Non è Venezia. Invenzioni fuori dal mondo 9788857594699, 9788831241595

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Non è Venezia. Invenzioni fuori dal mondo
 9788857594699, 9788831241595

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Quaderni della ricerca. Dipartimento di Culture del progetto Università Iuav di Venezia Mimesis

Università Iuav di Venezia Dipartimento di Culture del Progetto – Dipartimento di Eccellenza Infrastruttura di Ricerca. Integral Design Environment – IR.IDE Centro Editoria – Publishing Actions and Research Development – PARD Direttore del Dipartimento di Culture del Progetto Piercarlo Romagnoni Direttore della sezione di coordinamento della ricerca e direttore dell’Infrastruttura IR.IDE Francesco Musco Responsabile scientifico IR.IDE - Dipartimento di Eccellenza Carlo Magnani 2018-2020, Laura Fregolent 2020-2022 Comitato scientifico PARD Sara Marini (responsabile scientifico), Angela Mengoni, Gundula Rakowitz, Annalisa Sacchi Progetto grafico a cura della redazione PARD Laura Arrighi, Giovanni Carli, Francesca Zanotto, Luca Zilio Collana Quaderni della ricerca Comitato scientifico della collana Maria Antonia Barucco, Matteo Basso, Fiorella Bulegato, Massimo Bulgarelli, Elvio Casagrande, Giuseppe D’Acunto, Agostino De Rosa, Lorenzo Fabian, Laura Gabrielli, Carlo Magnani, Carmelo Marabello, Sara Marini, Angela Mengoni, Gabriele Monti, Silvio Nocera, Gundula Rakowitz, Annalisa Sacchi, Massimiliano Scarpa, Maria Chiara Tosi, Camillo Trevisan, Margherita Vanore, Francesco Zucconi I edizione: novembre 2022 ©2022 – MIM EDIZIONI SRL (Milano – Udine) ©2022 – Dipartimento di Culture del Progetto, Università Iuav di Venezia ©2022 – The authors www.mimesisedizioni.it [email protected] Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 ISBN MIMESIS 978-88-575-9469-9 ISBN DCP IUAV 978-88-312-4159-5 DOI 10.7413/1234-1234017 Per le immagini contenute in questo volume gli autori rimangono a disposizione degli eventuali aventi diritto che non sia stato possibile rintracciare. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Materiale non riproducibile senza il permesso scritto degli Editori.

Non è Venezia. Invenzioni fuori dal mondo a cura di Gundula Rakowitz, Stefano Tomassini

DCP / IUAV

Mimesis

Indice

8

Avvio Gundula Rakowitz, Stefano Tomassini

12

Abitare impossibile. Per Venis in Vegas Ilenia Caleo

30

Le instabili scenografie di Petra Blaisse Giulia Conti

48

Non è il Teatro del Mondo Sebastiano Fabbrini

66

L’arca pirata e il Teatro del Mondo Annalisa Sacchi

74

Veneland. Una Venezia a pochi passi da Venezia Christian Toson

100

Territori anfibi. Mappe visionarie fuori dal tempo Giovanna Rossato

116

L’isola dei teatri di San Giorgio Maggiore a Venezia Massimiliano Ciammaichella

136

Animali in scena. Bestiario veneziano Lorenza Gasparella

154

Venezia Playboy Laura Arrighi

168

Venezia Event. Merce Cunningham in piazza San Marco (1972) Stefano Tomassini

184

Nuovi Mondi Virgilio Sieni

202

Senza il mio corpo lo spazio nemmeno esisterebbe Alessia Prati

218

Paradosso Venezia. Gianugo Polesello per Fondamenta Nove Alioscia Mozzato

238

I Dogi della Moda. Mostra per immaginare Venezia Dylan Colussi

250

Architettura scolpita di Carlo Aymonino Gian Maria Casadei

264

La città ribaltata. Conversazione per affetti e potere Danila Gambettola, Caterina Serra

278

È Venezia? Giovanni e Gentile Bellini Giulia Zanon

296

Non è (ancora) Venezia. Su La nave di Gabriellino D’Annunzio Maddalena Bassani

312

Der Venusberg Alessandro Virgilio Mosetti

328

Venezia proteiforme Gundula Rakowitz

346

Frammenti veneziani. Invenzione della memoria Armando Dal Fabbro

374

Crediti

Avvio Gundula Rakowitz, Stefano Tomassini

Variamente fu mirato il Mondo dagli occhi vari degli uomini, essendo parso ad alcuni una Scala, che con soli quindeci gradi, formati da quatro elementi, e da undeci Cieli, giunge dal centro della terra sino al trono di Dio; ma in guisa praticata da noi Mortali che mentre uno sale, l’altro discende, e allor che questi con piè cauto s’inalza, quegli precipitando incauto si rompe il collo. Sembrò ad altri un Comico Teatro, dove con le scene dei giorni e delle notti, con gli Atti delle quattro Stagioni, gli Uomini e le Donne recitanti, mutando purtroppo spesso e gli abiti e i Personaggi, rappresentano ora Comedie, ora Tragedie, cominciandole nell’uscire in Palco col nascere, e terminandole nel partirsi di scena col morire. Romolo Marchelli (1682)

L’esigenza della quale questo nuovo quaderno intende farsi carico è una caratterizzazione atemporale e simultaneamente temporale dell’idea di scena: essa è riguardata sub specie di un “altrove” spazio-temporale, di un sistema di luoghi simultaneamente presenti e assenti, luoghi di memoria e luoghi di progettazione, di immaginazione produttiva. Nello sviluppo del tema dell’architettura scenica proponiamo l’invenzione di un inventario e la progettazione di un sistema di luoghi-spazi da verificare in un rapporto pluriscalare nella città metropolitana lagunare di Venezia. Attraversando le differenze che un ripensamento radicale dello spazio scenico produce, nei contributi di questo volume sono impiegati, risemantizzati, alcuni termini-concetto. Questo per mostrare come la differenza, che si genera all’interno dello schema-teatro, definisce un sistema di luoghi mnemonici, di orientamento e guida del pensiero operativo. L’idea contemporanea di spazio scenico tende, più che a dare le coordinate di un mondo ordinato, a moltiplicare i punti di vista, i luoghi in cui gli spazi scenici si danno in forma di sistema ad alto grado di indeterminazione. Occorre percorrere tutto lo spettro concettuale, da geometria variabile a geometria frattale, affinché si manifesti l’ibrida9

zione tra il concetto di spazio scenico e quello di spazio architettonico urbano lagunare. La spazializzazione dell’arte scenica, intesa come collocazione nello spazio di elementi di pensiero, fa del teatro il luogo singolare dell’evento scenico, trasformando un luogo-spazio dato in uno spazio scenico di invenzione. L’esito di tale trasformazione è una nuova visione sincretica del rapporto tra cabina di regia e teatro del mondo. In concreto, questo quaderno affronta il luogo problematico del rapporto tra teoria e pratica, tra archivio e sperimentazione, tra memoria e immaginazione, tra inventario e invenzione. Nello scarto scalare tra theatron e Kabine si delinea così la possibilità di definire una metodologia interpretativa atta a strutturare complessi palinsesti a disposizione del progetto. Resta forse solo da aggiungere che in questo quaderno le scritture sono pensate e volute plurali: la ricerca di cui si fa esercizio qui non ha insegne. È condotta a larghe maglie, come reti che vogliono pescare grosso. Così come per noi è stato necessario testimoniare, e celebrare in questa pubblicazione, anche, e soprattutto, la complessa identità di Iuav, le sue mille anime, la sua nuova ricchezza. Per questo nell’indice non ci sono capitoli, divisioni, confini: non abbiamo voluto mettere limiti. Né alzare muri, tranne quelli utili a organizzare e poi aprire lo spazio dell’incontro e del confronto. Come i bordi scivolosi di questa città. E nebulosi, spesso: il senso e la perdita del luogo. Si è trattato di un progetto comune. Inoltre, molte ricognizioni sono inedite, spesso commissionate direttamente ai colleghi, che hanno perfettamente coniugato questa richiesta di ripensare Venezia come spazio scenico di pensieri e di invenzioni. Con una forte incidenza dell’altrove: Non è Venezia è infatti la scena/ concetto in cui la città è stata deterritorializzata, per poter essere osservata, ripensata, reimmaginata e riprogettata. Altri contributi sono tappe di lavori già in corso, e che qui trovano un importante momento di verifica. Altre scritture, altre mappe in forma di disegno, inseguono esperienze di lavoro e di progetto già avvenute e che dovevano essere documentate, da una parte per una loro ulteriore estensione nella vita culturale della città; dall’altra, perché solo la testimonianza di ciò che 10

GUNDULA RAkOwITZ, STEFANO TOMASSINI

ha resistito ai modelli culturali, normativi e oppressivi, delle politiche urbane neoliberali di oggi, può rendere giustizia e rilanciare una lotta ancora inesausta. Come se, tra i saggi, le memorie, le immagini e i disegni, i dialoghi e i reportage, la scrittura potesse farsi garante di un tempo nuovo di critica e dissidenza: quello delle rovine documentate, dei resti rinvenuti e delle utopie immaginate. Tempo rivoluzionario perché capace di abbandono. Tempo che contrasta ogni rivendicazione, appartenenza e sovranità. E che si riappropria così dello spazio e del tempo, vissuti perché immaginari, della città. In questo modo, il montaggio dei contributi qui presentati è sia materiale che mentale: il generoso (perché curioso) lettore potrà scovare da sé, e con vero profitto, specularità, inversioni, dialoghi a distanza fra i testi, i disegni, le planimetrie e le foto, non precostituiti né incorniciati ma invece felicemente aleatori, non meno virtuosi e generativi di idee perché sempre capaci di senso. È il destino di ogni mappa (e dunque di ogni indice): essere infedele, e contribuire a perdersi con la bussola in mano. La scoperta più inaspettata è sempre quella di fianco o di lato a quella che invece stavamo cercando. Come leggere allora questo quaderno? Non con la finta libertà che computa presenze segnando le assenze e che riduce e limita le voci e le idee. Ma con l’attitudine prepotente di chi ha tempo da spendere. Con gli occhi alle stelle. Questa costellazione, allora, potrà sembrare capace di liberare un suo potenziale espressivo, e di continuare a interrogare il nostro presente. La più vera critica non chiude né impone confini al mondo ma riconosce e libera, dietro le quinte, il desiderio e la volontà di invenzioni fuori dal mondo.

11

AVVIO

Abitare impossibile. Per Venis in Vegas Ilenia Caleo

xing sta per crossing. Scritto a vernice sull’asfalto, indica gli incroci, le intersezioni, il sovrapporsi di strade. Occorre prestare attenzione, aumentare la sensibilità – per cogliere Venezia diffratta dentro altri luoghi o scenari. Queste sono le note di un viaggio in California compiuto nel dicembre 2021 – il “noi” si riferisce a me e alla mia fidanzata Silvia, e a Francesca, Martina e Erica, le amiche con cui viaggiavamo. Sono appunti in diretta, presi nel mentre e poi successivamente rielaborati. Il viaggio non ha avuto altra ragione se non il piacere – al tempo stesso, ha compiuto una promessa tra noi, sancita il giorno del compleanno di Silvia, a settembre, e ha avuto l’effetto di sottrarci, in maniera del tutto imprevista, all’ondata di Covid del Natale 2021. Le impressioni, tuttora vive, continuano ad agitare pensieri, e a mescolarsi con quelle presenti, in nuovi composti.

xing01__2 gennaio / Shoshone > Las Vegas Lasciamo la Death Valley. Il deserto è dentro un altro deserto, più grande, che lo contiene. Arrivare a Las Vegas (è lì che stiamo andando) significa attraversare centinaia di chilometri di deserto, da tutte le direzioni. La città è un’isola. Ripenso, mentre andiamo via, lasciandolo alle spalle e insieme continuando ad averlo davanti come orizzonte, al deserto, tutt’attorno. Del deserto, cosa si può dire. Del tanto spazio, della vastità, della perdita d’occhio; forse si può dire di questo, delle misure, della scala. Di quello che succede al corpo immerso in uno spazio non misurabile; con l’occhio misuro lo sforzo, la possibilità e i gradi di rischio – valuto, calcolo, riuscirò ad attraversare, a salire, a trovare l’orientamento? Dev’essere un qualche residuo d’animale, perché ne va della vita: la corretta misurazione sulla tenuta del fiato, delle gambe, dell’idratazione. Possibilità di sopravvivenza, orientamenti, valutazione. È il corpo che calcola, sul corpo, dal corpo, nascita della geometria e della geografia come decodificazioni su scala corporea. Quantificare la terra/territorio che mi separa da X. È un calcolo percettivo, non astratto ma fisico, diremmo immediato, richiede un processo seppure velocissimo. Essere, con il corpo, lì dove (il deserto, la spaccatura) lo sguardo 13

soltanto non riesce più a misurare: è una questione di scala, la scala non è quella umana, è più-che-umana, o anche meno-che-umana (una formica?), ma comunque “io” non sono unità di misura. Dis/misura. Dimensioni, grandezze che il corpo non processa, diventa difficile dunque stabilire proporzioni, gradazioni, rapporti e dunque difficile fare previsioni. Non riesco a tradurre graficamente, in disegno, in progetto. Percepisco la crisi della dimensionalità come forma di organizzazione dei dati che arrivano dall’esterno. In che codice si traducono? Intensità, prossimità, cambiare l’ordine dei riferimenti. Anche il tempo è più-che-umano, è il tempo delle pietre. Stratificazioni, sedimenti, densità e condensazioni, granulosità dei materiali, porosità, mutamenti e evoluzioni, minerali, gas: il tempo è quello lungo, lunghissimo. Una “catastrofe al rallentatore”, dice Baudrillard. Di questo mutamento/movimento noi non percepiamo alcunché, se non i resti e le tracce – come fosse senza storia, vediamo la pietra ferma, statica, inerte. Su queste altre scale, le temporalità possono essere percepite solo da altri corpi di differenti dimensioni. Ora però, fuori dalla dimensione e dalla scala e dalla misura della vita umana, il movimento della pietra si è fatto più presente, come una frequenza o uno spettro sonoro. ore 16:30, Route 95 Costeggiamo il Nevada Test Site – è anche, come ogni posto in California, la mappa di un archivio politico particolarmente vivo, inventivo. È infatti questo uno dei luoghi in cui il movimento antinucleare americano ha preso corpo: 15.740 arresti in meno di dieci anni nelle lotte contro la base. Ci fermiamo all’Alien Center, un market di souvenir ufo in un’area sosta. Compriamo stickers, un paio di pantaloni verdi con la testa di un’extraterrestre, una t-shirt dell’Area 51. Area 51 era un centro sociale, o forse solo uno spazio occupato temporaneamente alla periferia di Milano, non ricordo – abbiamo fatto lì un rave illegale. Sarà stato il 1995, o 1996, leggevamo fantascienza e letteratura cyberpunk, amavamo le mutazioni e tutto ciò che era artificiale, ibrido, tossico, high tech o low tech, alieno, non umano. Ai bordi dell’immensa area militare, bucata dai crateri delle esplosioni, le sostanze radioattive continuano a infestare, sono come fantasmi. Test, sperimentazioni, cavie, segreti producono spettri, li moltiplicano. 14

ILENIA CALEO

Venice, quartiere di Los Angeles fondato nel 1905 sul modello di Venezia, 2021

E gli spettri raccontano storie. (Guardare le nuvole a fungo dalla finestra di un hotel di Las Vegas, un’attrazione turistica degli anni Cinquanta). ore 18:30 Ripartiamo dal distributore di benzina, caramelle allo zenzero e patatine aromatizzate. Il crepuscolo è cristallino – un’indaco lancinante nella sua precisione. Abbiamo visto passare treni infiniti, lunghi chilometri di vagoni, che viaggiano in parallelo a noi, alla higway. Appena si fa buio, le stelle e i coyote. Nella notte scurissima, viaggiando, vediamo in lontananza un bagliore – siamo ancora a qualche centinaio di chilometri, ma è la luminescenza notturna di Las Vegas. L’intensità di quel grumo di luci, appoggiato su superfici di deserto, risuona nell’oscurità. xing02__3 gennaio, ore 19:00 / Las Vegas A Las Vegas è il denaro che crea altro denaro. Per partenogenesi, o suppurazione, o rigenerazione dei tessuti. Come l’hydra d’acqua dolce, un piccolo polipo che, se tagliata in 50 pezzi, genererà 50 hydre complete. 10 dollari che generano 100 dollari che generano 1000 dollari – il segno può essere “più” o “meno”, non c’è produzione di merci, ma la più leggera tra le forme di riproduzione: il gioco. Arrivando, le highway lunghe chilometri in mezzo al deserto del Mojave e le sopraelevate sono costellate di cartelli pubblicitari di studi legali. I volti degli avvocati sorridono rassicuranti e vincenti. Sono le uniche pubblicità, ci sarà da averne bisogno. Oh Show me the way / To the next whisky bar. Mirage, miraggio. Se quasi più niente al mondo funziona come una fabbrica fordista, neanche le fabbriche, Las Vegas invece è tutta costruita su un modello intensivo, fortemente localizzato, concentrazionario. Al centro la Strip luccicante dentro Paradise dove girano roulette e slot machine, casinò alberghi e bevute, tutt’intorno chi ci vive e ci lavora. Ma quante persone saranno?, ci chiediamo. Gli alberghi-casinò arrivano ad avere migliaia di stanze, il ciclo di attività è 24H. L’MGM Grand ne ha 6198: 4293 camere e 751 suite nell’edificio, a cui si aggiungono 576 suite nelle tre torri The Signature, 51 loft e 29 ville. Con l’aggiunta del The Palazzo, adesso il The 16

ILENIA CALEO

Le viscere di Zabriskie Point nella Death Valley, 2021 Area 51 Alien Center, sito di test nucleari negli anni Cinquanta, 2021

Venetian arriva a 7128 stanze, più un casinò di 11.000 metri quadrati. Pulire e rifare tutte le stanze, lavare tutte le lenzuola, fare la manutenzione di tutte le tubature, di tutti gli impianti elettrici, di tutti i dispositivi di controllo, di tutti i sistemi di areazione, preparare tutti i cibi in tutte le cucine, scartare tutti gli avanzi, lavare tutte le stoviglie, passare l’aspirapolvere su tutte le migliaia di chilometri quadrati di tutte le moquette, portare tutte le colazioni in tutte le camere, miscelare tutti i drink, girare tutte le roulette, mischiare tutti i mazzi di carte, impilare tutte le fiche, suonare tutti i pianoforti in tutti i caffè, cantare tutte le canzoni e ballare tutte le routine. 24H. Gli abitanti sono 641.903, un milione e 900 mila contando l’area metropolitana: a Las Vegas arrivano ogni mese 3 milioni e mezzo di visitatori, toccando i 42 milioni e mezzo in un anno nel 2019. 24 H. L’agglomerato fordista ha i suoi vantaggi: a Las Vegas i sindacati sono riusciti a crescere e a conquistare condizioni salariali e sociali ben superiori alla media nazionale. In particolare il Culinary workers Local 226, sindacato della ristorazione e dell’alberghiero, è potentissimo. Il 90% de^ lavorat^ dei grandi alberghi di Las Vegas, prevalentemente messican^, donne e immigrat^, è sindacalizzato. Memorabili gli scioperi: quello del 1984 durato settantacinque giorni, lo sciopero Frontier del 1991, il più lungo sciopero degli Usa in cui scioperarono cinquecentocinquanta lavorat^, in una lunga vertenza durata sei anni, quattro mesi e dieci giorni. 24H, 7 giorni su 7. Anche nel settore edile e in quello dello spettacolo le condizioni e le paghe sono migliori che altrove. Abitare vicini e lavorare fianco a fianco facilita l’organizzazione. Ai tavoli lavorano croupier e dealers, formati alle decine di scuole e corsi di formazione di Las Vegas, ma anche “shills”, adescatori pagati dal casinò che fingono di giocare per sé. Lavoro formidabile, peraltro. (notte, orario imprecisato) Moltiplicare, rigenerare, numeri, fiche. 24H. Ancora schermi luminosi che invitano agli spettacoli: a Las Vegas puoi vedere whitney Houston e Michael Jackson live, la morte non è un impedimento sufficiente all’ingiunzione performativa: denaro che rigenera denaro. A lavorare sono gli ologrammi –– pattern, immagini, figure d’onda interferenti, laser. Sarà a Las Vegas il primo sciopero di ologrammi? E poi: la Torre Eiffel, l’Arco di Trionfo, la Piramide di Cheope, la 18

ILENIA CALEO

Cartelloni pubblicitari di uffici legali, arrivando a Las Vegas, 2021

Sfinge, una riproduzione del lago di Como, il campanile di San Marco, un vulcano che erutta ogni ora, un temporale ricreato al Miracle, la Statua della Libertà con dietro i grattacieli di Manhattan e il Ponte di Brooklyn tra cui sfreccia un ottovolante ad alta velocità, un pezzo dei Fori, il grande leone della Metro Goldwin Meyer in bronzo, un paesaggio tropicale. Ogni architettura è un albergo a tema: il Bellagio, il Mirage, il Paris Las Vegas, il Flamingo, il wynn, il The Venetian, il The Palazzo, il Luxor, l’Excalibur, il Mandalay Bay, il Caesars Palace, l’MGM. Il grumo di edifici costituisce l’equivalente del nostro centro storico. xing03__4 gennaio, ore 11:30 / Las Vegas Dentro il Venetian, un cielo rosato alla Tiepolo illumina le calli dei centri commerciali, intorno ai canali attraversati da gondole motorizzate. I gondolieri intonano canzoni country, imitando il movimento delle braccia con il remo. Qual è l’originale e quale la copia? Nella forma che conosciamo, è il centro commerciale a parassitare una città; qui è assoluto, si fa città in sé, assorbendola. È questo del resto il modello urbano dominante: sempre più è Venezia che imita il The Venetian, di cui non è che una copia taroccata e scadente. Almeno al The Venetian non ci sono le alluvioni e nemmeno le grandi navi. Qui, al contrario, è la Grande Nave che contiene Venezia al suo interno. Ci aggiriamo per la Strip, e poi proviamo a uscire, a guardare appena un poco fuori, in quel mistero opaco che è la città abitata. A Venezia come a Las Vegas la sproporzione tra gli abitanti e gli attraversatori di consumo è vertiginosa. Las Vegas è “uno smisurato catalogo orizzontale”, scrive Giorgio Vasta (con Ramak Fazel in Absolutely Nothing), e provo a guardare Las Vegas come un catalogo. E ancora, “una città estorta al vuoto, uno spazio disabitato dove a un certo punto si è preso a costruire”. Un pieno di insegne, segni, segnali – “a Las Vegas la merce si allontana nello spazio facendosi fantasma: al suo posto svettano parole immaginifiche”. Richiami, inviti. Attrazioni. L’industria delle attrazioni. Fantasmi, spettri, feticci, spiriti, apparenze: la natura fantasmatica del denaro –– ecco il “mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure e semplici cose” (Il Capitale). Popolato di miraggi luminosi, il Deserto e il Denaro. Mentre le carte si mescolano, e le fiche si spostano, silenziose. 20

ILENIA CALEO

Il Ponte di Rialto al The Venetian Hotel e Casino, Las Vegas, 2021

xing04__11 gennaio, mezzogiorno / California City {con dentro Gibellina} Arriviamo a California City a mezzogiorno, fa caldo. Parcheggiamo davanti a un drugstore, usciamo dall’auto, ci gridano contro – due donne e un ragazzo visibilmente alterato, pensano che li stiamo fotografando, si agitano. La nostra bianchezza da turiste li ha messi in allarme. Risaliamo in macchina, veloci – per la prima volta ho la percezione netta di quanto la presenza diffusa di armi cambi i sistemi relazionali. Potrebbe avere una pistola, noi potremmo avere una pistola. California City è una città che non esiste, o meglio: con un particolare statuto di esistenza. Sulla carta, come estensione, è la terza città della California, dopo Los Angeles. Progettata da Nat Mendelsohn, imprenditore edile e sociologo, sarebbe dovuta diventare una città ideale, un’alternativa alle grandi metropoli invivibili. Nel 1958 Mendelshon acquisì la terra per dare il via all’esperimento: 320 chilometri quadrati di deserto, acquistati a un prezzo simbolico e divisi in 51.000 lotti. Avrebbe dovuto essere riempita di giardini, di piscine, di laghi artificiali. Il punto di fusione tra l’utopia e la speculazione edilizia e capitalista, ossia: la California. Dieci anni dopo, solo 1000 persone si erano trasferite. Attualmente, conta meno di 14.000 abitanti, 26 per chilometro quadrato. Le strade hanno un nome, una numerazione, ma i lotti sono rimasti vuoti, invenduti. Oldsmobile Boulevard, Alpha Street, Planet Lane. Ancora fantasmi, e il vento forte che via spazza tutto. Sotto il sole pieno di mezzogiorno, la visione è surreale: brandelli di città, frammenti, agglomerati parziali di case che non fanno un quartiere, neanche un isolato, a qualche chilometro di distanza uno dall’altro. In mezzo, il deserto, la polvere, e le strade segnate, e i cartelli e la segnaletica. Case, roulotte, parcheggi nel nulla. Tentativi di accampamento, ma atomizzati, disgiunti, schizzati ai bordi dal punto di contatto come campi magnetici contrari. Lo spazio-tra prevale, l’insieme non si crea. Là, una chiesa. Leggiamo un cartello che indica una scuola. Come molecole radunate da un vettore, alcune costruzioni solitarie si addensano intorno alla pompa di benzina, vero cuore pulsante, snodo di identità. Il datore di lavoro principale per le poche migliaia di abitanti è la prigione privata di massima sicurezza. E poi: una base aerea, il Mojave Air & Space 22

ILENIA CALEO

Canali e canti in gondola, The Venetian, Las Vegas, 2021

Port, una gigantesca area-parcheggio dove vengono ricoverati gli aerei prima di essere demoliti. La attraversiamo, in auto. Le strade, sterrate, sono piene di buchi e pozzanghere, ieri ha piovuto. Sotto questo sole che diffrange la visione e inventa acqua negli orizzonti dove non ce n’è, attraversando questo nulla solo immaginato, mi viene in mente un’altra città: Sicilia, Gibellina Nuova. Distrutta da un terremoto, Gibellina venne ricostruita, ma a 20 chilometri di distanza dalla città originaria. La ricostruzione diventa l’occasione per una chiamata di artisti, architetti, intellettuali (il maschile non è universale neutro) a immaginare e progettare una città d’arte. Anche qui l’utopia si è rovesciata in un duplicato beffardo, amaro. Se California City è una città tutta mappa, disegno, progetto incompiuto; Gibellina è invece tutta edificata, tutta piena, ma disabitata. Un doppio spettrale. Costruita tardi, e solo per idee: nel frattempo, gli abitanti originari si erano risistemati altrove. Molte sono le cose che Gibellina Nuova avrebbe potuto essere. Poteva essere una città ideale pensata da artisti, dove le strade non hanno angoli retti – e in effetti ci sono curve, spirali, strade che si avvitano. Poteva essere un’utopia, ma poteva – com’è accaduto – essere anche occasione di malaffare sugli appalti di calcestruzzi, di cemento armato, di travette e pilastri. Potevano esserci gli alberi. I giardini, gli orti, i frutteti. Le piante potevano rampicare, ma il tutto-cemento è duro da scavare. E il sole batte forte. Poteva essere ricostruita vicina alla vecchia Gibellina, a fianco, vicina alle macerie, a consolarle e a rendere facili le trasmissioni: di oggetti, di servizi, di memorie. Invece è a venti chilometri perché i terreni circostanti erano proprietà di boss mafiosi, e costruire non è stato possibile. Poteva essere abitata, avrebbe potuto. Ma poteva essere inabitabile, inospitale. Spopolata. Poteva essere riempita di cose vive, invece resta solo la forma, il progetto, il disegno. Poteva fondare una comunità del pensare oppure – così è andata – essere il frutto di una sola mente illuminata. Quanto illumina una mente illuminata? E: cosa rimane di una possibilità quando è declinata al passato? Forse come un fiore pietrificato in fossile, morto in gran parte, ma con ancora un’immaginazione di vita. Poteva essere un deserto. Poteva essere un inizio. Poteva essere bellissima. Gibellina è questo: quest’insieme eterogeneo di cose che sono e che insieme non sono.

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ILENIA CALEO

The Venetian Hotel e Casino, Las Vegas, 2021

ore 23:30, nella camera di un motel L’auto è parcheggiata fuori, proprio davanti alla camera, in un continuum corporeo che segna il vivere in queste latitudini: il lotto del parcheggio riflette il lotto dell’abitazione, e viceversa. Ripenso alle tracce disegnate sulla terra polverosa di California City. Il progetto solitario, l’idea concepita nella mente del singolo, che prende forma prometeicamente e in modo antinomico – fondazione di una nuova società nutrita dagli impulsi anti-sociali del pioniere solitario. Ha le sfumature dell’avventura, dell’esplorazione, del safari, tutti riverberi di conquista. Nel progetto pensato di una mente sola, ecco, vivere non si può. L’abitare, come forma del vivere-assieme, richiede altro. E ancora: se l’utopia ha la forma di progetto (o di un programma), meglio starne alla larga. xing05__15 gennaio / Los Angeles L.A. è sfuggente, tutta orizzontale, bisogna tenere lo sguardo aperto e largo per cogliere tutto l’insieme, guardando dai bordi dell’occhio, sul confine della visione. L.A. è scomposta, disseminata. È senza centro, senza centri; lo sapevamo prima di partire, ora qui cerchiamo di capire cosa significhi in termini di percezione — le rivolte del 1992, la città in fiamme, Rodney King stampati in testa, immaginavamo Los Angeles durante lo sciopero delle sigarette. Come archeologhe nella notte, cerchiamo frammenti di immaginazione collettiva, di sogni che affiorano, indizi. È il noir, in effetti – che costituisce anche il prodotto culturale più anti-mitico e critico della città. L.A. è luccichio notturno di corpi luminosi per miglia e miglia, a creare l’effetto della distanza. Ti cola via dalle dita, per il tanto spazio, per il tanto cielo. Boulevard infiniti, ma sono le palme a tenere tutto cucito assieme, la vegetazione è forte, spinge da sotto la terra, tellurica, quasi tropicale. Ancora fioriscono la bougainville, la magnolia. Scrive Eve Babitz, scrittrice, disegnatrice, modella, frequentatrice di notti insonni e di party senza fine (in Slow Days, Fast Company): “È risaputo che una storia per essere di finzione debba procedere in modo lineare e non serpeggiare tra i cespugli guardando il paese vicino. Purtroppo a L.A. non puoi farlo. Non puoi scrivere una storia su L.A. che arrivata a metà non faccia inversione o si perda”. Così serpeggiamo, guardando tra i cespugli. Los Angeles è piena di buchi, di vuoti, di tanto spazio tra le cose in cui non succede nulla. Quello che segue non è necessariamente coerente 26

ILENIA CALEO

Cieli alla Tiepolo al The Venetian, Las Vegas, 2021

con quello che precede. Fare inversione. Los Angeles è contro la concentrazione, è anti-concentrazionaria. Diluisce, forse è servito inventare il cinema per vederla. I buchi di memoria di Lynch sono un disturbo dello spazio. xing06__16 gennaio / Venice, Los Angeles Venice Beach, qui il catalogo è umano. Nella spiaggia ci si riversa come in una piazza, la spiaggia è lo spazio pubblico, l’unico forse a disposizione. Nonostante le enclosures, i cancelli, le palizzate, le telecamere di controllo, tutte le forme di vita si fanno spazio. Come ogni riproduzione, Venice non è una copia unica. Prima chiusa tra le mura di un grand hotel a Las Vegas, ora qui a Los Angeles diventa una spiaggia-città. In origine una laguna marittima, la zona fu acquistata da Abbot kinney, imprenditore edile e del tabacco, che bonificò la laguna interrandola e costruendo un sistema di canali con un complesso lavoro di scavi, sul modello di Venezia. La città fantastica fu “inaugurata” nel 1905. Attrazioni, divertimento, illusioni, scenario urbano per un’ideale di vita piacevole. Ma l’esperimento fallì, per mancanza di parcheggi e per la scoperta di un giacimento di petrolio proprio sulla spiaggia. Rifiuti tossici e liquami cominciarono a inondare i canali, l’inquinamento diventò insostenibile. I canali vennero interrati e lastricati, trasformati in strade. Fine. La vertigine della riproduzione: vi è in effetti un’ossessione della ripetizione. Di queste repliche di Venezia ciò che colpisce è la scala, sempre inesatta. Più grandi, più piccoli, lievemente o massimamente ridimensionati, gli oggetti spaziali riprodotti non sono mai come dovrebbero essere – ma un effetto collaterale è che, come in Alice nel paese delle meraviglie, anche il nostro corpo subisce delle variazioni, di conseguenza. xing07__un qualche giorno di marzo, Venezia, Italia Venis in Vegas, Venice in Los Angeles, Venice Everywhere – come un’onda sonora a bassa frequenza si moltiplica, ossessiona e infesta i sogni di tutte le città impossibili. Ma ne è, al tempo stesso, posseduta. Un’impossibile di vita associata, di coabitazione, di ecosistemi simultanei. Venis in Vegas, Venice of America.

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ILENIA CALEO

Il campanile di San Marco sulla Strip, Las Vegas, 2021

Le instabili scenografie di Petra Blaisse Giulia Conti

Il dentro ed il fuori sono ambedue intimi, sono sempre pronti a capovolgersi, a scambiare la loro ostilità. Se vi è una superficie limite tra un tale dentro ed un tale fuori, tale superficie è dolorosa da ambedue le parti.1

Il 29 agosto 2012 apre a Venezia la 13. Mostra Internazionale di Architettura sotto la direzione artistica dell’architetto britannico David Chipperfield. Il tema, “Common Ground”, costituisce per gli architetti e artisti coinvolti un invito alla riflessione intorno alle questioni fondative della pratica architettonica contemporanea, condivise all’interno di uno scenario progettuale internazionale non indifferente a un’innegabile reciprocità di risonanze culturali. “Common Ground” è anche un luogo di apertura alla sperimentazione delle singole realtà nazionali, che si confrontano con il tema in una pluralità di eterogenei esiti progettuali. Facendo eco alla riflessione della precedente edizione del 2010 – “People meet in architecture” curata da kazuyo Sejima – il progetto curatoriale invitava i contributi all’interno di ciascun padiglione nazionale, inteso come parte per il tutto, a superarne l’arida accezione di “spettacolo individuale”2 per riflettere intorno alle pratiche architettoniche – e allestitive – quali “manifestazioni di [e riflessioni intorno a] valori collettivi”3. Al di sotto del riparo della condivisa cultura architettonica contemporanea, ogni partecipazione nazionale avrebbe messo a disposizione un proprio personale vocabolario nella definizione di quel terreno comune dalle forme di un cadavre exquis programmato con precisione. Premesse all’esperienza olandese Due smisurati tendaggi dai colori sgargianti invadono – delicatamente – lo spazio plastico e neutro del padiglione progettato da Gerrit Rietveld e realizzato nel 1954. Precisi segni eloquenti e sinuosi producono un contrasto evidente tra “contenente” e “contenuto” e consegnano ai visitatori lo spazio scenico dell’intervento architettonico-allestitivo progettato da Petra Blaisse e dal suo studio Inside Outside | Petra Blaisse, fondato nel 1991 ad Amsterdam. 31

Gustave Doré, Il teatro dei burattini di mastro Pedro, 1863

Il risultato è un complesso sistema di scelte compositive e puntuali espedienti tecnici, che definiscono all’interno del padiglione una reale scenografia architettonica tra le più suggestive nella lunga durata della riflessione tessile della sua ideatrice e del suo studio, e che, conservando la propria natura allestitiva ed esasperando la sperimentazione architettonica, configurano luoghi possibili e immaginari – lontani da Venezia. Elementi naturali e artificiali si fanno effettivi strumenti progettuali che contribuiscono a delineare le sequenze spaziali di una coreografia di luoghi in continuo mutamento. Scene, vicine e lontane, si compiono al di là dei tendaggi fluttuanti che, in dodici temporanee disposizioni statiche, invitano l’osservatore alla scoperta. Re-set. New Wings for Architecture rintraccia le sue origini nelle indicazioni tematiche di Ole Bouman, direttore del Netherlands Architecture Institute (NAI)4 di Rotterdam e già curatore degli interventi architettonico-allestitivi all’interno del padiglione olandese per la 11. e 12. Mostra. A fronte di un primo diniego ricevuto da parte di Blaisse per progettare all’interno del padiglione un intervento che riflettesse intorno al concetto di bellezza – tematica “ambiziosa e pretenziosa”5 secondo il commento della stessa – Bouman propose quindi allo studio olandese di riflettere intorno a una possibile evoluzione delle problematiche architettoniche evidenziate durante la Biennale precedente, elaborando un intervento che ponesse in risalto criticità e soprattutto opportunità della pratica architettonica olandese. Vacant NL, where architecture meets ideas, 12. Mostra Internazionale di Architettura Due anni prima, il padiglione Rietveld aveva infatti ospitato Vacant NL, where architecture meets ideas, curato dallo studio Rietveld Landscape: un allestimento che invitava a riflettere intorno alla qualità e quantità degli immobili vacanti – risalenti fino al XVII secolo – e delle proprietà vuote che popolano l’esteso paesaggio costruito olandese, invitando a una riflessione condivisa intorno al riuso – temporaneo o permanente – degli edifici, intesi come luoghi d’incontro e partecipazione. Al suono dell’inno “This building has been vacant for more than 39 years”6, anche lo stesso padiglione veneziano si aggiungeva infatti alla lunga serie degli edifici inutilizzati – fermo restando il carattere di eccezione dovuto alla funzione per cui venne progettato e realizzato – riconosciuti su suolo olandese. Un’installazione non 33

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immediata, che dell’interno libero e apparentemente inalterato del padiglione serviva come primo immediato strumento di denuncia. Anche in questa edizione, come per la successiva del 2012, il vuoto si configurava come reale strumento architettonico, assunto come datum imprescindibile ed enfatizzato nella logica progettuale complessiva dell’intervento. Per i visitatori curiosi che avrebbero alzato lo sguardo verso il soffitto, una distesa di modelli in scala di colore azzurro – nel numero corrispondente alla quantità di edifici inabitati in Olanda – sarebbe apparsa come un tappeto sospeso a prospettiva incombente di una realtà esperita qualche metro più in basso. Un altrove lontano di cui la realtà veneziana conserva tuttavia un avamposto. Re-set. New Wings for Architecture La mia prima reazione, forse un po’ infantile, è stata dire al gruppo di progettazione che non avremmo realizzato dei tendaggi perché, in fondo, è quello che facciamo sempre. […] Alla fine tuttavia ciò di cui ci siamo resi conto durante le fasi di progettazione è che questa proposta rappresentava e sintetizzava chiaramente tutta la nostra sperimentazione tessile fino a quel momento – con l’eccezione dei sipari progettati per interventi dichiaratamente scenici e teatrali. Rappresentava la nostra idea di architettura nell’essere composta esclusivamente da due tendaggi.7

La proposta progettuale di Petra Blaisse assume quindi come fondativa la riflessione intorno alla condizione di vuoto che permea il padiglione, intesa da un lato come realtà spaziale con cui dialogare nella definizione dell’intervento e, dall’altro, come entità puntuale attraverso cui ricercare e “mettere in scena” soluzioni dall’evidente valore sociale. Come già accennato, l’intervento architettonico-allestitivo si configurava come momento centrale di riflessione teorica e progettuale intorno alla pluralità di temi indagati sin dalle prime esperienze progettuali della stessa, peraltro strettamente legate al mondo dello spazio scenico. Ciò che risulta interessante ed essenziale evidenziare ben prima di un’analisi progettuale legata agli effettivi esiti compositivi e alla sperimentazione tessile introdotta qui a Venezia, è infatti la permanente suggestione del mondo del teatro che avrebbe in origine offerto una mise en scène esterna del padiglione ai Giardini della 34

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Biennale – dall’immediato rimando all’immagine teatrale – per poi essere infine tradotta in una mutevole sequenza di instabili – ma potentissimi – spazi teatrali e performativi al suo interno. L’iniziale proposta, poi abbandonata a fronte delle innegabili criticità realizzative legate soprattutto alle perplessità e alla successiva mancata autorizzazione da parte della Fondazione Rietveld, avrebbe infatti previsto di mantenere inalterato lo spazio interno dell’edificio degli anni Cinquanta per introdurre una serie di interventi progettuali all’esterno del padiglione. Secondo quanto riportato da Blaisse infatti, i ragionamenti preliminari riguardarono esclusivamente la copertura e il contesto limitrofo al padiglione: non sarebbero stati previsti, almeno inizialmente, interventi all’interno dello stesso8. Un’unica sequenza di quattro disegni, conservata presso gli archivi dell’Het Nieuwe Instituut di Rotterdam, permette di avanzare alcune riflessioni intorno all’originaria ipotesi progettuale. Pur nell’immediatezza della rappresentazione, la figurazione restituisce con chiarezza l’immagine complessiva dell’intervento scomponibile nelle sue singole parti, siano state esse anche mere suggestioni. Un percorso sopraelevato avrebbe attraversato il padiglione olandese fino alla sua copertura, conducendo i visitatori al di sopra della stessa e aprendo loro uno scenario inedito di percorsi e vegetazione attraverso cui esperire una visione inconsueta della volumetria dell’edificio. Uno spettacolo architettonico di insolite scene avrebbe quindi avuto luogo in un complessivo capovolgimento del punto di vista tradizionale, svelato agli occhi di un pubblico più in basso da un inequivocabile sipario in facciata. Quest’ultimo rappresenta un elemento caro alla formazione di Petra Blaisse, il cui primo intervento progettuale coincise con il sipario per il Netherlands Dance Theater a L’Aia progettato nel 1988 da OMA/Rem koolhaas con cui la stessa condivide da allora una fruttuosa collaborazione professionale. La potenza dei dispositivi compositivi tessili di Inside Outside | Petra Blaisse si origina infatti da una profonda conoscenza dello strumento del tendaggio, sottratto con misurata precisione all’esclusivismo del mondo del teatro e introdotto nella complessità di quello architettonico ad affermare che, in fondo, di teatrale vi è anche – e forse soprattutto – l’abitare. La modalità di percorrenza dell’intero sistema subirà poi un ribaltamento nella successiva versione di progetto, definitiva e poi realizzata: un tendaggio statico avrebbe di fatto soltanto svolto una funzione di 35

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Petra Blaisse, Re-set, new wings for architecture, schizzi, 2012

rivestimento, non assumendo alcun valore compositivo nella definizione spaziale interna al padiglione e limitando la sperimentazione della sua progettista. Nella successiva versione, poi definitiva, recuperando qui la tradizione del tessile come elemento fondante nella definizione spaziale, il tendaggio si costituirà come emblematica suggestione di richiamo alla principale memoria teorica strettamente architettonica di riscoperta tardo-novecentesca di Der Stil di Gottfried Semper. Coincidendo questo con uno dei quattro elementi dell’arte del costruire a cui viene affidato il compito della definizione e chiusura spaziale del riparo, lo strumento tessile si innalza a “mezzo per separare la casa, ovvero la vita all’interno da quella esterna e come organizzazione formale dell’idea di spazio”9 avendo preceduto senza dubbio “la parete costruita […] in pietra o in altro materiale”10. Proseguendo infine nella lettura del disegno fino alla sua porzione inferiore, risulta essenziale rintracciare le premesse di un’evoluzione del progetto che riconferma il percorso sopraelevato – affiancato questa volta anche da un’abbozzata alberatura – in cui tuttavia viene modificata la posizione del tendaggio che dal prospetto principale entra ufficialmente all’interno dell’edificio, fluttuando gonfiato dal vento e uscendo sinuoso dal rigido volume del padiglione. È questa forse la riflessione embrionale e il passaggio intermedio che anticiperanno la logica compositiva alla base della più complessa narrazione spaziale successiva. Gli strumenti tessili della composizione Alla fine decidemmo di realizzare un intervento in collaborazione con una ditta tedesca [Gerriets GmbH e Levtec, N.d.A], con cui avevamo già lavorato in passato, per progettare un binario che permettesse il movimento di “porzioni di tessuto” – non li chiamo “tendaggi” perché l’idea è stata realmente quella di avere dei “pezzi di stoffa” – che scorrendo lungo la struttura avrebbero dispiegato dodici differenti posizioni statiche. Questi dodici intervalli avrebbero simbolicamente rappresentato da un lato le possibilità di utilizzo dell’edificio: un salone da parrucchiere, una discoteca, una chiesa, un ufficio, una casa… ciò che ognuno avrebbe voluto che fosse. Le stesse mettevano in scena le possibili differenti funzioni che l’edificio avrebbe potuto ospitare essendo 37

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inabitato come altrettanti edifici dello scenario olandese denunciati durante la precedente edizione della Biennale. Dall’altro lato, attraverso l’utilizzo del numero dodici per i differenti momenti di stasi, volevamo mettere in scena il passaggio del tempo.11

Re-set assume quindi il carattere di una sintesi teorica, architettonica e simbolica, nell’immagine di un’ampia coreografia architettonica in cui tempo e spazio, contingenti o assoluti che siano, si trovano a dialogare suddivisi in dodici atti. La scena si componeva di due evidenti dispositivi principali: unici strumenti compositivi di definizione spaziale, due enormi tendaggi di 21 metri per 5,40 metri di altezza si facevano attori nello spazio libero del padiglione olandese12. Il primo in velluto di cotone rosa da un lato e similpelle argentata con bande, ancora una volta, in velluto nero dall’altra, che tra la versione definitiva in cui sarebbero state previste a scansione verticale tornarono poi, nell’esecutiva, a seguire l’orientamento orizzontale coerente alle quattro fasce rosa che fungono da controcampo13. Ad anticipazione dell’attenzione rivolta all’esito complessivo dell’intervento, tanto alla scala di dettaglio quanto a quella architettonica generale, queste ultime vennero appositamente progettate per garantire un particolare effetto cromatico nell’istante in cui sarebbero state colpite dalla luce. Ogni fascia non differiva infatti nel materiale dalla precedente o dalla successiva: la direzione delle fibre, prevista preliminarmente con orientamento contrario tra una porzione orizzontale e l’altra, conferiva al tendaggio un’enigmatica plasticità. Il secondo elemento tessile si componeva dell’accostamento di sette fasce in voile bianco e nero, lieve e traslucido. Uniti tra loro alla sommità superiore, rincorrendosi in un’interminabile danza, opacità e trasparenza dei tendaggi si fondevano svelando al visitatore, in grado anche di attraversare le quinte, imprevedibili scenari. Dal diametro di 2,20 metri ciascuno, due addizioni circolari – la prima in plastica trasparente sul tendaggio colorato, la seconda in velluto nero sul voile – introducevano ripetute eclissi e variazioni di luminosità nell’istante di sovrapposizione dei tendaggi. Eterogenee dal punto di vista materico, le due partizioni tessili differivano anche nell’andamento delle pieghe: continua alternanza di concavità e convessità, interni ed esterni. Studiate con attenzione in rapporto al materiale prescelto, le stesse influivano soprattutto sulla 38

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risposta acustica dei tendaggi. Maggiore il numero delle pieghe – il tendaggio in velluto venne di fatto previsto con pieghe mentre l’elemento semitrasparente assunse uno sviluppo decisamente più lineare –, migliore l’assorbimento sonoro. Elemento imprescindibile della performance complessiva, il suono – come si vedrà in seguito – entrava in risonanza, concreta o immateriale, con i tessuti danzanti. La coreografia delle dodici disposizioni spaziali A orchestrare il movimento dei tendaggi, una complessa struttura fissata al soffitto e alla travatura del padiglione. La configurazione della stessa definiva il reale esito compositivo dell’intero intervento. Una pianta dagli invisibili segni a terra, da osservare dal basso verso l’alto, la cui proiezione configurava il reale spazio sottostante coincidendo con l’elemento, nel risultato e soprattutto nella sua lunga genesi progettuale, ordinatore dell’intera pièce teatrale. Burattinaio dello spettacolo sottostante, il meccanismo che assicurò il funzionamento dell’intero sistema costituì forse il più evidente elemento di sperimentazione nell’intero progetto: un binario a catena dalla chiara geometria. La soluzione ebbe origine dalle necessità progettuali di Blaisse che, discutendo con tecnici e ingegneri a supporto della realizzazione del progetto, richiese una struttura in grado di permettere una curvatura allo sviluppo dei tendaggi in movimento quanto più sinuosa possibile. Due braccia rettilinee a definire i lati di un triangolo isoscele, due porzioni di circonferenza dal raggio definito collegate tra loro e un terzo elemento lineare – parallelo a un lato del triangolo – si inserivano come segni leggeri ai limiti della rigida volumetria precostituita del padiglione di Rietveld. Lo stesso padiglione che nella sua geometria e nel suo apparente disassamento nell’insediarsi sull’asse centrale dei Giardini progettati dal Selva, recuperando invece l’orientamento della calle e degli edifici posteriori, forniva di fatto il modulo e la geometria nascosta per il dimensionamento dell’elemento a soffitto14. I tendaggi, veri strumenti compositivi di definizione spaziale, presentavano, in successione, dodici spazi “in potenza”: ciascuno veniva a definirsi in una porzione di spazio interstiziale tra la partizione tessile e il perimetro del padiglione e, contemporaneamente, si caratterizzava di una specifica luminosità dovuta alla vicinanza alle aperture e, soprattutto, al riflesso della luce sul tessuto. La sequenza, nella sua fluida continuità, si originava tuttavia da una prima forma definita: 39

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entrambi i tendaggi, a chiuso sipario della segreta geometria dell’edificio ospitante, si disponevano lungo i due principali segmenti rettilinei del binario superiore, definendo un primo spazio triangolare di accesso. Gli stessi proseguivano quindi la loro danza secondo una rotazione in senso orario, prima lungo le porzioni lineari, poi lungo i segmenti circolari in secondo piano, a fondale nello sviluppo in profondità del padiglione. L’intera coreografia delle dodici disposizioni tessili prevedeva una durata complessiva di ventotto minuti: i tendaggi sarebbero stati in movimento e successivamente si sarebbero arrestati per circa novantasei secondi per poi, subito dopo, configurare lo spazio successivo. I visitatori avrebbero quindi potuto esperire la temporanea spazialità per circa un minuto e mezzo per poi essere sorpresi da una rinnovata configurazione. Le tempistiche derivarono in realtà da alcune necessità tecniche, imprescindibili nonostante i tentativi avanzati dal gruppo di progettazione: il repentino surriscaldamento del sistema motorizzato che regolava il funzionamento del binario e della catena richiedeva infatti un obbligato tempo di sosta dei tendaggi – un minuto e mezzo appunto – in modo da garantirne il raffreddamento. Tecnica e forma, qui indissolubilmente legate, configurarono quindi l’intera spazialità che venne definita di fatto come esito di una necessità tecnica che tuttavia risultò nodale nel conferire un’essenza fortemente architettonica al progetto. Le iniziali indicazioni progettuali di Inside Outside | Petra Blaisse avrebbero richiesto un tempo di sosta dei tendaggi pari a cinquanta secondi o, al massimo, un minuto: un intervallo di tempo forse troppo ridotto per assicurare una piena e suggestiva esperienza spaziale ai visitatori. Ad assicurare l’istintiva lettura dello spazio, su precisa richiesta dello studio, l’esclusione di qualsiasi testo informativo all’interno del padiglione al fine di garantire che “l’intero intervento riguardasse l’esperienza diretta, la percezione e il tempo”15. Da sottolineare inoltre, a margine degli innumerevoli studi preliminari per la definizione della geometria del binario a soffitto, l’ipotesi, poi abbandonata, di prevedere anche uno spostamento dei tendaggi interni (inside) verso lo spazio esterno (outside) al padiglione. La soluzione avrebbe non solo introdotto interessanti ragionamenti legati all’approccio progettuale multiscalare di Inside Outside | Petra Blaisse – dalla scala architettonico-allestitiva a quella paesaggistica –, ma avrebbe esplicitato quel forte legame che ne permea la riflessione teorica fondata sul mutuo rapporto tra interno ed esterno: 40

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Re-set. New Wings for Architecture, 13. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, 2012 Nella pagina successiva, Re-set..., elaborazione grafica di Giulia Conti, 2022

Vorremmo che la tenda sfuggisse all’architettura e seguisse la sua traiettoria all’esterno. Gettata in balia degli elementi, la tenda leggera danza nel vento creando nuove dinamiche. Traslare la tenda non è una semplice scelta poetica, il suo intento è completamente progettuale in quanto crea nel paesaggio tra il Belgio [il padiglione belga è adiacente a quello olandese, N.d.A] e l’Olanda una nuova “stanza” all’aperto. Questo nuovo spazio creato sarà fruito in collaborazione con il VAI [Vlaams Architectuurinstituut, N.d.A.], l’Istituto di Architettura Fiammingo, come esempio della forza positiva dell’architettura.16

Ancora una volta, la Fondazione Rietveld non concesse alcuna autorizzazione alla temporanea rimozione complessiva delle vetrate lungo il lato occidentale del padiglione, consegnando l’ipotesi alla memoria del lungo avvicendamento progettuale e realizzativo17. Interno ed esterno, intese come entità a simboleggiare un luogo e un altro – forse opposto –, permangono tuttavia in corrispondenza del limite instabile delle configurazioni spaziali temporanee, laddove soglie indefinite, in continua tensione dinamica, mutano nel tempo e, con esse, lo spazio. Colonna sonora, effetti speciali e oggetti di scena La coreografia diretta da Petra Blaisse non si riassume tuttavia nelle sole partizioni tessili: a contorno della performance complessiva, innumerevoli espedienti e scelte progettuali di dettaglio contribuivano a definire l’immagine complessiva dell’intero intervento architettonico-allestitivo, rendendosi “comparse” a supporto dei due tendaggi protagonisti: Ciò che abbiamo immaginato sin dal principio era la presenza del suono all’interno del padiglione: l’idea era quella di avere uno spazio fortemente meccanico che spaventasse i visitatori al loro ingresso con un suono metallico. Alla fine il sistema si componeva di una struttura formata da un binario e da una catena per bicicletta quindi ci aspettavamo di avere un forte suono metallico durante lo scorrimento dei tendaggi. Contrariamente, la ditta tedesca con cui lavorammo produsse un meccanismo completamente silenzioso. […] Durante i giorni del montaggio dell’intero sistema, discussi con uno dei vari artisti che avevano contribuito alla 43

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progettazione e all’installazione, un compositore, che si occupava di musica sperimentale. Gli chiesi di comporre una serie di interventi sonori per il padiglione: stavo pensando ai suoni prodotti dai gruppi scultorei di Jean Tinguely. Allo stesso tempo volevo che l’intero sistema sonoro si basasse su un certo grado di improvvisazione. Alla fine utilizzammo i più svariati oggetti, come degli objet trouvé: cubi e cilindri di acciaio, fogli di metallo vennero installati in tre posizioni lungo il binario. Inoltre, nella porzione sommitale dei tendaggi, realizzammo degli speroni che, durante il movimento, avrebbero urtato i dispositivi sonori generando, finalmente, questo suono meccanico. Vi erano tre tipologie di suono, eterogenee tra loro: un tintinnio, un suono meccanico di catena da bicicletta e, in ultimo, un rintocco metallico.18

Il suono fu il primo elemento progettuale accessorio a essere introdotto all’interno dell’intervento complessivo: il suo ruolo divenne fondante nella ricerca di quell’esperienza percettiva dello spazio perseguita da Inside Outside | Petra Blaisse per il padiglione olandese. Gli stessi dispositivi acustici diventarono reale esito di un’accurata indagine tecnica per la definizione di una generale “colonna sonora” che si inserisse in rapporto dialettico e armonico con il sistema tessile. La riflessione sul profondo legame tra strumento tessile e suono non era nuova a Blaisse che nel 1999 aveva realizzato per OMA/Rem koolhaas il celebre tendaggio per l’auditorium della kunsthal di Rotterdam. Un elemento profondamente sperimentale non solo per il sistema di fissaggio al soffitto – il binario di scorrimento del tendaggio venne infatti posato contemporaneamente al getto e alla posa dei ferri della soletta in calcestruzzo in modo che la struttura metallica risultasse in spessore con il solaio e divenisse reale elemento architettonico non svincolato da quest’ultimo – ma soprattutto per la scelta tecnica di impiegare un tessuto a doppio strato all’interno del quale inserire puntuali dispositivi sonori. I diffusori acustici erano direttamente collegati a un sistema audio generale e contribuivano in maniera attiva e autonoma a produrre i suoni ad alta frequenza delle eventuali rappresentazioni e performance musicali. I suoni bassi sarebbero diversamente stati prodotti dal sistema audio previsto in corrispondenza della gradinata della platea. A Rotterdam, prima che a Venezia, nell’istante in cui la partizione tessile sarebbe stata effettivamente dispiegata ad abbraccia44

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re il palco e una porzione della platea, l’intero sistema tendaggio-suono avrebbe definito una reale “stanza”, uno spazio altro autonomo dal resto della sala anche – e soprattutto – dal punto di vista acustico19. Nel continuo Re-set veneziano, luci e ombre a contorno vennero invece plasmate come effetti speciali ad accompagnare il movimento dei tendaggi. Per permettere alla luce di inondare letteralmente il padiglione, il progetto di Blaisse implicò la temporanea sostituzione delle vetrate originarie, decisamente opache e filtranti per garantire la luce diffusa prevista. A questo espediente architettonico venne inoltre associata la presenza di dieci specchi e altrettante lampade installati sulla copertura del padiglione che direzionassero la luce, naturale o artificiale, all’interno dello stesso secondo predefiniti orientamenti. La scelta progettuale si configurò nell’ottica di una generale ambiguità del passaggio del tempo: gli elementi, disposti con misurato angolo rispetto all’orientamento del padiglione, deviavano infatti, talvolta invertendola, la naturale illuminazione durante il giorno. In ultimo, a concludere la messa in scena complessiva, un elemento specchiante sopraelevava il “palco” della coreografia tessile. Una fascia di specchi venne prevista a rivestimento del basamento dell’edificio: evocando e anticipando lo spettacolo tessile interno, lo stesso padiglione di Rietveld sarebbe apparso sospeso, a ondeggiare leggero sul paesaggio circostante. Strumenti puntuali scelti con attenzione supportavano i due tendaggi nel delineare i “passi” della suggestiva scenografia: dominio del tessile, il padiglione olandese si faceva scenario, consapevole ma impotente, della labile – ma risoluta – composizione e ri-composizione di spazi. Luoghi effimeri velati e svelati si susseguivano all’interno di una grande scatola scenica, di cui il visitatore si faceva inerme spettatore.

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Note

1. G. Bachelard, La poétique de l’espace, Presses Universitaires de France, Paris 1957; tr. it. di E. Catalano (a cura di), La poetica dello spazio, Dedalo, Bari 1975, pp. 238-239. 2. D. Chipperfield (a cura di), Common ground: 13. Mostra Internazionale di Architettura, la Biennale di Venezia, catalogo della mostra, Marsilio, Venezia 2012, p. 14. 3. Ibidem. 4. Il Netherlands Architecture Institute (NAI) è stata un’istituzione culturale privata per l’architettura e lo sviluppo urbano con funzioni museali, bibliotecario-archivistiche e atte alla promozione di dibattiti e conferenze per la conservazione e promozione della cultura architettonica olandese, fondata nel 1988 e con sede a Rotterdam a partire dal 1993. Nel 2013 è stata assorbita dall’attuale Het Nieuwe Instituut con sede a Rotterdam. 5. Petra Blaisse in conversazione con Giulia Conti. L’intervista si è tenuta nella sede dello studio Inside Outside | Petra Blaisse ad Amsterdam il giorno 16 marzo 2022. I riferimenti e le citazioni successive nel testo sono frutto della trascrizione dell’autrice, così come la traduzione italiana dall’inglese. 6. L’espressione venne utilizzata in corrispondenza di una delle elaborazioni grafiche di presentazione dell’allestimento Vacant NL, where architectu46

re meets ideas proposto alla 12. Mostra internazionale di Architettura nel 2010 dallo studio olandese Rietveld Landscape. Cfr. International Architectural Exhibition (a cura di), People meet in Architecture. Biennale Architettura 2010, catalogo della mostra, Marsilio, Venezia 2010, pp. 142-143. 7. Cfr. nota 5. 8. Ibidem. 9. G. Semper, Der Stil in den technischen und tektonischen Künsten oder praktische Äesthetik. Ein Handbuch für Techniker, Künstler und Kunstfreunde, Verlag für kunst und wissenschaft, Frankfurt 1860; tr. it. di A. R. Burelli, C. Cresti, B. Gravagnuolo, F. Tentori (a cura di), Lo stile nelle arti tecniche o tettoniche o estetica pratica, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 227-229. 10. Ibidem. 11. Cfr. nota 5. 12. I dispositivi tessili impiegati per le configurazioni spaziali del progetto veneziano, così come il sistema a soffitto che ne permetteva il movimento automatizzato, sono stati successivamente donati all’Het Nieuwe Instituut (HNI) di Rotterdam all’interno del quale, dal 2015, in seguito alla riprogettazione da parte dello stesso studio Inside Outside | Petra Blaisse, occupano l’auditorium/ sala conferenze come tendaggio a fondale del palco. Gli stessi sono tuttora visibili dall’esterno dall’area bookshop e caffetteria al piano terra dell’HNI. 13. La scelta tecnica di affiancare porzioni di velluto con orientamento delle fibre divergente era già stata impiegata GIULIA CONTI

da Inside Outside | Petra Blaisse nella realizzazione di uno dei tendaggi per il Mick Jagger Centre di Dartford, Regno Unito, nel 1999. Anche in questa occasione il tendaggio venne realizzato in velluto di cotone rosa a fasce orizzontali. 14. La griglia di 16 m x 16 m, generata a partire da un modulo 4 m x 4 m, che definisce la volumetria complessiva del padiglione olandese, subisce una rotazione di circa 18 gradi per definire, rispetto all’asse centrale del manufatto plastico, i tracciati che regolavano la geometria del binario a soffitto esplicitando il dialogo tra dispositivo “contenente” e intervento tessile “contenuto”. Cfr. immagine a p. 42.

19. Il tendaggio progettato per l’auditorium della kunsthal di Rotterdam venne di fatto sostituito a distanza di poco tempo dalla sua realizzazione. L’attuale tendaggio visionabile all’interno della sala coincide infatti con uno dei successivi rimaneggiamenti – dovuti al dichiarato scarso utilizzo del complesso apparato acustico – che non contemplarono, in nessuna delle versioni, l’integrazione del sistema di diffusione sonora originariamente progettato da Petra Blaisse. Lo studio Inside Outside | Petra Blaisse riferisce di non essere mai stato interpellato per la sostituzione o le eventuali modifiche.

15. Cfr. nota 5. 16. L’estratto è riportato a p. 15 del fascicolo di presentazione del progetto Re-Set. New Wings for Architecture, datato 17 aprile 2012 e conservato in forma digitale all’Het Nieuwe Intituut di Rotterdam con segnatura BLAI01: 120418_Re-Set entry_Biennale 2012_ high res. 17. Cfr. corrispondenza tra Arianne van der Veen, project manager dell’intervento per il Netherlands Architecture Institute, e Micol Saleri, responsabile dell’organizzazione per la Biennale di Venezia, in data 30 maggio 2012 conservata presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee ASAC di Venezia. Nella stessa si legge: “Curtains/lines outside. The curtain outside has been canceled, we are now focusing our project in and on the pavilion”. 18. Cfr. nota 5. 47

LE INSTABILI SCENOGRAFIE

Non è il Teatro del Mondo Sebastiano Fabbrini

La prima iterazione del Teatro del Mondo prende corpo nel 1979, nel quadro della Biennale di Venezia1. Durante l’estate del 1980, l’edificio di Aldo Rossi viene poi trasportato ed esibito a Dubrovnik, sull’altra sponda dell’Adriatico, prima di ritornare a Venezia per essere smantellato. Alcuni pezzi dell’involucro ligneo vengono conservati e depositati in un magazzino a Marghera, dove sono dimenticati per più di vent’anni. È solo con il progetto di ricostruzione del teatro a Genova, in occasione di una mostra curata da Germano Celant nel 2004, che un gruppo di ricercatori si mette sulle tracce di questi materiali. Il tentativo di ricostruzione in scala 1:1 mette subito in luce un problema. Francesco Saverio Fera, uno degli architetti a capo del progetto genovese, lo spiega così: Sembra inverosimile, ma pur esistendo di questo edificio moltissimi disegni, realizzati sia dello stesso Rossi che dai suoi collaboratori, in realtà ci si è presto resi conto che nessuno di questi potesse essere utilizzato per una ricostruzione fedele dell’originale. […] Paradossalmente, il teatro è stato realizzato senza elaborati esecutivi.2

Non dà esiti utili neanche la ricerca negli archivi della Biennale, che viene addirittura accusata di aver smarrito i disegni originali di Rossi. L’enfasi sull’originale, tuttavia, non tiene conto della complessa concezione del disegno nel lavoro rossiano e, più in generale, nella cultura architettonica di quel periodo3. A tale proposito, è rivelatrice un’intervista rilasciata da Christopher Stead, un architetto britannico che lavora nello studio di Rossi negli anni Ottanta e produce molti dei presentation drawings del Teatro del Mondo. L’aspetto significativo è che questi disegni prendono forma dopo la Biennale, quando il teatro è già stato smantellato. Stead è molto chiaro: Un giorno Aldo mi chiama nel suo ufficio e mi dice: ho bisogno che tu faccia alcuni disegni. Mi mostra una serie di fotografie del teatro di Antonio Martinelli, alcune stampe in bianco e nero, oltre 49

ai suoi schizzi. Ma non ci sono disegni architettonici. Quindi ho dovuto iniziare da capo. […] Il mio compito era realizzare un set di disegni plausibili, che potessero riflettere sia la realtà costruita che l’intenzione architettonica. E che fossero presentabili, in modo da poter essere pubblicati, letti e compresi da altri architetti.4

In una delle fotografie di Martinelli, che godono di ampia circolazione, Rossi viene ritratto sul cantiere, intento a osservare un disegno colorato del prospetto5. L’immagine suggerisce un rapporto causa-effetto tra l’architetto e il disegno, e tra il disegno e l’edificio. Compare anche un operaio, con la tipica tuta blu, nello spazio compreso tra le carte arrotolate nelle mani di Rossi e il telaio metallico del teatro in costruzione. Un occhio attento, tuttavia, può notare che, nel disegno che Rossi ispeziona con tanta intensità, il corpo del teatro ha sedici lati (come appare in diversi schizzi preliminari): il doppio rispetto alla soluzione effettivamente adottata. In altre parole, il disegno che viene portato sul cantiere e fotografato non corrisponde alla struttura che prende forma davanti agli occhi dell’architetto. I disegni architettonici del Teatro del Mondo, tra cui quelli che illustrano la struttura e la disposizione degli elementi metallici, vengono realizzati dopo il fatto. I criteri principali sono plausibilità e propensità alla disseminazione. Tale esempio di post-produzione è tutt’altro che un caso isolato nella pratica di Rossi e altri suoi colleghi, non solo in quegli anni. Ma questa dinamica risulta particolarmente evidente nel caso di Rossi, in virtù del suo successo internazionale, che fa moltiplicare le richieste di materiali per la disseminazione. Il tema è stato recentemente discusso da Jesse Reiser, un architetto americano che, dopo aver seguito un corso di Rossi alla Cooper Union alla fine degli anni Settanta, svolge un internship nel suo studio milanese. L’incarico che gli viene assegnato consiste nel riprodurre una serie di disegni del cimitero di Modena, un progetto elaborato diversi anni prima, con l’obiettivo di andare incontro alle (presunte) aspettative del pubblico americano. Secondo Reiser, tale richiesta è legata all’ambizione di creare una “scuola” e internazionalizzare l’opera di Rossi, promuovendo la circolazione delle architetture principali al di là dell’ambito italiano. È interessante notare come i disegni retroattivi dei progetti di Venezia e Modena vengano entrambi assegnati a giovani architetti stranieri, scelti per il loro particolare stile grafico. Mentre 50

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Teatro del Mondo model kit, 1984

Stead costruisce il disegno sulla base di fotografie e schizzi del teatro, Reiser è coinvolto in una pratica di riproduzione molto più rigida: Rossi mi ha dato una delle pellicole che usava per generare i blueprints del teatro di Modena. A posteriori, quello che ho fatto è veramente triste: al fine di trasferire il disegno, ho posto la pellicola direttamente su un foglio di carta e, usando uno spillo, ho perforato le linee, creando una serie di punti, che ho poi collegato a matita.6

L’input del disegnatore, in questo caso, riguarda la scelta dei colori, con l’obiettivo di individuare una cromia reputata più vicina al gusto americano. Nel caso del Teatro del Mondo, la difficoltà nell’analisi della rappresentazione, considerando sia la scarsità di disegni ex ante che l’abbondanza di disegni ex post, va di pari passo con una molteplicità di riproduzioni dell’oggetto, in diversi contesti, media e scale. Un piccolo ma significativo esempio, tra i tanti, è il cosiddetto Teatro del Mondo model kit. Creato da un editore olandese nel 1984, il kit consiste in una serie di sagome di cartone, che possono essere piegate e assemblate per formare un modello in scala 1:100 del teatro. Uno degli elementi più interessanti è l’esploso assonometrico del modello, con istruzioni di montaggio molto dettagliate – le istruzioni che il teatro veneziano non aveva mai avuto. L’iniziativa parte da Umberto Barbieri, che in quel periodo collabora con Rossi su importanti progetti in Olanda. Ma il lavoro manuale viene prestato da Onno van Nierop, un giovane architetto e grafico locale. Il suo compito è scomporre e riprodurre i famosi disegni del Teatro del Mondo, creando un set di elementi bidimensionali, finalizzati a formale un modello. Chissà se fosse consapevole che quei disegni erano stati realizzati da Stead, dopo la demolizione del teatro. Il breve testo che accompagna il modello culmina con una chiamata alle armi di Barbieri: Il teatro galleggiante è stato smantellato dopo la Biennale, l’evento per cui era stato costruito. Da allora sono uscite molte pubblicazioni, disegni, fotografie e schizzi del Teatro del Mondo. Questo model kit costituisce un supplemento. Ora anche tu puoi costruire 52

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una replica di un monumento provvisorio, che contiene così tante immagini e forme tipiche della storia e dell’architettura.7

Non è solo un’operazione di riproduzione: l’obiettivo è anche dare l’impressione che l’interlocutore possa fare proprio il teatro e partecipare al processo costruttivo. Lavorare sul piano bidimensionale del disegno o dell’immagine fotografica costituisce la strada più diretta per la riproduzione. Rientrano in questa categoria anche le immagini del Teatro del Mondo utilizzate per campagne pubblicitarie su riviste e giornali, nel corso degli anni Ottanta: tra le aziende che sfruttano il potere di questa architettura troviamo Sisley e soprattutto Alessi, con cui Rossi sviluppa un rapporto di collaborazione molto stretto nella fase finale della sua carriera. Ma tale meccanismo non opera solamente sul livello della rappresentazione bidimensionale: lo sforzo riproduttivo coinvolge anche l’ambito che, teoricamente, doveva rimanere estraneo alla cultura post-moderna dell’immagine: l’ambito del building8. Rossi trova un terreno particolarmente fertile per questo tipo di sperimentazione negli Stati Uniti, che si dimostrano molto ricettivi alla sua ambizione di internazionalizzazione. Una prima indicazione arriva subito dopo la Biennale del 1980. Come riportato da Arduino Cantafora, lo studio milanese di Rossi diventa il centro di uno scambio diplomatico transatlantico, allorché la first lady degli Stati Uniti, Nancy Reagan si mobilita per provare a portare il Teatro del Mondo a San Francisco9. Nonostante il trasferimento si riveli infattibile, Rossi recepisce il messaggio e inizia a utilizzare il teatro veneziano in altri modi per relazionarsi con interlocutori oltreoceano. È importante sottolineare come Rossi avesse fatto da poco il suo ingresso sulla scena americana10. Le prime interazioni sono con istituzioni accademiche e gallerie d’arte, che espongono e vendono i suoi disegni. Ma il rapporto si intensifica negli anni Ottanta e iniziano ad arrivare importanti commissioni di progettazione. Nel 1985, Rossi apre anche un ufficio a New York: l’ultimo decennio della sua carriera scorre, in misura significativa, sull’asse Milano-New York11. Tra le attività più rilevanti sviluppate in quest’ambito, in termini di importanza del committente e scala dell’impegno, spiccano i progetti per l’Università di Miami e l’Euro Disney Resort. Entrambi comprendono una replica del Teatro del Mondo. Sebbene, dopo un lungo sforzo di 53

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progettazione, tali proposte siano rimaste sulla carta, i disegni mostrano come il teatro fosse diventato un dispositivo multifunzionale nella pratica di Rossi. Da un lato, queste repliche hanno funzioni specifiche. Per esempio, nel progetto per Miami, il teatro ospita la biblioteca universitaria. La spiegazione dell’architetto è significativa: Nello spirito di Venezia, la città senza confini, la biblioteca è posta sull’acqua e ricostruita, come citazione del teatro del mondo. Il teatro diventa una biblioteca e, allo stesso tempo, l’originale di un edificio scomparso.12

Dall’altro lato, il Teatro del Mondo appare anche in un’altra veste, spesso slegata dalla rappresentazione della proposta progettuale. Per esempio, nel caso di Euro Disney, analizzando planimetrie o viste prospettiche, ci si può imbattere in piccole immagini del teatro, prospetti stilizzati, che sembrano galleggiare sul piano del disegno, senza interagire con gli altri elementi. Da questo punto di vista, oltre a essere incorporato come edificio nel progetto, il teatro veneziano sembra anche operare come una specie di logo – una figura altamente riconoscibile che connette in modo inequivocabile il progetto all’autore13. Il riferimento, negli stessi disegni, è l’onnipresente logo di Disney, un’immagine di Mickey Mouse davanti a un mappamondo. Nel periodo in cui Disney diventa uno dei principali committenti di Rossi, il Teatro del Mondo sembra seguire le orme di Topolino. Ulteriore esempio è il progetto, questa volta realizzato, per il municipio di Celebration, la città di fondazione Disney in Florida, sul quale Rossi lavora nell’ultimo anno di vita: dalla laguna di Venezia alle wetlands vicino a Orlando, il Teatro del Mondo è sempre il centro del progetto.Oltre ai disegni di presentazione realizzati dopo il successo della Biennale, c’è anche una raccolta consistente di schizzi preliminari del Teatro del Mondo, molti dei quali sono finiti nell’archivio del Canadian Centre for Architecture. Tali studi mettono in luce diverse riflessioni emerse durante il processo di progettazione. Per esempio, una delle prime bozze del prospetto è caratterizzata dal disegno di una mano, che sembra sollevare il teatro, afferrando la punta della copertura. Non è chiaro chi sia l’artefice di questa intrusione, forse un collaboratore, forse Rossi stesso. Per altro il motivo della mano è molto comune nei disegni rossiani, basti pensare all’ossessione per la mano del Santo. 54

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Aldo Rossi, Euro Disney con prospetto del Teatro del Mondo, 1988

Nel caso del disegno del teatro, questa mano corbuseriana apre una finestra su una questione centrale nel lavoro di Rossi: la questione della scala. Basta disegnare una mano perché un edificio venga letto in maniera completamente diversa, magari come un giocattolo o una casa per le bambole. Allo stesso tempo, la mano rimanda a un ambito che, proprio in quel periodo, acquisisce sempre più rilevanza nelle sperimentazioni di Rossi: l’ambito del design industriale. Come già notato, particolarmente significativa è la collaborazione con Alessi, che costituisce un’opportunità per lavorare su oggetti alla scala della mano e, soprattutto, per confrontarsi con un particolare metodo di riproduzione, che riesce a tenere insieme il mito dell’unicum con la necessità della serialità14. Non è difficile vedere la continuità tra il Teatro del Mondo e le caffettiere che Rossi disegna per Alessi. L’esempio più chiaro è la caffettiera Ottagono, che viene esplicitamente presentata come una miniatura del teatro veneziano. Da questo punto di vista, basta disegnare una mano perché l’edificio possa diventare una macchina per il caffè. Sebbene la mano suggerisca una trasposizione dell’architettura nell’ambito del giocattolo o dell’oggetto di design, un altro elemento inusuale apre una prospettiva diversa sugli schizzi del Teatro del Mondo. In questi elaborati grafici di natura schematica, è interessante notare come l’architetto entri nel dettaglio di un aspetto molto pratico: grondaie e pluviali. A fianco degli schizzi, più o meno abbozzati, del prospetto del teatro, troviamo molteplici disegni di dettaglio, che illustrano il sistema di raccolta dell’acqua piovana. Sembra ironico che, nella progettazione di un’architettura galleggiante, ciò che preoccupasse l’architetto fosse soprattutto la pioggia. Inoltre, a un livello più profondo, questo dettaglio conferisce una qualità architettonica all’oggetto: i giocattoli e le caffettiere non hanno il problema dell’acqua piovana. L’impianto è studiato in modo scrupoloso: abbiamo diverse viste di ogni elemento (piante, prospetti, schizzi assonometrici) e le componenti principali sono tutte quotate. Si può, per esempio, leggere la dimensione, in centimetri, dei doccioni alla base della copertura e il loro angolo di inclinazione rispetto alla facciata del teatro. Sono dettagli rilevanti perché remano contro la maniera eterea con la quale il teatro viene generalmente rappresentato, riducendo l’edificio ad una serie di linee immateriali, oltre a contraddire la possibilità del salto di scala. 56

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Aldo Rossi, Teatro del Mondo, dettagli del sistema di raccolta dell’acqua piovana, 1979

Ricostruzione del Teatro del Mondo a Genova, 2004

In questo caso, non c’è ambiguità rispetto alla dimensione dell’oggetto: ogni canale di scarico sporge per 40 centimetri dalla facciata e il suo diametro si restringe da 12 a 6 centimetri. Significativamente, tale apparato viene riproposto anche nei vari spin-offs del Teatro del Mondo, dal model kit olandese fino alle riproduzioni più recenti, come il modello in scala 1:5 esibito alla Fondazione Vedova nel 201215. Queste condutture costituiscono indicatori fondamentali della materialità del teatro. Sono infatti gli unici elementi della struttura metallica che perforano l’immacolato involucro ligneo e si rivelano all’esterno. Nonostante l’attenzione sia comunemente rivolta all’immagine esterna dell’edifico rossiano, gli scoli ci spingono a guardare al di là della facciata. Come ricorda Paolo Portoghesi, curatore della sezione Architettura alla Biennale del 1980, la proposta iniziale di Rossi prevede l’utilizzo di un telaio strutturale in legno – una soluzione che si rivela subito infattibile per motivi di tempi e costi16. L’unico modo per stare dentro il budget (80.000.000 di lire) è impiegare una struttura metallica. Ci si rivolge quindi a Ponteggi Dalmine, la principale azienda italiana nel settore delle impalcature. Questo passaggio è molto importante, perché Dalmine non si limita a fornire i materiali e montare la struttura, ma svolge un ruolo centrale anche nella sua progettazione. È questo il motivo per cui non si trovano i disegni esecutivi del teatro nell’archivio rossiano. L’équipe che porta avanti il progetto di ricostruzione a Genova scopre infatti che il teatro veneziano viene costruito sulla base di disegni tecnici realizzati dagli ingegneri Dalmine, che trasformano gli schizzi di Rossi in un progetto esecutivo. Il coinvolgimento di Dalmine va ancora più in profondità. Come sottolineato da Gianni Braghieri, la Biennale non ha le risorse per acquistare i tubi metallici ed è quindi costretta a noleggiare tale impalcatura17. Nonostante fosse (e sia ancora) una pratica molto comune per opere di questo tipo, fa strano pensare che la struttura di uno degli oggetti architettonici più iconici del novecento fosse presa in affitto. Questo è anche uno dei motivi per cui il teatro deve essere smantellato così velocemente: ogni giorno corrisponde a una somma da versare per l’utilizzo dell’impalcatura. Dopodiché, quando il teatro viene smontato, i tubi vengono restituiti a Dalmine, che li reimpiega per altri progetti. Quindi, la struttura originale del Teatro del Mondo viene poi usata per altre impalcature, chissà dove. 59

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Nel 2004, in occasione della ricostruzione del teatro a Genova, si ripete lo stesso processo. Anche in questo caso, il budget previsto (500.000 euro) non consente l’acquisto dei tubi Dalmine, che vengono nuovamente presi a nolo. Sebbene l’idea iniziale fosse di mantenere il nuovo teatro nel lungo periodo, il costo del noleggio spinge verso un intervento di breve durata. Allo stesso tempo, il fatto che la struttura fosse stata originariamente progettata dai tecnici Dalmine, con il loro sistema modulare, crea le condizioni affinché, venticinque anni dopo, un altro gruppo di architetti possa tornare dalla stessa azienda e rimettere in atto la stessa operazione. Come nel caso di Alessi, si delinea un rapporto molto particolare tra il progettista e il costruttore. Alberto Alessi ricorda che, quando i suoi tecnici chiedevano a Rossi disegni più articolati rispetto agli schizzi, l’architetto rispondeva stizzito: “voi sapete fare una caffettiera molto meglio di me”18. Il costruttore diventa quindi parte del processo di progettazione, definisce il metodo di riproduzione e, con il passare del tempo, rimane unico depositario del know-how. Detto questo, Dalmine e Alessi rispondono a logiche di produzione e riproduzione agli antipodi. Dalmine costruisce la propria fortuna attorno a un unico prodotto, il sistema modulare dei cosiddetti tubi innocenti, che può generare infinite strutture. È la logica della serialità e della standardizzazione: l’azienda produce una cosa che rimane sostanzialmente invariata tra il 1979 e il 2004. Nulla di più distante dalla narrazione di Alessi, in cui ogni prodotto viene presentato come diverso, unico, prototipico – il frutto di una fabbrica sì, ma di una post-moderna “fabbrica estetica”19. Se, da un lato, il Teatro del Mondo emerge come simbolo di questa cultura, dall’altro lato, la sua ossatura è costituita da un sistema così generico e standardizzato che, una volta finita la mostra, le sue componenti possono essere riutilizzate in un altro cantiere qualsiasi. L’altra parte del teatro, l’involucro ligneo, segue una parabola molto diversa. Come già accennato, dopo la demolizione della struttura nel 1981, le assi rimaste in buone condizioni finiscono in un magazzino a Marghera. Si tratta di una struttura gestita da Syndial, un’azienda specializzata nello smaltimento dei rifiuti. Dato che il profumo della spazzatura, per dirla con Michael Shanks, costituisce una barriera efficace, ciò che rimane del Teatro del Mondo viene sostanzialmente dimenticato, finché i promotori del progetto genovese decidono di mettersi 60

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sulle tracce dei “legni originali”20. A quel punto, tale materiale non è in condizione di essere spostato ma, come spiegato da Braghieri, serve come modello per la ricostruzione a Genova. L’obiettivo è acquisire informazioni che fotografie e disegni non possono fornire in modo esaustivo, come per esempio il colore esatto dell’intonaco. Sebbene il progetto mirasse a “ricreare l’immagine del teatro,” viene anche riconosciuta l’importanza della materialità dell’edificio rossiano. Alla luce di questa ricerca, ciò che traspare alla fine della mostra genovese è abbastanza sorprendente. Il titolo di un articolo pubblicato da “La Repubblica” riassume bene la situazione: “Smontano il Teatro del Mondo: si va a fare legna”21. Questa volta, infatti, gli organizzatori della mostra decidono che, invece di immagazzinare le componenti dell’involucro, sarebbe stato più semplice e meno costoso lasciare i materiali alla mercé del pubblico. Nei giorni successivi, chiunque può approcciare il cantiere e portarsi a casa un pezzo del Teatro del Mondo. Al contrario dei preziosi tubi Dalmine, che vengono subito restituiti al proprietario, la pelle lignea diventa qualcosa di cui disfarsi nel modo più economico possibile, visto che non si può riutilizzare. Nei suoi scritti, Rossi ripete più volte un commento di John Hejduk, che descrive il Teatro del Mondo in questi termini: “inside is Europe, but outside, the shell is America”22. Il riferimento è probabilmente legato al fascino di Rossi per alcuni oggetti incontrati nei primi viaggi americani, come le cisterne sui tetti di New York o i fari del New England. Nonostante il commento di Hejduk, che piace molto a Rossi, non venga mai spiegato, la dicotomia tra interno ed esterno offre una chiave di lettura importante, non solo per la tensione tra i tubi Dalmine e l’involucro ligneo, ma anche per la difficoltà nell’inquadrare il teatro e definire la sua geografia. Il termine “mondo” si apre a molteplici interpretazioni. Nel dibattito che accompagna la Biennale, vengono citati diversi riferimenti. Uno è il globe theatre shakespeariano, che Rossi stesso indica come fonte di ispirazione. Ma la maggior parte degli addetti ai lavori collega il progetto alla tradizione veneziana del theatrum mundi, evocando le strutture galleggianti elaborate da Scamozzi e Rusconi nel Cinquecento. Quei teatri provvisori erano concepiti come piccole cosmologie in movimento, modelli in scala di un mondo immaginato come palcoscenico, uno spettacolo da osservare dall’esterno, dalla terra ferma. Manfredo Tafuri è tra i pochi a mettere in discussione tale collegamento, sottolineando la 61

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“forma chiusa e bloccata” dell’edificio rossiano, che associa a concetti espressamente anti-veneziani quali il limite e la finitio23. Tale caratterizzazione si inverte nell’analisi dell’after-life del Teatro del Mondo. Se, per Tafuri, il progetto per la Biennale era “destinato ad apparire e sparire” nello spazio della laguna, le riapparizioni in nuove acque, nei decenni successivi, mettono alla prova questo limite. Mentre l’originale solca le acque dell’Adriatico per pochi mesi, le riproduzioni del teatro continuano a girare il mondo, ben oltre la scomparsa dell’architetto. Questa serie di copie, a più scale e in diversi formati, si intreccia con il processo di internazionalizzazione dell’attività rossiana – un processo che dà una diversa connotazione al termine “mondo.” La migrazione dell’aura dall’originale alle copie, per dirla con Bruno Latour, va di pari passo con la migrazione dell’architetto stesso24. Nell’ultima fase della sua carriera, in particolare quando Rossi inizia a lavorare con continuità negli Stati Uniti, il teatro veneziano inizia ad operare come una matrice progettuale – una forma la cui riproduzione apre nuove porte per l’architetto. Quella che Tafuri chiama “forma sradicata” aiuta Rossi a trovare radicamenti in nuove milieux. L’open work di immagini e oggetti prodotti, riprodotti e post-prodotti sulla scia del Teatro del Mondo mette in luce l’emergere di una cultura progettuale destinata a diventare centrale nel nostro paese, navigando sul confine tra italianità e internazionalismo, tra il mito dell’unicum e la serialità. Non è un caso che, quando la rivista “Time” incorona “Italy’s Aldo Rossi” come “international cult hero” dopo il Pritzker Prize, l’articolo sia accompagnato da illustrazioni del teatro veneziano, accanto alle caffettiere Alessi25. Rossi gioca un ruolo particolare in questa dinamica anche in virtù del suo impianto teorico, la base di un metodo progettuale che, nella lettura di Peter Eisenman, genera “subversive analogues” attraverso la dissoluzione del luogo e della scala26. Nel delineare questa ipotesi teorica negli anni giovanili, Rossi era partito proprio da Venezia, prendendo come esempio un capriccio di Canaletto, nel quale la città prende forma attraverso la “trasposizione geografica” di tre edifici palladiani. Il Teatro del Mondo dà un’altra dimensione alla riflessione sul tema del locus solus, il rapporto singolare tra città e architettura, non solo in virtù della sua natura di oggetto viaggiante, ma soprattutto per via della sua riapparizione come copia, nelle modalità più eterogenee, in acque lontane dal bacino di San Marco. 62

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Articolo su Aldo Rossi pubblicato da “Time” in occasione del Pritzker Prize, 1990

Note

10. P. Eisenman (ed.), Aldo Rossi in America: 1976 to 1979, Institute for Architecture and Urban Studies, New York 1979.

1. M. Brusatin, A. De Poli (a cura di), Venezia e lo Spazio Scenico, Edizioni Biennale, Venezia 1979, pp. 166-171.

11. S. Fabbrini, The State of Architecture: Aldo Rossi and the Tools of Internationalization, Il Poligrafo, Padova 2020.

2. F. S. Fera, Sulla Ricostruzione del Teatro del Mondo di Aldo Rossi, in “Firenze Architettura”, n. 1, 2006, pp. 166-171. 3. J. Bloomer, Abodes of Theory and Flesh: Tabbles of Bower, in “Assemblage”, n. 17, 1992. 4. D. Zanasi, et al., Aldo Rossi: Il Teatro del Mondo, 1979-2004, documentario realizzato in occasione della ricostruzione del teatro a Genova, 2004. 5. A. Ferlenga, “Il Teatro del Mondo | Aldo Rossi | Venezia 1980. L’inizio di un viaggio... fotografie di Antonio Martinelli”, mostra all’Università Iuav di Venezia, 2022. 6. J. Reiser, Jesse Reiser on Aldo Rossi, in “Drawing Matter”, 30 settembre 2017, https://www.drawingmatter. org/sets/drawing-week/jesse-reiser-aldo-rossi. 7. U. Barbieri, et al., Aldo Rossi: Teatro del Mondo Model Kit, Academia Boekhandel, Delft 1984. 8. S. Lavin (ed.), Architecture Itself and Other Postmodernization Effects, Spector Books, Leipzig 2020. 9. N. Ornaghi, F. Zorzi, Conversation with Arduino Cantafora, in “Log”, n. 35, 2015, pp. 85-96. 64

12. A. Rossi, Project for the New School of Architecture at the University of Miami, documento non datato, Archivio del Canadian Centre for Architecture. 13. P. Deamer, Branding the Architectural Author, in “Perspecta”, n. 37, 2005, pp. 42-49. 14. G. Lees-Maffei, Italianità and Internationalism: Production, Design and Mediation at Alessi, in “Modern Italy”, vol. 7, n. 1, 2002, pp. 37-57. 15. G. Celant (a cura di), Aldo Rossi: Teatri, Skira, Milano 2012. 16. P. Portoghesi, Il Teatro del Mondo in M. Brusatin, A. Prandi (a cura di), Aldo Rossi: Teatro del Mondo, Cluva, Venezia 1982, pp. 133-138. 17. D. Zanasi, et al., op. cit. 18. A. Alessi, La Fabbrica dei Sogni: Alessi dal 1926, Rizzoli, Milano 2016. 19. A. Mendini, La Fabbrica Estetica, Alessi Tendentse, Crusinallo 1992. 20. M. Shanks, et al., The Perfume of Garbage: Modernity and the Archeological, in “Modernism / Modernity”, vol. 11, n. 1, 2004, pp. 61-83.

SEBASTIANO FABBRINI

21. M. Bombani, Smontano il Teatro del Mondo: A Caricamento si Va a Fare Legna, in “La Repubblica”, 7 aprile 2005. 22. A. Rossi, I Quaderni Azzurri 19681992, Quaderno Azzurro n. 26, 1979, Archivio del Getty Research Institute. 23. M. Tafuri, L’Ephémère est Eternel: Aldo Rossi a Venezia in “Domus”, n. 602, 1980, pp. 7-11. 24. B. Latour, A. Lowe, The Migration of the Aura or How to Explore the Original through its Facsimiles in T. Bartscherer, R. Coover (eds), Switching Codes, University of Chicago Press, Chicago 2010, pp. 275-297. 25. k. Andersen, A Cult Hero Gets His Due: The Bold, Austere Architecture of Italy’s Aldo Rossi Wins the Pritzker Prize, in “Time”, 30 April 1990. 26. P. Eisenman, Editor’s Introduction: The Houses of Memory, The Texts of Analogy, in A. Rossi, The Architecture of the City, Oppositions Books, Cambridge 1982, pp. 3-11.

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NON È IL TEATRO DEL MONDO

L’arca pirata e il Teatro del Mondo Annalisa Sacchi

Questo testo è la trascrizione di un talk tenuto nell’ambito del progetto “100 ways to say we”, prodotto durante la 17. Biennale di Architettura a Venezia da Theater Neumarkt e Goethe-Institut/Performing Architecture in collaborazione con Sale Docks e Florian Malzacher. Il progetto si è sviluppato in una maratona digitale e in presenza. Una sorta di rappresentazione di molteplici scenari futuri. La maratona utopica, in un presente distopico, riunisce cento formulazioni su un “noi” futuro da parte di artisti, teorici, attivisti e collettivi di tutto il mondo. “100 ways to Say we” è anche un archivio digitale in cui sono raccolti possibili scenari presenti e futuri: www.goethe.de/prj/par/it/prs/100.html.

Venezia - Dubrovnik 2100 Evocare una scena futura è un compito che, da storica, faccio molta fatica ad assolvere. La promessa di conoscenza prima del tempo, questo gesto proiettivo che necessariamente convoca un’utopia o una distopia, o una tele-scopia, rischia di guardare lontano senza ammettere la possibilità di perderci di vista. Il rischio è quello di disporre una scena che fronteggi, replicandola, amplificandola, persino rendendola grottesca, la scena del nostro presente. Del resto però nel teatro, che è il mio campo di lavoro, la questione spazio-temporale, la fenomenologia disallineata della scena, il fatto che nessuno dei suoi tempi o luoghi o soggetti possa dirsi pienamente compiuto, scardinano la linearità puramente cronologica passato presente futuro. “Time is out of joint”: il tempo è fuori dai cardini, dice Amleto. Propongo qui un percorso rapidissimo che apparecchia una scena del futuro attraverso l’unica risorsa felice di cui è capace la filosofia della storia, ovvero la redenzione, una redenzione chiaramente laica e materialista, come ci ha insegnato walter Benjamin. Mi interessa quindi pre-vedere una scena in eccesso dove qualcosa sta ancora succedendo, e tuttavia mai la stessa cosa. Un “evento” che continua a proporsi e che intendo come eventualità. In altre parole, parto dal passato immaginando una sua vita a-venire possibile, i tratti di quanto succederà, una eventualità ulteriore, che si manifesta in un futuro ipotetico ma quanto mai plausibile. Il futuro da cui parto è un anno piuttosto tondo, è il 2100. La prima immagine in alto è una famosa infografica vecchiotta e che ormai è considerata ottimistica. Quelli bassi siamo noi. La seconda immagine è una proiezione più recente. Insomma, nel 2100 siamo in un tempo in cui Venezia è sommersa. E come nella più classica delle versioni diluviane in questa storia che ho immaginato per oggi interviene un’imbarcazione lignea piuttosto imponente all’interno della quale certe forme di vita, certi saperi, certe memorie vengono messe in salvo e condotte in uno spazio in cui è possibile un ri-cominciamento. 67

L’imbarcazione, che si trova qui redenta, è il famosissimo Teatro del Mondo di Aldo Rossi. Per chi non avesse familiarità con questa struttura, è utile sapere che nel 1979 fu varato nelle acque del Canal Grande, davanti a Punta della Dogana, questo teatro poteva contenere circa quattrocento spettatori e attualizzava una forma già presente nelle celebrazioni veneziane di teatro natante. Si inseriva, questo progetto, nel contesto della riflessione sulla natura scenografica di Venezia, e sull’artificio architettonico che la elegge a scena teatrale per eccellenza. Inoltre, rievocava la tradizione cinquecentesca dei teatri natanti, le costruzioni galleggianti che utilizzava la Serenissima per particolari occasioni pubbliche. Il Teatro del Mondo fu utilizzato per il Carnevale del Teatro e l’anno successivo, il 1980 compì un viaggio per l’Adriatico verso un altro festival teatrale, quello di Dubrovnik. Fu poi smantellato in quanto architettura effimera, accomunata alla stessa sorte di sparizione che tocca alla scena e a quanto si sottrae alla presa normalizzante dell’archivio tradizionale, e in qualche modo, così, fu consegnato al mito. Ecco però che nel 2100 questo teatro riappare come arca. Le forme di vita che salveremo sono chiaramente tutti gli studenti e le studentesse del corso magistrale in Teatro e Arti Performative dell’Università Iuav di Venezia, che sarà giunto per allora alla sua 84. edizione e avrà nel frattanto ripopolato Venezia. L’altra forma di vita che abiterà quest’arca l’ho scelta perché la trovo particolarmente sfortunata e a me prossima. Pare infatti che il fenicottero rosa sia appena tornato a popolare le barene. Questo suo periglioso ritorno mi fa avere parecchio a cuore le sue sorti e trovare specialmente drammatica una condizione segnata da un’ennesima forzata delocazione. Dunque per ricapitolare abbiamo Venezia sommersa, un ri-funzionalizzato Teatro del Mondo, e una comunità di performer, intellettuali e fenicotteri rosa. E quella che vi propongo, a suo modo, è una storia di redenzione, col Teatro del Mondo che si fa anarchico e pirata, che ribadisce orgogliosamente, contro tutte le evidenze della storia, la durata lunghissima, centenaria dell’effimero, un’arca, soprattutto contro l’arché del teatro come spazio in cui la legge e il castigo danno spettacolo di sé. Tanto per darvi un’idea di questo rapporto, quando nel 1793 winspeare e Carpi progettarono per Ferdinando IV di Borbone uno dei più mostruosi carceri della storia, il panopticon 68

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Dall’alto, infografica When sea level attaks!; infografica del livello del mare a Venezia nel 2100; Teatro del Mondo di Aldo Rossi; fenocotteri rosa in laguna

di Santo Stefano (quello dove furono reclusi i rivoluzionari del 1848, Spaventa e Settembrini, in cui fu ammazzato a bastonate Gaetano Bresci, e poi nel ventennio fascista imprigionati partigiani come Pertini e Terracini) non avendo esempi a cui ispirarsi pensarono bene di usare la pianta del Teatro San Carlo di Napoli. Chi ammirava, con orrore, la costruzione, diceva per descriverla: “Immagina un grande teatro scoperto”. Chi si occupa di queste storie sa bene, del resto, che la scena scatena, da sempre, una potenza antibiotica, contraria, e non speculare alla vita. Ma torniamo alla nostra arca che riabilita invece queste collusioni tragiche tra spettacolo, pena e supplizio, e ci fa per un po’ dimenticare che, come ha notato Romeo Castellucci, palco è anagramma di colpa. Nel 2100 questa arca parte dunque ripercorrendo la sua originale rotta, da Venezia a Dubrovnik. O meglio non proprio Dubrovnik, si fermerà un po’ prima, a Lagosta. Lagosta (o Lastovo) era la capitale degli Illiri, famosa stirpe di pirati, le cui imprese risalgono, ci racconta Polibio senza particolare simpatia, alla regina Teuta che gran filo da torcere diede alla supremazia romana sull’Adriatico nel III secolo a.C. E qui le trame della storia s’ingorgano e ritornano, perché sappiamo che alle origini del teatro moderno e di certe forme di pirateria o meglio di storia corsara sta un’altra reggente donna, Elisabetta regina, e sotto di lei prosperò il primo dei teatri del mondo, il Globe Theatre di william Shakespeare, e una corte di corsari leggendari, i Sea Dogs. Oggi, a Southbank a Londra, a poche centinaia di metri l’uno dall’altra, potete vedere due vanti inglesi dell’epoca elisabettiana. Il Golden Hind, il famosissimo galeone “corsaro” di Sir Francis Drake che circumnavigò il globo terrestre, e la ricostruzione appunto del Globe Theatre di Shakespeare. C’è una gran letteratura intorno al tema della pirateria. Penso a David Graber, a Daniel Heller-Roazen, a Marcus Rediker con libri dai titoli bellissimi, Il nemico di tutti, Il pirata contro le nazioni, Canaglie di tutto il mondo, I ribelli dell’atlantico, L’utopia pirata di Libertalia, che in generale concordano nel sostenere come il pirata mini la legittimità della violenza istituzionale, come demolisca la cornice dentro cui le nazioni se ne appropriano. C’è una componente geografica molto interessante nella storia dei pirati, quella di una serie di località che si sottraggono alle nazioni, zone d’ombra come, vedremo, Pagania, in 70

ANNALISA SACCHI

Dall’alto, carcere di Santo Stefano; pianta del Teatro San Carlo di Napoli; isola della Dalmazia meridionale Lagosta (o Lastovo); città di Lagosta

cui sbocciano le utopie corsare. Si tratta di una geografia che rende il mondo meno facilmente attraversabile perché in generale i pirati sono i primi predoni della globalizzazione, se ne approfittano, si mettono in mezzo nei traffici marittimi di chi la organizza, si infilano tra le grandi potenze e le loro rivalità. Ma torniamo agli Illiri pirati e alla regione che abitarono in Dalmazia, nella quale si insediò molti secoli dopo un’altra popolazione che prese il nome dal fiume Narenta che bagna quelle terre. I Narentani appunto. Altri li appellarono come Pagani, per la loro resistenza al cristianesimo, e la regione prese il nome di Pagania. Anch’essi pirati, rappresentavano una pesante spina nel fianco al dominio nascente della Serenissima Repubblica di Venezia intorno all’anno mille. Fu così che il Doge Pietro Secondo Orseolo, l’iniziatore dello Stato del Mar, organizzò una flotta che impose il dominio veneziano in Dalmazia. Curzola e Lagosta resistettero. L’assedio di Lagosta terminò con la completa distruzione della città e con la popolazione ridotta in stato di prigionia. Lagosta divenne un possedimento veneziano. Interessante che per questa spedizione in particolare il Doge avesse preso la decisione di issare, pare per la prima volta nella storia, lo stendardo di San Marco, sancendo così de facto l’indipendenza da Bisanzio.Quest’isola dei pirati però, sconfitta e distrutta dalla Serenissima, morfologicamente si rivela vincente nel tempo lungo della redenzione della storia, perché ha coste ripide e rocciose, e insediamenti alti sul mare, molto meglio attrezzati a subire l’innalzamento delle acque. Quindi il nostro Teatro del Mondo, partito da una Venezia sommersa, col suo carico di artisti intellettuali e fenicotteri, ammainerà la bandiera della Serenissima e isserà un ben più eccitante Jolly Roger. Arriverà così a chiedere asilo alla comunità dei pirati di Lagosta. Da qui, da questa isola analoga come il Monte di René Daumal, ripartirà un nuovo cominciamento pirata, ecologico, trans, antispecista, femminista, queer, anarchico, natante e libertario. In conclusione, l’idea è quella sì di un’utopia del nostro vivere comune, ma che raggiunga il passato e non il futuro, e in cui centrale è la capacità di sbagliare rotta, fermandosi a Lagosta e non a Dubrovnik, issando lì una bandiera pirata e ammainando il leone guerriero, scegliendo il teatro, l’effimero, la convivenza e l’alleanza invece della conquista.

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Dall’alto, Teuta in un francobollo albanese,1980; Golfo di Venezia, cartina di Padre Vincenzo Maria Coronelli,1688; tragitto dal Golden Hind alla ricostruzione del Globe Theatre a Londra; miniatura del pirata Stede Bonnet davanti alla bandiera corsara Jolly Roger

Veneland. Una Venezia a pochi passi da Venezia Christian Toson

Ringrazio Marina Mistro, non solo per le sue preziose testimonianze, ma anche per aver dato un contributo fondamentale a questa ricerca e aver organizzato l’intervista con Michele Zamperla, che a sua volta ringrazio per aver gentilmente condiviso il materiale del suo archivio personale.

Delle centinaia di finte Venezie costruite nel mondo, ne è esistita per un breve tempo una a pochi chilometri dalla “vera” Venezia: Veneland. Questa impresa effimera e ormai quasi completamente dimenticata, riusciva a essere, con un gioco mirabile di specchi e allusioni, non solo una finta Venezia ma anche una finta Las Vegas. Facciamo un passo indietro all’inizio degli anni Settanta, in un Veneto che, sull’onda del miracolo economico italiano, ma con qualche anno di ritardo rispetto alle altre regioni del Nord, si stava trasformando in una delle aree economicamente più sviluppate d’Europa. Sono anche gli anni dell’affermazione delle industrie venete nel settore dell’abbigliamento e della meccanica e della conseguente nascita di un’intera nuova classe dirigente di piccoli e medi imprenditori. Contestualmente l’attività edilizia cresce a ritmi frenetici, in un processo che porterà alla formazione della grande conurbazione che da Padova si estende quasi ininterrottamente fino a Venezia e a Treviso, oggi definita città diffusa del Veneto orientale1. Emergono in questo contesto nuove forme architettoniche e tipologie urbane tipiche della città del commercio, come le strade-mercato e i centri commerciali2. Si tratta di un momento di grandi trasformazioni e innovazioni, influenzato dal più esteso dibattito italiano degli anni Sessanta e Settanta sull’architettura della città che aveva nelle università veneziane uno dei poli più importanti. È in questo orizzonte che tre imprenditori decidono di associarsi con l’idea di costruire un grande parco divertimenti a Marocco, nelle vicinanze di Mogliano Veneto, a pochi chilometri da Venezia e in una zona strategica lungo l’asse del Terraglio che collega Mestre a Treviso. Sono sopravvissuti pochi documenti – alcune relazioni tecniche, qualche disegno, una delibera comunale – dai quali possiamo ricostruire parzialmente lo sviluppo cronologico del parco. La storia del progetto dimostra fin da subito un complesso intreccio di istanze che legano territorio, città, ambiente naturale e ambiente sociale, coinvolgendo attori molto eterogenei fra loro, dalle amministrazioni agli ideatori e ai finanziatori del futuro parco divertimenti.

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Lo spazio acquatico Il primo, importante, protagonista di questa vicenda è lo spazio acquatico. Sappiamo che nel 1976, dopo tre anni di trattative, la società OSPEZA acquistò grandi particelle di terreno in una zona agricola e industriale nei pressi di Mogliano Veneto dove si trovavano cave di argilla e fornaci per la produzione dei laterizi; il terreno era appartenuto alla ditta Manaresi Cenacchi, per poi essere abbandonato a causa del fallimento della stessa e successivamente messo all’asta dal Tribunale di Treviso. Le cave, molto estese, con il tempo si erano allagate fino a formare una distesa di piccoli laghi, attraversati da un ramo del fiume Dese. Per questo motivo la zona era stata espropriata dal Ministero dei Lavori Pubblici per la creazione di un lago artificiale di sfogo, di circa 20 ettari, facente parte del progetto generale per la sistemazione del fiume Dese redatto dal Consorzio di Bonifica del Dese Superiore. Il territorio del futuro parco è fin da subito, come spesso accade in area veneziana, strutturato dalla presenza di opere idrauliche. Il grande specchio d’acqua creato dal Consorzio diventerà poi fulcro ed elemento organizzatore del piano del parco divertimenti, che sfrutta la varietà dei possibili ambienti acquatici da ricostruire: isole, ruscelli, canali, fontane, laghetti. Il grande lago centrale è un elemento tipico di moltissimi parchi divertimento, di cui l’esempio più celebre è rappresentato da quelli storici di Coney Island. Chiamati negli Stati Uniti lagoons, sono veri e propri spazi aggregatori, che ospitano anche alcune delle prime attrazioni, come i grandi scivoli detti shoot-the-chutes3. In questo caso è interessante notare come lo specchio d’acqua sia dapprima parte di un progetto di un’opera di pubblica utilità, che verrà utilizzata in un secondo momento per il parco divertimenti: il progetto per quest’ultimo si inserisce fin da subito all’interno della logica territoriale di quest’area di Veneto. Questo approccio è ben espresso nella relazione tecnica che accompagna la prima richiesta di concessione: Si è sentito il bisogno di salvaguardare, pianificando, l’ambiente naturale e di attrezzarlo come oggetto stesso dell’uso collettivo del tempo libero, collegandolo contemporaneamente in un piano organico con il territorio circostante in quanto riteniamo che sia 76

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inaccettabile concepire ancor oggi la appropriazione del territorio e degli ambienti naturali da parte dei privati, mentre è necessario destinare ad uso pubblico le zone non ancora pregiudicate.4

La logica di insediamento territoriale si interroga seriamente sulla connessione fra questa e le altre città dell’area metropolitana veneziana costruite intorno a un “ambiente naturale attrezzato”. Temi che sono al centro delle indagini e delle discussioni del mondo dell’architettura italiana e che pongono fin da subito questo parco a una certa distanza dal modello del parco divertimenti statunitense, che generalmente è completamente e volutamente avulso dal contesto in cui si trova. Secondo le testimonianze di alcuni parenti degli imprenditori, questa ipotesi si rafforza: il lago avrebbe dovuto, a loro parere, contribuire a risolvere anche i problemi dell’acqua alta a Venezia, e costituire un valido punto di approdo per il collegamento acqueo con la città. L’intenzione era di costruire un itinerario di viaggio prestabilito, nel quale i turisti avrebbero potuto dapprima visitare la città storica per poi raggiungere agevolmente in battello il lago dei divertimenti, dove avrebbero potuto alloggiare in alberghi in riva al lago dotati di tutti i comfort. Non si tratta, quindi, di un semplice parco divertimenti con giostre, ma di un ambizioso e per certi versi utopico progetto a scala territoriale, che forse, se completamente portato a termine, avrebbe modificato radicalmente la regione. In un primo momento sembra che il Comune di Mogliano Veneto fosse disposto positivamente nei confronti della proposta, tanto che alla fine del 1974 si attesta l’inizio del lungo iter burocratico con l’approvazione delle concessioni e il cambio di destinazione d’uso delle zone del PRG interessate del progetto, che consentono la costruzione nell’area di “attrezzature turistiche ed alberghiere”. Emilio Zamperla e Luciano Mistro Non è chiaro se l’idea di costruire un parco divertimenti approfittando di questa importante modifica territoriale fosse partita prima dagli imprenditori giostrai Emilio Zamperla e Osvaldo Spini, i fondatori della OSPEZA5, alla quale si è successivamente associato l’imprenditore Luciano Mistro, oppure se l’iniziativa sia partita dai tre congiuntamente. 77

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In ogni caso, dal progetto del 1976 risulta che circa 17 ettari del terreno fossero di proprietà di Luciano Mistro, mentre altri 21 ettari erano della OSPEZA, per un progetto che coinvolgeva in tutto circa 60 ettari di terreno (compresi 20 ettari del futuro bacino di espansione). La società OSPEZA e Mistro sono le due anime di questo parco, provenienti da contesti completamente differenti, sui quali conviene soffermarsi brevemente. Osvaldo Spini e Emilio Zamperla erano giostrai di professione. In particolare, la stirpe dei Zamperla fin dal XIX secolo si occupa di intrattenimento itinerante in Italia settentrionale, dalle giostre mobili agli spettacoli circensi, dai primi cinematografi ambulanti con licenza Lumière ai teatri itineranti. Si tratta di una famiglia molto allargata e ramificata: fra i parenti di Emilio Zamperla c’è anche Cesare Pelucchi, che negli stessi anni stava fondando quella che sarebbe successivamente diventata Gardaland. I due progetti, Veneland e Gardaland, nascono quasi insieme, e la documentazione ci conferma che i rispettivi fondatori sono effettivamente in contatto fra di loro. I due destini, tuttavia, saranno completamente opposti. Vista la grande esperienza dei Zamperla in questo campo, possiamo ragionevolmente supporre che l’idea imprenditoriale di realizzare in Italia grandi parchi divertimento nascesse proprio da loro, che erano aggiornati sui movimenti del settore nel resto del mondo. Non si tratta però dei primi parchi divertimento italiani in assoluto: esistevano già da molti anni, ed erano ancora in attività, sia il parco di LunEur a Roma, che il parco di Edenlandia a Napoli. Si trattava però di complessi più piccoli aperti negli anni Sessanta, che hanno riscontrato un discreto successo locale rimanendo in esercizio fino al primo decennio del Duemila. Il modello di riferimento di questi parchi, tanto per Gardaland quanto per la futura Veneland, resta in ogni caso il grande parco divertimenti statunitense. I Zamperla si erano infatti recati più volte negli Stati Uniti e fra la documentazione sono presenti mappe e i volantini della Disneyland californiana inaugurata nel 1955, che rappresenta il primo modello di parco divertimenti al quale i parchi italiani sicuramente si riferiscono (a partire dal font in caratteri gotici delle insegne di Gardaland, Edenlandia e della prima versione di Veneland). 78

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Ma non è l’unico modello: anche altri parchi, come lo knott’s Berry Farm, sempre in California, e, risalendo nel tempo, la già citata Coney Island, dove nacque il primo Luna Park. Rispetto a questi, tuttavia, il progetto per il parco di Veneland presenta molte differenze, prima fra tutte la presenza di un parco zoologico con grandi animali esotici. Nella famiglia Zamperla si contavano anche alcuni circensi che quindi avevano dimestichezza con questo genere di animali, tuttavia non accade di frequente che giostre e zoo coesistano nello stesso luogo. Si tratta infatti di due attività molto diverse fra loro, con problemi specifici che rendono la gestione complessiva piuttosto difficile. È possibile che l’anomala presenza di animali esotici, in particolare di grandi felini, sia dovuta alla seconda anima fondatrice del parco, Luciano Mistro, il quale fu un imprenditore sui generis. Cominciando come garzone di bottega, accumulò una piccola fortuna dedicandosi agli affari più disparati, dall’immobiliare, vendendo panifici e in seguito a capo dell’impresa costruttrice del villaggio Don Sturzo a Mestre, alla carrozzeria, riparando e successivamente rivendendo automobili, ai trasporti internazionali e a numerose altre iniziative. Personaggio eccentrico ed estroverso, dotato di notevoli capacità relazionali, amava avventurarsi in imprese rischiose e concepire progetti stravaganti, come l’acquisto di una derelitta fortezza volante per farne un ristorante. Fra i tanti episodi e incontri ve ne fu uno che rappresenta probabilmente, uno snodo fondamentale per la storia di Veneland: l’incontro alla fine degli anni Sessanta a Pinerolo nei dintorni di Torino, con Riccardo Jahier, che aveva da pochi anni aperto il ristorante Macumba; i due presto strinsero amicizia. Jahier era un ex soldato di ventura in Africa, che tornato in Italia, ebbe l’intuizione di aprire un locale con animali esotici. Il Macumba ebbe un successo folgorante e divenne presto il luogo privilegiato del jet-set torinese, dove l’elegante clientela poteva sedere al tavolo accarezzando i leopardi e puma che si aggiravano per il locale in completa libertà. Luciano Mistro si “innamorò” del locale, che frequentava con regolarità coltivando l’amicizia con Jahier. È a partire da questi contatti che, secondo la testimonianza della figlia di Mistro, Marina, nacquero sia la passione per gli animali esotici che l’ambizione di costruire un grande parco zoologico. 79

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Leggenda vuole che Mistro amasse portare un puma nella sua automobile sportiva e possedesse anche un cammello che portava a passeggio per le vie di Mestre. Fra le altre esperienze di Mistro che potrebbero aver influenzato l’idea di Veneland possiamo registrare anche un safari in Kenya con le figlie e la visita a Fasano, in Puglia, dove nel 1973 era stato aperto un grande zoo, a sua volta adiacente, negli stessi anni di Veneland, a un parco divertimenti chiamato Fasanolandia. È probabile quindi che nel periodo 1974-1976 Luciano Mistro sia entrato in contatto con Zamperla e Spini che stavano cercando investitori per il loro progetto, unendosi entusiasticamente all’impresa6. Appaiono quindi due anime diverse accomunate dalla stessa ambizione: quella dei giostrai professionisti, che conoscono il mestiere e intuiscono di poter applicare in Italia la tendenza globale a costruire parchi sempre più grandi e coinvolgenti; quella del self-made man all’italiana, che rispecchia i problemi di autorappresentazione della nuova classe emergente degli imprenditori veneti, in cerca di modelli di immagine e comportamento, trovandoli in figure già ben consolidate del mondo industriale e dello spettacolo dell’area metropolitana milanese e torinese. A contorno più ampio, l’Italia degli anni Settanta, avviatasi alla cultura del consumo, della vanità e dell’esotismo. Il Giramondo Se risulta in ogni modo difficile ricostruire precisamente la genesi dell’idea del parco a partire da poche informazioni biografiche e in gran parte aneddotiche, la documentazione progettuale depositata dall’architetto Lucio Piccoli e dal perito Santa Rocca presso il Comune di Mogliano a partire dal 1974 ci permette di ricostruire con esattezza il programma di Veneland. Per prima cosa è opportuno notare che il progetto nel 1976 non ha ancora un nome e viene semplicemente identificato come “Piano particolareggiato di un parco pubblico attrezzato”. Nelle tavole compare in alcuni punti la denominazione “Giramondo”. Il progetto, infatti, si sviluppa per temi geografici: intorno al lago erano previste aree che avrebbero riprodotto simbolicamente ogni continente. L’idea di rappresentare il mondo in una forma di microcosmo è antica quanto i primi giardini della storia, e la vediamo già presente nei primi amusement parks di Coney Island, come Dreamland. È interessante, tuttavia, notare certe caratteristiche uniche del microcosmo-Veneland. 80

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Progetto per il Giramondo, 1976

Il Giramondo, nella sua prima versione, prevedeva l’ingresso in una piccola Europa: mulini a vento olandesi, l’irrinunciabile Torre Eiffel, qualche villaggio in stile e una mini isola-piazza San Marco. A quel punto si abbandonava l’Europa incontrando in senso orario la Cina con pagode e muraglia, il mondo di Gulliver con vulcani, navi, giganti e castelli, per poi entrare nella Città del Futuro. Attraversando la ferrovia ad anello che collegava tutto il parco, sulle rive del lago si potevano visitare antichità in miniatura come il Colosseo, le Piramidi, il Partenone, un altro castello. Superata la Sfinge, sempre in senso orario lungo il lago, si entrava in una sorta di giungla piena di animali che si diradava alle pendici di una montagna svizzera, circondata però dagli ambienti naturali dell’Africa: la savana, il deserto, i villaggi nella foresta. Dalla cima del monte, tramite un’ovovia, si poteva approdare su un’isola di palme del Sud-Est asiatico. Il cerchio si chiudeva con l’America, divisa in due dalla ferrovia ad anello: il Far west, fatto di tende e fortini, e Las Vegas, impostata intorno a una grande piazza rettangolare, unite simbolicamente da un Ponte di Brooklyn in miniatura che serviva anche da confine con la zona “europea”; accanto a queste, trovavano posto anche alcune piramidi Maya. Fra un’area geografica-tematica e l’altra ci doveva essere la necessaria attrezzatura formata da aree verdi, fontane, laghetti, spazi per il riposo. Pur non costituendo una novità in senso assoluto, il Giramondo così concepito sembrava essere molto aggiornato per i tempi e stupisce per le dimensioni del mondo che metteva in scena. Si può intuire un’organizzazione per coppie contrapposte, in cui ad esempio, l’Europa guardava dall’altra parte del lago le rovine dell’antichità, una montagna alpina era contrapposta all’isola tropicale, la città di Las Vegas fronteggiava la Città del Futuro. Quest’alternanza per poli rispecchiava un dispositivo scenico costruito intorno al lago, il quale, come un piccolo mare nostrum, diventava il palco e il mezzo grazie al quale era possibile godere dell’insieme di tutte le attrazioni. Per una curiosa coincidenza, le dimensioni di questo lago erano sovrapponibili a quelle del bacino di San Marco. L’alternanza dei temi era un semplice ma efficace dispositivo di montaggio delle attrazioni per non indurre alla noia i visitatori, che nell’ideale movimento circolare lungo la ferrovia potessero ricevere stimoli sempre nuovi con un continuo senso di meraviglia. Stupore, mirabilia, sono i sentimenti 82

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che si cercano tradizionalmente di suscitare nel parco divertimenti (ma sono anche gli stessi dei visitatori che vedono Venezia per la prima volta). Scriveva l’architetto Lucio Piccoli nella relazione tecnica: Il complesso progettato si può definire un “Theme parc” [sic!] un parco cioè che sviluppa i motivi fondamentali (ricostruzione dei vari continenti, […], ecc.) che offrono lo spunto per riprodurre situazioni ed ambienti cari alla fantasia ed alla cultura e nello stesso tempo cerca di concretizzare quegli elementi che fanno di un ambiente un luogo di distensione.7

Si rivela un intento più sofisticato rispetto alla semplice giostra: il parco è pensato per stimolare, per “riprodurre ambienti cari alla fantasia”, riferendosi alla cultura di massa del tempo (film, libri, intrattenimento) e allo stesso tempo, in modo quasi antitetico, di permettere la “distensione”. Il theme park si reinterpreta nel Giramondo quindi come un dispositivo che alterna compressioni stimolanti a decompressioni distendenti, in un movimento ritmico della rappresentazione teatrale del mondo. Le città del passato-Le città del futuro Ci sono, in questo progetto di parco, alcuni elementi protagonisti. Meritano particolare attenzione, fra le molte, le doppie coppie composte da Las Vegas-Città del Futuro e Venezia-Meraviglie dell’Antichità. L’isoletta racchiude, condensati, i landmark della città lagunare: un mezzo o un quarto di Palazzo Ducale, una mezza Basilica di San Marco, e un piccolo campanile, ricomposti e ri-assemblati in una compatta piattaforma rettangolare. Più che una riproduzione vera e propria della città, l’isola sembra fungere da segnaposto, la tacca iniziale del grande orologio-viaggio, un piccolo puntino che rischia di perdersi nel grande lago del mondo. Sulle Meraviglie del mondo antico, sparse sulla riva, incombe la Città del Futuro. Qui vediamo architetture fin troppo contemporanee: un Guggenheim newyorkese, un Atomium di Bruxelles ’58, e molte altre forme che alludono all’architettura delle grandi esposizioni e di avanguardia ampiamente pubblicate nelle riviste; architetture dai colori sgargianti quasi come fossero giocattoli abbandonati da un bambino gigante. 83

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La Città del Futuro è un altro tema tipico dei parchi divertimento statunitensi, ma in questo caso è stupefacente la somiglianza con l’Epcot Center, l’Experimental Prototype Community of Tomorrow, il secondo parco della Disney, anch’esso costruito intorno a un lago, che prometteva un’anteprima della città del futuro. Anche in questo caso il legame con l’architettura delle Esposizioni Universali è fortissimo: l’edificio più iconico dell’Epcot Center, la Spaceship Earth, è una grande cupola geodesica, che chiaramente si rifà alle numerose strutture di Buckminster Fuller, simbolo di una corrente del modernismo statunitense rivolta al futuro con uno sguardo tecnologico-ambientalista, come le cupole costruite per Sokolniki 1959 e Montréal 1967. I due parchi appaiono straordinariamente simili, sia per la somiglianza fra le aree tematiche, che per la loro disposizione, ma c’è un problema di cronologia: nonostante le testimonianze degli eredi dei fondatori individuino l’Epcot come modello per Veneland, il parco fu inaugurato solo nel 1982, ben sei anni dopo il progetto veneto. L’unica ipotesi plausibile è che i soci fondatori potessero essere in qualche modo a conoscenza del progetto dell’Epcot Center, cominciato nel 1970. Un’altra dimostrazione di come Veneland fosse estremamente al passo con i tempi. Epcot doveva essere una vetrina per un nuovo urbanismo statunitense che riprendeva esplicitamente il formato dell’Esposizione Universale adattandolo a un contesto ludico. Allo stesso modo, nel Giramondo, contigua alla sintesi di Venezia, c’è una versione della città del futuro e del divertimento per eccellenza, Las Vegas. Ma questa riproduzione non somiglia minimamente alla città-casinò americana. Organizzata intorno a una grande piazza quadrata, con blocchi di edifici di diversa altezza e conformazione collegati da portici sospesi, passaggi e passerelle, somiglia molto di più ai progetti urbanistici di inizio anni Settanta, basati sulle teorie delle megastrutture in voga in quegli anni. Quasi in un gioco borgesiano di specchi deformanti, la città che ha riprodotto la più famosa falsa copia di Venezia è a sua volta falsamente riprodotta a pochi passi da Venezia, in una forma che ricorda i progetti per i centri urbani pubblicati sulle principali riviste dell’epoca. In un gioco di mutue rappresentazioni e distorsioni stereotipate si esplicita un legame di suggestioni (sebbene mai del tutto paritarie) fra la cultura statunitense e la sua controparte italiana. 84

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Veneland: ingresso a forma di Ponte di Rialto e capannoni abbandonati, 2022

Il ponte-insegna Il legame fra le due culture è chiaro se prendiamo in considerazione la progettazione degli accessi. L’ingresso ai parchi divertimento statunitensi segna sempre un momento cruciale, perché deve rappresentare un passaggio inequivocabile dalla vita reale e ordinaria al mondo dei sogni. Lucio Piccoli rielabora a suo modo il concetto di soglia e si esprime così a riguardo: L’entrata sud e nord al parco sono pensate come un intervento architettonico e strutturale complesso per creare nel visitatore un’IMMAGINE, un segno preciso di riconoscimento, come dice kerin Linch [sic!] “un margine”; e si è cercato di ottenerlo attraverso un’architettura quadridimensionale, anzi prospettica, un’architettura che deve essere percorsa, scoperta, capace di preannunciare tutte le variazioni e sensazioni di quel mondo spettacolare che andranno a visitare.8

Con una certa confusione, l’architetto cerca di applicare i concetti di immagine, di landmark, di architettura prospettica e percorsi, espressi nel celebre libro di Lynch, The image of the city9, al tema del parco divertimenti veneto. Si riconosce nel punto di accesso a Veneland il ruolo cruciale di connessione con il territorio, in modo da formare un margine urbano. Le buone intenzioni, tuttavia, non trovano un’espressione adeguata nel progetto dell’ingresso, piuttosto banale, che si riduce a una semplice insegna a due archi. La versione del 1976 mostra i due archi sopra le cabine delle biglietterie, che ricordano, in una forma meno elegante, l’ingresso di Edenlandia a Napoli. Ma in quest’ultimo caso, gli archi sottili di cemento armato rappresentano uno dei simboli della modernità dell’ingegneria italiana e sono in grado di dare una caratterizzazione forte al luogo. La soluzione del progetto del 1976, ad ogni modo, non venne mai realizzata. Fu costruito invece nel 1977 (l’anno dell’inaugurazione) l’accesso a forma di Ponte di Rialto, forse in concomitanza con la decisione di chiamare il parco Veneland. Questa, di fatto, è l’unica costruzione che caratterizza il sito. Si tratta di un oggetto che sembra avere, parafrasando Venturi, Scott Brown e Izenour, “imparato da Las Vegas”10. Il ponte si trasforma in portale 86

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dalla struttura metallica, ma soprattutto in una straordinaria insegna parlante, che riesce efficacemente a diventare anche il simbolo del parco. Seguendo le regole grafiche delle insegne di Las Vegas, il ponte si incurva verso l’esterno, di modo da essere correttamente percepito di scorcio da chi percorre la strada in macchina. Questo accorgimento diventa un invito a entrare, e la gradinata superiore del ponte non serve a nulla se non a percorrerla. Sulla chiave di volta del ponte è appesa l’insegna di Veneland, a forma di Ponte di Rialto, questa volta specchiato: una mise en abyme che reitera il segno e lo rafforza11. È in questa reiterazione, simbolica e architettonica, delle immagini, delle scritte e dei percorsi, che si genera l’unità di immagine del luogo, che ancora dopo anni di abbandono resta percepibile e distingue questo ambiente da una qualsiasi area, industriale e non, abbandonata. È importante notare che il Ponte di Rialto-insegna non vuole riprodurre fedelmente Venezia, tanto quanto la stessa Veneland non è esclusivamente una riproduzione di Venezia. Sebbene il logo del parco presenta un logotipo che recupera le forme dei ferri da prua delle gondole, si tratta solo di una strategia di branding che lavora per accostamento e allusione, più che per vera e propria sovrapposizione. Vene-land, come luogo del divertimento, lavora in accoppiamento con Vene-zia. Veneland si propone come un’aggiunta a Venezia, non come un suo surrogato. Veneland in attività In una mappa del parco che veniva distribuita ai visitatori possiamo renderci conto della Veneland che fu effettivamente realizzata, decisamente ridimensionata rispetto agli intenti iniziali. Il giro del mondo non occupa tutte le rive del lago, ma è un breve tratto di ferrovia. Non vi sono più città futuristiche ma solo un villaggio western dove si tenevano spettacoli da rodeo. Ci sono alcune giostre classiche, un circuito per “auto belle époque” (forse retaggio dell’impresa di carrozzeria di Luciano Mistro), una grande pista di pattinaggio al coperto e uno zoo. La mappa non è del tutto fedele: il lago infatti non venne mai scavato. Questo settore, secondo il progetto originale, doveva costituire solo il primo lotto di un programma di costruzione che si sarebbe svolto in dieci anni, dal 1976 al 1986, e che doveva accompagnarsi alla realizzazione 87

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Pattinaggio su ghiaccio a Veneland, 1977-1980

da parte degli enti pubblici delle grandi opere idrauliche e di opere infrastrutturali a sostegno del parco. Di fatto, però, fu l’unico a essere realizzato. Fin dall’apertura nel 1977, Veneland riscosse un successo clamoroso, attirando moltissimi visitatori soprattutto nei fine settimana, e congestionando le vie di comunicazione, non ancora modificate per sopportare un tale flusso di automobili. Il parco inizialmente produceva utili importanti ed era diventato un luogo di incontro e svago per molti abitanti dell’hinterland veneziano. Dai numerosi ricordi di chi lo frequentò, sembra che più che un parco divertimenti alla maniera di Disneyland fosse diventato un centro multifunzionale per attività ricreative grazie anche alla disponibilità dei soci a ospitare club locali come quello del tiro con l’arco. La pista da pattinaggio su ghiaccio vero, a tutti gli effetti un moderno impianto sportivo, fra tutte le attrazioni era tra le più apprezzate, allo stesso modo degli animali del giardino zoologico per i bambini. Veneland, in pratica, stava diventando una non-Venezia per i veneziani, in un momento in cui la vera Venezia stava sempre di più diventando una città per non veneziani. Il pianeta come festival Quanto finora esposto mostra come Veneland possa essere interpretata come un esperimento che fotografa alcuni processi di cambiamento della società veneta sulla scia di quella italiana, come la democratizzazione del tempo libero. I fondatori di Veneland sembrano essere a conoscenza del tema e avere coscienza dei propri tempi, come dichiarano nella già citata relazione tecnica: Bisogna prendere atto che oggi (e ancor più nel futuro) la disponibilità sempre maggiore di tempo libero e il turismo che ne deriva è un fenomeno di massa, non più limitato di una stretta élite e che tale massa vuole vivere questo periodo in modo diverso dalla vita di ogni giorno, cercando quello che normalmente non ha: contatto con la natura, svago, divertimento, quiete, ecc. Ciò presuppone un’evoluzione in cui ai modelli di concentrazione urbana e suburbana delle località turistiche, si sostituiscono gradualmente possibilità più attraenti di concentrazione umanamente più dimensionati, più flessibili, che consentano un più diretto rapporto con la natura.12 89

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Il punto chiave, e forse quello da cui trapela una certa lungimiranza, qui è il rifiuto del modello di turismo di massa classico, a favore di un modello “di esperienza”. Alla città delle forme si contrappone la città delle esperienze. Troviamo, nel progetto di Veneland, una grande fiducia nell’innovazione e nella modernità: nelle (vagamente utopiche) intenzioni dei fondatori, il parco avrebbe risolto sia i problemi ecologici dell’acqua alta, sia quelli sociali del divertimento. In questa analisi non bisogna dimenticare Venezia, con la quale Veneland inevitabilmente incrocia il suo destino. Il rapporto fra parco divertimenti e modernizzazione della città nel XX secolo è già stato intuito da Rem koolhaas in Delirious New York, che ha visto nelle attrazioni dei parchi di Coney Island un’anticipazione della modernità che avrebbe investito la “delirante” New York. In questo caso possiamo tracciare una linea per lo più analoga, ma con qualche differenza. Se da un lato, come per Coney Island, il parco divertimenti rappresenta quella città del futuro che attira e coinvolge i visitatori, non si tratta di una replica plastificata dell’ambiente naturale volta a risolvere i problemi dell’alienazione della megalopoli moderna. Si tratta, piuttosto, di un’aggiunta all’offerta di attrazioni che Venezia non può dare in quanto congelata nella sua forma storica. Un’aggiunta che rischia di essere un’arma a doppio taglio: perché da un lato è l’occasione per stimolare la modernizzazione dei servizi della città storica, ma dall’altro porta a considerare Venezia come una parte di un grande pacchetto di servizi consumabili, accelerandone la trasformazione in una parte di un grande parco divertimenti. Curiosamente, il termine “veneland” compare spesso nella stampa locale a partire dalla fine degli anni Sessanta associato ai problemi che cominciano a emergere nella “vera” Venezia, nel momento in cui la democratizzazione del turismo porta migliaia di turisti a basso budget, orientando l’offerta commerciale della città verso prodotti scadenti e a buon mercato, e rendendo invivibili alcune delle aree troppo frequentate. Sono celebri le campagne contro i deturpatori della città: primi fra tutti i “saccopelisti”, che, non avendo denaro per pagarsi l’albergo, rovinano l’immagine di Venezia con il loro bivacchi e il loro libertinaggio morale13. Venezia in questi anni diventa sempre di più un teatro del mondo, uno spazio-fondale dove tutti si esibiscono. 90

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E in questo clima rientra anche il tema dell’animalesco, nettamente presente in Veneland, negli stessi anni in cui a Venezia si reinventa il Carnevale, che è una delle caratteristiche fondanti del parco divertimenti. Dove se non a Disneyland vediamo decine di personaggi che indossano costumi a forma di animale? Veneland a sua volta investe in modo del tutto anomalo rispetto ad altri parchi sugli animali vivi, che si trovano pubblicizzati in tutti i volantini: la tigre fa gli onori di casa, con il suo “ vi aspetto a Veneland”. Si racconta che Mistro, per forzare l’ottenimento delle licenze da parte del Comune, abbia fatto arrivare numerosi leoni (si dice quaranta, anche se il numero è probabilmente esagerato), e li avesse tenuti per molti mesi nel capannone principale prima di dover rinunciare alla licenza e rispedirli indietro. La lista degli animali richiesti a un negozio specializzato di Bologna è altrettanto rappresentativa: venti tipi di uccelli esotici, quindici tipi di rettili fra i quali varani e pitoni, diversi mammiferi fra i quali il gatto leopardino14. Finte Venezie, finte Las Vegas, rappresentazioni e autorappresentazioni della città del futuro e del passato, attrezzature per il tempo libero e luoghi del carnevale: sono molte e complesse le istanze che coinvolgono il progetto Veneland. Ma forse, un filo che può legare tutti questi temi si può ritrovare nella lettura di koohlaas sul rapporto fra parco divertimenti e città, che crediamo vada rivista in questa occasione: più che di “delirio” della città dovremmo parlare di “festival della città”, chiamando in causa anche la provocatoria serie di disegni di Ettore Sottsass intitolati Il Pianeta come Festival15 dove vediamo, composti in modi e colori analoghi a quelli della Città del Futuro di Veneland “architetture per l’osservazione del mare durante le tempeste o durante le bonacce o al tramonto” e “templi dove dedicarsi alle danze erotiche, da eseguire o da osservare”. Architetture giocose e performative, inserite sempre in un paesaggio da ammirare, concepite come una serie di eventi per ospitare al loro interno (o al loro esterno), altri eventi, e completamente refrattarie al concetto di città tradizionale. Il progetto iniziale di Veneland potrebbe benissimo essere una delle città di questo Pianeta come Festival, costruita da una catena di eventi mutevoli. 91

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La sala di pattinaggio a Veneland abbandonata, 2022

Portale d’ingresso e capannoni della Veneland abbandonata, 2022

In una Venezia che diventa sempre più performativa, Veneland cattura perfettamente lo spirito del tempo: Una struttura così partecipe della civiltà attuale non può più essere riguardata, oggi come un “complesso di dati”, ma piuttosto come una “serie di possibilità”, non più come un “sistema prefissato”, ma “processo” nel suo sviluppo. In ogni sfera recente noi possiamo riconoscere un analogo movimento di pensiero, che rifiuta statiche cristallizzazioni e codificazioni: lo stesso processo che porta le arti ai loro esiti attuali. In tale modo di pensare, noi non possiamo più accettare il criterio che faceva dell’architettura una forma adatta allo spazio intesa come forma priva di tempo. Sentiamo l’opera non come forma data da un’astratta “idea” dello spazio, ma come un “evento” formale: una relazione con l’uomo che la esperisce vivendoci. Elementi della composizione non sono più “oggetti” ma piuttosto “strumenti” tali da istituire relazioni mutevoli, da qualificare spazi variabili. Non più “dati” da osservare, ma “eventi” da esperire.16

E nel suo essere microcosmo da esperire, Veneland realizza in modo utopico l’idea della città come festival. Allo stesso tempo modernissima e arcaica, cresce intorno ai riti e al movimento ritmico dell’uomo contemporaneo, uno schema che trasforma, come in Sottsass, il quotidiano in rituale, una composizione infinita di tipologie e situazioni. In una Venezia che lentamente muore, il progetto Veneland poteva essere un’alternativa sia al centro commerciale che e al parco divertimenti: una valvola di sfogo della pressione turistica su Venezia; una dichiarata non-Venezia per turisti veneziani e non veneziani, luogo dove sperimentare liberamente la modernità di un nuovo vivere senza mettere a repentaglio la città storica nella sua materialità, dove tentare di risolvere a scala territoriale alcuni dei problemi della città. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: lo spazio fisico, ridotto a semplice supporto per gli eventi, rischia di diventare solo “spazio fondale”17, inconsistente supporto di un set cinematografico. Nel momento in cui l’ingranaggio dell’intrattenimento si inceppa, il rivestimento cade, non resta più nulla. E questo è stato il destino di Veneland. 94

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Veneland dopo Veneland L’impresa di Veneland si spense in soli tre anni. Nonostante il primo anno avesse chiuso già in pari e gli anni successivi sembravano promettere grandi utili, mentre contemporaneamente la vicina Gardaland, che avrebbe in seguito avuto un successo clamoroso, per i primi tre anni di esercizio si trovò in perdita. Le amministrazioni pubbliche, per motivi ancora da chiarire, non diedero fiducia al progetto, approvando concessioni solo di pochi mesi o un anno, di fatto bloccando le prospettive di investimenti a medio e lungo termine. Il grande lago, inoltre, non venne mai realizzato. Gli investitori, scoraggiati, si ritirarono uno dopo l’altro: nel 1981 anche Osvaldo Spini e Emilio Zamperla cedettero le loro quote a Luciano Mistro, che finì per indebitarsi irrimediabilmente. Mistro tentò di riconvertire il piano in un’impresa immobiliare classica, ma non ottenne mai le concessioni edili e fu costretto a svendere tutti i terreni e ciò che vi si trovava, finendo sul lastrico. La zona di Veneland, dopo numerosi passaggi di proprietà, è rimasta completamente abbandonata dagli anni Ottanta ad oggi. Dal 2004 si è costituito il Comitato Cave di Marocco che si occupa di proteggere la zona dei laghetti delle cave, diventate nel corso degli anni un luogo di sosta per numerose specie di uccelli e una passeggiata abituale per gli abitanti. Kiefer a Veneland Rimane da affrontare il tema di cosa sia rimasto oggi di Veneland. L’idea di Veneland ha avuto un suo seguito attraverso Antonio Zamperla, un altro esponente della famiglia Zamperla a capo di una delle più grandi imprese di produzione e gestione di giostre al mondo, protagonista della controversa vicenda del 2014 per il progetto di un parco divertimenti nella Sacca di San Biagio, ultima propaggine della Giudecca verso la terraferma, ribattezzato in seguito dalla stampa, per ironia della sorte, “Veniceland”. In questo caso il progetto prevedeva la ricreazione di una finta Venezia delle origini, che scatenò feroci critiche da parte di buona parte delle associazioni e del mondo intellettuale fra i quali anche Salvatore Settis che in seguito ne trattò in Se Venezia muore18. Senza entrare nel merito di questo specifico progetto, è curioso come alcune tematiche che riguardano Veneland ricompaiano anche in questa occasione: i veneziani che si sentono come comparse teatrali dentro la loro città, il problema dell’autenticità di Venezia e 95

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dell’offerta turistica, la modernizzazione delle attrezzature urbane, le infrastrutture e il territorio, etc. Una versione del tutto parziale del progetto Veneland si ritrova nel grande outlet commerciale costruito nella provincia, dall’immagine di una immaginaria high street di un altrettanto finto centro storico interamente dedicato al commercio. L’outlet è talmente frequentato da spingere l’artista e teatrante Guerino Lovato a recarvisi, travestito con loden e maschera caricaturale di Massimo Cacciari, a interpretare il non-sindaco nella non-Venezia per i (non) veneziani. Della Veneland fisica invece è rimasto ben poco: le giostre sono state smontate, i vecchi capannoni delle fornaci ridotti a scheletri. Sulla grande pista di pattinaggio, ora una lastra di cemento sbrecciato, scricchiolano i profili pendenti del controsoffitto marcito, della pizzeria restano alcune arcate in mattoni coperte di cespugli. Fuori, il ponte arrugginito di Rialto regge a malapena un’insegna talmente sbiadita da rendere illeggibile il logo di Veneland. Il parco in rovina continua a essere un luogo scenico: è meta popolare di fotografi urbani e videomaker, ed è stato set di alcuni cortometraggi. Le strutture, che una volta sostenevano i rivestimenti della “città del festival”, ora sono il supporto per una sorta di pornografia delle rovine. Sia letterale, in quanto sono luoghi dove si consuma la prostituzione del Terraglio, che estetica, in quel fascino decadente dei parchi giochi abbandonati, fra i quali il più celebre è il lunapark di Chernobyl, la struttura più fotografata della cittadina devastata dalla catastrofe nucleare. È doveroso, a questo punto, chiedersi quale possa essere il destino futuro di Veneland, mantenendo la prospettiva di un legame con Venezia. L’idea del parco divertimenti è ormai anacronistica, ma non lo è quella di rendere questo spazio nuovamente un luogo dove immaginare il futuro19. Propongo in modo provocatorio una nuova destinazione culturale per questo luogo. I capannoni abbandonati potrebbero essere riutilizzati per ospitare i dipinti della mostra di Anselm kiefer Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce ora esposti a Palazzo Ducale, che hanno suscitato numerose critiche per aver coperto i secolari affreschi del Carpaccio. Una volta che verranno smontati, quale luogo migliore per loro se non l’altra Venezia, rovina di un’utopia mai realizzata? 96

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Christian Toson, Kiefer in Veneland, montaggio, 2022

Note

6. La maggior parte delle notizie biografiche su Luciano Mistro e Emilio Zamperla provengono da interviste fatte a parenti e discendenti.

1. Sulla città diffusa del Veneto orientale ci riferiamo soprattutto al lavoro di Bernardo Secchi e Paola Viganò. Cfr. ad esempio, B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Laterza, Roma-Bari 2013; e P. Viganò, Landscapes of water un progetto di riqualificazione ambientale nella città diffusa di Conegliano, Risma, Roveredo in Piano 2009.

7. L. Piccoli, op. cit., p. 5.

2. Sullo sviluppo delle tipologie del commercio in Italia cfr. M. Vegetti, La città del commercio (Mall, outlet, Ikea), in M. Biraghi, A. Ferlenga (a cura di), Comunità Italia architettura/città/paesaggio 1945-2000, Silvana, Cinisello Balsamo-Milano 2015, pp. 197-201. 3. La maggior parte delle informazioni su Coney Island e i primi parchi divertimento di New York sono riassunte nel primo capitolo di R. koolhaas, Delirious New York. A Retroactive Manifesto for Manhattan, Oxford University Press, New York 1978; tr. it. di M. Biraghi (a cura di), Delirious New York un manifesto retroattivo per Manhattan, Electa, Milano 2001.

8. Ivi, p. 7. 9. k. Lynch, The image of the city, MIT Press, Cambridge 1960. 10. R. Venturi, D.S. Brown, S. Izenour, Learning from Las Vegas the forgotten symbolism of architectural form, MIT Press, Cambridge 1977. 11. Oltre a Learning from Las Vegas, per quanto riguarda segni e simboli delle città cfr. J. M. Lotman, Semiotika goroda i gorodskoj kul’tury, in Id., Uchenye zapiski Tartuskogo gosudarstvennogo universiteta. Trudy po znakovym sistemam, vyp. XVIII, Università di Tartu, Tartu 1984, tr. it. Semiotica della città, in Id., Il girotondo delle muse. Semiotica delle arti, a cura di S. Burini, Bompiani, Milano 2022. 12. L. Piccoli, op. cit., p. 4. 13. Si legga, ad esempio, C. Gallucci, Ragazzi nel sacco, in “L’Espresso”, 24 maggio 1967.

4. L. Piccoli, Relazione tecnica depositata presso il comune di Mogliano Veneto, datata 21 giugno 1976, firmata dall’architetto Lucio Piccoli e il perito edile Santa Rocca, conservata presso l’archivio privato degli eredi di Emilio Zamperla, p. 3.

14. La lista è conservata nell’archivio privato della famiglia degli eredi di Emilio Zamperla.

5. O.S.P.E.Z.A. è un acronimo formato dalle iniziali di O-svaldo SP-ini E-milio ZAmperla.

16. L. Piccoli, op. cit., p. 10.

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15. E. Sottsass, Il Pianeta come Festival, in “Casabella”, n. 365, 1972, pp. 41-48.

17. Cfr. J.M. Lotman, op. cit. CHRISTIAN TOSON

18. L’articolato dibattito al quale ci riferiamo ruota intorno alle due pubblicazioni di S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014; e A. Vettese, Venezia vive dal presente al futuro e viceversa, Il Mulino, Bologna 2017. 19. Alla riqualificazione dell’area di Veneland sono stati dedicati i seguenti lavori accademici, che tuttavia si sono concentrati più sugli aspetti naturalistici dell’area che su quelli storici: il progetto del gruppo di Mario Folin, pubblicato in Progetto Preliminare per il recupero delle ex Cave di Marocco. Linee e soluzioni progettuali, Istituto Universitario di Architettura-Cispput, Venezia 1997; le due tesi di laurea seguite da Maurizio Schembri nel 1999: di Chiara Bettiol e Daniela Busato, Mogliano Veneto, Marocco: riqualificazione urbanistica e ambientale dell’area delle ex cave; e di Loredana Battistella, Giancarla De Pieri, Renzo Prete, Comune di Mogliano Veneto (Treviso): “Fiumi Zero e Dese, progetto di riqualificazione ambientale”, presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia.

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VENELAND

Territori anfibi. Mappe visionarie fuori dal tempo Giovanna Rossato

Memoria e invenzione Partirò dal territorio anfibio, la laguna. L’ecosistema di Venezia ha costituito l’originaria condizione naturale e pre-architettonica: un sistema urbano insediato nell’acqua che disdegna anarchicamente la nozione di “forma” e assume come archetipo la natura e la sua fluida mutevolezza (eternità mobile). Il territorio anfibio è sconfinato e mai fisso, è una mappa idromorfologica infinita che fa della memoria archeologica e geomorfologica una realtà e della sua spazialità una dimensione immaginaria. Il leggendario spazio anfibio della laguna veneta e il mare Adriatico sono stati luoghi di partenza e di fuga – come punto di arrivo1 – di un’ampia ricerca teorica e progettuale che ho svolto negli anni sul tema dell’architettura galleggiante e della Città Anfibia2. Gli esercizi avevano avuto inizio assumendo la città di Venezia e il sistema lagunare come modello territoriale-urbano anfibio e gli antichi navigli3 come archetipi urbani/architettonici galleggianti. Così come precedenti storici e modelli da dedurre, smontare e rimontare, il sistema anfibio di Venezia e quello galleggiante degli antichi navigli (thalamegós) sono diventati una sorta di reinvenzione dell’arcaico, una visione anfibia territoriale-urbana spaziale. Queste mie prove/ bozzetti/collage, affrontano e sperimentano composizioni e spazialità architettoniche urbane a scale estreme che vanno dalla geomorfologia del paesaggio-territorio, all’architettura palafitticola alla città/metropoli, alla idro-morfologia dei territori rurali anfibi, etc. Un ambito analitico-progettuale che comprende: categorie di costruzioni e città sull’acqua e nell’acqua; il veloce cambiamento della “scena” territoriale/ambientale a causa del cambiamento climatico che paradossalmente rinforza il concetto di insediamento “anfibio spaziale”. Questi possono considerarsi esercizi visionari che hanno il carattere di un itinerario conoscitivo soggettivo che si manifesta come “elaborazione” della realtà e non come sua imitazione. Una sua interpretazione e trasfigurazione, come nei romanzi thriller scritti da Borges4, dove le trame hanno il fascino del paradosso e della contraddizione originati da situazioni reali e concrete. Il paradosso sta proprio nella realtà, nella perpetua invenzione di se stesso. L’approccio essenzialmente “visionario” è il 101

Giovanna Rossato, Anfibie visioni, (1. Skyline della Città Anfibia, 2. Paul klee, Lagunenstadt, 3. Laguna di Venezia), montaggio 2021

fondamento metodologico per trovare e inventare soluzioni poetiche al complesso sistema territoriale anfibio-acquatico, capaci a loro volta di delineare soluzioni tecniche possibili. Con il processo creativo come metodologia, il mondo delle idee non è totalmente un mondo immaginario. Un’idea è una teoria e un fatto allo stesso tempo, e formulare un’idea la rende parte del mondo oggettivo, un’invenzione. Ricordando che la parola invenzione, etimologicamente deriva dal latino inventio-onis che significa “capacità di trovare”. Spazio d’acqua: mobile e fisso Più di vent’anni fa iniziai a rappresentare riflessioni-idee di “costruzioni galleggianti sull’acqua”, partendo da una raccolta frammentaria e discontinua di “cose”, paesaggi e Land Art, architetture/archeologie passate e presenti. Frammenti disegnati, montati, “trattati” sono diventati “spazialità visionarie” future. Venezia e le sue isole venivano considerate come una silhouette transitoria la cui fisionomia mutevole conferisce l’aspetto di un “miraggio”che può essere tra terra e acqua, o galleggiante tra acqua e aria, o sommerso nell’acqua5. L’installazione/ architettura/paesaggio galleggiante progettata6 dialoga con Venezia dall’acqua e si muove in uno spazio d’acqua che è uguale a tempo e offre alla bellezza il suo doppio. Riferendosi a Venezia, Iosif Brodskij, in Fondamenta degli incurabili ci aiuta a delineare i concetti di mobile e fisso come rappresentazione poetica del rapporto tra il tempo e gli elementi quali terra e acqua o città e territorio anfibio/acquatico: Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del suo tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. […] Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente.7

Nel progetto, Venezia era pensata come a una grande “scena fissa”, una città palcoscenico, mentre le architetture galleggianti (padiglioni d’arte e cinema) e i giardini galleggianti come apparizioni in movimento, “mobili”. Il fondale della città di Venezia è una superficie di fondo sulla quale si sviluppavano le sequenze di un movimento. Esso è rappresentato dalle configurazioni di piccole architetture galleggianti 103

TERRITORI ANFIBI

Giovanna Rossato, Spazialità visionarie, montaggi per una “costruzione architettonica sull’acqua”, 2000-2022

che ricordano gli esempi degli antichi teatri galleggianti – Teatri del Mondo – che trovano la loro origine nella laguna veneziana nei secoli XVI-XX8. Ampliando la scala e scomponendo la scena fissa, Venezia è stata assunta come modello di partenza per la costruzione di fatti urbani galleggianti sull’acqua. Questi ricordano le fantasie di Paul Scheerbart che immagina una città parallela a Venezia: galleggiante, fatta di architetture galleggianti localizzate in modi diversi, che si muovono l’una dall’altra in modo che ogni giorno la città galleggiante possa assumere una nuova forma9. Le apparizioni e le descrizioni di Scheerbart si riferiscono a un pensiero che appariva allora (era il 1914) utopico e paradossale. Più che utopie andrebbero considerate eterotopie. Laddove le utopie designano ambienti privi di localizzazione effettiva, le eterotopie sono luoghi reali, luoghi aperti su altri luoghi la cui funzione è di far comunicare tra loro degli spazi. “In generale l’eterotopia ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente sarebbero, dovrebbero essere incompatibili”10. L’eco-sistema veneziano anfibio e la Città Anfibia Al progetto di architetture e giardini galleggianti diedi seguito ad altri esercizi-prove per i quali assunsi la città di Venezia come “modello anfibio” di città da dedurre, smontare e rimontare per reinventare la visione di una città d’acqua: la Città Anfibia. L’etimologia della parola anfibio ci ricorda che la parola, derivata dal greco, significa: dalla vita in entrambi gli elementi. Il paradosso della sua costruzione (Venezia) è la sua lotta contro gli elementi, la cui fisionomia – morfologia e/o idro-morfologia – come fatto urbano anfibio, affronta periodicamente i problemi dell’acqua alta, che inducono a far ripensare ai bordi dell’acqua (come resilienti o adattabili) o a far inventare un nuovo fatto urbano anfibio/acquatico. Vediamo la morfologia anfibia dei primi insediamenti nella laguna di Venezia. Venezia fin dalle sue origini ha sempre avuto una dimensione e un carattere urbano. Le successive ondate di fuggiaschi che si stabilirono in quelle piccole isole, prima sostanzialmente deserte, provenivano dalle città romane della terraferma. Il motivo per cui questi abitanti delle città si trasferirono nelle isole fu per sfuggire agli invasori. Così l’opera dell’uomo – condotta seguendo la conformazione naturale delle superfici terrestri e idriche esistenti – ha lentamente stabilizzato il corso dei canali esistenti. I nuovi abitanti costruirono i loro edifici a filo dell’acqua o sulle sponde erose dall’acqua, 106

GIOVANNA ROSSATO

su terreni alluvionali di epoca quaternaria. Il terreno era costituito da strati di sabbia, argilla plastica mista a sabbia e argilla compatta, e si è rivelato molto adatto come terreno di fondazione. È probabile che il tessuto originario della laguna fosse costituito da case in legno e canna, piuttosto che in muratura. Vanno inoltre confermati, a seguito delle ricerche fatte dagli archeologi e geomorfologi nella laguna nord di Venezia, gli insediamenti romani che fanno pensare alle forme della laguna nell’antichità, alle abitazioni romane (villa rustica) nei Lidi di Altino, “La villa di Lio Piccolo rappresenta il primo esempio noto di villa romana ubicata nella laguna nord di Venezia”11. La grandezza e la struttura della Città Anfibia erano state definite adottando lo schema tipo della centuriazione romana sviluppato nel territorio veneto dai romani. Attraverso la ripetizione continua o discontinua di una traccia geometrica romana sull’acqua, era stata definita la dimensione e forma di un’asse di direzione verticale, un kardo maximus, ovvero la/le città ponte/ lineare/i sull’acqua (un brano di Città Anfibia). È certo invece che Venezia già possedeva l’attuale struttura lineare caratterizzata da canali, fondamenta e case allineate su più file, parallele o ortogonali ai canali, e servite da calli o strette corti trasversali. Pertanto, la morfologia della laguna, le isole, i cortili e le calli sono alcune delle componenti spaziali urbane e idro-morfologiche della Città Anfibia. Questo per dire, quasi ricordando l’impronta organica12 di Broadracre City di Frank Lloyd wright, che la Città Anfibia nasce nell’acqua appartenendo e identificandosi con una condizione topografica precisa quale il territorio anfibio e acquatico che ne determina l’essenza, la forma e sostanza di questa città. Tuttavia avevo voluto ipotizzare la relazione tra l’isola di Utopia di Thomas More13 e Venezia, o forzare l’analogia tra l’isola di Utopia e una nave (come un antico naviglio), o ancora come una nave possa diventare l’isola di Utopia, in memoria de Il racconto dell’isola sconosciuta di José Saramago14. I progetti di “città nuova, al di là del segno utopico o ideale che li contraddistingue sono infatti emblematici di un tipo di conoscenza e di un tipo di giudizio della città esistente, della città reale, assunta cioè nella sua dimensione e struttura materiale”15. La città reale è Venezia (eternità mobile). Anfibio, paradosso per eccellenza, da cui desumere le “cose” scelte da utilizzare e re-inventare in nuova dimensione, la Città Anfibia, la cui scala proposta è distaccata rispetto al modello esistente. Possiamo pensare a Venezia come un fatto isolato nell’acqua volendo ricordare Girolamo Fracastoro che 107

TERRITORI ANFIBI

“avanza con entusiasmo l’idea di trasformare Venezia in una nuova ‘Themestitan’ isolata in un lago d’acqua dolce”16. Ricordare Venezia come un sistema unitario compatto di isole aggregate (isole-città), avanzando l’analogia tra l’isola veneziana e l’antico naviglio (thalamegós) come una sorta di città-isola galleggiante: “la nave spazio vagante, un luogo senza luogo che vive per se stesso, chiuso in sé, libero per certi aspetti, ma fatalmente consegnato all’infinito del mare […]. La nave è l’eterotopia per eccellenza”17. L’antico vascello diventa una sorta di città isola galleggiante. Un esempio è la nave di Tolomeo Filopatore (costruita in un momento in cui la marina greca ed egiziana avevano raggiunto il loro apice): era lunga circa 150 metri e larga 20 metri. Filopatore ordinò che questa nave fosse costruita per navigare su e giù per il Nilo, e la nave includeva arcate, gallerie, appartamenti e sale di grande magnificenza. Città itineranti, come lo erano state anche i Bucintori: si ricorda il viaggio di Enrico III di Francia sul fiume Po (1574) che si svolse su nove Bucintori rispettivamente adibiti a stanze, a funzioni di supporto e servizio. La visione di Città Anfibia assume l’antico naviglio – nello specifico la ricostruzione della nave antica Arca di Noè18 – come archetipo che diventa prima strumento per misurare e dimensionare19 la città inventata e poi edificio-ponte, elemento primario orizzontale della Città Anfibia. L’edificio-ponte è componente flessibile e galleggiante, trasformabile, scomponibile e a più livelli della Città Anfibia, ed è esso stesso città ponte, città spaziale e mobile. L’archetipo diventa sperimentazione visionaria ricordando la teoria sulla città mobile e sulla città spaziale di Yona Friedman (Teoria della Mobilità generale)20 e gli studi dei giapponesi e francesi facenti parte del Movimento metabolista degli anni Sessanta e Settanta dello scorso secolo21. La Città Anfibia inventata venne poi provata come isola-città, nel mare Adriatico, ripetuta e montata come un’enfilade di città che collegano Venezia a Pola (Croazia). Una “costruzione” geo-urbana isolata nel mare che conferma il legame tra la Città Anfibia e la geografia del mare come territorio. Ipotizzando possibili insediamenti urbani di tipo acquatico, come futuri possibili che considerano l’innalzamento del livello del mare come minaccia per la terraferma. Un’utopia realizzata che diventa precedente e ispirazione per la rappresentazione di territori anfibi, futuri possibili condizionati dal cambiamento climatico, i cui effetti amplieranno la dimensione anfibia e acquatica esistente. 108

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Giovanna Rossato, La Città Anfibia, 2005-2022

Territori anfibi e acquatici. Mappe visionarie fuori dal tempo La Città Anfibia confrontandosi e misurandosi con il territorio acquatico e anfibio conduce ad ampliare la visione, certamente soggettiva, legata alla scelta di territori esistenti, alla memoria dei viaggi e ai luoghi visitati su cui sono stati fatti progetti. Una scelta che libera dalla storia e dal luogo, le “cose” – collezione privata – da trasporre e re-inventare. Ho provato quindi a immaginare, inventando, la futura “spazialità del territorio anfibio” come un fenomeno di Land and Environmental Art, un pragmatico adattamento alle circostanze e alla mobilità/fluidità dell’acqua attraverso il montaggio di mappe trasformate, re-interpretate, disgiunte, come strumento per l’esplorazione di luoghi-territori che non esistono ancora. Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio. […] delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare su carta; utopie che hanno un tempo determinato, un tempo che si può fissare e misurare secondo il calendario di tutti i giorni.22

È possibile guardare e giocare con le mappe geografiche (Google Earth e NASA Worldviews), le mappe storiche e/o archeologiche, che hanno la sorprendente capacità di trasportarci altrove, in uno spazio-tempo diversi. Mappe per immaginare e come strumenti per la creazione di mondi fantastici o l’esplorazione di luoghi che non esistono ancora. E questo fa pensare a come le mappe inventate in quanto visionarie siano afferenti alla realtà. Secondo le più recenti ricerche NASA23, CNR-Ismar Venezia24 ed ENEA25, l’innalzamento relativo del livello del mare previsto entro il 2100 cambierà drasticamente l’attuale morfologia-idromorfologia della costa (successiva perdita di terra), potenzialmente allagando fino a 5451 chilomentri quadrati della pianura costiera “Pianura Padano-Veneta” ad altitudini prossime all’attuale livello del mare. Di conseguenza, l’area terrestre diventerà una zona d’acqua e le aree rurali diventeranno campi anfibi. Si può quindi concludere che le città esistenti sono sistemi complessi, ma incompleti 110

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che non saranno in grado di contrastare gli effetti del cambiamento climatico dal 2050 in poi. Non esistono linee guida o legislazioni che forniscano un approccio gestionale adeguato per il gran numero di popolazioni attualmente insediate in edifici, paesi e città che non sono preparati a diventare galleggianti, flessibili e anfibi. L’effetto del cambiamento climatico rafforza l’idea di insediamenti urbani di tipo “spaziale anfibio/galleggiante” (flessibile, dinamico e trasformabile) come risposta adeguata ai cambiamenti sociali, economici e ambientali. Il nuovo urbanismo risiede nella mobilità e nel dinamismo che l’acqua può offrire. Questo incoraggia a immaginare e ad articolare nuove radicali strutture di vita urbana. Provare a collegare e/o sovrapporre le Spatial & Amphibious Cities alle città esistenti immaginate allagate – per esempio Venezia, New York, le città acquatiche cinesi, etc. – e la costa. Nella mappa Amphibious Territories (2021-3021), ho avvicinato pezzi di Venezia, New York, Jiashan modificati e connessi da collegamenti sospesi sull’acqua, come pezzi di città lineari/ponte. Gli insediamenti esistenti e futuri sono collegati alle isole verdi/barene lagunari a loro volta innalzate e ampliate (isola-spugna). Ho ipotizzato di non utilizzare il piano terra e primo piano negli edifici veneziani, e quindi inserire collegamenti dai livelli più alti della città in uscita – verde ponti – verso nuovi insediamenti anfibi e galleggianti. Parte della città di New York sarà sommersa, quindi possiamo pensare a viali verdi sopraelevati (ponti verdi) che collegheranno ai livelli più alti degli isolati e degli skyscapers. New York diventerà una città sospesa, e le aree abitabili sorpassate dalle acque saranno compensate da insediamenti spaziali sospesi sull’acqua, a diversi livelli, di cui uno anfibio e galleggiante, adattabile e mobile sul livello del mare. E questa potrebbe essere l’immagine di una Water Bridge City collegata alle città d’acqua e alle coste esistenti. La mappa Amphibious Territories, 2021-3021 può continuare all’infinito come un montaggio non ancora completato e che non si completerà incoraggiando però a continuare ad immaginare e sperimentare modelli insediativi/urbani e paesaggistici/rurali flessibili e mobili, diversamente configurabili adattandosi alle evoluzioni ambientali e sociali.

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Giovanna Rossato, Amphibious Territories, 2021-3021

Note

1. “Il mito della città che ha letteralmente inghiottito l’archeologia e la memoria della laguna, facendola diventare il leggendario spazio dove si sarebbe sostanziata la ‘fuga’. Lo spazio lagunare incarna il processo di migrazione che segna la genesi di Venezia”. M. Bressan, D. Calaon, D. Cottica (a cura di), Vivere d’acqua. Archeologie tra Lio Piccolo e Altino, Quaderni del Polo Museale del Veneto. MIBAC Venezia 2019, p. 27. 2. G. Rossato La Città Anfibia, tesi di dottorato 2005, Ciclo XVII, Università Iuav di Venezia. Rel. Gianugo Polesello. Tutor Gundula Rakowitz. 3. Si rimanda alle marinerie antiche come bastioni navali di tipo fluviale, antichi navigli denominati thalamegós: la nave con le stanze, di grandezza tale da potersi considerare come cittadella e casa galleggiante. 4. J. L. Borges, A. B. Casares, Las doce figuras del mundo, in Id., Seis Problemas Para Don Isidro Parodi, Sur, Buenos Aires 1942; tr. it. I dodici segni dello zodiaco, Studio Tesi, Pordenone 1993. 5. Vengono ricordati i dipinti veneziani del pittore Virgilio Guidi. 6. G. Rossato, op. cit. 7. I. Brodskij, Watermark, Farrar Straus & Giroux, New York 1989; tr. it. Fondamenta degli incurabili, Adelphi, Milano 1996, p. 108. 114

8. Uno scenario iconograficamente documentato dalle vedute dei pittori Luca Carlevaris, Antonio Canaletto, Francesco Guardi. Si ricordano i teatrini del mondo di: Giovanni Grevembroch, Il Teatro del Mondo davanti a San Marco come realizzato da Giovanni Antonio Rusconi 1564; Michele Marieschi, Regata e macchina in volta da Canal 1741; Andrea Vicentino, La Dogaressa Morosini giunse a San Marco con il corteo del Teatro del Mondo 1597; Vincenzo Scamozzi, Teatro del Mondo XVIII sec.; Francesco Zanchi, Macchina sull’acqua, 1764; Giuseppe Borsato, Ferdinando Albertolli, Macchina per la Regata in onore di Napoleone 1807; Aldo Rossi, Teatro del Mondo 1979. 9. Cfr. P. Scheerbart, Glasarchitektur, Verlag der Sturm, Berlin 1914; tr. it. L’architettura di vetro, Adelphi, Milano 1982. Si veda in particolare il saggio L’architettura galleggiante, pp. 80-81. 10. A. Moscati (a cura di), Michel Foucault. Utopie Eterotopie, Cronopio, Napoli 2020, p. 18. 11. M. Bressan, D. Calaon, D. Cottica, op. cit., p. 47. 12. Rimando alla definizione della parola “organico” che diede Frank Lloyd wright: “Tenete presente che il termine ‘organico’ è come il termine ‘natura’. Se preso in senso troppo biologico, non sarebbe quello che è: luce nelle tenebre; sarebbe un masso su cui inciampare. L’uso del termine ‘organico’ in architettura corrisponde a un concetto di vita intrinseca e di intrinseca costruzione naturale: ambedue i concetti considerati in una struttura comune in quanto nativi. Per il giovane architetto il termine dovrebbe assumere il signiGIOVANNA ROSSATO

ficato di lavoro quotidiano del grande assieme in cui caratteristiche e parti, consoni a quanto forma e sostanza, sono applicate allo scopo come congenite. Questo è quindi il vero significato della parola ‘organico’. Spesso alludiamo a questa qualità col termine di ‘essenza’”. F. L. wright, The Living City, Horizon Press, New York 1958; tr. it. La Città vivente, Einaudi, Torino 2000, p. 123. 13. Utopìa è un romanzo di Thomas More pubblicato in latino nel 1516 con titolo originale Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia. 14. “L’Isola sconosciuta è qualcosa che non esiste, non è che un’idea della vostra mente, i geografi del re sono andati a controllare sulle carte geografiche e hanno dichiarato che isole da conoscere non ce ne sono più da un sacco di tempo”. J. Saramago, O Conto da Ilha Desconhecida, Companhia das Letras, Sao Paulo 1999; tr. it. Il racconto dell’isola sconosciuta, Einaudi, Torino 1998, pp. 27-29. 15. G. Polesello, La progettazione della città come architettura e come piano, in P. Grandinetti e F. Pittaluga (a cura di), La Progettazione analitica della città, Venezia, Dipartimento di Teoria e Tecnica della Progettazione Urbana, Iuav, 1979, p. 1. 16. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Einaudi, Torino 1985, p. 233. 17. A. Moscati, op. cit., p. 28. 18. Cfr. le ricostruzioni grafiche di G. Rondelet in Memoria su la marineria 115

degli antichi e su i navigli a parecchi ordini di remi, Negretti, Mantova 1840. 19. Le dimensioni dell’Arca di Noè ricostruita graficamente da Giovanni Rondelet regolano poeticamente la maglia dimensionale e ripetitiva delle componenti di questa città. 20. Si veda il concetto di Mobile Architecture di Yona Friedman nel 1957. 21. Le immense forme visionarie di kiyonori kikutake possono essere considerate a pieno titolo progetti metabolisti: Marine City del 1958 e Ocean City del 1962. Oltre alla Kisho Kurokawa Floating City del 1961, un progetto di edilizia abitativa da costruire sulla superficie di un lago in connessione con la pianificazione del New Tokyo International Airport a Narita. Alcune proposte audaci per costruire in mare si ritrovano anche nell’idea di Ville Flottante del 1960 di Paul Maymont. 22. A. Moscati, op. cit., p. 11. 23. NASA Global Climate Change, https://climate.nasa.gov/effects/. 24. CNR-Ismar Venezia, The exceptional high sea level event of 12/11/2019. Preliminary analysis of the data and description of the phenomenon, http:// www.ismar.cnr.it/file/High%20Sea%20 level%20%20Nov%2012.pdf/view?searchterm=the%20exceptional. 25. ENEA (Italian National Agency for New Technologies, Energy and Sustainable Economic Development), https:// www.enea.it/it/Stampa/comunicati/ clima-enea-sette-nuove-aree-costiere-a-rischio-inondazione-in-italia. TERRITORI ANFIBI

L’isola dei teatri di San Giorgio Maggiore a Venezia Massimiliano Ciammaichella

Le vicende che nel 1953 hanno determinato l’edificazione del Teatro Verde nell’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, per opera degli architetti Luigi Vietti e Angelo Scattolin, sono l’esito di un progetto di ripensamento dell’intero contesto urbano all’interno del quale esso stesso si colloca e, al contempo, paiono sintetizzare nel modello tipologico scelto aspirazioni e utopie di secolari memorie da attualizzare. A riattivarle sono le politiche della Biennale d’Arte, promosse dallo scultore Antonio Maraini1 che ne assume il ruolo di segretario generale a partire dal 1927 e, in concomitanza con la sedicesima edizione dell’anno seguente, avvia un processo di rinnovamento volto a integrare l’architettura nelle pratiche progettuali da includere nella manifestazione, tanto da coinvolgere un gruppo di amici, noti architetti, nell’opera di riqualificazione del Palazzo dell’Esposizione2. Così Gio Ponti libera la Sala della Rotonda da ogni orpello decorativo, affidandosi al partito della semplice “grandezza” degli elementi architettonici, convinto che la volontà di un largo respiro sia il massimo beneficio desiderabile per la moderna architettura italiana.3

Marcello Piacentini, invece, nell’accogliere la “Mostra dell’Arte del Teatro” all’interno del Salone delle Feste, alterna superfici curve e piane per ricavare delle nicchie entro le quali collocare “piccoli palcoscenici”4. Infine, Brenno Del Giudice realizza un caffè con un’ampia terrazza il cui affaccio sul canale la separa dall’isola di Sant’Elena5. Ma questo è solo l’anticipo di un sodalizio che lega la figura di Del Giudice alle trasformazioni urbane degli spazi della Biennale, perché per soddisfare le richieste di diversi stati vengono costruite nuove sedi espositive. Nel 1932 si ampliano i confini oltre il rio dei Giardini e in un lotto rettangolare molto lungo e stretto, le cui estremità corte vengono occupate dai padiglioni della Grecia e della Germania, Del Giudice raccorda i due edifici con la bianca quinta scenica del Padiglione Venezia, dedicato alle arti decorative della città, estendendola alle mostre di 117

altri quattro paesi stranieri (Polonia, Egitto, Romania e Jugoslavia), tutti riuniti in un volume unitario6. Nell’agosto dello stesso anno si inaugura all’Hotel Excelsior del Lido la 1. Esposizione Cinematografica Internazionale, poi si attendono altri due anni perché l’ente Biennale7, presieduto dal conte Giuseppe Volpi di Misurata, completi la propria offerta culturale includendo anche le arti performative. Del resto, in questo preciso momento storico, il teatro è un ottimo strumento di propaganda dell’ideologia fascista che, attraverso le strutture transitorie dei Carri di Tespi, dall’élite colta lo espande al popolo “per elevare lo spirito verso la bellezza dell’arte e trovare in questa una sorgente feconda di vita, come la trovano i fedeli nelle chiese”8. Ma Venezia è una città che non può e non intende abbracciare le grandi masse: pur promuovendo lo spettacolo all’aperto punta alla qualità della messa in scena, in un’ottica innovativa fatta di proposte capaci di esaltarne anche i luoghi. A seguito del dibattuto successo dell’Otello di Shakespeare9, allestito da Pietro Sharoff nel cortile di Palazzo Ducale nell’estate del 1933, Maraini propone di istituzionalizzare le arti dal vivo. Il comitato promotore, oltre che dal segretario generale e dal presidente, è formato dal responsabile dell’ufficio stampa Elio Zorzi e dal commediografo Gino Rocca che ne assume il coordinamento, per organizzare il 1° Convegno Internazionale di Teatro nel 1934. L’idea è quella di esibire due spettacoli di registi e attori di chiara fama, ai quali se ne aggiungono altri risultanti vincitori del bando di concorso di Arte Drammatica, rivolto a compagnie italiane che presentino un’opera, italiana o straniera, mai prima debuttata in patria. Tuttavia le proposte scarseggiano, mentre Gino Rocca ne approfitta per fare il suo esordio nella regia, apparando nella Corte del Teatro di San Luca una tradizionale lettura de La bottega del caffè di Carlo Goldoni, nella quale si evidenzia oltre la retorica promozionale, una concezione del mondo stabilizzata sul limitare dell’intimismo e del realismo, che nel periodo compreso tra i due secoli ha nutrito tanta teatralità di periferia e più d’una generazione di commediografi, per lo più d’area dialettale, incerti tra l’impegno e il culto dei valori perduti.10

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Giacinto Mondaini, manifesto 1° Convegno Internazionale di Teatro, 7-28 luglio 1934

Non va quindi sottovalutata la necessità di conferire un respiro internazionale all’intera iniziativa. Ciò spiega la scelta di Volpi di invitare Max Reinhardt a Venezia, dopo aver assistito al clamoroso successo del Sogno di una notte di mezza estate, presentato al Maggio Fiorentino del 1933. Il regista sceglie campo San Trovaso per la sua rappresentazione de Il Mercante di Venezia, del 18, 19 e 21 luglio 1934. L’essenzialità della messa in scena di Rocca si contrappone all’opulenza di Reinhardt, manifesta anche nei costumi di Titina Rota e nella scenografia di Duilio Torres che, in antitesi con il proprio linguaggio architettonico di matrice razionalista, si cimenta in una sfarzosa ricostruzione filologica, atta a favorire un dialogo diretto con il Ponte de la Scoazèra e le facciate degli edifici oltre il canale. La riuscita è assicurata dalla risposta del pubblico accorso, tanto che gli apparati scenici non vengono nemmeno smontati e le repliche riproposte nell’estate seguente11. Nel rispetto dell’innovativa impronta internazionale propagandata dall’ente promotore, invece, la critica registra i paragoni con la nostrana regia di Rocca, quasi dimentica degli altri spettacoli vincitori del concorso, relegati al chiuso del Teatro Goldoni. Pertanto la diatriba classista fra popolo e classe colta si ripete, smentendo il sottotesto di una pilotata inclusione sociale, fascista, quando si legge che La bottega del caffè è lo specchio di una Venezia borghese e popolana, la nostra cara Venezia settecentesca, tutta carattere, arguzia, familiarità: col secondo spettacolo, retto da Max Reinhardt, si è rievocata una Venezia di lusso e di fantasia, splendida e quasi leggendaria nei misteriosi confini della sua gran realtà dominatrice e degli irrefrenabili sogni. Quella, dunque che Shakespeare immaginava nel suo mirabile affresco.12

Dopo il 1936 le manifestazioni teatrali cominciano ad avere una cadenza annuale e con una legge del 21 luglio 1938 si ribadisce l’importanza di svolgerle all’aperto, previa approvazione da parte del Ministero della cultura popolare13. Ma per quanto le proposte italiane non sembrino apportare alcun tratto innovativo rispetto al panorama europeo, prediligendo le autoctone commedie goldoniane: 120

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Il teatro dei 4000 in campo San Polo gestito dall’O.N.D., 1939

Venezia in quegli anni col suo Festival cerca di dare una risposta, a suo modo peculiare, sia al teatro ideologico e di massa, che al teatro leggero pur nell’inadeguatezza della scoperta di un teatro contemporaneo, tra indecisioni e contraddizioni, con ambizioni non sempre ben riposte: da un lato sotto la tutela romana di Dino Alfieri e Nicola De Pirro e dall’altra sotto quella veneziana di Giuseppe Volpi.14

In ogni caso, per l’edizione del 1938 gli spettacoli si moltiplicano e l’accoglienza di un pubblico sempre più numeroso diventa un ottimo pretesto per ipotizzare inedite soluzioni spaziali, alternative a quelle dei limitanti campi; a offrirle è il lungimirante segretario generale Antonio Maraini che punta all’isola di San Giorgio, oramai in stato di decadente abbandono, per la sua posizione strategica e per gli ampi spazi verdi da riqualificare. Il progetto dell’isola dei teatri è affidato all’amico Brenno Del Giudice che collabora con l’architetto Marino Meo nella grande impresa. I disegni di progetto, assieme alla maquette dell’intera isola di San Giorgio, sono oggi custoditi nell’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale15; altri documenti, fra cui bozzetti e schizzi, invece, sono raccolti nella biblioteca della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro16. L’area monumentale della basilica e il magazzino militare vengono raccordate da un lungo viale di cipressi, la cui prima tappa conduce a un digradante teatro di verzure, disegnato da siepi che ne sagomano l’ingombro e ne scandiscono gli ordini di sedute, circa millecinquecento, dalle quali assistere a concerti e spettacoli di danza. Si prosegue in direzione della darsena, dotata di un grande caffè e adibita a teatro acqueo nel quale trovano approdo gli allestimenti galleggianti. Il percorso culmina in una piazza circolare di settantasette metri e mezzo – perimetrata da un fitto intercolunnio con al centro una gigantesca fontana – che funge da accesso a un anfiteatro capace di contenere seimila persone, la cui distribuzione orienta la cavea e il palcoscenico in direzione del Lido. A comprendere gli ambiziosi propositi di Maraini ci aiuta un articolo pubblicato nella rivista “Le tre Venezie” del 1939, dove si definisce la nuova funzione dell’isola:

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Brenno Del Giudice, maquette della trasformazione dell’isola di San Giorgio Maggiore, 1934

Brenno Del Giudice, pianta piano terra e primo livello dell’anfiteatro, 1934, ridisegno di Massimiliano Ciammaichella, 2022

Brenno Del Giudice, pianta dell’anfiteatro, 1934, ridisegno di Massimiliano Ciammaichella, 2022

Massimiliano Ciammaichella, ricostruzione pianta del Teatro Verde, 2022

Luigi Vietti, Angelo Scattolin, Teatro Verde, pianta e sezione

divenire il maggior centro teatrale all’aperto, con sistemazione stabile, d’Italia, anzi del mondo: in condizioni perfette di acustica, di attrezzatura tecnica, di ricettibilità; ed assorbire tutte le manifestazioni teatrali estive di Venezia […], in modo da affermare la preminenza della nostra città, non solo sulle similari manifestazioni italiane; ma da superare anche tutte le altre dell’estero. Lo scopo del progetto Maraini-Del Giudice è di far sorgere un centro teatrale stabile e definitivo da innestare nell’organismo della Biennale.17

Ma il sogno resta sulla carta, la sua diffusione coincide con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, anche quando, nel 1942, il progetto viene ripresentato al cospetto del comandante federale Mario Macola18. D’altra parte questo performabile modello architettonico di rinascimento fascista, per forma e prossimità geografica, evoca le utopistiche ambizioni del mecenate Alvise Cornaro che, nel 1560, sottopone all’attenzione della Magistratura alle acque una sorprendente riconfigurazione del bacino marciano, posizionando una grande fontana fra le colonne della Porta da Mar di piazzetta San Marco, una collina con alberi da ricavare nella velma prospicente l’isola di San Giorgio e un anfiteatro romano, costruito su un’isola artificiale fra la Giudecca e la Punta della Dogana19. Di scala più ridotta, la stessa tipologia viene ripetuta cinque anni dopo nel temporaneo teatro ligneo di Andrea Palladio – eretto nella corte di Ca’ Foscari su commissione della Compagnia della Calza degli Accesi –, per la messa in scena dell’Antigono, tragedia scritta dal vicentino Antonio Pigatti conte da Monte20. È noto come l’avvio del declino dell’isola di San Giorgio coincida con la caduta della Repubblica. La conseguente riconversione in porto franco comporta la soppressione delle attività monastiche dei benedettini nel 1806, così, dall’occupazione francese a quella austriaca il complesso monumentale subisce drastiche manomissioni e nel 1851 il demanio militare, divenuto proprietario dell’isola, perpetua lo sfacelo insediandovi il Comando dell’Artiglieria21. Si costruiscono capannoni, poi si spogliano gli spazi del loro pregevole patrimonio artistico e della specifica funzione architettonica, per ricavare alloggi, camerate e uffici che ne compromettono la statica, fino a quando nel 1951, per volere del conte Vittorio Cini viene istituita la 128

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Luigi Vietti, Angelo Scattolin, isola di San Giorgio con il Teatro Verde

Luigi Vietti, isola di San Giorgio, assonometria, 1951

Fondazione Giorgio Cini che prende il nome dal figlio, prematuramente scomparso in un incidente aereo nel 1949: Le finalità sociali hanno lo scopo di promuovere il ripristino del complesso monumentale dell’Isola di San Giorgio Maggiore e di favorire la costituzione e lo sviluppo nel territorio di essa di istituzioni educative, sociali, culturali e artistiche, occorrendo in collaborazione con quelle cittadine già esistenti,22

cui si aggiungono anche i nobili propositi di includere un centro di formazione scolastica e professionale, dedicato ai giovani orfani di guerra in ristrettezze economiche. Da questi presupposti, nel 1952 si avviano i lavori di restauro dell’intero complesso monumentale che vengono affidati all’ingegnere Ferdinando Forlati23, invece le opere di nuova costruzione e riconversione dell’esistente – destinate al Centro Arti e Mestieri e al Centro Marinaro – vedono impegnato l’architetto Luigi Vietti nel collaborare con il responsabile dell’ufficio tecnico della fondazione, l’ingegnere Enea Perugini. Di matrice razionalista, ma con una precisa attenzione al rapporto fra materiali scelti e paesaggio all’interno del quale i manufatti si radicano, Vietti si dedica a una progettazione totale, dove trovano ampio spazio il disegno degli arredi e la definizione dei dettagli, nonostante i tempi contratti: ricorrendo ad una formula abusata, Vietti è ‘architetto integrale’, capace di un disegno minuzioso che spazia dalla lavagna al reggitenda, dall’inginocchiatoio al lampadario.24

Ma è nel Teatro Verde a liberare tutta la sua poetica, sintetizzando alcune delle intuizioni già ideate da Brenno del Giudice, del quale, assieme al Conte Cini, sicuramente conosce il progetto presentato una decina di anni prima. Ma qui non si tratta di un’opera monumentale, semmai di uno spazio performativo all’aperto che si integra con il ridisegno paesaggistico dell’area in cui si innesta, dove i materiali di scarto provenienti dallo sgombero militare sono stati anticipatamente disposti a ferro di cavallo, abbattendo anche alcuni magazzini e capannoni per liberare l’antico parco dei cipressi. Benché non siano noti gli specifici apporti dell’architetto veneziano 132

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ed esperto di restauro Angelo Scattolin, nel collaborare alla riuscita dell’impresa, si costruisce un anfiteatro in pietra rosa vicentina, le cui gradinate sono intervallate da siepi di pitosforo, omaggiando i teatri di verzura tipici delle ville italiane che li hanno visti fiorire a partire dal Cinquecento. Gli ordini sono distribuiti all’interno di una collina artificiale perimetrata da siepi in bosso e cipressi, ricavando circa millecinquecento posti a sedere, mentre il palcoscenico di 1400 metri quadrati è una grande piazza che guarda la laguna in direzione del Lido. Ai lati vi sono due piccoli edifici che ospitano i servizi per il pubblico e il bar, oltre alle scale per raggiungere il sottopalco adibito a sale prove, camerini per attori e orchestrali, uffici e una grande fontana al centro che funge da impluvium, illuminato da un foro circolare sagomato al centro del palco. Per quanto riguarda l’acustica, Vietti dichiara che l’orientamento e le soluzioni previste tengono conto dei moti dei venti estivi e delle correnti dei canali, inoltre le tecnologie in dotazione sono all’avanguardia e l’impianto elettrico ha una potenza di otto volte superiore al normale25. Il Teatro Verde inaugura le sue stagioni l’11 luglio 1954, con il dramma sacro Resurrezione e vita di Orazio Costa che ne cura la drammaturgia e la regia. I programmi sono concordati con l’ente Biennale e il Teatro La Fenice, così il 15 luglio è il turno dell’Arianna di Vincenzo Cassani, con le musiche di Benedetto Marcello. A partire dal 1954 diventa la sede eletta per gli eventi del Festival Internazionale del Teatro26. Oggi torna alla luce dopo una serie di interventi di restauro architettonico e paesaggistico, che hanno interessato la cavea e il sistema di siepi, il cui completamento richiede anche il ripristino delle strutture del palcoscenico27. La Fondazione Giorgio Cini valorizza il merito di Luigi Vietti, il cui principale intento è stato quello di “fare una cosa affettuosa, non imponente […], con i cipressi intorno, di fronte al mare, e il palcoscenico su cui può agire una troupe di trecentocinquanta persone”28.

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L’ISOLA DEI TEATRI

Note

1. Per un approfondimento della figura di Antonio Maraini, si veda V. Pajusco, Antonio Maraini e l’istituto Storico d’Arte Contemporanea (19281944), in “Saggi e memorie di Storia dell’arte”, n. 38, 2014, pp. 135-154. 2. Il Palazzo dell’Esposizione diventa Padiglione Italia, con la facciata progettata da Duilio Torres, nel 1932. 3. AA. VV., XVI Esposizione Internazionale d’Arte della città di Venezia 1928, catalogo, Premiate officine grafiche Carlo Ferrari, Venezia 1928, p. 18. 4. Ivi, p. 19. 5. Cfr. A. Maraini, L’Architettura e le Arti Decorative alla XVI Biennale Veneziana, in “Architettura e Arti Decorative”, fasc. 1, settembre 1928, pp. 56-59.

9. Secondo Mario Corsi dovuto più al contesto che non alle scelte registiche: “la imperiosa maestà della cornice architettonica offerta dalla vicenda, la solenne bellezza dello sfondo, non solo rimpicciolirono alquanto le figure, ma si asservirono alla tragedia, la quale, per adattarsi alle condizioni del luogo, dovette dilatarsi e colmare i suoi vuoti con complessi movimenti di masse e ornarsi di pittoreschi episodi coreografici”, in M. Corsi, Il teatro all’aperto in Italia, Rizzoli, Milano-Roma 1939, p. 221. 10. C. Alberti, Panorami di sentimento, di favole. Le rappresentazioni all’aperto nei primi anni della Biennale-Teatro (1934-1941), in “Venezia Arti”, n. 2, 1988, p. 117. 11. Cfr. V. Pajusco, Brenno Del Giu- dice e Duilio Torres architetti della Biennale, in F. Castellani, M. Carraro, E. Charans, Lo IUAV e la Biennale di Venezia. Figure, scenari, strumenti, Il Poligrafo, Padova 2016, pp. 45-46.

6. Cfr. M. Mulazzani, I padiglioni della Biennale di Venezia, Electa, Milano 2004, pp. 73-76; G. D. Romanelli, Ottant’anni di architettura e allestimenti alla Biennale di Venezia, La Biennale di Venezia. Archivio Storico delle Arti Contemporanee, Venezia 1976, pp. 76-77.

12. F. Bernardelli, Il mercante di Venezia nella spettacolosa rappresentazione in Campo San Trovaso, in “La Stampa”, n. 170, 19 luglio 1934, p. 5.

7. Con Regio Decreto-Legge 30 gennaio 1930, n. 33, si istituisce l’Ente autonomo Esposizione biennale internazionale d’arte.

14. L. Trezzini, Una storia della biennale teatro (1934-1995), Marsilio, Venezia 1999, pp. 32-33.

8. P. Orano, I Carri di Tespi dell’O.N.D., Pinciana, Roma 1937, p. 266.

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13. Regio Decreto-Legge 21 luglio 1938, n. 1517, art. 5.

15. ASAC, Teatro Verde – Isola di San Giorgio, 1/2. BIAP/1/35 (61107. Gran viale con mostre; 61108. Teatro maggiore: prospetti e sezioni; 61109. Teatro maggiore: pianta piano terra MASSIMILIANO CIAMMAICHELLA

e I piano; 61110: Teatro maggiore: proiezione orizzontale; 61112: Schizzo assonometrico; 61113: Schizzo prospettico). 16. Fondo Brenno del Giudice, Architettura veneziana del Novecento: Brenno Del Giudice, SIUSA, Biblioteca di Ca’ Pesaro. Galleria Internazionale d’Arte Moderna. 17. Ignoto, Il progetto di trasformazione dell’isola di S. Giorgio in un centro di vita artistica e teatrale, in “Le tre Venezie. Rivista mensile illustrata”, n. 7-8, XVII, luglio-agosto 1939, p. 267. 18. Cfr. F. Salatin, «Che ne facciamo di Venezia?». Brenno del Giudice e l’isola di San Giorgio, in “Ateneo Veneto”, n. 18/II, 2019, p. 104. 19. Cfr. A. Cornaro, Savi ed Esecutori alle Acque, ASVe. Archivio di Stato di Venezia, Scrittura, busta 986, filza 4, cc. 23-25, Venezia 1560. 20. Cfr. M. Ciammaichella, Scenografia e prospettiva nella Venezia del Cinquecento e Seicento. Premesse e sviluppi del teatro barocco, La scuola di Pitagora, Napoli 2021, pp. 38-53.

nelle venezie del Novecento, Il Poligrafo, Padova 2017, pp. 213-222. 24. F. Salatin, «Una cosa affettuosa». Luigi Vietti e i progetti per il recupero dell’isola di S. Giorgio Maggiore, in “Studi veneziani”, n. LXXVI, 2017, p. 97. 25. Cfr. P. V. Dell’Aira, Luigi Vietti. Progetti e realizzazioni degli anni ’30, Alinea, Firenze 1997, p. 121. 26. Cfr. C. Alberti, Gli spettacoli del Teatro Verde, in U. Agnati (a cura di), La Fondazione Giorgio Cini. Cinquant’anni di storia, Electa, Milano 2001, pp. 285-290. 27. La riapertura del Teatro Verde coincide con la mostra Homo Faber (Fondazione Giorgio Cini, 10 aprile-1 maggio 2022). Il progetto di restau- ro, autorizzato con protocollo SABAP 19930 del 29/11/2021, è a cura dell’ufficio tecnico della Fondazione, arch. Francesca Salatin, con la consulenza agronomica del dott. Marco Tosato. 28. M. Gramigni, L’arte del costruire in Luigi Vietti, Zen iniziative, Novara 2000, p. 38.

21. Cfr. G. Damerini, L’Isola e il Cenobio di San Giorgio Maggiore, Fondazione Giorgio Cini, Venezia 1956, pp. 179-184. 22. La Fondazione Giorgio Cini, Statu- to, art. 2, 1951. 23. Cfr. M. Altieri, Ferdinando Forlati a San Giorgio Maggiore, in S. Sorteni, Le stagioni dell’ingegnere Ferdinando Forlati. Un protagonista del restauro 135

L’ISOLA DEI TEATRI

Animali in scena. Bestiario veneziano Lorenza Gasparella

La bellezza dei giardini appariva tale che se ne parlava come di una meraviglia, dovunque lontano da Venezia. Non c’era guida stampata della città che non li descrivesse; gli almanacchi nuovi ne riproducevano sui frontespizi gli aspetti tipici [...] Nessun passeggio pubblico al mondo offriva colpi d’occhio, silenzi e seduzioni paragonabili ai colpi d’occhio, ai silenzi, alle seduzioni panoramiche offerte [...] dai giardini napoleonici di Venezia.1

Come ogni parco pubblico anche i giardini progettati da Antonio Selva nascono con una finalità rappresentativa, luogo dove “vedere e farsi vedere”2. Ed è proprio per soddisfare la richiesta del “grande bisogno di passeggio che sentono in modo speciale gli estranei a Venezia, quivi dimoranti”3 che nel 1872 viene presentato il progetto di una via carrozzabile, chiamata aerea, che avrebbe dovuto unire i giardini innanzi al “palazzo dei Dogi [che] dopo alcuni secoli rivisto nelle sue mura venerande i cavalli”4 al paludo di Sant’Elena prospiciente i Giardini napoleonici, trasformato in un’arena acquea dove poter assistere a naumachie e giochi pirotecnici oltre che passeggiare a cavallo o in carrozza “come in ogni città che si rispetti”5. Questa modalità di autorappresentazione, che ha nel giardino il suo palcoscenico, non era comunque estranea alla città. Anche se nel 1611 Coryat riferisce di aver visto un solo cavallo in tutta Venezia6, sino alla fine del secolo successivo, nell’ampio giardino di Palazzo Gradenigo in rio Marin, si poteva “girare in carrozza a quattro cavalli, avendosi eretta all’uopo nel giardino medesimo una magnifica scuderia”7, mentre alla Giudecca, accanto al convento delle Convertite a Santa Eufemia, alcuni orti erano stati trasformati in pista per corse equestri. Finite le gare, nei giardini attigui “al tramonto si accendevano i lumi; ed allora cominciavano le cene, alle quali si univano e seguivano le danze”8. È in questo che inizia a manifestarsi l’eccezionalità di Venezia. Se la presenza delle cavallerizze la accomuna a quasi tutte le città con un’importanza commerciale e militare in quanto centri di formazione equestre sia per i nobili che per i militari, a Venezia gli esercizi 137

cavallereschi erano considerati veri e propri spettacoli, in particolare quelli che si svolgevano alla Cavallerizza dei Nobili, dove si svolgevano anche mascherate a cavallo9. La presenza dei cavalli non era però limitata ai giardini di palazzo e alle cavallerizze. Giostre e tornei erano organizzati in piazza San Marco per ricordare un avvenimento politico o una vittoria militare, per festeggiare la venuta di qualche personaggio importante o qualche celebre sposalizio10. In tali occasioni i mantelli dei cavalli venivano tinti con colori vivaci diventando espressione della passione dei veneziani per i colori e il cromatismo. In particolare il pigmento che esprimeva il massimo prestigio della cavalcatura era ricavato da una pianta proveniente da Cipro che conferiva al manto un colore giallo dorato, lo stesso utilizzato dal Doge Michele Steno per i quattrocento cavalli della sua scuderia considerata la “migliore in confronto a [quella di] qualunque principe d’Italia”11. Non solo i cavalli animavano l’area marciana, ma anche tori immolati con un rito sacrificale durante il giovedì grasso in piazza San Marco e durante l’ultima domenica di carnevale nella corte del Palazzo Ducale. È il volto pagano della città che emerge “per quanto si rivesta di chiese e dipinti di santi. [...] Affascinante quanto l’ostentata devozione della sua gente”12. I tori erano coinvolti anche in cacce, che si svolgevano in molti campi nei giorni feriali del periodo carnevalesco e, in occasione dell’arrivo di principi stranieri, in piazza San Marco, dove veniva allestito un anfiteatro ligneo. In questi casi, però, la loro sorte non sempre era già segnata. Alcuni divennero celebri perché uscirono indenni da tutti gli incontri che disputarono. Non erano propriamente tori, ma buoi, scelti tra quelli che si trovavano al macello pubblico, dove venivano addestrati anche i cani, avversari nella lotta, a mordere le orecchie dei bovini. Il ruolo degli attori umani era sia quello di aizzare il proprio animale contro l’avversario, ma anche di seguirlo, osservarlo con attenzione a debita distanza, pronti ad aiutarlo. Delle funi legate alle corna permettevano a due “tiratori” di trattenere, far indietreggiare, spingere in avanti, piegare a destra o a sinistra il bue a seconda dell’attacco del cane e sottrarlo così, il più possibile, ai sui denti. Anche i cani non agivano da soli ma venivano indirizzati dai loro addestratori che intervenivano anche per interrompere l’attacco. Di norma, infatti, i buoi dovevano essere restituiti 138

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dopo la caccia tanto che il tirador dopo aver scelto, il giorno prima della festa, l’animale che per possenza si avvicinava il più possibile a un toro, versava una garanzia per eventuali danni che l’animale poteva subire13. Alle cacce assistevano tutte le classi sociali. I balconi dei palazzi che si affacciavano sui campi teatro della caccia erano trasformati per l’occasione in palchi adorni di damaschi, bandiere, velluti come nelle chiovere di San Giobbe dove “ogni anno una famiglia di beccai, [...] che aveva i balconi affacciati [sul campo] organizzava [...] una grandiosa caccia a cui seguiva un banchetto”14. Non solo ai tori, le cacce venivano fatte anche all’orso che, legato con una robusta catena a un palo infisso nel terreno, rispondeva con morsi e unghiate agli attacchi dei cani, alternativamente trattenuti e lasciati da esperti tiratori attraverso lunghi guinzagli15. L’organizzazione della festa era affidata ai cortesani, “bottegai, artisti, [...] qualche prete, uomini destri, onorati”16. In occasione di festeggiamenti importanti, per ospiti stranieri oppure nei casi in cui la festa era offerta per una particolare ricorrenza da qualche ricca famiglia patrizia, l’organizzazione delle cacce era affidata alle Compagnie della Calza17, che ebbero un ruolo cruciale anche nall’evoluzione dell’archetipo del giardino in luogo teatrale. Nella tipologia dei passaggi e delle trasformazioni (dalla chiesa alla piazza, dal cortile alla sala d’apparato e da questa all’edificio teatrale in senso proprio, con apporti e diramazioni limitrofe, per esempio dai recinti a gallerie sovrapposte allestiti per i tornei), il giardino occupa un posto rilevante, destinato a influenzare la struttura e la decorazione della sala teatrale lungo l’intero arco del suo sviluppo.18

A Venezia, già nel Quattrocento nei giardini delle residenze patrizie a Murano e alla Giudecca, ma anche in città, “gli eleganti conversari e le esecuzioni musicali si alternavano alle danze figurate e alle prime recite”19 e non era raro che a completare la scena contribuissero animali esotici, “ornamento o trastullo dei ceti agiati”20 e questo fino agli inizi del Novecento quando la marchesa Casati porta all’estremo le presenze animali nelle messe in scena in giardino popolando quello di Palazzo Venier dei Leoni di “un ghepardo, merli albini ai quali fa colorare le piume a seconda dell’estro del giorno, pavoni bianchi 139

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addestrati a rimanere vicino alle finestre, scimmie, pappagalli, gattopardi, tigri e un boa constrictor”21. Gli abitanti di questo serraglio non rimangono confinati nei limiti del giardino, come i leopardi e i leoni dono dei fiorentini alla Repubblica, che una cronaca del 1316 testimonia fossero gli abitanti del serraglio che occupava l’area corrispondente agli attuali Giardini Reali22, ma accompagnano la marchesa nelle sue passeggiate in piazza San Marco; il ghepardo al guinzaglio, il boa avvolto attorno al collo. Esibiti come accessori, erano gli attori non protagonisti che contribuivano, però, a rafforzare l’opera d’arte che la marchesa voleva costruire della sua vita e di cui anche Venezia era fonte di ispirazione. Uccelli, scimmie, cervi, cavalli, pulci ammaestrate e tutte le “bestie selvagge e feroci, mansuete e educate a rispettar la mano che le domò”23, infatti, avevano popolato usualmente riva degli Schiavoni durante il tempo di carnevale. Non tutti, però, furono anonimi oggetti animati in architetture effimere. Alcuni divennero personaggi acclamati. È il caso Clara, il rinoceronte ritratto da Pietro Longhi24 nel 1751 che, giunta dall’India nei Paesi Bassi dieci anni prima, iniziò subito a viaggiare per tutta Europa diventando un vero fenomeno di costume tanto che venne lanciata una moda di parrucche alla rinoceronte e fu protagonista di libri, epigrammi e canzoni25. Longhi, però, con timida ironia rappresenta un animale goffo che si spartisce equamente la tela con gli uomini, dopo aver insozzato di sterco il suo “casotto”26. L’animale non è più un simbolo di prestigio, una vittima rituale, uno strumento di svago o un oggetto di ornamento, ma riacquista tutta la sua animalità ed è questa che viene mostrata mentre la città cerca di dimenticare l’intrinseca malinconia del proprio declino. La caduta della Repubblica non cancella secoli di carnevale, tempo di tripudio: di tutto è copia, di dritti e storti, d’invasi e obliqui, perché tutto il mondo carnevalesco è un complesso di linee che s’intesecano in vari punti; [...] è varietà di gusti, di umori, di oggetti, di figure, di aspiri; è l’epitome [...] del capriccio, della leggerezza. [...] In questea stagione, si vede [...], la leggiadria e la goffaggine, la semplicità e l’accortezza, la sapienza e l’ignoranza, [...], il serio e il buffo, l’ideale e l’artificiale, l’empirico e il teorico.27 140

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Così come non si affievolisce il desiderio di “prestare omaggio al re della foresta, o all’ardito funambolo, o all’abile giocoliere, o a qualunque varietà della natura o dell’arte”28. Con varie fiere e bestie, per il carnevale del 1819, giunse a Venezia un elefante particolarmente docile e mansueto. “Intelligentissimo [...] obbediva con tutta la prontezza agli ordini del suo custode”29, finché non vennero sparate salve di artiglierie dalle navi militari ormeggiate in bacino di San Marco per celebrare l’arrivo in città dell’imperatore. Il fragore dei colpi lo innervosisce e lo spaventa a tal punto che non obbedisce più a nessun comando imposto. Inizia una fuga e un inseguimento, che termina all’interno della Chiesa di San Giovanni in Bragora dove il pavimento, in corrispondenza di un sepolcro, cede sotto il peso dell’animale intrappolandolo e consegnandolo alla mira dei soldati che gli indirizzano contro un colpo di cannone che lo uccide30. Una vera piece dove l’animale entra nella scena urbana e la modifica, anche materialmente, al suo passaggio. Episodio estremo e unico, che però mostra la magnificenza, intelligenza e la reazione alla cattività della specie, richiamate anche da katharina Fritsch con l’opera Elefant / Elephant esposta alla 59. Mostra Internazionale d’Arte Il latte dei sogni31 e collocata nel luogo un tempo occupato dal ricovero del “prigioniero dei Giardini”, un elefante, familiarmente chiamato Toni, che venne sfrattato con tutti gli altri animali del giardino zoologico presente all’interno dei Giardini del Selva, per allestire la prima Biennale32. Un’appropriazione più controllata della scena veneziana, ma comunque perturbante, da parte di elefanti e dromedari, avvenne in occasione dell’arrivo in città del circo Togni nel luglio del 1954. Altri circhi avevano allestito i loro spettacoli in città, come nell’agosto del 1910 il circo tedesco krone che era sbarcato con i suoi animali a Sant’ Elena, ma nessuno aveva messo in scena una parata aperta da elefanti e seguiti da cinquanta artisti e dagli altri animali del serraglio di wioris Togni, quasi una materializzazione del bestiario di pietra che popola la città. Gli elefanti, per svoltare lo stretto angolo a gomito di calle Ca’ Bernardo, che immette in campo San Polo, furono fatti sollevare sulle zampe posteriori e avanzare scorrendo con quelle anteriori appoggiate al muro33. Una prova di abilità paragonabile ai numeri che avrebbero eseguito durante lo spettacolo. Il corteo di artisti e animali, d’altronde, rispettava la più antica delle tradizioni circensi, ma richiamava anche i fasti artistici della Serenissima Repubblica, quando una teatralità di 141

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massa sapeva disegnare “nelle movenze rituali e collettive, [...] la coreografia di un mondo costantemente e scientemente autorappresentato [...] con singolari possibilità di ribaltamento dell’appartenenza sociale fra attore e spettatore, fra nobiltà e popolo, fra ricchi e poveri, a seconda delle caratteristiche del gioco, della festa, della messinscena”34. Le rappresentazioni non erano confinate solo ai palcoscenici dei pur numerosissimi teatri, una quindicina quelli attivi tra Cinquecento e Seicento, ma sono parte essenziale della “ritualità dei grandi cerimoniali [...] ricorrenti o eccezionali che si regolano in modo non difforme dai grandi giochi sull’acqua o a terra”35, governati da precisissime regie in occasione di eventi civili o religiosi ai quali non mancavano mai attori animaleschi, fossero anche solo comparse, ma che molto spesso recitavano un ruolo da coprotagonisti. L’antichissima cerimonia della domenica delle Palme, ad esempio, prevedeva un imponente corteo in processione dal Palazzo Ducale alla Basilica di San Marco. La palma portata dal Doge “aveva le foglie d’oro, d’argento, di seta accomodate ed intrecciate con fine leggiadria [...] le altre palme destinate al corteo erano meno ricche, ma pur sempre confezionate con rara eleganza”36. Al termine della messa, però i veneziani non rinunciavano a esprimere uno stile loro proprio che è manifestazione di una condivisione del palcoscenico più prestigioso, ancora una volta, con attori non umani. Davanti al Doge e al Patriarca, dall’alto delle logge sovrastanti gli arconi della Basilica, venivano, infatti, liberati diversi tipi di uccelli, ma soprattutto molte coppie di piccioni, tutti con alcune mitre di carta dipinte legate alle zampe, che impedivano loro di volare lontano così da poter essere catturati per il pranzo pasquale da coloro che, appartenenti ai ceti più poveri, affollavano la piazza37. Alcuni piccioni, nonostante la zavorra riuscivano a sfuggire alla cattura, rifugiandosi sui tetti degli edifici della piazza compresi Palazzo Ducale e la Basilica38 da dove, forse anche in omaggio del servizio che avevano reso alla Repubblica nella guerra vittoriosa contro Candia, non solo non venivano cacciati, ma erano ospitati in vere e proprie colombaie appositamente costruite e nutriti ogni giorno dagli ufficiali al Formento fino al 1797. Settantadue anni più tardi, i piccioni veneziani risultarono tra i beneficiari dei lasciti testamentari di Caterina Querini che con uno speciale legato volle assicurare loro il grano necessario per il quotidiano sostentamento39. 142

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Alviano Boaga, fotogrammi dalle riprese realizzate nel 1954, montaggio Vittorino Boaga, 2007

È la più evidente dimostrazione di quel rapporto che i veneziani hanno sempre espresso nei confronti degli animali con i quali hanno condiviso stabilmente o saltuariamente la scena urbana e che Le Corbusier definisce “fraterno”40. “Questa fraternizzazione degli esseri viventi [...] estremamente commovente, molto significativa”41 trova materializzazione nell’incavo scavato nella lastra di basamento dei pozzi di molti campi veneziani. Segni minimi, concavità, che “era cura speciale dei capi contrada e dei facchini dei rispettivi campi tenerle monde e nette e sempre piene di acqua pura perché trovino i cani da dissetarsi”42. Se nel 1794 un decreto stabiliva che “ogni persona di qualsivoglia grado e condizione che fosse padrone o custode di cani, sia obbligato di averne cura e custodia non permettendo loro di vagare per la città”43, i gatti continuarono a popolare i campi, intere colonie di gatti liberi, che non avevano un padrone, ma che appartenevano a tutti e che da tutti erano accuditi. “Non è difficile intuire la ragione da cui deriva la speciale amicizia che è sempre esistita tra i gatti e i veneziani”44. La lotta contro i ratti è sempre stata fondamentale per Venezia, sia a bordo delle navi, dove la presenza dei gatti era prescritta in molti contratti di assicurazione delle merci e scrupolosamente regolamentata da apposite norme riportate in due capitoli del Libro del Consolato del Mare45, sia in città. Ora Venezia non “formicola [più] del gentile animale”46, e nessun “pubblico provveditore, [...] gira con un canestro e certi vili pesciolini entro il canestro”47. Sono state rimosse tutte le cucce di legno, costruite con l’accortezza di poter garantire un riparo asciutto anche con l’acqua alta, perché “i veneziani hanno sempre amato i loro gatti”48, presenza familiare e ricorrente in molti campi. I gatti liberi sono scomparsi, non perché rapiti dal padrone di uno sgangherato circo che vorrebbe insegnare ai gatti a camminare sull’acqua, come scoprono i protagonisti del film del 1978 di Walter Santesso, da un racconto di Flavia Paulon49, ragazzini di due bande rivali alleatesi per indagare sulla sparizione dei felini dalla città, ma a seguito di una drastica campagna di sterilizzazione. Campagna che, tuttavia, non ne ha saputo riconoscere appieno il ruolo da co-protagonisti della scena urbana veneziana. Anche “i gatti di campo o di calle, che hanno una casa e un padrone, ma che amano trascorrere le loro 144

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giornate all’aperto, presidiando postazioni prescelte [...] nel territorio di loro pertinenza”50, sono sempre più rari. Il loro numero è proporzionale al numero di residenti, sempre più basso. I pochi rimasti continuano a cercare il sole d’inverno e l’ombra d’estate, prediligendo sempre il centro della scena, attitudine che gli è stata riconosciuta dal regista Armando Acosta che, nel 1990, ha realizzato un film, intitolato Romeo. Juliet, in cui l’opera shakespiriana è interpretata da gatti “scritturati” soprattutto a Venezia, e in parte a New York City, Verona e Ghent, e un solo attore umano. Acosta aveva iniziato a filmare i gatti di strada di New York nel 1964 con l’intento di catturarne i movimenti coreografici, la grazia e l’eleganza, usando le tecniche al rallentatore allora disponibili. In quel momento però né la tecnologia né la copertura finanziaria erano tali da trasformare il progetto in un film, realizzato quasi venticinque anni dopo, con la partecipazione di pluripremiati attori cinematografici e teatrali britannici come Ben kingsley, Maggie Smith, Vanessa Redgrave, Robert Powell, Francesca Annis, Victor Spinetti, Quentin Crisp, i quali hanno prestato le loro voci ai “colleghi” felini. John Hurt nell’interpretazione del ruolo della dame aux chats, un’eccentrica signora veneziana che vive con il suo topo domestico su una casa galleggiante di nome Fellini e salva Juliet e la sua famiglia felina portandoli di nascosto su una nave diretta negli Stati Uniti dove avviene l’incontro con Romeo, con grande ingegno e potere di invenzione, è stato capace, in questo “un ruolo di supporto”51, di evocare “una familiarità franca e affettuosa, una specie di cameratismo”52 che non poteva che iniziare a Venezia, città che, durante tutta la sua storia, ma soprattutto durante il millennio d’indipendenza repubblicana, ha tenuto con affetto, celebrato e, a volte, esaltato i suoi animali53. Oggi questa capacità, questa profonda sensibilità, mantenuta di generazione in generazione per secoli, si sta perdendo. I gatti sono stati esiliati, i falchi pellegrini espulsi, perché controllori che non hanno controllato, i colombi affamati e quell’imponente serraglio di “bestie tenere e feroci, storiche e immaginarie, ripugnanti e incantevoli, [...] dolci bestie nate da fantasia lirica, [...] nei ricordi o nella metafora”54: un serraglio zittito e confinato nelle sale dei musei e nelle facciate dei palazzi. Durante l’alto Rinascimento quando l’uomo si dimenticò della sua parentela con le bestie, fu solo a Venezia che gli animali continuarono 145

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a essere amati e capiti e l’arte mantenne il suo essenziale calore55. “Non c’è nessun gatto accanto al Canal Grande di Corot, neanche un uccello notturno sulla laguna di whistler, o un solo gabbiano che volteggi sul luminoso palazzo Ducale di Monet, né un cane nei campi di Dufy. I Veneziani, invece, vedevano animali dappertutto”56. Questa capacità percettiva è servita per affinare la sensibilità nei confronti di bestie vive e ansanti, costruendo, nello spirito e nella carne, un bestiario civico diverso da ogni altro, fondato su una affettuosità cameratesca e beffarda57. A Venezia è possibile estendere alla città quello che Frederic Eden dice parlando del giardino, ossia che la sua storia “non è completa se non si parla della vita animale al suo interno”58. Questo soprattutto perché i Veneziani hanno “vissuto molto più a contatto con il loro elemento, l’acqua, di quanto la gente d’altre città facesse con il proprio, la terra”59. Il fluire del tempo – in un complesso modificarsi di relazioni e di emozioni – ha scandito gli aspetti diversi di quella relazione, che è stata di amicizia o di affetto, di ripugnanza o di complicità, di rifiuto o di accoglienza, di lotta o di collaborazione, di estraneità o di conoscenza, di contrasto o di modello. Ma, in ogni caso, l’alterità animale sempre nei secoli è venuta a integrarsi con la natura umana, riiflettendosi l’una nell’altra come in un gioco di specchi ora più o meno fedeli, ora deformanti, ma comunque parte di uno stesso, inscindibile universo.60

Quando l’ecologia diventa più una moda che una sapienza, gli animali sono presenze episodiche, che suscitano sentimenti sempre più polarizzati di idealizzazione o demonizzazione, mentre quelli da compagnia, tendono a divenire sostituti d’umanità61. Venezia, in questo, non fa eccezione. Infatti, quando gli abitanti in peli, piume e squame irrompono sulla scena urbana sono considerati con ostilità, soprattutto se sono “troppi”, anche se da un punto di vista ecologico sono esattamente quelli che l’ambiente urbano può mantenere, perfettamente in equilibrio, in una città che, per incapacità umana, ha perso il proprio. Sono tollerati quelli che compaiono alla base degli edifici, silhouette di topi e colombi con la maschera di medico della peste, finché an146

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ch’essi non saranno costretti a scomparire, declassati ad atti vandalici. I più acclamati sono quelli che arrivano per la Mostra Internazionale d’Arte, come il cavallo di Claudia Fontes (2017), il rinoceronte di LiJen Shih (2018), le giraffe di Raphaela Vogel (2022), i gorilla, gli orsi, il cavallo, il leone di Richard Orlinski (2022), bestie contemporanee che, come quelle dei casotti che sempre furono oggetto di interesse, “si fanno ammirare, vogliono i loro omaggi, le loro ovazioni”62. L’ordine che ha regolato il nesso uomo-animale in una simbiosi sociale, economica, simbolica per secoli, [...] si è ormai interrotto. [...] Si assiste, insomma, alla schizofrenia di un eccesso di sfruttamento e di un eccesso di cura di quello che viene considerato comunque un animale-oggetto.63

Il “miracolo che non si trova quasi in nessuna parte del mondo e che è privilegio [di Venezia]: [...] è l’animale che ha ragione dell’automobile”64, carattere distintivo unico, con questa potenza ed entità. È l’unica città dove è ancora possibile percepire distintamente un paesaggio acustico fatto di passi, sciabordii, di vocalizzi degli uccelli, il tubare dei colombi, i duetti degli allocchi nei quali le parti differenti del maschio e della femmina sono un modo per tenersi in contatto anche a distanza, gli speciali “miagolii” dei gabbiani reali e di un inatteso paesaggio acustico subacqueo prodotto da molti degli animali che vivono nella laguna o nei canali, in particolare il gò, un pesce che per attirare la femmina in un nido molto articolato, costruito sui fondali sabbiosi, e per minacciare gli altri maschi, emette delle speciali vocalizzazioni da inizio primavera per tutta l’estate. È possibile anche “sentir cantare i gechi” mentre difendono il proprio territorio o avvisano di possibili pericoli emettendo diversi tipi di vocalizzazioni molto stridule. Si trovano spesso vicino ai lampioni, uno per ogni lampione, soprattutto nei pressi delle Fondamenta degli Incurabili, sempre nello stesso posto per intercettare zanzare e falene65. Ripercorrendo le rappresentazioni, le messe in scena, emerge una biodiversità intraspecifica dei modi di vedere gli animali, di interpretarli, di inventarli, di usarli simbolicamente, oppure ancora di tentare di conoscerli66. Tuttavia “il rapporto tra uomo e animale merita molta educazione”67 per costruire un’affinità simile a quella che Venezia era riuscita a 147

ANIMALI IN SCENA

Musipul, Venezia, 2022

Der Doctor Schnabel, Venezia, 2022

instaurare con le sue creature lagunari, palustri, volatili e marine, crostacei e lepidotteri, mammiferi e rettili, ma anche chimere, e a farla diventare sensibilità pubblica nell’agire quotidiano. Le immagini di quella che fu l’antica interazione con le altre specie partecipanti dell’avventura della vita, [...] raccontano un variegato rapporto, complesso e non paritetico, di volta in volta segnato dall’ansia di descrivere, di sapere, di interpretare, di fibbricare mostri, simboli e morali68. I modi con cui gli animali sono stati rappresentati nella città che è l’ “inconscio del mondo [...] sorvegliata da una bestia con occhi d’agata bianca e da un santo, che è in realtà un principe, che ha appena ucciso il drago”69, non sono solo una questione di stile, ma piuttosto di interpretazione del loro ruolo nella vita degli uomini di un determinato tempo e di un determinato luogo70. “Non c’è stata soluzione di continuità nella storia umana del rapporto con gli animali: è solo stato un progressivo cambiamento (con crescente accelerazione) che ci ha portato a essere uomini [...] dalla mente ‘vuota d’animali’”71. Re-imparare a dividere la stessa scena anche con altri attori non umani e a restituirne la rappresentazione, allenando una percezione più profonda al di là del contatto visivo, è una delle sfide che ci attende, anche oltre i confini del teatro lagunare veneziano per riacquisire una dimestichezza viva tra uomini e bestie e tornare ad avere la mente “affollata di animali” come in quella Repubblica dove “l’assemblea dei Santi [che] appare come una comunità di pari, pionieri muniti di sandali”72 comprende anche il regno animale, quella Repubblica che, “sogno che si è concretizzato”73, è un’arca.

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Note

1. G. Damerini, Giardini di Venezia, Zanichelli, Bologna 1931, p. 23. 2. A. Antonini, Mémorial de Paris et de ses environs, à l’usage des voyageurs, Musier, Paris 1734, p. 115. 3. L.Torelli, Progetto di congiunzione della Piazzetta di S. Marco e l’isola di S. Elena mediante una via pensile lungo la Riva degli Schiavoni e la formazione di una grande arena nautica fra i Giardini pubblici e l’isola suddetta proposto dal Prefetto Senatore L. Torelli ai cittadini di Venezia nel 1871, Tip. del Commercio Marco Visentini, Venezia 1872, p. 9. 4. C. Boito, Gite di un artista, Hoepli, Milano 1884, p. 62. 5. A. Zorzi, Venezia austriaca 17981866, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 55. Cfr. G. De Riz, Carrozze e cavalli a Venezia. Stranezze ed estraneità in una città d’acqua, in “Insula. Quaderni. Documenti sulla manutenzione urbana di Venezia”, a.VI, n. 18, aprile 2004, pp. 39-45. 6. T. Coryat, Coryat’s Crudities, (1611), James MacLehose and Sons, Glasgow 1905, p. 394. 7. A. Quadri, Descrizione topografica di Venezia e delle lagune, corredata di 34 tavole: Sestiere di Santa Croce, vol. 4, Tip. Gio. Cecchini, Venezia 1844, p. 338. 8. S. Bonfanti, La Giudecca: nella storia, nell’arte, nella vita, Libreria Emiliana, Venezia 1930, p. 119. 151

9. Cfr. C. Ivanovich, Minerva al Tavolino: lettere diverse di proposta, e risposta à varij personaggi, sparse d’alcuni componimenti in prosa, & in verso: nel fine le Memorie teatrali di Venezia, Nicolò Pezzana, Venezia 1681, p. 373, pp. 164-177. 10. Cfr. A. Renier (a cura di), Sagre e feste popolari nel ’700 e ’800 a Venezia: Serenate, Bagni, Casotti, Carnevale, Studio LT2, Venezia 2011, pp. 438-440. 11. G. Fontana, Occhiate storiche a Venezia, Giuseppe Grimaldo, Venezia 1854, p. 306. 12. M. Morazzoni, Il rovescio dell’abito, Guanda, Milano 2022, p. 205. 13. Cfr. A. Renier, op. cit., pp. 432438. 14. G. Busetto (a cura di), Pietro Longhi, Gabriel Bella: scene di vita veneziana, Bompiani, Milano 1995, p. 76. 15. Cfr. Ivi, p. 79. 16. C. Gozzi, Memorie inutili della sua vita scritte da lui medesimo, Stamperia Palese, Venezia 1797, p. 133. 17. Cfr. M. T. Muraro, Le feste a Venezia e le sue manifestazioni rappresentative: le Compagnie della Calza e Le Momarie, in M. I. Biggi (a cura di), Scena e messinscena: scritti teatrali, 1960-1998, Marsilio, Venezia 2004, pp. 315-341. 18. L. Zorzi, Carpaccio e la rappresentazione di Sant’Orsola: ricerche sulla visualità dello spettacolo nel Quattrocento, Einaudi, Torino 1988, p. 96. ANIMALI IN SCENA

19. Ibidem. 20. Ivi, p. 62. 21. Cfr. S.D. Ryersson, M. O. Yaccarino, Infinita varietà. Vita e leggenda della Marchesa Casati, Corbaccio, Milano 2003.

31. M. weisburg, Katharina Fritsch. 1956, Germania, in C. Alemani (a cura di), The milk of dreams 59. Esposizione internazionale d’arte, La Biennale di Venezia, Venezia 2022. 32. Cfr. G. Damerini, Giardini di Venezia, Zanichelli, Bologna 1931, p. 35.

22. Cfr. G. Tassini, Curiosità veneziane ovvero Origini delle denominazioni stradali di Venezia, vol. 1, Tip. Di Giò Cecchini, Venezia 1863, p. 473.

33. M. Niang e N. Radovic, Circo Togni a Venezia, http://www.carouselvenezia.eu/papille/arretrati/circo-togni-a-venezia.html.

23. Cfr. A. Renier, op. cit., p. 456.

34. G. Busetto, op. cit., p. 8.

24. Pietro Longhi ritrae innumerevoli casotti tra cui “Il casotto del lione / Veduto in Venezia / Nel Carnevale del M.7.62 [...]”, il “Vero Ritratto / di un Rinocerotto / condotto in Venezia / l’anno 1751 [...] per commissione / del N.O. Giovanni Grimani / dei Servi Patrizio Veneto” e il “Vero Ritratto / del Elefante / Condotto a Venezia / l’anno 1774 / per commissione della N.D. Marina Sagredo Pisani”. T. Pignatti, Pietro Longhi, Alfieri, Venezia 1968, pp. 89, 109.

35. Ibidem.

25. Cfr. L.C. Rookmaaker, Captive Rhinoceroses in Europe from 1500 until 1810, in “Bijdragen tot de Dierkunde”, vol. 43, n. 1, 1973, pp. 39-63.

39. G. Busetto, op. cit., p. 176.

26. P. Daverio, Il museo immaginato, Rizzoli, Milano 2011, p. 64. 27. A. Renier, op. cit., p. 457. 28. Ivi, p. 463. 29. P. Bonmartini, L’elefanticidio in Venezia nell’anno 1819, Tipografia Andreola, Venezia 1819, p. 23. 30. Cfr. A. Renier, op. cit., pp. 457-459. 152

36. F. Sansovino, G. Martinioni, Venetia, città nobilissima, et singolare, Steffano Curti, Venezia 1663, p. 518. 37. Ibidem. 38. G. Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, Editori degli Annali Universali delle Scienze e dell’Industria, Milano 1829, p. 21.

40. Le Corbusier, À propos de Venise, in “Venezia Architettura” n.1, 1952, pp. 6-9. 41. Ivi, p. 7. 42. G. Malgarotto, I decreti pro e contro i cani, nella Venezia del Settecento, in “Il Gazzettino”, 11 dicembre 1930. 43. Ibidem. 44. S. Medas, Il gatto che viaggiava in vaporetto, Sperling & kupfer, Milano 2020, p. 27. LORENZA GASPARELLA

45. Cfr. Il consolato del mare colla spiegazione di Giuseppe Maria Casaregi, Francesco Piacentini, Venezia 1737, p. 56. 46. T. Locatelli, I gatti, in L’Appendice della Gazzetta di Venezia: prose scelte, L. Plet, Venezia 1837, p. 30. 47. Ibidem. 48. G. Piovene, Viaggio in Italia, (1957), Baldini & Castoldi, Milano 1993, p. 27.

59. J. Morris, op. cit., p. 17. 60. G. Cavallo, Una storia incrociata, in F. Mezzalira, Bestie e bestiari. La rappresentazione degli animali dalla preistoria al Rinascimento, U. Allemandi, Torino 2001, p. 13. 61. Cfr. D. Mainardi, op. cit., in F. Mezzalira, op. cit., p. 10. 62. A. Renier, op. cit., p. 462. 63. G. Cavallo, op. cit., p. 15.

49. Cfr. P. Zanotto, Veneto in film: il censimento del cinema ambientato nel territorio. 1895-2002, Marsilio, Venezia 2002.

64. Le Corbusier, op. cit., p. 7. 65. Cfr. D. Mainardi, La città degli animali, Cairo, Milano 2016.

50. S. Medas, op. cit., p. 27. 51. Cfr. Romeo. Juliet. Presentation Trailer with film clips and behindthe-scenes footage https://vimeo. com/88595328 52. J. Morris, op. cit., p. 17.

66. Cfr. D. Mainardi, op. cit., in F. Mezzalira, op. cit., p. 10. 67. R. Orlinski, Les animaux géants, https://www.30millionsdamis.fr/actualites/article/21955-les-animaux-geants-de-richard-orlinski-epatent-la-galerie/.

53. Cfr. ibidem. 54. Ivi, p. 17-18.

68. Cfr. D. Mainardi, op. cit., in F. Mezzalira, op. cit., p. 12.

55. k. Clark, Animals and Men: Their Relationship as Reflected in Western Art from Prehistory to the Present Day, Thames and Hudson, London, 1977, p. 29.

69. M. McCarthy, Venice Observed, G. & R. Bernier, Paris and Lausanne 1956; tr. it. G. Baglieri, Venezia salvata, Archinto, Milano 1999, p. 41.

56. J. Morris, op. cit., p. 124.

70. D. Mainardi, op. cit., in F. Mezzalira, op. cit., p. 11.

57. Cfr. ivi, p. 123. 71. Ivi, p. 12. 58. F. Eden, A Garden in Venice, London 1903; trad. it. di M. G. Perugini Un giardino a Venezia, Pendragon, Bologna 2008, p. 115.

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72. M. McCarthy, op. cit., p. 121. 73. Ivi, p. 41.

ANIMALI IN SCENA

Venezia Playboy Laura Arrighi

Intorno agli anni Cinquanta ci fu un evento editoriale che più di ogni altro rivoluzionò il modo di leggere la società e di vivere le architetture domestiche, le grandi metropoli, i quartieri suburbani del Nord America. Fu l’invenzione di “Playboy” – una delle riviste erotiche per pubblico maschile più conosciute al mondo – fondata nel dicembre del 1953 da Hugh Marston Hefner. Lo studio del ruolo del periodico come meccanismo di produzione di una nuova soggettività, di proiezione pubblica del privato e spettacolarizzazione della domesticità, è ampiamente documentato da Paul Beatriz Preciado1. Meno indagato è invece il ruolo che l’Italia ebbe nella costruzione di un nuovo “modello di maschio nord americano urbano” – intellettuale, colto, elegante e soprattutto cosmopolita. I numeri di “Playboy” dal 1953 al 1972, ospitano racconti di viaggio, romanzi, recensioni letterarie, interviste, articoli di cinema, architettura, design e lifestyle… dedicati all’Italia. “Playboy” aveva un’ampia copertura di contenuti “italiani” che trasferivano modelli per esprimere particolari desideri e aspettative di un certo tipo di individuo e che “funzionavano grazie alla costruzione di un immaginario, sia indiretto (basato sulla circolazione di libri, riviste, fotografie, film e così via), sia di prima mano (quando visitatori e viaggiatori riportavano le loro esperienze)”2. È nata così una raccolta di riferimenti che hanno tracciato un quadro inedito sull’influenza della cultura italiana – non solo dell’abitare ma del vivere – su una delle riviste di maggior divulgazione negli Stati Uniti e nel mondo. Un periodico che negli anni Settanta era arrivato a vendere sette milioni di copie a un pubblico sia maschile, sia femminile. “Playboy” cercava di convogliare vari e diversi elementi della cultura popolare e di massa considerati luoghi comuni, in un affresco di opere multiformi che rappresentavano (e rappresentano ancora?) il fascino di un paese sempre in tensione tra dolce vita e degrado. Venezia, fa parte di questo affresco.

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VENEZIA PLAYBOY

Venezia (in) “Playboy” L’insieme di miti, simboli, immagini e concetti costruito da “Playboy” e legato allo stereotipo dello stile di vita italiano, arrivava sulle sponde americane soprattutto grazie ai film. Nei suoi primi vent’anni il periodico recensirà e pubblicizzerà numerose pellicole italiane di successo, pubblicando in più occasioni i loro fotogrammi accompagnati da editoriali sulle star femminili che rappresentavano la bellezza italiana: Gina Lollobrigida e Sofia Loren tra le preferite, ma anche Sylva koscina, Elsa Martinelli, Stefania Sandrelli. A questi contributi si alternavano le interviste a registi – Federico Fellini e Michelangelo Antonioni – e attori – Marcello Mastroianni – che incarnavano quel modello maschile al quale il playboy aspirava. Il tour virtuale iniziato sulla carta terminava con l’invito al viaggio reale, alla scoperta dell’italianità sul campo. La guida Italia di “Playboy” – fortemente influenzata dal cinema – iniziava da Roma e proseguiva nella Riviera Ligure, Cortina d’Ampezzo e la Sardegna; alla scoperta delle bellezze, femminili per lo più, ma anche paesaggistiche e architettoniche. Toccava anche Venezia, che non era però mai raccontata come meta turistica. Era per lo più sfondo di campagne pubblicitarie o shooting dedicati alle star di Hollywood in visita alla città. Sulle pubblicità non apparivano vetri di Murano… ma soprattutto bevande e liquori: vermouth torinesi, gin inglesi, e whisky canadesi. Venezia non sembrava offrire molto come “territorio di conquista”. Per essere chiari: in “Playboy” gli editoriali che invitavano alla scoperta delle donne italiane erano ambientati in altri lidi. Il piacere però si presentava mascherato sotto altre forme. A Venezia il playboy poteva finalmente godere delle conquiste fatte. Le pubblicità invitavano a rilassarsi, ubriacarsi, abbuffarsi su tavolate luculliane allestite a bordo canale. Mentre le attrici posavano in costume da bagno sulle gondole. Il desiderio, non nel senso poetico, ma quasi volgare, era lussuria intesa come “trionfo della carne”. Un sentimento provato forse nei confronti della città stessa, che veniva cannibalizzata come fosse bevanda, cibo, donna. L’azienda piemontese Martini & Rossi sul numero di settembre 1962 a pagina 45 invita a un “Ottimo aperitivo... con ghiaccio”. A uno dei frammenti di Venezia più conosciuti al mondo, piazza San Marco vista dal “Grand Canal”, è applicato il “filtro bevanda” che ne altera la 156

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Pubblicità di Martini & Rossi su “Playboy”, settembre 1962

Pubblicità del Gilbey’s Gin su “Playboy”, giugno 1962 Pubblicità del whisky Canadian Club su “Playboy”, aprile 1964

percezione come sotto una sbornia dall’effetto allucinogeno. Venezia è un quadro che bottiglia e bicchieri osservano dall’esterno. E nel quale si specchiano. Il logo rosso della marca di vermouth diventa il grande sole che illumina la piazza e che poi si rimpicciolisce nella piccola amarena del “mustissimo” Manhattan. Un’altra pubblicità del giungo 1962, nella seconda pagina del periodico, strilla quanto il Gilbey’s Gin sia apprezzato in America e nel mondo. Entra letteralmente a far parte di uno dei paesaggi più famosi sulla faccia della terra. La bottiglia svetta verso l’alto come una briccola o come il campanile di San Giorgio Maggiore (specchiato) in terzo piano. Ancora una volta, i colori del “prodotto”: oro, bianco e nero, si specchiano in quelli della città. La protagonista della scena in primo piano, la bottiglia-monumento, sembra emergere dalle acque come un antico palazzo. In un altro spot del numero di aprile 1964, a pagina 191, Canadian Cub decide che non è necessario mostrare il prodotto in modo evidente. Il protagonista dell’inserto è infatti il “Signor Melone di Venezia” pronto a offrire agli ospiti “un imponente palazzo, il Canal Grande e il whisky Canadian Club”. Promozione speciale di bellezze e prelibatezze. Sulla terrazza dell’Hotel Europa è allestita in primo piano una tavola imbandita, con polli fritti accanto ad aragoste, bacari e torte tropicali. La Basilica di Santa Maria della Salute in lontananza appare timidamente in uno spicchio di inquadratura tagliata male. Meno barocca dell’insieme di portate. Le Grand Guignol on the The Grand Canal Oltre alle pubblicità, i contenuti dedicati a Venezia erano quasi esclusivamente quelli legati al contesto della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica3; a confermare l’importanza delle pellicole per il playboy americano. Venezia aveva valore in sé, ma per veicolarlo erano necessarie bottiglie che animassero la sua scena. Un evento che la attivasse. Venezia era una città ospitante. È sull’evento che si è concentrata la seconda parte della presentazione sintetica, ma il più possibile efficace, del tema: Venezia (in) “Playboy”. Ho deciso di isolare un articolo comparso sul numero di agosto del 1969, tradurlo e commentarne alcuni passi con un’operazione di sovrapposizione di note personali, citazioni di saggi e testi letterari 159

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talvolta decontestualizzati, che introducono una seconda voce narrante al racconto dell’appassionato giornalista-playboy. L’alternarsi di estratti di cronaca e commenti cerca di interpretare il perché di una certa lettura della città da parte del giornalista. Per lui Venezia sembra essere un “luogo di desiderio non corrisposto ma perpetuo […] una puttana, una vergine o una regina”4. Sicuramente qualcosa di più complesso e sfuggevole rispetto all’elegante Cortina, alla soleggiata e spensierata Porto Cervo, alla sensuale Roma5. La narrazione vuole anche far emergere, come in psicanalisi, temi che per Venezia sono invece universali, ancora attuali: la figura del turista-spettatore-performer, la relatività del tempo, la memoria e il ritorno, il rito, la sua rappresentazione. L’articolo Le Grand Guignol on the The Grand Canal, firmato da Irwin Shaw, racconta di “come il mercato cinematografico di Venezia sia riuscito a mettere in piedi un festival malriuscito, fatto di sceneggiature incomprensibili, di maldicenze internazionali, di sconvolgimenti politici e di un’onnipresente noia”6. L’incipit è dedicato però soprattutto alla città. La descrizione è poetica, romantica, e oscura immediatamente la vera ragione dell’articolo: la feroce critica della manifestazione7. L’interessamento del giornalista è nei confronti di qualsiasi evento capace di produrre significato. Come i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, suggeriscono la complessità di un sentimento “impuro” capace di generare il mito (di Venezia)8: Davanti all’architettura in pasta di mandorle dell’hotel Excelsior Palace al Lido di Venezia, l’orchestra suona sulla terrazza che affaccia sulla spiaggia. Due giovani coppie stanno ballando, quel genere di ballo che sembra una discussione tra venditori ambulanti all’angolo di una strada in fermento. La terrazza è quasi vuota. In altri anni a quest’ora, le sei di sera, nessuna sedia era libera. L’Adriatico mormora tra file di cabanas, tende che sembrano allestite per un torneo medievale. Il cielo è morbido, di un grigio medioceanico. Al largo, l’orizzonte è sfumato. Una nave sembra galleggiare a diverse centinaia di metri di altezza. Un cameriere serve la specialità della stagione, un drink chiamato Bellini, pesche fresche mescolate in un frullatore alle quali si aggiunge dello champagne.9 160

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In un sistema di scatole cinesi, Venezia stessa è palcoscenico di uno spettacolo che “appassiona un pubblico vasto e trasversale […] coinvolge emotivamente gli spettatori […] con atti unici rapidissimi, simili ai microdrammi futuristi”10. Atti di uno spettacolo che sembra presagire un risvolto macabro, che vuole risvegliare ansie e paure. Un Grand Guignol veneziano. Venezia è una città ospitante in costante conflitto interiore. Da un lato c’è il suo forte desiderio di modernizzarsi (anche) attraverso l’istituzione di eventi come quelli della Biennale, dall’altro offre sempre una immagine di città affascinante e decadente, divenuta simbolo letterario grazie alle penne di grandi scrittori. Scrittori che sono stati essi stessi turisti e che loro malgrado confermano Venezia come snodo commerciale11. “Ironicamente, l’immagine di una Venezia decadente [è] utilizzata come mezzo per rigenerare la città e guidarla verso la modernità. Le sue qualità poetiche [contengono] un universalismo che [apre] la città al consumo internazionale. Il richiamo al mito universale e la sua appropriazione a fini commerciali sono alla base del suo sviluppo”12: Un giovane barbuto discute in un angolo con due coetanei dai capelli lunghi di un annuncio alla stampa che accusa la direzione della 29. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia di essere borghese e anticulturale. Il festival ha aperto con due giorni di ritardo rispetto ad un anno fa, questo mese, e ha rischiato di non aprire affatto a causa di manifestazioni e bellicosi sit-in tipo Sorbona. I poliziotti si aggirano davanti al Palazzo del Lido. Altri seicento poliziotti bivaccano nelle vicinanze, pronti a caricare se qualche amante della settima arte si lascia trasportare dall’entusiasmo. Detective con pistole sporgenti sotto giacche sportive pattugliano il bar, la sala da pranzo e i corridoi dell’hotel. Manifesti che pubblicizzano un film che esalta Ché Guevara sono affissi sulle recinzioni di tutto il Lido, così come altri manifesti che esortano i commercianti di Venezia a unirsi per combattere i sabotatori del festival che stanno togliendo il pane e il burro ai commercianti.13

Il malinconico idillio è rotto. Il Festival torna protagonista. Ed è contestato14. Il giornalista si trova in una situazione inaspettata. 161

VENEZIA PLAYBOY

Sembra coinvolto a partecipare, e allo stesso tempo a resistere. Lo stesso sembra avvenire per la città. Le aiuole di fronte al Palazzo del Cinema al Lido si riempiono di fiori (per ingentilire gli animi), cartelli suggeriscono però di non parcheggiare nei pressi della mostra. Alle 9:00 di mattina del 24 agosto il direttore Luigi Chiarini riceve una telefonata e rimane al telefono fino alle ore 11:00. Alle 15:00 è ancora al telefono. Capelli lunghi e barbe si avvistano al Lido, ma sono innocue. Le barbe contestatrici sono già radunate in centro, vicino a piazza San Marco. Al Comitato di salute pubblica ci sono: Cesare Zavattini, Pier Paolo Pasolini, personaggi politici veneziani, fumo e caldo. L’invito è a trovarsi l’indomani, il 25 agosto, per occupare la Mostra. A battersi per una cultura cinematografica libera di esprimersi apertamente. Cosa che a Venezia diventa possibile. Intanto la contestazione è arrivata alla mostra in effige. La contestazione è in mostra alla Mostra attraverso l’esposizione curata di manifesti, articoli di giornali e grafiche. Il pubblico della Mostra Cinematografica osserva interessato15. Al racconto di Venezia commerciale, romantica e decadente, fa da controcanto una Venezia combattente. Come sempre l’evento città rientra nello spettacolo, diventa spettacolo. E la Mostra va avanti ugualmente. Un cantante intona in francese: “Que c’est triste, Venise”.16

È il suo triste destino? Il senso della storia che emana da ogni angolo di strada, la preziosità dei materiali, il forte contrasto tra bellezza e decadenza, potere e caduta, magnificenza e miseria ne fanno una città percepita come esotica, misteriosa, pittoresca per le sue gondole, i suoi manufatti e i volti di gente comune che i turisti possono incontrare, più che in qualsiasi altra città turistica, passeggiando per le strette calli17. La poesia e qualsiasi forma di resistenza, vengono riassorbite nel perpetuo show: Nella stessa Venezia, i turisti si riversano a migliaia - tedeschi, americani, inglesi, olandesi, svizzeri, giapponesi - sotto i portici di Palazzo Ducale, che ospitano file di sgargianti bancarelle di souvenir. Fotografi dilettanti si accalcano sulla Riva degli Schiavoni per fotografare il Ponte dei Sospiri. Una grassa ragazza americana passa, sola in gondola, sorseggiando una Coca-Cola con la cannuccia.18 162

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Durante la contestazione i turisti passeggiano per piazza San Marco e si perdono nella città. Il giornalista-spettatore della Mostra è indignato. Venezia è zona di conflitto, ma allo stesso tempo dimostra una incredibile resilienza grazie all’esperienza emotiva e fisica dei suoi ospiti transitori e permanenti, che determinano la continua evoluzione sia dell’evento sia della topografia culturale. La clientela dell’Harry’s Bar è più vecchia di quanto ricordassi. All’ingresso c’è una fotografia di Hemingway, sorridente. Di notte, una flottiglia di gondole, stipate fino all’orlo di turisti, si fa lentamente strada lungo il canale, cantando al ritmo di un tenore posto con parsimonia al centro della flotta: romanticismo acquatico a prezzo d’ingrosso. La domenica c’è una regata e passano le chiatte dorate, remate da gondolieri in costume medievale, in tutti i colori dell’arcobaleno.19

Il teatro della memoria assale il giornalista-spettatore, che ricorda e testimonia. “L’interazione tra temporalità e storicità funziona come un’attrazione”20. Egli è disposto a investire in viaggi successivi con la consapevolezza di poter vivere esperienze totalmente nuove. Il formato temporaneo delle Mostre “invita costantemente […] a tornare a intervalli regolari che si sviluppano nel tempo”21. Ma gli spettatori sono anche turisti, caratterizzati da comportamenti che sono “parte delle loro performance e dei loro rituali. Per Venezia, il comportamento performativo dei turisti è influenzato dalla topografia urbana della città e dalla sua eredità storica come destinazione di viaggio”22. La chiatta principale ha una figura simbolica di donna che regge un globo d’oro: Venezia, padrona dei mari. Venezia sta sprofondando di centimetri nel mare, ma ai turisti non sembra importare. Nessuno di loro viene a vedere i film del festival. Nessuno di loro parla del festival. I giovani con i loro pronunciamenti e le loro lugubri strisce di celluloide sono determinati ad abbattere il mondo dei turisti, le loro istantanee di gondole, i loro tour di tre settimane.23

Il giornalista-spettatore resiste. È emotivamente legato ai contestatori. Ma è comunque irrequieto. Forse, anche se non lo ammette, sa di 163

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essere lui stesso spettatore-turista. L’appellativo descrive la particolare razza di destinatari i cui comportamenti (che caratterizzano entrambi i tipi di soggetti) sono fondamentali per comprendere la teatralità della Mostra e il suo rapporto con la città di Venezia. I turisti non sono ridotti a consumatori passivi, sono trattati come partecipanti attivi nella produzione di significato24. Questa è la realtà. Il confine tra produzione (coreografia) e consumo (recitazione) è sfumato. “Il turista è per definizione un soggetto estraneo e privilegiato le cui azioni sono inevitabilmente rese visibili o, in altre parole, teatrali […] la teatralità del turismo [è] un’opportunità per la costruzione di realtà alternative”25. Se il signor Chiarini non è antiamericano, può prendere gli americani o lasciarli in pace. Le grandi compagnie hanno deciso che possono lasciare in pace Venezia.26

Il giornalista conclude così. Con la minaccia di non rivedersi più. La manifestazione rigorosa, epurata da Chiarini quasi totalmente di tutti i suoi riti mondani e sorda alle pressioni dell’industria cinematografica, riaprirà l’anno successivo27. Chiarini verrà allontanato – per sua pace. L’immagine di apertura scelta da Irwin Shaw e “Playboy” traduce “il senso della drammaturgia di questo [“teatro veneziano”]: mette gli spettatori [playboy] di fronte alle loro paure, suscitando emozioni”28. La pellicola che affonda... non rappresenta valori morali “bensì turbamenti suscitati dalla spettacolarizzazione della morte”29, in questo caso l’annegamento come metafora sul destino dell’evento e della città. Nonostante il conflitto di sentimenti che Venezia perturbante provoca e il suo addio, pensiamo che quasi sicuramente il giornalista-spettatore-turista tornerà nella Venezia “Playboy”, al richiamo della quale non sa resistere e nella quale, suo malgrado, desidera perdersi.

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LAURA ARRIGHI

Prima pagina dell’articolo Grand Guignol on the Grand Canal su “Playboy”, agosto 1969

Note

1. P. B. Preciado, Pornotopia: An Essay on Playboy’s Architecture and Biopolitics, Zone Books, Princeton 2014; tr. it. Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità, Fandango Libri, Roma 2020. Si vedano anche le pubblicazioni di B. Colomina e in particolare la mostra “Playboy Architecture: 1953-1979” al Bureau Europa, Maastricht 2012 e all’Elmhurst Art Museum, Illinois 2016. 2. La citazione è usata da P. Scrivano in Building Transatlantic Italy, Taylor and Francis, New York 2013, p. 3. Scrivano descrive l’americanismo come fenomeno di influenza dello stile di vita prodotto dagli Stati Uniti sull’Europa. In questo testo è presa in prestito per descrivere un ipotetico fenomeno parallelo di italianismo che – allo stesso modo – ha avuto effetto sugli Stati Uniti guardando all’Italia. 3. A parte le pubblicità e gli articoli dedicati alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, in “Playboy” ho letto un romanzo ambientato a Venezia e altri contenuti minori in cui la città veniva solo citata. 4. S. west, National Desires and Regional Realities in the Venice Biennale, 1895 -1914, in “Art History”, vol. 18, n. 3, 1995, p. 406. 5. Tra le numerose guide di viaggio in Italia di “Playboy” si ricordano: Sardinia: Italy’s alabaster isle nel numero di dicembre 1968, p. 229, in cui la Sardegna è descritta come “Un’isola incontaminata baciata dal sole che sta diventando il parco giochi preferito 166

dai bellissimi”; Five yuletide vacations del dicembre 1964, p. 168 con Cortina definita: “gioiello delle Dolomiti […] elegante signora”; Rome with a View, del marzo 1969 e The Girls of Rome del febbraio 1962, p. 86 con “Roma, la più antica, e probabilmente la più grande delle capitali del mondo. Per il maschio americano in visita […] un solo passo dal silenzio della moquette del suo hotel del centro alla vorticosa corrente del traffico pedonale romano è sufficiente a dissipare qualsiasi dubbio persistente sulla ragione principale e sull’incarnazione più eloquente di questo spirito sensuale: le ragazze di Roma” [t. d’a.]. 6. I. Shaw, Grand Guignol on the Grand Canal, in “Playboy”, vol. 17, n. 8, 1969, p. 101, [t. d’a.]. Con un gioco di parole nel titolo Le Grand Guignol on the The Grand Canal, Irwin Shaw lega il nome del famoso canale veneziano a quello del piccolo teatro di Parigi (che a sua volta lo deve al burattino Guignol) fondato a Montmartre nel 1897 da Oscar Méténier e rimasto attivo fino al 1962. Il teatro Grand-Guignol era famoso per proporre “brevi drammi con azione molto semplice e serrata in cui si rappresentavano o si evocavano fatti terrorizzanti, macabri e cruenti”. Cfr. voce “Grand-Guignol” in Enciclopedia Treccani online, https://www.treccani. it/enciclopedia/grand-guignol/. 7. Per un approfondimento sulla rappresentazione di Venezia e il rapporto tra la città e le esposizioni si veda S. west, op. cit. 8. Quando ho provato a interpretare il conflittuale sentimento di odio-amore del giornalista playboy per Venezia, che sembrava emergere in alcuni passi dell’articolo, ho ripensato a Roland Barthes e in particolare alle opere LAURA ARRIGHI

Fragments d’un discours amoureux (1977) e Mythologies (1957). 9. I. Shaw, op. cit. 10. E. Mazzoleni, Gli atti unici fulminei del Grand Guignol, in Ead., Il paradigma della velocità, in “Mimesis Journal”, (Scritture della performance), vol. 9, n. 1, 2020, pp. 57-78. 11. S. west, op. cit., p. 406. 12. Ibidem.

23. I. Shaw, op. cit. 24. Cfr. E. L. Putnam, op. cit., p. 250254. 25. E. L. Putnam, op. cit., p. 257. 26. I. Shaw, op. cit. 27. Cfr. E. Zocaro, voce “Venezia, mostra del cinema di” in Enciclopedia Treccani, https://www.treccani.it/ enciclopedia/mostra-del-cinema-di-venezia_%28Enciclopedia-del-Cinema%29/.

13. I. Shaw, op. cit. 28. E. Mazzoleni, op. cit. 14. Anche se l’articolo esce nell’agosto del 1969, fa chiaramente riferimento all’ edizione della Mostra Cinematografica d’Arte di Venezia del 1968: il Festival contestato.

29. Ibidem.

15. Trascrizione di alcune parti del servizio Venezia 68: il Festival contestato, in Cronache italiane del 25 agosto 1968, https://www.raiplay.it/ video/2018/07/Venezia-68-il-festivalcontestato---Cronache-italiane-del25081968-588985b9-1d44-4fb5-acbc4b8775f076c1.html. 16. I. Shaw, op. cit. 17. Cfr. H. James, Italian Hours, Penguin Classics, London 1995. 18. I. Shaw, op. cit. 19. Ibidem. 20. E. L. Putnam, Venice Biennale: Staging Nations, in “Academic Research and Dissertations”, Book 3, p. 253. 21. Ibidem. 22. Ibidem. 167

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Venezia Event. Merce Cunningham in piazza San Marco (1972) Stefano Tomassini

A Vittoria Ottolenghi, in memoriam.

By definition, each Event is unique. Since that time more than 800 Events have been performed in such venues as the Piazza San Marco in Venice, Grand Central Station [in Manhattan], the ruins of Persepolis in Iran, and on a beach in Perth, Australia. An Event can last from 60 to 75 minutes.1

“Come se si guardasse dentro a un orologio” Scrive John Cage, in un epistolario d’inedita intimità, a Merce Cunningham: “i really need not be with you for me or for you, because there was facility in inventing your presence and knowing that just then you were merely not visible or not audible” (3 luglio 1944)2. Questa di Cage può risuonare anche come una definizione di evento? Un’epifania capace di rendere presente l’assente senza complemento alcuno? Una presenza senza necessità, ma per invenzione (inventing), nella quale l’evento che accade è forza liberata dal ricatto dell’esserci? Non qualcosa di contingente, senza sistematicità né visione organica e unitaria, ma evento invece sempre già qui, fuori dal computo del tempo che farebbe credere tale epifania come qualcosa di irripetibile, senza che siano reperebili cause vere e proprie. Ma la ragione qui, almeno nella lettera di Cage, è il desiderio incondizionato della presenza, l’amore come dono senza contropartita, come decisione di “prestare attenzione a tutto”3. Tanta attenzione alla fine appaga e trasforma. Questa percezione affettiva di presenza come un evento del dono istantaneo e senza economia, generato da una soglia connettiva, transpecifica e non duale (in una coincidenza di presenza/assenza: l’amato assente che è percepito sempre presente anche se non meramente visibile o udibile), consente di interrogare nuovamente quella fortunatissima, rivoluzionaria e radicale pratica degli Events alla quale, con Merce Cunningham, dànno vita a partire dal 19644. Il termine evento è in realtà un vero e proprio mot d’époque, parola-crocevia in cui nel Novecento convergono (senza incontrarsi) movimenti di pensiero e di discipline d’ispirazione molto diverse tra loro5. Già dagli anni Venti e Trenta nella meccanica quantistica, la 169

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nuova immagine della natura scopre “l’aleatorio come ineliminabile e la verità soltanto probabilistica”6, mentre in filosofia “la nozione di evento, provvista di una indubbia carica polemica, è stata, per dir così, una sorta di cavallo di Troia con cui ad un certo punto la filosofia, volgendosi verso se stessa, ha fatto il suo ingresso in quell’unitario (o presunto tale) edificio dei saperi che va sotto il nome di ontologia classica o metafisica, per rimetterne in discussione da cima a fondo gli assunti”7. È dunque nozione guida per una critica delle grandi teleologie storiche e della pretesa totalizzante che le sottende. Per Michel Foucault, a partire dagli anni Settanta, il termine evento (événement) appare come una cristallizzazione di determinazioni storiche complesse ch’egli contrappone all’idea di struttura (e insieme presa di distanza dallo strutturalismo): l’evento designa l’irruzione di una singolarità non necessaria8. Jacques Derrida, invece, utilizza la nozione di evento per definire il dono come sospensione radicale della catena prevedibile di causa-effetto, e nella quale si sottrae alla contaminazione del sistema economico dello scambio: il dono come evento ha il cómpito di rompere il circolo dello scambio9. Aleatorietà e singolarità non necessaria, dono senza contropartita e rottura radicale delle abituali relazioni logiche: sono anche le principali condizioni attraverso le quali Cage e Cunningham, con un vero e proprio “salto della tigre” nel futuro, riconosceranno come evento una pratica compositiva di danza fra le più rivoluzionarie della performance nel secondo Novecento10. Dal giugno al novembre del 1964 la compagnia di Cunningham è in tour mondiale in Europa e in Asia: a Vienna, è invitata dal Museum des 20. Jahrhunderts, ma la sala non consente di realizzare in sicurezza alcun titolo in repertorio (ben tredici). Cage e Cunningham, allora, propongono un collage di coreografie, senza scene e senza le rispettive musiche originali11. Il 24 giugno 1964, il primo evento, Museum Event Nr. 1, comprende diversi estratti dal repertorio di Cunningham, e la sezione percussiva di Atlas Eclipticalis [1961] di Cage12. La formula funziona sùbito, perché ben si adatta a qualsiasi tipo di spazio non convenzionale; come sottolinea Nancy Dalva:

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In the years after, more than eight hundred Events were to follow, in all manner of unconventional environments. In architectural landmarks, in college gymnasiums outdoor settings, in ampitheaters, on a beach. The 360-degree front, thast open-field that was novel and intrinsic to his choreography, lent itslef in particular to these nontraditional spaces. Cunningham had broken modern dance out of the frame of the proscenium stage the same way modernist painters had broken the façade of the canvas. They used a can, a string, a fork, a trap door. He used dancers.13

L’uso di spazi non convenzionali e la rottura della frontalità, la “natura mista” del materiale coreografico che rende ogni Event unico anche se sempre calcolato e determinato, mai estemporaneo né istantaneo (per consentire il corretto governo dell’energia dei danzatori), come se il contingente rendesse possibile l’impossibile, conducono a un’idea di danza senza un prima né un dopo, tutta esposta nella più nuda evidenza materiale del suo accadere: Mi ricordo che un giorno a New York, abbiamo presentato un Event molto breve in una scuola non distante dallo studio. Lo spettacolo avveniva in una palestra e i bambini per assistervi si erano seduti per terra. Forse io ho anche detto qualche parola. Il tutto non è durato più di mezz’ora e i bambini sembravano molto contenti. C’era una giornalista del “New York Times” e mi ha raccontato di aver chiesto a una ragazzina se le fosse piaciuto. Questa aveva risposto: ‘Sì, è come se si guardasse dentro a un orologio’...14

Gli ingranaggi di cui si compone di volta in volta un Event (ossia le diverse parti di repertorio con cui è composto) esistono già, devono solo essere ricombinati, affinché funzionino differentemente e producano influenze reciproche tra loro impreviste. Ciò confuta la convinzione di un qualche fondamento unitario ed esclusivo della composizione coreografica. Come ricorda Douglas Crimp, gli Events amplificano le innovazioni coreografiche di Cunningham: ispirato da Cage, queste innovazioni sono tutte consegnate alla libertà dello sguardo dello spettatore15. Riconoscere gli ingranaggi e, in un senso meno letterale, poter osservare il gioco ripetitivo del tempo, essere testimoni di una 171

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epifania temporale capace di prefigurare il futuro proprio in ciò che si fa presenza senza esserci, significa dunque riconoscere nella pratica dell’Event una vera e propria “summa adamantina e radicale del pensiero-prassi del coreografo”16: In piazza San Marco, a Venezia, l’Event è stato memorabile! Ha avuto luogo nel tardo pomeriggio, era ancora chiaro. Io sapevo che se fossimo andati là e avessimo cominciato a danzare la gente si sarebbe radunata. E poi volevo trovare un modo per cambiare luogo, liberarci del pubblico e dirigerci verso un altro spazio. I musicisti, invece, erano su piattaforme disposte tutt’intorno. Avevamo tutti le scarpe e indossavamo un soprabito; ho dato a ogni danzatore una sedia e una scopa. Siamo andati a sederci, dapprima un po’ stretti l’uno all’altro, poi abbiamo spinto via le nostre sedie fino a delimitare uno spazio che abbiamo scopato prima di danzare. Quindi ognuno di noi riprendeva la propria sedia e portandola sulla testa si dirigeva rapidamente altrove e ricominciava. Abbiamo fatto questo gioco quattro o cinque volte. La cosa è andata avanti per circa un’ora, e noi scopavamo scrupolosamente.17

“Il n’y en a jamais deux pareilles” Il Festival di Danza ancora non c’era, dunque forse poteva essere Teatro, e fu invece Musica? Chissà: il 30 gennaio del 1971, una lettera di Elisabeth Hayes dal 45 di Rue de la Boétie a Parigi 8, sede dell’agenzia PAI, raggiunge l’allora direttore del Festival di Teatro della Biennale di Venezia, wladimiro Dorigo18. Annuncia che, dopo la limitata tournée del 1970 (due settimane a Parigi, poi Olanda e Spoleto), “Merce Cunningham and Dance Company” saranno di ritorno in autunno: “La tournée commencera au Festival de Shiraz-Persepolis et inaugurera le festival BITEF à Belgrade”, con ogni probabilità passerà dunque per l’Italia in settembre, “il me semble que ce projet pourrait vous être intéressant”. Con le indicazioni dell’organico in viaggio, aggiunge (e qui la precisazione è virtuosa): “Plusieurs programmes différents seront possibles”. Il 17 febbraio, risponde sùbito il segretario, Francesco Carraro, considerando allettante la partecipazione della compagnia al futuro programma del Festival di Musica Contemporanea di Venezia, che si terrà dal 5 al 15 settembre: “purché il programma sia nuovo e di conseguenza 172

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diverso da quello presentato all’ultimo Festival di Spoleto”. Il 22 febbraio Hayes risponde a Carraro, assicurando programmi differenti da quello spoletino, chiede quante serate potrebbero prevedersi e (trattandosi di Musica) rilancia, “Sans pouvoir le garantir, est-ce que vous voulez que j’étudie la possibilité d’un concert de John Cage, David Tudor, et Gordon Mumma pendant la participation de la compagnie au festival?”. Carraro risponde tardi, il 20 aprile, ma annunciando un suo viaggio a Parigi a fine maggio: un incontro diretto avrebbe definito tutti i successivi accordi. Hayes risponde l’8 maggio che sarà a Parigi fino al 30, ma un suo telegramma del 27 anticipa l’annuncio del rinvio della tournée al 1972. La lettera di Hayes del 29 maggio precisa che si tratta “d’un report et non d’une annulation”, poiché “la Compagnie a dû récemment déménager, et ce changement de studios et de lieus a entrainé, vous vous en doutez, de nombreuses difficultés imprévisibles”. Più nulla: il 19 novembre Hayes scrive nuovamente a Carraro per rilanciare in anticipo, “afin que nous puissons étudier toutes les possibilités”. E ce ne saranno: il 24, Carraro risponde e conferma l’interesse, mantenendo però il punto: “Naturalmente chiediamo che l’eventuale tournée in Italia abbia come prima sede Venezia e con un programma completamente nuovo rispetto a quello che la Compagnia ha dato a Spoleto lo scorso anno”. Priorità e novità sono il mantra per ogni direttore come sorta di paracadute. La lettera successiva di Hayes del 13 dicembre segue un incontro avvenuto a Roma, durante il quale Carraro aveva informato che il Teatro La Fenice resterà chiuso durante la Biennale, dunque bisogna ripiegare su Malibran e Mestre (Cinema Corso prima, Teatro Toniolo poi). Hayes allude a possibili date anche a Vicenza e Verona, conferma il cachet della compagnia (“$14.000”) precisando che quello per l’eventuale concerto Cage/Tudor/Mumma non è compreso. Nella lettera del 17 febbraio, che segue una telefonata del 14 febbraio, Hayes riporta le prime ipotesi di accordo: due spettacoli in Fenice, un concerto (Cage/Tudor/Mumma) e uno spettacolo a Mestre tra l’8 e il 13 settembre compreso. Hayes precisa l’organico della compagnia (“en tout une vingtaine de personnes”) e, infine, aggiunge “Concernant les programmes”: 173

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Il serait probablement possible de présenter deuy programmes d’oeuvres de répertoire, mais je vous conseille tout particulièrment les soirées exceptionnélles que fait Merce Cunningham, qui s’appellent “EVENT”. Ce sont des soirées uniques composées de parties d’oeuvres déjà existantes mais arrangées d’une façon nouvelle et adaptées à chaque théâtre. Il n’y en a jamais deux pareilles.

Sulle varie ipotesi per la realizzazione di queste “serate eccezionali”, Hayes dà l’imbeccata: “Je dois signaler qu’une soirée ‘EVENT’ exige moins de préparation technique”. È un risvolto organizzativo che senz’altro investe e riguarda costi e realizzazione ma, implicitamente, ne ribadisce la derivazione della sua genesi da un tempo più istantaneo, e meno dipendente dal piano economico. Il 19 febbraio Carraro chiede perentorio, scrivendo con poche righe, “di inviarmi urgentemente programmi e proposte”, perché le sedi non sono ancóra state fissate; così il 3 marzo Hayes chiarisce che i quattro spettacoli, su cui hanno convenuto in una conversazione telefonica del 1 marzo, avverranno in Fenice, a Mestre e a Padova, ma non comprendono più l’ipotesi di un concerto in Fenice di Cage/Tudor/Mumma. Hayes torna a imbeccare: Je pense que le mieux serait de faire à la Fenice, un ‘EVENT’ et une soirée de répertoires et à Mestri [sic!] et Padoue un ‘EVENT’, ce qui exige moins de préparation technique et éviterait de transporter tout le matériel après les représentations à la Fenice.

Le ipotesi di questi Event si moltiplicano con quelle delle città ospitanti, certo per ragioni di mera convenienza tecnica, anche se il 6 aprile Carraro scrive a Hayes che “Per Padova non mi è possibile ancora dare alcuna notizia”. Il 10 invece è assertivo: “credo proprio sia impossibile”. Il 27 da Hayes capiamo il perché: “Nous attendons patiemment la décision de Padova qui sera prise après les élèctions italiennes”. Intanto le date sono “ridotte” a tre (due in Fenice e una a Mestre) e il cachet rivisto (“US $ 10.000”). Il 25 maggio nella corrispondenza a Carraro entra Jean Rigg, una delle amministratrici della Cunningham Dance Foundation: si rammarica di non averlo potuto incontrare nel suo soggiorno veneziano, durante il quale ha potuto visitare il Cinema Corso a Mestre e la Fenice: “Mr. 174

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Cunningham remembers the Fenice well and we certainly anticipate no problems as far as the performance there are concerned”. Il 27 giugno, dopo un incontro a Roma “quoique ce fût très bref”, Hayes sollecita Carraro sull’ipotesi di una quarta data a Treviso, e intensifica l’offerta: D’ailleirs, je voudrais te rappeler la proposition que je t’ai faite concernant un ‘VENEZIA EVENT’. La Compagnie pourrait faire une soirée en plein air, dans un PIAZZA à VENISE avec un programme inédit. J’ai vu une telle soirée et je peux te garantir que c’est une chose fabuleuse. Il me semble qu’avec l’esprit contemporain de ton Festival, ceci serait beaucoup plus attirant qu’un spectacle dans un autre théâtre. [...] Pour que tu saches, pendant une telle soirée, le public se promène donc ne s’assied pas et que la durée de ce spectacle peut durer de une heure à deux heures sans entracte, comme il te semble souhaitable.

L’ipotesi sull’Event veneziano come meglio corrispondente allo spirito contemporaneo del Festival (il tempo-ora con cui traduciamo Jetztzeit) cresce e si perfeziona con la descrizione indiretta di Hayes di tutta la sua improducibile e inafferrabile momentaneità (mobilità del pubblico e durata indeterminata): sembra quasi che tutto un tempo presente converga su questa pratica performativa, e vi si riconosca proprio come l’indice di una questione che le si impone19. In un telegramma successivo, Carraro richiede “urgentemente programma II serata Cunningham Stop Cordialità”. Così il 5 luglio Hayes conferma di aver concordato direttamente con Merce Cunningham, in visita a Parigi, quanto segue: Canfield l’11 settembre in Fenice; opere di repertorio in prima europea il 12, mentre per il 13 a Mestre, “la Compagnie fera un ‘EVENT’ et pour la soirée du 14 sur une Piazza à Venise on présentera un VENEZIA EVENT”: Je compte beaucoup sur toi pour cette soirée du 14 September car tu sais à quel point cela est essentiel pour la Compagnie. Saistu par hasard si cette soirée pourrait se réaliser dans le Ghetto Nuovo? Nous pensons que ce programme serait très beau s’il était présenté en fin d’après-midi ou en début de soirée ce qui t’arrangerait peut-être pour les autres spectacles de ton Festival. 175

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La posta in gioco di una performance all’aperto, qui ipotizzata in Campo del Ghetto Novo a Cannaregio, ancóra perfeziona l’idea “storica” di una rinuncia alle gerarchie spaziali del teatro e della scena a favore del fuori, in un rovesciamento che comporta tutta una nuova intensità e immediatezza della ricezione dell’evento (e del mondo nel quale avviene), come un inedito accesso all’esperienza20. Il 14 luglio Carraro sollecita una telefonata urgente cui segue il 18 un telegramma di Hayes con il programma della seconda serata: Rainforest, Second Hand e TV Rerun (in prima italiana). Il 20 Carraro avvisa invece di una sua telefonata a Hayes per lunedì 24, forse per avere conferma diretta su quanto proposto in una precedente telefonata alla quale già il 21 Hayes risponde per lettera: Je t’écris pour te confirmer la nouvelle que tu m’as annoncée au téléphone cette semaine. MERCE CUNNINGHAM AND DANCE COMPANY donnera un “Venezia Event” le 14 septembre 1972 dans le Piazza San Marco à Venise. La Compagnie était ravie d’apprendre cette nouvelle!

Sembra quindi di poter dedurre che l’idea fosse di Carraro, o comunque interna a Biennale: in termini tattici, fu libero corso all’imprevedibile. Perché la scelta di piazza San Marco aprì alla possibilità che una performance potesse insinuare la percezione di un altro tipo di spazialità, non pianificata né leggibile rispetto a quella più consueta, comunemente ricevuta. A partire dalla distinzione di Michel De Certau tra posto pianificato e leggibile e spazio come luogo praticato: da punto urbano e rinomato monumento con una sua precisa riconoscibilità (e stabilità) nell’ordine geometrico della sua organizzazione, piazza San Marco diventò così spazio, ossia luogo di mobili intersezioni che può essere trasformato dal movimento21. Mentre una lettera/bozza di contratto inviata da Hayes il 24 mantiene il numero delle rappresentazioni a quattro, tre a Venezia (due in Fenice e una in San Marco) e una a Mestre (Cinema Corso), ancóra il 25 le condizioni spazio-temporali della performance all’aperto si precisano ulteriormente: Concernant l’Event du 14 septembre dans le Piazza San Marco – la Compagnie aimerait que ça ait lieu à la tombée du jour ceci 176

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nécessiterait aucun éclairage supplémentaire. La Compagnie n’a pas besoin de platforme pour cette représentation. Elle voudrait utiliser la Piazza comme elle se trouve normalement. Dans quelle partie de la Piazza envisage-tu cette représentation?

“Normalement” è parola chiave, il concetto spaziotemporale che informa la ragione dell’evento. Quella di una scelta di irruzione nel tempo ordinario e di rottura del quadro/piazza, “simulacro ‘teorico’ (ossia visivo) della città-panorama che ha come condizione di possibilità un oblio e misconoscimento delle pratiche”22. Già il giorno dopo, il 26, Carraro riceve una lunga lettera da Jean Rigg con la proposta di un piano di lavoro, nella quale precisa quanto “Mr. Cunningham was delighted, by the way, to hear just last week from Miss Hayes that the Thursday event could be held in the piazza San Marco”23. “Chiederemo al Patriarca” Il racconto del San Marco Event, grazie alla sagace e sapiente penna di Vittoria Ottolenghi, inviata di “Paese Sera”, è preciso e ingegnioso, imperdibile24. A partire dall’aneddoto iniziale di poche ore prima: “Dal fondo di una calle emerge, trafelato, un signore sulla sessantina, vestito di un celeste sbiadito, gli occhi, innocenti, dello stesso colore, una fitta barba pepe e sale e un sorriso disarmante. È John Cage”. Siamo davanti alla Fenice, “due ore prima dell’Event di Merce Cunningham e della sua compagnia di danza, previsto per le 19:30 in piazza San Marco. Al caffè ci sono tutti: critici, compositori, interpreti e appassionati. A un tavolo, elegantissimo e un po’ beffardo, l’organizzatore del Festival di Musica Contemporanea, Francesco Carraro”. È di lui che Cage va in cerca, e così per Ottolenghi va in scena il dialogo: In piazza è tutto a posto, palchi per le attrezzature elettroniche e torri per le luci nei tre punti previsti. Ora però vorrei che lei mi mettesse in grado di usare il campanile. Carraro pallido: Per salirci su? Cage: Ma è per suonare le campane, durante lo spettacolo, naturalmente. Carraro ancora più pallido: Veramente è un po’ tardi, non so... Ma è proprio indispensabile? Cage, soave: Avere a disposizione un suono così bello e non adoperarlo è sciocco. Carraro, con un colpo di genio: Chiederemo al Patriarca. Poi le farò 177

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sapere. Cage, fiducioso, si allontana di corsa, leggerissimo con le sue scarpette di gomma.

Ottolenghi prosegue, da pragmatica comunista “donna di casa”25, e così commenta (mentre astuta si prepara il finale): “Povero illuso, pensavano gli astanti, povero ingenuo, assurdo, straordinario santone della musica moderna. Come può pensare che in due ore il Patriarca gli dia il permesso di contaminare il campanile di San Marco per danze profane?”. Ma prima degli sviluppi sulla risoluzione della richiesta acustica, c’è il tempo ancóra di un equivoco spaziale: “Due ore dopo, piazza San Marco. La folla si stringe davanti all’enorme pedana costruita davanti alla chiesa. Certo, questo è il palcoscenico che la Biennale – formidabile davvero quest’anno – ha costruito per lo spettacolo in piazza di Cunningham. Poi si viene a sapere che no, questa è la pedana costruita per la visita del Santo Padre dopo-domani. La folla rapidissima si sposta sull’altro lato della piazza attorno alle tre postazioni musicali”. La folla aveva sbagliato “santone”: “Qui all’ora prevista, Cage, Gordon Mumma e David Tudor dànno inizio alla loro musica”. E qui abbiamo anche qualche descrizione delle operazioni sonore live. L’incidentalità del rumore e la materialità del suono, le sovrapposizioni acustiche con preesistenti registrazioni, e lo stupore che senz’altro avrà disorientato, stordito e provocato i convenuti: “Cage, ad esempio, con l’aiuto di un bambino alle manopole dell’amplificatore, sposta costantemente di pochi millimetri alla volta una sedia sonorizzata, estraendone allucinanti effetti di temporale d’estate”. Il critico musicale Lorenzo Arruga, senz’altro infastidito dunque impreciso, chiosa l’Event così: “I bravissimi ballerini, con la loro danza animata, impeccabile e sospesa sul vuoto di musica e di ritmo, chiamavano a cerchio attorno a loro la gente un po’ stupita in vari punti della piazza”26. Molto più informato e puntuale, invece, karlheinz Roschitz, critico musicale della “kronen Zeitung” di Vienna: “Malgrado l’abitudine alle stravaganze dell’avanguardia, i veneziani sono rimasti stupiti davanti alla musica: ora tonante-rimbombante, ora gracchiante-cigolante; uno sfondo sonoro nel quale si mescolava – ironizzando su Morte a Venezia di Visconti – un adagio di Gustav Mahler [scil. dalla 5 sinfonia] del quale, così assicura il responsabile dell’arrangiamento David Tudor, era stata utilizzata l’incisione più delicata, quella di Lennie 178

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Bernstein... Questo mélange musicale in piazza era stato escogitato dal padre dell’avanguardia [Avantgardepapst], dal maestro e raccoglitore di funghi, John Cage, che assieme al pianista David Tudor e a Gordon Mumma, collaboratori musicali della Cunningham [Dance] Company, se ne stava dietro a batterie di regolatori, strisciando una sedia sul selciato della piazza spazzandola con questo rumore, amplificato come sfondo sonoro, il cui effetto era simile a un temporale”27. Non meno precisa è la descrizione della performance, sempre attraverso le parole di Ottolenghi ma ora con lo sguardo sui corpi: Finalmente seguiti da un potente occhio di bue, entrano i ballerini, portando ognuno con sé una sedia e una scopa. La sedia serve per montarci su e salvarsi all’inizio dalla folla; la scopa, che cominciano sùbito a usare per pulire il pavimento della piazza, è un espediente geniale per farsi largo e creare uno spazio circolare vuoto. Comincia la danza: una festosa, allegre presa in giro di alcuni passi e posizioni della danza accademica, insieme con frammenti assai belli del repertorio – frammentario in sé – di Merce Cunningham.

A questa altezza, per una critica militante e coinvolta, come quella di Ottolenghi, e per la natura degli strumenti ch’essa aveva a disposizione, configurata in termini estetici soprattuto dalla gabbia diadica autentico/imitativo, le inconsuete invenzioni di movimento di Cunningham potevano sembrare, e non lo erano, come parodie del vocabolario accademico; ma qui, sono gli oggetti usati in senso duchampiano per dar luogo alla performance – sedie e scope – a precisare non solo la natura materiale dell’evento come un gioco aperto e non un’opera compiuta28, ma anche la più totale assenza di una qualche aura celebrativa: Sulle prime, ci sono alcuni commenti salaci da parte del pubblico veneziano. Poi, dopo pochi istanti, un silenzio assoluto: la danza, anche in piazza, anche inconsueta, ha una tale nobiltà in sé che impone rispetto. Il volto, il corpo, il gesto di una Carolyn Brown basterebbe a fare ammutolire un’orda di Unni. La serie di evoluzioni si conclude, i ballerini si trasferiscono in un altro angolo della piazza e dietro a loro la folla, e ricominciano. 179

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Infine, nell’ultimo sguardo di Ottolenghi dentro al meccanismo dell’evento, la sorpresa per tanta puntuale realizzazione di una idea di suono fuori da ogni economia dello scambio, senza attendere il Patriarca di Venezia al quale non è più importante chiedere perché il precipitare del tempo non ammette risposte, sembra generarsi nella scrittura del critico partecipante un’ammirazione compiaciuta senza condizione pari soltanto alla forza della rivelazione, e dell’affetto: Quando arrivano finalmente al centro, per l’evoluzione finale, illuminati a giorno nelle loro belle calzamaglie multicolori, all’improvviso, al di sopra della musica concreta, si leva stupendo lo scampanio di San Marco, al momento giusto e per un periodo prolungato. Non era dal vivo, naturalmente, ma pre-registrato ed elaborato elettronicamente da Cage. Altro che ceruleo santone ingenuo: anche questa volta, questo spregiudicato seguace di Thoreau e di Veblen, ci ha messo tutti nel sacco.

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Note

1. https://www.mercecunningham.org/ the-work/choreography/museum-event-no-1-events/, (ultima consultazione 01/04/2022). 2. L. Kuhn (ed.), Love, Icebox. Letters from John Cage to Merce Cunningham, The Cage Trust, Red Hook 2019, p. 72 : “non ho davvero bisogno di essere con te per me o per te, perché era facile inventare la tua presenza, e sapendo che in quel preciso momento semplicemente non eri visibile o non udibile”, [t. d’a.]. 3. R. Kostelanetz (ed.), Conversing with Cage, Limelight Editions, New York 1988; tr. it. John Cage. Lettera a uno sconosciuto, Edizioni Socrates, Roma 1996, p. 268 : “La mia intenzione non è quella di avere desiderio [scil. di una cosa piuttosto che un’altra]. O piuttosto potrei dire che il mio desiderio, per quanto mi è possibile, è quello di prestare attenzione a tutto”. 4. Il precedente più illustre fu senz’altro Untitled Event, del 1952, conosciuto come il “first Happening,” organizzato da Cage al Black Mountain College in Asheville, North Carolina. Cfr. w. Fetterman, John Cage’s Theatre Pieces, Routledge, New York 1996 e 2010, p. xiv. Sull’Event di San Marco come “global format” si veda: H. Ikegami, A Medium for Engagement: The Merce Cunningham Dance Company’s Events, in F. Meade, J. Rothfuss (eds.) Merce Cunningham, Co:mm:on Ti:me, walker Art Center, Minneapolis 2017, pp. 73-88 (sopr. pp. 84-87). 5. M. Zarader, L’événement, entre 181

phénoménologie et historie, in “Tijdschrift voor Filosofie”, n. 2, juin 2004, pp. 287-321; p. 289: “Un mot d’epoque non ha la consistenza di un concetto; ma anche non deve essere inteso come un semplice effetto alla moda. Quando un’epoca si raccoglie così su una parola, e vi si riconosce, in genere va visto come l’indicazione di una domanda che le si impone (e che dovrà affrontare in diversi modi: attraverso incantesimi, prese di posizione appassionate, elaborazioni teoriche, ecc.)”. 6. C. Romano, voce “Evento”, in Enciclopedia filosofica,vol. IV, Bompiani, Milano 2006, pp. 3874-3885. 7. M. Di Martino, Introduzione. Il ritorno dell’evento, in M. Di Martino (a cura di), La questione dell’evento nella filosofia contemporanea, atti del ciclo di seminari di “associazione aletheia”, Aracne, Roma 2013, pp. 14-15. Ma sull’adozione del termine come nodo teorico e mezzo di azione artistica nonché importante componente dell’attivismo estetico del Novecento, cfr. S. C. Foster (ed.),“Event” Arts and Art Events, UMI Research Press, Ann Arbor 1988. 8. Cfr. M. Foucault, Dialogo sul potere (1975), ora in Id., Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984, a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, pp. 43-60 (sopr. p. 46), nonché Intervista a Michel Foucault (giugno 1976), in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana, P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977 (sopr. pp. 7-8; qui il termine francese événement è tradotto, impropriamente, con avvenimento). 9. Cfr. soprattutto J. Derrida, Donner le temps. 1. La fausse monnaie, Galilée, Paris 1991; tr. it. Donare il

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tempo. La moneta falsa, Raffaello Cortina, Milano 1996. Su cui anche M. Franko, Given Movement. Dance and Event, in A. Lepecki (ed.), Of the Presence of the Body. Essays on Dance and Performance Theory, wesleyan University Press, Middletown 2004, pp. 113-123 (note 167-171). 10. Il ripensamento della nozione di relazione (“generalized relationality”), anche quando soggetta a una procedura casuale come nei processi compositivi di Cunningham, è questione di avvio nello studio di C. Nolan, Merce Cunningham. After the Arbitrary, University Chicago Press, Chicago-London 2020, p. 2 (per la composizione per tagli e frammenti delle sue danze negli Events, Nolan riconosce in Cunningham una logica permutativa debitrice di Mallarmé: p. 37). 11. Sulla natura fissata e comunque composta di questi collage insiste con ragione C. Bishop (cfr. https:// www.mercecunningham.org/themes/ default/db_images/documents/Centennial_Final_Report.pdf consultato il 24/08/2022; ma cfr. anche Ead., Black Box, White Cube, Gray Zone: Dance Exhibitions and Audience Attention, “TDR: The Drama Review”, vol. 62, n. 2, 2018, pp. 22-42). 12. Cfr. D. Luccioni, voce “Event” [événement], in P. Le Moal (ed.), Dictionnaire de la Danse, Larousse, Paris 1999 (n. ed. 2008), p. 722. 13. N. Dalva, Afterword, in S. Berger, M. Cunningham, Beyond the perfect stage, Damiani, Bologna 2016, pp. non num. 14. M. Cunningham, The dancer and the dance. Merce Cunningham in conversation with Jacqueline Lesschaeve, Marion Boyars, New York-London 182

1985; tr. it. Il danzatore e la danza. Colloqui con Jacqueline Lesschaeve, EDT, Torino 1990, p. 121. 15. D. Crimp, Park Avenue Armory Event (pp. 5-13), presentazione in Merce Cunningham Dance Company, Park Avenue Armory Event, Cunningham Dance Foundation-Artpix, 2012 (3 dvd). 16. M. Guatterini, Biped è un Event, in “Il sole 24 ore”, 14 maggio 2006 (domenicale). 17. M. Cunningham, Il danzatore e la danza, cit., p. 122. 18. La documentazione qui utilizzata è conservata e consultabile presso l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee (ASAC) della Biennale di Venezia, sede Vega (segnatura: b. 036). 19. In una recente conversazione telefonica con Elisabeth Hayes, che qui ringrazio, ho avuto diretta conferma che l’ipotesi di un Event a Venezia, da lei avanzata a Biennale, era espressamente suggerita dalla compagnia di Cunningham. 20. Di nuovo, Elisabeth Hayes mi ha confermato che le location veneziane per l’Event sono tutte state pensate e proposte da Biennale. 21. M. de Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Paris 1990; tr. it.di M. Baccianini, L’invenzione del quotidiano Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 146. Articola questa distinzione di de Certau, nuovamente per la danza, M. kloetzel, Site-specific dance in a corporate landscape. Space, place, and non-place, in V. Hunter (ed.) Moving Sites. Investigating Site-specific Dance Performance, Routledge, STEFANO TOMASSINI

New York-London 2015, pp. 239-254 (sopr. pp. 243-245). 22. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit, p. 145. 23. Merita un’ultima memoria l’appunto di Hayes, in una lettera a Carraro datata 22 agosto 1972, da Parigi: “Dans le contrat du 3 août, j’ai tout de même remarqué une chose qui m’a inquiétée: c’est-à-dire une mention d’une transmission du spectacle. Malheuresement, ceci ne sera pas possible sans un cachet supplémentaire car les danseurs sont membres d’un Syndacat aux Etats unis qui est terriblement sévère”. Sappiamo ora perché non esistono filmati.

28. Cfr. C. Nolan, Merce Cunningham. After the Arbitrary, cit., p. 16: “As a performing artist, Cunningham was able to realize one of Duchamp’s cherished goals: to destabilize the category of the work through the category of the Event”.

24. Tutte le citazioni sono da V. Ottolenghi, Danza in piazza a suon di campane, in “Paese Sera”, 17 settembre 1972. 25. Ead., Una scelta ideologica? Una grande illusione? (“Musica viva”, dicembre 1979), ora in Ead., I casi della danza, a cura di P. Calvetti, Di Giacomo, Roma 981, p. 179: “Da quanto tempo sei comunista? Da quando avevo 15 anni. Ora ne ho centocinquanta. Hai mai avuto ripensamenti? Problemi, angosce, difficoltà, spessissimo. Ripensamenti, mai”; sulla militanza comunista, dopo le leggi razziali, si vd. anche Ead., La danza, Tersicore adorata, a cura di R. Tripodi, Excelsior 1881, Milano 2008, pp. 37-47. 26. L. Arruga, [Cunningham al Festival di Venezia] Sposa la danza allo scenario di piazza S. Marco, “Il Giorno”, 14 settembre 1972. 27. karlheinz Roschitz, Spektakel für San Marco, in “kronen Zeitung”, [1972], p. 17, [t. d’a.].

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Nuovi Mondi Virgilio Sieni

Editing Alessia Prati

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Senza il mio corpo lo spazio nemmeno esisterebbe Alessia Prati

Introduzione La pratica coreografica di Virgilio Sieni è un palinsesto di echi estremamente stratificato1. È fatta di voci e, soprattutto, di corpi che si sovrappongono e si attraversano secondo una logica che volontariamente sfugge alla condensazione, alla chiusura, a un’idea “coercitiva” di sintesi. Virgilio Sieni non sceglie, lascia in sospensione attraverso gesti contenenti infinite possibilità. Quello tratteggiato da questo palinsesto è un atlante del gesto2, un corpo fatto di incrinature e rovine, che emergono da una tenue inclinazione, da una caduta spazio-temporale. Il corpo è lo strumento privilegiato della relazione con la/e storia/e, con le/gli altre/i – interpreti, danzatori professionisti o amatori3, il pubblico – e con i luoghi, musei, istituzioni, fondazioni e, soprattutto, con le città. Il ruolo di direttore di due edizioni di Biennale College Danza e del IX e X Festival Internazionale di Danza Contemporanea, assegnato a Virgilio Sieni dalla Biennale di Venezia dal 2013 al 2016, è un’esperienza che consuona con la sua pratica. La prossimità tra spazio urbano e corpo, o meglio i tanti corpi, che caratterizza il suo pensiero coreografico, viene esplorata anche nel contesto veneziano a partire dalla fuoriuscita dai luoghi scenici deputati e a pagamento dell’istituzione. L’invasione dello spazio urbano del quotidiano durante tutto il periodo della Biennale Arte (2013; 2015) o Architettura (2014; 2016) è l’occasione data al pubblico di affiliati e di addetti ai lavori, ma anche ai visitatori e alle visitatrici e soprattutto agli abitanti, di ri-leggere Venezia attraverso l’accadimento performativo. Il ciclo Vita Nova, che accoglie nuove creazioni con interpreti tra i dieci e quindici anni, e quello di Agorà, brevi creazioni realizzate in alcuni campi veneziani; la sezione Aura, dedicata alla realizzazione di nuove performance che traggono ispirazione da dipinti della tradizione pittorica veneziana; Memorie, quadri coreografici dal Vangelo secondo Matteo; Invenzioni, vera e propria residenza di due settimane finalizzata alla progettazione di opere in dialogo con Venezia; ma anche Boschetto, Prima Danza, gli incontri, le conferenze e i diversi momenti di formazione di Biennale College. Queste le pratiche della rassegna con cui il coreografo ha deciso di occupare la città lagunare. 203

Il saggio analizza l’interpretazione della città di Venezia e dello specifico carattere scenico che Virgilio Sieni ha ri-disegnato attraverso il progetto curatoriale del festival di danza. La fonte principale del mio studio è costituito dal complesso di ephemera – disegni, mappe, appunti –, che hanno accompagnato la progettazione dell’esperienza curatoriale e adesso permangono come materia residuale. La mia analisi si focalizza unicamente sul materiale grafico, pensato, in quanto afterlife4, come lo strumento maggiormente in grado di veicolare gli effetti e gli affetti dell’evento. A differenza dei concetti più storicizzati nell’ambito della danza di notazione e partitura, ritengo che le annotazioni di Virgilio Sieni non rispondano all’obiettivo di documentare con un certo grado di precisione i comportamenti di un corpo in uno spazio, rendendo così l’evento ripetibile. Piuttosto, ne registrano l’impressione, la risonanza e l’affetto sorti dall’interazione e dal coinvolgimento relazionale con lo spazio e con gli altri corpi5. Le mappe di Virgilio Sieni non mostrano le opere coreografiche, né il palinsesto delle varie edizioni del settore danza della Biennale di Venezia, ma gli effetti dell’interazione negli occhi di chi guarda tra tutte le entità messe in campo: i corpi, il movimento e Venezia. Le pratiche editoriali di Virgilio Sieni Alla coreografia e alla danza, Virgilio Sieni associa una pratica editoriale che articola e, in parte, definisce ulteriormente il piano della composizione, seguendo due direzioni tra loro distinte per caratteristiche formali e scopi. La prima, la Collana del Gesto, pensata in concomitanza con l’Accademia del Gesto, è un progetto editoriale nato dalla collaborazione con Maschietto Editore di Firenze allo scopo di condividere, di “mettere ordine tra le cose”6 e di fissare le riflessioni che gravitano intorno a ciascuna opera coreografica. Perlopiù caratterizzati da un formato A4 orizzontale, i libri includono documentazioni fotografiche e saggi, ma anche disegni, diagrammi, partiture che vengono consegnati al lettore come traccia mnestica. Le doppie pagine, paragonate dall’autore alle tavole del progetto non terminato Mnemosyne Atlas di Aby warburg, sono frutto di un’operazione sulla memoria non dissimile, secondo Virgilio Sieni, da quello dell’opera Mariée mise à nu par ses célibataires, même (1915-1923) di Marcel Duchamp, un lavoro sulla polvere attraverso cui è sempre possibile scovare qualcosa di nuovo. Una volta 204

ALESSIA PRATI

formalizzate, le pagine rimangono come innesco capace di aprire le pieghe affettive di più temporalità. A questa prima tipologia di operazioni editoriali viene affiancata una pratica che proverei a definire di self-publishing do-it-yourself per le specificità progettuali, di realizzazione e per la posizione che essa assume nell’economia generale della riflessione artistica dell’autore. I disegni, gli schizzi, le mappe, le annotazioni, realizzati, a differenza delle pubblicazioni appena descritte, contemporaneamente alle opere e senza intervento in post-produzione, sono uno strumento del pensiero coreografico in aperto dialogo con il movimento, i gesti e il corpo degli interpreti. Uno strumento capace di articolare, secondo una diversa modalità di figurazione e, oserei dire nel caso specifico di Sieni, di conoscenza, il tempo, lo spazio e le qualità atmosferiche della performance. Presente anche nei progetti editoriali precedenti, la possibilità da parte del disegno di duplicare la capacità del corpo di rigenerarsi e sopravvivere per adattamento sembra assumere maggiore rilievo. Così Virgilio Sieni: La pagina, come una partitura musicale, raccoglie moduli, annotazioni scritte, fotografie, immagini di riferimento e disegni sparsi. In una stessa composizione una miriade di immagini d’ispirazione tutte insieme si relazionano le une con le altre (cado). Come nell’Atlas Mnemosyne di Aby Warburg, vari significati possono essere trasferiti e trasmessi all’interno della stessa immagine; così un colore può produrre un gesto, che, a sua volta, riecheggia in altri movimenti, luci o architetture. In queste figure, possiamo percepire tutto ciò che punta alle qualità del movimento. È una completa asimmetria alla ricerca di intime strategie di soluzione. La pagina raccoglie ma non circoscrive mai l’aura delle idee. Potremmo dire che rivela nella sua interezza una possibilità continua di fessure, messaggeri e intrusi, che alimenta segretamente, ma consapevolmente, il percorso artistico.7

Ogni superficie, ogni formato si presta ad accogliere linee, forme geometriche, corpi in vibrazione, parole, nella maggior parte dei casi tracciati con una Pilot C4. Più precarie di quelle pubblicate da Maschietto Editore, le pagine – fogli o pezzi di qualsiasi tipo di carta – sono conservate all’interno dei faldoni, che compongono l’archivio 205

SENZA IL MIO CORPO

personale di Virgilio Sieni a Firenze in una delle stanze di Cango Cantieri Goldonetta8. Organizzate singolarmente, altre volte in leporelli ottenuti mediante l’utilizzo di un comune nastro adesivo di carta, oppure spillate una sopra l’altra, le pagine, come corpi in movimento, compongono sequenze ritmiche, sulle quali il coreografo-editor può ritornare e re-intervenire. La distinzione tra le due attitudini editoriali, motivata contestualmente dall’argomentazione proposta, è difficilmente definibile analizzando la pratica dell’autore, che, pur riconoscendo le differenze sul piano della progettazione e della stampa, considera tutte le pubblicazioni equivalenti. La suddivisione che propongo risponde alla necessità di focalizzare il presente saggio sulla seconda attitudine editoriale realizzata da Virgilio Sieni come direttore del settore danza della Biennale di Venezia9, tralasciando il materiale editoriale più istituzionale. Per quanto contengano delle informazioni utili a una comprensione più puntale dell’intera rassegna, delle artiste e degli artisti, delle opere e delle sedi, i cataloghi riflettono, infatti, soltanto sporadicamente e meno esplicitamente un pensiero coreografico, rispondendo anche e soprattutto a esigenze legate alla comunicazione e alla promozione dell’evento. I materiali analizzati, da cui è stato tratto il saggio visivo Nuovi Mondi per questa pubblicazione, sono i disegni, le mappe, le tabelle e le immagini che Virgilio Sieni ha realizzato tra il 2013 e il 2016 in un confronto serrato con la progettazione e la creazione delle quattro rassegne di danza. Più che una prefigurazione del risultato finale, essi sono la spazializzazione visiva di un pensiero coreografico e di una pratica artistica che ha tentato di ri-narrare la geografia della città di Venezia. Venezia secondo gli ephemera di Virgilio Sieni A contatto con lo spazio urbano, le tecnologie coreografiche di Sieni riscrivono la geografia di Venezia attraverso azioni performative che de-funzionalizzano le rotte e i gesti quotidiani, ri-attivando memorie celate o generando immagini inedite. Ma quale Venezia hanno narrato le coreografie di Michele di Stefano, Cristina Rizzo, Jonathan Burrows e Matteo Fargion, Enzo Cosimi, Roy Assaf, Jan Martens, Saburo Teshigawara e Karas, Jérome Bel, Alessandro Sciarroni, Simona Bertozzi, Thomas Lebrun, Annamaria Ajmone, Anne Teresa De keersmaker, di tutti le coreografe e coreografi che sono confluiti in questa nuova polis durante i quattro anni? Per noi spettatori in ritardo10 restano 206

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soprattutto le annotazioni, ephemera di quell’esperienza. Molto del materiale editoriale realizzato è costituito da mappe, che mostrano la laguna dall’alto, e da schizzi che si focalizzano su dettagli architettonici. Tutti coloro che hanno vissuto o anche semplicemente attraversato Venezia hanno familiarità con la sua planimetria così unica: due pesci, che si incastrano attraverso un atto di incorporazione reciproca, che ricorda un bacio. La peculiarità della sua forma e il fatto di essere un’isola generano un’immagine facilmente memorizzabile. Nelle mappe di Virgilio Sieni non c’è niente di tutto questo. Un close-up sulla laguna si focalizza nella porzione di spazio individuata da Dorsoduro, San Marco, Giudecca, l’isola di San Giorgio e la parte più meridionale di Castello. I due pesci sono scomparsi, sostituti da un sistema aperto di linee, che prosegue al di là della pagina in uno spazio, che possiamo soltanto immaginare. Lo spazio chiuso e separato dell’isola ha ceduto il passo a un intreccio di linee, da cui affiorano sporadicamente figure geometriche, colori e parole. Sono veri e propri accadimenti provvisori della durata di una pagina, sostituiti da altre figure, colori e parole in quella immediatamente successiva. I gesti grafici di Virgilio Sieni non hanno l’insistenza e l’imponenza dei palazzi veneziani, ma la qualità dell’acqua e delle strisce di terra che affiorano occasionalmente dalla laguna. La rinuncia a una visualizzazione realistica dello spazio lagunare nella sua interezza, controintuitiva rispetto alla curatela di un festival di danza che invade lo spazio urbano, costituisce una peculiarità difficilmente trascurabile per comprendere sia i disegni che il progetto curatoriale. Le mappe, proprio perché non realistiche, non hanno costituito per il lettore/spettatore di allora uno strumento con cui orientarsi all’interno della rassegna. Costituiscono, però, per il lettore/spettatore di oggi la chiave di accesso alla riflessione coreografica su Venezia. Vale la pena, pertanto, soffermarsi sulla tipologia di rappresentazione spaziale scelta, tracciando una genealogia dei suoi precedenti storici. La rappresentazione cartografica occidentale, erede della raffigurazione di città e paesaggi da parte di pittori, architetti e incisori rinascimentali e della perspectiva di Leon Battista Alberti, ha generato tra il XV e il XVI secolo una strategia visiva e discorsiva tesa a rendere lo spazio interamente osservabile a partire da un occhio unificante, totalizzante, distante e, soprattutto, umano. Sottraendosi alla presa dell’orizzontalità e del “basso”, l’uomo che osserva dall’alto è in grado di accorciare le distanze, di vedere e non essere visto o, detto 207

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altrimenti, di dominare e conquistare. Non è un caso se mappe e pratiche cartografiche sono state le strumentazioni e “l’erotica del sapere” delle grandi potenze colonizzatrici e imperialiste. Così de Certeau: Chi sale lassù esce dalla massa che travolge e spazza via qualsiasi identità di autore o spettatore. Librandosi sopra queste acque, Icaro può ignorare le astuzie di Dedalo in labirinti mobili e senza fine. Il suo elevarsi lo trasfigura in voyeur. Interpone una distanza. Tramuta in un testo che si ha sotto gli occhi un mondo che ci stregava e dal quale eravamo “posseduti”. Permette di interpretare con un Occhio solare, di posare uno sguardo divino: esaltazione di pulsione scopica e gnostica. La finzione del sapere consiste precisamente nell’essere soltanto quest’occhio vedente.11

Pur connettendosi a tale tradizione, le mappe di Sieni sembrano far vacillare il posizionamento, appena descritto, di un voyeur dallo sguardo divino. A una più attenta analisi i disegni sono una costellazione in movimento di plurimi punti di vista, più vicini alla sensibilità delle rappresentazioni cartografiche medioevali, in cui la visualizzazione dall’alto cede progressivamente il passo a dettagli, a prospetti, ad assonometrie, a prospettive a volo d’uccello, a brulichii di corpi in movimento. La frammentazione e la molteplicità dei punti di vista generano uno sguardo più “terreno”, che sfugge al desiderio di mostrare e organizzare in modo coerente. Di fronte ai disegni di Sieni il lettore/ spettatore è chiamato a seguire itinerari tra loro eterogenei che chiudono il frame su dettagli, su piazza San Marco, campo San Maurizio, Sant’Angelo, Pisani, Novo, Ca’ Giustinian, Teatrino Palazzo Grassi, sul conservatorio, su coloro che quotidianamente attraversano e sono attraversati da questi spazi12. Il dispositivo visivo, che ne deriva, rivede la razionalità urbanistica attraverso una conoscenza “in movimento” non unificante, che accede allo spazio attraverso la performance. Tale sensibilità “cartografica” mobile, situata e incarnata produce una visione affine alle esperienze settecentesche del pittoresco e del vedutismo, nate in risposta a una tipologia di viaggio ed esplorazione che da spaziale si fa emotiva, in cui esteriorità e interiorità si fondono. Il corpo, che assume un ruolo centrale, colloca il desiderio in uno spazio prossimo e “affettato”13, generando una conoscenza “di contatto” e peripatetica, che si sottrae dal generare un dispositivo prospettico 208

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coerente, unificante e universale. Quella tracciata dalle mappe, e di rimando dalla pratica coreografica e curatoriale di Virgilio Sieni, è una Venezia “transumante”14: esattamente come i corpi degli interpreti, viene pensata come guaina in grado di essere attraversata nello stesso istante da direzioni e temporalità eterogenee. Come sottolineato dalla studiosa Giuliana Bruno (2015), la descrizione delle città nel vedutismo, pur incorporando l’impulso cartografico dei secoli precedenti, non risponde alla necessità di un’accuratezza fattuale, quanto piuttosto a “un’immagine mentale”15 che, nel caso di Sieni, si moltiplica come i punti di vista di coloro che la attraversano. Il gesto, depositato nelle e attraverso le opere coreografiche di altre autrici e altri autori, si manifesta nelle mappe in quanto “accadimento”. Come in un flipbook, scorrendo velocemente i fogli in A4 spillati o organizzati in leporelli si incappa in eventi visivi che modificano lo spazio bianco del foglio e generano, di rimando, una Venezia sempre diversa. Sieni rinuncia alla definizione di uno “stato del sapere geografico”16 stabile e risolutivo, per fare della visualizzazione della città un corpo in cui tutte le parti si muovono e sono in allerta. La sensazione di “essere sempre in procinto di diventare qualcos’altro”17 è particolarmente visibile nelle timeline colorate che registrano il cambiamento atmosferico e, in associazione, le performance, gli eventi e i luoghi della rassegna, e nelle sequenze di sei, a volte sette, disegni che a partire dal medesimo frame mostrano una Venezia in transizione attraverso variazioni compositive appena percepibili di forme geometriche, linee e parole. La rilegatura do-it-youself amplifica, inoltre, tale sensazione grazie a un montaggio che lascia aperta la possibilità, esattamente come lo spazio urbano, di una ri-scrittura e di una manomissione mediante la semplice aggiunta di nuovo materiale o il cambiamento nella sequenza dei fogli. A volte gli accadimenti visivi diventano a tal punto centrali da rendere superflue le linee che identificano lo spazio lagunare. I campi, il complesso di calli che vi si affaccia e i flussi di persone, che li attraversano, occupano l’intero spazio della pagina, disancorandosi dal contesto. Ciò che è percepito come vuoto nella realtà – calli, campi, fondamenta – diventa pieno negli ephemera editoriali di Sieni, mentre le architetture ricche di particolari diventano poligoni colorati. Tale processo di progressiva astrazione è la manifestazione più esplicita dello sguardo compositivo che caratterizza la curatela del coreografo. Un elemento centrale dei disegni è, inoltre, la parola scritta. 209

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Virgilio Sieni, “Mondo Novo. Gesto luogo e comunità”, disegni, 2014

Virgilio Sieni, “Mondo Novo. Gesto luogo e comunità”, disegni, 2014

Strumenti per la definizione del complesso odonomastico di Venezia, le parole scritte identificano i luoghi selezionati dal direttore e dagli artisti, tralasciando le “attrazioni” generalmente indicate dalle mappe e dalla segnaletica dello spazio lagunare. A Virgilio Sieni interessa comunicare la versione di Venezia che risponde ai suoi desideri e ai suoi camminamenti. A quello costituito dai nomi reali, il direttore aggiunge, inoltre, due ulteriori layer. Il primo organizza la città attraverso tre raggruppamenti arbitrari che la trasformano in un complesso di città-stato – non a caso la parola impiegata è Polis –, diverso per ciascuna edizione. Il secondo – agorà, vita nova, aura, dimore, risonanze –, oltre a indicare i cicli e le varie sezioni del festival, consegna al lettore gli strumenti interpretativi con cui re-immaginare Venezia. Accanto alla legittimazione culturale e storica associata ai nomi e accanto al valore determinato dall’uso dei luoghi, Sieni impiega questa costellazione di nomi per orientare i percorsi reali e immaginari del pubblico, rivestendo con una nuova toponomastica un luogo che credevamo già di conoscere. Una pratica affine a quella che i corpi dei danzatori e le visioni dei coreografi generano a contatto con i corpi dell’ordinario, del quotidiano, del funzionalismo, della produzione. Conclusione In quanto trasposizione di molteplici itinerari, i disegni realizzati da Virgilio Sieni in occasione delle due edizioni di Biennale College Danza e del IX e X Festival Internazionale di Danza Contemporanea sono testi inediti di possibili plurime narrazioni, che rimarcano il rifiuto di uno sguardo unico e distaccato. Si tratta di una inedita drammatizzazione spaziale18. Essa definisce una nuova topografia, re-immaginando Venezia a partire dall’esperienza aptica e affettiva del corpo19. E fa della pratica dell’attraversamento uno strumento generatore di immagini e gesti. La lettura delle mappe diventa l’occasione per ri-percorrere i sentieri emotivi e le atmosfere, precedentemente esperiti con il corpo nelle diverse pratiche coreografiche come interpreti e come spettatrici e spettatori. Il materiale editoriale, che trattiene la forza affettiva, permette a noi ritardatari di recuperare un’esperienza, che in tal modo travalica il qui e ora dell’evento performato. Percorrendo con lo sguardo l’afterlife di queste linee tracciate da Virgilio Sieni è possibile, a distanza nel tempo e nello spazio, percepire i gesti con cui il coreografo, nel ruolo di curatore, ha plasmato le molte sopravvivenze dello spazio urbano veneziano. 214

ALESSIA PRATI

Note

1. Per una trattazione esaustiva del percorso, della formazione e delle opere di Virgilio Sieni si rimanda a R. Mazzaglia, Virgilio Sieni. Archeologia di un pensiero coreografico, Editoria & Spettacolo, Spoleto 2015 e alle pubblicazioni per la collana Il gesto di Maschietto Editore. 2. La sintonia e la vicinanza con le riflessioni e gli scritti dello studioso e ideatore dell’iconologia Aby warburg e, soprattutto, con l’idea di Pathosformel sono esplicitamente sottolineate dall’autore in saggi e interviste. 3. Il termine “amatore” è utilizzato insieme a quello di “neofita” da Virgilio Sieni per indicare gli interpreti che non hanno una formazione nella danza o, più in generale, nelle pratiche performative. 4. Un breve chiarimento sul concetto di afterlife. Riconnetto la possibilità dell’annotazione di trattenere la “forza affettiva dell’evento” all’attitudine da parte della performance di sopravvivere per adattamento. Un adattamento che, in aperta opposizione al carattere effimero generalmente associato alla performance, Simon Ellis in Jealousy, Transmission and Recovery (2015) interpreta come vero e proprio “salto di specie”. Secondo questa prospettiva l’opera non scompare nel momento stesso in cui viene performata, ma sopravvive grazie a una “trasformazione genetica”, che ne cambia la forma, non la capacità di affettazione. Le notazioni, le partiture e il complesso più 215

ampio delle annotazioni sono il salto di specie con cui le pratiche del corpo rimangono secondo direzioni, formalizzazioni e finalità tra loro eterogenee. Preciso, inoltre, che la nozione di afterlife, vicina a quella warburghiana di Nachleben, non rimanda a una consequenzialità tra un prima – l’atto performato – e un dopo – l’annotazione o la notazione scritta – o a una gerarchia di valore tra un originale e una copia fantasmatica o un residuo precario. Tra l’evento e i suoi numerosi afterlife esiste quella che Rebecca Schneider definisce una inter(in)animazione, che respinge la linearità tra una causa e un effetto. Le annotazioni e l’atto performato si relazionano secondo una temporalità queer e attraverso quella ri-modulazione continua, che costituisce l’atto compositivo. 5. H. Blades, Affective Traces in Virtual Spaces, in “Performance Research”, vol. 20, n. 6, 2015, pp. 26-34. 6. Miartalks 2016 – Virgilio Sieni in conversation with Hans Ulrich Obrist, https://vimeo.com/166833006. 7. V. Sieni, Atlas of the Gesture, in “Paj. A Journal of Performance and Art”, vol. 40, n. 2, 119, 2018, p. 73. “The page, like a musical score, gathers modules, written annotation, photographs, reference images, and scattered drawings. In one figure, myriads of image references together, one related to the other (I fall). As in the Mnemosyne Atlas by Aby warburg, various meanings can be transferred and transmitted inside the same image; thus, a color may produce a gesture, which, in turn, echoes in other movements, lights, or architectures. In these figures, we can sense everything poinSENZA IL MIO CORPO

ting to the qualities of the movement. It is a complete asymmetry searching for intimate strategies of solution. The page gathers but never circumscribes the aura of ideas. we could say that it reveals in its entirety a continuous possibility of fissures, messengers, and intruders, which secretly, yet consciously, nourishes the artistic path”, [t. d’a.]. 8. Cango Cantieri Goldonetta è un luogo di ricerca, trasmissione, residenza fondato nel 2003 a Firenze e articolato in tre spazi di diverso formato predisposti per la danza, sede dal 2015 del Centro Nazionale di Produzione diretto da Virgilio Sieni. I coreografi ospiti, oltre a sviluppare le proprie creazioni, vengono invitati a elaborare percorsi di creazione in collaborazione con l’Accademia sull’arte del gesto. L’articolato programma annuale è scandito da progetti transdisciplinari in dialogo con una geografia di luoghi della città.

11. M. de Certeau, L’invention du quotidien, Gallimard, Paris 1990; tr. it. di M. Baccianini, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 144. 12. La nozione di “spazio” che qui impiego si contrappone, secondo la visione di Michel de Certeau, a quella di “luogo” per la centralità del movimento, delle prossimità, delle variabili di tempo, velocità e direzione che lo definiscono e lo orientano come entità polivalente, impossibile da circoscrivere perché instabile. 13. G. Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Johan & Levi, Monza 2015, p. 212. 14. M. de Certeau, op. cit., p. 146. 15. G. Bruno, op. cit., p. 216. 16. M. de Certeau, op. cit., p. 181.

9. Virgilio Sieni è stato direttore del settore Danza in occasione della nona e della decima edizione del Festival Internazionale di Danza Contemporanea di Venezia “Mondo Novo. Gesto luogo e comunità” (2014) e “Senza il mio corpo lo spazio nemmeno esisterebbe” (2016), e in occasione delle edizioni di Biennale College “Danza Abitare il mondo. Trasmissione e pratiche” (2013) e “La dignità del gesto” (2015). 10. La formula è di A. Sacchi, Oltre la nostalgia: spettatori ritardatari e performance storiche, in S. Tomassini, D. Giuliano (a cura di), Biennale Danza 2013. Abitare il mondo, trasmissione e pratiche, La Biennale di Venezia, Venezia 2013, pp. 100-105.

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17. T. Ingold, Making, Routledge, New York-London 2013, p. 31. 18. L’esplicitazione forse più diretta della “drammatizzazione” dello spazio è il progetto realizzato presso le corderie dell’Arsenale in occasione del IX Festival Internazionale di Danza Contemporanea (2014). Risultato di una scrittura a quattro mani, nata dalla collaborazione tra Virgilio Sieni e il direttore della Biennale di Architettura Rem koolhaas, esso ripropone negli spazi istituzionali della rassegna quell’esperienza cinestesica, quel sistema di “enunciati” e pause, quella vibrazione visiva, quel continuo scendere e salire, che, nel ricordo di Carlo Scarpa, costituiscono le prerogative ALESSIA PRATI

della città lagunare. Le Corderie, trasformate in Polis Corderie, sono state organizzate attraverso una serie di piccole pedane, appositamente progettate per la danza, disposte ad altezze diverse e utilizzate quotidianamente dalle coreografe e dai coreografi ospiti per le rispettive pratiche. Un sistema di tribune, attraversamenti, visioni, anticipazioni, di incontri ri-attivavano la memoria di ciò che avveniva fuori dallo spazio a pagamento e aprivano al pubblico il segreto della progettazione coreografica e del processo creativo. 19. Tale qualità permette di accostare i disegni di Virgilio Sieni alla tradizione, nata tra Seicento e Settecento, delle mappe emozionali. Per una analisi esaustiva dell’argomento vedi G. Bruno, op. cit.

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SENZA IL MIO CORPO

Paradosso Venezia. Gianugo Polesello per Fondamenta Nove Alioscia Mozzato

I progetti veneziani di Gianugo Polesello sviluppati in trent’anni di attività didattica e di ricerca del laboratorio Venezia rappresentano, assieme al Dottorato in Composizione Architettonica da lui diretto come coordinatore dal 1991 al 2002, uno dei momenti più significativi delle riflessioni teorico operative dell’architetto e docente friulano sull’area metropolitana lagunare di Venezia. Riconducendo l’indagine sulle specificità del “caso veneziano” all’interno di più ampi paradigmi tematici riferibili alle relazioni che intercorrono tra lo studio della città e la sua progettazione, il laboratorio Venezia costituisce un “luogo proprio”, dentro l’allora Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dove il fenomeno urbano e territoriale Venezia-Laguna diventa “luogo comune” per la sperimentazione progettuale di una più generale costruzione teorica che in origine assume come centrale il tema del rapporto tra Architettura e Città. Per Gianugo Polesello architettura e urbanistica costituiscono due “domini scientifici separati”, mantenuti cioè “autonomi e indipendenti” da un punto di vista “tecnico” epperò assunti come “complementari” nella progettazione della città. Non si tratta pertanto di escludere dal progetto della città la pianificazione urbanistica, ma al contrario, di assumere il progetto di architettura come strumento di verifica sperimentale e misurazione concreta di quel sistema generale di motivazioni e scelte progettuali che costituiscono il piano. Scrive Polesello: La progettazione della città è generalmente considerata un problema urbanistico e architettonico insieme. Almeno nel senso che a ogni intenzione di tipo generalizzante, tendente cioè alla configurazione generale di uno schema, si ritiene debba corrispondere un gruppo definito di attribuzioni formali, qualitative, che garantiscono a quello schema una individuazione fisica compiuta.1

La necessità di istituire un confronto diretto con l’eterogeneità e la consistenza fisica dei fenomeni urbani attraverso cui superare le astratte logiche deduttive che presiedevano alla formazione dei moderni piani regolatori senza però rinunciare alla possibilità di un’azione 219

significativa sulla struttura generale della città, è assunta come presupposto teorico e programmatico per precisare un metodo progettuale capace di misurarsi con una “doppia relazione” intrinseca a ogni progetto della e nella città. Essa è riconducibile all’esigenza di rispondere al contempo tanto alla realtà concreta di “bisogni particolari” che richiedono il progetto di architettura nella città di “parti di città come manufatti autonomi”2, quanto a “bisogni generali” più astratti attraverso la progettazione dell’architettura della città, che esige la definizione di ogni intervento particolare in rapporto al valore assunto dalla “parte rispetto all’insieme di parti che è la città”3. Nel breve scritto elaborato nel novembre del 1982: Per una ricerca su VENEZIA4, Gianugo Polesello delinea i caratteri e i contenuti programmatici di una “RICERCA OPERATIVA” sulla forma urbis di Venezia che, in quanto “DOMANDA DI PROGETTO”, è prima di tutto, precisa Polesello, RICERCA DI PROGETTAZIONE ARCHITETTONICA che viene condotta attraverso una procedura di tipo sperimentale, e però assume sino dall’origine le regole e le procedure proprie del progetto di architettura”5. Il fenomeno metropolitano lagunare veneziano è assunto come luogo di ricerca e sperimentazione di un “metodo” analitico e operativo “sub specie architettonico” che assume la forma di un progetto per “VARIANTI ALTERNATIVE” di alcuni capisaldi funzionali e morfologici della struttura urbana e territoriale di Venezia verificando, scrive Polesello, “la possibilità di CONTAMINAZIONE o di MONTAGGIO tra diversi progetti (alternative o varianti di progetto) o tra elementi-parti di progetti diversi”6. Alcuni principi e linee programmatiche contenuti in questo primo tentativo di strutturazione di una “ricerca operativa” sulla città di Venezia, sono perfettamente riconoscibili in uno dei primi progetti veneziani: Venezia Città-Porto, realizzato nel 1973 da Gianugo Polesello e Giovanni Fabbri in occasione della XV Triennale di Milano7. In un disegno di studio, Polesello descrive ed elenca “gli elementi costitutivi del progetto”8: la triangolazione di piazza San Marco con la Punta della Dogana e la Chiesa di San Giorgio Maggiore che definisce lo spazio acqueo del bacino marciano; il rapporto tra la nuova zona industriale di Porto Marghera a la città antica di Venezia, proponendo un’analogia tra il porto del Pireo e Atene; infine, il sistema lineare del fronte nord della città definito ai due estremi dall’Arsenale e dal progetto di Le Corbusier per il nuovo ospedale di Venezia 220

ALIOSCIA MOZZATO

(1962) nell’area del macello comunale a San Giobbe. Essi sono “parti di città” che assumono nel sistema metropolitano lagunare di Venezia il valore di “fatti urbani”. “Il concetto di parte – scrive Gianugo Polesello – deve risultare sinonimo di grandezza dominante in quanto Fatto Urbano”9. Polesello attribuisce alla nozione di “dominante” un valore riconducibile alla categoria originaria dell’“uso del suolo”. Le dominanti non coincidono necessariamente con i monumenti storici della città, ma assumono un significato più ampio che, facendo riferimento all’originario rapporto istituito tra “sito” e “fabbrica”, in altre parole, a quella “volontà di costruzione” che indica i suoli costruibili, consente di rappresentare un preciso “sistema organizzativo” della città. Assumere la “dominante” come categoria progettuale di una struttura urbana “a dominanti”, significa riconoscere ad alcune “parti di città” un valore aggiuntivo di carattere strutturale che, in quanto “solo, spiega e consente relazioni con altre fabbriche o con altri luoghi”10 della città, permette di conseguire un risultato concreto sull’insieme della città attraverso un’azione diretta soltanto su una parte di essa. Il progetto Venezia Città-Porto (1973) esprime con grande chiarezza l’intenzione di individuare “figure logiche” e “luoghi altamente significativi” della struttura metropolitana lagunare di Venezia all’interno dei quali Gianugo Polesello svilupperà gran parte delle sue sperimentazioni progettuali e teoriche negli anni successivi. Essi sono i “fatti urbani” del sistema lagunare veneziano, elementi costitutivi e ordinatori della città e del territorio a cui va attribuito un “doppio significato”, sia in riferimento al rapporto tra pianificazione urbana e progettazione architettonica, in quanto elementi che assumono il ruolo di locus communis di parti distinte ed eterogenee, la cui individuazione e precisazione formale rappresenta il “momento più architettonico” di quella strategia di trasformazione generale della città che costituisce il Piano11; sia rispetto alle relazioni che intercorrono tra la storia e il progetto della città, poiché, precisa Polesello, “essi rappresentano gli elementi di permanenza dell’antica struttura che si trasmettono, attraverso il progetto della città, nella nuova struttura”12. È in questo contesto di riflessioni che va collocato uno dei più significativi progetti veneziani di Gianugo Polesello: il Progetto di ricerca per un nuovo terminal alle Fondamenta Nove di Venezia (1991-1996)13. La ricerca, sviluppata in un arco temporale molto lungo all’interno dei 221

PARADOSSO VENEZIA

Gianugo Polesello, Triennale A-B, Venezia Città-Porto, Triennale XV Milano, 1973

diversi ambiti disciplinari dell’attività didattica dell’architetto e docente friulano, se da un lato si precisa nella forma di progetto architettonico di una “parte di città” che assumeva già nelle prime sperimentazioni progettuali di Venezia Città-Porto (1973) un concreto valore urbano, dall’altro lato si confronta con quei luoghi della città che, come ha osservato Manfredo Tafuri, al tempo della renovatio urbis cinquecentesca erano stati teatro di un produttivo conflitto tra le istanze innovatrici di matrice umanistica e le resistenze di una tradizione fortemente legate al “culto dell’origine”14. Gianugo Polesello assume come immodificabile la linearità del limite a una espansione della città verso nord così come definito dal “piano” elaborato da Cristoforo Sabbadino nel 1557 che pianificava una rigida definizione della forma urbis della città insulare attraverso la costruzione di fondamenta continue lungo i confini urbani delle attuali Fondamenta Nuove e dell’isola della Giudecca. Un approccio conservatore, quello del funzionario dei Savi alle Acque, a cui si oppongono le idee dell’architectus umanista Alvise Cornaro il quale, oltre a contrapporre alla restaurazione di una Venezia finita in sé stessa un progetto di progressiva espansione della città verso la terraferma attraverso opere di bonifica e di ristrutturazione idrografica dell’entroterra lagunare, propone un autentico rinnovamento dell’imago urbis di Venezia tramite una radicale riconfigurazione del bacino marciano, assunto già nella mappa di Benedetto Bordone pubblicata nel 1528 come “centro di un’ideale cosmografia” e trasformato dal Cornaro in un vero e proprio spazio scenico15. In uno dei primi appunti per il progetto di Fondamenta Nove contenuto nei suoi Quaderni, Gianugo Polesello annota l’intenzione di realizzare un “vuoto interno all’area metropolitana lagunare, da costruire sul fronte nord simmetrico all’esistente bacino di San Marco, dilatato fino ad assumere il bordo interno del Lido come proprio limite16”. Nelle note per l’introduzione al seminario di progettazione su Venezia-Laguna: Per un NUOVO NOVISSIME17 (1993), organizzato nell’ambito delle attività del Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica, il nuovo “vuoto urbano” assume la forma di un “foro lineare ligneo” che ridisegna il limite della città verso nord ricomprendendo ai suoi estremi i due “temi architettonici” della Sacca della Misericordia e dell’area di San Francesco della Vigna. La figura del “foro” alimenta gran parte delle sperimentazioni progettuali di Gianugo Polesello per 223

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la città di Venezia. Si pensi, solo per citare alcuni esempi tra i più noti, al grande “foro infrastrutturale” che configura lo spazio del nuovo terminal auto-ferroviario-marittimo del progetto Venezia ovest (1986) o al “foro polifunzionale” attraverso cui trova espressione il valore civico assunto dall’area ex Saffa nel progetto per San Giobbe a Cannaregio ovest (1979). Ma l’uso della figura del “foro” dentro la città insulare va riferito, come ci ricorda lo stesso Polesello, al progetto di Andrea Palladio per il nuovo Ponte di Rialto18. Com’è noto a Venezia Palladio introduce, grazie al sostegno del “patriziato romanista” veneziano e, in particolare, ai rapporti di amicizia con Daniele Barbaro e Jacopo Contarini19, il linguaggio classico nell’antica città gotica per costruire i capisaldi della nuova città del Rinascimento20. Se da un lato l’architettura di Palladio recupera, attraverso una critica filologica della “lingua antica”, l’istanza rinascimentale – fatta propria, anche se diversamente, da Piranesi e Le Corbusier – “di operare per figure finite e definite”21 facendo assumere all’architettura un ruolo urbano nella costruzione della città, dall’altro lato, come ha osservato Manfredo Tafuri, “il codice classico [...] è per Palladio solo un ‘campo di variazioni’, non un prontuario di regole”, e aggiunge, “gli exempla pongono piuttosto il problema del difficile rapporto fra il tipo e l’invenzione”22. Il progetto palladiano per Rialto oltre a costruire un’architettura che trova nella città le ragioni della propria forma, replicando il fronte templare sui quattro lati del ponte per configurare architettonicamente l’incrocio tra le principali vie di comunicazioni interne alla città, rappresenta anche un vero e proprio “laboratorio tipologico” dove l’inventio si precisa nella combinazione di diversi “tipi architettonici” per la costruzione di un “foro” funzionante come luogo centrale della città, che assume nella città la forma architettonica del “ponte”. Analogamente, nel progetto per Fondamenta Nove Gianugo Polesello, facendo corrispondere alla figura del “foro” il concetto di centralità la nuova figura architettonica del “foro lineare ligneo”, ricompone il limite della città per precisare un nuovo “centro” dentro la città, simmetrico a quello esistente del bacino marciano. Per Polesello i progetti di Palladio per Venezia sono testi che si caricano di un forte contenuto teorico e operativo, in quanto descrivono principi e strumenti di una procedura architettonica che “nelle riformulazioni delle [...] parti interne (Rialto) o nella addizione di nuovi capisaldi (San Giorgio, 224

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Gianugo Polesello, MISERICORDIA / FOND. NOVE, 1991

il Redentore)”23 assume un evidente valore urbano nella costruzione della città, precisando, scrive Polesello, “la distinzione di ruoli nelle diverse parti di città e la moltiplicazione dei centri”24. La costruzione della città attraverso la disposizione nello spazio urbano di figure architettoniche “stabilizzanti e definite” presuppone la loro progettazione come “luoghi centrali” funzionanti in sé e, al contempo, significanti all’interno di un “sistema di centralità”, ovverosia, per dirla con Polesello, “come momenti di unità che rimandano ad altre superiori unità che sono le città”25. Nel “metodo” progettuale di Gianugo Polesello il progetto, assumendo le parti di città come “pezzi” di una “macchina in funzione” nel loro duplice valore di espressioni formali di una singolarità ed elementi costitutivi della totalità, non rifiuta di confrontarsi con le discontinuità e contraddizioni della realtà storica facendo ricorso ad astratte logiche deduttive di carattere ideologico, ma al contrario, come ha chiarito magistralmente Massimo Cacciari, “diventa logica unificante nella misura in cui compone irriducibili specificità, non perché inventa astratti denominatori comuni”26. Nel saggio scritto in occasione della mostra dei suoi progetti allestita presso la Basilica Palladiana di Vicenza27, Gianugo Polesello ripercorre i quasi trent’anni di studi e sperimentazioni progettuali sviluppati nell’area metropolitana lagunare di Venezia assumendo, come origine delle sue ricerche, il progetto Novissime per l’isola del Tronchetto (1965). Per Polesello Novissime riproponeva l’attenzione sull’immagine della pianta di Benedetto Bordone pubblicata nel 1528 per descrivere la morfologia di un sistema insediativo costituito da una costellazione di isole “finite e definite” dentro il limite anch’esso abitato della conterminazione lagunare. Inoltre, all’intenzione di “concludere” la forma della città insulare, ripristinando il profilo della pianta di Ludovico Ughi del 1792, assunta come limite ultimo della sequenza delle topografie iniziata con Jacopo de’ Barberi nel 1500, va riferita l’idea di operare per sottrazione di parti, ritenute incongrue rispetto alla struttura originaria, attraverso la costruzione di “vuoti urbani” che, se da un lato restituiscono un’immagine astratta della finitezza storica della città di Venezia, dall’altro lato, precisa Polesello, “questo vedere la città antica si accompagna anche ad un vedere la città-da-fare”28. Come è noto, la “teoria dei vuoti urbani”, assunta da Gianugo Polesello in uno dei suoi ultimi appunti su Venezia come necessità di individuare e inserire “luoghi notevoli” nella città29, viene formulata da 226

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Giuseppe Samonà in riferimento alla possibilità di operare dentro la città antica da assumersi come “città finita”, costruendo luoghi significanti capaci di rendere compiutamente intelligibile la sua struttura e il suo carattere30. Per Gianugo Polesello i “vuoti urbani” sono dispositivi compositivi che assumono a pieno titolo il valore di strumenti operativi dell’architettura nella costruzione della città come “conseguenza applicativa [...] del concetto di “luogo-spazio”31. Un concetto, anch’esso formulato da Giuseppe Samonà, secondo cui ad alcune parti dello “spazio fisico” della città e del territorio è attribuito un preciso “iconismo semantico” capace da un lato di restituire le qualità strutturali dello spazio costruito – dal disegno del paesaggio e dei sistemi urbani ai segni delle infrastrutture e all’architettura dei luoghi – ,dall’altro lato di esprimere il “carattere” dei contesti geografici, culturali e antropologici all’interno dei quali la costruzione si colloca32. Alla definizione di luoghi-spazio come “unità significanti” va riferito il valore di “operatori del piano” che Polesello gli attribuisce per sostituire alle logiche deduttive della pianificazione piramidale, un provare attraverso “sperimentazioni progettuali sul particolare legate al finito e controllabile (i luoghi-spazio appunto)”33 la costruzione di quel sistema più generale di progetti di architettura che costituisce il telaio del nuovo progetto complessivo dell’architettura della città precisato dal Piano. Ma il concetto di luogo-spazio, declinandosi operativamente nella costruzione del “vuoto” dentro la città, determina anche un rovesciamento delle condizioni normali dell’esperienza dello spazio urbano che consente, secondo Polesello, “di ‘vedere la città dall’interno’, proprio come in un ‘teatro’”34. A questa riflessione sulla teatralità dello spazio urbano possono essere facilmente ricondotti alcuni momenti dei progetti veneziani per il fronte nord della città insulare. Tuttavia se il progetto Venezia Città-Porto (1973) si limitava a mostrare la sequenza dei monumenti che inizia da est con l’Arsenale e si conclude di fatto con il vuoto della sacca della Misericordia ricomponendo soltanto alcuni brani della città storica, vent’anni più tardi, il “foro lineare ligneo” del progetto per le Fondamenta Nove (1993) istituisce un nuovo “punto di stazione” dal quale osservare l’universo spaziale veneziano come un grande “teatro lagunare”, che assume come coordinate di riferimento quelle di una città che, per dirla con Polesello, “non era [più] solo Venezia insulare, ma Venezia con gli insediamenti abitativi insulari nella laguna nord”35. 227

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Ma è soprattutto nella composizione del “vuoto” in corrispondenza dell’area degli ex gasometri che la spazialità della scena teatrale trova una compiuta espressione formale nella costruzione dello spazio urbano, sostanziando due differenti idee di teatralità. La prima riconducibile alla relazione che intercorre tra la nuova figura architettonica del diedro murario su cui s’imposta la rotazione del diverso orientamento della fondamenta in corrispondenza del rio di Santa Giustina e il teatro galleggiante “all’antica”, che se da un lato ricorda il progetto cinquecentesco di Alvise Cornaro per la riconfigurazione del bacino marciano36, dall’altro lato ricostruisce sotto forma di citazione il teatro classico descritto da Vitruvio, la cui restituzione grafica del Palladio fu pubblicata per la prima volta nel 1556 a Venezia nei Commentari di Daniele Barbaro37. Qui il diedro murario completa l’antico fronte urbano per costruire la scaena frons dell’antistante teatro galleggiante che scorre lungo il tracciato definito dal nuovo pontile ligneo. Nell’architettura della scena appare dominante la “perentorietà del fronte” che impone una riduzione sul piano bidimensionale dello spazio urbano assunto, in analogia con quanto avviene nella composizione delle facciate delle chiese palladiane a Venezia38, come fondale scenico predisposto per la rappresentazione dell’azione teatrale che si svolge nella città. Diversamente, al di là del diedro murario, attraverso la giustapposizione delle figure architettoniche del cubo nero e della foresta delle venticinque colonne dentro lo spazio vuoto del nuovo campo su cui si affaccia la facciata palladiana della Chiesa di San Francesco della Vigna, trova espressione un modo di costruire lo spazio della città, per dirla con Polesello, “come spazio teatrale diversamente determinato dalle diverse azioni e dalle collocazioni dei corpi entro di esso”39. Gianugo Polesello in uno dei suoi Quaderni annota alcuni appunti per una lezione sul tema delle “architetture singolari”40 in cui, facendo esplicito riferimento a un saggio critico di Giulio Carlo Argan sul De re aedificatoria di Leon Battista Alberti41, precisa il senso di un’architettura che non costituisce più nella città il fondale scenico dello spazio urbano ma, occupando il vuoto della scena teatrale, rappresenta, scrive Argan: “il personaggio del dramma, che rende significante lo spazio con la propria presenza e il proprio gesto”42. L’“edificio-personaggio” è per Polesello il “monumento-che-sta-nello-spazio”43, esso ha un corpo fisico e una propria incontestabile realtà 228

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Gianugo Polesello, San Francesco, 1996

oggettuale attraverso la quale la costruzione della città si carica di senso, in quanto, precisa Polesello, “lo spazio senza corpi fisici dentro di esso è privo di significato”44. Come nel progetto per il completamento del Sacro Monte di San Carlo ad Arona (1993), anche nel nuovo vuoto urbano dell’area degli ex gasometri, gli oggetti architettonici disposti topologicamente nello spazio diventano “personaggi in una composizione scenica di figure-simboli di una architettura astratta”45 che racchiudono una evidente dimensione metafisica. Le venticinque “colonne con la testa nelle nuvole” sono, precisa Polesello, metafora architettonica del paradosso “sein/da-sein” della possibilità che si realizza ... Le colonne sono di vetro come nel Danteum; le colonne guardano Murano e vengono forse da Murano. Oppure: le colonne sono di pietra e le nuvole di vetro soffiato, le nuvole come i venti soffiati delle iconografie storiche. Colorate, blu, rosso, verde chiaro, rosato come i lampioni di Piazza San Marco.46

Come ha osservato Valerio Paolo Mosco47, l’astrattismo di Gianugo Polesello non è “intransitivo” come quello delle ricerche neoplastiche di Piet Mondrian o dell’architettura di Peter Eisenman, ma appare più vicino all’astrazione iconica di Malevich che non nega la figura, ma la trasfigura attribuendole altri significati. Le figure astratte di Polesello hanno una loro storia e una loro riconoscibilità, possiedono, in altre parole, una precisa “referenzialità” che consente di restituire attraverso una “immagine mimetica”, tipica della rappresentazione teatrale, i contenuti di una realtà sovrastorica nascosta dietro l’immagine della realtà storica, ma che diventa visibile grazie a quella stessa immagine48. Nel progetto per Fondamenta Nove, i nuovi oggetti architettonici sono figure che assumono un significato “ambiguo” in quanto elementi tratti dalla storia, e contemporaneamente trasformati in entità sovrastoriche attraverso una “operazione di riduzione-astrazione”49 che li traspone dentro una dimensione sincronica del tempo. Il rapporto tra architettura e storia si precisa così in un senso più ampio che, per dirla con Polesello: “sfugge alle ragioni, alle limitazioni e alle misurazioni del tempo e alla categoria della temporalità”50, per assumere i luoghi e i monumenti della città storica non come oggetti di assenza, ma come presenze attive e significanti nel progetto della nuova città. 230

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Le operazioni mentali attraverso cui Gianugo Polesello giunge al dominio dell’astrazione hanno come orizzonte di riferimento la disgregazione del tempo storico e la sua successiva ricostruzione in una “simultaneità non sistematica della compresenza”51, attraverso cui proiettare e far agire il passato all’interno di una nuova esperienza che ne garantisce il senso nel presente. Nel vuoto urbano dell’area degli ex gasometri le nuove figure architettoniche sono oggetti innestati e affiancati a manufatti antichi stratificati nel tempo, assunti come materiale a disposizione, da reinventare attraverso quella logica posizionale dei corpi dentro lo spazio sensibile di una scena teatrale che consente all’architettura di assumere valori diversi, e di conseguenza diversamente significare i “luoghi-spazio” della città. Poiché, come ha osservato Ildebrando Clemente, nello spazio del teatro un gesto qualsiasi o una parola qualunque possono diventare subito qualcos’altro e assumere all’istante e improvvisamente un senso ulteriore52. La costruzione del “vuoto” nel progetto per Fondamenta Nove mostra il significato più ampio e profondo che la forma teatrale assume nel progetto di una città come Venezia, e più in generale di ogni città, conservando ancora oggi intatto tutto il suo carattere di attualità e urgenza. Trasporre le forme del teatro nella progettazione della città significa per Polesello poter assumere il progetto di architettura come luogo dove risolvere le opposizioni intrinseche alla doppia natura del “tempo” e dello “spazio” di Venezia, che come ci ricorda Manfredo Tafuri sono “fedeltà all’origine” e “unità” che dipende da una conflittualità continua53, attraverso quel “paradosso dell’immissione del mito nella storia”54 descritto nel disegno di Venezia del progetto Novissime che, precisa Polesello, “consiste nello spingere il futuro nel passato, reinventando la funzione del tempo e negando la storia”55. Gianugo Polesello conclude un suo saggio sul rapporto tra l’architettura del teatro e i luoghi-spazio della città scrivendo che “la costruzione di [...] nuovi teatri può essere il progetto per la città”56. Forse perché, affidandoci alle parole di Peter Brook, “il teatro rende passato e futuro parti del presente, ci dà la distanza da quello che normalmente ci sta intorno e abolisce la distanza fra noi e ciò che di solito è lontano”57.

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PARADOSSO VENEZIA

Gianugo Polesello con Armando Dal Fabbro, Massimo Iori, Maurizio Gaudenzi, Progetto per Venezia Fondamenta Nove, modello, 1995-1996

Gianugo Polesello, Facciata di S. Francesco della Vigna (come “teorema”), 1994

Note

1. G. Polesello, La progettazione della città per parti, in “Il Confronto”, n. 5, 1968, p. 31. 2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Id., Per una ricerca su VENEZIA, Quaderno 12, Fondo Gianugo Polesello, Archivio progetti Iuav.

essere esaustiva si compone dei saggi di S. Maffioletti, Il nuovo margine di Venezia. 1986-1991: Gianugo Polesello, in A. Ferrighi (a cura di), Venezia di carta, LetteraVentidue, Siracusa 2018, pp. 208-211; G. Rakowitz, Fondamenta Nove, in G. Rakowitz, L. Lanini (a cura di), Architetture per la metropoli. Ivan Leonidov / Gianugo Polesello, Pisa University Press, Pisa 2019, pp. 210-218; A. Dal Fabbro, L’architettura come ars combinatoria. I progetti universitari, in P. Granfdinetti, A. Dal Fabbro, R. Cantarelli (a cura di), Gianugo Polesello. Un maestro del Novecento, LetteraVentidue, Siracusa 2019, pp. 201-219.

5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Cfr. Id., Venezia città porto, in “Controspazio”, n. 6, 1973, pp. 74-75. 8. Id., Triennale A-B, Venezia Città-Porto, XV Triennale Milano, appunti e disegni, Venezia 14 marzo 1973, in G. Rakowitz, Gianugo Polesello. Dai Quaderni, Il Poligrafo, Padova 2015, p. 28. 9. Id., La progettazione della città come architettura e come piano, in P. Grandinetti, F. Pittaluga (a cura di), La progettazione analitica della città, Quaderno 1, Dipartimento di Teoria e Tecnica della Progettazione urbana, Iuav, Venezia 1979, p. 5. 10. Ivi, p. 6. 11. Ivi, p. 12. 12. Ibidem. 13. Una bibliografia che non intende 235

14. Cfr. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Einaudi, Torino 1985; cfr. anche A. Foscari, M. Tafuri, L’armonia e i conflitti: la chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del 500, Einaudi, Torino 1983. 15. Cfr. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, cit. 16. G. Polesello, Programma di disegno - ri-disegno per 4 PROGETTI per l’AREA/VENEZIA , 5 giugno 1991, Quaderno 44, Fondo Gianugo Polesello, Archivio progetti Iuav. 17. Id., Per il Seminario/conclusivo 20-21 giugno 1994 a Santa Marta (come parte del SEMINARIO sulle Periferie, sulla ARCHITETTURA delle/ nelle PERIFERIE della/nella CITTÀ/ AREA METROPOLITANA), Quaderno 78, Fondo Gianugo Polesello, Archivio progetti Iuav. 18. Id., I progetti per Venezia come “architettura in funzione”, in M. Zardini (a cura di), Gianugo Polesello. PARADOSSO VENEZIA

Architettura 1960-1992, Electa, Milano 1992, pp. 120-123. 19. Cfr. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, cit. 20. Cfr. A. Monestiroli, In compagnia di Palladio, LetteraVentidue, Siracusa 2013. 21. G. Rakowitz, Gianugo Polesello. Dai Quaderni, cit., p. 256. 22. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, cit., p. 193.

30. Cfr. G. Marras, Costruire la città: contributi per una teoria dei vuoti urbani. Studi e ricerche per un libro su Venezia, in G. Marras e M. Pogatcnik (a cura di), Giuseppe Samonà e la scuola di architettura a Venezia, Il Poligrafo, Padova 2006, pp. 113-137. 31. G. Polesello, L’architettura del teatro e i luoghi spazio della città (contemporanea), in C. Quintelli (a cura di), La città del teatro, Clup Cooperativa libraria universitaria del Politecnico di Milano, Milano 1989, p. 186. 32. Cfr. ivi, p. 183.

23. G. Polesello, I progetti per Venezia come “architettura in funzione”, cit., p. 122.

33. Ivi, p. 184. 34. Ivi, p. 186.

24. Ibidem. 25. Id., L’architettura in funzione, in P. Grandinetti (a cura di), La geometria in funzione nell’architettura e nella costruzione della città, Quaderni del Dipartimento di Architettura e Progettazione Urbana, Iuav, n. 10, Cluva, Venezia 1985, p. 10. 26. M. Cacciari, Sul metodo Polesello, in M. Zardini (a cura di), op. cit., p. 7. 27. G. Polesello, I progetti per Venezia come “architettura in funzione”, cit. 28. Id., Il paradosso di Novissime e Giuseppe Samonà nella scuola di architettura di Venezia, in “IUAV Giornale dell’Università”, n. 17, 2002-2003, p. 1. 29. Id., Continuando “PROGETTI VENEZIANI” (La “macchina urbana” VENEZIA), 2 maggio 2002, Quaderno 119, Fondo Gianugo Polesello, Archivio progetti Iuav. 236

35. Id., I progetti per Venezia come “architettura in funzione”, cit., p. 123. 36. Cfr. G. Rakowitz, Fondamenta Nove, cit. e anche A. Dal Fabbro, L’architettura come ars combinatoria. I progetti universitari, cit. 37. D. Barbaro, I dieci libri dell’architettura di M. Vitruuio tradutti et commentati da monsignor Barbaro eletto patriarca d’Aquileggia. Con due tauole, l’una di tutto quello si contiene per i capi dell’opera, l’altra per dechiaratione di tutte le cose d’importanza, Francesco Marcolini, Venezia 1556. 38. Cfr. J. S. Ackerman, Palladio, Penguin books, Harmondsworth 1966; tr. it. di G. Scattone, Einaudi, Torino 1972. 39. G. Polesello, L’architettura del teatro e i luoghi spazio della città (contemporanea), cit., p. 186. ALIOSCIA MOZZATO

40. Id., Lezione n. 13, 11 febbraio 1998, Quaderno 112, Fondo Gianugo Polesello, Archivio progetti Iuav. 41. G. C. Argan, Classico anticlassico. Il Rinascimento da Brunelleschi a Bruegel, Feltrinelli, Milano 1984. 42. Ivi, p. 119. 43. G. Polesello, Lezione n. 15, 24 febbraio 1998, Quaderno 112, Fondo Gianugo Polesello, Archivio progetti Iuav. 44. Id., L’architettura del teatro e i luoghi spazio della città (contemporanea), cit., p. 186. 45. Id., Per il completamento del Sacro Monte di San Carlo, in “Zodiac”, n. 9, 1993, p. 110. 46. Id., Concorso per l’ampliamento del Cimitero nell’Isola di San Michele, Venezia 1998, in “Zodiac”, n. 20, 1999, p. 161. 47. V. P. Moso, Puro, purezza (Pur, purté), in P. Grandinetti, A. Dal Fabbro, R. Cantarelli (a cura di), Gianugo Polesello. Un maestro del Novecento, pp. 33-41.

Ricordi e confessioni, in P. Posocco, G. Radicchio, G. Rakowitz (a cura di), Scritti su Aldo Rossi. “Care architetture”, Allemandi, Torino 2002, p. 17. 51. Id., Per il completamento del Sacro Monte di San Carlo, cit., p. 110. 52. Crf. I. Clemente, Twisted. La poetica di Aldo Rossi, in L. Amistadi, I. Clemente (a cura di), Aldo Rossi, Aión, Firenze 2017, pp. 19-43. 53. Cfr. M. Tafuri, La dignità dell’attimo, Grafiche veneziane, Venezia 1994. 54. G. Rakowitz, Gianugo Polesello. Dai Quaderni, cit., p. 258. 55. G. Polesello, Il paradosso di Novissime e Giuseppe Samonà nella scuola di architettura di Venezia, cit., p. 1. 56. Id., L’architettura del teatro e i luoghi spazio della città (contemporanea), cit., p. 186. 57. P. Brook, The Empty Space, MacGibbon and kee, London 1968; tr. it. La porta aperta, Einaudi, Torino 2005, p. 69.

48. Sul concetto di “immagine mimetica” si veda in particolare L. Palumbo, Mimesis. Rappresentazione, teatro e mondo nei dialoghi di Platone e nella Poetica di Aristotele, Loffredo Editore, Napoli 2008. 49. G. Polesello, [s.t.], in G. Testi (a cura di), Progetto realizzato, Marsilio, Venezia 1980, p. 121. 50. Id., Ab initio, indagatio initiorum. 237

PARADOSSO VENEZIA

I Dogi della Moda. Mostra per immaginare Venezia Dylan Colussi

Il desiderio di essere diversi. Di essere unici e straordinari. Non conta essere belli ma bisogna assolutamente essere un personaggio. Il corpo si trasfigura per essere indimenticabile. […] L’eccesso diventa un modo di comunicare e di sperimentare.1

Questo contributo si concentra sulla mostra “I Dogi della Moda. Travestimento o realtà”, ideata da Fiorella Mancini e presentata a Palazzo Grassi durante i festeggiamenti della sesta edizione del nuovo carnevale veneziano, dal 25 febbraio al 10 marzo 1984. Il progetto viene ricostruito attraverso il suo catalogo, gli articoli e le foto che lo hanno documentato prima e dopo la sua apertura, con l’intento di approfondire una mostra il cui originale allestimento ha saputo coniugare le diverse identità dell’isola, suggerendo nuove interpretazioni nel modo di esporre il lavoro dei designer di moda all’interno di un museo. Esaminare le scelte della curatrice permette anche di riflettere sulle modalità con cui la moda è stata messa in scena a Venezia, una città che, già dagli anni Cinquanta, si è contraddistinta nel panorama italiano proprio per le sue iniziative in questo campo, con l’esperienza del Centro Internazionale delle Arti e del Costume. Il testo si sofferma anche sulla figura di Fiorella Mancini che, proprio come stilista e performer, ha intesto la mostra come una manifestazione che potesse dare inizio a un nuovo modo di presentare la moda a Venezia. Il progetto di Mancini si pone quindi come una azione programmatica, che affronta questioni ancora oggi aperte e stimola riflessioni sul ruolo di Venezia nel rapporto tra moda e museo. “I Dogi della Moda” prende forma in un mese e mezzo con il supporto del Comune di Venezia, l’Assessorato alla Cultura e quello del Turismo2. L’idea per la mostra viene a Fiorella Mancini studiando un catalogo dedicato ai ritratti dei signori di Venezia. Incuriosita, soprattutto, dai dettagli eccentrici delle loro biografie3, la curatrice decide di metterli in “simbiosi con gli stilisti, i dogi della moda”4, che in quegli anni diventano popolari quanto celebrità, al punto che, come fa notare Silvia Giacomoni, la moda degli stilisti era diventata ormai “pane quotidiano anche per Pippo Baudo”5. 239

Pochi mesi prima, Silvia Giacomoni aveva pubblicato il libro L’Italia della moda dove, attraverso una serie di interviste ai protagonisti del momento, cercava di fare il punto sulle caratteristiche del recente fenomeno dell’italian look, che stava segnando il successo della moda italiana nel mondo. Proprio questo successo aveva evidenziato nel Paese l’urgenza di ragionare sulla sua definizione e di ricostruirne la storia, spingendo diversi studiosi a sperimentare anche con nuovi modi di fare mostra per cercare di delineare il progetto di un museo dedicato alla moda italiana, iniziando a precisare i temi della conservazione, archiviazione ma anche delle pratiche espositive, con la necessità di segnare una netta distinzione dalle modalità di esposizione commerciale degli oggetti di moda6. Molti degli autori intervistati da Giacomoni vengono coinvolti anche nel progetto di Fiorella Mancini. A Giorgio Armani, Gianfranco Ferré, krizia, i Missoni e Gianni Versace, oltre che a Valentino, Lancetti, Capucci e le sorelle Fendi con Karl Lagerfeld, la curatrice affianca i colleghi internazionali, riuscendo a coinvolgere progettisti francesi (Gaby Aghion di Chloé, André Courrèges, Jules-François Crahay di Lanvin, Jean Paul Gaultier, Hubert de Givenchy, Emanuel Ungaro, Sonia Rykiel e Paco Rabanne), inglesi (Katharine Hamnett, Artwork, Zandra Rhodes, Vivienne Westwood), americani (Calvin Klein), norvegesi (Per Spook) e giapponesi (Hanae Mori, Issey Miyake), costruendo un variegato panorama della moda di quegli anni. Mancini desiderava anche la partecipazione di un couturier russo, andando perfino alla sua ambasciata a Roma per persuadere il rilascio del visto per quest’ultimo, tuttavia senza successo. I venticinque nomi radunati, che mescolano affermati maestri dell’alta moda a stilisti e innovatori d’avanguardia, disegnano uno spaccato dei modi diversi di fare e intendere la moda negli anni Ottanta. La volontà della curatrice era quella di dare inizio a una serie di occasioni in cui il lavoro degli stilisti potesse venire rappresentato al di fuori delle logiche commerciali e pubblicitarie che animavano l’industria della moda. Alla richiesta di esprimere la “vera realtà, quella sognata, non la ripetizione di variazioni su temi già svolti”7, i designer coinvolti rispondono prestando modelli realizzati specialmente per la mostra, che approfondiscono elementi presentati nelle recenti collezioni, oppure sviluppano suggestioni legate alla città lagunare, alla 240

DYLAN COLUSSI

sua storia e al suo costume. “Tutti hanno dovuto inventare, travestirsi”8, nelle parole di Fiorella Mancini, per dare forma a una libertà, ma anche a una riflessione, che trasforma la mostra in una esperienza che permette agli stilisti di parlare attraverso i capi del proprio immaginario e del proprio modo di progettare la moda. L’organizzatrice incita i creatori a “operare sulla materia, di qualsiasi tipo, per dare forma concreta, ciascuno, al proprio ideale di abito”9, auspicando che il coinvolgimento dei nomi riuniti per la mostra possa essere l’inizio di una serie di mostre ed eventi attraverso i quali agli stilisti sia permesso di lavorare liberamente e produrre oggetti che siano espressione “dell’ispirazione e dell’idea che essi hanno della propria arte”10. Non a caso, nel testo introduttivo a “I Dogi della Moda”, la curatrice descrive il progetto come una manifestazione “provocatoria e creativa, che non suggerisce comportamenti da ricalcare ma spinge a ‘fare invenzione’”11. Le riflessioni della stilista sono influenzate anche della sua esperienza come creatrice di moda sull’isola. Un personaggio complesso ed eccezionale, la cui frenetica attività si divideva tra la performance e la moda, Fiorella Mancini era stata definita una “stilista d’assalto”12 per come aveva saputo utilizzare il linguaggio dell’eccesso al fine di dare voce alle problematiche di una Venezia in transizione. Mancini comincia la sua attività nel 1968, aprendo una boutique in calle degli Assassini, nei pressi del Teatro La Fenice, dove fa installare l’intero fronte di un bus, per dimostrare il suo supporto alla terraferma e a Porto Marghera13. Nella boutique vende pizzi e merletti che recupera dai suoi viaggi a Londra e che, su suggerimento di un’amica, tinge e assembla per creare delle camicie che vende a Fiorucci14. Grazie a questa collaborazione i suoi capi vengono portati in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, dando inizio così al suo successo internazionale. Alle camicie fanno seguito corpetti in lattice, abiti, t-shirt e intimo stampati o ricamati con slogan erotici, tra cui ricorrono frequentemente riferimenti alla storia di Venezia e ai suoi personaggi. Recupera anche tecniche e materiali legati alle produzioni locali, come per le sue giacche e vestaglie di velluto stampato con svastiche, falce e martello o orde di ratti, una delle quali viene indossata da Elton John nella copertina per “L’Uomo Vogue” di marzo 2007, scattata da Steven klein. Tutte le sue performance nascevano dalla necessità di denunciare e portare all’attenzione problemi che investivano la città. Per esempio, 241

I DOGI DELLA MODA

per invitare l’amministrazione di allora a preoccuparsi della derattizzazione dell’isola15, durante il carnevale del 1981 cavalca una grossa pantegana di plastica per le acque del Canal Grande, accompagnata da ragazze travestite con mantelli neri e maschere realizzate con piccioni imbalsamati. Oppure l’anno successivo, assieme a delle guerriere in armatura e tuta mimetica, dirige la “Task force per la liberazione della Biennale” a bordo di una ammiraglia che lancia cannonate sonore16. Nel 1983, progetta per campo Santo Stefano un gigantesco leone telematico17 che trasmette dal suo librone evangelico immagini del carnevale assieme a domande irriverenti sullo stato della politica italiana e veneziana, con le quali Mancini ha un rapporto diretto – nel suo grande capannone laboratorio rosa di Mestre organizza anche la festa di compleanno per il ministro Gianni de Michelis18. Non tutte le sue manifestazioni però vengono accolte con ironia. Infatti, la festa prevista nell’ospedale abbandonato di Sacca Sessola per il settembre 1984, che voleva portare all’attenzione lo spopolamento di Venezia e delle isole lagunari al motto di “Do you want to repopulate Venice?”, viene vietata dal Comune in nome della morale pubblica19. Anche “I Dogi della Moda” rispondeva al desiderio di contestare le tradizioni commerciali nella presentazione della moda nell’isola20. Ottiene quindi che venga organizzata in una istituzione museale veneziana, Palazzo Grassi – che nel dicembre 1983 era stato acquistato dal gruppo FIAT, sollevando le preoccupazioni dei veneziani21 – di cui il Comune le concede l’atrio e il mezzanino. Sebbene negli ultimi anni il Palazzo avesse ospitato mostre dedicate all’arte che avevano ottenuto un grande successo in termini di visitatori22, per un lungo periodo in realtà, dal 1951 al 1978, il museo si era già distinto nel panorama italiano come un palcoscenico sperimentale per la presentazione della moda, attraverso il progetto del CIAC – il Centro Internazionale delle Arti e del Costume, di cui era stato sede. Il Centro era stato fondato da Franco Marinotti, direttore della società Snia Viscosa, che nel 1951 aveva acquistato il palazzo sul Canal Grande con l’obiettivo di trasformarlo in un luogo dedicato alla promozione culturale del tessile e della moda italiana. Oltre alle sfilate che invitavano sarti e couturières italiani e stranieri a presentare il loro lavoro, le mostre, i convegni e le pubblicazioni promosse dal Centro dimostravano “la precisa volontà di rivendicare la totale appartenenza della moda al più ampio sistema delle arti”23. Già nei primi anni di 242

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attività del Centro vengono organizzate una serie di mostre dedicate al costume italiano, alla scenografia teatrale e alle innovazioni nel campo del tessuto. Ma è soprattutto sotto la guida di Paolo Marinotti, figlio di Franco, che il Centro si cimenta nella realizzazione di una serie di eventi e presentazioni che adottano formati originali. Nel 1957, per celebrare il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Carlo Goldoni, i modelli di sartorie romane e milanesi vengono coinvolti in una recita diretta da Anton Giulio Bragaglia, creando tra lo spettacolo teatrale e la sfilata di moda “delle analogie non del tutto casuali e parentele quasi insospettate”24. Tre anni dopo viene presentato lo spettacolo Immagini di un secolo, dove la pantomima di Virginio Puecher presentava le innovazioni nella moda e nei filati, accompagnata da una sfilata di modelli di case di moda italiane e straniere. Mentre nel cortile del Palazzo, nel settembre dell’anno successivo, si svolge la manifestazione Moda Circus, che mescola esibizioni circensi a sfilate di modelli di alta moda. Collabora con il Centro anche il regista Filippo Crivelli, che negli anni Sessanta compone e dirige spettacoli articolati “come mosaici di moda e costume”25, a partire dalla manifestazione-spettacolo Sempre Colore o lo spettacolo in due tempi Itinerario Veneziano e Venezia e cultura, che incrocia brani musicali, poesie, filastrocche e canti di origine colta e popolare26. Mancini introduce il lavoro degli stilisti contemporanei nel museo tramite l’artificio del travestimento. Come invita a domandarsi anche il titolo della mostra, i pezzi esposti non sono degli oggetti che la curatrice individua tra le collezioni dei designers riuniti nella mostra. Nel suo ruolo di curatrice si concentra piuttosto nel coinvolgere i designer e porre le condizioni per dare loro la libertà di creare qualcosa che sia sintesi o manifesto della loro idea di moda, facendo dei contributi piuttosto dei costumi – dei travestimenti – che vengono realizzati appositamente per la mostra. Alcuni degli abiti realizzati dai partecipanti approfondiscono tecniche o elementi delle collezioni più recenti, come per il modello di Armani, che cita la sua collezione autunno/ inverno 1982, accompagnato da una spada da Samurai27, la tuta in lurex plissettato color acciaio inviata da krizia o il modello di Valentino, che prevedeva che il manichino reggesse in mano uno specchio. katharine Hamnett fa riferimento alla Biennale dell’anno precedente realizzando l’abito Pollution, con uno strascico di pini in miniatura e bambole rotte28. 243

I DOGI DELLA MODA

Altri costumi interpretano Venezia e la sua storia. Fendi crea un ampio mantello dogato in visone, Versace un abito da sposa nero bordato di rosso e ricoperto da un lunghissimo velo. Chloé, un abito settecentesco in pizzo rivisto nei volumi degli anni Ottanta, con un buco sul sedere. Roberto Capucci progetta un elaborato costume in taffetà bianco, rosso e nero, con cappello dogale che termina in una maschera. Una maschera dorata viene realizzata anche da Artwork per il personaggio di Marca Polo, una versione femminile dell’esploratore veneziano che torna dalla Cina con un completo realizzato nei materiali recuperati nel lontano paese. Il rapporto con la città viene esplorato anche nelle foto di Franco Fontana, che documenta i capi per il catalogo. Il fotografo, che per la prima volta viene coinvolto a lavorare con la moda, si impegna per il progetto nella “ricerca di affinità o contrapposizioni tra corpi, abiti e realtà veneziana”29. Le foto recuperano molti dei luoghi che già facevano da sfondo agli editoriali ambientati a Venezia pubblicati nelle riviste di moda. Il completo di Armani viene fotografato in gondola, diversi invece posano in piazza San Marco e il caffè Florian diventa l’ambientazione per i pezzi di Jean Paul Gaultier. Ma il catalogo individua anche dei luoghi meno conosciuti. L’abito di Versace viene fotografato sui gradini della Basilica di Santa Maria della Salute. I bassorilievi del cortile di Palazzo Ducale fanno da sfondo per il look di Hanae Mori, mentre un bambino nel costume di Lanvin cammina sul cancello del campanile di San Marco. Tra le calli anonime e gradini coperti di coriandoli, compaiono anche pareti ricoperte di scritte tra cui figurano la croce neofascista accanto alla A cerchiata degli anarchici, di fronte a cui posa una modella nell’abito di Calvin klein. Sono però gli inusuali manichini che la curatrice commissiona all’artista australiano Rod Dudley a fare da protagonisti al progetto dell’intera mostra. Nel suo atelier sull’isola di Besozzo, l’artista scolpisce in legno di cedro e betulla il volto severo e barbuto di venticinque dogi veneziani. Ognuno di loro indossa il corno dorato sopra la cuffia candida, lasciando scoperto il seno e gli slip di colori accesi, gli stessi dei tacchi a spillo che portano ai piedi. Tutti i dogi vengono rappresentati fedelmente secondo la loro iconografia, in una posa che ricorda quella delle modelle fotografate da Helmut Newton per il dittico pubblicato nel numero del novembre 1981 dell’edizione francese di “Vogue”, dove un gruppo di donne calca con sicurezza lo studio del fotografo, 244

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indossando solo i loro tacchi. Le sculture impongono la creatività e la visione di Fiorella Mancini sui capi prestati e risultano una divertente alternativa al ricorrente problema dei manichini nelle mostre di moda. Per le loro fattezze, i manichini di Fiorella Mancini sono anche particolarmente efficaci nel contribuire all’atmosfera giocosa dell’allestimento – i costumi vengono stravolti, piuttosto che vestiti, dai dogi. Mentre gli stilisti stranieri non esprimono alcuna preoccupazione, alcuni italiani inviano i loro collaboratori per assicurarsi che il proprio modello sia esposto adeguatamente30. In conclusione, come si può vedere nelle foto pubblicate nel numero dell’aprile 1984 di “Harper’s Bazaar”, nonostante l’intenzione iniziale, alcuni pezzi come l’abito di Capucci e quello di Fendi sono esposti sui manichini più tradizionali di colore nero, probabilmente anche per accogliere la complessità dei modelli. Tutti i manichini vengono posizionati in cerchi concentrici nell’atrio del Palazzo, soluzione adottata dalla curatrice per non suggerire un ordine o una gerarchia tra i capi e i designer coinvolti. Anche l’atrio viene travestito, calando dei grandi drappi bianchi che ne nascondono le colonne. Le luci vengono orientate per proiettare sezioni che si sovrappongono, creando un atmosfera da palcoscenico. Per tutta la durata dell’evento, tra le opere ronzavano delle ragazze che indossavano delle sculture naturalistiche a forma di vespa, indicando i modelli e guidando i visitatori attraverso la mostra in una performance immaginata dalla curatrice. I modelli delle sculture, realizzati da Renzo Zanetti, illustratore che lavorava per il Museo di Storia Naturale di Venezia, e dal progettista Marco Zanon, citavano, secondo Mancini, l’insetto che nel film per la televisione The day after, diretto da Nicholas Meyer nel 1983, annunciava la mutazione causata dal conflitto atomico, “il nuovo corso”31. Quello che doveva essere però uno “stimolo, esempio e suggerimento per altre idee e altre operazioni future”32 rimase senza immediate risposte. Alla mostra non fanno più seguito altri eventi di simile natura, restando in quegli anni una operazione isolata per le modalità con cui ha coinvolto il lavoro di altri stilisti e per come lo ha esposto a Venezia. I manichini e le api scolpiti per la mostra vengono riutilizzati però in diverse altre manifestazioni, prima di diventare parte dell’allestimento di Fiorella Gallery, aperta in campo Santo Stefano, fino alla sua chiusura nel 2021, in seguito alla scomparsa della stilista. La mostra “I Dogi della Moda” è ancora però un utile strumento di 245

I DOGI DELLA MODA

rilettura delle modalità con cui la moda è stata messa in scena a Venezia, capace di evidenziare il privilegiato rapporto di interpretazione reciproca che la moda intrattiene con l’isola33, oltre a essere espressione del modo in cui, ancora oggi, il lavoro dei designer cerca il proprio posto nei musei acquisendo forme inaspettate e ingegnose. Tuttavia, anche la figura della sua curatrice rimane un caso poco analizzato nella storia della moda italiana e nello studio del contributo portato da Venezia. Questo testo è inteso come una prima azione di recupero di un progetto che merita di uno studio più esteso. Il lavoro di Fiorella Mancini ha dimostrato, ciononostante, di essere al centro dell’interesse di nuove generazioni di autori che lavorano con la moda. Il magazine americano “Out of Order” raccoglie, nel numero 9 dell’estate 2017, un portfolio di quaranta pagine realizzato dalla fotografa Harley weir in una nuova Venezia, documentando l’archivio di abiti e oggetti di Fiorella Mancini34, tra cui due delle sculture realizzate per la mostra. Nel 2021, nel secondo numero della rivista “Sali e Tabacchi Journal” dal titolo Follia creatrice, Alessandro Merlo cattura gli oggetti e gli spazi di lavoro di Fiorella Mancini, tra cui anche il suo grande laboratorio, raccontati in un testo di Elisa Carassai. In una delle copertine realizzate per il numero, una studentessa del corso di laurea in design della moda dell’Università Iuav di Venezia, porta sulle spalle una delle sculture a forma di vespa realizzate per la mostra. L’occasione, posta da questi progetti, di esplorare nuovi spazi dell’isola e i suoi nuovi abitanti, sembra rispondere all’auspicio di Fiorella Mancini, mettendo in atto nuove idee, nuovi travestimenti, per rivisitare Venezia e le sue storie non con nostalgia, ma utilizzandole per creare nuovi immaginari.

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Catalogo della mostra “I Dogi della Moda”, copertina, 1984

Note

12. Maria Giulia Minetti, Un po’ per Eros, un po’ per qualche voto, in “L’Europeo”, 15 Settembre 1984, pp. 18-19.

1. M. L. Frisa, S. Tonchi, Excess. Moda e underground negli anni ’80, Edizioni Charta, Milano 2004, p. 145. Pubblicato in occasione della mostra di Firenze, Stazione Leopolda, 8 gennaio - 8 febbraio 2004.

13. C. Caporuscio, Humans of Venice n. 21, in “Linea 20”, 6 ottobre 2016, https://linea20.blog/2016/10/06/humans-of-venice-21/, (ultima consultazione 13/02/2022). 14. Ibidem.

2. L. Meccheri, A Venezia si comincia con un gran ballo mentre Versace e Armani rivestono i dogi, in “Il corriere della sera”, 26 febbraio 1984, p. 7. 3. S. Giacomoni, Il Doge sposa la moda: una sfida in laguna per i grandi stilisti, in “La Repubblica”, 5 febbraio 1984, p. 14. 4. Ibidem.

15. M. Pivato “Copiata” la pantegana di Fiorella”, in “La Nuova Venezia”, 7 febbraio 2011. Visitato online il 13 febbraio 2022, https://nuovavenezia. gelocal.it/venezia/cronaca/2011/02/22/ news/copiata-la-pantegana-di-fiorella-1.1397473. 16. G. Cherubini I dogi di Fiorella Mancini, in “Harper’s Bazaar”, edizione italiana, 4 aprile 1984, p. 117.

5. Ibidem. 6. G. Monti, Moda, curatela, museo: un dibattito lungo un decennio, un decennio lungo quarant’anni, in “ZoneModa Journal”, vol. 9, n. 1, 2019, p. 62. 7. F. Mancini, I Dogi della Moda. Travestimento o realtà, Comitato VeneziaModa, Mirano 1984, p. 7. Pubblicato in occasione della mostra di Venezia, Palazzo Grassi, 25 febbraio-14 marzo 1984.

17. M. Milani, Il leone di S. Marco si mette in maschera, in “La Stampa”, 31 Gennaio 1963, p. 11. 18. S. Giacomoni, op. cit., p. 14. 19. C. Pasqualicchio, Niente più festa a Sacca Sessola. Deciso in nome della “pubblica morale”, in “Il Corriere della Sera”, 29 agosto 1984, p. 7. 20. F. Mancini, op. cit., p. 7.

9. Ibidem.

21. G. Fantin, La FIAT a Palazzo Grassi: Venezia s’interroga sui suoi nuovi inquilini, in “Il Corriere della Sera”, 3 febbraio 1984, p. 9.

10. Ibidem.

22. Ibidem.

11. Ibidem.

23. E. Danese, Le sfilate di alta moda

8. Ibidem.

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DYLAN COLUSSI

al Centro Internazionale delle arti e del costume, in M. L. Frisa, A. Mattirolo, S. Tonchi (a cura di), Bellissima, L’Italia dell’altra moda moda 19451968, MAXXI-Electa, Roma-Milano, 2014. Pubblicato in occasione della mostra di Roma, MAXXI, 2 dicembre 2014-3 maggio 2015. 24. Misia, Maschere goldoniane hanno fatto gli onori di casa alla moda del 1958, in “Linea”, n. 75, 1957, p. 55. Cfr. E. Danese, op. cit. 25. E. Danese, op. cit. 26. Ibidem. 27. S. Giacomoni, op. cit., p. 14. 28. G. Cherubini op. cit., p. 117. 29. F. Mancini, op. cit., p. 7. 30. S. Giacomoni, op. cit., p. 14. 31. G. Cherubini op. cit., p. 117. 32. F. Mancini, op. cit., p. 7. 33. G. Monti, Glamour e stregoneria. Venezia vista dalla moda, in A. Vaccari (a cura di), Moda, città e immaginari, Università Iuav di Venezia, Mimesis, Milano-Udine 2016, p. 234. 34. H. weir, Evil genius of a queen, in “Out of Order”, n. 9, 2017, pp. 94-144.

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I DOGI DELLA MODA

Architettura scolpita di Carlo Aymonino Gian Maria Casadei

C’è anche la conferma di un mio ideale recondito ma sempre presente nei miei progetti ‘maturi’: quello di una soluzione architettonica già preesistente entro un involucro generale, che prende forma e si dà ragione, togliendo, scavando in quell’iniziale e teorico volume semplice, fino a rendere evidenti e praticabili i complessi rapporti tra i percorsi, gli elementi componenti, l’interno e l’esterno. In fondo l’idea di un’architettura scolpita, senza dettagli o materiali differenti che ha ragion d’essere in sé, per il compito che si assume: come gli acquedotti, i resti in cotto dei Mercati traianei, il colonnato di Piazza San Pietro. Che raggiunge il massimo nelle architetture scolpite di Petra, bellissime nella loro soluzione formale ma soprattutto nella loro sapienza tecnica: le misure generali già valutate e predisposte, la scelta del punto più giusto nella roccia da cui iniziare a scavare dall’alto in basso, l’impossibilità di assorbire o correggere errori. La perfezione; che testimonia della differenza qualitativa di una soluzione artificiale, pur limitata, rispetto all’infinito, variabile ma non troppo, della natura.1

Il brano riportato è parte di un saggio che Carlo Aymonino scrisse nel 1989 contenuto in una raccolta in cui si dava voce a una generazione di architetti tra i più rappresentativi del dopoguerra. Aymonino descrive il suo personalissimo rapporto con l’arte e l’approccio alla genesi del progetto: l’architettura che si “nutre” dell’arte, di un approccio scultoreo, non fine a se stesso, ma determinato e determinante l’architettura. Un volume semplice, che prende forma dalle linee generatrici del contesto, che a seguito di un procedimento compositivo urbano-architettonico-scultoreo, arriva fino alla definizione del rapporto tra interno ed esterno – rendendo evidenti dopo tale processo formale, e non viceversa – anche i percorsi interni. È significativo che Aymonino, in questo personale rapporto con la scultura, includa sempre la città. Anche se risultato di un lungo sviluppo formale – che avviene per sottrazione di materia – le sue architetture, non sono mai distaccate dalla realtà urbana: la scultura, in tal senso, assume sempre il ruolo di dispositivo urbano: quando parte del 251

Carlo Aymonino, Colosso, 2001

Carlo Aymonino, Progetto per il Colosso, 1982-1984

procedimento compositivo in quanto scultura-architettura o se distaccata dall’edificio. Gli elementi scultorei acquistano valore in tal senso, collocati in modo da individuare triangolazioni visive – quali inquadrature sceniche indirizzano nei movimenti attraverso gli spazi aperti e le architetture – come nei monumenti della Roma classica tra di loro: “sempre rapportati a quelli precedenti, nella continuità dei percorsi e nella varietà ‘omogenea’ delle vedute”2. Un progetto di Aymonino, più di altri, è paradigmatico nel descrivere i processi genetici della sua architettura racchiudendone i caratteri specifici: il Colosso. Se pensi ai disegni del Colosso-belvedere che Aymonino progetta per risarcire quello neroniano, è una specie di folgore, che tiene insieme dall’architettura romana, al San Carlo Borromeo, alla Statua della Libertà. Mette insieme venti secoli. È stata un’occasione perduta, perché sarebbe stata un’addizione critica fantastica, in quella zona di margine del Colosseo che continua a restare indefinita.3

Come egli stesso ricordava commentando un disegno progettuale in cui annotava: “Dal primo canyon alla scultura/architettura”4: Questa è una delle prime immagini che mi sono venute in mente, e cioè un blocco, anche abbastanza banale, se volete, ma un blocco in qualche modo scavato, dove si vedesse una ipotesi, e soprattutto una struttura di altezze. La statua di Nerone era alta 33 metri. Sulla destra invece un abbozzo di una figura, che poi rimarrà, e si svilupperà.5

Il progetto del Colosso nasce durante gli anni in cui Aymonino è Assessore per gli Interventi sul Centro Storico di Roma: L’idea di un progetto sul luogo del Colosso è nata in uno dei molti incontri non ufficiali con il sovrintendente archeologico Adriano La Regina. Trovatici più volte d’accordo sulla possibilità e, in taluni casi, sulla necessità di nuovi interventi nei Fori (per completarne una più corretta lettura, per dotarli di amenità – una volta divenuti parte di città – e per suggerire alcuni rapporti originari 254

GIAN MARIA CASADEI

Carlo Aymonino, Colosso, scultura, Parma, 2004

tra gli edifici), fu lui a pormi il problema di pensare a qualcosa di costruito (una statua? un monolite? una torre?) sull’area recuperata delle fondamenta del Colosso, un quadrato di 15 x 15 m.6

È da considerarsi allora, insieme agli altri progetti degli anni di assessorato, a tutti gli effetti, momento di confronto diretto, in cui mettere a tema le indagini teoriche sulla struttura urbana delle città, non solo come architetto, ma anche come uomo politico. Un progetto di torre belvedere con addossata una statua di dimensioni colossali ridefiniscono il luogo urbano Colosseo-Arco di Costantino-Tempio di Venere, come anticamente il Colosso neroniano lo completava. Il Colosso di Aymonino, come quello antico, vuole inoltre raccordare visivamente il luogo, che sotto il profilo architettonico, per la presenza dell’Anfiteatro Flavio, può definirsi immagine e simbolo della città di Roma. […] È un progetto dove Aymonino riscopre la sua prima vocazione artistica: qui però non è pittorica, ma scultorea.7

Come spesso avviene Aymonino si confronta con progetti che propongono il tema del completamento della città storica, progettando con disinvoltura, derivante dall’interesse verso la storia dell’architettura, specialmente l’archeologia, come testimoniano i numerosi quaderni di disegni dedicati all’interpretazione delle città e dei monumenti antichi8. La proposta era stimolante. Soprattutto perché Adriano La Regina la completò con una osservazione squisitamente architettonica: la nuova “costruzione”, infatti, era necessaria come elemento di raccordo, di completamento volumetrico, tra il Colosseo e il Tempio di Venere e Roma – proprio il ruolo che anticamente svolgeva il Colosso.9

Un problema, quello del rapporto tra l’architettura e il contesto, sul quale Carlo Aymonino rifletterà spesso, sia in ambito progettuale che teorico. Il contesto va letto come luogo mentale nella poetica di Aymonino. Non è solo quello della città con la quale si sta confrontando, ma anche quello che abbraccia l’intera storia dell’architettura, il suo 256

GIAN MARIA CASADEI

retaggio artistico, la sua biografia. Come ricordato dallo stesso Aymonino anche uno dei suoi più significativi scritti è pervaso dal tema del rapporto tra l’architettura e il contesto10. Una città sarà tanto più caratterizzata (o avrà significato) quanto più gli elementi spaziali e quelli interpretativi tenderanno a sovrapporsi, fino a divenire indispensabili gli uni agli altri […]. In questo il centro antico va progettato nella sua forma generale, giudicata secondo l’idea che si ha e che si vuole dare alla città contemporanea. Sotto tale profilo il problema dell’inserimento non esiste, al pari di quello generico dell’ambiente. Esiste il problema di complessi architettonici e di settori urbani formalmente compiuti o no.11

Anche il bacino marciano di Venezia, il luogo più significativo della città, viene inteso in tal senso nella poetica di Carlo Aymonino. Una “piazza d’acqua”, i cui fulcri sono piazza San Marco, la Chiesa di San Giorgio Maggiore e la Chiesa della Salute. Si tratta di un ambito continuamente interrogato dal progetto di architettura fin dall’origine della città. Sovente oggetto dell’interesse degli architetti nel progetto di architetture effimere. Il Bacino di San Marco non è certamente una piazza, nel senso canonico del termine, ma un ampio spazio d’acqua sul quale prospettano splendide architetture che proprio a quello spazio attingono per una loro maggiore riconoscibilità. Uno spazio commerciale e celebrativo insieme, di “servizio” alla città: il suo ingresso dal mare, la prima immagine per lo straniero, come si può verificare dalle vedute del Canaletto. Uno spazio che nell’affollarsi di barche, gondole, chiatte e navigli, non è molto dissimile, nelle profondità fisiche e nelle varietà d’uso, da quello di Piazza San Pietro a Roma – come risulta dalla veduta di Gian Paolo Pannini della visita di Carlo III alla Basilica, con l’affollarsi di cavalli, carrozze, portantine e figure. In questo senso, è la piazza più importante della città.12

Non solo una piazza perimetrata dalle facciate porticate di edifici storici, come nella memoria collettiva è l’immagine delle piazze d’Italia, 257

ARCHITETTURA SCOLPITA

Carlo Aymonino, Il Ponte-Il Museo-Il Bacino Marciano, 1985

Carlo Aymonino, Il Bacino di San Marco ..., 1985

ma un luogo metafisico di straordinaria importanza per la città lagunare. Nonostante la ricchezza e complessità degli spazi urbani terrestri sia caratteristica indelebile nella mente di chi ha almeno per una volta attraversato le calli veneziane. La ricca articolazione della morfologia urbana non cancella però la centralità di un luogo che, stando alla storia delle mancate realizzazioni o delle soste temporanee dell’architettura, è decretabile come la ‘vera piazza’ della città. Questo centro è il Bacino di San Marco, spazio continuamente attraversato, la cui estensione dipende dalle maree, agognato da molti architetti, pochi dei quali lo hanno conquistato ma sempre e solo per un attimo.13

Vale per il progetto di Alvise Cornaro del 1560 che si colloca in continuità con la tradizione dei teatri del mondo veneziani. Prevedeva la costruzione di un teatro antico, insieme a una fontana e a una collina artificiale per il completamento del bacino marciano. Di fronte alla Chiesa della Salute vengono predisposti, nel 1833, i bagni galleggianti Rima, nello stesso specchio d’acqua nel quale viene trasportata una straordinaria architettura effimera natante realizza da Aldo Rossi nel 1979: il Teatro del Mondo14. Il teatro, inaugurato ufficialmente a Venezia l’11 novembre 1979 e collocato davanti alla punta della Dogana, è stato realizzato per la Biennale Teatro/Architettura. L’idea della Biennale era quella di replicare i teatri sull’acqua che erano numerosi durante il carnevale veneziano del Settecento; il progetto ha modificato le caratteristiche di questi teatri mantenendo il concetto di un edificio-nave. […] Il sistema delle finestre rende la città sempre presente e lo spazio scenico si allarga all’architettura di Venezia.15

Lo stesso Rossi nel 1985 dirigerà la 3. Mostra Internazionale di Architettura, dedicata al “Progetto Venezia”. In quell’occasione sarà invitato anche Carlo Aymonino che con il suo progetto aveva previsto la collocazione di una colossale statua di ispirazione canoviana, la Venere Hope, che doveva emergere come un reperto antico dal bacino marciano. Carlo Aymonino, mentre pensava al completamento di quella parte di città, doveva aver bene in mente il progetto di Alvise Cornaro. 260

GIAN MARIA CASADEI

Questo infatti aveva probabilmente costituito la sua principale fonte di ispirazione. Entrambi i progetti si ponevano l’obbiettivo di restaurare la città attraverso le tecniche del progetto di architettura: da quelle idrauliche alle moderne teorie del restauro urbano, sempre nell’ottica della valorizzazione dello spazio della città come spazio pubblico. Il progetto aspirava a trasformare la città fino al raggiungimento di una compiutezza formale latente. Sensazione confermata dalla pubblicazione da parte di Manfredo Tafuri del progetto (datato 1560 circa) di Alvise Cornaro per il “completamento” del Bacino marciano con un “vago monticello”, sormontato da loggia e un Teatro all’aperto “di pietra grande e commodo”, proprio all’incrocio tra i due Canali, Grande e della Giudecca. Dove la riserva può essere proprio nell’intromissione di alberazioni in uno spazio già caratterizzato, come natura, dall’ampia distesa d’acqua. “Il Bacino marciano viene interpretato come un vasto spazio pubblico” nota Tafuri.16

Un rapporto tra architettura e scultura sempre presente nell’opera dell’architetto romano che trova nella città di Venezia uno dei momenti più espressivi di questo caratteristico aspetto della sua poetica: Infine, come nel caso del Colosso, trovo la soluzione in Canova: la scelta è per la Venere Hope, alta 12 metri, costruita in grandi blocchi di pietra, rivolta all’incrocio. Verso est, ai Giardini, per “segnare” quel luogo ci vuole un’altra dimensione, una vera e propria costruzione nell’acqua: cosa di meglio che fermare nella pietra la navigazione del Teatro del Mondo, rendere stabile il ricordo affascinante di quel passaggio effimero? Così il teatro è l’ingresso alla Biennale, il luogo dell’informazione e del possibile spettacolo, il completamento delle triangolazioni “minori” del Bacino. Due simboli molto semplici e molto comprensibili, come le lanterne, la punta della Dogana, la Coffee House. Il Bacino, così, diviene una parte di città formalmente compiuta.17

Il progetto per il bacino marciano di Carlo Aymonino non è solamente concepito come completamento di una parte di città: per questo pensa a un insieme di progetti – tra il passato remoto e il passato prossimo – 261

ARCHITETTURA SCOLPITA

e all’invenzione di nuove architetture che trasfigurano la città e rinsaldano il valore del limite tra architettura e acqua della città di Venezia: Anche Venezia è una città liminare tra acqua e mare; anzi è la città

per eccellenza che vive questo rapporto. Rapporto antico e sempre precario dove la costruzione dell’uomo e la trasformazione della natura costituiscono l’aspetto preminente dell’architettura. Anche nella Venezia di bianca pietra fermata dai monumenti palladiani vi è questa memoria di una costruzione portuale, lignea, mercantile; dove la pietra è il materiale che conferma la prima appropriazione del luogo.18

I progetti per la restituzione del Colosso a Roma e per il completamento del bacino di San Marco a Venezia, insieme al progetto per la ricostruzione del Teatro Paganini a Parma, restano occasioni mancate per aggiungere criticamente alla città storica quella compiutezza formale di cui Aymonino parla nei numerosi scritti. Una forma compiuta che si raggiunge per via della soluzione architettonica, valida in un unico luogo perché non trasmissibile. Venezia è forse la città con più vincoli al mondo e resta immutabile nonostante i numerosi progetti che hanno rappresentato un avanzamento culturale del dibattito architettonico negli anni, anche solo restando architetture di carta19.

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GIAN MARIA CASADEI

Note

11. G. Priori, op. cit., pp. 64-67. 12. C. Aymonino, Piazze d’Italia: progettare gli spazi aperti, cit., p. 119.

1. C. Aymonino, Soluzioni non più modelli, in G. Ciucci (a cura di), L’architettura italiana oggi: racconto di una generazione, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 14.

13. S. Marini, Effimero veneziano. Lo stesso spazio, una notte, molte cornici (Pink Floyd, Venezia 15 luglio 1989), in “Engramma”, n. 167, 2019, p. 38. 14. Ivi, pp. 39-41.

2. Id., Il significato delle città, Marsilio, Venezia 2000, p. 232. 3. G. Casadei, Intervista a Claudia Conforti, Roma 21 febbraio 2019. 4. C. Aymonino, Piazze d’Italia: progettare gli spazi aperti, Electa, Milano 1988, p. 79. 5. C. Aymonino, Conferenza svolta in occasione della mostra “Carlo Aymonino: La bella architettura”, opere scelte dalla collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva, A.A.M. Architettura Arte Moderna, Università di Cagliari Facoltà di Ingegneria / Facoltà di Architettura, Aula Magna, Dipartimento di Architettura, 13 maggio 2005.

15. G. Braghieri (a cura di), Aldo Rossi, Zanichelli, Bologna 1981, p. 178. 16. C. Aymonino, Piazze d’Italia: progettare gli spazi aperti, cit., p. 119. 17. Ibidem. 18. A. Ferlenga (a cura di), Aldo Rossi: opera completa 1959-1987, Milano, Electa 1996, p. 153. 19. A. Ferrighi (a cura di), Venezia di carta, LetteraVentidue, Siracusa 2018.

6. C. Aymonino, Piazze d’Italia: progettare gli spazi aperti, cit., p. 79. 7. G. Priori (a cura di), Carlo Aymonino, Zanichelli, Bologna 1990, pp. 126,128. 8. E. Pitzalis (a cura di), Carlo Aymonino: disegni 1972-1997, Motta, Milano 2000. 9. C. Aymonino, Piazze d’Italia: progettare gli spazi aperti, cit., p. 79. 10. Id., Il significato delle città, cit. 263

ARCHITETTURA SCOLPITA

La città ribaltata. Conversazione per affetti e potere

Danila Gambettola, Caterina Serra

Il dialogo che segue ripercorre il progetto editoriale Quello che vede l’acqua, a cura di Stefano Tomassini (comprendeva una produzione video, una creazione sonora e un catalogo digitale), realizzato a Venezia con i contributi di Caterina Serra, Annamaria Ajmone, Ginevra Ghiaroni, Alessandro Conti e Danila Gambettola per la programmazione on line del LAC di Lugano, nel 2021, dal titolo Lingua Madre. Capsule per il futuro (ideato da Carmelo Rifici e Paola Tripoli, Premio speciale Ubu 2021 per la produzione digitale). Una voce a due che interroga, al presente, il processo creativo e le pratiche che hanno generato il lavoro. Una prospettiva marginale che guarda alla rete di relazioni che hanno attraversato i corpi e lo spazio architettonico: una metodologia di lavoro basata sulla rielaborazione di affetti che ancora oggi non smettono di rigenerare la presenza nella città e ribaltare lo sguardo su di essa.

Caterina Serra. Riposizionare lo spazio. I libri ancora per terra li ho sistemati in lunghe torrette addossate al muro. Ho messo in cima quelli che a passarci accanto mi viene voglia di aprirli. Ho in mano quel librino sulla malattia, lei che si stende e in quella posizione orizzontale cambia il suo modo di vedere le cose. woolf si mette lì con la sua emicrania, e il suo sguardo cade su, e vede quello che non vedeva. Da un letto, da un marciapiede, da un basso, comunque, la prospettiva di chi striscia, aderisce all’orizzonte curvo, si atterra, si sporca. Tanto sporco vero? A guardare in alto. È bastato farlo una volta per capirlo, il corpo si è adeguato. Essere rovesciat* rovescia. Orizzontal* si attivano altre capacità, motorie, ma anche le passioni sono movimenti, no? E poi, non sarà che la gerarchia dei poteri che si smonta diventa labirinto, come la Torre di Babele cadendo? E allora, come si traduce una nuova prospettiva in parole? Ci vuole un nuovo linguaggio perché il rovesciamento sia un ribaltamento politico? La cosa vista viene ridefinita, rifigurata? E che fine fa quella gerarchia che i corpi traducono in ricatti, in censure o ammutinamenti? Tante domande, non vorrei rispondessimo a tutte. Procedere per affetti, svestire i ruoli, stare dentro il tracciato relazionale che mischia potere e affetti e fa confluire in stanze private. Non c’è modo, il rischio è l’inadeguato, il detto che gira intorno al non detto, il sospetto che non ci sia linguaggio. Allora, per sciogliere quel non c’è niente fuori dal testo, lo spazio è quello di una casa, di una stanza che da privata appena attraversata diventa pubblica, è lo spazio della scrittura che è anche quello della lotta, ce lo siamo dette, cercando che accada in forme di bellezza. Anche questa faccenda della bellezza deve avere a che fare con la questione affetti e potere, no? Come si fa a non essere tentati di far stare tutto insieme in quella stanza? Cosa rischiano quei corpi stesi? Di fallire? Dirsi che fallimento è stare stes* a ribaltare una visione e ritrovarsi a gesticolare come se si stesse in piedi, animaletti a pancia all’aria che si muovono come se lo scopo fosse tornare nella posizione di sempre, comoda, consueta, conformante verticale. Ma se fallire sta negli affetti… 265

Danila Gambettola. Ma se fallire sta negli affetti e nel rifiuto della gerarchia, ponendo al centro non l’identità ma la relazione, l’inter-dipendenza? Ripenso in termini affettivi e performativi ciò che è accaduto durante il processo creativo di Quello che vede l’acqua, e che ancora oggi non smette di rigenerare le nostre relazioni e la prospettiva sulla città attraverso queste. Infatti è come se stessimo ancora riposizionando lo spazio. Tra di noi, tra noi e gli altri, tra noi e l’architettura. Perché adesso, più che mai, c’è la necessità di tornare a terra? La nostra decisione di ribaltare la prospettiva è stata un richiamo dei morti, della memoria, della terra. Anche di woolf. È sorto il bisogno di sovvertire in maniera generativa l’imposizione di vedere il mondo attraverso le leggi del canone e del tempo. Così, per vedere diversamente è avvenuto uno sdoppiamento della prospettiva: decentrandola e rovesciandola, siamo andati fuori di noi per un vedere multiplo, trans-individuale, erotico, che sta tra il digitale e l’analogico. Abbiamo ripensato e agito la città attraverso il rifiuto della verticalità come condizione naturale, stimolando invece delle posture non umane attraverso un contatto con la terra animale, vegetale e fantasma. Come il cemento, come l’acqua stagnante, come le piante, come corpi che della gerarchia della spina dorsale se ne fregano. La città ci ha sopraffatti attraverso una serie di condizioni ed emozioni che inizialmente non siamo stati in grado di riconoscere o di agire in termini performativi. Ma quel fallimento iniziale, quel non aderire alla menzogna, quello stare fermi ad aspettare che qualcosa accadesse è stato un fare esperienza di un fuori, di un’esteriorità. Come se arrestare il tempo ci avesse permesso delle libertà che stanno fuori dalla logica della produttività. L’empatia e l’erotismo di corpi e case che si attraggono a vicenda. L’approccio all’altro — non solo umano — iniziando ad avvicinarsi, annusarsi, a toccarsi. “Per noi, come suggerisce Hannah Arendt nel suo libro su Eichmann, si tratta piuttosto di una zona di sospensione, in cui il discorso incessante delle immagini e delle parole convenute viene per un attimo interrotto. E nell’arresto del pensiero questa zona vuota e foranea qualcosa come un fuori, un ambito di libertà diventa possibile”. Agamben riflette sui concetti di porta-soglia e porta-serramento. Fa riferimento al ri-posizionamento orizzontale della porta antica all’entrata della biblioteca dei Tolentini, progettata da Carlo Scarpa. Sul come quel rovesciare la porta al pavimento e immergerla parzialmente nell’acqua sia stata un’unione, 266

DANILA GAMBETTOLA, CATERINA SERRA

Overturning by night, Venezia, 2021

un’abolizione dei limiti tra il dentro e il fuori, il privato e il pubblico. Assumere la dimensione e la posizione fluida dell’acqua. Ma non è esattamente la condizione assunta dai nostri corpi? L’unione del cielo e del soffitto, dei corpi sani e dei corpi infetti. “L’ambito, di cui lo sguardo può percorrere i confini, è anche un’apertura, che non conduce in nessun determinabile luogo, ma rivolta verso il cielo, dimora in un puro aver luogo, esibisce l’intima foraneità di ogni porta”. Perché Scarpa rovescia e mette in crisi un elemento architettonico che ha a che fare con il concetto di limite all’entrata di una biblioteca? Una progettazione che intuisce la necessità di decostruire l’istituzione a partire dall’accesso al sapere, alla didattica, alla dimensione spaziale e quindi all’architettura? C’è stato un tentativo nel nostro lavorare assieme di andare oltre quel non c’è niente fuori dal testo, aprendo uno spazio, sì. Una soglia e un tempo dove la dimensione della scrittura e del movimento come quella orale e affettiva hanno permesso una condizione performativa che è andata al di là degli ostacoli discorsivi del corpo e della città. I corpi assieme ripensano, riformano il fallimento. Riformano in termini affettivi anche lo spazio. Prima di andare fuori, di collegare il dentro al fuori, e viceversa, siamo partiti dallo spazio di una casa. No, di due case, connesse virtualmente. CS. Ecco, case e corpi. Entrare e uscire, stare dentro e fuori la città che è casa e corpo anche lei, sì, lei. Ripensare, dici, uno spazio che accoglie e può buttare fuori, in effetti. Volersi in una possibilità di mettere sullo stesso piano, di lasciare fuori la nettezza gerarchica, la sua efferatezza, e anche la sua comodità. Più facile della equivalenza democratica? E cosa comporta equivalere? Sorprendersi del sapere dell’altro, mettere a tacere per un momento il proprio? Mi mancano quelle case, le riunioni intorno al tavolo in cucina, che mischiavano il cibo e la parola, il gusto per entrambi, lo stare intorno a tavola era già il modo di far equivalere esperienza e conoscenza dissimili. Quel che poi accadeva nella performance fuori aveva a che fare con quella orizzontalità dentro, per terra come a quel tavolo, la barra tra l’alto e il basso, tra chi guardava in basso e chi si riposizionava abbassando lo sguardo per vedere l’alto, vedere altro. Quel tavolo, comunque, lontano dal tavolo che la città ha visto. Venezia ci ha fatto stare in cerchio, con quello spazio al centro, lo 268

DANILA GAMBETTOLA, CATERINA SERRA

spazio del mettere in gioco, del tenere legati e del lasciare andare. Quell’in mezzo di cui parla Deleuze quando scrive con Guattari, la scrittura di due senza un autore, quel portare da fuori e il corrispondere con una molteplicità. Che peccato quando si rompe, si interrompe, si spezza, sì, ma che meraviglia che conservi la natura della riproduzione, linee che si riuniscono altrove, seguendo altre linee. Niente dualismi o dicotomie, mi sembra di sentirti. Poi ci sarebbe da deporre quel potere che assume il sapere e gerarchizza gli affetti, se gli affetti sono lì a farsi fare a pezzi. Il sapere è sempre comunque una forma di potere, no? Ci vuole mutualità, se penso a una politica dell’amore femminista. Siamo pront*, tuttavia? Il presupposto erotico neutralizza la spinta storica alla presa di potere di chi sa come fare, quel desiderio di frapporre l’amare è sufficiente a destabilizzare i rapporti di forza, a rompere le linee di equilibro basate sulla soggezione, per unire altre linee magari sottili ma mutuali, magari non così destinate a durare? Quanto potere ci sia nell’amore forse non lo sappiamo, quanto quel potere sia violento, invece. Se violento è anche quell’interrotto che non si riproduce in altre linee di continuità. Vorrei dire della riproducibilità tentacolare. Quella casa, anzi due, erano un luogo del concatenamento, no? Non sarebbe stato lo stesso pensare in un bar, lo sai, perché? E dentro una qualche istituzione? DG. Non ti sembra che stiamo tessendo ferite? Cucendo rotture e crepe? Come ragne, come piante, come corpi. Ieri come oggi. Allora la nostra ribellione alla violenza è la cura dei legami: far emergere un dialogo che connette le potenzialità di tutt*. Io e te a durare. La mancanza dell’altr* diventa generativa, tutta una narrativa reale e virtuale che non si arresta, ma si evolve sempre. Cosa succede nello spazio della mancanza, dell’assenza? Le linee di continuità evolvono al di là dei corpi. Al di là del sapere gerarchizzato. Al di là delle facciate e dell’intonaco. Dell’amore che assoggetta. Delle passioni tristi. I corpi che agiscono e non patiscono, che aprono nuove spazialità. La molteplicità e l’equivalenza possono definire pratiche di partecipazione e azione basate sulla cura, esaltando soggettività nomadi e libere? Quel centro della tavola di cui parli non ha preteso un sapere antropocentrico e gerarchico fin da subito. Che sorpresa quando i corpi si relazionano attraverso la materialità del desiderio e degli affetti. Il centro che 269

LA CITTà RIBALTATA

decentra. È come se la cura – quella del cibo e della casa, che diventa politica – avesse contaminato fin da subito la parola, il linguaggio e il sapere precostituito. Quell’in mezzo che citi ha aperto nuove possibilità architettoniche, seguendo un modello di corpo affetto e ribaltato; decostruendo così la dicotomia del dentro e del fuori, del privato e del pubblico. Ma soprattutto di giusto o sbagliato. Mi chiedo se tutta questa complessità che ci rende ancora così tenaci e costanti sarebbe emersa senza quelle/queste rotture, quelle/queste crepe. Quell’in mezzo, che lega e slega, ha infatti prodotto linee di continuità iperboliche: la molteplicità delle nostre diverse temporalità; la molteplicità delle connessioni architettoniche tra il dentro, il fuori e lo spazio digitale; la molteplicità degli affetti e dei desideri; la molteplicità dei diversi linguaggi coinvolti. Mi sembra che tutti questi contenuti siano connessi, cuciti assieme, da una drammaturgia che li include tutti, che involve ed evolve allo stesso tempo. C’è stato un passaggio diretto dal discorso teorico a quello pratico, come se non ci fosse stata una discontinuità performativa tra l’azione e la parola, tra il privato e il pubblico. Non abbiamo definito pratiche o strategie di azione prima di agire sul campo; la dimensione orale del lavoro si trasformava di volta in volta in azione, e viceversa, seguendo una drammaturgia affettiva piuttosto che tecnica o nozionistica. Come se la pratica si fosse svelata di volta in volta grazie all’occupazione trasgressiva e inter-relazionale dei nostri corpi: ci siamo fatt* guidare dalla potenza che ognuno di noi generava in relazione con lo spazio architettonico della città e col tempo. Un processo esplorativo aperto tra il dentro e il fuori, tra il passato e il presente. La bellezza e lo stupore sono emersi dalla capacità di rispondere e di reagire alla complessità di una Venezia rotta, ferma, infetta. Che ci ha rott* e stort* come i suoi ponti e i suoi campanili. Con i corpi spezzati allo stesso livello dell’acqua, della terra, del tappeto di casa tua. Un grado zero eccitante da dove ripartire insieme: con i fantasmi, con la pelle che si muove insieme al cemento, con le mani e gli arti che fluttuano come l’acqua, con il corpo che sente tutto il peso di un palazzo… CS. Io e te a durare. Vuoi dire che c’è bisogno della ferita? Che la città ce lo insegna, con le sue ruberie, la sua sfacciata bellezza, la sua fisicità pornografata? Rotta ferma infetta, dici tu. Attraversala e vedrai che non c’è purezza, che la purezza non ha a che fare con la bellezza, 270

DANILA GAMBETTOLA, CATERINA SERRA

Living Walls, Venezia, 2021

ci siamo dette. Lo sai che a zoppicare non ci vedo fragilità ma dolore. Non vorrei ci facessimo leva. Perché non parliamo di felicità, invece? Di un sapere che vede e prevede e che non isola come quello punitivo di Cassandra? Noi due che parliamo di felicità è già qualcosa che va contro il benessere, viene voglia di dire. La felicità delle donne ha qualcosa di rivoluzionario, non è ancora data. Nemmeno la nostra alleanza come gesto politico. Che è potenza generativa ora, ma anche nel processo, che ha in sé l’anima del conflitto. Ecco, per esempio, perché non ha che fare col conflitto una possibile felicità? Guarda che su questa questione della separatezza e della distanza come modalità relazionale per far funzionare il legame, sia esso affettivo, lavorativo, amoroso, ci sarebbe da dire. Abbiamo lavorato nella prossimità, nell’attaccamento, nel cerchio del piatto condiviso, non è poco. Ma il linguaggio, dimmi, ci ha ridefinit*, ridisegnando quello spazio che sta in mezzo e che è silenzio, ascolto, invito? Se l’azione ci ha mess* sotto sopra, il linguaggio ci ha liberat* da rapporti di potere disfunzionali rispetto alla sfida, quella di tenere insieme il potere e gli affetti, declinando cioè il potere al plurale, a una co-sovranità, a un coro di solist*? Penso alle mie parole, a quel dialogo tra due corpi, il mio e quello di un’altra città, penso alle fotografie, alla creazione sonora e a quella video. A riguardare il materiale tutto, vorrei dire che lì ci siamo riusciti. Non so se poter dire lo stesso del processo che a quell’esito ha portato. Ripercorri con me, l’ideazione, l’invenzione, le parole che abbiamo voluto, il linguaggio affettivo, il linguaggio frammentato dell’amore, l’azione che è passione, è patire, non subire, è stare, non andare via. Quella che abbiamo chiamato libera stasi. E ancora intimità che fa a meno dell’istituzione e convoca la comunità, il buio che traccia lo spazio pubblico, l’illegalità che chiede testimonianza, quelle calli strette che portano alla resa, con tutta la sua carica erotica, l’amore come scandalo, l’eresia che ha logos non l’utopia che non ha luogo. Bisognerebbe fissare un appuntamento anche per perderlo. Da stesi, è pur sempre un appuntamento con la morte. O con l’amore? DG. Sono rotta, siamo doloranti: è stata la storia, è stato il linguaggio. Ecco che cambi prospettiva, che ti sposti un po’ più in là e mi guardi, ci guardiamo, con altri termini e distanze. Stiamo dentro al problema. La nostra alleanza cambia il ritmo del corpo, anche quello della scrittura: come se l’habitat stesse cambiando: è quello che vogliamo. 272

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Where I was, Venezia, 2021

Gli occhi assenti staranno guardando da un’altra parte, ma i loro sguardi sono qui vivi nelle tracce che hanno lasciato, insieme a noi. Un processo creativo evolutivo e involutivo allo stesso tempo, la libertà di decidere singolarmente quanto poter stare e quando dover andare. Ma ti ricordi che abbiamo iniziato a lavorare nel vuoto del lockdown? Continuiamo a guardarci io e te. La felicità emerge qui, in tutta la pratica e la materialità della nostra scrittura. Come se le nostre ferite stessero guarendo di parola in parola. Oggi come prima: corpi che si fanno carico delle mancanze stando a terra e strisciando. Ma poi? La cura quale è stata? Elaborare assieme, camminare per la città, spostarsi di casa in casa. La bellezza di trovare una dimensione collettiva, consapevole di ciò che è stato e di ciò che sarà. Guardiamo indietro ora, domani, attraverso queste pagine, il materiale tutto, per vedere la felicità che abbiamo cucito. C’è poco di mediato. Per me l’esito non si distacca dal processo creativo, sono la stessa cosa. Amore come morte, esito e processo continuamente, come se non si smettesse mai. Quanta forza ci vuole, energia in movimento. A volte non ce la si fa. Ma l’alleanza è anche contare sull’altr*: quando la potenza di un singol*, forza di azione, è al minimo, c’è spazio per la potenza altrui. É una contrattazione che sovverte l’identità, la verticalità, lo stare in piedi. Una trasformazione che i nostri corpi in movimento hanno generato andando verso l’altr* (umano e non), seguendo anche una dimensione astratta e incontrandosi in mezzo. La potenza mutevole dei corpi in movimento, che affettano e si lasciano affettare. Dici libera stasi: purché la stasi abbia a che fare con un cambiamento di corpo e pensiero, piuttosto che con un riposizionamento dove si rimane uguali a prima, vittime. Brian Massumi con i suoi studi sull’affetto suggerisce un ritorno al materialismo culturale per considerare una dimensione del corpo più virtuale, per una possibile decostruzione delle strutture culturali ideologiche. Indica le opportunità astratte, gli affetti virtuali, che si hanno attraverso lo spostamento e non il posizionamento: “Take movement. when a body is in motion, it does not coincide with itself. It coincides with its own transition: its own variations. The range of variations it can be implicated in is not present in any given movement, much less in any position it passes trough.” Siamo partit* da terra, ci siamo rialzat*. In mezzo ci siamo trasformat*: 274

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A dead man on earth, Venezia, 2021

fantasie e desideri che ci hanno resi animaletti dicevi, che strisciano ricordo. La notte. Le piante. Mostri che invadono Venezia. Annamaria suggerisce di attraversare la città con mani e piedi ancorati al terreno: provare a ricostruire un rapporto con essa animale, vegetale, organico ed ecologico. Come ragne, come piante, come corpi. CS. Siamo partit* da terra, ci siamo rialzat*. In mezzo ci siamo trasformat*, dici. Ragne, piante, corpi. Abbassat*, dunque, ha funzionato. Accovacciat*, ci siamo forse dimenticat* di secoli di codici gerarchici? Inclinat*. Affett* da inclinazione. Che bella parola inclinazione, verso qualcosa verso qualcuno, propendere, pendere, abbassare, togliere potere alla verticalità dell’essere eretto, fare dell’orizzontalità dei morti una possibilità di sopravvivenza senza trionfi o presunte vittorie sulla caduta a terra. Orizzontal*, ci siamo fatt* mort*, a vedere quello che vedremmo o non vedremo più. Stes*, è pur sempre un appuntamento con la morte e con l’amore. Abbiamo vinto sulla rettitudine o sull’erezione? Siamo più distese ora. Come avessimo riposato abbastanza, indugiando in questa posizione che, scelta e condivisa, non ha nulla della vulnerabilità della malattia e della morte. Semmai della conoscenza. Un altro genere di ferita. “L’amore è una storia che si racconta da sola, fortunatamente.” Sto leggendo Anne Carson, Antropologia dell’acqua. “Certi tipi di acqua ci annegano, altri bruciano i negativi senza rimedio…”. DG. Restano i materiali. Restano i legami, quelli perduti e quelli presenti. Restiamo io e te? Ho voglia di rimanere ancora per terra, vicina all’acqua e al cemento, ribaltata a guardare la città.

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DANILA GAMBETTOLA, CATERINA SERRA

Jumping on the shadow, Venezia, 2021

È Venezia? Giovanni e Gentile Bellini Giulia Zanon

Nel 1809, durante la soppressione napoleonica delle Scuole Grandi, un enorme telero di oltre 20 metri quadrati viene prelevato dalla sua sede originaria – la Scuola Grande di San Marco – per essere spostato a Milano1. Il suo contenuto è chiaro: si tratta di una scena dell’agiografia di San Marco, la sua predicazione nella piazza di Alessandria – poco prima del martirio, come presagito dalla lunga scimitarra che lo attende sotto il podio. Lo spazio in cui la narrazione si svolge è, tuttavia, ambiguo. La piazza è – dovrebbe essere – una piazza di Alessandria; la chiesa è – dovrebbe essere – una chiesa bizantina: ma la costruzione dello spazio è improntata in modo che l’evocazione richiami immediatamente l’area marciana. È Venezia, è una piazza San Marco trasfigurata, ma non è Venezia: è anche Alessandria, è anche Costantinopoli, la seconda Roma di cui Venezia si vuole erede. L’area marciana, spazio per eccellenza in cui si esercita l’allegoresi del potere politico della Serenissima, evocata in modo indiretto ma inequivocabile, fornisce le coordinate imaginali per contenuti che trascendono le architetture reali e gli stessi modelli ideali. La scenografia nella quale si svolge l’azione è un capolavoro di simulazione in cui l’allegoresi si ibrida con la citazione. Questo contributo andrà ad analizzarne elementi e grammatica compositiva, cercando di rispondere a un quesito cruciale: quanto l’assimilazione culturale, nel quadro di un progetto ideologico ben preciso, corrisponde con l’immagine stessa della città? O, più semplicemente: è Venezia? La facciata Nella visione di insieme della facciata del Bellini, il rimando alla Basilica marciana risulta il più evidente grazie a particolari costruttivi di immediata lettura: la scansione delle navate, nel quadro tre invece che cinque, coronate dalle visibili cupole e l’ampiezza dei suoi archi di ingresso2, introdotti da una serie di colonne di marmo policromo, generano delle proporzioni facilmente sovrapponibili a quelle di San Marco. Allo stesso modo si notano le aperture nelle lunette in cima alle porte laterali, i portici che arretrano e sono visivamente spinti ancora più in fondo dai contrafforti sporgenti, ornati da una serie di colonne corinzie3. 279

Gentile e Giovanni Bellini, La Predica di San Marco ad Alessandria d’Egitto, 1504-1509

L’elemento catalizzatore di queste similitudini è la balaustra che divide l’edificio in due sezioni, inferiore e superiore4. Nel dipinto possiamo ammirare un terzo livello sontuosamente arcato: elemento che può essere annoverato tra i fattori di continuità perché rimanda alle originarie lunette della chiesa, datata al IX secolo, prima della costruzione degli archi inflessi e dei pinnacoli, ancora oggi osservabili5. Altri dettagli significativi nel dipinto sono chiaramente derivati dalla facciata codussiana della Scuola Grande di San Marco, come le colonne che si ergono da tamburi e piedistalli scolpiti, che presentano elementi quali ghirlande, corone intarsiate e nastri svolazzanti — non altro che la semplificazione di schizzi di un altare presente nel Codex Escurialensis6, dimostrando una perfetta integrazione tra termini di ricerca pittorici comuni agli artisti del tempo7. Echeggia alla Scuola anche il profilo superiore dei monumentali frontoni a semicerchio, adornato con volute e molto somigliante alla sezione superiore della facciata veneziana, dopo il rifacimento di Codussi8. Un ulteriore elemento di connessione è individuabile nella decorazione dell’altare dal quale Marco enuncia la sua predicazione: il susseguirsi di formelle di marmo rosso e verde in una geometrica policromia che possiamo osservare nella tela è molto simile alle decorazioni lapidee della facciata della Scuola a opera di Pietro Lombardo nel 1485 circa. Gli stessi marmi policromi si ritrovano nel progetto di Lombardo di pochi anni prima, la Chiesa di Santa Maria dei Miracoli tra il 1480 e il 1481, la cui prima fortuna iconografica è ricollegabile a un analogo episodio di pittura orientalista inerente la vita di San Marco, ovvero La guarigione del calzolaio Aniano del 1498 a opera di Cima da Conegliano, ove un’architettura d’invenzione teoricamente situata ad Alessandria, assorbe e fa proprie tutte le caratteristiche stilistiche della chiesa del Lombardo. I contrafforti A proposito de La Predica, scrive Giorgio Vasari, ne Le Vite: Fece Gentile dopo il suo ritorno molte opere, ma particolarmente una storia, nella Scuola di San Marco, di esso evangelista, et in quella fece lo edificio di Santa Sofia di Costantinopoli (oggi moschea de’ turchi) e tirato in prospettiva cosa veramente difficile e bella per molte parti che si veggono, che egli ha fatto scoprire in quello edificio.9 281

È VENEZIA?

L’interpretazione del Vasari è sicuramente indotta dalla certezza che a Bellini l’aspetto esteriore di Santa Sofia fosse noto: un elemento della biografia di Gentile che non può essere ignorato è, infatti, la sua permanenza a Costantinopoli dal 1469 al 1471 alla corte di Maometto II10. Questa ipotesi è rafforzata dalla presenza nel quadro di importanti archi rampanti laterali, simili a quelli a supporto della facciata ovest della basilica di Costantinopoli costruiti nel X secolo i quali, però, si interfacciano con la facciata frontale perpendicolarmente e non lateralmente, come nel dipinto11. I contrafforti di Santa Sofia non corrispondono strutturalmente, quindi, a quelli di San Marco. Una delle fonti da tenere in considerazione per indagare la veicolazione dell’immagine di Santa Sofia a Venezia è la preziosa testimonianza di Ciriaco D’Ancona. Ciriaco si reca a Costantinopoli cinque volte, tra il 1418 e il 1447, e compie rilievi dei siti più importanti della città12. Nonostante per la maggior parte questi disegni siano andati perduti, il contenuto di alcuni di essi è giunto sino a noi grazie a descrizioni e copie. Di rilievo per la ricerca è la presenza di sette didascalie, non accompagnate dalle relative immagini, in un manoscritto conservato a Parma13, le quali descrivono alcuni disegni di Santa Sofia. Nonostante queste immagini siano andate perdute, secondo l’ipotesi di Bodnar14 tre di queste potrebbero somigliare a delle copie eseguite da Giuliano da Sangallo e presenti nel Codice Barberini15, mentre i soggetti degli altri quattro disegni possono essere desumibili dalle rimanenti didascalie16. Un breve paragrafo introduce la prima didascalia: Almae Sophiae sapientiaeve sacrum in Bizantio a Iustiniano Caesare templum maximum et CIIII porfireis serpentinis ac marmoreis columnis diversorumque nobilium et conspicuum lapidum insigne, Anthemio Traleo et Isidoro Milesio nobilibus architectorum principibus.17

La descrizione di Ciriaco conferma il valore architettonico e l’evocatività che Santa Sofia suscitava nei suoi visitatori. L’analisi visiva di Ciriaco continua, con la prima didascalia: Ab externa templi et occidua parte figura a qua primum vestibulum atque ingressum habuisse videtur: cuius amplitudo per latitudinem cubitorum C et L, altitudinem 110 vero cubitorum metita est.18 282

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Giuliano da Sangallo, Santa Sofia, 1516-1517

La scelta di indicare misure specifiche dimostra l’intenzione documentaria di Ciriaco il quale, però, non voleva trasmettere l’impressione visiva generata dall’osservazione di Hagia Sophia ma alcuni elementi formali: elementi architettonici, disposizione e interrelazioni spaziali19. Se nei disegni di Giuliano da Sangallo possiamo notare alcuni elementi di distorsione rispetto alla realtà della chiesa: la grande cupola è costolonata e contraffortata e i grandi contrafforti di nord e sud sono stati ruotati per rivolgersi a ovest. Quest’ultimo dettaglio è di grande importanza se viene messo a confronto con la contraffortatura del quadro, anch’essa posta trasversalmente rispetto la facciata e potrebbe confermare il fatto che Bellini abbia potuto visionare i disegni di Ciriaco e questi abbiano costituito il riferimento principale per gli elementi bizantini della sua architettura dipinta. In un saggio del 2015 Lorenzo Pericolo inserisce nel dibattito un nuovo interessante elemento, teorizzando che l’anello di congiunzione tra gli archi rampanti di Costantinopoli e quelli rappresentati possa essere San Vitale a Ravenna, basilica del X o XI secolo i cui rapporti spaziali tra contrafforti e spazio circostante sono molto più vicini a quelli restituiti dal dipinto20. Lo studioso parte dalla testimonianza di Desiderio Spreti nel 1464, secondo la quale: Qualis est in primis divi Vitalis basilica, quae et in hunc diem insignis cernis; eam ab Iuliano Argentario Iustiniani imperatoris iussu in Sanctae Sophiae constantinopolitanae similitudinem extructam novimus.21

Pericolo suggerisce come la costruzione di San Vitale, iniziata da Giuliano Argentario all’ordine dell’imperatore Giustiniano, si sia probabilmente basata sul modello di Santa Sofia22, fornendoci ulteriori dettagli sull’importanza di connessioni tra Venezia e Ravenna tra XV e XVI secolo: It comes as little surprise that Spreti consecrated his book to Jacopo Antonio Marcello, the Venetian patrician who conquered Ravenna in 1440 and annexed it to the Serenissima. At the time of Gentile’s death in 1507, Ravenna was still part of the Republic: a testimony to Venice’s Byzantine past and origins. with sophistication and originality, Gentile may be said to have adopted Spreti’s 284

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humanistic approach to the specificity of Venice’s architectural history.23

San Vitale rappresenta, dunque, un “testo mediatore” che funge da elemento di continuità con l’eredità bizantina, rappresentandone a tutti gli effetti un erede, e, allo stesso tempo, l’agente di una cortocircuitazione per la quale Ravenna, venendo annessa alla Repubblica, trasferisce il suo passato direttamente a Venezia. Gentile utilizza quindi gli archi rampanti di San Vitale per risemantizzarli in una lettura greca della tradizione veneziana. Considerando il ruolo fondamentale di Ravenna nel definire il passato bizantino di Venezia, l’utilizzo funzionale di simboli della stessa diventa quindi parte di un processo di assimilazione culturale della città, vista come parte integrante della Serenissima e dal cui passato si può attingere per alimentare la macchina propagandistico-celebrativa di Venezia. Questo processo getta le basi per comprendere una serie di avvenimenti svoltisi nei decenni precedenti. I minareti Le due torri coperte da cupole che affiancano la chiesa sono chiaramente minareti. Con la loro sezione quadrata, i balconi e le cupole ricordano minareti ancora oggi visibili nella città del Cairo24. Il minareto di sinistra è sormontato da un pinnacolo che si innalza a forma di sfera e termina, come di consuetudine per questo tipo di edifici, con la mezzaluna ottomana. È interessante notare come la stessa simbologia venga riproposta nella coppia di fastigi sopra i contrafforti laterali della chiesa dipinta25. La decisione di includere nella chiesa questo elemento è sicuramente, a un primo livello interpretativo, uno strumento visivo capace di proiettare lo spettatore nell’ambientazione egiziana della narrazione26. Su un altro fronte, merita un approfondimento il significato astrologico del simbolo della mezzaluna: la neonata città di Bisanzio fu dedicata alla dea greca Artemide, il cui simbolo era la luna crescente, la quale fu dunque utilizzata come simbolo della città nell’araldica già dal VII secolo a.C. Il valore simbolico della mezzaluna va rafforzandosi dopo il tentativo di assedio della città nel IV secolo a.C. da parte di Filippo II di Macedonia – non andato a buon fine, secondo la leggenda, a causa di una notte dalla luna particolarmente luminosa. La luna, con la sua luce e le sue eclissi, accompagna la storia di Bisanzio e poi 285

È VENEZIA?

Costantinopoli27. È probabile che dopo l’assedio di Costantinopoli del 1453 gli Ottomani avessero fatto proprio il simbolo, reinventandolo come apparato decorativo nella città. Seguendo la storia contestuale del simbolo si nota come l’immedesimazione della chiesa in un Egitto mamelucco sottenda un’ambivalenza, probabilmente lampante all’osservatore dell’epoca, con la celebrazione dell’eredità simbolica bizantina. Un altro dettaglio di particolare interesse nell’analisi della mezzaluna del fastigio della chiesa è il significato astrologico che, nell’Islam, viene a essa attribuito: difatti questa rappresentazione selenica corrisponde alla congiunzione astrale tra Luna e Venere, manifestatasi nella notte del 23 luglio 610, prima rivelazione di Dio al profeta Maometto. La colonna spiraliforme Il monumento circolare alla sinistra della chiesa rimanda probabilmente a un altro elemento archeologico che aveva conosciuto Gentile durante il suo viaggio a Costantinopoli: il rilievo di ciò che all’epoca restava della perduta Colonna di Teodosio I28. La copia originale del rilievo a opera di Bellini è perduta ma il soggetto è stato preservato grazie a un’incisione di Claude François Menestrier del 170229. Se questo può essere stato il modello, l’elemento di realtà che Bellini ha voluto restituire è il motivo spiraliforme che segue la circonferenza della colonna30, che d’altronde rappresenta l’unico dettaglio in evidenza nell’incisione di Menestrier. Altro elemento caratteristico della colonna nel dipinto è la risalita con un sistema di scale esterno e spiraliforme, che segue il modello del minareto di Samarra del IX secolo, sulla base del quale viene costruito il coevo minareto della moschea di Ibn Tulun al Cairo31, le cui immagini con molta probabilità trovavano circolazione nella Venezia del XV secolo. La colonna monumentale Altri due monumenti rappresentano un rimando diretto all’Egitto e in particolare ad Alessandria: la colonna monolitica dietro le mura e l’obelisco di granito adiacente alla chiesa. Un’importante testimonianza riguardo questi due poli d’interesse ci viene da Ciriaco d’Ancona che nel 1441 scrive una lunga considerazione sul suo soggiorno in Egitto a Papa Eugenio IV, nel quale descrive l’arrivo ad Alessandria “la più nobile città d’Egitto” dove erano visibili i resti delle antiche architetture 286

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Claude François Menestrier, Description de la belle et grande colonne historiée..., Paris, 1702

della città, tra cui il Faro, le mura e le porte della città. Tra i manufatti più importanti, Ciriaco cita l’obelisco di giallo di Numidia e la maestosa colonna che “le masse ignoranti chiamavano di Pompeo”. Ciriaco sostiene, infatti, che essa debba essere invece chiamata colonna di Dinocrate, grazie all’iscrizione alla base della colonna, tradotta dal viaggiatore stesso come “eretta da Dinocrate, per volere di Alessandro”32. Si noti l’interesse di Ciriaco nel sottolineare il fatto che “le masse ignoranti” chiamino la grande colonna fuori dalle mura “di Pompeo” — denominazione tramandata dall’erronea convinzione dei Crociati che ivi Cesare vi avrebbe ucciso e seppellito Pompeo nel 48 a.C. — e il valido tentativo di decifrazione della base della colonna. Avendo avuto modo di leggere Plutarco, Strabone, Diodoro, Arriano e Quinto Curzio Rufo33, Ciriaco era a conoscenza che Alessandria fosse stata fondata da Alessandro e progettata dal suo architetto Dinocrate di Rodi: sulla base di queste informazioni il suo sforzo, incorretto, di ricostruire due parole incomplete (Ο ΡΑΤ e Α ΕΞΑΝΔΡ) con “Dinocrate” e “Alessandro”. Le due parole lacunose, come dimostrato da ricerche epigrafiche successive, erano in realtà da integrare come ΑYΤΟ ΡΑΤΟΡΑ e Α ΕΞΑΝΔΡΕ ΑC: Τὸ[ν τι]μιώτατον Αὐτοκράτορα, / τὸ[ν] πολιοῦχον Ἀλεξανδρείας, / Διο[κλη]τιανὸν, τὸν ἀν[ίκη]τον, / Πού̣π̣[λιος], ἔπαρχος Αἰγύπτου / [?---].34 Publius, governatore d’Egitto, [eresse questo per] l’imperatore più venerato, il patrono di Alessandria, Diocleziano invincibile (?…).

Sappiamo dunque che la colonna è stata con molta probabilità eretta dal prefetto dell’Egitto, Publio, in onore dell’Imperatore Diocleziano. L’immagine della colonna viene plasmata sul modello della maestosa colonna di granito dei Goti di Costantinopoli, la cui incerta datazione varia dal III al IV secolo d.C. e che Gentile aveva certamente visto35. L’obelisco Un altro monumento presente nella tela (e nelle testimonianze di Ciriaco) è l’obelisco, originariamente situato con un suo gemello nel Tempio di Amon a Eliopoli e poi collocato di fronte al Cesareum di Alessandria. Il motivo d’invenzione dell’obelisco ha la sua matrice in 288

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quello di Teodosio I, ben noto a Gentile in quanto innalzato nell’Ippodromo di Costantinopoli36 nel IV secolo, dopo essere stato trasportato dal tempio di karnak ad Alessandria da Costanzo II. Eretto su una base incisa con rappresentazioni storiche del tempo di Teodosio – che viene sostituito dall’artista da un blocco dalla forma simile ma privato di decorazioni – l’obelisco presenta proporzioni pressocché identiche a quello della tela37. A uno sguardo superficiale entrambi sono incisi lungo la loro altezza da geroglifici, ma balza agli occhi il carattere d’invenzione degli pseudo-geroglifici dell’obelisco dipinto. Questi ultimi non erano una novità per l’osservatore dell’epoca38: qualche anno prima un simile libero arbitrio nell’uso di alfabeti simbolici di ispirazione egizia era stato utilizzato nelle illustrazioni per l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, stampato a Venezia da Aldo Manuzio nel 149939. Tra i simboli di ispirazione egizia sono osservabili due lettere romane: VL. Argomenta Lehmann a proposito: From 1501 to 1521, Leonardo Loredan was doge. […] It has recently been shown that in precisely contemporary Venetian portraits by Giorgione and Titian the use of V or VV is related to some form of the Latin vivere and constitutes another aspect of the Renaissance revival of antique forms. It is tempeting to suggest that VL menas V[ivo] L[oredano]. In view of the fascinantion that Roman inscriptions had for both Jacopo Bellini and Andrea Mantegna, and the prime role of Mantegna in the revival of the Roman majuscole, both the concept of indicating that Gentile’s painting was made in the dogeship of Loredan, and the accurate style of the letters are understandable.40

Bellini, dunque, fa un gioco sottile con l’osservatore: dimostrando chiaramente la sua conoscenza del fatto che l’obelisco è un monumento di carattere celebrativo nei confronti del Faraone, ne prende in prestito il carattere semantico per omaggiare il suo Doge, utilizzando il linguaggio dell’iscrizione romana, così da attuare un doppio livello di recupero dell’antico41. L’elemento architettonico dell’obelisco rimanda anche a una realtà ben più vicina rispetto a quella egizia, della quale la filiazione veneziana è un tema complesso: Roma. Nel tracciare una storia dell’eredità culturale di Venezia – tema che ovviamente esula 289

È VENEZIA?

dai limiti di questo contributo – è necessario tenere in considerazione che i legami con Roma sono in realtà i legami con le Rome: la capitale imperiale – sviluppata in età augustea come caput mundi – e la capitale cristiana alla quale Costantino diede il suo nome, profondamente differenziata dalla precedente per il nuovo slancio identitario connaturato alla sua fondazione. Come nota Pincus: The concept of the Second Rome is a topos for the city states of Italy as they develop political self-sufficiency and search for individual identity. what is particular about Venice is the distinctiveness of the two strands that make up its image and the stage-managing.42

Il topos di Seconda Roma nella formazione identitaria delle città italiane è, a Venezia, plasmato dal dinamismo delle visioni che la città esercita verso sponde diverse. Spostandosi con disinvoltura da un riferimento all’altro, la città – a partire dal XII secolo – va tracciando una sua personale tradizione, frutto della stratificazione di una poliedrica percezione del mondo e della storia: dalla retorica antiromana innestata dal Doge Dandolo fino alla corrente storiografica dell’umanesimo del XV secolo in cui, gli intellettuali – in primis Filippo da Rimini con il suo Carmen del 1440 – tentano di trasferire e di collegare il mito e il culto augusteo al Doge di Venezia43. Dal XV secolo, e poi dagli anni della Lega di Cambrai, il paragone Venezia/Roma – sia esso risolto in modo positivo o negativo – costituisce, in quella serie di concetti fissi che formano il cosiddetto “mito di Venezia”, un costante termine di riferimento che incide sia sugli scritti di carattere storiografico, sia sulla produzione letteraria che si intreccia alla propaganda politica44. Il Faro La torre più lontana potrebbe essere la rappresentazione di uno degli edifici più importanti e caratterizzanti della città di Alessandria: il suo Faro. Nonostante il dipinto celi la sua base, che avrebbe dovuto essere a sezione quadrata, i piani superiori poligonali e cilindrici, separati da balaustre e piattaforme potrebbero coincidere con le informazioni in nostro possesso sul Faro45. Il Faro di Alessandria costituisce il simbolo iconografico per eccellenza, nella figurazione veneziana per la narrazione di uno dei più importanti nuclei narrativi della storia fondativa 290

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Arrivo di San Marco ad Alessandria, Basilica di San Marco, XIII secolo

della Repubblica, la translatio del corpo di San Marco. Un’architettura, quindi, fondata su un luogo. O meglio, un corpo che si fa architettura. Il comparto architettonico e quello decorativo sono chiamati a partecipare a questo sforzo per il trasferimento semantico della figuratività del potere e dell’autorità religiosa e civica nella figura dell’Evangelista. Si prendano ad esempio i mosaici della prima metà del XII secolo delle cappelle di San Pietro e di San Clemente, nel presbiterio della Basilica sono raffigurati i principali avvenimenti della agiografia di Marco: a sinistra sette scene sulla vita e i miracoli, la passio, a destra sette scene sulle vicende della translatio, il trafugamento e l’accoglienza a Venezia. I riferimenti spaziali relativi alla cronaca sono spesso incorniciati da sintetizzazioni di scene urbane che, attraverso l’utilizzo di architetture note di Alessandria, permettono all’osservatore un immediato orientamento. Ne La guarigione di Aniano nella Cappella di San Pietro, la ricerca di una sintesi tra la Basilica di San Marco e la città di Alessandria tramite un linguaggio architettonico di pastiche costituisce un eccellente precedente per l’evoluzione del dispositivo semantico utilizzato da Gentile Bellini nella Predica. Alla sinistra dei due protagonisti del racconto, un elemento architettonico (probabilmente) in comune con la tela belliniana nella definizione della città egiziana: il famoso Faro, una delle meraviglie del mondo antico, ancora conservato – seppure in rovina dal VII secolo – al tempo della composizione del mosaico, riconoscibile per le sue caratteristiche formali: In antiquity, the great lighthouse had been distinguished by its three tiers — square at the base, octagonal in the middle and cylindrical at the summit. when this mosaic was executed, it was still standing, though sadly mutilated.46

Lo stesso elemento ricorre più volte nella serie: nella stessa cappella la scena del Martirio di San Marco presenta il Santo impiccato alle torri di Alessandria con il Faro del mosaico superiore, l’Arrivo di San Marco ad Alessandria, collocato sopra la sua testa. Its lantern open to reveal the golden light emanating from within. It appears again with its cupola light, once more placed directly 292

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above the saint’s head in the Burial of Saint Mark in the same Pharos and the neighbouring tower above.47

Si dimostra così la capacità veneziana, già consolidata dall’utilizzo degli spolia della Quarta Crociata, di assimilare con disinvoltura simboli estranei alla propria retorica politica per conferire loro nuovi significati, così come nel caso del Faro di Alessandria che, da simbolo della meraviglia scenica del mondo antico, si rinnova a fulgido emblema della luce divina. Se l’eredità culturale di Venezia è viva al massimo grado in quanto, flessibile, può rispondere alle istanze dei diversi periodi storici nei quali essa si svolge. L’utilizzo di una ricca e vasta rosa di riferimenti leggendari, storici, economici e culturali che legano la città a diversi passati ha la funzione di rinforzare specifici aspetti della Repubblica funzionali alle sue necessità retoriche: così, l’aggiunta delle cupole conferisce, dunque, alla Basilica marciana la solennità del mausoleo, autenticandola grazie all’utilizzo del linguaggio architettonico alessandrino. Il corpo di San Marco, attraverso l’evocazione figurativa e spaziale dell’immaginario mitico collegato alla sua agiografia, è diventato definitivamente architettura.

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È VENEZIA?

Note

11. L. Pericolo, op. cit., pp. 139-167.

1. Alla caduta del governo napoleonico, il Congresso di Vienna sancisce la restituzione dei quadri prelevati: non avviene per la tela dei Bellini, conservata a oggi nel salone napoleonico.

12. Si veda E. w. Bodnar, Cyriacus of Ancona and Athens, Latomus, Brussels 1960 e B.L. Brown, D.E.E. kleiner, Giuliano da Sangallo’s Drawings after Ciriaco d’Ancona: Transformations of Greek and Roman Antiquities in Athens, “Journal of the Society of Architectural Historians”, n. 42, 1983, pp. 321-335.

2. P. w. Lehmann, Cyriacus of Ancona’s Egyptian Visit and its Reflection in Gentile Bellini and Hieronymus Bosch, J. J. Augustin Publisher, New York 1977, p. 7. 3. L. Pericolo, Incorporating the Middle Ages: Lazzaro Bastiani, the Bellini and the “Greek” and “German” Architecture of Medieval Venice, in J. N. Richardson, Remembering the Middle Ages in Early Modern Italy, Brepols, Turnhout 2015, pp. 139-167. 4. P. w. Lehmann, op. cit., p. 7. 5. O. Demus, The Curch of San Marco in Venice: history, architecture, sculpture, Dumbarton Oaks Library, washington 1960, pp. 7-12.

13. Bibl. Plt., MS 1191, fols. 61v-64v. 14. E. w. Bodnar, op. cit., 106ff. 15. Codex Vat. Barb. lat. 4424, fols. 28r e 44 r. 16. C. Smith, Cyriacus of Ancona’s Seven Drawings of Hagia Sophia, “The Art Bulletin”, vol. 69, n. 1, 1987, p. 16. 17. Ciriaco d’Ancona Bibl. Plt., MS 1191, fols. 61v-64v, in C. Smith, Cyriacus of Ancona’s Seven Drawings of Hagia Sophia, “The Art Bulletin”, vol. 69, n. 1, 1987, p.18. 18. Ibidem. 19. C. Smith, op. cit., p. 20.

6. Codex Escurialensis, fol. 49r. 20. L. Pericolo, op. cit., pp. 139-167. 7. P. w. Lehmann, op. cit., p. 25. 8. L. Pericolo, op. cit., pp. 139-167. 9. G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Einaudi, Torino 1986, pp. 440-447. 10. Cfr. M. Centanni, Fantasmi dell’antico. La tradizione classica nel Rinascimento, Guaraldi, Rimini 2017. 294

21. D. Spreti, De amplitudine, devastatione et de instauratione urbis Ravennae, Venezia [1464] 1489, citato in L. Pericolo op. cit., pp. 139-167. 22. L. Pericolo, op. cit., pp. 139-167. 23. Ibidem. 24. C. Diehl, La peinture orientaliste en Italie au temps de la Renaissance, in “La revue de l’art, ancien et moderne”, GIULIA ZANON

n. 19, 1906, p.14 e F. Gilles de la Tourette, L’Orient et les peintres de Venise, Librerie Ancienne Edouard Champion, Paris 1923, p. 102.

classics.ox.ac.uk/database/discussion. php?id=1246.

25. Samuel Hassid, The Sultan’s Turrets. A Study of the Origin and Evolution of the Minaret in Cairo, Imprimerie Misr, Cairo 1939, pp. 5-10.

36. P. w. Lehmann, op. cit., p. 14.

26. P. w. Lehmann, op. cit., p. 26. 27. Sul rapporto tra Bisanzio/Costantinopoli, la luna e le sue eclissi si veda M. Centanni, op. cit., p. 19. 28. P. w. Lehmann, op. cit., p. 26. 29. E. Müntz, La colonne Théodosienne à Costantinople d’après les prétendus dessins de Gentile Bellini conservés au Louvre et à l’Ecole des Beaux-Arts, in “Revue des Études Grecques”, vol. 1, n. 3, 1888, pp. 318-325.

35. C. Diehl, op. cit., p. 14.

37. Ibidem. 38. k. Giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der Renaissance, in “Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des Allerhöchsten kaiserhauses”, n. 32, 1915, pp. 1-229. 39. Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, Aldo Manuzio, Venezia 1499. 40. P. w. Lehmann, op. cit., p. 16. 41. N. Thomson de Grummond, VV and Related Inscription in Giorgione, Titian, and Dürer, in “Art Bulletin”, n. 57, 1975, pp. 346-356.

30. P. w. Lehmann, op. cit., p. 26. 31. Samuel Hassid, op. cit., p. 25. 32. Cyriacus of Ancona’s letter to Pope Eugenius IV, 1441 [Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms.Ottob. Lat. 2967, fols. 20r-21v. In L. Mehus, Kyriaci Anconitani itinerarium nunc primum ex ms.cod. in lucem erutum ex bibl. illus. clarissimique Baronis Philippi Stosch, ex novo typographio Joannis Pauli Giovannelli ad insigne palmae, Firenze 1742, pp. 49-52].

42. D. Pincus, Venice and the Two Romes, in “Artibus et Historiae”, n. 26, 1992, Vienna, p. 109. 43. B. Marx, Venezia-altera Roma? Ipotesi sull’Umanesimo Veneziano, Centro Tedesco di Studi Veneziani, Venezia 1978, p. 9. 44. Ivi, p 14. 45. E.V. Breccia, Alexandrea ad Aegyptum, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo 1960, p. 107.

33. Come sostiene Lehmann, op. cit., in base ai testi di Plutarco, Alessandro 26.2-6; Strabone 14.1.23; Diodoro 17.52.1-4; Arriano 3.1.5-3.2.2.

46. D. Howard, Venice & the East, Yale University Press, New Haven-London 2000, p. 74-75.

34. Gehn 2012, http://laststatues.

47. Ibidem.

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È VENEZIA?

Non è (ancora) Venezia. Su La nave di Gabriellino D’Annunzio Maddalena Bassani

Nel 1921 usciva nelle sale italiane un film di Gabriellino D’Annunzio intitolato La nave. Ispirato alla omonima tragedia di Gabriele D’Annunzio1, padre del regista, esso offriva al grande pubblico una rappresentazione del mito di fondazione di Venezia giocata su un dialogo tra finzione e dato storico, o piuttosto storiografico. Il film fu girato nella laguna veneziana e in particolare nell’isola di Torcello, che si configurava come una cornice ideale per la narrazione delle origini della città sia grazie ai suoi edifici sacri medievali, sia perché inserita in una ambientazione fascinosa senza tempo, e dunque astratta e assoluta. Il film, a centouno anni di distanza dalla sua proiezione, acquista una rilevanza particolare all’interno del tema sviluppato in questo numero dei “Quaderni rossi” dell’Università Iuav di Venezia: da esso deriva lo spunto per focalizzare l’attenzione da un lato su alcuni elementi costitutivi del mito della nascita di Venezia e dunque della sua “architettura scenica” meta-temporale, dall’altro sui ritrovamenti archeologici nella laguna veneziana sommersi o sepolti e ignoti ai più. Da essi, tuttavia, non si può prescindere per una interpretazione dei dati storici e letterari, ma anche per l’uso artistico (cinematografico, come nel caso in esame) o anche progettuale che si può fare dello scenario e dello spazio lagunare. Pertanto, seguendo la scrittura scenografica e drammaturgica de La nave di Gabriellino D’Annunzio, la mia lettura si articolerà su cinque temi, utili a ripercorrere il mito fondativo della città, desumibili dal film: Il tempo, Il paesaggio, La migrazione, L’eredità dell’antico, La città d’oro. Essi saranno posti a dialogo con i dati storici e la materialità della ricerca archeologica, quest’ultima forse meno seducente delle immagini del film, ma più reale e ancorata, in senso metaforico e non, ai fondali della laguna. Il tempo Corre l’anno 552 d.C., Giustiniano è imperatore dell’Impero Romano d’Oriente e il suo generale Narsete ha riconquistato gran parte dell’Italia romana caduta in mano ai barbari dopo il 476 d.C.; la Venetia maritima tuttavia, rimane terra di confine e di scontri fra Bizantini, 297

Longobardi e Franchi. Era, questa, la porzione affacciata sulla laguna e il mare Adriatico della Decima Regio Augustea, un’ampia area del nord-est estesa da Brescia a Pola: la regione, prima grazie ai traffici con il mondo greco ed etrusco, e poi con la fondazione della colonia romana di Aquileia nel 181 a.C., era divenuta per Roma il principale alleato dell’Italia settentrionale, su cui contare nell’espansione di conquista tra età tardo-repubblicana ed età imperiale. Nei primi fotogrammi, ai fini della scrittura narrativa, il 552 d.C. viene presentato quindi come anno di cesura fra un prima e un dopo: a quel tempo i più importanti municipi romani del Veneto erano messi a ferro e a fuoco dalle scorrerie dei barbari e con essi la Romanità e la gloria dell’Impero sembravano soccombere. La data è pertanto prodromica a introdurre l’idea di una nuova fase storica rispetto a una antichità sottintesa nel film ma mai realmente dichiarata: in questa nuova età si svilupperà la città lagunare e non a caso le prime scene del film sono occupate da un testo che illustra l’avvio di una fase transitoria, complessa e intrisa di congiure e di sangue. Ma se prendendo spunto dal livello della finzione ci fermiamo a considerare il popolamento plurimillenario della regione veneta delineato dall’archeologia e dalla storia dell’area, la linea del tempo retrocede di quasi duemila anni rispetto a quel 552 d.C., e si sposta alla seconda metà del II millennio a.C. Fra il XIV e il XII secolo a.C., infatti, nelle acque della Venetia transitano transitano i prodotti dei primi Greci, ossia dei Micenei, i quali, risalendo l’Adriatico in cerca di prodotti pregiati, entrano in contatto con gli indigeni2: cercano manufatti semilavorati o lavorati che qui arrivano dal Nord Europa, quali ad esempio l’ambra baltica, che poi rivenderanno in patria, e in cambio offrono vasi policromi, i quali, rispetto alla ceramica locale coeva, appaiono pregiati e sono quindi particolarmente apprezzati, tanto da essere anche imitati. Ecco, quindi, che a Frattesina di Fratta Polesine fra il XIII e il IX secolo a.C. si sviluppa il primo grande emporio commerciale dei Veneti3, ma non è da escludere che, oltre alla rotta occidentale lungo un ramo dell’Adige, i Micenei si siano spinti anche nella laguna di Venezia: sembrano suggerirlo almeno due vasi micenei e alcuni frammenti di contenitori simili recuperati a Mazzorbo e Torcello fra Ottocento e Novecento4. Benché i primi secoli del I millennio a.C. restino per il bacino lagunare poveri di indizi circa gli insediamenti che invece sono ben attestati 298

MADDALENA BASSANI

Il manifesto promozionale del film La nave, 1921

in terraferma (Este, Padova, Altino, Concordia Sagittaria5), dal VI secolo a.C. inizia una fase rilevante per la laguna: oltre al santuario in località La Fornace sul ramo meridionale del canale di Santa Maria realizzato dalla città veneta di Altinom6, le tracce di una frequentazione della laguna, costante se pur puntiforme, sono confermate sia dal ritrovamento di un frammento di imbarcazione lignea nella Palude del Vigno datata, tramite il C14, sempre al VI secolo a.C.7, sia dalla ceramica attica, residuale ma presente8. Da quel momento la laguna è destinata a divenire un luogo vivacissimo di transito e, soprattutto dall’età repubblicana fino alla tarda antichità, anche di insediamento stabile, come è documentato dalle fonti letterarie greche e romane9 e dai numerosissimi ritrovamenti archeologici effettuati nel corso degli ultimi decenni10. Si trattava di un sistema insediativo così complesso e ben organizzato che ancora nel 537 d.C., dunque pochi anni prima del fatidico 552 d.C., Cassiodoro, che era stato segretario del re dei Goti Teodorico, scriveva una lettera ai Tribuni delle Venezie affinché questi garantissero la consegna alla corte di Ravenna di ingenti scorte di grano dall’Istria11: essi controllavano infatti tutte le rotte nelle lagune nord-adriatiche. Il paesaggio delineato da Cassiodoro pare ripreso fedelmente nei primi fotogrammi de La nave: barene e velme intervallate a canali e più oltre il mare delineano un ambiente anfibio, in cui terre e acque sembrano creare un continuum apparentemente senza tempo e senza confini. Il paesaggio È questo il secondo e importante aspetto che il film pone in evidenza fin dalle prime immagini: il paesaggio in cui nascerà Venezia è costituito da un viluppo di corsi d’acqua e di terre, le quali in quei fatidici anni fra tarda Antichità e alto Medioevo sono presentati in pericolo tanto quanto quelle continentali, a causa delle alluvioni dei fiumi: citando dal film “La Piave e la Livenza coprono tutti i pascoli…Sette fiumi con tutti i tributari, sette gran fiumi, e venti altri men grandi ci travagliano. Tutto si trasmuta. Or sì or no, l’acque le sabbie e i fanghi”. Ecco, dunque, che un elemento essenziale quale la mutevolezza del paesaggio lagunare viene posto fin da subito all’attenzione dello spettatore. E tale variabilità è giustamente associata ai fiumi: si nominano 300

MADDALENA BASSANI

quelli del comparto nord-orientale, il Piave e il Livenza, e altri senza specificarne il nome, tra cui vanno annoverati ovviamente il Sile e il Brenta, i quali dalla terraferma attraversavano la laguna e sfociavano poi in mare lasciandosi lungo il corso accumuli di detriti che impantanavano lo specchio lagunare. L’enfasi della narrazione filmica – “sette gran fiumi e venti men grandi ci travagliano” – è certo funzionale a creare nell’immaginario dello spettatore l’idea di una natura ostile che va addomesticata, ma fotografa una situazione che la geomorfologia ha ricostruito nelle sue grandi linee come veritiera12. Infatti, i secoli a scavalco dell’Antichità sono segnati da alluvioni devastanti evocati già dalle fonti letterarie, ma che gli studi idrogeologici e geomorfologici hanno poi confermato con precisione, consentendo altresì di profilare i mutevoli assetti di quei corsi d’acqua nel corso dei millenni e il divenire delle linee di costa13. È ormai un fatto risaputo che la laguna di Venezia in età tardo repubblicana e imperiale era molto più ristretta rispetto a oggi e che in essa transitavano con più rami il Meduacus nel settore centro-meridionale provenendo dall’area di Patavium-Padova, e il sistema Sile-Piave, che lambiva Tarvisium-Treviso e scendeva fino ad Altinum-Altino arrivando poi in mare. Inoltre, se il fronte terrestre meridionale era più esteso in direzione di Chioggia14 e il litorale da Pellestrina al Lido rimase nei millenni sostanzialmente immutato, a nord vi furono profondi mutamenti sia in età preromana e romana, sia poi in età medievale e moderna15. Il litorale settentrionale di età romana è infatti sprofondato nell’odierno canale di Treporti e tutta l’area oggi emersa di Punta Sabbioni non esisteva: si tratta infatti di una recentissima formazione ottocentesca da imputare all’accumulo dei sedimenti fluviali presso le strutture spondali della bocca di porto di San Niccolò, realizzate a protezione dell’ingresso nord16. Dunque, se nella finzione filmica la narrazione trae probabilmente spunto dalle pagine di Paolo Diacono dedicate all’alluvione del 10 ottobre 589 d.C. che colpì l’area veronese della Cucca (oggi Veronella)17, l’accento posto su quel “Tutto si trasmuta” insiste sulla rappresentazione di un paesaggio lagunare che realmente cambiava (e cambia) in continuazione. Oltre all’alternarsi ogni sei ore della marea, i fotogrammi successivi inquadrano velme e barene su cui si stagliano alberi, come i pini marittimi, ma anche cespugli e piante: e se recenti analisi palinologiche circa la flora lagunare in età antica gettano luce sulla biodiversità attestata già per l’evo antico18, quello presentato ne 301

NON È (ANCORA) VENEZIA

La nave è un paesaggio anfibio, in cui il legno appare come il materiale determinante per l’insediamento. Esso è essenziale sia per le attività dei cantieri edilizi e navali, sia per per le palificate su cui in seguito sarebbero sorti i palazzi del Ducato e della Serenissima, ovvero i colonnati delle prime costruzioni poi sostituiti dalla pietra, grazie all’abilità della mano del popolo che lì decideva di risiedere. La migrazione È il popolo, infatti, l’altro grande protagonista del film, che abbandona le città distrutte dagli invasori cercando rifugio nelle lagune: si legge nei fotogrammi che le persone “Costruiscono su le velme, su le tumbe e su le barene col legname delle foreste e col pietrame delle ruine la città novella, costretti a forgiar quivi tra i pericoli la vita nuova, con l’utensile e con l’arme come nell’alba dei tempi”. Tutti si danno da fare, il mulinaro Benno, il piloto Lucio Polo, il tagliapietra Gauro: “Ferve il lavoro delle maestranze intorno alla Basilica, lungo le palafitte, sotto i loggiati, negli scali scoperti, nel porto irto di ostacoli”. I fuggitivi sono a Torcello, ben riconoscibile dalla Cattedrale di Santa Maria Assunta che è posta come (anacronistica) scenografia monumentale delle attività di lavoro, ma l’isola non viene specificamente citata: è una delle tante terre emerse che si prestavano all’insediamento. Nemmeno le antiche città romane poste in terraferma vengono menzionate puntualmente, ma solo evocate dagli accenni ai tetti in fiamme delle case e dalle “ruine” da cui si trae materiale da costruzione. Il popolo, dunque, guidato dai Tribuni e composto da plebei, aristocratici e sacerdoti della nuova fede cristiana, occupa la laguna apparentemente per la prima volta19: lo spettatore viene indotto a pensare che questo nuovo stanziamento di genti sia frutto della necessità e che sia guidato da una volontà superiore, divina, la quale indirizza l’azione dell’uomo verso il pieno dominio dell’acqua e del cangiante paesaggio lagunare. È il mito della nascita di Venezia originatasi dal nulla20, creato dalla stessa storiografia veneziana che così si presenta come forte e autonoma da ogni tentativo di controllo alloctono. La realtà, tuttavia, è decisamente più complessa e sfaccettata. L’archeologia ha infatti dimostrato che, soprattutto in quell’areale settentrionale in cui fu girato il film di Gabriellino D’Annunzio, gli insediamenti erano ben precedenti rispetto al VI secolo d.C. Argini, strade, strutture e infrastrutture portuali, ma anche edifici per la 302

MADDALENA BASSANI

gestione dei commerci e delle attività di navigazione, come pure ville private affiancate da cisterne erano sorti e utilizzati21: tra l’età tardo-repubblicana e l’età imperiale, grazie alle favorevoli condizioni per una occupazione diffusa e variegata, l’uomo si stabilì adattando la vita alla situazione geo-ambientale via via mutevole che la laguna offriva. Su questo, le fonti letterarie greche e latine, volendole leggere con una prospettiva laguna-centrica, offrono moltissime conferme agli scavi archeologici qui condotti da oltre quarant’anni22. Dunque, se quella migrazione fu possibile fra il Tardo Antico e l’Alto Medioevo, ciò si deve ascrivere al fatto che le genti stanziate in “terraferma” già conoscevano molto bene la laguna, con tutte le sue difficoltà e le sue potenzialità; e non erano solo genti indigene, ma persone di diverse etnie che nei municipi romani trovarono spazio e modo di esprimere al meglio le proprie vocazioni professionali, i propri credi, e di investire in laguna le proprie fortune. La Venetia era infatti uno spazio “multietnico” e lo era vieppiù nella sua proiezione maritima, dove almeno due grandi santuari emporiali furono eretti tra età arcaica ed ellenistica e utilizzati fino alla prima età imperiale. Il primo, quello altinate in località La Fornace più sopra nominato, presenta votivi di produzione veneta, etrusca, greca e romana23; il secondo, posto a sud in località Lova presso Campagna Lupia-Chioggia, fu eretto secondo modelli architettonici ellenistici di respiro mediterraneo forse per volontà di Patavium24, la quale controllava il bacino lagunare centro-meridionale almeno dai tempi della famosa incursione del principe spartano Cleonimo, giunto nella laguna di Venezia nel 302-301 a.C.25. La migrazione dei Veneti in laguna così come è presentata ne La nave può oggi essere valutata, pertanto, come un pretesto narrativo, anche se sarà da considerare che agli inizi del Novecento erano pochissimi gli studiosi che sostenevano l’esistenza di una “Venezia prima di Venezia”26: tutti i ritrovamenti archeologici qui segnalati già fra Settecento e Ottocento erano ritenuti oggetti portati dalla terraferma e riutilizzati per le nuove costruzioni. E se effettivamente questa pratica ci fu ed è archeologicamente ben documentata, di contro i moltissimi ritrovamenti in laguna aprono oggi alla possibilità che una parte di quelle “ruine” fosse disponibile già nel bacino lagunare, recuperandola da edifici distrutti che si trovavano sommersi o sepolti. 303

NON È (ANCORA) VENEZIA

Gli abitanti delle lagune venete si re-inventarono, dunque, una vita facendo i conti con un passato di cui erano sì gli eredi, ma che occorreva risemantizzare alla luce della nuova realtà storica in cui vivevano. L’eredità dell’antico Abbiamo fin qui approfittato di alcune immagini e di qualche parola deducibili dalla visione de La nave per raccontare in filigrana e in maniera del tutto sintetica la storia di “Venezia prima di Venezia”. Il tempo, il paesaggio, la migrazione dei protagonisti hanno permesso di delineare la cornice crono-spaziale e storico-archeologica entro cui inserire il racconto, ma non si è parlato della trama del film. La quale si dipana attraverso alcune figure positive e negative, che usano l’antico con molta disinvoltura, nel bene e nel male. Tra le prime si contano la diaconessa Ema, che ispira il popolo nella ricerca della nuova terra indicata da Dio, nel rispetto delle leggi del diritto romano, e il Tribuno Marco Gratico, posto alla guida della comunità e vestito di abiti militari, che si era recato a recuperare le reliquie dei santi dagli edifici romani distrutti in terraferma, da portare nella Basilica torcellana. Tra le seconde vi sono il vecchio Tribuno Orso Faledro, accusato di tradimento e di aver ordito piani contro le lagune e per questo accecato insieme ai quattro figli, e la figlia di lui Basiliola, donna di spettacolo alla corte bizantina, che giunge ai lidi veneti con una nave portando scompiglio con la sua presenza. Appresa infatti la sorte infausta dei suoi familiari, la donna usa il suo charme e le sue doti seducenti per ammaliare tanto Marco Graticolo, incapace di resisterle, quanto le genti a lui sottoposte, rammollendone il vigore e i costumi allo scopo di riportare il comando nelle mani della sua stirpe originaria di Aquileia. Al di là della finzione narrativa, i personaggi sono presentati come gli eredi di un antico utilizzato per trarre auctoritas e legittimazione sul presente, poiché i mores antiqui appaiono un richiamo sicuro per il rispetto delle leggi e quindi della legalità. Ma l’antico è anche simbolo di un pericoloso paganesimo, che tentando di riaffermarsi impedisce il progresso e il sorgere del nuovo popolo e della nuova cultura. Da una parte, infatti, sono le rovine delle città antiche che servono a costruire il nuovo mondo con la solidità della pietra e del marmo, nonché le reliquie dei santi, portate in pompa magna, che sacralizzano il potere temporale del Tribuno posto a comando di un popolo di antica stirpe. Una conferma esemplificativa è nella sequenza in cui alcuni individui 304

MADDALENA BASSANI

sono collocati nella piazza torcellana davanti a una lastra funeraria romana raffigurante i busti-ritratti di tre individui, ora al Museo Archeologico di Torcello. Dall’altra parte le rovine sono i simboli del paganesimo sotto cui si pone Basiliola, che impersonando la dea Diana trafigge i suoi nemici con le frecce scoccate dall’arco (“Tacete cani: se non, saetto!”), e tenendo tra le mani una statua di Vittoria sul globo, riprende la più chiara tradizione antica dell’iconografia del trionfo. Ingombrante era dunque l’eredità dell’antico, risemantizzato grazie alla sua forza evocativa: Basiliola, che non può che essere sconfitta, alla fine viene legata a un altare parallelepipedo, sulla cui fronte si intravede una Vittoria e sui cui pulvini arde il fuoco con cui l’empia verrà punita. Al riguardo non è forse inutile ricordare che alcuni dei materiali impiegati come oggetti di scena erano realmente reperti antichi conservati nel da poco inaugurato Museo Provinciale di Torcello, davanti al quale furono girate molte delle sequenze del film. La sua istituzione era stata caldeggiata e poi realizzata nella seconda metà dell’Ottocento da Niccolò Battaglini, il quale, recuperando manufatti preromani e romani da collezioni private, dalle vigne dell’arcipelago torcellano e dall’agro altinate, convinse il prefetto Luigi Torelli a trasformare l’Archivio torcellano nella sede espositiva delle antichità lagunari. Era il 1887 e la storia dell’archeologia nel bacino veneziano sembrava promettente. Ma il Battaglini fu presto destituito e morì di lì a poco: i reperti, accuratamente elencati e descritti nei primi inventari, furono poi riallestiti senza tener conto delle loro provenienze, perdendo così consistenza la loro effettiva “origine” locale27. Se con Basiliola il paganesimo era sconfitto e la croce cristiana di Ema trionfava, il popolo di antica stirpe si accingeva a costruire la città d’oro fondata sull’acqua e sulla potenza navale: “Città; ti fonderò sopra i miei cedri. E farò d’oro il colmo dei tuoi tetti e farò le tue porte di zaffiro e tutto il tuo recinto di diaspro”, annuncia la diaconessa ispirata dal volere divino. La città d’oro Gli ultimi fotogrammi del film di Gabriellino D’Annunzio sono dedicati alla trasposizione dello spettatore nel futuro della città di Venezia, con i suoi bagliori dorati e le sue forme monumentali. Arrampicati su una nave, i marinai immaginano gli splendori della Basilica di San Marco, con i suoi cavalli antichi prelevati da Costantinopoli nella IV 305

NON È (ANCORA) VENEZIA

I nuovi abitanti di Torcello nella piazza dell’isola anteposti a una lastra funeraria romana con i volti dei defunti, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio Basiliola reca una statuetta di Vittoria, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio

Basiliola, sconfitta, è legata a un altare pagano, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio La nave col suo equipaggio parte alla volta di nuove conquiste che faranno grande Venezia, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio

crociata: l’Oriente è infatti l’orizzonte a cui traguardano gli abitanti delle isole che faranno grande Venezia. Così, nella finzione narrativa il passato, il presente e il futuro sembrano fondersi nel segno della potenza che avrebbe dominato per secoli l’Adriatico e buona parte del Mediterraneo, anche grazie a quei marinai che si imbarcano con Marco Gratico alla conquista del mare. Costoro provengono dalle terre circostanti la laguna (Altino, Equilo), ovvero appartengono alle dinastie dei futuri “Nobil Huomini” veneziani – chi della stirpe dei Marcello, chi degli Orseolo, né poteva mancare un Lucio Polo, immaginario antenato del noto Marco che arriverà fino in Cina. L’antenato di Polo si appella al Tribuno con queste parole: “Prendimi teco all’ultima fortuna. Non è mai tardi per tentar l’ignoto. Non è mai tardi per andar più oltre”. Nella trasposizione filmica in cui la parola è ancillare rispetto all’immagine, e quasi assorbita da essa, la magniloquenza dei versi sfuma e si attenua la loro carica propagandistica sull’Adriatico e sugli orizzonti di rilancio del “Mare Nostro” proposti nella tragedia da D’Annunzio padre. Sopravvive certo la teatralità, ma è il paesaggio il vero, e suggestivo, protagonista: è il paesaggio lagunare nella cui mutevolezza trova ragione tanto il richiamo al passato quanto l’attesa della nascita della “città d’oro”, che trarrà la sua fortuna da quelle imprese sull’acqua simbolicamente rappresentate dalla nave, su cui si imbarcano alcuni uomini salutati dai molti altri che restano a costruire le basi della nuova città. Non è (ancora) Venezia, ma è (già) laguna: una laguna che se nello spazio filmico è rappresentata come uno straordinario forziere di antichità e di nuova linfa vitale, vale anche oggi, nel nostro contemporaneo, come un thesaurus da cui è necessario partire per progettare la Venezia che verrà.

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MADDALENA BASSANI

Note

1. G. D’Annunzio, La nave, a cura di M. Cappellini, De Ferrari, Genova 2013. 2. L. Braccesi, Grecità adriatica. Un capitolo della colonizzazione greca in Occidente, Patron, Bologna 1971; L. Braccesi, Indizi per una frequentazione micenea dell’Adriatico, in Momenti precoloniali nel Mediterraneo antico: questioni di metodo, aree di indagini, evidenze a confronto, atti del convegno, Roma 1985, a cura di E. Acquaro, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 1988, pp. 133-145. 3. Per una sintesi, cfr. E. Bianchin Citton, A. M. Bietti Sestieri, L’età del Bronzo Finale nell’area veneta, in M. Gamba, G. Gambacurta, A. Ruta Serafini, V. Tiné, F. Veronese (a cura di), Venetkens. Viaggio nella terra dei Veneti, catalogo della mostra, Marsilio, Venezia 2013, pp. 35-43, con bibliografia. 4. I. Favaretto, Ceramica greca, italiota ed etrusca del Museo provinciale di Torcello, Bretschneider Giorgio, Roma 1982. 5. M. Gamba, G. Gambacurta, A. Ruta Serafini, V. Tiné, F. Veronese, op. cit., passim. 6. M. Tirelli, Altino e il suo santuario: l’emporio adriatico dei Veneti, in M. Bassani, M. Molin, F. Veronese (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 5, (Lezioni Marciane 2015-2016. Venezia prima di Venezia, dalle ‘regine’ dell’A309

driatico alla Serenissima), 2018, pp. 139-156. 7. E. Canal, Archeologia nella Laguna di Venezia. Anni 1960-2010, Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna 2013, p. 317. 8. L. Braccesi, F. Veronese, Ceramica attica e commerci greci dal Timavo al Po, in F. Giudice, R. Panvini (a cura di), Il Greco il barbaro e la ceramica attica. Immaginario del diverso, processi di scambio e autorappresentazione degli indigeni, atti del convegno, Catania-Siracusa 2001, L’Erma di Bretschneider, Roma 2005, pp. 99-110. 9. A. Pezzelle, Lands of lagoons. How ancient Veneti lived in an ‘amphibian’ environment, in M. Bassani, F. Madricardo, G. D’Acunto (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 10 (Crossing the Water. The Venice Lagoon from Antiquity throughout the centuries), 2022, pp. 71-98. 10. Per una sintesi sulla storia dei ritrovamenti in laguna cfr. M. Bassani, Antichità lagunari. Scavi archeologici e scavi archivistici, in “Hesperìa”, n. 29, 2012, pp. 21-32; per un aggiornamento cfr. inoltre F. Madricardo, M. Bassani, G. D’Acunto, A. Calandriello, F. Foglini, New evidence of a Roman road in the Venice Lagoon (Italy) based on high resolution seafloor reconstruction, in “Scientific Reports” n. 11, art. 13985, 2021, https://www.nature. com/articles/s41598-021-92939-w. 11. M. Centanni, Note to Cassiodorus, Variae XII, 24, in M. Bassani, F. Madricardo, G. D’Acunto (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 10, cit. pp. 99-106. NON È (ANCORA) VENEZIA

12. A. Bondesan, M. Meneghel (a cura di), Geomorfologia della provincia di Venezia. Note illustrative della Carta geomorfologica della Provincia di Venezia, Esedra, Padova 2004. 13. S. Donnici, R. Serandrei Barbero, The telling of Venice Lagoon sediments, in M. Bassani, F. Madricardo, G. D’Acunto (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 10, cit., pp. 35-54.

19. G. Diacono, Cronache veneziane antichissime a cura di Giovanni Monticolo, Tipografia Forzani, Roma 1890, p. 60, 14-15, su cui A. Carile, Le origini di Venezia nella cronachistica veneziana, in M. Bassani, M. Molin, F. Veronese (a cura di) “Venetia/ Venezia”, n. 1, (Lezioni Marciane 2013-2014. Venezia prima di Venezia. Alle origini di un’identità), 2015, pp. 51-75, con ampia bibliografia.

14. Per una ricostruzione sulla base delle fonti archivistiche e cartografiche dell’area meridionale fra valle Millecampi e Chioggia, cfr. M. Bassani, Antichità lagunari, cit., pp. 33-76.

20. Sul mito di Venezia cfr. M. Centanni, Venezia/Venusia nata dalle acque, in M. Bassani, M. Molin, F. Veronese (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 1, cit., pp. 77-110.

15. M. Bonardi; E. Canal; S. Cavazzoni, A.Galgaro, R.Serandrei Barbero; L. Tosi; M., Giada, Sedimentological, archeological and historical evidences of paleoclimatic changes during the Holocene in the lagoon of Venice (Italy), in “world Resource Review “, vol. 9, n. 4, 1997, pp. 435-446.

21. E. Canal, Archeologia della laguna di Venezia, Cierre edizioni, Verona 2013, si veda in part. pp. 201-447; L. Fozzati, D. Calaon, E. Zendri, G. Biscontin, Torcello scavata. Patrimonio condiviso. 1. Gli scavi 1995-2012, Regione del Veneto, 2014; sullo scavo ottocentesco a Torcello di G.D. weber cfr. M. Bassani, Antichità lagunari, cit., pp. 113-138. Per una sintesi sui principali studi sugli insediamenti in laguna cfr. F. Madricardo, M. Bassani, G. D’Acunto, A. Calandriello, F. Foglini, New evidence of a Roman road in the Venice Lagoon (Italy) based on high resolution seafloor reconstruction, cit.

16. C. Balletti, Digital elaborations for cartographic reconstruction: the territorial transformations of Venice harbours in historical maps, in “e-Perimetron”, n. 1, 2006, pp. 274-286. 17. P. Diacono, Storia dei Longobardi III, 23, a cura di L. Capo, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1995. 18. S. Marvelli, M. Marchesini, Il paesaggio vegetale e naturale ed antropico nella laguna veneziana ricostruito attraverso i reperti archeobotanici, in “Antichità Altoadriatiche”, LXXVI (Le modificazioni del paesaggio nell’Altoadriatico tra pre-protostoria e altomedioevo), 2013, pp. 265-282. 310

22. Oltre al già citato articolo di A. Pezzelle, cfr. G. Cresci Marrone, Tra terraferma e laguna. La voce degli antichi, in M. Bassani, M. Molin, F. Veronese (a cura di) “Venetia/Venezia”, n. 1, cit., pp. 111-125. 23. M. Tirelli, “From Altinom to Altinum: the first international port in the Venice Lagoon”, in M. Bassani, MADDALENA BASSANI

F. Madricardo, G. D’Acunto (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 10, cit., pp. 107-124.

dall’Università Ca’ Foscari e dall’Università IUAV di Venezia), 2015, pp. 61-83.

24. S. Bonomi, C. Malacrino, Dal santuario di Altino al santuario di Lova di Campagna Lupia. Una messa a confronto nel panorama del sacro nel Veneto, in G. Gorini (a cura di), Alle foci del Meduacus minor, Esedra, Padova 2011, pp. 71-88. 25. L. Braccesi, L’avventura di Cleonimo. Livio e Padova, Il Poligrafo, Padova 2017; sul contesto lagunare in cui avvenne il famoso sbarco cfr. anche M. Bassani, Tito Livio: lo spazio lagunare, in F. Veronese (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 6, (Livio, Padova e l’universo veneto. Nel bimillenario della motre dello storico. Atti giornata di studio. Padova, 19 ottobre 2017), 2018, pp. 59-74. 26. Tra questi Giovanni Casoni, ingegnere idraulico veneziano del primo Ottocento e Niccolò Battaglini, promotore del Museo Provinciale di Torcello inaugurato nel 1887, per i quali cfr. M. Bassani, Antichità lagunari, op. cit.. Un ruolo di spicco fu rivestito nella prima metà del Novecento da Luigi Conton, archeologo veneziano specializzato soprattutto nello studio delle ceramiche altomedievali e medievali trovate in laguna: L. Conton, Le antiche ceramiche veneziane scoperte nella laguna, Fantoni, Venezia 1940. 27. Per una rilettura dei contesti di provenienza cfr. M. Bassani, Su alcuni materiali del Museo Provinciale di Torcello, in M.Centanni, L. Sperti (a cura di), “Venetia/Venezia”, n. 2, (Pietre di Venezia. Spolia in se, spolia in re. Atti del convegno organizzato 311

NON È (ANCORA) VENEZIA

Der Venusberg Alessandro Virgilio Mosetti

Il progetto di Gian Carlo Leoncilli Massi1 per l’allestimento della mostra “Venezia e lo spazio scenico” curata dalla Biennale Teatro/ Architettura del 1979, oltre agli aspetti inediti di un progetto scenico riflettuto alla scala urbana, mette in tensione il rapporto che sussiste tra una metodologia compositiva che unisce la mise-en-scène all’azione del comporre e l’esercizio di uno sguardo al luogo-città capace di interpretarlo in termini di teatro. Ma quale teatro? Per etimologia il termine teatro possiede in sé la medesima radice – theà – che struttura quello di teoria2; in quest’ultimo, il guardare meravigliato si volge a un oggetto rappresentato che è la traduzione in termini di astrazione di una complessità reale e tangibile. Fuori dal recepire il teatro in quanto tipo, il legame tra astrazione e messa in scena è ciò che spinge a ridefinire semanticamente il teatro quale luogo-spazio nel quale si compie la necessaria rappresentazione di una verità attraverso la finzione scenica; si riscopre la necessità di definire il teatro come ambito spaziale e di pensiero nel quale mediante l’utilizzo coerente degli stessi strumenti metodologici propri alla mise-en-scène, il farsi della disciplina compositiva architettonica assume una peculiare ragione d’essere in quanto compartecipe alla necessità di una finzione; non possedendo limiti certi e perentori, tale luogo-spazio è difficilmente definibile in una sola scala di rappresentazione. Ogni luogo-territorio assunto come teatro si disvela come artefatto unitario operato per singole parti; similarmente l’unità che identifica il territorio lagunare è definibile secondo Gianugo Polesello come “una grande, straordinaria costruzione, un enorme artifact di scala geografica che assume e coordina nel proprio interno diversi, distinti elementi, mediando lungo una scala che ha come estremi la wilderness e l’artificio totale”3. L’astrarre dalla realtà i principi strutturali che innervano simultaneamente etiche e territori costituisce la premessa essenziale alla definizione di metodologie interpretative atte a investigare la realtà scomponendone le complesse geometrie frattali su di un piano nel quale possa essere ordinata, ricomposta ad unità; lo stesso atto dell’inventio 313

si dona come riscoperta4 di un’ipotesi di unità tra tutte quelle possibili che rimangono celate tra le pieghe dal procedere compositivo: progettualità inespresse. La transcalarità insita nell’approccio teatrale al luogo-spazio5 risulta essere la caratteristica essenziale capace di arricchire l’abaco delle variabili su cui il metodo compositivo esercita la lettura interpretativa-inventiva del luogo. Progettare nel territorio-teatro significa narrarne la gestazione; come in una fabula, il progetto compartecipa all’alto grado di complessità di cui si compone il territorio – struttura –, intessendo nuove trame di relazione significanti tra un parterre di figure. A tal fine, l’esercizio di lettura del luogo necessita l’apporto di saperi6 ambiguamente tesi tra storia e mitologia, letteratura e cronaca documentata, disvelamento della tradizione figurativa e l’appiattimento imposto della maschera del tempo contemporaneo. Se considerassimo il “caso Venezia”7, l’investigazione della tradizione figurativa franerebbe nel campo delle ricerche – tutt’oggi oggetto di discussione – che mirano a perimetrare il tempo zero di una possibile origo urbis. Su tale difficoltà, Sergio Bettini in Venezia, nascita di una città, invoca il ritorno in laguna della ormai fuggiasca Ephitimbidia libitina Venus – ctonia e legata al culto dei morti8 – riponendo tale speranza in un futuro nel quale la città sarebbe stata rifondata nella ritrovata consapevolezza della propria genesi; la Venere Hope di Carlo Aymonino, olimpica e canoviana, superna e non più infernale, indica nel progetto di architettura il luogo adatto per l’accadere della speranza. Attendendo il ritorno di Venus e per sopperire alla mancanza di un’origine evidenziata da prove documentate, a Venezia si manifesta il desiderio senza tempo dell’invenzione della fondazione e con essa quella degli archetipi figurativi mediante il progetto di spazi fisici, mentali e comportamentali, predisponendo narrazioni laddove i documenta sono incongruenti: dal rituale dello sposalizio del mare, all’allegorica Venere, erotica e mesta, ritratta da Sebastiano del Piombo nella Morte di Adone, all’immagine di una fondazione avvenuta per opera di fuggiaschi urbani ravennati9. Il Venusberg veneziano non identificato costituisce il luogo archetipico del teatro lagunare veneziano e rappresenta lo spazio d’invenzione prediletto per saggiare nuove poetiche urbane; scelta una tra le possibili origini, si diffondono ennesime immagini-progetti per la me314

ALESSANDRO VIRGILIO MOSETTI

Ernst Stern, modello girevole per Der Kaufmann von Venedig, 1913

desima città-territorio Venezia. All’interno della lacuna fondativa gli archetipi figurativi si rivelano e si combinano come elementi intessuti tra le maglie di una struttura territoriale primigenia – ager incognitus10 – disegnata attorno a emergenti antropici imbrigliati da cardi e decumani che identificano sistemi di centuriazione di agri coltivati e aquatici; nell’indecisione dell’origine si liberano energie progettuali, temi e immagini. Su questo punto, gli studi di wladimiro Dorigo e di Ernesto Canal o Sergio Bettini improntati alla discoperta dell’origine romana veneziana sono tutt’ora in via di sperimentazione e trovano già terreno fertile per essere convalidati a distanza di trent’anni di discussione11. Oltre all’individuazione delle trame agrimensorie che disegnano la struttura nervosa di un intero ambito regionale o transregionale – le tre Venezie –, assume un ruolo centrale la discussione circa la difficoltà di investigare l’origine delle figure veneziane del comporre. Sergio Bettini affronta direttamente il problema della semiogenia delle figure veneziane nella trascrizione di lezione pubblicata in Proposizioni sulla città12 a cura di Giuseppe Mazzariol. Il testo è rilevante per la lettura che ne viene offerta da Giancarlo Leoncilli Massi nel momento in cui l’autore spoletino è chiamato a disegnare il piano di allestimento della mostra “Venezia e lo spazio scenico” nel 1979: A Venezia si addice un discorso del carattere che la Choay […] definisce semiogenico, e spiega: “La semiogenia è un racconto o piuttosto una sinfonia di racconti che si interallacciano per narrare la genesi della città ai diversi piani semantici della logica (gli elementi di base e le regole delle loro combinazioni) della mitologia (origine delle prime costruzioni) dell’archeologia (la storia che rivela le analisi delle rovine e dei testi antichi) della psicologia (analisi operatoria della creazione). In effetti, questo racconto interallacciato costruito come un’architettura ne costituisce la metafora del soggetto stesso: esso mima in qualche modo il processo costruttivo”.13

Il riferimento a Françoise Choay14 istruisce sui mezzi necessari trans-disciplinari atti a indagare le complessità di cui si costituisce un intero territorio, costituendo il campo delle ricerche con il quale 316

ALESSANDRO VIRGILIO MOSETTI

il metodo compositivo architettonico necessita di confrontarsi per approdare all’ipotesi progettuale; definire il processo semiogenico come tecnica fondata su una metodologia metaforica di estrazione di fatti rivolti ad arricchire la narrazione della genesi della città, può ambire a definire uno dei caratteri fondanti dello stesso progettare per via compositiva. Per Gian Carlo Leoncilli Massi la riflessione sulla lezione di Sergio Bettini e su Françoise Choay diviene un argomento centrale di studio riferito alle fasi concettuali e operative della stessa metodologia compositiva. In un appunto conservato all’Archivio Progetti Iuav, Gian Carlo Leoncilli Massi scrive: “Semiogenia – il problema figurativo di Venezia. Da Proposizioni sulla città, p.131”15. La questione ritratta da Bettini che lega la lezione generale sulla semiogenesi al caso specifico della metropoli lagunare, diviene per Leoncilli Massi un problema fondativo per lo stesso approccio progettuale a Venezia. La difficoltà veneziana viene riscontrata nelle lacune, già ampliamente discusse da storici, archeologhi e antropologi, anteposte alla discoperta degli archetipi legati inesorabilmente al mitico Venusberg incarnato dal “sacrario di Venere”16, inventato da Alvise Cornaro in figura di isola sulla velma posta tra San Giorgio Maggiore e San Marco. La difficoltà progettuale veneziana legata al tema della figurazione è indagata da Leoncilli Massi, a più riprese, negli scritti teorici17. L’atto compositivo si nutre di fasi e ritmi giocati nello scarto tra la velocità del pensiero e quello della mano che disegna18; visceralmente legato alla fase della pre-cognizione a cui risponde la pre-figurazione, il progetto intende approdare alla re-invenzione delle figure del comporre scelte per coerenza sulla base del tema. È questo, un lavoro di archivio e di memoria19 indirizzato a redigere un abaco – la così detta “scatola degli arnesi” il cui nome richiama direttamente Palladio20 – nel quale le figure si danno al compositore pronte per essere combinate: il progetto si disvela come luogo dell’invenzione di una unità inedita a partire da frammenti che appartengono alla tradizione figurativa del luogo-territorio. Un sentire “scenico” permea tutto il processo compositivo; il theatrum-territorio approda a rappresentazione. A tal riguardo, nel capitolo La messa in scena dello spazio contenuto in La leggenda del comporre, Leoncilli Massi si domanda:

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DER VENUSBERG

Come si sviluppa la messa in scena dell’idea di spazio, quale soggetto di architettura, che consente di parlare di composizione, secondo la particolare ottica qui perseguita dell’educazione “all’arte dello spazio”, la sua unità perduta che è la questione principale su cui si fonda la ricerca della leggenda del comporre?21

Associare lo spazio alla scena costituisce l’escamotage per l’utilizzo di quegli stessi artifici retorici22 che sono capaci di confermare quanto il risultato del processo compositivo debba essere esperito mediante parodia, iperbole, metonimia, metafora o allegoria di una unità figurale di cui il luogo, eventualmente, è dimentico23. L’interpretazione del luogo – dove vi è interpretazione si innesta l’invenzione24 – che si fonda nella fase della precognizione e che si lega al sentire proprio all’autore coincide con l’atto iniziale di un processo compositivo votato alla teatralizzazione del luogo stesso. Abnegato nel ricomporre l’infranto, l’architetto compositore è cosciente di lavorare nella dimensione di un progetto percepito come scrittura di generi letterari inattuali25: leggende, miti, fabulae e trascrizioni freudiane di sogni26. Contrariamente a Mantova e Firenze ed ai luoghi molteplici del centro Italia, a Venezia, il procedere per via compositiva descritto da Leoncilli Massi in La composizione commentari e nel più tardo La leggenda del comporre, è investito da mutazioni e necessarie difficoltà procedurali e viene affrontato direttamente nel progetto di allestimento per la Biennale del 1979; il processo diviene esso stesso un labirinto27 non risolto dove sono plurimi gli inganni dettati dal contesto stesso, difficile al lasciarsi scomporre. Il problema dell’erosione formale ad opera del riflesso, della luce e dell’acqua spinge l’autore a presentare il progetto in La nuova città chiarendo come la scelta di lavorare con tali sensazioni immateriali renda difficile il perseguimento del fine che il processo compositivo deve assumersi: la formazione dello spazio. Operare con elementi quali la luce, il colore e il riflesso fa sì che tali elementi non possano “essere formati, cioè dominati e composti, che nell’ordine del tempo… Superficie quasi assoluta di colore: indeterminabile con le formule geometriche, inesprimibili con una sintassi prospettica, sottratte alle leggi classiche della composizione”28. Il progetto per la mostra “Venezia e lo spazio scenico” costituisce il piano allestitivo a scala urbana nel quale è inserito – pars inter partes – 318

ALESSANDRO VIRGILIO MOSETTI

Cantiere della messa in scena de La Nave di Gabriele D’Annunzio, isola di Sant’Elena, 1938

il Teatro del Mondo di Aldo Rossi. Il progetto, solo in parte realizzato, si struttura attraverso la costruzione all’interno dello spazio pubblico di piccoli spazi scenici – periaktoi –, una zattera dorata galleggiante nel bacino marciano – il Bucintoro – e un labirinto posto in asse con il teatro di Rossi posizionato in piazzetta San Marco29. I piccoli spazi scenici riflettono ossessivamente sulla concatenazione di immagini che strutturano la ragione della metropoli lagunare: l’effimero teatrale urbano, il concetto simmeliano di maschera, l’oro ravennate, il “gradino muschiato”30 cantato da Guglielmo Bilancioni, il problema dell’origine della città, lo scontro, mai risolto, tra finzione e verità, mito e storia. Ritratte le specificità all’agire dell’architetto, il progetto curato da Leoncilli Massi presenta l’inattualità di un procedere compositivo rivolto alla ricerca dell’invenzione-rifondazione del luogo. Il progetto si presenta come crisalide della memoria ossia come medium di evocazione di una mnemonica urbana capace di rivelare i propri saperi solo mediante l’utilizzo attivo degli spazi che propone. Periaktoi e labirinti raffigurano i dispositivi spaziali-scenici atti a interpretare dodici luoghi ordinari della città. Il movimento tra un luogo e l’altro compone di per sé una ritualità nell’attraversamento della città in parte voluta e in parte indotta, riconducibile per tradizione alle processioni ritratte da Gentile Bellini, alla visita urbana conclusa in più giornate descritta da Albrizzi nel Forestiero illuminato31, o dai cortei performativi del Living Theatre svoltisi a Venezia nel 1975. Le tre mappe allegate al catalogo della mostra del 1979 recepiscono tali tradizioni: La città come avventura che ritrae la Venezia di Ludovico Ughi del 1729 e La città come morte (riferita alla situazione contemporanea) riferiscono sulla necessità di camminare all’interno del labirinto urbano operando a ogni passo un complesso gioco di riconoscimenti, conferme e fraintendimenti sulle modificazioni subite dal tessuto urbano. A questo parterre, la terza carta del Gioco dell’Ocha aggiunge il tema della burla seria – tema legato all’ars memoriae nella lettura di Lina Bolzoni32 –, l’imprevisto e la casualità del movimento all’interno di una rete di luoghi che possono essere implementati a dismisura. Analogo il significato attribuito ai periaktoi previsti lungo il percorso interno tra piazza San Marco e Palazzo Grassi. Resi anch’essi percorribili, gli stessi dovevano poter continuare a indurre una sostanziale ambiguità della visione, di volta in volta accelerandola per 320

ALESSANDRO VIRGILIO MOSETTI

trasformarla nel riflesso d’oro, parzializzandola, come neutra cesura, o approccio guidato, perseguendo quindi il medesimo scopo: indurre un effetto di straniamento rispetto all’uso quotidiano dello spazio per ritornare a riconoscerlo, prenderne coscienza, in una contemporaneità di confronto tra traccia significante ancora reperibile nel reale e nel suo antico uso33. Un programma scenico pluriscalare imperniato sul rituale di visita di luoghi aperti alla città consente di collocare la mostra veneziana del 1979 in seno alle sperimentazioni accadute o in accadimento a Roma nello stesso anno; tra tutte, Parco Centrale codificava, tra premesse progettuali e intenzioni politiche, l’uso dell’effimero teatrale sulla larga scala urbana-metropolitana34. L’operazione condotta da Leoncilli Massi a Venezia, si muove nel riconoscimento sincrono tra luogo in quanto spazio scenico, e un progetto di architettura operato per via compositiva in grado di incarnare una funzione teatrale mediante la reinvenzione di un tipo, quale il periaktos, a partire dall’ossessione figurativa per alcuni temi: il “gradino muschiato”, la soglia, la porta scenica. Distante dall’appropriazione scenica di Max Reinhardt, filologica e romantica, che piega Venezia alle esigenze espressive di una città letteraria35, l’operazione di Leoncilli Massi si colloca su di un piano differente: l’esigenza della performance viene meno, i periaktoi si offrono alla spontaneità: divengono artefatti da cui guardare ed essere guardati; ricercano simultaneamente un proprio principio insediativo legato al luogo e alla sua immagine nonché all’immaginario che lo stesso luogo è capace di evocare. Similarmente, l’irrealizzata Macchina del Teatro o Labirinto del Teatro inventata per piazza San Marco si struttura come un corpo allungato di settanta metri che fagocita tutti i tipi d’invenzione che per distaccamento compongono i singoli moduli teatrali disposti negli altri luoghi della città: il principio generatore planimetrico è il disegno del labirinto in pietra calcarea iscritto sul piano della piazza. All’interno, superfici trattate a specchio rifrangono la luce e moltiplicano gli sguardi facendo sì che il camminare venga sollecitato continuamente da immagini di città deformi pregne di possibilità di invenzione; sulle stesse pareti trovano spazio immagini relative a stampe e incisioni che descrivono come se fossero illustrazioni allegate a una fabula, la tradizione scenica del luogo. 321

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Alessandro Virgilio Mosetti, Labirinto del Teatro/ Macchina del Teatro, 2020

Alessandro Virgilio Mosetti, Periaktos/Modulo quadrifronte, modello, 2020

Le stesse complessità che la città antepone all’essere letta compositivamente – la luce, l’acqua, il riflesso – divengono temi di progetto. Come in un sogno accaduto36, ciò che rimane dell’esperienza del 1979 è l’invenzione di una metodologia progettuale tesa al riconoscimento del luogo-territorio in quanto teatro di civiltà. Fuori dal tipo che ambisce a definire spazi circoscritti dove mettre en scène, il teatro diviene il luogo mentale dove il progetto accade in accordo con le tecniche dell’arte scenica e retorica che muovono nel complesso le fasi del comporre; il teatro è luogo di essenziale astrazione ed estrazione, progetto di mnemonica urbana-territoriale; è l’archivio nel quale investigare le complessità della genesi del luogo; è il “regno intermedio”37 nel quale produrre architettura in teoria e pratica, ennesime possibilità di città.

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ALESSANDRO VIRGILIO MOSETTI

Note

1. Gian Carlo Leoncilli Massi (Spoleto, 1939-2007) laureato nel 1968 alla Sapienza Università di Roma con Ludovico Quaroni, ricopre la carica di professore incaricato in Tecniche delle costruzioni e successivamente associato in Composizione architettonica all’Università Iuav di Venezia dove insegna dal 1974 al 1985. Trasferitosi a Firenze, dal 1985 è docente ordinario in Composizione Architettonica e coordinatore del Corso di Dottorato “Le Figure del Comporre”. Dal 1987 è professore straordinario di Composizione Architettonica. Nel 1988 allestisce la mostra personale alla Casa del Mantegna a Mantova. Architetto compositore, scenografo per il Festival dei Due Mondi, è autore di monografie quali La composizione commentari e La leggenda del comporre, e di numerosi saggi e articoli pubblicati su riviste nazionali e internazionali che pongono in luce la centralità della pratica del comporre all’interno della teoria-didattica-prassi della disciplina architettonica. 2. “Serie di avvenimenti concatenati […] Voce dotta, lat. tardo theoria […] originariamente ‘ambasceria a una festa religiosa’ e, più tardi, ‘osservazione, contemplazione, speculazione’, forse comp. da theà ‘spettacolo’ e omái ‘vedere’”, cit., S. Battaglia (a cura di), voce “Teoria”, in Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino 1968, p. 913. 3. G. Polesello, Intervento, in AA.VV., Idea di Venezia, atti del convegno 17/18 giugno 1988, Quaderni della 325

Fondazione Istituto Gramsci Veneto, Arsenale editrice, Venezia 1988, p. 189. 4. Cfr. L. Semerani, La tradizione ancestrale e l’accidentalità dell’invenzione, in A. Gallo, G. Marras (a cura di), L’invenzione della tradizione. L’esperienza dell’architettura, Il Poligrafo, Padova 2017, p. 43. 5. Cfr. la nozione di “theatrum-territorio” in: A. Dal Fabbro, Astrazione e memoria. Figure e forme del comporre, Clean, Napoli 2009, p. 14. 6. Sull’argomento si veda G. Forcolini, Storia mito e architettura. Per una dialettica del concetto di luogo, prefazione di P. Portoghesi, Lerici, Cosenza 1976, pp. XIII-XXIII. 7. Si fa volutamente riferimento a C. Aymonino, Il caso ‘Venezia’. Difficoltà di un progetto, in “Casabella”, n. 436, maggio 1978, pp. 10-11; cfr. G. Simmel, Venedig, in “Der kunstwart. Halbmonatsschau über Dichtung, Theater, Musik, bildende und angewandte kunst”, 1907; tr. it. di F. Corecco e C. Zürcher (a cura di) Roma, Firenze Venezia, Meltemi, Sesto San Giovanni 2017, pp. 61-69. 8. Qui al lutto si lega il tema della morte urbana di Venezia. Sul punto, si veda il docufilm di Guido Vianello Venise. La mort d’une civilisation urbaine del 1974. 9. S. Bettini, Venezia. Nascita di una città, Electa, Milano 1978, pp. 66-67. 10. w. Dorigo, Venezia origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, Electa, Milano 1983, vol.1, p. 18. DER VENUSBERG

11. Si veda il recente studio di F. Madricardo, M. Bassani, G. D’Acunto, A. Calandriello, F. Foglini, New evidence of a Roman road in the Venice Lagoon (Italy) based on high resolution seafloor reconstruction, in “Scientific Reports” n. 11, art. n. 13985, 2021, https:// www.nature.com/articles/s41598-02192939-w. 12. S. Bettini, Lezione, in G. Mazzariol (a cura di), Proposizioni sulla città. Saggi di Giuseppe Mazzariol, R. Buckminster Füller, Isamu Noguchi, Gyorgy Kepes, Louis Kahn, Hans Blumenfeld, Artur Erickson, Sergio Bettini e Dino Formaggio, Quaderni dell’Università Internazionale dell’Arte Venezia-Firenze, Neri Pozza, Vicenza 1976, pp. 131-146. 13. Ivi, p. 138. 14. Cfr. F. Choay, Utopia e semiogenesi, in R. Cirio, P. Favari (a cura di), Utopia rivisitata. Almanacco Bombiani 1974, Bompiani, Milano 1974. 15. Si menziona il seguente dato di archivio: Appunti da testi vari su Venezia: Bettini, s.d.; segnatura: ‘Trincanato 2. Attività scientifica/4/112’; numero progressivo 052950, Archivio Progetti Iuav. 16. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Einaudi, Torino 1985, p. 240. 17. Si fa riferimento ai testi essenziali: G. C. Leoncilli Massi, La composizione commentari, Marsilio Editori, Venezia 1985; G. C. Leoncilli Massi, La leggenda del comporre, Alinea, Firenze 2002. Su Venezia: G. C. Leoncilli Massi, …il 27 agosto del ’79 a Venezia, in “Gran Bazaar”, marzo/apri326

le, 1980, p. 93; Id., La ragione diversa: tre progetti-tesi di laurea, in “Gran Bazaar”, dicembre, 1981, p. 80; G. C. Leoncilli Massi, La luce, l’acqua. La verità della finzione, in E. Capitanio, U. Pizzarello, Guida alla città di Venezia. Dorsoduro-Giudecca. La luce e l’acqua, L’Altra Riva, Venezia 1986, pp. 26-29; G. C. Leoncilli Massi, Il sogno, la favola, la ragione e il reale: temi per due progetti veneziani, in “La Nuova Città”, n. 2, 1993; Id., Voluttà, frode, felicità, inganno, in “La Nuova città”, n. 6, Firenze 1994. 18. G. C. Leoncilli Massi, La composizione commentari, cit., p. 22. 19. Il riferimento alla memoria non è casuale. Specificatamente al caso del progetto per Venezia e lo spazio scenico, Marco Dezzi Bardeschi riferisce come l’intero programma allestitivo costituisca la prova di un rinnovato interesse nei confronti dell’ars memoriae; a questo punto la costruzione della scatola degli arnesi assume la qualità di archivio di Mnemosyne. Cfr. M. Dezzi-Bardeschi, Venezia Spazio Scenico, in “Domus”, n. 602, 1980, p. 13. 20. Per una corretta contestualizzazione dell’espressione “la scatola degli arnesi”, si veda l’interessante saggio di D. Spoletini La terapia: la figura, la scatola degli arnesi, la memoria, la variazione, come strumenti del comporre, in F. Fabbrizzi, A. Ricci, D. Spoletini, Architettura. ‘lineamenta’ e ‘structura’, introduzione di G. C. Leoncilli Massi, Alinea, Firenze 1994, pp. 66-74. 21. G.C. Leoncilli Massi, La leggenda del comporre, cit., p. 94.

ALESSANDRO VIRGILIO MOSETTI

22. Ivi, pp. 188-198.

La Biennale di Venezia, Venezia 1980, pp. 69-70.

23. Ivi, pp. 18-19. 24. G. Steiner, After Babel. Aspects of language and translation, Oxford University Press, Oxford 1975; tr. it. di C. Béguin, R. Bianchi, Dopo Babele, Garzanti, Milano 2004, p. 52. 25. “rigenerare le antiche favole e ritornare ad una sorta di mitologia governata da una musica segreta ‘le cui cadenze destano fantasmi remoti e benefici come sorti dal cuore, circonfusi di stupore, quasi apparizioni vocate di figure leggendarie’”, G. C. Leoncilli Massi, La leggenda del comporre, cit., p. 26.

31. Cfr. G. B. Albrizzi, Forestiero illuminato intorno le cose più rare, e curiose antiche, e moderne della città di Venezia e dell’isole circonvicine, Girolamo Albrizzi, Venezia 1784. 32. Cfr. L. Bolzoni, L’arte della memoria. Antiche esperienze e moderne suggestioni, in “Quaderni di italianistica”, XIII, n. 1, 1992, p. 88. Per un approfondimento sulla nozione di ludus memoriae, cfr. L. Bolzoni, Il gioco delle immagini. L’arte della memoria dalle origini al Seicento, in AA.VV., La fabbrica del pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Electa, Milano 1989, pp. 16-65.

26. Ivi, p. 18. 27. Id., Lettera a Isabella d’Este, in G. Fraziano, A. Rossi (cura di), I labirinti, le piazze, le porte, i ponti, i palazzi, le case, i giardini: architetture di Giancarlo Leoncilli Massi, Provincia di Mantova: Casa del Mantegna, Mantova 1988, p. 58. 28. Id., Il sogno, la favola, la ragione e il reale: temi per due progetti veneziani, cit., p. 26. Cfr. A. Dal Fabbro, Materialità e immaterialità di Venezia, in Id, Astrazione e memoria. Figure e forme del comporre, cit., pp. 44-47. 29. Id., ...il 27 agosto del ’79 a Venezia, in G. C. Leoncilli Massi, L. Semerani, Il ricordo di un sogno, in “Gran Bazaar”, marzo/aprile, 1980, pp. 93-97. 30. G. Bilancioni, Tenore di verità nella festa veneziana, in M. Brusatin (a cura di), Venezia e lo spazio scenico, 327

33. G. C. Leoncilli Massi, La luce, l’acqua. La verità della finzione, cit., p. 26. 34. Cfr. R. Nicolini, F. Purini (a cura di), L’effimero teatrale. Parco centrale e meraviglioso urbano, a cura di G. Bartolucci, La Casa Usher, Firenze 1981, pp. 11-18. 35. Ci si riferisce al progetto di allestimento di D. Torres per la Biennale Teatro del 1934 con la messa in scena del Mercante di Venezia in campo San Trovaso con regia di M. Reinhardt. 36. G. C. Leoncilli Massi, ...il 27 agosto del ’79 a Venezia, cit., p. 93. 37. Id., La composizione commentari, cit., p. 14. Cfr. F. Rella, Miti e figure del moderno, Pratiche, Parma 1981, pp. 8-10.

DER VENUSBERG

Venezia proteiforme Gundula Rakowitz

L’orizzonte dello spazio scenico veneziano diviene strumento per leggere il passato e progettare il futuro interpretando il tema della teatralità in relazione alla complessità spaziale e alla sua potenza trasformativa. Di qui è possibile e necessario pensare questa idea su vasta scala e leggere l’intero territorio metropolitano lagunare come Venezia proteiforme in scena. Impossibile non ricordare la lezione di Ovidio nelle Metamorfosi. Nelle parole di Lèlege a Teseo: Vi sono, o fortissimo, degli esseri la cui forma subisce una volta un mutamento e com’è cambiata rimane. Ma ve ne sono di quelli che hanno la facoltà (ius) di assumere varie figure, come te, Proteo, abitante del mare che fascia la terra.1

“Essere nel diritto di attraversare molteplici figure”, tutte assumendole, anche le più contrarie, e tutte lasciandole, incessantemente. A Proteo, in quanto insieme di forme sempre cangianti, è proprio non solo predire il futuro ma persino determinarne il corso mutando, con la predizione, le intenzioni stesse del dio massimo2. Infatti, la predizione di Proteo a Tètide di essere madre di un giovane destinato a superare le gesta del padre (Peleo) fa sì che Giove, per quanto arda di fuochi d’amore per Tètide, rinunci a congiungersi con lei: conubia fugit “perché non avesse il mondo qualcosa di più grande di Giove”3. Il continuo mutamento di forme e la facoltà di predizione che gli è congiunta si installa in uno scenario che è quello dell’appartenenza originaria, “da sempre”, della scena della metamorfosi marine. Basti ricordare la figura di Glauco (un pescatore che un’erba prodigiosa ha trasformato in dio marino, in deus aquae) che, pur mortale, al mare apparteneva da sempre (altis deditus aequoribus, iam tum exercebar in illis4), ed è questa appartenenza originaria che gli conferisce uno ius in aequore, un diritto sul mare, non minore di quello di Proteo e di altri dei marini. Si tratta dunque di uno ius che nel e dal mare nasce, non è ad esso esterno: è il nesso originario di ius e iustitia, del “render giustizia”. 329

Cos’è la scena proteiforme se non questo sommergersi della parola (della scena e dello ius, in definitiva) nell’onda e questo scorrere dell’onda sulla parola? Ancora Ovidio nelle Metamorfosi: “E non lasciarti impressionare anche se prenderà cento false forme, e invece tienla forte qualunque cosa diventerà, finché non riassumerà il suo aspetto vero”. Così disse Proteo, e rinascose il volto nell’acqua, lasciando scorrere un’onda sulle sue ultime parole.5

Facendo incontrare la parola con le onde, Proteo, grazie alla sua capacità trasfigurativa, fa nascere in quell’attimo un luogo nuovo magico all’interno del teatro veneziano lagunare. Il regno, la scena, della Venezia proteiforme è duplice: il mare “infinito”, “da sempre”6 e la terra “regolata”, “centuriata”. Di questa instancabile eterna lotta tra mare e terra lo sguardo di Venezia partecipa in quanto esso fissa, ferma il momento. La figura si sdoppia: Venezia è Proteo, figlio di Poseidone e Fenice, divinità del mare, dei fiumi e delle distese d’acqua nonché oracolo e mutaforma. Dall’altro lato Venezia è Medusa, il suo sguardo: Venezia fissata dallo sguardo pietrificante di Medusa, altra figura mitologica, una delle tre Gorgoni, figlie delle divinità marine Forco e Ceto7. Dove si trova la Medusa se non sotto la superficie dell’acqua, sotto il forum proteiforme, dove le onde portano le parole di Proteo? Sia lo sguardo della Medusa veneziana con i suoi canali-serpenti, sia la facoltà trasformativa del Proteo veneziano, costituiscono la connessione della molteplicità, delle mille parti o insulae della laguna, una connessione allo stesso tempo frammentata, spezzata. Nella specificità della metropoli lagunare veneziana la nozione di “scenario” allude alla consistenza, all’interno dello stesso territorio policentrico, di molteplici forme di narrazione dello spazio geografico e paesaggistico, talvolta direttamente intrecciate nel medesimo luogo, altrove connesse da legami associativi particolari, non necessariamente di contiguità, e capaci di grandi potenzialità progettuali e trasformative. Il rapporto tra invenzione e tradizione a Venezia è in continua tensione. 330

GUNDULA RAkOwITZ

Manfredo Tafuri parla perfino di tradimento, di una tradizione tradita e tradotta, si potrebbe aggiungere. “Tradizione, dunque, significa a Venezia continuità del ‘tradimento’: esattamente il contrario di ogni vischiosità conservatrice”8. Questa necessità veneziana della continuità reinventata è constatata anche da Ludovico Zorzi in Intorno allo spazio scenico veneziano, riprendendo il saggio di Sergio Bettini sulla nascita della città d’acqua nella sua “volontà di forma” o “intenzione artistica”, nel pensiero di Alois Riegl9. Del resto, l’individuazione di un fondamentale Kunstwollen si accompagna, per Venezia, alla difficoltà di definire gli esordi e di cogliere in essi i segni che ne marcano la paradossale singolarità e continuità. Come per ogni “città storica”, possiamo esercitarci a inventariarne le “origini” (pur sapendo che, dal punto di vista epistemologico, si tratta di un concetto quanto meno obsoleto), riconoscendo nell’estensione geografica dei primi insediamenti la forma archetipica della città-territorio.10

Proprio sulla forma archetipica della città lagunare e la sua origine si interroga wladimiro Dorigo nel suo fondamentale Venezia origini. Fondamenti, ipotesi, metodi: è qui rinvenibile anche una teoria della città per parti con l’impiego del montaggio, riferito alla costruzione simultanea del mito e della proiezione e modificazione futura di Venezia: Per un’analisi della formazione del territorio urbano quale oggi si presenta si esige anzitutto una paziente opera di storicizzazione. Si tratta di modificarne il disegno topografico attuale, introducendo in esso, a ritroso, gli elementi certi che, a grande o a piccola scala, risultano scomparsi nel corso del tempo, ma ci hanno lasciato notizia mediante rappresentazioni planimetriche, rappresentazioni prospettiche controvertibili, descrizioni e misurazioni […]. I dettagli apparentemente più banali e insignificanti […] possono risultare infatti preziosi per intendere la tendenza, i caratteri, e gli elementi precisi di trasformazioni più complesse a scala urbanistica, per ricostruire almeno parzialmente l’iconografia e le dimensioni di ambienti ineluttabilmente scomparsi, per tentare montaggi a mosaico di parti di città.11 331

VENEZIA PROTEIFORME

Qui e altrove zattera e piazza d’acqua, 2022

Ombra di progetto, 2021-2022

Intrecci e intersezioni, 2021-2022

Nastri e labirinti, 2019-2022

Griglie e intelaiature, 2020-2022

Telai strutturali, 2021-2022

Intagli e scavi, 2021-2022

Insediamenti scenici, 2021-2022

Sistemi lineari, 2022

Torri interstizi e Zwischenräume, 2021

La metropoli lagunare veneziana è qui assunta come territorio di sperimentazione progettuale del tema Theatrum Venetiae nel rapporto combinato tra mare e terra, tra luoghi marini e luoghi della terraferma, tra insula e arcipelago, per spingerci verso luoghi ibridi e anfibi. Mostrando le differenze che un ripensamento radicale dello spazio scenico produce, la ricerca si propone di impiegare, risemantizzandoli, alcuni termini-concetto. Al fine di acclarare l’intentio di questo studio, si assume la definizione che Giulio Camillo Delminio agli inizi del Cinquecento dava di Theatrum mundi: un anfiteatro ligneo, privo di scena, in cui si affollano immagini e simboli con i quali si intendeva rappresentare sia la continuità del mutamento dell’universo sia la visione del mondo e della natura delle cose percepita come mezzo della sapienza infinita12. Nel costruirsi della ricerca si intende mostrare la differenza che, originandosi all’interno della medesima concezione del teatro, si definisce come sistema di luoghi mnemonici, di orientamento e guida del pensiero produttivo. L’idea contemporanea di spazio scenico tende, più che a dare le coordinate di un mondo ordinato, a disorientare, moltiplicando all’infinito i “punti di vista”, i luoghi in cui gli spazi scenici si danno in forma di sistema ad alto grado di indeterminazione. Ciò è inteso avvenire soprattutto quando il concetto di spazio scenico si ibrida con quello di spazio architettonico urbano e territoriale. Affrontando il caso veneziano “resta in mente, piuttosto che una serie di teatri e di spettacoli, uno spazio teatrale che coincide con l’intero tessuto della città”13. Le diverse parti dello spazio scenico odierno travalicano il limite del palcoscenico e della fabrica del teatro nello spazio urbano. A ciò corrisponde il mutamento dello statuto di scenografia da arte pittorica ad arte spaziale, da rappresentazione statica a performance dinamica (e non solo), basata su elementi multipli del linguaggio compositivo verso la ratio degli spazi e della trasfigurazione del mondo. La spazializzazione dell’arte scenica, intesa come collocazione nello spazio di elementi del pensiero, rende il teatro luogo atto all’evento prodotto congiuntamente da attori e spettatori, con il potere di trasformare un luogo-spazio scenico in uno spazio inventivo. Per molto tempo la scenografia è stata considerata soltanto come una sorta di “assistente alla regia”, mentre oggi si richiede un approccio diverso, in grado di considerare gli elementi della scenografia 342

GUNDULA RAkOwITZ

(la luce, il suono, la tecnologia scenica etc.) come attori e non come meri strumenti. Ciò permette di considerare il rapporto tra cabina di regia e teatro del mondo in una nuova visione sincretica. L’esigenza di cui la proposta intende farsi carico è quella di una caratterizzazione atemporale e simultaneamente temporale dell’idea di scena, del “qui ed ora”, riguardandola sub specie di un “altrove” spazio-temporale, di un sistema di luoghi simultaneamente presenti e assenti: luoghi di memoria e luoghi di progettazione, di immaginazione produttiva. In concreto, è necessario affrontare il luogo problematico del rapporto tra teoria e pratica, tra archivio e sperimentazione, tra memoria e immaginazione. Lo spazio scenico può prendere la forma di “idea-modello”, di figurazione astratta e sensibile al tempo stesso. Le prove di progetto14 si sviluppano, quindi, attraverso un’idea, considerata la “parte fissa” del principio compositivo, per giungere successivamente a considerare variazioni/innovazioni sul tema. Variazioni progettuali estremamente libere, che costituiscono quella “parte mobile” in grado di approdare alla sfera dell’immaginazione e dell’invenzione. Tra i temi progettuali sperimentati si presentano: Qui e altrove zattera e piazza d’acqua, Ombra di progetto, Intrecci e intersezioni, Nastri e labirinti, Griglie e intelaiature, Telai strutturali, Intagli e scavi, Insediamenti scenici, Sistemi lineari, Torri interstizi e Zwischenräume, Quinte sceniche e ritmi. Sviluppando il tema di teoria e progetto dell’architettura scenica veneziana si propone la progettazione di un sistema di luoghi-spazi da sperimentare sia in un rapporto pluriscalare nella città metropolitana lagunare policentrica di Venezia sia in un’ottica intertemporale e interdisciplinare: un teatro sperimentale che, partendo dalla Regiekabine, affronta simultaneamente il tema del grande teatro lagunare, Venezia proteiforme.

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VENEZIA PROTEIFORME

Quinte sceniche e ritmi, 2021

Note

1. P. O. Nasone, Metamorfosi, a cura di P. B. Marzolla, con uno scritto di I. Calvino, Einaudi, Torino 1994, VIII, 728-731. Nel testo latino a fronte si legge: “sunt, quibus in plures ius est transire figuras, ut tibi, complexi terram maris incola, Proteu”. 2. Ivi, XI, 221-223. 3. Ivi, XI, 224. 4. Ivi, XIII, 920-921. 5. Ivi, XI, 253-256. 6. Omero, Odissea, introduzione e traduzione di M. G. Ciani, commento di E. Avezzù, testo greco a fronte, Milano, Rizzoli 2008, l. V, v. 158. 7. Ovviamente, le Gorgoni sono figura pregnante del fondamentale testo di Camillo sull’idea di teatro. Cfr. G. C. Delminio, L’idea del teatro, Agostino Bindoni, Venezia 1550 (postumo), qui citato nell’edizione a cura di L. Bolzoni, L’idea del teatro con “L’idea dell’eloquenza”, il “De transmutatione” e altri testi inediti, Adelphi, Milano 2015, pp. 202-218. 8. M. Tafuri, Tempo veneziano e tempo del ‘progetto’: continuità e crisi nella Venezia del Cinquecento, in L. Puppi e G. Romanelli (a cura di), Le Venezie possibili. Da Palladio a le Corbusier, Electa, Milano 1985, p. 23. 9. S. Bettini, Venezia. Nascita di una città, Electa, Milano 1978. 345

10. L. Zorzi, Intorno allo spazio scenico veneziano, in La Biennale, Venezia e lo spazio scenico, catalogo della mostra ideata da Paolo Portoghesi e Maurizio Scaparro, La Biennale, Venezia 1979, p. 82. 11. w. Dorigo, Venezia origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, vol. 2, Electa, Venezia 1983, p. 428. 12. Cfr. U. Marchetti, Nota introduttiva, in G. C. Delminio, L’idea del teatro, a cura di U. Marchetti, Severgnini Stamperia d’arte, Milano 1985, p. 7. 13. F. Mancini, M. T. Muraro, E. Povoledo, I Teatri di Venezia, tomo 1, Teatri effimeri e nobili imprenditori, Corbo e Fiore, Venezia 1995, Introduzione, pp. non num. 14. Le immagini che accompagnano il testo rappresentano i risultati dei lavori degli studenti del primo anno del Laboratorio di Progetto 1, dei corsi Teorie e tecniche della Progettazione Architettonica e Elementi di Composizione Architettonica presso l’Università Iuav di Venezia negli a.a. 2020-2021, a.a. 2021-2022 tenuti da G. Rakowitz. Il Laboratorio di progettazione 1 costituisce per gli studenti una prima esperienza di avvicinamento alla conoscenza dei fondamenti del progetto architettonico e le teorie della progettazione attraverso un percorso didattico articolato tra lezioni dedicate alle teorie dell’architettura e una fase analitica e progettuale per iniziare a sperimentare le tecniche della composizione architettonica. VENEZIA PROTEIFORME

Frammenti veneziani. Invenzione della memoria Armando Dal Fabbro

Le immagini, prese dai quaderni di appunti, sono accompagnate da alcune parti del testo di Armando Dal Fabbro, Continuità e discontinuità tra iconismo e figurazione architettonica, in G. B. Cocco e A. Dessì (a cura di), Territori dell’Architettura. Continuità e fragilità nel progetto contemporaneo, Quodlibet, Macerata 2019. Pubblicazione nata in occasione del seminario dal titolo: Territori dell’architettura tenuto a Cagliari tra maggio-giugno del 2019.

Nell’affrontare il tema della forma della città come luogo mentale, Maria Corti (1915-2002), filologa, semiologa, allieva di Antonio Banfi, in un articolo pubblicato in Strumenti critici, si chiede cosa “agisce sull’immaginario collettivo così da trasformare lo spazio reale della città in un luogo della mente”. Sappiamo cosa sono diventate oggi le città: non solo spazio fisico, ma sempre più si sono codificate in macchine economiche che condizionano socialmente la vita e i modi di vivere delle persone. In altre parole, le città sono luoghi della contraddizione e della complessità materiale. Eppure Corti ci invita a riflettere sul valore imprescindibile delle città di essere “edilizia della mente”. Probabilmente all’origine dell’idea di città è l’aspetto di scenario, di palcoscenico, ed è l’aspetto di palcoscenico pertinente a ogni città che sia grande o carica di storia, ad avviare il processo per cui la città diviene uno scenario di idee, cioè un luogo mentale. In questa edilizia della mente, ecco nascere Babele, come città infernale, Gerusalemme, come città celeste, Parigi o Pietroburgo.1

A partire da queste premesse, per nulla scontate, credo sia necessario, tornare a riflettere sulla condizione operativa della città e sulla capacità di trasformarsi in un “meccanismo di recupero, […] volto al presente, ma dietro cui affiora di continuo il passato”.

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Venezia città-territorio Ancora oggi permane, di riflesso, l’immagine di Venezia come città della modernità, artefatto urbano che trova soluzione nella dimensione di finitezza figurativa della città lagunare e allo stesso tempo come elemento appartenente al sistema territoriale policentrico che oggi chiamiamo città metropolitana. Una modernità in atto che riecheggia la disputa cinquecentesca, ancora più lontana nel tempo dell’immagine rossiana, che vedeva contrapporsi Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino. Il primo, intellettuale e mecenate, con la proposta di salvaguardare e difendere la città cingendola di mura urbane come le città-borghi fortificate in terraferma; il secondo, ingegnere idraulico, che per l’opposto, con l’intento di salvaguardare l’equilibrio dell’ecosistema lagunare, vide in Venezia l’eccezione, e semplicemente propose di ridefinire i bordi sfrangiati della città e di consolidare le fondamenta esterne fissandone in modo definitivo l’immagine della città. Una città costruita sull’acqua, circondata dall’acqua e all’uopo munita di mura invisibili e invalicabili perché protetta dalla vasta e insidiosa pianura della laguna. Bisogna partire da tali presupposti, che coinvolgono la dimensione territoriale e ambientale, per poter avviare un confronto sulle funzioni vitali del territorio, cioè su quegli elementi funzionali in grado di far riemergere il rapporto sopito tra forma dell’architettura e significato dei luoghi. Il valore del paesaggio urbano si regge sull’unità spaziale dei luoghi, cioè su un rapporto dialettico, oggi sempre più conflittuale, tra la forma della città, o di parti di essa, e il carattere delle sue architetture. Solo così si possono intessere quei legami vitali tra le architetture e i contesti, allo stesso modo delle architetture della città antica che incorporano in sé, nell’impronta urbana del tipo architettonico, la forma stessa della città.

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ARMANDO DAL FABBRO

Da p. 347 a p. 351, Armando Dal Fabbro, Ponte di Rialto, 2002; Armando Dal Fabbro, La via endolitoranea delle lagune venete, 2017; Armando Dal Fabbro, Laguna di Venezia e costruzione dei limiti spaziali della città, 2017

Da p. 352 a p. 355, Armando Dal Fabbro, Editto di Egnazio XVI secolo ridisegno da Fra’ Paolino da Venezia, 2017; Armando Dal Fabbro, Venezia zoomorfa tra natura e artificio, 2014

Sequenze prospettiche Il disegno a fianco mostra l’imbocco di piazza San Marco oltre il bacino marciano verso San Giorgio Maggiore. Si può vedere in che rapporto sta l’isola di San Giorgio Maggiore con la piazzetta e lo spazio antistante la piazza stessa. Ciò che si è voluto cogliere è soprattutto l’idea palladiana nel far percepire il valore del vuoto dello spazio acqueo e la nuova immagine della città. In questo caso l’invenzione palladiana di sostituire l’orizzonte modesto di quella parte dell’isola di San Giorgio Maggiore prospicente la piazza con un nuovo fronte monumentale imprime alla composizione spaziale una doppia dinamicità urbana: di continuità della città, oltre la città consolidata e, allo stesso tempo, di discontinuità architettonica, prodotto di un grande innesto scenografico. Nel 1500, Jacopo de’ Barbari realizzò la prima tavola dettagliata della città, un disegno prospettico a volo d’uccello sui tetti di Venezia, in cui si scorge la città presa dall’ingresso del bacino marciano, le isole, e in primo piano l’isola di San Giorgio Maggiore, che al tempo della mappa del de’ Barbari era conosciuta come l’isola dei Cipressi, che nella tavola appare come una delle tante isole della laguna, priva di qualsiasi rapporto con la città e di qualsiasi enfasi monumentale. Infatti, analizzando la tavola con attenzione, si può notare come il volume della chiesa conventuale preesistente sia collocata all’interno del onastero, circoscritta e isolata dalla città e orientata secondo la direttrice est-ovest. Alla Venezia rappresentativa, scenografica e monumentale, quintessenza della parte di città che delimita il bacino, l’isola si presenta distante, caratterizzata da piccole casupole basse e lontane, con un fronte modesto e privo di qualità urbana. L’invenzione palladiana ricostruisce il lato mancante della scena urbana di quella parte di città: ruota la disposizione della nuova chiesa, demolisce gli edifici che le stanno davanti e progetta una grande piazza-sagrato affacciata sul bacino marciano: “Senza edifici come quelli che il Palladio disegnò per l’isola di San Giorgio Maggiore, quel lato di bacino San Marco si fonderebbe nell’orizzonte basso e inarticolato della laguna disseminata di isole, così invece quel grande specchio d’acqua fa parte dell’architettura della città”2. Ecco che un’operazione di intervento architettonico su un luogo puntuale della città si è trasformato in un progetto urbano a scala della città. 356

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Armando Dal Fabbro, Inquadrature in sequenza del bacino marciano, 2016

Armando Dal Fabbro, Il Redentore di Andrea Palladio e spazio acqueo della Giudecca, 2013

Centralità delle Scuole Grandi veneziane Le sei Scuole Grandi erano istituzioni religiose che hanno sempre avuto ruoli di potere politico e sociale. Dal disegno sembra che si distribuiscano secondo un sistema circolare, seguendo uno schema compositivo ricorrente nel rapporto tra Campo, Chiesa e Scuola. Da questa successione di disegni sembra che tutta la vicenda architettonica delle scuole si svolga nella iterazione di elementi semplici e ripetuti, assunti, in pianta, nella loro iconica figura del tipo architettonico dell’aula, e dalla particolare articolazione planivolumetrica dell’impianto urbano. Venezia è sempre stata una città doppia: configurata di oggetti e intessuta di spazi. Le Scuole Grandi partono da questi presupposti e assumono nella configurazione spaziale della città di Venezia una loro riconoscibilità formale: si identificano per essere un sistema di edifici e di spazi aperti che si ripetono formalmente nei loro caratteri tipo-morfologici, nel rapporto particolare che istituiscono tra loro i tre elementi d’origine: la Scuola, il Campo e la Chiesa. Posizionate, per lo più ai bordi delle aree più antiche della città, le sei Scuole Grandi hanno assunto il ruolo di volano per lo sviluppo delle terre emerse di margine della città, e la trasformazione-costruzione del tessuto urbano circostante ha permesso la presenza di un sistema capillare e policentrico di luoghi singolari caratterizzanti parti di città. Luoghi periferici e di margine si sono trasformati in nuovi centri aggregativi e formalmente riconoscibili. Così è stato il caso della Scuola Grande della Misericordia e della Scuola Grande di San Marco collocate ai margini settentrionali della città; o delle Scuole Grandi di San Giovanni Evangelista – Manfredo Tafuri ne parlerà come di “un edificio che introduce un nuovo prototipo formale”3 – e di San Rocco, costruite anch’esse ai bordi della città consolidata, come suoi propri limiti monumentali. Luoghi marginali e di bordo ma di valore incommensurabile. E subito dietro gli orti e i giardini che a loro volta si stemperano lungo i sfrangiati limiti delle terre emerse non ancora imbrigliate dalle fondamenta urbane di epoca cinquecentesca.

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Armando Dal Fabbro, Le sei Scuole grandi disposte, 2014

Oggi le Scuole Grandi veneziane rappresentano luoghi centrali, si distinguono dal continuum urbano della città compatta per il loro carattere di discontinuità spaziale. La loro natura complessa, innestata nel tessuto urbano della città, fa percepire un’idea moderna di costruzione della città. Una modernità intessuta di spazi e di relazioni, di continuità e discontinuità urbane. In evidenza gli schemi in pianta dei sistemi monumentali della Scuola della Carità, della Misericordia, di San Rocco e di San Marco. Si notino il principio della ripetitività morfologica e della discontinuità urbana che si determina nel serrato rapporto fra l’edificio della Scuola, il vuoto del campo e il volume della Chiesa. Ecco un principio insediativo che coglie significati e valori compositivi. Uno dei temi più complessi nell’ideazione della pianta era la soluzione adottata dell’elemento scale. La presenza della scala di collegamento tra l’aula posta al piano terra e la sala del Capitolo posta al piano superiore ha sempre rappresentato un tema compositivo, un’invenzione nel risolvere formalmente il collegamento tra i due piani principali. L’architettura delle scale all’interno delle scuole ha sempre rappresentato un vero e proprio percorso ascensionale, un percorso processionale che partiva dall’esterno del campo, si svolgeva attraverso l’androne su fino alla Sala Capitolare. Il più delle volte sarà risolto con un volume appoggiato all’edificio principale, come un’architettura in sé compiuta.

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Armando Dal Fabbro, Scuole grandi: Carità, San Marco, San Rocco e Misericordia, 2014

Palladio, con l’invenzione di San Giorgio Maggiore e più tardi con la costruzione delle Zitelle e del Redentore alla Giudecca, mostrerà di saper cogliere lo spazio della città lagunare e di possedere una chiara visione urbana nel promuovere un’idea di città innestata su quella esistente. Se guardiamo alla città del nostro tempo, la sfida è ripensare alla scala territoriale ponendosi in analogia con l’operazione compiuta da Palladio per Venezia, attraverso il disegno di nuovi luoghi-spazio in grado di originare una nuova figuratività metropolitana, interpretandone i segni e i nessi tra loro connessi: i segni della storia dei sistemi centuriati, le grandi opere dell’ingegneria e della geografia urbana, i semplici brani di natura antropizzata etc., tutto ciò come premessa indispensabile per costruire il fondale figurativo di riferimento della città… E il caso veneziano è emblematico a questo proposito. Che Venezia sia legata indissolubilmente al suo territorio, inteso come insieme di luoghi geografici, di emergenze architettoniche, di paesaggio è fuor di dubbio. Ancor più rilevante è il condensato culturale, sociale e geografico di questo territorio, riconoscibile nei segni della storia e della tecnica e nei caratteri che i luoghi stessi assumono nel rivendicarne il legame identitario. Molto tempo è passato da quando Aldo Rossi scriveva a riguardo dei caratteri delle città venete, che il sistema Treviso-Venezia con il Terraglio e quello Venezia-Padova con la riviera del Brenta appartengono a una sola e vasta città policentrica, di straordinaria bellezza e modernità, e che tale concetto non può prescindere da ogni studio e intervento sulle città venete: “La porta di San Tomaso di Treviso è come una porta di Venezia, come le pietre palladiane, le bianche pietre d’Istria dell’architettura veneziana”4.

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Armando Dal Fabbro, Venezia palladiana e la porta di San Tomaso a Treviso, 2013

Armando Dal Fabbro, Il piacere dell’antico: Andrea Palladio e la Chiesa del Redentore, 2012

Armando Dal Fabbro, Concordanza dei contrasti: Le Zitelle e San Francesco della Vigna, 2012

Armando Dal Fabbro, Successione di quadri prospettici nella Chiesa di San Lorenzo, 2013 A pp. 372-373, Armando dal Fabbro, I tre fiumi di Venezia, 2012

Note

1. M. Corti, La città come luogo mentale, in “Strumenti critici” n. 71, gennaio 1993, p. 1. 2. C. F. Lane, Storia di Venezia, Einaudi, Torino 1978. 3. M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Einaudi, Torino 1985. 4. A. Rossi, I caratteri urbani delle città venete, in R. Bonicalzi (a cura di), Aldo Rossi. Scritti scelti sull’architettura e la città 1956-1972, Cittàstudi, Milano 1995, pp. 399-400.

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FRAMMENTI VENEZIANI

Crediti

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p. 69 Dall’alto nella prima immagine, infografica When sea level attaks!, ora in http://www.informationisbeautiful.net/visualizations/when-sea-levels-attack-2/, D. McCandless, F. Bergamaschi, J. Swainson, L. Sullivan, prima pubblicazione 1 febbraio 2014; nella seconda, infografica del livello del mare a Venezia nel 2100, ora in https://earth.org/data_visualization/sea-level-rise-by-the-endof-the-century-venice/; nella terza, il Teatro del Mondo di Aldo Rossi. Foto di F. Dal Co. Copyright Eredi Aldo Rossi, courtesy Fondazione Aldo Rossi. p. 73 Dall’alto nella quarta immagine, miniatura raffigurante il pirata Stede Bonnet davanti alla bandiera corsara Jolly Roger, in Captain Charles Johnson, A General History of the Robberies and Murders of the most notorious Pirates, London, edizione del 1725. p. 81 Progetto per il Giramondo, 1976. Per gentile concessione degli eredi dell’arCREDITI

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p. 283 G. da Sangallo, Santa Sofia, facciata esterna dal lato ovest e visione d’interno del muro occidentale, 1516-1517, Vat. Barb. lat. 4424, fol. 28r. Da S. Huelson, Il libro di Giuliano da Sangallo, Leipzig, 1910. p. 287 C.F. Menestrier, Description de la belle et grande colonne historiée dressée en l’honeur de l’empereur Théodose, dissenée par Gentile Bellini, peintre, expliquée par le P. Claude François Menestrier, Paris 1702 in E. Müntz, La Colonne Théodosienne a Constantinople: d’après le prétendus dessins de Gentile Bellini conservés au Louvre et a l’École des Beaux-Arts, in “Revue des Études Grecques” vol. 1 n. 3, 1888, pp. 318-325. p. 299 Il manifesto promozionale del film La nave, 1921. Copyright wikicommons. p. 306 I nuovi abitanti di Torcello nella piazza dell’isola anteposti a una lastra funeraria romana con i volti dei defunti, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio. Copyright wikicommons. Basiliola reca una statuetta di Vittoria, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio. Copyright wikicommons. p. 307 Basiliola, sconfitta, è legata a un altare pagano, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio. Copyright wikicommons. La nave col suo equipaggio parte alla volta di nuove conquiste che faranno grande Venezia, screenshot da La nave di Gabriellino D’Annunzio. Copyright wikicommons.

CREDITI

p. 315 E. Stern, modello girevole per Der Kaufmann von Venedig, premiere 15 dicembre 1913 al Deutsches Theater Berlin, regia Max Reinhardt, courtesy Stadtmuseum Berlin. p. 319 Fotografie di cantiere in occasione della messa in scena de La Nave di Gabriele D’Annunzio, isola di Sant’Elena, Venezia 1938. Fondo Guido Salvini, courtesy Biblioteca Museo dell’Attore, Genova. p. 323 A.V. Mosetti, Periaktos/Modulo quadrifronte, modello in cartone dipinto e foglia d’oro, scala 1:20. Foto di U. Ferro, LabFot Iuav. p. 332 Qui e altrove zattera e piazza d’acqua. Valeria Barbuta, Cabina di regia in Campo della Madonna dell’Orto e piattaforma scenica/zattera a crescita illimitata in laguna nord, 2022. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 333 Ombra di progetto. Dall’alto, F. Toniolo, Scena a San Sebastiano, 2021; G. Braggion, Aggancio alla scena lagunare-Campo de la Bragora, 2021; M. Scarduelli, Scena in Campo di San Pietro in Castello, 2022. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 334 Intrecci e intersezioni. Dall’alto, B. Aldegheri, Percorso scenico a Santa Maria Nova, 2021; B. Zecchini, Percorso scenico a Pellestrina, 2022; T. Volpato, Scena e percorso in campo Santi Cosma e Damiano, 2022. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. 378

p. 335 Nastri e labirinti. Dall’alto, B. Aldegheri, Percorso scenico a Santa Maria Nova, 2021; L. Mariuzzo, Struttura scenica ai Carmini, 2022; M. De Paris, Pista e percorso scenico, 2019. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 336 Griglie e intelaiature. Dall’alto, M. Maccatrozzo, Nuova salina-piazza per i murazzi di Pellestrina, 2022; B. Guadagnini, Piazze-palchi per la caserma Pepe al Lido, 2020; F. Toniolo, Struttura scenica a San Sebastiano, 2021. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 337 Telai strutturali. Dall’alto, E. Pusineri, Cassero di struttura scenica, 2021; C. Forti, Teatro della memoria a Santi Cosma e Damiano-Scena verticale, 2022; E. Turroni, Nuove strutture per le pescherie a Rialto, 2021. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 338 Intagli e scavi. Dall’alto, A. Cavallin, Prismi scenici, 2022; M. Pantarotto, Torre scenica per la Sacca della Misericordia, 2021; C. Botturi, Torre scenica per Fondamenta Nuove, 2021. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 339 Insediamenti scenici. Dall’alto, M. Pantarotto, Piazza-scena per la Misericordia, 2021; C. Zennaro, Insediamento scenico a Sant’Erasmo, 2022; L. Padovan, Scene in sequenza nelle Procuratie Nuove-piazza San Marco, 2022. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 340 Sistemi lineari. C.M. Tacconi, Scena CREDITI

a sviluppo lineare per l’isola di San Giorgio Maggiore, 2022. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 341 Torri interstizi e Zwischenräume. M. Pantarotto, Torre scenica ad altezza indefinita per la Sacca della Misericordia, 2021. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav. p. 344 Quinte sceniche e ritmi. A. Lotto, Struttura scenica a crescita illimitata per la scena tripartita di Campo Santa Margherita-Ponte dei Pugni-Campo dei Carmini, 2021. Foto di U. Ferro, L. Pilot, LabFot Iuav.

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