Fuori dal tempo. La Chiesa al servizio dell’umanità
 9788842096504

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Saggi Tascabili Laterza 356

Pierluigi Di Piazza

Fuori dal tempio La Chiesa al servizio dell’umanità

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione maggio 2011 Seconda edizione maggio 2011 Terza edizione maggio 2011 Quarta edizione giugno 2011 Quinta edizione giugno 2011 Sesta edizione luglio 2011 Settima edizione novembre 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel novembre 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9650-4

Prologo

Non crediamo in un Dio lontano, giudice freddo delle debolezze umane, indifferente ai drammi e alle speranze della storia. Non crediamo in un Dio che giustifica l’esaltazione della proprietà privata, del capitalismo, dell’accumulo del denaro e dei beni. Non crediamo in un Dio che suggerisce, alimenta e conferma l’inimicizia fra persone e popoli; che legittima la costruzione e la vendita delle armi, le guerre, le ronde, il perseguire il reato di immigrazione irregolare, i vigili urbani armati, il potere salvifico delle telecamere. Non crediamo in un Dio onnipotente quando, con questo concetto, si vuole intendere il più potente dei potenti di questo mondo; che si colloca alla sommità delle gerarchie e dell’autoritarismo, che esige onori e privilegi e così conferma autoritarismi, onori e privilegi, da parte delle autorità della società, della politica, delle diverse religioni, della Chiesa. Non crediamo in un Dio che umilia, che castiga, che alimenta i ricatti e i sensi di colpa delle persone. Non crediamo in un Dio che si incontra solo o di preferenza nelle Chiese, nelle verità dogmatiche, nei simboli religiosi. Non crediamo nel Dio delle grandi occasioni religiose, come il Natale, quando sono concepite come ingrediente del ­v

materialismo, del consumismo, della superficialità, di una religione che non coinvolge nella storia. Non crediamo in un Dio bianco, occidentale, friulanogiuliano, neppure ‘cristiano’ quando la sua presenza è pre­ tesa per fondare e legittimare le discriminazioni, la xenofobia, il razzismo; per alimentare paure e sospetti, chiusure etniche, localistiche, identitarie, il culto di quella tradizione  che trasforma la libertà evangelica in ossequio al conformismo. Non crediamo in un Dio che giustifica la presunzione di superiorità e i giudizi moralistici nei confronti delle persone che più fanno fatica a vivere, di coloro che si trovano in condizioni esistenziali, familiari, sessuali ‘diverse’ rispetto alla presunta normalità. Non crediamo in un Dio maschilista che supporta nella società e anche nella Chiesa sottomissione, strumentalità, volgarità, violenze nei confronti delle donne. Non crediamo in un Dio utilizzato per confermare il potere della società, del mondo, della Chiesa attuali. Crediamo nel Dio che ascolta le grida, i gemiti, i silenzi delle persone e dei popoli impoveriti, colpiti, oppressi, sfruttati, crocifissi; che prende a cuore la loro condizione, si fa presente come il Dio della liberazione e della vita; incoraggia, sostiene e accompagna le esigenze di dignità, di giustizia, di uguaglianza. Crediamo nel Dio della creazione, che ha fatto ogni cosa per l’armonia e il bene, che ha affidato il creato all’uomo affinché custodisca con diligenza l’ambiente e non dimentichi mai che i beni della terra sono destinati alla vita di tutti. Crediamo in un Dio con il quale si può dialogare, ma anche protestare, chiedendogli il perché di tante morti, sofferenze, ingiustizie... Crediamo nel Dio in tanti e diversi modi invocato nelle diverse parti del pianeta, al quale tanti chiedono la forza di vivere in condizioni spesso drammatiche e di amare anche quando non ci si sente amati. ­vi

Crediamo nel Dio dei profeti che denunciano l’ipocrisia e la falsità di un culto religioso non solo staccato dalla vita, ma copertura dell’ingiustizia e della violenza; che sollecitano continuamente a prendersi cura dei poveri, degli orfani, delle vedove, degli stranieri. Crediamo nel Dio della giustizia, della condivisione, della fraternità. Crediamo nel Dio che si è rivelato nell’Uomo, in Gesù di Nazaret fragile e impotente nel mondo, dalla nascita nella stalla degli animali a Betlemme fino all’uccisione sul legno della croce: crocifisso, vittima fra le vittime; vivente oltre la morte, compagno quotidiano di viaggio nella nostra vita. Crediamo nel Dio che in Gesù di Nazaret conforta, sostiene, purifica l’amicizia e l’amore; la semplicità di cuore, di sguardi e di gesti; la sobrietà, la convivialità festosa fra le differenze. Crediamo nel Dio che in Gesù ci chiama continuamente a convertire la mente e il cuore, sempre infondendo fiducia, incoraggiamento e pace... Crediamo nel Dio di Gesù presente con il suo santo Spirito nelle case e nelle fabbriche, nelle scuole e negli ospedali, nelle carceri e nelle comunità di accoglienza: per chi soffre nel corpo e nella psiche, per chi dipende da sostanze e situazioni, per chi è straniero. Crediamo nel Dio presente nelle lacrime, nei silenzi, nei gemiti, nelle grida di sofferenza; nei sorrisi e nelle manifestazioni di gioia; presente in chi è affamato, assetato, nudo, ammalato, carcerato, forestiero; nelle parole e nei gesti di concreta prossimità e solidarietà. Nel Dio presente nelle resistenze, nelle lotte delle comunità e dei popoli per la giustizia, la verità, la pace; nel Dio presente nel creato e nella contemplazione delle sue manifestazioni. Crediamo nel Dio che in Gesù si manifesta come il Dio totalmente umano: padre, madre, fratello e sorella, amico di noi donne e uomini in cammino nella storia. ­vii

Nel Dio della misericordia e dell’accoglienza di ogni persona di qualsiasi provenienza e appartenenza, di qualsiasi condizione. Crediamo nel Dio che ci chiede responsabilità, fedeltà, coerenza. Crediamo nel Dio che nelle parole e nei gesti di Gesù indica la strada a una Chiesa guidata dallo Spirito, capace di condividere i beni; di ascoltare, di prendere a cuore le sofferenze e le fatiche dell’umanità. Nel Dio che sospinge la Chiesa a uscire dal tempio per vivere in cammino con l’umanità per contribuire a renderla più umana. Crediamo nel Dio che comunica libertà ed esige libertà, che resta sempre il Totalmente Altro, al di là di tutto ciò che il linguaggio umano può raccontare di lui; che garantisce laicità perché chiede fiducia, confidenza, affidamento, dialogo e confronto. Crediamo nel Dio presente nel nostro vivere, amare, dedicarci, impegnarci, soffrire e, quando sarà il momento, morire nel modo più umano possibile. Nel Dio che ci accoglierà nel suo Mistero dopo averci accompagnati nella quotidianità della nostra vita nella storia. Andrea Bellavite, Alberto De Nadai, Pierluigi Di Piazza, Luigi Fontanot, Piergiorgio Rigolo, Franco Saccavini, ­Giacomo Tolot, Mario Vatta, preti in Friuli Venezia Giulia (Lettera per il Natale 2009).

FUORI DaL TEMPIO La Chiesa al servizio dell’umanità

I

IN PRINCIPIO ERA IL VANGELO

«... Gli diedero il libro del profeta Isaia ed egli, aprendolo, trovò questa profezia: ‘Il Signore ha mandato il suo Spirito su di me. Egli mi ha scelto per portare il lieto messaggio ai poveri. Mi ha mandato per proclamare la liberazione ai prigionieri e il dono della vista ai ciechi, per liberare gli oppressi, per annunciare il tempo nel quale il Signore sarà favorevole’. Quando ebbe finito di leggere, Gesù chiuse il libro, lo restituì all’inserviente e si sedette. La gente che era nella sinagoga teneva gli occhi fissi su Gesù. Allora egli cominciò a dire: ‘Oggi si avvera per voi che mi ascoltate questa profezia’» (Vangelo di Luca 4, 16-21). Questo è il passo del Vangelo che, una domenica di molti anni fa, ho scelto di leggere e commentare per la celebrazione della mia prima messa. Era il 19 ottobre 1975, e vivevo l’eucarestia nella chiesa del mio paese natale, Tualis, in Friuli (per essere più precisi, nell’alta Val Degano, fra le montagne della Carnia). Un piccolo paese a 900 metri di altitudine che offre una vista suggestiva sull’intera vallata. Un piccolo paese purtroppo sempre più disabitato e a cui io mi sento tuttora molto legato, come alle radici dell’esistenza. Ero stato ‘consacrato’ prete solo il pomeriggio precedente, sabato 18 ottobre: un momento atteso da me con una certa tribolazione e condiviso con consapevolezza, senza enfasi e retorica, dalla mia ­3

famiglia (mio padre Tranquillo, mia madre Maria, mio fratello Vito) e – come accade nei piccoli centri in occasioni di questo tipo – dall’intera comunità. Sono trascorsi trentacinque anni: quale il tragitto fin qui compiuto e in esso quali le difficoltà, quali le acquisizioni e gli arricchimenti? Quale rispondenza interiore rispetto ad una scelta così coinvolgente e impegnativa? Perché proprio quel brano di Vangelo? E rispetto a quel messaggio cos’è avvenuto? Lo riconosco ancora oggi come prospettiva, come traiettoria, come impegno? In parole semplici: fino ad ora com’è andata? Sceglierei anche oggi come prima lettura quel brano del Vangelo perché coinvolge in una prospettiva straordinaria, a lungo termine ma insieme nella concretezza delle scelte e dell’agire quotidiani; si riferisce a situazioni drammatiche guardate e assunte con una profonda spiritualità, con la compassione come vibrazione dell’anima. Sono parole che fanno sentire in sintonia con il sogno di Dio sull’umanità, liberata dalla miseria, dall’oppressione, dalla violenza, dalle diverse forme di schiavitù. È a partire da quelle parole del Vangelo che ho cercato di vivere la mia storia di uomo e di prete, in una progressiva liberazione, sempre in atto e mai conclusa. Il camminare su un crinale, alla frontiera, ha segnato le tappe del mio percorso, scandito da una successione di eventi, più che di semplici fatti, per me sempre coinvolgenti. In primo luogo l’essere stato considerato non gradito, anzi non idoneo al sacerdozio da un parroco presso cui avevo vissuto un anno di esperienza come diacono. I motivi? Scarsa spiritualità, critica alla Chiesa, frequentazione dei ‘comunisti’. La dialettica non esplicita dapprima, poi più scoperta, con l’istituzione della Chiesa della mia diocesi di Udine che dubitava sulla mia idoneità a diventare prete. Poi, dopo la consacrazione, i cinque anni di esperienza veramente significativa come cappellano della parrocchia di S. Andrea di Paderno, alla periferia di Udine, conclusi ­4

con l’allontanamento. I motivi? Gli stessi di sempre: scarsa spiritualità, critiche alla Chiesa, impegno marcatamente sociale e politico. Ricordo di quegli anni il tentativo di svolgere il compito più strettamente ‘ministeriale’ dando la massima importanza alla celebrazione dell’eucarestia e rifiutando altri incarichi che mi sembravano sovrastrutturali e artificiosi, come – per fare solo un esempio – collaborare alla sagra patronale o con la pesca di beneficenza. Ricordo l’impegno nella lettura della Bibbia con i gruppi di fedeli; su ispirazione di don Milani, il doposcuola gratui­ to per i ragazzi delle scuole medie del quartiere, animato da giovani e da genitori; il cineforum e le altre iniziative culturali, a cui partecipano i primi relatori-amici: padre Turoldo, don Ciotti, Giampaolo Meucci. Siamo alla fine degli anni Settanta. Dopo l’espulsione, vivo per un anno defilato ai margini, poi, dal novembre 1981, l’impegno di parroco di Zugliano, un paese ora di 1600 abitanti, allora di 1200, alla periferia sud del capoluogo friulano. Lì nasce la straordinaria avventura del Centro Balducci, tuttora al centro del mio impegno quotidiano: al mio arrivo scelgo di vivere nella vecchia casa parrocchiale, ancora parzialmente lesionata dal terremoto del 6 maggio 1976. Su consiglio di alcuni amici avveduti chiedo alla Regione Friuli Venezia Giulia di poter usufruire del contributo per il ripristino delle case parrocchiali e annessi. C’erano ancora fondi disponibili e la risposta è stata positiva: 160 milioni in lire, aumentati poi a 190. Quella disponibilità ha sollecitato in me alcune considerazioni suggerite dall’intreccio interiore fra il patrimonio depositato dall’ambiente familiare, il riferimento al Vangelo di Gesù di Nazaret, le situazioni della storia, la possibilità di concretizzare una visione del mondo e in essa della Chiesa, di dare un segno di un itinerario possibile. Ho avvertito l’importanza particolare di quel momento e di una scelta qualificante, che certamente partiva da lontano. Sentivo infatti in modo molto profon­5

do l’insegnamento di mio padre Tranquillo, che faceva il calzolaio e sorprendeva i clienti per il prezzo basso che stabiliva per il suo lavoro, insegnandoci così che al primo posto nella vita non è il denaro, ma ci sono l’amore, l’amicizia, l’onestà, la rettitudine, la disponibilità. E quello di mia madre Maria, che con disponibilità, profonda umanità e gratuità si dedicava alle storie di malattia e sofferenza del paese. Ho riflettuto e la domenica successiva, in chiesa, durante la celebrazione dell’eucarestia, ho comunicato alla comunità riunita questo progetto possibile: «Vi informo che la Regione ha risposto positivamente alla nostra domanda di contributo per la ristrutturazione della casa canonica. La somma ammonta per ora a 160 milioni. Una bella notizia, una cifra importante. Siamo riuniti a celebrare l’eucarestia segno di giustizia, di pace, di fraternità. Proprio qui, attorno alla mensa dell’eucarestia mi sento di condividere un segno importante, proprio per l’utilizzo del contributo e per la modalità di ristrutturazione della casa parrocchiale. Dichiaro la mia contrarietà a ristrutturare una casa che diventi una villa per il parroco, con il cancello chiuso, aperto solo ad orario, perché questo progetto smentisce il Vangelo di Gesù che propone e insegna la condivisione del denaro e dei beni. Sarebbe quindi contro il Vangelo. Lo stesso, anche se in modo più sfumato, si attuerebbe ristrutturando una casa in cui abita il parroco e a cui possono accedere solamente le persone che stanno attorno a lui, che partecipano alla comunità parrocchiale. Sento nel profondo del cuore una proposta positiva, proprio a partire dal Vangelo: ristrutturare la casa parrocchiale costruendo al suo interno due abitazioni, una per il parroco e una per persone in difficoltà, che cercano una casa». E così, poi, si è deciso. Quindi l’ispirazione del progetto del Centro Balducci è l’insegnamento del Vangelo sull’uso del denaro, dei beni, della casa, delle strutture in modo comunitario e condiviso, non individualista e privilegiato. ­6

Non era prevista l’accoglienza di immigrati. Poi di fatto, nel febbraio 1988, hanno bussato alla porta tre stranieri provenienti dal Ghana chiedendo di essere accolti. La loro presenza mi ha, ci ha coinvolti nell’attenzione nei confronti delle persone immigrate, con la convinzione che il fenomeno si sarebbe ampliato e sarebbe durato nel tempo, com’è in effetti avvenuto. E così la presenza di alcuni si è fatta eco per altri, le richieste dei quali hanno sollecitato me, e il gruppo delle persone più vicine che da subito hanno condiviso l’impresa, a trovare risposte concrete di accoglienza. Una casetta di più proprietari prestataci e approntata con lavoro volontario e un’altra accanto alla chiesa parrocchiale, che ci è stata donata in testamento da un uomo anziano del paese, hanno reso possibile accogliere altre persone. In seguito si è proposto pubblicamente a tutta la realtà regionale il progetto di ristrutturazione di una casa contadina, una cascina cadente di proprietà della parrocchia situata accanto alla casa canonica, per accogliere altre dodici-quindici persone. La risposta è stata incredibile: in due anni, in modo discreto, silenzioso, carsico, sono affluiti nella cassa comune 230 milioni di lire che hanno reso possibile, con un piccolo aiuto istituzionale, la ristrutturazione dell’edificio. Nel settembre del 1992, prima dell’inaugurazione, abbiamo deciso di costituire un’associazione, legalmente riconosciuta, oggi Onlus, con lo statuto, le cariche sociali, l’assemblea dei soci, come previsto. Nel festoso momento dell’inaugurazione è stata evidenziata la diffusa partecipazione alla ristrutturazione di quell’edificio, come segno concreto di un progetto condiviso di umanità pluralista, della convivenza fra le differenze culturali e spirituali; come esigenza di un luogo in cui incontrarsi, riconoscersi, approfondire, riflettere, progettare, sollecitare la disponibilità e l’impegno e comunicarci reciproco sostegno e incoraggiamento. Il 25 aprile di quell’anno era morto in un incidente stradale padre Ernesto Balducci, prete dell’ordine degli ­7

Scolopi, maestro conosciuto e riconosciuto della cultura e della nonviolenza attiva e della pace, della giustizia e dell’accoglienza e dell’incontro con l’altro e la sua diversità. A lui abbiamo dedicato il Centro. Non è stata una dedica formale ma l’assunzione dell’impegno di accoglierne il messaggio, le intuizioni, le prospettive, anche in relazione con Santa Fiora, alle pendici del Monte Amiata dov’è nato e dove il suo corpo è sepolto, e con la Badia Fiesolana a lungo luogo della sua residenza. Ogni tanto ho immaginato e immagino di camminare con lui a fianco nel giardino del Centro Balducci, di scambiare qualche vissuto con i bambini/e, le donne, gli uomini qui accolti. Sarebbe contento perché constaterebbe di fatto qualche frammento dell’‘Uomo planetario’ da lui delineato. Dall’inizio dell’esperienza ad oggi il Centro Balducci ha accolto oltre quattrocentocinquanta persone provenienti da molti paesi: Ghana, Marocco, Tunisia, Togo, Somalia, Turchia (kurdi), Armenia, Bosnia, Angola, Algeria, Zaire, Rwanda, Kosovo, Albania, Brasile, Mauritania, Croazia, Etiopia, Iraq (kurdi), Eritrea, Russia, Argentina, Colombia, Romania, Guatemala, Moldavia, India, Sudan, Costa D’Avorio, Nigeria, Benin, Afghanistan, Honduras. Persone singole, famiglie, donne sole con i bambini. Del tutto volontario l’impegno di tante persone, ora una cinquantina, che in modo davvero straordinario hanno animato e sorretto l’esperienza dell’accoglienza e della promozione culturale. Dal marzo 2008 una persona è stata assunta come dipendente con compiti di segreteria. I rappresentanti delle ‘Tribù della Terra’, per riprendere un’altra espressione di padre Balducci, sono fra noi a denunciare le ingiustizie, le violenze, le guerre che li hanno costretti a partire; a confermarci che noi abbiamo bisogno della loro presenza; a comunicarci la varietà e la ricchezza delle tante culture, lingue e fedi religiose. Più di una volta in questi anni mi sono incontrato con persone che si dichiaravano subito anticlericali, per mar­8

care forse in qualche maniera, per contrasto, le differenze. Sorridendo ho sempre commentato che anch’io mi sento anticlericale, cioè non appartenente ad una categoria di uomini separati dagli altri, una sorta di casta, differenziata nel modo di parlare, di vestire, di rapportarsi. Per questo non ho mai vestito abiti caratterizzanti lo status di prete, né portato il crocifisso visibile, come segno distintivo. Non per nascondere il mio essere prete, tutt’altro, ma perché emerga un possibile riconoscimento dalla sensibilità, dalle scelte, dalla coerenza nella vita. Sono stato definito volta a volta un prete ‘poco prete’; comunista (fino a quando questo termine ha avuto un significato nel co­mune sentire); critico nei confronti della Chiesa gerarchica; troppo autonomo nelle scelte, ma prima e soprattutto nel pensiero, nella riflessione, nelle prese di posizione anche pubbliche; di scarsa spiritualità, riconoscibile soprattutto come uomo impegnato nel sociale, come politico schierato. Ho riflettuto tante volte, in modo serio, non pregiudiziale, né scontato, su queste considerazioni e critiche e mi sono interrogato riguardo alle motivazioni del mio percorso, che mi hanno portato a sobbarcarmi di tanti impegni non immediatamente riconoscibili in quelli attribuiti tradizionalmente al sacerdote, anzi alle volte giudicati inopportuni. Ritengo tuttavia che proprio il Vangelo – che dovrebbe essere sempre guida per i sacerdoti – possa essere riconosciuto come ispirazione continua nelle mie scelte. Non voglio sembrare presuntuoso nel riferirmi al Vangelo, e l’ultima delle mie intenzioni è riferirmi ad esso in modo strumentale. Di fronte alla parola di Dio sento sincera trepidazione e inadeguatezza; scarto fra il riferimento e la coerenza nell’attuarlo. Però, in modo prudente e sommesso, proprio in punta di piedi, mi pare di poter dire che la motivazione intima alla disponibilità e all’assunzione degli impegni, a determinate scelte trovi nel Vangelo della dedizione e della gratuità, della giustizia e della pace, del prendere posizione accanto a chi è più povero e più de­9

bole, a chi fa più fatica ed è ai margini, l’ispirazione e la sollecitazione continue. E proprio in continuità con questa profonda convinzione mi nutro ogni giorno dell’esempio dei profeti e dei martiri più conosciuti, come pure di quello di tante persone umili testimoni della Chiesa del Vangelo, del «popolo di Dio» in cammino nella storia (Concilio Vaticano II). I momenti della preghiera comunitaria, l’eucarestia soprattutto, uniscono, rafforzano, sostengono. Sono piuttosto sospettoso dei gruppi intimistici, delle forzature interiori, come per altro delle solennità liturgiche in cui i presenti assistono, non partecipano; in cui cantano i cori e la gente ascolta e tace. Pensiamo, ad esempio, quale sarebbe il posto di Gesù di Nazaret in un ‘pontificale’ solenne nel duomo di una nostra città. Celebro quotidianamente l’eucarestia con una piccola comunità che si raccoglie, solitamente, alle 8 del mattino; comunico sempre un commento al testo del Vangelo, così come lo sento dentro di me, cercando di leggere alla sua luce relazioni e fatti. La domenica mattina celebriamo la messa in modo semplice, diretto, partecipato; c’è la possibilità per i presenti di intervenire con libertà per comunicare riflessioni e preghiere. La celebrazione dell’eucarestia per me è fondamentale: durante la prima, a Zugliano, il 29 novembre 1981, ho dichiarato che da quel giorno, e per tutta la mia permanenza lì (che allora non pensavo si sarebbe protratta per tanti anni), erano abolite tutte le tariffe in denaro legate alla presenza e al servizio del prete e alle celebrazioni religiose. Solo la libertà avrebbe condotto le persone a contribuire nei tempi e nei modi da loro scelti alla vita della comunità parrocchiale per un’appartenenza avvertita nel profondo, non per una consuetudine assecondata con fastidio e quindi con ipocrisia. La scelta è stata criticata da molte persone che, pagando il prete e le celebrazioni religiose nelle diverse occasioni della vita, risolvono con lui un rapporto funzionale, senza il richiesto coinvolgimento che una relazione personale comporta e una appartenenza comunitaria ­10

dovrebbe sollecitare. Critiche ancora più diffuse e più vivaci sono emerse quando, qualche tempo dopo, ho deciso che durante la celebrazione del saluto alle persone care (dei funerali) non si sarebbero più raccolte le offerte. E questo per favorire il raccoglimento, il silenzio, la preghiera. Per partecipare il più profondamente possibile al dolore. Per vivere un momento di dignità, di profondità, di rispetto per la vita e la morte, con riferimento a quella persona, al suo nome, alla sua storia, alle sue relazioni. Durante gli anni questo segno allora criticato si è rivelato positivo e ha indiscutibilmente favorito silenzio e partecipazione. La liturgia non è fissa, ripetitiva, ma viene creata e condivisa; con i conseguenti cambiamenti nelle modalità e nei tempi. A me pare di ricercare, nelle mie scelte, il riferimento vivo e costante a Gesù di Nazaret e al suo Vangelo. Per attitudine e percorso esistenziale rifletto ed elaboro in continuità; e se vivo molto tempo in mezzo agli altri altrettanto ne trascorro da solo, in silenzio: pensando, leggendo, scrivendo; per quel poco che posso camminando e contemplando. Mi sento di pregare così. Un momento del tutto speciale di preghiera è il silenzio nel quale sosto nel piccolo cimitero di Tualis, il mio paese natale sulla montagna; anche la collocazione fra i monti favorisce l’interiorità; in essa vibrano le memorie sempre vive e calde dei miei genitori, di altri familiari e parenti, di tutte le persone sepolte in quel luogo di cui nella quasi totalità conosco la storia che riemerge dentro di me guardando le foto sulle tombe. Se posso – e faccio il possibile perché avvenga – la domenica pomeriggio, dopo giorni trascorsi fra coinvolgimenti e impegni continui, salgo lassù per vivere un momento di luce, di conforto, di insegnamento, di incoraggiamento. Credo di aver sostato in silenziosa meditazione e preghiera in quel luogo nei momenti più importanti della mia vita; questo rapporto con la terra del cimitero che custodisce i resti dei propri cari è dentro alla relazione più ampia con la terra della montagna, quel luogo antropologico dove sento in profondità le mie radici ­11

non in modo retrospettivo e nostalgico, bensì come fonte di energia e di vita per il presente e il futuro. È il luogo della nascita, degli affetti più delicati, degli insegnamenti più profondi, di una situazione sociale e di una condizione umana dura, difficile, impegnativa, di grandi sacrifici, ma ricca di sensazioni e di dolcezze interiori delicate, profonde, ineffabili. Questo sentire, questo riflettere, esprimere, proporre sono dentro alle trame della vita, della storia e da esse emergono; non hanno nulla da spartire con una religione intesa come ingrediente della società per confermare e consolidare la situazione presente, utilizzata appunto a scopi di consenso e di potere. Non hanno nulla a che fare con la Chiesa del potere religioso che diventa potere politico sollecitando in questo modo il potere politico a presentarsi come religioso ed etico, estremo difensore dei valori cristiani. Mi sento parte della Chiesa come comunità di fede. Penso che la Chiesa, quando tradisce strutturalmente il Vangelo su cui si fonda e che dovrebbe costituirla, non è più Chiesa, ma istituzione di potere fra le altre, con l’aggravante di pretendere di essere custode e garante della verità, di esibire il sigillo divino al suo essere Chiesa sempre e comunque. Ad esempio e di nuovo: come può la Chiesa tacere e defilarsi in posizioni diplomatiche di privilegio quando le persone, le comunità e i popoli vengono oppressi, torturati, uccisi? Credo nella Chiesa cattolica, cioè universale, che si esprime nelle diverse situazioni con la pluralità e l’autonomia delle teologie, delle liturgie. L’unità dovrebbe essere data non dalla gerarchia, non dalla disciplina, bensì dall’unica fede in Gesù e nel suo Vangelo, dal coinvolgimento che ne consegue, dalla coerente testimonianza che la rende credibile. Credo nel magistero della Chiesa quando illumina e guida sulla strada del Vangelo, quando si pone al servizio ­12

umile e disinteressato della verità sempre in relazione alle singole storie delle persone, quando è segno dell’unità della fede in Dio, in Gesù di Nazaret. Un’autorità che insegna e guida soprattutto con la testimonianza: mai lontana, dogmatica, disciplinare o fredda. Credo in una Chiesa umile e forte della forza dello spirito; coraggiosa, non diplomatica se la diplomazia è tatticismo, presunzione di neutralità, accomodamento a danno dei poveri e di chi fa più fatica. Credo in una Chiesa povera, essenziale, sobria; che usa i beni e il denaro in modo del tutto trasparente, per il bene comune, per le diverse situazioni di bisogno; per la promozione spirituale e culturale; che non parla dei poveri ma da essi è abitata. Credo in una Chiesa pluralista formata di uomini e di donne con pari possibilità ministeriali: dal sacerdozio al diaconato. Credo in una Chiesa che si liberi una volta per sempre dei titoli nobiliari di ‘Eminenza’, ‘Eccellenza’, ‘Monsignore’; di abiti che appartengono ad altre epoche della storia e appaiono desueti, al di fuori del sentire e del vivere di gran parte della gente. In cui il papa, i cardinali, i vescovi, i preti, le donne e gli uomini appartenenti agli ordini religiosi abitino case dignitose, ma modeste ed essenziali; vestano in modo semplice; si nutrano con sobrietà; usino auto utilitarie; parlino cioè con lo stile della vita che hanno scelto. Credo in una Chiesa che anche quando celebra l’eucarestia non esibisce una solennità fine a se stessa, non la esalta, perché è consapevole che quell’eucarestia chiede di per sé la coerenza nella vita e nella concretezza della storia. Credo nella Chiesa dei profeti e dei martiri, non dei funzionari, di coloro che sfoggiano il proprio titolo allo scopo di occultare intrighi e corruzione. Credo nella Chiesa che non ha paura della verità, perché il Maestro ci insegna che «solo la verità ci rende liberi»; nella Chiesa che vive una sola paura: quella di non essere fedele al suo Signore. ­13

II

FUNZIONARI DELLA RELIGIONE O TESTIMONI DEL VANGELO?

«Gesù cominciò a parlare alla folla e ai suoi discepoli. Diceva: ‘I maestri delle leggi e i farisei hanno l’incarico di spiegare la legge di Mosè. Fate quello che dicono, ubbidite ai loro insegnamenti, ma non imitate il loro modo di agire: perché essi insegnano ma poi non mettono in pratica quello che insegnano. Preparano i pesi impossibili da portare e li mettono sulle spalle degli altri; ma da parte loro non vogliono muoverli neppure con il dito’» (Vangelo di Matteo 23, 1-6). Spesso rifletto con inquietudine, sofferenza, interrogandomi su come sia stato possibile a partire da Gesù di Nazaret costruire nella storia un apparato religioso di potere e di sacralità che solo in modo vago, intermittente, sfuocato e distorto si riferisce a lui, di fatto oscurando e tradendo la sua persona e il suo messaggio rivoluzionario, nel senso più profondo e completo della parola. Mi chiedo spesso dove sia Gesù di Nazaret, cosa c’entri lui non solo con l’apparato del potere, ma anche con le solennità delle celebrazioni liturgiche che per i paramenti, l’ostentazione, il ritmo, le parole, i gesti sono separati dalla vita, dalle storie delle persone. Cosa c’entri lui con i titoli di ‘Sua Santità’, ‘Eminenza’, ‘Eccellenza’, ‘Monsignore’; lui che ha vissuto in modo semplice e diretto, ha incontrato le persone, ha parlato con loro in modo completamente differente. Cosa c’entri lui con residenze di lusso, con ­14

tante proprietà immobiliari finalizzate non certo ai poveri, con le frequentazioni con i ricchi, i potenti, i diplomatici del potere. Ancora, cosa c’entri lui con una dottrina confezionata e sigillata, con un insegnamento che più volte non accoglie e non conforta, ma umilia e allontana. Ricordo che nei tanti anni del seminario, dall’ottobre 1958 al giugno 1972, Gesù di Nazaret è stato per il primo periodo pressoché assente. Ci si potrebbe stupire di questa affermazione, avvertendola per certi aspetti come clamorosa, giacché il fine del seminario è quello di educare i futuri preti, annunciatori e testimoni del Vangelo. In realtà, il seminario era un’istituzione totale per forgiare funzionari della religione: dunque, molta ideologia sacrale, un continuo insinuare la esemplarità della vita sacerdotale come separatezza; di conseguenza una sottile, continua violenza repressiva rispetto all’affettività e alla sessualità, con l’ossessivo allontanamento della donna, considerata un pericolo per il sacerdote separato dagli altri, con il cuore indiviso, perché donato totalmente a Dio e agli altri, considerando sia Dio sia gli altri in modo vago, astratto, indistinto. In quel contesto, Gesù di Nazaret non c’era, non poteva esserci, proprio perché totalmente diverso. Certo, alcuni riferimenti alla sua figura non potevano mancare nelle meditazioni e nelle esortazioni, ma erano sfuocati, appena accennati, all’interno di uno schema disciplinare di sollecitazione continua ad aderire ad una immagine formale per tutti uguale: sacerdoti ubbidienti ai superiori, accondiscendenti ai bisogni religiosi della gente. Purtroppo a questo mirava l’istituzione totale del seminario: a formare dei funzionari preti, quasi a prescindere – e so che può sembrare un paradosso – dall’umanità del soggetto e al limite anche dalla sua fede. Importante farne un garante funzionario dell’istituzione religiosa; talmente efficiente da essere in grado di nascondere anche le proprie tribolazioni, i propri drammi, i propri ‘svuotamenti’ umani; perfino da ­15

riuscire a nascondere, dietro alla brillantezza ammirata dei riti religiosi, una fede tiepida, scarsa, insignificante. Ricordo in particolare che ogni giorno, al mattino, erano predisposte, in successione: le preghiere, la meditazione personale o suggerita dal padre spirituale, la messa; e noi, ragazzini di dodici-quindici anni, eravamo inseriti in questo schema devozionale. Ma dov’era Gesù con il suo messaggio rivoluzionario? Appunto non poteva esserci, perché lui stesso si sarebbe allontanato, come in effetti fece, dalla religione del tempio. E ricordo anche l’ora di lezione di galateo che ci veniva impartita, con tanto di libro da seguire, una volta alla settimana. Può sembrare irrilevante e invece tradisce una mentalità molto lontana da Gesù di Nazaret. A noi, figli nella quasi totalità di famiglie povere, con l’esperienza di tavole sobrie per il cibo e di altrettanto sobrie modalità di condividerlo, veniva impartita l’educazione ad un galateo che presumeva il sedersi, una volta preti, alle mense dei benestanti e dei benpensanti. Dov’era Gesù di Nazaret, il suo condividere pani e pesci con una moltitudine di gente del popolo seduta sull’erba a cielo aperto? Il suo recarsi in casa degli amici Marta, Maria e Lazzaro o nella famiglia di Pietro e Andrea? Il suo accettare l’invito a pranzo di persone di cattiva reputazione per comunicare profondità di sentimenti e di relazioni, necessità di cambiare scelte, comportamenti ingiusti? Nella mia vita di uomo e di prete molto raramente – quasi mai – mi sono seduto alle mense in cui si esige il galateo. E ne sono contento. C’è un secondo tempo – per così dire – degli anni del seminario: quello degli studi di teologia, soprattutto della Bibbia e in particolare dei Vangeli. Mi pare che l’accostamento, l’analisi e la riflessione sulla vicenda di Gesù di Nazaret e sul suo messaggio abbiano favorito in me la relazione, via via poi cresciuta e approfondita, con le dimensioni importanti già presenti nel mio patrimonio interiore, e abbiano sollecitato e so­16

stenuto quel rapporto diretto e continuo fra storia e fede, vita e Vangelo che anche oggi avverto presente e costitutivo. Questo coinvolgimento nella vita, nelle storie delle persone, in quella di Gesù di Nazaret rappresenta per me, quotidianamente, l’orientamento di fondo. Diventato prete, nell’ottobre 1975, non senza difficoltà, con convinzione intima e insieme con timore e tremore, ho avvertito questo compito come tentativo umile e insieme appassionato di osare una testimonianza del Vangelo, chiedendo ogni giorno coerenza a me stesso, cercando di liberarmi dal ruolo richiestomi di funzionario della religione, per pormi al servizio nel modo più convinto, disponibile e gratuito possibile. L’incontro diretto o, seppure mediato, ugualmente profondo con donne e uomini testimoni coerenti del Vangelo è stato ed è, per me, nutrimento vitale. Mi riferisco a persone semplici, umili, nascoste e ad altre conosciute; certamente ad alcuni preti profeti come don Lorenzo Milani, padre Turoldo, padre Balducci, don Tonino Bello. E poi, procedendo nell’itinerario della vita, a martiri come il vescovo Romero, per riassumere in lui tante donne e tanti uomini semplici che hanno dato la loro vita. Questi riferimenti, così importanti e fondamentali, continuano. Cito un esempio particolarmente significativo fra gli altri. Nell’estate del 2010, ho pensato spesso ad un amico prete che sta vivendo l’esperienza della resistenza nonviolenta in Centro America. È padre Andrés Tamayo, cin­ quant’anni, di origine salvadoregna, da ventisei anni in Honduras. Diventato leader nazionale del Movimento ambientalista di Olancho in difesa dei boschi saccheggiati brutalmente da multinazionali del legno – anche italiane – e per questo insignito di riconoscimenti internazionali, premiato come difensore dei diritti umani, è nello stesso tempo minacciato di morte, fino a subire più volte attentati alla sua vita. Uomo e prete del popolo. Qualche anno fa l’ho invitato all’appuntamento culturale di settembre, centrale per la vita del Centro Balducci. ­17

Ha accettato di venire fra noi; l’ho anticipato recandomi per una quindicina di giorni in Honduras e condividendo la sua vita, constatando il suo coinvolgimento autentico con le persone e con le comunità di cui era anche parroco. Sollecitavano la mia riflessione le celebrazioni dell’eucarestia sempre intrecciate con le storie delle persone e delle comunità; ed egualmente, perché parte di un’unica realtà, le sue convinzioni, la sua determinazione, il suo coraggio. Nel giugno del 2009 c’è stato un golpe militare in Honduras e lui, padre Andrés, leader riconosciuto, è diventato un punto di riferimento ancora più importante. Ha partecipato alla resistenza non violenta del popolo; è stato con il presidente deposto e rientrato, insieme ad altri, nell’ambasciata del Brasile; a novembre 2009 è stato espulso dall’Honduras. Accolto per un periodo nel nostro Centro Balducci nel dicembre 2009, è stato invitato nuovamente nell’aprile 2010 per consegnargli il 2° riconoscimento ‘Ernesto Balducci’, con una donazione per il sostegno che lui ha fatto arrivare alle comunità per alcune loro necessità prioritarie. Con l’accompagnamento dell’amicizia e della preghiera è ripartito. Nel mese trascorso nel nostro Centro, abbiamo condiviso la casa e spesso i pasti con le sorelle (suore) Marina (indiana), Marinetti (brasiliana), Ginetta (italiana), presenza importante nel Centro. E naturalmente l’eucarestia. Ho visto padre Andrés piangere quando veniva a conoscenza dei sequestri, delle torture, delle uccisioni quotidiane in Honduras, di persone amiche, alcune cresciute con lui nella comunità cristiana e nel Movimento ambientalista di Olancho e ora membri attivi della resistenza non violenta. Della drammatica situazione dell’Honduras i mezzi di informazione non parlano: né dell’oppressione, della violazione dei diritti umani, delle violenze e degli omicidi, né del segno straordinario di un popolo che si è mobilitato in modo nonviolento, un esempio per tutto il pianeta. L’Honduras è un piccolo tassello nella scacchiera dei grandi interessi militari e delle multinazionali: si dimentica la ­18

situazione disumana di un popolo costretto a subire; almeno una parte di italiani, però, potrebbe ricordarsene per via dell’Isola dei famosi, perché al largo delle coste dell’Honduras è stata ambientata anche l’edizione 2011 di questo reality. Dovrebbero vergognarsi tutti profondamente per l’utilizzo stupido e volgare di un ambiente così bello che è la terra di un popolo da sempre povero e oggi duramente colpito. Ebbene, il cardinale dell’Honduras, arcivescovo di Te­ gucigalpa, uomo di spicco, non solo dell’episcopato latinoamericano – tanto da essere considerato fra gli eleggibili a papa nell’ultimo conclave – ha proibito a padre Tamayo di celebrare l’eucarestia in qualsiasi chiesa della ­capitale. Lui, che per ragioni diplomatiche non ha mai criticato il golpe, così di fatto approvandolo, ha considerato quel prete un leader politico dell’opposizione, specie dopo che ha lasciato la sua parrocchia: non certo per abbandonarla, ma per vivere l’urgenza di porsi al servizio della grande parrocchia del popolo resistente delle strade. E così padre Andrés ha celebrato, su richiesta del popolo, prima di essere espulso, l’eucarestia nelle strade, fuori dalle chiese, fuori dal tempio, luogo a lui vietato. Ma «la gloria di Dio è l’uomo vivente» (Sant’Ireneo): «è che il povero viva» (Oscar Romero). La questione si pone in modo drammatico: qual è la Chiesa del Vangelo? Quella del cardinale o quella di padre Andrés? Prima di partire padre Andrés mi ha chiesto se noi, come Centro Balducci, potevamo ospitare una donna e i suoi due bambini, dopo che il marito era stato ucciso nel marzo 2010 per aver partecipato alla resistenza. Queste tre persone ora sono con noi: è un modesto segno di accoglienza rispetto alla vastità di situazioni simili; lo avvertiamo come una scelta di partecipazione al dolore, di condivisione di una resistenza per la giustizia, la libertà, la pace, la democrazia. Sono portato a scorgere i segni della presenza di Gesù di Nazaret nell’eucarestia che padre Andrés ha celebrato ­19

con le comunità per nutrire di speranza e di coraggio la loro vita. Purtroppo mi sembra di ritrovare sempre meno Gesù di Nazaret nel nostro paese, in particolare nelle nostre regioni del Nord Est. Sempre più spesso si parla di religione a sproposito, per rinsaldare pezzi di identità frantumate dall’accelerazione delle trasformazioni sociali, etiche e culturali. Qualche frammento di sicurezza identitaria; qualche riferimento nominalistico a valori tradizionali – salvo tradirli nella sfera personale e familiare –; qualche aspetto folcloristico e gastronomico; il riferimento a qualche simbolo localista-identitario; e tutto questo riempito e cementato dall’ostilità e dal rifiuto dell’altro, specialmente dello straniero, ma in generale di qualunque forma di diversità. Dunque una religione etnicizzata, dove il riferimento religioso specifico è uno degli elementi, ma poi di fatto diventa il collante degli altri, perché l’indicazione alle radici e all’identità viene accostata vagamente al cristianesimo, ad una società che si ritiene comunque cristiana, con una presunzione e una supponenza sconcertanti. La fede non c’entra proprio. Gesù di Nazaret nemmeno. Il riferimento autentico a lui di per sé richiede serietà, ascolto, riflessione, rimessa in discussione; si può quindi parlare di una religione senza fede, di una evocazione vaga del cristianesimo senza Cristo, di una religione come ingrediente di una società egoista, grossolana, materialista, senza idealità, cultura ed etica. Non dico atea, perché essere atei, come essere credenti seri, è un’impresa grande e profonda. Sì, questo Gesù di Nazaret è presente nella mia vita di uomo e di prete: lo dico con rispetto, affetto, commozione, coinvolgimento, passione, anche tribolazione e con una consolazione che mi accompagna nell’intimo. E questo a partire dalla laicità per ritornare alla laicità, senza fideismi, dogmatismi, sacralità di separazione. Certo, rifletto anche sulle tante mie incoerenze e infe­20

deltà al suo straordinario messaggio, ma nello stesso tempo senza infingimenti e falsa umiltà riconosco che le scelte più importanti della mia vita – dal diventare ogni giorno prete, all’essere sollecitato alla disponibilità verso gli altri; dall’aver aperto la casa all’accoglienza, alla condivisione del denaro, del tempo, delle energie; dall’aver continuato ed ampliato l’esperienza del Centro di accoglienza per gli stranieri, al tentativo di vivere in modo semplice e sobrio – hanno trovato e trovano ispirazione, luce, forza, verifica, rilancio in Gesù di Nazaret e nel suo Vangelo. Gesù di Nazaret, dunque, come rivelazione del Dio in cui credere, con attenzione, ascolto, ricerca, dialogo e collaborazione con le altre fedi religiose. Di lui mi affascina tutto. La misteriosa nascita da Maria, una semplice ragazza del povero popolo di Nazaret. Il suo venire al mondo in una stalla, rifugio degli animali, perché nessuno aveva accolto Maria e Giuseppe. Non smette di stupirmi questa ‘laicità’ di Dio, il suo non pretendere luoghi speciali, spazi sacri, templi religiosi; e neanche di essere ricevuto da persone importanti, ragguardevoli, dalle autorità – come comunemente si dice – sociali, politiche e religiose. Che neppure si accorgono della nascita di Gesù: che è figlio di poveri, uno dei tanti. A fargli visita sono alcuni pastori, ai margini di quella società (Vangelo di Luca 2, 1-21). Poco dopo la nascita Gesù diventa parte della immensa moltitudine di bambini/e, impossibili da contare, costretti alla profuganza a causa della violenza dei tiranni: Erode allora, oggi i militari che pretendono di dominare in Honduras, dopo il golpe, per fare un esempio. Anche Camilla di nove anni e Diego di sei con la mamma Carla sono stati costretti a fuggire e hanno chiesto accoglienza nel nostro Centro. Sono gli ultimi arrivati. Ora sono rifugiati politici in Italia. Tante volte in questi anni ho accostato Maria, Giuseppe e Gesù in fuga verso l’Egitto a famiglie intere sui barconi con destinazione Lampedusa; o a persone singole, come ­21

quell’uomo padre di famiglia e quel giovane giunti fra noi dal Kurdistan iracheno appesi sotto la pancia di un tir. Mi affascina la vita discreta della famiglia di Nazaret dopo il rientro dall’esilio; la partecipazione alle tradizioni popolari quali la presentazione al tempio e poi il pellegrinaggio a Gerusalemme; non in modo formale e rituale, ma dentro alle relazioni e ad incontri significativi (Vangelo di Luca 2, 22-52). Mi ha fatto sempre molto riflettere la concretezza e il mistero di tanti anni, pare trenta, vissuti da Gesù nella casa di Nazaret; non si trovano indicazioni nei Vangeli, ma si può ragionevolmente dedurre che abbia condotto una vita semplice, sobria, laboriosa. Gesù è cresciuto coltivando sensibilità e fede profonda; pregando e lavorando nella bottega di falegname di Giuseppe; imparando a vivere, come poi esprimerà nella vita pubblica, relazioni profonde con le persone. Le comunità cristiane, la Chiesa nella sua ufficialità, per essere credibili dovrebbero mostrarsi altrettanto umili, sobrie, non appariscenti, anzi alle volte nascoste per nutrire la forza della profezia e poi irrompere con passione, coinvolgimento, prese di posizione sulla scena della storia. Una Chiesa sacralizzata, separata, rinchiusa nei templi, come può parlare con credibilità della stalla di Betlemme? Bardata di paramenti, di vesti d’altri tempi in occasione di liturgie solo formalmente solenni; ornata di copricapo e fasce colorate; ridondante di titoli onorifici, come può parlare della semplicità della stalla di Betlemme? Coinvolta in affari di ristrutturazione di edifici, proprietaria di innumerevoli immobili, come può riferirsi ad un luogo, riparo per gli animali, impregnato dai loro odori? Per questo la Chiesa parla poco di Gesù di Nazaret, perché provocatorio per se stessa e poco credibile per gli altri. Mi affascina la comparsa di Gesù sulla scena pubblica, sulle rive del Giordano, in mezzo alla folla che attende il battesimo del profeta Giovanni – suo cugino, poi martire ucciso dal potere di Erode – con l’acqua del fiume, acqua corrente: non statica, ritualistica, come, ad esempio, quella ­22

delle vasche in cui si purificavano gli Esseni di Qumran. Gesù si presenta senza immunità e privilegi, senza alcun segno distintivo: dalla profondità della sua umanità esprimerà il suo essere altro, presenza del Mistero di Dio nella storia dell’umanità, pienamente uomo, in tutto simile a noi, fuorché nel male (Vangelo di Matteo 3, 13-17). Con quella scelta programmatica dice dove sta Dio: in mezzo, coinvolto, partecipe; non lontano, impassibile; non neutrale. Solo una Chiesa coinvolta, gente fra la gente, «popolo di Dio» in cammino nella storia, può parlare di questo Gesù. Per questo tante volte tace. Mi affascina Gesù di Nazaret, mistico-rivoluzionario; la sua passione per il Regno di Dio che inizia ad annunciare, a testimoniare con le sue parole e i suoi gesti: straordinari per la sorpresa e la commozione che suscitano, per l’opposizione che scatenano. Il racconto della vita di Gesù da parte di donne e uomini testimoni è soprattutto narrazione di incontri, perché la vita è fatta di incontri, di storie che si incrociano, si accolgono, si rifiutano, e possono arricchirsi. Gesù incontra tutte le persone, specialmente quelle discriminate, emarginate, abbandonate. La sua attenzione e accoglienza nei confronti dei bambini (Vangelo di Matteo 19, 13-15) diventa oggi l’impegno a salvaguardarne i diritti, prima di tutto quello alla vita, a riflettere sul dramma terribile della morte di un bambino/a ogni cinque secondi a causa della fame, della sete, di malattie endemiche e curabili; e poi il diritto all’istruzione, alla casa, agli affetti, al gioco. L’impegno a denunciare la condizione disumana dei bambini/e soldato, di quelli schiavi del lavoro; l’impegno per progetti di educazione globale con l’attenzione a tutte le dimensioni della vita. L’attenzione di Gesù verso le donne è straordinaria, rivoluzionaria in quel contesto sociale, culturale, religioso. Egli tocca le donne, ad esempio la suocera ammalata di Pietro, e si lascia accarezzare i piedi da una prostituta; con le sue parole e i suoi gesti supera le discriminazioni, ­23

i tabù, le impurità legate al sangue, come si può capire dall’incontro con la donna che subiva perdite di sangue (Vangelo di Luca 8, 43-48); aiuta alcune di loro, come Maddalena, a liberarsi da condizioni di difficoltà e tribolazione, infondendo fiducia, speranza, incoraggiamento. Sono le donne le prime annunciatrici di Gesù Vivente oltre la morte. Di questo Gesù ancora si parla poco, anche nella Chiesa, perché questo comporterebbe un diverso atteggiamento nei confronti delle donne, significherebbe valorizzarne la differenza e ricchezza di genere, riconoscere loro competenze e possibilità di prese di posizione e di decisioni, considerarle con pari dignità e autorevolezza degli uomini. A questo Gesù ci si riferisce poco anche nelle società sedicenti cristiane, perché ciò implicherebbe tutt’altra sensibilità e comportamenti completamente diversi: significherebbe considerare le donne non più oggetto, strumento, bersaglio di violenze impressionanti per frequenza e modalità. Mi affascinano e commuovono i tanti incontri di Gesù di Nazaret con gli ammalati nel corpo, nella mente, nell’animo; i Vangeli sono abitati da queste persone perché lo sono la vita e la storia: paralitici, lebbrosi, sordi, muti, ciechi, sofferenti psichici. Ricordo qui l’incontro con un lebbroso (Vangelo di Marco 1, 40-45); con un sordo-muto (Vangelo di Marco 7, 31-37); con un cieco (Vangelo di Marco 8, 22-26); con una situazione di sofferenza psichica (Vangelo di Matteo 17, 14-20). Questa partecipazione di Gesù ribalta in modo clamoroso l’immagine di un Dio retributivo che premia e castiga, per cui le malattie sarebbero conseguenza di cattivi comportamenti. Questo Dio non esiste: il Dio che Gesù comunica è pieno di compassione, vicinanza, solidarietà, conforto, anche di sollievo e di cambiamento con la guarigione. Vivere oggi questo insegnamento di Gesù significa impegnarsi a prevenire le malattie, e quando comunque dovessero colpire, a fare il possibile per partecipare, accom­24

pagnare, curare, mettendo insieme competenze, umanità, disponibilità, comunicando vicinanza, affetto, sollecitudine. E questo da parte delle persone e dell’organizzazione della risposta sanitaria. La meditazione dei Vangeli che raccontano l’incontro di Gesù con le persone psichicamente sofferenti e il suo comunicare loro umanità e serenità mi porta spesso a riflettere sullo psichiatra Franco Basaglia, sulla sua profezia – avveratasi – della chiusura dei manicomi, sulla necessità di riconsegnare la sofferenza psichica alle relazioni, liberandola da un’istituzione totale, da un processo di identificazione fra persone, sofferenza, luogo, il tutto non solo separato, ma segregato e ghettizzato dalla società dei presunti sani. Mi piace ricordare qui l’esperienza di padre Ernesto Balducci alla conduzione di Radio Anch’io, ormai molti anni fa. Una mattina invitò i suoi amici, già compagni di banco a scuola, poi minatori del Monte Amiata; un’altra, Franco Basaglia. Allo psichiatra che si dichiarava non credente, decisamente anticlericale, Balducci ricordò invece la sua vicinanza a Gesù di Nazaret che diede dignità umana al lebbroso, all’escluso, all’ammalato di mente. Naturalmente Basaglia ribadiva la propria estraneità alla Chiesa, ma padre Ernesto nell’intuizione e nell’azione liberatoria di quel medico riconosceva un segno grande e importante dell’attuazione del Vangelo. Mi affascinano e mi commuovono gli incontri di Gesù di Nazaret con le persone considerate peccatrici, scomunicate dalla legge, dal tempio e dalla sinagoga, anche condannate a morte, come la donna adultera trascinata innanzi a lui sul piazzale del tempio di Gerusalemme. Gesù accoglie, ascolta, perdona, incoraggia, infonde fiducia e speranza per il futuro: «Va’ in pace, d’ora in poi non peccare più» (Vangelo di Giovanni 8, 1-11). Gesù, radicale nella proposta e nelle esigenze, è attento e premuroso nei confronti della fragilità delle persone. Si sdegna e si esprime con severità solo nei confronti di coloro che si ritengono giusti, che vivono l’ipocrisia dell’ostentazione re­25

ligiosa, per coprire ingiustizie, oppressione e corruzione. Dice Gesù: «Guai a voi...» (Vangelo di Matteo 23, 13-36). Per noi tutti, per la Chiesa, è assai difficile praticare questo atteggiamento così unitario e ricco di saggezza di Gesù: radicalità nella proposta e nelle scelte e comprensione per le debolezze e le fragilità umane, ben altra cosa dalle ingiustizie, ipocrisie, corruzioni fatte sistema. E ancora mi affascina il comportamento di Gesù nei confronti della gente comune, della gente del popolo, disprezzata dalle classi dirigenti: dai notabili, dai maestri delle leggi (gli scribi), dai farisei, dalla classe sacerdotale. Gesù è un laico, non un sacerdote; non è un rabbino diplomato ad una qualche scuola, ma il suo insegnamento è autorevole perché gli proviene dalla sua profondità interiore. Sta in mezzo alla gente e insegna: non una dottrina, bensì un modo di essere e di sentire, una sensibilità e un orientamento di fondo. Il suo insegnamento non è discendente, ma circolare; apre i cuori, le coscienze, le menti all’approfondimento della vita e del suo intimo significato. Rivela che Dio non è un padrone e un tiranno, ma è un padre a cui rivolgersi con semplicità, affetto, confidenza e fiducia. È quel padre che accoglie il figlio che si era allontanato da casa e aveva vissuto in modo sconsiderato (Vangelo di Luca 15, 11-32), con nessun altro criterio se non quello dell’amore incondizionato e gratuito. Insegna che la legge è fatta per l’uomo: prima ci sono le persone con le loro storie e poi la legge, che dovrebbe essere al servizio delle persone stesse e del loro bene (Vangelo di Marco 2, 21-28). E qui non posso non ricordare don Lorenzo Milani, che insegnava ai suoi ragazzi l’amore e il rispetto per la legge e proprio per questo l’attenzione e l’impegno a modificarla non appena essa diventa protezione del forte e del prepotente e non più difesa e garanzia del debole. Gesù insegna con le sue parole e i suoi comportamenti che il potere può essere inteso solo come servizio alle persone, al bene comune. Proviamo a pensare cosa ­26

significa ispirarsi e attuare questo messaggio di Gesù nella società, nella politica, nelle istituzioni, nella Chiesa, oggi. Insegna a vivere liberi dall’ossessione dell’accumulo di denaro e di beni, perché il senso della vita non dipende da essi (Vangelo di Luca 12, 13-21); ad impegnarsi con fiducia e affidamento, ammirando gli uccelli del cielo e i gigli dei campi (Vangelo di Matteo 6, 25-34). Le parole e i gesti di Gesù ci insegnano la nonviolenza e l’impegno per la pace, liberandoci dall’inimicizia; l’umiltà intesa come considerazione dei nostri limiti e possibilità di bene; il coraggio nelle diverse situazioni della vita; la passione per la giustizia; l’apertura del cuore e della mente all’accoglienza misericordiosa; la sincerità e la trasparenza, la coerenza (Vangelo di Matteo 5, 1-48). La verifica della fede nel Dio che Gesù con la sua persona ci rivela nella storia, non è la conoscenza esatta e la trasmissione ortodossa di una dottrina, né l’adempimento formalmente ineccepibile dei riti religiosi: è soccorrere, mossi dalla compassione, un uomo sconosciuto, ferito e gemente sul ciglio della strada (Vangelo di Luca 10, 2537); è condividere il pane, cioè tutto quello che serve per vivere con dignità, come lui ci ha insegnato condividendo i pani e i pesci (Vangelo di Marco 6, 30-44). È incontrare lui, nel momento in cui incontriamo chi è affamato, assetato, nudo, ammalato, forestiero, carcerato, rispondendo alle esigenze di attenzione, ascolto, partecipazione e alle necessità che queste persone esprimono. Quindi un’opera sociale e politica, checché ne dicano quelli che continuano a criticare le esperienze di Chiesa impegnate quotidianamente nelle risposte a queste esigenze umane. Mi fanno sempre molto pensare quelle che sono state le reazioni alle parole e ai gesti di Gesù di Nazaret: favore popolare, ricerca della sua persona, delle sue capacità di guaritore; critiche continue da parte della classe dirigente, a cominciare dalla casta sacerdotale. Sulla scia dei profeti, dei giusti, dei martiri del suo popolo Gesù prende via via coscienza del suo destino, ne par­27

la per condividerlo con gli amici che ha chiamato accanto a sé: lo aspettano critiche, durezze, violenze, la morte. Nelle sue parole si legge il senso di una fedeltà verificata anche da momenti in cui potrebbe scegliere altrimenti, cioè una via di facili consensi, di entusiasmi emotivi. La consapevolezza dolorosa di ciò a cui va incontro è sostenuta dalla speranza che la vita e l’amore sono più forti e vanno oltre la morte violenta che subirà. Mi colpisce nell’intimo questo amico Gesù abbandonato dai suoi discepoli, da tutti tranne uno, Giovanni; oggetto di contesa, di proclami, divenuto capro espiatorio per la folla che ne chiede la morte; uno dei dodici apostoli, Giuda, favorisce il suo arresto, probabilmente per verificarne le intenzioni, il progetto, quando verrà a confronto con le autorità; un altro, Pietro, lo rinnega, afferma di non averlo mai conosciuto. Gesù, nel Getsemani, prova una terribile angoscia, come narrano i Vangeli (Vangelo di Marco 14, 32-42). Alla paura della violenza cui va incontro si unisce il senso del fallimento della sua missione, dell’inutilità delle sue parole e dei suoi gesti: ha insegnato l’amore e ora sembra vincere l’odio; la nonviolenza e ora vengono ad arrestarlo con le armi; la sincerità e ora pare domini la menzogna; l’amicizia e la fedeltà e ora sembra si affermi il tradimento. L’agonia è il dibattito interiore più lacerante, tanto da provocare ripercussioni in tutto il corpo. Gesù partecipa totalmente alla nostra condizione umana: alle nostre delusioni, ai nostri fallimenti, allo svuotamento di energie, di significati, di prospettive. In un momento così oscuro e doloroso si alza la richiesta umanissima di non soffrire ulteriormente per la violenza inferta dagli altri. E nello stesso tempo, con il più intimo e radicale affidamento alla Presenza del Padre, egli inizia il percorso doloroso. Nel racconto della passione di Gesù, narrata in maniera dettagliata da tutti e quattro gli evangelisti, colpisce l’intreccio, presente anche oggi, fra i poteri religioso, politico, militare. È drammatico dover constatare come anche ­28

oggi, in diversi luoghi del pianeta, si ripeta l’uccisione di persone giuste, innocenti, indesiderate dal potere per il loro impegno per la giustizia. Gesù è un politico rivoluzionario? Non nel senso comune, ma in quello profondo lo è più di ogni altro. È un operatore di pace e di solidarietà? Non secondo gli schemi e i criteri consueti, ma nel senso più profondo e completo lo è più di ogni altro. È un uomo religioso? Il sommo sacerdote, durante il processo farsa, afferma che per come Gesù parla di Dio, del suo essere Figlio e Messia, è un bestemmiatore, e anche un disubbidiente perché non osserva la legge del sabato. Gesù di Nazaret presenta il volto, la sensibilità, le parole e l’agire di Dio nella storia e i maggiori responsabili della sua uccisione sono i vertici della religione del tempio. Si realizza uno scontro fra l’Uomo della fede e gli uomini della religione; fra il Figlio della libertà di Dio e i tutori del potere religioso e del suo legame con il potere politico e militare. Penso a Gesù torturato, flagellato, oggetto di violenza e di scherno insieme a bambini/e, giovani, donne e uomini arrestati, colpiti, torturati, uccisi. Milioni di persone eliminate dai regimi totalitari sotto tutti i cieli. Per associazione interiore penso alla figura di una donna, Mirta, una madre anziana, di oltre ottant’anni, una delle Madres de Plaza de Mayo. Mirta è stata fra noi nel Centro Balducci, durante il convegno del settembre 2008. In occasione di un evento davanti alla base Usaf di Aviano (Pordenone), una delle più grandi in Europa, che contiene anche testate atomiche, i rappresentanti di alcune comunità del mondo erano invitati a scrivere su dei sassi – con i quali hanno poi costruito sul prato un monumento alle vittime improvvisato ma colmo di significato – il nome di persone vittime, martiri delle loro comunità. Ebbene Mirta ha scritto una cifra: «30.000», come a dire tutte le donne e tutti gli uomini desaparecidos suoi figli e sue figlie e lei madre di tutti e di tutte, perché abitata dal dolore come le altre madri. Ecco, Gesù torturato in mezzo a loro, ad Auschwitz, nei Gulag, a Hiroshima, a Nagasaki, in Cambogia, in Africa nella regio­29

ne dei Grandi Laghi, in diversi paesi dell’America Latina. Un Dio che in Gesù di Nazaret è vittima fra le vittime. La questione del dolore, degli interrogativi che esso suscita all’umanità e a Dio, specie quando riguarda l’innocente, quando appare profondamente ingiusto, può forse essere messa in relazione attraverso un filo sottile al Dio Crocifisso, al Dio vittima fra le vittime. Un Dio Crocifisso insieme alle persone, alle comunità, ai popoli crocifissi. La morte di Gesù sulla croce rivela ciò di cui l’uomo è capace: di uccidere l’altro perché indesiderato; di dare la vita per gli altri, come espressione di dedizione totale, di fedeltà, di coerenza, come ha fatto Gesù. Una morte atroce per lo strazio di un corpo colpito, devastato; per l’abbandono e la solitudine in mezzo al discredito totale e alla derisione della gente e delle autorità, a cominciare da quelle religiose. Una morte terribile, l’evidenza del fallimento di una missione, la smentita bruciante del progetto di una nuova umanità. E Dio, dov’è? Pare assente. L’interrogativo drammatico di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» esprime questa devastante solitudine e insignificanza e il dubbio che anche il Padre lo abbia abbandonato (Vangelo di Marco 15, 21-32). Nello stesso tempo, proprio dal profondo dell’abisso, sorge il desiderio estremo di potersi affidare a lui. Nato in un luogo laico, fuori dalla città, ugualmente muore, ucciso dai poteri di questo mondo, fuori dalla città santa di Gerusalemme, come un reietto e un maledetto, sul Golgota, luogo delle esecuzioni capitali. «Ma Dio l’ha fatto risorgere, liberandolo dal potere della morte» (Atti degli Apostoli 2, 24). Come sentire, intendere, comunicare l’evento di Gesù Vivente oltre la morte? Mi affascina questo Gesù di Nazaret risorto per la sua discrezione, per il suo rifuggire qualsiasi potere, esibizione, solennità. Ancora una volta non si tratta di verità di fede astratte, bensì di incontri, di relazioni. Gesù risorto si lascia incontrare dalle donne e dagli uomini suoi amici, ­30

delusi, addolorati e angosciati dopo la sua terribile morte. E dove? Non in luoghi sacri o solenni, ma nei luoghi della quotidianità: nella stanza presa a prestito dove avevano insieme celebrato la Pasqua (Vangelo di Giovanni 20, 1929); in riva al lago di Tiberiade (Vangelo di Giovanni 21, 1-14); nel luogo della sepoltura dove Maria di Magdala si è recata a piangere (Vangelo di Giovanni 20, 11-18); lungo il cammino da Gerusalemme ad Emmaus (Vangelo di Luca 24, 13-35). E come? Incertezza e timore albergano nelle donne e negli uomini suoi amici; essi percepiscono e si affidano gradualmente, poco a poco, proprio come accade nella vita di ciascuna e ciascuno di noi, quando la fiducia e la speranza rinascono, dopo momenti dolorosi e difficili. L’esito degli incontri è la ripresa della fiducia, della speranza e del coraggio; è il coinvolgimento profondo con la vicenda di Gesù e con il suo insegnamento fino a farsene testimoni coraggiosi con l’annuncio e la testimonianza coerenti. Gesù che cammina, compagno di viaggio sulla strada di ogni Emmaus del mondo, comunica anche a noi questa possibilità: una presenza e un accompagnamento da parte sua, come esempio per accompagnarci fra noi nella vita; le sue parole profonde che diradano l’angoscia, riaccendono e alimentano la speranza, riscaldano il cuore e illuminano la mente, sono anch’esse un esempio per noi: per le nostre parole da rivolgere agli altri nel tempo della tribolazione. E poi la concretezza della prossimità, di un pane spezzato insieme per dire la disponibilità a condividere idealità, spiritualità, progetti, energie, capacità: un progetto di umanità nuova. Questo è il Gesù di Nazaret che continua ad affascinar­ mi, a provocarmi con la sua radicalità, a verificare le mie incoerenze, a consolarmi con la sua vicinanza. Sì, ribadisco come di lui, paradossalmente, nella Chiesa si parla poco, perché parlare del suo messaggio riguardo ai beni e al denaro chiede coerenza, prima di tutto alla Chiesa; ­31

schierarsi per la nonviolenza attiva significa rompere alleanze e intrecci con il potere militare, con le armi, con la giustificazione delle guerre, con i cappellani militari, con i funerali religiosi di Stato ai militari morti in cui le parole del celebrante sono simili a quelle di un ministro della Difesa. Ma il Vangelo dov’è? Annunciare il potere come servizio significa distaccarsi dalle connivenze con il potere politico ed economico e dare testimonianza di semplicità, povertà, servizio umile e disinteressato; e annunciare la misericordia di Gesù significa essere una Chiesa che apre le porte a tutti senza pregiudizi ed esclusioni. E parlare di lui crocifisso significa schierarsi dalla parte dei crocifissi, delle vittime, non accordarsi diplomaticamente con i carnefici. E annunciare la speranza e la vita significa camminare con l’umanità, non dire parole separate perché ci si colloca in ambito protetto e privilegiato. Si fanno dichiarazioni, documenti, progetti pastorali, ma Gesù di Nazaret con la sua radicalità e la sua capacità di consolazione troppo spesso non c’è, oppure se ne parla in modo vago, non con quella passione e quel convincimento che coinvolgono fin nel profondo. Così la Chiesa gerarchica e così, a seguire, tanti cosiddetti fedeli, per i quali certi santi, certe sante, sono più importanti di Gesù. Ad esempio, mi capita di veder inserita nei programmi delle sagre paesane la celebrazione della messa, di quell’eucarestia provocazione e consolazione della sua presenza e del suo messaggio: è collocata lì, in quei manifesti, fra le grigliate di carne, la pesca di beneficenza, il ballo e i fuochi d’artificio. Da non credere, ma è ancora così. Ma ben più grave è che nella Chiesa non si riconosca il volto di Dio, che in modo chiaro ci presenta questo straordinario Gesù di Nazaret, lasciando che altri dèi coesistano con lui, in una sorta di politeismo e di drammatico relativismo proprio riguardo a Dio. E allora: il Dio dei potenti, dei ricchi, dei prepotenti e il Dio dei poveri; il Dio dei razzisti e di quelli che invece accolgono l’altro, il diverso, ­32

lo straniero; il Dio dei mafiosi, di quelli indifferenti alle mafie e il Dio di quelli che si oppongono e di quelli che per questo vengono uccisi. È sconcertante che nel nostro paese, cristiano e cattolico, regnino sovrane la corruzione e l’illegalità. A quale Dio, allora, ci si riferisce? Non certo al Dio di Gesù di Nazaret. Per fortuna sono tante le persone e le comunità che cercano di riferirsi a lui con umiltà e serietà, qui, nella nostra società e in tanti altri luoghi del pianeta.

III

PRETE NEL MONDO E NELLA CHIESA DI OGGI

«Gesù riunì i dodici e diede loro autorità sugli spiriti maligni e il potere di guarire le malattie. Poi li mandò ad annunziare il Regno di Dio e a guarire le malattie. Disse loro: ‘Quando vi mettete in viaggio non prendete nulla: né bastone, né borsa, né pane, né denaro e non portate un vestito di ricambio. E quando entrate in una casa rimanete finché non è ora di andarvene da quella città. Se gli abitanti di un villaggio non vi accolgono, lasciate quel villaggio e scuotete via la polvere dai piedi: sarà un gesto di minaccia contro di loro’. Allora i discepoli partirono e passavano di villaggio in villaggio annunziando dovunque il messaggio del Vangelo e guarendo i malati» (Vangelo di Luca 9, 1-6). Ho vissuto e continuo a vivere un paradosso che considero vitale: quello di essere in un ruolo e di cercare costantemente di romperne la separatezza; di uscire da quel bozzolo per riprendere pienamente ad essere uomo in mezzo alle donne e agli uomini, per poter esprimere in questa collocazione l’essere prete riferito al Vangelo e alla storia delle persone che incontro. Ho sperimentato continuamente la dialettica, anche sofferta, ma senz’altro fonte di vita e di apertura, di vivere con un ruolo cercando di vivere senza ruoli; di superare ogni aspetto, forma, mentalità clericali. Mi sento un umile credente sempre alla ricerca, laico, e anche prete. ­34

Umile credente: non dogmatico, non presuntuoso, non maestro degli altri; alla ricerca del vero Dio che, come diceva padre Balducci, è sempre a noi absconditus, nello sforzo di comprendere più profondamente la persona di Gesù di Nazaret e il suo straordinario messaggio. La ricerca assume il dubbio che è costitutivo di una fede matura, come affermava addirittura un papa, Paolo VI; dubbio provocato dal male del mondo, dalla violenza e dalle atrocità di noi esseri umani-disumani, dalle nostre personali incoerenze, da una Chiesa di cui faccio parte che troppo spesso tradisce il Vangelo, annunciandolo a parole ed esibendo invece potere, ricchezza, presunzione, arroganza. Mi sento costantemente alla ricerca, prestando ascolto a chi dice di non essere credente e mi insegna coerenza, umanità, disponibilità, gratuità, coraggio, perseveranza. Ponendomi in ascolto delle donne e degli uomini che si ispirano a spiritualità e fedi religiose differenti, a quel che sentono, a come vivono, pregano, si relazionano. Riflettendo sul mistero della vita: dell’amore e dell’amicizia, della sofferenza dell’anima e del corpo, della malattia, della morte, intesa come condizione esistenziale e nelle sue differenze di tempi e di modi. Perlustrando il mio animo e cercando di percepire quello altrui nei tanti, davvero tanti incontri vissuti nella mia vita di uomo e di prete. Mi definisco laico. Penso che nel nostro paese ci sia una grave povertà e di contenuti e di termini riguardo alla laicità. ‘Laico’ viene contrapposto a ‘credente’, a ‘cattolico’; specularmente, ‘credente’ o ‘cattolico’ viene contrapposto a ‘laico’. Laici siamo tutti, per una comune condizione di partenza, senza pregiudiziali ipoteche ideologiche, religiose, confessionali. Chi si sente credente e non assolutizza la sua posizione, è attento, rispettoso, curioso di chi si dice non credente, è aperto al dialogo. Lo stesso vale per il non credente. In questo senso mi sento laico. E anche prete: anche non vuole essere una presa di distanza, una sorta di diminuzione, tutt’altro; al contrario, vuole ribadire che l’essere prete è espressione di un servi­35

zio, di una funzione che non potrebbe esistere a prescindere dall’essere uomo laico e credente. Anche prete deriva dall’essere il più possibile uomo, con un’umanità profonda, matura, capace di relazioni; deriva da una fede ricca di profondità, dubbi, tribolazioni, confidenza, speranza e ancora affidamento alla Presenza del Signore. Ho sempre cercato di fare della chiesa non solo il luogo delle celebrazioni liturgiche, ma anche quello dell’incontro, dell’informazione, del dialogo, del confronto. Alcune mie scelte sono state considerate dissacranti: una volta, a Zugliano, durante una cerimonia del gruppo degli alpini del paese, decisi di non benedire la bandiera italiana, rompendo così l’intreccio delle simbologie del potere politico, militare e religioso per proporre, provocatoriamente, una seria riflessione fra simboli e fede, fra cerimonie civili e simboli religiosi. Ancora. La scelta di utilizzare la piccola chiesa, di fatto lo spazio più ampio a disposizione, per incontri, conferenze, dibattiti su vari argomenti, fin dai primi anni Ottanta: l’aborto, la nonviolenza e la pace, il dialogo fra rappresentanti delle diverse religioni; le responsabilità delle stragi in Italia: da quelle delle mafie a quella di Ustica, a quella di Bologna; la questione della sofferenza psichica e della chiusura dei manicomi, delle comunità sul territorio, del carcere... La scelta di partecipare – con sorpresa di tanti – a una festa dell’Unità per un confronto sulla pace. La scelta di ospitare nei locali della parrocchia la sede del Comitato friulano per la pace, di cui sono diventato presidente (siamo negli anni Ottanta, con la questione degli euromissili, le raccolte di firme, i convegni, i tanti incontri sul territorio). E poi, l’impegno durante tutti questi anni per la non violenza e per la pace; in particolare la preparazione e lo svolgimento della Via Crucis Pordenone-base Usaf di Aviano; da lì, nel 1999, partivano i cacciabombardieri per ­36

colpire l’ex Jugoslavia. Con don Giacomo Tolot e altri sacerdoti, con amiche e amici, in tutti questi anni abbiamo testimoniato la contrarietà alle armi, alle basi militari, alle guerre. E ancora, negli ultimi anni, l’impegno aperto, pubbli­ co, in tanti incontri, articoli e manifestazioni, a favore del­ l’accoglienza, con la denuncia appassionata, gridata, di una politica xenofoba e razzista a livello nazionale e regionale. Nel corso degli anni, poi, la presa di posizione in dibattiti pubblici, su giornali e televisioni, riguardo a questioni rilevanti, per esempio l’obbligo del celibato, che considero storicamente datato, che sento come una imposizione che nuoce anche al segno positivo di un celibato consapevole, frutto di scelta, libero, responsabile. Dato che avverto questa condizione come una ingiustizia, difficilmente riuscirò nella mia vita a ricomporre in modo definitivo questa questione, che dunque resterà aperta: perché non si tratta di una dimensione fra le altre nella nostra vita, ma di quella costitutiva, del nostro nucleo affettivo profondo. Scegliere di diventare prete: ma per quale Chiesa, in quale società, in quale mondo? Personalmente, sono convinto che la fede e quindi anche la vocazione passano attraverso la testimonianza assidua e coerente delle persone; dubito di quelle che nascono per suggestioni emotive, per climi particolari, per spiritualismi accattivanti, di fatto estranei alla vita e alle storie umane. Ed è invece dalle storie delle persone, dal progetto di umanità che bisogna partire. Per tutti noi, donne e uomini, dovrebbe essere sempre prioritario questo interrogativo: qual è il nostro progetto di umanità? E come donne e uomini di buona volontà la risposta dovrebbe essere: una umanità di giustizia, di equità, di nonviolenza, di pace, di accoglienza, di libertà, in cui ciascuna persona e comunità, ciascun popolo siano rispettati, a cominciare dal diritto primario e fondamentale alla vita, quindi al cibo, all’acqua, all’istruzione, alla ­37

casa, al lavoro, ad una discreta serenità negli affetti e nelle relazioni. Per costruire quotidianamente questo progetto di umanità, a quale Chiesa rivolgersi? A quella che annuncia con forza il Vangelo di Gesù e ne dà coraggiosa, coerente, fedele e perseverante testimonianza nella storia. È una Chiesa facilmente riconoscibile perché completamente diversa, anzi alternativa alla Chiesa del potere, abbracciata ai poteri economico, politico, militare, anch’essa, purtroppo, riconoscibile. E per questa Chiesa fedele al Vangelo, quale prete? Non certo un funzionario della religione, ma un uomo sensibile, con il cuore appassionato e la mente aperta, coraggioso nell’annuncio, assiduo e coerente nella testimonianza, capace di osare, di prendere posizione, di sollecitare, anche di provocare; di essere sempre profondamente umano. Un uomo con un profondo senso di appartenenza alla Chiesa intesa come comunità di fede; che vive una spiritualità incarnata nella storia. Si è detto: «Prete uomo di Dio», dunque riconoscibile dagli altri in quanto tale; io preferisco dire: uomo di Dio e uomo fra gli uomini e le donne con cui cammina nella storia. E allora, per favorire il sorgere di vocazioni e la progressiva formazione dei possibili futuri preti, quali ambiti vanno considerati, quali situazioni? Quelle che contribuiscono a rapportare in continuità fede e storia, Vangelo e vita; a leggere la storia dalla parte dei poveri, dei fragili, degli emarginati, degli esclusi; a studiare una teologia della liberazione, non della conservazione; a vivere una preghiera che emerge dai fatti della vita; a celebrare un’eucarestia che assume la storia per indicarne il progetto di umanità autentica a cui Dio ci sollecita. Se il prete è l’uomo della preghiera, sinceramente non so se prego molto (lo dico perché uno dei segni della preghiera è stato per lungo tempo la quantità, il numero, benché Gesù stesso affermi: «Quando pregate, non usate tante parole...», Vangelo di Matteo 6, 7 sgg.). Se ci si riferisce ai criteri riconosciuti, probabilmente come prete pre­38

go poco, ma mi sento nell’orizzonte di Dio. Ma che cos’è la preghiera? Prima di essere espressione verbale, personale o comunitaria, è dimensione e vibrazione interiore; soprattutto, e prima di tutto, è silenzio, dentro una relazione di Presenza e Mistero. E come ci insegnano in modo esemplare i Salmi della Bibbia le preghiere esprimono la vita, emergono dalle diverse situazioni della stessa. Ecco quindi la preghiera di gratitudine per il bene, ricevuto e manifestato, l’amore, l’amicizia; per le persone buone e positive incontrate e che ci accompagnano. La gratitudine è dimensione fondamentale della vita: chi non la esprime si sente padrone della vita, dei beni, perfino delle persone. A questa preghiera se ne intreccia un’altra, quella del­l’invocazione: che non significa chiedere qualcosa di materiale, o chiedere a Dio di sostituirsi alla nostra responsabilità, ma piuttosto aprirsi ad un coinvolgimento profondo con la luce, la forza interiore, il sostegno che possono venire dalla presenza del Signore. Invocare non è rifugiarsi in Dio in modo superficiale, nel «Dio tappabuchi» di cui ci ha parlato il teologo Dietrich Bonhoeffer; ma aprirsi a lui anche con le nostre fragilità esistenziali per essere incoraggiati e sorretti. E ancora, la preghiera con cui ci si affida a Dio, anche stavolta non per rifugiarsi in lui quando il senso del limite, della fragilità, dell’impotenza diventano paralizzanti o quando la sofferenza e l’angoscia esigono una qualche giustificazione o compensazione; ponendo quindi una certa attenzione ai maestri del sospetto e della critica all’alienazione religiosa come Marx, Feuerbach, Nietzsche, Freud... Mi pare anche che questo affidarsi consapevole, alle volte drammatico, esprima l’esigenza radicale di una vita salvata, nonostante le condizioni difficili e tremende, nonostante lo smarrimento e l’angoscia. Chissà se questo radicale affidamento rappresenta proprio la radicalità della fede: affidarsi ad una Presenza misteriosa e reale della nostra esistenza, confidando che qualsiasi sia la nostra condizione saremo accolti, riconosciuti, non scartati e abbando­39

nati. Questa dimensione vive il ritorno interiore – anche se poco a poco, lentamente – di calma, rasserenamento, orientamento, forza interiore, sostegno. Per poter affrontare nuovamente le relazioni, le nostre responsabilità. Anche le preghiere di dubbio, di interrogativo a Dio, di protesta per il male del mondo nelle sue diverse espressioni: per la morte che colpisce l’innocente, per le malattie lunghe e dolorose, per gli abbandoni, per le sofferenze dell’anima: «Perché, Signore? Perché mi hai dimenticato? Ti ho invocato e non mi hai risposto... Sono infelice, abbandonato da tutti e tu non te ne accorgi. Perché i bambini vengono uccisi dalla fame, dalla sete, dalle guerre? Perché tante malattie colpiscono le persone giovani, lacerano le famiglie? Perché i potenti e i prepotenti vincono così spesso e rubano ai poveri, uccidono, distruggono l’ambiente e le risorse vitali? Perché, Signore? Ma tu davvero ci sei? E allora perché taci e non intervieni?». Questi, e analoghi drammatici sofferti interrogativi, sono preghiere, come appunto i Salmi ci insegnano. E allora, considerando tutte queste dimensioni, posso dire di sentirmi nella preghiera. Il Centro Balducci è stato ed è occasione continua di incontri fra persone. In questo senso, vivo e percepisco la mia condizione di prete e il compito che ne deriva come umanamente privilegiati. Non avrei altrimenti incontrato, in profondità, così tante persone, ricevendone ricchezza umana; non sarei riuscito, se non anche e soprattutto prete, in questo impegno pubblico, muovendomi sul crinale, «alla frontiera delle coscienze» come amava dire padre Ernesto Balducci, mettendo in relazione alle volte in modo sorprendente e discutibile per molti l’essere laico, umile credente e prete; celebrare con convinzione e commozione – sinceramente, mai come funzionario della religione – l’eucarestia e prendere posizione pubblica sulle piazze contro l’ingiustizia, la guerra, il razzismo; osare di chiedere solidarietà, anche economica, con la semplicità e la trasparenza di chi vive un rapporto di libertà con i beni e ­40

il denaro, di chi si sente al servizio di un progetto di accoglienza e di solidarietà quotidiana concreta. Sono tante le esperienze importanti collegate al Centro. Nel corso del 2009, durante tre manifestazioni, a Por­ denone, a Udine e a Trieste, ho esposto in piazza riflessioni, ho fatto denunce e proposte gridandole con forza, sofferenza, sdegno etico. Mi sono chiesto se quello fosse davvero il mio compito; se in quanto prete mi si addicesse; ho riflettuto sul fatto che probabilmente qualche altra persona avrebbe dovuto essere al mio posto in quei momenti di evidenza pubblica e di posizione politica così marcata. Mi sono risposto che era stata la successione degli eventi vissuti che mi aveva portato fin lì, non la ricerca intenzionale di un ruolo da esibire per me stesso. È stato proprio così: come conseguenza delle scelte compiute mi sono trovato in quei luoghi, a pronunciare quelle parole. In quelle occasioni, e tante altre volte, mi sono sorpreso di me stesso e ho confrontato il ragazzino timido, persino introverso degli anni dell’adolescenza e della giovinezza, e il giovane che i superiori del seminario stavano per respingere dal sacerdozio, quel giovane considerato ‘incapace di relazioni umane’ perché non erano soddisfacenti le relazioni con loro e con l’istituzione, con l’uomo e prete Pierluigi ispiratore di un Centro di accoglienza in mezzo a bambini/e, donne e uomini provenienti dai diversi luoghi del pianeta e presente anche nelle piazze. Non lo dico per compiacenza narcisistica, ma per esprimere con tutta sincerità la mia sorpresa: da dove è venuta, da dove viene la forza? La risposta individua subito le radici: la famiglia, l’esempio di disponibilità gratuita verso gli altri, di sobrietà e semplicità dei miei genitori; il riferimento a Gesù di Nazaret e al suo Vangelo; l’esemplarità di tante donne e uomini maestri e testimoni. Sento che grazie a questo patrimonio si è sviluppata nei confronti dell’ingiustizia, della violenza, della guerra, della ricchezza, della prepotenza, del dominio, della discriminazione, delle varie forme di egoismo, dell’indifferenza, del ­41

qualunquismo, del conformismo, dell’ipocrisia, della superficialità, una forte dimensione etica che mi interpella, mi sollecita, spinge ad esserci, a schierarsi, a prendere la parola, a pensare, ad elaborare, a scrivere, a pronunciarsi da solo o insieme ad altri. Nella grande sala polifunzionale del Centro Balducci nei mesi scorsi si sono svolti diversi incontri. Ho riflettuto molto – e con una risonanza interiore positiva – su come abbiano potuto incontrarsi nello stesso luogo, anche se in tempi diversi, esperienze fra loro apparentemente inconciliabili in una lettura da molti condivisa, a cominciare dalla Chiesa gerarchica. Nella sala, il giorno di Pasqua 2010, in tante persone abbiamo celebrato l’eucarestia, durante la quale abbiamo riflettuto sulle situazioni e sui segni di morte presenti nella nostra società e sul pianeta e sui segni di vita e di speranza alimentati e sostenuti da Gesù Risorto vivente oltre la morte. Nella stessa sala, proprio dal medesimo posto, poco tempo prima ero intervenuto durante il congresso regionale del sindacato della Cgil con una riflessione su cultura, etica e politica, citando Gramsci, la laicità, la possibile fede religiosa, l’etica della responsabilità che porta a vivere con passione, a denunciare, a proporre, ad impegnarsi. Durante lo stesso convegno Beppino Englaro, sempre da quello stesso posto, ha raccontato la sua storia, la storia di sua figlia Eluana, la sua decisione, le sue convinzioni, il suo impegno che tuttora continua. La celebrazione dell’eucarestia, il ricordo di Eluana, il congresso del sindacato nello stesso luogo rimandano nel profondo del mio essere a sensazioni e considerazioni di pulizia, di autenticità, di ascolto della vita in tutte le sue espressioni, della fede come accoglienza, dono, grazia. Alle volte gli altri ci chiedono se la nostra vita è stata fino ad ora soddisfacente, se ha risposto alle nostre intui­42

zioni profonde, alle nostre aspirazioni, alle nostre scelte. È una domanda che sta dentro di noi e alle volte si fa più presente, più evidente. Nel linguaggio più semplice e diretto: «Sei contento di essere prete? Rifaresti la stessa scelta? Hai mai pensato di abbandonare?». Sinceramente sento dentro di me una rispondenza motivata, positiva del mio essere, dell’agire nella mia vita come uomo e come prete. Un passaggio particolarmente significativo del mio percorso è stato l’incontro – non direttamente personale, ma assai coinvolgente – con don Lorenzo Milani, con la sua esperienza straordinaria. C’è un passaggio in Esperienze pastorali nel quale dichiara il suo essere prete e usa l’immagine del commerciante e del maestro nell’ambito di una riflessione sui metodi educativi e pastorali, su sport, ricreazione, cinema, televisione. «... Ma è appunto qui che si distingue il maestro dal commerciante. Dicesi commerciante colui che cerca di contentare i gusti dei suoi clienti. Dicesi maestro colui che cerca di contraddire e di mutare i gusti dei suoi clienti. Lo schierarsi di qua o di là di questa barriera è per il prete decisione ben grave» (Esperienze pastorali, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1958, pp. 137-138). Appunto: accontentare i vescovi, i fedeli, i politici, i ricchi e i potenti, i militari, da commerciante, da funzionario della religione; oppure esprimere sensibilità e autonomia; sollecitare il dialogo e il confronto; favorire situazioni, ambiti, occasioni di formazione di coscienze sensibili, riflessive, libere, critiche, responsabili. Queste parole di don Milani sono entrate in me, nel profondo del mio cuore e della mia coscienza, credo fin dal primo anno in cui sono diventato prete. Mi hanno illuminato e provocato. Le sento tuttora vive e forti; segnano il cammino; propongono in continuazione un ideale di Chiesa e di prete. Così procede il mio essere e diventare ogni giorno uomo e prete. La mia vita è segnata da un intreccio incredibile di storie umane. L’impresa ardua, proprio a cominciare dalla mia interiorità, è quella di ricondurre ad unità la diversità ­43

degli ambiti nei quali sono sollecitato a rispondere con la presenza, la parola, l’azione. Sento – come ho già accennato – che la molteplicità degli impegni è riconducibile alla fonte ispiratrice del Vangelo e a una esigenza etica a non poter fare a meno di esserci, di rispondere, di operare, pena il venire meno del senso stesso della mia vita. Con i limiti e le incoerenze del caso, credo di essere riuscito a non agire mai da funzionario della religione. Che è quel che ho sempre voluto, animato dalla speranza di mantenere fede fino in fondo a questa ispirazione originaria. A questo proposito non posso non ricordare un momento particolarmente significativo. Il 18 ottobre 1975, fra le tante persone presenti quando sono stato ordinato prete, c’era anche don Antonio Bellina, allora parroco di una zona della montagna; dotato di intelligenza viva, di rara capacità di espressione orale e scritta in lingua friulana; traduttore della Bibbia in questa lingua; uomo e prete libero e critico. Venni a sapere della sua presenza perché ricevetti da lui una lettera, datata 19 ottobre, poi diventata pubblica, nella quale rifletteva sull’essere prete, concludendo provocatoriamente: «Hai tre strade da scegliere. La prima è quella della verità. Presentandoti come sei, devi dare una mano al popolo a liberarsi da tutte le catene che lo tengono prigioniero. Devi farlo crescere nella libertà, camminando davanti a lui verso la terra promessa. Se scegli questa strada, ti troverai contro immancabilmente il vescovo, i preti, i politici, i padroni, i bigotti, forse anche i tuoi amici. Avrai solo il conforto di Cristo e quello della tua coscienza. Puoi scegliere la seconda, che è quella della gran parte dei preti: non mettersi contro nessuno, fare funzioni religiose, dottrina, avvicinare coloro che sono ritenuti ‘poveracci’, dare ragione a tutti e non coinvolgersi con nessuno. Lasciare che la povera gente vada per la sua strada, soffra e muoia. Poi ti chiameranno per il funerale. Se scegli di non essere né pepe né sale, non avrai contro nessuno, farai solo pena. La terza strada l’hanno scelta in molti. Fregarsene della gente e mettersi dalla parte dei potenti. Avrai soldi, amici, ti faranno ­44

monsignore, potrai mettere da parte anche qualche soldo. Avrai il potere di trovarti molto bene in questo mondo. Avrai solo qualche imbarazzo a rispondere a Colui che ti aveva inviato a fare tutto tranne queste porcherie. Come vedi, hai di che scegliere». Dall’inizio del 1976 alla fine del 1987 ho partecipato alla redazione di «Lettere friulane», una rivista che ha fatto presente una voce diversa, non omologata, nella Chiesa friulana: per le riflessioni culturali e teologiche, per le comunicazioni di esperienze e prospettive, di dissensi e collaborazioni, con libertà e verità. Ringrazio i compagni di viaggio di quel percorso: don Gilberto Pressacco, prematuramente scomparso nel pieno coinvolgimento delle sue ricerche e della sua arte musicale; don Pasquale, suo fratello; don Nicola Borgo; don Pietro Biasatti; don Franco Saccavini; Mario Banelli.

IV

DALLA PARTE DEI PIÙ DEBOLI

«... Ho avuto fame e voi mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato nella vostra casa; ero nudo e mi avete dato i vestiti; ero malato e siete venuti a curarmi; ero in prigione e siete venuti a trovarmi... In verità vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me...» (Vangelo di Matteo 25, 35-36. 40). Mi è successo più di una volta durante incontri e dibattiti pubblici, anche nelle scuole, di affermare fin da subito che sono un uomo e un prete schierato, non neutrale, perché la neutralità, anche quella della Chiesa e dei preti, è una finzione. Sì, sono dalla parte di chi nella vita fatica, soffre, è povero, è spogliato di diritti umani e di dignità. Ogni giorno penso agli impoveriti del mondo, a quel bambino/a che ogni cinque secondi, mentre sto scrivendo, viene ucciso dalla fame, dalla sete, da malattie endemiche e curabili, perché non ci sono attenzione e risposta politica e sanitaria minimamente adeguate a livello mondiale. Ogni giorno mi sento provocato dal miliardo e trecento milioni di impoveriti, ‘esuberi’ di un sistema strutturalmente ingiusto, un sistema di produzione e di consumo che non si accorge nemmeno se queste persone scompaio­no. Non faccio una distinzione artificiosa e stucchevole fra i poveri diversamente intesi: ­46

materiali, morali, discriminati, emarginati... Poveri e basta, certo a cominciare da chi non può mangiare e bere, curarsi e frequentare una scuola. Ogni giorno penso a chi, dai bambini alle donne, viene sfruttato nelle campagne, nelle miniere, nelle fabbriche... A chi è reso oggetto sessuale. Penso a chi è discriminato perché immigrato, nomade, omosessuale... A chi è in carcere, in condizioni disastrose per il sovraffollamento, a chi non ha lavoro né prospettive; a chi è abbandonato e solo in una casa o in una struttura. Vivo nel profondo uno sdegno etico, per questa gigantesca ingiustizia strutturale che quotidianamente provoca migliaia di vittime; talvolta anche un senso di impotenza nel constatare il rapporto tra una realtà così drammatica e la pochezza culturale, etica e politica degli interventi. Ma poi – fino ad ora almeno – irrompono nuovamente l’idealità, lo sdegno etico, la denuncia, le proposte, l’agire quotidiano concreto per esprimere un segno che si colloca nella prospettiva e nell’impegno di un mondo giusto e solidale con l’attenzione all’uguaglianza, ai diritti umani, ai beni comuni a cominciare dall’acqua. Ripenso a quel 19 ottobre 1975, alla mia prima messa, alla prima eucarestia celebrata con la gente del mio paese, a quel Vangelo letto e meditato con la commozione di quel giorno speciale: un coinvolgimento nella liberazione dalle ingiustizie, dalle oppressioni e discriminazioni, dalle tante e diverse sofferenze. Promisi ai presenti che avrei fatto tutto il possibile nella mia vita di uomo e di prete per non tradire quel Vangelo: sarebbe stato nello stesso tempo un tradimento delle mie origini e nei loro confronti. Sono orgoglioso di essere nato in una famiglia povera materialmente ma profondamente ricca di sensibilità, disponibilità e umanità. Paradossalmente, credo siano stati un vantaggio e una risorsa il non poter usufruire di cose materiali, tipo, che so, ninnoli e giocattoli; il non poter comprare, se non eccezionalmente, vestiti e scarpe e con­47

statare che quella condizione era la stessa dei miei genitori; ed essere invece ricompensati dal paesaggio fiabesco delle abbondanti nevicate; dai colori del bosco in autunno, dai cieli tersi e dalla miriade di stelle nelle notti cristalline dell’inverno. Don Lorenzo Milani diceva che il figlio dei poveri vive un vantaggio di diversi anni rispetto al figlio dei ricchi per comprendere la vita e il suo significato, a patto naturalmente che non tradisca le sue origini. Nel mio intimo è ben presente e viva una sensazione. Durante le estati mio fratello Vito ed io contribuivamo al lavoro nei prati, insieme a mia madre e mio padre. Proprietari di qualche fazzoletto di terra, per lo più si lavorava sui prati presi in affitto, insieme ad un fienile dove portare e accatastare il fieno che poi i miei genitori dovevano trasportare, con ulteriore fatica, nel nostro piccolo fienile sovrastante la stalla dove si allevavano due-tre mucche; una, appena cresciuta, si vendeva per poter sostenere i nostri studi. Questo per anni. Alle volte i prati erano lontani e il tragitto, gravato dal peso della gerla con il covone del fieno, era piuttosto lungo... Si arrivava a destinazione con il fiatone, talvolta con le gambe molli e madidi di sudore. Ero contento, orgoglioso di portare sulle spalle quei carichi di fieno e camminando ora in salita, ora in discesa andavo sviluppando dentro di me il senso della giustizia, l’impegno e la voglia di affermarla. Questo impegno e questa voglia continuano ad abitarmi. Sono convinto che l’idea del Centro Balducci sia nata proprio a partire dalla sensibilità, le spinte e le motivazioni maturate nella nostra casa di Tualis. Siamo quasi a metà agosto 2010. Ieri è iniziato il Ramadan. Diversi ospiti del Centro sono di fede musulmana. Ieri sera, dalle ore 22 e per circa 45 minuti, un gruppo di loro si è raccolto in preghiera, nel silenzio circostante. Accanto c’è la chiesa della parrocchia di Zugliano. Questo momento serale continuerà per tutto il mese. Quindici giorni fa, durante l’incontro con tutti gli ospi­48

ti del Centro che si svolge ogni sabato sera, abbiamo ricordato in una preghiera intrecciata – musulmani-cristiani – il padre di un ospite morto nel suo paese africano di provenienza. Lettura del Corano, lettura del Vangelo; silenzio; preghiera musulmana, Padre Nostro. Ecumenismo vero, dal basso. Accanto all’abitazione in cui vivo, anzi in cui mi rifu­gio a dormire e a mangiare qualcosa frettolosamente, nella ‘casa canonica’, come si usa definire l’abitazione del parroco, da poco più di un anno è ospitata una famiglia proveniente dal Marocco: il papà Mohammed, la mamma Soraya e il figlio di otto anni Salah. Il papà è seriamente ammalato. Sono di fede musulmana, fedeli praticanti. A me pare un segno positivo che in una casa canonica del Friuli un prete cattolico e una famiglia musulmana vivano nella stessa abitazione, entrino per la medesima porta, salgano le stesse scale; bussino alle rispettive porte se hanno bisogno di qualcosa. Ieri, nel parco alberato del Centro, abbiamo festeggiato i cinque anni di una bambina africana di nome Amanda, che vive qui con la mamma, la sorellina e il fratellino. Mi sono soffermato a riflettere mentre li osservavo: loro, africani della Nigeria, poi altri due bambini kurdi dell’Iraq con la mamma e il papà; poi altri due bimbi dell’Honduras con la mamma; poi il bambino proveniente dal Marocco; poi alcuni bambini/e italiani con le loro mamme; e poi una coppia di anziani della Bosnia, ospiti del Centro da diversi anni, lei colpita da un ictus. Oggi, su un quotidiano locale, leggo proposte che riguardano ancora le ronde. Solo ieri una giovane ginecologa, al cui matrimonio ho partecipato lo scorso anno, mi ha chiamato al telefono per segnalarmi che una coppia proveniente dall’Africa, irregolare, sans papier, si è rivolta al reparto dove lavora: la donna è incinta, gravidanza gemellare; entrambi vorrebbero portare a termine la gravidanza, ma hanno bisogno di un alloggio e di una vita dignitosa, diversa da quella attuale che li ­49

vede dormire in strada o nella stazione ferroviaria. Chiamo la questura, chiedo informazioni. Domani li accompagnerò per la regolarizzazione dei documenti prevista fino a sei mesi dopo il parto; e proporrò al gruppo che guida l’accoglienza nel nostro Centro di ospitarli fra noi, dai prossimi giorni. Ma sono preoccupato, potrebbero anche non presentarsi, magari per timore. Proprio in questo momento mi è stato comunicato che non rispondono al cellulare. Ecco, sono brevi frammenti della vita, dei rapporti, dell’attività del Centro. Dal settembre 1992 al giugno 2003, quando abbiamo inaugurato l’ultimo grande edificio per l’accoglienza, il nostro Centro, con l’aiuto costante di un gruppo di volontari, ha accolto mediamente trentasei-trentotto persone, con sempre maggiore attenzione a famiglie o a mamme sole con i bambini/e. La promozione di iniziative culturali che si è via via incrementata nasce proprio dalle sollecitazioni prodotte da quest’esperienza di convivenza. Ma chi sono le persone che ospitiamo? Da dove vengono? Qual è la cultura di cui sono portatrici, le fedi religiose, le spiritualità? Quali le differenze? Questioni aperte che richiedono incontri, per informarsi, per analizzare, per riflettere. Così a poco a poco il Centro Balducci ha intensificato il suo impegno, organizzando incontri frequenti con ospiti relatrici e relatori di esperienze, resistenze, prospettive, provenienti da diversi luoghi del pianeta. Dal 1992 ogni anno a settembre organizziamo un convegno che nel tempo è diventato un appuntamento atteso, con centinaia di partecipanti, tanto da riempire i milleduecento posti del Teatro Nuovo Giovanni da Udine. Negli anni recenti, grazie alla solidarietà di molti privati e al contributo delle istituzioni (dalla Regione alla fondazione Migrantes, dallo Stato alle fondazioni Crup e Nicopeya, dalla Provincia di Udine all’Associazione Industriali di Udine), il Centro si è ulteriormente ampliato. Nella nuova struttura siamo entrati la prima volta l’11 dicembre 2007 con il Dalai Lama. L’avevamo invitato, noi ­50

del Centro Balducci insieme al maestro buddista Lobsang Pende del Centro di Polava – una piccola borgata ormai sull’ex confine con la Slovenia – l’anno prima, nella speranza che persino le situazioni ritenute impossibili possano realizzarsi. Inattesa, ci è giunta la risposta affermativa. Con passione e dedizione, con la collaborazione di tanti volontari abbiamo preparato l’evento: il Dalai Lama si sarebbe fermato a Udine, tra noi, per tre giorni. La mattina dell’11 dicembre al Palasport della città di Udine si sono riunite duemilasettecento persone per un momento di riflessione e di preghiera per la pace, fra i rappresentanti di diverse fedi religiose. Erano presenti l’arcivescovo di Udine, il patriarca e il rabbino di Venezia, l’esponente dell’associazione culturale dei musulmani di Trieste. Ciascuno ha esposto le proprie riflessioni riguardo all’impegno per la nonviolenza e la pace. Un evento storico per l’intera regione, e non solo. Intervistato al termine dell’evento dalla RAI 3 regionale, il Dalai Lama lo ha definito «una piccola Assisi», riferendosi al grande incontro delle religioni convocato nel 1984 da papa Giovanni Paolo II nella città di San Francesco. Poi abbiamo pranzato. Poco prima avevo avuto l’onore di un incontro privato con il Dalai Lama, molto interessato al Centro Balducci, all’accoglienza dei rifugiati politici, perché anche lui – come migliaia di tibetani – vive la medesima condizione. Gli dissi che della sua vita mi aveva colpito il riferimento alla madre come a colei che gli aveva trasmesso l’insegnamento dell’«amorevole compassione». Che anch’io l’avevo ricevuta dai miei genitori. Nel corso dell’incontro gli chiesi di comunicarmi luce, forza, incoraggiamento, sostegno. «Che cosa mi dice, che cosa mi raccomanda, a che cosa mi esorta?». E lui: «Continua ad accogliere, perché l’accoglienza dell’altro, a cominciare da chi si trova in difficoltà, è la dimensione fondamentale della vita». Tante, davvero tante le persone invitate fra noi in questi anni. È impossibile nominarle, ma rappresentano ­51

un vasto patrimonio interiore per chi le ha incontrate e ascoltate. Persone note in Italia, in Europa, nel mondo, ed altre meno conosciute o sconosciute, ma tutte ugualmente e straordinariamente importanti. Sopravvissute agli orrori del secolo scorso: Liliana Segre ad Auschwitz; Suzuko Numata a Hiroshima; Eugeny Vaghin ai Gulag. Dai paesi dell’ex Jugoslavia, dall’Iraq, dall’Afghanistan, da Israele e Palestina, da vari paesi dell’Africa e dell’America Latina. E poi, gli amici presenti più volte per accompagnare il nostro cammino come Massimo Cacciari e don Luigi Ciotti. E ancora, magistrati come Caselli, Borrelli, Colombo, Ingroia, Paci, Scarpinato, per riaffermare giustizia e legalità, lotta alle mafie, utilizzo sociale dei beni ad esse confiscati, come Libera ci insegna. Senza far torto a nessuno, ricorderò fra i tanti dom Samuel Ruiz vescovo profeta del Chiapas e di tutta l’America Latina, coinvolto con la comunità, la teologia, la liturgia, le lingue delle comunità indigene, testimone del Vangelo della giustizia e della pace, che da poco ha compiuto la sua profezia storica. E due donne del Salvador, ormai morte, ma vive nel Mistero di Dio, luce, forza e sostegno per chi guarda alle loro storie e al loro insegnamento. Rufina, donna del popolo, unica sopravvissuta insieme ad un ragazzino alla strage perpetrata in modo efferato nel dicembre 1981 da esercito e polizia nel Mozote: furono massacrate oltre mille persone, con l’accusa di proteggere e aiutare la guerriglia. Rufina, che in quella notte ha perso il marito e quattro figli, ha cercato di rielaborare quella tragedia con le sue devastanti ripercussioni assumendosi il compito di testimoniare, come ha fatto nove anni dopo, quell’orrore: «Dio ha voluto che mi salvassi, perché potessi raccontare». E dove e a chi? All’ufficio legale per i diritti umani dell’Arcivescovado fondato dal vescovo Romero e da Julia Hernandez, ecco l’altra donna testimone luminosa che ha speso tutta la sua vita per l’affermazione dei diritti umani ­52

in un paese, il Salvador, squassato da un conflitto interno che ha provocato oltre settantamila morti dal 1981 al 1992, con gruppi armati insorti di fronte alle atrocità dei latifondisti, dell’esercito e della polizia, della guardia nazionale. Mi pare che lo spirito e la vita del Centro Balducci si possano sintetizzare in questa serie: spiritualità incarnata, ispirata dal Vangelo di Gesù di Nazaret; accoglienza concreta, fattiva, delle persone; promozione culturale attraverso proposte, incontri, convegni; ed anche una dimensione politica nel senso alto della parola, in specie negli ultimi due anni. Non a caso, nel Centro si riunisce la Rete dei diritti del Friuli Venezia Giulia che riflette, elabora, denuncia, propone di fronte ad atteggiamenti e decisioni di razzismo istituzionale e politico. Da questo luogo, in relazione diretta, quotidiana con tanti immigrati, cosa pensare di quello che sta avvenendo in Italia e in Friuli rispetto all’immigrazione? Che l’Italia non ha un progetto sull’immigrazione a lungo, medio e immediato termine. Che, nonostante questa gravissima carenza e le attuali leggi, il paese ha fatto fronte ad un impatto di grandi proporzioni in un arco di tempo assai breve: in poco più di vent’anni cinque milioni di immigrati regolari! Non esiste, di fatto, una legislazione organica; se è vero – come è vero – che dalla legge Martelli del 1990 ad oggi le regolarizzazioni più consistenti sono avvenute attraverso decreti-legge e ‘sanatorie’, a conferma dell’inadeguatezza della legislazione ordinaria. L’attuale legge, la Bossi-Fini del 2008, è stata più volte dichiarata lacunosa, inadeguata, insufficiente da parte del presidente della Camera, firmatario insieme a Bossi. Epperò nessuno mette mano a rivederla. Ora, il fenomeno dei flussi migratori sta modificando di fatto il nostro paese: è vasto, in progressione, complesso, da governare con intelligenza culturale, etica, politica e legislativa; se la legge attuale è carente e inadeguata, non si pone forse in atto, quotidianamente una situazione gra­53

vida di drammatiche conseguenze? Perché non ci si impegna politicamente a riscrivere leggi in grado di gestire il fenomeno, che pongano in rapporto continuo legalità e umanità, regole e relazioni umane; diritti umani da rispettare sempre e comunque, e doveri da proporre ed egualmente rispettare? Vivendo la realtà del Centro, sono portato a riflettere continuamente. Viviamo in una società complessa, per diversi motivi. Basti pensare ai cambiamenti introdotti dall’uso delle tecnologie; alla mancanza e alla precarietà del lavoro e dunque all’incertezza sul futuro, dei giovani in particolare; alla fragilità delle relazioni di amicizia, di amore; all’ansia, all’angoscia, presenti in un numero crescente di persone; all’attenuazione, alla mancanza di riferimenti sociali, culturali, etici, politici, religiosi avvertiti fino a qualche tempo fa. In una simile condizione esistenziale e sociale è entrata la presenza numerosa degli immigrati. Un senso di timore, anche di paura per la novità in se stessa, per l’incontro con chi è altro e diverso è umanamente comprensibile. Questa paura deve essere presa sul serio, accolta, studiata, curata, fatta evolvere in modo positivo e progressivo, con risposte intelligenti e via via adeguate alle motivazioni delle paure; e questo non solo, o non soprattutto, in modo teorico, ma attraverso esperienze esistenziali di convivenza fra persone diverse. I partiti di governo – non solo la Lega, principale protagonista, ma anche il Pdl e nella nostra Regione con qualche sfumatura l’Udc –, a livello nazionale e anche regionale hanno alimentato la paura, sostenendone le motivazioni emotive e irrazionali e attribuendo agli stranieri, nella logica ben nota del capro espiatorio, tutte le cause, le responsabilità delle situazioni di disagio, di malessere, di insicurezza, di violenza, di criminalità. Alcuni efferati omicidi compiuti da stranieri sono stati assunti a criterio interpretativo negativo della presenza degli immigrati; hanno diffuso sospetti e pregiudizi, peggio ancora, xenofobia e razzismo. ­54

La questione sicurezza è diventata il criterio dirimente per interpretare la società; l’insicurezza, alimentata, è stata per la gran parte una percezione molto più forte della realtà effettiva. In questa condizione psicologica diffusa, parte della popolazione ha accettato provvedimenti e misure che violano i diritti umani fondamentali, come il diritto dei richiedenti asilo di essere accolti. Lo abbiamo visto con i respingimenti in mare dell’estate 2009; con il decreto sicurezza che dall’8 agosto 2009 statuisce il reato di immigrazione irregolare. In quel periodo scrissi due articoli sul giornale locale «Il Messaggero Veneto» per denunciare la situazione, per proporre strade umanamente praticabili; per esporre pubblicamente alcune considerazioni sul viaggio a Tripoli della pattuglia acrobatica delle Frecce Tricolori per una esibizione in quei cieli (la loro base è a dieci minuti dal nostro Centro). Silenzio. Nessuna reazione. Fra gli altri spunti di riflessione invitavo a guardare al Mar Mediterraneo come a un grande cimitero che in circa dieci anni aveva ingoiato migliaia di persone; a non affogare nell’indifferenza questa tragedia; a riconoscere, senza ipocrisie e infingimenti, che la Libia di Gheddafi è un lager che né gli accordi commerciali, dentro al teatro politico con il presidente del Consiglio italiano, né le acrobazie delle Frecce Tricolori possono nascondere e far dimenticare. Nella nostra Regione Friuli Venezia Giulia, con la precedente maggioranza di centro-sinistra, era stata varata nel 2005 una legge sull’immigrazione – per quanto di competenza delle Regioni – dopo due anni di intensa partecipazione democratica di tutti i soggetti sociali, culturali, istituzionali, politici, religiosi. Era una buona legge, diventata un riferimento a livello nazionale; con possibilità di essere migliorata, come peraltro la legge stessa prevedeva con una verifica a tre anni della sua attuazione da parte di un’entità esterna, quindi neutrale. La maggioranza di centro-destra, che ha vinto le elezioni nell’aprile 2008, a fine luglio dello stesso anno, in una variazione di bilan­55

cio ha cancellato in un attimo la legge sull’immigrazione, contestualmente al tutore dei minori, al difensore civico e al reddito di cittadinanza. Un numero considerevole di associazioni, sindacati e altri soggetti coinvolti ha chiesto al presidente della Giunta di incontrarsi attorno a un tavolo e verificare eventuali lacune o eccessi o storture. Non c’è stata nessuna risposta, sia pure negativa. L’abolizione è stata giustificata dalla promessa agli elettori in campagna elettorale; come a dire: «D’ora in poi, con noi al governo della Regione, faremo sul serio, per quanto riguarda l’immigrazione». Da allora, abbiamo assistito a una serie impressionante di dichiarazioni e di provvedimenti legislativi relativi alla presenza degli stranieri da parte del partito xenofobo; se la Lega Nord ha preso per gran parte l’iniziativa e si è esposta in modo più evidente, non si può tacere il sostegno del Pdl e quello dell’Udc, pur con qualche timido distinguo, palesemente in contrasto con la sua dichiarata ispirazione cristiana. Insomma, si è risposto alle paure alimentandole e insieme rassicurandole, identificando nell’immigrato il capro espiatorio. Tutta una serie di provvedimenti riguardo alle case popolari, ai sussidi per i bambini e la famiglia, sono stati decisi violando i diritti umani, la Costituzione, il diritto comunitario, assumendo come criterio dirimente il tempo di permanenza sul territorio nazionale e regionale. L’appello alle ronde – respinto peraltro dai quattro sindaci dei capoluoghi (Trieste, Gorizia, Udine, Pordenone), due di centro-destra e due di centro-sinistra – si è afflosciato da sé per il numero risibile di adesioni, ma la dice lunga sulla povertà culturale e politica delle proposte, s­ oprattutto se si riflette sulle prospettive. Ci si è accaniti, da parte di alcuni esponenti del partito xenofobo, sugli ambulatori che, grazie alla disponibilità di medici e infermieri, cercavano di rispondere alle esigenze di italiani in particolare difficoltà, di immigrati regolari e irregolari, come prevede la legge Bossi-Fini in vigore. Si è parlato di ‘cliniche per i clandestini’ ponendo come condizione all’approvazione ­56

del piano sanitario regionale la loro abolizione. Per fortuna le aziende sanitarie, con percorsi differenziati, hanno trovato altre strade percorribili. E in questo clima queste forze politiche hanno preteso di appendere un Crocifisso nell’aula del Consiglio regionale, con una vergognosa strumentalizzazione, nel silenzio della Chiesa ufficiale. Colui che ha donato la vita agli altri, viene usato come strumento  per contrastare la vita degli altri, in particolare degli immigrati. È ovvio che non si può negare la complessità del fenomeno dell’immigrazione, che resta una questione aperta che va modificando più di qualsiasi altro fenomeno la nostra società e la nostra convivenza. E neppure si può nascondere, ignorandolo, l’interrogativo sugli ‘irregolari’, in particolare su quelli che in numero così significativo popolano le nostre carceri. Storie da capire, non da scusare cancellando le responsabilità personali e inserendole nel contempo in un contesto ambientale, per favorire le risposte più adeguate che non sono le più facili. Ma proprio per questo è necessario un progetto sull’immigrazione, attingendo anche alle diffuse esperienze positive di alcuni paesi e città, nelle scuole e nelle fabbriche, nel dialogo e collaborazione fra culture e fedi religiose diverse. E ciò da parte della Comunità Europea, del Parlamento italiano, dei governi regionali, degli enti locali. Spesso mi chiedo come mai la nostra Regione, e il tanto declamato Nord Est, e più in generale l’intero paese, non abbiano elaborato la memoria storica di migliaia e migliaia di emigrati da ogni regione d’Italia. Come mai non vengono riconosciute, pur nelle differenze, alcune costanti del dramma dell’immigrazione? Un poeta carnico emigrante, mio conterraneo, Leonardo Zannier, ormai tanti anni fa raccolse in un libro le sue poesie sull’emigrazione, intitolandolo in modo davvero geniale: Libers di scugnî lâ, cioè «Liberi di dover partire». Quattro parole per condensare il dramma di ogni emigrante: libero e costretto a partire. Paradossalmente, libertà e costrizione – due termini che ­57

si escludono a vicenda – nella storia di ogni emigrante si uniscono. Chissà se a livello della psicologia del profondo chi ha vissuto storie simili, rivedendole ora nello straniero provato, affaticato, in cerca di una nuova vita che incontra quotidianamente, non le rimuova, non intenda per nessun motivo ripensarle se non per dire «noi eravamo diversi». E chissà se emerge la paura di mettere in qualche modo in discussione il benessere raggiunto. Mi chiedo come questo Nord Est per lungo tempo così cattolico e solidale, che per decenni ha visto nascere e crescere vocazioni di preti, religiosi, religiose, missionari, sia potuto diventare talmente individualista, egoista e materialista, possa dare il proprio consenso elettorale al partito xenofobo, in particolare alla Lega Nord che di cristiano nel modo di pensare e legiferare nei riguardi dell’immigrazione non ha proprio nulla. L’interrogativo, drammatico, investe il livello di profondità di quella fede che ha caratterizzato molti decenni. Oggi è diffusa una sorta di etnicizzazione della religione che con la fede ha poco a che vedere. Questa religione si mescola con tradizioni localistiche, che rafforzano identità chiuse, difensive e aggressive insieme; che individuano e demarcano l’estraneità dell’Altro, straniero, diverso, presente nel paese, nelle campagne, nelle fabbriche, nelle piazze, nei bar. L’Altro c’è; lavora ed è utile; epperò ci si preoccupa della nostra identità, di difenderla, rafforzarla; e loro, gli Altri, con le loro differenze, ci fanno paura, rappresentano un pericolo, a cominciare dai musulmani e dalle loro feste, dalle loro tradizioni. Ad una trentina di chilometri dal nostro Centro, a Gradisca d’Isonzo, c’è un altro Centro, con tutt’altre caratteristiche. Da una grande caserma dell’esercito è stata ricavata una struttura prima denominata Cpt (Centro di permanenza temporanea), poi suddivisa in due centri all’interno dello stesso edificio; e già questo è negativo, data la dichiarata diversità delle due strutture: il Cara ­58

(Centro di accoglienza richiedenti asilo) e il Cie (Centro di identificazione ed espulsione). Il primo offre alcune possibilità: l’apprendimento della lingua italiana; la preparazione all’incontro con la Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiati politici; la frequenza dei bambini e delle bambine nelle scuole; relazioni per qualche iniziativa nel territorio. Si dovrebbe operare in modo più progettuale, ramificato e continuo con il terriorio, perché la struttura non resti avulsa dallo stesso. Le condizioni della convivenza all’interno sono più che discutibili: ad esempio, non permettono alle famiglie di vivere nel medesimo alloggio, di fatto separandole. Si tratta quindi di una struttura non idonea. Nei Cara, l’accoglienza ha una durata media di sei mesi e comunque termina con la decisione sulla domanda di asilo da parte della Commissione territoriale. Sia che la persona non abbia ancora concluso l’iter di esame della domanda sia che le sia stata riconosciuta la protezione internazionale e debba continuare (o meglio appena iniziare) il suo percorso di inserimento nella società italiana, ha l’obbligo di lasciare il Cara. Per andare dove? Se c’è posto in uno dei progetti del sistema di protezione, il rifugiato è fortunato perché in uno di questi progetti può trovare un nuovo appoggio, ma se i posti sono esauriti il rifugiato finisce in mezzo alla strada, con in mano il suo titolo di soggiorno per ‘protezione’ riconosciuto dallo Stato italiano. Il Cara produce questi disagi e sofferenze nella completa indifferenza istituzionale. E questo per mancanza di un progetto sull’immigrazione, a cominciare dai rifugiati politici riconosciuti come tali. Nel Cie le condizioni sono quelle delle carceri: degrado umano, una crescente sofferenza psichica, gesti di autolesionismo, aggressività, tentativi di ribellione e di fuga. Una condizione talmente disumana che dovrebbe spingere a interrogarsi e a cercare altre risposte. E risultano davvero patetiche e strumentali le visite sporadiche di alcuni politici ai quali manca evidentemente ­59

il coraggio di analizzare in modo veritiero, di denunciare, di proporre. O che tutt’al più sono capaci di richiedere più uomini per il controllo, senza porsi alcuna questione di natura etica. In realtà i Cie sono l’esempio drammatico della mancanza di progetti politici seri sull’immigrazione nel nostro paese. Basti pensare che per la metà i reclusi sono ex carcerati, quindi più che identificati; che solo una parte viene rimpatriata; che l’altra viene espulsa, ma dato che quasi nessuno abbandona il territorio dopo i cinque giorni previsti, queste persone rientrano nell’irregolarità (oggi reato), facilmente nell’illegalità, di nuovo nel carcere, e probabilmente ancora nei Cie. La questione prima ancora che politica è culturale. Nella storia, tre sono le modalità di incontro con l’Altro: il più delle volte coabitano in noi e allora avvertiamo l’esigenza di liberarci delle due negative e di intraprendere con convinzione e impegno la terza, l’unica degna dell’uomo. La prima ci porta a considerare come nella storia tante, troppe volte l’Altro sia stato e sia tuttora considerato inferiore: ad esempio i neri da parte dei bianchi, le donne da parte degli uomini, i poveri da parte dei ricchi, gli umili e i deboli da parte dei presuntuosi e dei prepotenti. La parola ‘inferiore’ comprende in sé la motivazione di tutti i drammi dell’umanità: dalla schiavitù dei neri, al genocidio degli indios, ad Auschwitz, ai Gulag. Se l’Altro è ‘inferiore’ chi lo considera tale può disporre di lui in qualsiasi momento, per qualsiasi scopo, per qualsiasi motivo, anche quello di eliminarlo. L’Altro non è più persona ma ‘pezzo’, cosa, numero (non a caso, sul braccio dei prigionieri nei lager veniva inciso il numero che li identificava). È urgente e necessario superare questo modo di vedere l’Altro: nessuno è inferiore, siamo semplicemente diversi; questa urgenza antropologica va sollecitata, gridata, vissuta in continuità, in momenti particolari e soprattutto nelle scelte quotidiane della nostra vita. La seconda impostazione negativa della quale liberarci è considerare l’Altro come presenza da assumere e omo­60

logare, cioè da rendere simile a noi, alla nostra identità, cultura, esperienza religiosa. Ma in questo modo noi non incontriamo l’Altro con la sua diversità, ma l’Altro come noi pretendiamo che egli sia, svuotato delle sue differenze, costretto a rinunciarvi per essere accettato e accolto. «Ero forestiero e mi avete accolto nella vostra casa», dice Gesù. Ecco, questa è l’unica strada degna dell’essere umano: certo la più ardua e faticosa, ma indispensabile per costruire la società della convivenza pacifica fra persone e comunità diverse per cultura e fede religiosa. Riconoscere la pari, uguale dignità di ogni persona, senza distinguo, parentesi, condizioni, per il fatto stesso di essere persona: viva essa in Asia, in Africa, in America Latina, nelle città come nei villaggi più sperduti delle montagne, delle campagne, in riva ai mari; viva essa una disabilità fisica o una sofferenza psichica; sia essa turbata e angosciata da sofferenze dell’anima, da dipendenza da sostanze; oppure in carcere... Riconoscere la pari dignità sempre e dovunque. Al tempo stesso riconoscere la diversità, liberandosi da timori, paure e pregiudizi e aprendosi alla conoscenza, al dialogo, alla collaborazione; insomma a una reciprocità di scambio e di arricchimento umano, culturale, spirituale reciproci. Questa prospettiva richiede una concezione e una pratica di identità ‘aperte’ che, riconoscendo il proprio nucleo originario portante, vivono la continua disponibilità a dare e a ricevere, in un processo, anche dialettico, in continuo movimento e cambiamento. Noi non siamo un io monolitico, siamo abitati da diversi io: la prima diversità con cui dobbiamo confrontarci sono le diverse identità che ci abitano e che sono in armonia, in dialogo e anche in contrasto fra di loro. Il difficile compito della nostra vita sembra essere proprio quello di ricondurre a sintesi armonica le diversità che ci abitano. Una considerazione analoga riguarda anche la famiglia, comunque il nucleo affettivo, la comunità in cui viviamo, la società di cui facciamo parte. ­61

A livello personale, familiare, comunitario, sociale, le sofferenze identitarie spesso diventano il criterio interiore con il quale orientare gli atteggiamenti e le scelte nel rapporto con l’Altro e con la sua diversità. Una conferma è data proprio dalle affermazioni continue e ripetitive della difesa della propria identità. Questa prospettiva richiede un riferimento alla cultura egualmente aperto: riconoscere il valore antropologico di fondo della cultura per ogni persona, comunità e popolo e nello stesso tempo la ricchezza di ogni cultura diversa dalle altre. Possiamo chiederci: quante sono le culture sulla faccia del pianeta? Quante le storie dell’arte; le musiche e i suoni; le fogge e i colori dei vestiti; i cibi e i loro sapori; le feste e i loro significati? E ancora, questa prospettiva richiede una fede profonda, costantemente in ricerca; aperta al dialogo, non rigidamente dogmatica; desiderosa di conoscere le altre fedi religiose, di dialogare e pregare con loro; di collaborare per cercare di rispondere alle grandi questioni della giustizia, della pace, della salvaguardia degli esseri viventi e dell’intero ecosistema. Il Centro Balducci è un luogo privilegiato per riflettere e cercare di approfondire la comprensione; per leggere le difficoltà e gli arricchimenti dell’incontro fra le diversità. Non si incontrano mai le culture e le fedi religiose, bensì le persone con le loro storie fatte anche di cultura e di fede, come di amore, di dolore, di dedizione, di delusioni e di speranze. Alle volte ci si trova in difficoltà, contemporaneamente con l’ambiente sociale, culturale, politico e religioso, con il partito xenofobo, e con alcuni immigrati che vivo­ no nel Centro. Spesso, parlando con loro, dico che dobbiamo essere uniti nella lotta, sempre nonviolenta, nei confronti del capitalismo, del materialismo, del consumismo, dell’ingiustizia, della guerra, del razzismo, della distruzione dell’ambiente. E poi constato con tristezza come sia facile per alcuni di loro subire il fascino degli ­62

aspetti negativi della nostra società: avere, consumare, esibire, stordirsi. La composizione del Centro Balducci è eterogenea; la sua struttura organizzativa è fragile, ma questa è anche la sua forza; ci si basa sulla fiducia reciproca. L’ispirazione, come ho detto, è evangelica e per questo non confessionale, tanto meno clericale; è laica per la diversità delle persone accolte, dei volontari e di quelli che frequentano i tanti incontri e convegni. Anche per questi motivi, e per il fatto di essere considerato un prete ‘diverso’, troppo autonomo negli orientamenti e nelle scelte, nel Centro passano pochi preti, nessun seminarista né studente di teologia; i vescovi a stento, più per dovere che per capire. Anche i politici si vedono pochissimo. Alle volte sembra proprio di vivere in un’isola, anche se nell’arcipelago della rete di tante persone, gruppi, comunità, scuole solidali. Spesso mi sono chiesto e mi chiedo qual è il segno del Centro Balducci, cosa significa per ciascuna/o di noi, per la cultura, per la politica, per la Chiesa. Per quanto mi riguarda rispondo che si tratta di un segno di speranza e insieme di contraddizione; penso che rappresenti una esperienza esigente e impegnativa, che chiede costantemente coraggio, disponibilità e dedizione, coerenza e perseveranza. Personalmente non mi impegnerei nel proporre iniziative culturali se non vivessi il coinvolgimento nell’accoglienza nel Centro Balducci; egualmente, non continuerei ad impegnarmi nell’accoglienza se non ci fosse anche l’esperienza culturale. Senza l’esperienza diretta sentirei la cultura come elitaria, staccata dalla vita, dalla storia, dalle storie della gente e delle comunità, mettendo in relazione le nostre comunità locali e quella planetaria; senza la cultura fecondata da tante relazioni intrecciate con diversi popoli del pianeta, sentirei l’accoglienza solo come esperienza organizzativa che potrebbe essere gestita con migliore efficacia da altre istituzioni, ma probabilmente con un’attenuazione o una mancanza dell’anima, dello spirito, della riflessione. ­63

Cercare di stare dalla parte dei più deboli non significa accogliere solo gli stranieri, ma anche le tante persone che si rivolgono a me e al Centro: sofferenti nella psiche, fragili e angosciate, dipendenti da qualche sostanza, carcerati o ex carcerati. Vedo chi è debole nell’uomo deru­ bato, colpito, ferito e gemente sul ciglio della strada. È uno sconosciuto: è un uomo che costringe con il suo dolore e i suoi gemiti a fermarsi, a prendersi a cuore la sua condizione, a prendersi cura di lui. Questo ci raccon­ta la parabola del Samaritano (Vangelo di Luca 10, 25-37). Vedendo il ferito sul ciglio della strada, c’è chi va oltre per indifferenza, o anche per motivazioni gravi come quelle che sembrano addurre il sacerdote e il levita che non possono accostare un ferito ed essere sporcati dal suo sangue per preservare la loro purità rituale. Ma se allontana le persone in difficoltà, i deboli, invece di avvicinarli, di che religione mai si tratterebbe? La fede è tutt’altro. Siamo sollecitati, come accade per lo straniero, il samaritano, a fermarci, a rispondere alle condizioni di quell’uomo sconosciuto. Questo vissuto profondo di ‘com-passione’, cioè di patire-con, genera la strategia dell’attenzione. È una parabola laica quella che racconta Gesù di Nazaret per indicare un modello a cui ispirarsi e da seguire. Non si parla di fede, non si nomina Dio. Si racconta di due uomini sconosciuti, uno bisognoso, l’altro che risponde al bisogno. Sul ciglio di una strada, non in un luogo speciale, recintato, sacro, riconoscibile. Nessuna preghiera, nessun gesto religioso, nessuna benedizione. Come a dire che quando una persona esprime all’altro umanità gratuita mette in atto il segno più grande e importante, divino ed umano insieme. Si può dire: nessuno ha nominato Dio, ma Dio era presente sul ciglio di quella strada, nei gesti di quel samaritano nei confronti di quell’uomo sconosciuto. Con altrettanta evidenza e provocazione nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo viene indicato come criterio ultimo della fede, del rapporto con Dio la disponibilità ­64

attiva e concreta ad incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nell’ammalato, nel forestiero, nel carcerato, in chi è senza vestiti e senza dignità. «Tutte le volte che avete fatto ciò, a uno dei più piccoli di questi miei fratelli, lo avete fatto a me». La preghiera e l’eucarestia? Fondamentali, ma sempre in rapporto a questa disponibilità. E la dottrina? Verificata sempre da queste scelte. E la Chiesa? Altrettanto.

V

LA CHIESA DELL’ACCOGLIENZA

«Io vi do un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Amatevi come io vi ho amato! Da questo sapranno che siete miei discepoli: se amate gli uni gli altri» (Vangelo di Giovanni 13, 34-35). L’amore è la dimensione fondamentale della vita, senza amore non si può vivere. Dio è amore. Il Vangelo ci comunica e ci propone l’amore incondizionato di Gesù come percorso e senso profondo della vita. Senza amore non c’è fede in Dio, non c’è riferimento al Vangelo di Gesù di Nazaret. Sono convinto che nella nostra vita questo nucleo sia decisivo; sentirsi accolti, amati, considerati, è l’esigenza prioritaria dell’essere umano da quando nasce a quando muore, in tutte le fasi e situazioni della vita. Ma in che cosa si traduce concretamente questa dimensione fondamentale? Quali sono le esperienze quotidiane in cui si incarna questa relazione così importante e insieme così fragile? Quali i problemi, le sofferenze, i dubbi di cui sento ogni giorno vivida testimonianza dalle voci delle persone che sono in cerca di una risposta, anche dalla Chiesa? In questo ambito così vasto si collocano questioni decisive per le nostre vite, questioni che interrogano ciascuno di noi, e in senso più ampio la società, la cultura, le istituzioni, la politica, le leggi, l’etica, la fede. Amore, matrimo­66

nio civile e religioso, separazione e divorzio, procreazione, contraccettivi e aborto, omosessualità, celibato dei preti, delle religiose e dei religiosi, pedofilia, malattia, sofferenza, fine-vita, morte. Questioni spesso oggetto di trattazione superficiale o di dure prese di posizione proprio da parte di chi dovrebbe avere come riferimento costante il Vangelo. Ma il Vangelo orienta le scelte etiche, non stabilisce legislazioni e ordinamenti. Ancora una volta mi viene spontaneo chiedere che cosa ha insegnato Gesù di Nazaret rispetto a questioni così importanti. La risposta è sorprendente nella sua semplicità: il suo invito è ad amarci come lui ci ha amati perché da ciò riconosceranno che siamo suoi discepoli. Un amore incondizionato, fatto di attenzione, ascolto, perdono, guarigione, incoraggiamento, fiducia, serenità e pace. Su queste complesse e pregnanti questioni, davvero decisive per la nostra vita, nei Vangeli si trova un riferimento al matrimonio e al divorzio, un cenno di possibile orientamento al celibato per il Regno dei Cieli, e nient’altro. Non una parola su tutte le questioni che interrogano le coscienze in questo avvio di XXI secolo: contraccettivi, procreazione assistita, aborto, omosessualità, malattia e morte. Non è al Vangelo che ci si può richiamare per un’indicazione letterale su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato (anche se, in realtà, non lo si fa per altri motivi). Ci si riferisce piuttosto ai principi, alla legge naturale, ai valori non negoziabili. Certamente il Vangelo si incarna e si attua nella storia. Ma è con profonda umiltà che dobbiamo cercare di rapportare la fede e la storia, il Vangelo e la vita, a partire dai vissuti delle persone, e dalle diverse situazioni sociali e culturali presenti oggi nel mondo. Se partiamo dalle storie delle persone, nel Vangelo troveremo luce, guida, orientamento, verifica, sostegno, tenendo in considerazione il tema dell’incarnazione. Intendo il mio compito, la mia missione, il mio essere uomo del Vangelo, come essere sempre disponibile all’ascolto e alla comprensione autentica. ­67

Recentemente un giovane che aveva preso consapevolezza della propria omosessualità mi confidava di sentirsi spaventato all’idea che la notizia di questa sua condizione affettiva trapelasse nell’ambito della comunità parrocchiale e del consiglio pastorale di cui faceva parte. Nel dialogo diretto e sincero con chi vive una lacerazione tra la propria condizione e l’astratta dottrina di una Chiesa a volte distante, affiorano le sofferenze e le angosce. Emerge la paura di rimanere soli ed emarginati, esclusi da un mondo di conforto e di ricchezza spirituale a cui si vorrebbe aderire senza nascondimenti e ipocrisie, nella pienezza del proprio essere. Ho ascoltato a lungo questo ragazzo. Ho cercato di rasserenarlo dicendogli che anche Gesù lo avrebbe accolto e rasserenato; che lo avrebbe esortato a vivere la sua affettività e sessualità in modo sereno, con l’unica, fondamentale attenzione – che vale per chiunque – a non strumentalizzare mai nessuno, meno che mai le persone più deboli, più fragili, più esposte. L’ideale di un nucleo affettivo composto da una donna, un uomo, uno o più figli, non deve comportare un giudizio negativo, né tantomeno discriminazione nei confronti delle coppie di fatto e delle coppie omosessuali. La considerazione di fondo per qualsiasi situazione dovrebbe riguardare l’amore, liberandolo, come il Vangelo ci insegna, da egoismo, dominio, possessività, strumentalità nei confronti dell’altra o dell’altro. E questo, ripeto, vale per tutti, che siano etero oppure omosessuali. La Chiesa magisteriale continua ad affermare che «l’omosessualità è contro natura». Ma la loro ‘natura’ è quella; come possono essere contro la loro natura, contro se stessi? La Chiesa appare loro lontana, incapace di accoglierli. Tante donne e tanti uomini omosessuali credenti vivono, fortunatamente, esperienze molto profonde e significative di lettura della Parola del Signore, che è accoglienza e sostegno. Ogni giorno ascolto storie di sofferenza legate alla fra­68

gilità della famiglia; ogni giorno ascolto storie di rapporti familiari sereni. Sono frequenti, rispetto al recente passato, le convivenze, i matrimoni civili; mentre diminuiscono in misura significativa i matrimoni in chiesa. Che dovrebbero diventare il segno di una fede cercata, vissuta, testimoniata, a cominciare dalle modalità di celebrazione: discrete, sobrie, alternative – in nome del Vangelo – a cerimonie vistose, a esibizioni di apparenza e di consumismo. In più di un’occasione sono stato confortato dalle scelte degli sposi, che hanno destinato il ricavato di offerte e regali a progetti di solidarietà locali o internazionali. Le separazioni così frequenti, se abbandoniamo i facili moralismi, interrogano noi tutti sull’amore, sulle sue motivazioni, sui progetti di vita e sulle fragilità a cui sono esposti; sulla relazione di coppia, sulla disponibilità ad accogliere reciprocamente la diversità dell’altro; sulla liberazione da una concezione egocentrica della vita che esige che tutte le situazioni abbiano come riferimento iniziale e finale il proprio io. Sono interrogativi doverosi e stringenti, che investono anche i tanti casi in cui non si arriva alla separazione, ma che sono segnati da incomprensione, incomunicabilità, sottili forme ricattatorie o di violenza esplicita, in particolare su donne e bambini. Sono certo che tutte le donne e gli uomini di buona volontà sperano che il rapporto d’amore che li unisce possa essere duraturo, permanente, proprio perché credono in quello che vivono e lo avvertono come fondamentale per la loro vita. Questo è anche il sogno di Dio: che due persone che si amano possano, per il loro bene, continuare a farlo. Ma poi – come risponde Gesù a chi gli chiedeva cosa pensasse della legge di Mosè (Vangelo di Matteo 19, 1-9) che in alcuni casi prevedeva il divorzio – la fragilità, l’egoismo, il fraintendimento, la mancanza di sincerità e di coerenza, la durezza del nostro cuore, portano a situazioni difficilmente vivibili o del tutto invivibili. E questo sia nelle convivenze sia nei matrimoni celebrati civilmente sia in ­69

quelli celebrati religiosamente (che non sono di per sé una garanzia di maggior durata, coerenza, fedeltà). L’attuale Concordato fra Stato e Chiesa in Italia (1984) sancisce che il matrimonio celebrato religiosamente ha contestualmente anche valore civile. Sarebbe invece importante distinguere i due momenti: la celebrazione civile con i suoi vincoli e le sue conseguenze legislative per la famiglie, nella società; la celebrazione religiosa come scelta di vita, come orientamento che si fonda sul Vangelo, come segno nella comunità cristiana, come assunzione dell’impegno della testimonianza e della coerenza. Così cerco di non pensare al fatto che, contestualmente, celebro l’eucarestia e il matrimonio e sono un ufficiale di Stato civile. È una sovrapposizione incongrua: smentisce la laicità delle istituzioni e delle scelte; fa perdere alla fede la profondità dell’annuncio e della profezia. Mi è capitato di partecipare anche a matrimoni celebrati civilmente in cui, da cittadino, da amico, ho espresso brevi riflessioni prive di riferimenti religiosi espliciti, ma che di fatto comunicavano quei valori di fondo della vita in cui possiamo tutti riconoscerci e che nel Vangelo trovano ulteriore sollecitazione e incoraggiamento. Oggi ci si separa con frequenza, si divorzia, si formano altri nuclei familiari. Le situazioni non sono semplici né per le donne, né per gli uomini, né per i figli. È per questo che diventa molto importante accogliere, ascoltare, supportare, accompagnare. Essere a favore del matrimonio indissolubile non significa contrastare la possibilità del divorzio e di sancire legalmente un nuovo nucleo familiare, nel rispetto di chi lo sceglie e lo decide. Non avverto contraddizione in questa posizione, bensì rispetto e attenzione; essa peraltro non sminuisce affatto l’impegno nel favorire rapporti d’amore più profondi e stabili possibili. La Chiesa magisteriale afferma che coloro che hanno celebrato il matrimonio religioso e poi si separano, divorziano e costruiscono – legalmente o meno – un nuovo ­70

nucleo familiare, di fatto vengono meno a quel patto di fedeltà che avevano assunto come progetto e come impegno di fronte a Dio, nella Chiesa, e che quindi non dovrebbero vivere relazioni di amore con un nuovo partner, perché questo significherebbe negare l’indissolubilità del matrimonio. In questa situazione i divorziati risposati possono sì partecipare alla vita della comunità, alla celebrazione dell’eucarestia, ma non viverla pienamente con la comunione, perché hanno rotto l’indissolubilità del matrimonio. Un nuovo legame d’amore è possibile solo se vengono esclusi i rapporti sessuali. Ciò appare davvero paradossale: come si fa a non riconoscere la globalità della persona umana; a dividerla e dissociarla; come si può pensare che la sessualità sia una dimensione separata dall’amore fra due persone e non invece la sua espressione comunicativa? Chi chiede di vivere l’eucarestia pienamente, e cioè con la comunione, il più delle volte è fortemente motivato perché avverte l’esigenza di incontrare la Presenza del Signore, che comunica luce, forza, coraggio, sostegno. Come è possibile negare questa esigenza a chi lo desidera? Mi è capitato spesso di accogliere persone, donne in particolare, che piangevano esprimendomi questo loro bisogno in modo accorato. Personalmente, non mi sono mai sentito di rifiutare la comunione ad una persona separata, divorziata, risposata, che con serietà e responsabilità abbia espresso il desiderio di riceverla. E perché, allora, non si dovrebbe rifiutarla anche a chi è palesemente responsabile di ingiustizie, di assassinio per fame, sete, mancanza di cure, a chi ruba strutturalmente con l’adesione personale al sistema dominante? A chi fabbrica e vende armi; a chi decide le guerre che distruggono soltanto e mai nulla risolvono? A chi discrimina e attua legislazioni xenofobe e razziste? A chi contribuisce alla distruzione delle specie viventi, a chi usurpa le risorse, a chi distrugge l’ambiente? Penso sia estremamente urgente per la Chiesa universale e le nostre comunità parrocchiali ripensare ad una ­71

pastorale per la famiglia, scendendo dal piano ideologicoreligioso; è necessario informare e formare ai sentimenti, all’amore, alla sessualità, alla contraccezione, alla procreazione responsabile, incontrare le persone separate, divorziate, risposate civilmente, contribuire ad una consapevolezza il più possibile aperta e serena per celebrare pienamente l’eucarestia con la comunione. Questo bisognerebbe fare perché la Chiesa diventi la Chiesa dell’accoglienza. E ancora, che risposte vengono date a questioni delicate come quelle legate alla possibilità di avere figli con l’ausilio della scienza medica? L’attuale legislazione prevede la possibilità della fecondazione in vitro omologa, cioè con entrambi i coniugi coinvolti biologicamente (seme e ovulo forniti dai coniugi). La fecondazione artificiale eterologa – nella quale almeno uno dei due futuri genitori non è coinvolto biologicamente – non è prevista e vede la Chiesa contraria. Di nuovo: se la questione riguarda l’amore che accoglie e sostiene una vita umana, si dovrebbe porre molta più attenzione alla maggior o minor qualità di questa dimensione fondamentale, anziché all’aspetto biologico. L’attenzione, la cura, la delicatezza nei confronti degli embrioni in soprannumero devono essere sostenute da atteggiamenti e decisioni di rilevante spessore etico, mai essere considerate con superficialità e pressappochismo. Una donna mi ha chiesto di battezzare la sua bambina nata con fecondazione eterologa; temeva di non essere accolta nella Chiesa. Abbiamo dialogato a lungo e poi abbiamo celebrato il battesimo con molta commozione. Una questione delicatissima è quella dell’aborto. Chi non è contro l’aborto? Ricordo che, nel periodo precedente al referendum sulla legge 194 sulla tutela della maternità e dell’interruzione volontaria della gravidanza, così si espresse il segretario dell’allora Partito comunista italiano Enrico Berlinguer: «Siamo contrari all’aborto; ci impegnamo, anche attraverso l’approvazione di questa legge, ­72

a liberare progressivamente la società dall’aborto». Anche cattolici come Raniero La Valle, Mario Gozzini ed altri, erano impegnati in Parlamento non a contrastare pregiudizialmente la legge, ma a renderla migliore, attenti ai diversi aspetti, tutti estremamente delicati e coinvolgenti. Sono, siamo contrari all’aborto; in uno Stato laico e pluralista dovremmo assumere una posizione non pregiudiziale e piuttosto impegnarci nell’informazione, nell’educazione all’amore e alla sessualità; alla prevenzione, alla contraccezione, alla procreazione responsabile, al rispetto dell’altra persona. Dobbiamo cercare di prevenire quanto più possibile le situazioni in cui una donna si trova ad affrontare una così drammatica scelta. La legge 194 non ha favorito gli aborti, che infatti sono diminuiti; piuttosto ha fatto sì che questo dramma emergesse dalla clandestinità consentendo alle donne di non essere abbandonate alla loro solitudine in condizioni pericolose, come è avvenuto per decenni. Certo, possono verificarsi anche casi in cui questa scelta viene fatta con leggerezza e superficialità, a conferma di una mancanza di etica e di senso di responsabilità personale, ma è sul clima sociale e culturale che bisogna intervenire così da eliminare ogni possibile superficialità e leggerezza. Il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2270-22712272-2273) recita: «la vita umana deve essere rispettata in modo assoluto fino dal momento del concepimento. Dal primo istante della sua esistenza l’essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona, fra i quali il diritto inviolabile di ogni essere umano alla vita... Fin dal primo secolo la Chiesa ha dichiarato la malizia morale di ogni aborto provocato. Questo insegnamento non è mutato. Rimane invariabile. L’aborto diretto, cioè voluto come un fine e come un mezzo, è gravemente contrario alla legge morale... La cooperazione formale a un aborto costituisce una colpa grave. La Chiesa sanziona con una pena canonica di scomunica questo delitto contro la vita ­73

umana. Chi procura l’aborto, ottenendo l’effetto, incorre nella scomunica latae sententiae, per il fatto stesso di aver commesso il delitto e alle condizioni previste dal Diritto. La Chiesa non intende in tal modo restringere il campo della misericordia. Essa mette in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno incomparabile causato all’innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la società». È una questione davvero delicata. Ribadisco la contrarietà all’aborto, con questo interrogativo: è preferibile la situazione degli aborti clandestini o una legge che ne preveda la regolamentazione, e attraverso il dialogo inviti a riflettere prima di decidere? E poi è comunque prevista l’obiezione di coscienza. Mi chiedo sinceramente: contrastare la 194, nel mondo cattolico, cosa ha comportato in questi anni? Forse un maggior impegno all’informazione e alla educazione all’affettività e alla sessualità, alla contraccezione, a cominciare dalle parrocchie? Non mi pare. Di questo non si parla. I centri di aiuto alla vita svolgono senza clamore un compito importante, ma mirato al sostegno delle persone, non al contrasto ideologico-politico che porta a dividere le persone tra buone e cattive, dalla parte della vita o della morte! Con discrezione, e nel silenzio, in questi anni anche il Centro Balducci si è impegnato nell’offrire sostegno, nel rispetto profondo delle scelte personali. Si afferma che questa legge attua un delitto contro la vita umana. Assumendo in toto la complessità di queste riflessioni, viene spontaneo domandarsi perché la Chiesa non usi lo stesso linguaggio e la stessa severità nei confronti di chi è responsabile della morte per fame e sete di un bambino ogni cinque secondi, dei commercianti di armi; dei ‘Signori della guerra’, dei trafficanti di droga; di chi rende schiavi donne e bambini e abusa di loro. Nella mia vita di uomo e di prete ho ascoltato diverse donne che hanno abortito. Mai gli uomini, responsabili ugualmente e forse anche maggiormente di quella situazione. E questo è già un motivo di seria riflessione sul rap­74

porto uomo-donna e sulle loro responsabilità personali e reciproche. La comunicazione delle donne è stata sofferta, dolorosa, in cerca di accoglienza e di ascolto, di liberazione dal senso di colpa. Ho sempre fatto il possibile per non alimentare questo senso di colpa e per favorire una riflessione pacata; per suggerire di guardare avanti, al futuro. Più di una volta mi sono espresso con queste parole: «Non si può tornare indietro e operare una scelta diversa; quella fatta resta nella tua vita, ne è parte. Dopo avere con calma e pacatezza riesaminato il contesto, la situazione, le motivazioni per riconsiderarli a distanza, per collocarli dentro di te in modo non disordinato, ma possibilmente chiaro, facendone il ‘conto’ esistenziale, ora guarda avanti. Cerca di favorire le situazioni di vita in te e attorno a te; di essere disponibile con le persone, in iniziative concrete, di non ricadere in queste situazioni, va’ in pace... Gesù cosa ti direbbe? Appunto, non ricadere in queste situazioni, non fare più così, ora va’ in pace e cerca di vivere in pace». Perché la Chiesa non può essere la comunità che accoglie, anziché l’Istituzione religiosa che condanna fino alla scomunica queste situazioni anche se parla di misericordia? Come è possibile conciliare il linguaggio della scomunica e quello della correzione, del perdono, della proposta di un impegno per la vita, guardando avanti, senza lasciarsi determinare dal passato? Se qualcuno vorrà leggere in modo distorto queste riflessioni, ebbene, affermerà il falso: in esse non c’è alcun atteggiamento favorevole al divorzio e all’aborto. Piuttosto, il tentativo di rappresentare la complessità e la delicatezza estrema di queste situazioni, con un orientamento e impegno per l’amore e la vita. Sono riflessioni personali che nascono dall’incontro con tante persone, sia in condizioni positive e serene sia in quelle dolorose e drammatiche. Riflessioni che nascono dalla rilettura continua dei Vangeli: Gesù di Nazaret non ha formato una famiglia ­75

propria, ma i Vangeli narrano del suo amore profondo e incondizionato verso tutte le persone, specialmente per i piccoli, i poveri, gli emarginati e gli scartati; per le donne, gli ammalati nel corpo e nella mente; per le persone giudicate peccatrici e scomunicate dalla religione del tempio e della sinagoga. Si intuiscono una amicizia e un’intesa speciali con la famiglia di Pietro a Cafarnao; con quella delle sorelle Marta e Maria e del fratello Lazzaro a Betania; una confidenza con il discepolo Giovanni; una relazione profonda con Maria di Magdala, come testimonia anche l’incontro con lei di Gesù Vivente oltre la morte nel luogo dove era stato sepolto il suo corpo. Gesù incontra le donne con attenzione alle loro storie, con parole di fiducia e di incoraggiamento, superando pregiudizi, tabù, separazioni. Basti pensare alla donna che soffre di emorragie; alla donna trascinata davanti a lui da un gruppo di uomini già pronti a lapidarla; all’incontro rivelativo per entrambi con la donna samaritana al pozzo di Giacobbe; all’episodio scandaloso avvenuto in casa di uno dei capi dei farisei che aveva invitato a pranzo Gesù: una donna, nota per essere una prostituta, si avvicina a lui, si accovaccia ai suoi piedi, piange e li bagna di lacrime, poi li asciuga con i suoi lunghi capelli e li cosparge di olio profumato. Gesù si lascia avvicinare, toccare, accarezzare da questa donna prostituta; riceve queste sue attenzioni e rinvia a lei la percezione di essere accolta pienamente, però al di là delle strumentalità e dell’uso che di lei fanno abitualmente gli uomini. Un esempio straordinario e provocatorio di come il linguaggio del corpo possa esprimere il senso profondo dell’accoglienza fra le persone. Le donne sono coinvolte, in prima persona, nell’esperienza del sepolcro vuoto, dato che proprio loro vi si erano recate per ungere con amore e tenerezza il corpo di Gesù; fra paure, incertezze, sorprese, speranze, sono loro che cominciano a comunicare la straordinaria notizia di Gesù Vivente oltre la morte. Anche per questo non è compren­76

sibile la chiusura pregiudiziale nella Chiesa al sacerdozio delle donne, peraltro presente, con esperienze positive e arricchenti, nelle chiese evangeliche. Più volte agli incontri culturali e di spiritualità del Centro Balducci sono state invitate ‘donne pastore’ per ascoltarne l’esperienza di fede e di testimonianza: dall’Austria, dalla Germania, dall’Olanda. L’ultima, la pastora Eva Jemn, sessant’anni, nel settembre 2010, dalla Svezia. Eva ci ha raccontato del suo essere ‘parroca’ e della particolare esperienza dell’apertura della chiesa e dei locali annessi anche durante la notte, per rendere possibili l’ascolto e la concreta accoglienza e solidarietà a persone senza dimora, in difficoltà esistenziale, dipendenti dall’alcool e dalle droghe, emarginate e sole. L’esclusione delle donne dal sacerdozio ministeriale viene motivata dalla scelta di Gesù di dodici uomini come discepoli; dall’assenza delle donne alla celebrazione della Pasqua diventata cena del saluto commosso e prima eucarestia; si afferma in modo rigido che si è trattato dell’istituzione del sacerdozio, come se si potesse istituzionalizzare la disponibilità a donare la propria vita. Se i Vangeli non testimoniano la presenza delle donne all’ultima cena, narrano però della loro esperienza e testimonianza di Gesù Risorto, Vivente oltre la morte. Lo stesso apostolo San Paolo afferma: «Se Cristo non fosse risuscitato dai morti vana sarebbe la nostra fede»; dunque, anche l’ultima cena con la presenza di soli discepoli maschi. Le motivazioni sono altre, legate probabilmente ad una considerazione negativa e pessimista del corpo, della sessualità, della donna stessa. Con il trascorrere dei secoli si sono consolidate una connessione ed una saldatura fra svalutazione della donna nella società e nella Chiesa, fra l’altro convivendo con la dissociazione continua fra la presenza e disponibilità di tante donne nelle comunità parrocchiali (dall’animazione dei gruppi di catechismo, alla cura della chiesa e degli ambienti) e la loro estromissione da ambiti e sedi progettuali e decisionali. Mi è capitato in questi ultimi anni di sentire molta tristezza nel vedere, ­77

ad esempio, i telegiornali trasmettere le immagini della riunione della Conferenza episcopale dei vescovi italiani: tutti uomini, tutti anziani, detto con rispetto per la vecchiaia e per la sapienza di cui dovrebbe essere portatrice. Mi chiedo: ma quali possono essere i contenuti delle loro argomentazioni e riflessioni? E quali le motivazioni e i fini delle loro decisioni se sono tutti maschi e celibi? Se manca, strutturalmente, ‘la metà del cielo’? Ma come possono in modo profondo, credibile, parlare della donna, della diversità di genere, della sessualità, della procreazione, dei tempi della vita? Non dovrebbero essere presenti e protagoniste le donne con le loro sensibilità, esperienze, riflessioni, proposte? Se e quando avverrà che nella Chiesa cattolica le donne avranno un compito di guida e responsabilità, se sarà per loro possibile celebrare con la comunità l’eucarestia, ebbene, quello sarà un tempo davvero rivoluzionario, perché comporterà una transizione antropologica, una riconsiderazione della donna stessa, del corpo, dell’affettività, dell’amore, della sessualità. Provate a immaginare in che misura e con quale intensità potrebbe esporre alla comunità le proprie riflessioni sull’amore e la vita una donna in attesa di un figlio, magari mentre avverte il bambino muoversi nel suo utero, come racconta il Vangelo a proposito di Elisabetta e del suo bambino, quando saluta Maria di Nazaret, la sua giovane cugina, anche lei incinta perché ha creduto alla parola di Dio e a lui si è affidata. Già ora è possibile e significativa in molte comunità della Chiesa la presenza attiva delle donne, con compiti e con ministeri di responsabilità, di guida, di coordinamento. Queste esperienze avvengono soprattutto in America Latina e in Africa, quasi per nulla in Europa e in Italia. I documenti ufficiali di attenzione e promozione della donna non mancano nella Chiesa, ma spesso restano pure esortazioni teoriche, di fatto smentite nella prassi. Ho sperimentato pienamente, nella mia storia persona­78

le, le motivazioni, le finalità, l’educazione (dis-educazione) e l’organizzazione istituzionale per convincere a diventare preti celibi. Con pacatezza, serenità e lucidità riconosco oggi, a sessantatré anni, dopo trentacinque anni di sacerdozio, la violenza continua e subdola di tale impostazione, con conseguenze negative, non facili da recuperare e trasformare. Il celibato può essere una dimensione importante della vita quando, proprio per gli aspetti che comporta, è espressione di una scelta progressiva, consapevole, adulta, responsabile. Che comunque dovrebbe essere inquadrata nella dedizione piena e reale agli altri. Don Lorenzo Milani, coinvolto totalmente come prete e maestro nella straordinaria esperienza di Barbiana, sentiva possibile la scelta del celibato, raccomandabile agli insegnanti che, come lui, si dedicano totalmente ai loro alunni. Tutt’altra l’impostazione di formare, fin da piccoli, dei preti-celibi perché così è previsto da una legge della Chiesa storicamente datata che in modo del tutto discutibile – in quanto disciplina senza fondamento biblico – vincola il ministero sacerdotale al celibato obbligatorio. Ciò comporta, come avviene nella formazione nei seminari, che il procedere umano nell’esperienza dell’affettività e della sessualità sia di fatto negato con questa successione incalzante e disumana per un adolescente e un giovane: «Tu diventerai prete; nella Chiesa cattolica questo comporta l’obbligo del celibato; questo perché il tuo cuore sia ‘indiviso’, ‘occupato’ solamente e totalmente dall’amore a Dio e alle persone affidate alla tua cura pastorale. Chi può costituire quindi il pericolo per la tua vocazione, per il tuo essere prete? La donna. Quindi bisogna evitare ogni amicizia speciale con le ragazze, con le donne; non affezionarsi a qualcuna in particolare». Questa successione incalzante comportava una continua repressione delle dinamiche della vita; in misura particolarmente incisiva nei giovani che, come me, per disponibilità e formazione, si andavano orientando con grande serietà verso il sacerdozio. La semplice simpatia, o ­79

lo spontaneo, comprensibile iniziale innamoramento per una ragazza generavano un forte senso di colpa, rispetto all’ideale del prete-celibe che ci veniva continuamente ricordato. Ne restava ferito il nucleo affettivo. Ben diversa sarebbe stata – e sarebbe – la preparazione al sacerdozio se in prospettiva ci fossero tre possibilità, liberamente scelte: il celibato non più obbligatorio, il matrimonio, il sacerdozio delle donne. Così recita il Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1579): «Tutti i ministri ordinati della Chiesa Latina, ad eccezione di diaconi permanenti, sono normalmente scelti fra gli uomini credenti che vivono da celibi e che intendono conservare il celibato per il Regno dei Cieli (Vangelo di Matteo 19, 12). Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle sue cose, essi si donano interamente a Dio e agli uomini. Il celibato è un segno di questa vita nuova al cui servizio il ministro della Chiesa viene consacrato; abbracciato con cuore gioioso, esso annuncia in modo radioso il Regno di Dio». D’accordo, purché si tratti di una scelta cosciente, libera, responsabile. Si afferma che tale è, e che ciascuno, se non è disposto ad accettare questa condizione, può rinunciare al sacerdozio. Di fatto non è così, se una legge umana, storicamente datata, prima inesistente e quindi abrogabile nella obbligatorietà che comporta, costringe alla rinuncia chi vorrebbe con tutto il suo cuore dedicarsi al sacerdozio, inteso come esercizio umile e disinteressato verso la comunità. E così, molti preti che avrebbero con convinzione e dedizione continuato a vivere la propria vocazione sono stati costretti ad abbandonare il ministero nel momento in cui hanno deciso di formare una famiglia e di procreare dei figli. Io penso, al contrario – e proprio a partire dalla mia storia personale, simile a quella di molti altri preti – che Dio non voglia questo da me, da noi; se non da alcuni che per intuizione, dono, ricerca, grazia, decidono di restare celibi. Dio, nella proposta così radicale e pienamente umana di Gesù di Nazaret, mi chiede di diventare ­80

quotidianamente un uomo e un prete disponibile, umile, accogliente, ricco di benevolenza e di misericordia, capace di condivisione; sobrio nel modo di vivere, di mangiare, di vestire; coraggioso, fedele e coerente, perseverante; umano per poter diffondere umanità; impegnato in favore della giustizia e della pace; sempre dalla parte di chi è povero, fragile, emarginato. Questo mi chiede, non che io sia celibe. È una legge della Chiesa ad impormelo. Questa dialettica interiore ha comportato e continua a comportare nella mia vita – e in verità anche in quella di molti altri preti, di religiosi e di religiose – una fatica tutt’altro che facile da gestire. L’amore rivolto a tutti in modo generico rischia di non essere autentico per nessuno. La vita di ciascuno e di ciascuna di noi è fatta di incontri di particolare profondità e significato, fino alla scelta di vivere con una persona amata da cui si è ricambiati. Questi incontri speciali avvengono anche nella vita di preti, religiosi e religiose. Anche in quella di papi, cardinali, vescovi. E alcuni incontri sono talmente speciali da interrogare in modo altrettanto speciale. Quale la risposta? La fuga, teorizzata e praticata riempiendo la risposta alla domanda affettiva con lo spiritualismo, l’attivismo pastorale, e altre forme di compensazione? La solitudine, scelta come dimensione della vita riuscendo a far dialogare e a mettere insieme la parte negativa (solitudine costretta, ‘nemica’) e quella positiva (solitudine scelta, ‘amica’)? Dunque una risposta di impossibilità, data la situazione, all’amore che interpella? La scelta, praticata da tanti preti nel mondo, di una risposta affettiva nascosta, vissuta il più possibile nel rispetto reciproco fra le due persone? Questo tipo di scelta è considerata vergognosa, immorale, incoerente perché attua una dissociazione fra ministero e vita personale. Con che coraggio e con quale coerenza si può celebrare l’eucarestia se si vive in una condizione di peccato? Interrogativi molto seri, veri, appropriati, con qualche doveroso approfondimento. Perché non si esprime la ­81

medesima severità etica riguardo allo stile di vita disim­ pegnato, privilegiato, persino lussuoso di tanti uomini di Chiesa? Di tanti ordini religiosi che dichiarano i voti di povertà, ubbidienza e castità e poi vivono in ambienti protetti, ovattati, garantiti, in cui non solo non manca nulla, ma regnano l’abbondanza e il superfluo? Per quale ragione l’incoerenza dovrebbe riguardare soprattutto, e alle volte quasi esclusivamente, la sfera affettiva e sessuale? Perché ritorna la questione dirimente della corporeità e della sessualità. Infatti: chi può nella vita dei preti stabilire una gradualità nell’intensità dei rapporti con le persone? Nessuno, perché è talmente difficile da risultare impossibile. Come per i separati, i divorziati, i risposati, così anche per i preti, i religiosi e le religiose la questione è quella della possibilità o meno di vivere la sessualità, perché a vivere l’amore non solo si è chiamati, ma incessantemente invitati, a cominciare proprio dal Vangelo, da Dio che è amore. Quanto poi al cuore indiviso, penso non si debba restare prigionieri di ipotesi e dichiarazioni astratte. Le storie di preti, religiose e religiosi ci dimostrano che si può vivere il celibato in un distaccato isolazionismo, da funzionari della religione, apprezzati proprio per essere tali; che si può vivere il celibato come dedizione a Dio e agli altri; che si può vivere la dedizione a Dio e agli altri insieme all’amore verso una persona e verso uno o più figli. Sarebbe un segno di rispetto e una manifestazione di lungimiranza avvicinare coloro che sono stati obbligati a lasciare il sacerdozio ministeriale, perché si sono sposati, per assegnare loro un qualche compito nelle comunità cristiane, in attesa della possibilità di riassumere pienamente il ministero. Sono convinto che se i preti, i religiosi e le religiose, a cominciare dalle nostre diocesi, potessero testimoniare in modo del tutto sincero e – per favorire questa trasparenza – in modo anonimo il proprio percorso affettivo ­82

nella vita, dal seminario fino ad oggi, emergerebbe una realtà ricca, positiva, eterogenea, drammatica, certamente diversa da quella che appare. Ci si troverebbe di fronte a un autentico terremoto, che solleciterebbe a doverosi cambiamenti, ostinatamente negati da parte della gerarchia ecclesiastica. Una Chiesa cattolica in cui ci fossero preti celibi, preti sposati e donne prete accrescerebbe di per sé la ricchezza delle esperienze spirituali, umane e culturali, l’apertura, il pluralismo, la verità, l’accoglienza nei confronti della vita nelle sue diverse articolazioni e manifestazioni. Negli ultimi tempi grande turbamento ha suscitato l’emergere del fenomeno della pedofilia all’interno della Chiesa. Nel giugno 2009 il cardinale Claudio Hummes, prefetto della Congregazione per il clero, ha dichiarato al settimanale cattolico spagnolo «Vida Nueva» che la Chiesa non può chiudere gli occhi di fronte a un ­simile fenomeno, che in alcune diocesi arriva a coinvolgere quattro preti su cento. Gravi interrogativi ha sollevato il comportamento della Chiesa, che si è mossa con ritardo, che ha agito assai poco severamente nei confronti dei protagonisti, e che ha cercato di coprire il fenomeno, ignorando le vittime. Ora, anche a seguito della vasta eco sui mass media, si stanno correggendo alcuni atteggiamenti: condanna, pietà per le vittime dei pederasti. In passato l’attenzione nei confronti dei preti pedofili è stata finalizzata soprattutto ad un aiuto spirituale e psicologico nascosto. Non sono mancate misure di tipo legale e di risarcimento finanziario, per la verità piuttosto attenuate. La tendenza prevalente è stata quella di non offuscare l’immagine positiva della Chiesa in quanto istituzione. È potuto accadere così che preti pedofili siano stati semplicemente trasferiti in altri luoghi, e talvolta persino con compiti riguardanti i minori. Nulla di più lontano dalla prospettiva evangelica di preoccuparsi prima di tutto ­83

e soprattutto delle vittime, di reagire in loro favore e di sostenerle. È alle tante vittime, oggi adulte, alle ferite permanenti che hanno subìto e al dolore e all’indignazione dei familiari che si sentono ingannati per aver affidato i propri figli e figlie alla cura della Chiesa, che debbono rivolgersi cura e attenzione. Sappiamo come il riferimento al sacro diventi il più pericoloso per la violenza implicita ed esplicita e anche per il suo nascondimento e la sua giustificazione. Il fenomeno drammatico della pedofilia può provocare anche il rischio di un eccesso di critica verso la Chiesa e le sue gerarchie in quanto tali. E tuttavia in nessun modo va difesa una Chiesa che ancora una volta copra, attenui la drammaticità della pedofilia; anzi, il dolore per un eventua­ le eccesso di critiche dovrebbe essere assunto e vissuto come partecipazione al dolore delle vittime. E invece c’è il rischio, molto grave, e in certa misura già in atto, che il papa, che la Chiesa diventino loro le vittime e si smorzi l’attenzione e la vicinanza alle vere vittime, i tantissimi bambini/e, adolescenti e giovani che hanno subìto violenza. Potrebbe diventare per la Chiesa un’occasione per liberarsi dalla presunzione di superiorità e di intangibilità, evitando di far ricadere la responsabilità e la colpa esclusivamente sui singoli preti pedofili (evidenziandone fragilità, debolezza, immaturità, scompensi). Certo, resta ed è sempre da non sottovalutare la responsabilità personale, che però va inserita in un contesto sociale, educativo, ecclesiastico che, senza eliminarla, in parte la spiega. Ora, se è vero che non si può stabilire in modo meccanicistico il nesso causa-effetto fra celibato obbligatorio e pedofilia, giacché essa purtroppo viene praticata da tanti uomini e anche donne che non sono preti, religiosi/e, indubbiamente l’obbligo del celibato e la precedente diseducazione formativa, la repressione dell’affettività e della sessualità, possono favorire in modo significativo queste drammatiche situazioni, con l’aggravante della copertura della ‘sacralità’ di persone, ambienti e situazioni. È quindi ­84

eticamente doveroso ‘collocare’ l’immaturità, le deviazioni, la subdola e insieme terribile violenza sui minori. La Chiesa deve interrogarsi in modo veritiero, senza veli, seguendo il Vangelo che afferma che «solo la Verità ci rende liberi». E quindi, in prospettiva? Un grande Sinodo mondiale nel quale la Chiesa con tutti i soggetti e tutte le componenti possa riflettere, alla luce del Vangelo e con i contributi di donne e uomini di scienza ed esperienza, sull’affettività, sull’amore, sulla sessualità, sul matrimonio, sul celibato, sull’omosessualità, sulla condizione di coloro che sono separati, divorziati e risposati e sulla pedofilia a partire dall’interno della Chiesa. Un incontro che possa segnare una svolta e il segno di una Chiesa del Vangelo che cerca di mettere insieme, nella storia, la radicalità della proposta evangelica e la misericordia dell’attenzione, dell’accoglienza, dell’ascolto e dell’accompagnamento delle persone qualsiasi sia la loro condizione esistenziale; e che, soprattutto, considera positivamente la corporeità, la sessualità, l’interezza umana: Dio non ha forse preso questo corpo, questa carne per incontrarci? Una Chiesa che sappia accogliere, soprattutto nei momenti più difficili e delicati. Penso in particolare al dolore e agli interrogativi legati alla morte. Per il mio compito di prete, in particolare di parroco, sono stato, e sono, sovente coinvolto in situazioni di malattia, di dolore e di morte, condividendo quelli che amo chiamare, invece che ‘funerali’, ‘saluti alle persone care’. La morte è sempre un mistero e giunge sempre inopportuna: come afferma la Bibbia, sono rare le morti ‘al compimento dei giorni’, cioè dopo una vita lunga e significativa nel suo svolgersi, nelle relazioni, nell’impegno, nella discreta serenità d’insieme, nonostante i passaggi dolorosi e complessi. Se è vero che la morte è la condizione uma­85

na che tutti accomuna, è altrettanto vero che sono molto diversi i tempi e i modi del morire che, in modo diretto, ne ‘frantumano’ la naturalità. Non è certo naturale morire bambini, uccisi dalla fame, dalla sete, da malattie endemiche e curabili. Non è naturale morire a causa di terremoti, maremoti, inondazioni. Non è naturale morire a causa di incidenti stradali, tante volte in giovane età. Non è naturale morire per causa, diretta o indiretta, della dipendenza da droghe o alcool. Non è naturale essere uccisi a qualsiasi età da bombe, mine antiuomo, missili, colpi di mitra o di fucile. Non è naturale morire condannati a morte da uno Stato che si arroga il potere di vita e di morte sulle persone. Non è naturale morire per incidenti sul lavoro. Non è naturale morire togliendosi la vita per sottrarsi alla vita... L’impegno per la giustizia, la pace, l’attenzione e l’accoglienza verso i deboli, la salvaguardia dell’ambiente vitale, di tutto l’ecosistema, la prevenzione, per quanto e come è possibile, delle malattie: questo deve guidarci quotidianamente per limitare le morti davvero contro natura. Tuttavia, la morte è parte della vita. Ma le società occidentali tendono ad esorcizzare, occultare la morte e le situazioni di sofferenza, per continuare ad alimentare atteggiamenti e comportamenti di vitalismo spensierato, di perenne giovinezza, di esaltazione di singoli momenti. Di fatto la morte, esorcizzata e nascosta, si ripresenta continuamente, proprio perché parte della vita; e spesso la sua evidenza è provocatoria e ripropone potentemente gli interrogativi sul nostro modo di vivere, la necessità di intervenire per cambiare. Mi pare che in altre società, ad esempio tra gli indios dell’America Latina con cui ho vissuto per brevi ma intensi periodi, il rapporto fra vivere e morire, fra vita e morte, sia avvertito in più stretta relazione. Nell’agosto del 1997, sulle Ande, a sud-ovest della Colombia, nella regione del Cauca, partecipai alla commemorazione di un giovane sindaco Marden, ucciso l’an­86

no precedente per la sua disponibilità e il suo impegno fedele e generoso. Un corteo silenzioso formato da alcune centinaia di persone si dirigeva verso il luogo del martirio per una celebrazione molto partecipata dell’eucarestia. A intervalli, una voce al megafono, ripeteva durante il tragitto: «Ay muertos mas vivos que los vivos» («ci sono morti più vivi dei vivi»). Conclusa la celebrazione, cercai di comprendere il senso di quella frase che avvertivo così pregnante. «Sì, ci sono persone morte, uccise, che noi sentiamo vive, presenti, perché l’amore, la disponibilità, l’impegno profusi nella comunità continuano e rappresentano luce, guida, forza, sostegno per molti. Sono vivi, anche se morti fisicamente, molto di più di chi è vivo nel corpo, ma di fatto è morto perché è portatore di ingiustizia, corruzione, violenza, commercio di armi e di droga, uccisione di persone». Nella nostra società, rispetto al morire e alla morte, si è diffuso in questi ultimi decenni un atteggiamento di presunzione che tende a non considerare, a non ammettere ed assumere la condizione di creaturalità e di finitudine di noi esseri umani, e ad affermare ed esaltare invece una logica di onnipotenza e di onniscienza. Le acquisizioni della scienza in generale, della medicina, della tecnologia sono state decisamente importanti ed hanno contribuito e contribuiscono a dare risposte significative a malattie, anche a quelle più dolorose – penso al cancro e all’Aids – e il prolungamento della vita è indiscutibile. E però è doveroso riflettere sul fatto che a beneficiare di queste acquisizioni è solo una piccola parte dell’umanità, non certo la maggioranza, che vive in condizioni estreme, spesso in bilico fra vita e morte, e non può accedere a cure, medicine, ospedali, né usufruire delle tecnologie a servizio della salute e della vita. Nelle società occidentali si va diffondendo la convinzione che si possa trovare un rimedio per qualsiasi situazione e condizione, per qualsiasi malattia. E quando questo non accade, si tende a individuare un responsabile: struttura ­87

sanitaria, medici, infermieri. Se da una parte è doveroso che nella società progredisca una cultura dei diritti umani, dei diritti del malato ad essere accolto, accompagnato e curato con competenza professionale e con umanità e quindi, che si denunci, si contrasti, si prevenga ogni ­forma di ‘mala sanità’; dall’altra è altrettanto importante che si diffonda una cultura del limite, della creaturalità, della finitudine e provvisorietà della vita, il riferimento al mistero. Questa parola non va intesa in modo fideistico e irrazionale, bensì come una realtà e una dimensione da cui siamo avvolti, che avvertiamo profondamente, ma di cui riusciamo ad esprimere qualche aspetto in modo parziale e mai definitivo, quasi balbettante. Nelle società occidentali il processo di secolarizzazione ha contribuito a nuove situazioni positive, come la liberazione da preventive ipoteche ideologiche e religiose riguardo alla laicità e all’autonomia delle persone e delle loro scelte, delle istituzioni e della politica, delle loro legislazioni e ordinamenti. Al tempo stesso, però, la secolarizzazione – intesa come desertificazione dei riferimenti religiosi e dunque dei simboli, della ritualità, delle celebrazioni e delle preghiere – ha finito per impoverire la possibile elaborazione della morte, del dolore, del lutto, abbandonandoli, per così dire, a una laicità fredda, in cui le persone rischiano di sentirsi più isolate, sopraffatte da un dolore che non conosce supporto e condivisione. Durante i trentacinque anni del mio essere prete si sono depositate nel mio patrimonio interiore tante e diverse esperienze a questo riguardo con innumerevoli celebrazioni, favorendo – mi auguro – silenzio, vibrazione interiore, partecipazione, riflessione e preghiera. Alcune celebrazioni sono state particolarmente coinvolgenti, nella speranza che nessuna sia stata superficiale, ridotta a funzione da risolvere in modo sbrigativo, senza emozione alcuna. Ho cercato di vivere sempre questi momenti con preparazione e partecipazione. Vengono proposti alla comunità alcuni aspetti della vita della persona che si saluta, quelli che ne ­88

caratterizzano l’umanità e il percorso esistenziale intesi come patrimonio e ricchezza non solo per la famiglia e i conoscenti, ma per l’intera comunità. Non vengono ignorati, seppure con prudenza e delicatezza, i momenti di sofferenza, fatica, tribolazione della persona. E ancora, si propone in modo interlocutorio la riflessione sul dopo morte, non con la sicurezza, non con la presunzione dogmatica di chi vorrebbe imporre in modo scontato una verità. Sul dopo morte si può pensare che con la cessazione delle funzioni biologiche vitali tutto sia finito. Il dolore per la separazione, per la lacerazione che la morte provoca, richiede una lenta, non facile, spesso ardua elaborazione e sistemazione interiore e relazionale, da parte dei familiari, e in ambito più allargato da parte del gruppo di persone amiche e della comunità. La persona morta resta nella memoria affettiva e relazionale delle persone con cui ha vissuto l’esperienza d’amore, d’amicizia, di condivisione di progetti, di dedizione, di impegno, di momenti di fede, di serenità, di tribolazione e dolore. Se la sua vicenda umana è nota, resterà la sua memoria come esempio, luce, forza, riferimento. L’intensità di questa memoria personale, familiare, comunitaria, sociale, istituzionale, anche politica, potrà diversificarsi, anche attenuarsi, se non ci sarà una riproposizione significativa. Si apre un’altra possibilità: che la nostra vita non finisca nel nulla, nel vuoto, nell’insignificanza, bensì venga accolta da una Presenza, quella del Signore, reale e misteriosa, e da essa riconosciuta, purificata e valorizzata, anche in quei passaggi e momenti, in quelle vicende dolorose incomprensibili, senza risposta. Non ci è dato conoscere tempi, modi, ambiti di questo incontro così misterioso e profondo. Ma si può nutrire la speranza ragionevole in questo affidarsi pieno di attesa, di confidenza, di abbandono fiducioso. Mi pare si ritorni, evidenziandone la profondità e la radicalità, alla dimensione fondamentale, costitutiva della fede: l’intima percezione, che diventa atteggiamento ­89

di fondo dell’anima e di tutta la nostra esistenza, che la nostra vita viene – comunque, in ogni momento, condizione e situazione – accolta, riconosciuta e considerata dalla Presenza amorevole di Dio, quand’anche attorno a noi ci fosse il vuoto completo, l’abbandono totale, l’insignificanza più avvilente. Il riferimento a Gesù di Nazaret ucciso dai poteri di questo mondo, accolto per la sua fedeltà e resuscitato dalla morte, Vivente oltre ad essa nella storia, è costitutivo, illuminante. L’amore, l’amicizia, la relazione fra le persone incoraggia questa fiducia ragionevole nella vita che continua, anche se – come ho detto – non conosciamo né i modi, né i tempi, né i luoghi. La nostra relazione con le persone che ci sono care continua, anche se loro non sono più fisicamente presenti. Viventi in modo misterioso nel Mistero di Dio che le accoglie, continuano ad accompagnarci nella vita. Ho partecipato in questi anni, in varie circostanze, a quello che si definisce ‘funerale civile’; e più di una volta, richiesto o per diretta sollecitazione interiore, ho contribuito con una breve riflessione. Specialmente in alcune situazioni ho avvertito una certa povertà in quelle celebrazioni, quasi che lo smarcarsi da parole e simboli religiosi comportasse di per sé l’abbandono di qualsiasi riferimento al mistero e all’ulteriorità. Non è una critica, tutt’altro; voglio solo esprimere il dispiacere per una mancanza; lo stesso dispiacere, ma ben più grave, che provo se penso a certi funerali religiosi formali e scontati. Non fa parte del mio modo di sentire e di pensare separare laicità e sacralità, bensì di fare riferimento, a partire dalla laicità, all’ulteriorità, al mistero e alla trascendenza, ai significati ultimi della realtà e della vita. Forse è perché le celebrazioni dei funerali sono state e sono gestite nella quasi totalità dalla Chiesa, che le celebrazioni ‘civili’ sono per lo più improvvisate, con scarsa attenzione ai luoghi, alla possibilità per le persone di sedersi, ­90

ascoltare, partecipare; si avverte la mancanza di un ritmo celebrativo che attraverso parole, letture, musiche e canti dia dignità al saluto alle persone. Mi è capitato più volte, nel parteciparvi, di soffermarmi su questi aspetti. Molto diversi, come dicevo, sono i tempi e i modi del morire. Ci sono situazioni in cui la morte di una persona può diventare, nel paradosso e nel mistero della vita, salvezza per altri. Mi riferisco alla questione etica del prelievo e del trapianto di organi. E questo senza nessuna enfasi e assolutizzazione, senza illusioni di prolungamento continuo della vita, con la consapevolezza e insieme il pudore di una possibilità che appartiene a questo nostro mondo occidentale o alle classi alte dei paesi poveri, laddove affrontare questa questione comporta purtroppo l’attenzione al drammatico commercio di organi. Tante persone ammalate attendono come unica possibilità di tornare a condizioni di vita dignitose la donazione di un organo: cuore, fegato, pancreas, polmoni, cornee, midollo... Ma questo può avvenire solo a seguito della morte cerebrale di un’altra persona, a seguito di un evento doloroso. La donazione degli organi coinvolge anche le famiglie e gli amici del donatore e del trapiantato. La speranza dei secondi evidenzia il dolore dei primi che, consapevolmente, coinvolti nel dramma, esprimono il loro consenso al prelievo. La procedura per l’accertamento della morte cerebrale è severa e collaudata, la prassi è ormai consolidata da tanti anni e da tante esperienze di prelievo e di trapian­ to, ma il momento della richiesta da parte dei medici ai familiari e della loro risposta affermativa o negativa è ancora faticoso e doloroso, sempre incerto. È mancata, a mio avviso, una diffusione capillare di informazioni corrette e di esortazione alla cultura della donazione; e, a seguire, la possibilità di registrare su un documento personale la disponibilità al prelievo dei propri ­91

organi. Questa indicazione chiara e incontrovertibile eviterebbe la richiesta di consenso ai familiari in un momento così tragico, immediatamente dopo essere stati informati della morte cerebrale del proprio familiare. La disponibilità a donare i propri organi risponde ad una logica esistenziale delle relazioni. La nostra persona è tale nella sua globalità, nel rapporto inscindibile fra corporeità e spiritualità o anima, o spirito, tutte espressioni che indicano quella dimensione di ulteriorità, di profondità che comunichiamo, mai in modo esauriente e definitivo, con il nostro corpo e il suo linguaggio. La nostra vita è segnata e caratterizzata dalle relazioni: possiamo abitare la nostra esistenza con maggiore o minore disponibilità verso gli altri. Una vita di relazioni e di disponibilità, nel momento in cui cessano le funzioni vitali della corporeità, può continuare attraverso la donazione degli organi – che ormai non servono – a chi li aspetta per riprendere a vivere la propria vita, altrimenti destinata a peggiorare irrimediabilmente. Non si tratta di svalutare il corpo, destinato a consumarsi nella terra o ad essere cremato, né di un suo uso strumentale: il fine è quello di aiutare la vita di altri. È il Vangelo a sollecitarci all’altruismo, alla concreta prossimità verso i fratelli, diventando parte della loro vita grazie agli organi che hanno sorretto la nostra vita: oramai inservibili, vengono riscattati proprio dalla possibilità di continuare la loro vita rendendo possibile quella di altre persone. In una società sempre più multietnica, multiculturale e plurireligiosa, la donazione degli organi può favorire l’attenzione all’altro e alla sua diversità e l’integrazione reciproca: la cultura della donazione va dunque diffusa con maggior coraggio e impegno nelle famiglie, nelle scuole, nelle chiese, attraverso i mezzi di informazione. E naturalmente anche la donazione del sangue. Le vicende umane sono complesse e ci interrogano; le risposte, a partire dalle tante e diverse storie, non sono univoche, ma molteplici. ­92

A questo proposito mi viene dal cuore soffermarmi sul dolore angoscioso di chi si toglie la vita. Per il Catechismo della Chiesa cattolica il suicidio è una contraddizione con la naturale inclinazione dell’uomo a conservare e a perpetuare la propria vita; contrario al giusto amore di sé; un’offesa all’amore del prossimo; contrario all’amore del Dio vivente. Dio è il ‘sovrano padrone’ della vita; noi non siamo i proprietari, ma gli amministratori della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo. Gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timo­re grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida. «Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che Egli solo conosce,  può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita» (Catechismo della Chiesa cattolica n. 2280-2283). Personalmente sento e penso che chi si toglie la vita non lo faccia per rivendicarne la proprietà e per sfidare in qualche modo Dio, ma per dolore, per disperazione; il più delle volte affidandosi a Dio, quasi a invocarlo: «Mio Dio, non ce la faccio proprio più; buio e freddo tutt’intorno; non reggo questi pesi che mi schiacciano; mi affido a te, che almeno tu possa accogliermi e capirmi. Perdonami se sbaglio, accoglimi, ti prego». Ai familiari e agli amici di chi si toglie la vita r­ estano alcuni interrogativi e la propensione al senso di colpa per non aver captato parole e segni, per non essere s­ tati sempre disponibili come quella condizione esistenziale avrebbe atteso e per altro ancora. È importante, sebbene il percorso sia faticoso, perché lo strappo è terribilmente traumatico e doloroso, entrare poco a poco nella prospettiva di rispettare la decisione della persona che in quel modo se n’è andata, liberandosi dai sensi di colpa. Fin qui, la morte. ­93

Che cosa pensare di fronte alla malattia grave e incurabile? In una condizione che prelude alla morte prossima, esami clinici, prelievi ripetuti, somministrazione di farmaci diventano accanimento, nel senso che prolungano una condizione di estrema sofferenza, senza nessuna possibilità di miglioramento. Non resta, allora, che l’accompagnamento il più umano possibile, con l’aiuto di qualche farmaco che lenisca il dolore, che favorisca l’avvicinamento progressivo all’idea della morte, per accoglierla più serenamente possibile; con la vicinanza, le carezze, la stretta di mano prolungata, in una parola: con una relazione di amore e di amicizia. La convinzione, condivisa, affermata e diffusa, tra la gente, di non accanirsi terapeuticamente, di fatto nei reparti degli ospedali è vissuta con dubbi, incertezze e preoccupazione da parte dei medici per le possibili denunce – anche davanti alla magistratura – di non aver assolto pienamente il proprio dovere, prescrivendo un determinato esame, o somministrando una medicina ritenuta indispensabile dai familiari, magari per sentito dire, in realtà ininfluente in quella specifica situazione. È molto importante, dunque, attraverso l’impegno di tutti, nei propri ambiti e competenze, e anche attraverso momenti comunitari, trasmettere le proprie esperienze di vicinanza e accompagnamento ai malati gravi, terminali, per ascoltare, proporre, mettere a confronto perplessità, acquisizioni, competenze. Si comunica ancora troppo poco rispetto a queste dimensioni fondamentali della vita, della malattia, della sofferenza, dell’accompagnamento alla morte. Sarebbe di grande significato poter ascoltare insieme la sensibilità, il dolore, la speranza, in una parola, l’umanità delle persone ammalate; il loro itinerario dal momento in cui sono state informate sulla malattia al presente, con i diversi passaggi, i diversi stati d’animo – ribellione, accettazione, stanchezza, senso di impotenza, ripresa, elaborazione, atteggiamenti consapevoli con timore e tremore, ma anche con apertura, ­94

con cambiamenti che portano all’essenzialità della vita, al ‘segreto’ delle cose... Innumerevoli sono le persone che si trovano in condizioni di malattia progressiva invalidante; in stato di coma, in stati vegetativi, con livelli diversificati di coscienza, di percezione delle relazioni e della realtà circostanti; in condizioni di gravità e di dolore indicibili. Molte persone non esprimono, per quanto coscienti e in grado di farlo, nessun particolare proposito rispetto alla propria condizione, solo il desiderio di continuare ad essere accudite con attenzione, premura e cura. Ci possono essere invece persone che, data la gravità estrema della propria condizione, esprimono consapevolmente e in totale lucidità la volontà di porre termine allo strazio di cui sono vittime e prigioniere e chiedono di essere aiutate in questa loro scelta, sollecitando una legislazione adeguata che la renda possibile e praticabile. Oppure familiari che, in presenza di tali situazioni, intendono attuare la volontà espressa dal proprio congiunto quando si trovava nelle condizioni di poterlo fare. Gli interrogativi che emergono sono laceranti: le scelte personali, l’autodeterminazione possono riguardare anche la decisione di morire? Egualmente e con la stessa pregnanza di altre fondamentali decisioni della vita, quali il concepimento di un figlio, aspetti e ordinamenti della politica, dell’economia, della legislazione che riguardano il bene comune, la vita e la morte di tante persone? Forse la decisione di morire assume una pregnanza del tutto particolare, estrema, perché è definitiva, ma anche perché si tende ad isolarla, in qualche modo assolutizzandola, da tutto il percorso della vita? Il riferimento è solo a condizioni estreme nelle quali il dolore è tale da apparire disumano; nelle quali le persone, dopo anni e anni di sofferenza, si sentono sopraffatte, o lo sono senza più rendersene conto da lungo tempo. È da escludere quindi, in queste considerazioni che suscitano timore e tremore, qualsiasi superficialità, scappatoia, ­95

mentalità vitalistica e vincente che non tollerano il limite, la sofferenza, la morte. Niente di tutto ciò. Nessuna persona, per nessun motivo, deve essere invitata, peggio ancora sollecitata, a porre fine alla sua esistenza. Allo stesso tempo c’è da chiedersi perché una persona, in modo libero, consapevole, per la sua sensibilità e le sue convinzioni, non possa esprimere la propria volontà e la propria decisione di porre termine alla condizione in cui si trova e che considera disumana e intollerabile; e perché non possa farlo un familiare che ne rappresenta la volontà. O ancora, perché non si possa esprimere questa decisione quando si è ancora in buona salute, in previsione di tali situazioni estreme. E perché ciò non possa essere rispettato in una società laica e pluralista che legiferi il testamento biologico nel rispetto di tutte le ispirazioni, convinzioni e scelte senza veti pregiudiziali. Non corrisponde a verità l’affermazione che nega questa possibilità, anche a motivo della conseguente diffusione di una mentalità e di una cultura contrarie alla vita, sbrigative per quanto riguarda le sofferenze, offensive nei confronti di Dio, Principio, Fonte e Fine di ogni vita, dono suo e responsabilità nostra. Il magistero della Chiesa ribadisce costantemente l’affermazione della vita, intoccabile dal suo nascere al suo termine naturale. Si legge nel Catechismo: «Coloro la cui vita è minorata o indebolita richiedono un rispetto particolare. Le persone ammalate o handicappate devono essere sostenute perché possano condurre un’esistenza per quanto possibile normale» (n. 2276). «Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l’eutanasia diretta consiste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o prossime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un’uccisione gravemente c­ ontraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L’errore di giudizio nel quale si può essere ­96

incorsi in buona fede non muta la natura di questo atto omicida, sempre da condannare e da escludere» (n. 2277). «Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d’ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il rischio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine, né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate» (n. 2279). Ma anche queste affermazioni sollevano interrogativi. La condizione naturale in sé e per sé non esiste: si combina e si intreccia con la cultura, con le scoperte e le acquisizioni scientifiche, mediche e tecnologiche. Facciamo un esempio: una persona subisce un gravissimo incidente stradale; la morte sopraggiungerebbe se non ci fosse l’intervento del 118; lo stato è di incoscienza; viene intubata, trasportata in terapia intensiva; si fa il possibile per rianimarla, per salvarla. Si può affermare, in modo corretto e veritiero, che quell’intervento della tecnologia medica, peraltro con conseguenze più che incerte, non riporta di per sé quella persona ad una vita significativa, ma interrompe il processo della morte. E allora la condizione naturale, dove trova collocazione e con quale rilevanza? Qualche decennio fa, nella nostra società, quella persona sarebbe morta; e tante altre persone nel mondo, nella sua stessa condizione, oggi muoiono. E a proposito di Dio, noi cosa sappiamo e cosa possiamo dire? Non è costante il pericolo di proiettare in Dio i nostri pensieri, le nostre convinzioni contingenti, legate a una società, a una cultura? Dio è il Dio della vita. Gesù di Nazaret ha annunciato la vita, si è dedicato alla vita di ogni persona, per questo è stato ucciso, e ha dato la sua vita con amore incondizionato e totale; Vivente oltre la morte, continua a sollecitarci all’impegno per la vita di ogni persona, ­97

in ogni situazione. Si afferma che Dio è attento al primo e all’ultimo respiro; che spetta a lui la decisione dell’ultimo attimo della vita. Ma davvero Dio vuole che i suoi figli e le sue figlie soffrano in modo così devastante e disumano? C’è chi, fra i suoi figli e le sue figlie, riesce a sopportare queste condizioni estreme; ma c’è anche chi non ce la fa, ed è convinto di poter decidere non contro Dio, ma per uscire da una condizione che sente insopportabile. E perché della vita si esalta la dimensione biologica e non quella globale, evidenziando la possibilità delle relazioni, dei vissuti da comunicare e condividere? E ancora: perché non considerare che Dio rispetta anche queste decisioni, così come rispetta e valorizza tutte le persone che continuano nella loro sofferenza e quelle che le accompagnano? E perché proprio chi crede nella continuazione della vita oltre la morte, nel Mistero di Dio, evidenzia, fino ad assolutizzarla, la realtà biologica delle persone e non globalmente la loro vita, la loro vicenda umana? L’accoglienza nel Mistero di Dio sarebbe decisa da un tratto in più di vita solo biologica? Su questa delicata questione negli ultimi anni due vicende hanno suscitato dibattiti, divisioni, lacerazioni. Piergiorgio Welby, dall’età di sedici anni era affetto da distrofia muscolare in forma progressiva. L’avanzare della malattia non gli ha consentito più di parlare, di compiere movimenti, costringendolo nell’ultimo tempo della vita a stare immobile su un letto, sempre a mente lucida. Tracheotomizzato. Ha chiesto di essere aiutato a morire. Il medico, Mario Riccio, che è intervenuto per r­ ispondere alla sua richiesta il 20 dicembre 2006, quando Welby aveva cinquantuno anni, è stato prosciolto dalla magistratura con riferimento all’articolo 51 del Codice penale che prevede la non punibilità per il medico che adempie al dovere di dare seguito alle richieste del malato, compresa quella di rifiutare le terapie. L’assistenza alla nutrizione, idra­98

tazione e respirazione sarebbero dunque considerate, in base a tale sentenza, vere e proprie cure che il malato può rifiutare e non ordinarie azioni di sostentamento che il malato non ha diritto di rifiutare nell’ordinamento vigente. Rimbalzano le domande: eutanasia? rifiuto dell’acca­ nimento terapeutico? diritto all’autodeterminazione? D’al­ tra parte, la pratica di interrompere procedure mediche sproporzionate rispetto ai risultati attesi è considerata legittima dal Catechismo della Chiesa cattolica. La questione, tuttora dibattuta, riguarda la valutazione della nutrizione e idratazione come cure o come ordinarie azioni di sostentamento. A questo riguardo, sono da ascoltare i medici e gli scienziati e non i politici. «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia ‘all’accanimento terapeutico’. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente» (n. 2278). La moglie di Welby, Mina, cattolica, ha espresso il desiderio di celebrare il funerale religioso, ma il Vicariato di Roma non lo ha concesso. Il vicario della diocesi di Roma, il cardinale Camillo Ruini, ha dichiarato di aver preso personalmente la decisione: «Per la Chiesa il suici­dio è intrinsecamente negativo; si tende a concedere il funerale religioso presupponendo che sia mancata la piena avvertenza e il deliberato consenso. Nel caso di Welby era molto difficile, del tutto arbitrario e anche irrispettoso verso di lui dire questo...». Il cardinale Ruini ha anche dichiarato: «Io spero che Dio abbia accolto Welby per sempre, ma concedere il funerale sarebbe stato come dire: il suicidio è ammesso». A me sembrano parole molto contraddittorie. Se il cardinale spera che Dio lo abbia accolto, perché non accoglierlo in chiesa in nome di questa speranza? ­99

Personalmente lo avrei fatto. Avrei proposto la lettura dei Salmi, quelli che interrogano Dio a partire dalle condizioni di malattia, di sofferenza, di angoscia; la meditazione e la preghiera, con la partecipazione di ciascuna/o dei presenti con la propria sensibilità e diversità; avrei proposto la lettura del Vangelo di Gesù che muore sulla croce interrogando Dio, il Padre, sulla sua presenza o assenza («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»; Vangelo di Matteo 17, 46). In quell’assemblea qualcuno avrebbe anche potuto esprimere qualche dubbio, qualche perplessità, nel rispetto di quella scelta. Si sarebbe così vissuto un momento di profonda intensità umana, nel rapporto fra mistero della vita e della morte, mistero dell’uomo e mistero di Dio, uomo crocifisso e Dio crocifisso. La vicenda di Eluana Englaro ha avuto un impatto ancora più forte. Sarebbe importante ripercorrerla con pacatezza, in modo interlocutorio. Dal 18 gennaio 1992, giorno dell’incidente, al 9 febbraio 2009, giorno della morte a Udine, il calvario di questa famiglia è stato impressionante. Ho ascoltato la pregnanza di questo percorso dallo stesso Beppino Englaro, che mi ha molto colpito per il suo carico di dolore, la sua lucida determinazione, la coscienza di aver agito per rispettare l’orientamento manifestato con chiarezza da Eluana, quando stava bene, la sua trasparenza. Le vicende dell’ultimo periodo hanno fatto dimenticare, perché strumentalizzate, tutte le attenzioni, le premure e le cure di entrambi i genitori nei confronti di Eluana, quasi ci fosse da parte loro la volontà di eliminare la sua presenza. Questa distorsione è stata molto grave. I genitori di Eluana hanno fatto tutto il possibile per la propria figlia. Beppino Englaro ha iniziato a chiedere per via giudiziaria la sospensione dell’alimentazione artificiale e delle terapie nei confronti di Eluana a partire dal 1999, portando a supporto della richiesta diverse testimonianze volte a dimostrare l’inconciliabilità dello stato in cui si trovava e del trattamento di sostegno forzato che le consentiva ar­100

tificialmente di sopravvivere (alimentazione/idratazione con sondino naso-gastrico) con le sue precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità personale. Passaggi difficili alla Corte di Cassazione (2007), alla Corte d’Appello di Milano (2008) fino al decreto del 9 luglio 2008 della Corte d’Appello civile di Milano che ha autorizzato il padre, Beppino Englaro, in qualità di tutore, ad interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata per «mancanza della benché minima possibilità di un qualche, sia pur flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno». Il protocollo terapeutico stabilito dalla Corte d’Appello civile di Milano è stato attuato a Udine nella residenza sanitaria assistenziale «La Quiete», resasi disponibile, da un’équipe di circa quindici tra medici e paramedici, volontari, guidati dall’anestesista dottor Amato De Monte. Una parte del mondo della politica è intervenuta, in modo scomposto e strumentale, per bloccare l’attuazione del protocollo, con il sostegno della Chiesa ufficiale. Successivi passaggi giudiziari come l’accusa di omicidio volontario aggravato nei confronti di Beppino Englaro, del primario Amato De Monte e degli infermieri che hanno partecipato all’attuazione del protocollo, si sono risolti nella verifica che essi avevano fatto esattamente quanto definito dalla Corte d’Appello. A Beppino Englaro è stata attribuita la connotazione di omicida anche da parte di alcuni appartenenti alla gerarchia della Chiesa. In realtà, siamo di fronte a un padre che, amando profondamente la figlia, ha voluto rispettarne il dichiarato orientamento rispetto alla condizione in cui è venuta a trovarsi e ha agito di conseguenza, portando una situazione personale sul piano etico, legislativo, giuridico, politico. A chi non condivide, è richiesto il rispetto. Mi chiedo: quanti, fra quelli che legittimamente hanno c­ onvinzioni diverse, hanno ascoltato, o sarebbero disponibili ad ascoltare direttamente, personalmente, Beppino Englaro, peraltro così rispettoso delle altre posizioni da chiedere ri­101

spetto per la sua? Sarebbe importante, ad esempio, che potessero ascoltarlo i preti, a cominciare da quelli della mia diocesi di Udine, dove si è conclusa la vicenda di Eluana. Ammettiamo che la totalità o quasi sentano ‘lontano’ Beppino Englaro in quanto, secondo loro, avrebbe sbagliato. Ma allora, proprio l’insegnamento di Gesù suggerirebbe di ascoltarlo con particolare attenzione, per poi scambiare vissuti, concezioni e convinzioni diverse, ma nel rispetto reciproco. Perché non si potrebbe fare? Forse per la paura di dovere ripensare a qualche aspetto? Don Tarcisio Puntel, parroco di Paluzza, carnico come me, aveva espresso una posizione diversa a Beppino Englaro, dicendogli di non condividere la sua scelta. Poi, con fede e umanità, ha accolto Eluana nella chiesa di Paluzza, come una persona del paese, creatura fra le altre, donna fra le altre... E con espressione ispirata ha affermato che «Eluana dopo il lungo periodo di gelo è rinata come una stella alpina delle nostre montagne». Beppino ha sentito vera quella frase e dopo la celebrazione, a cui non ha partecipato, ha abbracciato e ringraziato don Tarcisio, un prete che ha riconciliato la vicenda di Eluana Englaro con la Chiesa dell’accoglienza, quella del Vangelo, diversa e distante da quella dell’intransigenza e degli anatemi. E in prospettiva? Prima di tutto una crescita dell’attenzione verso le ­situazioni di malattia, di sofferenza, di avvicinamento alla morte, verso la morte stessa, attraverso una informazione corretta, incontri di comunicazione, approfondimento e dialogo. Una risposta dell’organizzazione sanitaria che metta sempre più in relazione profondità umana, capacità professionali e acquisizioni scientifiche e tecnologiche, ponendo un’attenzione maggiore alla prevenzione e ai diversi aspetti, nella concezione ampia e globale della salute da anni ormai indicata dall’Organizzazione mondiale della sanità come benessere fisico, psicologico, relazionale, sociale, ambientale delle persone. ­102

Per quanto riguarda il fine vita sarebbe importante liberarsi dall’apparato ideologico che pretende di decidere preventivamente a prescindere da informazioni serie, dalle conoscenze scientifiche, senza ascoltare le storie delle persone: degli ammalati, dei familiari, dei medici e degli infermieri. Altrettanto importante sarebbe supportare le persone che si trovano in situazioni difficili ed estreme e le famiglie che spesso si sentono abbandonate senza sostegno umano, morale ed economico. La decisione che la nutrizione con il sondino naso-gastrico e la idratazione sono cure mediche – con possibilità quindi di accettarle o di rifiutarle da parte dei pazienti o di chi ne è tutore – o che invece sono ordinarie azioni di nutrimento, dunque obbligatorie, non dovrebbe dipendere dai politici ma da medici esperti, seri ed eticamente responsabili. È il caso del professor Gian Domenico Borasio, neurologo italiano, titolare dal 2006 della cattedra di Medicina palliativa all’Università di Monaco di Baviera. Cattolico praticante, afferma che nutrizione e idratazione artificiali sono terapie mediche e in caso di malati terminali sono persino dannose e accrescono la sofferenza; il malato, o chi ne è tutore, ha pertanto diritto di scegliere; rifiutarle non è quindi attuazione di eutanasia, che va considerata tale solo quando gli interventi sono diretti a procurare la morte, ma è un diritto, sancito dalla Costituzione (articolo 32). È importante impegnarsi, ciascuno nel proprio ambito e con la propria responsabilità, a definire legislativamente il testamento biologico nel nostro paese dopo un confronto rispettoso fra le diverse posizioni: è in gioco la possibilità di scegliere liberamente il trattamento sanitario per la propria persona nelle condizioni estreme di malattia, di sofferenza, di stato vegetativo, quando si è in grado di farlo in modo consapevole. Perché non solo la vita sia il più possibile umana, ma lo siano anche la sofferenza e la morte.

VI

TESTIMONI, PROFETI, MARTIRI

«...Allora Gesù cominciò a dire: ‘Oggi si avvera per voi che mi ascoltate questa profezia’. La gente, sorpresa per le cose meravigliose che diceva, gli dava ragione ma si chiedeva: ‘Non è lui il figlio di Giuseppe?’. Allora Gesù aggiunse: ‘Sono sicuro che voi mi ricorderete il famoso proverbio: Medico cura te stesso e mi direte: Fa anche qui, nel tuo villaggio, quelle cose che, a quanto sento dire, hai fatto a Cafarnao. Ma io vi dico: nessun profeta ha fortuna in patria...’. Sentendo queste cose i presenti nella sinagoga si adirarono e, alzatisi, spinsero Gesù fuori del villaggio. Lo trascinarono fino in cima al Monte di Nazaret e avrebbero voluto precipitarlo giù. Ma Gesù passò in mezzo a loro e se ne andò» (Vangelo di Luca 4, 21-24. 28-30). Nel mio cammino di uomo e di prete non mi sento solo. Vedo intorno a me tante persone di buona volontà. E mi fa compagnia il patrimonio straordinariamente ricco di donne e di uomini, di profeti e di martiri che hanno segnato le tappe della nostra dolorosa storia di esseri umani. Mi parla il coraggio dei primi cristiani: le loro scelte di non violenza, di condivisione, di fraternità; il loro rifiuto di sottomettersi alla logica dell’impero, di sacralizzarne l’autorità, il loro andare incontro alla morte piuttosto che procurare la morte altrui. ­104

Vivo la presenza e l’insegnamento di Francesco d’Assisi, l’uomo nuovo, non solo per il cristianesimo, per la Chiesa cattolica, ma per l’umanità intera. Francesco è l’uomo liberato dalla paura esistenziale, causa di tante ingiustizie e violenze. Non vive la paura di se stesso, perché accetta la sua condizione di creatura liberata da logiche di onnipotenza. Non vive la paura degli altri, perché liberato dall’inimicizia. Mentre il papa Innocenzo III guida la crociata, Francesco incontra il sultano, i musulmani a mani nude, con il cuore disponibile. Francesco ci insegna continuamente la povertà e la sobrietà come stili di vita; la nonviolenza e la pace come liberazione dall’inimicizia; la relazione, la contemplazione, il dialogo con gli esseri viventi come dimensioni indispensabili per il futuro dell’umanità e insieme dell’intero ecosistema. Sono affascinato da Gandhi, dalla spiritualità profonda che sorregge le sue scelte, i suoi gesti, le sue parole. Mi piace ricordare il momento in cui la scintilla della verità illuminò la sua coscienza di giovane avvocato indiano che aveva studiato a Londra, quando in Sud Africa si rifiutò di cambiare posto sul treno resistendo a chi lo pretendeva a causa del colore della sua pelle. Mi commuovo quando leggo le sue parole sulla Bibbia e i Vangeli in particolare: «Cominciai a leggere la Bibbia, ma non riuscii a finire il Vecchio Testamento. Lessi la Genesi. I capitoli successivi mi facevano immancabilmente venire sonno, comunque proprio per il gusto di poter dire che li avevo letti, perseverai nella lettura degli altri libri con molta fatica e senza nessun interesse, anzi non capendovi niente. Non mi piacque nemmeno il libro dei Numeri. Ma il Nuovo Testamento mi fece tutt’altra impressione, specialmente il Sermone della Montagna, che mi andò diritto al cuore. Lo paragonai alla Sita. I versetti: ‘Ma io vi dico, accettate il male: a chi vi colpirà sulla guancia destra, offrite anche l’altra e a colui che vi prende il ­105

mantello, date anche la cappa’, mi incantarono oltre ogni dire e pensai al Shamal Bhatt: ‘Per una ciotola d’acqua, offri un buon pasto’». Di Gandhi mi affascina il lavorio continuo su se stesso; la profondità delle convinzioni e la loro pratica non solo nella vita personale, ma nella organizzazione sociale e politica; la sua perseveranza nell’affermare la nonviolenza attiva nonostante tanta violenza e tante morti; la sua umiltà e il suo essere leader di moltitudini mobilitate attraverso una organizzazione a dir poco prodigiosa; il suo insegnamento a liberarci della violenza facendocene carico, anche di quella del ‘nemico’, soffrendone, se necessario, fino alla morte; e ciò come fondamento che lega i piani diversi, ma comunicanti, della spiritualità, della cultura, della politica, al fine di costruire l’unica civiltà autenticamente umana. Prendo spesso ad esempio un discepolo speciale di Gandhi, quel pastore battista nero, Martin Luther King, ucciso ad Atlanta per il suo impegno a favore dell’uguaglianza dei bianchi e dei neri, per l’affermazione dei diritti umani. Sento che continua ad insegnarmi, ad insegnarci, che il rinnovamento delle persone, delle istituzioni e della storia non dipende da una nuova dottrina ma dalla forza inventiva della coscienza morale e dalla fedeltà e dalla coerenza nell’attuarla. Si pensi alla sintonia con l’affermazione del Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes (n° 55): «Siamo testimoni della nascita d’un nuovo umanesimo in cui l’uomo si definisce anzitutto per la sua responsabilità verso i suoi fratelli e verso la storia». Sento la sua straordinaria forza interiore, il suo affidarsi al sogno, la determina­zione delle scelte politiche, la capacità come leader di mobilitare, come il suo grande maestro Gandhi, milioni di persone; la sua convinzione profonda e totale nella nonviolenza attiva anche come risposta all’aggressione e alla violenza: «... Noi vi ameremo ancora ...». Era il luglio del 1995. Non ricordo esattamente il giorno. Era stata avvertita come ‘obbligatoria’, sulla via del ­106

ritorno da Varsavia, dove si era svolto un incontro fra parrocchie europee, la sosta di meditazione e di preghiera nel campo di prigionia e di eliminazione di Flössemburg, dove il 9 aprile 1945 fu impiccato il pastore e grande teologo Dietrich Bonhoeffer. Pochi giorni prima, a Varsavia, da un giornale italiano avevo appreso sconcertato del suicidio di Alexander Langer, avvenuto il 3 luglio 1995: un uomo straordinario per sensibilità, intelligenza, progettualità, dedizione, coerenza. Appare, proprio nel suo mistero, un paradosso la sua morte; lui, infatti, ci ha raccomandato: «più piano» per poter camminare insieme aspettandosi, sostenendosi, ascoltandosi e incoraggiandosi; per non essere travolti dal fare, dall’efficienza, dalla produttività, dal consumismo, dal dover sempre e comunque dimostrare vorticosamente. E ancora, «più profondo», non più alto, con l’asticella del salto collocata sempre più su, già pronta a schiacciare quelli che pensano di non farcela; profondità nell’amore, nell’amicizia, nella fede, nella politica, perché troppo diffusi sono le banalità, il qualunquismo, le parole senza significato. E poi ancora «più dolce», non più forte, liberandoci appunto della forza dell’imposizione, della negazione, dell’oppressione, della violenza nelle sue diverse manifestazioni, quelle più evidenti e quelle più subdole. Quel giorno di luglio ci siamo trovati come gruppo di amici e amiche in silenzio, proprio sul luogo dove è stato impiccato il pastore Dietrich Bonhoeffer. Mi coinvolgono di lui la sensibilità, l’intelligenza, l’amore per la vita, espresso anche nell’epistolario con la fidanzata; la riflessione teologica così profonda, coinvolta nella storia; l’opposizione di pensiero e di azione al nazismo. Il suo martirio. Mi riferisco alla sua fede frequentemente denudata da sovrastrutture, da dogmatismi; alla sua liberazione dal «Dio tappabuchi» per l’esperienza di una fede adulta, ‘come se Dio non ci fosse’. Un Dio debole e impotente nel mondo e, in questo, pienamente donato al mondo. «Dio si lascia sloggiare dal mondo e inchiodare sulla croce. Dio è ­107

impotente e fragile nel mondo e solo così egli ci aiuta con le sue debolezze e sofferenze. Dio soffre per aiutare l’uomo. Dio riceve la sua potenza attraverso la sua impotenza». La fede è partecipare a questa esistenza di Gesù Cristo: il rapporto con Dio è nella partecipazione all’essere di Cristo e nell’esistere per gli altri. Mi chiedo se gli studenti di teologia nei seminari studino Bonhoeffer. Quasi sicuramente no. Perché è luterano e perché la sua fede lo ha portato a dare la sua vita, avendo derivato con rigorosa coerenza dalla sua fede l’impegno politico di opposizione al nazismo. Di don Primo Mazzolari, morto nell’aprile del 1959 a sessantanove anni, ammiro l’intelligenza viva, la fede profonda che lo porta a schierarsi, a prendere posizione: «Mi chiedo se proprio nessuno deve alzar la voce di condanna; se il sacerdote, che è il protettore nato degli oppressi, può star pago di soffrire interiormente e di pregare... Il dubbio per conto mio l’ho risolto: io sento il dover di dichiararmi apertamente a favore degli oppressi» (Diario, gennaio 1924). Ammiro il coraggio di osare, con diverse dichiarazioni e prese di posizione, contro il fascismo; di dare vita al famoso quindicinale «Adesso», che già nel titolo esprime l’urgenza delle decisioni e degli impegni; la sua capacità di soffrire dentro alla Chiesa per i sospetti, i giudizi negativi e i provvedimenti nei suoi confronti; e nello stesso tempo di non demordere, di non rassegnarsi. È di continuo insegnamento la sua riflessione sulla nonviolenza e la pace, frutto di una conversione da posizioni in precedenza diverse: «Cadono quindi le distinzioni fra guerre giuste e guerre ingiuste; difensive e preventive, reazionarie e rivoluzionarie. Ogni guerra è fratricidio, oltraggio a Dio e all’uomo. Per questo noi testimonieremo, finché avremo voce, per la pace cristiana. E quando non avremo più voce testimonierà il nostro silenzio o la nostra morte, perché noi cristiani crediamo in una rivoluzione che preferisce il morire al far morire». ­108

Una decina d’anni dopo la sua morte papa Paolo VI, durante un incontro con la sorella di don Primo e un gruppo di parrocchiani di Bozzolo, così si espresse: «Hanno detto che non abbiamo voluto bene a don Primo. Non è vero. Anche noi gli abbiamo voluto bene. Ma voi sapete come andavano le cose. Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi. Questo è il destino dei profeti». Quando era ancora in vita, un altro papa, Giovanni XXIII, aveva usato nei suoi confronti un’espressione piena di considerazione, di simpatia, di colore: «Ecco la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana». Siamo nel febbraio 1959, circa due mesi prima della sua morte, e i vescovi lombardi chiedono al cardinal Montini la sua condanna. Papa Giovanni XXIII ha portato la profezia ai vertici dell’istituzione, e questo è un segno prodigioso, perché impensabile, perché di per sé profezia e istituzione si scontrano in una dialettica sempre viva, mai componibile, perché altrimenti la profezia cesserebbe di essere tale ed egualmente l’istituzione. Mi capita abbastanza spesso di fare riferimento, anche pubblicamente – ad esempio durante la celebrazione dell’eucarestia – ad alcune sue scelte, animate proprio dallo Spirito del Signore che lo ha abitato. In piazza San Pietro, durante la celebrazione della sua investitura a papa, si presentò a tutta l’umanità come un padre e un fratello, citando la storia biblica di Giuseppe che, venduto dai fratelli, quando li reincontrò – loro in una situazione di bisogno e lui di prestigio e di responsabilità – non si vendicò ma si dichiarò loro come fratello. «C’è chi aspetta nel pontefice l’uomo di Stato, il diplomatico, lo scienziato, l’organizzatore della vita collettiva, ovvero colui il quale abbia l’animo aperto a tutte le norme di progresso della vita mondana, senza enfasi ed eccezione... Il nuovo papa, attraverso il corso delle vicende della vita, è come il figlio di ­109

Giacobbe che incontrandosi con i fratelli di umana sventura scopre a loro la tenerezza del cuor suo e, scoppiando in pianto, dice: ‘Sono io... il vostro fratello Giuseppe...’». Con questa sensibilità, disponibilità e apertura papa Giovanni resta ‘ai piedi’ del trono su cui doveva essere innalzato, desacralizza il potere, a cominciare da quello religioso, da quello dei papi e dei vescovi, si riconduce alla comune condizione umana; si annuncia non a capo dell’ordine della separatezza e dei sacrifici, ma guida nell’ordine dell’amore; non al vertice del sacro, ma al centro della comunione di tutta la famiglia umana. E presentandosi ‘ai suoi fratelli di sventura’ include la propria persona, il compito che inizia a svolgere, nel contesto della ingiustizia e della violenza di cui occorre liberarsi, e in cui ci si scopre tutti vittime e corresponsabili. Da qui la visita alle carceri di Regina Coeli, un incontro straordinario a cominciare dal saluto: «Siamo nella casa del Padre, anche qui». Un’affermazione che fa riflettere, se solo si pensa alla attuale, drammatica condizione dei detenuti nelle carceri italiane. Da qui la visita all’ospedale del «Bambino Gesù», il viaggio ad Assisi, per pregare sulla tomba di San Francesco, convinto che «solo la povertà potrà salvare la Chiesa e il mondo intero». Mi colpisce anche il suo coraggio di annunciare, nel gennaio 1959, un Concilio di tutta la Chiesa: un papa ultraottantenne convoca a Roma tutti i vescovi del mondo, chiamandoli a riflettere, insieme con gli esperti, per capire, testimoniare, imparare, prima ancora di insegnare. Pur considerando le comprensibili mediazioni, il Concilio Vaticano II ha segnato un passaggio epocale nella Chiesa cattolica su aspetti cruciali: la libertà di coscienza; la Chiesa come popolo di Dio; la centralità decisiva della Parola di Dio; il dialogo tra fedi religiose; l’apertura rispetto alla sessualità; la giustizia e la pace; la collegialità che rompe il centralismo della Curia romana e delle altre che nel mondo vivono un’eguale concezione del potere. Il ­110

Concilio Vaticano II ha seminato diffusamente; ma progressivamente si è andata riconfermando la logica dell’istituzione, a scapito di quella comunitaria, e spesso ci si è chiesti e ci si chiede come ciò sia potuto accadere, come e dove sia stato possibile tradire il Concilio. Nell’aprile 1963 papa Giovanni XXIII scrisse l’enciclica Pacem in Terris che resta il messaggio profetico più alto della Chiesa sulla pace, alla costruzione della quale sono chiamati tutti gli uomini e le donne di buona volontà, cominciando col giudicare una follia la guerra e gli armamenti distruttivi con cui si realizza; orientando a liberarsi dall’inimicizia, a scrutare, a leggere i segni dei tempi, a uscire dalle condizioni di dominio e di oppressione. La sua morte, nel giugno 1963, ha confermato che papa Giovanni XXIII è stato avvertito da tutta l’umanità come presenza speciale, luminosa, davvero un padre e un fratello. Così affermava allora il teologo tedesco Karl Rahner: «Il papa di transizione Giovanni XXIII ha operato la transizione della Chiesa nell’avvenire». Don Lorenzo Milani è molto presente nella mia vita. Vi è entrato tanti anni fa, quando studiavo teologia, ma soprattutto nel primo anno del mio sacerdozio con le sue Esperienze pastorali, ovvero le sue considerazioni sul prete inteso come commerciante o come maestro, una ‘decisione ben grave’. Quando il 1° novembre 1980 sono stato, in modo non programmato, a Barbiana, la percezione interiore della forza della profezia è stata proprio trasparente. Che quel luogo isolato, di emarginazione, sia diventato esempio di formazione, libertà e responsabilità, di illuminazione, lo si deve alla fede profetica che ha abitato l’uomo e il prete Lorenzo Milani. È poi accaduto, per me che non sono facile alla suggestione, un fatto inatteso e per questo ancora più significativo. Stavo sperimentando la sofferenza dell’allontanamento dalla parrocchia di Paderno, avvenuto il 14 settembre ­111

1980. A Barbiana, la Eda – che dapprima con la madre e poi da sola ha accompagnato don Lorenzo partecipando a quella straordinaria esperienza pedagogica – appena seppe che ero prete mi chiese di celebrare l’eucarestia perché per la prima volta dalla morte di don Lorenzo il giorno di Ognissanti nessuno era salito a Barbiana per la celebrazione. Dopo un tentativo impacciato di ritrarmi, accettai l’invito reiterato in modo più che deciso. L’esperienza di leggere e meditare in quel primo giorno di novembre, memoria di tutti i Santi, il Vangelo delle Beatitudini a Barbiana si è depositata nel profondo del mio essere per sempre e ha alimentato il mio rapporto con don Lorenzo. «... Beati i non violenti, i costruttori di pace, coloro che hanno fame e sete della giustizia; i misericordiosi, i perseguitati...». Quale sensazione leggere queste parole a Barbiana vivendo la memoria di don Lorenzo e anche sostando in silenzio e preghiera davanti alla sua semplicissima tomba! Di don Lorenzo ammiro l’intelligenza, la sensibilità, la fede profonda, l’incarnazione totale della sua scelta di essere prete; il suo farsi maestro, con amore e con rigore, con passione e con una continuità impressionante. Mi colpisce il suo essere ubbidiente con libertà, con sofferenza, senza sottomissioni servili, né rivendicazioni ribelliste. La sua analisi storica, la sua riflessione e proposta sull’ubbidienza o disubbidienza nella Lettera ai giudici appartiene alla pedagogia universale. L’ubbidienza o la disubbidienza esprimono la nostra posizione rispetto ad autorità, istituzioni, organismi sociali, politici, religiosi; l’ubbidienza non è una virtù, ma una subdola tentazione quando diventa abdicazione alla responsabilità, esecuzione di ordini dei superiori che in quanto tali – anche se ingiusti e malvagi – si presume possano scagionare dalla responsabilità personale; insegna invece don Lorenzo: «ciascuno è responsabile di tutto». E questa progressiva formazione delle coscienze alla libertà e alla responsabilità avviene all’interno di una esperienza scolastica in costante rapporto con la vita e con la ­112

storia, esperienza nella quale non si ‘scarta’ nessuno, ma tutti possono essere protagonisti. Sui banchi di Barbiana: la storia e la geografia, la matematica e le lingue, il giornale per commentare i fatti con la coscienza critica che cresce; la presenza di alcune persone che rendono la loro testimonianza; i più grandi che aiutano i più piccoli. È ancora appeso ad una parete della scuola quel piccolo cartello, scritto artigianalmente a mano, che dichiara il fondamento di ogni processo formativo, di ogni posizione nella nostra vita, dentro alla storia che ci è data da vivere: I care, e cioè mi interessa, mi sta a cuore, mi coinvolgo, anch’io; l’esatto contrario dell’indifferenza, del qualunquismo, del fatalismo. Appunto, la risposta alle interpellanze della storia. A Barbiana sono salito più volte, dopo quel 1° novembre 1980. Con gruppi di persone, con pochi amici, da solo. Ho sempre percepito la forza della profezia; mi sono sempre commosso; ho sempre ringraziato don Lorenzo e la sua profonda fede; mi hanno parlato anche la sua solitudine nell’incomprensione, il suo pianto nel rifiuto e la sua ostinazione ad essere prete nella Chiesa che gli era ostile, a rimanervi soprattutto per la grazia e i sacramenti. Un’immagine: provo a guardare quel gruppo di ragazzi, sotto il pergolato, oggi che è una bella giornata. Don Lorenzo parla, insiste, richiama. Lui è prete e maestro; le due dimensioni diventano una sola. E il Vangelo di quel Gesù di Nazaret al quale ha donato la propria vita per dedicarla totalmente ai poveri – non in astratto; in concreto, a quei ragazzini lì – si attua nel suo insegnamento. Per me non ha senso la distinzione fra spirituale e sociale, fra verticale e orizzontale, perché a Barbiana il segno è evidente, luminoso, provocatorio. Persino la malattia e la sofferenza di don Lorenzo sono diventate un insegnamento straordinario per i suoi ragazzi. Padre Davide Maria Turoldo mi parla con la sua passione inscindibile per Dio e per l’uomo, le sue denunce ­113

gridate, i dibattiti interiori sofferti, i momenti delicati dell’amicizia; con il suo trasporto poetico di uomo e religioso dei Servi di Maria, pienamente radicato nella storia con i suoi drammi e nello stesso tempo sognatore del sogno di Dio sull’umanità. Seguendo il suo motto, «Fedele e libero», ha attraversato tante situazioni: dalla Resistenza, a Nomadelfia, al Concilio, a Fontanelle, Sotto il Monte, paese d’origine di papa Giovanni XXIII e per questo scelto come luogo di abitazione e di riferimento. «Di lui, fra le infinite cose di cui conservo memoria, avevo scelto come un modo nuovo di essere ‘cattolico’, queste sue parole: ‘Se nella notte non sai dove andare, sappi che alla mia finestra c’è sempre un lume acceso: bussa, bussa, io scenderò ad aprirti; né ti chiederò se sei cattolico o no’». L’impegno per la giustizia e la pace; le risonanze interiori dei Salmi tradotti da lui, da pregare insieme. Di lui si potrebbe dire: ribelle, impetuoso, drammatico, umanissimo, fedele... «L’autorità di una Chiesa è nella sua capacità di servire, di donare, di essere l’agnello... E non mi troverete mai che abbia rinnegato l’autorità, io ho sempre negato il potere, sempre, tutta la mia vita. Volevo semplicemente essere sincero con me stesso, fedele e libero!... Una Chiesa senza profezia è un cadavere! Sarà un’impresa umana, ma non è la Chiesa!». Un credente come lui ha vissuto la malattia come approfondimento del senso ultimo della vita e della fede; come ulteriore dibattito con Dio e abbandono in lui: «Non ho chiesto di guarire, ma la forza di sopportare; pretendo che Dio mi sia compagno...». «Non credere a Pasqua. Non è giusta fede: troppo bello sei a Pasqua. Fede vera è al Venerdì Santo, quando tu non c’eri lassù, quando non una eco risponde al suo alto grido e a stento il Nulla dà forma alla sua essenza». «Spero sempre nell’umanità. Nella mia umanità, nella tua umanità. Quello che non ho fatto ieri, cerco di attuarlo oggi. Spero sempre nel nuovo giorno, che è sempre un ­114

giorno mai vissuto da nessuno. È come se il mondo sorgesse di nuovo alla luce. Penso al bene che posso fare, il piccolo, grande aiuto che posso dare ai fratelli. Il sole rispunta, la vita risplende, aiutiamoci a sperare». Padre Ernesto Balducci così ricorda il suo ultimo incontro con padre Davide, di cui era molto amico: «Quando si alzò, vidi accanto a lui la morte, ma vidi che egli era più grande, la sovrastava. Camminando accanto a me, per le vie di Milano, in quell’ora notturna, così gracile e così nobile, capii che egli ormai andava oltre, verso l’Eterno, dove lo attendeva il banchetto dello sposo. E ricordo il settembre ’91 all’Arena di Verona. C’erano venti, trentamila giovani del popolo della pace. Appena egli apparve con passo malcerto, per sedersi sul palco, proruppe un applauso immenso, tra un gioioso sventolio di fazzoletti e striscioni colorati. Sembrava una scena gloriosa dell’Apocalisse. Aveva le lacrime agli occhi. ‘Sii felice, Davide’ gli dissi, ‘sono gli angeli che ti accompagneranno in trionfo’». La dedica del nostro Centro a padre Ernesto Balducci non è un ricordo formale, tutt’altro: l’accoglienza di persone straniere trova rispondenza immediata nella sua riflessione, suggerita dai primi arrivi di immigrati nel nostro paese nella seconda metà degli anni Ottanta. Per padre Ernesto si trattava degli avamposti di moltitudini che sarebbero venute fra noi a chiederci conto, e quindi ‘a fare i conti’, dopo tante situazioni storiche di colonialismo, di oppressione, di espropriazione. Nell’ultimo periodo della sua vita era particolarmente impegnato a riflettere sulla relazione con l’altro e con la sua diversità, indicando nella conquista dell’America un passaggio rivelativo della volontà di dominio sull’altro; diceva che i conquistatori non hanno incontrato gli indios, ma si sono rispecchiati nella propria volontà di dominare; l’altro, di conseguenza, è diventato oggetto, strumento, impedimento alla conquista di molte terre e all’accapar­115

ramento di molto oro: dunque è stato oppresso, violato, ucciso. E questo è avvenuto attraverso una logica di supremazia imbevuta della religione ideologica del potere che pretendeva di cristianizzare quelle popolazioni con la forza, disprezzando le loro antiche culture, le loro spiritualità ricche di significati e risonanze. Con una delle sue espressioni pregnanti invitava a guardare l’oceano sul quale «le caravelle stavano ritornando» portandoci non la cultura e la teologia della dominazione, ma della liberazione. Riscontriamo una profonda sintonia fra l’attività del nostro Centro – non a caso a lui dedicato – e l’impegno di padre Ernesto a promuovere incontri e riflessioni sulla nonviolenza attiva, sulla pace, sulla giustizia, sull’accoglienza. E ancora, per il suo riferirsi alla Parola profetica del Vangelo, all’eucarestia e per l’apertura al pluralismo delle persone, dei pensieri, delle posizioni, per il suo schierarsi dalla parte dei poveri, dei deboli, degli emarginati. Nel cimitero di Santa Fiora, suo paese natale, la tomba di padre Ernesto è collocata accanto a quelle dei suoi coetanei, compagni di scuola, uccisi dai nazisti, mentre difendevano la miniera, loro fonte di vita e, purtroppo, talvolta anche causa di malattia, di sofferenza e di morte. Ernesto Balducci ha ricomposto questa lacerazione interiore con il suo impegno infaticabile di uomo, di intellettuale, di prete dell’ordine degli Scolopi, di insegnante, di scrittore, di comunicatore affascinante e coinvolgente. Padre Ernesto è riuscito a fare il salto da prete funzionario del culto ad annunciatore della Parola profetica del Vangelo, esigente prima di tutti per chi l’annuncia e ne propone la meditazione dentro alle trame della storia. È questa Parola che via via gli ha fatto assumere diversi e molteplici impegni: fonda la rivista «Testimonianze»; promuove incontri e dibattiti; a dibattiti e conferenze viene invitato in tutta Italia; ascolta la tribolazione dell’animo delle persone; si reca in carcere a visitare i detenuti, anche quelli che hanno commesso violenze e omicidi. ­116

È l’uomo e il prete che nel 1963 prende posizione a difesa di Giuseppe Gozzini, un giovane cattolico obiettore di coscienza; che viene accusato dei reati di incitamento alla disobbedienza civile e alla diserzione militare e di offesa ai valori dell’‘ascetica militare cristiana’ e viene condannato dal Tribunale di Firenze a otto mesi con la condizionale. Poche le prese di posizione al suo fianco. È sempre lui che nel 1991 scrive gli editoriali sull’«Unità» contro la guerra del Golfo. ­ all’allora Nel suo percorso è seguito con attenzione d Sant’Uffizio. Scrive padre Ernesto: «Mi accorsi che il temibile Sant’Uffizio era in realtà una curiosa facciata di cartapesta dietro la quale c’erano le debolezze della comune umanità; è gente che non capisce quello che c’è nel mondo». E ancora: «Quel mondo istituzionale non mi interessa più. Ormai si muove a vuoto, là dove sopravvive». «Ebbene, se ci riesco, questo è il senso del mio servizio: tener desta la coscienza in modo che non cada nei lacci delle alienazioni vecchie e nuove religiose e laiche e sollecitare ad un contatto vivo con la Parola profetica da una parte e con i segni del tempo dall’altra; allora l’esito del mio impegno non potrà che essere quello della preparazione di un mondo nuovo, misurato sulle virtualità della profezia e sulle virtualità del mondo. La Parola di Dio è un principio maieutico che fa partorire e non un lenimento alle insoddisfazioni. È un cammino rischioso, questo lo capisco. Ma, come disse il poeta, il cammino si fa camminando». Padre Ernesto incontra molte persone che si dicono non credenti, comunque esterne alla Chiesa, perché «dotate di una percezione molto viva dell’alternanza evangelica». È uomo molto impegnato a scrivere, a inventare la casa editrice Cultura della Pace, con intuizioni e prospettive profetiche sulla fede, sul dialogo tra fedi religiose diverse, sempre con l’attenzione alle ingiustizie, alle violenze, alle guerre, alle discriminazioni, non in astratto, ma partendo dalle condizioni delle vittime di queste situazioni. Se il vero Dio è ancora absconditus, da cercare, da incontrare in ­117

modo più profondo, il vero Cristo è quello che si incontra nell’affamato, assetato, ammalato, forestiero, carcerato... Il suo itinerario lo porta dal villaggio di Santa Fiora al pianeta; a riconoscere in quell’umanità dell’Amiata un piccolo tassello accanto agli innumerevoli altri dell’Uomo planetario. Fedele alle origini, alle radici non in modo nostalgico e retrospettivo, ma come dilatazione delle intuizioni iniziali, di alcuni frammenti umani fondamentali, costitutivi, su cui poi è cresciuto l’albero della sua vita. Quel mattino d’estate del 2002 il cielo era terso, intenso; e l’aria pulita, quando mi sono seduto nel cimitero di Alessano accanto alla sepoltura di don Tonino Bello. I gradini a formare una sorta di raccolto anfiteatro: era come se quel vescovo profeta e poeta convocasse ancora al dialogo le persone. Sono rimasto lì mezz’ora, da solo, in silenzio. Ho meditato e pregato. Ero passato prima a Molfetta, a Giovinazzo e a Terlizzi, dove don Tonino era stato vescovo. Avevo a lungo guardato il molo sul quale una folla immensa gli aveva dato il saluto quando il male si era preso la presenza fisica, ma non quella del suo spirito. Un uomo straordinario don Tonino Bello, per questo i vescovi italiani non lo nominano pubblicamente. Di lui mi parlano il suo amore per la vita, il suo essere impregnato dalla luce, dagli odori, dai sapori, dal sole, dal mare della sua terra di Puglia. Atletico nel fisico, sognatore e poeta nell’anima e insieme capace di decisioni molto concrete e dirompenti, come quella di aprire all’accoglienza il palazzo vescovile; di fermarsi a dialogare con le donne obbligate sulla strada; di prendere posizione pubblica, politica, contro l’insediamento di una base militare per gli F-16. Don Tonino indica come segno di credibilità la Chiesa del grembiule, cioè del servizio; si presenta sempre in modo semplice; nelle celebrazioni tiene tra le mani il pastorale di legno di ulivo, dono dei contadini della sua terra; crede nel potere dei segni. ­118

«Se la Chiesa, il vescovo, i presbiteri, gli istituti religiosi sono ricchi; se amano il lusso, il denaro, i conti in banca, le comodità, lo sperpero, il consumo; se sono attaccati ai guadagni, alle tariffe, ai posti, al possesso; se i beni propri delle istituzioni invece di tenerli inutilizzati e proteggerli per il futuro con prudenziali furbizie del ‘non si sa mai... un domani...’ non si mettono in circolo di condivisione; se le istituzioni più ricche non vengono incontro a quelle più povere, se tutto questo non avviene, come potremo dire che ci siamo fatti ultimi? Avremo giocato agli ultimi: avremo fatto gli ‘attori’ ultimi. Ma ingannando, come a teatro, la povera gente». Ricordo spesso, sia durante incontri sia durante l’eucarestia, i martiri della Chiesa – ma direi del popolo italiano – don Pino Puglisi e don Peppe Diana. La costante che li unisce è la consapevolezza della drammatica situazione in cui si trovano e alla quale la popolazione è sottoposta ma che anche accetta; il superamento dell’acquiescenza e insieme della paura di prendere posizione; lo schierarsi, ben conoscendo le conseguenze. Entrambi presentano nel Sud il volto della Chiesa del Vangelo che rompe la connivenza tacita o anche esplicita con i poteri di tutte le mafie; non tacciono, parlano; non accettano e vogliono contribuire alla formazione di coscienze autonome, libere, responsabili a partire dai giovani. Penso a entrambi con amicizia, affetto, ammirazione e riconoscenza, anche se non li ho conosciuti personalmente; sono portato a soffermarmi sulla loro solitudine, conseguenza delle scelte fatte e delle posizioni assunte. Solitudine, dibattito e lacerazione interiore, preghiera, decisione di proseguire nel cammino affidandosi totalmente al Signore; soli anche nella Chiesa, con poca vicinanza e solidarietà salvo rarissime eccezioni; soli per poter presentare la Chiesa vera, quella dell’annuncio di un mondo giusto, disponibili a dare anche la vita pur di testimoniare con coerenza quell’annuncio. ­119

Penso spesso, e ne parlo altrettanto spesso in chiesa e in altre occasioni, a Giovanni Falcone, a Paolo Borsellino, a Rosario Livatino, a tanti magistrati uccisi, alle donne e agli uomini delle loro scorte. Pur sapendo di andare incontro alla morte, hanno continuato, intensificato il proprio strenuo impegno, per un’Italia della giustizia e della legalità. Spesso la gente se ne dimentica, mentre le istituzioni e la politica li utilizzano a seconda dei momenti e delle situazioni. In tempi di degrado etico e politico, mi chiedo cosa resta della politica proprio in rapporto alla sua indispensabilità, e penso a uomini come Giorgio La Pira, Aldo Moro, Enrico Berlinguer. A La Pira, per la sua utopia attuata attraverso scelte politiche clamorose a livello sociale, attraverso la capacità di convocare a Firenze i sindaci e i rappresentanti di diverse città del mondo per riflettere sulla pace e assumere impegni concreti a favore di essa. Penso a quest’uomo della Sicilia che pregava, che girava con il rosario fra le dita e andava al Cremlino e a Pechino osando quel che sembrava impossibile; che viveva in una cella da monaco nel convento di San Marco a Firenze. Sembra una favola, guardando ai politici di oggi. Penso all’intelligenza e alla lungimiranza di Moro, alla sua capacità di prefigurare una situazione nuova per l’Italia nell’alternanza al governo di partiti, la Dc e il Pci, fino ad allora così contrastanti fra loro da non poter ipotizzare una guida del paese da parte del ‘nemico’. Penso al suo rapimento, alla sua prigionia, alle sue lettere durante la reclusione, alla sua morte violenta, che segna un passaggio gravido di conseguenze per il nostro paese. Mi capita spesso di pensare a Pier Paolo Pasolini, alla sua forza profetica dissacrante e insieme religiosa; alla sua denuncia del potere, della corruzione, degli intrallaz­ zi del Palazzo. E di ricordare le parole che scrisse in una ­120

lettera a don Giovanni Rossi, fondatore della Pro Civitate di Assisi, di cui era stato ospite. Confessava di sentirsi come Paolo di Tarso caduto da cavallo; ma un piede era rimasto impigliato nella staffa, così non riusciva più né a montare in sella, né a ruzzolare definitivamente sulla terra di Dio. Ho spesso affermato, anche in chiesa, che il suo film Il Vangelo secondo Matteo è il più religioso su Gesù di Nazaret: per le sequenze, il ritmo, i personaggi, gente semplice raccolta e chiamata a recitare, i luoghi. Mi colpiscono soprattutto, fra gli altri, due momenti: l’urgenza di Gesù nel muoversi, nell’annunciare, nel provocare, nel proporre. E il fatto che Pasolini abbia scelto sua madre per rappresentare Maria sotto la croce: vestita di nero, con il fazzoletto attorno al capo, come le donne del Friuli di un tempo, straziata dal dolore, come può esserlo una madre il cui figlio viene ucciso. Sono stato più volte in America Latina, a partire dal 1997: in Colombia, in Chiapas (Messico), in Honduras, Guatemala, Salvador, Bolivia, nel nord-est del Brasile. Una volta, per un incontro internazionale, mi sono recato anche a Chicago. Le visite ad amici missionari, alle comunità in cui vivono e a realtà conosciute attraverso altri contatti, sono state brevi nel tempo ma di grande intensità. I rapporti con la gente, le vibrazioni profonde dell’animo si sono depositati dentro di me e fanno parte del mio patrimonio interiore. Mi hanno molto colpito la spiritualità e la cultura degli indios, tra loro difficilmente distinguibili, perché profondamente intrecciate. Vi ho riconosciuto aspetti che già in qualche modo, in frammenti, mi abitavano, e che ora ritrovavo in modo più marcato ed evidente: l’atteggiamento silenzioso e riflessivo; l’appartenenza alla comunità, la dedizione e il servizio alla stessa; la relazione profonda con l’ambiente naturale; una spiritualità pervasiva di tutta l’esperienza umana. ­121

Dell’America Latina conservo fortemente impresso il rapporto continuo fra vita e morte di cui la storia di quelle comunità è impregnata. Questa forza della vita che porta alla morte per affermare la vita mi appare come un paradosso e un segno del tutto speciale e illuminante. Ricordo quella volta, alle pendici delle Ande, nella regione del Cauca a sud-ovest della Colombia, mentre sostavo in silenzio e preghiera in località El Nilo: l’erba era soffice; guardavo la parete bianca che rimaneva in piedi di una costruzione. Qui, il 16 dicembre 1981, venti giovani indios erano stati trucidati al termine di un’intera giornata dedicata a riflettere e a progettare riguardo alla terra. Un momento terribile, anche per padre Antonio Bonanomi, missionario della Consolata che aveva vissuto con loro l’intera giornata. I fogli dei lavori e delle preghiere sono stati bagnati dal loro sangue. Sul muro è scritto: «Questi nostri compagni, sono pietre vive per le nostre comunità». Uccisi dai latifondisti, d’accordo con l’esercito, la polizia, gli squadroni della morte. Ancora in Colombia, nella stessa regione, sostai in meditazione e preghiera a Pueblo Nuevo di fronte alla tomba di padre Alvaro Ulcué, prete indio assassinato il 10 novembre 1984, perché coinvolto nelle lotte per l’affermazione dell’identità, della cultura, della spiritualità e della lingua indigene, impegnato nella questione della terra. Ebbi l’onore di parlare anche con sua madre, una anziana donna indigena ammirevole per la sua fede, provata dal dolore per la morte di altri due figli. Nel novembre 2009 mi sono recato in Colombia per unirmi alla commemorazione del 25° anniversario della morte. In Chiapas, ad Acteal, ho partecipato alla celebrazione dell’eucarestia in ricordo dei quarantacinque indigeni massacrati il 22 dicembre 1997 da un gruppo di paramilitari, costituito anche da indigeni, mentre pregavano e digiunavano per la pace in Chiapas, in Messico, nel mondo; fra loro anche donne incinte a cui hanno aperto il ventre e ucciso il bambino. ­122

In Salvador mi sono inginocchiato sul ciglio della strada che da Aguilares porta a Paisnal, piccolo paese dove era nato e dove, quel tardo pomeriggio del 17 marzo 1997, stava recandosi per una celebrazione religiosa il gesuita padre Rutilio Grande, l’unico di cui il vescovo Romero si fidava. Si racconta che vegliando tutta la notte il suo corpo, insieme a quello di un anziano e di un ragazzo uccisi insieme a lui, il vescovo abbia vissuto un passaggio importante della sua conversione. Un uomo del Vangelo intelligente e coraggioso, consapevole di andare incontro alla morte. Ho sostato in silenzio e preghiera sul luogo dove è caduto, colpito da un proiettile al cuore, il vescovo Romero, nella cappella dell’Hospitalito, un ospedale per ammalati di cancro. Stava celebrando l’eucarestia, proprio nel momento dell’offerta del pane e del vino. Accanto, la sua umilissima abitazione, dove si rifugiava la notte, spesso ricevendo minacce. Un uomo diplomatico, eletto vescovo proprio per questo; poi, come lui stesso ebbe più volte ad affermare, convertito al Vangelo dal popolo, a causa delle condizioni tragiche di povertà, di oppressione, di violenza brutale, di uccisione di tante persone. Ho concelebrato l’eucarestia nella cripta della cattedrale dove, dopo anni di incertezze e di collocazioni provvisorie, il suo corpo riposa in un sepolcro visibile e riconoscibile. Con sconcerto ho notato, nell’ultima visita, nel novembre 2009, che in una cappella laterale nella stessa cattedrale è collocato un quadro raffigurante un santo più che discutibile: José Maria Escrivà de Balaguer, il fondatore dell’Opus Dei. In Salvador, sulle montagne del Mozote, Maria Julia, difensore dei diritti umani, e Rufina, l’unica superstite di quella strage, mi hanno accompagnato – Rufina piangendo – nei luoghi in cui tra l’11 e il 12 dicembre 1981 l’esercito, la polizia, la guardia nazionale hanno trucidato torturandole, bruciandole vive, uccidendole a colpi di fucile, milleduecento persone, tra cui tanti bambini a cui è stato dedicato un monumento, un altro per gli adulti. L’accusa: aver protetto e aiutato la guerriglia. ­123

Sempre in Salvador ho sostato più volte in preghiera nella cappella dell’Università del Centro America, dove sono sepolti i sei padri gesuiti trucidati il 16 novembre 1989 da uno squadrone dell’esercito, insieme a Maria Elba e la figlia Celina. Uomini, preti, gesuiti di grande profilo culturale, filosofico, teologico; con loro, due donne del popolo. Uomini che hanno assunto la giustizia e la pace come impegni dirimenti il loro essere preti del Vangelo di Gesù di Nazaret. E il teologo della liberazione padre Jon Sobrino, durante il dialogo che abbiamo intrattenuto, mi ha aiutato a riflettere sul senso di quel martirio, sulla necessità di stare dalla parte dei popoli crocifissi della storia. In Guatemala, sono rimasto molto colpito all’entrata della cattedrale, scrutando quelle migliaia di nomi (cinquantamila) riportati sulle colonne che uniscono l’inferriata che corre tutt’intorno per separare l’ingresso dalla piazza. Nomi certi di uccisi, in mezzo a tanti altri non direttamente conosciuti. Uno sforzo enorme, ammirevole, per ricostruire la memoria di tanti eccidi di gente umile e semplice, di indios silenziosi e profondi nell’anima, accusati di collaborare con la guerriglia e per questo eliminati a migliaia nel silenzio del mondo. Quel progetto – raccolto e presentato con il titolo Guatemala Nunca Mas – è costato, pochi giorni dopo, l’uccisione del vescovo Gerardi. In Guatemala, sulle montagne di questi martiri, ho vissuto la straordinaria esperienza di celebrare l’eucarestia con le tortillas di mais, pane quotidiano nella vita degli indios, pane di vita di Gesù di Nazaret nell’eucarestia. L’idea di proporre le tortillas per celebrare l’eucarestia mi era salita dal profondo del cuore, e subito ho avuto risposta affermativa e commossa. E poi ancora tante altre esperienze in Honduras e nel nord-est del Brasile. E quella, specialissima, della visita a Hiroshima e Nagasaki, per il 60° anniversario di quelle immani tragedie, meditando, ascoltando i testimoni, in relazione con i luoghi fisici, con le ricostruzioni delle me­124

morie; intorno monumenti in cui scorre l’acqua, perché migliaia di vittime bruciavano e supplicavano l’acqua per dissetarsi e spegnere quell’inferno. Questo patrimonio interiore è abitato da tanti volti e nomi; da tante storie di tante persone incontrate, conosciu­ te: come monsignor Luigi Petris, a cui abbiamo dedicato la sala polifunzionale del Centro per l’amicizia, il sostegno, l’aiuto concreto; per il suo impegno a favore degli emigrati, degli immigrati, dei rom, di tutte le persone della mobilità umana. E sono davvero tante le persone che mi hanno comunicato amore, amicizia, dedizione, resistenza, fede, speranza, coerenza in diversi momenti e situazioni della vita. Tutti mi hanno insegnato e insegnano ogni giorno a diventare uomo, prete al servizio dell’umanità. Si tratta di quella sapienza del cuore che orienta e sostiene il cammino.

INDICE

Prologo

v

I. In principio era il Vangelo

3

II. Funzionari della religione o testimoni del Vangelo?

14

III. Prete nel mondo e nella Chiesa di oggi

34

IV. Dalla parte dei più deboli

46

V. La Chiesa dell’accoglienza

66

VI. Testimoni, profeti, martiri

104