Dal cosmo al mare
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' Può il mito"' contribuire alla conoscenza dell; �ealtà? Può oosere paragònabile,alle pratiG.he scientifiche? Lo si dtwe piÙttosto confinare nel nebuloso"' universo dèlle stravaga�è fiabesche? Partendo da alcu!le significative posizioni filosofiche (Cassir�' e Schelling), il libro analizza \lli interrogativi prendendQ- , come cas� di studio il mito delle Sirene. Tra Sette � Òttocento7 le �scinanti scoperte delle spedizioni ; sciemifiche portano a una "naturalizza�ione" delle "faqciulle caudate" individtlando nei lamantini - mammiferi acquatici si�i a foche - l'espon�e zoologico che avrebbe ispirato le'. storie mitòtogiche. L'equivoco va riconflotto alla conforma' ,. .,. zione del seno �al modo con c.&j le feihmine allattanò..i pic­ coli mentre gallèggiano in superficie·. Ma se la scienza fa così l vte sull'ambiguità tr� fant-astico �reale, la rid�ione a mero. oggetto �cLentifico prita il mito del"'suo valore �mbolico. ..... Recuperando la lettura psicenalitica d'ispirazione neoplato.; .. nica (Creuzer, Jung e Hillman) l'autore'cnfende l'ide� d1 un mito, visto come rap{U'esentazion�· dell'anima � la funzione , che la' filosojìa può avere nel porsi 'come meditàtrice tra la ' ' ' ricca eredità .Simbolica•del,:aassato e il tumultuoso mondo interiore che ancora oggi tutti ci muove. .

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RlcHARD DE FQURNIVAL�, 'L�Bestiaired'Amour, Ms. 526, fol. 23v.

Crédits: Bibliòthèque Muni'cipale de Dijoq.

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BIBLIOTECA DELL' «ARCHIVUM ROMANICUM» Serie I: Storia. Letteratura, Paleografia -------

473

EMANUELE COCO

DAL COSMO AL MARE La naturalizzazione del mito e la funzione filosofica Sirene, natura e psiche

LEO S. OLSCHKI EDITORE M M XVII

Tutti i diritti riservati

CASA EDITRICE LEO s. 0LSCHKI

Viuzzo del Pozzetto, 50126 Firenze www. olschki.it

8

ISBN 978 88 222 6543 2

CAPITOLO l

LA MENTE AMA NASCONDERSI

C'è un'immagine tra le tante che animano la storia della filosofia che da sempre mi appassiona: è il momento in cui Eraclito entra nel tempio di Artemide a Efeso per deporre il testo in cui ha raccolto tutto il suo sapere. Diogene Laerzio racconta così l'episodio: Eraclito depositò l'opera nel tempio di Artemide e, secondo l'opinione di al­ cuni, la scrisse a bella posta in uno stile piuttosto oscuro sì che ad essa si accostas­ sero soltanto gli iniziati e non fosse facile preda del disprezzo del volgo. 1

Il libro di Eraclito conteneva la frase physis kryptesthai philei che la tra­ dizione ha tradotto con la formula «la natura ama nascondersi».z Una mas­ sima che credo ben si presti per iniziare il mio discorso sulle relazioni tra filosofia e mito. Infatti, anche la mente, al pari della natura, ama nasconder­ si; e come proverò a sostenere più avanti, il mito e una certa filosofia sono tra gli strumenti che ne permettono un disvelamento. 3 In un saggio ben documentato, Pierre Hadot ha ricostruito la storia dell'enigmatica espressione eraclitea e i diversi significati che essa ha as­ sunto nel corso del tempo. È avvincente la circostanza etimologica per la quale il verbo philein (amare) appaia nella lettura con sfumature semanti­ che non solo riconducibili al sentimento romantico. La parola è usata da diversi autori per alludere a una tendenza naturale o a un processo che avviene frequentemente. Erodoto per esempio scrive «Il vento "ama" [ha la consuetudine di] soffiare» 4 e Democrito afferma che grazie alla mul DIOGENE LAERZIO, Vite deifi losofi , a cura di Marcello Gigante, Bari, Laterza, 1962, IX, l, 6. 2 ERACLITO, I.frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano, Milano, Fondazione Lo­ renzo Valla, Mondadori, 200 1 , fr. 28.

3 Uso, per il momento, il termine "mente" nella sua accezione ampia e generica; si veda­ no più avanti le precisazioni sull'accezione a cui faccio riferimento alludendo al suo nascondi­ mento. 4 ERODOTO, Storie, Il, 27, citato in PIERRE HADOT, Le voile d'Isis. Essai sur l'histoire de l'idée -

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CAPITOLO I

sica e alla lettura «il senso dell'onore "ama" svilupparsi)),5 ovvero tende a farlo. Cosa significa dunque che la natura "ama" nascondersi? Si potrebbe pensare che l'espressione di Eraclito faccia riferimento alle difficoltà che l'uomo deve affrontare per scoprire la realtà fisica e le leggi che governano il mondo noumenico che si cela dietro i fenomeni naturali. Ma questo non è il significato che la frase ha nei suoi primi utilizzi. Hadot ci dice che «quando la sentenza è citata da Filone di Alessandria, all'inizio dell'era cristiana, oppure da Porfirio, da Giuliano, da Temistio nel III e IV secolo, benché essa abbia per soggetto il termine "Natura" , è sempre ap­ plicata al divino, agli dèi e al discorso sugli dèi, vale a dire alla teologia)). In effetti, «mentre per noi la parola "teologia" porta subito alla mente ragio­ namenti metafisici basati sui dogmi di una religione o sui testi sacri)), non era così per i Greci per i quali il termine «teologia)) rimandava a «quei "di­ scorsi sugli dèi" che furono le opere dei poeti - Omero, Esiodo e Orfeo)).6 Tali opere saranno oggetto successivamente di opinioni antagoniste e contrastanti. Ci sarà chi - come johann Heinrich VoB - le reputerà favole senza fondamento; 7 chi - come la tradizione positivista - le giudicherà riflessi di una sorta di scienza primordiale fantasiosamente descrittiva e per nulla empirica; chi - come Schelling - vi vedrà la testimonianza di un poli­ teismo reale scandito in epoche successive; e ancora chi - come Cassirer le giudicherà il prodotto di una spontaneità del soggetto paragonabile a quella che Kant aveva posto a fondamento delle forme pure. Tra queste eterogene declinazioni della materia mitica a cui, insieme ad altre, faremo riferimento nei prossimi capitoli, se ne aggiunge una molto pertinente all'idea di un nascondimento della mente o di una sua parte. Essa è intessuta attorno alla convinzione che il mito sia depositario di una salvi:fica e segreta conoscenza sapienziale. Gli antichi poeti, ovvero, avreb­ bero nascosto tra le filigrane delle parole dei miti, quella scienza della natu­ ra d'ispirazione platonica e stoica che attraverso un'esperta interpretazio­ ne critica dei testi potrebbe restituire alla luce le antiche verità ermetiche. Platone stesso, del resto, era stato tra i grandi utilizzatori del mito e questo aveva incoraggiato tutta una tradizione successiva consacrata alla "esegesi allegorica" della mitologia. de nature, Paris, Gallimard, 2004; trad. it. , fl velo di Iside. Storia dell'idea di natura, Torino, Ei­ naudi, 2006. 5 Democrito, fr. 1 79, citato in P. HAnoT, Le voile d'Isis, cit. 6 lvi, p. 37. 7 Cfr. infra, cap. V. -

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LA MENTE AMA NASCONDERS I

L'uso della mitologia nel contesto filosofico non ebbe tuttavia sempre felice accoglienza. Proprio contro Platone, filosofi come Colote di Lampsa­ co - allievo di Epicuro e scettico nei confronti dell'esegesi allegorica - ave­ vano rivolto critiche per aver presentato in veste di narrazione fenomeni che appartengono invece alla scienza fisica. Così ne scrive Macrobio: Colote sostiene che un filosofo non debba inventare un mito, perché nessun tipo di invenzione si addice a chi professa la verità. "Perché, infatti dice, se volevi far conoscere le cose celesti e rivelare la natura dell'anima, non lo hai fatto con un'affermazione semplice e chiara, ma sei andato a cercare un personaggio e hai escogitato una situazione mai vista e, messo in scena una finzione presa da chi sa dove, hai insozzato con la menzogna la porta stessa della verità?" 8

Alle critiche di Colote darà risposta Porfirio. Di questa apologia possia­ mo avere eco attraverso le influenze che l'autore esercitò su Macrobio nella sua compilazione del Commento al Sogno di Sdpione: Tutta quanta la setta epicurea, sempre costante nel suo errore, allontanan­ dosi dalla verità e pronta a giudicare ridicolo quello che non capisce, dileggiò il sacro libro e la santissima serietà della natura. Colote poi, uno dei più noti per la sua loquacità tra i discepoli di Epicuro, riportò pure in un libro questa sua aspra derisione. Ma tutte le altre sue censure, mosse dal desiderio di offendere, dal mo­ mento che non riguardano il Sogno [di Scipione], si possono qui tralasciare: noi respingeremo quella calunnia che, se non verrà soffocata, offenderà ugualmente Cicerone e Platone. [ . . . ] Poiché questi rimproveri, mentre sono rivolti al mito di Er, accusano nel contempo anche il sogno dell'Africano di Cicerone - entrambi infatti sono personaggi inseriti in una trama appropriata per enunciare quello che pare opportuno ai due autori-, è nostro dovere opporci al loro assalto e respinge­ re la loro vana sottigliezza perché, una volta dissolta la comune falsità, entrambi i racconti riacquistino intatta, come è giusto, la loro dignità.9

Macrobio scrive dunque che non tutti i miti si addicono alla filosofia, così come non tutta la filosofia ricorre ai miti. Occorre quindi operare «una divisione per gradi» separando quei «racconti favolosi, il cui nome indica una professione di falsità» e che «furono escogitati o con lo scopo di dilet­ tare l'orecchio degli ascoltatori, o anche per esortare a compiere buone azioni». 10 Ne sono esempio le commedie che Menandro e i suoi imitatori s La critica che Colote rivolge a Platone, e di conseguenza anche a Cicerone che si ri­ chiama al mito platonico di Er, viene ripresa da Macrobio; cfr. MACROBIO; rrad. it. , Commento al "Somnium Sdpionis", a cura di Mario Regali, Pisa, Giardini editori e stampatori, 1 983, l, 2, 4. 9 lvi, l, 2, 6. IO

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CAPITOLO I

fecero rappresentare, oppure «le trame piene di romanzesche vicende di innamorati alle quali molto si dedicò Petronio Arbitro». La filosofia «esclu­ de dal suo santuario» questi racconti e li «lascia alle culle delle nutrici». 11 Invece, tra quelle narrazioni che esortano la mente è necessaria un'ulterio­ re distinzione. Alcune di esse, infatti, oltre all'invenzione dell'argomento trattato riportano «menzogne» fantasiose, come ad esempio accade «nelle favole di Esopo, famose per l'eleganza dell'invenzione». In altre narrazioni, invece il soggetto si fonda sulla solida verità anche se questa viene esposta attraverso cer­ ti abbellimenti e finzioni, ed è perciò chiamata racconto mitico, non favola, come, ad esempio, i rituali del culto, o quanto Esiodo e Orfeo scrivono sulla progenie e le imprese degli dèi, o le massime arcane dei Pitagorici.12

Dunque, di quest'ultima mitologia i filosofi devono servirsi. Ed essi non lo fanno discutendo di qualsiasi tema, ma solo quando trattano «dell'a­ nima o delle potenze celesti ed eteree o di tutti gli altri dèi» diversi dal «Dio supremo». 13 Quando [i filosofi] si occupano degli altri dèi e dell'anima, non ricorrono in­ vano, né per divertimento, ai miti, ma lo fanno ben sapendo che la descrizione nuda e cruda di se stessa è odiosa alla natura che, così come si sottrasse alla co­ noscenza rozza degli uomini comuni attraverso vari veli di cose e coperture, allo stesso modo vuole che i saggi si occupino dei suoi segreti tramite le narrazioni mitiche.14

Questi discorsi attorno all'anima erano cari anche al maestro di Co­ late - Epicuro - che, pur condannando anch'egli l'utilizzo del discorso mitico, reputava che la filosofia che si occupa dell'anima fosse la più signi­ ficativa, anzi, l'unica vera e meritevole di essere praticata. Nella Lettera a Meneceo, invitava così a dedicarsi alla filosofia per curare l'anima in quan­ to «meditare bisogna su ciò che procura la felicità, poiché invero se essa c'è abbiamo tutto, se essa non c'è facciamo tutto per possederla». 15 Lo stretto legame tra l'esercizio della filosofia e la salute dell'anima riappare nello Gnomologio vaticano: «non fingere di filosofare, ma filosofare davveIl

MACROBIO, cit., I, 2, 8. 12 lvi, I , l , 10. 1 3 lvi, I , 1 , 13. 1 4 lvi, I , 2 , 17. IS EPICURO, Epistola a Meneceo, i n Io. , Opere, a cura d i Graziano Arrighetti, Torino, Einaudi, 1 973, 4, 8-1 1 .

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LA M E NTE AMA NASCONDERSI

ro bisogna; non abbiamo infatti bisogno di apparire sani, ma di esserlo davvero». 1 6 Per l'epicureismo la filosofia che non si cura delle anime è una filoso­ fia falsa e vuota 1 7 e Porfirio - nelle parole di Macrobio - la considerava sì quella che meritava di essere trattata con il ricorso dei miti, ma la definiva anche per così dire inferiore, perché non si occupava del Dio supremo. È, per la verità, nel dichiararla tale egli prendeva le distanze dal suo maestro Platino che aveva invece «identificato senza esitazioni l'Uno, l'Intelletto e l'Anima con i tre dèi: Urano, Cronos e Zeus». 1 8 ***

Forse il mito - nel suo autentico e proficuo valore - apparteneva più alla filosofia del passato. Ho l'impressione infatti che in tempi a noi più vicini, il mito sia stato tacciato di inutilità filosofica con una veemenza per­ fino maggiore di quanto avveniva tra gli epicurei o nelle altre scuole ostili al platonismo. Il moderno antagonismo tra legittimità e inutilità del mito non concer­ ne più le gerarchie e la vicinanza dei temi filosofici alla «divinità somma» e alle «forme originali» di cui riferisce Macrobio. Ora la tensione tra chi si pronuncia a favore e chi si trova contrario, investe il grado di oggettività con cui il mito può dare o meno contezza del mondo fisico. Un mondo fisico assunto grossomodo come reale, concreto, oggettivo ed esteriore. Esso include le stelle, le forze magnetiche, i prinàpi della matematica, la geometria, la fisiologia delle piante, la struttura dell'atomo, le combinazio­ ni genetiche, la trasmissione neuronale, l'effetto degli ormoni sull'umore o sui comportamenti e ogni altro fenomeno o entità a cui può attribuirsi una consistenza materiale. Il bisogno di oggettività conduce a soluzioni di grande interesse storia­ grafico, ma di dubbia utilità teoretica. Con rare eccezioni - tra cui le più significative mi sembrano quelle di Schelling, Cassirer e della tradizione filosofica attenta alla psicologia del profondo -, 1 9 la forzata integrazione del mito al "mondo fisico" , oggettivo ed esterno, ne banalizza la funzione. Il mito, infatti, potrebbe più probabilmente riferire di un altro contesto, 1 6 E PI CURO,

Gnomologio Vaticano epicureo, in Io. , Opere, cit., 54.

1 7 Sul significato di "vuoto" e sui "criteri di verità': della filosofia in Epicuro, cfr .AN­ .

DRÉ-}EAN VOELKE, La philosophie comme thérapie de l 'lime. Etudes de philosophie hellénistique, Fri­ bourg-Paris, Éditions Universitaires-Le Cerf,

1 8 P. HADOT, Le voile d'Isis, cit., p.

1 993, p. 36 e sgg.

51.

1 9 Cfr. in.fra, capp. V, VI , VII.

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CAPITOLO I

un contesto di cui si può discutere prendendo le mosse - come accennavo poco sopra - dalla filosofia di Schelling (l' odissea della coscienza) e di Cas­ sirer (le forme pure - per così dire - della mitologia).20 La tesi che cercherò di documentare nei prossimi capitoli è che, mentre la scienza descrive prevalentemente un mondo fisico (la materia, i processi storici, la fisiologia neuronale), il mito sembra offrire una rappresentazione del mondo fisico in quanto esperienza soggettiva (emotiva e psichica). Per il mondo mitico, la sofferenza, l'amore, il desiderio, la paura dell'abbandono sono eventualità tangibili e necessarie non meno del mondo fisico. L'amore è un dato consistente non meno di quanto lo sia l'esistenza di Venere. Il dolo­ re è un'eventualità a cui tutti dobbiamo fare fronte. Dunque la funzione del mito non è quella di rappresentare il mondo fisico, scopo nel quale verrebbe e viene scavalcato a buon diritto dalla scienza. Il mito ha piuttosto la funzio­ ne di rappresentare noi stessi in relazione al reale, sia esso un reale fisico, sia esso un reale emotivo, sia esso un reale relazionale (la relazione con gli altri). Nel documentare questa ipotesi farò riferimento a un caso di studio poco esplorato dalla storia della filosofia: quello delle Sirene e soprattutto della loro naturalizzazione nel corso del Sette-Ottocento. Tale naturalizza­ zione (il trasferimento di un "oggetto" dal mondo delle idee alla realtà tan­ gibile della natura) è un processo ricco di implicazioni filosofiche che nel caso delle Sirene parte dalle cosmologie di ispirazione pitagorica (cap. Il), attraversa uno scontro di forte fascino storiografico tra "vero" e "verosi­ mile" (cap. III) e giunge in questo modo a una duplice declinazione "rea­ lista" del mito: da una parte chi cercherà di dimostrare che le creature dei racconti dei poeti esistono veramente e abitano luoghi poco esplorati del globo; dall'altra chi, al contrario, esplorando la zoologia fino ai suoi confini più remoti, potrà finalmente sentenziare che le Sirene non esistono e che il mito è solo una fantasia, una favoletta priva di realtà. In entrambi i casi (lo si vedrà nel cap. IV), tale naturalizzazione svuoterà il mito di tutta la sua valenza immaginifica: ridotto a mero oggetto della realtà esso perderà ogni speranza di esplicare la propria funzione filosofica. 21 2o Ciò nonostante anche nel loro caso il mito fa riferimento a un mondo fisico ed esterno: da considerarsi ormai trascorso Oa teogonia) nel caso di Schelling, o eterno Oe forme del criti­ cismo) nel caso di Cassirer. 21 Le Sirene sono oggetto della realtà anche quando vengono giudicate inesistenti: è in­ fatti nel conteso di tale realtà che la loro inesistenza si attua. E in quanto inesistenti esse sono destinate a svanire, liquidate da un realismo che le priva della loro portata simbolica (rappre­ sentazione del Sé) attraverso un'operazione del tutto improfìcua: prima si tenta di spingerle a forza in un mondo reale esterno a cui non appartengono, poi le si elimina dal panorama speculativo poiché dimostratesi inesistenti nel mondo fisico in cui si pronosticava di doverle trovare. -

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LA M E NTE AMA NASCONDERSI

In antagonismo a questa tendenza, la seconda parte del libro verrà de­ dicata a una esamina storiografica di alcuni autori che mi sembrano vicini ­ o quanto meno autorevoli ispiratori - dell'idea di mito che proporrò più avanti ( capp. V, VI e VII). ***

Torniamo a Eraclito. Aveva ragione: la natura ama nascondersi. E forse la mente non è da meno: tende a celare le proprie verità nel profondo di quella dimensione inconscia che jung chiama il Sé.22 Nei sogni ognuno di noi sperimenta l'apparente assurdità del linguaggio che questa parte inti­ ma esprime: un susseguirsi di immagini e situazioni talmente incompren­ sibili da risultare inaccessibili o, al contrario, talmente evidenti da rischiare di essere lette in modo così diretto da risultare fuorviante. I sogni testi­ moniano la parte della nostra mente che si cela alla consapevolezza. Le scene oniriche raccontano un tumultuoso mondo interiore, in continuo rimaneggiamento e instancabilmente prolifico, al quale la ragione non ha facile accesso. Inoltre, si reputa erroneamente che l'inconscio sia in diretto contatto con la verità. Non sempre è così. Similmente ad altre funzioni del­ la mente, l'inconscio cade in errore, può ingannarsi, può creare aspettative su oggetti e situazioni che non hanno consistenza né possibilità di divenire concrete. In altri casi può trovarsi in contrasto con la ragione.23 Si sbagliano dunque coloro che giudicano il mito in relazione alla sua attinenza alla realtà fisica. Sarebbe più proficuo pensare al mito quale co­ struzione narrativa con cui l'inconscio si è esternalizzato e continua a ester­ nalizzarsi. Esso rappresenta in una qualche misura l'attività generatrice del Sé sotto l'effetto del contatto con la realtà fisica e sociale. Ma il discorso non è così semplice. Per due ordini di motivi almeno. Il primo è costituito dagli inganni dell'inconscio a cui facevo riferimento. L'inconscio può sbagliarsi riguardo a se stesso e parla attraverso un lin­ guaggio che, per quanto presenta elementi in qualche misura "universali", è influenzato dalla ricca officina di variabili attive nel contesto in cui si svi­ luppa e opera: la cultura di una certa società, le immagini da essa prodotta, le narrazioni condivise, le leggi morali e così via. 22 Cfr. CARI. GuSTAV juNG, Die Beziehungen zwischen dem Ich und dem Unbewussten, Ziirich, Rascher Verlag, 1 928; trad. it. , L'Io e l'inconscio, Torino, Bollati Boringhieri, 1 967. 23 Tra i tanti casi possibili, si veda il sogno del treno citato da jung nella prima delle Tavi­ stock Lectures che tenne a Londra nel 1935, pubblicate in CARL GusTAV juNG, Analytical Psychol­ ogy: Its Theory and Practice, London, Routledge & Kegan, 1 968 ( 1 93 6), poi in lo. , Fundamental Psyvhology Conceptions. A Report of Five Lectures, Olten, Walter-Verlag, 1 98 1 ; trad. it. , Introduzio­ ne alla psicologia analitica. Cinque conferenze, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. -

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Il secondo ordine di motivi che complicano il contatto tra ragione e inconscio è dovuto al fatto che il linguaggio attraverso cui l'inconscio si esprime è "ambiguo" . Sia che si tratti dei sogni (che riferiscono dell'espe­ rienza personale del soggetto), sia che si tratti della mitologia (che rende testimonianza della stratificazione delle grandi tensioni emotive che sono state codificate e registrate nel corso delle epoche), il lessico con cui questa parte della mente si manifesta rimane ricco di sfumature e possibili inter­ pretazioni. Le analogie che autori come Creuzer 24 hanno riscontrato tra miti di epoche e paesi lontani non devono stupire. Una comune matrice anima l'uomo; la sua parte istintuale testimonia tendenze che si mostrano transnazionali, transculturali e transepocali: da sempre tutti ci innamoria­ mo, siamo incitati dalla libido, temiamo la morte e la perdita delle persone care. In tale prospettiva, aveva ragione Freud ad attribuire al «principio del piacere» e al «principio della realtà» una valenza oggettiva. 25 Eppure non si sbagliava Marcuse quando gli rimproverava di aver fatto del "principio della realtà" un fattore statico, non influenzato dal divenire storico e dal mutare delle condizioni sociali.26 Il mito dunque è enigmatico. Esso porta in scena una polifonia seman­ tica e simbolica che si trova in relazione tanto con le società che lo hanno generato quanto con quelle successive che cercano di utilizzarlo. Si impone così un necessario contrappunto tra la parte inconscia e quella raziona­ le, tra il mythos e il logos, tra passato e presente; ovvero un contrappunto in cui l'unica via attraverso la quale il soggetto può scoprire le «affezioni» della propria «anima» è percorribile esclusivamente grazie ai suggerimenti di una valente filosofia. È la "valente filosofia" , infatti, che permette alla ragione di decifrare e comprendere il lessico transepocale e transculturale presente nei miti. In definitiva, la funzione filosofica del mito risiede nel mettere in contatto l'inconscio con il logos, complice un contrappunto tra saperi e discipline diverse. È così che la filosofia contribuisce a svelare la parte della mente che ama nascondersi. ***

Il prestito eracliteo a cui ho fatto ricorso suona più plausibile se si pensa all'attualizzazione che Heidegger fa delle parole di Eraclito quando - iden24 25

Cfr.

infra, cap. V.

Cita SIGMUND FRBuo, Das Unbehagen in der Kultur, Wien, Internationer Psychoanaly­ tischer Verlag, 1 929; trad. it. , n disagio nella civiltà, Torino, Einaudi, 20 10.

26 Cfr. HERBERT MARCUSE, Eros and Civilisation. A Philosophical Inquiry The Beacon Press, 1 955; trad. it. , Eros e civilità, Torino, Einaudi, 200 1 . -

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into Freud,

Boston,

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tificando la physis con ciò che egli defuùsce «Essere» - afferma che «l'Essere ama velarsi»P Per Heidegger «l'idea occidentale di natura deriva, originariamente, dal­ la visione greca dell'Essere come sbocciare, come emergere. Egli intende dunque le tre parole dell'aforisma di Eraclito nel senso che quello «schiuder­ si» o quello svelarsi che è la physis resta inseparabile da un velarsi (Schelling già aveva sostenuto che l'estroversione presuppone un'introversione)».2 8 È però tipico dell'uomo dimenticare l'Essere. Preso dalla vita quotidia­ na «l'uomo non può prestare attenzione allo schiudersi delle cose, al loro sorgere, alla loro physis, alla loro natura nel senso etimologico del termi­ ne». Come sottolinea jean Wahl, l'oblio dell'essere «in qualche modo ci co­ stituisce, noi che lo compiamo sempre, noi uomini, il cui destino è appunto quello di compiere quest'atto. Noi siamo sempre gli assassini dell'essere».29 In defuùtiva, l'Essere di Heidegger è destinato a una costante presenza-as­ senza, similmente a quanto Platino diceva dell'Uno: «non è assente da nes­ suna cosa ed assente da tutte, in modo che, presente, non è presente, se non per le cose che lo possono accogliere e che sono adeguatamente prepa­ rate».30 Ovvero, la sua presenza è in qualche modo una presenza-assenza. E l'oblio dell'Essere spiega la situazione dell'uomo, destinato a «errare».3 1 Ecco allora che di nuovo vedo Eraclito presso il tempio di Artemide. Sta depositando la sua opera, la propria consapevolezza di persona errante che si sforza di recuperare - secoli prima di Heidegger - l'essere dal suo oblio. Artemide, la dea da cui si reca, è la divinità delle foreste, degli animali selvatici, dei campi coltivati, della caccia all'arco. È anche la dea delle inizia­ zioni femminili, delle fanciulle in danza, protettrice della verginità. Detta «inviolabile», «senza nozze», «sovrana» e «terribile». È lei che se­ condo Apollodoro, trasformò in cervo il principe Atteone per punirlo di averla osservata di nascosto mentre nuda faceva il bagno: scambiato per una preda Atteone verrà divorato dai suoi stessi cani.32 Dea dalla persona27 MARTIN HBIDEGGER, Der Satz vom Grund (1 955-1 956), Pfullingen, Verlag Giinther Neske, 1 957; trad. it. , ll principio di ragione, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1 99 1 , p. 1 1 5 . 28 Per questa e l a successiva citazione cfr. P. HADOT, L e voile d'Isis, cit . , p . 302. 29 ]EAN WAHL, Sur l 'interprétation de l 'histoire de la métaphysique d 'après Heidegger. Les Cours de la Sorbonne, Paris, Centre de Documentation Universitaire, 1 95 1 , p. 1 04, citato in P. HADOT, Le voile d 'Isis, cit. , p. 303 . 30 PLOTINO, Enneadi, a cura di Mario Casaglia, Chiara Guidelli, Alessandro Linguitti e Fau­ sto Moriani, Torino, UTET, 1 997, VI, 9, 4, 24-27, p. 1 1 23. 3 1 P. HADOT, Le voile d'lsis, cit . , p . 304. 32 APOLLODORO, Biblioteca, a cura di Giulio Guidorizzi, Milano, Adelphi, 1 995, III, 4, 4.

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lità complessa, la tradizione la vorrebbe eternamente giovane e vergine. È lei che, insieme al fratello Apollo, uccise con le frecce i figli e le figlie di Niobe per vendicare la madre che era stata da questa derisa perché non aveva avuto una ricca progènie. 33 Artemide fu anche colei che finì Orione, forse perché rifiutata in amore, forse per via delle riprovevoli attenzioni che egli aveva rivolto alle Pleiadi. Secondo altri autori Orione fu ucciso da Artemide a sua insaputa, ingannata dal fratello Apollo che non voleva che tra i due nascesse dell'amore e fece in modo che contro di lui fosse scaglia­ to un velenosissimo scorpione. Dopo la morte, Artemide intenerita pose Orione in cielo e ne fece una costellazione. Lo stesso accade allo scorpione. Ed è così che da allora il secondo fugge eternamente il primo sulla volta celeste.34 Ad Artemide Eraclito consacra il proprio sapere. Il gesto non può es­ sere casuale. Perché un filosofo così autentico rivolge a una simile divinità femminile la summa della propria indagine? Si potrebbe pensare che sia per via della vita ha condotto sui monti «ci­ bandosi di erbe e di verdure», isolato da tutti e circondato solo dalla natura. A lei, divinità dei boschi, il dono sarebbe appropriato. Oppure si potrebbe immaginare che si tratti di un omaggio all'irruenza battagliera della dea, dovuto all'affinità o simpatia che il filosofo sentiva per ragioni caratteriali, lui che in quanto a temperamento non era certo mesto (fosse solo per quel frammento citato da Diogene Laerzio in cui Eraclito afferma: «Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto: lo avrebbe insegnato a Esiodo e a Pitagora, e così a Senofane e a Ecateo»).35 La ragione del voto di Eraclito potrebbe essere tra queste. E tuttavia a me pare che il motivo della consegna ad Artemide sia legato invece al na­ scondimento della natura. La dea, soprattutto nelle rappresentazioni che ne vengono fatte a Efeso (città dove Eraclito nacque), assume le forme di una donna col busto ricoperto di seni. Più che mai rappresenta la natura in tutta la sua prolificità reale e simbolica. La sua simbologia - affascinante, terribile e generatrice al tempo stesso - richiama le molte facce dell'Essere. In quanto tale, per altro, Artemide mostra alcune affinità col mito delle Sirene: anch'esse - lo si vedrà - incarnano il fascino procreativo femminile (generano armonia nel cosmo e conoscenza in terra). Anch'esse al tempo stesso sono terribili e pericolose attentatrici (dell'anima umana, ancor più 3 3 Artemis, in Lexicon lconogra.JPhicum mythologiae classicae, Ziirich und Miinchen, Artemis Verlag, 1 98 1 . 3 4 ROBERT GRAVES, Greek Myths, London, Penguin Books, 1 960 ( 1 955); trad.it., l miti greci, Milano, Longanesi, 1 963 , pp. 407-409. 35 DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, cit., IX, I , l. -

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che della carne). In quanto tali - non meno di altri miti - anche le Sirene finiscono col rivelare la voce del Sé, le sue paure, i suoi desideri. La Natura e le Sirene rappresentano il dialogo tra la vita esterna e la vita interiore dell'uomo. Consegnare ad Artemide la summa del proprio pensiero filosofico costituisce dunque un gesto eloquente il cui significato mi pare rivelato dallo stesso Eraclito quando afferma: «Una è la sapien­ za, conoscere la mente che per il mare del Tutto ha segnato la rotta del Tutto».36 Era stata questa la missione della sua vita; era questa adesso, forse, la ragione dell'omaggio che rendeva alla Natura. Una Natura che «ama na­ scondersi» e che in quanto tale non è solo realtà fisica ma anche riflesso dell'anima. In fondo, tutta la vita di Eraclito, tutto quel tumultuoso pensa­ re, quell'adesione rigorosa ai propri ideali è riassunta in uno dei più brevi frammenti che ci ha lasciato e nel quale ci rivela il senso della sua intera esistenza, filosofica e umana: «ho indagato me stesso».37

3 6 ERACLITO, I.frammenti e le testimonianze, cit., fr. 1 3 . 37 lvi, fr. 1 26.

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Il

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>), anch'esse volte a sottolineare l'autorevolezza della testimonianza: era stata evi­ dentemente redatta da una persona qualificata, attenta all'osservazione (i dati climatici) che dunque non era di certo caduta in facilonerie o approssimazioni dilettantesche. -

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che per la maggior parte delle caratteristiche concorda con quella della foca, ma quest'ultima non ha una coda che si allunga sulla parte posteriore, ed è conside­ revolmente più grande, e non appare eretta sopra l'acqua come avviene per la prima 1 0 (Southey 1 8 1 0).

Southey aggiungeva inoltre che la Sirena descritta era stata esposta a Londra e si presentava «insieme a un piccolo tenuto in braccio». La lun­ ghezza della madre era di circa «quattro piedi, e quella del piccolo di nove o dieci pollici». Gli esemplari erano «essiccati, essendo stati catturati cinque anni prima sulle coste dell'Italia o della Sicilia. Le mani erano palmate, e le dita terminavano affusolate come quelle di una scimmia».U Heather Brink-Roby ha sostenuto in un recente saggio che la Sirena servì ai naturalisti e commentatori come figura per dibattere il valore e le implicazioni della teoria darwinianaY In effetti molto del discorso at­ torno all'evoluzionismo riguardava il mare, inteso come luogo originario delle trasformazioni. Ne troviamo per esempio menzione esplicita nelle rimostranze scandalizzate dell' antievoluzionista Robert Patterson che, nel suo The errors of evolution, aveva definito ridicola ed eretica l'affermazione secondo cui fosse «il mare - come sostiene Darwin - la madre di tutte le forme di vita». 1 3 Sulla stessa linea, nel 1 86 1 , il periodico americano il Family herald aveva lanciato una provocazione: «Sfidiamo chiunque, da Darwin in giù, a mostrarci il legame tra il pesce e l'uomo. Lasciamo che catturino una sirena e potranno dire di aver trovato l'anello mancante». 1 4 La questione dell'origine marina dell'uomo (e della donna) che già all'epoca di de Maillet aveva avuto le sue prime formulazioni dell'era mo­ derna, trovava in Darwin un ulteriore spazio per via della convinzione (poi rivelatasi vera) che il polmone dei vertebrati terrestri si sia formato a parti­ re dalla vescica natatoria dei pesci. 1 5 L'abile anatomista Sir Richard Owen I O ROBERT SOUTHEY, History of Brazil, London, Printed for Longman, Hurst, Rees, and Orme, Paternoster-row, 1 8 1 0 , vol. l , p. 646, nota 97. I l Ivi, p. 646, nota 97. 12 HEATHER BRINK-ROBY, Siren canora: the Mermaid and the Mythical in Late Nineteenth-Cen­ tury Science, «Archives of Natural History», 3 5 , l , 2008, pp. 1 - 1 4: 2. 1 3 ROBERT PATTERSON, The Errors of Evolution. An Examination of the Neùular Theory, Geolog­ ica! Evolution, the Origin of Life, and Darwinism, Boston, MA, H.L.Hastings, 1 885 ( 1 803), p. 1 78. 1 4 «We defy anyone, from Mr. Darwin downwards, to show us the link between the fish and the man. Let them catch a mermaid, and they will find the missing linlo>, in H. BRINK-ROBY, Siren canora, cit., p. 2. 1 5 La vescica natatoria è una piccola sacca che i pesci possono gonfiare e svuotare a pia­ cimento per modificare il loro volume e quindi modificare la propria tendenza a galleggiare o meno evitando di fare sforzo quando devono rimanere in profondità. A proposito del legame tra il polmone dei vertebrati terrestri e questo organo presente in molte specie acquatiche,

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aveva riscontrato la continuità tra i due tipi di struttura grazie ai suoi studi di embriologia. E Darwin ne aveva riferito nella sua opera: Posso con difficoltà diffidare del fatto che tutti gli animali vertebrati che hanno veri e propri polmoni sono discesi per generazione ordinaria da un antico prototi­ po, di cui non sappiamo nulla, munito di apparato flottante o vescica natatoria. [ . . . ] Nei vertebrati superiori le branchie sono completamente scomparse, anche se le fessure laterali del collo e il corso ad anello delle arterie mantiene ancora nell'embrione la sua originaria posizione. [ . . . ] Nel considerare le transizioni di organi, è importante tenere a mente la pro­ 1 babilità di una conversione da una funzione all'altra [ . . . ] . 6

L'anno dopo l'uscita della prima edizione dell'Origine della specie, Darwin è sempre più convinto delle discendenze marine. 11 1 0 gennaio 1 860 lo ribadisce in un post-scriptum alla fine di una lettera indirizzata all'amico e mentore Charles Lyell, grande geologo e membro della Royal Society: Il nostro antenato era un animale che respirava acqua, munito di una vescica natatoria, di una grossa coda per nuotare, di un cranio imperfetto e senza dubbio era ermafrodita! Ecco un'amena genealogia per il genere umano. 17

L'idea dell'evoluzione attraverso variazioni graduali da una specie all'al­ tra sembrava a molti inaccettabile. Se la natura si comportava così - pen­ savano - il mondo dovrebbe presentarsi come un caos indistinto di forme ibride senza alcuna possibile distinzione, un caos terribile in cui si dissolve ogni possibile «bellezza della creazione». Dall'altra parte c'era chi invece trovava avvincenti gli argomenti darwi­ niani in difesa del trasformismo. Sotto questa prospettiva, il mondo biolo­ gico si presentava tutto ancora da scoprire. Grazie a uno «spettro di pla­ sticità come quello sostenuto dal signor Darwin non sappiamo più dove 1 fermarci». 8 Così scriveva nel l 860 Sir William ]ardine, naturalista e anch'eva detto che, pur rimanendo convinto che le forme di vita terrestre abbiano avuto un antico progenitore comune nei mari, Darwin sosterrà infine che l'immediato antenato dell'uomo sia da ricercarsi tra i primati terrestri e non in ipotetici ibridi tra uomo e pesce. 16 CHARLES DARWIN, On the Origin of Species by Means and Natura! Selection. 1 " edition, London, John Murray, 1 859; trad. it. , L'origine della specie per selezione naturale, Roma, Newton Compton, 1 994, p. 1 9 1 . 1 7 CHARLES DARWIN, Letter to Charles Lyell, Darwin Correspondence Project, University Library, Cambridge, "Letter no. 2647" , http: / / www.darwinproject.ac.uk / DCP-LETT-2647; già in Io. , The correspondence of Charles Darwin, a cura di Frederick Burkhardt e et al. , Oxford, O:xford University Press, 1 985-, vol. 8 . I S WILLIAM }ARDINE, Review of O n the origin of species, «Edinburgh New Philosophical Journai», 1 1 , 1 860, pp. 280-289: 282.

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gli membro della Royal Society sulle pagine dell' Edinburgh New Philosophi­ cal]ournal. E continuava: Centauri, driadi, amadriadi, e tutte quelle forme ammirevoli di cui ci siamo divertiti così tanto da scolaretti a leggere, ma che ci è stato insegnato a considerare come mera fantasia poetica, potrebbero essere state davvero le nostre vecchie pro­ genitrici durante uno stato di transizione verso il miglioramento; e quando [sia­ mo] così convinti, con quanta pietà dobbiamo guardare dall'alto in basso a Carson e Dunbars, Sandfords e Pillans, e alla colpa di un'ignoranza che ha mantenuto le nostre giovani menti in tale oscurità. Il "virginci volucres" , all'epoca reputato tipi­ co delle isole Strofadi19 e così ben figurato nelle vecchie edizioni di Virgilio; la peri­ colosa sirena, che viene così descritta, "desinit in piseem mulier formosa superne" possono tutti essere esistiti; e in questi ultimi giorni, se seguiamo Darwin, "non ho difficoltà alcuna a credere" che le sirene, un tempo riempivano i nostri mari [ . . . ]. 20

Della stessa dottrina era Charles Gould, geologo e membro della So­ cietà reale della Tasmania, che nella sua opera Mythical monsters dedicava quasi quattrocento pagine a dimostrare che «molti dei cosiddetti animali mitologici, che per lunghi secoli e in tutte le nazioni sono stati oggetto fertile di finzioni e favole, rientrano legittimamente nell'ambito di una evi­ dente concreta Storia Naturale».21 A proposito delle figure della mitologia, Gould scriveva: La grande idea progressista [advanced opinion], iniziata da Darwin, che ha vi­ sto, nel corso di pochi anni, un avanzamento della conoscenza più ampio in tutti i domini della scienza di quanto avvenuto nei decenni di secoli che l'anno pre­ ceduta, ha, tra gli altri cambi di prospettiva, operato una totale rivoluzione nel giudicare il valore del folklore e le speculazioni attorno ai suoi contenuti, che ai tempi della nostra fanciullezza sarebbero state considerate puerili, ma che ora si ammette siano non essere solo interessanti, ma persino necessarie per coloro im­ pegnati a raccogliere il bandolo della storia non scritta, e di rintracciare le origini e le prime provenienze dai progenitori a lungo tenute separate gli uni dagli altri dalle dogane, dalla lingua e dallo spazio. 22

Per quanto la ricerca dell'anello mancante sospinta dal dibattito attor­ no alla bontà o meno delle idee di Darwin possa avere riacceso alcuni foco1 9 Le creature dai volti virginali a cui si fa riferimento sono quelle che si credeva abitasse­ ro le isole Strofadi, ovvero le Arpie. Così nell'edizione critica di Eneide a cura di Ettore Paratore (Cfr. VIRGILIO, Eneide, a cura di Ettore Paratore, Milano, Mondadori, 1 978, 2, 2 1 6), come segna­ latomi dalla cortese erudizione di Giada Giudice . 20 lvi, p. 282. 21 CHARLES Gou LD, Mythical Monsters, London, W.H. Alle n & Co. , 1 886, p. 2 [corsivo mio]. 22 lvi, p. l .

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lai d'interesse attorno alle Sirene, è pur vero che il tentativo di spiegare le protagoniste di questo mito in termini naturalistici e scientifici era iniziata già in epoche precedenti. Il mito veniva trascinato di fronte al tribunale dell'indagine empirica per verificare se appartenesse o meno alla «concreta Storia Naturale», per capire insomma se i personaggi che affollavano le sue vicende - Sirene e non solo - avevano una consistenza materiale, appartenevano alla natu­ ra o andavano definitivamente pensati come mere fantasie. Con Darwin, nell'Ottocento, si cercava di scoprire l'esistenza o meno delle creature mi­ tologiche per sondare la plausibilità della sua teoria, e dunque degli ibri­ di tra una specie e l'altra che essa sembrava assumere come presuppo­ sto imprescindibile. Prima di Darwin si era cercato di trovare i riscontri «concreti» del mito per confutare o meno la veridicità di quanto in essi narrato. Nel primo caso l'attenzione era rivolta alla teoria di Darwin (e Wal­ lace), nel secondo era rivolta al fascino che queste creature mitologiche avevano da sempre esercitato. L'entusiasmo per i progressi della scienza che molti segreti della natura aveva svelato grazie all'osservazione aiutata dagli strumenti e alla scaltrezza empirica degli esperimenti ben congegnati prescritte a suo tempo da Bacone - accendeva il desiderio di risolvere anche il mito in chiave scientifica. Trovare la corrispondenza zoologica ai prota­ gonisti dei racconti fantastici avrebbe portato a una doppia gratificazione: da una parte scoprire che le affascinanti creature narrate dalla fantasia dei poeti esistevano veramente (e con un po' di solerzia le si poteva incontra­ re - almeno nel caso delle Sirene - persino amare); dall'altra dare prova che la lanterna della ragione poteva svelare quale esponente del mondo biologico aveva suscitato le favolose invenzioni. Insomma, dimostrare una appartenenza delle Sirene (e delle altre figure mitiche) alla zoologia, trovare il loro corrispondente nel mondo naturale, significava conciliare i dettami della scienza con il desiderio di non rinun­ ciare alla possibilità di poter credere "reali" le graziose e uggiose creature che da sempre avevano popolato i mari dei sognatori. Questo insieme di bisogni interiori e pratiche scientifiche è ciò a cui alludo con naturalizzazione del mito delle Sirene. Va però detto che, accecati da tanto scientismo, gli studiosi finirono col trascurare un principio fonda­ mentale: la veridicità del mito risiede nella sua forza narrativa, nella sua ca­ pacità di parlare alla nostra psiche. Sia che si cercassero le Sirene per dimo­ strare la loro reale presenza nel mondo, sia che lo si facesse per confutarne ogni possibile concreta esistenza, in entrambi i casi si commetteva l'errore di svuotare il mito di tutta la sua valenza immaginifica. Lo si riduceva a mero - potremmo dire persino "banale" - oggetto della realtà. Si tentava - 60 -

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di tacciare come inutile fantasia tutto ciò che non poteva essere osserva­ to nel mondo esteriore. Come se questa fosse l'unica realtà consistente. Come se il mondo circostante fosse l'unica realtà. Come se il mondo psi­ chico - con tutti i dolori, piaceri, entusiasmi e forze che suscita in noi - non fosse da considerarsi una realtà altrettanto tangibile e importante. Al di là di questa défaillance euristica (di cui parleremo più avanti), la storia della naturalizzazione delle Sirene ebbe dei momenti affascinanti e persino divertenti. Cosa dire allora di questi scienziati e uomini d'ingegno affannati dietro a una prova dell'esistenza delle Sirene, cosa dire della loro ricerca di qualche indiscrezione naturalistica sulla vita domestica di que­ ste affascinanti ragazze del mare? Forse quello che disse Frederick Edward Hulme. Appassionato di botanica, insegnante di disegno naturalistico al King's College di Londra e membro della Linnean Society, Hulme nel 1 895 aveva esternato un'istruttiva verità scientifica a riguardo delle fanciulle cau­ date: «L'esistenza della sirena era per i nostri antenati indubitabile come quella degli sgombri».23 Prima che la scienza accendesse la propria lampada nelle incerte zone dove risiedono le creature fantastiche e gli oggetti intermedi tra un mondo e un altro, nessuno dubitava sulla reale vita delle creature tramandateci dal mito omerico. Esse non erano più metà uccello e metà donna - come nella tradizione omerica - ma creature marine, munite di coda, seno e capelli. Spesso in grado di provocare tempeste, potevano essere nefaste per chi si trovava in navigazione. In quei casi, più che la maestria dei timonieri, bisognava confidare nell'intervento di qualche miracolo, magari per inter­ cessione della Madonna - la Stella maris - unica possibile protettrice dalle sventure che giungevano costantemente a chi si trovava per i mari tumul­ tuosi della vita. A lei, consapevole di questi flutti dell'esistenza, si rivolge nel XII secolo il canonico Adamo di San Vittore : Maria, Stella maris, salute a te vergine singolare, madre del nostro Salvatore. Stella di mare, astro fisso e non errante, nel mare di questa vita, non permettere il nostro naufragio, ma sempre supplica per noi il Salvatore che fu il tuo. Il mare infuria, i venti fremono, le acque vorticose si sollevano. La nave corre, ma il suo corso incontra tanti ostacoli: le sirene del piacere, il drago, i cani di Scilla e i pirati. La morte è sotto gli occhi. Vergine, ramo salvifico, porto singolare, var­ co che annuncia la vita, respingi le Sirene, purifica la mente, guidaci al tuo porto. E la tua grazia ci purifichi dal mondo. 24

23 EowARD FREDERICK HULME, Natura! History Lore and Legend, London, Bernard Quaritch, 1 895, p. 79. 24 ADAM o m SAN VITIORE, Assumptione Beatae Mariae sequentia, in Ein]ahrtausend lateinischer Hymnendichtung, a cura di Guido Maria Dreves, Leipzig, Reisland, 1 909, vol. l , p. 270. -

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Nella sua opera, Hulme riportava due interessanti testimonianze, la prima delle quali si richiamava proprio agli straordinari poteri metereolo­ gici delle Sirene. Scriveva a proposito: L'autore dello Speculum mundi credeva nelle sirene tanto fermamente quanto i suoi contemporanei, ma si discosta in qualche misura dalle convinzioni comuni e invece di fare delle sue sirene delle fermentatrici di tempeste, vede piuttosto in esse delle conoscitrici eccezionalmente abili della meteorologia e dotate profe­ tesse dell'arrivo delle tempeste. Di loro dice "Le sirene e gli uomini-marini mi sembrano i pesci più strani delle acque. Alcuni hanno ipotizzato che siano demoni o spiriti, per via del suono asmatico che emettono. Per loro (come se avessero il potere di sollevare burrasche straordinarie e tempeste) soffiano i venti, la rabbia dei mari, e le nuvole precipitano dopo che loro sembrano averle chiamate." Questa è una mera credenza popolare, e infatti l'autore [dello Speculum mun­ di] offre una spiegazione: l'istinto le rende capaci di una più veloce e improvvisa intuizione e previsione di quegli indizi [ . ] che anche altri organismi terrestri, come i polli, mostrano e che - sentendo l'alterazione dell'aria nelle loro piume e penne - possono chiaramente pronosticare un cambio di tempo prima che sia a noi palese. 2 5 . .

Più che provocare le tempeste le Sirene potevano semmai aiutare i ma­ rinai a prevenirle. Non erano così temibili come si credeva. Anzi, in certi casi si erano mostrate angeliche e belle. Come quella che si era presentata a due marinai e di cui riferì Hudson, «il grande navigatore». [ . . . ] il grande navigatore, la cui lingua è sorprendentemente libera da ogni tocco di fantasia, e può infatti quasi senza timore di diffamazione essere chiama­ to schietto e noioso, ci riferisce, con le seguenti parole, di un curioso episodio accaduto mentre forzavano un passaggio attraverso il ghiaccio nei pressi Xova Zemblau: Questa mattina uno membro del nostro equipaggio, guardando fuori bordo, ha visto una sirena, e richiamando l'attenzione, un altro si avvicinò, e in quel momento essa si fece vicina al lato del vascello, guardando intensamente gli uomini. [ . . . ] Dall'ombelico verso l'alto, la schiena e il seno erano come quelli di una donna, come riferisce chi la vide; il suo corpo aveva la statura dei nostri; la sua pelle era molto bianca e aveva dei lunghi capelli che le scendevano dietro di colore nero. Quando si dileguò giù, le videro la coda, che era come quella di un delfino, e punteggiata come quella dello sgombro. 2 6

La dolcezza delle Sirene poteva essere rintracciata in certe testimonian­ ze che le descrivono talmente fragili e remissive da avere subìto le pre2 5 E. F. HuLME, Natura! History Lore and Legend, cit., p. 81 [traduzione adattata]. 26 lvi, pp. 85-86. -

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potenze degli uomini senza potersi opporre. Era anche in questo caso lo Speculum mundi a darne memoria: [ . . . ] abbiamo testimonianza di una sirena trascinata alla deriva verso l'interno di un diga rotta sulla costa olandese durante una violenta tempesta che "galleg­ giando su e giù senza trovare un passaggio per uscire nuovamente (dato che la parte rotta della diga era stata riparata subito dopo l'alluvione), fu avvistata da alcune donne e dai loro inservienti [ . . . ] i quali dapprima era spaventati da lei, ma poi vedendola più volte, decisero di prenderla - cosa che effettivamente fecero e avendola portata a casa, lei soffrì nell'essere vestita e nutrita con pane e latte e altri tipi cibi, e si sforzò spesso di ritornare di nuovo in mare, ma tenuta d'occhio, non poté: per altro, imparò a filare e a eseguire altri piccoli compiti femminili, ma prima fu ripulita dai muschi di mare che aveva appiccicati addosso" . Possiamo a malapena immaginare la povera domestica di mare che cerca di fuggire; la raschiatura delle alghe e dei cirripedi prima di essere introdotta nel ru­ vido vestito di un contadino olandese, le accoglienti lezioni per imparare a filare, preparare il pane e occuparsi di altre faccende domestiche, furono di certo un tri­ ste contrasto con la vita di libertà nella natura di un tempo tra il rotolare dei flutti nel selvaggio Mare del Nord. Leggiamo anche che le fu insegnato a inginocchiarsi davanti al crocifisso: un compito questo - possiamo immaginare - di grande dif­ ficoltà per una sirena. 27

Gli avvistamenti delle Sirene capitarono anche a navigatori celebri. Stando a Bartholomé de Las Casas - storico, missionario nelle Indie e bio­ grafo di Cristoforo Colombo - l'Ammiraglio «vide tre sirene emergere vi­ stosamente dal mare» e commentò che «non erano così carine come le disegnano, perché in qualche modo i loro visi sembravano maschili».28 L'avvistamento era avvenuto tra la Guinea e Malaguta. La delusione di Colombo può essere imputata al fatto che egli probabilmente vide non delle Sirene (ovviamente!) ma dei lamantini, mammiferi di mare simili a foche. A riferire del possibile abbaglio fu il padre gesuita Pierre-François-Xav­ ier de Charlevoix che scrivendo proprio dei lamantini nella sua storia di Santo Domingo ebbe a commentare: «Il primo a immaginare che questo pesce potesse essere la sirena degli antichi è stato Cristoforo Colombo, che aggiungeva sempre volentieri qualche meraviglia per rendere più celebri le sue scoperte».29 27 lvi ,

pp. 88-89.

2s FERNANDO CoLON, Historia del almirante don Cristobai Col6n en la cual se da particulary ver­ dadera relacion de su vida y de sus hechos, y del descubrimiento de las Indias occidentales, Ilamadas nue­ vo-mundo. Escrita por don Fernando Colon, su hijo, Madrid, Impr. de T. Minuesa, 1 892, vol. l . p. 1 9 . 29 PIERRE-FRANçms-XAVIER D E CHARLEVOix, Histoire de l'Isle Espagnole ou de S. Domingue. Ecrite particulièrernent sur des mémoires manuscrits du P. }ean-Baptiste Le Pers, jésuite, missionnaire à - 63 -

CAPITOLO IV

Il padre gesuita non credeva alle "ragazze di mare" . Da cui il suo ra­ gionamento implicito: Colombo aveva avvistato dei semplici mammiferi marini e se le aveva chiamate Sirene, per quanto dal viso sgraziato, era per via della sua tendenza ad abbellire i resoconti per fare scalpore. Colombo, tuttavia, era considerato un'autorità. Per questo, dopo aver screditato la bontà del presunto avvistamento, il padre gesuita ritornava sul suo giudizio per giustificare il grande navigatore italiano, ottenendo il duplice risultato di non apparire ingeneroso e di riconfermare al contempo l'inattendibilità di quell'avvistamento. Non c'era nulla di male nell'accadu­ to, poiché - scriveva - anche in altri casi l'ammiraglio era stato in errore, «ma non a lungo», e del resto bisognava tenere presente che «questi deliri ai quali i grandi uomini vanno sovente incontro, sono ancor più giustificabili in Colombo poiché la meraviglia della scoperta di un mondo sconosciuto ai secoli passati lo abbagliava ancora un po'».30 Cosa dire dunque dei lamantini? I portoghesi li chiamavano "manati" . Essi sembravano infatti muniti di mani. Le loro pinne anteriori sono larghe e terminano con una parte pal­ mata che sembra unire delle dita. Buffon, grande patriarca francese delle scienze naturali del Settecento, li conosceva e li aveva illustrati nella sua va­ sta Histoire Naturelle. Li classificava, erroneamente, tra i "cetacei erbivori" , scrivendo a proposito: Nel regno animale è qui che finiscono i popoli della terra e cominciano i po­ poli del mare. Il lamantino, che non è più un quadrupede, non è neanche intera­ mente un cetaceo; dei primi mantiene due piedi, o meglio due mani, ma degli arti posteriori non resta che una coda a forma di ventaglio. Ovièdo sostiene che gli spagnoli danno il nome di "mani" agli arti anteriori degli animali e dato che questo animale ha solo gli arti anteriori, lo hanno chiamato animale dalle mani, o manati. La femmina ha due mammelle sul seno, e normalmente dà alla vita due piccoli che allatta. Tutti questi fatti riportati da Ovièdo sono veri, ed è singolare che Cieca, e diversi autori dopo di lui, abbiano assicurato che il lamantino esce sovente dall'acqua per recarsi sulla terra: gli hanno falsamente attribuito questa abitudine naturale, indotti in errore dall'analogia con i trichechi e le foche che effettivamente escono dall'acqua per soggiornare all'asciutto; ma è certo che il lamantino, al contrario, non esce mai dall'acqua e preferisce il soggiorno in acqua dolce piuttosto che in quella salata.31

& sur les pièces originales, qui se conservent au Dépot de la marine, Paris, F. Barois, 1 730-3 1 , vol. l, p. 25. 3 0 lvi , p . 1 68 . 3 1 ETIENNE GEFFROY SAINT-HILAIRE, Ouvres complètes de Bulfon précédées d 'une notice his­

Saint Domingue,

torique et de considérations générales sur le progrès et l'influence philosophique des sciences naturelles depuis cet auteurjusqu'a nosjours, Paris, F. D. Pillo t, 1 837, pp. 722-733 [traduzione adattata]. -

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DAL COSMO AL MARE: LA NAT U RALIZZAZIONE DEL MITO

La storia della naturalizzazione del mito delle Sirene passa attraverso un paziente lavoro di studio condotto dai naturalisti. Chi andava per mare riferiva degli avvistamenti, chi restava in terra si dedicava all'analisi degli esemplari catturati e delle descrizioni trascritte nei diari di bordo. Si cer­ cava di definire i tratti salienti delle diverse specie, le loro caratteristiche biologiche, le abitudini, il ciclo riproduttivo e - non ultimi - i tratti somatici e comportamentali che potevano avere indotto i navigatori del passato a scambiarli per le "ragazze di mare" . Di questa progressiva trasformazione delle Sirene in animali troviamo memoria non solo nei trattati naturalistici - come quello di Buffon - ma anche nelle voci enciclopediche dei grandi dizionari. Per esempio d'Orbi­ gny, allievo del celebre anatomista francese Georges Cuvier, aveva dedicato una voce nel suo Dizionario Universale di Storia Naturale ai dugonghi, che molto condividevano nei loro tratti anatomici con i lamantini. Li indicava con il nome scientifico di Halicore (figlie del mare) perché anch'essi a volte erano stati scambiati per le Sirene e perché questo era il nome che nella collocazione sistematica gli avevano attribuito Cuvier e Illiger. n dugongo ha qualche analogia con i lamantini, tuttavia si differenzia per via delle pinne pettorali completamente prive di unghie, per la coda simile a quella delle balene e dei delfini, per la posizione delle narici e per diverse altre caratteri­ stiche che qui sarebbe inutile menzionare.3 2

A menzionare tali «inutilità» aveva provveduto invece Buffon che a tal proposito scriveva: n dugongo è un animale dei mari dell'Africa e delle Indie orientali, del quale noi abbiamo avuto modo di esaminare due teste troncate . Abbiamo adottato il nome di Dugon come lo si conosce presso l'isola di Lethy o Leyte, una delle Filip­ pine. Ho trovato il nome nei Voyages hollandois di Christophe Barchewitz. L'autore dice che questo animale viene chiamato anche manati o lamantino. Sembra così che il dugongo sia un lamantino; ma nella sua descrizione viene detto che esso possiede due denti e tale caratteristica non si addice al lamantino ma è invece tipica dell'animale qui in questione, il dugongo, e di cui noi abbiamo le teste.33

Ecco dunque i caratteri distintivi: i dugonghi erano muniti di denti e di una coda biforcuta; i lamantini non avevano dentatura e la loro coda si presentava a forma di ventaglio. 3 2 Dictionnaire universel d 'histoire naturelle servant de complément aux uvres de Buffon, de Cu­ vier; aux encyclopédies, aux anciens dictionnaires scienti.fiques. Deuxième édition revue, considérable­ ment augmentée et enrichie, a cura di Alcide Charles D'Orbigny, Paris, Abel Pilon et C. Editeurs, ( 1 867- 1 8 72) 1 967, vol. V. p. 272. 33 E. GEFFROY SAINT-HILAIRE, Ouvres complètes de Buffon, cit., p. 72 1 . -

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CAPITOLO IV

L'immaginifica impalpabilità mitologica che era stata delle Sirene quan­ do esse appartenevano ancora al fantastico e all'invenzione del mito veniva sottoposta - nelle pagine di Buffon - a un'operazione trasformativa che, volatilizzato ogni sentore magico o metafisica, lasciava nelle mani dello stu­ dioso un mero oggetto anatomico pronto per essere sezionato, scomposto e confrontato con gli altri pezzi di ma,teria vivente che la tumultuosa zoo­ logia dell'epoca aveva posto sui tavoli della nascente anatomia comparata. In che misura una specie somigliava a un'altra? In che misura un organismo andava considerato, per via dei suoi tratti salienti, afferente a un gruppo o succedaneo a un altro? Rispondendo a simili domande la nascente scienza naturale delle comparazioni contava di mettere ordine e scoprire il piano comune che legava il vivente in tutte le sue manifestazioni multiformi. Buffon era l'ultimo dei romantici. Stava per giungere una nuova gene­ razione di studiosi - in gran parte a lui debitrice sotto il profilo intellettuale e in certi casi anche accademico - che avrebbe estirpato ogni approccio fiabesco alle passeggiate naturalistiche nei giardini botanici del creato (o più modestamente nei Giardini reali dove era ospitato il prestigioso Museo di Storia Naturale in cui lavoravano). Pur col romanticismo che lo legava ancora a un passato che stava per essere rivoluzionato, Buffon aveva poco concesso alle Sirene di Omero e dei marinai. Per lui, se proprio di Sirene si voleva parlare, si poteva farlo al più pensando ai lamantini o ai dugonghi. Solo occhi inesperti avevano potuto scambiare questi grossi pachidermi con ragazze marine. La sua descrizione della loro anatomia non suscitava alcun possibile innamoramento. Essa sembrava richiamare più il cinico di­ stacco dei trattati di medicina che i sospiri invaghiti dei bestiari d'amore. Così li descriveva: Le femmine di lamantino possiedono la vulva molto grande con una clitoride appariscente; questa parte non è situata come negli altri animali al di sopra, bensì al di sotto, dell'ano. 34 Esse hanno le mammelle poste sul petto e molto evidenti durante la gestazione e l'allattamento dei piccoli; ma, negli altri periodi, esse non sono visibili se non per via dei loro capezzoli. 35

Più avanti forniva altri dettagli con cui contribuiva anche lui a svelare cosa aveva potuto ingannare i marinai e gli esploratori del passato creando in loro la convinzione di aver incontrato delle Sirene. 34 Questa caratteristica anatomica non si riscontra in natura né nei lamantini né in altri animali affini. Buffon, evidentemente, stillò la sua descrizione non basandosi su un esemplare

reale, ma avvalendosi di quanto riferito da altri studiosi o viaggiatori. 35 E. GEFFROY SAINT-HILAIRE, Ouvres complètes de Buffon, cit., p. 726.

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Il lamantino viene chiamato anche mucca marina perché la sua testa è stata vista somigliante in qualche modo a quella della mucca e perché si nutre solo di erbe. Molti viaggiatori l'hanno anche chiamato sirena, e forse effettivamente esso è l'autentica sirena degli antichi che ha dato luogo a tante storie e racconti favolosi. 36

In una breve nota, nel giro di due righe, l'eterno mito omerico, quel denso simbolo su cui si erano sedimentati timori e desideri, veniva ridotto a un mero dato sistematico, classificatorio, a un semplice dettaglio etimolo­ gico in merito alla nomenclatura linneiana. Il processo di naturalizzazione del mito delle Sirene era destinato a una corsa senza ritorno. L'accostamento con la mucca di mare, presente nel brano appena cita­ to, dimostra che il romanticismo di Buffon non era poi così trasognante da negare l'evidenza scientifica delle osservazioni. Altro che fanciulle di mare. Queste bestie acquatiche somigliavano più a una mucca che a una dama di corte! La sua penna, evidentemente, non soffriva alcuna suggestione né tentava in alcun modo di imbellettare i lamantini fino a spingerli ai confini delle descrizioni mitologiche che erano state fatte delle Sirene. Così, se certi studiosi si erano prodigati per trovare una zoologia in grado di con­ fermare l'esistenza delle Sirene, Buffon faceva l'esatto contrario: marcava la "realtà zoologica" escludendo di fatto qualunque possibile creatura fatta per metà da una donna e per metà da un pesce. Tutto quello che il mondo biologico aveva da offrire a proposito di seni e ombelichi galleggianti era una grossa foca sgraziata tanto bruttina da prendersi il nome di mucca marina. Quest'ultima però non era il lamantino. C'era dunque un errore di no­ menclatura da chiarire. A scoprirlo era stato Georg Wilhelm Steller, natu­ ralista tedesco che aveva aderito all'esplorazione della Siberia voluta dalla zarina Anna lvanovna. Al seguito del comandante Bering la spedizione era partita nel 1 74 1 . Dopo aver percorso lunghe miglia in mari freddi e difficili era stata colta da una rovinosa tempesta che si era conclusa in un naufragio sulle coste di un'isola vicina all'attuale Kamchatka. La tragedia era solo al suo inizio. Il comandante Bering mori poco dopo e allo stesso modo finì metà dell'equipaggio. Steller, da parte sua, non si scoraggiava e cercava di impegnare il tempo studiando la fauna e la flora dell'isola. Fu lì che avvistò, per primo, le mucche di mare. Valmon de Bomare, nel suo celebre Dictionnaire raisonné universel d'hi­ stoire naturelle dedicava a questi organismi sei pagine in cui chiariva che 36 Ibid.

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erano in errore coloro che usavano il nome per riferirsi ai lamantini, poiché la vache marin era semmai il "tricheco" . 37 L'attribuzione era in questo caso erronea in quanto, come aveva già rimarcato lo stesso Buffon, l'appellativo di mucca, nel caso del tricheco, era forse conseguenza del fatto che questi, come la foca, «emette a volte un verso somigliante a un muggito» ma, a parte ciò, l'animale non si presen­ tava per nulla somigliante a una mucca. Era semmai da adoperarsi il nome di «elefante marino» anche in conseguenza del fatto che «tanto il tricheco quanto l'elefante possiedono due grosse zanne d'avorio».38 I dizionari dell'epoca non erano alieni alle finalità pratiche che la scien­ za illuminista raccomandava, né si mostravano immuni al fascino che l En ­ cyclopédie di Diderot e D' Alembert esercitava su lettori ed editori. Così, per esempio, il dizionario di Valmon de Bomare presentava ricche informa­ zioni non solo sul versante strettamente teorico, ma anche sugli eventuali utilizzi «in medicina, economia domestica, nelle arti o nei mestieri». Anche Buffon, del resto, non era stato da meno in tal senso, offrendo qualche considerazione di carattere economico-imprenditoriale in chiusura delle pagine dedicate alla biologia del tricheco: «Un dente di questi animali pesa in media tre libbre e da un tricheco ordinario si estrae una mezza tonnellata di olio; così un animale intero rende trentasei fiorini; ovvero, diciotto per i suoi due denti, pagati tre fiorini la libbra, e il resto per il suo grasso».39 '

***

Cercare le Sirene nel mondo biologico era un'impresa fallimentare, quanto inutile . Il valore del mito risiede nella sua dimensione eterea, rifles­ so del profondo mondo che anima la nostra psiche ed emotività. Sperare nell'esistenza di un organismo che giustifichi l'invenzione è conseguenza di un bisogno in fondo ingenuo. Più condivisibile era dunque l'impegno di chi si avvaleva dell'antidoto empirico alle illusioni per delimitare i confini del mondo biologico. Armati di metodo questi naturalisti si sforzavano di esprimere il verdetto tratto 37 Dictionnaire raisonné universel d'histoire naturelle: contenant l'hitoire des animaux, des végé­ taux et des minéraux, et celle des corps célestes, des météores, & des autres principaux phénomenes de la nature ; avec l 'histoire et la description des drogues simples tirées des trois regnes; et le détail de leurs usages dans la médecine, dans l'économie domestique & champetre, et dans les arts & metiers: plus, une table concordante des noms latins, & le renvoi aux objects mentionnés dans cette ouvrage, a cura di Jacques-Christophe Valmont de Bomare, Paris, Brunet, 1 775, vol. IX, p. I 73 . 3 8 E . GEFFROY SAINT·HILAIRE, Ouvres complètes de Buffon, cit., p. 7 1 8 . 3 9 lvi, p . 7 1 9 . -

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dalle loro peregrinazioni nei mari dello scibile. E il verdetto era stato "non esistono sirene, esistono solo mucche di mare e bestie affini" . Per trovare quanto di più vicino alle Sirene la zoologia aveva da offrire, i naturalisti avevano dovuto prendere le distanze da un passato pieno di inesattezze. Chiaramente, proprio chi si sforzava di adottare i canoni del metodo scientifico per svestire il mondo vivente da ogni possibile abbel­ limento fantasioso, finiva per cadere in errori ben più gravi. Julien-Joseph Virey, per esempio - antropologo e autore di una Histoire naturelle du genre humain - aveva dato prova del suo zelo razionale redigendo la voce "Sire­ ne" per il Nouveau dictionnaire d 'histoire naturelle edito da Deterville. Le Sirene ci ricordano tutte le belle favole della poesia antica. La bellezza, la voce armoniosa, i pregi delle incantevoli ragazze del mare sono stati celebrati nell'Odissea del vecchio Omero. I naturalisti antichi, molto ingenui, prendevano alla lettera queste fantastiche creazioni dei poeti. Plinio parla di Sirene prese sul serio nel suo tempo. Oggi, Ninfe, Sirene, Tritoni che popolavano l'impero delle onde nei vecchi tempi, non sono più che bestie, mucche marine o foche. Noi facciamo di ognuna di queste divinità un animale, come usavano fare gli egiziani, solo che noi non li adoriamo. 40

Lo zelo scientifico impediva a Vrrey di credere alle «belle favole della poesia antica». Peccato che tanto zelo non gli impedì di credere in baggia­ nate come quelle con cui aveva suddiviso l'umanità in razze per classificare quelle superiori e quelle meno prestanti. Il realismo ingenuo può essere disastroso. Ma torniamo alla zoologia marina. Nel 1 836 Frederic Cuvier, anche lui naturalista come il fratello Georges, dava alle stampe una Storia naturale dei

cetacei o Raccolta e esame dei fatti di cui si compone la storia naturale di questi animali. E i "fatti" a suo avviso si presentavano così: I cetacei erbivori sono rimasti per molto tempo ignorati, o quanto meno sono stati conosciuti nel modo meno conforme alla loro natura. Buffon pare essere sta­ to il primo a distinguere il dugongo dal lamantino rifacendosi alla comparazione tra le loro teste.41

Cuvier conosceva bene l'opera di Buffon. Come tutti, ne era un estima­ tore. E tuttavia restava interdetto relativamente a una questione anatomica 40 Nouveau dictionnaire d 'histoire naturelle, appliquée aux arts, à l'agriculture, à l'économie ru­ rale et domestique, à la médecine, etc. Par une société des naturalistes ed d 'agriculteurs, Paris, Deter­ ville, 1 8 1 9 , vol. XXX I , pp. 3 1 5-3 1 6 . 4 1 FREDERIC CUVIER, De L'Histoire naturelle des cétacés ou recueil et examen des faits dont se compose l'Histoire naturelle de ces animaux, Paris, Librairie Encyclopédique de Roret, 1 836, p. 4. -

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di cui riferiva senza eufemismi: «nel lamentino la vulva è piazzata come ne­ gli altri animali; non capisco dunque cosa Buffon volesse dire affermando che si trova al di sotto dell'ano».42 Si trattava di dettagli. Il rigore risentiva di osservazioni ancora in parte maldestre per via della vita schiva di questi animali. L'opera di Cuvier, ciò nondimeno, cercava di offrire un'antologia ragionata delle opinioni espo­ ste da altri autori e tra questi quelle di Georges Cuvier, all'epoca ormai famosissimo tra salotti bene e accademie: «Mio fratello ha separato la foca e il tricheco sia dai lamantini che dal dugongo per fare dei primi il gruppo degli anfibi e dei secondi quello dei cetacei erbivori».43 Il compendio si chiudeva con una classificazione tassonomica che sa­ rebbe rimasta per diversi anni quella ufficiale. I cetacei erbivori andavano divisi in tre generi: i lamantini (Manatus), i dugonghi (Halicore) e le mucche di mare (Rytina), che - ormai era chiaro - non erano altro che trichechi. ***

Con visi che «sembravano maschili», muso pronunciato e prive di ca­ pelli, cosa avevano i "cetacei erbivori" di simile alle Sirene? Davvero era possibile scambiarli per le magnifiche fanciulle del mare? Cosa poteva avere tratto in inganno i navigatori del passato? Credo che un'ipotesi possa essere avanzata. La deduco dalle collezio­ ne di rendiconti raccolta da Frederic Cuvier a proposito della biologia del lamantino dell'America meridionale. Come quelle redatte da Oviedo e Oexmelin. Il primo di questi autori era stato uno storico e naturalista spagnolo, estensore di una Histoire naturelle et generale des Indes. Scrive Cuvier riferen­ dosi a quanto Oviedo riferisce a proposito del lamantino: Egli sostiene che la femmina possiede due mammelle sul seno, e mette al mondo due piccoli. Questo lamantino è mansueto; vive nel mare, rimonta i fiumi e il suo nutrimento è costituito solo da vegetali. Ecco tutto quello che ci insegna su questi animali il più anziano degli autori che bisogna conoscere .44

Cuvier non si limitava a citare uno studioso rispettabile come Oviedo. Se si voleva conoscere la biologia di animali esotici come i lamantini bi­ sognava ricorrere a ogni fonte disponibile, specialmente quella fornita da 42 lvi , p. 1 7. 43 lvi , p. 3 . 4 4 lvi , pp. 7 e 8 [adattato].

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chi - grazie a un'indole temeraria - si era imbattuto in mari remoti e per lungo tempo. Come Alexandre Olivier Oexmelin. Questi aveva lavorato a Tortuga, nell'isola di Haiti, per la Compagnia francese delle Indie occiden­ tali. Venne in seguito venduto come schiavo insieme agli altri dipendenti, ma riuscì a fuggire dandosi così a una vita di peripezie terminata ad Am­ sterdam dove si ritirò per dedicarsi alla scrittura. Scrive Cuvier: Oexmelin, che per dieci anni ha fatto il mestiere di pirata, è il primo che parla delle parti ossee del lamantino. A tal proposito dice che questi animali dei mari delle Antille hanno cinquantadue vertebre e non possiedono incisivi. Aggiunge anche, sbagliandosi, che i loro occhi non hanno iride. Le parti genitali sono, egli sostiene, più simili a quelle dell'uomo e della donna che non a quelle di nessun altro animale. Assicura che il latte delle femmine ha un gusto ottimo, che le fem­ mine producono un solo piccolo per ogni gravidanza e che esse lo sostengono stringendolo contro il loro corpo grazie a una delle pinne che usano come una mano. Rochefort sostiene anch'egli questo dato. Le madri allattano il piccolo per un anno finché non possa pascolare da solo. 45

Cuvier svelava un indizio illuminante. Ne riferiva anche il dizionario diretto da Bomare. Il lamantino ha sangue caldo e non è pericoloso, è viviparo e si accoppia in ac­ qua alla maniera degli umani; gli organi sessuali somigliano più a quelli dell'uomo e della donna che a quelli di qualsiasi altro animale. Ha due capezzoli posizionati sul petto. 46

Labat, esploratore e scrittore francese, era perfino più preciso: Gli arti anteriori, i soli di cui è fornito questo animale, consistono di due pinne che somigliano a quelle della tartaruga; non servono affatto, come si è pensato, a farlo muovere sulla terra: il solo uso che ne fa la femmina, oltre a nuotare, è di sostenere al petto il suo piccolo. Le mammelle durante l'allattamento hanno sette pollici di diametro e quattro d'altezza, con un capezzolo alto un pollice e grosso proporzionalmente. 47

Più che il viso era stato il seno. I lamantini erano i soli animali acqua­ tici ad avere due mammelle sul busto simili a quelle delle donne. Anche l'origine etimologica del nome usato dai portoghesi conserva questo altro 45 lvi, p. 1 1 . L'opera citata da Cuvier è Voyage autour du monde, vol. l, p. 46. 46 Dictionnaire raisonné universel d'histoire naturelle, cit., vol. VII, p. 425 . 4 7 F. CUVIER, D e L'Histoire naturelle des cétacés, cit., p . 5 . L'opera citata d a Cuvier è Voyage aux iles de l 'Amérique, tomo Il, pp. 200 e 338. -

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CAPITOLO IV

significato: la parola manati non indica solo che i loro arti siano simili a "mani" ; i portoghesi infatti avevano probabilmente mutuato il nome dai popoli caraibici, nella cui lingua "manattoui" significa "petto di donna" . Il dato era di per sé eclatante. Ma il segreto stava altrove. L'inganno era andato oltre. C'è da credere infatti che a destare la sorpresa nei navigatori era stato più il gesto che la forma. Non era stato il dettaglio anatomico, ma semmai la vista d'insieme: con la pinna anteriore che sembrava un braccio e stringeva il piccolo al seno, i lamantini erano stati visti compiere il più femminile e riconoscibile dei gesti: allattare . Ecco dunque svelato il mistero. Non c'erano più dubbi. Le Sirene non esistono e ciò che aveva suscitato l'equivoco erano le mamme appartenen­ ti a una specie di grossi mammiferi marini chiamati lamantini. Era stata quella premura, quel gesto così atavico e tenero a creare la suggestione di aver visto delle donne in mare. Altro che terribili attiratrici di tempeste, altro che nefaste incantatrici per cuori solitari, questi esponenti del mondo animale erano tenerissimi, di certo con i loro piccoli. E il loro modo di al­ lattare non aveva equivalenti nel resto del regno animale se non forse nella specie umana. Munite di due seni tondi sul petto simili a quelli della donna, esse si prendevano cura dei loro piccoli tenendoli "in braccio" con le loro pinne simili a mani e dando loro il latte mentre rimanevano col busto a mezz'acqua per permettere ai piccoli di suggere il latte senza problemi. L'immagine era meravigliosa. La scoperta eclatante. La scienza aveva con­ cluso nel migliore dei modi possibili il suo processo di naturalizzazione del mito delle Sirene. Ciò nondimeno, così facendo riduceva il denso valore del mito a un dettaglio etologico. È vero, il comportamento delle mamme di lamantino spiegava l'equivoco di certi avvistamenti, ma in realtà non diceva nulla a proposito della ricca stratificazione racchiusa nel mito delle Sirene. Questo veniva - con una certa ingenuità - liquidato dall'interpreta­ zione naturalistica del mito. Trovare nelle femmine di lamantino le possibi­ li ispiratrici di certi resoconti di viaggio era in fondo una scoperta di poco conto. Cosa poteva dire infatti questo dato zoologico riguardo ai bisogni all'animo umano, alle sue angosce, alle sue possibili gioie? Ben poco. Anzi nulla. Del mito non diceva nulla. L'intera operazione era destinata al fallimento. Più che cercare nel mondo biologico l'origine del mito, si sarebbe dovuto cercare nel cuore il suo significato. Lì, di certo, si sarebbero trovate risposte molto più significative. Che presto, tuttavia, torneranno ad animare - sotto un'altra luce - le palpitanti menti non solo degli scienziati, ma anche dei filosofi, degli artisti, dei poeti e di ogni altro speranzoso navigante nel mare dell'esistenza.

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CAPITOLO V SCHELLING E LA TRADIZIONE NEOPLATONICA

Fossero solo gioie potremmo fare a meno dell'anima. La nostra beati­ tudine basterebbe a riempirei di una felicità incondizionata e totalizzante; ma nel nostro mondo l'allegria è incerta e l'anima è l'unico rimedio. O forse è il contrario. Forse è proprio la presenza dell'anima a rendere i nostri giorni così inquieti. È lei a ricordarci che tutto quello che riusciremo a sottrare alle guastature del fato, tornerà presto nel mare dell'incertezza. Sotto il nostro cielo non c'è luogo dove ripararsi dalle insidie della sorte . L'anima è il teatro degli opposti: bene e male, lieto e dispiacevole, desi­ derato e detestabile. È una notte che ci toglie dal mondo fisico della realtà e ci consegna all'immaginazione, al lavorio interiore del nostro sentire. È di nuovo Esiodo l'autore da cui vorrei partire, il poeta che ci parla di questa notte: La Notte quindi generò la Sorte odiosa, e la nera Kere, e la Morte; generò il Sonno, generò tutta la stirpe dei Sogni: questi figli ebbe la dea, la Notte tenebro­ sa, senza essersi unita ad alcuno. E poi generò ancora il Biasimo e la Sventura dolorosa, e le Esperidi, che al confine dell'Oceano glorioso stanno a guardia degli splendidi pomi d'oro e degli alberi, i quali portano questi frutti; generò anche le Parche e le Kere, inesorabili vendicatrici. 1

Cosa dire dunque della notte? Nei capitoli precedenti abbiamo letto di un mito che viene giudicato in relazione all'oggettività, al grado di aderen­ za al mondo fisico che ci circonda. Ci siamo avvalsi di un caso specifico per porre l'ipotesi su cui stiamo lavorando al vaglio della Storia: abbiamo visto le Sirene passare dalla loro posizione astrale (preposte all'ordine dei cieli) a quella di tentatriei nei mari (come le raccontarono, tra gli altri, Omero 2

' EsiODO, Teogonia, in ID. , Opere, a cura di Aristide Colonna, Torino, UTET, 1 977, 2 1 1 - 2 1 9 , p . 73 .

z OMERO, Odissea, a cura di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi, 1 963. -

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CAPITOLO V

o Apollonia Rodio).3 Le abbiamo anche viste venire tramutate da creatu­ re ipotetiche (quelle dei racconti mitici) a esponenti del mondo zoologico (quelle ricercate dai naturalisti) . Tuttavia, ci siamo anche resi conto che una volta che la scienza le ha forzate dentro una possibile realtà naturale, le Sirene hanno perso per sempre il diritto all'esistenza: non avendo posto nella realtà, sono svanite definitivamente, screditate da una comunità che ha occhi solo per gli oggetti del mondo "fisico" . La loro confutazione dal reale giunge grazie all'operosità dei naturalisti e, più in generale, degli studiosi che hanno messo a punto una bussola me­ todologica con cui distinguere il vero dal verosimile. L'esito è stato convin­ cente. La lampada del logos ha fatto luce. D'ora in poi, nessun navigatore dovrà affrontare le temibili creature nel corso delle sue rotte al largo delle coste (tutt'al più incontrerà dei placidi lamantini sfuggiti alle loro normali geografie esotiche). D'ora in poi, nessuno più udrà il canto delle Sirene tendendo l'orecchio alla volta celeste. Eppure, per questi navigatori e osservatori di cieli, per loro come per noi, la notte resta incerta. Al calare della luce, da soli ci troveremo di nuovo dinnanzi alla «Sorte odiosa», al «Biasimo» e alla «Sventura dolorosa», alle Parche e alle Kere, «inesorabili vendicatrici». Dopo aver vissuto l'illu sio­ ne di controllare ciò che è presente nel mondo fisico, la sera si presenterà fitta di tutto ciò che abbiamo lasciato da parte durante il giorno: desideri, passioni, speranze, bisogni, amori e un'infinità di altre mutevoli incertezze della felicità. Si tratta di accidenti che esulano dalla consistenza della realtà fisica e che tuttavia sono assolutamente "tangibili" nel contesto della no­ stra vita emotiva. Sarà in quel momento, più che mai, che avremo bisogno della mitologia e delle sue narrazioni. Ma soprattutto avremo bisogno di una diversafunzione filosofica del mito, differente da quanto un certo positivi­ smo ha proposto in passato.4 Per definire questa funzione, senza tralasciare la tridimensionalità sto­ rica da cui dipende, faccio riferimento allora ad alcuni filosofi che hanno avuto il merito di sondare il problema del mito in relazione agli interroga­ tivi dell'anima. 5 Tra questi, il primo a cui rivolgo l'attenzione è Schelling, studioso a cui la vita non risparmiò le beghe quotidiane: la sua biografia testimonia non solo la vivace attività intellettuale, ma pure una sbeccante amministrazione delle faccende materiali con cui non si può non simpatiz3 APOLLONIO Romo, Le Argonautiche, a cura di Guido Paduano e Massimo Fusillo, Milano, BUR, 1 986, IV. 89 1 -92 1 . 4 Cfr. supra, capp. I e III. > Uso qui il termine "anima"' in senso molto generico. Più avanti, in questo capitolo, ritor­ no sul termine con alcune precisazioni. -

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zare. Come ricorda Tonino Griffero, «la vicenda del cosiddetto "secondo" o "ultimo" Schelling (singolare definizione per oltre quarant'anni di studi e lezioni!) è ben nota nei suoi tratti generali e, purtroppo, spesso caricatura­ li». È vero infatti che «tra "atti mancati" di varia natura, soprattutto edito­ riali (consegne non mantenute e ritiro in extremis di lavori già pubblicati), e questioni giudiziarie» affrontate per difendere sia le proprie idee (di cui si sentiva costantemente derubato a causa della diffusione dei Nachschriften, i taccuini di appunti presi dagli studenti nel corso delle sue lezioni), sia i di­ ritti d'autore (spesso usurpati da ristampe non autorizzate), «Schelling finì per pubblicare pochissimi lavori».6 A Schelling si deve la sistematizzazione di una filosofia della mitologia che occupò gli interessi dello studioso lungo l' arco di tutta la sua vita.7 Nel 1 842, così ne riferiva nel corso delle sue lezioni: la mitologia «è stata considerata fino ad oggi come oggetto di indagine semplicemente stori­ co-empirica, in cui la filosofia poteva aver solo quella parte che comun­ que è doveroso riservarle in qualsivoglia ricerca puramente empirica» . Per questo «era naturale che già il titolo Filosofia della Mitologia suscitasse scandalo» . 8 Lo scandalo consisteva nel proporre il mito come oggetto di studio filo­ sofico, ovvero come possibile realtà «oggettiva». Di questa oggettività si sa­ rebbe però dovuto dare prova empirica. Prova che tuttavia gli scandalizzati oppositori di Schelling negavano egli avesse fornito. Da cui la sua difesa: Anche nelle scienze dell'antichità e della natura vi sono i cosiddetti empirici puri, vale a dire empirici che escludono ogni filosofia, e di solito ce li si rappresen­ ta - e loro stessi vi si prestano - come coloro che ammettono solo i puri fatti. Che cosa significhi questo nelle scienze della natura, è chiaro dal numero esagerato di ipotesi in tutte le possibili indagini empiriche, e soprattutto nelle cosiddette teorie fisiche, che per la maggior parte poggiano su presupposti che sono appunto indi­ mostrabili sul piano empirico.9

6 FRIEDRICH WILHELM jOSEPH SCHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, a cura di K.F.A. Schelling, Stuttgart-Augsburg, 1 856, vol. XI; trad. it. , Filosofia della Mitologia. Introduzione storico-critica. Lezioni (1 842), a cura di Tonino Griffero, Milano, Guerini, 1 998, pp. 1 1 e 1 2 . 7 Francesco Moiso h a ripercorso l'evoluzione della filosofia della mitologia di Schelling evidenziando gli interessi mitologici dell'autore dal 1 792 alle ultime lezioni berlinesi (cfr. FRAN­ CEsco Mmso, Lafilosofia della mitologia di F. WJ. Schelling. Dagli inizi all'introduzione storico-critica, a cura di Matteo Vincenzo d'Alfonso, Milano, Mimesis, 20 1 4). s FRIEDRICH WILHELM josEPH SCHELLING, Die Mythologie, in Siimmtliche Werke, a cura di K. F.A. Schelling, Stuttgart-Augsburg, 1 857, vol. XII; trad. it. , Filosofia della Mitologia, a cura di Lidia Procesi, Milano, Mursia, 1 990, p. 7. 9

Ibid. - 75 -

CAPITOLO V

Il divertente sarcasmo delle parole di Schelling muove non solo a deline­ are un'apologia dell'accordo tra pensiero filosofico e racconto mitologico, ma anche una critica nei confronti di chi pavoneggia «serietà>> per liquidare come «fantasticherie)) qualsiasi teoresi che presenti una «idea spirituale)). Se dunque, per tornare al nostro argomento, si consideri con quale serietà ad es. Hermann discetta nella sua spiegazione della mitologia di cose che egli non può assolutamente sapere - dei saggi in Oriente che riflettevano sulla natu­ ra, inventavano teorie, e di come le sistemassero artisticamente [ . . . ] chi dunque consideri la serietà, anzi, il tono ispirato con cui questo studioso dell'antichità, degno per altro della massima considerazione, enunzia tali cose assolutamente indimostrabili, mentre definisce fantasticherie tutto ciò che anche solo da lontano abbia di mira un'idea spirituale, questi sarà costretto ad ammettere che, di contro, una teoria che inventi tali fatti indimostrabili è una vera fantasticheria, per quanto possa essere una teoria estremamente sobria e deserta di ogni idea. 1 0

Lontano da simili teorie, sobrie e deserte di idee, l'intento di Schelling è dimostrare quanto il mito possa - anzi, debba - essere oggetto di indagine filosofica. Non si può affrontare la materia in modo più corretto poiché il mito non consente una concezione più semplice rispetto a quella che è implicita nella denominazione filosofia della mitologia. «Prima che ci sia con­ cesso di considerare fondata la concezione filosofica)) - afferma - «è neces­ sario dimostrare l'impossibilità di qualsiasi altra concezione più accessibile, e con ciò che quella filosofica è rimasta l'unica possibile)). 1 1 Schelling si richiamerà agli insegnamenti di Bacone per dar forza del procedimento eretto sulla «progressiva esclusione di quanto si rivela erra­ to)). E questo per ottenere una «depurazione del fondamento di verità dalle false determinazioni che lo accompagnano)) e circoscrivere «la verità, sino a che non ci si senta quasi costretti a riconoscerla e a esprimerla)). 12 Nel dimostrare l'impossibilità delle concezioni non filosofiche, Schel­ ling era partito dall'ipotesi della genesi poetica secondo cui la mitologia sarebbe l'invenzione fantastica di singoli individui. È la prima ipotesi da scartare: anche se il mito possiede innegabilmente aspetti poetici, esso non avrebbe valore oggettivo e universale se fosse inteso come il prodotto della fantasia del singolo che si impone su un intero popolo. Il suo significato [della mitologia] risiede semplicemente nel fatto che gli av­ venimenti raccontati sono reali. Supponiamo in chi ce li racconta l'intenzione di

F.WJ. SCHELLING, Die Mythologie, cit., pp. 7 e 8. F.WJ. SCHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, cit., p . 75 . 12 F.WJ. SCHELLING, Die Mythologie, cit., p. 385. IO

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istruirei, e noi stessi lo ascoltiamo con l'intenzione di essere istruiti. Il suo raccon­ to ha allora per noi senza alcun dubbio un significato dottrinale. Porre la domanda su come la si possa intendere, ossia su cosa la mitologia sia o significhi, implica già in chi la pone l'impossibilità di accettare i racconti mitologici e - l'elemento storico e qui inseparabile dal contenuto - le rappresentazioni mitologiche stesse come verità, di vedervi degli avvenimenti reali. Ma se non li si può intendere come verità, che cosa mai saranno? Dal momento che l'opposto naturale della verità è l 'invenzione poetica, intenderò questi racconti come se fossero un'invenzione po­ etica, supporrò cioè che il loro significato sia poetico, e che perciò siano anche il risultato di un'invenzione poetica. 1 3

Schelling non ammette che la poesia possa avere avuto origine prima del mito, determinandone poi lo sviluppo. Il processo semmai deve essersi svolto in successione opposta: solo dopo lo sviluppo della mitologia può esserci stata una sua narrazione poetica. Qualsiasi invenzione poetica suppone una qualche base indipendente, un ter­ reno da cui scaturisce; nulla può essere puramente escogitato, cioè inventato di sana pianta. La più libera delle poesie, quella che è totalmente inventata, ed esclu­ de qualsiasi riferimento ad avvenimenti reali, presuppone nondimeno l'effettivo e normale svolgersi dell'esistenza umana. Persino quando l'intera successione e concatenazione degli eventi rasenta l'incredibile, ognuno di essi, preso singolar­ mente, dev'essere però creduto o analogamente considerato come vero [ . . . ] se­ condo quanto Odisseo vanta dei suoi racconti. Il cosiddetto elemento miracoloso dei poemi epici di Omero non è qualcosa che possa valere come obiezione, dato che la sua base reale era costituita da una dottrina degli dèi che, dal punto di vista di Omero, era non solo già esistente, ma anche assunta come vera. 1 4

Così «il meraviglioso si trasforma in qualcosa di naturale, poiché gli dèi, che intervengono negli affari degli uomini, appartengono al mondo reale di quell'epoca, rientrano nell'ordine delle cose a cui si credeva, e che del resto era sotteso alle rappresentazioni degli dèi stessi» . 1 5 Ma se la poesia america ha come sfondo il grandioso insieme della cre­ denza negli dèi - domanda Schelling - com'è possibile supporre che questo insieme abbia a sua volta come sfondo la poesia? « È evidente che non può aver preceduto la credenza negli dèi ciò che questa, soltanto, ha reso possi­ bile e mediato, come appunto la libera invenzione poetica». 16 13 F.W.J. ScHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, cit., pp. 80-8 1 .

14 15

lvi , pp.

16

Ibid.

lvi , p.

82-83 . 83 .

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Come scrive bene Tilliette, «alla fine la poesia si appropria della mito­ logia, ma non è un motivo per considerare questa un'invenzione, una cre­ azione immaginaria)). Infatti, «la funzione fabulatrice del mito interviene solo per indicare la fine dell'avventura teogonica, 1 7 illuminare retrospetti­ vamente lo sviluppo liberatorio)). 18 Inoltre non si trova concordanza tra la gaia poesia america e le serie mitologie egizie, fenicie, babilonesi. «Bisogna far fare alla poesia la sua parte. Essa non rende conto adeguatamente del mito nel suo complesso. La mitologia non nasce poetica, essa lo diventa)). 1 9 Il mito ha una consistenza oggettiva che travalica la semplice estetica. Esso è composto di idee oggettive, che Schelling giudica dunque reali.20 Il nucleo intorno al quale l'intera mitologia è venuta formandosi, vale a dire la sua materia originaria, è costituito da fatti ed eventi che rientrano in un ordine di cose del tutto diverso non soltanto da quello storico ma che da quello umano, un ordine i cui eroi sono gli dèi, ossia una moltitudine apparentemente indetermi­ nata di personaggi che vengono fatti oggetto di una venerazione religiosa e che, insieme, formano un loro mondo, il mondo degli dèi. [ . . . ] per questo motivo la mitologia è, in generale, la dottrina degli dèi. 2 1

L'esempio a cui l'autore fa riferimento riguarda la successione di Crono a Urano, in quel passaggio della Teogonia di Esiodo di cui io ho parlato nel capitolo precedente, offrendo una lettura personale diversa da quella che propone Schelling. Egli sostiene che: Quando si dice che Crono è uno dei figli di Urano, si indica una circostanza naturale; quando si racconta come egli abbia evirato il padre, strappandogli il dominio del mondo, si indica invece una circostanza storica. Essendo però i rap­ porti naturali, in senso lato, anche rapporti storici, caratterizzeremo a sufficienza questo aspetto definendolo l'aspetto storico. Occorre però subito ricordare che gli dèi non esistono dapprima in forma astratta e al di fuori di questi rapporti storici: in quanto esseri mitologici, essi sono storici per loro natura, lo sono cioè fin da principio. Nella compiutezza del suo concetto, la mitologia non deve perciò essere la pura e semplice dottrina degli dèi ma la storia degli dèi, o, come dicono i Greci, insistendo soltanto sull'elemento naturale, una teogonia. 22 1 7 Riguardo all'avventura teogonica e all'odissea della coscienza si veda più avanti. 1 8 XAVIER TILLIETIE, La mythologie comprise Schelling et l'interprétation du paganisme, Paris, Librairie Philosophique j.Vrin, 20 1 5 (2002).

1 9 lvi. 2o La "realtà" a cui Schelling fa riferimento è quella ammessa dall'idealismo romantico in cui l'autore si riconosce. Maggiori approfondimenti a riguardo si trovano nel capitolo VII . 21 F. WJ. ScHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, c it., p . 77.

22

Ibid.

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SCH ELLING E LA TRADIZIONE NEOPLATON I CA

Schelling, prendendo le distanze tanto dall'interpretazione poetica della poesia, giunge dunque a una conclusione già espressa nelle sue lezioni sull' ar­ te secondo cui «il simbolismo universale ovvero la raffigurazione universale delle idee come reali è pertanto contenuta nella mitologia, e la soluzione del secondo compito che ci siamo posti consiste precisamente nella costruzione della mitologia. Di fatto gli dèi di ogni mitologia altro non sono se non le idee della filosofia, contemplate però oggettivamente, ossia realmente».23 Come sottolinea Tonino Griffero, «poiché nell'assoluto tutto il possi­ bile è nel medesimo tempo anche reale e ogni forma è pura limitazione da un lato ma indivisa assolutezza dall'altro», secondo Schelling le figure mitologiche esprimerebbero il mondo archetipo, fungendo così da mate­ ria indispensabile di ogni vera creazione artistica. Ma devono questa loro necessità soprattutto al fatto «di essere rappresentazioni simboliche e non allegoriche (e tanto meno schematiche), di non significare solo qualcosa, pena il venire meno dell'autonomia poetica, ma di essere proprio questo qualcosa» .24 Il simbolo è pensato, nella filosofia di Schelling, «come coinci­ denza di segno (immagine) e significato (senso), finito e infinito, e quindi come modello perfetto di autofinalità e trasparenza». In quanto tale esso «rappresenta un'istanza critica nei confronti sia della moderna strumenta­ lizzazione dell'ente, sia di ogni eteronomia indotta dal differimento erme­ neutico (in questo senso necessariamente allegorico)». 25 In un simile contesto, si capisce quale lontananza Schelling potesse ave­ re da autori come johann Heinrich VoB, classicista e poeta, che in quegli stessi anni promulgava la sua scettica interpretazione: la mitologia non avrebbe un senso dottrinale, ma sarebbe solo una collezione di storie in­ fondate allestite in veste artistica per metterla al servizio delle caste clericali ai danni della società. Anch'egli s'immagina che le prime rappresentazioni, dalle quali doveva poi nascere la mitologia, fossero ancora particolarmente rozze, derivate cioè da uno stato di più o meno totale stordimento animale. Perciò non attribuisce alla mi­ tologia un senso dottrinale , e meno che mai un senso originariamente religioso, né può considerarla un semplice prodotto poetico, vedendosi quindi costretto a contrapporre alla concezione dottrinale e poetica qualcosa di diverso, e cioè una concezione per cui la mitologia sarebbe del tutto priva di significato. 2 6

23 FRIEDRICH WILHELM jOSEPH ScHELLING, Filosofia dell'arte (1 802-1 804), a cura di Alessan­ dro Klein, Napoli, Prismi, 1 997, p. 75. 24 TONINO GRIFFERO, Prendere il mito "alla lettera ". Schellingfilosofo della mitologia, in Miti antichi e moderni, a cura di Donatella Gavrilovich, Carmelo Occhipinti, Donatella Orecchia e Pamela Parenti, Roma, Universltalia, 20 1 3 , pp. 2 1 9-226: 22 1 . 2 5 Ibid. 26 F. W:J. SCHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, cit., p. 1 56. -

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Le tesi di Vofi contestavano la concezione simbolica di Friedrich Creu­ zer, il celebre filologo e archeologo tedesco che molto entusiasmava Schel­ ling e che tanto avrebbe acceso in tempi a noi più vicini le intuizioni di Jung e del neoplatonismo. Tra i due nacque una forte diatriba che scivolò rapidamente sul piano personale e accademico. Essa si aggiungeva al non breve elenco di rimostranze che gli scettici del simbolismo avevano rivolto a Creuzer, soprattutto per via dei suoi metodi analitici ritenuti scarsamente scientificU7 Avvalendosi della filologia comparata, questi aveva tracciato le trasformazioni progressive dei miti sostenendo che la mitologia delle ope­ re di Omero e di Esiodo testimoniava una provenienza orientale risalente ai Pelasgi e carica di un simbolismo volto a riconciliare le antiche rivelazione religiose con la successiva tradizione giudaico-cristiana.28 Così - scrive Mildred Galland-Szymkowiak in riferimento al mito della catena aurea di Omero - «partendo da un poema indù dove Krishna dice che il tutto è unito in lui come le perle di una collana [ . . . ] Creuzer rievoca lo sviluppo di questa immagine nello stoicismo (il legame come anima del mondo e come destino), il platonismo, i filosofi ionici, ma anche il suo ritorno nella fliade 29 con Zeus che lega tutti i corpi dell'universo con una catena d'oro».30 Si tratta - secondo Vofi - di ricostruzioni vaghe e con scarso riscontro sul versante empirico, da cui la necessità da egli ravvisata di limitare il di­ scorso all'epoca post-omerica e di aprirsi più che mai all'eventualità di un mito la cui ragione è tanto casuale quanto esclusivamente estetica.3 1 In riferimento alle tesi volte a recuperare il significato simbolico-reli­ gioso della mitologia, Schelling ammette le carenze metodologiche di Creuzer - senza tuttavia stemperare l'ammirazione per la sua monumen­ tale opera di ricerca. La mitologia è esattamente ciò che essa presenta agli occhi di chi sappia leggerla: «ogni cosa significa esattamente ciò che dice, né bisogna immaginarsi che voglia dire e significare qualcosa di diverso da ciò che dice. La mitologia non è allegorica, ma tautegorica».32 Tra gli altri, Karoly Kerényi. 2 s GEORG FRIEDRICH CREUZER, Symbolik und Mythologie der alten VOlker; besonders der Griech­ en, Leipzig und Oarmsadt, bei Heyer und Leske, 1 8 1 0- 1 8 1 2; trad. it., Simbolica e mitologia, nuova ed. rivista, a cura di Giampiero Moretti, Roma, Editori riuniti, 2004. 2 9 0MERO; trad. it. , fliade, a cura di M. G. Ciani e E. Avezzù, Torino, UTET, 8, 1 8-27. 27

30 MILDRED GALLANo-SzYMKOWIAK, La Symbolique de Friedrich Creuzer Philologie, mythologie, philosophie, «Revue germanique internationale», 14, 201 1 , p. 8 [traduzione mia]. 3 1 Ibid. 3 2 F.WJ. ScHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, cit., p. 309.

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SCHELLING E LA T RADIZIONE NEOPLATONICA

Il termine "tautegorico" fa riferimento a qualcosa che parla in quan­ to tale, senza doversi riferire ad altro. In nota all'edizione a stampa delle sue lezioni, Schelling dichiarava di aver mutuato l'espressione «dal celebre Coleridge,33 che è stato il primo inglese a comprendere, e a servirsi in maniera intelligente della poesia, della scienza e soprattutto della filoso­ fia tedesche».34 Il termine - aggiunge Schelling - «si trova in un articolo, per il resto piuttosto singolare, apparso nei Transactions of the R. Society of Literature. 35 Questo articolo mi ha fatto particolarmente piacere, perché mi ha mostrato come uno dei miei scritti precedenti, e cioè il saggio sulle Gottheiten von Samothrake,36 il cui contenuto e la cui portata filosofica sono stati poco o punto compresi in Germania, sia stato invece ben compreso, nel suo significato, dall'intelligente autore inglese. In ragione di questo felice termine, gli perdono volentieri di aver preso a prestito molte cose dai miei scritti, senza, trattandosi d'altronde di prestiti per i quali è già sta­ to severamente, e forse fin troppo severamente, biasimato dai suoi stessi compatrioti».37 Schelling, avverte di aver concepito un pensiero del tutto originale nella compagine delle interpretazioni della mitologia. Ne scrive a Victor Cou­ sin, riferendogli che la sua Filosofia della mitologia «differisce totalmen­ te da tutte le teorie adottate in precedenza, e anche da quelle del signor Creuzer». 38 Gri:ffero sottolinea infatti come Schelling reputò fondante una distin­ zione tra storia e filosofia: «laddove lo storico e l' antichista si fermano all'accertamento dell'esistenza», cioè alla verifica dei dati concreti, «il filo­ sofo ha il dovere, non prima comunque di aver eventualmente emendato e integrato i dati messigli a disposizione dallo storico», di procedere secondo un iter che «lo emancipi da una conoscenza puramente esteriore al fine di 33 Il poeta Samuel Taylor Coleridge. 34 F.WJ. ScHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, cit. p. 309, nota 38. 35 SAMUEL TAYLOR C OLERIDGE, On the Prometheus of Aeschilus; an Essay, preparatory to a series

of Disquisitions respecting the Egyptian in connection with the Sacerdotal Theology, and in contrast with the Mysteries of ancient Greece, «Transactions of the Royal Society of Literature of the United Kingdom», Il, part II, 1 834, pp. 3 84-404: 39 1 . 3 6 F RIEDRICH WILHELM joSEPH SCHELLING, Ueber die Gottheiten zu Samothrake, a cura di Fab­ rizio Sciacca, Stuttgart und Ttibingen, in der J.G. Cotta'schen Buchandlung, 1 8 1 5 ; trad. it. , Le divinità di Samotracia, Genova, Il melangolo, 2009. 37 F.WJ. S CHELLING, Historisch-kritische Einleitung in die Philosophie der Mythologie, cit., pp. 309-3 10, nota 38. 38 «La Philosophie de la Mythologie, que j'y dannerai, diftère totalement de toutes les théories adoptées jusqu'ici, et méme de celle de Mr. Creuzer>> (Lettera di Schelling a Victor Cousin, 16 aprile 1 826).

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pervenire alla teoria propriamente detta» 39 interpretando i fatti. L'ideale è già presente nella Naturphilosophie. Schelling, dunque, non ammette interpretazioni allegoriche. Queste appartengono al secondo tipo di concezioni non filosofiche del mito che vanno scartate. Sì pensi a Bacone o a all'uso pedagogico dei Gesuiti. Op­ pure, come ricorda Griffero, si faccia riferimento a chi ha creduto «di rav­ visare nella mitologia un'allegoria dei processi evolutivi della natura, ma anche, più semplicemente, del moto apparente del sole», o ancora a chi ha dato corso a un «travestimento inintenzionale di filosofemi e cosmogonie», come nel caso di quei «filosofi primitivi» che a tali operazioni furono co­ stretti «tanto dalla penuria linguistico-concettuale in cui versavano, quanto da elementari e didattiche esigenze di drammatizzazione delle loro idee».40 Per questo - sostiene Schelling -