso, ma la paga non era male; soprat­ tutto, potevo rimanere a Leopoli con Steinhaus e continuare le mie ricer­ che matematiche. E la vicinanza di Meri costituiva, inutile dire, un incen­ tivo notevole. Nel frattempo mi venne comunicato che la Fondazione Parnas mi aveva assegnato la borsa e iniziai i preparativi per recarmi negli Stati Uniti. Alla fine di novembre del ' 3 6 mi imbarcai sulla motonave Pitsud­ ski e partii per quella che sarebbe diventata la mia terra adottiva. Avevo all'epoca ventiquattro anni. Prima di recarmi a Gdynia per prendere la nave salutai Meri: la tristezza di quella separazione era alleviata dalla mia fiducia nel nostro ricongiungimento in un futuro non lontano. Dopo aver preso pane a una memorabile festa di addio organizzata dagli amici, feci il mio viaggio in treno di cinque ore per recarmi a Krzemieniec, e quella fu l' ultima visita ai miei genitori, ai miei fratelli e a molti altri componenti della mia famiglia. La situazione politica era pesante - erano trascorsi appena due mesi dai noti fatti di Monaco - ma non potevamo neppure immaginare che cosa ci aspettasse. Guardavo al Nuovo Mondo pieno di speranza: mi sarei definitivamente sistemato laggiù e poi avrei invitato i miei cari a raggiungermi. Anche loro condividevano la mia fiducia ed erano felici al pensiero che ci saremmo riuniti in un mondo meno avvelenato dall'odio . Dopo neppure un anno si scatenò l'Apoca­ lisse: intere nazioni bruciarono in un rogo immane e milioni di per­ sone, tra cui i miei familiari, perirono per mano tedesca; molti altri, tra cui W!adek Hepter, scomparvero senza lasciar traccia nella vastità

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dell'Unione Sovietica. Nel 1 9 3 9, prima dello scoppio della guerra, aveva ottenuto la libera docenza. Quando si aprirono le ostilità, come uffi­ ciale della riserva fu richiamato in servizio e inviato al fronte orientale. Non ebbi più sue notizie sino a quando, molto tempo dopo la fine della guerra, una rivista letteraria polacca, con sede a Londra, pubblicò un articolo con alcuni passi del diario di Feliks Lachman, che aveva tra­ scorso un certo periodo di tempo con W!adek in un campo di prigio­ nia sovietico. Era una breve, commovente testimonianza di un'amici­ zia che fu interrotta dalla condanna di Lachman e dalla sua conseguente deportazione in Siberia. W!adek veniva descritto, lui che aveva un fisico eccezionale, in cattiva salute, il che faceva pensare che stesse facendo la fame. Durante una visita a Londra, contattai Lachman e qualche tempo dopo, nell' aprile del 1 9 7 9 , egli mi spedì un passo del suo diario, intito­ lato "La quarta dimensione" : Starobielsk, dicembre 1 940 La mia conoscenza di W�adek il matematico durò non più di cinque setti­ mane. Come la rondine senza dimora delle saghe norvegesi, egli volò nella mia vita dalla notte, e nella notte scomparve. Non lo rividi mai più , e non so nemmeno ove riposino le sue ossa. Aveva trentun anni quando lo incon­ trai, ed era, lui così religioso, un uomo pessimista. Ricordo che giocava a scac­ chi meravigliosamente e riusciva a risolvere a mente problemi matematici diffi­ cilissimi. Trascorremmo lunghe e appassionanti serate a parlare di Bertrand Russell e dei fondamenti della topologia, e a porci l'un l'altro curiose questioni di fisica e di matematica e test di intelligenza. Riuscimmo a ricostruire la solu­ zione di Cardano alle equazioni cubiche, dopodiché ci tuffammo letteralmente nei mondi multidimensionali.

Fu questo l' ultimo vago ricordo del mio amico ; fu come rivedere, crudelmente distorte in uno specchio, le immagini del tempo trascorso assieme a Leopoli. Perché anche noi avevamo parlato di Russell e della topologia e ci eravamo divertiti con ogni sorta di problemi! E le equa­ zioni cubiche: un'altra ombra del passato? Non lo saprò mai.

CAPITOLO 3 La ricerca del significato di indipendenza

Tout le monde y croit (la lois des erreurs) par ce que les matbématiciens s 'imaginent que c 'est un fait d 'ob­ servation, et /es observateurs que c 'est un tbéorème de matbématiques. Henri Poincaré

La mia vita di matematico cominciò con la mia collaborazione con Steinhaus. Quel periodo di tre anni, dalla primavera del ' 3 5 alla fine di novembre del ' 3 8 , che mi sembra ora così breve, fu decisivo per la mia crescita intellettuale al punto che me ne giunge l'eco ancor oggi. Marceli Stark, uomo acuto e che conosceva Steinhaus assai bene, ricor­ dando in un articolo commemorativo a lui dedicato il significato del suo insegnamento a Leopoli, affermava di averne colto l' influsso in un mio contributo che era già del ' 6 6 . 1 Magari Steinhaus non si sarebbe espresso esattamente in questi ter­ mini, ma il motivo centrale della nostra collaborazione fu la ricerca del significato dell' indipendenza. Quello di indipendenza è il concetto fon­ damentale della teoria della probabilità, e ai nostri giorni si stenterebbe a credere che la comprensione del suo significato abbia potuto costi­ tuire un problema. Non pochi matematici ritengono che un concetto, una volta defmito, sia automaticamente chiaro . Tale punto di vista ultra­ formale era agli antipodi del modo di pensare di Steinhaus, ed egli, come e anzi più di me, aweniva che accettarlo poteva essere rischioso. Quando iniziammo il nostro lavoro la teoria delle probabilità stava emergendo dall'abbandono in cui era stata tenuta per un secolo e cominciava a essere riconosciuta come una branca rispettabile della matematica pura. Que­ sto mutato atteggiamento dipese in massima pane dalla pubblicazione, nel 1 9 3 3 , di un libro del grande matematico sovietico Andrej Nikolae­ vic Kolmogorov sui fondamenti della teoria delle probabilità. A noi sem­ brò paurosamente astratto . Del resto , persino l'opera, molto più acces­ sibile, di Ulam e Lamnicki, che erano stati i primi a collegare l' indipendenza con le cosiddette misure prodotto, non era esattamente ciò che stavamo cercando.

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Ma che cosa stavamo cercando in realtà? Per essere in qualche modo vicini alla risposta sarebbe di aiuto conoscere un po' meglio Steinhaus come matematico e come uomo . Hugo Dyonizy (nome che non gradiva e che raramente usava) Stein­ haus nacque il l 0 gennaio 1 8 8 7 nella città di Jas.l'o, nella Galizia occi­ dentale. I suoi erano ebrei influenti, perfettamente integrati e che pote­ vano contare su amici fidati sia tra le autorità austriache sia tra gli esponenti del movimento patriottico polacco . Uno zio, lgnacy Stein­ haus, era in effetti membro del parlamento austriaco ; il di lui figlio , W.l'adys!aw, era caduto a diciotto anni combattendo a fianco di Pi.l'sud­ ski . Steinhaus stesso combatté per un breve periodo nella Legione. A Jas.l'o Steinhaus ricevette un' istruzione rigorosamente classica; a scuola eccelleva in tutte le materie, ma in special modo in polacco, lin­ gua che amava e che conosceva alla perfezione. Per un anno studiò filo­ sofia e matematica all'Università di Leopoli e poi si trasferì a Gottinga, che all'epoca era la capitale mondiale della matematica. Conseguì il dot­ torato nel 1 9 1 1 sotto la supervisione di David Hilben, il più grande matematico del secolo. Come interessante postilla storica diremo che, mentre Steinhaus era a Gottinga, giunse nella città tedesca, in visita all'Università, A. A. Michel­ son (quello dell'esperimento di Michelson-Morley) . Egli restò così col­ pito dal giovane Hugo che gli offrì di divenire suo assistente. Ottenuto il dottorato, Steinhaus restò per qualche anno un Privatgelebrte; il ter­ mine, intraducibile, è dato a chi svolga un lavoro di tipo scientifico o di ricerca senza alcuna affiliazione ufficiale e senza retribuzione. Quando nel ' l 7 superò a Leo poli l'abilitazione Steinhaus aveva al suo attivo non pochi risultati, tra i quali un lavoro sui metodi di sommabilità che pre­ correva le tecniche della moderna analisi funzionale. Pubblicò anche la soluzione di un problema sulle serie trigonometriche che era stato sollevato da Wadaw Sierpinski e Nicolas Lusin, ben noto matematico russo . La mia prima seria pubblicazione, l' anicolo del 1 9 3 4 menzio­ nato nel secondo capitolo, prendeva le mosse da questo studio. Per un breve periodo ricoprì incarichi semiamministrativi; nel 1 920 fu nominato professore straordinario (associato) e nel 1 9 2 3 titolare di cattedra all'Università di Lecpoli.2 Vi rimase sino all'estate del 1 94 1 , quando si diede alla clandestinità. Durante la guerra restò per lo più in una piccola città non lontano da Cracovia, sotto il nome di Grze­ gorz Krochmolny, un guardiano forestale deceduto i cui documenti gli

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CAPITOLO TERZO

erano stati forniti da un amico delle forze partigiane polacche. I parti­ giani gli salvarono la vita in diverse occasioni difficili. In quel periodo insegnò in una scuola clandestina, cominciò a scrivere monografie in molti volumi (delle quali solo una piccola pane è stata pubblicata) e, non potendo accedere a libri o periodici, ricostruì a memoria gran pane, se non tutta, la matematica a lui nota. Nel 1 94 5 venne il giorno che mi riferì come il più felice della sua vita: una pausa di ventiquattr'ore tra il momento in cui partirono i tede­ schi e quello in cui arrivarono i russi. "Ma che bello - disse nel '46 quando visitò per la prima volta gli Stati Uniti quelli erano partiti e gli altri non erano ancora arrivati. " Poco tempo dopo lo stesso ret­ tore dell'Università di Leopoli che si era dimesso nel 1 9 3 7 per prote­ stare contro "il ghetto dei banchi" ebbe l'incarico di organizzare a Bre­ slavia la Nuova Università polacca e invitò Steinhaus ad aiutarlo in questo compito . Leopoli, la città che per tanti secoli era stata la quin­ tessenza dell'identità nazionale polacca, divenne pane dell'Ucraina, men­ tre Breslavia, che per un periodo ancor più lungo aveva gravitato nel­ l' area germanica, entrò a far pane del territorio polacco con il nome di Wrod'aw. Così, all'età di cinquantanove anni, Steinhaus cominciò una seconda carriera universitaria (con problemi fisici e psicologici inim­ maginabili) . Quando morì, nel 1 9 7 2 , Breslavia era un rigoglioso centro di studi matematici, il secondo che egli aveva contribuito a creare nella sua vita. Questo per quanto riguarda la mera biografia. Dietro si nascondeva una personalità dalle mille sfaccettature, una mente costantemente tesa nella ricerca, un'intelligenza mostruosa, un'integrità morale inflessibile. In tutto e per tutto sentiva di appartenere al mondo occidentale. Aveva piena padronanza del tedesco e del francese e la sua conoscenza dell'in­ glese era quasi perfetta; il latino lo amava e non poteva immaginare che un uomo di cultura non lo conoscesse (quanto al greco, al contra­ rio di Chargaff, poteva anche chiudere un occhio) . Era anche uomo di spirito e ne fa fede ciò che scrisse al presidente dell'Accademia polacca delle Scienze in risposta alla lettera in cui lo si biasimava per non aver giustificato la sua assenza dalla riunione di un comitato di cui era mem­ bro : "Finché vi saranno membri che non hanno ancora giustificato la loro presenza non mi sentirò in dovere di giustificare la mia assenza. " Una raccolta d i suoi aforismi, i n polacco, francese e latino fu pubbli­ cata postuma; sfortunatamente, essi risultano spesso assai difficili da tra-

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durre in altre lingue. Come saggio della verve che li anima mi arrischio comunque a proporre un'irriverente riformulazione del primo versetto del Vangelo secondo Giovanni: "In principio era il bon mot." Il punto di forza di Steinhaus matematico, oltre all'acume, era un fiuto infallibile nella scelta dei problemi. In questo mi ricordava von Neumann, che egli ammirava profondamente. Prediligeva i problemi concreti, e difatti chi scorra la sua bibliografia noterà un solo lavoro di natura completamente astratta: il famoso articolo , scritto in collabo­ razione con Banach nel ' 2 7 , in cui si enunciava quel fondamentale teo­ rema di analisi funzionale che ogni studente conosce come teorema di Banach-Steinhaus . In seguito , negli anni sessanta, si avventurò breve­ mente nel campo della logica matematica (un argomento che egli soste­ neva di non amare) e propose, in collaborazione con Jan Mycid'ski, suo allievo , un assioma di teoria degli insiemi (chiamato l' assioma di determinazione) che viene tuttora intensamente studiato . Com'era nel suo stile, pensò all'inizio all'assioma in connessione al problema, appa­ rentemente concreto , dell'esistenza di una strategia vincente per certi giochi infiniti con due giocatori; un problema ben più sottile di quello riguardante i giochi con un numero finito di mosse, per i quali tale stra­ tegia esiste effettivamente.3 Steinhaus fu sempre affascinato dai giochi: fu lui il primo a dare formulazione matematica al concetto di strategia e a quelli ad esso connessi. Le sue riflessioni sono riportate in un artico­ letto di due pagine, dal titolo Definizioni necessarie nella teoria dei giochi e del guadagno, pubblicato nel 1 9 2 5 su una rivista studentesca assoluta­ mente inaccessibile.4 Steinhaus anticipò così von Neumann, che pochi anni dopo ( 1 92 8) presentò una teoria organica dei giochi che divenne parte viva della matematica, con importanti applicazioni all'economia. Steinhaus vedeva la matematica ovunque. Per lui, come ebbi occa­ sione di scrivere una volta, la matematica era specchio della realtà e della vita, quasi come la poesia; ed egli amava giocare con i numeri, gli insiemi e le curve proprio come un poeta gioca con le parole, le frasi e i suoni.s Le applicazioni della sua scienza preferita le cercò di volta in volta nella biologia, nella geologia, nell'economia, nell' inge­ gneria e persino nella giurisprudenza. È suo, ad esempio, il semplice metodo che consente di calcolare la probabilità che una donna faccia, mentendo , un nome falso in una causa per l' attribuzione della pater­ nità. Il suo contributo è oggi continuamente citato nella letteratura sul­ l' argomento .

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CAPITOLO TERZO

Durante la guerra (guardate di che sottigliezze era capace la sua mente) escogitò un sistema tutto suo per tenere la contabilità delle perdite tede­ sche. Non dimentichiamo che viveva nella clandestinità sotto falso nome e che i suoi unici contatti con il mondo esterno erano costituiti da un notiziario locale sottoposto a censura, in pratica uno strumento della propaganda nazista. Il giornale usciva settimanalmente con un ceno numero, sempre lo stesso, di necrologi di soldati tedeschi caduti sul fronte orientale. Erano formulati in modo standard : "Klaus, figlio di Heinrich ed Elvira Schmidt, è caduto per il Fiihrer e per la Patria. " Con il pas­ sare del tempo , verso la fine del 1 942 e per tutto il 1 94 3 , comincia­ rono ad apparire necrologi di questo tenore: "Gerhardt, il secondo dei figli di . . . " , e questa era l'informazione necessaria per ottenere la stima desiderata. Un amico a cui avevo raccontato l'episodio ne parlò una volta a un ex alto ufficiale della CIA che rimase esterrefatto . Steinhaus amava infilare la statistica anche nei suoi scherzi. Ricordo specialmente una di tali occasioni. Ogni settimana leggevo "Nature" nella speranza di trovarvi un'offena di lavoro in una qualche università che non richiedesse la nazionalità britannica. Una volta lessi che l'Im­ perial College of Science and Technology di Londra offriva un posto di assistente di matematica a centocinquanta sterline ali' anno e senza il vincolo della nazionalità. Erano più o meno settecentocinquanta dol­ lari, una cifra così ridicolmente bassa che mi sembrava impossibile che un inglese con un minimo di dignità potesse ambire a un simile lavoro . Chiesi a Steinhaus se mi convenisse o meno fare domanda. All'epoca non conoscevo una parola di inglese, ma ero fermamente deciso a giu­ rare il falso sostenendo che le mie conoscenze linguistiche erano ade­ guate. "Vediamo - disse Steinhaus - le tue possibilità di avere il lavoro dovrebbero essere circa una su mille; moltiplica per centocinquanta ster­ line e avrai tre scellini, che è molto più del costo di spedizione della lettera. Penso che ti convenga concorrere. ' ' Lo feci, ma ad avere il posto fu un inglese che, nonostante tutto , lo ambiva. Dagli anni trenta, in cui cominciai ad affilare le mie armi matemati­ che, in poi, la mia disciplina subì mutamenti profondi, non tutti nella direzione di un miglioramento , ma Steinhaus fino alla mone restò fer­ mamente sulle sue posizioni. Nel mio scritto commemorativo mi ero sforzato di riassumerle nel modo seguente. Il suo modo di accostarsi alla matematica era essenzialmente intuitivo e ben di rado astratto. Gli interessavano gli oggetti, i fatti, e diffidava della maggior

IL SIGNIFICATO DI INDIPENDENZA

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pane delle generalizzazioni. "Un teorema sulle curve in genere non è interes­ sante se non lo è già nel caso panicolare del cerchio" , mi disse anni fa, e que­ sto riassume assai bene il suo credo fondamentale: le verità più profonde sono frutto dell'osservazione attenta delle cose più semplici ed elementari. Deplo­ rava la crescente specializzazione della matematica, il volo da una robusta realtà alle nere nubi dell' astrazione incontrollata. Una pane non trascurabile della sua vita di scienziato la dedicò a collaborazioni con non-matematici, come medici o ingegneri impegnati nella ricerca di giacimenti petroliferi, senza essere nem­ meno sfiorato dal pensiero che si trattasse di un' attività diversa da quella che aveva ponato lui e Banach alla formulazione del principio della condensazione delle singolarità. La matematica era per lui matematica e basta, e non poteva soffrire etichette come "pura" , "applicata" , "utile" e simili. Amava le que­ stioni chiare, ben definite, ed era infastidito dai discorsi involuti. "Dov'è il punto?" , era solito chiedere quando, non sempre con successo, tentava di dira­ dare la nebbia.

Come ho scritto prima, la nostra collaborazione iniziò nella prima­ vera del ' 3 5 , quando egli, dopo avermi dato la definizione delle fun­ zioni "stocasticamente indipendenti" mi chiese di studiarle. Solo molto tempo dopo appresi che era stato Stark a suggerirgli di seguirmi. Sarebbe potuto tranquillamente accadere che Steinhaus, che era un vero vul­ cano di idee, me ne avesse buttata lì una senza aver troppo chiaro a che cosa avrebbe potuto condurre. E magari avrebbe potuto condurre a niente se proprio allora - fortunata coincidenza - io non fossi stato così impegnato con il libro di Markov. Quelle funzioni, che colmavano le mie lacune nella comprensione del testo , contribuivano anche a por­ tare l' ancora misteriosa e trascurata teoria delle probabilità nell' ambito della matematica. Certo, se avessimo iniziato la nostra collaborazione dieci anni prima i risultati sarebbero stati eccezionali. Invece riuscimmo solo a riscoprire buona parte di quanto era già stato fatto da altri. La nostra prospettiva era tuttavia originale e consentiva di ripensare con­ cetti, metodi e tecniche della teoria delle probabilità in rami della mate­ matica con cui essi, di per sé, non avevano niente a che vedere. Badawski e Donsker, curatori di una raccolta di miei articoli, scri­ vono nella loro introduzione che "l'aver utilizzato intuizioni e tecniche della teoria probabilistica in campi diversi dalla probabilità" è il motivo di fondo del mio lavoro. E difatti è così, e la prima volta che quel richiamo giunse al mio orecchio fu a Leopoli, quando lavoravo con Steinhaus. E di quel periodo anche la mia prima variazione sul tema, che riguar­ dava la curva di equazione

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Nota come legge degli errori o legge normale, è probabilmente la curva più diffusa in assoluto : ne rivendicano la paternità fisici, biologi e socio­ logi. Contiene due delle più famose costanti matematiche: e = 2 , 7 1 8 2 8 . . , base dei logaritmi naturali (o neperiani), e 1r = 3 , 1 4 1 5 9 . . . , nota ad ogni scolaro dalla formula A = 1rr 2 che dà l' area di un cerchio di raggio r. Steinhaus, amante delle metafore, era solito citare un proverbio, "la fortuna è una ruota che gira' ' , per spiegare come mai 1r, così intima­ mente legato al cerchio, affiorasse tanto di frequente nella teoria delle probabilità e in statistica, le discipline che trattano del caso e della fortuna. Non c'era quasi pagina del libro di Markov in cui non si parlasse della legge normale; questo operò su di me come un incantesimo , un qualcosa dal quale non mi sono mai completamente liberato: quella legge mi appariva la chiave per accedere al mondo misterioso ed elusivo dei fenomeni casuali. Era fin troppo facile scorgere la mano del caso in ogni esempio di distribuzione normale; tale convinzione, un puro e semplice mito come si vide poi, è del resto assai diffusa ancor oggi. Ad allonta­ nare i matematici dalla teoria della probabilità sono state sicuramente, secondo me, le tante chiacchiere che si sono fatte a proposito del caso . La legge normale compare per la prima volta in uno scritto pregevo­ lissimo di Abraham de Moivre ( 1 66 7 - l 7 54), che aveva però il tono di essere di almeno un secolo in anticipo sui tempi e finì dunque dimen­ ticato , finché Pierre Simon, marchese di Laplace ( 1 749- 1 8 2 7) lo risco­ prì nella sua monumentale Tbéorie analytique des probabilités del 1 8 1 2 . Non molto tempo prima il sommo matematico tedesco Carl Friedrich Gauss ( l 7 7 7- 1 8 5 5) aveva scoperto la legge, che porta il suo nome, nota come legge degli errori. Gli sforzi di Gauss erano da tempo rivolti all'a­ stronomia, in particolare al calcolo delle orbite degli asteroidi, che, com'è noto, sono approssimativamente ellittiche. Il problema era di trovare l'ellisse che si accordasse meglio di tutte con i dati osservativi che davano le posizioni degli asteroidi in istanti diversi, tenuto conto del fatto che i risultati di osservazioni e misure sono comunque viziati da errori. Per venire a capo di questa difficoltà Gauss elaborò una teoria che, con qual­ che ritocco e generalizzazione, è sopravvissuta fino ai nostri giorni. Secondo la classificazione usuale, gli errori possono essere di tre tipi: grossolani, sistematici e "casuali" . Poiché è lecito sperare che dagli errori dei primi due tipi ci si possa liberare, facendo la dovuta attenzione, restano, come errori inevitabili, solo quelli casuali. Erano questi l' og­ getto della teoria gaussiana. .

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Per illustrarla pensiamo di misurare la lunghezza di un tavolo con un regolo, partendo dall' ipotesi che una "vera lunghezza" del tavolo esista, ma che, a causa degli errori casuali, sempre presenti, le succes­ sive misure diano luogo a valori diversi, addensati intorno al vero valore p.. Qual è la probabilità, si domandò Gauss, che il risultato di una sin­ gola misura x vada a cadere tra a e b (a essendo il più piccolo dei due)? Sotto ragionevoli ipotesi, egli mostrò che essa è pari all'area sottesa dalla curva y = ( 1 1 a..r2 1r) exp[- (x - p.r /2 a2] , con x compreso tra a e b (fig. l , area tratteggiata). Il numero a è chiamato deviazione standard e riflette la precisione dello strumento di misura (tanto maggiore quanto più piccolo è a). Partendo dalla legge degli errori, Gauss elaborò il cosid­ detto metodo dei minimi quadrati, che da allora in poi è stato usato , talora a sproposito, da chiunque avesse a che fare con dati empirici . Verso la metà del secolo scorso si vide che alla curva gaussiana si poteva giungere per tutt'altra via, e che essa esprimeva una legge quasi universale della variabilità di qualsivoglia caratteristica misurabile, dalla statura dell'lxnno sapiens alle dimensioni del suo cranio, dal peso dei fagioli all'apertura alare degli insetti. Adolphe Quetalet ( l 796- 1 8 7 4), astronomo e statistico belga, fu il primo a rendersi conto delle infinite possibilità della curva, che "modellò" su istogrammi tratti da una gran collezione di dati presi a prestito dalle discipline più disparate. Trovò che essa era applicabile persino a quelle che oggi chiamiamo scienze sociali, e tentò di porla a fondamento di una nuova disciplina che propose di chiamare "fisica sociale" . E non è tutto . Proprio negli anni in cui Gauss calco-

Figura l

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lava orbite di asteroidi e Quetalet e altri effettuavano ricerche sugli isto­ grammi, il ruolo della legge normale veniva ulteriormente messo in luce dagli sviluppi che si erano avuti in un altro settore. Per opera di de Moivre e di Laplace, questioni, non ceno elevate, legate a giochi di scommesse, e che naturalmente concernevano la probabilità delle vincite, avevano dato luogo a una maestosa costruzione matematica, cui de Moivre stesso, già nel 1 7 1 8 , aveva dato il nome altisonante di "dottrina delle proba­ bilità" . Laplace, come de Moivre prima di lui, si interessava a situazioni, quelle tipiche dei giochi, in cui il numero di possibili alternative è finito : la probabilità di un evento venne da lui definita come rappono tra il numero dei risultati favorevoli al realizzarsi dell'evento e il numero di tutti quelli possibili, supposti equiprobabili. Un esempio è migliore di qualsiasi definizione; chiediamoci allora qual è la probabilità di ottenere un 5 nel lancio di due dadi. Poiché lanciando un solo dado si hanno sei possibilità, nel caso di due dadi esse diventano 3 6 = 6 X 6 . Ora il 5 può essere ottenuto nei seguenti quattro modi: l + 4; 2 + 3 ; 3 + 2 ; 4 + l . Secondo Laplace, la proba­ bilità di ottenere 5 è dunque Numero dei risultati favorevoli Numero dei risultati possibili

4

36

9 '

cioè circa l' 1 1 per cento . Il calcolo delle probabilità nella teoria di Laplace si riduceva a un semplice conteggio . Semplice, almeno, finché non intervengono numeri grandi. Per sapere ad esempio qual è la probabilità di ottenere cinque teste lanciando una moneta dieci volte, occorre anzitutto calcolare quante delle 2 1 0 = 1 024 configurazioni cui possano dar luogo l O lanci conten­ gono proprio cinque teste e cinque croci. Chi è disposto a sobbarcarsi una faticaccia avrà la soddisfazione di scoprire che la risposta è 2 5 2 ; m a già nel caso di l 0 0 lanci il numero delle possibili configurazioni sale a 2 1 00 , un numero pazzesco . Contare quante siano quelle che conten­ gono 50 teste e 50 croci sarebbe impossibile. Fonunatamente esistono metodi per "contare senza contare" , e la risposta può essere scritta nella forma 1 00! 50! x 50!

IL SIGNIFICA TO DI INDIPENDENZA

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ove l 00! è una notazione abbreviata per indicare l X 2 X 3 X 4 X X . . . X 1 00, cioè il prodotto degli interi da l a 1 00 incluso . (Analogamente, 50! = l X 2 X 3 X 4 X . . . X 50.) Tutto ciò sembra di scarsa utilità, perché già 8 ! = l X 2 X 3 . . . X 8 = 40 3 20, e vi è molta strada da fare prima di raggiungere 1 00 o anche solo 50. I matematici tuttavia hanno superato anche l'ostacolo costituito dai grandi numeri, mettendo a punto speciali formule approssimate. Munito di tali armi, de Moivre affrontò con successo il problema. Se una moneta (non truccata) viene lanciata n volte, è ovviamente impossibile prevedere con quale frequenza H. uscirà testa. lntuitivamente, tale numero dovrebbe essere n/2 , cosicché sarebbe naturale studiare la distribuzione dello scarto H. - n/2 tra l'effettivo numero di teste e il valore suddetto . Ma qui de Moivre diede un contributo decisivo sottolineando la necessità di dividere H. - n/2 per un opportuno fattore di scala per mettere in luce l'andamento della distribuzione per grandi valori di n. Il fat­ tore di scala risultò essere ..[; , e la conclusione finale di de Moivre fu che quando n tende all' infinito la probabilità che (H. - n/ 2)/ ..[; vada a cadere tra a e b tende all' area sottesa dalla curva normale .J217r exp( - 2 x 2) e compresa tra x = a e x = b. In notazione matematica

Laplace estese il risultato di de Moivre, ma ben presto l'intera "dot­ trina" delle probabilità scomparve dalla scena delle matematiche. Non essendo uno storico posso solo tentare di indovinarne le ragioni. Anzi­ tutto la definizione di probabilità data da Laplace conteneva un circolo vizioso : come si ricorderà, essa implicava infatti l'equiprobabilità dei casi possibili. Sembrerà una banalità, ma non bisogna dimenticare che proprio il secolo scorso vide la nascita dei più severi criteri di rigore matematico . E secondo quei criteri le fondamenta del maestoso edificio laplaciano erano tutt'altro che sicure. Inoltre si trattava di risultati estremamente particolari: se si prescinde dall' interpretazione probabilistica, il teorema di de Moivre e la sua estensione ad opera di Laplace erano semplici corollari di una formula approssimata per n! = l X 2 X . . . X n. Nulla di elettrizzante, come si vede.6 Entrambe le obiezioni furono presto affrontate: a raccogliere la

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fiaccola, ormai prossima a spegnersi, di Laplace fu un russo, il grande P. L. C ebysev ( 1 8 2 1 - 1 8 94). Un po' alla volta - la mia è una supposizione, non sono sicuro che sia andata esattamente così - si vide che considerare equiprobabili i pos­ sibili risultati del lancio di una moneta in una serie di prove ripetute equivale a introdurre due tacite ipotesi: la prima è che la moneta non sia truccata (la probabilità dell'evento testa e dell'evento croce sono cioè entrambe uguali a l /2), la seconda è che i lanci successivi siano indi­ pendenti. Quello di indipendenza degli eventi non è un concetto puramente matematico . Comunque può aver senso pensare che ad esso si applichi la regola di moltiplicazione delle probabilità, e questo conduce alla defi­ nizione matematica di indipendenza. Due o più eventi E1 , E2 , . , di cui siano note in qualche modo le probabilità P� > p , . , si dicono indipendenti se la probabilità che si veri­ 2 fichino congiuntamente è data dal prodotto p1 X p X . . . Tale defini­ 2 zione nasconde una sottigliezza, come bene illustra la vecchia battuta: "Come diminuire la probabilità che vi sia una bomba sull' aeroplano su cui avete deciso di viaggiare? È semplice: portate una bomba con voi. " In effetti la probabilità di avere due bombe sullo stesso aeroplano è p X p = p2 (essendo p la probabilità che vi sia già una bomba a bordo) : poiché p è già piccolo , p 2 diviene trascurabile. La conclusione è talmente assurda da richiedere un commento . È vero che le probabi­ lità che due bombe vengano portate indipendentemente sullo stesso aero­ plano è p 2, ma, proprio in virtù dell' indipendenza, il fatto che una bomba sia già sull' aereo non influenzerà minimamente la decisione di un pazzo criminale di portarci la sua. Pertanto la probabilità di averne una seconda è ancora p. Detto ciò , si può affrontare il teorema di de Moivre da una diversa angolazione. Ad ogni lancio di una moneta non truccata associamo un simbolo X che valga uno se esce testa e zero altrimenti. In questo modo . .

. .

.

rappresenta il numero di teste risultante in n lanci consecutivi. Per tener conto del fatto che la moneta non è truccata e che i lanci sono indipendenti, i simboli xl > . . . , x quali che siano, debbono ..

IL SIGNIFICATO DI INDIPENDENZA

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godere di certe proprietà. La prima ipotesi implica: l Prob. [XI = l ] = Prob. [XI = o] = -y

'

l Prob . [X2 = l ] = Prob. [X2 = O] = z- ,

Prob. [X. = l ] = Prob. [X. = o] = l . T

Anche l'indipendenza dei lanci può essere espressa mediante i sim­ boli Xl > X2 , Xl , . . . , scrivendo ad esempio Prob. [X1 = l , X2 = O, Xl = l ) l = Prob. [X1 = l J Prob. [X2 = O] Prob. [Xl = l J = 8 , nel caso in cui compaia testa al primo lancio, croce al secondo, e ancora testa al terzo . Anche non sapendo nulla sulla natura dei simboli X è possibile calcolare, dalle precedenti proprietà, la probabilità dell'evento a
a 2 , . . . , a Sotto oppor­ tune condizioni si potrebbe dimostrare che vi sono numeri A. e B. tali •.

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che

la probabilità che sia

a